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Italian Pages 288 [158] Year 2003
Bruno Mondadori Tutti i diritti riservati © 2003, Paravia Bruno Mondadori Editori
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Roberto Spazzali è autore dei paragrafi "Quante vittime?" e "I processi", del capitolo "Fatti", delle introduzioni ai documenti nn. 5,10,11,12,15,18 e 19, del paragrafo "Le tesi militanti" nel capitolo "Opinioni", dei paragrafi "Basovizza" e "La foiba Plutone" nel capitolo "Luoghi". Franco Miccoli è autore del paragrafo "Le foibe di Monte Nero, Tarnova e di Gargaro" nel capitolo "Luoghi". Gli altri testi sono di Raoul Pupo. Franco Cecotti ha curato la cartografia. L'Editore ringrazia Chiara Mensa per l'apporto redazionale al testo. Vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2,20121 Milano, tel/fax 02-809506, e-mail [email protected]. Realizzazione Nuovo Studio Editoriale s.r.l. - Barbara Pierro Progetto grafico; Massa & Marti, Milano La scheda catalografica è riportata nell'ultima pagina del libro. www.brunomondadori.com
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Indice Premessa Fatti 1. I simboli e la memoria 2. L'8 settembre 1943 3. La primavera-estate del 1945 4. Quante vittime? 5. I processi Scheda 1. I conflitti nazionali fra italiani e slavi alla fine dell'impero asburgico Scheda 2. La politica del fascismo verso gli slavi Scheda 3. L'occupazione italiana della Jugoslavia Scheda 4. La "Zona di operazioni litorale adriatico" Documenti 1. Rapporto sul recupero delle vittime da una foiba istriana 2. Un rapporto del servizio informativo partigiano sui fatti istriani dell'autunno 1943 3. La posizione della Chiesa 4. La posizione del PCI 5. La sorte di Zara 6. Brani estratti dai verbali delle sedute del Partito comunista sloveno 7. Brani estratti dai dispacci del Comitato centrale del Partito comunista sloveno al Comitato direttivo del Partito per il litorale sloveno 8. Testimonianza sulle uccisioni a Basovizza 9. Lettera di monsignor Scek riguardante la ricerca di informazioni su Basovizza da parte degli alleati 10. Inchiesta e sondaggio nel pozzo della miniera di Basovizza per opera degli angloamericani 11. Rapporto dell'OZNA sui recuperi dalla foiba di Basovizza 12. Conclusione delle esplorazioni nel pozzo della miniera di Basovizza 13. Documentazione sull'operato dell'OZNA a Trieste e Gorizia 14. Lista di arrestati con indicazione delle accuse 15. Verbali di interrogatorio e sentenze. Gorizia, maggio-giugno 1945 16. Il campo di Borovnica 17. Nelle carceri di Lubiana 18. Un superstite 19. Un'odissea istriana
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Preghiera per i morti delle foibe
Opinioni 1. Le tesi militanti 2. Tentativi di storicizzazione 3. La nuova storiografia 4. Le foibe come strumento di legittimazione politica Scheda 5. La Resistenza italiana nella Venezia Giulia Scheda 6. Il Movimento di liberazione jugoslavo Scheda 7. Le forze armate della RSI nella "Zona d'operazioni litorale adriatico" Scheda 8. La "corsa per Trieste" Scheda 9. L'esodo dei giuliano-dalmati Luoghi 1. 2. 3. 4.
Il luogo-simbolo: la foiba di Basovizza La foiba Plutone Le foibe di Monte Nero, di Tarnova e di Gargaro La "foiba dei colombi" di Vines
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Premessa Questo libro lo abbiamo scritto perché ce l'hanno chiesto. Non è un modo di dire, come spesso si usa, ma la risposta a una raffica di domande che ci sono state rivolte nel corso di più di dieci anni di riflessioni, discussioni e interventi sul problema delle foibe. Infatti è dalla fine degli anni novanta che la questione delle "foibe" - insolito nome per un fenomeno ai più sconosciuto - si è velocemente imposta all'attenzione non solo dei professionisti del passato, ma anche di una fascia sempre più larga di operatori della cultura e della politica, e infine di un numero crescente di cittadini, raggiunti da una delle tantissime iniziative che nell'ultimo decennio hanno proposto alla pubblica opinione italiana la tragedia delle foibe: convegni, conferenze, dibattiti, intitolazioni di vie e piazze ai "martiri delle foibe", solitamente accompagnate da vibranti polemiche. Vedendo le cose con un certo distacco, si potrebbe forse dire che, in tema di foibe, a una lunga fase di rimozione, iniziata sul finire degli anni cinquanta, sia seguito nell'ultimo scorcio del secolo un periodo di grande confusione, in cui il precedente disinteresse è stato sostituito da un accavallarsi di contributi, di taglio e spessore assai vari. Nel loro insieme, essi hanno consentito la riscoperta di una memoria dolente e generalmente ignorata, ma hanno anche rimesso in circolazione criteri di lettura di quella stagione di sangue tutti interni ai risentimenti suscitati dai fatti, alle accuse e alle ripulse, come se mezzo secolo fosse passato invano. Per fortuna, c'è anche dell'altro. La ricerca in realtà è andata avanti, buona parte dei problemi interpretativi è stata risolta e i risultati sono stati pubblicati nelle sedi scientifiche italiane e straniere. Tuttavia, come frequentemente accade, si è aperta una forbice tra le acquisizioni rese possibili dalle indagini storiche, condotte principalmente nella prima metà degli anni novanta, e la cultura storica diffusa, sostanziata dai messaggi lanciati dai mezzi di comunicazione - naturalmente propensi alla semplificazione e alla spettacolarizzazione - e da soggetti portatori di punti di vista comprensibilmente unilaterali - come i familiari delle vittime e il mondo della diaspora istriana, fiumana e dalmata - nonché pure dal diretto intervento di alcune forze politiche italiane: un intervento che ha sicuramente accresciuto la visibilità ma non ha necessariamente favorito la comprensione degli eventi, sfociando spesso in polemici revisionismi e discutibili negazionismi. Un ulteriore contributo alla lettura semplificata delle "foibe" è giunto alla metà degli anni novanta dai conflitti in corso nell'ex Jugoslavia, quando le notizie di eccidi e violenze colà perpetrati a danno di civili furono associate alle stragi avvenute nella Venezia Giulia nell'autunno del 1943 e nella primavera-estate del 1945. Il concetto di "pulizia etnica" adottato per i Balcani fu
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così applicato alle foibe per dare rilevanza storica a ciò che la storiografia italiana aveva fino a quel momento largamente rimosso, e per sostenere che anche le stragi degli italiani della Venezia Giulia avevano avuto il medesimo fondamento etnico. Chi dunque nel corso dell'ultimo decennio abbia avuto modo di discutere delle foibe - com'è accaduto agli autori di questo libro - con grande frequenza e con interlocutori assai disparati, ha facilmente percepito che l'interesse per il problema si accompagna spesso a un notevole disorientamento, reso più acuto dalla difficoltà di collocare la vicenda delle foibe in un contesto storico complessivo che la renda pienamente intellegibile. Per la verità, in tempi recentissimi la pubblicazione quasi simultanea di alcune opere divulgative di buon livello ha reso possibile una prima informazione sufficientemente corretta. Rispetto a tali opere, ciò che abbiamo inteso scrivere si propone alcuni obiettivi più specifici. Prima di tutto, offrire una sintesi chiara e aggiornata dei fatti e dei problemi che essi sollevano, come quelli legati ai vari usi del termine "foibe" e "infoibati", alla controversa questione del numero delle vittime e a quella, non meno spinosa, delle conseguenze giudiziarie delle stragi. In secondo luogo, porre i lettori direttamente a contatto con alcune delle testimonianze più significative dei diversi aspetti della tragedia -testimonianze la cui forza espressiva difficilmente potrebbe venir resa da una narrazione rispettosamente sobria - fornendo però nel contempo gli strumenti adeguati per una loro lettura critica. A tal fine, il secondo capitolo consiste di una raccolta di fonti di varia natura e provenienza (relazioni ufficiali italiane, materiali d'archivio sloveni, croati e britannici, stampa coeva, testimonianze di scampati all'infoibamento e reduci dalla deportazione), ciascuna preceduta da un'introduzione che chiarisce circostanze della produzione e finalità del documento. Il terzo obiettivo - forse il più ambizioso di tutti -consiste nel cercar di mettere un po' d'ordine nel dibattito sulle foibe storicizzando non solo gli eventi, ma anche le interpretazioni che di quegli eventi sono state elaborate nel corso di mezzo secolo. Anche in questo caso, ci è sembrato opportuno accompagnare alle nostre valutazioni un'antologia di brani storiografici che offra nel suo insieme una larga panoramica delle diverse scuole di pensiero che si sono cimentate sul tema delle foibe, senza trascurare il nodo dell'uso politico della tragedia. Va da sé che la scelta dei contributi, come pure i criteri della loro classificazione - che riconducono i diversi approcci alle categorie denominate "tesi militanti", "primi tentativi di storicizzazione" e "nuova storiografia" - è anch'essa frutto di un'opinione, quella degli autori, dalla quale è perfettamente legittimo dissentire.
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A questo nucleo portante - fatti, documenti, storiografia - abbiamo pensato di accompagnare altri elementi. Nei diversi capitoli abbiamo inserito una serie di schede di contesto, che richiamano in forma sintetica gli elementi indispensabili per inserire il dramma delle foibe nell'ambito della storia della frontiera orientale italiana nella prima metà del Novecento. Al riguardo, ci è sembrato opportuno inserire qualche riferimento anche a una vicenda in massima parte successiva a quella delle foibe, vale a dire all'esodo dei giuliano-dalmati, per gli stretti legami esistenti tra i due fenomeni nella storia e, ancor più, nella memoria). A conclusione del libro, infine, il lettore potrà trovare un capitolo che offre le indicazioni indispensabili, di natura storica e pratica, sui principali luoghi della memoria, sede anche di commemorazioni la cui evoluzione costituisce una sorta di storia nella storia. Ciò che avevamo in mente scrivendo quest'opera era quindi un testo che potesse essere utilizzato a più livelli: un libro, evidentemente, da leggere per cogliere rapidamente i nodi essenziali del problema delle foibe, ma anche uno strumento di lavoro da utilizzare nella didattica - tenendo conto delle esperienze che gli autori hanno maturato in molti anni di iniziative di aggiornamento e di interventi nelle scuole e nei corsi universitarie una guida ai luoghi delle stragi, situati sia in Italia che in Slovenia e in Croazia, che cominciano a diventare meta di pellegrinaggi della memoria. Nel far ciò, abbiamo accumulato molti debiti di riconoscenza, con colleghi e amici che ci hanno agevolato nella ricerca archivistica e ci hanno aiutato con i loro consigli e le loro sperimentazioni sul campo a costruire la struttura di questa "guida storica". Sono troppi perché possiamo ricordarli tutti personalmente, ma un ringraziamento particolare va alla rete degli Istituti per la storia del movimento di liberazione, a cominciare dall'Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia, che con la loro sensibilità al problema delle foibe, del resto già emersa in molteplici iniziative scientifiche e didattiche, hanno promosso la pubblicazione di questo libro.
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Abbreviazioni ACS APC AS AIS
Archivio centrale dello Stato Archivio del Partito comunista italiano Arhiv Republike Slovenije Arhiv informacijske sluzbe in protifasisticnega boja (Archivio del servizio di informazioni e della lotta antifascista) ZKS Zveza komunistov Slovenije (Lega dei comunisti della Slovenia) CK ZKS Centralni komite Zveze komunistov Slovenije CK KPS Centralni komite Komunisticne partije Slovenije Asmae Archivio storico diplomatico del Ministero degli affari esteri AP serie Affari politici AST Archivio di Stato di Trieste AVNOJ Antifasisticko vijece narodnog oslobodenja Jugoslavije CLN Comitato di liberazione nazionale CLNAI Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia CPL Comitato popolare di liberazione GMA Governo militare alleato Insmli Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia IRCI Istituto regionale per la cultura istriana IRSML Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia OKkps Okrozni odbor Komunisticne partije Slovenije (Comitato regionale del Partito comunista sloveno) KPS Komunisticna partija Slovenije KPH Komunisticka partija Hrvatske OZNA Organizacija za zascito naroda (Organizzazione per la difesa del popolo) PRO Public Record Office FO Foreign Office PNOO Pokrajinski odbor Franta (Comitato interregionale del Fronte di liberazione sloveno) RSI Repubblica sociale italiana SACMEDSupreme Allied Commander Mediterranean Theater of Operations SKOJ Savez komunistiche omladine Jugoslavije SNOO Slovenski narodno osvobodilni odbor (Comitato di liberazione nazionale sloveno) TLT Territorio libero di Trieste UAIS Unione antifascista italo-slava
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VUJA
Vojaska uprava Jugoslovanske armade (Governo militare dell'esercito jugoslavo) ZAVNOHZemaljsko antifasisticko vijece narodnog oslobodjeni Hrvatske (Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia)
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Fatti 1. I simboli e la memoria Le foibe giuliane costituiscono senza dubbio uno dei temi più frequentati, ma anche più controversi, nella storiografia e, soprattutto, nella pubblicistica relativa agli anni del secondo conflitto mondiale e del dopoguerra alla frontiera orientale italiana. La possibilità di una rilettura critica del fenomeno delle foibe è stata infatti frequentemente compromessa da un accavallarsi di motivazioni che con la storia ben poco avevano a che fare: si pensi ai percorsi della memoria che hanno condensato e frammischiato episodi fra loro collegati ma riferiti a contesti in parte diversi, come le foibe e l'esodo, ovvero le uccisioni del tempo di guerra e quelle perpetrate quando le armi ormai tacevano; ma si pensi anche all'uso politico dell'argomento per finalità polemiche e di legittimazione (come si vedrà meglio nel capitolo conclusivo) e infine al suo essere assurto a simbolo della contrapposizione fra italiani e slavi, prima nei fatti e poi nelle interpretazioni. Così, solo in tempi recenti gli episodi di violenza del 1943 e del 1945 hanno cominciato a trovare una convincente collocazione nell'ambito dei processi storici che hanno caratterizzato l'area giuliana nel corso dei due ultimi anni di guerra. 1.1 Foibe e infoibati Quando si parla di "foibe" ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale. Le foibe infatti sono gli inghiottitoi naturali tipici dei terreni carsici, che precipitano nel sottosuolo spesso per molte decine di metri, con pozzi verticali e ripetuti salti; anche il loro diametro può variare, da poche decine di centimetri ad alcuni metri. Considerata la natura rocciosa del terreno, che non favorisce lo scavo, tali cavità sono state usate dagli abitanti delle località carsiche per far sparire rapidamente ciò di cui essi intendevano disfarsi: poteva trattarsi di oggetti (ramaglie, sterpi, suppellettili fuori uso, carcasse di animali), ma anche di persone, vittime di tragedie private o delle violenze della storia. Malgrado la loro pericolosità, gli inghiottitoi non sono stati recintati per cui talvolta vi cadono dentro degli animali da pascolo. Alcune testimonianze archeologiche ci rimandano addirittura al II secolo a. C, al quale sembrano risalire le salme di due legionari romani rinvenute in una cavità non lontana da Duino, in provincia di Trieste; altre
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testimonianze risalgono al XVI secolo. Assai maggiori però furono le occasioni di utilizzo nel biennio 1943-1945, quando nelle foibe vennero in varie occasioni gettati i corpi dei caduti nei combattimenti tra le forze partigiane e quelle nazifasciste. L'uso che qui ci interessa comunque, è un altro, e cioè quello che delle foibe venne fatto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 quando nelle voragini sparse nell'entroterra istriano, come pure alle spalle di Trieste e Gorizia, vennero fatti sparire i corpi delle vittime di una serie di esecuzioni sommarie su larga scala, talvolta assieme a condannati ancora in vita. Al medesimo scopo si prestarono in quelle circostanze anche altre cavità, questa volta di natura artificiale, come le miniere di bauxite dell'Istria e il pozzo della miniera di Basovizza. La stessa soluzione del resto venne, nel medesimo periodo, adottata anche altrove, in Slovenia e Croazia, dove l'ambiente è anch'esso ricco di voragini carsiche, per occultare le spoglie delle migliaia di anticomunisti slavi eliminati nell'immediato dopoguerra. In realtà, solo una parte degli eccidi venne perpetrata sull'orlo di una foiba o di un pozzo minerario, mentre la maggior parte delle vittime delle due ondate repressive del 1943 e soprattutto del 1945, perì nelle carceri, durante le marce di trasferimento o nei campi di prigionia allestiti in varie località della Jugoslavia. Le foibe però sono immediatamente assurte a simbolo di tutti i tragici destini di quegli anni, e la ragione non è troppo difficile da intendere. La morte entro una voragine che sprofonda nelle viscere della terra costituì infatti per le vittime - e, in quegli anni, si sentirono potenziali vittime tutti gli italiani della Venezia Giulia - la più paurosa delle fini: una morte oscura, segno di una volontà di cancellazione totale, resa ancor più aspra dalla negazione della pietà, visto che la scomparsa dei corpi prolungò per i congiunti l'incertezza angosciosa sulla sorte dei loro cari e rese impossibile, in molti casi fino ai giorni nostri, la celebrazione pacificante della sepoltura. Così, nella memoria collettiva "infoibati" sono stati considerati tutti gli uccisi per mano dei partigiani comunisti sloveni e croati, dei comunisti italiani filo jugoslavi e delle autorità jugoslave nelle due crisi dell'autunno del 1943 e della primavera-estate del 1945. A essi, però, sono state frequentemente associate anche le vittime delle brutalità degli ultimi due anni di guerra in tutta l'area alto-adriatica, compresa la Dalmazia: non a caso, un sacerdote croato nel descrivere la situazione di un borgo rurale istriano nel 1944 commentava: “Viviamo sull'orlo della foiba”. Infine, a tali vittime vengono spesso aggiunte quelle delle violenze che la popolazione italiana fu costretta a subire nel lungo dopoguerra istriano (1945-1956) culminato nell'esodo di non meno di duecentocinquantamila persone dalla loro terra di origine.
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Un uso simbolico di questo genere, peraltro, per quanto ormai diffuso, può divenire fonte di equivoci qualora si affronti il nodo della quantificazione delle vittime. Da un lato, infatti, sommare in maniera indifferenziata tutti i morti, compresi quelli della lotta partigiana e delle repressioni del dopoguerra in Istria, impedisce di cogliere la specificità e il significato storico delle due ondate di violenza del 1943 e del 1945. D'altro canto, la differenza tra il numero dei corpi materialmente gettati nelle foibe e in parte recuperati, che è relativamente ridotto, e quello complessivo degli uccisi, che è invece assai più alto, è così ampia da modificare la stessa interpretazione del fenomeno, almeno per quanto riguarda il 1945. Più appropriato quindi sarebbe parlare di "deportati" e "uccisi" per indicare tutte le vittime della repressione, a prescindere dal luogo e dal modo in cui trovarono la morte. 1.2 Dove e quando? Le stragi che vanno correntemente sotto il nome di "foibe giuliane" hanno, dunque, una precisa collocazione nel tempo e nello spazio. I periodi in cui il fenomeno si verificò sono due: l'autunno del 1943, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre, per la durata di circa un mese, e la primavera del 1945, ancora una volta per poco più di un mese, dopo il collasso tedesco e l'occupazione di tutta la Venezia Giulia da parte delle truppe jugoslave. Nel primo periodo a essere interessata dal fenomeno fu soprattutto l'Istria; nel secondo periodo, invece, anche se in Istria vi fu una ripresa su scala minore delle violenze, venne investita anche la città di Fiume, mentre l'epicentro della crisi si spostò verso le province di Trieste e Gorizia, dove si registrò il maggior numero di vittime. In entrambi i casi quindi, si trattò del crollo di una struttura di potere e d'oppressione: quella dello stato fascista nel 1943, quella nazifascista della "Zona di operazioni litorale adriatico" nel 1945. In entrambi i casi vi fu un breve periodo in cui si assistette al tentativo di sostituire all'ordine appena abbattuto un nuovo ordine, alternativo rispetto al precedente in termini sia politici che nazionali: in altre parole, si assistette, seppure in termini diversi, alla presa del potere da parte del Movimento di liberazione jugoslavo croato in Istria e sloveno nel resto della regione. Un inquadramento del genere offre già le coordinate di fondo per una collocazione unitaria del fenomeno "foibe" in uno spazio storico ben definito: quello del cruento passaggio di potere fra regimi contrapposti, e fra movimenti politici che si erano ferocemente combattuti per lunghi anni in uno scontro che aveva coinvolto senza risparmio l'intera società giuliana, esaltandone divisioni e contrapposizioni. Si tratta di un passaggio in cui, come spesso accade in questi casi, la cessazione formale delle ostilità fra gli eserciti fu ben lungi dal sedare le
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conflittualità profonde, e anzi, segnò il momento in cui la violenza sembrò talvolta sfuggire anche al controllo di chi era deputato a guidarne l'uso istituzionalizzato, e si frammentò negli abusi personali, si alimentò di brutali semplificazioni - come l'equivalenza italiano-fascista, già proposta dal "fascismo di frontiera - concesse spazio all'inserimento della criminalità comune, e talvolta sembrò colpire con una tragica e quasi incredibile casualità. Come vedremo, all'interno di tale cornice e al di sotto della superficie tumultuosa e spesso caotica degli avvenimenti, è comunque possibile distinguere alcune logiche di violenza ben precise, che si rivelano collegate non solo al peso del passato, ma anche a una forte volontà politica di determinare il futuro dell'area giuliana. 2. L'8 settembre 1943 Per la ricostruzione degli eventi del 1943 le fonti di cui possiamo disporre sono principalmente costituite dalle testimonianze di parte italiana, che se per un verso ci consentono di ricostruire con buona approssimazione lo svolgersi degli eventi, risultano invece assai meno significative qualora ci si proponga di ripercorrere le logiche interne ai massacri e di delineare il processo decisionale che portò alle stragi, stabilendone i nessi con la più generale strategia del Movimento di liberazione jugoslavo in Istria. Solo di recente si è cominciato a utilizzare alcune fonti provenienti dalla ex Jugoslavia che, come vedremo, hanno fornito indicazioni assai utili sui criteri di repressione. A ogni modo, la dinamica dei fatti sembra abbastanza precisa. Dopo l'8 settembre, crollate le strutture dello stato italiano, l'Istria interna divenne per breve tempo terra di nessuno poiché i tedeschi occuparono subito i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, ma per carenza di forze trascurarono l'entroterra. A colmare il vuoto di potere si mossero gli antifascisti: con qualche titubanza quelli italiani - soprattutto, ma non esclusivamente, comunisti che erano presenti nelle città costiere, e con maggior decisione e urgenza quelli sloveni e croati legati al Movimento di liberazione jugoslavo. Tale movimento era già da tempo attivo sul territorio istriano, non però con unità combattenti, ma con una rete clandestina impegnata soprattutto nella raccolta di informazioni e nel reclutamento di giovani per le formazioni partigiane croate operanti nei dintorni di Fiume e sul massiccio del Gorski Kotar. La fase confusa che seguì all'8 settembre è stata correntemente qualificata come "insurrezione popolare", ma in effetti si tratta di una definizione che ha suscitato alcune perplessità, perché gli insorti non trovarono alcuna opposizione e si limitarono in genere a occupare le posizioni chiave sul territorio e a raccogliere le armi abbandonate dalle truppe italiane; essa tuttavia può essere accolta per indicare la vastità del moto che interessò buona parte
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della penisola, a patto però di aver ben presente che si trattò di un insieme di sollevazioni guidate da diverse forze scarsamente coordinate e non sempre concordi, che portarono all'insediamento di una miriade di organismi provvisori e talvolta reciprocamente concorrenziali. In ogni caso, a una prima fase spontaneista ne seguì un'altra, contrassegnata dal riuscito tentativo degli organi del Movimento popolare di liberazione jugoslavo di assumere il pieno controllo della situazione militare e politica, grazie anche all'arrivo in Istria di forze partigiane e di quadri dirigenti del Partito comunista croato. 2.1 I proclami di annessione La preoccupazione politica prioritaria dei nuovi poteri instauratisi sul territorio istriano fu quella di decretare l'annessione della regione alla Jugoslavia. Ciò avvenne con una serie di proclami diffusi da diversi organismi partigiani: in prima istanza la volontà dell'Istria ad essere annessa alla madrepatria (croata) venne manifestata il 13 settembre del 1943 da parte del Comitato popolare di liberazione a Pisino, e subito dopo, il 20 settembre, lo ZAVNOH (il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia) proclamò a Otocac l'annessione alla Croazia e, per il suo tramite, alla Jugoslavia, di tutti i territori ceduti all'Italia, vale a dire l'Istria, Fiume e Zara, oltre alla Dalmazia occupata dagli italiani nel 1941. Da parte sua, il 16 settembre il plenum del Fronte di liberazione nazionale della Slovenia assunse una decisione simile in merito all'annessione del litorale sloveno (con Trieste e Gorizia). Tali decreti sarebbero stati solennemente fatti propri il 30 novembre a Jajce dall'AVNOJ, l'organo supremo del Movimento di liberazione jugoslavo. Sulla natura dei decreti di annessione vi fu all'epoca qualche fraintendimento che si è riflesso talvolta anche in sede di analisi storica e che ha portato alla sottovalutazione degli effetti politici di quegli atti, considerati poco più dell'espressione, per quanto solenne, di un pacchetto di rivendicazioni da conquistare con la lotta militare e politica. Al contrario, dai partigiani sloveni e croati essi vennero accolti come provvedimenti aventi forza di legge emanati dall'unico organo cui gli aderenti al Movimento di liberazione jugoslavo riconoscevano tale diritto, l'AVNOJ appunto. Come conseguenza di tali deliberazioni perciò, l'annessione veniva considerata una realtà già in atto, che andava ovviamente difesa con le armi e la diplomazia, ma che in Istria, così come per Fiume e per il litorale sloveno rendeva gli organi creati dal medesimo Movimento di liberazione gli unici legittimi detentori del potere. È solo a partire da tale fatto compiuto che possono essere pienamente comprese non solo la complessa pagina dei rapporti tra il Movimento di liberazione jugoslavo e quello italiano nei territori che le
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"autorità popolari" e il Partito comunista sloveno e quello croato consideravano già appartenenti al nuovo stato jugoslavo, ma anche le logiche sottostanti alla repressione che ben presto si abbatte sulla popolazione italiana dell'Istria. 2.2 Gli arresti Ben presto infatti nella regione cominciarono gli arresti, la cui tipologia risulta piuttosto ampia, ma non per questo meno significativa. Nelle località costiere, dove il potere era stato inizialmente assunto da elementi antifascisti italiani, a venir imprigionati furono prevalentemente squadristi e gerarchi locali. Accanto a essi però, nelle aree controllate dagli insorti croati, vennero fatti sparire i rappresentanti dello stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali: era questo un segno evidente della volontà diffusa fra i quadri del Movimento popolare di liberazione di spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana, odiata dalla popolazione croata per il suo fiscalismo oltre che per le sue prevaricazioni nazionalistiche e poliziesche. Ma nell'insurrezione i connotati etnici e politici si saldavano inestricabilmente a quelli sociali, e così nelle campagne bersaglio prioritario delle retate divennero anche i possidenti italiani, che caddero vittime di quell'antagonismo di classe che da decenni li vedeva contrapposti a coloni e mezzadri croati. Si trattava di un antagonismo che risaliva all'epoca asburgica, ma che era stato ulteriormente esasperato dal brusco arresto che il fascismo aveva imposto alle aspirazioni di emancipazione sociale dei coltivatori slavi. Sorte simile toccò a molti dirigenti, impiegati e capisquadra d'imprese industriali, cantieristiche e minerarie, specie nella zona di Albona, dove preesisteva una lunga tradizione di lotte operaie e dove nel primo dopoguerra c'era stato addirittura il tentativo di costituire una repubblica ispirata a quella dei soviet. La repressione però si estese ulteriormente e scomparvero anche commercianti, insegnanti, farmacisti, veterinari, medici condotti e levatrici, vale a dire le figure più visibili delle comunità, come pure alcuni membri italiani dei neutri Comitati di salute pubblica che erano stati costituiti in alcune località subito dopo l'8 settembre; sembrava dunque che l'intera classe dirigente italiana fosse sotto tiro, ma arresti e uccisioni colpirono anche altri soggetti, sempre italiani, comprese alcune donne che furono oggetto di violenze, in uno sgorgare tragico e incontrollato d'antichi e recenti attriti paesani. Riguardo alla larghezza dello spettro repressivo, fonti croate del tempo chiariscono come uno dei compiti affidati ai nuovi "poteri popolari" fosse stato quello di "ripulire" il territorio dai "nemici del popolo", formula che rimanda
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a precedenti ben precisi: quello della rivoluzione sovietica e quello della guerra civile spagnola, alle quali diversi attivisti politici locali avevano partecipato; nell'esperienza della lotta partigiana jugoslava tale espressione indicava tutti coloro che, per una varietà di ragioni, non collaboravano attivamente con il Movimento di liberazione guidato dai comunisti di Tito. Si trattava quindi di una definizione assai elastica, che lasciava amplissimi margini di discrezionalità e si prestava a giustificare politicamente l'eliminazione di chiunque, singolo o gruppo, venisse considerato di ostacolo all'affermazione del fronte di liberazione. 2.3 Le uccisioni La maggior parte degli arrestati venne concentrata in alcune località di raccolta e soprattutto a Pisino, città posta al centro della penisola istriana e tradizionalmente considerata dagli slavi la culla della croaticità istriana; qui si celebrarono i processi sommari, condotti senza particolare scrupolo per l'accertamento di responsabilità criminose e conclusi quasi sempre con la condanna a morte, l'esecuzione - in genere collettiva - e l'occultamento dei corpi nelle cavità ovvero, nelle località costiere, con la dispersione in mare delle spoglie. Sembra che le fucilazioni sull'orlo delle foibe venissero condotte in modo da precipitare nelle voragini anche condannati ancora vivi. Il ritmo delle eliminazioni si accelerò bruscamente agli inizi di ottobre quando, costrette ad abbandonare il campo di fronte all'offensiva generale delle truppe tedesche, le "autorità popolari" preferirono non lasciarsi dietro scomodi testimoni e procedettero alla liquidazione in massa dei prigionieri, con una decisione che si collocava tra la volontà di condurre una guerra a oltranza in cui non vi era posto per la pietà, e la criminalità politica vera e propria. Diverse logiche si sommarono dunque nel dar vita agli eccidi. La distruzione dei catasti da parte dei contadini croati, i linciaggi, le violenze - anche di gruppo - a carico di ragazze e donne incinte, la stessa efferatezza delle esecuzioni, spesso accompagnate da sevizie, ci restituiscono infatti il clima di una selvaggia rivolta contadina, con i suoi improvvisi furori e la commistione di odi politici e personali, di rancori etnici, familiari e di interesse. Ciò non significa però che negli avvenimenti, certo confusi, di quei giorni non siano ravvisabili anche elementi significativi di organizzazione. Dietro il giustizialismo sommario e tumultuoso, i regolamenti di conti interni al mondo rurale istriano, il parossismo nazionalista, gli stessi aspetti di improvvisazione evidenti nella repressione, non è difficile insomma scorgere gli esiti di un progetto, per quanto disorganico e affrettato: un progetto rivolto alla distruzione del potere italiano sull'entroterra istriano e alla sua sostituzione con il
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contropotere partigiano, portatore di un disegno annessionistico della regione alla Croazia e, quindi, alla Jugoslavia. Si trattava in questo caso di un nuovo potere di natura rivoluzionaria, intenzionato a mostrare la propria capacità di vendicare i torti, individuali e storici, subiti dai croati dell'Istria, e al tempo stesso di coinvolgere e compromettere irrimediabilmente la popolazione slava in una guerra senza quartiere contro gli italiani, equiparati tout court ai fascisti, che veniva considerata la premessa indispensabile per il ribaltamento degli equilibri nazionali e sociali nella penisola. 2.4 Le conseguenze delle foibe istriane Rilevante fu il peso delle foibe istriane sia sul breve che sul lungo periodo. Gli episodi dell'autunno del 1943, la cui eco fu rilanciata dalla propaganda tedesca e della Repubblica sociale italiana, contribuirono a irrobustire diffidenze e timori dei giuliani di sentimenti italiani nei confronti di un movimento partigiano egemonizzato dai comunisti jugoslavi, rendendo più difficile per gli italiani la scelta della partecipazione alla Resistenza. Ma oltre a ciò, l'esperienza traumatica del 1943 diffuse in tutta la regione la preoccupazione per una nuova e forse definitiva ondata che avrebbe travolto gli italiani nel caso la Venezia Giulia fosse nuovamente caduta sotto il controllo jugoslavo. In questo senso, è legittimo parlare dei successivi avvenimenti del 1945 come di una violenza annunciata, che venne intesa come la conferma dei timori accumulatisi negli anni precedenti. Non vi è quindi da stupirsi se, nella percezione dei protagonisti del tempo, il ripetersi delle stragi venisse poi avvertito come la testimonianza sanguinosa di un disegno di eliminazione della componente italiana dai territori rivendicati dalla Jugoslavia. Il discorso non si ferma qui. Negli anni del dopoguerra non si ebbero più episodi di violenza di massa paragonabili ai due picchi del 1943 e del 1945, ma nell'Istria, a diverso titolo sottoposta al controllo jugoslavo, continuo fu lo stillicidio di violenze a danno degli italiani, non escluse le uccisioni e le sparizioni: episodi tutti che gli italiani dell'Istria collegarono a quelli, in qualche modo esemplari, del tempo di guerra, traendone la convinzione di una continuità di comportamenti terroristici nei loro confronti da parte dei nuovi poteri instauratisi sul territorio. E tale consapevolezza paurosa, all'interno della quale si prestava a venir compreso facilmente ogni atteggiamento persecutorio sviluppato da parte delle autorità, offrì un contributo tutt'altro che marginale alla scelta dell'esodo che nel dopoguerra avrebbe svuotato l'Istria dalla quasi totalità della popolazione italiana. 3. La primavera-estate del 1945
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La disponibilità delle fonti relative al 1945 è decisamente maggiore rispetto a quella per il 1943: non si tratta di un mero dato quantitativo, perché ciò che veramente conta è la possibilità di incrociare il cospicuo materiale raccolto da parte italiana con quello proveniente dagli archivi inglesi e americani e, da ultimo, anche da quelli sloveni. Mancano ancora all'appello fondi importanti, custoditi presso gli archivi di Belgrado, come per esempio quelli relativi al comportamento della IV armata jugoslava, ma nel complesso la documentazione oggi accessibile consente di farsi un'idea abbastanza precisa sia degli avvenimenti che dei meccanismi che vi presiedettero. 3.1 La sorte dei militari Nei primi giorni di maggio del 1945 le truppe jugoslave (partigiani del IX corpo d'armata e unità regolari della IV armata) occuparono tutto il territorio della Venezia Giulia, accolsero la resa dei reparti tedeschi e della Repubblica di Salò e, secondo una prassi correntemente messa in atto da un esercito vittorioso nei confronti degli avversari in armi, procedettero all'internamento di tutti i militari catturati. Durissimo peraltro fu il trattamento inflitto ai prigionieri, molti dei quali perirono di stenti o furono liquidati nei campi di concentramento - particolarmente famigerato fu quello di Borovnica - e durante le marce di trasferimento, che si trasformarono sovente in marce della morte. Non tutti i militari però vennero deportati. Specialmente nella prima decade del mese numerose, presumibilmente alcune centinaia, furono le esecuzioni sommarie, compiute in genere subito dopo la cattura e decise non solo senza previo accertamento, ma talvolta anche senza vero interesse per la ricerca di effettive responsabilità personali in atti criminosi; ciò che contava, infatti, nel caso dei militari, non era tanto il riconoscimento individuale di responsabilità, quanto la colpa collettiva, che veniva fatta automaticamente derivare dall'appartenenza alle forze armate naziste e repubblichine. La medesima linea di condotta venne applicata anche agli appartenenti alle forze di polizia, per i quali la presunzione di colpevolezza discendeva direttamente dall'inserimento nell'apparato repressivo nazifascista, tanto che i procedimenti nei loro confronti assunsero una valenza più simbolico-politica che giudiziaria. Tutto ciò non implica, naturalmente, che fra gli uccisi non vi fossero effettivamente anche professionisti della violenza, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie - anche slovene e croate - e aguzzini del famigerato Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, il cui sistematico ricorso alla tortura era già stato oggetto di forti denunce, anche da parte del vescovo di Trieste, e ciò fin dalla primavera 1943. In quest'ultimo caso si trattava di soggetti che avrebbero probabilmente fatto la medesima
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fine anche se ad assumere il controllo del territorio non fossero state le truppe jugoslave ma i partigiani italiani: difatti, il più efferato dei responsabili dell'Ispettorato, il vicecommissario Gaetano Collotti, fuggito per tempo da Trieste, venne fermato a Treviso, identificato dall'avvocato triestino Pietro Slocovich e fucilato sul posto. In linea di massima però il criterio di fondo degli arresti, e in parte anche delle liquidazioni, si fondava più sulla categoria che sull'individuo, sulla responsabilità collettiva piuttosto che su quella individuale, e a essere travolti dalla repressione furono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici della Questura di Trieste; parzialmente diversa fu la situazione a Gorizia, dove, assieme a carabinieri e agenti di polizia, scomparve anche il questore. Sempre nella logica dell'eliminazione delle forze armate esistenti sul territorio, rientra anche la deportazione delle unità della Guardia di finanza, che non avevano partecipato ad azioni antipartigiane, e di molti membri della Guardia civica di Trieste, che certamente era stata dipendente dai comandi tedeschi, ma non era stata impiegata in attività repressive, con l'eccezione di un reparto che venne adibito alla scorta di deportati in Germania, forse lo stesso che venne utilizzato in appoggio a un rastrellamento in un quartiere operaio della città a pochi giorni dalla fine della guerra. Per di più, entrambe le formazioni erano state largamente infiltrate dall'organizzazione militare del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e avevano partecipato sotto i suoi comandi all'insurrezione contro i tedeschi. Si trattava quindi, quantomeno, di "nemici" assai particolari. Ma se nei loro riguardi si potrebbe pensare a una sorta di diffidenza verso gli antifascisti dell'ultima ora, tale ipotesi non regge di fronte all'arresto anche di alcuni membri delle brigate partigiane italiane dipendenti dal CLN di Trieste, i cui combattenti furono spesso considerati alla stessa stregua dei militari germanici e della Repubblica sociale. La circostanza però è meno incomprensibile di quanto non sembri a prima vista perché, in effetti, le fonti ci rivelano in maniera assai esplicita come i dirigenti comunisti sloveni non intendessero in alcun modo tollerare l'esistenza di strutture politiche e forze militari, quelle appunto facenti capo al CLN, che non solo non erano disponibili ad accettare la guida politica e la subordinazione pratica al Movimento di liberazione jugoslavo, ma che, per di più, si erano impegnate a cercare, mediante l'insurrezione armata, un'autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli angloamericani. 3.2 La persecuzione degli antifascisti italiani Che all'origine della repressione vi fosse anche la preoccupazione per l'esistenza di possibili nuclei di contropotere o, quantomeno, di contestazione
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alle pretese egemoniche dei "poteri popolari", è confermato dal fatto che a Trieste e Gorizia le autorità jugoslave perseguitarono gli stessi membri dei rispettivi CLN, alcuni dei quali trovarono così la morte. Lo stesso accadde anche a Fiume, dove arresti e uccisioni colpirono non solo gli aderenti al Comitato di liberazione nazionale, ma anche quel movimento autonomista fiumano che si rifaceva alla lotta per lo Stato libero di Fiume combattuta nel primo dopoguerra contro D'Annunzio e il suo progetto d'annessione della città all'Italia, e che godeva di largo seguito fra la popolazione. All'interno del medesimo disegno sembra collocarsi anche la scomparsa di quegli esponenti della Resistenza italiana che nell'estate-autunno del 1944, quando era sembrato profilarsi uno sbarco angloamericano nell'Adriatico settentrionale, avevano avuto contatti con emissari dei Movimenti di liberazione sloveno e croato. 3.3 L’”epurazione” della società giuliana Dell'internamento, come pure delle liquidazioni, dei militari italiani si occupò direttamente la IV armata jugoslava, mentre la protagonista delle retate di civili fu l'OZNA, la polizia politica e di sicurezza, col concorso della Difesa popolare, una milizia paramilitare agli ordini del Consiglio di liberazione. Parteciparono agli arresti anche forze armate jugoslave, e pure qualche piccolo reparto della divisione "Garibaldi-Trieste". L'OZNA agiva in base al mandato conferitole nell'autunno del 1944 dai vertici del Partito comunista sloveno e poteva servirsi di una vasta rete di confidenti, italiani e sloveni, già da mesi impegnati a stendere lunghe, anche se non sempre precise, liste di presunti "nemici del popolo". Come si è già detto a proposito della crisi dell'autunno 1943, era questa una categoria dai contorni indefiniti nella quale, nella primavera del 1945, finì per confluire un gran numero di soggetti. Ovviamente, bersagli della repressione furono gli esponenti del fascismo e del collaborazionismo locale, anche se in realtà i leader del PFR avevano preso in genere per tempo la fuga, mentre i vertici delle amministrazioni insediate dai tedeschi vennero arrestati e fatti sparire a Gorizia, ma non a Trieste; rispetto ai personaggi di rilievo, con maggior accanimento vennero ricercati i "pesci piccoli", gli ex squadristi in genere ben conosciuti dalla popolazione. La persecuzione si abbatté largamente sui dirigenti delle forze politiche italiane e slovene diverse dal Partito comunista, e su di un gran numero di soggetti ritenuti per i più diversi motivi "pericolosi" nell'ottica dei nuovi poteri. Poteva trattarsi di persone che si erano in qualche modo rese invise al Movimento di liberazione jugoslavo, rifiutandosi per esempio di collaborare con
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esso o semplicemente esprimendo la propria disapprovazione nei confronti dei suoi obiettivi e metodi, o che avevano compiuto in passato scelte politiche di stampo patriottico quando non esplicitamente fascista (per le autorità jugoslave ciò non faceva molta differenza), dalla partecipazione come volontario irredento alla Grande guerra o a quelle di Spagna e d'Abissinia; oppure, ancora, che si erano rifiutate di esporsi in favore del nuovo regime, per esempio negando la loro firma alle petizioni in favore della Jugoslavia promosse dai "poteri popolari". Allo stesso modo vennero colpiti elementi che detenevano posizioni importanti nell'economia e nella società triestina, o, più frequentemente, che avevano ricoperto qualche incarico in una delle tante organizzazioni di massa del regime fascista. In ogni caso, si trattava di individui dai quali il nuovo regime poteva attendersi un atteggiamento d'opposizione o anche soltanto di sicuro dissenso nei confronti dell'annessione alla Jugoslavia e della costruzione di uno stato comunista, e ciò non sembrava in alcun modo tollerabile. Anche i civili che sopravvissero alle uccisioni concentrate soprattutto nelle due prime settimane di maggio, furono deportati nei campi di prigionia, diversi rispetto a quelli in cui venivano convogliati i militari ma non certo migliori in quanto fame e malattie che decimarono i detenuti, alcuni dei quali furono successivamente processati subendo condanne, anche capitali, comminate dai tribunali jugoslavi fino al 1947 Non sempre alla gravità delle accuse mosse agli arrestati (squadrismo, collaborazionismo, persecuzione degli slavi, delazioni a carico di partigiani, ostilità manifesta nei confronti del Movimento di liberazione jugoslavo, spionaggio a favore dell'Italia, ecc.) corrispose un reale impegno delle autorità nella ricerca di prove a carico dei detenuti e nemmeno, in numerosissimi casi, un effettivo interesse a verificare la loro posizione; una circostanza, questa, che suggerisce come l'obiettivo principale della repressione non fosse tanto di ordine giudiziario, e cioè la punizione di colpevoli, quanto politico, vale a dire l'eliminazione di individui e gruppi ritenuti pericolosi. 3.4 Il deragliamento della violenza In ogni caso, comunque, non tutto quello che accadde a Trieste e Gorizia nelle settimane del maggio-giugno 1945 può essere immediatamente ricondotto a un'assoluta linearità di scelte politiche e di comportamenti conseguenti. Altri elementi concorsero infatti a dilatare l'ampiezza della repressione. In primo luogo, il clima di "resa dei conti" nei confronti degli avversari etnici e politici alimentato dal ricordo delle sopraffazioni del regime e dalle esperienze ancora brucianti della lotta partigiana. Assieme a questo, l'uso
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onnicomprensivo del termine "fascista" da parte dei quadri del Movimento di liberazione jugoslavo per qualificare tutti gli oppositori al nuovo progetto politico che si stava affermando con le armi: si trattava di un'equivalenza, tra "Italia" e "fascismo", che appariva certo del tutto strumentale alle esigenze del momento, ma che si era potuta facilmente radicare anche grazie all'impegno nel saldare i due termini sciaguratamente profuso nel corso del precedente ventennio dal regime di. Mussolini. Infine, lo spazio di discrezionalità esistente nella compilazione delle liste, redatte da persone che portavano nell'operazione da cui dipendeva la vita di altri esseri umani non solo il loro radicalismo nazionale e politico, ma anche i loro rancori e interessi. Tutto ciò spiega largamente come nelle pieghe della repressione mirata si inserirono facilmente anche altre spinte, fra le quali è possibile individuare gli esiti di regolamenti di conti in cui le motivazioni politiche sfumavano in quelle personali, gli effetti delle numerose delazioni, piaga già diffusasi durante l'occupazione nazista e poi proseguita senza soluzione di continuità, l'esigenza di far scomparire possibili testimoni di precedenti atti di violenza, come quelli avvenuti in Istria nel 1943, i comportamenti delittuosi di gruppi che, nel generale sommovimento, varcarono la soglia fra violenza politica e criminalità comune, come la cosiddetta "squadra volante", operante a Trieste, composta da italiani e insediatasi a Villa Segre, ai cui delitti venne posto fine da parte delle stesse autorità jugoslave. D'altra parte, la stessa autonomia operativa di cui poteva godere, sia nella definizione dei sospetti che nella gestione dei prigionieri, un organo come l'OZNA, forte del ruolo affidatogli in sede politica e per sua natura portato ad applicare nel modo più radicale e più spiccio le direttive impartitegli, accrebbe ulteriormente il numero delle liquidazioni immediate. 3.5 Le contraddizioni della repressione Complessivamente si ritiene che fra Trieste e il goriziano vennero arrestate in poche settimane circa diecimila persone; si trattava di una cifra elevata e le dimensioni delle retate, unite all'incertezza sulla sorte degli arrestati, che alla luce della precedente esperienza delle foibe istriane era intesa nel modo più tragico, seminò il panico fra la popolazione italiana. Ciò fini per allarmare le stesse autorità civili jugoslave, che compresero come l'ondata di terrore scatenata nelle città giuliane avrebbe scavato un solco incolmabile fra i nuovi poteri e la maggioranza della popolazione, e si attivarono perciò al fine di contenere gli arresti e di ottenere informazioni sulla sorte dei prigionieri. Nel far questo, peraltro, esse non esprimevano una strategia alternativa rispetto a quella della repressione preventiva, bensì soltanto una preoccupazione di natura tattica, destinata a rimanere
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inascoltata (salvo il buon esito di qualche singolo intervento a favore di noti antifascisti italiani) di fronte all'assoluta priorità che i vertici del Partito comunista sloveno e di quello croato conferirono in ogni circostanza alle esigenze di controllo totale del territorio, a qualsiasi costo, rispetto alla ricerca del consenso. Come scrisse il leader comunista sloveno Edvard Kardelj ai dirigenti impegnati a costruire il nuovo potere a Trieste e Gorizia, era meglio non concedere subito troppa democrazia, perché poi sarebbe stato difficile fare marcia indietro. 4. Quante vittime? Quanti sono gli infoibati? Quanti i deportati, gli uccisi in prigionia? Quanti complessivamente gli scomparsi per mano jugoslava nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 nella Venezia Giulia? A. queste domande sono state date nel corso degli anni molte risposte, ma spesso insoddisfacenti. Eppure, per decenni il dibattito sulle cifre ha suscitato più interesse di quello sulle cause, le responsabilità e le dinamiche delle stragi, anche perché in genere alle cifre è stato attribuito il grave compito di spiegare il senso della persecuzione inflitta da parte jugoslava alla fine della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra alla popolazione italiana della Venezia Giulia, fino a provocarne l'esodo dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Diversi studiosi hanno proposto unità di grandezza degli eccidi molto diverse tra di loro: da poche centinaia a migliaia, a decine di migliaia di vittime. Spesso tutti gli scomparsi, anche per cause diverse e in momenti diversi, sono stati genericamente compresi nella categoria degli "infoibati", che in senso stretto riguarda soltanto coloro che sono stati trucidati subito dopo l'arresto, spesso senza nemmeno un procedimento sommario, e scaraventati nei profondi pozzi naturali che si aprono nel suolo carsico della Venezia Giulia. Di volta in volta, per cercare di spiegare l'accaduto e per attirare l'attenzione della pubblica opinione italiana sulla drammatica storia della Venezia Giulia, sono stati adottati termini quali "olocausto", "genocidio", "pulizia etnica", che evocano altre tragedie europee, altre persecuzioni e altri stermini. Spesso però tali confronti, l'uso troppo elastico dei numeri delle vittime di una guerra atroce e senza quartiere, ma anche le semplificazioni interpretative, hanno finito col generare confusione e si sono rivelati come un distorto e debole tentativo di mantenere viva la memoria dell'evento. Nel secondo dopoguerra sono stati compilati, e anche pubblicati, diversi elenchi di persone scomparse dalla Venezia Giulia; sono lavori d'origine
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diversa che si avvalgono di ricerche condotte da enti e istituzioni, come la Croce rossa, e di segnalazioni di privati cittadini; schedari analoghi sono stati predisposti dalle associazioni di ex combattenti e di profughi dai territori ceduti alla Jugoslavia. Studi più recenti, condotti dall'Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, hanno utilizzato gli archivi degli uffici anagrafici di tutte le località del Friuli-Venezia Giulia e quelli dei tribunali dove sono custodite le specifiche dichiarazioni di morte e di morte presunta, ma per quanto sia possibile ora avere un quadro abbastanza completo delle dinamiche politiche che presiedettero alle stragi, resta ancora aperto l'interrogativo sul numero delle persone effettivamente scomparse e quindi decedute in seguito all'arresto da parte delle autorità jugoslave e dei suoi fiancheggiatori. Nessuna indagine in materia è stata condotta sui registri anagrafici delle località cedute all'ex Jugoslavia. Per comprendere le difficoltà della quantificazione bisogna d'altronde considerare la particolare condizione demografica della regione, che vedeva la presenza di molti militari provenienti da altre province italiane, di civili sfollati non solo dalla Dalmazia ma anche dalle province meridionali italiane, di popolazione che aveva abbandonato le proprie residenze in seguito alle operazioni militari, ai rastrellamenti, alle evacuazioni, ai bombardamenti; tutti eventi a seguito dei quali lo stesso quadro degli abitanti, residenti, domiciliati o solo stanziali non è ricostruibile su un corretto piano statistico. Inoltre, è ragionevole ritenere che la scomparsa di molti militari o civili provenienti da altre province italiane sia stata registrata, per omissione di informazioni o per tacito interesse dei familiari, presso le località di residenza con indicazioni approssimative o che non sempre mettevano in luce il ruolo assunto dalle vittime durante l'occupazione nazista della regione e nelle formazioni militari collaborazioniste. Tutto questo è facilmente comprensibile sul piano umano, ma è ciò che certamente complica il lavoro di chi vorrebbe ricostruire i profili sociali delle vittime e non sempre può utilizzare come fonti attendibili gli elenchi nominativi delle imputazioni raccolte dalle autorità jugoslave a carico degli arrestati e deportati, perché spesso viziate, per ammissione delle medesime autorità, da denunce e segnalazioni non verificate. 4.1 Alcune cifre È possibile calcolare separatamente il numero delle salme recuperate, quello delle persone arrestate e rilasciate e infine quello degli scomparsi in seguito alla deportazione, con l'avvertenza però che occorre distinguere i luoghi e i tempi nei quali si sono svolti i fatti.
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Per quanto riguarda gli eccidi perpetrati in Istria nel settembre-ottobre del 1943, sappiamo che nel corso di 31 esplorazioni ufficiali in cavità naturali e artificiali, vennero recuperate 217 salme (116 civili e 18 militari accertati) ma il numero degli scomparsi fu certo superiore, e alcune fonti lo indicano in circa 500 persone (pari allo 0,06% della popolazione della provincia). Le ricerche furono condotte dai vigili del fuoco di Pola e riguardarono principalmente le zone tra Pisino e Gimino e l'area dei pozzi minerari di Albona. Non tutte le cavità poterono essere esplorate perché le difficili condizioni poste dalla guerra partigiana ostacolarono l'opera, che in tutti i casi non proseguì dopo la guerra, stante l'amministrazione jugoslava su tutta la penisola istriana. Solo alla fine degli anni novanta sono trapelate notizie di nuovi rinvenimenti, e gli speleologi sloveni hanno operato il recupero di consistenti resti umani da cavità poste sulle alture tra Capodistria e Trieste. Notizie ancora più frammentarie riguardano, per il medesimo periodo, la provincia di Gorizia e i comuni carsici della provincia di Trieste: segnalazioni, testimonianze e informative successive riportano casi di vendette e di giustizia sommaria, che però non sono precisabili per quanto riguarda il numero delle vittime. Dalla lontana Zara furono segnalati almeno 200 casi di persone arrestate e deportate da forze jugoslave all'indomani dell'occupazione, nell'ottobre 1944, e dopo che gran parte della popolazione aveva già abbandonato la città gravemente bombardata. Infine, secondo alcune valutazioni, da Fiume nel periodo maggio-agosto 1945 risulterebbero scomparse circa 500 persone, delle quali accertati 242 civili, pari allo 0,9% della popolazione: in tempi recenti sono state identificate alcune cavità in località vicine, dove sono stati perpetrati eccidi e occultate salme. I più significativi rinvenimenti intorno a Gorizia e a Trieste vennero effettuati tra il novembre 1945 e l'aprile 1948, quando operò una squadra costituita dalle forze di polizia del Governo militare alleato, coadiuvata dai vigili del fuoco, da esperti speleologi e da rastrellatoti d'ordigni. In questo campo operarono anche organizzazioni private che segnalarono alle autorità di polizia la presenza di resti umani in fondo a cavità meno raggiungibili, anche oltre la linea di demarcazione. Ancor più complesso è il quadro che si prospetta alla fine della guerra quando le esplorazioni di cavità naturali e artificiali e l'identificazione di fosse comuni nelle aree di Trieste e di Gorizia della zona A, condotte dalla polizia civile del Governo militare alleato, portarono tra il 21 novembre 1945 e il 23 aprile 1948 alla riesumazione di 464 salme (217 civili e 247 militari). Qualche centinaio di salme, soprattutto di soldati tedeschi, fu recuperato nel corso dell'estate 1945. Per motivi comprensibili non furono condotti recuperi oltre la linea Morgan e, successivamente, oltre il confine fissato dal
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trattato di pace. La riesumazione più consistente avvenne presso la foiba Jelenca Jama, a Hrusevica, oggi in Slovenia, dove furono portate alla luce ben 156 salme, in gran parte di civili. Come già accennato, le valutazioni espresse sul numero degli scomparsi hanno svolto un ruolo determinante sull'interpretazione del fenomeno delle foibe, servendo spesso quale elemento probante di un fine genocida contro la popolazione italiana. Secondo gli elenchi predisposti dal già citato Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, risulterebbero scomparse per mano jugoslava 601 persone da Trieste e 332 da Gorizia, e questi dati differiscono sensibilmente da quelli comunemente denunciati, anche perché si riferiscono soltanto ai territori delle due province rimasti sotto la sovranità italiana, e agli scomparsi effettivamente registrati nel dopoguerra come tali. Nell'aprile 1948 la stampa locale riportò un primo bilancio dei recuperi e delle riesumazioni nella Venezia Giulia: 865 salme, delle quali 464 recuperate e altre 401 raccolte nelle caserme, scuole, edifici pubblici nella sola città di Trieste. Non sono aspetti di poco conto: una parte dei militari delle forze armate e di polizia, catturata e passata per le armi alla fine della guerra, risulta caduta per cause belliche, con date e condizioni assai difformi dai fatti. Un esame più attento della stampa del dopoguerra, rivela altre diciassette riesumazioni da cavità e fosse comuni, per un totale di oltre un centinaio di salme, non comprese tra quelle condotte dalla polizia civile. Inoltre, Diego de Castro, già consigliere diplomatico italiano presso il Governo militare alleato, ha dato notizia, in una sua pubblicazione, di altre sette riesumazioni di una ventina di salme, che furono effettuate tra l'ottobre 1948 e il marzo 1950. Solo in qualche circostanza fu possibile fare opera d'identificazione e distinguerle tra civili e militari. In tempi recenti, ulteriori indagini speleologiche nel territorio sloveno e dell'Istria hanno gettato luce su altre cavità che celano resti umani, alcune assai vicine ai maggiori centri urbani. Per comprendere la permanente provvisorietà dei dati bisogna ricordare che nel maggio 1945 si verificarono massicci arresti di militari e civili; secondo un rapporto informativo angloamericano solo a Trieste sarebbero state incarcerate ben 17 000 persone che, in gran parte, vennero rilasciate quasi subito. Nella medesima fonte si parlava anche di tremila uccisi e di seimila internati (senza precisare nazionalità e qualifica), ma poco dopo, nell'agosto del 1945, sempre secondo dati raccolti da parte anglo-americana, mancavano notizie di 1500 persone dall'area di Trieste, 1000-1500 dall'area di Gorizia, 500-600 dall'area di Pola. Alla fine di ottobre del 1945 gli schedari angloamericani
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riportavano 1400 nominativi di goriziani scomparsi e quelli della Croce Rossa di Trieste altri 1376. Da allora, e fino al maggio del 1948, Trieste fu tappa di transito dei prigionieri di guerra che rientravano alle rispettive residenze; in quell'arco di tempo fu registrato il passaggio di 20512 unità, delle quali ben 16438 nel trimestre luglio-settembre 1945. Nell'aprile del 1947 l'ufficio addetto alle Displaced Persons comunicò al quartier generale del Governo militare alleato le cifre degli scomparsi registrati per la sola zona A: 1492 a Trieste (724 civili, 768 militari); 1100 a Gorizia (759 civili, 341 militari); 827 a Pola (637 civili, 190 militari), pari all'1,4% della popolazione; complessivamente, quindi, a quella data erano 3419 i nominativi fondati sulle richieste d'informazioni inoltrate dai familiari e riguardanti soltanto le località rimaste sotto il controllo angloamericano. Infine, in un elenco pubblicato agli inizi degli anni sessanta dall'ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, che aveva tratto le sue informazioni dallo schedario delle. pratiche dell'Ufficio comunale pensioni di guerra, sono riportati 4122 nominativi, estesi parzialmente anche all'Istria e alla Dalmazia e comprendenti anche persone scomparse per cause belliche. 4.2 Errori e manipolazioni Le forti disparità nella quantificazione sono state in parte generate da difficoltà tecniche e da errori materiali: così, in qualche libro gli esumati da alcune foibe risultano duplicati perché la medesima cavità è nota con nomi diversi, oppure perché negli elenchi degli infoibati si trovano nominativi di persone che secondo altre fonti risultano essere scampate ovvero essere state uccise per motivi completamente diversi; mentre, specularmente, in alcune liste di caduti per motivi di guerra o per mano tedesca è possibile trovare i nominativi di individui uccisi dai partigiani jugoslavi. Più gravi sembrano le manipolazioni quando vengono date per "accertate" cifre che nel più benevolo dei casi possono venir considerate congetturali, come i duemilacinquecento infoibati nel pozzo della miniera di Basovizza e i mille nella foiba di Monrupino. Ma al di là d'infortuni e disinvolture metodologiche, spesso sono diversi i criteri di conteggio e di valutazione delle vittime, per cui non è raro incontrare elenchi di infoibati in cui sono stati consapevolmente inseriti anche i caduti della guerra partigiana nella Venezia Giulia e talvolta anche in Dalmazia. Concludendo, se alcune semplificazioni compiute in sede interpretativa hanno certamente complicato il quadro di lettura dei fatti, si può comunque ritenere a ragione che solo una piccola percentuale degli scomparsi sia stata eliminata nei giorni immediatamente successivi all'arresto, mentre la maggioranza è stata inghiottita dal sistema concentrazionario jugoslavo. Chi
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sopravviveva alla prigionia poi, non sempre si presentava a dichiarare il rientro, e inoltre nessuna informazione ufficiale in proposito è giunta per quel che riguarda la zona B da parte delle autorità jugoslave, dove ben presto ai primi deportati e arrestati, spesso detenuti senza processo, si sono aggiunti quanti venivano arrestati nelle zone sottoposte al controllo jugoslavo perché sospetti di attività contraria al regime. 5. I processi In molti casi le esplorazioni e i recuperi coincisero con i processi celebrati davanti alla Corte straordinaria d'assise a carico d'imputati dell'omicidio e della soppressione di persone nei giorni successivi alla fine della guerra. Questo aspetto è stato per lungo tempo volutamente ignorato dalla pubblicistica che denunciava l'assenza di procedimenti penali contro gli infoibatori e i loro complici. In verità, nel clima difficile del dopoguerra, la magistratura triestina affrontò tanto il problema della violenza fascista e del collaborazionismo al regime nazista, quanto le denunce nei riguardi di responsabili di arresti e scomparse durante il periodo dell'occupazione jugoslava. I processi si tennero tra il 1947 e il 1949, accogliendo la tesi del singolo o plurimo atto criminale, senza dare ai procedimenti alcun connotato politico e privilegiando episodi e fatti circostanziati. Dai dibattimenti emerse un quadro sociale turbato e depresso, dove la violenza aveva preso il sopravvento e la delazione appariva spesso conseguenza di una prassi assai diffusa utilizzata anche per regolare conti personali (nella primavera del 1945 gli stessi "poteri popolari" avevano dovuto comunicare a mezzo stampa che non avrebbero più preso in considerazione denunce anonime). Particolare scalpore fecero i processi contro la banda criminale "Zol-Steffè", peraltro già punita dalle stesse autorità jugoslave d'occupazione, contro il cabarettista triestino Angelo Cecchelin, accusato di aver denunciato un collega agli jugoslavi per screzi personali, e quello sul caso della giovane slovena Dora Ciok, vittima di una gelosia familiare. Anche se la stampa locale presentò i casi come processi agli infoibatori, nessun processo fu in realtà celebrato "sulle foibe", ovvero sulle responsabilità politiche delle uccisioni, e non si affrontò minimamente il problema delle deportazioni in Jugoslavia, dalle quali si sperava ancora il rientro dei molti scomparsi. Se è ben vero che diversi recuperi di resti umani in cavità carsiche coincisero con questi processi, proprio il numero limitato di esumazioni effettuate nella zona amministrata dal Governo militare alleato sembra confermare che i deportati furono trasferiti ed eliminati lontano dai maggiori centri della Venezia Giulia, se non in territorio controllato dalle forze jugoslave.
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La Corte straordinaria d'assise erogò pene severe che non raggiunsero però tutti gli imputati, perché contumaci o rifugiatisi nel frattempo in Jugoslavia. 5.1 Il processo Piskulic Dopo un lungo silenzio giudiziario, rotto soltanto in occasione del processo per i crimini nazisti commessi nella Risiera di San Sabba, quando fu avanzata la richiesta che un'analoga inchiesta prendesse in esame infoibamenti e deportazioni, nel corso degli anni novanta da parte di familiari di deportati e scomparsi, di associazioni patriottiche, di esuli istriani, fiumani e dalmati, furono presentati esposti alla magistratura italiana affinché questa individuasse e perseguisse i sopravvissuti responsabili delle deportazioni e delle stragi. L'iniziativa si poneva in continuità con un filone costante di richieste di giustizia espresse anche nei precedenti decenni, ma risultava particolarmente attivata dai procedimenti penali avviati nel medesimo torno di tempo contro ex ufficiali nazisti e nei confronti dei responsabili degli eccidi consumati tra il 1992 e il 1996 in Croazia e Bosnia. In molti casi le denunce per i fatti del 1943 e 1945 non varcarono la soglia dell'indagine preliminare per assenza d'elementi sufficientemente probanti all'individuazione certa dei mandanti, ma l'inchiesta condotta dal sostituto procuratore Giuseppe Pittito portò all'incriminazione di tre croati, Ivan Motika, Avijanka Margetic e Oskar Piskulic, ritenuti, a vario titolo, responsabili di sparizioni e omicidi consumati in Istria e a Fiume. Durante l'indagine i primi due decedettero e Pittito venne rimosso dall'incarico per una vertenza collaterale e venne sostituito da Giovanni Malerba. Si giunse al processo, che si aprì nel febbraio 1999 alla Corte d'assise di Roma, per concludersi nell'ottobre 2001 con una sentenza d'estinzione per amnistia dal reato d'omicidio e di assoluzione per altri due delitti di cui era imputato il sopravvissuto Piskulic, ex ufficiale dell'OZNA di Fiume, mai presente in aula. Il processo aveva visto sfilare diversi testimoni chiamati a deporre dalle parti, e con loro anche il groviglio di memorie contrapposte legato ai drammi di quegli anni. Va rilevato che tutti i procedimenti penali, i pù lontani nel tempo e i più recenti, hanno riguardato circostanziati fatti di sangue e non il presunto disegno politico in cui essi si inscrivano: insomma, nessun processo è stato celebrato sul "fenomeno delle foibe" Scheda 1.1 conflitti nazionali fra italiani e slavi alla fine dell'impero asburgico a cura di Tullia Catalan I contrasti fra italiani, sloveni e croati che si scatenarono in particolare nel periodo che va dagli ultimi decenni dell'Ottocento allo scoppio della prima guerra mondiale, vanno considerati quale parte integrante delle più generali
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conflittualità nazionali che contraddistinsero la fase finale dell'esperienza asburgica, finendo per condurre quasi alla paralisi le istituzioni austriache. L'antico impero degli Asburgo, superate non senza fatica le "rivoluzioni nazionali" del 1848, a seguito delle successive e fallimentari guerre contro la Francia e la Prussia era stato quasi completamente espulso dall'Italia, costituitasi in stato indipendente, e dalla Germania, unificatasi attorno al nucleo prussiano. Il trauma subito aveva spinto il governo di Vienna a trovare un accordo con la più cospicua, e combattiva, delle componenti non tedesche rimaste nell'impero, quella ungherese, che pertanto, nel 1867 aveva ottenuto un'autonomia così larga da trasformare lo stato asburgico in "duplice monarchia". All'interno della nuova cornice però, rimanevano irrisolti molti altri conflitti (cechi contro tedeschi in Boemia e Moravia, polacchi contro ucraini in Galizia, croati contro magiari in Ungheria, rumeni contro magiari in Transilvania, ecc.) e, nelle varie aree dell'impero, diversi gruppi nazionali potevano trovarsi a svolgere ruoli assai differenti. Così, per esempio, nel Tirolo i trentini di lingua italiana si sentivano oppressi dai tedeschi che controllavano la dieta provinciale, in Dalmazia agli inizi del secolo gli italiani erano oramai stati quasi completamente fagocitati dai croati, in Istria croati (sempre più numerosi) e italiani (storicamente egemoni) competevano per la dieta provinciale, mentre a Trieste gli italiani mantenevano l'assoluto monopolio del potere, escludendovi del tutto gli sloveni. Nelle terre alto-adriatiche - che nel 1863 il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli propose di denominare unitariamente con il neologismo "Venezia Giulia" - il Risorgimento italiano aveva suscitato reazioni contrastanti: grande favore tra gli italiani di Dalmazia e dell'Istria, eredi della tradizione veneziana, grande cautela, invece, a Trieste. Infatti, grazie alla politica economica degli Asburgo l'emporio giuliano in un secolo e mezzo si era trasformato da un piccolo borgo di viticoltori e. salinari, in uno dei maggiori porti del Mediterraneo. La città era cresciuta soprattutto per via di emigrazione, ma il ricorso come lingua dei commerci all'italiano, a sua volta incardinato in una tradizione di cultura non eguagliabile dalle altre lingue dell'impero, ne aveva fatto una grande città italiana, posta economicamente a capo di. una "provincia adriatica", già veneziana, unificata dai traffici e dall'uso linguistico. La classe dirigente cosmopolita saldamente insediata al vertice del potere cittadino, pur essendo di cultura prevalentemente italiana, aveva così dimostrato fino almeno agli anni sessanta dell'Ottocento, grande lealismo nei confronti di un impero al quale non solo doveva le sue fortune, ma che ne rispettava ruolo politico e fisionomia, grazie alla concessione di un'autonomia amministrativa estremamente spinta. Le rivendicazioni
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nazionali quindi, di matrice democratica, erano state a Trieste fenomeno assolutamente marginale. Le cose cominciarono a cambiare dopo la proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. Alcuni importanti settori della classe dirigente politica triestina, nelle cui file vi erano parecchi esponenti di origine ebraica, iniziarono a guardare con maggiore attenzione verso il nuovo stato italiano, attirati anche dalle libertà politiche e religiose che esso garantiva già dalla promulgazione dello Statuto albertino nel 1848. Tutto sommato però, ancora per qualche tempo la dirigenza liberal-nazionale ormai affermatasi alla guida del comune triestino, ritenne di non poter fare a meno della cornice statuale asburgica, fuor dalla quale si paventava la rovina economica della città. D'altra parte, dal 1882 la politica estera triplicista dell'Italia (legata cioè da un'alleanza difensiva alla Germania e alla stessa Austria) non sembrava offrire alcuna alternativa. A porre seriamente in discussione l'interesse degli italiani di Trieste a rimanere in Austria concorsero però, negli ultimi decenni del secolo, una serie di fattori concomitanti. In primo luogo, la nascita e lo sviluppo di un movimento nazionale sloveno rallentò, fin quasi a bloccarlo, il processo di assimilazione degli elementi slavi richiamati in città dalla rapida crescita economica triestina. La popolazione slovena cominciò così ad aumentare, prefigurando un futuro in cui, secondo le allarmate proiezioni degli statistici italiani, i rapporti fra i gruppi nazionali si sarebbero ribaltati. Fatto ancor più grave, si costituì in città un nucleo di borghesia slovena, economicamente assai dinamica e portatrice delle rivendicazioni nazionali slovene. Tali rivendicazioni riguardavano i "diritti nazionali", come l'educazione in lingua slovena e l'uso dello sloveno nell'amministrazione, ma la prospettiva, comune a tutti i movimenti nazionalisti tardo ottocenteschi, era la conquista dell'egemonia nelle istituzioni, intese come strumento essenziale per la piena realizzazione dell'identità nazionale. Su questo obiettivo, italiani e slavi concordavano in modo speculare cosicché la loro competizione divenne lotta per il potere locale, fino a quando rimase in vita l'impero asburgico, e poi, quando l'impero crollò, lotta per l'inserimento in uno stato nazionale esclusivista, disponibile cioè a gettare tutto il suo peso in favore della propria scheggia nazionale "redenta", schiacciando gli "avversari storici". Ciò è quanto sarebbe riuscito agli italiani dopo la prima guerra mondiale, e agli sloveni e croati dopo la seconda. L’”ascesa degli slavi” venne favorita anche dal governo di Vienna e gli italiani ovviamente gridarono alla congiura austro-slava; ma il comportamento delle autorità rientrava principalmente in quella politica di equilibrismi tra i gruppi nazionali alla quale il governo asburgico affidava sempre più la sua
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sopravvivenza, e che lo spingeva a intervenire a favore delle componenti nazionali escluse dal potere locale. Così, se il comune di Trieste assumeva soltanto italiani (reclutandoli anche fra i cittadini del Regno d'Italia), poste e ferrovie cominciarono ad assumere quasi esclusivamente slavi. Dietro a tale politica di bilanciamenti però, stava anche la crescente convinzione degli ambienti governativi che, in un'epoca di nazionalizzazione delle masse, una città della valenza strategica di Trieste non potesse rimanere patrimonio esclusivo degli italiani - del cui lealismo l'esperienza storica suggeriva di diffidare - ma dovesse divenire una "città delle nazionalità", specchio della pluralità di popoli dell'impero. Le istituzioni dello stato asburgico finirono così per venire percepite dagli italiani come un potere avverso e invasivo, anche se non si può certo considerarlo oppressivo. Agli italiani dunque, l'autonomia amministrativa non bastava più, anche perché i suoi contenuti venivano di fatto erosi dal ridimensionamento dell'influenza economica della dirigenza locale. Se fino alla metà dell'Ottocento l'imprenditoria giuliana era stata in grado di finanziare lo sviluppo della città e, addirittura, di candidarsi a guida della politica estera dell'Austria, tra Otto e Novecento la dimensione municipale non bastava più a sostenere gli enormi investimenti richiesti da un'economia portuale e industriale d'avanguardia. Le decisioni cruciali per il futuro della città perciò, si spostavano altrove, attraverso processi sempre meno negoziabili dalla classe dirigente locale, che doveva fra l'altro notare come i capitali cechi, che fluivano copiosi assieme a quelli austriaci, finissero per rafforzare le posizioni, economiche e politiche, della nuova imprenditoria slovena. Il terreno era dunque pronto per il diffondersi di un "complesso dell'assedio" dell'italianità adriatica, che avrebbe connotato il panorama politico giuliano per tutto il Novecento. La scelta conseguente fu quella dell'irredentismo, cioè della volontà di distacco dal nesso asburgico e di annessione al Regno d'Italia; ma la cultura entro la quale tale opzione maturò, non era più quella della tradizione risorgimentale democratica, mazziniana e garibaldina, bensì quella del nazionalismo italiano del primo Novecento, che degli altri coevi nazionalismi europei condivideva aggressività imperialista, intolleranza e xenofobia. A parte la locale compagine socialista, rimasta fedele all'internazionalismo, a Trieste come nel resto d'Italia furono le nuove generazioni che di fronte allo scoppio del conflitto si ribellarono a ogni appello alla moderazione lanciato dalle vecchie élites dirigenti della città. I giovani nazionalisti triestini insistendo su un futuro ruolo commerciale rivolto a oriente, disertarono dall'esercito austriaco e si gettarono a capofitto nella campagna
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interventista italiana, trascinando nell'entusiasmo anche chi inizialmente si era dimostrato più favorevole a soluzioni di irredentismo culturale. Scheda 2. La politica del fascismo verso gli slavi a cura di Anna Vinci Rispetto alle altre regioni d'Italia, nella Venezia Giulia il fascismo conobbe un precoce successo perché seppe introdursi con indubbia abilità politica nei conflitti nazionali che continuavano a imperversare in quest'area dalla fine dell'Ottocento, con un crescendo che la Grande guerra non aveva di certo contribuito a smorzare. Carattere distintivo del "fascismo di frontiera" fu infatti l'epopea della "difesa del confine nazionale", accompagnata da una forte aggressività contro i nemici esterni (serbi, croati, sloveni in particolare) e interni (le comunità di sloveni e croati presenti da antica data nell'ex litorale e di recentissima acquisizione per lo stato italiano). L'omogeneità nazionale sembrava allora un segno di forza, di potere e di sicurezza da esibire come trionfo verso l'interno e come minaccia verso l'esterno. Le squadre fasciste, guidate da Francesco Giunta, seppero cogliere questo inquieto ribollire della società civile, che ben si coniugava ai rigidi schemi con cui i poteri militari interpretavano la realtà locale (non rifuggendo in taluni casi dallo strumentalizzarla per fini eversivi) e al desiderio di molta parte dei ceti dirigenti giuliani, che temevano l'incandescente intreccio di ribellione sociale e ribellione nazionale. La data del 13 luglio 1920, con l'incendio del Narodni Dom (sede delle principali organizzazioni slovene jugoslave della città e collocato nel centro di Trieste) e con gli atti di violenza che, parallelamente, si ebbero a Pola e Pisino, rappresenta un simbolico punto di svolta: le fiamme che si elevarono da quegli edifici e le operazioni d'assalto che ne causarono la distruzione, con il concorso di squadristi e militari, aprirono con chiarezza lo scenario all'alleanza tra i nuovi portatori di violenza e quelle parti dello stato liberale non più disposte a rispettare le tradizionali regole della convivenza sociale e politica. Dopo la conquista del potere, l'eversione fascista si fece violenza di stato, una violenza volta alla distruzione dell'identità nazionale delle popolazioni slovene e croate, ormai parte della "patria italiana"; ciò era diretta conseguenza degli antichi contrasti tra italiani e slavi in queste terre e dell'odio verso qualsiasi forma di "diversità", chiaramente impossibile all'interno di uno stato gerarchico e dittatoriale. A tale obiettivo concorsero sia la legislazione repressiva applicata in tutta Italia contro gli oppositori al fascismo (eliminazione della libertà di stampa, distruzione dell'associazionismo politico, persecuzione dei militanti antifascisti, controlli di polizia, ecc.), sia una serie
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di misure specificatamente mirate alla "bonifica" etnica della regione, fra le quali, in particolare, i provvedimenti diretti a impedire l'uso pubblico della lingua slovena e croata (abolizione della stampa slava, soppressione dell'insegnamento in lingua slovena e croata, chiusura dei circoli culturali), che erano ritenuti premessa indispensabile per l'assimilazione degli "allogeni". A questi si aggiunse la persecuzione di quegli elementi ritenuti punti di riferimento e di aggregazione per le comunità nazionali slovene e croate, in primo luogo preti, maestri e capi villaggio. Infine, la liquidazione del tessuto cooperativo e creditizio slavo, già in prepotente ascesa in epoca asburgica, troncò bruscamente le vive speranze di affermazione sociale degli sloveni e dei croati. La borghesia slava della Venezia Giulia (o quello che ne era rimasto, dopo i molti provvedimenti di espulsione e le molte fughe avvenute già alla fine della guerra) venne drasticamente ridimensionata e, in tutti i casi in cui fu possibile, sostituita, negli uffici pubblici, nelle professioni e nell'economia privata, da "homines novi" di provata fede italiana. L'italianizzazione forzata dei toponimi e dei cognomi, infine, fece da corollario tragico e beffardo a tale politica, evidenziando la volontà di cancellazione della memoria pubblica e precipua di un popolo operando un completo sradicamento della sua cultura e della sua storia. Minori risultati ebbe invece la politica fascista nelle campagne, dove era più difficile tale operazione di sostituzione e, spesso, l'espulsione del ceto dirigente o dei ceti medi sloveni e croati ivi esistenti si rivelava solo un ostacolo pesante per il funzionamento delle stesse istituzioni. Non mancarono del resto tentativi di adescamento da parte dello stato fascista; né le comunità slovene e croate (urbane e contadine) diedero tutte compattamente la stessa risposta di ripulsa al regime dittatoriale. Cedimenti e compromessi, adattamenti e consensi non furono rari. Non va comunque mai dimenticato che i sistemi di polizia ebbero, lungo il corso del ventennio, un'azione deterrente di grande rilievo (i provvedimenti di ammonizione e di confino, le carcerazioni e le condanne a morte comminate dal Tribunale speciale per la difesa dello stato) riuscendo nello scopo molto meglio di tutti gli altri tentativi compiuti per mezzo delle organizzazioni del Partito nazionale fascista e delle istituzioni statali, con particolare riferimento sia alle trasformazioni economiche necessarie per il retroterra carsico e per l'Istria poverissima, che all'assistenza e al soccorso dei più miseri. La carenza di mezzi finanziari bloccava però la maggior parte dei progetti, mentre la costruzione di miti propagandistici (il mito di Roma, la potenza salvifica della civiltà latina, per esempio) non riusciva a proporre modelli positivi per i "diversi". Nemmeno l'esaltazione della modernità e della ruralità, spesso indicate come schemi culturali che potessero convivere senza difficoltà,
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raggiunse risultati duraturi: il disprezzo verso gli "allogeni" e le misure repressive smascheravano facilmente il volto suadente del "fascismo benefico" Del resto le comunità slovene e croate, pur assediate e spesso scompaginate, continuavano ad avere punti di riferimento significativi: soprattutto i sacerdoti, che in epoca austriaca avevano svolto un ruolo non indifferente nel processo di costruzione dell'identità nazionale slovena e croata e che, nelle mutate condizioni, cercavano di difenderla, preservando in questo modo anche il legame che li univa al loro popolo di credenti. La chiesa cattolica si trovò fortemente esposta alle pressioni del regime, soprattutto dopo la firma del Concordato che poneva su un piano ben diverso rispetto al passato i rapporti tra Chiesa e Stato. Furono numerosi i sacerdoti sloveni e croati mandati al confino, anche prima del 1929; molti altri vennero intimiditi o sottoposti a violenze. Uno degli aspetti più gravi fu poi la profonda frattura che si produsse all'interno del corpo ecclesiastico, lungo la pericolosa faglia delle divisioni nazionali. Non era certo la prima volta, ma, senza dubbio, l'allontanamento dell'arcivescovo di Gorizia, monsignor Borgia Sedej, e poi quello del vescovo di Trieste, monsignor Fogar, stavano a indicare che il clima era mutato: quei presuli, che con tenacia avevano difeso il diritto naturale degli sloveni e dei croati all'uso della loro lingua, per lo meno nella sfera religiosa, erano osteggiati da una buona parte dello stesso clero italiano, poiché venivano percepiti come un potente elemento di contraddizione nelle nuove relazioni di pacificazione tra Chiesa e regime. Forti spinte emigratorie verso la Jugoslavia e verso l'America latina (la quantificazione è tuttora di difficile definizione) interessarono le comunità slovene e croate, per motivi politici ed economici, fin dalla conclusione della prima guerra mondiale: accanto ai perseguitati politici e ai professionisti che non trovavano più spazio nell'amministrazione italiana, partirono indubbiamente molti giovani, alla ricerca di migliori condizioni di vita, ma spesso - si può certo immaginare - con rabbia e rancori difficili da sopire. I dati del censimento etnico fatto compiere in maniera riservata dal governo fascista alla fine degli anni trenta e basato sulla lingua d'uso, sembrerebbero dimostrare che alla vigilia della seconda guerra mondiale la consistenza della popolazione slava presente entro i confini del Regno d'Italia era in calo, sia pur in termini assai contenuti, rispetto a quella del primo dopoguerra, mentre era in parte cambiata la sua composizione sociale, che aveva subito un appiattimento verso il basso. L'emigrazione aveva dunque avuto il suo peso, non tanto nell'intaccare il nucleo fondamentale della popolazione slovena e croata, quanto nel bloccare quella tendenza alla crescita che nell'anteguerra aveva tanto preoccupato gli italiani. Contemporaneamente, il fatto che si rimarcasse la presenza di circa quattrocentomila alloglotti alla vigilia della
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guerra al confine orientale suonava come una precisa minaccia per il regime e, nello stesso tempo, come il fallimento di quella politica di italianizzazione e snazionalizzazione delle popolazioni slave, condotta con supponenza e ferocia, imbastita spesso con la benevolenza di chi cresce nel pregiudizio della propria superiorità. Il frutto avvelenato di vent'anni di lacerazioni e insipienze venne così lasciato in pasto alle nuove violenze che solo la guerra era in grado di alimentare. Scheda 3. L'occupazione italiana della Jugoslavia a cura di Raoul Pupo Lo scoppio della guerra mondiale e, soprattutto, l'attacco delle potenze del patto tripartito contro la Jugoslavia dell'aprile 1941, fecero compiere alle conflittualità nazionali nella Venezia Giulia un decisivo salto di qualità. Dalla spartizione della Jugoslavia, l'Italia ottenne l'annessione diretta della Slovenia meridionale – costituita in provincia di Lubiana - di buona parte della costa dalmata - costituita in un Governatorato della Dalmazia comprendente le province di Zara (già italiana, ma accresciuta nella sua estensione), di Spalato e di Cattaro - nonché di una fascia di territorio croato destinato ad ampliare la provincia di Fiume. Se la conquista della Dalmazia costituiva per l'Italia il coronamento di un disegno di egemonia adriatica quale erede di Venezia, preesistente al primo conflitto mondiale e parzialmente frustrato dal suo esito (da cui il mito della "vittoria mutilata"), l'annessione della Slovenia mirava principalmente a evitare la formazione di uno spazio neo-asburgico fra Terzo Reich, Ungheria e Croazia. Si trattava quindi di una mossa difensiva nel quadro del nuovo assetto centro-europeo a egemonia tedesca, una mossa finalizzata a dare un minimo di respiro alla frontiera orientale italiana, anche perché per il regime fascista, che già aveva accettato i tedeschi al Brennero, ritrovarli incombenti anche sulla "porta orientale d'Italia" avrebbe reso evidente in maniera troppo clamorosa che i frutti della Grande guerra erano stati dispersi al vento. Inoltre, vennero indirettamente annessi anche alcuni distretti occidentali del Kossovo e della Macedonia, aggregati all'Albania già italiana dal 1939, mentre il Montenegro venne eretto a protettorato. Fallì invece il disegno di infeudare all'Italia il nuovo stato indipendente croato, nonostante alla sua testa venisse posto il leader ustascia Ante Pavelic, che il governo fascista aveva ospitato in Italia e largamente appoggiato negli anni precedenti. La debolezza della presenza economica italiana e gli attriti ben presto sorti fra le autorità italiane e quelle croate - divise sia dai risentimenti legati alla soluzione della questione dalmata, che dalla protezione accordata dalle truppe italiane agli elementi serbi sottoposti a pulizia etnica - aprirono ampi
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spazi alla penetrazione del Terzo Reich, di cui lo stato croato divenne ben presto uno dei satelliti più fedeli, distinguendosi, per esempio, per lo zelo posto nella persecuzione degli ebrei. Fin dall'estate del 1941, nei territori annessi o semplicemente occupati dalle truppe dell'Asse si sviluppò un movimento resistenziale che ben presto impegnò severamente gli eserciti aggressori. La situazione jugoslava tuttavia si rivelò più complessa dello scontro fra occupati e occupatori. La crisi seguita alla violenta dissoluzione dello stato jugoslavo gettò infatti sanguinosamente l'una contro l'altra le diverse componenti etniche e politiche del paese balcanico, e ciò che ne seguì, oltre a una guerra di liberazione contro gli invasori italiani e tedeschi, fu una spaventosa guerra civile che vide come protagonisti, oltre al movimento partigiano progressivamente egemonizzato dai comunisti, ustascia croati, cetnici serbi e domobranzi sloveni. In ogni caso, a partire soprattutto dal 1942 (anche se già nel 1941 la rivolta in Montenegro aveva fatto temporaneamente perdere agli italiani il controllo della regione) l'erompere della guerriglia partigiana innescò una spirale di azioni belliche, rappresaglie e ritorsioni che coinvolse massicciamente la popolazione civile; per far fronte alla situazione, le autorità militari italiane condussero infatti una serie di cicli operativi che provocarono ampie distruzioni materiali e procurarono perdite assai elevate tra militari, partigiani e civili. Nel corso della lotta inoltre entrambi i contendenti compirono in numerose occasioni atti estremi di brutalità, che diffusero ovunque un clima di odio e di terrore. Nell'area di confine della Venezia Giulia, per esempio, vanno ricordati l'eccidio da parte italiana di circa trenta abitanti di piccoli villaggi presso Prem, nella zona di Villa del Nevoso, e la fucilazione per rappresaglia di un centinaio di abitanti del villaggio di Podhum, presso Fiume, per ordine del prefetto Testa. Il tentativo italiano di riprendere il controllo militare e politico della situazione passò anche attraverso la creazione di bande volontarie formate da elementi slavi anticomunisti, che nella provincia di Lubiana ottennero un discreto successo, e soprattutto attraverso la deportazione di nuclei consistenti di popolazione civile residente nelle zone a più alta densità partigiana. Ciò comportò la creazione in Italia di numerosi campi di internamento, nei quali vennero recluse più di trentamila persone: i principali furono quelli di Gonars e dell'isola di Arbe, dove molti prigionieri morirono di stenti. Nonostante tali provvedimenti, l'attività partigiana si diffuse anche nei territori istriani e del Carso goriziano e triestino, trovando largo appoggio da parte della popolazione slava del posto. La gravità della minaccia indusse le autorità a costituire speciali corpi antiguerriglia, come l'Ispettorato speciale di pubblica sicurezza, le cui efferatezze vennero denunciate dal vescovo di
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Trieste, monsignor Santin, e che dopo l'8 settembre 1943 avrebbe proseguito la sua attività agli ordini dei tedeschi. Se nel resto d'Italia furono soprattutto i bombardamenti alleati a portare la "guerra in casa", riducendo di colpo la percezione di distanza da un conflitto combattuto in terre lontane (Africa, Russia), nella Venezia Giulia la medesima funzione fu svolta dal "secondo fronte" partigiano, che nei primi mesi del 1943 cominciò a lambire anche Trieste. Scheda 4. La "Zona di operazioni litorale adriatico" a cura di Raoul Pupo Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 i tedeschi occuparono rapidamente la Venezia Giulia e vi crearono la "Zona di operazioni litorale adriatico", estesa fino a comprendere anche le province di Belluno e di Lubiana, vale a dire tutta la fascia a cavallo delle Alpi orientali di grande importanza strategica per il Reich. All'origine della decisione tedesca non vi erano soltanto ragioni di ordine militare: dietro la creazione della Zona stava infatti la prospettiva politica di sottrarne il territorio alla sovranità italiana per conservarlo al diretto controllo germanico, forse sotto la forma di un protettorato, proiezione delle ambizioni del nazismo carinziano che aveva costruito stretti rapporti economici e politici con Trieste, dove fin dal 1938 era attiva un'organizzata sezione del Partito nazionalsocialista, dotata di un centro di propaganda. Lo stesso accadde nel Trentino-Alto Adige con la creazione della "Zona di operazioni Prealpi", subordinata agli interessi del Tirolo. La Zona quindi venne di fatto separata dalla Repubblica Sociale Italiana (creata nel nord Italia da Mussolini), che non poté estendervi la propria legislazione, nominarvi le proprie autorità e inviarvi le proprie forze armate, salvo alcuni reparti sotto il comando tedesco. La massima autorità civile della Zona, il supremo commissario Reiner, già Gauleiter della Corinzia, governò adattando la legge italiana di guerra alle esigenze dell'occupazione tedesca, e ponendo ai vertici dei capoluoghi esponenti italiani e slavi scelti personalmente oppure indicati dai gruppi di pressione economica locali. Per consolidare il loro dominio i tedeschi cercarono di contrapporre l'uno contro l'altro i diversi gruppi nazionali - italiani, croati, sloveni - per far risaltare la necessità dell'arbitrato germanico: così, a una politica di concessioni concorrenziali sul piano linguistico e amministrativo si accompagnò la proposta del mito asburgico, contrapposto polemicamente al fallimento dello stato italiano e di quello jugoslavo. Tale atteggiamento suscitò alcuni consensi, anche se fra loro contraddittori, in una popolazione nazionalmente divisa come quella giuliana, e ciò fece sì che i nazisti potessero utilizzare gli apparati amministrativi esistenti nei centri maggiori della Zona e avvalersi
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anche della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane e slave. Sul piano simbolico, la coscienza nazionale degli italiani venne fortemente colpita dalla distruzione a Gorizia del monumento ai caduti della Grande guerra, avvenuta per mano dei collaborazionisti sloveni, con la copertura dei nazisti, come pure dallo smontaggio, eseguito direttamente dai tedeschi, del monumento capodistriano a Nazario Sauro. La politica nazista d'occupazione oscillò tra ammiccamento e repressione. La classe operaia fu esclusa dalla chiamata alle armi perché l'industria locale fu sottoposta a una particolare tutela, dalla quale gli imprenditori trassero più di un vantaggio. La maggioranza della popolazione, che fino all'autunno 1944 era rimasta indifferente ai richiami propagandistici nell'aspettativa di un intervento militare angloamericano risolutore, fu bruscamente richiamata alla realtà con la mobilitazione di massa per il servizio obbligatorio del lavoro: con la scusa di procedere a opere campali di fortificazione, i tedeschi mobilitarono migliaia di uomini, proprio per meglio controllarli e impedire una loro eventuale adesione al movimento partigiano; i renitenti alla chiamata alle armi furono puniti con la deportazione. Questa forma di controllo provocò una più intensa presa di coscienza del sistema di occupazione proprio nella "zona grigia" della società giuliana. Per sottrarsi a questi bandi di mobilitazione i cittadini finirono col scegliere strade diverse: dall'adesione a corpi civili di protezione e alle forze di sicurezza locali - come la municipalistica Guardia civica - all'assunzione presso aziende statali e imprese protette, fino all'arruolamento nelle formazioni partigiane. Però, fino al bombardamento aereo del 10 giugno 1944, Trieste sembrò cinica e indifferente: le repressioni tedesche, culminate con oltre un centinaio di fucilati e impiccati nella primavera di quell'anno, non ebbero la forza di scuotere la città da una preoccupante apatia, e dal mondo operaio non giunsero segni di sdegno. L'occupazione tedesca aveva avuto una capacità sedativa sullo spirito e sull'identità. Ben più forti furono le reazioni provocate, nella periferia e nei piccoli centri, dalla durissima repressione con cui le autorità germaniche cercarono di piegare il movimento resistenziale, italiano e jugoslavo, contro il quale furono impiegate le medesime tecniche previste per la guerra di sterminio condotta nell'Est europeo. Ciò dilatò la distanza tra il suburbio e i maggiori centri e tra questi e il territorio della provincia. I tedeschi si limitavano a controllare le principali vie di comunicazioni, operando di tanto in tanto alcune incursioni nelle aree dalle quali giungeva la minaccia delle forze partigiane. Queste ultime riuscirono così a creare delle zone libere, anche piuttosto estese, poste sotto il loro diretto controllo. Ciò comportò un progressivo coinvolgimento
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della popolazione civile, travolta nella spirale della guerriglia e delle rappresaglie. Nella stessa logica di guerra totale rientrò anche la creazione del campo di detenzione di polizia della Risiera di San Sabba, a Trieste, nel quale vennero eseguite esecuzioni sommarie su larga scala e gasazioni, e dove venne pure messo in funzione un forno crematorio, realizzato da un gruppo di specialisti già collaudati nell'"operazione eutanasia" e nella costruzione dei campi di sterminio polacchi. Alla Risiera vennero eliminate più di cinquemila persone, in maggioranza prigionieri politici e partigiani, mentre vi transitarono gli ebrei diretti verso la "soluzione finale" in Germania e in Polonia.
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Documenti Documento 1. Rapporto sul recupero delle vittime da una foiba istriana Dalla metà di ottobre del 1943 fino ai primi mesi del 1945 i vigili del fuoco di Pola furono impegnati in una campagna di recupero dei corpi degli infoibati istriani i cui esiti vennero documentati in maniera particolareggiata dal maresciallo Arnaldo Harzarich, che diresse la squadra addetta alle esplorazioni delle cavità e al recupero delle salme. Costretto infatti nell'aprile del 1945 ad abbandonare Pola, Harzarich nel luglio dello stesso anno rilasciò ai servizi di informazione angloamericani una circostanziata deposizione, accompagnata da una ricca documentazione, anche fotografica. Il brano qui riportato si riferisce all'esplorazione della "foiba dei colombi" di Vines. Ordine cronologico e descrizione nei particolari possibili delle azioni che dirette dall'interrogato hanno condotto al recupero di salme vittime della ferocia slavo-comunista. 16 ott. '43 - Foiba di Vines Esplorata in mattinata la foiba di Cregli i cui lavori devono essere sospesi perché la corda disponibile non basta per raggiungere il fondo, il personale designato dall'Autorità provinciale di Pola si reca nei pressi di Vines, alla foiba denominata “dei colombi” ove, secondo la denuncia di tale Monti da Albona, vi sarebbero dei cadaveri. Iniziano immediatamente i lavori, organizzati come segue: PERSONALE Maresc. Harzarich caposquadra Vigile Prinz Giuseppe Biluccaglia Giordano Dellore Giovanni Vigile de Angelini Mario Vigile Valente Mario Tutti del 41° Corpo VV. FF. di Pola. SCORTA Per tema di attacchi da parte di partigiani, ogni spedizione del genere ha una scorta armata che nella presente è rappresentata da 25 uomini forniti dalla PS di Pola. AUTORITÀ PRESENTI Procuratore di Stato di Pola. Un medico di Pola del quale l'interrogato non ricorda il nome. 2 giudici o cancellieri del tribunale di Pola. 1 fotografo: Sivilotti di Pola. Alcuni parenti di scomparsi.
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ATTREZZATURA Biga formata da alcuni pali fissi all'estremità superiore e aperti all'estremità inferiore a mo’ di piramide. Un paranco da VV. FF. con doppia carrucola: una per fissare l'operatore e l'altra di riserva. L'operatore è munito di elmetto, maschera antigas comune, vestito antipritico. Porta inoltre un telefono (militare da guardiafili) per il collegamento con la superficie. OPERAZIONE Terminata l'impalcatura che si vede nella foto n. 4 dell'allegato n. 2, il Mar. Harzarich scende. Alla profondità di 66 metri, sopra un piano fortemente inclinato, trova alcuni indumenti di vestiario maschili e femminili e due salme che vengono immediatamente portate alla luce. Il Direttore delle Miniere Carbonifere dell'ARSA, presente, riconosce i due per: Stossi Bruno, di Giovanni, di anni 39, elettricista da Pola, operaio nelle miniere dell'ARSA. Vedi foto 1-2-3, alla lettera A, dell'allegato n. 2. Chersi Mario, fu Andrea, capo Operaio nelle Miniere dell'ARSA, da Albona. Vedi foto n. 3 alla lettera B, dell'allegato n. 2. Il giorno successivo, il riconoscimento delle salme viene confermato dai famigliari accorsi. L'interrogato non è in grado di fornire particolari sulle eventuali colpe dei due che hanno indotto i partigiani slavi a prelevarli nelle loro case nella prima quindicina del settembre 43, per gettarli nell'abisso. I polsi dei disgraziati sono legati con filo di acciaio stretto da pinze. I corpi fissati, spalla contro spalla, da un altro cavo d'acciaio lungo circa 20 mt. e dello spessore di 5/6 mm. Il lavoro viene sospeso a sera. 17 ott. '43 I lavori si riprendono di buon mattino. Con materiale e personale messo a disposizione dalla direzione delle Miniere dell'ARSA, viene costruita un'impalcatura più idonea (vedi pag. 4 dell'opuscolo ´Ecco il conto, allegato n. 3), dopodiché l'Harzarich scende a 146 metri per trovare un secondo piano. La visione è delle più macabre: il piano è pieno di cadaveri. Una sola salma può essere recuperata perché, per la improvvisa partenza della scorta armata, si devono sospendere i lavori. Il Direttore delle Miniere dell'ARSA riconosce anche tale vittima per suo dipendente, ma l'interrogato non è in grado di dare riferimento fotografico. 18 ott. '43 Oggi il personale addetto ai lavori è composto da: Maresc. Harzarich Vigile de Angelini Mario Vigile Valente Mario Tamburini Giuseppe Pugliese Mariano
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Giravolo Vic. B. Moscheni Antonio. Essi sono aiutati da 12 uomini della squadra di soccorso delle Miniere d'ARSA, messi a disposizione dalla Direzione di detta Società. Gli operatori scendono muniti di autoprotettore, in sostituzione delle maschere antigas, inefficaci per le grandi profondità. La scorta è assente. A sera altre 12 salme sono alla superficie. L'interrogato dichiara che esse sono certamente nelle foto allegate, ma non è in grado di riferire con esattezza. 19 ott. '43 Recupero di altre 14 salme. L'ing. Vagnati, comandante dei VV. FF. ordina la sospensione dei lavori per la mancata assegnazione, dopo la prima azione, di scorta armata, medico e sacerdote. Per interessamento dell'Ecc. Radossi, vescovo di Pola, e a richiesta insistente di molti famigliari di scomparsi, i lavori vengono ripresi il: 23 ott. '43 PERSONALE Maresc. Harzarich Vigile de Angelini Mario Bussano Giordano Giacomini Bruno con la squadra di soccorso delle miniere d'ARSA. SCORTA 30 marinai tedeschi al comando di un ufficiale. AUTORITÀ Oltre alla regolamentare autorità giudiziaria, presenzia Mons. il Vescovo di Pola. I lavori portano al recupero di n. 12 salme tra le quali due donne che vengono riconosciute per: Cnappi-Battelli Maria, fu Giovanni, di anni 42, ostetrica a S. Domenica di Albona. La sua uccisione è motivata, secondo le voci circolanti ad Albona, dall'assistenza ad un parto di donna slava che ebbe il bambino morto. Anch'essa fu prelevata dagli armati di Tito nei giorni che seguirono l'8 settembre 43, dalla propria abitazione. Paoletti Teresa di Antonio, di anni 49, da Parenzo, casalinga. Ignorato anche il presunto motivo che ha condotto i partigiani slavi all'assassinio della Paoletti. Ott. '43 I lavori continuano, presente oggi, a rappresentanza dell'Autorità ecclesiastica, il parroco di Albona. Vengono estratte n. 18 salme. L'interrogato
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ricorda il riconoscimento di: Rocco Isacco, fu Antonio, di anni 51, da San Lorenzo del Pasenatico. Il Rocco, pur avendo ricoperto la carica di segretario politico a San Lorenzo, era benvoluto e stimato per la sua onestà e soprattutto per il suo alto senso di italianità. Era ammalato di tisi. La sua salma è riprodotta nella foto n.5 dell'allegato n. 2. Ott. '43 Con due discese vengono estratte le ultime 25 salme. Diverse sono subito riconosciute, ma l'interrogato non è in grado di fornire dei dati precisi. Terminano così le estrazioni dalla foiba di Vines con i seguenti dati finali: giorni di lavoro n. 8 discese effettuate n. 9 salme di vittime estratte n. 84 Fra queste 3 donne, 1 giovane di 18 anni e 12 militari germanici. Allegato n. 8 alla relazione: il Maresc. Harzarich alla superficie dopo molte ore di lavoro nella foiba di Vines. Varie Ottobre '43 Tutte le salme estratte dalla foiba di Vines hanno i polsi fissati da filo di ferro arrugginito del diametro di mm. 2 circa. L'interrogato dichiara, nella sua qualità di esperto meccanico, che il filo è sempre stato stretto (fino a spezzare il polso), con pinza o tenaglia. Molte salme erano accoppiate mediante legatura, sempre da filo di ferro, nei due avambracci. Da notare che dei due disgraziati sempre soltanto uno presenta segni di colpi di arma da fuoco il che fa comprendere che il colpito si è trascinato dietro il compagno ancor vivo. Nella parte Sud della foiba, a circa 4 metri dall'orlo di essa, vi è un foro cilindrico delle dimensioni di cm 30 diam. per 10-15 di profondità. Tale particolare ha fatto pensare dapprima al piazzamento di un'arma per far fuoco sugli uccisi. In seguito, una donna partigiana di Barbana della quale l'interrogato non ricorda il nome, ha narrato trattarsi di un foro cui veniva inserita una piastra di rame di stazione radio che serviva per la trasmissione delle cronache delle uccisioni in massa. La radiotelegrafista sarebbe stata una donna di circa 25 anni, in divisa, che dava la cronaca degli avvenimenti, in fonia, usando la lingua russa. (Notizie da prendersi con riserva fino alla conferma da altra fonte). Alcune salme colpite da arma da fuoco con penetrazione dei proiettili in vari sensi e tracce di proiettili schiacciate nelle pareti delle foibe a profondità diverse (non oltre i 30 metri), fanno pensare che i partigiani slavi, appostati sugli orli della foiba, si divertissero a sparare con i mitra, dietro ai precipitati.
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Documento 2. Un rapporto del servizio informativo partigiano sui fatti istriani dell'autunno 1943 Nella seconda metà di ottobre del 1943, vale a dire immediatamente dopo l'offensiva tedesca che spazzò via il potere partigiano, il Centro informativo regionale per il litorale croato e l'Istria, organo del Movimento di liberazione croato, inviò in Istria l'allora capitano Zvonko Babic-Zulja con il duplice compito di esaminare la situazione politica nella penisola e di organizzarvi il servizio di informazioni. Il brano qui riportato1, oltre a fotografare il disfacimento delle autorità italiane, mette in luce il clima di confusione e di improvvisazione imperante in Istria in quella contingenza. Significativamente, quando si riferisce alle eliminazioni degli oppositori l'autore del rapporto non parla di "fascisti", ma fa uso del termine "nemici del popolo", nel quale vengono compresi tutti gli avversari del Movimento di liberazione. Risulta abbastanza chiaro dal testo che la "pulizia" del territorio da tali "nemici" rappresentava uno dei compiti essenziali affidati alle autorità partigiane e quindi non era soltanto frutto di scoppi incontrollati di violenza; al tempo stesso, le sue modalità di esecuzione risentivano del caos e dell'immaturità politica dei quadri partigiani croati, oscillando tra l'eliminazione sommaria dei prigionieri (risalta qui indirettamente il ruolo di Ivan Modica, considerato il "boia dell'Istria") e il tentativo di alcuni comandi locali di mitigare l'evidente durezza degli ordini ricevuti, comunicando ai loro superiori uccisioni in realtà mai avvenute. Dopo la dichiarazione della capitolazione l'esercito italiano cominciò subito a disgregarsi, i soldati cominciarono a vendere le loro divise e gli accessori e a comprare abiti civili, e i nostri responsabili cominciarono a prendere il potere e a disarmare le unità italiane. Questo processo di disintegrazione cominciò a nord e così il 10 settembre il potere fu preso a Pinguente, il 12 settembre a Pisino, il 13 a Parenzo mentre a Pola non fu necessario prendere il potere poiché quando i nostri responsabili arrivarono nelle vicinanze di Pola, i tedeschi erano già arrivati nella notte tra l'11 e il 12 settembre. La colonna tedesca era costituita da circa 100 carri armati. La sola presa del potere non si svolse ovunque in modo uguale. In diversi posti si ebbero negoziati con le autorità militari italiane sulla consegna delle armi o di una parte di esse alle unità partigiane e su di ciò furono addirittura firmati alcuni accordi (Pisino, Gimino ecc.). La gente stessa intervenne e allora l'esercito, senza riguardo agli accordi formali, consegnò le armi e si dileguò, cosicché il comando stesso delle unità italiane dovette abbandonare l'Istria. Sono state requisite grandi quantità di armi e di materiale bellico, di cibo, di sigarette, ecc. La presa del 1
Tutto il materiale è consultabile presso l’archivio dell’IRSML
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potere e del materiale avvenne in modo innanzitutto improvvisato, tramite persone che agirono di loro iniziativa e nei luoghi da loro indicati; queste persone non erano sempre all'altezza del loro compito né degne di fiducia. Il popolo si mobilitò e prese le armi spontaneamente ma non era il caso di parlare di una guida organizzata delle unità militari e del comando militare. Il gruppo di comando che era arrivato dalla Jugoslavia giunse con ritardo. Ho sentito inoltre delle critiche sull'impreparazione di numerosi membri inferiori di quel gruppo, ma non potevo notare casi concreti e rilevanti. Fu fondata una direzione locale per tutto il territorio dell'Istria e come comandante fu nominato Ivan Motika che, d'accordo con l'amministrazione dell'Istria, fu da noi incaricato della gestione del ROC (Centro informativo regionale dell'Istria). Il popolo istriano accolse questa nomina come se si fosse trattato del comandante in capo dell'Istria, cioè di un qualche commissario militare (ma nel senso delle precedenti nomine italiane nelle zone annesse). Durante l'esercizio del nostro potere in Istria, l'attività politica dei NOO (Comitati di liberazione popolare) fu poco incisiva poiché la gente non aveva capito bene la funzione di questi comitati. Il popolo considerava la liberazione dell'Istria cosa definitiva e non era preparato né politicamente né moralmente per ulteriori imminenti lotte. La lotta contro i nemici del popolo fu condotta in modo disuguale essendo in alcune zone del tutto insufficiente mentre in altre zone era radicale. È caratteristico a questo proposito anche il fatto che in alcuni posti i comandi locali riferivano che i prigionieri furono eliminati anche se ciò non corrispondeva al vero. Era evidente la scarsa capacità di riconoscere i veri nemici del popolo come anche la mancanza di dati riguardo i loro delitti, cose che ora si pagano immancabilmente. Zminjstna (luogo di nascita di Motika) e Poresina erano meglio ripulite. Qui non furono nemmeno istituiti i campi di lavoro forzato e i nemici del popolo venivano in genere puniti esclusivamente con la pena capitale. Tra i prigionieri c'era anche un prete, che fu liberato grazie all'intervento del vescovo di Pola e Parenzo. Documento 3. La posizione della Chiesa Il 4 marzo 1944 sul settimanale della diocesi di Trieste "Vita Nuova" apparve il fondo dal titolo La "foiba" firmato dal direttore Giorgio Beari, evidentemente con il consenso del vescovo monsignor Santin2. Apparentemente, l'articolo si inserisce nella lunga serie di interventi che la stampa locale fin dagli ultimi mesi dell'anno precedente aveva dedicato agli avvenimenti istriani, seguendo passo dopo passo la campagna di recuperi, insistendo con particolare veemenza sulla "barbarie" slava e proponendo ripetutamente il 2
Il testo del rapporto è stato pubblicato sulla rivista “Vjesnik”, XXVI (1983)
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confronto con le fosse di Katyn. In realtà, il testo contiene un forte invito a non dimenticare le violenze di cui gli occupatori tedeschi si stanno rendendo protagonisti e, riportando i passi più significativi della pastorale quaresimale del vescovo, denuncia ogni tipo di sopraffazione nazionale, razziale e ideologica. Non si pensi che la "foiba" sia l'unica trovata del banditismo contemporaneo, anche se rimane pur sempre una delle più truculente espressioni della barbarie umana. I campi di concentramento, dove i corpi e gli spiriti languiscono in attesa della morte liberatrice; i plotoni di esecuzione, con i fucili spianati contro petti onorati e schiene che mai conobbero la viltà e il tradimento; le deportazioni in massa; i "prelevamenti" (ipocrisia degli eufemismi!) di persone; la spogliazione dei beni; i vari generi di esecuzioni sommarie; gli imprigionamenti ingiustificati; tutte, insomma, le più sfacciate e arbitrarie violenze contro uomini e cose sono altrettanto tristissime realtà di cui è oggi intessuta la vita di popoli interi. Tutto ciò dimostra che i seguaci di ideologie diverse - anche se in netta e spesso sanguinosa antitesi fra di loro nei principi, nelle finalità e negli interessi - s'incontrano invece in maniera sorprendente e quasi si accordano in concezioni e in sistemi di vita che sembrano escludere a priori qualsiasi valutazione “umana” (non dico cristiana) dell'uomo. Ognuno ricordi che secondo i principi cristiani non è lecito privare uno della libertà, della proprietà e della vita, solo perché appartiene ad altra nazionalità, ad altra razza o ad altra idea politica, se persegue i suoi ideali con mezzi onesti e legali. Oltre i fili spinati dei mille e mille campi solitari del dolore, dalle orrende segrete di tanti penitenziari, tombe vive dove soffrono e pregano milioni di innocenti; dai luoghi sperduti dove turbe senza numero vanno, raminghe e misere, lontano dall'ira degli uomini; dal profondo delle fosse che hanno accolto ignude le spoglie di quanti pagarono col proprio sangue la fedeltà a un'idea; dal sepolcro di tutti i massacrati in odio ai loro principi si sprigiona possente un grido di implorazione e di speranza, di rimprovero e di minaccia, di rinascita e di redenzione: “Ridate agli uomini la libertà dei figli di Dio!” è il grido dei popoli3. Documento 4. La posizione del PCI Presumibilmente nel dicembre del 1943 la federazione triestina del PCI scrisse al comando del battaglione partigiano italiano "Giovanni Zol" una lettera di apprezzamento per l'attacco appena compiuto a una caserma dei carabinieri a Villa Decani, località dell'Istria non lontana da Trieste. 3
G. Beari, La "foiba", in "Vita Nuova", settimanale della diocesi di Trieste, 4marzo 1944
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L'operazione aveva potuto giovarsi della collaborazione degli stessi militari, ma ovviamente non sempre le cose andavano così lisce. Nella missiva il termine "foibe" viene usato per indicare la soluzione alternativa e più radicale - l'eliminazione degli avversari - da utilizzare in alcuni casi particolarmente gravi. Pur riferendosi quindi, con tutta evidenza, all'esperienza dell'autunno istriano del 1943, la lettera va interpretata in un'ottica propria della guerra partigiana italiana, che ovunque prevedeva l'eliminazione dei nemici irriducibili o particolarmente odiati. Mancano del tutto sia la dimensione nazionale, il che è ovvio visto che a scrivere erano comunisti italiani, sia l'intento più ampio di epurazione della società locale, già presente negli episodi del 1943 e che avrebbe caratterizzato soprattutto quelli del maggio-giugno 1945. In questo senso il passo sottolinea la differenza tra il radicalismo delle formazioni partigiane comuniste italiane, che prevede certo l'uso della violenza contro fascisti e collaborazionisti, ma lo circoscrive a casi individuali, e quello del movimento partigiano titino, formatosi nella guerra civile jugoslava, in cui la violenza di massa contro gli oppositori finisce per assumere una valenza strategica. [L'azione] è stata ben condotta militarmente e politicamente. Quando non si trova resistenza e avversità politica siamo del parere che è meglio un'azione politica che repressiva. Nel caso dei carabinieri di Villa Decani avete ben fatto, anzi bisogna sfruttare la simpatia da loro dimostrata, per avere tutta quella collaborazione - notizie, aiuti, eccetera - che può favorire la vostra azione, non rinunciando con ciò alla tattica delle "foibe" quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazione, ex responsabili e dirigenti del regime fascista dimostratisi particolarmente reazionari, dirigenti e responsabili dell'attuale fascismo repubblicano, del governo del venduto Mussolini, militi della Milizia repubblicana e della Guardia nazionale repubblicana, collaboratori aperti, decisi e attivi dei tedeschi, spie, eccetera, eccetera. Documento 5. La sorte di Zara Zara era stata l'unica città della Dalmazia a venire annessa all'Italia dopo la prima guerra mondiale, mentre le altre località costiere, occupate nel 1918 secondo quanto previsto dal patto di Londra, dopo un lungo e complesso negoziato erano state assegnate alla Jugoslavia dal trattato di Rapallo del 1920. Dopo l'attacco italo-tedesco alla Jugoslavia del 1941, lo smembramento del regno dei Karageorgevic e l'annessione all'Italia di buona parte della costa dalmata, la provincia di Zara venne ampliata con nuovi territori e divenne sede del Governatorato della Dalmazia. Dopo l'8 settembre 1943, la
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componente italiana della Dalmazia, davanti alle rivendicazioni degli ustascia croati filotedeschi e dei partigiani di Tito, rimase in balia del destino, priva di protezione militare, e finì col pagare un conto salatissimo. Tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 Zara venne quasi completamente distrutta da cinquantaquattro incursioni aeree angloamericane, tra le quali particolarmente disastrose risultarono quelle del 28 novembre e del 16 dicembre 1943. La difficoltà di individuare la logica militare di un simile accanimento (poteva trattarsi della preparazione di uno sbarco alleato o forse di azioni diversive per tenere sotto pressione i tedeschi direttamente impegnati in Italia) ha fatto nascere il sospetto, peraltro mai compiutamente provato, che a determinare i bombardamenti fosse stato il Movimento di liberazione jugoslavo, che avrebbe amplificato la valenza bellica dell'obiettivo allo scopo di ottenere l'eliminazione dell'unico centro urbano compattamente italiano della costa dalmata. In ogni caso, la maggior parte della popolazione sfollò in Italia, mentre gli italiani rimasti subirono il peso della repressione jugoslava quando, nel novembre del 1944, Zara fu conquistata dalle forze partigiane di Tito. La sorte di molti zaratini è ben esemplificata dalle vicende della famiglia Luxardo, titolare dell'omonima fabbrica di liquori (nota in tutto il mondo per la produzione di maraschino), narrate da Nicolò Luxardo De Franchi nel volume Dietro gli scogli di Zara. Nicolò Luxardo, volontario irredento e decorato al valore militare, ex consigliere nazionale nella Camera dei fasci e delle corporazioni, e la consorte Bianca furono assassinati per mano di ignoti partigiani jugoslavi; suo fratello Pietro fu arrestato e scomparve. Dopo l'armistizio avrebbero potuto mettersi al riparo in Italia, ma preferirono rimanere a Zara per tutelare gli interessi di famiglia e per difendere l'italianità del capoluogo dalmata. Lunghe ricerche condotte nel dopoguerra dai familiari superstiti misero in luce il tentativo della magistratura jugoslava di giustificare a posteriori l'esecuzione di Nicolò e della moglie con un processo-farsa e relativa condanna, mentre sulla sorte di Pietro a tutt'oggi rimangono soltanto ipotesi. Così, Nico e Bianca abbracciarono la cognata Lily e i ragazzi che, obbedendo a un esplicito desiderio di Pietro, avrebbero proseguito il viaggio fino a Trieste, e scaricarono i loro bagagli sul molo del porticciolo di Selve. [...] Qualche mese dopo l'isola fu occupata dai partigiani di Tito, e Nicolò Luxardo fu posto sotto stretta sorveglianza. Il 10 giugno 1944, egli e la moglie vennero sbarcati dagli Slavi e trasferiti al comando partigiano di Sale, nell'Isola Lunga. Qui Nico fu sottoposto a un processo che, nelle intenzioni degli accusatori, avrebbe dovuto vagliare il suo comportamento verso le maestranze slave impiegate negli stabilimenti zaratini e le sue eventuali responsabilità
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nelle condanne che avevano colpito alcuni rappresentanti della resistenza comunista, durante l'occupazione italiana della Dalmazia. Si deve dedurre che il processo fu lungo e minuzioso, se è vero che si concluse appena dodici giorni dopo, quando nei confronti di Nicolò fu emessa una sentenza che lo proscioglieva da qualsiasi accusa. A fine giugno, i coniugi Luxardo poterono rientrare a Selve, da dove, per altro, fu loro impedito di muoversi. [Il 29 settembre 1944] i coniugi Luxardo venivano prelevati e condotti, per un nuovo interrogatorio, al comando di Sale. La loro imbarcazione levò gli ormeggi dal porticciolo del villaggio nelle prime ore del pomeriggio del 30 settembre. Fu l'ultima volta che Nicolò e Bianca furono visti vivi. Nei cinque chilometri scarsi che separano Sale da Punta Sman, fu perpetrato il delitto. Un capo partigiano, probabilmente insoddisfatto per il verdetto assolutorio, cominciò a inveire contro Nicolò. Si intromise Bianca, ma fu rovesciata fuori bordo e colpita a morte con i remi. Lo stesso accadde al marito. [...] I due corpi senza vita furono lasciati in balia della corrente, che lentamente li spinse verso nord. Due giorni dopo, i cadaveri sarebbero stati recuperati dal parroco di Sale, don Antonio Strgacic, e seppelliti in una località situata fra Punta Sman e Sauro, un villaggio di appena duecento anime, che sorge un po’ discosto dal mare. 4[...] Si sapeva, inoltre che il Tribunale [militare di Zara] era presieduto da un certo Glavan, originario dell'omonima località nei pressi di Brevilacqua - nel distretto di Nona - che fu in seguito capo della nettezza urbana di Zara, e ritenuto responsabile della scomparsa di molte persone della sua zona, tra cui alcuni sacerdoti cattolici. Sulle decisioni del Tribunale influiva altresì l'instancabile attività dell'OZNA, la polizia politica tristemente nota agli Zaratini per lo zelo con cui portava a termine i propri incarichi. Secondo ricostruzioni posteriori, detto Tribunale arrivò a decisioni politiche che l'Unione Sovietica avrebbe completamente assunto come linee-guida solo alcuni anni più tardi. A tale giudizio si collegarono e il salto di qualità nella trasformazione della guerra di liberazione in azione rivoluzionaria, e la scelta di puntare senza riserve alla presa del potere in tutta la Venezia Giulia; le conseguenze di tale decisione politica saranno parte costitutiva della cosiddetta "svolta di autunno" in cui gli esponenti jugoslavi, a partire da Tito, esplicitarono le loro rivendicazioni su Trieste. Nella seduta del 7 marzo 1945, invece, vennero impartite le direttive di fondo per la presa del potere a Trieste. Da notare come il discorso ruoti in gran 4
Luxardo De Franchi, Dietro gli scogli di Zara, Libreria Editrice Goriziana, 1999 [1992], pp. 5354
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parte sull'esigenza del controllo del territorio, da realizzare anche in presenza di eventuali truppe angloamericane. 28 agosto 1944 Occupare per primi. Tenere preparato tutto l'apparato! Dappertutto, il più possibile, bandiere slovene e jugoslave. A eccezione di Trieste, non permettere in nessun altro posto manifestazioni italiane! Soltanto dove rappresentano qualcosa come gruppo antifascista [] Rinforzare l'OZNA. Una formazione forte. Dalle formazioni militari regolari in OZNA - che anche opera come polizia! Provvedere ad assumere il potere subito, subito assicurare l'ordine, liquidare subito la Bela Garda! Provvedere già adesso tutto per le città! Lubiana, Gorizia, Trieste, Klagenfurt. [...] Gruppi dell'OZNA a Trieste, Gorizia - più forti possibile. Pulire in dimensione limitata, che non risulti un uccidersi reciproco. 7 marzo 1945 Ci sarà lo sbarco alleato, essi avranno il potere militare, noi quello civile e di polizia. [...] A Trieste organizzare l'insurrezione dal di dentro. Rafforzare i legami con gli italiani. Preparare per Trieste il personale qualificato – la polizia. In 28 ore bisogna mettere in funzione tutto l'apparato - prelevare tutti i reazionari e condurli qui, qui giudicarli - là non fucilare. [...] A Trieste instaurare l'ordine, mettere in moto tutte le aziende - nel comitato del potere a Trieste gli italiani siano solo comunisti. Un forte potere poliziesco.5 Documento 7. Brani estratti dai dispacci del Comitato centrale del Partito comunista sloveno al Comitato direttivo del Partito per il litorale sloveno I dispacci citati costituiscono una sorta di guida alla politica repressiva attuata a Trieste e Gorizia dalle autorità jugoslave. Va sottolineato il giudizio che qualifica l'insurrezione del Corpo volontari della libertà concorrenziale a quella promossa dalle organizzazioni filo-jugoslave, come atto di guerra civile. 29 aprile 1945 Tutte le unità non tedesche e l'intero apparato amministrativo e di polizia a Trieste vanno considerati nemici e occupatori. Impedite che si proclami qualsiasi potere che si definisca come antitedesco. Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono soltanto consegnarsi e capitolare all'armata jugoslava di liberazione. Tutto ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione e in questo senso la vostra linea (mobilitazione di masse italiane) è corretta. 29 aprile 1945 5
Gli originali dei documenti, dei verbali e dei dispacci sono conservati in AS, ZKS, CK KPS 2 ae 91.
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Smascherate ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro l'occupatore nel Litorale, sul Comando di città, sulla cooperazione fra italiani e sloveni, consideratela un sostegno all'occupatore e un inizio di guerra civile. 30 aprile 1945 Tutti gli elementi ostili devono essere imprigionati e consegnati all'OZNA che avvierà il processo. Va seguito il principio di non concedere subito troppa democrazia, dal momento che pi˘ tardi sarà più facile ampliarla che ridurla. 30 aprile 1945 Epurare subito, però non sulla base della nazionalità, ma del fascismo.6 Documento 8. Testimonianza sulle uccisioni a Basovizza La testimonianza venne raccolta nell'estate del 1945 dai servizi di informazione alleati ed è stata spesso utilizzata, anche se non sempre integralmente, dalla storiografia italiana. In particolare lo storico Elio Apih ne ha tratto lo spunto per notare come nei fatti avvenuti nel maggio 1945 “la spontaneità del furor popolare si cementa in una sorta di patto di palingenesi sociale, attestato e garantito dalla punizione dei colpevoli, che basta individuare anche sommariamente perché il loro ruolo è simbolico prima che personale”.7 Va sottolineato che dal testo si può evincere sia che alcuni degli infoibati erano ancora vivi quando vennero gettati nel pozzo, sia che a Basovizza vennero fucilati anche coloro che non erano stati condannati a morte. Basovizza foiba Nell'area di Basovizza una cavità, chiamata Pozzo della Miniera, fu usata dai partigiani jugoslavi, in particolare tra il 3 e il 7 maggio 1945, per l'eliminazione di italiani. Tre testimoni oculari hanno dichiarato che gruppi da 100 a 200 persone sono state precipitati o fatti saltare di sotto. Le vittime dovevano saltare oltre l'apertura della foiba (larga circa dodici piedi) e veniva detto loro che avrebbero avuto salva la vita se ce l'avessero fatta. I testimoni riferiscono che, sebbene qualcuno fosse riuscito nel salto, più tardi fu egualmente fucilato e scaraventato di sotto. Si dice che un commissario jugoslavo abbia dichiarato che più di 500 persone sono state precipitate nel pozzo ancora vive. Successivamente sono stati gettati dentro i corpi di circa 150 tedeschi uccisi in combattimento nei dintorni, e così pure circa 15 cavalli morti. Nella cavità 6
Originali in AS, ZKS, CK KPS 2 ae 76
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E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 166
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furono poi gettati degli esplosivi. La verità di queste affermazioni fu confermata durante una chiacchierata con alcuni bambini del posto: una di loro, dopo aver descritto quello che aveva visto, aggiunse compiaciuta “e in che modo i fascisti urlavano”. Una donna anziana, parlando delle esecuzioni, affermò che, dal suo punto di vista, era stato un vero peccato sprecare dei vestiti così buoni e che avrebbero dovuto far spogliare i fascisti prima di precipitarli di sotto. Le seguenti testimonianze riguardano due sacerdoti del posto. Testimonianza del sacerdote di Sant'Antonio in Bosco Il 7 agosto, il nostro informatore visitò Sant'Antonio in Bosco e intervistò il sacerdote del villaggio, che si diceva fosse stato testimone di molte delle esecuzioni a Basovizza. Il prete, don Malalan, dimostrò di essere un fanatico proslavo e violentemente antiitaliano. Egli dapprima negò ogni conoscenza su Basovizza. Comunque, quando l'informatore gli fece osservare che i reazionari fascisti stavano esagerando nella campagna che stavano conducendo contro gli jugoslavi che si erano resi responsabili delle esecuzioni del "Pozzo della Morte" e che era nell'interesse delle autorità che le testimonianze fossero raccolte correttamente, egli si dichiarò pronto a parlare e fece le seguenti dichiarazioni. Le persone che sono state gettate nella foiba all'inizio di maggio erano state giustiziate per ordine espresso del tribunale militare della IV armata, che all'epoca era a Basovizza; essi agivano secondo gli ordini del generale Peter Drapsin, il cui quartier generale era a quel tempo a Lipizza, vicino Basovizza. Don Malalan dichiarò che tutte le persone gettate nella voragine erano state regolarmente processate e avevano ciascuna almeno tre testimoni contro di loro. Tutti gli agenti di questura che gli jugoslavi erano stati in grado di catturare a Trieste erano stati gettati nella foiba. Don Malalan espresse l'opinione che essi avevano largamente meritato la fine che era loro toccata. Egli dichiarò anche che era inesatto che tutte le vittime fossero state gettate vive nella voragine perché la maggior parte di loro era stata fucilata nel modo corretto prima di essere gettata dentro. Il 2 maggio don Malalan andò a Basovizza dove suo fratello era "commissario" e gli fu chiesto di essere presente all'esecuzione di tutti quei criminali che era stato possibile catturare a Trieste. Egli rifiutò. Alcuni giorni dopo egli andò a Corgnale e seppe dal sacerdote del villaggio, don Scek, quello che era successo. Don Scek ammise con don Malalan di essere stato presente al momento in cui le vittime venivano gettate nelle foibe. Egli aveva perfino dato conforto religioso ad alcuni dei condannati. Questo aiuto spirituale che don Scek
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aveva offerto era abbastanza strano, così riferisce don Malalan, poiché mentre si rivolgeva a un agente di Pubblica sicurezza di Trieste egli avrebbe detto: “Tu hai peccato fino a ora, tu ti sei divertito a torturare gli slavi e ora non ti rimane nient'altro che affidare la tua anima a Dio. La punizione che ti viene data è pienamente meritata”. Don Malalan assicurò l'informatore che le autorità della IV armata hanno le liste complete di tutte le persone "condannate legalmente" e che quando il momento fosse arrivato avrebbero pubblicato queste liste allo scopo di provare che tutto si era svolto regolarmente. Testimonianza del sacerdote di Corgnale Il 10 agosto l'informatore visitò Corgnale e intervistò don Scek. Don Scek è un furibondo anti-italiano. Egli fece le seguenti dichiarazioni a proposito delle esecuzioni a Basovizza. Che tutte le esecuzioni portate a compimento dagli ufficiali della IV armata erano perfettamente regolari. Il 2 maggio egli andò a Basovizza poiché il prete di quel villaggio non era presente per officiare alle sepolture di alcuni partigiani. Mentre era lì vide in un campo vicino circa 150 civili che “dalla loro faccia, era possibile riconoscere quali membri della Questura”. La popolazione voleva giustiziarli sommariamente, ma gli ufficiali della IV armata si opposero. Queste persone furono interrogate e processate alla presenza di tutta la popolazione, che le accusava. Appena uno di loro veniva interrogato, quattro o cinque donne gli si scagliavano contro, accusandolo di aver ucciso o torturato qualcuno dei loro parenti, o di aver incendiato le loro case. Le persone accusate furono prese a calci e bastonate e sempre ammisero i loro crimini. Quasi tutti furono condannati a morte. Quelli che non furono condannati a morte vennero comunque lasciati insieme agli altri. Tutti i 150 civili vennero fucilati in massa da un gruppo di partigiani. I partigiani erano armati con fucili mitragliatori e, in seguito, poiché non c'erano bare, i corpi vennero gettati nella foiba di Basovizza. Quando l'informatore chiese a don Scek se era stato presente all'esecuzione o aveva sentito gli spari, questi rispose che non era stato presente né aveva sentito gli spari. Il 3 maggio don Scek andò di nuovo a Basovizza e vide nello stesso posto circa 250-300 persone. La maggior parte erano civili. C'erano soltanto circa 40 soldati tedeschi. Anche queste persone vennero uccise dopo un processo sommario. Nella maggior parte erano civili arrestati a Trieste durante i primi giorni dell'occupazione. Don Scek dichiara che erano quasi tutti membri della Questura. Egli nega di aver amministrato i Sacramenti ad alcuno di essi come chiesto da
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don Malalan di Sant'Antonio in Bosco, poiché “non ne valeva la pena”. Don Scek dichiara che nella foiba furono gettati anche i cadaveri di soldati tedeschi e i corpi morti di alcuni cavalli.8 Documento 9. Lettera di monsignor Scek riguardante la ricerca di informazioni su Basovizza da parte degli alleati La lettera conferma indirettamente le uccisioni di Basovizza, ma soprattutto suggerisce come le successive testimonianze rese dagli abitanti del luogo siano state accuratamente predisposte per "disinformare" agenti e giornalisti alleati. Rapporto urgente Lokev, 9.8.45 Oggi, venerdì, alle ore 3 pomeridiane si è fatto vivo un ufficiale inglese. Dopo brevi parole ho capito che era membro dell'"Intelligence Service" e da esso inviato a indagare sui fatti di Basovizza. Essendo stato avvisato sin da ieri sera del suo arrivo, ho assunto nel corso dei colloqui un contegno atto a porre la IV armata in un'ottica quanto più favorevole. Al fine di non fornire risposte sbagliate alle sue domande tranello l'ho intrattenuto su altri argomenti e gli ho fra l'altro mostrato alcune fotografie di gente nostra impiccata dai tedeschi. Ho appreso con soddisfazione del suo interesse ad avere queste foto, avendolo con ciò indotto a ritornare qui a prendersele, affinché possiate nel frattempo apprestare uno scenario di testimonianze che ponga la IV armata in un'ottica quanto più favorevole. Faccio osservare che sono stato a Trieste il 7 di questo mese dove ho letto in un foglio una corrispondenza da Roma secondo la quale il giorno prima si sarebbe svolta una seduta del consiglio dei ministri, nel corso della quale il presidente Parri sarebbe stato interpellato in merito ai fatti di Basovizza. Parri avrebbe risposto di non essere ancora in possesso di relazioni né ufficiali né ufficiose, bensì soltanto di comunicazioni private, peraltro contraddittorie. Se ne deduce che la propaganda italiana tenterà di sfruttare, fino ad abusarne, il fatto che siano state gettate nella grotta alcune centinaia di persone. Il capitano dell'"Intelligence Service" ha riferito che si imputava alla IV armata di aver gettato nella grotta anche diversi militari inglesi, Ha chiesto se vi era in zona ancora qualche testimone in grado di riferire qualche particolare a questo proposito. Ho risposto che avrei indagato. Faccio presente che era al corrente del fatto che sono un sacerdote e un ex deputato. Come sia venuto qui e chi l'abbia inviato, è un'altra questione. Da parte mia gli ho già detto qualcosa, avendo il 2 e il 3 maggio sepolto a Basovizza 31 partigiani e avendo visto in quell'occasione i questurini condotti 8
Conservata in PRO con la segnatura FO 371/48953/R 1085/15263/92
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da Trieste. La questione mi appare di estrema importanza ed è necessario che le dedichiate la massima cura. In ogni caso allestite a Basovizza uno scenario di "testimonianze" curate nei minimi dettagli. Se posso esservi d'aiuto con consigli o con l'opera, sono a vostra disposizione. A ogni modo, non indugiate un solo giorno. Credo che il capitano tornerà verso la metà o verso la fine della settimana prossima. Saluti! Scek Virgil9 Documento 10. Inchiesta e sondaggio nel pozzo della miniera di Basovizza per opera degli angloamericani Il documento che segue è un telegramma inviato il 24 luglio 1945 dal Foreign Office ai Dominions per informarli sulla situazione creatasi a Basovizza. Il testo segnala una divergenza di opinioni tra le autorità militari britanniche, propense a concludere rapidamente le esplorazioni nella foiba, e il Dipartimento di stato, preoccupato delle reazioni politiche italiane, testimoniate dalla campagna di stampa in corso. Tali preoccupazioni condussero in effetti a una prosecuzione delle ricerche, ma qualche mese dopo sarebbero state messe a tacere di fronte all'insufficienza dei risultati ottenuti. Recentemente il CLN di Trieste ha denunciato al Quartier generale dell'VIII armata, che tra il 2 e il 5 maggio gli jugoslavi gettarono nel pozzo di una miniera in disuso vicino Basovizza centinaia di corpi di poliziotti e ufficiali di grado inferiore fascisti, di collaborazionisti e soldati tedeschi. “È stato pure asserito che molti civili furono precipitati vivi e altri costretti a saltare di sotto”. Gli sforzi compiuti per riportare alla luce i corpi mediante una benna hanno reso soltanto un frammentario numero di ossa umane la cui identificazione è quasi impossibile. Sembra improbabile che ulteriori indagini possano portare alla luce prove di un qualche valore e il lavoro sarebbe pericoloso e nocivo alla salute. Di conseguenza, il Quartier generale dell'VIII armata ha raccomandato che l'indagine venga conclusa e il pozzo sigillato igienicamente. Il Dipartimento di Stato reputa che qualora oggi non si proceda a un'indagine completa, verremo in seguito accusati dagli italiani di nascondere le prove delle attività terroristiche jugoslave. Quindi sono propensi a suggerire una
9 La lettera è stata pubblicata in M. Tavcar, E. Pelikan, N. Troha (a c. di), Korespondenca Virgila Sceka 1918-1947, Ljubljana 1997, pp. 132-133; l'originale è conservato presso AS, ZKS, AIS, mapa Virgil Scek
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commissione d'inchiesta del Comando supremo del Mediterraneo, alla quale tutti i membri del Consiglio consultivo potrebbero essere invitati a inviare osservatori. Finora comunque, non hanno preso alcuna iniziativa in merito. Noi riteniamo che indagini complete potrebbero venir effettuate10. Documento 11. Rapporto dell'OZNA sui recuperi dalla foiba di Basovizza Il rapporto, inviato all'OZNA da un informatore locale, sottolinea l'interesse dei servizi di informazione jugoslavi a capire che cosa fosse successo a Basovizza, di fronte alle operazioni di recupero avviate da parte angloamericana e alle reazioni che ciò aveva suscitato nell'opinione pubblica italiana. Si potrebbe ipotizzare che essi, almeno a livello centrale, non fossero perfettamente a conoscenza dei fatti, così come ricostruiti nelle informative angloamericane e italiane. Eppure la versione offerta dall'informatore partigiano coincide - salvo qualche dettaglio, come il trasporto dei resti ferali verso Trieste e non la loro sepoltura sul posto - con quanto riportato dalle altre fonti. Probabilmente la preoccupazione maggiore dei responsabili dell'OZNA era quella di capire le finalità politiche dell'azione intrapresa dalle autorità alleate, nel quadro delle gravi tensioni esistenti a Trieste. 3 settembre 1945 La voragine di Basovizza Gli alleati hanno cominciato a vuotare la voragine (che la gente del posto chiama "soht") Questa voragine si trova a 500 m circa da Basovizza sulla strada verso il paese di Jezero (San Lorenzo). In questa voragine ci sono in gran numero cadaveri putrefatti di militari delle SS, della Gestapo, dei "Gebirgsjaeger", di questurini e anche di quaranta cavalli. I partigiani hanno gettato in questa voragine una notevole quantità di munizioni e poi di esplosivo; a causa dell'esplosione tutti i cadaveri furono in parte ricoperti di detriti, ecc. Finora gli alleati hanno eseguito 6-8 trasporti dalla cavità con un camion verso Trieste. Con ciò hanno portato via circa 250 kg di cadaveri in putrefazione. Questo trasporto ha avuto luogo il 28.8 e il 29.8 alla mattina. Ora pare che gli alleati abbiano interrotto i trasporti. Il lavoro si è dimostrato più complicato del previsto. Un soldato inglese addetto a questo compito ha dichiarato che non è possibile continuare il lavoro a causa del terribile fetore e che, inoltre, a causa dell'esplosione, c'è troppo materiale che ostacola l'accesso ai cadaveri.
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Il documento è conservato in PRO FO 371/48853/ R 1015.
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La gente commenta in diversi modi questa iniziativa degli alleati. Alcuni sono convinti che gli alleati sono stati istigati a fare queste ricerche da una pressione dei fascisti. Altri sostengono che gli inglesi stanno cercano sette soldati neozelandesi spariti dalla postazione di Basovizza intorno al 25.6.1945. Su questi soldati circola la voce che siano scappati con alcune donne (uno di questi è stato catturato dopo qualche giorno presso una donna a Basovizza). Gli alleati pensano invece che questi soldati siano finiti nella voragine. Forse questi soldati sono "fuggiti" di proposito, per poter dare agli alleati una motivazione per fare le ricerche e per rovistare fra le carogne dei fascisti.11 Documento 12. Conclusione delle esplorazioni nel pozzo della miniera di Basovizza Il documento, estratto dagli appunti della conferenza del Comando supremo alleato tenuta il 22 novembre 1945, testimonia la conclusione delle esplorazioni condotte alla foiba di Basovizza, i cui risultati si erano rivelati inferiori alle aspettative, in primo luogo per l'impiego di strumenti inidonei alle ricerche. Pare anche di capire che il reparto militare britannico incaricato delle operazioni le avesse condotte senza grande convinzione, più che altro per rispondere alle richieste del Dipartimento di stato. Nonostante il permanere di perplessità tattiche da parte dei rappresentanti americani, il comando alleato decise di sospendere i recuperi e di far passare in sordina tutta l'operazione. Indagini sulle presunte atrocità jugoslave a Basovizza Il maggior generale Ward ha detto che le operazioni al pozzo di Basovizza non sono giunte ad alcun risultato concreto. Ai capi di stato maggiore congiunti era stato raccomandato che il lavoro fosse fermato, o in alternativa che venissero procurate delle attrezzature adatte e che l'incarico fosse assegnato a un'impresa privata. Nessuna risposta è pervenuta. Egli ha ricordato che il Foreign Office era favorevole alla cessazione del lavoro ma il Dipartimento di Stato desiderava continuarlo. Egli ha raccomandato che le operazioni di estrazione vengano sospese fino all'arrivo di una decisione dei capi di stato maggiore congiunti. Il tenente generale Ridgway ha dichiarato di essere perfettamente d'accordo con la proposta avanzata dal capo di stato maggiore. Mr. Byington ha confermato che il Dipartimento di Stato non desiderava che le attuali operazioni cessassero fin quando rimanevano indizi che nel pozzo vi fossero ulteriori corpi, poiché non si sapeva quale altra prova l'indagine potesse produrre. 11
Il documento è conservato in AS, ZKS, MS, ae 138
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Il comandante supremo alleato ha riferito di essersi recato personalmente a vedere la foiba. I reperti ottenuti con le attrezzature militari attualmente disponibili erano del tutto inutili a servire come prova, e i genieri stavano semplicemente sprecando il loro tempo. Il brigadiere Lush ha chiesto se era possibile fare una dichiarazione pubblica sull'argomento, per placare l'opinione pubblica italiana. Il tenente generale Ridgway non ha ritenuto che un tale rapporto potesse tornar essere utile a un qualche scopo. Il Comando supremo alleato ha istruito il capo di stato maggiore di provvedere a sospendere le operazioni di estrazione presso il pozzo di Basovizza, in attesa di una decisione da parte dei capi di stato maggiore congiunti in merito alla fornitura di un equipaggiamento minerario atto alla bisogna. Ha ordinato che, per il momento, nessun pubblico annuncio o comunicato stampa venga emesso su questo argomento.12 Documento 13. Documentazione sull'operato dell'OZNA a Trieste e Gorizia Si riportano gli stralci di alcuni rapporti relativi all'attività del terzo settore dell'OZNA di Trieste13, nonché di una lettera di Boris Kidric, allora presidente del governo sloveno, a Boris Kraigher, rappresentante del Comitato centrale del Partito comunista sloveno presso i "poteri popolari" di Trieste. Oltre a una serie di informazioni sulle procedure seguite dall'OZNA e sull'utilizzo di ex fascisti da parte della polizia politica jugoslava (secondo quanto già segnalato dalle fonti italiane) la documentazione sottolinea il clima di consenso attivo che accompagnò la repressione da parte degli ambienti vicini al Movimento di liberazione sloveno, come pure la tardiva presa di coscienza che l'ampiezza dei provvedimenti polizieschi avrebbe potuto finire per ritorcersi contro la stessa causa jugoslava in una situazione ancora incerta sotto il profilo diplomatico e in cui, a differenza di quanto accadeva a Fiume e in Istria, le autorità jugoslave erano costrette ad agire sotto gli occhi degli osservatori angloamericani. 6 maggio 1945 In riferimento al ritorno del compagno Marko, che si firma sotto il timbro Parenzo-Trieste e che opera per l'OZNA, è necessario un immediato accordo. [...] Nel lavoro che stanno svolgendo non c'è assolutamente cospirazione e conosco un caso in cui una donna di queste, mi ha risposto alla domanda “Dov'è suo marito?” in questo modo: “Lui lavora per la polizia di Marko” 12 13
Il documento è conservato in PRO/FO 371/59393/85354. Gli originali dei rapporti dell'OZNA sono conservati in AS, ZKS, AIS, ae 41 e 86
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(Quest'uomo era del tutto e per tutto fascista e abitava, ovvero faceva il custode della casa in cui Gili addestrava i suoi uomini). Naturalmente abbiamo arrestato quest'uomo, ma è stato liberato assieme a Marko! […] Alcuni dimenticano i loro doveri militari e dal momento che sono in possesso di armi, credono di essere poliziotti e di dover arrestare la gente. Ci sono stati già molti casi di arresti incontrollati e arbitrari. Non voglio dire che sono stati arrestati degli innocenti, ma questo non è un procedimento adeguato, per questo sottolineo che è urgentemente necessario che il Comando di città prenda in mano la situazione, in modo che nelle caserme ci sia ordine e disciplina. [...] La gente si lamenta perché sono state già lasciate in libertà delle persone che avevano commesso gravi crimini ed esigono che vengano condannate, anche se non ci sono abbastanza prove. [...] Ai nostri ordini non prendiamo alla gente i documenti, solo i soldi qualche volta, se ne abbiamo l'ordine. Il denaro sequestrato viene contato, ne viene fatta l'evidenza. Finora abbiamo sequestrato circa 59 000 lire. Non abbiamo ancora consumato il denaro, ma lo consumeremo per bisogni personali. 9 maggio 1945 Con gli arresti che si sono effettuati, gli italiani e gli sloveni amanti della libertà sono perfettamente d'accordo. Anzi, sono del parere che si è fatto troppo poco, e che siamo lenti nel fare pulizia dei fascisti. Proprio per questo è successo che gli attivisti armati hanno arrestato di loro iniziativa molti persecutori. Nonostante abbiano ricevuto l'ordine di smetterla con gli arresti, nelle nostre prigioni ci sono ancora molti prigionieri. Si è già ordinato agli attivisti di smetterla con gli arresti di propria mano, e si è ordinato che raccolgano i dati e il materiale aggravante dei criminali al più presto. I giovani dello SKOJ sono del parere che bisogna arrestare tutti i fascisti quanto prima. Il parere dei membri del comitato del nostro territorio è di trasferire tutti gli abitanti di Trieste che provengano dall'Italia meridionale o centrale, e che per qualche motivo sono giunti a Trieste. Dichiarano che sono loro i più grandi oppressori dell'amore per la Patria, per questo è necessario che la questione si risolva al più presto. Lettera di Boris Kidric a Boris Kraigher del 10 maggio 1945 Oggi ho sentito che l'OZNA continua a non capire la situazione e continua a eseguire arresti soprattutto tra gli italiani di Gorizia. Fai subito tutto il necessario e spiega alla gente la situazione politica. Io parlerò di nuovo con Matija (Ivan Macek, capo dell'OZNA per la Slovenia). Dobbiamo renderci conto che in questo momento errori di questo genere ci danneggiano moltissimo
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perché rappresentano un pericolo e possono rovinarci tutto, soprattutto se la situazione internazionale peggiora ulteriormente.14 Documento 14. Lista di arrestati con indicazione delle accuse La pagina che segue, un dattiloscritto vergato su carta intestata dell'Accusatore pubblico per i reati contro il popolo, è parte di un elenco di 939 nomi compresi sotto il titolo "Elenco degli internati civili in Jugoslavia, secondo i dati forniti dal Comitato per la ricerca degli internati in Jugoslavia alla data 17.12.1945. Nella lista, oltre alle generalità, sono riportate la ragione dell'arresto e le accuse. È facile vedere che queste ultime risultano spesso esagerate e prive di riscontri attendibili, ma ciò nonostante la carcerazione si è prolungata e in un caso il detenuto è stato addirittura fucilato. 434. Mauri Mario fu Francesco, nato nel 1915. Milite ferroviario. Accuse specifiche: finora nulla. Fucilato [nota a mano] 442. Meola Francesco fu Pasquale, nato nel 1891, ab. A Trieste p. Vico 2. Collaboratore del fascio di Comeno e partecipazione ai fatti di Comeno. 446. Miani Romualdo fu Domenico, nato nel 1905, ab. A Trieste via Zorutti 15. Squadrista - rastrellatore e incendiario nella zona di Castel Lupogliano agente Ispett. Spec. Di Pol. di via Bellosguardo. 448. Micolini prof. Antonio ab. a Trieste - via Capello 3. Interprete presso le SS tedesche di Trieste. 452. Milano Gaetano di Raffaele, nato nel 1915, ab. A Trieste via Rapicio 5. Agente Ispettor. Spec. di Pol. di via Galilei. Accuse specifiche: finora nulla. 463. Monego Guido fu Sante, nato nel 1903, ab. Trieste v. Broletto 1. Milite - devastatore negozi ebrei nel 1943 agente Ispett. Spec. di via S. Michele (con Mazzuccato) violenze ad antifascisti. 466. Montanari Stellio di Antonio, nato nel 1917. Tenente della Guardia Civica e ten. della X MAS. 474. Motka Carlo fu Federico, nato nel 1883. Comandante della Guardia Civica - denunciatore di membri della Guardia Civica perché antifascisti e colpevole del loro internamento in Germania. 477. Muiesan Domenico di Giuseppe, n. nel 1897, ab. A Trieste via Muratti 8 - Squadrista delle squadre d'azione a Pirano - violenze. Documenti Muiesan Vittorio fu Antonio, n. nel 1899. Squadrista a Pirano - violenza contro antifascisti - espulso perfino dal PNF perché ladro.
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L'originale della lettera di Kidric è sempre in AS, ZKS, CK KPS 2, ae 995.
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Munzone Vincenzo fu Andrea, n. nel 1912, ab. in via Cologna 66 - Trieste. Vicebrigadiere di PS – agente Ispett. Spec. di Pol. di via Galilei. Accuse specifiche: finora nulla. Musina Edoardo di N. N. nato nel 1916. Delinquente comune, componente della Banda Ottorino (falsa Guardia del Popolo) - condannato dal Trib. Militare Jugoslavo. 490 Nelli Lanciotto fu Gino, nato nel 1903, ab. Trieste, ab. via Media 35. Agente Ispett. Spec. di via Bellosguardo. Accuse specifiche: finora nulla.15 Documento 15. Verbali di interrogatorio e sentenze Gorizia, maggio-giugno 1945 I documenti che seguono sono conservati presso l'archivio del Ministero degli affari esteri, e sono stati sicuramente recuperati e consegnati alle autorità italiane dopo l'abbandono della città di Gorizia da parte delle truppe jugoslave, in esecuzione degli accordi di Belgrado. Appartengono a una serie di verbali, esattamente tredici, di interrogatori condotti da autorità jugoslave all'interno delle carceri giudiziarie goriziane, dove erano state concentrate alcune centinaia di persone arrestate nel maggio 1945. Di questi arresti esiste traccia in un registro d'ingresso, che riporta 226 nominativi, pure conservato nell'archivio del Ministero degli affari esteri, e in qualche frammento del registro carcerario, conservato presso la Casa circondariale di Gorizia. Nei singoli verbali, redatti in sloveno e tradotti in calce in lingua italiana all'atto del rinvenimento, sono riportate solo le risposte e qualche breve nota di commento, per cui si può facilmente desumere quale fosse l'obiettivo di quel tipo d'interrogatorio: ricostruire la rete di relazioni con la Questura di Gorizia e ottenere indirizzi e informazioni sul collaborazionismo. Agli interrogati non viene mosso alcun addebito. Va rilevato che il primo nominativo è citato anche nella nota jugoslava del 7 dicembre 1945 come esempio di squadrista. Abrile Renato Abrile Renato fu Raffaele e di Mercedes Kuerner, nato a Roma il 14.1.1901. Abitante a Gorizia, corso Vittorio n.6 dal 1919. Suo padre era generale dei carabinieri. Professione ingegnere industriale. Era perito (esperto) per i danni per infortunio. Lavorava con Simcic Francesco, via Torriani, di fronte alla scuola. Celibe. Beni personali: nulla. Era capitano d'artiglieria. Iscritto al partito fascista dal 1920, squadrista, ufficiale della Milizia dal 1924 al 1940. Nel 1941 era ufficiale d'artiglieria in Croazia con la Divisione "Isonzo" Alla 15
Il documento è conservato presso l'archivio della Repubblica di Slovenia, fondo AS, ZKS, CK KPS 2 ae 141
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capitolazione dell'Italia si trovava a Novo Mesto e tornò a casa a piedi. Sotto i tedeschi esercitava la sua professione di ingegnere. Era amministratore della casa di via Roma 4 e di un'altra casa di corso Verdi 23. Queste due case sono proprietà di un istituto di assicurazioni. Come membro del Partito fascista era segretario del rione "Corridoni" nel 1939, poi venne richiamato alle armi. Documenti Non aveva alcun contatto con la Questura, poiché suo padre era ufficiale dei Carabinieri e come tale non aveva contatti con la Questura. Non conosce nessuno della Questura. Edoardo De Leitenburg Edoardo De Leitenburg, fu Karel e di Onelda Polla, nato il 24.2.1912 a Pola. Abitante in corso Verdi 32. Musicista poi tenitore di libri. Non ha beni. Sposato. Italiano. Soldato a Trieste e a Gorizia. Fascista dal 1932 nella GIL, poi fascista nel 1935. Non era squadrista, era sempre musicista. Aveva un'orchestra. Non aveva contatti con la Questura. Conosce tutti i questurini che andavano a ballare nella sua scuola di ballo, ma li conosce solo di vista. Dopo l'8 settembre non è stato iscritto al Fascio. Venuto a Gorizia nel 1927. Nell'estate del 1940-41 era soldato (o militare) di fanteria a Trieste. A Gorizia lo conoscevano tutti, così che sarà facile prendere informazioni presso N. O. [Narodni Odbor?]. Fornazaric Matija Arrestato perché non si è trovato il nipote che abita con lui. Sospetto di b.-g. [belagarda], Fornazaric Matija fu Giovanni e Teresa Vouch, nato il 15.2.1880 a Biljak, falegname, possiede una casetta con orto. Ora abita a Gorizia, via Formica 25. Non teneva operai e lavorava per le case: lavori di falegnameria. Ha frequentato le scuole elementari e conosce qualche cosa di tedesco. Stato di famiglia: ha moglie e una figlia di 36 anni che è a casa. Con lui abita un nipote che lui ha adottato undici anni fa e che studia a Gorizia. È stato arrestato perché non è stato trovato in casa sua il nipote. Questi si chiama B. C., di 17 anni. Studiava col prof. dott. C. e una volta per settimana andava a lezione dai Gesuiti. Né lui né Fornazaric Matija (Matteo) erano iscritti al Fascio. Il nipote B. C. è un simpatizzante dei Domobranci. In casa da B. veniva spesso la sorella dello stesso, abitante a Bukovec, di 25 anni. Con essa venivano anche due studenti, uno di 21 anni da Bilj l'altro di 27 da Lubiana. Questi tre si vedevano sempre insieme. Il nipote è scomparso il 1° maggio e non è più ricomparso. Tutti i mercoledì presenziava alla conferenza in "sloveno" all'università di via 24 maggio. Si sospetta che sia stato in relazione col dott. C, dal quale andava a studiare.
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Quando la sorella veniva da lui, spesso portava certe carte e Fornazaric asserisce di non sapere di quali carte si tratta. Aldo Matteucci Aldo Matteucci di Domenico e di Giovagnoli Francesca. Nato: Senigallia 25.9.1885. Residente a Gorizia, via Angiolina 20. Professione: direttore scuola d'arte. Ammogliato. Il figlio era tenente d'artiglieria, caduto in Russia. Una figlia di 30 anni, nubile, una figlia sposata a Milano con l'ing. Savateri (architetto). Ha frequentato l'accademia di architettura. Non possiede alcuna sostanza. Nazionalità italiana. Iscritto al partito fascista dal 1926 fino a ora. Nel partito aveva la funzione di sindacato (belle arti) (??). Nel 1925 è venuto a Gorizia dagli Abruzzi. Non è stato iscritto alla Milizia né stato soldato. È stato a Lubiana a cercare suo figlio che si trovava nei pressi di Postumia, come ufficiale. Alla domanda se conosce degli elementi contrari al nostro movimento o che hanno denunciato delle persone alla Questura o alla S. D. ha dichiarato di no, all'infuori degli alti funzionari che sono noti a tutta Gorizia. Ha dichiarato di conoscere le persone che hanno ucciso De Ferri. No, non ha saputo dire altri nomi. Fa l'impressione di essere cocciuto e sfugge a tutte le domande tendenti a stabilire una certa rete d'indirizzi. Rudolf Sauenig Rudolf Sauenig di Edoardo e fu Clara Usaj, nato ad Alessandria d'Egitto il 18.5.1883. Abitante a Gorizia, via Locchi 2. Professione: ??? Istruzione: scuola media. Conosce bene l'italiano, lo sloveno, l'inglese, il francese, il tedesco. Sposato, con tre bambini dall'età da 3 a 13 anni. Beni materiali non possiede. Ha fatto il servizio militare in Austria, come sottufficiale. Dopo la fine della guerra andò a Bilje. Indi fu assistente al Genio Militare. Alla fine del 1920, a causa del servizio si iscrisse al partito. Verso il 1923 prese in affitto due fabbriche di mattoni a Soclana. Ciò durò due anni. Poi ritornò da suo padre in Egitto nel 1926. Venne richiamato come ingegnere dal ministero anglo-arabo e lì lavorò per due anni. Poi andò ò al Cairo dove aprì un'officina per la riparazione di automobili e motocicli e lavorò così fino al 1940. Il 4 gennaio di quell'anno passò a Bilje da sua zia. Nel frattempo scoppiò la guerra che gli impedì il ritorno in Egitto. Grazie alla conoscenza di lingue fu impiegato alla censura di Gorizia. Per affidargli questo servizio chiesero informazioni a Roma e in altri posti. Rimase in servizio 7 mesi, poi venne licenziato da questo posto di responsabilità perché a quanto dichiara non andava d'accordo coi suoi superiori che lo facevano sorvegliare quando lasciava l'ufficio. Fu disoccupato per otto mesi poi aprì una piccola officina di riparazioni d'auto che aveva […]. Nel partito fascista non ebbe nessuna carica. Su di me può dare informazioni D. P. di Bilje che è nel vostro esercito a qualche posto di comando a Gorizia. Inoltre mi conosce un certo
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P., oste a S. Andrea, e ancora migliori informazioni può dare il suo servo che ha avuto da lui una ruota in prestito, ruota che poi gli è stata presa dai partigiani. Con lui Ë l'operaio O. A., da Padova, e abitante in via IX agosto, n.14, al pianterreno, la piccola porta a sinistra. Egli potrà dare indicazioni di persone che avevano contatti coi Domobranci e coi Tedeschi. Le note che seguono sono trascritte da sette biglietti che accompagnano altrettanti verbali d'interrogatorio. Sono scritte in sloveno e tradotte poi in italiano. In corsivo c'è un riscontro, che nel documento originale è solo in italiano, “uscito”, col quale evidentemente è stata verificata la conclusione della vicenda. Le cifre che precedono i nomi corrispondono alla cella e al numero di matricola d'ingresso alle carceri, come riportato nel registro provvisorio. 84.6. Abrile Alberto: fucilare 83.18. Edoardo de Laitenburger [sic]: informarsi uscito 26.89. Fornazaric Matja: interrogarlo ancora uscito 20. 119. Matteucci Aldo: da fucilare 7.5.1945 42.104. Passero Ljubislava: sono necessarie informazioni riguardo sue dichiarazioni 8.5.1945 uscita 24.113. Sauenig Rudolf: fucilare 30.125. Fajt Clelio: da rilasciare. Minore età e non dice niente. Arrestato perché si cercava il fratello.16 Documento 16. Il campo di Borovnica I passi che seguono sono tratti dalla testimonianza rilasciata il 13 agosto 1990 da G. C. al segretario dell'Istituto regionale per la storia nel movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Galliano Fogar. La testimonianza copre il periodo che va dall'arresto di G. a Trieste fino al suo rilascio nel novembre del 1945, seguendone le peregrinazioni attraverso i campi di prigionia jugoslavi fin nei pressi del confine rumeno. I brani prescelti pongono in luce il peso dei fattori casuali nell'arresto e nella gestione dei prigionieri, nonché le condizioni di vita a Borovnica. Nella parte non pubblicata G. sottolinea come il trattamento dei prigionieri migliorasse man mano che ci si allontanava dalle zone in cui più aspre erano le rivalità nazionali fra italiani, sloveni e croati. Il 3 maggio G., tornando a casa, trova di fronte alla sua abitazione un gruppo di armati. Non erano i "regolari" della IV armata ma probabilmente insorti locali (le "stelle rosse"), organizzati cioè dai comunisti locali. Con loro c'era 16
La collocazione archivistica dei documenti è: ASMAE, AP, Italia-Jugoslavia (1931-1945), b. 146 (1941-1945), "Atrocità e illegalità ai nostri danni da jugoslavi”
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come arrestato, ma con trattamento di riguardo, un vicino di casa, un certo R., che egli conosceva. Non aveva alcun rapporto di amicizia con lui, ma solo di conoscenza. […] R. lo vede e lo saluta con la mano. Immediatamente uno dei suoi guardiani apostrofa G. accusandolo di "essere della polizia". Malgrado i suoi fermi dinieghi (infatti l'accusa era del tutto falsa), G. viene arrestato e portato nella caserma di San Giovanni. [...] Nel periodo in cui G. è prigioniero a San Giovanni nessuno gli prende il nome, dati anagrafici, ecc. Nessuno registrava i prigionieri, per quanto ne sa. Durante questa sua prigionia triestina G. avrebbe potuto più volte potuto fuggire senza difficoltà. Infatti più volte lo avevano portato a far lavori all'esterno, una volta fino in piazza Oberdan e la sorveglianza era scarsa o nulla. G. non fugge perché ancora convinto che la sua posizione sarà chiarita e che lo rilasceranno data l'assoluta inconsistenza dell'accusa mossagli solo da uno delle "stelle rosse" in via Fabio Severo. Invece, verso il 10 di maggio i prigionieri vengono radunati di notte, vola qualche legnata e a tutti vengono legate le mani dietro la schiena con stringhe di cuoio. Durante il viaggio egli riesce a liberarsi perché il nodo era stato fatto in fretta e male. Da notarsi che durante tutta la sua permanenza a San Giovanni non c'era mai stata distribuzione di cibo. Durante una delle sue uscite per lavoro G. era riuscito a recuperare alcuni pezzi di pane e basta. Dunque, dalla caserma li portano alla Stazione Centrale. [...] Il "campo" di Borovnica quando vi arrivano praticamente non esiste. Si tratta in realtà di un prato dal quale spuntano i ruderi e le fondamenta di baracche demolite o bruciate. A Borovnica arrivano con G. circa in 500. Bisogna dunque "costruire" il campo di concentramento, compito che spetta ai prigionieri svolgere. Vengono utilizzate allo scopo traversine ferroviarie che sono portate sul posto con carri tirati a mano. Ma quasi nessuno sa come fare per erigere nuove baracche. G., perito edile, con altri prigionieri si mette all'opera. Praticamente dirige il non facile lavoro con una manodopera inesperta. Questo attira l'attenzione dei guardiani a cominciare da un maresciallo (dell'esercito jugoslavo) che è il vicecomandante del campo, di origine capodistriana. Ha fatto il militare sotto l'Italia. In un certo modo finisce col manifestargli della simpatia, anche perché G. gli ripara la moto che si era guastata. Così, riuscirà a rimediare sia dal maresciallo che da alcune guardie qualche gavetta di cibo, preziosa perché praticamente a Borovnica non si mangia, visto che l'unico pasto giornaliero distribuito ai prigionieri consiste inun po’ d'acqua calda con dentro della "verdura" secca e in cui raramente si trova qualche fagiolo. Siamo cioè al di sotto del minimo per sopravvivere. E difatti i prigionieri deceduti durante la permanenza di G. (circa due mesi) sono morti per denutrizione. Circa un centinaio. Negli ultimi tempi morivano in media 6-7 al
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giorno e venivano sepolti nel cimitero di Borovnica, probabilmente in fosse comuni. [...] I prigionieri che si ammalavano venivano portati a San Vito di Lubiana, in un ex manicomio adattato a carcere e lazzaretto, da dove nessuno tornava. Le pene per atti di indisciplina o altro (a giudizio delle guardie) consistevano nel crudele sistema della "crocifissione". Il prigioniero veniva appeso legato per le braccia dietro la schiena a un palo e lasciato così anche per ore, subendo la slogatura degli arti o peggio. G. riscontrò almeno 5-6 casi di questa tortura. Alla distribuzione del "rancio", alcuni di questi torturati tenevano il manico della gavetta coi denti, avendo le braccia inutilizzabili. [...] Il campo di Borovnica mancava di ogni organizzazione. Non esisteva un registro con i nomi dei presenti nel campo. Mai, durante la sua permanenza, i prigionieri sono stati schedati, registrati con i loro dati anagrafici, di provenienza. A G. nessuno ha mai chiesto la ragione dell'arresto o altro. Nessuno veniva interrogato o chiamato fuori per un processo, un’istruttoria, ecc. [...] Mai nel periodo di permanenza di G. guardie, il comandante o il suo vice hanno sollevato o contestato ai prigionieri problemi di natura politica o nazionale. Sembrava proprio che tali questioni fossero loro estranee o non interessassero affatto. Il tenente comandante aveva soprattutto la passione di cavalcare. Era inesperto, lo faceva male e un giorno G., esperto in materia come ufficiale di artiglieria ippotrainata, gli diede utili suggerimenti per correggere la posizione, trattare a modo il cavallo, ecc., e la cosa si ripete perché costui ci tiene a imparare. A gruppi i prigionieri erano costretti a lavori di manovalanza per conto delle ferrovie jugoslave […] I prigionieri venivano condotti alla stazione di Vrhnica per carico e scarico di materiale dai vagoni. Un altro gruppo viene adibito alla ricostruzione della linea ferroviaria. Ai lavoratori danno da mangiare anche un po’ di "zuf" oltre alla in consistente acquosa minestra di verdure secche. Altri sono addetti allo smantellamento delle travature del viadotto per essere utilizzate per la ricostruzione del ponte sulla Sava presso Medvode. Qui c'era un campo minore per prigionieri. Lo sfruttamento dei prigionieri in quelle condizioni alimentari e sanitarie contribuiva a indebolirne la resistenza e la sopravvivenza. Anche la cinta di reticolati del campo, inesistente al momento dell'arrivo, venne costruita dai prigionieri17. Documento 17. Nelle carceri di Lubiana Il testo è tratto dalla testimonianza di Luigi Podestà, ufficiale della Regia marina, inviato in missione segreta a Trieste per impedire la distruzione del porto da parte dei tedeschi, arrestato dagli jugoslavi a Trieste, deportato il 17
L'originale della testimonianza è custodito presso l'archivio dell’IRSML
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20 maggio 1945 e rinchiuso nell'ex manicomio di Lubiana. L'uso della prima persona nel racconto acuisce la drammaticità della narrazione. Il 26 giugno fummo messi tutti assieme in una cella misurante 7 metri per 14. Eravamo in 126. Anche nella nuova sistemazione continuarono le violenze fisiche e le vessazioni. A capriccio dei secondini di servizio venivano chiamati fuori dalla cella, a turno, alcuni di noi e, senza alcuna ragione plausibile, venivano fatti segno a colpi di mitra, pugni e schiaffi […] L'acqua - eravamo in luglio - veniva misurata; cinque o sei sorsi a testa al giorno. Divieto assoluto di usare acqua per lavarsi. Il cibo, costituito da verdura secca bollita, produsse ben presto l'insorgere di diarree fra noi. Negata ogni assistenza sanitaria, mentre numerosi di noi ne avrebbero avuto bisogno, oltre che per la diarrea, anche per l'insorgere di infezioni provocate essenzialmente dallo stato di sporcizia. [...] Il 29 luglio un giovane ufficiale di marina, colpito da polmonite, fu trasportato in infermeria, dove morì la sera stessa. In seguito si ebbero altri decessi sia di ricoverati in infermeria sia di sorpresi da collasso cardiaco per età e per denutrizione. Il 23 dicembre 1945, a sera, una trentina di noi vennero stralciati dal gruppo in base a un elenco prestabilito, legati con le mani dietro la schiena a mezzo di filo di ferro e trasportati a ignota destinazione con dei camion. L'indomani mattina gli automezzi fecero ritorno recando indumenti che noi riconoscemmo come già appartenenti ai nostri compagni partiti la sera innanzi. Ai nostri occhi tale fatto assunse l'aspetto di un macabro indizio. Il 30 dicembre un'altra trentina di noi subiva la stessa sorte, seguiti il 6 gennaio 1946 da un terzo e ultimo scaglione di 36 persone. [...] Prima della partenza del secondo scaglione furono iniziati gli interrogatori degli italiani. Così come era avvenuto al carcere del Coroneo (Trieste), questi interrogatori furono condotti senza la formulazione di un'accusa qualsiasi, salvo qualche caso specifico rarissimo. Con la partenza dei tre scaglioni anzidetti il numero degli italiani rimasti nella "Presilna Delavnica" [l'ex manicomio] era sceso e fummo tutti riuniti, sani e malati, in un unico stanzone. [...] Con la partenza del terzo scaglione ebbe inizio, per noi rimasti, un periodo di lavoro forzato estremamente gravoso. La sera eravamo letteralmente abbrutiti dallo sforzo fisico. Credetti realmente di non poter fisicamente reggere allo sforzo. Nel frattempo erano morti Z. e B. Successivamente anche i tre della cella vicina alla nostra cessarono di vivere uno alla volta. Ricordo con particolare raccapriccio il povero B. (un ragazzo triestino di 18 anni facente parte della brigata "Venezia Giulia" del Corpo Volontari della Libertà) ridotto a un pietoso relitto umano da una infezione che non gli era mai stata curata. Negli ultimi giorni della sua vita rassomigliava più a un vecchio decadente che a un ragazzo della sua età. La notte in cui morì lo udimmo gridare a lungo invocando la mamma. Quando si fece silenzio
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arguimmo la sua morte perché si sentì battere violentemente alla porta della cella vicina per chiamare la guardia di servizio. Poco dopo, dal tramestio che ci era perfettamente intelligibile in tutti i suoi particolari, sapemmo che il povero B. era stato tratto fuori dalla cella e temporaneamente depositato nel cesso situato di fronte a essa. [...] Il 27 marzo 1947 venni trasferito nel bunker e lasciato in cella solo. Si inizia per me, da quel momento, un periodo di segregazione cellulare durato 105 giorni e che ha termine soltanto il 9 luglio con la mia liberazione.18 Documento 18. Un superstite Alcuni infoibati riuscirono fortunosamente a salvarsi dalla morte. Uno di questi fu Giovanni Radeticchio. La testimonianza, relativa alla primavera del 1945, conferma quelle dell'autunno del 1943 in merito alle modalità degli infoibamenti. Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell'alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: “Facciamo presto, perché si parte subito”. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l'orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l'esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell'acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole: “Un'altra volta li butteremo di qua, è più comodo”, pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott'acqua schiacciandomi con la pressione dell'aria contro la roccia. Verso sera 18 La testimonianza è conservata presso l'archivio delI’IRSML ed è stata parzialmente pubblicata in E. Maserati, L'occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945), Del Bianco Editore, Udine 1966
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riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo19. Documento 19. Un'odissea istriana I brani che seguono sono tratti dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era rifugiata, ai primi di maggio del 1945. Anche il padre e gli zii della giovane donna, commercianti e possidenti, erano stati arrestati e infoibati in Istria nell'autunno del 1943. Dopo un allucinante ritorno al paese natale (Parenzo) e un processo sommario, episodi cui si riferiscono i passi qui pubblicati, la Codan venne deportata nell'interno della Slovenia. Il diario, che nella prima parte offre scorci di estrema crudezza, si sofferma poi largamente sugli atti di pietà e di amore che la protagonista, al tempo non ancora ventenne, poté sperimentare da parte della popolazione e di alcuni degli stessi carcerieri durante la sua prigionia, conclusasi solo nel giugno del 1949. La parte qui pubblicata, oltre a descrivere gli aspetti più foschi e inumani assunti dal conflitto etnico e di classe all'interno dell'Istria, mette in luce, attraverso l'impatto traumatico della ragazza con gli ex coloni della sua famiglia, come la classe dirigente italiana non riuscisse assolutamente a rendersi conto del cumulo di rancori, nazionali e sociali, che si era sedimentato nella società locale croata. Va ancora precisato che il responsabile dell'arresto di Mafalda Codan, Antonio Stoini, che nella primavera del 1945 era ufficiale dell'esercito di liberazione jugoslavo, venne a sua volta arrestato nel 1947 dalle autorità alleate di Trieste e si difese affermando che la Codan avrebbe denunciato ai tedeschi suo fratello Dante, il quale di conseguenza avrebbe trovato la morte nella Risiera di San Sabba. “Il 7 maggio 1945 […] prendo un libro e vado in giardino. Appena uscita mi trovo davanti tre partigiani comandati da Nino Stoinich con il mitra spianato. Prima di tutto si rallegrano dell'orribile morte dei miei cari e poi mi intimano di seguirli. Vestita come sono, senza poter più né entrare in casa né salutare la mamma, devo seguirli. Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina. [...] Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate, urlano, 19
La testimonianza fu pubblicata la prima volta il 26 gennaio del 1946 sul periodico della DC triestina "La Prora", e venne successivamente riportata integralmente nell'opuscolo Foibe, la tragedia dell'Istria, edito dal CLN dell'Istria; è stata poi frequentemente utilizzata dalla pubblicistica del dopoguerra
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gesticolano, imprecano. S. mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte. [...] A Santa Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto20, infoibata nel settembre del 1943, chiamano sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio della sua Norma. La signora, nonostante le severe intimazioni, si rifiuta di uscire, la trascinano a forza sulla porta e, appena mi vede in quelle condizioni, cade a terra svenuta. [...] Siamo arrivati davanti a casa mia. [...] Si raduna subito una folla scalmanata e urlante: il tribunale del popolo. Stoinich tira fuori un foglio e comincia a leggere le accuse: infondate, non vere, testimonianze false, imposte. Vedo i miei coloni e molte persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si consideravano amici, ora sono qui per condannarmi e gridare "a morte" Sono diventati tutti un gregge di pecore, fanno ciò che è stato loro imposto di fare, ora seguono chi comanda, chi promette loro la spartizione delle terre dei padroni. Non posso stare zitta, urlo anch'io, non posso puntare il dito contro quelle bestie mostruose solamente perché ho le mani legate, li chiamo allora per nome, li accuso della morte dei miei cari, dei furti commessi, dei soprusi, dei debiti mai pagati e da accusata divento accusatrice. [...] Nell'ex dopolavoro mi attendono le donne […] Mi legano a una colonna in mezzo alla sala, a sinistra e a destra mi mettono due bandiere slave con la stella rossa e sopra la testa il ritratto di Tito. È un druze grande e grosso che dà il via al pestaggio. Con tutta la sua forza comincia a percuotermi con una cinghia. Mi colpisce così forte sugli occhi che non riesco più a riaprirli. Mi spiace perché ho sempre avuto il coraggio di fissare negli occhi chi mi picchiava. Le sevizie continuano, le donne mi colpiscono con grossi bastoni, con delle tenaglie cercano di levarmi le unghie ma non ci riescono perché sono troppo corte. Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse: “Apri gli occhi che te li levo” mi grida. [...] Più tardi mi fanno fare il giro del paese legata a una catena come un orso, mi segue un codazzo di bambini divertiti. [...] Arriva un carro, mi fanno salire, fanno correre il cavallo e io devo stare in piedi. Le continue scosse mi fanno cadere e, ogni volta, un colpo di mitra mi rialza. In quelle condizioni giro diversi paesi. [...] A 20 Norma Cossetto, studentessa ventitreenne di Visinada, figlia di un possidente e gerarca locale, arrestata nel settembre del 1943 al posto del padre, era stata infoibata dopo lunghe sevizie nella foiba di Villa Surani. La sua terribile fine è stata conservata nella memoria come uno dei simboli delle foibe istriane
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Parenzo mi portano nel piazzale del Castello, ora caserma, dove sono radunati gli uomini. [...] Quello che si scaglia furibondo contro di me è Ziri, un mio ex colono che ha avuto tanto bene da mio padre. Dice di essere felicissimo di vedermi in quelle condizioni e spera che tutta la famiglia sia distrutta per essere lui il padrone dei nostri campi. [Nel castello di Pisino] Tutte le notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso ci attraversa il corpo. Le urla di dolore di Arnaldo [il fratello diciassettenne, detenuto e torturato nel medesimo carcere] e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. [...] Una notte la porta si apre e subito mi assale il terrore, questa volta sul foglio c'è anche il mio nome. [...] Io vengo legata braccio a braccio con una giovane incinta. Ci conducono sullo spiazzo del castello dove ci attendono due camion già pieni di prigionieri, con i motori accesi. Ci caricano sul secondo, chiudono le sponde e vien dato l'ordine di partire. In quell'istante arriva di corsa un ufficiale con un foglio in mano e grida. “Alt! Mafalda Codan giù”. Mi sento mancare, tremo tutta. […] Il capo mi prende per un braccio, mi accompagna in una casetta di fronte al carcere, mi getta in una stanza buia e mi chiude dentro. [...] Al mattino gli aguzzini tornano felici di aver ucciso tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova "residenza" e mi chiede: “Quanti anni aveva tuo fratello? Non voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare”. […] Una mattina un druze mi accompagna al Comando. Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme, l'altro è in borghese. “Hai visite” mi dicono, aprono una porta ed entrano quattro donne scalmanate. “Come? E ancora viva?” chiedono arrabbiate. “Perché non è partita con gli altri?”. Urlano, gridano, vogliono picchiarmi. I due capi glielo proibiscono. Mi accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e, anche questa volta, da accusata divento accusatrice, di cose vere però. Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole dette, tutto […] e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale. Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte. Ora racconto ai giudici tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto, faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere
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innocente, non ho paura di nessuno. [...] Da quell'istante la mia vita cambia. I due capi hanno capito che non ho fatto niente di male. [...] Riacquisto subito la semilibertà giro da sola senza la scorta di guardie armate e divento la donna di servizio della moglie di Milenko, uno dei capi. È un giovane dalmata, laureato in legge, parla abbastanza bene l'italiano e il francese ed è molto umano. [...] Mangio con loro e, alla sera, ritorno in prigione. Mi trattano umanamente, ma tra noi rimane pur sempre un rapporto schiavo-padrone. […] Potrei scappare ogni giorno, ma i miei principi e la parola d'onore data, mi impediscono di farlo. Per nessuna cosa al mondo tradirei la fiducia delle persone che hanno creduto in me. E intanto, pian piano, il grigio sconforto che mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi.21 Documento 20. Preghiera per i morti delle foibe La preghiera venne composta dall'allora vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, in occasione della copertura del pozzo della miniera. Viene tradizionalmente recitata in occasione delle cerimonie commemorative a Basovizza. O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalle profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce. De profundis clamo ad Te, Domine. Domine, audi vocem meam. Oggi tutti i Morti attendono una preghiera, un gesto di pietà, un ricordo di affetto. E anche noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l'insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché tu hai raccolto l'ultimo loro grido, l'ultimo loro respiro. Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell'amore le vie della pace. In trent'anni due guerre, come due bufere di fuoco, sono passate attraverso queste colline carsiche; hanno seminato la morte tra queste rocce e questi cespugli; hanno riempito cimiteri e ospedali; hanno anche scatenato qualche volta l'incontrollata violenza, seminatrice di delitti e di odio. Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua Pace, una pace che sia riposo tranquillo per i Morti e sia serenità di lavoro e di fede per i vivi.
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Ampi stralci del diario sono stati pubblicati nel volume curato dall'IRCI e dall'Unione degli istriani sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia, Bruno Fachin Editore, Trieste 1997
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Fa che gli uomini, spaventati dalle conseguenze terribili del loro odio e attratti dalla soavità del Tuo Vangelo, ritornino, come il figlio prodigo, nella Tua casa per sentirsi e amarsi tutti come figli dello stesso Padre. Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo Nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà. Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi nostri Morti, profonda come le voragini che li accolgono. Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore del Tuo Volto. E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia, beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell'iniquità. O signore, a questi nostri Morti senza nome ma da Te conosciuti e amati, dona la Tua pace. Risplenda a loro la Luce perpetua e brilli la Tua Luce anche sulla nostra terra e nei nostri cuori. E per il loro sacrificio fa che le speranze dei buoni fioriscano. Domine, coram te est omne desiderium meum et gemitus meus te non latet. Amen22
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Il testo Ë tratto da G. Vianello (a c. di), Parole di un pastore, Tipografia Coana, Trieste 1974, pp. 229-230.
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Opinioni Nulla sarebbe più sbagliato del credere che delle foibe si sia cominciato a parlare solo di recente. Al contrario, l'argomento è stato frequentatissimo, non solo nella pubblicistica, che nel corso di un cinquantennio ha dedicato al problema un vero diluvio di interventi, ma anche nella storiografia, seppur in misura nettamente minore. Piuttosto, c'è da chiedersi come mai i contributi sul tema delle foibe abbiano trovato un'enorme difficoltà a uscire da ambiti molto circoscritti: essenzialmente quello locale giuliano e quello, del tutto speciale, degli esuli giuliano-dalmati. Per tentare una risposta, conviene partire dalla constatazione che scarso interesse a livello nazionale non è stato suscitato solo dal dramma delle foibe ma, più in generale, da quasi tutte le vicende legate alla storia della frontiera orientale italiana dopo la prima guerra mondiale. Cosi per esempio, della Risiera di San Sabba, l'unico campo di concentramento nazista in Italia nel quale vennero eseguite uccisioni di massa anche con l'uso del gas e in cui funzionò un forno crematorio, si cominciò a parlare diffusamente solo negli anni settanta, quando, dopo un difficoltoso iter, venne celebrato il processo ad alcuni dei responsabili di quei crimini che erano ancora vivi. Attenzione ancora minore hanno suscitato i problemi legati vuoi alle occupazioni e annessioni italiane di territori jugoslavi dopo l'aggressione del 1941, vuoi all'esodo della quasi totalità della popolazione italiana da Zara, da Fiume e dall'Istria dopo la seconda guerra mondiale. Dietro tali rimozioni incrociate sta probabilmente il fatto che la storia del confine orientale per un verso ha potentemente favorito la nascita di veri e propri miti politici e storiografici, per l'altro, se rigorosamente investigata, offre pure tutti gli elementi per mettere in crisi quei medesimi miti, oramai consolidatisi nelle diverse culture politiche del nostro paese. Ciò vale, per esempio, per il mito del "buon italiano", che può uscire alquanto ridimensionato dalla conoscenza critica delle esperienze di occupazione italiane nei territori ex jugoslavi, oppure per quello dell'"innocenza" della classe dirigente italiana della Venezia Giulia e soprattutto di Trieste nei confronti del potere germanico nel biennio 1943-1945, se si tiene conto della rete di silenzi e complicità di cui i nazisti poterono avvalersi per portare a compimento il loro disegno di morte. Ma ombre tutt'altro che lievi non possono che addensarsi anche sul mito del Movimento di liberazione jugoslavo, a lungo considerato un esempio per tutti i movimenti resistenziali europei, di fronte all'osservazione delle violenze di massa - come, appunto, quella delle foibe - attraverso le quali esso raggiunse i suoi obiettivi, e cioè l'indipendenza del paese, l'annessione di territori rivendicati ai confini e la costruzione del comunismo: passaggi tutti di un progetto rivoluzionario che
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avrebbe condotto alla formazione di un regime stalinista, anche se destinato a scontrarsi con Stalin, al quale fra l'altro va addebitata l'espulsione degli italiani dall'Istria. 1. Le tesi militanti Come si è visto, l'eco delle stragi del 1943 e del 1945 fu assai forte presso l'opinione pubblica italiana: da ciò un'immediata esigenza di spiegare l'accaduto, che non poteva non inserirsi nel clima di violente contrapposizioni nazionali e politiche del momento. Così, quasi subito, presero corpo due opposte versioni dei fatti e due letture antagoniste del loro significato, l'una italiana e l'altra jugoslava. Il perdurare delle tensioni italo-jugoslave fino alla seconda metà degli anni cinquanta (la "questione di Trieste" venne risolta nel 1954 e l'esodo degli italiani dall'Istria si concluse non prima del 1956) fece sì che tali interpretazioni "militanti", finalizzate cioè a mettere polemicamente in crisi l'avversario, si consolidassero presso le forze politiche e la pubblica opinione. A tutt'oggi, nonostante esse abbiano dimostrato tutta la loro fragilità sul piano scientifico, continuano a essere largamente diffuse, non solo perché ben radicate nella memoria locale, ma anche perché si prestano a un uso politico che non è mai venuto meno, mentre le semplificazioni, spesso assai grevi, di cui sono intessute, ne favoriscono l'utilizzo da parte dei mezzi di comunicazione. 1.1 Il "genocidio nazionale" Nel caso italiano, il punto di partenza fu costituito dalla percezione dei contemporanei che, come abbiamo detto, ritennero che si trattasse di un tentativo di distruzione della componente italiana della popolazione giuliana. Tale percezione portò a formulare la tesi delle foibe come atto di "genocidio nazionale", secondo una linea interpretativa già presente nella propaganda della RSI e che nel corso del lungo dopoguerra giuliano venne espressa in un gran numero di pubblicazioni di sapore generalmente polemico. Anche al di là delle contingenze politiche internazionali tuttavia, la tesi del "genocidio nazionale" è rimasta patrimonio stabile della cultura nazionalista giuliana, perché si inserisce perfettamente nei suoi tipici schemi di lettura dei rapporti fra italiani e slavi, imperniati sulla contrapposizione fra la civiltà latina, veneta e italiana da un lato, e la barbarie slava, volta a sradicare con ogni mezzo la presenza italiana dall'Adriatico orientale, dall'altro. Così, anche dopo il venir meno negli anni sessanta dei contrasti fra Italia e Jugoslavia, l'immagine del "genocidio nazionale" è stata continuativamente riproposta, senza sostanziali cambiamenti, lungo tutto il corso dei successivi decenni
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dagli ambienti di estrema destra, dagli epigoni della RSI e dalle associazioni degli esuli istriani. Nel corso degli anni novanta infine, la formula del "genocidio nazionale" è stata progressivamente sostituita da quella di "pulizia etnica", con evidente riferimento alle stragi avvenute nella ex Jugoslavia dopo la dissoluzione della Repubblica federativa. L'adozione acritica di quest'ultima definizione, prescelta per la sua forza evocativa, denuncia peraltro una sostanziale incomprensione delle differenze esistenti fra il concetto di etnia e quello di nazione, come pure l'ignoranza del fatto, capitale per intendere il senso della storia giuliana, che nei territori posti alla frontiera orientale italiana si sono storicamente confrontati non solo diversi gruppi nazionali, ma anche due concezioni della nazione: l'una, su base etnica, propria delle popolazioni slave, l'altra di tipo volontarista, adottata dagli italiani. È noto infatti che una parte consistente dell'italianità adriatica non ha basi etniche, ma è frutto di assimilazione culturale di soggetti di varia provenienza, dall'entroterra slavo come pure dalle coste del Mediterraneo orientale. Paradossalmente quindi, coloro che nelle foibe vogliono vedere un atto di "pulizia etnica" fanno inconsapevolmente propria quella concezione etnicista della nazione che ridimensiona la presenza italiana nella Venezia Giulia, e che ha costituito la base teorica per le politiche di rislavizzazione coatta tentate in Istria nel corso del dopoguerra da parte della autorità jugoslave. Inoltre, la confusione concettuale impedisce di cogliere il significato specifico della repressione lanciata soprattutto nella primavera del 1945: in quel momento infatti, a venire presi di mira non furono tanto gli elementi di etnia italiana - che potevano venire considerati "buoni e onesti italiani" se aderivano all'annessione alla Jugoslavia - quanto tutti coloro che, a prescindere dalle loro origini etniche, si sentivano politicamente italiani, vale a dire desideravano il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Secondo la medesima logica vennero perseguiti pure gli sloveni e i croati contrari al comunismo. Anche la formula rituale pertanto, secondo la quale molte delle vittime delle foibe furono uccise "soltanto perché italiane", risulta sostanzialmente ambigua: poco fondata, specie per quanto riguarda il 1945, se riferita all'origine etnica, appare invece molto più significativa se declinata sul piano politico, con l'avvertenza aggiuntiva che per "italiani" vanno intesi non solo e non tanto quanti riconoscevano come italiana la loro identità nazionale (lo facevano anche i comunisti che si battevano per la
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Jugoslavia socialista) quanto piuttosto "coloro che volevano l'Italia", con una scelta politica in cui preminente era la dimensione statuale23. Paolo De Fanceschi (alias Luigi Papo), Foibe Luigi Papo, ex ufficiale della Milizia difesa territoriale, come venne denominata nella "Zona di operazioni litorale adriatico" la Guardia nazionale repubblicana e, all'epoca della redazione del testo citato qui di seguito, animatore del Centro studi adriatici, è uno dei più prolifici fra i sostenitori della tesi del genocidio nazionale connesso alla volontà di predominio dello slavismo: a tale interpretazione infatti, che qui vediamo presentata in un opuscolo del 1948, l'autore si è mantenuto fedele per più di un cinquantennio, riproponendola senza sostanziali varianti nelle ultime opere L'Istria e le sue foibe e L'Istria tradita, rispettivamente del 1999 e del 2000. Nel volume del1999, infatti, ancora si legge: “Come il crollo del Muro di Berlino e dell'Unione Sovietica non hanno portato alla fine del comunismo, così lo sfacelo della Jugoslavia non ha portato a un alleggerimento della pressione slava alla Porta Orientale. È lo slavismo che da secoli avanza verso l'Occidente”.24 Il brano pubblicato, esemplificando tutti i capisaldi interpretativi tipici del fascismo giuliano, chiarisce come per Papo la minaccia slava si sommi a quella comunista, facendo presagire altre stragi dopo quelle istriane. Nel testo è pure evidente la volontà di difendere l'esperienza di quanti si schierarono in armi con la Repubblica di Salò. È interessante inoltre rilevare che sugli episodi dell'autunno 1943 la pubblicazione si avvale di informazioni di prima mano, provenienti da alcuni archivi privati, tra i quali quello dell'on. Luigi Bilucaglia, animatore del fascismo istriano. Quanto alla foiba di Basovizza, l'autore accredita una cifra di 1500 vittime, che nelle sue successive pubblicazioni salirà fino a raggiungere le 2500. Solo un avvenimento come fu quello dell'8 settembre del 1943 poteva dare la vittoria a quei pochi illusi che erano i propagandisti slavo-comunisti che giravano nottetempo e con il cuore in gola per le campagne dell'Istria.
23 Per chi voglia approfondire, oltre ai testi qui citati, vedi: B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d'Italia, Bologna 1948; Id., La tragedia della Venezia Giulia, in "Quaderni dell'ABC", nn 1, 2, 3, 4, 1953-1955; L. Grassi, Trieste. Venezia Giulia 1943-1954, Roma 1960, nonché le numerose pubblicazioni di M. Pirina, edite dal centro studi Silentes Loquimur di Pordenone 24 L. Papo, L'Istria e le sue foibe, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999 e Id., L'Istria tradita, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2000. L. Papo, L'Istria e le sue foibe, cit., p. 256.
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Nei quaranta giorni di Badoglio, in Istria cominciarono i primi lutti. Sembrò dapprima trattarsi di un rincrudimento della normale attività dei delinquenti comuni, e così fu di certo; ma non si pensava che sotto potesse esserci anche un fine politico, o che comunque i delitti fossero compiuti nel nome o dietro il paravento di un'idea. Forse furono sempre gli stessi a compiere quei delitti o forse cambiarono i sicari, ma le menti direttive è certo che furono poche. A ogni modo in quasi tutti quei primi casi si trovarono sempre presenti nei diversi gruppi: Tonca Surian, era una giovane lattivendola delle campagne di Pisino, inconfondibile per una grossa voglia sulla guancia sinistra; Ivan Motika, oggi deputato al parlamento jugoslavo; un certo soprannominato Drago e qualche altro che ritroveremo in seguito. La tattica era sempre la stessa; di notte tre o quattro persone bussavano a una porta, chiamavano un nome e quando il disgraziato si presentava, tre o quattro colpi di pistola bastavano per mandarlo all'altro mondo. Nell'ombra fuori dalla porta, un uomo solitamente si nascondeva; uno del luogo che si era prestato a indicare la vittima. Giustizia era fatta. E quasi sempre si risapeva che il morto era italiano o tale di sentimenti e che aveva avuto, negli anni precedenti, qualche lite per motivi d'interesse con qualche compaesano ormai latitante. Caddero così molti e quasi tutti erano agricoltori delle campagne dell'interno, e mai si verificarono fatti del genere nelle vicinanze di grossi borghi o di cittadine. Eroi sì, ma completamente al sicuro. Due o tre volte qualche piccola pattuglia di fanti e di carabinieri ebbe delle molestie, e solo dopo l'annuncio dell'armistizio, gli armati della liberazione si arrischiarono di avvicinarsi alle caserme e alle tende che ancora esitavano, per Dio sa quale mistero, a rimanere completamente vuote. Ma i soldati dell'esercito italiani non avevano più generali ormai, che troppi ne avevano avuti. Gli slavo-comunisti avevano, sapendolo forse con un non breve anticipo sullo stesso Badoglio, messo in atto tutta la loro bravura nel preparare la messa in scena dell'esultanza popolare. Fu come se da un'immensa botte si fosse sparso sulla terra il più ubriacante dei vini, inebriando tutti. E a furor di popolo fu acclamata la Jugoslavia a novella Patria. Ma è risaputo da secoli, Noè lo insegna, che il troppo vino e l'ebbrezza eccessiva lasciano poi in bocca un gusto amaro, un senso di pesantezza nelle membra, quasi un lieve intontimento nel cervello. Così fu anche per quella gente e durò poco quell'entusiasmo, durò quanto il più breve dei temporali d'estate. Il tempo per rubare a man salva, per uccidere i nemici personali impunemente, per accorgersi che la Jugoslavia non era la terra promessa e benedetta da Dio, che il comunismo non era altro
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che l'imperio di pochi. Ma la vita non perdona. Rimasero la miseria e la desolazione, le foibe e i lutti, il ricordo di un benessere ormai solo da sogno, la possibilità di congiurare in silenzio, di maledire, ma il tormento di dover soffrire a riparazione del male. Era necessaria questa breve esposizione di fatti, questo scrutare nei sentimenti, il fare il quadro della situazione per poter dire poi quali e cosa furono le foibe istriane. Perché non a tutti è dato di conoscere lo svolgimento dei fatti e molti credono forse in buona fede, che gli slavi ebbero il diritto di uccidere gli italiani perché da questi oppressi o perché l'esercito nostro aveva fatto altrettanto nelle terre slave. No: fu solo la necessità di dare sfogo a degli istinti bestiali, la volontà di cancellare tutto ciò che era italiano.25 Così, rievocando a una a una le figure dei Martiri, si potrebbe dire di tutti, rievocare di tutti una tragica storia. E sarebbe lungo, e potrebbe sembrare lugubre monotonia il ricordo continuo della morte. Norma Cossetto, come gli altri, aveva la sola colpa di essere italiana. E bisognerebbe di tutti dire così, perché purtroppo il martirio dell'Istria in quel tragico finire del 1943, non è ancora conosciuto e compreso. Se così fosse non dovrebbero essere condannati quegli italiani che dopo le Foibe impugnarono le armi per difendere l'Istria e se stessi contro gli slavi; non dovrebbe più oggi esistere il comunismo in Italia, che, come gli slavi, oggi scende [sic] dall'Oriente e per giungere in Italia ha forzato le Alpi e distrutto i confini di sempre. [...]. Non dovrebbero esserci in Italia più uomini che mettono in dubbio queste verità, che le minimizzano, che le confondono volutamente sì da arrivare a dire che furono i tedeschi e i fascisti a creare la realtà o la favola delle foibe. Dato che per i comunisti slavi "italiano" equivale a "fascista", avrebbero dovuto essere i padri a infoibare i figli, i fratelli i fratelli, i mariti a violentare le mogli. Ed è doloroso per noi, scrivendo del nostro Martirio, dover fare dell'amara ironia. Ma quanto accadde in Istria in quel settembre-ottobre '43 potrebbe anche essere addebitato agli italiani stessi, se purtroppo anche nei mesi che seguirono gli slavi non avessero continuato la non ancora conchiusa serie dei loro delitti. Si ricorderà la foiba di Basovizza, nei pressi di Trieste, dove, dopo sei mesi di ansia e di minacce, furono gli inglesi stessi a dar di piglio alla benna per svuotare l'immensa voragine dai circa 500 metri cubi di cadaveri - circa 1500 vittime - ormai massa informe, irriconoscibile, putrefatta. E gli inglesi in quel tempo copersero con le loro divise la vergogna, e solo per la stupidità degli slavi e il coraggio dei triestini, si seppe la verità.
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De Franceschi, Foibe, Centro Studi Adriatici, Roma 1948, pp. 11-12
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Morti calcolati a metri cubi. Questo è il comunismo. Questa è la sorte toccata agli italiani della Dalmazia e di quella zona della Venezia Giulia che ebbero la sventura di provare le delizie del troppo grande paradiso rosso. La sorte che minaccia di continuo quelle migliaia di italiani che non sono potuti fuggire, che minaccia l'Italia tutta: che anche in Puglia e in Lombardia ci sono miniere o cave o voragini e terra ce n'è dovunque per essere ridotta a fosse comuni e il mare circonda tutta l'Italia per accogliere coloro che in questa Patria ancora credono e nella sua rinascita sperano. Ancor più esplicito, pur nella sua sinteticità, è il brano seguente, tratto dalle dichiarazioni rilasciate da Papo al pubblico ministero Giuseppe Pittito il 25 gennaio 1996 nell'ambito dell'istruttoria del processo Piskulic. Si trattò di un vero e proprio genocidio: le persone, gli italiani cioè, per il sol fatto di essere italiani, venivano prelevate a centinaia e portate quasi tutte nel castello di Pisino, da dove, spesso di notte, venivano portate in prossimità delle foibe o cave di bauxite e ivi fucilate finendo nelle foibe. Flaminio Rocchi, L'Esodo dei Giuliani Fiumani e Dalmati Padre Flaminio Rocchi, non presente nella Venezia Giulia quando vennero perpetrati i crimini delle foibe, si è avvalso principalmente delle notizie comparse sulla stampa nell'immediato dopoguerra, nonché di una pubblicazione curata nel 1946 dal Ministero per gli affari esteri italiano, intitolata "Comportamento delle Forze Jugoslave di occupazione nei riguardi degli Italiani nella Venezia Giulia e in Dalmazia", predisposta per la conferenza di pace di Parigi, e mai presentata o divulgata pubblicamente. È interessante notare che il testo di Rocchi risale al 1971 e non recepisce alcun elemento emerso dalle ricerche storiche più attendibili, condotte sui documenti allora disponibili, e anzi crea, alimenta e sostiene una sorta d'immaginario collettivo, certamente corrispondente allo stato d'animo degli esuli istriani, che ha finito con l'influenzare non pochi commentatori. All'autore va ricondotta l'interpretazione, particolarmente in voga negli anni settanta-ottanta dell’”Olocausto giuliano” Il testo che segue ne è un buon esempio. In particolare, il rinvenimento di ventitré salme di neozelandesi nel pozzo della miniera di Basovizza è stato smentito più volte nel corso del dopoguerra, ma nel testo, che riprende acriticamente le informazioni contenute in un rapporto redatto nell'immediato dopoguerra dai servizi di informazione italiani, viene presentato come fatto certo.26 26
Dichiarazioni pubblicate in Aa. Vv., Il rumore del silenzio. Foibe ed esodo dei 350.000 italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia, Azione Giovani, Trieste 1997, p. 130
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Il calvario dell'infoibato La cattura. Singole persone, famiglie intere, gruppi di 100-200-500 vengono rastrellati nelle città e nelle campagne. Alla fine saranno oltre ottomila. Sono cittadini privati, minatori dell'ARSA, pescatori istriani, operai dei cantieri, contadini vissuti tra gli ulivi e le viti, donne semplici, quelle del focolare e del bucato, bambini di pochi anni o addirittura nel seno materno, finanzieri e carabinieri, qualche soldato sbandato e spaurito. Vengono legati con catene o con grossi fili di ferro. A Pola i nodi vengono girati con le tenaglie fino a segare la pelle. Non mancano sevizie e ´flagellazioni a sangue con una frusta di dieci fili di luce elettrica, dice un teste che porta ancora le cicatrici. La condanna. Non occorrono colpe. Non servono i processi. Basta un Giuda falso e prezzolato, o un caporale spaccone. La soldataglia urla contro le finestre: “In Foiba”. Giovani, vecchi, donne vengono strappati dai focolari. La retata travolge anche gli antifascisti. “Perché mi percuotete?” La risata: “In Foiba!”. Chi potrà indicare le colpe delle tre sorelle Radecchi da Lavarigo […]. I loro corpi non presentano ferite. Hanno le ossa fracassate. Sono state precipitate vive nella voragine. Tutte e tre avevano le sottovesti strappate. In cammino verso il sacrificio. Sono legati a due per le braccia, per i piedi, oppure a catena di cinque, di dieci. Si preferisce l'alba. S'avviano vivi verso la propria tomba. L'angoscia li attanaglia: “come si muore in una Foiba?”. I curiosi, nascosti, spauriti, spiano le reazioni nei loro volti, nei loro passi. Nelle case il pianto convulso delle spose e dei figli porge l'estremo viatico. Una mano spinge tra i battenti della finestra e agita un fazzoletto. A Villa Orizi la processione dei condannati recita a voce alta, in italiano, il Padre Nostro. Qualcuno traballa, cade e trascina nella caduta il compagno. Lo scudiscio e i colpi con il calcio delle armi non riescono a rimetterli in piedi. Non c'è Cireneo che li aiuti. Due pallottole li inchiodano sulla strada. Se la Foiba è lontana, le vittime vengono legate e gettate come bestiame nei cassoni degli autocarri militari. Nel rovignese gira, di notte, una corriera. La chiamano “la corriera della morte”. Scendendo a strattoni dagli autocarri, frugano davanti, nella penombra, tra le rocce cespugliose, l'imboccatura della Foiba che li inghiottirà. L'infoibamento. Le vittime vengono spinte a calci e a bastonate sull'orlo della Foiba. Urlano, pregano, fissano con gli occhi sbarrati il baratro. Una sventagliata di mitra e il peso dei feriti trascina anche gli incolumi finché, sbattendo da un roccione all'altro, la paurosa catena dei corpi sanguinanti si schianta sul fondo. I contadini sentono lamenti strazianti e il giorno dopo l'odore della morte. Purtroppo, la morte si è presentata nella Venezia Giulia e in Dalmazia nelle versioni più dolorose. Oltre all'infoibamento e all'annegamento, ci sono
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state le lapidazioni, le impiccagioni, gli strangolamenti e le fucilazioni. Molti hanno dovuto scavarsi la fossa prima dell'esecuzione. La riesumazione. Gli infoibatori, cacciati dagli alleati o dai. tedeschi se ne vanno. Ritorneranno presto, fra quaranta giorni. Lasciano le loro spie. I contadini hanno paura. Rincasano presto e evitano i viottoli delle Foibe. Di notte, nella loro fantasia, queste sembrano animarsi nelle ombre delle piante scosse dal vento. Hanno il fiato dei cadaveri che marciscono e la voce nell'eco delle urla e dei rantoli. Ma i bravi pompieri di Pola e altri volontari scendono lo stesso nei baratri tortuosi, contro le tenebre e contro il tanfo. Mons. Raffaele Radossi attende e prega sull'orlo della Foiba con i familiari delle vittime. La profondità, i passaggi stretti e la decomposizione ostacolano le operazioni. A Basovizza gli inglesi usano le benne. Recuperano 600 cadaveri, tra i quali 23 soldati neozelandesi. Poi devono sospendere per difficoltà tecniche Anche padre Rocchi ha sintetizzato la sua interpretazione dei fatti nell'ambito dell'istruttoria del processo Piskulic. A tali dichiarazioni, rilasciate il 6 novembre 1995, si riferisce il seguente brano.27 Dopo l'8 settembre del 1943, le truppe jugoslave occuparono l'Istria, comprese le città di Trieste, Gorizia e Monfalcone [sic] […]. Ebbe inizio una dura pulizia etnica contro gli italiani considerati come delle impurità etniche […]. In questo clima scomparvero dai dieci ai dodicimila civili italiani, uomini e donne, uccisi dai partigiani titini, molti dei quali infoibati, per il semplice fatto di essere italiani: tra questi vi erano anche 35 sacerdoti cattolici uccisi per la loro religione. […] L'odio etnico da parte dei titini nei confronti degli italiani portò non solo all'assassinio di migliaia di italiani, ma anche a un vero e proprio esodo di circa 300 mila italiani costretti a lasciare le loro terre occupate dai partigiani di Tito, per salvare la loro identità di italiani, la loro libertà politica, la loro fede religiosa... Io credo che gli infoibati civili siano stati circa diecimila.28 Giorgio Rustia, Contro operazione Foibe a Trieste Nel 1997 la giornalista triestina Claudia Cernigoi diede alle stampe il volumetto “Operazione Foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al
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F. Rocchi, L'Esodo dei Giuliani Fiumani e Dalmati, Edizione Difesa Adriatica, Roma 1971, pp. 71-82 28 Dichiarazioni pubblicate in Aa. Vv., Il rumore del silenzio..., cit., p. 128
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neoirredentismo”29. I contenuti della pubblicazione - che non solo criticava la tesi del "genocidio nazionale", ma che metteva radicalmente in discussione molte delle informazioni date solitamente per acquisite in merito agli infoibati della primavera del 1945 - e i suoi toni fortemente polemici, provocarono vivaci reazioni soprattutto da parte delle associazioni patriottiche, d'arma e dell'esodo giuliano-fiumano-dalmata. Dopo prolungati botta e risposta sulla stampa locale, Giorgio Rustia, segretario dell'Associazione famiglie e congiunti deportati italiani in Jugoslavia e infoibati, ha pubblicato il suo corposo “Contro operazione Foibe a Trieste” nel quale ha sottoposto a minuzioso esame il lavoro della Cernigoi, rilevando non poche omissioni, imprecisioni e interpretazioni giudicate capziose. Al di là delle contestazioni puntuali, per le quali non si può che rinviare al libro e all'ampia documentazione ivi prodotta, dell'opera di Rustia meritano qui rilevare il tono requisitorio e la vis polemica nei confronti del mondo accademico e, più in generale, della ricerca storica. È questa una testimonianza della frattura che nel corso di un cinquantennio si è aperta tra l'orizzonte della memoria, elaborata e custodita in circuiti speciali, come quelli dei parenti delle vittime, e quello della ricerca, che ha seguito vie in parte diverse, come meglio si vedrà nei capitoli successivi. Nel brano qui riportato Rustia si spinge ancora più in là, accomunando tutti gli storici e i politici antifascisti in una voluta "congiura del silenzio" sulle foibe. Stando così le cose (e tutti i lettori hanno potuto verificare che esse stanno realmente così), viene da chiedersi come mai nessuna autorevole voce italiana, nessun istituto storico, nessun singolo studioso degli avvenimenti locali sia intervenuto a smentire le infondate affermazioni avanzate da questa "indagine storico-giornalistica", per il doveroso rispetto verso i nostri fratelli assassinati allora (e oggi ingiustamente presentati come borsaneristi, millantatori, incendiari di villaggi, rastrellatori di popolazioni civili e terroristi eversori come quelli delle brigate rosse) nemmeno quando l'autrice di Operazione foibe a Trieste, interpretando questo silenzio come una tacita approvazione delle sue tesi, ha avuto l'imprudenza di autoincensare, sul quotidiano locale, le proprie qualità di ricercatrice storica. La spiegazione di questi silenzi, agghiacciante nella sua lapidaria verità, è la stessa che il prof. avv. Giulio Vignoli, titolare della cattedra di Diritto delle 29 C. Cernigoi, Operazione Foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al neoirredentismo, Edizioni Kappa Vu, Trieste 1997.
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comunità europee dell'università di Genova, diede al presidente dell'Unione degli istriani, che gli aveva chiesto un parere sui motivi per cui lo Stato italiano non avesse ancora concesso agli esuli istriani alcun riconoscimento, neppure formale, per la tragedia che li aveva allontanati dalla loro terra. Il professore, come si può leggere nel "Notiziario della Libera Provincia d'Istria in esilio" del novembre-dicembre 1996, crudamente rispose: “Piantatela una buona volta di chiedere riconoscimenti a questa Repubblica che non li darà mai, non può darveli. La Repubblica Italiana dice di essere nata dalla resistenza e dalla vittoriosa guerra di liberazione ove i comunisti ebbero parte preponderante. Come potete pensare che questo Stato si accorga di Voi esuli istriani che siete invece la prova vivente dell'inconsistenza del suo mito fondante? E cioè che la guerra fu persa e tre province perdute. E che i comunisti non erano liberatori”. Gli assassinati nelle foibe, i massacrati nelle fosse comuni, coloro che furono fatti morire di fame e di malattie nei campi di sterminio jugoslavi, sono anche essi inoppugnabili prove materiali della sconfitta, della politica antinazionale dei comunisti e dei loro crimini, insomma dell'inconsistenza del mito fondante della nostra Repubblica. Perciò essi possono venir vilipesi impunemente e nessuno è intervenuto a ristabilire la verità. L'intervento sarebbe stato "politicamente scorretto" e per esso, in futuro, si sarebbero potute pagare delle conseguenze. È molto meglio che gli assassinati siano dimenticati e quando i loro miseri resti riaffiorano dalle fosse comuni o dalle foibe, è preferibile che se ne rimangono lì, anziché provvedere a dare loro una cristiana sepoltura. Al ritorno in Patria di queste povere salme, infatti, gli italiani potrebbero chiedersi chi furono i loro uccisori, che cosa facevano degli italiani in questi paesi stranieri, e scoprire che anche noi italiani abbiamo avuto i nostri Caino e che quei paesi non erano affatto stranieri ma etnicamente italiani da duemila anni.30 1.2 Negazionismo e riduzionismo Speculare a quella del genocidio nazionale è la tesi che vede nelle violenze dell'autunno del 1943 e della primavera del 1945 nient'altro che il prodotto di atti di giustizia nei confronti di criminali di guerra e, più in generale, di fascisti puniti per le loro responsabilità criminali e politiche. Tale versione, immediatamente formulata ancora nel corso della guerra e subito dopo da esponenti del Movimento di liberazione jugoslavo e del governo di Belgrado, 30
G. Rustia, Contro operazione Foibe a Trieste, Associazione Famiglie e Congiunti dei Deportati in Jugoslavia e Infoibati, Trieste 2000, pp. 214-215.
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ha fornito poi le linee guida per i percorsi interpretativi della storiografia jugoslava, accompagnandosi in genere a valutazioni riduttive del numero degli uccisi e al sistematico confronto con i crimini di ben più ampia portata commessi dai fascisti italiani contro sloveni e croati. L'intento di un simile impianto controversistico è del tutto evidente: ridurre la vicenda delle foibe a un episodio marginale, in nulla diverso dalle violente reazioni che ovunque in Europa si scatenarono contro i nazifascisti al momento del tracollo del potere germanico, e comunque prodotto quasi inevitabile della precedente oppressione italiana. In molti interventi tale schema diviene apertamente giustificazionista degli eccidi, in altri invece la presa di distanza, sul piano morale, da taluni "eccessi" compiuti, rimane comunque nettamente subordinata alla denuncia dell'uso politico della questione delle foibe compiuto dai nazionalisti italiani. Deriva da ciò la tendenza a considerare spesso in maniera indifferenziata, come provocazioni politiche da respingere a priori, non solo le frequenti riprese del tema del "genocidio nazionale", ma anche l'insistere della ricerca storica su di una tematica ritenuta di per sé affatto strumentale. Per chi voglia approfondire, oltre ai testi dai quali sono tratti i brani citati, si vedano i diversi interventi di S. Pahor, apparsi soprattutto sulla stampa giuliana e slovena, e in particolare “Un contributo alla verità sulle foibe”, in "Isonzo-Soca", 1990, n. 2; si vedano inoltre i numerosi contributi di C. Cernigoi, fra i quali si segnalano il già citato Operazione foibe a Trieste, con prefazione di S. Volk, Trieste 1997 e La "foiba" di Basovizza, supplemento al n. 157 del periodico "La nuova alabarda e la Coda del Diavolo", Trieste, marzo 2002. In tali opere largo spazio viene riservato dagli autori alla confutazione dei conteggi degli infoibati tradizionalmente proposti dagli ambienti nazionalisti italiani, e, in particolare, viene messo in discussione il fatto stesso che nel pozzo della miniera di Basovizza siano stati compiuti infoibamenti di italiani, considerando il fatto un "falso storico" Molto diverso per tono e spessore storiografico da tali contributi polemici è il libro di M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli e Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964, che costituì uno dei primi tentativi della storiografia italiana di sinistra di affrontare complessivamente la storia della frontiera orientale italiana. All'interno di una ricostruzione dei conflitti nazionali che prendeva le mosse dall'epoca asburgica, Pacor dedicò alla repressione del 1945 alcune intense pagine, nelle quali la denuncia di "dolorosi, deplorevoli eccessi" si accompagnava al tentativo di circoscriverne nettamente la portata all'azione di alcuni quadri imbevuti di nazionalismo e stalinismo, con l'evidente
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intento di scagionare da qualsiasi responsabilità l'insieme del movimento partigiano comunista jugoslavo. Relazione del prof. Urban (Anton Vratusa) al CLNAI del 16 luglio 1944 Nel corso dell'estate del 1944 Anton Vratusa, delegato dell'OF presso il PCI, partecipò a una serie di riunioni con i rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale dell'alta Italia (CLNAl) per discutere il problema della collaborazione tra partigiani italiani e sloveni nella Venezia Giulia. All'incontro svoltosi a Milano il 16 luglio, Vratusa presentò una relazione nella quale, fra l'altro, prendeva atto dell'impatto negativo che le foibe istriane avevano avuto sui rapporti tra gli antifascisti italiani e quelli sloveni, sostenendo però l'assoluta irrilevanza degli episodi di sangue a fronte della solidarietà mostrata dalla popolazione slovena nei confronti delle truppe italiane in fuga dopo l'8 settembre, e deducendone la necessità di non dar credito alla propaganda fascista. Naturalmente Vratusa, che rappresentava solo il Fronte di liberazione sloveno e non l'intero movimento partigiano jugoslavo, come erroneamente avevano ritenuto i delegati italiani, trascurò di far cenno ai fatti tragici, ed erano la larghissima maggioranza, verificatisi nei territori istriani di competenza dei partigiani croati.31 È nostro dovere comune di togliere questa gente scettica dall'influenza fascista […] di metterli sul campo della fattiva collaborazione, di eliminare in loro [..] pregiudizi, spiegando fra l'altro che le singole irregolarità verificatesi nei giorni del settembre 1943 non hanno niente a che fare coi fini del popolo sloveno […] OF, perché non sono che fenomeni marginali dovuti in maggioranza a singoli elementi irresponsabili, venuti nelle file dell'OF appena nei giorni dopo il crollo dell'esercito imperiale La reazione cercherà anche di sfruttare ancora le foibe, affermando che allora si tentò di distruggere gli italiani dell'Istria e che quella fu la manifestazione di uno sciovinismo croato. Noi sappiamo benissimo che nelle foibe finirono non solo gli sfruttatori e gli assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l'espressione dell'odio popolare compresso in decenni di oppressione e di sfruttamento, che esplose con la caratteristica violenza delle insurrezioni popolari3233
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Dichiarazione della sezione "italiana" del comitato centrale del Partito comunista croato del 28 agosto 1944. 32 Dichiarazione pubblicata il 7 maggio 1954 sul settimanale goriziano "L'Arena di Pola" 33
Il testo della relazione è conservato presso l'archivio dell'IRSML, b. 3, doc. 242
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La nota jugoslava del 9 giugno 1945 Il 9 giugno del 1945 il governo jugoslavo, quello britannico e quello americano raggiunsero a Belgrado un accordo che delimitava le rispettive zone di occupazione nella Venezia Giulia, ponendo così le premesse per il ritiro delle truppe jugoslave da Trieste e Gorizia. Contestualmente alla fine dell'accordo il governo di Belgrado emise una nota nella quale, fra l'altro, dichiarava di non aver deportato dall'area precedentemente occupata né beni né persone. Tale formula era stata suggerita dall'ambasciatore britannico, Stevenson, per superare l'impasse in cui si era arenato il negoziato, dal momento che una prima formulazione del testo dell'accordo, redatta da parte alleata, prevedeva l'impegno jugoslavo alla restituzione di tutti i deportati, cittadini italiani alla data del 1939, nonché delle proprietà confiscate. Ciò però avrebbe comportato un'ammissione di colpa, che il governo di Belgrado non intendeva in alcun modo esprimere. Il governo jugoslavo si avvale di questa opportunità per dichiarare che nell'area [di Trieste, dell'Istria e del litorale sloveno] da parte delle autorità jugoslave non furono effettuati né confische di beni, né deportazioni, né arresti, salvo che sul terreno della sicurezza militare e ciò solamente quando si trattò di persone note come esponenti fascisti di primo piano o criminali di guerra.34 La nota jugoslava del 7 dicembre 1945 La nota è la risposta del governo jugoslavo alle proteste alleate per gli arresti eseguiti a Trieste e Gorizia formulate con la nota consegnata al governo di Belgrado dai rappresentanti diplomatici della Gran Bretagna e degli Stati Uniti il 23 ottobre 1945. In tale occasione era stata consegnata alle autorità jugoslave anche una lista di 2472 nominativi di scomparsi dalla zona A, alla quale si fa riferimento nel testo qui pubblicata. La lista che è stata allegata alla summenzionata nota e che avrebbe dovuto corroborare l'affermazione secondo la quale il governo di Belgrado aveva violato l'articolo 6 dell'Accordo di Belgrado, dimostra essa stessa in maniera più che definitiva che in realtà quanto è accaduto non è stata una violazione dell'articolo 6 del summenzionato Accordo, bensì un tentativo compiuto da alcuni italiani di ingannare l'opinione pubblica mondiale, nonché un'inaudita forma di propaganda politica, che è stata avviata dagli stessi italiani contro la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia. 34
La nota è allegata al messaggio 876 dell'ambasciatore britannico Stevenson al Foreign Office del 9 giugno 1945, conservato in PRO, FO 371/48820/R 9932/6/92
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Si può facilmente rilevare che nella lista sono stati inseriti i nomi di molte persone che non hanno niente a che vedere con l'Accordo di Belgrado. A mero titolo di esempio possono essere citati i seguenti casi di persone incluse nell'elenco, [per ogni punto l'originale riporta il riferimento ai casi individuali, con la posizione ricoperta nella lista] Alcune centinaia di persone che, come risulta dallo stesso elenco sono residenti nella zona B, sotto amministrazione jugoslava; molti cittadini jugoslavi provenienti dalla stessa Jugoslavia; un certo numero di tedeschi, militari o collaboratori dell'organizzazione Todt; molte centinaia di italiani nati o provenienti dall'Italia, al di là della zona A; soldati regolari dell'esercito italiano caduti in combattimento o presi prigionieri; Domobranzi (soldati del cosiddetto Stato Indipendente Croato) al servizio del nemico, caduti o ritiratisi in Austria assieme alle truppe tedesche; scomparsi nel 1943 e 1944, prima dell'ingresso delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia, mentre era in corso la lotta partigiana; persone di cui non è riportata la data della presunta deportazione e che si possono ritenere scomparse; persone che sono state inserite per due volte nell'elenco; persone che secondo le informazioni disponibili si sono trasferite liberamente […]; persone che servirono nell'esercito della RSI e nelle SS e alcune delle quali sono già state condannate, e che probabilmente o si sono nascoste nella zona A o in Italia per sfuggire alla giusta punizione, ovvero risultano prigionieri di guerra; prigionieri di guerra che sono già stati restituiti dalle autorità jugoslave a quelle alleate; alcune persone che si trovano ancora nel campo di concentramento di Buchenwald, in attesa di rimpatrio. Tutti questi esempi provano a sufficienza, anche senza ulteriore documentazione, che l'accluso elenco di pretesi deportati è di per sé del tutto inaffidabile e che i casi citati non rientrano nelle categorie di persone che il governo jugoslavo è in obbligo di restituire ai sensi dell'Accordo di Belgrado. A parte ciò, le persone enumerate nell'elenco e che non rientrano negli esempi menzionati, possono senza eccezioni venir classificate o come fascisti che caddero o disparvero nel corso della lotta partigiana e delle operazioni dell'armata jugoslava nella Venezia Giulia, ovvero come criminali di guerra dei quali il popolo stesso ha disposto al momento della sua liberazione. Molti giornali italiani hanno gettato qualche luce su di alcuni di questi cosiddetti deportati. [...] È ovvio che il governo jugoslavo non può essere considerato responsabile del destino di tali persone, che hanno combattuto dalla parte dei tedeschi o che furono esponenti germanici e che probabilmente sono periti nel corso delle operazioni belliche. [..]. Nei quaranta giorni della loro occupazione, i comandi militari jugoslavi e le autorità civili slave e italiane da essi riconosciute, condussero una politica
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che, se aveva per presupposto l'annessione alla Jugoslavia, ostica a una parte della popolazione italiana, deve tuttavia essere riconosciuta, obiettivamente, assai corretta e civile. [...]. Se dolorosi, deplorevoli eccessi vi furono - e in gran parte sono stati allora e poi ingigantiti dalla propaganda politica avversaria -essi vanno attribuiti prevalentemente alla durezza di qualche quadro politico permeato di concezioni e metodi di tipo stalinista, in particolare nell'ambito della polizia politica, l'OZNA, e della Guardia del popolo, che pure era costituita da elementi coscienti locali, ma nella quale si infiltrarono anche avventurieri, come sempre accade in formazioni simili e in analoghi momenti. Quella caccia al fascista e quella eliminazione violenta di fascisti e collaborazionisti più o meno responsabili di violenze e abusi, che in Emilia, in Lombardia e nel resto dell'Italia settentrionale durò per qualche settimana dopo il 25 aprile, qui ebbe un carattere alquanto diverso. Agli operai che volevano agire in tal senso fu impedito di farlo, per il buon nome dell'esercito di occupazione e delle autorità legali, ma la repressione fu invece condotta, appunto, dai predetti organismi, con discutibili concetti di difesa statuale e rivoluzionaria.35 Paolo Parovel, Le foibe sono le fondamenta del razzismo antisloveno L'articolo di Parovel deve essere inquadrato nell'ambito delle forti reazioni suscitate nella sinistra e in numerosi ambienti sloveni dal pellegrinaggio di una delegazione del PCI alla foiba di Basovizza, compiuto nell'agosto del 1989 come segno di rottura nei confronti dell'atteggiamento precedentemente tenuto dal partito sull'argomento. Deve essere sottolineato in particolare il passo in cui si rileva che alcuni fra gli italiani arrestati nella primavera del 1945 erano sì antifascisti, ma allo stesso tempo "capi nazionalisti e antijugoslavi", il che suona a giustificazione neanche tanto implicita della politica repressiva jugoslava. L'iniziativa dei dirigenti del PCI triestino […] avrebbe bisogno secondo me di una spiegazione molto più approfondita di quella finora diffusa con generici richiami a retorici irenismi e future ricerche storiche "in un mondo migliore". In questo mondo reale, qui e oggi, su questo confine, le cosiddette foibe sono le basi psicologiche e propagandistiche di un molto pericoloso razzismo nazionalistico antisloveno. Le ricerche storiche già esistono e offrono la possibilità per chiare prese di posizione politiche e morali. [...]. Proverò a riproporre le informazioni finora disponibili in base a documenti che sono a disposizione di ciascuno. [...]. 35
La nota jugoslava è in PRO, FO 371/48951/R 21301/15199/92, la nota alleata in PRO, FO 371/48951/18659/R 15199/92
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Istria settembre 1943: 300 giustiziati e sepolti nelle grotte. Fu un atto di guerra contro nemici molto più crudeli, come ogni atto di guerra sicuramente ha colpito anche alcuni innocenti e causato anche violenze ingiustificate. I servizi di propaganda nazisti e fascisti della X MAS (anche i loro nomi sono noti) hanno organizzato una riesumazione propagandistica come mezzo di pressione per il formarsi di un "fronte comune" di tutti gli italiani contro gli slavi. Qui si formarono gli slogan "degli innocenti uccisi solo perché italiani" o di un disegno "genocida" progettato dagli "slavocomunisti". Nell'aprile 1945 i dossier sull'operazione foibe furono trasmessi agli angloamericani e poi usati in operazioni anticomuniste, principalmente tra gli esuli dell'Istria. Nella zona liberata dai partigiani jugoslavi era intanto in corso la purga dei fascisti e collaborazionisti italiani, sloveni e croati, con processi militari in base a testimonianze e denunce. Gli arresti furono migliaia, circa duemila i confinati, tra cui anche alcuni italiani antifascisti, ma allo stesso tempo capi nazionalisti e antijugoslavi. Anche allora purtroppo furono implicati alcuni innocenti, si arrivò a vendette personali, che però i partigiani punivano severamente. Tra la popolazione di questi luoghi ci furono circa 500 morti, giustiziati o morti in carcere, su quasi un milione di persone, di cui più della metà sloveni e croati, a cui il nazifascismo aveva causato quarantacinquemila morti, duemila invalidi, novantacinquemila arrestati, internati o deportati, sedicimila case distrutte, nel solo periodo 1941-45, senza contare le vittime del ventennio fascista. Anche qui, come in Italia (ad es. Cansiglio) e in altre parti, le foibe vennero nuovamente usate come fosse comuni, per parte dei giustiziati. Le foibe di Basovizza e Opicina furono la fossa di circa 900 militari tedeschi e fascisti, morti negli ultimi combattimenti attorno a Opicina e Basovizza. A Basovizza finì anche parte dei giustiziati. È invece provato che la maggior parte dei reclusi e deportati furono poi rilasciati e che tornarono a casa da soli. Molta gente, che li vide accompagnati in lunghe file e non li vide tornare, pensava che fossero stati "infoibati". Su questa base gli alleati e i servizi italiani rilanciarono l’”operazione foibe” su esempio dello stesso schema propagandistico.36 2. Tentativi di storicizzazione I primi tentativi per giungere a una storicizzazione del fenomeno delle foibe risalgono agli anni sessanta; fu quello il periodo in cui apparvero alcuni primi contributi critici, per opera principalmente di storici facenti capo all'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia. 36
Art. uscito in "Primorskij Dnevnik" il 17 agosto 1989
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In particolare, agli eventi dell'autunno del 1943 vennero dedicate alcune pagine cruciali, qui riprodotte, del libro di Galliano Fogar “Sotto l'occupazione nazista nelle province orientali d'Italia”,37 che rappresentò per lungo tempo la più equilibrata sintesi della vicenda. Sulla primavera del 1945 si concentrò invece l'attenzione del libro di Ennio Maserati L'occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945),38 nel cui ambito venne dato puntualmente conto degli arresti compiuti dalle autorità jugoslave. Galliano Fogar, Sotto l'occupazione nazista nelle province orientali d'Italia Nelle vicende giuliane del 1943, l'occupazione partigiana slava di una parte della regione, del settembre-ottobre, è un avvenimento rilevante per le conseguenze di carattere politico, nazionale, militare che esso determina, specie in Istria, che sin da allora viene praticamente avulsa dal territorio nazionale. In Istria la situazione diventa gravissima sia per la spietata reazione tedesca della prima metà di ottobre, che provoca lutti numerosissimi fra la popolazione civile e distruzioni immani con il sistema della rappresaglia indiscriminata e della "terra bruciata"; sia per le violenze di alcuni esponenti partigiani slavi che suscitano il terrore fra gli abitanti italiani delle zone colpite (ed è forse questo uno dei risultati psicologici che essi vogliono raggiungere). Questi fatti hanno negative ripercussioni sui rapporti fra Resistenza italiana e slava. Uno degli aspetti più gravi degli avvenimenti in Istria di quel periodo, l'eccidio di alcune centinaia d'italiani che sono fucilati o scaraventati nelle voragini carsiche ("foibe") dopo sommari processi, ha il carattere di una rappresaglia brutale, aizzata da alcuni croati autoctoni che vogliono indirizzare l'insurrezione partigiana sul binario di una rivincita nazionale e sociale contro l'Italia e la sua odiata classe dirigente "borghese", terriera, burocratica, alimentando nei contadini slavi la speranza di un totale e rapido capovolgimento di posizioni da cui il dominatore tradizionale deve uscire battuto per sempre. È la lotta di classe identificata con quella nazionale per cui nazionalismo e socialismo diventano sinonimi nella guerra al nemico italiano. Uno degli obiettivi che alcuni dirigenti slavi vogliono conseguire, il più presto possibile, è la distruzione della classe dirigente istriana, quasi tutta di origine italiana, oltre che il passaggio agli slavi delle terre dei proprietari "fascisti", in modo da assicurarsi il controllo totale del potere. 37 G. Fogar, Sotto l'occupazione nazista nelle province orientali d'Italia, Del Bianco, Udine 1968. 38 E. Maserati, L'occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945), Del Bianco, Udine 1963.
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In alcune zone, ogni limite di un programma così radicale sarà presto superato. La politica di forza, anche per l'intervento di elementi sciovinisti e di vendicatori di torti personali, con i suoi metodi "rivoluzionari", si abbatterà talora indiscriminatamente su tutto il gruppo etnico italiano, aggredendolo anche nei sentimenti nazionali, nelle tradizioni morali, civili, nel costume. È la stessa presenza italiana in Istria che viene minacciata a fondo e non può essere diversamente quando ci si propone di risolvere secolari e complessi problemi di "nazionalità e di "civiltà" con la imposizione violenta di nuovi "sistemi", con l'inquadramento forzato di una popolazione di altro ceppo in una nuova realtà nazionale e sociale. Ciò malgrado, la responsabilità delle violenze e delle uccisioni indiscriminate ricade generalmente sulla volontà, sulla tolleranza o sulla complicità di singoli dirigenti politici e militari, talora improvvisati, che lungi dal comportarsi come “soldati pionieri di libertà e di giustizia” furono apportatori di persecuzioni informando il loro atteggiamento a quello di “puri nazionalisti slavi”, o su gruppi di estremisti. Quasi mai può essere attribuita collettivamente alle popolazioni slave locali che nella loro maggioranza, pur appoggiando l'insurrezione partigiana, aiutano i numerosi militari italiani sbandati o in ritirata, facile preda per qualunque avversario. In alcuni dei protagonisti di questa rivincita slava, la passionalità e il disprezzo assoluto per la vita umana, si accoppiano a istinti politici elementari che non accettano distinzioni che non siano quelle di nazionalità. La domanda “siete italiano, siete fascista?” corre sulle bocche di alcuni accusatori. Il piano di epurazione sbrigativa che essi si sono proposti è anche il prodotto fatale di una mentalità esasperata da vent'anni di repressioni fasciste, di odi a lungo covati, di prolungate miserie sociali e dell'aggressiva propaganda nazionalistica dei gruppi politici slavi: è la risposta - comunque non ammissibile - alla soluzione fascista che per molti slavi significava solo “italiana” è la reazione all'invasione della Jugoslavia e alle notizie allarmanti sull'occupazione italo-tedesca della Balcania.39 2.1 L'eccesso di reazione Nel corso degli anni settanta si segnala un grappolo di contributi che segnarono una nuova tappa nella disamina della questione delle foibe, ancora una volta sotto la spinta di esigenze polemiche. La celebrazione infatti in quegli anni del processo per i crimini della Risiera di San Sabba offrì lo spunto per un accostamento fra Risiera e foibe, in genere proposto dagli ambienti della destra locale, che suscitò la reazione, fra gli altri, degli storici facenti capo 39
G. Fogar, op. cit., pp. 65-67
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all’IRSLM. È infatti proprio sulla rivista dell'istituto che comparve l'intervento di Giovanni Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante, che può considerarsi il manifesto del filone interpretativo che potremmo sinteticamente chiamare dell'”eccesso di reazione”. L'elemento di fondo di tale proposta è infatti rappresentato dall'inserimento degli episodi del 1943 e del 1945 all'interno di una più lunga storia di sopraffazioni e di violenze, iniziata con il fascismo e con la sua politica di oppressione della minoranza slovena e croata, proseguita con l'aggressione italiana contro la Jugoslavia e culminata con gli orrori della repressione nazifascista contro il movimento partigiano. Le esplosioni di violenza dell'autunno del 1943 e della primavera del 1945 quindi non risulterebbero pienamente comprensibili se non le si ponesse in rapporto con l'accumulo di tensioni verificatosi negli anni del fascismo e giunto al parossismo durante il periodo bellico, attraverso lo scontro senza quartiere fra guerriglia e antiguerriglia. In ultima analisi perciò, le foibe si prestano a venir lette come un fenomeno di reazione, come una resa dei conti brutale e spesso indiscriminata compiuta da parte di popolazioni oppresse e stremate nei confronti dei loro persecutori. Un'analisi del genere ha consentito da un lato di recuperare lo spessore storico degli eventi descritti, dall'altro di mettere in luce un aspetto, quello della "risposta", sicuramente ben presente e operante fra le spinte che stanno alla radice delle uccisioni su larga scala. Inoltre, risulta bene illuminato il ruolo di cesura svolto dalla seconda guerra mondiale e in particolare dalla guerra tedesca all'est, entro la quale si inserì anche la campagna di Jugoslavia, con tutte le sue conseguenze, un conflitto che fin dalle sue origini fu guerra di sterminio, capace quindi di sprigionare una carica di violenza fino a quel momento impensabile. È difficile concepire le stragi delle foibe senza l'educazione alla violenza di massa compiuta nell'Europa centro-orientale a partire dal 1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne seguì. Tuttavia, interpretare complessivamente il fenomeno delle foibe come prodotto di un eccesso di reazione, è una scelta che presenta alcuni limiti di non poco conto. Per esempio, la volontà di confutare come ideologica e strumentale la tesi del disegno preordinato di sterminio degli italiani, ha condotto a una sottolineatura talvolta unilaterale della "spontaneità" popolare che avrebbe contraddistinto le esplosioni di violenza, e alla negazione quindi dell'esistenza, a monte delle uccisioni su larga scala, di qualsiasi disegno organico di persecuzione politica. Ad accentuare gli aspetti spontanei e quindi il carattere di irrazionale vendetta degli episodi del 1943 e del 1945, ha concorso però, con tutta
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verosimiglianza, anche uno scrupolo di natura diversa, probabilmente connesso all'ammirazione a lungo nutrita all'interno della sinistra per l'esperienza e per il modello resistenziale jugoslavo: e cioè, lo scrupolo di evitare generalizzazioni, ritenute indebite, delle aspre critiche suscitate dall'oscura pagina del maggio-giugno 1945, attraverso lo sforzo di circoscriverne la portata a quella di un passaggio doloroso ed esecrabile, ma tutto sommato marginale, nell'ambito del processo di costruzione, considerato per molti versi esemplare, del nuovo stato socialista jugoslavo. Così facendo però, sono stati lasciati da parte tutta una serie di dati di fatto, che, come si è visto nella parte introduttiva, non sembrano in verità riconducibili all'improvviso fiammeggiare di una vampata di furore, ma che si configurano piuttosto come passaggi essenziali di una ponderata strategia di annichilimento del dissenso. Con la produzione storiografica degli anni settanta, che di fatto si è prolungata per certi aspetti e in alcuni autori sino agli inizi degli anni novanta, si è pervenuti quindi a una storicizzazione a metà del fenomeno delle foibe, che se lumeggia bene il suo carattere di anello di una lunga catena di sopraffazioni, non riesce d'altro canto a cogliere fino in fondo i suoi rapporti con il contesto politico in cui i fatti concretamente si produssero. Per chi voglia approfondire, oltre ai testi qui citati vedi: C. Colummi, Guerra, occupazione nazista e resistenza, in C. Colummi, L. Ferrari, G. Nassisi, G. Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Udine 1980; e soprattutto i numerosi interventi di G. Fogar: Foibe e deportazioni nella Venezia Giulia. A proposito di un servizio di "Storia Illustrata", in "Qualestoria", IX (1983), n. 3; Venezia Giulia 1943-1945: problemi e situazioni, in "Metodi e ricerche", Vili (1989), n. l; Venezia Giulia 1943-1945. Precisazioni e riflessioni, in "Qualestoria", XIX (1993), n. 3. Vedi anche la trascrizione del dibattito svoltosi su RAI 2 il 10 febbraio 1987, pubblicata da "Difesa Adriatica" nei numeri del 25 febbraio, del 10 e del 25 marzo del medesimo anno, che ebbe quali principali antagonisti G. Fogar e A. Pitamiz, autore del servizio dal titolo Tutta la verità sulle foibe. 1943-1945. Si veda anche Le stragi di italiani in Venezia Giulia, Fiume, Istria e Dalmazia, pubblicato nei numeri di maggio e giugno 1983 della rivista "Storia Illustrata". A tale filone è riconducibile anche, per il suo impianto interpretativo generale, il documentatissimo articolo di G. Scotti, esponente della minoranza italiana in Istria e a Fiume, pubblicato con il titolo Foibe e fobie su "Il ponte", numero speciale, febbraio 1997, e dedicato agli eventi istriani del 1943. Giovanni Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante
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Un discorso va fatto, con estrema precisione e chiarezza, riguardo al sistematico accostamento tra la Risiera e le foibe, portato avanti con numerosi interventi dal "Piccolo" e dai gruppi della destra locale. Ed è un discorso di netto e radicale rifiuto di tale accostamento, perché Risiera e foibe sono due fatti sostanzialmente e qualitativamente diversi, e perciò assolutamente incomparabili tra loro. La premessa di un tale giudizio non sta nel distinguere le responsabilità di chi è morto - come pur si deve e si dovrà, in un'analisi complessiva di quelle vicende - ma nell'individuare e quindi nel distinguere gli ambienti e le ideologie e le circostanze grazie ai quali quei determinati fatti hanno potuto prodursi. La Risiera è il frutto razionale e scientificamente impostato dell'ideologia nazista, che come ha prodotto Belzec e Treblinka, e Auschwitz e Mauthausen, e Sobibor e Dachau, così ha prodotto la Risiera, e l'ha prodotta qui, ha potuto produrla qui perché, per fini ai quali doveva rispondere, ha trovato compiacenti servizi in ambienti largamente predisposti dal fascismo. Le foibe (quando non si tratti, come spesso si è trattato di un modo di "seppellire" dei morti altrui: vi ricorsero i partigiani, vi ricorsero tedeschi e fascisti e anche questa è una pagina in gran parte ancora da indagare, per evitare facili e troppo frequenti generalizzazioni e amplificazioni) sono la risposta, che può essere sbagliata, irrazionale e crudele, ma pur sempre risposta alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica cui per più di vent'anni lo Stato italiano (il fascismo, si dirà, ma il fascismo aveva il volto dello Stato italiano) aveva sottoposto le popolazioni slovene e croate di queste zone. È assurdo parlare, riferendosi a esse, di genocidio o di programmazione sistematica di sterminio, ma di scoppio improvviso di odii e rancori collettivi a lungo repressi. Le foibe istriane del settembre 1943, connesse allo sfasciarsi di ogni struttura politica e militare dello Stato italiano (varie centinaia gli infoibati secondo un rapporto abbastanza preciso proveniente dai vigili del fuoco di Pola), corrispondono a una vera e propria sollevazione contadina, improvvisa e violenta come tutte le sollevazioni contadine: colpisce i "padroni" - classe contro classe - perché padroni, padroni che sono anche italiani, italiani che per essere tali sono "padroni", gli oppressori storici di sempre. Le foibe dell'aprilemaggio 1945, dove finirono quanti vennero presi e giustiziati sommariamente in quella furia di vendetta che sempre accompagna i trapassi violenti di potere, si inquadrano ancora, almeno in parte, in questo contesto: non vi furono giustiziati solo fascisti e nazisti per i crimini che avevano commesso e per l'odio che avevano suscitato (i calcoli del sindaco G. Battoli, che sembrano peccare eventualmente per eccesso, elencano quattromila scomparsi, ma tra costoro sono compresi anche i caduti nelle azioni belliche locali tra il
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'43 e il '45); vi furono certamente coinvolte anche persone che con il fascismo poco o nulla avevano a che fare: è ragionevole pensare che vi furono coinvolte perché si trattava di italiani. Ma anche qui non si può dimenticare che un tale odio e una tale reazione trovano la loro ragione di fondo e la loro motivazione oggettiva in ciò che fu il fascismo di queste terre, nelle violenze squadristiche, nelle vessazioni, nelle uccisioni, nei villaggi sloveni e croati incendiati, in quell'odio antislavo insomma che è componente anche degli stermini della Risiera e che fu truce prerogativa del fascismo e del collaborazionismo nostrano. Non si possono insomma confondere, né moralmente né storicamente, oppressori e oppressi, nemmeno quando questi prendono il sopravvento e si vendicano talvolta anche selvaggiamente. E se un collegamento tra i due momenti si vuole stabilire esso sta semmai nella perversione dei rapporti, nell'imbestiamento dei costumi, nello stravolgimento dei valori, prodotto dal fascismo e dal nazismo, che non lasciarono indenni, non potevano lasciare indenni, nemmeno coloro che essi opprimevano (così come, più in generale, si può affermare che è una ben stolta illusione pensare che l'Italia fascista non sia riuscita anche a intaccare, coinvolgere, in qualche modo corrompere quell'Italia che pur fascista non era né voleva diventarlo: non si parla, sia chiaro, dei singoli, ma del costume, dei rapporti sociali, dell'insieme della collettività. Solo avendo ben chiare queste premesse si può parlare delle foibe: e se ne parli e se ne discuta, finalmente, e si indaghi con serietà sulla realtà dei fatti e delle circostanze, anche per mettere fine alle sporche strumentalizzazioni di chi di quegli odii, da cui anche le foibe sono nate, è primo responsabile: per inquadrarle anch'esse, così come vanno inquadrate, tra gli esiti del fascismo e il conseguente scatenarsi degli odii nazionali. Ma è aberrante e grave l'ipotesi di un processo oggi (auspicato più volte sul "Piccolo" e annunciato come certo in un recente numero del "Meridiano"), dopo tutti i processi degli anni cinquanta (comodamente dimenticati da chi si fa promotore di una tale iniziativa: è la Risiera che non aveva mai avuto un processo, non le foibe, che di processi ne hanno avuti decine, e spesso forzati e immediatamente strumentali alle lotte e alle manovre politiche di allora), che si vorrebbe affiancare al processo della Risiera: perché è un processo che nascerebbe appunto, di fatto e nella volontà dei suoi promotori, come contraltare dell'altro, in un accostamento storicamente e moralmente infondato se non, ancora una volta, da un punto di vista nazionalista e fascista: un processo non a un'ideologia e a un sistema, e quindi occasione di crescita e di consapevolezza civile, ma un processo a una reazione irrazionale e violenta che trovava rispondenza in tensioni e lacerazioni di interi gruppi sociali, e perciò
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inevitabilmente aperto, per gli equivoci gravi da cui nascerebbe, alla strumentalizzazione fascista e nazionalista. È una prospettiva questa, vogliamo crederlo, che nessuna delle forze democratiche vorrà permettere, a rischio di produrre ancora una volta quelle spaccature, quelle lacerazioni e quelle contrapposizioni grazie alle quali in queste terre il neofascismo ha potuto riprendere a prosperare anche nel dopoguerra.40
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G. Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante, in "Bollettino dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia", IV(1976), n. 1, pp. 1-4
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Galliano Fogar, Foibe e deportazioni. Nodi sciolti e da sciogliere Alla penna di Galliano Fogar si deve il maggior numero di contributi sulle foibe nel corso di un ventennio e, nel contempo, il tentativo più coerente di articolare la tesi dell'"eccesso di reazione" in un'analisi storica di ampio respiro, capace di misurarsi. anche con gli aspetti fortemente contraddittori del fenomeno e corroborata da una puntuale conoscenza delle fonti, che ha frequentemente consentito all'autore di smontare le affermazioni più eclatanti della storiografia nazionalista, in particolare per quanto riguarda le cifre, spesso iperboliche, degli infoibati e l'effettiva individuazione di un enorme numero di corpi in alcune cavità carsiche, come il pozzo della miniera di Basovizza e la foiba di Monrupino. I brani che seguono sono tratti da uno degli ultimi saggi dedicati all'argomento dall'autore che, pur rifacendosi esplicitamente alle tesi di Miccoli (nella parte qui non pubblicata per brevità) riconosce anche l'esistenza di atti di persecuzione mirata e quindi, nelle vicende del 1945, di aspetti di violenza di "regime". Veniamo rapidamente alle tesi e interpretazioni sul controverso problema delle foibe e deportazioni. [...] C'è anche una variante, come dire, integrativa [alla tesi dello "sterminio etnico"], che stabilisce categoricamente che è falso parlare di "innocenti" uccisi assieme a fascisti e nazisti. Tutte le vittime erano innocenti perché "antifasciste" ma contrarie alle rivendicazioni jugoslave. Per una parte gli uccisi sarebbero stati solo fascisti e delatori, per l'altra antifascisti innocenti. Ora se tutte le vittime erano antifascisti innocenti, migliaia di innocenti come si sostiene, si dovrebbe concludere che a questa categoria appartenevano anche le milizie di Salò, i torturatori dell'Ispettorato speciale, delle federazioni fasciste, le centinaia di collaboratori civili del comando SS e del Gauleiter Rainer (accertati dal processo sui crimini nazisti alla Risiera di San Sabba). L'antifascismo organizzato dal CLN di Trieste nel periodo clandestino si trovò a un certo punto, per una serie di sfavorevoli circostanze, che qui ometto per brevità, isolato e largamente minoritario rispetto a quello jugoslavo e comunista sostenuto dalle forti unità partigiane del retroterra e dalla maggioranza della classe operaia. Potenzialmente aveva, per le sue motivazioni nazionali unitarie, una rappresentatività notevole specie fra i ceti piccolo e medio borghesi che però rimasero in larga parte assenti dalla lotta. Ciò malgrado il CLN rifiutò le proposte del prefetto e del podestà insediati dai nazisti (Coceani e Pagniti) di fare blocco con i fascisti (che dunque esistevano) in funzione antjugoslava e decise ugualmente di fare l'insurrezione per coerenza politica e per allinearsi con la resistenza insorta nelle altre parti d'Italia. La verità è che mentre una grossa parte della popolazione attendeva e sperava nella fine delle sofferenze e paure cercando di sopravvivere, ci fu in
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alcuni strati cittadini un collaborazionismo diffuso operante in varie forme e che inasprì rancori e avversioni specie fra i ceti popolari e operai italiani e sloveni, i più colpiti dalle persecuzioni sin dal periodo fascista. Come è emerso dalle fonti storiche e dal processo sui crimini della Risiera (19701976), gli stessi nazisti rimasero "sorpresi" per la gran quantità delle denunce anonime che pervenivano ai loro uffici e comandi a Trieste, sufficienti per la deportazione in Germania o l'incenerimento nel forno crematorio della Risiera. Da queste fonti e dal processo risultò che il Fascio locale, come scrisse lo stesso podestà Pagnini, “per tutta la durata dell'occupazione fece funzionare il proprio ufficio politico quale fucina di denunce firmate e ufficiali oppure anonime alle SS”; che dal comando del gen. Esposito (capo di tutte le forze fasciste della regione) partirono molte denunce contro ufficiali del regio esercito che non avevano aderito alla Repubblica di Salò con conseguenti deportazioni in Germania. Come quella dello "sterminio" etnico, della persecuzione premeditata contro gli italiani, che fa breccia in settori dell'opinione pubblica locale traumatizzati dagli eventi del 1943 e del 1945 (visti da molti come l'assalto della campagna slava, rozza e servile alle città italiane portatrici di una cultura superiore), anche la tesi che considera tutte le vittime come antifasciste innocenti, non regge. Non ci fu "sterminio" perché mancò ogni volontà o disegno preordinato di realizzarlo. Né le fonti angloamericane né quelle italiane di mia conoscenza, fatta eccezione per quelle fasciste e neofasciste antislave e anticielleniste, sostengono l'esistenza di piani del genere. Ad alimentare invece timori e sensazioni di un programmato attacco alla comunità nazionale concorse il fatto che arresti e deportazioni colpirono molti italiani nelle principali città della regione, abitate appunto in gran parte da italiani oltre che essere sedi dei principali comandi e servizi militari e polizieschi di Salò. Una reazione questa che all'epoca era comprensibile. Come ha rilevato il prof. Diego de Castro, autore di diversi libri sulle vicende triestine e istriane dell'epoca, se uno sterminio fosse stato preordinato, si sarebbero avuti a Trieste, Gorizia, in Istria, non migliaia ma decine di migliaia di scomparsi e infoibati. Quanto all'affermazione che le vittime erano tutte antifascisti innocenti, essa è smentita dagli stessi elenchi italiani finora noti. È vero invece che una parte dei deportati scomparsi o infoibati, era immune da colpe o comunque non meritevole della pena di morte. Per esempio dei 4-500 infoibati in Istria nel 1943 in gran parte italiani e di cui fu possibile con le esumazioni (206 fra cui una ventina di tedeschi) identificarne oltre 140, non pochi risultavano estranei ai soprusi e violenze del fascismo o vittime di atroci vendette personali o di atti puramente criminali. Il problema delle foibe e deportazioni del 1943 e 1945 (due eventi che a mio
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parere non possono andare disgiunti ai fini di una seria valutazione della questione delle vittime innocenti, pur con le debite specificazioni di ordine politico, ambientale e temporale), fa parte del più ampio capitolo dei rapporti fra italiani e slavi nella regione, fattore fondamentale della sua storia che si sviluppa in un complesso contesto nazionale e internazionale, dal periodo dell'Impero austroungarico alla seconda guerra mondiale. Schematizzando possiamo dire che il fascismo alterò ed esasperò questi rapporti impostandone la soluzione sul piano di una rigida centralizzazione e della violenza e negazione dell'autonoma identità nazionale delle popolazioni slovene e croate rimaste entro i nuovi confini dopo il 1918. I fascisti del "partito armato" di Giunta che aveva la sua base a Trieste, definivano queste popolazioni “quei quattro porcari che stiamo sfamando” salvo poi a denunciarli come una quinta colonna dello slavismo balcanico. La rivista "Gerarchia" di Mussolini negava l'esistenza di un problema delle "minoranze" riducendolo a una questione di polizia in quanto per lo Stato fascista c'erano solo cittadini "fedeli" e "infedeli" e i secondi andavano colpiti. In realtà il regime sapeva che le cose non stavano così. Gli esperti triestini e istriani sul problema slavo si distinsero nel proporre al "duce" forme sempre più insidiose e sopraffatene di persecuzione fiscale (dura e destinata a esacerbare le masse contadine), di colonizzazione italiana e di disarticolazione "fisica" delle comunità slovene e croate. Uno di questi esperti del duce, Italo Sauro, propose nel 1944 al capo delle SS e Polizia di Trieste Guenther (uno dei reduci dell'operazione di sterminio degli ebrei polacchi), la deportazione in Germania "di tutta la popolazione allogena compresa fra i 15 e i 45 anni", proposta respinta per la sua palese impraticabilità. Guenther invece si dichiarò favorevole a valorizzare l'apporto della milizia fascista perché bisognava "uccidere più che si può uccidere", come documenta il volume San Sabba - Istruttoria e processo per il Lager della Risiera (a cura di A. Scalpelli, ANED, Mondadori 1988). Gli ultimi rovinosi colpi alla presenza italiana nella Venezia Giulia, fino a allora politicamente dominante, li diede ancora il fascismo con la guerra del 1940, l'invasione e lo smembramento della Jugoslavia nel 1941, l'annessione delle nuove "province" da Lubiana a Spalato a Cattaro con l'aggiunta del Montenegro. Il '41 fu un nodo storico importante perché la regione divenne prima una retrovia strategica del fronte balcanico, poi una vera e propria zona operativa per la crescita di un movimento partigiano sloveno autoctono collegatosi presto con quello di Tito: una specie di secondo fronte all'interno del territorio statale, prima dell'imponente sbarco angloamericano in Sicilia. La violenta reazione dello stato fascista toccò allora apici di parossismo: internamenti di massa di civili sloveni e croati, arresti a valanga di antifascisti italiani (specie comunisti o sospetti tali, ci voleva poco), rappresaglie di
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stampo nazista con esecuzioni collettive e incendi di villaggi, insediamento di organi polizieschi come l'Ispettorato Speciale di PS dove si torturavano anche le donne incinte (dopo l'8 settembre passerà al servizio delle SS), pogrom di aggressioni e devastazioni contro la comunità israelitica di Trieste che era una parte integrante della borghesia patriottica e d'ordine locale. Una violenza indiscriminata e suicida incalzata dalle direttive impartite da Mussolini a Gorizia nel 1942. Il tutto in un quadro politico e militare profondamente mutato e in peggio perché ormai le sorti della regione dipendevano dagli sviluppi del conflitto nell'area danubiano-balcanica, sviluppi che "saldavano" la regione ai territori annessi e in piena rivolta di Slovenia e Croazia. Il '41 preparò il disastro del '43, l'occupazione nazista, le foibe istriane dopo l'armistizio. Fu il punto di svolta che non solo chiuse ogni residuo spazio di dialogo e compromesso fra italiani, sloveni e croati ma rimise in discussione l'appartenenza statale di Trieste, Gorizia, della regione tutta. Riassumendo: la risposta violenta alle sopraffazioni subite, la "resa dei conti" jugoslava con fascisti e nazisti, si manifestò in forme caotiche, senza piani preordinati come rilevarono anche rapporti angloamericani dell'epoca. Fu il momento della rivincita di un popolo infiammato di orgoglio nazionale e da una forte volontà di riscatto sociale che spesso trascese in forme di nazionalismo intollerante e anche di vendette personali. [...] Nel groviglio di queste passioni e violenze ci furono però atti calcolati di persecuzione "mirata" da parte della polizia politica iugoslava informata da elementi locali, contro gli antifascisti dissenzienti, contro il CLN definito "famigerato". Qui emersero metodi e mentalità tipicamente stalinisti, rivolti anche contro antifascisti slavi non comunisti. Questa era una violenza di "regime" motivata da ragioni di politica interna (insediamento del nuovo potere socialista) e internazionali (rivendicazioni territoriali sulla regione, conferenza della pace) Entrambe non ammettevano deroghe e dissensi.41 2.2 Foibe e rivoluzione Nel decennio che intercorre tra l'inizio degli anni settanta e quello degli anni ottanta anche altri studiosi affrontarono in maniera indipendente il problema delle foibe, arrivando a conclusioni in buona parte diverse da quelle degli storici vicini all'IRSML, ma in ogni caso significativamente distanti dalle tesi "militanti" italiana e jugoslava. Non è certo casuale che in tutti i casi si trattò di autori nella cui disamina il problema delle foibe rappresentava solo un elemento, e non certo il più importante, di uno studio di assai più larghe 41
G. Fogar, Foibe e deportazioni. Nodi sciolti e da sciogliere, in "Qualestoria", XVII, (1989), n. 2-3. I brani citati si riferiscono alle pp. 13-14 e 16-20.
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dimensioni, diretto a ricostruire i passaggi chiave della cosiddetta "questione di Trieste". Questo sguardo ampio ha indubbiamente facilitato la contestualizzazione della vicenda delle foibe e ha condotto lo sloveno Bogdan Novak e l'italiano Diego de Castro a sottolineare, seppur con accentuazioni ovviamente diverse, la prevalenza delle motivazioni politiche su quelle nazionali nella primavera del 1945. Un'impostazione del genere trovò tuttavia in quegli anni assai pochi sostenitori sia - e ciò è piuttosto ovvio – da parte della storiografia di stato jugoslava, sia da parte di quella italiana: per un verso infatti essa negava la preponderanza delle motivazioni etniche alla base delle stragi - e ciò spiaceva ai nazionalisti – per l'altro sottolineava la carica di violenza sprigionata contro tutti gli oppositori dal Movimento di liberazione jugoslavo a guida comunista, e ciò non venne apprezzato dagli storici di sinistra. Bogdan Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica Bogdan Novak, studioso sloveno anticomunista emigrato negli Stati Uniti, stese in esilio un ampio studio sulla questione di Trieste, affrontando sia gli aspetti diplomatici che quelli politici della vertenza. L'autore dedicò largo spazio al problema delle foibe della primavera 1945, considerandolo quale conseguenza della vittoriosa conclusione della rivoluzione comunista jugoslava. Le formulazioni di Novak sarebbero state di fatto largamente riprese, come vedremo, dalla storiografia slovena degli anni novanta. Le autorità e la stampa jugoslave spiegarono i rigidi provvedimenti adottati dal comando militare jugoslavo facendo rilevare che la guerra contro i tedeschi e i fascisti italiani finì per gli jugoslavi soltanto alla metà di maggio. Essi ammisero che in verità potevano esserci stati più arresti in questa regione che nelle altre città italiane, ma replicarono che anche questo era facile da spiegarsi. Per esempio nella penisola appenninica e nella penisola balcanica l'ultima grande città a essere liberata dopo la guerra fu Trieste, che divenne pertanto l'ultimo rifugio di molti fascisti. La presenza di un maggior numero di fascisti diede luogo a un maggior numero di arresti. Alla fine della guerra (è sempre la tesi jugoslava) molti italiani cambiarono le camicie nere del fascismo con le camicie bianche della democrazia, ma le autorità jugoslave non si lasciarono ingannare. Era vero, affermarono poi gli jugoslavi, che fra gli arrestati potevano esserci persone che non avevano mai sparato un colpo contro i partigiani. Ma esse potevano nondimeno aver denunciato i partigiani alle autorità fasciste o tedesche, le quali arrestarono le persone denunciate e le inviarono in campi di concentramento dove molti morirono.
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Infine gli jugoslavi fecero notare che le persecuzioni furono enormemente esagerate dalla radio e dalla stampa italiane per convincere le autorità inglesi e americane che la sanguinosa persecuzione degli italiani sarebbe cessata soltanto dopo l'intervento degli alleati. Gli alleati, i quali dal canto loro tendevano a istituire un'amministrazione militare alleata nella Venezia Giulia, divulgarono, ma con più cautela, le accuse italiane onde ottenere l'appoggio mondiale per far evacuare gli jugoslavi da questa regione. Almeno questa fu la tesi jugoslava. Gli italiani invece preferiscono sottolineare il fatto che le persecuzioni sono state causate dal nazionalismo sloveno e croato. Secondo Quarantotti-Gambini e Diego de Castro, per esempio, il comunismo di Tito era soltanto un pretesto per guadagnare l'appoggio dei comunisti italiani di Trieste, una maschera dietro la quale si celavano le tipiche tendenze imperialistiche slave verso occidente. Il CLN era stato disarmato e i suoi capi arrestati, perché italiani. Gli italiani giustamente sostennero che l'Ordinanza n. 7 emanata il 6 maggio e proibente ogni manifestazione di carattere nazionalistico, era anzitutto diretta contro qualsiasi manifestazione di sentimenti filoitaliani, mentre le dimostrazioni filojugoslave continuarono appoggiate apertamente dalle autorità jugoslave. La deportazione degli italiani da Trieste, Gorizia e dalle piccole città dell'Istria costituì un esempio del terrorismo slavo contro la maggioranza italiana. Insomma gli italiani ritengono che la popolazione italiana fu perseguitata al fine di slovenizzare Trieste e Gorizia, e di costituire una maggioranza croata nell'Istria occidentale. Le due interpretazioni delle persecuzioni erano ben note ai capi delle forze angloamericane di Trieste. Ciò è confermato da Cox, l'ufficiale superiore del servizio informazioni, che conosceva bene l'opinione dei suoi superiori con i quali era in stretto contatto. Egli ha scritto che l'Amministrazione jugoslava “era esercitata con ferreo rigore”. Con tale intransigenza si voleva colpire sia il fascismo e i triestini legati alla precedente amministrazione fascista, sia coloro che si opponevano all'annessione di Trieste e del resto della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Analizzando i provvedimenti antifascisti, Cox ha molto. acutamente osservato che allora essi furono oggetto di scarsa attenzione da parte dell'opinione pubblica mondiale, poiché “gli occhi degli altri paesi erano piuttosto volti agli altri provvedimenti introdotti per soffocare i sentimenti filoitaliani”. Ma Cox riteneva che né l'interpretazione jugoslava né quella italiana fornissero una spiegazione esauriente di queste persecuzioni. “Questi arresti, sebbene numerosi, non erano effettuati secondo un piano coerente, o se erano eseguiti secondo un piano, lo erano in modo inefficiente. Una buona parte degli agenti della Gestapo e fascisti di una certa
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importanza passarono indisturbati attraverso le barriere jugoslave per poi cadere nelle nostre mani [degli anglo-americani]. Altre persone arrestate non erano affatto fasciste e probabilmente taluni furono catturati per errore di identificazione o per motivi futili o personali. […] Ciò che accadde a Trieste e nel resto della Venezia Giulia era strettamente connesso agli avvenimenti jugoslavi. Si trattava della vittoriosa conclusione della rivoluzione comunista. Sin dagli albori del movimento di liberazione, i comunisti posero la popolazione di fronte alla difficile alternativa: essere pro o contro il movimento di liberazione, cioè pro o contro il comunismo. Come è stato spiegato nei precedenti capitoli, questa politica comunista costrinse molti gruppi e individui filo-occidentali a scegliere la collaborazione con il nemico come male minore. In tal modo essi diedero ai comunisti la possibilità di condannarli anche come fascisti e collaborazionisti. Anche coloro che non collaborarono con i fascisti e con i tedeschi, ma si opposero a un avvento al potere del comunismo, furono considerati nemici dai comunisti (e in effetti lo erano). I comunisti, applicando il motto “chi non è con noi è contro di noi”, dichiararono così che ogni avversario politico era fascista o filofascista. Già durante la guerra, ma soprattutto alla fine, i comunisti perseguitarono tutti i virtuali oppositori del loro regime, accusandoli di collaborazionismo, di fascismo o almeno di simpatie per il fascismo. Durante l'inverno dal 1944 al 1945, quando ormai Tito aveva imposto il suo dominio sulla parte orientale della Jugoslavia, interi reparti cetnici furono massacrati. Alla fine della guerra, fra il maggio e il giugno del 1945, intere divisioni di ustascia e domobranzi furono liquidate sommariamente con le armi automatiche. Molti altri oppositori che non avevano mai fatto parte delle unità collaborazioniste furono arrestati o sparirono. Alla maggior parte di essi non fu concesso il diritto di difendersi davanti a una corte del popolo. Il risultato fu che decine di migliaia di uomini furono trucidati senza processo. La situazione nella Venezia Giulia era identica. Italiani, sloveni e croati, che per una ragione qualsiasi si opponevano al potere comunista, furono dichiarati fascisti e furono perseguitati. Viceversa, noti fascisti passati improvvisamente dalla parte dei comunisti o che potevano risultare comunque utili, ottennero incarichi dalle nuove autorità comuniste o furono lasciati liberi. [...] La parola fascismo fu usata sia dagli jugoslavi sia dagli occidentali per intendere realtà profondamente diverse. Accettando l'interpretazione jugoslava, secondo la quale era fascista ogni virtuale avversario del comunismo, si possono meglio comprendere le persecuzioni compiute dagli jugoslavi nella Venezia Giulia. Quelli che a Cox e agli altri osservatori occidentali sembravano soltanto arresti ingiustificati, assumono l'aspetto di un coerente piano di persecuzione.
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Tuttavia per la presenza delle truppe angloamericane e dei giornalisti occidentali, e dato il problema ancora sospeso di chi avrebbe amministrato questa regione, nonché per la breve durata (circa quaranta giorni) dell'amministrazione jugoslava nella parte occidentale della Venezia Giulia, l'esecuzione di questo piano avvenne in modo meno sistematico nella Venezia Giulia che nell'entroterra. Parimenti non si può accettare l'interpretazione italiana dell'epoca, secondo la quale le persecuzioni erano dirette anzitutto contro gli italiani per dare alle città della Venezia Giulia un carattere etnico sloveno o croato. Il punto debole di questa interpretazione italiana sta nell'attribuire tutta la colpa delle persecuzioni al nazionalismo sloveno e croato, trascurando invece il ruolo svolto dal comunismo. È vero che Tito aveva organizzato il movimento partigiano sfruttando i sentimenti nazionalistici di sloveni e croati. L'importanza del nazionalismo non può essere negata. A ogni modo, l'obiettivo primario dei partigiani di Tito era allora quello di ottenere il potere assoluto in Jugoslavia e di estendere il regime comunista il più possibile verso occidente, tanto più che questo obiettivo jugoslavo era soltanto una parte integrante di analoghe aspirazioni della Russia sovietica. È significativo il fatto che i partigiani di Tito abbiano operato anche nel Friuli, regione etnicamente italiana, e che i comunisti friulani, incoraggiati dai partigiani di Tito, abbiano chiesto l'unificazione del Friuli alla Jugoslavia comunista per raggiungere lo stesso scopo, cioè l'espansione del comunismo verso occidente. Un'altra circostanza degna di nota è data dal fatto che fra gli esecutori delle persecuzioni vi erano non soltanto sloveni e croati che pur svolsero probabilmente un ruolo direttivo, ma anche comunisti italiani che partecipavano all'amministrazione ed erano anche membri delle commissioni di epurazione. Se a Trieste e nelle altre città furono perseguitati più italiani che sloveni e croati, ciò fu semplicemente dovuto alla prevalenza numerica degli italiani. Inoltre nelle città di Trieste e di Gorizia gli italiani avevano tutte le possibilità di raccogliere dati su queste persecuzioni. Gli sloveni e i croati perseguitati nel retroterra non avevano la possibilità di denunciare la loro situazione. Essi non avevano il modo di raccogliere informazioni, né avevano organismi cui presentarli, o la possibilità di divulgare questi dati con la loro pubblicazione. È così che sono state rese note le uccisioni di quasi tutti gli italiani, mentre soltanto le sofferenze di una piccola parte di sloveni e di croati hanno potuto essere denunciate al gran pubblico.42
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B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973, pp. 176-180
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Diego de Castro, La questione di Trieste. L'azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954 e L'ultimo di quei tragici "quaranta giorni” Diego de Castro, che negli anni cinquanta ricoprì il ruolo delicatissimo di consigliere politico italiano presso il Governo militare alleato che amministrava la zona A del "Territorio libero di Trieste", lavorò per diversi decenni alla stesura di un ponderoso studio sulla questione di Trieste, destinato a venir pubblicato soltanto agli inizi degli anni ottanta. Il libro di de Castro, per la completezza della documentazione e per la diretta conoscenza del problema da parte dell'autore, costituisce a tutt'oggi l'opera di riferimento per ricostruire l'atteggiamento del governo italiano sulla vertenza di confine. Al problema delle foibe de Castro dedica poche osservazioni, che però rimettono in parte in discussione i capisaldi interpretativi della posizione ufficiale assunta da parte italiana nel pieno della contesa con la Jugoslavia, posizione che lo stesso de Castro aveva contribuito a formare. Il contributo di de Castro segna quindi, da parte di uno dei suoi protagonisti, il superamento delle interpretazioni militanti a favore di una valutazione critica dell'accaduto. Tale superamento è ancor più visibile nei successivi interventi, comparsi sulla stampa locale giuliana, in cui de Castro ha ripreso e maggiormente articolato il suo giudizio. Noi italiani abbiamo sempre sostenuto che le uccisioni e le deportazioni servivano per cambiare la proporzione etnica nella Venezia Giulia. Certamente servivano anche a questo, ma lo scopo principale era quello di eliminare coloro che, per il loro passato, potevano essere ritenuti nemici del comunismo anche nel futuro. Così dal 24 al 31 maggio 1945 furono massacrati almeno diecimila jugoslavi (domobranzi e cetnici), senza processo, nella foresta di Kocevje, dopo che gli inglesi li avevano consegnati ai partigiani di Tito.43 Non ho mai creduto che migliaia di italiani fossero stati uccisi per mutare le proporzioni etniche: ne avrebbero dovuto massacrare decine di migliaia per cambiarle. Dedijer, nel suo ultimo libro, ha ammesso che gli jugoslavi cercarono di eliminare subito i capi socialisti: era esattamente quanto, in Russia, aveva fatto Lenin nel 1917. Molti italiani incontrarono la morte non per la lingua che parlavano ma in quanto non sarebbero stati fedeli al nuovo regime comunista che doveva essere instaurato. Questa, del resto, fu anche la sorte degli anticomunisti sloveni, massacrati nel bosco di Kocevje: bisognava distruggere i potenziali nemici del futuro Stato comunista. La bestialità
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D. de Castro, La questione di Trieste. L'azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Lint, Trieste 1981, vol. I, p. 212, nota 445
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umana e le vendette private che si scatenarono durante le guerre toccarono, in quei giorni, il loro apice in un'Europa ridiventata barbara.44 3. La nuova storiografia 3.1 L'epurazione preventiva Il momento di svolta nella storiografia italiana sulle foibe può essere fissato alla fine degli anni ottanta. Nel 1988 uscì infatti, nella collana "Storia delle città italiane" dell'editore Laterza, il volume di Elio Apih “Trieste”, nel quale l'autore, uno dei maestri della storiografia giuliana del dopoguerra, dedicò alcune brevi ma densissime pagine alla vicenda delle foibe del 1945. L'inserimento del tema delle foibe nell'ambito di una panoramica complessiva della storia triestina a partire dall'età moderna ha consentito infatti di raccordare in una sintesi equilibrata i diversi piani sui quali si sviluppò una catena di eventi comprensibile solo ponendo in relazione le vicende locali di alcune settimane di primavera con altri processi di più vasta dimensione e di più lungo respiro. Così, il riferimento all'”onda di una rivoluzione” che per quaranta giorni lambì Trieste, si è saldato al richiamo alla natura contraddittoria della storia triestina, in cui le vicende del maggio 1945 simboleggiano il rovesciamento catastrofico del ruolo egemone della città nei confronti del territorio. Quanto alla logica che governò le stragi, fondamentale è apparsa ad Apih la distinzione tra “scenario” di “furor popolare” e “sostanza politica” del dramma: si tratta di un'acquisizione che l'autore ha in altra sede ulteriormente specificato, parlando delle foibe come di un fenomeno di “epurazione preventiva”, e che è divenuta uno dei capisaldi delle interpretazioni proposte nel corso degli anni novanta sia in Italia che in Slovenia. Alle intuizioni di Apih ha fatto seguito una stagione di studi assai ricca. Nel 1990 comparvero quasi simultaneamente il volume di Roberto Spazzali “Foibe. Un dibattito ancora aperto”, che offriva un'ampia panoramica sia degli studi che degli interventi polemici succedutisi sul tema nel corso dei decenni, e un numero monografico della rivista "Quaderni del centro studi Ezio Vanoni" curato da Raoul Pupo e dal titolo “Foibe: politica e storia”, che raccoglieva una serie di scritti di vari autori finalizzati a tracciare un bilancio problematico della produzione storiografica sulle foibe nonché a prospettare alcune nuove linee di indagine.
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D. de Castro, L'ultimo di quei tragici "quaranta giorni", "Il Piccolo", 12 giugno 1985.
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La ricerca in effetti è proseguita spedita e le sue tappe sono state scandite in particolare dai saggi di Raoul Pupo, Roberto Spazzali e Giampaolo Valdevit, alcuni brani dei quali vengono qui di seguito riportati. Le acquisizioni della "nuova storiografia" italiana e di quella slovena (di cui si parlerà dopo) costituiscono oggi il punto di riferimento fondamentale per comprendere che cosa sia stato il fenomeno delle foibe. Proprio per questo, una certa attenzione va posta nell'evitare la loro banalizzazione. Portando infatti alle estreme conseguenze alcuni degli spunti interpretativi emersi nel corso dell'ultimo decennio, si potrebbe anche arrivare alla conclusione che l'intera questione delle foibe, così come tradizionalmente è stata posta da parte italiana, non è altro che l'effetto di una sorta di illusione ottica. Guardando infatti alla tragedia giuliana da occidente, dal versante cioè dell'Italia, è quasi inevitabile leggere le foibe come stragi di italiani, perché di quei massacri si scorge soltanto la parte che emerge alla visibilità degli italiani stessi, la cui attenzione è concentrata sulla sorte della Venezia Giulia, regione di frontiera, e soprattutto di Trieste e dell'Istria, abitate prevalentemente da italiani. Se però il punto di osservazione si sposta, e guarda ai medesimi fatti da oriente, cioè dal versante della Jugoslavia, l'immagine che si disegna è molto diversa, è cioè l'immagine di un'ondata di violenze di vastissime proporzioni che copre tutto il paese e che nelle sue estreme propaggini occidentali coinvolge anche alcune migliaia di italiani ivi residenti. Non è un'immagine sbagliata, anzi, osservarla è assai utile per superare una lettura degli eventi parziale e sbilanciata. Tuttavia, ciò non significa automaticamente che nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 l'appartenenza nazionale rivestisse un ruolo secondario e non specifico nella determinazione dei bersagli della repressione. Possiamo dire infatti con sufficiente sicurezza che, all'interno della crisi legata alla presa del potere comunista in Jugoslavia, di cui le terre giuliane erano considerate parte, essere italiani costituiva un fattore di rischio aggiuntivo tutt'altro che trascurabile. Per un movimento rivoluzionario e di liberazione nazionale come quello che si affermava in armi sotto la guida di Tito, l'Italia e gli italiani, salvo poche eccezioni, costituivano il nemico del passato, del presente e del futuro. Il nemico del passato, perché l'Italia di Vittorio Veneto aveva annesso terre slave, e per le colpe del fascismo; il nemico del presente, perché, notoriamente, non solo il governo di Roma ma anche la maggioranza degli italiani della Venezia Giulia si opponeva all'annessione della regione alla Jugoslavia; il nemico del futuro, perché l'Italia sarebbe rimasta uno stato capitalista legato agli Stati Uniti e quindi, di per sé, fascista, revanscista e imperialista: insomma, una minaccia per la Jugoslavia socialista e le sue rivendicazioni. Agli italiani quindi, in quanto gruppo
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nazionale che si riconosceva come tale, nella fase delicatissima della creazione del nuovo ordine andava dedicata un'attenzione affatto particolare, che si traduceva in una "pulizia" (o "epurazione", i due termini si equivalgono) particolarmente rigorosa. Sarebbe probabilmente eccessivo dire che, almeno a livello teorico, il diffuso sospetto nei confronti di tutto quanto ricordava l'Italia si traducesse meccanicamente in una presunzione generalizzata di colpevolezza nei confronti degli italiani, ma certo, soprattutto a livello pratico, a livello cioè di gestione della repressione da parte dei quadri del partito, del movimento partigiano e del nuovo apparato dello stato, agli italiani veniva richiesto di dimostrare con i fatti di stare dalla parte giusta e, nel dubbio, l'appartenenza nazionale non giocava certo a loro favore. Mentre sembra accertato che, da parte jugoslava, non sempre ci furono criteri omogenei per le misure di deportazione e di condanna capitale, c’è stata aspra discussione sulle cifre, e si è parlato sia di molte migliaia che di varie centinaia di casi. G. Fogar, in un diligente saggio, sostiene che, tra dispersi e infoibati, tra civili e militari, sono scomparse da Trieste 600 persone. Le polemiche sono motivate da giustificati stati d'animo, ma sono terreno fertile per la speculazione politica. È assai poco probabile che si avranno mai dati esatti, ma quanto si sa lascia pensare che, per Trieste, siano più vicini al vero quanti parlano di centinaia. La quantificazione, del resto, non è l'elemento principale per il giudizio storico; a esso osta anche il relativo disimpegno e il silenzio da parte della pubblicistica d'oltre confine dove, solo incidentalmente, si è parlato di ´eccessi. Recentemente qualche considerazione è stata fatta, sia pur indirettamente, cioè a proposito di altro ma non troppo diverso episodio: si è ricordato che già il 29 ottobre 1941 l'OF aveva stabilito che “tutti i traditori verranno puniti con la pena di morte”, e che tale decisione rimase in vigore sino alla formulazione del nuovo codice penale del 1946; si è ammesso che “il neo morale [è] che la dirigenza militare non riuscì a […] impedire con l'autorità necessaria che venissero fucilati anche quei collaborazionisti che non fecero parte dei quadri dirigenti, quelli che non si macchiarono di omicidio”. Certo, al momento dei fatti triestini, si combatté ancora nella non lontana zona di Villa del Nevoso sino al 7 maggio, e sino al 3 nella vicinissima Opicina. Al giudizio storico neppure interessano attenuanti. Esso non può far impallidire i fatti col criterio generalizzante della ferocia, né con la sola individuazione delle motivazioni allora vissute. È necessario non confondere oppressori fascisti e oppressi antifascisti, ed è vero che l'individuazione dell'op-pressore fu spesso assai sommaria. G. Salvemini ha detto che “l'abisso aveva scavato l'abisso”. Tra "foibe" e "Risiera" l'accostamento è stato frequente, ma coglie solo il livello di degrado cui possono giungere le relazioni umane. I fatti
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del maggio 1945 sono certo caratterizzati da "furor popolare", come si è più volte detto. Ma esso è lo scenario, e il dramma che vi si svolse aveva sostanza politica. La presenza di volontà organizzata non è dubbia. Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere. Tale pare la logica dei fatti. La spontaneità del furor popolare si cementa in una sorta di patto di palingenesi sociale, attestato e garantito dalla punizione dei colpevoli, che basta individuare anche sommariamente perché il loro ruolo è simbolico prima che personale. Governa uno Stato che attua una rivoluzione (l'azione di sangue, è noto, ci fu anche in larga parte della Jugoslavia) ed esso si afferma coi modi propri delle rivoluzioni. Qui, ovviamente, se si ricorda quant'era avvenuto nei decenni precedenti, i fatti hanno anche motivazione antitaliana, ma questa non pare preminente. Nel 1945 Trieste fu, per quaranta giorni, lambita dall'onda di una rivoluzione; la "porta orientale" aveva ceduto. [...] Con le distruzioni e le vittime (un migliaio) provocate dai bombardamenti, con le ripetute occupazioni, Trieste aveva toccato il fondo amaro della sua natura contraddittoria: l'odio della campagna, la condizione di isola del suo retroterra, il carattere artificioso e classista del suo sviluppo, l'assenza di universalità nella sua idea di nazione. Non solo a Klagenfurt e a Lubiana, ma pure a Basovizza si era deciso su di essa.45 Roberto Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto Nel 1984 Roberto Spazzali iniziò l'esame della pubblicistica e della letteratura storica sul problema delle foibe e delle deportazioni jugoslave, con lo scopo d'individuare la prevalenza delle tesi politiche su quelle storiografiche, e l'uso pubblico che era stato fatto, soprattutto e prevalentemente nella Venezia Giulia e lungo il confine orientale, del problema delle stragi compiute dagli jugoslavi: un problema largamente assente nella storiografia italiana, perché confinato alla disputa politica locale e usato in relazione agli alterni rapporti con la Jugoslavia. Nell'analizzarlo, l'autore ha rilevato permanenze e ciclicità tematiche, continuità di disparato giudizio dall'immediato dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta, inconciliabilità di valutazione dei fenomeni, formazione e consolidamento dei luoghi comuni che hanno contribuito all'emarginazione storiografica dell'argomento. La ricerca è confluita in una corposa analisi, pubblicata nel 1990, proprio mentre
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E. Apih, Trieste, cit., pp. 165-167
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l'Europa orientale liquidava la stagione del socialismo reale e la Jugoslavia imboccava il suo violento cammino verso la dissoluzione statale. La questione delle Foibe è un tema tutto giuliano per i suoi riflessi successivi anche se si possono ipotizzare delle analogie con altri fatti europei, come la definizione delle frontiere nel settore continentale nordorientale, e l'appartenenza così vincolata alle terre Giulie è strettamente connessa alle "curve" d'interesse e all'influenza determinata dalla situazione politica giuliana e dalla sua evoluzione in questo secondo dopoguerra. È un tema ampiamente praticato e un'indagine, anche sommaria, tra la stampa locale conferma una persistenza perfettamente scandita da precisi fatti politici: l'Esodo, la ratifica del Trattato di pace, il Memorandum d'Intesa, l'ingresso del primo sloveno socialista, Dusan Hrescak, nella giunta comunale triestina, la ratifica del trattato di Osimo, il processo per i fatti della Risiera di San Sabba (unico campo di sterminio nazista operante nella penisola italiana), i lavori delle Commissioni parlamentari per il disegno di legge di tutela della minoranza slovena in Italia, in massima parte concentrata nelle province di Trieste e Gorizia. L'opinione pubblica raccoglie un sentimento comune diffuso, quello che la residua Venezia Giulia si trovi a pagare colpe non sue e a subire decisioni altrui, e in tutte queste occasioni il tema delle Foibe scandisce i momenti di dibattito ma anche di scontro, tra i più acuti, a dimostrazione di un passato per nulla interiorizzato da una parte della pubblica opinione e della classe politica e pronto a riemergere come parametro di verifica e di rapporto non tanto tra ieri e oggi, quanto - questo è l'elemento di maggior interesse - tra presente e futuro. Ogniqualvolta sussista la preoccupazione che si possa mettere in dubbio il carattere di appartenenza statale della residua Venezia Giulia e la sua matrice culturale, ecco alzarsi lo spettro delle Foibe come esempio materiale e sofferto della fase più cruenta di scontro tra italiani e slavi: ancora in molti ambienti triestini e goriziani prevale il timore che qualcosa di analogo possa ripresentarsi, magari sotto altre forme, pure incruente, e che possa minare la sostanza statale e nazionale. Quindi le Foibe sono viste e monumentalizzate come lo strumento più tragico di un processo di "snazionalizzazione" fondato allora sul terrorismo che in Istria ha determinato l'Esodo e che a Trieste e a Gorizia ha lasciato profonde ferite proprio a livello di ricordo collettivo, tali da avallare una preoccupazione mai sopita, soprattutto in quelle categorie sociali e nazionali che avrebbero potuto subire le maggiori conseguenze negative di tale svolta. […] Molte parole sono state spese per ricordare, commemorare ma anche per ridurre i termini del fenomeno e non sempre suffragate da un adeguato supporto di dati, documenti e riferimenti che il caso così delicato impone, se
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non quelli avanzati già negli anni Cinquanta: un fenomeno diffuso ampiamente dalla stampa e dalla pubblicistica sulla quale la suggestione politica ha giocato un ruolo prioritario.46 Raoul Pupo, Matrici della violenza tra foibe e deportazioni Due sono i nuclei di fondo del brano qui riportato. Il primo, la differenza fra le foibe e le violenze che si verificarono nell'Italia settentrionale subito dopo la liberazione del 25 aprile 1945, essenziale per intendere correttamente la natura del fenomeno che, nelle sue logiche, appartiene più alla storia jugoslava che a quella italiana: è solo nell'esperienza della guerra civile jugoslava infatti che le violenze del dopoguerra rivestirono un ruolo strategico nell'affermazione e nel consolidamento del nuovo regime. Il secondo, la necessità di una contestualizzazione completa della tragedia delle foibe nella storia giuliana del Novecento, senza trascegliere da essa solo i momenti che meglio si prestano alle esigenze di un uso politico della storia. Assai più puntuale, per descrivere la valenza politica complessiva delle violenze della primavera 1945, appare la definizione di "epurazione preventiva", rivolta contro tutti i potenziali oppositori, nazionali e politici, del progetto di annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista, secondo la proposta interpretativa formulata da Elio Apih, e che sta incontrando ampio consenso all'interno della storiografia italiana. Una definizione che ricollega tutti gli episodi del momento, sia quelli accuratamente pianificati che quelli incontrollati, ma comunque dipendenti dall'impulso politico originariamente impresso, a un unico processo, quello della presa del potere da parte di un movimento di liberazione che era anche un movimento rivoluzionario, che si affermava con la forza dopo una guerra con l'occupatore che era stata anche guerra civile, spietatamente combattuta e diretta alla liquidazione totale - fisica, non solo politica - degli avversari. Si tratta di una lettura dei fatti che, senza sottovalutare l'intreccio di motivazioni nazionali e ideologiche sotteso alla politica del terrore applicata da parte jugoslava in quelle settimane di maggio, pone al centro dell'attenzione il problema del comunismo e della sua affermazione tramite la lotta armata, e che sottolinea perciò la distanza dell'esperienza giuliana da quella vissuta nei medesimi giorni dal resto d'Italia. Le foibe infatti non hanno nulla a che vedere con la resistenza italiana, non solo perché essa non vi partecipò - al di là di singoli apporti individuali a livello esecutivo - ma perché radicalmente diverse erano le situazioni, anche
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R. Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto, Editrice Lega Nazionale, Trieste 1990, p. 640
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dove a uno sguardo superficiale le immagini di violenza sembrano sovrapporsi. Da una parte, nell'Italia centro-settentrionale, nei giorni tumultuosi della liberazione ma in alcune aree anche molto più tardi, assistiamo a un erompere di azioni di sangue che segnava in molti casi la conclusione di conflitti aperti nel 1919-22, ma che si svolgeva al di fuori delle strutture di uno Stato che sarebbe stato ricostruito secondo principi liberal-democratici, e che non si collegava ad alcun disegno politico complessivo, posto che l'opzione rivoluzionaria era stata scartata dal PCI. Dall'altra parte, nella Venezia Giulia, vediamo invece all'opera una rivoluzione vittoriosa che si trasformava senza soluzione di continuità in un regime stalinista, capace di convertire la carica rivoluzionaria in violenza di stato. Per comprendere bene dunque che cosa siano state le foibe giuliane, non basta concentrare lo sguardo su quanto accaduto nel corso di alcune settimane in cima all'Adriatico, ma bisogna al contrario allargarlo per individuare quale sia stato il contesto generale in cui anche quella tragedia locale va rapportata; e nel far questo possiamo renderci ben conto di come alla radice di tante difficoltà e tante tragedie della storia di quegli anni vi sia l'essere stata la Venezia Giulia terra di frontiera non solo fra etnie e stati, ma fra due mondi - quello occidentale e quello comunista - che in questa parte d'Europa erano già contrapposti. La medesima spanna lunga va utilizzata anche sul piano cronologico. Se vogliamo davvero capire che cosa sia successo in quegli anni nella Venezia Giulia non possiamo accontentarci di mettere ancora una volta in luce gli aspetti di "risposta" delle foibe rispetto alla semina di violenza compiuta dal fascismo - e ciò pur sapendo che quella semina vi fu, e abbondante - perché il discorso è più complessivo. Dal punto di vista dell'uso della violenza politica nella Venezia Giulia non vi è stata vera soluzione di continuità dalla fine della prima guerra mondiale fino alla seconda metà degli anni cinquanta. La sequenza è impressionante: dall'affermarsi del fascismo, attraverso le vessazioni del regime - particolarmente accanite contro le popolazioni slovene e croate - la persecuzione antisemita - che talvolta si tende a dimenticare ma che, soprattutto a Trieste, ebbe effetti devastanti sul tessuto civile - l'attacco del 1941 contro la Jugoslavia seguito dallo smembramento del paese, l'occupazione nazista e le sue pratiche "scientifiche" della violenza simboleggiate dalla Risiera di San Sabba, e poi le foibe, del 1943 e del 1945, fino al decennio di oppressione culminato nell'espulsione dell'intera comunità nazionale italiana dalla penisola istriana, registriamo un susseguirsi pressoché continuo di sopraffazioni e violenze. Non si tratta affatto di considerarle in maniera indistinta, così del
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resto come l'uso del concetto di "guerra dei trent'anni" ormai diffuso nella storiografia per considerare unitariamente il periodo che va dal 1914 al 1945, non implica per nulla un intorbidirsi dei giudizi, storici e morali, sui protagonisti di quella crisi. Si tratta invece di cogliere l'esistenza, che a posteriori possiamo vedere ormai con una certa nitidezza, di un'unica, lunga stagione, all'interno della quale molti fili si richiamano - che il prima pesò gravemente sul dopo - mentre altri invece rispondono a logiche autonome, che avevano la forza dirompente delle grandi passioni politiche del Novecento, i nazionalismi e le ideologie totalizzanti.47 Giampaolo Valdevit, Foibe: l'eredità della sconfitta Le riflessioni sulle foibe di Giampaolo Valdevit, storico di formazione marxista e all'epoca della redazione del saggio presidente dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, rappresentano il completo rovesciamento delle tesi dominanti nella storiografia di sinistra, che abbiamo visto espresse con la massima chiarezza nell'articolo di G. Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante. Il testo infatti considera le violenze della primavera del 1945 non frutto di esplosioni spontanee di rancore nazionale e politico, ma conseguenze del progetto di presa del potere elaborato e attuato da parte del Partito comunista jugoslavo, impegnato a erigere il nuovo stato sulle ceneri del potere nazista. Considerando quindi gli eventi del biennio da questo diverso punto di vista, i cui connotati di fondo appaiono la politica di potenza e il totalitarismo, le foibe si rivelano come un episodio di "violenza di stato", e ciò consente di porle a confronto con altri fenomeni di violenza di stato, come anche le stragi della Risiera. Visti sotto queste due dimensioni - politica di potenza, che è anche espressione di nation building, e totalitarismo - deportazioni e infoibamenti sono fenomeni che potremmo rubricare sotto la categoria di violenza dello stato. Per inciso, è violenza dello stato che si era già manifestata durante il ventennio fascista e con maggior efferatezza durante l'occupazione nazista che com'è largamente noto - ha allestito nella Risiera di San Sabba un "campo di detenzione di polizia", dove sono stati eliminati soprattutto resistenti, oppositori politici, ostaggi (alcune migliaia) e in misura molto minore deportati ebrei.
47 R. Pupo, Matrici della violenza tra foibe e deportazioni, in F. Dolinar e L. Tavano (a c. di), Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa, Gorizia 1997, pp. 241-243
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Se le osserviamo da questo punto di vista, Risiera e foibe non appartengono a due universi totalmente distinti. Per di più, esse rispondono a una logica diversa da quella che determina ciò che è stato definito come "la morte messa in piazza". Episodi del genere si sono verificati a più riprese anche nella Venezia Giulia durante l'occupazione nazista; anche qui lo scontro politico si trasferisce nella piazza, con l'inversione che si verifica a guerra finita. Il 5 maggio infatti soldati jugoslavi aprono il fuoco contro un corteo che sfila con bandiere tricolori in testa lasciando sul terreno cinque manifestanti. Ma, per quanto riguarda Risiera e foibe, siamo di fronte a qualcosa di diverso: la morte non viene affatto "messa. in piazza", al contrario la si occulta. È la deportazione invece che viene "messa in piazza": nei primi giorni di maggio cortei di deportati percorrono la città prima di essere trasferiti altrove. C'è dunque una combinazione di esibizione-occultamento; ed è l'aura di mistero (quanto alla sorte dei deportati) che accompagna la loro ostentazione a massimizzare l'effetto deterrente che da essi, con ogni probabilità, si aspetta il regime che attua il communist take-over, un regime che con la sua ferrea volontà di egemonia anticipa i tratti del totalitarismo. Infine è da porre in luce una terza dimensione a proposito della sostanza politica che colora i fenomeni in questione. È anche l'insurrezione rivoluzionaria che permette di individuare l'avversario; e lo fa attraverso la continuazione di quella guerra civile che si è combattuta, e con asprezza, nella Venezia Giulia, in quanto intende la lotta politica come annientamento dell'avversario. È ribellismo, è qualcosa che ha carattere indiscriminato, alla cui base agisce ancora l'identificazione fra Italia e fascismo. Ma vi agisce anche dell'altro, anche se in forme confuse, altro che deriva dal nazionalismo sloveno e croato: l'idea cioè che gli italiani della Venezia Giulia siano in gran parte degli importati, che non abbiano per così dire diritti di autoctonia. E agisce per di più l'immagine di una Trieste contaminatrice e corruttrice, che in quanto tale non può non attrarre ma può anche portare alla perdizione, a perdere la propria identità, e in ogni caso emargina chi tenti di sottrarsi al suo richiamo. [...] In questa terza dimensione del fenomeno che consideriamo, è distinguibile un carattere: si tratta - se vogliamo – di uno sparare nel mucchio, ed è un carattere riconosciuto dalle successive indagini compiute dalla autorità militari alleate: “indiscriminato e arbitrario”, così definiranno deportazioni e infoibamenti. Lo si riconosce - e presto - anche da parte jugoslava: “molti casi di arresti […] incontrollati e arbitrari” è espressione presente in un rapporto dell'OZNA, la polizia di sicurezza jugoslava. Non si tratta - come oggi si vorrebbe, sotto la suggestione delle recenti tragedie ex-jugoslave - di pulizia etnica, visto che il "furor popolare" si abbatte anche contro sloveni e croati.
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Ma, pur nella loro indeterminatezza - anzi grazie a essa - un messaggio alla società italiana di Trieste e della Venezia Giulia questi fatti lo mandano. Non mi sembra che lo si possa riassumere in una qualche intenzione di ridurla a zero in nome di un nazionalismo sloveno e croato che sarebbe a sua volta risposta al nazionalismo italiano di epoca prefascista e fascista. Quanto essi affermano, piuttosto, è la volontà di negare alla componente italiana un ruolo di soggetto dotato di identità autonoma sotto il profilo politico-istituzionale, e quindi di costringerla a una forma di presenza subalterna, che è l'unica forma di presenza che si ritiene adeguata a quella che si considera la sua storia: storia, come si è visto, di un'italianità creata artificialmente, pervia di importazione o di assimilazione. [...] Tornando al progetto jugoslavo sulla Venezia Giulia, esso si articola - in sintesi - nella liquidazione di tutto ciò che rappresenta lo stato italiano, nell'eliminazione di possibili antagonisti politici locali, e infine nell'insurrezione purificatrice e depuratrice. Dal punto di vista della sostanza politica, sono fenomeni che possiamo comprendere entro varie categorie: rispettivamente, politica di potenza, totalitarismo, terrorismo (opera, quest'ultima, fondamentalmente di individui. È quest'amalgama che conferisce agli infoibamenti quel carattere di svelamento improvviso che, come si è visto, produce nella memoria collettiva un sedimento di particolare spessore. [...] Nel maggio 1945 a Trieste si scontrarono una promessa di democrazia e una negazione di democrazia. Furono entrambe annunciate da un unico evento, la liberazione dal nazifascismo, un evento che, quanto alle aspettative e ai progetti sui quali poggiava, fu gravido di contraddizioni quando non, come nel nostro caso, di palesi incompatibilità. Distinguerle è, appunto, il nostro compito.48 Luciano Giuricin, 11 settembre '43 in Istria e a Fiume Luciano Giuricin è uno degli esponenti più noti del gruppo nazionale italiano in Croazia, autore di numerosi saggi storici sulle vicende partigiane del periodo resistenziale. Rispetto alle sue opere dei decenni precedenti, i contributi degli anni successivi alla dissoluzione della Jugoslavia hanno segnato un forte distacco dai moduli tipici della storiografia di regime e hanno messo radicalmente in discussione alcuni dei precedenti capisaldi interpretativi. Il saggio da cui sono tratti i passi qui riportati costituisce al momento la più aggiornata e completa ricostruzione delle tragiche vicende istriane dell'autunno del 1943. I brani citati mettono in luce la complessità dei rapporti che si instaurarono fra le diverse componenti antifasciste istriane, sottolineando 48
G. Valdevit, Foibe: l'eredità della sconfitta, in Id. (a c. di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997, pp. 23-31 e passim
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come il controllo politico e militare della situazione venne ben presto assunto dal Movimento di liberazione sloveno e croato, fortemente impregnato di nazionalismo e prioritariamente intenzionato a realizzare le sue finalità annessioniste. In questo quadro, le violenze dilagarono a macchia d'olio, mettendo in crisi gli stessi comunisti italiani che, esautorati di fatto anche dove erano inizialmente riusciti a impadronirsi del potere, non riuscirono a contenerle e finirono per condividerne la responsabilità. Nel caos generale seguito all'annuncio della resa italiana, era divenuta quindi di assoluta priorità da parte delle forze antifasciste tentare di colmare il grande vuoto di potere venutosi a creare improvvisamente in tutta la regione. Le forze che si fecero avanti nella collettiva presa di coscienza furono molteplici. Allo stato dei fatti si può dire però che si distinsero subito due diversificate realtà: quella che trovò sfogo in quasi tutte le città e località abitate da italiani; e l'altra sviluppatasi nella campagna istriana popolata prevalentemente da croati e sloveni. Realtà queste del resto sempre presenti in Istria, le quali sia nel passato, ma principalmente in questa eccezionale circostanza, specie nelle aree miste, spesso si intrecciano collaborando reciprocamente, ma venendo però anche a scontrarsi a causa delle differenti matrici e interessi nazionali, sociali e politici che le distinguevano. A ragione si può parlare di due distinte "insurrezioni", se cosi possono essere chiamate le numerose sollevazioni di massa verificatesi in quell'epoca, le quali ebbero come protagoniste sia parte della popolazione italiana, sia quelle slovene e croate. Intendiamo parlare delle note dimostrazioni di piazza avvenute nelle principali città, sfociate in tragiche sparatorie contro i manifestanti, dopo gli inutili tentativi di accordo con le massime autorità militari di armare il popolo e di organizzare la difesa comune contro la minacciata invasione tedesca. Azioni che furono anticipate, o seguite a ruota, dalla costituzione di ogni sorta di organismi provvisori, quali ad esempio, i comitati di salute pubblica, civici, di unità antifascista, o rivoluzionari che dir si voglia, sorti in ogni dove per l'assunzione del potere civile; spesso in accordo, ma anche in concorrenza, se non in contrapposizione tra loro, in modo particolare con il Movimento popolare di liberazione in auge dappertutto. A completare l'opera verranno a dar man forte le prime improvvisate unità partigiane croate, slovene, italiane e in primo luogo quelle miste sorte allora quasi spontaneamente, impegnate subito nelle azioni per la resa e il disarmo delle numerose guarnigioni dell'esercito italiano e delle truppe italiane che affluivano nel territorio disordinatamente dalle varie regioni della ex Jugoslavia, e quindi negli scontri e nella resistenza nei confronti dell'occupatore tedesco.
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L'intera azione insurrezionale si svilupperà però in due distinti periodi. Quello iniziale, caratterizzato dall'assoluta gestione e guida, per quanto caotiche, dell'operazione da parte delle genuine forze antifasciste istriane di varie tendenze e nazionalità. A questo seguirà, con l'arrivo dei primi quadri dirigenti militari croati che costituiranno il Comando operativo partigiano dell'Istria, un significativo intervallo di tempo nel quale verranno a prevalere determinate forze esterne, che contribuiranno a imprimere una nuova svolta agli avvenimenti istriani. Sarà proprio in questo periodo, protrattosi fino all'inizio dell'offensiva tedesca di ottobre, che le contraddizioni sorte allora tra le diverse entità etniche si acuiranno, in particolare dopo le unilaterali deliberazioni annessionistiche settembrine. I fatti registrati in quel delicato frangente con le note decisioni dei massimi organismi del MPL, verranno a snaturare l'universale principio del diritto all'autodeterminazione dei popoli, ritenuto valido esclusivamente per le popolazioni croate e slovene e non anche per quella italiana, ponendo in seconda linea quest'etnia, relegata per la prima volta nella sua storia, senza nemmeno essere interpellata, allo stato di minoranza. Infatti tali deliberazioni astruse e fuori portata non potevano essere ritenute valide dalle masse popolari istriane e dalle forze politiche legate al MPL e dagli antifascisti italiani d'ogni tendenza, comunisti inclusi. Essi difatti avevano dato il loro contributo all'insurrezione nell'intento esclusivo di combattere e sconfiggere il nazifascismo, per poter quindi costruire poi una società più giusta e migliore.[...] La svolta del "Comando operativo" Con la costituzione, il 24 settembre, del Comando operativo partigiano dell'Istria si verificò una svolta significativa nella lotta armata che, congiuntamente alle deliberazioni annessionistiche emanate allora da alcuni importanti organismi del MPL, contribuirà a mutare sensibilmente il carattere originario e le sorti dell'insurrezione istriana. Detto comando militare, nominato già il 19 settembre da parte dello Stato maggiore croato con l'investitura di Savo Vukelic (comandante) e Joza Skocilic (commissario), due tra i più esperti quadri provenienti dalle zone maggiormente investite dalla guerriglia partigiana croata, si metterà subito all'opera dopo aver raggiunto a tappe forzate Pisino, il 23 settembre, assieme a un folto gruppo di provetti graduati e combattenti della Lika e del Gorski-Kotar e un intero battaglione della XIII divisione litoranea-montana. Si trattò del primo massiccio intervento esterno, che determinerà l'esautorazione del Comando istriano-sloveno, nominato una decina di giorni prima, e quindi la completa riorganizzazione delle formazioni armate create fino allora. [...] Quasi contemporaneamente il Comando operativo nominò un tribunale militare, assente fino allora, con il compito di “giudicare e condannare i fascisti”, arrestati in gran numero fino
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allora, e gli eventuali “nemici del movimento popolare di liberazione”. Secondo il nuovo comandante Savo Vukelic nelle varie unità partigiane appena create si erano annidati “un grande numero di persone contrarie alla lotta, attratte dall'improvvisa ondata rivoluzionaria e addirittura profascisti e spie, che causeranno gravi danni nei momenti più difficili”. […] Ebbero inizio proprio in questo periodo i primi gravi screzi e i contrasti verificatisi in diverse zone dell'Istria nell'ambito delle stesse forze insurrezionali, a causa di evidenti tendenze e manifestazioni sciovinistiche determinatesi nei confronti degli antifascisti e della popolazione italiani. Esisteva sicuramente un piano ben determinato del nuovo comando operativo e di altri organismi croati più importanti di questo, che prevedeva l'occupazione di tutte le località italiane, a prescindere se queste erano o meno amministrate dagli insorti italiani, dai comitati di salute pubblica, o da altri simili organismi. Lo conferma eloquentemente, tra l'altro, l'ordine del Comando operativo dell'Istria affidato, il 25 settembre, ad alcune unità della brigata "Vladimir Gortan" di liberare Valle e Dignano. Tentativo poi fallito a causa della resistenza interna e della vicinanza delle forze tedesche sempre pronte a improvvise sortite. Lo stesso dicasi delle azioni operate proprio in quel periodo dalle forze della II brigata istriana, assieme a quelle slovene, relative all'occupazione di Umago, Isola e Capodistria, che comportarono in quest'ultima città la liberazione di oltre 200 detenuti dalle carceri locali, ma che determinarono pure evidenti inquietudini tra la popolazione e non pochi disguidi in seno alle forze antifasciste locali, registrate dalle stesse formazioni partigiane. A Rovigno era successo addirittura che, seppure gli insorti rovignesi avessero assunto il potere il 16 settembre, a nome del "Fronte nazionale partigiano", sostituendo il comitato di salute pubblica, alcune unità della brigata "Vladimir Gortan", della quale doveva far parte pure il battaglione rovignese, erano intenzionate di entrare a ogni costo in città per rioccuparla a loro volta. All'intransigente operazione si opposero con decisione i rovignesi, reagendo con le proprie forze. I reparti croati furono fermati in periferia e mancò poco che dalle parole si passasse ai fatti, che potevano essere tragici data la presenza di ingenti quantità di armi e di non pochi avventurieri e teste calde. [...] Se il terrore dei bombardamenti, degli incendi, dei rastrellamenti, delle fucilazioni e uccisioni in massa operati dai tedeschi, che non risparmiò niente e nessuno, fu spaventevole, di gran lunga più raccapriccianti e spregevoli si dimostrarono le esecuzioni nelle foibe, che rimarranno un vero e proprio marchio d'infamia impresso nell'intero movimento partigiano. La stragrande maggioranza delle vittime sicuramente erano fascisti tra i più facinorosi, i quali dovevano rendere sicuramente conto delle loro malefatte,
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ma non certo con la morte e per di più cosi orrenda. A parte qualche ras, gerarca e squadrista locale, prevalentemente si trattava però di responsabili minori, quelli che abitualmente si esibivano nelle manifestazioni di regime e destavano forse maggior irritazione per i loro esibizionismi, i gesti e le intemperanze nei confronti dei malcapitati di turno. Tra essi figuravano anche diversi pubblici funzionari, ufficiali giudiziari, esattori delle imposte, carabinieri, guardie forestali e campestri, questurini, vigili urbani, carcerieri, sindacalisti fascisti, controllori, sorveglianti e i capicantiere, specie delle miniere d'Arsia e delle cave di bauxite, nelle quali lavoravano migliaia e migliaia di poveri diseredati, sottoposti a ogni genere di sfruttamento e di angherie. Insomma, un esercito di piccoli despoti, che assieme a tanti commercianti, possidenti e arricchiti grazie al fascismo, costituivano la base di sostegno del regime e fonte di molti guai per la popolazione, specie di quella più povera e indifesa della campagna, adibita al diffusissimo colonato. Erano quindi quasi inevitabili gli asti, i rancori e anche le vendette personali scoppiati come d'incanto allora, proprio in questa "resa dei conti" per la grande avversione esistente nei confronti del fascismo, specie tra le popolazioni di etnia croata e slovena, represse anche nazionalmente. Nessuno però avrebbe mai creduto, neanche lontanamente, che si potesse arrivare a un tanto, anche perché a finire nelle foibe furono tanti innocenti, come le tre giovanissime sorelle Radecca, una delle quali in avanzatissimo stato di gravidanza; il diciottenne finito in una voragine assieme al padre, oppure il parroco di Villa di Rovigno, don Angelo Tarticchio, il corpo del quale presentava orrende mutilazioni. Del suo arresto s'era vantato, in un pubblico simposio, il noto esponente partigiano Milan Iskra, con l'accusa di essere stato denunciato proprio da don Tarticchio durante il fascismo, rilevando addirittura che il primo interrogatorio, dopo essere stato arrestato dai carabinieri, avvenne in sua presenza. Il problema delle foibe venne sollevato subito dopo la loro scoperta anche dai comunisti italiani. Sono note le dure critiche mosse a tale riguardo da Pino Budicin alla I Conferenza regionale del PCC dell'Istria di Brgudac nel novembre 1943. Egli denunciò con foga, assieme a alcuni sconcertanti aspetti nazionalistici di allora, i metodi con i quali furono liquidati i fascisti durante l'insurrezione, fatti questi che, a sua detta, “causarono un notevole disorientamento tra la popolazione italiana”. I comunisti italiani rimproverarono altresì i dirigenti del MPL di slealtà‡, per aver mancato in pieno alla parola data, quando si erano fidati di loro, sia durante i vari incontri e accordi precisi presi, ma soprattutto dalle assicurazioni espresse pubblicamente dal presidente del CPL provvisorio dell'Istria, Joakim Rakovac, sin dai primi giorni dell'insurrezione, secondo il quale i fascisti dovevano subire un regolare
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processo “impedendo nella maniera più energica procedimenti arbitrari e vendette”. Tuttavia, ciò non diminuisce la responsabilità dei membri del PCI di allora, che non seppero impedire simili barbarie. Come non possono essere attenuate le colpe dirette dei principali esponenti del movimento popolare di liberazione istriano e in particolare i mandanti, ancora ignoti, ma facilmente identificabili.49 3.2 La nuova storiografia slovena Uno dei passaggi fondamentali nel rinnovamento degli studi sulle foibe è stato costituito dall'apertura agli studiosi dei fondi sull'argomento conservati presso gli archivi sloveni, verificatasi nella prima metà degli anni novanta. Alcune prime anticipazioni in tal senso erano venute già nel 1990 da una ricerca di Tone Ferenc, collaboratore dell'Istituto per la storia del movimento operaio di Lubiana, che nel corso dei suoi studi aveva scoperto un elenco di italiani di Trieste e Gorizia detenuti nelle carceri di Lubiana e da lì tradotti per ignota destinazione tra la fine del 1945 e gli inizi del 1946. Successive indagini sistematiche, condotte in particolare da Nevenka Troha e Natasa Nemec, hanno condotto all'individuazione di una gran mole di materiale, che è stato messo ben presto a disposizione anche degli studiosi italiani. A dire il vero, il confronto con le nuove fonti non ha prodotto particolari cambiamenti di rotta nell'ambito della storiografia italiana, perché esse sono venute in buona sostanza a confermare la linea interpretativa già affermatasi all'inizio del decennio e fondata, come si è visto, sulla centralità della "presa del potere" da parte del Movimento di liberazione jugoslavo a guida comunista, quale nucleo generatore dell'ondata repressiva della primavera 1945. Più sensibile è stata ovviamente la novità per la storiografia slovena, che si è peraltro liberata abbastanza rapidamente dei precedenti schematismi. Naturalmente, permangono ancora differenze di sensibilità fra gli studiosi sloveni e gli storici italiani, laddove gli storici sloveni tendono spesso a sottolineare gli aspetti ideologici delle violenze, interpretate come repressione anticomunista in tutto e per tutto simile a quella scatenata nel resto della Jugoslavia (si tenga conto che nella sola Slovenia nel periodo maggio-giugno 1945 si contarono circa 10 000 uccisi, e altri 4000 dall'agosto del 1945 al gennaio del 1946) e sfumandone i contenuti nazionali, e quelli italiani attribuiscono in genere un peso maggiore alle rivalità nazionali e alla politica di potenza jugoslava. Tuttavia, si è creato nel corso dell'ultimo 49
L. Giuricin, Il settembre '43 in Istria e a fiume, in "Quaderni" del Centro di ricerche storiche di Rovigno, XI (1997), pp. 7-113 e passim
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decennio del XX secolo un terreno comune d'analisi, sul quale l'appartenenza degli studiosi all'Italia o alla Jugoslavia è divenuta progressivamente meno significativa - anche come elemento differenziante rispetto ad altre proposte interpretative più tradizionali, che pur resistono in entrambi i paesi - della loro condivisione di una metodologia critica di ricerca. Per chi voglia approfondire, oltre ai testi qui citati, vedi: il contributo di N. Nemec, riguardante soprattutto la provincia di Gorizia, contenuto nell'articolo di F. Miccoli, La ricerca storica sulle deportazioni (maggio 1945), in "Iniziativa Isontina", 1994, n. 10, e l'intervento di J. Pijelevc, La questione etnica e quella politica nel dossier sulle foibe pubblicato in "Ragionamenti sui fatti e immagini della storia", VI (1996), n. 54. Nevenka Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l'occupazione jugoslava della Venezia Giulia Si tratta della ricostruzione più organica della tragedia delle foibe offerta dalla storiografia slovena fino a questo momento. Di particolare interesse risultano le categorie in cui le autorità del tempo dividevano arrestati e indiziati. Nel quadro dei "poteri popolari" i tribunali militari erano chiamati a portare a termine il compito storico di fare giustizia nei confronti dei "criminali di guerra" e dei "nemici del popolo". Venivano considerati “criminali di guerra”, senza distinzione di nazionalità, “gli iniziatori, gli organizzatori, i mandanti, i collaboratori e gli esecutori materiali di eccidi di massa, di torture, di deportazioni, i funzionari dell'apparato terroristico e delle formazioni armate terroristiche dell'occupatore e della popolazione locale al servizio dell'occupatore”. Quanto ai “nemici del popolo”, essi venivano definiti così: “gli ustascia, i cetnici, gli appartenenti alle altre formazioni armate al servizio del nemico, i loro organizzatori e collaboratori, le spie, i delatori, i corrieri, tutti i traditori della lotta popolare collegati all'occupante, tutti i disertori del popolo, tutti i demolitori dell'esercito popolare e collaboratori dell'occupante”. Il procedimento davanti ai tribunali militari doveva essere “veloce e senza particolari riguardi, ma completo”. Le persone arrestate dalle autorità jugoslave nel maggio 1945, eccetto alcune che appartenevano alla futura zona B e furono giudicate anche dai tribunali civili, furono giudicate davanti ai tribunali militari. Stando ad alcune fonti coloro che furono passati per le armi entro il mese di maggio 1945 sarebbero stati giudicati dalla corte marziale della IV Armata, jugoslava. [...] L'intento delle autorità jugoslave nella Venezia Giulia era di creare le condizioni per una successiva annessione. Esse rispettarono gli ordini impartiti dal centro e precisamente: “Tutti gli elementi ostili devono
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essere imprigionati e consegnati all'OZNA che avvierà il processo. Va seguito il principio di non concedere subito troppa democrazia, dal momento che più tardi sarà più facile ampliarla che ridurla”. “Chiunque agisca contro l'armata liberatrice jugoslava fa parte dell'esercito di occupazione e in questo senso la vostra linea di condotta (mobilitazione delle masse italiane, ecc.) è corretta”. “Fare subito epurazione, ma non del tipo nazionale, bensì sulla base del fascismo”. Lo scopo principale della repressione era la punizione di coloro, fossero sloveni o italiani, che erano stati collaboratori del fascismo o degli occupatori nazisti. [...] Ma era considerato “fascist” e nemico, come si può leggere nelle direttive citate, anche chi non accettava l'occupazione jugoslava e la prevista annessione, chi non aveva deposto le armi e non considerava l'esercito jugoslavo come liberatore. Era questa la spaccatura tra i “nostri” e gli “altri”, e su tale base accadde che anche alcuni antifascisti, anche alcuni membri del CLN di Trieste, venissero accusati di fascismo e perciò arrestati, anche perché si era erroneamente diffusa la voce che si fossero accordati con Pagnini e con i tedeschi. Fra gli sloveni arrestati possiamo distinguere quelli che avevano collaborato con l'occupatore, e anche persone di tendenza moderata, del cosiddetto centro che il potere jugoslavo sospettava di filooccidentalismo. Questi ultimi furono quasi tutti liberati dopo poco e molti di loro presero parte attiva all'Unione antifascista italo slovena (UAIS). Furono inoltre arrestate - per errore, per vendetta personale, per l'incongruenza delle direttive - anche alcune persone, italiani e sloveni, non impegnate politicamente. Il maggior numero degli arresti avvenne dal 2 al 10 maggio 1945 e coinvolse soprattutto Trieste e Gorizia, menole altre località. Gli arresti, le deportazioni alle quali presto si aggiunsero voci di esecuzioni in massa instaurarono fra gli avversari della Jugoslavia un'atmosfera di paura e terrore. L'ostilità verso le autorità jugoslave andava aumentando. Il ruolo decisivo nell'epurazione e cosi anche negli arresti e nei procedimenti successivi era affidato all'OZNA. [...] Nel periodo dell'occupazione jugoslava della Venezia Giulia le mansioni di polizia venivano svolte dalla Difesa popolare che a Trieste aveva 2800 membri, anche parecchi lavoratori italiani e 250 garibaldini, arrivati a Trieste il 20 maggio 1945. Sembra che fosse molto popolare tra coloro che appoggiavano l'annessione alla Jugoslavia. Essa arrestava le persone in base a mandati di arresto, forniti dall'OZNA, ma non ci sono prove per tutti i casi. A effettuare gli arresti furono anche le formazioni dei Comandi città, le unità del Corpo della difesa del popolo della Jugoslavia (knoj), probabilmente anche altre formazioni della IV armata jugoslava che di regola arrestavano i
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membri delle formazioni armate. Finché non vi fu precisione nella distinzione delle competenze, specie nelle campagne, i compiti della Difesa del popolo furono a volte assunti direttamente dai membri dei comitati di liberazione nazionale i quali sovente decidevano pure chi andava arrestato. La gente veniva arrestata in base agli elenchi, predisposti già durante la guerra e poi completati dagli informatori dell'OZNA, dalla popolazione, dagli organi politici e dagli organi del potere, ma anche in base alle denunce anonime. Salvo eccezioni, tali denunce non possono essere qualificate come opera di delazione, trattandosi in gran parte di segnalazioni che erano ispirate dal desiderio di infliggere una sconfitta definitiva al fascismo e dall'aspirazione a un "futuro migliore". […] Negli elenchi gli indiziati erano qualificati come “squadristi, delatori, fascisti, SS, collaboratori delle SS, spie delle SS, appartenenti alla Landschutz, collaboratori dell'occupatore, occultatori di materiale bellico e di armi, agenti della questura, della polizia, dell'OVRA, membri della X MAS, Domobranci (formazioni collaborazioniste slovene), membri della milizia fascista, brigatisti neri, delatori di partigiani, membri della banda Collotti, rastrellatori”, nonché “partecipanti alle manifestazioni filoitaliane del 5 maggio 1945 a Trieste”. […] Fra gli arrestati si possono distinguere in generale i membri delle formazioni armate e i civili. I primi, arrestati in principio dalle formazioni militari, tranne gli uccisi nei primi giorni, vennero inviati nei campi di prigionia come prigionieri di guerra. Quelli tra di loro indiziati di crimini di guerra o di collaborazione con l'occupatore o con il fascismo furono insieme con i civili passati allo stato di “detenuti politici” per crimini di guerra. Fra i “detenuti politici” erano compresi anche membri delle forze armate o altre organizzazioni in generale come “repubblichini, militi fascisti, milizia fascista, membri attivi dei Domobranci, Cetnici e Nedicevci, collaboratori della guardia bianca o guardia azzurra, dell'occupatore, della questura, dei servizi tedeschi”. Per i civili in principio l'ordine di arresto fu dato dall'OZNA, gli arresti furono compiuti dalla Difesa del popolo, dai singoli organi dell'OZNA e in alcuni casi anche dalle formazioni militari. Erano arrestati anche coloro che durante l'occupazione jugoslava avevano compiuto azioni passibili di sanzioni secondo i decreti del Comando città. Questi arresti, effettuati dopo il ripristino del tribunale, furono eseguiti dalla Difesa del popolo, ma con competenze limitate. Gli indiziati di trasgressioni politiche vennero consegnati all'OZNA, mentre per gli interrogatori degli altri, anche in merito alle violazioni dell'ordine militare, era competente il tribunale militare. Va sottolineato che questa era la prassi generale, ma le imprecisioni e le incongruenze delle direttive potevano causare eccezioni. [...]
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Numerosi arrestati furono soppressi poco dopo l'arresto e gettati negli abissi carsici oppure in alcune miniere dismesse, nelle foibe. La maggior parte delle esecuzioni ebbe presumibilmente luogo fra il 2 e 15 maggio 1945, alcune più tardi, tuttavia probabilmente non più su scala così vasta. Non vi sono prove dirette in proposito, tuttavia è possibile arguire in base alle testimonianze rese sulle modalità di altre esecuzioni in Slovenia che i giustiziati fossero stati prima passati per le armi e quindi gettati nelle cavità. È probabile che fra quanti erano stati passati per le armi qualcuno fosse stato gettato nell'abisso ancora vivo. Alcuni degli arrestati furono eliminati arbitrariamente e senza l'assenso delle autorità superiori da attivisti locali o da militanti della Difesa del popolo. Queste liquidazioni avvenivano prevalentemente nelle campagne e coinvolsero soprattutto sloveni. Circa le modalità delle esecuzioni non si conservano fonti primarie o perlomeno esse non si trovano in Slovenia. [...] Se le liquidazioni avvenute nei primi giorni del dopoguerra possono essere ancora qualificate come azioni impulsive, tese soprattutto a punire gli orrori della guerra fascista e dettate dalla ancor viva impressione per i numerosi caduti nel corso degli ultimi scontri per la liberazione di Trieste e della Venezia Giulia nonché dai timori circa il ruolo che i soppressi avrebbero potuto svolgere in un eventuale conflitto fra l'armata jugoslava e gli alleati occidentali, tale qualifica non appare più sostenibile per le uccisioni compiute a distanza di mesi o addirittura di anni. Un'aggravante particolarmente pesante a carico delle autorità jugoslave dell'epoca appare essere, oltre alla segretezza che avvolgeva i processi, specie il fatto che fra gli scomparsi vi fossero anche membri del CLN e partigiani italiani. Gli altri deportati erano trattati come prigionieri di guerra. I prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia possono essere divisi tra gli appartenenti alle formazioni armate, arrestati nei primi di maggio 1945, e i soldati italiani presenti sul territorio jugoslavo come prigionieri di guerra dei tedeschi. Questi ultimi, man mano che la Jugoslavia veniva liberata, diventavano prigionieri della Jugoslavia come membri di un esercito che fino al settembre 1943 era stato esercito di occupazione. L'esercito jugoslavo trattenne come prigionieri anche gli uomini che attraverso la Jugoslavia ritornavano dalla prigionia tedesca negli altri paesi. Come prigionieri di guerra furono trattenuti anche alcuni che si erano uniti ai partigiani jugoslavi, ma furono rilasciati in breve tempo. Le fonti italiane stimano il numero dei prigionieri tra 17 000 e 40 000. Secondo i dati forniti dalle autorità jugoslave alla Croce rossa internazionale, il numero degli ex militari italiani prigionieri in Jugoslavia era di 17 000 nell'ottobre del 1945, di 12 000 nel gennaio del 1946, di circa 1000 nel febbraio del 1947. Secondo questi dati nel settembre del 1947 quasi tutti i
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prigionieri di guerra erano stati rilasciati. La stessa Croce rossa internazionale spedì alle autorità jugoslave un elenco con i nominativi di 9892 prigionieri di guerra e internati italiani in Jugoslavia. Più rilevante è la questione di coloro che furono considerati prigionieri di guerra dopo l'arresto nel maggio 1945 nella Venezia Giulia. “Quanti non sono colpevoli dei crimini maggiori li tratteremo come i prigionieri di guerra. Ma anche questi devono essere oggetto di attenta sorveglianza. Molti disertori sono degli infiltrati o membri della GESTAPO. Ma non dobbiamo considerarli tutti dei GESTAPO”, raccomandava il rappresentante dell'OZNA il 26 aprile 1945. Nonostante queste direttive alcuni che sarebbero dovuti essere considerati prigionieri di guerra, sono stati passati per le armi pochi giorni dopo l'arresto. I campi di prigionia furono dapprima diretti e custoditi dall'esercito. Nell'agosto del 1945 passarono sotto la giurisdizione di un reparto speciale del Ministero degli Interni e vennero affidati alla milizia popolare. Nei primi mesi, per l'elevato numero dei prigionieri, per il disordine negli approvvigionamenti in tutto il paese, per le disastrose condizioni abitative e igieniche, ma anche per la crudeltà di alcuni sorveglianti, le condizioni dei prigionieri erano pessime e molti morirono. Particolarmente gravi erano le condizioni nel campo dei prigionieri di guerra a Borovnica, dove si trovava la maggior parte dei prigionieri di guerra italiani, arrestati nel maggio 1945, come pure alcuni altri che attraverso la Jugoslavia tornavano dalla prigionia tedesca. [...] Il Ministero per gli Interni jugoslavo, ritenendo che nei primi mesi il trattamento dei prigionieri non era consono ai regolamenti, nell'agosto 1945 esigeva che le condizioni abitative e igieniche dei prigionieri e l'atteggiamento dei sorveglianti nei loro confronti migliorassero e si adeguassero alla legge sulla convenzione riguardo al trattamento dei prigionieri di guerra del 1929 e alle istruzioni emanate dal Ministero della Difesa jugoslavo. I primi prigionieri di guerra italiani, arrestati nel maggio del 1945 furono rilasciati già nel giugno. I rilasci continuarono anche nei mesi successivi, con una temporanea interruzione nel tardo autunno 1945. A questo proposito è il caso di ricordare come la liberazione dei prigionieri non fosse stata vista con favore presso determinati ambienti della Venezia Giulia, essendo stati in molti casi rilasciati elementi che avevano partecipato alle rappresaglie nei villaggi sloveni sul Carso e altrove. [...] La Jugoslavia condizionava il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani al rimpatrio degli sloveni e dei croati che si trovavano in Italia e con l'estradizione dei vari esiliati politici jugoslavi, trattenuti nei campi di raccolta italiani ma sotto la giurisdizione dell'amministrazione alleata. Nel settembre 1947 quasi tutti i prigionieri di guerra erano stati già rilasciati, alcuni di loro rimasero in libertà in territorio jugoslavo e si trovarono un lavoro. [...] Le ragioni degli arresti e delle
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liquidazioni in massa compiuti da parte delle autorità jugoslave nel maggio 1945 furono molte e intrecciate fra di loro. Furono conseguenza dei provvedimenti di snazionalizzazione presi dalle autorità italiane contro sloveni e croati nella Venezia Giulia, del comportamento nei riguardi della sinistra italiana, dei provvedimenti delle autorità di occupazione italiane nella provincia di Lubiana durante la guerra e infine dell'attività dei collaborazionisti italiani, sloveni e croati durante. l'occupazione nazista. Analizzando i dati sui morti possiamo constatare che la maggioranza dei liquidati erano reali o presunti collaboratori del fascismo oppure dei tedeschi. Ne facevano parte anche gli appartenenti alle formazioni militari, paramilitari e di polizia, avendo personificato lo stato fascista ed eseguito i suoi ordini, ma spesso personalmente non colpevoli di reati punibili con la pena capitale. Gli arresti e le esecuzioni di collaborazionisti, anche solo presunti, coinvolsero all'epoca, nella quale scoccò l'ora della resa dei conti per tutti gli orrori della guerra, tutta l'Europa occupata. Ma nella Venezia Giulia la cosiddetta "pulizia" veniva eseguita dalle autorità jugoslave (e anche in altre parti della Jugoslavia), con un ulteriore scopo: impedire al più presto il formarsi di una potenziale opposizione che potesse presentare un ostacolo alle nuove autorità comuniste e - nei territori contestati - contrastare anche chi era contro l'annessione alla Jugoslavia. Così gli arresti (e meno spesso le uccisioni) colpirono anche gli antifascisti. Alcune persone furono uccise per errore, altre per motivi di vendetta personale.50 3.3 La Commissione mista italo-slovena Nel 1993 il governo italiano e quello sloveno costituirono una Commissione mista storico-culturale incaricata di studiare, in spirito di collaborazione, i rapporti fra i due popoli a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Lo stimolo alla formazione della Commissione era stata proprio la volontà di ripensare in termini critici il problema delle foibe, espressa da una mozione approvata unanimemente dal consiglio comunale di Trieste il 24 settembre 1990. Il mandato affidato alla Commissione fu però assai più largo, e ciò ha favorito la contestualizzazione del problema delle foibe. Alla questione delle foibe, in ogni caso, sono stati dedicati alcuni passaggi chiave del rapporto finale, consegnato ai rispettivi Ministeri degli esteri nell'estate del 2000, che copre il periodo fra il 1880 e il 1956. Ovviamente, tale documento non vuole 50
N. Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l'occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in G. Valdevit (a c. di), Foibe. Il peso del passato..., eh., pp. 59-95
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essere una sorta di "storia ufficiale" né tantomeno pretende di costituire un punto d'approdo definitivo per le ricerche, ma rappresenta piuttosto un terreno minimo di intesa fra storici italiani e sloveni su alcuni temi che in passato erano stati oggetto sia di interpretazioni fortemente divergenti, come pure di semplificazioni e distorsioni unilaterali a scopo polemico. Il primo brano riportato riguarda l'autunno del 1943. In realtà, si tratta di un semplice cenno, dal momento che le vicende dell'Istria, ora appartenente alla Croazia, esulavano dal mandato della Commissione, ma i suoi componenti hanno ritenuto egualmente necessario fare riferimento alle foibe istriane, per le implicazioni generali che esse ebbero sui rapporti fra italiani e slavi. Il testo puntualizza sinteticamente le ragioni delle violenze, ponendone principalmente in luce la dimensione politica. Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano accettate dalla maggioranza della popolazione italiana. Influì anche negativamente l'eco degli eccidi di italiani dell'autunno del 1943 (le cosiddette "foibe istriane") nei territori istriani ove era attivo il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità. [...] Il secondo brano è dedicato agli avvenimenti della primavera 1945 e fa proprie, in modo sintetico, tutte le acquisizioni della più recente storiografia. Così, per quanto riguarda il numero delle vittime, in mancanza di cifre certe, si preferisce indicare l'ordine di grandezza di deportazioni e uccisioni; dal punto di vista interpretativo, il documento accoglie la distinzione fra clima da resa dei conti e sostanza politica della repressione, che, come si è visto, era comparsa nella storiografia della fine degli anni ottanta. Del pari, le principali categorie utilizzate dalla Commissione sono quelle dell'"epurazione preventiva" e della "violenza di stato", che abbiamo già incontrato in precedenza. L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona
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di Trieste, nel goriziano e nel capodistriano a un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata - in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo - in centinaia di esecuzioni sommarie immediate - le cui vittime vennero in genere gettate nelle "foibe" - e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani.51 3.4 Ricerca e divulgazione Come si è visto, una delle caratteristiche del dibattito storiografico sulle foibe consiste certamente nella difficoltà che esso stesso ha incontrato a uscire dall'ambito territoriale giuliano o da quello, ancor più ristretto, costituito dalle associazioni dei familiari delle vittime e dei profughi giuliano-dalmati. Ciò ha fatto sì che le acquisizioni maturate sul piano della ricerca filtrassero solo con grande lentezza nella storiografia nazionale, per non parlare dell'opinione pubblica. Così, ciclicamente, la questione delle foibe è comparsa a distanza di anni su alcuni mezzi di informazione, ripetendo generalmente il medesimo schema: un'appassionata denuncia del silenzio sul problema; la sua presentazione semplificata, solitamente centrata sugli aspetti più sconvolgenti della vicenda e letta preferibilmente secondo la categoria del genocidio etnico; infine, ma non sempre, qualche polemica sui numeri delle morti e sulle responsabilità politiche delle stragi. Poi, di nuovo, ilsilenzio. 51
Il testo del rapporto finale della Commissione non è stato pubblicato ufficialmente dal governo italiano, ma una versione accreditata, in italiano e sloveno, Ë stata pubblicata da parte dell'Istituto per la storia contemporanea di Lubiana nel corso dell'anno 2001; da tale versione sono stati tratti i due brani qui riportati, rispettivamente alle pp. 98 e 101-102
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Escono da tale schema alcune opere dichiaratamente divulgative ma comunque valide, che si appoggiano ai risultati delle ricerche condotte dagli studiosi di cui si è detto nei capitoli precedenti, e che si segnalano quindi come letture utili per un primo approccio al problema. Il più lontano nel tempo è il libro di G. La Perna, Pola-Istria-Fiume 1943-1945. La lenta agonia di un lembo d'Italia, Mursia, Milano 1993, che si sofferma ampiamente sulle foibe istriane del 1943, mentre non prende in considerazione quanto accaduto a Trieste e Gorizia subito dopo il termine del conflitto. Di poco successivo è l'agile volumetto di F. Molinari, Istria contesa. La guerra, le foibe, l'esodo, Mursia, Milano 1995, in cui la vicenda delle foibe è inserita in un sintetico ma chiaro profilo della storia istriana fra il primo dopoguerra e gli anni cinquanta. Di più recente pubblicazione e editi quasi contemporaneamente - segno evidente di una nuova sensibilità diffusa sull'argomento, e quindi di un rinnovato interesse da parte dell'editoria - sono i due volumi rispettivamente di G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria, Mondadori, Milano 2002, e di G. Rumici, Infoibati (1943-1945) I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002. Entrambi contestualizzano il dramma delle foibe nel quadro delle vicende belliche e resistenziali al confine orientale d'Italia, nonché dell'invasione italiana della Jugoslavia e della conseguente nascita del movimento partigiano di Tito. Il libro di Oliva si spinge anche più indietro, ripercorrendo le tappe essenziali del "fascismo di frontiera", mentre quello di Rumici pubblica anche una raccolta di testimonianze relative sia al 1943 che al 1945. Sul piano interpretativo, sia il volume di Oliva che quello di Rumici, pur con diversità di accenti, fanno sostanziale riferimento alle tesi della "nuova storiografia". Quanto alle riviste di alta divulgazione, infine, corposi dossier sulle foibe sono stati pubblicati in "Storia e dossier", n. 116, maggio 1997 e, più recentemente, in "Millenovecento", marzo 2003, n. 5, mentre la rivista "I viaggi di Erodoto", nel numero 34, gennaio-aprile 1998, ha affrontato il tema delle foibe nell'ambito di un complessivo servizio intitolato il confine orientale. Una storia rimossa, e il periodico dell'IRCI "Tempi e Cultura" al numero 3 del 1998 ha allegato uno "speciale scuola" dal titolo Foibe ed Esodo. Le foibe come strumento di legittimazione politica Il problema delle foibe giuliane è stato alle sue origini, ed è poi rimasto per decenni, strettamente collegato alle esigenze della lotta politica soprattutto, ma non solo, a livello locale. Ciò spiega in parte la difficoltà che la ricerca storica ha incontrato nel misurasi con un tema i cui contenuti venivano senza interruzione utilizzati come argomenti polemici nella competizione fra i partiti.
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Si può ben dire che la posizione assunta sul problema delle foibe ha costituito uno strumento di legittimazione per le forze politiche che nel corso della storia repubblicana hanno interpretato un ruolo di governo locale, ma anche nazionale. Tale funzione è stata svolta per lungo tempo dalla Democrazia cristiana, che nell'età degasperiana si è affermata come principale difensore degli interessi nazionali al confine orientale. A livello giuliano, fondamentale è stata al riguardo l'opera del sindaco di Trieste Gianni Bartoli, che non a caso abbiamo già incontrato come autore di uno dei più attendibili elenchi di infoibati. A partire dagli anni sessanta - dopo la sovraesposizione patriottica del precedente decennio, legata alla pendenza della "questione di Trieste" - l'interesse dei partiti di governo per la vicenda delle foibe cominciò a scemare, per un complesso di ragioni. A livello statuale, la Jugoslavia cessava di essere per l'Italia un minaccioso nemico incombente alla frontiera orientale, per diventare invece sempre più un ottimo vicino: vale a dire, un partner economico con il quale era possibile combinare buoni affari e, soprattutto, una media potenza non allineata e gelosa della sua autonomia internazionale, capace quindi di interpretare un ruolo strategico fondamentale, quello di cuscinetto nei confronti delle forze del patto di Varsavia. Ciò significava due cose. In caso di attacco sovietico, l'eventuale resistenza jugoslava avrebbe concesso una settimana in più all'Italia prima che l'Armata rossa e le divisioni ungheresi e cecoslovacche arrivassero sull'Isonzo, verosimilmente provate da una resistenza che si supponeva accanita, e forse avrebbe anche dato la possibilità di una difesa congiunta della vulnerabilissima "soglia di Gorizia". In tempo di pace, invece, vi sarebbe stato un consistente risparmio sulle spese belliche, a tutto vantaggio dello sviluppo economico. A livello giuliano invece, si affermò in quegli anni una nuova dirigenza politica, formata da cattolici democratici e socialisti, consapevole che l'intera area di frontiera, devastata dal nuovo tracciato di confine, sarebbe crollata dal punto di vista economico se non si fosse avviata una politica di collaborazione con la Jugoslavia. Ciò significò la rottura di ogni rapporto con la tradizione nazionalista italiana e l'avvio di una politica di ricucitura dei rapporti fra italiani e sloveni in Italia e di buone relazioni con la Repubblica federativa jugoslava: la nuova parola d'ordine divenne quindi quella del "confineponte" e portò con sé anche la sordina a temi dirompenti come quello delle foibe, assieme a quello dell'esodo istriano, che da parte jugoslava venivano intesi come una provocazione politica. Sotto questo profilo, le cose cominciarono a cambiare verso la fine degli anni ottanta, quando cospicui fermenti di novità presero a scuotere la vita politica jugoslava, e in una prima fase sembrò che essi potessero condurre a una
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democratizzazione del regime e non al dissolvimento dello stato. La situazione quindi sembrava propizia ai ripensamenti e l'occasione fu colta dalla federazione triestina del PCI i cui vertici - con un gesto di rottura nei confronti della precedente linea del partito - nell'agosto del 1989 si recarono in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza. Negli anni successivi le nuove formazioni politiche eredi del Partito comunista - prima PDS e poi DS - avrebbero fatto della revisione di giudizi sulle foibe e sull'esodo e, più in generale, sulla storia del confine orientale, una delle tappe più significative della loro ricerca di una legittimazione nazionale post-comunista, considerata quale supporto strategico alla loro candidatura quale forza di governo del paese nell'ambito dello schieramento di centrosinistra. Non a caso, nel marzo del 1998 proprio a Trieste nel teatro Verdi - uno dei simboli della tradizione patriottica locale - venne organizzato un pubblico incontro tra l'allora presidente della Camera, Violante, e il segretario di AN, Fini, chiaramente destinato a porre il suggello al disegno di reciproca legittimazione tra due partiti che - al di là dei cambi di denominazione - erano rimasti per quasi un cinquantennio esclusi dall'area di governo, in quanto espressioni di ideologie incompatibili con un sistema politico liberaldemocratico. La medesima esigenza di rilegittimazione che ha spinto gli eredi del PCI a ripensare completamente i termini della questione nazionale al confine orientale, ha sollecitato pure le forze di destra, e segnatamente AN, a riproporre massicciamente il tema delle foibe come uno dei simboli di una sorta di contro-storia attraverso la quale rinvigorire un'identità nazionale giudicata in grave crisi. Tale specie di revisionismo, più che sul piano storiografico - ove ci si è limitati in genere a riproporre tesi e personaggi vecchi di cinquant'anni, senza tener in gran conto l'evoluzione degli studi - si è esercitata sul piano dell'uso pubblico della storia: è in questa prospettiva infatti che si inseriscono sia la battaglia per l'intitolazione ai "martiri delle foibe" di vie e piazze di un gran numero di comuni d'Italia, che la predisposizione di progetti di legge per la concessione di riconoscimenti simbolici ai congiunti delle vittime delle stragi, progetti che - significativamente - utilizzano gli equivoci che abbiamo visto essere insiti nel termine "infoibati", per considerare come tali anche tutti i caduti dell'esercito di Salò alla frontiera orientale. Entrambe le più recenti operazioni di legittimazione, da destra e da sinistra, più che antagoniste risultano dunque convergenti, e come tali presentano un tratto comune: tendono cioè a proiettare sul passato lo schema bipolare caratteristico del nuovo quadro politico italiano fondato sul sistema elettorale maggioritario. A leggere infatti alcuni interventi degli ultimi anni, sembrerebbe che per un cinquantennio storici e partiti politici si siano divisi nei giudizi sulle tragedie
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giuliane fra comunisti e nazionalisti, fra chi - simbolicamente - considerava come propri i morti della Risiera e chi quelli delle foibe. Ciò è senz'altro vero per le forze politiche e la storiografia di sinistra e di destra, ma non lo è affatto per i partiti che rappresentavano fra l'altro la maggioranza dei cittadini e per gli storici di matrice ciellenista, che si ispiravano cioè all'esperienza di quel Comitato di liberazione nazionale giuliano, che a partire dall'autunno del 1944 rimase privo del contributo dei comunisti, si batté contro i nazifascisti e venne perseguitato dalle autorità jugoslave. All'interno di tale cultura politica democratica, Risiera e foibe, fenomeni distinti ma egualmente drammatici, sono stati continuativamente percepiti e giudicati come frutto di ideologie, metodi di lotta e sistemi politici radicalmente estranei agli ideali liberal-democratici cui si ispiravano le istituzioni dello stato italiano; non a caso, è nell'ambito di quella storiografia democratica, e non di altre, che è partito il rinnovamento degli studi sul problema delle foibe come pure su quello dell'esodo istriano. Scheda 5. La Resistenza italiana nella Venezia Giulia a cura di Raoul Pupo Nella Venezia Giulia la Resistenza italiana scontò le difficoltà suscitate dalle contrapposizioni nazionali, esasperate dalle vicende belliche, che attraversavano la società locale. Infatti, mentre sloveni e croati vedevano nella lotta di liberazione l'occasione per liberarsi dal dominio italiano, fra gli italiani larghe furono le perplessità nei confronti di un movimento partigiano che si vedeva egemonizzato dal Partito comunista jugoslavo, di cui erano note le rivendicazioni territoriali sull'intera regione. Assai presto quindi, complici anche gli echi delle foibe istriane, non solo presso l'alta borghesia e i ceti medi urbani, ma anche nella realtà popolare delle cittadine e delle campagne italiane dell'Istria, si diffuse una "psicosi dell'assedio", che rese più ardua quella scelta per una militanza armata nella Resistenza, che rimase, infatti, sofferto patrimonio di minoranze antifasciste, politicamente consapevoli e preoccupate di accompagnare la Resistenza, in quanto lotta per la libertà, alla battaglia per il mantenimento della sovranità italiana. Tale fu l'ispirazione dei Comitati di liberazione nazionale, che svolsero un ruolo attivo a Trieste, nell'isontino e in alcune cittadine della costa nord-occidentale dell'Istria. Nel resto della penisola istriana, invece, costituire i CLN non risultò possibile e le organizzazioni resistenziali italiane furono ben presto assorbite da quelle croate, che nel giugno del 1944 provvidero anche a fondare un'"Unione degli italiani" destinata a favorire la diffusione delle parole d'ordine filojugoslave. Allo stesso modo, il Movimento di liberazione sloveno e
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quello croato si preoccuparono di tenere sotto controllo e di limitare la consistenza delle formazioni partigiane italiane operanti nella regione. Non mancarono episodi inquietanti, come la fucilazione, da parte dei partigiani sloveni, dei vertici del battaglione "Giovanni Zol", operante per alcuni mesi nei dintorni di Trieste, prima che venisse sgominato dai tedeschi; mentre al battaglione "Pino Budicin", che combatté in Istria e sul Gorski Kotar, non venne consentito di trasformarsi in brigata autonoma e i volontari italiani che vi affluivano vennero dispersi nelle formazioni croate. All'interno della popolazione italiana invece, vi era una componente sociale, la classe operaia, che riteneva possibile e opportuno porre in secondo piano la questione nazionale di fronte all'urgenza della lotta contro i tedeschi e alla prospettiva di innestare su di essa un radicale disegno di trasformazione dei rapporti di classe. Per gli operai di Trieste, di Monfalcone, di Fiume e delle cittadine costiere istriane, i successi del Movimento di liberazione jugoslavo sembravano infatti preludere alla costruzione di una nuova società socialista e il mito nascente di Tito si saldava con quello di Stalin, del quale sembrava costituire la proiezione ravvicinata, mentre l'Esercito popolare di liberazione jugoslavo appariva l'avanguardia dell'Armata rossa e il portatore quindi, anche per la Venezia Giulia, di una possibile soluzione comunista. Nel proletariato giuliano, in larghissima maggioranza di lingua e cultura italiana, esisteva dunque un'apertura di fondo verso la guida politica del movimento partigiano jugoslavo, non però in chiave nazionale ma, al contrario, in un'ottica internazionalista. Proprio in forza di ciò, fino all'estate del 1944 il PCI giuliano, cui facevano riferimento le maggiori unità partigiane italiane operanti nei dintorni di Trieste e Gorizia e dipendenti dal CLN, poté fungere da ponte fra la Resistenza italiana e il Movimento di liberazione sloveno, presente in forze nelle medesime zone; nessun negoziato fu invece possibile con i comunisti croati che, come si è detto più sopra, avevano già risolto in maniera più spiccia il problema del rapporto con gli italiani. Si arrivò così ai primi di luglio a una serie di accordi fra il Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia, con sede a Milano, e i rappresentanti del Fronte di liberazione sloveno, accordi che sembrarono gettare le basi per una stabile collaborazione tra le parti, attraverso il rinvio al dopoguerra di ogni discussione sulle controverse questioni di confine. Le cose invece andarono in maniera assai diversa. Nella tarda estate del 1944 i tedeschi sgominarono l'intera dirigenza del PCI di Trieste, che, nonostante le molte pressioni cui era sottoposta, si era impegnata a mantenere
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la sua azione nell'alveo della Resistenza italiana; subito dopo, il controllo del Partito comunista giuliano venne assunto dagli elementi legati al Partito comunista sloveno, che nel frattempo aveva denunciato gli accordi con il CLNAI e rese esplicite le proprie rivendicazioni su tutti i territori a est dell'Isonzo. I comunisti giuliani finirono quindi per aderire alle tesi annessioniste jugoslave e il PCI locale interruppe i rapporti con il CLN di Trieste, che venne perciò a trovarsi in una situazione di estrema difficoltà. Più articolato era invece il quadro politico a Gorizia e nell'Istria nord-occidentale, dove i comunisti continuarono a far parte dei Comitati, mentre a Pola la Resistenza italiana non riusciva a esprimersi in maniera autonoma e a Fiume prendeva forza il movimento autonomista, che intendeva riproporre la soluzione dello stato libero già prevista nel 1920 dal trattato di Rapallo, anche come reazione all'annessionismo croato. Nonostante ciò, e nonostante le persecuzioni naziste e fasciste - in meno di due anni il CLN di Trieste venne distrutto e ricostituito tre volte - le forze antifasciste italiane (Democrazia cristiana, Partito d'azione, Partito liberale, Partito socialista) riuscirono a tenere in piedi la loro rete cospirativa e al momento del crollo tedesco la Resistenza italiana poté così giuocare un ruolo politico rilevante. Falliti infatti i tentativi di accordo dell'ultima ora fra il Comitato di liberazione nazionale e il Fronte di liberazione sloveno - che desiderava porre sotto il proprio controllo tutte le forze antifasciste giuliane - e respinte dal CLN le proposte avanzate dal prefetto Coceani per un ambiguo "Fronte di salvazione nazionale", alla fine di aprile il Comitato di liberazione nazionale da un lato e Unità operaia (organizzazione di massa italo-slovena a guida comunista) dall'altro, organizzarono ciascuna per proprio conto a Trieste un'insurrezione contro i tedeschi. Il CLN legittimava così sul campo il diritto dell'antifascismo democratico a rappresentare agli occhi delle potenze alleate gli intendimenti dei giuliani che volevano il mantenimento della sovranità italiana, mentre nella società giuliana si apriva una spaccatura che gli avvenimenti successivi avrebbero ulteriormente allargato. Nei medesimi giorni a Gorizia il maggior problema fu invece quello della difesa della città dal passaggio delle. colonne di cetnici, incalzati dai partigiani sloveni, alla disperata ricerca di una via di fuga verso la pianura friulana. Dopo l'occupazione jugoslava della regione il CLN rientrò nella clandestinità e vi rimase fino a quando le truppe jugoslave non furono costrette ad abbandonare Trieste e Gorizia. I comunisti italiani e sloveni diedero invece unitariamente vita, nell'estate del 1945, al Partito comunista della Regione Giulia (PCRG), formalmente autonomo sia dal PCI che dal PCS, ma di fatto subordinato al partito sloveno;
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le sezioni del PCI che erano ancora attive nelle cittadine istriane del golfo di Trieste vennero sciolte d'autorità e ricostituite con elementi fedeli agli jugoslavi. Il PCRG fece propria la richiesta di annessione alla Jugoslavia avanzata dalle organizzazioni slovene e rifiutò l'invito, rivolto da Togliatti, a inviare un proprio rappresentante alla Consulta. Nella parte della Venezia Giulia (la zona A) occupata dagli angloamericani il PCRG mobilitò la locale classe operaia contro il Governo militare alleato, mentre in quella occupata dalle truppe jugoslave (la zona B) collaborò fattivamente all'amministrazione del territorio e alla repressione del dissenso. Scheda 6. Il Movimento di liberazione jugoslavo a cura di Raoul Pupo Sia dal punto di vista organizzativo che da quello politico, il Movimento di liberazione jugoslavo differiva in maniera abbastanza profonda da quello italiano. Infatti, mentre la Resistenza italiana si fondava su organismi unitari, i Comitati di liberazione nazionale, in cui erano presenti su di un piano di parità tutte le forze antifasciste, il Movimento di liberazione jugoslavo era invece egemonizzato dal Partito comunista, che attraverso la lotta partigiana si proponeva il duplice obiettivo di liberare il paese dagli invasori e di conquistare il potere. Nella Venezia Giulia i comunisti fecero proprie le tradizionali rivendicazioni del nazionalismo sloveno e croato, che ambiva a ricomprendere entro compagini statali slave tutti i territori nelle cui campagne viveva popolazione slovena o croata, a prescindere dall'esistenza al loro interno di centri urbani abitati in larga prevalenza da italiani, si trattasse di città di cospicue dimensioni (come Trieste, Fiume e, su scala più ridotta, Pola), delle cittadine d'impronta veneta della costa istriana (come Capodistria, Isola, Pirano, Cittanova, Umago, Parenzo, Rovigno, ecc.), ovvero dei borghi sparsi nell'Istria interna (come Buie, Montona, Verteneglio, Visinada ecc.). Al fondo di tali rivendicazioni stava una concezione della nazione, assai diffusa tra i popoli slavi viventi nell'Europa centro-orientale e privi in genere di tradizioni urbane, che privilegiava le campagne sulle città, considerate come "isole" etniche non slave, destinate a essere prima o poi assorbite dal "mare" dell'etnia rurale. La parola d'ordine dell'annessione alla Jugoslavia dell'intera Venezia Giulia garantì al Movimento di liberazione sloveno e croato l'appoggio di massa delle popolazioni slave, che l'oppressione fascista aveva ulteriormente motivato al distacco dallo stato italiano. Tuttavia, al fondo della scelta compiuta dalla dirigenza comunista jugoslava non stavano solamente motivazioni di ordine nazionalista: per i comunisti jugoslavi il possesso dei territori giuliani,
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e in particolare di Trieste, assumeva un'importanza notevole anche ai fini del successo del loro progetto rivoluzionario. Era diffusa infatti la convinzione che, se Trieste fosse rimasta in un'Italia con tutta probabilità controllata dalle potenze occidentali, attraverso la città giuliana inglesi e americani avrebbero potuto cercare di influire sulla situazione politica jugoslava, rendendo più difficile la conquista del potere per i comunisti guidati da Tito. Viceversa, una Trieste jugoslava avrebbe potuto costituire un'ottima base per la diffusione della rivoluzione verso l'Italia settentrionale. Spinte nazionali, motivazioni ideologiche e calcoli strategici si combinavano dunque nel rendere prioritario da parte jugoslava l'obiettivo della conquista del territorio giuliano. Per raggiungere un simile traguardo, il Movimento di liberazione jugoslavo poteva contare su di una netta prevalenza sul piano organizzativo e militare, dal momento che l'afflusso di sloveni e croati nelle file partigiane consentiva di mettere in campo un gran numero di unità, mentre ogni sforzo venne compiuto per porre sotto controllo le forze resistenziali italiane operanti nei territori rivendicati. Tale compito venne facilitato dal fatto che il movimento partigiano jugoslavo, oltre a godere di grande prestigio per i successi ottenuti contro i nazifascisti, si presentava come portatore di una soluzione rivoluzionaria alla lotta di liberazione. La capacità di attrazione del modello jugoslavo fu quindi fortissima non solo sui comunisti italiani presenti nella Venezia Giulia, che finirono in massima parte per aderire alla linea del Partito comunista sloveno e di quello croato, ma sugli stessi quadri del PCI che nell'Italia settentrionale si battevano contro i tedeschi e che avrebbero desiderato dare uno sbocco rivoluzionario alla loro azione. Di conseguenza, quando nell'autunno del 1944 i comunisti jugoslavi posero in termini ultimativi e a tutti i livelli il problema dell'annessione, il PCI non fu in grado di resistere alla pressione, nonostante Togliatti si rendesse conto che un assenso esplicito alle richieste jugoslave avrebbe compromesso il ruolo del partito come difensore degli interessi nazionali. Nell'ultimo semestre di guerra perciò, mentre le unità partigiane garibaldine che agivano nella Venezia Giulia e nel Friuli orientale si ponevano sotto il comando jugoslavo, il PCI mantenne sulla questione dei confini una linea ambigua e oscillante, nell'attesa che la situazione si decidesse sul campo. Scheda 7. Le forze armate della RSI nella "Zona d'operazioni litorale adriatico" a cura di Roberto Spazzali Le forze armate della RSI nella "Zona d'operazioni litorale adriatico" dipendevano operativamente dai comandi tedeschi; pur godendo di propri
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comandi e di propria gerarchia, i reparti italiani furono inseriti nei dispositivi difensivi tedeschi. Secondo alcuni calcoli sufficientemente attendibili, nei reparti italiani risultavano inquadrati circa quarantacinquemila uomini, molti però destinati a servizi logistici, di genio o di carattere sedentario. Infatti alcune unità erano costituite solo nominalmente con effettivi non adeguati a garantirne la perfetta efficienza. Le forze dell'esercito erano costituite nel 204° comando militare regionale, nei rispettivi comandi provinciali e nei relativi battaglioni. Battaglioni fucilieri OP (ordine pubblico) erano presenti nei capoluoghi provinciali; inoltre erano operativi il reggimento alpino "Tagliamento", e un certo numero di battaglioni bersaglieri e alpini disposti tra S. Lucia di Tolmino e Fiume in funzione di difesa costiera. In condizione analoga si trovavano sette gruppi d'artiglieria con armamento vario. Altrettanto articolata risultava la presenza della Marina nazionale repubblicana, distinta in "Marina nera" (comandi, batterie costiere, capitanerie, personale imbarcato anche su unità tedesche, servizi) e X flottiglia MAS, con comando e squadra sommergibili a Pola, base operativa a Brioni, scuola sommozzatori a Portorose, un battaglione a Trieste e tre compagnie a Cherso, Pola e Fiume/Laurana. Nel dicembre 1944 giunsero in Zona quattro battaglioni e due gruppi artiglieria della divisione X. Il contingente non era completo negli organici e fu schierato nel goriziano. L'Aeronautica nazionale repubblicana era concentrata nei presidi aeroportuali di Campoformido, Aviano/Osoppo, Merna/Gorizia, sede di tre gruppi, scuole allievi e sezioni logistiche. La Milizia difesa territoriale (MDT; versione locale della Guardia nazionale repubblicana) era costituita da cinque reggimenti, uno per provincia, un battaglione e quattro compagnie confinarie; i quadri erano completati dai nuclei speciali di milizia postelegrafonica, forestale, ferroviaria, portuaria e stradale. Inoltre in Zona erano operativi 6500 carabinieri (fino al luglio 1944), 2400 finanzieri, 1200 agenti di pubblica sicurezza. Il Fascio repubblicano aveva costituito la brigata nera “Tullio Cividino” e il gruppo d'azione femminile "Norma Cossetto", unico del genere in Italia. Nei dispositivi antiguerriglia dipendenti dall'Ordnung Polizei erano compresi i seguenti reparti italiani: 5° Rgt. MDT; I Btg. MDT confinaria e 2 Cp. Autonome; 14° e 15° Btg. Difesa costiera; Gr. Art. 9°, 10° e 15°. A questi vanno aggiunti nuclei di formazioni minori, nuclei speciali, reparti di polizia amministrativa e di pubblica sicurezza. Nel corso dei venti mesi di guerra, le formazioni citate furono suscettibili di modifiche e trasferimenti, come nel caso dei reparti della X MAS, che
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abbandonarono la Zona nel febbraio 1945, lasciando nella regione unità più ridotte. Coerentemente con la politica generale seguita nella Zona, i tedeschi mantennero le forze armate della RSI sotto strettissimo controllo e non incoraggiarono gli arruolamenti. Ciò portò a forti tensioni con gli esponenti fascisti locali che vedevano invece nella presenza di forze armate repubblicane una garanzia per l'italianità della Venezia Giulia. Anche fra i combattenti, alle motivazioni - ideologiche, patriottiche o di onor militare – che nel resto dell'Italia settentrionale animavano la variegata galassia delle milizie di Salò, si sommava l'ansia per la difesa del confine orientale dal "pericolo slavo" e la preoccupazione per le iniziative germaniche. Furono tali ragioni a spingere il comando della X MAS a insistere per trasferire nella Zona il grosso dei suoi reparti, che effettivamente furono stanziati nel Goriziano alla fine del 1944: ne sortirono quasi immediatamente gravi incidenti con le unità collaborazioniste slovene, anch'esse presenti in forze a Gorizia, e notevoli screzi anche con i tedeschi. Il comando germanico colse perciò l'occasione costituita dalle forti perdite subite nel gennaio del 1945 dalla divisione italiana nella battaglia combattuta a Ternova contro i partigiani sloveni, per allontanare la X MAS, che tentò invano di rientrare nel litorale negli ultimi giorni di guerra. Con maggior favore i tedeschi videro invece la costituzione di forze locali di autodifesa, poste sotto il loro diretto controllo anche se dietro il paravento delle autorità locali, secondo una prassi ampiamente collaudata su scala europea. Formazioni del genere, come le Guardie civiche di Trieste e Gorizia, incontrarono un certo successo tra la popolazione urbana di sentimenti italiani, perché i cittadini che vi si arruolarono non avevano in genere la percezione di far parte di unità collaborazioniste e speravano inoltre di evitare in tal modo scelte politicamente più compromettenti. Inoltre, le Guardie civiche vennero ampiamente infiltrate dal CLN e molti dei loro membri parteciparono alle insurrezioni finali contro i tedeschi a Trieste e Gorizia. Scheda 8. La "corsa per Trieste" a cura di Raoul Pupo A partire dall'autunno del 1944, quando fu chiaro che le armate angloamericane provenienti dall'Italia meridionale non sarebbero riuscite a sfondare le difese tedesche e a riversarsi nella pianura padana, mettendo fine alla campagna d'Italia, da parte jugoslava venne avviata la pianificazione politica e militare diretta a consentire l'occupazione della Venezia Giulia. L'obiettivo era considerato della massima priorità e pertanto fu deciso di produrre ogni sforzo per raggiungere nel più breve tempo possibile la linea dell'Isonzo,
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anche a costo di. rinviare la liberazione di parti significative del territorio jugoslavo, comprese le città di Zagabria e Lubiana. Inoltre, per sottolineare il carattere nazionale dell'operazione e per garantire il completo controllo, militare e politico, del territorio giuliano, venne deciso di non impiegare le unità partigiane garibaldine già operanti nella Venezia Giulia o in prossimità di essa, nonostante esse dipendessero già da mesi dai comandi jugoslavi. L'offensiva finale jugoslava contro le unità di occupazione germaniche ebbe inizio il 20 marzo con l'attacco a Bihac e un mese dopo l'esercito popolare di liberazione giungeva alle porte di Fiume. Da qui, con un'azione spericolata che ben esprimeva i rischi che i comandi jugoslavi erano disposti a correre, le unità della IV armata puntarono su Trieste e Gorizia, raggiungendole il 1° maggio e anticipando così di un giorno i reparti dell'VIII armata britannica provenienti da ovest. L'ultima, convulsa, fase della duplice avanzata, jugoslava e angloamericana verso la Venezia Giulia, viene solitamente ricordata come la "corsa per Trieste", secondo una definizione che sottolinea il carattere competitivo dell'azione dei due eserciti. In realtà, sin quasi alla fine di aprile si trattò di una corsa assai particolare, con un solo concorrente. Infatti, se è vero che l'occupazione del territorio giuliano costituiva una meta strategica per gli jugoslavi, non lo era in alcun modo per gli angloamericani: per i comandi alleati l'obiettivo da raggiungere era la distruzione delle forze tedesche nell'Italia settentrionale e l'occupazione di Trieste contava solo in quanto veniva ritenuta essenziale per la prosecuzione delle operazioni verso l'Austria. Inoltre, sia gli inglesi che gli americani erano decisamente preoccupati della possibilità che nell'area giuliana si potessero creare momenti di tensione fra le unità alleate e quelle jugoslave, come conseguenza del mancato accordo sulle rispettive zone di occupazione: tentativi di intesa in tal senso erano stati compiuti nei mesi precedenti, ma senza alcun esito. Ancor più preoccupante, però, era l'eventualità che nella regione potesse accendersi un conflitto tra unità partigiane jugoslave e italiane, perché ciò avrebbe inevitabilmente coinvolto anche le truppe alleate in una crisi assai simile a quella che gli inglesi avevano pochi mesi prima sperimentato in Grecia, dove si erano ritrovati nel bel mezzo di una guerra civile tra forze filo e anticomuniste. Per scongiurare tale rischio, venne deciso di non impiegare nell'avanzata verso est i reparti italiani dipendenti dall'VIII armata britannica e di frapporre le unità angloamericane tra quelle jugoslave e le formazioni partigiane italiane non comuniste attive nel Friuli orientale. Pertanto, con uno sprint finale le avanguardie della seconda divisione neozelandese raggiunsero Trieste e Gorizia il 2 maggio, quando i combattimenti
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non erano ancora cessati, in tempo per accogliere la resa dei reparti tedeschi asserragliati nel centro del capoluogo giuliano. Gli jugoslavi tuttavia protestarono per quella che consideravano un'intromissione indebita nella loro area di operazioni e instaurarono su tutto il territorio la propria amministrazione militare. La situazione rimase incerta per più di un mese, fino a che il governo inglese e quello americano costrinsero con un'energica pressione diplomatica il governo di Belgrado, appoggiato solo tiepidamente da quello sovietico, a ritirare le proprie truppe da Trieste e Gorizia. Con l'accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 la Venezia Giulia risultò pertanto divisa in due zone di occupazione: la zona A (comprendente anche la città di Pola, isolata e raggiungibile solo via mare) in cui venne instaurato un governo militare alleato, e la zona B, sottoposta ad amministrazione militare jugoslava. Tale situazione si protrasse fino all'entrata in vigore del trattato di pace, nell'autunno del 1947. Scheda 9. L'esodo dei giuliano-dalmati a cura di Raoul Pupo Tra foibe ed esodo vi è uno stretto legame. Anche se le violenze del 1943 e del 1945 non furono né l'unica e nemmeno la principale delle cause che fra il 1945 e la fine degli anni cinquanta spinsero la quasi totalità degli italiani che vivevano nei territori passati sotto il controllo della Jugoslavia ad abbandonare la loro terra di origine, certamente il ricordo di quelle stagioni di violenza preparò il terreno alla scelta dell'esodo. La memoria poi ha finito per saldare i due eventi, foibe ed esodo, come parte di un unico processo di distruzione dell'italianità adriatica, mentre mezzi di informazione e interesse politico hanno calamitato l'attenzione soprattutto sul dramma delle foibe, certamente più sanguinoso e sconvolgente. In realtà, tra i due fenomeni quello di maggior spessore storico è invece proprio l'esodo, non solo perché coinvolse un numero di persone incomparabilmente maggiore, ma perché fu proprio l'espulsione della componente italiana dai suoi territori di insediamento storico nella regione istro-quarnerina, a segnare una frattura senza precedenti nella storia dell'area alto-adriatica, cancellandovi quasi completamente le tracce di una presenza e di una civiltà che risalivano ai tempi della romanizzazione. Per capire fino in fondo l'esodo dei giuliano-dalmati (o, più semplicemente, l'esodo istriano, come di solito viene chiamato) è necessario tuttavia alzare lo sguardo rispetto alle sole vicende del confine orientale italiano e dei conflitti nazionali fra italiani, sloveni e croati. Il forzato abbandono da parte degli italiani dell'Istria, di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale, che travolse nel vecchio
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continente milioni di individui: quel processo di "semplificazione etnica", legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori nazionalmente misti, che distrusse in larga misura le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell'Europa centrale. Il fatto che l'espulsione degli italiani sia avvenuta per opera di uno stato federale e fondato teoricamente su di un'ideologia internazionalista, com'era la Jugoslavia comunista, segnala come la forza delle pulsioni nazionaliste sia in molti casi riuscita a imporsi rispetto ai contenuti ideologici anche di segno opposto. Sul numero degli esuli, le stime variano di molto (quelle più attendibili oscillano fra le duecentocinquanta e le trecentomila unità), ma non vi è dubbio che a prendere la via dell'esilio fu un'intera comunità nazionale, al completo delle sue articolazioni sociali - da ciò il termine di "esodo", riferito a un intero popolo in fuga - che si disperse poi nel mondo: solo parte degli esuli trovarono infatti ospitalità in Italia, mentre gli altri furono costretti a emigrare nelle Americhe o in Oceania. Alla partenza in blocco degli italiani si saldò in maniera spesso indistinguibile quella di numerosi elementi sloveni e croati, esasperati dalla durezza del regime comunista jugoslavo e travolti dalla crisi in cui la scomparsa degli italiani, depositari dei ruoli sociali e delle competenze professionali più elevate, precipitò l'intera economia istriana. Nel suo complesso, l'esodo durò a lungo, più di dieci anni, perché fu il frutto di spinte fra loro assai simili ma impresse con ritmi diversi, in relazione al momento in cui le comunità italiane maturarono la certezza della loro irrimediabile inclusione nella Jugoslavia. Si ebbero così diversi esodi, che si innestarono l'uno sull'altro. Dopo l'abbandono di Zara, avvenuto già nel 1944 a seguito dei bombardamenti angloamericani che distrussero la città dalmata, nel dopoguerra la prima a svuotarsi fu Fiume, stabilmente occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945 e dove le autorità avviarono subito nei confronti degli italiani una politica assai dura, fatta di espropri, arresti e uccisioni. Il radicalismo di tali comportamenti era certo in parte dovuto alla costruzione per via rivoluzionaria di una realtà socialista, ma il prevalere delle componenti nazionaliste croate compromise assai presto anche il consenso che i "poteri popolari" avevano inizialmente ottenuto presso la classe operaia di lingua italiana e di orientamento comunista. Le partenze di massa si avviarono perciò fin dal 1946, per coinvolgere l'intera popolazione dopo che il trattato di pace ebbe sancito il passaggio della città alla Jugoslavia. Simile a quella di Fiume fu l'evoluzione politica a Pola, occupata peraltro dalle truppe angloamericane fino al 1947. Anche qui, le iniziali divisioni
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esistenti nella comunità italiana fra gli avversari della soluzione jugoslava, la maggioranza della popolazione, e i sostenitori dell'annessione al nuovo stato socialista, gran parte del proletariato italiano, si ricomposero rapidamente di fronte alla constatazione che all'interno del Partito comunista croato i contenuti di classe venivano decisamente subordinati rispetto a quelli nazionali, all'insegna di un'assoluta intolleranza. Così, quando il trattato di pace impose la cessione alla Jugoslavia anche del capoluogo istriano, gli abitanti decisero di abbandonare in blocco la città, e vennero evacuati via mare nel giro di pochi mesi. Eguale, anche se più diluito nel tempo rispetto all'incalzare drammatico delle vicende polesane, fu il comportamento degli italiani residenti negli altri territori dell'Istria orientale e meridionale (fra cui le cittadine di Parenzo, Rovigno e Albona) la cui sovranità venne trasferita alla Jugoslavia, sempre in forza delle clausole della pace. Qui infatti le autorità jugoslave, sorprese dalle dimensioni di massa dell'esodo, tentarono di frenare le partenze degli italiani (i quali, non va dimenticato, erano depositari di tutte le competenze professionali superiori), poiché avrebbero gettato nel completo marasma l'economia della penisola istriana, rischiando di trascinare con sé anche parti consistenti di popolazione che i "poteri popolari" consideravano croata. Per fermare gli esodanti però, le autorità non intervennero sulle cause della loro scelta, che ciò avrebbe rimesso in discussione l'intera politica jugoslava nella regione, ma si limitarono a renderne più difficile l'esecuzione mediante una lunga catena di vessazioni e minacce. L'unico risultato fu quello di esasperare ancora più la popolazione e di motivarla ulteriormente alla partenza, non appena una serie di accordi bilaterali italo-jugoslavi la rese possibile. Più a lungo resistettero gli abitanti della zona B del mai costituito "Territorio libero di Trieste", vale a dire della fascia costiera nordoccidentale dell'Istria (con le cittadine di Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago e Cittanova) che avrebbe dovuto concorrere, assieme a Trieste, alla costituzione di uno statocuscinetto fra Italia e Jugoslavia, ma che rimase di fatto controllata dalle autorità jugoslave. Durante tutta la seconda metà degli anni quaranta la durezza della politica jugoslava produsse anche qui un flusso continuo di partenze e di fughe, anche con esito tragico, ma nel complesso la maggioranza della popolazione non si mosse, sperando che i negoziati avviatisi fra i due paesi confinanti consentissero la restituzione di parte almeno della zona B all'Italia. Quando però, alla fine del 1953, fu chiaro che il dominio jugoslavo era divenuto irreversibile, scattò la decisione collettiva di partire, che si consolidò dopo che il Memorandum d'intesa del 1954 ebbe di fatto sancito l'assetto del confine. Così, nel giro di poco più di un anno, secondo i termini previsti dal Memorandum per "optare" per la cittadinanza italiana, si
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svuotarono completamente le cittadine italiane e partirono pure i contadini istriani, che fino all'ultimo non si erano rassegnati ad abbandonare la loro terra. È ancora oggetto di discussione fra gli storici se alla radice dei comportamenti persecutori delle autorità jugoslave nei confronti degli italiani vi fosse sin dalle origini un preciso disegno di espulsione dall'Istria della componente italiana, come suggeriscono alcune testimonianze anche di parte jugoslava. Altri riscontri sembrerebbero invece indicare che nei primissimi anni del dopoguerra le autorità jugoslave puntassero piuttosto a integrare nel nuovo stato comunista jugoslavo un gruppo nazionale italiano numericamente ridimensionato (attraverso l'espulsione dei soggetti immigrati dopo il 1918, nonché la riconduzione forzata all'"etnia di origine" degli elementi di origine slava che avevano mutato appartenenza nazionale nel corso dei secoli), privato del suo potere economico e drasticamente "epurato" sotto il profilo politico, in modo da renderlo del tutto conforme agli orientamenti nazionali e ideologici del regime. In pratica si sarebbe trattato di "jugoslavizzare" la classe operaia di lingua italiana e di orientamento comunista che nel 1945 aveva accolto con favore le truppe di Tito, portatrici del sogno socialista. In ogni caso, tale seconda linea, chiamata della "fratellanza italo-jugoslava" venne abbandonata dopo il 1948, quando la crisi nei rapporti fra la Jugoslavia e l'Unione Sovietica obbligò i comunisti istriani di lingua italiana a scegliere fra Stalin e Tito. Conformemente alle tradizioni internazionaliste del proletariato giuliano, la scelta fu compattamente per l'Unione Sovietica, e ogni residua possibilità che nuclei significativi di italiani accettassero la logica del regime venne a cadere. A partire perciò dalla fine degli anni quaranta ciò che ancora rimaneva delle comunità italiane in Istria venne considerato come mero ostaggio da utilizzare nelle trattative per la sorte della zona B, e le ondate di violenze ed espulsioni che vennero scatenate soprattutto in occasione delle elezioni amministrative del 1950 e di una grave crisi diplomatica con l'Italia dell'autunno del 1953, si accompagnarono al tentativo di modificare definitivamente l'assetto etnico del territorio mediante l'immigrazione massiccia di elementi provenienti dall'interno della Jugoslavia. Sul piano soggettivo, a spingere gli istriani ad abbandonare le loro case e ogni avere per prendere l'incerta via dell'esilio, concorsero diverse motivazioni, spesso fra loro combinate. Giocò certo un ruolo centrale la paura, legata ai ricordi delle stragi delle foibe e rafforzata dal continuo stillicidio di prevaricazioni, minacce, violenze e sparizioni che punteggiò il dopoguerra istriano, e che rappresentava l'aspetto più evidente dell'oppressione
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esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche ogni libera espressione dell'identità nazionale. Pesò il sovvertimento delle tradizionali gerarchie, a un tempo nazionali e sociali, che avevano visto il gruppo italiano storicamente egemone in Istria, e il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna che fino a quel momento, com'è usuale in Italia, avevano visto la dipendenza economica, politica e culturale delle aree agricole dai centri urbani. Gravi conseguenze ebbe la progressiva eliminazione dei punti di riferimento culturali del gruppo nazionale italiano, come gli insegnanti e i sacerdoti, e in generale le condizioni di vita degli italiani peggiorarono sensibilmente. Alla difficile situazione della Jugoslavia postbellica si sommarono infatti le conseguenze negative delle riforme introdotte soprattutto nel settore agricolo e in quello della pesca, vitali per l'economia istriana del tempo, e dei provvedimenti specificamente diretti a distruggere il passato predominio economico degli italiani in Istria e a troncare i rapporti con l'Italia e con Trieste, dai quali per esempio dipendeva buona parte dell'economia della zona B. Infine, la negazione dei valori tradizionali e l'imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale, il sovvertimento di abitudini consolidate da generazioni e l'introduzione di nuove regole di comportamento, nei rapporti sociali come nella gestione della terra, la necessità di servirsi di una nuova lingua, pressoché sconosciuta, e di inserirsi in una cultura fino ad allora nemmeno presa in considerazione, suscitarono una crescente sensazione di estraneità rispetto a una realtà che stava cambiando velocemente e nella quale non vi era visibilmente posto per gli italiani. Attraverso diverse vie e con ritmi diversi, le comunità italiane dell'Istria finirono quindi per arrivare tutte alla medesima conclusione, vale a dire, l'impossibilità di mantenere la propria identità nazionale, intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica, nelle condizioni offerte dallo stato jugoslavo.
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Luoghi 1. Il luogo-simbolo: la foiba di Basovizza La cosiddetta "foiba" di Basovizza è in verità un pozzo minerario, scavato all'inizio del XX secolo dall'impresa Skoda per intercettare una vena di carbone e presto abbandonato per la sua improduttività: infatti viene chiamato dalla popolazione slovena del luogo soht - dal tedesco schacht - pozzo. Si ha notizia che l'abisso fu teatro di tre suicidi, mentre alcune testimonianze parlano dell'uso della voragine, durante gli anni del secondo conflitto mondiale, da parte dei tedeschi per l'eliminazione di ostaggi prelevati nell'autunno 1943, durante l'offensiva nazifascista, dalla località istriana di Brkini; tale utilizzo sarebbe continuato anche successivamente, durante il periodo bellico, per mano di collaborazionisti. Dal 28 aprile 1945 la località di Basovizza era presidiata dalle batterie del 1088° reggimento di artiglieria di montagna tedesco, col compito di tenere libero l'importante incrocio sulle strade verso Fiume, Divaccia, Trieste e Opicina. La zona era stata trincerata in precedenza con delle postazioni allestite sul costone che domina la vicina val Rosandra. Negli ultimi giorni d'aprile a Basovizza la 5a compagnia del SS. Pol. Rgt.10, il 1° Geb. Jaeg.902, la Geb. Nachr.901, il Luftw. Jaeg. Btl. z.b. V.8, il personale della Mil. Kommandatur 1001 e altre formazioni collaborazioniste minori affrontarono gli uomini del 2° battaglione della V Tankovska brigada, del 2° battaglione della 1a brigata e del 1° battaglione dell'8a brigata della 20a Dalmatinska Udarna Divizija in marcia verso Trieste: sul campo rimasero molti caduti, da una parte e dall'altra, carcasse di cavalli e diverso materiale militare. Secondo alcune testimonianze il terreno fu sgomberato precipitando le salme dei tedeschi e i resti della battaglia campale nella voragine. Nei primi giorni del maggio 1945 Basovizza fu attraversata dalle colonne di prigionieri militari (italiani, tedeschi, slavi) e di civili catturati a Trieste e dintorni, destinati ai campi d'internamento e smistamento di Erpelle e Prestrane. 1.1 Le prime notizie Il 5 giugno 1945 il Comitato di liberazione nazionale di Trieste, tornato in clandestinità durante l'occupazione jugoslava, raccolse e diffuse la notizia di esecuzioni sommarie avvenute proprio a Basovizza. Il 7 agosto 1945 i servizi d'informazione angloamericani inviarono un proprio agente per raccogliere notizie più certe: prima da un sacerdote di S. Antonio in Bosco (don Francesco Malalan) e poi da uno di Corgnale (don Virgil Scek) l'informatore apprese che, in prossimità del pozzo si erano svolti dei processi
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condotti da ufficiali della IV armata, contro persone prelevate a Trieste, soprattutto agenti della Questura, per certo eliminati il 2 maggio dopo un interrogatorio e un processo accompagnato da invettive, accuse e percosse da parte di un gruppo di donne. Tutti gli accusati avrebbero ammesso le loro responsabilità, sarebbero stati fucilati e gettati nel pozzo. L'indomani il rituale si sarebbe ripetuto con altre duecentocinquanta-trecento persone, in gran parte civili. È interessante notare che ci sono almeno altre due versioni della scoperta del pozzo di Basovizza, di poco precedenti e di fonte italiana. Una breve relazione stesa in occasione di una non meglio precisata "missione Mario", e fatta pervenire al Ministero degli esteri italiano, confermò l'entità dei combattimenti nella zona, ma riferì anche di grida e lamenti in tedesco e italiano provenienti dall'ingresso della cavità. Pare che qualcuno fosse andato a vedere e, rinvenendo macchie di sangue e resti umani, avesse deciso di denunciare il fatto. Verso la metà di giugno una commissione inglese, insieme al parroco di Basovizza, avrebbe visitato il luogo. Qui l'informativa dà per certo l'avvio del recupero di salme, quasi subito sospeso per il fetore della decomposizione, e poi ripreso alla presenza di alcuni medici, con l'estrazione di cinquecento cadaveri. Altri dettagli giungono da una testimonianza di un partigiano, presente ai fatti, e in parte coincidono con quelli visti sopra, come la presenza sul posto di donne del luogo, e di guardie di finanza e carabinieri tra le vittime. In un rapporto datato 24 luglio 1945, l'ufficio "I" dello Stato maggiore dell'esercito dava per certa l'esumazione di cinquecento cadaveri, soprattutto di soldati tedeschi, ma anche di salme con indosso uniformi alleate (si sospettava che fossero quelle di soldati o patrioti italiani che a suo tempo erano stati equipaggiati con materiali alleati aviolanciati), che tuttavia risultava difficile identificare. L'informativa si concludeva con una nota su un colloquio avuto, nei giorni precedenti l'occupazione jugoslava, da un impiegato del Comune di Trieste con un partigiano appostato nei pressi della casa cantoniera di Basovizza, che gli avrebbe confidato che la vicina "foiba" era già stata riempita con i corpi dei giustiziati e una volta completata sarebbe stata ricoperta con terra. Due giorni più tardi, i quotidiani romani "Libera stampa" e "Italia nuova", dopo aver ripreso un lancio dell'agenzia statunitense International News Service, annunciarono la scoperta da parte degli alleati di seicento cadaveri in una cavità attigua al paese. Tre giorni dopo i due giornali riportarono la notizia del recupero di quattrocento salme, dell'allestimento di un attiguo cimitero e dell'interessamento diretto del patriarca di Venezia e del vescovo
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di Trieste. La notizia diffusa dall'International News Service viene ripresa e commentata anche da altri quotidiani. Il 30 luglio lo Stato maggiore dell'VIII armata britannica, sciolta da qualche giorno, smentì tramite la Reuter le notizie riportate dai due quotidiani italiani e negò che tra le vittime potessero esserci dei soldati neozelandesi. L'indomani giunse a Basovizza l'autorevole corrispondente della Reuter Cecil Sprigge che confermò l'avvio di un'indagine “relativa alla scoperta di resti umani in un profondo burrone presso Trieste”, smentendo però ulteriormente il ritrovamento di salme di neozelandesi e riferendo di aver appreso dalla gente del luogo che precedentemente i tedeschi avevano adottato il sistema di infoibare i partigiani. Ancora, la "Libera stampa" pubblicò il 1° agosto un documento attribuito al CLN giuliano che descriveva l'entità dei massacri e lamentava l'assenza di mezzi idonei per il recupero delle salme; il giorno dopo però, tre esponenti del Comitato di liberazione nazionale, presenti a Roma, smentirono di averlo sottoscritto, con un atto di cautela motivato anche dalla situazione delicata ancora presente a Trieste. Del 3 agosto è il rapporto del quartier generale del 13° corpo che confermò la presenza di centinaia di cadaveri sul fondo del pozzo di Basovizza e di altre cavità, fatti questi già menzionati in due precedenti rapporti del 1° e 13 luglio. Nel frattempo De Gasperi, allora ministro degli esteri, scrisse all'amm. Ellery W. Stone, capo della Commissione alleata, per essere informato delle iniziative che le autorità anglo-americane volevano assumere. La vicenda continuò a venire seguita principalmente dai quotidiani che avevano lanciato la notizia e che polemizzarono con il governo Parri per la scarsa incisività della sua azione, pubblicando nuove testimonianze. Un'intervista del 5 agosto dell'ANSA a Cecil Sprigge, riportata con qualche sfumatura da "Il giornale del mattino" e dall'"Italia nuova", confermò la visita al pozzo di Basovizza e presso altre foibe della zona, nonché il sondaggio compiuto da una compagnia del Genio che aveva recuperato brani di resti umani e animali oltre a molto materiale militare, ma negò che fosse stato effettuato un recupero sistematico. Nessun accenno venne fatto all'eventuale presenza di vittime neozelandesi, per verificare la quale il locale comando alleato aveva chiesto l'intervento degli speleologi triestini, che scesero parzialmente nell'abisso Plutone, nei pressi del cimitero di Basovizza, e lo risalirono tacendo degli effluvi mortali percepiti: la scorta inglese infatti era disarmata e la cavità era stata circondata da gente del luogo insospettita dalle manovre e in atteggiamento poco amichevole. Nello stesso giorno il quotidiano sloveno "Primorski Dnevnik" denunciò la campagna diffamatoria in corso verso la Jugoslavia di Tito, negò che dei
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neozelandesi e dei partigiani italiani fossero stati uccisi ma non smentì che a Basovizza fosse stata praticata giustizia sommaria. Una fonte confidenziale dello Stato maggiore della regia marina, purtroppo priva di data, annunciò l'istituzione da parte del Governo militare alleato di una commissione d'indagine presieduta dal dott. Giuseppe Tagliaferro, lo stesso che aveva partecipato ai primi tentativi di identificazione. 1.2 Il sondaggio Nel corso dell'estate il CLN chiese il recupero delle salme e l'esplorazione di tutte le cavità del Carso triestino. Le autorità angloamericane autorizzarono i primi sondaggi nel pozzo di Basovizza e la zona, che ospitava un deposito di munizioni da rendere inerti, venne recintata e presidiata a vista. Il recupero delle salme fu eseguito per mezzo di una benna, il cui impiego provocò il forte risentimento dei partiti italiani di Trieste, ma il tutto avvenne nella massima riservatezza e i dati ufficiali delle esplorazioni non furono resi pubblici. Il materiale estratto da una benna, infatti, veniva collocato sul piano di un camion ribaltabile, dove alcuni militari, protetti con tute e guanti di gomma pesante, provvedevano a distinguere sommariamente i resti umani rinvenuti; dopo le operazioni di distinzione, il materiale recuperato era rovesciato in una fossa scavata a meno di cinquanta metri dal pozzo, e ricoperto da uno strato di calce e di terra; si afferma pure che quei resti furono bruciati a cielo aperto. Delle operazioni a Basovizza si occuparono pure i servizi informativi jugoslavi, i quali nella tarda estate 1945 raccolsero notizie per mezzo di un informatore locale che confermò l'entità dei recuperi e smentì la scomparsa di sette soldati neozelandesi, nel senso che risultavano disertori e non uccisi, come si sospettava. Ma il vero timore delle autorità jugoslave era che dietro al sondaggio nel pozzo si celasse una manovra propagandistica degli ambienti fascisti triestini. È interessante rilevare l'esigenza da parte degli organi centrali dell'OZNA di sapere ciò che era successo a Basovizza, per cui si potrebbe ipotizzare che i fatti non fossero noti così come ricostruiti nelle informative anglo-americane e italiane. Eppure essi coincidono, salvo qualche dettaglio. L'informativa dell'OZNA conferma come le maggiori difficoltà nei recuperi fossero causate dalle macerie fatte precipitare all'interno del pozzo insieme a munizioni ed esplosivi. Sulla stampa italiana di Trieste fu pubblicata qualche sfocata immagine, ripresa da lontano, dell'impalcatura costruita sopra l'imboccatura. Gli scavi proseguirono per due mesi e i pochi resti portati alla luce furono genericamente attribuiti a militari tedeschi; poi le ricerche nel pozzo furono sospese e la cavità restò aperta e abbandonata. Secondo qualche testimone, all'atto
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della smobilitazione del campo ingenti quantità di materiali militari in disuso, comprese anche munizioni, vennero rovesciate all'interno della cavità. L'indagine su Basovizza aveva messo gli angloamericani in un vicolo cieco: il Dipartimento di stato e in particolare l'ambasciata Usa a Roma, avevano sostenuto vigorosamente l'iniziativa, condivisa pure da Churchill, Eden e Alexander, ma una brusca sospensione delle ricerche poteva dare stura alle proteste della Jugoslavia, che da sempre sosteneva che tutta la faccenda non era altro che una montatura della propaganda italiana. Il 12 ottobre 1945 giunse a Trieste il segretario generale del Partito liberale, avv. Cattani, che volle rendersi conto di persona dei fatti. Il CLN protestò il 20 ottobre 1945 contro l'uso della benna per il recupero delle salme dal pozzo che, straziate, sarebbero state destinate alla cremazione. Questo ultimo particolare viene menzionato poiché ripreso dalla stampa, nella relazione che accompagnava un primo elenco di denunce di deportazioni, fatto pervenire il 21 dicembre 1945 dal vescovo di Trieste Santin al Ministero degli esteri italiano. Il settimanale diocesano "Vita nuova" pubblicò il 27 ottobre un articolo sui recuperi di salme e una fotografia di una benna in funzione sull'orlo di una foiba. Altre fotografie, scattate clandestinamente, corredano un articolo comparso su "La Voce libera" dell'8 novembre 1945, e negli archivi del Ministero degli esteri sono conservate, in documento classificato allora "segreto", delle foto attribuite al pozzo della miniera di Basovizza. Il 22 novembre, nel corso della conferenza del Supremo comando alleato, si giunse alla convinzione di aderire alla richiesta del Foreign Office di sospendere le ricerche in attesa dell'arrivo di macchinari idonei, nonostante il diverso avviso del Dipartimento di stato, ma di non divulgare tale decisione, evidentemente per non creare tensione nell'opinione pubblica italiana che continuava a seguire la vicenda. Infatti, il giornalista Giovanni D'Alù del "Giornale della sera" pubblicò nell'edizione del 30 novembre 1945 una descrizione dell'attività di recupero con la benna e propose, per la prima volta, il calcolo a metri cubi delle salme. Egli scrisse: a 190 metri di profondità esiste uno strato di 18-20 metri di spessore su una superficie di 24 metri quadrati entro il quale sono stati rinvenuti resti umani; tre corpi per metro cubo moltiplicati per i 430-480 metri cubi di cadaveri danno il risultato di 1200-1500 salme. Da allora il sito fu abbandonato e recintato sommariamente. Nell'agosto 1948 il "Messaggero veneto" e "La Voce libera" descrissero una esplorazione del pozzo compiuta da privati, che constatarono come la profondità fosse salita a 192 metri contro i 226 indicati originariamente e nell'aprile dell'anno successivo il consiglio comunale di Trieste deliberò la spesa
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per il recupero delle salme ivi contenute. Una relazione di questa esplorazione non è stata mai pubblicata, né si conoscono testimonianze al riguardo. Dall'inizio degli anni cinquanta il pozzo fu abbandonato e si trasformò in discarica del Governo militare alleato. Nel novembre del 1953 la ditta "Eugenio Cavazzoni" venne autorizzata al recupero di rottami ferrosi dal fondo. Pare che alcuni operai abbiano raggiunto, agli inizi del 1954, la profondità di -226 metri senza trovare alcuna traccia di cadaveri e di esplosivi. Più tardi, il pozzo tornò discarica per una ditta autorizzata allo spurgo petrolifero e per la dogana che lì alienava il materiale sequestrato. Nel 1957, in seguito al protocollo italo-tedesco sull'esumazione delle salme dei soldati germanici caduti in Italia, una delegazione condotta da Otto Bechinche visitò i locali cimiteri ed esplorò la foiba n.149 (Brsljanovca Prazna Jama): secondo una fonte l'organizzazione tedesca per le onoranze non venne mai autorizzata dall'Italia a esplorare il pozzo di Basovizza, per motivi di sicurezza. Negli ambienti speleologici si afferma che in quel tempo ci fu un'esplorazione, ma che la quantità di materiale esplosivo versato all'interno del pozzo sconsigliava di proseguire l'impresa. La copertura temporanea della cavità di Basovizza e della n.149 avvenne nel 1959 per opera del Commissariato generale per le onoranze in guerra, del Ministero della difesa, su sollecitazione di padre Flaminio Rocchi. L'iniziativa fu presa, principalmente, per evitare lo sconcio dello scarico d'immondizie: così volle precisare il sottosegretario Casati a un'interrogazione dell'on. Gefter Wondrich (MSl) al quale stava invece a cuore il recupero delle salme ancora contenute, mentre dava per certa la riesumazione, avvenuta dieci anni prima, di seicento-settecento teschi. Questa notizia non trovò né allora né dopo conferma di sorta. 1.3 Il monumento Il monumento della foiba di Basovizza è molto semplice: consiste in una lastra in pietra grigia, segnata da una grande croce; sullo zoccolo frontale è riportato un passo della "preghiera dell'infoibato" dettata dall'arcivescovo Antonio Santin. A sinistra è posto un cippo, opera di Tristano Alberti, rappresentante la sezione della cavità con alcune quote delle probabili stratificazioni, al cui centro è appesa una lampada votiva in bronzo collocata dall'Opera mondiale lampade della fraternità. All'interno del recinto, sono stati collocati in tempi successivi altri cippi, il pilo portabandiera donati dalle associazioni d'arma e dalle organizzazioni degli esuli giuliano-dalmati e due targhe: una individua il punto dove è custodito un elenco degli scomparsi in seguito alle deportazioni, l'altra ricorda le visite dei presidenti della Repubblica italiana.
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Nel 1980, in seguito all'intervento delle associazioni combattentistiche, patriottiche e dei profughi istriani-fiumani-dalmati, il pozzo di Basovizza e la foiba n.149 vennero riconosciute quali monumenti d'interesse nazionale. Il sito di Basovizza, sistemato dal comune di Trieste, divenne il memoriale per tutte le vittime degli eccidi del 1943 e 1945, ma anche il fulcro di polemiche per il prolungato silenzio e il mancato omaggio delle più alte cariche dello stato. Tale omaggio giunse nel 1991, anno cruciale per la dissoluzione jugoslava e dell'Unione Sovietica, quando a Basovizza si recò l'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, seguito due anni più tardi dal successore Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1992 aveva dichiarato il pozzo della miniera "monumento nazionale". 1.4 Come arrivarci La foiba di Basovizza è situata nei pressi dell'omonima località, in provincia di Trieste, a poca distanza dalla strada statale n.14, che conduce al vicino valico internazionale italo-sloveno di Pese. Il sito è raggiungibile in automobile dall'autostrada A4 Venezia-Trieste, proseguendo per il raccordo autostradale seguendo sempre le indicazioni per Trieste-porto. Al termine del tratto autostradale si prosegue per la statale 202 che scende dal ciglione carsico verso il mare e, dopo un paio di chilometri, si esce sulla destra al cosiddetto "bivio a H", per girare poi subito a sinistra in direzione BasovizzaFiume. Chi invece proviene dalla strada costiera e dal centro città, può seguire la segnaletica che indica “foiba di Basovizza-monumento nazionale”, imboccando la via Fabio Severo e percorrendola tutta fino alla grande curva Faccanoni, alla cui altezza proseguirà diritto lungo la strada per BasovizzaFiume, sulla quale si immette anche il precedente percorso. Subito prima di Basovizza, un bivio conduce a destra verso il paese e, a sinistra, verso il confine con la Slovenia. Si procede in quest'ultima direzione ma, all'altezza delle prime case di Basovizza, si trova sulla destra una stretta stradina a senso unico delimitata dai classici muretti di pietra carsica, con l'indicazione “foiba di Basovizza”. La si imbocca e, superato un impianto sportivo, si arriva in un'ampia spianata sulla quale sorge il monumento. Infine, Basovizza può essere raggiunta con l'autobus n. 39 in partenza dalla stazione ferroviaria di Trieste centrale. Dal centro del paese si può arrivare alla foiba comodamente a piedi. 2. La foiba Plutone 2.1 I fatti
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La vista dell'abisso Plutone, presso Basovizza, consente di rendersi conto, con maggior immediatezza di quanto non sia possibile al pozzo della miniera, di che cosa sia una foiba e di come essa sia stata utilizzata per fini di morte. Il 23 maggio del 1945 infatti, nell'abisso furono gettati i corpi di diciotto persone arrestate dalle autorità jugoslave e detenute nel carcere dei gesuiti. Autori della strage furono i membri della "banda Zol-Steffè", ovvero di un gruppo di sedicenti partigiani autonominatosi "squadra volante", che riuscì per un certo periodo ad assumere il controllo del carcere, rendendosi protagonista di violenze e sevizie. Quasi tutti i membri della banda Steffè vennero pochi giorni dopo arrestati dalle stesse autorità jugoslave: alcuni vennero trasferiti a Lubiana, processati e condannati, altri invece tentarono la fuga. Fra questi ultimi, alcuni vennero uccisi, mentre altri riuscirono a far ritorno a Trieste, dove peraltro furono sottoposti a processo nel 1948 e condannati a varie pene detentive. 2.2 Come arrivarci Dal centro di Basovizza si svolta a sinistra della Parrocchiale, seguendo la segnaletica per Padriciano e Trebiciano. Usciti dall'abitato, in corrispondenza del cimitero, si prende la strada a destra con indicazione "Gropada" che s'inoltra nella macchia. Percorsi circa trecento metri - l'abisso Plutone non è segnalato da specifiche indicazioni - in corrispondenza di un breve slargo sulla sinistra, si supera un basso muretto di pietre a secco posto sul lato opposto della carreggiata e si scende sul fondo di una dolina seguendo un tratturo marcato tra la vegetazione. Sul fondo della dolina, in corrispondenza di una parete rocciosa si apre la voragine denominata abisso Plutone n.59, ex 23 V. G. Bisogna prestare una certa attenzione a non sporgersi in quanto l'imboccatura è a livello del terreno e da un lato presenta una scoscesa erta ricoperta da foglie secche. Da qui il pozzo scende in verticale per oltre 80 metri, per poi proseguire per altri 100 su di un piano inclinato. L'area non è recintata e in tempi recenti è stata teatro di alcuni suicidi. 3. Le foibe di Monte Nero, di Tarnova e di Gargaro 3.1 I fatti Le foibe di Monte Nero (Orni Vrh), di Tarnova (Trnovo) e di Gargaro (Gragar) oggi nel territorio della repubblica di Slovenia, sono tra le maggiori cavità nelle quali finirono i resti di coloro, sloveni e italiani, che vennero uccisi sia nel 1943, che nel 1945 e poi a guerra finita in provincia di Gorizia.
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Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, sono state ispezionate dalle autorità slovene all'inizio degli anni novanta, e nel 1994 sul loro imbocco è stata posta una croce e creato un luogo per la deposizione di candele e fiori. Ogni anno le autorità slovene rendono omaggio alle vittime con la deposizione di una corona. A partire dal 1995, per iniziativa dell'associazione ecclesiale Concordia et Pax sorta a cavallo del confine tra i decanati di Gorizia e di Nova Gorica-Sempeter, ogni anno vengono svolte delle cerimonie religiose e civili, in particolare sulla grande foiba di Tarnova, proponendo un percorso di pacificazione e riconciliazione. 3.2 Come arrivarci La foiba di Monte Nero (Drejckov brezen) si trova sulla vecchia strada forestale Monte Nero (Crni Vrh) -Idria in località Kosevnik. Da Ajdovscina (Aidussina) si gira verso Crni Vrh (Monte Nero) Superato l'abitato di Col si prosegue in salita e superata la sella si scende a Crni Vrh (Monte Nero) Arrivati a Crni Vrh, in piazza si gira a sinistra e si procede per la località Idrijski Log. Arrivati all'incrocio in località Kosevnik la strada, entrando nel bosco, procede a destra in salita; dopo nemmeno un centinaio di metri la strada, sempre in salita, compie prima una curva a sinistra e poi prosegue con una lunga curva a destra che di fatto avvolge la dolina che contiene la foiba che si riesce a scorgere in basso sulla destra (la strada, arrivati in cima, gira rapidamente a sinistra) Lasciata la macchina si scende a piedi nella dolina che contiene l'imboccatura dell'imbuto della foiba posta subito sotto la strada. All'interno giacciono numerosi resti, non facilmente quantificabili: certamente sono numerosi gli italiani, sia civili che militari. Per raggiungere le foibe di Tarnova (Za Lesniko e Za Cvetrezem), arrivati da Nova Gorica a Tmovo si prosegue per Nemci; all'altezza della località Globoko un cartello con la scritta “Grobisce” (luogo delle sepolture) indica a destra la carrareccia che sale e porta alla foiba denominata Zalesniko Brezen; sulla sinistra, a non più di una decina di metri dalla stradina, al limitare del bosco, subito dietro la prima quinta di cespugli si apre una prima cavità. Al suo interno vi sono i resti di quindici-venti persone, la maggior parte italiani, tra cui alcuni finanzieri. Proseguendo, si segue la mulattiera e dopo alcune centinaia di metri, in cima alla salita, sulla sommità del rilievo si apre l'enorme imbuto della foiba. Secondo le testimonianze raccolte, nella cavità (profonda 138 metri) giacciono resti non facilmente quantificabili, ma assai abbondanti. Certamente sono numerosi gli italiani, sia civili che militari. Nei primi anni novanta la località è stata recintata dal comune di Nova Gorica, successivamente nel 1994 su richiesta dell'associazione Concordia et Pax è stata posta una croce.
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Seguendo lo stesso percorso per arrivare alla foiba Zalesniko e superata tale località, dopo nemmeno un centinaio di metri all'incrocio si gira a sinistra verso Cvetrez. Si prosegue in discesa entrando rapidamente nel bosco; dopo un ampio spazio tra gli alberi nel bosco (tra cui spicca sulla sinistra una foiba recintata al cui interno non sono stati trovati resti), la strada prosegue diritta. Proseguendo per quasi un chilometro, all'uscita dal bosco, si incrocia una strada che volge bruscamente (quasi parallela) a sinistra. Sullo spiazzo a destra il cartello “Grobisce” individua la foiba di Cvetrez che giace pochi metri sotto la strada. La cavità è ben delimitata e anche sul suobordo; il comune di Nova Gorica ha posto una croce. La foiba, particolarmente profonda, risulta contenere i resti di almeno un centinaio di persone, tra cui numerosi italiani, civili e militari. Per raggiungere la foiba di Gargaro (Pod Gomila brezen), da Nova Gorica si va a Solkan (Salcano) e subito dopo si gira a destra verso Sveta Gora (Monte Santo); arrivati alla sella si gira a sinistra verso Grgar (Gargaro) Si scende nell'ampia dolina e, arrivati in paese, si gira a sinistra verso l'altipiano della Bainsizza. Dopo circa un chilometro si giunge alla foiba, che si trova alla sinistra di una curva che gira a destra: il luogo è facilmente identificabile dal cartello “Grobisce” e dalla strada sono visibili sul pendio la recinzione e la croce posta a fianco, a non più di venti-trenta metri. La foiba contiene i resti di una sessantina di persone: dovrebbe trattarsi di un reparto intero di Domobranci ma, stando alle testimonianze, all'epoca delle uccisioni si sentì fra di loro qualcuno parlare italiano. 4. La "foiba dei colombi" di Vines 4.1 fatti La "foiba dei colombi" è la cavità che ha restituito il maggior numero di cadaveri fra quelle utilizzate nell'autunno del 1943 per farvi sparire le vittime dell’ondata di violenze ed è divenuta il simbolo delle foibe istriane. Essa fu esplorata tra il 16 e il 25 ottobre del 1943 dalla squadra guidata dal maresciallo Harzarich, che vi rinvenne complessivamente i resti di 84 persone, alcune delle quali verosimilmente gettate nell'abisso ancor vive. 4.2Come arrivarci La località di Vines è situata nei pressi della cittadina di Albona (Labin), nell'Istria sud orientale e fa parte del bacino carbonifero dell'ARSA, che agli inizi degli anni venti fu luogo di imponenti moti sociali, culminati nell'occupazione dei pozzi e nella proclamazione di una "repubblica" di stampo sovietico.
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Collocata lungo la direttrice Pola-Fiume, Albona è raggiungibile da entrambe le località; in ogni caso, poco prima di giungere ad Albona dalla statale si diparte una provinciale che conduce a Vines e Nedescina.
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