Fisica per non fisici 8867159836, 9788867159833

La fisica fa paura? Non sempre. O almeno, non quando viene spiegata con parole semplici e chiare, e illustrata con grafi

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Italian Pages 272 [165] Year 2015

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Table of contents :
Indice......Page 163
Frontespizio......Page 3
Presentazione......Page 2
Pavimenti e materassi......Page 5
Velocità e accelerazione......Page 7
L'accelerazione di gravità......Page 9
Il principio di inerzia......Page 10
L'accelerazione centripeta......Page 12
Calcolo dell'accelerazione centripeta......Page 14
Mongolfiere e aeroplani......Page 18
Moscerini e vagoni ferroviari – La quantità di moto......Page 20
Il rinculo delle armi da fuoco......Page 22
La domanda di un bambino......Page 23
Le librazioni lunari......Page 25
La Luna in 3D......Page 28
Il movimento dei pianeti sulla volta celeste......Page 29
I transiti di Venere e di Mercurio sul Sole......Page 32
Il tempo......Page 34
I viaggi nel tempo......Page 35
Indietro nel tempo......Page 36
Gli attriti......Page 37
Sistemi di riferimento inerziali......Page 38
Sistemi di riferimento non inerziali......Page 41
Le ferrovie in Svezia......Page 42
Ancora sull'accelerazione di Coriolis......Page 45
Cicloni e fiumi......Page 49
Il pendolo di Foucault......Page 51
Un lavandino......Page 53
Il simulatore di volo......Page 54
Il principio di equivalenza......Page 58
Deflessione della luce......Page 61
Verifica del principio di equivalenza......Page 63
La velocità della luce......Page 64
La luce è fatta di corpuscoli?......Page 66
Le onde......Page 69
La luce è fatta di onde?......Page 71
Le cariche elettriche......Page 75
Elettroni, protoni e neutroni......Page 77
Il campo elettromagnetico......Page 78
Le onde elettromagnetiche......Page 79
Gli occhiali Polaroid......Page 80
Un display a cristalli liquidi......Page 83
Nell'emisfero australe......Page 84
La legge della gravitazione universale......Page 86
Le leggi di Keplero......Page 88
Il moto di un ubriaco......Page 93
Il moto browniano......Page 96
Il fonografo......Page 97
Allo specchio......Page 98
Soluzione dei problemi di calcolo delle probabilità......Page 102
Gli errori sperimentali......Page 103
L'osservazione dei fenomeni......Page 107
La radioattività e la struttura dell'atomo......Page 108
La stabilità degli atomi......Page 111
Automobiline e SUV......Page 114
La pressione di radiazione......Page 116
La costante di Planck......Page 118
Il principio di indeterminazione......Page 119
Un elettrone in un atomo......Page 123
Le onde di de Broglie......Page 124
La descrizione quantistica dell'atomo......Page 127
L'osservazione di una lampadina......Page 130
Il principio di relatività......Page 132
Le trasformazioni di Galileo......Page 134
La composizione delle velocità nella Teoria della Relatività......Page 137
Il Teorema di Pitagora......Page 140
Le trasformazioni di Lorentz......Page 143
Composizione relativistica delle velocità......Page 149
Contrazione di Lorentz......Page 151
Dilatazione dei tempi......Page 152
Due gemelli non sono coetanei......Page 154
E=mc²......Page 156
Il principio di conservazione della massa......Page 160
Conclusione......Page 162
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Fisica per non fisici
 8867159836, 9788867159833

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Presentazione

È troppo difficile imparare la fisica? Non è vero: con un po’ di buona volontà chiunque è in grado di apprendere e capire alcune questioni fondamentali che la riguardano. Dalla fisica classica – situazioni e fenomeni che di fatto sono osservabili tutti i giorni e che è possibile interpretare molto facilmente – il lettore verrà accompagnato nel misterioso mondo dell’infinitamente piccolo, descritto dalla meccanica quantistica, per poi concludere il suo viaggio con la Teoria della Relatività di Einstein. E non sarà un problema arrivare agevolmente a comprendere il significato della famosa equazione E=mc2!

Guido Corbò insegna Fisica Generale all’Università La Sapienza di Roma dove, presso il Dipartimento di Fisica, svolge la sua attività di ricerca nel campo della fisica teorica delle alte energie. Ha al suo attivo pubblicazioni sulle maggiori riviste internazionali specializzate nel settore, ma si è anche interessato di informazione e divulgazione scientifica collaborando a quotidiani come il Corriere della Sera e alla trasmissione televisiva di Piero Angela Quark. Fisica a parte, l’autore è pilota sportivo e appassionato velista.

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facebook.com/AdrianoSalaniEditore

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ISBN 978-88-6918-190-0 In copertina progetto grafico di Studio Dispari Copyright © 2015 Adriano Salani Editore s.u.r.l.

Gruppo editoriale Mauri Spagnol Milano

Prima edizione digitale 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Fisica classica

Pavimenti e materassi Una tazzina da caffè finisce in mille pezzi se vi cade di mano e finisce sul pavimento di marmo. Ma se la tazzina cade su un materasso rimane perfettamente integra, con grande soddisfazione da parte vostra; a parte il fatto che qualche goccia di caffè ha irrimediabilmente macchiato il materasso! Per quale motivo lo stesso evento di caduta ha due esiti così diversi? Si può rispondere: perché il pavimento è duro mentre il materasso è morbido! Già, ma in termini fisici in cosa si traduce la durezza o la morbidezza dell’oggetto sul quale cade la tazzina? Poco prima dell’impatto, in entrambi i casi, la velocità della tazzina passa da un certo valore, determinato dall’altezza dalla quale cade la tazzina, a zero. Tuttavia, nel caso di caduta sul pavimento, ciò avviene in un tempo brevissimo; viceversa, nel secondo caso, la stessa variazione di velocità avviene progressivamente in un tempo relativamente lungo, proprio per la morbidezza dell’impatto. In fisica, l’aumento di velocità che si verifica in un fissato intervallo di tempo viene definita accelerazione. Per contro, quando la velocità diminuisce al passare del tempo, diciamo comunemente che si tratta di una decelerazione ma la sostanza del concetto è sempre la stessa: si tratta sempre di una variazione della velocità nell’arco di un certo intervallo di tempo. Più esattamente, l’accelerazione (o la decelerazione) è il rapporto tra la variazione di velocità e l’intervallo di tempo durante il quale è avvenuta tale variazione. Possiamo allora affermare che, nel caso di caduta sul pavimento, la decelerazione della tazzina è particolarmente elevata; mentre nel caso di caduta sul materasso è di entità notevolmente inferiore. A questo punto è bene fare un piccolo passo indietro che di fatto è molto importante. Precisamente, dobbiamo ricordarci dell’equazione fondamentale della dinamica che è stata formulata circa tre secoli fa da Isaac Newton. Questa equazione stabilisce che, applicata una certa forza a un corpo materiale, tale forza produce un’accelerazione del corpo. Se il corpo è per esempio inizialmente fermo, a seguito dell’applicazione della forza esso comincerà a muoversi con una velocità che si incrementa al passare del tempo. Il concetto di forza è intuitivo e nasce dall’esperienza quotidiana: per esempio dall’idea di «sforzo» più o meno intenso che dobbiamo fare per spingere un’auto che è rimasta senza benzina. L’auto, inizialmente ferma, comincia a muoversi. Tutto ciò che può produrre (o, per contro, impedire) un

movimento viene chiamato forza. Una forza che ci è familiare è la forza peso o semplicemente il peso. Questa forza è originata dalla presenza di un campo gravitazionale come quello terrestre e agisce su tutti i corpi che osserviamo intorno a noi attirandoli verso il centro del nostro pianeta. Per esempio, se abbandoniamo un sasso dalla nostra mano, questo comincia a cadere verso il suolo: da uno stato di quiete il sasso si mette in movimento sotto l’effetto del proprio peso. E se apriamo la mano con il palmo rivolto verso l’alto il sasso non cade, proprio perché in complesso il sasso non è soggetto ad alcuna forza. Per meglio dire, esso è soggetto a due forze che però si equilibrano: c’è il peso che tira il sasso verticalmente verso il basso ma c’è la forza della nostra mano che spinge verticalmente verso l’alto e annulla l’effetto del peso. Così il sasso, inizialmente in quiete, permane in questo stato per tutto il tempo che vogliamo. Troviamo facilmente un altro esempio nel quale vediamo che una forza produce un’accelerazione. L’esempio ci è fornito da quello che accade alla nostra automobile: rilasciata la frizione, la forza generata dal motore incrementa la velocità che da zero passerà progressivamente a valori anche molto elevati. Ebbene, l’equazione fondamentale della dinamica stabilisce che il prodotto della massa del corpo in questione per la sua accelerazione è proprio l’entità della forza alla quale è sottoposto. Cos’è la massa? Si tratta di un concetto non banale; tuttavia, per quello che diremo in seguito, possiamo assumere che si tratti della cosa alla quale pensiamo intuitivamente e cioè della «quantità di materia» che compone un certo oggetto. La massa di un oggetto può essere misurata pesando quell’oggetto con una comune bilancia, poiché sappiamo che massa e peso sono grandezze fisiche che vanno di pari passo: tanto maggiore è la massa, tanto maggiore è il peso. Come unità di misura del peso possiamo scegliere il chilogrammo; e allora possiamo dire per esempio che un corpo, che qui sulla Terra pesa tre chilogrammi, ha una massa pari a tre chilogrammi; un altro che ne pesa cinque ha una massa pari a cinque chilogrammi, e così via. In termini matematici l’equazione di Newton si esprime molto semplicemente. Si scrive: (1) f=ma ovvero a=f/m In queste formule f rappresenta l’intensità della forza applicata, m rappresenta la massa dell’oggetto sul quale agisce e a è la conseguente accelerazione dell’oggetto. Si vede subito che, a parità di forza f, tanto minore è la massa m dell’oggetto ta nto maggiore risulta la sua accelerazione a. Non ci meraviglia questa circostanza: se due motori uguali sono installati rispettivamente su un’auto e su una motocicletta, l’accelerazione della moto risulta molto superiore a quella dell’automobile proprio perché la moto ha una massa molto più piccola di quella

dell’auto. Altrettanto, a parità di massa, l’equazione di Newton mostra che se due corpi hanno accelerazioni diverse, l’oggetto che ha una piccola accelerazione è sottoposto a una forza di debole intensità; e l’oggetto che ha una grande accelerazione è sottoposto a una forza molto intensa. Tutto quello che abbiamo stabilito per l’accelerazione vale ovviamente anche per una decelerazione che si ha quando una forza, invece di agire nel senso della velocità, agisce in verso opposto generando quindi una progressiva diminuzione della velocità. Per esempio, a parità di forza generata dai freni, un autocarro con rimorchio perde velocità molto più lentamente di quanto non accada per una piccola 500. Per questo motivo i freni di un autocarro devono essere molto più «potenti» di quelli di una 500 per poter ottenere una frenata completa in tempi rapidi. Torniamo allora alla nostra tazzina di caffè. Abbiamo visto che se la tazzina cade sul materasso ha una piccola decelerazione mentre se cade sul pavimento tale decelerazione è notevole. Nel caso di caduta sul pavimento, la forza che agisce sulla tazzina e la frena è dunque molto più intensa di quella che agisce quando la tazzina cade sul materasso; e questa forza, che agisce sulla struttura di porcellana, può essere sufficiente a rompere la tazzina!

Velocità e accelerazione È interessante approfondire le questioni che abbiamo appena trattato, riconsiderando alcuni concetti come, per esempio, quello di velocità che ci è abbastanza familiare: sappiamo cosa vuol dire andare a centoventi chilometri l’ora in autostrada. È pericoloso procedere a questa velocità? Nessuno (tranne i più prudenti) pensa che si tratti di una velocità effettivamente pericolosa. Ma se pensiamo che il pullman che ci trasporta stia andando a trecento chilometri l’ora, anche i più temerari cominciano a preoccuparsi... Cos’è che ci spaventa? Sono proprio quei trecento chilometri l’ora? Eppure, a bordo di un jet, nessuno si preoccupa se l’aeroplano va a novecento chilometri l’ora. E allora ci rendiamo conto che non è la velocità di per sé a essere pericolosa; piuttosto è un’altra cosa che inconsciamente (ma forse neanche tanto inconsciamente...) ci preoccupa: è la possibilità che ci si trovi in condizioni nelle quali si verifichi una brusca variazione della velocità. In particolare, una rapida decelerazione cioè una diminuzione repentina della velocità. È proprio una tale decelerazione che deve essere contenuta entro valori modesti per garantire la nostra incolumità, proprio come quella della tazzina di caffè!

A questo proposito discutiamo alcuni esempi interessanti. Quando un aereo comincia la discesa per atterrare, la velocità passa da quei novecento chilometri l’ora, o su per giù, a soli trecento chilometri l’ora (o su per giù) prima del touch down sulla pista; eppure noi non ci siamo magari neanche accorti di questa variazione della velocità perché essa è avvenuta in un tempo lunghissimo. Possiamo facilmente ottenere una valutazione quantitativa della decelerazione con un semplice calcolo. Vediamo intanto a quanti metri al secondo corrisponde la velocità di crociera del nostro jet. Novecento chilometri equivalgono a novecentomila metri (900.000 m). Novecentomila metri in un’ora equivalgono dunque a novecentomila metri in 3.600 secondi, quindi la velocità v, espressa in metri al secondo, è: (2) v= 900000/3600 = 250 m/s (metri al secondo) Supponiamo ora che l’aereo rallenti e la velocità diventi per esempio 80 metri al secondo, che corrispondono più o meno alla velocità di atterraggio. La velocità si è dunque decrementata di 170 metri al secondo e immaginiamo che tale decremento sia stato ottenuto in 850 secondi, che corrispondono a poco meno di un quarto d’ora. La decelerazione a dell’aereo è stata dunque di 170 metri al secondo in 850 secondi, cioè: (3) a =170/850 = 0,2 metri al secondo ogni secondo Ebbene, 0,2 metri al secondo equivalgono esattamente a 0,72 Km/h. In altri termini, ogni secondo l’aereo perde perfino meno di un chilometro l’ora di velocità: non ci meraviglia di non esserci neanche accorti di questa decelerazione. Dai jet passiamo alle automobili. Stavolta supponiamo di viaggiare alla modesta velocità di 36 Km/h, che corrispondono a dieci metri al secondo, ma che sia necessario fermarci improvvisamente perché ci sta passando davanti un pedone che non avevamo visto. I freni della nostra auto sono molto efficienti, la strada è asciutta e i pneumatici sono in ottime condizioni. Così riusciamo a fermare l’auto in due secondi, evitando di investire il pedone. Di quanto abbiamo decelerato? La nostra velocità è passata da dieci metri al secondo a zero in due secondi, dunque: (4) a = (10-0)/2 = 5 metri al secondo ogni secondo La nostra decelerazione è stata venticinque volte più grande di quella del jet. Noi ci siamo tenuti fermi stringendo il volante ma il passeggero accanto non si era accorto di nulla. Per fortuna lui aveva indossato la cintura di sicurezza che lo ha salvato da una bella testata contro il parabrezza! Dalle considerazioni appena fatte, abbiamo dunque la conferma che il

pericolo che possiamo correre viaggiando dipende dalla eventualità che si possano presentare circostanze nelle quali le decelerazioni siano molto grandi. La velocità, di per sé, non è rilevante. Così, viaggiando in auto, è bene indossare la cintura di sicurezza anche se siamo in città; anzi, soprattutto se siamo in città pur procedendo a piccole velocità, poiché una frenata improvvisa e dunque una notevole decelerazione è tutt’altro che una eventualità remota. Tra l’altro, osserviamo che in automobile la sensazione di velocità che si avverte dipende in notevole misura dall’altezza che abbiamo rispetto alla strada. Più siamo in alto, per esempio a bordo di un camion piuttosto che a bordo della nostra 500, meno abbiamo l’impressione di andare veloci. Ci possiamo accorgere bene di questa circostanza in una situazione estrema, quando andiamo in aeroplano e siamo magari a diecimila metri di quota. Guardando dal finestrino ci sembra di essere quasi fermi, anche se il nostro jet sta volando a novecento chilometri l’ora.

L’accelerazione di gravità Lasciamo cadere un certo oggetto dalla nostra mano e osserviamo dunque che esso acquista progressivamente una velocità crescente. Questa accelerazione è di solito indicata con il simbolo g ed è naturale chiamarla accelerazione di gravità. A quanto ammonta tale accelerazione? Ebbene possiamo constatare che per qualsiasi oggetto, piccolo o grande, pesante o leggero che sia, abbiamo: (5) g = 9,8 metri al secondo ogni secondo In un solo secondo, un oggetto lasciato cadere dalla nostra mano acquista dunque la velocità v di 9,8 metri al secondo. Sembra poco? Ebbene, 9,8 metri al secondo corrispondono a circa 35 Km/h. Dopo due secondi, l’oggetto acquista dunque una velocità doppia: v=19,6 metri al secondo che corrispondono a circa settanta chilometri l’ora; dopo soli quattro secondi la velocità è diventata circa 140 Km/h. Di questo passo, dopo sei secondi, la velocità è quasi 210 Km/h. Avete per caso un’auto che, partendo da ferma, arriva a duecentodieci chilometri l’ora in sei secondi? Credo che neanche una Ferrari arrivi a tanto! Se un certo oggetto possiede una generica accelerazione a, non necessariamente uguale a g, possiamo dunque scrivere che trascorso un certo lasso di tempo t la sua velocità è direttamente proporzionale alla sua accelerazione ed è quindi data dalla seguente formula: (6) v = at che è l’espressione della velocità per il moto uniformemente accelerato (cioè caratterizzato da un’accelerazione costante) di un oggetto inizialmente

fermo. È sorprendente che tutti i corpi, grandi o piccoli, leggeri o pesanti, cadano con la stessa accelerazione? Più avanti, quando studieremo proprio i fenomeni dovuti alla presenza della forza di gravità, ci accorgeremo che ci si può rendere conto molto facilmente di questa circostanza.

Il principio di inerzia Supponiamo di avere un oggetto solido inizialmente fermo su un piano orizzontale. Sull’oggetto non agiscono forze o, per meglio dire, agiscono due forze che però si equilibrano oppure ancora, come si dice in fisica, hanno risultante nulla: la forza peso, diretta verso il basso, è infatti equilibrata da quella esercitata verso l’alto dal piano che sostiene l’oggetto in questione. Se non tocchiamo l’oggetto, esso rimane indefinitamente nel suo stato di quiete. Ma cosa succede se imprimiamo al corpo una certa velocità? L’esperienza mostra che esso si muove di moto rettilineo e, se il corpo è per esempio un mattone, dopo pochi istanti si ferma. Invece di un mattone, utilizziamo un oggetto molto levigato e facciamolo scorrere dopo avere levigato altrettanto bene la superficie orizzontale. A parità di velocità iniziale, l’oggetto si ferma dopo un tempo molto più lungo e dopo aver percorso una maggiore distanza poiché l’attrito è notevolmente ridotto rispetto al caso precedente. A questo punto vorrei suggerirvi la realizzazione di un esperimento veramente molto semplice che potete facilmente eseguire in casa. Fate scorrere, sulla superficie levigata del tavolo di marmo o di laminato plastico che avete in cucina, un blocco di ghiaccio secco, quello che è usato per conservare i gelati. Il ghiaccio secco è anidride carbonica solida che, in condizioni normali, sublima cioè passa direttamente dallo stato solido a quello gassoso senza passare per lo stato liquido (per questo lo chiamiamo «secco»). Per conseguenza, quando un blocco di ghiaccio secco viene appoggiato su un piano orizzontale, si forma un sottile cuscino gassoso di anidride carbonica simile a quello (di aria) che viene generato da un hovercraft: il blocco solido, di fatto, non tocca la superficie del tavolo! È evidente che, in questo caso, gli attriti sono ancor più ridotti e ci sembrerà che a seguito di una piccola spinta il blocco non abbia alcuna intenzione di fermarsi, continuando a muoversi in linea retta. Supponiamo ora, come astrazione, che sia possibile realizzare uno scorrimento «perfetto». Ci aspettiamo che un corpo lasciato libero di muoversi in queste condizioni mantenga indefinitamente la velocità che gli abbiamo impresso all’inizio: le esperienze precedenti ci mostrano che ciò è assolutamente ragionevole. Del resto, non toccare un corpo e lasciarlo muovere su un piano assolutamente privo di attrito significa non applicargli alcuna forza; dunque, l’esperienza ci porta a pensare che, in assoluta assenza di forze, il moto di un

qualsiasi oggetto sia rettilineo e uniforme cioè si svolga con una velocità che si mantiene costante. Nasce così la formulazione di un fondamentale principio che è conosciuto come principio di inerzia o anche come Primo Principio della Dinamica, enunciato per la prima volta da Galileo Galilei: Un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non intervengono forze a mutare tale stato. Il principio di inerzia interviene in ogni circostanza ed è interessante discuterne qualcuna. Per esempio, parlando di accelerazione di gravità, abbiamo pensato a una situazione ideale nella quale non esiste attrito, come per esempio quello dovuto alla resistenza dell’aria, che di fatto frena progressivamente qualsiasi oggetto libero di cadere impedendogli di raggiungere velocità arbitrariamente elevate. Lo sa bene un paracadutista: dal momento del lancio egli verifica che la sua velocità si incrementa progressivamente; ma ancor prima di aprire il paracadute sa anche che, a mano a mano che la sua velocità aumenta, aumenta anche la forza di resistenza dell’aria. Questa forza si incrementa fino a equilibrare il peso del paracadutista. A questo punto, egli non è più soggetto ad alcuna forza. Per meglio dire, il suo peso è equilibrato dalla forza esercitata dalla resistenza dell’aria e il paracadutista continua a scendere con una velocità costante, seppure elevata, in accordo con il principio di inerzia: se un corpo in movimento è complessivamente sottoposto a forze che hanno risultante nulla, il suo moto non può essere che rettilineo e uniforme. È vera anche la circostanza opposta, se così si può dire: cioè se vediamo che un corpo si muove di moto rettilineo uniforme possiamo essere sicuri che tale corpo è soggetto complessivamente a una forza nulla. Così possiamo essere sicuri che se vediamo un treno procedere in rettilineo, in pianura e con velocità costante, la risultante delle forze che agiscono sul treno è nulla. Che ci sta a fare allora durante il viaggio il motore del treno? La risposta corretta è che il motore serve solo a sviluppare una enorme forza per equilibrare quelle che si oppongono all’avanzamento del treno: la resistenza dell’aria, l’attrito delle ruote e anche quello del pantografo che striscia lungo la linea aerea della ferrovia. Se questi attriti non fossero presenti, il treno continuerebbe la sua corsa senza bisogno del motore. Lo stesso vale ovviamente anche per la nostra automobile: se fosse possibile eliminare gli attriti, la nostra 500 continuerebbe a filare in rettilineo e in pianura senza bisogno del motore. Il motore servirebbe soltanto per imprimere inizialmente una certa velocità che poi verrebbe mantenuta indefinitamente. Se invece perdiamo velocità, come in pratica accade anche andando in

pianura, è perché sicuramente intervengono forze. Se stiamo andando in «folle», l’automobile perde velocità per la forza esercitata dalla resistenza dell’aria; per gli attriti inevitabilmente presenti nei cuscinetti a sfere, e così via; oppure, semplicemente, anche con la marcia ingranata, per la forza esercitata dai freni. Noi a bordo, durante una frenata, dobbiamo perdere velocità insieme all’automobile per non proseguire dritti e andare a finire contro il parabrezza! Ebbene, le cinture di sicurezza sono il nostro freno. Le cinture esercitano una forza su di noi che progressivamente ci rallenta insieme all’auto che ci trasporta.

Il principio di azione e reazione Durante la frenata abbiamo la sensazione di essere noi a spingere contro le cinture piuttosto che il contrario; ma questo non deve sorprenderci. Infatti in fisica esiste una circostanza fondamentale, scoperta da Isaac Newton e conosciuta come principio di azione e reazione, a garantirci che tanto le cinture esercitano una forza su di noi quanto noi sulle cinture. Tale principio è di solito enunciato brevemente così:

A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

Con questo intendiamo dire che se un certo corpo esercita una certa forza su un altro corpo, quest’ultimo a sua volta esercita una forza sul primo; di uguale intensità ma di verso contrario. Ci possiamo accorgere della validità di questo principio in ogni circostanza della nostra vita quotidiana, anche se non ci facciamo caso. Per esempio quando spingiamo il bottone per chiamare l’ascensore di casa nostra: noi esercitiamo una certa forza sul bottone e il bottone esercita una forza uguale e contraria sul nostro polpastrello, che infatti risulta leggermente deformato!

L’accelerazione centripeta La nostra auto procede in rettilineo, con il tachimetro che indica costantemente la velocità di 120 Km/h. In accordo con il principio d’inerzia, sappiamo che la forza del motore equilibra le forze di attrito. La risultante delle forze applicate all’auto è dunque nulla: l’auto si muove effettivamente di moto rettilineo e uniforme. Ma ora la strada presenta una curva, per esempio verso sinistra: non possiamo continuare a procedere in linea retta. Allora ci rendiamo conto che devono intervenire forze a cambiare la nostra direzione di marcia. Queste forze sono originate dall’aderenza dei pneumatici e spingono l’auto a

sinistra verso l’interno della curva. Precisamente, spingono l’auto verso il centro di curvatura della strada. Cos’è il centro di curvatura? È semplicemente il centro dell’arco di circonferenza che la strada descrive; e il raggio di curvatura della strada è proprio il raggio di questa circonferenza. Di solito, specie nelle autostrade, tale raggio è molto grande affinché le curve non siano troppo strette e ci consentano di continuare a marciare con la stessa velocità che avevamo in rettilineo, come vedremo fra poco. Sappiamo che le forze sono proporzionali alle accelerazioni, secondo la legge di Newton; e allora, se l’auto è soggetta a una forza diretta verso il centro di curvatura, ne consegue che l’auto ha un’accelerazione anch’essa diretta verso il centro di curvatura, non c’è dubbio: è quella che viene chiamata proprio un’accelerazione centripeta. Nel prossimo capitolo il lettore interessato alla questione potrà trovare il calcolo esplicito di tale accelerazione. Se però lo preferisce, può tranquillamente omettere la lettura di quel capitolo. L’importante è ricordare il risultato: L’accelerazione centripeta è direttamente proporzionale al quadrato della velocità con la quale corre l’automobile e inversamente proporzionale al raggio di curvatura della strada. Scriviamo dunque: (7) a=v2/r Questa formula ci conferma la presenza delle situazioni e le sensazioni che verifichiamo quando andiamo in auto: il fatto che l’accelerazione sia inversamente proporzionale al raggio di curvatura ci conferma che tanto più la curva è larga, cioè r è grande, tanto meno intensa è l’accelerazione; dunque le ruote devono esercitare meno forza per far cambiare direzione all’auto. In queste condizioni, l’aderenza dei pneumatici è sufficiente a garantirci che possiamo stare tranquilli. A parità di velocità, se la curva è invece piuttosto stretta, cioè r è piccolo, l’accelerazione è rilevante e così è la conseguente forza che i pneumatici devono esercitare. Attenzione: in queste condizioni, l’aderenza dei pneumatici può non essere sufficiente a produrre tale forza e in tal caso l’auto finisce fuori strada! Così pure, anche percorrendo una curva molto ampia, facciamo attenzione e non corriamo troppo, perché l’accelerazione è proporzionale al quadrato della velocità. Se la velocità è il doppio di quella che avevamo deciso di mantenere, l’accelerazione diventa quattro volte maggiore; se la velocità è il triplo l’accelerazione è nove volte maggiore. Ecco perché è prudente viaggiare a velocità non troppo elevate: a parte le brusche frenate, può essere pericoloso anche un improvviso cambio di direzione per seguire il tracciato della strada.

Anche in questo caso è interessante fare alcune considerazioni. Abbiamo immaginato una curva a sinistra. Ebbene, a bordo della nostra auto, ci sentiamo spingere verso destra; e in particolare, se siamo passeggeri nel sedile di destra accanto a quello di guida, magari distratti dall’ammirazione del paesaggio circostante, ci troviamo appoggiati allo sportello. Sappiamo interpretare questa circostanza? È una situazione simile a quella che abbiamo discusso a proposito di cinture di sicurezza: l’auto viene spinta dai pneumatici verso sinistra; ma anche noi, all’interno, dobbiamo andare a sinistra insieme all’auto! E lo sportello ci spinge proprio verso sinistra. Abbiamo l’impressione di essere noi a spingere verso destra sullo sportello piuttosto che il contrario; ma, anche in questo caso, non dobbiamo sorprenderci perché le cose vanno proprio così: per il principio di azione e reazione, tanto lo sportello ci spinge verso sinistra quanto noi spingiamo lo sportello verso destra. A quest’ultima spinta, che ovviamente è una forza diretta verso l’esterno della curva, diamo il nome di forza centrifuga.

Calcolo dell’accelerazione centripeta A rigore, non dobbiamo pensare che la velocità sia espressa semplicemente da un numero; per esempio i 120 chilometri l’ora che stiamo mantenendo con la nostra automobile e che leggiamo sul tachimetro. Per avere una descrizione completa della velocità occorre sapere anche in che direzione stiamo andando e se stiamo percorrendo la strada in un senso o nell’altro. In maniera molto espressiva possiamo allora indicare la velocità con una freccia tangente al percorso che stiamo seguendo; freccia che disegniamo più o meno lunga a seconda di quanto sia più o meno elevata quella che è giusto definire soltanto come intensità o modulo della velocità che abbiamo quando ci troviamo in un certo punto P della strada (figura 1).

Figura 1. Una freccia tangente alla traiettoria rappresenta completamente la velocità di P a un certo istante.

Questo perché con il termine velocità dobbiamo pensare a tutta la freccia, cioè non solo alla sua lunghezza ma anche alla retta lungo la quale è disegnata e al verso indicato dalla punta della freccia. A titolo di curiosità, diciamo che nei libri di fisica in lingua inglese non c’è confusione nell’uso della parola velocità: con «speed» è indicato il modulo della velocità; «velocity» è tutta la freccia. Oltre alla velocità, molte altre grandezze fisiche devono di fatto essere rappresentate da frecce più o meno lunghe se si vuole una loro descrizione completa, e forse ve ne siete già resi conto. Per esempio, per specificare una forza non basta sapere se questa è più o meno intensa; bisogna dire anche in quale direzione agisce e il verso, cioè se spinge o se tira. Così, pure le accelerazioni sono completamente rappresentate da frecce. Infatti non basta dire semplicemente quanto è rapida la variazione di una certa velocità: occorre anche specificare in quale direzione e in quale verso si manifesta tale variazione. D’altra parte, è ovvio che anche le accelerazioni debbano essere rappresentate da frecce. Ciò segue dalla legge di Newton che stabilisce la proporzionalità tra forze e accelerazioni: se le forze sono rappresentate da frecce anche le accelerazioni devono essere rappresentate da frecce. In fisica, queste frecce sono chiamate vettori e rappresentano dunque quelle che vengono chiamate grandezze vettoriali, delle quali le velocità, le forze e le accelerazioni sono esempi particolarmente importanti.

Così, nel descrivere una curva, per esempio verso sinistra e procedendo sempre – tanto per dire – a v = 120 km/h, cambia lentamente soltanto la direzione del vettore velocità mentre l’intensità si mantiene costante, come è illustrato nella figura 2.

Figura 2. Il vettore velocità a mano a mano che percorriamo la strada con il tachimetro che segna sempre 120 km/h. Osserviamo che il vettore ha sempre la stessa intensità e cambia soltanto la sua direzione.

Al trascorrere del tempo, tra un certo istante e un altro immediatamente successivo, ci troviamo dunque nella situazione illustrata in figura 3

Figura 3. Il piccolo arco indicato da una freccia tratteggiata rappresenta la variazione del vettore velocità in un breve intervallo di tempo.

Vediamo che la variazione della velocità corrisponde al piccolo arco descritto dalla punta della freccia. Nella realtà, finita la curva, la strada continua in rettilineo ma, poiché ci interessa sapere soltanto quello che succede in curva, immaginiamo che la strada sia una pista circolare e dunque che la nostra auto descriva un’intera circonferenza. In queste condizioni il calcolo dell’accelerazione è molto semplice, come vediamo subito. Di quanto è variata la velocità alla fine del giro? È immediato rendersi conto che in queste condizioni la punta della freccia ha compiuto un giro completo. In altre parole ha descritto una circonferenza di

raggio uguale alla lunghezza della freccia, cioè uguale all’intensità v della velocità. Allora la variazione complessiva della velocità, che chiamiamo brevementeΔv, è proprio la lunghezza di tale circonferenza che (come dovremmo ricordare dalle scuole medie...) vale 2πv. Dunque: (8) Δv = 2πv D’altra parte, quanto tempo T ha impiegato l’auto a percorrere un giro completo della pista? Se l’auto è andata sempre a velocità di modulo v, il prodotto vT è uguale alla lunghezza dell’anello stradale che è uguale a 2πr dove r è il raggio di curvatura della pista. Abbiamo dunque: vT = 2πr cioè: (9) T = 2πr/v Abbiamo così tutti gli elementi per calcolare l’accelerazione. Ricordiamo infatti che l’accelerazione a è il rapporto tra la variazione di velocità e il tempo durante il quale è avvenuta tale variazione cioè, nel nostro caso, è il rapporto traΔv e T. Dunque: (10)

come volevamo dimostrare. E allora rappresentiamo il vettore accelerazione centripeta con una freccia di lunghezza a che punta verso il centro O della circonferenza che l’auto descrive (figura 4).

Figura 4. L’accelerazione centripeta a, in un moto circolare che si svolge con velocità v di modulo costante, è rappresentata da un vettore che punta verso il centro O della traiettoria.

La composizione delle velocità Per composizione delle velocità si intende l’effetto che si ottiene quando due velocità si «sovrappongono», per così dire. Per esempio, ci sarà capitato di osservare in un aeroporto i passeggeri che camminano su un tapis roulant, cioè su un pavimento scorrevole installato proprio per facilitare lo spostamento dei passeggeri. Da una certa distanza vediamo i passeggeri procedere come se fossero marciatori olimpionici! In effetti, se il pavimento scorre – mettiamo – a 3 chilometri l’ora e il passeggero, valigie alla mano, cammina a 4 chilometri l’ora, noi lo vediamo avanzare alla ragguardevole velocità (per un pedone) di 7 chilometri l’ora. Così pure, se osserviamo i clienti di un centro commerciale che salgono gli scalini di una scala mobile, li vediamo raggiungere il piano superiore in un baleno. Anche in questo caso la velocità della scala mobile si somma a quella dei clienti che salgono le scale. Si dice così che la velocità con la quale quelle persone camminano si compone con quella del tapis roulant o della scala mobile per fornire la velocità effettiva con la quale si muovono e con la quale le vediamo procedere. È molto semplice verificare che, negli esempi che vi ho proposto, la velocità risultante è dunque la somma delle velocità, poiché tanto il tapis roulant (o la scala mobile) quanto le persone procedono nello stesso senso. Altrettanto possiamo verificare che se invece le velocità sono opposte, occorre fare la differenza delle velocità. Se su quel tapis roulant che scorre a tre chilometri l’ora vogliamo fare gli spiritosi e camminare in senso contrario proprio a tre chilometri l’ora, gli altri passeggeri ci vedranno fermi, sempre nello stesso posto. Se poi camminiamo a soli due chilometri l’ora, gli altri passeggeri ci vedranno andare «a marcia indietro» con un effetto di camminata simile a quello che abbiamo ammirato nelle esibizioni di Michael Jackson!

Mongolfiere e aeroplani Intrepidi aeronauti sono a bordo della loro mongolfiera, in balia di una tremenda tempesta, a duemila metri sopra l’oceano. Avrete forse visto una tale scena in un film di avventure: nella cesta appesa all’enorme pallone c’è sicuramente anche una bella ragazza, vicino al giovane pilota che porterà poi in salvo il piccolo equipaggio. Un’avventura a lieto fine, certamente; ma prima della sua conclusione avrete trepidato, osservando i protagonisti sferzati dal vento e dalla pioggia. Mentre scrivo mi sono calato nella parte di un famoso regista, specializzato in film di avventura. Beh, se ho girato una scena come quella che vi ho descritto, devo dirvi che come regista valgo proprio poco...

Infatti, a bordo di un pallone aerostatico che viene spinto da un vento tempestoso, magari a cento chilometri l’ora mentre cade una fitta pioggia, potete stare tranquillamente a conversare senza bagnarvi! Questo perché un pallone aerostatico non ha motore e quindi è sempre fermo rispetto all’aria circostante anche se, rispetto al suolo o alla superficie dell’oceano, sta viaggiando a cento chilometri l’ora. Il vento non vi fa dunque avvertire la sua presenza anche se è molto intenso. Così pure, rispetto al pallone, la pioggia cade perpendicolarmente e, con il pallone sopra la vostra testa, non vi bagnerete; se non per le gocce che scivoleranno sulla superficie del pallone e cadranno nella cesta. La scena che avrei dovuto girare con la macchina da presa a bordo del pallone avrebbe dovuto dunque mostrare una calma assoluta. È interessante discutere anche un’altra questione. Alcuni pensano che in fase di atterraggio è meglio che un aeroplano si trovi a procedere controvento. E hanno ragione: infatti, una volta che il carrello avrà toccato terra, il vento eserciterà un’azione frenante che favorirà la rapida diminuzione di velocità dell’aereo. E allora, in fase di decollo, è meglio che il vento investa l’aereo di coda? In questo modo la spinta del vento favorirà l’incremento della velocità fornito dalla spinta dei motori... Se la pensate così non siete bravi piloti! Anche il decollo deve avvenire preferibilmente controvento e possiamo rendercene conto con questa considerazione. Supponiamo che, in calma di vento, l’aereo debba raggiungere centocinquanta chilometri l’ora per decollare. Ma ora supponiamo che l’aereo sia ancora fermo all’inizio della pista e sia presente un vento contrario – poniamo – di cinquanta chilometri l’ora. Lungo le ali dell’aereo, nonostante questo sia fermo, è già presente una corrente d’aria di cinquanta chilometri l’ora che le investe. All’aereo basterà correre sulla pista a soli cento chilometri l’ora affinché la sua velocità rispetto all’aria sia quei centocinquanta chilometri l’ora che sono sufficienti a farlo decollare. Peraltro, correndo a minore velocità, l’aereo potrà decollare anche da una pista più corta di quella dalla quale sta partendo. E proprio quest’ultima considerazione ci fa capire che è meglio atterrare controvento non soltanto perché, una volta a terra, il vento aiuterà la frenata dell’aereo; meglio ancora, questa circostanza farà sì che l’aereo si avvicini alla pista con minore velocità rispetto alla pista stessa. Anche in questo caso una semplice valutazione numerica ci aiuta a capire la questione. Supponiamo che un piccolo aereo da turismo, in fase di atterraggio, debba procedere nell’aria a una velocità di cento chilometri l’ora. Se in questa fase l’aereo si trova in presenza di un vento contrario che soffia a venti chilometri l’ora, l’aereo si avvicinerà alla pista soltanto a ottanta chilometri l’ora: il compito del pilota sarà facilitato e l’aereo percorrerà meno pista prima di fermarsi. Facciamo un’ultima considerazione importante. Se fate il bagno in un fiume, è

vero che è molto meno faticoso nuotare in favore di corrente piuttosto che nuotare controcorrente? Saremmo tentare di rispondere sì, non è vero? Invece la risposta è no! La fatica per eseguire le nostre bracciate è la stessa in entrambi i casi. Però, se vogliamo raggiungere un pontile che si trova a valle del fiume, la corrente ci trasporterà laggiù anche se ci limitiamo a galleggiare, con fatica praticamente nulla da parte nostra; se invece vogliamo raggiungere un pontile che si trova a monte dovremo faticare parecchio per nuotare per molto tempo con una velocità superiore a quella con la quale il fiume scorre verso valle. La differenza di fatica è soltanto, diciamo, «psicologica»!

Ancora sulla composizione delle velocità In generale, le velocità che si compongono non hanno la stessa direzione. Torniamo per esempio al nostro piccolo aereo da turismo, che si sta avvicinando alla pista procedendo nel vento a cento chilometri l’ora e supponiamo che la pista sia perfettamente allineata nella direzione nord-sud. Il pilota si sta avvicinando vedendo la pista proprio a nord, davanti a lui. In che direzione deve puntare il pilota per arrivare felicemente all’atterraggio? Deve puntare a nord? Se è presente un vento che viene proprio da nord con una velocità di 20 chilometri l’ora possiamo essere sicuri che il pilota arriverà all’inizio della pista senza difficoltà, con l’aereo che, rispetto al suolo, andrà a ottanta chilometri l’ora. Ma supponiamo che il vento non provenga da nord ma da est: il pilota dovrà comunque puntare a nord? Eh, no; procedendo così il vento farà scarrocciare l’aereo verso ovest mandandolo fuori traiettoria. Il pilota dovrà dunque puntare leggermente proprio verso est per compensare l’effetto del vento laterale. Nel caso che abbiamo appena discusso abbiamo la composizione di due velocità che sono addirittura perpendicolari: quella dell’aereo rispetto all’aria e quella del vento rispetto alla superficie terrestre.

Moscerini e vagoni ferroviari – La quantità di moto Pensiamo a un moscerino che vola a 1 Km/h e a un vagone ferroviario che corre lungo i binari a 1 Km/h. Le due velocità sono uguali, certamente; ma immaginate ora che il moscerino urti contro un respingente della stazione di Roma Termini. Succederebbero le stesse cose se, al posto del moscerino, arrivasse il vagone? Evidentemente no. Eppure, tanto il moscerino quanto il vagone procedono alla stessa velocità. Certo, ma gli effetti dell’urto sono differenti poiché la massa di un moscerino non arriva neanche a un grammo mentre quella del vagone è di parecchie tonnellate. In fisica si introduce una

grandezza che tiene conto proprio di queste differenze: è quella che viene chiamata quantità di moto di un oggetto, definita come prodotto della massa per la velocità. La quantità di moto è dunque un vettore che ha la stessa direzione e lo stesso verso della velocità ma, per quello che ci interessa, penseremo soltanto al suo modulo, cioè alla sua intensità che, nella letteratura scientifica, è frequentemente indicata con la lettera p. Dunque, per definizione: (11) p = mv Quindi possiamo dire che moscerino e vagone hanno la stessa velocità ma quantità di moto notevolmente differenti dovute ai differenti valori delle masse. In sostanza è dunque p a indicare – per così dire – «quanto grande» è l’effetto generato da un corpo che si sta muovendo, piuttosto che la sola velocità v. A questo punto possiamo mettere in relazione la quantità di moto con le forze che agiscono su un certo corpo, ricordando che tra forze f e accelerazioni a intercorre una proporzionalità: (12) f = ma dove m è la massa dell’oggetto in questione. Supponiamo allora che una forza f di intensità costante cominci ad agire su un corpo di massa m, inizialmente fermo. Trascorso un fissato intervallo di tempo t, sappiamo che la velocità v acquistata dal corpo risulterà proporzionale alla sua accelerazione a e al tempo trascorso t. Possiamo allora scrivere di nuovo v = at cioè: (13) a = v/t Sostituiamo questa espressione nella (12). Troviamo dunque: (14) f = mv/t Evidentemente lo stesso discorso si applica se consideriamo un’altra forza f di intensità uguale a quella precedente applicata a un altro corpo di massa M inizialmente fermo che, dopo lo stesso intervallo di tempo t, avrà acquistato una velocità che indichiamo con V. Abbiamo dunque, analogamente: (15) f = MV/t Ma, ripetiamo, noi abbiamo assunto che le forze abbiano la stessa intensità f; tanto quella che agisce sul corpo di massa m quanto quella che agisce sul corpo di massa M. Uguagliando dunque la (14) e la (15) otteniamo: (16) mv/t = MV/t dalla quale segue: (17) mv = MV Abbiamo così scoperto che forze di uguale intensità, agendo a parità di

tempo, forniscono la stessa quantità indipendentemente dalla sua massa.

di

moto

a

qualsiasi

oggetto,

Il rinculo delle armi da fuoco La circostanza che le forze siano di uguale intensità si verifica in particolare quando abbiamo a che fare con il principio di azione e reazione. A questo proposito consideriamo un cannone di massa M che spara orizzontalmente un proiettile di massa m a una certa velocità v. Se, con la carica esplosiva che contiene, il cannone ha fatto sì che il proiettile fosse sottoposto a una forza f, altrettanto il proiettile ha fatto sì che il cannone fosse sottoposto a una forza di intensità uguale f, diretta dalla parte opposta. Dunque, a seguito dello sparo, tanto il proiettile quanto il cannone acquistano la stessa quantità di moto ma ovviamente il cannone parte dalla parte opposta a quella del proiettile con una velocità V che ricaviamo dalla (17), cioè: (18) V = (m/M)v In generale la massa m del proiettile è molto più piccola di quella M del cannone e per conseguenza il rapporto m/M è un numero molto piccolo. Vediamo allora che la velocità V risulta molto più piccola di v: il proiettile parte a grande velocità e il cannone parte dalla parte opposta con velocità molto piccola. È interessante calcolare di quanto è arretrato il cannone in funzione della distanza l coperta dal proiettile in un certo intervallo di tempo t. È molto semplice questo calcolo. Infatti, moltiplichiamo per t i due membri della (17) ottenendo così: (19) mvt = MVt Evidentemente vt è pari alla distanza l percorsa dal proiettile nel tempo t e altrettanto Vt è la distanza L percorsa in verso opposto dal cannone nello stesso intervallo di tempo. Quindi, sostituendo nell’uguaglianza precedente, abbiamo: (20) ml = ML cioè: (21 L = (m/M)l Naturalmente, nella realtà, il cannone non è lasciato libero di arretrare: esso è rapidamente fermato da un sistema di ammortizzatori mentre il proiettile continua a descrivere la sua traiettoria. Ovviamente i discorsi che abbiamo fatto si applicano non soltanto alle armi da fuoco. Per esempio, se in un campo sportivo ci esercitiamo con una balestra, la freccia partirà con una certa velocità e noi, molto più pesanti della freccia,

partiremmo all’indietro con una piccola velocità. Perché ho usato il condizionale «partiremmo»? Perché noi di fatto riusciamo a rimanere fermi, con i piedi ben saldi a terra, grazie all’attrito presente tra la suola delle nostre scarpe e l’erba del prato.

La domanda di un bambino Recentemente un bambino di dieci anni mi ha posto una domanda: cosa succederebbe se fosse il Sole a girare intorno alla Terra invece che la Terra intorno al Sole? Le domande dei bambini, nella loro semplicità, sono molto spesso imbarazzanti per gli adulti! Di fatto, la domanda di Federico è tutt’altro che banale, anche se la risposta che gli ho dato è molto semplice e forse, per lui, un po’ deludente: non succederebbe assolutamente nulla. Infatti, per secoli si è pensato che fosse il Sole a girare intorno alla Terra e nessuno se ne è mai preoccupato. E, del resto, da quando Copernico ha affermato che invece era la Terra a girare intorno al Sole, la nostra vita quotidiana non ha subito alcun mutamento. La necessità di cambiare il modo di vedere l’Universo nasce da considerazioni strettamente scientifiche e forse è il caso di soffermarci un momento sulla questione. Occupiamoci proprio di quella che chiamiamo rivoluzione copernicana. Ebbene, di fatto il passaggio dalla visione tolemaica dell’Universo a quella copernicana implica semplicemente un cambiamento di quello che, con terminologia moderna, chiamiamo sistema di riferimento. Diciamo pure che, per Tolomeo, l’unico possibile sistema di riferimento è la Terra che si trova al centro dell’Universo; e intorno a essa si svolge il moto di tutti gli altri corpi celesti. La visione tolemaica è quella in accordo con ciò che di fatto sperimentiamo ogni giorno e sicuramente proprio per questo motivo essa è stata quella accolta con maggior favore dagli antichi scienziati e filosofi: in effetti vediamo che il Sole gira intorno alla Terra e con esso ruota tutta la volta celeste. All’alba vediamo il Sole levarsi sull’orizzonte e al tramonto lo osserviamo quando lentamente si tuffa nel mare. Inoltre (in un arco di tempo piuttosto lungo che può essere di giorni o settimane) osserviamo i pianeti che si muovono fra le stelle senza alcuna regolarità. Proprio nel tentativo di trovare una giustificazione di questo fatto, si pensava che i pianeti si muovessero lungo misteriosi epicicli, l’origine dei quali era del tutto sconosciuta. Tutto questo perché il nostro sistema di riferimento – diciamo così – «naturale» è la Terra stessa che, almeno fino a pochi anni fa, prima dell’inizio dell’Era Spaziale, è stato proprio il nostro unico

punto di osservazione sull’Universo che ci circonda. Ma oggi, tanto tempo dopo Tolomeo e con i progressi della fisica che nel frattempo si sono ottenuti, sappiamo che è possibile scegliere un qualsiasi altro sistema di riferimento, se preferiamo. Noi, che siamo abituati alle notizie sui viaggi spaziali, non avremmo difficoltà a pensare che gli astronauti che sono stati sulla Luna avrebbero potuto riferirsi proprio al nostro satellite per descrivere il moto dei corpi celesti. Immaginiamoli proprio come discendenti di un’antica civiltà «selenita» che ha abitato per millenni sul nostro satellite (figura 5).

Figura 5. Al lavoro sulla Luna durante la missione Apollo 17 del dicembre 1972 (Image: NASA).

Essi avrebbero verificato che la Terra sarebbe stato l’unico corpo celeste perennemente fermo, per esempio in alto sopra la cima di una montagna lunare. Certo, perché la Luna volge sempre la stessa faccia verso la Terra e quindi, rispetto alla Luna, la Terra se ne sta sempre «ferma là» nel cielo; a parte un piccolo andirivieni del quale parleremo più avanti. Viceversa, tutte le stelle, Sole compreso, avrebbero compiuto un giro intorno alla Luna in poco meno di un mese. Vedete come cambierebbe il quadro della situazione se fossimo abitanti della Luna? Avremmo elaborato una visione – diciamo così in un modo un po’ buffo – «lunocentrica» dell’Universo, completamente diversa dalla visione geocentrica di Tolomeo o quella eliocentrica di Copernico. Di fatto, almeno per i corpi celesti più vicini a noi, un sistema di riferimento per il quale il moto dei corpi celesti appare il più semplice possibile è proprio quello eliocentrico proposto da Copernico: un sistema, cioè, che assume il Sole come punto di osservazione. Rispetto al Sole, i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche, quasi circolari; e altrettanto i satelliti orbitano intorno ai rispettivi pianeti proprio come i pianeti intorno al Sole. Come vedremo, nella visione copernicana non c’è bisogno di epicicli per

descrivere le modalità con le quali osserviamo il movimento dei pianeti sulla volta celeste. Peraltro la legge di gravitazione, della quale parleremo in seguito, giustifica pienamente il fatto che il centro del nostro Sistema Solare sia proprio il Sole stesso. Infatti, ammessa l’esistenza della reciproca attrazione gravitazionale tra i corpi celesti, essa è responsabile dell’esistenza di orbite dei pianeti quasi esattamente circolari con centro nel Sole e così pure essa prevede orbite altrettanto (quasi) circolari dei satelliti intorno ai rispettivi pianeti. Certo, per gli scienziati di secoli fa, pensare che la Terra poteva non più essere il centro dell’Universo ha rappresentato una rivoluzione delle loro idee; ma rinfranchiamoli un poco: possiamo tranquillamente continuare a pensare di essere al centro dell’Universo. In altre parole, potremmo benissimo continuare a fare calcoli astronomici pensando che la Terra sia al centro dell’Universo. Tali calcoli risulterebbero molto più complicati di quelli che dovremmo eseguire pensando invece che la Terra giri intorno al Sole come tutti gli altri pianeti.

Le librazioni lunari La Luna volge alla Terra sempre la stessa faccia, lo abbiamo studiato fin dalle scuole elementari. Durante la Luna Piena il nostro satellite ci appare proprio come un viso umano; con un’espressione un po’ triste... Almeno, io la Luna la vedo così, ma credo che molte persone siano d’accordo con me. Se è vero che la Luna mostra sempre la stessa faccia, dobbiamo concludere che noi, magari con l’ausilio di un cannocchiale o di un telescopio, vediamo l’esatta metà della superficie lunare: l’altra metà è totalmente sconosciuta. In effetti, fino a quando la sonda sovietica Lunik III non ha circumnavigato e fotografato la Luna nel 1959, la faccia nascosta è sempre stata un mistero per gli astronomi (figura 6).

Figura 6. La prima fotografia della faccia nascosta della Luna.

Come si vede, c’è da dire che le immagini della sonda di allora erano di scarsa qualità; ma oggi disponiamo di ottime immagini che ci rivelano un aspetto del tutto simile a quello della parte «conosciuta» che siamo abituati a osservare dalla Terra (figura 7).

Figura 7. La faccia nascosta della Luna fotografata durante la missione Apollo 16 il 25 aprile 1972 (Image: NASA).

Tuttavia, nonostante la Luna volga sempre la stessa faccia, qui dalla Terra possiamo osservare quasi il sessanta per cento della sua superficie complessiva, invece del cinquanta per cento che ci aspetteremmo, per un fenomeno conosciuto come librazione lunare. Il fatto è che l’asse di rotazione della Luna non è esattamente ortogonale al piano dell’orbita che essa descrive intorno alla Terra. Inoltre tale orbita non è esattamente circolare, con il risultato che la Luna ci appare a volte un po’ ruotata e dunque possiamo «sbirciare» – diciamo così – nella parte nascosta. Osserviamo a questo proposito la figura 8.

Figura 8. Librazione lunare.

Vediamo che le due immagini della Luna piena, scattate ad alcuni mesi di distanza, sono leggermente diverse proprio a mostrare questo effetto dovuto alla librazione. Per esempio si vede il Mare Crisium leggermente più «schiacciato» nell’immagine a sinistra rispetto a come appare in quella di destra. Il Mare Crisium è quella macchia scura di forma ellittica che appare in alto a destra nelle due fotografie. Poco fa dicevo che, per gli astronauti sulla Luna, la Terra sta sempre ferma là sopra una montagna o un cratere lunare. Ebbene, proprio per il fenomeno della librazione lunare, le cose non vanno esattamente così: gli astronauti vedono che la Terra compie piccoli spostamenti nel cielo intorno a una posizione che rimane perennemente la stessa. Infatti, quella che da qui vediamo come una piccola rotazione della Luna diventa, per un osservatore laggiù, un piccolo spostamento della Terra sulla volta celeste.

La Luna in 3D Il fenomeno della librazione ci permette di vedere la Luna come è realmente, cioè di forma sferica, con un effetto veramente molto interessante. Infatti, vedere un oggetto che una volta appare in un modo e un’altra volta leggermente ruotato equivale a vedere l’oggetto da due punti di vista leggermente diversi. D’altro canto, la nostra visione tridimensionale è dovuta proprio al fatto che osserviamo un certo oggetto da due punti di vista leggermente diversi che sono le rispettive posizioni dei nostri occhi. Il cervello poi «fonde» le immagini prodotte sulla retina di ciascun occhio e in definitiva ci fornisce una unica immagine che ci dà la sensazione della profondità. Il povero Polifemo, con un solo occhio, non aveva la visione tridimensionale; e forse proprio per questo motivo non sarebbe riuscito a valutare correttamente la distanza della nave di Ulisse per centrarla con gli

enormi massi che riusciva a scagliare. D’altra parte Ulisse aveva già provveduto ad accecare il mostro! Tornate allora a osservare proprio la figura 8. Rilassando gli occhi, spero che riusciate a fondere le due immagini e così, fra esse, vedrete una terza immagine che è la Luna come la vedreste se i vostri occhi si trovassero a migliaia di chilometri l’uno dall’altro. Se foste giganti con gli occhi così distanti tra loro, la Luna sarebbe proprio a due passi da voi e la vedreste di forma sferica, com’è realmente. Proprio quello che state osservando. Non siete riusciti a vedere la Luna così? Allora vi propongo una osservazione «di allenamento», se così si può dire! A sinistra, in figura 9, è disegnata una terna di assi mutuamente ortogonali rappresentati in prospettiva; osservati dunque da un certo punto di vista. Nel disegno a destra è rappresentata la stessa terna come apparirebbe se la osservassimo da un punto di vista un po’ più a destra del precedente.

Figura 9. Una stessa terna di assi ortogonali osservata da due punti di vista leggermente diversi.

Ebbene, osservando questa semplice figura, non dovrebbe essere difficile riuscire a fondere le due immagini. Per questo, magari atteggiate gli occhi come se foste affetti da un leggero strabismo. Esercitatevi un poco e alla fine vedrete che l’asse z (e anche la lettera zeta che lo indica) si «stacca» dal piano del foglio puntando leggermente verso di voi. Dopo queste prove osservate di nuovo la figura 8: sono sicuro che vedrete la Luna in 3D!

Il movimento dei pianeti sulla volta celeste Nella nostra epoca, con l’inquinamento luminoso che ci affligge, è sempre più difficile osservare il cielo stellato. Certamente non assistiamo allo stesso spettacolo del quale godevano gli antichi astronomi babilonesi dalle grandi terrazze dei loro giardini pensili. Tuttavia anche oggi, magari in aperta campagna, riusciamo a vedere le stelle più brillanti e alcuni pianeti che sono anche più luminosi delle stelle; come per esempio Giove, il più grande pianeta del Sistema Solare. Cosa dovremmo fare per individuarlo con certezza? Beh, dovremmo disporre

di effemeridi astronomiche che ne indicano giorno per giorno la posizione sulla volta stellata. Certo, poiché la posizione di Giove, come del resto quella degli altri pianeti, cambia al passare del tempo: i pianeti si spostano sulla volta celeste e proprio la parola pianeta, che deriva dal greco, sta a indicare questo continuo vagare tra le stelle. Tuttavia, con un po’ di fortuna, si riesce a individuare Giove anche senza le effemeridi. A notte fonda, guardate a sinistra e a destra rispetto al sud. Se vedete una «stella» molto più luminosa delle altre potete essere quasi sicuri che si tratta di Giove. Magari la vedete parecchio più in alto di Sirio, quasi allo Zenith, e ancora più luminosa. Per avere la conferma che si tratta di Giove, utilizzate un binocolo: se si tratta di Giove, vedrete un piccolo disco circondato da alcune stelline che sono di fatto i suoi satelliti. A occhio nudo, Giove appare dunque semplicemente come una stella, assolutamente puntiforme, e per poterne scrutare i particolari è necessario disporre di un telescopio abbastanza potente. Ma non è questo che adesso ci riguarda. Piuttosto, ci interessa notare il cambiamento della sua posizione rispetto alla stelle che lo circondano sulla volta celeste, al passare del tempo. Questo cambiamento non è apprezzabile se ce ne stiamo semplicemente con il naso per aria, magari per un’ora; ma lo è se ripetiamo regolarmente le nostre osservazioni a distanza, per esempio, di qualche giorno. Ci accorgiamo che, col passare del tempo, troviamo Giove sempre più a destra di una stellina che avevamo fissato come punto di riferimento. In altre parole vediamo che Giove si sposta lentamente verso ovest, rispetto alla volta celeste. Sono passati alcuni mesi e noi cerchiamo ancora Giove: in questa occasione lo troviamo accanto a un’altra stellina. Al passare dei giorni, vediamo che questa volta Giove si sposta progressivamente a sinistra della stellina. Insomma, sembra che Giove si sposti tra le stelle senza alcuna regolarità. Con semplici considerazioni ci accorgiamo che tale irregolarità non ha nulla di misterioso; e per questo riferiamoci alla figura 10.

Figura 10. Il moto apparente di Giove sulla volta celeste.

In essa, molto schematicamente e non rispettando certamente le proporzioni, sono rappresentate le orbite della Terra e di Giove intorno al Sole. Le piccole frecce, a esse sovrapposte, rappresentano lo spostamento di questi pianeti in un fissato arco di tempo. Vediamo che Giove si sposta molto più lentamente della Terra poiché esso è molto più lontano dal Sole di quanto non sia il nostro pianeta. Le linee tratteggiate rappresentano il nostro «traguardare» Giove. Vediamo che, proiettata sulla volta celeste, la posizione di Giove si sposta progressivamente verso l’alto della figura. Dalla Terra, osserviamo questo spostamento come un progressivo procedere verso Ovest. Osserviamo ora la figura 11. In essa è rappresentata la situazione dopo qualche mese. La Terra e Giove si trovano in nuove posizioni; ma ora ci accorgiamo che il progressivo spostamento di Giove sulla volta celeste avviene verso il basso della figura. Dalla Terra, osserviamo questo spostamento come un progressivo procedere, stavolta, verso Est.

Figura 11. Il moto apparente di Giove è ora osservato dopo qualche mese. Stavolta esso si svolge nel verso contrario rispetto a quello della figura precedente.

Queste considerazioni ci confortano su come la visione copernicana, con il

Sole al centro del Sistema Solare e con i pianeti che gli ruotano intorno, spieghi perfettamente l’apparente irregolarità del moto dei pianeti sulla volta celeste.

Venere C’è un altro pianeta che offre un bellissimo spettacolo: è Venere che, dopo il Sole e la Luna, è il corpo celeste più luminoso. È molto più luminoso di Giove e stavolta è veramente facile individuarlo poiché esso, sulla volta celeste, si trova sempre abbastanza vicino al Sole. Per questo motivo esso è visibile soltanto poco dopo il tramonto o poco prima dell’alba, a parte qualche circostanza eccezionale nella quale, proprio per l’intensa luminosità del pianeta, esso è visibile perfino in pieno giorno. Per quale motivo Venere appare sempre vicino al Sole? Osserviamo a questo proposito la figura 12.

Figura 12. Osservando Venere, ci accorgiamo che esso forma con la posizione del Sole un angoloα che non supera l’ampiezza indicata dalle linee tratteggiate, cioè circa cinquanta gradi.

In essa sono rappresentate le orbite della Terra e di Venere. Stavolta vediamo che l’orbita di Venere si svolge all’interno di quella della Terra poiché, come sappiamo, Venere è più vicino al Sole di quanto non sia la Terra. Per conseguenza, rispetto al Sole, Venere è visibile sotto un angoloα che al massimo ha un’ampiezza di circa cinquanta gradi. Peraltro, questo ci fa capire che è impossibile osservare Venere a notte inoltrata. A questo proposito voglio farvi notare una licenza poetica da parte di Arrigo Boito, autore del libretto dell’Otello di Giuseppe Verdi. Nel primo atto, Boito fa dire a Desdemona, rivolta romanticamente a Otello (prima che gli eventi prendano una brutta piega!): «Tarda è la notte». E Otello, appassionato, aggiunge: «Vien... Venere splende». Ebbene, se la notte era tarda, Venere non poteva splendere nel cielo!

I transiti di Venere e di Mercurio sul Sole

Poiché l’orbita di Venere è interna a quella terrestre, a volte accade che questo pianeta passi davanti al Sole. In tal caso si ha una specie di eclissi ma diciamo pure che è esagerato parlare proprio di eclissi poiché il Sole non viene di fatto oscurato dal pianeta; e dalla Terra non ci accorgiamo neanche della presenza di questo passaggio a meno che non si disponga di un cannocchiale o di un telescopio. Si dice così che si ha semplicemente un transito di Venere davanti al Sole. Si osserva soltanto un piccolo disco nero che appare come una macchia solare magari un poco più estesa delle vere macchie, come si vede nella figura 13 che riguarda il transito avvenuto il 6 giugno del 2012.

Figura 13. Il transito di Venere del 6 giugno 2012.

Anche Mercurio ha un’orbita interna a quella della Terra e anch’esso può a volte transitare davanti al Sole. Stavolta il transito è meno spettacolare di quello di Venere poiché Mercurio è molto più piccolo e più distante dalla Terra. Sul disco solare Mercurio appare soltanto come un puntino nero. La figura 14 mostra la fotografia del transito che si è verificato l’8 novembre del 2006.

Figura 14. Il transito di Mercurio dell’8 novembre 2006.

Per il prossimo transito di Mercurio dobbiamo aspettare il 9 maggio 2016 e per quello di Venere un po’ di più: l’11 dicembre del 2117.

Il tempo Ce l’ha fatta! La vittima di un grave incidente automobilistico è giunta all’ospedale. Un minuto di più e per i medici non sarebbe stato possibile salvarlo. Quel signore non sa (o forse lo sa) che deve la sua vita alle decine di automobilisti che, udendo l’ambulanza a sirene spiegate, si sono spostati un poco al lato della strada. Secondo dopo secondo, ciascuno di quei brevi intervalli di tempo si sono sommati fino a formare quel lasso di tempo, proprio di un minuto o qualcosa di più, che ha fatto la differenza tra la morte e la vita. Soprattutto in un’occasione come questa possiamo constatare l’importanza dello scorrere del tempo. Ma cos’è il tempo? Per quale motivo esso scorre da quello che chiamiamo passato a quello che chiamiamo futuro? Nessuno sa dare una risposta soddisfacente. Eppure, in fisica, il tempo è descritto nel modo più

semplice che si possa immaginare: un numero, sempre crescente. Crescente rispetto a cosa? Rispetto al tempo stesso! Vediamo dunque che non è possibile uscire da questo circolo vizioso che ci impedisce di definire il tempo. Dobbiamo accontentarci di assumere che il tempo sia una grandezza fisica rispetto alla quale osserviamo l’evoluzione di un qualsiasi sistema fisico, dal più semplice al più complicato. Diciamo pure che il tempo è una dimensione del nostro Universo. Esso possiede altre dimensioni che sono le tre dimensioni spaziali. In tutto, l’Universo ha dunque quattro dimensioni: una temporale e tre spaziali. Le dimensioni spaziali ci sono forse più familiari ed è facile fornire un esempio di come esse siano presenti nella nostra vita quotidiana. Se vogliamo conoscere la posizione di un aeroplano, occorre conoscere tre quantità: la latitudine, la longitudine e la quota. Queste sono le coordinate spaziali del nostro aereo che però cambiano al passare del tempo (a meno che l’aereo non sia fermo in una piazzola dell’aeroporto) cioè al mutare della quarta coordinata che va sempre crescendo, dal passato al futuro. In questo senso possiamo accorgerci di una fondamentale differenza tra lo spazio e il tempo: nello spazio possiamo andare avanti e indietro, in tutte le direzioni: nel tempo siamo confinati ad andare sempre avanti.

I viaggi nel tempo I film di fantascienza ci propongono spesso i viaggi nel tempo. In effetti sarebbe affascinante poter scorrazzare avanti e indietro nel tempo per vedere cosa succederà oppure come vivevano in nostri antenati. In futuro sarà possibile costruire una macchina del tempo che ci permetterà così di coronare questo sogno? Cominciamo a pensare cosa succederebbe se riuscissimo a costruire una macchina in grado di andare indietro nel tempo. Senza esagerare, ci basterebbe tornare a cento anni fa e fare in modo che i nostri nonni non si incontrassero; con il che noi non saremmo mai esistiti. C’è una contraddizione logica che sembra difficile superare. Ciò suggerisce il fatto che non sia possibile costruire una macchina che ci consenta di andare indietro nel tempo. E comunque supponiamo che fra cento o mille anni, qualcuno riesca a costruire una tale macchina. Beh, dovremmo averla già vista, non vi sembra? Questo qualcuno non avrebbe resistito alla tentazione di vedere come vanno le cose all’inizio del terzo millennio e così questo viaggiatore del tempo, con la sua macchina, dovrebbe essere in mezzo a noi. Poiché nessuno ha incontrato un tale viaggiatore, c’è da pensare che questa macchina non verrà mai costruita. Andare indietro nel tempo sarebbe certamente un risultato notevole, tuttavia ciò è legato alla possibilità di tornare in avanti. Infatti, immaginate di poter

essere proiettati nel passato: a cosa vi servirebbe la macchina del tempo se poi non poteste tornare all’epoca presente e raccontare ai vostri amici quello che avete visto? La possibilità di andare soltanto verso il futuro sarebbe certamente interessante ma limitiamoci a considerare quello che succederebbe se potessimo andare avanti di una sola settimana, mettendoci a bordo della macchina del tempo davanti a quei nostri amici. Essi a cosa assisterebbero? Vedrebbero noi scomparire nel momento nel quale cominciamo a viaggiare, come del resto avverrebbe se andassimo verso il passato: tutte le molecole del nostro corpo svanirebbero istantaneamente. Ma sappiamo che la materia non può scomparire. Certo, può manifestarsi sotto forma di energia, secondo quanto potremo constatare studiando la Teoria della Relatività; ma noi, per continuare a esistere, dobbiamo restare materia. Tutte queste considerazioni ci portano a pensare che la macchina del tempo non verrà mai costruita. Lasciamola nei film.

Indietro nel tempo C’è tuttavia un modo molto semplice per andare indietro nel tempo. È un modo, se vogliamo, del tutto banale ma molto interessante. Supponiamo infatti di riprendere con una telecamera una lunga scena della nostra vita quotidiana oppure lo svolgimento di un esperimento eseguito in un laboratorio. Fatto questo, rivediamo il nostro filmato «a marcia indietro». Vedremo tutto come se il tempo procedesse dal futuro al passato. Da una situazione che si è evoluta nel tempo vediamo piano piano tutto ritornare alle cause che hanno determinato quella situazione: è proprio un viaggio a ritroso nel tempo. È come se, invece di avere un tempo t che si incrementa progressivamente, avessimo un tempo cambiato di segno: -t. Vediamo allora cosa ci mostra il nostro filmato proiettato a marcia indietro. Innanzitutto osserviamo che le velocità cambiano verso: un oggetto che con una normale proiezione andava sullo schermo verso destra – tanto per dire – a 3 Km/h, adesso va sempre a 3 Km/h ma verso sinistra. In termini matematici questo è ovvio. Infatti la velocità è la lunghezza di un certo cammino diviso il tempo impiegato a percorrerlo e se cambiamo segno a t questo rapporto cambia segno. E le accelerazioni? Cambiano verso anch’esse? No. Rimangono le stesse. In termini matematici anche questo è ovvio: un’accelerazione è una variazione di velocità diviso l’intervallo di tempo durante il quale avviene tale variazione, ma se le velocità cambiano segno e anche gli intervalli di tempo cambiano segno, il loro rapporto resta invariato. Vediamo allora cosa ci indica l’equazione fondamentale della dinamica f =

ma. Se ammettiamo che la forza f che agisce su un certo corpo dipenda esclusivamente dalla posizione che occupa tale corpo nello spazio, l’inversione del senso di scorrimento del tempo certamente non muta f e, d’altra parte, come abbiamo appena visto, non muta a: l’equazione della dinamica rimane la stessa. Ciò significa che la proiezione a marcia indietro mostra situazioni che si evolvono rispettando l’equazione fondamentale della dinamica, cioè una sequenza di eventi assolutamente accettabile. In altri termini, osservando il filmato, non abbiamo modo di distinguere se esso è proiettato normalmente o a marcia indietro.

Gli attriti Beh, se osserviamo un filmato proiettato a marcia indietro, di fatto ci appaiono fenomeni assolutamente impossibili e quindi, in pratica, ci accorgiamo subito se un tale filmato è proiettato normalmente oppure no. Per esempio, possiamo pensare di aver filmato un mattone che abbiamo lanciato in una certa direzione lungo il pavimento. Con una normale proiezione osserviamo quello che succede nella realtà: per attrito il mattone perde progressivamente velocità e dopo un po’ si ferma. Se proiettiamo il filmato a marcia indietro, vediamo il mattone inizialmente fermo. Poi, come per incanto, comincia a muoversi senza che nessuno lo abbia toccato acquistando progressivamente velocità. Avete mai visto un mattone che si comporta così? Evidentemente no. Cos’è che non va? Eppure abbiamo detto che l’equazione della dinamica continua a essere perfettamente valida se invertiamo lo scorrere del tempo. Ebbene, è proprio la presenza degli attriti, nelle loro varie forme, a rendere invece i fenomeni irreversibili, come si dice in fisica. Infatti gli attriti rendono non più invariante l’equazione fondamentale della dinamica rispetto all’inversione dello scorrere del tempo. Possiamo rendercene conto molto semplicemente. Sappiamo che gli attriti, per esempio la resistenza dell’aria che un’auto incontra mentre sta viaggiando, si manifestano con forze che sono opposte alla velocità. Tanto è vero che un’auto è tanto più frenata dall’aria nella quale si muove quanto più andiamo veloci. Allora possiamo immaginare che la forza di attrito f sia proporzionale alla velocità v ma di verso contrario. Per tenere conto di questo fatto dobbiamo mettere un segno meno a indicare appunto che questa forza è opposta alla velocità e scrivere così: (22) f = –kv dove k è una certa quantità numerica di valore più o meno grande a seconda di quanto sia più o meno rilevante l’entità dell’attrito. In queste condizioni,

l’equazione della dinamica diventa dunque: (23) –kv = ma Invertiamo ora il verso del tempo. La velocità cambia segno mentre l’accelerazione rimane invariata, come abbiamo appena discusso. Dunque l’equazione precedente si trasforma nella seguente: (24) kv = ma D’altra parte, kv è uguale a –f, come ci ricorda la (22); e dunque l’equazione del moto diventa: (25) –f = ma Ma questa equazione non è l’equazione fondamentale della dinamica: dovrebbe essere f = ma e non con il segno meno davanti a f! Quindi invertendo lo scorrere del tempo, cioè proiettando il filmato a marcia indietro, cosa vediamo sullo schermo? Vediamo un moto descritto da un’equazione che, solo per la presenza di quel segno meno, non è l’equazione alla quale devono invece obbedire tutti i fenomeni della Natura. Non ci meraviglia dunque che il filmato proiettato in quel modo mostri fenomeni che non osserveremo mai.

Sistemi di riferimento inerziali Siamo a bordo di un jet che, da Roma, ci porterà finalmente a San Francisco. Una meta sognata da tanto tempo che è ormai vicina. Vicina, si fa per dire: bene che vada, dal momento del decollo, ci vuole almeno una dozzina di ore per poter finalmente ammirare dall’alto il Golden Gate che si stende su una delle più belle baie del mondo. Con il naso incollato al finestrino abbiamo ammirato il paesaggio, chiedendoci dove mai fossimo, nel corso della lunga rotta polare. Certo, tutto bellissimo; ma abbiamo le gambe rattrappite dopo ore nelle quali siamo stati seduti su una scomoda poltrona della classe turistica. Allora chiediamo scusa (e permesso) al passeggero vicino e ci alziamo. Andiamo alla toilette e poi, camminando lungo il corridoio, ci avviciniamo alla hostess per chiederle un succo di frutta. Le sorridiamo mentre la fresca bibita ci dà un po’ di conforto. Perché mi sono lasciato andare con un po’ di fantasia a questa breve descrizione di alcuni momenti durante un viaggio aereo? Semplicemente per farvi notare che, a bordo di un jet che vola alto in una bella giornata senza turbolenze atmosferiche, la vita si svolge esattamente come se fossimo fermi. Possiamo giocherellare con un mazzo di chiavi lanciandolo in aria. Il mazzo ricade nella nostra mano esattamente come se fossimo seduti sulla poltrona di

casa. Qualsiasi esperimento di meccanica, tanto rispetto alle pareti di casa quanto riferito al jet, si svolgerebbe esattamente allo stesso modo. Se a bordo del jet avessimo la possibilità di ripetere l’esperimento che abbiamo eseguito sul tavolo di cucina con il ghiaccio secco, ci accorgeremmo che il blocco si muoverebbe di moto rettilineo uniforme. Constatiamo così che, tanto riferendoci alle pareti di casa quanto a quelle del jet, siamo in presenza di quello che in fisica viene chiamato un sistema di riferimento inerziale, cioè un sistema di riferimento rispetto al quale il principio d’inerzia è assolutamente rispettato. Se un sistema di riferimento è inerziale, qualsiasi altro sistema di riferimento che si muove di moto traslatorio uniforme rispetto al primo è anch’esso inerziale, proprio come il nostro jet che, rispetto alla superficie terrestre, si muove traslando con velocità costante. A questo proposito, è interessante notare che non abbiamo modo di distinguere tra un sistema di riferimento inerziale e un altro. In altri termini, pensando ancora al nostro jet, non abbiamo modo di distinguere se siamo fermi oppure se stiamo volando sopra l’oceano. Certamente, noi sappiamo che stiamo volando; ma immaginiamo un’altra situazione: stanchi per la lunga attesa in aeroporto, dopo essere saliti a bordo dell’aereo, ci siamo addormentati. Improvvisamente ci svegliamo e udiamo il rombo dei motori. Ebbene, se non guardiamo fuori dal finestrino, non abbiamo modo di sapere se stiamo già volando a velocità di crociera oppure se il pilota sta provando i motori prima del decollo. In altre parole, non possiamo eseguire o anche semplicemente immaginare un esperimento che ci consenta di distinguere in quale situazione ci troviamo, fra le due che abbiamo considerato. Anche se non era mai stato a bordo di un aereo, di questa impossibilità di distinguere tra un sistema di riferimento inerziale e un altro si era già accorto Galileo Galilei. In questo senso, Galileo è stato il primo a formulare il Principio di relatività, almeno per quanto riguarda i fenomeni meccanici. Tale principio afferma che le leggi della meccanica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali, come abbiamo constatato a bordo del nostro jet. Vedremo in seguito la generalizzazione di questo principio, dovuta a Einstein, il quale lo ha esteso a tutti i fenomeni fisici; tra i quali, in particolare, quelli elettromagnetici. Per il momento limitiamoci alle considerazioni di Galileo; e, per questo, trascrivo qui una parte della Giornata Seconda del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo. Vi raccomando di leggere tutto il corsivo poiché, oltre ad avere uno straordinario contenuto scientifico, si tratta di un mirabile esempio di splendida letteratura italiana. Galileo fa dire a Salviati:

Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che prima né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi fuste situati per l’opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella lor acqua non con più fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi per aria, saranno state separate; e se abbruciando alcuna lagrima d’incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascender in alto ed a guisa di nugoletta trattenervisi, e indifferentemente muoversi non più verso questa che quella parte. E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora, che per ciò dissi io che si stesse sotto coverta; ché quando si stesse di sopra e nell’aria aperta e non seguace del corso della nave, differenze più e men notabili si vedrebbero in alcuni de gli effetti nominati: e non è dubbio che il fumo resterebbe in dietro, quanto l’aria stessa; le mosche parimente e le farfalle, impedite dall’aria, non potrebber seguir il moto della nave, quando da essa per spazio assai notabile si separassero; ma trattenendovisi vicine, perché la nave stessa, come di fabbrica anfrattuosa, porta seco parte dell’aria sua prossima, senza intoppo o

fatica seguirebbon la nave, e per simil cagione veggiamo tal volta, nel correr la posta, le mosche importune e i tafani seguir i cavalli, volandogli ora in questa ed ora in quella parte del corpo; ma nelle gocciole cadenti pochissima sarebbe la differenza, e ne i salti e ne i proietti gravi, del tutto impercettibile.

Sistemi di riferimento non inerziali A questo punto è però molto importante notare che esistono sistemi di riferimento non inerziali. Per esempio, supponiamo di essere a bordo di una giostra che gira. Appoggiamo una pallina sulla piattaforma orizzontale e osserviamone il comportamento. In rispetto del principio di inerzia, la pallina inizialmente ferma dovrebbe rimanere ferma poiché su essa non agisce alcuna forza: il peso della pallina è infatti equilibrato dalla forza esercitata dalla piattaforma che la sostiene. Ma le cose vanno diversamente: la pallina comincia a rotolare verso il bordo della piattaforma. Anche questa volta, cos’è che non va? Il principio di inerzia non è valido? No; il principio di inerzia è comunque valido: si tratta di uno dei principi fondamentali della fisica. Il fatto è semplicemente che stiamo osservando la pallina riferendoci alla giostra che non è un sistema di riferimento inerziale. Si tratta cioè di un sistema rispetto al quale il principio di inerzia sembra essere violato. Per chiarire la questione, vediamo bene cosa succede a questa pallina. Abbiamo detto che essa è inizialmente ferma. Sì, è vero, essa è inizialmente ferma; ma attenzione: lo è rispetto alla giostra. Rispetto alla superficie terrestre, per la quale abbiamo verificato la validità del principio di inerzia, essa è tutt’altro che ferma: sta infatti ruotando, come d’altra parte anche noi sulla giostra, con una certa velocità. E allora, se a un certo momento la lasciamo libera, la pallina manterrà la velocità che aveva proprio in quel momento continuando a muoversi di moto rettilineo uniforme, proprio in rispetto del principio di inerzia. Ben presto la pallina arriverà così al bordo della piattaforma per poi cadere sulla ghiaia del parco. Dalla discussione appena fatta vediamo dunque che il principio di inerzia è assolutamente rispettato. Semplicemente, non sembra che lo sia se osserviamo il moto della pallina riferendoci alla giostra. Tutto qui. A questo punto è bene notare che, seduti a casa sul divano del nostro salotto invece che su un cavalluccio o a bordo un’automobilina, ci troviamo su una giostra. Sì, perché la Terra gira su sé stessa proprio come una giostra. La differenza è soltanto che la Terra è molto più grande e gira molto più lentamente. Il diametro della Terra misura quasi tredicimila chilometri e un giro completo è compiuto in ventiquattr’ore invece che in pochi secondi, ma si tratta pur sempre di una giostra! Ci aspettiamo allora che, a rigore, anche la Terra non sia un riferimento inerziale. Qui, sul nostro pianeta, possiamo pensare che si

verifichino gli stessi fenomeni che osserviamo a bordo della giostra che hanno installato nel parco. Tuttavia siamo portati ad aspettarci che si tratterà di fenomeni praticamente impercettibili poiché la Terra ruota molto, molto più lentamente della giostra e quindi ci sentiamo rassicurati nell’aver fatto bene a considerare la Terra come sistema inerziale. Ma attenzione: come vediamo subito, occorre essere cauti nelle nostre conclusioni.

Le ferrovie in Svezia Cos’hanno di particolare le ferrovie in Svezia? Beh, sono più o meno come le nostre: i treni percorrono i binari e, a poco a poco, li consumano. Certamente, poiché l’attrito delle ruote dei convogli corrode progressivamente la strada ferrata. I binari servono non soltanto a sostenere il peso di un convoglio; lo guidano lungo la strada e ci aspettiamo che l’attrito laterale delle ruote consumi in ugual misura l’acciaio dell’una e dell’altra rotaia. Magari in curva questo attrito è asimmetrico ma ci aspettiamo che in rettilineo non succeda nulla di particolare. Questo è ciò che accade dalle nostre parti; ma in Svezia ci si è accorti che le cose non andavano così. La Svezia è una terra che si estende prevalentemente da Nord a Sud e così, più o meno da Nord a Sud, si stende la maggior parte delle linee ferroviarie. Ebbene, in passato si notò che i treni che percorrevano queste linee consumavano di più la rotaia di destra (rispetto al senso di marcia) piuttosto che quella di sinistra. Eppure non è che il binario pendesse leggermente dalla parte destra, magari per un errore nei lavori di installazione della ferrovia; il binario era perfettamente in piano. Ben presto si capì che il maggior consumo della parte destra era dovuto a un effetto del quale non era stato tenuto conto: quello dell’accelerazione di Coriolis. Il nome proviene da quello del fisico francese Gaspard Gustave de Coriolis che, nell’Ottocento, fu un eminente studioso di meccanica. Per vedere di cosa si tratta, esageriamo un po’, pensando che la ferrovia parta proprio dal Polo Nord e sia diretta esattamente lungo un meridiano, verso Sud. Ci aspettiamo che in pratica, durante il tragitto del convoglio, le rotaie servano soltanto a sorreggere i vagoni. Certo, il moto è rettilineo e non è necessaria alcuna forza laterale a mantenere il convoglio lungo la sua strada. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Immaginiamo per un momento che, al posto del convoglio, ci sia uno sciatore su uno snowboard che corre sul ghiaccio, senza attrito, dopo essersi lanciato lungo un meridiano. Lo sciatore scivola verso l’equatore ma ricordiamoci che la Terra ruota intorno al suo asse in senso antiorario per un osservatore che la

guarda da un’ipotetica astronave ferma sopra il Polo Nord. Così, correndo senza attrito, lo snowboard non è «trascinato» dalla rotazione terrestre. Diciamo pure che la Terra «scivola sotto» lo snowboard. La situazione è analoga alla seguente: supponiamo di aver appoggiato un foglio bianco su un tavolo e di averlo fissato nel mezzo con una puntina da disegno. Poi, con una matita, tracciamo a mano libera una linea dritta che, più o meno dal punto dove abbiamo fissato la puntina, va verso la nostra pancia. Osserviamo ora il disegno che abbiamo eseguito: sì, a parte qualche incertezza della nostra mano, vediamo che si tratta di una linea retta. Adesso ripetiamo tutto da capo con un nuovo foglio ma stavolta vicino a noi c’è un amico che, mentre disegniamo, fa ruotare il foglio intorno alla puntina in senso antiorario. Noi andiamo sempre dritti verso la nostra pancia mentre il foglio «scivola sotto» la punta della matita. Quando osserveremo il disegno che abbiamo ottenuto vedremo che rispetto al foglio, sulla sua superficie, abbiamo tracciato una linea curva che dal punto di partenza va verso destra. Così, dalla nostra astronave, vediamo lo sciatore correre lungo la superficie terrestre intersecando successivamente i paralleli e mantenendo una velocità di modulo costante. D’altra parte, proprio perché la Terra gira su sé stessa, durante la corsa vediamo che lo sciatore incontra successivamente non soltanto paralleli diversi ma anche meridiani diversi. La figura 15 ci aiuta a capire meglio la questione.

Figura 15. Lo snowboard scivola dal Polo Nord verso l’equatore ed è osservato da un’ipotetica astronave ferma sopra il Polo Nord.

Quando lo sciatore raggiunge la posizione 1, per effetto della rotazione terrestre di fatto incontra il meridiano a; dopo un po’, quando è arrivato nella posizione 2, incontra il meridiano b; quando è arrivato nella posizione 3, sempre per effetto della rotazione terrestre, incontra il meridiano c; e così via.

E allora cosa osserviamo se, invece di essere a bordo dell’astronave, siamo fermi sulla superficie terrestre? Vediamo un risultato analogo a quello che abbiamo ottenuto sulla superficie del nostro foglio da disegno: lo sciatore ha descritto una traiettoria curvilinea verso destra, cioè verso Ovest (figura 16).

Figura 16. La traiettoria dello sciatore, lanciato da Nord verso l’equatore, osservata rispetto alla superficie terrestre.

A una traiettoria curvilinea corrisponde come sappiamo una certa accelerazione (ricordiamoci che l’accelerazione è nulla soltanto in un moto rettilineo uniforme). A tale accelerazione, dovuta dunque all’esistenza del moto di rotazione terrestre, viene dato il nome, come vi ho anticipato, di accelerazione di Coriolis. La presenza di tale accelerazione mostra dunque che, rispetto alla superficie terrestre, un corpo libero di muoversi non procede in linea retta ma devia verso destra. Ma non avevamo stabilito che il moto di un oggetto libero doveva essere rettilineo e uniforme? Ebbene, la presenza dell’accelerazione di Coriolis mostra che, a rigore, un sistema di riferimento solidale alla superficie terrestre non è inerziale. Ce lo aspettavamo: la Terra è proprio simile a una grande giostra! Torniamo allora al nostro treno che corre da Nord a Sud. Se fosse libero di scivolare curverebbe verso destra, come abbiamo appena visto. Obbligato com’è a viaggiare in rettilineo, esso dunque spinge... invano continuamente verso destra con una forza che ovviamente viene chiamata forza di Coriolis. Il conseguente attrito consuma la rotaia a destra più di quanto non consumi quella a sinistra. Come è stato risolto il problema, in Svezia? Semplice: invece di porre le

rotaie in un piano orizzontale, queste pendono leggermente verso sinistra. Così l’effetto del peso del treno, che grava più sulla rotaia sinistra, compensa l’effetto della forza di Coriolis che spinge verso destra.

Ancora sull’accelerazione di Coriolis Cosa succede se un treno va invece verso Nord? Anche in questo caso si presenta una forza di Coriolis che lo spinge verso la rotaia destra. Per rendercene conto, riconsideriamo intanto il nostro snowboard e supponiamo che esso parta da un certo punto, per esempio dalla posizione 3, come è schematicamente indicato in figura 17.

Figura 17. Lo snowboard è lanciato verso il Polo Nord dalla posizione 3 ed è osservato dall’astronave.

Anche se lo sciatore è inizialmente fermo rispetto alla superficie terrestre , dalla nostra astronave ferma sopra il Polo Nord osserviamo che egli ha una certa velocità iniziale v lungo una direzione tangente a quella dei paralleli, diretta verso Est, poiché egli sta ruotando insieme a tutto il nostro pianeta, analogamente a quello che accadeva alla pallina appoggiata sul pavimento della giostra. Se ora lo sciatore si lancia verso il Polo Nord, lungo un meridiano che è diretto verso la posizione 1, di fatto la sua velocità iniziale non è diretta verso Nord, come ci si potrebbe aspettare, poiché a tale componente verso Nord si aggiunge una componente verso Est, come abbiamo appena visto. Cosa osserviamo allora dalla superficie terrestre? Osserviamo lo sciatore che inizialmente si muove verso Nord ma successivamente piega verso Est, come

è schematicamente rappresentato nella figura 18.

Figura 18. La traiettoria dello sciatore, lanciato verso Nord dalla posizione 3, osservata rispetto alla superficie terrestre.

Beh, forse è più semplice rendersi conto della situazione che si verifica per lo sciatore o per per il treno che va da Nord a Sud piuttosto che da Sud a Nord; e il discorso che vi ho appena fatto vi ha lasciato magari un poco perplessi. Allora vorrei presentarvi un’altra dimostrazione del fatto che, anche procedendo da Sud a Nord, l’accelerazione di Coriolis si manifesta in una deviazione verso destra. Per questo facciamo un po’ di fantascienza, nel senso che vi spiego subito! Abbiamo visto che, procedendo da Nord a Sud, la traiettoria dello snowboard presenta una curva verso destra. Come abbiamo discusso, ciò è legato al fatto che la Terra, vista dall’alto sopra il Polo Nord, ruota in senso antiorario. Se la Terra ruotasse in verso opposto avremmo per simmetria una traiettoria analoga verso sinistra, come è illustrato in figura 19.

Figura 19. Se la Terra ruotasse nel verso indicato dalla freccia disegnata a tratto pieno, la traiettoria dello snowboard sarebbe quella disegnata a tratto pieno.

Assumiamo allora che la Terra ruoti in senso inverso, ma assumiamo che così pure il tempo scorra in senso inverso, dal futuro al passato. Certo, possiamo immaginare di essere in queste condizioni poiché abbiamo già visto che cambiare il verso di scorrimento del tempo, in assenza di attriti, non cambia l’equazione fondamentale della dinamica e quindi ci mostra circostanze che si presentano realmente. E allora, cosa succede dopo queste operazioni? La Terra torna a ruotare come nella realtà e le velocità cambiano verso. In definitiva passiamo dalla situazione di figura 19 a quella di figura 20 che dimostra quanto avevamo affermato: anche andando verso Nord la forza di Coriolis spinge verso destra.

Figura 20. Se immaginiamo di cambiare il senso di rotazione della Terra e il verso di scorrimento del tempo otteniamo la traiettoria di uno snowboard che va verso Nord.

Torniamo allora al nostro treno che corre da Sud a Nord. Seguendo lo stesso ragionamento di prima vediamo che, se fosse libero di scivolare, curverebbe verso destra. Obbligato com’è a viaggiare in rettilineo, esso dunque spinge continuamente verso destra. Il conseguente attrito consuma la rotaia a destra più di quanto non consumi quella a sinistra. Concludiamo questo argomento con alcune note. Che succede in prossimità del Polo Sud? Se in Antartide ci fossero ferrovie vedremmo un treno consumare di più il binario sinistro. Lascio a voi rendervi conto che le cose andrebbero proprio così. E dalle nostre parti? Non si verifica un fenomeno simile a quello che accade in Svezia? Sì, l’accelerazione di Coriolis è presente come in Svezia, intendiamoci; ma si tratta stavolta di un effetto piccolissimo, quasi del tutto trascurabile. Infatti esso è rilevante soltanto nelle zone in prossimità del Polo Nord (o del Polo Sud) e possiamo rendercene conto pensando al fatto che, nei pressi del Polo Nord, spostarsi di un solo grado di latitudine sulla superficie terrestre implica una notevole variazione della distanza dall’asse di rotazione terrestre e quindi gli effetti della rotazione stessa sono più marcati. Viceversa, alle nostre latitudini o addirittura all’equatore, spostarsi di un grado di latitudine non cambia apprezzabilmente tale distanza: il fatto che la Terra ruoti non cambia le condizioni che si avrebbero se la Terra fosse ferma. Ma, come sempre, attenzione: vedremo tra poco che a Parigi le cose sono andate diversamente!

Cicloni e fiumi Ferrovie a parte, la presenza dell’accelerazione di Coriolis è particolarmente rilevante in altri fenomeni come, per esempio, quelli che riguardano il fluire dei venti cioè la circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera. A questo proposito, immaginiamo che B rappresenti una zona di bassa pressione verso la quale convergono masse d’aria. Ci aspetteremmo un fluire dei venti proprio verso B, come è rappresentato in figura 21.

Figura 21. Ci aspetteremmo un fluire dei venti proprio verso la zona B di bassa pressione.

Ma le cose vanno diversamente. Infatti le masse d’aria si comportano in modo non molto diverso dallo sciatore sullo snowboard, che abbiamo considerato nelle nostre discussioni. Dunque, per effetto dell’accelerazione di Coriolis, la situazione è quella schematicamente illustrata nella figura 22.

Figura 22. La formazione di un ciclone.

Nell’emisfero boreale, venti che convergono a una zona B di bassa pressione tendono a formare un vortice nell’atmosfera che, visto dall’alto, si sviluppa in senso antiorario. Questo vortice è quello che viene chiamato ciclone (figura 23).

Figura 23. Foto satellitare di un ciclone sull’Islanda (Image: NASA).

È facile rendersi conto che un vortice di senso opposto si ha quando i venti fluiscono allontanandosi da una zona di alta pressione: è quello che chiamiamo anticiclone. C’è poi un altro fenomeno interessante del quale è responsabile l’accelerazione di Coriolis. Precisamente, nel nostro emisfero, la riva destra dei fiumi viene lentamente corrosa dalla corrente più di quanto non venga corrosa la riva sinistra. Certo, perché possiamo pensare a un fiume che scorre nel suo letto proprio come se si trattasse di un treno che corre lungo la sua linea ferroviaria. E come per un treno viene consumata maggiormente la rotaia destra, così per un fiume viene maggiormente erosa la riva destra.

Il pendolo di Foucault Abbiamo costruito un pendolo piuttosto rudimentale: magari un mazzo di chiavi appeso a un filo lungo poco più di un metro. Spostiamo leggermente il mazzo di chiavi dalla posizione verticale e, senza dargli alcuna spinta, lo lasciamo libero di oscillare. Possiamo notare che le oscillazioni hanno ampiezza via via decrescente poiché esse sono frenate dalla resistenza dell’aria fino a che il pendolo si ferma, tornando in posizione verticale. Le nostre osservazioni si sono dunque protratte per alcuni minuti soltanto ma abbiamo avuto modo di constatare che le oscillazioni si sono svolte sempre in uno stesso piano verticale. E se il pendolo avesse continuato a oscillare magari per una giornata intera? Avremmo comunque osservato la circostanza precedente e cioè che le oscillazioni si svolgono sempre in uno stesso piano verticale? Eh, no. La presenza dell’accelerazione di Coriolis determina un graduale cambiamento del piano lungo il quale il pendolo oscilla. Per dimostrare la presenza di tale accelerazione, e dunque quella del moto di rotazione della Terra, il fisico francese Jean Bernard Léon Foucault, nel 1851, realizzò un famoso esperimento facendo installare un enorme pendolo, costituito da una sfera pesante 28 chilogrammi sospesa con una corda di 67 metri alla cupola del Pantheon di Parigi. Il pendolo, così pesante e lungo, risentiva poco della presenza dell’aria circostante, permettendo un’oscillazione che si protraeva per molto tempo. Parigi si trovava (e si trova a tutt’oggi...) piuttosto distante dal Polo Nord, tuttavia Foucault sapeva bene che si poteva ancora avvertire la presenza dell’accelerazione di Coriolis. E così, nel Pantheon di Parigi, si osservò che il piano di oscillazione cambiava lentamente nel tempo, fino a compiere un giro completo in senso orario in poco meno di 33 ore. Era proprio la conferma della presenza dell’accelerazione di Coriolis e dunque del moto di rotazione della Terra. Un pendolo simile all’originale si trova ancora in quel monumento (figura 24).

Figura 24. Il pendolo di Foucault nel Pantheon di Parigi.

Vediamo allora bene la questione, esaminando quello che succede durante il moto di un pendolo. Lasciamolo oscillare, appeso in O, a partire da una certa posizione A. Ci aspetteremmo un continuo andirivieni tra A e la posizione opposta B lungo la retta MN (figura 25).

Figura 25. Ci aspetteremmo una perenne oscillazione tra le posizioni A e B lungo la retta MN.

Ma le cose non vanno così perché la Terra gira su sé stessa. Immaginiamo infatti di essere proprio a Parigi, dunque nell’emisfero boreale, e di osservare

dall’alto il pendolo di Foucault, come è schematicamente illustrato nella figura 26.

Figura 26. Il pendolo osservato dall’alto.

Lasciato in A, invece di mettersi in movimento lungo la retta MN verso B, il pendolo devia leggermente a destra per la presenza dell’accelerazione di Coriolis con il risultato che l’altro estremo dell’oscillazione è un po’ sotto la retta MN e si trova in B’. Al ritorno, il pendolo è ancora deviato verso destra e il risultato è che la posizione del pendolo non è nuovamente A ma A’. In pratica, dopo la prima oscillazione, la posizione del pendolo risulta ruotata di un certo angoloψ in senso orario (visto dall’alto) e così di seguito. Scopriamo così che a rigore un pendolo (sulla Terra) non oscilla lungo un piano, come invece ci saremmo a tutta prima aspettati. Nella figura 26 abbiamo esagerato, per rendere la situazione più chiaramente con il disegno: nella realtà, l’angoloψ è piccolissimo e dunque non ci meraviglia che con il pendolo rudimentale che avevamo utilizzato nel salotto di casa nostra non ci siamo accorti di nulla.

Un lavandino C’è un’altra circostanza nella quale dovremmo osservare un effetto dell’accelerazione di Coriolis: quando osserviamo il vortice di acqua che si forma svuotando un lavandino. La situazione è simile a quella della figura 22 che riguarda la formazione dei vortici nell’atmosfera terrestre. Anche quando svuotiamo un lavandino c’è infatti un fluire, questa volta di acqua invece che di aria, verso la zona B che corrisponde al punto dove abbiamo tolto il tappo. L’acqua dovrebbe allora formare un vortice che, visto dall’alto, ruoterebbe in senso antiorario. Ma perché ho usato il condizionale? Beh, devo dirvi che sono piuttosto perplesso sulla questione. Infatti, in linea di principio le cose dovrebbero andare proprio così ma nella realtà le cose si presentano in modo diverso. Mi sono divertito a svuotare lavandini, vasi, vasche da bagno! Sì, a volte si forma un vortice che ruota in senso antiorario, ma a volte il vortice non compare affatto e altre volte ancora ruota in senso orario. Perché? Prima di tutto c’è da tener conto che quando leviamo il tappo introduciamo una notevole perturbazione allo stato iniziale di quiete dell’acqua. Questa perturbazione può indurre un moto vorticoso opposto a quello che ci saremmo aspettati. E poi ancora, il foro del lavandino presenta comunque irregolarità e anche queste possono indurre un fluire diverso da quello che ci saremmo aspettati. Insomma, a mio parere, non aspettiamoci una conferma dell’esistenza

dell’accelerazione di Coriolis da quello che vediamo nel bagno di casa!

Il simulatore di volo Il più bel giocattolo con il quale mi sono divertito (da grande, non da bambino) è il simulatore di volo (figura 27).

Figura 27. Il simulatore di volo dell’Airbus 330 al centro tecnico Alitalia di Fiumicino.

Si tratta di un giocattolo un po’ costoso: molti milioni di euro! Beh, naturalmente ho scherzato: non si tratta proprio di un giocattolo ma di uno strumento di grande utilità per un pilota di aviazione. Il simulatore è una grande cabina, poggiata su robuste gambe di acciaio a qualche metro dal pavimento. All’interno è riprodotto con assoluta fedeltà l’ambiente del cockpit, cioè la cabina di pilotaggio di un aereo. Per esempio quella di un Airbus 330 con tutti gli strumenti perfettamente funzionanti come a bordo del vero 330 (figura 28).

Figura 28. All’interno del simulatore di volo dell’Airbus 330 al centro tecnico Alitalia di Fiumicino.

Il simulatore di volo non soltanto permette di pilotare come se fossimo a bordo di un vero aereo; esso riproduce anche tutte le sensazioni che si hanno volando realmente, come del resto suggerisce il nome: si avverte l’eventuale presenza di turbolenze atmosferiche grazie a vibrazioni più o meno intense dei sostegni della cabina; si avverte la potente accelerazione in decollo; e si avverte la decelerazione quando vengono estratti i flaps fino al touch down sulla pista. Come si ottiene tutto questo? È interessante discutere la questione poiché di fatto l’efficacia di un simulatore di volo è basata su due principi fondamentali della fisica: precisamente, il principio di relatività di Galileo e il principio di azione e reazione di Newton. Inoltre, come vedremo, intervengono anche interessanti argomenti di ottica.

Dove interviene il principio di relatività? Semplicemente nel fatto che il simulatore di volo è sostanzialmente fermo rispetto alla superficie terrestre (vedremo fra un momento che può comunque compiere piccoli movimenti) mentre un jet in volo corre a novecento chilometri l’ora. Ma questo non fa differenza: abbiamo visto che quando il moto è rettilineo e uniforme non abbiamo modo di distinguerlo da una situazione nella quale siamo assolutamente fermi. Il principio di azione e reazione interviene poi a garantire che il simulatore di volo riproduca per esempio l’accelerazione che avvertiamo quando il jet inizia la sua corsa per decollare.

Infatti, nel riprodurre questa fase del volo, tutta la cabina si dispone «in salita» grazie alle gambe telescopiche mobili che la sorreggono. Così il nostro peso va a gravare anche sullo schienale del sedile. Per il principio di azione e reazione, lo schienale ci «spinge» in avanti proprio come accade all’inizio della manovra di decollo. In maniera analoga il simulatore è in grado di riprodurre la sensazione di decelerazione che si avverte quando per esempio vengono estratti i flaps in fase di avvicinamento alla pista. In questa occasione la cabina si dispone «in discesa»: il nostro peso va parzialmente a gravare sulle cinture di sicurezza, fornendo proprio la sensazione che si ha durante una frenata. D’altra parte, nonostante questi cambiamenti di assetto della cabina, dal simulatore continuiamo a vedere l’orizzonte sempre alla stessa altezza poiché la sua immagine, come anche quella di tutti i particolari del paesaggio circostante, è realtà virtuale, prodotta da un computer, visualizzata da un monitor posto a qualche decina di centimetri al di là del parabrezza della cabina, solidale alla cabina stessa. In definitiva, dal simulatore vediamo tutto come se fossimo piloti di un aereo vero, osservando il paesaggio che in pratica è infinitamente distante da noi. Ma come? Il monitor non è lì davanti ai nostri occhi? Dovremmo vedere il paesaggio come se guardassimo la televisione, con lo schermo a breve distanza da noi; come è possibile che invece vediamo il paesaggio come nella realtà, a grandissima distanza? Per capire la questione torniamo un momento alla nostra infanzia! Da bambini avrete senz’altro avuto tra le mani una lente d’ingrandimento e molto probabilmente avrete fatto un gioco che, in fin dei conti, può anche essere piuttosto pericoloso: quello di far convergere i raggi solari sulla capocchia di un fiammifero e di conseguenza accenderlo (figura 29).

Figura 29. Con una lente d’ingrandimento riusciamo facilmente ad accendere un fiammifero.

Ciò avviene perché tutta l’energia luminosa che cade sulla superficie della

lente, e la attraversa, viene concentrata in una zona piccolissima che, forse proprio per l’esito di questo esperimento, viene chiamato fuoco della lente. A rigore, il fuoco di una lente è il punto geometrico nel quale convergono i raggi luminosi provenienti da una sorgente puntiforme infinitamente distante. Quella che vediamo sulla capocchia del fiammifero, prima che si accenda, è in realtà un’immagine molto piccola del Sole. Infatti la lente è come l’obiettivo di una macchina fotografica e come tale fornisce l’immagine di qualsiasi oggetto posto davanti a essa. Avrete notato che i raggi luminosi che cadono sulla lente sono paralleli poiché il Sole è un oggetto posto praticamente a distanza infinita dalla lente. Poi questi raggi vengono rifratti fino a formare l’immagine in quello che viene chiamato piano focale F della lente. In ottica si definisce come distanza focale proprio la distanza tra la lente e il piano focale. Se stavolta poniamo un oggetto O esattamente nel fuoco, i raggi che provengono da questo oggetto, e arrivano sulla lente, percorrono il cammino inverso; e, attraversata la lente, diventano paralleli (figura 30).

Figura 30. I raggi paralleli convergono in un punto. Viceversa, i raggi che provengono da quel punto diventano paralleli una volta attraversata la lente.

Diventano proprio come quelli che ci arrivano quando osserviamo un oggetto O infinitamente distante da noi (figura 31).

Figura 31. I raggi che provengono da un oggetto O infinitamente distante sono paralleli.

E allora guardando attraverso la lente vediamo un oggetto O, posto nel piano focale, come se fosse infinitamente distante. Forse non ci avrete fatto caso, ma quando osservate un certo oggetto con una lente di ingrandimento e l’oggetto si trova proprio a una distanza dalla lente uguale alla distanza focale (cioè, in poche parole, non troppo vicino e non troppo distante dalla lente), il vostro occhio è completamente rilassato; il cristallino non deve affrontare lo sforzo di aggiustamento necessario per osservare un oggetto molto vicino poiché visivamente questo, a tutti gli effetti, è infinitamente lontano. Così, in un simulatore di volo, il monitor è messo proprio in corrispondenza del piano focale di una lente d’ingrandimento che, opportunamente sagomata, costituisce il parabrezza. Il pilota vede il paesaggio, come nella realtà, infinitamente distante. Il costo... astronomico del simulatore è ampiamente compensato dal fatto che, per farlo funzionare, non è necessario carburante (a parte il consumo di energia elettrica). Inoltre esso ha bisogno di una manutenzione evidentemente molto meno costosa di quella che è richiesta per un vero aereo. Infine, cosa non meno importante, si possono simulare anche condizioni di volo particolarmente critiche, come quelle dovute ad avverse condizioni atmosferiche oppure ad avarie meccaniche di qualsiasi natura. Il tutto, ovviamente, in totale sicurezza.

Il principio di equivalenza Un altro dei più importanti principi della fisica è il principio di equivalenza, formulato da Einstein. In breve, esso stabilisce che l’effetto di un’accelerazione è del tutto equivalente alla presenza della forza di gravità, come quella che esiste sulla Terra o sulla Luna. In altre parole, diciamo che la presenza di un’accelerazione è equivalente a quella di un campo gravitazionale. Tutto sommato, parlando delle sensazioni che si hanno in un simulatore di volo, abbiamo già avuto un’indicazione della validità del principio di equivalenza: quando la cabina del simulatore si dispone in salita, il campo gravitazionale terrestre ci ha fornito l’impressione di trovarci in presenza di un’accelerazione e altrettanto abbiamo avuto la sensazione di decelerazione

quando il simulatore si è disposto in discesa. Abbiamo comunque altre indicazioni della validità del principio di equivalenza in situazioni che si presentano nella nostra vita quotidiana. Immaginiamo infatti di essere dentro un ascensore, fermo al pianoterra, e prestiamo attenzione al nostro peso che grava sul pavimento della cabina. Finalmente premiamo il bottone per andare al quinto piano. L’ascensore accelera verso l’alto e noi sentiamo il nostro peso aumentare. Nei pochi istanti nei quali è presente l’accelerazione dell’ascensore (che poi proseguirà con moto rettilineo e uniforme per il resto del nostro breve viaggio) le cose vanno come se fossimo rimasti al piano ma fosse diventato più intenso il campo gravitazionale terrestre che ci attira verso il basso. Osserviamo un’altra situazione che forse capita meno frequentemente ma è ancora più interessante. Siamo a bordo della nostra 500 e, nel sedile posteriore, bene assicurato nel suo seggiolino, c’è il nostro nipotino (se siamo nonni) di cinque anni. Al parco gli abbiamo comperato molti giocattolini che se ne stanno ben sparpagliati sul piccolo divano. C’è anche un palloncino, di quelli che sfuggono di mano fra disperati pianti e se ne vanno su per il cielo. Stavolta, sfuggito di mano, il palloncino non ha innescato tragedie! A bordo dell’auto se ne sta infatti «incollato» al tetto. Siamo soddisfatti e tranquilli. Ma improvvisamente siamo costretti a una frenata piuttosto brusca. Per il nipotino (e per noi) non ci sono problemi, fortunatamente; ma tutti i giocattoli cadono in avanti. E il palloncino? Invece di andare in avanti, seguendo la sorte degli altri giocattoli, se ne va indietro, verso il lunotto posteriore, seguito dallo sguardo del bambino. Infatti, a seguito di una brusca frenata, siamo sospinti in avanti. Rispetto all’auto acquistiamo una certa accelerazione che, per fortuna, viene annullata dalle cinture di sicurezza ma, a tutti gli effetti, questa accelerazione in avanti è equivalente a un campo gravitazionale anch’esso diretto in avanti. Questo campo si somma al campo gravitazionale terrestre, con il risultato che noi ci troviamo come se fossimo in presenza di un campo gravitazionale diretto obliquamente verso l’avanti (figura 32).

Figura 32. Durante una frenata il palloncino va indietro.

Per questo motivo tutti i giocattoli cadono in avanti. Ma allora anche il palloncino dovrebbe andare in avanti, no? Invece è proprio qui che possiamo apprezzare ancora una volta il principio di equivalenza: il palloncino, come sappiamo, tende a salire lungo la direzione del campo gravitazionale; e allora il palloncino tende a salire in direzione obliqua verso l’alto. Appoggiato al tetto della macchina non gli rimane altro che scivolare indietro.

Deflessione della luce Il principio di equivalenza ha conseguenze che sono molto più importanti della sorte di un palloncino! Forse la più rilevante è quella che prevede una deflessione della luce quando questa viaggia in un campo gravitazionale. Ciò contrasta con quello che noi pensiamo comunemente e cioè che la luce viaggi sempre in linea retta. Per capire come stanno le cose, torniamo a bordo del nostro ascensore, fermo al pianoterra. Supponiamo che un oggetto qualsiasi, come il proiettile di legno di un cannoncino giocattolo, venga lanciato orizzontalmente da una parete all’altra della cabina. Giustamente il proiettile urta la parete opposta un po’ più in basso rispetto all’altezza dalla quale abbiamo eseguito il lancio, per effetto della forza di gravità che fa descrivere al proiettile una traiettoria parabolica. Per contro, se oltre al proiettile lanciamo orizzontalmente un raggio luminoso con un piccolo laser che abbiamo con noi, comperato in una bancarella per pochi euro, ci aspettiamo che il raggio, propagandosi in linea retta, raggiunga la parete opposta esattamente alla stessa altezza dalla quale è partito (figura 33).

Figura 33. Il proiettile descrive una traiettoria parabolica. Per contro ci aspettiamo che il raggio luminoso prosegua orizzontalmente.

Ebbene, se il principio di equivalenza è un principio effettivamente valido, anche il raggio luminoso si deve incurvare verso il basso. Questa circostanza, assolutamente inaspettata, può essere facilmente spiegata nel modo seguente. Supponiamo che il nostro ascensore non sia fermo al pianoterra dello stabile nel quale abitiamo ma sia fermo al «pianoterra» di una grande stazione spaziale in orbita intorno al nostro pianeta. Come gli astronauti che ci accompagnano, anche noi ci troviamo in assenza di peso e, in queste condizioni, ripetiamo l’esperimento che abbiamo fatto nell’ascensore di casa. Osserviamo il laser che

proietta la luce esattamente alla stessa altezza dalla quale era partita e così pure il proiettile arriva alla stessa altezza h dalla quale è stato lanciato, poiché stavolta non c’è la forza di gravità che lo farebbe deviare (figura 34 a).

Figura 34. In assenza di gravità, tanto il proiettile quanto il raggio luminoso arrivano alla stessa altezza dalla quale sono partiti (a). Se però la cabina ha un’accelerazione verso l’alto, tanto il proiettile quanto il raggio luminoso arrivano un po’ più in basso rispetto alla cabina stessa (b).

Adesso però ripetiamo l’esperimento subito dopo aver premuto il bottone dell’ascensore. Il pavimento dell’ascensore ci spinge verso l’alto con una certa forza e, per il principio di azione e reazione, noi stessi esercitiamo una forza sul pavimento, proprio come se esistesse la forza di gravità, per tutto il tempo durante il quale è presente l’accelerazione della cabina. Così anche stavolta, almeno per quanto riguarda la nostra persona, verifichiamo la validità del principio di equivalenza. Inoltre osserviamo che adesso, rispetto alla cabina, il proiettile non colpisce la parete opposta alla stessa altezza h dalla quale era partito poiché durante il tempo trascorso tra lancio e arrivo, l’ascensore si è progressivamente spostato verso l’alto con velocità crescente. Rispetto alla stazione spaziale, in assenza di gravità, il proiettile certamente procede sempre in linea retta; ma rispetto a noi, nella cabina, il proiettile descrive una parabola e va a finire un po’ più in basso, a un’altezza h’; di nuovo, come se l’ascensore fosse fermo ma fosse presente la forza di gravità (figura 34 b). E il raggio luminoso? Continua ad arrivare alla stessa altezza? No, un po’ più

in basso. Poiché anche per il raggio, dal momento nel quale è partito dal laser a quello nel quale è arrivato sulla parete opposta, la cabina si è spostata verso l’alto con velocità crescente. Certamente, la luce viaggia a una velocità enormemente superiore a quella del proiettile e così impiega un tempo brevissimo per arrivare dalla parte opposta. In quel lasso di tempo l’ascensore si sarà spostato magari meno di un miliardesimo di millimetro; ma comunque, rispetto a noi, il raggio luminoso sarà arrivato un po’ più in basso, non c’è dubbio. Cosa possiamo concludere? L’accelerazione verso l’alto della cabina ha prodotto, rispetto alla cabina stessa, una progressiva deviazione verso il basso tanto del proiettile quanto della luce. Rispetto alla cabina, insomma, tanto il proiettile quanto il raggio luminoso hanno descritto una traiettoria parabolica. Ma allora, se è vero che un’accelerazione è equivalente a un campo gravitazionale, cioè produce gli stessi effetti, non possiamo concludere altro che un campo gravitazionale devia verso il basso tanto un proiettile materiale quanto un raggio luminoso. Che deviasse il proiettile lo sapevamo già; ma il fatto che devii la luce è appunto una circostanza del tutto inaspettata.

Verifica del principio di equivalenza Tutto quello che abbiamo discusso è basato sulla validità del principio di equivalenza. Ma se tale principio non fosse vero? Tutto sommato, fino a questo momento, abbiamo fatto riferimento al principio di azione e reazione che ci ha fornito soltanto indicazioni della sua validità: di fatto non abbiamo ancora verificato che il principio di equivalenza sia un principio a sé stante. Ebbene, a parte ascensori, giocattoli e palloncini, quale miglior conferma possiamo avere della sua validità se non quella di constatare che la luce viene effettivamente deviata da un campo gravitazionale? Si deve proprio a Einstein l’aver suggerito un modo per verificare l’esistenza di questa deflessione, a piena conferma del principio di equivalenza. Precisamente, basta aspettare che si verifichi un’eclissi totale di Sole. In una tale occasione le stelle sono visibili in pieno giorno e possiamo osservarne una che vediamo in prossimità del Sole. La luce proveniente dalla stella sfiora la superficie del Sole e passa dunque per una zona dove esiste un campo gravitazionale molto intenso prodotto dalla enorme massa del Sole stesso. Se c’è una deflessione della traiettoria percorsa dalla luce, vedremo la stella in una posizione leggermente diversa da quella che le compete tra le costellazioni, quando la stella è visibile di notte. A questo proposito può essere utile osservare la figura 35.

Figura 35. La deflessione della luce proveniente da una stella, dovuta al campo gravitazionale del Sole.

La posizione vera della stella è S; ma quando noi la osserviamo, la sua luce arriva come se provenisse da S’. In altre parole, la posizione della stella, osservata durante un’eclissi totale di Sole, non è quella che mostra un atlante astronomico. Nella figura, per rendere meglio l’idea della situazione, anche questa volta abbiamo esagerato: nella realtà l’effetto di deflessione della luce è di piccolissima entità e non è possibile rilevarlo semplicemente a occhio nudo o con un piccolo telescopio.

La velocità della luce Aver parlato del fenomeno di deflessione della luce ci porta intanto ad affrontare un’altra questione e cioè quella di misurare la velocità con la quale la luce si propaga nello spazio, arrivando anche da oggetti che si trovano a distanze enormi come quelle che ci separano dalle stelle. Già Galileo aveva sospettato che la luce non si propagasse «istantaneamente» ma, dati i modesti mezzi tecnologici di allora, non fu in grado di stabilire se le cose stessero veramente così ed eventualmente avere una valutazione numerica della velocità con la quale viaggiava un raggio luminoso. La prima misurazione, piuttosto approssimativa, fu eseguita dall’astronomo danese Ole Rømer (1644-1710) nel 1676. Soltanto molto tempo dopo, grazie a un esperimento eseguito nel 1849 dal fisico francese Armand Fizeau (18191896), si è avuta una valutazione soddisfacente, vicina a quelle che si ottengono

oggi. Ancora una volta grazie all’utilizzo di un piccolo laser, potremmo pensare di ripetere in versione moderna l’esperimento di Fizeau. Si tratta di un esperimento basato su un’idea tanto semplice quanto geniale, come vediamo subito. Procuriamoci una ruota dentata e facciamo in modo che il sottile raggio luminoso emesso dal laser L passi attraverso l’interstizio tra un dente e l’altro della ruota. Sistemiamo lontano uno specchio S che rifletta indietro la luce del laser in modo che essa torni verso la ruota passando attraverso l’interstizio adiacente, come è rappresentato in figura 36a. Osserveremo il raggio luminoso che andrà infine a proiettarsi su un piccolo schermo P posto «alle spalle» del nostro apparato sperimentale.

Figura 36. Illustrazione dell’esperimento di Fizeau per determinare la velocità della luce.

Ma adesso poniamo in rapida rotazione la ruota dentata e così la luce passa di volta in volta attraverso un interstizio fra un dente e l’altro e va a riflettersi sullo specchio. Tornando indietro, è però possibile che la luce non incontri più l’altro interstizio, come avveniva a ruota ferma: già, perché nel tempo intercorso fra andata e ritorno del raggio luminoso, è possibile che il dente vicino all’interstizio abbia preso il suo posto, come è rappresentato in figura 36b. Affinché ciò avvenga è necessario che la ruota giri con una velocità opportuna. In queste condizioni, sullo schermo P non osserviamo più la luce proiettata dal laser.

A questo punto non voglio annoiarvi con formule, ma è chiaro che abbiamo tutti gli elementi per ricavare il valore della velocità della luce. Non sono tante le cose che dobbiamo conoscere ed è facile elencarle: la distanza tra ruota dentata e specchio, ovvero la distanza che la luce ha percorso tra andata e ritorno; poi occorre sapere il diametro della ruota dentata, la distanza che c’è fra un dente e l’altro e la velocità di rotazione per la quale non si osserva il punto luminoso proiettato dal laser. Da questi ultimi dati è semplice ricavare quanto tempo impiega la luce per fare il percorso di andata e ritorno e quindi, poiché già sappiamo a che distanza è posto lo specchio, la velocità con la quale si è propagata. Si trova un valore che, nella letteratura scientifica, è sempre indicato con la lettera c: precisamente, c = 299.792,458 Km/s. Se non ci interessano calcoli molto precisi possiamo approssimare questo valore a 300.000 Km/s che indica una velocità veramente enorme rispetto a quelle alle quali siamo comunemente abituati. Basti pensare che un’astronave diretta verso la Luna viaggia inizialmente a 40.000 Km/h che equivalgono a «soli» undici chilometri al secondo; ben poco rispetto ai trecentomila della luce. A questo punto è bene precisare che, quando si parla della velocità c, si intende quella che misuriamo nel vuoto, come quello presente nello spazio interplanetario. Nei mezzi materiali, come il vetro, l’aria o l’acqua, la velocità della luce è infatti inferiore a c. Nell’aria presente in un laboratorio questo decremento è del tutto trascurabile ma in altri mezzi la velocità della luce può essere anche notevolmente inferiore a c, pur mantenendosi comunque a valori molto elevati: nel diamante, per esempio, la luce si propaga a centoventimila chilometri al secondo. Non occupiamoci però di mezzi materiali; piuttosto ricordiamoci che, a proposito di velocità della luce, penseremo sempre alla propagazione nel vuoto.

La luce è fatta di corpuscoli? I primi studi sulla natura della luce e sui meccanismi attraverso i quali avviene la sua propagazione sono dovuti a Newton che fu un sostenitore dell’ipotesi corpuscolare. Secondo tale ipotesi, quella che noi comunemente chiamiamo sorgente luminosa, come il Sole, è un corpo che emette in continuazione un numero grandissimo di particelle piccolissime che viaggiano nello spazio. Quando queste particelle si imbattono su un corpo qualsiasi può darsi che esse riescano o meno ad attraversarlo e diremo che il corpo è rispettivamente trasparente oppure opaco. In particolare, i corpuscoli possono attraversare il cristallino e colpire la retina, se orientiamo gli occhi verso il Sole. Possiamo pensare che questi corpuscoli, ricevuti direttamente, possano danneggiare la retina stessa

provocando una reazione fisiologica che il nostro cervello avverte come un fortissimo abbagliamento. Se dirigiamo lo sguardo verso un altro oggetto illuminato dal Sole possiamo pensare che sull’oggetto rimbalzi verso di noi soltanto una parte di questi corpuscoli che così, in quantità minore, si offrono a una visione normale, senza pericolo. Un tale modo di descrivere la luce sembra certamente ragionevole. Ma ovviamente non possiamo accontentarci soltanto di questo. Si tratta di stabilire se, in termini di corpuscoli di luce, possiamo spiegare tutti i fenomeni luminosi. Solo così possiamo accettare l’idea newtoniana. Partiamo dunque dall’ipotesi corpuscolare e vediamo (è proprio il caso di dirlo!) fin dove possiamo arrivare. Intanto, i corpuscoli di luce devono essere distinti da una proprietà per la quale, quando essi urtano la retina, forniscono la sensazione di «rosso», di «arancione», di «giallo» e così via. Inoltre possiamo anche pensare che, quando la retina è colpita dai corpuscoli di tutti i colori, essa reagisca generando la sensazione di luce bianca. Chiamiamo fotoni questi corpuscoli di luce. Così facendo utilizziamo una terminologia moderna, alla quale si fa riferimento pensando alla natura corpuscolare della luce. In termini di corpuscoli si possono descrivere bene i fenomeni luminosi che osserviamo quotidianamente, come per esempio la riflessione: possiamo immaginare che, su uno specchio, i fotoni rimbalzino come palle da biliardo che urtano contro una sponda. Altrettanto possiamo spiegare bene il fenomeno della rifrazione, secondo il quale un raggio luminoso cambia direzione di propagazione quando passa da un mezzo trasparente a un altro. È attraverso la rifrazione e la riflessione che ci possiamo rendere conto del funzionamento di una lente d’ingrandimento o di uno specchio di «rimpicciolimento» messo nei pressi di un incrocio stradale con scarsa visibilità; e di quello di uno strumento più complicato, come un telescopio o un microscopio. Ma vorrei parlarvi anche di un altro fenomeno, meno conosciuto, che può essere bene interpretato in termini di corpuscoli di luce. Il fenomeno in questione è chiamato effetto fotoelettrico. Utilizzando una sorgente di luce gialla, facciamo cadere un raggio di luce su una superficie metallica. Ebbene, con opportune apparecchiature possiamo osservare che dalla superficie del metallo viene emesso un certo numero di elettroni ogni secondo. Come ricordiamo dagli studi liceali, gli elettroni sono tra le particelle che

costituiscono gli atomi. Non è difficile immaginare allora che l’urto di ciascun fotone abbia fatto «schizzare via» un elettrone dal metallo, imprimendogli dunque una certa velocità: è questo il fenomeno che viene chiamato effetto fotoelettrico. Cosa si osserva se invece di una si usano due sorgenti di luce identiche? Ebbene, si osserva un numero doppio di elettroni che lasciano l’oggetto, ogni secondo, sempre con la stessa velocità di prima. Utilizziamo adesso luce verde anziché gialla: si ha lo stesso fenomeno di emissione di elettroni ma questa volta la velocità con la quale fuoriescono gli elettroni dal metallo è maggiore di quella che si osserva con la luce gialla. Possiamo andare avanti con l’esperimento e renderci conto che, se inviamo luce blu anziché verde, otteniamo elettroni ancora più veloci. E così via: più ci spostiamo dalla parte dei colori che nello spettro solare cadono verso il violetto (e oltre), più sono veloci gli elettroni emessi dal metallo. Viceversa, andando dal giallo verso l’arancione, la velocità degli elettroni emessi diventa via via più piccola fino a ridursi a zero: in altre parole, per esempio con luce rossa, non si ha più effetto fotoelettrico. In termini di fotoni queste circostanze possono essere interpretate in modo molto semplice: fare l’esperimento con due sorgenti anziché una sola, aumentando così l’intensità luminosa, equivale a raddoppiare il numero di corpuscoli che vanno a cadere sull’oggetto e che quindi in un secondo fanno sfuggire un numero doppio di elettroni. D’altro canto, indipendentemente dall’intensità della sorgente, l’esperimento ci indica che i fotoni che compongono la luce verde hanno evidentemente energia maggiore di quelli che compongono la luce gialla poiché, quando colpiscono gli elettroni sulla superficie del metallo, questi ultimi fuoriescono con una velocità più elevata. Per contro, la luce rossa non produce effetto fotoelettrico: ciò vuol dire che i fotoni non hanno in questo caso energia sufficiente a liberare un elettrone dalla superficie del metallo. L’effetto fotoelettrico ci suggerisce dunque il motivo per il quale osserviamo colori diversi a seconda degli oggetti che vediamo intorno a noi. Semplicemente, il colore della luce è la manifestazione visiva dell’energia dei fotoni che la compongono. Evidentemente il nostro occhio e il nostro cervello reagiscono in misura diversa a seconda dell’energia dei fotoni che cadono sulla retina e questa reazione si traduce proprio nella sensazione che chiamiamo colore. Dobbiamo allora accettare l’ipotesi newtoniana? Un po’ di pazienza! Studiando la luce, ci troviamo a indagare su uno dei fenomeni più complessi che

la Natura ci offre e, prima di proseguire in questa indagine, è bene soffermarci a studiare i fenomeni ondulatori.

Le onde Quando pensiamo alla velocità ci viene in mente per esempio quella di un’automobile o di un aeroplano cioè, in generale, quella di un qualsivoglia oggetto materiale. Ma ci sarà capitato tante volte di osservare le onde del mare, o semplicemente quelle di piccola ampiezza che si formano se gettiamo qualche sassolino in uno stagno o in una pozzanghera (figura 37).

Figura 37. Le onde che si formano sulla superficie di uno stagno.

Vediamo che anche esse camminano propagandosi a una certa velocità formando una serie di anelli concentrici. Tale velocità dipende dalla lunghezza d’onda: tanto maggiore è la lunghezza d’onda, tanto maggiore è la velocità con la quale avviene la propagazione. Cos’è la lunghezza d’onda? È semplicemente la distanza che separa due «creste» dell’onda stessa (figura 38).

Figura 38. Le onde hanno una certa ampiezza e una certa lunghezza d’onda.

Gettando un sassolino in una pozzanghera generiamo soltanto una piccola

perturbazione del pelo dell’acqua e osserviamo che la lunghezza d’onda è di pochi centimetri soltanto, con i cerchi concentrici che si allargano a piccola velocità. È molto interessante notare il fatto che l’acqua rimane praticamente ferma dov’è: è l’onda che si propaga, non l’acqua nella quale si forma l’onda stessa. Tanto è vero che, se sull’acqua stanno galleggiando tante foglioline, vediamo che esse si mettono a oscillare andando più o meno su e giù quando sono raggiunte dalle onde ma rimangono in pratica laddove si trovavano inizialmente, prima che le onde arrivassero. Il su e giù delle foglioline ci mostra comunque che queste ultime hanno acquistato una certa energia, evidentemente trasportata dalle onde. La perturbazione che produciamo gettando un sassolino in uno stagno genera dunque un fenomeno ondulatorio e il sassolino agisce come sorgente delle onde. Possiamo accorgerci di una peculiarità nella propagazione delle onde: cioè che essa presenta il fenomeno dell’interferenza. A questo proposito, possiamo riferirci ancora a quello che abbiamo osservato sulla superficie di uno stagno. Questa volta lasciamo cadere nell’acqua non uno ma due sassolini, più o meno dalla stessa altezza e a una certa distanza l’uno dall’altro. In queste condizioni osserviamo ovviamente due sistemi di onde concentriche: uno intorno al punto dove è caduto il primo sassolino e l’altro intorno al punto dove è caduto il secondo. Laddove arrivano le onde generate sia dal primo che dal secondo sassolino ci aspetteremmo un su e giù di una fogliolina comunque più ampio di quello ottenuto gettando un solo sassolino. Questo perché con due sassolini abbiamo perturbato il pelo dell’acqua certamente più di quanto non avremmo fatto gettando un solo sassolino. Ma ci attende una sorpresa! C’è una fogliolina che è attraversata dalle onde generate dai due sassolini e, contrariamente a quello che avremmo potuto aspettarci, questa fogliolina rimane ferma, senza andare su e giù. La spiegazione è molto semplice: quella fogliolina si trova in un punto nel quale arriva la «cresta» di un’onda prodotta dal primo sassolino. Questa, se fosse presente da sola, farebbe innalzare la fogliolina – diciamo – di un centimetro sul pelo dell’acqua; ma, al contempo, nello stesso punto arriva un «avvallamento» dell’onda prodotta dal secondo sassolino che, da sola, farebbe abbassare la fogliolina di un centimetro. Qual è il risultato del passaggio simultaneo delle due onde? Il risultato è che il pelo dell’acqua... non si alza e non si abbassa: la fogliolina è in un punto dove il moto ondoso è del tutto assente. La fogliolina si trova in un punto dove avviene, come si dice in fisica, un’interferenza distruttiva fra le due onde.

Viceversa, ci potrà capitare di osservare una fogliolina che si trova in un punto nel quale avviene un’interferenza costruttiva: la fogliolina è raggiunta da un’onda che, da sola, la farebbe innalzare di un centimetro e da un’altra onda che, da sola, la farebbe innalzare anch’essa di un centimetro. L’effetto simultaneo delle due onde è quello di innalzare il pelo dell’acqua di due centimetri. In altri punti sulla superficie dell’acqua si verificheranno poi situazioni intermedie. In generale, vediamo dunque che l’ampiezza del moto ondoso prodotto da più sorgenti non è la somma delle ampiezze prodotte da ciascuna: è questo il fenomeno dell’interferenza. Esso si verifica in particolare anche per le onde del mare che certamente non sono generate da un sassolino! Imponenti perturbazioni, generate dal vento o da altre circostanze come un malaugurato tsunami, possono generare onde di notevole ampiezza che hanno una lunghezza d’onda di decine e decine di metri e le vediamo arrivare sulla riva a grande velocità. Quando due di queste onde si incontrano, esse possono in particolare generare un’interferenza costruttiva che produce quella che viene chiamata un’onda anomala; molto pericolosa proprio per la sua notevole ampiezza e l’elevata velocità.

La luce è fatta di onde? L’idea di Newton dei corpuscoli di luce, nata nel diciottesimo secolo, è soddisfacente per spiegare una grande quantità di fenomeni luminosi e sembra andar bene anche per rendere conto di fenomeni che Newton non poteva neanche immaginare; come l’effetto fotoelettrico, scoperto da Hertz nel 1887 e interpretato in termini di fotoni da Einstein nel 1905, con un lavoro che gli valse il Premio Nobel per la Fisica nel 1921. Ma la questione non è così semplice. Già dai tempi di Newton molti scienziati erano assolutamente contrari all’ipotesi corpuscolare e sostenevano un’altra «verità» per spiegare i fenomeni luminosi. Tra essi vanno citati Robert Hooke (1635-1703), inglese come Newton e come lui membro della famosa Royal Society, e l’olandese Christiaan Huygens (1629-1695). Hooke e Huygens sostenevano l’ipotesi ondulatoria dei fenomeni luminosi. La cosa veramente sorprendente è che oggi sappiamo che avevano ragione tanto Newton quanto Hooke e Huygens! Intanto eseguiamo un semplice esperimento, per capire meglio come stanno le cose. È un esperimento che possiamo eseguire facilmente in casa con il nostro piccolo laser. Ebbene, al buio, puntiamo il laser L contro uno schermo bianco S. Osserveremo su questo un piccolo punto luminoso (figura 39a).

Figura 39. Osserviamo la luce proiettata dal laser: in (a) vediamo che essa forma un puntino luminoso. Se interponiamo un capello (b), la luce si distribuisce in piccole bande luminose separate da zone oscure.

Successivamente, lungo il raggio luminoso, interponiamo verticalmente un capello che, per maggiore chiarezza grafica, rappresentiamo con una linea piuttosto spessa (figura 39b). Poiché il capello è in realtà un oggetto molto sottile, ci aspetteremmo di continuare a vedere sullo schermo lo stesso puntino luminoso di prima, magari accompagnato da qualcosa come la sottile ombra del capello. In effetti si continua a vedere il punto luminoso ma, cosa sorprendente, vediamo che la luce si è diffusa anche alla sua destra e alla sua sinistra, formando piccole strisce luminose che si alternano a zone nelle quali la luce non è caduta affatto. È possibile interpretare il risultato di questo esperimento in termini di fotoni intesi come corpuscoli, cioè come «palline» che viaggiano in linea retta lanciate dal laser? Comunque sforziamo la nostra fantasia non riusciamo ad avere una spiegazione soddisfacente. Infatti, possiamo certamente immaginare che i fotoni, passando di striscio intorno al capello, vengano deviati casualmente un po’ a destra e un po’ a sinistra e vadano dunque a cadere anche da una parte e dall’altra. Ma come interpretare il fatto che ci sono zone nelle quali non osserviamo luce? Ci aspettiamo che i fotoni possano cadere in qualsiasi punto dello schermo: come interpretare il fatto che la luce vada invece a cadere in certe zone ma non in altre? A questo punto ci viene in mente che esistono zone «proibite» nella propagazione delle onde. Per il fenomeno dell’interferenza abbiamo infatti

osservato che quando gettiamo due sassolini ci può essere assenza di moto ondoso in particolari punti della superficie di uno stagno, anche se in altri se ne osserva uno consistente. Ma noi abbiamo osservato sullo schermo proprio zone nelle quali c’è assenza di illuminazione; e queste si alternano a zone nelle quali l’illuminazione è piuttosto consistente. Ciò avviene quando un capello «divide» in due parti il raggio luminoso. Non può darsi allora che la propagazione della luce sia in realtà un fenomeno ondulatorio? E che, con il laser e il capello, noi stiamo assistendo all’interferenza di onde luminose? Siamo così incoraggiati a pensare che la luce si propaghi per onde piuttosto che per corpuscoli, anche perché in questi termini si possono spiegare altrettanto bene i fenomeni di rifrazione e di riflessione. Proprio a proposito della riflessione, forse avremo notato che, se agitiamo l’acqua nei pressi del bordo di una piscina, vediamo le onde andare verso il bordo e poi tornare indietro come se fossero partite dalla parte opposta. Proprio come torna indietro una palla da biliardo o... un fotone. Possiamo fare anche un altro interessante esperimento che rafforza l’interpretazione della propagazione della luce come propagazione di onde. Puntiamo sempre il laser contro lo schermo e stavolta interponiamo un foglio di cartoncino, come una cartolina postale, nel quale abbiamo praticato con uno spillo un minuscolo forellino (figura 40).

Figura 40. La luce emessa dal laser passa per un minuscolo forellino praticato in un foglio di cartoncino.

Ci aspetteremmo di vedere sullo schermo, in corrispondenza del forellino, una piccola macchia rossa; invece osserviamo non soltanto una macchia centrale piuttosto luminosa e sfumata: vediamo anche che essa è circondata da una serie di anelli (un po’ meno luminosi) concentrici separati da zone non illuminate. Stiamo assistendo al fenomeno che in fisica viene chiamato diffrazione della luce. Anche in questo caso è possibile un’interpretazione in termini di corpuscoli? No. Infatti anche in questo esperimento possiamo immaginare che i fotoni, passando di striscio attraverso il forellino, vengano deviati casualmente a formare sullo schermo una macchia luminosa piuttosto estesa. Ma come interpretare che la luce possa andare a cadere in corrispondenza di un anello ma evidentemente non tra un anello e l’altro? Anche in questo caso la presenza di zone «permesse» e zone «proibite» ci porta a pensare che la propagazione della luce sia un fenomeno ondulatorio. Ma allora dobbiamo accettare l’ipotesi ondulatoria e rifiutare l’idea che la luce sia costituita da fotoni intesi come minuscole particelle? Eh no; perché adesso, in termini di onde, non è possibile spiegare l’effetto fotoelettrico. L’effetto fotoelettrico non può essere spiegato in termini di onde, cioè se pensiamo alla propagazione della luce in analogia alla propagazione delle onde sulla superficie di un liquido. Infatti è vero che le onde trasportano energia, come la trasportano le particelle materiali; quindi anche le onde potrebbero estrarre elettroni provocando l’effetto fotoelettrico. Però è anche vero che questa energia è distribuita su tutto il fronte dell’onda. Essa è, per così dire, «diluita» su tutta la superficie dell’oggetto illuminato invece di essere concentrata nei punti di impatto dei singoli fotoni. Riducendo l’intensità della sorgente luminosa, che equivarrebbe a ridurre l’ampiezza delle onde, potremmo metterci in condizioni tali che nessun elettrone potrebbe mai acquistare energia sufficiente per uscire dall’oggetto illuminato. Sperimentalmente sappiamo invece che ridurre l’intensità luminosa ha come conseguenza soltanto la riduzione del numero di elettroni che vengono emessi per unità di tempo ma non ha alcuna influenza sull’energia di ciascun elettrone. D’altro canto potremmo pensare che, seppure investito successivamente da onde di ampiezza molto piccola, un elettrone potrebbe comunque accumulare una notevole energia fino ad averne abbastanza da superare la «barriera» che lo trattiene nel materiale. Ciò avverrebbe trascorso un po’ di tempo dall’istante nel quale la luce comincia a cadere sull’oggetto; ma l’esperienza mostra che questo non si verifica: gli elettroni sono emessi istantaneamente a partire dal momento nel quale la luce comincia a cadere sull’oggetto.

Le discussioni precedenti sembrano averci posto di fronte a un dilemma insolubile: la propagazione della luce è un fenomeno corpuscolare oppure ondulatorio? La fisica moderna ci insegna la giusta interpretazione dei fenomeni luminosi; interpretazione che di fatto, come vi avevo anticipato, dà ragione tanto a Newton quanto a Hooke e Huygens: la luce è un fenomeno corpuscolare e ondulatorio. Cosa vuol dire questa affermazione? Vuol dire che possiamo tranquillamente pensare a un raggio di luce come a uno sciame di fotoni. Ciascun fotone, però, non ha soltanto le caratteristiche di una «pallina» piccolissima: esso si comporta anche come un’onda. Così la propagazione di un numero grandissimo di fotoni è proprio simile a quella di un’onda sulla superficie di un liquido e possiamo pensare, altrettanto correttamente, che un raggio di luce sia un’onda luminosa. Quando facciamo esperimenti con la luce può accadere che venga messo in risalto l’aspetto corpuscolare di ciascun fotone: per esempio osservando l’effetto fotoelettrico. In altri esperimenti può accadere che sia invece l’aspetto ondulatorio a prevalere: per esempio facendo passare un raggio luminoso attraverso un forellino o interponendo un capello. Infine ci sono altre circostanze nelle quali pensare all’aspetto corpuscolare o a quello ondulatorio non fa differenza: per esempio, nei fenomeni di riflessione o di rifrazione della luce. Abbiamo così una descrizione soddisfacente delle modalità secondo le quali la luce si propaga; ma di fatto non abbiamo ancora idee sulla natura della luce, cioè non sappiamo ancora in cosa consista e per quale motivo si propaghi. Sono questi gli argomenti che ci accingiamo a trattare.

Le cariche elettriche Chissà quante volte da bambini, magari alle scuole elementari, abbiamo assistito a uno straordinario fenomeno naturale: dopo aver strofinato una comunissima penna a sfera sulla manica di un golf di lana, abbiamo constatato che la penna attirava pezzettini di carta. Sembra poco? In realtà, questo esperimento rivela l’esistenza delle cariche elettriche e della grande quantità di fenomeni a esse dovuti. Il fenomeno di elettrizzazione per strofinio, come quello che abbiamo appena considerato, era noto già ai tempi degli antichi greci. Essi non avevano penne a sfera (e nemmeno pezzettini di carta...) ma disponevano di una sostanza resinosa, l’ambra, con le quali attirare pagliuzze o pezzetti di papiro. L’ambra, in greco, si chiamava elektron; ed ecco l’origine della parola «elettricità».

Gli antichi greci avevano osservato anche un altro interessante fenomeno: blocchi di un particolare minerale, trovato nei pressi della città di Magnesia, avevano la proprietà di attirare pezzi di ferro. Forse anche a noi sarà capitato di osservare questa attrazione, avvicinando una calamita a un mucchietto di limatura di ferro. Proprio dal nome della città di Magnesia ha origine il termine «magnetismo». I fenomeni elettrici e magnetici sono dunque noti come tali fino dall’antichità e si è creduto per molto tempo che si trattasse di fenomeni indipendenti gli uni dagli altri. Solo in tempi relativamente recenti, nel corso del diciannovesimo secolo, ci si è invece via via convinti che essi sono due aspetti di un’unica categoria di fenomeni. I termini «elettrico» e «magnetico» sono così stati riuniti nell’unico aggettivo «elettromagnetico». Come l’ambra, così bacchette di vetro, di ebanite, di ceralacca o di materiali plastici moderni (per esempio il plexiglas) strofinate su un panno di lana acquistano la proprietà di attirare pezzettini di carta (o altri corpi leggeri). Diciamo dunque che per strofinio queste bacchette acquistano una proprietà che chiamiamo carica elettrica. È interessante notare che dopo aver strofinato due bacchette di vetro su altrettanti panni di lana, le due bacchette si respingono se vengono avvicinate l’una all’altra. Lo stesso fenomeno avviene se le due bacchette sono entrambe di ebanite anziché di vetro. Ma, cosa molto interessante, una bacchetta di vetro e una di ebanite si attraggono. Questi fenomeni vengono genericamente indicati come fenomeni di attrazione (o repulsione) elettrostatica. Ripetendo questi esperimenti con altri materiali, possiamo concludere che le proprietà che essi acquistano una volta strofinati con panni di lana sono di due tipi diversi, cioè le cariche elettriche che acquistano sono di due tipi diversi. Da quanto abbiamo constatato, due bacchette entrambe di vetro o di ambra si respingono, quindi possiamo affermare che: Due corpi con lo stesso tipo di carica si respingono. Viceversa, due corpi con l’uno e l’altro tipo di carica rispettivamente, si attirano. A questi due tipi di carica elettrica vengono dati convenzionalmente i nomi di carica positiva e carica negativa. Così, diciamo che il vetro strofinato su un panno di lana si carica positivamente mentre l’ebanite, sempre strofinata con un panno di lana, si carica negativamente. Attribuendo proprio il segno algebrico + o – alla quantità di carica elettrica per distinguerne i due tipi, si ottiene una schematizzazione molto utile nella formulazione matematica delle leggi dell’elettromagnetismo, formulazione della quale, però, non ci occuperemo. Così, a seconda delle

circostanze, invece di dire che due corpi possiedono cariche dello stesso tipo oppure di tipo diverso, diremo che essi possiedono cariche dello stesso segno o di segno opposto.

Elettroni, protoni e neutroni Come possiamo interpretare il fenomeno di elettrizzazione? Per capire la questione occorre ricordare che la materia è fatta di atomi. Importanti esperimenti, dei quali parleremo più avanti, mostrano che ciascun atomo è a sua volta costituito da particelle ancora più piccole: ci sono gli elettroni che circondano un nucleo fatto di protoni e neutroni. Gli elettroni sono particelle che possiedono una piccola carica negativa. È la Natura che ha deciso così, cioè di attribuire intrinsecamente questa proprietà. Così pure, troviamo che i protoni possiedono intrinsecamente una carica positiva esattamente uguale e opposta a quella degli elettroni. In realtà, la carica positiva del protone è la somma delle cariche dei suoi costituenti inseparabili che sono chiamati quark. Infine i neutroni sono particelle che non possiedono carica elettrica. E allora, per quale motivo lo strofinio su un panno di lana fa in modo che la bacchetta di vetro si carichi positivamente? Il fatto è che nel vetro gli elettroni sono meno legati a formare gli atomi di quanto non siano gli elettroni nella lana e allora, a seguito della nostra operazione, una notevole quantità di elettroni passa dal vetro alla lana. Per conseguenza il panno di lana acquista in definitiva una notevole quantità di carica elettrica negativa. E la bacchetta di vetro? Ebbene, essa ha perso una grande quantità di elettroni, con il risultato che rimangono in eccesso molti protoni. La loro carica complessiva è dunque la carica positiva che la bacchetta di vetro possiede. Il fenomeno opposto accade se strofiniamo una bacchetta di ebanite. Stavolta gli elettroni sono meno legati alla lana di quanto non siano all’ebanite e allora, con lo strofinio, essi «migrano» dalla lana all’ebanite con il risultato che quest’ultima risulta carica negativamente. A questo punto è molto importante notare che in tutte queste situazioni la carica elettrica, che compare su una bacchetta o su un qualsiasi altro oggetto, non viene «creata» dal nulla. In altri termini, il fenomeno dell’elettrizzazione avviene soltanto per un trasferimento di elettroni da un oggetto all’altro. Con terminologia «professionale», si dice che la carica elettrica appartiene alla categoria delle quantità fisiche che sono conservate, a significare appunto che esse non possono essere create (o distrutte). Quindi, ricordiamo bene: se abbiamo un corpo che è inizialmente scarico e poi possiede invece una certa quantità di carica elettrica, possiamo essere sicuri che questa carica è stata prelevata da qualche altra parte.

La situazione è assolutamente analoga a quella che si verifica se abbiamo un secchio inizialmente vuoto che poi troviamo pieno d’acqua: possiamo essere sicuri che quell’acqua è stata prelevata da qualche altra parte, per esempio facendola fluire in un tubo collegato al rubinetto di casa. E come l’acqua può fluire in un tubo, altrettanto le cariche elettriche possono fluire lungo un filo che, guarda caso, chiamiamo «filo elettrico». Questo fluire è quello che comunemente chiamiamo corrente elettrica.

Il campo elettromagnetico I fenomeni di attrazione o repulsione elettrostatica possono essere interpretati in termini di campi. Si intende per campo una zona di spazio nella quale è presente una situazione fisica di particolare interesse per la questione che si sta studiando. Abbiamo già avuto un esempio parlando del campo gravitazionale. Esso è prodotto da una massa come quella del Sole o della Terra o di qualsiasi altro corpo celeste. Un corpo che si trova in tale campo è soggetto alla forza di gravità; forza della quale, più avanti, esamineremo le caratteristiche. Altrettanto, possiamo pensare che un corpo elettricamente carico generi intorno a sé quello che viene chiamato un campo elettrico. In altre parole, la presenza di un corpo elettricamente carico determina una nuova situazione nello spazio circostante, situazione per la quale un secondo corpo carico risente della presenza del primo e l’effetto risultante è quello di una forza attrattiva (o repulsiva) tra i due oggetti. Osserviamo poi che si hanno fenomeni analoghi all’attrazione o repulsione elettrostatica quando siamo in presenza di calamite. Alle estremità di una calamita sono localizzati quelli che in fisica vengono chiamati poli della calamita. A tali poli vengono dati convenzionalmente i nomi di polo Nord e polo Sud. Questa terminologia deriva da quello che osserviamo nel comportamento di una bussola. Delle estremità dell’ago magnetico è infatti naturale chiamare polo Nord quella che è attratta verso il Nord geografico; e polo Sud l’altra estremità. Come per le cariche elettriche, poli dello stesso «nome» si respingono; e poli di nome opposto si attraggono. E proprio come abbiamo discusso per il campo elettrico, possiamo dire che una calamita genera intorno a sé quello che è naturale definire come un campo magnetico. Una seconda calamita, posta in questo campo, risente della presenza della prima sotto forma di forze di attrazione o repulsione. Evidentemente la Terra stessa si comporta come un grande magnete, con la presenza del campo magnetico terrestre , responsabile delle forze che si manifestano ai poli di una bussola.

Le onde elettromagnetiche Immaginiamo di osservare due bambini, in piedi in un giardino, che giocano a fare il tiro alla fune. Essi tengono ben tesa una grossa corda lunga – tanto per dire – una decina di metri. La tensione e il peso della corda fanno sì che su ciascun bambino agisca una forza che tende ad avvicinarlo all’altro. In questo gioco, la corda tesa tra i due bambini è il «modello» – chiamiamolo così – del campo elettrico tra due corpi che hanno cariche di segno opposto e che per conseguenza si attraggono reciprocamente. Ma osservare due bambini che tengono tesa una corda ci consente di fare paragoni ancora più interessanti. Precisamente, supponiamo che uno dei due bambini non abbia l’intenzione di tirare a sé il suo amico ma, continuando comunque a tenere sempre tesa la corda, faccia rapidamente su e giù con la mano. A questo punto osserviamo che la corda assume la forma di un’onda che si propaga verso l’altro bambino e lo raggiunge dopo qualche secondo. Inoltre, all’arrivo dell’onda, l’altro bambino avverte la presenza di una forza che tende a muovergli la mano, seguendo le oscillazioni che sono state impresse. Questo significa che il primo bambino ha di fatto trasmesso il suo movimento all’altro bambino. Fare su e giù con la mano significa che a essa è impressa continuamente una certa accelerazione; e abbiamo osservato che questa accelerazione ha dunque generato onde che si propagano trasmettendo l’«informazione» contenuta nel particolare movimento che il primo bambino ha impresso alla corda. Ebbene, questa situazione è particolarmente interessante perché ci rivela un’importante analogia: come l’accelerazione della mano genera onde lungo la corda, così un corpo elettricamente carico che si muove di moto accelerato genera onde che si propagano nello spazio. Si può verificare sperimentalmente che si tratta di onde che trasportano un campo elettrico e un campo magnetico cioè, in breve, di onde elettromagnetiche. Ma c’è di più: come l’altro bambino aveva avvertito la presenza di una forza che tendeva a muovergli la mano seguendo il movimento impresso alla corda dal suo amico, così un’onda elettromagnetica trasmette il movimento delle cariche elettriche che l’hanno generata. È interessante soffermarsi un momento su tale circostanza poiché è proprio su questa che è basato il funzionamento della radio (o della televisione). Quando un’onda elettromagnetica viene prodotta da una stazione radio, essa trasmette il moto degli elettroni che l’hanno generata a una radio ricevente posta anche a notevole distanza. Gli elettroni che si trovano sull’antenna della radio ricevente seguono allora le onde e riproducono proprio il moto che le ha generate. In altri termini, l’«informazione» (acustica, visiva) contenuta nel moto

degli elettroni presenti nell’antenna trasmittente viene trasferita inalterata all’apparecchio ricevente. La presenza di questo fenomeno di propagazione di un campo elettromagnetico è nota da molto tempo: è stata prevista nella seconda metà dell’Ottocento dal fisico inglese James Clerk Maxwell (1831-1879) a seguito dei suoi studi sull’elettricità. L e equazioni di Maxwell, che descrivono le caratteristiche di qualsiasi campo elettromagnetico, di come possa essere generato e di come si propaghi nello spazio, costituiscono dunque una delle principali acquisizioni nella storia della fisica. In questa sede non è il caso di esporre tali equazioni; esse richiedono un formalismo matematico piuttosto complicato. Allora ci fermiamo qui? No; è di fondamentale importanza almeno enunciare una delle conseguenze di queste equazioni, conseguenze delle quali si ha ovviamente la verifica sperimentale. Precisamente, le equazioni di Maxwell ci consentono di calcolare la velocità con la quale si propaga un campo elettromagnetico. Si trova un risultato veramente straordinario: le onde elettromagnetiche si propagano esattamente alla velocità della luce, indipendentemente dalla loro ampiezza e dalla loro lunghezza d’onda. Potrebbe trattarsi di una pura e semplice coincidenza? Sì, ma ovviamente le cose non stanno così. Piuttosto, questo risultato ci porta all’interpretazione corretta dei fenomeni luminosi: essi sono dovuti alla propagazione di un campo elettromagnetico. Un raggio luminoso non è altro che un campo elettromagnetico che viaggia nello spazio. Rivolgiamo allora un pensiero a Newton, Hooke e Huygens e alla loro genialità. Essi ci hanno fornito l’interpretazione corpuscolare e ondulatoria dei fenomeni luminosi, ma rendiamoci conto che essi non avrebbero potuto fornire questa ulteriore interpretazione poiché a quei tempi l’esistenza dei campi elettromagnetici era totalmente sconosciuta.

Gli occhiali Polaroid A mio avviso, i migliori occhiali da sole sono gli occhiali Polaroid. Però non voglio fare pubblicità! Polaroid è un marchio di fabbrica; diciamo allora che i migliori occhiali da sole sono quelli che hanno lenti polarizzate, di qualsiasi marca.

Cosa sono le lenti polarizzate? Sono materiali plastici che sono stati trattati con un opportuno procedimento chimico in modo tale che si formino molecole molto allungate che si dispongono come una catena disposta orizzontalmente,

come è schematicamente rappresentato in figura 41.

Figura 41. Gli occhiali con lenti polarizzate. Gli elettroni possono muoversi soltanto orizzontalmente.

Dentro il materiale, gli elettroni sono liberi di muoversi lungo la direzione nella quale sono orientate le molecole, mentre essi non possono muoversi in direzione ortogonale. Questa circostanza fa sì che queste lenti agiscano come filtro per la luce che le investe. In che modo? Teniamo presente che la propagazione della luce è un fenomeno elettromagnetico. In particolare, un raggio luminoso trasporta un campo elettrico più o meno intenso a seconda di quanto intensa è la luce. In realtà, un raggio luminoso contiene un’infinità di campi elettrici che oscillano come onde in modo assolutamente casuale. Se uno di tali campi oscilla nella stessa direzione nella quale sono disposte le molecole della lente, gli elettroni, liberi di muoversi in quella direzione, si mettono in moto seguendo questa oscillazione. Essi dunque assorbono l’energia del campo che così «non ce la fa» ad attraversare la lente (figura 42a).

Figura 42. Il campo elettrico viene assorbito se oscilla orizzontalmente (a); non viene assorbito se oscilla verticalmente (b).

Viceversa, se un campo oscilla verticalmente, gli elettroni vorrebbero oscillare con esso ma il loro moto è impedito dalla struttura molecolare della lente. Per conseguenza, in questo caso, gli elettroni non assorbono l’energia trasportata dal campo e questo può tranquillamente attraversare la lente (figura 42b). Una lente polarizzata filtra dunque un raggio luminoso, permettendo il passaggio soltanto ai campi che oscillano verticalmente. Beh, e se un campo oscilla un po’ di traverso? La lente lo lascia passare ma attenuato, perché il campo elettrico si trova in uno stato che è una via di mezzo tra quello nel quale l’onda può attraversare la lente e quello nel quale è completamente assorbita. Queste considerazioni ci fanno intanto capire che gli occhiali con lenti polarizzate vanno benissimo come occhiali da sole, perché comunque attenuano l’intensità della luce che li investe, come del resto farebbe un comune paio di occhiali con lenti abbastanza scure. Ma allora, cosa hanno di speciale gli occhiali con lenti polarizzate? La loro maggiore virtù è quella di attenuare moltissimo l’intensità della luce riflessa; per esempio quella riflessa dalla superficie del mare o di un lago. Per capire la questione, cominciamo intanto con il notare che la luce riflessa è comunque meno intensa della luce che arriva direttamente sulla superficie del lago. Questo perché una parte di essa viene rifratta e penetra all’interno dell’acqua. Così, seppure un po’ abbagliati, magari riusciamo a osservare il Sole riflesso sulla superficie di un lago; mentre è assolutamente impossibile osservare il Sole guardandolo direttamente. Ebbene, la luce riflessa, soprattutto quando è vista da una certa angolazione, oscilla orizzontalmente proprio perché proviene dalla superficie orizzontale del lago. Si tratta di luce che, come abbiamo discusso, non passa attraverso gli occhiali con lenti polarizzate. Con questi occhiali, riusciamo dunque a eliminare la luce riflessa; non soltanto a ridurne l’intensità, come invece avremmo ottenuto con normali occhiali da sole. Certamente, le cose non vanno esattamente così, nel senso che c’è sempre luce messa un po’ di traverso che riesce a passare ma l’effetto di assorbimento è comunque soddisfacente. È interessante soffermarsi ancora un poco sul fenomeno della polarizzazione e notare alcune curiosità. Per esempio, se abbiamo due paia di occhiali Polaroid (oppure un solo paio ma con la montatura che si è rotta...) sovrapponiamo una lente all’altra. Se questa è disposta parallelamente alla precedente vedremo che la seconda lente non attenua la luce che è passata dalla prima. Infatti la seconda lente accetta completamente quella che ha attraversato la prima. In altri termini, è inutile

indossare due paia di occhiali Polaroid (uno sopra all’altro) per migliorare il loro rendimento attenuando ulteriormente l’intensità della luce, come invece otterremmo con due paia di occhiali da sole normali: il secondo paio non influenza minimamente l’effetto del primo. Viceversa, poniamo la seconda lente ortogonalmente alla precedente: vedremo tutto nero. Infatti la seconda lente blocca completamente la luce attraversata dalla prima.

Un display a cristalli liquidi Negli orologi a lancette, quando la carica della molla o quella della batteria è esaurita, vediamo l’orologio che indica una cert’ora e magari ci ricordiamo di una famosa battuta: «Nessuno ha sempre torto; anche un orologio fermo ha ragione due volte al giorno»!

Beh, non possiamo dire la stessa cosa se abbiamo un orologio a cristalli liquidi. Infatti, quando la batteria è esaurita, vediamo semplicemente il fondo del quadrante, di colore chiaro, sul quale non si stagliano più i numeri che avrebbero indicato ore e minuti. Questo perché i numeri sono visibili solo per un effetto di polarizzazione della luce. Il fondo del quadrante è infatti un cristallo polarizzato secondo una certa direzione proprio come una lente Polaroid. I numeri sono poi formati dai cristalli liquidi: materiali che, sempre come le lenti Polaroid, sono polarizzati nella stessa direzione che compete al quadrante. In queste condizioni non vediamo nulla, a parte il fondo del quadrante, proprio perché, come abbiamo discusso a proposito di occhiali Polaroid sovrapposti, la luce proveniente dal quadrante non è ostacolata dalla presenza dei numeri. Ma ecco che il circuito elettronico dell’orologio, opportunamente progettato, cambia di volta in volta la polarizzazione dei cristalli che formano i numeri rendendola ortogonale a quella del quadrante. A questo punto, sempre come abbiamo discusso a proposito di occhiali Polaroid sovrapposti, la luce proveniente dal quadrante è completamente bloccata dai numeri che finalmente vediamo: neri. Potete divertirvi a verificare la polarizzazione del fondo del quadrante di un orologio proprio indossando un paio di occhiali Polaroid. Se ruotate l’orologio (o gli occhiali), a un certo punto renderete la polarizzazione del quadrante ortogonale a quella degli occhiali: e allora vedrete tutto nero. A questo proposito vorrei farvi notare una certa «mancanza di rispetto» nei nostri confronti – chiamiamola scherzosamente così – da parte dei costruttori di automobili o, per meglio dire, da parte dei costruttori degli strumenti a cristalli

liquidi che sono sul cruscotto delle auto di oggi. Infatti, l’indicazione di questi strumenti è spesso invisibile. Quando? Proprio quando indossiamo occhiali Polaroid. Evidentemente il costruttore degli strumenti non si è preoccupato troppo del fatto che noi automobilisti utilizziamo spesso occhiali Polaroid e così ha disposto il fondo del quadrante «a casaccio». Ma, così facendo, è magari capitato che la luce polarizzata proveniente dal fondo oscillasse in un piano orizzontale. D’altra parte, abbiamo già visto che gli occhiali Polaroid non fanno passare la luce che oscilla in un piano orizzontale. Risultato: vediamo il quadrante dello strumento tutto nero.

La TV tridimensionale Se non lo avete acquistato ancora (è molto costoso e, per le trasmissioni di oggi, anche abbastanza inutile...), avrete probabilmente visto in funzione un televisore 3D in un negozio di elettronica. I televisori migliori sono quelli per i quali occorre indossare un paio di occhiali «speciali» collegati al televisore. E allora vi descrivo brevemente come vanno le cose per questo tipo di tecnologia. Di fatto, anche se non ce ne accorgiamo, il televisore mostra alternativamente le immagini che provengono da due punti di vista leggermente diversi. Questa alternanza è rapidissima e, se non avete gli occhiali, vedrete sullo schermo due immagini sovrapposte leggermente diverse. Ma se avete indossato gli occhiali collegati al televisore vedrete finalmente le immagini tridimensionali. Perché? Quando il televisore visualizza l’immagine prodotta – diciamo – a sinistra, esso emette un segnale che rende la lente destra completamente oscura, proprio per un fenomeno analogo a quello che avete osservato con le lenti Polaroid sovrapposte ortogonalmente. Il risultato è che vedete soltanto l’immagine sinistra. Dopo una frazione di secondo, il televisore invia l’immagine destra e contemporaneamente invia un segnale che oscura la lente sinistra, con il risultato che vedete solo l’immagine di destra. Voi non vi rendete conto di questa rapida alternanza per il fenomeno di persistenza delle immagini sulla retina. Il risultato è che con l’occhio sinistro continuate a vedere l’immagine di sinistra e con quello destro l’immagine di destra. Siete proprio nella situazione normale, quando osservate un qualsiasi oggetto davanti a voi.

Nell’emisfero australe Se avete tra le mani una bussola, vedete ovviamente che su questo meraviglioso strumento sono indicati i punti cardinali. Se mettete il Nord verso l’avanti vedete l’Est a destra e l’Ovest a Sinistra. Il Sud, infine, punta verso la vostra pancia.

Chi ha avuto la fortuna di fare un viaggio in Australia o in qualche altro Paese dell’emisfero australe, magari portandosi dietro una bussola, avrà notato alcune curiosità. Per esempio, noi che viviamo in Europa siamo abituati a vedere il Sole che, dall’alba al tramonto, va «da sinistra a destra». Certamente: a mezzogiorno, per osservare comodamente il Sole ci volgiamo a Sud e, guardando in quella direzione, abbiamo l’Est alla nostra sinistra e l’Ovest alla nostra destra. Il Sole sorge a Est e tramonta a Ovest, come ben sappiamo, dunque lo vediamo andare appunto da sinistra a destra. Ebbene, in Australia il Sole va da destra a sinistra! Ciò significa che in Australia il Sole sorge a Ovest e tramonta a Est? No. Il Sole va sempre da Est a Ovest; solo che in Australia, se vogliamo comodamente osservare il Sole a mezzogiorno, dobbiamo volgerci a Nord. L’Est si trova alla nostra destra, l’Ovest alla nostra sinistra e così vediamo il Sole andare da destra a sinistra. Ma come! Per vedere il Sole a mezzogiorno in Australia dobbiamo guardare verso Nord e non verso Sud? Eh, sì. Certo, potremmo volgere il nostro sguardo a Sud come facciamo dalle nostre parti, ma poi dovremmo inclinare la nostra testa all’indietro fino a superare la verticale, con grande disagio per le nostre vertebre cervicali! Per questo prima ho usato l’avverbio «comodamente». Anche dalle nostre parti possiamo vedere il Sole a mezzogiorno orientando il viso verso Nord: anche in questo caso dobbiamo però inclinare la nostra testa indietro oltre la verticale. Lasciamo in pace le vertebre cervicali! A proposito di albe e tramonti, vorrei farvi notare un piccolo «inganno» che spesso ci presentano i registi di un film. A volte, in una scena che per esigenze di copione si svolge all’alba, si vede il Sole alzarsi lentamente dall’orizzonte calmo del mare e andare verso sinistra. Ebbene il regista, forse per evitare un’alzataccia, ha girato la scena al tramonto, facendo andare la macchina da presa «a marcia indietro». Così facendo, quando la proiezione è eseguita normalmente cioè «a marcia avanti», il Sole che cala lentamente nel mare si trasforma in un Sole che lentamente si leva sull’orizzonte proprio a rappresentare l’alba. Ma, dalle nostre parti, il Sole va verso destra e dunque, osservando al cinema quella scena, ci accorgiamo che il regista ci ha propinato un bluff, chiamiamolo così. Beh, se il set è proprio in Australia, chiediamo scusa al regista: la scena è autentica, filmata senza trucchi! Un’altra curiosità che possiamo notare nell’emisfero australe è che la Luna appare rovesciata rispetto a come appare dalle nostre parti. La Luna al primo quarto appare, a Sydney, come la Luna all’ultimo quarto a Roma. E allora, per gli australiani, non è più vero che «gobba a levante Luna calante, gobba a ponente Luna crescente»? No. Questo detto popolare è vero anche laggiù perché è vero che la Luna appare rovesciata; ma sono «rovesciati» anche i punti cardinali.

La legge della gravitazione universale La legge fondamentale della dinamica f = ma regola il movimento dei corpi che osserviamo. Quantomeno regola il movimento dei corpi che osserviamo qui, sulla Terra. La verifica di tale legge, in ogni esperimento che per esempio realizziamo in un laboratorio, ci induce a ritenere che essa valga ovunque, nell’Universo. D’altra parte non c’è motivo di pensare che in una certa parte dell’Universo siano valide le leggi della fisica che conosciamo e altrove siano invece valide altre leggi. Così, osservando la Luna, constatiamo che essa gira intorno alla Terra mantenendosi a una distanza media di circa 384.000 Km. Il suo moto è approssimativamente circolare e uniforme; essa dunque descrive una grande circonferenza intorno al nostro pianeta e allora, come sappiamo, il suo moto è caratterizzato da un’accelerazione centripeta a diretta verso il centro della Terra. Se è vero che f=ma, dove m è la massa della Luna, vuol dire che quest’ultima è soggetta all’azione di una forza anch’essa diretta costantemente verso il centro della Terra, originata evidentemente dalla presenza della Terra stessa. Anche il moto dei pianeti è sicuramente non rettilineo e non uniforme poiché, come la Luna descrive un’orbita intorno alla Terra, altrettanto i pianeti descrivono orbite intorno al Sole. È dunque spontaneo pensare che i pianeti siano soggetti a forze, dovute alla presenza del Sole, che hanno la stessa natura di quella che lega la Luna alla Terra. Peraltro, anche oggetti lontanissimi, come le galassie, presentano in molti casi un aspetto che quantomeno ci suggerisce una specie di moto vorticoso, naturalmente su una scala di tempi dell’ordine dei milioni o dei miliardi di anni (figura 43).

Figura 43. La galassia M-101, nella costellazione dell’Orsa Maggiore, dista da noi 21 milioni di anni-luce (Image: European Space Agency & NASA).

L’universo ci appare dunque permeato di forze che agiscono su tutti i corpi in esso presenti. Ebbene, queste forze sono le forze gravitazionali che sono descritte da una delle più importanti leggi della fisica e cioè dalla Legge della Gravitazione Universale, formulata circa tre secoli fa da Isaac Newton. Precisamente, tale legge mostra che tra due corpi qualsiasi si manifesta una forza di attrazione reciproca che è direttamente proporzionale al prodotto della masse dei due corpi in questione e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Quanto abbiamo detto a parole può essere molto facilmente espresso in termini matematici. Scriviamo così: (26) f = G(Mm/r2) in questa formula f è l’intensità della forza di attrazione; M e m sono le masse dei due corpi rispettivamente; r è la distanza che li separa; infine G è una costante universale attraverso la quale otteniamo l’intensità della forza una volta fissati i valori delle masse dei corpi e quello della distanza che li separa. Sì, G è una costante universale; proprio come la velocità della luce, alla quale la Natura ha deciso di attribuire l’enorme valore di 300.000 Km/s. Per la costante G, la Natura ha invece deciso per un valore molto, molto piccolo. Se stabiliamo di misurare le distanze in metri, le masse in chilogrammi e gli intervalli di tempo in secondi, il valore di G è il seguente: (27) -11 G = 6,7 10

Con questa scrittura evitiamo di scrivere una lunga sequenza di zeri. Infatti essa sta a indicare che il valore di G è: (28) G = 0,000000000067 cioè 67 preceduto da undici zeri (compreso quello prima della virgola). Dal minuscolo valore di G segue che la forza di attrazione tra due corpi di massa piccola, come per esempio quella di due soprammobili che abbiamo in casa posati su uno scaffale, è di piccolissima entità, assolutamente irrilevante: diciamo pure «inesistente». Diverso è il caso nel quale almeno una delle due masse è molto grande. È quello che si verifica nell’attrazione di un sasso da parte della Terra. La massa m del sasso è piccola, d’accordo; ma va moltiplicata per l’enorme massa M del nostro pianeta per avere in pratica, con l’utilizzo della (26), il peso del sasso cioè la forza con la quale il sasso è attratto verso il centro della Terra. Fatte queste considerazioni, è ora molto semplice verificare che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione. Infatti, supponiamo che le quantità M e m che compaiono nella (26) rappresentino rispettivamente la massa della Terra e la massa di un qualsiasi oggetto; e ricordiamo l’equazione fondamentale della dinamica kf=mal riferita al moto dell’oggetto di massa m. Sostituendo a f l’espressione (26), abbiamo che per tale oggetto si ha: (29) 2 G(Mm/r ) = ma cioè: (30) a = G(M/r2) Vediamo allora che il valore dell’accelerazione a dipende esclusivamente da G, dalla massa della Terra e dalla distanza r che l’oggetto ha dal centro della Terra. Qualsiasi dipendenza dalla massa e da qualsiasi altra caratteristica dell’oggetto è scomparsa. Per ricordare che stiamo trattando dell’accelerazione dovuta alla forza di gravità, al posto del simbolo generico a si scrive di solito, come abbiamo già visto, il simbolo g.

Le leggi di Keplero Fra i moti che si svolgono nell’Universo, quelli degli oggetti più vicini alla Terra (Luna e pianeti) sono più facilmente rilevabili e dunque si prestano meglio a osservazioni accurate. In particolare, le caratteristiche essenziali del moto dei pianeti intorno al Sole sono contenute in tre celebri leggi, formulate dal matematico tedesco Johannes Kepler (1571-1630), spesso ricordato con il nome italianizzato di Giovanni Keplero.

• Prima legge: Le orbite descritte dai pianeti sono ellissi, delle quali il Sole occupa uno dei fuochi. Cos’è un’ellisse? È una curva chiusa che si disegna nel modo seguente. Si fissano due punti F1 e F2 su un foglio di carta, per esempio con due puntine da disegno, e si mette un anello di spago (inestensibile) intorno alle due puntine (figura 44).

Figura 44. Ci prepariamo a disegnare un’ellisse.

Si fa poi scorrere la punta di una matita, avendo cura di mantenere lo spago sempre teso. La curva risultante è, per definizione, un’ellisse (figura 45).

Figura 45. Facendo scorrere una matita, tenendo il filo in tensione, otteniamo un’ellisse.

I due punti occupati dalle puntine da disegno vengono chiamati fuochi dell’ellisse. Poiché lo spago è inestensibile e la distanza F1F2 non cambia mentre facciamo scorrere la matita, risulta che la somma delle lunghezze dei tratti F1E e F2E si mantiene costante (e pari, quindi, alla lunghezza dell’anello di spago meno la distanza F1F2). Possiamo allora stabilire questa definizione: Un’ellisse è l’insieme dei punti tali che la somma delle distanze da due punti fissi (detti fuochi) si mantiene a un certo valore costante. La retta passante per i due fuochi interseca l’ellisse nei due punti A e A’. Il segmento AA’ viene chiamato asse maggiore dell’ellisse. L’ asse minore, BB’, è il segmento determinato dalla perpendicolare all’asse maggiore, passante per il

punto medio C che è chiamato centro dell’ellisse. I segmenti CA e CB vengono chiamati semiassi (maggiore e minore) dell’ellisse (figura 46).

Figura 46. Un’ellisse con l’indicazione degli assi e dei punti notevoli che la riguardano.

La prima legge di Keplero afferma dunque che le orbite dei pianeti sono ellissi. Sì, tuttavia si tratta di ellissi molto poco eccentriche. Questo significa che, diversamente dall’ellisse che abbiamo disegnato in figura 45, la distanza tra i due fuochi, cioè quella tra le due puntine da disegno, è piccola rispetto alla lunghezza dell’anello di spago e l’ellisse che risulta è poco differente da una circonferenza (otterremmo una circonferenza facendo proprio coincidere i due fuochi). Le orbite dei pianeti hanno dunque un aspetto come quello di figura 47.

Figura 47. L’orbita di un pianeta intorno al Sole è un’ellisse poco eccentrica e dunque differisce poco da una circonferenza.

S (il Sole) ha una posizione coincidente con uno dei due fuochi (l’altro fuoco F2 non è occupato da alcun corpo e non è fisicamente rilevante). Quando il pianeta si trova in P esso è alla minima distanza dal Sole, detta perielio. In A è alla massima distanza, detta afelio. • Seconda legge (conosciuta anche come legge delle aree): Le aree descritte dal segmento ideale che unisce un pianeta al Sole sono proporzionali ai tempi impiegati a descriverle. Un disegno aiuta a comprendere cosa vuol dire questa legge (figura 48).

Figura 48. Illustrazione della seconda legge di Keplero.

Se un pianeta impiega, diciamo, due mesi per andare da M a M’, impiega ugualmente due mesi per andare da N a N’ perché le aree dei due triangoli curvilinei MSM’ e NSN’ sono uguali. Ciò implica che, come si nota dalla figura precedente, un pianeta in prossimità del perielio ha una velocità maggiore di quando si trova in prossimità dell’afelio. • Terza legge: Il rapporto tra il quadrato del periodo di rivoluzione e il cubo del semiasse maggiore dell’orbita è lo stesso per tutti i pianeti. Poiché le orbite dei pianeti sono poco eccentriche, nell’enunciato di quest’ultima legge possiamo sostituire «semiasse maggiore» con «distanza media dal Sole» senza commettere un errore apprezzabile. Indichiamo con T il periodo di rivoluzione di un pianeta e con r la sua distanza media dal Sole. La terza legge di Keplero afferma dunque che il

rapporto (31) T2/r3 è lo stesso per tutti i pianeti. C’è da dire che Keplero non aveva alcuna spiegazione per la validità delle leggi da lui formulate, che pure erano confermate con grande precisione dalle osservazioni astronomiche. Soltanto dopo la formulazione della legge della gravitazione universale si è avuta la spiegazione. Infatti si può verificare che tutte e tre le leggi di Keplero sono rispettate se e solo se i pianeti vengono attratti dal Sole con le modalità espresse dalla (26). Tale verifica non è semplice. Tuttavia vorrei farvi vedere come la terza legge di Keplero, che sembra la più «complicata», sia di fatto dimostrabile molto facilmente. Intanto vediamo una semplice applicazione di questa legge che ci consente di risolvere senza difficoltà il seguente problema. Sappiamo che la Terra impiega un anno a fare una rivoluzione completa intorno al Sole mantenendosi a una distanza media di circa 150 milioni di chilometri. Sappiamo anche che Giove, il più grande dei pianeti del Sistema Solare, dista in media dal Sole circa 780 milioni di chilometri. Da questi dati possiamo dire quanto tempo impiega Giove a compiere un giro intorno al Sole? Sì, poiché i rapporti (32)

devono essere uguali. E allora segue questa semplice proporzione: (33)

dalla quale ricaviamo: (34) TGiove 11,8 anni E ora passiamo alla dimostrazione della terza legge di Keplero. Con che forza f un pianeta è attratto dal Sole? Se indichiamo con M la massa del Sole e con m la massa di un determinato pianeta sappiamo che: (35) 2 f = G(Mm/r ) D’altra parte, poiché il pianeta descrive un’orbita approssimativamente circolare, esso possiede un’accelerazione centripeta

(36) 2

a = v /r dove v è la velocità con la quale il pianeta gira intorno al Sole e r la sua distanza dal Sole. Sostituendo le uguaglianze precedenti nell’equazione f = ma abbiamo che per il pianeta di massa m vale dunque: (37) 2 2 G(Mm/r ) = m(v /r) Possiamo semplificare questa espressione, eliminando il fattore comune m e moltiplicando i due membri dell’uguaglianza per r2 ottenendo quindi: (38) 2 GM = v r Da quest’ultima uguaglianza constatiamo che il prodotto v2r è lo stesso qualsiasi pianeta si consideri, poiché esso è comunque uguale al prodotto GM che dipende unicamente dal valore della costante universale G e dalla massa M del Sole. Qualsiasi dipendenza dalle caratteristiche del pianeta non compare assolutamente. A questo punto facciamo un semplice calcolo: che velocità v possiede un pianeta nella sua rivoluzione intorno al Sole? Evidentemente essa è pari alla lunghezza totale dell’orbita, cioè 2πr, diviso il periodo di rivoluzione T che è il tempo impiegato a percorrerla: (39) v = 2πr/T Sostituendo nella (38) abbiamo: (40) GM/4π2 = r3/T2 cioè proprio la terza legge di Keplero. Infatti il rapporto r3/T2 è lo stesso per tutti i pianeti in quanto al primo membro della (40) compaiono ancora quantità assolutamente indipendenti da quale pianeta abbiamo considerato.

Il moto di un ubriaco Abbiamo parlato del moto di un’automobile, di un aeroplano e anche del moto di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole; movimenti che si svolgono con regolarità al trascorrere del tempo. Tuttavia, ci capita di osservare intorno a noi moti che invece non presentano alcuna regolarità. Per esempio, il movimento di un ubriaco! Sto scherzando? In apparenza sembrerebbe così ma di fatto l’argomento è molto serio, come vedremo un poco più avanti. Immaginiamo allora di notare un signore (con un fiasco in mano...) abbastanza brillo e inizialmente fermo, appoggiato a un lampione di via del Corso, a Roma. Poi quel tale inizia a camminare, con passi molto incerti, lungo il marciapiede. Qualche volta fa un passo avanti, verso Piazza Venezia, e qualche

volta un passo indietro, verso Piazza del Popolo. Non ci meravigliamo: è proprio ubriaco! Tanto per fare «cifra tonda», immaginiamo che ciascun passo misuri un metro e che lui nel cinquanta per cento dei casi faccia un passo avanti e nel cinquanta per cento un passo indietro. Proprio come se ogni volta lanciasse una monetina: se viene «testa» fa un passo avanti; se viene «croce» fa un passo indietro. Trascorso un po’ di tempo, dove ci aspetteremmo di trovarlo? Forse saremmo tentati di rispondere che lo troveremo sempre vicino al lampione poiché con uguale probabilità ha fatto tanto un passo avanti quanto uno indietro; quindi, in pratica è rimasto su per giù dove si trovava inizialmente. Invece non è così e ce ne possiamo accorgere con il seguente ragionamento. Supponiamo di attendere che quel signore abbia fatto cento passi. Affinché egli si trovi al punto di partenza deve avere compiuto cinquanta passi avanti e cinquanta passi indietro; non c’è altra possibilità. Ma in tutti gli altri casi lo troveremo anche a notevole distanza dal lampione. Se per esempio ha compiuto 60 passi avanti e 40 indietro, egli si troverà a una distanza d uguale a 60- 40=20 metri dal lampione, verso Piazza Venezia. Così pure, se ha fatto 58 passi indietro e 42 avanti egli si troverà a una distanza d uguale a 58-42=16 metri dal lampione, stavolta verso Piazza del Popolo. Al limite, se per caso ha fatto cento passi tutti in avanti (non possiamo escludere questa possibilità) lo troveremo a cento metri dal lampione verso Piazza Venezia. Questo ci fa capire che è piuttosto improbabile trovarlo, dopo cento passi, proprio accanto al lampione. Il giorno dopo, alla stessa ora, ritroviamo ancora quel signore. È ubriaco come la sera precedente e se ne sta appoggiato allo stesso lampione. Dove andrà? Anche stavolta attendiamo che abbia compiuto un certo numero di passi e, di nuovo, sarà molto probabile che lo troveremo a una certa distanza dal lampione, in un senso o nell’altro. Se questa scena si ripete tutte le sere, potremmo essere curiosi e chiederci a che distanza d lo troviamo, in media, dopo che egli ha compiuto un certo numero n di passi. Indichiamo questo valore medio con d(n). Non ci interessa sapere se quel signore si trova verso Piazza Venezia o verso Piazza del Popolo: ci interessa sapere solo la sua distanza media dal lampione. Ebbene, il calcolo di questa distanza media non è molto complicato tuttavia richiede un po’ di matematica. Il lettore che non ha voglia di cimentarsi nelle considerazioni che seguiranno (tuttavia molto semplici) può tranquillamente omettere il resto del capitolo. Gli basti sapere la conclusione: se i passi dell’ubriaco misurano sempre un metro, lo troveremo a una distanza (in metri) uguale alla radice quadrata del numero dei passi compiuti. Per esempio, se ogni volta aspettiamo che quel signore abbia compiuto cento passi, lo troveremo in media a dieci metri dal lampione; se aspettiamo che ne abbia compiuti quattrocento, egli si troverà in media a venti metri dal lampione, e così via.

Passiamo ora a calcolare questo valore medio e a tale scopo, piuttosto che cercare di valutarlo direttamente, calcoliamo il valore medio del quadrato della distanza percorsa. Una volta trovato questo numero basterà calcolarne la sua radice quadrata per avere la risposta. E allora, a un passo avanti di un metro attribuiamo un cambiamento di distanza d pari a +1 e a un passo indietro, che è sempre di un metro, il valore –1. Supponiamo dunque che dopo n passi si trovi in media a una distanza dal lampione che abbiamo indicato brevemente con d(n) e che ancora non conosciamo. Sì, non conosciamo ancora questa distanza media; tuttavia possiamo essere sicuri che al passo successivo (cioè dopo n+1 passi) si troverà con uguale probabilità alla distanza media: d(n + 1)avanti = d(n) + 1 metro oppure: d(n + 1)indietro = d(n) – 1 metro a seconda che abbia fatto un passo avanti o uno indietro. Per il quadrato di tale distanza media avremo dunque, con uguale probabilità d2avanti(n + 1) = [d(n) + metro]2 = d2(n) + 2d(n) + 1 oppure: d2indietro(n + 1) = [d(n) – metro]2 = d2(n) – 2d(n) + 1 In media avremo allora: (41)

Vediamo allora cosa ci dice le formula precedente ponendo n = 1: (42) 2

2

d (2) = d (1) + 1 Ebbene, abbiamo che d (1) = 1, poiché dopo il primo passo quel signore si trova sicuramente a +1 metro oppure –1 metro dal lampione. Dunque il quadrato della sua distanza dal lampione è in ogni caso uguale a 1. Quindi, dall’espressione precedente, otteniamo: (43) d2(2) = 1 + 1 = 2 E dopo tre passi? Utilizziamo di nuovo la (41) ponendo n=2 e utilizzando il risultato che abbiamo appena ottenuto per d2(2): (44) 2 2 d (3) = d (2) + 1 = 2 + 1 = 3 E dopo quattro passi? Evidentemente: 2

(45) 2

2

d (4) = d (3) + 1 = 3 + 1 = 4 e così via. A questo punto è facile rendersi conto che dopo n passi si ha: (46) 2

d (n) = n dunque: (47) d(n) = √ n come volevamo dimostrare.

Il moto browniano Ubriachi a parte, il ragionamento che abbiamo fatto ci aiuta a comprendere il meccanismo del moto browniano. Il nome deriva da quello del botanico scozzese Robert Brown (1773-1858) che nel 1827, esaminando al microscopio piccole particelle di polline contenute in una goccia d’acqua, osservò che esse, indipendentemente le une dalle altre, erano animate da un incessante movimento a «zigzag». Questo movimento costituisce di fatto la prova dell’esistenza del moto molecolare: le particelle di polline sono infatti abbastanza grandi da essere visibili al microscopio ma sono abbastanza piccole da essere mantenute in movimento e continuamente deviate qua e là dagli urti che ricevono da parte delle invisibili molecole d’acqua che le circondano in continuo movimento. Possiamo avere una verifica dell’esistenza del moto browniano se facciamo cadere una goccia di inchiostro in un bicchiere pieno d’acqua: notiamo che la colorazione dell’acqua diffonde lentamente fino a che si ottiene una colorazione uniforme in tutto il bicchiere. Le molecole di inchiostro sono infatti spinte in modo del tutto casuale dalle molecole d’acqua finché occupano uniformemente tutto il volume che hanno a disposizione. Tuttavia, a una analisi superficiale, è sorprendente che avvenga una tale diffusione. Infatti, proprio perché le molecole di inchiostro sono urtate in modo del tutto casuale, ci potremmo aspettare che ciascuna molecola rimanesse praticamente ferma, più o meno laddove è caduta la goccia. Certamente: una volta è spinta in là; un’altra volta in qua. In media dovrebbe rimanere dove si trovava inizialmente proprio come ci saremmo aspettati per la posizione di quel signore ubriaco. Invece, come abbiamo visto, le distanze crescono all’aumentare dei passi e altrettanto le molecole di inchiostro si trovano sempre più distanti dalla loro posizione originaria quanti più urti ricevono dalle molecole circostanti.

Due problemi di calcolo delle probabilità Abbiamo parlato di probabilità e allora vi propongo un paio di semplici problemi che però trovo molto interessanti. Il primo problema è questo. Abbiamo due fogli di cartoncino di uguali dimensioni. Uno ha entrambe le facce colorate di rosso e l’altro ha una faccia rossa e una bianca. Un vostro amico sceglie a caso uno dei due cartoncini e, senza guardarlo, lo pone sul tavolo. Se il cartoncino mostra una faccia bianca siamo sicuri che la faccia nascosta è rossa; ma se mostra una faccia rossa qual è la probabilità che la faccia nascosta sia bianca? Saremmo tentati di rispondere che la probabilità è 1/2 cioè il cinquanta per cento perché c’è poco da dire: l’altra faccia è bianca oppure rossa. Invece questa risposta è sbagliata. Vi lascio pensare un po’ e poi vedremo la risposta giusta. Il secondo problema è altrettanto interessante e, quando mi capita di parlarne magari in un salotto con amici, suscita – credetemi – molta perplessità. In uno studio televisivo ci sono tre porte chiuse, diciamo pure le porte 1, 2 e 3. Dietro una di esse c’è una fiammante automobile nuova. Un concorrente deve indicare dietro quale porta, secondo lui, si trova l’auto. Se indovina, vince l’auto. Supponiamo che indichi la porta numero 1. A questo punto il presentatore del programma, che sa dove si trova l’auto, apre una porta che non nasconde l’auto, per esempio la porta numero 3, e dice: «Caro signore, lei è sulla buona strada! Vede? Dietro la porta 3 l’auto non c’è! Quindi si trova dietro la 1, che lei ha indicato, oppure dietro la 2. A questo punto le offro una possibilità: conferma la scelta della porta 1 oppure preferisce optare per la 2»? Il concorrente ci pensa un po’ e poi sceglie. Secondo voi, fa meglio a confermare la scelta 1 oppure a scegliere la 2? Oppure è indifferente l’una o l’altra scelta?

Il fonografo Sapete qual è la più grande invenzione nella storia dell’umanità? Beh, non voglio certamente ergermi a giudice per stabilire qual è l’invenzione più importante. Piuttosto vorrei indicarvi quella che mi emoziona di più, o meglio, mi correggo, quella che nella mia fantasia penso abbia fornito la più grande emozione al relativo inventore: il fonografo, dovuto al grande ingegno di Thomas Alva Edison. Questo signore, primo nella storia dell’umanità, ha potuto ascoltare la sua voce! Certo, quando parliamo sentiamo la nostra voce, non c’è dubbio. Ma non è la stessa sensazione che riceve un’altra persona quando ci ascolta.

Ce ne possiamo rendere conto proprio ascoltando la nostra voce registrata su un nastro, magari mentre scherziamo durante una festa tra amici. Ci sembra che la voce non sia la nostra: «Ma no, non sono io; io non parlo così!» – avrete esclamato riconoscendo poi che le parole pronunciate erano proprio le vostre. E così penso alla sublime emozione di Edison. Francamente non credo che sia paragonabile all’emozione dei primi fotografi che hanno visto la loro immagine fissata per sempre su una lastra.

Allo specchio Prima dell’invenzione della fotografia il nostro viso era comunque immortalato, magari da un ritratto a olio, e poi di fatto siamo abituati fin da bambini a vedere la nostra immagine riflessa in uno specchio. Allo specchio vediamo quello che vedono anche gli altri, seppure con la destra e la sinistra scambiate. Tuttavia ci sarà forse capitato di trovarci in una sala con le pareti letteralmente ricoperte di specchi: per esempio in una palestra. Ebbene, se guardiamo nella direzione dove si incontrano due specchi posti su due pareti contigue (perpendicolari), vedremo il nostro viso come lo vedono gli altri, cioè come è veramente: non con la destra e la sinistra scambiate. E magari saremo sorpresi nel constatare che il nostro aspetto non coincide con quello che vediamo quando ci facciamo la barba! Per capire come vanno le cose, è bene intanto rivedere quello che già dovremmo sapere a proposito del fenomeno della riflessione. Su uno specchio i raggi luminosi rimbalzano come palle da biliardo e, per ogni raggio, l’angolo di riflessione’ è uguale all’angolo di incidenza, come è illustrato in figura 49.

Figura 49. Riflessione su uno specchio.

Per questo motivo, un oggetto o una sorgente luminosa S ci appaiono come se si trovassero esattamente dalla parte opposta dello specchio. I raggi luminosi arrivano al nostro occhio come se fossero partiti da S’ che, a tutti gli effetti, appare come immagine di S. Supponiamo ora che S e D siano rispettivamente il vostro occhio sinistro e il vostro occhio destro. E immaginiamo anche che voi abbiate un piccolo neo N vicino all’occhio sinistro. Cosa vedete allo specchio? Vi sembra che abbiate il neo vicino all’occhio destro, come è schematicamente rappresentato nella figura 50.

Figura 50. Allo specchio, il nostro volto (come d’altra parte qualsiasi altro oggetto) appare con destra e sinistra scambiate.

A questo punto, supponiamo che ci sia un altro specchio, ortogonale al precedente, come è illustrato in figura 51.

Figura 51. Riflessione su due specchi.

Certamente anche il secondo specchio ci fornirà un’altra immagine S” dell’oggetto S, ma in presenza dei due specchi si forma anche una terza immagine S”’ dovuta al fatto che i raggi provenienti da S possono subire una riflessione da parte di entrambi gli specchi, come è illustrato in figura 52.

Figura 52. Con due specchi si forma una terza immagine di S.

Esaminando la figura precedente, facendo qualche semplice considerazione geometrica, ci si può rendere conto che l’immagine S”’ si forma proprio dalla parte opposta a S lungo la linea che passa per il punto P di incontro dei due specchi, come è illustrato in figura 53.

Figura 53. L’immagine che si forma con due riflessioni.

Se vi mettete in un punto S, e guardate proprio dove i due specchi si incontrano, vedrete allora la vostra immagine fornita da due riflessioni. La prima riflessione scambia la destra con la sinistra, la seconda scambia di nuovo la destra con la sinistra e quindi tornate alla situazione «normale». Insomma, il risultato è che le due riflessioni vi forniranno l’immagine fedele alla realtà, come è illustrato nella figura 54: stavolta vedrete che il neo è veramente vicino all’occhio sinistro.

Figura 54. Stavolta l’immagine è fedele alla realtà.

Soluzione dei problemi di calcolo delle probabilità Come prima cosa, vediamo intanto cosa si intende per probabilità; poi passeremo ai problemi che vi ho proposto. La probabilità di un evento è definita come il rapporto tra il numero dei casi favorevoli al verificarsi dell’evento stesso e il numero dei casi possibili che si possono presentare. Così, per esempio, la probabilità di ottenere un «cinque» lanciando un dado è 1/6. Infatti c’è un unico caso favorevole (quello che esca appunto un «cinque») su sei casi possibili. Per meglio chiarire la questione, vediamo un problema appena un poco più complicato. Lanciando due dadi, qual è la probabilità di ottenere un «dieci»? Gli eventi favorevoli sono in tutto tre: il primo dado mostra il 4 e il secondo il 6 il primo dado mostra il 5 e il secondo il 5 il primo dado mostra il 6 e il secondo il 4 I casi possibili sono evidentemente trentasei, poiché a ognuna delle sei possibilità di uscita di uno dei dadi ce ne sono altrettante per l’altro. In tutto 6× 6 = 36. Quindi la probabilità di ottenere un «dieci» è 3/36 = 1/12. Veniamo allora al primo problema proposto. L’evento «favorevole» è che la

faccia nascosta sia quella bianca; quindi c’è una sola eventualità. Ma quanti sono i casi possibili? Se sul tavolo osserviamo una faccia rossa ci sono tre possibilità. Una è quella nella quale il nostro amico ha casualmente preso il cartoncino con i due colori; e che la faccia nascosta sia dunque quella bianca. Ma poi ci sono altre due possibilità: precisamente, che il nostro amico abbia preso il cartoncino con entrambe le facce rosse. Eh, sì; sono due possibilità e non una sola. Infatti egli può avere posto il cartoncino nei due modi possibili per i quali si presenta ovviamente il lato rosso. In tutto ci sono dunque tre casi possibili su uno soltanto, a noi favorevole. La probabilità che la faccia coperta sia bianca è dunque 1/3 e non 1/2. Veniamo ora al secondo problema. Forse saremmo tentati di dire che la scelta è indifferente e possiamo lasciar fare alla dea bendata. Ma non è così. È preferibile che il concorrente cambi la sua scelta e indichi la porta 2 invece della 1 che aveva scelto inizialmente. Infatti la probabilità di vincere che egli aveva inizialmente era certamente 1/3 e ovviamente la probabilità di perdere era i restanti 2/3. Se permane nella sua scelta, ignorando dunque la proposta del presentatore, la probabilità di vincere rimane 1/3, senza dubbio. Ma se il concorrente cambia la sua indicazione, si trova ora davanti a due possibilità su tre poiché la porta 3 è stata esclusa. Dunque stavolta ha 2/3 di probabilità di vincita: esattamente il doppio della precedente. Forse la spiegazione è ancora più chiara se ragioniamo così: c’è una probabilità 1/3 che l’auto si trovi proprio dietro la porta 1 e dunque una probabilità 2/3 che l’auto si trovi dietro la porta 2 oppure dietro la porta 3. Ma il presentatore ha mostrato che la porta 3 è vuota, quindi la probabilità di 2/3 è proprio quella che l’auto si trovi dietro la porta 2. Non siete ancora convinti? Per chiarire la cosa aiutiamoci con il buon senso in una situazione analoga. Supponiamo che non ci siano tre sole porte ma ce ne siano cento. Voi scegliete di nuovo la porta 1: avete una probabilità su cento di vincere, senz’altro. Ma ora il presentatore apre tutte le porte che lui sa essere vuote. Sì, le apre tutte lasciando però chiusa la numero 37. Ma guarda un po’... Ve la sentireste di scommettere che la porta «buona» è ancora la numero 1? Certo, la porta giusta potrebbe essere la numero 1; ma non vi sembra molto più probabile che sia invece proprio la 37 che il presentatore è stato «costretto» a lasciare chiusa? Se sceglierete la porta numero 37 avrete novantanove probabilità su cento di vincita.

Gli errori sperimentali È interessante discutere la distinzione che va fatta quando pensiamo ai

numeri in senso astratto, come si fa in matematica, oppure quando essi esprimono la valutazione numerica di grandezze fisiche. Facciamo un esempio: In matematica possiamo scrivere un numero, indifferentemente, così: 2,4 oppure 2,4000 Il numero è sempre lo stesso! Certamente, anche facendo un calcolo di fisica possiamo aggiungere quanti zeri vogliamo a un numero decimale. Tuttavia, in fisica, i due modi di scrivere devono essere interpretati in modo differente. Supponiamo infatti che con essi vogliamo indicare la misura, in metri, della lunghezza di un tavolo. Scrivendo 2,4 metri intendiamo che abbiamo misurato la lunghezza e ci siamo limitati alla valutazione dei decimetri. Scrivendo 2,4000 metri, significa che ci siamo spinti in valutazioni molto accurate e abbiamo trovato che la lunghezza è di due metri, quattro decimetri e poi zero centimetri, zero millimetri e zero decimi di millimetro. Certamente, di fatto non ci interessa conoscere la lunghezza di un tavolo con tanta precisione ma, concettualmente, è chiara la differenza? Per questo motivo, quando si scrive un numero che rappresenta la valutazione numerica di una grandezza fisica, ha senso scrivere solo le cifre significative, cioè le cifre che rispecchiano realmente la precisione raggiunta nella misura. Osserviamo poi che in matematica, date due quantità, si può stabilire con certezza una di queste tre circostanze: la prima quantità è maggiore della seconda; per esempio, 5 è maggiore di 4. Oppure, la prima quantità è uguale alla seconda: per esempio, la radice quadrata di 81 è 9. Oppure, la prima quantità è minore della seconda: per esempioπ è minore di 4. In fisica, invece, la questione si presenta in termini differenti che meritano la seguente discussione. Supponiamo che A sia, per esempio, l’altezza rispetto al suolo di un oggetto che si trova in cima alla torre di Pisa; e B quella di un oggetto che teniamo noi in mano. Possiamo essere sicuri che, se noi stiamo in piedi sull’erba della Piazza dei Miracoli, è vera la seguente disuguaglianza: A maggiore B Viceversa, se siamo a bordo di un elicottero che sorvola la torre si ha sicuramente: A minore B D’altra parte, se abbiamo raggiunto per le scale proprio la cima della torre, possiamo dire che A è uguale a B? Prima di rispondere facciamo queste considerazioni. Confrontando le misure di una qualsiasi grandezza fisica, come la quota alla quale si trova un certo oggetto, possiamo trovare: A maggiore di B oppure A minore di B

Ma che senso avrebbe contemplare la possibilità di avere A=B? A rigore, nessuno! Significherebbe infatti affermare che abbiamo misurato A e B fino alla centesima, alla millesima cifra decimale e così via fino all’infinito, trovando per A e B esattamente lo stesso numero. Un compito che è ovviamente impossibile portare a termine. Possiamo tuttavia dare un significato all’uguaglianza A=B. Precisamente, affermare che due grandezze fisiche A e B sono uguali va inteso nel modo seguente: il valore di A rientra nel margine di imprecisione della misura di B e viceversa. Ovvero, possiamo dire che in fisica due grandezze sono uguali quando... non siamo in grado di stabilire quale delle due è maggiore dell’altra. Le considerazioni precedenti ci aiutano a capire quello che forse, tutto sommato, già ci aspettiamo e cioè che non è possibile conoscere esattamente il valore numerico di una certa grandezza fisica. Piuttosto, ogni misurazione è sempre accompagnata da quello che viene chiamato un errore sperimentale . Questo non significa uno «sbaglio», nel senso comune della parola; significa che c’è sempre un margine di incertezza nella valutazione numerica di una grandezza fisica. Questa circostanza deve essere sempre tenuta presente in tutti gli esperimenti, da quelli che possiamo eseguire magari in casa a quelli che vengono condotti nei grandi laboratori di ricerca. Da cosa sono originati questi margini di incertezza? Come prima considerazione, dobbiamo tenere conto della sensibilità degli strumenti che utilizziamo per le misure e cioè delle minime differenze che possono essere apprezzate dalla lettura degli strumenti stessi. Per esempio, una riga da disegno ha una suddivisione che arriva ai millimetri e cioè la sua sensibilità è 1 mm. Per conseguenza, quando misuriamo la lunghezza di un bastoncino possiamo trovare – tanto per fare un esempio – 34,7 cm; ma che dire dei decimi o dei centesimi di millimetro? Evidentemente non ha proprio senso pensare a una loro precisa valutazione numerica anche se a occhio ci sembra che il bastoncino sia lungo magari un altro mezzo millimetro. E così diciamo che la misura della lunghezza è comunque affetta dall’errore di sensibilità della riga. Ma vediamo un’altra importante fonte di errori di misura che si ha pur rimanendo nell’ambito della sensibilità degli strumenti utilizzati. Ci accorgiamo infatti che una misura è generalmente affetta da quelli che vengono chiamati errori casuali. A questo proposito, supponiamo di voler misurare, con la nostra riga da disegno, l’altezza h alla quale si trova un certo oggetto sospeso a qualche metro dal pavimento. Per eseguire questa misura possiamo prendere un filo a piombo e sospenderlo all’altezza dell’oggetto in questione facendo in modo che la punta

tocchi il suolo. Segniamo sul filo il punto di sospensione, poi misuriamo la lunghezza del filo a piombo, tenendolo bene teso su un tavolo. Riportando la riga lungo il filo, supponiamo di ottenere come risultato della nostra misura: h = 3,412 m Giustamente, scrivendo il risultato della misura siamo arrivati all’indicazione dei millimetri, che è quanto di meglio ci consente l’uso della riga. Immaginiamo poi di eseguire nuovamente la misura dell’altezza di quell’oggetto, ripetendo tutte le operazioni che abbiamo eseguito in precedenza. Riprendiamo cioè il filo a piombo, lo sospendiamo, e così via. Ebbene, quasi sicuramente ci capiterà di trovare un risultato diverso. Per esempio: h = 3,416 m e, ripetendo ancora molte volte la stessa misura, troveremo per esempio: h = 3,410; 3,413; 3,412; 3,414; … Non dobbiamo sorprenderci nell’aver trovato ogni volta valori che possono essere diversi tra loro. Infatti, se riconsideriamo tutte le operazioni che dobbiamo fare per ottenere il numero che esprime l’altezza del nostro oggetto dal suolo, ci accorgiamo che ogni volta intervengono fattori imponderabili, cioè dei quali non riusciamo a tenere conto, che dunque alterano a caso il risultato della misura. Sono proprio questi fattori a introdurre quelli che chiamiamo appunto errori casuali. Per esempio, quando tendiamo il filo sul tavolo, a volte lo facciamo un po’ più o un po’ meno della volta precedente oppure di quanto non lo faccia il peso del filo a piombo quando questo è sospeso. Qualsiasi filo, di qualsiasi materiale sia fatto, presenta sempre una certa elasticità e dunque è soggetto a variazioni di lunghezza a seconda di quanto viene teso. Per conseguenza la nostra misura risulta ogni volta diversamente influenzata dall’entità di questa tensione. Così pure, per misurare la lunghezza del filo dobbiamo riportare più volte la riga da disegno, che è lunga un metro o magari soltanto cinquanta o sessanta centimetri; e la misura risulta influenzata dalle inevitabili imprecisioni di questa operazione. Se ci accontentiamo di sapere l’altezza dal suolo in modo grossolano, magari tutti questi fattori imponderabili non sono importanti, ma lo diventano se ci spingiamo a valutazioni dell’ordine dei millimetri. A questo punto, se per esempio in tutte le misurazioni non abbiamo trovato una lunghezza inferiore a: h = 3,407 m e superiore a: h = 3,419 m tutto quello che possiamo dire è che la lunghezza del filo (e quindi l’altezza dal suolo che volevamo misurare) è molto probabilmente compresa tra questi due valori. Non possiamo dire di più. Insomma, nella valutazione dell’altezza dal suolo, come per qualsiasi altra grandezza fisica, dobbiamo in ogni caso accontentarci di un valore approssimativo accompagnato da un’incertezza più o meno rilevante.

Naturalmente è importante notare che possiamo raffinare le nostre misurazioni con strumenti sempre più sofisticati (certamente nel caso che abbiamo esaminato non possiamo accontentarci di utilizzare un filo a piombo e una semplice riga da disegno). Potremo così restringere i margini degli errori sperimentali fino ai decimi o ai centesimi di millimetro e anche oltre. Ma è ovvio che a un certo punto ci dovremo per forza arrestare: non potremo eliminare completamente gli errori sperimentali.

L’osservazione dei fenomeni Sappiamo che la visione del mondo è alterata dalla presenza di perturbazioni esterne che influiscono sui fenomeni in studio. In meccanica, per esempio, dobbiamo cercare di ridurre l’attrito per poter constatare la validità della legge di Galileo secondo la quale tutti i corpi impiegano lo stesso tempo per cadere al suolo da una certa altezza. L’osservazione di un fenomeno naturale richiede dunque precauzioni per cercare di alterarlo il meno possibile, altrimenti ciò che osserviamo non è il fenomeno «puro»: è il fenomeno più la perturbazione che agisce su esso. D’altra parte, anche adottate tutte queste precauzioni, è inevitabile che l’osservazione di un qualsiasi esperimento sia accompagnata da un’alterazione del fenomeno che stiamo studiando. Ciò è suggerito generalizzando uno dei principi fondamentali della fisica e cioè il principio di azione e reazione. Dobbiamo accettare che, in qualsiasi esperimento, osservatore e oggetto osservato sono entità inscindibili. Possiamo dire così: per studiare un certo sistema fisico, oppure un esperimento di qualsiasi natura, è necessario che esso si riveli alla nostra osservazione. In altri termini, è necessario che esso eserciti una certa azione sugli strumenti che abbiamo preparato allo scopo o semplicemente sulla nostra stessa persona. Ebbene, se per essere adeguatamente osservato il sistema ha esercitato una certa azione sugli strumenti di misura o sulla nostra persona, tali strumenti, o la nostra persona, hanno generato sul sistema una reazione della stessa entità. Quindi l’osservazione di un qualsiasi sistema fisico altera necessariamente il sistema stesso ovvero lo svolgimento di qualsiasi fenomeno. Affinché fosse possibile osservare un fenomeno in sé, senza alcuna influenza esterna, occorrerebbe allora che l’interazione tra fenomeno e osservatore fosse completamente annullata. Ma ciò equivarrebbe a ignorare completamente il fenomeno. Se vogliamo studiare un fenomeno dobbiamo per forza alterarlo; non c’è via di uscita. Vediamo un semplice esempio per chiarire il concetto che vi ho illustrato,

pensando proprio alla nostra persona come osservatore di un sistema fisico. Immaginiamo di voler valutare, seppure approssimativamente, la temperatura dell’acqua che è contenuta in un termos perfettamente isolante. Se lasciamo le cose come stanno, saremo sicuri che in quel termos c’è acqua che mantiene indefinitamente una certa temperatura. Ma possiamo dire che quell’acqua è calda? Per fare questo dobbiamo immergere un dito in quell’acqua anche per un solo istante (abbiamo paura di scottarci...) Sì, l’acqua è quasi bollente. Abbiamo fatto bene a essere cauti, ma attenzione: dopo la nostra osservazione l’acqua non è più nelle condizioni precedenti; è un po’ meno bollente perché parte del calore è passato dall’acqua al nostro dito. Ecco che l’osservazione della temperatura ha di fatto alterato lo stato nel quale si trovava l’acqua. C’è da dire che con la nostra operazione abbiamo sottratto una quantità piccolissima di calore che di fatto non altera apprezzabilmente la temperatura dell’acqua ma, in linea di principio, da quel momento in poi, non possiamo più affermare che quell’acqua è quasi bollente. Piuttosto che il nostro dito, avremmo potuto immergere una sonda piccolissima, come quella dei termometri elettronici che utilizziamo per sapere se abbiamo la febbre. Questa sonda avrebbe sottratto all’acqua una quantità di calore ancora più piccola e peraltro il termometro ci avrebbe fornito una valutazione numerica della temperatura, ma in ogni caso avremmo comunque alterato lo stato dell’acqua. Vorrei proporvi un’altra situazione che illustra ancora una volta i concetti dei quali abbiamo parlato. Vi sarà capitato molte volte di voler controllare la pressione dei pneumatici della vostra auto. Per questo siete andati dal vostro benzinaio, avrete svitato il cappuccio che copre la valvola del pneumatico anteriore destro che vi sembrava un po’ troppo gonfio e avete applicato il manometro: tutto a posto! Il manometro segna 2,2 atmosfere di pressione che sono quelle giuste ma... attenzione. A rigore, la pressione del pneumatico era effettivamente superiore a 2,2 atmosfere. Già, perché quando il manometro vi indica la pressione, esso ha «rubato» un po’ d’aria dal pneumatico. L’osservazione della pressione ha dunque introdotto un’alterazione della pressione stessa. Magari questa alterazione è di fatto irrilevante; ma, ancora una volta, in linea di principio, l’osservazione di una grandezza fisica, come nel nostro esempio la pressione, ha modificato la grandezza stessa. C’è da dire che, con l’utilizzo di tecniche sempre migliori, possiamo aspettarci di poter ridurre quanto vogliamo le perturbazioni che accompagnano l’osservazione del sistema fisico che stiamo studiando. Ebbene, vedremo in seguito che invece la Natura pone un limite a questa possibilità.

La radioattività e la struttura dell’atomo

Nel 1896, quasi per caso, il fisico francese Henri Becquerel (1852-1908) si accorse che i sali di uranio impressionano le lastre fotografiche anche se queste ultime sono nel loro involucro di cartone che le ripara dalla luce. Egli notò che l’intensità di tale fenomeno dipendeva dalla quantità di uranio presente nei sali. Per il resto, essa non mutava facendo reagire chimicamente l’uranio con altre sostanze, oppure cambiando condizioni esterne come per esempio la temperatura. Ciò indicava che questo fenomeno, chiamato in seguito da Marie Curie (1867-1934) radioattività, era una proprietà intrinseca dell’atomo di uranio. In effetti l’uranio e altre sostanze radioattive come il polonio e il radio, scoperte da Marie Curie, emettono spontaneamente raggi gamma. Tali raggi non sono altro che onde elettromagnetiche proprio come le onde luminose. La differenza è che la lunghezza d’onda dei raggi gamma può essere anche milioni di volte più piccola di quella della luce visibile e, proprio per questo, tali raggi trasportano una grande quantità di energia attraversando facilmente il cartone che protegge la lastra o una pellicola fotografica. In seguito si è scoperto che i materiali radioattivi non sono soltanto sorgenti di onde elettromagnetiche ma emettono spontaneamente anche particelle materiali che sono chiamate raggi alfa e raggi beta. I raggi alfa sono particelle cariche positivamente e hanno una struttura piuttosto complessa. Le particelle beta sono invece molto più leggere delle particelle alfa e sono cariche negativamente: si tratta semplicemente di elettroni. La scoperta della radioattività si è rivelata molto utile per indagare sulla struttura dell’atomo. A questo proposito, lo scienziato neozelandese Ernest Rutherford (1871-1937) suggerì di utilizzare le particelle alfa come minuscoli proiettili da inviare su un sottile foglio di oro e di osservare come queste particelle si sarebbero distribuite dopo che lo avevano colpito. Ciò avrebbe dato informazioni sulla struttura quantomeno degli atomi di oro e dunque ragionevolmente anche su quella degli altri atomi. La scelta dell’oro era dovuta al fatto, ben noto, che tale metallo può essere effettivamente ridotto a spessori sottilissimi; tanto sottili da rendere il foglio perfino trasparente alla luce visibile. L’esperimento, eseguito per la prima volta dal tedesco Johannes Wilhelm Geiger (1882-1945) e dall’inglese Ernest Marsden (1889-1970) nel 1910-1911, è schematizzato in figura 55.

Figura 55. L’esperimento di Geiger e Marsden suggerito da Rutherford.

Particelle alfa emesse dal polonio vengono ben collimate e inviate sul sottile foglio d’oro. Esse sono poi osservate con uno schermo opportuno S, che scintilla ogni volta che viene colpito da una di queste particelle. Inoltre lo schermo può essere orientato in modo da raccogliere le particelle provenienti da tutte le direzioni. Il risultato dell’esperimento è il seguente: quasi tutte le particelle attraversano indisturbate la sottile lamina d’oro. Solo una piccola percentuale mostra un’apprezzabile deviazione, e solamente una percentuale ancora più piccola rimbalza indietro. Discutiamo il risultato dell’esperimento, secondo l’interpretazione che Rutherford propose nel 1911. Il fatto che quasi tutte le particelle proseguano indisturbate significa che attraversando gli atomi di oro, che pure sono uno accanto all’altro, esse non incontrano alcun ostacolo. In altre parole, per le particelle alfa, gli atomi di oro sono fatti più di «vuoto» che di «pieno». Questo è un risultato molto interessante. Un’analogia ci mostra comunque che questa circostanza non deve sorprenderci. Pensiamo per esempio alle maglie di una rete metallica che, vista da una certa angolazione, può perfino apparire come un muro compatto. La rete è impenetrabile per un uomo ma, vista da vicino, mostra la sua struttura dettagliata che è fatta più di «vuoto» che di «pieno» e ci rendiamo conto che essa è facilmente penetrabile per un moscerino come una sfoglia d’oro è penetrabile per una piccola particella alfa. Le poche particelle alfa che sono deviate o addirittura respinte indietro rivelano allora l’urto con la parte «piena» degli atomi; parte che così appare concentrata in un volume che è molto più piccolo di quello dell’atomo nel suo complesso e molto più pesante delle particelle alfa stesse. Secondo Rutherford, l’atomo è allora simile a un minuscolo sistema solare,

nel quale la massa è quasi interamente contenuta in un nucleo centrale N carico positivamente di dimensioni molto piccole: circa dieci-centomila volte inferiori a quelle dell’atomo stesso nel suo complesso. Il nucleo è poi circondato dagli elettroni che, carichi negativamente, gli ruotano intorno come minuscoli pianeti, attratti dalla forza elettrostatica. (figura 56).

Figura 56. Il modello atomico di Rutherford.

Nella letteratura scientifica questa analogia con il sistema solare è conosciuta come modello di Rutherford.

La stabilità degli atomi Il modello «planetario» di Rutherford, proposto agli inizi del secolo scorso, ha rappresentato certamente un progresso nel cercare di stabilire qual è la struttura della materia a livello atomico, ma ben presto ci si è accorti che questo schema non può essere accettato poiché, comunque lo si immagini realizzato in natura, un tale «sistema solare» non può esistere ! O meglio, se ammettiamo che per qualche ragione si sia formato, esso può sopravvivere soltanto per una frazione di secondo. Per conseguenza gli atomi dovrebbero essere entità instabili, contrariamente a quello che si osserva sperimentalmente e cioè che gli atomi conservano indefinitamente le loro proprietà. Il motivo è molto semplice e va ricercato nelle leggi dell’elettromagnetismo. Infatti, se pensiamo a un elettrone come a una minuscola «pallina» carica che descrive un’orbita intorno al nucleo, siamo sicuri che esso è dotato di un’accelerazione centripeta generata dalla forza attrattiva del nucleo. Ebbene, come abbiamo già visto, una qualsiasi carica elettrica che si muove con una certa accelerazione irradia onde elettromagnetiche. Ma allora siamo arrivati al punto cruciale: un’onda elettromagnetica

trasporta energia e tale energia non può essere stata prelevata altro che da quella posseduta dalla pallina in movimento. Per conseguenza la pallina perde energia e, invece di continuare a muoversi lungo la sua orbita con velocità uniforme, rallenta progressivamente fino a cadere rapidamente su quella che l’attrae, descrivendo una spirale (figura 57).

Figura 57. Una pallina carica «in orbita» cade rapidamente su quella che l’attrae, descrivendo una spirale ed emettendo onde elettromagnetiche.

Partiamo dunque dalla circostanza fondamentale che una pallina carica non può assolutamente continuare a girare indefinitamente intorno a un’altra pallina carica. Non c’è dubbio: ciò segue dalle leggi dell’elettromagnetismo. Dunque un elettrone non può continuare a girare indefinitamente intorno al nucleo di un atomo. Questo ci porta a concludere che il modello di Rutherford, nella sua semplicità, non può essere corretto. Potremmo allora cercare altri modelli, cioè altri modi di immaginare quello che succede agli elettroni presenti in un atomo. Ebbene, per quanto possiamo sforzare la nostra fantasia, non riusciamo a immaginare una situazione nella quale un atomo sia stabile, ovvero continui a rimanere indefinitamente quello che è. Ciò può essere dovuto a una limitazione della nostra fantasia? Certamente. Tuttavia sono possibili altri atteggiamenti nei confronti di questo problema. Per esempio potremmo pensare che le leggi dell’elettromagnetismo non siano più valide nell’ambito degli atomi, che sono molto piccoli. Un po’ come avviene per la legge galileiana di composizione delle velocità che, come vedremo, non è più valida quando sono in gioco velocità molto elevate. Invece in questo caso non sono le leggi dell’elettromagnetismo che devono essere messe in discussione. Piuttosto è necessario modificare il nostro modo di avvicinarci a un mondo così piccolo come quello degli atomi. Questo nuovo atteggiamento è di fatto contenuto

in una meravigliosa teoria che viene chiamata meccanica quantistica.

Meccanica quantistica Cominciamo allora a parlare di questa teoria che descrive il misterioso mondo dell’infinitamente piccolo. Perché misterioso? Perché quando si scruta il mondo degli atomi e delle particelle ancora più piccole nascoste in essi, ci troviamo di fronte a situazioni che non possono essere interpretate con la meccanica di Galileo e Newton. Ci renderemo conto per gradi di queste circostanze e a tale scopo cominciamo con una analisi critica di che cosa implica l’osservazione del mondo che ci circonda; analisi che ci condurrà a uno dei principi fondamentali della fisica e cioè al Principio di indeterminazione.

Automobiline e SUV Avete mai visto un’automobilina radiocomandata che alcuni ragazzi fanno correre su una piazzola asfaltata molto liscia? Avrete notato che l’automobilina sobbalza continuamente mentre fila in rettilineo e magari dopo un po’ si rovescia. Se al posto di quella automobilina ci fosse stata una vera automobile che fosse andata alla stessa velocità, l’avreste vista procedere sull’asfalto tranquillamente, senza sobbalzi. A cosa è dovuto questo differente comportamento? Semplicemente a questo: l’automobilina ha le ruote molto piccole, di qualche centimetro di diametro soltanto, mentre l’auto vera ha le ruote molto più grandi, diciamo pure di un metro di diametro. D’altra parte, senza arrivare alle automobiline radiocomandate, sappiamo bene che a bordo di un SUV, che ha le ruote molto grandi, si viaggia in modo molto più confortevole che non a bordo di una Smart che ha le ruote molto piccole. Teniamo allora presente che una strada o una piazzola asfaltata, che giudichiamo «liscia», di fatto non è un piano in senso matematico: essa è un conglomerato bituminoso fatto di granuli di varie dimensioni e dunque presenta molte irregolarità. Le ruote grandi – diciamo pure – «non si accorgono» di tali irregolarità: passano sopra i granuli senza difficoltà mentre le ruote piccole hanno dimensioni confrontabili con quelle dei granuli stessi e ne seguono il profilo. Per quelle minuscole ruote, i granuli sono in proporzione quasi vere e proprie montagne da valicare. Immaginiamo allora di aver ripreso l’automobilina con una telecamera. Ci rendiamo conto che, osservando e analizzando accuratamente i sobbalzi che appaiono nel filmato, possiamo ricostruire quello che deve essere il vero profilo della piazzola individuando così la posizione di ciascun granulo di asfalto. Certamente; ma tale posizione sarà nota con un’approssimazione pari più o meno al diametro delle ruote dell’automobilina: non possiamo sperare di ottenere una

precisione migliore. Per contro, se avessimo ripreso un SUV che passava da quelle parti, dalla proiezione del filmato non ci saremmo neanche accorti della presenza di irregolarità della strada. Per quale motivo vi ho esposto queste considerazioni? Il fatto è che una situazione del genere assomiglia a quella che è presente nella propagazione di un campo elettromagnetico. L’analogo del diametro delle ruote è la lunghezza d’onda della radiazione elettromagnetica; lunghezza d’onda che di solito viene indicata con la lettera dell’alfabeto grecoλ. Vediamo allora che una radiazione di grande lunghezza d’onda – per esempio un chilometro – «non si accorge», per così dire, delle irregolarità che incontra; anche se si tratta di ostacoli piuttosto grandi, come la cima di una montagna, che si frappongono alla propagazione. Questo è il motivo per il quale le trasmissioni radio in onde lunghe arrivano molto lontano dalla stazione trasmittente. Viceversa, per le trasmissioni che utilizzano lunghezze d’onda progressivamente sempre più piccole, c’è la necessità che non ci siano di mezzo ostacoli che introdurrebbero una perturbazione rilevante all’onda stessa o arriverebbero persino a impedirne la propagazione. In analogia con quello che abbiamo discusso a proposito di auto o di automobiline radiocomandate che percorrono una strada, ci rendiamo allora conto della seguente circostanza: possiamo determinare con accuratezza la posizione di un certo oggetto soltanto se lo osserviamo e magari lo fotografiamo illuminandolo con luce di piccola lunghezza d’onda. I contorni dell’oggetto sono infatti l’equivalente dei granuli di asfalto contro i quali, stavolta, si imbattono i raggi luminosi lungo il loro cammino piuttosto che le ruote dell’automobilina. Se illuminassimo l’oggetto con luce di grande lunghezza d’onda rileveremmo i suoi contorni in modo molto più approssimativo o addirittura non ci accorgeremmo nemmeno della presenza dell’oggetto. Così, poiché la luce visibile ha una lunghezza d’ondaλ di circa mezzo millesimo di millimetro, riusciamo a distinguere perfettamente anche un oggetto piccolissimo come un moscerino. Viceversa, il radar installato sull’aereo sul quale stiamo viaggiando utilizza onde per le qualiλ è di alcuni centimetri e, per conseguenza, il moscerino è completamente invisibile per il radar. Non c’è motivo di allarmarsi! Anche il pilota non si preoccupa certamente di un moscerino che incontra lungo la sua rotta! Pensiamo allora a un raggio luminoso che si propaga lungo una certa direzione: per esempio lungo un asse sul quale abbiamo segnato le ascisse x; e indichiamo conΔx l’incertezza che accompagna l’individuazione della posizione di un certo oggetto che si trova lungo il cammino percorso dal raggio luminoso. Da quello che abbiamo appena discusso, come l’incertezza nella determinazione della posizione dei granuli di asfalto non può essere inferiore al diametro delle

ruote dell’automobilina, altrettanto l’incertezza nello stabilire la posizione dell’oggetto che abbiamo illuminato non può essere inferiore alla lunghezza d’ondaλ della luce che lo investe. Scriviamo dunque: (48) Δx λ Il simbolo sta a significare una «disuguaglianza approssimativa» – diciamo così – a indicare che l’incertezzaΔx è dunque sicuramente maggiore di qualcosa dell’ordine di grandezza diλ.

La pressione di radiazione Quando la luce investe un corpo qualsiasi, essa riversa su esso una certa quantità di energia. Lo sappiamo bene, pensando per esempio alla luce solare che investe il nostro pianeta e lo riscalda. Ma la luce non si limita a questo: quando cade su un oggetto, essa esercita anche una pressione molto debole che è chiamata pressione di radiazione. Possiamo avere effettivamente una conferma della piccolissima entità della pressione che la luce esercita, diversamente dalla notevole quantità di energia che invece essa trasporta. Ci basta stare su una spiaggia ad abbronzarci: l’energia luminosa emessa dal Sole ci può anche abbrustolire, se non siamo prudenti, ma certamente la luce del Sole non ci pesa sulle spalle! La pressione di radiazione può avere tuttavia effetti molto rilevanti, che possiamo osservare in qualche occasione (piuttosto rara, a dire il vero) come il passaggio di una cometa. Forse molti avranno ammirato la cometa Hyakutake (dal nome del suo scopritore), che è passata vicino alla Terra nel 1996. Si poteva vedere a occhio nudo la bellissima coda argentea che la accompagnava (figura 58).

Figura 58. La cometa Hyakutake (Image: E. Kolmhofer, H. Raab; Johannes Kepler Observatory, Linz, Austria)

Nella fotografia si può osservare la coda della cometa e questa ci fornisce una «sensazione» di velocità, come quella che si ha osservando la scia di un jet (figura 59).

Figura 59. La scia di un jet assomiglia alla coda di una cometa.

Non verrebbe spontaneo pensare che la cometa, quando è stata fotografata, si muoveva nello spazio nella direzione indicata dalla freccia in alto a sinistra?

Attenzione: l’osservazione della scia di un jet ci fornisce veramente l’indicazione della direzione (e del verso) della velocità perché la scia è dovuta alla condensazione del vapore acqueo laddove passa il jet, quindi la scia che osserviamo durante una giornata di sole è proprio la traiettoria seguita dal jet. La cometa si muove invece nello spazio interplanetario, nel vuoto assoluto: non c’è nulla che possa condensare come il vapore acqueo. D’altro canto, osserviamo attentamente la foto che vi ho mostrato. Per ottenerla, gli astronomi hanno dovuto seguire la cometa nel suo moto fra le stelle per tutta la durata della posa, necessariamente piuttosto lunga poiché la luce emessa dalla cometa è molto debole. Le stelle, sullo sfondo della fotografia, sono dunque venute «mosse» e appaiono come piccoli tratti luminosi. Ma allora la direzione della velocità della cometa è data dalla direzione dei trattini, non dalla direzione della coda! La cometa evidentemente si muoveva in uno dei due versi indicati dalla freccia disegnata in basso a destra. E la direzione della coda, allora, da cosa è determinata? La direzione, anzi la presenza stessa della coda, è determinata dalla presenza del Sole. È la luce del Sole che esercita la pressione di radiazione sul nucleo centrale della cometa e «soffia via» – per così dire – le minuscole particelle che vanno a formare la coda. Dunque, la freccia in alto a sinistra nella figura 58 non rappresenta la velocità della cometa: piuttosto, essa indica dov’è il Sole; fuori campo nella foto, evidentemente!

La costante di Planck L’esistenza della pressione di radiazione è facilmente interpretabile in termini di fotoni, cioè pensando a un raggio luminoso come a uno sciame di minuscole particelle. In questi termini possiamo pensare alla pressione di radiazione come manifestazione complessiva degli urti che avvengono tra i fotoni e le particelle che costituiscono il nucleo centrale della cometa. Va detto che quando osserviamo un raggio luminoso noi non vediamo la luce fotone per fotone ma un fluire di radiazione senza soluzione di continuità. Un raggio luminoso è infatti costituito da un numero immenso di fotoni e dunque quello che noi percepiamo è un effetto medio; proprio come, durante un acquazzone, non sentiamo il rumore della pioggia a goccia a goccia ma uno scrosciare di intensità costante che è l’effetto globale medio del rumore prodotto dalle singole gocce quando esse raggiungono il suolo. Ebbene, la fisica mostra che in un raggio luminoso di lunghezza d’ondaλ, ciascun fotone che lo compone possiede una quantità di moto q data da questa semplice relazione: (49)

q = h/λ Nella formula precedente h è una costante numerica che, come la velocità della luce e la costante gravitazionale G, è una costante universale, conosciuta come costante di Planck. Come per G, anche stavolta la Natura ha deciso per un valore piccolissimo. Se stabiliamo di misurare le distanze in metri, le masse in chilogrammi e gli intervalli di tempo in secondi, il valore di h è il seguente: (50) –34 h = 6,6 10 Ricordiamoci cosa significa la notazione precedente, che abbiamo già incontrato a proposito del valore della costante gravitazionale: h = 0,00000000000000000000000000000000066 Quanti zeri, in tutto? Contateli: se ho scritto bene dovrebbero essere 34 zeri, compreso quello prima della virgola! Dall’estrema piccolezza della costante di Planck segue che q è in generale una quantità piccolissima a meno cheλ non sia una lunghezza d’onda piccolissima anch’essa.

Il principio di indeterminazione Teniamo presente che quando illuminiamo un qualsiasi oggetto, su esso arriva una grande quantità di fotoni; ma anche se ne arrivassero pochi, possiamo essere sicuri che l’impatto della radiazione sull’oggetto determinerà comunque una variazione della sua quantità di moto. Ciò introdurrà un’incertezzaΔp nel valore di tale quantità di moto sicuramente non inferiore alla quantità di moto q trasportata da ciascun fotone, cioè, ricordando la (49): (51) Δp h/λ Moltiplicando la (48) per la (51) otteniamo dunque: (52) Δx Δp λ h/λ cioè, in definitiva: (53) Δx Δp h A questo punto è semplice interpretare il significato della importantissima relazione precedente che rappresenta un esempio di relazione di indeterminazione, stabilita nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg. Precisamente, vediamo che le osservazioni della posizione e della quantità di moto di un oggetto (per esempio lungo l’asse x) sono sempre accompagnate da incertezzeΔx eΔp, rispettivamente; e questo lo sappiamo già, poiché sappiamo che la misurazione di qualsiasi grandezza fisica è sempre accompagnata dagli errori sperimentali. Ma ci rendiamo conto di una fondamentale circostanza che, a

tutta prima, non ci saremmo aspettati: per esempio, nella nostra osservazione ci siamo magari adoperati per ridurreΔx a valori piccolissimi. La (53) ci dice però che con questo abbiamo rinunciato a restringere il margine di incertezzaΔp sulla quantità di moto:Δp non potrà essere contemporaneamente ristretto quanto vogliamo poiché il prodottoΔx Δp è necessariamente soggetto a essere maggiore di qualcosa dell’ordine di grandezza di h. Dunque, se si vuole determinare la posizione di un corpo con una approssimazioneΔx, non ha senso cercare di misurarne contemporaneamente la quantità di moto con un’approssimazioneΔp inferiore a h/Δx. Relazioni simili alla (53) valgono in generale per altre grandezze fisiche sulle quali non ci soffermiamo. In generale diciamo allora che in Natura vale il principio di indeterminazione che possiamo brevemente enunciare così: Esistono grandezze fisiche per le quali il prodotto delle incertezze nelle loro misure non può essere inferiore alla costante di Planck. In altre parole, ci troviamo di fronte a una fondamentale circostanza che è la seguente: è vero che possiamo ridurre quanto vogliamo la perturbazione che accompagna la misurazione di una grandezza che riguarda il sistema fisico che stiamo studiando e quindi avere una sua valutazione con precisione grande quanto vogliamo; ma ciò equivale a rinunciare a una soddisfacente valutazione di altre grandezze che riguardano il sistema stesso. Dalla discussione precedente dovrebbe essere chiaro che la presenza del principio di indeterminazione è avvertita soltanto quando si studiano oggetti piccolissimi come i protoni, i neutroni e così via; cioè le minuscole particelle che compongono la materia. Quando si ha a che fare con oggetti grandi, cioè con gli oggetti macroscopici che osserviamo quotidianamente intorno a noi, gli errori sperimentali che accompagnano la misura delle grandezze che li riguardano sono altrettanto grandi e il prodotto delle incertezze sui loro valori è molto grande, certamente molto più grande della costante di Planck. Se questa costante, invece di essere piccolissima, fosse proprio uguale a zero non farebbe alcuna differenza. Le cose cambiano se pensiamo di osservare un oggetto piccolissimo come un elettrone, per esempio. Possiamo immaginarlo come una minuscola pallina di diametro piccolissimo. Stavolta, per poterlo osservare e individuarne la posizione, dovremo certamente restringere il margine di erroreΔx a valori piccolissimi. Per conseguenza il rapporto h/Δx diventerà grandissimo. D’altra parte, la (53) ci dice che: (54) Δp h/Δx

Ciò equivale a dire che la quantitàΔp sarà anch’essa grandissima: la quantità di moto di questa pallina sarà determinata con scarsissima precisione.

La validità del principio di indeterminazione ci pone davanti a circostanze del tutto inaspettate, assolutamente in contrasto con le cose alle quali siamo comunemente abituati a pensare. Per esempio, possiamo renderci conto che in linea di principio non è possibile definire la forma geometrica di un qualsiasi oggetto. In particolare, non è possibile definire cosa si intende per «forma» di un elettrone; ed è per questo che spesso abbiamo usato il termine «pallina», avendo cura di indicarlo, come faremo anche in seguito, fra virgolette. Infatti, per definire la forma di un oggetto occorre individuarne perfettamente il contorno ma ciò significa conoscere esattamente la posizione di un qualsiasi suo punto. In particolare, il valore della sua ascissa x senza alcuna incertezza, cioèΔx = 0. E allora, con qualsiasi incertezzaΔp si pensasse conosciuta la quantità di moto di questo oggetto, risulterebbe comunque Δx Δp = 0, in contrasto con il principio di indeterminazione, per il quale, invece, deve essere Δx Δp h. Altrettanto, ci accorgiamo che non è possibile definire la traiettoria di un oggetto, qualsiasi esso sia. Proviamo infatti a disegnare la traiettoria di una ipotetica pallina; possiamo pensare direttamente al moto di un piccolo puntino oppure, se la pallina ha un certo diametro, al moto del suo centro C (figura 60).

Figura 60. Il moto di una pallina.

Sul disegno il tratto di inchiostro è abbastanza sottile, ma se ingrandissimo un po’ la figura cosa vedremmo? Vedremmo quello che è rappresentato in figura 61.

Figura 61. Osserviamo un particolare della figura precedente con un forte ingrandimento. La traiettoria che avevamo disegnato è diventata una «strada» che può essere percorsa in tanti modi.

Quante traiettorie entrerebbero nella striscia di inchiostro! Qual è il significato di questa breve considerazione? Semplicemente quello di stabilire che per traiettoria dobbiamo intendere una linea vera e propria in senso geometrico: non possiamo ammettere che la traiettoria sia come una «strada», con una certa larghezza. A parte questo, c’è comunque una differenza tra una linea geometrica e una traiettoria. È una differenza che non è possibile disegnare ma che comunque dobbiamo tenere presente: una linea geometrica è qualcosa di statico; una traiettoria va invece pensata come l’insieme delle posizioni successivamente occupate da un certo punto, posizioni che noi effettivamente osserviamo al passare del tempo. Conoscere la traiettoria significa infatti conoscere istante per istante la posizione di quell’oggetto. Almeno in linea di principio, essa deve poter essere determinata in modo assolutamente esatto, altrimenti la traiettoria diventerebbe la strada della quale abbiamo parlato; strada che non può essere accettata come traiettoria. In altri termini dovrebbe essere possibile, in linea di principio, avereΔx = 0 (e altrettanto per le altre coordinate). Per conseguenza, risulterebbe comunqueΔx Δp = 0, con qualsiasi incertezzaΔp si pensasse conosciuta la quantità di moto della pallina. Il principio di indeterminazione afferma invece che questo prodotto non può essere nullo ma sicuramente maggiore di qualcosa dell’ordine di grandezza della costante di Planck. Quindi, a rigore, non si può definire una traiettoria.

In definitiva, non dobbiamo parlare di «difficoltà» nel cercare di determinare la traiettoria di un corpo, grande o piccolo che sia. Se non riusciamo a fare questa operazione, non è a causa di una nostra «inabilità tecnica», per così dire: è concettualmente impossibile farla perché così ha stabilito la Natura. Ma... allora perché parliamo comunemente di forma, per esempio, di una

palla da tennis e di traiettoria che essa descrive, se questi concetti non hanno senso? Ebbene, siamo pronti a dare la risposta a questa domanda. Infatti teniamo presente che l’osservazione di una palla da tennis è comunque molto approssimativa anche se non ci limitiamo semplicemente a guardarla ma la traguardiamo accuratamente e magari disponiamo di strumenti come un Autovelox che ci consentono di rilevarne la velocità. Tutte queste osservazioni sono sicuramente grossolane perché le entità degli errori sperimentali che le accompagnano sono sicuramente molto grandi se confrontate con l’accuratezza che sarebbe richiesta per trovare l’indeterminazione prevista dalla piccolissima entità della costante di Planck. Insomma, una palla da tennis è talmente grande che per essa il valore della costante di Planck è del tutto trascurabile e possiamo assumere che esso sia proprio zero. Così, per una palla da tennis o per qualsiasi altro oggetto macroscopico, il principio di indeterminazione – diciamo così – «scompare» e i concetti di forma e traiettoria tornano a essere perfettamente definiti.

Un elettrone in un atomo Continuiamo ad analizzare le principali conseguenze del principio di indeterminazione, tornando a considerare un elettrone che secondo il modello di Rutherford dovrebbe orbitare intorno al nucleo. Abbiamo visto che una situazione del genere non potrebbe perdurare nel tempo perché l’elettrone dovrebbe perdere energia irraggiando onde elettromagnetiche. In breve tempo l’elettrone dovrebbe dunque cadere sul nucleo, fermandosi.

Ma ora ci rendiamo conto che è impossibile che ciò accada! È impossibile che un qualsiasi oggetto sia rigorosamente fermo! Infatti, se così fosse, ciò equivarrebbe ad ammettere la conoscenza esatta della sua quantità di moto, che dovrebbe essere rigorosamente nulla senza alcuna incertezza; ovveroΔp = 0. E allora, con qualsiasi incertezzaΔx si pensasse conosciuta la sua posizione, si avrebbe comunqueΔx Δp = 0, in contrasto con il principio di indeterminazione per il quale, ripetiamolo ancora una volta, il prodotto precedente non può essere nullo ma comunque maggiore della costante di Planck. Questo ci fa sperare che il modello di Rutherford possa essere in qualche modo «recuperato». In effetti, come vedremo un poco più avanti, la meccanica quantistica ci fornisce una visione dell’atomo non molto diversa da quella proposta da Rutherford, seppure con importanti differenze: vedremo che gli elettroni si trovano effettivamente intorno al nucleo ma non «girano» intorno a esso; piuttosto, gli elettroni sono ospitati in quelli che vengono chiamati orbitali

atomici.

Discutiamo ancora un momento la circostanza che qualsiasi oggetto non può essere rigorosamente fermo. Come la mettiamo pensando... a un chiodo piantato in un muro? Il chiodo in questo caso è rigorosamente fermo... Non è vero! Esso è fermo da un punto di vista macroscopico; ma nella realtà tutte le sue molecole hanno un continuo movimento di vibrazione. È un fatto fondamentale che tutta la materia è sempre in movimento, se la osserviamo nei dettagli microscopici. A parte l’esistenza del moto molecolare, che abbiamo già discusso a proposito del moto browniano che esiste anche se osserviamo l’acqua ferma contenuta in un bicchiere, l’esistenza di quelle che in fisica vengono chiamate fluttuazioni quantistiche è una conseguenza del principio di indeterminazione. Tornando al nostro elettrone, esso è «costretto» a continuare a muoversi indefinitamente intorno al nucleo senza dunque perdere energia. Ciò non è in contrasto con le leggi dell’elettromagnetismo. Infatti l’elettrone si muove, d’accordo; ma si tratta di un movimento che non riusciamo a immaginare: è un movimento... senza traiettoria; che noi, abituati a osservare il mondo macroscopico dal quale siamo circondati, non possiamo paragonare ad alcun movimento che osserviamo nella nostra vita quotidiana. Non essendo definita la traiettoria dell’elettrone, non possiamo affermare che esso si muove di moto accelerato intorno al nucleo, e quindi non c’è motivo di aspettarsi necessariamente un’irraggiamento di onde elettromagnetiche da parte dell’elettrone. A questo punto mi sembra necessaria una breve pausa. Questo perché le considerazioni appena fatte possono apparirvi del tutto incomprensibili. Ebbene, in un certo senso posso subito tranquillizzarvi! Le questioni che riguardano la meccanica quantistica sono infatti «incomprensibili» anche per un esperto. Perché, come voi, anche un esperto è comunque abituato fin da bambino a osservare il mondo macroscopico che lo circonda e a ragionare facendo riferimento alle cose che vede intorno a lui tutti i giorni. Così, che senso ha dire che un oggetto si muove senza descrivere una certa traiettoria? Assolutamente nessuno, se pensiamo a quello che osserviamo quotidianamente: una palla da tennis descrive una traiettoria, non c’è dubbio. Ma abbiamo visto che il concetto di traiettoria non ha più significato quando scrutiamo il mondo dell’«infinitamente piccolo». È un mondo che è impossibile immaginare!

Le onde di de Broglie Siamo abituati a pensare che nel mondo fisico siano presenti due entità distinte: le particelle e le onde. Così, quando per esempio pensiamo a un

elettrone come costituente fondamentale della materia, pensiamo certamente a una «pallina», cioè una minuscola particella. Per contro, pensando per esempio alla propagazione della luce visibile, siamo portati a ragionare in termini di propagazione per onde: le onde elettromagnetiche. Questi due «mondi», quello delle particelle e delle onde, sembrano appunto mondi completamente separati. Tuttavia ci siamo resi conto che proprio la propagazione di un campo elettromagnetico può essere interpretata in termini di particelle: i fotoni. Quindi, almeno per quanto riguarda i fenomeni elettromagnetici, vediamo che questi due mondi di fatto coesistono. Ciò può indurci a pensare che questa coesistenza sia comunque valida per tutte le entità che esistono nella Natura. In particolare, possiamo pensare che quelle che chiamiamo particelle abbiano anche proprietà ondulatorie. Questa è l’idea che ebbe Louis de Broglie (1892-1987) nel supporre che, come un raggio luminoso ha proprietà corpuscolari e ondulatorie, ugualmente qualsiasi particella materiale abbia proprietà corpuscolari e ondulatorie. Vedremo tra poco che questa ipotesi è confermata dall’osservazione sperimentale. Abbiamo comunque già indicazioni che aspetti ondulatori e corpuscolari siano in qualche modo correlati. Lo abbiamo visto discutendo del principio di indeterminazione: abbiamo visto che tale principio, che riguarda la posizione e la quantità di moto delle particelle, è formulato attraverso lo studio del comportamento ondulatorio del campo elettromagnetico.

Così, quando pensiamo a un raggio luminoso possiamo pensare a uno sciame di corpuscoli, cioè fotoni, oppure a onde elettromagnetiche. Altrettanto, secondo l’idea di de Broglie, pensando per esempio al fascio di elettroni che viaggia nel tubo catodico di un televisore, possiamo immaginarlo come uno sciame di corpuscoli oppure come la propagazione di onde; che vengono chiamate onde di de Broglie. Sempre secondo questa ipotesi, la lunghezzaλ di un’onda di de Broglie deve poi essere collegata alla quantità di moto p del corpuscolo corrispondente dalla stessa relazione che lega la lunghezza dell’onda elettromagnetica alla quantità di moto del fotone e cioè: (55) λ = h/p La relazione precedente, accettata come valida per qualsiasi particella materiale e per qualsiasi onda, è conosciuta come relazione di de Broglie. Ma come è possibile verificare sperimentalmente l’esistenza delle onde di de Broglie e la validità della relazione (55)? È possibile che una «particella» come un elettrone si comporti come un’«onda»? Per rispondere, ricordiamo un possibile esperimento grazie al quale si manifesta la natura ondulatoria della

luce: si tratta di inviare il raggio luminoso prodotto da un laser interponendo un capello lungo il suo cammino; oppure interponendo una cartolina postale nella quale abbiamo praticato un piccolo foro. La luce che andrà infine a proiettarsi su uno schermo presenterà bande luminose alternate a zone oscure; oppure presenterà una struttura ad anelli luminosi. Se volessimo eventualmente scoprire il carattere ondulatorio delle particelle materiali dovremmo allora produrre un «raggio» di elettroni, per esempio, come il sottile fascio che viaggia all’interno del tubo catodico di un televisore; e interporre una cartolina postale con un piccolo foro a ostacolarlo per vedere cosa succede. A parte la difficoltà di mettere una cartolina postale dentro un tubo catodico (!), notiamo un altro tipo di difficoltà sperimentale davanti alla quale ci veniamo a trovare. Precisamente, ricordiamoci della relazione che dovrebbe legare la lunghezza d’onda alla quantità di moto, secondo l’idea di de Broglie. Ebbene, una particella materiale possiede una notevole quantità di moto, dovuta alla sua massa. Per conseguenza la lunghezza d’onda che le dovrebbe competere risulterebbe piccolissima; molto più piccola del diametro di un foro che potremmo praticare nella nostra cartolina. Quanto più piccola? Miliardi di volte più piccola. E non si riesce a praticare fori così minuscoli neanche con le moderne tecnologie. Quindi sembrerebbe impossibile verificare l’ipotesi di de Broglie. Ma la Natura ci viene in aiuto. Di fatto, fori piccolissimi esistono senza bisogno di fabbricarli: sono gli interstizi che esistono nella materia fra un atomo e l’altro. E così, facendo passare un fascetto di elettroni attraverso un sottilissimo foglio di alluminio, si osserva quello che vediamo nella figura 62.

Figura 62. La diffrazione degli elettroni che sono inviati su un sottile foglio di alluminio.

Gli elettroni si distribuiscono mostrando una struttura ad anelli, tipico dei fenomeni di diffrazione che si verificano nella propagazione per onde. L’idea di de Broglie è dunque confermata sperimentalmente, come vi avevo anticipato.

La descrizione quantistica dell’atomo Quando un elettrone fa parte di un atomo, esso è confinato in una regione di spazio molto piccola. È come se, nel suo moto, fosse costretto a passare attraverso uno stretto canale intorno al nucleo. Si trova insomma come un raggio luminoso costretto nell’esperimento di diffrazione a passare attraverso il piccolo foro che abbiamo praticato nella nostra cartolina; tanto piccolo che l’aspetto ondulatorio del raggio luminoso prevale su quello corpuscolare. Ci aspettiamo allora che ciascun elettrone in un atomo si comporti come un’onda intorno al nucleo. Che idea ci possiamo fare di tali onde e del loro comportamento? Osserviamo a questo proposito la figura 63.

Figura 63. Le onde che si formano su un nastro di acciaio posto in vibrazione.

Si possono notare le onde che si formano se poniamo in vibrazione un nastro di acciaio di forma circolare. Si tratta proprio di onde che esistono soltanto intorno a un punto O e sono caratterizzate da una certa lunghezza d’ondaλ che è legata al valore del raggio del nastro. Infatti, la circonferenza del nastro contiene necessariamente un numero intero di lunghezze d’onda; come si dovrebbe vedere chiaramente in figura 64.

Figura 64. In questa figura si vede bene che la circonferenza del nastro contiene necessariamente un numero intero di onde (tre, in questo caso).

In altri termini, se r è il raggio del nastro, deve essere: (56) 2πr = nλ cioè: (57) r = n(λ/2π) dove n è un numero intero: 1, 2, 3,... Ciò vuol dire che, assegnato un valore diλ, siamo obbligati a costruire un nastro di raggio r1 =λ/2π (corrispondente a n = 1) oppure di raggio r2 = 2λ/2π (corrispondente a n = 2) oppure di raggio r3 = 3λ/2π (corrispondente a n = 3) e così via, affinché le onde possano avere lunghezza d’ondaλ. Osserviamo tra l’altro che questi valori del raggio indicano la distanza media da O di ciascun punto del nastro durante la vibrazione. E così, con le onde su nastri di acciaio di raggi r1, r2, ecc. intorno al centro O, abbiamo un modello che riproduce quello che deve essere il comportamento quantistico degli elettroni intorno al nucleo di un atomo: un elettrone, al quale compete una lunghezza d’onda di de Broglieλ, può trovarsi a girare intorno al nucleo su un’«orbita» mantenendosi a una distanza media data dalla lunghezza del raggio r1 =λ/2π, corrispondente a n = 1; oppure su un’«orbita» di raggio r2 = 2λ/2π, corrispondente a n = 2 e così via; ma non può trovarsi su un’«orbita» intermedia fra queste. Notiamo che «orbita» è fra virgolette, a ricordare che non si tratta di un’orbita nel senso che le attribuiamo in meccanica classica e cioè di una traiettoria come quella di un pianeta o semplicemente come quella di una palla da tennis. In fisica si parla allora di orbitale: per poter omettere ogni volta le virgolette! E un orbitale è rappresentato disegnando una linea sfumata per

ricordare la presenza dell’indeterminazione quantistica sulla posizione dell’elettrone (figura 65).

Figura 65. Rappresentazione di possibili orbitali per un elettrone intorno al nucleo.

Su ciascun orbitale, si dice che l’elettrone si trova in uno stato stazionario nel quale permane senza perdere energia, esattamente come accade per le onde elastiche sul nastro di acciaio che, in assenza di attriti, continuano a mantenere inalterata la loro ampiezza. Ricordando la relazione (55) possiamo scrivere dunque: (58) r = n(h/2πp) Questa relazione, che lega il raggio dell’orbitale alla quantità di moto dell’elettrone, viene chiamata regola di quantizzazione di Bohr, dal nome del fisico danese Niels Bohr (1885-1962) che la propose nel 1913. Proprio questa regola fornisce un esempio di come le grandezze fisiche siano quantizzate (e per questo si parla di meccanica quantistica); cioè non possano assumere valori a piacimento. Piuttosto, esse sono in generale costrette ad assumere valori ben precisi, separati tra loro, come abbiamo appena visto per le distanze medie che separano un elettrone dal nucleo. Non è possibile che una grandezza possa avere valori intermedi tra due che la meccanica quantistica assegna loro. Ciò evidentemente contrasta con quello che comunemente siamo portati a pensare, cioè che le grandezze fisiche possano avere valori arbitrari che possono variare con continuità.

Teoria della Relatività Occupiamoci adesso di quello che nell’immaginario collettivo è considerato l’argomento più difficile da capire, riservato soltanto alle menti più eccelse. Ebbene, le cose non stanno esattamente in questo modo. Con un po’ di buona volontà, chiunque è in grado di capire almeno gli aspetti fondamentali della Teoria della Relatività, formulata da Einstein all’inizio del ventesimo secolo. In cosa consiste questa teoria? Si tratta di una formulazione matematica attraverso la quale è possibile mettere in relazione le grandezze fisiche che riguardano una certa situazione o un certo esperimento quando esso è osservato da due diversi sistemi di riferimento. Abbiamo di fatto avuto a che fare con circostanze del genere se ricordiamo l’osservazione della velocità di un passeggero che cammina, valigie alla mano, sul pavimento scorrevole di un aeroporto: se assumiamo come riferimento il tapis roulant, egli si muove a quattro chilometri l’ora; se invece ci riferiamo al pavimento del corridoio vediamo che egli procede alla velocità di sette chilometri l’ora. Allo stesso modo, immaginiamo un passeggero che cammina lungo il corridoio di un vagone ferroviario in movimento: se lo osserviamo trovandoci anche noi a bordo del treno, vediamo che egli ha una velocità di due o tre chilometri l’ora; se lo osserviamo dal marciapiede di una stazione ferroviaria lo vediamo invece correre magari a due o trecento chilometri l’ora. Quella che abbiamo chiamato composizione delle velocità è forse l’esempio più semplice di relazione prevista dalla Teoria della Relatività. E proprio da questo esempio prendiamo le mosse per una analisi più approfondita. Ci accorgeremo che questa analisi ci condurrà alla scoperta di nuovi fenomeni dei quali, come deve essere, si ha la verifica sperimentale. Con nostra sorpresa, come abbiamo già osservato per la meccanica quantistica, anche questa volta vedremo che queste nuove circostanze contrastano con quelle alle quali siamo comunemente abituati.

L’osservazione di una lampadina Supponiamo di osservare la luce emessa da una lampadina, come abbiamo rappresentato nella figura 66.

Figura 66. La luce emessa da una lampadina ferma davanti a noi viaggia a velocità c tanto verso sinistra quanto verso destra.

La luce viene emessa in tutte le direzioni ma, in particolare, ci interessa studiare quella che viaggia verso sinistra e quella che viaggia verso destra. Non ci meraviglia constatare che la velocità è la stessa, tanto quella del raggio luminoso che va verso sinistra quanto quella dell’altro, che va verso destra. Ciò può sembrare a tutta prima piuttosto banale, e ovviamente è in accordo con quanto prevedono le equazioni di Maxwell sulla propagazione di un campo elettromagnetico. Tuttavia tali equazioni prevedono anche un’altra circostanza tutt’altro che banale che possiamo verificare misurando la velocità della luce c. Precisamente, una tale misurazione fornisce sempre quel valore di trecentomila chilometri al secondo non soltanto se la sorgente luminosa è ferma, come nella situazione che abbiamo appena descritto, ma anche se la sorgente è in movimento. È bene soffermarci sulla questione e, a questo proposito, osserviamo la figura 67.

Figura 67. La luce è emessa dalla lampadina che ora viaggia verso destra con velocità V. Per la composizione delle velocità, ci aspetteremmo una propagazione della luce a velocità c+V verso destra; e a velocità c–V verso sinistra.

In essa, molto schematicamente, abbiamo immaginato che adesso la lampadina sia posta su un carrellino e viaggi verso destra con una certa velocità V, piccola o grande che sia. In base alle legge di composizione delle velocità ci aspetteremmo che una misura della velocità di propagazione fornisse il valore c+V per il raggio che va verso destra e il valore c–V per quello che va verso sinistra. Pensiamo per esempio al raggio che va verso destra. Ci aspetteremmo di dover sommare alla velocità della luce c quella con la quale si muove la sorgente, un po’ come accadrebbe se lanciassimo un sasso verso destra correndo, sempre verso destra, alla velocità di 7 Km/h. Se, da fermi, siamo in grado di lanciare quel sasso a 30 Km/h, siamo sicuri che correndo in quel modo

la velocità impressa al sasso sarà 37 Km/h. Questo è ciò che accadrebbe nel lancio di un sasso; invece, nel «lancio» di un raggio luminoso le cose vanno diversamente: la propagazione della luce avviene sempre alla velocità c, in accordo con quanto previsto dalle equazioni di Maxwell. Tuttavia, come abbiamo appena visto, questa circostanza sperimentale è in contrasto con quello che ci saremmo aspettati dalla legge di composizione delle velocità alla quale siamo comunemente abituati.

Il principio di relatività Il fatto che la velocità della luce non rispetti la legge di composizione delle velocità, che ci sembra così ovvia, ci induce a pensare che proprio il modo di comporre le velocità, che abbiamo eseguito con semplici addizioni e sottrazioni, debba essere necessariamente modificato; almeno per le situazioni nelle quali è in gioco la propagazione della luce. D’altra parte, se la legge di composizione delle velocità fosse quella alla quale abbiamo pensato fino a questo momento, ciò comporterebbe conseguenze – diciamo pure – irragionevoli; secondo quello che discutiamo adesso. Precisamente, avremmo una violazione del principio di relatività. In cosa consiste questo principio? È molto semplice: consiste nell’assumere che le leggi fisiche siano sempre le stesse in tutto l’Universo e in qualsiasi condizione ci si possa trovare. Certo, potremmo rinunciare a questo principio; ma in effetti, non si vede perché le cose non debbano andare così. Peraltro ricordiamo che Galileo si era già accorto della validità del principio di relatività per quanto riguarda i fenomeni meccanici. Proprio in rispetto di questo principio, abbiamo per esempio verificato che le leggi della meccanica sono le stesse tanto se siamo nel salotto di casa nostra quanto se ci troviamo a bordo di un jet che vola a novecento chilometri l’ora. Ebbene, vediamo cosa succede per la propagazione della luce e per questo facciamo un po’ di fantascienza! Fantascienza? Sì, ma le considerazioni che faremo sono del tutto rigorose. Avete visto il film Indipendence day? In esso si racconta di una gigantesca astronave aliena che trasporta un’intera civiltà extraterrestre con intenzioni non proprio amichevoli nei nostri confronti. Ma stavolta pensiamo che gli alieni siano buoni e si siano avvicinati alla Terra solo per compiere studi sulla propagazione della luce. Essi navigano nello spazio con una certa velocità V rispetto alla Terra e osservano la nostra lampadina da una grande distanza (figura 68).

Figura 68. Gli extraterrestri stanno osservando la nostra lampadina. Se fosse valida la legge di composizione delle velocità, rileverebbero una propagazione verso sinistra a velocità c – V e una propagazione verso destra a velocità c + V. Per loro, le equazioni di Maxwell non sarebbero valide.

Se le velocità si componessero nel modo che finora abbiamo ritenuto valido, dovremmo concludere che gli extraterrestri troverebbero, per la luce che si propaga verso sinistra, una velocità inferiore a c. Certamente, poiché essi stanno inseguendo il raggio luminoso. È un po’ quello che noi troveremmo se viaggiassimo a 20 chilometri l’ora andando dietro a un’auto che corre a 100 chilometri l’ora. Vedremmo che quest’auto ci distanzierebbe progressivamente allontanandosi da noi non a 100 ma a 80 chilometri l’ora. Altrettanto dovremmo pensare che gli alieni troverebbero, per la luce che si propaga verso destra, una velocità superiore a c poiché stavolta l’astronave sta «scappando via» dal raggio luminoso. Cosa concludere? Se le cose andassero veramente così, dovremmo accettare che per i fenomeni elettromagnetici, in evidente contrasto con il principio di relatività, gli scienziati extraterrestri troverebbero leggi diverse da quelle che abbiamo trovato noi con le equazioni di Maxwell. Sì, poiché per loro la nostra lampadina è certamente in movimento; ma le equazioni di Maxwell prevedono che la luce viaggi comunque con la stessa velocità in entrambe le direzioni indipendentemente dal moto della sorgente. Ebbene, con una comunicazione radio, gli alieni ci informano di aver trovato la stessa velocità c = 300.000 Km/s per la propagazione della luce emessa dalla nostra lampadina in entrambe le direzioni; e così pure la stessa cosa ci raccontano altri alieni che, a nostra insaputa, passando con la loro astronave, si sono interessati alla luce della nostra e di tante altre lampadine sparse per la galassia! Insomma, ci rendiamo conto che la velocità della luce è una costante universale indipendente appunto da qualsiasi situazione: qualsiasi sia il moto della sorgente rispetto a quello dell’osservatore.

Tutto ciò è assolutamente verificato nella realtà sperimentale, fantascienza a parte. E questa circostanza fondamentale, della quale dobbiamo prendere atto, è uno dei punti di partenza per la formulazione delle Teoria della Relatività di Einstein. Riassumendo, essa è dunque basata essenzialmente su due assunti: 1) La velocità della luce (nel vuoto) è una costante universale. 2) Vale il principio di relatività.

Le trasformazioni di Galileo Da questo momento in poi dovremo fare un po’ di matematica. Ciò è inevitabile: se si vuole capire la Teoria della Relatività non è possibile esprimersi semplicemente a parole. La fatica che farete nelle prossime pagine sarà ampiamente ricompensata (almeno spero) dal fatto che alla fine sarete notevolmente addentro nella materia.

E così, supponiamo che un treno viaggi a 100 Km/h e un passeggero cammini a 3 Km/h lungo il corridoio di un vagone andando verso la testa del convoglio. Con che velocità si sta muovendo il passeggero rispetto alla superficie terrestre? In fisica galileiana la risposta si ottiene semplicemente sommando le velocità, come abbiamo discusso tante volte. Nel nostro caso, la velocità risulta 103 Km/h. In altri termini, indicata con V la velocità del treno e vp quella del passeggero rispetto al vagone, la velocità del passeggero rispetto alla superficie terrestre, che indicheremo con vT, risulta: (59) vT =V + vp Questo risultato, così semplice, può apparire del tutto banale; ma è interessante capire a fondo la sua origine. E per questo è importante vedere come esso sia una conseguenza della validità delle Trasformazioni di Galileo, che ci dicono come sono collegate le coordinate di un punto nello spazio se si passa da un certo sistema di riferimento inerziale a un altro anch’esso inerziale, che dunque si muove di moto traslatorio uniforme rispetto al primo. Osserviamo a questo proposito la figura 69.

Figura 69. A un certo istante un passeggero P ha coordinate x,y,z rispetto alla superficie terrestre. Altrettanto, ha coordinate x’,y’,z’ rispetto al treno. Per esse vale ovviamente y’ = y e z’ = z ; inoltre x’ = x – Vt.

In essa è disegnato un sistema di riferimento Oxyz (che chiameremo brevemente sistema O) che immaginiamo sia solidale alla superficie terrestre. Possiamo pensare che esso rappresenti le pareti o il marciapiede di una stazione ferroviaria nella quale, esattamente in O, si trova il capostazione. Inoltre abbiamo disegnato un secondo sistema di riferimento O’x’y’z’ (che chiameremo brevemente sistema O’) che può rappresentare un treno che viaggia lungo il binario a velocità V verso destra. A bordo del treno c’è poi un passeggero che abbiamo indicato schematicamente con un punto P. Nell’istante nel quale O’ transita per O, il capostazione fa partire il suo cronometro. Vediamo allora che relazione c’è, istante per istante, fra le coordinate del passeggero P nei due sistemi di riferimento. Notiamo dal disegno che l’asse x’ giace sulla stessa retta r sulla quale giace l’asse x; inoltre gli assi y e y’ sono paralleli e così pure gli assi z e z’. E allora in queste condizioni è immediato rendersi conto che si ha sempre y = y’ e z = z’, indipendentemente da quale istante si considera. Tanto per fare un esempio, se P si trova a z’ = mezzo metro a destra rispetto alla linea mediana del vagone, esso si troverà sempre a z = mezzo metro a destra rispetto alla linea mediana della ferrovia. Quanto alla coordinata lungo la retta r, è altrettanto immediato rendersi conto che l’ascissa x’ di P è uguale a x meno la distanza d tra le due origini dei sistemi di riferimento. D’altra parte, tale distanza è uguale alla velocità del treno moltiplicata per il tempo t trascorso dal momento nel quale il capostazione ha fatto partire il suo cronometro cioè Vt (ricordiamoci che lo ha fatto partire nell’istante nel quale O’ transitava per O). Dunque: (60) x’ = x – Vt Il passeggero cammina verso la testa del convoglio muovendosi lungo l’asse x’ che rappresenta schematicamente il corridoio del vagone; e nell’istante nel quale O’ è passato per O, proprio come ha fatto il capostazione, egli ha deciso di far partire il cronometro che ha con sé e che indica il tempo t’. Al passare del

tempo entrambi i cronometri danno le stesse indicazioni: (61) t’ = t L’uguaglianza precedente mostra quello che è scontato nella nostra vita quotidiana: il tempo fluisce con la stessa cadenza; tanto per un passeggero a bordo di un treno quanto per un’altra persona ferma sul marciapiede di una stazione. In base alla (61) potremo allora indicare un particolare istante di tempo tanto c on t1 quanto con t’1 e altrettanto, per un intervallo di tempo dall’istante t1 all’istante t2, potremo scrivere la sua durata tanto t2 – t1 quanto t’2 – t’1 poiché la durata di un intervallo di tempo è la stessa, indipendentemente da quale sistema di riferimento si considera.

Riuniamo in un solo quadro le relazioni che abbiamo scritto e che rappresentano dunque le trasformazioni di Galileo: (62) x’ = x – Vt y’ = y z’ = z t’ = t A questo punto è molto semplice ricavare la relazione che intercorre tra la velocità vp, che il passeggero misura rispetto al treno, cioè rispetto a O’, e quella vT che il capostazione misura rispetto alla linea ferroviaria, cioè rispetto a O.

Ricordiamo che la velocità è lo spazio percorso diviso il tempo impiegato a percorrerlo. Dunque, a un certo istante t’1 = t1, il passeggero può rilevare la sua posizione x’1 rispetto al vagone; e poi, in un istante successivo t’2 = t2, la sua nuova posizione x’2 lungo il corridoio del vagone. Troverà la velocità con la quale ha camminato: (63)

Altrettanto, il capostazione può rilevare le posizioni x1 e x2 del passeggero nello stesso intervallo di tempo; e per la velocità rispetto alla superficie terrestre troverà: (64)

ma, per le trasformazioni di Galileo: x’2 = x2 – Vt2 x’1 = x1 – Vt1 quindi: (65)

cioè, ricordando la (64), vp = vT – V che è lo stesso di: (66) vT = vp + V che coincide con la (59).

La composizione delle velocità nella Teoria della Relatività Ormai ne sappiamo abbastanza sulla composizione delle velocità nella meccanica galileiana. È il momento di vedere cosa è invece previsto dalla meccanica relativistica di Einstein. La Teoria della Relatività ci indica che la composizione delle velocità va calcolata con una formula leggermente più complicata della (59), che è la seguente: (67)

Il lettore che ha voglia di fare qualche calcolo algebrico ne troverà più avanti la dimostrazione. Come prima, vT indica la velocità del passeggero rispetto alla superficie terrestre. Osserviamo poi il secondo membro dell’uguaglianza precedente. Al numeratore compare la somma delle velocità del treno e del passeggero rispetto al vagone: V+vp. C’è però il denominatore nel quale compare 1 più il prodotto delle velocità V del treno per quella vp con la quale il passeggero cammina lungo il vagone (dunque ricordiamoci che si tratta della sua velocità rispetto al treno) diviso il quadrato della velocità della luce c.

Ebbene, se tanto V quanto vp sono molto piccole rispetto alla velocità della luce, il termine Vvp/c2 è molto, molto più piccolo di 1; e, senza commettere un apprezzabile errore, possiamo in pratica trascurarlo rispetto a 1 stesso. Allora cancelliamo direttamente la quantità Vvp/c2 e la (67) diventa dunque: (68)

che coincide con la formula Galileiana. Questo risultato ci aiuta a capire che la Teoria della Relatività va intesa come un perfezionamento della fisica di Galileo e non equivale affatto alla sua negazione: fino a che ci limitiamo a considerare movimenti nei quali le velocità coinvolte sono piccole rispetto alla velocità della luce, tutto quello che abbiamo imparato sulla composizione delle velocità è assolutamente corretto e non necessita di alcuna modifica. Se volessimo essere più accurati, non trascurando il termine Vvp/c2, il denominatore della (67) risulterebbe leggermente maggiore di 1 e il risultato per vT sarebbe dunque leggermente inferiore a V + vp. A calcoli fatti, riferendoci al treno e al passeggero, non troveremmo dunque 103 Km/h ma un valore leggermente (molto... leggermente) inferiore: (69) vT = 102,9999999999999735... Km/h che possiamo tranquillamente approssimare a 103 Km/h. Sì, perché ricordiamoci che la fisica è basata sempre sull’osservazione sperimentale; e non esiste alcuno strumento in grado di rilevare una differenza così minuscola tra il valore precedente e 103 chilometri l’ora «tondi». D’altra parte, se le velocità in gioco non sono piccole rispetto a quella della luce non è più lecita alcuna approssimazione e dobbiamo utilizzare la (67) così com’è. Tra l’altro, questa formula fornisce una prima importante indicazione sulla insuperabilità della velocità della luce, secondo quanto discutiamo ora. È infatti interessante notare che la composizione di due velocità inferiori a quella della luce risulta in una velocità comunque inferiore a quella della luce. Ciò, a prima vista, potrebbe sembrare strano. Supponiamo che il treno corra a 250.000 Km/s (ben più di Italo!) e il passeggero (che in realtà è Superman!) corra lungo il corridoio a 200.000 Km/s verso la testa del convoglio. Che velocità ha Superman rispetto alla superficie terrestre, cioè che velocità misura il capostazione? Anche se sappiamo che la velocità risulta inferiore alla somma delle velocità (che in questo caso è 450.000 Km/s), ci aspetteremmo di ottenere comunque un

valore maggiore di c = 300.000 Km/s, date le elevatissime velocità in gioco. Ma non è così. Possiamo averne una conferma sostituendo questi valori numerici nell’espressione (67). Troveremo un valore inferiore a 300.000 Km/s. Lascio questa verifica a voi, che avete una piccola calcolatrice. Piuttosto, voglio invitarvi a una verifica formale di questa circostanza; ricorrendo a un po’ di algebra elementare che spero ricordiate dai vostri studi di liceo. Precisamente, verifichiamo la validità di questa disuguaglianza: (70)

cioè che effettivamente la composizione di due velocità inferiori a c fornisce comunque un valore anch’esso inferiore a c. La disuguaglianza precedente può essere scritta (considerando che 1 + Vvp/c2 è una quantità positiva): (71) 2 V + vp < c(1 + Vvp/c ) Eliminando la parentesi: (72)

cioè ancora, mettendo in evidenza V e c e spostando qualche termine: (73)

È vera questa disuguaglianza? Certamente sì. Poiché possiamo dividere i due membri per la quantità contenuta nelle parentesi, cioè 1 – vp/c. Tale quantità è sicuramente positiva (vp è per ipotesi minore di c) e dunque questa divisione non altera il verso della disuguaglianza. Otteniamo allora: (74) V