Firenze segreta. Curiosità, fatti divertenti, notizie interessanti, aneddoti e verità nascoste sui più grandi artisti e monumenti di Firenze antica 8856300141, 9788856300147

Ecco alcuni fra i tanti argomenti trattati in questo libro: le origini di Firenze e del suo nome; le "colonne affum

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Italian Pages 187 [193] Year 2008

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Firenze segreta. Curiosità, fatti divertenti, notizie interessanti, aneddoti e verità nascoste sui più grandi artisti e monumenti di Firenze antica
 8856300141, 9788856300147

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Toscani super DOC

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Giuliano Cenci

Firenze segreta Curiosità, fatti divertenti, notizie interessanti, aneddoti e verità nascoste sui più grandi artisti e monumenti di Firenze antica

Nota dell’autore Questo volumetto non ha la pretesa di essere una guida turistica, né tanto meno un testo di storia dell’arte; è qualcosa di diverso, che “scava” in profondità nello spirito dell’antica Firenze e che riaccompagnerà a casa il turista, dopo la sua visita alla città, come un simpatico “souvenir” in più.

www.sarnus.it Le foto relative alle illustrazioni del libro sono di Elena Cenci, tranne quelle per le quali sia espressamente indicata una diversa provenienza o acquisizione.

© 2008 Edizioni Polistampa Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.polistampa.com ISBN 978-88-563-0014-7

Prefazione

Firenze non è più la “grande” città che fu in passato; oggi è una tranquilla città di circa 375.000 abitanti di cui quasi 40.000 stranieri (dati statistici del mese di novembre 2007), anche se è sempre molto famosa in tutto il mondo per la sua enorme ricchezza di tesori artistici – pitture, sculture e architetture – di ogni epoca. Un tempo però, anche se territorialmente era assai meno estesa, Firenze era davvero una grande e potente città che dominava sia in senso militare che commerciale, temuta e rispettata da tutti. Otto secoli fa Firenze aveva meno di 50.000 abitanti, ma il suo esercito, quasi avesse ereditato l’invincibilità delle antiche legioni della Roma imperiale, era il più potente non solo d’Italia, ma forse di tutta l’Europa; era temuto da Signorie, re e imperatori e, quando muoveva guerra, si poteva star certi che sarebbe tornato vittorioso e con grande ricchezza di bottino. Come potenza finanziaria e commerciale Firenze non aveva uguali: basti pensare che fu la prima città a coniare una moneta propria, con un atto di orgogliosa e temeraria usurpazione di autorità che costituiva anche una chiara affermazione di indipendenza dalle leggi imperiali tedesche cui l’Italia dell’epoca era soggetta. La prima moneta coniata a Firenze



fu solida e spessa, in argento purissimo (detta anche “grosso” d’argento), e recava impressa da una parte la figura di San Giovanni Battista, patrono della città, e dall’altra il giglio, simbolo cittadino; perciò tale moneta fu chiamata “fiorino” e con questo nome si diffuse nel mondo. Il primo fiorino d’argento fu coniato nel 1237, ma Firenze era una città troppo orgogliosa per accontentarsi di una “semplice” moneta d’argento; così, nel 1252, coniò i suoi primi fiorini non in lega, ma in purissimo oro a 24 carati! Questa fu veramente la migliore affermazione che Firenze potesse fare della propria grandezza, ricchezza e potenza: dopo l’impero romano e bizantino, nessuno aveva più potuto sfoggiare tanta opulenza e gli stessi imperatori raramente potevano permettersi di imprimere nell’oro i loro profili e i loro nomi. Dalla zecca fiorentina, invece, quella che fu chiamata “fonte d’oro” sgorgava a torrenti invadendo il mondo, sempre stabile nel suo valore, segno di floridezza politica e garanzia di stabilità mercantile. Questa aurea moneta si affermò ed ebbe grandissimo successo dovunque arrivassero i mercanti fiorentini; perfino il re di Tunisi l’apprezzò molto per la bellezza e la purezza. In breve tempo il fiorino giunse a una così alta considerazione da costituire la base di riferimento per i cambi monetari (come oggi è il dollaro) e vani risultarono i tentativi di falsificazione fatti nella speranza di frenare in qualche modo la continua e vertiginosa ascesa della potenza fiorentina: San Giovanni non vuole inganni si diceva (e si dice ancora oggi) a Firenze, perché saggiandola con i denti era facile distinguere la vera moneta d’oro da quella falsa in lega più dura. Firenze divenne la banca del mondo: i suoi più abili mercanti, divenuti ricchissimi, si trasformarono in banchieri. Si può affermare con certezza che, a quel tempo, molti fiorentini potevano annoverarsi tra le persone più ricche del mondo, tanto da potersi permettere di finanziare (concedendo prestiti



ad alti tassi di interesse) perfino il re di Francia e il re d’Inghilterra. Fu proprio da uno di questi prestiti – una somma astronomica mai restituita – che iniziò la rovina economica della città. Le cose volsero al peggio quando tra l’Inghilterra e la Francia iniziò quella guerra che fu poi detta dei “cento anni”. I banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi erano da tempo i finanziatori ufficiali del re inglese Edoardo III, e quando questo re chiese loro di finanziare la sua spedizione militare contro la Francia, promettendo solennemente di restituire il prestito con i dovuti interessi, essi, benché a malincuore, non poterono rifiutarsi. Così, mentre la guerra “ingoiava” somme enormi, i clienti della compagnia finanziaria, allarmati dal non favorevole andamento dell’impresa, chiedevano il ritiro dei loro capitali portando ben presto al fallimento la compagnia. Giovanni Villani, cronista, mercante e socio della banca Peruzzi, calcolò in 1.365.000 fiorini d’oro l’importo complessivo del prestito fatto al re d’Inghilterra. È stato anche calcolato che al valore attuale, compresi gli interessi semplici e composti, il debito dell’Inghilterra verso Firenze risulterebbe talmente ingente da poter essere pareggiato a malapena dal valore dell’intero reame inglese. Ma si tranquillizzino i cittadini inglesi: l’Inghilterra non corre alcun pericolo di essere “venduta all’asta” per ripagare il debito verso Firenze! Infatti, secondo le costumanze dell’epoca, si riteneva che le anime dei debitori insolventi sarebbero state condannate all’Inferno per l’eternità e questa sarebbe stata la condanna riservata non solo all’anima di re Edoardo III, ma anche alle anime di suo figlio, nonché dei baroni, dei vescovi e degli arcivescovi che erano stati solidali con lui nel suo impegno solenne verso Firenze. Non potendo sopportare l’idea che tante anime venissero condannate all’Inferno, Gualtieri de’ Bardi, erede della compagnia Bardi-Peruzzi e quindi legittimo erede anche del



credito verso la corona inglese, nell’anno 1391 ritenne opportuno “assolvere” tutte quelle nobili anime che non per cattiva volontà, bensì solo per la fallibile fortuna delle cose temporali di questo mondo, non avevano potuto restituire il loro debito. Con questa lettera di “assoluzione” (ritrovata dallo studioso fiorentino Armando Sapori nell’Archivio di Londra) Gualtieri de’ Bardi, da buon cristiano, dichiarava estinto ogni debito del re e dei suoi dignitari così che le loro anime, se non gravate da altri e diversi peccati, sarebbero state libere di entrare in Paradiso. Firenze però è nota nel mondo anche per l’arguzia dei suoi cittadini – specialmente se artisti – e la sua storia è costellata di fatti curiosi e divertenti, che spesso non sono riportati nei libri di storia dell’arte o nelle guide turistiche. Lo “spirito” dei fiorentini – che è un po’ una caratteristica di tutti i toscani, forse ereditata dal popolo etrusco – permette loro di avere sempre la “battuta pronta” anche in situazioni tragiche, come in quel triste mattino del 5 novembre 1966 (il giorno dopo la terribile alluvione che colpì la città) quando, tra case e negozi devastati dall’acqua e dal fango nel cuore di

Fig. 1 - Riproduzione ingrandita del dritto e rovescio del “fiorino”, la moneta dell’antica repubblica fiorentina



Firenze, mentre tutti si affannavano per cercare di salvare il salvabile, su un negozio che aveva la saracinesca di chiusura mezza sfondata e tutta la merce all’interno distrutta, era stato appeso un cartello su cui era scritto: Chiuso perché il proprietario, oggi, ha il nervoso. Il turista che visita Firenze e osserva con ammirazione le innumerevoli opere d’arte, con quale maggiore interesse le guarderebbe se conoscesse i tanti curiosi episodi, le tante (a volte comiche) “verità” che si nascondono dietro la solennità e la magnificenza di quei capolavori! E quante cose interessanti e spiritose, riguardanti quegli stessi capolavori, potrebbero raccontare al turista gli antichi artisti che li crearono, se fossero ancora vivi! Per esempio: perché Michelangelo fece il David? E cosa accadde quando lo finì? Quanti turisti, in realtà, sanno rispondere a questa e a tantissime altre opere d’arte di Firenze? Per questo motivo l’autore, un fiorentino purosangue che ama profondamente la sua città e che in tanti anni si è ben documentato su questi aspetti “segreti” di eventi sia storici che artistici accaduti nella Firenze antica, ha voluto raccogliere i frutti delle sue ricerche in un pratico libretto scritto con un linguaggio semplice in modo da renderne piacevole e scorrevole la lettura. In Firenze segreta sono narrati, in tanti brevi racconti, fatti, aneddoti, episodi divertenti, notizie interessanti e tantissime curiosità: cose realmente accadute e storicamente documentate o tramandate dalla tradizione popolare, che fanno conoscere meglio la Firenze artistica nei suoi aspetti più nascosti che pochi conoscono.



Origini di Firenze

Il primo nucleo abitato di Firenze fu un insediamento etrusco derivato da Fiesole (l’antica Faesulae), la città che tuttora sovrasta Firenze dall’alto di un colle. La sua fondazione risale a circa 150 anni prima di Cristo (probabilmente sui resti di un villaggio villanoviano) e i suoi primi cittadini furono etruschi nonché viaggiatori e commercianti, soprattutto romani, di passaggio sulle rive del fiume Arno. È piuttosto curioso notare che questa città, fondata proprio dagli etruschi, non aveva né la struttura politica, né il nome di una tipica città etrusca; Fiesole infatti, come tutte le città dell’Etruria, era governata da un lucumone e aveva anche un nome tipicamente etrusco. La nuova città appena fondata, invece, non solo aveva un nome tipicamente latino, Florentia (nel prossimo capitolo daremo di questo un’esatta spiegazione), ma aveva anche una diversa struttura di governo trattandosi vive di un regno, anche se piccolo. Questo piccolo regno però non sopravvisse a lungo: appena 90 anni. Era infatti finita da tempo l’epoca di Roma governata dai re etruschi; al tempo della prima Florentia tutta la federazione etrusca, e con essa anche la piccola città fondata da neppure un secolo, inevitabilmente dovettero fare i conti con Roma, essendosi sempre rifiutate di sottomettersi al suo dominio. Alla fine dunque Roma non poté fare a meno di

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considerare questo atteggiamento come “ribellione” e il Senato romano inviò le sue migliori legioni al comando di Lucio Porzio Catone contro Faesulae e contro il piccolo regno fiorentino di Florentia che, a quel tempo, aveva un re il cui nome non avrebbe potuto essere più adatto: si chiamava infatti “Fiorino”, anche se non ebbe certo la stessa fortunata sorte della futura omonima moneta… Faesulae, arroccata sulla sommità di un colle e ben difesa, riuscì a evitare la distruzione. Florentia, invece, costruita in pianura presso la riva destra del fiume Arno, protetta da scarse mura e da un troppo piccolo esercito, non poté sfuggire alla furia dei legionari romani che la distrussero completamente quale esempio per tutte le città “ribelli”, cancellando ogni traccia di mura e di edifici fino alle fondamenta. Re Fiorino morì alla testa dei suoi soldati e la sorte gli risparmiò quindi di vedere l’aratro passare sulle rovine della sua Florentia che veniva letteralmente “cancellata” dalla faccia della Terra; laddove erano mura, palazzi e case, d’ora in poi sarebbero stati coltivati campi. I fondi e i terreni dove sorgeva la città furono venduti all’asta o assegnati ai veterani del dittatore romano Silla. Questi veterani però, abituati più a far guerre e a sognare il lusso delle case di Roma piuttosto che ad arare campi e coltivare messi, trovarono ben presto un accordo con gli abitanti etruschi di Faesulae per ricostruire una nuova città con case, palazzi di marmo, il Forum, l’anfiteatro, ecc.: tutti lussi cui erano abituati e per loro irrinunciabili. Catilina, che dopo la sua ribellione a Roma si era rifugiato proprio a Fiesole, dette il suo appoggio alla ricostruzione di questa nuova città che sorse, nell’anno 59 a.C., sempre sulla riva destra del fiume Arno, poche centinaia di metri più a valle rispetto alla precedente città distrutta, e che ebbe lo stesso nome: Florentia. Roma però era sempre vigile e, quando seppe che la città veniva ricostruita, inviò nuovamente le proprie legioni; Faesulae e

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Florentia provarono a resistere, e questa volta il ribelle Catilina aveva al suo fianco anche un valorosissimo ex ufficiale di Silla: G. Manlio. In una epica battaglia combattuta presso Pistoia, un raccogliticcio esercito “ribelle” costituito da soldati etruschi di Fiesole ed ex legionari romani che ora erano i nuovi cittadini di Firenze, al comando di Catilina e di Manlio, si scontrò con le preponderanti forze delle legioni romane comandate da Petreio. Fu una carneficina in cui morirono, combattendo eroicamente, Catilina, Manlio, tutti gli altri comandanti etrusco-fiorentini e 3000 valorosi soldati tra fiorentini e fiesolani. La furia devastatrice delle vittoriose legioni romane stava per abbattersi nuovamente su Firenze quando il Senato di Roma, pieno di ammirazione per come avevano combattuto ed erano caduti sul campo quei valorosissimi “ribelli”, decretò che la città di Florentia non venisse nuovamente distrutta. Questa Florentia, costruita secondo le rigide regole del castrum romano, si estendeva in lunghezza e in larghezza solo per poche centinaia di metri (circa 480 x 420 metri) ed era attraversata da due vie principali che si incrociavano, perpendicolarmente l’una all’altra, nel punto dove ancora oggi, in piazza della Repubblica, si può vedere una colonna isolata sormontata dalla ninfa dell’abbondanza. Queste due strade, pur mutate nell’aspetto, rappresentanti il cardo maximus e il decumanus maximus, esistono tuttora e corrispondono praticamente alle attuali strade denominate via degli Strozzi, via degli Speziali e via del Corso relativamente al decumano, e via Roma e via Calimala relativamente al cardo. L’intera città, evidenziata dal perimetro a segno continuo sulla piantina allegata, era, all’incirca compresa entro il perimetro rettangolare delimitato dalle seguenti strade attuali: via de’ Tornabuoni, piazza Antinori, via de’ Cerretani, piazza del Duomo, via del Proconsolo, piazza San Firenze, piazza della Signoria, via delle Terme.

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Il Forum, centro commerciale della vita cittadina, era dove oggi si trova piazza della Repubblica, vicino al punto in cui quegli antichi fiorentini posero la citata colonna con la ninfa dell’abbondanza quale auspicio di prosperità e ricchezza, ma che aveva anche lo scopo di segnare il centro geometrico della città. La colonna attuale, tuttavia, non è più quella originale romana, corrosa e distrutta dal tempo. I fiorentini però non vollero mai rinunciare a quel loro particolare “portafor-

Fig. 2 - La colonna che, presso il Battistero di San Giovanni, ricorda il miracolo dell’albero secco tornato in vita

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tuna” e così, ogni volta che la colonna si usurava e crollava, la ricostruivano ricollocandola sempre nello stesso punto; questa collocazione, per problemi di viabilità e traffico, è stata successivamente spostata di alcuni metri. In breve tempo Firenze ebbe molti edifici tipici della opulenza di Roma; fu costruito il Campidoglio, cioè un tempio massimo dedicato alle tre deità capitoline: Giove, Giunone e Minerva. Il Foro era lastricato di marmi pregiati e vi si accedeva da un’ampia scalinata pure di marmo; sotto vi era il “tesoro” dov’erano accumulate e custodite le ricchezze del pubblico erario, insieme ai voti di maggior valore. Florentia ebbe anche il suo teatro, capace di ben 10.000 spettatori: la pendenza stradale dell’attuale via de’ Gondi, che da piazza della Signoria scende verso piazza San Firenze lungo il fianco di Palazzo Vecchio, corrisponde alla pendenza della scalinata dell’antico teatro. Firenze allora aveva circa 25.000 abitanti e per un numero così alto di cittadini, secondo il costume romano, occorrevano più stabilimenti termali; uno di questi si trovava presso l’odierna via delle Terme (vicino al palazzo di parte Guelfa), mentre un altro grande complesso termale era sotto l’attuale livello stradale di piazza della Signoria, come scavi recenti effettuati nella piazza hanno dimostrato. Florentia, in epoca imperiale, era un vero e proprio Municipium romano, e come ogni Municipium che si rispetti non poteva restare priva di un proprio acquedotto che infatti fu costruito, imponente, per convogliare le acque della sorgente Val Marina (sul monte Morello), incanalandole sul dorso dei caratteristici archi a catena e trasportandole, attraverso Rifredi, lungo l’attuale via Vittorio Emanuele fino al cuore della città, all’edificio che le raccoglieva, che prendeva il nome, appunto, di Caput acquae e che si trovava presso l’attuale via del “Capaccio”, il cui nome deriva proprio da quella originale denominazione latina.

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Ma, meraviglia delle meraviglie, Florentia aveva anche un anfiteatro! La stessa Fiesole aveva un teatro, ma non un anfiteatro, e quello fiorentino era fra i più grandi allora conosciuti, capace di ben 20.000 spettatori i quali, affluiti non solo dalla città ma anche da Fiesole e dintorni, potevano gustarsi spettacoli in tutto degni di Roma: bestie feroci, battaglie di gladiatori, sangue a volontà. Questo anfiteatro – tanto per dare un’idea di quanto, già allora, Firenze fosse importante – era il quinto, per

Fig. 3 - Il tipico leone fiorentino detto “Marzocco” (di Donatello)

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dimensioni, di tutto l’impero romano; aveva un perimetro di 335 metri e i diametri della sua ellisse erano rispettivamente di metri 113 e 64! Più grandi di questo anfiteatro erano solo quelli di Roma, Pompei, Verona e Pozzuoli. Vale la pena citare anche un aneddoto esemplificativo di come Firenze sapesse farsi rispettare. Poiché Roma era spesso soggetta ad alluvioni del Tevere, alla corte imperiale si pensò di deviarne verso il fiume Arno alcuni suoi importanti affluenti. Firenze, giustamente allarmata perché a sua volta subiva spesso alluvioni del proprio fiume, si oppose inviando immediatamente una delegazione, che fu ricevuta dall’imperatore (il cui nome non è citato); non si sa con precisione quali furono le argomentazioni addotte dai delegati fiorentini, evidentemente però furono efficacissime visto che il risultato fu che l’imperatore rinunciò all’idea! Concludiamo questi cenni sulla Firenze “romana” citando un tempio importantissimo: quello dedicato al dio Marte, che fu demolito alla fine del periodo di Firenze pagana e che sorgeva a pochi passi di distanza dal punto dove oggi si trova il bellissimo Battistero di San Giovanni. Con il passare del tempo, poco a poco Firenze si convertì al cristianesimo; Santi come San Miniato e Santa Reparata influirono, con il loro martirio durante le persecuzioni imperiali romane, sulla conversione della città. I fiorentini però, sempre superstiziosi nonostante la conversione alla fede cristiana, pur sentendosi in dovere di demolire il tempio pagano di quello che fino ad allora era stato il loro protettore, cioè il dio della guerra Marte, non se la sentirono di demolire anche la statua del dio a cavallo che si trovava all’interno del tempio e che, non si sa mai, forse avrebbe anche potuto “vendicarsi”… Meglio perciò non “indispettirlo” e così, anziché distruggerla, collocarono la sua statua scolpita in pietra presso un ponte sull’Arno, che era in legno e si trovava esattamente dove oggi c’è quello che resta il primo e più famoso

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Fig. 4 - Ancora uno dei tanti leoni che simboleggiavano la forza e la potenza di Firenze

ponte di Firenze: il Ponte Vecchio. I fiorentini così si sentirono più tranquilli: avevano “eletto” il loro nuovo patrono, San Giovanni Battista, ma non avevano totalmente rinnegato il loro “vecchio” protettore… In altre parole, fu ritenuto opportuno “non correre inutili rischi!”. Il definitivo trionfo del cristianesimo a Firenze avvenne nel 403 d.C. con l’insediamento del vescovo Zanobi, che fu poi santificato. A proposito di questo Santo si dice che dopo la sua morte, mentre il suo corpo veniva trasportato verso la chiesa di Santa Reparata (che si trovava dove oggi sorge il Duomo di Firenze), la bara che lo conteneva abbia sfiorato un albero secco – precisamente un olmo – il quale, al tocco della bara, si sarebbe ricoperto miracolosamente di tenere e verdi foglie. Si tratta di realtà o leggenda? Un fatto è certo: da tempo imme-

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morabile, sul lato nord del Battistero di San Giovanni si trova una colonna sormontata da una croce a perenne ricordo di quel miracolo che aveva un indubbio valore simbolico: la santità faceva rinverdire la vita di quell’antico “campo romano” ormai arido e sterile di civili virtù; il cristianesimo portava nuova linfa vitale a un popolo spiritualmente rinnovato tra le rovine della civiltà romana. Successivamente Firenze conobbe molte tribolazioni: i barbari di Radagasio (anno 405), i barbari di Teodorico e, durante le lotte tra goti e bizantini, nell’anno 537, l’assedio dei goti di Totila. Molto probabilmente questi furono i secoli più tragici e oscuri vissuti dalla città di Firenze, tanto che, si dice, per la fame e la disperazione più volte la popolazione si trovò costretta, in tali lunghi periodi, perfino a mangiare l’erba dei campi. Nella Firenze longobarda (anno 570) le cose migliorarono un poco; si iniziò a costruire i primi monasteri femminili e cominciarono a formarsi vaste proprietà religiose. Il periodo di “oscurità civile”, tuttavia, non era ancora finito e, pur non arrivando più alle situazioni tragiche sopra descritte, si protrasse ancora per alcuni secoli. Dopo questo ulteriore periodo di sofferenze, finalmente Firenze ricominciò pian piano a crescere nuovamente d’importanza, e verso l’anno 1000 era già tornata in una posizione di preminenza, anche se non aveva ancora una propria indipendenza politica. Una data importantissima fu il 20 ottobre 1250, data che segnò la vera e propria rinascita di Firenze con un proprio ordinamento politico detto del primo popolo. Tale data è importante anche perché segna l’avvento del primo esempio di Costituzione democratica in tutto l’Occidente. Il simbolo della città, che fino ad allora era stato un giglio bianco in campo rosso, si trasformò in un giglio rosso in campo bianco. In quel periodo si affermò anche un altro simbolo della forza e della indipen-

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denza della città dall’imperatore tedesco cui, fino ad allora, era stata soggetta: il “Marzocco”, cioè il tipico leone fiorentino seduto con una zampa poggiata su uno scudo gigliato. Perché fu scelto il leone quale simbolo di indipendenza? Perché il simbolo dell’oppressione era l’aquila imperiale tedesca e il leone era l’animale araldico avversario dell’aquila; tutta la lotta tra i guelfi (sostenitori del papa e della indipendenza cittadina) e i ghibellini (sostenitori dell’imperatore) fu simbolicamente raffigurata, alternativamente, con un leone che sbranava un’aquila e con un’aquila che artigliava un leone. Niente di strano, perciò, se il “primo popolo” fiorentino scelse come animale emblematico il leone. Leoni in pietra se ne vedono sparsi per tutta la Firenze storica. Poiché l’autorità podestarile era in quel tempo di tendenze ghibelline, il popolo guelfo, per dare maggior forza al proprio “Capitano”, organizzò la cittadinanza militarmente in 20 compagnie, con altrettanti gonfaloni dagli stranissimi simboli tra i quali, ancora una volta, primeggiavano i leoni. Non contento dei tantissimi leoni dipinti e scolpiti, il popolo fiorentino volle anche un leone vivo, che teneva chiuso in una gabbia in piazza San Giovanni. Un giorno però i guardiani del leone non chiusero bene la gabbia e il leone fuggì; tutta la città fu in preda alla paura, specialmente quando il leone prese tra le fauci un bimbo sfuggito al controllo della madre. Di questo bimbo sappiamo anche il nome: Orlando. Le narrazioni di questo episodio tuttavia non sono tutte esattamente concordanti: quella che prevale è che il leone probabilmente non abbia preso direttamente tra le fauci il corpo del bimbo; sembra piuttosto che lo abbia afferrato con i denti per la camicia, trasportandolo penzoloni così come normalmente le belve trasportano i propri cuccioli. Pare che il leone col bimbo abbia percorso il tratto non breve tra piazza San Giovanni, dov’era la gabbia, e Or San Michele (nella odierna via dei Calzaiuoli), e qui giunto si dice sia entrato nella

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cappella che già esisteva. A quel punto la madre del bimbo, che fino ad allora era stata a stento trattenuta dalla folla, era riuscita a svincolarsi e, precipitatasi in chiesa, aveva affrontato il leone strappandogli letteralmente il figlio dalle fauci; tutti rimasero meravigliati e qualcuno gridò al miracolo, quando si accorsero che il piccolo Orlando non aveva neppure un graffio e che il leone, calmo e tranquillo, si lasciava ricondurre in gabbia. Successivamente i leoni vivi furono due, un maschio e una femmina; in questo modo si voleva evitare che se per caso quell’unico leone fosse morto, il fatto di restare senza leoni potesse recare danno alla prosperità cittadina. Con due leoni invece i fiorentini potevano stare più tranquilli e vantavano con orgoglio quel loro particolare serraglio cittadino. Un giorno la coppia di leoni dette alla luce due cuccioli – fatto assolutamente eccezionale per due leoni in cattività – e questo evento, fra l’entusiasmo generale, fu interpretato come il migliore auspicio per un glorioso destino che la sorte avrebbe riservato alla città di Firenze.

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Fig. 5 - Da un confronto tra il fiore iris pallida (giaggiolo) e il giglio di Firenze, appare evidente che da quel fiore fu tratta l’ispirazione per il simbolo fiorentino

Origini del nome: perché Firenze si chiama così?

Sarebbe abbastanza logico attribuire il nome di Firenze (in antico Florentia) a un fiore, tanto più che proprio un fiore, il giglio fiorentino, è il simbolo di questa città. Tuttavia questa semplice spiegazione, secondo fonti attendibili di autorevoli studiosi tra i quali R. Davidsohn, non è quella giusta. Tali fonti asseriscono infatti che il nome di Firenze non deriva da un fiore o da prati coperti di fiori. Non sappiamo in quale epoca gli antichi fiorentini crearono il giglio come simbolo della loro città; è certo però che ciò avvenne molto tempo dopo la fondazione della città che comunque, fino da principio, si chiamò Florentia. Dunque il giglio (che, come si è detto, per secoli fu bianco in campo rosso) venne creato successivamente al nome della città, erroneamente interpretando Florentia come “città dei fiori”. Del resto viene spontaneo chiedersi come mai anche la prima Firenze, cioè quella fondata dagli etruschi fiesolani circa nel 150 a.C., fosse già da loro chiamata con il nome prettamente latino di Florentia: non sarebbe stato più logico che i suoi fondatori avessero dato a questa città un nome caratterizzato da una etimologia etrusca? La spiegazione è che gli etruschi di Fiesole costruirono questa nuova città come un indispensabile sbocco fluviale ai loro commerci, con un porto sulle rive del

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fiume Arno. Da moltissimo tempo, del resto, erano abituati a sentire i viandanti di passaggio, spesso romani, chiamare florentes quella rigogliosa pianura. Pertanto, nonostante le numerose diverse supposizioni e leggende, sembra proprio che il nome di Firenze, o meglio di Florentia, derivi non già da un fiore o da prati coperti di fiori, ma piuttosto dalla “fertile” (florentes) pianura su cui fu costruita.

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Chiesa della Badia Fiorentina

La Badia Fiorentina è una delle più antiche chiese di Firenze, la cui costruzione fu iniziata nell’anno 978 per volere della contessa Willa, allo scopo di farne un monastero maschile dedicato alla Madonna. La contessa Willa fu una donna molto pia e virtuosa, amatissima dai fiorentini dell’epoca; più ancora di lei, però, fu amato suo figlio il conte di Brandeburgo, marchese di Toscana, che era il vicario imperiale, anche se i fiorentini preferivano chiamarlo “il gran barone”. Una lapide di marmo visibile sul muro esterno della chiesa della Badia Fiorentina che si trova in via del Proconsolo, quasi di fronte al palazzo del Bargello, reca i seguenti versi di Dante Alighieri: Ciascun che della bella insegna porta, del gran baron, il cui nome e il cui pregio la festa di Tommaso riconforta Questi versi, tratti dalla Divina Commedia, si riferiscono appunto al “gran barone” che è forse l’unico personaggio che ha ricevuto – e tuttora riceve – dai fiorentini la più concreta dimostrazione di un’immensa riconoscenza e di un’imperitura memoria; infatti il “gran barone” morì il 21 dicembre del-

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Fig. 6 - La chiesa della Badia Fiorentina

l’anno 1001 (che allora coincideva con la festa di San Tommaso, il quale però oggi pare sia stato “spodestato” da altri Santi) e da quel giorno ogni anno il 21 dicembre viene puntualmente celebrato nella chiesa della Badia un particolare ufficio funebre in suffragio dell’anima del conte Ugo, marchese di Toscana. Sembra quasi impossibile, ma questo avviene da più di 1000 anni, come è stato confermato dai frati e dalle suore della Comunità Monastica di Gerusalemme, cui è affidata la chiesa della Badia Fiorentina. Dobbiamo anche dire, come del

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resto abbiamo potuto constatare personalmente, che non si tratta affatto di una cerimonia puramente formale tanto per rispettare una tradizione, tutt’altro: è iuna cerimonia molto sentita, con la partecipazione di tutta la comunità monastica oltre che di una numerosa folla di fedeli, alla quale presenzia anche il gonfalone di Firenze, con tanto di stendardo e valletti in costumi cinquecenteschi. Questa cerimonia si svolge in più fasi: prima ci sono i vespri, con varie parti cantate, alternativamente, sia dal coro dei frati che dalle voci bianche delle monache (molto simili ai canti gregoriani), poi viene celebrata la Messa, anche questa con alcune parti cantate, nel corso della quale vi sono momenti molto belli e anche altamente commoventi, alcuni dei quali sottolineati dagli squilli delle chiarine (le antiche trombe degli araldi cinquecenteschi). Finita la Messa, tutti (frati, suore e popolo dei fedeli) si trasferiscono presso il bellissimo sarcofago di Mino da Fiesole contenente i resti del “gran barone”, ai cui piedi del quale, per l’occasione, viene deposta la sua armatura di ferro. A questo punto il frate che celebra l’ufficio legge una preghiera particolare, alla fine della quale impartisce la benedizione alla salma e anche questo momento conclusivo viene sottolineato dagli squilli delle trombe dei rappresentanti del gonfalone fiorentino. È da notare che l’insegna dello stemma nobiliare del “gran barone” era “addogata”, era cioè a doghe (bande verticali) bianche e rosse come i colori del simbolo cittadino – che allora era un giglio bianco in campo rosso – e questo fu visto come un legame in più tra il saggio governante e il popolo di Firenze. Ma non è certo per tale coincidenza che il conte Ugo fu amatissimo da tutta la popolazione sia della città che delle campagne; il suo merito maggiore fu una grande saggezza nello svolgimento del suo mandato imperiale, che gli consentì di portare Firenze a essere la più importante città della Tuscia o Toscana; egli ne

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Fig. 7 - La tomba del “gran barone”, il conte Ugo marchese di Toscana

fu signore veramente saggio e buono, e amministrò per lungo tempo la città con scrupolosa onestà, grande capacità e senso di giustizia; queste doti, tanto rare in un potente signore che avrebbe potuto esercitare in ben altro modo la sua autorità di vicario imperiale, non potevano non suscitare nella popolazione un grande senso di riconoscenza e perfino di affetto. Si dice che, senza farsi riconoscere, il marchese Ugo percorreva le terre del suo dominio intrattenendosi con i lavoratori dei campi e con gli artigiani dei borghi, parlando male di se stesso, ovvero accusando il marchese di malgoverno e di mancate provvidenze e assistenze; voleva constatare in tal modo in quale considerazione era tenuto dalla popolazione. Pare incredibile, ma i popolani si ribellavano contro quello sconosciuto maldicente, lodando invece il loro signore al quale esprimevano ogni gratitudine. A questo proposito va tenuto presente che

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mancano documentazioni certe, poiché tali eventi sono stati tramandati da racconti di monaci. Tuttavia si può essere propensi a ritenerli attendibili considerando che, se dopo più di mille anni il “gran barone” viene ancora onorato e ricordato come forse nessun altro uomo al mondo, qualcosa di vero, in quei racconti, deve pur esserci. Il conte Ugo, marchese di Toscana, morì a Pistoia e poiché era molto amato in tutti i suoi domini, i fiorentini ebbero timore che i cittadini di Pistoia volessero inumarlo in qualche loro chiesa; ricorsero perciò a uno stratagemma, dicendo che il marchese era solo gravemente ammalato e che desiderava tornare a Firenze. Posero quindi il suo cadavere a cavallo, con un servitore in arcione che lo sosteneva per le ascelle, e in tal modo lo riportarono a Firenze per essere sepolto, con tutti gli onori, nella chiesa della Badia Fiorentina. Questa chiesa subì nel tempo alcuni rifacimenti, l’ultimo dei quali risale al ‘600 in piena epoca barocca, ma la tomba del “gran barone” non fu mai spostata e ancora oggi la si può ammirare, all’interno della chiesa, in quello stupendo sarcofago che abbiamo citato, scolpito da Mino da Fiesole che fu uno dei massimi scultori del ‘400.

Un particolare ringraziamento alla Comunità Monastica di Gerusalemme per la gentile collaborazione e concessione del permesso di realizzare e pubblicare la foto eseguita all’interno della chiesa della Badia Fiorentina.

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Fig. 8 - La porta del Paradiso con le colonne di porfido donate dai pisani

Le colonne affumicate del Battistero di San Giovanni

Firenze è una città ricchissima di storie che non si sa bene se collocare nella realtà o nella leggenda. Come fatti reali, infatti, talvolta mancano di sufficiente documentazione storica; d’altra parte è difficile anche accettarli come leggende perché comunque esistono concrete testimonianze artistiche e monumentali, ben visibili a tutti, a dimostrazione che non può essere totalmente esclusa una sostanziale realtà dei fatti narrati. Nel dubbio non ci resta quindi che mostrare e commentare alcune di queste tangibili e curiose testimonianze che non hanno altra spiegazione se non accettando per buono, sia pure con riserva, ciò che la tradizione popolare narra in proposito; ciò vale anche per quelle stranissime colonne addossate al Battistero di San Giovanni. Guardando il Battistero con le spalle rivolte al Duomo, si vede la mirabile porta bronzea detta “del Paradiso”, opera quattrocentesca di uno dei più illustri e famosi scultori fiorentini dell’epoca. La bellezza di questa porta è tale che il grande Michelangelo, vedendola, esclamò: “è così bella che sarebbe degna di essere posta all’ingresso del Paradiso!”; ecco perché da allora quella porta è chiamata “del Paradiso”. Lo stesso Lorenzo Ghiberti che la realizzò, ne fu tanto soddisfatto che volle lasciare ai posteri, a suo perenne ricordo, una particolarissima firma

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oltre a quella, consueta, scritta a lettere incise: un autoritratto suo e di suo figlio (che collaborò con lui) in alto rilievo, visibile tra le decorazioni che incorniciano le formelle. Ai lati di questa porta, un po’ distanziate da essa, vi sono due antichissime colonne di porfido, che forse pochi notano credendole parte integrante della struttura architettonica del Battistero. Queste due colonne, che a un’attenta osservazione recano ancora qualche traccia di un’antica esposizione al fumo di un incendio, sono invece cimeli di guerra, anche se non predati dall’esercito fiorentino ma anzi donate dai pisani a Firenze in segno di riconoscenza dopo la guerra delle Baleari, combattuta nel 1115. Le due colonne quindi non hanno niente a che fare con l’architettura romanica del Battistero. Allora, come mai si trovano lì? La risposta possiamo trovarla solo nella tradizione popolare; nessun’altra fonte parla di queste due colonne che, tuttavia, da tempo immemorabile si trovano in quello stesso posto, ben visibili e tangibili. Non resta perciò che raccontare questa curiosa storia con la precisazione, però, che il contesto degli eventi da cui la storia stessa è scaturita si basa su avvenimenti storici rigorosamente accertati e documentati e quindi realmente accaduti. Nel Medioevo Firenze e Pisa erano perennemente rivali per questioni essenzialmente di ordine commerciale nonché di importanza politica. Spesso erano in guerra tra loro e non perdevano occasione per affrontarsi e offendersi in ogni circostanza, anche in tempo di pace. Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio (cioè alla porta di casa) è un antico detto fiorentino, ma i pisani sostengono che questo detto apparteneva a loro ed era: Meglio un morto in casa che un fiorentino all’uscio! Chi sarà stato in realtà il primo a dirlo: un fiorentino oppure un pisano? Nessuno lo saprà mai… Quella però era un’epoca davvero strana; poteva perfino accadere che nemici così fieri e irriducibili potessero giungere

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a tendersi sinceramente la mano se certe situazioni politiche o commerciali lo rendevano opportuno. Accadde così che, agli inizi del XII secolo, continue scorrerie di pirati saraceni rendevano poco sicuri i trasporti commerciali per via fluviale lungo l’Arno, con notevole danno sia per Firenze che per Pisa. Era indispensabile fare subito qualcosa perché le due città, le cui fortune erano basate soprattutto sul commercio, non andassero in rovina. Pisa aveva un grandissimo porto sul mare alla foce dell’Arno e, a differenza di Firenze, possedeva una grande flotta di navi; era quindi Pisa, tra le due città “unite” dalla sventura saracena, la più adatta per dare la caccia ai pirati ed eliminarli dalla circolazione. Pisa però non poteva mandare per mare la propria flotta e il proprio esercito lasciando la città indifesa ed esposta sia agli attacchi dei fiorentini, che avrebbero potuto approfittare della situazione (cosa non rara per quei tempi), sia dei temutissimi e altrettanto pericolosi e agguerriti nemici lucchesi, che proprio in quel periodo rappresentavano per Pisa la più grave minaccia. Pisa allora mandò un’ambasceria a Firenze per chiedere una “tregua d’armi” spiegando la necessità, nell’interesse comune, di liberarsi una volta per tutte dei pirati saraceni. Firenze, visto che ciò avrebbe tutelato anche i suoi interessi e per giunta senza alcun rischio, accondiscese volentieri a concedere “sul proprio onore” la tregua richiesta. Vedendo la buona volontà dei fiorentini, i pisani spinsero oltre le proprie richieste pregando Firenze di inviare il suo esercito a proteggere la loro città contro ogni possibile minaccia. Ancora una volta i fiorentini si resero garanti “sul loro onore” che nessuno, in assenza dell’esercito pisano, avrebbe potuto recare il benché minimo danno alla città di Pisa. Oggi si potrebbe pensare che affidare la propria città indifesa alla protezione di tali irriducibili nemici quali erano i fiorentini poteva essere molto azzardato e rischioso; si deve

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Fig. 9 - Particolare della porta del Paradiso con gli autoritratti in alto rilievo di Lorenzo Ghiberti e del figlio, autori dell’opera

però considerare che a quel tempo il senso dell’onore, sia in campo militare che civile, era altissimo: una parola d’onore era da considerarsi “sacra” e pertanto un dubbio del genere non sfiorò neppure la mente dei pisani. Così nel 1113 i pisani partirono con il loro esercito e la loro flotta per dare la caccia a quei terribili pirati, mentre l’esercito fiorentino, fedele alla parola data, si accampava due miglia fuori della città di Pisa a guardia e protezione della città. Il comandante dei fiorentini preferì non entrare nella città per non correre il rischio che qualche fante o qualche cavaliere potesse molestare le donne pisane (cosa che sarebbe stata gravissima per l’onore fiorentino) o che comunque i soldati potessero recar danno, in qualsiasi modo, alla popolazione di Pisa; a tale scopo, anzi, emanò un bando affinché nessun fiorentino osasse

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entrare nella città senza un preciso ordine. Accadde però che uno dei fiorentini, un giovane cavaliere forse innamorato di una ragazza pisana, disobbedì al bando del suo comandante ed entrò di notte nella città. Quando ne uscì per tornare all’accampamento, fu visto e subito catturato dalle sentinelle fiorentine di guardia. Portato dinanzi al comandante, non ebbe neppure un processo e fu subito condannato all’impiccagione. Il triste caso commosse molto la popolazione di Pisa e alcuni notabili pisani si recarono dal comandante fiorentino per implorare il condono della pena decretata per quel povero giovane. Il comandante però fu irremovibile nonostante che tutta Pisa, ormai, fosse contro di lui e a favore dell’innamorato. La commozione dei pisani cresceva a dismisura perché, in definitiva, quel cavaliere non aveva fatto nulla di male. Essendo ormai prossima l’impiccagione e vista l’ostinata determinazione del comandante fiorentino, i pisani, in un ultimo disperato tentativo di salvare il giovane, fecero sapere al comandante che mai avrebbero permesso quella ingiusta esecuzione capitale su terra pisana. A questo punto erano convinti di aver raggiunto il loro scopo, ma purtroppo avevano sottovalutato la famosa astuzia dei fiorentini… Infatti, il troppo severo ma astuto comandante fiorentino escogitò subito un espediente per fare ugualmente eseguire la sentenza nonostante l’esplicito divieto pisano. I pisani non volevano che si facesse l’impiccagione su terra pisana? Benissimo: il comandante chiamò un suo ufficiale e gli fece acquistare segretamente un piccolissimo appezzamento di terreno, appena sufficiente per erigervi la forca; quel terreno era a tutti gli effetti terra fiorentina e non pisana: fu così che quel giovane cavaliere venne impiccato. La caccia dei pisani ai pirati saraceni si concluse con un pieno successo: le loro navi vennero distrutte e fu conquistata e saccheggiata anche la loro base nell’isola di Maiorca. La flotta

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Fig. 10 - Il Battistero di San Giovanni

pisana tornò quindi in patria con molto bottino di guerra tra cui, appunto, le due colonne di porfido di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo. Si diceva che queste due colonne avessero una virtù magica, arte nella quale i saraceni erano considerati maestri. Sembra che fosse sufficiente mettersi dietro una di queste colonne per vedere, tramite le immagini riflesse delle persone che vi passavano vicino, se vi fossero ladri, falsari, assassini e traditori. I pisani dunque, per ringraziare i fiorentini dell’assoluta onestà e correttezza con cui avevano vigilato sulla

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loro città, vollero donare a Firenze queste due colonne che però, stranamente, erano avvolte in grandi drappi rossi. Finita la tregua, i sospetti e le maldicenze tra pisani e fiorentini si riaccesero subito, addirittura prima ancora che l’esercito fiorentino fosse rientrato a Firenze: perché mai quelle “magiche” colonne erano state avvolte in drappi rossi? I sospettosi fiorentini scostarono i drappi e scoprirono che erano state esposte al fumo di un incendio e questo li convinse della malafede dei pisani. Poiché quelle colonne erano bottino di guerra di una base saccheggiata e verosimilmente incendiata, il fuoco che le aveva annerite quelle colonne poteva benissimo essere conseguenza del saccheggio subito dai saraceni sull’isola di Maiorca, ma i fiorentini preferirono pensare che erano state deliberatamente “arrostite” dai pisani per togliere loro ogni potere magico, affinché non si potesse scoprire quanto i pisani fossero ladri, falsari, assassini e traditori! Firenze dunque pose quelle colonne ai lati della porta del Battistero, presumibilmente per ricordare ai posteri l’onestà dei fiorentini e l’inganno dei pisani.

Cenni sul Battistero Iniziato nella seconda metà dell’XI secolo in prossimità del luogo dove si trovava un precedente tempio romano dedicato a Marte, il Battistero è uno dei migliori esempi del più puro stile romanico. Una delle porte è di Andrea Pisano; le altre due sono di Lorenzo Ghiberti. All’interno vi sono mosaici attribuiti a Coppo di Marcovaldo e a Cimabue. La costruzione fu finita nel 1225 dai frati francescani, che lo adornarono anche dei vetrini colorati sul davanti della scarsella, mentre il rivestimento esterno con i bellissimi marmi bianchi e verdi fu eseguito successivamente da Arnolfo di Cambio nel 1294. 37

Fig. 11 - La cupola del Duomo di Firenze (Santa Maria del Fiore)

Il Duomo di Firenze (Santa Maria del Fiore)

La costruzione del Duomo iniziò nel 1296 – sui resti di una precedente basilica paleocristiana (Santa Reparata) – in puro stile gotico toscano, su progetto del grande architetto fiorentino Arnolfo di Cambio. Arnolfo fu addirittura esonerato dal pagamento delle tasse in virtù del fatto che stava lavorando al più grande monumento della cristianità di quel tempo. La cattedrale fiorentina ha infatti dimensioni imponenti: lunghezza metri 153; larghezza che varia da 38 a 90 metri; altezza della navata metri 55; altezza della cupola metri 88, oltre alla lanterna che è alta altri 20 metri. Arnolfo però vi lavorò solo per quattro anni, poiché morì nel 1300. La costruzione del Duomo, che doveva dimostrare al mondo la posizione di assoluta supremazia politica e commerciale di Firenze e, in sostanza, la sua grandezza e potenza, aveva però costi altissimi (basti pensare che il tempo necessario alla sua costruzione occupò un arco di ben 140 anni!) e “ingoiava” fiumi di denaro. Per quanto le entrate erariali di Firenze fossero assai notevoli, il denaro non bastava mai. Più volte abbiamo accennato alle astuzie dei fiorentini che sono sempre riusciti a trarsi d’impaccio con soluzioni ingegnose e talvolta addirittura geniali. Cosa potevano fare dunque le autorità cittadine per raccogliere del denaro in più da destinare alla costruzione

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Fig. 12 - Veduta d’insieme del Duomo

della grandiosa cattedrale? La soluzione fu geniale per la sua semplicità: si pensò di infliggere una multa per ogni bestemmia che chiunque avesse pronunciato. Iniziò quindi la caccia ai bestemmiatori e, in effetti, se ne trovarono moltissimi specialmente tra gli artigiani e gli stessi operai che lavoravano alla costruzione di Santa Maria del Fiore; con i proventi di quelle multe si sarebbero pagate pietre lavorate per l’enorme costruzione. Con questo sistema venne brillantemente risolto il problema di assicurare nuovi e consistenti finanziamenti per il cantiere del Duomo, che ora procedeva sotto la direzione di Francesco Talenti, succeduto ad Arnolfo di Cambio. Quando la grandiosa costruzione giunse al punto di impostare la cupola, cominciarono a presentarsi problemi molto più seri di quelli facilmente risolti con la tassa sulle bestemmie;

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infatti nessun architetto, prima di allora, aveva mai costruito una cupola così grande. Vi erano dei problemi strutturali tali che, se non si fosse trovato un metodo sicuro di costruzione, si sarebbe rischiato di veder crollare quella immensa cupola sotto il suo stesso peso nel corso dei lavori. Fu indetto perciò un concorso pubblico e vennero presentati moltissimi progetti con le più svariate soluzioni: alcune troppo ardite e rischiose, alcune possibili ma troppo costose, altre addirittura incredibilmente assurde. Tra queste ultime vale la pena di citarne una in particolare, che suscitò l’ilarità dei giudici del concorso: uno dei progettisti propose di costruire un’immensa cupola di terra, una specie di montagna ovoidale con moltissimi fiorini d’oro mischiati alla terra. Questa sorta di “forma” di terra avrebbe dovuto costituire l’appoggio per i mattoni della costruzione vera e propria che, sostenuta dal terrapieno, non avrebbe rischiato di crollare. Una volta finita la costruzione, si sarebbe potuto togliere tranquillamente la terra sicuri che la cupola non sarebbe più crollata. E per togliere tutta quella terra da dentro la cupola? Facilissimo: si sarebbe invitata la popolazione a intervenire con carri, carrettini, carriole, pale, badili, ecc. per portarsi via la terra e i fiorini che vi erano stati nascosti; chi li avesse trovati, portandosi via la terra, avrebbe potuto tenerseli. Naturalmente questo progetto non fu accettato. Vinse invece Filippo Brunelleschi il cui progetto, per quanto ardito, alla fine risultò quello più convincente. Il Brunelleschi (Filippo di ser Brunellesco) aveva trovato una geniale soluzione a struttura “autoportante”; cioè avrebbe costruito la cupola con un’intercapedine (una specie di doppia cupola) e con questo sistema, nel corso della costruzione, la cupola si sarebbe sostenuta da sola senza rischi di crollare.

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Fig. 13 - Scorcio della cupola del Duomo, nel punto in cui è ben visibile la “galleria”, iniziata e mai completata, eseguita da Baccio d’Agnolo

Uovo di Colombo o uovo di Brunelleschi?

Non bisogna credere che Filippo Brunelleschi abbia vinto facilmente il concorso per la costruzione della cupola, anzi, inizialmente i rappresentanti dell’Opera del Duomo e quelli dell’Arte della Lana, che sovrintendevano al concorso, erano tutt’altro che convinti della validità del suo progetto. Infatti, quando il Brunelleschi dichiarò che sarebbe stato capace di “voltare” la cupola senza bisogno di armature, fu preso per pazzo e invitato senz’altro a uscire dalla sala in cui era riunita la Commissione; lui però fece finta di non sentire e continuò a parlare con sapientissime ma tutt’altro che convincenti parole. dopo averlo esortato più volte ad andarsene, ma senza risultato, la Commissione alla fine lo fece prendere a forza dagli uscieri e portare di peso fuori dalla sala. La tradizione attribuisce al Brunelleschi l’espediente noto a tutti come “uovo di Colombo”, che consiste nel riuscire a fare “star ritto un uovo” semplicemente schiacciando con un colpetto, su un piano di marmo, una parte del guscio così piccola da essere quasi invisibile, ma sufficiente a non farlo cadere. Se è vera questa tradizione – peraltro notissima – l’episodio dell’uovo sarebbe avvenuto a opera del Brunelleschi almeno 70 anni prima che Cristoforo Colombo facesse un gesto analogo. Nell’attribuire al grande architetto tale episodio si dice

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che Brunelleschi, indispettito per non essere stato ascoltato dalla Commissione come meritava, avrebbe sfidato gli altri progettisti in gara dicendo: “Chi riuscisse a fermare in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe l’ingegno suo”. Certamente non è stato per questo episodio che poi la Commissione mutò parere circa il progetto del Brunelleschi; in realtà, prima che gli venisse affidato il lavoro, egli addusse ben altre e convincenti prove a sostegno della sua tesi e della sua capacità di “voltar cupole” più piccole ma pur sempre ardite, come quella della cappella dei Barbadori nella chiesa di Santa Felicita e quella di Sant’Iacopo Sopr’Arno. La costruzione di Santa Maria del Fiore fu ultimata nel 1436 e in quello stesso anno fu solennemente consacrata anche se mancavano ancora la lanterna sopra la cupola e la decorazione della facciata che a quel tempo si presentava al rustico, cioè, per fare un esempio, era in pietra grezza così come ancora oggi possiamo vedere la facciata della Basilica di San Lorenzo. La lanterna venne ultimata successivamente dallo stesso Filippo Brunelleschi, mentre l’attuale facciata – che molti credono autentica di epoca gotica – fu invece realizzata, con una ricostruzione in stile assai criticata, dall’architetto De Fabris nel XIX secolo.

Curiosità

La palla che si trova sulla sommità della lanterna della cupola non è più quella originale, fatta dal Verrocchio, che venne colpita da un fulmine il 17 gennaio 1600, e in tale circostanza cadde nella piazza frantumandosi. La palla attuale, rifatta nel 1602, è più grande della precedente e si dice che potrebbe benissimo contenere al suo interno un tavolo e relative sedie per otto persone!

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C’è però qualcosa di ancora più curioso che riguarda la cupola: osservandola dall’esterno si può notare che la rifinitura del tamburo sul quale poggia non è mai stata ultimata. Si tratta infatti di una galleria ad arcate che esiste solo dalla parte verso via dell’Oriuolo e via del Proconsolo, per interrompersi poi bruscamente lasciando scoperta la parte liscia del tamburo: perché non è mai stata finita? Un aneddoto ce ne fornisce la spiegazione: quella galleria fu iniziata nel 1506 da Baccio d’Agnolo, che vi lavorò fino al 1515 quando gli fu riferito il critico commento fatto dal grande Michelangelo: “Quella galleria assomiglia tanto a una gabbia per grilli!”. Questa critica scoraggiò a tal punto il povero Baccio che sospese i lavori e né lui né altri vollero più riprenderli.

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Fig. 14 - Stemma araldico della famiglia dei Pazzi

Fig. 15 - Stemma araldico della famiglia dei Medici

Un fatto di sangue

Nel Duomo di Firenze, cinque secoli fa, avvenne un fatto di sangue rimasto famoso col nome di “congiura dei Pazzi” in cui perse la vita il giovane Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico. I Medici, signori di Firenze, erano molto amati dal popolo, almeno in quel periodo, ma erano odiati da alcune antiche e potenti famiglie della stessa città di Firenze, tra cui la nobile famiglia dei Pazzi. Altro potente nemico dei Medici era papa Sisto IV il quale, tutt’ altro che “Santo Padre”, era un pontefice nepotista e badava assai più agli interessi terreni che a quelli dello spirito, e in ciò ben spalleggiato dall’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati. Mentre i Pazzi covavano il loro odio fingendosi esteriormente amici dei Medici, non mancavano invece numerose reciproche provocazioni tra la famiglia dei Medici da una parte e il papa e l’arcivescovo Salviati dall’altra. Alla fine Salviati inviò a Firenze il giovanissimo Raffaele Riario per organizzare, con la famiglia dei Pazzi, una congiura allo scopo di uccidere Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Raffaele Riario era poco più di un ragazzo: nipote del papa era stato creato cardinale appena diciottenne ma, anche se così giovane, la sua carica gli permise di rendere molto più agevole l’attuazione della congiura.

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Furono organizzati dei festeggiamenti nel corso dei quali non sarebbe stato difficile uccidere i due Medici, ma non fu possibile attuare questo piano poiché Giuliano, indisposto, non partecipò alle feste. Si pensò allora di effettuare l’attentato in Duomo durante la Messa, alla quale non sarebbero certo mancati né Lorenzo né Giuliano. La mattina del 26 aprile 1478 tutto era pronto e al suono delle campane del Duomo che annunciavano la Messa, i congiurati cominciarono a entrare nella cattedrale con le armi sotto le vesti. Tuttavia, all’ultimo momento, accadde un fatto che sembrò far fallire ancora una volta la congiura. A uccidere Lorenzo, assai più forte di Giuliano, era stato designato un esperto uomo d’arme, Giovan Battista da Montesecco, ma quando questi seppe che avrebbe dovuto uccidere Lorenzo in chiesa, e per giunta al momento della Consacrazione, si rifiutò di farlo: era disposto a uccidere, ma non in chiesa, non in modo sacrilego. Non c’era più tempo per trovargli un sostituto adeguato e così, in tutta fretta, l’incarico di uccidere Lorenzo se lo presero il prete Stefano Bagnoni e il notaio della camera apostolica Antonio da Volterra. Intanto Lorenzo e Giuliano tardavano e i congiurati cominciavano a temere che qualche altro imprevisto potesse di nuovo sottrarre loro le vittime designate. Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini uscirono di chiesa per spiare l’uscita dei due fratelli dal loro palazzo di via Larga (oggi via Cavour), che era ben visibile dalla piazza del Duomo. Quando li videro, corsero loro incontro fingendo di abbracciarli mentre, in realtà, volevano solo accertarsi che sotto le vesti non avessero corazze o maglie di ferro. I due giovani erano praticamente indifesi: Giuliano non aveva neppure le armi e Lorenzo solo una spada. I due congiurati, ormai rassicurati, li scortarono sorridenti e affabili all’interno del Duomo, fin presso l’altare. Iniziò la Messa; il caso volle che vicino al gruppo dei con-

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giurati e delle vittime designate si trovasse, tra gli altri fedeli, il famoso umanista filosofo e letterato Agnolo Poliziano, che era amico dei Medici; sarà proprio lui, testimone diretto di quel tragico fatto, che racconterà al mondo tutto ciò che avvenne nei minimi particolari. La Messa era ormai giunta al momento dell’Elevazione: l’assistente del sacerdote suonò il campanello d’argento e i fedeli si inginocchiarono, compresi Lorenzo e Giuliano. Non si inginocchiarono però i congiurati e, mentre l’ostia era levata in alto, Bernardo Bandini e Francesco de’ Pazzi affiancarono Giuliano sguainando i pugnali; Bandini fu il primo a vibrare il colpo che gli trapassò il petto. Giuliano, ferito gravemente, tentò di fuggire, ma fatti pochi passi cadde a terra stremato; Francesco de’ Pazzi gli fu subito sopra e i colpi si susseguirono ai colpi. Intanto Stefano Bagnoni e Antonio da Volterra assalivano Lorenzo; il volterrano lo afferrò a una spalla e lo ferì alla gola, seppure non gravemente. Lorenzo balzò in piedi sguainando la spada e mettendo in fuga gli assalitori. Subito dopo, prima ancora di sapere della morte del fratello, si rifugiò nella sacrestia del Duomo aiutato dall’amico Poliziano. Più tardi, quando fu messo al corrente della morte di Giuliano, tornò al palazzo di via Larga con una buona scorta di amici armati e da lì iniziò, spietatissimo, la sua vendetta. Invano i Pazzi, correndo a cavallo per la città, cercarono di sollevare il popolo contro i Medici; il popolo amava troppo Lorenzo e Giuliano e inoltre gli animi erano inferociti contro i Pazzi per il sacrilego assassinio. Dopo un’ora l’arcivescovo Salviati penzolava impiccato dall’ultima finestra della Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio e sei congiurati gli facevano macabra compagnia penzolando dalle altre finestre; tra questi si poteva scorgere il corpo nudo del giovane Francesco de’ Pazzi. Soltanto Bernardo Bandini riuscì a fuggire, rifugiandosi nientemeno che a Costantinopoli, ma anche in quel lontano paese il rispetto per Lorenzo de’ Medici era grandissimo e così il sul-

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tano lo fece arrestare, rimandandolo incatenato a Firenze dove, un anno e mezzo dopo la congiura, fu anch’egli impiccato. Il cardinalino Raffaele Riario, nipote del papa, dopo essere stato imprigionato per due settimane con la paura di sentirsi stringere da un momento all’altro la corda al collo, fu invece liberato e rimandato a Roma. In via del Proconsolo, all’angolo con borgo degli Albizi, vi è un bellissimo palazzo quattrocentesco fregiato, sullo spigolo, di un elegante stemma legato da nastri svolazzanti lungo i due muri: è lo stemma dei Pazzi, in cui si vedono due guizzanti delfini congiunti per le code, con alcune piccole croci sotto e sopra. Più verso il Bargello, da cui un tempo la separava un vicolo, si trova un’altra stretta casa trecentesca che fu dimora dei Pazzi. Dopo la congiura che costò la vita a Giuliano nessuno nominò più quella famiglia e queste case furono confiscate con tutti i beni dei Pazzi. Perfino lo scoppio del carro, antica tradizione fiorentina, venne sospeso per alcuni anni allo scopo di evitare che venisse ulteriormente reso onore a quella famiglia che godeva dell’antico privilegio di accendere il fuoco santo nel giorno di Pasqua in memoria del proprio antenato Pazzino, valoroso reduce dalle crociate.

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Lo scoppio del Carro

Il turista che si trova a Firenze il giorno di Pasqua può assistere, in piazza del Duomo, a uno spettacolo unico: lo scoppio del carro. È questa un’antichissima tradizione fiorentina legata a una leggenda che si perde nella notte dei tempi… Ma è corretto parlare proprio di leggenda? In effetti il suo fondamento storico non è provato, ma si dice che quando papa Urbano II bandì la prima crociata per liberare il Santo Sepolcro, molti cavalieri fiorentini si unirono alle truppe di Goffredo di Buglione e ciò è storicamente provato; tra questi, dice la leggenda – ma non è improbabile che fosse vero – vi era anche un antenato della famiglia fiorentina dei Pazzi, di nome Pazzino. La leggenda dice anche che il primo crociato a salire sugli spalti di Gerusalemme fu proprio il fiorentino Pazzino de’ Pazzi e Goffredo di Buglione, comandante dell’impresa, in riconoscimento del suo valore volle premiarlo con due pezzetti di pietra tolti dal sepolcro di Cristo. Quando Pazzino fece ritorno in patria, la chiesa fiorentina avrebbe accordato a questo valoroso crociato e ai suoi discendenti il privilegio di accendere il fuoco santo nel giorno di Pasqua, con le scintille fatte sprizzare sfregando tra loro quei due pezzetti di pietra (evidentemente focaia) nell’antica cattedrale fiorentina di Santa Reparata.

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Fig. 16 - Lo scoppio del Carro (per gentile concessione alla pubblicazione da parte della ditta Foto Locchi - Firenze)

Successivamente (non sappiamo bene quando, ma sicuramente molti secoli fa) iniziò a Firenze la tradizione del cosiddetto “scoppio del Carro” la cui accensione veniva innescata, appunto, con il fuoco santo così come avviene ancora oggi. La storia di Pazzino de’ Pazzi è dunque verità o leggenda? Una cosa è certa: da quando si ha memoria dello scoppio del Carro, la cerimonia di accensione del fuoco santo fu sempre

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affidata a un membro della famiglia dei Pazzi. Altro particolare curioso – che non si spiega altrimenti se non prendendo per buona la leggendaria tradizione – è che sulla sommità del “brindellone” (così è chiamato il carro sul quale scoppiano i fuochi pirotecnici) vi sono sempre stati quattro delfini scolpiti nel legno del Carro stesso; non è strano osservare che i delfini sono proprio l’emblema della famiglia dei Pazzi? Preferiamo lasciare al turista ogni giudizio su come interpretare queste cose, e ampia libertà di prendere o meno per buona questa storia, limitandoci a descrivere come si svolge quest’antichissima e spettacolare cerimonia. Il mattino del giorno di Pasqua, al rullo dei tamburi dei figuranti del calcio storico fiorentino in costumi cinquecenteschi, nonché al suono delle chiarine (le antiche tipiche trombe comunali) un variopinto corteo di dame e cavalieri, sempre in antichi costumi fiorentini, con il gonfalone comunale, si reca a prelevare il Carro – un antico e monumentale torrazzo di legno, molto alto, a base poligonale inscritta in un cerchio e terminante a cuspide nella parte superiore – che viene custodito in un ampio locale presso l’antica Porta al Prato e che è già stato predisposto per lo scoppio dagli artificieri che vi hanno lavorato nei giorni precedenti. Dire “scoppio del carro” però è sbagliato: in realtà il Carro non scoppia affatto e, al massimo, può subire qualche lieve danno che viene prontamente riparato. Ciò che scoppia, invece, sono i numerosissimi mortaretti, petardi e girandole con i quali il Carro viene letteralmente ricoperto, in una serie continua, dalla base fino alla cima. Il Carro, trainato da due grandi e bianchi buoi della razza chianina (provenienti cioè dalla Val di Chiana in Toscana, così come vuole la tradizione) viene accompagnato dallo stesso corteo fino in piazza del Duomo dove, per l’occasione, sono state approntate con ponteggi tubolari le tribune con posti a sedere per i numerosi turisti che assistono allo spettacolo. Al cospetto

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di autorità civili e religiose, dopo antichi inni e spettacoli di sbandieratori, il cardinale arcivescovo di Firenze inizia la cerimonia vera e propria che si svolge in due fasi: la prima nel Battistero di San Giovanni e la seconda in Duomo dove viene celebrata la solenne Messa pasquale. Con il fuoco santo si accende il cero pasquale e inizia la Messa. Al momento del gloria, col cero pasquale viene acceso un piccolo razzo che gli artificieri hanno fissato alla “Colombina”, cioè una piccola colomba di cartapesta, la quale, spinta dal razzo, corre velocissima lungo un sottile cavo teso tra l’altare del Duomo e il carro che si trova nella piazza tra il Duomo stesso e il Battistero. La Colombina compie quindi il suo volo in due fasi: prima vola dall’altare fino al carro incendiando, col suo razzo, la miccia che farà scoppiare i mortaretti; se tutto funziona bene (e non sempre accade) la Colombina compie un rapido dietro front e torna, altrettanto velocemente, fino all’altare da cui è partita, mentre il Carro riempie la piazza di fumo e di botti assordanti. Da tempo immemorabile, ma oggi sicuramente meno di una volta, dalla campagna giungono numerosi i contadini per assistere allo scoppio del Carro; infatti è sempre stata tradizione trarre auspici dal volo della Colombina: se tutto andava bene (cioè se la Colombina innescava a dovere i fuochi del Carro tornandosene poi regolarmente indietro fino all’altare), ciò significava che il raccolto delle messi sarebbe stato abbondante e di buona qualità. In caso contrario, cioè se qualcosa nella Colombina o nello scoppio dei mortaretti non avesse funzionato, allora per le campagne sarebbero stati guai: certamente vi sarebbe stata siccità oppure la grandine avrebbe distrutto i frutti di un duro lavoro. Prima di concludere questo argomento riteniamo interessante soffermare l’attenzione sulla figura emblematica della Colombina; perché per incendiare i mortaretti del carro è stata scelta una colomba? La risposta sembrerebbe ovvia: perché la

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colomba è universalmente considerata come simbolo di pace e, in effetti, potrebbe anche essere così. Tuttavia quando queste simbologie si inseriscono nel contesto di Firenze, bisogna sempre stare attenti a non prendere troppo sul serio le cose che, a prima vista, sembrano più ovvie. Potrebbe esserci, infatti, anche un’altra spiegazione, forse più complessa, ma da non sottovalutare perché le cose troppo facili non sono mai state una peculiarità dello spirito fiorentino. Vediamo dunque di valutare anche una possibile diversa spiegazione riguardo alla scelta della Colombina. Santa Maria del Fiore, il bellissimo Duomo di Firenze, come abbiamo detto fu costruito sui resti di una precedente chiesa paleocristiana, Santa Reparata, che per quanto assai più piccola del Duomo attuale, era stata comunque uno dei più importanti templi della cristianità e fu sicuramente orgoglio e vanto del popolo fiorentino, che aveva una grandissima venerazione per la Santa martire a cui quella importante chiesa era dedicata. Il culto di questa Santa orientale pare sia stato importato a Firenze dai primi missionari cristiani, quando, nei primi secoli dell’era cristiana, Firenze era ancora pagana. È molto probabile che Santa Reparata sia stata addirittura la prima chiesa costruita a Firenze dopo che la città si era convertita al cristianesimo; i resti di questa antichissima chiesa sono stati ritrovati sotto l’attuale pavimentazione del Duomo e oggi è possibile visitarli passando dall’interno della cattedrale. Anche su Santa Reparata vi è una leggenda alla quale però i fiorentini antichi hanno sempre dato grandissimo credito: questa santa sarebbe stata una fanciulla orientale che, per la sua fede cristiana, morì in Cesarea nel 250 d.C., durante la persecuzione dell’imperatore romano Decio. Reparata era una delle tante giovani cristiane che subirono il martirio per non aver voluto sacrificare agli dèi. La leggenda dice che quando la Santa fu decapitata dalla spada

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del carnefice, la sua anima fu veduta uscire dal corpo in forma di colomba e salire al cielo. Dunque è almeno strana e davvero curiosa la coincidenza che a incendiare i fuochi del Carro sia proprio una colomba che, quale simbolo di rinascita spirituale, vola fino al Carro partendo dal cuore di quella cattedrale che si trova proprio sopra le rovine dell’antica chiesa dedicata alla Santa la cui anima, guarda caso, rinacque spiritualmente volando in cielo sotto forma di colomba…

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I ponti di Firenze, i vizi dei fiorentini e il castigo di Dio

La necessità di un ponte sul fiume Arno fu molto sentita dai fiorentini fino dall’epoca romana. Il primo ponte, infatti, fu costruito all’inizio del primo secolo dopo Cristo, poco più a monte del punto dove si trova l’attuale Ponte Vecchio. Esiste tuttora, in prossimità del Ponte Vecchio, un antico vicolo denominato “vicolo Marzio” (che collega piazza Santo Stefano a piazza del Pesce); proprio in corrispondenza di tale vicolo doveva trovarsi il primo ponte sull’Arno di Firenze. In realtà doveva trattarsi di una specie di passerella in legno che solo più tardi, nel 120 d.C. – quando l’imperatore Adriano ampliò la via Cassia – cominciò ad assumere l’aspetto di un vero e proprio ponte, con una maggiore larghezza e rinforzato mediante piloni in muratura di mattoni. Il nome di “Ponte Marzio” gli venne dato solo più tardi quando Firenze, convertita al cristianesimo, collocò presso quel ponte la statua del dio Marte (o presunto tale), che era stato il precedente protettore della città e che ora veniva sostituito dal nuovo patrono, San Giovanni Battista. Quella statua in pietra, come si è già detto, era stata tolta dall’antico tempio pagano che si trovava in piazza San Giovanni e che doveva essere demolito per far posto al “Bel San Giovanni”, il Battistero di Firenze. Non si sa esattamente quando questo ponte fu spostato nel punto dove si trova oggi

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il Ponte Vecchio; si sa solo con certezza che era già stato spostato e rifatto tutto in solida muratura nell’anno 972, come risulta da documentazione storica che cita un atto del vescovo di Firenze, Sichelmo. Duecento anni dopo, nell’ottobre del 1177, venne distrutto da una piena del fiume Arno e fu ricostruito più a valle in legno, in attesa di un nuovo ponte definitivo. La sostituzione del legname con la muratura durò quasi 20 anni e finalmente Firenze ebbe un ponte degno di questo nome con una carreggiata rispettabile (9 metri di larghezza) lastricata con mattoni disposti a coltello a spina di pesce, e ben cinque arcate, tutte in muratura. È strano che sembrasse predestinato, fino da allora, a ospitare delle botteghe. Sul ponte, infatti, furono costruite per la prima volta delle piccole botteghe in legno, a sbalzo sul fiume. Questo fu l’unico ponte di Firenze fino al 1220 quando, per necessità dovute alla continua espansione della città, si costruì un nuovo ponte a valle del primo (quello che, non più originale, si chiama oggi Ponte alla Carraia); questo secondo ponte fu chiamato “Ponte Nuovo” e, da quel momento, il Ponte Marzio fu chiamato “Ponte Vecchio”. La città però cresceva e con essa le sue esigenze; così nel 1227 venne costruito un terzo ponte, a monte del Ponte Vecchio, che fu detto Ponte di Rubaconte, dal nome di un podestà e successivamente Ponte alle Grazie, per una Madonna miracolosa. Ponte alle Grazie si chiama anche quello attuale, ricostruito sullo stesso posto. Tra il vecchio e il nuovo ponte, nel 1252, ne fu costruito un altro, che prese il nome dalla vicina chiesa di Santa Trinita. Nel frattempo il Ponte Vecchio era stato alquanto trasformato e rinforzato; guardato da torri e coronato da merli come un castello, sicuramente fra i quattro ponti, da un punto di vista urbanistico ma anche architettonico ed economico, restava quello più importante. Ma anche così massiccio e munito, il

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ponte veniva periodicamente minacciato dalle piene del fiume Arno; non erano tanto le acque nella loro corsa furiosa a scuotere le vecchie murature, quanto il legname che il fiume trascinava a valle durante le piene. Tronchi e travi, portati dalle acque, cozzavano con violenza contro i ponti; fino a che l’acqua non si alzava troppo di livello, i ponti resistevano bene con i loro piloni fatti a sprone, ma quando l’acqua superava le arcate era difficile che i ponti resistessero alla forza dell’acqua e agli urti del legname che questa trascinava con tanta violenza. Così accadde che nell’anno 1333 – quello che fu poi chiamato “l’anno del grande diluvio” – un’eccezionale piena dell’Arno distrusse tutti i ponti fiorentini spazzandoli via con una furia devastatrice che fu forse la più catastrofica mai conosciuta a Firenze. Fu in quella circostanza che anche la statua di Marte, collocata su un pilastro alla base del Ponte Vecchio, scomparve per sempre trascinata via dalle acque turbinose. Tragica è la descrizione di quell’apocalittica alluvione fatta dal cronista fiorentino Giovanni Villani: Negli anni di Cristo 1333, il dì di calen di novembre, essendo la città di Firenze in grande potentia, et in felice e buono stato più ch’ella fosse stata dagli anni 1300 in qua, piacque a Dio… Segue una terribile descrizione del diluvio d’acque che colpì Firenze: Per quattro giorni e quattro notti s’aprirono le cateratte del cielo onde tutta gente vivea in grande paura, sonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, infino che non s’alzò l’acqua; e in ciascuna casa bacini o paiuoli, con grandi strida gridandosi a Dio misericordia per le genti ch’erano in pericolo, fuggendo le genti di casa e di tetto in tetto, facendo ponti da casa

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Fig. 17 - Uno scorcio di Ponte Vecchio (particolare)

a casa, ond’era sì grande il romore e ‘l tumulto ch’appena si poteva udire il rombo del tuono. Quel diluvio fu considerato un flagello divino: gli astrologi cercarono di scoprirne le ragioni naturali, mentre i teologi lo attribuirono senz’altro a un castigo di Dio per i vizi dei fiorentini che, a somiglianza della biblica punizione riservata a Sodoma e Gomorra, scontavano in tal modo la loro superbia, l’avarizia, la lussuria; era, in definitiva, la punizione per il malcostume politico e morale dal quale Firenze aveva tratto tutta la sua potenza e floridezza. Tra l’altro, come esempio di lusso sfrenato e sfacciato, vennero citate le finestre del palazzo dei conti Guidi che – meraviglia e lusso incredibile per quei tempi – erano tutte munite di vetri!

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Il popolo stesso, con scandalizzata ammirazione, chiamava quell’edificio “il palazzo di cristallo”. Ma c’era anche un altro esempio di sfacciato malcostume che, secondo i moralisti dell’epoca, aveva attirato la punizione divina: le donne fiorentine, colpevoli di compiacersi troppo in vesti di lusso e trucchi di ogni genere. Nella Firenze di quel tempo la vita delle donne era piuttosto dura e triste, specialmente per quelle che non appartenevano alle classi di un certo livello sociale. Praticamente le donne consumavano in casa quasi tutta la loro esistenza; se volevano uscire dovevano farlo solo al mattino presto ed esclusivamente per andare a Messa. Finita la Messa, comunque, dovevano tornarsene frettolosamente a casa senza fermarsi a far chiacchiere inutili. Per il resto della giornata non potevano più uscire, salvo rare e particolarissime occasioni e circostanze che potevano capitare durante l’anno, come feste e funerali. Tutti gli acquisti per le necessità familiari, sia per l’approvvigionamento dei viveri che per quanto altro potesse occorrere, erano compito degli uomini i quali, a differenza delle donne, potevano uscire di casa quando volevano. Le donne dovevano invece provvedere alla casa in tutto e per tutto: fare le faccende, rassettare, cucinare, impastare e cuocere il pane, educare i figli, cucire anche gli abiti; il lavoro in casa non finiva mai e occupava tutta la giornata, dall’alba fino a tarda sera. Come abbiamo accennato, solo in occasione di feste cittadine, o ricorrenze particolari, le donne potevano uscire di casa per prendervi parte. Si può quindi immaginare quanto una donna, specialmente se giovane, sempre costretta a lunghe segregazioni, aspettasse con ansia quelle rare occasioni di divertimento per partecipare, tra la folla in festa, a balli e canti. Le donne “impazzivano” in quelle occasioni, sfoggiando tutta la loro bellezza: si truccavano e indossavano l’abito più bello che fino a quel momento era stato tenuto, piegato con grande cura, nella cassapanca di casa.

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Fig. 18 - Il Ponte Vecchio, con il Corridoio Vasariano, visto dal lungarno degli Acciaiuoli

Il canone della bellezza femminile, allora, prescriveva che la pelle doveva essere candida; per ottenerla le donne si lavavano con l’acqua del Mugnone (un torrente che attraversa Firenze) alla quale aggiungevano sostanze (dette “lattovari” e “acquelanfe”), che erano una vera rovina per la pelle. Regola fondamentale era di far sparire ogni pelo dal volto e dal collo, anche i più piccoli; si depilavano perciò con la massima cura raschiandosi la fronte, le guance e il collo con apposite sottili lamine di vetro, veri e propri “scorticatoi” che avevano il duplice “vantaggio” di togliere i peli e al tempo stesso di “assottigliare” la pelle! Un altro sistema per depilarsi consisteva nel fare uso di intrugli a base di calce viva, di cui si possono leggere le ricette in libri dell’epoca: Recipe calcina viva e ben trita e cribellata, e sia posta in vaso di terra, e fatta bollire e cuocere a modo di poltiglia e poscia togli auripimento dragma una; e sia anche cotto

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con la calcina. Per provare l’efficacia di questo depilatorio si consigliava: Togli una penna di gallina o di oca, che sia posta nel detto unguento; se la penna si depila, è cotto; se no, no. Purtroppo però questo depilatorio era talmente caustico che, insieme ai peli, bruciava anche la pelle! E allora esistevano unguenti per curare l’ustione: E se avvenisse che facesse ulcerazione niuna, recipe populeone e olio rosato, e siano mischiati insieme, e inunto in detto luogo. Ma non bastava avere la pelle bianca: bisognava anche essere bionde, secondo la moda francese e i versi dei poeti e novellatori che cantavano sempre di bellissime fanciulle dalle “chiome d’oro”. Chi era già bionda cercava di schiarirsi ancor più i capelli; chi invece non lo era doveva rivolgersi all’“arte biondeggiante”, che consisteva nel lavarsi i capelli con ranno (un’acqua caustica ricavata facendo macerare per molti giorni cenere di legna o di carbone, che era anche usato per lavare i panni sporchi), oppure nell’esporre i capelli al sole per giorni e giorni usando speciali cappelli detti “solane”, che avevano una larghissima tesa piatta ed erano senza cocuzzolo. I capelli, una volta messo il cappello in testa, venivano tirati su facendoli passare dall’apertura del cocuzzolo e quindi venivano sparsi in modo uniforme su tutta la tesa per esporli ai raggi infuocati del sole estivo. La tesa, oltre ad avere lo scopo di consentire il massimo “spargimento” dei capelli, assolveva anche a un’altra importantissima funzione: evitare che i raggi del sole raggiungessero il volto che, restando in ombra, avrebbe conservato l’indispensabile candore della pelle. Spesso ai capelli veri venivano aggiunte delle trecce posticce di seta bianca e gialla e ghirlande di fiori. Circa l’abbigliamento, le donne più modeste e morigerate indossavano una lunga veste intera, chiamata “socca”, ripresa alla vita da una semplice cintura con fibbia. La socca aveva un piccolo strascico sul dietro, mentre sul davanti era

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leggermente più corta, tanto da lasciare intravedere l’orlo della sottana. Sul vestito portavano un lungo mantello, quasi sempre verde, fermato sul davanti con una spilla di metallo argentato o dorato. In testa mettevano un panno bianco se maritate; nero se vedove. Mentre in casa calzavano semplicissime pianelle di stoffa, quando uscivano portavano scarpette di cuoio con suole molto alte. Le donne più ricche, però, avevano abiti delle più svariate fogge e fatti con sete, broccati d’oro e d’argento appicciolati e allucciolati, damaschi, sciamiti, e tutta una varietà di stoffe coloratissime spesso decorate con fregi, perle, pietre preziose. Ecco dunque un altro motivo del castigo divino che era letteralmente “piovuto” su Firenze! Ma torniamo ai ponti fiorentini: il primo a essere ricostruito fu quello alla Carraia, mentre i lavori per il nuovo “Ponte Vecchio” iniziarono solo nel 1345 e terminarono nel 1350; ed è questo il ponte che ancora oggi tutti possono ammirare nella sua originale bellezza, fatta eccezione per il Corridoio Vasariano, che fu aggiunto solo molto più tardi. Le botteghe degli orafi che adesso si vedono sul ponte, anticamente non avevano questa destinazione che è relativamente recente; in antico erano riservate all’arte dei beccai e quindi erano delle macellerie. La storia non ci ha tramandato il nome dell’architetto (o capomastro, come si chiamava allora) che ha realizzato l’attuale Ponte Vecchio; forse fu Neri di Fioravante, che a quel tempo era capomastro ufficiale della Signoria, oppure il frate domenicano fra Giovanni da Campi, che già nel 1337 aveva terminato di ricostruire quello alla Carraia.

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Presso Santo Stefano,

da un amore infranto che sembra una fiaba, nacquero i Guelfi e i Ghibellini

C’è una frase che da tanti secoli (precisamente dal giorno di Pasqua dell’anno 1216) molti toscani, ma soprattutto moltissimi fiorentini, ripetono spesso. È raro che un fiorentino, almeno una volta nella sua vita, tutt’oggi, dopo aver portato a termine un buon lavoro o comunque dopo aver fatto qualcosa di cui si sente veramente soddisfatto, non abbia detto con compiacimento: “Cosa fatta, capo ha!”. Chi pronuncia questa frase però, anche se fiorentino purosangue, è probabile che non ne conosca l’esatto significato; la dice perché è una frase che lo soddisfa, gli piace e l’ha sentita dire tante volte… Vicino al Ponte Vecchio, tra via Por Santa Maria e piazza del Pesce, c’è anche una piccola piazza denominata “piazza Santo Stefano al Ponte”, dal nome della bella chiesetta romanica dell’XI secolo che vi si affaccia e per la vicinanza del “Ponte” (il Ponte Vecchio); è una piazzetta seminascosta, che pochi turisti notano, eppure varrebbe la pena di visitarla. Chi potrebbe mai pensare che quella piccola piazza e quella piccola chiesa abbiano avuto una grandissima importanza nella storia di Firenze? Eppure la verità è che proprio lì, in quella piazza e in quella chiesa, maturò un fatto di sangue in occasione del quale non solo fu coniata la frase “cosa fatta, capo ha”, ma, cosa assai più importante, da quel sanguinoso episodio lì preparato e

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attuato, scaturì la prima scintilla dei partiti guelfo e ghibellino, che per secoli e secoli avrebbero condizionato e travagliato non solo tutta la storia di Firenze, ma anche di gran parte d’Italia con influenze perfino in altre nazioni d’Europa. Di là dal Ponte Vecchio, circa dove oggi c’è via Guicciardini, abitava Buondelmonte de’ Buondelmonti, giovane brillante, bello, elegante e ricchissimo; amava la bella vita, le feste, i banchetti. Il giovane Buondelmonte era quel che si dice “un buon partito” e faceva battere forte il cuore a molte fanciulle quando, dal suo palazzo di là d’Arno, veniva in città a cavallo passando dal Ponte Vecchio. Tra le fanciulle innamorate di questo bel cavaliere ve ne erano in particolare due (che ebbero poi grande rilevanza nel fatto di sangue di cui si parla): una era Reparata, la figlia di Lambertuccio Amidei il quale, pur non essendo nobile né molto ricco, apparteneva comunque a una classe agiata e importante della Firenze dell’epoca; l’altra era Beatrice, una delle due bellissime figlie di una ricca vedova: madonna Aldrada Donati. Nel 1216 un giovane amico di Buondelmonte, Mazzingo Teghini, fu creato cavaliere e, com’era in uso allora, venne organizzato un grande banchetto in suo onore. Tra i numerosi invitati non potevano mancare, ai posti d’onore, il cavaliere Buondelmonte e un suo nobile amico: Uberto degli Infangati. Altri nomi illustri dell’aristocrazia fiorentina figuravano tra i convitati: Lambertuccio Amidei (padre di una delle due ragazze citate, innamorate di Buondelmonte), nonché Oddo Arrighi (zio della stessa ragazza) e altri nobili del contado “consorti” (cioè imparentati) con l’Amidei e con l’Arrighi; questi nobili appartenevano alle famiglie dei Fifanti, degli Uberti, dei Lamberti e degli Alberti (quasi tutti nomi che in seguito ebbero grande rilievo nella storia di Firenze) e avevano le loro case-torri tutte in prossimità del Ponte Vecchio e della citata piazza di Santo Stefano al Ponte.

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Benché fossero state invitate allo stesso banchetto, non vi erano buoni rapporti tra le famiglie Buondelmonti e Infangati da una parte, e Amidei, Arrighi, Fifanti, Uberti, Lamberti ed Alberti che appartenevano tutte a una parte avversa. Buondelmonte e Uberto Infangati erano invece tanto amici tra loro che, come si usava tra amici nei banchetti a quel tempo, il cibo venne loro servito in un unico piatto. A un certo punto del convito, un giocoliere – quasi certamente istigato da commensali della parte avversa – tolse il piatto ricolmo di cibo dei due amici. Buondelmonte si irritò molto per quel gesto di così poco rispetto, ma Oddo Arrighi, cavaliere sprezzante, difese apertamente lo screanzato giocoliere; questo irritò ancor più Buondelmonte e soprattutto irritò l’amico Uberto, il quale lanciò contro l’Arrighi il peggiore insulto che a quei tempi si potesse rivolgere a un uomo d’onore: “Tu menti per la gola!”. Ne nacque una grande zuffa; volarono piatti e coppe, e le mense furono rovesciate. Buondelmonte, sguainata la spada, ferì a un braccio l’insolente Oddo Arrighi, dopodiché il banchetto fu interrotto. Qualche giorno dopo gli avversari dei Buondelmonti si riunirono in quella chiesetta di cui abbiamo parlato, appunto Santo Stefano al Ponte, per stabilire il genere di “punizione” da infliggere al cavaliere Buondelmonte per il ferimento di Oddo Arrighi. Dopo un’animata discussione, fu deciso di obbligarlo a sposare la figlia di uno di loro, e precisamente quella ragazza non bella, non molto ricca e neppure nobile di nome Reparata, figlia di Lambertuccio Amidei, della quale abbiamo accennato sopra, con comprensibile gioia dell’interessata che in questo modo aveva raggiunto l’insperata certezza di poter sposare quel bel cavaliere oggetto dei suoi sogni. Un messo fu così inviato al giovane Buondelmonte con una pergamena che recava scritta, come un ultimatum, l’intimazione di acconsentire al matrimonio, unico modo per

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riparare l’offesa. Buondelmonte era tutt’altro che un codardo; tuttavia, ormai passata l’ira del banchetto, non volle suscitare altri rancori o tumulti e, benché a malincuore, acconsentì a sposare quella ragazza. Il matrimonio vero e proprio, che si chiamava “impalmamento” e che si sarebbe svolto davanti al sacerdote e al popolo riunito, era preceduto, secondo le usanze dell’epoca, da due “fasi” ben distinte e separate: l’“inanellamento”, o fidanzamento alla presenza, dei parenti e la “subarrazione”, o contratto, che doveva farsi davanti a un notaio. Era anche usanza che se un fidanzato avesse abbandonato la ragazza venendo meno alla sua promessa di impalmarla, avrebbe dovuto risarcire del danno la famiglia della mancata sposa con il pagamento di un’“ammenda” o “penale” la cui entità era minore se la rottura era avvenuta dopo l’inanellamento, ma prima della subarrazione e molto più alta se la rottura del fidanzamento era avvenuta dopo. Queste consuetudini, però, erano la prassi normale solo per quanto concerneva il popolo, giacché, quando le rotture di fidanzamento avvenivano nell’ambito della nobiltà, o comunque dell’aristocrazia cittadina, di solito le cose erano ben diverse; i nobili parenti della ragazza “rifiutata”, infatti, spesso sentivano come un grave affronto la rottura del fidanzamento. In questi casi raramente si accontentavano di un adeguato risarcimento in denaro: l’offesa, il più delle volte, poteva essere “ripagata” solo col sangue del fedifrago. Del resto le stesse autorità cittadine, in un certo senso, favorivano tale atteggiamento dei nobili e dei magnati. Il “delitto d’onore”, nei ceti aristocratici, rientrava in una logica tipica della mentalità dell’epoca. Le leggi in proposito esistevano e, almeno per come erano scritte sulle pergamene, non facevano discriminazione tra ricchi e poveri, ed erano anche abbastanza severe. Quanto ad applicarle nella realtà della vita

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cittadina però era tutta un’altra cosa; per il popolo queste leggi erano sempre applicate in modo inflessibile, mentre per i nobili e i magnati si era propensi a chiudere un occhio, se non addirittura tutti e due; le autorità, in sostanza, applicavano in questi casi l’ingiusta regola dei “due pesi e due misure”! Ma torniamo a Buondelmonte de’ Buondelmonti il quale, accettando l’imposizione fattagli, compì sia la cerimonia dell’inanellamento, sia quella successiva della subarrazione con quella ragazza che non amava, tanto più che lui l’amore vero, quello che si dice con la “A” maiuscola, non lo conosceva, non l’aveva mai provato. Avventure sì, di quelle ne aveva avute tante quel brillante cavaliere, ma l’amore che fa battere forte il cuore, quello che non fa dormire, no; quel tipo di amore il giovane Buondelmonte non sapeva neppure cosa fosse e, in fondo, non gliene importava poi molto. Forse aveva proprio di questi pensieri quando una mattina, passando a cavallo per Firenze, si sentì chiamare dall’alto, da una finestra di una delle tante case-torri della città: “Messere!.. Cavalier Buondelmonte fermati che devo dirti qualcosa!..”. Buondelmonte fermò il cavallo e guardò in alto per scoprire da dove venisse quella voce di donna; non poteva immaginare, in quel momento, che cosa stesse preparando per lui il destino. Vide, affacciata a una finestra, una dama elegantemente vestita che gli sorrideva; era madonna Aldrada Donati, la madre delle due bellissime fanciulle di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo, una delle quali (ma forse tutte e due) era segretamente innamorata di quel cavaliere che faceva tanta strage di cuori femminili. “Dimmi, cavaliere” – proseguì madonna Aldrada – “quale donna stai tu per togliere in moglie? Io ti serbavo questa!”; così dicendo la dama si fece da parte e spinse alla finestra una delle sue due figlie: quella Beatrice che da tempo ormai spasimava d’amore per Buondelmonte. Fu un colpo di fulmine; il cuore di quel cavaliere, per la prima volta, gli sussultò in petto! A

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Fig. 19 - La chiesa di Santo Stefano al Ponte

prima vista, quel consumato protagonista di tante fugaci storie d’amore, restò profondamente turbato da un tumultuoso e nuovo sentimento che mai, prima di allora, aveva provato! Oggi tutto ciò ci fa un po’ sorridere dato che non è certo così che i giovani del nostro tempo si innamorano! Bisogna però considerare che a quei tempi, in cui una donna sarebbe stata considerata una prostituta se solo avesse appena mostrato una caviglia, le cose andavano assai diversamente; spesso un semplice sguardo era più eloquente di qualsiasi discorso. Il cavalier

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Buondelmonte, dunque, affascinato da quell’angelica visione, si rese conto di aver conosciuto in quel momento il vero amore, quello che può durare tutta la vita e magari anche oltre… Quando la fanciulla sparì all’interno della stanza e madonna Aldrada si riaffacciò al suo posto, il povero cavaliere, confuso, riuscì a malapena ad aprir bocca per dire poche sconsolate parole: “Madonna, altro non posso fare, oramai…”. La dama però, con astuzia tutta femminile¸ continuò a insistere: “Sì che puoi, cavaliere! Temi tu forse di dover pagare la pena? Posso pagarla io per te!”. Buondelmonte era ricchissimo e non aveva certo necessità che a pagare la “pena”, cioè la penale a risarcimento, fosse la madre della ragazza; quelle parole però gli dettero il coraggio di anteporre l’amore al suo senso del dovere di cavaliere impegnato con un’altra mediante un regolare e ufficiale fidanzamento; così prese coraggio e rispose: “Ebbene, io la voglio e impalmerò vostra figlia!”. Presa questa decisione, Buondelmonte non pose tempo in mezzo; ruppe subito il fidanzamento con la Amidei e sposò in brevissimo tempo colei che, finalmente, era riuscita a far palpitare il suo cuore di vero amore. Quella mattina di Pasqua dell’anno 1216, doveva essere davvero un bello spettacolo vedere avanzare tra la folla il nobile cavaliere Buondelmonte, tutto vestito di ricche vesti bianche e a cavallo di un bianchissimo palafreno, che a fianco della sua bellissima sposa attraversava il Ponte Vecchio per venire a Messa probabilmente nell’antica cattedrale fiorentina di Santa Reparata. Appena traversato il ponte, però, quei due giovani dovettero fare i conti con un tragico destino che volle infrangere il loro sogno d’amore. Nei giorni precedenti, infatti, in un’altra chiesa lì vicino, Santa Maria sopra Porta (evidentemente a quei tempi, le chiese erano ritenute luoghi ideali per ordire congiure!), si erano nuovamente riuniti gli stessi nobili consorti e partigiani della

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famiglia Amidei che, per la seconda volta, era stata offesa e in modo anzi ancor più cocente. In quella occasione la chiesa dovette sembrare davvero un tribunale, e lo stesso parroco non poteva non essere consenziente a quanto stava maturando. Si può immaginare con quanta imparzialità quelle persone, con gli animi accesi dall’ira, “processassero” l’ignaro Buondelmonte e quali pene stessero escogitando per lui. Ci fu chi propose di richiedergli una riparazione morale con scuse da farsi pubblicamente, e chi, invece, propose una pena corporale a base di scudisciate. Queste pene però ai più parvero troppo lievi e alla fine prevalse la tesi della condanna a morte; fu proprio in quella circostanza, nel momento in cui fu presa la decisione di uccidere il fedifrago, che Mosca dei Lamberti, il più infuriato di quei nobili, pronunciò per la prima volta la frase che dopo quasi 800 anni è ancora tanto diffusa tra i fiorentini: “Cosa fatta, capo ha!”. La mattina di Pasqua i congiurati si riunirono nelle case degli Amidei presso la chiesa di Santo Stefano al Ponte e, armi in pugno, attesero l’arrivo di Buondelmonte e della sua sposa che certamente, in quel giorno di festa, non avrebbero mancato di venire a Messa in città, attraverso il Ponte Vecchio. Ecco infatti, di lì a poco, l’occasione tanto attesa: tra la folla, sul ponte, compaiono i due sposi felici e sorridenti che, mano nella mano, vanno incontro al loro destino. I due avanzano lentamente rispondendo al saluto della gente; finiscono di traversare il ponte e giungono ai piedi della presunta statua di Marte a cavallo. È a quel punto che tra la folla si fa avanti Schiatta degli Uberti che, con una mazza, colpisce violentemente Buondelmonte facendolo cadere da cavallo. Mosca dei Lamberti e Lambertuccio degli Amidei (il padre della ragazza abbandonata) gli sono sopra prima che abbia il tempo di rialzarsi, colpendolo ripetutamente con i loro pugnali; il colpo mortale, però, gli viene inferto dallo zio della stessa ragazza,

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il già ferito Oddo Arrighi e non è improbabile che la ragazza rifiutata abbia visto tutto, forse con intima soddisfazione, dalla finestra della sua casa-torre, dato che era prospiciente al luogo dell’agguato. I consorti degli Amidei, però, accecati dall’ira e dallo spirito di vendetta, avevano scelto male il luogo, il giorno e l’ora per attuare il loro delitto: le strade infatti erano piene di cittadini che, al suono delle campane, si avviavano festosamente verso le numerose chiese. Quella grande e vermiglia macchia di sangue, in così netto contrasto col candore delle vesti dell’ucciso, nonché dei numerosi alberi in fiore che si trovavano in quel luogo, non poteva che colpire come un fulmine a ciel sereno tutta quella folla che si trovò ad assistere, impotente, a quel tragico fatto e alla disperazione della giovanissima sposa ormai vedova. L’orrore e l’esecrazione, si diffusero in un lampo per tutta la città. “Hanno ucciso messer Buondelmonte!” si sentiva gridare nelle strade, nelle piazze, nei vicoli, mentre dal luogo dell’uccisione un mesto corteo cominciò a dirigersi verso Santa Reparata: doveva essere un corteo gioioso e invece, a Santa Reparata, giunse solo un triste corteo funebre. Il cadavere del giovane Buondelmonte fu disteso sopra una barella, coperto di fiori e in particolare di rose, il cui colore vermiglio si confondeva con quello del sangue sulla candida veste. Accanto alla barella camminava, con i capelli sciolti in segno di dolore, la bella figlia di madonna Aldrada che, con gesto pietoso, sosteneva la testa dello sposo morto. Quello spettacolo straziante commosse anche quei cittadini che avevano disapprovato il volubile gesto di Buondelmonte verso la prima fidanzata, e che quindi avevano simpatizzato per lei. Ora, di fronte a tanta atrocità che dimostrava disprezzo sia per le leggi degli uomini che per quelle di Dio, il popolo fu unanimemente compatto nel parteggiare per i Buondelmonti, chiedendo di fare giustizia e

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contrapponendosi a quelli che sostenevano gli Amidei, gli Arrighi, e tutti gli altri nobili che avevano dimostrato tanta ferocia potendo concepire e attuare una così efferata vendetta. Il popolo dunque si rivolse con decisione al podestà di Firenze, il bolognese Gherardo Rolandini, al quale competeva amministrare la giustizia; i mandanti e gli esecutori erano ben noti a tutti e non occorrevano indagini. Non restava quindi che applicare le leggi cittadine condannando senza indugio i colpevoli. Questa volta l’Autorità cittadina, anche se avesse voluto, non poteva certo far finta di niente di fronte al popolo che sembrava minacciare una rivolta! Gli Alberti, gli Uberti, i Lamberti, gli Amidei, i Fifanti, gli Arrighi e le loro consorterie, compresero allora che forse avevano esagerato e che si trovavano in grave pericolo. Nel tentativo di sottrarsi alla giustizia cittadina compirono un atto le cui conseguenze nessuno allora poteva immaginare quanto avrebbero influito non solo sul futuro della storia di Firenze, ma addirittura di tutta la storia dell’Italia e della Germania: stavano infatti nascendo, in questo contesto, i partiti guelfo e ghibellino. Quale fu questo atto così importante? I nobili che vedevano la loro vita in pericolo si appellarono, in quella circostanza, al “diritto imperiale”, che non riconosceva validi gli Ordinamenti di Giustizia comunali sui quali si basava l’amministrazione della giustizia a Firenze, fatti e adottati senza il beneplacito dell’imperatore tedesco. Quei nobili, in sostanza, disconoscendo l’indipendenza comunale dall’impero, si schierarono apertamente dalla parte dell’imperatore Federico II aderendo idealmente a quello che diventerà poi il vero e proprio ghibellinismo; non pensarono certo a quali sviluppi politici poteva portare un tale gesto; in realtà tutto ciò che interessava loro in quel momento era sottrarsi alle leggi comunali e porsi sotto la protezione di quelle imperiali al solo fine di sfuggire alla giustizia.

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I Buondelmonti, prima di allora, non avevano avuto gruppi di importanti famiglie (consorterie) che li sostenessero, tanto è vero che il giovane conteso dalle fanciulle fiorentine si era trovato ad affrontare da solo ricatti e vendette. Dopo la sua morte, però, attorno al suo nome e al suo ricordo fecero lega tutti quelli che nel rispetto delle istituzioni cittadine chiedevano giustizia; questi ultimi, trovandosi in contrapposizione a quei nobili che per sfuggire alla giustizia si erano schierati dalla parte del Ghibellino, cioè di Federico II, non ebbero altra scelta che schierarsi dalla parte del Guelfo, cioè di Ottone IV, che a Federico II si opponeva. Ciò tuttavia non significava tenere le parti di un imperatore al posto di quella di un altro, quanto cercare in lui un autorevole sostegno alla libertà del Comune di esercitare, in piena autonomia, i propri Ordinamenti di Giustizia. I cronisti dell’epoca non ci dicono se gli autori di quella tragica fine di un amore che sembra appartenere a una favola, ma che invece fu realtà, vennero poi condannati o meno; è però probabile che non siano riusciti a sfuggire a un’esemplare condanna considerando che il partito guelfo, appena nato, governò incontrastato sulla città di Firenze per quasi mezzo secolo. A conclusione di questo capitolo, vale la pena di spendere alcune parole sull’imperatore Federico II, sotto la cui protezione si erano posti gli assassini di Buondelmonte; questi fu davvero una strana figura: imperatore tedesco di sangue svevo, siciliano di nascita e di educazione orientale, cristiano ma perennemente circondato e protetto da una nutrita guardia saracena, credeva fermamente nell’astrologia e, astrologo egli stesso, si contornava di maghi e astrologi orientali che lo seguivano sempre, dovunque andasse. Furono proprio tali astrologi che, consultando le stelle, gli avevano predetto che sarebbe morto in territorio fiorentino. Impaurito da questa predizione Federico II aveva sempre accuratamente evitato, nei suoi continui spostamenti tra il nord e il sud d’Italia, di

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passare nei dintorni di Firenze: era convinto che se non fosse mai passato per il territorio fiorentino l’infausta profezia non avrebbe potuto avverarsi. Perciò emanava bandi, ordini, decreti e promulgava leggi allo scopo di ridurre Firenze all’obbedienza, ma evitava nel modo più assoluto questa città, di cui non volle mai neppure vedere le mura da lontano. Il destino però, nonostante tutte le sue accortezze, lo colpì ugualmente e proprio nel modo che gli era stato predetto: Federico II infatti non morì a Firenze, che come si è detto non volle mai visitare, morì in un incidente, il 13 dicembre 1250, nei suoi domini della Capitanata, a nord-ovest di quella Luceria che era la roccaforte sua e dei suoi fedeli saraceni, in un paese il cui nome gli fu fatale: “Fiorentino”, appunto.

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Il Canto del Diavolo

Nel centro di Firenze, l’angolo formato tra via Vecchietti e via Strozzi si chiama “Canto del Diavolo” e vi si può vedere, realizzata in bronzo, una copia del “diavolino” del Giambologna. Nel 1245 in quel punto un frate predicatore domenicano, Pietro da Verona, stava predicando al popolo quando apparve il diavolo sotto forma di un cavallo nero imbizzarrito; frate Pietro tracciò allora un segno di croce e il cavallo diabolico sparì. Un fatto analogo, ricordato nell’ombra di un affresco sulla facciata di quella bellissima loggetta detta del Bigallo – all’angolo tra via Calzaiuoli e piazza San Giovanni – avvenne durante un’altra predica di frate Pietro in piazza San Giovanni; anche qui il diavolo apparve sotto l’aspetto di un cavallo nero imbizzarrito il quale, al segno di croce tracciato dal frate, tra la meraviglia della folla partì al galoppo sollevandosi in aria e rasentando con gli zoccoli le teste dei fedeli che gridavano al miracolo, senza che alcuno restasse ferito né minimamente colpito. Pietro da Verona fu anche il fondatore di una compagnia detta “Compagnia maggiore di Santa Maria” – che, fra l’altro, gestiva anche un ospedale per l’assistenza dei fanciulli abbandonati e dei vecchi indesiderati – la quale aveva sede proprio in

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Fig. 20 - Il “diavolino” del Giambologna

via de’ Calzaiuoli, non lontano da quella loggia di cui abbiamo già parlato e che per lo stemma raffigurante due galli fu detta del Bigallo. Erano le premesse per la nascita di quell’antichissima e famosa “Compagnia della Misericordia” che ancora oggi si trova lì, in piazza del Duomo, vicino all’angolo con via de’ Calzaiuoli, sempre pronta ad accorrere, con le sue veloci ambu-

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Fig. 21 - La loggia del Bigallo

lanze, dove un ammalato o un ferito possono aver bisogno di aiuto. Frate Pietro da Verona, che fu detto dai contemporanei “tuba di Gedeone” per le sue tuonanti prediche, morì presso Seveso il 6 aprile 1202 per mano degli eretici patarini. Ferito alla testa, prima di morire, intinse il dito nel proprio sangue e scrisse in terra la sua ultima parola: “credo”. Da allora, a Firenze, fu detto San Pietro Martire.

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Fig. 22 - Loggiati della facciata della SS. Annunziata

I Servi di Maria e la Santissima Annunziata

Nell’anno 1082 Firenze subì un lungo assedio da parte dell’imperatore Enrico IV che, con le sue truppe, si era accampato su un terreno chiamato “cafaggio” (che significa pascolo) situato press’a poco dove oggi si trova la piazza della SS. Annunziata; il suo esercito, però, era raccogliticcio e non certo animato da battagliera determinazione come, invece, era quello fiorentino. Il caldo afoso di una torrida estate, poi, giocò un ruolo determinante nel togliere ogni residua velleità agli assedianti, così che l’imperatore, scoraggiato, tolse l’assedio e se ne andò, lasciando anche sul campo numeroso materiale bellico, tra cui armi e tende. I fiorentini, esultanti, attribuirono la loro vittoria all’intercessione della Madonna e, sul luogo ove prima erano gli assedianti, costruirono una piccola cappella a Lei dedicata. Non passò molto tempo, però, che la popolazione, dimentica della grazia ricevuta, lasciò quella cappella in stato di totale abbandono. Passarono quasi due secoli e quella piccola costruzione restò negletta e praticamente dimenticata, quasi completamente nascosta dai rovi e dalla folta vegetazione. L’esercito fiorentino, sempre in guerra contro tutti, verso il 1230 stava assediando Siena e, con l’accanimento e il disprezzo che quell’esercito abituato a vincere aveva verso

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Fig. 23 - Particolare del quadro del pittore Bartolomeo, con il volto della Madonna che la tradizione dice sia stato dipinto da un angelo

i propri nemici, si dilettava a catapultare all’interno di quella città affamata, carogne di asini fatte a pezzi e altre brutture. Tanto il papa che l’imperatore avrebbero voluto che la guerra cessasse, ma i fiorentini non ascoltarono né l’uno né l’altro. Gregorio IX pensò allora di inviare a Firenze, come paciere, un grande predicatore che aveva fama di taumaturgo, tanto che, si diceva, poteva perfino resuscitare i morti. I fiorentini però, che quando erano in guerra non intendevano ascoltare esortazioni alla pace, con assai poco rispetto per il papa risposero con sarcasmo: “Per l’amor di Dio, che quel sant’ uomo resti dov’è; c’è caso che a Firenze resusciti altri morti mentre qui siamo già troppi di vivi!”. Gli orrori di tutte queste guerre continue e con tanti morti, però, non erano approvati da tutti; sia perché in ogni caso portavano sofferenze e carestie al popolo minuto, sia per-

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ché vi erano comunque cittadini, anche facenti parte delle classi più agiate, che non sopportavano più tutte quelle “mattanze”. Questa situazione aveva profondamente turbato l’animo di alcuni nobili uomini fiorentini (che più tardi vennero santificati e chiamati i “sette santi fiorentini”) i quali, stanchi di guerre, uccisioni e corruzioni, meditavano un riavvicinamento a Dio. Apparve loro la Madonna, in vesti nere, nell’aspetto e nell’atteggiamento della Madonna Addolorata. In seguito a questa apparizione quei sette uomini decisero di dedicarsi al servizio della Madonna, creando l’Ordine religioso dei “Servi di Maria” – che sono, appunto, i frati della SS. Annunziata – ritirandosi in preghiera e solitudine sull’alto di un monte non lontano da Firenze (il monte “Asinario”, oggi detto monte Senario), dove costruirono un convento che ancora oggi vi si trova benché, ovviamente, ingrandito e mutato nell’aspetto. Furono questi frati che, scendendo a Firenze da monte Senario per inoltrarsi in città attraverso quella via che tuttora si chiama via dei Servi, videro quell’antica piccola cappella, seminascosta nel verde e in stato di totale abbandono, e decisero di restaurarla facendone la loro sosta abituale e devota ogni volta che entravano e uscivano dalla città. Successivamente questi stessi frati ottennero dal vescovo di Firenze il dono di quella cappella e su di essa costruirono il primo nucleo di quella bellissima basilica che, con il tempo, sarebbe diventata l’attuale SS. Annunziata. Le spese necessarie a iniziare la costruzione della basilica furono sostenute dal ricchissimo fratello di uno dei sette Santi fondatori, Alessandro Falconieri. Perché la basilica è dedicata alla SS. Annunziata e non, come avrebbe dovuto, alla Madonna Addolorata? Pare che questo cambiamento sia avvenuto nel tempo, dovuto al mutevole carattere dei fiorentini. Sicuramente, quando ai primi del ‘300 il complesso venne ampliato, dentro l’unica navata, al posto d’onore sul-

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l’altare, vi era l’immagine della Madonna Addolorata. Ma sulla parete di fondo, sulla destra prima dell’uscita dalla chiesa, si trovava anche un’altra immagine: quella dell’angelo che saluta Maria annunciandole la nascita di Gesù. A rappresentare quella scena fu chiamato un pittore poco noto, un certo Bartolomeo, che seppe però dare alla sua pittura l’espressione più tenera e mistica che si potesse immaginare. Era una delle più belle immagini che si potessero vedere nella Firenze dell’epoca, e i fedeli, dopo aver detto l’ultima Ave Maria, prima di uscire dalla chiesa si intrattenevano più dinanzi a quell’immagine che non davanti all’altra della Madonna Addolorata. Tale devozione, anzi, crebbe ancor più quando si sparse la voce che l’autore del volto di quella Madonna non sarebbe stato il pittore Bartolomeo, bensì un angelo disceso dal cielo. La tradizione infatti (tuttora vivissima nei fedeli) riferisce che il pittore aveva già finito l’opera, tranne il volto della Madonna e che, non sentendosi degno di dare una sembianza adeguata alla Vergine, non osava accostare il pennello al punto in cui doveva riprodurre il volto. Sembrava che il dipinto dovesse restare incompiuto e il pittore, rattristato, si addormentò dinanzi al suo lavoro. Quale fu la sua meraviglia quando, al risveglio, si accorse che l’opera era finita! Un angelo aveva finito di dipingere l’opera, e la Vergine aveva finalmente il suo volto, dolce e grave, delicato e severo, misticamente intento e soavemente sublime, così come tutti lo possono ancora vedere, sempre allo stesso posto, all’interno della SS. Annunziata. Lo stesso Michelangelo, quando vide questo volto, ne restò profondamente colpito e non ebbe difficoltà a ritenerlo creato da un intervento soprannaturale. Il giorno 8 settembre è la festa della natività della Vergine Maria e, fino dai tempi più antichi, il culto della Madonna è sempre stato diffuso presso i fiorentini, sia tra quelli di città che tra gli abitanti delle campagne. Era tradizione che la sera del 7 settembre i contadini, accompagnati dalle loro donne in

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sgargianti abiti da festa, scendessero in città sostando proprio in piazza della SS. Annunziata per vendere fichi. Per farsi luce in quella grande piazza, avevano delle candele protette da lampade di carta (affinché il vento non le spengesse), che tenevano appese in cima a lunghe canne. Quelle lampade (con il passare degli anni sempre più fantasiose e variopinte) in origine venivano dette “fierucolone”, ma con il tempo tale nome si trasformò in “rificolone”. Da moltissimo tempo ormai i contadini a vendere fichi dalle campagne non vengono più, ma fino alla fine del secolo scorso era comunque usanza, la sera del 7 settembre, che i bambini, accompagnati dai genitori, si ritrovassero sui lungarni con sempre più grandi, originali e bellissime rificolone, facendo a gara per mostrare chi possedeva quella più grande e bella. Vi erano però anche frotte di monelli che, muniti di cerbottane, cercavano di colpire con minuscoli proiettili di carta o di stucco quelle rificolone, riuscendo spesso a incendiarle con ovvia disperazione dei piccoli che vedevano bruciare la propria lanterna. Oggi però anche questa tradizione sta ormai scomparendo ed è un peccato perché, in questo modo, non solo i bambini vengono sempre più privati di quei fantasiosi stimoli utilissimi per un migliore sviluppo intellettivo, ma si perde anche, sempre di più, la poesia di quelle feste e tradizioni che comunque hanno sempre dato sapore alla vita.

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Fig. 24 - La chiesa di Sant’Ambrogio

A Napoli San Gennaro… A Firenze Sant’Ambrogio

Firenze abbonda di immagini miracolose; perfino nella chiesa di Santa Trinita vi è un crocifisso miracoloso con la testa reclinata. Si dice che quella testa di Cristo in origine fosse dritta, ma quando un grande Santo (San Giovanni Gualberto) decise di perdonare l’assassino del proprio fratello, quel crocifisso, in segno di approvazione per quel gesto, reclinò il capo. In questa città dunque non poteva mancare un’altra miracolosa reliquia che pochi, anche se fiorentini, conoscono. Esaminiamo i fatti attraverso le parole di uno dei due più famosi e attendibili cronisti dell’antica Firenze, Giovanni Villani: Nel detto anno 1229, il dì di San Firenze, 30 dicembre, uno prete della chiesa di Sant’Ambrogio, avendo detta la Messa e celebrato il Sacrificio, per la sua vecchiezza non asciugò bene il calice, per la qual cosa, il dì appresso, prendendo il detto calice, trovossi dentro vivo sangue appreso e incarnato.

Quel vecchio prete si chiamava Uguccione e le monache benedettine di Sant’Ambrogio, dopo qualche incertezza, decisero di riferire l’accaduto al vescovo di Firenze Ardingo,

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Fig. 25 - Il ciborio di Mino da Fiesole all’interno della stessa chiesa

il quale si fece subito portare il vaso dove erano stati raccolti quei grumi di sangue. Pare che il vescovo volesse sequestrare quella reliquia affinché non si sapesse della trascuratezza del prete. A quel punto, però, le monache si rivolsero ai frati francescani di Santa Croce che, da sempre, erano considerati i più validi interpreti dell’anima popolare. Tutto il borgo, dove era ormai trapelata la notizia, fremeva richiedendo al vescovo la restituzione della miracolosa reliquia. I frati fran-

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cescani riuscirono nell’intento e riportarono le reliquie in Sant’ Ambrogio con una solenne processione a cui prese parte una immensa folla. Il vescovo, che era rimasto assai turbato, quella notte non riuscì a dormire e, a un tratto, sentì una voce che diceva insistentemente: “Nudo mi hai ricevuto e nudo mi hai rimandato”. Il prelato allora capì che la voce di Dio alludeva alla mancanza di un reliquiario nel quale potesse più degnamente essere custodito il sangue prodottosi in quello che tutti, ormai, chiamavano “miracolo”. Il reliquiario fu fatto, e divenne sempre più bello per i rivestimenti applicati, specialmente da quando la Signoria di Firenze aveva affidato la chiesa di Sant’Ambrogio (detta ormai la “chiesa del miracolo”) alla nobile Arte dei Giudici e dei Notai. Più tardi le monache di Sant’Ambrogio fecero eseguire da uno dei più grandi artisti dell’epoca, Mino da Fiesole, il bellissimo ciborio che, ancora oggi, si può ammirare all’interno della chiesa nella cappella del Miracolo. Cosimo Rosselli, successivamente, rappresentò in un affresco la processione del miracolo e, per dimostrare che a crederci non erano soltanto le persone del popolo ma anche personaggi di prestigio e intellettuali, riprodusse nell’affresco, tra la folla ammirata e stupita, anche i tre grandi umanisti Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e Agnolo Poliziano. Quella però fu una “licenza” artistica del pittore, poiché il miracolo avvenne almeno due secoli prima del tempo in cui vissero questi tre illustri personaggi.

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Fig. 26 - Miniatura con la riproduzione dell’interno di un ospedale fiorentino del XIV secolo, con gli ammalati nei loro letti, i dottori e gli infermieri

Firenze “prima della classe” anche negli ospedali

Nei tempi antichi non vi era città che non avesse gravissimi problemi igienici; bisogna tenere presente che, se oggi le nostre case sono tutte fornite di validissimi servizi con canalizzazioni di scarico, pozzetti, fosse biologiche, fognature ecc., a quei tempi tutto finiva in strada, a cielo aperto. Gli stessi rifiuti delle case non venivano portati in apposite discariche, ma si accumulavano nelle strade, alla mercé di topi, cani e altri animali. Durante l’inverno la pioggia e il gelo rendevano la situazione meno insopportabile, ma l’estate… Potete immaginare il fetore del marciume, degli escrementi e quant’altro, e, ovviamente, questi erano i presupposti per guai seri di carattere igienico-sanitario! Ecco perché, a quei tempi, le pestilenze erano tanto frequenti da decimare la popolazione. Ma anche quando non vi erano pestilenze, erano comunque molto diffuse malattie di ogni genere dovute soprattutto alla sporcizia, che affliggevano le popolazioni. Prima che si costruissero ospedali pubblici, la loro funzione era svolta da monasteri e conventi, ma è ovvio che questi potevano assistere solo un numero molto limitato di persone. Perciò, quando la popolazione di un borgo cresceva fino a costituire una città, la necessità di costruire appositi ospedali si faceva sempre più impellente. Ciò accadde anche nella Firenze del ‘300, quando la popolazione, crescendo

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a dismisura, rese urgentissimo il problema di provvedere a una valida organizzazione ospedaliera. Furono diversi, allora, gli ospedali che si costruirono in città, ma l’esempio più eclatante fu rappresentato dall’ospedale di Santa Maria fondato da Folco Portinari, padre della famosa Beatrice amata dal sommo poeta Dante Alighieri. Quell’ospedale non si trovava proprio dove oggi è l’ospedale di Santa Maria Nuova, nell’omonima piazza. L’antico ospedale si trovava sul lato opposto di quella stessa piazza, tra via S. Egidio e via Folco Portinari, dove sono ancora l’antica chiesetta di Santa Maria e il convento delle Oblate; l’appellativo “Nuova” aggiunto a “Santa Maria” fu dato all’ospedale quando, dall’antica sede, venne trasferito dove si trova ora. Ma, come si è detto, Firenze non aveva solo questo ospedale: come ci dice una statistica dello storico cronista Villani, nel 1340 la città aveva ben trenta ospedali, a fronte di una popolazione di 90.000 persone, con una disponibilità totale di oltre 1000 letti. Ogni 90 abitanti, dunque, vi era un letto disponibile in ospedale; data l’epoca, quella era una conquista sociale che non solo poneva Firenze al primo posto per l’assistenza ospedaliera, ma non è azzardato dire che forse neppure oggi vi sono molte città che possono disporre di un’uguale proporzione di posti letto rispetto al numero degli abitanti. C’è da dire molto di più: gli ospedali fiorentini avevano un’attrezzatura che nessun’altra città del mondo possedeva. Solitamente a quei tempi gli ammalati venivano fatti distendere su tavolacci, a dozzine di persone sul medesimo tavolaccio; non così a Firenze dove, invece, ogni ammalato disponeva di un proprio letto con un proprio guanciale munito di federa intercambiabile, una posata personale e un altrettanto bicchiere personale! C’era davvero da restare sbalorditi di fronte a un simile “lusso” che, indubbiamente, poteva benissimo essere indicato quale esempio e vanto della città di Firenze, specialmente se

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si considera anche un’altra meraviglia di cui disponevano quei fantastici ospedali: ogni ammalato disponeva di un proprio pitale personale! Anche il personale addetto alla cura degli ammalati era quanto di meglio la “scienza” medica dell’epoca potesse fornire: solerti medici visitavano quotidianamente i loro pazienti, assistiti da personale infermieristico qualificato. Vi era poi altro personale di assistenza che provvedeva al cambio delle lenzuola e delle coperte, a rifare i letti e spazzare le stanze. C’è dunque da invidiare quei lontani tempi per come funzionava l’assistenza ospedaliera? Forse no, visto che la più avanzata “scienza” medica di allora, a esempio, per curare le affezioni del fegato prescriveva di squartare un cane vivo e applicarlo, ancora caldo, sulla parte dolente…

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Fig. 27 - Il Perseo di Benvenuto Cellini

Bizzarro, usuraio, imbroglione, ma… grande artista!

In una casa al n° 59 di via della Pergola (che un tempo si chiamava via del Canto al Rosaio) il grande Benvenuto Cellini – autore tra l’altro del famoso Perseo che si trova in piazza della Signoria – aveva la sua abitazione e anche la sua bottega. Che strano uomo fu Benvenuto Cellini! Chi, passando dal Ponte Vecchio, ne scorge l’effigie nel busto bronzeo che è collocato proprio a metà del ponte, non penserebbe mai, vedendola, quale tipo di uomo, oltre che di artista, potesse essere! Prestava denaro a usura, ma questa pare fosse una caratteristica comune a molti grandi artisti: perfino Giotto si dice che passasse più tempo a riscuotere gli interessi dei fiorini prestati a usura, che non a dipingere! Benvenuto Cellini, se non lo pagavano puntualmente, era capacissimo di imbracciare il proprio archibugio ed esigere il pagamento con la minaccia dell’arma. Si dice anche che tenesse un banco di scommesse: accettava scommesse sul sesso dei bambini che dovevano nascere. I maligni però lo accusavano di barare: pare infatti che avesse un personale ed efficientissimo sistema di informazioni sulle nascite già avvenute prima che gli scommettitori ne fossero venuti a conoscenza. Un’accusa ancora peggiore, a questo proposito, gliela mosse addirittura la granduchessa Eleonora, che aveva fatto con lui

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una di tali scommesse. L’accusa era tanto grave, in questo caso, che prima di dare tutta la colpa a Benvenuto Cellini c’è da chiedersi se non sia stata proprio la granduchessa a lanciare contro di lui una calunnia sull’onda delle voci popolari lo che tacciavano di imbrogli. C’è infatti un precedente che potrebbe aver indotto la moglie del Signore di Firenze a volersi vendicare del Cellini. Poco tempo prima che la nobile dama, visitando la bottega dell’artista, aveva visto quattro statuine che dovevano far parte della base della statua del Perseo a cui statua stava lavorando. Quelle statuine, raffiguranti Giove, Minerva, Mercurio e Danae, piacquero alla granduchessa al punto da volerle a ogni costo. Benvenuto però non volle vendergliele; si può quindi capire quanto quella gran dama fosse adirata col grande artista e ciò potrebbe anche far supporre una sua femminile sottile vendetta quando, dopo aver scommesso col Cellini sul sesso di un nascituro, lo accusò di averla imbrogliata sostituendo addirittura nella culla un maschietto con una femminuccia, pur di vincere la scommessa. Le quattro statuine che la granduchessa Eleonora avrebbe tanto desiderato possedere, sono le stesse che il Cellini “impiombò” poi nel suo Perseo e che tutti possono ancora ammirare. A proposito di questa famosissima statua bronzea, che doveva rappresentare il Perseo nell’atto di tagliare la testa alla Medusa quale simbolo di giustizia, è interessante narrare le peripezie vissute dal Cellini durante la sua fusione, eseguita e curata personalmente dal grande artista con pochi aiuti. Per poco non furono distrutte dalle fiamme la sua casa e la sua bottega in seguito a un incidente del quale, al solito, si cercò di dare la colpa allo stesso Benvenuto. Voci maligne insinuarono che la fusione del Perseo rischiò di non riuscire perché il suo autore aveva cercato di risparmiare sulla lega del bronzo mettendo a fondere troppo poco stagno rispetto al rame, che costava assai meno. I maldicenti non mancarono di riferire immediatamente

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tale accusa al granduca Cosimo I de’ Medici, che l’anno prima (era il 1545) gli aveva commissionato la statua. Il granduca, in verità, non mostrò molta fiducia verso questo grande artista, dato che ordinò subito al Bargello di inviare un drappello di sbirri alla casa del Cellini, con l’ordine di arrestarlo se qualcosa, nella fusione, fosse andato male. Si può facilmente immaginare in quale stato d’animo si trovasse l’artista quando, con gli sbirri fuori della porta, si rese conto che la fusione del Perseo stava purtroppo rischiando di non riuscire. Ecco come si svolsero i fatti, secondo la descrizione fatta dallo stesso Benvenuto Cellini: Trattandosi di una difficilissima fusione, avevo acceso un gran fuoco di legne di pino, le quali, per quella untuosità della ragia che fa il pino, e per essere tanto ben fatta la mia fornacietta, ella lavorava tanto bene che io fui necessitato a soccorrere ora da una parte et ora da un’altra, con tanta fatica che la m’era insopportabile; e pure io mi sforzavo. E di più mi sopra giunse che e’ s’appiccò fuoco nella bottega, et avevamo paura che ‘l tetto poi ci cadessi addosso: dall’altra parte di verso l’orto il cielo mi spignieva dentro tanta acqua e vento, che e mi freddava la fornacie. Così combattendo con questi perversi accidenti parecchi ora [cioè parecchie ore], sforzandomi la fatica, tanto più che la mia forte valitudine di complessione non potette resistere, di sorte che e mi saltò una febbre efimera addosso, la maggiore che immaginar si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato di andarmi a gittare nel letto. Dunque Benvenuto, per la grande fatica, rischiò veramente di veder perduta la sua statua. La febbre altissima che lo costrinse a letto, evidentemente, fu causata solo dallo sforzo, a cui si era aggiunto lo stress di un’eccezionale tensione nervosa,

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tesi questa suffragata dalle stesse parole pronunciate dall’artista alla presenza della propria fantesca, la buona monna Fiore di Castel del Rio, che, udendolo lamentarsi: “Ah… Io non sarò mai vivo domattina!” scoppiò in lacrime. A peggiorare le cose un aiutante di Benvenuto entrò nella stanza per dargli la peggiore delle notizie: “Oh, Benvenuto! La vostra opera si è guasta e non ci è più rimedio al mondo!” Quelle parole per Cellini furono come una frustata, come la più forte delle medicine; fino a pochi istanti prima sembrava moribondo e ora, dopo aver lanciato un grande grido, si stava rivestendo in fretta dando pugni e calci alla servitù di casa e di bottega che cercava di aiutarlo, urlando come un ossesso: “Ahi traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto ad arte!” Benvenuto si precipitò quindi in bottega e trovò che il metallo si era tutto rappreso in modo simile a un migliaccio (un tipico dolce fatto con farina di castagne) e mandò allora i suoi aiutanti a prendere una catasta di alberelli di quercia, particolarmente adatti a dare al fuoco più vigore di qualsiasi altro tipo di legna. La descrizione del Cellini così prosegue: Oh, quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Fu allora che, finalmente, il metallo cominciò a scorrere, ma non così velocemente come, invece, sarebbe stato necessario; era indispensabile aggiungere stagno alla lega, ma in bottega non ce n’era più. Cellini non si perse d’animo; fece portare in bottega i piatti, le scodelle e tutti gli altri oggetti di stagno che erano in casa: in tutto circa duecento pezzi. La conclusione è nelle stesse parole di Benvenuto Cellini: Di modo che, veduto ogniuno che ‘l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano et ubbidivano; et io or qua et or là comandavo, aiutavo e dicievo: oh, Dio che con le tue immense

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virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo! Di modo che in un tratto e s’ empié la mia forma; per la qual cosa io m’ inginocchiai e con tutto ‘l cuore ne ringraziai Iddio; di poi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; di poi me n’andai nel letto sano e lieto, e come se non avessi avuto un male al mondo, così dolcemente mi riposavo.

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Fig. 28 - Le merlature guelfe e ghibelline su Palazzo Vecchio

L’unica “aquila” che non è stata divorata dai leoni fiorentini

Abbiamo già parlato delle simbologie fiorentine dell’aquila e del leone: l’aquila rappresentava il potere imperiale, cioè l’oppressore sostenuto dai ghibellini, mentre il leone era per Firenze il simbolo della libertà cittadina dall’oppressione dell’impero. Quando però negli anni ‘70 del XV secolo i ghibellini furono definitivamente cacciati da Firenze, e si affermò incontrastato il potere guelfo, tutti i simboli ghibellini del potere imperiale furono cancellati per sempre dalla città; cosa ci fa dunque quell’aquila solitaria che tiene tra i suoi artigli un drago verde e che è ben visibile, fra gli stemmi della repubblica guelfa, sotto le mensole della merlatura di Palazzo Vecchio? Perché mai quell’aquila solitaria è rimasta, unica sopravvissuta, tra i tantissimi leoni dell’antica repubblica fiorentina? Sono davvero tanti i leoni che avrebbero potuto “divorarla”, proprio lì nella loro tana di piazza della Signoria, dove ci sono leoni dappertutto! Oltre al famoso leone noto come “Marzocco” del grande Donatello, ci sono altri due leoni che sembrano fare la guardia sugli scalini della loggia detta dell’Orcagna, nella quale c’è un’altra ricchissima “decorazione leonina”: ben tre leoni per ogni pilastro! Altri due leoni si trovano ai lati dello stemma di Cristo Re sopra l’ingresso principale del Palazzo della Signoria, oltre

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ai tantissimi leoni, interi o di cui è riprodotto solo la testa, che tutti possono ammirare nelle vaste sale all’interno del palazzo. Chi si trova in piazza della Signoria, basta che volga lo sguardo attorno per avere la sensazione di trovarsi in mezzo a un serraglio: altri leoni, infatti, ornano anche la cornice interna della loggia dove, in antico, venivano appesi drappi colorati durante le cerimonie pubbliche. In una Firenze tanto guelfa non si capisce proprio, a prima vista, come mai non sia stata cancellata quell’aquila, solitamente simbolo dell’odiato nemico imperiale… Sembra quasi incredibile, ma quell’aquila rossa che artiglia un drago verde è proprio uno stemma del partito dei “leoni”, cioè della parte guelfa. Per spiegare al turista questo piccolo mistero bisogna andare ancora più indietro nel tempo, cioè all’anno 1260 quando, dopo la battaglia di Montaperti, furono i guelfi a essere cacciati da Firenze dai ghibellini vincitori. I guelfi sbandati, allora, cercarono rifugio e protezione presso il papa Urbano IV, che era francese e antiimperiale. Il papa accordò loro denaro e molti altri benefici, e quando quei rifugiati politici domandarono al Papa in quale modo avrebbero potuto dimostrargli la loro riconoscenza, egli rispose che, come unico compenso, avrebbero dovuto rimanergli sempre fedeli; inoltre, quale simbolo di fedeltà, avrebbe gradito molto che la parte guelfa si fregiasse dello stemma della sua famiglia: appunto un’aquila rossa in campo bianco che tiene fra gli artigli un drago verde. Non passarono molti anni che la situazione politica fiorentina capovolse le sorti delle due fazioni: i guelfi salirono definitivamente al potere, mentre i ghibellini furono messi al bando. La parte guelfa allora mantenne la promessa fatta al papa e inserì il suo stemma tra gli altri stemmi guelfi. Quando accadevano queste cose però, il bellissimo Palazzo della Signoria (detto poi “Palazzo Vecchio”) ancora

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non esisteva; la sua costruzione, infatti, cominciò solo trenta anni dopo, nel 1301. Dante Alighieri, allora trentaseienne, fece appena in tempo a vederne l’inizio dei lavori poiché, un anno dopo, venne cacciato dalla città la pena dell’esilio perpetuo, ingiustamente accusato di baratteria e di ostilità sia con papa Bonifacio VIII che al fratello del re di Francia, e paladino dei guelfi, Carlo di Valois. L’unica colpa di Dante Alighieri, in realtà, fu la strenua difesa degli interessi della repubblica fiorentina quando, eletto priore nel Consiglio della Repubblica, si oppose sempre alle assurde insistenze tanto del papa quanto di Carlo di Valois, che chiedevano a Firenze cospicui contributi di armati e fiorini d’oro per le loro guerre. Una serie di Nihil fiat, cioè di “no”, costò a Dante la condanna e l’esilio, che lo condussero a morire lontano dalla sua amata patria (la morte avvenne nel 1321 a Ravenna) senza poter più rivedere Firenze. A proposito di Palazzo Vecchio, si dice che Dante in esilio, ogni volta che incontrava qualcuno che veniva da Firenze, gli domandasse: “Vien su bene il palazzo dei priori?”. Dunque il primo nome di Palazzo Vecchio fu quello di “Palazzo dei Priori” perché proprio a ospitare il loro Consiglio era destinato, e solo più tardi prese il nome di “Palazzo della Signoria”. Firenze infatti non aveva mai avuto una sede adeguata dove potessero riunirsi e deliberare l’applicazione delle leggi i priori, cioè coloro che venivano eletti dal popolo a governare la città. Dapprima i priori si riunivano in luoghi diversi, dove avevano a disposizione un po’ di spazio; successivamente – così era anche al tempo di Dante – si erano stabiliti nella Torre della Castagna che ancora oggi esiste non lontano da piazza della Signoria, precisamente all’angolo di via de’ Magazzini con via Dante Alighieri. Anche quella sede, però, con il tempo non sembrò più adeguata alla “grandezza” di Firenze e così fu deliberato di costruire il bellissimo e grande palazzo su progetto di Arnolfo di Cambio; tuttavia non fu una cosa

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semplice, poiché si presentarono subito due grandi problemi la cui soluzione richiese molti anni prima di poter mettere mano ai lavori. Il primo problema era questo: a quale scopo costruire un bellissimo palazzo, se poi nessuno poteva ammirarlo? Infatti, il turista che ammira oggi la vastità di piazza della Signoria non immagina neppure quanto dovette costare all’antica repubblica fiorentina ricavare quell’immensa piazza! Per rendersene adeguatamente conto bisogna tenere presente che nel ‘300, al posto dell’odierna piazza e dello stesso Palazzo Vecchio, c’era tutto un dedalo di viuzze strettissime, irte di innumerevoli case-torri; anche se si fossero espropriate tutte le case necessarie da radere al suolo per potervi costruire il palazzo, chi, poi, lo avrebbe potuto ammirare dagli stretti vicoli circostanti che occupavano tutto il resto della zona che oggi costituisce la piazza? Si rese perciò necessario – e con quale sforzo finanziario è facile immaginarlo – effettuare l’esproprio di una vastissima area cittadina comprendente tutte quelle case che poi vennero abbattute; solo allora avrebbe potuto sorgere un così bel palazzo veramente degno di Firenze! Ma come abbiamo detto c’era anche un secondo problema: il luogo scelto per la costruzione del “Palagio dei Priori per lo Comune et popolo di Firenze” era quello stesso in cui anticamente si trovavano le case degli Uberti, “ribelli di Firenze e ghibellini”; non si poteva perciò costruire il Palazzo dei Priori in quel luogo maledetto! Per “scansarlo”, allora, il Comune dovette acquistare altre case che erano a margine: quelle della famiglia Foraboschi, tra le quali si trovava (e si trova ancora, inglobata nella torre di Palazzo Vecchio) una torre “alta più di 50 braccia” detta della Vacca; proprio da quella torre prese il nome la via prospiciente il Palazzo, che tuttora esiste e si chiama via Vacchereccia. Il progettista del palazzo, Arnolfo di Cambio, utilizò il solidissimo fusto di quella torre come soste-

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gno principale della facciata e fondamento della torre attuale la quale, proprio per questo motivo, non venne eretta sul palazzo ma, poggiando su simile solido basamento, poté svettare arditamente sporgente dal ballatoio a mensoloni. Nessuno prima di allora aveva mai veduto una torre sporgente “a sbalzo” come quella progettata da Arnolfo, il quale però non poté vederla finita essendo morto prima che il lavoro fosse compiuto. La presenza “mascherata” della torre della Vacca all’interno del palazzo risponde anche alla domanda, che molti turisti si pongono, del perché le finestre del palazzo, in corrispondenza della torre, siano cieche; il mistero non è più un mistero! Tutto il palazzo, per scansare l’odiato terreno, è risultato asimmetrico; solo la genialità di quell’architetto e scultore di Colle Val d’Elsa (che da allora volle farsi chiamare “Maestro Arnolfo di Fiorenza”) riuscì a risolvere architettonicamente nel modo migliore anche quel problema “politico” ricorrendo all’armonia della proporzione aurea, una regola architettonica che fu ideata nell’antica Grecia. La proporzione aurea, detta anche comunemente “sezione aurea”, fu molto usata in passato dopo la sua “riscoperta” da parte di Arnolfo; essa è basata su questa semplice formula: data una misura pari a 10, la si deve suddividere in due segmenti le cui misure sono, rispettivamente, 6,18 e 3,82. Queste sono esattamente le proporzioni in cui la torre di Palazzo Vecchio suddivide il resto della facciata. La costruzione si protrasse, con successive aggiunte, fino all’anno 1340; è una tipica costruzione medievale a bugnato rustico, quasi un forte castello, e rappresenta uno dei più mirabili esempi di quell’arte che più tardi prese il dispregiativo appellativo di “gotica”. La torre, finita nel 1310, fu munita di un’enorme campana così pesante che per farla suonare occorreva la forza congiunta di ben 12 persone! Quella campana però venne sosti-

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tuita con un’altra, fusa nel 1322 dal maestro senese Pietro di Lando, che la pose sulla torre con sottile e bello artificio tale che due sole persone la potevano muovere, e poi, una volta messa in movimento, uno solo la poteva sonare a distesa e il suono si poteva sentire in città e nel contado per un raggio di 13 miglia! è la stessa campana che ancora oggi possiamo vedere sull’alto di quella torre davvero strana e particolare. Il turista che ammira Palazzo Vecchio spesso non fa caso a una particolarità che è un vero mistero: le merlature del palazzo all’altezza del ballatoio sono guelfe, e questo è logico dato che Firenze a quel tempo era guelfa e i ghibellini erano stati ormai definitivamente sconfitti e cacciati. Ma allora come si spiega la presenza di merlature tipicamente ghibelline sull’alto della torre? Non esistono documenti storici che diano una spiegazione a questo enigma, che sembra proprio destinato a restare tale. È stata fatta anche la supposizione che la contemporanea presenza sul palazzo di merlature guelfe e ghibelline volesse rappresentare o auspicare simbolicamente una pacificazione tra le due fazioni, ma questa tesi non regge; non era certo nel carattere di quegli agguerritissimi guelfi compiere un simile gesto distensivo verso gli odiati ghibellini, da loro definiti “indegni di esser chiamati cittadini, né cristiani, né prossimo” e ritenuti pertanto esseri privi di ogni dignità, di ogni diritto e da sopprimere senza pietà! Forse questo feroce odio era ancor più accentuato dal cocente ricordo del vile episodio avvenuto circa mezzo secolo prima, quando, nella storica battaglia di Montaperti, i ghibellini perpetrarono a danno dei guelfi il più odioso tradimento che si potesse concepire, commettendo una strage fraticida. Con tali premesse, dunque, un atto di distensione politica non è ipotizzabile e d’altra parte nessuno è mai riuscito a trovare una motivazione che fosse convincente o anche semplicemente accettabile per giustificare il mistero di queste merlature.

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Quando finì la repubblica fiorentina, al tempo di Cosimo I, il palazzo, denominato Palazzo della Signoria, fu utilizzato come sede del governo mediceo, e fu quindi nel periodo rinascimentale che le sale interne del palazzo subirono una radicale trasformazione e divennero i suggestivi ambienti che oggi vediamo, tra cui il grandioso salone dei Cinquecento che, nel secolo XIX, ospitò la sede del governo italiano quando Firenze divenne capitale d’Italia.

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Fig. 29 - Formella che Giotto scolpì per il suo campanile, raffigurante un pastore, il gregge e il famoso cagnolino che fu suo compagno d’infanzia

Il cagnolino di Giotto

Tra il 1283 e il 1330, in un arco cioè di soli 47 anni, Firenze ebbe uno sviluppo incredibile; nel 1283 infatti la città aveva 45.000 abitanti, ma nel 1330 ne aveva ben 100.000 entro le mura cittadine, più altri 80.000 nel contado. Quelli furono veramente anni “d’oro” per Firenze: documenti storici dimostrano che le entrate dell’erario comunale, a quel tempo, assommavano a ben 400.000 fiorini l’anno, mentre le spese ordinarie annuali non superavano i 40.000 fiorini; si spiega così come mai Firenze fosse tanto ricca da potersi permettere oneri finanziari tali da non poter essere uguagliati da nessun’altra città. Il Comune di Firenze, infatti, non badava a spese, specialmente quando si trattava di rendere sempre più bella e importante la città agli occhi del mondo. La Firenze di quel periodo doveva essere molto rumorosa giacché era, in pratica, un unico immenso cantiere. Basti pensare che nel brevissimo arco di soli 24 anni, tra il 1278 e il 1301, furono aperti i cantieri per le seguenti costruzioni: Santa Maria Novella, ampliamento di Santa Croce, ampliamento della Loggia del grano di Or San Michele con la costruzione dei magazzini, rivestimento marmoreo del Battistero di San Giovanni (con i bellissimi marmi bianchi di Luni e verdi di Prato), inizio della costruzione di Santa Maria del Fiore (la nuova cattedrale in

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sostituzione dell’antica Santa Reparata), il Palazzo della Signoria, oltre a numerosi ospedali e ampliamento di altri esistenti, tra i quali quello di Santa Maria di cui abbiamo parlato in altro capitolo, fondato da Folco Portinari. Non furono dunque poche, né di poca importanza, le opere messe in cantiere dal Comune e dalle Arti in quel periodo. Anche quando ci fu l’apocalittica alluvione del 1333, i fiorentini non si persero d’animo; aspettarono che le acque si fossero ritirate per riprendere subito, come un volenteroso esercito di formiche, i lavori di ricostruzione di quanto era stato distrutto e di costruzione di nuove importantissime opere. Proprio negli anni di quella tragica alluvione, a esempio, furono iniziati i lavori di costruzione del famoso campanile, vanto e gloria di Firenze, che doveva completare il grandioso complesso di Santa Maria del Fiore, cioè del Duomo. Giotto era ormai avanti negli anni quando fu chiamato a progettare ed eseguire quella che forse restò la più famosa delle sue opere, benché finita da altri artisti dopo la sua morte. Per quanto non più giovane, Giotto profuse nella costruzione del campanile energie pari a quelle di un giovane, tanto era il suo entusiasmo, lavorando anche personalmente di mazzuolo e scalpello – lui così abituato ad adoprare quasi sempre il pennello – ed eseguendo addirittura di sua mano alcuni dei bassorilievi che, sia pure non più in originale, ancora oggi adornano il campanile al di sotto del primo cornicione. Giotto vi lavorò fino al 1337, anno della sua morte, quando la costruzione era già arrivata al primo piano. Tuttavia con la morte dell’artista i lavori non si interruppero; furono proseguiti sotto la direzione di Andrea Pisano, che li condusse fino al compimento del secondo piano. Gli ultimi tre piani furono completati nel 1357 da Francesco Talenti il quale, secondo una sua eccelsa personale interpretazione del progetto di Giotto, modificò il campanile aggiungendovi le finestre (non previste da Giotto), prima

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bifore e poi una grande trifora, per alleggerire progressivamente il peso dovuto alla grande altezza della costruzione. Pochi sanno di un’altra importante modifica apportata da Francesco Talenti al progetto originale: Giotto aveva previsto di completare il suo campanile con la tipica cuspide dei campanili gotici, Talenti, invece, eliminò quella cuspide (o guglia) sostituendola con quel bellissimo cornicione che tutti possono ammirare e che nasconde alla vista il basso tetto che ha una pendenza minima, giusto quella per il necessario scolo dell’acqua. Il campanile è a pianta quadrata e per gli amanti di curiosità costruttive ne diamo le dimensioni: altezza totale di metri 84,70; mura spesse metri 3,60 alla base e metri 3,10 ai piani superiori, ai quali si accede mediante una caratteristica scala elicoidale interna. Il turista che osserva il campanile nella sua parte più bassa, cioè al di sotto del primo cornicione, può vedere una serie di formelle scolpite nel marmo, alcune delle quali, come già detto, furono direttamente scolpite dalla mano di Giotto. Tra queste ultime ce n’è una raffigurante un pastore col suo gregge e, bene in vista, il suo cane. È evidente che, benché ormai ultrasessantenne e famoso, Giotto non aveva dimenticato quel piccolo cane che aveva rallegrato e riempito di tanto affetto la sua infanzia di giovanissimo pastore; quindi, quando ebbe l’occasione di creare i bassorilievi in marmo per il suo campanile, trovò in uno di questi la migliore occasione per onorare la memoria di quel suo piccolo grande amico, la cui immagine, in quel modo, sarebbe rimasta nei secoli sulla pietra all’ammirazione di tutti coloro che fossero passati di lì. Con un volo di fantasia proviamo a immaginarci di tornare indietro nel tempo di circa sette secoli, e di trovarci nel presidio fiorentino di Vicchio nel Mugello intorno all’anno 1275. In un’erbosa radura, a margine di uno dei lussureggianti boschi di alti alberi di pino di cui – a differenza di oggi

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– era ricco quel contado, un piccolo pastore sta conducendo al pascolo il suo gregge. Fa caldo e il ragazzo si siede su una pietra per riposare, mentre un vispo cagnolino corre qua e là per tenere unito il gregge. Il pastorello, un ragazzo di circa nove o dieci anni, vede a terra i resti di un fuoco ormai spento e, istintivamente, raccoglie un pezzetto di brace con cui, per passare il tempo, disegna sulla pietra la testa di una delle sue pecore che pascolava vicino a lui. Sopraggiunge un uomo a cavallo il quale, forse incuriosito nel vedere il ragazzo che sta disegnando, gli si avvicina e quando vede bene lo schizzo che il ragazzo sta facendo, ne resta ammirato e scende da cavallo per valutarne meglio il vigore artistico e la sicurezza della mano. L’uomo intuisce nel pastorello un grande talento artistico e va subito a parlarne col padre del ragazzo. Quell’uomo era il famoso pittore fiorentino Cimabue, mentre il pastorello altri non era che Giotto il quale era nato proprio da quelle parti, a Vespignano. Cimabue prese Giotto sotto la sua protezione e lo portò a Firenze facendone il migliore dei suoi allievi; fu infatti nella bottega di Cimabue che Giotto apprese le prime nozioni della pittura e dell’arte, e sviluppò il suo grande talento artistico. Ma che fine fece il cagnolino che badava al gregge? Quel piccolo cane era il migliore amico di Giotto fanciullo e lui non volle separarsene; anche il cane, allora, venne a Firenze insieme al suo giovane padrone e di conseguenza prese a frequentare la famosa bottega di Cimabue… I fiorentini, si sa, sono sempre stati salaci e l’aneddotica riferisce che, anche in questa circostanza, si dimostrarono tali. Pare che, alludendo al cagnolino, la gente di Firenze andasse dicendo in giro che il grande Cimabue, nella sua bottega, aveva un allievo che era proprio… un cane! Come abbiamo constatato, Giotto fu anche un grande architetto, oltre che scultore e, soprattutto, pittore. Purtroppo

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non lasciò tante tracce di sé a Firenze, quante ne lasciò in altre città d’Italia. Oltre alla celebre Madonna di Ognissanti, una tempera su tavola conservata agli Uffizi, Giotto fece anche un ciclo di affreschi sulla vita di San Francesco nella chiesa di Santa Croce; purtroppo però quegli affreschi furono rovinati da una serie di interventi e restauri incoscienti effettuati nel XVIII secolo. Chi effettuò quei rovinosi restauri probabilmente non si rese conto che gli affreschi erano di Giotto, visto che preferì sacrificare quel ciclo pittorico agli “abbellimenti” barocchi che prevedevano, fra l’altro, l’inserimento nelle murature della navata di alcuni grandi sarcofagi. Per fare ciò si dovettero aprire delle enormi brecce nei muri affrescati, e le mani dello scalpellino e del muratore compirono uno scempio: sotto gli implacabili colpi dei mazzuoli e degli scalpelli, le pitture di Giotto andarono in frantumi cadendo giù tra la polvere e i calcinacci. Quel poco che rimase fu coperto da uno strato di intonaco e imbiancato. Fortunatamente un recente intervento di restauro – finalmente fatto nel pieno rispetto dell’arte – scoprì che sotto l’intonaco imbiancato c’erano quegli affreschi, e fu compiuto un accuratissimo lavoro di ripulitura mediante il quale sono state riportate alla luce quelle poche zone che scamparono alla distruzione: parti di figure e di sfondi, su cui il turista che oggi visita Santa Croce deve lavorare molto di fantasia per cercare di immaginarsi la bellezza perduta della composizione originale. Con gli affreschi si può dire che Giotto sia stato veramente sfortunato e noi con lui, dato che siamo stati privati di tanti suoi capolavori! Infatti c’è anche un altro ciclo di affreschi di questo grande artista che furono rovinati da restauri sciagurati, ma ne parleremo in un successivo capitolo riguardante il Palazzo del Bargello. Si dice, ma senza supporti di documentazione storica, che Giotto vinse un concorso indetto dal papa Bonifacio VIII per alcune pitture in Vaticano, semplicemente tracciando su

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una pergamena, con un pennello intinto nel colore rosso, un circolo così perfetto da sembrare fatto con il compasso: questa tradizione è giunta fino a noi come il famoso episodio della “O” di Giotto. Unico fatto a sostegno di questo aneddoto è che, effettivamente, Giotto dipinse in Vaticano la “Navicella” o “Barca” della Chiesa, per incarico di Bonifacio VIII e dipinse anche, sempre in quella occasione, un quadro raffigurante il papa che indice la “grande perdonanza”. Un altro aneddoto riferisce che una volta un principe aveva chiamato Giotto ad affrescare il suo palazzo; era una estate molto calda e il principe, rivolto all’artista che tutto sudato stava lavorando su un’impalcatura, gli disse: “Se fossi in te non starei a lavorare su codesta impalcatura col caldo che fa!”. “Nemmeno io ci starei se fossi in voi!” rispose Giotto.

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Un’interessante curiosità

Quella che segue è una lista delle vivande da consumarsi durante la settimana santa (precedente la Pasqua), tratta dal libro “della vita di casa” di una famiglia fiorentina dell’epoca di Giotto e di Dante Alighieri.

Fig. 30 - Lista di vivande per la settimana santa, tratta dal libro di casa di una famiglia fiorentina del XIV secolo

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Ecco la stessa lista tradotta letteralmente (dove c’è una serie di piccole x, si tratta di parole incomprensibili o intraducibili): Questa è la vita quaresimale xxxxx Domenica a desinare frittellette xxxxx, ceci. A cena insalata, pesce fresco o spinaci rifritti o pastinache fritto co la salsa o col xxxxx Lunedi. Chavolo. Pesce salato. Lasagne o vermicelli. Martedi. peselli, pesce fresco, spinaci rifritti. Mercoledi. Minuto pesce salato. Riso o pastinache. Giovedi. Ceci, pesce fresco, spinaci rifritti. Venerdi. Chavolo. Pesce salato. Lasagne o vermicelli. Sabato. Minuto pesce fresco, fava calda dimenata.

La stessa lista in linguaggio moderno: Domenica a pranzo piccole frittelle, xxxxx, ceci. A cena: insalata, pesce fresco, spinaci fritti o pastinache fritto con la salsa o col xxxxx Lunedì: cavolo, pesce salato, lasagne o vermicelli. Martedì: piselli, pesce fresco, spinaci fritti (rifritti: già fritti ma riscaldati). Mercoledì: piccoli pesci salati (es.: acciughe) riso o pastinache. Giovedì: ceci, pesce fresco, spinaci fritti. Venerdì: cavolo, pesce salato, lasagne o vermicelli. Sabato: piccoli pesci freschi (pesciolini da frittura), passata calda e densa di fave.

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Precisazioni Vermicelli: pasta alimentare affine agli spaghetti. Pastinache: non si è certi a quale alimento si riferisce tale denominazione, ma è sicuramente qualcosa di adatto alla frittura. Probabilmente si tratta di un tipo di ortaggio che oggi è detto “pastinaca” e che appartiene alle ombrellifere, la cui radice bianca e carnosa (simile a una grossa carota) viene ancora usata e apprezzata in cucina. Meno probabile che si tratti di un tipo di pesce affine alle razze, pure detto “pastinaca”, che però è di scarso valore alimentare. Chavolo: nella lingua volgare antica, in Toscana, ma particolarmente a Firenze, a causa del vernacolo (e probabilmente anche a causa di reminiscenze del linguaggio etrusco), parole come “cavolo” sarebbero state pronunciate con la “c” dolce aspirata, in sostanza “cavolo” si sarebbe pronunciato “havolo”. Quegli antichi toscani, dunque, per essere certi che tale parola venisse pronunciata con la “c” dura, aggiungevano la “h” scrivendo, appunto, “chavolo”. Curiosità

È curioso notare che a quel tempo (tra i secoli XIII e XIV), ai pasti, l’usanza era di mangiare per prima quella che oggi è per noi la seconda portata, mentre il nostro attuale primo piatto (riso, minestra, lasagne o spaghetti) era servito come seconda portata.

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Fig. 31 - Calcianti del calcio storico durante una tipica azione di gioco

Due martelli che picchiano in testa, per l’eternità

La basilica di Santa Croce, nell’omonima piazza fiorentina, non si presenterebbe agli occhi del visitatore in tutta la sua magnificenza, se non fosse stato per un frate francescano, che si batté a lungo contro i suoi stessi confratelli perché il piccolo convento in cui vivevano, e la piccolissima chiesa annessa, potessero assumere un aspetto più degno della “casa del Signore”. Quel frate si chiamava Giovenale degli Ughi e apparteneva a una nobile famiglia fiorentina. Egli però non vide mai realizzato il suo sogno; morì infatti prima che fosse posta la prima pietra del grandioso ampliamento. In compenso oggi riposa in uno dei sepolcri di quello splendido tempio da lui tanto vagheggiato. Ma… riposerà veramente in pace? Visto il risultato architettonico cui è giunto, ci auguriamo proprio di sì; secondo i suoi antichi confratelli, invece, avrebbe dovuto trovarsi all’Inferno a scontare una terribile eterna condanna. Come andarono le cose? Per capirlo è necessario spiegare che, a quel tempo, c’era rivalità fra i dotti frati domenicani di Santa Maria Novella – che disponevano di notevoli entrate con le quali ampliavano e abbellivano in continuazione la loro chiesa e il loro convento – e i poveri frati francescani di Santa Croce che, sull’esempio del poverello di Assisi, non avevano mai

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aspirato a fare qualcosa che fosse considerato non perfettamente in armonia con i dettami di umiltà e povertà della loro ferrea Regola. A differenza dei Domenicani, quindi, i Francescani continuavano ad abitare nel primitivo conventino, utilizzando l’angusta chiesa per la celebrazione delle Messe e delle altre funzioni religiose. Per le loro prediche, invece, preferivano scendere nella prospiciente vasta piazza sterrata, in modo da parlare al popolo all’aperto sull’esempio di San Francesco. Fra Giovenale degli Ughi, però, non la pensava così e, nel 1285, propose con decisione ai suoi confratelli di ampliare sia la chiesa che il convento giacché, secondo la sua tesi, se era vero che per obbedire alla Regola dovevano essere poveri, ciò non significava però che dovesse risultare povero anche Dio in quella misera “casa” assolutamente indegna di lui. Com’era prevedibile, si accese una vivace e lunga disputa tra una parte dei confratelli di Giovenale contrari alla sua tesi, e un’altra parte che era invece favorevole. Alla fine prevalse la parte favorevole a fra Giovenale degli Ughi, e il progetto per l’adeguato ampliamento del complesso chiesa-convento fu affidato ad Arnolfo di Cambio. Nel mese di maggio dell’anno 1295 Arnolfo iniziò i lavori ma, nel frattempo, fra Giovenale era morto. La notte successiva alla sua morte, uno dei suooi confratelli – appartenente alla parte a lui contraria – lo vide in sogno condannato a una grandissima pena per essersi allontanato dalle norme della Regola francescana: il povero Giovenale veniva percosso in testa da due pesanti martelli, che lo avrebbero colpito in tal modo per tutta l’eternità; neanche a farlo apposta, quei martelli erano proprio del tipo usato dagli spaccapietre che stavano dando inizio ai lavori della nuova chiesa. Dobbiamo anche precisare che la facciata di Santa Croce, così come quella del Duomo, non è quella originale; si tratta infatti di un’aggiunta in stile neogotico fatta nel XIX secolo, e lo stesso vale anche per il campanile. L’interno della basilica

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era ancora quello originale quando Giotto vi dipinse i suoi affreschi, ma subì una prima modifica nel 1560 a opera di Giorgio Vasari, il quale però sicuramente rispettò quelle pitture la cui rovina, invece, avvenne solo con i rifacimenti successivi del XVIII secolo. In Santa Croce sono sepolti molti personaggi illustri e famosi, tra i quali anche il grande Michelangelo Buonarroti. Nel primo chiostro adiacente alla chiesa si trova la bellissima cappella della famiglia dei Pazzi, costruita nel 1430 a opera di Filippo Brunelleschi.

Curiosità

Dopo che, verso la metà del ‘300, la città venne divisa in quattro “quartieri” (tre di qua e uno di là d’Arno), al posto dei precedenti “sestieri”, si prepararono, senza saperlo, le basi del famosissimo calcio storico fiorentino che ancora oggi si gioca, salvo sospensioni di carattere eccezionale, per i festeggiamenti annuali di San Giovanni Battista (patrono della città di Firenze) e i cui calcianti disputano, proprio in quella stessa piazza Santa Croce, un piccolo torneo fra le squadre di Santa Maria Novella, San Giovanni, Santa Croce e Santo Spirito. La partita finale si gioca il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, mentre le partite eliminatorie si disputano nelle due domeniche precedenti.

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Fig. 32 - L’antica Loggia del grano, oggi chiesa di Or San Michele

Tante curiosità

I carnefici del Bargello In via dei Calzaiuoli, presso piazza della Signoria, c’è la bellissima chiesetta di Or San Michele. Prima che questo edificio fosse trasformato in chiesa, lì vi erano, nel ‘300, i magazzini con le scorte del grano che il Comune, in tempi di carestia, distribuiva alla popolazione. Non c’è da credere che tale distribuzione, specialmente quando il popolo era affamato, avvenisse in modo tranquillo e ordinato; scoppiavano spesso tumulti e risse, e il governo cittadino temeva sempre che da qualcuna di quelle risse potesse scoccare la scintilla di una possibile rivolta contro le istituzioni, e non era un timore ingiustificato a quei tempi. Per questo motivo la distribuzione del grano avveniva sempre sotto la sorveglianza del capitano del popolo e dei suoi sbirri. Sul luogo stazionavano anche due carnefici muniti di asce e ceppi, sempre pronti, su ordine del capitano del popolo, a tagliare una mano oppure un piede a chiunque si fosse reso colpevole di disordini o avesse aizzato la folla contro il governo cittadino. Loggia del Porcellino Tra via Por Santa Maria e via Porta Rossa si trova la Loggia del Cinghiale, detta così per la fontana con un cinghiale in bronzo 123

Fig. 33 - Il cinghiale detto “il Porcellino” di Pietro Tacca

che vi si trova, opera dello scultore Pietro Tacca. Questa loggia però i fiorentini, fino da principio, cominciarono a chiamarla impropriamente “del Porcellino”, e tuttora insistono a chiamarla così. Sotto tale loggia si svolge il mercatino della paglia di Firenze e dei tanti souvenir dell’artigianato fiorentino. Un tempo però, molti secoli fa, in quel luogo veniva custodito il carroccio, cioè il carro di guerra che tutti i Comuni avevano, il quale, appunto in caso di guerra, precedeva l’esercito al suono di una campana che vi veniva installata. La campana del carro fiorentino si chiamava “Martinella”, e il carro era trainato da una coppia di bianchi buoi della razza chianina (cioè della Val di Chiana, presso Arezzo) e, ovviamente, era fregiato dai simboli fiorentini (il giglio e i leoni) e ornato di drappi rossi per essere ben visibile anche da lontano; i suoi conducenti erano chiamati “grulli” e, chissà perché i fiorentini (anche quelli di

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oggi) usano dare l’appellativo di “grulli” alle persone che non brillano per intelligenza. Quando la loggia non è occupata da troppe bancarelle è possibile vedere, sul pavimento, un disco di marmo che stava a indicare il punto dove doveva essere “parcheggiato” il carroccio. In tempi posteriori, su quel disco veniva inflitta una umiliante punizione ai colpevoli di bancarotta; il loro fondoschiena veniva denudato e, alla presenza del popolo, veniva fatto battere più volte su quel marmo. Come avviene a Roma con la fontana di Trevi, anche a Firenze la fontana del Cinghiale svolge un’analoga funzione: chi vi getta una moneta può star certo di essersi assicurato un sollecito ritorno in questa bellissima città!

La casa di Dante Alighieri

La casa di Dante che si trova in via Dante Alighieri non è quella originale che, presumibilmente, come si usava a quei tempi, fu distrutta per cancellare ogni traccia di quegli “esseri indegni” che, come Dante, venivano cacciati ignominiosamente dalla cità e condannati al “perpetuo esilio”. La casa che vediamo è quindi solo una ricostruzione (relativamente recente) di pura fantasia sia per il suo aspetto sia per la sua ubicazione che, per quanto prossima, non è esatta. La vera casa di Dante comunque doveva trovarsi molto vicina a quel punto, poiché lui stesso affermava che dalle finestre di casa sua poteva vedere la porta d’ingresso della Torre della Castagna (dove si riuniva con gli altri priori che reggevano le sorti della città). È invece autentica la vicina chiesetta di San Martino al Vescovo in cui Dante si recava a pregare e, forse, a sospirare d’amore accanto alla bella Beatrice Portinari, da lui amata, che andava a Messa in quella stessa chiesa.

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La torre della Zecca Sulla riva del fiume Arno, nel 1317, le mura di cinta della città si attestavano a quella torre che ancora oggi, quasi come un fantasma del passato, si può vedere alta e solitaria in piazza Piave. Questa torre è detta “della Zecca” perché lì, anticamente, fu trasferita la zecca fiorentina, cioè l’officina che “fabbricava” i fiorini per conto del Comune di Firenze.

Fig. 34 - La torre della Zecca

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Otto secoli di Bischeri Ancora oggi a Firenze, dopo tanti secoli, si usa dare del “bischero”; è una parola che si sente ripetere spesso, ma di solito anche chi la pronuncia non ne conosce l’esatto significato. Quando qualcuno commette una sciocchezza, o comunque non dimostra di comportarsi in modo intelligente, soprattutto se ciò che ha fatto non tutela i suoi interessi, gli viene detto: “Sei un bischero!”. La frase, tipicamente fiorentina (e, in senso lato, toscana) ha un intento leggermente offensivo ma bonario, giacché, quando hanno veramente intenzione di offendere, i fiorentini non difettano certo di ben altri termini e vocaboli assai più efficaci. Risalendo nel Medioevo troviamo che i Bischeri erano una famiglia fiorentina di ricchi mercanti; pertanto, la frase “sei un bischero”, va intesa letteralmente in questo senso: “sei una persona che fa parte della famiglia dei Bischeri”, alludendo al fatto che quella famiglia, tanti secoli fa, in una determinata circostanza si comportò in modo poco saggio, tanto poco saggio da subire una gravissima perdita finanziaria. Un “bischero” dunque, per tornare alla frase fiorentina, non può essere altro che una persona che si comporta in modo sciocco e contrario al suo stesso interesse. Cosa fece allora di così lesivo dei propri interessi questa famiglia? Essa era proprietaria di certi terreni fabbricativi in prossimità dell’attuale piazza del Duomo. Il Comune di Firenze aveva necessità di acquisire quei terreni per costruzioni da effettuare nell’interesse cittadino, e offrì più volte alla famiglia Bischeri somme di denaro notevoli perché vendessero quei terreni. I Bischeri però rifiutarono sempre, sicuri che il trascorrere del tempo, unito alle sempre più impellenti necessità comunali, facesse lievitare il prezzo di quei terreni al massimo valore possibile. Per un po’ di tempo le cose andarono avanti così, tra offerte e rifiuti, ma la situazione, alla fine, precipitò 127

in un modo imprevisto: il Comune, stanco di tutti quei rifiuti, acquisì forzatamente la proprietà di quei terreni con un decreto di esproprio e col pagamento di una somma irrisoria al confronto delle precedenti offerte. I Bischeri, essendo una famiglia di mercanti, erano tutt’altro che sprovveduti in fatto di affari, e quindi di cura dei propri interessi commerciali, però in quella circostanza avevano voluto “strafare” e così, nel tentativo di comportarsi con troppa astuzia, finirono con l’ottenere un risultato totalmente contrario ai propri interessi. Da quel giorno i fiorentini portarono la famiglia dei Bischeri a esempio di stupidità, e da allora nacque il termine di “bischero”.

Una lapide per l’Anno Santo 1300

Se oggi conosciamo tanto bene molti particolari storici della Firenze medievale, in buona parte è merito dell’Anno Santo 1300, che fu detto della “universale perdonanza” indetto da papa Bonifacio VIII. In quell’anno, per ottenere il perdono dei peccati, vi fu un grandissimo numero di pellegrini che, da Firenze e da tutta l’Italia, si recarono a Roma in pellegrinaggio. Tra i fiorentini più illustri che in quell’occasione si recarono a Roma, vi furono lo storico Giovanni Villani (che ci ha tramandato, nella sua Cronaca, tantissimi fatti della Firenze antica), il grande poeta Dante Alighieri e lo stesso Giotto che, per l’occasione, eseguì due sue famose opere per incarico del papa, già citate in un altro capitolo. Il Villani, per sua stessa ammissione, ebbe proprio a Roma l’ispirazione per scrivere la storia di Firenze, città “figlia di Roma”. Scrive infatti il Villani: Così, negli anni 1300, tornato da Roma, cominciai a compilare questo libro, a reverenza di

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Dio e del beato Giovanni, a Commendazione della nostra città di Firenze. Un ignoto fiorentino di cui si conosce solo il nome, un certo Ugolino, fu uno dei tanti che si recarono in pellegrinaggio a Roma, insieme alla moglie, in occasione di quell’Anno Santo. Questo popolano però, a differenza degli altri, volle lasciare ai posteri un segno tangibile del suo viaggio a Roma; dobbiamo riconoscere che vi riuscì perfettamente se ancora oggi, dopo sette secoli, su un muro della strada dove abitava esiste ancora una lapide, scritta in latino, che cita il suo viaggio a Roma per la “perdonanza”; la lapide conclude in italiano: “e andovi ugolino chola moglie”. Chi volesse vedere quell’antica lapide non deve fare altro che recarsi nella strada, tuttora esistente, dove abitava quel fiorentino, che forse non era ricco visto che viveva in “via della Fogna”! Attenzione però, perché quella via da molto tempo ha cambiato nome e oggi si chiama via Giovanni da Verrazzano.

Gli scherzi di Buffalmacco Come in tutte le categorie di persone, anche tra gli artisti vi sono sempre stati dei burloni. Nella Firenze del ‘300 ve ne fu uno in particolare, un pittore soprattutto di tabernacoli, che passava più tempo a burlarsi del prossimo che a dipingere: il suo nome era Buffalmacco Buonamico. Un nome così strano e buffo farebbe pensare a un personaggio inventato per una fiaba; invece è realmente esistito anche se, evidentemente, pagò cara la sua smania di fare burle, visto che nessuna delle sue pitture è giunta fino a noi. C’è però anche un’altra spiegazione alla totale assenza di sue opere, dato che egli, come detto sopra, era un pittore di Madonne e Santi per i tanti tabernacoli che allora si trovavano quasi a ogni angolo di strada. Si può quindi capire come quelle fragili costruzioni non potessero reggere all’usura 129

dei secoli! È giunta fino a noi, invece, la notizia di tantissimi scherzi da lui fatti a molti fiorentini dell’epoca: un modo come un altro per conquistare quella “immortalità” che altrimenti non avrebbe avuto. Per dare un’idea di Buffalmacco, citiamo l’episodio di una povera donna che, oltre a cucinare e sfaccendare tutto il giorno, veniva obbligata dal marito a lavorare al telaio fino a tarda notte e il continuo battere del telaio disturbava il sonno di Buffalmacco, che abitava nella casa accanto. Una mattina il pittore, stanco di questa situazione, riempì di sale una lunga cannuccia e, dalla finestra, soffiando nella cannuccia, fece cadere tutto quel sale nella pentola di minestra che quella donna faceva bollire sul fuoco. Il marito della donna non poté mangiare quella minestra eccessivamente salata, ma soprattutto capì che la moglie, per poter cucinare a dovere, di giorno doveva essere ben sveglia; di conseguenza, con buona pace di Buffalmacco, da quella sera la povera donna poté riposare come gli altri. Tra gli scherzi di Buffalmacco, purtroppo, ve ne fu anche uno che si concluse tragicamente. Durante le feste di “calen di maggio 1304”, come era usanza, allegre compagnie e brigate di giovani organizzavano feste per tutta la città. I popolani di oltrarno, detti “sanfrianini” dal nome del borgo di San Friano (oggi San Frediano) in cui abitavano, fecero un bando per annunciare a tutta Firenze che chiunque volesse sapere notizie dell’altro mondo, altro non avesse da fare che recarsi, il dì di calen di maggio, in sul ponte alla Carraia o d’intorno all’Arno. La notizia incuriosì un gran numero di fiorentini, che accorsero a vedere come i sanfrianini avrebbero rappresentato il mondo dell’oltretomba. Buffalmacco, ideatore e organizzatore di quello spettacolo, era intenzionato a fare una rappresentazione infernale così realistica e paurosa da far venire i brividi a tutti. Il Villani ci descrive così quell’episodio che si concluse tragicamente: E andarono in Arno, sopra barche e navicelle, pal-

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chi, e fecionvi la simiglianza e figura dello Inferno, con fuochi e altre pene e martorii, con uomini contraffatti a demonia orribili a vedere, e altri i quali avevano figure di anime ignude, che pareano persone, e mettevangli in quegli diversi tormenti con grandissime grida, e strida, e tempesta, la quale pareva odiosa e spaventevole a udire e a vedere. La fantasia di Buffalmacco in quell’occasione si dimostrò davvero eccezionale; purtroppo però il ponte alla Carraia, sul quale si era accalcata una folla incredibile, era fatto di legname che si appoggiava sulla muratura dei piloni. Accadde che le assi del ponte, sotto l’enorme peso della folla, cedettero in più punti e il ponte crollò; moltissimi annegarono in Arno e tanti altri perirono cadendo sui piloni del ponte o sulle barche che passavano sotto. Il Villani concluse la cronaca di quella tragedia con questa riflessione: Così che moltissime persone che erano andate lì per vedere come era fatto l’altro mondo, finì che a vedere l’altro mondo ci andarono davvero. Buffalmacco è sepolto nel chiostro detto “Ossa” (che in realtà è un cimitero) dell’ospedale di Santa Maria Nuova, in pieno centro di Firenze: a 68 anni fu dalla Compagnia della Misericordia, essendo poverissimo e avendo più speso che guadagnato, per essere un uomo così fatto, sovvenuto nel suo male in Santa Maria Nuova, spedale di Firenze; e poi morto, nell’Ossa come altri poveri seppellito, l’anno 1340.

Il Palazzo del Bargello

Il Consiglio degli Anziani del governo fiorentino, all’inizio del XIII secolo si riuniva nel Battistero di San Giovanni, dove venivano battezzati tutti i nuovi cittadini di Firenze appena venivano al mondo. Questa infatti era la chiesa più spaziosa di tutta la città e inoltre, per la sua pianta ottagonale, era par-

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ticolarmente adatta alle assemblee. Ma c’era anche un’altra ragione per preferirla ad altri ambienti: essendo dedicata al santo Patrono di Firenze, era la più idonea a quell’ufficio dal momento che San Giovanni rappresentava il più alto simbolo a garanzia della libertà comunale. Il Capitano del Popolo, però, aveva il proprio ufficio (chiamato “Credenza”) in una modestissima casetta presso Santo Stefano al Ponte. Occorreva dunque procurargli una sede più degna; perciò venne scelto un terreno in prossimità

Fig. 35 - Il Palazzo del Bargello

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Fig. 36 - Disegno con il profilo di Dante Alighieri ricavato dall’affresco di Giotto che si trova in una cappella nel Palazzo del Bargello

della Badia Fiorentina e lì, all’angolo formato dalla attuale via del Proconsolo con via Ghibellina, venne costruito il “Palagio del Capitano”, che solo più tardi venne chiamato “Bargello”: era l’anno 1256. Accanto al Capitano del Popolo sedeva un notaio che stilava le deliberazioni e scriveva, con dottissime parole, le lettere ufficiali. Nel fare ciò accadeva spesso che dovesse cancellare e ricancellare le frasi e le parole che non sembravano scritte nel modo più dotto e nella più bella forma e stile; da questa necessità di “cancellare” è derivato il termine che da allora definisce la carica di “cancelliere”. Nel Palazzo del Bargello, precisamente nella cappella di Santa Maria Maddalena (detta anche “Cappella del Podestà”), è conservata una maschera del volto di Dante Alighieri che la tradizione asserisce ricavata da una forma presa sul cadavere del poeta. In quella stessa cappella c’è anche un ciclo di interes-

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santissimi affreschi di Giotto che per secoli erano stati coperti da intonaci con malte corrosive che li hanno assai danneggiati. Tali affreschi, scoperti nell’ ‘800, furono restaurati maldestramente, ridipingendo le superfici affrescate che presentavano il colore corroso. Fortunatamente un recentissimo sapiente restauro, finalmente fatto secondo le più corrette metodologie di questa grande arte, ha potuto salvare il salvabile in modo sufficientemente decente. In questo ciclo di affreschi, fra l’altro, c’è anche il ritratto di Dante Alighieri che sembra essere quello più fedele alle reali sembianze del grande poeta, dato che lui e Giotto erano quasi coetanei (Giotto era più giovane di un anno) ed erano anche molto amici.

L’Ospedale degli Innocenti

I bellissimi loggiati adornati dai tondi in terracotta invetriata di Andrea della Robbia, prospicienti la piazza della SS. Annunziata, di lato alla chiesa, fanno parte dell’antico Ospedale degli Innocenti: un’altra mirabile opera di quel celebre e geniale architetto del ‘400 che fu Filippo Brunelleschi. “Innocenti”, in questo caso, non è il nome di una presunta famiglia che potrebbe aver commissionato l’ospedale (solo più tardi, infatti, apparvero famiglie con questo cognome); Innocenti sta invece a significare i piccoli e “innocenti” bambini che venivano abbandonati perché i loro genitori non potevano, o non volevano, mantenerli. Questa fu, indubbiamente, una delle più grandi conquiste sociali fiorentine, il cui merito principale va riconosciuto all’antica Arte della Seta che, forse più delle altre Arti, esercitava l’assistenza per mezzo di limosine a poveri uomini e donne, in sovvenire infermi, maritare fanciulle, soccorrere carcerati, donne che partorivano e altre opere pietose. L’Arte della Seta dunque, nel 1421 affidò al Brunelleschi il compito di erigere quell’edificio per i poveri “gettatelli”, cioè bambini innocenti

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“gettati” via da genitori che contro le leggi della natura hanno disertato. Quelle piccole infelici vittime del peccato, della vergogna, ma più spesso della miseria e della disgrazia, dovevano avere uno splendido edificio in cui potevano essere accolti come le più degne creature di Dio. Da un lato di quei classici porticati, sul corpo dell’edificio che confina con l’attuale via della Colonna, vi era una bassa finestrella chiusa da una specie di tamburo girevole di legno detto “ruota”. La persona che voleva abbandonare un bambino lo deponeva su un apposito ripiano di quella ruota e poi faceva fare mezzo giro al tamburo; in questo modo il piccolo veniva “trasferito” all’interno dell’edificio. A quel punto chi lasciava il bimbo tirava una cordicella che azionava una piccola campana all’interno dell’ospedale per avvertire che c’era un bambino nella “ruota”, e se ne andava subito frettolosamente. Mani pietose accorrevano allora per accogliere il nuovo piccolo arrivato. Fu proprio da molti di questi bambini, che una volta cresciuti si reinserivano nella popolazione cittadina, che cominciarono a diffondersi quei cognomi tipici di chi era stato allevato come trovatello e aveva ricevuto un adeguato cognome dal personale dell’ospedale: Innocenti, Degli Innocenti, Degli Esposti, Diotisalvi, Diotallevi, e simili.

I fiorini “murati” nel convento di San Marco

La bellissima chiesa e l’annesso convento di San Marco, nella omonima piazza, appartengono ai frati domenicani predicatori. Il complesso, realizzato da Michelozzo verso la metà del ‘400, previa demolizione del preesistente convento, denota la sua ispirazione brunelleschiana, specialmente nei due luminosi chiostri. Man mano che Michelozzo completava architettonicamente gli ambienti, uno dei frati di quel convento, fra

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Giovanni da Fiesole, universalmente conosciuto col più famoso nome di “Beato Angelico”, ne pitturava l’intonaco ancora fresco; proprio i suoi affreschi e le sue tavole, conservati in San Marco, hanno contribuito a rendere famoso nel mondo questo museo e la stessa chiesa. Il Beato Angelico fu anche un miniaturista e da qualcuno è stato definito (forse con scarsa considerazione artistica) come il precursore dei fumetti a causa di quelle zone scritte che usava porre in prossimità delle sue figure, spesso vicino alla bocca, dando la sensazione che quei personaggi pronunciassero le frasi scritte, appunto come in un fumetto. La verità è che il Beato Angelico fu un grande artista che seppe rappresentare una svolta da una visione ancora tardo-gotica della pittura, a una visione rinascimentale “tridimensionale” di grande effetto pittorico. La concezione del Beato Angelico era che tutto ciò che è terreno è voluto da Dio e in Lui tutto si risolve. Questa concezione traspare da tutte le sue opere, particolarmente nella tavola detta “Tabernacolo Linaioli” e negli affreschi nella sala del Capitolo, nel refettorio, nelle celle dei confratelli e nel chiostro grande. Si può comprendere meglio tutto questo se teniamo presente che questo pittore, quando non era costretto a fare diversamente per la posizione particolare delle scene da dipingere, di solito pitturava le sue opere stando inginocchiato; non solo dava in tal modo alla sua pittura il valore di “preghiera”, ma rafforzava tale valore recitando preghiere vere e proprie; questo perché era convinto che solo Dio poteva guidare la sua mano. Sembra incredibile, ma se oggi possiamo ammirare tali stupende opere d’arte, lo dobbiamo agli scrupoli di coscienza di un potente Signore che, a un certo punto della sua vita, cominciò a rendersi conto che probabilmente si era troppo arricchito in modo non del tutto onesto. Il 25 ottobre del 1436, festa dell’Annunziata, era anche il giorno stabilito per la consacrazione del Duomo di Firenze,

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finalmente ultimato benché ancora privo della lanterna. Per celebrare quella cerimonia era venuto a Firenze papa Eugenio IV che fu ricevuto, con tutti gli onori, dal Signore di Firenze Cosimo I de’ Medici. Cosimo però, da qualche tempo, era tormentato da dubbi sulla sorte della sua anima e non si sentiva la coscienza tranquilla sapendo quanto si era indebitamente arricchito, sia a danno del suo popolo che di altri. Decise allora di parlarne al papa per chiedergli in quale modo avrebbe potuto togliersi quel peso dalla coscienza. Non sarebbe bastata infatti una confessione: la legge morale prescriveva la “restituzione del mal tolto” ma, nel suo caso, non sarebbe stato davvero facile restituire gli illeciti guadagni tanti erano i danneggiati! Il papa allora, per penitenza, impose a Cosimo di murare 10.000 fiorini d’oro nel convento di San Marco. Non si trattava però di murare quei fiorini nel senso letterale di nasconderli in qualche muro del convento, bensì di impiegare quel denaro in opere di restauro di quell’antico convento. Cosimo allora dette precise istruzioni affinché, costasse quel che costasse, si facesse quanto era necessario per rendere quel convento “il più bello al mondo”. Fu così che Michelozzo poté realizzare quel grandioso complesso che poi, all’atto pratico, costò a Cosimo I assai più dei diecimila fiorini; egli infatti, per quella magnifica costruzione “a sollievo della sua anima”, spese alla fine ben 40.000 fiorini d’oro!

La campana “mandata in esilio”

Nel chiostro di Sant’Antonino dello stesso convento di San Marco, fino a poco tempo fa, c’era una grande campana; era fissata a un’incastellatura poggiata a terra e ingombrava il passaggio dei visitatori. Sembrava (e in effetti lo era) in attesa di una sua definitiva collocazione, o meglio, lei sperava tanto in una sua “ricollocazione” sul campanile… Povera campana,

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Fig. 37 - Lapide posta nel pavimento di piazza della Signoria, a ricordo del luogo dove venne impiccato e arso fra Girolamo Savonarola

dopo tante amare vicissitudini era lì che voleva tornare poiché quello era stato per tanti anni il suo posto; quella, infatti, era proprio la stessa campana che, ai tempi di fra Girolamo Savonarola e dei Medici, tante volte aveva suonato dall’alto del campanile di San Marco. Ma tale “ricollocazione”, invece, non sarebbe mai avvenuta, visto che è stata “definitivamente” messa non dove sperava, bensì nell’adiacente Museo di San Marco. Quella sfortunata campana ha un nome lamentoso; si chiama infatti Piagnona. “Piagnoni” si chiamavano anche i seguaci di fra Girolamo Savonarola, il battagliero frate strenuo oppositore della vita godereccia di cui era simbolo la potente famiglia dei Medici che governava Firenze. Savonarola fu un implacabile fustigatore di costumi e mortificatore di ogni desiderio terreno. I suoi avversari, cioè la fazione favorevole ai Medici,

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si chiamavano “Palleschi”, con riferimento alle palle dello stemma mediceo. Gli scontri tra le due fazioni, anche violenti, erano assai frequenti e spesso vi erano anche dei feriti. Un giorno, durante uno di questi tumulti, fra Girolamo si trovò a rischio della vita e fu costretto a rinchiudersi nel convento di San Marco, che venne subito preso d’assalto da molta gente inferocita. Per chiedere soccorso ai cittadini della fazione di Savonarola, i frati cominciarono a suonare a distesa la grande campana del convento, quella, appunto, che in seguito fu chiamata Piagnona; questo fece allontanare i facinorosi e la vita del frate in quella circostanza fu salva. Con il suo inflessibile comportamento, tuttavia, il frate finì col mettersi in urto anche col papa; a quel punto per lui le cose cominciarono a mettersi davvero male: fu arrestato, processato e condannato a morte mediante impiccagione, per essere poi arso sul rogo. L’esecuzione avvenne pubblicamente in piazza della Signoria il 23 maggio 1498, e insieme al Savonarola furono uccisi anche altri due suoi confratelli che lo avevano sostenuto. Il punto esatto dell’esecuzione è segnato da una piastra rotonda di porfido posta nel pavimento della piazza presso Palazzo Vecchio, con una scritta in bronzo che descrive il luttuoso evento. Questa storia però non ebbe fine con la morte del Savonarola; c’è un seguito che merita di essere ricordato. I Piagnoni, privati del loro capo, si erano ormai dissolti. Restava però ancora un colpevole, o meglio “una colpevole” da giudicare e condannare: quella dannatissima campana che, suonando a distesa, aveva salvato una volta la vita del frate e che da quel giorno i Palleschi chiamarono, appunto, Piagnona. Sembra un’assurdità colpevolizzare un oggetto come una campana accusandola di una colpa che era, caso mai, di chi

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l’aveva suonata! La mentalità dell’epoca però era questa, ed era in fondo la stessa mentalità che faceva distruggere le case di chi era bandito dalla città; per noi sono cose inconcepibili, ma per quei nostri lontani antenati erano scontate e del tutto logiche. Dunque quella campana, che dall’alto del campanile di San Marco aveva osato chiamare i Piagnoni a raccolta in difesa del Savonarola, venne processata e condannata a essere rimossa dal campanile e, per essere certi che mai più avrebbe fatto sentire la sua voce, mandata in esilio, lontano dal convento. Così avvenne che fu effettivamente esiliata presso la chiesa di San Salvatore al Monte (vicino al piazzale Michelangelo) e il suo posto sul campanile venne preso da una campana nuova. Quando, molto tempo dopo, fu ritenuto che la campana avesse ormai “scontato” la pena con un sufficiente periodo di esilio, le fu consentito di tornare al convento di San Marco, ma non più al posto d’onore sul campanile, bensì a terra, in quel chiostro dove è rimasta dal Rinascimento fino quasi alla fine del secolo scorso.

La soddisfazione di Donatello

Donatello è considerato il più grande scultore fiorentino del ‘400. Un aneddoto riferisce che nel 1415, avendo appena terminato di scolpire la bellissima statua di San Giovanni Evangelista (oggi nel museo dell’Opera del Duomo), Donatello ne fu tanto soddisfatto da dare alla statua un colpetto di mazzuolo esclamando: “Parla!”. Gli antichi artisti avevano spesso di questi atteggiamenti. Pare che Michelangelo, un giorno, vedendo un’altra statua di Donatello, e precisamente il San Giorgio (che ora si trova al museo del Bargello), abbia esclamato ammirato: “Cammina!”; come avrebbe potuto lodarla di più?

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Ossa equi

Durante l’assedio di Firenze da parte dell’imperatore Carlo V, nel 1530, un colpo di cannone dell’esercito imperiale cadde in piazza dei Giudici, uccidendo il cavallo dell’ambasciatore veneto Carlo Capello. Quel cavallo venne sepolto in una tomba sistemata nella stessa piazza, chiusa da una lapide sulla quale si può leggere la seguente iscrizione: “Ossa equi Caroli Capelli Legati Veneti”.

La perfezione di un ponte

Curiosamente i fiorentini, fino dai tempi più antichi, pur pronunciando correttamente la parola Trinità riferita alla triplice Essenza Divina, spostano l’accento in modo errato sulla prima “i” quando si riferiscono alla chiesa di Santa Trinita oppure al ponte che da quella chiesa ha preso il nome. È davvero strano notare come ogni buon fiorentino si intestardisca a pronunciare “Trìnita”, anziché “Trinità”, quando nomina quella chiesa e quel ponte. Rispettiamo dunque la deformazione avvenuta vox populi e diciamo anche noi questo nome alla maniera fiorentina, probabilmente attribuibile a una reminiscenza latina. Il ponte Santa Trinita è stato definito il più bel ponte del mondo; proprio per la sua bellezza venne a lungo attribuito al grande Michelangelo. Questo ponte, invece, è con grandissima probabilità di Bartolomeo Ammannati che, nelle sue curvature, avrebbe adottato la cosiddetta “curva catenaria” di concezione michelangiolesca (quella stessa curvatura che Michelangelo adottò nelle Cappelle Medicee in San Lorenzo) e questa, probabilmente, fu la causa principale dell’iniziale errore di attribuzione del ponte a Michelangelo. Ci sono però anche alcuni storici dell’arte che sostengono un’altra tesi, quella cioè che il progetto del ponte sia di Michelangelo, mentre l’Ammannati ne avrebbe diretta la costruzione; la reale “paternità” del ponte,

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Fig. 38 - Scorcio del ponte Santa Trinita, nel quale è ben evidenziata la “curva catenaria” di concezione michelangiolesca

quindi, sembrerebbe destinata a restare un piccolo mistero, ma ci sono valide motivazioni per ritenere che non sia così. Infatti, non solo i più recenti testi di storia dell’arte lo attribuiscono ufficialmente a Bartolomeo Ammannati, ma vanno fatte anche altre considerazioni che ci conducono a questa attribuzione. Uno dei motivi di maggior bellezza del ponte è che i piloni, che sono l’elemento di base, non sono messi a uguale distanza tra loro; di conseguenza anche le curve delle arcate non sono le stesse. Quindi l’Ammannati deve aver studiato le correnti dell’Arno, collocando i piloni nei punti migliori e dando a essi una forma a sprone, quasi come la prua di una nave. Su questi piloni ha poi costruito le curve, molto tese, con tutti i punti studiati e calibrati a tale alto grado che, se non ci fosse il parapetto, la struttura risulterebbe ridotta al minimo. L’arco, inoltre, non può essere stato semplicemente

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preso da un modello precostituito in quanto risulta studiato in modo da sostenere perfettamente i pesi; infine vi è anche un’elasticità e tensione delle linee che non è propriamente michelangiolesca. Si può quindi concludere che, anche se lo spunto iniziale fosse stato di Michelangelo, il resto è senz’altro opera dell’Ammannati. L’attuale ponte Santa Trinita però non è più quello originale il quale, durante l’ultimo conflitto mondiale, fu distrutto dalle mine tedesche. Il ponte che oggi tutti possono ammirare a valle del Ponte Vecchio è, comunque, una copia identica di quello originale. Al fine di rendere il giusto onore e merito non solo all’Ammannati, ma anche a tutti gli altri grandi architetti del passato (i quali realizzavano le loro ardite opere più con la sapienza del loro personale ingegno e con tanta esperienza, che con la scienza), vogliamo ricordare che il Comune di Firenze, prima che si procedesse alla ricostruzione di questo ponte, avendo l’intenzione di ricostruirlo identico, volle far verificare dai migliori progettisti dei nostri giorni la progettazione originale per controllare se qualcosa, nella curvatura od in altri elementi strutturali del ponte dovesse essere modificato o corretto per assicurarne, eventualmente, una maggiore stabilità. L’antica progettazione di quel ponte, tradotta in disegni ricavati dallo studio accurato delle foto del ponte distrutto, in sostanza, fu analizzata da tutti i punti di vista e sottoposta a severissimi esami in ogni suo dettaglio, secondo la più moderna e avanzata scienza delle costruzioni. Risultato: non una curva, non un elemento strutturale qualsiasi della cinquecentesca costruzione risultarono meno che perfetti a quel severo controllo; la perfezione del ponte distrutto consentì quindi di poterlo ricostruire esattamente identico all’originale.

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Fig. 39 - Giuditta e Oloferne, di Donatello

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“Ciceroni” improvvisati Concludiamo il capitolo dedicato a tante curiosità per raccontare un aneddoto relativo a un episodio accaduto moltissimi anni fa in piazza della Signoria durante una visita turistica guidata. Si tratta degli anni immediatamente seguenti al secondo conflitto mondiale; oggi un fatto del genere non potrebbe più accadere, ma a quel tempo le persone che si presentavano come guide turistiche non sempre erano qualificate a farlo; accadeva spesso, infatti, che persone ben poco erudite in campo artistico si improvvisassero guide turistiche (erano i cosiddetti “ciceroni”) allo scopo di poter guadagnare un po’ di denaro. L’aneddoto, ben conosciuto specialmente dai fiorentini “over 65”, riferisce che un giovanotto, evidentemente cicerone improvvisato, stava guidando un gruppo di turisti in visita alle statue di Piazza della Signoria. Quando giunsero presso la statua di Donatello raffigurante Giuditta e Oloferne, il cicerone spiegò: “Questa, signori, è Giuditta che taglia la testa a Oloferne, opera del grande Donatello e che rappresenta la giustizia! Dopo i soliti commenti di ammirazione dei turisti, il piccolo gruppo si spostò ad altre statue e finalmente giunse al Perseo di Benvenuto Cellini; a questo punto il cicerone esclamò: “Ecco, vedete? Anche questa statua rappresenta la giustizia, e a farla fu nientemeno che il grande Cellini!”. Siccome il giovanotto aveva omesso di dire chi erano i personaggi raffigurati, forse per una amnesia o forse perché proprio non lo sapeva, alcuni turisti chiesero chiarimenti in merito, ma il povero cicerone, preso alla sprovvista, non riuscì a richiamare alla mente né il nome del Perseo, né quello della Medusa; dette una rapida occhiata al suo manualetto per cercare la risposta ma, nella fretta, non riuscì a trovarla. Così, per non prolungare troppo quell’imbarazzante pausa di silenzio, disse la prima cosa che gli passò per la mente: “Quello… quello è Oloferne che taglia la testa a Giuditta!”. Ovviamente quei turisti, che avevano appena 145

visto la statua di Donatello, non potevano accettare per buona una simile risposta e uno di loro, infatti, protestò vivacemente. L’improvvisato cicerone però, pur rendendosi conto (troppo tardi) di essere caduto in una madornale contraddizione, non si perse d’animo e ribatté prontamente (e fiorentinamente): “Caro signore, la un lo sa che a Firenze, icché gli è fatto l’è reso?” (letteralmente: “non lo sa che a Firenze ciò che viene fatto – di bene o di male – viene poi restituito?”).

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I fiorentini che scoprirono l’America

Tutti sanno che a scoprire l’America fu Cristoforo Colombo ma, senza niente togliere al merito di quel grande genovese, lui credeva di aver raggiunto l’India, tanto è vero che tuttora, i pellerossa che popolano l’America, vengono impropriamente chiamati indiani, e fu proprio Colombo a chiamarli così visto che li riteneva abitanti dell’India. Fu infatti un altro grande navigatore, il fiorentino Amerigo Vespucci, che si accorse dell’errore in cui era incorso Colombo; quella non era l’India, bensì un nuovo continente che, proprio dal suo nome, fu poi chiamato America. Ma non fu Amerigo a chiamare America il nuovo continente scoperto da Colombo; egli si limitò solo a riconoscere che quelle erano nuove terre, mai conosciute prima, e non l’India. Vespucci quindi non pensò mai di usurpare la fama di Colombo come alcuni sostennero; egli, piuttosto, conferì a Colombo il merito di avere scoperto il Nuovo Mondo e furono altri, tra cui Waldseemuller, a riconoscere i meriti del navigatore fiorentino chiamando America quel continente, senza che Vespucci ne sapesse niente. Contemporaneo di Colombo, Vespucci era già da un anno a Siviglia quando Colombo salpò da Palos con le sue caravelle.

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Fig. 40 - Ritratto di Amerigo Vespucci (disegno di anonimo)

La famiglia Vespucci faceva parte dell’antica nobiltà fiorentina e risiedeva in un palazzo di borgo Ognissanti, non lontano dall’antica omonima chiesa ancora esistente nella stessa via. Nella chiesa di Ognissanti si può ancora vedere, sulla destra, un altare contrassegnato dalle caratteristiche “vespe” della famiglia. Lo stemma nobiliare dei Vespucci, infatti, portava una banda obliqua con sette vespe d’oro; quindi il nome “Vespucci” deriva, appunto, dalle vespe. Su quell’altare, in una pittura con la Madonna, è raffigurata la famiglia Vespucci; non si sa bene se Amerigo è il giovinetto più vicino alla Madonna oppure se è quello, meno giovane, che è nella figura della deposizione nella parte inferiore del dipinto. La data di nascita di Amerigo non è certa; nel “libro delle età” è segnata nel marzo 1452, mentre nel “libro dei battezzati” è segnata nel marzo 1454. In uno scritto del Vespucci, sulla cui autenticità però non tutti gli eruditi sono d’accordo, si legge il motivo che lo spinse a trasformarsi da mercante in navigatore:

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Deliberai lasciarmi dalla mercanzia e porre el mio fine in cosa più laudabile e ferma; che fu che mi disposi d’andare a vedere parte del mondo e le sue meraviglie” e ancora: “Partimmo dal porto di Calisi e pigliammo nostro cammino dal gran golfo del mare oceano; nel quale viaggio stemmo 17 mesi, e discoprimmo molta terra ferma e infinite isole, e gran parte abitate. Il Vespucci descrisse con grande ricchezza di particolari i suoi viaggi e le sue scoperte: era così emozionato che gli era difficile dormire: perdei molte volte il sonno della notte…. Espertissimo nell’uso degli strumenti marinari: el quadrante e lo astrolabio navigò a lungo esplorando quelle terre, battezzandole e disegnandole meticolosamente: Messico, Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Columbia, Venezuela, Brasile, Uruguay, Patagonia fino al golfo che chiamò di “San Lorenzo” forse in memoria di Lorenzo de’ Medici. I nomi che assegnava ai singoli luoghi scoperti: baie, golfi, coste, si riferivano al Santo del giorno in cui avveniva la relativa scoperta, come la “Baia di tutti i Santi” scoperta il 1° novembre, giorno dedicato a tutti i Santi e che gli procurò certo grande gioia, visto che anche la sua parrocchia in Firenze era Ognissanti! Tra le tante altre ricordiamo la Baia dei Re scoperta il 6 gennaio, festa dell’Epifania e quindi dei Re magi tanto cari ai suoi ricordi d’infanzia. Alla terra che chiamò Venezuela, invece, mise questo nome perché, con le case fondate sul mare, assomigliava a Venezia. Fu proprio navigando e facendo continue rilevazioni cartografiche lungo queste coste che si accorse che quelle terre formavano il vertice di un grandioso triangolo che, nel suo insieme, non poteva essere altro che un immenso continente. Amerigo Vespucci compì anche altri viaggi – il cui numero però è tuttora controverso – per merito dei quali, così ricchi di risultati, venne nominato Piloto mayor dalla regina Giovanna

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di Castiglia. Da buon fiorentino e da buon cristiano, non mancava mai di abbinare l’utilità pratica con il rispetto di Dio; scriveva infatti: Questo viaggio che ora fo veggo che è pericoloso quanto alla franchezza di questo vivere nostro umano. Nondimeno lo fo con franco animo di servire a Dio e al mondo. E se Dio s’è servito di me, mi darà virtù, quanto che io sia apparecchiato a ogni sua volontà, purché mi dia eterno riposo dell’anima mia. Amerigo conservò il grado di Piloto mayor, e di supremo regolatore della cartografia atlantica, dal momento del conferimento fino alla morte che avvenne a Siviglia nel 1512, quando aveva solo 58 anni di età. Ma non possiamo dimenticare anche un altro grande navigatore fiorentino che, stranamente, una città non certo marinara come Firenze regalò al mondo: Giovanni da Verrazzano. Una delle tante lapidi che contrassegnano le antiche case dei fiorentini illustri, la troviamo, in bella mostra, su una antica casa di via Giovanni da Verrazzano (nel quartiere di Santa Croce); lì abitò infatti la famiglia di questo altro grande navigatore fiorentino. Giovanni nacque a Firenze verso il 1485, anche lui da una nobile famiglia, che però era originaria della Val di Greve dove aveva l’avito castello di Verrazzano. Egli passò la fanciullezza tra il castello dei suoi avi e la casa di Firenze; lo stemma nobiliare fu per lui quasi un presagio alla sua vita di navigatore: su quello stemma, infatti, spiccava una stella azzurra a otto punte in campo oro e argento. Quella stella ingatti assomigliava stranamente a una rosa dei venti… Dopo aver frequentato una buona scuola umanistica e aver visitato paesi lontani come la Siria e l’Egitto per apprendere la “mercatura”, si appassionò ai resoconti di quei fantastici viaggi di Colombo e di Vespucci, in cui si favoleggiava di persone e animali esotici e di lussureggianti vegetazioni, tutte

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cose mai viste prima. I più grandi navigatori stavano allora cercando il famoso “passaggio a nord-ovest” attraverso quelle nuove terre, che permettesse poi alle rotte commerciali di raggiungere il Catai. Giovanni, che nel 1522 si trovava in Francia, si imbarcò sulla nave di Ferdinando Magellano, una caracca con tre alberi e 50 uomini di equipaggio, con l’incarico di osservatore e rilevatore topografico, per studiare accuratamente l’andamento della costa e scoprire possibili passaggi; questa volta il viaggio si svolse più a nord delle terre finora toccate e quindi si trattava di coste che erano ancora tutte da esplorare. Da buon fiorentino, come il Vespucci, Giovanni contrassegnava e battezzava ogni caratterizzazione costiera con nomi tipicamente fiorentini o comunque toscani, come Annunziata, Careggi, Monte Morello, San Gallo, Impruneta, Livorno, ecc. Un giorno esplorò una bellissima baia che descrisse minutamente nel suo resoconto al re di Francia: Fummo col battello entrando dalla detta riviera e la terra, la quale trovammo molto popolosa, la gente quasi conforme all’altra. Vestiti di penne di uccelli di vari colori. Venivano verso di noi allegramente, mettendo grandissimi gridi di ammirazione, mostrandone dove col battello havessimo più sicuramente a posare. Entrammo in detta riviera dentro alla terra circa mezza lega, dove vedemmo faceva un bellissimo lago di circuito di leghe 9 incirca, per la quale andavano discorrendo da l’una et l’altra parte al numero di trenta di loro barchetti, con infinite genti, che passavano da l’una et l’altra terra per vederci. A quella baia Giovanni da Verrazzano dette il nome di “Santa Margherita” in onore della sorella del re. La baia, successivamente, cambiò nome due volte; l’ultimo nome glielo dettero gli inglesi e lo conserva tutt’ oggi: si tratta nientemeno che di New York! Purtroppo Giovanni fece una brutta fine; era abituato a incontrare indigeni sempre gentili e disponibili, sempre entu-

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siasti delle chincaglierie che i marinai donavano loro: perline colorate, campanellini, specchietti. Un giorno però Giovanni sbarcò su un’isoletta, sicuro che avrebbe incontrato i soliti indigeni gentilissimi, ma quelli che gli si affollarono intorno, invece, avevano uno strano comportamento, disdegnando ogni sorta di chincaglieria che venne loro offerta. Perfino gli specchi, che facevano impazzire di gioia tutti gli altri indigeni fino allora incontrati, su di loro non avevano alcun effetto. Perché questo strano comportamento? Evidentemente gli indigeni di quella piccola isola avevano gusti ben diversi; difatti si mangiarono il povero Giovanni e quasi tutti i suoi compagni… Erano antropofagi! Questo accadeva nell’anno 1528.

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Michelangelo Buonarroti

Abbiamo lasciato per ultimi – ma non certo per importanza! – una serie di capitoli tutti dedicati al genio e alla vita di Michelangelo, che fu sicuramente uno dei più grandi personaggi fiorentini di tutti i tempi e la cui lunghissima vita di grande uomo e grande artista fu anche ricchissima di aneddoti e curiosità.

Fig. 41 - Disegno di anonimo raffigurante Michelangelo Buonarroti

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I due “Giuliani dei Medici” e i due “Magnifici Lorenzi”

Durante il suo soggiorno a Firenze, Giovanni de’ Medici – divenuto papa col nome di Leone X – pensò di completare la chiesa di San Lorenzo, nell’omonima piazza, ordinandone i lavori a Michelangelo. Il grande artista avrebbe dovuto dare una facciata alla chiesa (ma non poté farlo per intrighi politici e invidie di colleghi) e aggiungere, simmetricamente alla “Sacrestia vecchia” dove erano le tombe di Giovanni di Bicci nonché di Giovanni e di Piero figli di Cosimo, la “Sacrestia nuova” per le tombe dei più famosi Lorenzo e Giuliano (quelli che furono coinvolti nella congiura dei Pazzi) e anche per quelli della nuova generazione che erano ancora in vita, di cui lo stesso papa e Giulio erano i più anziani. La sorte però volle che i primi a morire fossero i più giovani della famiglia, entrambi di tubercolosi. Michelangelo dovette mettersi subito al lavoro per i loro sepolcri, realizzando con il suo scalpello il più malinconico e solenne monumento dell’arte fiorentina, e stravolgendo col suo genio il precedente concetto che voleva raffigurata, sul sarcofago, l’immagine del defunto nella composta serenità della morte. Michelangelo invece pone sopra i sarcofagi dei personaggi ben “vivi”, in imponenti idealizzazioni con tormentati giochi di luci e ombre. Entrando nel locale della Sacrestia nuova di San Lorenzo, infatti, si resta subito colpiti dalla bellezza delle sculture raffiguranti il Giorno e la Notte, l’Aurora e il Crepuscolo. Queste statue in realtà non simboleggiano i vari momenti della giornata – come potrebbe sembrare – quanto piuttosto la vita dell’essere umano, dalla nascita alla vecchiaia, nell’evolversi del tempo la cui sostanza è ambigua: da un lato domina il destino dei mortali, dall’altro l’eternità. Ma quando il visitatore si riprende dall’ammirato stupore dei primi momenti, e comincia a osservare meglio nelle

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sue parti questo mirabile complesso scultoreo, potrebbe essere assalito da qualche dubbio notando una cosa strana, a meno che non sia un buon conoscitore della storia fiorentina. Il fatto è che – a parte il titolo di “duca” che segue il nome del defunto – in quel locale risultano sepolti Giuliano de’ Medici e Lorenzo de’ Medici detto il “Magnifico”, nonché Giuliano de’ Medici e Lorenzo de’ Medici detto il “Magnifico”! Non si tratta di un errore: lì sono effettivamente sepolti due “Giuliani” de’ Medici e due “Lorenzi” de’ Medici e, cosa ancor più strana, entrambi i “Lorenzi” furono detti “il Magnifico” anche se, a onor del vero, uno di essi molto più meritevolmente dell’altro. Le figure allegoriche del Giorno e della Notte sono adagiate sul coperchio del sarcofago di Giuliano de’ Medici duca di Nemours, fratello di Giovanni che divenne papa col nome di Leone X e figlio di quel più grande Lorenzo che fu veramente degno di essere detto “il Magnifico”. Il duca di Nemours morì di tubercolosi, che allora si chiamava “mal sottile”, nel 1516 all’età di 37 anni. L’Aurora e il Crepuscolo sono invece adagiate sul sarcofago di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, che fu pure detto il Magnifico anche se piuttosto impropriamente. I suoi zii erano Giuliano duca di Nemours e il papa Leone X; suo nonno era il grande Lorenzo che con vero merito fu detto “Magnifico”. Il duca di Urbino morì molto giovane, all’età di soli 26 anni, di tubercolosi intestinale. Per contrasto, in quello stesso locale, una semplice tomba, spoglia di ornamenti e quasi anonima, ospita invece i resti mortali del più celebre Giuliano, ucciso nella famosa congiura dei Pazzi, e di suo fratello Lorenzo, il vero “Magnifico” e Signore di Firenze. Perché questo evidente contrasto che appare come una sorta di ingiustizia che penalizza i personaggi più famosi a tutto vantaggio dei meno famosi? Gli stessi eventi politici, intrighi di corte e feroci invidie di colleghi

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artisti che impedirono a Michelangelo di eseguire la facciata di San Lorenzo, gli impedirono anche di completare le altre tombe della Sacrestia nuova; ecco dunque il motivo per cui oggi non possiamo ammirare chissà quale altro capolavoro di Michelangelo su quella tomba disadorna dove si trova tuttavia una sua bellissima Madonna in marmo, posta tra le statue di San Cosma e San Damiano (realizzate da due contemporanei di Michelangelo, rispettivamente Giovanni Angelo da Montorsoli e Raffaello da Montelupo). Beghe e intrighi, dunque, privarono Giuliano e Lorenzo, due dei più famosi personaggi medicei, di una più degna sepoltura. La concezione di quella particolare “curva catenaria” michelangiolesca – di cui abbiamo parlato anche a proposito del ponte Santa Trinita – è ben rappresentata nei coperchi dei due sarcofagi su cui poggiano il Giorno, la Notte, l’Aurora e il Crepuscolo. Quanto alle statue soprastanti raffiguranti il duca di Nemours e il duca di Urbino, merita citare un fatto: Michelangelo stava lavorando alle due sculture idealizzandone i volti, senza minimamente preoccuparsi di farli somiglianti ai defunti cui era riservata la tomba, e qualcuno fece notare all’artista che non aveva rispettato la somiglianza; Michelangelo allora rispose con prontezza: “Che importa? Nessuno, nei secoli futuri, ricorderà le fattezze dei due Medici diverse da quelle da me scolpite!”.

Michelangelo “falsario”

I contemporanei di Michelangelo erano stupiti della facilità e rapidità di esecuzione con cui egli scolpiva le sue mirabili opere, e non pochi dei suoi colleghi scultori lo invidiavano molto per questo motivo; invidie che poi, come abbiamo notato, impedirono a Michelangelo di realizzare alcuni altri mirabili capolavori. A chi gli chiedeva se avesse qualche “segreto” per

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riuscire a ricavare così belle statue, e per giunta in così poco tempo, da enormi e informi blocchi di marmo, Michelangelo rispondeva: “È semplice; la statua è già lì, dentro la pietra; basta togliere via con lo scalpello e il mazzuolo tutta la pietra in più che c’è attorno e, in questo modo, liberare la figura che si trova all’interno!”. L’abilità di Michelangelo scultore apparve evidente fino da giovanissimo. Aveva poco più di venti anni quando un antiquario fiorentino gli chiese di scolpire un Cupido dormiente nello stile delle opere classiche. A quel tempo Michelangelo non era certo ricco e, pur di guadagnare un po’ di fiorini, si adattava anche a fare opere in cui non poteva certo infondere la propria già grande personalità. Accettò quindi, ingenuamente, di realizzare quel “classico”, non rendendosi conto dello scopo recondito per cui quell’astuto e disonesto antiquario gli aveva richiesto un simile lavoro. Realizzò dunque il Cupido dormiente in stile “classico antico”, facendo un lavoro tanto perfetto che l’antiquario non ebbe poi alcuna difficoltà a vendere quel Cupido come pezzo antico autentico, a un prezzo altissimo. Disgrazia volle che l’acquirente ingannato da quella statua fosse quel tale cardinale Riario che 18 anni prima aveva rischiato di finire impiccato a opera di Lorenzo de’ Medici, essendo coinvolto nella congiura dei Pazzi che costò la vita a Giuliano. Il cardinale apprezzò tanto quell’“antico classico” che, appena rientrò a Roma, lo mise al posto d’onore nella sua personale galleria di opere d’arte di cui era amante ed erudito esperto. Le disgrazie, di solito, non vengono mai sole e infatti accadde che un amico di Michelangelo – ma forse è più probabile che sia stato un collega invidioso – fosse capitato nella bottega di Michelangelo quando proprio stava scalpellando quel Cupido dormiente. Qualche tempo dopo quella persona (amico o collega invidioso che fosse) si trovava a Roma e, conoscendo il cardi-

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nale Riario, fu da questi invitato a visitare la sua collezione di opere d’arte. Potete immaginare quale fu la sua sorpresa nel riconoscere, tra i tanti pezzi di inestimabile valore, quel Cupido che, accidentalmente, aveva visto scolpire da Michelangelo. La sua sorpresa poi fu ancora più grande quando il cardinale gli presentò quell’opera come il pezzo “più raro” della sua collezione! Non si è mai saputo chi fosse veramente quella persona che visitando la galleria del cardinale scoprì l’inganno del falso fatto da Michelangelo, né sappiamo in quale modo lo comunicò a Riario. C’è chi dice che quando il cardinale Riario gli disse che quello era un pezzo classico antico, egli, che sapeva bene come stavano le cose, scoppiò in una grande risata della quale poi, ovviamente, fu costretto a spiegare la ragione. Se così fosse, in questo caso la rivelazione del falso non sarebbe avvenuta per invidia, ma solo per un caso dovuto a circostanze accidentali e contingenti, e quindi non ci sarebbero state intenzioni dolose verso Michelangelo. Altri invece sostengono che quella persona fosse uno scultore che conosceva bene Michelangelo e che, evidentemente invidioso della grande bravura del suo più eminente collega – bravura tale da indurre anche un grande esperto come Riario a considerare quel falso come un pezzo autentico – abbia voluto mettere in pessima luce, se non l’arte, almeno la rettitudine morale di Michelangelo, rivelando malignamente al cardinale che quella scultura non poteva non essere un falso poiché lui stesso, con i propri occhi, l’aveva vista fare dal Buonarroti. Non sapremo mai come siano andate veramente le cose, fatto sta che Riario, appena saputo che quello era un falso, andò su tutte le furie per essere stato truffato prendendosela con Michelangelo quale autore dell’opera, senza considerare che il vero truffatore era stato il disonesto antiquario che gli aveva venduto quella statua spacciandola per antica. Accusato

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apertamente di essere un falsario, il Buonarroti passò brutti momenti rischiando seriamente un pubblico processo che, in caso di condanna dell’artista, si può ben immaginare quali gravi conseguenze avrebbe comportato! Per fortuna Lorenzo de’ Medici – quello che fu poi duca di Urbino – consigliò a Michelangelo di recarsi subito a Roma, dal cardinale Riario, per chiarire la sua posizione e tentare in tal modo di scongiurare il processo. In quella circostanza gli dette anche una lettera di raccomandazione da consegnare al cardinale, nella quale Lorenzo si faceva personalmente garante dell’onestà e rettitudine di Michelangelo e asseriva che la responsabilità del “falso” doveva essere esclusivamente attribuita ad altri. Michelangelo si precipitò subito a Roma (era il giugno dell’anno 1496, e fu questa anche la prima volta che l’artista vide Roma) e fortunatamente riuscì, non senza qualche difficoltà, a convincere il cardinale della sua totale buona fede. Immaginiamo che la curiosità del lettore vorrebbe conoscere quale fu la sorte dell’antiquario truffatore, ma la cronaca di questo episodio, purtroppo, non ce lo dice.

Il naso del David I turisti che si recano alla Galleria dell’Accademia per ammirare la scultura originale del David di Michelangelo, non si soffermano certo a osservare con particolare interesse il naso del personaggio biblico raffigurato in questo grande capolavoro. Quegli stessi turisti, però, non potrebbero fare a meno di guardare quel naso con curiosa attenzione se conoscessero un fatto realmente accaduto, ma conosciuto da pochi. Siamo a Firenze nell’anno 1504, nella bottega di Michelangelo dove lui ha appena finito una delle sue più celebri sculture, appunto il famosissimo “David”. Per l’occasione le più alte autorità della repubblica fiorentina si recano a vedere 159

quella grande statua – alta più di quattro metri – che avevano voluto far realizzare allo scopo di collocarla, quale simbolo di giustizia e libertà della città di fronte al mondo, in piazza della Signoria, davanti a Palazzo Vecchio. Tra le autorità presenti che stavano complimentandosi con lo scultore per la bellezza di quel suo nuovo capolavoro, vi era anche il gonfaloniere Pier Soderini, il quale era anche un protettore delle arti. Pier Soderini, forse allo scopo di farsi notare o forse per mostrare a tutti di essere un vero esperto di cose d’arte, si rivolse a Michelangelo con queste parole: “Sì, d’accordo, il David è bellissimo; personalmente però trovo che il naso non sia ben proporzionato di modo che se con qualche sapiente colpo di scalpello fosse fatto un poco più piccolo, il suo valore artistico se ne gioverebbe assai”. Michelangelo – che notoriamente era molto orgoglioso e permaloso – avrebbe voluto rispondere in malo modo al presuntuoso gonfaloniere, ma si trattenne per non creare un incidente che avrebbe potuto guastare i suoi rapporti col governo fiorentino vista l’importanza di quel personaggio politico. D’altra parte non voleva neppure rassegnarsi a dover modificare, sia pure minimamente, quella statua che per lui era perfetta. Con un lampo di genio degno della sua grande personalità l’artista escogitò allora una soluzione grazie alla quale avrebbe salvato il naso di quel suo capolavoro, burlandosi al tempo stesso del gonfaloniere che lo aveva criticato. La genialità della soluzione pensata da Michelangelo si rivelò nel fatto che, attuandola, non avrebbe rischiato alcuna spiacevole conseguenza poiché né Pier Soderini né altri si sarebbero accorti di nulla. L’artista, quindi, fingendo di acconsentire a quanto gli aveva suggerito quell’illustre personaggio, appoggiò una scala a pioli alla statua del David, poi raccolse da terra il mazzuolo con la mano destra, mentre con la sinistra prese lo scalpello. Nel raccogliere da terra lo scalpello, però, senza farsi notare, raccolse

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anche una manciata di piccoli frammenti e polvere di marmo, dato che ai piedi della statua ce n’erano in abbondanza. Michelangelo quindi salì sulla scala, avvicinò le mani al naso della sua statua e in presenza delle autorità al completo cominciò a colpire lo scalpello col mazzuolo. In realtà però fingeva solo di scalpellare; infatti tenendo la mano sinistra appoggiata al naso del David, stava ben attento che la punta dello scalpello, nascosta nella sua mano, non toccasse mai il marmo della statua. Per mascherare l’inganno e rendere più credibile la sua azione, mentre col mazzuolo picchiava sullo scalpello Michelangelo apriva di volta in volta le dita della mano sinistra lasciando cadere un po’ di quella polvere di marmo che aveva raccolto insieme allo scalpello. Così facendo riuscì a convincere tutti che stesse veramente scalpellando il naso della statua. Dopo alcuni minuti discese, tolse la scala e si rivolse al gonfaloniere dicendo: “Ora che ve ne pare?”. Pier Soderini, che era caduto nell’inganno tesogli da Michelangelo non essendosi minimamente accorto che il naso del David era rimasto esattamente quello di prima, si mostrò tutto soddisfatto ed esclamò: “Oh, visto che avevo ragione? Ora sì che è perfetto!”.

Note e curiosità sul David

La statua del David di Michelangelo è alta 4,34 metri, compreso il basamento, e l’artista la ricavò da un blocco di marmo bianco che era un rudere archeologico: pare che fosse un grosso frammento dell’architrave di un antico edificio – forse un tempio – di epoca imperiale romana. Anche su questo marmo vi è una curiosa storia: prima di Michelangelo, vari scultori avevano cominciato a scolpire quell’enorme blocco nel tentativo di ricavarci una statua; tutti però avevano abbandonato l’impresa ritenendo tale marmo inutilizzabile perché troppo facile a rompersi essendo molto vecchio e pieno di crepe e venature. Michelan-

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Fig. 42 - Particolare del David di Michelangelo

gelo allora avrebbe sfidato i precedenti scultori dicendo: “Vedrò io se sarà veramente possibile o no cavar fuori una statua da questo vecchio pezzo di marmo!”. L’artista cominciò a scolpire quel marmo nel 1501 per “cavarne fuori” il suo David, lavorandoci più o meno assiduamente per ben tre anni, fino al 1504; appena ultimata, la statua fu collocata in piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio, dove rimase fino al 1873. Secondo la visione rinascimentale di Michelangelo, il David doveva essere nudo come gli antichi kuros greci, senza armatura né corazza: simbolo di giustizia e libertà. Egli infatti avrebbe vinto i nemici, più che con le armi, con la virtus cioè con l’intelligenza e la forza interiore. Questa statua è così grande perché, collocata in piazza, doveva essere vista da lontano; inoltre la grandezza fisica doveva anche rappresentarne la grandezza morale. Nel 1873 si ritenne però opportuno togliere la statua dalla piazza per sottrarla ai possibili danneggiamenti degli

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agenti atmosferici, fu quindi per questo che venne trasferita nella Galleria dell’Accademia, in via Ricasoli, dove è certamente ben protetta ma anche dove, purtroppo, non è possibile apprezzarla adeguatamente data la sua mole. In piazza della Signoria, al suo posto, fu messa una copia in marmo. Un’altra copia, questa in bronzo, si trova al piazzale Michelangelo, in posizione dominante su Firenze.

La scommessa di Michelangelo

Sulla facciata di Palazzo Vecchio, quasi dietro il gruppo scultoreo di Ercole e Caco di Baccio Bandinelli, presso lo spigolo dell’edificio verso via della Ninna, vi è una pietra bugna piatta sulla quale è raffigurata la testa di un uomo fatta evidentemente con mazzuolo e scalpello, scolpita “a traccia” cioè quasi come un graffito, anche se con un solco più profondo. Moltissimi turisti che passano per piazza della Signoria non si accorgono neppure di questa testa graffita che, se non si va a cercare con attenzione, è difficile notare nel grigiore delle pietre di quello che sicuramente è uno dei palazzi più belli al mondo. Un aneddoto che gode di ampio credito popolare, narra che quella testa sarebbe stata scolpita da Michelangelo per una scommessa. Secondo questo aneddoto, infatti, alcuni amici dell’artista lo avrebbero sfidato a scolpire nella pietra il ritratto di uno di loro, tenendo però le mani… dietro la schiena! Michelangelo raccolse la sfida e fece quella testa con mazzuolo e scalpello senza poter vedere ciò che stava facendo, per giunta in quella scomodissima posizione dovendo tenere le mani dietro la schiena. L’aneddoto non dice se Michelangelo vinse la scommessa e quindi se il personaggio riprodotto sia riuscito somigliante o meno. Non vi è dubbio però che si tratta di una testa ben fatta, vigorosa e caratterizzata, ed è concordemente

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Fig. 43 - La testa graffita su una pietra bugna di Palazzo Vecchio, attribuita a Michelangelo

attribuita alla mano del sommo artista. Su tale testa vi è anche un altro aneddoto, che però è meno credibile, secondo il quale Michelangelo si sarebbe trovato in quel luogo mentre nella piazza passava il mesto corteo che accompagnava al patibolo un condannato a morte. Colpito da quel triste spettacolo e impietosito, Michelangelo avrebbe voluto raffigurare velocemente nella pietra il volto del condannato.

Il genio militare di un artista

secondo il quale i materassi non servono solo per dormire Dopo l’ultima incruenta cacciata dei Medici, dal giugno del 1527 su Palazzo Vecchio sventolava nuovamente la bandiera della libertà della risorta repubblica fiorentina. In quel periodo Firenze si trovava isolata e priva di aiuti. La sua situazione politica si faceva sempre più difficile nonostante che

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il gonfaloniere della repubblica, nel tentativo di conferire al governo popolare una maggiore stabilità, cercasse di arrivare a un accordo con papa Clemente VII. Questo papa però faceva parte della famiglia Medici, e come tale, non poteva che auspicare il ritorno a Firenze di un governo sotto l’egida della propria famiglia. Papa Clemente dimostrò chiaramente i suoi intenti quando, nel 1529, si incontrò a Barcellona con l’imperatore spagnolo Carlo V, raggiungendo rapidamente con lui un’intesa che, praticamente, segnò la fine della repubblica popolare fiorentina. Andrea Doria, a nome dell’imperatore, rispose in malo modo agli ambasciatori fiorentini che cercavano di parlamentare: “Tardi venisti, e in mala ora!”. Né risposta migliore la dette il papa alle ambascerie fiorentine: “Dominio e libertà quanti ne desiderate, ma quanto al governo popolare niente da fare: esso si è dimostrato settario e facinoroso e pertanto deve tornare ai Medici!”. Che cosa poteva sperare Firenze, opponendosi alle due massime autorità e potenze del mondo che erano perfettamente concordi nel voler sopprimere quella repubblica ancora così attaccata alle sue gloriose tradizioni cittadine, in un’epoca in cui si andavano sempre più consolidando i grandi “blocchi” internazionali? Firenze allora cominciò a comprendere che forse solo per poco tempo, ormai, la bandiera rosso-crociata della propria indipendenza avrebbe ancora sventolato sull’alta torre di Palazzo Vecchio! Nel Consiglio riunito in quell’antico palazzo, si pose in modo drammatico la domanda: cosa si poteva fare in quelle condizioni di impari lotta? “Resistere”, risposero i fiorentini, e se fosse stato necessario anche morire per la libertà! Furono dunque organizzate le difese, nonostante che questa impresa risultasse in modo evidente tanto disperata da rasentare la follia. In quel periodo Michelangelo stava lavo-

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Fig. 44 - La basilica di San Miniato al Monte

rando alle tombe medicee della Sacrestia nuova di San Lorenzo e lasciò l’opera in sospeso per unirsi a un grande architetto di opere a carattere militare, Antonio da Sangallo, allo scopo di provvedere insieme a organizzare le fortificazioni a difesa della città. Michelangelo fu addirittura nominato commissario generale delle fortificazioni, suscitando altre invidie e mormorazioni. In quella veste egli poté eseguire un suo progetto per proteggere la più strategica altura fiorentina: l’antico Mons Florentinum sovrastato dalla bellissima chiesa di San Miniato al Monte, sopra all’attuale piazzale Michelangelo. Michelangelo in tale circostanza si rivelò anche un geniale stratega militare; circondò infatti la zona di San Miniato con una muraglia a forma di stella e con pendenze a scarpata, fatta di mattoni impastati con paglia, capecchio (allora chiamato “vegetale”) nonché sterco di cavallo e di vacca, rendendo così i muri più elastici e adatti ad attutire i colpi dell’artiglieria nemica in quanto avrebbero fornito in tal modo il “rimbalzo”

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delle palle di cannone che, se i muri avessero offerto una resistenza rigida, avrebbero causato gravi danni. Il campanile della chiesa di San Miniato, iniziato da Baccio d’Agnolo e non finito, si prestava ottimamente per farne una piazzola su cui installare alcune delle scarse artiglierie fiorentine. Occorreva però proteggere quel troncone di campanile, che sarebbe stato un facile bersaglio per i cannoni di Carlo V. Michelangelo ne interrò la parte inferiore e fasciò la parte superiore con balle di lana e materassi di vegetale, formando così un’ottima protezione dalle cannonate dell’esercito assediante. Si dice che i soldati spagnoli, quando in località Apparita” furono in vista di Firenze, pregustassero il saccheggio della città con queste parole: “Madonna Fiorenza, apparecchia i tuoi broccati che noi veniamo a comprarli a misura di picche” (le “picche” erano le lunghe lance dei soldati). Lo stesso papa, che essendo un Medici si reputava a buon diritto fiorentino, tremò al pensiero che, per quanto nemica, la sua Firenze stava rischiando di subire un sacco simile a quello che, poco tempo prima, i lanzichenecchi avevano riservato a Roma! Forse in cuor suo, in quel momento, si pentì del suo accordo con Carlo V, e cercò di salvare la città facendo sapere all’ambasciatore della repubblica Bernardo da Castiglione che se Firenze si fosse piegata a lui, egli “avrebbe mostrato a tutto il mondo che era fiorentino e che anch’egli amava la patria sua”. Ma il Castiglione rispose sdegnato: “Firenze piuttosto in cenere che sotto i Medici!”. L’esercito imperiale pose dunque l’assedio alla città con un imponente spiegamento di forze; tuttavia ogni attacco alle mura veniva prontamente ricacciato. Dal canto loro i fiorentini, nella speranza di spezzare il ferreo accerchiamento, tentarono delle arditissime sortite di sorpresa. Una di queste, condotta da Stefano Colonna, merita di essere raccontata.

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Fig. 45 - Il campanile di San Miniato, dalla sommità del quale Michelangelo e Lupo sparavano con le colubrine contro l’esercito di Carlo V

In piazza G. Poggi, tra i lungarni Serristori e Cellini, esiste ancora, perfettamente integra, la porta a San Niccolò: è quell’alta e solitaria torre, a tre arcate sovrapposte, che si trova sotto le rampe che salgono al piazzale Michelangelo. Da quella porta, in una notte umida e nebbiosa, uscì un nutrito gruppo di ardimentosi fiorentini che si proponevano di sorprendere alle spalle la forte posizione imperiale che si trovava

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a Santa Margherita a Montici. Era buio fitto e i fiorentini, per non correre il rischio in caso di battaglia di uccidersi tra loro, avevano indossato lunghe camicie bianche sopra le corazze. Questi armati avanzavano silenziosamente come tanti fantasmi in quella notte buia; erano ormai vicini all’accampamento nemico, e sembrava che la loro azione di sorpresa potesse essere coronata da successo, quando la sorte – che quella volta non aiutò gli audaci – giocò un brutto tiro a quegli ardimentosi… A un tratto, senza un apparente motivo, dalla porta dello stalletto di un macellaio venne fuori un branco di maiali, che con i loro alti grugniti svegliarono gli imperiali e dettero l’allarme all’intero campo spagnolo. L’assedio durava ormai da mesi e il ferreo cerchio cominciava a far sentire in città tutto il suo peso; i viveri scarseggiavano e, con tanti morti a causa delle cannonate, fece anche la comparsa il più insidioso e terribile dei nemici: la peste. Invano i fiorentini cercarono di scoraggiare il nemico mostrandogli tutto il loro coraggio; a esempio per i festeggiamenti di San Giovanni, patrono della città, vollero giocare in piazza Santa Croce, come di consueto, il torneo del calcio storico, facendo sì che gli assedianti si rendessero ben conto che la città non si preoccupava poi così tanto del loro assedio. Per rincarare la dose, anzi, fecero addirittura salire alcuni suonatori sul tetto di Santa Croce, i quali, con trombe, tamburi e altri strumenti, suonavano a pieni polmoni tutto il loro “disprezzo” verso gli imperiali, mentre le palle di cannone fischiavano sopra le loro teste. Intanto dall’alto del campanile di San Miniato, Michelangelo faceva del suo meglio per disturbare le artiglierie nemiche. Lo aiutava un certo “Lupo”, un bravissimo artigliere fiorentino assai famoso per l’abilità e la precisione con cui sapeva usare cannoni, bombarde e colubrine (queste ultime erano un tipo di antica artiglieria di piccolo calibro, ma di lunga gittata). Lupo, con le colubrine di San Miniato, riuscì a centrare

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Fig. 46 - La torre a San Niccolò

e distruggere molti cannoni dei nemici facendo anche strage di loro artiglieri, ma quelle batterie erano davvero troppe e di conseguenza, come abbiamo già detto, quella di Lupo e di Michelangelo poteva definirsi un’azione di disturbo o di alleggerimento, ma non poteva certo essere risolutiva per gli eventi bellici. Lo squilibrio delle forze in campo, in effetti, era troppo grande e molte furono anche le vittime tra i fiorentini; si calcola che tra gli uccisi dalle cannonate nemiche e negli scontri

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armati, più quelli morti di fame e di peste, ben 44.000 fiorentini persero la vita nel corso di quell’assedio. Le ultime speranze di Firenze repubblicana si ridussero all’estremo tentativo di riuscire a ottenere un aiuto dall’esterno, e il gonfaloniere riuscì a far pervenire un messaggio in questo senso al commissario fiorentino Francesco Ferrucci che si trovava a Pisa, chiedendogli di accorrere in soccorso della città con quanti più uomini potesse. Il Ferrucci riuscì a mettere insieme un piccolo esercito di 3500 fiorentini reclutati nelle zone tra Empoli e la Maremma, e con essi si avviò in soccorso della sua città. Il reclutamento di quegli uomini, però, spargendosi la voce, non era stato possibile effettuarlo senza che gli imperiali lo venissero a sapere; così, mentre Ferrucci era in marcia verso Firenze, l’imperatore gli mandò incontro un esercito di ben 12.000 uomini al comando del principe d’Orange e questa sproporzione numerica, alla fine, si rivelò troppo forte. Francesco Ferrucci e il suo piccolo esercito non esitarono ad attaccare quel preponderante numero di nemici al grido di battaglia della repubblica fiorentina: “Marzocco!”, lanciato con la stessa ardimentosa foga con cui i loro antenati lanciavano il più antico grido di battaglia: “San Giovanni!”. Gli imperiali furono colti di sorpresa e inizialmente sembrò che i fiorentini potessero avere la meglio: infatti il principe d’Orange cadde tra i primi, scoraggiando il nemico e dando nuovo vigore e speranza ai soldati di Firenze. Quel primo scontro fu vinto, ma nella successiva battaglia di Gavinana, in cui l’esercito imperiale era guidato dal famoso Maramaldo, i fiorentini ebbero la peggio e lo stesso Francesco Ferrucci, ferito gravemente, restò sul campo. Il condottiero fiorentino fu raccolto dagli imperiali i quali, vedendo che perdeva molto sangue, fecero una barella improvvisata con le loro lance e con quella lo trasportarono al loro campo. Maramaldo aveva un odio particolare per Ferrucci e, quando seppe della sua presenza lo fece portare ai suoi piedi

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dando ai soldati l’ordine di ucciderlo. I soldati però ritennero disonorevole colpire un ferito tanto grave e si rifiutarono di farlo; Maramaldo allora si sfilò dalla cintola il pugnale avvicinandolo alla gola del ferito ormai morente. Quel gesto di Maramaldo bollò d’infamia il suo nome che restò, sì, nella storia, ma solo come sinonimo di viltà, come del resto fu sottolineato dalle stesse ultime parole dell’eroico commissario fiorentino il quale, mentre Maramaldo gli affondava il pugnale nella gola, gli disse: “Vile, tu colpisci un uomo già morto!”. Quello era stato l’ultimo scontro armato per la libertà fiorentina; per l’ultima volta il grido “Marzocco!” era echeggiato in battaglia per far sopravvivere la repubblica a Firenze. Le ultime speranze di resistenza, infatti, furono vanificate dall’infame tradimento dello stesso comandante in capo delle milizie fiorentine, Malatesta Baglioni, il quale, visto che la situazione era ormai disperata e quindi nel tentativo di attirare su di sé le simpatie del papa, non seppe far di meglio che dare ordine di “voltare” i cannoni fiorentini di Porta San Pietro, puntandoli contro la sua stessa città! La repubblica fiorentina era sopravvissuta appena tre anni e ora, sotto la scorta armata delle vittoriose truppe di Carlo V, Firenze tornava ai Medici. Con la fine della repubblica ebbe fine anche un’altra gloriosa tradizione fiorentina che fino ad allora era sopravvissuta attraverso i secoli: il fiorino, la bellissima moneta d’oro che aveva su una faccia il giglio e sull’altra l’immagine di San Giovanni Battista, fu ritirata dalla circolazione e messa fuori corso. Essa venne sostituita da una moneta medicea fatta da Benvenuto Cellini, che però non ebbe altrettanta fortuna del fiorino il quale, da quel momento, divenne solo oggetto di ricerca per collezioni numismatiche. In questa situazione divamparono subito, ormai incontenibili, tutte le invidie, i rancori e le malignità di ogni genere, soprattutto contro Michelangelo, che fino ad allora erano state

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“covate” nel profondo dell’animo di tanti personaggi, illustri e non, e soprattutto di tanti artisti colleghi del Buonarroti; era evidente, in tale stato di cose, che se Michelangelo fosse stato catturato, le sue speranze di sopravvivenza sarebbero state quasi nulle. Fino all’ultimo egli era rimasto a San Miniato, ma quando seppe che, nonostante non fosse ancora avvenuto il “reinsediamento mediceo”, gli si stava dando la caccia per ucciderlo, fuggì precipitosamente giù per la collina riparando a San Niccolò (presso l’omonima porta), dove rimase nascosto fino a notte per proseguire poi la fuga lungo l’Arno con una barca, e riuscendo finalmente a lasciare la città, molto probabilmente dalla parte di Porta Romana, per rifugiarsi a Roma.

Michelangelo accusato di oscenità

Pietro Aretino era un letterato e un poeta, insomma una delle più importanti personalità contemporanee di Michelangelo. Come scrittore era irriverente, addirittura osceno, ma era comunque una delle figure più eminenti di quel secolo, specialmente come “critico d’arte”: un suo giudizio poteva innalzare ad alte vette o sprofondare nell’abisso del nulla qualsiasi artista di cui lui parlasse bene oppure male. Da qualche tempo l’Aretino stava mettendo insieme una collezione privata di opere d’arte che si faceva regalare dai maggiori artisti dell’epoca. Ovviamente nessun artista osava rifiutargli il dono di una propria opera per non farsi nemico un personaggio tanto potente; nessuno dunque gli diceva di no, o meglio… quasi nessuno. Capitò infatti che l’Aretino mandasse anche a Michelangelo una lettera in cui gli chiedeva garbatamente il dono di una sua opera. Michelangelo però, per quanto di indole fosse molto generoso, non era certo il tipo di artista disposto a piegarsi a simili forme di ricatto morale e non rispose né a quella né ad altre successive lettere mandategli dall’Aretino, anche se,

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per altre vie, gli fece sapere che lo ringraziava per l’apprezzamento della sua arte, ma che, se proprio voleva una sua opera, non aveva che da comprarla. A questo punto era inevitabile che Pietro Aretino meditasse di vendicarsi in qualche modo di Michelangelo; doveva però studiare con molta astuzia il modo di attuare la vendetta, perché il Buonarroti era un artista ormai troppo famoso e apprezzato per poterlo impunemente attaccare da un punto di vista artistico, come invece gli sarebbe stato facile fare con altri artisti di minore importanza. In quel periodo Michelangelo, appena scampato alla morte, era molto triste e di pessimo umore a causa degli ultimi eventi politici di Firenze, che avevano portato alla definitiva sconfitta della libera repubblica fiorentina; inoltre, a rendere ancora più amareggiato l’artista, erano state anche tutte le trame ordite ai suoi danni che lo avevano obbligato, fra l’altro, a interrompere le sue opere in San Lorenzo e fuggire dalla sua città. Probabilmente fu per questo motivo che lui, che amava esercitare soprattutto la scultura, accettò l’offerta fattagli dal nuovo papa Clemente VII di affrescare il celebre “Giudizio Universale” nella Cappella Sistina. Michelangelo lavorò a questo suo capolavoro di pittura per cinque anni, dal 1536 al 1541: un’opera immensa, specialmente se si pensa che la fece quasi tutta da solo, praticamente senza aiuti. In tali condizioni e con quello stato d’animo lo raggiunse la prima piccola vendetta di Pietro Aretino sotto forma di una bella lettera, con la quale spiegava a Michelangelo come avrebbe dovuto impostare il “Giudizio Universale” affinché potesse avere le caratteristiche di una vera e propria opera d’arte; in altre parole, in quel modo, dava di incompetente a Michelangelo! Non ci voleva altro perché Michelangelo perdesse la pazienza e questa volta, irritatissimo, decidesse di rispondere all’Aretino scrivendogli la lettera che si meritava e il cui contenuto, più o meno, era il seguente: “Illustrissimo messere; ho

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ricevuto i vostri consigli su come fare il Giudizio Universale ed ho trovato che sono talmente giusti da essermi convinto che, quando alla fine dei tempi ci sarà davvero il Giudizio Universale, sicuramente il Padre Eterno non mancherà di farlo avvenire seguendo alla lettera i vostri saggi consigli!”. Possiamo immaginare come rimase Pietro Aretino leggendo quella lettera e come quindi, pieno di collera, meditò di passare al contrattacco anche se, per farlo, dovette aspettare che Michelangelo finisse il suo lavoro. Dovette cioè aspettare circa cinque anni, ma alla fine la sua vendetta fu terribile! L’Aretino a quel punto (ma non è improbabile che già da tempo avesse cominciato a preparare l’atmosfera adatta) unì la sua voce a quelle altre che da qualche tempo circolavano, accusando di oscenità il capolavoro michelangiolesco! Si diceva che non era ammissibile che nella Cappella Sistina, che rappresenta la chiesa del papa, e per giunta proprio sopra l’altare, ci fossero tutti quegli “ignudi”. La vergogna maggiore, secondo gli accusatori, era che proprio il grande artista Michelangelo avesse potuto concepire simili oscenità! Un corrispondente del marchese di Mantova scriveva poco dopo queste testuali parole: “Non istar bene quegli ignudi che mostrano le robe loro”. Era logico che in questo coro di voci quella di Pietro Aretino fosse determinante, e Michelangelo si salvò da gravi conseguenze non tanto per l’altissimo prestigio del suo nome e della sua fama artistica – che pure aveva una grande importanza – ma probabilmente soprattutto per l’intervento di un altissimo personaggio al di fuori dalle parti in causa, che gli evitò il processo e una quasi inevitabile condanna, su cui l’Aretino invece contava molto. Michelangelo, infatti, era legato da profonda e pura amicizia a Vittoria Colonna, poetessa squisita e anima nobilissima, moglie del marchese di Pescara, la quale era tenuta in grande considerazione dal papa e da tutta la Curia romana. Quando

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Fig. 47 - Un particolare del “Giudizio Universale” di Michelangelo

questa donna così potente e di altissimo rigore morale prese apertamente le difese di Michelangelo, il Papa non dette più corso ai procedimenti penali che si stavano preparando a suo carico, e al tempo stesso furono salvi anche il valore artistico nonché la moralità del Buonarroti. Pietro Aretino non si aspettava questo colpo di scena e ci rimase assai male; però non si arrese e continuò a insistere sul tema dell’oscenità affinché, se non era più possibile perseguire la persona di Michelangelo, venisse almeno perseguita la sua

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opera. Era ormai un fatto personale e se si fosse lasciata cadere la cosa, sicuramente ne avrebbe risentito lo stesso prestigio dell’Aretino; egli si adoperò quindi con tutte le sue energie e le più sottili astuzie fino a che, nel 1564 – circa un mese prima della morte di Michelangelo – il papa decise di far “vestire gli ignudi” facendo dipingere piccoli pezzetti di stoffa sulle nudità dei personaggi raffigurati negli affreschi. Questo provvedimento, in effetti, era più che altro comico e anche lesivo del prestigio artistico di chi si fosse prestato a effettuare tale lavoro tuttaltro che creativo. Probabilmente è proprio per questo che il primo pittore a cui venne affidata la “copertura” delle nudità, più che con il suo vero nome (Daniele da Volterra) è ricordato col ridicolo appellativo di “Monsieur Braghetton”.

Breve biografia di Michelangelo Buonarroti

Michelangelo (o, più fiorentinamente, “Michelangiolo”) nacque a Caprese, un paesino non lontano da Chiusi della Verna, vicino a Firenze, il 6 marzo 1475. Il fatto che sia nato a Caprese però è del tutto casuale: infatti suo padre era un fiorentino che in quel periodo era stato nominato podestà di Caprese e di Chiusi della Verna. Quando la famiglia Buonarroti rientrò a Firenze alla scadenza del mandato del padre, Michelangelo aveva solo un mese di vita; per questo motivo può ben dirsi fiorentino a tutti gli effetti e, del resto, lui stesso ci teneva a definirsi fiorentino purosangue. La casa in cui nacque nel paese che oggi si chiama Caprese Michelangelo è ancora esistente ed è stata trasformata in un museo. La vita di Michelangelo fu tanto lunga quanto intensa; fu pittore, scultore, architetto e perfino ingegnere militare, ma come si è detto la forma artistica che prediligeva su tutte era la scultura. Del resto basta guardare l’architettura delle stanze

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Fig. 48 - Disegno raffigurante la cosiddetta Pietà Rondanini (col braccio staccato evidenziato da una piccola freccia nera)

della Sacrestia nuova e della Biblioteca Laurenziana in San Lorenzo a Firenze per notare che, più che di architettura, sembra trattarsi di una “scultura architettonica” o, se preferite, di una “architettura scultorea”. Questa predilezione di Michelangelo per la scultura risulta anche da documentazioni storiche: nel 1550, quando aveva già 75 anni ed era ormai ritenuto il più grande artista in assoluto, gli venne chiesto il suo parere su quale arte, tra la scultura e la pittura, fosse più importante. Michelangelo, con una lettera autografa, rispose che la scultura è superiore alla pittura in questa proporzione: “La pittura vale

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tanto più quanto più si avvicina alla scultura, e la scultura vale tanto meno quanto più si avvicina alla pittura”. Negli ultimi anni della sua lunghissima vita Michelangelo fu molto attratto dal tema religioso della “Pietà”. Numerose sono infatti le Pietà che egli scolpì, specialmente quando la sua fine era ormai prossima; addirittura, le ultime Pietà realizzate non gli erano nemmeno state commissionate da altri e quindi le fece solo per sé stesso. Era affascinato da questo soggetto (quasi un ritorno alle sue Pietà giovanili, ma con ben altro vigore) e quando morì a Roma, nel 1564, stava ancora lavorando alla sua ennesima e ultima Pietà: quella denominata “Rondanini”, che attualmente si trova a Milano nel museo del Castello Sforzesco. Michelangelo aveva quasi 90 anni, e tuttavia scalpellava ancora con la foga e l’ardore di un giovane lavorando a questa bellissima opera rimasta incompiuta, ma che nonostante ciò è considerata una delle sue sculture più belle. In questa stupenda Pietà è evidente un “ripensamento” di Michelangelo che, a un certo punto del lavoro, non era più soddisfatto della posizione del braccio destro di Cristo; l’intenzione dell’artista è chiara: a colpi di scalpello staccò il braccio e sicuramente si accingeva a toglierlo del tutto, ma la morte lo colse prima che potesse farlo. Così quel braccio staccato dalla spalla è rimasto come parte integrante della scultura, a testimoniare al mondo quali furono gli ultimi pensieri e l’ultimo tormento di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.

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Fonti di ricerca e

documentazione storica

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Biblioteca Nazionale di Firenze Varie pubblicazioni di P. Bargellini Storia di Firenze di R. Davidsohn Piccola storia di Firenze di G. Spadolini C’era una volta Firenze, di M. Bernardini Vari archivi comunali Antica Cronaca fiorentina di G. Villani Antica Cronaca fiorentina di B. Latini Tradizioni popolari fiorentine

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Note e riferimenti numerici sulla pianta di Firenze

La pianta di Firenze allegata rappresenta la zona compresa all’interno dei viali di circonvallazione e cioè praticamente comprende tutto il centro storico, su cui sono stati riportati i principali monumenti di cui si parla nel libro, contrassegnati da una numerazione progressiva da 1 a 39. La lettera “A” contrassegna il corso del fiume Arno, mentre la lettera “S” contrassegna la principale stazione ferroviaria fiorentina, quella di Santa Maria Novella o Stazione Centrale. Sulla stessa pianta si possono vedere, a confronto con l’odierna città, le zone che erano occupate dalla Firenze più antica. Il perimetro rettangolare a linea continua rappresenta Firenze com’era al tempo della sua fondazione nell’anno 59 a.C., ed è facilmente rilevabile il modello del castrum

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romano; la città era suddivisa in quattro parti dalle vie principali che l’attraversavano, una da nord a sud (il “cardo”) e una da est a ovest (il “decumano”). Queste vie si incrociavano nella attuale piazza della Repubblica, e nel punto esatto dell’incrocio, all’epoca della fondazione della città (a rappresentare l’esatto centro geometrico cittadino) venne posta una colonna (oggi leggermente spostata per motivi di viabilità) sormontata da una ninfa con la cornucopia dell’abbondanza, quale auspicio delle migliori fortune per Florentia. Questa colonna però non è più quella originale la quale, distrutta nei secoli dagli agenti atmosferici, è stata più volte ricostruita e ricollocata. La porta della città che attraverso il cardo conduceva a nord (verso l’Appennino e Bologna)

era anche detta “aquilonare” o “settentrionale”. A questo proposito è curioso osservare come è nato il termine “settentrione”, derivato dal latino septem triones, cioè “sette buoi”; così infatti i latini chiamavano le sette stelle della attuale costellazione dell’orsa minore (o piccolo carro) di cui fa parte la stella polare. Sulla pianta allegata, le linee a segno tratteggiato lungo intervallato da puntini, contrassegnate da numeri, rappresentano quelle che erano le principali vie di accesso e di uscita dalla città; 24 verso Roma e il sud, partendo da ponte Vecchio, via Guicciardini, via Senese; 25 verso Pisa e il mare, partendo da via Palazzuolo, via Il Prato, via del Ponte alle Mosse; 26 verso Bologna e il nord, partendo da via San Gallo, piazza della Libertà, via Bolognese; 27 verso il Casentino e Arezzo, partendo da via del Corso, via Pietrapiana, via Gioberti, via Aretina. Il segno continuo a forma di ellisse contrassegnato dal n° 4, rappresenta il perimetro dell’anfiteatro romano, uno dei più grandi esistenti nei domini di Roma, la cui curvatura esterna delle mura è ancora ben individuabile per l’andamento curvilineo delle strade che per un buon

tratto lo circondano: piazza de’ Peruzzi, via Bentaccordi e via Torta, le cui case furono costruite sulle rovine dei muri esterni dell’anfiteatro stesso. Per moltissimi secoli, fino all’inizio del XV secolo, Firenze utilizzò i sotterranei di questo anfiteatro come tetre prigioni in cui venivano rinchiusi i malfattori e i ribelli cittadini, nonché i prigionieri di guerra catturati dall’esercito fiorentino. Il perimetro a tratteggio breve rappresenta il tracciato delle mura di Firenze al principio del XIII secolo; comunque anche nel periodo tardo-medievale le principali vie di accesso e di uscita dalla città erano sempre le stesse di quella più antica. Il perimetro a segno tratteggiato lungo, invece, corrisponde alle mura cittadine nel periodo rinascimentale e dimostra quale enorme sviluppo ebbe Firenze in meno di tre secoli. Al tempo di Michelangelo, infatti, le mura della città corrispondevano praticamente alla cintura dei viali a nord del fiume Arno, mentre a sud del fiume la città si estendeva fino al piazzale di porta Romana per poi ricongiungersi, a est, con la porta San Niccolò in piazza Poggi.

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Riferimenti numerici

1) Posizione dell’antica colonna romana al centro della città (piazza della Repubblica) 2) Battistero di San Giovanni Battista (piazza San Giovanni) 3) Ponte Vecchio e corridoio del Vasari che collega Palazzo Vecchio con Palazzo Pitti 4) Posizione dell’anfiteatro romano 5) Palazzo Vecchio, l’antico “palagio dei priori” (piazza della Signoria) 6) Chiesa della Badia Fiorentina (via del Proconsolo) 7) Palazzo del Bargello, oggi museo nazionale (via del Proconsolo) 8) Santa Maria del Fiore: il Duomo di Firenze (piazza del Duomo) 9) Basilica di San Lorenzo, Cappelle Medicee e biblioteca Laurenziana (piazza San Lorenzo) 10) Palazzo Medici Riccardi che fu l’abitazione della famiglia dei Medici (via Cavour) 11) Complesso della basilica della SS. Annunziata e Ospedale degli Innocenti (piazza SS. Annunziata) 12) Ospedale di Santa Maria Nuova (piazza Santa Maria Nuova) 13) Sinagoga (via Farini) 14) Basilica di Santa Croce e cappella dei Pazzi (piazza Santa Croce) 15) Torre di San Niccolò (piazza Poggi) 16) Chiesa di Santo Spirito (piazza Santo Spirito) 17) Palazzo Corsini (via del Parione) 18) Palazzo Strozzi (piazza Strozzi) 19) Chiesa di Ognissanti (piazza d’Ognissanti) 20) Chiesa di Santa Maria Novella (piazza Santa Maria Novella) 21) Galleria degli Uffizi, loggia della Signoria, loggiato degli Uffizi

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(piazzale degli Uffizi) 22) Porta al Prato (piazzale di porta al Prato) 23) Fortezza da Basso (viale Filippo Strozzi) 24) Antica strada verso Roma e il sud 25) Antica strada verso Pisa, Lucca e il mare 26) Antica strada verso Bologna e il nord 27) Antica strada verso il Casentino ed Arezzo 28) Ponte alla Carraia 29) Ponte alle Grazie 30) Chiesa di Santo Stefano al ponte (piazza Santo Stefano) 31) Chiesa di S. Ambrogio (piazza S. Ambrogio) 32) Orsanmichele (via dei Calzaioli) 33) Torre della Zecca (piazza Piave) 34) Convento e museo di San Marco (piazza San Marco) 35) Ponte Santa Trinita 36) Galleria dell’Accademia di Belle Arti, dove si trova l’originale del David di Michelangelo (via Ricasoli) 37) Casa di Giovanni da Verrazzano. Nella stessa strada, via Giovanni da Verrazzano, si trova anche la lapide di un antico fiorentino che si recò a Roma con la moglie per l’Anno Santo 1300 38) Palazzo Pitti che fu dimora degli ultimi Medici, divenendo successivamente palazzo reale al tempo in cui Firenze fu capitale d’Italia (piazza de’ Pitti) 39) Palazzo Rucellai (via della Vigna Nuova) A) Fiume Arno S) Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella (piazza della Stazione)

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Indice delle illustrazioni

Fig. 1 - Il fiorino (la moneta dell’antica repubblica di Firenze) Fig. 2 - Foto della colonna di San Zanobi (albero rinverdito) Fig. 3 - Foto del “Marzocco”, di Donatello Fig. 4 - Ancora uno dei tipici leoni fiorentini Fig. 5 - Il “giglio di Firenze”, evidentemente ispirato al fiore del giaggiolo Fig. 6 - Foto della chiesa della Badia Fiorentina Fig. 7 - Foto della tomba del “gran barone”, il marchese Ugo di Toscana Fig. 8 - Foto della porta del Paradiso con le colonne “affumicate” del Battistero di San Giovanni Fig. 9 - Foto di un particolare della porta del Paradiso, con le teste in alto rilievo raffiguranti Lorenzo Ghiberti e suo figlio

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Fig. 10 - Foto del Battistero di San Giovanni Fig. 11 - Foto con particolare della cupola del Duomo di Firenze Fig. 12 - Foto della facciata del Duomo con il campanile Fig. 13 - Foto della galleria della cupola (di Baccio d’Agnolo) Fig. 14 - Lo stemma della famiglia dei Pazzi Fig. 15 - Lo stemma della famiglia dei Medici Fig. 16 - Foto dello scoppio del Carro Fig. 17 - Foto di uno scorcio del Ponte Vecchio Fig. 18 - Foto del Ponte Vecchio e del Corridoio Vasariano Fig. 19 - Foto della chiesa di Santo Stefano al Ponte Fig. 20 - Foto del “diavolino” del Giambologna Fig. 21 - Foto della loggia del Bigallo

Fig. 22 - Foto dei loggiati della facciata della SS. Annunziata Fig. 23 - Riproduzione di un particolare del quadro miracoloso della SS. Annunziata Fig. 24 - Foto della chiesa di Sant’Ambrogio Fig. 25 - Foto del ciborio di Mino da Fiesole in Sant’Ambrogio Fig. 26 - Foto di una miniatura con la riproduzione dell’interno di un ospedale fiorentino del XIV secolo Fig. 27 - Foto del Perseo di Benvenuto Cellini Fig. 28 - Foto delle merlature guelfe e ghibelline su Palazzo Vecchio Fig. 29 - Foto della formella del campanile nella quale Giotto raffigurò il proprio cagnolino Fig. 30 - Riproduzione della lista delle vivande per la “settimana santa” di una famiglia fiorentina del tempo di Dante e di Giotto Fig. 31 - Foto con una inquadratura caratteristica del calcio storico fiorentino Fig. 32 - Foto di Or San Michele Fig. 33 - Foto del “porcellino” di P. Tacca Fig. 34 - Foto della torre della Zecca

Fig. 35 - Foto del Palazzo del Bargello Fig. 36 - Disegno con il volto di Dante ricavato dagli affreschi del Bargello Fig. 37 - Foto della lapide dove fu arso Savonarola in piazza della Signoria Fig. 38 - Foto del ponte Santa Trinita Fig. 39 - Foto della statua di Giuditta e Oloferne, di Donatello Fig. 40 - Disegno raffigurante Amerigo Vespucci Fig. 41 - Disegno raffigurante Michelangelo Fig. 42 - Foto di un particolare del David di Michelangelo Fig. 43 - Foto di una testa graffita su una pietra bugna di Palazzo Vecchio, attribuita a Michelangelo Fig. 44 - Foto della chiesa di San Miniato al Monte Fig. 45 - Foto del campanile di San Miniato al Monte Fig. 46 - Foto della torre a San Niccolò Fig. 47 - Riproduzione di un particolare del “Giudizio Universale” di Michelangelo Fig. 48 - Riproduzione a disegno della “Pietà Rondanini”, con l’evidenziazione del braccio di Cristo, staccato da Michelangelo per un “ripensamento”

187

Indice

Prefazione

pag.

5

Origini di Firenze

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11

Origini del nome: perché Firenze si chiama così?

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23

Chiesa della Badia Fiorentina

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25

Le colonne affumicate del Battistero di San Giovanni Cenni sul Battistero

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31 37

Il Duomo di Firenze (Santa Maria del Fiore)

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39

Uovo di Colombo o uovo di Brunelleschi? Curiosità

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43 44

Un fatto di sangue

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47

Lo scoppio del Carro

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51

I ponti di Firenze, i vizi dei fiorentini e il castigo di Dio

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57

Presso Santo Stefano, da un amore infranto che sembra una fiaba, nacquero i Guelfi e i Ghibellini »

65

Il Canto del Diavolo

pag.

77

I Servi di Maria e la Santissima Annunziata

»

81

A Napoli San Gennaro… a Firenze Sant’Ambrogio

»

87

Firenze “prima della classe” anche negli ospedali

»

91

Bizzarro, usuraio, imbroglione, ma… grande artista! »

95

L’unica “aquila” che non è stata divorata dai leoni fiorentini

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101

Il cagnolino di Giotto

»

109

Un’interessante curiosità Precisazioni Curiosità

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115 117 117

Due martelli che picchiano in testa, per l’eternità Curiosità

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119 121

Tante curiosità I carnefici del Bargello Loggia del Porcellino La casa di Dante Alighieri La torre della Zecca Otto secoli di Bischeri Una lapide per l’Anno Santo 1300 Gli scherzi di Buffalmacco Il Palazzo del Bargello L’Ospedale degli Innocenti I fiorini “murati” nel convento di San Marco La campana “mandata in esilio” La soddisfazione di Donatello

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123 123 123 125 126 127 128 129 131 134 135 137 140

Ossa equi La perfezione di un ponte “Ciceroni” improvvisati

pag. 141 » 141 » 144

I fiorentini che scoprirono l’America

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147

Michelangelo Buonarroti I due “Giuliani dei Medici” e i due “Magnifici Lorenzi” Michelangelo “falsario” Il naso del David Note e curiosità sul David La scommessa di Michelangelo Il genio militare di un artista secondo il quale i materassi non servono solo per dormire Michelangelo accusato di oscenità Breve biografia di Michelangelo Buonarroti

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153

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154 156 159 161 163

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164 173 177

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181

Fonti di ricerca e documentazione storica

Note e riferimenti numerici sulla pianta di Firenze » 182 Indice delle illustrazioni

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186

Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Giugno 2008