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Firenze e gli antichi Paesi Bassi 1430-1530 dialoghi tra artisti: da Jan van Eyck a Ghirlandaio, da Memling a Raffaello…
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI SOPRINTENDENZA SPECIALE PER IL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO ED ETNOANTROPOLOGICO E PER IL POLO MUSEALE DELLA CITTÀ DI FIRENZE
Firenze e gli antichi Paesi Bassi 1430-1530 dialoghi tra artisti: da Jan van Eyck a Ghirlandaio, da Memling a Raffaello… a cura di Bert W. Meijer
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MOSTRA A CURA DI Bert W. Meijer e Serena Padovani
FIRENZE E GLI ANTICHI PAESI BASSI 1430-1530 DIALOGHI TRA ARTISTI: DA JAN VAN EYCK A GHIRLANDAIO, DA MEMLING A RAFFAELLO… FIRENZE, PALAZZO PITTI GALLERIA PALATINA 20 GIUGNO-26 OTTOBRE 2008 La mostra è stata organizzata in occasione dei 50 anni di attività dell’Istituto Universitario Olandese di Storia dell’Arte di Firenze ENTI PROMOTORI Ministero per i Beni e le Attività culturali Ministero dell’Istruzione, della Cultura e delle Scienze del Regno dei Paesi Bassi Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi, Roma Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Firenze Galleria Palatina Istituto Universitario Olandese di Storia dell’Arte di Firenze Firenze Musei Ente Cassa di Risparmio di Firenze Prins Bernhard Cultuurfonds
COMITATO SCIENTIFICO Cristina Acidini Miklós Boskovits Marco Ciatti Everett Fahy Bert W. Meijer Antonio Natali Paula Nuttall Serena Padovani Bernhard Ridderbos Michael Rohlmann Bruno Santi DIREZIONE DELLA MOSTRA Serena Padovani e Rosanna Morozzi SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Rosanna Morozzi, con la collaborazione di Andrea Biotti, Daniela Cresti e Tjarda Vermeijden REALIZZAZIONE E GESTIONE DELLA MOSTRA Opera Laboratori Fiorentini Spa SEGRETERIA SCIENTIFICA Raffaella Colace PROGETTO DELL’ALLESTIMENTO E DIREZIONE DEI LAVORI
Mauro Linari REALIZZAZIONE DELL’ALLESTIMENTO Opera Laboratori Fiorentini Spa ASSISTENZA PER L’ALLESTIMENTO Maurizio Catolfi DIREZIONE AMMINISTRATIVA Giovanni Lenza e Simona Pasquinucci CONTROLLO CLIMATOLOGICO Opificio delle Pietre Dure, Settore di climatologia e conservazione preventiva, Marco Ciatti, Roberto Boddi, con la collaborazione di Maurizio Catolfi della Galleria Palatina RESTAURI Aviv Fürst (cat. n. 24, cornice) Lisa Venerosi Pesciolini (cat. n. 28, sportelli esterni) L’Officina del Restauro (cat. n. 41) Giuseppe Masi (cat. n. 42) Daniele Rossi (cat. n. 31) Carlotta Beccaria e Domenico Collura (cat. n. 32) UFFICIO STAMPA Sveva Fede per Firenze e la Toscana, Camilla Speranza Segreteria dell’ufficio stampa, Firenze Musei PROMOZIONI E RELAZIONI ESTERNE Mariella Becherini, per Opera Laboratori Fiorentini Spa SITO WEB Parallelo, Filippo Fineschi TRASPORTI Arteria s.r.l.
ALBO DEI PRESTATORI Aquisgrana Suermondt – Ludwig – Museum, in prestito da collezione privata olandese Altenburg Lindenau Museum Amsterdam Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet Berlino Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst Staatliche Museen, Kupferstichkabinett Bruges Groeningemuseum Brescia Pinacoteca Tosio Martinengo Cherbourg - Octeville Musée d’Art Thomas – Henry Detroit The Detroit Institute of Art Fiesole Museo Bandini Firenze Biblioteca Medicea Laurenziana Chiesa di Ognissanti Chiesa di Santa Maria del Carmine (Ministero dell’Interno, Direzione Centrale per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto) Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Galleria degli Uffizi Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore Museo di San Marco Museo Nazionale del Bargello Palazzo Vecchio, Collezione Loeser Francoforte Städel Museum Genova Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco Le Havre Musée Malraux Londra The British Museum, Department of Prints and Drawings The National Gallery Los Angeles The J. Paul Getty Museum Madrid Museo Nacional del Prado Milano Museo Poldi Pezzoli New York The Metropolitan Museum of Art The Metropolitan Museum of Art, Robert Lehman Collection Parigi Fondation Custodia, Collection Frits Lugt, Institut Néerlandais Musée du Louvre, Département des Peintures Philadelphia Philadelphia Museum of Art Rotterdam Museum Boijmans van Beuningen (Prentenkabinet) Torino Galleria Sabauda Venezia Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro Seminario Patriarcale, Pinacoteca Manfrediniana Vienna Kunsthistorisches Museum Zurigo Kunsthaus Zürich, Eigentum Gottfried Keller - Stiftung
CATALOGO A CURA DI Bert W. Meijer COORDINAMENTO SCIENTIFICO-EDITORIALE Raffaella Colace AUTORI Judie Bogers Miklós Boskovits Mirella Branca Everett Fahy Ada Labriola Bert W. Meijer Paula Nuttall Serena Padovani Bernhard Ridderbos Michael Rohlmann Joachen Sander Gert Jan van der Sman Renata Stradiotti Filippo Todini Zsuzsa Urbach TRADUZIONI Diana Afman Marco Simone Bolzoni Margherita Leardi Silvia Romanin Jacur Heather Roberts Christiaan Santini ASSISTENZA REDAZIONALE Gabriella Sguazzi e Maria Letizia Strocchi REFERENZE FOTOGRAFICHE ESTERO Altenburg, Lindenau Museum Berlin, Bode Museum: foto © Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin Berlin, Gemaeldegalerie, Staatliche Museen: foto Jörg P. Anders © 2008 Foto Scala, Firenze / Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin Berlin, Kupferstichkabinett: foto Jörg P. Anders © 2008 Foto Scala, Firenze / Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin Bruges, The Groeninge Museum: © Lukas - Art in Flanders Vzw Kunsthaus Zürich, Eigentum Gottfried KellerStiflung Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam Städel Museum Frankfurt: foto Ursula Edelmann/ Artothek Suermondt-Ludwig-Museum, Aachen: Photo Anne Gold The J. Paul Getty Museum, Los Angeles The Metropolitan Museum of Art, Rogers Fund, 1906 (06.171); The Friedsam Collection, Bequest of Michael Friedsam, 1931 (32.100.63ab); Robert Lehman Collection, 1975 (1975.1.112) - Image © The Metropolitan Museum Of Art Paris, Fondation Custodia: Collection Frits Lugt, Institut Néerlandais Paris Paris, Musée du Louvre: foto © RMN / © Hervé Lewandowski Ville du Havre, Musée Malraux: foto © Florian Kleinefenn © Cherbourg-Octeville, Musée d’Art Thomas-Henry © Museo Nacional del Prado, Madrid
© Rijksmuseum Amsterdam © The Trustees of The British Museum. All Rights Reserved © 1984 The Detroit Institute Of Arts © 2000 National Gallery, London. All Rights Reserved © 2008: Kunsthistorisches Museum, Wien ITALIA Archivio Fotografico della Soprintendenza SPSAE e per il Polo Museale della Città di Firenze Civici Musei di Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo: foto © fotostudio Rapuzzi, Fiesole, Museo Bandini Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana: foto GAP Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore Firenze, Museo di Palazzo Vecchio, su Concessione del Servizio Musei Comunali Firenze, S. Maria del Carmine Genova, Galleria di Palazzo Bianco: Archivio Fotografico del Comune Milano, Museo Poldi Pezzoli Paolo Nannoni, Firenze Paolo Tosi, Firenze Torino, Galleria Sabauda Venezia: Curia Patriarcale di Venezia: © Patriarcato di Venezia Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’oro © foto Giusti Paolo Claudio
RINGRAZIAMENTI Per la realizzazione della mostra è stato determinante il contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. All’Ente, sempre attento agli eventi che valorizzano la storia e l’arte fiorentine, nelle persone del Presidente Edoardo Speranza, di Antonio Gherdovich, e dei loro collaboratori, va il nostro più vivo ringraziamento. Il catalogo, pubblicato con l’abituale eleganza e precisione dalla casa editrice Sillabe di Livorno, ha avuto il contributo essenziale del Ministero dell’Istruzione, della Cultura e delle Scienze del Regno dei Paesi Bassi e dell’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi a Roma (una particolare riconoscenza va a S.E. Egbert F. Jacobs e ai suoi collaboratori), generoso segno di collaborazione da parte dell’Olanda. Il progetto espositivo ha visto l’impegno corale e la generosa disponibilità dei colleghi di tutte le istituzioni fiorentine dedicate alla tutela del patrimonio culturale cittadino, del personale dei musei e degli uffici interessati e di tutti i prestatori in Italia e all’estero. Il nostro ringraziamento va in particolare ai seguenti uffici e servizi: Ufficio Amministrativo: Giovanni Lenza, Manola Cosi e Simona Pasquinucci, senza il supporto dei quali le complesse pratiche connesse alla gestione della mostra non sarebbero andate a buon fine; Ufficio Esportazione: Angelo Tartuferi, Irma Carloni, Andrea Gulizia, Nadia Lastrucci, Laura Pellegrini; Ufficio del Personale: Silvia Sicuranza; Ufficio Restauri: Magnolia Scudieri, Maria Grazia Vaccari, e i restauratori Marina Ginanni ed Elena
Prandi per l’insostituibile assistenza nella verifica delle condizioni conservative delle opere; Gabinetto fotografico: Marilena Tamassia, Angela Rossi hanno reso disponibile il materiale fotografico dell’archivio. A Sergio Garbari si deve la nuova documentazione fotografica in occasione della mostra; Segreteria del Soprintendente: Marco Fossi, Marta Bencini, Sabrina Brogelli, Monica Fiorini; L’Opificio delle Pietre Dure ha fornito come di consueto un sostegno insostituibile alla mostra garantendo la sua assistenza tecnica nelle fasi di verifica delle condizioni conservative delle opere e delle condizioni microclimatiche degli ambienti espositivi, rendendosi disponibile anche ad intervenire direttamente con analisi chiarificatrici nel caso del problematico Doppio Ritratto prestato dal Museo di Zurigo. A Marco Ciatti, Cecilia Frosinini, Alfredo Aldrovandi, Roberto Boddi, Roberto Bellucci, Ottavio Ciappi e Sergio Cipriani, il nostro ringraziamento più cordiale. La mostra non avrebbe potuto essere realizzata senza l’essenziale contributo di Maurizio Catolfi, affiancato dai capiservizio della Galleria Palatina Sonia Cecconi, Tina Gelsomino, Alessandra Sarti nonché con l’appoggio efficiente e generoso della squadra tecnica e di tutto il personale della Galleria. Desideriamo esprimere il nostro più vivo ringraziamento a: Antonia Adamo, H. Schulze Altcappenberg, Franca Arduini, Paola Astrua, Adriana Augusti, Maurizio Bacci, Elisabetta Bandinelli, Graham W. J. Beal, Christoph Becker, Mària van Berge-Gerbaud, Holm Bevers, Monica Bietti, Cécile Binet, George Bisacca, Anna Bisceglia, Piero Boccardo, Giulio Bora, Mirella Branca, Michael Brand, Peter van den Brink, Francesco Caglioti, Simonetta Cantini, Gianmatteo Caputo, Stefano Casciu, Caterina Caneva, Keith Christiansen, Lucio Cilia, Ilaria Ciseri, Nico Cobelens, Antonio Colace, Maddalena De Luca, Andrea De Martino, Martin van Dijk, Andrea Di Lorenzo, Bastiaan Ernst, Sjarel Ex, Everett Fahy, Marzia Faietti, Fiorella Fasano, Gabriele Finaldi, Helen Fioratti, Marco Fiorilli, Guido Gandino, Claudia Gerola, Giuseppe Gherpelli, Danielle van Gorkum, Giovanni Gozzini, A.V. Griffiths, Elena Lucchesi Ragni, Henri Loyrette, Annette Haudiquet, Tobias Haupt, Max Hollein, David Jaffé, Sandra Janssens, Laurence Kanter, Christian Klemm, Michael Knuth, Giorgio Marini, Giuseppe Melani, Manuela Mena Marqués, Vittoria Messere, Anna Mitrano, Patrick Moenaert, Tommaso Mozzati, Antonio Natali, Fausta Navarro, Antonella Nesi, Giovanna Nepi Sciré, Patrizio Osticresi, Serena Pini, Joseph J. Rishel, Jochen Sander, Scott Schaefer, Hofrat Wilfried Seipel, Carl Strehlke, Beatrice Paolozzi Strozzi, Jutta Penndorf, Serena Pini, Vincent Pomarède, Joost Reintjes, Angela Rensi, Alessandro Righi, Monique Ruhe, Bruno Santi, Raffaele Schiavoni Sante, Karl Schütz, Magnolia Scudieri, J. P. Sigmond, Matilde Simari, Demetrio Sorace, Carlenrica Spantigati, Renata Stradiotti, Patrizia Tarchi, Angelo Tartuferi, Dominique Thiébaut, Filippo Todini, Bruna Tommasello, Paolo Tosi, Jacek Tylicki, Maria Grazia Vaccari, Stefano Viviani, Annalisa Zanni, Morando Miguel Zugaza, Zygmunt Wazbinski
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Per un’assestata convinzione storiografica, i vertici della civiltà figurativa europea tra il Quattro e il Cinquecento si possono individuare nelle rispettive espressioni artistiche della Penisola Italiana e degli antichi Paesi Bassi. Se il Gotico internazionale, pur declinato in infinite varianti, si era manifestato nei paesi più diversi per scambi artistici trasversali agli stati dell’Europa d’allora, dalla Catalogna alla Boemia, la profonda innovazione rinascimentale (coinvolgente attraverso l’arte una intera visione del mondo, la Weltanschauung della filosofia tedesca) avrebbe toccato solo alcuni luoghi, per prima e specialmente la città di Firenze. E alla pittura fiorentina, grazie ai percorsi transalpini di artisti e d’opere d’arte lungo le rotte mercantili, sarebbero giunti apporti vivificanti e innovativi, di quella specifica intonazione stilistica che spesso, semplificando, si definisce “fiamminga”. Davvero credo non ci fosse modo migliore per festeggiare adeguatamente il cinquantenario dell’Istituto Universitario Olandese di Storia dell’Arte di Firenze, da parte della Soprintendenza cui sono preposta e specialmente della Galleria Palatina, diretta da Serena Padovani, che dar vita a un’occasione speciale e irripetibile, qual è questa mostra dedicata ai dialoghi artistici che ebbero luogo nell’arco di un secolo – 1430-1530, dalle origini agli splendori dei rispettivi Rinascimenti – tra Firenze e quel territorio che si è convenuto di indicare, per non incorrere in sfocature cronologiche a causa delle complesse vicende storiche, “gli antichi Paesi Bassi”. Seguirà a breve, come forma integrata di riconoscenza e di omaggio, la mostra curata dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, diretto da Marzia Faietti. La presenza dell’Istituto Olandese costituisce uno stabile e vitale punto di riferimento per gli studi scambievoli tra i due universi artistici, soprattutto grazie alla visione lungimirante e all’attività infaticabile di Bert Meijer. Alla gratitudine che gli esprimiamo per il lungo e brillante mandato di direttore, e per la rete di amicizia e condivisione che ha saputo creare intorno a sé, si aggiunge oggi quella per aver curato, all’unisono con Serena Padovani e i collaboratori interni ed esterni, una splendida mostra che rappresenta il coronamento di decenni di studi ma anche di impegnative tessiture diplomatiche, col risultato di convocare a Palazzo Pitti capolavori provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo. E ringrazio sentitamente il Ministero dell’Istruzione, della Cultura e delle Scienze del Regno dei Paesi Bassi e l’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi a Roma per il generoso contributo al catalogo. La consuetudine a confrontarsi con fenomeni visivi di origine neerlandese continuamente affioranti nella pittura della nostra “età d’oro” è tale, che gli storiografi e scrittori – almeno di lingua italiana – hanno fatto e fanno largo uso di lemmi particolari per affrontare con adeguati strumenti lessicali l’inquadramento critico di quella componente. Uno ad esempio è l’aggettivo “perspicuo”, derivato al pari del sostantivo “perspicuità” dal latino perspicio, vedere attraverso e chiaramente. E se in ambito filosofico questa somma trasparenza di visione è la “qualità per la quale lo spirito vede chiaro a traverso il pensiero” (così Ottorino Pianigiani nel suo Vocabolario etimologico
della lingua italiana, Firenze 1907, 1a ed.), nell’esegesi di una pittura è la qualità per cui l’occhio distingue in un quadro contorni e campiture con inalterata chiarezza, dal primo piano più aggettante al fondale più remoto, in una luce tersa ed uniforme: un requisito diffuso nella pittura degli antichi Paesi Bassi che si ritrova, per così dire importato, nelle opere di tanti maestri italiani e fiorentini in particolare. E poi “lenticolare”. “Che ha forma di Lenticchia, di Lente”, dal latino Lenticula diminutivo di Lens, secondo la voce alquanto stringata del Pianigiani. In effetti, abbondano nel parlare comune odierno le occorrenze del lemma per definire oggetti a forma di lente (perfino nubi e galassie di un certo tipo), mentre nei testi di carattere specialistico ricorrono menzioni del carattere “lenticolare” di componenti strumentali o applicazioni tecnologiche. All’ambito storico artistico resta confinato, oserei dire felicemente confinato, un uso forse gergale, ma quanto mai espressivo della parola per definire il meticoloso approccio al naturale da parte del pittore – come coadiuvato da una lente – e la sua straordinaria capacità analitica nel maneggio di pennelli e colori, tale da restituire nitidamente dettagli anche impalpabili sotto la carezza rivelatrice della luce: pulviscoli, riflessi, trame. E credo perfino che, nonostante l’estraneità etimologica, l’evocazione anche soltanto sonora del concetto di “lentezza” nell’aggettivo “lenticolare” gli conferisca una suggestione in più, invitando lo sguardo a perlustrare l’insieme e più ancora i dettagli, e a soffermarsi su di essi con calma amorosa. Se i pittori degli antichi Paesi Bassi furono maestri sommi di sottili effetti visivi, abili e pronti nell’impadronirsene si rivelarono i Fiorentini, man mano che l’arrivo di capolavori d’Oltralpe inviati o portati da mercanti e banchieri suscitava nuove aspettative nei committenti e nuove risposte da parte degli artisti. Perché non meno dei pittori, furono i mercanti e banchieri fiorentini i protagonisti e i fautori di un fitto tessuto di scambi artistici. Di questo fervore sperimentale, implicito in ogni confronto (aperto o sottinteso) fra attitudini artistiche, resta esemplare dimostrazione la Sala del Botticelli nella Galleria degli Uffizi, dove Roberto Salvini fece sì che, nel riordinamento post-bellico, i grandi Fiorentini del tardo quattrocento si schierassero a far ala al Trittico di Hugo van der Goes, per ricordare e dimostrare l’ondata di interesse con la quale accolsero e diffusero le novità irradianti dal quel dipinto fiammingo che, nel 1483 o poco dopo, videro installato sull’altar maggiore della Chiesa di Sant’Egidio a Santa Maria Nuova per devozione e ostentazione dei Portinari. La mostra addita e commenta altri e diversi accostamenti, altrettanto puntuali e, semmai, sempre più calzanti grazie a una serie di confronti artistici di altissimo profilo. Meritano il nostro ringraziamento come e più di sempre i prestatori, che si sono privati per qualche mese di capolavori assoluti, ornamenti fondamentali delle raccolte di provenienza e per di più costituzionalmente delicati. Gratitudine non minore va al personale della Galleria, che integrandosi con Firenze Musei ha reso possibile questa straordinaria rassegna, co-prodotta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze grazie alla condivisione, fortemente voluta dal presidente Edoardo Speranza e dal suo Consiglio, del programma di mostre “Un anno ad arte 2008”, di cui costituisce una tappa importantissima. L’allestimento curato da Mauro Linari, coadiuvato da Opera Laboratori Fiorentini, permette una visione elegante ed efficace dei capolavori esposti così come il catalogo pubblicato dalla casa editrice Sillabe di Livorno resta puntuale e godibile testimonianza di un così rilevante impegno scientifico e organizzativo. Cristina Acidini Soprintendente per il Patrimonio Artistico, Storico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Firenze
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L’ultima mostra sulla pittura fiamminga del Quattrocento e Cinquecento fu organizzata a Firenze, a Palazzo Strozzi, nel 1947-1948. Era davvero tempo di ridare visibilità a quella produzione pittorica di altissima qualità, da Jan van Eyck fino a Hans Memling e a Luca di Leida, che esercita un fascino profondo sull’ambiente fiorentino contemporaneo. L’occasione di celebrare così i cinquant’anni dell’Istituto Universitario Olandese di storia dell’arte a Firenze, non poteva essere più adatta. Nella cornice sontuosa della Sala Bianca che nel 1977 aveva ospitato i quadri barocchi di Rubens e del suo ambiente, ha preso dunque forma questa mostra, completamente diversa non solo dal suo ormai lontanissimo precedente del 1947, ma anche dalla nostra tradizione di censimento, documentazione, completezza. Negli spazi limitati ora disponibili (dopo che il restauro dell’adiacente Appartamento degli Arazzi lo ha reso intoccabile) non si presenta una rassegna della pittura fiamminga del Quattro e Cinquecento nelle Gallerie fiorentine, secondo la felice formula sottesa a tante iniziative soprattutto di Pitti, ma una panoramica, per esempi, dei suoi rapporti con la contemporanea pittura locale, secondo il progetto curato da Bert Meijer che ci ha subito affascinati e coinvolti. Le opere sono state scelte secondo tre criteri fondamentali: riportare a Firenze alcuni dei capolavori di Jan van Eyck, di Rogier van der Weyden, di Hans Memling, appartenuti alle famiglie fiorentine, i Medici per primi; metterli a confronto diretto con esempi di pittura e miniatura locale che ne copia i motivi e ne interpreta le soluzioni nel suo linguaggio rinascimentale elaborato in piena autonomia; riunire due dei principali trittici di Memling e del suo stretto seguace, il Maestro della leggenda di Sant’Orsola, recentemente identificati dalla critica fra le tavole disperse in vari Musei d’Europa e degli Stati Uniti. Il primo e l’ultimo di questi tre obiettivi sono stati realizzati grazie alla generosità dei prestatori, che hanno accettato di allontanare temporaneamente dai loro istituti capolavori famosi, delicatissimi e molto richiesti dal pubblico, perché hanno condiviso l’opportunità irripetibile offerta da questa mostra, di documentare i risultati degli studi recenti, e di approfondire le problematiche su capitoli fondamentali della storia dell’arte italiana e fiamminga. Il secondo obiettivo, di esporre capolavori fiorentini, assolutamente inamovibili, a confronto con quelli fiamminghi, era più facile perché le
opere erano già qui: il grande tondo di Filippo Lippi, i due Ritratti Doni di Raffaello, le due Storie di Giuseppe di Andrea del Sarto, sono stati semplicemente trasferiti dalla Galleria Palatina all’adiacente Sala Bianca; le preziose tavole che sono elementi del Trittico Portinari di Memling, del Trittico Pagagnotti pure di Memling, e del Trittico Baroncelli, nonché una serie di ritratti di Botticelli, di Perugino, di Raffaello, prestati dalla Galleria degli Uffizi nell’ottica intelligente di cui sopra, hanno solo attraversato il corridoio vasariano che unisce provvidenzialmente in un unico spazio interno, gli Uffizi con Palazzo Pitti. E per questa vicinanza e intercomunicazione tra istituti del Polo Museale Fiorentino, è stato possibile presentare in mostra la straordinaria Resurrezione del Verrocchio del Museo del Bargello, in un inedito abbinamento con la tavola di Rogier van der Weyden proposto in quest’occasione Michael Rohlmann. La mostra si apre a Palazzo Pitti non solo per amicizie personali di lunga data, ma anche perché valorizza le opere della Galleria Palatina, insieme a quelle degli Uffizi, del Bargello, del Museo di San Marco, del Gabinetto Disegni e Stampe, con gli accostamenti a capolavori dei maestri fiamminghi in antico presenti qui ma conservati ormai altrove in Italia e all’estero. Si ricrea così la straordinaria stagione tra fine Quattro e inizio Cinquecento a Firenze, che coinvolse artisti e committenti in una passione, corrisposta, per la cultura figurativa degli antichi Paesi Bassi. Se il progetto è arrivato in porto, lo si deve alla leale collaborazione con l’amico Bert Meijer, con il quale negli ultimi due anni ho condiviso ogni aspetto della preparazione dell’evento. I molti problemi organizzativi sono stati affrontati e risolti grazie alla cordiale disponibilità di Franco Ruggeri, di Mariella Becherini, di Lorenzo Gremigni, di Francesco Del Bravo, di Daniele Petrucci. E fondamentali sono stati l’appoggio e la comprensione di Stefano Casciu, di Maddalena De Luca e di Fausta Navarro. Ma soprattutto, non saremmo mai arrivati in fondo senza Rosanna Morozzi che è stata il mio punto di riferimento e di sostegno durante questa bellissima fatica. Con la sua energia, il suo senso pratico, il suo humour, la sua eleganza nel gestire i rapporti con tutti, ha tenuto saldamente le fila dell’organizzazione, affiancata validamente da Andrea Biotti, da Maurizio Catolfi e da Daniela Cresti. Se Rosanna è stata, insieme con loro, la colonna portante di questa mostra, Mauro Linari che l’ha realizzata nel contesto difficile ma a lui familiare della Sala Bianca e dei due ambienti adiacenti, vi ha dedicato, nonostante il ritmo allucinante dei suoi impegni quotidiani, una partecipazione generosa che mi ha commossa. Il suo allestimento raffinato e rispettoso del luogo e delle opere ha, inoltre, una qualità impagabile: non si vede, per lasciar vedere i gioielli fiamminghi e fiorentini a confronto.
Serena Padovani Direttore della Galleria Palatina
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Solo in tempi recenti le istituzioni europee hanno cominciato a considerare la cultura come fattore unificante e sovranazionale, ma si deve considerare che non vi è mai stata soluzione di continuità nel complesso intreccio di relazioni e interscambi che stanno alla base di quella che siamo soliti indicare come civiltà europea. In questa prospettiva la mostra su Firenze e gli antichi Paesi Bassi è un esempio assai illuminante. Molto prima che venissero adottate politiche culturali e studiate le relative misure legislative sono stati i banchieri e i mercanti, in particolare quelli fiorentini, a fungere da operatori culturali facendo sì che insieme alle merci viaggiassero le opere d’arte e con esse moduli stilistici e formali. La celebre pala di Hugo van der Goes oggi agli Uffizi fu commissionata da un banchiere, Tommaso Portinari, per essere collocata nella chiesa di San Egidio all’interno del complesso di Santa Maria Nuova, vicino a dove, secoli più tardi, il ‘far banca’ si sarebbe espresso anche attraverso un moderno concetto di mecenatismo. Le fitte relazioni con il Nord Europa hanno reso familiari a noi mediterranei vedute e atmosfere ‘fiamminghe’ capaci di influenzare i maggiori pittori italiani. L’idea di una luce che costruisse lo spazio come lo scandire dell’orologio, il ‘senso dell’ora’ cui spesso faceva riferimento Roberto Salvini nelle sue lezioni, sono elementi mutuati da un mondo apparentemente lontano, ma che in realtà ha molto contribuito alla definizione di luoghi scenici e di ambienti paesistici ricchi di fascino e suggestioni visive. La mostra Firenze e gli antichi Paesi Bassi, curata da Bert W. Meijer e Serena Padovani, e realizzata insieme al Polo Museale della Città di Firenze sotto la guida di Cristina Acidini, nell’ambito di “Un anno ad arte 2008”, è un bellissimo e opportuno richiamo alle nostre comuni radici europee. Edoardo Speranza Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze
Indice
Firenze e gli antichi Paesi Bassi: una stagione di contiguità culturale del tutto particolare
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Bert W. Meijer Pittura degli antichi Paesi Bassi a Firenze: commentatori, committenti e influsso
22
Paula Nuttall Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
38
Bernhard Ridderbos Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina
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Michael Rohlmann
CATALOGO Bibliografia Indice degli autori delle opere in mostra
85 244 271
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Firenze e gli antichi Paesi Bassi: una stagione di contiguità culturale del tutto particolare Bert W. Meijer
Questa mostra racconta e documenta gli scambi e i rapporti artistici che unirono Firenze agli antichi Paesi Bassi con un gruppo di opere di prim’ordine, che di essi costituisce e rivela l’essenza. Fu Bruges il centro di riferimento per eccellenza, ma non esclusivo, per la capitale dell’Umanesimo rinascimentale nell’insieme di questi collegamenti. Centro preminente del commercio internazionale e una delle sedi della corte borgognona, la città non fu certo la sola nei Paesi Bassi dove operarono i migliori artisti, ma indubbiamente fu un baricentro della più alta e avanzata produzione pittorica del ducato di Borgogna, al quale i territori neerlandesi appartenevano (fig. 1). Alla configurazione di questa civiltà artistica, di levatura e portata straordinaria, contribuirono soprattutto i pittori dell’attuale Belgio, ma anche quelli delle provincie settentrionali, oggi olandesi. Il Banco dei Medici fu un anello di congiunzione primario tra le due aree in materia artistica. La filiale di Bruges era la più importante succursale estera, ed i suoi dirigenti e funzionari di nomina medicea, provenienti dall’élite urbana fiorentina (i Tani, i Portinari, i Baroncelli), si affiancavano qui ad altri uomini d’affari uniti nella ‘nazione fiorentina’ locale. I loro commerci transnazionali riguardavano in particolare il tessile italiano e i servizi bancari; come tali furono finanziatori della corte borgognona nonché fornitori di preziosissime e lussuosissime stoffe come il broccato d’oro, acquistato in grande quantità per corredi cerimoniali ed abiti sia religiosi che civili, necessari per le esigenze auliche. Dovette impressionare i visitatori fiorentini l’ostentata opulenza della corte d’oltralpe, rispecchiata fino ad un certo punto, ed in veste meno materialmente costosa, dalla perfezione tecnica con cui gli artisti fiamminghi seppero operare nella loro preziosa pittura. Inoltre, i banchieri e uomini d’affari fiorentini nelle Fiandre commerciavano allume ed anche ordinavano, per sé o per terzi, dipinti, arazzi e forse miniature dei maestri del Nord, destinati ad ornare le loro case o cappelle sia nei Paesi Bassi che a Firenze, dove un certo numero di queste opere fu inviata. Contrariamente alla corte di Urbino, dove poco dopo il 1470 Federico da Montefeltro chiamò dai Paesi Bassi “un maestro solenne” che sapeva “colorire a olio”, i signori di Firenze non ebbero stabilmente a servizio un pittore fiammingo; invece, utilizzarono in loco tra l’altro tessitori d’arazzi neerlandesi. Non sappiamo se cercarono di assumere al loro servizio Rogier van der Weyden, che nell’anno santo 1450 si recò a Roma e, nell’andata o nel ritorno, ebbe occasione di fermarsi in altri centri italiani. È certo però che acquisirono, ordinarono o fecero ordinare al Nord al maestro almeno un suo dipinto e forse anche un secondo. Come altrove in Italia, a Firenze il vivace interesse per questa pittura da parte della famiglia più in vista, della cerchia dei suoi amici e di altri cittadini, fu certamente sollecitato dalle eccezionali e smaglianti qualità nella tecnica del colore, introdotte nell’arte pittorica da Jan van Eyck e dai suoi successori. Inoltre, i pittori degli antichi Paesi Bassi seppero efficacemente rispondere, con le loro capacità espressive, ai sentimenti devoti ed emozionali del loro pubblico, e a stupire con il loro realismo nella figura e nel paesaggio. Ma anche gli artisti, ovunque nella penisola, reagirono alla pittura d’oltralpe con profondo interesse e provarono ad assimilarne aspetti essenziali e significativi. A Firenze, dove il numero delle opere nordiche esistenti e studiabili crebbe considerevolmente, ciò diede luogo ad una continua assimilazione di caratteristiche generali e di trascrizione e adattamento di specifici elementi e moduli iconografici, compositivi e stilisticocoloristici. Dal secondo Quattrocento in poi, oltre ai dipinti, nuovi strumenti contribuirono alla diffusione di moduli espressivi e motivi iconografici dal Nord al Sud: tra essi, le incisioni dei maestri neerlandesi ed anche tedeschi quali il Maestro E. S., il Maestro I. A. van Zwol, Martin Schongauer, Albrecht Dürer e Luca di Leida, veicolo sempre più importante per prendere conoscenza d’inedite tendenze figurative.
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fig. 1 - Pianta dello Stato Borgognone
Nella mostra odierna, per la prima volta in assoluto, la storia di questi rapporti tra Firenze e gli antichi Paesi Bassi è visualizzata ed esemplificata in una rassegna espositiva panoramica. È un panorama che nell’embarras du choix ha dovuto tenere conto dello spazio disponibile, dei prestiti finalizzati ed impossibili. Anche per questo abbiamo esplicitamente scelto di dare la parola prevalentemente ai pittori e alla pittura, il che vuol dire in particolare al dipinto di carattere religioso, al ritratto e al paesaggio ad essi collegato. A suo tempo non fu meno importante l’aspetto degli arazzi fiamminghi, che in gran numero giunsero a partire dagli anni Quaranta nelle collezioni di Piero e Giovanni de’ Medici (ma non solo) tramite gli acquisti e le spedizioni effettuate dalla banca medicea di Bruges; altri furono prodotti a Firenze da arazzieri fiamminghi. Ma di tutto questo infatti ben poco rimane e poco è stato identificato. Per compensare in parte a queste perdite, si è dato posto ad alcuni dei disegni e incisioni che ne conservano il ricordo o raffigurano soggetti, composizioni e lineamenti affini agli arazzi ed ai ‘panni fiandreschi’, se non sono direttamente riprodotti da essi. Questi‚ panni, tele a tempera, senza preparazione o quasi, dipinte da artisti nordici, furono ben presto documentati presso i Medici nella loro villa di Careggi e altrove. Con ogni probabilità, a causa della loro fragilità furono per buona parte consumati dal tempo. Le incisioni e i loro modelli nei ‘panni fiandreschi’ medicei rendono conto dell’interesse dei fiorentini per opere che, come quelle, proponevano temi non soltanto religioso-devozionali, ma anche profani e mondani, incentrati sulla forma e sugli aspetti dell’elegante vita della corte neerlandese-borgognona. Accanto a questi, essi decretavano anche il successo di soggetti popolareschi e comici. Sebbene sia ancora da compiere l’indagine sistematica dell’impatto della pittura e della miniatura degli antichi Paesi Bassi sulla miniatura fiorentina, la mostra tuttavia offre esempi della sensibilità dell’arte fiorentina per il Nord anche in questo campo e per la prima volta in questo particolare contesto artistico bilaterale. Inoltre, i piccoli libri d’ore o di devozione che si possono scorgere tra le mani di Pierantonio Bandini Baroncelli e della moglie Maria Bonciani nei ritratti dipinti a Bruges da un maestro anonimo fiammingo e sotto quelle di Benedetto Portinari nel trittico omonimo di Memling (cat. nn. 43, 41), fanno pensare che i fiorentini che
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soggiornarono nei Paesi Bassi possedettero e probabilmente fecero realizzare in loco anche libri d’ore miniati, benché finora non ne conosciamo esempi certi (assai più noto è invece il contributo in senso inverso nelle Très Riches Heures Du Duc de Berry, miniate tra il 1411-1412 ed il 1416 dai fratelli Limburg di Nimega (Chantilly, Musée Condé), che riproducevano la Presentazione della Vergine di Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli a Santa Croce (1328-1330) tramite il disegno dell’antico maestro, oggi al Louvre). All’interno di questi rapporti culturali bilaterali vi fu anche un ruolo per le opere di scultori in legno e pietra neerlandesi e fiorentini, esemplificato in mostra con qualche esempio (cat. n. 53). Un ruolo ebbero anche gli oggetti d’uso preziosi d’arte applicata nordica come il calice di produzione nordica con scimmie che derubano mercanti ambulanti (New York, Pierpont Morgan Library), citato nel 1464 nel tesoro di Piero de’ Medici come il “bicchiere... chon la fiera delle bertucie smaltata di bianco fior 100.” Abbiamo dovuto rinunciare nella mostra ad occuparci di questo tipo d’oggetti, come d’altronde all’apporto neerlandese al mondo musicale fiorentino, in cui si inserirono brillantemente compositori e voci, da Guillaume Dufay a Heinrich Isaac. Non è stato inoltre possibile, allo stato attuale degli studi sulle opere in mostra, offrire una visione approfondita e complessiva del confronto tra le due aree artistiche sul piano della tecnica. Le dimensioni del Trittico Portinari hanno consigliato di lasciare alla Galleria degli Uffizi questa grandiosa pala di Hugo van der Goes, probabilmente originario da Gand, che nel 1550 il Vasari menzionò come opera d’Ugo d’Anversa. Essa non fu mai esposta in una sede brugese né destinata ad un indirizzo locale, ma sistemata sull’altare maggiore della chiesa fiorentina dei Portinari e da loro fondata, Sant’Egidio all’ospedale di Santa Maria Nuova. L’ospedale divenne il luogo di destinazione e di raccolta delle tavole di pittori fiamminghi ordinate da membri di questa famiglia, e lì ebbe anche la sua prima sede l’associazione dei pittori, la Compagnia di San Luca. All’interno del presente catalogo si conduce un’approfondita analisi della genesi di questo impareggiabile capolavoro, sia nel suo contesto d’origine che nel suo impatto profondo sulla pittura della nuova patria fiorentina. La mostra stessa parte invece da un dipinto devozionale posseduto e conosciuto in epoca precoce nella cerchia medicea, che fu la tavoletta del San Girolamo di Detroit, o un suo simile, del grandissimo, originalissimo Jan van Eyck, opera per la prima volta citata nel 1492 a Firenze nel Palazzo Medici di via Larga. Il suo particolare impianto compositivo, il suo realismo tipicamente nordico e l’attenzione per gli oggetti e per la luce dovevano però essere noti a Firenze già da diverso tempo, se confluirono nell’affresco di dimensioni ben maggiori dello stesso soggetto di Domenico Ghirlandaio della chiesa di Ognissanti del 1480. Il dipinto, nonostante le sue ridotte dimensioni, è perfettamente conforme alle esigenze di un Bartolommeo Facio per il quale, nel 1456, “non è considerato pittore eccellente chi non si distingue nella rappresentazione delle caratteristiche degli elementi raffigurati come esistono nella realtà”. Certamente il Ghirlandaio non fu il primo fiorentino a conoscere opere del “nostri saeculi pictorum princeps”, come lo chiamò lo stesso Facio, e come tra l’altro dimostrano i due ritratti di Piero e forse Giovanni de’ Medici dal Boskovits riconfermati ad Andrea del Castagno e presenti in mostra (cat. n. 12). Jan van Eyck morì nel 1441 e da quel momento Rogier van der Weyden, nel 1450 in Italia, fu il più apprezzato pittore fiammingo vivente del tempo, come risulta ancora dalla testimonianza del Facio. Probabilmente di questa sua reputazione in sede fiorentina presso i Medici dà atto il Compianto di Cristo, che con ogni probabilità stava a decorare l’altare della cappella della villa di Careggi, sormontato, come oggi viene rivelato, da un rilievo di Andrea Verrocchio, ambedue presenti in mostra. Van der Weyden prese come modello la scena dallo stesso soggetto dipinta dall’Angelico nella tavoletta di predella (oggi a Monaco di Baviera) per la pala già sull’altare maggiore di San Marco, di stretta pertinenza medicea. A sua volta la tavola del fiammingo servì come modello in vari modi a pittori e miniatori fiorentini. Dopo la morte di Rogier nel 1464, il ruolo del più richiesto pittore (anche) presso i committenti fiorentini toccò al suo allievo e collaboratore Hans Memling. Fu lui ad avere i più stretti contatti con i vari rappresentanti – suoi committenti – della banca medicea a Bruges e altri fiorentini: i Tani, i Portinari ed anche i Pagagnotti. Dei trittici commissionati dai Pagagnotti al Memling ed al suo contemporaneo attivo a Bruges, il Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, e poi smantellati e smembrati in epoca imprecisata, qualche anno fa il Rohlmann ha ricostruito e proposto la composizione originaria delle parti. In questa mostra per la prima volta sono stati nuovamente ricomposti, con le parti interne ed esterne, dopo vari secoli (cat. nn. 25, 28). Accanto a loro, alcune opere fiorentine ne documentano l’impatto, tra l’altro nella rilevanza assunta dai motivi paesaggistici. Allo stesso Maestro della Leggenda di Sant’Orsola si deve una tavoletta con il Sudario con il Volto Santo di Cristo, che Francesco di Filippo del Pugliese fece allargare da Filippino Lippi con due ali, trasformandola in un trittichetto che probabilmente
fig. 2 - Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, Madonna col Bambino. Cambridge, Fogg Art Museum
Firenze e gli antichi Paesi Bassi: una stagione di contiguità culturale del tutto particolare
fig. 3 - Maestro della leggenda di Sant’Orsola, Ritratto di Lodovico Portinari. Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, John G. Johnson Collection
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rimase a Firenze fino 1829, e finì poi al Seminario Patriarcale di Venezia con la donazione del marchese Federico Manfredini (cat. n. 29). A grandi linee la mostra prosegue con le risposte offerte alle opere di questi e altri pittori neerlandesi e incisori nordici di grande livello da parte di vari maestri, siano essi Filippo Lippi, Botticelli, Ghirlandaio, Filippino Lippi, Raffaello, Fra Bartolommeo e Mariotto Albertinelli od Andrea del Sarto, spesso affascinati dai colori e dai moduli specifici importati a Firenze dalla pittura del Nord per il ritratto, il paesaggio, la rappresentazione dello spazio. La consapevolezza di questa straordinaria presenza e reputazione della pittura fiamminga quattrocentesca presso committenti, acquirenti ed artisti nella Firenze del tempo, e in parallelo dei suoi riflessi nella pittura del Rinascimento fiorentino, si affievolirono attraverso i secoli a causa del mutare del gusto, del graduale oblio dei fatti e della dispersione di una parte delle opere coinvolte. Alla metà del Cinquecento troviamo nel Vasari ancora qualche traccia di questi incroci quattrocenteschi nella citazione di alcune opere rimaste a Firenze, quali, oltre al Trittico Portinari, il Compianto di Rogier van der Weyden a Careggi e la Passione di Cristo dipinta dal Memling parimenti su ordinazione di Tommaso Portinari e Maria Baroncelli, passata in seguito al granduca Cosimo I e al papa Pio V Ghislieri, oggi a Torino (cat. nn. 5, 23). L’autore aretino racconta della scoperta del “colorire a olio” vaneyckiano, così difficilmente imitabile nei suoi effetti come lo stesso Vasari confessa nonostante la ricerca del “segreto” da parte degli artisti italiani. Verso la metà del Seicento il Trittico Portinari del Van der Goes fu tolto dall’altar maggiore di Sant’Egidio e le varie parti furono attribuite in seguito a maestri fiorentini quali Andrea del Castagno, Alessio Baldovinetti e Domenico Veneziano, ovvero ai pittori i cui affreschi oggi perduti nell’abside di Sant’Egidio con scene della Vita di Maria e ritratti di contemporanei vennero completati dal momento supremo della Vita della Madonna, rappresentata dalla Natività di Cristo del trittico del van der Goes. Il nome di quest’ultimo, in base al Vasari, fu recuperato dal pittore/conoscitore Johann David Passavant nel 1841. Nel 1666 lo stesso Compianto di Rogier van der Weyden fu trasferito agli Uffizi come opera del Dürer, e come tale lo menziona nel suo Cominciamento... il Baldinucci (1686). Quando nella vita di Baccio del Bianco lo stesso Baldinucci scrive, a proposito delle teste caricaturali per cui questi andava celebre “... questi colpi caricati; invenzioni bizzarissime che dicono i Bolognesi trovate da Annibale Carracci; sebbene io che si manifesta so che usossi talora in Firenze fino al 1480; tornatosi poi a praticare dal Carracci e da quei da sua scuola, e da altri pittori”, è chiaro che egli alludeva alle teste grottesche e popolari tardo quattrocentesche, di ambito leonardesco, peraltro senza però identificare ancora l’apporto nordico alla loro creazione, tanto chiaramente suggerito invece dalle descrizioni dei ‘panni fiandreschi’ e dalle incisioni tardo quattrocentesche che li riproducono (cat. nn. 16-20). Nella prima metà dell’Ottocento altri quadri importanti per la traccia qui proposta, appartenenti a collezioni private, lasciarono Firenze e la penisola, forse dopo una sosta secolare. Tra essi la Madonna Medici del Van der Weyden (cat. n. 8). Nel 1833 questa tavola fu venduta a Pisa dall’editore/antiquario pisano Giovanni Rosini e acquistata dal museo di Francoforte. Più tardi il marchese Frescobaldi vendette all’estero il ritratto di Lodovico Portinari a Philadelphia, allora attribuito a Hugo van der Goes, ma oggi riconosciuto come opera del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola (fig. 3) e considerato parte destra di un dittico che aveva sulla sinistra la Madonna e Bambino oggi al Fogg Museum of Art (fig. 2). La comunicazione del Bode (1895) che questo ritratto provenisse anch’esso da Santa Maria Nuova finora non è confermata dalla documentazione conosciuta. Un certo numero di dipinti provenienti dagli antichi Paesi Bassi, come i due laterali del trittico di Benedetto Portinari (cat. n. 41), insieme con altri che di seguito ricorderemo e che probabilmente erano ab antiquo presenti nell’ospedale di Santa Maria Nuova, furono trasferiti agli Uffizi nel 1825. Nel 1862 la tavola centrale dello stesso dittico fu acquistata dal museo di Berlino dall’eredità Naumann. Una vera svolta nel recupero dell’oggettiva importanza degli scambi artistici tra Firenze e gli antichi Paesi Bassi avvenne negli anni a cavallo del 1900, quando vari avvenimenti suggerirono una riscoperta e una nuova attenzione per il fenomeno. Tra le premesse vi fu forse l’acquisto effettuato dallo Stato italiano degli oggetti d’arte antica della piccola pinacoteca dell’arcispedale di Santa Maria Nuova ed il loro conseguente trasferimento agli Uffizi. Indubbiamente la pièce de résistance fu il grande Trittico Portinari. Agli Uffizi queste opere si aggiunsero alle due tavole del Memling dal trittichetto di Benedetto Portinari già trasferito dall’ospedale nel 1825 e ai ritratti di Pierantonio Baroncelli e di Maria Bonciani sopracitati (allora considerati opere di Petrus Christus) che avevano preso la stessa strada una ventina di anni dopo (cat. nn. 1, 43). Nel 1900 questi cinque dipinti furono riuniti, insieme con altri dipinti di scuola fiamminga, in una delle nuove sale al secondo piano degli Uffizi delle quali la costruzione era appena terminata. Questa sala fu nota per molti anni come sala Van der Goes. Oltre al Trittico Portinari ed alle opere ap-
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pena menzionate vi furono esposti il Compianto di Rogier e la Madonna col Bambino in trono con due angeli del Memling, che oggi sappiamo essere la tavola centrale del Trittico Pagagnotti (cat. n. 25). Essa apparteneva al pittore, collezionista di primitivi (italiani) e mercante d’arte Ignazio Enrico Hugford quando nel 1767 venne esposta alla mostra all’Annunziata dell’Accademia del Disegno come opera di Jan van Eyck. Nel 1779, poco dopo la morte di Hugford, fu acquistata dal granduca Pietro Leopoldo con altre opere di questa collezione. Il tema della presenza e dell’impatto della pittura primitiva fiamminga in Italia fu definito a grandi linee per la prima volta in Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien di Jacob Burckhardt, pubblicato postumo nel 1898. L’autore indicò tra i fatti storici artistici più evidenti l’acquisto e la commissione relativamente regolari di opere neerlandesi da parte dei committenti più in vista d’Italia durante circa un secolo, più o meno in parallelo con il Rinascimento dell’arte italiana, a cominciare dai primi decenni del Quattrocento. Già nella prima edizione del Der Cicerone (1855), ricco compendio delle opere d’arte nelle chiese e musei italiani, lo studioso svizzero aveva osservato che il numero relativamente cospicuo di opere nordiche presenti in Italia e da lui descritte rifletteva la loro diffusa fortuna. In aperta polemica con alcuni direttori di musei tedeschi, il conoscitore e collezionista Giovanni Morelli, con lo pseudonimo di Lermolieff, segnalò nell’ultimo quarto del secolo (1880, 1886, 1891) la confusione imperante nell’attribuzione di vari dipinti ritenuti opere di maestri toscani – Leonardo da Vinci, Verrocchio, Lorenzo di Credi –, che a suo avviso erano invece copie, o anche originali, di mano neerlandese. Per certi versi egli non aveva la ragione dalla sua parte, ma in qualche modo la polemica stava a confermare l’interesse dei più importanti maestri fiorentini del Quattrocento per i colleghi d’oltralpe e un certo avvicinamento al loro idioma. L’eredità di Jacob Burckhardt come pioniere dei rapporti tra l’Italia ed il Nord fu splendidamente raccolto da Aby Warburg. In una serie di contributi innovativi pubblicati nel 1901 e negli anni seguenti, lo stesso Warburg si concentrò in particolare sugli scambi artistico-figurativi avvenuti tra Firenze e i Paesi Bassi. Oltre ad essere forse sollecitato da quanto era venuto di recente da Santa Maria Nuova ad arricchire la Galleria degli Uffizi, gli inventari dei palazzi e ville medicei pubblicati da Eugène Müntz (1885) più d’un decennio prima nonché le sue ricerche araldiche e archivistiche fiorentine, lo portarono a nuovi risultati sui committenti, molti dei quali appartenenti a famiglie di banchieri come lo stesso Warburg. Si deve a lui l’identificazione dei ritratti dei donatori del grande trittico del Giudizio Universale di Memling a Danzica, ordinato da Angelo Tani a Bruges e destinato (come ora sappiamo) all’altare della cappella di famiglia nella Badia fiesolana, ma rubato durante il trasporto dai pirati nel Mare Baltico. E suoi furono gli studi sui Medici, sui Portinari e su altri acquirenti e committenti fiorentini di opere devozionali e ritratti di pittori fiamminghi e i loro riflessi in Ghirlandaio, Botticelli ecc. A lui si devono inoltre le indagini sulle tele a tempera di tema religioso, comico-popolare o cortesecavalleresco in linea con la moda borgognona, riprodotta e rispecchiata nel gruppo d’incisioni ipoteticamente attribuite a Baccio Baldini. A Firenze in quegli anni l’interesse per i temi sviluppati dal Warburg fu condiviso da un suo amico, lo storico dell’arte belga Jacques Mesnil, autore di vari saggi su argomenti affini. Sebbene la sala Van der Goes negli Uffizi fosse stata creata per iniziativa del direttore del museo Enrico Ridolfi, non furono dunque gli studiosi italiani, ma gli stranieri ad occuparsi specificamente dei rapporti tra Firenze e il Nord. Forse non a caso furono questi gli anni anche della grande mostra dei “Primitifs flamands” tenutasi a Bruges nell’estate del 1902, che in un certo senso impresse una svolta in positivo all’apprezzamento della pittura degli antichi Paesi Bassi. Qui furono esposti i ritratti di Tommaso Portinari e Maria Baroncelli del Memling oggi al Metropolitan Museum, che nel 1501 facevano parte di un trittico con la Madonna e Bambino legato da Tommaso all’Ospedale di Santa Maria Nuova. Quattro secoli dopo essi furono scoperti in una collezione privata fiorentina e identificati dal Friedländer, che li segnalò al Warburg prima della loro esposizione a Bruges. Come osservò Gombrich (1970), già Burckhardt e i lavori di Warburg rilevarono il presunto paradosso che né i ricchi committenti fiorentini, né gli artisti avvertirono una contraddizione insormontabile tra gli ideali classici dell’arte fiorentina rinascimentale e moderna e il cosiddetto ‘gotico barbarismo’ medioevale degli artisti del Nord. Emblematici per la coesistenza dei due mondi o forse meglio per la loro compenetrazione sono, tra le altre, la presenza del Compianto di Rogier tra opere scultoree e pittoriche fiorentine nella cappella di villa Medici di Careggi, come sarà rilevato altrove in questo catalogo, quella in Sant’Egidio del Trittico Portinari tra affreschi di artisti fiorentini, nonché il già citato Trittico Pugliese del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola e di Filippino Lippi, nel quale il realismo devoto e macerato d’origine neerlandese della preesistente parte centrale e l’eleganza classicheggiante del rinascimento religioso fiorentino dei laterali, creati ex novo, con-
fig. 4 - Baccio Baldini attr., Il Giardino dell’Amore (part.), cat. n. 17
Firenze e gli antichi Paesi Bassi: una stagione di contiguità culturale del tutto particolare
fig. 5 - Marion von Hornstein, Decorazione pittorica. Firenze, Villa di Bellosguardo
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vivono in un insieme voluto dalla committenza fiorentina di fine Quattrocento. Il rinnovato gusto per la commistione di stili, nella quale il ‘gotico’ nordico e la componente italiana coabitano e si frammischiano, studiato a Firenze dal Warburg e da altri, si estese in quel momento in città probabilmente ad un numero di amatori e curiosi appartenenti all’alto ceto sociale frequentato dal Warburg. Testimonianza più o meno cosciente di questo interesse e gusto si trova nella villa di Bellosguardo (fig. 5), il quale all’inizio del Novecento fu la casa fiorentina del collezionista barone Giorgio Franchetti, che nel 1916 lasciò allo Stato italiano la Cà d’Oro di Venezia insieme con la sua raccolta d’opere d’arte. In una sala al pian terreno della villa fiorentina la moglie di lui, la baronessa Marion von Hornstein, pittrice dilettante, realizzò una decorazione pittorica ispirata a quella di Palazzo Davanzati, includendo in un soprapporta l’immagine di un Giardino d’Amore con figure vestite secondo la foggia borgognona, letteralmente copiata da una delle rarissime stampe tardoquattrocentesche, attribuite a Baccio Baldini ed alla sua cerchia, oggi nota in un unico esemplare (cat. n. 17). È la riproduzione o l’adattamento di un’immagine originale neerlandese oggi sconosciuta, forse uno dei ‘panni fiandreschi’ che ai tempi di Lorenzo il Magnifico ornavano la villa di Careggi. Gli studi sull’argomento della nostra mostra si moltiplicarono dopo il 1950. Il ritrovamento (STRENS 1968) del documento che fissa al 1483 l’arrivo a Firenze del trittico del Van der Goes mise fine a un lungo periodo di speculazioni su questa data e sulle opere fiorentine, in parte in verità anteriori, che ne avrebbero subito il fascino. Ciononostante, come il Warburg all’inizio del Novecento, nel 1968 il Reznicek, studiando nuovamente la presenza di opere nordiche presso i Medici prima del 1500, dovette constatare quanto poco esplorati fossero gli scambi e i contatti reciproci tra l’arte fiorentina e l’arte neerlandese del Quattrocento. Seguirono il libro più generale sulle problematiche italo-neerlandesi della Castelfranchi Vegas (1983) e quello del Salvini sui banchieri e pittori fiorentini e il Nord (1984). Oggi la situazione è nuovamente cambiata, grazie agli studi molteplici condotti nell’ultimo ventennio in particolare da Paula Nuttall e Michael Rohlmann di cui i saggi inclusi nel presente catalogo, come d’altronde varie schede, rendono ampiamente conto. Le nuove conoscenze offrono particolari assai più numerosi e precisi sugli scambi, collegamenti e prestiti artistici, oltre ad una generale visione dell’insieme più ricca e meno lacunosa. E questo ci ha permesso e spinto a chiedere a Serena Padovani, direttrice della Galleria Palatina, di organizzare questa mostra in occasione del cinquantenario dell’Istituto Universitario Olandese di Storia dell’Arte di Firenze, che conta tra i suoi compiti istituzionali lo studio articolato degli scambi italo-fiammingo/olandesi. Sono veramente grato che questa proposta sia stata generosamente e amichevolmente raccolta. Intanto la presa di coscienza generale di questi rapporti ha avuto un altro risultato: da qualche decennio, alla Galleria degli Uffizi, il Compianto di Rogier van der Weyden e il Trittico Portinari non sono più relegati in una stanza di soli dipinti fiamminghi, ma nella grande sala di Botticelli, fianco a fianco con i capolavori di questo e di altri maestri fiorentini. In tal modo sono ridiventati segni e partecipi di una stagione artistica del tutto particolare di contatti e intrecci relativamente frequenti avvenuti tra due culture lontane ed assai diverse, ma non per questo meno eccelsi e artisticamente egemoni.
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Pittura degli antichi Paesi Bassi a Firenze: commentatori, committenti e influsso Paula Nuttall
Fin dalla metà del XVI secolo, quando furono pubblicate le Vite di Giorgio Vasari, Firenze ricoprì una posizione privilegiata nella storia dell’arte. La convincente dialettica vasariana a sostegno del progresso dell’arte dal “Medioevo” al “Rinascimento”, dall’“errore” alla “correttezza”, da Cimabue a Michelangelo, con i suoi protagonisti fiorentini, ha per secoli influito sulla nostra percezione dell’arte figurativa e sui nostri preconcetti1. Anche se oggi non è più possibile accettare il punto di vista vasariano, tuttavia è vero che, grazie alla felice combinazione di spinte ideologiche e creative, nel corso del Quattrocento si diffusero a Firenze scoperte innovative che accelerarono l’evoluzione di un nuovo linguaggio figurativo ispirato ai principi classici e, al tempo stesso, interessato alla rappresentazione della realtà. Tali significative scoperte in campo artistico non furono prerogativa della sola Firenze, ma anche dei Paesi Bassi, dove gli artisti dimostrarono paralleli interessi per la realtà, che la pittura ad olio aveva permesso loro di rappresentare in termini di inediti sofisticatezza e virtuosismo. Del resto i fiorentini del XV secolo non ignoravano queste scoperte. A quest’epoca il linguaggio artistico parlato a Firenze era poliglotta: accanto al toscano vernacolare e al latino classico, la lingua dell’Europa transalpina, ed in particolare quella dei Paesi Bassi, giocava un ruolo fondamentale nella formazione della sua nuova sintassi2. TESTIMONIANZE SCRITTE: LA PITTURA DEI PAESI BASSI NEGLI ANTICHI TESTI ITALIANI Le Vite del Vasari includono una lista succinta dei più importanti artisti fiamminghi del XV secolo – Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling e Hugo van der Goes – senza alcun interesse, tuttavia, nell’approfondimento delle loro conquiste in campo artistico, eccezion fatta per l’attribuzione a Van Eyck, peraltro erronea, dell’invenzione della pittura ad olio3. La marginalizzazione dei fiamminghi non sorprende: gli scritti di Vasari riflettono il crescente gusto dell’epoca per il mondo classico, e con la loro redazione l’autore perseguì il preciso intento di mostrare in particolar modo le conquiste in campo artistico dei pittori fiorentini e dei suoi stessi signori, i Medici. Un secolo prima, tuttavia, negli scritti d’arte italiani par prevalere tutt’altro orientamento. Attorno al 1456, l’umanista di corte Bartolomeo Fazio elencò nel suo De Viris Illustribus i quattro artisti più celebri del suo tempo. In testa alla lista era Jan van Eyck (m. 1441); l’elenco includeva anche Rogier van der Weyden (m. 1464)4. Lo scritto di Fazio, che descrive nel dettaglio le opere dei due artisti, e in termini di grande stima, è il testo italiano più ampio e ricco di notizie sugli artisti fiamminghi del XV secolo. Il punto di vista di Fazio era condiviso anche da altri scrittori come, ad esempio, l’antiquario Ciriaco d’Ancona che, nel 1449, descrive in termini di entusiastico apprezzamento il trittico raffigurante una Deposizione di Rogier van der Weyden che aveva avuto occasione di vedere a Ferrara nella collezione di Lionello d’Este, e nelle liste di pittori celebri redatte dallo scultore fiorentino, e architetto a Milano, Filarete, da Giovanni Santi, pittore di Corte ad Urbino, e dall’umanista Giovanni Pontano a Napoli5. Da tutti questi scrittori Van Eyck e Van der Weyden erano considerati i pittori più famosi del tempo. È facile capire per quale ragione la pittura neerlandese fosse considerata con tanta stima. In primo luogo, essa valeva per la sua rarità: era un’importazione esotica, come lo erano le maioliche e le tappezzerie, e soprattutto era avvolta dal fascino della corte di Borgogna, paradigma nel XV secolo di fasto principesco (Van Eyck, come ricorda Fazio, fu pittore a servizio del duca di Bor-
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gogna)6. In secondo luogo la pittura dei Paesi Bassi valeva in quanto novità: la pittura ad olio su tavola in Italia, a differenza che nelle Fiandre, era poco diffusa, così come poco conosciuta era la meno costosa tecnica dei panni dipinti, di cui parleremo in seguito, assai diffusi in Italia. In terzo luogo, all’interno di una cultura artistica che prediligeva il naturalismo, l’abilità dei pittori fiamminghi nell’imitazione del dato naturale era ovviamente assai stimata; Fazio e altri ancora spesero elogi generosi sulla verosimiglianza dell’opera di Van Eyck e di Van der Weyden come leggiamo nelle parole di Ciriaco di Ancona “crederesti … siano opera non di un artefice umano, ma della stessa natura che tutto genera”7. La capacità dei pittori d’oltralpe di riprodurre le diverse superfici – ad esempio dei gioielli lucenti, dei capelli setosi, o del vetro e del metallo scintillante, stupisce ancora oggi; in un’era antecedente alla fotografia, in cui la fedele rappresentazione della natura rappresentava essa stessa una novità, i risultati dei fiamminghi dovevano sembrare quasi un piccolo miracolo. Fazio e Ciriaco elogiano tali effetti virtuosistici che attribuiscono implicitamente alle capacità dei fiamminghi nel “colorito” – termine che indica la stesura pittorica e la comprensione delle luci e delle ombre, così come il colore in sé – qualità che agli occhi di un italiano erano associate alla tecnica ad olio dei fiamminghi. Si era ugualmente impressionati dalle capacità dei fiamminghi nel realismo dei ritratti, nei microdettagli dei paesaggi e nella descrizione realistica delle emozioni, in particolar modo nei dipinti a carattere devozionale, in quella che veniva chiamata “maniera devota”. La fedele imitazione della natura era una qualità che nell’Italia rinascimentale era associata alla pittura dell’antichità, conosciuta attraverso Plinio e altri scrittori del mondo classico. La pittura fiamminga, proprio grazie a tale naturalismo e virtuosità tecnica, dovette sembrare in qualche modo il suo equivalente moderno. I cronisti italiani del secolo XV di certo non avevano alcun problema a paragonarla alla pittura classica. Il cardinale Jean Jouffroy, che scrive a Roma nel 1468, rievocava un topos ricorrente della narrativa artistica nel celebrare Van Eyck e Van der Weyden che, a suo parere, avevano ormai sorpassato i più famosi pittori dell’antichità classica – il più alto riconoscimento per un artista, all’interno di un’ottica umanistica: “Pensa ora … all’epoca in cui fiorirono Ezio, Nicomaco, Protogene [e] Apelle oppure quella di coloro che li sorpassarono – Giovanni da Bruges [Jan van Eyck], di cui hai visto i dipinti nel palazzo di Papa Eugenio, e …. Rogier di Brussels, le cui opere aggiungono lustro ai palazzi di ogni regnante”8. Gli inventari, le lettere e i libri di conto confermano che nell’Italia del secolo XV i palazzi dell’élite dirigente ospitavano spesso dipinti di questi pittori, come del resto di altri celebri artisti fiamminghi quali Petrus Christus e Hans Memling. Come Jouffroy aveva messo in luce, il Pontefice Eugenio IV possedeva dipinti di Van Eyck, e Fazio conosceva le opere di Van Eyck e Van der Weyden attraverso i dipinti di proprietà del re di Napoli, Alfonso d’Aragona, suo protettore, e altre celebrate opere di Van Eyck conservate ad Urbino e di Van der Weyden a Ferrara9. Anche i principi italiani si adoperavano per ottenere i servigi degli artisti fiamminghi, o quantomeno di coloro che avevano ricevuto un’educazione artistica fiamminga, pittori come Giusto di Gand, assunto dal duca di Urbino, Federico da Montefeltro, o Zanetto Bugatto, inviato dalla duchessa milanese Bianca Maria Sforza a studiare presso Van der Weyden a Bruxelles10. COMMITTENTI A FIRENZE A Firenze i Medici, nel tentativo di emulare lo stile di vita principesco dei loro pari e amici (tra cui il Pontefice Eugenio IV il cui appartamento, durante il suo soggiorno fiorentino presso Santa Maria Novella tra il 1434 e il 1443, era probabilmente decorato con dipinti di Van Eyck), non furono da meno in questa moda collezionistica. Nel famoso “scrittoio” di Palazzo Medici, perno della collezione di famiglia, erano conservati due preziosi dipinti fiamminghi, disposti accanto a gemme preziosissime e vasi di epoca classica, libri di lusso, reliquari, oggetti in avorio, mosaici e rari exotica come il corno di un unicorno11. Uno di essi era il piccolo San Girolamo di Jan van Eyck, menzionato nell’inventario del 1456-146312 di Piero il Gottoso e più tardi nel famoso inventario di Lorenzo il Magnifico del 1492 dov’era descritto come: “Una tavoletta di fiandra suvi uno San Girolamo a studio, chon un armarietto di più libri di prospettiva e uno lione a’ piedi, opera di maestro Giovanni di Bruggia, cholorita a olio in una guaina”13. Il San Girolamo de’ Medici è talvolta identificato con il piccolo San Girolamo eyckiano ora a Detroit (cat. n. 1) forse eseguito per il cardinal Niccolò Albergati (cat. n. 3), dal quale potrebbe essere passato nelle mani del suo segretario personale, Tommaso Parentucelli, che succedette a Eugenio IV sul trono pontificio col nome di Nicola V (1448-1455), il quale lo avrebbe donato a sua volta all’amica famiglia Medici14. Anche se è una supposizione difficilmente verificabile, la tavoletta di Detroit fece certamente parte di quegli oggetti che nel XV secolo non potevano che apparire come dono davvero prezioso. Il San Girolamo de’ Medici era stimato 30 fiorini d’oro – prezzo piuttosto alto per un dipinto di così piccole dimensioni conservato all’interno di una “guaina”. Per capirne la
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preziosità, il prezzo della tavoletta deve essere confrontato con la stima fatta per un grande tondo di Fra Angelico in cornice dorata che ammonta a ben 100 fiorini (è la cifra in assoluto più alta tra i dipinti citati nell’inventario)15. In realtà il San Girolamo era ben più prezioso, dal momento che né le piccole dimensioni, né la foglia d’oro, né tantomeno l’elaborata, elegante cornice influirono in alcun modo sulla valutazione del prezzo che dovette essere determinato piuttosto dalla qualità intrinseca e dal valore effettivo dell’oggetto. Il secondo dipinto conservato nello scrittoio era un Ritratto di donna di Petrus Christus stimato ben 40 fiorini16. Il dipinto non è citato in nessuno degli inventari medicei anteriori al 1492 e perciò potrebbe essere stato acquistato da Lorenzo. A volte questo dipinto viene identificato con il Ritratto di dama oggi a Berlino (fig. 1) dal momento che paiono corrispondere il nome dell’artista, il soggetto e l’abito della dama, nonché l’impressionante somiglianza tra la donna e la Ginevra de’ Benci ritratta di Leonardo da Vinci a Firenze nel 147517. Nonostante non si conosca né l’identità del modello di Petrus Christus né tantomeno l’antica storia del ritratto, esso rappresenta con tutta probabilità quel tipo di oggetto che Lorenzo, di cui è nota la passione per i manufatti rari e preziosi, dovette acquistare per la sua collezione. Anche un terzo, importante, dipinto su tavola, il Compianto di Cristo di Rogier van der Weyden oggi agli Uffizi (cat. n. 5) è stato collegato alle collezioni dei Medici. Ricordato dal Vasari fra gli arredi della Villa di Careggi nel 1550 e da Lodovico Guicciardini nel 1567 (seppur con l’erronea attribuzione a Memling)18, esso fu a lungo identificato con la pala d’altare all’interno della cappella della villa descritta nell’inventario del 1492 raffigurante Cristo deposto dalla croce, il sepolcro e ‘cinque altre figure’ – descrizione che corrisponde al dipinto di Van der Weyden19. La composizione pare derivare dal Compianto di Cristo di Fra Angelico della predella della pala d’altare di San Marco databile attorno al 1440 circa (Monaco, Alte Pinakothek), un modello che trovò particolare fortuna a Firenze20 e che probabilmente Van der Weyden fu incaricato di riprodurre sulla base di un disegno inviatogli a Bruxelles da Firenze. Il Compianto di Cristo, infatti, fu senza dubbio dipinto con in mente un modello fiorentino. Impressione sostenuta dall’utilizzo del particolare formato quadrato, raro nelle pale d’altare fiamminghe, caratterizzate piuttosto dalle tipiche ante provviste di cardini; Michael Rohlmann, avendo notato che la pala d’altare di Careggi era inquadrata all’interno di una splendida cornice all’antica, propose che essa fosse stata ideata come una vera e propria ‘pala rinascimentale’ fiamminga21. I Medici possedevano inoltre un buon numero di “panni dipinti” provenienti dalle Fiandre – dipinti che, nonostante fossero eseguiti a tempera a colla su tela di lino, tecnica meno costosa dell’olio su tavola, erano merce alla moda e assai ambita22. Questi dipinti erano per lo più conservati presso il palazzo di via Larga e di Careggi, le due principali residenze di famiglia; in effetti la maggior parte dei dipinti di Careggi erano panni dipinti, e in totale i panni dipinti fiamminghi costituivano circa un terzo dei dipinti menzionati tra le proprietà medicee nel 149223. Per lo più di piccole o medie dimensioni, essi variavano nel soggetto. Su alcuni figuravano temi religiosi convenzionali come la Vergine e il Bambino e l’Annunciazione, oppure scene bibliche quali il Passaggio del Mar Rosso e l’Entrata di Cristo a Gerusalemme. Altri trattavano invece di temi profani, dal contenuto erotico ed umoristico quali Quattro donne et tre huomini che si danno piacere; Due donne gnude che si bagnono; Un ballo a morescha; Più fighure bachanarie intorno a una quaresima; Un grasso che suona il liuto24. Poiché molto fragili, pochissimi panni dipinti fiamminghi sono sopravvissuti e nessuno di quelli posseduti dai Medici è giunto fino a noi, tuttavia possiamo farci un’idea dei soggetti di questi dipinti dai disegni e dalle stampe fiorentine che paiono rifletterne il contenuto, quali, ad esempio, il Grasso che suona il liuto (cat. n. 16) o la Danza moresca con la donna delle salsicce (cat. n. 20) e la serie dei danzatori attribuita a Verrocchio (cat. nn. 21, 22). Sembrerebbe che le tele fiamminghe con temi
fig. 1 - Petrus Christus, Ritratto di dama, Berlino, Gemäldegalerie.
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profani come quelle elencate nell’inventario di Lorenzo fossero piuttosto comuni nella Firenze tardo quattrocentesca. Basta pensare che nel 1497 una parte del rogo savonaroliano fu riservata a “panni forestieri preziosi, dipinti di bellissime figure con molta impudicità”25. A voler scorrere gli inventari, i libri di conto e le corrispondenze, appare piuttosto evidente che, seppur la famiglia Medici entro la fine del secolo possedesse il numero di gran lunga più consistente di dipinti fiamminghi, sia devozionali che profani, essi erano altrettanto diffusi all’interno di un pubblico fiorentino assai più vasto. Da una parte troviamo i “panni dipinti”: relativamente economici, subito disponibili sul mercato d’arte delle Fiandre e facilmente trasportabili, la richiesta di questi lavori era soddisfatta facilmente. Nel 1460 Alessandra Macinghi Strozzi, ad esempio, ricevette alcuni “panni dipinti” inviategli da Bruges dal figlio Lorenzo, dei quali aveva intenzione di tenerne per sé solo uno e mettere gli altri in vendita26. I “panni dipinti” dovevano di certo far parte della decorazione delle case dell’élite cittadina. Essi appaiono, ad esempio, negli inventari di Filippo Strozzi (1491) e di Giovanni e Lorenzo Tornabuoni (1498)27; tuttavia, l’essere così poco costosi – i panni di Alessandra rendevano non più di tre fiorni al pezzo – faceva sì che essi entrassero facilmente in possesso anche di artigiani e commercianti, come potevano essere un vinaio o un cartolaio28. Dall’altra parte i membri del circolo della famiglia Medici commissionavano costose tavole dipinte come nel caso dell’illustre padre domenicano Benedetto Pagagnotti,
fig. 2 - Bruges, Beursplein con la Casa di Commercio fiorentina
Vescovo di Vaizon, per il quale Memling dipinse il meraviglioso trittico con la Madonna in trono con San Giovanni Battista e San Lorenzo (cat. n. 25).29 FIORENTINI A BRUGES: BANCHIERI, COMMITTENTI E FORNITORI Per quanto ne sappiamo, Benedetto Pagagnotti non visitò mai le Fiandre. Per la commissione del trittico a Memling, Pagagnotti potrebbe aver fatto affidamento al nipote, Paolo Pagagnotti, mercante e viaggiatore e possessore egli stesso di un trittico con la Vergine e il Bambino eseguito da un pittore di Bruges, il Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, ora smembrato e diviso tra i musei di Cherbourg, New York e Fiesole (cat. n. 25)30. Persone come Paolo Pagagnotti, giunte a Bruges per seguire le proprie attività commerciali, si rivelarono fondamentali – sia nel ruolo di fornitori che in quello di committenti – per l’instaurarsi dei rapporti artistici tra Firenze e i Paesi Bassi. Bruges, il centro commerciale più importante del nord di Europa, attirava da tempo mercanti e banchieri italiani che costituivano il gruppo più numeroso di stranieri in quella città cosmopolita31. Le case di commercio delle diverse nazioni italiane, tra cui c’era anche quella fiorentina, si trovavano sulla piazza conosciuta come Beursplein, denominazione che dipendeva dal nome dalla famiglia locale dei Van der Beurse (dal quale deriva, in più di una lingua europea, il termine dell’istituzione che si occupa degli scambi finanziari, la borsa) (fig. 2). I fiorentini nei Paesi Bassi furono i più importanti finanziatori per tutto il XIII e gli inizi del XIV secolo fino al crollo dei banchi dei Bardi e dei Peruzzi nel 1345, quando furono superati dai genovesi e dai lucchesi. Nonostante tutto, i fiorentini
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ritrovarono il primato perduto con lo stabilirsi, a Bruges, nel 1439 di una filiale del banco mediceo; nel 1472 il cronista e mercante fiorentino Benedetto Dei poteva gloriarsi del fatto che i fiorentini ‘dominavano’ i Paesi Bassi32. Fondamentale per questa crescita fu Tommaso Portinari che, impiegato all’incirca dal 1440 presso la banca medicea, ne divenne dirigente nel 1465 dopo un’accesa competizione sfociata nella retrocessione del suo predecessore Angelo Tani33. Portinari aveva coltivato le relazioni con la corte di Borgogna; fu, infatti, membro del Concilio ducale sia sotto Filippo il Buono che sotto Carlo il Temerario e di quest’ultimo era diventato intimo amico. Fu Tommaso Portinari che riuscì a conquistare, a discapito degli altri concorrenti italiani, la fiducia ducale a favore della famiglia Medici; Portinari ricoprì inoltre ruoli diplomatici e per i Medici e per la corte di Borgogna. All’apice della carriera (all’incirca tra il 1464 e il 1478) egli era l’italiano più influente di Bruges – non a caso fu l’unico mercante straniero ad essere citato nel resoconto del matrimonio del duca che si tenne a Bruges nel 1468 redatto da Olivier de la Marche. Anche se personaggio influente nella nazione fiorentina, Portinari veniva considerato membro dell’élite indigena: nel 1471 un cronista milanese lo descriveva infatti come “borgonione”34. Da servitore di due padroni quale effettivamente era, Portinari è stato accusato di aver portato alla bancarotta le finanze medicee di Bruges e di aver accelerato il fallimento dello stesso banco, oltre che essersi dedicato più alla vita di corte che agli affari, ma soprattutto di aver concesso troppi crediti a Carlo il Temerario per le sue campagne militari, con disastrose conseguenze per i Medici quando il duca, nel 1477, perse la vita in battaglia. Gli studi recenti tuttavia hanno messo in dubbio la visione convenzionale riguardo la carriera di Portinari in chiave di racconto moraleggiante sulla hubris e sulla nemesis35. Anche se il banco mediceo di Bruges chiuse nel 1480, Portinari continuò a commerciare per proprio conto senza abbandonare, fino al suo rientro a Firenze nel 1497 dove morì quattro anni più tardi, l’attività diplomatica nei Paesi Bassi a servizio dei Medici e dei nuovi regnanti Asburgo. Lo status privilegiato che Portinari si era guadagnato a Bruges pare rispecchiarsi anche nello stile di vita e nelle committenze artistiche. Nel 1465 Portinari si trasferì nella Hof Bladelin, a Naaldenstraat, una delle più grandi abitazioni di Bruges, originariamente edificata per ospitare il tesoriere ducale (fig. 3). L’aveva ottenuta dopo aver convinto i Medici ad acquistarla come base per la banca, e l’aveva impreziosita con “imprese” medicee e con busti scolpiti che rappresentavano Lorenzo e sua moglie.36 Portinari faceva vestire la sua consor-
fig. 3 - Hof Bladelin, sede del Banco Mediceo a Bruges
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fig. 4 - Hans Memling, Passione di Cristo (part.), cat. n. 23
fig. 5 - Hans Memling, Trittico di Benedetto Portinari, Madonna con Bambino (Berlino, Gemäldegalerie); sportelli laterali con San Benedetto e Benedetto Portinari (cat. n. 41)
te, Maria Bandini Baroncelli, secondo la moda più appariscente della Borgogna, come ben si intuisce dalla stravagante collana che essa esibisce nei ritratti eseguiti da Memling e Van der Goes. Portinari faceva parte della prestigiosa confraternita dell’Albero Secco, favorita dall’élite cittadina e dalla corte e non mancava di donare laute somme a chiese e conventi, tra cui la chiesa di San Giacomo, dove possedeva addirittura una cappella privata37. Il fiorentino, inoltre, commissionò almeno tre dipinti, capolavori dell’arte fiamminga, più di quanto abbiano mai fatto non solo gli italiani ma anche molti dei suoi colleghi borgognoni. Ma Tommaso Portinari è conosciuto soprattutto come committente della monumentale pala d’altare di Hugo van der Goes (argomenti dei prossimi saggi), il più grande e più spettacolare esempio di antica pittura fiamminga a Firenze e di due magnifici lavori di Memling. La Passione di Cristo (cat. n. 23)38 fu probabilmente commissionata per la chiesa dei Francescani Osservanti, una delle chiese di Bruges di cui Portinari era protettore e all’interno della quale la nazione fiorentina possedeva una cappella.39 Due ritratti a mezza figura di Tommaso e Maria Portinari (New York, Metropolitan Musem) dovevano essere invece gli sportelli del trittichetto di devozione privata descritto come “pregiata” nell’inventario redatto nel 1501 alla morte di Portinari; il pannello centrale, una Vergine col Bambino è oggi perduto, ma possiamo farci un’idea dell’insieme dal trittico di Benedetto Portinari (fig. 5; cat. n. 41)40. Essendo Memling il più celebre pittore di Bruges, per Portinari dovette trattarsi di una scelta quasi obbligata; per di più, queste due commissioni sembrano calcolate appositamente per mettere in luce il talento dell’artista: la Passione nel virtuosismo e nella sorprendente definizione dei dettagli, i due mezzi busti del trittichetto nelle capacità ritrattistiche pienamente rappresentative
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di uno stile artistico alla moda. Insiemi devozionali di questo tipo erano assai apprezzati nei circoli di corte e Portinari dovette emulare gli amici aristocratici quali Jean de Gros (anch’egli committente di una cappella nella chiesa di San Giacomo), possessore quest’ultimo di un dittichetto di Rogier van der Weyden; il disegno controllato e il fondo piano e scuro dei ritratti Portinari sembra riferirsi consapevolmente ai modelli rogieriani. La committenza artistica di Portinari venne forse influenzata da Angelo Tani, suo primo rivale e predecessore come capo del banco dei Medici, la cui pala d’altare dipinta da Memling con il Giudizio finale (di cui si parlerà nel saggio di Bernhard Ridderbos), fu la prima e più importante opera fiamminga ad essere stata realizzata per un committente fiorentino, in anticipo sulle stesse commissioni di Portinari. Le imponenti pale d’altare a sportelli, sia di Portinari che del Tani, non erano pensate esclusivamente come oggetti devozionali ma anche come emblemi da esporre sugli altari fiorentini a ricordo delle conquiste sociali e materiali ottenute dai due commercianti nei Paesi Bassi, opere d’arte dal gusto esotico e caratteristico nello stile e nella forma. Forse Tani conosceva un precedente, il trittico con la Resurrezione di Lazzaro, oggi agli Uffizi, dipinto nelle Fiandre tra il 1460 e il 1461 dal pittore provenzale Nicolas Froment su commissione di Francesco Coppini, vescovo di Terni, e in seguito acquistato da Cosimo de’ Medici che l’aveva esposto nella chiesa di San Francesco al Bosco41. Rispetto ad altri espatriati a Bruges, ed in particolar modo ai genovesi e ai lucchesi, che già negli anni trenta avevano commissionato alcuni dipinti a Van Eyck, i fiorentini si dimostrarono più lenti ad interessarsi alla pittura dei Paesi Bassi – essi, infatti, non se ne distinsero come committenti di spicco fino al 1470 circa, quando iniziò a crescere l’importanza della colonia fiorentina di Bruges (diversamente, i Medici a Firenze, ad emulazione della nobiltà italiana, avevano cominciato ad acquistare dipinti fiamminghi già dagli anni cinquanta del secolo). Seppur nessun committente si dimostrò eccessivo o ambizioso come lo furono Tani o Portinari in veste di patrocinatori, parimenti essi dimostrarono le proprie preferenze per quei dipinti che in Italia sarebbero stati considerati tipicamente fiamminghi, in particolare ritratti e trittici devozionali. Tra questi i ritratti erano di gran lunga i più stimati, essendo piccoli, compatti e facilmente trasportabili; data l’ammirazione degli italiani per i ritratti fiamminghi, era quasi obbligatorio possederne alcuni acquistati nei Paesi Bassi. I ritratti di Memling erano particolarmente quotati; la produzione dell’artista è particolarmente prolifica durante gli anni settanta, quando l’importanza economica della nazione fiorentina, in rapporto alle richieste sempre maggiori che provenivano dall’Italia42, aveva raggiunto il suo punto più alto: si spiegherebbe così il perché un gran numero di ritratti sopravvissuti effigiano dei fiorentini. Le frequenti inclusioni di vedute di paesaggio all’interno dei ritratti di Memling (cat. nn. 34, 37) – una sorta di marchio di fabbrica nella produzione ritrattistica di questo artista – dovette certo costituire un punto di attrazione per gli acquirenti italiani come dimostrerebbero anche le testimonianze scritte che esprimono uguale ammirazione e per il paesaggio e per la ritrattistica fiamminga. Un gran numero di ritratti di questo tipo può essere in qualche modo collegato a modelli italiani (spesso fiorentini) tanto da far pensare che questo genere si fosse evoluto in risposta ai gusti italiani43. Anche il ritratto devozionale a mezzo busto, in formato di dittico o di trittico, faceva parte della tradizione pittorica fiamminga e dovette diffondersi attorno alla metà del XV secolo grazie a Rogier van der Weyden. Tommaso Portinari aveva commissionato a Memling un trittico con due ritratti a mezzo busto così come fece qualche anno più tardi il giovane nipote, Benedetto Portinari, impiegato a Bruges presso il banco mediceo e più tardi nella società di Portinari (cat. n. 41). Diviso oggi tra Firenze e Berlino, il trittico di Benedetto Portinari, caratterizzato dallo sfondo con la loggia e dalla veduta paesaggistica, aggiorna secondo le mode più recenti l’impianto, più semplice, del trittico dipinto per Tommaso44. Pierantonio Bandini Baroncelli, mecenate fiorentino e diplomatico che a Bruges dovette ‘succedere’ a Portinari nel ruolo di italiano di spicco, commissionò un trittico a mezzo busto al Maestro dei Ritratti Baroncelli; le sopravvissute ante laterali che raffigurano i donatori (cat. n. 43), colpiscono per i lussuosi dettagli degli abiti, dei gioielli e dei libri di preghiera e dimostrano, al pari del trittico del suo predecessore, il coinvolgimento dei committenti nel modo di vivere della Borgogna.45 Oltre a commissionare pitture private, i mercanti fiorentini nei Paesi Bassi si adoperavano per la clientela fiorentina nella ricerca di oggetti d’arte. Come già detto, Lorenzo Strozzi aveva inviato alla madre Alessandra alcuni panni dipinti da vendere a Firenze e Paolo Pagagnotti dovette fare da intermediario per il vescovo Benedetto Pagagnotti per la commissione del trittico di Memling. Tommaso Portinari acquistò numerosi panni dipinti durante gli anni sessanta per Piero de’ Medici, soprattutto in occasione della fiera di Anversa; fu probabilmente lo stesso Portinari il responsabile della scelta della maggior parte dei panni dipinti fiamminghi menzionati negli inventari medicei46. Portinari e i suoi colleghi fornivano anche dipinti ad altri fioren-
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tini tra cui ricordiamo Filippo Strozzi che nel 1474 presentò ai membri della corte napoletana alcuni dipinti fiamminghi ottenuti grazie ai contatti col banco mediceo47. CONTATTI ARTISTICI E VIAGGI DI ARTISTI Come a Bruges, con la sua comunità di espatriati italiani, anche a Firenze esisteva una consistente colonia fiamminga, seppur di diversa estrazione sociale. Più che mercanti, la maggior parte dei “tedeschi” a Firenze – così chiamati dal momento che il fiammingo era considerato una lingua germanica – erano per lo più immigranti di basso ceto, attratti dalle prospettive lavorative in particolare nel campo dell’industria tessile48. Tra loro figurano un buon numero di artigiani le cui attività presupponevano contatti col mondo artistico.49 Durante il XV secolo numerosi importanti progetti civici fiorentini richiesero le competenze di artigiani fiamminghi. Il tessitore di arazzi Livino di Gilio di Bruges produsse una grande spalliera per la Signoria negli anni cinquanta progettata da Vettore Ghiberti e Neri di Bicci50. Il ricamatore Coppino di Giovanni di Mechelen fu a capo dell’équipe che all’incirca tra il 1466 e il 1480 eseguì per il Battistero su disegno di Antonio Pollaiuolo il celebrato Parato di San Giovanni.51 Le attività artigiane fecero sì che i fiamminghi entrassero in diretto contatto con gli artisti fiorentini e con loro scambiassero informazioni pratiche, conoscenze, progetti; questi artigiani erano abili disegnatori e dovevano probabilmente lavorare sulla base di disegni che portavano con sé dalle Fiandre. I pittori fiamminghi documentati a Firenze (per esempio, nei registri delle Confraternita ‘tedesca’ di Santa Barbara che si riuniva presso la chiesa della SS. Annunziata) sono più difficilmente rintracciabili52. Questi pittori, apparentemente minori, trovavano probabilmente un mercato grazie alla loro specializzazione nell’utilizzo della tecnica ad olio (Giusto di Gand, secondo Vespasiano da Bisticci, fu chiamato ad Urbino da Federico da Montefeltro poiché quest’ultimo non riusciva a trovare “maestri a suo modo in Italia, che sapessino colorire in tavole ad olio”53): le conoscenze specialistiche di questi fiamminghi giocarono un ruolo importante, seppur poco conosciuto, nella diffusione della pittura ad olio a Firenze. Impiegati probabilmente come pittori a giornata nelle botteghe fiorentine, questi artisti dovevano aver trovato un mercato che apprezzava la capacità di raffigurare dettagli alla fiamminga che gli stessi pittori fiorentini inserivano sempre in maggior misura nei propri lavori, come ad esempio il tanto tipico edificio fiammingo che vediamo sullo sfondo della Madonna col Bambino, oggi a Torino, della bottega di Botticelli. Benché la divulgazione di tali motivi fosse dovuta soprattutto ai viaggi degli artisti del Nord in Italia, in un caso eccezionale, fu un fiorentino a viaggiare in direzione opposta. Benedetto Ghirlandaio, il fratello più giovane di Domenico, lavorò tra il 1486 e il 1493 presso la corte di Gilberto di Borgogna a Aigueperse, nella Francia centrale, dove dovette lavorare nella cerchia del maestro di Moulins, pittore di corte del cugino di Gilberto, il duca di Bourbon a Moulins, solitamente identificato con il pittore fiammingo Jean Hey54. Tornato a Firenze, Benedetto portò con sé la conoscenza diretta della tecnica ad olio che utilizzò nella pala d’altare in Santa Maria Novella (Monaco, Alte Pinakothek), cominciata da Domenico ma portata a termine dopo la sua morte dalla bottega55. Altrettanto significativa quanto i contatti diretti fu, per la diffusione delle conoscenze artistiche, l’influenza dovuta alla presenza a Firenze delle stesse opere d’arte. RISPOSTE ARTISTICHE Nel 1485 Domenico Ghirlandaio portò a termine la pala d’altare con l’Adorazione dei pastori per la cappella Sassetti in Santa Trinita (fig. 15, p. 73), largamente ispirato al Trittico Portinari, giunto a Firenze due anni prima56. Anche se il dipinto di Ghirlandaio rappresenta probabilmente la risposta più diretta e più conosciuta di un pittore fiorentino alla pittura fiamminga, analoghe affinità si ritrovano in numerosi lavori fiorentini della fine del XV secolo. Il San Girolamo de’ Medici di Van Eyck, per esempio, sembra essere stato utilizzato a modello per l’affresco di Ghirlandaio col San Girolamo nella chiesa di Ognissanti (cat. n. 2) che corrisponde strettamente alla descrizione della tavola di Van Eyck negli inventari medicei e alla tavoletta di Detroit. Il Ritratto virile di Memling della Collezione Lehman (cat. n. 34) fu imitato, nella composizione, dal Ritratto virile degli Uffizi (cat. n. 36), attribuito a Perugino stesso o a Raffaello, mentre una Madonna col Bambino oggi al Louvre (cat. n. 35), attribuita al giovane Ghirlandaio, riproduce fedelmente il dettaglio del paesaggio visto attraverso le colonne marmoree nello sfondo del ritratto Lehman. Elementi tratti dal Trittico Pagagnotti (cat. n. 25) appaiono nel paesaggio sullo sfondo della Madonna con Gesù Bambino e San Giovannino di Fra Bartolomeo oggi al Metropolitan Museum (cat. n. 26): dallo sportello con San Lorenzo sono ripresi, sulla sinistra, i campi, gli alberi e la torre, dal pannello centrale, sulla destra, il mulino ad acqua – uno dei motivi fiamminghi – questo – più ricorrenti nella pittura fiorentina, che appare in numerosi altri dipinti tra cui la Madonna col Bambino e un angelo del cosiddetto “Tommaso”, collaboratore di Lorenzo di Credi, al Getty Museum (cat. n. 27)57.
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fig. 6 - Domenico Veneziano, Pala dell’altare di Santa Lucia, 1445 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.
Che cosa stimolò questo fenomeno? In primo luogo, i pittori rispondevano probabilmente ad una moda. La pittura neerlandese dovette interessare gli artisti, così come i committenti, per la sua portata innovativa, e l’imitazione era il mezzo con cui dimostrare familiarità e rendere omaggio agli exempla alla moda. Ma tale imitazione era più che una semplice risposta alla moda; i dipinti fiamminghi dovevano intrigare i pittori anche a livello professionale offrendo, anche stilisticamente, novità tematiche e iconografiche, approcci alternativi e soluzioni a problemi tecnici e formali. I pittori fiorentini, formati in botteghe in cui si poneva particolare attenzione all’imitazione come parte del processo di studio, avrebbero accolto i dipinti fiamminghi come aggiunta al repertorio formale e agli strumenti di studio. I.
Un terreno comune Tra gli anni venti e gli anni trenta, quando i pittori, sia a nord che a sud delle Alpi, cominciarono a confrontarsi con il problema della rappresentazione del dato reale in maniera nuova, gli artisti fiorentini e fiamminghi dividevano già un comune terreno di ricerca. Nelle parole di Aby Warburg, pioniere, già più di un secolo fa, negli studi delle relazioni artistiche tra le due regioni, leggiamo che “i fiorentini si accorsero che i capolavori fiamminghi erano dei veri e propri alleati nella conquista del mondo pittorico”58. Le novità pittoriche che si diffusero a Firenze in queste decadi – la solidità realistica delle figure, la vivacità dei ritratti, l’uso delle ombre e della prospettiva aerea in Masaccio; il sofisticato illusionismo spaziale della Trinità di quest’ultimo e della pala di San Marco di Fra Angelico; i paesaggi e i naturalistici effetti di luce di Gentile da Fabriano nella pala Strozzi; gli effetti virtuosistici sperimentati dal giovane Filippo Lippi; il pathos devozionalmente espressivo di Fra Angelico – tutti questi elementi trovavano paralleli altrettanto sofisticati nel lavori di Van Eyck, Robert Campin e Rogier van der Weyden.
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Tra il 1430 e il 1450 i pittori fiorentini cominciarono a rispondere alla pittura fiamminga con una varietà di formule sperimentali. L’influenza fiamminga può, ad esempio, essere rintracciata nell’interesse sempre maggiore di Fra Angelico e Filippo Lippi per i rapporti di luce, toni e colore, e anche gli scritti dell’Alberti nel De Pictura a proposito di queste tematiche, suggeriscono una conoscenza della pittura neerlandese59. Parimenti ritroviamo tale influenza nel riutilizzo di motivi e composizioni direttamente dedotti da modelli fiamminghi, come il fiasco di vetro che compare nell’Annunciazione di Filippo Lippi per la chiesa di San Lorenzo o l’ambientazione dal sapore domestico nella sua Madonna di Tarquinia del 143760. Anche occasionalmente la pittura dei Paesi Bassi ispirò nuovi approcci tecnici, come nel caso della resa spettacolare degli abiti di San Zenobi nella pala di Santa Lucia di Domenico Veneziano, databile attorno al 1445, in cui, utilizzando la tempera, l’artista volle imitare i virtuosistici effetti della pittura ad olio fiamminga (fig. 6)61. Nonostante tutto, i dipinti fiamminghi erano probabilmente ancora una rarità in Italia; fu solo dopo il 1460, quando cominciarono a giungere nella penisola in numero sempre crescente, che la loro influenza iniziò a sortire un effetto davvero tangibile sulla pittura fiorentina. Quest’influenza è evidente in particolar modo in quegli ambiti sperimentali che i cronisti italiani scelsero di celebrare: colorito, paesaggio, ritrattistica e maniera devota. II.
Colorito e tecnica ad olio Il colorito fiammingo era associato dagli italiani alla tecnica ad olio che, come attestano gli scritti d’arte italiani, da Cennino Cennini fino a Vasari, esercitava sugli italiani un certo fascino. Seppure l’olio fosse stato impiegato a lungo anche dai pittori italiani, esso veniva utilizzato con scopi di diverso genere, ad esempio nella preparazione delle vernici o nell’applicazione del colore sulle foglie metalliche, e pare evidente, dal Libro dell’arte di Cennino del 1400 circa, che la pittura ad olio su tavola fosse una prerogativa essenzialmente “tedesca” – cioè “nordica”62. A metà del quattrocento Filarete, nel suo celebre trattato, forniva alcune informazioni riguardo la pittura ad olio che tuttavia furono male interpretate; egli stesso annotava, del resto, “il modo non so”63. Anche più tardi, Vasari introduceva il famoso mito del “segreto” della pittura ad olio “inventata” da Van Eyck64; e seppur da lungo tempo screditato (una forma di pittura ad olio, infatti, era già diffusa nel nord Europa fin dal medioevo), non sappiamo ancora in che modo e quando la sofisticata pittura ad olio fiamminga praticata da Van Eyck e dai suoi contemporanei dovette svilupparsi. L’olio possedeva diversi vantaggi rispetto alla tempera, tradizionalmente utilizzata nella pittura italiana; asciugava con più lentezza e le sue proprietà di trasparenza gli permettevano di amalgamarsi ancora umido e di essere steso a velature onde ottenere colori ricchi come gioielli e gradazioni tonali estremamente sfumate, qualità accordatele infatti dal Vasari: “Questa maniera di colorire accende più i colori né altro bisogna che diligenza et amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri”65. Oltre alla meticolosa indagine delle luci e delle ombre, la pittura ad olio facilitava la riproduzione realistica dei tessuti, ed in particolare dei metalli, che nelle Fiandre non venivano raffigurati con la foglia d’oro come accadeva in Italia, ma naturalisticamente, attraverso l’abile giustapposizione del giallo e del marrone per ottenere effetti di brillantezza. Questi effetti virtuosistici mostravano le abilità del pittore più che il valore materiale della pittura, un approccio ‘moderno’ e non ‘medievale’, già approvato negli scritti di Plinio e poi nel De Pictura dell’Alberti. In effetti il giudizio dell’Alberti a proposito dell’oro sembra riflettere la pratica fiamminga, nell’affermazione che ‘nei colori imitando i razzi dell’oro sta più ammirazione e lode all’artefice’, e nell’obiezione che l’uso dell’oro sia da considerare poco realistico66. Il punto di vista dell’Alberti sull’oro è efficacemente illustrato nel confronto tra la Madonna di Pisa di Masaccio del 1426 (Londra, National Gallery, fig. 7) e la Madonna Van der Paele di Van Eyck del 1436 (Bruges, Groeningemuseum, fig. 8). La tridimensionalità ottenuta con la luce e l’ombra in Masaccio è negata tuttavia dall’irrealistico effetto appiattito della foglia d’oro; nel dipinto di Van Eyck invece l’orlo dorato del vestito della Vergine e il tessuto alle sue spalle sono descritti in maniera naturalistica, non solo nell’intonazione tonale d’insieme, ma nella resa della loro tramatura. Alla stessa maniera, i limiti della tempera rispetto all’olio sono eloquentemente illustrati dal confronto tra il San Donato nella Madonna Van der Paele e il San Zenobio di Domenico Veneziano nella pala di Santa Lucia. Anche se si tratta di uno dei più antichi dipinti fiorentini che, ad emulazione dei metodi fiamminghi, fa a meno della foglia d’oro nella raffigurazione del broccato dorato, a causa delle limitazioni ottiche della tempera, Domenico non riuscì ad addolcire le ombre come nel blu intenso della veste di San Donato, o ad impiegare gli stessi intensi giochi di luce; se messi a confronto, i drappeggi di San Zenobio paiono, infatti, duri e piatti67. Una generazione più tardi i pittori fiorentini cominciarono ad adottare l’olio e, seppur non utilizzandolo secondo la tecnica fiamminga, erano ora in grado di emularne con più successo le
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tonalità profonde e gli effetti virtuosistici68. Un esempio lampante è la pala d’altare dei Pollaiolo per San Miniato del 1466, con i suoi timbri saturi e la stupefacente resa delle tramature del velluto, dei gioielli e della pelliccia (fig. 9). Vasari notò che il dipinto era stato eseguito ad olio, riconoscendo tacitamente lo stile “fiammingo”, e un recente restauro lo ha confermato. L’applicazione della pittura è, ad ogni modo, più libera e vivida rispetto alla convenzionale pratica fiamminga, accrescendo le possibilità dell’olio ben oltre quelle raggiunte nella pittura delle Fiandre69. L’uso della tecnica ad olio aumentò diffusamente attorno al 1500, ma fu sempre caratterizzata dalla varietà e dalla ricchezza di risorse: lo scopo non era necessariamente dipingere accuratamente secondo la maniera fiamminga, ma di sfruttare il potenziale del mezzo pittorico spingendolo verso nuove direzioni. Anche se alcuni pittori, come Perugino, adottarono una tecnica essenzialmente fiamminga, fatta di pennellate attente e ben amalgamate e con velature ad olio70, altri, come Botticelli, utilizzarono limitatamente le velature sulla tempera, oppure la tempera grassa (tempera ad olio con aggiunta di olio), per aggiungere lustro e saturazione ai dipinti71. Altri ancora, e in particolar modo Ghirlandaio, misero a punto metodi per imitare l’amalgamarsi delle pennellate e gli effetti virtuosistici della pittura neerlandese utilizzando la tempera a uovo e anche l’affresco72. Altri ancora, e soprattutto Leonardo, sfruttarono la trasparenza della pittura ad olio per far sì che le linee del modello monocromo trasparissero al di sotto della pellicola pittorica73, mentre Michelangelo, nel Tondo Doni, sperimentò la malleabilità dell’olio, mescolando i colori ancora umidi – cosa impossibile da fare con la tempera – per raggiungere un effetto di perfetta levigatura delle superfici, simile alla porcellana74. III.
Il paesaggio La padronanza della tecnica ad olio aprì il campo alla rappresentazione del dato naturale, non in ultimo alla rappresentazione del paesaggio che era entrato a far parte degli interessi degli artisti fiorentini fin dagli anni venti, quando Masaccio e Fra Angelico avevano cominciato ad includere vedute paesaggistiche negli affreschi e nelle pale d’altare. L’olio facilitava la resa della distanza atmosferica, come ricordato da Vasari nel confrontare lo stile “secco” dei paesaggi di Paolo Uccello con quelli dei suoi giorni, eseguiti ad olio e di conseguenza dotati di quella “morbidezza” e “unione” necessari per il raggiungimento dei migliori effetti atmosferici75. Vasari potrebbe aver notato che queste qualità erano già presenti nelle opere di artisti contemporanei vicini a Paolo Uccello, come i Pollaiolo, tra i primi pittori fiorentini a sperimentare la modulazione della pittura
fig. 7 - Masaccio, Madonna in trono (pannello centrale del polittico di Pisa), 1426. London, National Gallery fig. 8 - Jan van Eyck, Madonna Van der Paele, 1436. Bruges, Groeningemuseum
Pittura degli antichi Paesi Bassi a Firenze: commentatori, committenti e influsso
fig. 9 - Piero e Antonio del Pollaiolo, Pala dell’altare di San Miniato, 1466. Firenze, Galleria degli Uffizi
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ad olio per raffigurare il senso di distanza nelle vedute di paesaggio, imitando – anche se con più grande libertà di tocco – gli effetti atmosferici dei paesaggi di Van Eyck (fig. 10). L’olio facilitava inoltre la descrizione minuta dei dettagli all’interno del paesaggio, fonte di stupore negli scritti dei cronisti quattrocenteschi; nella descrizione dei dipinti di Van der Weyden e Van Eyck, Ciriaco si sofferma su “i prati verdeggianti, i fiori, gli alberi, i colli frondosi e ombrosi”, e Fazio sulle “piccole figurette umane, le montagne, i boschetti, i villaggi e i castelli ottenuti con tale abilità che credereste si trovino a cinquanta miglia di distanza l’uno dall’altro”76. L’interesse dei pittori fiorentini per la paesaggistica fiamminga fu particolarmente intenso negli anni sessanta e settanta, come testimonia l’utilizzo della cosiddetta composizione “ad altopiano” eyckiana, una formula paesaggistica che Millard Meiss ricondusse all’opera di Jan van Eyck77. Essa indicava un panorama visto da un punto di vista sopraelevato o un ‘altopiano’, come nella Madonna del cancelliere Rolin, punteggiato da strade tortuose e fiumi, figurette, costruzioni e alberi, fino a sfumare verso montagne sfocate – dettagli del genere di quelli che avevano susci-
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tato l’ammirazione di Fazio nel passo più sopra citato. I Pollaiolo e altri artisti della loro generazione – Baldovinetti, Verrocchio, il giovane Leonardo – se ne servirono illimitatamente per far risaltare le figure intere, come nel Martirio di San Sebastiano dei Pollaiolo, oppure come sfondo a Madonne a mezzo busto o a ritratti, o piuttosto come scorcio paesaggistico al di là di una finestra in un ambiente domestico. Anche se la formula compositiva era fiamminga, i moduli e la forma del paesaggio erano decisamente fiorentini; come spesso si è notato, ad esempio, nello sfondo del Martirio di San Sebastiano si riconosce una rievocazione della Valdarno. La generazione successiva, tuttavia, preferì i paesaggi di Memling, più recenti e alla moda rispetto a quelli di Jan Van Eyck. Il crescente fascino esercitato dai dettagli dei paesaggi fiamminghi – più che dalla loro struttura compositiva – è evidente nell’aumentare delle citazioni di motivi tratti da dipinti specifici, in particolare quelli di Memling, di cui si parlava sopra. La ‘citazione’ fu forse l’apripista per la massiccia infiltrazione di elementi fiamminghi nei paesaggi fiorentini degli anni ottanta e novanta del secolo. Pittori come Perugino, Ghirlandaio e Filippino Lippi scoprirono un nuovo vocabolario paesaggistico alla neerlandese, caratterizzato da costruzioni turrite immerse in un fogliame lussureggiante o stagliate contro cieli limpidi, da laghi punteggiati di cigni minuti, e dagli alberi a corona tonda tipici di Memling (cat. nn. 25, 34, 36). In effetti queste forme furono così assorbite nel vocabolario locale che è facile scordarne le origini: anche se trasformate nel più generico linguaggio del Cinquecento, le componenti del paesaggio dei Ritratti Doni di Raffaello (cat. n. 44), ad esempio, sono nella loro essenza fiamminghi. A partire dal 1500 i fiorentini, grazie ai modelli fiamminghi, avevano raggiunto tali “conquiste pittoriche” (per prendere in prestito la già citata frase di Warburg), e da questo momento in poi le novità nella pittura di paesaggio eserciteranno su di loro un fascino assai minore, con la sola eccezione di Piero di Cosimo, il quale nell’affrontare il tema del San Girolamo nel deserto in due studi agli Uffizi (cat. n. 54 e in un tondo del Museo Horne, dimostra di essere a conoscenza degli inconsueti, fantastici paesaggi di Joachim Patinir (cat. n. 55). Al passo con le scoperte delle Fiandre, della Germania e di Venezia, Piero fu il primo fiorentino a dipingere ciò che potremmo chiamare paesaggio in opposizione con quello che bisognerebbe meglio definire come “sfondo”78. Fu, tuttavia, l’unico artista che operò in questa maniera; agli occhi di altri fiorentini, come osservarono più tardi Michelangelo e Vasari, la paesaggistica rimase una prerogativa prettamente fiamminga. IV.
Ritratti La verosimiglianza dei ritratti è un tema ricorrente negli scritti italiani del XV secolo che si occupano dell’arte nordica. Vespasiano da Bisticci, nel descrivere il ritratto di Federico da Montefeltro di Giusto di Gand, afferma che “non gli mancava nulla se non lo spirito”, e espressioni analoghe sono usate da altri cronisti italiani79. Anche se questi topoi elogiativi, derivati dagli scritti sull’arte classica, sono convenzionali, dovevano esprimere un’ammirazione sincera, a giudicare non solo dal numero di ritratti commissionati dai visitatori italiani dei Paesi Bassi, ma anche da quanto i modelli fiamminghi influenzarono lo sviluppo della ritrattistica italiana nel corso dell’ultimo quarto del XV secolo. Il crescente successo della ritrattistica nel Rinascimento è spesso ricondotto al recupero dell’antichità classica, e al rinnovato interesse per monete e busti romani, tuttavia in Europa del nord esisteva già una lunga e consolidata tradizione che risaliva già alla ritrattistica reale francese del XIV secolo. A questa data precoce l’impostazione che gli artisti preferivano nel dipingere un ritratto era il profilo (ispirato probabilmente all’associazione con l’immaginario del regnante nelle monete) che in Italia seguitò ad essere impiegato ancora durante la seconda metà del Quattrocento.80 Nei Paesi Bassi, comunque, già dagli anni trenta, se non addirittura prima,81 il profilo fu presto sostituito dal più realistico taglio di tre quarti che suggeriva tridimensionalità e mostrava maggiormente i tratti fisiognomici dell’effigiato (e conseguenzialmente più elementi che interessavano il temperamento e l’espressione); l’incarnato, i capelli, e i vestiti potevano essere convincentemente descritti grazie all’utilizzo dell’olio; e le mani erano spesso incluse come se si trovassero appoggiate sulla cornice del dipinto, aumentando l’impressione della presenza fisica del modello. Non stupisce che questi dipinti apparissero agli occhi degli italiani di mancare ‘solamente del respiro’. Nel corso del secolo il ritrattisti fiamminghi cominciarono a impiegare ambientazioni naturalistiche come l’angolo di una stanza, o uno squarcio di paesaggio, come nei ritratti di Memling (cat. nn. 34, 37). Come era successo per la pittura di paesaggio fiorentina, trasformatasi a contatto con le novità degli esempi fiamminghi, così accadde anche per la ritrattistica. Seppur non tutti i ritrattisti si spinsero tanto in là quanto fece l’autore del Ritratto virile che si ispirò vistosamente al ritratto di Memling della collezione Lehman (cat. n. 34), a partire dagli anni settanta fino alla fine del secolo, divenne quasi obbligatorio fare riferimento ai modelli fiamminghi. La vista di tre quarti ricevette rapidamente consenso, le mani erano spesso incluse, appoggiate alla cornice al bordo
fig. 10 - Piero del Pollaiolo, Martirio di San Sebastiano. Londra, National Gallery
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e – non è difficile pensarlo, vista la predilezione dei fiorentini per la paesaggistica fiamminga – proliferarono sfondi con vedute di paesaggio alla Memling, come ad esempio nel Giovane uomo con medaglia di Botticelli agli Uffizi, la Ginevra de’ Benci di Leonardo a Washington, il Giuliano da Sangallo e Francesco Giamberti di Piero di Cosimo al Rijksmuseum, oppure il Francesco delle Opere di Perugino (cat. n. 39)82. Anche dopo il 1500 l’eredità della ritrattistica fiamminga è ancora ben evidente, basti guardare la Monna Lisa di Leonardo e i Ritratti Doni di Raffaello – in entrambi, gli effigiati si stagliano contro vedute distanti, sono visti di tre quarti con le teste stagliate contro il cielo – per capire come essi derivino da Memling, seppur resi in termini di più ampie proporzioni e pose più aggraziate tipiche del Cinquecento. V.
La maniera devota Alessandra Strozzi descrisse un dipinto raffigurante il Volto Santo inviatole da Bruges nel 1460 come “una divota figura e bella”, e Ciriaco di Ancona impiegò il termine “pientissimo” per descrivere la Deposizione di Ferrara di Van der Weyden83. Con ciò veniva riconosciuta una qualità che agli spettatori italiani appariva strettamente connessa alla pittura fiamminga: la cosiddetta “maniera devota”84. Come Vittoria Colonna osserva in un famoso passaggio tratto dai Dialoghi romani di Francisco de Hollanda del 1546 circa, “il dipingere di Fiandra …. mi sembra più devoto che il modo italiano”85. La “maniera devota” consisteva in uno stile semplice ed edificante pensato per suscitare nello spettatore una risposta empatica e spirituale – qualità considerate essenziali nel clima spirituale del XV secolo, che poneva un particolare accento sulle compartecipazione e compassione86. Sia a nord che a sud delle Alpi, il credente veniva incoraggiato a condividere, attraverso il diretto coinvolgimento delle immagini, l’esperienza in Cristo, nella Vergine e nei santi; immagini che ne mettevano in risalto l’umanità, come la gioia della Vergine quando nutre o gioca col piccolo Gesù (cat. nn. 45, 46) o l’angoscia durante il suo lutto (cat. nn. 50, 43). L’efficacia spirituale delle immagini, in particolare per quanto riguarda la sfera della devozione privata, era accresciuta dal realismo e dallo slancio patetico, atti a suscitare una risposta devozionale – come pare implicito dei commenti di Fazio a proposito delle espressioni multiformi e realistiche dell’afflizione nella perduta Passione di Cristo di Napoli di Rogier van der Weyden87. Nella pittura fiamminga, con la sua forza espressiva, la descrizione realistica di dettagli come il sangue e le lacrime, l’utilizzo dell’intimo, “drammatico primo piano” – che, come Sixten Ringbom osserva, enfatizza la vicinanza con lo spettatore –, il pubblico italiano trovava un ideale materiale devozionale88. Nel tardo Quattrocento a Firenze la maniera devota fiamminga era sempre più in linea con la difesa professata dal Savonarola delle immagini semplici, commoventi: “in chiesa non figure curiose, ma semplice e devote, senza alcuna vanità”89 – come ad esempio il Sudario portato dagli angeli del Maestro della Legenda di Sant’Orsola (cat. n. 29), posseduto dal savonaroliano Francesco del Pugliese90. Per quanto tali immagini avessero senza dubbio successo all’interno della cerchia savonaroliana, la decisione di Alessandra Strozzi di non vendere, ma tenere per sé, il suo Volto Santo fiammingo perché lo trovava pittura “devota e bella”, ci ricorda che questi dipinti erano apprezzati per le loro qualità ancor prima dei tempi del Savonarola. L’influenza di queste immagini è evidente nel proliferare di dipinti devozionali realistici e espressivi, “alla fiamminga”, prodotti a Firenze sul finire del Quattrocento. Uno degli esempi più lampanti è il Cristo dolente in atto di benedire di Philadelphia (cat. n. 51), attribuito a Ghirlandaio da Everett Fahy, che riproduce il Cristo dolente in atto di benedire di Memling in Palazzo Bianco a Genova (cat. n. 49) con tale fedeltà da essere stato a lungo attribuito allo stesso Memling91. Il dipinto di Memling era originariamente la metà di un dittico, in coppia con una Mater Dolorosa che pare fosse divenuta molto popolare a Firenze, dove dovette apparire come vera e propria novità iconografica e dove fu molto imitata92. Una versione della Mater Dolorosa oggi agli Uffizi (cat. n. 50), dipinta ad olio e da una mano diversa da quella del pannello di Philadelphia, pare essere la metà sopravvissuta di un’altra copia del dittico. Un altro Cristo benedicente di Fra Bartolomeo, oggi in collezione privata (cat. n. 52), ricorda parecchio Memling, nella posa e nel drammatico primo piano, nella tipologia del volto allungato, nella forma delle mani e nel trattamento dei dettagli del paesaggio, anch’esso probabilmente ispirato ad un perduto originale dell’artista. La moda per le immagini devozionali “alla fiamminga” può aver facilitato il ritorno di moda dei trittichetti o dei tabernacoli – tipici della pittura italiana del XIV secolo ma più comuni nel XV secolo nei Paesi Bassi –, in particolare modo a seguito delle ammonizioni del Savonarola contro lo svilimento delle immagini sacre, divenute eccessivamente confidenziali93. Dovette sembrare appropriato a Francesco del Pugliese trasformare il suo dipinto fiammingo con il Sudario, di per sé un’immagine già altamente “devota”, in un trittichetto “alla fiamminga” con l’aggiunta di due sportelli realizzati da Filippino Lippi. Anche il piccolo Trittico Poldi Pezzoli di mano dell’Albertinelli (cat. n. 32) e le ante di Fra Bartolomeo conservate agli Uffizi (cat. n. 33), anch’ esse originariamente parte di un piccolo trittico di devozione privata eseguito meticolosamente ad olio quasi
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fosse un gioiello, ricche di dettagli paesaggistici e di costume alla fiamminga, e con raffigurazioni a grisaille sul verso, dovevano essere stati pensati per competere con esempi quali il piccolo trittico dell’ abate Christiaan d’Hondt eseguito dal Maestro di Bruges del 149994. ATTEGGIAMENTI CHE CAMBIANO L’osservazione di Vittoria Colonna a proposito del carattere devoto della pittura fiamminga, riportata nei Dialoghi romani di Francisco de Hollanda, in una delle conversazioni vere o presunte tra Vittoria e Michelangelo, fa da preludio a un famoso brano di invettiva citato spesso a proposito della ricezione della pittura dei Paesi Bassi nel panorama del Rinascimento italiano, nel quale Michelangelo osserva che: “La pittura fiamminga … generalmente soddisferà un devoto qualunque più che la pittura italiana; questa non gli farà versare una lagrima, mentre quella di Fiandra glie ne farà versare molte, e ciò non per vigore e bontà di quella pittura, ma per la bontà di quel tal devoto. Essa piacerà assai alle donne, principalmente quelle molto vecchie, e a quelle molto giovani, e così pure ai frati, alle monache, e a qualche gentiluomo privo del senso musicale della vera armonia. Si dipingono in Fiandra, propriamente per ingannare la vista esteriore, delle cose gradevoli, o delle cose, di cui non si possa parlar male, come santi e profeti. Questa pittura si compone di drappi, di casupole, di verdure campestri, di ombre d’alberi di ponti e ruscelli, ed essi chiamano ciò paesaggio con qualche figurina qua e là. E tutto questo, che passa per buono per certi occhi, è in realtà senza ragione né arte, senza simetria né proporzione, senza discernimento né scelta, né disegno, in una parola senza sostanza e senza nerbo”95. Le precise caratteristiche della pittura neerlandese, così disprezzate da Michelangelo, sono le stesse che nel secolo precedente attiravano le lodi dei cronisti e che abbiamo visto riflesse nelle risposte dei pittori: fedeltà al dato naturale e abilità di ‘ingannare l’occhio’, resa virtuosistica dei tessuti, rappresentazione dei paesaggi attraverso un’attenta descrizione dei dettagli, affettività devota. Poco importa che Michelangelo abbia davvero pronunciato queste parole, tuttavia esse dovevano riflettere l’atteggiamento dell’élite intellettuale dell’Italia alla metà del XVI secolo come del resto confermerebbe la marginalizzazione della pittura fiamminga nelle Vite vasariane. Col progredire delle mode, la pittura fiamminga quattrocentesca perse inevitabilmente parte del suo fascino, semplicemente per il fatto che aveva cessato di essere una novità. Inoltre, la nozione di “vigore e bontà” in pittura era ormai cambiata. Avendo superato quei problemi di rappresentazione che la pittura fiamminga aveva aiutato a risolvere, gli artisti erano passati ad interessarsi ad altri problemi. Cambiati i gusti, del resto, significava che la pittura del XV secolo, italiana e fiamminga, appariva ora fuori moda e l’accresciuta familiarità con il mondo antico rendeva difficile vedere un qualsiasi pittore fiammingo nelle vesti di nuovo Apelle. Nella cerchia di Michelangelo e di Vasari cominciava ad affermarsi la superiorità del disegno sul “colorito”: non sorprende pertanto che un genere di pittura che si basava principalmente su quest’ultimo al fine di “ingannare la vista esteriore”, fosse considerata ‘senza ragione né arte … senza sostanza e senza nerbo”. Ciononostante, anche se non era più di moda attingere più o meno direttamente alla maniera fiamminga, come avevano fatto i pittori del Quattrocento, gli artisti continuarono a ispirarsi alle fonti nordiche, in special modo attraverso il nuovo mezzo delle stampe. Fin dalla seconda metà del XV secolo le xilografie e le incisioni del nord Europa avevano messo a disposizione vasti repertori di nuovi motivi iconografici. Il giovane Michelangelo eseguì una copia dipinta dell’incisione di Martin Schongauer raffigurante la Tentazione di Sant’Antonio, mentre nella bottega di Ghirlandaio, dove le stampe nordiche erano utilizzate come strumenti di lavoro, lo stesso Ghirlandaio le utilizzò diffusamente come fonti d’ispirazione per le sue composizioni.96 Mezzo secolo più tardi Andrea del Sarto fece la stessa cosa, riutilizzando numerosi motivi tratti dalle incisioni di Schongauer, di Dürer e di Luca di Leida nell’elaborazione delle scene della Vita di Giuseppe per la Camera Borgherini (cat. n. 56). Per tutto il corso del XV secolo gli artisti del Nord rimasero sostanzialmente indifferenti al linguaggio figurativo italiano, tuttavia all’inizio del XVI secolo anche l’atteggiamento dei Paesi Bassi cominciò a cambiare. Nel 1506 un commerciante fiammingo di stanza a Firenze, Alexander Moscheron, acquistò una Madonna con Bambino di Michelangelo per la cappella privata nella chiesa di Nostra Signora a Bruges, che dovette certamente apparire un pezzo esotico e assai notevole ai primi spettatori, come del resto doveva esserlo stato il Trittico Portinari al suo arrivo a Firenze una generazione prima. Dürer e di Luca di Leida realizzarono stampe da cui gli artisti fiorentini presero spunto, ma gli stessi Dürer e Luca di Leida subivano l’influenza dei colleghi italiani così dell’antichità. Da ora in poi, l’italiano del Cinquecento divenne la lingua franca europea. Era comunque un linguaggio figurativo la cui evoluzione era stata plasmata dal contatto, e non in piccola misura, con i Paesi Bassi.
Pittura degli antichi Paesi Bassi a Firenze: commentatori, committenti e influsso
VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885. L’impatto della pittura fiamminga sulla Firenze del XV secolo è discussa in NUTTALL 2004; il presente saggio fa riferimento agli stessi problemi, anche se in maniera più superficiale. Si veda anche ROHLMANN 1994; CHRISTIANSEN 1998. 3 VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, I, p. 184; II, pp. 563-570. 4 BAXANDALL 1964, pp. 102-106. 5 A. di Lorenzo in, MILANO 1991, II, p. 326; FILARETE 1461-1464 ca, ed. 1972, I, pp. 265-266; SANTI, ed. Michelini Tocci 1985, II, pp. 673-675; SULZBERGER 1950, p. 117. 6 Per un approfondimento sull’influenza della cultura della Borgogna in Europa si veda BELOZERSKAYA 2002. 7 A. di Lorenzo in, MILANO 1991, II, p. 327. 8 MIGLIO 1975, p. 141, n. 31. 9 BAXANDALL 1964, 101-2, 104-6; R. WEISS, Jan van Eyck and the Italians, in Italian Studies, XI, 1956, pp. 1-15; NICOLINI 1925, pp. 163, 233-236.; MILANO 1991, II, pp. 294-295; NUTTALL 2000, pp. 169-170. 10 BISTICCI 1951, p. 209; MALAGUZZI VALERI 1902, pp. 126-127; SYSON 1996, pp. 300-308. 11 Sullo scrittoio de’ Medici si veda L. Syson in, LONDRA 2006, pp. 288-293. 12 SPALLANZANI 1996, p. 120. Sulla datazione dell’inventario di Piero si veda AMES LEWIS 1984, pp. 19-21. 13 SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 52. 14 PANOFSKY 1953, I, pp. 189-190; ID. 1954; HALL 1968; ID. 1971. 15 SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 12. 16 Ibid., p. 52. 17 HILLS 1980, p. 615; BROWN 1998, p. 111. 18 VASARI 1568, ed. 1878-85, I, pp. 184-185; GUICCIARDINI 1567, p. 128. 19 SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 133. 20 JAHNIG 1918, p. 171; PANOFSKY 1953, I, pp. 273-274; ROHLMANN 1994, pp. 32-35. 21 ROHLMANN 1994, pp. 37-39. 22 WOLFTHAL 1989; REYNOLDS 2000, pp. 89-98; NUTTALL 2000; ID. 2004, pp. 119-120, 129, 187-189. 23 NUTTALL 2004, pp. 106, 110-113, 114. 24 SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, pp. 117, 146, 113, 138, 134, 140, 71. Si veda NUTTALL 2004, Appendice 1, pp. 254-257 per tutti i riferimenti a proposito del panni dipinti fiamminghi posseduti dalla famiglia Medici. 25 GINORI CONTI, 1937, p. 130. 26 GUASTI 1877, pp. 224, 230-231, 246. 27 NUTTALL 2004, p. 122; e Appendice 2, pp. 258-60 a proposito di altri panni dipinti a Firenze negli inventari patrizi. 28 NUTTALL 2004, p. 129, Appendice 3.52, p. 263. 29 ROHLMANN 1995, pp. 438-445. 30 ROHLMANN 1994 pp. 69-71; ID. 1995, pp. 440-441. 31 VERMEERSCH 1992; VANDEWALLE 2002; MURRAY 2005. 32 WALSH 2005, p. 128. 33 A proposito del Banco dei Medici a Bruges e sulla carriera del Portinari si veda GRUNZWEIG 1931; DE ROOVER 1963, pp. 317-357; WALSH 2005, pp. 120153. 1 2
WALSH 2005, p. 126. KOSTER 2003, pp. 164-165; WALSH 2005 pp. 127-136. 36 DE ROOVER 1963, p. 340; DEVLIEGHER 1975, pp. 237242; NUTTALL 2004, p. 48. 37 STROHM 1990, pp. 57, 70-73, 235, n. 61; MARTENS 1992, pp. 262-263, 535; NUTTALL, 2004, p. 47. 38 DE VOS 1994a, pp. 100-101. 39 NUTTALL 2004, p. 64. 40 BRUGES 1994 pp. 105-109; WALDMAN 2001, pp. 28-29. 41 SPEARS GRAYSON 1976, pp. 350-357; NUTTALL 2004, p. 53. 42 BORCHERT 2005 pp. 43-46. 43 NUTTALL 2005, pp. 74-75. 44 BRUGES 1994, pp. 284-286, ; ROHLMANN 1994, pp. 87-88. 45 WARBURG 1999, p. 294. 46 NUTTALL 2004, p. 79. 47 SALE 1979, pp. 13, 57-8, n. 27, 515; ROHLMANN 1994, p. 112. 48 DOREN 1903; LAURENT 1935; COHN 1980. 49 Discusso più approfonditamente in NUTTALL 2004, pp. 93-102. 50 CONTI 1875, pp. 95-96. 51 SCHWABACHER 1911, pp. 12-29; BECHERUCCI-BRUNETTI 1971, II, pp. 259-266. 52 BATTISTINI 1931; NUTTALL 1985, pp. 367-371. 53 BISTICCI 1951, p. 209. 54 G. FRANCOVICH 1925-1926, pp. 108-139; L. Venturini, I Ghirlandaio in, FIRENZE 1992a, pp. 110-111; L. Venturini, Riflessioni sulla pala ghirlandaiesca di Rimini in, PRINZ-SEIDEL 1996, pp. 162, 164, n. 34; CADOGAN 2000, pp. 14-16, 18, 20; NUTTALL 2004, pp. 98-9. 55 LONDRA 1994, pp. 111-112 56 Si veda saggio di M. Rohlmann in catalogo, pp. 66-83. 57 Per ulteriori citazione tratte dal Trittico Pagagnotti si veda ROHLMANN 1993a, pp. 244-245; inoltre, il mulino appare nell’L’intercessione di Cristo e la Vergine di Filippino Lippi (Monaco, Alte Pinakothek, inv. n. 1074). 58 GOMBRICH 19862, p. 166. 59 Sulla possibilità che l’Alberti avesse viaggiato nelle fiandre si veda MANCINI 19112, pp. 85-86; GOMBRICH 1976, p. 30; DHANENS 1989a, pp. 35-39. 60 R. OERTEL, Fra Filippo Lippi, Wien 1942, p. 16; MEISS 1956, pp. 24-25; AMES LEWIS 1979b, pp. 255-273. 61 NUTTALL 2004, p. 165. 62 CENNINI 1933 (repr. New York 1960, p. 57). Per un regesto di fonti documentarie di rilievo si veda AMES LEWIS 2007. 63 FILERETE , ed. Finoli-Grassi 1972, II, p. 669. 64 VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, II, pp. 566-567. 65 Idib., I, p. 185. 66 ALBERTI, ed. 1960, III, p. 88; NUTTALL 2004, pp. 35, 164, a proposito di ulteriori discussioni sull’Alberti e la pittura fiamminga. 67 Non condivido l’opinione di GOMBRICH 1976, pp. 2021, che questi contrasti siano dovuti in minor misura a differenze tecniche piuttosto che a ad “approcci diversi ai fenomeni visivi”, laddove Domenico parrebbe più interessato alla solidità delle forme e Van Eyck alla trama delle superfici; dal mio punto di vista entrambe suscitano lo stesso interesse nei due pittori. 34
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Per un resoconto eccellente sull’adozione della pittura ad olio in Italia si veda DUNKERTON et al. 1991, pp. 197-204. Le risposte dei pittori fiorentini sono discusse più diffusamente in NUTTALL 2004, pp. 162191. 69 NUTTALL 1993; CECCHI 1999, pp. 81-88; WRIGHT 2005, pp. 204-206. 70 BOMFORD-BROUGH 1980, pp. 3-31. 71 BELLUCI et al. 1990, p. 97. 72 LONDRA 1994, pp. 96-7, 100-101; DUNKERTON-ROY 1996, pp. 29-30; DUNKERTON 1997, pp. 29-34; NUTTALL 2004, pp. 178-185. 73 DUNKERTON et al. 1991, p. 203; BELLUCI et al., 1990, p. 89. 74 LONDRA 1994, p. 111. 75 VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, III, p. 66; A Cole, The Perception of beauty in landscape in the quattrocento in, AMES LEWIS-ROGERS 2000, pp. 34-35. 76 MILANO 1991, II, p. 327; BAXANDALL 1964, p. 102. 77 MEISS 1961, pp. 273-314. 78 Per un resoconto generale sulla scoperta del paesaggio si veda GOMBRICH 1966, pp. 107-121; TURNER 1966; CLARK 19762. 79 BISTICCI 1951, p. 209. Si veda anche BAXANDALL 1964, pp. 102-103; FILARETE , ed. Finoli-Grassi 1972, I, p. 265. 80 Su questo argomento si veda CAMPBELL 1990, p. 81. 81 Il Ritratto di uomo di Jan van Eyck, (Londra, National Gallery, inv. n. 290) datato 1432 è il più antico esempio databile. 82 NUTTALL 2004, pp. 214-229; ID. 2005, pp. 75-83; LANE 1999, pp. 243-250; ID. 2007, pp. 180-184. 83 GUASTI 1877, p. 231; MILANO 1991, II, p. 326. 84 NUTTALL 1992; ID. 2004, pp. 39-40, 231-246. 85 BESSONE AURELI 1926, p. 63. 86 BAXANDALL 1972 pp. 148-150; RINGBOM 1984; AMSTERDAM 1990, pp. 52-57; LONDRA 2000, pp. 105-7, 112, 118, 133-135. 87 BAXANDALL 1964, pp. 104-107. 88 RINGBOM 1984; NUTTALL 1992. 89 GINORI CONTI 1937, p. 51. Per i giudizi di Savonarola sulle immagini si veda BURKE 2004, pp. 167-187, in particolar modo p. 174 per l’ipotesi che la pittura fiamminga abbia avuto un influsso particolare sui suoi seguaci. 90 HATFIELD STRENS 1977; BURKE 2004, pp. 175, 177-181. 91 FAHY 2007. 92 FAHY 2007; a proposito dell’identificazione del dittico di Memling si veda GALASSI 1997; a proposito di altre versioni del dittico si veda BUIJSEN 1996, p. 67, n. 4. 93 BURKE 2004, pp. 175-176. 94 Sul dittico di Hondt si veda WASHINGTON 2006, pp. 140-145. 95 BESSONE AURELI 1926, p. 63. 96 La storia della copia dipinta di Michelangelo dell’incisione di Schongauer è citata sia da Condivi che da Vasari; CONDIVI, ed. 1998, p. 10; VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, VII, pp. 140-141. Sull’utilizzazione delle stampe nella bottega di Ghirlandaio si veda AMES LEWIS 1989, pp. 117-120; NUTTALL 1996, p. 16. 68
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Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes Bernhard Ridderbos
per Henk van Os Nell’antica pittura dei Paesi Bassi il trittico con il Giudizio Universale (figg. 6, 7) di Hans Memling ed il Trittico Portinari (figg. 11, 12) di Hugo van der Goes occupano un posto particolare in quanto opere grandissime realizzate per mercanti originari di Firenze. La commissione di queste due pale d’altare illustra per antonomasia il prestigio internazionale di questa pittura nonché il ruolo significativo che la clientela fiorentina rivestiva per i maestri Fiamminghi. Non ci sono inoltre altri dipinti neerlandesi del XV secolo che mettano a confronto in maniera così diretta le motivazioni personali di committenti ed artisti. Le genesi di ambedue le opere sono indissolubilmente legate tra loro, determinate da un lato dalla rivalità tra i mercanti Angelo Tani e Tommaso Portinari e dall’altro dalle aspirazioni di Hans Memling e Hugo van der Goes a non essere inferiori ai loro famosi predecessori, Rogier van der Weyden e Hubert e Jan van Eyck. Per poter intendere il trittico con il Giudizio Universale e il Trittico Portinari come espressione di ambizioni e intenzioni, è necessario esaminare la carriera dei committenti e dei pittori. Ma soprattutto, queste impressionanti creazioni devono essere messe in relazione con le opere di Van der Weyden, dei Van Eyck e di altri maestri precedenti, perché solo così appaiono chiari gli intenti che Memling e Van der Goes si erano prefissati. Essendo il Giudizio Universale nato prima del Trittico Portinari, sarà il primo nell’ordine ad essere trattato, cominciando con la storia di Angelo Tani. Di lui, peraltro, non è possibile parlare senza introdurre anche Tommaso Portinari. ANGELO TANI E TOMMASO PORTINARI Quando a Bruges Angelo Tani ordinò ad Hans Memling il trittico con il Giudizio Universale era ormai giunto alla fine della sua carriera. La commissione per un maestro di questa città in cui Tani aveva lavorato per tanti anni segnò quella fine. La pala d’altare era destinata alla madrepatria dove egli intanto era ritornato per trascorrere la sua vecchiaia. Per tutta la sua operosa vita Tani, che nacque nel 1415, fu a servizio dei Medici, seguendo le orme del padre, Jacopo, il quale, all’inizio del XV secolo, era legato alla filiale del Banco dei Medici a Roma1. La carriera di Angelo lo portò tuttavia verso altre città: intorno al 1440 lavorò presso la filiale di Venezia e poco dopo divenne agente presso la sezione londinese della appena fondata filiale di Bruges. Nel 1446 l’ufficio di Londra ebbe un direttore proprio; Angelo, che era l’agente più anziano, aveva pensato di essere il candidato adatto, ma fu scartato. Tuttavia, cinque anni più tardi ricevette ancora un compito importante quando le filiali di Bruges e Londra vennero infatti sganciate l’una dall’altra ed egli divenne direttore della sezione di Bruges di cui era anche socio. Prima della nomina di Tani la filiale fiamminga aveva conosciuto anni difficili, con il risultato che il direttore, Bernardo Portinari, era stato rimosso dai suoi incarichi e l’amministrazione posta sotto la supervisione della filiale londinese. Ciò non eliminava il fatto che quella di Bruges fosse la più importante tra le due filiali, data la posizione economica della città che, come città mercantile, superava la metropoli inglese. Collaboratore di Angelo a Bruges fu Tommaso Portinari, il quale, nato nel 1428, già in giovane età era stato mandato in quella città dove, a partire dagli anni quaranta, fu impiegato presso il cu-
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fig. 1 - Fiesole, Badia, interno
gino Bernardo2. Tommaso conosceva perfettamente la realtà del luogo quando entrò in servizio Tani, e questo non avrebbe aiutato il rapporto tra loro, considerando che il nuovo arrivato era il capo. Inoltre Tommaso proveniva da una vecchia ed illustre famiglia fiorentina della quale non solo suo cugino Bernardo ma anche altri componenti, come suo padre Folco ed i suoi fratelli maggiori Pigello e Accerito, occuparono o avevano occupato posizioni di responsabilità nella ditta dei Medici. Tra la fine del 1453 e l’inizio del 1454 Tani si ammalò gravemente tanto da temere per la sua vita, ma infine guarì e fece un viaggio in Italia. L’anno successivo il suo mandato fu rinnovato per quattro anni; il contratto che fu allora stipulato, conservato tuttora, evidenzia come i Medici tenessero a freno i loro amministratori per ridurre il più possibile i rischi legati al commercio, che consisteva non solo in operazioni bancarie, ma riguardava anche lo scambio di merci, in particolare la lana inglese e diversi tessuti. Accanto alle regole su come Tani dovesse portare avanti gli affari, nel contratto veniva anche specificato che egli non poteva giocare né a dadi né a carte e che non poteva, previo permesso, uscire da Bruges se non per motivi legati al lavoro3. A dispetto di queste direttive Tani, alcuni anni dopo, provocò lo scontento di Cosimo de’ Medici a causa di accordi che egli fece con dei prestasoldi falliti. Sappiamo di questi affari tramite una lettera che Tommaso Portinari spedì a Cosimo all’insaputa di Tani4. In essa egli afferma con chiarezza che Angelo “è rimasto tutto abattuto” dalla reazione di Cosimo. Allo stesso tempo Tommaso si lamenta del fatto che Tani nella questione abbia assegnato a lui un ruolo negativo “di che à torto perché, considerando bene, io non v’o avisato e chonfortato d’altro che della verità e suo bene”, per poi aggiungere tutto d’un fiato “e’ piacemi assai che voi n’abiate scriptto nel modo avete”. Con questo atteggiamento di superiorità nei confronti del suo capo, egli rassicura Cosimo che d’ora in avanti Tani si sarebbe comportato bene. L’incidente non ha ulteriori sviluppi e alla scadenza del contratto Tani viene di nuovo confermato nella sua posizione. Un paio di anni più tardi i Medici affidano anche un altro incarico ad Angelo e Tommaso, ovvero assicurarsi nelle Fiandre il monopolio del commercio dell’allume proveniente dallo stato pontificio. In questo periodo aumentano i dissidi tra i due mercanti, come traspare da una lettera che Tommaso scrive ai fratelli a Milano nella fine dell’aprile 14645. Angelo aveva lasciato Bruges un paio di giorni prima per recarsi a Firenze; Tommaso aveva creduto che il contratto di Tani, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, non sarebbe stato rinnovato, ma aveva appreso che Cosimo, considerando l’importanza del commercio dell’allume, era intenzionato a far tornare Tani a Bruges. Per Portinari questo era veramente troppo: “se voi intendete che Angnolo ci ritorni, voglio ne domandiate licienza loro perché sarebe tanto possibile che io ci fussi 6 mesi in questa forma quanto di farmi volare”, e , assicurando ai fratelli che i motivi finanziari non c’entrano, aggiunge “non chonbatto danari ma solo honore e, se dovessi andare tapinamente, piutosto lo disidero che di starci sotto lui chon tutto l’oro potessi ghuadagnare”. Egli se la prende con i Medici di non avere sufficiente fiducia in lui e di attribuire i suoi sforzi, come quelli per il commercio dell’allume, al merito di Angelo, quando in realtà a lui si dovevano i contatti commerciali. Gli altri, secondo Tommaso, vorrebbero lavorare soltanto con lui, mentre si augurerebbero invece la partenza di Angelo. Questa è, a suo dire, l’opinione di tutti coloro che trattano con Angelo e Tommaso: “che sse le pietre sapessino parlare lo farebono”. Funzionari del duca di Borgogna gli avevano chiesto quando finalmente avrebbe avuto la precedenza su “questo Turcho”, cosicché si potessero aprire nuove strade al fine di guadagnare soldi assieme. Le lamentele di Tommaso sfociano infine nella richiesta avanzata al fratello Pigello di presentare a Firenze a suo nome le proprie dimissioni, ma chiarendo nel contempo che egli sarebbe stato disposto a rimanere, a condizione di non avere nessun superiore. La richiesta di Tommaso Portinari a suo fratello era frutto della convinzione che fosse meglio comunicare tali considerazioni oralmente, ma Pigello ritenne che la lettera fosse sufficientemente eloquente e la inoltrò a Firenze anziché recarvisi di persona. La reazione di Cosimo, che morì alcuni mesi dopo, non è nota. Piero de’ Medici tuttavia, dopo la morte del padre, si rivela disposto ad accontentare Tommaso. Nell’estate del 1465 Tani viene ufficialmente sostituito da Portinari
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quale direttore della filiale. Angelo rimane socio, assieme a Piero e Tommaso; sebbene egli investa più capitale di Tommaso, questi riceve il diritto ad un maggior guadagno. ANGELO TANI QUALE COMMITTENTE DEL GIUDIZIO UNIVERSALE DI HANS MEMLING Il cambio della guardia fu messo in atto senza la presenza di Angelo Tani, che non era ritornato a Bruges, proprio come aveva sperato Tommaso Portinari. Sebbene non si conoscano commenti di Angelo riguardo alle insinuazioni di Tommaso e il successo che questi ne seppe trarre, egli sicuramente si doleva per essere stato diffamato in tal modo nonché privato del proprio incarico. A prescindere da ciò, la prospettiva di una nuova, più tranquilla, fase della vita nella madrepatria non necessariamente doveva riuscirgli sgradita. Ora che i suoi impegni per i Medici volgevano al termine, cominciavano per Tani i giorni della vecchiaia e questo era anche il momento per mettere su famiglia. Non era affatto inusuale per gli uomini fiorentini sposarsi solo in tarda età con una donna molto più giovane e così fece anche Angelo che nel 1466 sposò Caterina Tanagli, nata nel 1446 e quindi di trent’anni più giovane. Oltre che dal ritratto che Memling ne fece nel trittico con il Giudizio Universale, si può conoscere la giovane moglie di Tani anche da una descrizione fornita da Alessandra Strozzi, la quale, l’anno prima delle nozze di Caterina con Angelo, una domenica mattina durante la prima messa nel Duomo, fu colpita dall’apparizione della fanciulla, senza sapere inizialmente chi ella fosse. La Strozzi vede in Caterina una sposa adatta per il figlio Filippo, in esilio fuori Firenze, al quale scrive in una lettera come l’aspetto di questa ragazza l’avesse colpita: “E non sappiendo chi ella si fussi, mi gli posi allato, e posi mente a questa fanciulla; che mi parve ch’ell’avesse una bella persona e ben fatta […]; buone carni, none di queste bianche: ma ell’è di buon essere; ha il viso lungo, e non ha molto dilicate fattezze, ma no l’ha rustiche: e mi parve nell’andare suo e nella vista sua, ch’ella non è addormentata; tanto è, che mi pare che, piacendoci l’altre parti, ch’ella non è da sconciare mercato; che sarà orrevole”6. Il fatto che un uomo come Tani riuscisse ad avere un così onorevole partito testimonia la buona reputazione di cui egli godeva. Che Angelo non avesse perduto il suo status di prominente dipendente del Banco dei Medici è comprovato anche da un altro fattore, come di recente hanno dimostrato Paula Nuttall e Michael Rohlmann. A Tani erano stati assegnati, di fatto, i diritti di patronato di una delle cappelle nella Badia di Fiesole, una chiesa la cui ristrutturazione era stata finanziata da Cosimo e Piero de’ Medici (fig.1)7. Proprio nel periodo in cui Angelo e Caterina si unirono in matrimonio, venivano terminate le cappelle laterali e designati coloro che potevano diventarne i patrocinatori. Tra di loro vi era Lucrezia Tornabuoni, la moglie di Piero de’ Medici, e un certo numero di rappresentanti del Banco dei Medici, come Francesco Sassetti, direttore dell’ufficio di Firenze, Pigello Portinari, direttore della filiale di Milano, e la famiglia Martelli, della quale due membri, Roberto ed Alessandro Martelli, direttori delle filiali di Roma e Venezia, erano morti da poco. In seguito anche Francesco Nori, direttore della filiale di Lione, avrebbe ottenuto il patronato di una cappella. Data questa rappresentanza delle filiali dei Medici, Angelo Tani dovette essere scelto alla luce dei suoi legami con la sede di Bruges. Il fatto che proprio lui, e non Tommaso Portinari, fosse accolto in tale maniera nella cerchia dei Medici e dei loro maggiori collaboratori può essere interpretato come una compensazione per il modo in cui egli, a causa delle macchinazioni di Tommaso, fu messo da parte. Già solo per questo la cappella avrà rivestito per Angelo un grande significato, tanto più che egli, a differenza degli altri patrocinatori della Badia, non possedeva una cappella di famiglia in nessun’altra chiesa. La cappella – la prima a destra entrando dall’entrata principale – fu dedicata al suo santo onomastico: San Michele. Una volta appreso che Tani dispose di questa cappella, non vi è più alcun dubbio sulla destinazione del Giudizio Universale di Memling, che riserva una posizione centrale a San Michele. Naturalmente Angelo con questo imponente dipinto sperò di dare alla sua cappella un aspetto il più prestigioso possibile così da enfatizzare l’onore che gli era capitato. Per spiegare il motivo di tanto onore, ovvero l’aver diretto per anni la filiale dei Medici a Bruges, non vi era niente di meglio che un’opera d’arte realizzata in questa città. Una pala d’altare fiamminga raffinatamente dipinta poteva del resto destare particolare impressione. Sul modo in cui è stato commissionato a Memling il Giudizio Universale non si sa nulla. All’inizio del XX secolo lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg identificò gli stemmi rappresentati accanto alle figure effigiate sull’esterno del trittico, appurando così che i committenti dell’opera erano Angelo Tani e Caterina Tanagli8. Sebbene il trittico non sia né datato né firmato, motivi stilistici e ricerche tecniche hanno permesso un’attribuzione, generalmente accettata, a Memling9. Poiché intorno al 1466 Tani ottenne il diritto di patronato della cappella e nel 1473 il dipinto fu pronto per esser spedito in Italia, esso deve essere stato ultimato in quel periodo10. Sappiamo inoltre che Angelo, nel 1469, si trovava nuovamente nelle Fiandre: in quell’occasione può aver contattato personalmente Memling. Per richiesta di Piero de’ Medici, infatti, nel 1467 si era
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
fig. 2 - Rogier van der Weyden, Polittico col Giudizio Universale, esterno (inclusa cornice ca cm 220/137,5 x 273). Beaune, Musée de l’Hôtel Dieu fig. 3 - Rogier van der Weyden, Polittico col Giudizio Universale, interno (inclusa cornice ca cm 220/137,5 x 547,6). Beaune, Musée de l’Hôtel Dieu
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messo in viaggio verso il Nord11. Questo dimostra un’altra volta quanto fosse ancora rispettato: doveva rimettere le cose a posto nella filiale londinese che, a causa della situazione politica in Inghilterra, aveva già da molti anni problemi finanziari. A Londra Tani dovette constatare che la filiale era pressoché in bancarotta e fece sapere a Piero in una lettera di considerare il suo incarico simile a quello di resuscitare un morto; ciò nonostante egli aggiunse di avere speranze di successo, se perlomeno Piero e Tommaso Portinari volessero da quel momento seguire le sue indicazioni12. Fare riferimento al suo vecchio collaboratore, il quale aveva investito capitale proprio nella filiale londinese, deve essere venuto in mente ad Angelo in risposta alla tendenza di Tommaso a cercare da solo soluzioni per i problemi della filiale, ma anche in vista del sostegno finanziario di cui Tani necessitava per evitare la bancarotta; sostegno che Portinari, fino un certo punto gli concesse. Anche se personalmente si sopportavano a malapena, i due erano comunque dipendenti l’uno dall’altro e dovevano dunque, quando necessario, lavorare insieme. Angelo era socio della filiale di Bruges, che era amministrata da Tommaso; Tommaso era socio della filiale di Londra, che era ora sotto il controllo di Angelo. Ciò
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richiedeva un atteggiamento pragmatico ed essi evidentemente lo ebbero, poiché quando Tani volle riprendere la via di casa e Portinari dovette anch’egli tornare a Firenze, nel giugno del 1469 partirono insieme dalle Fiandre verso il Sud. Angelo aveva compiuto il viaggio d’andata il più velocemente possibile, il che era comprensibile vista l’urgenza del suo arrivo a Londra. Ma prima della sua partenza dalle Fiandre egli potrebbe essersi fermato per qualche tempo a Bruges, essersi consultato con Memling circa il Giudizio Universale e aver posato per il suo ritratto sull’esterno del trittico. Il ritratto di Caterina, che si trova accanto a quello di suo marito, deve essere basato su un disegno fatto a Firenze, che Tani aveva portato con sé13. È probabile che Tani abbia commissionato quest’opera a Memling dall’Italia. Come qui di seguito analizzeremo, la ricerca tecnica sul Giudizio Universale ha dimostrato che durante l’esecuzione del pannello centrale è stata apportata una importante modifica. Ciò deve essere accaduto per desiderio di Angelo, il che suggerisce che l’interno del trittico era già in statu nascendi quando egli nel 1469 giunse a Bruges14. Rimane un mistero come Tani sia giunto a conoscenza delle capacità artistiche di Memling, così da potergli affidare la commissione dall’Italia. Il pittore ottenne la cittadinanza di Bruges all’inizio del 1465; Angelo a quell’epoca non vi abitava più. Memling era stato attivo a Bruxelles nell’atelier di Rogier van der Weyden; la morte di quest’ultimo, nel 1464, deve poi averlo spinto a diventare maestro indipendente15. Per ciò scelse una città che, non in ultimo per la presenza di uffici stranieri, potesse essere un perfetto luogo di smercio per la sua arte. Sebbene il Giudizio Universale sia la sua prima commissione importante a noi nota, nel momento in cui gli venne dato l’incarico di realizzarlo, il pittore doveva già essere conosciuto per il suo grande talento. Probabilmente egli si era costruito la sua fama quando era attivo nella bottega di Van der Weyden16. Che età avesse Memling quando si trasferì a Bruges e per quanti anni possa aver lavorato presso Rogier, non è noto; la sua permanenza nella bottega non è documentata da fonti scritte, ma è ritenuta certa dalla maggior parte degli storici dell’arte in considerazione delle analogie stilistiche tra i due pittori. Grazie alla ricerca tecnica sulle prime opere di Memling, in particolare sul Giudizio Universale, è pressoché incontestabilmente stabilito che egli abbia fatto parte dell’atelier di Rogier17. Ivi non deve essere stato attivo come semplice allievo, ma piuttosto come collaboratore che, per la maestria tecnica raggiunta, una volta divenuto maestro, fu subito preso in considerazione per una commissione prestigiosa18. Non si può escludere che Angelo Tani, nel periodo in cui viveva a Bruges e Memling ancora lavorava nell’atelier di Van der Weyden, già avesse sentito parlare della sua abilità. Oppure, una volta tornato in Italia avesse raccolto notizie tramite altre persone e fosse giunto a sapere che, ora che Rogier van der Weyden non era più in vita, Memling era di certo l’artista più indicato a realizzare l’opera come lui la desiderava. Può, in questo, aver giocato un ruolo importante anche il fatto che Memling fosse un collaboratore di Rogier, poiché il trittico che Tani ordinò è chiaramente influenzato dal polittico con il Giudizio Universale (figg. 2, 3) di Van der Weyden, commissionatogli da Nicolas Rolin, cancelliere del regno di Borgogna, e dipinto per l’Hôtel-Dieu di Beaune, fondato da Rolin stesso. Vi sono motivi per credere che Angelo volesse avere un’opera ispirata a questa pala d’altare. La sua decisione di far dipingere un Giudizio Universale dovette invero essere ispirata dal fatto che tale soggetto gli offriva la possibilità di raffigurare San Michele, a cui era dedicata la cappella nella Badia. Nel polittico di Rogier, all’arcangelo è riservato un ruolo importante e perciò quest’opera, agli occhi di Tani, deve aver rappresentato un modello particolarmente adatto. Viste le relazioni commerciali che la filiale di Bruges intratteneva con la corte borgognona, Tani conobbe certamente il cancelliere Rolin ed in uno dei suoi viaggi tra Bruges e Firenze potrebbe aver ammirato la tavola di Beaune19. Non sappiamo se Memling abbia visto il Giudizio Universale di Rogier van der Weyden con i propri occhi. Negli anni in cui fu dipinto – tra il 1443 ed il 1450 – l’artista non faceva presumibilmente ancora parte della bottega di Rogier, e rimane incerto se in seguito si sia recato di proposito presso la lontana Beaune per vederlo. Una consuetudine molto diffusa era l’uso di
fig. 4 - Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, esterno (ca cm 375 x 260). Gand, Cattedrale di San Bavone
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
fig. 5 - Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, interno (ca cm 375 x 520). Gand, Cattedrale di San Bavone
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disegni come modelli, in cui una composizione o parti di essa venivano riprese per essere impiegate un’altra volta in opere nuove, sia dal maestro stesso che aveva creato la prima composizione, sia dai suoi allievi ed assistenti, sia da altri maestri. Indubbiamente Memling ebbe a disposizione disegni desunti dal Giudizio Universale prodotti nell’atelier di Van der Weyden. Il polittico di Beaune servì a Memling come modello ma allo stesso tempo rappresentò uno spunto da cui sviluppare le proprie personali soluzioni artistiche20. Ciò era dettato anche da motivi pratici: il luogo in cui si trovava il Giudizio Universale di Rogier era ben diverso dalla cappella laterale nella Badia in Fiesole per la quale era stato ordinato il nuovo dipinto. Per capire meglio il modo in cui Memling si relazionò con la sua fonte di ispirazione e quali scelte fece per l’esecuzione del suo Giudizio Universale, è in primo luogo necessario approfondire le tematiche ed i caratteri artistici dell’opera di Van der Weyden in riferimento al contesto per il quale era stata creata. IL POLITTICO CON IL GIUDIZIO UNIVERSALE DI ROGIER VAN DER WEYDEN Il Giudizio Universale di Beaune era posto sull’altare principale di una cappella collocata nel prolungamento della grande sala d’infermeria dell’ospedale e che di fatto non era altro che una parte di questo grande spazio chiusa da una cancellata21. La larghezza della cappella spiega le dimensioni della pala d’altare; in posizione aperta essa è larga quasi cinque metri e mezzo. Per i pannelli esterni (fig. 2) fu seguita l’impostazione dell’esterno di un altro dipinto monumentale, il polittico dell’Agnello Mistico (fig. 4) nella cattedrale di San Bavone a Gand, di cui l’esecuzione, secondo un’iscrizione sulla cornice, fu iniziata da Hubert van Eyck e portata a compimento da suo fratello Jan in
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1432. In entrambi i dipinti i donatori sono inginocchiati al lato dei santi e l’Annunciazione è rappresentata sulla parte superiore. La pala d’altare dei fratelli Van Eyck fu il modello anche per le realizzazioni monocrome dei santi, dell’angelo e della Vergine, con la differenza che Rogier dipinse tutte queste figure come sculture, mentre Jan van Eyck rappresentò solo i santi in questo modo. La sobrietà dell’esterno delle pale determina un forte contrasto con l’interno, così ricco di colore. Come nel caso del polittico dell’Agnello Mistico i santi rappresentati nel polittico di Rogier non sono i santi onomastici; la presenza di Sant’Antonio e San Sebastiano può essere messa in relazione sia con l’ospedale sia con una speciale devozione di Nicolas Rolin e di sua moglie, Guigone de Salins. Mentre nell’Agnello Mistico e nel Giudizio Universale la raffigurazione dell’Annunciazione sul lato esterno rappresenta l’inizio della Redenzione, i pannelli interni di entrambi i dipinti mostrano il compiersi della Storia della Salvezza: nella pala di Gand (fig. 5) la condizione paradisiaca della fine dei tempi; nell’opera di Beaune il Giudizio (fig. 3) che la precede. Gli elementi con cui Rogier ha costruito le sue scene sono in gran parte provenienti dalla tradizione iconografica; egli li ha però ordinati secondo una composizione rigida e simmetrica. Cristo appare come giudice seduto su un arcobaleno ed i suoi piedi poggiano su un globo terrestre. Con la sua mano destra benedice i beati e con la sinistra respinge i dannati; questi gesti sono resi espliciti da un ramo di giglio, una spada e iscrizioni che contengono passi biblici. Ai lati di Cristo volteggiano angeli con gli strumenti della Passione, le Arma Christi, con cui egli ha sconfitto il diavolo. Agli estremi dell’arcobaleno vi sono Maria e San Giovanni Battista che intercedono per le anime risorte ed assieme a Cristo formano la cosiddetta deesis; a sinistra ed a destra vi sono schiere di apostoli e santi. Direttamente sotto il Cristo sta San Michele attorniato da angeli che suonano la tromba; vestito con abiti liturgici pesa le anime, mentre i morti risorgono dalla terra. Al lato sinistro dell’arcangelo un gruppo di anime dannate muove pieno di sgomento verso l’inferno, altre già vi si gettano a capofitto; alla sua destra invece le anime elette camminano verso la Gerusalemme Celeste. Rogier van der Weyden ha considerato il fatto che la pala dovesse essere ben visibile ai malati attraverso la cancellata della cappella. Grazie alla sua speciale struttura simmetrica la composizione si dimostra molto chiara; le figure si stagliano evidenti sullo sfondo, le superfici colorate sono grandi e contrastate, lo scarso numero di anime risorte rende facilmente distinguibili le loro pose ed i loro stati d’animo. Come risulta dall’indagine tecnica, la necessità di una composizione ordinata spiega perché Rogier, nel rendere il motivo della pesa delle anime, si sia allontanato dallo schema che aveva proposto nel disegno sottostante, ovvero lo schizzo fissato sulla tavola preparata prima di dare inizio al dipinto vero e proprio. Nel disegno sottostante – reso visibile grazie alla fotografia e alla riflettografia infrarosse – Rogier seguì il concetto del “pesato e trovato troppo leggero”, secondo cui il piatto della bilancia con l’anima dannata sale e quello dell’anima beata scende, mentre nella stesura pittorica si valse invece della variante, anche utilizzata nella tradizione iconografica, in cui la posizione dei piatti è invertita22. In questo modo veniva espresso che l’anima dannata discende all’inferno e quella beata sale al cielo. Grazie a questa modifica la posizione dei piatti della bilancia corrisponde a quella delle mani del Cristo, la destra sollevata e la sinistra abbassata23. Attraverso il ristretto numero di anime risuscitate – di cui quelle dannate sono la maggioranza – il dipinto ha un carattere più simbolico che illusionistico. Ciò è rafforzato dal fatto che non vi è raffigurato alcun demone e, nella rappresentazione della Gerusalemme Celeste, un solo angelo scorta alcune anime beate verso l’ingresso con i gradini deserti. Oltre ad aver tenuto conto della distanza dalla quale era visibile il polittico ed aver pertanto rinunciato ai dettagli narrativi, pare che Rogier abbia voluto evitare anche una interpretazione troppo letterale delle scene. Ciò è in linea con il pensiero, tra gli altri, di Geert Grote, fondatore della “Devotio Moderna”, il quale ammonisce che le immagini che si formano nella fantasia umana degli avvenimenti della Storia della Salvezza debbano essere considerate soltanto come segni e non essere scambiate per la realtà alla quale si riferiscono24. Invece di suggerire che un giorno gli eventi si svolgeranno proprio così nell’aldilà. Rogier ha voluto concentrare tutta l’attenzione sullo stato d’animo dei beati e dei dannati: la beata serenità degli uni, e la massima disperazione degli altri.
fig. 6 - Hans Memling, Trittico con il Giudizio Universale, esterno (ciascuno sportello 223,5 x 72, 5 cm). Gdansk, Muzeum Narodowe
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
fig. 7 - Hans Memling, Trittico con il Giudizio Universale, interno (pannello centrale 221 x 161 cm; ciascun sportello 223,5 x 72,5 cm). Gdansk, Muzeum Narodowe
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La collocazione di San Michele all’interno della composizione rappresenta un altro aspetto singolare di questo Giudizio Universale: non solo egli è posto frontalmente al centro, come il Cristo, ma è anche la figura più grande della pala e, tra i personaggi della corte celeste, la più vicina allo spettatore. Nello scenario originale egli si innalzava sopra l’altare che si trovava sotto il dipinto, ed i suoi paramenti liturgici da diacono rappresentavano un forte nesso con la celebrazione dell’Eucaristia. Quando il sacerdote stava di fronte all’altare, doveva sembrare come se si volgesse direttamente a San Michele e, attraverso di lui, a Cristo stesso. L’importante posizione dell’arcangelo si spiega con il ruolo che egli riveste nella liturgia come accompagnatore dei morti. Questo ruolo era significativo per i committenti, dal momento che la cappella era stata pensata come funeraria della famiglia Rolin (anche se in realtà Rolin stesso fu sepolto in un altro luogo) ed il cancelliere vi faceva recitare due volte al giorno l’uffizio dei defunti, ma naturalmente anche per tutti quei malati che si sentivano prossimi alla morte.25 Indipendentemente dalla sua funzione liturgica, il prominente ruolo di San Michele come pesatore di anime costituiva un motivo molto suggestivo con il quale i malati si dovevano confrontare e dal quale erano indotti alla meditazione. IL TRITTICO CON IL GIUDIZIO UNIVERSALE DI HANS MEMLING Anche se la posizione che San Michele occupa nel Giudizio Universale di Rogier van der Weyden è stato la causa che ha spinto Angelo Tani a desiderare un’opera esemplata su di esso, ciò non significa che l’arcangelo, nell’opera di Memling, abbia lo stesso ruolo del suo modello nella pala di Beaune. Studieremo nondimeno le analogie e le differenze tra i due dipinti in maniera sistematica, cominciando pertanto dai pannelli esterni del trittico di Memling (fig. 6).26 Memling imitò l’esterno del Giudizio Universale di Rogier van der Weyden (fig. 2) – e dunque anche del polittico dell’Agnello Mistico (fig. 4) – ritraendo i donatori in compagnia di santi raffigurati come pseudo-sculture monocrome. Il progetto compositivo dell’esterno della pala di Beaune
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non poteva però essere ripreso tanto facilmente, considerate le dimensioni del trittico di Memling, condizionate dallo spazio al quale era destinato: esso è alto quasi quanto la parte più alta del polittico di Van der Weyden, ovvero 2,20 metri circa, ma in forma chiusa è di circa 1,30 metri più stretto. Avendo a disposizione soltanto due pannelli, Memling non poteva rappresentare ciascuna figura su un pannello separato, con gli effigiati collocati al lato dei santi, ma dovette inserire un donatore ed un santo insieme in un’unica scena. Sull’ala sinistra vediamo Angelo Tani e su quella destra Caterina Tanagli, entrambi inginocchiati su un pavimento a mattonelle reso in prospettiva, mentre in secondo piano vi sono delle nicchie nelle quali, sopra Angelo, è posta una scultura della Madonna con il Bambino e, sopra Caterina una scultura di San Michele, il quale, avvolto da un armatura, con un mantello svolazzante, punta la sua spada verso uno dei due demoni che lo accompagnano. Gli stemmi araldici di Angelo e Caterina sono appesi ai piedistalli delle nicchie. Conseguenza di questa impostazione è la mancanza di una parte superiore con un’Annunciazione. Come abbiamo già detto, i santi sui pannelli esterni del dipinto di Rogier non sono i santi onomastici dei committenti; sebbene San Michele sia il santo di cui Tani porta il nome, qui sembra esser presente soprattutto come patrono della cappella per la quale l’opera fu ordinata, considerando il fatto che la santa onomastica di Caterina Tanagli è assente. La presenza della Madonna con Bambino potrebbe essere legata ad una personale devozione della donna, ma potrebbe anche servire come sostituzione della scena dell’Annunciazione che, per mancanza di spazio, dovette essere sacrificata. Il tema dell’Annunciazione è l’Incarnazione di Cristo, un tema che è raffigurato anche dalla Madonna con il Bambino. In tal modo Memling, sull’esterno del trittico, riesce comunque a simboleggiare l’inizio della Redenzione di Cristo. Grazie alla posizione della Madonna col Bambino dietro ad Angelo e di San Michele dietro a Caterina, i donatori si potevano rivolgere in adorazione a coloro di cui invocarono la protezione, proprio come nel Giudizio Universale di Beaune. Per di più, la collocazione della Madonna con Bambino alla destra dell’arcangelo segue una regola che nel XV secolo era considerata una norma dell’etichetta, che veniva utilizzata anche per i dipinti: il personaggio di più alto rango soleva trovarsi alla destra di quello meno importante. Perciò Angelo Tani, esattamente come Nicolas Rolin, Joos Vijd e numerosi altri committenti maschili, fu rappresentato alla destra di sua moglie, e obbligatoriamente dunque anche la Madonna con il Bambino occupava il posto d’onore rispetto a San Michele27. Le incorniciature delle nicchie dove sono posti i santi somigliano a quelle delle nicchie dei santi nel Giudizio Universale di Rogier, ma il profilo degli archi fa piuttosto pensare agli archi delle cappelle della Badia. E’ evidente che Memling, tramite un disegno, sia venuto a conoscenza della struttura architettonica della cappella a cui era destinata la sua opera e abbia così potuto conformarvi le architetture dipinte28. Nel polittico di Van der Weyden le incorniciature delle nicchie con i santi ed i committenti coincidono con il piano dipinto determinando una divisione tra lo spazio in cui si trova lo spettatore e gli spazi immaginari, che sono poco profondi dietro ai santi e più marcati alle spalle dei donatori. Anche per quanto concerne queste incorniciature e questi spazi, Memling ha attuato un lavoro di selezione e ricombinazione: nella parte superiore dei suoi pannelli le incorniciature delle nicchie coincidono con il piano dipinto, ma nella parte inferiore gli ambienti in cui si trovano i donatori si sviluppano davanti alle nicchie e, come in Rogier, sono più profondi dello spazio riservato alle statue dei santi29. Vien da sé che la differenza di formato con il polittico di Beaune ha ripercussioni artistiche anche sull’interno (fig. 7). In posizione aperta l’opera di Memling misura quasi 2,40 metri di larghezza in meno del suo modello. Van der Weyden distribuisce le sue figure su sette pannelli per la zona inferiore e su tre per quella superiore; Memling aveva a disposizione tre pannelli, cosa che non creava alcun problema iconografico, perché il tema si prestava perfettamente ad un trittico: il Giudizio sul pannello centrale, il paradiso e l’inferno su quelli laterali. Anche Rogier dedica al paradiso e all’inferno un pannello ciascuno, ma per la scena principale Memling doveva concentrare su un’unica tavola tutti gli elementi che in Rogier si trovano dipinti su più pannelli. È perciò degno di nota che sul pannello centrale del Giudizio Universale di Memling, come in quelli laterali, si riscontra un più vasto numero di figure rispetto a quelle raffigurate da Van der Weyden. Tale arricchimento fu possibile per il fatto che il trittico di Memling era pensato per essere osservato da una distanza ben più breve rispetto al dipinto di Beaune. La cappella Tani misura m 4,60 x 4,60; la sala d’ospedale di Beaune, compresa la cappella, m 72 x 40 circa. Piuttosto di creare delle composizioni schematiche e ordinate Memling preferì adottare una ricchezza di dettagli che invitasse gli astanti ad osservare il dipinto con la maggior attenzione possibile ed allo stesso tempo suscitasse in essi la sensazione di non avere occhi a sufficienza. Ora, quali sono gli elementi che Memling prese da Rogier? E in che modo seppe riportare tali motivi in un formato ben più piccolo e contemporaneamente aumentare di molto il numero dei dettagli e delle figure? Anche qui Cristo appare al centro troneggiante sull’arcobaleno con i piedi su un globo terrestre, mentre benedice i beati e respinge i dannati; ciò è messo in risalto dal ramo di giglio e dalla
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
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spada, ma non dalle iscrizioni che invece accompagnano il polittico di Beaune. Anche qui quattro angeli con gli strumenti della Passione volano in alto nel cielo la Madonna e San Giovanni Battista sono inginocchiati ai lati dell’arcobaleno e sono accompagnati da schiere di apostoli, angeli che suonano trombe volteggiano sotto Cristo e San Michele che pesa le anime; quest’ultimo, allineato a Cristo, si trova in terra, dove i morti si sollevano dalle loro tombe e avanzano verso l’inferno se dannati e verso il paradiso se salvati. Memling ha ricavato la figura del Cristo direttamente da Rogier; gli angeli con le Arma Christi e le trombe, la Madonna, San Giovanni e gli apostoli rivelano maggior indipendenza dal modello, seppur, nelle tipologie e nelle pose, si ravvisino molti punti di contatto con Van der Weyden. Una conseguenza delle dimensioni più ridotte di questo dipinto fa sì che Cristo, gli angeli con le Arma Christi, Maria, San Giovanni e gli apostoli siano ben più ravvicinati tra loro rispetto alla pala di Rogier. Ciò, in particolare, nell’allineamento degli apostoli e santi – questi ultimi omessi da Memling – che Van der Weyden pone ben dispiegati su due pannelli ai lati della deesis facendo uso di grandi campiture di colore. Gli apostoli e i santi di Rogier, nonostante la riduzione prospettica che li suggerisce seduti dietro alla Madonna e San Giovanni, sembrano formare un’immagine bidimensionale che trova un contrasto ritmico nelle ben più piccole e flessuose figure nude delle anime risorte. Nel Giudizio Universale di Memling la Madonna e San Giovanni formano un gruppo pressoché unico con gli apostoli che pertanto non sono chiaramente distinguibili da loro. Le file di apostoli si estendono non in larghezza ma in altezza; di conseguenza gli accorgimenti prospettici danno un’idea di profondità molto più accentuata che in Van der Weyden. Memling risolse dunque il problema del formato più stretto su cui doveva lavorare abbandonando l’ordinamento a fregio di Rogier e adeguandosi di più allo spazio immaginario. Rispetto alla tavola di Beaune, Memling riserva nella sua composizione uno spazio più ridotto al cielo dorato dall’effetto astratto laddove le nuvole sembrano costituire dei cuscini per la Madonna, San Giovanni e gli apostoli. Nonostante il suggerimento di profondità, prevale la sensazione di una mancanza di spazio: alcuni apostoli sembra guardino le spalle di Cristo come se sedessero su economici posti di galleria. Mentre in larghezza, per la scena centrale, Memling disponeva di molto meno spazio di Rogier, in altezza aveva tutto lo spazio necessario, essendo il trittico tanto alto quanto la parte più alta del dipinto di Beaune. Memling sfruttò tale altezza, oltre che per gli apostoli, per inserire una fascia tra Cristo e San Michele dove, sotto alle nuvole, si apre un cielo scuro che si schiarisce all’orizzonte, ottenendo così uno splendido effetto atmosferico e coloristico. L’arcobaleno sul quale siede Cristo si prolunga sino all’orizzonte, dove assume un effetto sfumato. Se prendiamo come riferimento questo arcobaleno, Cristo e le figure che lo accompagnano si dovrebbero trovare molto lontane sopra l’orizzonte, cosa che in realtà non sembra essere affatto così. La continuità dell’arcobaleno può esser vista come un mezzo con cui Memling tentò di compensare il sovvertimento della composizione di Van der Weyden, attuato attraverso una diversa disposizione degli apostoli. La loro posizione, assieme a quelle di Cristo, di Maria e di San Giovanni, attorno all’arcobaleno, conferisce alla parte superiore del dipinto una decisa forma ad arco, che può dare l’impressione di una spinta o di un movimento discendente. Rendendo l’arcobaleno quasi circolare, la parte inferiore di esso offre un contrappeso a questa tendenza discendente. Inoltre, anche se l’arcobaleno non forma un cerchio completo, esso è avvertito come tale e la sua forma circolare offre una struttura alle composizioni affollate sia nel pannello centrale sia in quelli laterali: l’arcobaleno lega tra loro i protagonisti – Cristo, Maria, San Giovanni e San Michele – e accentua la curva che attraversa tutti e tre i pannelli, formata dalla disposizione dei beati e dei dannati. Lo spazio aggiunto tra la scena celeste e la scena terrena è utilizzato non solo per raffigurare il cielo che si sta rischiarando e l’arcobaleno, ma anche per dare agli angeli con le trombe un proprio posto all’interno della composizione. Sul polittico di Beaune vi sono quattro angeli musicanti posti simmetricamente ai lati di San Michele. Memling ne dipinge solo tre (il quarto vola alto tra le nuvole sull’ala destra) e li lascia volare come raffinati arabeschi sopra l’arcangelo: due all’interno dell’arcobaleno ed un altro sulla sinistra, così da formare un piacevole moto ondoso verso sinistra, che ha il suo contraltare nella ferula di San Michele orientata verso destra. Il movimento in tale direzione è annunciato dall’angelo sulla sinistra, la cui tromba soffia in direzione della ferula. Come Van der Weyden, Memling ha posto San Michele e Cristo sull’asse longitudinale della composizione. In Rogier vi è tra essi una corrispondenza di pose e gesti così simili da farli sembrare quasi un tutt’uno, mentre in Memling l’arcangelo risulta più indipendente, conforme alla speciale venerazione a lui riservata nel luogo cui era stato destinato il trittico. A causa dell’inserimento della fascia con gli angeli, San Michele si trova staccato da Cristo; vi è anche una evidente distinzione spaziale tra la sua posizione in primo piano e quella delle figure arretrate della deesis e degli apostoli (che però non significa che questi si trovassero sopra l’orizzonte, poiché lo scarto dimensionale non è coerente). La pesa delle anime è rappresentata secondo il criterio del “pesato e trovato troppo leggero”; di conseguenza il modo di sorreggere
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la bilancia non ricalca i gesti di Cristo. San Michele inoltre, essendo leggermente spostato verso sinistra, non si trova esattamente sulla stessa linea di Cristo e non è stato reso frontalmente ma con il busto un poco girato. Tale posizione è prodotta dal suo movimento verso destra quando colpisce il corpo del dannato sulla bilancia. Sebbene, differentemente che sull’esterno del trittico, egli non si opponga al diavolo con la spada ma con una ferula; indossa, sotto ad una cappa rossa con i ricami dorati, simile a quella del suo modello di Beaume, un’armatura d’oro luccicante. Pertanto nell’opera di Memling San Michele non ricopre solamente il ruolo di pesatore delle anime, ma anche quello del guerriero che combatte il male, impersonificato dall’anima dannata30; la sua funzione di protettore è così illustrata non solo all’esterno, ma anche all’interno del dipinto. Già con la mera trasformazione del San Michele di Van der Weyden in una figura attiva, Memling è riuscito ad aggiungere un elemento narrativo che manca al Giudizio Universale di Beaune. Nella raffigurazione dei beati e dei dannati attorno all’arcangelo e nelle scene del paradiso e dell’inferno sui pannelli laterali si evidenzia come la componente narrativa sia divenuta parte essenziale della tavola di Memling; in questo modo si allontana completamente dal carattere schematico e simbolico dell’opera di Rogier. Oltre a non dover tener conto della notevole distanza dalla quale il trittico doveva essere ancora visibile, apparentemente né Memling né Tani si preoccuparono del fatto che, per motivi devozionali, una rappresentazione troppo suggestiva potesse risultare poco indicata. Il limitato numero di beati nel polittico di Beaune è stato qui sostituito da una grande folla e i demoni e gli angeli sono ora presenti in numero abbondante. Alla destra – sinistra per lo spettatore – di San Michele si vedono, sotto i beati, alcune figure ben disegnate in pose diverse, come l’uomo inginocchiato che porge le mani giunte verso l’arcangelo e Cristo o la figura femminile che, appoggiandosi su un braccio, cerca di alzarsi. Più raffinata ancora è la resa dei dannati alla sinistra di San Michele, dove Memling dipinge drammatiche figure nelle pose più diverse ed estreme: un primo uomo disperato avanza a carponi aiutandosi con le mani ed i piedi al fine di restare lontano dall’inferno; un secondo uomo viene afferrato con la testa all’ingiù da un demone per essere gettato nelle fauci dell’inferno; un altro si contorce sulla bilancia ed un altro ancora, fregandosi le mani, sembra volersi gettare all’indietro per non sparire negli inferi. Alle spalle di questo uomo si estende una moltitudine, caotica e prospetticamente molto ridotta, di infelici, che viene spinta in avanti dai demoni. Questo gruppo è la più evidente dimostrazione dell’abilità di Memling nel rendere un effetto tridimensionale. Anche la piana alla destra di San Michele, in cui piccole figure risorgono dalle loro tombe, suggerisce profondità, ma essa risulta meno accentuata rispetto alla scena dei dannati. Nella ricerca di un effeto tridimensionale Memling prende le distanze dal suo maestro, il quale, non solo nel Giudizio Universale di Beaune, ma anche in altre opere, manifesta una preferenza per composizioni parallele al piano dipinto piuttosto che rappresentazioni che rompono il piano sviluppandosi in profondità, e segue la tradizione artistica della città in cui si era da poco stabilito: la tradizione di Jan van Eyck. Sull’ala destra si vedono alcuni individui che, dalle prime linee della schiera dei dannati, cadono in avanti verso un dirompente mare di fuoco circondato da rocce. Un religioso è tirato in basso da un grosso demone con un arpione, mentre un altro già scompare nel fuoco. Anche dallo sfondo roccioso i dannati vengono trascinati nell’inferno, o vi sono trasportati da demoni in volo. Diversamente da Rogier, Memling ha utilizzato l’intero pannello per far scendere i dannati all’inferno, suggerendo così una enorme differenza tra le figure minuscole nella parte superiore del pannello che, man mano che si avvicinano alle bocche dell’inferno, verso il basso, diventano sempre più grandi. In questa scena vi sono numerose figure attraverso cui Memling dimostra in diversi modi la sua abilità nella resa dei corpi accorciati. Rivela, per di più, una grande espressività nell’efferatezza dei mostri e la disperazione dei dannati. Sull’ala sinistra una schiera di salvati, con espressioni serene sui volti, sale gli scalini di cristallo
fig. 8 - Stefan Lochner, Giudizio Universale (cm 124,2 x 172). Colonia, Wallraf-Richartz-Museum
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
fig. 9 - Maestro anonimo, Giudizio Universale (cm 231,5 x 186). Bruxelles, Musées Royaux des BeauxArts
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verso la Gerusalemme Celeste. Se confrontato con l’analoga scena nel polittico di Beaune, si vede che il portale della Gerusalemme Celeste è stato spostato in dietro, in fondo alle scale, dando così maggiore profondità alla rappresentazione. A prescindere da ciò l’intera scena ha un carattere totalmente diverso da quella di Rogier: mentre questi sembra partito dal principio che la beatitudine celeste non debba essere raccontata in un modo illusionistico, in Memling è tutto un affollamento festoso. Ai piedi della scalinata San Pietro dà il benvenuto ai beati stringendo loro la mano; in alto, presso il portale riccamente decorato da sculture, essi sono avvolti dagli angeli in nuove vesti e ricevono gli indumenti corrispondenti al loro ruolo sulla terra. I balconcini e la balaustra del portale sono popolati di angeli musicanti. Benché Memling, includendo nel Giudizio Universale i demoni, aumentando il numero degli angeli, dei beati e dei dannati ed arricchendo il portale della Gerusalemme Celeste, abbia creato l’occasione per porsi in maniera più autonoma davanti all’opera del suo maestro, mostrando le proprie capacità, questo non significa che seguì una strada tutta sua. Si fece, di fatto, anche ispirare, sebbene in misura minore rispetto alla pala di Rogier, dal Giudizio Universale realizzato intorno al 1435 da Stefan Lochner, un pittore di Colonia (fig. 8)31. Nativo di Seligenstadt sul fiume Meno, Memling potrebbe aver visto questo dipinto prima di giungere nei Paesi Bassi, ma anche in seguito, nel corso della sua carriera, dovette essere tornato qualche volta a Colonia. Sul reliquiario di Sant’Orsola, che egli dipinse per l’ospedale di San Giovanni a Bruges e che fu ultimato nel 1489, raffigurò alcuni edifici di Colonia, e per la stessa opera deve aver studiato i cicli con scene della vita di Orsola conservati in questa città32. È probabile quindi che egli sia andato a Colonia in occasione di questa commissione per eseguire dei disegni, e lo stesso potrebbe essere accaduto quando dovette iniziare il Giudizio Universale. Le analogie coll’opera di Lochner, che occupa un unico grande pannello, sono per la maggior parte assai generiche; è tuttavia chiarissimo che la moltitudine di beati che entrano nella Gerusalemme Celeste, gli angeli dai quali vengono ricevuti e la presenza di San Pietro – anche se collocato in un luogo diverso da quello scelto da Memling – e soprattutto il ricco portale tardo gotico con gli angeli musicanti sulla parte superiore, siano serviti da esempio. In Lochner mancano tanto gli apostoli quanto San Michele, mentre la Madonna e San Giovanni si inginocchiano su alture rocciose; la massa di figure tra queste alture fa pensare alla brulicante folla di dannati nella scena centrale di Memling. L’immagine che Lochner propone dell’inferno non sembra aver influenzato Memling più di tanto, ma nell’orribile aspetto dei mostruosi demoni e nei tormenti a cui i dannati sono sottoposti si legge un affine senso dell’orrore. Per alcuni singoli soggetti Memling si è ispirato direttamente a Lochner, come nell’angelo e nel demone che lottano per un uomo – anche se Memling ne ha modificato le posizioni – e in particolare per il dannato sulla bilancia: quest’ultimo è basato su una figura maschile di Lochner in primo piano che, assieme ad un altro uomo, è portato via da un demone verde. Vi è ancora un altro Giudizio Universale da cui Memling ha tratto profitto per allontanarsi da Van der Weyden; tale opera (fig. 9) è presumibilmente stata realizzata prima del 1450, ma in
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ogni caso dopo il 1435, poiché, nonostante il formato verticale e la raffigurazione degli apostoli seduti a terra sotto Cristo, Maria e San Giovanni, essa rivela l’utilizzo del Giudizio Universale di Lochner come modello, sia nell’impostazione generale sia in alcuni dettagli33. Questa tavola, di cui si ignora l’identità dell’autore, fu scoperta nella seconda metà del XIX secolo presso il municipio di Diest, dove fu probabilmente anche dipinta, poiché la porta della Gerusalemme Celeste, lì resa in mattonato color ruggine, sembra essere un riferimento alla chiesa di San Sulpizio in loco34. Le analogie con il dipinto di Lochner – per cui sovente si crede, ingiustamente, che fu la rappresentazione di Lochner ad ispirarsi al Giudizio Universale di Diest anziché il contrario – possono essere state la ragione per cui quest’opera non è stata fino ad ora riconosciuta come una delle fonti da cui Memling ha attinto per la sua creazione35. Esistono invece similitudini tra il Giudizio Universale di Diest e quello di Memling, che non emergono in rapporto alla pala di Lochner. Ciò vale, in primis, nella raffigurazione dell’inferno. Nell’opera di Diest il bordo del crepaccio da cui divampa il fuoco traccia la stessa linea obliqua delle rocce dietro cui Memling apre il suo inferno; vi è inoltre, rispetto a Lochner, una maggiore presenza di dannati che venendo dall’alto scompaiono nell’inferno. Sopra la voragine si trova un angelo, probabilmente San Michele, che con una ferula inferisce un colpo ad un dannato, gesto che rimanda al San Michele di Memling36. Gli accorgimenti prospettici del portale della Gerusalemme Celeste sono incongruenti, ma l’esecuzione della parte destra e dello spazio interno suggerisce che esso sia stato inserito obliquamente nel dipinto, come il portale di Memling. Vi sono similitudini anche nella direzione del movimento dei beati e nella maniera in cui essi affollano lo spazio dell’entrata. Sono evidenti anche dettagli affini nella resa di San Giovanni Battista che, in ambedue le opere, tiene le mani sollevate, laddove nei dipinti di Rogier van der Weyden e Stefan Lochner ha le mani giunte. E benché anche il San Giovanni di Rogier abbia una gamba piegata, Memling, nella posizione della gamba sinistra e del piede destro, si è chiaramente basato sulla figura di Giovanni del dipinto di Diest. Per capire ulteriormente in che maniera Memling si sia rapportato ai suoi tre modelli è utile considerare i risultati dell’indagine con la riflettografia infrarossa compiuta da Molly Faries sui disegni sottostanti del Giudizio Universale37. Un risultato importante di questa indagine è la conferma che Memling è stato certamente attivo nella bottega di Rogier van der Weyden. Infatti, per questi disegni egli ha parzialmente utilizzato un pennello, cosa che faceva anche Rogier ed ha lavorato utilizzando lunghe linee, in una maniera molto simile a quella del suo maestro; in parte ha disegnato in modo molto libero con un gessetto nero, uno strumento che durante il proseguo della sua carriera utilizzerà sempre più spesso. Proprio come Rogier, Memling continuò ad apportare delle varianti, anche nella fase di dipintura. L’indagine con la riflettografia infrarossa ha inoltre portato nuove prove sulla relazione tra il Giudizio Universale di Memling e quello di Van der Weyden, ma, come vedremo, dai disegni sottostanti emerge anche che Memling inizialmente si sia fatto ispirare dal Giudizio Universale di Lochner e dal dipinto di Diest molto di più di quanto possa sembrare osservando la sua opera finita38. Dall’analisi dei disegni si desume che gli angeli con la croce e con la corona di spine fossero inizialmente posti più in basso, cosicché i quattro angeli con le Arma Christi si sarebbero trovati in posizione diagonale, proprio come gli angeli di Rogier con gli stessi attributi. Per di più, l’angelo di Memling con la corona di spine nel disegno non teneva ancora in mano questo attributo ma una lancia, esattamente come l’angelo corrispondente nel polittico di Beaune. A differenza di Van der Weyden, Memling pose questi due angeli vicini a Cristo ispirandosi probabilmente al Giudizio Universale di Diest, dove, in maniera molto simile a quella utilizzata da Memling nel disegno, Cristo è fiancheggiato da angeli che portano in mano la lancia e la croce. Con questa impostazione non rimaneva spazio per il motivo della spada e del giglio che Rogier aveva previsto per il Cristo, ma neanche per gli apostoli, poiché i due angeli si trovavano in parte proprio nella zona di queste figure. È senza dubbio per i limiti causati dal formato verticale del pannello che Memling inizialmente decise di tenere fuori gli apostoli, idea che potrebbe essergli venuta prendendo spunto dal Giudizio Universale di Lochner, in cui gli apostoli sono assenti. Nella sua composizione originale senza apostoli Memling creò un ovale attorno a Cristo e a San Michele, formato dagli angeli con la croce e con la lancia, da Maria e San Giovanni e dall’orientamento dei gruppi di dannati e beati. Alla luce di ciò è da considerare la composizione in forma ovale del Giudizio Universale di Diest39. In realtà qui si distinguono due ovali: uno è formato da Cristo, la Madonna, San Giovanni e la fila esterna di apostoli, l’altro è disegnato dalla posizione degli angeli attorno a Cristo, dall’angelo, nel quale si potrebbe riconoscere San Michele, e dalla direttiva del movimento dei gruppi di dannati e beati. Naturalmente Memling poteva seguire l’esempio della pala di Diest solo in parte, perché in essa i temi sono combinati in un unico pannello mentre egli aveva a disposizione tre pannelli distinti. Ciò non toglie che egli si possa essere ispirato a questo dipinto non solo per alcuni singoli particolari ma anche per l’iniziale ripartizione in forma ovale del pannello centrale. A questo riguardo è importante notare come ambedue i pannelli abbiano
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
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un formato molto simile (il pannello centrale del Giudizio Universale di Memling misura metri 2,21 x 1,61, il Giudizio Universale di Diest metri 2,31 x 1,86). Come il Giudizio Universale di Lochner, Memling potrebbe aver osservato la pala di Diest con i propri occhi, addirittura durante lo stesso viaggio che lo portò a Colonia, poiché Diest si trovava proprio sulla via mercantile che portava da Bruges alla città tedesca. L’aggiunta degli apostoli deve essere avvenuta per l’insistenza di Angelo Tani, dopo che quest’ultimo aveva visto i disegni sottostanti. L’indagine con la riflettografia infrarossa su dipinti neerlandesi sta portando sempre maggiori indicazioni sul fatto che i disegni sottostanti non solo costituissero una direttiva per l’esecuzione dipinta di un lavoro, ma funzionassero anche come vidimus, cioè come anteprima per l’approvazione da parte del committente, il quale poteva in tal modo esprimere la propria opinione e far eliminare o aggiungere alcuni elementi40. Se Memling non voleva inserire gli apostoli per motivi artistici, per Tani sarà stato inaccettabile rinunciare ad un elemento così importante, che costituiva un punto fermo nelle rappresentazioni italiane del Giudizio Universale. La soluzione che Memling trovò al fine di soddisfare i desideri del Tani non fu, come abbiamo potuto costatare, molto soddisfacente. Se Memling avesse seguito le sue idee, il pannello centrale sarebbe stato meno colmo e le figure della Madonna e San Giovanni sarebbero state valorizzate di più. Inoltre, vi sarebbe stato maggior contrasto tra la parte celeste e quella terrena. La riflettografia infrarossa conferma che Memling allungò l’arcobaleno per offrire un contrappeso al movimento discendente della schiera degli apostoli e per dare ordine alla già troppo piena composizione: nel disegno sottostante infatti era progettata soltanto la parte superiore dell’arcobaleno. Quando Memling fissò nel disegno la composizione del pannello centrale, definì le figure in scala maggiore solo col pennello. Dopo aver deciso di aggiungere gli apostoli, adattò il disegno; le nuove figure vennero eseguite con il gesso nero. Questo gesso fu utilizzato anche per i disegni sottostanti nei pannelli esterni che dovettero essere preparati in concomitanza alla correzione del pannello centrale. Di fatto, quando Tani arrivò a Bruges nel 1469, Memling aveva probabilmente già eseguito i disegni dei pannelli interni, mentre per quelli esterni dovette attendere proprio la presenza del Tani nonché il disegno col ritratto della moglie che lo stesso probabilmente in quell’occasione gli consegnò. Per l’abbigliamento borgognone di Caterina Tanagli pare sia stato utilizzato un disegno a disposizione in bottega41. Angelo dovette esprimere il suo giudizio anche riguardo ai pannelli esterni quando la loro esecuzione era ancora ad uno stadio preparatorio: originariamente lo stemma di Tani era appeso sotto la nicchia che ospitava la scultura di San Michele e quello di Caterina sotto l’altra nicchia; in questa maniera si accentuava la relazione tra il donatore ed il proprio oggetto di devozione e forse anche quello tra i consorti42. Ma probabilmente Tani trovò che ciò potesse generare confusione e volle che gli stemmi fossero dipinti direttamente accanto al personaggio cui appartenevano. Dopo essersi confrontato con i desideri di Angelo e averli soddisfatti, Memling poteva procedere alla stesura pittorica. La scelta era quanto seguire l’esempio di Rogier van der Weyden e quanto prenderne le distanze. La figura di Cristo adottata da Van der Weyden rivela come Memling, nonostante le analogie, abbia optato per una rappresentazione diversa: i lineamenti pronunciati del viso del Cristo di Rogier sono addolciti, le ciocche di capelli risultano meno ondulate sulle spalle e la folta barba è spuntata, i contrasti chiaroscurali del volto e del petto sono meno schematici e le pieghe della veste meno robuste. Il Giudizio Universale di Rogier van der Weyden, non solo per la concezione della composizione ma anche per la maniera in cui è dipinto, risulta una delle sue opere più articolate. Se Memling conobbe l’opera solo attraverso i disegni, non ebbe modo di cogliere tale carattere specifico della versione dipinta che era stata adattata allo spazio della sala dell’ospedale. Ciò non toglie che egli nel dipingere il suo Giudizio Universale prendesse coscientemente le distanze dai principi stilistici del suo maestro, allineandosi per questi alla tradizione eyckiana, come aveva già fatto apportando un maggiore sviluppo in profondità alla composizione. Questo significò che Memling, sebbene senza rinunciare ai contorni, conferì volume alle sue figure con l’impiego della luce, e rese anche certi dettagli, come i capelli, o materiali, come il metallo e la pietra, con suggestivi effetti luministici. Così i corpi dei beati e dei dannati hanno i loro volumi accentuati da una radiosa caduta della luce che viene da sinistra nonché da un ricco effetto di ombre. Un utilizzo della luce ispirato all’arte di Jan Van Eyck è percettibile anche nei volti degli angeli: come per la figura di Cristo, Memling ha riprodotto i loro lineamenti in maniera meno acuta rispetto a Rogier, la luce ne arrotonda i visi e schiarisce i riccioli biondi. Fra tutte le figure è quella di San Michele che si distanzia di più dall’arte di Van der Weyden. Proprio nell’arcangelo, che fu lo spunto per l’esecuzione di un’opera basata sul Giudizio Universale di Rogier, Memling manifestò esplicitamente la sua indipendenza dal maestro. Non solo per mezzo di un viso dolcemente modellato, con gli occhi socchiusi ed i ricci eyckiani con punte di luce, egli conferì al San Michele una grazia totalmente assente nella dura e schematica figura di Rogier,
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ma anche nella resa dell’armatura Memling volle dimostrare – lui che era stato assistente di Rogier – di non essere inferiore a Van Eyck nell’uso della luce. Con la lucente armatura dorata che l’angelo indossa sotto alla cappa, Memling volle sfidare questo artista e la sua rappresentazione di San Giorgio nella Madonna del canonico Van der Paele (Bruges, Groeningemuseum), un dipinto che si trovava nella chiesa di San Donato a Bruges e che Memling doveva conoscere bene. Sullo scudo di San Giorgio Van Eyck dipinse due piccole figure riflesse come se si trovassero davanti al dipinto. Memling ha dipinto su più parti dell’armatura di San Michele riflessi delle braccia dell’angelo, della bilancia e della ferula; sulla corazza ha inoltre rappresentato un’intera scena, come aveva fatto Van Eyck nello specchio del Ritratto dei coniugi Arnolfini (Londra, National Gallery). Questo specchio (un particolare che Memling in seguito utilizzerà per il suo Dittico di Maarten van Nieuwenhove), appeso sulla parete di fondo della stanza, riflette tutto l’ambiente dipinto, oltre ad una zona con altre due figure che si troverebbero, come nella Madonna del canonico Van der Paele, nello spazio dello spettatore. Trovandosi San Michele nel primo piano, solo un frammento della scena poteva essere riflessa; di essa vediamo il beato sulla bilancia, la donna che cerca di tirarsi su davanti a lui, l’uomo inginocchiato con le mani giunte e quello che cammina a carponi. Inoltre il riflesso suggerisce che gli avvenimenti del Giudizio Universale proseguono anche nello spazio davanti al dipinto, perché dietro a queste figure si vedono altre anime risorte, tra cui alcuni beati che seguendo una parete rocciosa si recano in direzione della Gerusalemme Celeste. Sul globo dove poggia i piedi Cristo, si riflettono la Madonna, San Giovanni, alcuni apostoli e due angeli. L’importanza che Memling attribuì a questa dimostrazione della propria abilità attraverso effetti simili fa pensare agli elogi che l’umanista italiano Bartolomeo Fazio fece di Jan van Eyck nel suo De viris illustribus del 1456. Fazio descrive tra l’altro un’opera di questo pittore ora perduta, che si trovava in Italia e che lo aveva colpito soprattutto per lo specchio che vi era rappresentato, in cui si rifletteva tutta la scena43. L’autore non deve esser stato l’unico ad esprimere tale ammirazione, ma deve averla condivisa con il proprietario del dipinto e con altri amanti d’arte in Italia. Memling potrebbe essere venuto a conoscenza di una tale stima per Van Eyck. Tra i pittori al di là delle Alpi, Fazio, nel suo libro, oltre a Jan van Eyck, cita anche Rogier van Weyden44. Fa menzione di una sua pala d’altare, anch’essa perduta, che vedeva Adamo ed Eva raffigurati su una delle ali; di essa elogia la resa dei corpi nudi. Nella Deposizione dalla Croce, sul pannello centrale, afferma che la Madonna, Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea sono ritratti con una tale espressione di dolore e lacrime da non poterli distinguere da persone reali. A proposito di una serie di arazzi con scene della Passione di Cristo su disegno di Rogier, fa notare l’abilità del pittore nel saper descrivere ogni tipo di sentimento. Di ambedue le qualità, ovvero l’abilità nel saper dipingere i nudi e la rappresentazione delle emozioni, Memling dà ampiamente prova. Egli riunì in sé dunque le caratteristiche di Rogier e di Van Eyck che in Italia erano tenute in grande considerazione45. Naturalmente Memling non presuppose che coloro che fossero venuti ad ammirare il Giudizio Universale nella cappella di Angelo Tani – a parte alcuni intenditori – sarebbero stati in grado di stabilire quali elementi artistici erano stati attinti da Rogier van der Weyden e quali da Jan van Eyck. Ed ancor meno avrà pensato che si fosse potuto trovare un collegamento con i dipinti del Giudizio Universale di Beaune, Colonia e Diest. Il modo in cui egli, durante il processo di creazione, si era rapportato ad altri artisti era connesso al raggiungimento delle funzioni che l’opera doveva assolvere: una pala d’altare che incoraggiasse la venerazione di San Michele e la cui qualità stilistica rendesse onore sia a Tani che a Memling per l’abilità compositiva e la capacità di creare profondità, di rendere i corpi in complicate posture, di esprimere emozioni, di dare forma a figure e materiali e di riprodurre riflessi. Per questo Memling aveva attinto alle fonti che aveva a disposizione, puntando sull’apprezzamento del pubblico italiano per gli effetti illusionistici e la carica espressiva. Le lodi che Memling sperava di suscitare in Italia col suo Giudizio Universale non ci furono perché il trittico non vi arrivò mai. Nell’aprile del 1473 l’opera venne imbarcata per essere trasportata a Firenze; il suo completamento lo impegnò dunque per un lungo periodo di tempo. La nave, che era diretta a Southampton, fu dirottata da pirati provenienti da Danzica a largo della costa di Gravelines, su mandato dell’Hansa tedesca che era in guerra con l’Inghilterra. Essi portarono la nave con il suo carico nella loro città, dove il dipinto di Memling è tuttora conservato. Tuttavia, prima dello svolgersi di questo dramma, il Giudizio Universale deve essere stato osservato attentamente da un certo numero di italiani che inoltre dovettero seguire con interesse il suo completamento: si trattava dei membri della colonia di mercanti fiorentini a Bruges. Il loro coinvolgimento può essere dedotto osservando quei beati della tavola centrale e del pannello sinistro che mostrano lineamenti tanto caratterizzati da poter essere considerati dei ritratti di impiegati della filiale dei Medici e di altri uomini d’affari fiorentini attivi a Bruges. Essere immortalati, pur se in maniera piuttosto inusuale, in un’opera tanto prestigiosa doveva essere un onore e, per questo, dovettero senza dubbio contribuire al finanziamento del dipinto46.
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
fig. 10 - Hans Memling, Trittico col Giudizio Universale, interno: L’anima eletta sulla bilancia di San Michele (Tommaso Portinari). Gdansk, Muzeum Narodowe
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Soltanto uno dei personaggi ritratti può essere identificato con certezza e la sua presenza pone subito alcune domande importanti: il beato sulla bilancia con le mani giunte rappresenta niente meno che Tommaso Portinari (fig. 10). Come può aver consentito Angelo Tani – anche se dietro pagamento – che il rivale che aveva tramato alle sue spalle e l’aveva soppiantato potesse occupare un posto così prominente nell’opera con la quale egli stesso cercava di riabilitare il suo onore intaccato? Per la risposta a questa domanda è particolarmente importante notare il modo in cui il ritratto dei Portinari è stato eseguito: la testa ritratta si trova su un supporto di foglio di stagno incollato sul quadro. Esistono altri esempi di ritratti dipinti non direttamente sul pannello ma su un supporto separato, sia foglio di metallo, sia pergamena o carta47. Curiosamente ciò è avvenuto anche per il ritratto di Tommaso sul Trittico Portinari stesso. Per poter spiegare questa pratica nel caso di Portinari, si ritiene che questi ritratti separati venissero eseguiti prima di suoi soggiorni in Italia, per permettere agli artisti di realizzare, durante la sua assenza, le parti dell’opera in cui doveva essere raffigurato: la testa, al momento opportuno, poteva essere così semplicemente inserita48. È tuttavia in dubbio se un’eventuale assenza di Portinari venisse vista come un problema tale da giustificare la creazione di queste teste staccate. La sua fisionomia poteva infatti essere facilmente stabilita con l’aiuto di uno studio preparatorio su carta, del disegno sul pannello e di indicazioni sull’utilizzo dei colori (vedi cat. n. 3). A parte ciò, per il Giudizio Universale – il ritratto di Tommaso nel Trittico Portinari sarà trattato in seguito – l’argomentazione dell’assenza di Tommaso è a malapena plausibile: nella primavera del 1469 egli viaggiò con Angelo verso l’Italia e tornò sul finire dello stesso anno. Al suo ritorno il trittico era ben lontano dall’essere completato; è perciò improbabile che non si potesse aspettare il suo ritorno per eseguire il ritratto. Sembra più credibile che si decidesse di ritrarre Portinari solo dopo che furono dipinte tutte le figure49. Delle cattive condizioni della testa già si faceva menzione alla fine del XVIII secolo e, alla metà del XIX secolo, essa fu perciò ridipinta, preservandone tuttavia i lineamenti50. La rovinosa condizione si spiega facilmente se si considera che la testa servì per coprirne una già eseguita, non intesa come ritratto, e che quindi fu incollata su una superficie già dipinta. Ciò indica che Tani in origine non volle affatto Portinari sul trittico, il che è più che comprensibile. Sul perchè infine Tommaso venisse comunque ritratto si possono fare solo supposizioni, ma la motivazione andrebbe cercata piuttosto nella sua abilità ad ottenere ciò che voleva che non in un improvviso gesto conciliante da parte di Angelo. Non è da escludere che Portinari si sia rivolto ai Medici per mettere Tani sotto pressione, ottenendo come conseguenza che gli venisse comunque concesso un posto, anzi un posto d’onore, nella pala d’altare. I Medici a lui infatti non affidarono alcuna cappella nella Badia, e di certo non lo compensava il fatto che suo fratello maggiore invece ne avesse una. Con la cappella di Pigello Portinari era rappresentata la filiale milanese, con quella del Tani la filiale di Bruges, nonostante in quell’epoca essa fosse sotto la direzione di Tommaso. Quest’ultimo potè perciò aver insistito presso i Medici al fine di potersi mostrare nella Badia tramite una sua posizione prominente nel trittico di Angelo ed essi potrebbero in seguito aver convinto Tani, il quale d’altronde aveva bisogno della collaborazione di Portinari per il trasporto del dipinto da Bruges a Firenze. Con l’aggiunta del ritratto di Tommaso, il Giudizio Universale di Memling divenne ancor di più un documento su posizioni e rapporti sociali: un documento che narra di un uomo d’affari giunto alla fine della sua carriera, il quale, attraverso un dipinto, voleva affermare il suo status; di un pittore promettente che voleva dimostrare di non essere inferiore al suo maestro e di un altro uomo d’affari che aveva soppiantato il primo ma che ancora voleva rivaleggiare con lui. Della competizione di Tommaso con Angelo è testimone anche il Trittico Portinari. TOMMASO PORTINARI E LA FILIALE DEI MEDICI La gelosia di Portinari nei confronti di Tani, al tempo in cui quest’ultimo era alla direzione della filiale dei Medici, era associata alla sua ambizione a occupare una posizione di rilievo nella società borgognona51. Nel 1465, anno in cui aveva preso le redini della filiale, Tommaso concluse un importante accordo con Filippo il Buono, che gli fece ottenere i diritti di dazio presso Gravelines. Questi diritti erano appartenuti fino ad allora a Giovanni d’Arrigo Arnolfini, originario di Lucca, che già in precedenza aveva dovuto cedere alla filiale dei Medici il ruolo di maggiore fornitore di seta della corte borgognona. L’anno successivo Portinari provvide a trovare una degna sede di rappresentanza; comprò infatti per Piero de’ Medici il palazzo di Pierre Bladelin, uno dei più illustri consiglieri di Filippo il Buono, e vi istallò la filiale. Sulla facciata esterna vi furono collocati ad un certo punto due medaglioni con i ritratti di Lorenzo de’ Medici e sua moglie Clarice Orsini. Un importante intento di Portinari fu quello di rafforzare i rapporti con Filippo il Buono e suo figlio Carlo il Temerario, anche se ciò era l’esatto contrario del desiderio di Piero de’ Medici, il quale lo ammonì di non sprecare il suo tempo presso la corte di Borgogna. Ma fu come parlare a un sordo e Tommaso, per compiacere Filippo, fece acquistare dal Banco dei Medici due galee del duca appena costruite, di cui quello si voleva disfare, avendo rinunciato ad utilizzarle per
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prender parte ad una crociata. Piero de’ Medici non ne fu affatto felice ed anzi volle anch’egli disfarsene – non a torto, dal momento che una delle due galee era quella che più tardi, con il Giudizio Universale di Memling a bordo, sarebbe stata saccheggiata. Tommaso si rese utile alla corte borgognona anche in altri modi. Fu incaricato da Carlo il Temerario per missioni diplomatiche e in tal senso venne coinvolto nelle trattative con Edoardo IV d’Inghilterra che portarono Carlo a convogliare a nozze con la sorella del re, Margherita di York, nozze che furono celebrate nel 1468, un anno dopo che Carlo era succeduto a suo padre. In occasione del matrimonio la filiale dei Medici fornì al duca un grande quantitativo di sete preziose. Durante i festeggiamenti Portinari capeggiò la colonia mercantile fiorentina e vestì come un consigliere di Borgogna, poiché Carlo lo aveva insignito di tale carica. Nel corso del soggiorno di Tommaso a Firenze nel 1469, il rapporto di lavoro di questi con i Medici venne prolungato; egli si sposò poi con Maria Baroncelli, che aveva circa quattordici anni e che venne a Bruges l’anno successivo. Deve essere stato in occasione del matrimonio che Portinari commissionò due opere a Memling. Una era un trittico con la Madonna e il Bambino sul pannello centrale e due i coniugi sulle ali, di cui solo i ritratti si sono conservati (New York, The Metropolitan Museum of Art). La seconda è un pannello con scene della Passione di Cristo; su di esso Tommaso e Maria sono rappresentati come piccole figure inginocchiate agli angoli (vedi cat. n. 23). Il ritorno di Portinari a Bruges, intorno alla fine del 1469, coincise con la morte di Piero de’ Medici; Lorenzo e Giuliano divennero così i suoi datori di lavoro e soci in affari. Dopo relativamente poco tempo Tommaso acquisì più peso come socio, senza essere più obbligato a tenere residenza fissa a Bruges e potendo quindi liberamente tornare in Italia. Inoltre, mentre prima era stato esplicitamente ammonito a fare meno affari possibili con Carlo il Temerario, e soprattutto a non prestargli del denaro, visti i rischi finanziari che ciò comportava, aveva ora il permesso di prestare somme al duca sino ad un certo massimale. In un contratto del 1473, che non fu sottoposto al Tani, sebbene egli fosse ancora socio, tale restrizione venne annullata e Tommaso ebbe libertà d’azione come mai prima d’ora. L’anno in cui la sua carriera toccò l’apice fu nello stesso tempo un anno catastrofico, a causa della perdita della galea che, assieme al Giudizio Universale di Memling e ad un’altra pala d’altare, trasportava un prezioso carico di mercanzie52. Il saccheggio della nave causò grande agitazione: Paul Benecke, il capitano dei pirati, fu scomunicato dal papa e anche Carlo il Temerario, la cui bandiera era issata sulla nave, fece sentire la sua voce. La questione si trascinò all’infinito e soltanto alla fine del XV secolo la città di Bruges si dichiarò disponibile, in quanto membro dell’Hansa, a risarcire il danno. Solo negli anni successivi tuttavia si avranno i peggiori fallimenti, conseguenza dell’agire irresponsabile di Portinari, reso possibile dal disinteresse di Lorenzo de’ Medici per gli affari. Spinto dal desiderio di essere “intimo” di Carlo il Temerario, Tommaso presta al duca somme inaudite. E non solo questo: nel momento in cui la filiale di Londra risulta non più sanabile, tanto che i Medici decidono di disfarsene, Tommaso se ne accolla i debiti. Lo fa senza informarne Tani, malgrado egli sia suo socio presso la filiale di Bruges e avesse dedicato tutti i suoi sforzi alla salvezza di quella londinese. A dispetto dei suoi accordi con i Medici, Portinari investe inoltre del denaro in una spedizione di Portoghesi in Africa. Quando nel 1477 Carlo il Temerario muore in battaglia presso Nancy, tutte le conseguenze disastrose della politica di Tommaso vengono alla luce. Lo stesso anno, Portinari parte per l’Italia; prima si ferma a Pisa, poi, a partire dalla primavera del 1478, soggiorna a Milano, da lì visita Firenze. Arrivatovi probabilmente nel momento in cui i Pazzi muovono il loro attentato nei confronti dei Medici, in cui Giuliano viene assassinato, Tommaso difficilmente può aver avuto l’occasione di consultare Lorenzo il Magnifico. In autunno fa venire sua moglie e i bambini a Milano: non vede evidentemente alcuna prospettiva di tornare a Bruges e cerca sostegno alla sua precaria situazione presso Bona di Savoia, reggente di Milano. Nel 1479 il Magnifico fa redarre un memorandum sulle gigantesche perdite della filiale di Bruges e vi fa annotare sarcasticamente: “questi sono i ghuadangni grandi che ci à assengniati il ghoverno di Tommaxo Portinari”53. Osserva poi che Tommaso “per entrare in grazia del prefato Ducha et farssi grande alle nostre spese, non se ne churava”54. Lorenzo decide di rompere i legami con Portinari lasciandogli la filiale con tutti i debiti e invia lo stesso anno un agente a Bruges, cosicché Tommaso si vede costretto a tornare. Anche Tani va a Bruges per sistemare i suoi affari; nel suo viaggio di ritorno attraverso la Francia gli viene offerto da Luigi XI il prestigioso incarico di “contrôleur général des finances”, ma egli si ritiene troppo anziano e debole per poter accettare55. Sulla base di una recente indagine storica, a difesa di Portinari si è avanzata l’ipotesi che egli non agisse a casaccio ma che la morte di Carlo il Temerario fu per lui un contrattempo imprevisto56. Ciò non toglie che corse dei rischi, perdendo di vista gli interessi dei Medici, benché come direttore della loro filiale avesse soprattutto il dovere di curarne gli affari nel modo migliore. Tommaso deve certamente aver avuto grandi capacità, non tanto in affidabilità, quanto a forza di persuasione. Ri-
fig. 11 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari, esterno (ciascun sportello cm 253 x 141). Firenze, Galleria degli Uffizi
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
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uscì infatti a influenzare talmente bene l’agente mandato dai Medici a Bruges, che questi propose a Lorenzo di continuare lo stesso la collaborazione. Ciò era naturalmente fuori questione, ma Portinari ottenne tra le altre cose il permesso di disporre per altri quattro anni del palazzo di Bladelin. Il resto della sua vita è dominato da complicazioni finanziarie: tentativi di scrollarsi di dosso i creditori, di ottenere un risarcimento per la galea razziata e di far riscattare i debiti di Carlo il Temerario dalla figlia Maria di Borgogna e da suo marito Massimiliano d’Austria, il quale come pegno gli cede “la riche Fleur de Lys de Bourgogne”. Tommaso colloca l’enorme gioiello nell’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, al quale era anche destinato il Trittico Portinari. Come a suo tempo Carlo il Temerario, Massimiliano nota le abilità diplomatiche del Portinari e nel 1486 lo invia a Milano per negoziare con Ludovico il Moro. A ciò segue la riconciliazione con Lorenzo il Magnifico. Anche lui, malgrado gli accadimenti, non era insensibile alle qualità diplomatiche di Tommaso: su sua richiesta Portinari va nel 1489 in Inghilterra per concludere un accordo commerciale. Nei Paesi Bassi agisce come ambasciatore fiorentino presso Massimiliano, mentre le colonie mercantili italiane, che avevano lasciato Bruges a causa delle rivolte politiche, lo nominano rappresentante di Firenze nelle trattative con la città per un loro ritorno. Quando Filippo il Bello prende il potere, chiede nel 1496 a Tommaso di portare avanti un importante accordo commerciale tra l’Inghilterra e i Paesi Bassi. Portinari deve aver avuto dunque un carisma particolare per riuscire ad ottenere ancora, dopo un carriera talmente disastrosa, incarichi così importanti e prestigiosi! Dopo aver passato i suoi affari di Bruges nelle mani di due nipoti, figli del fratello Pigello, Tommaso vive dal 1497 sino alla sua morte, nel 1501, a Firenze. Lorenzo il Magnifico ed Angelo Tani non sono più lì; come Caterina Tanagli, morirono nel 1492. Angelo e Caterina non furono seppelliti nella loro cappella presso la Badia a Fiesole bensì a Santa Maria Novella a Firenze. Durante gli ultimi anni della sua vita, Portinari occupa incarichi importanti a Firenze: Gonfaloniere della Compagnia del Popolo, uno degli Otto della Guardia e Balìa, e uno dei Sei dell’Arte della Mercanzia. Muore nell’ospedale di Santa Maria Nuova e viene seppellito nella tomba di famiglia che si trova nella chiesa dell’ospedale, di fronte all’altare maggiore con la pala d’altare che gli porterà fama permanente. IL TRITTICO PORTINARI DI HUGO VAN DER GOES Il Trittico Portinari (figg. 11, 12) fu creato per Sant’Egidio, la chiesa dell’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, fondato da un antenato di Tommaso, Folco Portinari, nel XIII secolo, e da allora rimasto sotto la tutela della famiglia Portinari57. Sulle pareti della chiesa erano scene tratte dalla Vita della Vergine e immagini di santi realizzati da Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alessio Baldovinetti; questi dipinti sono andati quasi completamente perduti. Nel 1483 “la tavola d-altare che mandò Tomaxo Portinarj da Bruggia” viene citata nei conti dell’ospedale in relazione al pagamento del trasporto del dipinto da Bruges a Firenze58. Come per il Giudizio Universale di Memling, non si hanno notizie sugli accordi per la commissione. L’attribuzione a Hugo van der Goes si fonda su un passo della Vita di Andrea del Castagno del Vasari riferito a “Ugo d’Anversa, che fe la tavola di Santa Maria Nuova di Fiorenza”59. Sebbene Van der Goes non vivesse ad Anversa, ma a Gand, ed in seguito si ritirasse in un monastero della “Devotio Moderna”, vicino a Bruxelles, dove rimase attivo come pittore, non vi devono essere dubbi sull’indicazione del Vasari. Hugo van der Goes era molto conosciuto ai suoi tempi ed è impensabile che un’opera prestigiosa come il Trittico Portinari sia stata realizzata da uno sconosciuto pittore omonimo. L’opera è stata pertanto considerata dagli storici dell’arte come punto di partenza per ricostruire l’intero corpus di Van der Goes, del quale nessun’altro dipinto che si conserva è documentato. Per stabilire quando l’artista abbia cominciato a lavorare al Trittico Portinari è importante ricordare che il più giovane dei bambini raffigurati assieme ai donatori nei pannelli laterali dell’interno del trittico, ovvero Pigello, nacque non prima del 1473, e che i bambini ritratti sono tutti e tre presenti anche nel disegno sottostante. La commissione può comunque essere stata decisa ben prima della nascita di Pigello. Nel 1472 Portinari mise a disposizione dell’ospedale una certa somma di denaro affinché si officiassero due messe al giorno per la salvezza della sua anima, una in Sant’Egidio e l’altra alla Santissima Annunziata (vedi il saggio di Rohlmann in questo catalogo, pp. 66-83). Probabilmente già allora egli pensava di poter, a breve, abbellire con il dipinto commissionato a Van der Goes l’altare maggiore di Sant’Egidio, dove veniva detta la messa quotidiana da lui istituita. Infatti, difficilmente tale commissione può non essere messa in relazione con il Giudizio Universale di Memling che, l’anno in cui furono istituite le messe, se non proprio ultimato, era in ogni modo nella fase finale della sua esecuzione. A Tommaso il pensiero del prestigio che la monumentale pala d’altare fiamminga avrebbe portato a Tani, doveva dargli lo stesso fastidio di una spina nel fianco. Come precedentemente aveva mirato ad occupare la posizione di Angelo in affari e poi cercato di prender posto nella sua cappella, facendo collocare il suo ri-
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tratto in un punto prominente del Giudizio Universale, allo stesso modo Tommaso avrà deciso di togliergli il primato di maggiore committente fiorentino di arte fiamminga. L’idea di far realizzare un dipinto col quale poter superare Tani deve esser dunque venuta a Portinari durante l’esecuzione del Giudizio Universale di Memling. Intraprendente com’era, egli non avrà perso tempo e, appena presa la decisione, dovette incaricare Hugo van der Goes, l’artista più indicato a rivaleggiare con Memling. Non c’è da stupirsi che la realizzazione del Trittico Portinari prendesse il via non prima del 1473: il pittore doveva certamente prima ultimare altre opere, e, secondo le notizie di un suo contemporaneo, lavorava molto lentamente60. Viste poi le grandi dimensioni della pala d’altare, c’era bisogno del tempo necessario per disegnare gli studi preparatori, far costruire i pannelli dal falegname e stendere le mani di fondo. L’esecuzione pare sia stata compiuta in due fasi. Nella primavera del 1476 Hugo van der Goes lasciava Gand per
fig. 12 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari, interno (pannello centrale cm 253 x 304; ciascun sportello cm 253 x 141). Firenze, Galleria degli Uffizi
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diventare novizio a Rooklooster, un monastero situato nel Zoniënwoud, nei pressi di Bruxelles. Un anno dopo professò ivi i voti di frate laico e solo allora decise di disdire l’affitto della sua casa di Gand; ciò indica che durante il periodo di prova del suo noviziato abbandonò il suo atelier in quella città, e dopo la sua entrata definitiva nell’ordine riprese effettivamente la sua attività di pittore. Si è supposto, per motivi stilistici, che i pannelli laterali del Trittico Portinari siano più tardi rispetto al pannello centrale61. Se ciò è corretto, Hugo potrebbe aver ultimato la scena principale prima della sua definitiva partenza da Gand, ed aver cominciato a dipingere i pannelli laterali nella primavera del 1477. Viste le vicende finanziarie di Portinari in quell’anno, e considerata la sua partenza per l’Italia, è probabile che egli in quel periodo non abbia avuto la possibilità di far visita a Van der Goes presso Rooklooster. Al fine di potersi comunque pronunciare riguardo l’esecuzione del suo ritratto dipinto sull’ala sinistra dell’interno del trittico, egli, vista la sua fa-
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miliarità con il procedimento usato per il Giudizio Universale, potrebbe aver proposto al pittore di eseguire la testa ritratta su un altro supporto, in questo caso, pare, pergamena o carta62. Hugo potrebbe dunque essere venuto a Bruges per dedicarsi al ritratto, sotto l’occhio vigile di Tommaso, o per farsi da lui approvare una testa già precedentemente dipinta. Sebbene la pala arrivasse a Firenze solo nel 1483, ciò non vuol dire che il suo compimento si sia fatto attendere tutto quel tempo. Van der Goes morì in quell’anno, o l’anno prima, ed il Trittico Portinari precede alcune altre opere che egli dipinse nell’ultimo periodo della sua vita. L’artista inoltre, poco prima della sua morte, venne colpito da una malattia mentale che per un certo periodo gli rese impossibile il lavoro. È perciò probabile che la tavola fosse completata intorno al 1478. Evidentemente i problemi finanziari di Portinari ebbero conseguenze sul pagamento a Van der Goes e ciò potrebbe aver ritardato il trasferimento dell’opera a Firenze, avvenuto probabilmente dopo la morte del pittore. Il periodo di realizzazione del Trittico Portinari coincide con gli anni più movimentati della vita di Tommaso: anni in cui, passando dalla gloria alla disgrazia, egli cercò di rialzarsi. Il fatto che il dipinto possa considerarsi una manifestazione di gran sicurezza di sé ha per noi un significato particolare, sapendo quanto tale sicurezza, negli anni di realizzazione dell’opera, subisse un duro colpo. Per dare forma alle sue ambizioni di committente, Portinari dipendeva dal talento di Van der Goes. Anche la vita dell’artista, nel corso dell’esecuzione del trittico, conobbe radicali cambiamenti: da artista di fama a Gand a monaco. Sebbene nel nuovo ambiente Van der Goes fosse circondato di riguardi e onorato da visite di persone altolocate, tra cui Massimiliano d’Austria, tale posizione privilegiata fu causa di problemi. Durante la sua malattia mentale, descritta in dettaglio dal confratello Gaspar Ofhuys, l’artista fu assalito da terribili sensi di colpa che gli fecero credere di meritare la dannazione63. Ofhuys individuava la causa della malattia di Hugo negli onori ricevuti per la sua arte, onori che lo resero superbo; per questo Dio lo avrebbe colpito con tale male, al fine di non gettarlo nella perdizione. Secondo Ofhuys, Hugo ne era cosciente e dopo la malattia ebbe un atteggiamento più umile. Oltre che con il suo status di artista famoso, Hugo, nel monastero, deve aver lottato anche con le sue ambizioni artistiche. Nelle opere che dipinse dopo il Trittico Portinari infatti, egli sviluppò uno stile meno attento agli effetti esteriori, in linea con le idee sulla meditazione propagate dalla “Devotio Moderna”. Egli avrebbe pertanto consapevolmente preso le distanze dalle capacità dimostrate nel Trittico Portinari, e cioè il saper impressionare lo spettatore attraverso un uso, il più possibile ricco e virtuosistico, dei mezzi di rappresentazione. Siccome egli completò questa opera in monastero, già durante la sua lavorazione doveva aver riflettuto su come avrebbe potuto dare ad i suoi dipinti successivi un aspetto più conforme ai suoi ideali religiosi64. Non meno che in Portinari, anche in Van der Goes la sicurezza di sé si trovò a vacillare, non però per circostanze esteriori, quanto per un tormento interiore. Riguardo le ambizioni riposte da Hugo nel Trittico Portinari, è interessante l’osservazione dell’umanista tedesco Hieronymus Münzer, il quale visitò Gand nel 1495 e vi ammirò il polittico dell’Agnello Mistico di Hubert e Jan van Eyck. Secondo Münzer “apparve un altro grande pittore che volle imitare questo dipinto nelle sue opere, egli è diventato melanconico ed insipiente”65. La frase sottolinea la grandezza del dipinto dei fratelli Van Eyck al quale viene attribuita una forza quasi magica che porta, chi voglia imitarlo per superbia, ad essere punito. Al di là degli aspetti mitici che contiene, l’affermazione non necessariamente è del tutto campata per aria, in quanto è pertinente agli intenti di Hugo van der Goes, sempre che si voglia intendere la frase “imitare questo dipinto” nel senso di creare un’opera equivalente alla pala dei Van Eyck e non di eseguirne una copia letterale. Come verrà discusso qui di seguito, il Trittico Portinari può essere in effetti visto come un’opera con cui Van der Goes cercò di eguagliare l’Agnello Mistico. La fonte della notizia riportata dall’umanista tedesco potrebbe individuarsi nella voce circolata a Gand, tra i conoscenti dell’artista, che questi sarebbe divenuto pazzo per l’ambizione, mentre lavorava al Trittico Portinari. Senza approfondire le reali motivazioni che furono alla base dei disturbi psichici di Hugo, la constatazione di Münzer può essere presa come punto di partenza per avanzare l’ipotesi che Van der Goes cercò di creare un dipinto non inferiore al polittico dei Van Eyck66. Con un’opera così concepita, Hugo poteva mettere in ombra il Giudizio Universale di Memling, che probabilmente non vide mai. È ovvio che il Trittico Portinari non può essere paragonato all’Agnello Mistico alla pari di quanto il Giudizio Universale di Memling è paragonabile a quello di Rogier van der Weyden, perché per quanto riguarda i soggetti le opere di Van der Goes e dei Van Eyck sono creazioni del tutto diverse. Come modelli diretti della scena centrale Hugo prese, come vedremo, altre rappresentazioni della Natività. Il rapporto di emulazione che intercorre tra il Trittico Portinari e l’Agnello Mistico diviene chiaro però nella dimensione e nella scala di rappresentazione usata da Van der Goes. Aperto, il polittico misura 3,75 circa in altezza e 5,20 in larghezza, il Trittico Portinari (senza le cornici attuali) è alto circa 2,50 metri e largo 5,85 metri. Sono dunque i due dipinti neer-
fig. 13 - Rogier van der Weyden, Trittico Bladelin, pannello centrale (cm 93, 5 x 92). Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie. fig. 14 - Robert Campin, Natività (cm 85,7 x 72). Dijon, Musée des Beaux-Arts.
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landesi del XV secolo più grandi che si sono conservati. L’impostazione compositiva è tuttavia completamente diversa; nel momento in cui il Trittico Portinari venne dipinto, circa quarant’anni dopo il polittico dei Van Eyck, un’opera così ripartita non andava più di moda. Hugo utilizzò tale grande formato non per mostrare molteplici rappresentazioni, ma per dare ad ogni scena un carattere di monumentalità. All’esterno è rappresentata solamente un’Annunciazione, nella quale Van der Goes scelse di rappresentare la Vergine a sinistra e l’angelo a destra, formula poco consueta nell’arte neerlandese dei suoi tempi; tale variante riporta a mente l’ordine gerarchico applicato alla Madonna con Bambino e al San Michele sull’esterno del Giudizio Universale di Memling67. Non è quindi da escludere che la conoscenza di Portinari di quest’opera abbia inciso nella scelta di questa disposizione. Naturalmente, un’affinità si ritrova anche nella rappresentazione dei santi come sculture monocrome; a tale riguardo Hugo si riallaccia alla stessa tradizione cui si rifà anche Memling. Nell’Annunciazione, sull’esterno del polittico dell’Agnello Mistico, i quattro pannelli a disposizione della scena non si prestavano a rappresentare la Vergine e l’angelo come sculture, ma Jan van Eyck li ha così raffigurati sui pannelli esterni del trittico di Dresda (Dresda, Gemäldegalerie) e sui pannelli dell’Annunciazione, nella collezione Thyssen-Bornemisza (Madrid). Egli possedeva una grande abilità nel far assomigliare figure dipinte a statue, riusciva infatti con l’aiuto di un raffinato uso del colore e della luce ad evocare la suggestione della pietra. Hugo andò ancora oltre rappresentando le figure della sua Annunciazione non solo come statue, ma come statue che sembrassero vive. Erwin Panofsky su queste pseudo-sculture di Van der Goes scrisse che esse sembrano aver avuto una doppia metamorfosi: come esseri umani prima trasformati in pietra e poi riportati in vita68. Ma si potrebbe parlare anche di doppia metamorfosi nel senso che la pittura sembra essersi trasformata in pietra e la pietra poi riportata in vita. Sull’interno del trittico la scena centrale è dedicata alla Natività, sui pannelli laterali sono raffigurati i donatori con i loro bambini ed i santi onomastici. La scelta del soggetto della Natività è da collegarsi con l’ubicazione della tavola: come parte di un ciclo con scene della vita di Maria, di cui le altre rappresentazioni erano dipinte sulle pareti ai lati dell’altare maggiore. La scena della Natività di Van der Goes occupava dunque la posizione centrale entro questo ciclo. Alcuni elementi della composizione sono tratti dalla Natività sul pannello centrale del Trittico Bladelin di Rogier van der Weyden (fig. 13) e dalla Natività del suo maestro, Robert Campin (fig. 14)69. Il lato della stalla dietro a Maria, come per la stalla di Van der Weyden e Campin, corre in profondità da sinistra verso lo sfondo. La Madonna è rappresentata diagonalmente nella stessa direzione della stalla e corrisponde perciò alla Madonna di Campin; la figura stessa invece è ripresa specularmente dal Trittico Bladelin. Come in Van der Weyden e Campin, Maria adora il Bambino nudo posato in terra. Il posto che San Giuseppe occupa nella composizione e la presenza di una colonna classica, che probabilmente rimanda alla colonna cui, secondo la leggenda, la Vergine si appoggiò durante la Natività70, sono ripresi dal Trittico Bladelin. Per i tre caratteristici pastori che adorano il Bambino, Van der Goes sembra essersi ispirato alla Natività di Campin. Questa ed il Trittico Bladelin sono considerati attualmente le più importanti rappresentazioni della Natività nella pittura neerlandese del XV secolo precedente al Trittico Portinari; le analogie che la scena di Hugo presenta con queste opere suggeriscono che esse ai loro tempi avessero già una fama simile a quella che hanno oggi. Considerato il rapporto del Trittico Portinari con il Trittico Bladelin – molto stretto visto che Van der Goes riprese fedelmente dal modello la figura di Maria –, è interessante ricordare che Portinari risiedeva nel palazzo di Bladelin. Prima che, dietro suo consiglio, il palazzo fosse comprato dai Medici, il Trittico Bladelin potrebbe essersi trovato lì, suscitando, come
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per il caso della sede che lo alloggiava, l’ammirazione e l’invidia di Tommaso. Nonostante Hugo fosse debitore di queste opere, egli impostò la sua rappresentazione in altra maniera. Campin diede profondità alla sua Natività con l’aiuto della stalla posta obliquamente e con un cerchio attorno al Bambino formato da Maria, San Giuseppe e le levatrici. Van der Weyden seguì Campin nella posizione della stalla ma ambì in misura minore a un effetto tridimensionale nella disposizione delle figure, distribuite in larghezza per tutto il campo spaziale; in tal modo egli ottenne unità nella composizione. Anche Van der Goes riempì l’intero piano pittorico con figure; creò al contempo profondità su entrambe i lati, corredando la stalla sul lato destro di una struttura aperta in legno, la quale, come la parte sinistra, è accorciata prospetticamente. Pose sullo sfondo un grande edificio parallelo al piano dipinto che, come si evince dallo scudo con un’arpa posto sopra il portale, era una volta il palazzo di Davide, dalla cui tribù nacque Cristo. Il punto di fuga prospettico si trova proprio nel portale; Hugo conosceva dunque le regole per la costruzione di una prospettiva centrale71. La base , delimitata dalla stalla e dal palazzo, dove si svolge la scena della Natività va molto più in profondità rispetto alle altre due rappresentazioni di Campin e Van der Weyden e tale effetto prospettico è rafforzato dalla impostazione a cerchio delle figure. In questa impostazione la Natività di Hugo si avvicina alla scena dell’Adorazione dell’Agnello Mistico nel polittico dei fratelli Van Eyck: pure in esso vediamo una scena di adorazione che si estende in profondità e l’intero piano dipinto è ripartito con un ordine circolare delle figure, anche se esse si presentano in schieramenti serrati e mancano del carattere monumentale dei personaggi di Hugo. Nell’Adorazione dell’Agnello Mistico, l’oggetto dell’adorazione, l’Agnello sull’altare, è in effetti posto troppo in alto per poter essere il centro della composizione. Per questo probabilmente è stata aggiunta la fontana, la quale, come sembra dall’indagine tecnica, in origine non era stata prevista.72 Le figure poste in semicerchio in primo piano ottengono in questa maniera un proprio centro, ma, benché inginocchiate attorno alla fontana, rivolgono la loro adorazione all’altare con l’Agnello. Tali incoerenze in Van der Goes non ci sono: San Giuseppe, i pastori e gli angeli formano, assieme al bue e all’asino, il cerchio; la Vergine è posta su un raggio del cerchio ed il Bambino è al suo centro. In primo piano il cerchio è chiuso da un covone di grano, da un albarello e da un vaso di vetro contenenti fiori. Due angeli all’estrema destra,, con i loro visi rivolti allo spettatore, catturano il nostro sguardo e lo dirigono a sinistra, a far percepire questo ordine circolare. Hugo dimostrò ancor più la sua abilità nel saper ordinare le figure in profondità attraverso l’espediente degli angeli sospesi; essi formano un secondo cerchio meno severo, meno completo e posto più in dietro. Gli ultimi angeli in fondo ed il pastore che viene da dietro costituiscono un collegamento con il paesaggio. Dove inizia il paesaggio, dietro ad uno steccato, stanno le levatrici, note attraverso un vangelo apocrifo; ancora più in lontananza, su una collina, è rappresentata l’annunciazione della Natività ai pastori. Sull’ala sinistra sono dipinti Tommaso Portinari, i suoi figli Antonio e Pigello, San Tommaso con una lancia come attributo e Sant’ Antonio Abate con un campanello, un bastone ed un rosario; sull’ala destra Maria Baroncelli, sua figlia Margherita, Santa Maria Maddalena con il vasetto contenente l’unguento e Santa Margherita, con un drago ai suoi piedi. Mentre sui pannelli esterni del polittico dell’Agnello Mistico e del Giudizio Universale di Rogier van der Weyden e di quelli di
fig. 15 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari, interno, Pastori
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fig. 16 - Rogier van der Weyden, Polittico con il Giudizio Universale, pannello interno: Anima dannata
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Memling i donatori e i santi sono ben distinti tra loro attraverso la resa di questi ultimi come sculture, Van der Goes evidenzia le diverse realtà di cui fanno parte le figure celesti e quelle terrene dipingendo Tommaso e Maria più piccoli dei santi. I santi onomastici fungono come accompagnatori di Tommaso, Maria e i loro tre figli che si uniscono in devozione con le figure adoranti sul pannello centrale. San Tommaso con un gesto della mano introduce il capofamiglia Portinari alla Sacra Famiglia. Maria Maddalena, santa onomastica di Maria Baroncelli, sembra avere per la donna una ruolo di protettrice meno diretto poiché essa non si trova immediatamente accanto a lei ma sull’estrema destra. Dal punto di vista spaziale tuttavia essa è posta direttamente obliqua dietro a Maria Baroncelli, mentre Santa Margherita è un po’ più indietro73. La scelta di porre Maria Maddalena sul lato destro del pannello può essere spiegata dalle sue vesti che, nel soprabito chiaro ed i motivi a broccato, fanno da contraltare alla tunica scura di Sant’Antonio, dipinto all’estrema sinistra dell’altra ala. Nella zona inferiore dell’interno dell’Agnello Mistico, sui pannelli laterali e su quello centrale, sono visibili diversi paesaggi che tuttavia, grazie a una linea di contorno continua, sono collegati uno con l’altro, come se si trattasse di un’unica veduta. Nel Trittico Portinari, sui tre pannelli, si estende un unico paesaggio, la cui continuità è inoltre accentuata dalla architettura della stalla che si sviluppa anche sull’ala sinistra. In questa maniera le figure dei pannelli laterali risultano il più vicino possibile alla rappresentazione principale. Sulle ali del Trittico Portinari, nonostante discreti effetti spaziali come quello di Maria Maddalena posta obliquamente dietro a Maria Baroncelli, manca il forte effetto tridimensionale della Natività. Tale differenza, come pure l’uso di colori meno chiari, è vista come indicazione del fatto che le ali risalgono ad una data posteriore a quella del pannello centrale74. In realtà, benché tale esecuzione in fasi, a causa della partenza di Hugo per il monastero, sia probabile, la differenza nella resa della profondità tra il pannello centrale e quelli laterali è da ascriversi innanzitutto ai diversi temi trattati75. Anche sotto quest’aspetto vi è affinità con il polittico dei fratelli van Eyck, dove la scena centrale coll’Adorazione dell’Agnello Mistico è fiancheggiata da scene che suggeriscono una minore profondità. I giuidici, i cavalieri, gli eremiti e gli anacoreti che sono rappresentati su queste pannelli laterali, oltre ad essere più numerosi e molto più piccoli, si distinguono dai personaggi sulle ali del Trittico Portinari perché si dirigono a cavallo o a piedi verso l’evento che si svolge sul pannello centrale. Però, in entrambe le pale d’altare le figure dei pannelli laterali sono orientate in direzione dell’adorazione del Cristo, che è il soggetto della scena principale, e si trovano nel primo piano, mentre gli scenari paesaggistici sorgono dietro a loro. Nell’Agnello Mistico i paesaggi sono resi minuziosamente con rocce e alberi; nel Trittico Portinari sono meno dettagliati ma vivificati da scene narrative. Sull’ala sinistra vediamo Maria gravida con San Giuseppe che la sorregge mentre avanzano a piedi – accompagnati dall’asino e dal bue che troviamo anche nella stalla – attraverso le montagne, verso Betlemme. Sull’ala destra si avvicina verso Betlemme il serpeggiante corteo dei tre Magi; un gruppo di paesani ne osserva l’arrivo ed un vecchio indica ad un servitore la via per la stalla. Mediante queste scene, anche sulle ali del Trittico Portinari trova posto l’idea di movimento verso il luogo dove si svolge l’adorazione di Cristo76. I paesaggi sui pannelli laterali, con poca vegetazione e concepiti per piani paralleli alla superficie dipinta, che non danno quindi una forte illusione di profondità, rimandano all’arte di Rogier van der Weyden. In questo modo Van der Goes mostra la sua dimestichezza con i principi artistici di Rogier. L’attenzione di Hugo per entrambe le tradizioni, dei fratelli Van Eyck e di Van der Weyden, si esprime anche nella modellazione dei personaggi. Nel pannello centrale, la luce, proveniente da sinistra, cade sulla figura di San Giuseppe: dà volume alle sue vesti, illumina le sue rozze mani congiunte e sottolinea la robustezza dei suoi lineamenti. La testa, modellata da vigorosi effetti di chiaroscuro, è paragonabile alle teste di San Giovanni Battista, di Adamo, e degli anacoreti e eremiti dell’Agnello Mistico, ma Hugo è andato oltre, rendendo i contrasti di luce ed ombra meno netti e dando al volto un aspetto quasi pittorico. Per i lineamenti della Vergine è invece partito dall’estetica di Rogier van der Weyden; oltre al fatto che la posizione di questa figura è basata sulla Madonna del Trittico Bladelin, la Maria di Van der Goes ha un carattere lineare affine al suo
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modello. La luce scivola sul lato destro del suo pallido viso senza tuttavia creare un vero volume; colpiscono soprattutto le linee attraverso cui i tratti del volto sono descritti in maniera ancora più netta che nella Madonna di Rogier. Il linearismo del viso di Maria le dà una maestà sovrannaturale, rispetto alla quale le immagini della Vergine nel polittico dell’Agnello Mistico sembrano quasi tozze. Il contrasto nelle rappresentazioni di San Giuseppe e la Vergine è anche percettibile, pur se meno pronunciato, tra i santi e il committente da una parte e le sante, la committente ed i bambini dall’altro. Gesù Bambino ricalca i lineamenti del Bambino nel Trittico Bladelin; la maggioranza degli angeli ha volti netti e lineari, come pure la Vergine e l’angelo dell’Annunciazione sull’esterno. I volti dei pastori sono invece plasticamente modellati in chiaroscuro. Come per i paesaggi, anche per la stalla e per il palazzo di Davide i dettagli sono limitati, in conformità con il carattere monumentale delle composizioni. Però, il modo in cui la luce cade sulla colonna con crepe e buchi ricorda l’abilità dei fratelli Van Eyck a rendere suggestivamente i materiali. Il virtuosismo di Hugo nel descrivere i dettagli si evidenzia molto chiaramente nella natura morta in primo piano. I gigli, gli iris, le aquilege, i garofani e le viole simboleggiano la Passione di Cristo e le virtù e i dolori della Madonna77; il covone di grano rimanda al significato del nome Betlemme come ‘Casa del pane’, che veniva collegato al Cristo, il Pane Vivo. Van der Goes con raffinatezza fa vedere in trasparenza le spighe del covone attraverso il vaso di vetro con i fiori. Altre belle dimostrazioni di raffinato descrittivismo e resa dei materiali si notano nell’abbigliamento di Maria Maddalena e nelle vesti di alcuni angeli. La tradizione iconografica che voleva Maria Maddalena come un’ex cortigiana elegantemente vestita, offre lo spunto a Van der Goes per rendere tessuti di broccato e fodera di pelliccia e indugiare nella ricercata acconciatura. Gli angeli, a destra in primo piano, ricordano, per la ricchezza delle loro vesti liturgiche, gli angeli musicanti nel polittico dell’Agnello Mistico. Gli altri angeli, in terra ed in cielo, portano soltanto un camice, escluso l’angelo sospeso sopra la testa di San Giuseppe, il quale veste una preziosa cappa decorata con immagini del volto di Cristo. Ugualmente ornato è anche la cappa di uno degli angeli cantanti nell’Agnello Mistico. Nell’angelo accanto, a sinistra sopra la Madonna, la parte inferiore del vestito svolazza in alto con pieghe nette. Tale motivo tardo-gotico si distanzia notevolmente dall’arte dei Van Eyck, ma si ritrova negli angeli di Rogier van der Weyden e Robert Campin. La drammaticamente contrastata illuminazione di questo angelo non compare tuttavia in quegli artisti né tantomeno nei fratelli Van Eyck, benché questi ultimi siano i grandi maestri della luce. Nei Van Eyck la luce serve a rendere tangibile ogni essere, vegetale o oggetto; questa luce investe invece l’angelo di un’aura immateriale. Quest’angelo, col suo vivace panneggio – insieme agli angeli che volano sullo sfondo e, in lontananza, alla figura danzante di un pastore – dà alla scena della Natività una nota vivace, laddove, come nei pannelli laterali, sembra regnare una certa oppressione. I sorpresi e gioiosi volti dei pastori e l’allegro sguardo di Tommaso ed Antonio Portinari non riescono a cancellare la tensione espressa dagli altri volti. Questa sensazione di disagio è rafforzata dalla dimensione monumentale che costituisce uno degli aspetti salienti del Trittico Portinari; in tal senso quest’opera supera tutte le precedenti pale d’altare dell’arte neerlandese a noi conosciute. Anche nell’Agnello Mistico vi sono figure monumentali, ognuna però nel proprio pannello: Dio, la Madonna, San Giovanni Battista, Adamo e Eva. Per Van der Goes unire entro un’unica composizione figure di analogo formato e contemporaneamente applicare principi compositivi usati per le figure molto più piccole nella parte inferiore della pala dei Van Eyck deve aver rappresentato una sfida singolare. Lo sforzo necessario a tale fine si evidenzia osservando che le figure e i gruppi di Hugo sono inseriti in strutturate composizioni, ma non fanno parte dell’insieme in maniera naturale. D’altra parte, i particolari del dipinto si fanno anche ammirare come opere d’arte a sé e ciò vale soprattutto per il gruppo dei pastori (fig. 15). Contrariamente a Campin, Van der Goes dipinse i pastori nella loro interezza, trasformando le figurine di quello in grandi figure: in questo motivo Van der Goes superò Campin per lo straordinario realismo raggiunto grazie ad una magistrale resa dei volumi, della luce, dei dettagli e dei materiali, nonché attraverso una non meno magistrale espressione dei volti. L’ultimo pastore con la sua bocca aperta, con le sue labbra piene e bombate e con la sua pronunciata dentatura superiore dimostra una notevole somiglianza con uno dei dannati del Giudizio Universale di Rogier van der Weyden (fig. 16). Vi è analogia anche negli occhi spalancati, seppur nel dannato siano ancora più aperti quasi – per l’orrore – rischiassero di cadere fuori dalle orbite. Nel pastore è la meraviglia con cui osserva il Bambino che gli fa spalancare occhi e bocca. Mentre questa figura è molto commovente per la combinazione di goffezza e stupore infantile, gli altri due pastori ci colpiscono per la loro intensa quanto immobile emozione di fronte al Bambino. Con i pastori, Van der Goes dà prova di una grande capacità di immedesimazione psicologica e di amorevole attenzione che dona a queste figure un carattere senza tempo. Nel Trittico Portinari Hugo van der Goes sembra competere con l’Agnello Mistico, non ri-
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
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manendo il più possibile fedele alla tradizione dei Van Eyck, ma combinando i mezzi figurativi eyckiani con le tradizioni di Rogier van der Weyden e Robert Campin, e nell’applicare inoltre ciò che aveva preso in prestito dall’arte dei suoi grandi predecessori in scala maggiore, conferendovi una sua personale forma ed espressione. Certamente Van der Goes e Portinari non si aspettavano che questa emulazione della pala dei Van Eyck sarebbe stata riconosciuta come tale, a Firenze. La sfida, per loro, era quella di produrre un saggio insuperato di pittura fiamminga: una specie di campionario artistico che contenesse tutto ciò di cui gli artisti neerlandesi erano capaci e allo stesso tempo una dimostrazione che anche un pittore d’oltralpe sapeva dipingere figure in un stile grandioso. Nella sua aspirazione alla monumentalità Hugo volle probabilmente confrontarsi con gli artisti italiani. Attraverso disegni e descrizioni potrebbe essersi documentato sui dipinti di Domenico Veneziano, Andrea del Castagno ed Alessio Baldovinetti – al centro dei quali il Trittico Portinari avrebbe trovato la sua destinazione in Sant’Egidio – essendosi proposto come fine di non fare apparire le sue figure inferiori in dignità e maestà rispetto a quelle realizzate dai suoi colleghi fiorentini. Tale paragone sarà trattato più avanti nel saggio di Rohlmann presente in questo stesso catalogo. CONCLUSIONE Sia Angelo Tani che Tommaso Portinari vollero impressionare i Fiorentini con una pala d’altare di un grande maestro dei Paesi Bassi. Il bisogno che entrambi sentivano di mettersi in mostra attraverso un prestigioso trittico fiammingo non può non essere collegato alle loro carriere e alla loro rivalità. Tani desiderava un’opera grande e virtuosa che fosse basata sul Giudizio Universale di Rogier; deve essere stato per di più conforme al suo desiderio la raffigurazione così incisivamente espressa da Memling del ruolo protettivo di San Michele nelle vesti di combattente del male. Portinari volle una pala, ancora più grande ed impressionante di quella del Tani e forse diede personalmente indicazione a Van der Goes di quanto essa non dovesse essere inferiore al più importante dipinto neerlandese, il polittico dell’Agnello Mistico; potrebbe inoltre avergli suggerito come esempio da seguire il Trittico Bladelin. Degli aspetti più strettamente artistici, probabilmente i committenti non si erano preoccupati più di tanto, ma sicuramente Tani, dopo aver visto i disegni sottostanti nel suo trittico, dovette esigere di non lasciare fuori gli apostoli e di cambiare la posizione degli stemmi araldici. È possibile che, non solo Memling, ma anche lo stesso Tani fosse dell’idea che la rappresentazione dei beati e dei dannati dovesse contenere più dettagli narrativi di quanti ve ne fossero nel dipinto di Van der Weyden. In ogni caso, fu certamente con l’approvazione di Angelo che gli altri membri della colonia fiorentina – dietro pagamento – vennero accolti nelle schiere dei beati. Non sarà stato invece un suo desiderio la realizzazione del ritratto di Tommaso nel ruolo del beato sulla bilancia, la cui aggiunta, per volontà dello stesso Portinari, è comunque indicativa della relazione tra i due. Del coinvolgimento di Tommaso nella sua pala d’altare dà misura principalmente il fatto che lo stesso volle prima approvare il suo ritratto che, per questo motivo, fece dipingere anche questa volta su un supporto separato. Tanto Memling quanto Van der Goes hanno combinato nelle loro pale la tradizione di Rogier con quella eyckiana; ognuno in maniera molto personale. Per Memling l’arte del suo maestro fu il punto di partenza, e la seppe poi combinare in modo naturale con elementi tratti dall’arte di Jan van Eyck, che imparò a conoscere soprattutto a Bruges, una volta che vi si stabilì. Van der Goes prese il via dal polittico dell’Agnello Mistico che, come pittore attivo a Gand, doveva aver studiato come nessun’altro; i motivi stilistici desunti da quest’opera furono da lui affiancati per contrasto con i caratteri formali di Rogier, quali si riscontrano, tra gli altri, nel Trittico Bladelin. Memling fece uso delle tradizioni di Van der Weyden e Jan van Eyck per creare scene con innumerevoli figure ed una enorme varietà di virtuosistici dettagli; Hugo van der Goes portò tali tradizioni e la tradizione di Campin all’estremo applicandole su scala monumentale. Quale dei due dipinti, se il Giudizio Universale non fosse stato rubato ma avesse trovato il suo posto nella Badia di Fiesole, avrebbe impressionato maggiormente i pittori e gli amanti d’arte fiorentini...? La risposta possiamo soltanto immaginarla! Ringrazio Jacques Boogaart, Jan de Jong, Bert Meijer, Victor Schmidt e Henk van Veen per i loro commenti, Paula Nuttall per le stimolanti discussioni, e Molly Faries e Till-Holger Borchert per il permesso di osservare i riflettogrammi infrarossi del Giudizio Universale di Memling.
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Bernhard Ridderbos
Per i dati biografici su Angelo Tani, si veda WARBURG 1902, pp. 252-255; ROOVER 1963, Indice, p. 499; ROHLMANN 1994; pp. 42-43. 2 Per i dati biografici su Portinari, si veda WARBURG 1902, ed. 1932, pp. 257-262; GRUNDZWEIG 1931, pp. IX-XLI; ROOVER 1963, Indice, pp. 496-497; ROOVER 1966; ROHLMANN 1994, pp. 56-59; BOONE 1999; KOSTER 2003, pp. 164-166, 178-179. 3 GRUNDZWEIG 1931, pp. 53-63; ROOVER 1963, pp. 86-89. 4 GRUNDZWEIG 1931, pp. 64-70, i citati a pp. 66, 67. 5 Ibidem, pp. 122-125. 6 GUASTI, 1877, pp. 458-459; la descrizione di Alessandra Strozzi è già citata da WARBURG 1902, ed. 1932, p. 256 e anche da DE VOS 1994, p. 25. 7 NUTTALL 1992; ROHLMANN 1994, pp. 43-46; NUTTALL 2004, p. 54. 8 WARBURG 1902, ed. 1932, pp. 252-254. 9 Il Giudizio Universale fu attribuito per la prima volta a Memling nel 1843 da Heinrich Gustav Hotho; l’attribuzione fu seguita dalla maggior parte degli studiosi, ma l’opera fu anche considerata prodotto di Jan o Hubert van Eyck o della loro bottega, o (parzialmente) di mano di: Rogier van der Weyden e suoi collaboratori, Hugo van der Goes, il Maestro di Flémalle o Dirk Bouts. L’assegnazione a Memling, sostenuta anche da Max Friedländer e Erwin Panofsky, ha guadagnato sempre più terreno nel corso del XX secolo. Fu di nuovo messa in dubbio da McFarlane nella sua monografia su Memling, edita postuma nel 1971. Egli credeva che il Giudizio Universale fosse dipinto da uno sconosciuto maestro della scuola di Rogier van der Weyden; tale idea non ha però preso piede. L’indagine tecnica sul lavoro di Memling conferma l’attribuzione a questo maestro; BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 83-84, 91-93; DE VOS 1994, pp. 85-87; MCFARLANE 1971, pp. 16-27; FARIES 1997. 10 DE VOS 1994, pp. 87-88, afferma che la data sull’iscrizione [H]IC IAC[ET]/ANNO DOMI[NI]/CCCLXVII, che Memling ha aggiunto sul pannello centrale, su una pietra tombale alla destra di San Michele, debba essere letta come 1467 e che si riferisca ad una fondazione di Tani alla Badia; secondo lo studioso, la pala stessa deve esser stata per la maggior parte dipinta tra il 1467 ed il 1469. Con la sua interpretazione della data, De Vos si schiera tra gli autori che hanno collegato questa data alla datazione del dipinto o ad un fatto storico; BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 84-85; ROHLMANN 1994, p. 43. Rimane incerto se la data debba effettivamente essere completata e letta come 1467. Se viene semplicemente letta come 367, l’intenzione potrebbe essere di sottolineare che durante il Giudizio Universale risorgono i morti di tutti i secoli. Anche BIAŁOSTOCKI 1966, p. 94 e recentemente NUTTALL 2005, p. 55, sono dell’opinione che non si debba dare all’iscrizione troppa importanza. 11 Per i dati biografici su Angelo Tani, vedi WARBURG 1902, ed. 1932, pp. 252-255; ROOVER 1963, Indice, p. 499; ROHLMANN 1994, pp. 42-43. 12 ROOVER 1963, p. 332. 13 NUTTALL 2004, pp. 57-59, afferma che il ritratto è senza dubbio basato su un disegno fiorentino e evidenzia le analogie che l’esecuzione della bocca e degli occhi hanno con i ritratti fiorentini. 14 BORCHERT 2005, p. 25, suggerisce che Tani sia giunto a Bruges dall’Inghilterra nel 1468 per assistere al matrimonio di Carlo il Temerario con Margherita di York e in quell’occasione abbia commissionato il Giudizio 1
Universale. Secondo Borchert, Tani a Londra fu tra le altre cose incaricato di finanziare tale matrimonio; la filiale londinese infatti avrebbe prestato 10.000 sterline al re di Inghilterra Eduardo IV, il fratello di Margherita, in occasione dell’evento. La filiale in realtà procurò al re solo 1000 sterline a credito in tessuti di seta; ROOVER 1963, p. 332. Tani inoltre non faceva più parte della colonia fiorentina di Bruges ed aveva già abbastanza pensieri nel risolvere i problemi finanziari della filiale di Londra. È pertanto improbabile che si fosse recato nelle Fiandre solo per assistere alla cerimonia, anche perché vi sarebbe andato anche l’anno seguente. 15 DE VOS 1994, pp. 20-22; BORCHERT 2005, p. 12. 16 Qui si presenta un parallelo con Rogier van der Weyden, nel senso che egli poco dopo essere diventato maestro nel 1432, ricevette l’importante committenza della Deposizione dalla Croce (Madrid, Museo del Prado) da parte dei balestrieri di Lovanio. Tenendo conto che Rogier aveva già superato i trent’anni quando lasciò la bottega di Robert Campin a Tournai, prima, sebbene alle dipendenze di Campin, potrebbe aver esercitato già da anni la sua professione come artista esperto, e come tale essersi anche costruito una sua reputazione. Per maggiori delucidazioni sul ruolo di Rogier van der Weyden all’interno della bottega di Robert Campin, si veda KEMPERDICK 1997. 17 FARIES 1997. 18 DE VOS 1994. 19 È stato messo in evidenza già più volte che la posizione centrale riservata a San Michele nel Giudizio Universale di Rogier deve aver costituito uno dei motivi importanti per cui Tani abbia deciso di commissionare un dipinto che prendesse quest’opera come modello; ROHLMANN 1994, pp. 47, 139, nota 169. Secondo Rohlmann, Tani, in quanto capo della filiale dei Medici, che aveva stretti rapporti d’affari con la corte borgognona, deve avere certamente conosciuto Rolin. Anche LANE 1991, p. 629, presume che si conoscessero e riferisce, inoltre, che Tani deve normalmente aver viaggiato per terra quando si recava da Bruges a Firenze e viceversa e potrebbe, pertanto, aver visitato facilmente l’ospedale di Beaune. 20 Anche su questo argomento si può tracciare un parallelo con la Deposizione dalla Croce di Rogier van der Weyden. Così come il Giudizio Universale di Memling è legato a quello di Van der Weyden, la Deposizione dalla Croce non può prescindere da un dipinto dallo stesso soggetto di Robert Campin. Di quest’opera è conservato solo il frammento con il Ladrone Crocifisso (Francoforte, Städelsches Kunstinstitut); da esso si deduce che la Deposizione di Campin avesse, come quella di Rogier, dimensioni monumentali. L’intera composizione è nota attraverso una copia realizzata in scala minore (Oxford, Walker Art Gallery). Dal confronto tra la Deposizione di Van der Weyden con il frammento di Campin e la copia, risulta che Rogier sotto certi aspetti si sia ispirato all’esempio del maestro, ma che allo stesso tempo abbia impiegato invenzioni compositive personali. È chiaro che egli intendeva dipingere un’opera che fosse equivalente se non superiore alla Deposizione di Campin, poiché da un lato esprimeva la stessa abilità tecnica, dall’altro manifestava una personale interpretazione del soggetto; PANOFSKY 1953, pp. 256-258; RIDDERBOS 2005, pp. 23-28. 21 Per il Giudizio Universale di Rogier van der Weyden, si veda PANOFSKY 1953, pp. 268-272; BLUM 1969, pp. 37-48; DAVIES 1972, pp. 197-199; VERONEE VERHAE-
GEN 1973; FEDER 1976; LANE 1989; ASPEREN DE BOERDIJKSTRA-VAN SCHOUTE 1992, pp. 181-201; LUKATIS 1993; ID. 1994; PÄCHT 1994, pp. 41-50; DE VOS 1999, pp. 252-265; RIDDERBOS 2005. Riguardo Nicolas Rolin e la fondazione dell’ospedale di Beaune, si veda KAMP 1993; ID. 1999. 22 Per questa variante, si veda LUKATIS 1993, pp. 336-338. 23 Ibidem, p. 338. 24 GROTE 1975. 25 VERONEE VERHAEGEN 1973, pp. 35, 5; LANE 1989, pp. 168-169, 171, 177-180; LUKATIS 1993, pp. 332-334. 26 Riguardo il Giudizio Universale di Memling e la sua relazione con il Giudizio Universale di Rogier van der Weyden, si veda PANOFSKY 1953, p. 272; BIAŁOSTOCKI 1966; MCFARLANE 1971, pp. 16-27; VERONEE VERHAEGEN 1981; BIAŁOSTOCKI 1983; ID. 1988; LANE 1991; PÄCHT 1994, pp. 228-241; ROHLMANN 1994, pp. 41-49; DE VOS 1994, pp. 82-89; NUTTALL 1995; FARIES 1997; CAMPBEL 2004, pp. 26-28; NUTTALL 2004, pp. 54-60; BORCHERT 2005, pp. 22-26. 27 Il fatto che San Michele come patrono della cappella sia accompagnato dalla Madonna con il Bambino corrisponde, secondo Rohlmann, alla tradizione iconografica delle pale d’altare fiorentine. Non è certo, invece, se questa iconografia, che vede due o più santi raffigurati ai lati della Madonna, abbia avuto un ruolo anche qui. Rohlmann afferma, inoltre, che la Madonna si trovi alla destra dell’arcangelo in conseguenza alla gerarchia teologica; ROHLMANN 1994, pp. 45-46. Per uno studio specifico sul “principio del destrismo”, si veda VELDEN 2006. 28 NUTTALL 2004, p. 57. 29 Sull’interpretazione della costruzione spaziale di Memling in queste due immagini come mezzo per suggerire diversi livelli di realtà, si veda BIAŁOSTOCKI 1983; ID. 1988a. 30 Per altri esempi precedenti di rappresentazioni di San Michele che colpisce il dannato sulla bilancia, si veda LUKATIS 1993, pp. 336-338; in questi esempi il dannato è posto nel piatto basso della bilancia. 31 Riguardo il Giudizio Universale di Lochner, si veda ZEHNDER 1990, pp. 212-223; CHAPUIS 2004, pp. 41-55; per i prestiti di Memling da questa pala, si veda PANOFSKY 1953, p. 272; BIAŁOSTOCKI 1966, p. 71; KEMPERDICK 1993, p. 71; DE VOS 1994, pp. 84-85; WOLFSON 1994, p. 13. 32 Ibidem, pp. 11-13. 33 Il dipinto, di proprietà dei Musées Royaux des BeauxArts de Belgique a Bruxelles, è stato in deposito allo Stadsmuseum di Diest sino al 2007. SNEYERS-VERONEE VERHAEGEN 1967-1968, che in un loro articolo hanno tra l’altro pubblicato i risultati dell’indagine tecnica sul Giudizio Universale, lo datano tra il 1420 ed il 1450. KEMPERDICK 1993, pp. 72-73, ha convincentemente dimostrato che l’opera è ispirata al Giudizio Universale di Lochner, confutando così l’opinione di, tra gli altri, ZEHNDER 1990, p. 218, che l’intese come modello per Lochner, e l’identificazione infondata, sostenuta in DE RIDDER 1989-1991, e pari pari ripresa da DHAENENS 1998, p. 29, con un Giudizio Universale realizzato nel 1413 da un pittore di Gand, Lieven van der Clite. Per le datazioni discordanti, si veda SNEYERS-VERONEE VERHAEGEN 1967-1968, pp. 109-110; KEMPERDICK 1993, p. 73, nota 26 e 27. 34 SNEYERS-VERONEE VERHAEGEN 1967-1968, pp. 105-106 ritengono soltanto che il colore e la forma dei mattoni
Il trittico con il Giudizio Universale di Hans Memling e il Trittico Portinari di Hugo van der Goes
del portale ricordino le architetture gotiche nella zona di Diest. Personalmente mi pare che prima di tutto si tratti di un riferimento alla chiesa di Diest. La tavola di Diest fu trovata nel 1863 nella soffitta del municipio e può benissimo essere stata realizzata per questo palazzo, dal momento che anche altri Giudizi Universali sono stati realizzati per palazzi municipali (tra gli altri, da Dirk Bouts). STEPPE 1971, pp. 163-166, ritiene che gli apostoli nel Giudizio Universale di Diest sono raffigurati come patroni del seggio dei governatori e suppone che la tavola fosse stata realizzata per la sala del municipio dove i governatori amministravano la giustizia; egli, inoltre, ricorda che, nel secondo quarto del quindicesimo secolo, vi erano alcuni pittori attivi nella città che possano aver realizzato quest’opera, e suggerisce che Geraard Brunen, attivo a Diest tra il 1420 e il 1450, fosse l’autore. 35 BIAŁOSTOCKI 1966, p. 70, considera il Giudizio Universale di Diest uno degli esempi più antichi che raffigurano questo soggetto e che costituiscono i più importanti anelli della tradizione figurativa alla quale appartiene anche il Giudizio Universale di Memling. 36 Benché il motivo del San Michele che colpisce il dannato sulla bilancia sia di certo precedente al Giudizio Universale di Memling (si veda nota 30), ciò non esclude che egli sia stato ispirato anche dall’angelo nel Giudizio Universale di Diest. 37 FARIES 1997. 38 Faries si concentra sul rapporto tra Memling e Van der Weyden e cita solamente in una nota un risultato ottenuto con la riflettografia infrarossa del Giudizio Universale di Memling in relazione ai prestiti che Memling prese dal Giudizio Universale di Lochner: il braccio alzato dell’angelo che lotta per sottrarre un’anima ad un demone “is closer to Lochner in Memling’s underdrawing than in the final painted form”; FARIES 1997, p. 246, nota 9. Come già detto, Memling, per il motivo dell’angelo e del demone che si battono per un’anima, si fece ispirare da un gruppo simile in Lochner; la posizione del braccio alzato nel disegno sottostante deriva da un altro angelo di Lochner, anch’egli in combattimento con un demone; quest’ultimo è posto subito dietro al gruppo che Memling prese come modello. 39 Cfr. SNEYERS-VERONEE VERHAEGEN 1967-1968, pp. 102103, sul pannello di Diest: “Dans son ensemble, la composition est conçue comme une mandorle, entourée de quatre écoinçons. Ceci est bien dans la ligne de la tradition médiévale, alors que, dans leurs Jugements derniers, van Eyck, Christus van der Weyden et Bouts ont rompu avec cette tradition.” 40 FARIES 1997, p. 255. 41 NUTTALL 2004, p. 57. 42 BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 61, 93; DE VOS 1994, p. 89 nota 17. 43 BAXANDALL 1971, pp. 107, 166. Per la rappresentazione dei riflessi in Jan van Eyck, Memling ed altri maestri neerlandesi e la sua ricezione in Italia, si veda BIAŁOSTOCKI 1988b. 44 Ibidem, pp. 108-109, 167. 45 NUTTALL 2004, pp. 56-57 rimanda a Facius, e anche a Ciriaco d’Ancona, e afferma che soprattutto la ricchezza nella pittura fiamminga, che nella pala di Memling è più che presente, era particolarmente ammirata dagli italiani. A questo proposito cita anche la resa dell’arcangelo di Memling: “The St Michael, in golden armour with shining reflective surfaces, not only represents a rejection of Rogier’s iconographically outré
Archangel in liturgical vestments, but – significantly – constitutes a display of precisely the sort of virtuoso effects that Italians admired”. 46 Nuttall afferma che l’uomo sull’ala sinistra, sulla scala direttamente dietro al vecchio che stringe la mano a San Pietro, somigli al ritratto di Lodovico Portinari – figlio di Pigello, fratello di Tommaso – dipinto dal Maestro della Leggenda di Sant’Orsola ora a Philadelphia (Philadelphia Museum of Art, The John G. Johnson Collection); NUTTALL 1995, pp. 59-60, 70-71. 47 MARIJNISSEN-VAN DE VOORDE 1983. 48 Per questa ipotesi in connessione col Giudizio Universale, si veda NUTTALL 1995, p. 59; per il Trittico Portinari, si veda SANDER 1992, pp. 243-246; CAMPBELL 1990, p. 176; NUTTALL 1995, p. 64. Per il ritratto di Portinari nel Giudizio Universale, si veda anche BIAŁOSTOCKI 1966, p. 74; LANE 1991, pp. 632-639; ROHLMANN 1994, pp. 139-140, nota 172. A proposito dell’usanza di realizzare i ritratti dei volti su supporti distinti, CAMPBELL 1984, p. 304, nel suo commento a MARIJNISSEN-VAN DE VOORDE 1983 annota: “It appears that the artists were unable to bring the sitters to the panels and were therefore forced to adopt this technically unsatisfactory procedure to obtain portraits painted from life. If that assumption is correct, the discovery casts important light on portrait method. If artists attached such importance to painting from life, the theory that many fifteenth-century portraits were worked up from drawings must be questioned”. Nel caso di Portinari la procedura scelta dall’artista non è da collegare al bisogno dei pittori di dipingere dal vero. 49 Per l’ipotesi che il ritratto originariamente non fosse stato contemplato e per le possibili spiegazioni relative all’inserimento del ritratto, si veda BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 74, 93; LANE 1991, pp. 632-639; RIDDERBOS 1991, pp. 147-148; DE VOS 1994, pp. 85, 88. 50 BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 56, 89, 93, 114, 118. 51 Per la biografia di Portinari, si veda nota 2. 52 ROOVER 1963, pp. 347-348; BIAŁOSTOCKI 1966, pp. 8586. 53 ROOVER 1963, pp. 349, 479, nota 179. 54 Ibidem, pp. 348, 478, nota 172. 55 Ibidem, p. 354. 56 BOONE 1999; si veda anche KOSTER 2003, pp. 164-165. 57 Per il Trittico Portinari, si veda PANOFSKY 1953, pp. 331-334; KOCH 1964; HATFIELD STRENS 1968; MCNAMEE 1963; BLUM 1969, pp. 77-86; THOMPSON-CAMPBELL 1974, pp. 65-68, 99-101; RIDDERBOS 1991, pp. 9-46, 148-149, 179; SANDER 1992, pp. 234-249; PÄCHT 1994, pp. 166-175; MILLER 1995; CRUM 1998; ROHLMANN 1994, pp. 53-56, 59-63; DHANENS 1998, pp. 250-301; SCHLIE 1999, pp. 137-147; KOSTER 2003; NUTTALL 2004, pp. 60-64; RIDDERBOS 2005, pp. 100-121; WOLFTHAL 2007. Riguardo la teoria secondo la quale nella stalla del Trittico Portinari vi sia dipinto un demone, si veda WALKER 1960. Durante la stesura del mio saggio, la monografia sul Trittico Portinari di KOSTER 2008, non era ancora stata pubblicata. 58 HATFIELD STRENS 1968, citazione a p. 318. 59 VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, I, p. 185. 60 Un confratello di Hugo van der Goes a Rooklooster, Gaspar Ofhuys, indica nelle sue cronache che il pittore si preoccupava molto del completamento dei suoi dipinti e che secondo altri ci riuscì a malapena in nove anni; MCCLOY 1967, pp. 13, 22; GAND 1982-1983, pp. 73, 75; DHANENS 1998, pp. 392, 394.
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THOMPSON-CAMPBELL 1974, pp. 65-68, 99-100. In MARIJNISSEN-VAN DE VOORDE 1983, il materiale del supporto su cui è dipinta la testa non viene identificato. SANDER 1992, p. 244, afferma che il materiale è pergamena o carta, evidentemente per la presenza di una imprimitura di biacca; aggiunge inoltre che l’utilizzo di materiale organico per il supporto spiegherebbe perché la craquelée della testa. differisca a malapena dalla pittura del pannello che v’è attorno. Si veda anche KOSTER 2003, p. 170: “actually made on vellum or paper”, senza ulteriori spiegazioni. 63 MCCLOY 1967; GAND 1982-1983, pp. 73-75; DHANENS 1998, pp. 392-395. 64 RIDDERBOS 1990; ID. 1991, pp. 180-215; ID. 2005, pp. 125-133; ID. 2007. 65 “Item quidam alius magnus pictor supervenit volens imitari in suo opere hanc picturam et factus est melancolicus et insipiens”; GAND 1982-1983, p. 71; DHANENS 1998, p. 391. 66 Ho già fornito argomenti a sostegno di questa ipotesi in pubblicazioni precedenti, come in RIDDERBOS 1991, pp. 9-61; ID. 2005, pp. 100-121. 67 DENNY 1977, pp. 81-108; GRAMS THIEME 1988, pp. 164165; DHANENS 1998, pp. 270, 298-300. 68 PANOFSKY 1953, pp. 332-333. 69 Sander suppone che Hugo van der Goes si sia soprattutto ispirato ad un murale con la Natività del 1448, presso il Grande Mercato della Carne di Gand, e in secondo luogo al Trittico Bladelin; SANDER 1992, pp. 216-219, 221-223. Sulla relazione con il murale, si veda anche DHANENS 1998, pp. 287-289. A mio parere il Trittico Bladelin e la Natività di Campin sono stati per il Trittico Portinari modelli più importanti rispetto al suddetto murale. Per il Trittico Bladelin, si veda BLUM 1969, pp. 17-28 (datato 1452-1460); DE VOS 1999, pp. 242-248 (datato 1445-1448); per la Natività di Campin, si veda COMBLEN-SONKES 1986, pp. 159-201 (datata 1425-1430); KEMPERDICK 1997, pp. 56-59 (datata 1432 circa); CHÂTELET 1996, pp. 298-299 (datata: 1426?). 70 PANOFSKY 1953, p. 277; BLUM 1969, p. 20; MILLER 1995, p. 254. 71 COLLIER 1975, pp. 90-91; DHANENS 1998, p. 273. 72 ASPEREN DE BOER 1979, p. 194. Per un chiarimento sul perché il luogo della fontana fosse originariamente lasciato vuoto, si veda RIDDERBOS 2008, pp. 44-45. 73 Ciò è proposto anche da KOSTER 2003, p. 169; egli descrive la disposizione delle sante come un vero e proprio “example of compositional creativity”. MILLER 1995, pp. 254-255, suppone che a Santa Margherita sia riservato un posto prioritario rispetto a Maria Maddalena in conseguenza del suo ruolo di santa protettrice del parto; si veda anche nota 76 qui sotto. 74 Si veda nota 61. 75 SANDER 1992, p. 243. 76 MILLER 1995, pp. 250-254, legge nella presenza della scena del viaggio di San Giuseppe e della Madonna in stato di gravidanza verso Betlemme, inusuale nella pittura neerlandese del XV secolo, un argomento per la sua tesi che il tema principale del Trittico Portinari sia il miracoloso parto di Maria, come metafora della Redenzione; la studiosa collega questa tema tanto all’ospedale di Santa Maria Nuova quanto a Maria Baroncelli. In realtà la pala, a mio giudizio, rappresenta in prima istanza l’adorazione di Cristo. 77 KOCH 1964. 61
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Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina Michael Rohlmann
Nel 1484 fu esposta nella cattedrale di Perugia una pala d’altare di Luca Signorelli, dono del vescovo della città, raffigurante una Madonna in trono con quattro santi (fig. 1). In primo piano, in prossimità del bordo inferiore del dipinto, leggermente a destra, Signorelli raffigura un bicchiere di vetro con dell’acqua e alcuni fiori. Un piccolo capolavoro realistico, chiaramente ispirato al Trittico Portinari giunto a Firenze l’anno precedente, realizzato da Hugo Van der Goes, che aveva collocato nella medesima posizione un analogo bicchiere di vetro1. Come si può interpretare questa ripresa? Signorelli prende in prestito solo questo dettaglio, utilizzando per il resto il suo proprio consueto linguaggio figurativo, quasi a voler dare dimostrazione della propria abilità. Egli quindi, non tanto cede alla seduzione del nuovo, quanto intende, con la ripresa di un unico particolare dalla spettacolare imitazione della natura messa in atto da Van der Goes, dimostrare di essere pronto a misurarsi con l’abilità artistica del collega del Nord. Signorelli, inoltre, accoglie la sfida attraverso un motivo di cui i pittori italiani si servivano già da più di un secolo per esibire la loro destrezza artistica nell’imitare la natura. In numerose raffigurazioni del Trecento o del Quattrocento, una Madonna, una Sacra Conversazione o un’Annunciazione sono spesso accompagnate in primo piano da una natura morta floreale, che simboleggia da un lato le virtù della Vergine, mentre dall’altro rimanda all’usanza dell’epoca di collocare fiori davanti ai dipinti devozionali, rispecchiando quelli presenti nel quadro stesso. Il motivo si trova poi anche nella pittura fiamminga, nella cosiddetta Madonna dei Medici di Rogier van der Weyden e nel Trittico Portinari di Hugo, non a caso opere destinate all’Italia. Generalmente, le composizioni floreali erano inserite in vasi, il bicchiere in vetro appare invece per la prima volta in Hugo van der Goes e poi in Signorelli, che ne riprende il motivo. Signorelli, tuttavia, aggiunge una personale invenzione: dietro il vaso in vetro colloca un angelo seduto in atto di accordare il suo strumento e, accanto a lui, su un gradino, un altro bicchiere con fiori: l’artista non solo coinvolge visivamente l’osservatore, ma lo mette anche in ascolto – in consonanza col gesto dell’angelo musico che aguzza l’udito – del suono prodotto dallo strumento. L’intento è quello di una consonanza armoniosa: un ampliamento della percezione estetica, laddove, di contro, il trittico di Van der Goes rimane muto. La risposta di Signorelli a Hugo van der Goes ci introduce direttamente nella questione di come gli artisti fiorentini abbiano assimilato il Trittico Portinari (fig. 2), ossia quali elementi e caratteristiche del trittico li abbiano veramente stimolati all’imitazione e quanto tali riprese siano solo apparenti e in realtà già spiegabili alla luce della tradizione italiana. Nel 1483 la pittura fiamminga primitiva era conosciuta a Firenze attraverso diversi esempi di alta qualità da più di due decenni2. Per di più, già la generazione di Pollaiolo e Verrocchio aveva accolto la sfida tecnica della pittura ad olio fiamminga3. Se il trittico di Hugo presentò per la prima volta la raffinata pittura nordica in un’opera di grande dimensioni, la tecnica e il naturalismo ricco di dettagli non erano più una novità per i fiorentini. Botticelli, Ghirlandaio, Leonardo, e anche gli artisti più giovani avevano da tempo integrato nelle loro opere motivi figurativi ed elementi stilistici tipici di quella pittura. Quali erano dunque gli elementi dell’opera di Hugo che potevano ancora suscitare l’interesse dei pittori fiorentini? Nel 1483 i grandi maestri che dominavano la scena pittorica dell’Italia centrale erano da poco reduci dalla più prestigiosa commissione del secolo: Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Rosselli e Signorelli avevano realizzato, nel 1481-1482 a Roma, per papa
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Sisto IV, la decorazione della Cappella Sistina – la più importante cappella della cristianità. Questa generazione di artisti aveva già consolidato il proprio stile, affermandosi non solo a Firenze, ma ora anche davanti al pubblico internazionale della Curia Romana. La maniera in cui Signorelli fa eco al dipinto di Hugo dichiara un’acquisita sicurezza artistica, derivatagli dal successo. E tuttavia, il Trittico Portinari ha lasciato le sue tracce nella pittura fiorentina che ne ha recepito i principi formali attraverso due diverse modalità. Da una parte abbiamo citazioni che sono essenzialmente frutto di interessi personali dell’artista, ed il loro legame con il Trittico Portinari non necessariamente si svelava agli spettatori dell’epoca. Dall’altra, abbiamo riprese che si dichiarano esplicitamente, in cui – sia esse fossero dettate dagli interessi dell’artista sia da quelli del committente –, si doveva riconoscere la sfida con Van der Goes. Oggi questi due approcci non sono sempre chiaramente distinguibili, e probabilmente già nel Quattrocento confluivano l’uno nell’altro. Tale distinzione, tuttavia, si dimostra un valido aiuto, soprattutto nell´individuare le riprese programmatiche, le citazioni e la sfida aperta. Queste ci ragguagliano anche sulla considerazione di cui la donazione di Portinari poteva godere nella società fiorentina, il successo o l’insuccesso, anche al di fuori della cerchia degli artisti. Per questo essa costituirà il fulcro della mia ricerca.
fig. 1 - Luca Signorelli, Pala Vagnucci. Perugia, Museo Diocesano
fig. 2 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari. Firenze, Galleria degli Uffizi
IL TRITTICO PORTINARI COME FONTE D’ISPIRAZIONE PER GLI ARTISTI FIORENTINI Per quanto riguarda l’influenza del Trittico Portinari sulla pittura fiorentina, la critica si è solitamente concentrata sul motivo dell’Adorazione dei pastori in dipinti raffiguranti la Natività: cercando le riprese dal Trittico Portinari (fig. 2), ci si è innanzitutto, e giustamente, rivolti a dipinti di soggetto analogo, in quanto era naturale, anche per i pittori fiorentini alla ricerca di fonti d’ispirazione, partire da esempi iconograficamente affini. I pastori di Hugo, nel loro binomio di brutale realismo e profonda pace dell’anima, e nei quali la semplicità, la povertà e la bruttezza acquistano dignità umana, costituiscono sicuramente uno dei motivi più suggestivi del trittico e non è un caso che, come è stato rilevato dalla critica, dopo l’arrivo della tavola nella città toscana il tema dell’Adorazione dei pastori ritornasse ad essere in voga nella pittura fiorentina4. Già prima il tema non era insolito, ma solo ora diventa più frequente vedere i pastori, inginocchiati in gruppo compatto, in posizione più ravvicinata a Gesù Bambino; la loro importanza, così come il naturalismo della raffigurazione si ritrovano accresciuti. Se gli esempi fiorentini più frequentemente citati dalla critica – l’Adorazione dei pastori nella cappella Sassetti realizzata da Ghirlandaio e la pala d’altare di Lorenzo di Credi in Santa Chiara – si affronteranno più dettagliatamente in uno dei capitoli seguenti, si possono nel frattempo menzionare una pala d’altare del Maestro di Santa Lucia sul Prato5, diverse Natività di Signorelli – tra cui in particolare la tavola del 1496 nella National Gallery a Londra6 –, un dipinto di Piero di Cosimo, già a Berlino7 (fig. 3), distrutto nel 1945, e una tavola di Ridolfo Ghirlandaio del 1510 a Budapest8 (fig. 4). In tali esempi si nota che in nessun caso nella composizione è utilizzata la disposizione a cerchio di Hugo, ma i pastori sono sempre in primo piano. Dal punto di vista compositivo gli artisti si
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rifacevano alla tradizione italiana, in linea con gli esempi di Filippo Lippi o Alessio Baldovinetti (fig. 5), accanto ai quali, l’Adorazione di Ghirlandaio nella Cappella Sassetti si era aggiunta come nuovo modello al quale si continuava a fare riferimento9. Questo, anche nella trasformazione tipologica dei pastori, il cui schietto verismo di matrice fiamminga – specie nella resa del “brutto” – viene interpretato in senso “italiano” e, pur attraverso una minuziosa indagine descrittiva, restituito in chiave arcadica, ovvero riscattato dalla sua dimensione sociale e adattato al gusto estetico dei fiorentini. Vi sono, tuttavia, ulteriori dettagli in questi dipinti a rendere chiaro agli storici dell’arte il riferimento a Van der Goes: il Maestro di Santa Lucia, come Hugo, lascia lo zoccolo di Giuseppe in terra a sinistra, mentre Signorelli mostra in primo piano una natura morta floreale ispirata da quella di Van der Goes. Ridolfo Ghirlandaio dipinge a sinistra l’anziano Giuseppe appoggiato al suo bastone sotto un’imponente roccia sovrastante che sembra piegarlo. È il suo modo di interpretare il sant’Antonio di Hugo, sopra al quale, nello sportello sinistro del trittico, si innalza un’analoga formazione rocciosa. Ridolfo, inoltre, raffigura la Vergine nello stesso atteggiamento e nella medesima posizione che ha in Van der Goes. Alla luce di questi esempi, appare evidente che il Trittico Portinari non ha tanto influito sul piano compositivo, quanto sull’importanza data ai pastori ed alla loro interpretazione in chiave naturalistica; in questo senso esso diviene l’opera di riferimento per le future rappresentazioni del tema e ad esso gli artisti guardano poi anche per ulteriori dettagli. La stessa disposizione circolare delle figure non sfugge, tuttavia, del tutto ai fiorentini. Essa si trova, sebbene a lungo non risconosciuta, in alcune altre raffigurazioni dell’Adorazione del Bambino, in cui manca il motivo dei pastori. Ad esempio in due opere di Cosimo Rosselli, l’Adorazione del Bambino con angeli e santi a Martinvast10 (fig. 6) – che riunisce Maria e quattro santi intorno al Bambino sull’esempio della tavola centrale di Hugo, mentre in primo
fig. 3 - Piero di Cosimo, Natività. Già a Berlino, Gemäldegalerie fig. 4 - Ridolfo Ghirlandaio, Natività. Budapest, Szépmüvészeti Museum fig. 5 - Alesso Baldovinetti, Natività, affresco. Firenze, SS. Annunziata, atrio.
Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina
fig. 6 - Cosimo Rosselli, Adorazione del Bambino con santi. Martinvast (Manche), chiesa parrocchiale fig. 7 - Cosimo Rosselli, Adorazione dei Magi con santi. Birmingham, Barber Institute of Fine Arts
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fig. 8 - Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei Magi, Tondo Tornabuoni. Firenze, Galleria degli Uffizi
piano, in prossimità del bordo inferiore, presenta una variante del bicchiere di vetro di Van der Goes – e l’Adorazione dei magi con santi al Barber Institute of Fine Arts a Birmingham11 (fig. 7) che ripete la disposizione a cerchio di Hugo con Maria nella stessa posa e nella stessa collocazione, mentre in basso alcuni fiori spuntano direttamente da terra. Nel Tondo Tornabuoni di Ghirlandaio (fig. 8), del 1487, raffigurante l’Adorazione dei Magi12, la ricezione dell’opera di Van der Goes si fonde con quella dell’incompiuta Adorazione dei Magi di Leonardo per i monaci di San Donato. Sebbene il Bambino si trovi ora in grembo a Maria, i Magi in primo piano imitano gli angeli di Hugo: a sinistra, uno inginocchiato, rigidamente di profilo e di fronte, dove si affastellano altre figure adoranti, un altro che si rivolge a noi girandosi indietro. Al centro, Ghirlandaio sostituisce gli oggetti delle natura morta di Hugo con un sacco, una pietra e una fiaschetta, mantenendo così alla natura morta la sua funzione di prezioso quadretto di imitatio naturae, minutamente dettagliato, sul bordo del dipinto. Forse la decisione di Ghirlandaio di orientarsi alla composizione a cerchio di Van der Goes trova la sua spiegazione nella forma tonda del dipinto nel quale tale disposizione si inserisce armoniosamente. Più problematica, invece, è l’eventuale ripresa del Trittico Portinari nell’Adorazione del Bambino con Madonna e angeli di Botticini a Palazzo Pitti13 (fig. 9). Si tratta nuovamente di un tondo, nel quale gli angeli trovano la loro fonte di ispirazione non solo in Botticelli ma, nella quantità e nella posa, anche in Van der Goes. Ma sono gli elementi paesaggistici – formazioni rocciose, zone alberate, architetture ecc. – i motivi fiamminghi più frequentemente adottati dai pittori fiorentini, incantati, in particolare, dai graziosi paesaggi di Memling che divengono quasi una figura retorica a simbolo di pace e gioia paradisiaca14. Seppur tale predilezione non poteva trovare gran soddisfazione nel brullo paesaggio invernale di Hugo van der Goes, alcuni artisti trovarono comunque interessante l’armoniosa unità di figure e paesaggio, e come egli riuscisse a inserire nel paesaggio le piccole scene narrative rappresentate. Particolarmente suggestiva risultava ad esempio la montagna che si
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alza alle spalle di sant’Antonio con Maria e Giuseppe in cammino (fig. 10), soluzione ricalcata pedissequamente da Piero di Cosimo nella sua Incarnazione di Cristo agli Uffizi (fig. 11), con montagne a ridosso dei santi laterali sulle quali compare la Sacra Famiglia che, sulla destra, si spinge col mulo quasi al bordo del dipinto15. Filippino Lippi lavorò nel 1483-1484 alla coppia dell’Annunciazione per San Gimignano (fig. 12). Il tondo con Maria mostra uno scorcio del paesaggio dove due viandanti si incontrano ai piedi di una montagna; in questa scena una delle due figure indica la strada all’altra. Lippi fonde così le figure di Giuseppe e Maria di Hugo in cammino sulla montagna, nello sportello sinistro del Trittico Portinari, con la scena raffigurata sullo sfondo dello sportello destro, nella stessa opera, in cui un mendicante indica all’avanguardia dei Magi la strada16. Ancora, nella Pala Rucellai di Filippino Lippi alla National Gallery di Londra Giuseppe incede da solo con il mulo entro il paesaggio, davanti a una montagna scoscesa, reminiscenza del dettaglio paesaggistico di Hugo van der Goes, inserito qui in una composizione evidentemente ripresa dall’incompiuta opera di Leonardo17. A questa Filippino guarderà ancora realizzando una nuova versione dell’Adorazione dei Magi per San Donato, in cui manterrà la composizione leonardesca per la messa in posa delle figure, rivolgendosi tuttavia al Trittico Portinari nelle scene sullo sfondo dove si snoda il corteo dei Magi. Il su e giù del corteo, che sparisce e riappare tra le colline, l’arrestarsi e il rimettersi in viaggio, la discesa del cavallo, lo specchio d’acqua, gli alberi spogli svettanti al cielo: Filippino varia lo sfondo dell’ala destra del Trittico Portinari18. Possiamo notare che tutte queste riprese e reminiscenze fiorentine del Trittico Portinari sono sempre individuabili in dipinti la cui cornice iconografica è costituita dalla Sacra Famiglia, dall’Incarnazione di Cristo o dal corteo dei Magi. Ma che dire dei prestiti stilistici più profondi dall’opera, che vanno oltre la tradizione tematica, oltre la composizione o i dettagli dei pastori e degli elementi paesaggistici? In Botticelli, Ghirlandaio e altri artisti di questa generazione non ne si trova alcuna traccia19; a fronte della loro formazione artistica, già definita, il Trittico Portinari giunse con più di un decennio di ritardo. Soltanto i più giovani, come Filippino Lippi e Piero di Cosimo, il cui stile non si era ancora pienamente formato all’arrivo dell’opera, ne assorbirono più profondamente le qualità, come in diverse occasioni è già stato osservato dalla critica. In Lippi ad esempio, al di là del cromatismo freddo e saturo e di un chiaroscuro che non rimanda soltanto a Leonardo, ma anche a Hugo, riconosciamo un particolare compiacimento nel descrivere una realtà minuta e raffinata, nel ritrarre il viso bello e acerbo di Maria, nell’evocare una malinconia quieta e solenne, nell’indugiare sui segni dell’età sulla pelle, nonché un gusto per i motivi più secondari, bizzarri e umili, nonché per il paesaggio avvolto in un’atmosfera invernale fredda e brumosa20. Paula Nuttall ha giustamente notato che anche un’opera tematicamente diversa come la Sacra Conversazione
fig. 9 - Francesco Botticini, Adorazione del Bambino. Firenze, Galleria Palatina fig. 10 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari, sportello laterale sinistro (part). Firenze, Galleria degli Uffizi
Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina
fig. 11 - Piero di Cosimo, Incarnazione di Cristo con santi. Firenze, Galleria degli Uffizi fig. 12 - Filippino Lippi, Tondo con Maria Annunziata. San Gimignano, Pinacoteca Civica
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fig. 13 - Filippino Lippi, Sacra Conversazione, Pala di Palazzo Vecchio. Firenze, Galleria degli Uffizi
di Lippi per Palazzo Vecchio (fig. 13) si rifà al Trittico Portinari, riprendendone l’orchestrazione cromatica21: il rosso del mantello di Giuseppe, sulla sinistra della tavola centrale di Hugo, ritorna nella veste del Giovanni Battista, gli azzurri delle figure centrali di Maria e degli angeli negli abiti della Madonna, anche Lei collocata al centro, e persino con lo stesso volto, mentre lo splendido rocchetto ricamato d’oro dell’angelo in primo piano è ripreso nella veste liturgica di san Zeno. Anche nell’opera di Filippino, poi, vi sono alcuni angeli in volo e, in basso, una natura morta con libro che sembra spingersi quasi oltre il bordo del dipinto. Come in Filippino Lippi, il Trittico Portinari si è impresso con forza analoga anche in Piero di Cosimo. Anche in questo artista lo splendore della tavolozza e l’accentuato naturalismo dei dettagli si abbina al gusto per una resa precisa degli oggetti quotidiani rilevati dalla luce, dei calli e delle rughe della pelle, ossia di un mondo figurativo ‘umile’22. I volti scimmieschi del pastore raffigurato in piedi e di quello che sta arrivando, nello sfondo, diventano, nella scena di caccia del mondo primitivo di Piero nel Metropolitan Museum, i visi di cacciatori e di satiri. Ma il trittico offre anche un’ideale di bellezza femminile inavvicinabile, nel collo lungo ed elegante, nella fronte alta, nei gioielli raffinati e nell’espressione melanconica: la Cleopatra di Piero a Chantilly o la sua Maddalena di Palazzo Barberini ricordano da lontano i santi, gli angeli e le donne dell’opera di Hugo. Alla luce delle osservazioni fatte sull’effetto esercitato dal Trittico Por-
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tinari, si può concludere che esso fosse diventato un punto di riferimento fisso per le rappresentazioni su tavola – essenzialmente pale d’altare – della Natività o dell’Adorazione del Bambino, in cui si trovano ripetute le formule figurative dell’opera, pur sempre conciliate con la tradizione figurativa italiana. La ricezione pertanto rimane legata al tema e alla funzione dell’opera di Hugo. Alcuni esempi mostrano che il trittico fu recepito subito dopo il suo arrivo, anche in opere già iniziate (Signorelli, Filippino Lippi), nel qual caso, l’attrattiva del “nuovo” giocò certo il suo ruolo. Se è naturale che lo stile pittorico di Hugo sfiorasse appena i grandi pittori ormai famosi, i giovani artisti come Filippino Lippi e Piero di Cosimo si confrontarono invece intensamente con le qualità stilistiche di quello. Ma fino a che punto di tutto questo si accorse anche il pubblico fiorentino dell’epoca, e quanto di tutto questo gli artisti volevano che il pubblico notasse? GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA SASSETTI La Cappella Sassetti in Santa Trinita, di cui Domenico Ghirlandaio concluse la decorazione pittorica nel 148523 (fig. 15), è il primo luogo a Firenze in cui si resero riconoscibili riferimenti artistici al Trittico Portinari. In tal senso, sempre citato dalla letteratura artistica è il motivo dei tre pastori nella tavola d’altare (fig. 14). Nella resa naturalistica dei tre, addossati uno all’altro, viene subito alla mente Van der Goes, tanto più nella misura in cui il loro verismo contrasta nettamente con la stilizzazione idealizzante tradizionalmente codificata di Maria, il Bambino e Giuseppe. Come in Van der Goes, il pastore al centro adora a mani giunte Gesù Bambino, mentre quello più alto del gruppo è il più caratterizzato in bruttezza. Il pastore di sinistra acquisisce invece una nuova funzione mediatrice: egli indica il Bambino e nello stesso tempo si volge indietro verso il suo compagno: lo stupore travolgente si acquieta diventando comunicazione retorica. Rispetto al modello Ghirlandaio addolcisce la ruvidezza delle figure e cambia la collocazione dei pastori – spostati in avanti – allineandosi, sul piano compositivo, alla tradizione iconografica fiorentina. Anche l’inverno rigido, l’atmosfera di povertà e carestia nello sfondo di Van der Goes si trasformano qui in una pastorale arcadica illuminata da una luce dorata24. Oltre che nel gruppo dei pastori, Ghirlandaio si lasciò ispirare da Van der Goes anche nella natura morta, al centro del dipinto in basso, con oggetti allusivi a campi semantici diversi. Hugo mostra nel centro della sua Natività la natura morta costituita da un albarello, un bicchiere con fiori e un covone di grano che fanno riferimento alla virtù di Maria e al significato eucaristico della natività. Nella natura morta del Ghirlandaio, il grano e l’uccello rimandano all’eucaristia e alla Passione di Cristo, illustrando le funzioni sacramentali dell’altare. Un piccolo sasso rappresenta invece il significato letterale del nome del committente, ‘Sassetti’, mentre, secondo alcuni studiosi, i mattoni lì vicino sono forse un riferimento al nome della moglie di Sassetti, ‘Corsi’25. Come nel Trittico Portinari, in un luogo diverso, anche qui un’allusione al nome! Ghirlandaio riprende dunque alcune idee figurative di Hugo, sia nei pastori che nella natura morta, seppur compiendo alcune modifiche funzionali ad un’impostazione del tutto italiana. In questo gli studi vi hanno giustamente letto una “critica dipinta” al modello fiammingo, del quale Ghirlandaio si è consapevolmente servito per dichiarare le proprie abilità artistiche. Ciò diventa ancora più chiaro alla luce di una testimonianza di Vasari – notata da Locher –, secondo il quale ad uno dei pastori Ghirlandaio avrebbe dato il proprio volto26. Di fatto il volto del pastore a sinistra ricorda i lineamenti del viso dell’artista, come dimostrano autoritratti in altre sue opere; tale identificazione troverebbe conferma nel gesto del pastore che con una mano al petto indica se stesso, mentre con l’altra, in modo pio, indica Gesù. In campo pittorico, l’indice risulta al contempo pun-
fig. 14 - Domenico Ghirlandaio, Natività, Pala d’altare della Cappella Sassetti, Firenze, S. Trinita
Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina
fig. 15 - Domenico Ghirlandaio, Cappella Sassetti, Veduta d’insieme della cappella. Firenze, Santa Trinita
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tato alla ghirlanda di un sarcofago – una chiara e consapevole allusione al nome Ghirlandaio. Come se l’artista, con i due gesti, volesse dire: sono proprio io, Ghirlandaio! Non sarebbe stata quindi soltanto la sua religiosità ad averlo indotto a travestirsi da pastore; dall’autoritratto si evince piuttosto l’orgoglio artistico, un senso di superiorità davanti al suo modello nordico. Nell’esibizione della sua arte e della sua persona il fiorentino volle consapevolmente gareggiare col pastore fiammingo. Allargando lo sguardo oltre il dipinto, si scoprono, nella parte inferiore della cappella, ulteriori riferimenti al trittico fiammingo. Come in Van der Goes i Portinari, donatori dell’opera, si inginocchiano ai lati della tavola centrale raffigurante la Natività (fig. 2), così fanno anche i Sassetti nei segmenti di muro ai lati della pala d’altare27 (fig. 15). Queste sezioni laterali creano pressoché il medesimo effetto degli sportelli di un trittico, ed in questo senso la raffigurazione della Cappella Sassetti si distingue da altri esempi fiorentini, ad esempio l’affresco della Trinità con la coppia di donatori di Masaccio in Santa Maria Novella. Ghirlandaio raffigura i coniugi Sassetti in due finte nicchie di pietra, separandoli in maniera più decisa di quanto lo fossero i Portinari dalla Natività al centro. Pur in un’ottica diversa, anche questo elemento è stato forse ispirato dal Trittico Portinari, dove anche vi sono delle nicchie dipinte, all’esterno, con le figure monocrome dell’Annunciazione (fig. 16). E di nuovo, anche Ghirlandaio realizza delle figure a monocromo, alle spalle dei Sassetti, nella fascia inferiore delle pareti laterali della cappella, che ospitano i sarcofagi dei committenti. Tali figure, collocate negli angoli superiori, sono copie di antiche monete romane: esse creano un collegamento con i sarcofaghi di pietra dei defunti e con i rilievi che li decorano. Ghirlandaio attua così un passaggio graduale dalle pareti laterali della cappella verso il suo centro: da sculture e nicchie sepolcrali vere e tangibili, attraverso sculture simulate (le figure a monocromo) e poi nicchie dipinte con personaggi apparentemente vivi, fino alla splendida finzione naturalistica, piena di colori e di vita, della pala d’altare. Questo è il modo in cui Ghirlandaio mette in scena il graduale passaggio dalla realtà al mondo dell’arte, dalla pietra alla vita, dall’affresco alla pittura su tavola. Egli non si è così limitato a riprendere il trittico di Van der Goes nel suo procedere dall’esterno verso l’interno, attraverso la trasformazione della scultura simulata in pittura realistica, ma ha raffinato e aumentato il susseguirsi dei passaggi dall’esterno all’interno, dalle pareti laterali a quella dell’altare, adattandosi alle dimensioni delle nicchie e delle sculture reali. Il Trittico Portinari ha perso la sfida28. Nel Trittico Portinari il procedere dalla finzione di pietra, sugli sportelli esterni, all’illusione di vita, all’interno, è funzionale al contenuto: all’esterno l’Annunciazione prepara la venuta di Cristo che si realizza poi all’interno con la Natività. Quando Cristo, nascendo, fa il suo ingresso nel mondo, anche la rappresentazione si anima, la natura morta delle sculture grigie si trasforma in una colorata suggestione pittorica della realtà. Con Cristo, in certo qual modo, anche l’arte di Van der Goes prende vita. In Ghirlandaio il susseguirsi dei passaggi ha una dimensione contenutistica analoga. Anche in lui la scena con la Natività, in quanto pittura su tavola, supera in vivacità gli affreschi a monocromo nonché gli affreschi colorati che ritraggono i donatori. Tuttavia, Ghirlandaio inserisce nel processo vivificante un’idea di resurrezione, relativa sia ai Sassetti sia al mondo figurativo dell’arte antica. L’artista ripete, infatti, nella sua pala d’altare l’antico motivo del sarcofago delle pareti laterali e lo collega contenutisticamente con la Natività: il Bambino appena nato si trova davanti a un sarcofago romano sul quale un’iscrizione spiega che vi riposa un augure romano, caduto durante la riconquista di Gerusalemme sotto Pompeo. Morendo, egli avrebbe profetizzato che dalla sua tomba un giorno sarebbe nato un dio. Con questa iscrizione la pala d’altare di Ghir-
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landaio designa un collegamento fatale tra l’antichità e il cristianesimo: dalle rovine, dalla tomba, dalla morte del mondo pagano nasce la nuova vita cristiana. È il rinascimento dell’antichità, un rinascimento cristiano dell’antichità, che la pala d’altare di Ghirlandaio con la sua pittura vivificante invoca esteticamente e tematicamente! Così l’exemplum dell’antica tomba romana dell’augure, da cui nasce nuova vita, rappresenta nello stesso tempo un simbolo di speranza per una prossima resurrezione anche dei Sassetti che riposano in reali sarcofaghi classicheggianti nelle pareti laterali29. Il precedente illustrato nella pala d’altare della nascita di una nuova vita da una tomba doveva consolare anche i Sassetti nella loro fede di resurrezione. Come nella pala d’altare Gesù è già nato e si trova disteso davanti al sarcofago vuoto, così i Sassetti si inginocchiano accanto ai loro reali sarcofaghi di pietra anticipando figurativamente la loro futura resurrezione. Il Trittico Portinari di Hugo van der Goes costituì, per diversi aspetti e a più livelli, un modello di riferimento per Ghirlandaio nella Cappella Sassetti, modello col quale peraltro l’artista
fig. 16 - Hugo van der Goes, Trittico Portinari, esterno. Firenze, Galleria degli Uffizi
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fiorentino cercò di misurarsi in modo critico e consapevole, nonché di superarlo. In questo Ghirlandaio si affida alla propria tradizione fiorentina e al lascito dell’Antichità: un idillio pastorale fiorentino piuttosto che un substrato fiammingo, copie a monocromo di monete romane al posto di pseudosculture tardogotiche, non soltanto una pittura vivificante, ma nello stesso tempo anche una resurrezione dell’antichità, il Rinascimento. La competizione artistica tra Ghirlandaio e Hugo van der Goes era accompagnata dalla concorrenza tra i committenti, i Portinari e i Sassetti. Di fatto, nella vita reale i donatori del trittico e i committenti della cappella erano stati collaboratori della stessa azienda. Laddove Portinari aveva gestito la filiale del Banco dei Medici a Bruges, Sassetti era stato il responsabile dell’intera impresa bancaria dei Medici a Firenze, oltre ad essere il superiore di Portinari. Quest’ultimo aveva portato la filiale di Bruges alla rovina, Sassetti invece dovette, negli anni ottanta del Quattrocento, cercare di salvare dal fallimento la sede di Firenze. Alla luce di tali considerazioni non può essere una pura coincidenza che Sassetti abbia voluto, con la propria commissione, dare una risposta artistica, nonché confrontarsi con la prestigiosa pala d’altare dei Portinari, giunta a Firenze nel 148330. Il riferimento ai Medici nella cappella dei Portinari, implicito nei ritratti affrescati dei loro sostenitori e nell’allusione del nome alla funzione ospedaliera “medica”, diventa esplicito nella cappella Sassetti. Nell’affresco a soggetto storico, sulla parete dell’altare, in alto, sono infatti effigiati, l’uno di fianco all’altro, Sassetti e Lorenzo de’ Medici, nonché i figli di Sassetti che osservano l’ascesa dei figli di Lorenzo. Un’alleanza dipinta, una fusione di due famiglie. OSPEDALI Il Trittico Portinari di Hugo van der Goes sull’altare maggiore della chiesa ospedaliera di Santa Maria Nuova ha, con la sua rappresentazione, in più modi alluso alle funzioni caritatevoli di questo ospedale, come gli studi negli ultimi anni hanno potuto rilevare in maniera sempre più approfondita. Il paesaggio brullo, l’umile contesto in cui avviene la nascita, la crudezza sociale nei caratteri del Neonato e dei pastori che lo adorano, la povertà della popolazione rurale sullo sfondo, tutto ciò rimanda a situazioni di miseria, miseria che l’ospedale doveva alleviare. Giuseppe sullo sfondo che sorregge Maria, sant’Antonio che si appoggia sul suo bastone a T – lo stemma di Santa Maria Nuova – , santa Maria Maddalena che tiene pronto un vaso d’unguento, il recipiente dei medicinali di Albarello insieme a diverse piante medicinali disposti in primo piano, infine Cristo che entra in un mondo segnato da miseria come portatore di salute - un “Christus Medicus” -, tutto ciò allude all’azione di sostegno, di cura e di assistenza dell’ospedale. Maria, che domina il centro della Natività, si lascia interpretare esplicitamente come la personificazione dell’ospedale mariano. Santa Maria Nuova era l’ospedale più significativo della città, ma esistevano anche numerosi altri ospedali. Non molto lontano da esso si trovava un’altra istituzione caritatevole, l’Ospedale degli Innocenti in Piazza della Santissima Annunziata. Iniziato nel 1419 e inaugurato nel 1445, esso fu creato per far fronte ad una terribile emergenza: l’abbandono e l’uccisione di bambini piccoli per motivi economici o sociali. Vi si accoglievano quindi trovatelli ai quali si dava anche un’educazione e, alle ragazze, veniva data una dote. Come santi intercessori di questi bambini si scelsero gli “Innocenti”, vittime del massacro di Betlemme, da cui l’ospedale e anche il gruppo di piccoli abbandonati presero il nome31. Nel 1483, quando nella vicina Santa Maria Nuova arrivò il Trittico Portinari, nell’Ospedale degli Innocenti fu nominato nuovo priore Francesco di Giovanni Tesori che assicurò, tramite privilegi cittadini, la situazione economica dell’ospedale e diede inizio ad un nuovo riassetto che coinvolse anche la chiesa. Per essa, nell’ottobre del 1485, Tesori commissionò a Ghirlandaio una nuova pala d’altare, terminata dall’artista nel 1489, mentre Bartolomeo di Giovanni realizzò la predella e la cortina, un tendaggio dipinto a protezione della pala32. Insieme all’altare maggiore, ed in sintonia con esso, ricevettero una nuova veste anche i due altari laterali della chiesa: nel 1489 fu stipulato un contratto per la ristrutturazione di quello di sinistra dove si trovava già un dipinto di Neri di Bicci33 e, nell’autunno del 1491, cominciarono i lavori per l’altro, di destra, finanziati da Piero del Pugliese. Nel 1493 quest’ultimo altare era pronto per esporre la nuova pala realizzata da Piero di Cosimo, per cui nello stesso anno fu realizzata anche la cortina34. In queste opere si riconoscono diversi riferimenti alla nuova pala fiamminga collocata da poco sopra l’altare maggiore dell’Ospedale di Santa Maria Nuova. Sebbene l’imponente pala dell’Ospedale degli Innocenti abbia una superficie dipinta più piccola rispetto al Trittico Portinari, essa lo supera ampiamente in altezza: una competizione tra ospedali sulle dimensioni dei dipinti35. Oltre ciò vi sono altri aspetti affini, ad esempio nel modo in cui Ghirlandaio visualizza l’ospedale, la sua funzione e i suoi donatori tramite il soggetto raffigurato, l’Adorazione del Bambino, che diviene qui Adorazione dei Magi (fig. 19). In una composizione centrata, Maria mostra il Bambino ai Magi, vicino ai quali, lateralmente, due santi inginocchiati presentano due Innocenti a Gesù, mentre sullo sfondo è in atto il massacro dei bambini di Betlemme. Al di sotto di questa scena sono
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stati inseriti i ritratti del committente Francesco Tesori e del pittore Domenico Ghirlandaio. Attraverso il motivo della Natività e dell’Adorazione l’altare rimanda prima di tutto alla celebrazione della messa e all’incarnazione eucaristica di Cristo nell’ostia. Sopra il dipinto era collocato un tabernacolo, in modo che, esattamente sopra la raffigurazione dipinta di Cristo, si trovava anche il Suo corpo consacrato da poter essere adorato. La “dipinta” Adorazione dei Magi diveniva pertanto un esempio che invitava a fare altrettanto. La storia della salvezza e le immagini dei santi rinviano in questo dipinto, tuttavia, in modo chiaro anche all’istituzione dell’ospedale36. Maria, con Gesù Bambino in braccio, alla quale vengono presentati due Innocenti, si presta ad essere interpretata come la personificazione dell’Ospedale degli Innocenti, che con spirito materno accoglie i bambini, mentre in Van der Goes la Vergine rappresentava l’Ospedale di Santa Maria Nuova. Dove Hugo nello sfondo del suo dipinto presenta scene di miseria e indigenza sociale, Ghirlandaio affronta, tramite la strage degli innocenti, la piaga sociale degli infanticidi. Dove nell’opera di Van der Goes tre poveri pastori si avvicinano a Maria e alla stalla della Natività, in Ghirlandaio due Innocenti sono presentati da due santi protettori: a sinistra Giovanni Battista, patrono di Firenze, la città che tramite l’ospedale si prende cura dei suoi bambini, e a destra Giovanni Evangelista, patrono dell’Arte della Seta. A questa corporazione la città di Firenze aveva affidato il patronato dell’istituzione ospedaliera, e pertanto nel dipinto di Ghirlandaio il santo rappresenta l’assistenza della corporazione per i bambini dell’ospedale. Nei Magi, che presentano i loro doni a Maria, si potevano e si dovevano infine rispecchiare i donatori fiorentini, dalle cui elargizioni e dalla cui generosità dipendevano l’ospedale e i suoi orfani. Durante la festosa cerimonia d’inaugurazione dell’ospedale il gonfaloniere avrebbe, in nome della città, posto un dono sull’altare della chiesa ospedaliera, davanti al quale poi lo “spedalingo” vestiva il primo bambino. L’opera di Ghirlandaio sopra questo altare conferiva una continuità figurativa nonché una dimensione salvifica a tale atto simbolico; la previdenza caritativa si manifesta come un gesto cristiano: ciò che si dona all’ospedale si dona a Cristo, prendersi cura dei trovatelli dell’Opedale degli Innocenti significava allo stesso tempo venerare Gesù Bambino. Nel modo di alludere all’istituzione ospedaliera e ai suoi compiti, Ghirlandaio si rifà dunque in parte al Trittico Portinari cui in un certo senso risponde – e che supera – sul piano tematico con la scelta dell’Adorazione dei Re Magi al posto di quella dei pastori. Ma nulla da quello riprende sul piano formale, essendo anzi l’intera opera un ineguagliabile “contro-programma”, dal carattere decisamente classico-fiorentino. Più sorprendenti sono allora, piuttosto, i rimandi stilistici al Trittico Portinari nell’altare del lato destro, per il quale Piero di Cosimo, in occasione della ristrutturazione della chiesa, dipinse una nuova pala per Piero del Pugliese. L’opera fu incoronata da una lunetta con un basso-
fig. 17 - Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei Magi con santi, Firenze, Museo dell’Opedale degli Innocenti
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fig. 18 - Ricostruzione dell’Altare Pugliese di Innocenti con l’Annunciazione di Andrea della Robbia (Firenze, Spedale degli Innocenti, Chiostro) e la Sacra Conversazione di Piero di Cosimo (Firenze, Museo dell’Ospedale degli Innocenti)
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rilievo realizzato da Andrea della Robbia (fig. 18): quando la pala era coperta dalla cortina, lo spettatore poteva sempre vedere la rappresentazione offerta dal bassorilievo che, come gli sportelli esterni del Trittico Portinari, raffigurava un’Annunciazione, ma questa volta come scultura vera. Il dipinto di Piero, una volta scoperto, mostrava una Sacra Conversazione accordata formalmente alla composizione della lunetta, con una Madonna in trono col Bambino intorno alla quale erano radunati quattro santi che, per i committenti e per l’ospedale, rivestivano un ruolo significativo come patroni. Nel suo dipinto Piero di Cosimo emula lo stile pittorico di Van der Goes nel minuto descrittivismo, nei timbri cromatici pieni, nel netto contrasto tra la figura illuminata di Maria e la zona scura intorno ad essa, nelle tipologie dei santi barbuti – non idealizzati ma veristici e segnati dalla vecchiaia e dalla stanchezza –, nonché nell’atmosfera di devota malinconia che pervade l’intero dipinto come nella raccolta beatitudine dei volti di coloro che sono inginocchiati davanti a Cristo, ed infine nel modo di sparpagliare gli oggetti con apparente casualità sul terreno spoglio in primo piano37. Quello che Ghirlandaio ha evitato sull’altare maggiore, Piero di Cosimo lo recupera esplicitamente nell’altare laterale, facendo del suo dipinto un pendant di quello sull’altare maggiore in Santa Maria Nuova. Pur se gerarchicamente subordinato alla pala di Ghirlandaio, la Sacra Conversazione di Piero di Cosimo non si sottrae alla sfida artistica con quella. L’Ospedale degli Innocenti risponde dunque non soltanto con il suo altare maggiore all’altare magiore di Santa Maria Nuova, ma stimola anche al suo interno una dialettica ancora una volta ispirata da Van der Goes: il trittico fiammingo ora come ‘alleato’ nella competizione artistica tra due pittori fiorentini, il giovane contro il vecchio. Quando l’ensemble dell’Opedale degli Innocenti stava per completarsi, già un altro ospedale fiorentino partì con una nuova campagna di ristrutturazione della propria chiesa. Si trattava dell’Ospedale delle suore di Santa Chiara, che appartenevano alla più severa Osservanza dell’Ordine. A loro Jacopo Bongianni finanziò, negli anni novanta del Quattrocento, una completa ristrutturazione della chiesa con un altare maggiore e due altari laterali38. Come già nell’Ospedale degli Innocenti, anche sull’altare maggiore di questa chiesa fu collocato un tabernacolo, adesso come suo decoro principale, accompagnato da sculture; e, se nell’altro ospedale la pala di Piero di Cosimo era stata incoronata dalla lunetta a bassorilievo di Andrea della Robbia, in Santa Chiara furono due gli altari laterali ad essere accompagnati, nella parte superiore, dai rilievi di della Robbia39. Se già nell’Opedale degli Innocenti,
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fig. 19 - Lorenzo di Credi, Natività. Firenze, Galleria degli Uffizi
infine, si era voluto accordare l’altare maggiore ad uno laterale per creare unità estetica all’interno della chiesa, tale unitaria armonia poteva essere ora accresciuta in Santa Chiara. I due altari laterali erano speculari e simmetrici quanto a cornice e struttura e, nello stesso tempo, vi era tra loro una concordanza tematica che includeva anche l’altare maggiore. Il soggetto comune era l’adorazione dell’ostia – il Corpus Christi –, presentata sull’altare maggiore. Sopra uno degli altari laterali Lorenzo di Credi raffigurava, nel 1497 circa, con la sua Natività con adorazione dei pastori, l’adorazione del Cristo neonato40 (fig. 19), mentre sull’altro altare laterale Pietro Perugino, con il suo Compianto di Cristo del 1495, rappresentava la venerazione del corpo di Cristo morto41. Gli studi hanno già osservato quanto strettamente i due dipinti siano intonati anche dal punto di vista formale: al centro vi è sempre il corpo nudo di Cristo, accompagnato da figure inginocchiate, mentre sulla destra e sulla sinistra ci sono delle figure in piedi42. La coppia di dipinti creava così un collegamento tra l’inizio e la fine della vita terrena di Cristo, suggerendo al contempo un confronto formale ed estetico tra gli stili di due dei pittori più famosi dell’epoca. La campagna di ristrutturazione in Santa Chiara non si rifaceva soltanto al modello presentato dall’Ospedale degli Innocenti ma, attraverso la composizione del Credi, anche all’ospedale di Santa Maria Nuova e al Trittico Portinari di Hugo van der Goes43. Anche in Credi si incontrano – come in numerosi altri pittori fiorentini – i tre pastori di Hugo, e anche in lui le povere figure contadinesche vengono idealizzate e trasformate in pastori italiani arcadici. Di nuovo si spingono in primo piano, integrati in una composizione codificata secondo gli stilemi fiorentini. Credi rinuncia alla composizione a cerchio che abbraccia l’intero dipinto, ma raggruppa le sue figure almeno
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fig. 20 - Sandro Botticelli, Sacra Conversazione, Altare Bardi. Berlino, Gemäldegalerie
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in semicerchio dietro al Bambino. Nella figura dell’angelo al centro ripete persino esattamente il gesto delle mani alzate e aperte con il quale Hugo aveva raffigurato il suo angelo nella stessa posizione. Direttamente da Van der Goes Credi desume anche il cromatismo scuro e freddo, seguendo con precisione lo schema cromatico del modello fiammingo: decisi toni marroni, un rosso profondo e, soprattutto al centro, vicino a Maria, tonalità azzurre che variano dal chiaro allo scuro44. L’insieme formale e cromatico nei due dipinti ospedalieri, dal soggetto analogo, è così affine che gli spettatori contemporanei avranno probabilmente riconosciuto la fonte artistica di Credi. Se si confronta ulteriormente l’opera di quest’ultimo con il Trittico Portinari, si scoprirà poi che l’artista attenua in generale la miseria, la drammaticità sociale, nonché il verismo brutale della tavola di Hugo, preferendo un’atmosfera sognante, soave e seria che pervade tutto il suo dipinto; al contempo egli rinuncia anche ai più piccoli accenti cromatici, allo sfarzo dei tessuti pregiati e delle vesti degli angeli, a tutto il luccicare delle superfici splendenti, con i quali Hugo aveva reso il suo primo piano pittoricamente suggestivo e attraente. Anche nell’architettura della stalla Credi sacrifica i pilastri e i capitelli decorati scegliendo volutamente delle forme semplici, mostrando chiaramente di cercare la bellezza nella semplicità e nella sobrietà, ovvero attraverso uno stile di devota umiltà45. Alla base di questa scelta stilistica la critica ha individuato il comune atteggiamento religioso di convento, committente e artista. Le Clarisse seguivano gli ideali della severa regola francescana dell’osservanza, accentuando umiltà e povertà46. Jacopo Bongianni fu un seguace di Savonarola e forse – come ipotizza Kent – si è fatto ritrarre nel volto del vecchio pastore raccolto in adorazione47. Il ricco mercante fiorentino si fa umile con la sua generosa donazione e si ‘abbassa’ pittoricamente sino a divenire un povero pastore, per salvare così la sua anima. Un seguace di Savonarola era infine anche Lorenzo di Credi, che pertanto avrà accolto volentieri la commissione, per potersi presentare come pittore dell’umiltà devota nonché della bellezza vestita di semplicità48. Spirito e stile del dipinto e del suo autore si accordavano, inoltre, anche con la funzione ospedaliera di Santa Chiara: anche la compassione sociale e la cura dei poveri attuata dall’ospedale erano diventati visibili nel dipinto di Credi. I concetti di umiltà, sobrietà e devozione non erano solo atteggiamenti religiosi, ma sortivano effetti concretamente caritativi: un comportamento sociale che nasceva da una speciale religiosità. Paula Nuttall ha sottolineato quanto forte era a Firenze la convinzione che la pittura primitiva fiamminga fosse particolarmente devota49. Questo è sicuramente vero, sebbene in misura diversa a seconda dei dipinti, tra quelli importati a Firenze. La “devozione” di Memling, sovente gaia e festosa, dal cromatismo splendido, di fatto, non è quella del Trittico Portinari di Hugo van der Goes, che risulta ben più seria, più profonda e socialmente più impegnata. Le sue caratteristiche specifiche ne fecero un’opera interessante anche per la cerchia intorno a Savonarola, tesa verso una riforma religiosa, divenendo una pietra di paragone della pittura, e della ‘pittura devota’ in particolare. CAPPELLE IN SANTO SPIRITO Ripercussioni del Trittico Portinari in ambito fiorentino si avvertono soprattutto nelle pale d’altare, che quel modello riprendevano pertanto anche nella funzione e nel supporto. Le ragioni che spingevano a guardare a Van der Goes possono essere ricondotte sia ai pittori sia ai loro committenti. Come si è visto, non soltanto Ghirlandaio rivaleggiava con Hugo, ma nello stesso tempo anche Sassetti, responsabile dei commerci della famiglia Medici, con Portinari, che a sua volta era stato al servizio dei Signori di Firenze. Così, per le istituzioni sociali degli Innocenti e di Santa Chiara l’altare maggiore del più grande e importante ospedale fiorentino rappresentò inevitabilmente un punto di riferimento per la realizzazione dei propri altari. Ma anche in altri luoghi l’influsso del trittico trova la sua origine, oltre che negli interessi prettamente artistici dei pittori, anche nelle scelte dei committenti, come dimostrano ad esempio gli altari nelle cappelle di Santo Spirito50. Qui, in occasione del completamento della costruzione della chiesa nel 1482, furono realizzate una dopo l’altra una serie di pale d’altare tra le quali più d’una guarda non solo al dipinto di Hugo van der Goes, ma anche ad altre opere della primitiva pittura fiamminga. Le prime in ordine di tempo, nonché quelle successive realizzate ad esempio da Cosimo Rosselli, Botticini o Donnino e Agnolo di Domenico del Mazziere, seguirono tutte più o meno fedelmente un tipo di composizione unitaria, con a soggetto la Sacra Conversazione, che vedeva al centro una Madonna su un trono rialzato, circondata da alcuni santi in piedi. Il gruppo era sovente chiuso alle spalle da una balaustrata oltre la quale si intravedevano un paesaggio o altri motivi naturalistici51. Questo tipo di composizione fu impiegato ancora da Botticelli nella Pala Bardi (Berlino, Gemäldegalerie), realizzata intorno al 1484/8552 (fig. 20). Il committente dell’opera, Giovanni d’Agnolo dei Bardi, aveva, come Portinari, vissuto a lungo in Nord Europa – avendo la sua attività commerciale i principali interessi in Inghilterra – e, a Londra, aveva intrattenuto per alcuni anni
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rapporti lavorativi con i Medici; un figlio di Sassetti lo definisce anni dopo “il grande merchante d’Inghilterra”53. Nel 1483 Bardi tornò definitivamente a Firenze dove acquisì, nello stesso anno, un palazzo di famiglia nonché il patronato di una cappella in Santo Spirito, nella quale, nel 1485, fu esposta la pala di Botticelli, corredata di una cortina. Oltre alla Sacra Conversazione, l’artista dà qui forma ad un raffinatissimo e complicato programma teologico che presenta il messaggio mariano sotto forma di piccole iscrizioni e attraverso il simbolismo di numerose piante di specie diverse che occupano tutto lo sfondo. E sono proprio questi motivi a distinguersi per l’altissimo grado di minuzia descrittiva – una resa dettagliatissima anche della più piccola delle foglie o di altri elementi naturalistici. Forte è la tentazione di vedervi una reazione alla pala d’altare “del grande merchante di Fiandra”, Tommaso Portinari, giunta a Firenze poco prima: ai suoi dettagli naturalistici e al simbolismo religioso dei suoi fiori. Van der Goes, tuttavia, non dà voce al suo simbolismo attraverso iscrizioni di carattere teologico e raggruppa gli scarsi motivi naturalistici solamente in primo piano. La fitta vegetazione di Botticelli nella Pala Bardi ricorda piuttosto un’altra sua stessa opera, la Primavera, dipinta intorno al 1481. Ad ogni modo, la Pala Bardi costituisce, per la qualità della resa, la pala d’altare più dispendiosa di Botticelli, lasciando aperta la questione se l’artista e il suo committente abbiano consapevolmente voluto competere con Hugo van der Goes e Tommaso Portinari. È, invece, chiarissimo il riferimento al Trittico Portinari in due pale d’altare, realizzate una dopo l’altra, per il transetto destro di Santo Spirito dove, nell’ultimo decennio del Quattrocento, fu realizzata una serie di tavole d’altare tra le più significative dell’epoca. La prima tavola, realizzata per la cappella orientale del lato nord del transetto, la Cappella Capponi, è la Visitazione di Piero di Cosimo (Washington, National Gallery of Art)54 (fig. 21). Nel 1459 Gino di Neri Capponi aveva già acquisito i diritti per la cappella, soddisfacendo in questo modo il desiderio del padre Neri Capponi, morto nel 1457. Gino stesso morì nel 1487 e, nell’anno seguente alla sua morte, il figlio Piero fece collocare il sarcofago del padre di Gino, Neri, in una nicchia della cappella. Fu lo stesso Piero a pagare, nel 1489-1490, anche la cornice del dipinto d’altare che perciò dovette essere realizzato negli stessi anni. Gli studiosi considerano giustamente il dipinto di Piero di Cosimo l’opera sua in cui l’emulazione stilistica del Trittico Portinari è più significativa55, non soltanto per la tecnica pittorica satura di colore o per la resa naturalistica dei dettagli, ma anche per i singoli motivi figurativi. Nel primo piano siedono due santi anziani impegnati rispettivamente nella lettura e nella scrittura, san Nicola e sant’Antonio Abate. Le loro teste dalla resa veristica ricordano chiaramente i vecchi santi di Hugo, sant’Antonio Abate e san Giuseppe: anche Piero conferisce ai volti marcati segni di vecchiaia e accentua le grandi mani rugose, testimoni di una vita di duro lavoro. Direttamente sopra la testa calva a sinistra compare, sia in Hugo che in Piero, la Sacra Famiglia che, nel primo, è in viaggio verso Betlemme, mentre il secondo la raffigura nel momento dell’adorazione dei pastori. Al centro del primo piano Piero dà prova della sua arte nella descrizione dei dettagli naturalistici e nella resa materica degli oggetti che, come in Hugo, si trovano anche qui in un ordine apparentemente casuale, sparsi su un terreno altrimenti spoglio e disadorno: dei fiori, un ceppo, una campana, un libro e tre sfere dorate luccicanti e splendenti. Del tutto insoliti sono invece gli occhiali che indossa sant’Antonio: essi permettono non solo al santo di poter vedere bene il proprio cartiglio, ma invitano anche lo spettatore ad onorare l’indagine minutamente dettagliata di Piero con uno sguardo attento56. Piero Capponi sceglie un pittore che anche in altri dipinti aveva voluto emulare il Trittico Portinari, opera non del tutto sconosciuta neppure agli stessi Capponi. Le spese per il suo trasporto da Bruges a Pisa erano infatti state anticipate da un membro della famiglia, Niccolò di Giovanni Capponi57, il quale possedeva anche una cappella
fig. 21 - Piero di Cosimo, Visitazione, Altare Capponi. Washington, National Gallery of Art fig. 22 - Filippino Lippi, Madonna con santi e donatori. Firenze, Santo Spirito, Altare Nerli
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fig. 23 - Raffaellino del Garbo, Compianto di Cristo con santi, Altare Nasi, Monaco, Alte Pinakothek
nel transetto destro di Santo Spirito58, del cui originale allestimento non si ha, però, alcuna notizia. Infine, legami di parentela collegano l’altare di Piero Capponi in Santo Spirito anche con un altro altare del transetto, dove si conserva ancora oggi la pala originale realizzata da Filippino Lippi per Tanai de’ Nerli’59 (fig. 22), sposato con la zia di Piero Capponi, Nanna di Neri Capponi. Nel 1493 Nerli ottenne il patronato della cappella e si può quindi supporre che la pala sia stata eseguita poco dopo. Filippino vi raffigura una Madonna in trono alla quale i santi presentano i coniugi donatori: a sinistra Tanai è raccomandato da san Martino, Nanna, a destra, da santa Caterina. Già Pope Hennessy aveva ipotizzato per questo modo di presentare i donatori un influsso del Trittico Portinari: anche in quest’opera marito e moglie si trovano inginocchiati davanti ai loro santi protettori60. Un’altra ripresa da Hugo van der Goes nel dipinto di Lippi è stata per tanto tempo ignorata: la posa di Maria ricalca quella della Madonna a monocromo nello sportello esterno del trittico di Hugo, mentre santa Caterina, a destra, nell’inclinazione della testa e nell’espressione, è plasmata sull’angelo dell’Annunciazione nell’altro sportello. Nel tendersi l’una verso l’altra, le teste dei santi e di Maria – tradotte ora in colore - ripetono l’avvicinarsi dell’angelo a Maria nel Trittico Portinari. Immediatamente sopra la testa di Maria Filippino Lippi rappresenta lo spirito santo che in Hugo, in forma di colomba, si trova nella medesima posizione; anche qui è a monocromo, ma con una variante nell’aggiunta del putto che tiene la colomba. Ciò non solo a memoria dell’Annunciazione, ma anche come allusione allo Spirito Santo, cui è intitolata la chiesa. Scegliendo Filippino Lippi, Nerli aveva affidato la sua commissione ad un artista che, insieme a Piero di Cosimo, si rifaceva più di tutti a Hugo van der Goes. Nell’altare Nerli di Filippino, tuttavia, la ripresa del Trittico Portinari si fonde con quella di un’altra opera fiamminga, il Trittico Pagagnotti di Memling (cat. n. 25), di cui, già nei primi anni ottanta del Quattrocento, Lippi aveva citato elementi paesaggistici61; l’interno di loggia distribuita nelle tre tavole di Memling costituisce ora un riferimento per l’intera scena della Pala Nerli. Inoltre, dai gruppi di lottatori che Memling aveva raffigurato come finte sculture negli angoli superiori della tavola centrale del suo trittico, Filippino sembra trarre ispirazione per quelli che ornano la base del trono su cui siede la Vergine62.
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Ma la ricezione di opere fiamminghe in Santo Spirito non si limitava a queste opere. Per la cappella che si trova esattamente tra la cappella Capponi e la cappella Nerli fu realizzato da Raffaellino del Garbo, probabilmente negli ultimi anni del Quattrocento, un dipinto raffigurante il Compianto di Cristo (Monaco, Alte Pinakothek)63 (fig. 23), commissionato dalla famiglia Nasi. Bartolommeo di Lutozzo Nasi aveva, nel 1487, disposto nel suo testamento la donazione di una vetrata e di una pala d’altare per la cappella64. In quest’ultima, eseguita da Raffaellino, sono stati ripresi alcuni dettagli della Pala Careggi di Rogier van der Weyden, un’opera tematicamente affine. Come in Rogier, anche in Raffaellino, nel primo piano, si vede il contenitore per l’unguento della Maddalena a forma di calice. La citazione più letterale consiste tuttavia in alcuni particolari di una porta della città nella veduta dello sfondo, che si ritrovano nello sfondo del dipinto di Rogier a sinistra65. Insieme, i tre altari del transetto destro in Santo Spirito, uno accanto all’altro, riunivano in sé un concerto di riprese fiorentine della primitiva pittura fiamminga su tavola, come non lo si vedeva in nessun altro luogo a Firenze. In modo esemplare è dato qui cogliere il modo diverso in cui i pittori reagirono alle importazioni nordiche: dalla citazione precisa di un motivo paesaggistico alla variante di idee compositive, dalla ripresa di modelli di figure realistiche sino all’adozione di uno stile pittorico caratterizzato da un cromatismo splendente e da un’indagine naturalistica minutamente dettagliata. È poco probabile che ai diversi committenti e agli spettatori coevi possa essere sfuggita una tale concentrazione di riflessi fiamminghi in opere fiorentine, sullo sfondo del quale qualsiasi pala d’altare con un nuovo riferimento al “nordico” doveva profilarsi. Queste opere testimoniano una moda che vedeva sia gli artisti sia i committenti competere fra loro. Di qui, una sorta di “summa”, in cui, in uno spazio molto ristretto, si evocavano gli esempi fiamminghi più significativi tra quelli arrivati a Firenze dalle Fiandre: la pala d’altare di Rogier per Careggi, il Trittico Portinari di Van der Goes, il Trittico Pagagnotti di Memling. Come la cappella Sassetti, come gli ospedali fiorentiini, così anche il transetto di Santo Spirito fu un luogo di paragone tra la pittura fiorentina e quella fiamminga. In Santo Spirito si formò, per di più, non solo una raccolta d’arte costituita dalla pale d’altare dei più famosi maestri fiorentini, ma anche, nei riflessi stilistici in essa convergenti, un musée imaginaire della pittura fiamminga a Firenze, che testimonia l’impronta profonda che il Trittico Portinari e gli altri esempi nordici – ad esso precedenti e contemporanei – lasciarono nella coscienza artistica dei pittori e del loro pubblico. Riconquistare una tale posizione per la pittura fiamminga primitiva nella coscienza artistica collettiva di Firenze, suscitare negli spettatori una rinnovata sensibilità estetica al contribuito fiammingo al Rinascimento italiano, questo augurio accompagni, cinque secoli dopo, anche la mostra di pittura fiamminga e fiorentina a Palazzo Pitti66. Cfr. SALMI 1922, p. 227; KANTER-HENRY 2002, p. 104; CARACCIOLO 2005, p. 46, n. 16. 2 Cfr. le sintesi in ROHLMANN 1999 e NUTTALL 2004. 3 HALL 1992, pp. 47-91; NUTTALL 2004, pp. 161-191. 4 NUTTALL 2004, pp. 149, 231-233; cfr. KOSTER 2002, pp. 89-90. 5 La dipendenza dal Trittico Portinari è riconosciuta in: SALMI 1922, p. 225; PONS 1996; NUTTALL 2004, pp. 9798 (riferimento a Van der Goes). Per la provenienza probabilmente francese del pittore: VENTURINI 1996, pp. 162-163; PONS 1996; NELSON 2004, PRATO 2004, FIRENZE 2004a, p. 65; L.A. Waldman propone ora l’identificazione con Alexander Formoser (?) in BUDAPEST 2008, n. 83 p. 164. 6 Cfr. per la Natività di Signorelli a Londra: KANTERHENRY 2002, pp. 195-196. Per l’influsso del Trittico Portinari nella Natività di Signorelli a Cortona: SALMI 1922, p. 226. 7 Riferimento a Van der Goes: ZERI 1991, p. 181; CASTELFRANCHI VEGAS 1983, p. 227; SALVINI 1984, p. 47; GERONIMUS 2006, p. 47. 8 FRANKLIN 2001, p. 106; NUTTALL 2004, pp. 231-232 (con riferimento a Van der Goes). Altri dipinti raffiguranti la Natività, per cui si sospetta una ripresa di Van der Goes: Perugino, Polittico Albani (WOOD 1985, pp. 173-174); Pinturicchio in Santa Maria del Popolo, Roma (SCAREPELLINI-SILVESTRELLI 2004, p. 149); Bar-
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tolomeo di Giovanni, Collezione privata (PONS 2004, pp. 26-27, ill. p. 29). 9 PONS 1996. 10 GABRIELLI 2007, pp. 203-204 e p. 59 per l’ipotesi di un’influenza del Trittico Portinari su altre opere di Cosimo Rosselli. 11 GABRIELLI 2007, pp. 212-217. 12 CADOGAN 2000, pp. 256-258; KECKS 2000, pp. 341342. SALVINI 1984, p. 43 sospetta un influsso del Trittico Portinari nella resa cromatica e del movimento. 13 VENTURINI 1994, p. 125. 14 Cfr. per il contribuito fiammingo allo sviluppo della raffigurazione del paesaggio a Firenze: BELLOSI 1987; ROHLMANN 1993a; AMES LEWIS 1996; BELLOSI 1999; ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 242-256; NUTTALL 2004, pp. 195-209. 15 SALMI 1922, p. 227; SALVINI 1984, p. 47. 16 Riferimento al Trittico Portinari: CHRISTIANSEN 1998, p. 49; J. Nelson in, FIRENZE 2004, p. 161. Le scene con Giuseppe e Maria inserite nel paesaggio di Hugo si trovano anche in un tondo di Bartolomeo di Giovanni al Muso Horne (ill. in PONS 2004, pp. 80-81). 17 ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 239-245, 349-351. 18 SALVINI 1984, p. 45; ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 469479, 594-596. 19 Diverse volte è stato ipotizzato anche per Botticelli un’ispirazione dal Trittico Portinari: KNAPP 1912-
1917, pp. 205-207 (il genere di figure nell’Altare di San Barnaba); GREER 1983 (disegni danteschi e Nascita mistica di Cristo); BREDEKAMP 1988, pp. 30-31 (elementi floreali nella Primavera); CHRISTIANSEN 1998 (Altare di San Barnaba); NUTTALL 2004, p. 243 (l’atmosfera devota della Nascita mistica di Cristo). 20 Cfr. Vgl. KNAPP 1912-1917, pp. 207-209 (Tondo Corsini e La visione di san Bernardo); SALMI 1922, p. 226; RAGGHIANTI 1960, pp. 191-194; HARTT 1970, pp. 298299; MEISS 1973, p. 485; NATALE 1980, p. 45; SALVINI 1984, pp. 42, 44-45; NUTTALL 2004, pp. 177-178; 243244. 21 NUTTALL 2004, pp. 177-178. 22 KNAPP 1899, pp. 35-37, 45; MESNIL 1911, p. 64; VENTURI 1911, pp. 702, 706; KNAPP 1912-1917, pp. 209; SALMI 1922, p. 227; CASTELFRANCHI VEGAS 1983, pp. 226-227; SALVINI 1984, pp. 42, 46-47; ZERI 1991, pp. 177, 180-181; FERMOR 1993, pp. 123, 125, 169; FORLANI TEMPESTI-CAPRETTI 1996, p. 104; H. Fiore in, FIRENZE 2004, p. 168 (Tondo Borghese); GERONIMUS 2006, pp. 47, 198, 203. Cfr. per le raffigurazioni paesaggistiche di Piero e possibili esempi nordici NUTTALL 1994, pp. 207-209. 23 Cfr. BORSOOK-OFFERHAUS 1981; CADOGAN 2000, pp. 230-236, 253-255; KECKS 2000, pp. 245-275; ROHLMANN 2003b. 24 STEINMANN 1897, pp. 36-37; WARBURG 1932, vol. I, p. 209 (“Glanzlicht des Auges aufgenommen”); MESNIL
Luoghi del paragone. La ricezione del Trittico Portinari nell’arte fiorentina
1911, pp. 70-76; ID. 1911a, pp. 40-42 (“bourgeois florentin travestis en paysans”); KNAPP 1912-1917, p. 195 (“nur geistlose Kopistenarbeit”); KÜPPERS 1916, p. 27-28 (“Wiedergeburt von nordischen Hirten aus italienischem Geiste”); SALMI 1922, p. 225; LAUTS 1943, p. 27 (Ghirlandaio “matt und lau”); Hartt 1970, p. 307 (“has assimilated the new discoveries into the over-all monumentality, compositional harmony, and tonal balance of an Italian Renaissance altarpiece”); BORSOOK-OFFERHAUS 1981, pp. 33-34; GREER 1983, pp. 143-147 (critica dipinta al Trittico Portinari); SALVINI 1984, pp. 42-43; NUTTALL 1996, pp. 18-20 (“not mere mechanical reproductions, but a patchwork of allusions and assimilations”); CADOGAN 2000, p. 254; KECKS 2000, pp. 81, 274 (Ghirlandaio rielabora Van der Goes secondo il proprio personale linguaggio artistico); KOSTER 2002, p. 89; NUTTALL 2004, pp. 149150 (Ghirlandaio adatta Van der Goes alla tradizione e all’estetica fiorentine). 25 PORCAL 1984, p. 27-28; NUTTALL 1996, p. 20; ID. 2004, p. 149-150; cfr. con significato leggermente diverso: KECKS 2000, p. 274. 26 LOCHER 1999, p. 84. Cfr. MESNIL 1911, p. 72; ID. 1911a, p. 41 ipotizza che il pastore a destra sia un ritratto di Sassetti. C’è in effetti una certa somiglianza, tuttavia, la persona effigiata sembra essere più giovane del Sassetti dell’affresco. 27 BORSOOK-OFFERHAUS 1981, p. 42; CRUM 1998, p. 12; KECKS 2000, p. 272; NUTTALL 2004, p. 149, 229. 28 ROHLMANN 2003b, pp. 207-209. 29 Ibid., pp. 210-211. 30 Cfr. HATFIELD STRENS 1968, p. 316; GREER 1983, pp. 146-147; NUTTALL 1996, p. 19; KOSTER 2002, pp. 8990; NUTTALL 2004, p. 149. 31 Cfr. BRUSCOLI 1900; GAVITT 1990; SANDRI 1996. 32 BRUSCOLI 1902; KÜPPERS 1916, pp. 33-36, 86-89; BELLOSI 1977, pp. 234-235; BUSSE 1999, pp. 282-341, 486; CADOGAN 2000, pp. 259-261; KECKS 2000, pp. 343346; ROHLMANN 2003a, pp. 27-40; BURKE 2004, pp. 127-129, 133-135; PONS 2004, pp. 22-25. 33 BURKE 2004, pp. 119-127, 129, 133. 34 Ibid., pp. 129-137; GERONIMUS 2006, pp. 204-206. 35 ZÖLLNER 2005, pp. 149, 154, ipotizza che alcuni altari fiorentini abbiano rivaleggiato in grandezza con il Trittico Portinari: La pala di San Barnaba e l’altare di San Marco di Botticelli, l’altare maggiore di Ghirlandaio nell’Ospedale degli Innocenti e la sua pala per l’altare maggiore in Santa Maria Novella. 36 Cfr. per quanto segue: ROHLMANN 2003a, pp. 28-29; BURKE 2004, pp. 134-135. 37 KNAPP 1899, p. 45; SALMI 1922, p. 227; ZERI 1991, p. 180; FERMOR 1993, p. 125. 38 PAATZ 1940-1954, vol. I, pp. 454-461; POPE HENNESSY 1964, vol. I, pp. 177-179; WOOD 1995, pp. 276-284; ID. 1996, pp. 145-158. 39 MARQUAND 1922, vol. II, pp. 218-219, 222-223; WOOD 1995, pp. 279-281; ID. 1996, pp. 153-154. 40 DALLI Regoli 1966, pp. 54-55, 147-148; KENT 1983; J. Nelson in, FIRENZE 1996, pp. 88-89; ZAMBRANO-NELSON 2004, p. 489. 41 SCARPELLINI 1984, pp. 40, 89. 42 DALLI REGOLI 1966, p. 55; vgl. WOOD 1996, p. 153. 43 SALVINI 1984, pp. 45-46; KOSTER 2000, p. 182; NUTTALL 2004, PP. 177, 232. Jonathan Nelson sottolinea una ri-
presa dell’ Altare Sassetti di Ghirlandaio e nega invece riferimenti al Trittico Portinari: in FIRENZE 1996, pp. 88-89; ZAMBRANO-NELSON 2004, p. 489. Anche nella pala di Perugino la ricerca ipotizza un’ispirazione nordica: NUTTALL 2004, pp. 240-242. 44 NUTTALL 2004, pp. 177. 45 Cfr. DALLI REGOLI 1966, p. 54; ZAMBRANO-NELSON 2004, p. 489. 46 WOOD 1995; ID. 1996. 47 KENT 1983; NUTTALL 1994, p. 232. 48 DALLI REGOLI 1966, p. 54; KENT 1983. 49 NUTTALL 2004, pp. 231-151. 50 Per gli altari in Santo Spirito cfr.: CAPRETTI 1991; ID. 1996; BURKE 2004, pp. 63-83. 51 CAPRETTI 1996, pp. 242-244, 248-249; BLUME 1995a. 52 BLUME 1995, pp. 71-127; ID. 1995a; CECCHI 2005, p. 228-236; ZÖLLNER 2005, pp. 145-149, 227-228; KÖRNER 2006, pp. 310-313. 53 CECCHI 2005, p. 228. 54 KENT 1977, pp. 104-105; SHAPLEY 1979, pp. 369-371; FERMOR 1993, pp. 123-125; FORLANI TEMPESTI-CAPRETTI 1996, pp. 104-105; GERONIMUS 2006, pp. 198-204. 55 KNAPP 1899, pp. 35-37; MESNIL 1911, p. 64; VENTURI 1911, p. 706; SALMI 1922, p. 227; ZERI 1991, p. 181; FERMOR 1993, p. 123; FORLANI TEMPESTI-CAPRETTI 1996, p. 104; GERONIMUS 2006, p. 203. 56 Cfr. RUBIN 2007, p. 124 per la funzione degli occhiali nell’affresco di Ghirlandaio, Le esequie di san Francesco, nella cappella Sassetti. 57 HATFIELD STRENS 1968, pp. 318-319. 58 KENT 1977, pp. 105 (cappella), 140 (casata); un albero genealogico della famiglia: p. 306. 59 ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 459-469, 590-591; RUBIN 2007, pp. 216-226, 356-357. 60 POPE-HENNESSY 1966, pp. 263-265; cfr. Per i ritratti anche l’accurata analisi di J. Nelson in, ZAMBRANONELSON 2004, pp. 459-469. 61 MEISS 1973; ROHLMANN 1995. 62 Per il significato di questo motivo in Filippino Lippi, cfr. RUBIN 2008, pp. 240-241. 63 BUSCHMANN 1993, pp. 58-60, 144-146; GOLDNER-BAMBACH 1997, p. 338; BUrke 2004, pp. 77-79. 64 BURKE 2004, p. 77. 65 ROHLMANN 1993a, p. 243; ID. 1994, p. 29; vgl. BUSCHMANN 1993, p. 59. 66 Merita il mio ringraziamento Bert Meijer, il quale mi invitò ad occuparmi nuovamente del Trittico Portinari (cfr. Rohlmann 1994, pp. 53-65). Del testo prodotto in quella occasione, qui si è potuto pubblicare soltanto la seconda parte nella traduzione italiana, per la quale desidero ringraziare per la riuscita forma Diana Afman e Raffaella Colace. La prima parte del testo, rimasta inedita, si dedica alla genesi del Trittico Portinari nonché alla sua collocazione in Santa Maria Nuova e nel contempo affronta criticamente anche le tesi proposte dagli studi più recenti (KOSTER 2000, 2008; SCHLIE 2002, pp. 137-147; FRANKE 2008). Sei tematiche sono centrali: 1) il problema della datazione (il nesso diretto tra l’esecuzione dell’opera dalle dimensioni più grandi di Hugo van der Goes e l’affitto di una grande casa a Gand nel 1473-1477/78); 2) l’adattamento tematico del trittico al ciclo degli affreschi dedicati alla vita di Maria, già presente nella cappella
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maggiore in Santa Maria Nuova, nonché alla funzione del trittico in quanto pala d’altare (cfr. HATFIELD 1968, p. 316; REZNICEK 1986-87, p. 177; ROHLMANN 1994, pp. 54-56); 3) i rapporti tra l’iconografia del dipinto e la funzione ospedaliera di Santa Maria Nuova (cfr. SCHEIL 1976, pp. 80-91; HELLER 1976, p. 120; MENDES ATANÁZIO 1989, pp. 20-21; MILLER 1995; KNORR 1996; TRAEGER 1997, pp. 169-173; DHANENS 1998, p. 255; KOSTER 2000, p. 54; HENDERSON 2001, p. 202; HELAS 2004, p. 126; HENDERSON 2006, pp. 128-132; WOLFTHAL 2007, p. 14; KOSTER 2008, pp. 57, 59-60, 84). 4) Il ruolo della donazione dell’altare negli interessi famigliari dei Portinari (allusioni ai nomi dei donatori Portinari nella pala attraverso i motivi della porta: i ritratti dei Portinari sugli sportelli, le “porte” dell’altare, Tommaso che si inginocchia davanti una porta di legno aperta, la scena con san Tommaso che si erge come un portiere atto alle armi di fianco a questa porta, ovvero come san Tommaso “Portinari”, la porta centrale di pietra della stalla nella Natività, la cui decorazione rimanda alla genealogia della famiglia di Cristo che ha le sue origini nella casa di Davide; la realizzazione di un legame tra l’esemplare Sacra Famiglia, costituita da Maria, Giuseppe e Cristo, e la famiglia Portinari qui raffigurata; il nesso tra la donazione dell’altare con la fondazione della messa di Portinari nel 1472 e la costruzione del suo palazzo fiorentino nel 1470-1473; allusioni ai nomi dei Portinari in ulteriori commissioni artistiche della famiglia: i portieri ‘Portinari’ in pietra che affiancano il portale del Banco dei Medici a Milano; il portale accanto a Maria nel ritratto di Ludovico Portinari del Maestro della leggenda di Sant’Orsola di Bruges; la presenza e il significato retorico-figurativo dei ritratti dei Portinari davanti alle porte di Gerusalemme nella Passione di Memling di Torino, con cui si allude nello stesso tempo al probabile luogo di destinazione del dipinto, il convento francescano situato direttamente davanti alla Ezelpoort, una porta della città di Bruges). 5) La donazione dell’altare nel contesto dei rapporti di patronato in Santa Maria Nuova (il ruolo di patronato riservato all’intera famiglia Portinari, il rapporto con il nucleo famigliare di Tommaso, l’influenza crescente della famiglia Medici, il loro rapporto con Tommaso Portinari e l’allusione della funzione ospedaliera nonché l’iconografia pittorica di Hugo van der Goes al nome di famiglia dei Medici / “medici”). 6) Il paragone artistico in Santa Maria Nuova che si intende realizzare con la pala di Tommaso tra arte pittorica fiamminga e affreschi rinascimentali fiorentini (che non dovrebbe assolutamente essere ignorato, come fa invece KOSTER [2000, 2008], concentrandosi unicamente sulle differenze tecniche che ovviamente esistono tra la pittura su tavola fiamminga e quella ad affresco fiorentina. Quando lo scrittore, storico d’arte e pittore Vasari mette in relazione i dipinti murali della cappella, in gran parte perduti, con la pittura ad olio fiamminga, quando, nei secoli successivi, nelle attribuzioni gli affreschi italiani e la pala d’altare fiamminga possono essere addirittura scambiati, questo certo non dice qualcosa di assoluto sull’uso dell’olio come legante nei completamenti a secco degli affreschi, ma piuttosto qualcosa sull’effetto che l’ensemble in Santa Maria Nuova ebbe sul pubblico fiorentino, oppure qualcosa sulle qualità artistiche sia degli affreschi sia della pala d’altare).
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Jan van Eyck (?) (Maaseick (?) ca 1390 - Bruges 1441)
San Girolamo nello studio carta su tavola (quercia); cm 20,6 × 13,3 iscrizioni: in alto a sinistra, tra la sedia e la tenda: 1442; sulla lettera sul tavolo: Reuerendissimo in Cristo patri et domino, domino Ieronimo, tituli sancte crucis in Iherusalem presbytero cardinali provenienza: intorno al 1924 acquistata dal mercante d’arte Paul Bottenweiser di Berlino, secondo il quale l’opera era appartenuta ad un’aristocratica famiglia tedesca; nel 1925 acquistata dal Detroit Institute of Arts Detroit, Detroit Institute of Arts inv. n. 25.4
L’opera, di dimensioni così piccole da sembrare una miniatura, raffigura il padre della Chiesa san Girolamo immerso nella lettura nel suo studiolo colmo di libri e altri oggetti, tra cui i suoi arnesi da scrittura, una clessidra e un astrolabio. Il Santo è riconoscibile dalla veste di cardinale e dal leone mansueto, sdraiato ai suoi piedi. Nel 1925, quando il nuovo direttore del Detroit Institute of Arts, William Valentiner, acquistò la tavola, essa era attribuita a Petrus Christus, ma alcuni studiosi tra cui il grande esperto dell’arte neerlandese, Max Friedländer, sottolinearono il carattere eyckiano del dipinto (FRIEDLÄNDER 1925; si veda anche HALL 1998, il quale fornisce un riassunto della storia critica relativa al San Girolamo di Detroit). Friedländer, inoltre, collegò la tavola di Detroit ad una citazione nell’inventario del 1492 della collezione di Lorenzo de’ Medici: “Una tavoletta di Fiandra suvi uno San Girolamo a studio, chon uno armarietto di piu libri di prospettiva e uno lione a’ piedi, opera di maestro Giovanni di Bruggia, cholorita a olio in una guaina, f. 30 [30 fiorini]” (MÜNTZ 1888, p. 78). Lo studioso ritenne che la tavola di Detroit fosse una copia realizzata da Peter Christus del perduto San Girolamo dei Medici, una tesi tuttavia contrastata. Di fatto, Baldass, nel 1927, affermò che più probabilmente il San Girolamo di Detroit fosse un’opera realizzata da Jan van Eyck stesso, piuttosto che da Peter Christus il quale, in tal caso, avrebbe superato in qualità le altre sue opere (BALDASS 1927, p. 82). Nello stesso anno, nel corso di indagini tecniche, fu scoperta a sinistra, tra la sedia e la tenda, la data 1442, sebbene appena leggibile, mentre pentimenti relativi alla posizione e alle dimensioni dell’astrolabio resero la tesi di una copia poco probabile. Valentiner, per spiegare il carattere eyckiano del dipinto nonché la data, avanzò l’ipotesi che Jan van Eyck avesse iniziato il quadretto e che dopo la sua morte, nel 1441, Peter Christus l’avesse terminato (VALENTINER 1925, p. 59; HALL 1998, p. 14, il quale attribuisce l’opera a Jan van Eyck e pertanto considera la data non originale, sottolineando tra le altre cose la posizione arbitraria di essa: nei rari casi in cui è stata inserita una data in opere neerlandesi del XV secolo, essa risulta completamente integrata nel dipinto. Oggi vi è un certo consenso nel ritenere la tavoletta di Detroit realizzata da un solo artista, ma, se si tratti di Jan van Eyck o di un seguace, è questione ancora irrisolta. Non è stato inoltre possibile stabilire, in base ai risultati delle ricerche tecniche, se la data sia originale o sia stata aggiunta in un secondo momento. Nel 1954 Panofsky ha portato nuova luce sull’opera, decifrando l’iscrizione nella lettera collocata sullo scrittoio del Santo (si veda sopra): “Al reverendissimo padre e signore in Cristo, Signor Girolamo, cardinale presbitero della Santa Croce di Gerusalemme”. Dato che non vi è nessun tipo di relazione tra san Girolamo e la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, l’iscrizione deve riferirsi ad un’altra persona, cioè Niccolò Albergati, il quale fu cardinale presbitero di questa chiesa dal 1426 fino alla sua morte nel 1443. Albergati svolse un ruolo importante
come legato papale durante le trattative di pace tra Inghilterra, Francia e la Borgogna che si conclusero con la Pace di Arras nel 1435. Pertanto Edwin Hall (1998) ha ipotizzato che il duca di Borgogna, Filippo il Buono, commissionasse il San Girolamo di Detroit al suo pittore di corte, Jan van Eyck, come dono per Albergati, per ringraziarlo del suo impegno durante le trattative di Arras. Oltre all’iscrizione, tuttavia, non vi sono documenti a conferma di questa intuizione, sebbene il 29 settembre del 1435, il giorno in cui i partecipanti al trattato di Arras si congedarono, Jan van Eyck ricevette 6 coppe dal duca di Borgogna, che devono aver costituito una ricompensa per certi servizi, tra i quali forse vi era la realizzazione del quadretto raffigurante san Girolamo. La somiglianza tra il volto di san Girolamo e quello nei ritratti del cardinale Albergati corrobora il fatto che Niccolò Albergati fosse il destinatario della tavola (cat. n. 3). Il naso prominente e diritto, insieme alle sopracciglia marcate, suggeriscono che il pannello di Detroit raffiguri un ritratto camuffato di Albergati. Vi sono, oltre ciò, altri argomenti chiamati in causa da Hall che mettono il dipinto in rapporto sia con Albergati sia con il trattato di Arras. Albergati condusse una vita ascetica e san Girolamo pertanto può aver rappresentato per lui un modello. In Italia, nel secondo quarto del Trecento, Giovanni di Andrea fu il propagatore di un rifiorire del culto di san Girolamo; da quel momento san Girolamo fu un santo molto amato in questo paese; per il culto e la rappresentazione di san Girolamo nel Trecento e nel Quattrocento in Italia si veda RIDDERBOS 1984. Per quanto riguarda la tavola di Detroit è interessante che Ridderbos, ibidem, pp. 41-62, consideri il San Girolamo nello studio di Antonello da Messina (Londra, National GalAttavante degli Attavanti, Incipit del prologo di Gerolamo su Ezechiele. Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo
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lery) come un ritratto camuffato di Nicola da Cusa, ispirato forse dal ritratto di Albergati nelle vesti di questo Santo. Il barattolo che riporta l’iscrizione Tyriaca e l’ampolla di fianco ad esso collocati sullo scaffale, potrebbero essere riferimenti alle patologie di cui soffriva Albergati. L’astrolabio può essere interpretato come un riferimento al 5 agosto del 1435, il giorno in cui si inaugurarono le trattative di Arras. Il fatto emerso nel 1956, che il ritratto è stato eseguito su carta incollata su tavola concorda con una realizzazione durante le trattative: Van Eyck potrebbe aver utilizzato carta perché costretto a completare l’opera in poco tempo (la pergamena e il lino furono impiegati come supporti intermedi per la pittura sin dal Duecento; all’inizio del Quattrocento ci si serve anche occasionalmente della carta: il San Francesco riceve le stimmate, attribuito a Jan van Eyck, Philadelphia, John G. Johnson Collection, e il Sacro Volto di Petrus Christus, New York, The Metropolitan Museum of Art, sono dipinti entrambi su pergamena incollata su tavola; HELLER-STUDOLSKI 1998, p. 46). L’identificazione del San Girolamo di Detroit in un’opera di Jan van Eyck realizzata per Niccolò Albergati ha dato valore all’ipotesi che esso sia il San Girolamo di Van Eyck citato nell’inventario dei Medici del 1492. Albergati passò gli ultimi anni della sua vita a Firenze insieme alla corte papale in esilio; del suo testamento fu esecutore Tommaso Parentucelli, il futuro pontefice Niccolò V, il quale era stato il suo segretario per molti anni. Il San Girolamo di Detroit può essere stato donato da Albergati stesso o da Niccolò V a Cosimo de’ Medici, in quanto amico e principale finanziatore di questo papa (ROHLMANN 1994, p. 99). Un’aggiunta del 1463 nell’inventario della collezione di Cosimo de’ Medici del 1456 cita “una tavoletta di uno San Girolamo”, ma non è chiaro se si tratti del dipinto di Jan van Eyck (MÜNTZ 1888, p. 26). Secondo l’inventario del 1492, redatto dopo la morte di Lorenzo de’ Medici, il San Girolamo di Van Eyck si trovava nello scrittoio di Lorenzo dove erano conservati gli oggetti più preziosi come le gemme, i vasi, l’avorio, il corno di un unicorno, ma anche dipinti, per esempio di Giotto e Petrus Christus. Il pannello ebbe una valutazione alta, ovvero 30 fiorini. Dipinti ad olio erano ancora piuttosto rari a quel tempo in Italia, il che spiega il fatto che l’opera sia descritta esplicitamente come cholorita a olio; la preziosa tavoletta era protetta da una tela di pelle: in una guaina (BECK 1996, p. 125). Nonostante il soggiorno di Albergati a Firenze, la questione se la tavola di Detroit e il San Girolamo dei Medici siano la medesima opera rimane irrisolta, come anche il problema dell’attribuzione a Jan van Eyck. Se il San Girolamo di Detroit e il San Girolamo dei Medici non sono la stessa cosa, la prima deve almeno riecheggiare la seconda o un’altra composizione di Jan van Eyck che dovette servire da modello per entrambi i dipinti; così suggeriscono le somiglianze con l’affresco di Ghirlandaio raffigurante un San Girolamo nello studio nella chiesa di Ognissanti a Firenze, il quale subì in maniera decisa l’influsso del San Girolamo dei Medici. Queste reminiscenze possono anche essere riconosciute in quattro miniature di Attavante degli Attavanti in una Bibbia illustrata per il sovrano del Portogallo, Emanuele I, tra il 1494 e il 1497 (Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo; GARZELLIDE LA MARE 1985, I, pp. 233-234, II, figg. 826, 830, 832, 834). Rappresentazioni fiamminghe che sembrano essersi ispirate al San Girolamo dei Medici o ad una composizione analoga di Jan van Eyck sono una miniatura raffigurante San Tommaso d’Aquino nello studio, distrutta in un incendio nel 1904, nel Libro delle Ore Torino-Milano, fol. 73v (già a Torino, Biblioteca Universitaria), una miniatura con San Girolamo nello studio in un Libro d’Ore fiammingo del 1450 circa, a Parigi (Bibliothèque Nationale de France, ms. nouv. acq. lat. 3110, fol. 163v), e una miniatura in un Libro d’Ore fiammingo del 1450 circa, a Baltimora (The Walters Art Gallery, ms. 721, fol. 277v; le tre miniature sono
illustrate in HALL 1998, pp. 13-15, figg. 3-5). Nel 1550 i Medici non possedevamo più il San Girolamo di Jan van Eyck: quando Vasari, nella prima edizione delle Vite, consegnate alla stampa proprio nel 1550, cita le opere di Jan van Eyck presenti in Italia, fa riferimento a “un San Girolamo, che Lorenzo de’ Medici aveva” (VASARI 1550, ed. Bellosi-Rossi 1986, p. 67); inoltre, l’opera non è registrata nell’inventario della collezione Medici del 1553 (l’inventario è stato pubblicato in appendice in CONTI 1893). Eidelberg e Rowlands hanno elaborato un’ipotesi per spiegare come il San Girolamo dei Medici potrebbe essere giunto in Germania, e pertanto essere identificabile con il San Girolamo di Detroit (EIDELBERG-ROWLANDS 1994, pp. 251-254). Essi suggeriscono che il San Girolamo dei Medici possa essere stato ceduto ai Gonzaga di Mantova, perché nella loro collezione, messa all’asta nel 1720-1721, vi era un San Girolamo attribuito ad Andrea Mantegna, descritto da un viaggiatore inglese, Edward Wright, come “Another in Oil by the same Hand [Andrea Mantegna]: ‘Tis the Portrait of a Cardinal, with a Letter directed to him; the Writing so small as not to be read without a Glass, unless it be with very good Eyes indeed” (EIDELBERG-ROWLANDS 1994, p. 251). Intorno al 1738 il dipinto dei Gonzaga fu venduto ad un feldmaresciallo in Germania, Johann Matthias von der Schulenberg, come documenta il suo inventario del 1738 che cita una “piccola tavola con cornice dorata raffigurante San Girolamo seduto ad una piccola tavola, in vesti da cardinale, con tanti libri” (EIDELBERG-ROWLANDS 1994, p. 252). Qualora l’attribuzione a Mantegna si rivelasse un errore e questa tavola fosse il San Girolamo dei Medici, il dipinto potrebbe essere l’opera acquisita da Bottenwieser e venduta al Detroit Institute of Arts. Judie Bogers Bibliografia: FRIEDLÄNDER 1925, pp. 297-298, ripr.; VALENTINER 1925, pp. 58-59; BAL1927, p. 82; PANOFSKY 1954, pp. 102-108, fig. 49; RICHARDSON 1956; HALL 1968, p. 2, fig. 1, pp. 181-201; ID. 1971, pp. 181-201, fig. 1; PANHANS 1974, p. 193; FRIEDLÄNDER 1967-1976, I, p. 104, tav. 103; MARIJNISSEN 1978, figg. 1, 2; DHANENS 1980, p. 370, fig. 232; CASTELFRANCHI VEGAS 1984, pp. 78, 192; GARZELLI 1984, pp. 347353; RIDDERBOS 1984, pp. 26-29, fig. 13; EIDELBERG-ROWLANDS 1994, pp. 251-254, fig. 44; M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 68-71, n. 1, ripr.; ROHLMANN 1994, pp. 96-100; HELLER-STUDOLSKI 1995, pp. 131-142, fig. 1; BECK 1996, pp. 121-129, tav. 77; KÖNIG 1996, pp. 58-60, fig. 16; NUTTALL 1996 pp. 16-22, fig. 7; SMEYERS 1997, pp. 65-67, fig. 83; HALL 1998, pp. 10-37, fig. 1; HELLER-STUDOLSKI 1998, pp. 38-55, figg. 1-3; ROHLMANN 1999, pp. 45, 48, 50, 53; B. Aikema in, VENEZIA 1999, pp. 212-213, n. 15, ripr.; E. Parma, T.H. Holger Borchert in, BRUGES 2002, pp. 97-98, 237, n. 30, ripr.; NUTTALL 2004, pp. 107-108, fig. 101 DASS
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Domenico Ghirlandaio (Firenze 1449-1494)
San Girolamo nello studio affresco staccato; cm 184 × 119 iscrizioni: sullo scrittoio di San Girolamo datato MCCCCLXXX; sul fregio superiore: REDDE NOS CLAROS LAMPAS RADIO[SA] / SINE QUA TERRA TOTA EST UMBROSA (Illuminaci Oh luce raggiante, altrimenti il mondo intero sarà buio); sul pezzo di carta sul ripiano inferiore in centro: EΔEH∑OMEΘ∑ / KATA TOMETAEA[EO∑] (Oh Dio abbi pietà di me secondo la tua grande compassione); su una pergamena sul ripiano superiore, in ebraico e non completamente leggibile: Ti chiamo ancora nell’angoscia / il mio lamento mi affligge Firenze, Chiesa di Ognissanti
Secondo le fonti antiche, l’affresco con San Girolamo di Domenico Ghirlandaio era originariamente ubicato sul tramezzo della chiesa di Ognissanti ed era in pendant con l’affresco raffigurante Sant’Agostino di Botticelli nella stessa chiesa (ALBERTINI 1510; Anonimo Magliabechiano, ed. Frey 1892; VASARI 1568). Fu spostato sulla parete della navata nel 1564, quando il tramezzo fu distrutto, e in seguito, conseguentemente ai danni subiti in occasione dell’inondazione del 1966, in particolare lungo il bordo inferiore, fu staccato, pulito e ricollocato nella navata. Secondo LIGHTBOWN (1978) la commissione dell’opera si deve agli Umiliati, l’ordine che amministrava la chiesa ed il convento, mentre per la maggior parte degli studiosi essa fu ordinata dalla famiglia Vespucci che aveva forti legami con la chiesa e per la quale – specificatamente per Ser Amerigo Vespucci – Ghirlandaio aveva già, negli anni settanta del Quattrocento, affrescato lì una cappella. Vasari afferma inoltre che anche l’affresco di Botticelli con Sant’Agostino fu dipinto per i Vespucci; sul cornicione si vede infatti lo stemma della famiglia. Dato che le due opere sono in pendant, è presumibile che siano state commissionate dallo stesso mecenate della famiglia Vespucci, probabilmente lo studioso e devoto Giorgio Antonio di Ser Amerigo, che faceva parte del circolo intellettuale di Marsilio Ficino (BROCKHAUS 1902; CADOGAN 2000; ROHLMANN 2003). L’anziano Santo dalla lunga barba è rappresentato nel suo studio, incorniciato da una frammentaria struttura architettonica antica. La sua figura domina la composizione grazie alle sue dimensioni e al mantello cardinalizio rosso che crea un efficace contrasto con il resto dell’altrimenti minutamente dettagliata superficie dipinta. Seduto alla scrivania, ap-
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poggia la testa sulla mano e interrompe la scrittura come per guardare lo spettatore. È circondato dagli accessori dello studio, descritti con amorevole accuratezza: un tappeto turco copre la scrivania, disseminata di libri, forbici, una candela ed altri oggetti. Sul leggio sono appoggiati gli occhiali per la lettura e due calamai (nero per scrivere e rosso per le rubriche) intorno ai quali è schizzato via un po’ d’inchiostro. Dietro di lui, sulle mensole parzialmente svelate da una tenda tirata, si vedono dei libri; sulla mensola superiore vi sono diversi oggetti tra cui degli albarelli in maiolica oppure barattoli da farmacia, caraffe in vetro, una clessidra e dei cesti di frutta, mentre, lì appesi, si notano un astuccio per penne, un calamaio ed un rosario. Per alcuni di questi oggetti si è identificato il valore simbolico: il monogramma di Cristo sui barattoli da farmacista, ad esempio, suggerirebbe esserne il contenuto una cura contro il peccato, mentre la caraffa metà piena alluderebbe alla verginità di Maria, un’idea sostenuta da Girolamo stesso (RICE 1985). La presenza di testi in greco, latino ed ebraico testimonierebbero la competenza linguistica del personaggio (MEISS 1970). San Girolamo, uno dei quattro padri della Chiesa e traduttore della Bibbia dal greco al latino, godeva di una grande popolarità nell’Europa del Trecento e Quattrocento, in Italia in particolare, ove il suo carattere da studioso gli valse il favore degli umanisti (MEISS 1970; MEISS 1974, p. 134-140; RIDDERBOS 1984). Il completo significato dell’affresco di Ghirlandaio si deve cercare in relazione con il suo pendant, il Sant’Agostino di Botticelli, che raffigura il momento in cui quest’ultimo viene a sapere della morte di San Girolamo tramite una visione (ROBERTS 1959, pp. 283-301; LIGHTBOWN 1978, I, pp. 49-52, II, pp. 3840, n. B25). Secondo una lettera apocrifa di Sant’Agostino a San Cirillo di Gerusalemme, molto conosciuto nell’Italia del Quattrocento, Agostino, che aveva l’intenzione di scrivere un trattato sulla beatitudine dei santi nel cielo, stava per scrivere a Girolamo per chiedere il suo aiuto quando la luce divina inondò la sua cella, mentre la voce di Girolamo gli annunciava la propria morte affermando l’inutilità del tentare di capire tali misteri con l’intelletto. Con il suo riferimento alla gloria celestiale, questo affresco era adatto per una chiesa dedicata ad Ognissanti (ROHLMANN 2003). In tal senso, si spiega anche la posa statica e lo sguardo interlocutorio di San Girolamo (a confronto con la figura estatica di Botticelli), circondato dai simboli della sua erudizione, cui allude l’iscrizione che lo identifica come una lanterna che illumina il buio della terra (CADOGAN 2000). A partire da BURCKHART (1855), è generalmente riconosciuto nel San Girolamo di Ghirlandaio un profondo legame con la pittura fiamminga, fatto non sempre considerato sotto una luce positiva. Gli studiosi di fine Ottocento e inizio Novecento giudicavano spesso negativamente il suo carattere minuto e descrittivo a confronto col più monumentale Sant’Agostino di Botticelli. Ciò riflette non solo la scarsa reputazione del Ghirlandaio a quel tempo, ma anche la bassa considerazione di cui godeva fino ad un certo punto la pittura fiamminga (cfr. WARBURG 1901, ed. 1932; MESNIL 1911). Recentemente gli studiosi hanno tuttavia riconosciuto l’importanza del San Girolamo, proprio in quanto testimonianza, e del successo della pittura fiamminga a Firenze, e dei profondi legami con essa del Ghirlandaio (AMES LEWIS 1989; NUTTALL 1996; ROHLMANN 2003; NUTTALL 2004). Si è generalmente concordi nel considerare l’affresco di Ghirlandaio una derivazione dalla tavoletta di Jan van Eyck con San Girolamo nel suo studio, ricordato nello scrittoio di Palazzo Medici dagli inventari del 1456-1463 e 1492 (“una tavoletta di Fiandra suvi uno San Girolamo a studio, chon uno armarietto di più libri di prospettivia e uno lione a’ piedi, opera di maestro Giovanni di Bruggia, cholorita a olio in una guaina”, cfr. SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 52), relazione notata per primo da Rosenauer (1969) che rileva inoltre la stretta affinità
dell’opera con il San Girolamo di Van Eyck a Detroit (cat. n. 1), identificabile forse in quello stesso dei Medici. La struttura complessiva di entrambe le opere è infatti la stessa, così come l’intonazione cromatica e alcuni dettagli della natura morta, in special modo la caraffa di vetro, un simbolo mariano caratteristico più della pittura fiamminga che di quella fiorentina, nonché il riflesso delle ombre degli oggetti sullo scrittoio. Eppure, che sia o no il pannello di Detroit lo stesso dipinto descritto negli inventari dei Medici, Ghirlandaio non seguì questo modello pedissequamente. Nel suo affresco non troviamo, ad esempio, il leone e molte altre divergenze si colgono tra l’affresco e la tavoletta di Detroit, in primo luogo l’attività in cui il santo è intento – scrive invece di leggere – e il panno che copre la scrivania. Considerata l’inventiva di questo affresco, e tenendo conto della consuetudine di Ghirlandaio ad adottare, adattare e combinare motivi e disegni dell’arte fiamminga, dobbiamo essere cauti prima di considerare il San Girolamo di Ognissanti una semplice e fedele imitazione. Infatti, Ghirlandaio trasse ispirazione da almeno un’altra fonte fiamminga: la testa del santo sembra essere stata modellata ad immagine di quella di Nicodemo nel Compianto su Cristo di Rogier van der Weyden agli Uffizi (cat. n. 5). Un riflesso di questo dipinto si nota d’altronde anche in un affresco anteriore di Ghirlandaio, la Pietà, ubicato anch’esso nella chiesa di Ognissanti e dipinto per la cappella di Ser Amerigo Vespucci, padre del patrono putativo del San Girolamo (ROHLMANN 1992 e 2003). Piuttosto che copia di uno specifico dipinto fiammingo, il San Girolamo della chiesa di Ognissanti si può interpretare – questa sicuramente fu l’intenzione di Ghirlandaio, considerando quanto fosse in voga la pittura fiamminga nella Firenze del 1480 – come un omaggio agli artisti fiamminghi e –in linea con lo spirito emulativo del Petrarca – come una propria “invenzione alla fiamminga”. Il talento di Ghirlandaio come pittore viene testimoniato dal fatto che riuscì a trasformare una piccola composizione di Van Eyck in un affresco monumentale, oltre che dalla sua abilità tecnica nel misurarsi con i brillanti raggiungimenti della pittura ad olio fiamminga. Con la sua minuziosa attenzione per i tessuti e la luce, Ghirlandaio, per evocare il ricco effetto visuale della pittura fiamminga, portò il ben diverso mezzo dell’affresco ai suoi estremi limiti di rappresentazione. Paula Nuttall Bibliografia: ALBERTINI 1510, n.p.; Anonimo Magliabechiano, ed. Frey 1892, p. 106; VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, III, pp. 258-259; 279, 311; RICHA 1754-1762, IV, p. 266; BURCKHARDT 1855, (rist. STUTTGART 1986, p. 762; CROWE-CAVALCASELLE 1864-1866, II, p. 464; BERENSON 1896, p. 112; WARBURG 1901, ed. 1932, I, p. 212; BROCKHAUS 1902, pp. 99-104; HORNE 1908, pp. 66-71; MESNIL 1911, pp. 62-76; KÜPPERS 1920, p. 555; VAN MARLE 1923-1938, XIII (1931), pp. 23-25, fig. 10; LAUTS 1943, pp. 14-15, 49; ROBERTS 1959, pp. 283-301; ROSENAUER 1969, pp. 62-63, fig. 100; MEISS 1970, p. 169 ripr.; LIGHTBOWN 1978, I, pp. 49-52, II, pp. 38-40, n. B25; RIDDERBOS 1984, pp. 26-29; AMES LEWIS 1989, p. 111; SPALLANZANI-GAETA BERTELA 1992, p. 52; KECKS 1995, pp. 111-112, ripr. a p. 42; NUTTALL 1996, p. 18; CADOGAN 2000, pp. 54-55, 216218, n. 12, fig. 46; KECKS 2000, pp. 81-83, 217-220, n. 10, tav. V; ROHLMANN 2003, pp. 47-50, fig. 28; NUTTALL 2004, pp. 107, 157, 183, fig. 103
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Jan van Eyck (Maaseick ? ca 1390 - Bruges 1441)
Ritratto di un uomo anziano (Niccolò Albergati?) tavola (quercia); cm 34,1 × 27,3 provenienza: Anversa, proprietà di Peeter Stevens; Bruxelles 1648 arciduca Leopoldo Guglielmo; Vienna 1656, nella collezione dell’arciduca; Gemäldegalerie presso lo Stallburg e il Belvedere Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. n. 975
Troviamo la prima testimonianza di questo ritratto in un’annotazione di Peeter Stevens, collezionista d’arte del Seicento ad Anversa, nella sua copia dello Schilderboeck di Karel van Mander: “In possesso di Peter Stevens [c`è] un splendido ritratto di Jan van Eyck con la data 1438 che rappresenta il Cardinale di Santa Croce, inviato allora dal Papa a Bruges per trattare la pace tra il Duca Filippo ed il Delfíno di Francia in seguito alla morte di suo padre. Questo ritratto è ora proprietà dell’Arciduca Leopoldo, il quale lo acquistò il 5 aprile 1648.” (Noch bij Peeter Stevens een fraey conterfaysel van Jan van Eyck met dato 1438, wesende den Cardinael Santa Croce, die alsdoen tot Brugge was gesonden van den Paus om de peys te maecken met Hertogh Philips over syn vaders doot met den dolphyn van Franckryck; BRIELS 1980, p. 211; DHANENS 1980, pp. 286-287; HUNTER 1993, p. 207). Il ritratto compare nella Galleria di dipinti di Peeter Stevens, di Frans Francken II e David Teniers il Giovane (1615-1650; Londra, The Courtauld Institute Galleries, lascito Seilern; inv. n. CIG 137; DHANENS 1980, p. 284, fig. 177; HUNTER 1993, p. 209, fig. 2). Nel 1656, l’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo lo portò a Vienna come parte della sua collezione, dove è menzionato in un inventario nel 1659, come “un ritratto ad olio su tavola del cardinale di Santa Croce, con cornice metà verde e metà con ornamenti in oro, alto due palmi e largo un palmo e sei dita. Un’opera originale di Jan van Eyck, l’inventore della pittura all’olio”. (Ein Contrafait van Oehlfarb auf Holcz des Cardinals von Sancta Cruce. In einer halb grünen vundt halb zier verguldten Ramen, hoch 2 Span vund 1 Span 6 Finger braidt. Original von Johan van Eyckh, welcher die Öhlfarb erst gefundten; DHANENS 1980, p. 282; HUNTER 1993, p. 207). Alla luce di questa descrizione nell’inventario dell’arciduca, il ritratto è stato sempre attribuito con certezza a Jan van Eyck e, a partire dalla pubblicazione di Briels, nel 1980, dell’annotazione di Peeter Stevens, il ritratto è stato datato 1438. Esiste un disegno preliminare in punta d’argento a Dresda (Staatliche Sammlungen, Kupferstichkabinett, inv. n. C 775) che ci offre una lampante visione del modus operandi di Jan van Eyck: qui l’artista fissa in poche righe i colori del volto del personaggio come indicazione per l’esecuzione dipinta. L’artista in tal modo sottolinea che i capelli sono “ocra (cinereo) grigio”, la verruca “violacea”, l’iride “giallastro scuro”, “il bianco dell’occhio giallastro”, e che le labbra sono color “porpora molto biancastra” mentre “i peli della barba appena spuntati” sono “piuttosto grigiastri” (DIERICK 2000; DRESDA 2005). È ovvio che queste annotazioni permettevano a Van Eyck di dipingere un ritratto fedele alla realtà anche quando il modello era assente. Questi due riferimenti al ritratto, l’annotazione di Stevens e nell’inventario dell’arciduca, sembrano offrire un sostegno solido non solo alla attribuzione dell’opera a Jan van Eyck ma anche all’identità del modello. Secondo Dhanens, l’identificazione del personaggio ritratto con il Cardinale di Santa Croce deve essersi basata su un’indicazione precisa, forse un’iscrizione sulla cornice originale. Quando, all’inizio
del Settecento, la tavola diventò parte della decorazione parietale nella collezione degli Asburgo, gli angoli della tavola furono tagliati e la cornice probabilmente fu persa (DHANENS 1980, pp. 282-283). L’unico cardinale di Santa Croce ai tempi di Jan van Eyck fu Niccolò Albergati, cardinale presbitero della chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma dal 1426 fino alla sua morte, nel 1443. Albergati fu legato del Papa al Congresso di Arras nel 1435 e ai Concili di Basilea, Ferrara, Firenze e Roma (DHANENS 1989, p. 29). La persona ritrattata veste di rosso, il colore di un cardinale, e ciò sembra confermare l’identificazione. Nel 1902 Max Rooses fu il primo ad identificare la tavola come ritratto di Niccolò Albergati, seguito da Weale nel 1904. L’origine dell’opera è legata al viaggio di Albergati nelle Fiandre nel 1431, quando agì in qualità di mediatore nelle trattative di pace tra la Borgogna e la Francia. Si è supposto che il duca di Borgogna, Filippo il Buono, abbia incaricato il suo pittore di corte Jan van Eyck di dipingere il ritratto come regalo all’Albergati (WEALE 1904, p. 191; DHANENS 1980, p. 287, spiega che non era usuale che il Duca onorasse i suoi ospiti in questo modo. In situazioni simili egli era solito offrire un arazzo o oggetti d’oro o argento). Dato che, secondo l’annotazione di Stevens, il ritratto fu dipinto parecchi anni dopo il soggiorno del cardinale nelle Fiandre, è stata avanzata l’ipotesi che Jan van Eyck abbia conosciuto Albergati al Congresso di Arras nel 1435 ed in quella occasione abbia eseguito il disegno preparatorio (DHANENS 1980, p. 287; BRUGES 2002, p. 235; per un altro ritratto dell’Albergati di Jan van Eyck durante il Congresso di Arras, vedi anche cat. n. 1). Nonostante tutto, sin dall’articolo pubblicato da Weiss sul dipinto nel 1955, sono sorti dubbi sul fatto che l’effigiato sia veramente l’Albergati: il ritratto presenta poca somiglianza con altri suoi ritratti; il mantello, malgrado il suo colore rosso, non è adeguato al ruolo di cardinale, ed il modello inoltre non ha la tonsura. Purtroppo non si sono conservati altri dipinti contemporanei a questo che, ritraendo indubbiamente l’Albergati, possano offrire un valido termine di paragone. Zanotti, che scrisse una biografia del cardinale nel 1757, scrive che Papa Niccolò V possedeva un ritratto dell’Albergati a penna e inchiostro, il quale sarebbe arrivato alla Certosa del Galluzzo, vicino Firenze, e utilizzato come modello per altri ritratti destinati ai monasteri dell’ordine dei Certosini, cui apparteneva l’Albergati. V’erano inoltre suoi ritratti anche in alcune chiese e nel palazzo vescovile a Bologna, la sua città natale. Pare che anche papa Urbano VIII sia stato proprietario di un suo ritratto (HUNTER 1993, pp. 211-212). Oltre a questi ritratti perduti, si potrebbe riconoscere un “ritratto camuffato” del cardinale nella figura di San Nicola di Bari, sulla destra della Madonna, in un polittico di Antonio e Bartolomeo Vivarini che, commissionato dal Papa Niccolò V nel 1450, ora si trova a Bologna (Pinacoteca Nazionale, inv. n. 273; WEISS 1955, p. 146, nota 10; BRUYN 1963, p. 22). Anche la piccola tavola di San Girolamo nello studio, a Detroit, attribuita a
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Jan van Eyck o ad un suo allievo, potrebbe nascondere un ritratto di Albergati (cat. n. 1). Esistono numerosi ritratti databili al XVII secolo (HALL 1968, p. 19, figg. 9, 10; HUNTER 1993, p. 213, figg. 6, 7): sebbene queste immagini più tarde non possano servire come base certa per l’identificazione di altri ritratti dell’Albergati, è significativo che essi somiglino ai due presunti ritratti camuffati, mentre ricordano poco la tavola di Vienna. Hunter tratta ampiamente la questione del mantello (HUNTER 1993, pp. 212-218) e afferma che la cappa dell’effigiato non è quella ordinaria per un cardinale. Inoltre, secondo scritti contemporanei di, tra gli altri, Poggio e Vespasiano da Bisticci, pare che Albergati vivesse in modo molto ascetico e rispettasse rigorosamente gli Statuta Nova dell’ordine dei Certosini. Questi statuti vietavano di indossare la pelliccia, dunque, il fatto che la cappa dell’effigiato di Van Eyck sia guarnita con pelliccia sembra essere un altro argomento contro l’identificazione dell’Albergati nel personaggio ritratto (per una trattazione sugli Statuta Nova, vedi WEISS 1955, p. 146). Altre ipotesi sull’identità del modello proposte negli ultimi decenni sono da considerarsi ugualmente insoddisfacenti (WEISS 1955: Guglielmo da Vienna, signore di Saint-George e Sainte Croix; BRUYN 1963: Henry Beaufort; ANZELEWSKY 1985: Ugo di Lusignano, Cardinale di Cipro). È molto probabile che l’effigiato fosse un laico e, sebbene l’identificazione ottocentesca in Jodocus Vijd, il commissario del polittico dell’Agnello Mistico dei fratelli Van Eyck e Gand, sia certamente sbagliata, stupisce che il modello fosse allora riconosciuto come un patrizio e non come membro del clero (HUNTER 1993, p. 217). Nonostante tutto, molti autori ritengono ancora che l’informazione di Peeter Stevens sia convincente, tanto che persino in pubblicazioni molto recenti la tavola è stata considerata come un ritratto di Albergati. Se in effetti fosse lui il personaggio rappresentato, le circostanze storiche per un ritratto del genere non erano certo inusuali, poiché gli italiani che andavano nelle Fiandre in quel periodo coglievano spesso l’occasione per farsi ritrattare dai maestri fiamminghi. Di conseguenza, nella ritrattistica italiana dalla metà del Quattrocento in poi, si possono cogliere le prime reazioni a questi ritratti (P. Nuttall in, BRUGES 2002, p. 2001). Non esistono esempi conosciuti di influenza diretta di questo ritratto su artisti italiani, ma ci sono alcuni parallelismi con dei ritratti italiani, come un frammento di affresco (trasportato su tela) di Filippino Lippi, del 1481, che raffigura un uomo anziano, ora agli Uffizi (inv. n. 1485). Il modo massiccio e voluminoso in cui Lippi dipinse il suo effigiato ricorda molto il ritratto di Van Eyck (ROSENAUER 1994, p. 149). Judie Bogers Bibliografia: BERGER 1883, p. 121; ENGERTH 1884, pp. 134-135 no. 824; Kaemmerer 1898, pp. 71-72, fig. 55; ROOSES 1902, pp. 4-5, ripr.; WEALE 1904, pp. 190-197, ripr. p. 193; VOLL 1906, p. 38, tav. 6; MEISS 1952, pp. 143-144, fig. 17; PANOFSKY 1953, I, p. 200; II, tav. 134, fig. 263; WEISS 1955, pp. 145-147; BRUYN 1963, pp. 17-30; FRIEDLÄNDER 1967-1976, I, p. 57, fig. 44; HALL 1968, pp. 3-43, fig. 1; KÜNSTLER 1974, pp. 62-64, fig. 4; BRIELS 1980, pp. 180-183, fig. 21, p. 211; DHANENS 1980, pp. 282-291, fig. 178; VIENNA 1981, pp. 169-173, ripr. p. 171; ANZELEWSKY 1985, pp. 15-20, fig. 1; DHANENS 1989a, pp. 19-41; PÄCHT 1989, pp. 112-113, fig. 63; CAMPBELL 1990, pp. 170-171, fig. 186, p. 174; DÜLBERG 1990, pp. 218-219, tav. 16, figg. 41, 42; HARBISON 1990, pp. 164-167, fig. 107; VALE 1990, pp. 337-355, ripr. p. 338; ASPEREN DE BOER 1990, pp. 8-12, fig. 2; HUNTER 1993, pp. 207-218, fig. 1; BELTING-KRUSE 1994, pp. 148-149, n. 35; ROHLMANN 1994, pp. 97-99; DIERICK 2000, pp. 79-82, fig. 3; HOCKNEY 2001, pp. 78, ripr.; BRUGES 2002, p. 235, n. 24, fig. 24; AINSWORTH 2003, p. 306; T. Ketelsen in, DRESDA 2005, pp. 62-67, n. 12, ripr. p. 65
Filippino Lippi, Uomo anziano, 1481, frammento di affresco trasportato su tela. Firenze, Galleria degli Uffizi
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Andrea del Verrocchio (Firenze ca 1435 - Venezia 1488)
Resurrezione di Cristo terracotta policroma; cm 135 × 150 (cm 133 × 161) provenienza: Villa Medicea di Careggi; dal 1930 nel Museo del Bargello Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 472S
Nel XIX secolo, nella soffitta di una sala della Villa Medici di Careggi, vennero scoperte parti di un rilievo con la Resurrezione di Cristo, che, riassemblate, furono sistemate sulla parete di una loggia della villa. Qui, Carlo GAMBA e Carl VON FABRICZY (1904) videro il rilievo e lo riconobbero come opera del Verrocchio. Contemporaneamente lo identificarono con un rilievo citato nell’elenco di opere stilato nel 1496 dal fratello di Verrocchio, che era stato eseguito per Careggi (“per a Charegi” – “Per una storia di rilievo chom più fighure”). Nel 1930 Carlo Segrè, allora padrone della villa, vendette il rilievo allo Stato italiano. L’attribuzione del rilievo al Verrocchio non fu quasi mai messa in dubbio, tuttavia si ritenne in parte probabile, o per lo meno possibile, la collaborazione di Leonardo (VALENTINER 1930; VENTURI 1936, pp. 262-265; CAGLIOTI 1992, pp. 170-173; forse Leonardo: POESCHKE 1990, p. 46; BUTTERFIELD 1997, p. 82). Soltanto Passavant attribuisce il rilevo interamente alla bottega del Verrocchio e a Leonardo (PASSAVANT 1969, p. 43). Fra i modelli artistici di Verrocchio, viene citato a ragione sopra a tutti il rilievo con la Resurrezione nel Duomo di Firenze di Luca della Robbia (cfr. per esempio GAMBA 1904, p. 60; CRUTTWELL 1904, p. 58; PLANISCIG 1941, p. 11; SEYMOUR 1971, p. 122), ma si rimanda, in genere, anche a rilievi dell’antichità classica (SERROS 1999, p. 47). Per quanto riguarda il tema, nella scelta dell’iconografia Verrocchio si appoggia tanto agli apocrifi del Nuovo Testamento, quanto a contemporanee Sacre rappresentazioni (BUTTERFIELD 1997, pp. 82-84).
Ricostruzione del retablo della Cappella della villa medicea a Careggi (cat. nn. 4-5)
La datazione del rilievo trova oscillazioni nella critica. All’inizio essa era considerata la prima opera conservata del Verrocchio, composta ancora al tempo di Cosimo de’ Medici, quindi prima del 1464; datazione che fu riconsiderata anche negli ultimi tempi (GAMBA 1904, p. 61; CRUTTWELL 1904, p. 5758; COVI 1968, pp. 7-9; ID. 2005, pp. 29-33). Anche una datazione un poco più tarda, attorno al 1465 o al 1465/70, trovò numerosi sostenitori (BERTINI 1935, p. 438: attorno al 1465; PLANISCIG 1941, p. 10: metà degli anni sessanta; SEYMOUR 1971, pp. 122-123, 167: attorno al 1466/1470; DOMESTICI 1995, p. 272: anni sessanta; BUTTERFIELD 1997, pp. 82, 214-215: attorno al 1470; NIEHAUS 1998, didascalia dell’illustrazione 19: attorno al 1464; BROWN 1998, p. 182 n. 37: fine degli anni sessanta del Quattrocento; SERROS 1999, p. 45: attorno al 1465/1470), tra cui Serros, che fece notare un possibile nesso fra la scelta del tema Resurrezione e le morti in casa Medici negli anni sessanta del Quattrocento (SERROS 1999, p. 168: Cosimo de’ Medici morì nel 1464, i figli di Cosimo, Giovanni e Piero morirono rispettivamente nel 1463 e nel 1469). Esiste invece una datazione tarda, frequentemente espressa, che fa risalire l’opera agli anni settanta o addirittura agli anni ottanta (cfr. VENTURI 1936, p. 262: 1470/77; DUSSLER 1940, p. 294: attorno al 1475/1480; POPE HENNESSY 1958, p. 311: fine degli anni settanta, o primi anni ottanta). Questa datazione si fonda per lo più su considerazioni storiche: Valentiner e Gamba misero la realizzazione del rilievo in relazione con la Congiura dei Pazzi del 1478 (VALENTINER 1930, pp. 86-87; GAMBA 1931-1932, pp. 196-197). Lorenzo de’ Medici sfuggì a malapena all’attentato e riuscì a salvarsi dai sicari nella sagrestia del Duomo di Firenze, dove la porta della sagrestia è sormontata dal rilievo di Luca della Robbia, cui formalmente s’ispira quello del Verrocchio. Questa reminiscenza sarebbe stata un desiderio del committente: Lorenzo avrebbe ordinato il rilievo come ex voto per il suo felice salvataggio, e Gamba tenta persino di riconoscere nella sentinella del sepolcro che dorme davanti al sarcofago nel rilievo del Verrocchio un ritratto di Lorenzo. La tesi di Valentiner e di Gamba fu spesso accolta (PASSAVANT 1969, p. 203; ADORNO 1991, p. 121; DOLCINI 1992, p. 44: attorno al 1480; CAGLIOTI 1992, pp. 170-173: ca 1478; HELAS 1996, p. 170), ma respinta da quegli studiosi che optano per una cronologia precoce (PLANISCIG 1941, p. 48; SEYMOUR 1971, p. 122; COVI 2005, p. 33). In effetti, riflessi artistici dell’opera riscontrabili nel rilievo con la Resurrezione di Giovanni Dalmata del 1471/77 sulla tomba di Paolo II (RÖLL 1994, p. 69; NIEHAUS 1998, p. 146; SERROS 1999, p. 48) e nel disegno di Leonardo ad Amburgo, Aristotele e Filli, dei primi anni settanta del Quattrocento (BROWN 1998, p. 97; WINDT 2003, p. 169; cfr. VALENTINER 1930, p. 81) confermerebbero una realizzazione dell’opera di Verrocchio prima della congiura dei Pazzi. Ma quale doveva essere la funzione originaria del rilievo di Verrocchio? Il soggetto religioso depone a favore di un nesso con la Cappella della Villa di Careggi. Data la forma della lunetta, la critica ritiene per lo più che il rilievo di Verrocchio coronasse la porta d’ingresso che dalla loggia del cortile conduce alla cappella (cfr. GAMBA 1904, p. 61; FABRICZY 1904, p. 381; CRUTTWELL 1904, p. 60; VALENTINER 1930, p. 77; GAMBA 1931-1932; PLANISCIG 1941, p. 48; PASSAVANT 1959, p. 19; COVI 1968, p. 7; SEYMOUR 1971, p. 122; CAGLIOTI 1992, p. 172; WINDT 2003, p. 167). Questa porta, tuttavia, fu poi completamente rinnovata e sormontata da una finestra (cfr. BUTTERFIELD 1997, p. 214). Per di più, non si trova esattamente al centro della campata della volta della loggia, ma è chiaramente spostata verso destra. Ciò avrebbe reso impossibile inserire assialmente sopra la porta un grande rilievo fino al colmo dello spicchio della volta. Solo Fulton prende in considerazione la possibilità di una sistemazione del rilievo di Verrocchio all’interno della cappella, ritenendo però più verosimile la funzione di lunetta di coronamento della porta (FULTON 2006, pp. 179, 299). Facendo queste considerazioni, lo studioso si accorse che c’era un nesso tematico fra il rilievo di Verrocchio e la pala d’altare di Rogier van der Weyden che si trovava nella stessa cappella. La descrizione di questa pala d’altare nell’inventario della villa del 1492 (“el sepolcro del nostro Signore et nostro Signore schonfitto di crocie et cinque altre fighure”) fu talvolta erroneamente riferita al rilievo del Verrocchio, pensando che l’autore avesse
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scambiato pala d’altare e lunetta della porta (GAMBA 1904, p. 61; VALENTINER 1930, p. 77; contrari all’identificazione: CRUTTWELL 1904, p. 60; PASSAVANT 1969, p. 203), tuttavia già Aby Warburg identificò la pala d’altare della cappella con il Compianto di Cristo di Rogier van der Weyden ora agli Uffizi (WARBURG 1902, ed. 1932, vol. I, pp. 211, 215; cfr. cat. n. 5). Tuttavia un altro inventario di Careggi, precedente a quello citato, ha messo la critica di fronte a problemi sinora irrisolti. Nel 1482, infatti, la pala d’altare della cappella era descritta nel modo seguente “I tavola d’altare quando san cosimo medica Christo colla pictura della risurrectione quando Christo risuscita” (WARBURG 1902, ed. 1932, I, p. 211; REZNICEK 1968, p. 85 n. 4; DHANENS 1989, p. 89; NUTTALL 2004, p. 178 n. 63; FULTON 2006, p. 299300). Nuttall ritiene che qui sia descritta non l’opera di Rogier ma un altro dipinto andato perduto, mentre altri critici partono dall’ipotesi che questa fosse un’interpretazione errata – non insolita negli inventari del Quattrocento – del quadro di Rogier (DHANENS 1989; ROHLMANN 1994, pp. 30, 131 n. 98; DE VOS 1999, pp. 330, 332; FULTON 2006, p. 300). In effetti l’iconografia cristiana non conosce una scena in cui il Santo Cosma cura o risana il Cri-
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sto. Qui dunque si dev’essere trattato realmente di un’interpretazione errata nell’inventario. L’autore deve aver interpretato male Nicodemo, che nel quadro di Rogier sta in piedi a destra dietro il Cristo e guarda l’osservatore. San Cosma nella cosiddetta Madonna Medici di Rogier (cat. n. 8) porta lo stesso cappello di Nicodemo nel quadro di Rogier degli Uffizi; l’errore potrebbe di conseguenza essere il risultato di uno scambio iconografico. Ci fu anche chi volle vedere nel Nicodemo di Rogier un ritratto di Cosimo de’ Medici e pensò che stesse lì la ragione dell’errore nell’inventario (POPE HENNESSY 1966, p. 289; DHANENS 1989, p. 86; DE VOS 1999, p. 332-333; cfr. ROHLMANN 1994, p. 133 n. 121). Ma perché l’autore registrò in aggiunta a «quando san cosimo medica Christo” anche il quadro di una Resurrezione di Cristo “quando Christo risuscita”? Elisabeth Dhanens propose una semplice spiegazione (DHANENS 1989, p. 69, 84; cfr. ROHLMANN 1994, p. 131, n. 98; NUTTALL 2004, pp. 278-279, n. 64): secondo lei il dipinto di Rogier possedeva originariamente un’altra lunetta ancora, che raffigurava la Resurrezione di Cristo. Alla Dhanens era però sfuggita, in tutto questo, l’esistenza della lunetta della Resurrezione di Verrocchio a Careggi. Di seguito cerco di dimostrare che in
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origine il rilievo policromo del Verrocchio serviva effettivamente da coronamento alla pala d’altare di Rogier nella cappella, e che tale rilievo è identico al dipinto con la Resurrezione citato nel 1482 unitamente alla pala d’altare (“colla pictura della risurrectione quando Christo risuscita”). Si confronti innanzitutto il formato delle due opere: il rilievo di Verrocchio è largo cm 150, mentre il dipinto di Rogier misura in larghezza solo cm 96. Tuttavia l’inventario del 1492 fornisce la larghezza dell’altare che c’era originariamente nella cappella: 2 braccie e ½, cioè ca cm 146 (MÜNTZ 1888, p. 88; SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 133). La larghezza dell’altare corrisponde dunque alla larghezza di cm 150 del rilievo di Verroccchio. La differenza di formato del dipinto di Rogier dev’essere stata bilanciata dalla cornice architettonica parimenti descritta nel 1492 (“chon pilastri achanalati a uso di marmo et peduccie et capitelli dorati chon architrave fregio di diamanti e cornicio tutto”). Se il rilievo di Verrocchio avesse dunque sormontato il dipinto di Rogier inclusa la cornice, si sarebbe ben adattato alla larghezza dell’altare e della cornice della pala. La cappella di Careggi ha inoltre, al di sopra (dell’area) dell’altare, una volta a crociera, il lato più lungo dell’altare viene così effettivamente chiuso verso l’alto da una lunetta a parete (cfr. sulla cappella di Careggi: LILLIE 1998, pp. 91-92, fig. 9). Ma è poi concepibile un tale apparato d’altare nella Firenze del Quattrocento? Un’enorme lunetta che sporge da entrambi i lati di un quadro sottostante, essendo larga in tutto circa una volta e mezza il quadro, e poi anche un rilievo sopra un dipinto? Innanzitutto la larghezza: si sono conservate almeno due decorazioni d’altare affrescate dei primi anni settanta del Quattrocento, che sopra una pala d’altare rettangolare raccordano una lunetta dipinta di larghezza maggiore. Si tratta di opere di Domenico Ghirlandaio: gli affreschi dell’altare nella chiesa di San Donnino a Sant’Andrea a Brozzi, dove la lunetta superiore col Battesimo di Cristo rappresenta una replica del Battesimo di Cristo di Verrocchio agli Uffizi (CADOGAN 2000, pp. 23-24, 191-192; KECKS 2000, pp. 57, 176-180), e gli affreschi dell’altare della cappella Vespucci in Ognissanti, dove il riquadro rettangolare inferiore è addirittura una variante e parziale copia del quadro degli Uffizi di Rogier, ed elementi del paesaggio sono minuziosamente citati (ROHLMANN 1992; CADOGAN 2000, pp. 37, 192-194; KECKS 2000, pp. 57, 181-188; NUTTALL 1994, p. 146). Ciò che era possibile in un affresco unitario, poteva esistere anche come unione sinestetica di pittura e rilievo? Nel tardo Quattrocento si trovano, in effetti, alcuni esempi. Nell’Ospedale degli Innocenti, vi era una pala d’altare di Piero di Cosimo con sopra una lunetta a rilievo di Andrea della Robbia, cfr. in questo catalogo fig. 18, p. 77 (larghezza della tavola: cm 197, largezza del rilievo: cm 285; cfr. MARQUAND 1922, I, pp. 115-117; BURKE 2004, p. 132; GERONIMUS 2006, p. 204). Ulteriori esempi sono: il Compianto di Cristo di Perugino del 1495 (Firenze, Palazzo Pitti), nella chiesa di Santa Chiara a Firenze, originariamente coronato dal rilievo della Resurrezione di Andrea della Robbia (MARQUAND 1922, II, pp. 218-219; SCARPELLINI 1984, p. 89; WOOD 1995, pp. 279-281; ID. 1996, pp. 153-155), o il Compianto di Jacopo del Sellaio nella chiesa di San Frediano (bruciato nel 1945 a Berlino) che possedeva originariamente come lunetta un rilevo con la Resurrezione di Andrea della Robbia (MACKOWSKY 1899, pp. 195-196, 273; MARQUAND 1922, pp. 178-182; BASKINS 1989). Nella cattedrale di Pistoia, il rilievo con la Resurrezione di Cristo di Benedetto Buglione del 1490 – proprio una variazione del rilievo di Verrocchio – serviva da coronamento al famoso altare d’argento di San Jacopo e completava il suo programma di rilievo cristologico (BACCI 1904; MARQUAND 1921, pp. 27-32; GAI 1984, pp. 168-169; DOMESTICI 1995, pp. 180, 271-272; ID. 1998, p. 333; ACIDINI LUCHINAT 2003, p. 59; WINDT 2003, p. 262). Riassumendo: il dipinto di Rogier e il rilievo di Verrocchio sono entrambi dei primi anni sessanta del Quattrocento, entrambi provenienti dalla cappella di Careggi, collegati fra loro dal punto di vista tematico, e in rapporto con l’altare che c’era allora per quanto riguarda le misure. Una combinazione paragonabile di quadro e lunetta, come si è visto sopra, è riscontrabile due volte, solo poco più tardi, in affresco e, per di più, in un caso la lunetta segue un modello di Verrocchio, e nell’altro il quadro è addi-
rittura preso direttamente dal dipinto di Rogier a Careggi. A questi esempi si aggiungono numerosi altari con lunette a rilievo più tardi, due con sotto il Compianto di Cristo, e tre con sopra un rilievo con la Resurrezione, che, in un caso, deriva direttamente dal rilievo di Verrocchio a Careggi. Anche il dipinto della Resurrezione di Cristo di Raffaellino del Garbo del 1497 circa (Firenze, Accademia) mostra come le opere di Rogier e di Verrocchio fossero strettamente legate fra loro nella fruizione da parte di altri autori. In esso, da una parte varia – come riconobbe Bartoli – rispetto al rilievo di Verrocchio, la composizione generale, l’espressione e la posizione delle sentinelle (N.Y. Bartoli in, FIRENZE 1992b, pp. 79-80; BUSCHMANN 1993, pp. 51-58, 136-139; C.C. Bambach in, GOLDNER-BAMBACH 1997, pp. 338-339), e dall’altra nel paesaggio alla veduta di Firenze si aggiunge la veduta del Tempio di Gerusalemme del dipinto di Rogier (ROHLMANN 1993a, p. 243; ID. 1994, p. 29). Egli riunifica dunque in sé motivi di entrambe le opere, forte argomento, questo, per testimoniare la loro originaria affinità. Una qualche idea dell’aspetto originario dell’insieme si può infine evincere da alcune cappelle fiorentine del primo Cinquecento che sorsero nella cerchia dei Medici: la cappella del Papa nel convento di Santa Maria Novella (1515) mostra su quella che era la parete dell’altare una lunetta affrescata con L’incoronazione di Maria di Ridolfo del Ghirlandaio, mentre sotto di essa una struttura muraria dipinta ritaglia uno stretto riquadro di parete in cui una volta poteva ben essere stata sistemata una pala d’altare mobile. Nella cappella di Villa Salviati decorata da Giovan Francesco Rustici nel 1515-1516, un rilievo dell’Annunciazione costituisce il quadro della pala d’altare. Esso è cinto da una cornice architettonica in pietra e sormontato da una più ampia lunetta a rilievo, che mostra un tondo di Madonna col bambino e accanto a questo tondo dei angeli (SÉNÉCHAL 2007, pp. 106-114, 198-200). Con l’altare di Rogier e Verrocchio a Careggi si è ricuperata una testimonianza straordinaria del dialogo artistico fra Europa settentrionale e meridionale nella prima età moderna, un insieme spettacolare in cui le Fiandre e Firenze si sono incontrate al livello più alto come per un confronto di stile storico-artistico. Sotto, un dipinto di Rogier, pittore ammirato in tutta Italia, che proprio nel tema e nella composizione segue un modello fiorentino, una composizione di Fra Angelico. La composizione fiamminga-fiorentina di Rogier si erigeva su un prezioso altare di marmi policromi (“Un altare di marmo di piu colori”, MÜNTZ 1888, p. 88) ed era cinto da una ricca cornice
Luca della Robbia, Resurrezione. Firenze, Santa Maria del Fiore Beato Angelico, Tebaide, part. Budapest, Szépmuúvészeti Múzeum
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architettonica fatta di pilastri, cornicione e fregio, allestito dunque “all’antica”, come una pala del rinascimento fiorentino. Il quadro fiammingo poteva essere coperto da un dipinto su tenda di tela azzurra. Quest’ultimo si adattava dal punto di vista del tema perché ornato da un Agnus Dei (“Una cortina di tela azurra dipinta con uno fregio atorno e un agnusdeo nel mezzo”). Al di sopra della tavola di Rogier s’innalzava l’opera giovanile del Verrocchio, nuovo scultore principale dei Medici, un saggio della maestria dell’arte fiorentina. La versione così insolitamente colorata del rilievo si spiega solo con l’immediata vicinanza dell’opera di Rogier. Verrocchio presenta colori che riprendono i colori del dipinto di Rogier: il blu del cielo, l’azzurro nella veste rispettivamente del Cristo e della Maddalena, ora a destra un accento di veste rossa, ora a sinistra un freddo blu scuro, viola e grigio rispettivamente nel vestito della sentinella e di Maria. Le composizioni di Verrocchio e di Rogier si raggruppano rispettivamente in modo simmetrico attorno alla figura centrale del Cristo nudo, avvolto solo nel sudario. Un unico racconto unisce il sotto e il sopra: sotto il corpo del Cristo morto viene presentato davanti al sepolcro per la venerazione, sopra il Cristo risorto ascende dalla tomba verso l’alto, un’ascensione che si conviene alla collocazione del rilievo situato alto sopra l’immagine del sepolcro di Rogier. Nella rappresentazione e con la rappresentazione, il Cristo di Verrocchio si libra sull’immagine del sepolcro di Rogier. Anche nell’impostazione formale è proprio il Cristo di Rogier, che in Verrocchio conosce la sua risurrezione, compare il medesimo corpo scarno e ossuto con braccia e gambe lunghe e sottili. Come Rogier rese vivo uno schema figurativo iconico di Beato Angelico (fig. a p. 98), senza averlo completamente abbandonato, così anche Verrocchio: ora rispetto a Luca della Robbia il sarcofago si sposta leggermente dall’asse centrale verso sinistra, la posa del Cristo si fa più dinamica, la sua veste è mossa dal vento. La scena si allarga nello spazio e diventa nuovamente narrativa: le sentinelle si svegliano e mostrano reazioni diverse di fronte al miracolo: grido di terrore e tentativo di ripararsi a sinistra, sconvolta ammirazione a destra, tre stadi temporali del processo di reazione: essendo visibile simultaneamente ciò che simultaneo non è, si può esperire il fluire del tempo e delle azioni (PLANISCIG 1941, pp. 11-12; WINDT 2003, p. 168). Vitalità, questo è il fine artistico di Rogier come di Verrocchio, i personaggi devono dare l’impressione di essere vivi. Oltre a ciò, Verrocchio elabora un concetto contrario all’arte di Rogier, molto apprezzata in Italia, che esprime sofferenza e dolore. Gesti e mimica espressivi vengono esasperati. Alla desolazione in confronto quieta e ai teneri gesti di Rogier Verrocchio risponde con una forte retorica degli affetti. In Verrocchio questa vivificazione si armonizza con il tema della sua rappresentazione: la Resurrezione fa diventare vivo il morto. Vitalità: a confronto del piatto quadro solamente dipinto del Cristo morto di Rogier, le figure del rilievo di Verrocchio si protendono nello spazio con plastica e tangibile corporeità. E anche la scena del quadro diventa viva, esce dai lati in avanti oltre la linea di confine del resto del rilievo, scaturisce e avanza, per così dire, verso di noi, entrando nello spazio di noi esseri viventi. E infine: le sentinelle non dormono più come in Della Robbia, ma si svegliano a vita oltremodo impetuosa. Un capolavoro mai visto a Firenze, che sarà raggiunto solamente dalla Battaglia d’Anghiari di Leonardo: è come se, nell’espressiva e rafforzata evidenza mimica dei visi distorti, il rilievo di Verrocchio cominciasse a gridare. In Verrocchio non solo il Cristo, ma l’intera rappresentazione di questa rinascita si risveglia a nuova vita: essa si libra verso l’alto sopra l’immagine del sepolcro e ci viene incontro. L’arte di Verrocchio si risveglia alla vita. Questo accade con un’intensità che, a nostro avviso, non è dovuta solamente al tema, ma al contempo al desiderio di superare nella competizione artistica la pittura di Rogier per la capacità di dare un’impressione di vitalità, valendosi della scultura fiorentina – dunque un ‘paragone’. Alla pala d’altare della cappella di Rogier van der Weyden, tuttavia, va accostato, per un confronto artistico, non solo il rilievo di Verrocchio, ma anche un’altra opera d’arte fiorentina di cui parlano gli inventari della villa del 1482 e del 1492 che registrano infatti ancora un dipinto nella cappella.
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Si trattava di una tavola allungata con tante piccole scene di santi anacoreti, una cosiddetta Tebaide: “una tavola lungha br. 3 7/8 larga br. 1 1/3 con cornicione d’oro attorno, dipintovi drento storie di santi padri”, insieme una tavola con testi di preghiera, il tutto per un valore di 6 fiorini (MÜNTZ 1888, p. 88; WARBURG 1932, vol. I, p. 211; FULTON 2006, p. 244). Nel Palazzo Medici si conservava un dipinto simile, un po’ più grande (4 braccia), che fu attribuito a Fra Angelico, del valore di 25 fiorini (FULTON 2006, p. 244). Agli Uffizi si trova oggi una Tebaide di questo tipo che viene per lo più ascritta a Fra Angelico. Di questo dipinto esiste una copia fiorentina, o una contemporanea seconda versione, di cui furono individuati dei frammenti a Budapest e in passato in una collezione privata fiorentina. I formati e le indicazioni sul valore spingerebbero a riconoscere nel quadro degli Uffizi il dipinto di Palazzo Medici, e nella copia di ottima qualità, la versione di Careggi (cfr. WARBURG 1932, vol. I, p. 211; STREHLKE 1998, pp. 14-16; MALQUORI 2001; M. Boskovits in, SAN GIOVANNI VALDARNO 2002, pp. 164-171; PALLADINO 2005, p. 37 con nota sulla possibile provenienza della versione di Budapest da Careggi; FULTON 2006, pp. 244-245). Il genere di quadro con paesaggio e piccole scene di eremiti viene tramandato anche in ulteriori versioni e frammenti di dipinti e risale al XIV secolo. Esso incita lo spettatore a trasferirsi anche lui con la meditazione nel deserto e lì a meditare sulle scene di eremiti illustrate. Al di fuori della città si trova anche il visitatore della villa di Careggi. E la pala d’altare di Rogier lo distoglie ugualmente dalla città in essa pur visibile in lontananza, perché veneri Cristo davanti al suo solitario sepolcro. Entrambe le opere ottennero così, grazie alla loro collocazione in una villa la di fuori della città un’efficacia supplementare: all’osservatore veniva così facilitato l’immedesimazione nei luoghi delle scene rappresentate. Se si mettono a confronto la tavola di Rogier e il genere del quadro degli eremiti, colpisce il fatto che entrambi siano stati progettati con l’idea che dovessero essere osservati da vicino. La Tebaide mostra su una grande superficie una fitta serie di minuscole scene in miniatura, Rogier una sterminata pluralità di minimi dettagli in una materialità che crea illusioni ottiche. A Rogier fu così accostata a Careggi un’opera fiorentina che introduce un affine modo di dipingere. L’osservatore potrebbe mettere a confronto l’abilità di fiamminghi e fiorentini nel dipingere come in miniatura, nel narrare e nel descrivere. Poiché, inoltre, la tavola degli eremiti di Careggi risale a Fra Angelico, a questo confronto artistico bisogna aggiungere ancora una nota particolare: Rogier stesso, per il suo dipinto, si era dovuto richiamare prima ad un’opera di Fra Angelico, la Predella dell’altare di San Marco, un commento, per così dire, all’arte di Fra Angelico, consegnato con il suo dipinto. A Careggi fu arrangiato attorno al dipinto di Rogier un insieme artistico così ben pensato, che mise la pittura del Fiammingo in paragone con una più antica pittura fiorentina e una più moderna scultura fiorentina, un paragone nella detagliata e finissima imitatio naturae e nella rappresentazione degli affetti. Inoltre Rogier rispose al Fiorentino più anziano, mentre il Fiorentino più giovane reagì a Rogier. Una cappella che non soddisfava solamente esigenze religiose, ma che doveva rendere possibile anche il confronto estetico-artistico. Non solo una vicinanza fra Nord e Sud, ma un vero dialogo artistico in cui si misurano fra loro le due grandi scuole artistiche del XV secolo. Michael Rohlmann Bibliografia: GAMBA 1904; CRUTTWELL 1904, pp. 57-61; FABRICZY 1904, pp. 381-382; VALENTINER 1930, pp. 74-87; GAMBA 1931-1932; ROSSI 1932, commento alla tavola 32; BERTINI 1935, p. 438; VENTURI 1936, pp. 262-265; DUSSLER 1940, p. 294; PLANISCIG 1941, pp. 10-13, 48; POPE HENNESSY 1958, p. 311; PASSAVANT 1959, p. 19; COVI 1968, pp. 7-9; PASSAVANT 1969, pp. 42-43, 202-203; AVERY 1970, pp. 138-139; SEYMOUR 1971, pp. 122123, 167; POESCHKE 1990, p. 46; ADORNO 1991, pp. 120-123; DOLCINI 1992, pp. 42-45; CAGLIOTI 1992, pp. 170-173; DOMESTICI 1995, p. 272; HELAS 1996, p. 170; BUTTERFIELD 1997, pp. 82-86, 213-215; BARTOLI 1998, pp. 13-14; BROWN 1998, pp. 32, 97, 182 n. 37, pp. 199-200 n. 86; NIEHAUS 1998, pp. 145-147; SERROS 1999, pp. 45-49, 167-168, 460-461; WINDT 2003, pp. 166-172, 260-262; COVI 2005, pp. 29-33; FULTON 2006, pp. 59, 178, 299
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Rogier van der Weyden (Tournai 1400 ca - Bruxelles 1464)
Compianto di Cristo tavola (quercia); cm 111 × 95 provenienza: Firenze, Villa Careggi (cappella) inventari 1492 e 1512; Cardinale Carlo de’ Medici, Casino Mediceo, primo piano, “Camera che segue[il Salone degli Spagnoli]verso la Galleria”, prima del 1666; dopo la morte del Cardinale Carlo de’ Medici (1666), trasferito agli Uffizi (inventario 1666, ASF, Ms. 758, c. 17r; BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 2005, III, p. 1133, n. 291, come opera di Albrecht Dürer) Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1114
Si deve al WARBURG (1902, 1903) l’identificazione di questa tavola con quella menzionata nell’inventario mediceo del 1492 (per primo pubblicato dal MÜNTZ 1888, p. 88, nella trascrizione del 1512) come sull’altare della cappella della villa medicea di Careggi: “uno altare di marmo di più colori di br. due e mezzo suvi una tavola d’altare chon cornicie dorate atorno, dipintovi drento el sepolchro del Nostro Signore et il Nostro Signore schonfitto di crocie et cinque altre fighure tutte chommesse in un telaio con pilastri achanalati a uso di marmo et peducci et capitelli dorati chon architrave fregio di diamanti e cornicio tutto”. La base dell’identificazione sono il supporto, il soggetto, il numero di figure e la provenienza del dipinto. L’opera in esame è anche uno dei pochi dipinti fiamminghi di proprietà medicea menzionati dal Vasari (1550, 1568), che lo ricorda come “la tavola di Careggi, villa fuora di Firenze della illustrissima casa de Medici” ad opera di “Ausse, creato di Ruggieri”, nome con il quale il pittore/scrittore aretino indubbiamente indica Hans Memling come risulta anche da altri dati (vedi cat. n. 23). Dopo la morte del cardinale Carlo de’ Medici, l’appassionato collezionista e fratello di Cosimo II che ebbe in appannaggio la villa di Careggi ma stabilì la sua residenza nel Casino Mediceo presso San Marco, e lì portò anche la tavola con la Deposizione (“dicesi mano di Alberto Duro”: si veda la citazione inventariale del 1666 in BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 2005, III, p. 1333, n. 291), il dipinto trovò definitiva collocazione nella Galleria degli Uffizi, come risulta dalle indicazioni dell’inventario steso nel 1666 dei mobili appartenuti al Cardinale (vedi provenienza). Anche Filippo Baldinucci (1686) la descrive come opera del maestro tedesco nella biografia a lui dedicata. La prima menzione conosciuta di Rogier come autore appare nel catalogo degli Uffizi del 1823. È invece ancora problema aperto se la menzione dell’inventario del 1482 (“nella cappella . 1a tavola d’altare quando san Cosimo/medica Cristo colla pictura della Resurrezione quando Cristo resuscita”) si riferisca allo stesso dipinto o a un’altra opera, come sembra più probabile (cfr. cat. n. 4). Per motivi d’incompatibilità compositiva e altri, invece, è del tutto tramontato il tentativo d’identificazione del dipinto, sostenuta da Crowe e Cavalcaselle (1871) e altri studiosi, con la tavola centrale d’un trittico di Rogier con una Deposizione dalla Croce o Lamentazione con la Vergine, Maria Maddalena, Giuseppe d’Arimatea e molte altre figure che si trovava negli appartamenti privati Leonello d’Este e fu nel 1449 mostrato con orgoglio dal duca ferrarese allo studioso di antichità Ciriaco d’Ancona, e più tardi descritto con entusiasmo anche da Bartolommeo Facio nel suo De Viris Illustribus del 1456 circa (COLUCCI 1792, XV, fol. CXLIII-CXLIV; BAXANDALL 1964, p. 104). Il supporto di quercia indica che, come ad altre opere di Rogier acquistate dagli Este di Ferrara o dai Villa, famiglia di banchieri di Chieri in Piemonte (cfr. B.W. Meijer in, BRUXELLES 2003, pp. 222-225; DE
VOS 1999, pp. 194-199, n. 7, ripr., pp. 210-216, n. 10, ripr., e PASSONI 1988, pp. 67-80), il dipinto degli Uffizi fu eseguito nelle Fiandre e non in Italia durante il pellegrinaggio giubilare del 1450 (testimoniato pochi anni dopo dal Facio, segretario genovese di re Alfonso di Napoli; BAXANDALL 1964, p. 101), che portò a Roma Rogier, peraltro già famoso anche fuori dalla sua patria, tanto da essere considerato in Italia, dal Facio e da altri, il più grande pittore fiammingo vivente. Si deve tuttavia allo Jähnig (1918) la scoperta che per la sua composizione Rogier abbia derivato elementi da un’opera più piccola (cm 38 × 46), la tavoletta centrale della predella con lo stesso soggetto del Compianto davanti al sepolcro (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek), già parte della grande pala commissionata all’Angelico da Cosimo il Vecchio nel 1438-1440 per l’altar maggiore della chiesa di San Marco. Elementi che Rogier derivò dall’Angelico sono tra l’altro l’entrata rettangolare di muratura della sepoltura scavata dentro la roccia e frontale rispetto allo spettatore; inoltre, davanti ad essa, il gruppo compatto ed efficace del Cristo morto presentato in maestà e sorretto per le spalle da dietro, con le braccia ancora aperte in croce sostenute ai lati da Maria e da San Giovanni, curvati su se stessi ad esprimere sofferenza. Perfino l’espansione a forma di ventaglio del fogliame è derivata parzialmente dall’esempio fiorentino. Forse la dipendenza dal modello dell’Angelico fu voluta e imposta dal committente mediceo, come suggerisce il ROHLMANN (1993, p. 182; ID. 1994, pp. 31-33) forse Piero de’ Medici (1416-1469) che aveva come impresa un anello con diamante, cui potrebbe rimandare la decorazione a diamanti dell’architrave che in origine stava sopra la tavola nella cappella di Careggi. Del resto un fregio del genere figura anche in un tabernacolo di marmo commissionato da Piero nella chiesa di San Miniato al Monte
Beato Angelico, Compianto di Cristo.Monaco, Alte Pinakothek
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(ROHLMANN 1993; AMES LEWIS 1979, pp. 122-143, per il tabernacolo e l’impresa di Piero). Inoltre, Cosimo de’ Medici e Piero (1416-1469), suo figlio e successore, che spesso s’occupò per conto del padre di commissioni in materia d’arte, dimostrarono in altri casi la loro particolare venerazione per l’Imago Pietatis del Corpus Christi (ROHLMANN 1994, pp. 32, 36-39). Oltre alla composizione probabilmente anche il contenuto religioso della tavola di Rogier (che configura il sacrificio di Cristo sulla Croce come in diretto rapporto con il sacramento dell’Eucaristia) fu dunque determinato dalla volontà medicea. Ciò non toglie che la stesura compositiva di Rogier sia più elaborata, nelle variazioni sul tema del paesaggio: uno sfondo diversificato dal Golgota davanti allo skyline di Gerusalemme e dalle strade che collegano la città al giardino del sepolcro verso il quale, a sinistra, avanzano le due pie donne. Inoltre, il maestro fiammingo infrange la stretta simmetria e frontalità della tavoletta di Fra Angelico, disponendo il corpo di Cristo più in obliquo, e più in diagonale la pietra tombale. Inoltre egli aggiunge la figura della Maddalena inginocchiata, dolente e devota, a completare in un rapporto spaziale ed emotivo con quella di San Giovanni a destra. Due sono qui le figure che sorreggono il Cristo morto: un Nicodemo che guarda lo spettatore si affianca al barbuto e calvo Giuseppe d’Arimatea, il cui copricapo è posato nell’angolo in basso a sinistra. Inoltre, Rogier sottolinea il pathos del momento raffigurando le lacrime sui visi dei vari personaggi. La maggiore complessità consentita dal formato maggiore e dalla funzione diversa della tavola di Rogier si combina con una tavolozza più diversificata, grazie ai colori ad olio più saturi e trasparenti a paragone con i pochi teneri colori a tempera utilizzati dall’Angelico. Nel gruppo di figure della Deposizione attribuita alla cerchia di Benozzo Gozzoli (Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen), qualche volta accostato alla tavola di Rogier, il Cristo è sostenuto davanti alla Croce (di cui si vede il ritto), alla scala e ad un sarcofago disposto in parallelo al piano dell’imagine (KLEEMAN WILLNER 1993, pp. 69-70, n. 17, ripr.). Rispetto alla composizione dell’Angelico, esso condivide con la tavola degli Uffizi il maggiore numero di figure, due delle quali sostengono il cadavere. L’esempio della tavoletta già in San Marco è però assai più presente nella posizione del Cristo e nella simmetria della composizione. Secondo alcuni studiosi, tra i quali il Panofsky, la commissione del dipinto degli Uffizi potrebbe risalire ad una sosta fiorentina di Rogier, per altri forse fu solo una conseguenza della visita del pittore in Italia. In entrambi i casi il punto di partenza per Rogier sarebbe stato un disegno della composizione di Fra Angelico portato nelle Fiandre dal pittore stesso o da altri. Probabilmente la commissione a Rogier coincise con i lavori d’espansione della villa di Careggi intrapresi dai Medici intorno al 1460 (ROHLMANN 1999, p. 45). Pope Hennessy, Dhanens e De Vos suggerirono che i lineamenti del viso del Nicodemo piangente riflettono il sembiante di Cosimo il Vecchio, cui forse risalì la commissione, che nel 1463 perse sia il figlio Cosimo che il nipote Giovanni. Dopo l’esecuzione il dipinto fu inviato a Firenze, dove si trovava negli anni settanta del Quattrocento, quando artisti quali il Ghirlandaio per l’affresco con la Pietà Vespucci (Firenze, Ognissanti) e Leonardo per l’angelo più a sinistra del Battesimo di Cristo di San Salvi (Firenze, Galleria degli Uffizi) e per il re più giovane dell’Adorazione dei Magi (ambedue a Firenze, Galleria degli Uffizi) presero a modello la posa della Maddalena (HILLS 1980; ROHLMANN 1992). Inoltre il miniatore Monte di Giovanni riprese il Cristo sostenuto da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea in una pagina illustrata con Il Compianto di Cristo del Messale di Santa Maria Nuova (Museo Nazionale del Bargello, ms. A67, c. 150v; GARZELLI 1984, loc. cit. tavv. CLIV, fig. 3, tav. CLIV, fig. 5; GARZELLI 1985, p. 268 sg.; vol. II, p. 867 sg., ripr. e tav. a colori X; cat. n. 6). Dalla tavola di Rogier lo stesso Ghirlandaio nell’affresco citato e anche altri artisti presero in prestito elementi dal paesaggio e dagli edifici – si veda
per esempio La Resurrezione di Raffaellino del Garbo e il Compianto di Cristo di Bartolomeo di Giovanni (ambedue a Firenze, Galleria dell’Accademia, per il Compianto di Cristo cfr. cat. n. 7). Tali molteplici prestiti sono prova tangibile del grande interesse destato dal dipinto presso gli artisti fiorentini (per questi e altri prestiti anche: PASSAVANT 1969, p. 53; ROHLMANN 1993a, pp. 243-244; ID. 1993b, ID. 1994, p. 35; NUTTALL 2004, p. 85, 274 note 73, 153). Nonostante la sua avversione per il lato devoto, naturalistico e poco ‘colto’ della pittura fiamminga (DE HOLANDA (1539) ed. 1928, pp. 15-16), perfino Michelangelo sembra, se non aver apprezzato, almeno visto il dipinto di Rogier, come suggerirono il Goldschmidt e il Warburg (1903), poiché ne prende a modello il motivo della figura centrale di Cristo nella Deposizione della National Gallery di Londra del 1500-1501 circa (GOLDSCHMIDT 1903; M. Hirst in, LONDRA 1994, pp. 62-63, tav. 42; NUTTALL 2004, p. 246, fig. 277 ). Nonostante la partenza del Compianto di Rogier a Firenze, il ricordo della tavola rogieriana rimase vivo anche nel Nord , dove verso la fine del Quattrocento, il Maestro della Leggenda di Santa Lucia, epigono a Bruges del Memling che a sua volta era stato allievo e assistente di bottega del Van Der Weyden , copiò la posa della Maria Maddalena rogieriana, adattandola al contesto della sua Madonna col Bambino e undici sante (Bruxelles, Musées des Beaux-Arts; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971) pp. 42, 64, n. 155, tav. 157). Un altro dipinto di Rogier probabilmente in rapporto con la famiglia Medici è la tavola con la Madonna con i SS. Giovanni Battista, Pietro, Cosma e Damiano (Francoforte, Städel Museum, cat. n. 8). Bert W. Meijer Bibliografia: VASARI 1550, ed. Bellosi, Rossi 1986, p. 68 (“ed è di sua mano [Ausse, creato di Ruggieri da Bruggia] la tavola di Careggi”); GUICCIARDINI 1567, p. 98 (Hausse, tavola di Careggi) VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, I, p. 185 (come ed. 1550); BALDINUCCI 1686, ed. 1767, p. 23 (A. Dürer); Uffizi 1818, p. 76 (Sodoma); Uffizi 1823, p. 77 (R van der Weyden); BURCKHARDT 1855, p. 509, ed. 1959, p. 220 (R. van der Weyden, attribuito a); CROWE-CAVALCASELLE 1872, p. 251 (R. van der Weyden); WARBURG 1902, ed. 1932, I, p. 211, fig. 56 (R. van der Weyden); WARBURG 1903, ed. 1932, pp. 213-216, 381-382; GOLDSCHMIDT 1903, pp. 56-58; JÄHNIG 1918, p. 171; FRIEDLÄNDER 1924-1937, II (1924), pp. 19-20, 99, n. 22, tav. XIX; PANOFSKY 1953, pp. 273-274, 278, 331, fig. 331; POPE HENNESSY 1966, p. 289; FRIEDLÄNDER 1967-1976, II (1967), pp. 14-15, 65, n. 22, tav. 43 e VIa (1971), p. 42; E. Micheletti in, Uffizi 1979, p. 562, P 1780, ripr.); HILLS 1980, p. 610: GARZELLI 1984, pp. 325-326, tav. CLIV, fig. 4; DHANENS 1989, pp. 65-90; ROHLMANN 1992, pp. 393-394, fig. 3; ROHLMANN 1993a, p. 243, 252, fig. 9; ID. 1993b, p. 182; ID.1994, pp. 32-38; M. Hirst in, LONDRA 1994, pp. 62-63, tav. 44; NUTTALL 1995, pp. 144-147; ROHLMANN 1999, p. 45; DE VOS 1999, pp. 330-334, n. 35, ripr. con bibl.; NUTTALL 2004, pp. 1, 2, 5, 26-29, 85, 86, 113-114, 146, 153, 177, 246, figg. 2, 34, 35; N. Baldini in, AREZZO 2007, p. 213, n. 38, ripr.; F. Elsig in, FERRARA 2007, pp. 266-267, n. 46, ripr.
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Gherardo di Giovanni del Fora (Firenze ca 1446-1497) e
Monte di Giovanni del Fora (Firenze 1448-1532/1533)
Compianto di Cristo, storie della Passione di Cristo, quattro Dottori della Chiesa, i quattro Evangelisti Consacrazione dell’ostia e storie di Cristo post mortem miniature Messale; codice membr.; mm 390 × 272; ff. I + 1-315 + I. Contenuto: Calendario liturgico (ff. 1r-4v); Temporale (ff. 5r-206v); Proprio dei santi (ff. 208r260r); Comune dei santi (ff. 260r-311v) provenienza: Firenze, chiesa di Sant’Egidio dell’Ospedale di Santa Maria Nuova Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Ms. A 67, ff. 150v e 151r
Questo Messale rappresenta una delle risposte più eclatanti dell’ambiente artistico fiorentino, poco dopo il 1470, alle novità pittoriche del paesaggio e del naturalismo fiamminghi. Il codice fu realizzato per Sant’Egidio, la chiesa dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, e i documenti ne fissano tra il 1474 e il 1476 l’esecuzione, attestando altresì che fu il miniatore e cartolaio Gherardo di Giovanni del Fora a ricevere i pagamenti relativi alla sua messa in opera (LEVI D’ANCONA 1962). Gherardo affidò la scrittura del Messale a un non meglio identificato “frate di San Francesco” e condivise l’impresa illustrativa con il più giovane fratello Monte. I due, figli dello scalpellino Giovanni di Miniato detto del Fora (un artista documentato ma ancora senza opere), nei primi anni sessanta del Quattrocento aprirono a Firenze una bottega presso la chiesa della Badia, e qui svolsero appunto l’attività di cartolai e di miniatori, dedicandosi inoltre alla pittura di formato maggiore (su tavola e ad affresco), nonché all’arte del mosaico (FAHY 1967, pp. 128-139; PONS 1992, pp. 106-107). I fratelli del Fora furono importanti protagonisti dell’arte fiorentina di fine secolo: dopo la morte di Gherardo nel 1497, toccò a Monte portare avanti l’avviata bottega ancora per un trentennio. Al solo Gherardo Giorgio Vasari dedicò una delle sue Vite (1550, II, pp. 489-490; 1568, II, pp. 453-455), tramandandoci l’immagine di un artista versatile, dal “cervello sofistico”, indagatore, intento a ricercare senza sosta le “difficultà” del suo magistero. Gherardo fu unito da amicizia a Lorenzo il Magnifico, e il favore mediceo gli aprì le porte della cerchia di intellettuali legata ad Angelo Poliziano (G. Milanesi in, VASARI, ed. Milanesi 1878, III, p. 247). Complessi rapporti intercorrevano tra Lorenzo de’ Medici e i Portinari, la famiglia fiorentina discendente da Folco Portinari, l’antico fondatore dell’Ospedale di Santa Maria Nuova (PLEBANI 2002, pp. 120-123; NUTTALL 2004, pp. 43-45). Nel 1472 Tommaso Portinari, scaltro e ambizioso direttore della filiale del Banco dei Medici a Bruges, aveva fatto dono all’Ospedale della cospicua somma di 700 fiorini d’oro; dieci anni dopo, nel maggio del 1483, il grande trittico di Hugo van der Goes, commissionato dallo stesso Tommaso per l’altar maggiore di Sant’Egidio, fece il suo ingresso a Firenze. La commissione del Messale ai due fratelli del Fora si deve però plausibilmente all’iniziativa dello spedalingo, a quell’epoca Francesco di Torello Torelli, ovvero il sacerdote che sovrintendeva all’organizzazione dell’Ospedale
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e rivestiva il ruolo di rettore della chiesa di Sant’Egidio (di cui Gherardo, va ricordato, era organista); nel codice troviamo infatti l’emblema dell’Ospedale (la “gruccia”, f. 5r), mentre non v’è traccia degli stemmi e delle imprese che i Portinari usavano far rappresentare sui dipinti da loro commissionati. Eppure, la notevole profusione di motivi alla fiamminga nelle miniature del codice avrebbe senz’altro incontrato il favore di Tommaso e dei Portinari, le cui preferenze andavano inoltre a pittori quali Hans Memling e il Maestro della Leggenda di Sant’Orsola (NUTTALL 2004, pp. 60-72) e che della chiesa di Sant’Egidio detenevano il patronato artistico (CIUCCETTI 2002, p. 23). È in ogni caso assai improbabile che il Messale fosse destinato alle funzioni liturgiche quotidiane del clero officiante la chiesa: il suo preziosissimo corredo illustrativo ci indica che si trattava piuttosto di un’opera di pregio, di cui far mostra in particolari occasioni (quale poteva essere, ad esempio, la visita di un personaggio illustre), in linea con quanto avveniva nell’ambito delle grandi biblioteche principesche di quel tempo. La ricchezza decorativa del Messale è eccezionale: il volume contiene 112 iniziali istoriate, oltre a miniature di maggiori dimensioni, entro riquadri di formato orizzontale (f. 5r, Annunciazione) o a piena pagina (f. 150v, Compianto di Cristo). Alla vivacità dei colori e alla finezza del disegno si unisce la profusione di oro e di argento, applicati – spesso nella medesima pagina – sia ‘in foglia’ che ‘in conchiglia’ (con il pennello), variegando così la brillantezza delle superfici a imitazione del metallo e dei manufatti di oreficeria. Anche in questo espediente tecnico, apparentemente secondario, si può cogliere il riflesso dell’attenzione particolare dei due artisti verso la preziosità tattile dei dipinti fiamminghi. È quest’ultimo un aspetto che già Gaetano Milanesi, nel 1850, indicava come centrale nella cultura di Gherardo e di Monte; ma solo in tempi più recenti Annarosa GARZELLI (1984a) ha puntualizzato che modello del Compianto di Cristo miniato da Monte nel Messale (f. 150v) fu il dipinto con il medesimo soggetto di Rogier van der Weyden in quel tempo nella cappella della villa medicea di Careggi, ed oggi agli Uffizi (cat. n. 5). Analogie stringenti affiancano le due opere: nell’atteggiamento sofferente di Cristo, le braccia aperte e i piedi incrociati sul bianco sudario, sorretto da Nicodemo e da Giuseppe d’Arimatea, oppure nella collocazione di spalle della Maddalena, sulla sinistra, come anche negli oggetti dipinti in primissimo piano (corona di spine e chiodi nella miniatura). Le derivazioni di Monte dal dipinto di Rogier van der Weyden (realizzato nelle Fiandre non prima del 1450) ne accertano quindi la presenza a Firenze sin dai primi anni settanta. Il nostro artista doveva comunque conoscere bene anche l’opera di Angelico notoriamente indicata quale modello della composizione elaborata da Rogier: il pannello centrale della predella della pala di San Marco, del 1438-1440 (oggi a Monaco, Alte Pinakothek). Al simbolismo eucaristico celato nella raffigurazione del pittore domenicano (HOOD 1993, pp. 109-110) si ispirò evidentemente Monte, quando sostituì la tradizionale immagine della Crocifissione (deputata nel Messale ad illustrare il Canone: si veda cat. n. 47) con quella del tutto nuova del Compianto. La scena, al centro della pagina, è compresa in una cornice dorata di forma centinata, quasi fosse una ‘pace’ devozionale; intorno, nei fregi di auree foglie d’acanto si aprono sette medaglioni con Storie della Passione (dall’angolo superiore sinistro: Orazione nell’orto, Cattura di Cristo, Cristo davanti a Pilato, Flagellazione, Cristo deriso, Cristo di nuovo davanti a Pilato, Andata al Calvario), clipei a monocromo con quattro Dottori della Chiesa (in alto e in basso), i quattro Evangelisti (ai lati). In questa pagina cogliamo uno dei primi esempi di quel gusto per la monumentalità e la sontuosità decorativa che fu tipico della miniatura fiorentina nell’ultimo trentennio del Quattrocento. La sequenza delle Storie della Passione potrebbe invece riflettere la conoscenza di un codice miniato fiammingo, un Libro d’Ore contenente appunto l’Ufficio della Passione. In preghiera davanti a un piccolo Libro d’Ore, apparentemente di fattura nordica,
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Monte di Giovanni, Compianto di Cristo, f. 150v
Monte di Giovanni, Consacrazione dell’ostia, e Gherardo di Giovanni, Storie di Cristo post mortem, f. 151r
Benedetto Portinari si fece ritrarre nel 1487 da Hans Memling (Firenze, Galleria degli Uffizi; cat. n. 41): va però osservato che non sono purtroppo attualmente noti codici miniati commissionati nelle Fiandre dai ricchi banchieri fiorentini. Le tre scene con Cristo davanti a Pilato, la Flagellazione e Cristo deriso, nel margine inferiore del foglio 150v, richiamano comunque alla mente in maniera significativa la parte centrale del dipinto con le Storie della Passione realizzato dallo stesso Memling per Tommaso Portinari intorno al 1470 (cat. n. 23). In particolar modo, molto vicina – nel dipinto e nella miniatura – ci appare l’impostazione della prima di queste tre scene; e così, l’Orazione nell’orto miniata da Monte nell’angolo superiore sinistro della pagina presenta sullo sfondo – “quadro nel quadro” – una piccola Ultima Cena, in modo non dissimile da quanto Memling illustrò nella sua opera. Il dipinto con le Storie della Passione fu probabilmente a Firenze solo alcuni decenni più tardi, ma può ugualmente indicarci quali fossero i modelli a cui Monte si rivolse. Nel Compianto di Cristo, la città di Gerusalemme si identifica con una veduta fantastica di Firenze: il duomo è trasformato in un tempio ornatissimo, rivestito da pannelli scolpiti, mentre la cupola a sfera costolonata, di colore azzurro, è identica a quella raffigurata da Rogier van der Weyden a coronamento della cattedrale sullo sfondo del trittico con
la Crocifissione oggi a Vienna (Kunsthistorisches Museum; 1443-1445 ca) (DE VOS 1999, pp. 234-237, n. 13, ripr.). La Firenze-Gerusalemme dipinta da Monte, avvolta nella foschia e disseminata in lontananza da altissime guglie, così come il digradare delle colline in tonalità azzurre e poi quasi bianche, ci appaiono fortemente rivelatori dell’acuto e precoce interesse rivolto dall’artista ai paesaggi dei quadri fiamminghi, di Jan van Eyck prima ancora che di Rogier van der Weyden. Egli inoltre ricercò la verosimiglianza della luce: in accordo con quanto narra il racconto evangelico, il Compianto è illuminato dal disco rosso del sole, ai primi bagliori dell’alba, mentre sulla Crocifissione raffigurata in fondo a destra incombe drammatico il momento della totale eclissi solare. Nell’iniziale T (Te igitur) della pagina a fronte (f. 151r), Monte dipinse la Consacrazione dell’ostia, e ancora una volta, nonostante la sintetica compattezza della scena, l’artista dovette avere presente modelli fiamminghi, quali gli interni di chiesa minuziosamente indagati da Van der Weyden (NUTTALL 2004, fig. 43). Nelle sette Storie di Cristo post mortem raffigurate lungo i margini del foglio (dall’angolo superiore sinistro: Cristo appare a San Pietro, Noli Me Tangere, Vocazione di Pietro e Andrea, Comunione degli Apostoli, Cristo appare alla Vergine, Cristo appare agli apostoli, Cena ad Emmaus), è invece possibile riconoscere la mano di Ghe-
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Monte di Giovanni, Adorazione dei pastori, f. 14r
Gherardo di Giovanni, Annunciazione, David con il salterio, sant’Egidio in trono, f. 5r
rardo. Il colore smaltato delle sue miniature, la stesura sottile e delicata dei colori si allineano a quella ‘diligenza’ esecutiva che improntava le opere di altri artisti fiorentini, tra cui Andrea del Verrocchio e Domenico Ghirlandaio. Fu invece più densa e impastata la pennellata di Monte, che pure, diversamente dal fratello, dipinse personaggi dall’espressività inquieta, con i volti accesi coronati da capigliature biondo fulvo. Egli mostra piuttosto una sensibilità affine a quella di Filippino Lippi, di cui va ricordato, in questo contesto, l’intenso dipinto con il Compianto su Cristo morto oggi a Cherbourg (Musée d’Art Thomas Henry) (N. Penny in, LONDRA 1999, pp. 298-299, n. 72, ripr.). Nel foglio 5r la bellissima Annunciazione si apre, nel fondo, su moderni scorci urbani di chiostri porticati (a sinistra) e su un paesaggio collinare abitato da una goticissima chiesa; in questi stessi anni simili soluzioni paesaggistiche alla fiamminga venivano accolte da Andrea del Verrocchio e dai suoi collaboratori, tra cui il giovane Leonardo (BELLOSI 1999, pp. 102-103, 104-106). È l’Annunciazione dipinta da Leonardo nel 1473-1476 per la chiesa fiorentina di San Bartolomeo a Monteoliveto (Firenze, Galleria degli Uffizi) a venirci in mente davanti agli eleganti protagonisti della miniatura, il cui armonioso classicismo è da ascrivere senz’altro a Gherardo, come già suggeriva Pietro TOESCA (1906).
Verso Gherardo e la sua capacità di rappresentare la verità atmosferica delle ombre, Leonardo provava del resto una particolare ammirazione (RICHTER 1939, II, p. 356 n. 1424): un simile atteggiamento mentale, di riflessione e di personale rielaborazione della cultura pittorica fiamminga, intesa quale strumento di indagine più acuta della realtà, accomunò dunque questi due artisti negli anni settanta del Quattrocento. Ada Labriola Bibliografia: MILANESI 1850, pp. 168, 171, 293-297, 343; VASARI, ed. Milanesi 18781885, III, p. 248; TOESCA 1906, pp. 374, 375, 376-377; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 680-684 n. 1410; COLNAGHI 1928, p. 102; ROSSI 1932, pp. 23, 68; MARTINI 1956, pp. 26-27; LEVI D’ANCONA 1962, pp. 127, 130, 134-135, 199, 200; GARZELLI 1977, p. 97; ID. 1984a, pp. 323-328; ID. 1985, pp. 83, 282-283, 328 nota 3, 335; N. Pons in, FIRENZE 1992b, pp. 254, 258; MARIANI CANOVA 1994, p. 29; CONTI 1995, p. 231; GARZELLI 1996, p. 296; ANTETOMASO 1999, pp. 636, 638; P. Scarpellini in, SCARPELLINISILVESTRELLI 2003, p. 41; PADOA RIZZO 2002, pp. 129-131,133, 134; GALIZZI 2004b, p. 259; ID. 2004d, p. 798; PARTSCH 2006, p. 519; P. Scarpellini in, PERUGIA-SPELLO 2008, pp. 212-213
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Bartolomeo di Giovanni (Firenze, documentato dal 1488 - Firenze 1501)
Compianto di Cristo tavola; cm 28 × 54 provenienza: Convento di San Marco; dal 1810 al 2004 nella Galleria dell’Accademia Firenze, Museo di San Marco, inv. 1890 n. 8628
La tavoletta raffigurante il Compianto di Cristo di Bartolomeo di Giovanni era il pannello centrale della predella di una pala d’altare fiorentina non identificata. Della predella si conservano altre due componenti nel Museo di San Marco di Firenze: un San Francesco che riceve le stimmate, la parte sinistra, un San Girolamo penitente nel deserto, la destra. Il Compianto di Cristo al centro rivestiva chiaramente un significato eucaristico (cfr. BELTING 1981; MÄDGER 2007, I, pp. 163-170), allusivo alla presenza sacramentale del corpo di Cristo nella particola – proprio davanti all’immagine sulla tavola d’altare –, cui veniva così conferita un’evidenza figurata. Come nel dipinto il corpo di Cristo veniva elevato e contemporaneamente adorato dagli astanti, così il sacerdote celebrante, durante la liturgia eucaristica, alzava la particola in modo che essa divenisse visibile per la comunità e potesse essere adorata. La tipologia figurativa del Cristo tenuto alzato diritto, compianto a sinistra e a destra, è presente in un gran numero di dipinti del
Quattrocento (JÄHNIG 1918; VON DER OSTEN 1948, colonna 467; PA1953, p. 468, nota 4 a p. 274; HOOGEWERFF 1960, pp. 138-139; STECHOW 1964; ROHLMANN 1994, p. 132 n. 112). In esso confluiscono la vecchia formula figurativa dell’imago pietatis, che già nel Trecento si riscontra frequentemente al centro delle predelle, ed elementi della deposizione (PANOFSKY 1953, pp. 273-274; BELTING 1981; HOOD 1993, pp. 109-110). Anche nel Quattrocento si tratta solitamente di scene da predella (MÄDGER 2007, I, pp. 168-169) che raffigurano Cristo con la parte inferiore del corpo seduto dentro un sarcofago oppure in piedi su un lenzuolo steso, con le braccia sorrette da Maria e Giovanni, mentre sullo sfondo si intravvede spesso il tumulo con la tomba aperta. Il prototipo di questa tipologia figurativa si ritrova nella tavola centrale della predella nella pala di San Marco realizzata da Beato Angelico (BELTING 1981, p. 120; HOOD 1993, pp. 109-110; ROHLMANN 1994, pp. 32-35; SYRE 1996; MÄDGER 2007, I, pp. 168-169; II, pp. 41-42). Qui il corpo esanime di Cristo è presentato diritto, in piedi davanti all’apertura della tomba, con Maria e Giovanni che gli sorreggono le braccia. Come ha dimostrato Jähnig, anche la pala d’altare che Rogier van der Weyden realizzò per Careggi è riconducibile a questa predella (JÄHNIG 1918; ROHLMANN 1994, pp. 32-36; cfr. cat. n. 5). L’importanza della predella dell’Angelico è testimoniata anche dall’esistenza di diverse copie parziali di ambito fiorentino, che ripetono di volta in volta il gruppo di figure composto da Cristo e i suoi portatori. È il caso di un frammento di predella, oggi al Museo del Sacro Convento di Assisi, riconducibile alla cerchia del Ghirlandaio ed originariamente esposto in San Marco a Firenze (ZERI 1988, p. 96; ROHLMANN 1994, p. 35). Anche NOFSKY
Ricostruzione della parte centrale della predella dell’altare di Beato Angelico a San Marco con Cosma, Damiano e i loro fratelli sul rogo (Dublino, National Gallery of Ireland) a sinistra, il Compianto di Cristo (Monaco, Alte Pinakothek) al centro e La Crocifissione, la lapidazione e la trafittura con frecce di Cosma, Damiano e dei fratelli (Monaco, Alte Pinakothek) a destra
Ricostruzione della predella di San Marco di Bartolomeo di Giovanni con San Francesco riceve le stimmate (a sinistra), il Compianto di Cristo (al centro) e il San Gerolamo come penitente (a destra) Firenze, Museo di San Marco
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una grande pala d’altare di Davide Ghirlandaio nella Badia di San Salvatore di Settimo copia il gruppo dei portatori fin nelle singole pieghe del sudario (CAVALCASELLE-CROWE 1883-1908, VII, 1896, pp. 232-234, n. 3; ROHLMANN 1994, p. 35; CADOGAN 2000, pp. 312-322; KECKS 2000, pp. 120-121). La tavola di Settimo rivela, inoltre, come la tradizione figurativa basata sul modello dell’Angelico si relazioni anche con la pala di Careggi di Van der Weyden (HOOGEWERFF 1960, pp. 138-139; AMES LEWIS 1989, p. 122, n. 19; ROHLMANN 1992, p. 394; ID. 1994, p. 29; CADOGAN 2000, p. 322). La torsione dei corpi di Maria e Giovanni, lo sguardo del portatore di Cristo verso lo spettatore, la struttura rocciosa della tomba, l’ampliamento del paesaggio, sono tutti elementi che rivelano una rielaborazione della scena figurata dell’Angelico alla luce del dipinto di Van der Weyden. La stessa cosa si nota anche nel Compianto di Bartolomeo di Giovanni, anch’esso originariamente esposto proprio a San Marco: qui il gruppo dei portatori di Cristo è variato rispetto alla rappresentazione di Beato Angelico, e l’ampliamento scenico e paesaggistico, e soprattutto la posa eretta di Cristo sopra la pietra tombale, rinviano all’opera di Van der Weyden agli Uffizi. Come si spiega, tuttavia, l’invenzione gravida di conseguenze di Fra Angelico? Come mai la consueta imago pietatis si allarga ad un’azione scenica? Ha qui espressione solo una moda artistica intenta a sperimentare un linguaggio narrativo proprio nelle predelle d’altare (cfr. MÄDGER 2005 e SANDER 2006)? In verità, il senso dell’allargamento scenico dell’imago pietatis dell’Angelico si comprende nel suo contesto figurativo originario. Immediatamente sopra ad essa, nel pannello centrale della pala d’altare, era raffigurata una piccola Crocifissione e la predella riprendeva, nella posa del corpo di Cristo, quella del Crocifisso, rendendo in questo modo evidente il nesso contenutistico. Ma ancora di più, il Compianto si accordava alle due tavole della predella collocate direttamente di fianco e raffiguranti scene della vita di Cosma e Damiano. A sinistra vi erano i Santi Cosma e Damiano e i fratelli sul rogo (Dublino, National Gallery of Ireland), mentre a destra La crocifissione, la lapidazione e la trafittura con frecce dei Santi Cosma e Damiano e dei fratelli (Monaco,
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Alte Pinakothek). In entrambe le scene del martirio, Fra Angelico raffigura i protagonisti sofferenti sempre in posa eretta al centro, prima vestiti poi nudi, conformandoli così alla figura tenuta eretta del Cristo nudo in mezzo a loro nel Compianto. Le tre tavole al centro della predella costituiscono un gruppo unitario, con cui l’Angelico volle illustrare il martirio di quei santi nel ricordo del Sacrificio di Cristo. Soltanto attraverso l’ampliamento scenico dell’imago pietatis si riesce a costruire un paragone formale con il martirio dei santi che la accompagnano, e solo così diventa visibile il parallelo contenutistico con la Passione. Come il Cristo al centro può essere adorato dagli spettatori, così, di lato, sono mostrati per la venerazione anche Cosma e Damiano. Un nesso sia formale sia contenutistico della tavola centrale con le scene laterali si nota anche nella predella di Bartolomeo di Giovanni in San Marco. Nel San Francesco riceve le stimmate, nel Compianto di Cristo e nel San Gerolamo penitente si innalza, al centro di ogni scena, una montagna. San Francesco e San Gerolamo sono collocati entrambi davanti alla montagna, girati rispettivamente a destra e a sinistra, verso la tavola centrale della predella; entrambi guardano il crocifisso per partecipare alla Sua Passione. In correlazione, nello sfondo della tavola centrale, in lontananza, è raffigurato, sia a destra che a sinistra, Cristo che porta la croce, mentre in primo piano viene mostrato deposto, ma con le braccia allargate come in croce: come San Francesco e San Gerolamo hanno meditato il Sacrificio di Cristo, così dovrà fare lo spettatore. Michael Rohlmann Bibliografia: BERENSON 1903, p. 17 n. 1; ID. 1909, p. 98; VAN MARLE 1923-1938, XIII (1931), p. 256; BERENSON 1932, p. 6; PROCACCI 1936, pp. 44, 53; PAATZ 1940-1954, III (1952), pp. 48, 82 n. 295; FAHY 1976, pp. 135-136; HORNE 1987, p. 116; N. Pons in, FIRENZE 2004, pp. 82-85
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Rogier van der Weyden (Tournai ca 1400 - Bruxelles 1464)
Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista, Pietro, Cosma e Damiano olio su legno di quercia; cm 61,7 × 46,1 (compresa la cornice originale) provenienza: Firenze, casa Guicciardini (?); l’editore/antiquario Giovanni Rosini, Pisa; nel 1833 da lui acquistato dal pittore/scrittore E.J. Förster; nello stesso anno da quest’ultimo ceduto al museo di Francoforte Francoforte, Städel Museum, inv. n. 850
La cosiddetta Madonna Medici mostra la madre di Gesù che allatta il suo Bambino, insieme ai santi Pietro, Giovanni Battista, Cosma e Damiano. Maria e i Santi sono enfatizzati da un piedistallo lapideo a tre gradini e da un baldacchino cerimoniale a tenda. La cupola del baldacchino e le tende laterali sono di tessuto bianco ombreggiato di blu, mentre l’interno è rivestito di un prezioso drappo di broccato d’oro e porpora. Le tende sono discoste da ambo i lati della Madonna e vengono inoltre lateralmente sollevate verso l’alto da due figure di angeli di proporzioni più piccole. Le figure alate in camice e amitto sono eseguite in chiaroscuro nella stessa colorazione delle tende che essi tengono sollevate. Davanti al piedistallo, ai piedi della Madonna, su un prato fiorito con numerose piante e fiori di cui sarebbe possibile citare con precisione il nome botanico, è posta una brocca d’ottone con uno stelo di giglio con tre fiori bianchi e un iris blu. Sul davanti, la superficie erbosa è delimitata da un tratto di muro modanato superiormente, su cui, nella fascia anteriore parallela al dipinto, sono applicati tre stemmi. Entrambi gli stemmi laterali sono vuoti, mentre quello di mezzo mostra un giglio araldico rosso su fondo oro decorato di viticci d’argento. Un fondo liscio in foglia d’oro suggella lo sfondo del dipinto. Mentre la Madonna che allatta, con il Bambino in braccio, sta in piedi sul gradino superiore del piedistallo in posizione frontale, i santi che l’accompagnano, senza quasi interferire con la sua sagoma, sono disposti a lato sui gradini inferiori o sul prato. Al posto d’onore, alla destra di Maria, compare Giovanni Battista. Vestito secondo la tradizione, egli tiene nella sinistra coperta dal manto un libro aperto, mentre con la destra indica il Bambino divino in braccio a sua madre. Accanto a lui, vestito di verde e viola, c’è Pietro, il principe degli Apostoli, facilmente riconoscibile dalla tipica foggia di barba e capelli, così come dalle due chiavi, suo specifico attributo. Egli è voltato di tre quarti verso sinistra e guarda verso il centro del dipinto. A sinistra di Maria ci sono i due santi medici Cosma e Damiano. Conformemente all’iconografia contemporanea, essi sono rappresentati tramite abito e attributi come personificazione di due diverse categorie professionali mediche: così, Cosma si presenta con un vaso di vetro per le urine come medico accademico, mentre Damiano, con la spatola per gli unguenti, come esperto medico chirurgo. Data la sua posizione all’estremità destra del quadro, Damiano è opportunamente mostrato di profilo e, con l’atteggiamento, l’espressione e lo sguardo, tende verso il centro della composizione. La provenienza della Madonna Medici si può ricostruire con sicurezza fino al 1833, quando il pittore e scrittore letterario Ernst Förster acquistò il dipinto dallo scrittore, editore e commerciante di oggetti d’arte Giovanni Rosini a Pisa. Nell’inventario del museo Städel di Francoforte del 1880 si trova una nota manoscritta dell’allora ispettore del museo Städel Malss sulla Madonna Medici che, facendo evidentemente riferimento a una dichiarazione orale di Giovanni Morelli, parla di “Casa Guicciardini” a Firenze come l’originario luogo di provenienza del di-
pinto, cosa che però non è ancora stata dimostrata. È un caso particolarmente fortunato che nell’archivio del museo Städel si siano conservate le tre lettere di Ernst Förster, in cui questi propone al museo di comprare la Madonna Medici. Ancor più degno di nota è però il fatto che le osservazioni e le riflessioni di Förster sul dipinto, qui riportate, comprendessero già quasi tutti gli aspetti decisivi che avrebbero caratterizzato la critica della Madonna Medici sino ad oggi; l’erronea attribuzione del dipinto a “Hämling” (Hans Memling), che Förster difendeva ancora nel 1833, fu concordemente corretta poco più tardi in favore di Rogier van der Weyden. Solo di recente, invece, Paula NUTTALL (2004) si è pronunciata in favore di una partecipazione di tutta la bottega all’esecuzione dell’opera. Già Förster aveva posto il quadro in rapporto diretto con i Medici, cosa che successivamente non fu più messa in dubbio. Con Cosma e Damiano santi protettori della famiglia di banchieri fiorentini, con i Santi Pietro e Giovanni Battista che forse fanno riferimento a Piero e Giovanni de’ Medici, e con la significativa insegna del giglio come stemma della città di Firenze, la serie di indizi è in effetti così fitta che si può parlare molto probabilmente di un quadro destinato ai Medici. L’identificazione talvolta proposta dei due santi medici con le effigi di Piero e Giovanni de’ Medici, rafforzata ultimamente da Nuttall (2004) con riferimento ai busti dei due Medici nel museo del Bargello a Firenze, rimane tuttavia assai problematica. In favore del fatto che il quadro fosse destinato ad un osservatore che avesse una certa familiarità con le novità artistiche italiane, parla anche la tendenza della composizione, messa sempre in risalto dalla critica, ad avvicinarsi alle rappresentazioni italiane della Sacra Conversazione, senza però che si potesse attestare l’esistenza di un progetto preciso. La critica precedente, in seguito alle riflessioni di Förster, aveva ancora voluto pensare ad una committenza dei Medici stessi, che Rogier van der Weyden avrebbe dovuto soddisfare sul posto, a Firenze, in occasione del suo viaggio in Italia nell’anno del Giubileo 1450, testimoniato da Bartolomeo Fazio. Furono poi invece addotti come argomenti contrari non solo l’esistenza di una copia neerlandese della Madonna Medici, ma soprattutto l’utilizzo di legno di quercia di provenienza baltica per il supporto. Se i pittori italiani del Quattrocento adoperavano in mancanza di alternative quasi esclusivamente legno di pioppo locale, i pittori neerlandesi usavano senza eccezione legno di quercia importato dal Baltico. In effetti anche il supporto della Madonna Medici è composto di due assi di quercia del Baltico disposte verticalmente, i cui anelli più giovani, per Peter Klein di Amburgo, dovevano risalire, secondo il metodo dendrocronologico, rispettivamente agli anni 1421 e 1428. Ne risulta, come probabile data di abbattimento dell’albero di cui fu adoperato il legno, il 1443 e un suo presumibile utilizzo da parte del pittore negli anni cinquanta del Quattrocento e perciò solo dopo il ritorno di Rogier a Bruxelles dall’Italia. Il lato posteriore del supporto è tra l’altro conservato nel suo stato originale; è provvisto di una vernice protettiva
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nera e, nella zona di giuntura delle assi, è incollato tramite una striscia di stoffa di juta sulla quale è stato steso uno strato di imprimitura. Il dipinto si trova ancora nella sua cornice originaria che, in quanto cornice integrata, racchiude la tavola da ogni lato. Una sottile sezione di cornice dipinta di nero lungo tutto il quadro cinge il ricco profilo in foglia d’oro da entrambi i lati e all’estremità superiore a forma di arco ribassato, così come l’aggetto, sempre in foglia d’oro, nella parte inferiore della cornice. Oltre all’analisi biologica del legno e alla dendrocronologia, altre analisi di tecnologia della pittura poterono fornire importanti indicazioni sulla questione della committenza e della genesi dell’opera. Contrariamente allo scudo di mezzo con il giglio, gli scudi laterali non sono mai stati dipinti; il colore bianco che si può vedere oggi non è il risultato di una pittura sovrapposta a stemmi originariamente visibili, bensì – come dimostra inequivocabilmente la radiografia – nient’altro che l’imprimitura biancastra della tavola stessa. Entrambi gli scudi laterali non sono dunque mai stati né disegnati né dipinti. Alla luce del significato che avevano a quel tempo i segni araldici, che servivano a identificare in modo evidente chi indossava lo stemma, sembra poco probabile che la realizzazione dei due scudi non fosse prevista sin dall’inizio, e che quindi essi dovessero avere una funzione puramente decorativa. Invece che partire da questo presupposto, bisognerebbe far conto che essi dovessero essere inseriti successivamente nel luogo di destinazione definitivo. Così, proprio gli scudi vuoti costituiscono un essenziale argomento contro la tesi di una commissione d’esportazione conferita dai Medici stessi. Poiché le integrazioni araldiche non furono mai effettuate, riguardo a questo problema non c’è in realtà alcun appiglio per la ricostruzione delle circostanze della commissione dell’opera. Queste riflessioni forniscono nel contempo una prova fondamentale contro la proposta di Maria, contessa Lanckoronska (1969), che volle vedere nella tavola un regalo del rappresentante di Bruges del Banco dei Medici, Angelo Tani, ai suoi titolari fiorentini. Non a caso la Lanckoronska considerava come pittura originaria dei due stemmi laterali le “Palle” dei Medici araldicamente a destra, il leone di Tani a sinistra. Il disegno preparatorio sottostante, visibile grazie alla riflettografia a raggi infrarossi, è di grande spontaneità e fissa soltanto gli elementi essenziali della composizione; esso non riporta sulla tavola preparata con l’imprimitura uno schizzo preparatorio elaborato nei particolari, ma piuttosto sviluppa la composizione solo in corso d’opera, al momento della realizzazione del disegno. Allo stesso modo si risolve poi anche l’elaborazione del colore, correggendo e affinando ora qui, ora lì, le indicazioni solamente sommarie del disegno preparatorio, come mostrano dettagli del viso, o dei piedi del Battista, spostati rispetto alla loro posizione originaria. Il valore artistico della Madonna Medici come opera tarda di Rogier van der Weyden, eseguita dopo il 1450, è stato riconosciuto dalla critica solo in tempi recenti. Anne MARKHAM SCHULZ (1971; analogamente da ultimo anche Paula NUTTALL 2004) sottolineò la costruzione dello spazio sapientemente simmetrica e contemporaneamente ripartita in fasce parallele, che servirebbe all’astrazione del contenuto del quadro da qualsivoglia contesto narrativo, come segno di un graduale venir meno della forza creativa dell’invenzione a vantaggio della routine e dell’autoreferenzialità. Tuttavia la Madonna Medici mostra non solo un affievolirsi dello scambio emozionale fra le figure, ma nel contempo anche una più intensa solennità nello schema iconografico della Sacra Conversazione. Il quadro non vuole essere narrativo, ma rappresentativo della salvazione. E non solo l’intrinseca simmetria e stratigrafia della superficie e dello spazio del dipinto serve a questo scopo, ma ad esso è subordinato per esempio anche un dettaglio come il gesto che fa Giovanni Battista per indicare Gesù. Non è che il suo gesto serva a creare il legame contingente fra i Santi e la Madon-
na che allatta, ma è assegnato al Battista proprio come attributo, e ha carattere esclusivamente allusivo: “Ecce Agnus Dei”. Il dipinto, grazie all’accurata pulitura e al restauro per mano del caporestauratore del Museo Städel, Stephan Knobloch, è decisamente mutato d’aspetto. Poiché questi lavori sono stati ultimati solo a ridosso dell’apertura della mostra di Firenze, nel catalogo ci potrà essere soltanto una riproduzione del quadro nelle sue precedenti condizioni. Con quest’ultimo restauro è stata tolta non solo una patina recente fortemente ingiallita, ma anche una recente vernice trasparente marroncina. Poiché questa vernice non solo ricopriva l’originale sfondo in foglia d’oro, ma si trovava pure nei punti lasciati vuoti dalla pittura originaria, o sopra stuccature e ritocchi più vecchi, la si può spiegare chiaramente come aggiunta recente, presumibilmente del XIX secolo. Dopo il restauro, la Madonna Medici si presenta molto più vivace, le sue figure si sono liberate dalla loro bidimensionalità e conquistano con consapevole plasticità lo spazio compositivo loro assegnato. I volti prima piuttosto inanimati – in modo particolare nella Madonna – hanno inaspettatamente acquisito un’espressività e una caratterizzazione individuale che per la loro qualità permettono il confronto immediato con le migliori opere di Rogier dei tardi anni trenta e degli anni quaranta del Quattrocento. Così la Madonna Medici appare nella sua peculiare cifra stilistica, ora nuovamente leggibile, come versione personale particolarmente espressiva delle rappresentazioni italiane di Sacra Conversazione, elaborata da Rogier van der Weyden a conclusione del suo soggiorno in Italia. Joachen Sander Bibliografia: SANDER 2002, pp. 316-335, 512s, con bibl. estesa; SUCKALE 2001, pp. 46 sg.; NUTTALL 2004, pp. 5, 85-88
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Beato Angelico (Vicchio di Mugello 1390/1395 - Roma 1455)
Ultima Cena disegno su pergamena preparata a fondo di color cremisi, eseguito a punta di metallo e colorato ad acquerello rosso, grigio e guazzo bianco, cm 7,7 × 5,9 provenienza: Amsterdam, vendita all’asta presso Mensing, 5-6 luglio 1927, lot 249; Haarlem, Franz Koenigs; acquistato dal Museo nel 1940 Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen, inv. n. I-236
L’opera fa parte di una serie di immagini di altissima qualità, che ci è pervenuta in stato frammentario. Fu introdotta nella letteratura storico-artistica nel 1927, insieme con nove altre scene della vita di Cristo: la Presentazione di Gesù nel tempio (1), la Strage degli Innocenti (2), Cristo tra i dottori (3), la Lavanda dei piedi (4), l’Orazione nell’orto (6), l’Arresto di Cristo (7), Cristo davanti a Pilato (8), la Crocefissione (9) e il Compianto su Cristo (10). Della Presentazione di Gesù nel tempio si sono in seguito perdute le tracce, ma già allora la serie d’immagini doveva essere lacunosa. È poco probabile, infatti, che la sequenza non includesse in origine diverse altre storie tra quelle più importanti della vita terrena di Gesù, ad esempio l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione dei Magi e almeno una scena conclusiva che alludesse alla Resurrezione (ad esempio il Noli me tangere, o la Cena in Emmaus oppure il Cristo che esce dal sarcofago). Sebbene di tali immagini non si abbiano notizie, si può supporre che la serie consistesse originariamente almeno di una quindicina di scene. Quando furono messi all’asta ad Amsterdam nel 1927, i disegni superstiti si trovavano riuniti in un album, con una sistemazione certamente avvenuta molto tempo dopo la loro esecuzione: in origine potrebbero essere stati realizzati su uno o più fogli di pergamena e ritagliati solo in seguito. Le scene nn. 2, 3, 4, 6, 7, 10 oggi conservate a Rotterdam insieme con il foglio qui esposto, passarono dopo l’asta alla collezione di Franz Koenigs a Haarlem; i nn. 8 e 9 pervennero invece in un primo momento alla raccolta di Albert Figdor a Vienna e quindi furono messi nuovamente all’asta, entrando poi, nel 1939, a far parte del Fogg Art Museum come dono di Philip Höfer. Varie ipotesi sono state formulate sulla destinazione originale della serie. Secondo Orlandi (1964) i fogli sarebbero stati eseguiti “evidentemente per qualche miniatura”, mentre Degenhart e Schmitt (1968) pur non escludendo che le immagini siano da collegare al lavoro miniatorio svolto nella bottega del Beato Angelico, suggerirono che pos-
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sa trattarsi di frammenti di un taccuino di modelli. Bober (MONGANOBERHUBER-BOBER 1988) riteneva che le pergamene facessero parte del materiale illustrativo di un codice, oppure che decorassero un altarolo. Chi scrive (2002) propose che le scene, vista la loro esecuzione estremamente accurata, fossero modelli da presentare ad un committente di alto rango, forse per l’Armadio degli argenti commissionato da Piero de’ Medici per la chiesa della Santissima Annunziata. Nel suo recente intervento la PALLADINO (2005) osserva che non essendoci scritte sul retro dei fogli, sembra da escludere che si tratti di miniature ritagliate da un libro manoscritto, a meno che non facessero parte delle illustrazioni marginali di una Bibbia; ritiene però più probabile che appartenessero alla decorazione di un reliquiario. I pareri divergono anche riguardo alla paternità dei disegni. Nel catalogo di vendita del 1927 figuravano come opere di due anonimi seguaci del Beato Angelico. Bernard BERENSON (1938 e 1961) li considerava copie tratte da lavori dell’Angelico stesso, mentre Agnes Mongan e Paul Sachs (1940), attribuivano i fogli conservati nel Fogg dubitativamente a Zanobi Strozzi. Parere simile espressero Bernhard Degenhart e Annegritt Schmitt (1968), ipotizzandone comunque l’esecuzione nella bottega e sotto il controllo del Frate. Jonathan Bober (1988) li giudica di qualità inferiore rispetto ai lavori autografi del maestro, domandandosi se non si tratti di “riproduzioni o prefigurazioni degli sportelli dell’Armadio della Santissima Annunziata”. Chi scrive in un primo intervento (1995) considerava i fogli di Rotterdam come “disegni certamente realizzati nell’ambito della bottega dell’Angelico”, giungendo poi (2002) alla conclusione che la serie è di tale livello nell’esecuzione e di tale freschezza nelle invenzioni da apparire pienamente degna del Beato Angelico. Da parte sua invece Pia Palladino (2005) avverte nelle varie scene “innacuracies in the articulation of the space and the architectural structures” e sostiene che “the inconsistencies evident throughout the series as well as the mixing of compositional elements developed at different moments in Angelico’s career” siano aspetti tipici dello stile di Zanobi Strozzi. Per verificare l’esattezza o meno del riferimento più volte ipotizzato a Zanobi Strozzi, bisognerà esaminare dunque molto attentamente i lavori dell’artista paragonabili con i monocromi divisi tra i musei di Cambridge e di Rotterdam. I frammenti di una predella generalmente riconosciuta a Zanobi, appartenenti alla Pinacoteca Vaticana, sono già stati chiamati in causa in proposito dalla Palladino, in particolare la scena con Cristo tra i dottori; e un altro confronto si può proporre
con la Strage degli Innocenti del Graduale A (n. 515), oggi nel Museo di San Marco. Ora, questi accostamenti di scene analoghe mi sembra mostrino abbastanza chiaramente la difficoltà di sostenere l’identità di mano. Sia la tavola della Pinacoteca Vaticana che la miniatura fiorentina evidenziano il sensibile divario degli interessi e delle capacità di Zanobi rispetto all’autore dei disegni qui discussi. Le figure di Zanobi tendono ad occupare, un po’ confusamente, tutto lo spazio disponibile e le indicazioni sceniche si limitano al minimo strettamente necessario, mentre nei due fogli monocromi di Rotterdam i personaggi si dispongono con assoluta naturalezza ma in modo ben calibrato sul palcoscenico ampio e profondo, al cui convincente effetto illusionistico contribuiscono sia i mezzi della prospettiva lineare che l’uso sapiente della luce. Inoltre, i personaggi delle miniature monocrome sono più snelli, sono caratterizzati da lineamenti più marcati, sono modellati con ombre meno fumose e si esprimono con gesti solenni e misurati, infinitamente più eleganti che le figure dipinte da Zanobi. Gli unici confronti con la serie di scene Cambridge-Rotterdam che mi sembrano pienamente convincenti, sono offerti dalle miniature della tarda attività dell’Angelico, e dalle Storie di Cristo nell’Armadio degli argenti nella basilica della Santissima Annunziata. Alle miniature dei Codici 530 e 531 del Museo di San Marco, in genere riconosciute alla fase tarda del maestro domenicano, si possono ora aggiungere quelle del codice n. 533, pubblicato solo recentemente da Sara Giacomini che ne attribuisce la paternità a Zanobi Strozzi e ad un anonimo aiuto (in FIRENZE 2007a, pp. 174-175, n. II/13, ripr.), ma che a giudicare dai loro caratteri stilistici appaiono del tutto omogenee con quelle dei codici sopra citati, e credo vadano restituite al pennello dell’Angelico. Quanto al racconto pittorico delle Storie di Cristo nell’Armadio degli argenti (oggi nel Museo di San Marco), questa spettacolare serie, le cui storie spesso si rivelano molto vicine ai disegni che c’interessano, propone una composizione del tutto diversa proprio nel caso dell’Ultima Cena. Qui gli apostoli sono seduti a tavola in un refettorio claustrale, mentre l’Ultima Cena di Rotterdam, che in origine doveva essere di dimensioni maggiori e includere tutti e dodici gli apostoli, si svolge in un ambiente borghese, in una stanza non voltata ma dal soffitto ligneo, davanti al camino. Non ricordo di aver visto nulla di simile nella contemporanea produzione pittorica toscana, e non ho dubbi che il disegno, invece che una copia di un’opera perduta dell’Angelico, sia un lavoro autografo del maestro che qui si ispira ad un modello fiammingo, simile al prototipo del celebre Altare del Sacramento di Dirk Bouts nella chiesa di San Pietro a Lovanio (PÉRIER-D’IETEREN 2006, pp. 34-44, 273, n. 15, ripr.), come suggerisce il motivo assai insolito della cappa del camino che inquadra la figura di Gesù. Certo il capolavoro del maestro fiammingo, commissionato solo nel 1464, non poteva esser noto all’Angelico, che poteva però conoscere una versione precedente della composizione con ogni probabilità della mano dello stesso Bouts. Il pittore domenicano è infatti uno dei primi in Toscana ad accorgersi delle potenzialità espressive della pittura fiamminga (anche se questo suo interesse è in genere trascurato dalla critica; ma cfr. BERTI 1967, p. 23; BOSKOVITS 1983, pp. 13-15; A. De Marchi, in FIRENZE 1990, pp. 94-97). Se dunque il piccolo disegno di Rotterdam va riconosciuto alla sua mano, non solo certi brani di acuto naturalismo, ma anche la stessa ambientazione della composizione rivelano il fascino esercitato sul maestro dai modelli provenienti dagli antichi Paesi Bassi. Miklós Boskovits
Dirk Bouts, Ultima cena (part. del trittico). Lovanio, Chiesa di San Pietro
Bibliografia: VENDITA AMSTERDAM 1927, n. 249; BERENSON 1938, II, p. 18 n. 175; ed. it. 1961, II, p. 36; MONGAN-SACHS 1940, p. 6 n. 2; ORLANDI 1964, p. 161; DEGENHART-SCHMITT 1968, pp. 451-452, nn. 374-383; MONGAN-OBERHUBER-BOBER 1988, p. 86 n. 4a-b; M. Boskovits, in MONTEFALCO 2002, pp. 156-159; P. Palladino, in KANTER-PALLADINO 2005, pp. 251-257.
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10. Attavante degli Attavanti (Castelfiorentino 1452 - Firenze? 1520/1525)
Crocifissione e storie della vita di Cristo miniature; foglio membr.; mm 380 × 250 provenienza: Messale di Thomas James, vescovo di Dol (1482-1504) in Bretagna Le Havre, Musée Malraux
Questa pagina proviene da uno dei più bei codici liturgici di destinazione privata prodotti a Firenze nell’ultimo quarto del Quattrocento. Si tratta del sontuoso Messale commissionato dal francese Thomas James, subito dopo la sua nomina a vescovo della città di Dol in Bretagna. Il prelato si era stabilito a Roma e qui faceva parte dell’entourage di papa Sisto IV, dal quale fu insignito nel 1478 della cattedra vescovile di Lione. Nel frattempo ottenne anche la carica di governatore di Castel Sant’Angelo, e si trovava ancora nella città pontificia allorché nel 1482 gli venne affidato il vescovado di Dol (BERTAUX-BIROT 1906). Non sono note le circostanze della commissione del codice, che fu comunque realizzato poco dopo il rientro in patria di Thomas James, e fu miniato a Firenze da Attavante. È quanto infatti documenta una lettera inviata dall’artista nel febbraio del 1483 al fiorentino Taddeo Gaddi, agente a Roma del prelato francese; da una seconda missiva recapitata nella stessa Firenze al fratello di Taddeo, Niccolò, apprendiamo che nel 1484 era giunto nella città toscana il nipote del vescovo, per prelevare il codice ormai concluso. Nelle due lettere Attavante si firmò “Vante miniatore del vescovo di Dolo” (BOTTARI 1759, III, pp. 223-224). Il Messale si trova dal 1906 nella Bibliothèque Municipale di Lione (Ms. 5123) e la Crocifissione, dal 1902 conservata nel museo di Le Havre, decorava in origine il foglio 202v. Fu forse asportata dal codice intorno al 1850, quando questo lasciò Dol per passare in proprietà dell’arcivescovo di Lione; altri hanno invece supposto che la pagina in questione fosse stata tolta dal volume già in precedenza, prima che esso venisse nuovamente rilegato nel XVIII secolo (JOLY 1931). Il Messale è ricchissimo di miniature: sono ben 163 le iniziali istoriate (LEROQUAIS 1924), in molti casi eseguite da Attavante con la collaborazione di aiuti, secondo una prassi operativa che sappiamo ben consolidata nell’attivissima bottega da lui guidata a Firenze per più di quarant’anni, tra Quattro e Cinquecento. La produzione illustrativa di Attavante fu estesa e segnata da un grande successo, al servizio delle istituzione religiose fiorentine ma anche dei più importanti collezionisti privati del tempo (GALIZZI 2004e, pp. 975-979). Egli fu ingaggiato in maniera sistematica nell’allestimento della biblioteca di Lorenzo il Magnifico a partire dal 1485 circa (DILLON BUSSI 1992, pp. 155-156), ma ben presto la sua attività acquistò una dimensione internazionale. Attavante fu uno dei miniatori prediletti dal re ungherese Mattia Corvino, a cui era destinato il Messale decorato nel 1485-1487 (Bruxelles, Bibliothèque Royale, Ms. 9008) proprio sul modello di quello precedente del vescovo di Dol; spetta inoltre in massima parte a questo artista il corredo illustrativo della monumentale Bibbia in sette volumi per il re Emanuele del Portogallo, nel 1494-1497 (Lisbona, Arquivos Nacionais, Torre do Tombo, Ms. 161) (J.J.G. Alexander in, LONDRANEW YORK 1994, pp. 49-51); mentre sono meno noti – ma non per questo di rilievo secondario – i codici da lui miniati e confluiti nelle collezioni dei re inglesi Enrico VII ed Enrico VIII, agli inizi del Cinquecento (M. Evans in, MALIBU-NEW YORK-LONDRA 1983, pp. 132135). Il Messale di Thomas James rappresenta la prima impresa di
Attavante per un grande committente straniero, ed è anche la sua più antica opera, che oggi si conosca, da lui firmata e datata. Nel foglio 6v, corrispondente alla pagina d’incipit del Messale, si legge: “Actavante de Actavantibus de Florentia hoc opus illuminavit [A] D MCCCCLXXXIII” (J.J.G. Alexander in, LONDRA-NEW YORK 1994, fig. 3a). Al centro di questa pagina, dove pure sembra di poter riconoscere l’intervento di un collaboratore nelle figure degli angeli e del gruppo di astanti, campeggia un altare spettacolare, sormontato da un elaboratissimo tabernacolo bronzeo. Il lato frontale della mensa marmorea riproduce fedelmente un sarcofago romano del II secolo A.C. (il sarcofago Della Valle-Medici: BOBER-RUBINSTEIN 1986), mentre nella fascia con girali di acanto che incornicia il foglio sono copiati quattro cammei antichi allora nella raccolta di Lorenzo de’ Medici. Se le colte citazioni archeologiche riflettono plausibilmente gli interessi antiquari del committente, questi dovette certamente apprezzare, e non solo in ossequio alle sue origini nordiche, il respiro naturalistico alla fiamminga che Attavante conferì alla scena con la Crocifissione: i due aspetti si intrecciarono infatti strettamente nell’arte e nel collezionismo rinascimentali (PANOFSKY 1960, ed. 1984, pp. 202-207). Lungo i due margini laterali del foglio di Le Havre, si svolgono fregi dorati di foglie d’acanto con medaglioni che narrano storie della vita di Cristo, altri due riquadri sono raffigurati in basso ai lati dello stemma del committente, sormontato dalla mitra vescovile e sorretto da quattro angeli. Dall’alto a sinistra, le piccole scene miniate in punta di pennello, con precisione e straordinaria attenzione ai minimi dettagli, rappresentano l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, Cristo tra i dottori nel Tempio, il Battesimo di Cristo, l’Ultima Cena, l’Orazione nell’orto, la Cattura di Cristo, Cristo davanti a Pilato, la Flagellazione, l’Andata al Calvario. La pagina è una delle più belle creazioni di Attavante. Nel grandioso panorama dipinto sullo sfondo della Crocifissione, il gusto per la monumentalità delle raffigurazioni, in voga tra i miniatori fiorentini del tempo, si unisce ad effetti di preziosità materica, raggiungendo risultati raramente uguagliati in altre opere dell’artista. Gli abiti dei protagonisti in primo piano presentano brillantezze seriche: così il manto rosso di broccato dell’elegantissima Maddalena abbracciata alla croce, o la semplice tonaca bianca indossata dal devoto committente, umilmente inginocchiato in preghiera. La scena è pervasa da una luminosità solare e diffusa, che si stempera nella leggera foschia della zona intermedia con il corteo dei cavalieri, fino alle lontananze grigio-azzurre della veduta urbana e delle colline sullo sfondo. Le chiome degli alberi spruzzate di luce, il fiume serpeggiante, la quinta rocciosa e frondosa sulla sinistra echeggiano modelli fiamminghi, copiati direttamente dagli originali o anche attraverso lo studio di quei dipinti fiorentini che avevano precocemente evocato prototipi nordici. Come riconobbero per primi Bertaux e Birot (1906), il riquadro con il Battesimo di Cristo miniato nel margine inferiore della pagina ripropone, con pochissime varianti, la composizione e le formule paesaggistiche del celebre dipinto eseguito da Andrea del Verrocchio e dal giovane Leonardo nel
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1470-1475 per la chiesa fiorentina di San Salvi (Firenze, Galleria degli Uffizi). Si potrebbe aggiungere che ad altri particolari di quest’opera Attavante si ispirò, quando dipinse i fluenti capelli biondi della Maddalena vibranti di luce (a imitazione di quelli dell’angelo leonardesco) e il cielo azzurro terso che diventa quasi bianco all’orizzonte, o quando delineò i contorni di Cristo crocifisso e dei due ladroni con un disegno insolitamente incisivo. Esaudendo probabilmente una richiesta del committente, Attavante assegnò a Gerusalemme, sullo sfondo della Crocifissione, il profilo urbano di Roma, a lui noto forse indirettamente tramite disegni, anche se non si può escludere che l’artista avesse a quest’epoca visitato la città, così come farà alcuni anni dopo, tra il 1518 e il 1520, durante il pontificato di papa Leone X de’ Medici (TOSINI 2003-2004, pp. 135-144). La risposta di Attavante alle novità naturalistiche e atmosferiche dei paesaggi fiamminghi non fu certamente così appassionata, come quella che possiamo ammirare nelle miniature di Gherardo e di Monte di Giovanni del Fora (cat. nn. 6, 42, 47, 48); eppure egli seppe accordare mirabilmente le influenze nordiche con il linguaggio solenne e classicheggiante che contraddistinse tutta la sua attività, sin dagli anni settanta del Quattrocento. Nella prima impresa di grande prestigio che gli può essere attribuita, in équipe con altri artisti (tra cui il Maestro del Senofonte Hamilton, forse suo collaboratore nel foglio 6v del nostro Messale), cioè la decorazione nel 1476-1478 della Bibbia di Federico di Montefeltro e di altri codici della stessa biblioteca di Urbino (LABRIOLA 2008, pp. 62, 63-64, 233-234), il suo stile ci appare solido e descrittivo. È probabile che sulle scelte stilistiche effettuate dal miniatore abbiano svolto un ruolo determinante i rapporti con Domenico Ghirlandaio (TODINI 1994, pp. 5-10), del quale gli studi riconoscono con sempre maggiore convinzione la partecipazione, insieme al fratello David, al progetto illustrativo della Bibbia urbinate (E. Fahy in, MILANO 2003, pp. 96-97). Potette essere proprio la frequentazione della bottega dei Ghirlandaio – dove l’esercizio di copia e di rielaborazione di modelli nordici fu in auge (si veda in proposito NUTTALL 2004, pp. 141-143) – a sollecitare in Attavante l’apertura verso questi interessi. Ada Labriola Bibliografia: BERTAUX-BIROT 1906, pp. 129-146; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 797-798 n. 1578; LEROQUAIS 1924, III, pp. 223-225; COLNAGHI 1928, p. 23; JOLY 1931; AUBERT 1933, pp. 113-114; CIPRIANI 1962, pp. 527, 529; LEVI D’ANCONA 1962, p. 255; GARZELLI 1985, pp. 222-227; BOBER-RUBINSTEIN 1986, p. 132; KASTEN 1992, pp. 547, 548; J.J.G. Alexander in, LONDRA-NEW YORK 1994, p. 56; MARIANI CANOVA 1994, p. 29; FERRETTI 1996, p. 697; GALIZZI 2004e, p. 977
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11. Rogier van der Weyden (Tournai 1400 circa - Bruxelles 1464) copia (1500 ca)
Filippo il Buono, duca di Borgogna (1396-1467) tavola; cm 32, 5 × 22, 4 iscrizioni: sulla cornice, in grafia otto/novecentesca, a sinistra e a destra Rogier van der Weyden/D?? 1400- D. 1466/; nel centro Philippe 3 dit le Bon Duc de Bourgogne/Né le 20 Juin 1396 Mort le 15 Juin 1467 provenienza: Londra, George Salting; Agnew & Sons; nel 1907 acquistato dal museo Bruges, Stedelijke Musea, Groeningemuseum, inv. n. 0.203
In genere questo ritratto è considerato una copia antica, e anche la migliore in qualità tra quelle esistenti di un originale perduto di Rogier van der Weyden; ve ne sono altre, per esempio, al Musée du Louvre e, senza le mani, al Musée des Beaux-Arts di Lille (BRUGES 1907 (1908), nn. 1-11; VAN LUTTERVELT 1951; JANSSENS DE BISTHOVEN 1951, p. 65; JANSSENS DE BISTHOVEN 1959, pp. 112-113; H. Pauwels in, BRUGGE 1962, pp. 86-89, nn. 2-4, rip.; FRIEDLÄNDER 1967-1976, II, p. 88, n. 125f e 125d, tav. 127; DE VOS 1999, pp. 372-373, per i ritratti del duca dipinti da Rogier). Il fondo e gli abiti presentano ridipinture (JANSSENS DE BISTHOVEN 1959). L’identificazione del personaggio è basata tra l’altro sulla somiglianza con l’immagine di Filippo il Buono nella miniatura dedicatoria del 1447 circa delle Chroniques de Hainaut eseguita da Rogier nel 1448 (Bruxelles, Bibliotèque Royale; DE VOS 1999, pp. 130132, 249-251, n. 16, fig. 183). Il nome del duca è iscritto anche sulle copie da un altro ritratto di Filippo del quale l’originale di Rogier non è conosciuto. In esse è riconoscibile lo stesso personaggio, senza il cappello a larga tesa e anche senza le mani, ma con la parrucca che il sovrano portava dopo l’editto del 1460, che prescriveva agli aristocratici la testa rasata (BRUGES 1907 (1908), pp. 4-6, nn. 1-2; FRIEDLÄNDER 1967-1976, II, n. 125a-c, tav. 127). Per il De Vos le copie senza cappello riflettono l’originale del Van der Weyden, dal quale verso la fine del Quattrocento sarebbero state derivate le versioni con cappello. L’unico segno di potere visibile nel nostro dipinto è la catena del Toson d’Oro, prestigioso ordine cavalleresco di levatura europea, di cui Filippo il Buono fu il primo Grand Maître. Egli stesso lo fondò nel 1430 per celebrare il proprio matrimonio con Isabella di Portogallo avvenuto pochi mesi prima (sull’ordine: BRUGES 1962; BRUXELLES 1987). Filippo, che era diventato duca di Borgogna nel 1419, aveva palazzi sul Coudenbergh a Bruxelles e nel Prinsenhof di Bruges. Alla sua morte egli era sovrano della Borgogna, della Franche-Comté, dell’Artois, e delle province dei Paesi Bassi meridionali e settentrionali. Fu anche un fastoso mecenate d’artisti (DUITS 2001, passim). Verso la fine del Quattrocento una non identificata “testa del Duca de Borgogna” ovvero di Filippo “de man de Ruzieri da Burges” si trovava nella biblioteca del duca Giovanni Sforza a Pesaro, e fu portata ad Urbino da un certo Aloisio de Mateo (VERNARECCI 1885, pp. 501-523; MULAZZANI 1971, p. 253, nota 17; DAVIES 1972, p. 207). Il ritratto era accompagnato da due altre opere attribuite al Van der Weyden, il cosiddetto Trittichetto Sforza (Bruxelles, Musée des Beaux-Arts; B.W. Meijer in, BRUXELLES 2003, pp. 232-233, n. 167, ripr.) e un disperso ritratto di Alessandro Sforza, già duca di Pesaro, che era lo zio del proprietario. La presenza a Pesaro non soltanto del trittichetto di Bruxelles, in cui figurano tra l’altro i ritratti di Alessandro Sforza e dei
suoi figli, ma anche del ritratto di Filippo il Buono e dell’altro ritratto, fu probabilmente conseguenza della visita di Alessandro durata otto mesi “in Borgogna, Fiandra e Bruges e tutto quel paexe” fino al marzo 1458 (cfr. MEIJER 1995, pp. 148-152). L’inventario pesarese del 1500 descrive i due ritratti come “in duy occhij” ovvero non più di profilo, come per esempio era il Leonello d’Este del Pisanello dell’Accademia Carrara di Bergamo, ma di tre quarti, “a due occhi”, per l’appunto, talora con l’aggiunta di mani, balaustri, sfondi di paesaggio e cornici illusionistiche, secondo la formula inventata dagli artisti del Nord (cfr. P. Nuttall in, BRUGES 2002, p. 201, fig. 222). Una precoce eco fiorentina del ritratto a mezzo busto visto di tre quarti ‘alla fiamminga’ sono il ritratto d’un giovane, attribuito in passato a Domenico Veneziano, a Monaco di Baviera (Alte Pinakothek; STERLING 1988, p. 24, fig. 4) e i due ritratti del Castagno qui in mostra (cat. n. 12). È probabile che anche Leonardo da Vinci vedesse ancora nei suoi anni fiorentini ritratti simili di mano del Van der Weyden o di un altro fiammingo, poi rielaborati in opere come il Ritratto d’un musico della Pinacoteca Ambrosiana, eseguito poco dopo il suo arrivo a Milano nel 1483 (P.A. Marani in, Pinacoteca Ambrosiana 2005, I, pp. 148-154, ripr.) come appare dall’affine impostazione della figura, rappresentata a mezzo busto e rivolta a destra di tre quarti, con la mano visibile nell’angolo che tiene una lettera o un cartiglio. Bert W. Meijer Bibliografia: BRUGES 1907 (1908), n. 8, ripr.; WINKLER 1913. pp. 178-179; FRIEDLÄNDER 1924-1937, II (1924), pp. 137-138; LUTTERVELT 1951, p. 000; JANSSENS DE BISTHOVENPARMENTIER 1951, pp. 63-64, n. 13, ripr.; JANSSENS DE BISTHOVEN 1957, pp. 110-113, n. 13, ripr.; DETROIT 1960, pp. 92-93, n. 13, ripr.; H. Pauwels in, BRUGES 1962, p. 85, n. 1, ripr. con bibl.; DE VOS 1979, pp. 114-116, ripr; FRIEDLÄNDER 1967-1976, II, p. 88, n. 125g, tav 127; MARTENS 1992, p. 3, fig. 1; COMBLEN-SONKES 1986, al n. 147; DE VOS 1999, pp. 373-374, al n. B13, fig. B13b; T.H. Holger-Borchert in, BRUGES 2002, p. 247 n. 62, fig. 199
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12. Andrea del Castagno (Castagno d’Andrea, ca 1417/19 - Firenze 1457)
Doppio ritratto di personaggi della famiglia Medici due tavole congiunte; cadauna cm 52 × 29 provenienza: secondo una tradizione i due dipinti, già appartenenti alla raccolta di Anton Raphael Mengs (1728-1779), proverrebbero dalla collezione di Burgdorf (Berna). Nel 1866 (Vortrag, pp. 67-68) erano nella collezione di Emil Rothpelz di Aarau, dalla quale furono acquistati nel 1893 dalla Gottfried Keller-Stiftung. Almeno dal 1911 risultano esposti presso la sede attuale Zurigo, Kunsthaus (deposito del Gottfried Keller-Stiftung), inv. n. 586
Esempio di grande importanza della ritrattistica fiorentina del primo Quattrocento, questo Doppio Ritratto che abbandonando la tradizione della veduta rigidamente di profilo, propria dei più antichi ritratti fiorentini, si adegua alla tipologia dei ritratti fiamminghi del tempo, fu scoperto da un fine conoscitore dell’arte italiana, Adolf Bayersdorfer, il quale lo riteneva opera di Alessio Baldovinetti e ne suggerì l’acquisto alla Gottfried Keller-Stiftung (PUDELKO 1936). Tale proposta attributiva è stata mantenuta dal Kunsthaus fino a tempi abbastanza recenti, ma i due dipinti, sottovalutati a causa della loro non buona leggibilità, tardarono ad entrare nella letteratura storico artistica, forse anche per la collocazione un po’ fuori mano. I primi studi li menzionano, infatti, come copie di opere originali di Masaccio (BERENSON 1932), o come falsificazioni, o comunque copie moderne (SALMI 1932). Alcuni anni più tardi, tuttavia, Georg Pudelko riconobbe il “valore inestimabile” di questi esempi della ritrattistica del primo Rinascimento, apprezzandone sia la grandiosità e la semplicità dell’ideazione, sia il nitore e la precisione della resa di dettagli anche secondari; lo studioso propose quindi la paternità di Andrea del Castagno con una datazione intorno al 1444, cioè poco dopo il ritorno del pittore dal soggiorno veneziano. L’attribuzione non convinse la critica. SALMI (1938) li considerava “copie di originali di Paolo Uccello” e BERENSON (1963) ribadiva che siano copie da Masaccio. Anche per Ragghianti (in, FIRENZE 1949, pp. 28) si tratta di copie: l’una riflette, a suo avviso, lo stile di Andrea del Castagno, e l’altra i modi di Domenico Veneziano. Individuando nei due dipinti elementi di un naturalismo ponentino, il LONGHI (1940) riteneva che il modello copiato potesse essere un’opera perduta di Petrus Christus. Di un anonimo fiammingo parlano anche il WOHL (1980) e la CASTELFRANCHI VEGAS (1983), mentre per il POPE HENNESSY (1966), come già per la Collobi Ragghianti (in, FIRENZE 1949, pp. 22-23), i ritratti di Zurigo deriverebbero da uno degli affreschi oggi distrutti di Domenico Veneziano e del Baldovinetti nella chiesa di Sant’Egidio a Firenze, e dunque sarebbero copie, ma antiche. L’unico studioso a confermare la paternità di Andrea del Castagno per il Doppio ritratto fu in quegli anni Luciano BERTI (1963), il quale però, forse ricredutosi, non ne fece menzione nella sua monografia (1966). A mettere decisamente in dubbio il valore storico artistico dei due ritratti è intervenuto poi il parere del restauratore del Kunsthaus Paul Pfister, il quale in una relazione del 1987, sulla base dell’esame dei colori e della tecnica esecutiva, li dichiara frutto di una falsificazione ottocentesca. In seguito, l’opera non compare più nella letteratura, né a proposito di Andrea del Castagno né di Domenico Veneziano né del Baldovinetti, anche se, pur dubitativamente, sotto il nome di quest’ultimo la cita Angelica Dülberg nel suo studio sulla ritrattistica (1990), dove viene riportato anche il parere del Pfister. Chi scrive (1997) ha provato a rilanciare l’attribuzione ad Andrea del Castagno, accolta da Angelo TARTUFERI
(2007), ma ignorata dal recente catalogo del Kunsthaus (Kunsthaus Zürich 2007) che classifica i due ritratti come falsificazioni. Dunque, si tratta di copie o di originali? o meglio: si tratta di testi pittorici quattrocenteschi oppure del XIX secolo? Chi scrive riconosce di non avere conoscenze specifiche per discutere questioni strettamente tecniche; tuttavia ritiene che si debba tener conto di una serie di argomenti storici e storico-artistici che suscitano forti perplessità sull’ipotesi della falsificazione. Intanto, sembra davvero strano che ad una data precoce come il 1866 potessero essere realizzate falsificazioni così raffinate di ritratti quattrocenteschi, che peraltro, invece di essere lanciate sul mercato antiquario internazionale, rimasero nell’ambito di una piccola raccolta privata svizzera. Ancor più strano appare, e lo osserva acutamente la Dülberg, che un falsario ottocentesco fosse in grado di escogitare la complessa decorazione con gli stemmi medicei sul retro delle due tavole. I falsari, di norma, fornivano dipinti corrispondenti alle esigenze del momento, e quindi adatti a decorare le pareti delle case dei collezionisti: che senso avrebbe avuto dedicare tanta cura alla decorazione del retro delle due tavole, con ogni probabilità destinata a rimanere non visibile? Eppure la lastra di finto porfido e i nastri dorati che vi serpeggiano, legati alla corona d’alloro al centro, sono dipinti magistralmente e già di per sé rivelano l’intervento di un artista di alto livello e con i caratteri di stile databili al terzo quarto del XV secolo, anzi presumibilmente prima del 1465. Infatti, non solo l’imitazione del marmo e del porfido era uno dei vezzi preferiti dei pittori fiorentini di metà secolo, ma nel 1465 il re di Francia concesse a Piero de’ Medici di arricchire il suo stemma familiare di una settima palla, azzurra con i gigli (BROGAN 1978, p.156). Ciò che più conta infine, è la constatazione che i confronti stilistici – e questo aspetto finora è rimasto in ombra – sembrano confermare che il Doppio ritratto deve spettare alla mano di Andrea del Castagno. Nella riconsiderazione della vicenda andrà tenuto ben presente che la lettura dei due ritratti era (ed è) ostacolata da uno spesso strato di vernice che tuttavia non riesce a mascherare un consistente restauro ottocentesco, eseguito per riparare i danni evidenti. In particolare appare ritoccato il profilo (la zona intorno all’occhio destro, alla punta del naso e alla bocca) del personaggio raffigurato nella tavola destra. È probabilmente in seguito a tale operazione che il volto ha assunto quell’espressione un po’ rigida e innaturale, che ha potuto far pensare ai modi di un pittore di formazione accademica, suggerendo la conclusione che si tratti di un copista o di un falsario ottocentesco. L’altro busto però rivela chiaramente, a mio avviso, la mano di un pittore fiorentino verso la metà del XV secolo: chi, tre o quattro secoli più tardi, avrebbe osato enfatizzare così arditamente i tratti somatici con la luce solare che battendo da destra taglia di netto le forme levigate del volto pieno? Non vi traspare alcuna intenzione di abbellire, alcun tentativo di rendere grandiosi i lineamenti di questo giovane, le cui labbra sottili accennano appena ad un semi-sorriso un po’ ironico. L’artista evidentemente non vuole idealizzare, ma piuttosto impreziosire la resa del modello, dando una lucentezza marmorea, quasi astratta, alle parti del viso toccate dalla luce e conferendo concretezza fisica al voluminoso turbante che sormonta come una sorta di corona il viso insignificante. Neppure nel caso del giovane a destra, se come si è visto lo stato della pittura può suscitare qualche perplessità, mancano osservazioni realistiche assolutamente originali, come l’ombra netta del copricapo che si proietta sulla tempia e sul collo del personaggio, o il breve segmento d’ombra gettato dal padiglione auricolare sul volto. Nel suo importante saggio (oggi apparentemente dimenticato) il Pudelko, nel proporre la paternità di Andrea del Castagno, insisteva soprattutto sul confronto dei due ritratti con brani del ciclo degli Uomini illustri eseguito nella Villa Carducci di Legnaia (Scandicci) e attualmente esposto in parte a San Pier cheraggio presso gli Uffizi, nonché con
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l’Assunzione già in San Miniato fra le Torri e ora nella Galleria di Berlino (inv. n. 47A). Il rapporto risulta più evidente con quest’ultima opera, dove colpisce in particolare la resa similmente compatta e scultorea dei volti, e la minuzia fiamminga della descrizione dei dettagli, come la luce riflessa nell’iride degli occhi o i peli delle sopracciglia dipinti uno ad uno. Eppure, sebbene di dimensioni ben superiori, il carattere ritrattistico dei volti degli apostoli affrescati verso la fine degli anni quaranta nel Cenacolo di Sant’Apollonia rivela analogie forse ancora più significative. Anche qui l’artista mira all’essenzialità sia nelle fisionomie che nella plasticità delle fitte pieghe corpose che percorrono le vesti, esaltando le forme con i marcati contrasti di luce ed ombra; ma non trascura del resto di arricchire le immagini di particolari naturalistici, come le sottili grinze attorno agli occhi di Matteo, o la barba che spunta sul mento di Filippo in seguito alla non fresca rasatura. La visione realistica d’ispirazione fiamminga, che nel Doppio Ritratto di Zurigo si manifesta ancora con qualche timidezza, appare ormai una delle peculiarità dello
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de’ Medici, figli di Cosimo il Vecchio, sembra plausibile, sia per l’apparente età dei due giovani poco più che ventenni, sia per la preziosità dei loro abiti, che contrasta decisamente con le vesti più dimesse dei personaggi ritratti in tavole fiorentine del terzo e quarto decennio del XV secolo; ma anche per l’approccio che rievoca il naturalismo fiammingo, particolarmente apprezzato proprio negli ambienti medicei (NUTTALL 2004, pp. 77-80 e passim). E il voluminoso turbante di stoffa morbida, che ritroviamo sia nei Ritratti Olivieri citati sopra, che nel Ritratto d’uomo di Jan van Eyck, firmato e datato 1433, oggi nella National Gallery di Londra (n. 222), conferma una datazione tra il quarto e il quinto decennio del Quattrocento. I dubbi espressi sull’identità dei due personaggi (ad esempio da LANGEDIJK 1981-1987, II, p. 1339, e Kunsthaus Zürich 2007) si spiegano con la scarsità delle loro immagini accertate: infatti, i busti marmorei di Mino da Fiesole, oggi al Museo Nazionale del Bargello, li mostrano ad un’età ben più avanzata, verso il 1453-1455 (CAGLIOTI 1991, nota 67, pp. 47-49). Tuttavia il riconoscimento può essere corroborato dalle fisionomie dei due Magi giovani nel Tondo di Domenico Veneziano oggi nella Galleria di Berlino: nel ragazzo raffigurato di fronte con la corona in mano, il BELLOSI (1992) ha riconosciuto Giovanni; mentre l’altro, che appare in primo piano
Andrea del Castagno, San Giuliano (particolare dell’Assunzione), Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie Andrea del Castagno, Santi Matteo e Filippo, particolare dell’Ultima Cena, Firenze, Cenacolo di Sant’Apollonia
stile di Andrea negli affreschi di Sant’Apollonia, databili evidentemente diversi anni più tardi: testimonianza di una familiarità ormai acquisita tramite lo studio dei dipinti provenienti dai Paesi Bassi. Anche per questo motivo credo che la data delle tavole del Kunsthaus sia da porre all’inizio degli anni quaranta, non molto dopo il ritorno da Venezia dove nel 1442 l’artista aveva eseguito gli affreschi di San Zaccaria. Come mostrano gli stemmi, i personaggi raffigurati sono due componenti della famiglia Medici. Si tratta di due esempi del ritratto familiare portatile, genere di cui ci sono pervenute alcune altre testimonianze, ad esempio i due Ritratti Olivieri oggi divisi tra la National Gallery di Washington (n. 1937.1.15 ) e il Chrysler Museum di Norfolk in Virginia (n. 83.584). Mentre in questi ultimi l’anonimo artista mantiene la tradizionale impostazione di profilo, qui, forse per la prima volta a Firenze, i personaggi sono ritratti di tre quarti, alla fiamminga. L’identificazione dei modelli proposta già dal Pudelko con Piero e Giovanni
di profilo e in vesti altrettanto lussuose che nel ritratto del Kunsthaus, mi sembra si possa identificare con Piero circa ventenne o poco più. Se sono davvero Piero e Giovanni de’Medici i due giovani ritratti intorno al 1440 nell’Adorazione dei Magi di Berlino (cfr. PONS 2001), disponiamo di un ulteriore indizio per datare il Doppio ritratto di Zurigo con ogni probabilità pochi anni più tardi. Miklós Boskovits Bibliografia: Vortrag 1866, pp. 67-68 dell’estratto; Kunsthaus Zürich 1925, p. 12, n. 586; BERENSON 1932, p. 336; SALMI (1932), p. 107; PUDELKO 1936, pp. 235-242; SALMI 1938, p. 126; LONGHI 1940, p. 181 nota 12; FIRENZE 1949, pp. 22-23; BERTI 1963, p. 291; BERENSON 1963, p. 135; POPE HENNESSY 1966, pp. 24-25; WOHL 1980, p. 195; CASTELFRANCHI VEGAS 1983, pp. 192-193; DüELBERG 1990, p. 227; BOSKOVITS 1997, pp. 335-336, 339-340, note 34-39; A. Tartuferi in, FIRENZE 2007, p. 100; Kunsthaus Zürich 2007, p. 38
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Filippo Lippi (Firenze 1406 - Spoleto 1469)
Madonna col Bambino con la Nascita della Madonna e l’incontro di Gioacchino e Anna tavola; diam. cm 135 provenienza: Palazzo Pitti (Inventario del 1761, Guardaroba app., c. 680) Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1912, n. 343
Numerosi sono gli indizi che portano a collocare questo capolavoro della pittura fiorentina della metà del Quattrocento alla maturità di Fra Filippo Lippi, in concomitanza con la fase iniziale del ciclo del Duomo di Prato. In una memoria archivistica del Ceppo Vecchio di Prato, datata 8 agosto 1452, troviamo un riferimento a “un certo tondo di legniame”, commissionato da “Lionardo Bartolomeo Bartolini cittadino fiorentino” che doveva recare “certa storia ch’egli avea chominciato della Vergine Maria” (RUDA 1993, pp. 531-532 con riferimento a GUASTI 1888, p. 110). Fra Filippo ebbe difficoltà a consegnare l’opera in questione entro i termini stabiliti, come risulta da altri documenti riferibili alla primavera del 1453 (ibid.). Ad una attenta osservazione il collegamento tra il tondo Bartolini e il dipinto ora alla Galleria Palatina appare indiscutibile. Oltre alla forma circolare della tavola e il soggetto del dipinto occorre sottolineare l’altissima qualità d’esecuzione dell’opera, che testimonia la straordinaria cura impiegata nella realizzazione del tondo, tanto da poter aver causato ritardi nella consegna di esso. Ultimamente solo il Ruda si è opposto alla identificazione del quadro di Pitti con la commissione Bartolini, ma con argomenti poco convincenti. È vero che lo scudo con grifone tracciata sul retro della tavola non corrisponde con quello della famiglia Bartolini, il cui stemma reca invece un leone rampante; ma il disegno, applicato in nero a pennello (RUDA 1993, fig. 311), è posto in obliquo sulla superficie ed è abbozzato sommariamente senza pretesa dunque di essere elemento qualificante dell’opera stessa (gentile comunicazione Samuel Bibby). È probabile anzi che lo stemma sia databile anteriormente o posteriormente al dipinto. A favore dell’identificazione con il tondo Bartolini parlano anche i caratteri stilistici del quadro: grande sicurezza nella costruzione delle figure in primo piano, raffinato linearismo – quasi ellenisticheggiante – nella resa delle figure sullo sfondo, maestria nella definizione di ogni particolare, tutti elementi rintracciabili anche negli affreschi del Duomo di Prato. A ciò si aggiunge un mirabile equilibrio nella distribuzione delle figure in movimento in secondo piano, come anche nella distribuzione dei colori, con richiami costanti – in particolare delle tinte rosse – su tutta la superficie pittorica. In tutta la sua compiutezza compositiva il dipinto di Fra Filippo proclama un preciso messaggio teologico. Con efficacia di mezzi visivi l’artista crea un rapporto immediato tra la Madonna, posta in primo piano, e lo spettatore. Il pittore esalta il ruolo di Mater Dei, con Cristo che sta seduto nel suo grembo. Il Bambino offre un chicco di melagrana, simbolo di fertilità ma anche della Passione. Fanno da commento le scene dello sfondo, rappresentanti la Nascita della Vergine con l’arrivo delle donne in visita e l’Incontro di Gioachino ed Anna. Procedendo dal fondo verso il primo piano il pittore fornisce un contesto narrativo che concorre all’illustrazione del ruolo della Vergine nella storia dell’umanità. Non necessariamente ciò implica una presa di posizione nel dibattito teologico sulla purezza della Vergine, che vide contrapposti o ‘macolisti’ e ‘immacolisti’ (RUDA 1993) Il gusto per la narrazione, abbinata all’uso di più piani prospettici, è caratteristico per l’opera di Fra Filippo dei primi anni cinquanta, al culmine della carriera artistica. In questa sua ambizione fu aiutato dallo studio di modelli scultorei, come il Banchetto di Erode di Donatello. Oltre a dimostrare un costante interesse per le innovazioni nella scultura,
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sin dall’inizio della carriera Filippo Lippi si aprì con regolarità anche alle novità della pittura fiamminga. Ne reca testimonianza eloquente la cosiddetta Madonna di Tarquinia della Galleria di Palazzo Barberini, datata 1437, che viene spesso definita una delle opere più apertamente fiamminghe dipinte da artista fiorentino della prima metà del Quattrocento (NUTTALL 2004, pp. 20-21). La fuga prospettica dello spazio che si apre dietro la Madonna in trono, il motivo della finestra con l’apertura sul paesaggio, il libro di preghiera, o anche il trompe l’oeuil del cartellino della data, sono tutti indicatori di influenza fiamminga, alla quale si aggiunge l’assenza – inusuale nella pittura italiana del periodo – delle aureole. Risulta più difficile stabilire nessi concreti tra il tondo Bartolini e opere fiamminghe della prima metà del Quattrocento a noi pervenute. Si possono riconoscere analogie generiche con la Madonna e Bambino in trono sotto un portico di Petrus Christus (cat. n. 14), in cui troviamo un affine successione di spazi con pavimenti rivestititi di mattonelle. Un altro dipinto di Petrus Christus, la Madonna col Bambino del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City presenta un’analoga impaginazione prospettica dello spazio d’interno retrostante la Vergine. Ambedue queste opere, databili tra il 1457 e il 1470 circa, traggono probabilmente ispirazione da prototipi fiamminghi più antichi. Ma è anche evidente che nel grandioso tondo di Fra Filippo la costruzione dello spazio segue regole matematiche più rigorose, denotando ambizioni artistiche che vanno oltre i modelli nordici. D’altronde è proprio la meditatissima ed originalissima dialettica tra ricerca prospettica e valorizzazione della forma circolare della tavola a determinare la posizione centrale del dipinto nello sviluppo del tondo rinascimentale. Gert Jan van der Sman Bibliografia: HAUPTMANN 1936, pp. 187 sg.; MARCHINI 1975, pp. 165, 167, 209, 218, 219, 233, figg. 67-69; RUDA 1982, p. 119, fig. 66; KECKS 1988, pp. 22, 42, 46-47, 75-76, 99, fig. 112; FOSSI 1989, p. 64, fig. 42; RUDA 1993, pp. 240-244, 453-455, n. 55, 531-532, figg. 135, 310-314; MANNINI-FAGIOLI 1997, pp. 130-131, n. 56, ripr.; HOLMES 1999, pp. 117, 141-145, 160, 168-172, 269, nota 97, 99, 100 e p. 271 nota 142, figg. 130, 156, 157, 168, 221; OLSON 2000, pp. 70-71,fig. IV; CHIARINI-PADOVANI 2003, I, p. 68, fig. 1, II, p. 236, n. 383, ripr.; DÄUBLER-HAUSCHKE 2003, pp. 55-57, figg. 20, 21; RUBIN 2007, p. 112, fig. 101
P. Christus, Madonna col Bambino in una camera. Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art
F. Lippi, Madonna di Tarquinia. Roma, Galleria di Palazzo Barberini
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14. Petrus Christus (Baarle-Hertog 1410/1420 - Bruges, ante 1475)
Madonna col Bambino in trono sotto un portico tavola (quercia); cm 49 × 34 provenienza: Convento del Risco, Piedrahita, Avila (1836); Museo de la Trinidad: dal 1921 nella sua ubicazione attuale Madrid, Museo Nacional del Prado, inv. n. P 1921
Un documento del 1444 testimonia l’acquisto della cittadinanza di Bruges di Petrus Christus e lo ricorda anche come pittore (NEW YORK 1994, p. 195, doc. n. 1). Da allora egli lavorò prevalentemente in questa città. Fu epigono di Jan Van Eyck, ma attento anche alle novità di pittori contemporanei quali Rogier van der Weyden e Dirk Bouts. La sua fama si riflette nelle commissioni prestigiose ricevute dalle autorità e dall’alta borghesia cittadina. La provenienza di un certo numero di suoi dipinti da collezioni italiane può suggerire che a Bruges l’artista ebbe anche clienti italiani (si veda M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 60-61 e nota 69). Verso la fine del Quattrocento nello scrittoio di Lorenzo il Magnifico in Palazzo Medici di via Larga, secondo la descrizione inventariale del 1492, si trovava “una tavoletta dipintovi di una testa di dama frazese cholorita a olio opera di Pietro Cresti da Bruggia”, forse (ma non sicuramente) da identificare con il Ritratto di Dama ora a Berlino (vedi M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 166-169, n. 19, ripr.; NUTTALL 2004, p. 107; in questo catalogo p. 24, fig. 1). L’attribuzione a Petrus Christus della bella tavoletta madrilena, coerente nelle sue dimensioni modeste da devozione privata, si deve al Voll ed è stata in seguito unanimamente accettata, con l’eccezione del Richter che la considera una copia e Upton (1980) che non la menziona. La Madre, seduta con il Bambino su di un trono o sedile di pietra, è raffigurata come Sedes Sapientiae ed anche come Regina Coeli, in quanto incoronata da un angelo in alto; il Bambino nudo e in piedi si dichiara inoltre come Salvator Mundi, poiché tiene in un una mano il globo di cristallo con la croce, e con l’altra benedice lo spettatore. Ampia nell’abito della Madonna, l’opera è tenera ma sobria nella sua espressività vitale, essenziale e limitata nella verosimiglianza anatomica e liscia alla Jan van Eyck nel modellare l’incarnato. Come dimostra la radiografia e come avviene in altri dipinti dell’artista neerlandese, la costruzione prospettica ha un solo e preciso punto di fuga, qui posto sulla destra del naso della Madonna, dove tutte le linee ortogonali coincidono sull’orizzonte, ad eccezione di quelle della costruzione architettonica nel piano mediano (cfr. PANOFSKY 1953, p. 310; M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, p.15, figg. 54, 147). Nonostante le differenze stilistiche, nella sua impostazione architettonica e formale l’opera, come spesso è stato osservato, è imparentata con una tavola di Dirck Bouts di soggetto per certi versi simile, nella quale figurano la Madonna e il Bambino con quattro angeli sotto un portico (Granada, Capilla Real; cfr. I. Van Hecke in, LOVANIO 1998, pp. 447-448, n.128, ripr.; PÉRIER-D’IETEREN 2006, pp. 139-145, 296, n. 22, ripr. come prima del 1469). Pur non potendosi configurare probabilmente un rapporto immediato tra le due opere, a causa delle sostanziali differenze, rimane sempre aperta la possibilità, come propone tra l’altro Schabacker, di un prototipo comune, che ipoteticamente è stato identificato con un’opera relativamente precoce di Rogier van der Weyden, la Madonna seduta con il Cristo in piedi in un portico, oggi conosciuta soltanto attraverso copie e varianti, tra le quali un disegno del Kupferstich-kabinett di Dresden e vari dipinti (DE VOS 1999, p. 115, n. B5, ripr.; T. Ketelsen in, BRUGES 2005, pp. 88-89 n. 15, ripr.). Il motivo dell’angelo che incorona la Madonna è paragonabile alla figura che appare sopra la Madonna col Bambino in una nicchia dipinta nei primi anni trenta da Rogier (DE VOS 1999, pp. 198-
191, n. 5, ripr.). Nel percorso di Petrus Christus il tema della Madonna col Bambino conosce un ulteriore sviluppo nel dipinto del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City (M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 170-176, n. 20, ripr.), dove le figure sono ambientate nel primo piano di un interno domestico costituito da un camera da letto vari ambienti consecutivi, con scorci di una città fiamminga che si affacciano attraverso la finestra e la porta, e pertanto privi del respiro ampio e dei toni sottili d’un paesaggio unitario dello sfondo del dipinto in esame. Sia per il dipinto madrileno che per quello, probabilmente posteriore, di Kansas City la datazione oscilla tra 1450 e 1470, con una chiara e forse ragionevole preferenza degli autori recenti per un’origine a cavallo del 1460 per il primo. La provenienza dei dipinti di Madrid e Kansas City è solo in parte nota e non risulta finora la loro presenza in Italia. Colpisce tuttavia che l’interazione spaziale dei vari livelli rivestiti di mattonelle di tipo diverso, separati da muretti e muri e da gradini per creare spazi compartimentati, assomigli al modo di costruire gli ambienti osservabili nel monumentale tondo dipinto da Filippo Lippi negli anni 1452-1453 per Leonardo Bartolini con la Madonna e Bambino in primo piano, collocati in una camera da letto davanti alla Natività di Maria (cat. n. 13). Questo eccezionale dipinto condivide con l’opera di Petrus Christus di Madrid anche la strana incidenza in perpendicolare del muro sulla destra con il divisorio tra primo e secondo piano. Non meno sorprendente è la presenza in entrambi i dipinti della scaletta, o muricciolo a forma di scala, sulla destra. Una tale concatenazione di spazi su livelli diversi pare sviluppata in origine nella pittura fiamminga. Ciò non vuol dire che Filippo Lippi abbia preso a prestito questo modo di costruire e dividere lo spazio da uno dei due dipinti di Petrus Christus qui ricordati, che il pittore nordico eseguì con ogni probabilità dopo la creazione della tavola fiorentina. È invece del tutto possibile che il dipinto del Lippi abbia preso a modello per la particolare rappresentazione dello spazio uno o più dei numerosi dipinti fiamminghi documentati o un tempo presenti a Firenze, ma almeno per il momento non più identificabili. Nel dipinto della Galleria Palatina qualcosa di simile viene suggerito anche dal taglio scelto per la Vergine, mentre il Bambino seduto su un cuscino in primissimo piano risente alla lontana di soluzioni sviluppate da Rogier van der Weyden nelle sue Madonne col Bambino a mezza figura, note in parte attraverso gli originali, in parte soltanto tramite copie o imitazioni (cfr. per esempio l’esemplare all’Art Institute di Chicago e la cosiddetta Madonna Chesterfield del St. Louis Art Museum; FRIEDLÄNDER 1967-1975, II, p. 66, n. 28, tav. 49 e p. 68, n. 40, tav. 62; DE VOS 1999, pp. 356-357, n. B4, ripr. e pp. 394-395, n. B 25, ripr.). Alcune delle versioni originali oggi conosciute sono databili a pochi anni prima, altre sono successive alla tavola di Fra Filippo. Tuttavia il vero modello fiammingo o i modelli fiamminghi di singoli elementi del tondo di Pitti sono ancora da individuare. Bert W. Meijer Bibliografia: VOLL 1906, p. 308; DE MADRAZO 1910, pp. 341-342, P1921; FRIEDLÄNDER 1967-1976, I, p. 87, tav. 88; RICHTER 1974, pp. 341-345; SCHABACKER 1974, pp. 121122, n. 22, ripr.; UPTON 1990, M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 45 (figg. 54, 55), 142-145, n. 14, ripr.. con bibl.; Van Hecke in, LOVANIO 1998, p. 446; SILVA MAROTO 2001, pp. 34-37, ripr; PÉRIER D’IETEREN 2006, pp. 139-140, 144, fig. 136
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15. Monte di Giovanni del Fora (Firenze 1448-1532/1533)
Sant’Anna con Maria bambina tra San Gioacchino e un santo monaco, la Nascita di Maria e l’Incontro tra Gioacchino e Anna miniature Graduale; codice membr.; mm 690 × 505; ff. I + 1-175 + I. Contenuto: Proprio dei santi (ff. 1r 159v). Festa della Madonna del Monte Carmelo (ff. 160r-161v). Datato 1514 provenienza: Firenze, Duomo di Santa Maria del Fiore Firenze, Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Ms. inv. S n. 14, f. 114v
Il Graduale fa parte della serie di corali realizzata per il duomo fiorentino tra il 1507 e il 1526, ovvero dell’ultimo monumentale ciclo di libri liturgici destinato alla principale chiesa della città (TACCONI 1997, p. 74). Il codice, danneggiato come quasi tutti gli altri volumi della serie dall’alluvione del 1966, è stato oggetto di un recente restauro (1985). Le sue due prime iniziali istoriate, con la Chiamata di Pietro e Andrea e il Martirio di Sant’Andrea (ff. 1r, 5v), sono opera di Attavante: i documenti attestano che egli ricevette la commissione il 27 giugno del 1508, mentre i relativi pagamenti gli furono versati il 22 dicembre di quello stesso anno e ancora il 3 dicembre del 1511 (POGGI 1909, ed. 1988). L’impresa ebbe quindi una battuta d’arresto, forse in concomitanza con gli eventi che nel 1512 segnarono la vita politica fiorentina, ovvero la caduta del governo repubblicano e il ritorno in città dei Medici. Sta di fatto che quando si decise di riavviare la decorazione del Graduale, questa fu affidata a Monte di Giovanni, che nell’Annunciazione (f. 54r) appose la data MDXIIII sulla base del piedistallo marmoreo su cui si erge un angelo, all’estremità sinistra della scena. L’artista dipinse 15 iniziali istoriate, mentre non completò un’ulteriore iniziale (f. 127v), dove lo spazio interno alla lettera è rimasto bianco (per la schedatura del codice: TACCONI 1997). Anche in queste miniature, come nella sua precedente produzione artistica, Monte mostrò una profonda affinità mentale con la cultura pittorica fiamminga: fonte inesauribile per lui di spunti e di idee. Annarosa GARZELLI (1985) ha notato che la miniatura con la Nascita di Maria e l’Incontro tra Gioacchino e Anna (f. 114v) presenta citazioni quasi letterali dal tondo Bartolini di Filippo Lippi, del 1452-1453 circa (Firenze, Galleria Palatina), un dipinto caratterizzato a sua volta da rilevanti aspetti stilistici e compositivi alla fiamminga (cat. n. 13). In primo piano compaiono analogamente i protagonisti della scena, anche se, al posto della Madonna con il Bambino dipinti da Lippi, Monte raffigurò Sant’Anna con Maria bambina, tra San Gioacchino e un santo monaco (che l’abito e il manto bianchi qualificherebbero come camaldolese, secondo la lettura di Marica Tacconi, ma che potrebbe piuttosto rappresentare il cistercense San Bernardo: si veda più oltre). Gioacchino è intento ad offrire alla Figlia un grappolo di ciliegie, simbolo dell’Annunciazione e dell’Incarnazione di Cristo (LEVI D’ANCONA 1977, pp. 89-93). Sullo sfondo, nella camera di Anna è ambientata la scena della Nascita: le ancelle sedute davanti al letto sorreggono la piccola Maria in fasce, mentre una loro compagna giunge da destra con un vassoio. L’arrivo dell’ancella si sovrappone a un episodio diverso, quello dell’Incontro tra Anna e Gioacchino alla Porta Aurea. La porta di Gerusalemme è una grande arcata classicheggiante che supera i confini della lettera S (Salve), e, in modo simile, anche un lembo del manto del santo monaco in basso fuoriesce illusionisticamente dall’iniziale. L’idea di rappresentare sullo sfondo eventi che precedono, nella narrazione delle storie sacre, il tema
dipinto in primo piano si era affermata mirabilmente nelle opere di Rogier van der Weyden, l’artista fiammingo forse più ammirato da Monte (si veda cat. n. 6). La fedele ripresa di modelli nordici quattrocenteschi, sempre meno di attualità sulla scena pittorica di Firenze nel secondo decennio del Cinquecento, insieme al recupero di composizioni fiorentine di metà Quattrocento, potrebbero indicarci che Monte appariva in città l’esponente di una cultura tradizionale, se paragonata ai moderni esiti di colleghi emergenti come Rosso Fiorentino o Andrea del Sarto. Andando a ritroso oltre il dipinto di Filippo Lippi, il motivo del letto collocato sul fondo della camera, in angolo, risale a prototipi della pittura e miniatura fiamminghe (si veda la bellissima Nascita di San Giovanni Battista, attribuita a Jan van Eyck tra il 1422 e il 1425 circa, nel Libro d’Ore di Torino-Milano; Torino, Museo Civico d’Arte Antica, inv. Ms. n. 47, f. 93v) (S. Pettenati, K.C. Luber in, TORINO 1997, pp. 83-90, tavv. IV-V). Il gruppo in primo piano con Sant’Anna e la Vergine bambina ricorda invece analoghe raffigurazioni di Petrus Christus: la sua Madonna col Bambino sotto un portico a Madrid (Museo del Prado; cat. n. 14) e quella, databile nel 1460-1467, oggi a Kansas City (The Nelson-Atkins Museum of Art) (DUNBAR 2005, pp. 123-147). In quest’ultimo dipinto, ritroviamo un’atmosfera affine a quella illustrata da Monte: la porta della camera di Maria si apre su lontananze di città, con straordinari effetti di verità luministiche. Sullo sfondo della Nascita di Maria, Monte raffigurò una veduta urbana, quasi un inserto di genere: c’è la strada fiancheggiata da una fila di case, i pochi indifferenti passanti come macchie di colore, e l’ora è quella del tramonto, con lunghe striature di ombre. L’evocazione di modelli nordici accomuna l’artista, ancora una volta, a Filippino Lippi (si veda cat. n. 6). Il brano di paesaggio nella miniatura trova consonanze stringenti con quello dipinto da Filippino sullo sfondo della pala Nerli in Santo Spirito a Firenze, nel 1493-1495 (ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 459-469, 590-591, ripr.). Nel nostro Graduale, lo scorcio cittadino potrebbe rappresentare Porta San Frediano e, in lontananza, la possente sagoma di Santa Maria del Carmine, con il campanile in origine collocato sul fianco sinistro della chiesa, poi distrutto nell’incendio del 1771 (va inoltre notato che le ultime pagine del Graduale sono proprio dedicate alla festa della Madonna del Carmelo, ff. 160r-161v). Come per i frati carmelitani, anche per i canonici del duomo fiorentino (fondato l’8 settembre del 1296, il giorno della Natività di Maria), la devozione alla Vergine costituiva il fulcro spirituale della vita comunitaria. I canonici del duomo erano a quest’epoca membri dell’entourage di Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, eletto papa nel marzo del 1513. Marica Tacconi (2005) ha quindi proposto di collegare la data insolitamente inscritta nella miniatura con l’Annunciazione (1514) all’anno in cui, nel mese di luglio, il padre provinciale toscano dei carmelitani promulgò un famoso sermone, che legittimava l’autorità dei
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Monte di Giovanni, Sant’Anna con Maria bambina tra San Gioacchino e un santo monaco, la Nascita di Maria e l’Incontro tra Gioacchino e Anna, f. 114v
Monte di Giovanni, Annunciazione, f. 54r
Medici a Firenze e assegnava a papa Leone X un ruolo-guida nel nuovo ordine religioso e sociale della città. La proposta della studiosa è suggestiva, e pone l’accento sui contenuti simbolici di questa Annunciazione, dove gli angeli con i gigli alludono certamente alla purezza della Vergine, e forse anche a quella della nuova Firenze medicea. La scena è ambientata in un chiostro, che si vuole identificare con il Chiostro degli Aranci della Badia fiorentina (LEADER 2005): ancora una volta uno scorcio urbano reale, immerso in una luce vera, atmosferica. Il riferimento mariano, che abbiamo visto centrale nel programma illustrativo del Graduale, potrebbe suggerirci che il santo monaco in primo piano nella Nascita di Maria rappresenti il cistercense Bernardo di Chiaravalle, qui forse in un contesto non particolarmente usuale (come si sa, egli compare in adorazione della Vergine tra angeli o con il Bambino; in proposito DAL PRÀ 1990, pp. 48-64). Nuovamente, Monte sembra essersi ispirato a formule compositive fiamminghe: il monaco devoto, più basso degli altri personaggi e forse inginocchiato, richiama alla mente un più antico modello, la Madonna di Jan Vos del 1441-1443, opera di Jan van Eyck con la bottega (New York, The Frick Collection), dove il committente certosino appare in un atteggiamento singolarmente analogo, assorto in preghiera (The Frick Collection 2004, p. 59).
Bibliografia: MILANESI 1850, pp. 169, 206-207, 333; VASARI, ed. Milanesi 1878-1885, III, p. 250; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 691, 761-762 n. 1551; COLNAGHI 1928, p. 24; LEVI D’ANCONA 1962, pp. 257, 258-259, 351-352; GARZELLI 1985, pp. 282, 315-316; POGGI 1909, ed. 1988, II, pp. 67, 68 docc. 1788-1789, 1794; CONTI 1995, p. 231; M. Levi D’Ancona in, FIRENZE 1995, pp. 177, 178; GARZELLI 1996, p. 297; TACCONI 1997, pp. 228-229; LEADER 2000, p. 156; GALIZZI 2004d, p. 800; ID. 2004e, p. 978; LEADER 2005, pp. 212, 214, 229 nota 37; TACCONI 2005, pp. 175-176, 198-199, 214-220; A. Dillon Bussi in, FIRENZE 2006a, pp. 116-117
Ada Labriola
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16. Baccio Baldini (Firenze ca 1436-1487) attribuito
Grasso che suona il liuto incisione; diam. mm 187 (bordo estremo) provenienza: Firenze, Barone Philippe de Stosch (1731-1757); lasciato in eredità a Heinrich Wilhelm Muzel (detto Stosch Walton); dopo la sua morte acquistato a un’asta (BERLINO 1783) da Ernst Peter Otto (1724-1799) di Lipsia; acquistato in seguito dagli eredi di Otto (1851-1852) dal British Museum, Londra Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. n. A.IV.22
Il Grasso che suona il liuto appartiene al gruppo di incisioni conosciute come “Stampe Otto” – dal nome del loro precedente proprietario, il collezionista di Lipsia Ernst Peter Otto –, che costituisce il più grande corpo giunto fino a noi di incisioni fiorentine quattrocentesche di soggetti secolari. Benché non concepite in serie, esse si prestano ad essere raggruppate in quanto prodotte da uno stesso laboratorio; sono inoltre simili in forma e contenuto e condividono la stessa funzione. Sono incise con la tecnica conosciuta come “Maniera Fine Fiorentina”, con contorni netti ed un fine tratteggio incrociato all’interno. Benché è possibile che siano state realizzate da mani diverse, sono state convincentemente attribuite al laboratorio dell’orafo, incisore e disegnatore Baccio Baldini, discepolo di Maso Finiguerra, e datate intorno agli anni settanta del Quattrocento (BARTSCH 1803-1821, XIII (1811), pp. 142-151; HIND 1938-1948, I, pp. 85-87; K.L. Oberhuber in, WASHINGTON 1973, pp. 13 sg; ZUCKER 1993, p. 148). La loro forma circolare, occasionalmente ovale, suggerisce che siano state concepite come decorazione da incollare, forse colorate a mano, sui coperchi di cassette per ciondoli e cosmetici (HIND 1938-1948). Economiche ed effimere, nessuna di queste cassette decorate con stampe ci è pervenuta integra, anche se alcuni esempi dipinti sono giunti fino a noi (ZUCKER 1993). Molte delle stampe provenienti dalla collezione di Otto ritraggono temi amorosi, suggerendo l’idea che questi contenitori fossero usati come pegni d’amore o come doni di matrimonio alle spose e, sebbene molte fossero di gusto raffinato (vedi ad esempio cat. nn. 17-19 con coppia di ballerini, uomini e dame, un giardino dell’amore), anche immagini volgari, come questa in esame, evidentemente non erano considerate fuori luogo. Come fu notato da HIND (1938-1948, I, p. 87), “non è impossibile che alcuni dei soggetti delle “Stampe Otto” possano risalire a dipinti delle collezioni dei Medici. In alcuni dei “panni franzesi” o “alla francese”, presenti negli inventari dei Medici, i soggetti che rappresentano animali, scene di giovialità, nudi etc, suggeriscono il tipo di composizione che si ritrova poi in alcune delle Stampe di Otto e in altre incisioni della Scuola del Finiguerra”. Il soggetto di questa stampa, estremamente inusuale per l’arte fiorentina, richiama da vicino il panno dipinto neerlandese a Villa di Poggio a Caiano, catalogato nell’inventario del 1492 di Lorenzo de Medici, con “un grasso che suona il liuto” (MESNIL 1906; KRISTELLER 1909; HIND 1938-1948; ZUCKER 1993; NUTTALL 2004). La stampa quasi certamente riflette questo dipinto o un altro modello neerlandese molto simile. Il suo stile comico didattico ed i suoi palesi riferimenti sessuali sono tipicamente nordici. Un grottesco uomo grasso, con una ghirlanda di vite in testa e un pappagallo sulla sua spalla, sta strimpellando un liuto con uno zampone di porco. Sebbene la figura fosse dubitativamente identificata da KRISTELLER (1909) come la personificazione del Carnevale e da Zucker come un cantore dell’amore, l’immagine ha chiaramente
un fine sessuale. Il liuto, strumento associato alla musica secolare e spesso raffigurato in contesti amorosi, come evidenziato da Bosch, è anche metafora dell’organo sessuale maschile. Viene suonato con uno zampone di porco, che richiama i genitali femminili (come anche nella Donna delle Salsicce, cat n. 20). Il pappagallo è un altro simbolo fallico, presente ad esempio nell’incisione del Maestro ES con Donna anziana e buffone. A parte questi riferimenti sessuali, l’immagine richiama anche i festeggiamenti bacchici come è dimostrato dal copricapo a foglie di vite che, pertinente più alle immagini antiche che nordiche, può essere stato un’abbellimento da parte dell’artista fiorentino nel riprendere il modello fiammingo. Tipicamente fiorentino è anche il bordo costituito da una ghirlanda di frutta e foglie di vite. Il Grasso che suona il liuto, come la Donna delle Salsicce (cat. n. 20), attesta il gradimento per canzoni e versi osceni nell’ambito della cerchia di Lorenzo de Medici e, per quanto i suoi sfacciati riferimenti sessuali possano infastidire un pubblico moderno, come atti indecorosi nel contesto dei pegni d’amore offerti dai membri dell’elite fiorentina (o forse, nel caso di oggetti meno costosi come questi, della classe media) alle loro promesse spose, si deve ricordare che i matrimoni, nel quindicesimo secolo, includevano considerevoli oscenità. La nostra stampa può essere vista come un’espressione di quello spirito sessuale che, di qui a poco, troverà espressione nella Loggia di Psiche di Raffaello nella Villa Farnesina a Roma. Paula Nuttall Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, XIII (1811), p. 143, n. 3; PASSAVANT 1854-1860, V, p. 36, n. 70; WARBURG 1905, ed. 1932, I, pp. 177-178; KRISTELLER 1909, n. 3, ripr.; HIND 1938-1948, I, p. 93, n A.IV.22, fig. 150; ZUCKER 1993, p. 148, 2403 Baccio Baldini; RUBIN-WRIGHT 1999, p. 338; NUTTALL 2004, p. 114, fig. 109
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17. Baccio Baldini (Firenze ca 1436-1487) attribuito
Il Giardino dell’Amore incisione; diam. mm 190 iscrizioni: sulla manica della donna in primo piano AMES/ DROIT provenienza: acquistato a Firenze dal Barone Philippe de Stosch tra il 1731 e il 1757; lasciato in eredità a Heinrich Wilhelm Muzel (detto Stosch Walton); dopo la sua morte acquistato a un’asta (BERLINO 1783) da Ernst Peter Otto (1724-1799) di Lipsia Berlino, Kupferstichkabinett der Staatliche Museen, inv. n. 169/24
Entro il gruppo di incisioni fiorentine convenzionalmente chiamate “Stampe Otto” e attribuite a Baccio Baldini (per le quali si veda il n. 16), questa è quella di gusto più strettamente nordico. Lo scenario è composto da un giardino con un muro sulla sinistra, una fontana sulla destra e, in fondo, un traliccio con rose; più in là, il mondo esterno è raffigurato da uno spazio vuoto delimitato dalle mura di una città. Nel giardino sono sedute due donne e un giovane uomo, tutti vestiti sfarzosamente secondo la moda nordeuropea; le acconciature e le collane indossate dalle due donne sono simili a quelle dei ritratti di Maria Portinari e Maria Bandini Bonciani (cat. n. 43). La donna in primo piano indossa una lunga veste a trame incrociate che simula i ricchi intrecci decorati di un lussuoso tessuto con il motivo ricorrente della pigna e con il bordo di ermellino. Sulla manica troviamo, ricamate in lettere gotiche (con la ‘a’ rovesciata), le parole “ames droit”, a loro volta presenti, in lettere romane, anche in un’altra stampa proveniente dalla bottega di Baldini (vedi cat. n. 19); in questo caso l’uso della scrittura gotica sottolinea il collegamento tra questo tipo di motto ed il mondo dell’amore cortigiano franco-fiammingo. Le due donne e l’uomo, i cui vestiti denotano l’alto rango sociale, sono occupati in attività connesse all’amore cortigiano. Mentre la prima donna sta intrecciando una ghirlanda dell’amore, l’altra donna sta suonando un’arpa e l’uomo un liuto, allusione alla dolce armonia dell’amore. Accanto a loro vi è un tavolo coperto da una tovaglia di lino, con un cesto di frutta e della raffinata argenteria, mentre sull’erba accanto al giovane uomo vediamo una fiaschetta di vino decorata. Queste sono tutte componenti comuni del Giardino dell’amore, tropi ricorrenti dell’amore cortigiano medievale, descritti in maniera celeberrima nel XIII secolo dal Romanzo della Rosa: un posto ideale, fuori dal mondo, in cui troviamo rose in fiore e fontane zampillanti, dove cavalieri e dame s’incontrano e si abbandonano a passatempi piacevoli – sempre nel limite del decoro – come comporre musica e consumare frutta e vino (H.L. Bevers in, BERLINO 1986; CAMILLE 1998). In contrasto con il gruppo in primo piano, notiamo, sullo sfondo della stampa, una coppia di amanti, entrambi vestiti elegantemente, impegnati in atteggiamenti ben lontani da quelli decorosi di corte. Stretti in un abbraccio, la mano sinistra della donna tiene il polso dell’uomo, ma se essa voglia trattenerlo o guidarlo, questo è lasciato all’immaginazione dell’osservatore cui in ogni caso è ricordato che la lussuria coesiste con l’amore. Ma è la scena in primo piano a celare il vero significato della stampa, quello cioè di irridere l’amore cortese; una satira riconoscibile nelle metafore falliche affidate alle forme dei recipienti per bere e del liuto. Il Giardino dell’Amore godette di grande popolarità nell’arte tardo medievale e all’inizio del Rinascimento, particolarmente a nord delle Alpi, dove fu elaborato in un’ampia varietà di forme, compresi dipinti e stampe (CAMILLE 1998). La presente stampa fiorentina riprende gli esempi neerlandesi e tedeschi come Il grande giardino dell’amore del Maestro dei Giardini dell’Amore (ripr. in AMSTERDAM 1985, p. 67, fig. 46) e Amanti davanti a una fontana del Maestro ES (H.L. Bevers in, MONACO-BERLINO 1986, p. 182, n. 94,
ripr.). I suoi elementi figurativi richiamano anche la descrizione di uno dei “panni fiandreschi” ovvero dipinti su tela neerlandesi nell’inventario di Lorenzo de’ Medici del 1492: “un panno dipinto con una tavola con varie persone, una fonte e altro alla francese”, che era probabilmente un Giardino dell’Amore (NUTTALL 2004). A Firenze il tema fiorì all’inizio del XV secolo, ma dall’ultimo quarto del secolo, data della nostra stampa, era già superato e si stava estinguendo (ZUCKER 1993, p. 145 in base a WATSON 1979, pp. 6, 65, 70, 125). Questa stampa è perciò una rarità, infatti, oltre ad essere una rappresentazione fiorentina tardoquattrocentesca del tema, riflette tradizioni transalpine piuttosto che locali, ed è molto probabile che il suo modello fosse qualche originale nordico, come sostengono HIND (1938-1948) e ZUCKER (1993). Oltre ai costumi, già rimarcati, elementi tipicamente nordici sono l’aiuola rialzata e il traliccio di rose, come anche l’arpa della dama che figura spesso nei dipinti fiamminghi, ad esempio nella Madonna Pagagnotti di Memling (cat. n. 25). L’intonazione oscena e satirica della stampa è ancora una caratteristica legata più alle figurazioni nordiche che fiorentine, senza contare che, dalla metà del Quattrocento, furono proprio gli artisti del Nord Europa che cominciarono a far satira sul tema cortese del Giardino dell’Amore, con riferimenti al sesso e alla depravazione, come si può vedere nel Grande Giardino dell’Amore del Maestro ES (BEVERS 1986, p. 83, ripr. p. 183). In ultimo, nella presente stampa, la donna in primo piano è strettamente connessa con la Sibilla di Samo e la Sibilla persiana di Baccio Baldini, a suggerire che tutte e tre possano dipendere da un modello nordico comune. Altre figure nella serie delle Sibille derivano da stampe del Maestro ES (HIND 1938-1948, p. 156). Per una copia dipinta intorno al 1900 a Firenze in una decorazione parietale pseudo tardo medievale si veda p. 21, fig. 4. Paula Nuttall Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, XIII, p. 146, n. 9; PASSAVANT 1860-1864, V, p. 37, n. 76; E. Kollof in, MEYER-LÜCKE-VON TSCHUDI 1872-1885, II, p. 607, n. 156; ANONIMO 1890, pp. 115-116, ripr.; KRISTELLER 1909, n. 9; HIND 1938-1948, I, p. 92, n. A.IV.17 e p. 156, tav. 145; H.L. Bevers in, MONACO-BERLINO 1986, pp. 80-84, nn. 94-98; ZUCKER 1993, p. 143, 2403 Baccio Baldini, n. 026; CAMILLE 1998, pp. 73-81; NUTTALL 2004, p. 110
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18. Baccio Baldini (Firenze ca 1436-1487) attribuito
Dama e gentiluomo accompagnati da un musico incisione; diam. mm 137 provenienza: acquistato a Firenze dal Barone Philippe de Stosch tra il 1731 e il 1757; lasciato in eredità a Heinrich Wilhelm Muzel (detto Stosch Walton); dopo la sua morte acquistato a un’asta (Berlino 1783) da Ernst Peter Otto (1724-1799) di Lipsia; acquistato in seguito dagli eredi di Otto (1851-1852) dal British Museum, Londra Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. n. A.IV.18
Questa stampa, insieme a quella col Giardino dell’Amore (cat. n. 17), è tra le più pudiche e al contempo eleganti del gruppo di incisioni fiorentine, attribuito a Baccio Baldini, e conosciuto con il nome “Stampe Otto” a proposito di questo si veda cat. n. 16. Essa raffigura una signorile coppia di amanti che danza pacatamente, accompagnata da un musico elegantemente abbigliato che suona un flauto e un tamburello, all’interno di un giardino (si tratta presumibilmente di un’allusione al Giardino dell’Amore, per il quale cfr. cat. n. 17). Sia i due amanti che il musico possono essere messi a confronto con i danzatori e il suonatore di flauto e tamburello di un’illustrazione di un manoscritto fiammingo della fine del XV secolo all’interno del Romanzo della Rosa che raffigura la Danza del piacere (ripr. in CAMILLE 1998, p. 80, fig. 66). L’immagine riporta alla mente il mondo degli amori di corte franco-fiamminga e potrebbe derivare dagli stessi modelli da cui deriva l’incisione con la Coppia di danzatori (cat. n. 19), sempre parte del gruppo di incisioni già Otto. La fanciulla che lì compare sembra la stessa di quella nella nostra stampa, anche se la forma appuntita del suo copricapo, la curva dell’addome e le pesanti pieghe della veste sono qui più pronunciate, conferendole ancor più un’aria neerlandese. L’uomo, come il personaggio maschile della Coppia di danzatori, tiene in mano quello che parrebbe sembrare un fazzoletto; la gamba destra fuoriesce dal lungo abito dal quale sporge una lunga scarpa appuntita, calzatura tipica delle mode del nord, che assomiglia – per quanto questo dettaglio sia di difficile lettura dal momento che la forma del piede si confonde in maniera poco esperta con le pieghe del vestito – a quella del giovane protagonista della stampa col Giardino dell’Amore (cat. n. 17); chiaramente il particolare non è stato capito o è stato alquanto confuso dal copista durante il processo di riproduzione in stampa. Anche il lungo abito dell’uomo e il farsetto sottostante, così come l’acconciatura della donna, possono essere stati ugualmente male interpretati (Jane Bridgeman, comunicazione orale). Forse le figure sono basate su disegni derivati da originali neerlandesi, da utilizzare in bottega come punto di partenza e spunto iconografico. Come già notava HIND (1938-1948), “gli abiti della coppia, in particolare quello della donna – ed il suo portamento – porterebbero a pensare che si tratti dell’imitazione di un modello nordico”, opinione condivisa anche da KRISTELLER (1909) e ZUCKER (1993). Come per la Coppia di danzatori e il Giardino dell’Amore (cat. nn. 19, 17), la stampa potrebbe riflettere, infatti, il tema amoroso così come esso era esemplificato nei dipinti fiamminghi delle collezioni medicee, assai diffusi a Firenze sul finire del XV secolo. Inoltre l’incisione può anche essere messa in relazione alle stampe con coppie innamorate all’interno di un giardino del Maestro BXG (cfr. J.P. Filedt Kok in, AMSTERDAM 1985, p. 200, n. 101.1, ripr.). Paula Nuttall Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, XIII, p. 148, n. 15; PASSAVANT 1854-1860, V, p. 38, n. 82; KRISTELLER 1909, n. 17, ripr.; HIND 1938-1948, I, p. 92, n. A.IV.18, tav. 147; ZUCKER 1993, p. 144, 2403 Baccio Baldini, n. 027
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19. Baccio Baldini (Firenze ca 1436-1487) attribuito
Coppia di danzatori incisione; diam. mm 202 (bordi esterni) iscrizioni: sulla manica dell’abito dell’uomo: AME DROIT provenienza: acquistato a Firenze dal Barone Philippe de Stosch tra il 1731 e il 1757 ; lasciato in eredità a Heinrich Wilhelm Muzel (detto Stosch Walton); dopo la sua morte acquistato a un’asta (Berlino 1783) da Ernst Peter Otto (1724-1799) di Lipsia; acquistato in seguito dagli eredi di Otto (1851-1852) dal British Museum, Londra Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. n. A.IV.13
Questa stampa con una coppia di danzatori di impronta neerlandese, circondata da una corona di fiori, angeli musicanti, e una coppia sdraiata a terra più classicheggiante fa parte del gruppo di incisioni fiorentine, attribuite a Baccio Baldini, provenienti dalla collezione Otto, a proposito delle quali si veda la scheda relativa al Grasso che suona il liuto in questo catalogo. Come molte altre incisioni che fanno parte di questo gruppo il tema è l’amore. Il medaglione centrale raffigura una coppia elegantemente abbigliata che, immersa nei raggi del sole, si esibisce in una danza signorile. Sulla manica del vestito dell’uomo che stringe in mano un fazzoletto – regalo simbolico che spesso veniva donato alle spose – si legge l’iscrizione Ame Droit, che riporta alla mente l’amore di corte francese. Anche se l’uomo è vestito all’italiana, l’acconciatura e l’abito aderente decorato in ermellino della donna ricordano le mode delle corti di Francia e del ducato di Borgogna, molto diverse dalle contemporanee mode fiorentine, sottolineando ulteriormente i nessi con la cultura cavalleresca. I due ballerini sono circondati da una corona di racemi d’acanto entro la quale un gruppo di vispi puttini suonano
rumorosamente, in contrasto con la danza pacata dei due amanti. L’esito della danza è sottinteso nella coppia di amanti distesi in basso, che richiama le donne nude e gli uomini vestiti che si trovano raffigurati all’interno delle cassapanche nuziali; una donna nuda distesa in posizione comparabile e lo stesso sapore classicheggiante ritorna nella Victoria distesa incisa intorno al 1500-1505 da Jacopo de’ Barbari; (cfr. J.A. Levenson in, WASHINGTON 1973; ZUCKER 1993, A. Wright in, LONDRA 1999). Anche se meno apertamente lasciva rispetto al Grasso che suona il liuto (cat. n. 16), la nostra stampa, con il suo contrasto tra cultura “alta” e “bassa”, tra vestito e nudo, tra decoroso e chiassoso, dimostra con quello divertenti analogie e simili allusioni sessuali. Sono palesi i legami tra quest’incisione e molte altre stampe della bottega di Baldini. La coppia di ballerini ripete in controparte una coppia simile raffigurata nel Pianeta Venere, nonostante la posa della dama sia più fedele rispetto a quella dell’uomo (HIND 1938-1948, I, p. 81, n. A.III.5a, tav. 122; ZUCKER 1993, p. 113, 2403 Baccio Baldini, n. 005, ripr.). Nella posa e nel vestito, la donna è quasi identica al personaggio femminile della Dama e gentiluomo accompagnati da un musico (cat. n. 18). Il motto che compare sulla manica del vestito dell’uomo nella Coppia di danzatori ritorna sulla gamba dell’uomo del Pianeta Venere e sulla manica di uno dei personaggi femminili del Giardino dell’Amore (cat. n. 17), seppur con qualche variante ortografica in tutte e tre le versioni. L’impiego del motto francese a richiamo dei valori cavallereschi, assieme ai peculiari caratteri nordici della dama della quale il ‘vestito e il portamento rimandano alle mode dell’arte fiamminga o borgognona’ (HIND 1938-1948), suggerirebbe l’uso di una comune fonte nordica per tutti e tre i progetti. Alcuni panni dipinti fiamminghi di proprietà della famiglia Medici rappresentavano scene d’amore, come Un’ uomo et una femina, Quattro donne e tre uomini che si danno piacere, o il Giardino dell’Amore (NUTTALL 2004, pp. 110, 112-113). Furono forse immagini del genere a suggerire lo spunto per la stampa qui presentata, fornendo agli inventori fiorentini del nuovo materiale con il quale arricchire il repertorio profano già esistente. Paula Nuttall Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, XIII, p. 145, n. 7; PASSAVANT 1854-1860, V, p. 37, n. 73; KRISTELLER 1909, n. 7; HIND 1938-1948, I, p. 91, n. A.IV.13, tav. 142 ; K. Oberhuber in, WASHINGTON 1973, p. 15, fig. 2-3; J.A. Levenson in, WASHINGTON 1973, p. 362 nota 3; ZUCKER 1993, p. 141, 2403 Baccio Baldini, n. 022, ripr. e p. 148; A. Wright in, LONDRA 1999, p. 341 ripr.; NUTTALL 2004, p. 112
B. Baldini, Il Pianeta Venere, incisione. Londra, British Museum
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20. Maestro SE (Firenze, ultimo quarto del Quattrocento)
Danza Moresca con la donna delle salsicce incisione; mm 382 × 565 iscrizioni: in basso al centro SE Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. st. sc. n. 197
Di questa grande incisione, conosciuta con titoli diversi, ovvero Donna delle Salsicce, Danza Carnescialesca, e Bambocciata, esistono vari esemplari elencati da HIND (1938-1948; si veda anche LAMBERT 1999). Il primo a notarla fu ZANI (1802), che la attribuì a Francesco Squarcione basandosi sul monogramma SE sormontato da un segno che indicava abbreviazione e che lui interpretò come contrazione di “Squarcione”. PASSAVANT (18601864) la ricondusse invece alla scuola di Mantegna, CROWE e CAVALCASELLE (1912) a Bernardo PARENTINO e PETRUCCI (1930-1931) a Mantegna stesso, mentre SCHMITT (1974) riprese l’originaria attribuzione di Zani a Squarcione; DONATI (1958) propose il nome di un incisore fiammingo. WARBURG (1901, ed. 1932), tuttavia, ascrisse l’appartenenza del foglio alla scuola fiorentina, appoggiato da FERRI (1915) che ne sottolineava il carattere fiorentino delle pieghe e degli ornamenti, seguito poi da DE WITT (1931), HIND (1938-1948) e dalla maggior parte degli studiosi successivi. L’invenzione della stampa è stata attribuita a diversi artisti, quali Antonio Pollaiuolo (HIND 1938-1948; RAGGHIANTI 1962, 1975), Botticelli (KWAKKELSTEIN 1998) e all’autore dei disegni di “Danzatori” burleschi degli Uffizi attribuiti a Verrocchio (cat nn. 21, 22) invariabilmente relazionati a questa stampa, il cui disegno preparatorio, secondo FERRI (1915), era stato fornito dallo stesso autore di quelli. La forma e gli ornamenti dei sedili occupati dai trombettieri sembrano riflettere il disegno di Verrocchio della Tomba di Piero e Giovanni de’ Medici a San Lorenzo del 1469 (DE WITT 1931; HIND 1938-1948) o il disegno dell’inginocchiatoio della Madonna nell’Annunciazione di Leonardo agli Uffizi. Ciò porterebbe ulteriore sostegno all’ipotesi che colloca l’origine del foglio nella bottega di Verrocchio, ancor più credibile se, allo stesso artista, sono ascrivibili i Danzatori degli Uffizi. Collegamenti con il circolo di Verrocchio appaiono plausibili anche in conseguenza al rapporto, spesso evidenziato, tra la stampa e le teste grottesche di Leonardo (TIETZE CONRAT 1957; RAGGHIANTI 1962; MCGRATH 1977; G. Dillon in, FIRENZE 1992b; DILLON 1994; EMISON 1997; KWAKKELSTEIN 1998). Non vi sono testimonianze di alcuno stampatore dalle iniziali SE nel Quattrocento a Firenze. RAGGHIANTI (1975) osservava che “l’esecuzio-
Israhel van Meckenem Moresca, incisione. Londra, British Museum
ne grafica conviene a Baccio Baldini (non senza un’ipotesi verso Francesco Rosselli”), mentre ZUCKER (1994) riteneva il modo di ombreggiare “a metà strada tra Pollaiuolo e [Francesco] Rosselli”. L’affinità stilistica con le incisioni della cerchia di Baldini, come le “Stampe Otto” (cat. nn. 1619) e i Pianeti, rendono possibile l’ipotesi che il monogrammista SE fosse tra gli stampatori che lavoravano nella bottega di quello. Congettura che non contraddice la teoria che vorrebbe il disegno uscito della cerchia del Verrocchio, dal momento che la bottega di Baldini si appropriava spesso dei disegni di altri artisti. Il soggetto di questa “rara e curiosissima stampa” (FERRI 1915) è intrigante. Essa rappresenta una grottesca donna anziana con in una mano uno spiedino di salsicce e nell’altra uno zampone di maiale, circondata da un gruppo di ballerini, le cui pose atletiche e i campanelli intorno alle caviglie indicano, come ha rilevato la Tietze-Conrat, che sono intenti nella popolare ed energica danza conosciuta come moresca (per questa si vedano anche cat. n. 20). La presenza di una donna sola in mezzo agli uomini danzanti in cerchio, che si disputano i suoi favori, è a sua volta caratteristica di questo ballo. Nonostante la moresca si ballasse in Italia, è molto raro trovarla come soggetto nell’arte italiana, diversamente che nel nord d’Europa; infatti, come osserva DILLON (1994), la stampa sembra essere una “versione nostrana” di un’immagine oltremontana. Warburg fu il primo a rilevare la connessione tra la stampa e la descrizione, nell’inventario di Lorenzo de’ Medici del 1492, di un panno dipinto neerlandese a Palazzo Medici, che inscenava “più fighure bachanarie intorno a una quaresima”. Quest’ultima sembra essere stata una rappresentazione allegorica della derisione della Quaresima, probabilmente composta dalla figura centrale di Quaresima circondata da un gruppo di figure festanti, di cui alcune, o forse tutte, intente a partecipare ad una frenetica moresca, ballo che rievoca la “pazzia” e gli eccessi propri del Carnevale (EMISON 1997; WRIGHT 2005). I Medici possedevano inoltre un “panno fiandrescho” dipinto con un Ballo a Moresca, ovvero “brighata fa la moresca “, menzionata nella villa dei Medici a Careggi negli inventari del 1482 e del 1492 (cfr. NUTTALL 2004; è invece errata l’identificazione da parte di REZNICEK [1968, pp. 86, 88] di una seconda Moresca neerlandese a Careggi, confusa da lui con due stuoie moresche nello stesso inventario; cfr. NUTTALL 1995, p. 142, nota 31), che probabilmente raffigurava una donna sola circondata da ballerini “bachanari”, come suggeriscono altre rappresentazioni dello stesso tema, ad esempio quelle di Israhel van Meckenem. Se una o entrambe queste pitture neerlandesi dei Medici possono essere state il modello per la stampa in esame (TIETZE CONRAT 1957; EISLER 1965; ZUCKER 1994; NUTTALL 1995a, 2004), il tramite furono eventualmente disegni, come i “danzatori” degli Uffizi (cat. nn. 21, 22). Fino a che punto la stampa sia fedele all’originale è tuttavia materia di congetture. La vecchia con lo spiedino e lo zampone di maiale evoca più il Martedì grasso che la Quaresima, ed infatti, il soggetto della stampa è stato spesso identificato come una danza carnevalesca. La stampa potrebbe essere una rielaborazione della Quaresima fiamminga nello spirito dei “Canti Carnascialeschi” fiorentini, in cui la vecchia megera sarebbe forse da intendere come la personificazione del Carnevale stesso (TIETZE CONRAT 1957; EMISON 1997). Nella Firenze del Quattrocento, ove le festività di carnevale includevano anche figure comiche in abiti “tedeschi” (cioè del nord d’Europa), l’utilizzo di immagini nordiche che rappresentassero scene carnevalesche dovevano risultare certamente adatte. L’elaborato copricapo “alla parigina” indossato dalla vecchia potrebbe avere un particolare rilievo in questo contesto. Per di più, esso doveva presumibilmente essere percepito come inappropriato allo status del personaggio: pertanto, invertendo i ruoli convenzionali di classe, età e sesso, non solo la donna ma tutte le figure della stampa diventano oggetto di caricatura (EMISON 1997), nonché monito contro comportamenti trasgressivi (WRIGHT 2005). Allo stesso modo, esse possono anche rivestire un ruolo moralizzatore contro i peccati di gola, vanità e lussuria (MCGRATH 1977). Diversamente però ZUCKER
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(1994), sottolineando l’espressione infelice della donna, la interpretò come la personificazione, non del Carnevale, ma della Quaresima. Se è così, la stampa potrebbe essere ancora più vicina di quel che si pensi al dipinto nordico dei Medici con Più fighure bachanarie intorno a una quaresima. Le affinità di questa con altre due stampe cinquecentesche suggeriscono l’esistenza di un prototipo comune, apportando nuove prove alla teoria che esse siano derivate direttamente da un originale fiammingo (HIND 1938-1948; TIETZE CONRAT 1957; DONATI 1958; MCGRATH 1977; ZUCKER 1994). La Danza Moresca di Daniel Hopfer di Augusta, del 1520 circa, riproduce, invertita, la composizione della stampa fiorentina, con una fiasca al posto del zampone di maiale e alcune varianti nelle figure, oltre l’inserimento di caratteri fisiognomici derivati dalle teste di Leonardo. Ciò ha suggerito l’ipotesi che la fonte di entrambe le stampe, la Donna delle salsicce e quella di Hopfer, sia stato un disegno perduto di Leonardo, basato a sua volta sul dipinto neerlandese dei Medici (TIETZE CONRAT 1957). Un’altra stampa poi, La danza della Terra, del 1540 circa, attribuita allo stampatore di Anversa Pieter Baltens, dipenderebbe dallo stesso prototipo nordico, dal momento che riproduce, nello stesso verso, la composizione della Donna delle salsicce con la quale condivide somiglianze nelle figure, mentre non presenta alcuna relazione con Leonardo. Ulteriori rapporti con una stampa raffigurante gli stolti Marcolfo e Policana, dello stampatore di Francoforte (fine del Quattrocento) Maestro BXG (L.II.33), evidenziati da DONATI (1958), danno ulteriore sostegno a questa teoria. La Donna delle salsicce è un’immagine complessa che può essere interpretata a più livelli. Come sottolinea EMISON (1997), qui si utilizza l’arte ‘volgare’ della stampa per illustrare un soggetto ‘volgare’, che pure doveva attirare l’interesse, tanto dell’elite aristocratica, quanto del mercato ‘popolare’. L’immagine è umoristica e, chiaramente, didattica nell’invitare lo spettatore a ridere del comportamento raffigurato e di conseguenza a denigrarlo, in contiguità con la poetica delle ‘facezie’ e dell’umorismo, caratteristica dello ‘stile rozzo’ promosso dal circolo di Lorenzo de’Medici. Essa presenta lampanti tratti carnevaleschi e può raffigurare sia una danza di Carnevale che la derisione della Quaresima. Vi si legge inoltre la parodia
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comica di una moresca, tradizionalmente rappresentata da una donna slanciata e attraente che alza un anello, simbolo degli amanti, qui sostiuita dalla vecchia megera grassa che tiene in mano oggetti – salsicce e zampone di maiale – dalle volgari connotazioni sessuali. Nel linguaggio popolare “porca” voleva dire “zozzona”, e gli orifizi del muso del maiale erano assimilati alle labbra degli organi genitali femminili (EMISON 1997). Per la sua forma, lo zampone di maiale aveva probabilmente le stesse connotazioni, mentre l’ovvia simbologia fallica delle salsicce viene rinforzata dal fatto che esse sono uguali in numero agli uomini danzanti. Tutte queste caratteristiche rivelano stringenti parallelismi con l’arte del Nord che, attraverso i suoi dipinti e stampe, offriva al pubblico fiorentino l’opportunità di gustare soggetti di “vita volgare”, comuni ad entrambe le culture ma non parte però della tradizione pittorica locale. Vale la pena di ricordare che molti tra i dipinti neerlandesi in possesso dei Medici si presentavano nella forma relativamente umile del “panno dipinto” e, inoltre, raffiguravano spesso soggetti salaci presentati in modo comico-didattico. Che questa stampa sia eco fedele di un originale nordico, una libera estrapolazione fiorentina o qualcosa a metà strada, essa è ad ogni modo una testimonianza del fascino esercitato da questo genere d’immagini nordiche nella Firenze di fine Quattrocento. Paula Nuttall Bibliografia: ZANI 1802, p. 60; PASSAVANT 1860-1864, I, pp. 240-242, V, p. 117, n. 86; WARBURG 1901, ed. 1932, I, p. 211; CROWE-CAVALCASELLE 1912, II, p. 63; FERRI 1915, nn. 22-25; PETRUCCI 1930-1931, p. 412; DE WITT 1931, pp. 225-229; ID. 1938, pp. 17-18, n. 197; HIND 1938-1948, I, pp. 142-143, n. B III 12, tav 209; TIETZE CONRAT 1957 pp. 94-96 ripr. ; DONATI 1958, p. 97-102; RAGGHIANTI 1962, pp. 3-20 ripr.; MELLER 1965, pp. 3-5, fig. 1; EISLER 1965, p. 290; SCHMITT 1974, pp. 208-211; REZNICEK 1968, pp. 86, 88 nota 9; RAGGHIANTI 1975, p. 25; MCGRATH 1977 pp. 87-90; G. Dillon in, FIRENZE 1992, pp. 120-122, ripr.; DILLON 1994, pp. 227-228; ZUCKER 1994, pp. 221-224; NUTTALL 1995a, p. 142; METKEN 1996; EMISON 1997, pp. 112-120 ripr.; KWAKKELSTEIN 1998, p. 3, fig. 1; LAMBERT 1999. p. 118, nn. 241a, b, ripr.; NUTTALL 2004, p. 112 ripr.; WRIGHT 2005, p. 110
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21. Andrea del Verrocchio (Firenze 1435 - Venezia 1488) attribuito
Uomo vecchio che danza punta metallica su carta bianca con leggeri tratti a penna di mano diversa; mm 228 × 166 iscrizioni: nell’angolo in basso a sinistra Il detto provenienza: probabilmente cardinal Leopoldo de Medici; fondo mediceolorenese Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 2323F
L’Uomo vecchio che danza appartiene a una serie di 8 disegni (Uffizi 2321F-2328F) raffiguranti personaggi burleschi – soprattutto figure individuali di danzatori grotteschi –, che compongono un gruppo stilisticamente, tematicamente e tecnicamente omogeneo. I numeri 2324F, 2325F e 2326F, nella grafia di una mano del XVII secolo che si crede quella di Filippo Baldinucci, portano l’iscrizione i “Brugale” (o Pieter Bruegel il Vecchio), a cui anche “il detto”, sul disegno in questione, si riferisce; la serie intera è infatti individuabile sotto il nome del vecchio Bruegel nel XIX libro universale registrato nell’inventario manoscritto della collezione granducale stilato da Pelli Bencivenni prima del 1793 (DILLON 1994) e probabilmente inclusa tra i 19 fogli presenti sotto il nome “Brugol vecchio” nella Lista del 1673-1675 di disegni della collezione di Leopoldo de’ Medici (BALDINUCCI 1673-1675, p. 185) e tra i 15 fogli presenti nel 1687 nello stesso libro universale XIX e menzionati nella Nota de’ libri de’ disegni nelle collezioni granducali del 1687 (ed. Monaci 1987, p. 745). Nonostante l’originaria attribuzione a Bruegel fosse avanzata da Ferri nel suo Catalogo riassuntivo e ancora nel suo fascicolo dei facsimili dei disegni degli Uffizi dedicati alla scuola tedesca e fiamminga (FERRI 1890, 1915), egli stesso non ne era del tutto convinto, se suggeriva anche potersi trattare di “uno dei migliori maestri italiani del quattrocento”, collocando la serie nell’ambito del Pollaiuolo, del Verrocchio e del Botticelli. FRIZZONI (1908) respinse questa ipotesi, mentre il nome di Quentin Massys, suggerito in alternativa a Bruegel da VALENTINER (1914), fu invece rifiutato dal FRIEDLÄNDER (1930). HIND (1938) appoggiò la attribuzione di Ferri alla scuola fiorentina, seguito dagli studiosi successivi, con l’eccezione del MELLER (1965), che li attribuì a Francesco del Cossa. All’interno dell’ambito fiorentino, la loro attribuzione ha oscillato tra Antonio Pollaiuolo (HIND 1938; FIRENZE 1949; RAGGHIANTI 1962, 1975), principalmente per la forte somiglianza con i danzatori di Villa Gallina ad Arcetri, e il Verrocchio (EISLER 1965; G. Dillon in, FIRENZE 1992b; DILLON 1994; WRIGHT 2005). Successive correzioni alle schede manoscritte del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi hanno portato altre testimonianze nella irrisolta storia attributiva dei fogli, sempre oscillante tra il Pollaiuolo e il Verrocchio. I disegni sono per la maggior parte in stato di conservazione mediocre: sbiaditi nel tratto in certi punti o ritoccati successivamente a penna in modo alquanto pesante da un’altra mano; i numeri 2323F e 2327F (cat. n. 22) sono i meglio conservati, quasi senza ritocchi. Qui, la fluidità e la finezza del tratto, la delicatezza del modello, la dinamica torsione – e, nel n. 2326F, non esposto, la resa delle pieghe dei tessuti – sembrano più vicini al Verrocchio che al Pollaiuolo. In tal senso, è stata più volte rilevata l’affinità disegnativa con le teste grottesche di Leonardo (MELLER 1965; RAGGHIANTI 1975; G. Dillon in. FIRENZE 1992b; DILLON 1994), a rinforzare l’ipotesi della paternità del Verrocchio o di un dotatissimo disegnatore della sua cerchia, non esclusa la possibilità del giovane Leonardo, come forse suggerisce implicitamente l’attribu-
zione di EISLER (1965) a “un singolarmente talentuoso giovane artista della cerchia del Verrocchio”. Da tempo è stata riconosciuta (FERRI 1915) una relazione tra i danzatori degli Uffizi e l’incisione fiorentina quattrocentesca conosciuta come la Bambocciata, la Danza Carnascialesca o, più precisamente, la Danza Moresca con la donna delle salsicce (cat. n. 20), che Ferri considerava ispirata a uno dei disegni degli Uffizi. La posa contorta e l’incipiente movimento in avanti, con il braccio disteso davanti al petto, nel n. 2323, stringono una relazione, seppur non troppo stringente, col danzatore della stampa che sta immediatamente dietro la donna. WARBURG (1901, ed. 1932) ha notato nella stampa il ricordo di un “panno fiandresco” dipinto con “Più fighure bacchanarie intorno a una Quaresima”, ricordato nel 1492 a Palazzo Medici. Essa potrebbe anche rispecchiare un secondo “panno” dipinto neerlandese, con una “brighata fa la moresca” menzionata nella villa dei Medici a Careggi negli inventari del 1482 e del 1492 (NUTTALL 2004, p. 112; è errata invece l’identificazione da parte di REZNICEK [1968] di una seconda Moresca neerlandese a Careggi; cfr. cat. n. 20). Warburg tuttavia, non era a conoscenza dei disegni agli Uffizi; fu EISLER (1965) a menzionarli in relazione con i dipinti Medici in stile fiammingo, seguito da NUTTALL (1995a, 2004). La Moresca era una danza popolare nell’Europa del XV secolo, chiassosa e piena di energia, caratterizzata da balzi atletici e gesti difficili, ballata principalmente da uomini. Non propriamente elegante, era cionondimeno una delle forme di divertimento preferite nei cenacoli più elitari, sia nell’Europa settentrionale che in Italia, dove spesso prendeva forma di mascherata; era ugualmente una forma di baldoria popolare e appare, con connotazioni a metà tra l’ebbrezza e la libidine, nella poesia umoristica in rozzo stile della Firenze laurenziana (MCGRATH 1977; EMISON 1997, pp. 111-112; WRIGHT 2005, pp. 110111). Nonostante il ‘panno’ neerlandese con il Ballo a Moresca Medici sia andato perduto, i suoi danzatori assomigliavano presumibilmente a quelli illustrati in altre rappresentazioni tedesche e fiamminghe della stessa danza, come la miniatura del Maestro di Wavrin (Bruxelles, Biblioteca Reale, 9632-33), le incisioni di Israhel van Meckenem (fig. a cat. n. 20), e le statue di Erasmus Grasser per il Tanzsaal del Municipio di Monaco di Baviera. L’atletico danzatore nel n. 2323 sta indubbiamente ballando la Moresca e, pur tradotta nell’idioma fiorentino, la sua posa deriva probabilmente dalle esagerate contorsioni degli esempi nordici. Significativamente VALENTINER (1914), che credeva che i disegni fossero fiamminghi, li considerava come studi per una Kermesse (Quaresima); infatti l’iniziale attribuzione dei disegni a Bruegel e Massys testimonia il loro innato carattere nordico. Sembrerebbe che la Moresca dei Medici e il disegno con Più fighure bachanarie intorno a una quaresima, il cui titolo suggerirebbe danzatori saltellanti intorno a una personificazione della Quaresima, abbiano suscitato un considerevole interesse a Firenze intorno al 1470,
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Erasmus Grasser, Danzatore Moresco. Monaco di Baviera, Stadtmuseum
22. Andrea del Verrocchio (Firenze 1435 - Venezia 1488) attribuito
Danzatore grottesco punta metallica, tracce di penna di mano diversa, su carta bianca, mm 215 × 185 provenienza: probabilmente cardinal Leopoldo de Medici; fondo mediceolorenese Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 2327F
data che potrebbe essere associata, sul piano stilistico, non solo ai Danzatori degli Uffizi, ma anche alla stampa con la Danza Moresca con la donna delle salsicce e ai Danzatori del Pollaiuolo ad Arcetri. Quale fosse precisamente la relazione tra questi lavori è terreno di congetture, così come la funzione originaria dei disegni agli Uffizi. Secondo EISLER (1965) tali disegni erano il frutto del rinnovato interesse verso gli originali neerlandesi (o disegni derivati da quelli), stimolato dalla stampa; ma nel caso di una relazione diretta, è più verosimile che, considerando il relativo virtuosismo e l’invenzione dei disegni, sia la stampa a dipendere da essi, come pensa Ferri. WRIGHT (2005) li considerava derivanti dai Danzatori del Pollaiuolo ad Arcetri. Ancora il carattere nordico del n. 2323, con i suoi contorni sinuosi e la morfologia facciale da schiaccianoci (che ricorda molto i carnefici della Passione e del Martirio del linguaggio figurativo nordico), è così pronunciato che è difficile credere esso possa essere stato ispirato da altro se non da un confronto diretto con un modello neerlandese. La sua vitalità e invenzione suggeriscono, inoltre, una sfida creativa, e anche competitiva, con l’originale. Sappiamo che i Medici entrarono in possesso di numerosi panni dipinti da Bruges negli anni Sessanta del Quattrocento; la Moresca e la Quaresima sarebbero state così delle novità a Firenze intorno al 1470, fornendo i modelli per la rappresentazione di pose vigorose e complicate, in un periodo in cui gli artisti fiorentini stavano diventando sempre più interessati alla rappresentazione del movimento. Paula Nuttall Bibliografia: FERRI 1890, p. 399; WARBURG 1901, ed. 1932, I, p. 211; FRIZZONI 1908, p. 407; VALENTINER 1914, pp. 85-88; FERRI 1915, nn. 22-25; FRIEDLÄNDER 1930, p. 228; HIND 1938-48, I, p. 142; FIRENZE 1949, p. 53; RAGGHIANTI 1962, pp. 21-40; MELLER 1965, pp. 3-20, tav. 6; EISLER 1965, p. 290; RAGGHIANTI-DALLI REGOLI 1975, pp. 2225; MCGRATH 1977, pp. 87-90; G. Dillon in, FIRENZE 1992b, pp. 120-122, n. 5.1, ripr.; DILLON 1994, pp. 217-230; NUTTALL 1995, p. 142; EMISON 1997, pp. 112-120; NUTTALL 2004, p. 112; WRIGHT 2005, pp. 110-111
Il Danzatore grottesco appartiene al gruppo di figure burlesche che comprende anche il n. 2323F (si veda cat. n. 21, anche per la provenienza e la storia attributiva, dalla registrazione tardosecentesca come Bruegel il Vecchio in poi). Insieme a quest’ultimo, il disegno è uno dei fogli meglio conservati della serie, con pochi ritocchi a penna. Nell’inventario manoscritto del Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi, è riportato, di mano di Ferri, il nome “Bruegel”, poi cancellato e rimpiazzato da una nuova iscrizione: “Verrocchio o Pollauiolo?”. Come il n. 2323F anche questo disegno può essere collegato alla Moresca, uno dei “panni fiandreschi” ovvero dipinti neerlandesi su tela di casa Medici. Le maniche svolazzanti dell’abito del personaggio, con pieghe angolari ed estremità che ricadono in basso, richiamano i modelli dei panneggi nordici e possono essere messi a confronto con quelle del Danzatore Moresco nel Municipio di Monaco eseguito da Erasmus Grasser attorno al 1480. La caratteristica posa delle mani, con le dita lunghe, aperte e leggermente arcuate, sono reminescenze sia della figura di Grasser che della Moresca di Israhel van Meckenem (fig. a cat. n. 20), e suggerirebbero l’imitazione di un prototipo nordico più generico. Si potrebbero rintracciare ulteriori analogie con l’incisione che raffigura la Danza Moresca con la donna delle salsicce (cat. n. 20); in particolar modo nella figura che balza in avanti sulla sinistra della composizione. Paula Nuttall Bibliografia: FERRI 1890, p. 399; WARBURG 1901, ed. 1932, I, p. 211; FRIZZONI 1908, p. 407; VALENTINER 1914, pp. 85-8; FERRI 1915, nn. 22-25; FRIEDLÄNDER 1930, p. 228; HIND 1938-1948, I, p. 142; FIRENZE 1949, p. 53; RAGGHIANTI 1962, pp. 3-20; MELLER 1965, pp. 3-20, tav. 6; Eisler 1965, p. 290; RAGGHIANTI 1975, pp. 22-25, fig. 5; G. Dillon in, FIRENZE 1992b, pp. 120-122, n. 5.3, ripr.; DILLON 1994, p. 217-230; NUTTALL 1995a, p. 142; ID. 2004, p. 112; WRIGHT 2005, pp. 110-111
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23. Hans Memling (Seligenstadt ca 1455 - Bruges 1494)
Passione di Cristo olio su tavola; cm 56,7 × 92,2 provenienza: Firenze, ospedale di Santa Maria Nuova; nel 1550 proprietà del granduca Cosimo I de’ Medici; nel 1570 proprietà del Papa Pio V; nel 1572 nel monastero di Santa Croce Bosco Marengo, nei pressi di Alessandria (Piemonte); nel 1814 di proprietà del re Vittorio Emanuele I di Savoia; ereditato da re Alberto Carlo di Savoia; dal 1832 nella Galleria Sabauda di Torino. Torino, Galleria Sabauda, inv. n. 8
Nella prima edizione delle Vite del 1550, Vasari cita un dipinto di Memling presente nelle collezioni di Cosimo I: “Ausse [Hans Memling] creato di Rugieri [allievo di Rogier van der Weyden] che fece a’ Portinari in Sancta Maria Nuova di Fiorenza un quadro picciolo, il qual è oggi apress’al Duca Cosimo” (VASARI 1550, ed. Bellosi-Rossi 1986, pp. 67-68). Nella seconda edizione del l568 ne ricorda anche il soggetto: ”Hausse [Hans Memling], del quale abbiàn, come si disse, in Fiorenza in un quadretto piccolo, che è in man del duca, la Passione di Cristo” (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, VII, pp. 580-581). Dunque, a detta del Vasari, la Passione fu dipinta per un membro della famiglia Portinari ed era precedentemente ubicata nell’ospedale di Santa Maria Nuova. Il committente e sua moglie sono rappresentati in ginocchio negli angoli inferiori del dipinto. I coniugi furono ritratti en buste da Memling su due pannelli oggi al Metropolitan Museum of Art di New York (inv. n. 14.40.626-627), che originariamente erano gli sportelli di un trittico di devozione privata; il pannello centrale con la Vergine e il Bambino è invece perduto (M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1998, pp. 162-163; WALDMAN 2001). I due ritratti rappresentano Tommaso di Folco Portinari e sua moglie Maria Baroncelli che appaiono, assieme a tre figli, anche sui laterali del Trittico Portinari dipinto da Hugo van der Goes (1473 ca-1478 ca, Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 nn. 3191-3 ; si veda all’interno del catalogo i saggi di Ridderbos e Rohlmann). Tommaso Portinari, amministratore della filiale del banco mediceo a Bruges sposò a Firenze Maria Baroncelli nel 1469 che l’anno successivo raggiunse il marito a Bruges. La prima figlia, Margherita, nacque nel settembre del 1471; dal momento che Margherita non appare raffigurata nella Passione si suppone che il dipinto sia stato eseguito prima della sua nascita. Il trittico del quale facevano parte i ritratti New York può essere datato approssimativamente agli stessi anni; entrambi i lavori potrebbero essere stati commissionati in occasione del matrimonio ma eseguiti solo quando Maria giunse a Bruges (secondo DE VOS 1994, p. 100, e M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1998, p. 162, il matrimonio avvenne nel 1470; si veda, comunque, ROHLMANN 1994, p. 57). Attorno al 1510-1515, il Maestro della Passione di Bruges copiò dalla composizione di Memling alcuni motivi e scene in una Crocifissione ed in un Ecce Homo – traendone per quest’ultimo ispirazione anche nell’orchestrazione cromatica (Crocifissione, Cattedrale del San Salvatore, Bruges, Tesoreria, inv. n. 12; Ecce Homo, Londra, The National Gallery, inv. n. NG1087; DE VOS 1994, p. 109). Questo significherebbe che, nel caso l’anonimo Maestro non si fosse basato su una copia ma piuttosto sull’originale della Passione, essa rimase a Bruges quando Tommaso tornò a Firenze, dove morì nel 1501. Secondo alcuni studiosi, la Passione dovette essere utilizzata come pala d’altare per la cappella di Portinari nella chiesa di San Giacomo a Bruges (DE VOS 1994, p. 109; WALDMAN 2001, p. 30); tuttavia Nuttall ritiene che il tema del dipinto sia una scelta piuttosto curiosa per una cappella dedicata alla Vergine e crede che il dipinto si trovasse nella chiesa dei Francescani Osservanti di Bruges del quale Portinari era protettore. La dettagliata esecuzione della Passione farebbe pensare che il
dipinto, più che su un altare, fosse appeso ad una parete per essere ammirato da vicino. Esso potrebbe essere stato rimosso dalla parete e inviato a Firenze quando la chiesa dei Francescani Osservanti venne abbandonata nel 1518 (NUTTALL 2004, p. 64; per i rapporti tra il Portinari e i Francescani Osservanti, si veda anche WOLFTHAL 2007, pp. 9-14). Il dipinto mostra l’intero ciclo di scene della Passione e anche della Resurrezione, combinate in una sola immagine come se queste scene si svolgessero nello stesso tempo. Immagini del genere, in cui scene cronologicamente successive una rispetto all’altra vengono raffigurate all’interno di uno stesso spazio pittorico, furono definite da KLUCKERT (1974, p. 284) come Simultanbilder, ossia ‘immagini simultanee’. Miniature del XIV secolo, cronache mondane e bibles historiées servirono forse come fonte di ispirazione per tali immagini simultanee; tuttavia, secondo MARTENS (1990-1991, p. 10), si possono rintracciare fonti d’ispirazione più evidenti per la Passione di Memling nei tableaux vivants o in altre forme di spettacolo di strada, inscenate durante le entrate trionfali in città dei duchi di Borgogna. Durante la tarda attività artistica Memling dipinse altre due, più grandi, immagini simultanee: Le sette gioie della Vergine, nel 1480 (Monaco, Alte Pinakothek, inv. n. WAF 668; DE VOS 1994, pp. 173-179, n. 38, ripr.) e il Trittico Greverade nel 1491 (Lübeck, Sankt-Annen-Museum, inv. n. 1948/138; DE VOS 1994, pp. 320-329, n. 90, ripr.). Memling dà inizio alla narrazione della Passione a sinistra, sullo sfondo, con L’entrata a Gerusalemme. Le scene raffiguranti la Cacciata dei mercanti dal tempio, la Corruzione di Giuda e l’Ultima Cena guidano l’occhio dello spettatore fino alla Preghiera nell’orto ed alla Cattura di Gesù nell’angolo inferiore sinistro del dipinto. La storia continua tra le mura della città con, a sinistra la Negazione di Pietro e Cristo davanti a Pilato; sull’estrema destra Cristo con la veste davanti a Pilato; al centro la Flagellazione; e, a destra, l’Incoronazione di spine e l’Ecce Homo. Davanti alla scena con la Flagellazione, dei falegnami lavorano alla fabbricazione della croce. Nell’angolo inferiore destro Cristo porta la croce circondato dalla folla che esce dalle porte della città per avviarsi verso il Golgota dove si svolgono le scene del Cristo inchiodato alla croce, della Crocifissione e della Deposizione. Sulla parte destra si scorgono il Seppellimento, la Discesa al Limbo, la Resurrezione, il Noli me Tangere, l’Apparizione sulla via di Emmaus, e l’Apparizione presso il lago di Tiberiade (si veda DE VOS 1994, pp. 105-108, che ha identificato la scena nella quale Cristo è condotto un seconda volta davanti a Pilato; contrariamente a quanto egli afferma, questo evento precede la Flagellazione; Luca 23:11-25). Perciò il dipinto inviterebbe lo spettatore a concentrarsi su tutte le fasi della Passione e della Resurrezione durante la meditazione e la preghiera. Di certo anche l’atteggiamento devozionale di Tommaso Portinari e Maria Baroncelli in preghiera si riferisce a tutti gli episodi rappresentati, per quanto la loro posizione, rispettivamente accanto alla Cattura di Gesù e all’Andata al calvario, suggerisca uno specifico confronto con la figura di Cristo nelle due scene. La scelta del tema della Passione può essere senza dubbio connesso al matrimonio dei due coniugi, dal momento che nella teologia medievale il matrimonio era considerato il sacramento che rispecchiava il matrimonio di Cristo con la Chiesa attraverso la Passione. A proposito di questa connessione il Ridderbos ha messo in luce un possibile parallelo tra la commissione Portinari della Passione e del trittico con i due ritratti da una parte e il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, del 1434 (Londra, National Gallery, inv. n. NG186), dall’altra. Il Ritratto Arnolfini rappresenta probabilmente una promessa di matrimonio e il suo simbolismo sembrerebbe riferirsi all’imminente sposalizio tra l’uomo e la donna ritratti, riflessi nello specchio alle loro spalle. Tutt’attorno allo specchio vi è una cornice con piccole scene della Passione e della Resurrezione; perciò, ovviamente, nel dipinto sembrerebbe suggerita l’idea che la coppia consideri la Passione di Cristo come specchio della loro relazione. Portinari utilizzò in due commissioni diverse ambedue gli aspetti combinati nel Ritratto Arnolfini, ossia il ritratto della coppia e la visualizzazione
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dell’intenzione di imitare Cristo nel loro matrimonio (RIDDERBOS 1994, pp. 150-151; altre interpretazioni per il ritratto sono trattate in RIDDERBOS 2004, pp. 59-77). Mentre i prestiti che il Maestro della Passione di Bruges trasse dalla Passione di Memling indicherebbero che il dipinto si trovava ancora a Bruges durante la seconda decade del XVI secolo, esso dovette arrivare a Firenze intorno al 1520, visto che a poco dopo risale una Passione realizzata in ambito fiorentino in cui furono utilizzati elementi tratti dal dipinto di Memling (cat. n. 24). Esistono altri lavori in cui è rintracciabile l’influenza della Passione di Memling, tuttavia quest’opera ne rimane l’esempio più precoce (per questi altri lavori si veda ARU-DE GERADON 1952; COLLOBI RAGGHIANTI 1990). L’idea di combinare scene diverse all’interno di una rappresentazione non era certo una novità in Italia ma, al contrario di Memling, gli artisti italiani parvero porre meno attenzione agli aspetti narrativi quanto piuttosto alla convincente rappresentazione prospettica (KLUCKERT 1974, p. 292). L’ospedale di Santa Maria Nuova, dove il dipinto fu custodito fino a quando non divenne proprietà di Cosimo I, fu fondato nel XIII secolo da Folco di Ricovero Portinari; al tempo di Tommaso Portinari l’ospedale era ancora sotto la protezione della famiglia Portinari. Il Trittico Portinari di Hugo van der Goes fu commissionato da Tommaso per Sant’Egidio, la chiesa dell’ospedale, dove egli fu sepolto. Anche il trittico di Memling per il nipote di Tommaso, Benedetto Portinari, entrò a Santa Maria Nuova (cat. n. 41). Non sappiamo quando la Passione entrò in possesso di Cosimo I; attorno al 1570 Cosimo la donò al Pontefice Pio V, forse in occasione della sua elevazione a granduca di Toscana. La Passione, come ha suggerito la Spantigati (in ALESSANDRIA-BOSCO MARENGO 1985, p. 264), potrebbe essere identificata con quel “quadro con la descrittione di Terra
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Santa”, menzionato nell’inventario pontificio del 1572. Pio V donò a sua volta il dipinto al monastero domenicano di Santa Croce che aveva fondato a Bosco Marengo, nei pressi di Alessandria, in Piemonte. In un inventario del monastero del 1689 la Passione è menzionata come “quadro della Passione pretiosissimo dipinto in tavola… stimato d’Alberto Duro”, assieme ad altri dipinti inviati da Roma da Pio V (ALESSANDRIA-BOSCO MARENGO 1985, p. 454). La Passione fu custodita nella camera prioriale, come il Giudizio Universale di Bartolomeus Spranger (Torino, Galleria Sabaudia; CERVINI 2006, p. 198). Quanto il monastero fu saccheggiato dai francesi nel 1796, la Passione fu messa al sicuro e nel 1814 fu donata al re Vittorio Emanuele I di Savoia. Fu grazie ad Alberto Carlo di Savoia che il dipinto giunse nel 1832 nella Galleria Sabauda. Judie Bogers Bibliografia: VASARI 1550, ed. Bellosi, Rossi 1986, pp. 67-68; VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, VII, pp. 580-581; PASSAVANT 1843, p. 258; BURCKHARDT 1879, p. 616; BOCK 1900, pp. 21-22, 188-196; WEALE 1901, pp. 20-23, 105, ripr.; VOLL 1909, p. XXV, ripr. pp. 92-98, 173; BALDASS 1942, pp. 14-15, 24, 37-38, tavv. 13-17; HOOGEWERFF 1948, pp. 40-41, fig. 6; FRIEDLÄNDER 1949, pp. 21, 23-29, ripr. p. 12; ARU-DE GERADON 1952, pp. 14-20, n. 18, tavv. XXII-XL; PANOFSKY 1953, I, p. 350; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VI (1971), pp. 14, 17, n. 34, tavv. 86-87; CORTI-FAGGIN 1969, p. 102, n. 42, ripr.; DEMORIANE 1969, pp. 72-79, fig. 2, B (part.); MCFARLANE 1971, pp. 32-40, figg. 70, 72-76; KLUCKERT 1974, pp. 284-295, ripr.; PHILLIPPOT (1983) 1990, p. 81; C. Spantigati in, ALESSANDRIA-BOSCO MARENGO 1985, pp. 232, 238, 240, 242-43, 264, ripr.; FALKENBURG 1988, pp. 53-55; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 59-61, n. 102, ripr.; MARTENS 1990-1991, p. 10, fig. 1 (part.); LANE 1991, pp. 633, 635, fig. 18; DE VOS 1992, p. 334, ripr.; BRUGES 1994, pp. 46-51, ripr.; DE VOS 1994, pp. 105-109, n. 11, ripr.; ROHLMANN 1994, pp. 63-65; ELSIG 1997, pp. 91-96, fig. 1; WALDMAN 2001, p. 30, fig. 3; NUTTALL 2004, pp. 64-65, figg. 66, 69 (part.); CERVINI 2006, pp. 198-199, ripr.
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24. Gaspare Sacchi (?) (Imola documentato dal 1517 al 1536)
Storie della Passione di Cristo tela (trasporto da tavola?); cm 93 × 170 Provenienza: collezione Loeser fino al 1934 Firenze, Palazzo Vecchio, Donazione Loeser, inv. MCF-LOE-24a
Il racconto della Passione di Cristo, ambientato in un vasto paesaggio, si articola in una sequenza ricchissima di episodi, che illustrano con diversa enfasi le fasi della Sua vita terrena. A sinistra in secondo piano in alto, sul pendio della collinetta conclusa dalla città turrita, serpeggiano figurine a piedi e a cavallo, nonché due cammelli, probabili frammenti del viaggio dei magi, anche se in direzione opposta rispetto all’edicola classicheggiante che ospita una miniaturistica Adorazione del Bambino. Più avanti e più sotto, in un’altra edicola è raffigurata l’Ultima Cena, e accanto, sul poggio erboso, la Preghiera nell’orto, seguita dalla Cattura di Gesù. Entro la fantastica architettura in rovina, si svolgono le scene dei tribunali: in alto al centro, Cristo davanti a Caifa; sotto al centro, Cristo davanti a Pilato, a sinistra Cristo deriso, a destra la Flagellazione. Sulla destra, disseminate in lontananza sulle rive del lago si distinguono appena le scene del Battesimo di Gesù e della Pesca miracolosa, nonché un piccolissimo, isolato Cristo con la croce; più avanti, uscendo dall’edificio, si susseguono da destra scendendo in primo piano verso sinistra, l’Andata al calvario; la Crocefissione; l’Annuncio dell’angelo ad una delle Marie al sepolcro; il Noli me tangere; la Resurrezione; Cristo al limbo; l’Apparizione di Cristo alla Vergine dopo la resurrezione. Il punto di partenza per un’iconografia così complessa è stato individuato solo in tempi recenti nella tavola con le Storie della Passione di Cristo (Torino, Galleria Sabauda), commissionata a Hans Memling da Tommaso Portinari a Bruges intorno al 1470, e con ogni probabilità pervenuta a Firenze in Santa Maria Nuova, la chiesa della famiglia Portinari, dopo il 1518, ed entrata poi a far parte delle collezioni di Cosimo I, dove la ricorda il Vasari (cat. n. 23). In effetti la connessione di questo dipinto con il capolavoro di Memling non è certo di evidenza immediata. La composizione di Memling affollatissima ma ben strutturata entro le predominanti, spettacolari architetture della città, qui si allarga e si stempera in episodi di piccole dimensioni, dove le storie sacre si colorano di spunti fantastici e grotteschi. A cominciare dallo spaccato dell’improbabile edificio al centro, dove le fasi del giudizio e della condanna di Gesù sono inserite con grande abilità negli spazi complicati da loggiati, absidi, arcate, pilastri e colonne, e sono animate da eleganti figurine dall’espressività vivacissima. Intorno, legati dall’incerto filo conduttore dei cavalli in corsa, in riposo, impennati o caduti, si distribuiscono gli altri eventi della Passione, sparsi (ma con attenta simmetria) sulle collinette dalle strane forme arrotondate. Un risalto particolare viene però dato alla Resurrezione e alla Discesa al limbo, di dimensioni maggiori e collocate in primo piano; e quest’ultima scena offre l’occasione per popolare le prode erbose e gli strati rocciosi della grotta infernale con ibride creature diaboliche dall’aspetto innocuo di giocattoli. Ben poco resta insomma del modello di Memling, peraltro indiscutibile: in particolare l’Ultima Cena, che nel prototipo con un’idea stupenda è collocata nell’interno illuminato di un nobile edificio aperto su un cortile, qui è inserita nel pendio collinare entro una surrealistica scatoletta architettonica. Lo stato di conservazione del dipinto non è ottimale, e al di là dei numerosi ritocchi risalenti ad un intervento del 1970 che dovette limitarsi ad un maquillage piuttosto frettoloso (tanto che non ne rimane una relazione), presenta caratteristiche che inducono a pensare trattarsi di un antico trasporto su tela dall’originale supporto ligneo: mentre la trama della tela è ormai stampata e ben visibile su gran parte del colore, in alcune zone
il craquelet ha l’aspetto tipico della pittura su tavola. Ma nonostante le vicende subìte, è ancora ben apprezzabile la notevole qualità di quest’opera, che merita molta più attenzione di quanta ne abbia ricevuta finora. Fu resa nota per la prima volta dal LENSI (1934) nel catalogo della collezione Loeser donata dopo la sua morte a Palazzo Vecchio, con l’attribuzione dello stesso Loeser a Piero di Cosimo, accompagnata dalla seguente precisazione: “Opera tarda di Piero di Cosimo, che deve aver impiegato un aiuto per dare gli ultimi tocchi ai piccoli gruppi a distanza media”. La tela stimolò immediatamente l’attenzione di Carlo GAMBA (1934), che nel respingere il riferimento a Piero di Cosimo analizzò tutte le sfumature di quel particolare linguaggio figurativo a lui legato, dalla vicinanza a Fra Bartolomeo nelle figure di maggiori dimensioni in primo piano in basso, a consonanze con il Sodoma, all’influsso di Leonardo nei gruppi più lontani, e puntualizzò la stretta relazione con la maniera fiamminga, acutamente precisata con “qualche dipinto analogo alla Passione di Memling a Monaco” (p. 380). Lo studioso approdò poi all’ipotesi che si tratti della mano del pittore imolese Gaspare Sacchi, per le analogie che riscontrava con la sua tavola con l’Adorazione dei Magi di Brera, firmata e datata 1521. La letteratura relativa alla componente fiorentina del dipinto si è limitata ad ignorarlo, tranne poche eccezioni. A parte l’asciutto commento di Mina BACCI (1966) che giustamente lo esclude dal catalogo di Piero di Cosimo, le monografie e i contributi anche recenti sull’artista non ne fanno menzione. Non ne trovo traccia nemmeno nella bibliografia relativa al Bachiacca, sotto il cui nome pure l’opera fu catalogata presso la Soprintendenza fiorentina, a quanto riporta la scheda ministeriale redatta da C. Conti nel 1988, aggiornata fino al 2006 (ringrazio dell’aiuto e delle indicazioni, Maddalena De Luca, Serena Pini e Angela Rensi), che colloca l’opera nel nodo stilistico degli ‘eccentrici’ fiorentini intorno al 1527, data del taccuino di disegni degli Uffizi già attribuito appunto al Bachiacca (ed ora riconosciuto ad Antonio di Donnino: M. Sframeli in, FIRENZE 1996a, pp. 272-274, 388), e sottolinea connessioni con il Maestro di Serumido. Nel 1982 la tela, in occasione di una mostra a Philadelphia, fu indicata invece come “Scuola toscana, prima metà del sec. XVI”, e nella relativa scheda di catalogo Laura Lucchesi ne ipotizzò giustamente la fonte iconografica nelle Storie della Passione di Memling a Torino. Tale precedente per il nostro dipinto è stato confermato dalla critica più recente (ROHLMANN 1994), che però riprende il riferimento alla maniera del Bachiacca (WALDMAN 2001; NUTTALL 2004) proposto anni fa da qualche funzionario delle Gallerie fiorentine rimasto anonimo. Lungo un filone del tutto indipendente ha invece avuto seguito la proposta del Gamba in favore di Gaspare Sacchi, raccolta dai contributi su Ultima cena (part. del cat. n. 24)
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quel maestro, anche se l’attenzione si è fermata raramente sull’opera di Palazzo Vecchio (A. Mazza in, IMOLA 1985; A. Mazza in, Pinacoteca di Brera 1991; GRANDI 1994): il dipinto è menzionato all’inizio della sua attività che appunto su tale base viene ritenuta formata nell’ambito della cultura toscana del primo Cinquecento, in parallelo con la vicenda di Innocenzo da Imola (N. Rojo in, CESENA 1988; A. Mazza in, FIRENZE 1990a, p. 164): anche se la Colombi Ferretti nella sua biografia del Sacchi (1988) non menziona il quadro Loeser e prende le distanze da tale interpretazione: “Si è voluta trovare una spiegazione tutta toscana per la formazione del pittore (GAMBA 1934), che viceversa mostra solo qualche sporadica attenzione al Sodoma ormai senese”. Se chiamare in causa il Bachiacca può essere giustificato dal prevalente gusto aneddotico che caratterizza il dipinto, e dalla tipologia ‘umbra’, cioè vagamente peruginesca del paesaggio; se si possono riscontrare tangenze con il Maestro di Serumido nell’architettura fantastica che tuttavia è ben più complessa delle sue scenografie geometriche e classicheggianti; se a prima vista le pose dei soldati nella scenetta della Resurrezione possono richiamare i gesti violenti e disarticolati dei guerrieri sui destrieri leonardeschi nella grande tavola del Victoria & Albert Museum di Londra che la critica ora riconosce a Giovan Francesco Rustici (cfr. SÉNÉCHAL 2007, pp. 143-148. Ringrazio Tommaso Mozzati la cui monografia sul Rustici è in corso di stampa); comunque le soluzioni stilistiche di queste opere restano altro dal problema posto dal dipinto Loeser, che di quel contesto reca traccia, ma che presenta motivi in effetti paragonabili agli sfondi in almeno due opere di Gaspare Sacchi. L’architettura caratterizzata da arcate, volte, pilastri e lesene, sulla destra nell’Adorazione dei Magi ora a Brera, l’assurda struttura al centro al di là della quale si apre il paesaggio, e i gruppetti di cavalli e cavalieri del seguito dei magi disseminati nel bosco, nonché la figura del pastore seminudo seduto di scorcio in primo piano, trovano riscontri nel dipinto fiorentino, così come le tre
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storiette di Maria ambientate in alto dietro il più maturo Sposalizio della Vergine nella Pinacoteca di Imola (n. 18) databile 1528-1529 (A. Mazza in, IMOLA 1988, pp. 118-119): si tratta di analogie tali da giustificare la difficile proposta attributiva di Carlo Gamba. È vero che nelle altre opere del Sacchi, documentato a Imola dal 1517 e lì morto nel 1536, ben poco si rintraccia dello spirito estroso, delle trovate brillanti e grottesche che caratterizzano il dipinto Loeser, in alcune parti elegantemente levigato e chiaramente nutrito della cultura figurativa propria degli eccentrici fiorentini, in altre parti in grado di risultati che quasi anticipano Giulio Romano nella drammatica teatralità dell’architettura centrale, in altre di una modernità sconcertante, come nella non finita e addirittura grottesca e irriverente Ultima Cena. In mancanza di un suggerimento alternativo, il nome di Gaspare Sacchi, seguito però da un punto di domanda, viene mantenuto per ora per questo dipinto che costituisce un’interessante risposta allo straordinario modello di Memling. Una simile composizione poco nota e poco studiata, non menzionata nella letteratura tra le copie e derivazioni relative alla Passione di Torino (cfr.ad esempio COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 60-61; DE VOS 1994, p. 109), ne riprende e ne interpreta i singoli motivi con una precisione che sembra attestare una conoscenza diretta. Si può pertanto ipotizzare che sia stata eseguita a Firenze; e in ogni caso, dal momento che vi si trova, la sua presentazione nel contesto della mostra è pienamente giustificata. Serena Padovani Bibliografia: LENSI 1934, pp. 31-32; GAMBA 1934; BACCI 1966, p. 119; E. Lucchesi in, PHILADELPHIA 1982, p. 134; A. Mazza in, IMOLA 1985, nota 5 p. 49; N. Roio in, CESENA 1988, p. 59; A. Mazza in, Pinacoteca di Brera 1991, p. 305; GRANDI 1994, pp. 5051; ROHLMANN 1994, p. 63; WALDMAN 2001, p. 30 e nota 8 p. 32; NUTTALL 2004, p. 64
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25. Hans Memling (Seligenstadt ca 1430/40 - Bruges 1494)
Trittico Pagagnotti centro: Madonna in trono con due angeli tavola (quercia); cm 57 × 42 provenienza: nel 1767 di proprietà di Ignazio Hugford; esposta nella mostra alla Santissima Annunziata come opera di Jan van Eyck; nel 1779 acquistata dal granduca Pietro Leopoldo ed esposta nella Galleria degli Uffizi Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1024
sportello interno sinistro: San Giovanni Battista sportello interno destro: San Lorenzo sportelli, esterno: Nove gru e una volpe tavole; cm 57,5 × 17,3 e 57,5 × 17,1 provenienza: nel 1865 a Parigi; acquisizione da Emmanuel Sano per la National Gallery Londra, National Gallery, inv. n. NG 747
Il tema della Madonna in trono collocata in una loggia e circondata da angeli e santi rappresenta per Memling uno dei temi di maggior successo dei suoi dipinti devozionali per uso domestico. Lo raffigurò in diverse varianti, sia come tavola singola sia come trittico, con o senza ritratti di donatori. La tavola conservata agli Uffizi era il pannello centrale di un piccolo trittico i cui sportelli laterali sono ora conservati nella National Gallery di Londra. L’originale appartenenza della tavola e degli sportelli al trittico trova conferma non soltanto nelle misure e nella continuità dei motivi architettonici, ma anche nella loro originaria presenza a Firenze. Qui, verso la fine del Quattrocento, si trovano
Hans Memling, Lussuria. Strasburgo, Musée des Beaux-Arts
citazioni di motivi paesaggistici, sia dal pannello centrale con la Madonna, sia dagli sportelli, talvolta anche in un’unica opera (ROHLMANN 1994; ID. 1995). Essendo tali primi riflessi artistici a Firenze databili intorno al 1482-1483 (MEISS 1973, p. 485), si presume che l’opera di Memling sia stata realizzata poco prima. Su uno degli sportelli esterni conservati a Londra si trova lo stemma della famiglia fiorentina Pagagnotti. Un membro di questa famiglia, il commerciante Paolo Pagagnotti il quale compì numerosi viaggi, fu identificato come committente di un altro trittico primitivo fiammingo, un’opera del Maestro della leggenda di sant’Orsola (si veda cat. n. 28). Il proprietario fiorentino del trittico realizzato da Memling dovrebbe essere invece Benedetto Pagagnotti, il quale aveva come simbolo personale le gru raffigurate sugli sportelli esterni del Trittico Pagagnotti (ROHLMANN 1994, pp. 67-83; ID. 1995). Istruito in astrologia e teologia Benedetto Pagagnotti era stato dapprima domenicano a San Marco per diventare in seguito luogotenente dell’arcivescovo di Firenze e, nel 1486, ottenere egli stesso il titolo di vescovo di Vaison. A causa dei contrasti con Savonarola lasciò nel 1486 San Marco per stabilirsi a Santa Maria Novella, dove si fece costruire un lussuoso alloggio di ben sette stanze. Decisiva per la sua ascesa fu la famiglia dei Medici, e probabilmente per questo motivo nel Trittico Pagagnotti, a fianco del patrono della città di Firenze, si trova anche san Lorenzo, il santo che diede il nome sia a Lorenzo il Magnifico che a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. Lo spessore culturale dell’agiato e istruito principe della Chiesa si rivela nella singolare composizione degli sportelli esterni del trittico, che raffigura un’antica leggenda: quando le gru dormono, una di loro starebbe a vegliare e, per non addormentarsi, tiene una pietra tra gli artigli. Se si addormentasse, il rumore della pietra rotolata via la risveglierebbe. Questa gru era chiamata grus vigilans, ossia guardiana, che è anche il significato letterale della parola episcopos. Forse Pagagnotti aveva scelto il simbolo della gru in considerazione della sua nomina come vescovo ausiliare di Firenze; in ogni caso, una volta diventato vescovo di Vaison si attribuisce la gru come simbolo personale. In quanto domenicano, Benedetto non era soltanto il ‘cane’ fidato del suo signore, ma nello stesso tempo, come vescovo, la gru che vigila sulla comunità (ROHLMANN 1994; ID. 1995). I pannelli laterali esterni, che raffigurano un’alba atmosferica predi-
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spongono alla visione dell’interno del trittico: ormai un giorno di festa è iniziato, il paesaggio ancora avvolto dal buio ha lasciato spazio ad uno splendido e luminoso interno, il pericoloso mondo terreno, minacciato dalla volpe appostata, è stato sostituito dalla serena, gioiosa e festosa visione divina nel palazzo celeste. Alla formazione teologica e alla posizione ecclesiastica di Pagagnotti corrispondono numerosi motivi nella tavola raffigurante la Madonna: gli angeli indossano vesti liturgiche, rinviando in questo modo alla celebrazione della Messa, in cui si ripete liturgicamente l’incarnazione di Cristo (MCNAMEE 1963, p. 143). Nel dipinto, Gesù in grembo a Maria è tenuto come se fosse mostrato su un altare. La mela a Lui offerta rimanda al suo ruolo di ‘Nuovo Adamo’, che rimuove il peccato originale (GULDAN 1966, p. 115; HAND-WOLFF 1986, p. 186; GRAMS THIEME 1988, p. 125). La ciliegia nella mano del Bambino, oppure il motivo del tralcio di vite che incornicia la scena, la salamandra e la chiocciola sono altrettanto portatori di significati religiosi (HAND-WOLFF 1986, p. 186; DE VOS 1994, p. 318). Delle finte sculture illustrano il fratricidio commesso da Caino su Abele e la vittoria di Sansone sul leone. Esse costituiscono rispettivamente esempi tipologici veterotestamentari del sacrificio di Cristo e la sua seguente vittoria sulla morte e sul demonio, oltre a rinviare alla forza delle virtù di Maria (BIRKMEYER 1961, p. 111; GULDAN 1966 p. 200; GRAMS THIEME 1988, pp. 125-126). Anche i paesaggi in lontananza possono essere caricati di un più profondo significato religioso (SPICKERNAGEL 1970, pp. 19-21; DE VOS 1994, p. 318). Persino l’invisibile diventa visibile. Le frange del baldacchino sventolano in tutte le direzioni, come mosse da un vento soprannaturale. Così si sperimenta la presenza di Dio come un alito di vento celeste. L’intelletto dell’istruito teologo trovava quindi nell’opera di Memling ricca materia e poteva, stimolato da numerosi motivi, concentrarsi in pia meditazione. Oltre a ciò, la contemplazione del dipinto di Memling poteva sollecitare tutti i sensi di Pagagnotti (cfr. FALKENBURG 1994, p. 89): la pittura è una delizia per gli occhi, i frutti sollecitano il gusto, i fiori delle ghirlande l’olfatto, il suono dell’arpa l’udito, la resa delle diverse materie, insieme al gesto del Bambino in atto di afferrare la mela, il tatto. Pagagnotti, comunque, aveva ben speso il proprio denaro, non soltanto come pio e istruito teologo, ma anche come esigente amante dell’arte. La sontuosità raffigurata da Memling esprime lo stile di vita di Pagagnotti al quale non dispiacevano i piaceri terreni, fatto che lo portò infine a scontrarsi con Savonarola. Come amante d’arte Pagagnotti doveva di certo ammirare la resa dei diversi materiali offerta da Memling, così illusoria per gli occhi: il luccichio dei vari tipi di pietre, la brillantezza dei metalli, il tappeto esotico, gli strumenti musicali e le vesti, le serene vedute di paesaggi ecc.. In maniera del tutto particolare Memling si sintonizza anche sul gusto del suo committente italiano. I putti che reggono le ghirlande sono un antico motivo classico ed uno dei primi esempi della ripresa di forme decorative meridionali al Nord (MÜNTZ 1898, p. 478; ASCHENHEIM 1910, pp. 2-5: illustrazione di manoscritti e di tradizioni festive dell’epoca come fonti; KRÖNIG 1936, pp. 103-104: esempi a Padova, Venezia, Firenze; PANOFSKY 1953, p. 349: piuttosto fonti milanesi che fiorentini; ROHLMANN 1994, p. 69; NUTTALL 2004, p. 89). Memling pone tale motivo volutamente in contrasto con le forme di traforo tardogotiche transalpine degli sportelli. Oltre a ciò, i putti in carne ed ossa spiccano davanti ai gruppi scultorei dipinti, raffiguranti scene di lotta veterotestamentarie, collocati subito dietro di loro. Il tema di queste due scene è stato preso in prestito da Memling dalla Madonna Van der Paele conservata a Bruges (GULDAN 1996, p. 200), un’opera commissionata sempre da un ecclesiastico e realizzata dal padre fondatore della pittura primitiva fiamminga, ovvero Jan van Eyck. Le scene di lotta come sculture appartengono al passato, mentre nel presente è subentrata la felicità, la gioia e la promessa del futuro rappresentato dal motivo dei figli ignudi d’Italia. Memling gioca qui con il paragone arte
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– natura, scultura – vita, Nord-Sud. Accanto alla Madonna, l’arte stessa della pittura tiene corte nel Trittico Pagagnotti, dove la veduta del paesaggio è pensata come un quadro dentro un quadro. Pittura “come un’apertura da un interno, come una veduta dalla finestra”, questa è la definizione che in Italia Alberti diede dell’arte del dipingere. Nel paesaggio visto dalla finestra Memling inserisce un’altra nota definizione metaforica della pittura: l’immagine riflessa. Di fatto, il mulino che si vede in lontananza a destra si rispecchia nel ruscello; così si ottiene qui un’altra immagine, speculare, un’immagine creata dalla Natura sopra la quale scivolano via leggiadri due cigni. Qui Memling sviluppa una poesia della pittura paesaggistica, la cui melodia si sovrappone a quella dell’arpa suonata dall’angelo. Musica, musicisti e compositori fiamminghi erano, come i pittori e i dipinti transalpini, molto richiesti in Italia. Nella stessa maniera in cui l’adorata arte della musica nordica riusciva a commuovere le anime degli uditori, così anche la pittura di Memling sfiorava esteticamente le anime degli spettatori suscitandone un particolare stato d’animo. Il successo proprio di questo motivo paesaggistico dimostra fin a quale punto Memling era riuscito a sintonizzarsi sui gusti del suo pubblico. Numerosi artisti fiorentini continuarono a copiare il mulino oppure cercarono con varianti di superare il modello, a cominciare da Filippino Lippi fino a Fra Bartolomeo (cfr. DEGENHART 1932, p. 140; MEISS 1973, p. 485; ROHLMANN 1993, p. 244; ELLIS 1995, p. 8; NUTTALL 2004, pp. 133, 135-136, nota 4 a p. 281; si veda anche in catalogo cat. nn. 26, 27). Anche Memling stesso lo impiegò più volte in opere realizzate successivamente, come nello sfondo del Ritratto di uomo di Copenhagen oppure in quello della Lussuria di Strasburgo che esalta la bellezza del nudo femminile (cfr. ROHLMANN 1997). In quest’ultima, realizzata per un altro committente italiano, un membro della famiglia bolognese dei Loiani, il motivo si presenta come una delizia per gli occhi dello spettatore, proprio accanto alla donna che si compiace della propria immagine riflessa: come la bellezza della Lussuria è moralmente riprovevole, così anche la bellezza della pittura stessa sembra acquistare una sfumatura ambigua. Il carattere raffinato della pittura devozionale fiamminga sembra correre il rischio di trasformarsi in oggetto di culto della bellezza sensuale, della Lussuria. Osservando, dunque, il Trittico Pagagnotti di Memling si comprende perché né per il dipinto né per il suo proprietario vi fosse più posto nel San Marco di Savonarola. Michael Rohlmann Bibliografia (tavola centrale): PASSAVANT 1841, p. 33; MÜNTZ 1898, p. 478; KAEMMERER 1899, pp. 119, 133-134; VOLL 1909, pp. XXXIX, 116; FRIEDLÄNDER 1924-1937, I (1928), pp. 29-30, 128, n. 61; KRÖNIG 1936, pp. 103-104; LAVALLEYE 1939, pp. 47, 57; FLEMING 1955, p. 206; BIRKMEYER 1961, pp. 110-111; GULDAN 1966, p. 200; FAGGIN 1969, p. 107; SPICKERNAGEL 1970, pp. 19-21; FRIEDLÄNDER 1967-1975, VIa (1971), pp. 20-21, 53, n. 61, ripr; BARRONI SALVADORI 1974, p. 83; E. Micheletti in, Uffizi 1979, p. 379, ripr.; SALVINI 1984, p. 38, ripr.; HAND-WOLFF 1986, p. 186; GRAMS THIEME 1988, pp. 123-126; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 113-114; MARTENS 1993, pp. 157-158; ROHLMANN 1993, pp. 237, 244-245, ripr.; DE VOS 1994, pp. 318-319, n. 89, ripr.; FALKENBURG 1994, p. 89; THIEMANN 1994, pp. 138-141; MARTENS 1994, p. 26; MARTENS 1994b, pp. 1-12; ROHLMANN 1994, pp. 67-83; LORENTZ 1995, p. 76; ROHLMANN 1995, pp. 438-445; CAMPBELL 1998, pp. 362-369; SCHADE 2001, pp. 34, 61, 140-141; NUTTALL 2004, pp. 89, 123-124, 133-136, ripr. Bibliografia (sportelli): KAEMMERER 1899, pp. 53, 81; VOLL 1909, pp. XXXVIII, 18; FRIEDLÄNDER 1924-1937, VI (1928), p. 119, n. 19; DAVIES 1954, pp. 166-169; DAVIES 1968,
p. 124; FAGGIN 1969, p. 100; FRIEDLÄNDER 1967-1975 VIa (1971), p. 48, n. 19; DE VOS 1994, pp. 210-211, n. 52, ripr.; MARTENS 1993, pp. 157-158; ROHLMANN 1993, pp. 237, 244-245; MARTENS 1994, p. 26; MARTENS 1994b; ROHLMANN 1994, pp. 67-83; ID. 1995, pp. 438-445; CAMPBELL 1998, pp. 362-369; SCHADE 2001, pp. 34, 61, 140141; NUTTALL 2004, pp. 89, 123-124, 133-136, ripr.
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26. Fra Bartolomeo (Firenze 1472-1517)
Madonna col Bambino e San Giovannino tavola; cm 58,4 × 43,8 provenienza: Newbury, Berkshire, Sandleford Priory (1899); Londra, Dowdeswell and Dowdeswell (1899-1902); Parifi, Galerie Sedelmeyer (1902-ante 1906); New York, Eugène Fischof (1906); acquisto per il Metropolitan Museum of Art, New York (1906) New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 06.171
Non si conosce la provenienza del dipinto, arrivato alla fine dell’Ottocento sul mercato antiquario di Londra e poi di Parigi, da una collocazione nella Sandleford Priory, Newbury, Berkshire, con ogni probabilità per donazione di un privato. L’attribuzione al Bugiardini, registrata dalla scritta sul retro della tavola e ripresa nei cataloghi di vendita, fu conservata a lungo dalla critica, alternata all’attribuzione a Ridolfo del Ghirlandaio al quale era, ed è tuttora, riferita una copia appartenente alla Galleria Strossmayer a Zagabria (ZLAMALIK 1985, p. 179, n. 25, che però non sembra giustificare il nome di Ridolfo: cfr. E. Fahy in, FIRENZE 1996, p. 53). Il riconoscimento del dipinto come un’opera giovanile di Fra Bartolomeo (FAHY 1966; ID. 1969; BORGO 1976) è ora generalmente accolto. Questa Madonna con Gesù Bambino e San Giovannino ripropone infatti, con una freschezza resa più evidente dall’intervento di restauro del 1979, lo stesso linguaggio dell’Annunciazione di Volterra del 1497, e ancor più quello del tondo con l’Adorazione del Bambino della Galleria Borghese di Roma. Preparata da due schizzi a penna che sono prime idee per il gruppo della Madonna col Bambino (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 1240E, 1244E), nonché da uno studio per il panneggio raccolto attorno alla vita della Madonna (Windsor, Royal Library inv. 1285v) e dallo studio per il panneggio del suo manto (Londra, British Museum: E. Fahy in, FIRENZE 1996, p. 7), la composizione condivide con il capolavoro della Galleria Borghese l’armoniosa contrapposizione dei volumi e l’attenzione intensa alla resa della luce che scivola sulle forme levigandole in trasparenze raffinatissime e asciugandone l’indagine analitica dei dettagli in un’essenzialità cristallina. Così l’artificiosa architettura delle due pareti ad angolo, con le ampie aperture sul paesaggio, si risolve in geometriche campiture nitidamente tagliate dalla luce e dall’ombra, entro cui la Madonna è collocata con una forzatura perfettamente mascherata dall’eleganza della posa, dall’elaborato panneggio del manto che si allarga sul sedile attorno alla sua figura, dalla grazia dolcissima dei gesti e dal movimento animato del Bambino imponente. La grossa testa del San Giovannino che affiora in basso a destra, equilibrata a sinistra dalla robusta struttura della panca in pietra, introduce un ulteriore motivo di incongruenza spaziale mimetizzato dall’intensità poetica del tenero busto infantile, dalla qualità trasparente dell’incarnato, e dal brillare dei trucioli lucenti dei capelli che hanno il rilievo di una scultura del Verrocchio. La somiglianza del San Giovannino con il disegno con una testa di bambino (Cambridge, Fitzwilliam Museum, inv. 2930) la cui attribuzione oscilla significativamente tra il Verrocchio e Lorenzo di Credi (BROWN 1998, p. 126, fig. 117, e nota 30 p. 208), evidenzia l’importanza nel dipinto di queste due componenti della formazione di Baccio della Porta. Il punto di riferimento per la composizione è poi costituito, come è stato sempre riconosciuto, dalla Madonna Benois dipinta da Leonardo ancora a Firenze sullo scorcio dell’ottavo decennio del Quattrocento (BROWN 1998, p. 147). Il fascino esercitato dalle opere fiorentine di Leonardo prima della sua partenza per Milano nel 1482, soprattutto dalle tavole lasciate incompiute con San Girolamo e l’Adorazione dei magi, si riflette nell’opera di Baccio fino e molto oltre il Giudizio per Santa Maria Nuova, suggerendogli una personale interpretazione dello ‘sfumato’, per accentuare la mo-
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numentalità delle figure e addolcirne i contorni. In questo caso il modello iconografico viene ripreso quasi alla lettera, ma la soluzione elaborata da Baccio, se pure in tono minore rispetto al capolavoro dell’Hermitage, è del tutto priva della suggestione ombrosa e delle vibrazioni psicologiche leonardesche, e ne propone un’interpretazione ben più tradizionale, che mi sembra giustificare una data all’inizio della sua produzione. Se la vicinanza stilistica con il tondo della Galleria Borghese indurrebbe ad una datazione non lontana, sul 1498-1500 (E. Fahy in, FIENZE 1996), il legame altrettanto stretto con le due tavole raffiguranti Porzia (Firenze, Galleria degli Uffizi) e Minerva (Parigi, Louvre) suggerisce un momento più antico, dove l’influsso di Leonardo è mediato da Lorenzo di Credi ancora nella bottega del Verrocchio, e dove prevale il rapporto con il Ghirlandaio attestato dalla partecipazione del giovane Baccio in alcune tavole ghirlandaiesche degli anni novanta, fino all’Annunciazione di Volterra che al Ghirlandaio era appunto tradizionalmente attribuita. La tavolozza vivace benché scurita nel tempo, ben apprezzabile grazie alla buona conservazione del dipinto del Metropolitan, corrisponde ai limpidi accordi cromatici delle due figure allegoriche, dove le lucide trasparenze che ne impreziosiscono i volti, le vesti e gli attributi, sono le stesse che conferiscono l’intensa plasticità al modellato della Madonna, del Gesù Bambino e del San Giovannino. Manca ancora in questa prima fase, forse databile tra il 1490 e il 1495 circa, la grandiosità e la forza assunte dalle forme sfumate, che segnano le tappe del percorso del maestro dopo l’Annunciazione di Volterra e fino al grande affresco con il Giudizio. Non contrasta con tale proposta di data (peraltro già suggerita da parte della critica), la registrazione puntuale di due motivi copiati direttamente dal Trittico Pagagnotti di Memling (cfr. cat. n. 25). Oltre a Leonardo, Memling è infatti l’altra coordinata per la tavola del Metropolitan, a conferma dello straordinario interesse nei confronti della pittura fiamminga che caratterizza la produzione di Fra Bartolomeo all’incirca dal 1490 al 1507: secondo la sottile distinzione evidenziata da Everett Fahy (in, FIRENZE 1996, p. 85), intorno alla metà del primo decennio del Cinquecento comincia a prevalere nelle opere del Frate una preziosità meno naturalistica, più astratta nelle invenzioni fiammingheggianti dei paesaggi, che rivela la scelta di modelli di Jan van Eyck piuttosto che la scelta dei modelli di Memling preferiti in precedenza. Ma nella Madonna del Metropolitan le desunzioni da Memling sono palmari, come è stato da tempo riconosciuto dalla critica: nella sezione destra del paesaggio, il mulino è costruito e ambientato esattamente come nel lato destro dietro il trono della Madonna degli Uffizi; nella sezione sinistra, riappare la stessa radura con le due figurine al margine del bosco, e la guglia del campanile, dipinte da Memling nello sfondo del pannello di Londra con San Lorenzo (Baccio vi aggiunge solo il motivo più ravvicinato dei due a piedi e a cavallo). Tali riprese dal trittico posseduto da Benedetto Pagagnotti fin dai primi anni ottanta, attestano che il pittore ha avuto la possibilità di ammirare e di studiare il capolavoro di Memling, collocato nel sontuoso appartamento nel convento di Santa Maria Novella dove il frate domenicano si era trasferito fino dal 1490 abbandonando il convento di San Marco per i sopravvenuti contrasti con il Savonarola (E. Fahy in, FIRENZE 1996, p. 54). D’altro canto è interessante vedere, nell’accostamento irripetibile che la mostra consente, come Baccio riprenda dal modello, oltre l’iconografia, l’esecuzione in punta di pennello degli alberi e dei cespugli che affascinerà anche il giovane Raffaello (D.A. Brown in, WASHINGTON 1983, pp. 153156); ma come, abbassando appena l’orizzonte e recuperando un’ampia zona di cielo, ne trasformi la spazialità fiabesca in una visone tutta fiorentina di domestica, solare serenità. Serena Padovani Bibliografia: FAHY 1966, p. 463 nota 2; ID. 1969, pp. 145-147; ZERI-GARDNER 1971, pp. 186-188; BORGO 1976, pp. 34-38, nota 9 p. 48; ROHLMANN 1993a, pp. 239, 241, 244; MARTENS 1994b, nota 14 p. 12; ROHLMANN 1994, pp. 68-69; ID. 1995, p. 439; E. Fahy in, FIRENZE 1996, pp. 7, 53-54; BROWN 1998, pp. 161-162; NUTTALL 2004, pp. 133, 220
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27. Maestro noto come “Tommaso” (Giovanni Cianfanini?, Firenze 1462-1542)
Madonna col Bambino e un angelo tavola (pioppo); cm 69,5 × 48,3 provenienza: Collezione privata, Firenze (fino al 1891; venduto a Monaco di Baviera); Alte Pinakothek, Monaco di B., n. n. 6101a, poi 7820 (18911939); in cambio di un altro dipinto ceduto a Jacques Vial, Parigi (1939-?); Rosenberg & Stiebel, Inc., New York (entro il 1953); venduto a J. Paul Getty, Surrey, Inghilterra (1953-1970); dono di Getty nel 1970 al J. Paul Getty Museum, Malibu, California Los Angeles, California, J. Paul Getty Museum, inv. n. 70.PB.28
La ricostruzione dell’opera di questo pittore anonimo risale all’influente libro di Giovanni Morelli sulle gallerie romane Borghese e Doria Pamphilj (MORELLI 1890, pp. 114-115), in cui l’autore assegnava mezza dozzina di lavori a un aiuto di Lorenzo di Credi (ca 1457-1536) da lui chiamato “Tommaso”. Non tutti i dipinti citati da Morelli sono della stessa mano; tuttavia il nome rimase. BERENSON (1903, I, pp. 48-49), nel suo grande libro sui disegni dei pittori fiorentini, lo adottò con una certa riluttanza, scrivendo che “Tommaso” non è un appellativo molto indovinato perché induce a confondere l’artista con Tommaso di Stefano Lunetti (ca 1495-1564), un allievo di Lorenzo dalla personalità artistica ben diversa. Berenson proponeva inoltre che un gruppo di disegni su lino, finora attribuiti a Leonardo, fossero opera di “Tommaso”, e in una nota aggiungeva che questi potrebbe essere Giovanni di Benedetto Cianfanini, socio per lungo tempo di Lorenzo di Credi ma di cui non è rimasta alcuna opera documentata. L’ipotesi Cianfanini rimane plausibile, benché anche quest’ultimo sia stato identificato, secondo un’ipotesi (PONS 1996), come un altro anonimo pittore fiorentino detto il Maestro dell’Apollo e Dafne. Per complicare le cose, gli studiosi hanno attribuito al pittore nomi diversi, chiamandolo il Maestro dei Tondi (SUIDA 1958, p. 28), il Maestro della Madonna Czartoryski (Roberto Longhi, riferito da LACLOTTE 1955, p. 155), il Maestro del San Sebastiano Fitzwilliam (Richard Offner, riferito da SHAPLEY 1968, p. 115), o il Maestro della Conversazione di Santo Spirito (DALLI REGOLI 1966). Qualunque sia il nome col quale il pittore è conosciuto, le sue opere testimoniano che si trattava di un artista prolifico: si conoscono di lui oltre sessanta dipinti, in grandissima maggioranza tondi, e almeno due dozzine di disegni. Tra i dipinti non ve ne sono due identici, eppure l’effetto generale della sua pittura è ripetitivo. Come Lorenzo di Credi e Piero di Cosimo (1462-1522), non dipinse affreschi: la sua tecnica preferita era la tempera grassa, raramente applicata con delicatezza. Ci sono pervenute solo due pale d’altare: un’Assunzione della Vergine (datata 1510) nella parrocchiale di Calenzano, presso Firenze, e la “Conversazione di Santo Spirito”, la Madonna col Bambino in trono con i santi Matteo e Gerolamo (databile intorno al 1512) della chiesa fiorentina di Santo Spirito, con una magnifica cornice attribuita a Baccio d’Agnolo (FIRENZE 1996a, p. 242) e un’eterogenea predella di mano più antica. La Madonna col Bambino e un angelo del Getty fu assegnata a “Tommaso”/Maestro della Conversazione di Santo Spirito da BERENSON (1963) e da Gigetta Dalli Regoli (1966). Le labbra imbronciate, le mani dal disegno grossolano, le proporzioni approssimative del Gesù Bambino ne confermano l’autografia. L’angelo con lo sguardo verso l’alto, che richiama la posa di uno degli angeli del sublime dipinto alla National Gallery di Londra che Perugino eseguì nella bottega di Verrocchio, è mal proporzionato; lo sfondo architettonico inoltre lascia perplessi, con la loggia interrotta e una singola colonnina di marmo rosso variegato come
quelle della Madonna col Bambino e del Cristo dolente in atto di benedire di Ghirlandaio (cat. nn. 35, 51), fiancheggiata da un’opera muraria color marrone scuro cui un restauratore ha aggiunto capitelli bronzei. Come si raccordi fisicamente la Madonna seduta con questo ambiente non è chiaro. In precedenza la Madonna Getty era ritenuta un’opera giovanile di Lorenzo di Credi, eseguita durante l’apprendistato presso Andrea del Verrocchio (1435-1488). A sostegno di questa attribuzione si citava come fonte della testa della Madonna il meraviglioso disegno che ne aveva fatto Verrocchio, ora in collezione Malcolm al British Museum (MONACO DI BAVIERA 1901). Il disegno Malcolm fu probabilmente eseguito come studio per la pala che fu commissionata a Verrocchio nel 1475 o poco più tardi in memoria del vescovo di Pistoia. In effetti la posa della Madonna Getty e la foggia della veste sono simili a quelle della figura nella pala di Pistoia. Inoltre, la veste della Madonna Getty è paragonabile a quella della Madonna del garofano nell’Alte Pinakothek di Monaco, dipinto eseguito da Leonardo nella bottega di Verrocchio a metà degli anni settanta che ispirò quello di “Tommaso” nel Museo Civico di Coldirodi (San Remo). Se l’angelo, il Gesù Bambino e la Madonna danno l’impressione di un accostamento forzato di elementi incongrui, anche le vedute oltre la loggia appaiono scollegate, non arrivando a delineare un paesaggio continuo. E le due vedute sono infatti copiate da fonti diverse. Come osservò per primo DEGENHART (1933), la scena del mulino è ripresa dal pannello centrale del Trittico Pagagnotti di Memling agli Uffizi (cat. n. 25). Si tratta di una copia fedele, col mulino, la palizzata e persino la coppia di cigni riflessi nell’acqua. Analogamente, come osservato da Burton B. FREDERICKSEN (1972), la veduta di sinistra riproduce parte dello sfondo della Madonna che allatta il Bambino di Lorenzo di Credi alla National Gallery di Londra, di cui esiste una variante autografa in casa Pucci a Firenze (FAHY 2000, n. 345). La composizione, che riflette la familiarità di Lorenzo con le Madonne fiorentine di Leonardo, risale all’inizio del decennio 1480-1490. Probabilmente anche la Madonna Getty, la prima opera a noi pervenuta di “Tommaso”, appartiene agli stessi anni. Nel 2001-2002, in occasione di un restauro, la tavola fu riportata alla forma originale con un arco arrotondato all’estremità superiore. Everett Fahy Bibliografia: MONACO DI BAVIERA 1898, n. 6101a; MONACO DI BAVIERA 1901, pp. 221222, n. 1016a; CROWE-CAVALCASELLE 1914, VI, p. 42, nota 1; DEGENHART 1932, p. 140, ripr.; MONACO DI BAVIERA 1936, p. 57; MÖLLER 1937-1938, p. 29; VALENTINERWESCHER 1954, p. 24, ripr.; BERENSON 1963, p. 208, ripr.; FREDERICKSEN 1965, p. 19, ripr.; J. Held in, GETTY 1965, p. 90, ripr.; DAVENPORT 1966, p. 56, ripr.; DALLI REGOLI 1966, p. 192 n. 244, ripr.; FAHY 1969, p. 146, nota 22; FREDERICKSEN 1972, pp. 19-20, n. 23, ripr.; FREDERICKSEN-ZERI 1972, p. 110; ELLIS 1995, pp. 8, 9, ripr.; FAHY 1996, p. 7; JAFFÉ 1997, p. 75, ripr.
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28. Maestro della leggenda di Sant’Orsola (attivo a Bruges ca 1470-1500)
Trittico di Paolo Pagagnotti centro: Madonna col Bambino su trono con angeli tavola; cm 95 × 72 provenienza: Paolo Pagagnotti?; Thomas Henry; da lui legato al museo, 1835 Cherbourg, Musée Thomas-Henry , inv. n. MTH 835.50
sportello interno sinistro: San Paolo con Paolo Pagagnotti sportello interno destro: Cristo appare alla Madre tavole, cm 94,9 × 28,9 e 93,4 × 27, 6 provenienza: Paolo Pagagnotti?; marchese Gioacchino Ferroni, Firenze (fino al 1923); Galleria Kleinberger, Parigi-New York, 1923-1924; acquistato da Michael Friedsam, New York; da lui legato al museo, 1931 New York, The Metropolitan Museum, inv. n. 32.100.63ab
sportelli esterni: Ecce Homo tavole, cm 77, 5 × 28, 5, ritagliate sopratutto in alto (circa cm 20) iscrizioni: in alto, sullo sportello sinistro Exce Omo; sullo sportello destro: Cruxefige. Cruxefige provenienza: Paolo Pagagnotti?; Chiesa di Sant’Ansano nei pressi di Firenze dove dal 1795 il canonico Angiolo Maria Bandini (1726-1803), bibliotecario della Biblioteca Marucellliana e poi della Laurenziana, tenne la sua collezione; da lui legato al vescovo e capitolo di Fiesole; come parte della sua collezione confluita nel museo sorto nel 1913 Fiesole, Museo Bandini, inv. 1862, nn. 10, 76; inv. 1914, sala III, nn. 22, 30
Quello del maestro della Leggenda di Sant’Orsola è un nome convenzionale, inventato dal FRIEDLÄNDER (1903a, p. 85; 1903b, p. 15 ) intorno alle dieci tavolette che costituiscono i due laterali d’una pala d’altare oggi al Groeningemuseum di Bruges (FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), pp. 38, 59, tavv. 134-37). Otto di esse illustrano la leggenda della Santa; due presentano le personificazioni della Chiesa e della Sinagoga. Da questo punto di partenza, lo studioso tedesco ricostruì un catalogo di opere religiose, prevalentemente di dimensioni ridotte e pertanto destinate alla devozione privata, tra le quali il trittico in esame, di dimensioni medie, è tra le più grandi. Ad esse si affianca un certo numero di ritratti; il tutto è prodotto di un artista contemporaneo minore di Hans Memling (ca 1440-1494) ed operante anch’egli a Bruges durante l’ultimo trentennio del Quattrocento. Egli si dimostra abbastanza vicino e debitore al grande maestro, almeno nelle opere eseguite dopo la pala che gli offrì il nome provvisorio. Dal CONWAY (1921, pp. 247-248) questo pittore anonimo fu ipoteticamente identificato con Pieter Casembroot (1435-ca 1505), pittore d’un certo rilievo a Bruges, attivo negli stessi anni del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola e titolare di incarichi di prim’ordine nella gilda dei pittori, ma del quale non si conosce nessun’opera certa (SCHOUTEET 1989, pp. 95-109, per i documenti). Finora non sono state trovate prove che confermino inconfutabilmente questa identificazione con il maestro della Leggenda di Sant’Orsola, che nei suoi dipinti si mostra attento anche ai modi di Petrus Christus, Rogier van der Weyden e Hugo van der Goes. Oltre a opere religiose come quella in esame e la parte mediana del trittichetto con sportelli eseguiti da Filippino Lippi commissionate o acquistate da acquirenti fiorentini (cfr. cat. nn. 29, 30), nel catalogo
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dell’anonimo maestro rientrano anche ritratti di committenti italiani o fiorentini, come quello di Ludovico Portinari a forma di dittico abbinato ad una Madonna col Bambino (Philadelfia Museum of Art, collezione John G. Johnson e Cambridge, Mass., Fogg Museum of Art; J.O. Hand, C.A. Metzger, R. Spronk in, WASHINGTON-ANVERSA 2007, pp. 7, 9, 10, 18-19, ripr.; p. 18, fig. 1) e forse quello di un Giovane dell’Accademia Carrara di Bergamo (B.W. Meijer in, MILANO 2002, pp. 23-24, n. 1, ripr.; per altri dipinti di probabile committenza italiana, LEVINE 1989 (1991), pp. 122-123). In una lettera indirizzata al Metropolitan Museum (1986) riguardante le opere in esame, il De Vos aveva correttamente ipotizzato l’appartenenza della tavola centrale di Cherbourg e dei laterali interni newyorkesi ad un unico trittico, basandosi tra l’altro sulla paternità artistica identica, sul fatto che i due stemmi identici sulla tavola centrale suggeriscano il coinvolgimento d’un unico donatore, raffigurato nello sportello sinistro, e sull’uguale altezza delle tavole (cfr. LEVINE 1989 (1991), pp. 108-109). A questi argomenti il Rohlmann aggiunge la provenienza fiorentina dei laterali interni. La differenza tra la larghezza dell’insieme dei laterali e il panello centrale tiene conto delle dimensioni della cornice originale, oggi dispersa, a sportelli chiusi. Lo stesso Rohlmann completò la ricostruzione del trittico originario, proponendo come i laterali esterni le due tavole con l’Ecce Homo di Fiesole in grisaille, anch’esse provenienti dall’area fiorentina, che hanno la stesa larghezza dei laterali newyorkesi. Lo studioso identifica anche lo stemma familiare che appare nei due pennacchi sopra il trono della Vergine nella tavola centrale (e anche in un trittico del Memling qui presente in mostra, cat. n. 25): esso appartiene alla famiglia fiorentina dei Pagagnotti. Il Santo patrono gli permise di riconoscere nel personaggio del donatore sul lato sinistro del trittico in esame il mercante Paolo Pagagnotti, che nei suoi viaggi d’affari dovette toccare anche Bruges. La tomba della famiglia Pagagnotti era nella chiesa fiorentina d San Marco (ROHLMANN 1994, p. 71; ID. 1995 p. 441 per i documenti). La tavola centrale presenta la Madonna col Bambino seduta su di un trono decorato da un panno di broccato a motivi vegetali, davanti ad una nicchia centinata. Quest’ultima è affiancata da due archi in cui si
Seguace di Rogier van der Weiden, Ecce Homo. Greenville, Bob Jones Uniersity
inseriscono figure di angeli, una veduta di paesaggio con la Visitazione ed una cappella in cui si intravvede un’Annunciazione sulla sinistra, mentre sulla destra è collocato uno scorcio domestico, con San Giuseppe che entra nella casa. Il maestro della Leggenda di Sant’Orsola chiaramente si richiama all’impianto ideato o adoperato dal Memling per alcune delle sue Madonne, tra le quali quella qui in mostra, dipinta dal maestro per lo zio di Paolo, l’erudito domenicano Benedetto Pagagnotti, che nel 1485 fu nominato vescovo di Vaison (cat. n. 25). La Madonna che tiene in grembo un Bambino stante, incoronata da un angelo e seduta su un trono che fa parte di una struttura architettonica a tre archi ha un precedente nella Madonna col Bambino di Petrus Christus al Museo del Prado, databile intorno al 1460-65 (MARTENS 1995, p. 89, fig. 12). Negli stessi anni, Petrus Christus raffigurò il Bambino in piedi e il vecchio San Giuseppe che entra da una porta a destra, più o meno come nella tavola di Cherbourg, anche nella sua Madonna e Bambino di Kansas City (per questo dipinto: Ainsworth in New York 1994, pp.12-145, n.14, ripr.). Sullo sfondo urbano del laterale sinistro interno (col ritratto di Paolo Pagagnotti) è raffigurata la decapitazione di San Paolo, fuori dalle mura di una Roma qui rappresentata con le guglie ed i tetti di una cittadina fiamminga. La tavola laterale destra si rifà, nel tema del Cristo che appare alla Madre, alle Meditazioni sulla vita di Cristo dello Pseudo-Bonaventura (cfr. Sprinson de Jesus, cit; M.W. Ainsworth in, AINSWORTH-CHRISTIANSEN 1998, pp. 216). In essa è evidente il ricordo dell’interpretazione data quasi un mezzo secolo prima da Rogier van der Weyden nel laterale destro del Trittico Miraflores (Berlino, Gemäldegalerie der Staatliche Museen; cfr. per il dipinto DE VOS 1999, pp. 226-233, n. 12, ripr.; REED 2001-2002, pp. 1-14; per alcune altre versioni del tema ispirate da Van der Weyden HAND-WOLF 1986, p. 254, ripr.), che però risulta per molti versi qui semplificata, come ad esempio nel volto privo di lacrime della Madonna. La Resurrezione di Cristo sullo sfondo della tavola di Rogier è sostituita nella tavola di New York dalle Marie che s’avvicinano alla tomba prima della sua apertura. Come in altre opere del maestro delle Leggenda di Sant’Orsola anche le riprese a riflettografia infrarossa della tavola di Cherbourg e dei laterali esterni newyorkesi hanno fatto scoprire un disegno sottostante che in molti luoghi differisce soltanto in piccoli particolari dall’esecuzione pittorica. Il disegno delle tavole di New York è stato eseguito con pennelli di varia grossezza e linee di spessore vario per indicare i contorni dei vestiti e un tratteggio parallello, abbastanza fitto nelle vesti del donatore, ma anche ad incrocio (risultati e mezzi tecnici usati riportati da LEVINE 1989 (1991) p. 72). Per quanto riguardo i laterali esterni, le due parti della scena corrispondono perfettamente ad un’identica scena anche in grisaille, ma senza le scritte, su due tavole della Bob Jones University di Greenville, all’inizio del ventesimo secolo acquistate presso l’antiquario Bardini di Firenze, che furono considerate da FRIEDLÄNDER (1967-1976, II (1967), p. 77, n. 87a, tav. 107), seguito ancora da NOLAN 2001, p. 76, n. 47, ripr., opere della bottega di Rogier van der Weyden, e dalla Folie (in DETROIT 1960, pp. 87-89, n. 11, ripr.) forse una collaborazione dello stesso Rogier e Vrancke van der Stockt, suo allievo e successore come pittore ufficiale della città di Bruxelles. Esse offrono un’idea dell’aspetto delle parti mancanti delle tavolette esterne di Fiesole, dove su quella di sinistra si vede soltanto la parte inferiore del baldacchino che completava la composizione in alto. Le loro dimensioni (cm 92, 5 × 27,5 , secondo il Friedländer) differiscono in larghezza poco o niente da quelle della tavole di Fiesole e né in larghezza né in altezza da quelle newyorkesi qui esposte. Come forse implicitamente suggerì il Friedländer e come vuole anche il Rohlmann, c’è da chiedersi se le due tavole di Fiesole siano copie da quelle americane o se ambedue risalgano a un prototipo rogeriano oggi sco-
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nosciuto. Sebbene i movimenti alquanto rigidi delle figure, le fisionomie con gli occhi grandi e le proporzioni delle figure allungate sembrino confermare l’attribuzione delle tavole fiesolane al Maestro della leggenda di Sant’Orsola, queste figure a grisaille differiscono stilisticamente alquanto dalle figure a grisaille in nicchie sulle retro delle tavole della pala con episodi della vita di Sant’Orsola del Groeningemuseum di Bruges che hanno dato il nome al maestro (FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa, n. 113, tav. 135). Perciò l’analisi tecnica futura di un eventuale disegno ad esse sottostante e del legno delle tavole fiesolane potrebbe aiutare a confermare definitivamente l’appartenenza di queste tavole al trittico. Benché la provenienza delle tavole esterne faccia supporre che l’intero trittico originale fosse da molto tempo a Firenze, per confermarlo finora non sono state trovate tracce o riprese di particolari nelle opere di artisti fiorentini di fine Quattrocento e oltre. Bert W. Meijer Bibliografia (tavola centrale): Musée Thomas Henry 1835, p. 22, n. 50 (tempi dei fratelli Van Eyck); Musée Thomas Henry 1912, p. 18, n. 50; MARLIER 1964, pp. 21, 25, 31, 35 n. 12, fig. 20 (Maestro della leggenda di Sant’Orsola); H. Pauwels in, BRUGES 1969, p. 42, n. 6, ripr., pp. 200-201; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIb (1971), p. 123, n. 267 add, tav. 255; Musée Thomas Henry 1973, n. 34, ripr.; LEVINE 1989 (1991), pp. 108-109, 121 182184, n. 8; ROHLMANN 1994, pp. 69-70; MARTENS 1995, pp. 89-91, fig. 12; ROHLMANN 1995, p. 440, fig. 21; Sprinson de Jesus in, AINSWORTH-CHRISTIANSEN 1998, pp. 122-124, al n. 14; Musée Thomas Henry 2003, p. 66, ripr.; NUTTALL 2004, p. 75. Bibliografia (sportelli interni): FRIEDLÄNDER 1924-1937, VI (1928), p. 137, n. 117, tav. 52; WEHLE-SALINGER 1947, pp. 76-77, ripr.; BAUTIER 1954, p. 4, n. 3; MARLIER 1964, p. 37, n. 29; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), p. 60, n. 117, tav. 141; DAVIES 1972, p. 215; HANDWOLF 1986, p. 254, al n. 15; LEVINE 1989, pp. 21, 47, 53, 72, 108-112, 118 nota 77, 141, 166-171, 184, n. 8; ROHLMANN 1994, pp. 69-70; ID. 1995, pp. 440-441, fig. 21; M. Sprinson de Jesus in, AINSWORTH-CHRISTIANSEN 1998, pp. 122-124, n. 14, ripr.; NUTTALL 2004, p. 75. Bibliografia (sportelli esterni): FRIEDLÄNDER 1924-1937, II (1924), p. 120, n. 87 (Rogier van der Weyden, bottega); ROMA 1928, p. 3 (scuola olandese 1480 ca); C. Ragghianti in, FIRENZE 1947, p. 7; FRIEDLÄNDER 1967-1976, II (1967), p. 77, n. 87, tav. 107 (bottega di Rogier van der Weyden); BANDERA VIANI [1981] p. 34 , fig. 87, 88 (seguito di Rogier van der Weyden); COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 20-21, n. 40, ripr. (Vrancke van der Stockt?); SCUDIERI 1993, pp. 143-144, n 2, ripr.; ROHLMANN 1994, p. 70 (maestro della Leggenda di Sant’Orsola); ROHLMANN 1995, p. 440, fig. 22; Sprinson de Jesus in. AINSWORTH-CHRISTIANSEN 1998, pp. 122-124, al n. 14; NUTTALL 2004, p. 75; LENZA 2006, p. 42, nn. 45a, b, ripr. (seguace di Rogier van der Weyden)
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29. Maestro della leggenda di Sant’Orsola (attivo a Bruges ca 1470-1500) e
Filippino Lippi (Prato 1457 ca - Firenze 1504)
Trittico centro: Sudario sorretto da due angeli tavola; cm 49, 5 × 31, 5
sportello sinistro: Cristo e la donna di Samaria al pozzo tavola: cm 56 × 15, 5
sportello destro: Noli me tangere tavola: cm 55.5 × 15 iscrizioni: sull’ala sinistra, sulla targa retta da due putti Si scires/ donum /dei/ da mihi/ hanc/ aquam; sull’ala destra, sulla targa retta da due putti: Raboni/ Noli me/ tangere; sul verso, su un’etichetta 37, Filippino e Lorenzo Lippi. Provenienza: Francesco di Filippo Del Pugliese; nel suo testamento del 1503 da lui legato ai frati di San Marco con la sua villa di Sommaia, Villa Pugliese, cappella di Sant’Andrea; nel testamento dello stesso del 1519 lasciato quest’eredità al suo erede universale il nipote Niccolò di Piero del Pugliese (POLIZZOTTO 1989, pp. 73, 87); eredità da lui lasciata a suor Maria Maddalena (al secolo Caterina, sorella di Francesco), che stava nel convento domenicano di Santa Lucia (BURKE 1999, p. 45); Villa Ferdinanda, Artimino, 1638 (Inventario Guardaroba medicea 532 ter, c. 27v; CONTI 1980, p. 250); probabilmente acquistato a Firenze dal Generale Marchese Federico Manfredini (1743-1829); da lui legato al Seminario Patriarcale, Venezia (con attribuzione a Giambattista Crespi novarese) Venezia, Seminario Patriarcale, Pinacoteca Manfrediniana, inv. nn. 15, 16 e 17
Nel testamento steso nel convento fiorentino di San Marco il 28 febbraio 1503 (n.s.) il mercante di lana, ben noto committente d’arte e stretto seguace di Gerolamo Savonarola, Francesco di Filippo Del Pugliese espresse la volontà, qualora la linea maschile del suo ramo familiare si fosse estinta, di donare la cappella di Sant’Andrea, ancora da consacrare nella sua villa di Sommaia (BURKE 2004, fig. 47) al convento di San Marco e alla congregazione toscana degli Osservanti Domenicani. Tra i beni dotali previsti per questa cappella egli elenca “cinque quadrj dipintj in asse” di sua proprietà, tra i quali “uno quadro dipintovj una testa dj christo facta in fiandra con due sportelli dalato dipintj da filippo di fra filippo” (Horne). In seguito a modifiche del testamento, il dipinto pervenne invece nella proprietà di altri membri della famiglia (vedi Katz Nelson e provenienza). L’Horne identifica i due sportelli laterali di Filippino Lippi nella pinacoteca del seminario patriarcale di Venezia, ma stranamente non il Sudario con il Volto di Cristo ovvero la Vera Icona centrale della mano del Maestro della leggenda di Sant’Orsola attribuito al pittore da Friedländer, e che, come notò la Hatfield Strens, formavano e formano tuttora il trittico menzionato nel testamento. A quanto risulta dai documenti nel Quattrocento fiorentino i Medici e altre famiglie possedevano altri esemplari del Volto Santo dipinti da mano fiamminga (NUTTALL 2004, pp. 89-90, 254). Le cornici sono probabilmente quelle originali, a parte la doratura ridipinta che rende la lettura alquanto incerta (Hatfield Strens). Quel-
la della tavoletta neerlandese è più larga, a sbalzo (cm 61 × 52) con listelli a tre lati, più fini quelle laterali (cm 61 × 21 quella sinistra; cm 61 × 21,5 quella di destra). L’anta di sinistra (figlia) chiude sopra quella di destra (madre). È possibile ma non certo che il del Pugliese, che fu per affari nei Paesi Bassi, avesse acquistato in loco la tavoletta con il Volto di Cristo. Con ogni probabilità egli commissionò a Filippino, che lavorò per lui anche in altre occasioni e gli fu forse anche amico (BURKE 2004, pp. 85-100), di aggiungere all’Andachtsbild, già in suo possesso, due sportelli con episodi neotestamentari, anch’esse immagini di Cristo in relazione con figure femminili, come il Sudario è in relazione con Santa Veronica (Strens). Francesco di Filippo Del Pugliese era nipote di Piero di Francesco del Pugliese (1430-1498) per il quale fu dipinto il cat. n. 33. Come nota sempre la stessa autrice, Filippino intona al rosso dello sfondo del pannello centrale quello delle tavole degli sportelli e quello leggermente più chiaro dei vestiti, smussando così alquanto il contrasto tra l’immagine canonica, frontale e ieratica dell’icona sacra e le figure più esili e leggiadre delle donne e del Cristo, rappresentato senza barba ed in profilo nei laterali. Nelle scene dei laterali è inserito qualche elemento nordico, nella rappresentazione dei castelli o un borgo alla fiamminga, più o meno come nel paesaggio visto attraverso la finestra nella tavola della Madonna e Bambino di un anonimo seguace di Van der Weyden del 1480 circa del Fogg Museum of Art (EISLER 1961, pp. 13-27, n. 64, ripr.). Il pittore fiorentino crea anche un nuovo equilibrio ritmico tra la coppia di angeli che reggono la Vera Icona e le coppie di figure dei laterali. La decorazione del pozzo con mostri marini e forse le due epigrafi in basso, con il loro evidente rimando classico e anticheggiante, paiono spie del momento nel quale si svolgono i due episodi. I testi nella tavole laterali sono stati ripresi dalla Bibbia: quello a sinistra si riferisce alla manifestazione del Cristo alla donna samaritana come fonte della salvezza (Giovanni 4, 1-15); quello di destra (Giovanni 20, 11-18) al riconoscimento della resurrezione del Signore e della distanza che da lui ci separa. Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, Santa Veronica che regge il Sudario con il Volto Santo. Collezione privata
Stefan Lochner, Santa Veronica che regge il Sudario con il Volto Santo. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek
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Le immagini del trittico, che unisce la rappresentazione di due incontri di Gesù con donne peccatrici, prima e dopo la sua Passione con quella del risultato miracoloso dell’incontro durante la Passione stessa con una terza donna, accompagnano come exempla e motivo di riflessione, contemplazione e speranza il dialogo e l’incontro dello spettatore/credente con il Cristo attraverso la vicenda evangelica, aspetti analizzati dal Wolf nelle loro sottili ramificazioni. Considerata la tematica ‘femminile’ delle vari parti del trittico è logico chiedersi se il trittico fosse destinato alla devozione d’una donna e in particolare a quella della sposa di Francesco, Alessandra di Domenico Bonsi, come è stato suggerito dalla Burke, anch’ella fervente savonaroliana, il quale dedicò una predica proprio al passo evangelico sulla Samaritana (BURKE 2004, p. 180). In genere la parte mediana del trittico del seminario patriarcale veneziano è datata agli ultimi decenni del Quattrocento, mentre l’esecuzione delle tavole di Filippino, da alcuni ritenuta coeva agli affreschi della cappella Strozzi di Santa Maria Novella (1494-1503), viene collocato dal Katz Nelson dopo l’Incontro alla porta aurea di Copenhagen, datato 1497 (ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 596-597, n. 53, ripr.; per gli affreschi della cappella Strozzi ibidem, pp. 584-588, n. 40, ripr.). Non fu eseguita molto dopo il Volto Santo del maestro della leggenda di Sant’Orsola una copia (di mano di una artista della cerchia di Raffaellino del Garbo) che lo riproduce con notevole precisione, inclusa la cornice (come osserva Paola Squellati Brizio ) abbinandogli in verticale una Resurrezione di Cristo ed una Lamentazione, su una tavola centinata, attribuita alla bottega di Raffaellino del Garbo (cat. n. 31). Essa serviva come sportello nel tabernacolo che custodiva il crocefisso miracoloso della cappella del Crocefisso della Provvidenza nella chiesa fiorentina di Santa Maria del Carmine ed è forse legata ai Del Pugliese che acquistarono una cappella al Carmine. Il Maestro della leggenda di Sant’Orsola dipinse il Volto di Cristo almeno due altre volte: una tavola leggermente più grande di collezione privata (cm 62 × 44) finora non pubblicata (si veda foto a colori presente sul sito www.wga.hu) che è una replica o copia di bottega leggermente più dura e gelida; ed un’altra, anch’essa in collezione privata, assai simile al cat. n. 00 (con varianti e di dimensioni più piccole: quercia, cm 56 × 31, cima centinata; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), p. 61, n. 131, tav. 146; LEVINE 1989 (1991), pp. 53, 193-194, n. 12; M.W. Ainsworth in, NEW YORK 2004, pp. 562-563, n. 335, ripr.). Qui il pittore ritorna al fondo oro più corrente nel periodo pre-Eyckiano, e il sudarium è sorretto dalla sola Santa Veronica la cui testa in alto, affine per forma e posa all’angelo di sinistra nel pannello nordico del trittico di Venezia, ingentilisce il carattere severo della rappresentazione. Forse questa versione è stata il modello di quella eseguita nella cerchia di Piero di Cosimo (cat. n. 30). Per ora non vi è modo stabilire se il nostro dipinto, che è alquanto ritoccato e ritagliato in basso (Ainsworth), preceda o segua la tavola affine oggi del Seminario Patriarcale. Quest’ultima offre del tema una versione molto più solenne e ieratica, nella sua frontalità, rispetto all’interpretazione più naturalistica offertane dal Memling. Questi infatti rappresenta in un paesaggio Santa Veronica con il sudario sia nello sportello esterno destro del Trittico Floreins (1479) a Bruges, che nello sportello esterno destro del dittico posseduto da Bernardo e Pietro Bembo (DE VOS 1994, pp. 158-161, n. 32, ripr. e pp. 205-210, n. 50, ripr.) del quale l’altra metà era nota a Firenze, dato che una parte del paesaggio fu copiata da Raffaello e/o dalla sua bottega forse negli anni fiorentini in quello che era già ritenuto l’autoritratto di Raffaello, (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek, inv. n. 1059; VOLPE 1956, pp. 3-18; NUTTALL 2005, p. 87, ripr.). Precedenti iconografico-tipologici un po’ più prossimi alle versioni del Volto Santo del Maestro di Sant’Orsola, invece, sono la tavola del più importante artista attivo a Colonia nel primo quarto del Quattrocento e prima dell’arrivo in città
di Stefan Lochner, il Maestro di Santa Veronica appunto, che verso il 1420 circa dipinse a Colonia, anche lui su fondo d’oro, due esemplari della Veronica che regge il sudario con il Volto Santo, uno alla National Gallery di Londra (inv. n. NG687) e l’altro più simile a quello in esame, benchè il Cristo appaia coronato di spine e gli angioletti siano in basso, eseguito per la chiesa di San Severino (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek; v. Zu Salm, Goldberg in, Alte Pinakothek 1999, pp. 338339, ripr.). Forse anche quest’ultimo esemplare (cm 78,1 × 48,2) era un coperchio o sportello d’un tabernacolo o armadio di reliquie, come la sopracitata tavola di Santa Maria del Carmine. Bert W. Meijer Bibliografia: MOSCHINI 1842, p. 120 (Lorenzo Lippi); CAVALCASELLE-CROWE 1896, VII; p. 105 (pittore fiorentino); HORNE 1915a pp. 52 sg, 72 e sg., 101e sg. (laterali di Filippino Lippi); HORNE 1915-1916, pp. 45-46; FRIEDLÄNDER 1924-1937, VI (1928), p. 138, n. 132 (parte centrale del maestro della leggenda di Sant’Orsola); MOSCHINI 1940 p. 14 (parte centrale copia o imitazione da originale fiamminga del Quattrocento); FAHY 1969, p. 147 nota 25; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), p. 61, n. 132, tav. 146; STRENS 1977, pp. 284-288, figg. 273-275 con ult. bibl.; C. Conti in, FIRENZE 1980, p. 250; LEVINE 1989 (1991), pp. 52, 123, 194-200, n. 13, con bibl.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 69-70, n. 123, ripr.; BIETTI 1996, pp. 151-152; M. Wolf in, ROMA 2000-2001, pp. 191-192, cat. n. IV.31, ripr.; BURKE 1999, pp. 169-170; ID. 2004, pp. 161, 175, 177-181, figg. 57, 58; NUTTALL 2004, pp. 122-123, 260, fig. 111; J. Katz Nelson in, ZAMBRANO-NELSON 2004, pp. 47, 383, 488, 551 nota 183, 600-601, n. 57, fig. 422, con ult. bibl.
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30. Piero di Cosimo (Firenze 1462 - Firenze 1522) attribuito
Santa Veronica con il Velo del Volto Santo olio su tavola; cm 34,5 × 21,3 provenienza: raccolta privata inglese, dove era riferito al fiammingo Maestro della Leggenda di Sant’Orsola e in precedenza alla Scuola catalana del XV secolo Collezione privata
L’inedita tavoletta si è conservata nelle dimensioni originali, come indica sia la levigatura originale degli spessori del legno ancora visibile su ogni lato, con una parziale abrasione solo in basso, che il leggero rialzo sui bordi laterali della preparazione a gesso. La sua funzione di immagine destinata alla devozione privata oltre che dalle piccole dimensioni e dal fondo oro è dimostrata dalla preziosa finitura del retro ingessato e marmorizzato rosso porfido. Il limite tra l’oro, su cui i raggi sono impressi a mano libera, e la figurazione dipinta è delimitata da un’incisione realizzata con una punta metallica, che lascia intravedere numerose varianti e pentimenti nel corso dell’esecuzione pittorica. Nel contesto degli scambi artistici tra Firenze e gli antichi Paesi Bassi l’opera si rivela di grande interesse come testimonianza della diretta ripresa di un modello fiammingo da parte di Piero di Cosimo. L’iconografia della Santa Veronica che sorregge il Velo con l’effige di Cristo, piuttosto rara in Italia in dipinti autonomi, riprende alla lettera uno schema molto diffuso nell’arte nordica in pitture, incisioni, rilievi e placchette devozionali soprattutto a partire dal primo Quattrocento (anche se testimoniato in Francia fin dagli inizi del secolo precedente nella scultura monumentale) ad esempio nelle due tavole (circa 1420) da cui prende nome il Maestro della Santa Veronica di Colonia, e in seguito sviluppato in ambiente fiammingo (M.W. Ainsworth in, NEW YORK 2004, pp. 560-565). ‘Veroniche’ o ‘Volti Santi’ importati dai Paesi Bassi sono documentati a Firenze nelle collezioni dei Medici e di altre importanti famiglie: nel 1460 Alessandra Macinghi degli Strozzi ricorda in una sua lettera un ‘Volto Santo’ importato da Bruges come ‘una divota figura e bella’ (NUTTALL 2004, pp. 34, 89-90).
Pietro del Donzello, Santa Veronica con il Volto Santo. Empoli, Museo della Collegiata
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La Veronica di Piero di Cosimo mostra inoltre, anche dal punto di vista stilistico, la precisa conoscenza della tavola con il Volto Santo sorretto da due Angeli del pittore, pure attivo a Bruges, noto come Maestro della Leggenda di Sant’Orsola che apparteneva al mercante fiorentino Francesco di Filippo Del Pugliese, noto come seguace del Savonarola, importante patrono delle arti e suo committente (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, IV, p. 139). Ricordata come ‘una testa dj cristo facta in fiandra’ dal Del Pugliese nel proprio testamento del 1503, essa dopo l’aggiunta di due sportelli eseguiti da Filippino Lippi divenne lo scomparto centrale di un trittico devozionale attualmente conservato nella Pinacoteca Manfrediniana del Seminario Patriarcale di Venezia (cat. n. 29). Piero si ispira a questo prototipo non solo nella tipologia iconica e insieme realistica della testa del Redentore, con la minuziosa definizione dei capelli e dei tratti del volto, ma anche nella scelta di un oro con un bolo tendente al rosso che allude al colore del fondo del dipinto fiammingo. Il Maestro della Leggenda di Sant’Orsola riprese il tema in almeno due altre versioni: una con poche varianti rispetto al pannello centrale del trittico di Venezia, ma di stile in apparenza più arcaico (tavola cm 62 × 44; Asta Sotheby’s, Londra, 8 Dicembre 2005, lotto 204) e una seconda pure di antica provenienza fiorentina in cui il velo invece che dagli Angeli è sostenuto dalla Veronica, che presenta comunque una tipologia diversa e più nordica, attualmente in deposito da una collezione privata presso il Metropolitan Museum di New York (M.W. Ainsworth in, NEW YORK 2004, pp. 562-563). La personale interpretazione di Piero di Cosimo dal modello fiammingo si coglie non solo nella particolare fusione e delicatezza del modellato del volto del Cristo, ma soprattutto nella resa pittorica dell’elegante figura della Veronica che si apparenta strettamente al gruppo di opere giovanili in cui egli si accosta con un accento inconfondibile ai modi di Filippino Lippi, verso il 1485-1490 (ZERI 1959, pp. 42 sg.; BACCI 1966, pp. 27 sg.; GERONIMUS 2006, pp. 186 sg.). Particolarmente vicino appare il busto della Vergine nella Madonna col Bambino delle Collezioni Reali di Svezia a Stoccolma sia nel modellato del viso che nell’andamento dei panneggi, mentre gli squillanti accordi verderosso e rosso-azzurro evocano taluni passaggi della Pala Del Pugliese nel Saint Louis Art Museum, realizzata su incarico di Piero di Francesco Del Pugliese, membro illustre della stessa famiglia, per la chiesa dell’Eremo di Santa Maria a Lecceto presso Lastra a Signa (GERONIMUS 2006, pp. 193 sg.). Caratteristica di Piero di Cosimo è la fusione di un minuzioso realismo di matrice fiamminga, si notino il contorno degli occhi definito a punta di pennello o la resa dei capelli delineati quasi uno ad uno oltre alla resa luministica nel modellato dei volti e nelle pieghe dei panneggi, con una fluidità ritmica nel disegno di marca schiettamente fiorentina e che lo apparenta strettamente con Filippino. Unicamente sua è poi la vibrante e a tratti liquida stesura del colore, con effetti pittorici di intensa suggestione non solo nel chiaroscuro avvolgente dei volti ma anche nell’azzurro intenso del velo della Veronica e nelle pieghe bianche del velo. La compresenza di accenti lineari nella definizione dei contorni e di morbidezza di impasto nei colori si approssima inoltre al punto di stile della pala con la Visitazione e i Santi Antonio Abate e Nicola per la Cappella di Gino Capponi in Santo Spirito oggi nella National Gallery di Washington (ca 1489; CRAVEN 1975, p. 572; GERONIMUS 2006, pp. 199 sg.), uno dei dipinti di più schietta ispirazione nordica del Quattrocento italiano, fortemente marcato dalle impressioni dal Trittico Portinari di Hugo Van der Goes (BACCI 1966, p. 26) giunto a Firenze nel 1483, e in cui la filippinesca figura della Vergine appare molto vicina alla Veronica anche per tipologia. I rapporti di Piero di Cosimo con la famiglia Del Pugliese, ripetuti e
duraturi nel tempo, non solo confermano in modo definitivo la sua conoscenza del prototipo del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola ma lasciano aperta la possibilità che anche la sua versione del ‘Volto Santo’ possa essere dovuta alla stessa committenza. Il dipinto fu comunque imitato a Firenze: ne resta una copia leggermente ingrandita ma fedele anche se di qualità modesta nel Museo della Collegiata di Empoli (inv. n. 35, tavola cm 36 × 29; PAOLUCCI 1985, pp. 137-138), pervenuta dalla Collezione Del Vivo nel 1863 e da considerare tra le cose meno felici di Pietro del Donzello (FAHY 1976, p. 220). Filippo Todini
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31. Raffaellino del Garbo (Firenze 1466?-1524) bottega
Sportello di tabernacolo in alto: Resurrezione al centro: Sudario sorretto da due angeli in basso: Compianto sul Cristo morto tavola centinata; cm 122 × 53,2; cm 152,5x61 (con cornice) iscrizione: AD 10 DIC. 1713 QUESTO ALTARE LA RIMO BERNARDO GIOVANT CUSTODE
provenienza: Firenze, Chiesa di Santa Maria del Carmine Firenze, Convento di Santa Maria del Carmine (Proprietà Fondo Edifici di Culto)
Lo sportello è correlato con il dipinto su tavola destinato a contenere nella chiesa del Carmine il Crocifisso della Provvidenza, miracolosa e antica immagine di Cristo sulla croce, in origine sormontata da Dio padre e affiancata dalla Vergine e San Giovanni, donata il 6 marzo 1486 da Martino di Giovanni, tessitore del popolo di San Frediano, alla Compagnia dei Disciplinanti del Crocifisso. Il luogo di riunione della Compagnia, sin dall’origine contiguo alla chiesa, era stato stabilito dal 1482 nell’area sottostante la cappella Serragli, situata nel lato est del transetto. A distanza di breve tempo dalla donazione, la sacra immagine venne trasportata nella cappella stessa, posta in comunicazione con la sede della Compagnia. In quest’occasione fu eseguita, per allogarvi il Crocifisso separato dalle figure laterali e custodito in una teca, la tavola centinata con funzione di edicola recante in alto l’immagine di Dio Padre, in basso una Madonna col Bambino di maniera bizantina e nella cornice dodici angeli adoranti alternati a reliquie di santi racchiuse in alloggiamenti circolari. Secondo quanto riporta il Baccani, originariamente la tavola era completata da una predella su cui erano raffigurati i confratelli della Compagnia con le loro vesti nere, inginocchiati e in atto di flagellarsi, accompagnati da un frate carmelitano (BACCANI 1852, p. 32). Nel 1636, quando nella primitiva cappella ai Serragli subentrarono i Corsini, il Crocifisso della Provvidenza è stato trasferito nella cappella a sinistra dell’altare maggiore, anticamente appartenuta ai Ferrucci e da questa data posta sotto il patronato della Compagnia del Crocifisso e di Sant’Alberto Bianco. In questa posizione lo ricorda il Richa nel 1762 (RICHA 1762, X, p. 43) dentro il tabernacolo marmoreo opera del Piamontini eseguito nel 1740 in occasione del rifacimento della cappella. L’incendio della chiesa del Carmine del 1771 ha risparmiato l’immagine miracolosa, precedentemente trasportata in convento con il suo tabernacolo marmoreo, nuovamente posta il 13 settembre 1782 nella cappella riedificata. La prima menzione dello sportello destinato a coprire la tavola con il Crocifisso è del 1852, nell’ambito del richiamo alla sua ricollocazione nel 1782 “entro il tabernacolo nuovamente costrutto”. Si annota che quel tabernacolo “è incavato nel muro e resta coperto e difeso da un mantellino di legno sprangato di ferro, nel quale di antica maniera è dipinto in mezzo il Volto Santo, nella parte inferiore Gesù morto in grembo alle Marie, e nella parte superiore vi è figurata la gloriosa resurrezione dello stesso Gesù Salvator nostro, essendovi di più nella parte più bassa tre serrature da potersi chiudere con tre chiavi differenti, come in effetti è seguito nell’atto della celebrazione del presente istrumento […] poiché è stato chiuso con le tre chiavi sopra descritte, ed una di esse segnata di n. 1 è stata consegnata al detto M.R.P. Del Riccio Priore di detto Convento, e le altre due segnate di n. 2 e 3 sono state rimesse in mano del sig. Giovanni Cioni Provveditore di detta Compagnia, e così è restata terminata detta funzione” (BACCANI 1852, pp. 45-46). La descrizione corrisponde alla cornice attuale del dipinto con il Volto Santo, oggi custodito in ambiente conventuale, che attesta un riassetto effettuato con tutta probabilità in una data di poco precedente la descrizione del Baccani, come risulta evidente da aggiunte inserite rifilando la tavola originale, di caratteristiche
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analoghe rispetto a quella del Crocifisso. Sul retro sono presenti bruciature di candele e la scritta AD 10 DIC. 1713 QUESTO ALTARE LA RIMO BERNARDO GIOVANT CUSTODE. Il tavolato ligneo dell’immagine miracolosa, che misura cm 112 × 53, è ammannito sul retro, anch’esso dotato di spranghe di ferro, con due alloggiamenti circolari per reliquie, tre rotture alla base, sigilli in cera rossa posti alle estremità di due nastri incrociati. Quando il Crocifisso era scoperto, in occasione delle festività di maggio e dicembre, veniva per prima abbassata, in base a un meccanismo a saracinesca funzionante tramite un sistema di carrucole e di corde, una tenda rigida montata su un telaio centinato. Si aprivano quindi le serrature dello sportello, che veniva anch’esso abbassato tramite le corde legate a due anelli metallici posti in corrispondenza della centina. Perciò, quando l’immagine miracolosa era visibile, la tenda e lo sportello erano ambedue occultati negli appositi alloggiamenti presenti in basso nella muratura. Già Procacci ha rilevato il divario nella qualità pittorica tra la tavola con il Crocifisso, i cui angeli adoranti richiamano la pittura di Filippino Lippi, e lo sportello, evidenziando come nelle scene della Resurrezione e del Compianto vengano riecheggiati i dipinti di Raffaellino del Garbo di analogo soggetto presenti rispettivamente nella fiorentina Galleria dell’Accademia e nell’Alte Pinakothek di Monaco. Monica Bietti ne ha successivamente riferito l’esecuzione a un pittore dell’ambiente rosselliano (PROCACCI 1932, p. 176; BIETTI 1996, p. 152). L’analisi delle caratteristiche dello sportello sotto l’aspetto pittorico, se si accoglie l’ipotesi che fin dall’origine sia stato eseguito con questa destinazione, non può prescindere da considerazioni riguardanti la sua stretta relazione con la tavola recante il Crocifisso, rievocata anche nella scansione delle scene, distribuite secondo un andamento verticale. La raffigurazione del Volto Santo posto al centro – copia fedele, anche nella tipologia della finta cornice, di quello dipinto per Francesco di Filippo del Pugliese dal Maestro della leggenda di Sant’Orsola, oggi al Seminario Patriarcale di Venezia (cat. n. 29) – costituiva la proiezione all’esterno dell’immagine del Crocifisso miracoloso, resa tuttavia secondo lo stile delle Fiandre, di maggiore valenza simbolica perché di tradizione non classica, in analogia con la scelta fatta nel raffigurare secondo la maniera bizantina la Madonna col Bambino nella tavola retrostante. Perciò tanto più nel caso dello sportello del Carmine, il Volto Santo, genere pittorico sovente riportato negli inventari fiorentini dell’epoca (HATFIELD STRENS 1977, p. 288, n. 16) ed evocativo del mistero del sangue vivificante sparso da Gesù (MUZJ 2006, p. 100) richiamato nel rosso del fondo, perdeva il proprio carattere oggettuale per divenire sguardo assoluto con il quale
il devoto si rapportava “faccia a faccia” e che alludeva a un’altra presenza, quella del Crocifisso retrostante, che era la reliquia vera e propria racchiusa al di là. L’ipotesi di un collegamento con Francesco di Filippo del Pugliese, la cui famiglia aveva il patronato su una cappella posta nel lato est del transetto del Carmine, per la scelta relativa alla raffigurazione sullo sportello di una copia del Volto Santo rappresentato nell’opera da lui posseduta (BIETTI 1996; NUTTALL 2004, p. 123) è ulteriormente rafforzata dal fatto che Francesco aveva sposato Alessandra di Domenico Bonsi, la cui famiglia aveva anch’essa il patronato su una cappella del Carmine, posta nel lato ovest del transetto della chiesa. È dunque più che mai probabile che dai coniugi, come è noto molto devoti e ferventi savonaroliani, siano venuti la proposta della copia e il suggerimento della bottega alla quale rivolgersi. Rispetto alla Veronica, le scene raffigurate in alto e in basso avevano una funzione di corollario, in quanto evocative della Passione di Cristo. Le pitture dello sportello potrebbero ascriversi a un pittore operoso nella bottega di Raffaellino del Garbo, probabilmente impegnato soprattutto nella raffigurazione di storie nelle predelle, come induce a ritenere l’insistenza sui contorni delle figure, secondo quanto si riscontra per esempio nella predella del perduto dipinto con il Noli me tangere eseguito da Raffaellino per la chiesa di San Lucchese a Poggibonsi. Da qui, nella scena della Resurrezione, la ripresa esclusivamente sul piano compositivo dell’opera di Raffaellino oggi alla Galleria dell’Accademia, sviluppo a sua volta del modello di analogo soggetto, oggi a Berlino, che era parte dalla pala di Domenico Ghirlandaio collocata sull’altare della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella nel 1494. L’opera di Raffaellino è tuttavia sottoposta qui a un processo di semplificazione formale particolarmente evidente nella resa dei volti, riducendo il numero dei personaggi e limitandosi più che altro a imitarne le pose. Così nel paesaggio di fondo – reso sulla destra secondo curve degradanti simili a quinte e sulla sinistra con la rappresentazione di una veduta sintetizzata di Palazzo Vecchio e della cupola del duomo fiorentino – elementi propri della pittura di Raffaellino sono interpretati secondo un accentuato processo di schematizzazione. Un analogo procedimento viene usato per la raffigurazione del Compianto, ispirato alla Pietà di Monaco, opera richiamata in mostra dall’interpretazione datane da Bartolomeo di Giovanni nell’elemento centrale della predella con il Compianto di Cristo (cat. n. 7). Sia il sepolcro rappresentato sul fondo, identificato con il Golgota per la presenza della base della croce conficcata con i chiodi, sia le figure della Lamentazione vera e propria, sia Giuseppe d’Arimatea a sinistra con la tenaglia e la corona di spine, sia il santo giovane a destra con i chiodi e il martello, dubitativamente identificabile in Nicodemo di cui è però inconsueta la raffigurazione in età giovanile, sono definiti in maniera calligrafica, con tratti marcati e panneggi dalle linee angolose. Punto di partenza devono essere stati i dipinti di Raffaellino del Garbo, forse ripresi da disegni o cartoni preparatori presenti nella bottega. Il valore dello sportello doveva essere oltre tutto, se si parte dal presupposto che sia stato eseguito con questa destinazione, principalmente quello di memento rispetto al Crocifisso della Provvidenza, più importante come immagine di devozione che come opera d’arte autonoma. Un’attendibile ipotesi di datazione delle pitture dello sportello è connessa con la questione della datazione della Resurrezione di Raffaellino alla Galleria dell’Accademia, secondo gli studi più recenti riferita non più al 1504 ma al 1498 (NUTALL 1996, p. 93). L’esecuzione dell’opera del Carmine potrebbe pertanto essere collocata agli inizi del secolo XVI. Mirella Branca
Tabernacolo del Crocifisso della Provvidenza. Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine
Bibliografia: BACCANI 1852, pp. 45-46; PROCACCI 1932, p. 176; PAATZ 1952, p. 212, 275 (n. 133); COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 69-70, fig. 123 bis; BIETTI 1996, p. 152, fig. 1; BURKE 2004, p. 175; NUTTALL 2004, pp. 123, 144; NELSON 2004, p. 601
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32. Mariotto Albertinelli (Firenze 1474-1515)
Trittico centro: Madonna con Gesù Bambino; sul retro: Teschio come ‘memento mori’ sportello sinistro, interno: Santa Caterina d’Alessandria; esterno: Arcangelo Gabriele sportello destro, interno: Santa Barbara; esterno: Vergine Annunciata tavole; cm 30,4 × 21,6 (pannello centrale); cm 30,3 × 11,4 (sportello sinistro); cm 30,3 × 10,5 (sportello destro) provenienza: Milano, proprietà Fumagalli (dal 1806 ca); acquisto per la raccolta Poldi Pezzoli (ca 1867) Milano, Museo Poldi Pezzoli, inv. 1116/477
L’opera è ben nota alla critica, ma alcune inesattezze riscontrate nei resoconti anche recenti suggeriscono di cercar di riassumerne la vicenda. La prima menzione del trittichetto, a quanto mi risulta, si trova nella lettera indirizzata il 16 giugno 1806 da Giuseppe Bossi a Camillo Fumagalli di Milano che ne era il proprietario: Bossi, leggendo come la data 1500 le due lettere ’MD’ alla base del trono di Maria, avanza l’attribuzione al giovanissimo Raffaello. Lo stesso parere esprimono negli anni seguenti amatori e studiosi (cfr. NATALE 1982), mentre il Passavant fin dalla prima edizione della sua monografia (ed. GUASTI 1882-1891) corregge il tiro attribuendo il trittico a Fra Bartolomeo. Secondo il Padre Marchese (1845-1846), anche Carlo della Porta gli aveva segnalato nel piccolo dipinto la presenza accanto a Raffaello, della mano di Fra Bartolomeo il quale, a quanto pare indipendentemente, ne è riconosciuto l’autore da Otto Mündler in una sua visita nel 1856 al mercante d’arte Guido Fumagalli registrata nel suo diario (The Travel Diaries of Otto Mündler 1985; MOTTOLA MOLFINO 1993). Con l’attribuzione a Fra Bartolomeo, il trittico venne acquistato probabilmente nel 1867 o poco prima, da Gian Giacomo Poldi Pezzoli che in quell’anno fece realizzare appositamente da Giuseppe Speluzzi la cornice in ebano e bronzo dorato, e il cavalletto in legno di noce, bronzo e ferro sul quale è tuttora esposto (ringrazio Andrea Di Lorenzo delle indicazioni tratte dall’archivio del Museo Poldi Pezzoli, faldone 33; cfr. anche ZANNI 1983). Con tale riferimento fu esposto alla mostra allestita a Brera nel 1872, nella Sala VI dove erano riunite opere tutte di proprietà del Poldi Pezzoli. Già negli anni settanta tuttavia Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni ipotizzarono un’attribuzione alternativa a Mariotto Albertinelli (ROVETTA 2006), registrata con dubbio dal Bertini nel primo catalogo del Museo Poldi Pezzoli (1881), subito dopo sostenuta con decisione da FRIZZONI (1882) e MORELLI (ed. Anderson 1991), e mai più messa in discussione in seguito. Le due lettere ‘MD’ dipinte in posizione centrale sul bordo inferiore della cornice originale, sotto la raffigurazione della Madonna in trono che allatta Gesù Bambino, sono state interpretate o come la data 1500 in numeri romani, oppure come le iniziali dell’iscrizione ‘Mater Dei’ tradizionalmente apposta ad immagini venerate della Madonna. Il problema interpretativo, che oggi si tende a risolvere in favore della seconda ipotesi, non è facile da sciogliere perché se la formula abbreviata per ‘Mater Dei’ non è comune, non lo è neppure una simile collocazione della data (ma
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nella Visitazione della Galleria degli Uffizi, la data MDIII è dipinta a metà altezza sulle due lesene laterali). Resta il fatto che una datazione all’anno 1500 corrisponde bene al momento stilistico riflesso da questo piccolo capolavoro di Mariotto, che non può certo appartenere alla sua fase matura, sul 1510-1511, come è stato proposto (NATALE 1982). Nulla, nelle immagini sul recto e sul verso di tutte le parti del trittichetto, richiama la grandiosità e la tavolozza densa e fortemente chiaroscurata che caratterizza le sue opere prodotte sullo scorcio del primo decennio, e dopo. Invece, al di là della somiglianza dell’oggetto, riscontri significativi si trovano piuttosto con il piccolo trittico del Musée des Beaux-Arts di Chartres, considerato da tutta la critica opera dell’inizio del suo percorso, nei primi anni novanta (S. Tumidei in, TOURS 1996): basta guardare il profilo del Bambino del Poldi Pezzoli, e il profilo dell’angelo di destra di Chartres, dalle fisionomie simili se non identiche; o la ripresa dell’idea delle ombre gettate, là come qui nella scena dell’Annunciazione. Ma rispetto all’arcaismo consapevole di quella composizione, qui Mariotto propone un linguaggio molto vicino, nelle soluzioni cromatiche e compositive, a quello del suo amico e partner Baccio della Porta. È infatti già stata sottolineata dalla critica (cfr. A. De Marchi in, FIRENZE 1992) la dipendenza dell’Annunciazione monocroma da quella di Baccio sul verso dei due sportellini di Piero del Pugliese databili al 1498: relazione che doveva essere ben più evidente prima delle manomissioni subìte quando fu smembrato il tabernacolo di cui le due tavolette facevano parte insieme con il bassorilievo di Donatello (cat. n. 33). L’unità spaziale dell’ambiente dove ha luogo l’annuncio dell’angelo a Maria, rimasta integra nel dipinto dell’Albertinelli mentre è ormai difficile da avvertire negli sportelli di Baccio, è strutturata con altrettanto impegno a rendere la profondità, occupata dal grande letto a baldacchino, arretrato rispetto ai due protagonisti dal disegno prospettico del pavimento (come nell’Annunciazione affrescata da Mariotto a Pulicciano, in stretta dipendenza dall’Annunciazione di Volterra di Baccio, del 1497). Anche l’architettura che inquadrava l’Adorazione del Bambino dipinta da Baccio sulla faccia interna di uno dei due sportelli, di cui ora rimane solo una colonna con capitello, forse non era molto diversa dall’arioso loggiato rinascimentale che ospita Santa Caterina. E analoga doveva essere la soluzione stupenda, rimasta solo in parte negli sportelli di Piero del Pugliese ma perfettamente conservata nel trittico di Mariotto, della cornice illusionistica che racchiude la scena monocroma sul retro, mentre sul davanti, intorno al gruppo della Vergine con il Bambino, la cornice dipinta a motivi geometrici riecheggia il gusto per le geometrie decorative diffuso nel trittichetto di Chartres. Soprattutto, questa pittura sottile, raffinatissima nell’esecuzione, con qualche rigidità legata alla cultura figurativa quattrocentesca che la distingue dalla naturalezza solenne e ariosa della contemporanea produzione di Baccio, è vicina alla predella della grande pala con la Visitazione datata 1503, che segna uno dei momenti di più stretta dipendenza di Mariotto dal compagno fattosi frate domenicano, i disegni del quale, nel momento del suo ingresso nell’ordine, dovettero passare a lui. Sulla traccia degli studi grafici di Fra Bartolomeo, i tre episodi con l’Annunciazione, l’Adorazione del Bambino e la Presentazione al Tempio corrispondono puntualmente allo stile del trittichetto, suggerendo una prossimità di data, che trova un probabile post quem ravvicinato nell’intervento di Mariotto nel Giudizio di Santa Maria Nuova, nel 1500: un’eco dell’atmosfera del chiostro dei morti dove lavorò per mesi a completare l’affresco per Gerozzo Dini, impronta lo stupendo teschio dipinto “alla fiamminga” sul verso del pannello centrale del trittico. La struttura dell’opera, che fortunatamente è pervenuta quasi intatta (a parte la legatura che regge ora i due sportelli, in origine collegati al centro con cardini di cui restano evidenti le tracce), riflette il gusto diffuso dai Paesi Bassi anche nella Firenze di fine Quattrocento, per la ripresa di questo particolare tipo di oggetti devozionali. L’accostamento in mostra a ciò che resta del tabernacoletto di Fra Bartolomeo commissionato da Piero
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del Pugliese, e al trittichetto di Francesco del Pugliese (ora al Seminario di Venezia, cat. n. 29) che racchiude l’immagine fiamminga della ‘Veronica’con i due sportelli di Filippino, documenta efficacemente questa moda, e la strettissima relazione dei maestri fiorentini con la produzione degli antichi Paesi Bassi. Questo aspetto dell’opera di Mariotto sottolineato da tutta la critica (S. Tumidei in, TOURS 1996, p. 123 la definisce senz’altro “à la flamande”), mi sembra còlto in maniera particolarmente acuta da Otto Mündler, che nel 1856, dopo aver formulato l’attribuzione a Fra Bartolomeo del trittico allora riferito a Raffaello annotava nel suo diario, di fronte agli sfondi di paese animati da minuscole figurine dietro le due Sante Caterina e Barbara: “These figures and the landscape bear a close resemblance to Memling, which it is difficult to account for. Two different hands, I should think, might be admitted, or else a successful imitation of flemish models by the florentine master (as far as the landscape goes)” (The Travel Diaries of Otto Mündler, ed. Togneri Dowd 1985, p. 141). La panoramica di esempi fornita dalla mostra Prayers and Portraits. Unfolding the Netherandish Diptych (WASHINGTON-ANVERSA 2006) offre non pochi riferimenti per le scelte iconografiche nel trittico Poldi Pezzoli, dalle straordinarie Annunciazioni monocrome di Jan van Eyck a Dresda e nella collezione Thyssen-Bornemisza, al dittico Bembo di Memling che presenta sul verso il calice e il teschio. E anche al di là dell’iconografia, sembra che l’argine rinascimentale del loggiato con il suo bassorilievo classicheggiante, e del solenne per quanto dolcissimo gruppo centrale, lasci dilagare nella resa lenticolare dei paesaggi popolati di case e castelli nordici, l’ influsso diretto di un modello di Hans Memling, quasi al punto da giustificare le perplessità di Otto Mündler. La raffigurazione poi sulla faccia interna dello sportello destro, con Santa Barbara un po’ grottescamente trionfante sopra la figura del padre-carnefice, sullo sfondo della torre gugliata della sua prigione, va oltre ogni senso di proporzioni e di decoro fiorentino, e si può spiegare soltanto con un prototipo fiammingo, che non sono in grado di indicare. Tuttavia, Bert Meijer mi segnala due trittichetti fiamminghi con una struttura e un accostamento iconografico abbastanza simili. Sia nell’uno, attribuito al Maestro di Hoogstraeten (FRIEDLAENDER 1971, VII, p. 82, Suppl. 185), sia nell’altro, incluso nel corpus del Maestro di Francoforte (foto n. 32961 dell’immagine data-base di RKD all’Aja), come nel trittico milanese le sante Caterina e Barbara sono affiancate alla Madonna col Bambino, che nel secondo caso è pure Madonna allattante. Il piccolo trittico del Museo Poldi Pezzoli , che ha ritrovato una tavolozza più brillante e trasparente grazie al restauro in occasione di questa mostra (eseguito dallo studio di Carlotta Beccaria, e diretto da Amalia Pacia della Soprintendenza milanese), documenta dunque, più che qualsiasi altro dipinto di Mariotto, la sua risposta agli stimoli fortissimi della pittura fiamminga sullo scorcio del Quattrocento. E a meno che non si tratti (e non sembrerebbe il caso di Mariotto) di una produzione per il mercato, il fascino dei modelli fiamminghi dovette influenzare altrettanto la scelta del committente. Serena Padovani Bibliografia: BOSSI, ed. Ciardi 1982, II, pp. 498-500; QUATREMÈRE DE QUINCY, ed. Longhena 1829, p. 98 nota 2, pp. 337-340; PASSAVANT (1839-1858), ed. Guasti 1882-1891, II, pp. 407-408; MARCHESE 1845-1846, II, p. 52; The Travel Diaries of Otto Mündler, ed. Togneri Dowd 1985, p. 141; Catalogo delle opere d’arte 1872, p. 30; BERTINI 1881, p. 38; FRIZZONI 1882, p. 119; MORELLI (1890), ed. Anderson 1991, pp. 156-157; BODMER 1929, pp. 599-602; GRASSI 1963, p. 125; FAHY 1966, p. 460; BORGO 1976, pp. 41-46, 204-206; NATALE 1982, pp. 158-159; ZANNI 1983, n. 231 p. 339; PETRIOLI TOFANI 1991, p. 164; A. De Marchi in, FIRENZE 1992, p. 79; MOTTOLA MOLFINO 1993, I, p. 154; S. Padovani in, FIRENZE 1996, pp. 34, 82; E. Fahy, in, FIRENZE 1996, p. 69; S. Tumidei in, TOURS 1996, pp. 123, 124; MORANDOTTI 1999, pp. 317-318; ROVETTA 2006, pp. 221, 223, nota 20 p. 225
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33. Fra Bartolomeo (Firenze 1474-1517)
Tabernacolo del Pugliese Adorazione del Bambino; verso: Arcangelo Gabriele Presentazione al Tempio; verso: Vergine Annunciata tavole; cm 20,2 × 8,9 (verso cm 19,6 × 8,7); cm 18,3 × 9,4 (verso cm 17,8 × 9,2) provenienza: Piero del Pugliese (ca 1498); collezione di Cosimo I de’ Medici (ca 1568-1584); Tribuna degli Uffizi (1589-1638); Galleria degli Uffizi Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1477
Secondo il racconto del Vasari riproposto sia nella ‘vita’ di Donatello sia in quella di Fra Bartolomeo, in origine le due tavolette erano gli sportelli laterali di un tabernacolo commissionato a Baccio della Porta da Piero del Pugliese per racchiudere un rilievo di Donatello raffigurante la Madonna col Bambino. Il tabernacoletto, ancora intatto, entrò poi nelle collezioni medicee, dove il Vasari lo descrive nello “scrittoio” di Cosimo I, mentre il Borghini (1584) lo menziona in proprietà di Francesco I; era però già smembrato quando, nel 1589, i due pannelli furono esposti nella Tribuna degli Uffizi entro due cornicette in ebano, ormai separati dal bassorilievo di Donatello di cui si perde traccia. Probabilmente nel corso del Settecento i due quadretti di Fra Bartolomeo furono legati a dittico in una cornice dorata che è descritta nell’inventario degli Uffizi del 1825 poi sostituita dalla cornice simile ma moderna di cui risultano dotati oggi. La critica tende ora (F. Caglioti in, FIRENZE 1992) ad identificare il rilievo di Donatello in origine al centro dei due sportelli, nella Madonna Dudley del Victoria and Albert Museum. Con tale punto di riferimento, è stata proposta una ricostruzione del tabernacolo del Pugliese, che suggerisce dimensioni notevolmente maggiori, specie in altezza, dei due sportelli prima che fossero separati dall’insieme. I due pannelli, che dovevano essere collocati invertiti rispetto all’accostamento odierno, cioè con l’Adorazione del Bambino a sinistra per chi guarda, e la Presentazione al Tempio a destra, nel corso dello smembramento furono ritagliati su un lato e in altezza. La Presentazione al Tempio che ha dipinta sul verso la Vergine Annunciata, sembra aver conservato la larghezza originale, ma è notevolmente decurtata in basso, dove ora mancano i gradini d’accesso al Tempio e, sul verso, parte del pavimento della stanza di Maria; l’Adorazione del Bambino che ha dipinto sul verso l’arcangelo Gabriele, appare ridotta in larghezza sul lato destro della tavola, con la conseguente mutilazione del profilo e più gravemente delle braccia e delle mani dell’angelo. Sono invece intatti i lati esterni dei due pannelli, che sui versi conservano la cornice illusionistica dipinta in color legno chiaro, a riquadrare la scena monocroma con l’Annunciazione che prima delle manomissioni era stata concepita in uno spazio unificato con al centro la porta semiaperta a cui si affacciano altri due angeli al seguito di Gabriele, sormontata da un elemento decorativo circolare affiancato da due putti dei quali ancora si vede la parte inferiore delle gambe. Una soluzione probabilmente non dissimile da quella dipinta da Fra Bartolomeo nel 1497, sopra la porta dell’Annunciazione di Volterra. Le notizie storiche e le osservazioni stilistiche indicano infatti per le due tavolette una data non lontana da quell’anno. Lo confermano i numerosi disegni che si riconoscono relativi alle due composizioni, così vicini al ricco gruppo di fogli preparatori per il Giudizio finale di Santa Maria Nuova iniziato nel 1499 da esser stati a volte confusi con quelli. L’intensità lirica che commuoveva Bernard Berenson nei disegni giovanili del Frate (BERENSON 1896, pp. 77-78), e l’eleganza sottile dei profili e dei
panneggi ammorbidita dagli effetti sfumati ottenuti con la matita nera e i rialzi di biacca, caratterizzano i tre studi di Rotterdam per l’Adorazione del Bambino che elaborano la figura della Madonna inginocchiata (vol. M 34, vol. M 58, vol. M 59r), e quelli, più numerosi, per la Presentazione al Tempio. Si tratta di due studi pure a Rotterdam per la figura della Madonna, sola o col Bambino (vol. M 20, vol. M 105), ai quali FISCHER (1990, pp. 41, 43) aggiunge quello degli Uffizi (inv. 335 F) e quello più complesso del British Museum (inv. 1895-9-15-531), e i due studi per la figura ammantata di San Giuseppe (Rotterdam, vol. M 30, vol. M 31). Relativi alla scena sono inoltre, segnalati da Fahy (in, FIRENZE 1996, pp. 67-69) i due disegni con una figura virile di spalle conservati agli Uffizi (inv. 518 E) e a Lille (inv. pl. 34), e il bellissimo foglio a penna acquerellato dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma (FC 130496). Questi disegni stupendi permettono di seguire la genesi delle due scenette, improntate fino dalle prime idee grafiche da una grandiosità e da un respiro spaziale del tutto indipendenti dalle reali piccole dimensioni (ROTTERDAM 1990, p. 33), ed eseguite con una pittura ricca d’impasto, veloce e sommaria, capace di evocare invece che descrivere ogni dettaglio delle figure, degli oggetti, dell’architettura, del paesaggio, che le accomuna alla produzione di Baccio sullo scorcio del secolo. Per questo sembra da accettare l’informazione fornita dal Vasari che il committente dei due sportellini fu Piero del Pugliese, morto nel 1498 (informazione ritenuta invece frutto di confusione con il nipote Francesco, anch’egli in seguito committente di Fra Bartolomeo: ROTTERDAM 1990, p. 37), data che ben concorda con lo stile dell’opera. Se la struttura originale per cui le due tavolette erano state eseguite dal giovane Baccio è andata perduta, e se la loro legatura a dittico è dunque risultato di una manomissione, i due quadretti dipinti su due facce s’inseriscono in un particolare tipo di oggetti artistici che a Firenze vede un revival sorprendente alla fine del Quattrocento. La produzione di piccoli dittici e trittici portatili per la devozione privata, che aveva conosciuto una vastissima diffusione nella pittura fiorentina del Trecento, si era ridotta se non del tutto esaurita nella Firenze quattrocentesca, dove le esigenze devozionali venivano meglio soddisfatte da dipinti singoli raffiguranti la Madonna col Bambino, magari racchiusi in eleganti tabernacoletti rinascimentali. La presenza in mostra di tre opere ben note ma forse mai esposte insieme, questo ‘dittico’ di Piero del Pugliese di Fra Bartolomeo, il trittichetto di Mariotto Albertinelli prestato dal Museo Poldi Pezzoli, e il trittico di Francesco del Pugliese prestato dal Seminario di Venezia, attesta la ripresa dell’antica tradizione, ma in una nuova chiave, sulla scia della pittura fiamminga. I mercanti e banchieri fiorentini attivi nelle Fiandre erano affascinati dai dittici e trittici dei grandi maestri neerlandesi come Jan van Eyck, Gerard David, Dirk Bouts, Hans Memling, Hugo van der Goes, che sul verso degli sportelli illustranti temi sacri, imitavano l’effetto del rilievo scultoreo dipingendo a monocromo (anzi, a grisaille: cfr. PHILIPPOT 1966, p. 230) l’Angelo e la Vergine Annunciata, o figure di Santi; e le loro commissioni di tali opere ne diffondevano la conoscenza a Firenze. Di questa ‘moda’, le tre commissioni fiorentine, tutte tre di altissima qualità, tutte tre la punta più avanzata e moderna della pittura locale di fine secolo, documentano l’importanza e la forza d’impatto. Nel ‘dittico’ di Fra Bartolomeo, la raffigurazione dell’Angelo e dell’Annunciata in grisaille sull’esterno dei due sportelli riflette l’intenzione del committente di sintetizzare nel tabernacoletto che racchiudeva l’immagine a basso rilievo in marmo della Madonna col Bambino, le tappe della storia della salvezza, visualizzandola secondo gli esempi importati dai Paesi Bassi (WASHINGTON-ANVERSA 2006, p. 70): dall’annuncio dell’Incarnazione sull’esterno dei due sportelli, all’Adorazione del Bambino da parte di Maria a Giuseppe, al riconoscimento del Salvatore da parte di Simeone e Anna, cioè dei rappresentanti ispirati d’Israele, nella Presentazione al Tempio. Da parte sua Baccio, che da Ghirlandaio, da Leo-
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nardo, da Piero di Cosimo e dalla bottega del Verrocchio ha ormai maturato i vocaboli tutti fiorentini del suo linguaggio, risponde da par suo ai modelli fiamminghi. Everett Fahy ha sottolineato (in, FIRENZE 1996, pp. 67, 85) come in questo momento l’attenzione di Baccio sia attratta dalla pittura di Memling, riecheggiata qui nella tipologia del paesaggio dell’Adorazione del Bambino; mentre qualche anno dopo, intorno al 1505, si mostra piuttosto sotto l’influsso dei dipinti di Jan van Eyck, in particolare la tavoletta con Le Stimmate di San Francesco di Philadelphia che doveva essere a Firenze all’inizio degli anni settanta. Viene comunque da una tradizione che risale a Van Eyck l’idea straordinaria, iperrealistica, illusionistica, di dipingere la cornice sui lati esterni delle due tavolette raffiguranti l’Annunciazione, concepita, con una soluzione molto comune nei dittici fiamminghi quattrocenteschi, in uno spazio unitario a sportelli chiusi (CAMPBELL 2006a, p. 34). Assume così un significato più preciso la decisione di Fra’Bartolomeo, riferita dal Vasari, di non affidare ai falegnami le cornici dei suoi quadri, bensì di dipingerle direttamente a riquadrare le figure: “Aveva preso collera Fra Bartolomeo con i legnaioli che gli facevano alle tavole e quadri gli ornamenti, i quali avevan per costume, come hanno anche oggi, di coprire con i battitoi delle cornici sempre un ottavo delle figure; laddove Fra Bartolomeo deliberò di trovare una invenzione di non fare alle tavole ornamenti; e così con le cornici dipinte attorno fece ornamento alla figura di mezzo…” (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, IV, pp. 188-189). Le sottigliezze cromatiche e luministiche in ciò che resta dell’incorniciatura dipinta intorno all’Annunciazione, piuttosto che nascere dalla preoccupazione di non far coprire parte delle figure al falegname, sembrano derivare dalle straordinarie soluzioni di Jan van Eyck nell’Angelo e Annunciata di Dresda, o nell’Angelo e Annunciata della collezione Thyssen Bornemisza di Madrid, dove oltre all’illusionismo e alla resa straordinaria dei materiali si accompagna una pittura limpida e brillante il cui fascino si riflette nelle Madonne giovanili di Baccio della Porta, e nelle due bellissime allegorie profane di Porzia (Uffizi) e Minerva (Louvre). Serena Padovani Bibliografia: VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, II, pp. 416-417; IV, pp. 176-177; BORGHINI 1584, pp. 378379; GRASSI 1963, pp. 117-118; A. Conti in, FIRENZE 1980, p. 258; ROTTERDAM 1990, pp. 33-43; F. Caglioti in, FIRENZE 1992, pp. 68-78; A. De Marchi in, FIRENZE 1992, pp. 78-82; E. Fahy in, FIRENZE 1996, pp. 66-69; S. Tumidei in, TOURS 1996, p. 124; ELLIS 2007, p. 88
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34. Hans Memling (Seligenstadt ca 1435 - Bruges 1494)
Ritratto di giovane uomo tavola (quercia); cm 39,9 × 28,3 (esclusi cm 7 addizionali sulla destra) provenienza: Conte di Wemyss, Gosford House, Longniddry, Scozia, sino al 1912; J.H. Dunn, Londra, 1913; Knoedler, New York, 1914; Philip Lehman, New York 1915; Robert Lehman; nel 1975 da lui lasciato per testamento al Metropolitan Museum of Art New York, Metropolitan Museum of Art, The Robert Lehman Collection, inv. n. 1975.1.112
Questo ritratto fu attribuito per la prima volta a Memling da Waagen nel 1854 ed esposto al pubblico a Manchester nel 1857, quando si pensava rappresentasse un San Sebastiano, dal momento che l’effigiato reggeva una freccia ed aveva l’aureola, aggiunte posteriori che furono rimosse in occasione del restauro nel 1912. La superficie dipinta ha subito diversi danni, in particolare nei punti in cui sono state rimosse le aggiunte; vi sono perdite significative anche sulla guancia sinistra ed abrasioni sui capelli, sulle mani, sul vestito e sul cielo e lungo l’incrinatura che attraversa la tavola per cm 11 circa partendo dal bordo di sinistra. Un listello verticale è stato aggiunto lungo cm 7 del bordo di destra. La tunica rossa si è scurita, tanto da nascondere l’originale decorazione floreale del velluto (DE VOS 1994; WOLFF 1998). Nonostante ciò il dipinto rimane un superbo esempio delle capacità di Memling come ritrattista, mostrando grande raffinatezza nel progetto e nell’esecuzione (Sprinson de Jesus in, NEW YORK 1998), nonché nell’attenzione per i giochi di luce sulle diverse superfici (WOLFF 1998). Tra i ritratti indipendenti di Memling, questo è unico nel presentare il personaggio nell’angolo di un’alta stanza, vicino ad una finestra che, attraverso due colonne di marmo rosso, apre la vista sul paesaggio. Le mani del protagonista sono incrociate l’una sopra l’altra e poggiano su una cornice che corrisponde a quella del quadro stesso, confondendo così i limiti tra lo spazio occupato dall’effigiato e quello di chi lo osserva. I ritratti di Memling erano molto richiesti tra gli italiani residenti a Bruges e molti esemplari presero la via dell’Italia. Il personaggio del ritratto Lehman era probabilmente un fiorentino che, non appena il dipinto fu completato, dovette spedirlo in Italia, dal momento che l’opera era già nota a Firenze nell’ultimo quarto del XV secolo. Come notò CAMPBELL (1983), le colonne ed il paesaggio furono copiati direttamente in una Madonna con Bambino del Louvre (cat. n. 35), la quale, attribuita talvolta al Verrocchio, ma più spesso e probabilmente a ragione al Ghirlandaio, è da datarsi, per motivi stilistici, agli anni settanta del Quattrocento. Il particolare delle colonne e del paesaggio fu utilizzato in numerose opere della cerchia del Ghrilandaio. La Madonna del Louvre stessa è concepita sull’originale del Memling, sebbene le colonne del ritratto siano qui riprese nella loro interezza, includendo nella composizione due splendidi capitelli dorati che sostengono un arco. Due colonne simili, con capitelli ma senza l’arco, che danno su un paesaggio, sono presenti anche nel Ritratto di donna della cerchia del Ghirlandaio, conosciuto nelle versioni di Berlino e San Marino (NUTTALL 2004, p. 220; FAHY 2007, p. 45; ripr. in, WASHINGTON 2001, pp. 194-197). Il motivo ricorre anche in una miniatura del Giudizio di Salomone, attribuita recentemente al Ghirlandaio, all’interno della Bibbia di Federico da Montefeltro (Biblioteca Vaticana, Cod. Urb. Lat., 2, c. 31v), nella quale le colonne e l’arco della Madonna del Louvre si estendono in una grande arcata (GARZELLI 2004, pp. 186187). Recentemente (FAHY 2007) ha ipotizzato che le colonne del ritratto Lehman potrebbero riflettersi nelle due colonne di marmo sullo sfondo del Cristo Benedicente del Ghirlandaio a Philadelphia (cat. n. 51). La struttura generale del dipinto di Memling è fedelmente imitata nel Ritratto virile agli Uffizi, già considerato autoritratto del Perugino ma
considerato da molti studiosi opera di Raffaello (cat. n. 36), anche se curiosamente non vi è il dettaglio delle colonne, così amato dalla cerchia del Ghirlandaio. La decisione di basare il ritratto su questo modello è la conseguenza diretta della stima e della familiarità che gli artisti a Firenze avevano con la ritrattistica di Memling. La formula compositiva fissata da Memling – seppur presente in altri dipinti fiamminghi – nel ritratto Lehman, con la scenografia ad angolo e la vista di un paesaggio attraverso la finestra, fu ampiamente ripresa dagli artisti fiorentini di fine Quattrocento, non solo come ambientazione per ritratti, ma anche per dipinti sacri. La Madonna con Bambino al Fogg Museum (cat. n. 8) di un seguace di Botticelli è un esempio, come anche il cosiddetto Ritratto di Smeralda Bandinelli (London, Victoria and Albert Museum, ripr. in, WASHINGTON 2001, p. 173) del Botticelli stesso. Alla luce di tali considerazioni, la tesi di POPE HENNESSY (1966), secondo cui il ritratto Lehman sarebbe databile agli anni ottanta del Quattrocento poiché mostra influenze del Perugino, è superata. Sebbene né il Ritratto d’uomo degli Uffizi né la Madonna del Louvre possano essere datati con precisione, quest’ultima si ritiene generalmente un’opera degli anni settanta del Quattrocento, e ciò ci fornisce un pur approssimativo terminus ante quem per il ritratto Lehman. Sulla base dello stile e degli abiti, il dipinto fu infatti a lungo collocato nell’ottavo decennio del Quattrocento (STERLING 1957; CAMPBELL 1983). La questione è stata recentemente complicata da una pubblicazione di dati dendrocronologici che suggeriscono invece una datazione agli anni ottanta del Quattrocento. Nonostante alcuni studiosi, in particolare DE VOS (1994), abbiano condiviso tale spostamento in avanti, WOLFF (1998) ha ribadito che ciò è inaccettabile, sia sulla base di paralleli stilistici con altri ritratti del Memling, sia mettendo l’opera in relazione con la Madonna del Louvre stessa. Attraverso l’analisi dendocronologica, l’unica data individuabile con esattezza è quella dell’ultimo anello cresciuto nel legno della tavola che, per il ritratto Lehman, corrisponde al 1461. Per il resto, ci si basa solitamente su una gamma di medie statistiche che in questo caso, partendo dall’età dell’ultimo anello di crescita, porterebbe ad una data di abbattimento del tronco non precedente al 1470, da stimarsi più precisamente al 1476; calcolando poi i tempi di invecchiamento, ciò porterebbe a collocare l’esecuzione agli anni ottanta del XV secolo. Tuttavia, da quanto afferma WOLFF (1998), ci sono casi, come per il ritratto Lehman, per i quali alcune valutazioni storico-artistiche suggerirebbero una datazione da stimarsi utilizzando il tempo minimo trascorso tra l’età dell’ultimo anello cresciuto nel legno e la probabile data del utilizzo della tavola, piuttosto che applicando la formula statistica del tempo medio trascorso. Tale interpretazione, per il ritratto Lehmann, fornirebbe una data d’esecuzione a partire dalla metà degli anni settanta del Quattrocento. Ciò è ora confermato anche dalla miniatura del Giudizio di Salomone tratta dalla Bibbia di Federico da Montefeltro, pubblicata da Annarosa GARZELLI (2004, p. 186), la quale dipende chiaramente dalla Madonna del Louvre. La Bibbia del Montefeltro si può datare con certezza al 1477-1478, fornendoci dunque un terminus ante quem per la data d’esecuzione del ritratto Lehman, da collocarsi dunque in maniera attendibile alla metà degli anni settanta del Quattrocento. Paula Nuttall Bibliografia: WAAGEN 1854, III, p. 440; WAUTERS 1893, 83, n. 1; BODE 1896, p. 4; CONWAY 1921, p. 239; PANOFSKY 1953, p. 349; STERLING 1957, p. 35; POPE HENNESSY 1966, p. 60; FRIEDLANDER 1967-1976, VIa (1971), p. 55 n. 74, tav. 115; ROSENAUER 1969, pp. 59-85; OBERHUBER 1978, pp. 72-74; GROSSMANN 1979, p. 111; CAMPBELL 1983, pp. 675-676 ripr.; AMES LEWIS 1989, p. 112; DE VOS 1994 p. 200, n. 48 ripr.; KLEIN 1994, p. 103; ID. 1997, p. 289; Sprinson de Jesus in, NEW YORK 1998, pp. 166-167, n. 28, ripr.; WOLFF 1998, pp. 74-78, n. 13, ripr.; CADOGAN 2000, p. 60; NUTTALL 2002, p. 202; ID. 2004, pp. 64-70, 153, 217, 233, ripr.; GARZELLI 2004, pp. 182-187; T.H. Borchert in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005, p. 165, n. 15, ripr.; M.W. Ainsworth in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005, pp. 105-106; L. Campbell in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005, p. 54; P. Nuttall in, MADRIDBRUGES-NEW YORK 2005, pp. 72-83; FAHY 2007, p. 45, fig. 54
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35. Domenico Ghirlandaio (Firenze 1449-1494)
Madonna col Bambino tavola, applicata su tavola, cm 78,7 × 55,5; superficie dipinta cm 74,5 × 52,5 provenienza: Giovanni Freppa, Firenze (1863; venduto a Rothschild); Barone Nathaniel Rothschild, Parigi (1863-1870); sua vedova, Charlotte de Rothschild, Parigi (1870-1899), che lo lasciò al Louvre Parigi, Musée du Louvre, R.F. 1266
Charlotte de Rothschild (1825-1899), la penultima proprietaria di questo impressionante dipinto, era figlia di James de Rothschild, capo del ramo francese della famiglia. Allieva del pittore Ercole Tracel, poi di Nelly Jacquemart, divenne un’acquarellista di talento e, a partire dal 1864, espose regolarmente al Salon. Nel 1842 sposò il cugino inglese Nathaniel Rothschild (1812-1870), «un grand amateur de peintures italiennes” (PREVOST MARCILHACY 2006): sua era la piccola ma sceltissima raccolta di dipinti italiani del Quattrocento – compresa una Madonna col Bambino del Maestro della Natività di Castello, straordinariamente ben conservata, e un coppia di finissimi pannelli da pilastrino di Ercole de’ Roberti – che Charlotte lasciò al Louvre. Il suo gusto si rivolgeva piuttosto alla pittura francese contemporanea e alla scuola veneziana settecentesca. Nel 1863, quando Nathaniel Rothschild acquistò questo dipinto, la “Gazette des Beaux-Arts” lo proclamò “une fort belle Sainte Famille, due au pinceau de Domenico Ghirlandajo” (“La Chronique” 1863). Ma in un momento imprecisato tra l’estate del 1866, quando Charlotte de Rothschild lo prestò all’esposizione di dipinti antichi di collezione privata che si tenne al Palais des Champs-Élysées (PARIGI 1866) e il 1899, quando il dipinto entrò al Louvre (DE RICCI 1913), l’attribuzione si spostò da Ghirlandaio a Sebastiano Mainardi (1466-1513), genero dell’artista fiorentino e pittore dal talento modesto. Attribuzione, questa, che i critici ben presto respinsero: Emil JACOBSEN (1902) e Gustavo FRIZZONI (1906) suggerirono che la Madonna appartenesse alla scuola di Andrea del Verrocchio (1435-1488), indicazione adottata dal catalogo primo novecentesco dei dipinti italiani e spagnoli del Louvre (HAUTECOEUR 1926) e che in alcuni casi è arrivata fino a oggi. Altri studiosi preferiscono assegnarla a un anonimo seguace di Verrocchio (CAMPBELL 1983; WOLFF 1998; COVI 2005) o alla sua bottega (KECKS 1988 e 2000), mentre altri ancora hanno oscillato tra Verrocchio e Ghirlandaio (BRIGSTOCKE
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1978 e 1993; NUTTALL 1995, 2004 e 2005; VENTURINI 2004). Solo Konrad OBERHUBER (1978) e Jean Cadogan, suo allievo (CADOGAN 1983a, 1983b, 2000), l’hanno dichiarata opera autografa. Oberhuber osserva che precorre le Madonne ritratte entro ombrosi ambienti chiusi dal giovane Leonardo da Vinci (1452-1519) e da Lorenzo di Credi (ca 1457-1536), e nota con sottigliezza che le colonnine di marmo rosso variegate e il paesaggio, con le sue file di alberi arrotondati e una città lontana che si fonde con le colline azzurre all’orizzonte, ricordano l’opera di Hans Memling. Cinque anni dopo Lorne CAMPBELL (1983) puntualizza la presenza questi motivi nel ritratto di Memling in collezione Robert Lehman (cat. n. 34), dove compaiono un paesaggio straordinariamente simile e le stesse due colonnine. Campbell inoltre osserva che la composizione del ritratto Lehman influenzò l’autore di un ritratto degli Uffizi, allora attribuito a Perugino o a Lorenzo di Credi, ma che Richard Offner e Luciano BELLOSI (1987) hanno accertato essere opera fiorentina di Raffaello (cat. n. 36). La giusta attribuzione della Madonna Rothschild si deve a Bernard Berenson. In un primo tempo lo studioso (1909) l’assegnò dubitativamente a Piero del Pollaiuolo (1441/42-1485/96), ma riprendendo lo studio dei disegni giovanili di Leonardo da Vinci, Verrocchio e Lorenzo di Credi (1933) recuperò la tradizionale attribuzione a Ghirlandaio, suggerendo per il dipinto una datazione agli inizi della carriera del pittore, quando era soprattutto influenzato da Verrocchio. L’attribuzione di Berenson è stata ampiamente accettata (ZERI 1953; WASHINGTON-LOS ANGELES-NEW YORK 1979; FAHY 2007; GROSSMAN 1979; BREJON DE LAVERGNÉE-THIÉBAUT 1979; ANGELINI 1983; AMES LEWIS 1989; PADOA RIZZO 1992; ROHLMANN 1992; LORENTZ 1995; THIÉBAUT 1996; Musée du Louvre 2007; BROWN 1998 e 2003; BOSKOVITS 2003; GARZELLI 2004). Le citazioni da un prototipo neerlandese e l’imitazione degli effetti ottici di quella tecnica pone la Madonna Rothschild su un altro piano rispetto al discusso gruppo di tavole devozionali verrocchiesche: la Madonna di Camaldoli, molto rovinata, la Madonna Altman di New York, la londinese Madonna col Bambino e due angeli, la frammentaria Madonna Kress di Washington, e quella Ruskin di Edimburgo. Particolari come i ripiani nel vano della parete con una natura morta (comprendente un rotolo con una scritta purtroppo illeggibile) ricompaiono nei monumentali affreschi di Ghirlandaio come il San Girolamo nella chiesa di Ognissanti a Firenze e l’Annunciazione della Collegiata di San Gimignano, oltre che nel famoso ritratto di Giovanna Tornabuoni del Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid. La questione della datazione della Madonna Rothschild è stata risolta solo di recente. In precedenza si andava dal 1468-1469 (Oberhuber) al 1480 circa o anche oltre. Un fattore rilevante dell’operazione è stata la datazione del ritratto Lehman. Finché l’analisi dendrocronologica (lo studio degli anelli di crescita del legno di cui è fatta la tavola) ha indicato un anno intorno al 1476 per il taglio dell’albero da cui fu tratta la tavola Lehman (DE VOS 1994), la Madonna Rothschild è stata datata intorno al 1480,
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tenendo conto del tempo necessario alla stagionatura del legno; un’indicazione, però, che non corrispondeva allo stile delle opere di Ghirlandaio nei primi anni ottanta del secolo. Tuttavia l’esperto dendrocronologo Peter KLEIN (2005, p. 181) ha anticipato al 1470 la data del taglio dell’albero, fissando quindi al 1474-1475 l’esecuzione del dipinto. Perciò, ipotizzando che il ritratto sia stato inviato da Bruges a Firenze poco dopo l’esecuzione, la Madonna Rothschild potrebbe appartenere agli anni 1476-1477. Questo coincide esattamente con l’osservazione di Annarosa GARZELLI (2004) secondo la quale la Bibbia di Federico da Montefeltro, che riporta nei colophon le date 1477 e 1478, contiene una miniatura del Giudizio di Salomone dove compaiono colonne di marmo rosso variegato che sostengono archi, esattamente come quelle della Madonna Rothschild. Così lo stile verrocchiesco della Madonna trova riscontro con gli affreschi analogamente verrocchieschi che Ghirlandaio dipingeva a quel tempo nelle volte della cappella di Santa Fina in San Gimignano. Si conoscono le seguenti copie del dipinto: Elcio F. DaSilva, Longwood (Florida) cm 56 × 41 (post 1969); Mrs. Alfred G. Wilson, Rochester (Michigan) cm 57,8 × 41,9 (vendita Parke-Bernet, New York, 22 ottobre 1970, lotto 12); collezione privata, Austria, cm 72,5 × 46 (Dorotheum, Vienna, 19-20 ottobre 1993, lotto 6); collezione privata, Gran Bretagna, cm 73,6 × 48,9 (Wengraf 1984) Everett Fahy Bibliografia: “La Chronique”, 1863, p. 335; PARIGI 1866, p. 23, n. 57; JACOBSEN 1902, p. 195; SCHAEFFER 1904, p. 109, ripr.; FRIZZONI 1906, p. 405, ripr.; BERENSON 1909, p. 173; REINACH 1910, p. 406, ripr.; DE RICCI 1913, p. 84; HAUTECOEUR 1926, p. 137; VAN MARLE 1929, pp. 406, 571 nota 2; BERENSON 1932, p. 226; ID. 1933, p. 256, ripr.; ID. 1938, I, p. 65; ZERI 1953, p. 139 nota 15; BERENSON 1963, p. 76, tav. 954; BRIGSTOCKE 1978, pp. 189, 192, nota 31; OBERHUBER 1978, pp. 72-74, 76 nota 54, 11 nota 70, ripr.; WASHINGTON-LOS ANGELES-NEW YORK 1979, pp. 2, 17-18, ripr.; GROSSMAN 1979, pp. 102, 111, ripr.; BREJON DE LAVERGNÉE-THIÉBAUT 1979, p. 178, ripr.; ANGELINI 1983, p. 14 ripr.; CADOGAN 1983a, p. 289; ID. 1983b, p. 50; CAMPBELL 1983, pp. 675-676, ripr.; WENGRAF 1984, pp. 91-92; GOWING 1987, p. 130, ripr.; KECKS 1988, p. 115, ripr.; AMES LEWIS 1989, pp. 111-112, 121 nota 4, ripr.; PARIGI 1989, p. 310; PADOA RIZZO 1992, p. 57, ripr.; ROHLMANN 1992, pp. 389-390; BRIGSTOCKE 1993, p. 202; DE VOS 1994, p. 200; LORENTZ 1995, pp. 70, 105 note 189-191, ripr.; NUTTALL 1996, p. 20; THIÉBAUT 1996, p. 50 ripr.; BROWN 1998, pp. 40, 186 nota 85; SPRINSON DE JESUS 1998, p. 166; WOLFF 1998, pp. 76-77, ripr.; CADOGAN 2000, pp. 60, 393 note 122 e 124, ripr.; KECKS 2000, p. 409; BORCHERT 2002, p. 243; BOSKOVITS 2003, p. 155 nota 13; BROWN 2003, p. 367 nota 47; GARIBALDI 2004, pp. 20, 32 nota 19, ripr.; NUTTALL 2004, p. 153, 283 nota 52, ripr.; GARZELLI 2004, pp. 182-87, ripr.; VENTURINI 2004, pp. 31, 38 nota 33; COVI 2005, p. 207 nota 222; BORCHERT 2005, p. 165; NUTTALL 2005, p. 78, ripr.; PREVOST MARCILHACY 2006, pp. 283-84, 288 note 68-69, 289 nota 81; FAHY 2007, pp. 45-46, 50 note 11 e 13-15, ripr.; Musée du Louvre 2007, p. 28, ripr.
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36. Raffaello (Urbino 1483 - Roma 1520)
Ritratto virile tavola; cm 51 × 37 provenienza: Uffizi, Tribuna 1704 Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1482
L’attribuzione di questo ritratto, menzionato per la prima volta negli Inventari delle Gallerie Fiorentine del 1704, è stata sempre vivacemente dibattuta, da quando conoscitori come Venturi, Berenson e Offner cominciarono a riesaminare e rivalutare i suggerimenti della critica ottocentesca. Di tutte le ipotesi avanzate nel tempo, quella più antica (Holbein) si è rivelata infondata, mentre quella che di più lunga tradizione (Lorenzo di Credi) appare ormai insostenibile in base a quello che sappiamo della sua attività come ritrattista. Da alcuni decenni le proposte attributive e gli interrogativi ad esse collegati, sono interamente incentrate su Perugino e Raffaello. L’attribuzione al più anziano dei due pittori trova tuttora dei sostenitori (Nuttall), ma l’accuratissima analisi stilistica di Luciano Bellosi ha spostato l’attenzione sul suo più celebre allievo e ha portato al conseguente trasferimento del quadro nelle sale degli Uffizi dove sono riunite le opere del Sanzio. Molti sono infatti gli indizi che giustificano la restituzione a Raffaello, a cominciare dal senso tridimensionale del volto dell’effigiato, conseguito attraverso dei passaggi di valori chiaroscurali estremamente raffinati. La maestria con cui il pittore ha applicato il colore, soprattutto intorno agli occhi e al naso, come anche il sicurissimo modellare delle parti del viso rimaste in ombra sono apparse ancora più evidenti dopo il restauro in occasione della mostra “L’Officina della maniera” del 1994. Tale intervento ha fornito anche conferme di altro tipo, in particolare la presenza di un disegno a pennello a color carminio caratteristico di Raffaello: emerso con l’esame riflettografico sotto la pellicola pittorica, è condotto con grande sicurezza, sia nei contorni che nei tratteggi chiaroscurali. Se appare sicura la collocazione del Ritratto virile nel periodo fiorentino del Sanzio, resta difficile stabilire il suo preciso posto all’interno della sequenza dei ritratti fiorentini di Raffaello. La particolarità del ritratto sta nel valersi di una gamma cromatica relativemente ridotta, con lo scopo preciso di dotare l’opera di una certa gravitas, in linea con la posizione sociale dell’effigiato. Tale scelta stilistica potrebbe essere dettata del resto dallo stesso committente, la cui identità rimane purtroppo sconosciuta (sono stati fatti i nomi di Verrocchio, Perugino e Alessandro Braccesi). Quello che appare certo è che il nostro ritratto fu preceduto dal Ritratto di giovane con mela (M. Zecchini in, FIRENZE 1984, pp. 71-76, n. 4, ripr.) comunemente situato all’esordio fiorentino, ovvero intorno al 1504. Dal Ritratto di giovane con mela il Ritratto virile riprende lo schema compositivo, di origine fiamminga: figura disposta obliquamente rispetto al piano di immagine, con lo sguardo rivolto allo spettatore, un braccio adagiato in primo piano lungo il margine inferiore del dipinto e le mani congiunte sul lato sinistro. Come sottolinea Luciano Bellosi vi è un’analoga sproporzione fra il corpo largo e massiccio e il braccio corto, reso in scorcio. Ma ciò che distingue il Ritratto virile dal Ritratto di giovane con mela è il maggior senso di consistenza della carne (OFFNER 1934) e una maggiore precisione nella resa dei particolari – si veda ad esempio il sottile segno dei cappelli – che portano ad una maggiore senso di presenza dell’effigiato. Non può sfuggire in questo contesto l’influsso di Hans Memling, il cui naturalismo in ritrattistica dovette far scuola anche a Firenze. Il ritratto degli Uffizi è stato più volto paragonato al Ritratto di giovane
uomo della collezione Lehman (cat. n. 34), opera databile negli anni settanta del Quattrocento, caraterrizata da un’analoga impostazione compositiva, e non solo per la posa dell’effigiato ma anche per quanto riguarda il rapporto tra la figura e lo sfondo. Che questo ritratto fiammingo – o un’altra opera di Memling ad esso paragonabile – fosse conosciuto tra i pittori fiorentini, lo dimostra la Madonna col Bambino attribuita al giovane Domenico Ghirlandaio (cat. n. 35) con analogo sfondo paesaggistico visibile tra colonne (CAMPBELL 1983). Nel primo decennio del Cinquecento la lezione di Memling non aveva ancora perso dunque il suo valore di attualità. Ciò non toglie che Raffaello tende a ridurre gli effetti atmosferici a favore di una maggiore solidità di impianto. Pur nella resa meticolosa delle frondi vibranti degli alberi, il paesaggio rimane un può arido. Invece, in linea con le sue nuove sperimentazioni pittoriche, Raffaello raggiunge sottili variazioni negli effetti di luce e di colore in primo piano: la precisione con cui è stato delineato e costruito il volto contrasta con la fluidità con cui è stata dipinta la manica che copre il braccio, in una raffinatissima tonalità di grigio, e la morbidezza del modellato delle mani. Gert Jan van der Sman Bibliografia: BALDINUCCI 1681-1728, ed. Ranalli 1845-1847, II, p. 270 (Holbein); Catalogue… 1860, p. 127, n. 1145 (L. di Credi); CROWE-CAVALCASELLE 1864-1866, III, p. 412 (L. di Credi); BURCKHARDT 1879, p. 551 (L. di Credi); CARTWRIGHT 1901, p. 277 (L. di Credi); THIIS 1913, p. 54, ripr. a p. 43 (Perugino); VENTURI 1922, pp. 11-13, fig. 2 (Perugino); ALAZARD 1924, pp. 81-82, tav. X, fig. 21; DEGENHART 1931, pp. 366-367 (L. di Credi); VAN MARLE 1931, XIII, p. 288, fig. 195 (L. di Credi); BERENSON 1932, p. 296 (L. di Credi); OFFNER 1934, pp. 245-257 (Raffaello); LIETZMANN 1934, pp. 265 sg. (Perugino); BEENKEN 1935, p. 142 (Raffaello); ID. 1935a, p. 145 (Raffaello); DEGENHART 1935, p. 180; O. Fischel, Th. B. Kstl. Lex. XXIX, p. 435 (attr. respinta); ORTOLANI 1942, p. 23, fig. 35 (Raffaello); CAMESASCA 1956, I, p. 80, pl. 149 (Perugino); SALVINI 1956, p. 58 (Raffaello); BERENSON 1963, I, p. 115, II, tav. 946 (L. di Credi); POPEHENNESSY 1963, p. 60, fig. 60 (Perugino); DALLI REGOLI 1966, pp. 125-128, figg. 93, 95 (L. di Credi); DE VECCHI 1966, p. 85, n. 3; DUSSLER 1966, n. 43 (Perugino); CAMESASCA 1969, pp. 95-96, n. 51 (Perugino); DUSSLER 1971, p. 59 (Perugino); M. Ciardi Dupré Dal Poggetto in, Uffizi 1979, p. 343, n. P. 907 (L. di Credi); CAMPBELL 1983, p. 676, fig. 26; BELLOSI 1987, pp. 401-417 (Raffaello); DE VECCHI 1995, p. 247 (s.v. opere attribuite, Raffaello); A. Cecchi in, FIRENZE 1996a, pp. 130-131, n. 29, ripr. (Raffaello); MEYER ZUR CAPELLEN 2001, p. 315, n. X-15 (attr. respinta); BÉGUINGAROFALO 2002, pp. 205-206, n. 12A (s.v. altre opere); NUTTALL 2002, p. 202, fig. 237; ID. 2004, p. 153, fig. 152 (Perugino); ID. 2005, p. 77, fig. 64 (Perugino); T.-H. Borchert in, BRUGES 2005, p. 165
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37. Hans Memling (Seligenstadt ca 1435 - Bruges 1494)
Ritratto di uomo con lettera tavola (quercia); cm 35 × 26 provenienza: Tommaso Corsini, Firenze (Palazzo Corsini n. 209); acquistato dal Ministero della Pubblica Istruzione, 1910; venduto a Hitler su ordine di Mussolini nel 1941; tornato in Italia nel 1948 e collocato in Palazzo Vecchio, Firenze; rubato nel 1971 e recuperato nel 1973 a Zurigo; acquistato dagli Uffizi nel 1989 Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. n. 9970
Attribuito a Memling per la prima volta da WAUTERS (1893), questo ritratto è da sempre considerato uno straordinario esempio delle abilità ritrattistiche del pittore. L’effigiato è raffigurato davanti ad uno squisito paesaggio di dolci colline, boschi e lontani edifici turriti, con a sinistra una strada serpeggiante con piccole figure di cavallo e cavaliere, e a destra, una distesa d’acqua con una coppia di cervi e cigni: un modello di sfondo che Memling stesso potrebbe aver introdotto nell’ambito della ritrattistica o quantomeno aver reso popolare. Rispetto all’usuale posa di tre quarti, caratteristica dei ritratti fiamminghi, la testa è ruotata quasi frontalmente e, cosa rara per Memling, lo sguardo è rivolto allo spettatore. La mano poggia su un parapetto appena visibile sopra il bordo del dipinto ed impugna una lettera piegata, con scritte illeggibili che danno solo l’illusione di una iscrizione. La maggior parte degli studiosi data il ritratto agli anni settanta del secolo, in base allo stile e all’abito, fatta eccezione per DE VOS (1994) e CAMPBELL (2005) che lo collocano invece intorno al 1480 o più tardi. Come spesso è stato osservato, lo stile e l’esecuzione pittorica sono affini al Ritratto d’uomo con moneta di Memling, ora ad Anversa (Koninklijk Museum Schone Kunsten), con cui l’opera fiorentina condivide anche la resa calligrafica delle nuvole (DE VOS 1994, pp. 190-191, n. 42, ripr.; B. Aikema in, VENEZIA 1999, p. 192; BORCHERT 2005, p. 161, n. 10, ripr.). Se l’identificazione ipotetica di Bernardo Bembo nell’Uomo con moneta è corretta, ciò porterebbe a datare il ritratto degli Uffizi al 1475 circa, pressoché contemporaneamente al ritratto di Anversa, che in quel caso doveva essere dipinto durante il soggiorno del Bembo nei Paesi Bassi nel 1473-1474. Il ritratto degli Uffizi rappresenta probabilmente un membro della nazione italiana a Bruges e una sua copia fedele, dipinta da un artista italiano intorno al 1500 e conservata alla Petworth House in Inghilterra, suggerisce che esso era già in Italia poco dopo la sua esecuzione, come notò Campbell nel 1990. La copia è stata inventariata per la prima volta nella collezione del Conte di Egremont a Petworth come ritratto di Antonello da Messina di mano di Masaccio (PETWORTH 1856); fu probabilmente acquistata a Londra nell’ambito delle vendite dei quadri dispersi dalle collezioni in seguito agli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese (gentile comunicazione di Alastair Laing). I nomi di Antonello e Masaccio suggeriscono che l’opera fosse di provenienza italiana; la tavola inoltre presenta una pronunciata incurvatura convessa, tipica del pioppo, legno molto utilizzato in Italia. Le sue pessime condizioni, assieme ai molti ritocchi, rende difficile l’individuazione del copista, anche se l’innato senso del disegno e del volume suggerisce trattarsi di un Toscano, forse dei primi anni del XVI secolo. Lo stretto rapporto stilistico e formale tra i ritratti di Memling e quelli del tardo Quattrocento italiano è stato da tempo riconosciuto, sebbene spesso male interpretato. Il ritratto degli Uffizi fu attribuito ad Antonello da Messina da BODE (1896), mentre VOLL (1909) credette di ravvisarvi la mano di un imitatore italiano di Memling; altri ancora vi videro un chiaro esempio dell’influenza italiana sulla maniera dell’artista
fiammingo (PANOFSKY 1953; POPE HENNESSY 1966; COLLOBI RAGGHIANTI 1990). Opinioni più recenti sostengono invece che il rapporto di influenza vada ribaltato. È ben noto infatti che Memling era il ritrattista favorito dagli italiani espatriati nei Paesi Bassi ed il ritratto degli Uffizi costituisce un modello di ritrattistica che ebbe un forte ascendente in Italia durante l’ultimo quarto del XV secolo (VENEZIA 1999; LANE 1999; NUTTALL 2004, 2005; BORCHERT 2005: LANE 2007). Molti ritratti italiani possono infatti essere messi in relazione col nostro, in particolare la Ginevra de Benci di Leonardo (Washington, National Gallery of Art) ed il Francesco delle Opere (cat. n. 39) del Perugino. In quest’ultimo, le proporzioni della figura, la costruzione del paesaggio, l’orizzonte all’altezza della mandibola, i riccioli in contrasto con il cielo e la mano sinistra poggiata al parapetto, sono particolari così simili al dipinto degli Uffizi da far pensare che forse Perugino lo conoscesse bene. Paula Nuttall Bibliografia: PETWORTH 1856, p. 14; WAUTERS 1893, pp. 33, 131; BODE 1896, p. 3; WE1901, pp. 67-8, 105; VOLL 1909, p. XXI; CONWAY 1921, p. 238; FRIEDLANDER 19671976, VIa (1971), p. 56, n. 86, ripr.; PANOFSKY 1953, p. 349, nota 10; POPE HENNESSY 1966, p. 60; CAMPBELL 1990, p. 121 ripr.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, pp. 63-44, n. 109, ripr.; DE VOS 1994, p. 194, n. 44, ripr.; LANE 1999 p. 245; B. Aikema in, VENEZIA 1999, p. 192, n. 5, ripr.; NUTTALL 2004, pp. 143, 210-211, ripr.; BORCHERT 2005, p. 161, n. 11, ripr.; CAMPBELL 2005 p. 54; NUTTALL 2005 p. 77 ripr.; LANE 2007, pp. 180-181 ALE
Pittore italiano da H. Memling, Ritratto d’uomo con lettera. Petworth House, Sussex, The National Trust
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38. Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510)
Ritratto di giovane con medaglia di Cosimo il Vecchio tavola; cm 57,5 × 44, cornice originale a foglie lanceolate e dorate provenienza: Firenze, collezione cardinale Carlo de’ Medici, 1666 Galleria degli Uffizi, dove risulta inventariato nel 1704 Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1488
Il dipinto rappresenta una tappa importante nello sviluppo di Botticelli ritrattista, essendo collocabile in età giovanile, intorno al 1475 e comunque non oltre il 1480. Il ritratto si distingue per un’impaginazione sicura e calibrata: il giovane uomo dai capelli lunghi, effigiato a mezzo busto, si staglia efficacemente sul luminoso sfondo paesaggistico. All’interno della sagoma di contorno della figura due elementi emergono con chiarezza: il volto scultoreamente modellato del giovane, dipinto a tre quarti, e la medaglia di pastiglia dorata che regge fra le mani, resa con delicatezza di effetti luministici e tattili. Notevole è anche la distribuzione dei colori: l’intenso rosso del “biretto” si armonizza sia con il colore del volto del giovane che con il cielo limpido dello sfondo. La medaglia raffigura Cosimo il Vecchio de’ Medici e reca l’iscrizione MAGNUS COSMUS / MEDICES PPP con riferimento al suo titolo di Primus (?) Pater Patriae. Essa risulta derivata da un esemplare in bronzo che sappiamo essere coniato fra il 1465 e il 1469. Cosimo già defunto ottenne il titolo di Pater Patriae soltanto nel 1465, e la medaglia originale fu riprodotto da Antonio del Chierico in un manoscritto miniato della Biblioteca Laurenziana per Piero di Cosimo de’ Medici, che morì nel 1469 (POLLARD 1984, I, pp. 395-398, nn. 217-217a). L’elemento caratterizzante della medaglia in pastiglia color oro ha inevitabilmente fornito occasione per speculazioni sull’identità del giovane ritratto da Sandro Botticelli. Tra le varie ipotesi formulate per dare un nome all’effigiato si possono distinguere varie categorie (cfr. DOMBROWSKI 2004, pp. 41, 60-61 note 42-51): c’è chi ha sostenuto l’identificazione con uno dei membri della famiglia Medici (Piero il Gottoso, Giovanni di Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico, Piero di Lorenzo), o chi ha pensato che il giovane potesse essere l’artefice della medaglia stessa (Niccolò Fiorentino, Cristoforo di Geremia, Lysippo “il Moderno”, Bertoldo di Giovanni), mentre qualche voce isolata sostiene che si possa trattare di un autoritratto del Botticelli (CIERI VIA 1989; CANEVA 1990). Nessuna di queste ipotesi sembra tuttavia sorretta da elementi incontrovertibili e pare più giusto sostenere che il ritratto costuisca
“un’eloquente testimonianza del culto, rinnovatosi alla metà degli anni settanta del secolo, della memoria di Cosimo il Vecchio, il fondatore del prestigio mediceo” (CECCHI 2005). Echi di questa rinnovata esaltazione del Pater Patriae si trovano in un epistolario di Marsilio Ficino, comunemente datato tra il 1475 e il 1476 e con proemio indirizzato a Giuliano de’ Medici (S. Pagliaroli in, ROMA 2000, p. 79, n. 2.9). Il frontespizio di quest’ultimo codice, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, contiene anch’essa una lettera iniziale che ospita una medaglia dorata con il ritratto di COSMUS MEDIC(ES) DECRETO PUBLICO P(ATER) P(ATRIAE), considerato “avus patronus” per chi come Giuliano ebbe il compito di perpetuare la gloria della celebre casata. Resta da stabilire l’effettiva vicinanza dell’effigiato ai discendenti di Cosimo, che disponevano di una rete di contatti e di sostenitori estremamente ampia. A giudicare dalla semplice foggia dell’abito il giovane, come puntualizza Alessandro Cecchi, non necessariamente era di estrazione elevata. Se il ritratto rappresenta un riconoscimento dell’effigiato nei confronti della famiglia dei Medici, è merito del Botticelli di aver sfruttato, accentuandola, l’ambiguità insita nella logica del ‘ritratto nel ritratto’. Mentre la medaglia è un “ricordo” materiale del tempo passato, il bel giovane dallo sguardo vivace e penetrante cerca un rapporto diretto con lo spettatore, invitandolo a condividere l’ammirazione per il pregiato oggetto che tiene nelle mani. Così l’artista conferisce ad un’immagine statica una dimensione retorica del tutto peculiare. E’ stato più volte osservato come il carattere innovativo del ritratto del Botticelli sia dovuto, almeno in parte, alla conoscenza dell’opera pittorica di Hans Memling. In particolare, il dipinto del Filipepi è stato accostato al famoso L’uomo con la medaglia del Museo di Belle Arti di Anversa del grande ritrattista fiammingo (I. Borchert in, BRUGES 2005, p. 160, n. 10, con bibl. prec.). Elementi comuni sono – oltre il motivo dell’uomo che regge una medaglia o moneta (un sestertius con il ritratto di Nerone, nel caso di Memling) – la giustapposizione di un close-up e un lontano sfondo paesaggistico, la veste nera sotto la quale spunta una porzione di camicia bianca e la luce riflessa negli occhi dell’effigiato. Le numerose somiglianze sembrano giustificare l’ipotesi di un’antica provenienza fiorentina del quadro di Anversa. La critica odierna sostiene che la presenza del ritratto di Memling a Firenze sia da porre in relazione con la committenza. L’uomo ritratto sarebbe da identificare con Bernardo Bembo, ambasciatore veneziana presso la Repubblica fiorentina nel 1475-1476, che nel periodo precedente (1471-1474) aveva svolto un incarico simile presso la corte dei Duchi di Borgogna (FLETCHER 1981). Se seguiamo questa linea di ricostruzione storica, possiamo concludere che le profonde indagini stilistiche e psicologiche di Memling trovarono una risposta immediata – ed originalissima – nella ritrattistica fiorentina degli anni settanta del Quattrocento. Gert Jan van der Sman
H. Memling, Ritratto d’uomo con moneta. Anversa
Bibliografia: BURCKHARDT 1855, p. 860; FRIEDLÄNDER 1882, p. 146; W. Bode in, BURCKHARDT 1884, II, p. 569 nota 1; MORELLI 1890, p. 110; HORNE 1908, II, pp. 35-41; ALAZARD 1924, pp. 42-43, tav. VII, fig. 12; CAHN 1962, pp. 68-72, tav. 21a; MANDEL 1967, p. 89, n. 41, tav. III; CASTELNUOVO 1973, p. 1054; ETTLINGER-ETTLINGER 1976, pp. 171173, figg. 118, 119; LIGHTBOWN 1978, I, p. 38, II, pp. 33-35, n. B22, ripr. (con bibl. prec.); MIDDELDORF 1978, p. 314; R. Salvini in, Uffizi 1979, p. 176, n. P252, ripr.; LANGEDIJK 1981-1987, II, p. 1348, n. 99.15, ripr.; BALDINI 1988, pp. 50-51, 53, 266-267, ripr.; CIERI VIA 1989, pp. 61. 65, 89 nota 75, fig. 12; LIGHTBOWN 1989, pp. 52-56, ripr.; PONS 1989, pp. 60-61, n. 33; CANEVA 1990, pp. 51-52, n. 25; I. Ciseri in, PETRIOLI TOFANI 1992, pp. 46-47, n. 18; LIGHTBOWN 1992, p. 231; BUZZEGOLI-MARCHI-SCUDIERI 1993; ROHLMANN 1994, pp. 85-86; FERMOR 1995, p. 170, fig. 36; LIGHTBOWN 1997, p. 663; ZÖLLNER 1998, pp. 45-48, ripr.; L. Rubin, A. Wright in, LONDRA 1999, pp. 62, 108-109, ripr.; CRANSTON 2000, pp. 82-83, fig. 50; BEYER 2002, pp. 90, 94; N. Pons in, PARIGI 2003, pp. 102-105, ripr.; DOMBROSKI 2004; NUTTALL 2004, 221, 224, fig. 245; N. Pons in, FIRENZE 2004a, pp. 220-224, n. 34, ripr.; CECCHI 2005, p. 142, ripr. a p. 137; NUTTALL 2005, p. 78, fig. 69; T. Borchert in, BRUGES 2005, p. 160, al n. 10; ZÖLLNER 2005, p. 197, n. 22, ripr.; KÖRNER 2006, pp. 75-76, tav. 79
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39. Pietro Perugino (Città della Pieve, ca 1450- Fontignano di Perugia, 1523)
Ritratto di Francesco delle Opere tavola; cm 52 × 44 iscrizioni: nel cartiglio TIMETE DEUM; sul retro della tavola: 1494 LUGLO. PIETRO PERUGINO PINSE FRANC[ESCO] DE L’OP[ER]E […] provenienza: cardinal Leopoldo de’ Medici, Firenze; alla sua morte (1675) legato a Cosimo III (ASF, Guardaroba Medicea, 826, c. 65, n. 172) Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 1700
Menzionato per la prima volta nell’inventario dei beni di Leopoldo de’ Medici nel 1675-1676 – steso alla morte del cardinale – come opera di Raffaello (CHIARINI 1984), il ritratto fu ricondotto al Perugino e datato, grazie all’iscrizione sul retro che venne alla luce negli anni trenta dell’800 (VASARI 1568, ed. Masselli 1832-1838; Ramirez di Montalvo in, VERMIGLIOLI 1837). Il dipinto era ritenuto un autoritratto fino a che MILANESI (ed. 1878-1885) riconobbe correttamente che l’iscrizione di cui sopra era da riferirsi a Francesco Delle Opere (G. Milanesi in, VASARI 1568, ed. 1878-1885). Francesco di Lorenzo di Piero delle Opere apparteneva a una famiglia fiorentina rinomata per la produzione di stoffe preziose “ad opera” (da cui la famiglia prende il nome) e suo fratello Giovanni dei Cornioli era un famoso cesellatore di gioielli (SCARPELLINI 1991; U. Baldini in, PERUGIA 2004). Probabilmente per affari, Francesco abitò a Venezia almeno dal 1488, quando fu presente da testimone alla stesura del testamento di Andrea del Verrocchio, a riprova del suo rapporto con la comunità artistica e con i fiorentini espatriati a Venezia (U. Baldini in, PERUGIA 2004). Nicoletta Baldini ha ipotizzato che il ritratto possa essere stato dipinto durante la visita del Perugino a Venezia nell’estate del 1494, in coincidenza con la commissione (mai realizzata) per la Sala del Maggior Consiglio nel Palazzo Ducale (PERUGIA 2004). Le parole sul rotolo di carta in mano a Francesco sono state interpretate come un riferimento ai sermoni di Savonarola, suggerendo che egli possa essere stato (come suo fratello Giovanni) un seguace del frate, la cui influenza ebbe il suo apice a Firenze negli anni novanta del 1400 (SCARPELLINI 1991; PERUGIA 2004). Quest’opera è generalmente considerata uno straordinario esempio dell’influenza dei ritratti di Memling in Italia ed una testimonianza dell’attento studio di quelli da parte del Perugino, non solo per quanto riguarda lo schema compositivo, ma anche i colori e la tecnica (CAMPBELL 1990; DE VOS 1994; LANE 1999; BORCHERT 2002; NUTTALL 2004; Id. 2005; LANE 2007). La testa, con i suoi riccioli vigorosi e finemente dipinti (che ricordano la stessa attenzione riservatagli nel ritratto di Benedetto Portinari di Memling, cat. n. 41) ritagliati contro il cielo, e le spalle date al distante paesaggio che sfuma in strisce di verdi e blu, costellato di guglie, di sottili alberi piumati,e delle caratteristiche corone tonde verdeggianti, producono un effetto visivo notevolmente affine, per sensibilità e raffinatezza, a quello dei ritratti di Memling. Non a caso si è pensato che quest’opera – come il Ritratto virile (cat. n. 36) basato sul ritratto della collezione Lehman di Memling (cat. n. 34) – potrebbe essere una fedele imitazione di un prototipo sconosciuto dell’artista fiammingo (CAMPBELL 1993). Il rapporto proporzionale tra spazio e figura, la visione frontale, il contatto visivo, quasi ma non del tutto integrale, con l’osservatore, le mani sul parapetto, che si unisce con la cornice del dipinto, sono tutti particolari affini a quelli nel Ritratto di uomo con lettera di Memling agli Uffizi (cat. n. 37) (LANE 1997). D’altra parte, sia Perugino che Francesco delle Opere dovette-
ro avere varie occasioni di vedere i ritratti di Memling – e di affinare quindi per quelli un proprio gusto –, a Firenze, dove tali dipinti venivano portati da Bruges dagli italiani espatriati, ma anche a Venezia, dove erano altrettanto in voga nell’ultimo quarto di secolo. Paula Nuttall Bibliografia: VASARI 1568, ed. Masselli 1832-1838, I, p. 425, n. 40; Ramirez di Monsalvo in, VERMIGLIOLI 1837, pp. 263-267, n. 294; VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, III, p. 604; CANUTI 1931, pp. 89-91; CHIARINI 1984, pp. 208, 217; CAMPBELL 1990, p. 233; SCARPELLINI 1991, p. 88, n. 60, fig. 101 a p. 190; DE VOS 1994, pp. 399-400, fig. 197; LANE 1999, pp. 179-192; T.-H. Borchert in, BRUGES 2002, p. 262, n. 10, ripr.; Baldini in, PERUGIA 2004, p. 250; NUTTALL 2004, p. 221 ripr.; ID. 2005, p. 82 ripr.; LANE 2007, p. 181
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40. Domenico Ghirlandaio (Firenze 1449-1494) attribuito
Ritratto di donna tavola (tempera su pioppo); cm 49,8 × 37,4 provenienza: acquisito a Roma (indicato dalla presenza del sigillo della Dogana di Terra di Roma sul retro); Collezione di Bernhard August von Lindenau prima del 1848; lasciato in eredità al principato di Sachsen Altenburg nel 1854 Altenburg, Lindenau Museum, inv. n. 102
Questo ritratto di dama sconosciuta, parte di un gruppo di ritratti attribuiti a Domenico Ghirlandaio e alla sua cerchia, è particolarmente vicino al Ritratto di donna al Clark Art Institute di Williamstown (D.A. Brown in, WASHINGTON 2001, pp. 186-189, n. 29, ripr. a p. 187) e al Ritratto di giovane uomo alla Huntington Library di San Marino (F. Pasut in, FIRENZE 2005, p. 93). L’opera è in condizioni accettabili; la superficie dipinta si è leggermente assottigliata, specialmente nell’incarnato e nel cielo, ed una lunga fessura – riempita – corre verticale alla destra dell’asse centrale; velata da un sottile strato di sporcizia e di vernice ingiallita, la pellicola pittorica è segnata da alcuni graffi non profondi, concentrati nella parte alta e nel busto della figura; ci sono poi delle piccole lacune nella vernice, alcune delle quali sono state integrate con ritocchi ora scuriti. Inizialmente catalogata nella collezione Lindenau (QUANDT-SCHULZ 1848), come opera di un anonimo contemporaneo di Domenico Ghirlandaio, il ritratto Altenburg è stato frequentemente attribuito a Sebastiano Mainardi, cognato del Ghirlandaio e a lungo membro associato della sua bottega (BERENSON 1896, 1900, 1909; SCHMARSOW 1897; BECKER 1898, 1915; FRANCOVICH 1927; VAN MARLE 1931; OERTEL 1961: PENNDORF 1998). Ciononostante, la rivalutazione della carriera del Mainardi da parte di FAHY (1976) e VENTURINI (1992, 1994-1995, 1996), rendono ora questa attribuzione oggetto di discussione. Già BERENSON (1932, 1936, 1963) aveva modificato la sua originaria assegnazione in favore di Davide Ghirlandaio, affiancato da GABELENTZ (1955) e SCHMIDT (1956) che, alla luce della recente riattribuzione a Davide di alcuni lavori precedentemente ritenuti del Mainardi (CADOGAN 2000), merita considerazione. Recentemente tuttavia, il ritratto è stato assegnato allo stesso Domenico Ghirlandaio da Francesca Pasut (FIRENZE 2005), che si è avvalsa delle opinioni (comunicazioni orali) di Miklòs Boskovits e Everett Fahy sulla base di comparazioni tecnico stilistiche con i ritratti della Cappella Sassetti e altri lavori del maestro risalenti ai tardi anni settanta del Quattrocento e ai primi anni ottanta. Le argomentazioni della Pasut sono persuasive, prove tecniche e stretti raffronti con ritratti su tavola certamente parte del corpus del Ghirlandaio, in particolare la Giovanna Tornabuoni, (Madrid, Collezione Thissen Bornemisza), potranno in futuro confermarle. Già collocato negli anni novanta del Quattrocento (FRANCOVICH 1927; VAN MARLE 1923-1938), e nel 1500-1510 (OERTEL 1961; PENNDORF 1998), non esiste in realtà una ragione convincente per una così tarda cronologia. L’abbigliamento suggerisce infatti una datazione negli anni settanta o ottanta (Jane Bridgeman, comunicazione orale), come anche gli elementi stilistici e le modalità d’esecuzione, più vicini ai modi del Ghirlandaio e i suoi compagni di bottega intorno al 1480, che alla pittura fiorentina del 1500. Il cappello che copre la capigliatura indica che la dama ritratta era sposata, e il suo abito sobrio è coerente con l’immagine di una matrona della classe patrizia. Le leggi suntuarie approvate nel 1471-1472 esigevano che le donne sposate da più di sei anni
mettessero da parte vestiti lussuosi e gioielli, abbracciando nel vestire uno stile che evidenziasse le virtù muliebri di modestia e decenza (ORSI LANDINI-WESTERMAN BULGARELLA 2001, pp. 90-97; F. Pasut in, FIRENZE 2005, p. 91). È possibile che in origine vi fosse un pendant maschile per questo ritratto, e che si trattasse quindi di una coppia, come quella costituita dai ritratti dei due giovani sposi, attribuiti ora a Domenico Ghirlandaio, ora a suo fratello Davide o al Mainardi, conservati a Berlino e a San Marino ( ripr. in, WASHINGTON 2001, pp. 194-197). Il dipinto esemplifica il grande interesse che i ritratti in stile fiammingo, soprattutto quelli di Memling, esercitarono a Firenze nell’ultimo quarto del XV secolo (NUTTALL 2004, 2005; F. Pasut in, FIRENZE 2005, pp. 92-93). Ciò si evidenzia in particolare nella messa in posa di tre quarti, di contro a quella di profilo precedentemente adottata, in particolar modo nella ritrattistica femminile. L’influenza fiamminga emerge anche negli studiati punti di luce che definiscono la forma del viso, in particolare l’arco nasale, e che rimandano al procedimento usato da Memling nel Ritratto d’uomo con moneta di Anversa (P. Nuttall in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005, p. 73, fig. 59; T.-H. Borchert in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005, p. 160, n. 10, ripr.). Le proporzioni dell’effigiata nello spazio e la linea dell’orizzonte all’altezza della mascella, rivelano anch’esse riflessioni sui ritratti di Memling. La donna è posta davanti a un parapetto di pietra dietro cui si apre un lontano paesaggio che funge da sfondo, formula spesso utilizzata da Memling e visibile ad esempio nel ritratto di Benedetto Portinari (cat n. 41). Lo stesso paesaggio, con le sue colline ondulate, i suoi alberi dalle corone tonde e le sue scenette rurali, è chiaramente ispirato all’artista fiammingo, anche se le colline distanti sono caratteristiche del Ghirlandaio. Immediatamente al di sotto del parapetto scorre un fiume. Sulla sinistra, una strada tortuosa porta a un casolare con pergolato all’entrata e covoni di fieno poco oltre; all’esterno staziona una donna, che forse impugna una rocca per filare a mano; sulla strada un cavaliere, con un cagnolino che saltella ai suoi piedi, incontra un uomo con un bastone, mentre nei campi circostanti ci sono un paio di grossi cani bianchi,forse dei levrieri. Sul lato destro, un cacciatore scappa da una boscaglia in fiamme, a cui ha probabilmente appiccato fuoco per costringere la selvaggina a volare nella rete da lui tesa nelle vicinanze (F. Pasut in, FIRENZE 2005). Il significato, se ve ne è uno, di questi particolari non è chiaro, ciononostante è stato suggerito (F. Pasut in, FIRENZE 2005), che possano alludere al tema della caccia amorosa, spesso presente nelle decorazioni delle cassette nuziali e dei deschi da parto. Paula Nuttall Bibliografia: QUANDT-SCHULZ 1848, p. 27; BERENSON 1896, p. 120; SCHMARSOW 1897, p. 43; BECKER 1898, pp. 71-71; BERENSON 1900, p. 125; ID. 1909, p. 154; BECKER 1915, p. 83; FRANCOVICH 1927, p. 33; VAN MARLE 1923-1938, XIII (1931), pp. 209, 216, fig. 149 a p. 220; BERENSON 1932, p. 222; ID. 1936, p. 191; GABELENTZ 1955, pp. 60, 73; SCHMIDT 1956, pp. 56, 67; OERTEL 1961, p. 158, tav. 65; BERENSON 1963, p. 72, fig. 993; FAHY 1976, pp. 215-219; VENTURINI 1992, pp. 41-48; ID. 1994-1995, pp. 123183; ID.1996, pp. 123-124; PENNDORF 1998, p. 53 ripr.; CADOGAN 2000, pp. 155-160; D.A. Brown in, WASHINGTON 2001, p. 186; ORSI LANDINI-WESTERMAN BULGARELLA 2001, pp. 90-97; NUTTALL 2004, pp. 214-229; ID. 2005, pp. 75-85; F. Pasut in, FIRENZE 2005, pp. 90-95, n. 17, ripr.
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41. Hans Memling (Seligenstadt 1455 ca - Bruges 1494)
Sportelli del Trittico di Benedetto Portinari sportello sinistro: San Benedetto tavola (quercia); cm 45,5 × 34, 5 iscrizione: sul davanzale SANCTVS BENEDICTVS
sportello destro: Ritratto di Benedetto Portinari retro: tronco di quercia con banderuola tavola (quercia); cm 45 × 34 iscrizione: sul davanzale datato 1487; sul retro, sulla banderuola:
DE BONO
IN MELIVS
provenienza: Firenze, Ospedale di Santa Maria Nuova, Firenze; trasferito agli Uffizi nel 1825 Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 nn. 1090, 1100
Originariamente queste due tavole erano parte di un trittico, insieme ad una Madonna col Bambino che ne era il pannello centrale (Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, inv. n. 528B), come è stato suggerito da Kämmerer (1899) per primo. Nel 1901 Aby Warburg identificò l’uomo sull’ala destra con Benedetto di Pigello Portinari; tale identificazione si basò sulla provenienza del trittico, l’ospedale di Santa Maria Nuova, con cui la famiglia Portinari era in stretto contatto e al quale aveva lasciato vari altri dipinti fiamminghi, e sul fatto che sull’altra ala era rappresentato San Benedetto, che doveva essere il santo patrono del committente. L’età che Benedetto Portinari (1466-1551) aveva l’anno in cui fu eseguito il dipinto è inoltre conforme all’aspetto dell’effigiato. Benedetto era figlio di Pigello Portinari, direttore della filiale milanese del Banco dei Medici morto nel 1468, e nipote del più noto membro della famiglia Portinari, Tommaso Portinari, direttore e socio dell’agenzia di Bruges di Casa Medici, e committente di tre opere, un trittico devozionale (vedi infra) e una tavola con la Passione di Cristo, entrambe dipinte da Hans Memling nel 1470 circa, (cat. n. 23), ed il Trittico Portinari di mano di Hugo van der Goes (1473 ca 1478 ca, Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. nn. 3191-3; riguardo Tommaso Portinari ed il Trittico Portinari si vedano i saggi di Ridderbos e Rohlmann in catalogo). La grande ambizione e la spregiudicatezza negli affari portarono Tommaso Portinari alla bancarotta finanziaria, tanto da spingere Lorenzo il Magnifico, nel 1479, a troncare i rapporti con lui, che continuò peraltro a curare i propri interessi a Bruges (per l’attività di Tommaso per i Medici si veda il saggio di Ridderbos in catalogo). Nel 1496 Tommaso affidò i suoi affari ai nipoti Folco di Pigello e Benedetto, inclusa la protesta con la Lega Anseatica legata al dirottamento della galea che, tra l’altro, aveva trasportato il trittico del Giudizio Universale di Memling. Già nel 1488 aveva ceduto loro i diritti di dazio di Gravelines, che costituivano un’importante fonte di guadagno (GRUNZWEIG 1931, pp. 37, nota 2, p. 39; DE ROOVER 1963, p. 356; riguardo il dirottamento della galea col Giudizio Universale di Memling, vedi il saggio di Ridderbos in catalogo). Quindi, negli anni in cui il trittico fu dipinto, Benedetto aveva un ruolo importante nel mondo degli affari dei Paesi Bassi, e la sua commissione ad uno dei più illustri pittori fiamminghi è testimonianza della consapevolezza del proprio prestigio sociale. È probabile che egli abbia seguito l’esempio di suo zio, dato che ordinò un trittico devozionale di
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H. Memling, Madonna con Bambino. Berlino, Gemäldegalerie
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mano dello stesso artista e della stessa misura di quello commissionato da Tommaso, anch’esso con figure a mezzobusto ed il pannello centrale raffigurante la Madonna col Bambino. Colpisce che il giovane scapolo Benedetto preferisse un trittico ad un dittico, considerando che il trittico era particolarmente adatto ad una coppia sposata; nel trittico di Tommaso infatti, commissionato probabilmente in occasione delle sue nozze con Maria Baroncelli, marito e moglie sono dipinti sugli sportelli (New York, The Metropolitan Museum of Art, lascito di Benjamin Altman, inv. nn. 14.40.626-627; la tavola centrale con la Madonna e il Bambino è perduta; Ainsworth in NEW YORK 1998, pp. 162-163, ripr.; WALDMAN 2001, pp. 28-33). Il trittico di Benedetto supera quello di Tommaso quanto a esecuzione artistica: al posto di dipingere le figure su un fondo neutro e scuro, Memling le rappresentò in una loggia aperta, con la veduta di un paesaggio sullo sfondo che continua nei tre pannelli e li unisce. Durante la sua carriera l’artista sviluppò una particolare capacità nel rappresentare figure in logge e stanze con vista di paesaggi sullo sfondo e in questo fu imitato da alcuni artisti minori, come l’anonimo pittore di Bruges, convenzionalmente chiamato Maestro della Leggenda di Sant’Orsola. In un ritratto di questo artista (Philadelphia Museum of Art, The Johnson G. Johnson Collection, cat. n. 327), forse parte, insieme ad una Madonna col Bambino (Cambridge, MA., Fogg Art Museum, Harvard University, inv. n. 1943.07), di un dittico devozionale, è stata identificata l’effigie di Ludovico di Pigello Portinari, un altro fratello di Benedetto. Il Maestro ritrasse Ludovico in un interno con due finestre che s’aprono su un paesaggio; si suppone che il dipinto sia stato eseguito prima del 1479 e, se ciò è vero, potrebbe esser stato da stimolo per la commissione di Benedetto (EISLER 1961, pp. 101-107, n. 76, figg. CXXII-CXXVIII; PHILADELPHIA 1972, p. 59; DE VOS 1994, pp. 202-203, n. 69, ripr.; J. Hand, C. Metzger, R. Spronk in, WASHINGTON-ANVERSA 2006, pp. 7, 9, 10, 18-19, ripr.). Il carattere sfarzoso del trittico di Benedetto si deve anche alla resa analitica delle vesti del committente e del suo libro di preghiere, delle colonne di marmo dietro di lui, del cuscino in broccato su cui siede il Bambino, del prezioso bastone di San Benedetto e della stampa religiosa con la Crocifissione appesa alla parete dietro al santo. Un simile interesse per stoffe e vedute di paesaggi si trova nel dittico di Maarten van Nieuwenhove, che Memling dipinse nello stesso anno del trittico di Benedetto per un giovane patrizio di Bruges (Bruges, ospedale di San Giovanni, inv. n. OSJ178.I). Anche le figure della Vergine e del Bambino, nelle due opere, rivelano una somiglianza (P. Nuttall in,
Giovanni Antonio Sogliani, Madonna col Bambino e angeli. Roma, Pinacoteca Capitolina Andrea di Aloisio d’Assisi, Madonna col Bambino. Londra, National Gallery
BRUGES 2005, p. 73; T.-H. Borchert in, BRUGES 2005, pp. 173-174, n. 23, ripr.). I tre pannelli del trittico sono dello stesso formato e, quando l’opera era chiusa, il retro dell’effigie di San Benedetto diventava la fronte. Questo lato mostra un vessillo con il motto: DE BONO IN MELIVS (“di bene in meglio”), avvolto attorno ad una quercia tronca da cui germoglia un nuovo ramoscello. L’emblema ed il motto sono stati messi in relazione da alcuni studiosi con la prematura morte del padre di Benedetto e la speranza in una nuova generazione (DE VOS 1994, p. 224; ROHLMANN 1994, p. 89; ID. 1997, p. 103); di contro si è sostenuto che essi fossero simboli familiari (NUTTALL 2004, p. 272, nota 66). Lo stesso motto, in francese (DE BIEN IN MIEULS), e lo stesso emblema erano presenti sul retro di un ritratto d’uomo di Memling, disperso nel 1944, che si trovava agli Uffizi, dove invece è tuttora conservato un altro ritratto maschile di mano dello stesso artista (inv. n. 1101), che è probabilmente il pendant della tavola perduta. Considerando l’affinità tra i due motti e i due emblemi, si è ipotizzato che il ritratto perduto rappresentasse Benedetto di Pigello, e il suo pendant il fratello Folco (DE VOS 1994, pp. 222-225, nn. 56 e 57, con riproduzioni di entrambi i ritratti, e p. 286, n. 79; ROHLMANN 1994, p. 86; per il ritratto conservato si veda anche T.H. Borchert in, BRUGES 2005, pp. 174-175, n. 24, ripr.). La somiglianza dell’effigiato sul pannello perduto con il ritratto di Benedetto nel trittico è discutibile, tanto che, per l’identificazione dei due giovani raffigurati nella coppia di ritratti, sono stati proposti nomi diversi da quelli di Folco e Benedetto di Pigello (NUTTALL 2004, pp. 70, 272, nota 66). La presenza di un emblema e di un motto sul suo trittico riflette il desiderio di Benedetto di imitare l’aristocrazia borgognona, che faceva spesso decorare il retro dei propri ritratti in questa maniera; ciò conferma che il dipinto non aveva solo una funzione devozionale ma intendeva anche mostrare lo status dell’effigiato (T.-H. Borchert in, BRUGES 2005, p. 174; NUTTALL 2004, p. 71). Forse, fu proprio in seguito all’influenza della ritrattistica fiamminga che tale genere di decorazione comparve anche nei ritratti italiani, ad esempio in quello di Ginevra de’ Benci, del 1475 circa, di Leonardo da Vinci (Washington, National Gallery of Art, Alisa Mellon Bruce Fund, inv. n. 1967.6.1.a; NUTTALL 2004, pp. 222, 224-227, figg. 242, 247; il ritratto contiene un motto di Bernardo Bembo che, identificato come il personaggio ritratto da Memling nell’Uomo con moneta del Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa, fu anche proprietario di un dittico sempre di mano di Memling; cfr. DE VOS 1992, pp. 355, 356, ripr.; J. Hand, C. Metzger, R. Spronk in, WASHINGTON-ANVERSA 2006, pp. 170-177, n. 25, ripr.). Poco dopo che il trittico di Benedetto Portinari fu portato a termine, nel 1487, dovette esser mandato in Italia, visto che il paesaggio alle spalle dell’effigiato fu copiato in una Madonna con Bambino datata agli anni novanta del Quattrocento e attribuita ad Andrea di Aloisio d’Assisi, allievo del Perugino (Londra, National Gallery, inv. n. NG1220; Londra 1986, p. 4, n. 1220, ripr.; ROHLMANN 1994, p. 87; L. Campbell in, BRUGES 2005, p. 52). Tale paesaggio esercitò evidentemente delle attrattive, se alcuni elementi di esso vennero utilizzati, tra gli altri, da Mariotto Albertinelli in una Madonna col Bambino del 1515 (Venezia; Seminario Patriarcale) e da Giovanni Antonio Sogliani in una Madonna col Bambino e angeli del 1510 circa (Roma; Pinacoteca Capitolina, inv. n. pc100; per un resoconto delle citazioni da questo paesaggio si veda ROHLMANN 1993, p. 245). Gli artisti italiani non erano peraltro interessati solo al paesaggio del trittico di Benedetto: la maniera in cui Memling, in questo ed in altri dipinti, rappresentava le figure a mezzobusto davanti a vasti paesaggi con le teste stagliate contro il cielo, fu spesso adottata nei ritratti italiani eseguiti attorno al 1500, tra cui la Mona Lisa di Leonardo da Vinci (1503-1505 circa, Parigi, Louvre, inv. n. 779). La tavola di Leonardo fu
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tagliata ai lati ed in origine aveva delle piccole colonne a lato dell’effigiata; in particolare per questo motivo decorativo, l’artista potrebbe essersi ispirato al trittico di Benedetto Portinari, di cui era a conoscenza (KRESS 1999, pp. 228-229; NUTTALL 2004, pp. 227-228, 289, nota 123; P. Nuttall in, BRUGES 2005, p. 83). Anche la disposizione dei personaggi ed il paesaggio nella Madonna e Bambino con libro del 1502-1503 circa, di Raffaello, ora a Pasadena (Norton Simon Art Foundation, inv. n. M.1972.2.P) potrebbero essere stati ispirati dal pannello centrale dello stesso trittico (LANE 2007, pp. 179-180, pp. 286 -287, tavv. 12, 13). I numerosi elementi presi in prestito da altri artisti indicano che l’opera doveva essere facilmente accessibile. Dopo il suo arrivo in Italia, entrò in data imprecisata nell’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, fondato da Folco di Ricovero Portinari, antenato di Benedetto, nel 1288. Il Trittico Portinari di Hugo van der Goes (1473 ca - 1478 ca) fu commissionato da Tommaso Portinari per l’altare maggiore di Sant’Egidio, la chiesa dell’ospedale, e anche la tavola della Passione, ordinata ancora da Tommaso a Memling, fu conservata nell’ospedale probabilmente da dopo il 1518, quando arrivò in Italia, sino al il 1550, quando entrò in possesso di Cosimo I (vedi cat. n. 23). Dal momento che la compagnia di S. Luca si riunì nell’ospedale fino al XVI secolo, i pittori ebbero una buona opportunità per studiare i tesori fiamminghi della famiglia Portinari (DHANENS 1998, p. 261; vedi anche il saggio di Rohlmann in questo catalogo, pp. 66-83). Judie Bogers Bibliografia: PASSAVANT 1841, p. 34; KÄMMERER 1899, pp. 120-122, ripr.; WARBURG 1901, ed. 1932, I, p. 210; WARBURG 1902, ed. 1932, I, pp. 201-202; DE ROOVER 1963, pp. 348, 356; CORTI-FAGGIN 1969, p. 90, n. 14, ripr.; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VI (1971), p. 49, n. 23, tavv. 66, 67; Uffizi 1979, p. 380, ripr.; DÜLBERG 1990, p. 225, n. 159, tav. 46, figg. 105, 106; ROHLMANN 1993, pp. 237, 245; DE VOS 1994, pp. 284286, n. 79, ripr.; ROHLMANN 1994, pp. 87-88; ID 1997, pp. 93, 103; KRESS 1999, pp. 219-236, fig. 1; NUTTALL 2004, pp. 71-72, 228, fig. 74; L. Campbell in, BRUGES 2005, p. 52, tav 30: P. Nuttall in, BRUGES 2005pp. 70-73, 82-83, 173, 174, fig. 56, tav. 30
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42. Monte di Giovanni del Fora (Firenze 1448-1532/1533)
Re David in preghiera miniatura Salterio e Innario; codice membr.; mm 635 × 445; ff. I + 1-178 + I provenienza: Firenze, chiesa di Santa Maria Assunta della Badia Fiorentina (Ms. PS) Firenze, Museo di San Marco, Ms. inv. 542, f. 59r
Proveniente dalla chiesa di Santa Maria Assunta della Badia Fiorentina, il Salterio è entrato a far parte delle collezioni del Museo di San Marco tra il 1866 e il 1869. I documenti ci tramandano il nome dello scriba, don Appiano, mentre le miniature vennero pagate il 30 marzo del 1515 a Giovanni di Giuliano Boccardi e, nello stesso anno, a Monte di Giovanni (LEVI D’ANCONA 1962). L’intervento di Giovanni Boccardi, meglio noto come Boccardino il Vecchio (Firenze 1460 -1529), è però circoscritto alla decorazione di un’unica pagina (f. 33v), dove campeggia la Trinità tra raffigurazioni di cardinali e di santi benedettini (CHIARELLI 1968, tav. LXIII). Le restanti miniature sono opera di Monte, che eseguì 13 iniziali istoriate ed elaborò una più complessa partitura ornamentale nel foglio 2r (per la descrizione completa del manoscritto, si veda M.P. Masini in Firenze 1982). Il codice fu realizzato in coppia con il Salterio inv. 543 del Museo di San Marco, anch’esso per la Badia Fiorentina, datato 1515 e miniato unicamente da Monte. Nella prima pagina (f. 1r), la bordura laterale è decorata con un motivo a finto mosaico dorato: inserti simili non erano nuovi nella pittura fiorentina (valga per tutti l’Annunciazione di Antonio e Piero del Pollaiolo oggi nella Gemäldegalerie di Berlino) e Monte li aveva già adottati nell’Epistolario del Duomo (cat. n. 48) (HAINES 1994, pp. 3854). Va ricordato che insieme al fratello Gherardo, il nostro artista fu uno dei protagonisti della rinascita della tecnica musiva, promossa da Lorenzo de’ Medici poco dopo il 1490 e finalizzata alla decorazione della cappella di San Zanobi in Duomo: un’impresa mai portata a termine, di cui rimane testimonianza nel mosaico con il busto di San Zanobi, compiuto da Monte nel 1505 (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo). Nella pagina miniata, la decorazione a finto mosaico ci indica che l’interesse per la preziosità delle superfici, per la resa tattile dei materiali più disparati, trovò in Monte un sostenitore appassionato. Cogliamo questi aspetti nella bella iniziale L (Laudate) con re David in preghiera (f. 59r), dove il virtuosismo pittorico si afferma anche nell’idea di scrivere nel colletto il nome del profeta, simulando un ricamo in caratteri gotici. L’impostazione della figura a mezzo busto, rivolta verso sinistra leggermente di tre quarti, con le mani giunte, discende dalla tradizione dei ritratti fiamminghi; come osserva Bert Meijer, il nostro re David ricorda il ritratto di Benedetto Portinari dipinto nel 1487 da Hans Memling nello sportello destro del trittico commissionato dallo stesso banchiere fiorentino (Firenze, Galleria degli Uffizi) (cat. n. 41). Nel dipinto, il parapetto in primo piano ostenta un prezioso cuscino di broccato e un piccolo Libro d’Ore; nella miniatura, sull’asta orizzontale della lettera poggiano il salterio e la corona gemmata. Simili accorgimenti illusionistici alla fiamminga avevano trovato a Firenze precoci consensi, ad esempio presso la bottega di Andrea del Verrocchio sin dagli anni settanta del Quattrocento (si veda il dipinto con la Madonna e il Bambino nello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte; HILLER VON GAERTRINGEN 2004, pp. 291-306). Monte rielaborò quelle formule in modo libero e ardito: il Giovane che tiene la lucerna (f. 14r) scavalca i confini della lettera L (Lucerna) mostrandoci in primo piano
Monte di Giovanni, Re David in preghiera, f. 59r
la pianta del piede, così come del resto – in un contesto certamente più solenne – fa la Maddalena nel Compianto di Cristo di Rogier van der Weyden oggi agli Uffizi (cat. n. 5). I personaggi rappresentati a mezzo busto nelle iniziali del codice hanno dimensioni insolitamente grandi, riempiono quasi completamente lo spazio a disposizione con incombenza fisica: è un aspetto che caratterizzò la produzione tarda dell’artista (si ritrova anche nel Graduale del Duomo datato 1514; cat. n. 15). Tali soluzioni figurative, seppure condivise da altri miniatori fiorentini del tempo (si veda M. Levi D’Ancona in, FIRENZE 1995, p. 182 figg. 63-64), furono interpretate da Monte con accenti del tutto personali, e, ancora una volta, l’interesse per i modelli nordici potette essergli d’aiuto: si tratta forse di un collegamento casuale, ma un gusto analogo aveva contraddistinto intorno al 1485 l’opera matura di Simon Marmion, il miniatore e pittore francese che fu anello di congiunzione tra la produzione illustrativa del suo paese e quella delle Fiandre (RINGBOM 1984, pp. 195-204; T. Kren in, LOS ANGELES 2003, pp. 330-334). Che Monte avesse presente prototipi miniati d’oltralpe emerge, in maniera più puntuale, dalla raffigurazione di Cristo benedicente nel foglio 2r: secondo l’iconografia fiamminga del Salvator Mundi, egli sorregge il globo nella mano sinistra e presenta un aspetto regale,
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Monte di Giovanni, Giovane con lucerna, f. 14r
Monte di Giovanni, Consegna delle chiavi a san Pietro e Mosè riceve le Tavole della Legge, f. 2r
con le vesti bordate da perle e da gioielli. Come ha osservato Sixten RIN(1984, pp. 171-178), negli ultimi due decenni del Quattrocento era difficile trovare nelle Fiandre un Libro d’Ore privo di una simile ‘icona’ devozionale, già adottata da Monte nel 1494-1499, al tempo del Messale per il duomo fiorentino (f. 272r) (cat. n. 47). Nel riquadro che occupa la metà superiore del foglio 2r, Monte dipinse la Consegna delle chiavi a San Pietro, e sullo sfondo, oltre un’arcata marmorea, l’Mosè riceve le Tavole della Legge. Una cornice dorata e ornata con un motivo a ovuli racchiude il riquadro, quasi fosse un pannello rilevato sulla pergamena. Nell’angolo superiore destro della pagina, San Luca Evangelista si affaccia dentro l’iniziale L (Legem); lungo il lato sinistro compaiono le immagini di San Matteo, del già menzionato Cristo benedicente, di San Giovanni; nell’angolo inferiore destro San Marco e San Pietro sono raffigurati insieme, mentre al centro la Consegna della regola benedettina si fregia dello stemma della Badia Fiorentina. Nella scena con la Consegna delle chiavi a San Pietro e Mosè riceve le Tavole della Legge, la formula narrativa è quella fiamminga del ‘quadro nel quadro’, con precedenti illustri nell’opera di Rogier van der Weyden (si veda il suo trittico di San Giovanni Battista nella Gemäldegalerie di Berlino, del 1453-1455) (DE VOS 1999, pp. 285-290). Monte rappresentava sulla
scena pittorica fiorentina la continuità con la tradizione del secolo passato, ma non si può fare a meno di notare che nella sua arte si affacciavano ora più moderne soluzioni classicheggianti. Nella Consegna delle chiavi, il ritmo compositivo risulta ampio e pausato, la stesura dei colori è morbida e fusa. L’inquietudine espressiva che aveva contraddistinto la sua precedente produzione si attenua nei toni di una devozione pacata. È molto probabile che Monte conoscesse l’affresco con questo stesso soggetto eseguito da Pietro Perugino nella Cappella Sistina in Vaticano, nel 1481-1482; un riferimento che avvicina il nostro artista in particolar modo al domenicano Fra Bartolomeo, il pittore fiorentino analogamente impegnato a stemperare l’accesa spiritualità degli anni savonaroliani in un messaggio devoto elegante e composto.
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Ada Labriola Bibliografia: MILANESI 1850, pp. 170, 298-299; RONDONI 1872, pp. 51-52; ID. 1876, pp. 52-53; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 678-679 n. 1408; COLNAGHI 1928, p. 102; MARTINI 1956, p. 40; LEVI D’ANCONA 1962, pp. 152, 153, 200 nota 2, 202 nota 2, 206; CHIARELLI 1968, pp. 29, 63; M.P. Masini in, FIRENZE 1982, pp. 75-95; GARZELLI 1985, pp. 325-326; SCUDIERI 1990, II, p. 33; GALIZZI 2004a, p. 115; ID. 2004d, p. 800
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43. Maestro dei Ritratti Baroncelli (attivo a Bruges, tardo Quattrocento)
Sportelli di trittico interno sinistro: Pierantonio Bandini Baroncelli esterno sinistro: Angelo Annunciante (grisaille) tavole; cm 56 × 31 iscrizioni sul cartiglio: Maria (?) plena […] provenienza: Firenze, Ospedale Santa Maria Nuova, dal sec. XVII; 1838 in Palazzo Pitti (PASSAVANT 1841, p. 18); il 29 novembre 1845 entrato alla Galleria degli Uffizi; riunito con lo sportello destra nel 1896 Firenze Galleria degli Uffizi, inv. n. 1036
interno destro: Maria Bonciani esterno destro: Annunciata (grisaille) tavole; cm 55 × 30 (o 56 × 31) provenienza: Firenze, Ospedale Santa Maria Nuova, dal sec. XVII; il 29 aprile 1843 entrato alla Galleria degli Uffizi; riunito con lo sportello sinistra nel 1896 Firenze Galleria degl Uffizi, inv n. 8405
Il Maestro dei ritratti Baroncelli era attivo a Bruges negli ultimi decenni del Quattrocento e forse anche dopo, come suggerisce la KOSTER (1998, pp. 14-17) che lo crede attivo almeno fino al 1510 sulla base dei risultati dell’analisi tecnico-pittorica condotta su una tavola attribuita a questo pittore, di proprietà del Courtauld Institute Galleries di Londra con una Santa e i ritratti d’un donatore e due donatrici (vedi infra; l’indagine dendrocronologica della tavola è ancora da fare). Nonostante alcuni tentativi, secondo chi scrive per ora non sostenibili, di riunire sotto il nome del maestro dipinti quali il trittico con la Deposizione di Cristo e un committente (Genova, Galleria Durazzo Pallavicini; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p 73, n. 126, ripr.) e l’Annunciazione del Koninklijk Museum voor Schone Kunsten d’Anversa (proposta di HULIN DE LOO (1927) e S. Vervaet in, BRUGES 1969, pp. 57, 210, ripr., contraddetta dal Vandenbroeck in, ANVERSA 1985, pp.12-14, ripr.) e altre opere (cfr. MARTENS 1995, pp. 84, 104-105), gli vengono riconosciute unanimemente soltanto le due tavole fiorentine e quella londinese. A. van der Put (in, LONDRA 1927, pp. 33-34, n. 71, ripr.), il FRIEDLÄNDER (1967-76, VIa (1971), pp. 41, 62, n. 138, tav. 149), e, in seguito, il KOSTER (1998, pp. 3-17, ripr.), proposero di identificare i tre donatori del dipinto londinese come Giacomo di Govanni D’Antonio Loiani da Bologna con la sua prima moglie fiamminga, già deceduta, e la seconda, l’ italiana Elisabetta Calderoni, che il Loiani sposò per l’appunto nel 1510. Altre opere fiamminghe con lo stesso stemma famigliare sono il trittichetto con la Salvazione e Pericoli della Vanità di Hans Memling al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo (DE VOS 1994, pp. 245-247, n. 65, ripr.) e il sopracitato trittico d’anonimo fiammingo con la Deposizione e un committente a Genova, Galleria Durazzo Pallavicini (per il quale si veda anche M. Natale in, AA.VV. 1995, pp. 161-163, ripr.). Il WORMALD (1962, pp. 129-130; v. anche Koster) identifica la figura centrale come Santa Caterina da Bologna, deceduta nel 1463. Nella sua fisionomia imponente e massiccia la Santa del dipinto londinese ricorda l’Annunziata sul retro della tavola di destra qui in esame (MARTENS 1995, p. 79). Prima dell’identificazione dei committenti dei ritratti (v. infra), e del conio del nome di convenienza attuale per il pittore da parte del Warburg e Friedländer, le due tavole degli Uffizi erano attribuite alla
maniera di Van der Goes e a Petrus Christus. Il Warburg considerava il maestro dei ritratti Baroncelli un pittore della scuola del Van der Goes. L’affinità con quest’ultimo pare confermata tra l’altro dalla vicinanza dei ritratti in esame con quelli dei coniugi Berthoz sulla tavola dipinta dal maestro verso il 1480, come ala sinistra del trittico eseguito per il resto da Dirck Bouts ed ora nel Museo della cattedrale di Bruges (DHANENS 1998, pp. 326-329, ripr.). Inoltre il nostro risente dell’influsso di Hans Memling e si dimostra profondamente interessato anche dell’opera di un pittore d’una generazione precedente quale Petrus Christus (Baerle 1410/1420 - Bruges ante 1475), che D. Martens (1995) e la Koster credono perfino suo maestro. Nella minuzia del raffigurare il nostro pittore si avvicina anche ad un contemporaneo operante a Bruges al seguito o nell’orbita del Memling, il Maestro della leggenda di Sant’Orsola (cfr. cat. nn. 28, 29), ma la maniera del nostro pittore è più cristallina. Ciò non vuol dire che al Maestro dei ritratti Baroncelli manchi di sottigliezza, ben evidente tra l’altro nel modo di far cadere il velo sulle spalle della giovane donna e nella sua funzione di trasparente transizione tra cielo e paesaggio nell’apertura sulla destra. Come l’Annunciazione sull’altra faccia dei due pannelli, che ha senso soltanto come soggetto di ante che si possano chiudere sopra un pannello centrale, così anche la concezione prospettica, la delimitazione degli spazi, l’atteggiamento devoto e la direzione centripeta conferite ai due personaggi nello spazio suggerisce che le due tavole in esame figurassero come laterali di un trittico votivo a mezze figure (tipologia prettamente nordica, così come il cat. nn. 28, 41), che aveva come panello centrale una Madonna col Bambino o un’altra scena religiosa per ora non identificata. Lo stemma con i tre travi rossi diagonali su un campo bianco, presente nel vetro dietro l’uomo e simile a quello dei monumenti sepolcrali dei Bandini Baroncelli nella loro cappella nella fiorentina chiesa di Santa Croce (SPERANZA-LORENZI-MARIOTTI 2006, pp. 39-78, figg. 2, 15, 16, 21, 37b) permise al Warburg di identificare i personaggi e di suggerire che i ritratti fossero stati dipinti in occasione delle loro nozze avvenute nel 1489. Pierantonio Bandini Baroncelli, che nel ritratto pare avere al massimo una quarantina d’anni, fu nel 1469
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forse ad Avignone (PAGNINI 1765-1766, II, p. 304). Fu l’unico della sua famiglia a rivestire una posizione importante a Bruges (WARBURG 1902, ed. 1932, p. 202, sulla scorta di Scipione Ammirato, Delizie degli Eruditi toscani, vol. XVII, pp. 214-215), come rappresentante del banco dei Pazzi in questa città dove è documentato per la prima volta nel 1475. Dopo la congiura dei Pazzi e l’uccisione di Giuliano de’ Medici, cui il suo parente Bernardo Baroncelli prese attiva parte, Pierantonio fuggì da Bruges (1478). Egli era imparentato anche con Maria Baroncelli, moglie di Tommaso Portinari (DE ROOVER 1963 (1968), p. 355). Nel 1478 fu nominato valet de chambre da Maria di Borgogna, figlia ed erede di Carlo il Temerario e moglie di Massimiliano d’Asburgo; il duca François II de Bretagne (1435-1488) lo nominò come suo ‘Maestre d’Ostel’. L’anno seguente ma forse anche prima fu il console della ‘nazion fiorentina’ a Bruges. Fu lui probabilmente il Pietro Bandini al quale prima del 1486 Tommaso Portinari fece il pagamento di “18 metri di broccato d’oro verde per fabbricare un trono per la santa Eucaristia”, cioè un baldacchino destinato alla chiesa di San Giacomo di Bruges, parrocchia del Portinari che ne fu stimato benefattore (GILLIODTS-VAN SEVEREN 1905, pp. 255-256 citato dal DE VOS 1994, pp. 33-34). Molto probabilmente Pierantonio Bandini Baroncelli non fu il successore di Tommaso Portinari alla testa del filiale del banco Medici di Bruges, come giustamente ha osservato De ROOVER (1968, p. 355), ma nel 1485-1486 gli fu chiesto) di continuare l’opera di Rinieri da Ricasoli nella gestione della causa contro Tommaso Portinari, evidentemente ancora non conclusa del tutto (secondo DE ROOVER 1968, p. 353 l’accordo definitivo fu raggiunto nel 1480-1481, ma restavano forse ancora in sospeso alcuni punti, tra i quali certamente la casa di proprietà del banco in cui il Portinari continuava ad abitare, ROOVER 1968, p. 353; DEL PIAZZO 1956, p. 356). I protocolli di corrispondenza del Medici pubblicati da DEL PIAZZO (1956, p. 341, 350, 353, 356) sono espliciti in proposito, e la richiesta al Baroncelli di informazioni sulle mosse future in Italia di Massimiliano d’Asburgo appena divenuto ‘re dei Romani’ (DEL PIAZZO 1956, p. 353), ovvero del principale debitore del banco Medici a Bruges, spiega forse come una mossa a sfondo politico questa apparentemente curiosa scelta manageriale. Del resto la sirena imperiale esercitò il suo fascino, o la sua autorità, anche sul Baroncelli, se questi nel 1489 prestò a Massimiliano (notoriamente insolvente: DE ROOVER 1968, p. 355) la somma di 12000 fiorini (Warburg). Pierantonio morì nel 1499, in età oggi imprecisabile, mentre era plenipotenziario militare della prima repubblica fiorentina durante all’assedio di Pisa, sicuro terminus ante per l’esecuzione delle tavole. Rimane ancora da verificare infine se, come propose il WARBURG (ed. 1932, p. 203) è veramente lo stesso Pierantonio in età decisamente più giovane ad essere incluso, accanto alla testa del moro, tra i beati soci della colonia fiorentina a Bruges sotto la protezione dell’arcangelo nel Giudizio Finale, dipinto da Hans Memling, a Danzica (DE VOS 1994, pp. 82-89, n. 4. part. ill. a p. 86). Nei ritratti entrambi i coniugi tengono in mano un libro. Quello di Maria è chiuso e posato sulle mani giunte in preghiera. Pierantono tiene invece l’indice tra le pagine come i personaggi di altri dipinti fiamminghi, quali il San Girolamo di Jan van Eyck (cat. n. 1); si intravvede così una pagina miniata, di tipo inequivocabilmente neerlandese Altri segni di devozione sono la catena con un Crocifisso d’argento e tre perle, forse distintivo d’onore offertogli dalla corte (Warburg) e un medaglione ovale con la Madonna e Bambino colorati appuntato sul cappello. Maria Bonciani porta al collo una splendida collana d’oro ornata con fiori e con perle, del tipo portato anche da Maria Baroncelli nel ritratto di Hans Memling al Metropolitan Museum. Sul petto a destra
pende un ciondolo d’oro a forma di conchiglia con pietra preziosa e perla e un braccialetto di corallo e due anelli le ornano il polso e le mani. Alcune delle mattonelle del pavimento dietro Maria hanno come decorazione una croce o la lettera M con una croce, altre le lettere MT o TM (non A(ve) M(aria) come vuole Martens). Le stesse lettere, presenti sullo hennin conico di Maria Baroncelli nel Trittico Portinari degli Uffizi sono state interpretate come le iniziali dei nomi dei coniugi, Tommaso e Maria (WARBURG 1902, ed. 1932, p. 198 nota 1; AINSWORTH 2005a, p. 96, figg. 93, 95). Se, come sembra, l’identificazione dei personaggi come Maria Bonciani e Pierantonio è corretta, nel caso presente ma forse anche in quello del ritratto di Maria Baroncelli è più opportuno vedere nelle lettere un’allusione diversa, come per esempio meter theou, Madre di Dio, riferito ad un’immagine della Vergine che forse in ambedue casi occupava la tavola centrale oggi mancante. È forse comparabile al modo secondo il quale si vede in Italia l’abbreviazione “MD” apposta per esempio sul bordo inferiore della cornice del trittichetto di Mariotto Albertinelli (cat. n. 32) e in altri dipinti, e che sta per indicare anche Mater Dei, anche in rapporto immediato con lo soggetto rappresentato. Dietro alla dama alcuni gradini conducono ad un balcone con un pavimento a mattonelle diverse, chiuso da un parapetto davanti al quale è posto una panca o altro mobile di legno, e che si affaccia su un paesaggio, dove alcuni viandanti percorrono una strada diretta verso una baia con una o più navi sullo sfondo. La forma degli alberi, le montagne e l’esecuzione pittorica del paesaggio che privilegia un tono tenue non soltanto assomigliano assai a quello dello sfondo della tavola della Courtauld Gallery, come ha osservato anche la Koster, ma ambedue sono imparentate al tipo degli alberi e delle montagne ed alla delicatezza esecutiva d’un paesaggio di Petrus Christus, visibile dietro la panca e il parapetto, della Madonna in piedi col Bambino del 1450-1455, al Szepmuveszeti Museum di Budapest (v. MARTENS 1995, p. 95, fig. 15, per il dipinto e gli eventuali rapporti con il dipinto londinese del maestro Baroncelli; inoltre M.W. Ainsworth in, NEW YORK 1994, pp. 126-130, n. 11, ripr.). Bert W. Meijer Bibliografia: PASSAVANT 1841a, p. 18 (H. van der Goes); Uffizi 1897 n. 749 (maniera di Van der Goes); WARBURG 1901, ed. 1932, p. 44, ed. 1932, p. 210, figg. 54a, b; PIERACCINI 1902, n. 749 (P. Christus); WARBURG 1902, ed. 1932, p. 264, figg. 9,10, ed. 1932 p. 202 figg. 54 a, b (Baroncelli Meister); FRIEDLÄNDER 1924-1937, VI (1928), pp. 65-66, n. 137, p. 139, tavv. LVII, LVIII; C.L. Ragghianti in, FIRENZE 1947, p. 9, n. 8, ripr. del retro; D. De Vos in, BRUGES 1969, p. 56; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), pp. 41, 62, n. 137, tav.148; E. Micheletti in, Uffizi 1979, p. 332, nn. P.943, P 944, ripr.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 72, n. 125, ripr.; DE PATOUL-VAN SCHOUTE 1995, pp. 508-509, ripr.; ROHLMAN 1994, pp. 89-90; MARTENS 1995, pp. 71-77, figg.1-3; KOSTER 1998, pp. 10-12, figg. 3, 4; Lachi in, DE BENEDICTIS 2002, pp. 241-242, n. 16, ripr.; NUTTALL 2004, pp. 70-71, tavv. 75, 76; MASINI 2006, p. 77
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44. Raffaello (Urbino 1483 - Roma 1520)
Ritratto di Maddalena Doni Ritratto di Agnolo Doni sul verso: ‘Maestro di Serumido’ (attivo a Firenze ca 1500-1530)
Gli dei inviano il diluvio sulla terra Deucalione e Pirra fanno rinascere l’umanità dopo il diluvio tavole; cm 65 × 45,8 provenienza: Firenze, Casa Doni. Acquisto di Leopoldo II granduca di Toscana dagli eredi Doni nel 1826 Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1912 nn. 59, 61
I due celebri ritratti di Agnolo Doni (Firenze 1474-1539), e della consorte Maddalena Strozzi (Firenze 1489-1540), furono commissionati a Raffaello dallo stesso Agnolo, stando all’affermazione del Vasari (1568) che li vide nella dimora di famiglia in Corso Tintori, presso il figlio Giovan Battista. Tale informazione, che nessuno ha mai messo in dubbio, trova un’ulteriore conferma dalla segnalazione di Giuseppe Montani (in QUATREMÈRE DE QUINCY, ed. Longhena 1829, pp. 346-347) di “un documento dell’archivio dei Doni” che attesterebbe il pagamento di 700 scudi per i due ritratti, erogato da Agnolo a Raffaello. La notizia, ignorata dagli studi recenti, non fu ritenuta attendibile dal PASSAVANT (ed. Guasti, 1882-1891, II, p. 47), e la cifra davvero esorbitante potrebbe esser stata mal letta o mal trascritta; ma sembra difficile che nel 1827 il Montani abbia inventato di sana pianta l’esistenza del documento, probabilmente compreso nella consistente parte della documentazione sulla famiglia Doni andata perduta poco dopo (CAGLIOTI 2005, p. 61). Fuor di dubbio la commissione diretta da parte di Agnolo a Raffaello, anche in considerazione della permanenza dei due ritratti in proprietà della famiglia Doni fino al 1826, la perdita del documento attestante il pagamento a Raffaello ci priva dell’informazione che sarebbe più preziosa, cioè la data dei due dipinti, che viene lasciata oscillare dalla critica fra il 1505 e il 1508, collegandone l’esecuzione al matrimonio celebrato il 31 gennaio 1504, oppure alla nascita della prima figlia nel 1507, o addirittura del primo figlio maschio nel 1508 (cfr. COLIVA 2006, p. 43). È difficile scalare le numerosissime opere prodotte da Raffaello tra Urbino e Firenze nel breve periodo dal 1504 al 1508, fino alla sua partenza per Roma. Ma nel confronto con gli altri ritratti del periodo fiorentino, i due Doni rispondono forse nel modo più diretto al Ritratto di Monna Lisa eseguito da Leonardo a Firenze all’inizio del primo decennio, anche se allora non portato a termine (MARANI 1999, p. 187 sg.), e mi sembra precedano, piuttosto che seguire, la Gravida e la Muta, dove il richiamo alla Gioconda appare più mediato. Andrà poi riconsiderato il rapporto stilistico dei Ritratti Doni con la Madonna del cardellino, rapporto che il completamento del lungo e complesso restauro rende ora più evidente grazie al recupero della tavolozza intensa e brillante, particolarmente vicina alle scelte cromatiche dei due ritratti: la data della Madonna del cardellino, dipinta nell’occasione delle nozze del committente Lorenzo Nasi, avvenute nel 1505 (A. Cecchi in, FIRENZE 1984, p. 77), offre dunque un utile punto di riferimento per
la data dei due ritratti, che non deve esserne lontana. Anche i richiami alla ritrattistica del Perugino, in particolare al ritratto di Francesco delle Opere del 1494 (cat. n. 39) e alle due teste di monaci vallombrosani (pure agli Uffizi) di qualche anno più tardi, e alla ritrattistica del Memling, inducono a preferire per i due capolavori una datazione anticipata al 1505 rispetto alla prevalente tendenza della critica a ritenerli del 1506-1507 (A. Cecchi in, FIRENZE 1984, p. 108). Che l’occasione della commissione fosse il matrimonio, è attestato dal fatto che in origine i due dipinti erano legati a dittico, o comunque costituivano due pendants tra loro collegati, secondo la tradizione prevalentemente nordica dei ritratti nuziali (STEINGRÄBER 1986; DÜLBERG 1990; MEYER ZURCAPELLEN 2001, p. 297; WASHINGTON-ANVERSA 2006, pp. 6-7). Infatti le due immagini, ora isolate entro sottili cornici dorate ottocentesche, sono disposte à pendant, ruotate lievemente l’una verso l’altra, e la loro perfetta corrispondenza è completata dalla continuità dei due paesaggi nello sfondo; inoltre, le due tavole sono identiche non solo nelle misure, ma anche nel supporto in legno di tiglio che è risultato tagliato dallo stesso tronco; infine, recano sul tergo le pitture monocrome con due storie del diluvio, che dovevano esser visibili a sportelli chiusi: i due soggetti tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, raffiguranti la nascita dell’umanità nuova dopo il diluvio, alludono all’auspicio di prole per la coppia di sposi, giustificato in occasione delle nozze. Nelle abitazioni della borghesia mercantile fiorentina di cui Agnolo Doni era un esponente di spicco, ritratti di questo genere, insieme a ritratti singoli, a dipinti di soggetto sacro e a busti, erano collocati nella camera nuziale e nell’anticamera, i due ambienti più rappresentativi al primo piano, raggiungibili dall’ambiente centrale indicato come la sala (B. Preyer in, LONDRA 2006, pp. 34-49; P. Motture, L. Syson in, LONDRA 2006, p. 278). E nella casa che Agnolo aveva fatto costruire in Corso Tintori in occasione del matrimonio con Maddalena Strozzi, è molto probabile che i due ritratti, come pure il Tondo Doni di Michelangelo, fossero inseriti appunto nella “camera della sala” cioè, a giudicare anche dall’arredo descritto nei documenti di Casa Doni, la camera nuziale, dotata di una pannellatura in legno di noce intagliato e dorato, in cui erano inseriti tre armadi, un ‘lettuccio’, e altri arredi, che più tardi sono citati come “Spalliere di Cassoni rabescate di grottesche del Morto da Feltre, e certe con pilastri bellissimi intagliate dal Tasso” (BOCCHI-CINELLI 1677). Il riferimento al Morto da Feltre come
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autore delle grottesche, induceva il CECCHI (1987, p. 433) ad ipotizzare che la ricca decorazione della camera fosse realizzata nel 1503-1504, durante il breve soggiorno di quest’artista a Firenze. Ora un prezioso documento reso noto da Lucia Aquino (2005), oltre a precisare che il responsabile dell’intaglio ligneo è Francesco del Tasso, offre un altro concreto supporto a tale datazione vicina al matrimonio, perché attesta che tutto il decoro era completato entro il 3 gennaio 1506. A quella data infatti Lodovico de’ Nobili, imparentato con i Doni per via delle consorti, commissiona allo stesso Francesco del Tasso la decorazione lignea della camera e anti-camera della sua casa, consistente in letto con predelle, panche, cassoni, armadi, e spalliere, il tutto in legno di noce, con tarsie e capitelli intagliati, precisando che doveva risultare uguale, o più bella, della decorazione della camera di Agnolo Doni: “Et tutte le sopradette cose ànno a essere lavorate meglio che quelle d’Agnolo Doni o, a comparazione di quelle”. È vero che i due ritratti potevano essere inseriti nella camera nuziale anche dopo tale data dal momento che, secondo l’usanza del tempo, le commissioni per la decorazione della dimora avevano inizio, e non completamento, al momento del matrimonio. Pure questa nuova, importante testimonianza rende più probabile una data vicina al 1505, che anche dal punto di vista stilistico non disdice ai due capolavori di Raffaello, e alle due storie monocrome sui versi, eseguite dal Maestro di Serumido (PADOVANI 2005). Questa personalità anonima configurata per primo da Federico ZERI (1962, pp. 318-326) che ne creò il catalogo arricchitosi poi di numerose altre opere, pur se ancora non collegata ad un nome storico ha ormai acquistato un profilo abbastanza definito. Secondo un’ipotetica sequenza cronologica della sua produzione che si scala nei primi trent’anni del Cinquecento, il maestro dovette ben presto venire in contatto con Raffaello, magari nella bottega fiorentina del Perugino dove sembra essersi formato accanto ad altri giovani pittori come il Bachiacca. Il suo rapporto con l’urbinate, attestato da una serie di dipinti che derivano da, o addirittura copiano opere di Raffaello eseguite a Firenze fra il 1504 e il 1508, risulta essere il rapporto non di un seguace ma di un collaboratore, che aveva facile accesso ai modelli di Raffaello. In una Madonna col Bambino in collezione privata esemplata sulla Madonna del cardellino, nella pala di San Severo a Legri che riecheggia gli angeli della Madonna del baldacchino, o nella copia letterale, conservata agli Uffizi, della piccola Madonna Eszterhazy di Budapest (S. Padovani in, BUDAPEST 2008, p. 182), nonché nelle due storie del diluvio da lui dipinte sul retro dei due ritratti Doni, l’anonimo si esprime con un linguaggio dai caratteri stilistici personali e ben individuati, caratterizzati da una divertente tendenza al grottesco, e del tutto estranei al linguaggio raffaellesco. Questo gruppo di opere, in cui egli si mostra artista già formato ed autonomo, sembra indicare che il Maestro di Serumido affianchi o addirittura condivida la bottega con Raffaello fino alla partenza di questi per Roma. Un tale rapporto potrebbe giustificare che le pitture sul verso degli sportelli del dittico dei coniugi Doni venissero affidate a lui. Il precedente dei due capolavori raffaelleschi è stato giustamente indicato nel dittico di Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dipinto ad Urbino da Piero della Francesca (POPE HENNESSY 1966, pp. 210-211), dove le sottigliezze nell’esecuzione pittorica dei paesaggi e dei due personaggi, pur raffigurati ancora rigorosamente di profilo, rispondono alle suggestioni fiamminghe. All’esempio di Piero si aggiunge poi l’influsso diretto esercitato su Raffaello, come sul Perugino e sui maestri fiorentini contemporanei, dalla ritrattistica di Memling, al quale risale, o che comunque diffonde, la formula del ritratto di tre quarti davanti ad un paesaggio (per la questione dei reciproci influssi, cfr. in particolare L. Campbell in, MADRID-BRUGES-NEW YORK 2005). Il saggio dedicato da STEINGRÄBER (1986) ai due Ritratti Doni, ha ana-
lizzato tali legami dal punto di vista tecnico e iconografico, proponendo una serie di esempi fiamminghi che costituiscono un indiscutibile riferimento per la scelta tipologica, inserita in una tradizione evidentemente piena di fascino per i committenti e gli artisti fiorentini. Ne è un’ulteriore conferma la presenza delle due scene allegoriche dipinte a monocromo sul verso, che riflette la moda diffusa nella Firenze del tempo, di cui il Trittico Portinari di Hugo van der Goes è il prototipo più spettacolare, di decorare a monocromo il verso degli sportelli di dittici e trittici destinati alla devozione privata, sistemati aperti nelle abitazioni, ma chiudibili per poter seguire il proprietario nei suoi viaggi. Considerando le dimensioni non piccole, non sembra questo il caso dei ritratti Doni, che semmai seguono i discendenti della famiglia nei loro cambiamenti di abitazione, a metà Seicento e forse nel corso del Settecento (CECCHI 1987). L’influsso dei modelli neerlandesi è poi evidentissimo nella prima versione del Ritratto di Maddalena Doni rivelata dalle indagini fin dal 1984 (in, FIRENZE 1984, pp. 115, 255) e confermata dalla riflettografia eseguita nel 2004 (BELLUCCI-FROSININI 2007) che mostra la figura ambientata in un interno, contro una parete interrotta sulla sinistra da una finestra aperta su di un paesaggio, secondo uno schema diffuso nella Firenze di fine Quattrocento soprattutto da Memling, e ripreso dallo stesso Raffaello nel cosiddetto Ritratto del Verrocchio degli Uffizi (qui esposto): una presentazione che visualizza il concetto del quadro come finestra aperta dallo spazio reale verso il modo spirituale (WASHINGTON-ANVERSA 2006, p. 7). Questa prima versione del ritratto di Maddalena, che riflette ancora i prototipi fiamminghi, ne attesta la priorità rispetto al ritratto d’Agnolo la cui riflettografia non mostra traccia di simili pentimenti. Anche la soluzione finale adottata per il dittico resta legata alla moda fiammingheggiante del momento, di presentare il ritratto sullo sfondo di un vasto spazio aperto sulla natura , come già immediatamente prima, nei ritratti urbinati di Guidubaldo, di Elisabetta Gonzaga, di Francesco Maria. Ma ora, con i ritratti di Agnolo a Maddalena Doni, Raffaello oltrepassa ogni precedente fiammingo o leonardesco, e interpreta e rende l’individualità psicologica dei due coniugi trasfigurata in una nuova, grandiosa dimensione monumentale che è l’antitesi del prezioso, analitico mondo fiammingo. Serena Padovani Bibliografia: VASARI 1568, ed. Milanesi, IV, p. 325; BORGHINI (1584), ed. 1730, p. 315; BOCCHI-CINELLI 1677, p. 565; QUATREMÈRE DE QUINCY, ed. Longhena 1829, pp. 2021, 345-354; PASSAVANT (1839-1858), ed. Guasti 1882-1891, I, pp. 69-70, 220, II, pp. 46-48; CROWE-CAVALCASELLE 1882-1885, I, 1882, pp. 230, 266-269; POPE HENNESSY 1966, pp. 112-113, 210-211; BECHERUCCI 1968, pp. 71-72; FORLANI TEMPESTI 1968, II, pp. 337-338; DUSSLER 1966, ed. 1971, p. 17; DE VECCHI 1981, pp. 58-59; OBERHUBER 1982, pp. 50, 62, 187; CUZIN 1983, p. 73; JOANNIDES 1983, p. 17; JONES-PENNY 1983, pp. 29-30; ULLMANN 1983, pp. 89-90; FORLANI TEMPESTI 1983-1984, pp. 144-145; FIRENZE 1984, pp. 27, 41-42, 105-118, 252-255; STEINGRÄBER 1986, pp. 77-88; CECCHI 1987, pp. 429-439; FERINO PAGDEN-ZANCAN 1989, n. 34, 35; FREEDMAN 1989, pp. 174-175; DÜLBERG 1990, pp. 79-80, 149-150, 240-241; CORDELLIER-PY 1992, pp. 4042; DE VECCHI 1995, pp. 39, 215; SHEARMAN 1996, p. 205; SYRE 1998, p. 457; MARANI 1999, p. 187; OBERHUBER 1999, pp. 77-80; MEYER ZUR CAPELLEN 2001, I, pp. 296-297; T. Carratù in, PARIGI 2001, pp. 114-121; BÉGUIN-GAROFALO 2002, p. 60; JOANNIDES 2001, p. 210; S. Padovani in, La Galleria Palatina 2003, II, p. 316; PLAZZOTTA-HENRY 2004, pp. 45, 144, 174, 176; BALDINI 2004, pp. 100, 102; AQUINO 2005; CAGLIOTI 2005, pp. 63, 66; PADOVANI 2005; CAPRETTI 2006, pp. 73-74; COLIVA 2006, pp. 41-44; BELLUCCI-FROSININI 2007, p. 52 e figg. 12, 19
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45. Raffaello (Urbino 1487 - Roma 1520) bottega
Madonna dei garofani tavola (pioppo); cm 30,5 × 23,5 provenienza: Pesaro, collezione dei marchesi Mosca; Milano, mercato antiquario (Giuseppe Ercolesi), 1819; Brescia, collezione del conte Paolo Tosio, dal 1821; Comune di Brescia, per legato testamentario di Paolo Tosio, 1844; Brescia, Pinacoteca comunale Tosio, 1851; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, dal 1906 Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, inv. 128
Questo soggetto è stato più volte rappresentato ed è conosciuto attraverso molte versioni e copie di epoche diverse, dipinte e a stampa, alcune delle quali risalenti al Cinquecento. Tuttavia è opinione comune che la composizione originale sia da attribuire a Raffaello e sia databile agli ultimi anni della attività fiorentina del maestro (1506-1507 ca). Si ritiene che il tema della Madonna dei garofani sia derivato dall’elaborazione, anche se non puntuale, di uno schizzo a penna rappresentante D. Bouts, Madonna col Bambino. Londra, National Gallery
la Madonna che tiene sulle ginocchia il Bambino, tracciato in alto a destra su un foglio con altri schizzi di mano di Raffaello, conservato all’Albertina di Vienna (inv. 209; CROWE- CAVALCASELLE 1884-1891, I, pp. 361-362; JOANNIDES 1983, p. 177, n. 181r, ripr.). Nel 1992 NICHOLAS PENNY (pp. 67-81) pubblicò la tavoletta con questo soggetto, ora alla National Gallery di Londra, come originale di Raffaello e di conseguenza il dipinto fu presentato come autografo del maestro alla mostra tenuta a Londra nel 2004 con la datazione al 1506-1507 ovvero appena precedente al trasferto a Roma (C. Plazzotta in, LONDRA 2004, pp. 190-193, n. 59, ripr.). In verità, l’esemplare londinese si distingue per i colori e i toni freddi, poco usuali per l’artista in questo periodo che certamente non chiude il problema attributivo. Grazie alle indagini condotte è stato messo in evidenza il disegno sottostante la pittura abbastanza libero ed elaborato, con un tratteggio fitto e parallelo a suggerire passaggi ben definiti e ombreggiature. Diversamente dall’esemplare londinese, su quello bresciano è riscontrabile invece la presenza di un segno sottile e continuo che delinea l’intera composizione, sia nei contorni delle figure, sia negli elementi della scena, sia nei particolari: essi sono visibili nella radiografia, nella riflettografia ed anche a luce naturale. Per la tavoletta bresciana finora non è mai stata proposta l’autografia raffaellesca, almeno da quando essa è nota alla critica. Esso venne acquistato da Paolo Tosio nel 1821 insieme con il Cristo redentore di Raffaello e con la Madonna con il Bambino di Simone Cantarini, che successivamente confluirono nella Pinacoteca cittadina. I tre dipinti, portati sul mercato antiquario milanese dal mercante pesarese Giuseppe Ercolesi provenivano tutti dalla famiglia dei marchesi Mosca di Pesaro. L’opinione di CROWE-CAVALCASELLE (1884-1891, I, p. 360) che Raffaello sia il responsabile dell’idea e del disegno della composizione, lasciando agli aiuti o alla bottega il compito dell’esecuzione pittorica, è stata ripresa recentemente da MEYER ZUR CAPELLEN (2001, pp. 210213) ed ancora da DE VECCHI (2002, p. 354, n. 40) e potrebbe essere valida in particolare per il dipinto bresciano, la cui realizzazione è di grande qualità (DE VECCHI-STRADIOTTI 2006, pp. 102-107), nonostante le caratteristiche esecutive diverse da quello di Londra. La complessa questione delle numerose versioni di questo soggetto, basate sull’invenzione attribuita da sempre a Raffaello, è stata più volte affrontata e sono stati redatti elenchi dettagliati a riprova del successo di questo soggetto e della sua ampia divulgazione (v. per esempio PASSAVANT 1839-1858, II (1839), pp. 79-80; Meyer zur Capellen 2001). Nella versione bresciana si notano alcune particolarità, come l’arco della finestra dipinto interamente, il profilo del viso leggermente scorciato dall’ombreggiatura, il panneggio che ricopre la gamba destra piuttosto rigonfio, elementi che producono un effetto di maggiore fluidità e di ampiezza dei volumi. Al confronto con il presunto originale, questa
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versione dimostra una certa autonomia di tratto e una diversa attenzione chiaroscurale, che insieme con una differente scelta della tavolozza conferisce all’esemplare di Brescia un tono alquanto più saturo. La perizia esecutiva farebbe supporre che un artista operante nella stretta cerchia di Raffaello abbia potuto trarne il modello da un disegno originale del maestro, disponibile nella bottega nel periodo fiorentino o romano e che quindi l’autore del dipinto in esame possa essere identificato con un pittore che frequentava la bottega Sanzio in quegli anni. È stato da tempo riconosciuto il rapporto o la dipendenza della composizione raffaellesca della Madonna dei garofani dalla Madonna Benois di Leonardo risalente a circa trent’anni prima (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage; per il dipinto. MARANI 1999, pp. 90-95, ripr.). Effettivamente le due composizioni condividono l’ambientazione architettonica con la finestra in alto a destra, la posa della Madonna, raffigurata fino al ginocchio, seduta e rivolta di tre quarti verso destra, ed infine il rapporto affettuoso tra la Vergine e il Bambino, che stringono ciascuno qualche fiore di garofano, come se avessero diviso un mazzetto. Nei due casi l’impostazione architettonico-spaziale risale chiaramente ad un precedente fiammingo, forse presente a Firenze. Per la composizione raffaellesca questa supposizione è in particolar modo pertinente, a causa della la presenza del cuscino su cui è seduto il Bambino (anche se un cuscino analogo è presente nella Madonna col Bambino con la Nascita della Madonna di Filippo Lippi, cat. n. 13, che a sua volta potrebbe risalire ad un esempio nordico), e per lo squarcio di paesaggio visibile attraverso la finestra, elementi entrambi presenti ad esempio nella Madonna col Bambino di Dirck Bouts nella National Gallery di Londra del 1465 circa (CAMPBELL 1998, pp. 56-59, ripr.; PÉRIER D’IETEREN 2006, pp. 134-138, 267, n. 12, ripr.). Simili elementi appaiono anche nella composizione della Madonna della pappa di Gerard David (cat. n. 46). Inoltre la tenda che scende dietro le spalle della Madonna fino a formare un grosso nodo, indica che l’ambiente è una camera da letto: particolare che, insieme con la finestra si ritrova nella Madonna col Bambino di Geertgen tot Sint Jans (attivo tra il 1460/65 e il 1490/95) della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, che certamente precede la composizione di Raffaello di vari anni (B. W. Meijer in, MILANO 2002, p. 111, n. 54, ripr.). Il garofano, conosciuto nel greco come ‘dianthus’ (fiore di dio) è un simbolo tradizionale dell’amore divino e di guarigione, ma anche di amicizia e del matrimonio; nel caso particolare, esso potrebbe riferirsi a Maria nella sua veste di Madre e Sposa del Signore (C. Plazzotta in LONDRA 2004). Bert W. Meijer, Renata Stradiotti Bibliografia: PASSAVANT 1839-1858, II (1839), p. 79, n. 55c (copia antica da Raffaello); CROWE- CAVALCASELLE 1884, I, p. 361; NICODEMI 1927, p. 50 (fiammingo); PANAZZA 1973, p. 68 (fiammingo); STRADIOTTI 1986, p. 38; PASSAMANI 1988, p. 44 (Bottega di Raffaello); MEYER ZUR CAPELLEN 2001 p. 212 (disegno di Raffaello, esecuzione bottega); DE VECCHI 2004, p. 354, n. 40; Marielli Mariani in, MANTOVA 2005, pp. 221-222; P. De Vecchi, R. Stradiotti in, BRESCIA 2006, pp. 102-107, n. 7, ripr.
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46. Gerard David (Oudewater ca 1455 - Bruges 1523)
Madonna della Pappa tavola; cm 41 × 32 provenienza: Genova, Antonio Brignole Sale, cappella del Palazzo Rosso (1861); trasferita a Parigi da Maria Brignole Sale De Ferrari, duchessa di Galliera; sua donazione alla città di Genova, 1874 Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco, inv. n. PB 179
Trasferitosi dai Paesi Bassi Settentrionali a Bruges, Gerard David dal 1494 ereditò dal Memling il ruolo di protagonista della scena pittorica locale. Si aggiudicò infatti le principali commissioni monumentali, prevalentemente religiose, tra le quali il grande polittico eseguito per il genovese Vincenzo Sauli per l’altar maggiore della chiesa di San Girolamo della Cervara (Genova, Palazzo Bianco; GENOVA 2005); ma eseguì anche i ritratti e dipinti devozionali di carattere privato, venduti con ogni probabilità almeno in parte sul libero mercato. A quest’ultimo tipo appartengono le almeno sette versioni, varianti e repliche conosciute della composizione qui in esame, tra le quali l’esemplare già nella collezione Von Pannwitz ora di proprietà dell’Aurora Trust (New York), e quelli a Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, nella collezione Deutz di San Diego ed altri eseguiti con maggior o minore partecipazione della bottega (FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIb, p. 106 al n. 206, tavv. 206-212; COMBLEN SONKES 1975-1980 e VAN MIEGROET 1989, pp. 300-301; AINSWORTH 1998, figg. 284-294). Come indica tra l’altro Ainsworth (in, BRUGES 1998), la versione dell’Aurora Trust (AINSWORTH 1998, n. 17, ripr.), già da Bodenhausen e Friedländer considerata come l’esemplare più antico, è la più fine, la migliore e probabilmente anche la più antica fino ad oggi conosciuta. Infatti il disegno sottostante, trasferito con lo spolvero sulla tavola mediante un cartone probabilmente conservato in bottega e sostanzialmente riconoscibile nelle varie versioni (per le indagini fotografiche e riflettografiche a infrarosso Comblen Sonkes, Van Miegroet, Ainsworth, Galassi), presenta delle modifiche apportate negli strati di colore del dipinto dell’Aurora Trust che vennero in parte riprese nelle altre versioni. Ciò non toglie che le figure del dipinto genovese che ha visibilmente alquanto sofferto, vincano per la loro fattura più dolce e piacevole. Le versioni differiscono inoltre soprattutto nei particolari di natura morta: in quella dell’Aurora Trust vi è un Adamo scolpito nella porta dell’armadio; sopra di esso sono collocate tre pere che nell’esemplare genovese sono sostituite da un frutto e da vaso di fiori. Quest’ultimo appare invece, nella tavola dell’Aurora Trust, sotto forma alquanto diversa, posato sul tavolino sotto la finestra a destra. In quest’ultimo dipinto il Cristo bambino, a differenza che nelle altre versioni dove indossa una vestina trasparente, è nudo e tiene in mano un rametto di ciliegie e non un cucchiaio di legno come nel dipinto qui esposto e le altre versioni, e il cestino a destra è senza coperchio e visibilmente pieno di panni piegati. La composizione del David è databile intorno al 1510-1515 in base all’innovativa concezione domestica del tema ed all’esecuzione relativamente soffice e sfumata, tipica del fare dell’ultimo decennio dell’artista. Furono CROWE e CAVALCASELLE (1875, p. 352) per primi ad avanzare il nome di David come responsabile della composizione dell’esemplare allora in collezione privata parigina, oggi ai Musées Royaux des BeauxArts di Bruxelles, e a quel momento attribuito al Memling. Colpisce il carattere così casalingo, certamente inedito in una raffigurazione della Madonna col Bambino. Dal punto di vista della tematica religiosa, e tenendo conto delle differenze nei particolari delle varie redazioni e
comunque della connotazione dolce ed accostante che le caratterizza, la composizione probabilmente allude, mediante il pane ed il latte che costituiscono la pappa, al nutrimento dell’anima che Cristo, con il suo sacrificio, lasciò nel sacramento dell’eucaristia. Il latte era particolarmente venerato nella chiesa di San Donaziano a Bruges (TOUSSAERT 1963, p. 292, citato da Van Miegroet) e i fiori che nell’esemplare genovese sono una rosa alba ‘maxima’, tre racemi di alisso bianco, forse uno o due anemoni possono essere un riferimento al dolore di Maria (per i significati religiosi per esempio Bodenhausen, Mundy, Van Miegroet in AINSWORTH 1998, pp. 306-308). Nel Nord risale almeno al 1460-1465 circa, e a Dirck Bouts per la precisione, la composizione della Madonna a mezza figura girata verso destra che nutre il Figlio, non con un cucchiaio ma al seno, in un interno domestico con una finestra che porta lo sguardo verso un paesaggio alla fiamminga (Londra, National Gallery; per il dipinto Campbell 1998, pp. 56-59, ripr.; Périer d’Ieteren 2006, pp. 134-138, 267, n.12, ripr.). Una composizione fiamminga di questo genere, che condivide gli elementi del tema centrale, dell’interno domestico e della finestra e il paesaggio con la composizione di David era probabilmente nota a Raffaello ed attraverso lui alla sua bottega, come si vede dalla tavoletta con la Madonna del Garofano da essa prodotta nel 1506-1507 circa (cfr. cat. n. 45). Tuttavia, le opere e in particolare anche le fisionomie delle figure di David dimostrano per certi versi una qualche impronta lombarda, che ha fatto presupporre che, oltre ai precedenti fiamminghi, egli conobbe anche qualche Madonna e Bambino originario da quella regione. Non si deve dimenticare la presenza di Leonardo e di Andrea Solario al Nord e la circolazione di loro opere in epoca precoce. Prima dell’arrivo a Bruxelles dei cartoni con gli Atti degli Apostoli di Raffaello nel 1517, tra le varie correnti della pittura italiana quella lombarda fu la meglio conosciuta nelle Fiandre, come dimostrano i dipinti da essa influenzati di maestri quali Hieronymus Bosch e Quinten Matsys (cfr. per Bosch, BIALOSTOCKI 1959, pp. 21-24; KWAKKELSTEIN 1994, p. 110; AIKEMA 2006, pp. 28-29; SILVER 2006, pp. 332, 372; per Matsys, SILVER 1984, passim) dal primo decennio in poi e, in seguito, anche di Joos van Cleve, che fu almeno da 1511 ad Anversa (per la sua opera, HAND 2004). Secondo la Ainsworth, Gerard David può aver utilizzato come modello per la Madonna della Pappa una composizione lombarda in cui comparisse una Madonna che allatta il Bambino a sinistra, a destra un vaso di fiori e più in alto una finestra aperta su un paesaggio con uno specchio d’acqua, case e montagne. Di queste composizioni, forse risalenti ad un prototipo leonardesco sconosciuto, esistono versioni di Bernardino de’ Conti del 1501 (Bergamo, Accademia Carrrara;) e di altri seguaci di Leonardo; o perfino del lombardo Ambrogio Benzone o Ambrosius Benson che nel 1519 entrò nella bottega di David a Bruges (AINSWORTH 1998, pp. 205 sg. e nota 105, figg. 295, 296). Anche il contatto con committenti italiani, quali il Sauli, forse in qualche maniera poté sollecitare nel pittore la curiosità verso l’arte italiana. Mentre questi svolgimenti ipotetici non
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possono essere esclusi, allo stesso tempo non si può tacere anche la possibile mediazione d’influssi lombardi arrivati tra l’altro alla città d’Anversa, centro commerciale e artistico in ascesa, nella cui corporazione dei pittori il David s’iscrisse nel 1515, senza tuttavia abbandonare Bruges. Inoltre, si profila la non trascurabile probabilità, e non soltanto per la chiara origine fiamminga del gruppo di case che appare nel dipinto del de’ Conti e negli altri dello stesso tipo, che l’eventuale prototipo della composizione di Leonardo stesso e le versioni dei suoi seguaci risalgano a loro volta ad un modello di un artista del nord forse ancora visto da Leonardo a Firenze (per i modelli nordici del maestro: HILLS 1980, pp. 609-615; BROWN 1998, passim; NUTTALL 2004, passim). Sia in queste Madonne di pittori lombardi che nella Madonna della Pappa del David troviamo pertanto un amalgama di elementi diffusi sia in Italia che nel Nord, nel quale, tuttavia, per quanto riguarda Gerard David, le reminiscenze e le componenti fiamminghe largamente prevalgono, a dispetto di una sua eventuale sosta in Italia, ormai in genere ma non sempre confutata (cfr. AINSWORTH 1998, pp. 184-185, nota 71; ID. 2005 pp. 17 sg.). Opere di David probabilmente da vari secoli a Firenze sono l’Adorazione dei Magi su tela di epoca giovanile della Galleria degli Uffizi, probabilmente l’esemplare già di proprietà di Giuseppe Bonciani e Attavante degli Attavanti e cerchia di Gerard David, Tabernacolo con Madonna e Bambino. Toledo, Museum of Art
da lui nel suo testamento del 1506 legato a Girolamo Frescobaldi, nel 1825 nell’Accademia e dal 1845 agli Uffizi (NUTTALL 2004, p. 73, fig. 77). Una Deposizione replica di David, con il Peccato Originale sul retro, su metallo, appartenne ad Eleonora di Toledo e nel 1589 fu esposta nella Tribuna con un’attribuzione a Luca di Leida (E. Micheletti in, Uffizi 1979, p. 239, nn. 501 P e 502 P, ripr.). Una piccola miniatura della cerchia di David con la Madonna e Bambino, basata su un modello prodotto dal maestro e dalla sua bottega, fu incollata su una miniatura di Attavante (1452-1517 circa) di proprietà del Museum of Art di Toledo (Ohio) (cfr. M.W. Ainsworth in, NEW YORK 2004 pp. 580-581, n. 347, ripr.; anche pp. 579-580, n. 346, ripr., e la tavoletta di David dell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (WASHINGTON-ANVERSA 2007, p. 66, fig. 1a). Poiché la scritta Dei Mater Alma e le altre sulla miniatura prodotta dal fiorentino sono originali, quest’ultima, che rappresenta un tabernacolo rinascimentale davanti ad un paesaggio che fa da cornice all’immagine della Madonna e Bambino fiamminga, fu appositamente creata per ospitare una rappresentazione di questo soggetto, probabilmente la stessa che oggi vi vediamo. Bert W. Meijer Bibliografia: Palazzo Rosso 1861, p. 24, n. 123 (Q. Matsys); GENOA 1892, p. 105, n. 8 (H. Memling); BODENHAUSEN 1905, pp. 180-184, n. (G. David); FRIEDLÄNDER 19241937, VI (1934), p. 153, n. 206b G. David, ripetizione); FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIb (1971), p. 106, n. 206b, ripr.; COMBLEN SONKES 1974-1980. pp. 32-35, 38, ripr.; VAN MIEGROET 1989, pp. 241-242, 300-301, n. 33b, ripr.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 79, n. 145, ripr.; AINSWORTH 1998, pp. 295-308, fig. 285; M.W. Ainsworth in, BRUGES 1998, pp. 29-30 n. 18, ripr.; FONTANA AMORETTI-PLOMP 1998, p. 92, n. 53, ripr.; M.C. Galassi in, CAVELLI-TRAVERSO 2003, pp. 91-93, ripr. con bibl.; M.W. Ainsworth in, GENOVA 2005, pp. 23-30.
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47. Monte di Giovanni del Fora (Firenze 1448-1532/1533)
Crocifissione e Compianto della Vergine su Cristo morto Consacrazione dell’ostia e Cristo coronato di spine tra quattro angeli miniature Messale; codice membr.; mm 400 × 280; ff. I + 1-378 + I. Contenuto: Calendario liturgico (ff. 1r-6v); Temporale (ff. 7r-249v); Proprio dei santi (ff. 250r318v); Comune dei santi (ff. 319r-378v). Datato 3 dicembre 1493 provenienza: Firenze, duomo di Santa Maria del Fiore Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Edili 109, ff. 186v e 187r
Realizzato per il Duomo fiorentino, il Messale reca la data 3 dicembre 1493 vergata dallo scriba Zanobi di Bartolomeo Moschini (f. 318v). I documenti attestano che la scrittura del codice fu affidata a Zanobi, cappellano della chiesa fiorentina di Santa Felicita, il 13 marzo del 1492, mentre l’apparato illustrativo venne commissionato ai fratelli Gherardo e Monte di Giovanni il successivo 17 aprile (POGGI 1909, ed. 1988). La sua decorazione risulta in realtà opera del solo Monte, che nel 1499 riscuoteva ancora i relativi pagamenti. Egli fu affiancato da collaboratori di bottega, tra cui si è proposto di riconoscere Stefano Lunetti (notizie dal 1483 al 1532; il miniatore aveva sposato la figlia di Bartolomeo di Giovanni, fratello di Monte) (M. Levi D’Ancona in, FIRENZE 1995). La mano di collaboratori si riconosce nelle bordure con medaglioni figurati e nelle numerose iniziali decorate del Messale, nonché in alcune iniziali istoriate (ff. 26v, 206v, 250r, 278r, 319r). Il Messale del Duomo rappresenta la prima importante impresa indipendente di Monte, portata a termine poco dopo la scomparsa di Gherardo, avvenuta nel 1497. La legatura del codice conserva ancora i due fermagli di argento niellato raffiguranti l’Annunciazione e l’Adorazione dei pastori, opera documentata dell’orafo Alessandro di Giovanni nel 1500 (GARZELLI 1984b; POGGI 1909, ed. 1988). La veste ornamentale delle miniature riflette in parte quella adottata dai due fratelli del Fora nel Messale di Sant’Egidio, tra il 1474 e il 1476 (cat. n. 6): come in quell’esemplare, anche in questo per il duomo l’aspetto sontuoso delle raffigurazioni è eclatante (sono 35 le iniziali istoriate), ai fini di un utilizzo liturgico non certo quotidiano, bensì riservato alle occasioni più importanti (TACCONI 2005). Analogamente, nel nostro codice la pagina iniziale del Temporale (f. 8r) è illustrata dall’Annunciazione entro un riquadro che occupa la metà superiore del foglio, ed anche qui la camera della Vergine si apre su scorci urbani e su una veduta di paesaggio (con il profilo del duomo fiorentino svettante nelle brumose lontananze azzurrine). Il paesaggio alla fiamminga era ormai, nell’ultimo decennio del secolo, divenuto parte integrante del bagaglio di conoscenze dei pittori fiorentini, ma Monte si distinse tra tutti (soprattutto tra i miniatori del tempo) per l’approccio intensamente emotivo a quegli apporti culturali, per la fittissima citazione di motivi iconografici d’origine nordica, apprezzati in primo luogo per il loro impatto devozionale. Come è stato notato (TACCONI 1997), nel codice è dato risalto agli emblemi civici di Firenze: gli stemmi della città, del Popolo, e del nuovo governo repubblicano (“Libertas”) (ff. 7v, 272r) attestano che la sua decorazione fu intrapresa dopo la cacciata dei Medici da Firenze (novembre 1494), in un periodo caratterizzato da
tensioni politiche e religiose, segnato dalle profetiche predicazioni di Girolamo Savonarola. L’interpretazione drammatica della storia sacra – si vedano le due pagine affrontate illustranti il Canone della Messa (ff. 186v-187r) – potrebbe suggerirci che anche Monte fu vicino al misticismo religioso dei ‘piagnoni’, i ferventi seguaci del frate domenicano, al pari di un artista quale Sandro Botticelli. La grande Crocifissione a piena pagina è incorniciata da un tabernacolo classicheggiante, che sfoggia un repertorio all’antica nella decorazione di paraste, di mensole, di capitelli (sotto cui però si cela, come nelle panoplie in basso, il riferimento ai simboli della Passione di Cristo), e che proietta la sua ombra sul fondo tinto della pergamena. È necessario, in proposito, accennare ai possibili contatti di Monte con la miniatura padovana, e in particolar modo con Gaspare da Padova (attivo a Roma tra il 1466/1467 e il 1493 circa), l’artista che avviò alla fine degli anni ottanta la decorazione del notevole esemplare con le Rime e i Trionfi di Francesco Petrarca, ultimata a Firenze dai due fratelli del Fora (Baltimora, Walters Art Gallery, Ms. 10.755) (MINER 1968-1969, pp. 99-118). Ma l’idea di inserire nel tabernacolo-finestra la monumentale Crocifissione ci appare piuttosto la risposta di Monte agli effetti di illusionismo prediletti da Rogier van der Weyden, che spesso raffigurò le sue scene dietro strutture architettoniche dipinte in primo piano, come nel trittico d’altare Miraflores del 1442-1445 circa (Berlino, Gemäldegalerie) (DE VOS 1999, pp. 226-233, n. 12, ripr.). Annarosa GARZELLI (1985) ha notato che modello della Crocifissione miniata fu la tavola con questo soggetto dipinta da un collaboratore di Jan van Eyck dopo il 1430, presente ab antiquo nel Veneto ed oggi conservata a Venezia (Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro), probabile copia di un originale perduto del maestro (B. Aikema in, VENEZIA 1999, pp. 202-203, n. 10, ripr.). Nel Messale, l’impostazione compositiva del Crocifisso tra i due dolenti, come anche la tensione drammatica dell’evento portata vicinissima all’osservatore ma stemperata nella calma indifferente dei personaggi sullo sfondo, ricordano il modello fiammingo, conosciuto a Firenze forse tramite disegni qui portati dagli artisti, tra cui Domenico Veneziano, che mostrò riflessi eyckiani nella sua Adorazione dei Magi del 1440 circa (Berlino, Gemäldegalerie) (NUTTALL 2004, pp. 201-202). La veduta di Gerusalemme nella miniatura si fonde con una fantastica rappresentazione di Firenze, come già nel Compianto di Cristo del Messale di Sant’Egidio (f. 150v) (cat. n. 6). Ora la raffigurazione poteva riflettere i più attuali contenuti della profezia savonaroliana, secondo cui Firenze – nuova Gerusalemme – era la città predestinata da Dio a condurre l’umanità verso la salvezza (TACCONI 2005, p. 216).
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Monte di Giovanni, Crocifissione e compianto della Vergine su Cristo morto, f. 186v
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La Crocifissione eyckiana era forse nota anche attraverso copie miniate: ritroviamo infatti una composizione identica nel celebre Libro d’Ore di Jean de Berry (le cosiddette Ore di Torino-Milano), ad opera di un seguace di Jan van Eyck, recentemente identificato con il Maestro di Jean Chevrot, tra il 1437 e il 1440 circa (Torino, Museo Civico d’Arte Antica, inv. Ms. n. 47, f. 48v) (S. Pettenati, K.C. Luber in, TORINO 1997, pp. 83-90, tav. XI). Nelle Ore di Torino-Milano, l’impostazione della pagina miniata prevede che, sotto la grande scena principale, sia talvolta raffigurato nel bas-de-page l’episodio evangelico successivo. In maniera del tutto innovativa rispetto alla tradizione illustrativa fiorentina, Monte adottò un’impostazione analoga nella pagina con la Crocifissione, dipingendo in basso – a mo’ di predella – la scena con il Compianto della Vergine su Cristo morto. L’iconografia tedesca del Vesperbild godette in quegli anni a Firenze di un successo crescente (NUTTALL 2004, pp. 240-242). La circostanza ci ricorda che Giorgio Vasari dichiarò Gherardo intento a copiare le incisioni di Martin Schongauer, e nella Vita di Marcantonio RAIMONDI (1568; ed. 1878, III, p. 240 e 1880, V, p. 398) il biografo specificò che il soggetto di una di tali copie fu appunto la Crocifissione: l’esemplare in questione è quindi stato identificato da Hind (1938, I, pp. 215-216) con un’impressione del Kupferstichkabinett di Berlino, databile nell’ultimo decennio del Quattrocento. Le potenzialità formali del disegno duro e metallico delle incisioni sembrano aver interessato in particolar modo Monte, come bene evidenziano anche le miniature del foglio 187r nel nostro Messale. Qui, nell’iniziale T (Te igitur) egli raffigurò la Consacrazione dell’ostia, riprendendo quasi alla lettera la composizione già adottata nel Messale di Sant’Egidio (f. 151r) (cat. n. 6); mentre nella base del tabernacolo architettonico inquadrante lo due colonne di scrittura dipinse un’immagine fortemente drammatica di Cristo coronato di spine: le palme aperte a mostrare le stimmate, il volto percorso da rivoli di sangue, gli occhi rossi e colmi di lacrime. La raffigurazione non è senza precedenti a Firenze, e si ritrova molto simile nella tavola di Angelico con questo soggetto conservata a Livorno (Museo Civico), ma certamente decisivo fu l’impatto dei modelli fiamminghi che alla fine del Quattrocento circolavano in città, come il Cristo dolente in atto di benedire dipinto da Hans Memling in una valva di dittico oggi custodita a Genova (Galleria di Palazzo Bianco) (cat. n. 49). In questo contesto, il parallelo più stringente con la nostra miniatura si ravvisa in un dipinto di Cosimo Rosselli ora a New York (collezione privata), databile nel 1490-1500 (FAHY 2007, p. 48 e fig. 63). La vicinanza di Monte alla bottega familiare dei Rosselli, sotto l’egida della pittura devozionale fiamminga, emerge anche da un altro particolare della miniatura qui discussa. Le parole scritte nei due filatteri sotto il clipeo con Cristo (“O vos omne[s] qui transitis per viam attendite et videte dolorem meum”) (Lamentazioni 1:12), recitate durante le funzioni liturgiche del Sabato Santo e rievocanti il dramma della Crocifissione, compaiono infatti in calce a un dipinto di Bernardo di Stefano Rosselli risalente all’ultimo decennio del Quattrocento e raffigurante Cristo con la croce, Maria e le Pie Donne, nella chiesa di Santa Trinita a Firenze (PADOA RIZZO 1986, pp. 10-12). Infine, l’idea di collocare quattro angeli, qui recanti i simboli della Passione, ai lati del Cristo coronato di spine ci indica che Monte guardò anche ai dipinti fiamminghi con l’immagine della Veronica, come la tavola del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola appartenuta al ‘piagnone’ Francesco del Pugliese, dove sono due angeli a reggere il sudario (Venezia, Seminario Patriarcale, Pinacoteca Manfrediniana) (cat. n. 29). Gli angeli miniati da Monte, con il volto dalle guance piene incorniciato da chiome di colore biondo fulvo fluenti sulle spalle, sono anche fisionomicamente assai prossimi a quelli rappresentati dal collega fiammingo; è possibile che l’artista fiorentino avesse avuto modo di osservare con agio il suo modello, forse frequentando la casa dello stesso Francesco del Pugliese. Non a caso la copia tratta da quest’ultimo dipinto ad opera
Monte di Giovanni, Consacrazione dell’ostia e Cristo coronato di spine tra quattro angeli, f. 187r
di un maestro della bottega di Raffaellino del Garbo (1490 ca), tuttora custodita in Santa Maria del Carmine a Firenze (cat. n. 31), illustra nella parte inferiore della tavola il tema del Vesperbild, con un’impaginazione della scena molto simile a quella delineata da Monte nel foglio 186v del Messale di Santa Maria del Fiore. Ada Labriola Bibliografia: MILANESI 1850, pp. 168-169, 260-262, 329; VASARI, ed. Milanesi 18781885, III, pp. 248-249, 250; TOESCA 1906, p. 376; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 666-669 n. 1396; COLNAGHI 1928, p. 102; MARTINI 1956, pp. 33-34; LEVI D’ANCONA 1962, pp. 127, 131, 199, 202; GARZELLI 1984a, p. 324; ID. 1984b, pp. 697, 699, tav. LXVI; ID. 1985, pp. 78, 84, 281, 282, 290-291, 315, 325, 326, 328 nota 3, 334; PADOA RIZZO 1986, p. 11; POGGI 1909, ed. 1988, II, pp. 38, 61, 62 docc. 1729-1731, 1733, 1753, 1760-1761; HAINES 1994, pp. 50, 52; M. Levi D’Ancona in, FIRENZE 1995, pp. 81, 84; GARZELLI 1996, p. 297; TACCONI 1997, pp. 73, 193-194; ANTETOMASO 1999, p. 637; BELLOSI 1999, p. 104; GALIZZI 2004b, p. 260; ID. 2004c, p. 406; ID. 2004d, p. 799; TACCONI 2005, pp. 9, 39-41, 54, 55, 170-174; A. Dillon Bussi in, FIRENZE 2006a, pp. 111-112; PARTSCH 2006, p. 519
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Monte di Giovanni, Annunciazione, David con il salterio, san Zanobi in trono, f. 8r
Monte di Giovanni, San Zenobi e Miracolo di san Zanobi, f. 272r
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48. Monte di Giovanni del Fora (Firenze 1448-1532/1533)
San Paolo predica alla folla, l’Annunciazione, i quattro Evangelisti, due angeli inginocchiati ai lati del clipeo con l’Agnus Dei, altri angeli e putti mentre giocano miniature Epistolario; codice membr.; mm 430 × 280; ff. I + 1-110 + I. Contenuto: Temporale (ff. 1r-79v); Proprio dei santi (ff. 80r-95v); Comune dei santi (ff. 96r110v). Datato 23 ottobre 1500 provenienza: Firenze, Duomo di Santa Maria del Fiore Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Edili 112, f. 1r
L’Epistolario del Duomo fiorentino fu datato dallo scriba Zanobi di Bartolomeo Moschini il 23 ottobre del 1500 (f. 110v). I documenti ci dicono che egli aveva ricevuto l’incarico dall’Opera del Duomo il 29 aprile dello stesso anno, mentre i pagamenti versati a Monte di Giovanni per le miniature risalgono al 30 giugno del 1502 (POGGI 1909, ed. 1988). La legatura del codice (pagata il 10 giugno del 1502) conserva ancora i due fermagli di argento niellato eseguiti dall’orafo Paolo di Giovanni Sogliani, raffiguranti ciascuno una coppia di apostoli a mezzo busto: i Santi Pietro e Paolo e i Santi Giacomo Maggiore e Filippo (?) (GARZELLI 1984b). Si potrebbe avanzare l’ipotesi che sia stato lo stesso Monte a fornire i disegni per queste figure, le cui fisionomie espressive connotate da linee incisive e vibranti sono stilisticamente vicine a quelle dei suoi personaggi miniati. Monte avrebbe così condiviso una pratica che aveva già coinvolto suo fratello Gherardo (scomparso nel 1497), documentato in rapporto con l’esecuzione di fermagli e di piastre metalliche per la legatura dei codici (in proposito MELLI 2007, pp. 39-40). L’Epistolario e il Messale Edili 109 del Duomo (cat. n. 47), affidati ai medesimi scriba e miniatore, costituivano dunque un’unità liturgica: la veste ornamentale del nostro codice (che contiene, oltre a numerose iniziali decorate, 11 istoriate) presenta un repertorio analogo a quello visibile nell’altro esemplare, sebbene più sobrio e contenuto. Anche nella decorazione dell’Epistolario è dato particolare rilievo agli emblemi civici di Firenze e del governo repubblicano che allora guidava la città (f. 88v). Nella pagina iniziale (f. 1r), la Predica di San Paolo è dipinta in un grande riquadro; in alto al centro è lo stemma del Popolo fiorentino, ai lati compaiono entro medaglioni gli Evangelisti Giovanni e Matteo. Nella cornice, più in basso, altri medaglioni raffigurano l’Annunciazione, e agli angoli inferiori del foglio gli Evangelisti Luca e Marco. Al centro due angeli sorreggono il clipeo con lo stemma dell’Opera del Duomo (l’Agnus Dei), incorniciato da una ghirlanda di fiori e di frutti. Sullo sfondo, decorato a finto mosaico dorato, alcuni putti si trastullano con ghirlande di fiori, altri con il toro di San Luca e con il leone di San Marco (sul motivo decorativo del finto mosaico, adottato anche nel Salterio della Badia Fiorentina: si veda cat. n. 42). Nella Predica di San Paolo, il protagonista si erge su un piedistallo recante l’iscrizione “Vas electio[nis]”, allusione alla sua missione di apostolato (Atti 9:15), e stringe nella sinistra la spada, suo tradizionale attributo. Nella folla compatta alle sue spalle è possibile identificare san Pietro nell’unico personaggio con l’aureola, ammantato di giallo e con le chiavi in mano; in lontananza, la foschia di colore azzurro cinereo avvolge il profilo di Roma, con gli edifici classici e le rovine architettoniche bene in vista, ma caratterizzata anche da altissime guglie gotiche. Il fantastico paesaggio creato da Monte ha perso la connotazione realistica che aveva invece ispirato le miniature del fratello Gherardo nel
Messale di Sant’Egidio (f. 5r) (cat. n. 6). Era dunque mutato l’approccio dei pittori fiorentini nei confronto del naturalismo fiammingo; nel caso di Monte, entrò probabilmente in gioco il suo interesse verso i contenuti devozionali dei dipinti nordici (si veda cat. n. 47), e questa circostanza lo spinse a ricercare un’affinità anche con i modelli formali di quella cultura pittorica. I suoi personaggi dalle proporzioni non particolarmente rispettose dei canoni classici e dell’ideale di bellezza della tradizione fiorentina ci indicano che l’artista guardava alle figure dipinte da Rogier van der Weyden, e anche a quelle di Hans Memling, il pittore di Bruges che a partire dal 1470 circa fu il ritrattista dei banchieri fiorentini nelle Fiandre. Nel margine inferiore della pagina qui discussa, i due angeli inginocchiati con le vesti azzurre percorse da bianchi tocchi di luce, con i capelli rossi lunghi fino alle spalle e i profili caratterizzati dal naso appuntito, sembrano davvero compagni dell’angelo dipinto da Memling, inginocchiato sulla destra in primo piano, nella tavola centrale del trittico di Benedetto Pagagnotti (Firenze, Galleria degli Uffizi) (cat. n. 25): un’opera particolarmente ammirata dai pittori fiorentini (NUTTALL 2004, p. 133). Da questo modello Monte potette riprendere anche la tipologia dell’albero con le chiome sfrangiate e lumeggiate contro il cielo, sullo sfondo della Predica di San Paolo. Altre iniziali istoriate del codice, tra cui il Noli Me Tangere (f. 51v), mostrano che l’artista trasse copie puntuali dai dipinti fiamminghi: si vedano il solito albero sfrangiato e quelli più piccoli tondeggianti, come anche il rustico steccato ligneo (motivi che ritroviamo tutti, ancora una volta, nel Trittico Pagagnotti). Giunse a Firenze probabilmente in epoca più tarda il dipinto con le Storie della Passione (Torino, Galleria Sabauda) (cat. n. 23), eseguito da Memling intorno al 1470 per Tommaso Portinari, ma l’impostazione qui conferita ai due piccoli protagonisti del Noli Me Tangere (nell’angolo superore destro della tavola) è singolarmente affine a quella visibile nella nostra miniatura. Come si sa, Monte fu pittore oltre che miniatore: nel paesaggio sullo sfondo del suo dipinto oggi a Montreal (Museum of Fine Arts), con l’ Intercessione di Cristo e della Vergine, così come nell’affresco datato 1487 del convento dello Spirito Santo alla Costa San Giorgio a Firenze, rappresentante lo stesso soggetto, Michael ROHLMANN (1993, p. 243) ha proposto di riconoscere precise citazioni tratte delle Stimmate di San Francesco di Jan van Eyck conservate a Torino (Galleria Sabauda), un quadro identificato dallo studioso con quello acquistato nel 1472 da Filippo Strozzi nelle Fiandre per essere inviato in dono a Napoli a Diomede Carafa (si veda anche NUTTALL 2004, pp. 77-78). I dipinti fiamminghi furono per Monte veicolo fondamentale – insieme e forse più dei codici miniati – per la conoscenza del naturalismo nordico. Non è purtroppo accertata la presenza a Firenze, a queste date, di manoscritti prodotti
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nelle Fiandre, e, in particolar modo, dei Libri d’Ore certamente posseduti dai fiorentini residenti a Bruges, quali Benedetto Portinari e Pierantonio Bandini Baroncelli con la moglie Maria Bonciani. In preghiera davanti a questi piccoli libri di elegante fattura, essi si fecero infatti raffigurare da Hans Memling o dal Maestro dei Ritratti Baroncelli, tra il 1480 e il 1490 (NUTTALL 2004, figg. 74-76) (cat. n. 43). Anche Rogier van der Weyden fu miniatore, ma la sua attività in questo settore è circoscritta alla committenza del duca Filippo il Buono di Borgogna (CAMPBELL 2006, pp. 87-102); mentre fu realizzato a Roma nel 1459 per un cardinale spagnolo, Antonio de la Cerda, il codice miniato da un seguace di Rogier con le Epistolae di san Girolamo (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 362) (RUYSSCHAERT 1970, pp. 249258) (in proposito, si veda anche EVANS 1985, pp. 7-23). Possono piuttosto essere menzionate in questo contesto quelle carte dipinte importate dalle Fiandre e ricordate a Firenze dai documenti alla fine del Quattrocento, rappresentanti soggetti devozionali eseguiti su carta o su pergamena, supporti a loro volta incollati su tavola (NUTTALL 2004, pp. 120-121). Il genere non suscitò a Firenze grande adesione tra i pittori locali, ma nei rari esemplari oggi conosciuti, come la Madonna con il Bambino attribuita a Sebastiano Mainardi, del 1500-1505 (a tempera su pergamena applicata su tavola; Parigi, Musée Jacquemart-André), esso presenta indubbi punti di contatto con la tecnica della miniatura (E. Fahy in, MILANO 2003, pp. 96-97). Se dunque lo studio delle fonti nordiche utilizzate da Monte ci appare ancora in gran parte aperto, suscettibile di nuove indagini, è certo che l’artista rappresentò più di ogni altro suo collega a Firenze la continua e profonda adesione a questa tradizione culturale, nel corso di oltre quarant’anni di carriera, tra Quattrocento e Cinquecento. Ada Labriola Bibliografia: MILANESI 1850, pp. 169, 263-265; VASARI, ed. Milanesi 1878-1885, III, p. 250; D’ANCONA 1914, II/2, pp. 669-671 n. 1397; COLNAGHI 1928, p. 102; MARTINI 1956, pp. 37-38; LEVI D’ANCONA 1962, pp. 200, 201, 208; GARZELLI 1984b, pp. 697, 698-699, tav. LXV; ID. 1985, pp. 322-323; POGGI 1909, ed. 1988, II, pp. 63, 64, 65 docc. 1762-1763, 1768-1771, 1775-1777; HAINES 1994, p. 52; TACCONI 1997, pp. 198-199; GALIZZI 2004d, p. 800; TACCONI 2005, pp. 39-41, 170-173
Monte di Giovanni, San Paolo predica alla folla, f. 1r Monte di Giovanni, Noli me tangere, f. 51v
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49. Hans Memling (Seligenstadt ca 1455 - Bruges 1494)
Cristo dolente in atto di benedire tavola (quercia ); cm 53,4 × 39,1 provenienza: Firenze, Marchesi Tempi; Conte Gino Bargagli Petrucci (cfr. DI FABIO 1991); dal 1947 o prima Mario C. Viezzoli, Genova; nel 1953 da lui acquistato dal comune di Genova Genova, Palazzo Bianco inv. n. P.B. 1569
La “Mostra d’Arte fiamminga e olandese dei secoli XV e XVI”, tenutasi a Firenze nel 1947-1948, mise in luce questo dipinto, già attribuito a Hugo van der Goes e a Gerard David (DE VOS 1994, p. 226, nota 5) e, almeno da Faggin in poi, generalmente accettato come opera di Memling, con l’eccezione della Collobi Ragghianti. La precedente confusione circa il suo autore era dovuta, tra gli altri, all’esistenza di una copia fedele del dipinto, oggi a Philadelphia, attribuita da FAHY (2005) a Domenico Ghirlandaio (Philadelphia Museum of Art, John G. Johnson Collection; cat. n. 51), che fu a lungo considerata la versione originale di mano di Memling. L’attribuzione è stata recentemente confermata dalla riflettografia infrarossa, che ha mostrato il disegno sottostante eseguito a gessetto nero, dal carattere talmente genuino da dimostrare che il lavoro non può essere stato eseguito da un copista ma dalla mano dello stesso Memling. La datazione tra il 1480 e il 1490 si basa principalmente sulle somiglianze tra questo e altri disegni sottostanti di Memling dello stesso periodo (GALASSI 1997, pp. 340-343). La tavola di Philadelphia è oggi considerata la migliore tra le copie tratte dall’originale (per altre copie, si veda FRIEDLÄNDER 19671976, VIa (1971), p. 51, al n. 40; DE VOS 1994), tra cui una fa parte di un dittico, oggi a Strasburgo, che presenta, sull’altro pannello, una Mater Dolorosa (Strasburgo, Musée des Beaux Arts, ogni pannello misura cm 56 × 40, inv. n. 187; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), p. 51, n. 41d, tav. 92; GALASSI 1997, pp. 339-340). Non c’è dubbio che il pannello di Genova avesse un analogo pendant, forse addirittura identico alla Mater Dolorosa conservata oggi presso una collezione privata del Regno Unito (BUIJSEN 1996; T.-H. Borchert in, BRUGES 2002, p. 244, n. 52, ripr.; FAHY 2005; Cerchia di Fra Bartolomeo (forse Mariotto Albertinelli), Cristo benedicente. Roma, Galleria Borghese
Sandro Botticelli, Cristo dolente. Detroit, Detroit Institute of Arts
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ID. 2008); anche di questa immagine esistono alcune copie (FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), p. 51, n. 41, tav. 92; DE VOS 1994; GALASSI 1997), tra le quali quella di proprietà della Galleria degli Uffizi (cat. n. 51). La combinazione del Cristo della Passione e la Vergine dipinti a mezzo busto ricorre già nella produzione artistica bizantina del XII secolo e in quella italiana del XIV, tuttavia non è ancora chiaro come il tema fosse arrivato nei Paesi Bassi (BELTING l981; J. Hand, C. Metzger, R. Spronk in, WASHINGTON-ANVERSA 2006, p. 50, al n. 4). Ritroviamo il Cristo benedicente ma non sofferente, accanto ad una Vergine in preghiera, entrambi a mezzo busto, in una tavola attribuita a Robert Campin e datata attorno al 1425-1430 (Philadelphia, John G. Johnson Collection, cm 28,6 × 45,1, inv. n. 332; J. Hand, C. Metzger, R. Spronk in, WASHINGTON-ANVERSA 2006, pp. 56-59, n. 5, ripr.). Dalla metà del XV secolo circa, le figure a mezzo busto del Cristo dolente e della Mater Dolorosa furono dipinte in pendant su pannelli separati nella bottega di Dirk Bouts e del figlio Albrecht (CAMPBELL 1998, pp. 63-66, ripr.; NEW YORK 1999, pp. 242-243, n. 58, ripr; FAHY 2005, p. 46; J.O. Hand, Metzger, R. Spronk in, WASHINGTONANVERSA 2006, pp. 40-55, nn. 3-4, ripr.). Queste opere, come il pannello di Campin, sono caratterizzate dal fondo dorato e dal Cristo raffigurato frontalmente. Memling, invece, preferì il fondo scuro, rappresentando più parte dei busti delle figure e Cristo girato verso la Vergine con il braccio destro in posizione benedicente. In questo modo l’artista suggerisce un certo effetto tridimensionale e svela la particolare, intima, relazione tra le due figure. La corona di spine col sangue che scende lungo il volto e il collo del Cristo, le lacrime che cadono sulle guance e le stimmate sulle mani mostrano il carattere dolente di Gesù invitando lo spettatore ad immedesimarsi con la Passione; tuttavia tale carattere è addolcito dal sottile modellato di luci e ombre e dalla posa benedicente con la quale il Cristo pare consolare sia la madre che lo spettatore. Non sappiamo quando il dittico di Memling dovette giungere in Italia, ma la provenienza fiorentina prima dell’arrivo a Genova spiegherebbe per quale ragione alcune copie assai fedeli e varianti furono eseguite a Firenze, come il Cristo dolente di Ghirlandaio (cat. n. 51) oppure la copia della Mater Dolorosa ora agli Uffizi, la cui origine fiorentina o italiana attorno al 1500 è stata messa in luce dalle analisi tecniche sull’opera (GALASSI 1997, pp. 343-346; cat. n. 50). Un Ecce Homo della cerchia di Frà Bartolomeo non pare propriamente essere una copia del dipinto ma mostra nella “struttura compositiva e nell’analisi psicologica” (GALASSI 1997, p. 348) l’influenza del Cristo dolente di Memling (Roma, Galleria Borghese, cm 60 × 54, inv. n. 421; FAHY 1969, p. 147; GALASSI 1997, pp. 346-349. Si veda anche il Cristo dolente che benedice dello stesso Fra Bartolomeo, ora in una collezione privata fiorentina; S. Padovani in, FIRENZE 1996, p. 69, n. 11, ripr., e in questo catalogo n. 52). Seppur piuttosto liberamente, Botticelli, in diverse versioni da lui offerte del tema, si ispirò con evidenza al Cristo dolente che benedice di Memling (la migliore, databile attorno al 1490, si trova presso il Detroit Institute of Arts, cm 44,5 × 2, inv. n. 27.3; NUTTALL 2004, pp. 237-238, fig. 266), richiamandone l’inclinazione della testa e il gesto benedicente, pur entro una rappresentazione frontale. Mentre in Italia esisteva già una lunga tradizione nella rappresentazione del Cristo dolente come figura nuda a mezzo busto, la versione di Botticelli è un bell’esempio di come un pittore fiammingo abbia contribuito alla trasformazione di questo tema nell’arte italiana. Judie Bogers Bibliografia: RAGGHIANTI 1946, p. 97; L. Ragghianti in, FIRENZE 1947, pp. 24-25, n. 4; G.T. Faggin in, CORTI-FAGGIN 1969, p. 103 n. 52, ripr.; FAHY 1969, p. 147; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa (1971), pp. 112-113, Add. n. 259, tav. 91; LANE 1980, n. 96; GALASSI 1989, pp. 29-38 ripr.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 78, n. 139, ripr.; DI FABIO 1991, pp. 66-67, fig. a p. 73; ID. 1992, pp. 32-34; D. De Vos in, BRUGES 1994, pp. 102-103, n. 22, ripr.; DE VOS 1994, pp. 226-227, n. 58, ripr.; BUIJSEN 1996, pp. 57-69, fig. 1; GALASSI 1997, pp. 339-350, fig. 1; T.-H. Borchert in, BRUGES 2002, p. 244, n. 51, ripr.; CAVELLI TRAVERSO 2003, pp. 178-181, ripr. con bibl.; NUTTALL 2004, pp. 236-39, fig. 264; FAHY 2005, pp. 44-52
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50. Pittore Fiorentino, da Hans Memling (ca 1500)
Mater dolorosa tavola di pioppo; cm 55 × 33 provenienza: Cardinale Leopoldo de’ Medici (m. 1675), Firenze; Guardaroba Granducale Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1084
La Mater dolorosa degli Uffizi, che ritrae a mezza figura la Vergine in preghiera con il volto inondato di lacrime, fa parte di oltre una dozzina di repliche contemporanee del pannello sinistro del dittico il cui pannello destro raffigurava il Cristo dolente in atto di benedire di Hans Memling della Galleria di Palazzo Bianco a Genova (cat. n. 49). La versione primaria, di provenienza fiorentina, è stata recentemente individuata in una collezione privata inglese da Edwin Buijsen (1996) il quale, grazie a un’attenta analisi del disegno sottostante, l’ha riconosciuta come l’originale di Memling. Un tratto che la distingue dalle altre è il disegno delle dita intrecciate. Come Dirk De Vos (1994) per primo ha notato, per lo più nelle copie le mani della Vergine sono giunte con le dita parallele tra loro anziché intrecciate, un particolare, questo, che presumibilmente era al di là delle capacità della maggior parte dei copisti. L’attribuzione della Mater dolorosa degli Uffizi ha oscillato tra la scuola del Nord e quella italiana. Al tempo in cui si trovava nella collezione del cardinale Leopoldo de’ Medici e poi in quelle dei granduchi era ritenuta opera del grande artista tedesco Albrecht Dürer (1471-1528). Un decennio dopo la collocazione del dipinto agli Uffizi, l’attribuzione passò a Lucas Cranach (1472-1553). In un inventario del 1825 il dipinto era registrato come opera dell’artista fiorentino Mariotto Albertinelli (14741515). All’inizio del ventesimo secolo, quando Alfonse-Jules Wauters ne pubblicò una foto (WAUTERS 1907), fu generalmente riconosciuto come di Joos van Cleve (attivo 1508 - m. 1540/1541). Nonostante il cauto riferimento di Max Friedländer a Memling (‘Vielleicht Nachahmung’), l’attribuzione a Van Cleve ebbe lunga vita (FIRENZE 1948; BERTI 1971; e targhette agli Uffizi, almeno fino all’ottobre 1994). Il dipinto fu inoltre assegnato a Gerard David (ca 1460-1523; COLLOBI RAGGHIANTI 1990) e ad anonimo fiammingo (DE VOS 1994). Solo molto di recente Maria Clelia Galassi ha chiarito, con un’argomentazione convincente, che l’opera è italiana perché è dipinta su legno di pioppo, supporto usuale in Italia, ed è stata eseguita con un denso impasto di pigmenti già mescolati, in contrasto con le trasparenti velature fiamminghe. In un primo tempo GALASSI (1996) ha definito l’autore un “artista peruginesco” e ha datato il quadro intorno al 1500: definizione, questa, che trova riscontro nel sito degli Uffizi (www.polomuseale.firenze.it/inv 1890/inventario.asp) dove è tuttora inventariato come opera autografa di “Vannucci, Pietro di Cristoforo detto Perugino”. In uno studio successivo GALASSI (1997) ha riportato i risultati degli esami riflettografici a infrarosso del Cristo dolente in atto di benedire di Ghirlandaio (cat. n. 51) e della tavola degli Uffizi, che confermano come il primo sia opera di un “pittore italiano attivo negli anni ottanta del Quattrocento” mentre la seconda è eseguita con la tecnica tipica di un artista italiano attivo intorno al 1500. Il nome da lei suggerito riprendeva l’attribuzione ad Albertinelli proposta in prima istanza dall’inventario di Giovanni degli Alessandri nel 1825. Certo l’applicazione di tempera mista a olio è una caratteristica ricorrente delle superfici levigate dei dipinti di Albertinelli, prive di tracce del pennello, simili più alla perfetta rifinitura delle opere coeve di Lorenzo di Credi che a quelle di Perugino.
Quando la Mater dolorosa era di proprietà del cardinale Leopoldo de’ Medici, fu descritta da Filippo Baldinucci (1624-1696), connoisseurstorico e consigliere artistico di Leopoldo. Nell’appartamento del cardinale, scrive Baldinucci, “vi sono anche due teste quanto il naturale, una di un Cristo coronato di spine, e l’altra di Maria Vergine colle mani giunte, ed alcuni veli bianchi in capo, delle quali meglio è tacere, che non lodarle abbastanza”. Da questa descrizione non è possibile capire se il dittico era ancora intatto o se i pannelli di Cristo e della Vergine erano stati separati. Le due tavole in ogni caso erano considerate una coppia, e si è tentato in vario modo di identificare il perduto dipinto del Cristo coronato di spine. Giorgio FAGGIN (1969) ha indicato il Cristo dolente che benedice di Memling nella Galleria di Palazzo Bianco (cat. n. 49), ma le dimensioni non corrispondono e la stesura pittorica è completamente diversa. Licia COLLOBI RAGGHIANTI (1990), seguita da GALASSI (1996), ha ipotizzato che il dipinto mancante sia il Cristo dolente di Philadelphia. Ma anche in questo caso la qualità della stesura pittorica è lontanissima. Un candidato più plausibile è un dipinto emerso solo l’anno scorso a un’asta di Venezia (San Marco Casa d’aste, 21 ottobre 2007, lotto 71, dato a Hans Memling, con un’expertise di Federico Zeri). Ridotto a un ovale di 45.5 × 34 centimetri e inserito in una cornice cinquecentesca a modanatura fiorentina, mostra lo stesso liscio modellato del dipinto degli Uffizi, e potrebbe veramente essere il suo compagno. Everett Fahy Bibliografia: BALDINUCCI 1687, pp. 167-168 (ed. Ranalli 1846, p. 15); WAUTERS 1907, p. 69 ripr.; FRIEDLÄNDER 1924-1937, VI (1928), p. 124, n. 41; FIRENZE 1947, pp. 5051, n. 10; FAGGIN 1969, pp. 103-104, nn. 52, 55, ripr.; BERTI 1971, p. 74, n. 10 ripr.; FRIEDLÄNDER 1967-1976, VIa, 1971, p. 51, n. 41, ripr.; MICHELETTI 1979, p. 381, n. P1058, ripr.; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 78, n. 139-140, ripr.; DE VOS 1994, pp. 226, 343, n. A8, ripr.; BUIJSEN 1996, pp. 57, 67 nota 4, e p. 68 nota 12; GALASSI 1996, p. 82, ripr.; ID. 1997, pp. 339-340, 343-346 e 348-349, ripr.; FAHY 2007, pp. 47, 51 note 26-27 e 29-31
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51. Domenico Ghirlandaio (Firenze 1449-1494)
Cristo dolente in atto di benedire tavola (pioppo); cm 54,3 × 33,7 provenienza: Collezione privata “in alta Italia” (secondo FRIEDLÄNDER 1920); R. Langton-Douglas, Londra, 1913, venduto a Johnson; John J. Johnson, Philadelphia, Pa., 1913-1917; lascito alla City of Philadelphia, 1917; in deposito al Philadelphia Museum of Art, 1931 Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, John G. Johnson Collection, cat. n. 1176a
Questa copia del Cristo dolente in atto di benedire di Hans Memling (ca 1440-1494) della Galleria di Palazzo Bianco a Genova (cat. n. 49) non ha confronti per la straordinaria accuratezza con cui riproduce un dipinto neerlandese tardoquattrocentesco. Nella pittura italiana contemporanea non esistono infatti repliche altrettanto fedeli di un modello neerlandese. Dal prototipo, l’opera si differenzia solo per il bordo bruno-rossiccio sui quattro lati (che presumibilmente era in origine coperto da una cornice fissa) e per le due colonne di marmo variegato alle spalle di Cristo, parzialmente tagliate ai margini del dipinto. Oltre vent’anni fa, ho riconosciuto il Cristo dolente come opera autografa di Domenico Ghirlandaio, opinione che ho comunicato ai colleghi, alcuni dei quali l’hanno accettata (CHRISTIANSEN 1998; BORCHERT 2002; NUTTALL 2004). Si sapeva da tempo che Ghirlandaio era affascinato dall’arte neerlandese, poiché dipinti e incisioni del nord servirono più volte da modelli per le sue composizioni (AMES LEWIS 1989; ROHLMAN 1992; NUTTALL 1996). Nell’Adorazione dei pastori della cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze il pittore inserì, come è noto, particolari della Pala Portinari di Hugo van der Goes, mentre modellò l’affresco di San Girolamo nello studio, da lui dipinto nella chiesa di Ognissanti, su una tavoletta già attribuita a Petrus Christus (cat. n. 1), creando, secondo la memorabile espressione di Paula Nuttall, “an Eyckian painting writ large” (“un dipinto Eyckiano in caratteri cubitali”). L’attribuzione della tavola Johnson è basata sulla qualità dell’esecuzione: imitando gli effetti della tecnica neerlandese a olio, il copista coglie il carattere del dipinto di Memling e lo traduce con una pennellata magistrale nella tradizionale tecnica a tempera italiana. Ulteriore conferma all’attribuzione è fornita dalla presenza delle colonne, che nel prototipo non compaiono. Nel libro che accompagnava la recente mostra di Bruges, Till-Holger Borchert ha definito la colonna di sinistra “il palo della flagellazione” al quale Cristo subì il supplizio. Ma a quanto pare Borchert non ha notato la seconda colonna che si intravvede al margine destro del dipinto. I due elementi furono desunti dalle due colonnine di analogo colore che compaiono in un altro dipinto di Memling presente a Firenze negli anni settanta del Quattrocento, il ritratto della collezione Robert Lehman al Metropolitan Museum: vi è raffigurato un giovane in piedi davanti a una loggia – o forse a una finestra aperta - con due colonnine di marmo rosso variegato (cat. n. 34). Elementi simili, che non esistevano nell’architettura fiorentina del tempo, ricompaiono in almeno due altri dipinti di Ghirlandaio: il Ritratto di giovane donna alla Huntington Library, Art Collections and Botanical Gardens di San Marino, California, e come ha notato Lorne Campbell (1983), la Madonna Rothschild (cat. n. 35) del Louvre. Quest’ultima, benché talora attribuita a Verrocchio, è stata di recente definitivamente assegnata a Ghirlandaio e datata a partire dalla fine del decennio 1470-1480. La tavola Johnson non è l’unica copia del Cristo dolente in atto di be-
nedire di Memling: se ne conosce oltre una dozzina di versioni (FAHY 2007, p. 49 nota 5), quasi tutte di mano italiana. Due di esse, che si trovano al Musée des Beaux-Arts di Digione e a quello di Strasburgo, ci sono pervenute come pannelli di un dittico, accoppiate a raffigurazioni di una Mater dolorosa il cui prototipo è una tavola autografa di Memling di provenienza fiorentina, ora in una collezione privata britannica (BUIJSEN 1996). L’iconografia dei dittici, che rappresentano a mezza figura una Vergine piangente con lo sguardo rivolto al Cristo ieratico con la mano levata a benedire, era già ben affermata nei Paesi Bassi a metà del XV secolo. Basate su una perduta invenzione di Dieric Bouts (1420/30-1475), queste opere furono create nell’ambito del movimento neerlandese noto come “Devotio moderna”, che esortava i seguaci a identificarsi con le sofferenze di Cristo. A giudicare dal numero delle copie di mano italiana, l’ispirazione devota di simili immagini dovette avere un forte impatto anche in Italia. La proposta di un dittico che in origine fosse composto dal Cristo dolente in atto di benedire di Johnson e dalla Mater dolorosa degli Uffizi (cat. n. 50) non è convincente (COLLOBI RAGGHIANTI 1990; GALASSI 1996 e GALASSI 1997). Le dimensioni dei pannelli non corrispondono, e la stesura pittorica è del tutto diversa. Everett Fahy Bibliografia: VALENTINER 1914a, p. 206, ripr.; HORNE 1915, p. 55; FRIEDLÄNDER 1920, p. 115, ripr.; ID. 1921, p. 189; ID. 1928, p. 124; WORCESTER 1939, p. 26, n. 22, ripr.; FRIEDLÄNDER 1939, p. 166, ripr.; FAGGIN 1969, p. 103, n. 53, ripr.; FRIEDLÄNDER 1971, p. 51, n. 40, ripr.; PHILADELPHIA 1972, pp. 61, 116, ripr.; ZERI-ROSSI 1986, p. 95; GALASSI 1989, p. 29; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 78, nn. 139-40; DI FABIO 1991, p. 66; BRUGES 1994, p. 102; PHILADELPHIA 1994, p. 201, ripr.; DE VOS 1994, p. 226; GALASSI 1996, p. 82; ID. 1997, p. 349 ripr.; CHRISTIANSEN 1998, pp. 44, 60 nota 26; AMORETTIPLOMP 1998, p. 172; NORTH 2002, p. 52; T.-H. Borchert in, BRUGES 2002, p. 260, n. 99, ripr.; CAVELLI TRAVERSO 2003, pp. 178, 180; NUTTALL 2004, pp. 143-144, 236-237, 290 nota 25-26, ripr.; FAHY 2007, pp. 44-52, ripr.
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52. Fra Bartolomeo (Firenze 1472-1517)
Cristo benedicente tavola; cm 57,5 × 47 provenienza: venduto dal convento di San Marco a Gerolamo Casio (ca 15011502); Ferrara, collezione Barbicinti (ca 1840-1851)(?); Ferrara, collezione di Giuseppe Cavalieri; Ferrara, collezione di Enea Vendeghini (ca 1893) poi Vendeghini Baldi (ca 1940-1986); Asta Finarte, Milano, 21 aprile 1986. Collezione privata
Il dipinto raffigura il Cristo risorto, in atto di benedizione, a mezzo busto, sullo sfondo di un paesaggio con la scena del Noli me tangere, in una soluzione derivata dai modelli fiamminghi. In analogia con quella tradizione, il retro della tavola presenta una pittura a finto marmo, che ne attesta la destinazione non a parete, ma con ogni probabilità abbinata ad un’immagine con la raffigurazione della Madonna dolente, oppure di un ritratto del committente. Sconosciuta alla letteratura critica fino all’asta Finarte del 1986, nel catalogo di vendita l’opera era attribuita a Mariotto Albertinelli, in quanto ripropone con pochissime varianti il Cristo benedicente della Galleria Borghese di Roma, generalmente riferito appunto all’Albertinelli. Tuttavia il quadro della Galleria Borghese è stato più correttamente inserito nel catalogo del compagno di bottega di Mariotto, Fra Bartolomeo (FAHY 1969, pp. 147-148; S. Padovani in, FIRENZE 1996, pp. 73-75), e una volta riconosciuta la validità di tale attribuzione quest’immagine straordinaria, altrettanto imponente ed intensa ma molto meglio conservata, ha ritrovato la sua identità stilistica che non ha riscontri nella produzione di Mariotto, e che corrisponde invece al linguaggio del Frate poco dopo il suo ingresso nell’ordine domenicano. Il volto affilato del Salvatore ha la stessa fisionomia regolare dell’Angelo dell’Annunciazione di Volterra, e le stesse mani sommariamente eseguite della Vergine Annunciata o, per fare un altro esempio, della Madonna nella Sacra Famiglia ex-Contini Bonacossi (Los Angeles, County Museum), con il pollice arcuato in una caratteristica stilizzazione. Ma rispetto a quelle opere mostra ormai superato il retaggio ghirlandaiesco ad esse sotteso, ed è dipinto con una morbidezza e con una valenza atmosferica nel modo pur simile di costruire i panneggi falcati, di far vibrare i passaggi dalla figura allo sfondo, di render fiabeFra Bartolomeo, Cristo benedicente (cat. n. 52) Fra Bartolomeo, Madonna dolente. Ubicazione sconosciuta
sche le nordiche costruzioni sulle colline, che presuppongono una più matura elaborazione degli stimoli esterni, prima di tutto l’insegnamento di Leonardo e la conoscenza diretta della pittura di Hans Memling. L’affermazione del Vasari, seguito da tutta la critica, che Baccio entrato nell’ordine non volle più toccare i pennelli per quattro anni fino al 1504, per non avere distrazioni alle sue pratiche religiose, non andrà presa alla lettera, perché un gruppo di opere prevalentemente ma non solo di piccolo formato trova la sua collocazione più convincente proprio in quel periodo, cioè dal ritorno di Fra Bartolomeo a Firenze nel convento di San Marco allo scadere, nel 1501, dell’anno di noviziato trascorso in San Domenico a Prato, fino al contratto del 1504 per l’Apparizione della Vergine a San Bernardo (S. Padovani in, FIRENZE 1996, pp. 35-37). All’inizio di questo gruppo credo vada datata l’immagine del Cristo benedicente, ancora nutrita delle fonti della sua prima attività degli anni novanta, ma già risolta con un respiro e una grandiosità impensabili senza l’esperienza del grande affresco del Giudizio per Santa Maria Nuova. Ad una datazione sul 1501-1502 sono riconducibili anche i due bellissimi disegni preparatori per il dipinto. Il foglio dell’Archiginnasio (TUMIDEI 1997), fortemente leonardesco al punto da esser considerato una possibile derivazione dal “Cristo giovinetto” che Isabella d’Este richiedeva nel 1504 a Leonardo (TUMIDEI 1997, p. 77), sembra elaborare l’immagine in una fase preliminare, con la figura del Cristo in posizione già simile, con lo stupendo scorcio della mano benedicente energicamente tracciato, ma con non poche varianti, dall’espressione totalmente diversa, meno idealizzata del volto, all’espansione più ariosa dei capelli, al taglio più allungato della figura, tali da far concludere che si tratti qui di una prima idea poi leggermente ma decisamente modificata nella versione dipinta. Il disegno ora in proprietà privata a Bruxelles, tracciato a carboncino su una carta con un’iscrizione non decifrata, e anch’esso, come il foglio bolognese, molto consunto, è stato ricondotto, dopo una deviazione in favore di Mariotto, sotto il nome di Fra Bartolomeo che già aveva quando si trovava nella collezione Mond. Lo studio per la testa del Redentore, chiaramente eseguito per questa versione, più frontale rispetto al dipinto di poco più tardo della Galleria Borghese, è ormai nella fase definitiva, e già trasmette tutta la dolcezza e l’intensità emotiva del quadro. Un’ulteriore prova della datazione proposta, è poi fornita dalla lista dei quadri di Fra Bartolomeo redatta dal priore del convento di San Marco nel 1516, che menziona al primo punto dell’elenco delle “Dipinture che se n’è tratto danari”, un’immagine di Cristo con ogni probabilità da identificare con questa (S. Padovani in, BOSKOVITS 1992; S. Padovani in, FIRENZE 1996): “In primis el detto Fra Bartholomeo di Pagholo dipinse dua quadri di circa d’un braccio l’uno, ne’ quali una testa di Yhesu, nell’altro la Vergine, a M.Hyeronimo da Casi bolognese per prezzo duc. quidici d’oro in oro larghi”. Non solo le dimensioni della tavola corrispondono ad un braccio circa; ma il pendant raffigurante la Vergine, purtroppo finora non ritrovato, è stato riconosciuto in base a due vecchie fotografie (presso l’archivio fotografico dell’Istituto Germanico e quello della Villa I Tatti, a Firenze). L’accostamento delle due illustrazioni rende evidente che i due dipinti sono della stessa mano (nonostante il grave stato di abrasione della Madonna), e che nascono come pendants. Se il retro della tavola dispersa presentasse tracce della decorazione originale, cadrebbe ogni dubbio, per ora legittimo, che questi siano in effetti i due quadri dipinti da Fra’Bartolomeo all’inizio della sua attività nella bottega allestita all’interno del suo convento, e venduti a Gerolamo Casio per 15 ducati. I contributi del compianto Stefano Tumidei e di TURI (1997) e la nota di SCARDINO (1998) portano significative conferme all’identificazione proposta, dal momento che forniscono nuove informazioni sulla presenza del Cristo benedicente accertata fino dall’Ottocento in alcune
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importanti collezioni ferraresi, e sulle sue derivazioni nella pittura locale contemporanea. I legami strettissimi del bolognese Gerolamo Casio con i Medici, e con Isabella d’Este, potrebbero giustificare un passaggio del dipinto fino dai primi anni del Cinquecento da Bologna a Ferrara, dove una modesta ma interessantissima versione passata dalla raccolta Massari in Pinacoteca è stata riconosciuta a Michele Coltellini con una datazione intorno al 1515 (TUMIDEI 1997). Non può stupire che in ambiente estense si trovi un così esplicito omaggio a Fra Bartolomeo, a più riprese in contatto con la marchesa Isabella e poi con Alfonso I e Lucrezia Borgia; né che venisse apprezzata e copiata proprio un’immagine come questa, forse, nella produzione del Frate, quella più intimamente pervasa dall’influsso della pittura fiamminga trionfante anche Ferrara fino dalla metà del Quattrocento. Alla luce delle recenti ricerche sui dittici e trittici neerlandesi sfociate nella mostra Prayers and Portraits. Unfolding the Netherlandish Diptych (WASHINGTON-ANVERSA 2006), questo aspetto del nostro dipinto si deve sottolineare con ancora maggior insistenza, per la presentazione
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del soggetto, per l’evidente debito verso Hans Memling nell’esecuzione in punta di pennello della vegetazione che anima il paesaggio, per la sorprendente marmorizzazione del verso della tavola, per il suo abbinamento alla Mater dolorosa perduta. Se, grazie agli ultimi studi, probabilmente anche per queste due tavole non si dovrà parlare di un ‘dittico’, ma piuttosto di “pendants paintings” (WASHINGTON-ANVERSA 2006, p. 13), è un fatto che le due immagini devozionali dipinte nel fiorentino convento domenicano di San Marco riflettono con un’evidenza innegabile lo strettissimo rapporto con i modelli prodotti nei Paesi Bassi; e il loro apprezzamento a Firenze e a Ferrara attesta la condivisione di questo gusto da parte di committenti locali del più alto rango. Serena Padovani Bibliografia: Lista dei quadri …1516, in MARCHESE 1878-1879, II, p. 180; ASTA FI1986, n. 113; NATALE 1991, p. 53; S. Padovani in, BOSKOVITS 1992, I, n. 3, pp. 20-23; IXELLES 1993, p. 24; PARIGI 1994, pp. 52, 54; HENRY 1995, p. 192; S. Padovani in, FIRENZE 1996, pp. 69-73; S. Tumidei in, TOURS 1996, pp. 124-125; TUMIDEI 1997; TURI 1997; SCARDINO 1998.
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53. Gregorio di Lorenzo (Firenze ca 1436 - Firenze ca 1504)
Salvator Incoronatus e Mater Mediatrix marmo; cm 40,5 × 29,5 e cm 40,5 × 28,5 provenienza: mercato d’arte italiano Berlino, Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst, Bode Museum, inv. nn. 3/68, 4/68
Acquisite piuttosto di recente dalla celebre collezione berlinese di sculture, queste opere trovano scarsi riscontri in letteratura. Alla loro comparsa sul mercato italiano dell’arte erano state apprezzate e in un primo tempo attribuite al misterioso artista che Bode chiamava “Maestro delle Madonne di Marmo”. A lui si attribuiva una vasta produzione, ma per molto tempo nome e personalità erano rimasti ignoti, finché Pisani lo ha identificato in Gregorio di Lorenzo (PISANI 2002, pp. 152, 153, passim), mentre Caglioti è riuscito a precisarne la posizione e il ruolo da lui rivestiti a Firenze (CAGLIOTI 2000, I, 364-365, II, 315; CAGLIOTI 2008, pp. 129-137) . Gregorio era stato allievo di Desiderio da Settignano, e dal 1461 in poi lavorò in proprio a Firenze e a Napoli; la sua presenza è citata a Lucca nel 1473. Non ricevendo sufficienti commesse, nel 1475 lasciò Firenze per mettersi al servizio del re d’Ungheria, Mattia Corvino, a Buda e a Visegrád, fino al 1493, quando fece ritorno nella città natale, dove morì verso il 1504. Gregorio non si può considerare uno dei principali maestri della scultura quattrocentesca, ma ha uno stile molto caratterizzato. Alcune sue opere sono state confuse con le sculture di Matteo Civitale. Nel presente contesto ciò che conta è che l’artista potrebbe essere entrato in contatto con l’arte fiamminga tanto a Firenze, quanto a Napoli e a Lucca. Il ‘dittico’ di Berlino, o piuttosto i due bassorilievi in pendant, sono rari esempi del genere, che rivelano il contatto con i prototipi fiamminghi dal punto di vista sia stilistico, sia iconografico, a dimostrazione di quanto fosse di moda il fiamminghismo in scultura. I due busti troncati sotto le spalle sono rivolti l’uno verso l’altro; il Cristo indossa la tunica e il mantello e ha sul capo la corona di spine, la Vergine porta il soggolo monacale che le copre la testa e la gola. Le due figure sono collocate davanti a una cornice scolpita con modanature, a cui si sovrappongono con effetto illusionistico. Questo genere di primo piano ravvicinato, che ritrae il Cristo sofferente e la Madre in compianto, ha la sua formulazione originaria nella pittura italiana del Trecento, ma divenne estremamente popolare nella pittura neerlandese del secondo quarto del Quattrocento. In genere l’icona rappresentata era l’Uomo dei Dolori, l’Ecce Homo o il Salvator mundi, per lo più visto di fronte. Questo curioso esemplare berlinese, come un altro molto affine della stessa mano acquisito dal museo di Budapest nel 1996 (URBACH 2004, pp. 63-78), mostra Cristo dopo la Flagellazione e la Coronazione di Spine, ma prima della Spoliazione: una immagine che le fonti medievali definiscono Salvator coronatus o Salvator incoronatus. Di solito nella letteratura storico-artistica questi dittici provenienti dai Paesi Bassi sono detti “dell’intercessione”, a causa del ruolo che ha la Vergine, vista come colei che intercede fra l’umanità e Dio. Erano prodotti soprattutto come oggetti trasportabili destinati alla devozione privata: potevano servire come altari domestici o anche da viaggio. Il rovescio presentava in alcuni casi l’immagine di un teschio, oppure era dipinto a imitazione del marmo e del porfido; quindi potevano essere usati non solo come memento mori, ma anche da epitaffio per conservare la memoria della persona (SCHMIDT 2006, pp. 15-31).
Naturalmente non sarebbe stato possibile che i rilievi di marmo qui illustrati fossero incernierati insieme, come pannelli a libro, ma avrebbero potuto essere murati a parete l’uno di fronte all’altro, in casa di qualche patrizio locale oppure in un oratorio privato, e magari anche in una chiesa o in un convento. Una fonte documenta una raffigurazione analoga, opera di Matteo Civitali, nel convento di Santa Maria Corteorlandini: “due mezzi busti di terracotta, rappresentanti l’uno il Salvatore e l’altra la sua SS.ma Madre” (PETRUCCI 2004, p. 148). Nei dipinti fiamminghi che raffigurano il Cristo sofferente senza riferimenti agli episodi narrati dai Vangeli, nella forma cosiddetta Andachtsbild, lo vediamo spargere lacrime, che gli scorrono copiose sul viso, così come sulla fronte vediamo le gocce di sangue provocate dalle spine. S’intende che pittori come Memling o Bouts erano in grado di rendere con estremo realismo le gocce di lacrime trasparenti e quelle di sangue, mentre è ovvio che la scultura non possa competere con questi effetti di illusionismo. Nei rilievi di Berlino e di Budapest: del Salvator incoronatus appare rappresentato solo il motivo brutale della corona di spine che penetra nella fronte, secondo una formula devozionale citata dagli autori medievali, per esempio da Ludolphus de Saxonis nella “Vita Jesu Christi/ De teria, in passione domini”: “videte caput ejus perforatum...” (LUDOLPHUS 1865, p. 643). Difficile rappresentare le lacrime nella scultura, e quindi sui rilievi di Berlino e di Budapest le “perle che scorrono” sul volto appaiono molto bizzarre. Altrettanto si può dire delle opere di Civitali citate sopra. A proposito delle lacrime, gli artisti e gli umanisti italiani avevano osservato questo motivo nei dipinti fiamminghi; lo attestano sia le celebri parole attribuite a Michelangelo, sia molte altre fonti, come Bartolommeo Fazio che descrive così il Compianto su Cristo morto davanti al sepolcro di Rogier van der Weyden: “La Madre di Dio, affranta, che deve sopportare la cattura del Figlio, e tuttavia, anche nel pianto copioso, conserva la propria dignità...” Le lacrime e la loro rappresentazione pittorica erano un motivo conduttore dell’arte fiamminga, come lo definisce NUTTALL (2004, pp. 72, 73; URBACH 2004, pp. 72 sg.), ma non erano l’unico elemento per il quale gli italiani consideravano più “devote” le opere d’arte nordeuropee in genere. Il dittico scultoreo dell’intercessione proveniente da Berlino presenta lievi differenze rispetto ai prototipi fiamminghi, dove la Vergine non era mai rappresentata come una donna anziana, con la sua “vera” età nel momento della Passione. Qui non appare con l’aspetto di una donna giovane, incarnata secondo l’ideale fiammingo nel volto ovale, a mandorla, ma come le matrone del tipo di Sant’Anna o Sant’Elisabetta, e con un viso tondeggiante più affine a quelli dipinti dal Mantegna. È difficile identificare con precisione le fonti delle sculture. I dittici di Dirk e Albert Bouts erano conosciuti anche in Italia, ed erano una sorta di prodotti di massa, che si esportavano in Italia e anche in Spagna. Non esistendo un catalogo delle raffigurazioni di Cristo eseguite da Bouts e delle loro varianti, non si conosce un vero e proprio prototipo (PÉRIER D’IETEREN 2006, pp. 181 sg., 223, 248). La formula di Bouts persiste anche dopo il 1500, com’è attestato da un dittico conservato a Hannover
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(WOLFSON 1992, p. 231). Nella tipologia di Bouts si conoscono anche figure di Cristo come quelle dei rilievi di Berlino e di Budapest, con il capo lievemente rivolto a sinistra; cfr. i dipinti di Bologna e di Digione (COLLOBI RAGGHIANTI 1990, n. 53; COMBLEN SONKES 1986, pp. 55-69). Dobbiamo ricordare che i dittici provenienti dai Paesi Bassi, e prodotti su larga scala, che rappresentavano il Cristo e la Vergine, furono accolti anche nelle collezioni italiane e sono citati negli inventari. È stupefacente che se ne trovino alcuni perfino negli inventari medicei (NUTTALL 2004, pp. 254-262, URBACH 2004, pp. 74-76). Neppure le opere presenti negli inventari medicei possono essere sempre identificate, come nell’inventario del 1492 (nell’anticamera di Pietro “uno panno fiendrescho, suvi la testa di Christo a Madonna”; oppure quello di Careggi nell’inventario del 1482: “nella antichamera di Giuliano uno panno fiandrescho nel antichamera colla teste di Nostro Signore e di Nostra Donna”, ma in entrambi gli inventari medicei sono citate anche raffigurazioni della sola testa di Cristo, come in quelli di Alessandro Nasi o Jacopo Pandolfini. Un possibile prototipo a cui Gregorio si è forse ispirato è il Cristo in atto di benedire di Memling (Genova, Palazzo Bianco, cat. n. 49), copiato da vari maestri italiani, come si evince dal dipinto di Philadelphia (cat n. 51) e da quello di Strasburgo (FRIEDLANDER 1967-1976, VIa (1971), n. 41D) . Gregorio dovrebbe aver visto o l’originale o qualcuna delle copie italiane, come dimostra il modellato dei capelli ondulati di Cristo, che
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terminano in riccioli ad anello (URBACH 2004, pp. 76-77). Il caso del ‘dittico’ di Berlino è importante per documentare l’accoglienza riservata in Toscana alla pittura fiamminga: mostra come una scultura toscana ha cercato di ‘tradurre’ e interpretare il linguaggio di un dipinto fiammingo. Il fatto che i collezionisti italiani fossero orgogliosi di possedere pitture fiamminghe è dimostrato anche dall’iscrizione su un cartellino della stessa epoca, tracciata da mano italiana su una Madonna attribuita a Jan Provost: “Pitto in Flandria / Presentato al Peri / AvGno M..R.Le / Nellano /1488” (STRASBURGO 2006, cat. n. 40). Zsuzsa Urbach Bibliografia: BLOCH 1967, p. 259; MIDDELDORF 1973, pp. 234-235, nota 4; ID. 1974, pp. 2, 5, nota 4; BERLINO 1986, n. 6, ripr.; SZMODIS-ESZLÁRY 2004, p. 54; URBACH 2004, pp. 63, 67-68; F. Caglioti in, BUDAPEST 2008, p. 135; F. Caglioti s.v. in Saur Allgemeines Kunstler Lexicon 2008 c.s.
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54. Piero di Cosimo (Firenze 1461/62-1521)
Paesaggio con san Girolamo (recto) Un putto e stemmi (verso) penna e inchiostro a carbone; mm 236 × 200 iscrizioni e timbri di collezione: in alto a destra in matita blu 7; in basso a sinistra timbro del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (L. 930). Sul verso in grafia antica mezzi? Laborum dulce lenimen ; con lo stesso inchiostro nella grafia dell’artista (?) in senso rovesciato in rapporto al putto: GLO/VI/S e non aliter mordaces diffugiunt solicitudines; nello stemma quinto (?) e bianco provenienza: fondo mediceo-lorenese? Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 7P
Il disegno, già tra gli anonimi fiorentini del secolo XV, è stato riconosciuto a Piero di Cosimo dal Berenson, insieme con l’altro foglio dello stesso soggetto. In quel caso si tratta di san Girolamo che si batte il petto con una pietra, inginocchiato davanti a una cappelletta nella roccia, ma eseguito a pietra nera naturale ricostituita o carboncino, in modo più rifinito, di dimensioni maggiori e composto di più pezzi di carta che lo identificano probabilmente come un cartonetto (FORLANI TEMPESTI 1970, p. 90, fig. 27; G. Dillon in, FIRENZE 1992, pp. 210-211, n. 10.3, ripr.; mm 618 × 592). Come studi preparatori i due fogli furono messi in relazione dallo studioso con la tavola giovanile di San Girolamo in meditazione dello stesso artista (Firenze, Fondazione Horne; GERONIMUS 2006, pp. 19-20, 40, 266, fig.18; diam. cm 74), dove rispetto al paesaggio, indubbiamente meno evoluto che nei disegni, la figura ha dimensioni maggiori, tiene la pietra in mano e non si percuote con essa in segno di contrizione, come nei disegni. Il formato della tavola è anche maggiore rispetto al cartonetto. Concettualmente e formalmente i paesaggi dei due fogli sembrano costituire uno svolgimento dei temi proposti dalla tavola Horne, il che suggerisce un’eventuale relazione con un dipinto posteriore, oggi disperso o mai eseguito. Il paesaggio 7P, pur disegnato a penna come altri più o meno dello stes-
so periodo tra i quali quelli di Leonardo del 1473, parimenti agli Uffizi e di Fra Bartolomeo dopo di lui (cfr. GERONIMUS 2006, figg. 152, 153, 208), si distingue per una grafia sciolta e abbozzata e per le ripetizioni che tradiscono una ricerca ancora in corso, probabilmente dovuta allo scopo di studio preparatorio per un quadro, ancora precedente all’ultima fase del cartone. A partire dal BERENSON (1903) il foglio in mostra è stato considerato un primo pensiero per il cartonetto, mentre per la Nuttall la roccia centrale del disegno, di dimensioni maggiori, è stata rielaborata nel foglio presente in mostra. Come hanno suggerito il Berenson, la Viatte, il Dillon e altri autori, i due disegni di Piero dimostrano la conoscenza di paesaggi nordici o neerlandesi; il primo parla di stampe contemporanee, fiamminghe o tedesche. Indubbiamente, anche in altre opere l’artista si dimostra sensibile ai raggiungimenti dell’arte nordica del Quattro e primo Cinquecento. Oltre che dai paesaggi ciò risulta da taluni ritratti da lui eseguiti, o da dipinti di tematica religiosa e profana (FERMOR 1993, pp. 125, 175; GERONIMUS 2006, pp. 47-48 e passim; il Rohlmann, in questo catalogo pp. 66-83). Nel caso dei due paesaggi disegnati dall’artista l’impostazione dell’elemento centrale, costituito da una roccia nuda e verticale con una cappelletta in basso, davanti alla quale è inginocchiata la piccola figura del Santo, sembra estranea alla tradizione fiorentina e effettivamente risentire di esempi fiamminghi. In questo contesto sono stati accostati a questo alcuni paesaggi con San Girolamo di Joachim Patinier (cat. n. 55), il maggiore rappresentante del genere nei Paesi Bassi, nato negli anni 1480-1485. Il problema è, a questo proposito, che nel Patinier non esistono, né per motivi cronologici possono esistere, rappresentazioni consimili risalenti o precedenti alla data in genere proposta per i disegni di Piero, e cioè gli anni ottanta-novanta dello stesso San Girolamo Horne e la Visitazione di Washington (Giglioli, Bacci, Dillon, Geronimus e.a.). Nonostante l’innegabile carattere fiammingo dei disegni in esame, è da escludere che siano esistiti nel Patinier dipinti o disegni di paesaggio precedenti alla datazione attuale dei due fogli di Piero: le prime opere di questo tipo del pittore fiammingo risalgono soltanto al 1510 circa o ad alcuni anni dopo. C’è da chiedersi pertanto, come ha proposto Paula Nuttall, se i disegni di Piero siano più tardi di quanto attualmente si pensi. È pur vero che, perché l’influsso di un artista come il Patinier potesse giungere a Piero, si dovrebbe posticipare l’esecuzione dei disegni in esame di almeno una quindicina o ventina d’anni, il che non può essere sostenuto con argomenti probanti. È da valutare pertanto se l’intonazione nordica dei disegni non
Hans Memling, Trittico di San Cristoforo: i santi Cristoforo, Mauro ed Egidio. Bruges, Groeningemuseum Piero di Cosimo, Paesaggio con san Girolamo. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
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sia piuttosto evocata dall’uso di altri esempi precedenti ai disegni finora non indicati come tali. A questo proposito si potrebbe pensare ai paesaggi dipinti di Hans Memling. Gli esemplari di cui oggi è riconosciuta la presenza precoce a Firenze furono modelli importanti per i pittori fiorentini nell’elaborazione dei paesaggi ‘alla fiamminga’ (cfr. cat. nn. 25, 34). Nessuno di essi però dimostra le caratteristiche concettuali delle rocce del disegno in esame. Esse si affacciano invece in un’altra opera dell’artista neerlandese, la parte mediana del Trittico di San Cristoforo o Trittico Moreel del 1484 (Bruges, Groeningemuseum; DE VOS 1994, pp. 238-24, n. 64, ripr.), nei particolari delle formazioni a strati verticali ed irregolari delle rocce e dell’eremita dentro una caverna, che con il lume di una lanterna segnala la scogliera. Essi sono sufficientemente vicini ai disegni di Piero di Cosimo per poter pensare che un’opera del Memling, forse anche un San Girolamo oggi sconosciuto, possa essere stato l’anello mancante di raccordo tra la cultura figurativa neerlandese e questi due paesaggi del maestro fiorentino, così come opere dello stesso artista nordico, almeno in parte oggi non più conosciute, furono modello per paesaggi dipinti da vari maestri attivi a Firenze dal Perugino, dal Ghirlandaio, dallo stesso Piero di Cosimo fino a Raffaello (si veda per questa problematica tra l’altro BELLOSI 1999, pp. 97-108). Il Griswold accomuna gli stemmi sul verso del 7P alla famiglia Felice; il Dillon suggerisce per l’iscrizione o motto GLO/VI/S un rapporto con Giuliano de’ Medici. Bert W. Meijer Bibliografia: FERRI 1890; BERENSON 1903, I, p. 131, II, p. 130, n. 1858 (Piero di Cosimo); GIGLIOLI 1928-1929, p. 172 (Piero di Cosimo); BERENSON 1938, pp. 154, 258, fig. 420; M. Fossi in, FIRENZE 1955, pp. 30-31, n. 80, fig. 19; BERENSON 1961, I, pp. 223, II, p. 431, n. 1858, fig. 346; BACCI 1966, p. 112; F. Viatte in, ROMA 1972, p. 6, al n. 2; BACCI 1976, p. 88, al n 15 fig. 151; GRISWOLD 1988, I, pp. 228-232, n. 19, II, ripr.; FISCHER 1989, p. 315, fig. 23; FORLANI TEMPESTI 1991, p. 58; G. Dillon in, FIRENZE 1992, pp. 209-210, n. 10.2, ripr. con ult. bibl.; FERMOR 1993, pp. 201, 202, fig. 98; GRISWOLD 1996 pp. 44, 48 nota 32; NUTTALL 2004, p. 209, fig. 222; GERONIMUS 2006, pp. 266, 240 nota 65, fig. 209
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55. Joachim Patinier (Dinant o Bouvignes 1480-1485 - Anversa 1524) e bottega
Paesaggio con San Girolamo tavola; cm 29 × 55 provenienza: Lucas Rem, Augusta; legato Molin, 1816; Giorgio Franchetti; donato allo stato italiano, 1916 Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, inv. n. CGF- d 134
Joachim Patinier fu il più influente paesaggista fiammingo del suo tempo, di fama vasta e immediata, e punto di partenza d’un filone del paesaggio che apre verso Pieter Breugel I e il paesaggismo fiammingo successivo. Dipinti di lui furono ben presto diffusi non soltanto nei Paesi Bassi ma anche a Venezia, Ferrara e altrove in Italia (MEIJER 2003-2004, pp. 227-228). Assai scarsi sono i dati biografici disponibili sull’artista e sulla sua brevissima stagione di fioritura. Iscritto come maestro alla corporazione d’Anversa nel 1515, egli era già deceduto nel 1524. Le sue opere certe, quelle eseguite personalmente e sotto la sue supervisione in collaborazione con la bottega, sono solo una trentina; delle cinque firmate, due sono al Prado (San Girolamo). Albrecht Dürer lo incontrò ad Anversa nel 1521 e nel suo diario lo indicò come “Il buon pittore di paesaggi” (per i dati biografici M.P.J Martens in, MADRID 2007, pp. 47-59). L’opera in esame dovette essere acquistata direttamente presso lo studio del Patinier da mercante augustano Lucas Rem (1481-1541), il solo cliente noto del nostro pittore. Lo dimostra lo stemma (d’oro al toro nero passante sormontato da un elmo cimato da un toro nero e con due lambrecchini d’oro e di nero) presente nell’angolo inferiore sinistro dell’opera in esame, e che ritorna in altri tre dipinti patinieriani, due a Philadelphia, uno di collezione privata (A. Vergara in, MADRID 2007, nn. 6, 13, e 27 per gli altri). La data dell’acquisto del nostro dipinto è probabilmente il 1516-1517, quando, secondo quanto il Rem scrisse nel suo diario, egli giunse a potersi permettere di comprare dipinti ad Anversa (KOCH 1968, pp. 9-12 per questi dati; A. Vergara in, MADRID 2007), e comunque precede il suo matrimonio (17 maggio 1518) con Anna Ochainin, il cui stemma appare insieme con quello del marito nel Riposo dalla fuga in Egitto di collezione privata ginevrina (F. Elsig in, MADRID 2007, pp. 194-197, n. 6, ripr.). I quadri di questo tipo, con San Girolamo che penitente nelle solitudini del deserto servivano al proprietario come guida per la meditazione nel proprio pellegrinaggio esistenziale, secondo la tesi del Falkenburg (1988, passim e in MADRID 2007, pp. 68-69). Nello sfondo troviamo l’episodio del leone curato da San Girolamo che ritrova l’asino rubato al convento dai mercanti, descritto nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze (ed. ROZE SAVON 1967, II, pp. 247-248). La stessa composizione appare in un altro dipinto uscito dalla bottega di Patinier. La tavola originale del Patinier al Musée du Louvre, di impianto identico ma con varie piccole differenze, pur senza modificare significativamente il rapporto tra altezza e larghezza, è assai più grande (cm 76, 5 × 137) e di qualità alquanto superiore del nostro dipinto, come notò anche il Friedländer che come altri studiosi prima e dopo di lui lo considerava autografo (FRIEDLÄNDER 1967-1976, IXb, n. 245 tav. 238; A. Vergara in, MADRID 2007, pp. 326-333, n. 24, ripr.). Per Gamba il dipinto della Ca’ d’Oro è opera di scuola; per il Michel e autori più recenti è opera di bottega o eseguita in collaborazione con la bottega. È logico pensare che la versione veneziana, più piccola, derivi da quella di dimensioni maggiori, tanto più che la pienezza formale-qualitativa pare meno consistente, e non solo a causa del formato. Il disegno sotto-
stante ha un carattere corsivo di schizzo con linee discontinue, ripetute e sovrapposte (BELLAVITIS 2007, p. 180). L’idea per la composizione del paesaggio e l’ambientazione, con la capanna di San Girolamo in primo piano sotto una scarpata ripida e rocciosa e un arco naturale al centro e un’apertura su un orizzonte lontano da una parte, non trova immediati riscontri nel paesaggio che il Patinier poteva conoscere dal vero nella sua patria Secondo il GIBSON (1989, p. 11) essa risale ad esempi italiani. A Firenze, ad esempio, Piero di Cosimo aveva eseguito verso gli anni novanta due disegni dello stesso soggetto (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi; v. cat. n. 54). Tuttavia sembra assai più probabile che il motivo della caverna con San Girolamo in una montagna formata di strati rocciosi verticali ed irregolari risalga invece ad altri esempi nordici. Di Hans Memling, per esempio, oggi non si conosce un tale S. Girolamo. Ma un suo dipinto come la parte mediana del Trittico di San Cristoforo o Trittico Moreel del 1484 (Bruges, Groeningemuseum; DE VOS 1994, pp. 238-244) offre indubbiamente spunti sorprendentemente simili, che probabilmente furono alla base sia delle invenzioni di Piero di Cosimo che dello stesso Patinier. Bert W. Meijer Bibliografia: GAMBA 1916, pp. 49-51; U. Nebbia in, FOGOLARI-NEBBIA MOSCHINI 1929, p. 126 (Patinier); FRIEDLANDER 1924-1937, IX (1931), pp. 112, n. 245, tav. IC; MICHEL 1953, pp. 236-238; HOOGEWERFF 1954, p. 25 (replica); KOCH 1968, pp. 10, 21, 32, 75, n. 10a, fig. 27; FRIEDLÄNDER 1967-1976, XIVb (1973), pp. 104, 123, n. 245a, tav. 238; FALKENBURG 1988, p. 108; KOLB 1998, pp. 172, 191; COLLOBI RAGGHIANTI 1990, p. 142, n. 270, ripr.; LIMENTANI VIRDIS 1997, pp. 51, 63, 72, ripr.; BELLAVITIS 2007, pp. 175-180, ripr., con ult. bibl.; A. Vergara in, MADRID 2007, pp. 332-333, 334-337, n. 25, ripr., con ult. bibl.
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56. Andrea del Sarto (Firenze 1486-1530)
Infanzia di Giuseppe Giuseppe interpreta i sogni del Faraone tavole; cm 98 × 135 iscrizioni: ANDREA DEL SARTO FACIEBAT nel pannello con l’Infanzia di Giuseppe; il monogramma AA (Andrea d’Agnolo) su entrambi i pannelli. provenienza: Firenze, Palazzo Borgherini (ca 1515). Nel 1584 le due tavole furono acquistate da Francesco I de’ Medici, ed esposte nella Tribuna degli Uffizi dal 1589 al 1638. Trasferite a Palazzo Pitti, risultano nell’appartamento del Gran Principe Ferdinando dal 1697 al 1761, e poi (dal 1782, cfr.ms. Riccardiano n. 4211, c. 11), nel Quartiere di Pietro da Cortona dove la nuova amministrazione lorenese allestiva la Galleria Palatina. Prelevate nel 1799 dall’esercito napoleonico e portate a Parigi, rientrarono a Firenze nel 1815 con gli altri capolavori di Palazzo Pitti recuperati. Dal 1819 per tutto il secolo furono esposte nella Sala di Marte. Furono spostate nella Sala di Flora intorno al 1912, riunendole ad altri dipinti della scuola fiorentina. Furono ricollocate nella Sala di Marte nel 1998 Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1912 nn. 87, 88
I due pannelli facevano parte della decorazione della camera nuziale, donata da Salvi Borgherini al primogenito Pierfrancesco in occasione del suo matrimonio nel 1515 con Margherita Acciaioli. Il Vasari che vide lo splendido ambiente arredato con “spalliere, cassoni, sederi e letto di noce, molto belli” (VASARI 1568, ed. Milanesi 18781906, V, p. 26), ne dà notizie nelle biografie degli artisti coinvolti. Baccio d’Agnolo, cui spetta anche il progetto del palazzo, è l’autore della ricca pannellatura in legno di noce (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1906, V, p. 352), in cui erano inseriti i dipinti con le storie di Giuseppe Ebreo eseguiti da Andrea del Sarto, dal Pontormo (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1906, VI, pp. 261-263), dal Granacci (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1906, V, pp. 342-343) e dal Bachiacca (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1906, VI, p. 455), probabilmente interpellati dallo stesso Baccio in quanto responsabile dell’impresa. Altri accenni sul “fornimento” della camera nuziale si ricavano dal racconto (VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1906, VI, pp. 261-263) della fiera difesa fattane da Margherita Acciaioli contro le mire di Giovan Battista della Palla, il quale durante l’assedio di Firenze del 1529-1530 tentò invano di ottenere le tavole dipinte da inviare al re di Francia Francesco I. Contributi recenti sull’arredo delle case fiorentine nel primo Cinquecento (cfr. LONDRA 2006) hanno chiarito che la camera nuziale, chiamata la camera della sala, situata al primo piano, costituiva il cuore della vita domestica, ma aveva anche una funzione di rappresentanza che ne giustifica la particolare ricchezza del mobilio, e la concentrazione lì e nell’adiacente anticamera, delle opere d’arte più importanti (cfr., ad esempio, sulla casa di Agnolo Doni: CECCHI 1987, Caglioti 2005). Di questa tradizione, la Camera Borgherini è l’esempio più famoso, anche se la ricostruzione dell’arredo, disperso dagli eredi a partire dal 1584, non ha ancora trovato una soluzione da tutti condivisa. I pannelli dipinti, riquadrati dagli intagli di Baccio d’Agnolo, decoravano la struttura del letto nuziale, ma anche la spalliera del lettuccio e le fronti dei cassoni, in una successione che doveva rispettare lo svolgimento del racconto biblico della complessa vicenda di Giuseppe ebreo, fautore del trasferimento di Israele in Egitto, dotato del dono di saper interpretare i sogni, e considerato nell’ambiente fiorentino del primo Cinquecento, il precursore del Cristo: il soggetto, ricco di motivi che si prestavano al parallelo con la storia terrena di Gesù, era particolarmente adatto alla decorazione della camera nuziale, anche per
l’importanza conferita alla capacità di Giuseppe di interpretare i sogni. Le due tavole d’Andrea del Sarto erano probabilmente inserite simmetricamente nella spalliera dei cassoni a fianco del letto: la prima, con L’infanzia di Giuseppe, doveva comunque trovarsi all’inizio della sequenza. Fra i due pannelli di Andrea dovevano susseguirsi gli episodi intermedi, cioè Giuseppe venduto a Putifarre, del Pontormo (Londra, National Gallery), Giuseppe condotto in carcere in seguito alla calunnia della moglie di Putifarre, del Granacci (Firenze, Uffizi), e La condanna del fornaio e la riabilitazione del coppiere, del Pontormo (Londra, National Gallery). La datazione che la critica propone per il ciclo oscilla tra il 1515, data del matrimonio, e il 1518 circa, quando si ritiene eseguita la tavola del Pontormo con la morte di Giacobbe e la benedizione dei figli di Giuseppe (Londra, National Gallery) che chiude la narrazione (COSTAMAGNA 1994, pp. 38, 128-130). Bisogna tener conto che la data del matrimonio costituiva l’occasione per la commissione del decoro della casa, che poteva esser deciso anche in seguito (AQUINO 2005). Comunque, se la considerazione moderna che l’arredo della camera nuziale dovesse esser terminato al momento dell’ingresso dei neosposi nella casa (BRAHAM 1979, nota 31 p. 762; R. Bartoli in FIRENZE 1996a, p. 248), non risponde alle consuetudini del tempo, l’analisi stilistica dei pannelli dei quattro maestri indica che il progetto dovette essere concluso in quel breve periodo. A tale datazione concorre in modo determinante, non solo per Andrea e per il Pontormo, ma altrettanto per il Granacci e ancor più per il Bachiacca, il rapporto con le stampe nordiche, che offrono i modelli per l’ambientazione, per le quinte architettoniche, per i motivi paesaggistici, per i costumi e i copricapi dei personaggi, recepiti e interpretati dai quattro fiorentini ognuno a suo modo ma con analoga immediatezza. Le desunzioni dalle incisioni del Dürer diffuse anche in Italia all’incirca tra il 1495 e il 1515, sono già state ben individuate dalla Nikolenko (1966) per il Bachiacca, dal von Holst (1974) per il Granacci, dallo Shearman (1965) per Andrea del Sarto, dal Costamagna (1994) per il Pontormo. E ora disponiamo del catalogo del Fara delle stampe del Dürer conservate presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, che è uno strumento eccezionalmente completo ed informato sulla fortuna di quelle incisioni, e sui riflessi puntuali nelle storie Borgherini (FARA 2007, ad vocem). Altrettanto è stata riconosciuta l’importanza per questo ciclo delle stampe di Luca di Leida, diffuse in Italia fino dal primo decennio del Cinquecento.
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In particolare nel caso delle due tavole di Andrea del Sarto, dalla scena di Cristo davanti ad Anna nella Piccola Passione del Dürer, databile sul 1510 (cfr. cat. n. 60), il personaggio ammantato e incappucciato inciso nello sfondo contro la colonna è ripreso letteralmente nella figura subito dietro il gruppo del Faraone che premia Giuseppe. All’incisione di Schongauer con la Salita al Calvario (cfr. cat. n. 61) s’ispira, se pur vagamente, il paesaggio della prima tavola di Andrea, mediata però piuttosto dalle soluzioni di Piero di Cosimo. Il rapporto diventa invece strettissimo con la Conversione di Saulo, con l’Ecce Homo e con Il Figliol Prodigo di Luca di Leyda (cfr. cat. nn. 57-59): lo sfondo della Conversione di San Paolo con la distribuzione dell’emergenza rocciosa al centro fra due vallate con colline boscose, è riecheggiata nella prima delle due tavole di Andrea, che ripropone semplificata in una dimensione domestica, la quinta architettonica de Il Figliol Prodigo, da cui derivano anche gli sproni rocciosi nel fondo a destra, nonché il primo a sinistra nel gruppo dei fratelli raccolti ad ascoltare il sogno del piccolo Giuseppe, diversamente ruotato ma vestito in modo analogo al primo personaggio di Luca a sinistra; e altrettanti sono l’impostazione architettonica e gli innumerevoli dettagli inseriti da Andrea nella sua seconda tavola, tratti dalla monumentale scena con l’Ecce Homo, dall’edificio con torre affiancato dall’arcata aperta sul fondo, ai due bambini in primo piano a destra. Ma una volta individuati i singoli motivi nordici inseriti da Andrea nei suoi due pannelli, come in tante altre sue opere giovanili, dal Noli me tangere ora collocato nel Cenacolo di San Salvi, alla Leda di Bruxelles, alle storie dello Scalzo, se ne deve concludere che il linguaggio pittorico in cui quegli elementi sono espressi, nulla ha a che vedere con i prototipi. Se il Bachiacca resta legato al modello inciso riproducendone la durezza del contorno, qui il discorso stilistico trasforma la fonte, che resta solo un interessante spunto iconografico. La nitida scansione dello spazio creata da Luca nell’Ecce Homo con le pareti, le finestre, le colonne, si trasforma nel pannello con Giuseppe interpreta i sogni del Faraone in uno scenario movimentato, non delimitato, dalle quinte architettoniche animate e percorse da agitate figurine còlte in azione: i motivi nordici sono sfruttati per inserirli in una logica spaziale e stilistica completamente diversa, vibrante e nervosa, accesa dai colori sfatti che evocano l’atmosfera eccitata del racconto. Il linguaggio libero in cui sono eseguite le due storie di Andrea del Sarto, la stesura con pennellate veloci dei colori intensi ammorbiditi dallo sfumato, riflette la sua fase intorno al 1515, fra la paletta di Dresda del 1512-1513, la Natività di Maria del chiostrino dei voti alla SS. Annunziata del 1514, la Predica del Battista del 1515 nel Chiostro dello Scalzo. Inoltre, la sintonia di stile, di tavolozza e di tecnica con le tavole del Pontormo, dipinte con accenti appena più estrosi ed espressionisti ma con modi così vicini da comportare una datazione nel momento del loro più stretto contatto, lascia pensare che il giovane allievo fosse coinvolto dallo stesso Andrea appunto intorno alla metà del secondo decennio. Infine, credo che le sottili distinzioni avvertite da gran parte della critica fra le due storie di Andrea, che sarebbero state eseguite ad uno o due anni di distanza l’una dall’altra, non reggano ad una rilettura senza pregiudizi. Il poggio erboso al centro della tavola con L’infanzia di Giuseppe, richiama più direttamente gli sfondi paesistici di Piero di Cosimo, rispetto alla spazialità più strutturata della scena con L’interpretazione del sogno del Faraone; ma l’identica esecuzione fresca, brillante, scanzonata e al tempo stesso studiatissima del paesaggio, le pose similmente drammatiche e gli stessi gesti contrapposti, la somiglianza dei dettagli architettonici, rendono difficile accettare l’ipotesi, del resto lontana da ogni logica, di un sensibile intervallo fra i due pannelli, collocabili insieme, in mancanza di una data precisa, fra il 1515 o poco prima (data della commissione) e la partenza di Andrea per la Francia nel 1518. Serena Padovani
Bibliografia: VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, V, pp. 26-27; VI, nota 1 p. 262; FREEDBERG 1963, I, pp. 38-40; II, pp. 53-56; SHEARMAN 1965, II, pp. 230-234; MONTI 1965, pp. 49-51, 136-139; VON HOLST 1974, pp. 143-144; BRAHAM 1979; C. Bernardini in, FIRENZE 1980a, pp. 255-257; A. Cecchi in, FIRENZE 1986, pp. 105-111; A. Cecchi in, NATALI-CECCHI 1989, pp. 65-66; COSTAMAGNA 1994, p. 124; R. Bartoli in, FIRENZE 1996a, p. 248; NATALI 1998, pp. 109-114; S. Padovani in, La Galleria Palatina 2003, II, pp. 44-45; B. Preyer in, LONDRA 2006, pp. 42-44
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Luca di Leida (Leida 1494-1533)
Il ritorno del figliol prodigo bulino; mm 184 × 247 (lastra) Parigi, Collezione Frits Lugt, Fondation Custodia, inv. n. 6646
L’opera rappresenta uno dei massimi raggiungimenti di Luca come incisore, in cui confluiscono in modo ammirevole gli interessi principali dell’artista: il gusto della narrazione, l’amore per il paesaggio e l’invenzione architettonica. Luca di Leida invita lo spettatore a ripercorrere la storia del figliolo prodigo: sullo sfondo a sinistra il giovane, dopo una vita dissoluta, si ritrova a fare il mandriano dei porci. In primo piano invece è rappresentato l’episodio chiave dell’incontro col padre, che lo accoglie con gioia. Nel contrapporre il padre misericordioso – riccamente vestito – e il figlio penitente – dall’aspetto stremato e mezzo inginocchiato – Luca dà prova della sua capacità di dare una dimensione psicologica alle narrazioni bibliche. Conferiscono profondità alla composizione due gruppi di figure disposti nelle vicinanze dei protagonisti principali. Nella resa del paesaggio a destra che prima scende per poi risalire in lontananza Luca supera se stesso: maneggiando il bulino con estrema finezza e sensibilità l’artista “dipinge” il susseguirsi dei piani, abbinando precisione nella descrizione degli elementi paesaggistici ad una ricchissima gamma di sfumature luminose (Per questa scoperta della prospettiva aera cfr. VASARI 1568, ed Milanesi 1878-1885, V, pp. 410-411: “usò una discrezione ingegnosa nell’intagliare le sue cose: conciosiaché tutte le opere che di mano in mano si vanno allontanando sono manco tocche, perché elle si perdono di veduta, come si perdono dall’occhio le naturali, che vede da lontano: e però le fece con queste considerazioni e sfumate e tanto dolci che col colore non si farebbero altrimenti”). Le quinte architettoniche a sinistra ricordano invece quelle dell’Ecce Homo del 1510 (cat. n. 58) ed in effetti questa incisione viene solitamente accostata cronologicamente a tale opera. L’artista fiorentino del Rinascimento che ha attinto con maggiore insistenza a questa fonte grafica è Francesco Ubertini, nominato il Bacchiacca. In un dipinto con Tobia e l’angelo (ubicazione sconosciuta) l’intero sfondo paesaggistico è impostato in base all’incisione sotto esame (NIKOLENKO 1966, fig. 34). In molte altre sue opere le quinte architettoniche sullo sfondo vengono usate per riempire l’angolo superiore a sinistra (Ibid., figg. 25, 28, 29, 33, 35, 40, 45, 46, 69). Nel dipinto raffigurante la Carità, custodita nel Metropolitan Museum di New York, questo procedimento porta ad una singolare combinazione di un nudo classicheggiante in primo piano, raffigurato in contrapposto, e uno sfondo paesaggistico di stile nordico. Come dimostra il tondo con Cristo sul Monte degli Ulivi (Coll. Lycett Green, City of York Art Gallery) il Bacchiacca è rimasto colpito anche dalla figura del figliol prodigo, mezzo inginocchiato e con le mani unite, che l’artista trasmutò in Cristo in preghiera (Ibid., fig. 61). Nel secondo decennio del Cinquecento anche Andrea del Sarto si apre alle suggestioni di matrice oltramontana, proponendo desunzioni da stampe come questa. Nel dipinto raffigurante Leda e il Cigno di proprietà dei Musées des Beaux-Arts di Bruxelles, già attribuita al Franciabigio, la citazione riguarda la struttura architettonica con la porta aperta (CECCHI-NATALI 1989, p. 60, n. 23, ripr.). Nella tavola con l’Infanzia di Giuseppe (cat. n. 56), la distribuzione delle figure nel paesaggio e il motivo di uomini che si affacciano ad una porta di un edificio situato sulla sinistra sembrano liberamente ispirati all’incisione qui esposta. Quando intorno al 1528-1530 Del Sarto ricevete l’incarico di fare un
quadro con “Abramo in atto di voler sacrificare il proprio figliuolo” da parte di Giovambattista di Marco della Palla, agente fiorentino per conto di Francesco I re di Francia, l’artista coglie l’opportunità di inserire nella sua grandiosa composizione, sullo sfondo a sinistra, degli alberi che nell’incisione di Luca occupano il centro della composizione. Nello stesso dipinto il paesaggio a destra risulta ripreso dal pannello centrale di un trittico centrale di Jan de Beer, oggi a Berlino, con la Lamentazione (HÄRTH 1959, per l’attribuzione a De Beer cfr. EWING 1978, II, pp. 275-279 con bibliografia precedente; Isolde Härth segnala anche un’altra derivazione dal dipinto di De Beer, la cui provenienza fiorentina appare dunque incontestabile: un disegno al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi attribuito dalla studiosa ad Andrea Del Sarto, ma ricondotto ora a Francesco Brancadori (cat. n. 64). Gert Jan van der Sman Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, VII, pp. 383-384, n. 78; VOLBEHR 1888, pp. 20-21, n. 72; HOLLSTEIN 1949-2007, X, p. 114, n. 78: M. Fossi Todorow in, FIRENZE 1963, pp. 18, 28, 38, n. 18, fig. 18; PETRIOLI 1966, n. XXVIII; The Illustrated Bartsch 1978-, XII, p. 211; J.P. Filedt Kok in, AMSTERDAM 1978, pp. 34-35, 154, n. 78, ripr.; E. Jacobowitz, S. Stepanek in, WASHINGTON-BOSTON 1983, pp. 94-95, n. 29, ripr.; PARIGI 1983, p. 18, n. 48; L. Alberton Vinco da Sesso in, BASSANO 1984, pp. 56-57, n. 9; SALOMON 1994, nn. 33, 34, ripr.; KOK-CORNELIS-SMITS 1996, p. 96, n. 78, ripr.; CORNELIS-FILEDT KOK 1998, p. 73; MATILE 2000, pp. 71-72, n. 36, ripr.
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58. Luca di Leida (Leida 1494-1533)
Ecce Homo bulino; mm 288 × 454, esemplare di primo stato iscrizioni: sulla pietra nell’angolo inferiore destra 1510 e L Amsterdam, Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet, inv. n. RP-P-OB-1649
Scrive il Vasari a proposito dell’opera incisa del Nostro “ma quello che più che altro diede nome e fama a Luca, fu una carta grande, nella quale fece la Crucefissione di Cristo, e un’altra, dove Pilato lo mostra al popolo, dicendo Ecce Homo: le quali carte, che sono grande e con gran numero di figure sono tenute rare”. La prima opera è conosciuta oggi come Il Calvario (Bartsch 74) e propone una moltitudine di personaggi in un ampio paesaggio con sulle sfondo il momento culminante della passione di Cristo. La seconda corrisponde all’opera qui descritta. Nella composizione il ruolo di Pilato – a cui accenna il Vasari – è praticamente trascurabile. Come è stato spesso sottolineato, Luca ha stravolto la tradizione iconografica ponendo la scena principale sullo sfondo e dando enfasi all’umanità responsabile delle sofferenze di Gesù. Personaggi di vario genere e rango sociale riempiono il primo piano: nobili, soldati, orientali, bambini, tutti colti realisticamente in una grande varietà di fisionomie e costumi. L’incisione di Luca mette in evidenza il momento di contestazione che segue la presentazione da parte di Pilato, quando il popolo – infervorato – esprime il giudizio che Egli deve essere crocefisso. La gestualità e teatralità che conferiscono vita alla narrazione sono forse da collegare alla tradizione delle sacre rappresentazioni. Sotto il profilo formale risulta particolarmente grandiosa l’orchestrazione della scena, in cui la profondità è raggiunta dal complesso succedersi di quinte di architetture, rese con grande precisione e finezza. Per la fisionomia degli edifici, Luca si è ispirato, almeno in parte, all’architettura della sua città natale. La torre al centro è stata identificata come il Gravensteen, la vecchia prigione della città di Leiden. Ma in questa sede è da sottolineare anche come l’utilizzo sapiente della prospettiva permetta all’artista di distribuire un elevatissimo numero di personaggi all’interno della composizione. La combinazione di grandiosità di respiro e profusione di dettagli ha infatti determinato la risonanza dell’incisione sotto esame in ambito fiorentino. Derivazioni dall’incisione di Luca di Leida si possono trovare nelle opere di Franciabigio, Andrea Del Sarto e Pontormo. Nella tavola con la Storia di Betsabea di Franciabigio, custodita a Dresda, egli si dimostra tributario a Luca sia per quanto riguarda l’uso delle quinte architettoniche che per quanto riguarda le figure in costumi orientali (MCKILLOP 1974, pp. 88, 168-169). La tavola era destinata all’anticamera di Giovanni Maria Benintendi, e andava dunque ad incastonarsi in fornimenti lignei assai ricchi, determinando il formato orizzontale e il carattere narrativo del dipinto. Avevano una destinazione simile i dipinti di Del Sarto e del Sarto con le Storie di Giuseppe, commissionate da Pierfrancesco Borgherini per la sua camera nuziale. Nel dipinto con Giuseppe spiega i sogni del Faraone (cat. n. 56). Del Sarto cita sia elementi architettonici come l’arco con sfondo paesaggistico che il gruppo familiare con il bambino con il suo giocattolo (FREEDBERG 1963, p. 71; SHEARMAN 1965, II, p. 234). Anche il Pontormo nel dipinto che descrive l’episodio di Giuseppe in Egitto, ora nella National Gallery di Londra, fa un uso mirato dell’incisione di Luca, proponendo uno sfondo paesaggistico con strutture architettoniche direttamente prese
dall’Ecce Homo (COSTAMAGNA 1994, p. 130). Per il Pontormo questa citazione da Luca di Leida coincide con un generale interesse per le stampe nordiche, che raggiunge il suo culmine con gli affreschi della Certosa, di chiara ispirazione düreriana. Gert Jan van der Sman Bibliografia: VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-85, V, p. 410; VAN MANDER 1604, f. 212r; SANDRART 1675, p. 239; BARTSCH 1803-1821, VII, pp. 378-379, n. 71; VOLBEHR 1888, pp. X, 19, n. 66; HOLLSTEIN 1949-2007, X, p. 106, n. 71; M. Fossi Todorow in, FIRENZE 1963, pp. 18, 28, 37, n. 16, fig. 15; PETRIOLI 1966, n. XXVII, ripr.; The Illustrated Bartsch 1978-, XII, p. 203; J.P. Filedt Kok in, AMSTERDAM 1978, pp. 32-34, 153, n. 24, ripr.; E. Jacobowitz, S. Stepanek in, WASHINGTON-BOSTON 1983, pp. 96-97, n. 30, ripr.; PARIGI 1983, pp. 16-17, n. 43, ripr.; SALOMON 1994, n. 41, ripr.; KOK-CORNELISSMITS 1996, p. 91, n. 71, ripr.; CORNELIS-FILEDT KOK 1998, pp. 29, 73, fig. 12; MATILE 2000, pp. 13, 69, n. 31, ripr.
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59. Luca di Leida (Leida 1494-1533)
La conversione di Saulo bulino; mm 283 × 418, esemplare di primo stato iscrizioni: sulla lastra in basso verso destra L e 1509 Amsterdam, Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet, inv. n. RP-P-OB-1687
In questa incisione, che propone il tema della conversione di Saulo, raccontata negli Atti degli Apostoli, Luca di Leida sceglie per la prima volta un formato grande e rettangolare, disponendo il racconto in senso orizzontale. Va sottolineato come intorno al 1509 l’impiego di questo formato non era (più) in uso nei Paesi Bassi, anche perché il Dürer – stimatissimo anche tra gli incisori fiamminghi ed olandesi di inizio Cinquecento – aveva una nettissima predilezione per i formati verticali. Nell’opera incisa da Luca di Leida la scelta per le composizioni orizzontali si sviluppò insieme alle sperimentazioni stilistiche ed iconografiche. In queste opere l’artista olandese propone complessi gruppi di figure in ampi quanto elaborati contesti paesaggistici e architettonici. Non di rado l’incisore si permette di relegare l’episodio principale sullo sfondo, facendo risaltare in primo piano altri aspetti della narrazione come ad esempio gli effetti che l’episodio produce sui protagonisti (cat. n. 60). In questo foglio il momento drammatico dell’accecamento di Saulo è minuziosamente descritto sul lato sinistro, sullo sfondo. Potenti raggi di luce scendono dal cielo, folgorando il futuro apostolo. Ma a dominare la scena sono gli uomini in primo piano con i loro cavalli e cani. La folla di personaggi che viaggia con Saulo verso Damasco è composta da uomini e soldati in costumi dalle diverse fogge. Si contano più di venti figure, abilmente disposte in uno spazio relativamente compatto. Nel modo di distribuire le figure è ancora forte il richiamo dellla famosissimo Trasporto della Croce di Martin Schongauer (cat. n. 61). Nell’opera di Luca di Leida i personaggi risultano tuttavia descritti con maggiore realismo, e con maggiore finezza, soprattutto nei volti, rendendoli più umani. Questa incisione così ricca di particolari ebbe notevole risonanza nella Firenze dei primi decenni del Cinquecento. Il giovane Andrea del Sarto ne fa uso già nel 1510, quando dipinge la Punizione dei peccatori nel Chiostrino dei voti della Santissima Annunziata. Certi elementi paesaggistici come anche i folgoranti raggi di luce che scendono da cielo sono chiaramente ripresi dalla stampa qui discussa (MCKILLOP 1974, p. 190). Nella tavola con Giuseppe spiega i sogni al Faraone, uno dei più alti raggiungimenti della maturità di Andrea (cat. n. 56), ritroviamo il gruppo di alberi che chiude lo sfondo paesaggistico sul lato sinistro. Successivamente, tra il 1520 e il 1550 circa, anche il Bacchiaca traeva più volte ispirazione dall’incisione di Luca di Leida: nel Sant’Acasio degli Uffizi, nel Mosè che batte la rupe di Edimburgo e nella Raccolta della manna della National Gallery di Washington sono ancora gli elementi paesaggistici a costituire l’elemento chiave. Invece, nella Conversione di San Paolo della Rochester Memorial Art Gallery ritroviamo il motivo dell’uomo con il tamburo (H.S. Merritt in, BALTIMORA 1961, pp. 30-31; MERRITT 1963, p. 260; PETRIOLI 1966, n. XXII). Gert Jan van der Sman
Bibliografia: VASARI 1568, ed. Milanesi 1878-1885, V, p. 410; VAN MANDER 1604, f. 212r; SANDRART 1675, pp. 239-240; BARTSCH 1803-1821, VII, pp. 394-395, n. 107; VOLBEHR 1888, pp. IX, 31, n. 116; HOLLSTEIN 1949-2007, X, n. 107; M. Fossi Todorow in, FIRENZE 1963, pp. 18, 28, 38, n. 10, fig. 14; PETRIOLI 1966, n. XXII; The Illustrated Bartsch 1978-, XII, p. 240; J.P. Filedt Kok in, AMSTERDAM 1978, pp. 27-29, 156, n. 16, ripr.; PARSHALL 1978, pp. 222-224; E. Jacobowitz, S. Stepanek in, WASHINGTONBOSTON 1983, pp. 76-77, n. 19, ripr.; PARIGI 1983, pp. 19-20, n. 57; L. Alberton Vinco da Sesso in, BASSANO 1984, pp. 54-55, n. 4; SALOMON 1994, n. 25, ripr.; KOKCORNELIS-SMITS 1996, p. 113, n. 107, ripr.; CORNELIS-FILEDT KOK 1998, pp. 29, 31, fig. 13; MATILE 2000, p. 65, n. 27, ripr.
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60. Albrecht Dürer (Norimberga 1471-1528)
Cristo davanti ad Anna xilografia; mm 126 × 98 iscrizioni: in basso a destra AD Amsterdam, Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet, inv. n. RP-P-OB-1332
Nella sua piccola Passione, famosissima serie di trentasette xilografie, Dürer dà ampio spazio alle cosiddette presentazioni di Gesù arrestato davanti alle autorità religiose e laiche, in sintonia con la tradizione delle sacre rappresentazioni in area germanica (TSCHEUSCHNER 1904-1905, p. 439; BERLINER 1928-1929, pp. 314-316). In spazi relativamente ristretti il maestro di Norimberga gestisce con eccezionale abilità inventiva tutta una serie di soluzioni sul problema del rapporto tra figure e spazio. La sua virtuosità compositiva non va a scapito dell’espressività. Questa scena – strutturata su più livelli e dal movimento diagonale ascensionale – è dominata infatti dalla brutalità delle guardie dei Giudei, che conducono con forza Cristo davanti ad Anna, il sacerdote suocero di Caifa. Cristo con le mani legate dietro la schiena rudemente tirato per i capelli, è costretto a inchinarsi, mentre Anna raffigurato con una lunga barba e seduto in secondo piano sotto un baldacchino, osserva, immobile, la scena, circondato da alcune figure dai costumi orientali. Il ruolo assegnato al sacerdote è stato messo in rapporto con il testo di Benedictus Chelidonius, che accompagnava ognuna delle immagini facenti parte della piccola Passione, pubblicata in forma di libro. Nel suo componimento poetico relativo alla scena qui discussa Chelidonius caraterriza Anna come “un uomo esile, ma rivestito di porpora e oro” (cfr. SCHOCH-MENDE-SCHERBAUM 2002, p. 306). Nonostante le loro piccole dimensioni tutte le stampe della Piccola Passione, composte da Dürer tra il 1508 e il 1510 per essere poi riunite in volume nel 1511, ebbero singolare fortuna in Italia (FARA 2007). Come ha puntualizzato John Shearman, Andrea del Sarto utilizzò motivi della stampa in due occasioni. L’uomo incappucciato appoggiato alla colonna sullo sfondo ha costituito il punto di partenza per una delle figure al centro della tavola con Giuseppe spiega i sogni al Faraone (cat. n. 56), dipinto da Andrea per la “camera” di Pierfrancesco Borgherini. Più evidente ancora è il rapporto con l’affresco con la Cattura di Cristo nel Chiostro dello Scalzo. L’uomo seduto alla sinistra di Erode ha infatti lo stesso tipo di cappuccio e una barba altrettanto lunga (SHEARMAN 1965, II, pp. 234, 302). Gert Jan van der Sman Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, VII, n. 28; HOLLSTEIN 1954-, VII, p. 120, n. 137; The Illustrated Bartsch 1978-, 10 (Commentary), p. 276, n. 228; SCHOCH-MENDE-SCHERBAUM 2002, pp. 305-306, n. 198, ripr. (con bibl. prec.); FARA 2007, pp. 219-220, n. 90-o, ripr.
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61. Martin Schongauer (Colmar ca 1460-1491)
La salita al Calvario incisione a bulino; mm 286 × 430 iscrizioni: in basso al centro M + S Amsterdam, Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet, inv. n. RP-P-OB-1015
La Salita al Calvario costituisce l’incisione più famosa di Schongauer, che si distingue per le sue grandi dimensioni e per la sua singolare complessità formale. L’episodio biblico, descritto soltanto sommariamente dai quattro evangelisti, diventa un pretesto per una narrazione visiva ricchissima di dettagli e dai ritmi incalzanti. Nell’incisione, un andamento da destra verso sinistra è abilmente collegato a un graduale movimento in profondità. In mezzo a una folla di figure emerge, al centro della composizione, la figura di Cristo, che si abbatte al suolo e che si rivolge allo spettatore con uno sguardo che invita alla compassione. Notevole è il contrasto – voluto – con i movimenti concitati dei manigoldi che lo circondano. Il Cristo portacroce è accompagnato da una densa folla composta da cavalieri in costumi orientali, soldati e umili mendicanti, tutti realisticamente caratterizzati attraverso un uso raffinato del bulino, dai tratteggi particolarmente fitti. Nell’affollatissimo primo piano a destra dominano i più arditi contrasti di bianco e nero. Nella parte sinistra le gradazioni chiaroscurali appaiono commisurate alla distanza dei piani. Questa incisione deve il suo respiro compositivo anche all’ampio paesaggio in lontananza, che copre tutta la larghezza del foglio comprendendo anche il gruppo della Madonna che sviene, assistita da San Giovanni e le pie donne. Gli studiosi sono concordi nell’affermare che questo capolavoro, databile tra il 1475 e il 1485 circa, trae ispirazione da un quadro perduto di Jan van Eyck (o di un suo seguace) noto soltanto attraverso copie e derivazioni, la più significativa e autorevole delle quali è ritenuta una tavola del Cinquecento conservata al Museo di Budapest (FAGGIN 1968, pp. 87-88, n. 2). Un finissimo disegno a penna di fine Quattrocento, conservato presso l’Albertina di Vienna, propone un’altra interpretazione dello stesso soggetto, a testimonianza dell’importanza storica dell’invenzione eyckiana (F. Koreny in, WASHINGTON 1984, pp. 204-205, n. 22). È possibile che Schongauer abbia conosciuto la composizione di Van Eyck o della sua scuola durante un suo (presunto) viaggio nelle Fiandre o tramite il suo maestro Casper Isenmann. Né si deve escludere che Schongauer si servì di una copia antica, su pergamena o carta, giuntagli nella bottega di Colmar. L’interesse da parte di Schongauer per la pittura fiamminga di inizio secolo ha comunque radici più profonde: il maestro di Colmar ebbe una doppia formazione di orafo e pittore che lo spinse a superare i limiti dell’arte della stampa. Egli è stato tra i primi grandi incisori capaci di introdurre effetti pittorici nell’arte dell’incisione, andando oltre il linearismo dei suoi precursori come il Maestro E.S. Il raffronto tra la composizione di Van Eyck e l’incisione di Schongauer evidenzia come l’incisore, nella migliore tradizione tardogotica renana, si dimostra incline ad accentuare la drammaticità del racconto biblico: le forme e i movimenti appaiano più angolosi, le espressioni talvolta più caricaturali. Alcune figure del foglio mostrano caratteri moreschi e che aiutano a ipotizzare contatti con il mondo spagnolo o portoghese, anche se un presunto viaggio nella penisola iberica per il momento non è confermato dalle fonti scritte. La complessità dell’opera, unita alla profusione dei particolari, ha fatto sì che l’incisione diventasse tra le opere grafiche più ammirate nell’Europa del Rinascimento (per la penisola italiana cfr. QUEDNAU 1983, p.
167; MANCA 1994, pp. 226-227). Nella Firenze dell’ultimo Quattrocento e del primo Cinquecento le incisioni di Schongauer costituirono comunque materiale di studio e di ispirazione per molti artisti, come testimonia il famoso episodio raccontato dal Condivi e dal Vasari, riguardante il giovane Michelangelo che copiò la stampa con le Tentazioni di Sant’Antonio (NUTTALL 2004, pp. 140-143, con bibl. prec.). Derivazioni dell’opera qui discussa si possono rintracciare nei disegni giovanili di Fra Bartolomeo e in qualche opera di Andrea del Sarto. Ad inizio carriera, tra il 1500 e 1505 circa, Fra Bartolomeo eseguì dei disegni a penna con delle scene della passione riempite di figure longilinee, con caratteri quasi gotici. Proprio in questi disegni si notano motivi ispirati alla grande incisione di Schongauer, nello specifico in due disegni custoditi nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (inv. 1235 E e 1236 E) figure di manigoldi e lanzichenecchi sono state riconosciute come ricordi della composizione del maestro tedesco (C. Fischer in, FIRENZE 1986a, p. 38 al n. 6). Di carattere molto differente – se vogliamo più occasionale – sono le derivazioni operate da Andrea del Sarto. Ne sono un esempio l’affresco con la Punizione dei peccatori del ciclo di San Filippo Benizi (Firenze, Santissima Annunziata, Chiostrino dei Voti) dove il cane in primo piano è fedelmente ripreso dall’incisione qui esposta (SHEARMAN 1965, p. 200) e la tavola con Giuseppe spiega i sogni al Faraone, dove sono inseriti degli uomini con copricapo orientali (cat. n. 56). Gert Jan van der Sman Bibliografia: LEHRS 1908-1934, 5, pp. 69-76, n. 9; KOCH 1955; BAUMGART 1978, p. 8, tav. XII; COLMAR 1991, pp. 366-369, n. G83, ripr.; LANDAU-PARSHALL 1994, p. 53, ripr.; MIROTT 1994, pp. 98-100; HUTCHINSON 1996, pp. 36-40
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Jan de Beer (Anversa ca 1475 - ca 1528) bottega
Compianto di Cristo tavola, cm 54,4 × 39,6 provenienza: vendita Berlino, Rosen, 18 novembre 1957, n. 19; vendita Amsterdam, Christie’s, 9 maggio 2001, n. 106, ripr. (come Maestro del martirio di San Giovanni) Aquisgrana, Suermondt-Ludwig Museum, in prestito da collezione privata olandese
Questa piccola tavola di collezione privata olandese appartiene a un genere pittorico molto in voga ad Anversa nei primi del Cinquecento, contraddistinto da ricchi costumi e architetture minutamente descritti, nonché da pose caricate ed espressive, atte a incantare lo spettatore. La grande richiesta del mercato determinò una funzionale pratica di bottega, sì che stessi sfondi paesaggistici venivano impiegati in opere diverse come quinte mobili, e la tipologia delle figure si ripeteva identica o con varianti. Tali considerazioni riguardano anche il Compianto presente in mostra. Realizzata nella bottega di Jan de Beer, l’opera si rivela infatti, nelle figure, la variante di un Compianto di Cristo conservato a Torino (EWING 1978, pp. 141, 308; D.C. Ewing in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 70-72), mentre nella scena paesaggistica sulla destra la copia fedele di una rappresentazione già presente nel trittico di Jan de Beer, oggi a Berlino (per il trittico di Berlino cfr. FRIEDLÄNDER 1915, p. 52; ID. 19671976, IX (1974), p. 69, n. 23, tav. 18; EWING 1978, pp. 60-62,140-141, 275-279, 340, ripr.; VAN DEN BRINK 2004-2005, p. 358, n. 23; P. van den Brink in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 126-128, fig. 2). Il dipinto di Berlino mostra, davanti alla città sullo sfondo, anche due cavalieri che si ritrovano in un disegno agli Uffizi che, di quell’opera, copia il paesaggio. Andrea del Sarto riprende a sua volta, tra il 1528 e il 1530, questa variante del paesaggio nelle tre versioni da lui realizzate del Sacrificio di Isacco (Härth 1959, si veda cat. n. 63). Pertanto si può supporre che il trittico di Berlino sia stato esportato in Italia poco dopo la sua realizzazione. La provenienza del Compianto esposto in mostra è invece sconosciuta. Pur basandosi su spunti compositivi diversi, l’artista ottiene nell’opera un insieme coerente ed espressivo, in cui si coglie l’accordo tra il paesaggio e il gruppo delle figure. A sinistra, davanti ad un cielo buio e minaccioso, si erge il Monte del Calvario con il sepolcro che grava pesantemente sulle figure, quasi volesse schiacciarle. Dalla croce spoglia, in alto, si sviluppa un moto discendente: dalle scale, attraverso le figure che scendono dalla montagna, a Maria accasciata, sino al Cristo deposto dalla croce, ora sdraiato a terra. A questa discesa, tuttavia, corrisponde a destra una speranzosa ascesa. Il corpo di Cristo viene sollevato, la linea perpendicolare del suo portatore trova continuità nel tronco dell’albero che si spinge, pieno di vita e forza, verso l’alto, allargando tutto il suo ricco fogliame, mentre dietro ad esso ormai spunta l’alba del nuovo giorno: sono tutte metafore della Risurrezione di Cristo. Si evoca così nell’episodio del Compianto sia la Passione che l’aveva preceduto, sia la Resurrezione ormai prossima. Partendo dall’unico episodio del Compianto l’osservatore può meditare l’intera storia della Passione e della Pasqua. Con una tecnica compositiva analoga Jan de Beer riunisce anche le tre scene del trittico di Berlino in un unico insieme teologicamente ben ponderato. Qui, le analogie formali dei tre episodi raffigurati nelle ali e nella tavola centrale sottolineano il loro legame contenutistico. Come la giovane Maria, nell’ala sinistra, è seduta a terra girata verso sinistra mentre tiene in grembo il suo Bambino, così, nella tavola centrale, la matura madre di Dio, volta nella stessa direzione, è seduta a terra tenendo ancora suo Figlio in grembo, ormai adulto e morto (cfr. EWING 1978, p. 141).
Nello sportello sinistro, sant’Anna cerca l’attenzione del Bambino con una pera attirandolo così verso il libro aperto: Gesù già si tende verso il suo ruolo salvifico nonché verso il suo destino profetizzato nei libri del Vecchio Testamento. Al moto ascendente del Bambino che si spinge in alto verso sinistra corrisponde, nel pannello centrale, un moto parallelo discendente che parte dal culmine della croce e, attraverso le scale, giunge fino al corpo deposto. La Salvazione si è compiuta, Cristo alzato sulla croce ha realizzato il suo Sacrificio e alla fine del suo cammino terreno è ritornato, scendendo, nel grembo della madre. Al lamento estatico di coloro che compiangono il Cristo risponde, nello sportello destro, infine san Francesco che medita sulla Passione. La sua compassione è tale da far apparire un crocifisso in cielo dal quale si imprimono sul suo corpo le stimmate di Cristo. Per la terza volta una linea diagonale nella composizione collega la parte alta a sinistra con la parte in basso a destra. Come nel pannello centrale Cristo viene deposto dalla croce in alto a sinistra, così manda ora dal crocifisso elevato in cielo, in alto a sinistra, le stimmate a san Francesco in terra. Nel trittico di Berlino non solo si offre una delicata anticipazione della Passione nell’ala sinistra, ma essa, nell’ala destra, viene immediatamente rivissuta attraverso la meditazione di un santo. È a questa riflessione sulla Passione di Cristo, rappresentata nella tavola centrale, che l’osservatore deve prendere parte, unendosi alla cerchia delle figure che Lo compiangono. Il successo di Jan de Beer proprio sul mercato dei dipinti in Italia assicurò ulteriori importazioni delle sue opere al Sud. Di fatto, il suo capolavoro, la monumentale Adorazione dei Magi nella Pinacoteca di Brera a Milano, si trovava nel Cinquecento nella chiesa veneziana di Santa Maria dei Servi (D. Ewing in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 64-67, n. 21, ripr.). Proprio le tendenze anticlassiche nella pittura italiana del primo Cinquecento avrebbero risentito del fascino di tali opere. Rimane, tuttavia, la questione se anche i manieristi fiorentini, come per esempio Pontormo, si siano lasciati ispirare dall’opera berlinese nonché dalla sinuosità espressiva delle figure di Jan de Beer. Michael Rohlmann Bibliografia: EWING 1978, pp. 141, 308, ripr.; VAN DEN BRINK 2004-2005, p. 168; D.C. Ewing in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 70-72, n. 23, ripr.
Jan de Beer, Trittico con il Compianto di Cristo (tavola centrale), Madonna con Bambino e sant’Anna (sportello sinstro) e San Francesco riceve le stimmate (sportello destro); tavola centrale: cm 49,5 x 33,5, ogni sportello cm 50 x 13,5. Berlino, Staatliche Museen preußischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie
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63. Andrea del Sarto (Firenze 1486 - Firenze 1530)
Sacrificio di Isacco tavola; cm 98 × 69 provenienza: ca 1529 eseguito per Paolo Terrarossa; Escorial, re Carlo Spagna; 1814 nell’inventario del castello di Aranjuez
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Madrid, Museo Nacional del Prado, inv. n. 336
Del Sacrificio di Isacco di Andrea del Sarto, esistono tre versioni autografe, realizzate tra il 1528-1529 e il 1530. All’inizio dell’estate del 1528, Giovanni Battista della Palla (cfr. CECCHI 1986, pp. 53-54; ELAM 1993; COX REARICK 1994, pp. 247-249; ID. 1996, pp. 83-88) era tornato a Firenze da un viaggio diplomatico presso la corte francese, con l’incarico di acquistare nella città toscana, per conto del sovrano, sculture antiche e opere pittoriche contemporanee di alta qualità o, in alternativa, di commissionarle. Fu Andrea del Sarto, che a sua volta aveva compiuto un viaggio in Francia dieci anni prima, a ricevere l’incarico per la realizzazione di due opere: una Carità (oggi a Washington, National Gallery of Art) e un Sacrificio di Isacco. La prima versione di quest’ultimo è quella del Cleveland Museum of Art, che il del Sarto lasciò incompleta (FREEDBERG 1963, I, pp. 77-78; II, pp. 147-149; SHEARMAN 1965, I, p. 110; II, 269-270; NATALI-CECCHI 1989, pp. 126-127; NATALI 1998, p. 173), probabilmente per problemi di tipo compositivo, in particolare nella concatenazione dell’angelo in volo con Abramo. Vasari sostiene che Paolo da Terrarossa (cfr. SHEARMAN 1965, II, p. 282), vista la bozza del dipinto, ne abbia a sua volta commissionata una copia di dimensioni ridotte, identificabile con la versione di Madrid (FREEDBERG 1963, I, p. 79; II, p. 148; SHEARMAN 1965, II, pp. 281-282; NATALI-CECCHI 1989, pp. 128-129; NATALI 1998, p. 173). Questa versione fa in parte riferimento alla versione di Cleveland, ma corrisponde in altri dettagli alla versione del Gemäldegalerie di Dresda, costituendo forse una sua anticipazione. La composizione di Madrid risulta allargata verso l’alto, si che l’angelo può muoversi più liberamente sopra Abramo e instaurare con lui un dialogo di sguardi. Il grande dipinto di Dresda è invece, probabilmente, la versione definitiva dell’opera commissionata per Francesco I (FRAENCKEL 1935, pp. 73-74, 134-135, 227; FREEDBERG 1963, I, pp. 78-79; II, pp. 147-148; SHEARMAN 1965, I, pp. 111, 147; II, pp. 280-281; NATALI-CECCHI 1989, pp. 130-131) che, tuttavia, non raggiunse mai la sua destinazione, poichè, con la fine della Repubblica di Firenze, nel 1530, Della Palla venne arrestato dai Medici e, nel 1532, ucciso. Il dipinto passò così nel 1531 al marchese Del Vasto che lo destinò al proprio castello di Ischia. Il Sacrificio di Isacco di Andrea del Sarto rivaleggia, per grandezza e impegno artistico, con i dipinti di Raffaello che i Medici, nel 1518, avevano mandato in dono a Francesco I. Con la differenza che l’opera di Andrea non è più una rappresentazione di santi o della Sacra Famiglia con funzione di pala d’altare, o comunque devozionale, ma un episodio veterotestamentario, scelto come tema per un dipinto da collezionista. La pittura religiosa di dimensioni monumentali (Cleveland cm 178,2 × 138,1; Dresda cm 213 × 159) nasce qui come opera d’arte per un amante d’arte. Essa si distingue pertanto per la profonda riflessione storico-artistica che la genera. Andrea del Sarto combina intenzionalmente rimandi a diversi esempi, si serve di citazioni artistiche e varianti che rivelano le sue capacità sia di imitatio sia di variatio ed aemulatio. Il gruppo di Abramo e Isacco sembra una scultura sopra un basamento e ricorda modelli antichi, quali il Pasquino e il Laocoonte. Dal primo l’artista sembra derivare le pose delle figure e l’improvvisa torsione della testa di Abramo (SHEARMAN 1965, I, p. 111; II, p. 270), mentre del Laocoonte, sebbene
non vi siano citazioni dirette, si colgono chiari spunti nella drammatica interpretazione dell’episodio, nel volto barbuto di Abramo, nella posa di Isacco, così come nella sproporzione tra la monumentalità del padre e la dimensione rimpicciolita del figlio (KNAPP 1907, pp. 117-118; FREEDBERG 1963, I, p. 77; NATALI-CECCHI 1989, p. 126; NATALI 1998, pp. 175, 177; IMORDE 2006; non credono invece a una ripresa del Laocoonte FÖRSTER 1906, p. 176; SHEARMAN 1965, II, p. 270; per il disegno di Andrea del Sarto del figlio del Laocoonte, cfr. FIRENZE 1986, p. 312). Con la ripresa del Laoconte, Del Sarto cerca il confronto con uno dei massimi raggiungimenti dell’arte antica; la tematica è analoga: da una parte gli dei che provocano il sacrificio e dall’altra Dio che ordina al padre di sacrificare il proprio figlio. Il tema di Abramo, peraltro, si presta ad una maggior ricchezza di sentimento e azione: Andrea non si limita, infatti, ad un exemplum doloris, attraverso la rappresentazione della sofferenza di padre e figlio, ma illustra al contempo il conflitto tra l’amore paterno e l’obbedienza a Dio. In questo tragico conflitto è quest’ultima a trionfare, trasformando, in un attimo di drammatica peripezia, attraverso l’intervento dell’angelo, l’azione in salvifica soluzione. Per la figura di Abramo, oltre alle fonti antiche, l’artista si avvale anche di fonti contemporanee, in particolare per dare forma all’interazione tra il patriarca e l’angelo. Nel 1514, Pontormo, che era stato allievo di Andrea del Sarto, aveva realizzato, per il Carro della Zecca, un San Matteo ispirato da un angelo in volo, riprendendo da Raffaello la posa di Giona nella Cappella Chigi di Santa Maria della Pace a Roma. Del Sarto riprende questi esempi contemporanei fondendoli con le fonti antiche suddette, superando Pontormo non soltanto nella fisicità e monumentalità di Abramo, ma anche nella più insistita torsione del suo corpo. L’angelo non vola più diritto verso il vecchio barbuto, ma gli si avvicina da dietro, in modo da costringerlo a girare ulteriormente la testa. Un ottimo risultato artistico è raggiunto dall’artista anche nella figura dell’angelo, il cui complicato scorcio prospettico appartiene ad un genere di figure in volo nel quale, ai primi del Cinquecento, a Roma, Firenze e a Venezia, si confrontavano artisti come Raffaello, Fra Bartolomeo e Tiziano. Nella sua posa in volo, egli non solo è orientato verso Abramo, ma si unisce, al contempo, armoniosamente, con la quinta paesaggistica a destra: la punta del suo piede si trova esattamente sopra la cima più alta della montagna, come se fosse spiccato in volo proprio da lì. L’orientamento del suo volo trova frattanto continuità nel moto ascendente verso sinistra dell’albero che si spinge verso il cielo. Härth ha riconosciuto, in questa ambientazione paesaggistica, una citazione molto fedele da un dipinto di uno dei cosiddetti ‘manieristi anversesi’, la tavola centrale del trittico col Compianto di Cristo di Jan de Beer a Berlino (HÄRTH 1959, figg. 2, 4; SHEARMAN 1965, I, p. 110; II, p. 270; A. Cecchi in NATALI-CECCHI 1989, p. 126; cfr. cat. n. 65); citazione forse trasmessa da un disegno di mano fiorentina oggi agli Uffizi (cat. n. 64) che ha copiato lo stesso paesaggio. Andrea del Sarto mantiene il paesaggio sulla destra inserendovi, al posto delle figure del Compianto, il gruppo di Abramo, anch’esso peraltro in perfetta sintonia con la composizione del paesaggio. Il profilo della montagna, la silhouette della città e la
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salita rocciosa trovano continuità, in parallelo, con le pieghe del mantello rosso di Abramo, con la posa delle sue braccia e delle sue gambe. La similarità del paesaggio, nei due dipinti, è accompagnata anche da un’affinità tematica (HÄRTH 1959, p. 173): il Sacrificio di Isacco è infatti notoriamente considerato la prefigurazione del Sacrificio di Cristo. La veduta della città lontana, nel Compianto di De Beer, infonde nelle figure addolorate un sentimento di smarrimento e solitudine che collima con l’estraneamento dalla città e dalla comunità – e dal loro ruolo protettivo – nel drammatico momento del Sacrificio di Isacco. Tale riuso del paesaggio mostra bene la fantasia artistica di Andrea che, nella scelta degli elementi formali, si lascia guidare dall’assonanza tematica dei due episodi, nella lamentazione per il sacrificio del Figlio di Dio si riconosce il dolore luttuoso di Abramo che sta per sacrificare il figlio. Anche la veduta del paesaggio a sinistra è una citazione. Come provato da Shearman, Del Sarto ha copiato il gruppo di alberi da un’incisione di Luca da Leida, Il ritorno del figliol prodigo (SHEARMAN 1965, I, p. 110; II, p. 270; A. Cecchi in, NATALI-CECCHI 1989, p. 126; cfr. cat. n. 57), sostituendo però il cane che annusa in primo piano con l’ariete, l’animale destinato al sacrificio. Come per la ripresa da Jan de Beer, anche la replica del paesaggio di Luca da Leida è motivata dal significato. Infatti, laddove nell’opera di Andrea del Sarto abbiamo il figlio di Abramo nudo, sotto un gruppo di alberi, in Luca da Leida vi si inginocchia, svestito, il figliol prodigo. Andrea ha individuato nel suo ritorno a casa e nella gioiosa accoglienza da parte del padre un significato parallelo alla salvezza del figlio di Abramo: Dio e il padre hanno avuto entrambi pietà del figlio. Un altro tema strettamente legato all’episodio del figliol prodigo e del sacrificio d’Isacco è l’amore del padre per il figlio, messo a dura prova in entrambe le scene. In Luca da Leida l’amore e la bontà del padre si affermano contro le contestazioni dei peccati compiuti dal figlio fin ad allora, mentre nell’opera di Andrea del Sarto l’amore di Abramo per il figlio è secondo soltanto al suo amore per Dio. Oltre a ciò, il motivo paesaggistico, presente sia in Luca da Leida sia in Andrea del Sarto, del sottile tronco che cresce parallelo al massiccio tronco principale, può essere interpretato come metafora dello stretto legame tra padre e figlio. La morte di Laocoonte e dei suoi figli, la morte di Cristo sulla croce, il ritorno del figliol prodigo: l’artista non orna semplicemente il tema del Sacrificio di Isacco riprendendo motivi artistici più vecchi, ma di essi impregna concettualmente l’episodio di padre e figlio, interpretandolo e commentandolo. È probabile che il sovrano francese, Francesco I, cogliesse il rimando al Laocoonte, in quanto nel 1515 egli stesso aveva preteso da papa Leone X la consegna del gruppo scultoreo, ottenuto più tardi, in una copia di Primaticcio (IMORDE 2006, p. 409). Francesco I avrà gustato di certo anche l’elemento paesaggistico fiammingo, essendo la pittura parigina ai primi del Cinquecento dominata sia dalla nascente moda italiana sia dall’arte fiamminga (cfr. COX-REARICK 1996, pp. 68-69). Di fatto, anche Jan de Beer era conosciuto a Parigi, come dimostra ad esempio un disegno, oggi conservato al Louvre, che vede copiate più figure dal trittico di Berlino. All’inizio del sedicesimo secolo il foglio apparteneva a Noël Bellemare, che se ne servì come punto di partenza per diverse sue opere (P. Van der Brink in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 77-83). Bellemare copiò anche il paesaggio di un altro quadro di Jan de Beer in una tavola a Parigi (cfr. D. Ewing in, ANVERSA-MAASTRICHT 2005, pp. 126-128), in analogia alla copia del paesaggio di Andrea del Sarto, che aveva anch’essa una destinazione francese. Il pittore fiorentino, grazie al suo soggiorno francese, conosceva infatti le preferenze estetiche del Nord e seppe soddisfarle con il suo Sacrificio. La resa formale dell’opera mira consapevolmente alla corte francese e tiene conto del suo importante ruolo per gli scambi artistici in Europa nella prima Età Moderna. Alla luce di ciò, Andrea del Sarto combina e fonde i più diversi riferimenti stilistici: ne sortisce un mondo artistico nel quale la drammaticità delle figure classiche è avvolta dall’atmosfera paesaggistica fiamminga.
Ci si può chiedere se la scelta del tema del sacrificio di Isacco per Francesco I fosse stata dettata a Giovanni Battista della Palla anche da fini politici. Francesco I avrebbe potuto infatti interpretare l’episodio come promessa di fedeltà da parte della città di Firenze e/o del suo mercante d’arte Della Palla. Come Abramo fu disposto addirittura a sacrificare il proprio figlio per Dio, così anche Firenze/Della Palla sono disposti a mettere tutto al servizio della Francia. La Repubblica di Firenze sperava, di fatto, che con l’aiuto francese essa sarebbe riuscita ad affermarsi sui Medici che tentavano di ritornare, nonché sul papa e sull’imperatore. Francesco, tuttavia, non fu in grado di salvare né la Repubblica di Firenze né la persona di Della Palla. La rilevanza politica del rapporto di fedeltà che legava Della Palla a Francesco I emerge dalla lettera di raccomandazioni con la quale Della Palla, nel 1528, fece ritorno a Firenze dalla Francia. Il testo sottolinea “la grande integrità, legalità e servitio” del fiorentino nei confronti della casa regnante francese. È per la fedeltà dimostrata che la Francia affida a Della Palla alcuni uffici da portare al governo fiorentino: “ci ha dato tale sicurtà et confidenza della persona sua che noi li habiamo comesso alchune cose d’importanza per dirve e dichiararve da nostra parte” (ELAM 1993, pp. 80-81). “Sicurtà et confidenza della persona sua”, fu ciò che Abramo ha provato davanti a Dio nel sacrificio di Isacco, e questo ciò che Della Palla avrebbe nuovamente voluto confermare con il dipinto di Andrea del Sarto per Francesco I. Michael Rohlmann Bibliografia: FÖRSTER 1906, p. 176; KNAPP 1907, pp. 117-118; FRAENCKEL 1935, pp. 73-74, 134-135, 227; FRANCIS 1938, pp. 39-42; Museo del Prado 1942, p. 574; HÄRTH 1959, pp. 167-173; FREEDBERG 1963, I, pp. 77-79; II, pp. 146-150; SHEARMAN 1965, I, pp. 110-111, 147; II, pp. 269-270, 280-282; MONTI 1981, pp. 97-99; Cleveland Museum of Art 1982, pp. 406-409; A. Petrioli Tofani in, FIRENZE 1986, pp. 310-312; A. Cecchi in, NATALI-CECCHI 1989, pp. 126-131; ELAM 1993, pp. 62-63; COX REARICK 1996, pp. 87-88; Museo del Prado 1996, p. 358; NATALI 1998, pp. 173, 175; FALOMIR FAUS 1999, pp. 68-69; D. Franklin in, OTTAWA 2005, n. 41, pp. 150-152, 341; IMORDE 2006, pp. 399-413
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64. Francesco Brancadori (Firenze 1533-post 1564)
Foglio di studi matita nera su carta bianca, mm 275 × 398 (con passepartout mm 339 × 468) iscrizioni: al centro in basso, a penna, in grafia antica:”Di franc.o branchadori”; in basso a destra, in grafia antica (la stessa?): “p.amicisia” provenienza: Firenze, collezione Gaddi (?) (1774); acquisizione della R. Galleria (ante 1793) Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 16480F
Il foglio presenta studi di soggetti vari. In primo piano, un nudo virile, con perizoma, e con le braccia legate dietro la schiena, è affiancato da due figure delineate sommariamente, una a mezzo busto di spalle, l’altra seduta a terra; in secondo piano a sinistra uno sprone roccioso con tracce di vegetazione fa da quinta, insieme ad un albero sulla destra, ad una veduta di città verso cui si dirigono due cavalieri, in un vasto paesaggio; all’estrema destra, sono ripetuti due dettagli degli stessi edifici. Secondo quanto mi comunica gentilmente Annamaria Petrioli Tofani che sta curando la pubblicazione del manoscritto, il disegno è menzionato dal Bencivenni Pelli nel suo Indice dei disegni della Galleria (ante 1793), fra i disegni che “provengono per lo più da casa Gaddi”, e così descritto: “Un giovane nudo legato in luogo montuoso deserto con vedute di castello nel seno dei monti, schizzo a matita nera non finito di Franc. Brancadori”. Le trattative per l’acquisto della collezione Gaddi, che Raimondo Cocchi suddivise in cinque classi, fra cui i disegni, iniziarono nell’ottobre1774 (Archivio delle Gallerie fiorentine, filza VII, n. 42: ringrazio Bruna Tomasello delle indicazioni; cfr. anche FILETI MAZZA-TOMASELLO 1999, p. 102). Il foglio non è compreso nel catalogo dei disegni redatto dal FERRI (1890-1897), ma fu certamente il Ferri a catalogarlo nell’archivio del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, come “Ignoto fiorentino sec. XVI”, evidentemente perché nulla si conosceva di Francesco Brancadori. Il Berenson lo inserì poi (1938, 1961) sotto il nome del Puligo, notandovi che le particolari architetture sembrano copiate da un dipinto dell’Italia meridionale, oppure da un dipinto fiammingo. Nel Gabinetto Disegni, esso di conseguenza fu spostato nella cartella del Puligo, probabilmente per iniziativa di Giulia Sinibaldi. La prima analisi approfondita viene dedicata al disegno dalla HÄRTH (1959), che individua nel Compianto sul Cristo al centro di un altarolo della scuola di Anversa intorno al 1520 (Berlino, Gemäldegalerie) la fonte iconografica fiamminga degli edifici nello sfondo delle tre versioni del Sacrificio d’Isacco di Andrea del Sarto conservate a Cleveland, Dresda e Madrid (cfr. cat. n. 63); e in quel contesto include questo disegno nel quale è presente lo stesso motivo, come uno studio preparatorio possibilmente della mano del maestro. Proponendo per il foglio, pur con un punto interrogativo, l’attribuzione ad Andrea del Sarto, la studiosa cerca una giustificazione alla scritta antica con il nome di Francesco Brancadori, che indica presente su altri tre fogli, uno all’Albertina e due agli Uffizi, ipotizzando che possa trattarsi di un collezionista di metà Cinquecento, che potrebbe forse essere identificato con il pittore Francesco di Tommaso Brancadori del quale segnala utili notizie d’archivio: la data del battesimo, 1533, l’iscrizione all’Arte dei Medici e Speziali nel 1560, il matrimonio nel 1561, e l’attività come infermiere presso l’Accademia del Disegno nel 1563-1564. Nel rimandare ad altra occasione l’approfondimento delle preziose indicazioni della Härth, posso solo qui far presente che la verifica dei due disegni degli Uffizi su cui si troverebbe la scritta con il nome di Francesco Brancadori (citati in nota 15 p. 172 come inv. 1535 O e 1536 O) ha dato esito negativo.
Dal momento che l’attribuzione ad Andrea del Sarto non era sostenibile, il disegno fu preso in considerazione solo nelle due monografie più esaurienti dal punto di vista critico e documentario, quella del Freedberg e quella dello Shearman, nelle analisi del Sacrificio d’Isacco. Il Freedberg (1963) nel rifiutarne l’autografia di Andrea, si limita ad accennare che sembra più vicino allo stile del Puligo. Lo SHEARMAN (1965) gli dedica più attenzione, ritenendolo precedente alla prima versione del Sacrificio d’Isacco, quella non finita di Cleveland, per la presenza di alcuni cambiamenti apportati nel dipinto rispetto al disegno; pur escludendolo dal catalogo di Andrea, lo considera a lui vicino come tecnica, e comunque meritevole di un’attribuzione a Jacopo Sansovino: idea che potrebbe spiegare la scritta per amicisia, forse allusiva a “a present from one artist to the other”. La Petrioli Tofani (1992) ha riportato nei suoi giusti termini la valutazione di questo disegno di notevole interesse e da mantenere nell’ambito sartesco, ma di qualità non particolarmente alta. Dopo averne ripercorso la vicenda critica, ha tenuto finalmente conto della scritta antica al centro del foglio, e grazie anche alla pala d’altare della chiesetta di Gagliano firmata da Francesco Brancadori, resa nota dal VON HOLST (1971, p. 54), ha restituito alla scritta il suo valore di firma dell’artista. Un pittore minore, tardo seguace di Andrea, che ormai dopo la metà del Cinquecento ripropone ancora, nella tavola di Gagliano, la pala di Sant’Ambrogio che è un capolavoro giovanile del maestro (ritenuto perduto, ma riapparso recentemente sul mercato antiquario, purtroppo gravemente alterato da estesi, pesanti rifacimenti delle ampie parti mancanti). Mentre la sua mano sembra in effetti da riconoscere, come propone la studiosa, anche nel Nudo maschile (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 14429 F) che copia letteralmente il bellissimo disegno di Andrea per la scena della Vestizione del lebbroso affrescata nel 1509 nel chiostro della Santissima Annunziata, questo disegno derivato dal Sacrificio d’Isacco che è un’opera tarda di Andrea databile sul 1527-1529, allarga a tutta la produzione del maestro l’interesse di Francesco Brancadori, che si mostra legato ai suoi modelli anche nella fedeltà con cui ripropone, studiandolo su questo foglio a più riprese, il motivo degli edifici ‘alla fiamminga’. Serena Padovani Bibliografia: PELLI BENCIVENNI (ante 1793), ms. 463/3.3, parte II, c. 92, n. 104; BERENSON 1938, II, p. 308; ed. 1961, II, p. 519; HÄRTH 1959, pp. 167-173; FREEDBERG 1963, p. 151 n. 14; SHEARMAN 1965, I, p. 110 nota 1, II, p. 270; PETRIOLI TOFANI 1992, pp. 318-319
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Indice degli autori delle opere in mostra
Albertinelli, Mariotto, cat. n. 32 Andrea del Castagno (Andrea di Bartolo di Simone), cat. n. 12 Andrea del Sarto (Andrea d’Agnolo), cat. nn. 56, 63 Andrea del Verrocchio (Andrea di Michele Cioni), cat. nn. 4, 21 (attribuito), 22 (attribuito) Attavante degli Attavanti (Attavante di Gabriello di Vante di Francesco di Bartolo), cat. n. 10 Baldini, Baccio (Bartolomeo Baldini), cat. nn. 16, 17, 18, 19 (attribuiti) Beato Angelico (Fra Giovanni da Fiesole), cat. n. 9 Bartolomeo di Giovanni, cat. n. 7 Beer, Jan de, cat. n. 62 (bottega) Botticelli, Sandro (Alessandro Filipepi), cat. n. 38 Brancadori, Francesco, cat. n. 64 Christus, Petrus, cat. n. 14 David, Gerard, cat. n. 46 Dürer, Albrecht, cat. n. 60 Eyck, Jan van, cat. nn. 1 (?), 3 Fra Bartolomeo (Baccio della Porta), cat. nn. 26, 33, 52 Gherardo di Giovanni del Fora, cat. n. 6 Ghirlandaio, Domenico (Domenico Bigordi), cat. nn. 2, 35, 40 (attribuito), 51 Gregorio di Lorenzo, cat. n. 53 Lippi, Filippo, cat. n. 13 Lippi, Filippino, cat. n. 29 Luca di Leida (Lucas van Leyden), cat. nn. 57, 58, 59 Maestro dei Ritratti Baroncelli, cat. n. 43 Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, cat. nn. 28, 29 Maestro noto come “Tommaso” (Giovanni di Benedetto Cianfanini?), cat. n. 27 Maestro S. E., cat. n. 20 Memling, Hans, cat. nn. 23, 25, 34, 37, 41, 49 Monte di Giovanni del Fora, cat. nn. 6, 14, 42, 47, 48 Patinier, Joachim, cat. n. 55 (e bottega) Perugino, Pietro (Pietro Vannucci), cat. n. 39 Piero di Cosimo, cat. nn. 30 (attribuito), 54 Pittore fiorentino, cat. n. 50 Raffaellino del Garbo (Raffaelino di Bartolommeo Capponi), cat. n. 31 (bottega) Raffaello, cat. nn. 36, 44, 45 (bottega) Sacchi, Gaspare, cat. n. 24 (?) Schongauer, Martin, cat. n. 21 Weyden, Rogier van der, cat. nn. 5, 8, 11 (copia)
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