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Italian Pages 209 [141] Year 2007
Giuseppe Barbera
TUTTIFRUTTI Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura
Prefazione di Carlo Petrini
OSCAR MONDADORI
INDICE Prefazione di Carlo Petrini Introduzione Albicocco Arancio Carrubo Castagno Ciliegio Fico Ficodindia Limone Mandarino Mandorlo Melo Melograno
Nespolo Noce Nocciolo Olivo Pero Pesco Pistacchio Susino
PREFAZIONE Fate la prova con i vostri conoscenti. Durante una gita fuori città chiedete ai vostri amici se sanno riconoscere i vari alberi da frutto che incontrate, ovviamente quando non sono carichi di doni. Più anni avranno le persone che vi accompagnano più alta sarà la possibilità che vi diano risposte esatte. Da qualche parte, a un certo punto, si è persa quella confidenza, quella familiarità che avevamo con gli elementi del paesaggio che ci circonda. Abbiamo cominciato a chiamare "piante" sia i ciliegi che i noci, sia i peschi che i noccioli. Certo, distinguiamo i fichidindia dal resto, ma non ci rendiamo conto che la differenza tra un albicocco e un caco è altrettanto abissale. Abbiamo eliminato dai nostri pensieri quel che succede prima dell’inizio della nostra relazione con il cibo e cioè prima dell’acquisto. Ci siamo disinteressati al fatto che prima di arrivare lì dove noi lo compriamo il nostro cibo è stato un albero, o un animale, o un’erba, o parte di un sottobosco, o di un fiume, o del mare. Ma noi non ci pensiamo. Con la stessa volontà di semplificazione abbiamo anche cominciato a credere che esistesse un “sapore di mela”, o un “sapore di pera”, e ci siamo dimenticati che pere, mele, pesche hanno mille diversi sapori. Quando sapevamo distinguere gli alberi da frutto ci raccontavano favole che parlavano di ragazzini che volavano, di comunicazioni interplanetarie, di ranocchi che diventavano
principi. Adesso che voliamo continuamente da una parte all’altra del globo e che i ranocchi si trasformano non in principi ma in uomini politici, mi sembra che i tempi siano maturi perché i capitoli di questo libro diventino le nostre favole. Tuttifrutti parla di un’epoca in cui gli alberi non facevano cose straordinarie. O forse sì. Facevano le mele. Buone, gustose, sane. Le facevano onestamente, perché chi li aveva piantati gli permetteva di produrre le mele secondo i giusti tempi e secondo i capricci del clima dell’annata. Quel melo non faceva solo le mele, ispirava poeti, ascoltava gli amanti, sorreggeva viandanti stanchi e grati. Era un essere animato, era un protagonista, era amato e rispettato dagli altri esseri viventi che condividevano il suo tempo. In cambio donava i suoi frutti, la sua forza, la sua ombra, i suoi rami accoglienti, i suoi fiori allegri. Gli alberi che ci vengono raccontati nel libro di Barbera sono alberi dignitosi che facevano parte di un sistema dignitoso e in equilibrio: un sistema fatto di agricoltura, gastronomia, letteratura, sogni, eros, artigianato, e di tutto quello che gli uomini e la natura hanno prodotto insieme prima che il senso stesso della loro relazione venisse stravolto dall’idea che la natura fosse una sorta di proprietà dell’uomo che poteva dunque disporne a suo piacimento. Certo, questo libro racconta anche gli uomini, e il loro lavoro, la loro intelligenza di agricoltori e di agronomi, racconta come alberi ed esseri umani abbiano cercato di migliorarsi a vicenda e di come spesso si sia poi passato un limite, oltre il quale i miglioramenti sono andati perduti, la qualità — della vita o dei frutti — è stata sacrificata in nome della quantità e del denaro, sempre lui. Non c’è lieto fine nei racconti di questo libro, i protagonisti non vivono felici e contenti per mille anni ancora; però Tuttifrutti è
una promessa, come è una promessa ogni nuovo incontro: se impareremo di nuovo i nomi e le storie di questi esseri straordinari, chissà che un pezzetto della loro e della nostra storia non si riesca a riscriverlo, cambiando quel che si preannuncia come un finale niente affatto lieto. Carlo Petrini Presidente di Slow Food
TUTTIFRUTTI
Trout aveva scritto un libro su un albero che faceva i soldi. Aveva come foglie dei biglietti da venti dollari. I suoi fiori erano titoli di Stato. i suoi frutti erano diamanti. Attirava gli esseri umani, che si ammazzavano tra loro intorno alle sue radici e così diventavano un ottimo fertilizzante. Così va la vita. KURT VONNEGUT, Mattatoio n. 5, 1968 Lo stolto non vede lo stesso albero che vede il saggio. WILLIAM BLAKE, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno, 1790
Giovanni Cenacchi mi ha spinto a scrivere questo libro. I suoi incitamenti, i suoi suggerimenti lo hanno accompagnato fin quasi alla stesura finale. Poi Giovanni se ne è andato per sempre. Sappia il lettore, se apprezzerà queste pagine, che il merito del libro è soprattutto suo e a lui, amato cugino, è dedicato. G.B.
INTRODUZIONE È stato un lontanissimo nostro antenato, il Paranthropus robustus, una scimmia africana alta poco più di un metro, a sfamarsi per la prima volta, 1,8 milioni di anni fa, dei frutti che crescevano sugli alberi e non solo di tuberi, radici e semi. Alzando lo sguardo da terra aveva dato inizio a un rapporto tra gli esseri umani e gli alberi che avrebbe ben presto superato i limiti del bisogno vitale e si sarebbe diffuso, con l’Homo sapiens e la domesticazione delle specie selvatiche, oltre i confini dell’agricoltura là dove l’incontro tra l’uomo e la natura sfocia nei miti, nelle religioni, nella filosofia, nella creazione artistica. I primi frutti erano minuscoli, ma a maturazione diventavano dolci, profumati, ricchi di colore. Attiravano gli animali e gli uomini per essere raccolti e mangiati in modo che il seme che contenevano fosse trasportato altrove a diffondere la vita della specie. I primi tentativi di ottenerli, coltivando gli alberi che li producevano, iniziarono 10.000 anni fa quando, dopo un lungo vagare da nomade nelle boscaglie e nelle foreste africane, l’uomo imparò le prime elementari tecniche agricole e formò i primi insediamenti stabili: villaggi che consentivano di accumulare, conservandole in buche scavate per terra o in piccole cavità nella roccia, riserve alimentari per alcuni tra loro che potevano finalmente occuparsi di attività diverse dalla caccia e dalla raccolta quotidiana di vegetali. A lungo (per 5000 anni!) gli sforzi per coltivare gli alberi non giunsero, però, a buon fine. Dalla loro semina germogliavano piantine esili e delicate, bisognose di cure frequenti e protezioni e che solo dopo anni di vita avrebbero portato a maturazione i
frutti; questi, poi, erano molto diversi da quelli — i più belli, i più buoni — selezionati per averne il seme: mandorle deliziosamente dolci tornavano amare; pere deliquescenti tornavano a essere aspre e incommestibili. Saranno la moderna botanica e la genetica a spiegare le ragioni di un comportamento così incostante, diverso da quello dei primi cereali e delle leguminose. Per trarre pienamente profitto dalla coltivazione degli alberi da frutto, l’uomo dovrà comprendere che vanno moltiplicati per porzione di ramo e non per seme (per via clonale e non sessuale, quindi). Pratica, necessaria a dar prodotti di costanti e buone caratteristiche ma non ancora sufficiente: nelle terre aride della Mesopotamia il vento e i calori del deserto, il morso degli animali, la fame e il desiderio di dolcezza dei pastori nomadi erano un pericolo costante durante le stagioni e gli anni che gli alberi impiegavano, purché difesi e coltivati con perizia, per giungere a frutto. Per allevare gli alberi da frutto era necessario un insediamento stabile. C’era bisogno di una città: questa avrebbe offerto la necessaria custodia, le capacità tecniche per costruire gli utensili, lo sterco degli uomini e degli animali domestici per farne concime, le acque ben condotte da irrigatori capaci e rispettosi di regole condivise. C’era bisogno di artigiani, di intellettuali, di burocrati, di soldati. La frutticoltura compie i suoi primi passi in compagnia della scrittura, della religione, della filosofia, della metallurgia. Partecipa così anch’essa alla nascita della civiltà. Negli spazi protetti da un muro di pietre o da un intreccio di rami spinosi, ammirando l’accendersi delle fioriture, aspettando il maturarsi dei frutti, gustandone il colore e il profumo e poi il sapore, l’uomo crea un rapporto con l’albero da frutto che va oltre quello che miti e tradizioni attribuiscono ai grandi alberi selvatici delle foreste primigenie, gli «alberi cosmici», che collegavano simbolicamente, con le radici nel profondo del suolo e la chioma al sole, la terra al cielo e, con il risveglio primaverile e il riposo invernale, la vita alla morte. Nel rapporto ravvicinato tra città e
frutteto, la familiarità tra esseri umani e alberi forma un universo simbolico più ricco. L’albero non solo nasce e muore, ma è anche fecondo e con i suoi frutti sollecita non le sensazioni di timore o sottomissione che l’uomo doveva provare nelle foreste primigenie, ma più confidenziali stimoli che, quando la natura è resa amica dalla coltivazione, si traducono in sentimenti di benessere e piacere e in espressioni della creatività artistica. I frutteti della Mesopotamia, poi della Palestina e, quindi, del Mediterraneo hanno funzioni che vanno ben oltre quella produttiva, esprimono non solo utilità ma anche bellezza. Giardino e frutteto, nella natura e nella storia mediterranea, hanno lo stesso ruolo, lo stesso significato, lo stesso disegno elementare. Il giardino frutteto, chiuso e irrigato, consente il controllo dell’albero e dei fattori della sua produzione; opposto al deserto è luogo dove la specie umana afferma e affina la sua supremazia su una natura che diventa amica e complice e offre i suoi prodotti migliori: i frutti e l’universo simbolico che nasce dalla manifestazione di fecondità che essi rappresentano. Il frutteto della Palestina biblica è un «giardino chiuso». Come nei remoti miti sumeri rappresenta il sesso femminile: «Sorella mia, sposa, / giardino chiuso, fontana sigillata» recita il Cantico dei Cantici. È prossimo alla città, irrigato e promiscuo: «Mi costruii case e piantai vigne, mi feci giardini e parchi piantandovi alberi fruttiferi di ogni specie, mi costruii cisterne piene d’acqua per poter irrigare tutti quegli alberi». Nella versione in greco dell’Ecclesiaste i traduttori cercarono un termine che definisse la magnificenza, la fertilità dei giardini della creazione in modo più efficace di quanto consentisse il ricorso al classico képos (giardino frutteto); lo trovarono in Senofonte che nell’Economico chiamava peri daeza (attorno al muro) i grandi arboreti di Sardi «pieni di tutte le cose belle e buone che la terra può produrre» realizzati in Persia da Ciro il Giovane. Il giardino fruttifero diviene così un par&Ieisos. Sarà nel primo millennio a.C. che, dalle regioni
del Levante, le specie da frutto, le tecniche di coltivazione e i principi della composizione dei giardini si diffonderanno, insieme ai commerci fenici, alla cultura greca, alla potenza romana, nella grande regione mediterranea. Si diffondono le specie domesticate della Mezzaluna Fertile ma anche quelle che attraverso le vie dei commerci sono giunte dalle lontane regioni asiatiche: il melo e il pero, l’albicocco, il ciliegio, l’amarena, il pesco, il susino, il pistacchio, il noce. Dall’Oriente arrivano insieme alla tecnica dell’innesto. Tecnica che accompagnerà la diffusione dell’albero da frutto nella campagna romana travalicando i confini agricoli per entrare nel mondo della poesia: nelle Georgiche di Virgilio da un innesto «in tempo non lungo, grande / n’è uscito un albero al cielo con i suoi rami felici / e si rimira le fronde nuove e i frutti non suoi». La storia degli alberi da frutto si intreccerà con quella dell’uomo e delle forme del suo abitare nei giardini romani, in quelli dell’universo islamico, in quelli rinascimentali. Si arricchirà di specie e di tecniche dall’incontro con le antiche culture asiatiche e più tardi con la sconosciuta natura americana. Incontrerà l’arte nelle sue diverse forme. Manifesterà funzioni insieme produttive, ambientali, estetiche ed etiche. L’albero da frutto, sarà protagonista del paesaggio mediterraneo anche quando, con la rivoluzione agraria e sociale del XIX secolo, dagli ambiti circoscritti di un giardino, passerà a quelli ampi delle colline e delle pianure fino ad arrampicarsi, su suoli resi piani dai terrazzamenti, lungo i fianchi delle montagne. Il giardino da luogo «di divieto e delizia.., da guardare dietro un cancello» si espande come «esteticità diffusa» nei grandi spazi del paesaggio agrario. L’albero da frutto diventa complice dei contadini meridionali che odiavano l’«inutile bellezza.., degli alberi che non danno frutto» e insultavano i bei fannulloni con l’appellativo di «arbulo di bellu vidiri». Parole di Gesualdo Bufalino, Rosario Assunto, Leonardo Sciascia che rievocano secoli di lotte agrarie per avere il diritto di piantare e coltivare alberi da frutto e per affrancarsi (in Sicilia, la regione mediterranea più legata a essi nella storia, nella cultura,
nel paesaggio e nell’economia) dalla fame, dalla fatica, dai soprusi, dall’ignoranza. Il paesaggio del giardino mediterraneo resisterà, pressoché intatto nei secoli, fin quando, poco più di cinquanta anni fa, alla crisi dell’agricoltura tradizionale, all’abbandono delle campagne, si aggiungerà la devastazione estetica e produttiva del paesaggio con la diffusione, nelle pianure costiere e nelle periferie urbane, luoghi d’elezione per l’albero da frutto, di modelli industriali fallimentari e di speculazioni edilizie devastanti. Dove permane l’agricoltura svaniscono, adesso, nei frutteti industriali, nelle varietà della moderna ingegneria genetica, storie millenarie, saperi tecnici di grande efficienza, sapori antichi, ispirazioni creative che hanno lasciato tracce indelebili nella letteratura, nella pittura, nel paesaggio. Là dove è nata l’idea di giardino e sono stati addomesticati i primi alberi da frutto c’è oggi la guerra, la fame, il disastro ambientale, lo scontro culturale. «Quali tempi sono questi, quando / discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio!» scriveva Bertolt Brecht in una poesia del 1938 intitolata A coloro che verranno. Bisogna, invece, parlarne perché nella storia degli alberi da frutto nel Mediterraneo, nell’uso dei loro prodotti, nelle funzioni che hanno assolto, nei sentimenti che hanno ispirato si possono trovare buone ragioni per difenderli, dove ancora esistono, o per piantarli. Di fronte alla cancellazione dei paesaggi tradizionali, alla perdita della biodiversità, alla disgregazione di un universo comune a storie, culture, religioni diverse, questo libro cerca invece di ribadire la necessità di conservare, anche con gli alberi da frutto, quel sapere e quel sentire che costituiscono l’identità mediterranea. G.B.
ALBICOCCO Una volta stabilito che il mondo era stato creato alle 9 del mattino del 23 ottobre del 4000 a.C., i creazionisti, certi che un bel giorno Dio lo fece dal nulla, passarono a domandarsi quale fosse l’albero «della conoscenza del bene e del male» creato il terzo giorno (doveva essere un martedì) e dal quale Eva aveva colto il frutto del peccato. Alla fine del XIX secolo il dibattito era particolarmente acceso, ma gli indizi che si potevano trarre dalla Bibbia pochi: doveva produrre un frutto «buono da mangiare», «gradito agli occhi» e «desiderabile per acquistare saggezza». Indirizzati dal termine melon (frutto rotondo) che i traduttori greci avevano utilizzato per l’ebraico tappuah, fu consuetudine individuare in un melo l’albero del Cantico dei Cantici alla cui «ombra mi siedo e dolce è il suo frutto al palato» e che porta «frutti d’oro» che profumano il respiro. Le mele, del resto, erano i frutti più popolari sulle tavole europee di fine Ottocento e, almeno dal XIII secolo, erano rappresentati più frequentemente tra le fronde dell’albero sacro in dipinti, mosaici, incisioni. Erano anche gli anni durante i quali le scienze naturali compivano grandi progressi e Charles Darwin affermava la teoria dell’evoluzione: la natura non è immutabile, i caratteri delle specie non sono stati fissati una volta per tutte, ma si evolvono per selezione naturale o per intervento dell’uomo. Il melo, assicuravano i botanici, non poteva essere nativo della Palestina perché inadatto alle sue condizioni ecologiche. Poteva essere presente — come, in effetti, fu dimostrato dal rinvenimento di alcuni frutti carbonizzati in un’oasi ai confini del deserto del Sinai — solo se precedentemente importato, addomesticato e coltivato. Queste evenienze smentivano i fautori del melo quale albero del giardino della creazione e, cosa ben più grave, dell’esclusivo e definitivo intervento divino. Dopo aver pensato, spinti dalla bellezza e dal profumo dei frutti ma con ancora più deboli fondamenti storici ed
ecologici, all’arancio e al cedro, gli studiosi di flora biblica si indirizzarono, alla ricerca dell’albero sacro, al cotogno i cui frutti, poco dolci e astringenti, Adamo ed Eva avrebbero dovuto cuocere prima di mangiare, al melograno e, con particolare favore, all’albicocco che si ritenne avesse i requisiti necessari a rappresentare, dal punto di vista ecologico e dei caratteri morfologici, il frutto del peccato, a non smentire l’originaria immutabile perfezione del Paradiso. La storia evolutiva, comunque, nega anche all’albicocco la possibilità di essere considerato l’albero che cresceva nei giardini dell’antico Israele e che avrebbe potuto ispirare gli autori della Bibbia; gli attribuisce piuttosto un’origine asiatica poiché, nelle montagne di Tien Shan nelle regioni centrali dell’Asia, cresce ancora oggi selvatico, e dà frutti piccoli, acidi ma commestibili. L’area di prima coltivazione sembra essere proprio la Cina. Il Libro dei monti e dei mari attribuito all’imperatore Yu ne parla già intorno al 2220 a.C.; la frequenza dei toponimi che comprendono il termine xing (albicocco) e l’arcaicità dell’ideogramma che lo rappresenta come un alberello in un vaso, sono ritenute ulteriori testimonianze della sua lontana e antica origine geografica. Prove certe della presenza in coltura nel Vicino Oriente si avranno, invece, solo a partire dal I secolo a.C., poco prima che si trovi attestazione della coltivazione in Italia nella Historia naturalis di Plinio il Vecchio e nel De re rustica di Columella che chiamano i frutti armeniaci, individuando nell’Armenia la regione di immediata provenienza e dando i fondamenti all’attuale nome botanico Prunus armeniaca. Nella letteratura latina l’albicocco sarà conosciuto anche come inalum praecox in ragione della precocità della fioritura e del periodo tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate — di maturazione dei frutti; il termine passerà all’arabo al barquq e quindi alle lingue moderne. In Italia e poi nelle regioni mediterranee e in quelle del Nordeuropa, dove può crescere al riparo dal freddo, l’albicocco avrà rapido successo per la bella fioritura, il delicato colore e il
sapore dei frutti, l’indistinguibile profumo. «Non minima gratia» attribuiva ai suoi frutti Columella, e Virginia Wolf, con lontana, diversa ma non minore autorevolezza per definire la luminosità di un dipinto dirà: ha qualcosa «di roseo e morbido, di splendente e tenero, come le albicocche pendenti da un muretto di mattoni nel sole pomeridiano». Il frutto è ricco di zuccheri, di vitamine (A e C), di fibre e di minerali (calcio e ferro). Succoso e fragile va colto al tempo giusto; «fa a meno di lodi, quando, nel mezzogiorno di luglio lo si ruba ai calabroni» scrive Pierre Lieutaghi. Inadatto ai trasporti, lasciava un tempo ai soli agricoltori il piacere di mangiarlo appena raccolto: nelle città, lontane dalle zone di coltura arrivavano soltanto le marmellate, i frutti seccati al sole e, dai semi dolci di alcune varietà, un olio apprezzato in farmacia e in cosmetica. Poi, con il miglioramento dei trasporti è stato introdotto nei grandi mercati urbani; Carlo Emilio Gadda includeva le albicocche tra i "materiali preziosi... limpidamente tramutabili in vita.., il più accreditato precedente del mio cervello.., donde irrorare di vitamine e rifornire d’idrati la città senza frutto"1 in vendita, nel 1935, al Mercato di Corso XXII Marzo a Milano. Oltre al sapore, ineguagliabile il profumo: non c’è «naso elettronico», come è chiamato l’analizzatore che esamina i composti volatili emanati dai frutti, che equivalga all’esperienza di Madame Bovary. La signora, appena appreso da una lettera nascosta nel fondo di un cestino colmo di albicocche dell’abbandono dell’amante, riceve in dono dal marito un frutto: «Ma senti che profumo, fece egli passandogliela più volte sotto il naso» e, svenuta, il farmacista sentenziò: «Potrebbe anche darsi che le albicocche abbiano provocato la sincope! Ci sono nature così sensibili a certi odori!».
C. E. Gadda, Mercato di frutta e verdura in Le meraviglie d’Italia, Einaudi, Torino 1964, pp. 188-89. 1
Per i suoi frutti l’albicocco è ampiamente coltivato dalle montagne del Nepal fino ai margini dei deserti sahariani. Nei climi più freddi, la fioritura è a rischio e una gelata improvvisa può compromettere la produzione. Fenomeno non raro a verificarsi, come dimostra non tanto la statistica meteorologica quanto il Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert che doveva esserne talmente ghiotto da limitare la voce «albicocche» a poche, lapidarie, parole «neppure quest’anno ne avremo». Buona pratica agricola e molta inventiva consentono comunque, anche nei climi nordici, di ottenere i frutti. La Maison Rustique nel 1702 prescriveva l’irrigazione con latte di capra al momento della fioritura. Gli agricoltori delle vallate alpine, che ne distillano anche squisite acquaviti, allevano gli albicocchi a spalliera contro i muri esposti a mezzogiorno affinché siano protetti dai venti freddi e, garanzia di dolcezza, riscaldati nelle ore notturne dal calore accumulato. Alte temperature e terre fertili assicurano ottime albicocche. Le migliori, per il gusto, sono quelle che maturano sui suoli vulcanici alle pendici del Vesuvio: circa quaranta varietà diverse con nomi (Boccuccia, Cafona, Monaco Bello, Palummella, Pelese di Giovanniello, Fracasso, Pellecchiella...) che evocano la gioia di vivere nella Campania felix e con sapori che il moderno miglioramento genetico vorrebbe trasferire in nuove varietà capaci di maturare in un più ampio arco di tempo (negli ultimi trent’anni si è riusciti a prolungare di quasi due mesi la permanenza di albicocche fresche sui mercati), e con frutti grossi, colorati, facilmente trasportabili. Produrre albicocche ben remunerate dalla grande distribuzione — senza tralasciare le crescenti richieste di chi desidera prodotti di qualità, sani, legati al territorio che li produce e al sottile sapore della memoria o della fantasia che questo legame alimenta — non basta: bisogna anche coltivare l’albero in modo che sia elevata la produzione per ettaro e diminuiscano i
costi. Con l’albicocco non è facile. La crescita dei suoi rami rossi è irregolare e fin troppo vigorosa e le argomentazioni degli agricoltori moderni, di fronte ad alberi disordinati e a difficoltà dei mercati, che la politica agraria non riesce a risolvere, non sono assai diverse da quelle del giardiniere del Riccardo II di Shakespeare: Vai laggiù a legare quelle albicocche che pendono: / come figli ribelli piegano il padre / sotto il peso della loro prodigalità. / Metti un sostegno ai rami che si curvano, — / Vai, e come un carnefice / taglia la testa ai rami che crescono troppo in fretta / e appaiono alteri nel nostro Stato. / Tutti devono essere uguali nel nostro governo.2 E per aver pensato di non aver fatto abbastanza per l’uguaglianza, la salvezza del mondo da guerre e inquinamenti, nel 1995, da un albicocco di Pian dei Giullari, sulle colline fiorentine, ha lasciato pendere il suo corpo, con una corda sul collo, Alex Langer. Veniva dal Sessantotto, era un ecologista che cercava di far convivere in pace gli uomini tra loro e con la natura e che il Paradiso l’avrebbe voluto in terra.
2
W. Shakespeare, Riccardo II, III, IV, 30-36.
ARANCIO Il giardino primordiale è un albero da frutto chiuso da un recinto. Secondo un mito sumero, vecchio di cinque millenni, questo giardino fu realizzato dalla dea fanciulla Ishtar, regina del cielo e della terra, dea dell’amore e stella del mattino e della sera, con l’albero che aveva raccolto lungo le sponde dell’Eufrate. La pianta sacra sarà coltivata, irrigata e difesa da un muro di pietre o da un intreccio di rami spinosi contro gli attacchi del vento del deserto, dal morso del bestiame, dai furti e dagli sguardi indiscreti degli uomini fino a quando non porterà a maturazione i frutti. Nell’arida regione orientale non potrebbe crescere in assenza di cure e raggiungere la maturità e la fertilità che la dea attende e protegge insieme come fossero le proprie: l’albero è simbolo della vita e il giardino lo è del grembo. L’evolversi dei giardini ha complicato l’archetipo sumero, ma ancora oggi giardini in egual misura essenziali e compiuti si trovano numerosi nell’isola di Pantelleria. Torri in pietra a secco, simili a nuraghi, conservano, dietro una porta, un solo albero di agrumi: un limone, un mandarino, un cedro, più spesso un arancio. Nessun sistema agricolo, nessuna architettura prevede tanto lavoro per far produrre un singolo albero. I frutti non bastano da soli a giustificare le ragioni di così grande fatica. Essa è certamente sostenuta da altre necessità: quelle del piacere dei sensi e della bellezza che l’arancio soddisfa al pari di nessun altro albero per la forma armoniosa, l’ombra fitta della chioma sempreverde, la lucentezza della corteccia, il colore e il profumo dei fiori e dei frutti.
« Principe e signore di tutti arbori» celebrava l’arancio dolce Antonino Venuto nel De agricoltura opusculum, primo libro al mondo interamente dedicato agli alberi da frutto pubblicato a Napoli nel 1516, pochi anni dopo la diffusione dell’agrume e dei suoi frutti succosi nell’agricoltura mediterranea e nei giardini europei. Si vuole che l’introduzione sia stata opera dell’esploratore Vasco de Gama che, nel corso della circumnavigazione dell’Africa alla ricerca di una via verso la Cina, assaggiò «ottime arance migliori di quelle del Portogallo». E possibile, in effetti, che già da anni le arance dolci fossero note nel Mediterraneo — alla corte di Siviglia le mangiavano nel 1492 e a Palermo nel 1487 arangiis dulcibus erano coltivati nel giardino di Federico de Abatellis — ma nessuna varietà era risultata pari per bontà, e quindi per fama e diffusione, a quelle importate dai portoghesi e che da allora e ancora oggi saranno note come arance Portogallo. Frutti così squisiti e belli non potevano non essere legati a un mito. Fu, agli inizi del Cinquecento, Giovangioviano Pontano nel poema De Hortis Hesperidum a consacrarli come i «pomi d’oro» del giardino delle Esperidi, le tre ninfe figlie di Espero dio della Notte, in cui crescevano alberi preziosi sorvegliati da un feroce serpente. Ercole, in una delle sue fatiche, ucciderà Espero e ruberà i frutti portandoli in dono a Euristeo che glieli aveva chiesti «mosso dal disio dei pomi», come ha raccontato Boccaccio. Dove fossero i mitici giardini è stata questione a lungo dibattuta. Si è pensato ai giardini della reggia di Anteo in Mauritania, a un bosco sacro vicino a Sirte in Libia, alle isole Fortunate (le odierne Canarie), alle isole Gorgonie (Capo Verde), e addirittura alle isole dei Caraibi nelle Americhe. Poi le rilevanze della storia e della fitogeografia hanno definito l'origine cinese della specie che i botanici hanno battezzato, testimoniandone la provenienza, Citrus sinensis, senza cancellare però la memoria del mito chiamando esperidio la sua bacca. Un frutto inconfondibile che Bruno Munari, il grande artista e designer milanese scomparso nel 1998, probabilmente riflettendo
sulla sua diffusione sui mercati di tutto il mondo, ha descritto con un’efficacia che nessun citrologo (così si chiamano gli specialisti di agrumi) ha mai raggiunto: l’arancia è costituita "da una serie di contenitori modulari... formati da una pellicola plastica sufficiente per contenere il succo... raccolti in un imballaggio... duro alla superficie esterna e rivestito con una imbottitura morbida interna... L’apertura avviene in modo molto semplice e quindi non si rende necessario uno stampato allegato con le istruzioni per l’uso... Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie.., è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo".3 Oggi l’arancia, insieme alla mela e alla banana, per la capacità di soddisfare e raggiungere i mercati più lontani e diversi, è un frutto simbolo della globalizzazione. Il suo sapore, l’aspetto estetico, le virtù nutritive e salutistiche, l’idoneità alle trasformazioni industriali, le caratteristiche organolettiche che la rendono facilmente trasporta- bile e conservabile sono le ragioni fondamentali di un successo che l’ha portata a essere coltivata anche in territori profondamente diversi, per caratteri ambientali, da quelli originari. Pianta nata in regioni tropicali a clima umido ha sfidato e vinto l’aridità delle zone subtropicali e il freddo prolungato dei territori con clima temperato. Le primitive piante di arancio selvatico potevano godere di piogge abbondanti per l’intero anno e temperature miti; inoltre la foresta tropicale che le ospitava nel sottobosco assicurava loro protezione dal vento. Tutt’altra condizione nei paesi d’introduzione dove l’irrigazione, le bonifiche, le protezioni invernali, secondo le locali caratteristiche ambientali, sono risultate pratiche necessarie e onerose, pur ripagate da frutti di sapore migliore di quelli che maturano nelle zone di origine e con un colore che, nelle varietà Sanguigne o Sanguinelle, Tarocco e Moro, il freddo prima della maturazione
3
B. Munari, Good Design, Corraini, Mantova 1998, pp. 8-10.
rende rosso intenso. «Arance imbibite di tramonti» le dirà Gadda. Gli agrumi, afferma lo storico Salvatore Lupo, hanno costituito per l’Italia «il più radicale intervento di ristrutturazione che l’agricoltura meridionale abbia saputo realizzare». Nelle regioni del Nord, dove non era possibile la coltivazione in piena aria si ricorreva alla coltura in vaso e a protezioni invernali che li sottraevano al gelo. Si trattava, del resto, di coltivare alberi di cui, come ha scritto Giorgio Gallesio, aristocratico ligure appassionato di botanica e autore di una Pomona Italica che rimane ineguagliata per le magnifiche tavole disegnate «tutto incanta gli occhi, soddisfa l’odorato, eccita il gusto e nutre il lusso e le arti». Testimone eccellente della considerazione di cui godevano gli agrumi era già stato Galileo Galilei che si domandava: "Quando fusse tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o de i metalli più pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro carrate d’oro per aver solamente tanta terra quanto bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti?"4 Ben prima dell’arancio dolce era arrivata nel Mediterraneo la specie a frutto amaro (Citrus aurantium) di cui già si hanno notizie nella Cina del V secolo a.C. dove era chiamata cheng. Quasi 1500 anni dopo, nel 912, fu trasportato dall’India all’Oman e quindi verso occidente in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto. L’arando amaro divenne uno dei principali protagonisti di quel lento diffondersi di uomini, di beni, di piante, di tecnologie e di idee che, dal VII secolo dopo la morte di Maometto, si propagò, sotto il segno dell’Islam, dai deserti e dai pascoli della penisola arabica a est verso la Mesopotamia, la Siria e la lontana Asia, a sud verso l’Abissinia, a
Galileo Galilei, Dialogo su i due massimi sistemi del mondo, giornata prima, (1632). 4
ovest verso l’Egitto e oltre verso l’Africa settentrionale, la Spagna, dove gli arabi arrivarono nel 711, e la Sicilia che fu assoggettata a partire dall’827. In poco più di due secoli, mondi lontanissimi, dalle rive del fiume Indo a quelle dell’oceano Atlantico, furono uniti da una grande civiltà che nel suo affermarsi raccolse, integrò, elaborò e trasmise differenti, antiche e grandi culture. Il futuro delle scienze matematiche e astronomiche, della medicina e delle scienze naturali occidentali ne verrà indelebilmente segnato. In campo agrario si affermerà un nuovo sistema colturale costituito da piante, tecniche, conoscenze, alla cui definizione hanno partecipato differenti culture agricole: la tradizione e la scienza agronomica e botanica cinese e indiana, gli antichissimi saperi della Mezzaluna fertile, l’esperienza africana, la sapienza idraulica egiziana, la grande tradizione agronomica greca e latina di Teofrasto, Dioscoride, Plinio, Columella. Un percorso da Oriente a Occidente i cui fondamenti culturali e geografici si ritrovano nella massima «la scienza è un grano spuntato a Medina, vagliato a Baghdad, macinato a Kairouan, stacciato a Cérdoba e mangiato a Fez». Con l’arancio amaro, gli arabi importarono il sorgo, il riso, la canna da zucchero, il frumento duro, il cotone, l’anguria, lo spinacio, il carciofo, la melanzana e, tra gli agrumi, anche il limone, il lime e il pomelo. Sono, soprattutto, piante da orto e da frutto che per sopravvivere e produrre nelle calde e siccitose estati mediterranee hanno bisogno di molta acqua. Per un pieno successo colturale, che per l’agricoltore significa certezza del raccolto, servono tecnologie adatte alla captazione, alla raccolta e alla sua distribuzione. La radicale novità della «rivoluzione araba» e il fondamento del suo successo stanno proprio nell’avere importato non solo nuove colture ma, con esse, le tecnologie utili ad assicurarne la produzione. Agli arabi si deve lo scavo dei qanat, le gallerie drenanti che raccolgono l’acqua di falda e la convogliano all’aperto in pozzi o grandi vasche e la
diffusione delle norie, ruote idrauliche azionate da ingranaggi a ruote dentate, mosse dal movimento in cerchio di un animale, che sollevano dal fondo di un pozzo recipienti d’argilla legati in una catena senza fine. Le moderne tecnologie, che portano al successo le nuove piante, nel linguaggio delle tecniche di irrigazione, utilizzano ancora oggi nel dialetto andaluso e siciliano termini di derivazione araba. L’arancio amaro occupa subito un posto di preminenza. Nel X secolo diventa il protagonista del Patio della Mezquita di Cérdoba e dei giardini dell’aristocrazia. Questi spazi, privilegiati per l’introduzione delle specie nuove, rappresentano anche luoghi di piacere o di produzione con funzione di osservazione botanica e agronomica; sono luoghi, ha scritto uno storico della rivoluzione agricola araba, dove «gli affari si mischiano al piacere, alla scienza, alle arti». Le piante vi giungono come curiosità ornamentale e lì, una volta riconosciuto un interesse economico, vengono riprodotte e diffuse nelle campagne. Alnar inj, l’arancio amaro, è coltivato, spesso in forme artificiali, sia per la bellezza dell’albero, sia per produrre succhi e sciroppi, in farmacia si usa la corteccia e in profumeria i fiori e i frutti immaturi. Diventerà albero comune in Spagna nei cortili di moschee e palazzi e in tante strade e piazze. Lo diventerà nonostante il minaccioso avvertimento dell’agronomo al-Tignari che riteneva, nell’XI secolo, che se fosse piantato in una città "a essa sarebbero sopravvenute innumerevoli disgrazie e calamità". In Italia se ne avrà notizia solo in epoca normanna. Il luogo di introduzione e diffusione è sicuramente la Sicilia dove un diploma del 1094 attesta la presenza di una via de arangeriis. Nell’isola la terra prediletta sarà la Conca d’Oro, la pianura di Palermo, con i sollazzi di stile islamico degli imperatori Ruggero e Guglielmo d’Altavilla e poi di Federico di Svevia, nei giardini «paradisi della terra» che la circondano come «i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo». La bellezza dei loro frutti commuove i
poeti siciliani di lingua araba. Abu-l-Hasan Ali esorta: "Su, gioisci della tua arancia raccolta: è presente la felicità, quando essa è presente. / Si dia il benvenuto alle guance dei rami, e sian benvenute le stelle degli alberi! / Sembra che il cielo abbia profuso oro fino e che la terra ce ne abbia formato delle sfere lucenti".5 Ancora oggi, la Sicilia è la terra delle arance migliori, anche se l’evoluzione agronomica ha decretato la rinunzia di molti suoi impianti tradizionali. Di fronte all’abbandono dei giardini di aranci, paesaggi che prima di produrre frutti producono bellezza, è necessario invocare tutela e aiuti concreti agli agrumicoltori ostinati. Chi non ne conviene e non interviene dovrebbe essere considerato fuori di testa come un’arancia meccanica, riprendendo la metafora di Anthony Burgess e Stanley Kubrick riferita a insensate violenze. A più e meglio motivare i difensori dei paesaggi culturali, per riconoscere il valore delle arance e dei vecchi aranceti possono risultare utili le parole di André Gide in visita a Sorrento: "Nulla potrà esprimere la luminosità, il fosco splendore, l’ordine, la bellezza ritmica, la morbidezza... Entravo sotto la coltre degli aranci, per metà commosso, per metà sorridente e pieno di brio.., non so più quante ne mangiammo, ahimè, in quell’estasi".6 Nei giardini di arance, ancora oggi, è possibile trovare le vere ragioni del furto di Ercole. Dal giardino del mito, dal luogo felice, l’eroe greco voleva rubare la sensualità e la bellezza, in forma di
Di Matteo, Antologia di poeti arabi siciliani estratta da quella di Ibn al Qatta, in L. Sciascia (a cura di), Delle cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980, voi. I, p. 79. 6 In A. Cazzani (a cura di), Giardini d’agrumi. Limoni, cedri e aranci nel paesaggio agrario italiano, Grafo, Brescia 1999, p. 155. 5
arancia, e regalarle al mondo. Che queste siano quelle carnali, forse fugaci, della poesia di Jacques Prevert: «Un’arancia sul tavolo / il tuo vestito sul tappeto / e, nel mio letto, tu / dolce dono del presente» o quelle spirituali, che si vorrebbe eterne, dei fiori d’arancio omaggio delle spose alla Vergine Maria, poco importa.
CARRUBO Nel giardino degli dèi, sulla riva del mare dove ogni mattina si alzava Samas il dio sole, arrivò Gilgamesh nella vana ricerca dell’amato Enkidu. Tragico eroe mesopotamico che «vide misteri e conobbe cose segrete e su una pietra l’intera storia incise di un lungo viaggio dei giorni prima del Diluvio» vi trovò «ogni specie di alberi di pietre preziose: la corniola porta i suoi frutti... il lapislazzuli porta foglie.., e il carrubo è calcedonio». In una tavoletta d’argilla rinvenuta a Ninive, un segno della considerazione di cui già allora godeva un albero che nei millenni futuri si mostrerà per gli uomini tanto più prezioso quanto maggiore sarà la loro fame, quanto più cocente il sole sulle loro terre. Il carrubo sarà conosciuto e apprezzato nel Mediterraneo solo nella seconda metà del primo millennio a.C., duemila anni dopo l’epopea di Gilgamesh, per i suoi frutti zuccherini — baccelli simili a corni (dal greco kéras, corno, e dal latino siliqua deriva il nome botanico Ceratonia siliqua), che ne testimoniano l’appartenenza alla famiglia delle leguminose — e per la sua ombra densa e permanente che lo rende insostituibile negli spazi disboscati dall’agricoltura e dal pascolo, contro il solleone e gli improvvisi acquazzoni. Ne scriveranno Teofrasto, allievo di Aristotele, e quindi i latini Plinio il Vecchio e Columella con poche parole che testimoniano un uso non esteso e una differente specificazione, siliqua siriaca o siliqua greca, che comunque conferma la provenienza orientale. Gli arabi lo conosceranno con il nome, che poi diverrà comune nelle lingue neolatine, di kharrub e il suo seme, kirat, sarà usato,
per il peso ritenuto costante di 199 milligrammi, come unità di misura, il carato, delle pietre preziose e della purezza dell’oro. Prima ancora che agli uomini, la polpa nutriente dei frutti era gradita agli animali. Se ne nutrirono i porci che, nel Vangelo secondo Luca, il figliol prodigo pascolò prima del ritorno a casa; i cavalli da tiro della Compagnia Generale degli Omnibus di Parigi; quelli dell’esercito italiano dell’ultima guerra ghiotti di energon, miscela che conteneva polpa di carrube, crusca e fieno tritato. Ma se ne nutrirono anche gli uomini, in tempo di guerra e in tempo di pace ma pur sempre di povertà. A dimostrare con Guido Piovene che "ogni carrubo è una piccola oasi rievocante un mondo di contadini e pastori" un vecchio contadino siciliano racconta in una testimonianza raccolta da Fabio Monreale: «Se non avessimo avuto le carrube, saremmo morti di fame! Certi giorni, quando andavamo a raccogliere le olive, da casa non potevo portarmi niente da mangiare e a mezzogiorno mi saziavo di carrube. Le trovavo sotto l’albero dove sostavamo per mangiare all’ombra. A quel tempo mio padre diceva: Quando vi accorgete che il pane è poco, mangiate carrube e bevete acqua. I guai venivano dopo perché la carruba è strazzaculu. Così mentre in estate non andavamo più di corpo perché mangiavamo i fichidindia, d’inverno ci andavano con dolori e difficoltà perché mangiavamo le carrube. Quando sbarcarono gli americani non avevamo niente da offrirgli. Una volta mia moglie buonanima gli diede un p0’ di carrube abbrustolite, ma non le vollero. Ci facevunu ‘mpressionii! Certu, cu tutta a grazia ro Signori ch’avevanu (carni ‘nscatula, ciucculatta e autru beni di Diu) si puteano mangiari i carrubbi?». Una storia di dignitosa miseria, come quella dei Malavoglia evocata anche dal nome di una protagonista, la Mangiacarrubbe. Ma storie che la campagna siciliana, nella sua parte più assolata e secca, l’ombra degli alberi di carrubo rende comunque ricche di vita. Il personaggio di Verga è «una sfacciata che si è fatta passare tutto il paese sotto la finestra. “A donna alla finestra non far festa” e Vanni Pizzuto le portava i fichidindia rubati a Massaro Filippo
l’ortolano, e se li mangiavano insieme nella vigna, sotto il mandorlo...»; altri amori è facile immaginare sotto l’ombra scura dei carrubi che punteggiano la trama dei muretti di calcare bianco dell’altipiano ragusano dove, come suggerisce una leggenda, non bisognerebbe mai addormentarsi per non cadere preda del diavolo. L’ombra dell’albero delle fotografie di Enzo Sellerio con l’asino che, brucando le foglie più basse, ha sagomato il carrubo in forma di ombrello; il paesaggio delle «cantilene dei carri lungo le strade / dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie» rimpianto da Salvatore Quasimodo in un «lamento d’amore senza amore» per il Sud abbandonato. Negli Iblei, nel Nuorese, nelle Murge è specie così diffusa, nei territori più caldi e nei suoli pietrosi e asciutti, che insieme all’olivo selvatico dà nome alla fascia di vegetazione mediterranea che i botanici definiscono oleo ceratonion, e che vede i due alberi in compagnia del lentisco, del terebinto, della palma nana, della fillirea e del mirto. Alberi che l’uomo ha coltivato, con il ricorso all’innesto e districandosi nella loro complicata vita sessuale, esercitando un’attività di selezione mirata alla capacità produttiva. I due sessi, nel carrubo, si presentano su piante diverse; è quindi specie dioica (duo 6ikos, due case); fatto positivo dal punto di vista della selezione naturale perché garantisce l’unione tra individui diversi e quindi maggiore variabilità nella discendenza, ma sfavorevole dal punto di vista della produttività perché le piante maschili necessarie per il polline non producono frutti. Gli agricoltori sono però riusciti a selezionare e diffondere piante che portano fiori ermafroditi, così che ogni albero sia in grado di produrre carrube. Un lento processo di selezione, ancora imperfetto, come dimostra la presenza di alberi poligami cioè che presentano tutte le combinazioni sessuali possibili, volto inizialmente a carrube più ricche di zucchero, magari per ottenerne caramelle e sciroppi efficaci contro tossi e bronchiti, mustazzoli (biscotti con buccia d’arancia, mandorle e miele di carrubo), carcao (surrogato del
cioccolato, privo delle sostanze eccitanti caffeina e teobromina). Sono, però, i semi il prodotto oggi più richiesto dall’industria alimentare: se ne estrae una farina idrosolubile addensante, eccellente per salse, condimenti, insaccati, formaggi industriali e gelati cui dà una struttura uniforme e vellutata. Grazie a essi il carrubo mantiene nelle campagne mediterranee non soltanto un ruolo ambientale o paesaggistico ma anche un ruolo economico, presupposto indispensabile per la sua sopravvivenza tra il proliferare di insediamenti turistici e di impianti industriali e rassicurante notizia per chi ritiene che gli alberi abbiano comunque un valore sacro, per chi, come i popoli del Nordeuropa, lo considera l’albero di Giovanni Battista perché di carrube (e non di locuste) e di miele selvatico si sarebbe nutrito nel deserto, e per chi segue le mode esoteriche cresciute attorno alle opere di Leonardo da Vinci che sotto un carrubo, nella Adorazione dei Magi conservata agli Uffizi, dipinge una figura con l’indice puntato verso l’alto; gesto che si ripete nella Vergine delle Rocce e nell’Ultima Cena e che alluderebbe alla eresia dei Giovanniti, la setta che voleva Giovanni Battista di rango superiore a Cristo. A confermare la sacralità dell’albero, a chiedere rispetto per il disegno delle antiche campagne meridionali, non servono, però, forzate fantasie, basta la veneranda età di certi esemplari (patri ranni, grandi padri, li chiamano a Siracusa) che rimandano al vecchio del Talmud che pianta un carrubo perché i figli e i nipoti, come a lui è accaduto per la generosità dei suoi antenati, ne possano raccogliere i frutti. Serve anche ricordare l’antico detto siciliano «perdere l’asino con tutte le carrube» quando, in risposta a passeggeri e venali bisogni, si strappano dal paesaggio e dalla memoria alberi e ricordi che hanno radici profonde.
CASTAGNO Quando agli inizi del secolo scorso un importante studioso di selvicoltura, Aldo Pavari, si pose l’obiettivo di aumentare la produzione di legno nei boschi italiani introducendo specie esotiche maggiormente produttive, si trovò di fronte alla necessità di individuare un metodo che consentisse di ridurre al minimo i rischi connessi all’impianto di alberi per i quali era impossibile prevedere la rispondenza ai nuovi ambienti. Si affidò alla considerazione che è il clima a influenzare, più di ogni altro fattore ecologico e più dell’azione dell’uomo, la distribuzione geografica delle piante. Ritenne, quindi, che se si fosse suddiviso il territorio in zone climatiche sarebbe stato più facile individuare le migliori specie da impiantare ricorrendo a quelle che provenivano da aree magari geograficamente lontane ma simili dal punto di vista ambientale. Nello scegliere i nomi delle zone si affidò alle specie che riteneva più rappresentative dei rapporti tra la vegetazione e il clima: lauretum, la zona dell’alloro che in Italia includeva le zone costiere della macchia mediterranea e delle coltivazioni di agrumi; castanetum, la zona del castagno che comprendeva le regioni dei grandi laghi e le più basse pendici dell’Appennino; fagetum, dove il faggio copriva i territori più alti dell’Appennino e della Sicilia e le Alpi fino a 1500 metri di altezza; picetul’n, con gli abeti delle regioni alpine; alpinetum, ai limiti di sopravvivenza della vegetazione arborea. Nella complessa geografia della penisola, in relazione ai caratteri del terreno, alla variabilità del clima, alla storia dei rapporti con l’uomo, i confini non erano mai netti. Solo un albero però, il castagno, fuoriusciva risolutamente dai limiti assegnati non solo per la naturale versatilità a caratteristiche ambientali diverse, ma anche per gli strettissimi legami con
l’uomo che per necessità vitali ne aveva portato la coltivazione ovunque fosse possibile, anche oltre i confini ecologici. A differenza delle altre specie boschive il castagno è, in effetti, considerato «pianta a un tempo agraria e forestale». É stato coltivato per il legno e per i frutti che hanno costituito elemento essenziale della dieta di chi viveva in montagna fino a rappresentare, anche per sei mesi l’anno, l’alimento principale. «Le castagne sono el pan della povera gente» si affermava nel Cinquecento; se ne otteneva «pane d’albero» e, osservava il marchese di Montaigne nel Journal du voyage en Italie, nei pressi di Lucca si mangiava «pane di legna». Il nome dell’albero deriverebbe dall’antica città di Kastanis, nell’odierna Turchia. Un rimando corretto se si fa riferimento alla sua riduzione in coltura ma che cela l’origine indigena molto antica, riferibile a quei relitti di vegetazione sopravvissuti nell’Europa meridionale nelle terre sfuggite alle ultime glaciazioni. Resti di polline, di foglie, di ricci e di castagne rinvenute in Liguria e nella Savoia, sono testimonianza di un uso remoto di alberi selvatici non ancora consapevolmente coltivati. Dalla Lidia, terra di domesticazione, la specie Castanea sativa, la più importante tra la dozzina presente nei diversi continenti dalla Cina all’America, era giunta nell’antica Grecia e poi a Roma. Sull’uso alimentare dei frutti, le «farinose castagne» di cui Titiro, il pastore delle Bucoliche virgiliane, si nutre insieme a «mele mature... e copia di latte premuto», si sofferma Plinio che testimonia come i castagni selvatici siano regolarmente innestati con varietà pregiate. Ne cita diverse, ma elogia, in modo particolare, quelle di Taranto e di Napoli quando sono arrostite a fuoco lento. L’importante, era chiaro fin dall’avvio dei processi selettivi della specie, che fossero di facile pelabilità, che, cioè, la buccia si staccasse facilmente dal seme.
La maestosità della pianta — gli arboricoltori la definiscono di «prima grandezza» per la capacità di superare i 30 metri di altezza —, la chioma ampia ed espansa, l’apparenza della corteccia che liscia e bruna nei primi anni diviene grigia e solcata da profonde scanalature, il colore delle foglie giallo oro in autunno, grandi e dentate, sono qualità aggiuntive che spiegano la sua diffusione oltre i limiti delle «selve castanili» come erano chiamati i castagneti da frutto. "Davanti all’arco d’ingresso... del convento di Mariabronn, sul margine della strada c’era un castagno, un solitario figlio del Sud, che un pellegrino aveva riportato da Roma in tempi lontani, un nobile castagno dal tronco vigoroso; la cerchia de’ suoi rami si chinava dolcemente sopra la strada, respirava libera ed ampia nel vento".7 L’incipit di Narciso e Boccadoro, il romanzo di ambientazione medievale di Herman Hesse, testimonia di un albero il cui valore va oltre la capacità di produrre legna o frutti, anche perché «quando l’altra frutta era già raccolta ed il vino nei tini, lasciava cadere al vento d’autunno i frutti spinosi dalla corolla ingiallita: non tutti gli anni maturavano» i frutti dell’albero «esotico e delicato... ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d’altra zona» a dimostrare un’espansione colturale, nel Nord dell’Europa, ai limiti ecologici della specie. Negli anni buoni, per le castagne «s’azzuffavano i ragazzi del convento, e il sottopriore Gregorio, oriundo del mezzodì, le arrostiva in camera sua sul fuoco del camino». Nell’ambiente vocato, nell’Europa meridionale, il castagno è protagonista indiscusso del paesaggio boschivo medievale. I castagneti sono severamente tutelati dal pascolo eccessivo e dai
7 H. Hesse, Narciso e Boccadoro, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989, p. 3.
danneggiamenti; a Pinerolo si arriva a tagliare la mano dei colpevoli. Dalla Sicilia al Piemonte ovunque le pendici delle montagne, purché i suoli non siano argillosi o calcarei, sono coperte da castagneti. Matilde di Canossa ai postulanti che affamati giungevano in cerca di elemosine dall’Appennino emiliano, preferiva regalare piantine di castagno piuttosto che denaro. «Il cereale che cresce sull’albero» avrebbe meglio assicurato il loro futuro. Con le cure colturali, la pulizia del sottobosco, la potatura, l’innesto il bosco da silvaticus si trasformava in domesticus; la «selva oscura» si umanizzava. Un antichissimo castagno sopravvive da quei tempi, addirittura da due o tremila anni. È il castagno «dei cento cavalli» alle pendici dell’Etna, che nel 1343 avrebbe protetto dalla pioggia la regina Giovanna d’Angiò e i suoi cavalieri. Tappa obbligata per i viaggiatori del Grand Tour, la sua vista era spesso motivo di delusione perché piuttosto che un grande gigantesco albero, come era d’aspettarsi, si arrivava di fronte a tre tronchi che apparivano come alberi distinti. In effetti — le moderne indagini molecolari lo hanno confermato — si tratta di tre antichi polloni cresciuti, dopo un remoto taglio raso, da un’unica ceppaia. I frutti del castagno si raccolgono secondo le varietà e le zone di coltura tra settembre e ottobre. Gli uomini li facevano cadere a terra colpendo l’albero con lunghe pertiche, poi era lavoro di donne e bambini; seguivano i maiali a raccattare i frutti bacati o dimenticati. Le castagne buone si conservavano in ricciaia, un cumulo ricoperto da foglie e da terra, dove subivano una parziale fermentazione che le preservava come fresche per alcuni mesi. Per conservarle più a lungo si essiccavano. Si ponevano in un edificio in muratura a due piani: un metato, lo chiamava alla maniera toscana Giovanni Pascoli «in cui seccasse a un fuoco dolce, il dolce pan di legno». Pur restando fino a cinquant’anni fa prodotto strategico per l’economia di montagna, per la sussistenza dei montanari e per i
loro commerci, dalla fine del Settecento la produzione di castagne ha iniziato un lento regresso. È cresciuta la richiesta di legno per le industrie metallurgiche e tintorie, è migliorata la viabilità forestale, è diminuita la necessità dell’autosostentamento; nelle radure liberate dai castagneti sono seminate colture (cereali, patate, foraggere) più redditizie. Nella seconda metà dell’Ottocento e poi un secolo più tardi, arrivano due terribili malattie causate da funghi che ancora oggi deprimono i castagneti. Il mal dell’inchiostro, perché nero diventa il legno delle piante colpite, e il cancro corticale che dall’oriente giunge nello zoo di New York e distrugge — «è una catastrofe» scrivono i giornali — i boschi delle regioni orientali dall’Alabama al Maine per sbarcare nel 1938 a Genova. Per difendere l’economia del castagno gli studiosi introducono con un certo successo le specie giapponesi e cinesi (ma la taglia degli alberi è più piccola e più piatto il sapore dei frutti) e mettono in atto la lotta biologica, impiegando ceppi del fungo fino a rendere immuni gli alberi della specie europea. Due secoli di continua regressione che portano i castagneti a un decimo della superficie originaria. Finalmente il declino sembra, oggi, arrestato e si innestano i marroni, varietà di grosse castagne facili a pelarsi e idonee alle più pregiate trasformazioni dolciarie. Destinazioni raffinate che si aggiungono a quelle della povera economia montana: il castagnaccio, le caldarroste, le castagne ballotte cotte in acqua con semi di finocchio o bollite nel vino, le castagne infornate di Montella in Campania e quelle affumicate dell’alta Val Bormida rimangono, nuovamente apprezzate, a ricordare gli antichi sapori. Antico è, anche il gusto particolare del miele di castagno, ricorda il profumo dei fiori, «aspro e intenso, pieno di richiami, quasi opprimente» come scrive Hermann Hesse. Il castagno mantiene anche, confermando l’antica familiarità con l’uomo, molti usi terapeutici: l’acqua di lessatura delle foglie e delle bucce è ritenuta efficace contro la gotta, gli infusi di foglie leniscono la tosse, quello di corteccia cura la dissenteria. Cocendoli con le
prugne ci si illudeva di tenere lontana la peste. Nella povera economia di montagna il castagno ha coperto e copre ancora molte funzioni. A quelle alimentari si uniscono quelle ambientali. I castagni proteggono il suolo e nel loro legno conservano a lungo — un albero può vivere centinaia di anni — l’anidride carbonica che hanno sottratto con la fotosintesi all’atmosfera diminuendo l’effetto serra. Plinio dubitava del valore delle castagne, riteneva «veramente strano che siano di così scarso valore dei frutti che la natura ha con tanto zelo occultato» nel riccio, la cupola spinosa che li protegge e che a Pablo Neruda ricorderà i capelli da «castagna spettinata» dell’amata Matilde. La coltura del castagno era ancora ai primi passi ed era difficile immaginare che, per mille anni nelle montagne e nelle colline dell’Europa meridionale si sarebbe affermata una «civiltà del castagno». Allo scetticismo di Plinio ha risposto la storia, ma anche le favole e le poesie. Nelle favole i ricci spinosi erano opera del diavolo così che i montanari almeno si pungessero visto che erano tanto fortunati da avere un frutto che gli pioveva in testa già diviso in tre parti: una per il padrone, una per il contadino, una per il povero. Nelle poesie, le castagne aiutano a nutrire la memoria. Scriveva Cesare Pavese: Le mie terre di vigne, di prugnoli e di castagneti / dove sono cresciute le frutta che ho sempre mangiato, / le mie belle colline hanno un frutto migliore che fantastico sempre e non ho morso mai.8 Quanti ricordi saranno tornati, quanti sogni saranno nati raccattando castagne sotto gli alberi, togliendo pazientemente i ricci e poi le bucce cuoiose, aspettando vigili per molti giorni che seccassero al fuoco.
8
C. Pavese, Ciao Masino, Einaudi, Torino 1968, voi. I, p. 46.
CILIEGIO "In mezzo al silenzio risuona il suono sordo della scu« re che si abbatte su un albero: un suono solitario e triste". È l’epilogo de Il giardino dei ciliegi, l’opera che Anton Cechov scrisse nel 1904, pochi mesi prima di morire, mettendo in scena la fine di un mondo e l’avvicinarsi di un altro affatto diverso. Gli alberi di ciliegio segnano i tempi del dramma, i sentimenti e le ragioni dei protagonisti. L’apprensione per i fiori che il clima russo, seppure sia maggio, ancora minaccia — «il giardino è gelato! Ci sono tre gradi sottozero: e i ciliegi in fiore!» — si trasforma in un avvertimento con le parole di Lopachin, figlio di schiavi che comprerà il giardino, a Liuba Ranévskaia la proprietaria in rovina — «lo sa che il giardino di ciliegi di sua proprietà dev’essere venduto per saldare i debiti» — e in un interessato suggerimento: "Cedendo in affitto il giardino dei ciliegi...divisi in lotti per villini da costruire, voi ricaverete come minimo venticinquemila rubli di rendita all’anno... Intanto, frutta solo una volta ogni due anni, e poi le ciliegie, non si sa che farne, nessuno le compra più".9 Per la famiglia proprietaria è giunto il tempo del rimpianto: "Una volta.., le ciliegie le seccavano, le mettevano sotto spirito, le marinavano, facevano la marmellata, e ai miei tempi... le ciliegie secche le spedivano coi carri a Mosca e a Char’kov. Erano quattrini! E allora la ciliegia secca era morbida, succosa, tenera,
9 A. Cechov, Teatro, Mondadori, Milano 1990, p. 193.
profumata... Il giardino è tutto bianco. Te lo ricordi, Liuba?... e splende, nelle notti di luna?... Te lo ricordi? Non l’hai dimenticato?" «Villini e villeggianti... ma è di un tale cattivo gusto» si indigna Liuba. «Ma vedrete come cadono gli alberi! Costruiremo le ville» è la risposta del nuovo padrone. E il sipario si chiude con il rumore della scure. La storia, almeno nel caso dei ciliegi e della devastazione del paesaggio, si ripete. Duecento anni dopo Cechov, nel trionfo delle villette e dei capannoni industriali, nella Marca trevigiana come in Brianza, continuano a cadere gli alberi e ad avanzare il cemento. Si trova sempre un buon motivo per usare la scure e il mosaico di boschi e campi coltivati, la rete di alberature e di siepi si frammenta in un caotico paesaggio supermarket che tutto contiene: la discoteca, la piccola industria, il centro commerciale, il villino, i resti di un giardino, se va bene un garden center. I ciliegi sono le vittime illustri dei boschi e delle campagne che cedono all’avanzare della città. Simbolo, per tutti i pregi che la natura ha affidato loro e che la cultura ha riconosciuto, accresciuto, poi cancellato, di un rapporto tra uomo e ambiente che si è capovolto, divenendo per entrambi distruttivo. I ciliegi sono alberi perfetti. Hanno il tronco che cresce diritto fino a oltre 30 metri con un legno rosato, indicato per la falegnameria fine, l’ebanisteria, il tornio. Vivono, dalla Gran Bretagna meridionale fino alle montagne nordafricane, senza particolari esigenze in fatto di clima e di suolo che, anzi, con le ampie radici proteggono. Amano la luce e in compagnia del frassino e dell’acero montano sarebbero pronti a colonizzare i campi abbandonati delle montagne e delle colline. In Italia, dalla pianura fino a 1800 metri di altezza, sono presenti in quasi tutte le regioni. «Grande è stata l’amistà del terreno dell’amenissima Italia» scriveva nel 1554 il medico e botanico senese Pier Andrea
Mattioli «non credo che sia hoggidì albero in Italia più conosciuto de i ciregi.» La chioma, che in inverno si spoglia lasciando cadere foglie rosso arancione dai margini dentati, è ampia e piramidale; ottimo rifugio per gli animali ma anche per gli uomini che vi si arrampicano volentieri per raccogliere, come Fulvia sugli alberi della collina di Alba «nella primavera del quarantadue... le ciliegie più gloriosamente mature» sotto lo sguardo innamorato e preoccupato — «se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una» — del partigiano Milton in un romanzo di Beppe Fenoglio. I frutti possono anche e volentieri rubarsi; lo faceva «la gran banda dei ladruncoli di frutta» che popolava pericolosamente i boschi de Il barone rampante di Italo Calvino: "Tanto che qualcuno per poco non cadeva dal ciliegio, e qualcuno si buttava indietro tenendosi con le gambe al ramo, e qualcuno si lasciava penzolare appeso per le mani".10 L’importante, vuole un’antica tradizione, è che non ci si arrampichi nel giorno di San Giovanni (24 giugno) o di Santa Maria Maddalena (22 luglio), pena una sicura caduta. Minaccia tardiva, i frutti già maturi sono stati raccolti. Le ciliegie, lucide e carnose, colorate in tutte le tonalità che portano al rosso scuro, sicura testimonianza di dolcezza e freschezza evocano nei poeti le labbra femminili: «E io ti davo baci / senza accorgermi / che non ti dicevo: / “Oh labbra di ciliegia!”»; imperdonabile Garcia Lorca e fuorviante, invece, Carlo Collodi per «la punta del naso, sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura» del falegname Mastro
10
41.
Italo Calvino, Il barone rampante, Mondadori, Milano 1993, p.
Ciliegia. Frutti contesi agli uccelli (Prunus avium, appunto «degli uccelli»), dal ridotto contenuto in acqua e per questo ancor più nutrienti, ricchi di sapore e conservabili. La zuppa di ciliegie secche con pane bollito e burro era pietanza molto popolare nell’Europa centrale; apprezzabile ma certo non paragonabile al companatico di ciliegie fresche vesuviane cantato negli anni della Grande Guerra: «Reginè, quanno stive cu mmico / nun magnave ca pane e cerase, / Nuie campavamo ‘e vase, e che vvase / tu cantave e chiagnive pe’ me». Secondo Plinio, merito dell’introduzione in Italia della prima varietà selezionata va a Lucullo e ai suoi legionari. La importarono nel 74 a.C., al termine della guerra vittoriosa contro Mitridate re del Ponto, da Girasun città del Mar Nero da cui si ritiene abbia poi preso origine il termine latino cerasus che ancora rimane nei dialetti meridionali e nel nome botanico delle amarene, specie dai frutti più piccoli e acidi. Al generale romano, sfrenato amante del lusso, un frutto delizioso come la ciliegia dolce non poteva sfuggire, così come non sfuggì ai più umili agricoltori suoi conterranei, osserva ancora Plinio, la sua utilità economica visto che si trattava di «uno dei primi frutti che dà al contadino la ricompensa annua della sua fatica». Apprezzato per i frutti ma poco generoso e incostante nel produrli è stato oggetto di molte attenzioni utili a risolvere il problema. Non ci sono riusciti i contadini francesi che provavano a minacciare gli alberi improduttivi cingendoli nei giorni del solstizio d’inverno con un cordone di paglia intrecciata, premessa di abbattimento. Migliori risultati hanno ottenuto gli agronomi che dopo essersi accorti che i fiori del ciliegio seppure ben formati sono sterili, consigliano di impiantare insieme ciliegi di varietà diverse, così da evitare il rigetto provocato da alcune proteine che presiedono al riconoscimento tra il polline che si allunga verso l’ovario e lo stilo e che impediscono la fecondazione tra fiori della
stessa varietà. L’impianto tra ciliegi diversi può però non bastare ad assicurare la formazione dei frutti, le fioriture devono anche essere contemporanee e le api presenti in quantità (il freddo e i pesticidi in eccesso possono frenare un volo che il nettare ricco di zuccheri renderebbe invece molto fecondo) e non si deve incorrere in gelate. Mario Rigoni Stern, trepida di fronte «alle onde bianche di ciliegi in fiore che ai piedi delle mie montagne aspettavano insetti pronubi o un leggero zefiro, ma non la neve e il vento del Nord». Adesso, la moderna ricerca ha risolto il problema individuando varietà autofertili che non hanno bisogno di polline estraneo. Ha anche affrontato il tema della dimensione degli alberi, preoccupata dai costi connessi all’uso di scale, carri raccolta, piattaforme elevatrici e ha tormentato gli alberi, approfittando dell’arrendevolezza dei loro rami, piegandoli e costringendoli in forme innaturali ma certamente più confacenti alle esigenze della produzione. Ha anche inventato portinnesti nanizzanti che riducono enormemente la taglia degli alberi, varietà di mole compatta e che si prestano alla raccolta con macchine che ne scuotono il tronco o i rami e fanno cadere i frutti su teli accoglienti. Nei frutteti industriali rimangono dell’albero perfetto, e non è poco, le ciliegie e in primavera i fiori riuniti in mazzetti bianchi e profumati. La fioritura di alcune specie che i giapponesi hanno selezionato come ornamentali è davvero spettacolare tanto da diventare occasione di feste e cerimonie nei parchi e nei giardini dove si danza, si banchetta e si beve. «Se manca il sake,/ velata / è la bellezza dei ciliegi in fiore» recita un antico haiku. Si può anche restare senza parole: «Oh guarda! / e null’altro proferire, / dinanzi ai ciliegi in fiore / del monte Yoshino», o darsi a un’euforia meno estatica come quella dei versi di Pablo Neruda che conclude una «poesia d’amore» con versi che conservano un’essenzialità giapponese: «Voglio fare con te / ciò che la primavera fa con i ciliegi».
FICO L'ecologia, cioè il "discorso sulla casa", oikos logos, è la scienza che studia le relazioni tra gli esseri viventi e il pianeta che li ospita e che insegna, nell’interesse comune, per il presente e per il futuro, a rispettarle. Nella «casa» mediterranea, l’antichissima alleanza tra il fico, l’ambiente dove l’albero cresce, l’uomo che lo coltiva e ne raccoglie i frutti e un minuscolo insetto che li feconda è esemplare testimonianza di quanto stretti sono i rapporti tra il mondo vivente e quello inanimato, tra animali e piante, tra natura e storia, tra coltura e cultura. Un’alleanza che nasce 10.000 anni fa nel Vicino Oriente, nelle terre oggi martoriate dalle guerre e dai disastri ambientali, ai confini tra l’Africa, l’Asia, l’Europa, quando popolazioni di cacciatori e raccoglitori nomadi, iniziarono a raccogliere semi dai cereali che crescevano spontanei nelle praterie fertili ai piedi delle montagne e a conservarli in pozzi scavati nel suolo. Costituivano riserve alimentari che permettevano così una vita sedentaria, l’elaborazione di rudimentali tecniche di coltivazione, la specializzazione di alcuni uomini e donne, finalmente liberi dall’obbligo quotidiano del procacciamento del cibo, verso la produzione agricola e poi verso le attività artigiane, guerriere, intellettuali. Nei pressi di torrenti o di fiumi, dove i semi sparsi al suolo, appena interrati, liberati dalla competizione di altre erbe — primi atti agricoli —, germogliavano su terre fertili saltuariamente irrigate dall’acqua dei fiumi, nascevano i primi villaggi, si preparavano le città. Nelle boscaglie che chiudevano le radure coltivate, liberate col taglio e col fuoco, gli uomini
impararono presto a conoscere anche i frutti del fico e a coltivarli; bastava per iniziare interrare un pezzo di ramo che facilmente avrebbe emesso radici. Li scoprirono gradevoli al gusto e, come intuirono da quelli asciugati dal sole e risparmiati dagli uccelli o dai topi, idonei a essere essiccati e consumati nei mesi invernali. Avevano avuto più fortuna delle scimmie, degli uccelli, dei pipistrelli che nelle regioni tropicali si nutrivano dei frutti delle altre 750 specie simili, perché i frutti del fico che cresceva nelle loro terre risultavano deliziosi grazie al clima caldo e secco che facilitava l’accumulo degli zuccheri. Solo nella corteccia liscia, nei tronchi contorti e muscolosi — «il fico mi tende le braccia... / il fico mi urla e m’assale / tremendo e moltiplicato» scriverà Federico Garcia Lorca — ricorda le specie orientali, che adesso crescono nei giardini del sud e che arrivano a soffocare — sono detti alberi strangolatori — con le radici aeree gli alberi attorno a cui si avviluppano nella crescita. I frutti energetici del fico accompagnarono la nascita delle prime civiltà agricole in Mesopotamia, in Palestina e in Egitto e quindi l’avanzata delle civiltà mediterranee e presto, con l’albero che li produceva, travalicarono i confini dell’agricoltura e dell’alimentazione, per entrare in quelli dell’immaginario. Una caratteristica che lo rendeva diverso dagli altri alberi, e perciò straordinario, era che, durante l’anno, arrivava a produrre due volte. I suoi frutti «maturano quando si miete e quando si vendemmia» avrebbero detto i romani; quelli settembrini si essiccavano facilmente al sole o nei forni divenendo preziosa risorsa per l’inverno. La via lungo la strada dei miti e delle religioni era tracciata dalla curiosa pratica necessaria a farli maturare: bisognava appendere sull’albero di fico domestico i frutti del caprifico, la forma selvatica. In questo modo, come riteneva Teofrasto nel IV secolo a.C., i «moscerini» che nascono dai frutti del caprifico «si dirigono verso i frutti del fico... socchiudono il cuore del frutto,
assorbono l’eccesso di umidità e fanno entrare l’aria esterna». Plinio, secoli dopo, avrebbe ribadito: «Si verifica un passaggio generale di principi generatori... entra il sole e i soffi fecondatori grazie ai moscerini che aprono gli orifizi». I due scrittori classici non erano molto lontani dal vero. Il moscerino, un imenottero appena visibile, compie, infatti, il trasporto dal caprifico al fico del polline che questo non possiede essendo praticamente privo di fiori maschili. Uscendo dall’ostiolo, il piccolo buco alla base del siconio, l’infiorescenza in forma di ricettacolo che contiene al suo interno molti piccoli fiori, si imbratta del polline dei fiori maschili. Il piccolo insetto vola, allora, all’interno dei siconi del fico domestico per deporre le uova nei suoi fiori femminili; la forma inadeguata di questi non lo permetterà (mangeremmo altrimenti piccole larve), ma nel dimenarsi deposita il polline. I fiori che ne sono fecondati porteranno ai veri frutti: i piccoli achenii legnosi che tappezzano l’interno del siconio che, diventato carnoso e dolce, costituisce, seppure «falso frutto», il fico che mangiamo. La simbiosi tra il fico, l’insetto (e l’uomo consumatore) si perfeziona con il caprifico che ospita nei suoi siconi — sono stati paragonati al più piccolo e nascosto tra i giardini — l’accoppiamento tra il maschio e la femmina dell’insetto, la deposizione e la schiusura delle uova. La caprificazione, la pratica di appendere collane di fichi selvatici tra i rami degli alberi domestici, in Grecia era opera esclusiva delle donne, almeno fino a quando Demetra non donò a Fitalo il primo albero di fico coltivato in Attica. Ma non solo sull’atto fecondativo operato dall’agricoltore si fondava il valore simbolico sessuale, a confermarlo si aggiungeva l’aspetto dei frutti e delle foglie. Se il caprifico è il «fico del capro», animale dissoluto la cui denominazione ha origine nel greco capran, «essere in calore», fico deriva dalla radice fik, che ha la stessa origine ignota che porterà a «succo». E il fico è il frutto succulento per eccellenza, cui si accede da un piccolo buco. D.H. Lawrence, l’autore de L’amante di Lady
Chatterley, richiama le ragioni della più diffusa denominazione della vagina: "Gli italiani volgarmente dicono che significa / parte femminile: il frutto del fico. / La fessura, la yoni, / il meraviglioso umido condotto che va verso il centro. / Intricato / Retroverso / tutto fiorito all’interno e con fibrille nel ventre".11 Ad aumentare i richiami sessuali il riconoscimento nella foglia del fico dei contorni del membro maschile e nel latice biancastro l’identificazione con lo sperma. Per tutto questo nelle feste dionisiache si portavano in processione una brocca di vino, una vite, un capro, un paniere di fichi e un fallo scolpito nel suo legno. Nel tempo l’opera di domesticazione ha semplificato la vita sessuale del fico, e ha migliorato i caratteri del frutto, senza attenuarne la forza simbolica. Nei paesi del Mediterraneo, si sono selezionate varietà partenocarpiche (parthénos = vergine; karpos = frutto) che non hanno bisogno della fecondazione per produrre e maturare i frutti; si è imparato a coltivare proficuamente la pianta e l’albero non ha mai perso la capacità di nutrire oltre che il corpo la mente, diventando comune metafora dei rapporti mutevoli tra l’uomo e il suo ambiente. Nei paesi della Bibbia, dove nel giardino dell’Eden le foglie servirono a coprire le vergogne di Adamo e di Eva, l’albero era ampiamente diffuso e diversamente utilizzato come oggi in Israele e Palestina. Ai tempi di re Salomone «ognuno sta sotto la propria vite e il proprio fico» e nel regno di David i suoi alberi dovevano essere tanto comuni da prevedere un sovrintendente «agli olivi e ai fichi che erano nelle pianure». Il castigo divino, che per risultare esemplare deve essere severo al punto di spezzare quel legame profondo e duraturo tra l’uomo e la sua terra che solo gli alberi possono creare, si accanisce sui fichi (Salmi 105,33): Colpì le vigne
11 1In A. Bristow, La vita sessuale delle piante, Mondadori, Milano 1979, pp. 228-29.
e i loro fichi, schiantò gli alberi della loro terra». E nei Salmi 4,9: «Vi ho colpiti con ruggine e con carbonchio, i vi ho inaridito i giardini e le vigne; / i fichi, gli oliveti li ha divorati la cavalletta». Danno irreparabile, si dovrà rinunciare «alla mia dolcezza e al mio frutto squisito», a «un fico primaticcio prima dell’estate: uno lo vede, lo coglie e lo mangia appena lo ha in mano». Si rinuncerà alla festa (1 Cronache, 12,41): «Avevano portato cibarie con asini cammelli muli e buoi: farina, schiacciate di fichi, uva passa, vino, olio, buoi e pecore in gran quantità, perché c’era allegria in Israele». Con la vite, l’olivo e il melograno, il fico è sempre presente nei giardini mediterranei; sopporta la vicinanza di altri alberi e permette che al suo piede siano condotte anche colture da orto. Erroneamente ritenuto non autoctono, a dispetto delle rilevanze della botanica, ma di origine esotica (Ficus carica cioè della Caria, regione sudoccidentale dell’Asia Minore), il fico è parte della civiltà greca, frequente presenza nella letteratura, nelle arti decorative, nei miti. Platone lo ritiene il frutto ideale per i filosofi e Ovidio racconterà nelle Metamorfosi la storia di Filemone e Baucide, i due vecchietti che a Giove e Mercurio, che si presentano in incognito chiedendo ospitalità, offrono: "noci, fichi secchi, grinzosi datteri, / prugne, mele fragranti in ampi canestri, / uva raccolta da tralci purpurei. / In mezzo un candido favo. Su tutto questo I facce buone, uno zelo operoso e ricco".12 La ricompensa era, diversamente da oggi, adeguata a chi accoglieva con generosità e felicità gli sconosciuti: i due vecchi furono trasformati in una quercia e in un tiglio. L’albero e i frutti del fico sono presenti anche in momenti importanti della storia romana. Plinio ricorda che il cesto che
12
Ovidio, Le Metamorfosi, VIII, 674-678.
trasportava lungo il Tevere Romolo e Remo si arrestò ai piedi di un fico, nei pressi di una grotta dove, secondo un antico rito etrusco, si interravano le scintille dei fulmini e dove abitava la lupa che li allatterà; il fico sarà chiamato ruminalis (da rumis, mammella) e periodicamente ripiantato per impedire, in sua assenza, l’occorrere di sicure disgrazie. Secoli dopo sarà ancora il fico a determinare un passo decisivo della storia romana. E sempre Plinio a ricordare che, nella terza guerra punica, Cartagine «fu distrutta per le argomentazioni fornite da un solo frutto», il fico che Catone mostrò ai senatori chiedendo loro: «Quando pensate che questo frutto sia stato colto dall’albero?... ebbene sappiate che è stato colto tre giorni fa a Cartagine. Tanto vicino alle mura abbiamo il nemico!». I possidenti romani erano consapevoli della deperibilità dei fichi freschi (problema che le attuali tecniche di selezione, coltivazione e conservazione non hanno risolto), ma conoscevano bene le sue virtù. Ne apprezzavano il valore alimentare — lo stesso Catone li indica come eccellente companatico tanto da diminuire da 5 a 4 libbre la razione di pane da somministrare agli schiavi che lavoravano alla vigna, quando dava loro fichi secchi — e li utilizzavano per ricette preziose come quella riportata nel De Re Coquinaria dal gastronomo Coelius Apicio che suggerisce di ingrassare le scrofe con fichi secchi, dissetarle con vino mielato e di cuocere il loro prosciutto in un brodo di fichi e alloro. Ne coltivavano diverse varietà e di questo dovevano compiacersi come segno di progresso visto che, afferma Plinio «anche a considerare solo quest’aspetto la vita umana appare trasformata». La comunanza tra le civiltà antiche e il fico, testimoniata anche dagli usi molteplici delle sue diverse parti — l’impiastro di foglie per curare le ulcere, il latice per cagliare il latte — si conserva ancora oggi evidente nel riprodursi perenne dell’albero nelle fessure delle rovine classiche fino a costituire — se ne erano accorti i romani che avevano estirpato il fico che cresceva davanti al tempio di Saturno «perché stava attaccando alla base la statua
di Silvano» — un pericolo per la stabilità dei monumenti. Le ragioni di unione così salda tra la storia dell’uomo e la natura della pianta si possono, allora, trovare non solo nelle profondità dei miti e nelle necessità vitali dell’uomo ma, più prosaicamente, nei suoi caratteri di specie ruderale che vive alla base o nelle fessure dei muri, in luoghi assolati e poco fertili. Unione che permane, se non nell’agricoltura moderna che non è riuscita a inserirlo in pieno nei suoi processi industriali, nei paesaggi tradizionali, nell’immagine che si conserva dei giardini e delle coste mediterranee, dopo una passeggiata o dopo le vacanze estive. Almeno nei paesaggi della memoria — paesaggi di forme, di colori, di sapori e di odori; paesaggi olfattivi al ricordo del profumo intenso delle sue foglie —, l’antica alleanza tra l’uomo e la natura, degnamente rappresentata dal fico, regge ancora. La maledizione di Cristo, che nei Vangeli di Marco e Matteo lo minaccia e lo uccide —