Filosofia e Società. Studi sui progetti etico-politici contemporanei 8870309185


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Filosofia e Società. Studi sui progetti etico-politici contemporanei
 8870309185

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V.POSSENTI

FILOSOFIA E SOCIETA STUDI SUI PROGETTI ETICO - POLITICI CONTEMPORANEI EDITRICE MASSIMO — SCIENZE UMANE E FILOSOFIA

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https://archive.org/details/filosofiaesociet0000poss

Collana

« SCIENZE

UMANE E FILOSOFIA » N. 18

COLLANA « SCIENZE UMANE diretta da Vittorio Possenti

E FILOSOFIA »

Volumi pubblicati de E. Agazzi - G. Cottier - P. De Laubier - L. Gardet - V. Possenti - A. Rigobello, Epistemologia e scienze umane, a cura di V. Possenti, pp. 224. Zi G. Cottier - L. Morati - U. Pellegrino - V. Possenti, Maritain e Marx (La critica del marxismo

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in Maritain), a cura di V. Possenti, 2° ediz. ampliata, pp. 264. S. Mosso, Fede, storia e morale (Saggio sulla filosofia morale di Jacques Maritain), pp. 272. B. Mondin, Cultura, marxismo e cristianesimo, pp. 224. F. Botturi - G. Cottier - A. Gallia - A. Livi - L. Morati - U. Pellegrino - V. Possenti - I. Vaccarini - P. Viotto, Storia e cristianesimo in Jacques Maritain, a cura di V. Possenti, pp. 272. G. Galeazzi, Persona, società, educazione in Jacques Maritain (Antologia del pensiero filosofico e della critica), pp. 400. P. De Laubier, Ur’alternativa sociologica: Aristotele-Marx, pp. 160. E. Agazzi - E. Garulli - V. Cappelletti - D. Antiseri - S. De Giacinto, Scienza e filosofia oggi, a cura di G. Galeazzi, pp. 288. Autori Vari, L'apporto del personalismo alla costruzione dell’Europa, a cura di R. Papini, pp. 360. J. Maritain, Sette lezioni sull’essere e sui primi princìpi della ragione speculativa, pp. 184. B. Mondin - G. Cottier - G. Siegmund - A. Del Noce - G.F. Morra C. Tresmontant - J. Moltmann - K. Rahner, L’ateismo: natura e cause, a cura di B. Mondin, pp. 192. Ch. Journet, Conoscenza e inconoscenza di Dio, a cura di N. Possenti Ghiglia, pp. 144. J. Pieper, Verità delle cose (Un'indagine sull’antropologia del Medio Evo), a cura di U. Pellegrino, pp. 136. G. Ludwig, Scienza della natura e visione cristiana del mondo, pp. 160. E. Gilson, Introduzione alla filosofia cristiana, studio introduttivo di A. Livi, pp. 168. J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, intr. critica a cura di U. Pellegrino, PPT:

. Y.R. Simon, Filosofia del governo democratico, pp. 312 . V. Possenti, Filosofia e società. (Studi sui progetti etico-politici contemporanei), pp. 272.

VITTORIO POSSENTI

FILOSOFIA E SOCIETA Studi sui progetti etico-politici contemporanei

MASSIMO

- MILANO

A mia moglie

ISBN 88 - 7030 - 918 - 5 Prima edizione: maggio 1983

Copyright © by Editrice Massimo Corso di Porta Romana 122 - 20122 Milano Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy

Consorzio Artigiano « L.V.G. » - Azzate (VA)

Introduzione

In questo libro più di una volta si tocca la questione della responsabilità sociale della filosofia, in un tempo in cui la filosofia, dopo aver esplorato tante strade, sembra aver esaurito tutte le sue possibilità. Essa giace ripiegata su se stessa e come colpita a morte, in una situazione che potrebbe rendere pertinenti le critiche che Hegel le rivolgeva all’inizio del secolo scorso, quando voleva trarla « dall’ignominiosa abbiezione in cui ai nostri tempi è caduta » (1). La società moderna è, sotto numerosi aspetti, un prodotto della ragione moderna: della filosofia moderna, oltre che naturalmente della scienza moderna. Un certo tipo di ragione, un certo uso della ragione hanno costruito le forme della società contemporanea; un diverso impiego della ragione può modificarle. L’angoscia, la paura, la disperazione, la violenza, la perdita di ogni significato, che prosperano nella società, derivano dall’aver privato gli uomini di troppe ragioni di verità e di speranza. La filosofia deve guarire con le proprie mani i mali che ha contribuito a provocare. Bisogna però che i filosofi riprendano adeguata coscienza della loro responsabilità sociale, che è un’implicazione immediata della loro pesante e originaria responsabilità nei confronti della verità. Il filosofo, quali che siano la sua formazione, l’ambiente in cui vive, le inevitabili connessioni sociali in cui è posto, è solo dinanzi al reale: la lotta che sostiene per l'evidenza e per la verità, è una lotta solitaria. Tutta la missione del filosofo sta nel comunicare ciò che vede nel suo perenne affronto con l’essere. La filosofia come essenza intemporale già tutta compiuta, come (!) Lineamenti di filosofia del diritto, « Prefazione », trad. di F. Messineo, Laterza, Bari 1979, p. 4. E poco oltre: « Il peggiore degli avvilimenti è questo, che, come fu detto, ciascuno, come sta fermo e cammina, è convinto di essere in grado di sentenziare di filosofia in genere. Verso nessun’altra arte e scienza, si dimostra quest’estremo disprezzo, di pensare che ciascuno la porti in sé» (p. 9).

ipostasi, non esiste: ci sono invece i filosofi, chiamati dalla loro vocazione, se è autentica, a vivere in pienezza l’esistenza filosofica. Che cosa è l’esistenza filosofica, che cosa può significare per la cultura contemporanea, che pare aver dimenticato la vocazione del filosofare? Sarebbe molto importante riprendere la riflessione sull’esistenza filosofica, sull'amore della verità che esige, sull’etica dell'intelligenza che richiede, sul clima contemplativo che implica, nel quale l’intelligenza si unisce vitalmente e intenzionalmente all’essere; sull’ascesi, sullo spirito di povertà e di nudità che vi sono necessari. L’uomo contemporaneo sembra rifuggirne, perché invece che alla contemplazione è orientato a misurare e a trasformare degli oggetti esteriori, che gli danno il sentimento della sua potenza. L’uomo non si apre alla verità, non la riceve, ma intende farla. Si dà all’attività utile e abbandona 1’« inutilità » della contemplazione. Nella connessione tra filosofia e società la filosofia potrà compiere al meglio il suo compito, se rimarrà fedele alla sua missione di ricerca della verità. Ogni epoca ha da chiedere qualcosa alla filosofia: la nostra ha bisogno di una ricostruzione filosofica, ossia di una ricostituzione della scienza dei principî. All’inizio del nostro secolo essa giaceva completamente in pezzi a causa dell’azione dissolvente di varie scuole, in particolare del positivismo, che avevano condotto la ragione filosofica all’afasia. Quando si ritiene che vi siano solo cose in superficie, dovunque, e che tutto sia acces-

sibile all'uomo, si uccide lo spazio dell’interrogazione e con esso la filosofia. La filosofia del XX secolo ha percorso molti cammini, alcuni dei quali sboccano nell’esito nichilista; in qualche altra corrente filosofica si è fatta avanti una possibilità di svolta e di lavoro filosofico non mistificato. Nei vari tentativi, certe strade sono state esplorate sino in fondo, sino alle loro estreme conseguenze. Molte prospettive filosofiche ed etico-politiche hanno espresso tutto quanto potevano dire, sono state esplicitate fin nei più riposti meandri. Da tutto ciò nasce l’esigenza di una svolta filosofica come necessaria (ma non sufficiente) premessa ad una svolta sociale, a diver-

se forme di vita sociale: in effetti la situazione attuale appare ormai logorata. Tale svolta, che non può non partire da una rinnovata esperienza dell’essere e perciò dal livello metafisico, deve a nostro avviso provocare un rinnovamento della filosofia morale e della filosofia politica, in una parola della filosofia pratica.

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Qualis unusquisque, talis ei finis videtur: quale io sono, tale il fine mi appare. Ora noi consideriamo e scegliamo il fine in funzione dei nostri desideri e orientamenti basilari. I progetti eticopolitici contemporanei, ai quali si fa ampio riferimento nel libro, verificano quell’assioma, perché prospettano dei fini e attraverso essi denotano qualità, aspettative, desideri dei soggetti. I progetti etico-politici sono sostanzialmente dei rivelatori antropologici, sono dei progetti antropologici, che esprimono una idea e un’intenzione sull’uomo. Prospettiva etico-politica e visione dell’uomo sono sempre connesse, poiché il politico non è un ordine tecnico, bensì esistenziale, etico e umano. Molte forme etico-politiche contemporanee possono essere classificate a seconda che presuppongono un uomo buono per natura o cattivo per natura: si passa allora dall’idealismo ottimista di sinistra, che vanta radici in Rousseau e che esalta l’uomo, negandone il lato oscuro e malvagio, ad un positivismo pessimistico di destra, che prende origine da Machiavelli e da Hobbes, e che si ispira ad un amaro e scettico realismo. In numerose loro espressioni tali forme deprezzano, ricorrendo all’esaltazione illusoria di taluni determinismi psichici e biologici dell’uomo, oppure puntando tutto sulle capacità fabbricatrici, la vita propria della persona umana. Esse insegnano più o meno apertamente, o almeno sottintendono, che l’uomo non può essere vero soggetto: sono dottrine assai scoraggianti, perché in ultima analisi negano alla persona le sue dimensioni più qualificanti, addormentano la sua libertà, contribuendo alla stagnazione della civiltà ed alla ripetizione dell’identico. In ultima analisi tolgono all'uomo la speranza e gli consegnano il benessere. Un tempo l’Europa era la cristianità, oggi è il mercato comune: il senso del grande rivolgimento avvenuto sta in questa semplice constatazione. Le molteplici difficoltà con cui le società contemporanee sono alle prese non sono superabili con le forme di razionalità di quelle prospettive. Bisogna invece aprire varchi ad una ragionata speranza, superare quella profonda stanchezza della storia che investe la società contemporanea, fare appello all’uomo, alle sue energie profonde, alla sua libertà. L’uomo è libero di scegliere e la sua scelta non è arbitraria se mira alla verità: la cultura, se vuole raggiungere l’uomo nella sua vita concreta, ridonarle senso e avviare la persona verso la sapienza, non può distruggere le ragioni di vita degli uomini. Tali ragioni avranno un peso determinante nelle

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eventuali nuove forme sociali del XXI secolo: la « rivoluzione » futura non nascerà dal bisogno, ma dalla generale disumanizzazione, dalla rivolta contro la brutalità, l’ignoranza, la mancanza di senso, l’avvilimento dello spirito, dal rifiuto dello spreco e dalla

nausea del superfluo. Non sarà una rivoluzione principalmente economica, ma soprattutto culturale, etica e religiosa. E può anche darsi che la svolta operaia polacca, iniziata a Danzica nell’agosto 1980, ne costituisca un’anticipazione, di cui non è stata ancora

pienamente valutata la portata. La richiesta di cambiamento che venne avanzata non partiva né dall’ideologia marxista, né da quella radicale, né da quella tecnocratica. Era una richiesta che nasceva da un mondo operaio complessivamente aperto al cristianesimo e che viveva la vita della Chiesa; una richiesta che puntava sull’uomo, sulla solidarietà, sulla libertà, più che su una pura ripartizione di beni economici. Una svolta perciò non interpretabile con i canoni ossificati dell’ideologia o dell’economismo, quanto piuttosto vicina a quel nuovo tipo di « rivoluzione », a cui abbiamo fatto cenno. L’universo filosofico del libro è quello della filosofia cristiana. Vogliamo sperare che questa affermazione sia situata al suo livello e non causi dei malintesi: essa esprime un’esigenza di integralità, un’apertura all’intero (e quindi anche alla trascendenza), l'aggancio ad una solida base metafisica, che non risultano contraddittori rispetto ad un impiego non ideologico della ragione: « Quanto al filosofo, che conduce la propria riflessione sotto il cielo della fede, se è veramente filosofo, si appoggia sulle luci della ragione ed è capace di giustificare secondo ragione le affermazioni che avanza. Ma precisamente la fedeltà al reale che è la sua prima regola, gli proibisce di rinchiudere la ragione in se stessa, in una chiusura che escluderebbe per principio ogni riferimento alla trascendenza ed ogni influenza di questa » (?). Il compito della ragione e della filosofia è importante ma non si sostiene da solo: la ragione filosofica non è separata ma solidale con l’intera vita umana. Per intraprendere strade nuove, per ridestare i popoli e le culture dal loro sonno ideologico o consumistico, non bastano né un credo scientifico e (2) G. Cottier, Humaine p. 12 (corsivo nostro).

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raison, Éditions Universitaires, Fribourg

1980,

neppure soltanto una filosofia: è necessaria l’apertura alle forme dell’esperienza religiosa, capace di chiedere all’uomo di impegnare la propria libertà per qualcosa per cui valga la pena di vivere, e di pagare di persona. La religione porta all'uomo una verità razionale e insieme sovrarazionale, che solo una ragione programmaticamente chiusa in se stessa può trascurare. Il libro non ambisce a disegnare una mappa esauriente dei molteplici progetti etico-politici contemporanei. Si sforza di cogliere i connotati culturali delle società contemporanee, che non si riducono ai vari sistemi di organizzazione costituzionale e politica, ed i progetti etici e antropologici che li innervano. Le opzioni ultime sull’uomo, sui mondo, su Dio, sulla società, sul diritto, etc., contano di più dei puri metodi di organizzazione statual-politica nello specificare la situazione reale della vita sociale, anche perché quei metodi non sono indipendenti dalle opzioni. In ogni modo è compito del filosofo rintracciare le nascoste solidarietà tra mondo dei valori e società. Il metodo adottato non è il metodo storiografico, quanto piuttosto l’analisi concettuale. La maggior attenzione non è data all’indagine sulla nascita e lo sviluppo di questo o quel progetto, né ai loro autori di riferimento, anche se, si capisce, non mancano cenni e spunti al riguardo; ma ai principali nuclei dottrinali, alla concezione dell’uomo, della società, dell’etica, della politica, etc. che vari progetti etico-politici presentano. Mediante l’analisi con-

cettuale si è cercato di ricostruire nelle loro coordinate principali la cultura e le affermazioni che sostengono i progetti. Di conseguenza il ricorso agli autori è effettuato con libertà. Il metodo dell’analisi concettuale è stato ad esempio impiegato da N. Bobbio nei suoi studi di dottrine politiche e di filosofia politica: « Nello studio degli autori del passato non sono mai stato particolarmente attratto dal miraggio del cosiddetto inquadramento storico, che innalza le fonti a precedenti, le occasioni a condizioni, si diffonde talora nei particolari sino a perdere di vista il tutto: mi sono dedicato, invece, con particolare interesse alla enucleazione di temi fondamentali, al chiarimento dei concetti, all’analisi degli argomenti, alla ricostruzione del sistema » (?). Qualcosa di () N. Bobbio, Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Morano, Napoli 1965, p. 7.

analogo può valere anche per noi, sebbene l’interesse non sia volto allo studio di autori ma a quello di culture, di complessi di posizioni e concezioni. In ogni caso il metodo impiegato si distingue dal metodo storico, ed anche dalle varie forme dello storicismo e dall’interpretazione ideologica che, a ben guardare, altro non è che un momento dello storicismo. Quando l’interpretazione sociologistica o versioni volgari del materialismo storico assumono estensione non controllata, il che purtroppo accade non di rado, finiscono per esercitare un infinito potere di dissoluzione del pensiero,

che viene portato al suicidio. Allora senza limiti prolifera ogni ipotesi troppo presto a buon mercato spacciata pet verità: l’improbabile, il gratuito, il discorso falsario senza alcun ritegno si spacciano come autentici e incontrovertibili. La loro ripetizione incessante — questa è la verità, e poi la verità ed in infinito ritornello ancora: la verità —, diviene un dettato ipnotico. Di fronte a tali eccessi va tenuta ferma la portata dell’analisi concettuale o filosofica, che naturalmente non esclude un impiego giudizioso e utile di altri approcci.

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Capitolo primo Filosofia e società. Il compito politico della filosofia

LA FILOSOFIA

È SEMPRE

POLITICA

In ogni epoca la filosofia è indispensabile alla società. Riflettendo sul senso dell’esistenza e sui valori, sul significato della vita sociale, sul futuro che si prospetta alla società, la filosofia svolge nella società un compito insostituibile e di importanza paragonabile a quella della decisione politica, per quanto gli ambiti siano differenti: la filosofia maneggia i principî, la politica il governo pratico. La filosofia è sempre politica, anche se in questo o quel sistema filosofico gli sviluppi specifici di filosofia della politica possono essere esigui: in ogni caso la dimensione politica di una riflessione filosofica è molto spesso rivelativa della sua qualità e della sua orientazione.

La società non può fare a meno della filosofia perché non può fare a meno della verità e della libertà, e la filosofia le ama e le

cerca entrambe. La filosofia possiede una valenza sociale ed un influsso politico già nel suo momento più propriamente speculativo, nella sua lotta per l’evidenza dell’essere, per la conquista di una sapienza razionale dell’intero. Essa inoltre porta alla superficie, elaborandole in un discorso trasmissibile, quelle larve di verità e di errore che, agitandosi nel profondo storico della società, non potrebbero da sole emergere e conquistare il livello della consapevolezza: la filosofia produce dunque autocoscienza sociale, rintraccia nel flusso storico ciò che non cambia, rivela i valori perenni coinvolti nella congiuntura, come anche è impegnata a smascherare gli errori. Anche quando il filosofo si inganna, egli continua in certo modo a svolgere la sua funzione, perché segnala a coloro che non sono catturati dal suo errore i cammini che debbono essere evitati. Anche la speculazione filosofica più apparentemente neutra ed « astratta » porta a conseguenze; per il fatto stesso di esprimere bi

una prospettiva sulle cose, non è mai pura e innocente. In ogni filosofare vi è una inerente politicità, di cui si erano ben accorti i giudici di Socrate: le filosofie non sono pure essenze, ma, talvolta loro malgrado, camminano nella storia e si presentano come forze storiche. Colui che cerca la verità e tenta di esprimerla è titolare di una grande responsabilità sociale, e dovrebbe esserne costantemente consapevole. Nel compimento della sua missione sociale il filosofo non deve mai disperare troppo di se stesso e del suo possibile influsso sulla vita sociale: una parola ispirata a verità e libertà non manca mai di avere conseguenze pratiche. Per quale altro motivo i regimi oppressivi e totalitari hanno sempre temuto e per-

seguitato il pensiero libero e critico? Ricordando agli uomini la necessità della verità e della libertà, il filosofo esercita un compito stimolatore senza di cui si offusca il senso della possibilità, del futuro, del significato stesso del vivere umano. L'uomo è un animale tormentato dalla ragione, che ha un bisogno assoluto di « vedere » e di comprendere per agire, per guidare la propria azione su motivi razionali, solide convinzioni e valori. Ben a ragione Husserl ha definito il filosofo « funzionario dell'umanità ». Secondo un paradosso che va meditato, la filosofia è ad un tempo sovranamente libera e indipendente da tutto, fuorché dalla verità, e profondamente inserita nella società. Chi offre agli uomini valide ragioni di verità e di speranza, diviene un alto servitore del bene comune propriamente umano della società politica. In ogni società — e particolarmente nelle moderne società democratiche — è assolutamente necessario giustificare razionalmente i fondamenti etici della vita sociale, i diritti dell’uomo, i valori politici principali: tutto ciò è compito dei filosofi. Torneremo più avanti sull'importanza di una valida filosofia pratica e politica. Intanto vogliamo aggiungere che per svolgere la sua missione non è necessario che la filosofia dipinga la realtà e il futuro con facile ottimismo, come se il promettere meno fosse un derogare alla propria dignità. Poiché l’uomo non è radicalmente buono, l'egoismo, la violenza, il male, la banalità, la precarietà, l'ambiguità dell’esistenza sono sempre in agguato. Una certa dose di riserbo, congruente con un certo pessimismo metafisico sull’es-

sere finito, non è inutile al filosofo nella società. Egli compie la sua missione anche mantenendo desto il senso dell’ambivalenza del-

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l’umano e rimanendo fedele ad un sano realismo, che non gli impedirà certamente di essere attento ai segni di speranza e al positivo che possono farsi avanti. Dobbiamo oggi acquisire una maggiore responsabilità verso i valori, e per questo entriamo in un’epoca filosofica, nella quale sarà richiesto alla filosofia di ritrovare le autentiche ragioni del vivere, di aiutare gli uomini a determinare la loro identità e a ricomporre un significato unitario dell’esistenza. La filosofia non è un’istanza che distrugge i sistemi sociali, ma un pensiero che cerca di sviscerarne il senso, senza per questo configurare per la filosofia un puro compito funzionalistico: essa rimane sovranamente importante anche là dove appare essenzialmente « inutile ». In effetti se la filosofia è « il tentativo metodico e tenace di portare la ragione nel mondo » ('), la prima condizione ne è che si costituisca

come ricerca della verità dell’essere e come conseguente comprensione del mondo. A tale scopo la filosofia speculativa e la metafisica non sono meno importanti della filosofia morale e pratica, di cui da più parti si riconosce l’utilità a scapito delle prime. Spesso, coloro che oggi propugnano la funzione sociale della filosofia, lo fanno nella scia della tradizione antispeculativa e antimetafisica propria di molte filosofie moderne. Ma la filosofia aiuta la società rimanendo se stessa, ossia amore della verità e ricerca dei fuochi di intelligibilità dell’essere, e rifiutando di costituirsi come un sapere pura-

mente interessato a dominare le cose o come una scienza della prassi umana rivoluzionaria: la filosofia appartiene all’area del gratuito indispensabile. Per entrare in una nuova epoca filosofica, la filosofia deve rinnovarsi; per esercitare la sua necessaria funzione creatrice ed orientattice, deve superare le riduzioni di cui è fatta oggetto da molte parti, per riapprodare alla terra della sua origine e del suo destino: alla metafisica. Solo ponendosi in questa prospettiva nella quale verità metastoriche illuminano e giudicano il flusso storico, la filosofia può legittimamente aspirare a porsi come correttivo della storia, e come coscienza costruttiva e critica del mondo. L’esistenza storica non può essere pensata e compresa se non alla luce di (') M. Horkheimer, « La funzione sociale della filosofia », in La teoria critica, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 300.

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principî che trascendono lo scorrere del tempo, se non attraverso centri di riferimento sottratti alla presa del tempo. La funzione costruttiva e critica della filosofia nella città non può essere disgiunta dalla sua funzione rivelativa, che non si esplica senza la penetrazione metafisica e la comprensione razionale dell’essere. L’incidenza storica della filosofia si attua nell’illuminazione dell’agire, ma si può essere luce per la prassi solo nella misura in cui si contempla la verità. La filosofia è utile agli uomini finché rimane al disopra dell’utile, finché, contemplando la verità dell’essere, propone all’uomo i fini, le ragioni stesse del vivere e la comprensione delle cose. Solo così la filosofia diviene anche garante di libertà: dove il filosofare tace, tace anche la libertà, perché il dialogo razionale risulta spento e le scelte già compiute. La filosofia è utile agli uomini e può svolgere fecondamente il suo compito nella società se riesce a mantenersi in una situazione di alterità e di tensione, non necessariamente polemica, con la società. Solo se non rinuncia alla propria indipendenza, la filosofia può aprire cammini nuovi e mantenere desto il senso della possibilità di fronte al peso della datità. La riduzione della filosofia a pura critica dell’ideologia, a pura metacritica delle scienze, la psicanalizzazione della filosofia (?), i monismi interpretativi che assumono un unico criterio esplicativo della realtà in tutti i suoi gradi, sono posizioni che depotenziano di molto la missione sociale della filosofia. Analogo esito produce la teoria secondo cui la filosofia sarebbe il riflesso e come la « secrezione spirituale » di determinate strutture sociali; per cui la filosofia, ormai resa subalterna alla sociologia, non esprime più proposizioni e verità universali ma solo condizionate e relative alla struttura sociale. Per molti aspetti la filosofia contemporanea si muove invece lungo queste direttrici; involontariamente costituisce, nell’impossibilità di fornire un senso della vita, una sorta di teologia negativa e apofatica della crisi della ragione, e dell’offuscamento della verità dell’essere nel nostro tempo. Il che richiede una vera e propria rivoluzione filosofica, una ripresa ed un reinizio del filosofare, (°) Per psicanalizzazione della filosofia intendiamo l’impiego esuberante di categorie psicanalitiche nel discorso filosofico (repressione, sublimazione, rimozione, etc.). Ciò si avverte ad esempio in taluni esponenti della Scuola di Francoforte, come H. Marcuse.

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che decida di rimettere in questione l’4 priori indiscutibile dell’approccio e del metodo filosofico moderni. ECLISSE SOCIALE

DELLA

FILOSOFIA

Ma intanto bisogna interrogarsi sulla condizione della filosofia nella società contemporanea, sul loro rapporto attuale. La questione potrebbe essere presto archiviata, perché il sistema sociale ignora la filosofia e dimostra nel fatto di poterne fare a meno. I grandi problemi della ricerca filosofica non vengono affrontati e neppure positivamente negati: essi sono abbandonati, dimenticati con la stessa noncuranza con cui ci si dimentica di questioni inutili, irrilevanti e secondarie. Solo interessa una cultura centrata sull’utilità e sulla verifica. Per un paradosso storico, che contiene in sé una lezione da meditare, la filosofia viene brillantemente resa vana e inutile da un sistema sociale che essa, come filosofia moderna, ha contribuito non poco a formare. L’eclisse del filosofare è causa e conseguenza dell’eclisse dell’umano, che si esprime nell’impoverimento della vita sociale, nel cadere della ricerca di un senso plenario della vita: « Quando la filosofia decade o scompare, lo si voglia o non, la coscienza di un’epoca diventa incerta, vacillante, oppressa. Serpeggia il dubbio sull’intera vita, sul suo senso, e muore la speranza. Si deprime allora la tensione vitale più profonda dell’uomo, la sua forza spirituale, e quindi non solo l’intelligenza, ma anche la volontà » (*). Se il puro vivere materiale e corporeo, se il puro benessere divengono i nuovi fondamenti del tessuto sociale, che radicalmente sostituiscono la ricerca della buona vita sostenuta da razionalità e eticità, vengono celate e quasi inaridite le sorgenti da cui scaturisce il filosofare: in una parola la filosofia è resa superflua. Problematica diventa perciò non tanto l’esistenza filosofica, che può mantenersi e trasmettersi in singole personalità di filosofi, quanto piuttosto il compito civile e umano della filosofia, la sua capacità di orientamento della vita umana, la sua funzione di cor(*) Felice Balbo, Idee per una filosofia dello sviluppo umano, in Opere 1945-1964, Boringhieri, Torino 1966, p. 365. Nelle pagine seguenti di tale opera (1962) Balbo tratteggia con efficacia e con una notevole capacità di anticipazione l’emergente ideologia del benessere e le sue conseguenze sulla filosofia.

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rettivo critico dell’accaduto e di testimonianza resa all’ordine dei valori che non tramontano. La cultura prevalente e molti dinamismi sociali ostacolano il compimento di tali missioni della filosofia. Tuttalpiù ad essa si richiede di dare una mano alla scienza e alla tecnologia nel rendere sempre più ampio, flessibile e totalitario il loro dominio sulla natura ed il loro impatto sociale. Così camuffata, la filosofia smarrisce la sua essenza e diviene un ingranaggio nella grande macchina della divisione del lavoro, che la società tecnocratica perfeziona ogni giorno di più: meglio poi se questa filosofia ad una dimensione, rinnegando completamente se stessa, sposa con entusiasmo la filosofia implicita del sistema, cioè la pseudofilosofia dell’efficientismo, del benessere e della riduzione a falso problema di ogni altra prospettiva. In questo modo l’universo sociale, specificato dalla scienza, dalla tecnologia e dalla produzione, non si accontenta di rendere inoffensiva la filosofia: ne dà alla luce una, configurata a propria immagine e somiglianza. Una filosofia addomesticata e levigata, che non sa più che farsene delle grandi questioni filosofiche. Le stesse condizioni di esistenza del lavoro filosofico e della filosofia nella società attuale testimoniano che il rapporto tra filosofia e società si svolge secondo canoni contestabili. La richiesta sociale di filosofia e di lavoro filosofico è limitata alla scuola, dove una classe insegnante riproduce se stessa per un’iterazione senza fine dello stesso compito. Al di là della scuola, la società non chiede alla filosofia di intervenire nel continuo processo che porta a definire i fini e i valori della società: a ben guardare questa apparente assenza di domanda sociale di filosofia evidenzia il predominio di una sola filosofia, che ha ridotto all’emarginazione e alla inincidenza storica tutte le altre: la pseudo-filosofia del vivere ad ogni costo.

Nei corpi dello Stato, nell’industria, nei partiti (con una eccezione per quelli marxisti, in virtù della stretta unione da essi professata tra intellettuale e politico, tra conoscenza della realtà e sua trasformazione) il contributo del filosofo non è richiesto neanche

per i temi per i quali un approccio interdisciplinare lo esigerebbe. Questa assenza sociale di filosofia si ripercuote sull’organismo sociale, perché viene a mancare il necessario contributo di indicazione razionale dei fini ed il dibattito tra le varie prospettive. L’orizzonte tende allora a coincidere con l’orizzonte propagandato, 16

e coloro che desiderano oltrepassarlo più facilmente cadono nell'utopia, la quale nel suo aspetto immaginifico, irreale e smodato è un significativo indizio sia di richieste umane che non trovano altra strada, sia del venir meno del filosofare. LA VITTORIA

DELL'EMPIRISMO

Questa difficoltà di presenza e di incidenza sociale della filosofia, questa quasi impossibilità di assumere e riprendere il discorso filosofico interrotto devono essere indagate con maggior cura, devono avere motivi specifici, rintracciabili nella cultura implicita ed esplicita che pervade la società contemporanea e che si esprime in un certo ethos filosofico. Ora appare che l’empirismo sia la posizione culturale egemone, quella che rende assai arduo riprendere il cammino del filosofare. Con il Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, il Marxismo, la filosofia occidentale ha compiuto nel corso di alcuni secoli svolte profonde e aperto larghe cesure nella millenaria tradizione filosofica dell’Occidente; ma nonostante la radicalità delle svolte, immanentismo, storicismo, razionalismo, pensiero dialettico, antimetafisica, idealismo, etc., non rendevano impossibile il filosofare, anzi in taluni casi lo acuivano e lo pungolavano. Con il diffuso empirismo della società di oggi le cose vanno altrimenti, e la tradizione filosofica è messa in mora e stenta a ri-

prendere il suo cammino. Ciò è d’altronde in linea con l’intenzionalità profonda dell’empirismo, che, assegnando la supremazia al sensibile rispetto all’intelligibile; alla quantità rispetto al valore; alla misura, al fenomeno, al fatto rispetto ad un ordine di principî trascendenti e direttori —, ha la vocazione di spengete più che di ravvivare il questionare filosofico: la cultura empirista è sostanzialmente antifilosofica. Quale problema è più essenzialmente filosofico di quello della verità? Quale grande filosofia non è attraversata dall'amore della verità? Eppure nella prospettiva empirista la verifica prende il posto della verità. Non vi è altra verità se non quella che ci viene offerta dalle scienze fenomeniche nella loro misurazione dell’esperienza sensibile, o quella che incontriamo ogni giorno nel nostro vivere sensibile. Quanto al soprasensibile, o viene francamente 17

negato, oppure viene raggiunto mediante cammini non filosofici né razionali, sui quali non può innalzarsi un sapere universale. L’intelligenza, sovraccaricata dal compito di guardare soltanto ai fenomeni e di dominarli trovandone le relazioni matematiche che ne consentano la previsione e lo sfruttamento, non è più capace di ascoltare: troppo attivamente impegnata nel catturare le energie della natura, non sa più contemplare. Con tali premesse è normale che atteggiamento empirista ed etica dei valori morali assoluti non possano che scontrarsi: se solo i fatti esistono, se l’esperienza sensibile è l’unica che conta, su che cosa può essere fondato il valore incondizionato dei concetti morali di bene, di dovere, di legge, etc.? Al massimo questi sono o indicazioni convenzionali della società, o pure preferenze soggettive svincolate da ogni riferimento oggettivo fondante, o retaggi piuttosto misteriosi della sedimentazione che i secoli hanno lasciato nell’inconscio umano, o infine l’idealizzazione di quella che è in buona sostanza la conseguenza etica dell’atteggiamento empirista: l’utilitarismo, con tutti i suoi strascichi di individualismo, di materializzazione del concetto di felicità, e così via.

I valori morali non sono più da considerare assoluti ma completamente relativizzati, di modo che ciascuno sceglie la morale che meglio e più gli aggrada: la distruzione del bene morale come valore incondizionato e l’assimilazione della libertà con ciò che a ciascuno singolarmente piace, mostrano gli stretti legami tra filosofia empirista e morale individualista. Lo stesso marxismo-comunismo, che almeno sul piano etico dovrebbe indirizzarsi ad una morale antiutilitarista e antiindividualista, non riesce a contrastare efficacemente il peso dominante dell’atteggiamento empirista. Teoreticamente l’empirismo non può approdare che alla pura opinione. Sul piano pratico esso fa oscillare la vita sociale tra un individualismo anarchico e un totalitarismo massificante quale reazione agli eccessi del primo. Ma quel che più conta è che la cultura empirista mina dalle fondamenta il tessuto di idee e di valori, sui quali necessariamente si costruisce l’edificio sociale. Tutto, ossia dignità dell’uomo, libertà, legge, giustizia, diritto, etc., assume un significato relativista e nominalista, che apre la strada all’esito francamente scettico. Questi valori non sopportano una giustificazione per pura e semplice convenzione pragmatica, che può durare 18

assai poco; richiedono una giustificazione razionale, e perciò in linea di principio universale e assoluta. Tale giustificazione può essere offerta solo dalla ragione filosofica (o da una fede religiosa): ma ciò richiede che vengano superati lo spontaneismo e il relativismo filosofici, per riprendere la ricerca di quei principî, che consentano di trascendere l’attuale ragione formale della società e di avviare il cammino e l’elaborazione di una adeguata filosofia esplicita. Una filosofia critica ma soprattutto costruttiva, capace di riprendere la ricerca metafisica e di non mettere tra parentesi il problema dell’essere; capace di collegarsi alla tradizione, di costruire su principî veri e di separarsi, dove necessario, dalle opzioni filosofiche moderne (*), in particolar modo dalla tradizione dell’empirismo che, come si è visto, costituisce la cultura e la filosofia implicita della società contemporanea. Negando ogni differenza di natura tra intelletto e senso, riducendo la verità a verifica, mettendo in crisi l’assolutezza dei valori

etici, l’empirismo riduce alla completa afasia la ragione filosofica. In tal senso la cultura empirista finisce per condizionare correnti filosofiche diverse come il radicalismo, il positivismo, ed anche in certa misura lo storicismo. Nel contempo le prospettive filosofiche non empiriste come la fenomenologia, l’esistenzialismo, lo spiritualismo, pur continuando a raccogliere adepti e consensi in ambienti specialistici e accademici, risultano storicamente inefficaci, inincidenti sulla vita sociale e sostanzialmente emarginate. L’orizzonte culturale delle nostre società è perciò determinato dalle maglie dell’empirismo più ancora che dal marxismo: l’uomo ad una dimensione che vi prolifera è soprattutto « uomo empirista ». Risultato nel quale emerge il massimo dislivello tra il valore veritativo dell’empirismo, che è debole, e la sua incidenza (4) Il giudizio di Felice Balbo sulla filosofia moderna, sebbene drastico, va meditato: « La filosofia moderna intera ha fatto fallimento storico e tutta la filosofia fino ad oggi esplicitamente espressa deve essere, in qualcosa di essenziale, o erronea, o insufficiente, o tutte e due le cose insieme [....] Il fallimento della cultura moderna, proprio in quanto fallimento di tutte le prove di sviluppo filosofico e sociale entro determinate premesse, elimina d’un colpo solo tutte le corrispondenti illusioni che per molti secoli avevano gravato sulla ricerca, ed accerta l’erroneità di fondo dei vari sistemi della filosofia moderna proprio in qualcosa di essenziale, di comune e di specificamente moderno » (Idee per una filosofia dello sviluppo umano, cit., pp. 385 e 390 s.).

L05)

storica, che è molto diffusa. L’antifilosofia dell’empirismo raggiunge quello che altre filosofie non sono sempre riuscite a ottenere: si accumula socialmente, divenendo l’ethos diffuso di intere società. In effetti l’intrinseco rapporto tra filosofia e società richiede, affinché la filosofia esplichi la sua funzione sociale, che la filosofia possa accumularsi, crescere e svilupparsi in modo omogeneo, che possa, per così dire, sedimentarsi nel profondo del tessuto sociale; soprattutto oggi quando l’intensità del mutamento sociale e la mole dei problemi nuovi, che continuamente si pongono, richiederebbero stabilità e continuità di accumulazione

di filosofia, e

non l’intenso ricominciamento formale e materiale che la storia della filosofia, particolarmente di quella moderna, ci presenta. Tuttavia l’accumulazione storico-sociale di filosofia, di cui siamo ben lontani dal disconoscere l’importanza, è un parametro che non può essere considerato più rilevante della ragione formale e del valore veritativo della filosofia. Deve potersi accumulare socialmente quella filosofia che appare veritativamente adeguata, anche se ciò significasse una svolta, un ricominciamento ed una cesuta; anche se per avventura tale filosofia risultasse storicamente sconfitta e socialmente minoritaria da lungo tempo. Noi pensiamo che sia necessaria una ripresa della filosofia dell’essere che, pur veritativamente adeguata, rappresenta la linea storicamente minoritaria della filosofia moderna. Tale è stata la diagnosi formulata da vari filosofi a partire da diversi decenni in qua, e le citazioni di appoggio potrebbero moltiplicarsi quasi senza limite. Ne scegliamo una che ancora una volta viene dalla penna di F. Balbo: « E così si viene condotti a riproporsi i problemi della linea “sconfitta” delle filosofie classiche e cioè l’aristotelico-tomismo. Se si vuole anche solo tentare di non accettare il fatto compiuto nella storia, il processo spontaneistico delle “cose”, la sistematica facilitazione del “potere” per il “potere”, è inevitabile riprendere un discorso filosofico... Ora, è quasi intuitivo che, se si vuole riprendere un discorso del genere, si cerchi di riprenderlo da San Tommaso. Tra le posizioni filosofiche della “linea sconfitta” della storia della filosofia, è certamente ad un tempo la più coerente, la più chiaramente razionale, la più esplicitamente metafisica, ed anche, in un certo senso, la più diversa da tutte le filosofie della “linea vittoriosa”, ossia la sola filosofia 20

concretamente realistica, senza residui né di materialismo, né di idealismo » (°). IL COMPITO

DELLA FILOSOFIA

PRATICA

Di fronte alla crisi ideale che attanaglia le società contemporanee, ampiamente provocata dalla caduta empirista, la rinascita della vocazione sociale della filosofia si mostra più urgente e necessaria che mai. Sembra che la maggior urgenza riguardi la filosofia pratica, chiamata ad aiutare l’uomo a comprendere l’appello dei valori, a determinare i fini della vita sociale, a colmare la pericolosa cesura tra i principî a cui ancora ci si richiama a parole e il comportamento effettivo. Né vanno dimenticate le forme di sostanziale nichilismo etico, che tolgono all'uomo ogni motivo di impegno e ogni fondamento assoluto. Per questo vi è grande bisogno oggi di una rinascita della filosofia pratica e naturalmente di una adeguata antropologia. Significa tutto ciò che una ripresa in grande stile della filosofia pratica costituirebbe per la società una svolta decisiva? Pensarlo sarebbe indulgere ad una indebita sopravvalutazione della filosofia, sarebbe cadere nell’errore razionalistico di ritenere che la conoscenza dei valori e del bene sia sufficiente perché l’uomo li segua. Oltre che dalla sapienza filosofica, la società deve essere nutrita da altre sapienze. Oltre ai filosofi, gli uomini hanno bisogno di educatori, di testimoni, di grandi capi, di santi. L’uomo è un essere grande e insieme debole, e soggetto all’errore: la giusta e necessaria fiducia nella sua ragione non può andare disgiunta da un altrettanto giusto e necessario apprezzamento delle sue infermità. È una tentazione illuministica puntare tutto su una ragione organizzatrice e astratta, dimenticando l’immenso peso che ha nella vita umana il sentimento, l’amore, la poesia, la nostalgia, il fortuito, la libertà, la religione, il rapporto con Dio, etc. Tuttavia, compiute queste precisazioni, non può essere negato che (5) Essere e Progresso, in Opere, p. 634 s. Riportiamo il giudizio di Balbo come una valutazione significativa e l'indicazione di un’esigenza, anche se nell’opera di Balbo lo sviluppo argomentativo della sua posizione è insufficiente. Solleva inoltre dubbi il connettere rigidamente, parlando di aristotelico-tomismo, il pensiero di San Tommaso a quello di Aristotele.

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se la filosofia diviene consapevole di se stessa e della propria missione veritativa, può svolgere un compito fondamentale. Il posto e la vocazione della filosofia non vengono perciò diminuiti; piuttosto vengono compresi in modo migliore e più ricco. La filosofia accompagna con maggiore umanità il cammino della società, senza per questo scadere al livello di strumento o di semplice programma di azione. Il suo compito rimane quello di respingere il culto o l’idolatria del finito, di problematizzare anche i valori autentici — la felicità, la bellezza, la libertà, il benessere, etc. — quando pretendono di costituirsi come assoluti e di esigere l’adorazione. Nel respingere l’idolatria del finito, la filosofia si incammina verso la sapienza e si predispone alla scoperta dell’Assoluto. Attenzione al finito come finito e all’Assoluto come assoluto: così la filosofia mantiene nella rettitudine l’uomo. Il senso del limite e la riserva critica sono dunque essenziali all'adempimento della vocazione della filosofia, per tener deste ad ogni costo l’indipendenza e la volontà di resistere, per separare ciò che deve essere conservato, assunto e riconciliato e ciò che va espunto. La filosofia non può però accontentarsi soltanto del suo compito critico, in certo modo acquietandosi in una posizione « kantiana » (« Una sola strada è ancora aperta, quella della critica »). Vanno anche avanzate alternative razionali, che aiutano a varcare lo iato tra presente e futuro della società. Nella più generale responsabilità sociale della filosofia pratica, la filosofia politica è interpellata con particolare urgenza, in ragione della profonda politicità della vita umana. Se bisogna prendere sul serio l’asserzione classica che l’uomo è un animale politico, la filosofia politica ne sarà lo svolgimento riflesso ed elaborato, anzitutto determinando la natura, il valore e la dignità della politica: « Una delle funzioni e finalità fondamentali, anzi la funzione e la finalità prima della autentica filosofia della politica è proprio quella di individuare e di cogliere la ragion d’essere, il perché della dignità della politica » (9). Motivare razionalmente la dignità e l’umanità della politica, in un mondo che è costantemente tentato di volgerla verso la violenza, l’odio e la barbarie, è primo dovere della filosofia della politica. (°) D. Pasini, Saggi di filosofia della politica, Giuffrè, Milano 1981, p. 8.

22.

Questa finalità essenziale della filosofia politica deve essere declinata lungo quattro compiti fondamentali: 1) un compito prescrittivo e direttivo. Secondo la tradizione classica la filosofia politica è parte dell’organismo della filosofia pratica, e in quanto tale possiede una intenzionalità di regolazione dell’agire politico: è un sapere normativo, non puramente descrittivo, ed orientato a guidare l’azione storico-sociale con la mediazione delle scienze umane e in ultima istanza della prudenza politica. È anche un sapere non di ciò che è stato compiuto, ma di ciò che deve essere compiuto; perciò in ogni filosofia politica vi è una dimensione di progettualità. La filosofia politica, meditando e penetrando sempre meglio il proprio oggetto formale, si costruisce come organismo dottrinale capace di determinare la natura, il senso ed il fine della politica. A questo livello la filosofia politica svolge una funzione costruttiva, seppure filosofico-problematica, senza di cui non vi può essere vera e propria filosofia politica: essa rintraccia i nuclei perenni del vivere politico, collegandoli ad una concezione dell’uomo e del bene;

2) un compito critico, in virtù del quale le dottrine e le realtà politiche vengono sottoposte a dibattito, a discussione, a esame. L’istanza critica è di per sé un’istanza antidogmatica, che mira a far esplodere le contraddizioni latenti, ed a far emergere i presupposti ingiustificati delle varie posizioni politiche, le loro eventuali cadute di razionalità, i loro tratti illiberali e totalitari, e gli interessi nascosti che vengono celati. La funzione critica della filosofia politica è una funzione antiideologica e liberatrice, capace di opporsi alle aberrazioni del panpoliticismo, dell’idolatria del potere e della forza, alla degenerazione delle istituzioni e dei partiti, etc.; 3) un compito militante, secondo il quale la filosofia politica scende in campo lottando contro determinate forme politiche e militando a favore di altre; ed esercitando una presenza culturale contro quelle posizioni e strutture politiche che restringono la libertà, che negano la solidarietà e che opprimono l’uomo, avvilendone la dignità. Il compito wilitante della filosofia politica, a cui forse qualcuno potrebbe guardare con sospetto scorgendovi un’indebita strumentalizzazione della filosofia, è invece pienamente in linea con tutta la tradizione della filosofia politica, in particolar modo con la tradizione classica. Per essa la filosofia politica, in quanto parte della filosofia pratica, determina il giusto e l’ingiusto, 23

il bene e il male, l’agendum ed il vitandum, ossia elabora principî per emettere giudizi razionali sui comportamenti concreti. Una filosofia politica, che non tralasci la propria responsabilità militante, dimora accanto alla dignità umana offesa e sostiene la lotta per il concreto godimento dei diritti dell’uomo; 4) un compito pedagogico-educativo, in virtù del quale l’uomo, il cittadino vengono resi politicamente maturi, consapevoli dei diritti e dei doveri propri e altrui, in modo che ciascuno sia in grado di portare il proprio contributo alla vita della polis e di trarne un beneficio. Questi vari compiti della filosofia politica non sono né alternativi né contraddittori, ma semplicemente lo svolgimento coerente della missione fondamentale della filosofia politica, che è una missione dottrinale e scientifica di determinazione della natura, del fine e delle categorie del politico. Le quattro funzioni della filosofia politica non sono mai completamente separabili e, prese insieme, determinano

la sua missione civile e civilizzatrice, il suo

prezioso apporto alla edificazione della civitas bumana. Missione che appare come importante specificazione del generale compito sapienziale, umanizzante e civilizzante della filosofia; come una specificazione intesa a rendere l’uomo più consapevole della dignità della vita politica e più pronto a indirizzarsi verso i veri fini politici. La missione della filosofia politica non può andare disgiunta dalla crescita di una vigile, matura e rigorosa coscienza morale, il che riconferma tra l’altro l’insostituibile nesso tra etica e politica, tra filosofia morale e filosofia politica. PER UN FILOSOFIA

POLITICA

UMANISTA

Anche la filosofia politica, come in generale la filosofia, deve potersi accumulare nel corpo sociale. Senza un’adeguata dose storica di filosofia politica e della ragione costruttiva e critica che necessariamente l’accompagna, rischiano di prevalere nella società concezioni dogmatiche, intolleranti, chiuse, irrispettose della persona e della sua libertà di coscienza: i nemici della oper society sono i nemici di una filosofia politica libera, critica, antidogmatica. L’autentica filosofia politica di oggi e di sempre è un’articolazione razionale, consapevole, costruttiva, critica, militante e peda-

gogicamente orientata della fondamentale esigenza morale secondo 24

la quale l’uomo ha valore, e vuole vivere insieme con altri uomini nella verità, nella libertà, nella giustizia, nella pace. È perciò una filosofia politica umanista che, rispettando l’uomo, lo educa al dialogo, al confronto critico, alla partecipazione responsabile nella polis, in maniera tale che il suo impegno storico non sia contraddittorio con la sua vocazione umana. Per essere all’altezza del suo compito, la filosofia politica deve rimanere in continuità vivente con l’intero organismo filosofico, dimorando nella luce dei valori assoluti e delle evidenze metafisiche. La filosofia politica rende così testimonianza al fatto che, per quanto grande sia in essa la parte della storia, essa non è una disciplina storica, ma un sapere filosofico capace di indicare all’uomo un dover essere (cosa che la storia non può fare), ed un cammino di liberazione, una concreta libertà non tanto dallo Stato e dalla società, ma nello Stato e nella società. — Iltipo di politica maggiormente adatto alla democrazia è una riforma graduale della società, non essendo pensabile, se non nella prospettiva di un totale capovolgimento rivoluzionario, una riforma che muti d’un sol colpo tutte le fondamentali strutture di uno Stato democratico. Nella linea della riforma graduale della società è discutibile la distinzione tra riforme che stabilizzano e riforme che trasformano il sistema: non v’è nulla di contraddittorio, come vorrebbero far credere coloro che disprezzano l’ingegneria gradua-

listica e il riformismo, nell’operare riforme graduali ed insieme mirare ad un obiettivo finale. Inoltre la riforma graduale della società rende meno difficile la richiesta che M. Weber rivolgeva ai politici: il politico deve « rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni » (7), se vuole costituire una politica razionale. Affinché ciò avvenga, nella società dovrà essere stimolato il libero confronto delle idee; ed infatti la democrazia è una forma razionale di confronto politico. La necessità di tutto ciò emerge dal fatto che la verità politica non è facilmente disponibile né manifesta. Dunque la volontà di adottare forme razionali di dialogo, il dibattito pubblico, la tolleranza reciproca, dovrebbero costituire prassi costante di una politica razional-dialogica che si (7) M. Weber, « La politica come professione », in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1980”, p. 109.

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pone come alternativa alla violenza e che ricerca i modi di miglioramento dell’esistenza politica. Pensiamo che tali posizioni siano condivise da varie scuole politiche, quali ad esempio il liberalismo, il razionalismo critico di Popper e di Albert, il pensiero politico cristiano, la socialdemocrazia, etc. Tuttavia le prospettive dottrinali di base, che fanno da sfondo a queste varie correnti, rimangono differenti e talvolta opposte. Nel razionalismo critico, ad esempio, è negata ogni possibilità di conoscenza metafisica: sola rimane una forma di dottrina della conoscenza, che di fatto è una teoria della scienza e più esattamente ancora una teoria delle scienze naturali. Conseguentemente, privo della possibilità costruttiva che solo la ragione metafisica può garantire, il razionalismo critico innalza a supremo criterio la ragione critica, il cui compito principale è un compito correttivo di prevenzione e correzione degli errori, piuttosto che di scoperta di verità. In certo modo, la ragione critica opera « di rimessa », esercitandosi a compiere una « verifica ed una pulizia a rasoio » su quanto viene proposto. In questo compito essa cerca

di valersi del metodo scientifico e dei risultati delle scienze applicati alla politica, operando cioè una scientificizzazione della politica che non è sufficiente a garantire una politica razionale e umana, anche se nel razionalismo critico l’apporto della scienza non è inteso in quel senso totale e totalitario che vige nel marxismo dialettico, in cui la dialettica svela il mistero della storia. La tendenza di quella scientificizzazione della politica è di separare nettamente fatti e teoria (razionali) da un lato e valori (soggettivi) dall’altro, e di negare poi valore conoscitivo alla filosofia morale, considerata incapace di fondare razionalmente i valori. Questi sono e rimangono totalmente soggettivi (*). Naturalmente la filosofia politica non può rifiutare in alcun modo l’ausilio che le scienze empiriche possono apportare alle () «È [...] sicuramente impossibile dimostrare la giustezza di un qualsiasi principio etico o discutere a suo favore, come nel caso di un’affermazione scientifica. L’etica non è una scienza. Ma quantunque non esista una base scientifico-razionale per l’etica, esiste invece una base etica della scienza e del razionalismo » (K. Popper, Die offene Gesellschaft, II, p. 283; citato in AA.VV., Razionalismo critico e socialdemocrazia, Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 62). Il giudizio di Popper indica con chiarezza la riduzione di ogni tipo di scientificità al modello delle scienze fenomeniche.

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decisioni politiche ed alla conoscenza dei limiti a cui è sottoposta l’azione umana. Va pure accolta la prospettiva del razionalismo critico che, per rendere migliore la vita umana su questa terra, punta più sull’eliminazione di mali concreti che su grandi piani un po’ utopici di riforma universale futura. Tuttavia la scienza empirica non può mai insegnare a nessuno l’agendum, né può indicare i fini; può soltanto aiutare a realizzarli. Né può sostituirsi alla filosofia come pensiero della prassi. Perciò ogni pretesa scientificizzazione della politica cozza contro la sua situazione epistemologica: la filosofia politica appartiene alla filosofia pratica, il cui metodo non è riducibile al rapporto causa-effetto. Dire che ogni filosofia è politica ha conseguenze sulla vocazione stessa del filosofo: egli non cerca nella filosofia la salvezza della propria persona od una pace dell’anima ottenuta separandosi dagli accadimenti, ma partecipa alle vicissitudini ed alle angosce della storia, cercando di comprenderle e di pensarle alla luce delle intuizioni di base del proprio filosofare. La filosofia che mira a rinchiudersi in se stessa, puntando ad una pace acquisita a buon mercato, non è autentica, perché tradisce la missione del pensiero di indicare i fini, di dare voce alle speranze di liberazione ed al desiderio di un’esistenza meno dura per l’uomo. É tutto questo non può essere ridotto ad una bagattella. Puntando ad introdurre la ragione nella storia, la filosofia richiede che le scelte ed i fini degli uomini non siano imposti, o derivati dall’abitudine, ma pensati; la luce della filosofia deve cadere su quanto si dà come scontato, ovvio, indiscutibile, su tutto ciò che sembra « andare da sé » e che avanza la pretesa della validità per il semplice fatto di esistere da tempo. Nel suo conservare e trasmettere l’eredità di verità e sapienza ricevuta, la filosofia non sposa l’essenza del conservatorismo, che consiste nel ritenere perennemente valide le tradizioni, anche quando il fluire del tempo richiede nuovi approcci. Nel conservatorismo si fa avanti una forma di inerzia ideologica che mal si concilia con l’incessante interazione tra principî e storia, per cui la prassi etica è impiego di principî immutabili in situazioni mutevoli. Se il filosofo deve essere uno che non la beve tanto facilmente,

va allora mantenuta una situazione di non-identità e di feconda 20

tensione tra filosofia e società (?). Nella sua fedeltà al proprio compito ed al proprio oggetto, la filosofia può entrare in contrasto con le società storiche e le sue forme, ed in genere i dibattiti filosofici di per sé posseggono una rilevanza ed una radicalità maggiori di quelli scientifici. Non vi può essere vero compito costruttivo e critico per la filosofia, se essa vive in una situazione di identità materiale o formale nei confronti della società: deve essere riconosciuto alla filosofia un punto archimedeo che ne giustifichi la trascendenza rispetto alla società. Altrimenti si ricade nelle tesi positiviste e storiciste secondo cui il pensiero filosofico è mera produzione di forme e strutture sociali, è in certo modo una « secrezione sociale ». La missione sociale della filosofia è possibile solo se la filosofia nelle sue espressioni fondamentali è un sapere transculturale e metasocietario. Quando si riconducono senza residui le filosofie, i loro problemi e le loro soluzioni alle condizioni sociali delle età in cui nacquero, si toglie ogni forza al pensiero, privato della capacità di oltrepassare l’esistente. Un certo sociologismo, un certo materialismo storico non solo sono prodighi di spiegazioni generiche e apparenti, ma rischiano anche di cadere talvolta in forme di razionalità conservatrice. FILOSOFIA

E PROGETTO

In ogni filosofia pratica, particolarmente in ogni filosofia politica, è immanente una intenzionalità progettuale, un interesse di riforma: neppure una filosofia apparentemente pura e speculativa come quella di Spinoza fa eccezione, come testimoniano sia il Tractatus tbeologico-politicus sia il Tractatus politicus. La cosa non deve sorprendere, poiché la filosofia pratica e politica è un sapere prescrittivo, non puramente

descrittivo:

e la prescrizione

fatalmente cerca di adeguare a sé l’esistente. Dunque l’intenzionalità progettuale della filosofia, oltre a fornire un’orizzonte di precomprensione del politico ed a mediarsi con una valutazione delle pendenze storiche, delle direzioni di movimento e delle forze storiche in giuoco, tende di per sé a formu(°) « Aver fede nella filosofia significa non permettere alla paura di diminuire la nostra capacità di pensate » (M. Horkheimer, « Sul concetto di filosofia », in Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969”, p. 140).

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lare un'immagine dinamica e prospettica dei rapporti e delle strutture fondamentali della « società ottima », tende a pensare la vita sociale sotto le categorie etico-umane della filosofia pratica. Ne consegue ciò che possiamo chiamare un « progetto storico-politico », oppure meglio un « progetto etico-politico ». Essi possono anche non essere chiaramente e completamente esplicitati nelle loro linee, il che non toglie che possano esercitare lo stesso un’attiva azione nella cultura di una epoca e nella vita sociale (!°). Il termine-concetto di « progetto storico-politico » va precisato nelle sue analogie e nelle sue differenze nei confronti del termineconcetto di « progetto etico-politico ». Il primo, che mira ad una ridislocazione delle forze politiche in campo, ad una diversa distribuzione dell’autorità, del potere e della ricchezza, ad un determi-

nato assetto economico della proprietà, etc., è indubbiamente necessario: in sua assenza i singoli momenti della lotta politica non vengono concepiti all’interno di un quadro di riferimento che tocca alla prudenza politica declinare caso per caso, ma come momenti atomistici e scoordinati, privi di un significato orientatore e variabili a seconda della congiuntura storica. Inoltre il progetto storico, che non deve essere inteso come uno schema costruito a tavolino, implica ed evoca la libertà, l’azione e la creatività tese a far coincidere l’esistente futuro con l’idea anticipata. Il progetto etico-politico, oltre ad un’immagine di rapporti societari e in senso stretto politici, implica soprattutto l’attenzione alle dominanti etiche quali si verificano nella prassi umana e nelle forme del diritto, dell'economia, della religione, del lavoro, della cultura, etc. Volge perciò lo sguardo ai rapporti etici, in quanto da essi si sprigiona un’influenza per la cultura, la civiltà e la polis, ed alla totalità degli aspetti antropologici che, pur investendo anche il livello della lotta politica, lo trascendono e rifrangono la (!°) Oltre al termine « progetto etico-politico » impiegheremo pure alternativamente come equivalenti i termini di « prospettiva etico-politica » oppure di « forma ». Il termine « progetto » andrà perciò inteso con discrezione, perché le forme sociali e culturali concretamente prodotte dipendono sino ad un certo punto da una consapevole volontà progettuale, bensì anche dal giuoco del contingente e dell’imprevedibile. Aggiungiamo infine che si sarebbe anche potuto adottare il termine « progetto: etico-sociale » per rendere tutta l’ampiezza tematica e problematica del designato. Il politico, come lo intendiamo qui, dovrà essere inteso, sulla scorta della sua concezione classica, come un ambito supremo che accoglie in sé lo statuale e il politico strettamente intesi, ed il sociale.

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loro influenza sui vari livelli della cultura e della vita sociale. Il progetto etico-politico non è uno schema di ingegneria culturale, né una forma astratta di progettazione dei rapporti etico-sociali, quale ad esempio sarebbe predeterminare aprioristicamente i rapporti tra le classi, le forme del diritto, il modello di famiglia e così via. È piuttosto un universo allo stato vitale di valori e di fini, una totalità in cui l’immagine che l’uomo si fa di se stesso svolge una funzione-guida, uno schema dinamico che comprende al proprio interno nozioni e rapporti teoreticamente chiariti ed aspetti

che si muovono allo stato esistenziale. Proprio quest’ultimo momento riveste importanza, poiché un progetto etico-politico è « respirato », è vissuto e introiettato esistenzialmente in larghi strati, ed è chiarito nelle sue valenze fondamentali solo da pochi. La nozione di progetto etico-politico concerne l’idea di un tipo specifico di civiltà, e implica una determinazione dei principali problemi della vita storico-sociale dell’uomo. La sua comprendente latitudine proviene dal fatto che le dominanti etiche, giuridiche, culturali, filosofiche e religiose vi esercitano una funzione direttrice ed un irraggiamento diffuso. Non sono soltanto le istituzioni, i rapporti economici, etc., ad esserne coinvolti, ma principalmente la vita etica, l’autoconsapevolezza che l’uomo ha di se stesso, le forme culturali nelle quali egli pensa la propria vita nella storia, etc. Progetto etico-politico è una costellazione complessa di tendenze, di valori e di fini; è una decisione costitutiva e significante — talvolta riflessamente consapevole, talvolta semplicemente vissuta in modo esistenziale — mediante cui assegno un significato all'uomo, al mondo e alla vita sociale, ed opero di conseguenza. I progetti etico-politici sono schemi culturali ir fieri, né totalmente chiusi, né totalmente aperti; mai completamente realizzati, ma neppure privi di una qualche dimensione di incarnazione e di attività storiche. Nel loro realizzarsi debbono anche entrare in concorrenza o in composizione con altri progetti, scendere a patti,

pospotre l’ottenimento di certi obiettivi, diluire certe richieste, e così via. Tuttavia le posizioni fondamentali di questo o quel progetto tendono a rimanere invariate, poiché corrispondono a differenti intuizioni prime dell’uomo e della società, a differenti filoni culturali che fanno il loro cammino nella storia sviluppandovi le loro virtualità. In definitiva il termine di progetto etico-politico appare appro30

priato a designare il fatto che il progetto configura secondo certe linee la vita sociale ed i rapporti etici, culturali ed umani, sulla base della comprensione che l’uomo ha di se stesso. Questa cambia secondo le epoche storiche e gli indirizzi della cultura: al centro dei progetti etico-politici contemporanei stanno specifiche forme di autocoscienza che l’uomo elabora nella sfera della cultura,

secondo la comprensione dell’esistenza contemporanea offerta e mediata dalla scienza, dalla produzione, dalla nuova immagine dell’uomo ricavata dall’indagine del profondo, etc. In ultima analisi però l’autocoscienza e la comprensione dell’esistenza si radicano nelle diverse forme ultime di razionalità, di ontologia, di ragione metafisica e teologica. Si possono naturalmente interrogare le varie forme etico-politiche sulle loro possibilità di vittoria futura, ma sempre mantenendo intatte le charces della libertà, poiché ogni situazione, nonostante l’indubbio peso delle pendenze storiche e delle più irrefutabili premesse di fatto, rimane aperta ad una pluralità di esiti. I termini di « progetto » o di « prospettiva » o di « forma », in quanto designano anticipazioni non garantite del futuro, salvaguardano questa realtà: anche se certi progetti hanno già ottenuto successi, il futuro è incerto, è un ventaglio di possibilità che appartiene a tutti.

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Capitolo secondo Umanesimi

contemporanei

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DEGLI

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ARCHETIPI:

e progresso

LA QUESTIONE

DEL METODO

Le forme etico-politiche contemporanee, di cui ci occuperemo in questo come nei successivi capitoli, costituiscono culture e forze attivamente presenti nella società contemporanea, dalle quali l’analisi filosofica deve cercare di estrarre gli archetipi culturali e le essenze, per cogliere più lucidamente quanto nel concreto appare a prima vista confuso o indecifrabile. Quali sono le ragioni o i termini ultimi dei conflitti etici, culturali e politici contemporanei?

Questi motivi non sono in primo

luogo ascrivibili alla lotta di classe, dove la previsione marziana di un suo progressivo inasprimento è stata smentita dall’evoluzione storica; e neppure, entro certi limiti, alla lotta tra le nazioni; e neanche al conflitto tra democrazia e totalitarismo: le forme eticopolitiche di cui parleremo, generalmente coesistono con le istituzioni democratiche, entrano tra loro in opposizione e in concorrenza all’interno di dinamiche politiche a dominante democratica, anche se poi concepiscono molto diversamente la democrazia ed il suo rapporto con i valori. La ragione ultima (che non significa la sola) dei conflitti contemporanei è tra diverse o opposte concezioni dell’uomo, della vita, della storia: tra concezioni teiste, religiose, etiche (che assegnano portata assoluta ai valori etici), umaniste (che rispettano l’uomo), e concezioni latamente sociologiste e storiciste, per le quali non esistono verità assolute, il pensiero è una sovrastruttura sociale e l’uomo una macchina, abitata da desideri e bisogni, e destinata a produrre e a consumare. Nell’assegnare il primo posto alla causalità ideale-formale rispetto a quella materiale non intendiamo qui riaprire l’antica querelle sul loro rapporto, ma solo richiamare l’attenzione sulla notevole libertà interpretativa e sull’istanza antischematica che que32

st’assunto implica nella lettura dei caratteri della società moderna. Ad esempio, non è la società moderna che necessariamente comporta l’irreligione, quanto piuttosto questa è ascrivibile a varie correnti filosofiche e culturali che vi hanno preso il sopravvento. Ed ancora: l’attribuzione alle idee di un puro carattere strumentale non è per nulla un risultato dell’immenso sviluppo della tecnica, bensì di correnti filosofiche scientiste e nominaliste. Il metodo di indagine adottato, non separando i problemi sociali dai problemi filosofici, tenta di « leggere » ciò che a prima vista sembra presentarsi come puro insieme di fatti: la riflessione filosofica li prende invece sul serio e li interroga per elevarsi al loro concetto, nel quale rintracciare gli elementi per una loro comprensione più vera. Nel circolo ermeneutico fatto e concetto si sostengono reciprocamente: il fatto è illuminato e meglio spiegato dal concetto, e questo è confortato da quello. Anche chi volesse negare la funzione primariamente determinante della causalità ideale, troverà sensato quanto afferma M. Horkheimer: « Oggigiorno la dinamica storica globale ha posto la filosofia al centro della realtà sociale e la realtà sociale al centro della filosofia » (!). Ma quale filosofia? Quelle che vengono elaborate oggi o anche quelle fiorite nel passato? Il rapporto filosofiasocietà non è mai un inizio assoluto, ma una relazione vitale complessa, in cui il presente e il passato manifestano tra di loro solidarietà profonde: non solo il presente culturale sarebbe diverso se le filosofie passate fossero state differenti, ma inoltre queste filosofie continuano ad agire, seppure con intensità variabile da caso a caso, nell’oggi (?). La ricerca sugli archetipi o sulle radici delle principali prospettive etico-politiche attuali è un attestato ed un’illustrazione di ciò che potremmo chiamare la « contemporaneità metatemporale » della filosofia. È proprio tale contemporaneità che rende possibile l’incidenza attuale di pensieri passati. Andando a caccia nel passato di ascendenze di idee ed eventi del presente, mettendo in chiaro i presupposti filosofici della prassi sociale, lo scandaglio filo(1) M. Horkheimer, «La funzione sociale della filosofia », in La teoria critica, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 300. È (2) Acutamente George Orwell scriveva in 1984. A Novel: « Chi controlla il passato, controlla il futuro ».

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sofico alla fine produce la consapevolezza della propria epoca, ossia il proprio tempo appreso col pensiero. Nell’impegno di collegare l’evento con l’idea, si tratta di ricercare le complesse linee di evoluzione dei nuclei ideali e l’esplicitazione progressiva delle loro virtualità nascoste con cui il passato si fa presente nel presente. Compiuta questa diagnosi sulle radici, è in certo modo facilitato il giudizio sul valore intrinseco dei vari progetti di società e sulle direzioni della storia contemporanea. Nell’affrontare questi problemi il filosofo nella società opera quale filosofo della cultura e della civiltà. Come un palombaro discende nel profondo storico del suo tempo per leggervi, al di là dalle fluttuazioni di breve momento, i principî intelligibili che pulsano dentro gli accadimenti. Interprete delle strutture sepolte, interroga la sua epoca per cogliervi le linee di forza tracciate dalle essenze ideali nel loro viaggio che le conduce, attraverso mutamenti imprevisti, svolte impensate, composizioni inedite, a specifici momenti di incarnazione nell’evento. Poiché in esso le essenze stanno in modo notturno ed enigmatico, il filosofo è impegnato in un’opera di scandaglio e di decifrazione per fare emergere da un universo instabile e ambivalente i principî intelligibili che lo travagliano. Le essenze, incarnandosi nell’esistenza reale, sono sottoposte a temibili vicissitudini:

anche se il filosofo della cultura, nella sua

ricerca delle essenze e del loro concatenamento, raggiunge il livello della necessità filosofica, egli è ben consapevole che l’esistenza non uguaglia mai l’essenza, ma che le linee di forza tracciate dalle idee nella loro evoluzione storico-concreta sono solo indicazione di un pendio e di una generale direzione degli eventi. « Foresight is the product of insight »: la previsione è il risultato dello sguardo in profondità (5). L’opera della filosofia della cultura è di notevole rilevanza per l’azione politica, in quanto le indica pendenze e dominanti dell’epoca e le suggerisce in quale modo sia consigliabile applicare i principî. Senza di essa anche la più perfetta filosofia pratica manca di una bussola essenziale e rischia di naufragare nella separazione tra teoria e prassi. Tentando di rintracciare i diagrammi evolutivi delle idee, nonostante le discontinuità, le riprese, le svolte impreviste, il peso dei fattori materiali a cui sono soggette nel flusso della storia, il filo(*) N.A. Whitehead, Adventures of Ideas, Cambridge 1961, p. 94.

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sofo della cultura svolge un compito rivelativo e profetico. Cerca di svelare agli uomini il senso del loro passato; le virtualità che vi erano contenute e che hanno fruttificato ora più ora meno. Indica le probabili pendenze storiche del futuro. Anche se le conclusioni dell’indagine del filosofo della cultura sono soltanto probabili, egli rende un omaggio alle idee e alla verità. Rifiutandosi di confinarle nell’empiteo, ma vedendole all’opera, magari anche in modo nascosto e informulato, nelle forze storiche, ci aiuta a percepire la potenza di attivazione storico-reale delle idee. La filosofia della cultura è un omaggio reso alla politicità del vero, alla rilevanza sociale delle idee. Si comprende perciò che il filosofo della cultura debba possedere un vasto ed elaborato bagaglio filosofico: tutte le luci della metafisica, dell’antropologia filosofica, dell’etica, della politica e della filosofia della storia gli sono necessarie. UMANESIMI E FORME ETICO-POLITICHE DELLA STORIA CONTEMPORANEA

L’idea che l’uomo si fa dell’uomo nel corso della storia rappresenta per il filosofo della cultura un fondamentale canone interpretativo nel suo lavoro di interprete di una determinata età. La questione del soggetto umano sarà perciò una costante pista della nostra riflessione. Se consideriamo le molteplici correnti che, pur senza mirare espressamente a negare il soggetto, lo riducono però a livello puramente empirico e materiale, compromettendone la spiritualità, la libertà e la responsabilità etica, dobbiamo convenire che la questione del soggetto o della persona umana costituisce un nodo cruciale della cultura e della vita di oggi. Il problema dell’umanesimo è oggi altrettanto importante e vitale quanto negli anni ’20 e ’30 del nostro secolo, quando divenne un tema centrale della cultura europea. Le forme di umanesimo e i progetti etico-politici attivamente presenti nella storia contemporanea sono molteplici, in ragione del profondo pluralismo spirituale e culturale che attraversa il mondo di oggi. Come effettuare una scelta? Da parte nostra si è ritenuto di mettere l’accento soprattutto su quelli che posseggono un più incisivo vigore, su quelli che appaiono dotati di maggior dinamismo storico, di più alta forza di propulsione e di espansione,

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quelli cioè che connotano con più netta incidenza le forme assunte dalla civiltà contemporanea. A nostro avviso i progetti etico-politici maggiormente incisivi ed in certo modo determinanti risultano: 1) il progetto economistico, nelle sue due varianti di economismo consumistico da un lato e di produttivismo tecnocratico dall’altro. L’umanesimo della proposta tecnocratica e dello scientismo tecnologico fa leva su un progetto di trasformazione della materia e della natura. L’economismo è uno stigma caratteristico dei progetti sociali del ’700 e dell’800. Dall’economismo classico prendono origine due distinte forme: l’individualismo possessivo (così chiamato da Macpherson) del consumismo teso a possedere (*); il produttivismo del capitalismo nascente, oggi divenuto ormai il produttivismo tecnocratico sia all’Est come all’Ovest. Le due linee del progetto economistico trovano il loro asse, la prima nella categoria « proprietà » e la seconda nella categoria « produzione ». 2) La proposta della emergente cultura radicale, questo naturalismo libertario, antiautoritario e fondamentalmente edonistico, che utilizza antiche propaggini culturali e che va acquistando, nella caduta di molti modelli etici, un peso assai rilevante nelle nostre società occidentali. La prospettiva dell’individualismo libertario entra su taluni aspetti in concorrenza con quella dell’economismo produttivistico. 3) L’umanesimo a tinte psicanalitiche, ispirato dalle scoperte di Freud e soprattutto dalle reinterpretazioni freudiane di W. Reich e di H. Marcuse, nelle quali si ravvisa per taluni aspetti una ibrida mescolanza con posizioni marxiane. 4) La linea del neo-illuminismo, non facile da definire nelle sue

valenze proprie, perché in varie questioni appare volta a volta ondeggiante tra le prospettive sopra delineate. Comunque essa sembra appellarsi all’istanza critica e antidogmatica della ragione, intesa però secondo prospettive anche molto diverse. 5) Il progetto etico-politico del cristianesimo democratico, che appare una prospettiva prevalentemente politica, ma che è innervato dai valori umanistici, etici e religiosi della bimillenaria tradizione cristiana e dall’incontto con la tradizione democratica europea e nord-americana. (‘) C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. e dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Isedi, Milano

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Naturalmente questi non sono gli unici progetti etico-politici presenti nelle nostre società, perché ad esempio dovrebbe essere in primo luogo menzionato anche il marxismo, il suo progetto di trasformazione della storia, ed il suo umanesimo del soggetto storico collettivo elevato a principio motore della Rivoluzione. Non ritengo necessario dilungarmi su di esso, perché il tema è stato già affrontato infinite volte e anche perché è ormai sotto gli occhi di tutti il sostanziale crollo della speranza nella rivoluzione marxista. Mentre le prospettive etico-politiche a cui faremo riferimento appaiono ancora in fase espansiva, il marxismo sembra aver già raggiunto il vertice della parabola. Già da vari decenni la storia ha virato verso nuovi problemi e nuove questioni a cui il marxismo non può rispondere, dopo che la pretesa della scienza marxista di prevedere il futuro, e di porsi come interpretazione adeguata della storia, è manifestamente fallita. Il marxismo sembra perciò appartenere ad una fase storica che si va chiudendo, sembra un avver-

sario che progressivamente si sposta verso le nostre spalle. Come rivoluzione mondiale il marxismo è già fallito, ed anche su un piano filosofico e culturale si nota all’interno del marxismo e del movimento comunista una crescente forma di sincretismo, in virtù di cui marxismo e comunismo vengono resi progressivamente subalterni al positivismo e al radicalismo: le etichette rimangono ancora al loro posto, ma la merce è cambiata.

Sarebbe tuttavia sciocco ritenere che il marxismo sia ormai un cane morto o una tigre di carta. Anzitutto vi è il problema — importantissimo e cruciale — di colmare positivamente il vuoto etico, spitituale e dottrinale creato dalla crisi del marxismo. Né può essere dimenticato il grande problema delle culture e delle forze che via via assumeranno la guida del Movimento Operaio nelle sue complesse e ricche esperienze nei vari contesti nazionali. Inoltre quello che oggi rimane del matxismo non è poco, ed una parte del suo retaggio filosofico e delle sue molteplici esperienze non può essere espunta dalla tradizione culturale del mondo moderno. In notevole misura tuttavia il peso storico del marxismo dipende oggi più dalle forme cristallizzate di potere, dai poderosi sistemi politici che dicono di ispirarsi a Marx e a Lenin, che da un’intrinseca forza dell’ideologia. Non sarebbe neppure giusto passare completamente sotto silenzio le correnti dell’umanesimo positivo di impronta laico-libeDI,

rale, anche se riteniamo che esse possano perlopiù essere ricomprese senza forzature sotto l’egida del neo-illuminismo e dell’uso critico della ragione. Queste forme di umanesimo laico, che si avvicinano alla prospettiva cristiano-democratica nell’attenzione e nella difesa dei diritti dell’uomo, nella prospettiva antiideologica, aperta e antitotalitaria, in certe istanze di reazione alle posizioni dello scientismo tecnologico e del radicalismo, nel negare la contraddizione tra approccio gradual-riformista e disegno di riforma ispirato da un’idea-progetto globale —, risultano però anche indifferenti al compito sociale della religione ed alla apertura dell’uomo alla trascendenza. Alle prospettive dell’economismo consumista e tecnocratico, del radicalismo, del progetto cristiano-democratico saranno distintamente dedicati i prossimi capitoli, mentre in questo desideriamo destinare alcune riflessioni alle altre forme. L'UMANESIMO

A SFONDO

ISTINTUALE

E PSICANALITICO

Questo filone di umanesimo, di chiara ascendenza freudiana, fa dell’inconscio, ossia di una realtà non razionale, l’osservatorio privilegiato per l'indagine sull’uomo. Si sa che per Freud l’uomo raggiunge la propria maturità quando l’Io riesce a controllare gli istinti che sgorgano dall’inconscio (l’Es) e a tenere conto degli impulsi che provengono dal mondo esterno, dalla cultura, dall’interiorizzazione della figura paterna (il Super Io). Le idee di Freud, che non nega la presenza di forme superiori di coscienza nell’uomo, sono state impiegate in molti modi, talvolta in direzioni assai lontane dalla intenzionalità del maestro. Citiamo ad esempio il freudismo volgarizzato e pansessualista di W. Reich, e la singolare miscela di marxismo e di freudismo di Marcuse (cfr. Eros e civiltà; Psicanalisi e politica; L'uomo ad una dimensione). Per la

sua ampia incidenza culturale, soprattutto negli anni della contestazione, mi riferirò in particolar modo a Marcuse, le cui idee tanto discusse verso la fine degli anni ’60 erano tuttavia pressoché tutte già esplicitate nel volumetto Psicanalisi e politica del 1956. Marcuse non è un analista come Freud, che dal suo lavoro pratico-professionale ricavava un ricco materiale di osservazione per le sue dottrine. È uno studioso delle dottrine psicanalitiche, non alieno da inverificabili e forse arrischiate estrapolazioni universali. 38

È un epigono in cui le intuizioni freudiane vengono modificate e fatte giuocare secondo prospettive diverse rispetto a quelle del fondatore. Che cosa troviamo di caratteristico in Marcuse? L’idea che la teoria freudiana va verso uno sbocco politico, in quanto le concezioni di Freud, in apparenza puramente biologiche, sono invece a sfondo storico-sociale, sì da doversi affermare un espresso legame tra psicologia — latamente intesa e quindi comprendente anche una teoria degli istinti — e scienza politica. Secondo Marcuse, la psicologia stessa deve svelare la propria natura politica, poiché « la psiche appare sempre più immediatamente come un frammento dell’universale sociale [...] » (°). Ciò sottintende che la natura della vita sociale sia individuata nella repressione degli istinti.

Per Marcuse la vita sociale e la civiltà costituiscono fatti squisitamente repressivi; il lavoro è di per sé lavoro alienato, sì che l’uomo vive veramente solo nel tempo libero. In effetti, secondo

la dottrina freudiana, il progresso della civiltà comporta un aumento della repressione degli istinti, poiché aumenta l’aggressività da reprimere. Ciò è spiegato dal giuoco reciproco dei tre principî fondamentali che secondo Freud determinano le funzioni dell’apparato psichico: il principio del piacere, guidato dall’istinto di vita o Eros; il principio del nirvana, guidato dall’istinto di morte o Thanatos; e il principio di realtà. Secondo la sua struttura istintuale, l'organismo è all’inizio dominato dal principio del piacere, unicamente diretto al raggiungimento del piacere, ossia alla soddisfazione dei bisogni ed allo scioglimento delle tensioni, il che si oppone al differimento della soddisfazione dei bisogni. Già Freud metteva in luce la carica anatchica, amorale e asociale del principio del piacere: di modo che lo sviluppo di una civiltà avviene perché la lotta per l’esistenza e la penuria dei mezzi di vita costringono alla rinuncia, alla repressione, alla soddisfazione differita. La civiltà è sublimazione, ossia innalzamento e differimento, operati dal principio di realtà, della pura e brutale soddisfazione degli istinti. Fin qui Freud. Ma per Marcuse la conclusione freudiana va rovesciata. Bisogna operare una desublimazione, concedendo alla società « un certo grado di liberazione degli istinti », e recuperando (5) Marcuse, Psicanalisi e politica, Laterza, Bari 1968, p. 12.

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« una gran parte dell’energia istintuale deviata verso il lavoro alienato », per renderla « disponibile per l'adempimento dello sviluppo, autonomo e non manipolato, dei bisogni individuali » (°). Ma per raggiungere questo livello bisogna farla finita con il Super-Io, che per Marcuse è il dominio esercitato dalla organizzazione sociale contemporanea, sostanzialmente repressiva. Solo così si pottà — capovolgendo l’indicazione di Freud, secondo il quale la felicità e la libertà sono in larga misura inconciliabili con la civiltà, che è costruita sulla repressione e sulla sublimazione del principio del piacere —, pervenire ad una civiltà funzionante sulla base dell’estrinsecazione del principio del piacere: « La concezione freudiana del rapporto tra civiltà e dinamica istintuale subisce una correzione decisiva » (7), per cui il lavoro alienato ed il dominio

non sono condizioni della civiltà in quanto tale, bensì solo delle civiltà autoritarie, come, naturalmente, la nostra. Invece la civiltà

futura, dominata dal principio del piacere, sarà una civiltà libidica e non alienata. Con un capovolgimento radicale Marcuse trasforma una prospettiva sostanzialmente pessimistica come quella di Freud, in una prospettiva di liberazione, alla quale non è certamente estraneo l’utopismo un po’ delirante di Marx, che sognava il definitivo passaggio dell’umanità al regno della libertà. Ponendosi in tale scia, Marcuse scrive: « Quando il lavoro stesso diventa il libero esercizio delle facoltà umane, non è più necessario alcun affanno che costringa gli uomini al lavoro. Da se stessi, e soltanto perché questo è

l’adempimento dei loro bisogni, essi lavorerebbero alla costruzione di un mondo migliore, in cui l’esistenza compia se stessa » (*). Ciò presuppone anche che, in virtù del raggiunto grado di dominio tecnico sulla natura, sia possibile ridurre al minimo il tempo di lavoro per trasferire lo sviluppo della vita al tempo libero dal lavoro. La crescente meccanizzazione del lavoro rende possibile « che una parte sempre maggiore di quella energia istintuale, prima sottratta per il lavoro alienato, venga restituita alla sua forma originaria, in altre parole, che possa venire ritrasformata

in energia

degli istinti di vita » (°). Secondo Marcuse poi, la liberazione del(9) (?) (*) (°)

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Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. p. p. p.

17. 47. 85. 81.

l’energia istintuale può venire ritrasformata in energia erotica che, sublimata, diverrebbe creatrice di cultura (un po’ a buon metcato!). La liberazione dell’Eros sarebbe sufficiente a produrre l’esistenza pacificata. Visione non poco ottimistica, che, sottovalutando il pur innegabile potere di scompenso del principio erotico, fa subentrare il puro godimento della vita all’eterna lotta per l’esistenza. Che cosa dobbiamo pensare di questa prospettiva di umanesimo e di liberazione? Il soggetto umano largamente vi appare come una realtà impersonale, campo di battaglia di forze — gli istinti — che, nonostante una certa qual loro plasticità, sono sempre gli stessi sin dall’inizio dell'avventura umana. Per Freud sia l'umanità sia gli individui sono tuttora dominati da forze arcaiche che rimontano ai primordi della nostra preistoria, e che rimangono sedimentate nell’inconscio dell’individuo e della specie. L'uomo, una macchina mossa da potenti istinti, appare più agito che agente. Si comprende come il capovolgimento operato da Marcuse — in virtù del quale egli promette una liberazione a buon mercato, mentre Freud rifiuta prospettive liberatorie —, appaia poco convincente, dal momento che lo schema antropologico di riferimento è nei due casi sostanzialmente invariato, e mostra di non concedere

attenzione ad altri fondamentali livelli della persona umana. Nonostante qualche spunto apprezzabile, la proposta marcusiana manca di realtà e di serietà, perché sottovaluta la drammaticità della condizione umana: né potrebbe essere altrimenti, date le premesse antropologiche. È anche una proposta in certo modo contraddittoria, perché non si comprende in virtù di quale motivo la dinamica degli istinti, che è eternamente e sempre la stessa, che eternamente tende sempre allo stesso oggetto —, possa dare otigine ad autentica rovitas. Freud ha correttamente rilevato che gli istinti sono nella loro essenza conservatori: se da loro scaturisce qualcosa di profondamente diverso, ossia l’esistenza liberata a cui allude Marcuse, ciò avviene in virtù di un capovolgimento dialettico di portata puramente « mistica » e misteriosa. A nostro avviso, nessuna vera libertà, nessuna reale rovitas è possibile in base alla dinamica degli istinti, ma solo in base alla creatività dello spirito: non vi può essere zovitas dove non c’è vero soggetto, dove non c’è la persona.

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L'ISTANZA

DEL PENSIERO

CRITICO

E LA FORMA

NEO-ILLUMINISTA

Il primitivo progetto illuminista ha subito nel nostro secolo consistenti ammodernamenti, acquisendo un maggiore e più lodevole grado di sobrietà ed elevando il dubbio anche su se stesso. Nel secolo scorso l’essenza di tale progetto consistette nell’autonomizzazione dell'economia e delle sue leggi dalla politica e dall’etica, nell’ossequio all’idea di progresso, nella fede nella « dea ragione » quale sufficiente principio d’ordine della società. Nonostante tutto, l’attuale progetto neo-illuminista conserva variamente memoria delle sue posizioni originarie, miranti ad un progressivo ed indefinito perfezionamento intellettuale, morale e materiale dell’umanità. Ma queste posizioni vengono componendosi con altre prospettive: in alcuni casi si assiste alla fusione tra una linea schiettamente illuminista, umanitaria, imbevuta di fede nel progresso e non insensibile agli aspetti etici, ed una linea di fiducia nella scienza e nello sviluppo economico-industriale. In altri il riserbo sul futuro dell’uomo è molto maggiore, e l’analisi delle società contemporanee è percorsa da una inflessibile volontà di metterne in luce tutte le storture, le contraddizioni, le manipolazioni.

Sono consapevole delle profonde differenze di orientamento filosofico e di diagnosi storico-culturale, che dividono le due linee del razionalismo critico e della teoria critica della società della Scuola di Francoforte: Nonostante queste diversità, che riguardano il modo di intendere l’uso critico della ragione, la funzione della scienza, la portata della dialettica e del principio di totalità, il valore del marxismo e così via, non credo in ultima analisi scorretto consi-

derarle entrambe momenti dell’illuminismo. La teoria critica della società ne rappresenterebbe l’aspetto più negativo che positivo, più destruens che construens, passato attraverso Marx e talvolta Freud. Tale teoria costituisce un’analisi spietata delle contraddizioni della società contemporanea e dei rischi del progetto neo-illuminista, passato ormai sotto bandiere prevalentemente positiviste. Entrambe le linee del neo-illuminismo finiscono per elevare, seppure con diversi accenti, un’antitesi tra religione e scienza (naturale e/o sociale), né credono più che le idee religiose possano essere superate e inverate dalla pura ragione, come perlopiù riteneva l’antica forma dell’illuminismo. Si asserisce invece che le affermazioni teologiche possiedono una portata puramente fideista,

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nel senso che la ragione non è assolutamente capace di giustificarle, poiché può muoversi solo nelle regioni del verificabile. Tuttavia l’attribuzione di un valore mitico alle affermazioni della religione fa talvolta affiorare la tristezza o il rimpianto di non possedere più un senso della vita. Entrambe le linee fanno leva sul negativo, sulla critica: sono essi a decidere. Il negativo si dà sia nella forma della critica delle società attuali, soprattutto le società totalitarie e le società industriali avanzate; sia nella guisa di un continuo tentativo di falsificazione di ogni affermazione. Il che equivale a negare la capacità della ragione di raggiungere dimostrativamente verità metaempiriche. Affermare che la ragione non può dimostrare, cioè che non può mai raggiungere definitivamente alcuna verità, equivale a lasciare da parte l’uso dimostrativo del principio di non contraddizione: l’ostensione della contraddittorietà del contraddittorio non è acquisto provvisorio e falsificabile, ma un acquisto per sempre; è la base su cui si eleva l’edificio della scienza. Ed infine entrambe le linee sono alle prese con un comune interrogativo: come fare perché i Paesi ad alto sviluppo economico raggiungano la giustizia nella libertà?

La Scuola di Francoforte

Nella Scuola di Francoforte rimane un residuo di eredità romantica, probabilmente il massimo possibile all’interno dell’illuminismo, che si traduce nell’omaggio reso alla speranza nella rivoluzione, in un atteggiamento di attenzione alla totalità, nella nostalgia di una possibile liberazione completa, nel rifiuto della tendenza al controllo assoluto, valutato come la logica immanente del processo economico-industriale, che non conduce alla libertà ma al dominio; ed infine nel sospetto nei confronti di un impiego ideologico della scienza e della tecnica. Al contrario il razionalismo critico è totalmente antiromantico. Coerentemente alle sue premesse, la teoria critica della Scuola di Francoforte non descrive la società giusta, perché ciò sarebbe indicare un fine. Al massimo, quel che si può fare è segnalare i mali concreti che debbono essere vinti, mantenendo insieme fermo il valore relativo della scienza e aperta la critica nei suoi confronti: la filosofia assume la funzione di correttivo della scienza, la quale nel positivismo pretende di innalzarsi a verità assoluta. 43

La volontà in cui si esprime l’istanza negativa di non disegnare un futuro, di non indicare un fine per la storia — aspetto in cui vi è come una traduzione del veto biblico di fare immagini di Dio —, è così spiccata che la presa di distanza da Marx avviene proprio su questo punto, in quanto Marx vede il fine della storia nell’avvento del regno della libertà. La teoria critica è una protesta contro il fatto che le parole d’ordine della Rivoluzione Francese — liberté, égalité, fraternité —

si

sono realizzate nelle società che ad esse fanno riferimento solo per gruppi ristretti. Essa vorrebbe trascendere la società borghese, sebbene — di fronte alla previsione, che questa teoria avanza, di un mondo totalmente governato e amministrato, in cui l’uomo non dovrà più faticare per sopravvivere né potrà sviluppare la propria creatività —, finisca per rivalutare le libertà rese possibili dall’età borghese. Ciò la porta a dover mediare tra Marx da un lato e Voltaire e Kant dall’altro. La Scuola di Francoforte accoglie la prospettiva materialistica, secondo cui i pensieri degli uomini finora sono stati determinati dalla necessità di dominare la natura per trarne i mezzi di sussistenza, e dalla volontà di cambiare i rapporti di potere nella società. La accoglie però parzialmente, perché ritiene che gli uomini non siano in una condizione di totale dipendenza dalla società nella produzione del pensiero, accettando così almeno in parte l’istanza illuministica, kantiana e idealistica del soggetto autonomo. Quali possono essere allora le possibilità di trascendimento della società borghese, quando si tenga presente da un lato la mancanza di un disegno propositivo-costruttivo, soverchiato dal momento della critica, e dall’altro il fatto che la teoria critica rimane sostanzialmente all’interno dell’universo intellettuale dell’illuminismo e della società borghese? Quando Horkheimer dichiara esplicitamente: « La teoria della società costituisce il contenuto del materialismo dei giorni nostri » (!°), egli accoglie ed esplicita senza vergogna le valenze materialistiche dell’illuminismo e della società borghese, modulandole in senso pessimistico, e togliendo al materialismo (ed all’illuminismo) il suo alone progressista ed ottimista: « Il pessimismo metafisico, momento implicito di ogni pensieto materialistico genuino, mi è sempre stato familiare. Il mio primo () « Materialismo e metafisica », in Teoria critica, cit., vol. I, p. 45.

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contatto con la filosofia lo devo all’opera di Schopenhauer; il rapporto con la dottrina di Hegel e Marx, la volontà di comprendere e di modificare la realtà sociale, non hanno — nonostante il contrasto politico — cancellato l’esperienza che ho tratto dalla sua filosofia » (1). Tuttavia il profondo spostamento di accento dall’ottimismo al pessimismo critico non è sufficiente a superare completamente l’illuminismo e la ragione borghese. La teoria critica non è un trascendimento, ma una riforma interna dell’illuminismo — preso in tutta la latitudine di significato che esso ha per Horkheimer e Adorno — necessaria per evitare l’autodistruzione dell’illuminismo. La teoria critica è essa stessa un’immagine della crisi del principio illuministico, che da ottimista si muta in pessimista e che da positivo si capovolge in negativo. L’acuta descrizione della crisi sembra più di una volta esaurire il compito del pensare, il quale oltre questo limite dichiara di non avere più dei punti di appoggio per iniziate un

cammino

diverso, certamente

sperato

ma

solo

sperato. La critica della razionalità strumentale del positivismo e del complesso industriale-produttivo è più di una volta felice, ma alla riduzione positivista della ragione non è opposta una franca ammissione del suo valore rivelativo e veritativo. Si critica la ragione ridotta a organo tecnico dei bisogni sociali, a ingranaggio del processo produttivo, si avverte il rischio che si interrompa la necessaria dialettica tra il dato ed il possibile — con il risultato di cadere in un mondo totalmente amministrato, dove il comportamento di massa diventa il nuovo sovrano a cui il pensiero deve inchinarsi —, ma di fronte a tutto questo risulta obiettivamente troppo poco l’appello all’uso critico della ragione, sovraccaricata da una responsabilità a cui non corrispondono positive vie d’uscita. Né di solito l’illuminismo, di qualunque segno esso sia, si è mostrato capace di comprendere la piena ampiezza delle speranze umane e

la grande funzione liberatrice svolta dalla religione. Il razionalismo critico

In altre correnti l’istanza critica della ragione viene fatta valere in senso più vicino all’archetipo illuminista, e cioè secondo moduli (1) Ibidem, p. XI, « Premessa », vol. I.

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fedeli all’idea di progresso, di sviluppo, di miglioramento costante, che su piano politico si traducono in un atteggiamento riformista. Tra le varie forme di questa corrente ne sceglieremo, commentandole rapidamente, due, che tra l’altro per alcuni aspetti risultano piuttosto prossime: la linea del razionalismo critico, che si richiama agli insegnamenti di H. Albert, K.R. Popper, E. Topitsch, F. Hayek; etc.; la linea della prospettiva neo-liberale di sinistra, tra cui rappresentanti significativi è da menzionare soprattutto R. Dahrendorf. Il razionalismo critico appare una versione contemporanea della tradizione liberale (!’) non storicista, ma ispirata dalla scienza, non esente da venature riformiste e social-democratiche sul piano sociale, e fortemente avversa al marxismo, accusato tra l’altro di sottovalutare le cosiddette libertà formali. Il razionalismo critico, che crede alle istituzioni come garanti di libertà, che ha fiducia nella democrazia perché pensa che vi si realizzi un graduale avvicinamento alla società senza classi, propugna una società fortemente pluralista su piano ideologico, dove sia possibile mantenere una elevata libertà di dibattito. Questa costituisce garanzia che le dottrine e le teorie proposte vengano criticamente vagliate in un’am-

pia e continua discussione pubblica: il confronto delle idee in una sorta di libero mercato delle opinioni svolge in certo modo il compito di regolatore ultimo del sistema e di falsificazione di ciò che è ideologico o inadeguato (!°). Il razionalismo critico è un esempio eminente delle connessioni che intercorrono tra filosofia politica e dottrina della conoscenza. Esso però considera la prima una conseguenza pressoché necessaria della seconda, e quindi sostanzialmente rende assai problematica la distinzione tra speculativo e pratico. In effetti la libera concorrenza delle idee in una forma politica democratica, intesa come l’unico modo razionale di confronto (‘) «Io sono per la libertà individuale e odio come pochi la strapotenza dello Stato e l’arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario; è impossibile farne completamente a meno. E purtroppo è vero: più sono gli uomini, più c'è bisogno dello Stato » (K. Popper, « La nuova società », in H. Marcuse-K. Popper, Rivoluzione o riforme?, Armando, Roma 1977, p. 48). (*) «Io ravviso dunque il più alto valore di una democrazia nella possibilità di una libera e razionale discussione e nella capacità di questa discussione critica di incidere sulla politica. Ciò mi pone in acuto contrasto con coloro che credono nella violenza: in particolare coi fascisti » (K_ Popper, ibidem, p. 44).

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politico, altro non è che la traduzione, applicata alla politica, della dottrina epistemologica popperiana, secondo cui ogni nuova teoria deve essere sottoposta a continue verifiche critiche, deve subire ripetuti tentativi di falsificazione. Il razionalismo critico sa di non sapere, mentre eleva contro il marxismo l’accusa di credere di sapere troppo. La sua vantata sobrietà lo porta a non sposare specifici modelli di società; non indica contenuti specifici, ma sostanzialmente difende un metodo. La teoria della conoscenza del razionalismo critico, che riposa su una fede non motivata e sostanzialmente ridotta nella ragione, non ammette che noi possiamo raggiungere la verità definitiva, ma ammette che possiamo avvicinarci ad essa mediante un indefinito uso critico della ragione. Comunque l’intero campo delle verità metafisiche è spazzato via in un sol colpo, perché non esiste nessuna scienza dei principî. Se nessuna affermazione teorica può essere dimostrata vera in senso assoluto e definitivo, rimane che quanto più una teoria resiste ai tentativi di falsificazione, tanto più è solida. Il razionalismo critico assume perciò metodicamente un atteggiamento anti-dogmatico. Il suo principio metodologico, propriamente parlando, non è la ricerca della verità, ma la caccia e l’eliminazione dell’errore: si ritiene che il progresso conoscitivo avvenga soprattutto attraverso la scoperta e la distruzione degli errori. La critica appare perciò come il motore del progresso. Il razionalismo critico appare come una riproposizione dell’illuminismo in questo scorcio del XX secolo, di un illuminismo metodologico mediato più da Kant che dagli enciclopedisti: esso assume da Kant la lezione che l’uomo può uscire dallo stato di minorità in cui si trova per causa sua attraverso un esercizio illimitato della ragione. Viene così disegnata una linea di pensiero complessivamente sobria, libera dagli utopismi sfrenati di certi filoni dell’illuminismo, e che si traduce in un pensiero metodicamente procedurale, alieno da ogni extrapolazione e previsione, sentimentalmente « freddo » ed antiutopico, ma anche concreto. La strategia politica più consona al razionalismo critico è la marcia a piccoli passi, è un social-engineering basato sul metodo del trial and error. Questo metodo ritiene che la capacità di fare previsioni attendibili è limitata, e che non ci sono motivi razionali per preferire le cosiddette riforme che ribaltano il sistema a quelle che lo cambiano progressivamente. Il razionalismo critico non rifiuta l’idea di una società

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migliore, ma non crede che ci si possa arrivare attraverso radicali rivolgimenti utopistici, bensì solo con l'impegno ad eliminare gradualmente i mali reali. L’idea stessa di riforma totale o di rivoluzione è osteggiata più per motivi conoscitivi che per ragioni eti-

che, poiché si ritiene che il riformatore totale sia un assurdo perché privo delle immense conoscenze necessarie. Il metodo democratico è accolto come l’unico capace di garantire una convivenza accettabile in una situazione di intrinseca incertezza teoretica e conoscitiva, derivante dalla convinzione secondo cui ogni tipo di verità, compresa quella politica, non è né manifesta né a portata di mano. ; Tuttavia questa connessione tanto insistita tra dottrina della conoscenza e metodo politico finisce per lasciare tra parentesi il momento propriamente etico della vita umana e della politica. Non è chiaro come possa la vita democratica sostenersi sulla base di un puro metodo procedurale senza considerare i valori etici, la cui funzione politica non viene illustrata, e ciò perché non vi è possibilità alcuna di decidere razionalmente e scientificamente tra i diversi sistemi di valore. Di fatto il razionalismo critico generalmente congiunge alla sua dottrina epistemologica e politica un'etica di derivazione kantiana. Ma tale connessione non è necessaria, bensì

del tutto contingente, di modo che i metodi e le procedure conoscitivi e politici potrebbero essere congiunti con indirizzi etici diversi da quello kantiano. Poiché il razionalismo critico è metafisicamente agnostico e dichiara di non possedere criteri per determinare il vero e il falso, altrettanto vale nel campo etico, in cui il suo metodo epistemologico della falsificazione potrebbe senza contraddizione congiungersi con le prospettive etiche del positivismo oppure dell’empirismo e così via. Il liberalismo di sinistra di R. Dabrendorf

La linea, di cui è autorevole esponente R. Dahrendorf, può essere configurata come liberalismo di sinistra, inteso a definire un nuovo statuto della libertà nelle società industriali avanzate dell’occidente. Una ripresa perciò in chiave aggiornata e ammodernata della tradizione del liberalismo nelle sue figure più fondamentali: « L’elemento morale del liberalismo è la convinzione che è l’individuo che conta, la difesa della sua incolumità, lo sviluppo delle 48

sue possibilità, le sue chances di vita. I gruppi, le organizzazioni, le istanze non sono, in quanto tali, fini a sé stanti, bensì mezzi finalizzati allo sviluppo individuale » (14). Per definire le nuove forme della libertà moderna, Dahrendorf adotta chiavi di lettura concernenti la filosofia della storia e la filosofia sociale, ponendo due cruciali questioni: qual è l’essenza delle società umane? È proprio vero che nella storia non c’è mai nulla di nuovo, oppure se c’è progresso qual è il suo significato? Ma più che al primo interrogativo Dahrendorf risponde al secondo, collegandolo con una certa idea della libertà umana. Parlare di progresso implica infatti asserire che c’è del nuovo, quale risultato del processo creativo umano. Il progresso è « l'ampliamento delle chances di vita della persona [...] che definiscono fino a che punto gli individui possono svilupparsi » (p. 11 e p. 16). Sembra dunque di trovarsi in linea di massima di fronte ad una concezione personalista del progresso, che non lo fa coincidere con lo svolgimento di un processo dialettico, né con il dispiegarsi della Ragione hegeliana, bensì con qualcosa che concerne concretamente l’uomo e che chiama in causa la sua libertà, perché il piano della storia non è già scritto in anticipo ma è invece un processo aperto. Dahrendorf non considera la storia come svolgimento di un’idea, ma ne riguadagna il senso di fenomeno umano e concreto, consistente « proprio nel creare più chances di vita per più uomini » (p. 17). Il progresso è perciò possibile, anche se non necessario: « Le chances di vita umane possono essere ampliate, gli uomini possono cioè crescere in relazione alle chances di vita di cui dispongono » (p. 19). Tuttavia Dahrendorf, che non fa riferimento ad una nozione ontologico-metafisica di natura umana, è costretto, nel definire le possibilità di vita, a ricorrere a metodi sostanzialmente empirici, che rendono meno ricca la sua concezione della libertà umana. Egli vede bene che il senso della storia sta per l’uomo nel progresso e nella conquista della libertà: « Libertà significa che noi superiamo o eliminiamo qualunque ostacolo impedisca la crescita umana » (p. 27). Tuttavia questa prospettiva sembra soprattutto mettere l’accento sulla libertà come negazione e superamento della coazione, piuttosto che sulla libertà come crescita di ricchez-

za spirituale e di autonomia della persona. Nonostante questa ca(4) R. Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari 1980, p. 56.

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renza, Dahrendorf coglie sia il rapporto essenziale tra forme della vita sociale e costruzione della libertà, sia che un concetto empirico come quello del benessere non può essere impiegato a tale scopo: « Individuare le condizioni nelle quali le chances di vita crescono è il primo compito di una teoria sociale del mutamento ed il primo intendimento di una teoria politica della libertà » (p. 46). Per Dahrendorf le società moderne hanno accresciuto assai le opzioni a disposizione dell’individuo, diminuendo però o distruggendo molte connessioni sociali, che egli chiama legature. Il risultato deriva in linea diretta dalla teoria etico-politica liberale che ha puntato tutto sull’ampliamento delle opzioni, ad un punto tale da distruggere legami e relazioni, e quindi da ottenere un risultato contraddittorio con le premesse, perché la distruzione di legami sociali diminuisce le chances di vita. Per aumentarle, bisogna puntare perciò non soltanto sull'aumento delle opzioni, ma, soprattutto oggi, sull'aumento delle legature e connessioni sociali: « Il compito del liberale riguarda [oggi] il più difficile degli obiettivi sociali, la creazione di legature, l’incoraggiamento ad istituire relazioni, il rinnovamento del patto sociale » (p. 52). Naturalmente tutto ciò configura la posizione di Dahrendorf come diversa da quella paleoliberale, in cui l’individuo cercava nella società la garanzia per seguire il proprio privato interesse, i propri affari e il proprio piano di vita. Differentemente da Hayek, Dahrendorf è contrario ad un liberalismo tradizionale attestato sulle sue dottrine di un tempo; è per un liberalismo attivo: « Io disprezzo quell’atteggiamento negativo che si dice liberale, ma che concretamente non è qualcosa di molto diverso dalla difesa degli interessi di posizione dei benestanti » (p. 51). Tale « liberalismo sociale » è favorevole al mutamento sociale, purché avvenga nel quadro delle istituzioni democratiche e purché sappia sciogliere l’antico matrimonio tra liberalismo e capitalismo — che conduceva a porre l’accento solo sulla crescita economica — come anche quello tra liberalismo e socialismo, che ha portato ad un falso eguali-

tarismo. In quanto liberale ma non conservatore, Dahrendorf non è favorevole al mzizizzal State, anche se vuole uno Stato ridotto che

sappia contrastare attraverso politiche di stampo ancora socialdemocratico l’eccessivo egualitarismo sociale. Egli riconosce che le 50

politiche social-democratiche, anche se ormai non le ritiene più sufficienti, hanno promosso benessere e uguaglianza di possibilità tra gli uomini. Non ritiene però l'uguaglianza un fine ma un semplice mezzo, poiché « scopo dell’uguaglianza è la disuguaglianza » (p. 90). L’uguaglianza di possibilità serve affinché chi vuole essere diverso, possa esserlo. Infine Dahrendorf fa notare che l’aumento delle chances di vita non è la stessa cosa che la soluzione del problema della libertà: nei Paesi totalitari può aumentare il tenore di vita e quindi con esso le chances di vita, ma non vi è certo aumento della libertà. Al contrario, l’essere liberi comporta di per sé ampliamento delle chances di vita. Tra la posizione liberale conservatrice, che si accontenta delle chances esistenti, e quella tipica dei regimi dell’Est che limita la libertà per aumentare certe chances di vita riconducibili al benessere, il programma liberale di Dahrendorf punta ad aprire nuove chances di vita, salvaguardando quelle esistenti, garantendo la libertà e mirando a ricostruire legami e connessioni sociali. Nelle sue linee essenziali, la prospettiva di Dahrendorf è assai interessante come teoria sociale, sebbene le questioni propriamente filosofiche del significato della libertà e del progresso ricevano una risposta problematica. Si può identificare la libertà con l’ampliamento indefinito delle chances di vita (« Libertà significa ampliamento delle possibilità di vita », p. 209), senza porre nella fioritura razionale e morale della persona il senso ultimo della libertà? Senza attribuire un senso etico e spirituale alla nozione di chances di vita? RIFLESSIONI

SULL'IDEA

DI PROGRESSO

I progetti etico-politici considerati fanno affidamento sul progresso e lo considerano come uno degli obiettivi fondamentali della loro proposta. Tuttavia la cultura e gli eventi del nostro secolo hanno via via posto in crisi l’idea-mito del progresso universale e necessario, che era stata così diffusa nel secolo scorso e che aveva

costituito una molla per tante correnti ideologiche e culturali. Quando parliamo di idea-mito intendiamo affermare che la universalità e la necessità del progresso è un assunto ingannevole, perché la storia umana si sviluppa molto diversamente dalla spontanea crescita di alberi o di piante. Inoltre vogliamo mettere in Di

luce che la convinzione che il nuovo è di necessità migliore dell'antico, è un postulato largamente problematico. L’idea che la scienza va crescendo sempre e così procura un progresso indefinito, ha le sue prime origini nel secolo XVII. Ma ai fini del dibattito sul progresso non vanno neppure trascurati i problemi scaturenti dall’evoluzione delle lettere e dell’arte. G. Sorel asserisce che le prime ideologie del progresso rimontano al dibattito sugli antichi e sui moderni: « Gli storici fan risalire le origini della dottrina del progresso alla disputa sugli antichi e sui moderni che sollevò tanto rumore sulla fine del secolo XVII. Potrà parere singolare ad uno del nostro tempo che una disputa esclusivamente letteraria abbia potuto determinare tale conseguenza, poiché ai dì nostri non si è proclivi ad accettare l’esistenza d’un progresso artistico » (5). Alla metà del XVIII secolo la questione del progresso ha conquistato tante parti della cultura, è divenuta una specie di chiave d’oro che apre tutte le porte e fornisce risposta ad ogni problema: in una parola è diventata un’ideologia diffusa e indiscussa, sostenuta da un ottimismo sfrenato. L’araldo più convinto ne è senza dubbio Condotrcet, secondo il quale la travolgente marcia vittoriosa della ragione non può essere fermata; anzi si diffonderà dalla Francia, dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti d'America a tutto il resto del mondo. In Condorcet l’ideologia del progresso emerge allo stato puro: «Il risultato [dell’opera che ho intrapresa] sarà di mostrare, con il ragionamento e con i fatti, che la natura non ha assegnato alcun termine al perfezionamento delle facoltà umane; che la perfettibilità dell’uomo è realmente indefinita; che i progressi di questa perfettibilità, ormai indipendenti da ogni potenza che volesse arrestarli, non hanno altro termine che la durata del globo in cui la natura ci ha posti » (19). V’è da notare che in Condorcet la questione del progresso non è più un fatto limitato agli sviluppi della scienza e della tecnica, e neppure all’arte e alla letteratura dei moderni, ma una vera e propria concezione antropologica, che esige di tradursi nella politica: « Arriverà dunque questo momento in cui il sole non illuminerà (4) Le illusioni

1910 (2), p. 31.

del progresso,

Remo

Sandron,

Milano-Palermo-Napoli

. (!9) Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit bumain, Boivin, Paris 1933, p. 3.

DR

più sulla terra che uomini liberi, che riconoscono come loro maestro solo la ragione; in cui i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro stupidi e ipocriti strumenti esisteranno solo nella storia e nei teatri » (!"). Fa parte dell’ideologia del progresso il ritenere impossibile e blasfemo che si possa tornare indietro: i lumi non possono che aumentare. Ciò in ultima analisi è dovuto al fatto che l’ideologia del progresso trascura la fallibilità della libertà dell’uomo ed il peso del male nella storia, anche perché ritiene che basti il semplice incremento della conoscenza per avere la virtù: « Noi faremo osservare che i principî della filosofia, le massime della libertà, la conoscenza dei veri diritti dell’uomo e dei suoi interessi reali, sono diffusi in un numero troppo grande di nazioni, e dirigono in cia-

scuna di esse le opinioni di un numero troppo grande di uomini illuminati, perché si possa temere di vederli mai ricadere nell’oblio » (p. 198). La fede nel progresso vede nell’istruzione e nella scuola pub-

blica per tutti un grande fattore di sviluppo, di unità nazionale, di laicizzazione. Renan

scriveva:

«Il razionalismo popolare, conse-

guenza inevitabile della istruzione pubblica e delle istituzioni democratiche, rende deserti i tempî e moltiplica i matrimoni e i funerali puramente civili » (15).

Anche a tale proposito si dovrebbero ricordare le grandi speranze nutrite da Condorcet, autore di uno dei primi progetti di istruzione popolare che doveva essere dispensata dalla istituenda scuola nazionale di Stato. Egli affermava con convinzione che l’istruzione avrebbe fatto sparire ogni illusione e ogni superstizione nel popolo. Sembra che all’ideologia del progresso faccia da sfondo l’idea che tutto può essere insegnato. Vi è dunque una concezione spuria e una concezione corretta del progresso, perché per l’uomo progredire è una necessità indiscutibile. È certamente necessario progredire, ma il progresso non è necessario, è solo possibile. Che cosa sarà dunque il progresso? Come definire giustamente questa innegabile realtà umana e cosmica? Per tutte le cose il progresso è avvicinarsi al proprio Principio, è realizzare la propria essenza. Questa definizione, che ha un

ambito di applicazione polivalente, vale anche per l’uomo:

ma

(1) Ibidem, p. 210.

(!) E. Renan, Marc-Aurèle, p. 641. Citato da G. Sorel, op. cit., p. 79.

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come conferirle un più preciso significato antropologico? Per l’uomo avvicinarsi al proprio Principio è avvicinarsi a Dio. E Dio è suprema coscienza e suprema libertà; è suprema soggettività; è la felicità, l'atto della sovrana intelligenza che pensa se stessa; è la vita, perché il suo atto è il suo essere. L’intera vita cosmica dal fondo delle età più remote evolve in certo modo attratta dal movimento verso il Principio, generando in tale modo forme via via superiori e più riccamente organizzate di vita e crescente complessità psichica. Questa crescente organizzazione della vita, che nel-

l’uomo si carica di libertà e di interiorità e che opera la sintesi di nuove forme, è il progresso. Il susseguirsi di queste forme dà un'idea della ricchezza e della realtà del progresso, come anche del duro scotto di perdite, di scarti, di morti che lo insidia. L’uomo può progredire solo consapevolmente, ossia consapevol-

mente scegliendo di avvicinarsi al proprio Principio, e di realizzare così la propria essenza. Poiché Dio è coscienza, libertà e soggettività, progredire per l’uomo significa ascendere verso forme più alte e più ricche di interiorità e di coscienza, e verso la conquista della libertà ('°). Questa concezione personalista e insieme teologica del progresso possiede ricche valenze sociali. ('’) Da un punto di vista principalmente paleontologico, Pierre Teilhard De Chardin ha svolto penetranti riflessioni sul progresso. Egli afferma che la vita non soltanto si muove nel corso dell’evoluzione (lungo durate di milioni di anni), ma che si muove in una direzione determinata, quella di una crescente « cerebralizzazione » o « cefalizzazione » degli esseri viventi. « A tutti i livelli del mondo otganico si disegna chiaramente, sotto lo sforzo delle nostre ricerche, una spinta persistente delle forme animali verso dei tipi a sistemi nervosi sempre più ricchi e più concentrati. Innervazione crescente e “cefalizzazione” crescente degli organismi: questa legge è riscontrabile in tutti i gruppi viventi che conosciamo, presso i più piccoli come i più grandi [...]. Che cosa significa tutto ciò, se non che, rivelata dall’accrescimento dei sistemi nervosi, una ascesa continua, una marea di coscienza si manifesta oggettivamente sul nostro pianeta nel corso delle età? ». Il progresso è, secondo Teilhard De Chardin, proprio questa graduale organizzazione della materia in gruppi viventi sempre più ricchi e contornati da una frangia sempre più luminosa di libertà e d’interiorità, che finalmente sbocca nell’Uomo, capo dell'Universo: « Portati da milioni d’anni di Psicogenesi, noi abbiamo il diritto di considerarci come usciti da un Progresso - figli di Progresso ». Dunque per Teilhard De Chardin il progresso è un’ascesa della coscienza, la quale a sua volta è l’effetto di una crescente organizzazione della vita, che si carica sempre più di libertà. Questo processo dura da centinaia di milioni di anni, e può durarne altrettanti, perché la Terra non ha terminato la sua evoluzione siderale. Gli uomini dovranno prendere partito, per vincere le forze di isolamento o di repulsione che sembrano allontanarli l’uno dall’altro.

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Su piano sociale il progresso è un cammino di liberazione dalle servitù imposteci dalla natura, verso la creazione di forme sociali di vita a crescente unificazione interna. Il progresso, inteso come progressiva realizzazione storica della libertà, non assomiglia allo stabile svolgimento mediante il quale si traggono conclusioni da principî, piuttosto è un movimento di salita, molto precario e contrastato, sostenuto dalla libertà e mirante alla libertà ed alla verità: « La vita della società umana avanza e progredisce così a prezzo di molte perdite, avanza e progredisce in grazia di questa sopraelevazione dell’energia dei perfezionamenti tecnici che sono a volte in anticipo sullo spirito (da qui le catastrofi) ma che, per natura loro, domandano

di essere

strumenti

dello spirito » (°°).

Possiamo dire che le filosofie ottocentesche e quelle del nostro secolo che hanno più insistito sull’idea di progresso, l’abbiano configurata così come l’abbiamo appena tratteggiata? Forse qualche corrente ha intuito più o meno chiaramente questi contenuti, ma nel complesso si è assistito ad una considerevole materializzazione dell’idea di progresso, che rendeva più facile lo scivolamento verso il mito del progresso universale e necessario. Per mettere in chiaro questo aspetto conviene sostare un momento in un’analisi metafisica della nozione di progresso, nella quale faremo ricorso alle classiche categorie aristoteliche di materia e di forma: esse si presentano come sorprendentemente utili ed idonee ad abbozzare qualche lineamento di una filosofia del progresso. Come si sa, nella filosofia di Aristotele la materia è pura mutabilità, pura indeterminazione, potenzialità radicale, qualcosa cheè Teilhard vede due sole possibilità: « La prima è un restringimento causato da un’azione esterna di coercizione [...]. Vi è però una seconda soluzione. E sarebbe che, sotto qualche influenza favorevole, gli elementi umani arrivino a mettere in giuoco una forza di attrazione mutua profonda, più profonda e più potente che la repulsione di superficie che li fa divergere [...]. Urificazione in virtù di forze interne, o per forze esterne? [....]. Non avanzertemo se non unificandoci », perché la coercizione produce solo un’unità di superficie, ma nessuna sintesi di fondo e nessun accrescimento di coscienza. « Più scruto la questione fondamentale dell’avvenire della Terra, più credo di percepire che il principio generatore della sua unificazione non è in fin dei conti da cercare né nella sola contemplazione di una medesima Verità, né nel solo desiderio suscitato da Qualche cosa, ma nell’attrazione esercitata da un medesimo Qualcuno » (L’Avenir de l’Homme, Ed. du Seuil, Paris 1959, pp. 89 s.). (2°) J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 28.

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di per sé inintelligibile e prossimo al non-essere. Solo ricevendo la forma, la materia viene determinata, e in unione con la forma

(e con l’esse) dà luogo a questo o quell’ente. La tendenza costitutiva e radicale della materia ad essere determinata dalla forma è una tendenza totalmente indifferenziata e passiva, per cui la materia può ricevere qualsiasi tipo di forma, dalle più basse alle più elevate: in quanto mutabilità pura ed indeterminazione originaria, la materia non porta in sé la preferenza per questa o quella forma, ma desidera soltanto essere informata. Nella sua potenzialità radicale la materia è, per così dire, solo relativamente stabilizzata dalla forma. Essa mantiene la sua instabilità costitutiva, di modo che la materia informata costituisce un sinolo labile, nel quale la materia porta la sua tendenza a scindersi da una forma per unirsi ad un’altra: i processi naturali di generazione, trasformazione e corruzione offrono un irrefutabile attestato a ciò. Essi insegnano che il mutamento avviene in modo tale che, del tutto indifferentemen-

te, la materia si unisce a forme superiori oppure inferiori. Sola rimane stabile la tendenza della materia verso la forma, qualunque essa sia. Già queste considerazioni sono sufficienti a gettare il dubbio, o meglio la contraddizione, sull’idea di progresso necessario e indefinito. Nella misura in cui l’inesorabile legge metafisica dell’appetito della materia per qualunque forma, non è regolata e, ove necessario, contrastata dalla libertà umana, essa influirà sulle vicende della storia umana, nel senso che lo scortere del tempo implicherà moto verso l’altro, verso il nuovo o il diverso come tale, ma non necessariamente verso il meglio. Il nuovo in quanto tale non è necessariamente il migliore, ma solo l’altro, l'unione di una diversa forma con la potenzialità della materia, e tutto sta a vedere quale livello ontologico possieda la nuova forma rispetto all’antica, onde decidere della qualità del mutamento. Ciò significa che tale qualità può essere valutata solo sulla base di una gerarchia metafisica delle forme, altrimenti la soluzione sarà di ritenere che il nuovo come tale è sempre migliore dell’antico, che il semplice esserci di una nuova forma è cosa positiva. Bisogna invece denunciare l’acritica trasvalutazione che viene operata quando l’universale legge del divenire, intrinseca alla realtà naturale e umana, viene letta come progresso: già Aristotele avvertiva invece che il divenire, in quanto legato alla materia, va più verso il dissolvi56

mento che verso la crescita, e che il tempo è di per sé più causa di corruzione che di generazione. Il mutamento è cosa essenzialmente diversa dal progresso: il mutamento genera l’altro; il progresso invece il migliore. Supponiamo ora che queste considerazioni piuttosto metafisiche sul progresso siano accolte: ad esempio gli uomini della tecnica non riterranno peregrino il ricorso alle categorie aristoteliche, perché l’intento della tecnologia è volto ad imprimere forme più qualificate e più ricche alla materia, in un processo che effettivamente pare non conoscere limiti, ma che esige un impegno costante. In tutto l'enorme processo innovativo e migliorativo della tecnica c’è uno sforzo metodico e amplissimo di progredire verso prodotti migliori, attraverso l’impiego di enormi capitali di intelligenza e di denaro; il che comporta l’onere di una rapida obsolescenza e di un continuo cambiamento dei prodotti. L’inarrestabile inventività tecnologica è il mezzo con il quale la naturale tendenza della materia verso qualsiasi forma, viene raffrenata e incanalata verso forme a seconda dei casi « economiche », utili, belle. Ma che dire se questa idea del progresso tecnico, programmabile e indefinito, trapassa dal suo campo limitato a quello della vita umana? Questo indebito trasferimento, di cui la prospettiva tecnocratica non è esente, può generare illusioni nel senso che il progresso umano viene inteso solo in chiave tecnica e materiale, dimenticando le sue condizioni morali e intellettuali. ‘Considerare il progresso umano solo nelle forme di quello tecnico e produttivo è un errore che porta a spiacevoli conseguenze. In effetti nella tecnica i metodi di progettazione e di produzione cambiano piuttosto rapidamente, il nuovo scaccia e rende obsoleto il vecchio, che per ciò stesso perde ogni valore: che valore può avere un prodotto a valvole termoioniche nell’età dei semiconduttori, dei transistors, dei circuiti integrati? Allora, se si assume il progresso tecnico come paradigma di ogni altra forma di progresso, si riterrà che la veloce mutazione dei prodotti che provoca, debba avvenire anche nell’etica, nei sistemi di valore, negli ideali sociali, attraverso una continua sostituzione di un valore ad un altro e così via. Il progresso razionale e morale viene inteso non come vetera novis augere, ossia come una costruzione che innalzandosi su solide fondamenta si amplia via via con nuovi apporti, ma come un 57!

continuo rifare tutto da capo, nella convinzione mitica che il passato sia il male che non deve essere in alcun modo conservato. Dunque, se l’idea di progresso valida per la tecnica viene acriticamente applicata alle realtà etiche e storiche, non può che conseguirne la distruzione della tradizione e la metamorfosi del significato di bene e di male, che non hanno più un contenuto etico, ma che assumono un valore temporale: il bene è il futuro e il male è il passato. L’autentica idea di progresso non comporta una rivoluzionedistruzione radicale, né significa il rifiuto aprioristico del passato, bensì un processo di perfezionamento e di sviluppo in cui i guadagni del passato sono conservati, salvati e insieme assunti in una forma superiore: il progresso autentico è incremento nella continuità di una specificazione fondamentale. Il progresso non può essere che secondo l’omogeneo: nel senso appunto dello svolgimento dell’essenza umana. Oltre che per l’uomo, questo è vero per le scienze speculative, dove il progresso significa incremento di dottrine e di conoscenze a partire da una base o da principî immutabili: nella metafisica il progresso avviene partendo da primi principî immediatamente colti, che vengono sempre meglio penetrati e sviluppati nelle loro conseguenze sino ad abbracciare tutto l’essere. Le scienze speculative progrediscono perciò non at-

traverso ripetute discontinuità formali, bensì attraverso uno stabile movimento di espansione a partire dai principî e da una loro più fulgida e penetrante comprensione. Anche qui, se viene prevalendo un’idea di progresso ricalcato sulle prospettive dello scientismo tecnologico, si sosterrà che pure le scienze speculative debbano subire i continui rivolgimenti che presiedono alle fasi della vita tecnologica produttiva: la metafisica dovrebbe allora rinnovarsi ad ogni stagione, così come mutano i dettami delle grandi case di moda. Escluse talune concezioni insostenibili del progresso, dobbiamo ancora approfondire e svolgere le implicazioni autentiche dell’idea di progresso. Nonostante molte anse e temibili indietreggiamenti, il fiume della storia umana avanza. Il suo progresso non è un postulato a priori, ma il riconoscibile risultato di un’analisi concreta: nel corso delle epoche il valore della persona umana sembra essere meno imperfettamente riconosciuto, intollerabili ingiustizie come 58

la schiavitù si estinguono lentamente, vengono compiuti passi avanti nella penetrazione della verità, etc. Potremmo definire tutto ciò progresso sociale, intendendolo in senso lato. La questione del progresso dell’uomo e della società è un problema delicato, che va tenuto distinto sia dal semplice progresso tecnico — che è parte e momento del progresso sociale — sia dall’evoluzione della vita cosmica lungo immensi periodi di tempo. Quello che ci occorre è collegare la nozione di progresso con la grande questione del divenire: in effetti il progresso è una particolare forma di cambiamento, in cui vi è conservazione e incremento. Se si esamina il problema del cambiamento, si vede che bisogna considerare tre fattori: il termine o la forma nuova verso cui tende il cambiamento (terzzinus ad quem), che specifica e determina il tipo di cambiamento; il termine da cui il cambiamento parte (ferzzinus a quo), e che è la privazione della forma che sarà acquisita alla fine del mutamento; infine il terzo fattore è il soggetto che diviene, che passa dal termine iniziale a quello finale. Un uomo povero diviene ricco: il terzzinus a quo è la povertà, cioè la privazione della ricchezza, mentre il termzinus ad quem è la ricchezza. Il divenire è perciò dispiegamento delle virtualità inscritte nell’essere. Il divenire suppone un non-essere — poiché si diviene ciò che non si è —, ma un non-essere relativo, che è la nuova forma da acquisire. Nel caso del progresso sociale (latamente inteso), il soggetto del cambiamento è il corpo sociale, sono gli uomini che compongono la società; poiché questa non è una sostanza ma una relazione d’ordine, il progresso sociale non appartiene alla classe dei mutamenti sostanziali, come invece capita ad esempio nei fenomeni di generazione e corruzione. Nel caso del progresso sociale le virtualità di dispiegare sono inscritte nel soggetto umano: il progresso così inteso è l’attualizzazione, libera perché l’uomo è libero, delle potenzialità di tutto l’uomo e di tutti gli uomini; è il già citato dispiegamento dell’essenza umana, che necessariamente deve tendere ad un fine. Qual è il ferzzinus ad quem o il fine del progresso? Le risposte a questo interrogativo sono varie e nella loro diversità contraddistinguono le differenti soluzioni al problema del progresso umano. Una filosofia cristiana del progresso deve riconoscere che la storia avanza, oltre che verso un termine trascendente costituito dai cieli

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nuovi e dalla terra nuova di cui parla l’Apocalisse, anche verso un fine immanente, che è la pienezza di svolgimento della vita umana, la piena fioritura delle virtualità dell’uomo. Questo movimento, immanente ma attivato dalla Causa prima, si svolge a tre livelli:

a) la signoria dell’uomo sulla natura e la conquista dell’autonomia umana, che costituiscono un'effettiva e fondamentale destinazione della storia, menzionata anche nella Bibbia, in virtù di cui l’uomo

cerca di affrancarsi dalla pressione esercitata su di lui dal cosmo; b) lo svolgimento nel tempo di tutte le attività spirituali dell’essere umano: le molteplici forme di conoscenza, la vita morale, la creazione

artistica, etc.; c) la estrinsecazione

e la manifestazio-

ne nella vita storico-sociale delle potenzialità dell’universo della persona. Questi livelli, che costituiscono il termzinus ad quem del progresso, ne segnalano la qualità molteplice — poiché il progresso non è solo materiale e tecnico ma anche specificato da dominanti spirituali, intellettuali, etiche, artistiche —, e la dialettica di necessità e di libertà che dimora nel suo dinamismo. La crescita indefinita della persona e della società verso tale termine è desiderata in virtù di una necessità che emana dal fondo stesso dell’essenza umana (per cui si potrebbe dire che non il progresso è necessario, quanto il desiderio del progresso), ma che può essere realizzata solo attingendo alle energie della libertà. Il progresso avviene nel tempo: questa è l’altra grande dimensione, che deve completare l’analisi sul progresso-cambiamento e sui tre termini che lo specificano. L’uomo deve inscrivere il progresso nella durata della sua esistenza storica, che è dire che deve iscriverlo nel tempo. Ora per Aristotele il tempo, misura del movimento secondo il prima e il dopo e intrinseco alla struttura metafisica dell’ente finito, composto di atto e di potenza, è di per sé più misura della costante cessazione dell’essere che della creazione

del nuovo: il puro scorrere del tempo non provoca progresso (?!). (3) «Questo, in realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi [...] il tempo, di per sé, è piuttosto causa di corruzione » (Fisica, 1. IV, 219b1 e 221b3). Si noti la profonda differenza di interpretazione del tempo tra Aristotele e Teilhard De Chardin: per il primo è più causa di corruzione che di generazione; per il secondo è un flusso che scandisce l'ascesa della vita cosmica verso più alti livelli di vita e di coscienza. Ma naturalmente va anche tenuto presente il ben diverso arco temporale preso

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Se l’essere umano fosse totalmente consegnato all’esserci, totalmente rinchiuso nell’orizzonte temporale, non sarebbe possibile non accogliere l’analisi di Aristotele e concludere che il progresso è molto problematico. L’uomo tuttavia non si risolve integralmente nella temporalità, nei passaggi potenza-atto-potenza, che non elevano la qualità della storia. Le energie dello spirito, l’intelligenza e la libertà, sussistono sal di sopra del tempo, lo ricaricano nel suo moto dissipativo, e dunque contrastano la legge dell’accrescimento entropico.

Il progresso è possibile perché, al di là della dialettica dissipativa insita nei movimenti della materia, l’intelligenza trascende il tempo e ispira la libertà a ricaricare l'energia della storia: l’uomo può fare eccezione alla universale legge di entropia del tempo, mettendo in opera forze di risalita. Il tempo non è un automatico generatore di valore per il semplice fatto di scorrere, ma un campo di possibilità aperto all’influsso della libertà. La radice ultima del progresso è lo spirito. Se non ci inganniamo, la questione del progresso andrebbe posta all'incirca nei termini esposti. Ben diverse considerazioni dovrebbero invece essere svolte per il problema della rivoluzione: cambiamento rivoluzionario e progresso non sono sinonimi. L’idea di rivoluzione implica infatti una concezione dialettica del reale: la rivoluzione è la dialettica stessa applicata all’ordine social-politico. Quando Marx scruta le condizioni per operare un cambiamento radicale della società e per liberare coloro che patiscono ingiustizia, ricorre alla più dubbia e meno concreta tra le forme di pensiero, alla dialettica: « Da ciò la sua idea di cambiamento rivoluzionario che è — ed è il destino di tutti i cambiamenti dialettici — di quelle che penetrano di meno nella profondità del reale » (2). in considerazione nei due casi, e le suggestioni provenienti dalla paleontologia e dalla rivelazione cristiana, che influenzano le vedute di Teilhard. (2) H.R. Schmitz, « Progrès social et changement révolutionnaire », Revue Thomiste, n. 3, 1974, p. 439. Già Aristotele aveva messo in guardia contro la facilità con cui si pronunciavano coloro che facevano ricorso a ragionamenti dialettici: « La cagione che impedisce di osservare nel loto complesso i fenomeni comunemente accettati è la mancanza di esperienza; perciò tutti quelli che hanno maggiore dimestichezza con le cose della natura sono maggiormente capaci di postulare principî tali che possano abbracciare un vasto

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La ragione profonda ne è che nel processo dialettico non c’è in ultima analisi soggetto che diviene, ma soli intervengono il termine 4 quo ed il termine ad quem: « Mentre in ogni autentico cambiamento il soggetto costituisce il legame tra i due termini del divenire, per il fatto che passa dall’uno all’altro, o per il fatto che dall’uno diviene l’altro, nel processo dialettico gli opposti sono collegati dal divenire dialettico stesso, che possiede la caratteristica di far sussistere nell’bic et nunc della propria attualità due termini contraddittori » (#). Nel caso del movimento dialettico non c’è soggetto, bensì una semplice successione di termini. Il supposto cambiamento dialettico non potrà mai generare progresso, perché manca il soggetto del cambiamento: può esservi progresso dove si comincia a negare il soggetto stesso che deve progredire? La rivelazione giudeo-cristiana ha reso ancora più esigente e profondo il desiderio così umano di migliorare la propria condizione, di liberarsi dalla miseria, dalla paura, dall’odio, dall’errore, di crescere in libertà e verità. La rivelazione del fine ultimo assoluto dell’uomo e della storia non ha gettato l’inerzia sulle opere e sulle aspirazioni dell’uomo, ma vi ha posto un fermento attivante di prodigiosa potenza: il progresso appare come la rifrazione temporale del movimento verso il Regno di Dio. Diversamente dalle antiche cosmogonie e dalle concezioni della storia che vi si esprimevano, e che spesso si riportavano al mito dell’eterno ritorno, la Bibbia ha insegnato all'uomo che la storia ha una direzione, è un vettore in divenire che si muove attratto da un centro trascendente ed ordinatore, è un vettore che si dirige verso un fine. Inoltre il delicato, forte, concreto amore evangelico verso l’uomo costituisce per la storia delle società umane un formidabile lievito che le spinge avanti.

Proprio le ascendenze cristiane hanno insegnato all’uomo che gli eventi storici non hanno un significato univoco, bensì si muovono lungo una duplice linea, nel senso del bene gli uni e in quello del male gli altri. La parabola della zizzania o dell’erba cattiva lo insenumero di fenomeni; quelli invece che, fondandosi su un gran numero di ragionamenti astratti [dialettici], non pattono dall’osservazione dei fatti concreti, trovano minore difficoltà a pronunciarsi, perché hanno un ben limitato numero di cose dinanzi allo sguardo » (Della generazione e della corruzione, 316 a 5 sì).

(*) H.R. Schmitz, ibidem, p. 445.

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:

gna (M?, 13,24s). Quando i contadini domandano al signore del campo da dove viene l’erba cattiva e se deve essere strappata, il padrone risponde che è stata seminata dal nemico e che non va strappata: « Lasciate che crescano insieme fino al giorno del raccolto. A quel momento io dirò ai mietitori: raccogliete prima l’erba cattiva e legatela in fasci per bruciarla: il grano invece mettetelo nel mio granaio ». Non vi è nessuna indiscutibile evidenza del progresso necessario, perché ad ogni crescita nella linea del bene si mescola una crescita nella linea del male; e a questo doppio

movimento si può rimanere indifferenti solo se si nega la realtà del male, ridotto ad un accidente o a un momento dialetticamente

necessario dello svolgimento storico. Soluzione apparente perché, se pure viene dissolta dall’intelletto la nozione di male morale di colpa, nascente dalla disobbedienza ad una norma, l’uomo rimane

inquietato dall’esperienza del male che trova in sé. Non si possono criticare le prospettive etico-politiche perché hanno cercato e cercano la liberazione umana, ma semmai perché la cercano secondo forme non valide. La fede nel progresso, nella liberazione umana, nella elevazione materiale, intellettuale e mo-

rale è necessaria all’uomo, è la prima ed immediata proiezione della sua speranza storica. L'umanità non potrà mai rinunciare all’idea di progresso, pena la caduta nella disperazione: essa dovrà però avvenire nel segno di un accrescimento della coscienza, di un innalzamento della vita etica e di quella razionale, di un arricchimento dell’interiorità e della comunicazione sociale. Allora l’opera politica, sul cui significato la cultura tecnocratica e quella radicale si ingannano, si configura come un’opera di sapienza e di virtù, di libertà e di liberazione, che conduce

al ben vivere umano

del

corpo sociale nelle persone che lo compongono.

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Capitolo terzo Lo scientismo tecnologico e la prospettiva tecnocratica

Il progetto dello scientismo tecnologico rappresenta una variante assai importante della moderna tendenza verso un assoluto primato della prassi: qui la prassi è curvata nel senso di un universale produrre, ossia facendo emergere l’ideologia produttivistica e lavoristica, che ormai vanta una formidabile tradizione culturale.

A partire dalla svolta cartesiana si è sviluppata in consistenti filoni della cultura europea una tendenza « prometeica » che, facendo perno sulla scienza e sul suo uso pratico, ha posto in crisi il valore della ragione teoretica e della contemplazione disinteressata della verità, spezzando di conseguenza il legame solidale che deve intercorrere tra scienza e sapienza. Dopo essersi costituita con statuto autonomo dalla filosofia — il che era normale —, la scienza ha voluto organizzare la vita sociale da sola e senza il concorso di apporti provenienti da conoscenze superiori. Peraltro organizzare la polis solo sulla base dell’uso tecnico della scienza significa fondarla sul principio di efficienza, non su un principio spirituale. L’utilità per l’uomo, intesa come crescente dominio della natura e crescente ricchezza, diviene lo standard universale. La tecnica mette in crisi l’ordine cosmico e riduce la natura a un prodotto delle misure umane: l’uomo diviene nuovamente il centro dell’universo, e desidera riplasmarlo. Ma il suo intento non si ferma al cosmo: l’uomo vuole ricreare se stesso, il che equivale a negare che esista una natura umana universale e immutabile. S. Cotta ha a tale proposito parlato di « uomo tolemaico », intendendo proprio l’atteggiamento dell’uomo che si ritiene misura e centro di tutte le cose (!). Tale è il punto di arrivo dello scientismo messianico di Saint-Simon, di Comte e dei loro epigoni. Il produttivismo tecnocratico, mettendo a disposizione una crescente copia di beni materiali, è un inno ed un invito al consumo: (') S. Cotta, L'uomo tolemaico, Rizzoli, Milano 1974.

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è perciò il padre del consumismo, inteso come propensione a consumare di tutto, sia i beni necessari sia quelli superflui o futili, come egoistico ripiegamento sul proprio particolare, e infine come ricerca di una sicurezza, che equivale ad un rifiuto del coraggio. Questo approdo deve considerarsi come il risultato di un lungo processo che ha interessato la storia culturale europea: essa ha trasmigrato negli ultimi quattro secoli da un centro di prospettiva ad un altro. In un primo momento (fino al XVI secolo) il centro

di prospettiva della cultura e della civiltà europee era ancora costituito dal sapere teologico, che svolgeva la funzione di livello supremo e unificante. Abbandonato il riferimento teologico, si è successivamente cercato nel ’600 e nel ’700 il centro unificante di prospettiva prima nelle grandi metafisiche razionaliste e poi in principî etico-umanitari, per attestarsi infine dall’ '800 fino ai nostri giorni sul nuovo ed estremo riferimento dell’economico, della quantità: il materialismo storico marxista è figlio eretico, ma del tutto conseguente, di tale progressivo spostamento dei centri di prospettiva della vita europea. La fede in qualche modo religiosa nella tecnica, che è pienamente omogenea con l’erhos economistico della vita, accentua la neutralizzazione dei problemi non tecnici, che vengono dimenticati o emarginati per ciò che possiedono di veramente specifico. Ad esempio, la realtà stessa della democrazia è sterilizzata e il suo significato ridotto ad un decisionismo di stampo tecnocratico; oppure si ritiene, sulla scorta di una precedente neutralizzazione dell’etica, che il progresso tecnico possa automaticamente trasformarsi in progresso morale e politico, in base ad un'illusione tipicamente saintsimoniana secondo la quale il « tecnico » è la forma migliore e più matura del « politico ».

Il progressivo spostamento del centro di prospettiva della storia europea e il suo definitivo attestarsi al livello economico-materiale, ben rappresentato dal progetto economistico e tecnocratico, provoca non solo una profonda spoliticizzazione della persona e della vita sociale, ma anche una cultura unidimensionale: né religione, né teologia, né metafisica, né arte, né etica, né politica paiono interessare la prospettiva tecnocratica, basata sul quantitativo e pregiudizionalmente ostile al qualitativo. In quanto attivismo areligioso interamente mondano, il progetto scientista e tecnocra-

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tico rivela evidenti legami con una certa forma del progetto borghese. Nella prospettiva tecnocratica scienza, tecnica, produzione e consumo formano un circolo continuo, che si accresce con lo scorrere del tempo e che è oggettivamente inscindibile (). Questo circolo è come un grande uomo artificiale, che effettua un’azione strumentale sul mondo esteriore, ed il cui scopo non sembra essere in primo luogo quello di mettere a disposizione sufficienti quantità di beni per una popolazione mondiale in grande aumento a seguito della bomba demografica —, quanto piuttosto di produrre per produrre, più di una volta producendo più il superfluo che il necessario. La connessione della prospettiva tecnocratica e di quella consumista con la categoria dell’hozzo oeconomicus avviene con distinte connotazioni. Nel consumismo l’oggetto è solo l’esserci, nella sua datità empirica immediata, che dunque si offre nella forma del continuo dileguarsi. Di permanente rimane solo il puro rapporto di consumo da rinnovare continuamente con l’oggetto; questo rapporto altro non è se non un desiderare ciò che essenzialmente si dà dileguandosi. Non umanizzato da una relazione spirituale, ma soltanto mediato dalle figure del godimento e del possesso, il reale rimane chiuso nella sua alterità, come un che di ostile, di esteriore, di puramente oggettivo e di muto, che resiste al singolo e che può essere fatto proprio solo nella forma della appetizione e della lotta antagonistica. L’oggetto si dà solo rimanendo essenza estranea. Il consumismo, abitato da un famelico bisogno di beni materiali, mira al possesso, dal quale in ultima analisi l’uomo trae la sua identità: chi nulla possiede non ha diritti, e in ultima istanza è oggetto di disprezzo. Guai al povero!: nella società consumista chi non possiede a stento può essere detto uomo, e la povertà è una sciagura indescrivibile. Secondo una tradizione non estranea al pensiero politico di Locke, i diritti sociali, politici e civili dell’uomo (°) Su tale aspetto si veda S. Cotta, La sfida tecnologica, Il Mulino, Bologna 1968, p. 36: « Questa continua interazione mette in evidenza una delle principali dimensioni della novità del nostro tempo: l’inscindibilità dell’unione delle tre forze indicate. Si tratta, si noti bene, di una unione oggettivamente inscindibile, indipendentemente dalle intenzioni delle diverse categorie di operatori (scienziati, tecnici, produttori), anche se, perlopiù, tale unione è consapevole e intenzionale ».

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si radicano e derivano dall’unica realtà che veramente

conta, la

proprietà. Dunque la categoria che meglio identifica il consumismo è l'appropriazione, esclusiva ed escludente, perché si volge a beni non comunicabili o fruibili in comune, come sono i beni materiali.

Da ciò segue un profilo assai basso della politicità propria del consumismo, attestato attorno alla categoria dell’utile: il fine della società e dello Stato è la cura e la conservazione della vita fisica dell’individuo, ottenute mettendo a disposizione larga copia di beni materiali; la liberazione più importante è quella dal bisogno e l’ineguaglianza più odiosa è quella economica. Il « ben vivere » sostenuto da ragione e libertà, innervato di valori etici, spirituali e religiosi, decade in semplice « vivere »; la politica non si pone grandi mire, ma si attesta ad un livello minimale, ad una figura « neo-hobbesiana », poiché come in Hobbes, seppure con tutt’altri mezzi, cerca di garantire la sopravvivenza empirica e la conservazione della vita. La vita sociale si materializza, si carica di tendenze biologiche e vitali, anche perché l’ordine intelligibile dell’essere non parla più all'uomo, ormai volto solo all’avere. Da qui la fede nell’inesauribile fecondità del denaro, l’adorazione religiosa e quasi feticistica della merce, la felicità posta nel possesso, lo spreco e l’incapacità di assicurare una razionale utilizzazione delle risorse, tutti elementi che contraddistinguono il consumismo (*). In esso si offusca quella concezione dell’economia, che considera la produzione dei beni materiali un mezzo per soddisfare bisogni essenziali della vita umana. Viene invece prevalendo la produzione incondizionata e con essa una moderna forma di crematistica, l’accumulazione senza

limite di denaro, condannata un tempo da Aristotele: « Appare necessario che ci sia un limite ad ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro [....]. Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione (*) Marcuse ha espresso felicemente i riflessi antropologici dell’atteggiamento consumistico: « La cosiddetta economia dei consumi e la politica del capitalismo azionario hanno creato nell'uomo una seconda natura, che lo lega libidinosamente e aggressivamente alla forma della merce. Il bisogno di possedere, di consumare, di adoperare, di rinnovare costantemente gli apparecchi, i ritrovati, gli strumenti, i motori offerti e imposti alla gente, di usare questi beni anche a rischio della propria distruzione, è diventato un bisogrzo biologico » (Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969, p. 23).

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dell’amministrazione domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro al-

l’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene [....] » (*). LA SCIENZA COME SAPERE UNIVERSALE OVVERO IL CANDORE DELLO SCIENTISMO

Anche lo scientismo tecnologico è affetto da un economismo riduzionistico, ma ciò che meglio lo identifica è la volontà di dominazione industriale della natura, la guerra che le viene mossa per strapparle le sue risorse, l’idea che il vero progresso è solo quello scientifico-tecnologico-produttivo. Per lo scientismo la conoscenza scientifica è la più perfetta immagine di un’epoca. Soltanto elaborando sistematicamente la scienza si giunge a rappresentare un’epo-

ca, e si può iniziare il compito di riformare la coscienza di un popolo con maggior efficacia che attraverso costumi, cultura e tradizioni. È difficile incontrare un testo tanto ampiamente intriso di candido scientismo quanto quello scritto da Ugo Spirito alla fine degli anni ’60 (« Ideali che tramontano e ideali che sorgono »), che dette poi origine ad un’ampia replica di A. Del Noce, riportati entrambi nel libro Trazzonto o eclissi dei valori tradizionali? (Rusconi 1972°). Uno scientismo di non buona lega, come talvolta accade quando uomini di cultura estranei alla scienza acriticamente ne intonano il peana (°). D’altronde è opportuno avvertire che le note critiche sullo scientismo tecnologico e sul suo umanesimo non intaccano il valore — di per sé né primo né assoluto — della tecnica, che ha con crescente intensità apportato un notevole contributo alla liberazione dell’uomo dalla miseria, dalla paura, dal bisogno, dalla malattia. Non la tecnica, che come ogni realtà umana può deviare e di cui si può fare uso buono o cattivo, ma la cultura che la assolutizza e che soprattutto lega indebitamente la tecnica (*) Politica, 1. I, 1257 b 33 s. (°) «Il mito del superuomo può diventare [grazie alla scienza] una realtà

effettiva, con conseguenze inimmaginabili. Chi può dire, ad esempio, a quali risultati potrà condurre un’intelligenza incomparabilmente superiore a quella dei più grandi geni [...]? » (p. 56).

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con prospettive filosofiche empiriste e positiviste, è l’oggetto delle mie considerazioni. \E il riferimento a U. Spirito è solo un’occasione per alcune riflessioni sull’umanesimo della società tecnocratica. Questa società

rappresenta la vittoria del saintsimonismo e del comtismo; la vittoria dell’idea della rivoluzione attraverso la scienza, dopo le delusioni e i fallimenti della rivoluzione attraverso la politica. Si sa che Saint-Simon e Comte avevano in odio l’individualismo, lo spirito sovversivo, il disordine introdotti dai principî della Rivoluzione francese: essi volevano restaurare una società ordinata, stabile

ed organica che, ispirata a dottrine e fedi ben diverse da quelle medioevali, riproducesse la solida e potente organizzazione sociale medioevale. La loro proposta intendeva consapevolmente opporsi al caos rivoluzionario, e far valere un diverso tipo di rivoluzione pilotata dalla scienza. Il loro obiettivo era di ricostituire la convergenza degli uomini sulle massime fondamentali della vita sociale, scalzate dall’età delle rivoluzioni; di superare l’individualismo liberale per edificare una società in cui il bene del tutto fosse superiore a quello delle parti. Nella polemica contro l’individualismo liberale e la società che ne è uscita, Saint-Simon e soprattutto Comte riprendono posizioni e spunti dei tradizionalisti cattolici del primo ’800, negando però che il principio teologico-religioso possa essere il fondamento dell’ordine sociale, e sostituendovi il principio scientifico e sociotecnico. Come vedremo, anche oggi la forma tecnocratica intende opporsi al principio rivoluzionario, adesso di obbedienza comunista. La caduta della speranza nella rivoluzione filosofico-politica apre la strada a varie possibilità: l’accettazione del nichilismo, l’approdo al positivismo scientista, il ritorno al pensiero metafisico, in particolare alla metafisica dell’essere. Di fronte a tale ventaglio di opzioni, sembra che vasti settori della cultura contemporanea, comprese varie correnti dell’attualismo, dello storicismo e perfino del marxismo (il che non è assurdo, se il materialismo storico prende il passo su quello dialettico), vadano indirizzandosi verso l’approdo positivista. La scienza a cui ci si volge è interpretata come strumento di dominio pratico e di volontà di potenza; ed anche come organo della verità, l’unica capace di asserzioni universali, valide per tutti. « Una volta accettato il principio informatore della scienza, non vi può essere altro criterio orientativo

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della conoscenza che quello della ricerca scientifica. Sapere e sapere scientifico debbono

identificarsi senza residui [...] » (oa

necessaria conseguenza ne è che tutti i valori umani e trascendenti, ad esclusione di quello della scienza, sono destinati a cedere il passo a quelli scientifici (?). Lo scientismo tecnologico adottato dalla società tecnocratica può anche essere interpretato come una carente risposta ai problemi ed alle sfide sollevate dal comunismo, come il tentativo di raggiungere una rivoluzione ulteriore a quella marxista, che però abbia in comune con essa e con la corrente radical-progressista una consi-

stente avversione al pensiero metafisico ed alla religione cristiana (8), nonché la riduzione dell’uomo a pratica attività sensibile. È ovvio che nei confronti della dottrina dello scientismo assoluto sia necessaria una forma di criticismo razionale, che ponga in luce gli inerenti limiti conoscitivi e pratici della scienza. Ma di fronte alla società tecnocratica ed alla decostruzione del soggetto che essa compie, conviene proporre anche altre analisi. LE TRIBOLAZIONI

DEL SOGGETTO

NEL PRODUTTIVISMO

Il principio specificatore della società tecnocratica (e consumistica) è la materia. Il bene comune della società politica, che è soprattutto etico-umano, viene inflesso verso contenuti tecnicoeconomici, consistenti nella incessante produzione di nuovi beni

materiali, mentre non vengono considerate le energie della verità e della libertà. Il bene, che, come sappiamo, si distribuisce nei tre gradini di bene morale, bene gradevole e bene utile, si riduce al

solo livello dell’utile, del bene utile. Lo scopo politico diviene allora un universale produrre nell’azione transitiva che va dall’uomo produttore all’oggetto del suo produrre; l’uomo si confronta dunque con un fine esterno a se stesso. Egli non è più presso se stesso,

ma presso il prodotto: la categoria del fare finisce per sostituire (9) U. Spirito, cif., p. 40. (") «È facile intendere come i valori destinati a tramontare siano quelli religiosi, metafisici e ideologico-politici, e i valori dell'avvenire siano invece quelli scientifici e tecnici » (U. Spirito, cif., p. 19). () « La società tecnoctatica è il frutto dell’illuminismo rinnovato nel tentativo di assorbire le positività del marxismo » (A. Del Noce, cif., p. 229).

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quella dell’agire, che è quella di una prassi etica nutrita di ragione e libertà (°). Dimorando presso il prodotto, l’uomo rischia di pensare non se stesso bensì l’oggetto, e di estraniarsi da se stesso. Rischia di perdere la capacità di abbracciare nella riflessione e nell’autocoscienza il proprio essere, che va al di là dell’oggetto: man mano che il lavoro tecnico costruisce nuovi oggetti, l’uomo sembra distogliere lo sguardo dalla propria interiorità, che gli diviene un che di muto e di oscuro, e con la quale non si rapporta se non nella guisa della fuga, perché non vi rinviene né se stesso né gli altri soggetti. Il prodotto si palesa perciò per il soggetto come mediazione estranea ed estraniante. L’archetipo dell’uomo dell’umanesimo tecnocratico è un puro essere per il prodotto senza coscienza di sé: egli stesso e gli altri sono per lui nulla. Solo rimane il rapporto con l’oggetto, il quale si dà solo rimanendo essenza estranea. Non sapendo di se stesso se non quanto gli viene dalla relazione con gli oggetti, il cui numero è in continua crescita, l’unità dell'Io risulta come spezzettata in molteplici immagini, che appaiono e si dileguano come in una galleria di specchi: se è vero che non si può rimanere soggetti se non nel confronto, nella comunicazione e nella comunione con al-

tri soggetti, allora bisogna uscire dalla solitudine del puro rapporto con l’oggetto materiale. Bisogna introdurre un centro di unità e di prospettiva intorno al quale riorganizzare la pluralità sconnessa, e tale centro è sempre qualcosa di trascendente in rapporto a ciò che deve essere ordinato: la luce della verità, la bellezza, il rapporto con Dio sono in grado di rendere l’uomo un soggetto, senza deprivarlo delle sue abilità di borzo faber. Ma il progetto tecnocratico, rinchiuso nel suo empirismo radi(9)

«Quanto chiaro non si fa l’ertore di quei governi, che non mirano se

non a materializzare la società, e che ripongono ogni progresso sociale nel

successivo accrescimento dei beni esterni? Costoro si fermano colle loto considerazioni al fine prossimo della società, o più tosto ad una parte di esso e non spingono l’occhio al fine ultimo, dove solo consiste quel bene reale, al procacciamento del quale ogni società deve essere volta essenzialmente. Onde avviene, che mentre quelli credono di soddisfare al popolo con accrescergli la misura dei godimenti materiali, non fanno che renderlo più inquieto e scontento; giacché non è punto in ragione dell'aumento dei materiali piaceri che cresce l’appagamento dell’animo, nel quale l’uomo rinviene la quiete, anzi accade spesso il contrario » (A. Rosmini, La società e il suo fine, 1. II, c. VI).

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cale, non intende battere questa strada, sì bene rimanere fedele solo alla tecnica. Essa diventa l’universale mediazione, in virtù di cui la realtà si presenta come macchina senza misteri, senza dignità, senza trascendenza, ossia nella guisa della reificazione. Rap-

portandosi al reale solo attraverso l’universale mediazione trasformante della tecnica, si eclissano i valori contemplativi e teoretici, si dileguano i segni della religiosità, anche di quella secolare, affonda ogni significato superiore, sì che l’uomo, non più immagine di Dio, tende a divenire immagine del prodotto. Così lo svelamento della soggettività è reso arduo. La travolgente vittoria del principio empirista spazza via gli antichi valori, che ambivano ad un significato universale, e fa affiorare solo i « valori » del puro vivere, del consumare e di un certo vitalismo piatto, antieroico e volgare. A tale vitalismo, che è un punto di arrivo dell’irreligione occidentale, le culture atee e immanentiste di ascendenza storicista e dialettica non sono in grado di opporsi efficacemente. In effetti quando la produzione ed il benessere divengono i problemi dominanti della vita sociale, è fatale che dell’uomo si esalti l'elemento desiderante e concupiscibile, la materialità del bisogno e della sua soddisfazione bruta. L’homo oeconomicus raggiunge estensione totale e si pone come

il tutto dell’umano. Con l’emergere della ragione strumentale e tecnica dell’empirismo scientista, le altre correnti culturali che fanno riferimento a prospettive antimetafisiche e immanentiste divengono subalterne al progetto positivista-tecnocratico: il liberalismo si appiattisce sul positivismo borghese, separandosi dai suoi momenti idealistici e romantici; il marxismo diviene economismo e sociologismo positivista, separandosi dalla dialettica e dalla filosofia della storia; il socialismo diviene progressismo del benessere socialdemocratico, separandosi dall’umanitarismo; e infine l’illuminismo vince, ma divenendo empirista e sensista. Non c’è da spendere molte parole per avvertire che la società tecnocratica mette in mora la libertà e la responsabilità dell’uomo, affermate a diversi titoli dalla filosofia cristiana e dalla migliore prospettiva liberale. In quanto cellula del tutto sociale collettivo, l’uomo non è né veramente libero, né veramente responsabile. Scrive U. Spirito: « Il bene e il male sono costitutivi di una vita

sociale in cui tutti sono responsabili e solidalmente responsabi72

li » (‘°). Inoltrandosi su questa strada, la nuova morale scientifica finirà per considerare l’uomo « agito » più che agente. L’umanesimo del progetto tecnocratico rappresenta il prevalere di una delle linee del pensiero borghese, quando questo si scinde nelle sue componenti. È il prevalere della linea organico-autoritaria, positivista, economista e con valenze antipolitiche, sulla linea democratico-individualista, che si afferma invece nell’umanesimo radicale. LE ASCENDENZE

POSITIVISTICHE

La dottrina filosofica che generalmente sta dietro il progetto tecnocratico è il positivismo, ossia una forma di empirismo innestato di scientismo. In linea generale l’empirismo non è una filosofia che stimoli a porre questioni di grande portata. In Vortrige und Aufsitze Heidegger ha sottolineato la stretta correlazione tra predominio della tecnica e incapacità di porre domande radicali. Secondo il positivismo l’uomo conosce la realtà esclusivamente mediante l’esperienza ed i nostri organi di senso. L’esperienza ci presenta categorie di fenomeni, insiemi di fatti, dai quali si risale induttivamente a leggi generali di validità assoluta e indipendenti dalla coscienza. Ripiegato nell’adorazione del fatto, l’hozzo posi tivus non fa molto sfoggio di riflessione e alimenta una cultura piuttosto povera. In tale cultura non ha posto la metafisica, accusata di essere un’ideologia ed un’inutile bagattella: essa è al massimo una produzione conoscitivamente irrilevante, di ordine estetico, assai prossima al sogno ed alla poesia. Solo l’esperienza « asettica » che si verifica nelle scienze naturali, può essere chiamata conoscenza. Tutto quello che l’umanità conosce, lo sa solo attraverso la scienza come sistema universale di relazioni matematiche, che col calcolo prevedono il verificarsi degli eventi, e che tendono ad estendersi dall'ambito dei fenomeni fisici a quello dei dinamismi sociali. Sul piano ontologico la metafisica dello scientismo è il materialismo fisicista, con chiare valenze atee. Nella società tecnologica domina il principio dell’illimitata plasmabilità dell’essere: di quello materiale ma anche, e con ugual diritto, di quello biologico, (!9) U. Spirito, cif., p. 49.

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psichico, sociale, etc. L'essere è sede di leggi fisiche, in base alle quali può essere dominato e trasformato. La base significativa dello scientismo tecnocratico è un radicale riduzionismo metafisico e gnoseologico, mediante cui la conoscenza del cosmo fisico e umano è ridotta a conoscenza delle leggi della natura attraverso le matematiche e l’esperienza. Tale riduzionismo è accompagnato da un sistematico impiego utilitario della conoscenza del mondo, reso indefinitamente crescente mediante l’organizzazione industriale dello sfruttamento della natura. La forma culturale dello scientismo tecnologico è una « non-filosofia », poiché l’appello ricercante, sapienziale e rivelativo del reale è tolto e sostituito da una razionalità strumentale. Gli dèi sono cacciati dalle cose e con essi ogni traccia di assoluto, sì che sola rimane la semplice attività sensibile. Lo sbocco teoretico ultimo dello scientismo tecnologico è la soppressione pura e semplice del questionare filosofico. In un contesto diverso già lo notava con molta acutezza B. Croce nel 1941, quando asseriva la maggiore affinità tra lo storicismo da un lato e le religioni e la « vecchia, combattuta e sorpassata metafisica » dall’altro, che tra storicismo e positivismo, empirismo e prammatismo, i quali distruggono ogni filosofare. E lo distruggono perché sono pensieri aridi, costituzionalmente incapaci di accogliere e pensare il divino, cosa che invece salvaguarda sia la metafisica tradizionale della trascendenza, sia lo storicismo

(crociano)

che lo afferma

in forma

immanente.

Quarant’anni più tardi si dovrebbe aggiungere che la lezione di Croce non è stata ascoltata, e che oggi tanta parte della cultura laico-laicista italiana (ma diagnosi analoga può valere anche per altri contesti geoculturali), abbandonata la religione della libertà ed il divino in forma di immanenza, si consegna al positivismo e all’empirismo, con conseguenze negative sulla vita etica e culturale del nostro Paese. E non è superfluo aggiungere che la cultura comunista, che ha impiegato abbastanza largamente moduli culturali del libertarismo radicale e del positivismo, ai fini di dissolvere le culture della trascendenza e di completare l’opera di sovvertimento della vecchia società prima di accingersi all’edificazione del nuovo ordine, sconta questa sua strategia, perché libertarismo radicale e positivismo sono diventati dei « servi padroni ». Lo scientismo tecnologico è « non-filosofia » per sua scelta, perché lo stesso produrre, come ogni realtà umana, non è certo privo 74

di virtualità filosofiche. Produrre infatti significa generare nuovi oggetti, imprimendo nuove forme sulla materia; vuol dire portare all’esistenza nuovi enti che da soli non sarebbero; designa il pottare dinanzi all’uomo (pro-durre) ciò che da solo non verrebbe a lui davanti. In certo modo pro-duzione è disvelamento di ciò che è sepolto nella pura potenzialità indeterminata della materia, e di ciò che è compreso nelle possibilità inventive dell’uomo. Produttivismo e negazione della bellezza

Per evirare le virtualità filosofiche della pro-duzione che, dobbiamo riconoscerlo, non sono peraltro ricchissime —, bisogna far

cadere o almeno mettere tra parentesi la distinzione tra natura e spirito, bisogna ridurre tutto l’uomo all’unico livello di pratica attività sensibile. L’uomo produttore viene oggettivato nel senso che diviene un oggetto o uno strumento di produzione, che appartiene in toto al grande ciclo produttivo e riproduttivo della natura. Non vi può essere vera vita dello spirito dove non c’è autocoscienza, soggettività, libertà, dove lo spirito è solo una fase, non qualitativamente diversa dalle altre, del perenne processo di produzione e di riproduzione. In termini diversi, anche nel radicalismo lo spirito non sembra essere nulla di più di un momento del vitalismo biologico della natura. La mentalità oggettivante dello scientismo tecnologico passa dal prodotto all’uomo, che è a sua volta oggettivato nelle scienze umane. L’uomo è scomposto secondo una molteplicità di punti di vista, che sono gli oggetti formali delle varie scienze. L’antropologia, divenendo l’addizione di questa galleria di prospettive, non può riconoscere la soggettività e le molteplici forme della vita: l’esperienza dell’incontro dell’uomo con l’altro uomo, la rivelazione del soggetto di fronte ad altri soggetti sono espunte, perché considerate ascientifiche e dunque irrilevanti. La coscienza che l’uomo ha di se stesso e del proprio universo spirituale singolare, non è una realtà che gli è donata sin dall’inizio, ma una conquista che si compie nel tempo, durante l’esperienza di vita della persona. In questo processo la trasformazione industriale della natura può occupare un posto non secondario: l’uomo stabilisce un diverso rapporto con essa, crea un ambiente diverso e nello stesso tempo, così facendo, modifica se stesso. La trasformazione 75

dell'ambiente naturale reagisce sull'uomo, mutandone l’esperienza e la coscienza di sé: anche per tale motivo nella società industriale la persona ha un’esperienza di sé diversa da quelle dell’antichità o dell’età medioevale. Nella prospettiva tecnocratica questo processo si svolge in maniera tale che l’uomo acquisisce una oggettivistica coscienza di sé, che si esplica nel rapporto industriale privo di profondità con la natura e che implica anche un abbassamento della ricchezza della vita etica: l’esperienza della soggettività si offusca e l’uomo rischia di sentirsi oggetto tra gli oggetti, lontano dall’originario disegno di Dio che ha affidato all’uomo l’universo perché, coltivandolo e traendone sostentamento per la sua vita, crescesse in umanità. Nel produttivismo tecnocratico viene anche compromesso il senso umano del lavoro, del suo valore soggettivo e non solo puramente produttivo. Il lavoro è una attività transitiva, perché esce dal soggetto per modificare la cosa, e insieme immanente, in quanto nel lavoro il soggetto si eleva in qualità ontologica: di questi due aspetti il produttivismo coglie solo il primo, coerentemente con il proprio oggettivismo e con quell’antagonismo distruttivo tra io e natura che lo connota, nel quale l’uomo non trova il vero riposo dello spirito, né un momento di fruizione del bello. Per l’uomo produttore, come d’altronde per il consumatore, l’oggetto prodotto è un puro esserci estraneo nella sua nuda datità serializzata. In esso l’anima non trova riposo, perché è tutta sog-

giogata da un empio ascetismo a servizio dell’utile: bisogna lavorare, lavorare e ancora lavorare, rinunciando ad ogni distensione dello spirito per i lavori forzati della produzione, e sottoponendosi ad una mortificazione fine a se stessa. Che ne è allora del bello nella società della produzione e del consumo? La bellezza è congedata, perché non appartiene all’ordine delle cose utili. L'uomo positivo e tecnocratico ha sbarrato in se stesso i cammini lungo i quali l’intuizione creatrice sale dal profondo dell’anima per esprimere nell’opera un frutto di bellezza; ha chiuso le vie attraverso cui il risplendere di una forma bella può penetrare nello spirito ed illuminarlo. Ma ripudiare la bellezza è una cosa molto pericolosa per la società, è un segno di disumanizzazione: privato del bello e dell’arte, l’uomo cerca in cattivi surrogati (droga, sesso, alcool, etc.) una compensazione, perché non si può vivere neppure un giorno 76

senza un qualche momento di diletto: se non è possibile fruire di gioie spirituali, ci si volgerà al divertissement. La caduta del momento contemplativo del sapere

La filosofia infine rimane solo come un sapere non autonomo, che non ha più un proprio oggetto, ma che al massimo è una riflessione di secondo grado sulle scienze, una sorta di metascienza, che non differisce essenzialmente dalle scienze. Poiché il sapere procurato dalle scienze positive è l’unico autentico, la filosofia potrà soltanto, nella sua riflessione sulle scienze, enunciare leggi più generali di quelle delle singole scienze, ma che non si collocano ad un altro livello epistemico rispetto ad esse. Tutto il sapere umano, invece di essere articolato in gradi specificamente distinti, viene reso omogeneo, privato delle sue interne differenziazioni e appiattito sul piano fenomenico. Il linguaggio stesso porta il segno della caduta del senso metafisico e del nuovo rapporto strumentale con le cose. Vivere nel mondo significa nominare i suoi singoli aspetti, entrare in comunione con essi, raggiungere l’unità intenzionale tra l’intelligenza e l’essere. Il linguaggio è il risultato e la spia di tutto ciò: esso è un rivelatore assai sensibile del tipo di percezione del reale che si è raggiunto. Nello scientismo tecnologico la funzione del linguaggio è di definire le cose nella maniera più formale, esterna e schematica: esso svolge perciò un puro compito operatorio ed utilitaristico, lontano dal rivelare i centri di significato ed i fuochi di intelligibilità che abitano nelle cose. La divisione sembra la categoria di base della sua linguistica: ogni singola parola deve definire solo una cosa, non può rimandare che a quella. La realtà si riduce ad un immenso catalogo di oggetti, ai quali l’uomo assegna un nome univoco, che li rende solitari, separati l’uno dall’altro, rinserrati in loro stessi. Perduto il senso della relazione e dell’analogia dell’essere, il mondo diviene un'infinita polvere di cose oggettivate e morte. Poiché infine la risposta alla domanda « che cosa debbo fare » dipende dalla risposta alla domanda « che cosa posso conoscete », alla quale danno soluzione solo le scienze, l’orizzonte dell’agire è mediato e delimitato da quello delle conoscenze scientifiche e tecniche: si forma allora un’etica decentrata dal proprio campo e moUE

dulata in figure dipendenti dalle scienze. Anche per questo il positivismo è affetto da un inguaribile riduzionismo antropologico, disattento nei confronti della ricchezza della soggettività umana e delle forme storiche e sociali della vita. Tacendo la ragione metafisica e rivelativa, si dilegua la contemplazione. Il cosmo non è più una rete di significati da contemplare, bensì un oggetto da trasformare, la cui essenza ci rimane sconosciuta; anzi non ha alcuna essenza, perché ammettere essenze, ancorché sconosciute, è già avviare un discorso di ordine metafisico. Cac-

ciate dalle cose, le essenze non possono sussistere più neppure nell’uomo. La critica del concetto di essenza non si ferma al mondo, ma coinvolge l’uomo, catalogato ormai come un oggetto tra 1 tanti.

L’ateismo positivista

Sulla scorta di questi assunti l’horzo positivus et tecnocraticus approda ad un ateismo piatto, facile, senza sussulti e pentimenti, perché è fondato sulla definitiva rinuncia della nostra intelligenza alla comprensione filosofica del reale: come sarebbe possibile pervenire a Dio, se si impiegano strumenti conoscitivi che non vanno neppure di un capello oltre il fenomeno? L’homzo positivus et tecnocraticus congeda ormai senza rimpianti il suo progenitore hozzo

sapiens e mantiene una sovrana sufficienza verso le finalità teoretiche e contemplative del sapere, identificato senza residui col solo sapere utile. L’ateismo a cui perviene il positivismo tecnocratico è di una qualità molto solida, compatta e priva di fessure, più sicuro di sé di quello marxista, che deve espellere Dio mediante una specifica lotta antiteista. Meno inquieta di quella radicale, la cultura tecnocratica si installa solidamente, senza scosse e con sciolta disinvoltura nell’ateismo: un ateismo né militante né rivoluzionario, ma conservatore e fondamentalmente « clericale », come era l’ateismo di Comte, fondato sulla nuova casta sacerdotale degli scienziati. Il principio di utilità ha una valenza metafisica molto ridotta, praticamente nulla, certamente inferiore alle valenze che possono affiorare nel desiderio. Può accadere che nella torrenziale molteplicità di desideri che assediano l’borzo radicalis possa talvolta emergere un’inquietudine nascosta ed un oscuro richiamo di Dio. 78

Ma quando vige solo il principio di utilità? Può l'utilità alludere in qualche modo a Dio? L’uomo tecnocratico è ateo perché ha scelto l’unico sistema di concetti che fa sì che il nome di Dio non possa essere nominato. La figura emblematica della prospettiva tecnocratica è lo scienziato sociale, è il pianificatore, dotato di un vasto potere sociale in ordine alla costruzione di una collettività pianificata sulla base del principio dell’utilità sociale. Esso trova la sua migliore applicazione nell’organizzazione dello Stato, condotta fino a limiti assai spinti e regolata nei dettagli. Naturalmente ciò che conta non sono le persone, ma il tutto sociale inteso come un organismo collettivo, il Grande Essere di Comte. Il produttivismo non conosce individualità ma funzioni: tutta la società viene organizzata attorno all’idea di funzione ed alla tradizione tecnica che la sostiene. Dal punto di vista della conoscenza, il positivismo tecnocratico non è illuminato, come invece altre correnti filosofiche, da una intuizione-madre, un’intuizione generatrice che, penetrando nel reale, ne colga un aspetto essenziale. Piuttosto è dominato da un’idea puramente organizzatrice del sapere, dall’idea che la fitta rete di rapporti matematici gettata dalle scienze sui fenomeni conta molto di più di qualsiasi intuizione profonda: non il fondamento veritativo o l’attività teoretico-contemplativa sono considerate irrinunciabili, bensì la capacità di presa, di trasformazione, di dominio sulla materia. Il progresso sarà dedurre una messe sempre più ampia di fenomeni da alcune leggi. Questo dipende anche da una dottrina della conoscenza in cui i concetti sono considerati immutabili atomi intellettuali di conoscenza, che vengono combinati insieme secondo la bisogna per organizzare giudizi e discorsi. Nella gnoseologia positivista manca ogni idea dell’intenzionalità della conoscenza umana e del rapporto intenzionale tra pensiero ed essere. RELIGIONE

E SOCIOLOGIA

NEL PROGETTO

TECNOCRATICO

La linea dello scientismo tecnologico trapassa nel progetto tecnocratico, quando, uscendo dall’ambito del rapporto scienza-natura, si pone il problema dell’organizzazione della società e delle forme più idonee a tale scopo. Lo scientismo tecnologico aftronta questo problema con l’universo di nozioni e di valori proprio di quel rapporto, e per lo più trascura di interrogarsi sul significato ma

della vita sociale. Ecco perché lo scientismo tecnologico, divenendo progetto tecnocratico di organizzazione della società, non è in grado di liberarsi della base empirista, né dell’etica utilitaristica, generalmente mediata attraverso le dottrine di Bentham, di Stuart Mill, di Saint-Simon, etc.: il bene comune sociale altro non sarebbe che l’utilità sociale, intesa come la somma algebrica delle utilità individuali. Le questioni della giustizia sociale e del valore etico del bene comune risultano assai impoverite dall’utilitarismo diffuso dell’ideologia tecnocratica. Nel progetto tecnocratico l’unità della società è assicurata dalla scienza e dalla tecnica, che mediano i contrasti sociali, imprimono alla collettività la loro forma, e sostengono lo Stato. La società civile possiede un’identità ed un’autonomia molto ridotte, ed è integrata con lo Stato secondo moduli non pluralistici. In questo processo anche la religione può risultare utile: in complesso l’hozzo tecnocraticus non crede alla sua verità, ma può apprezzarne e metterne a profitto la capacità di organizzazione sociale e di edificazione di convivenze organiche: pur non avendo alcun valore conoscitivo, la religione può essere un fattore benefico, un utile coefficiente di una ben oliata macchina sociale. Si aggiunga poi che la tecnica lascia arido e incolto il sentimento, e per questo c’è la religione: una religione sentimentale e senza dogmi, che ci fa sentire a posto con la coscienza, e che ci convince che le cose vanno per il meglio, nel senso del progresso (!!). Perché non tenere presente la seconda fase della speculazione di Comte, il suo desiderio di essere iniziatore di una religione positiva atea? Naturalmente tale uso della religione verifica ancora una volta il principio di utilità, e l’impiego utilitario, strumentale e in fin dei conti relativistico delle varie forme della vita umana. Ciò in ultima analisi dipende dal cambiamento dell’idea di verità, non più basata su principî eterni, perché ormai non c’è più alcun (") A proposito della religione dei Sansimoniani, Rosmini scriveva: « Vediamo perciò in che modo i San-Simoniani pensano di poter fare, per ingegno, che Iddio non sia più, e sia in suo luogo l’opera delle loro mani. Essi operano prudentemente; non tolgono di mostrare che vogliono “escludere Dio”, in quella vece s’appigliano ad “umanizzarlo”. “Umanizzare” la Religione, “umanizzare” tutto ciò che non possono negare di più divino; e forzare così ad entrare nei confini della limitata natura umana quell’elemento, immenso, soprannaturale, senza cui si annientano tutte le umane speranze... » (Storia dell’empietà, Ed. Sodalitas, Domodossola-Milano 1957, p. 161 s.).

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sapere metafisico che possa conoscerli. Ogni affermazione è situata e quindi relativa, di modo che quello che è vero oggi, domani potrebbe esser falso. Si sa che Comte affermava spesso: « Tutto è relativo: ecco il solo principio assoluto ». Anche i giudizi etici di valore sono relativi come tutto il resto, e dipendenti dalle forme e dalle strutture sociali. Il positivismo scientista e secolarizzato, che rappresenta la componente principale dell’ideologia tecnocratica, è una variante dello storicismo, poiché ritiene che il pensiero umano è storicamente condizionato e rinchiuso nella visione culturale dell’epoca, incapace di emergere trascendendola con validità metaculturale e metatemporale. La critica teorica e la filosofia completamente trapassano in sociologia della conoscenza: in tale distruzione di ogni essenza e di ogni immutabile struttura dei valori si fa presente un potere dissolutivo superiore a quello del marxismo. Il positivismo scientista è sociologista, poiché al vertice delle scienze pone la sociologia, intesa non come una scienza empirica della società, ma come una scienza suprema, una scienza-madre. La disciplina più accarezzata dall’ideologia tecnocratica non è, come nel marxismo, la storia e la filosofia della storia, bensì la sociologia, la figlia prediletta di Comte, che voleva sostituirla agli altri saperi di un tempo, in particolare alla teologia e alla filosofia. Nella sociologia l’homzo positivus et tecnocraticus trova la realizzazione del suo sogno, ossia l’unità tra mondo fisico e mondo morale, la riduzione di tutto il reale (fisico e umano) ad un unico metodo e ad un’unica legge. Saint-Simon riteneva, nelle prime fasi della sua carriera, che la legge della gravitazione universale di Newton fosse l’unico principio che governa il mondo intero: anche quando abbandonò questo assunto così manifestamente assurdo, rimase convinto dell’idea che le scienze sociali debbano avere lo stesso metodo di quelle naturali. Un’etica sociologica Il progetto tecnocratico, con un atteggiamento piuttosto contraddittorio rispetto alle sue premesse, che separano nettamente fatti e giudizi di valore e che abbandonano i secondi al campo dell’arbitrario e del soggettivo, chiede alla sociologia di dettare le regole della pianificazione sociale e dell’ordine sociale; trattasi per-

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ciò di una sociologia tinta di etica. Ma di quale etica? Di una morale degli atti umani, metafisicamente fondata nell’essere e nella natura? Al contrario, si tratta di un’etica che è un risultato e un’appendice della scienza, un’etica puramente sociale, che trascura la vita morale della persona, i problemi, i tormenti e le angosce a cui l’individuo si trova confrontato nell’agire. La morale dell’ideologia tecnocratica è un’etica di adattamento al tutto sociale ordinato, al Grande Essere, che è un Tutto impersonale. Questa etica non pone in relazione con un altro che è un « tu », ma con un « ciò », come avrebbe detto M. Buber. Essendo ostile ad ogni etica normativa degli atti umani, la prospettiva tecnocratica può comprendere solo un’etica ridotta a galateo sociale, e adatta per levigare e smussare le angolosità dei membri della società nel loro convivere. Il principio tecnico sostituisce quello etico, per cui la libertà non è più una conquista della persona pagata a caro prezzo, ma è un bene messo a disposizione dalla tecnica. La tecnica è libertà. Consumismo e produttivismo tecnocratico, nel loro presentarsi come progetti di strutturazione della società, incontrano necessariamente le questioni etiche e propagandano un loro catalogo di « vittù morali ». Esse involontariamente si presentano come un maggiore o minore capovolgimento delle virtù cardinali. Nella variante consumista è la temperanza ad essere messa in mora, con la stravolta affermazione della « virtù di intemperanza ». Nulla ci è negato! Le tipiche virtù della borghesia nella sua fase ascendente: risparmio, senso del dovere, previdenza, disciplina, moderazione dei desideri e morigeratezza dei costumi, differimento della soddisfazione immediata del bisogno e del desiderio, vengono abbandonate dalla società consumista, affascinata dalla copiosa abbondanza. L’ascetismo borghese dell’uso del poco, in quanto proviene non da virtù ma da calcolo, facilmente trapassa nel suo tipo contrario, ossia nell’uso del molto e nello spreco, nell’economismo passivo e improduttivo del consumatore. Il tipo ideale al quale invece tende il progetto tecnocratico è una sorta di termitaio dove nulla è lasciato al caso, tutto è funzionalizzato e programmato, e ciascuna unità anonima della massa svolge ripetitivamente una funzione prefissata da un gruppo di pianificatori, che, in base agli eventi passati e alle loro possibili interazioni future, trae il programma ottimale da realizzare. La « virtù morale » tipica del progetto produttivistico-tecnocratico non è la 82

prudenza (fronesis), classicamente intesa come recta ratio agibilium, ossia come regola del giusto agire intuita nel corso dell’esistenza concreta, ma quel simulacro di prudenza che è il calcolo pianificatorio: esso sceglie il da farsi non sulla base del mondo dei valori, bensì delle possibilità offerte dalla combinatoria dei parametri (!°). LA DISSOLUZIONE

DEL POLITICO

NELL’INDUSTRIALISMO

L’ideologia tecnocratica non è amica della democrazia, è sospettosa nei confronti del parlamentarismo, dell’istituto della rappresentanza, del principio di maggioranza, del suffragio universale. Esprime dubbi sul diritto del popolo all’autogoverno, fondamentalmente perché considera che la scelta dei superiori da parte degli inferiori vada contro l’ordine sociale e produca anarchia. Vuole (') Nei suoi radiomessaggi natalizi Pio XII sottolineò a più riprese i riRipercorriamo alcuni suoi pronunciamenti traendoli da Le encicliche sociali dei Papi (1864-1956), a cura di I. Giordani, Studium, Roma 1956*. « Senza dubbio anche la moderna impresa industriale ha avuto benefici effetti; ma il problema che oggi si presenta è questo: sarà egualmente valido ad esercitare un felice influsso sulla vita sociale in genere e su quelle tre istituzioni fondamentali [famiglia, proprietà e Stato] in specie, un mondo che non riconosca se non la forma economica di un enorme organismo produttivo? [...] Là ove il demone della organizzazione invade e tiranneggia lo spirito umano, si svelano subito i segni del falso e anormale orientamento dello sviluppo sociale » (Radiomessaggio per il Natale 1952, p. 578 s.). Pio XII denunciò anche la piaga della spersonalizzazione provocata dall’organizzativismo e dal produttivismo tecnico, che generano un sistema impersonale di uomini e di cose. Nel Radiomessaggio del Natale 1953 si addita nuovamente come causa della crisi l’eccessiva fiducia riposta nel progresso tecnico e nello spirito tecnico, che considera il più alto valore umano trarre il maggior profitto dalle forze della natura; e che ritiene che la tecnica sia la perfezione della cultura e della felicità terrena. Il Pontefice coglie con acutezza il restringimento dell’orizzonte della società abitata dalla tecnica alla sola matetia: « Il panorama, a prima vista sconfinato, che la tecnica dispiega agli occhi dell’uomo moderno, per quanto esteso esso sia, rimane tuttavia una proiezione parziale della vita sulla realtà, non esprimendo se non i rapporti di questa con la materia » (p. 1010). « Il “concetto tecnico della vita” non è dunque altro che una forma particolare del materialismo, in quanto offre come ultima risposta alla questione dell’esistenza una formula matematica e di calcolo utilitario » (p. 1015). Nel Radiomessaggio del Natale 1955 si torna ancora una volta sul problema della tecnica e della produzione con accenti assai vibrati: « La errata credenza di far riporre la salvezza nel sempre crescente processo della produzione sociale, è una superstizione, forse l’unica del nostro razionalistico tempo industriale, ma è anche la più pericolosa, perché sembra stimare impossibili le crisi economiche, che sempre portano in sé il rischio di una ritorno alla dittatura » (p. 1072). schi insiti nel progetto industrialista-tecnocratico.

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invece il governo degli esperti. La struttura sociale vagheggiata prevede una configurazione a piramide, al cui vertice siedono i tecnici e i competenti. La cultura tecnocratica non è egualitaria: rifiuta l’ineguaglianza basata sul caso o sulla nascita, ma è a favore di una scala sociale fondata sul merito e sul grado di utilità sociale dell’apporto del singolo. D'altronde l’organizzazione sociale tecnocratica non è diretta al conseguimento dell’eguaglianza e della libertà, ma allo sfruttamento della natura: la società deve funzionare come una grande officina. Il primo e unico comandamento del credo tecnocratico è: tu devi lavorare (se vuoi mangiare). Questo è tutto quello che rimane del cristianesimo paolino, dopo l’integrazione nel sistema industriale e scientifico. Saint-Simon scriveva: « La società tutta intera si basa sull’industria. L'industria è l’unica garanzia della sua esistenza, la sola fonte di ogni ricchezza e di ogni prosperità. Lo stato di cose più favorevole all’industria è quindi, per questo solo motivo, il più favorevole alla società » (!*). L’ideologia tecnocratica è inoltre ostile al pluralismo sociale, all’articolazione pluralistica delle formazioni sociali intermedie, interpretate come un attentato alla concezione organicista del corpo sociale, pensato come un alveare o un formicaio. Il fondamento unico dell’ordine sociale è il lavoro mediato dalla tecnica: perciò le attività politiche di governo svolgono una funzione subalterna a quelle di tipo amministrativo. La politica perde il suo carattere etico per diventare una funzione tecnica: « la politica è la scienza della produzione, cioè la scienza che ha come scopo l’ordine di cose più favorevole a tutti i tipi di produzione » (!*). Il manager industriale sostituisce ormai il politico; le questioni politiche sono trasformate in problemi di pianificazione economica e tecnologica. Alle dottrine politiche si sostituisce l’ideologia del progresso autonomo ed autosufficiente, che lascia in disparte il problema dei fini. La vita sociale, pilotata dalla ingannevole obiettività della razionalità tecnica, si spoliticizza. L’intera struttura sociale è retta da due poteri: il potere spiriE) L'industria, in Opere, UTET, Torino 1975, p. 263. In esergo a quest'opera Saint-Simon ha posto il motto: «Tutto per mezzo dell'industria, Di per l’industria ». Le altre citazioni di Saint-Simon sono tratte da questa

edizione. (*) C.H. Saint-Simon, L'industria, cit., p. 296.

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tuale, che spetta agli scienziati; quello temporale, che tocca agli « industriali » (commercianti, industriali, agricoltori). Essi, e gli ingegneri, gli artisti, i fisiologi, i matematici, i banchieri, dovranno essere massicciamente presenti nel Parlamento.

Il progetto tecnocratico, poco simpatizzante per il liberalismo disorganico e individualista, condivide con il marxismo l’asserzione della sovrastrutturalità della politica rispetto alle forme della produzione ed all’economia. In genere tutta la prospettiva tecnocratica è spoliticizzante, ossia porta verso una riduzione del politico ed una sua franca neutralizzazione: risultato non peregrino, dal momento che la vita sociale si svolge interamente nel circolo della produzione e del consumo, lasciando ai margini gli aspetti più propriamente etico-politici. Ordine, progresso, organizzazione, lavoro, scienza: tra le parole-chiave del progetto tecnocratico non si incontra né la politica né lo Stato. Lo Stato diviene un’entità transitoria. Un teorico della società tecnocratica potrebbe in buona parte sottoscrivere la seguente affermazione di Engels: « Il primo atto nel quale lo Stato appare realmente come rappresentante di tutta la società — la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società — è contemporaneamente il suo ultimo atto proprio in quanto Stato. L’intervento di un potere di Stato nei rapporti sociali diviene superfluo in un campo dopo l’altro, ed entra allora naturalmente in sonno. Il governo delle persone fa luogo all’amministrazione delle cose e alla direzione delle operazioni di produzione. Lo Stato non è “abolito”, si estingue » (1°). Manca infine nel progetto tecnocratico una critica libera ed aperta dell’uso sociale della scienza, il riconoscimento della genesi sociale dei suoi problemi, l’attenzione ai fini ed alle situazioni reali in cui la scienza viene impiegata. Essa viene elevata al di sopra della critica, ed il prestigio che le viene dato serve ad attribuire alla scienza lo statuto di sapere assoluto, oggettivo e indiscutibile, (!5) F. Engels, L'origine de la famille, de la propriété et de l’Etat, Costes, Paris 1931, p. 229. Oltre alla sottovalutazione del problema dello Stato, il Saintsimonismo ha trasmesso al marxismo altri lasciti: la maggior importanza del momento economico su quello politico; la predominanza della rivoluzione economica (la rivoluzione industriale) sulla rivoluzione politica (la Rivoluzione francese); l’idea che la soluzione dei problemi della vita associata va cercata più nella società civile che nel sistema politico. Nell’Antidibring Engels definì Saint-Simon lo spitito più universale della sua epoca.

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di modo che la connessione scienza-società risulti largamente sottratta al pensiero, per poter più liberamente trasformare la società e l’uomo. L’antico progetto idealistico per cui l'Io produceva il mondo e la storia, trapassa ora con maggiore efficacia nell'impresa materialistico-positivistico-tecnocratica di edificare la società attraverso la scienza e la tecnica: questo progetto costituisce oggi una sorta di cultura universale, la nuova Koîné del mondo contem-

poraneo. L’idealismo si capovolge in positivismo produttivista, mentre sopravvive e si perpetua l’antico progetto razionalistico della produzione del mondo e delle sue forme, della totale autodeterminazione e autoproduzione dell’uomo. Si accentua tuttavia il sentimento che alla stupefacente ricchezza dei mezzi corrisponda una pericolosa irrazionalità dei fini. La società plasmata dallo scientismo tecnologico e dall’organizzativismo tecnocratico vuole celebrare il Natale dell'Uomo, che si autocrea e che avanza verso un progresso indefinito contando solo sulle proprie forze. Ma la lezione biblica della Torre di Babele è lì per ammonirci, che la conquista della natura nella dimenticanza di Dio approda alla distruzione del rapporto sociale. È illusorio ritenere che la tecnologia possa colmare il vuoto lasciato dalla negazione della trascendenza. IL PROGETTO

TECNOCRATICO

E IL SAINTSIMONISMO

Per il progetto tecnocratico l’età dell’oro del genere umano non è dietro di noi, come ha ritenuto una venerabile tradizione, ma

davanti a noi in un futuro ormai quasi a portata di mano. L’avvenire si mostra ormai agli occhi dei popoli non come uno scoglio, ma come un porto, nel quale soddisfare quel bisogno di felicità che gli antenati cercavano nel passato o nel cielo: il paradiso terrestre diviene un fatto concreto e visibile, di cui potranno beneficiare coloro che, guidati dalla scienza e dall’industria, avranno contribuito a stabilirlo. All’incirca con questi concetti si esprimeva intorno al 1820 C.H. Saint-Simon, i cui numerosi scritti sull’industria, l’organizzazione industriale, l'economia, la politica, la morale ed il nuovo cristianesimo rappresentano una sv72724 inesauribile, a cui lo scientismo tecnocratico può fare con frutto ricorso, quando desidera riscoprire con più vividi colori le proprie origini. Si tratta di ori-

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gini interessanti, nelle quali rifulge in tutto il suo sprovveduto e ingenuo candore l’entusiasmo degli inizi, la disarmante chiarezza di Saint-Simon, il suo straordinario e irritante talento di semplificazione di tutti i problemi. Si annunciano anche numerosi temi che saranno ripresi, sviluppati e approfonditi da Comte, e che attraverso di lui sono passati nella cultura. Non dimentichiamo infatti che Comte è un vero profeta del nostro tempo, e dei più grandi. Seguiremo da presso le perorazioni di Saint-Simon, il cui intento era soprattutto quello di un riformatore sociale, che intende dare il via ad un’età organico-industriale dopo gli scombussolamenti illuministici ed individualistici della Rivoluzione francese. Il saintsimonismo rappresenta la glorificazione della società industriale (e borghese) nel momento della sua massima ascesa, colorata da grandi speranze. Il suo ideale è la fabbrica universale, nella quale la soggettività dell’uomo si esprime solo nei momenti della produzione e del consumo. Sulla conoscenza delle leggi della natura apprestate dalla scienza positiva, che ormai spodesta la teologia e la metafisica, si innalzano una nuova struttura sociale, nuovi principî di direzione sociale, nuove classi dirigenti: « La capacità scientifica positiva deve sostituire il potere spirituale. Al tempo in cui tutte le nostre conoscenze particolari erano essenzialmente congetturali e metafisiche, era naturale che la direzione della società, per quanto riguardava gli affari spirituali, si trovasse nelle mani di un potere teologico, poiché i teologi erano allora i soli metafisici generali. Una volta però fondate tutte le nostre conoscenze esclusivamente su osservazioni, la direzione degli affari spirituali deve essere affidata alla capacità scientifica positiva, poiché essa è evidentemente di gran lunga superiore alla teologia e alla metafisica » (19). Le frecciate alla teologia, alla metafisica, come anche al clero ed alla invisa classe dei legisti, che svolse un ruolo di prim’ordine nella Rivoluzione francese, non si contano negli scritti di Saint-

Simon. Legisti e metafisici sono accusati di « scambiare la forma con la sostanza, e la parola per le cose » (!). In particolare sono necessarie conoscenze positive e specifiche, mentre « è proprio della metafisica, appunto perché non insegna nulla di reale, persua(9) C.H. De Saint-Simon, L'organizzatore, cit., p. 464. (1) Il sistema industriale, cit., p. 591.

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dere che si è adatti a tutto senza aver bisogno di studiare nulla in modo particolare » (Il sisterza industriale, p. 594).

Per il nostro autore lo sviluppo del nuovo sistema sociale richiede che la teologia sia messa completamente da parte, e che la filosofia, la morale e la politica divengano scienze totalmente positive, sganciate dalla metafisica e dalla teologia (L'organizzatore, p. 492). È ben evidente quale sarà secondo Saint-Simon la classe scelta per dirigere la nuova società. Il nuovo clero della laicissima religione del produttivismo tecnocratico sono gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali, i banchieri che guidano e irreggimentano il vasto popolo dei produttori. « Le forze temporali e spirituali della società sono passate in altre mani. La vera forza temporale risiede ora negli industriali, e la forza spirituale negli scienziati » (Il sistema industriale, p. 622). Bisogna anzi che l’autorità costituita riconosca il nuovo potere degli industriali e vi si allei. In una lettera al re di Francia Saint-Simon scrive: « Il potere regio non riconoscerà dunque mai troppo presto che l’alleanza con gli industriali è oggi di ben altra importanza per lui che la grazia di Dio » (Il sistema industriale, p. 686). Si comprende che il progetto tecnocratico di Saint-Simon, inten-

dendo la società come un’unica vasta officina, miri alla piena risoluzione della politica nell'economia, ottenuta con la sostituzione dell'’amministrazione delle cose al governo delle persone (le analogie con le posizioni di Engels e di Lenin sulla morte della politica e dello Stato nella società socialista realizzata sono già state sottolineate). L'economia rappresenta la società molto più della politica. Alla lunga la società economica assorbirà quella politica e lo Stato tenderà a sparire, poiché non è altro che una sovrastruttura inutile e dannosa al libero fiorire della produzione. In definitiva l’autorità politica è ridotta a pura funzione amministrativa e i rapporti che passano tra governante e governati non si differenziano in nulla da quelli che esistono tra amministratore e amministrati. In attesa che si pervenga ad uno stato di cose tanto desiderabile, bisogna che la politica, così come è praticata, venga sostituita dalla politica positiva: « Quando la politica sarà salita al rango delle scienze di osservazione [...] lo studio della politica sarà esclusivamente affidato ad una classe speciale di scienziati che imporranno il silenzio alle chiacchiere » (Il sisterza industriale, p. 594). Sul carattere spoliticizzante del progetto tecnocratico Saint88

n un

Simon è di una chiarezza che non lascia adito ad alcun dubbio: « La politica è la scienza della produzione, ossia la scienza che ha come scopo l’ordine di cose più favorevole a tutti i tipi di produzione [...]. Prima della Rivoluzione, l’industria non possedeva sufficiente fiducia per prendere il ruolo che le conveniva, per alzare il suo stendardo e marciare alla testa della civilizzazione [....]. Oggi non esiste più alcuno di tali ostacoli [...]. La base della libertà è l’industria » (!°). Ciò significa che la libertà (economica, politica, ma anche e soprattutto semplicemente umana) si identifica con la produzione materiale e spirituale della società, in special modo con la produzione industriale, nella quale in ultima analisi risiedono tutte le forze reali della società. L’industria riassume l’intera vita sociale, perché « la produzione dei beni utili costituisce l’unica meta ragionevole e positiva, che le società politiche possono proporsi » (L'industria, p. 295). Nel saintsimonismo il più profondo legame sociale, quel legame organico che deve tenere uniti gli individui, non è identificato né in una idea teologico-religiosa, né in una idea filosofica, ma nel fatto stesso della produzione, « nell’idea industriale », che deve conquistare la società ed instaurare un governo ad essa favorevole: « L’unica meta alla quale devono tendere tutti i pensieri e tutti gli sforzi è l’organizzazione più favorevole all’industria [....] cioè un governo in cui tutto sia stabilito affinché i lavoratori, la cui unione costituisce la vera società, possano scambiare tra loro direttamente, e in libertà assoluta, i prodotti dei loro vari lavori » (L’industria, p. 284).

La neutralizzazione della politica, la sua riduzione a amministrazione e la riforma sociale saranno compiute quando gli industriali inizieranno ad occuparsi della cosa pubblica: « Si è in diritto di sperare che gli industriali cesseranno presto di trattare i loro affari attraverso procuratori e si occuperanno di discutere direttamente le questioni di interesse pubblico » (L'industria, p. 285). Il partito dei produttori, che già possiede potenza economica, dovrà dunque investirsi anche della potenza politica. Ma come arrivarci? Si tratta di operare una riforma che cacci via gli incapaci (18) L’industria, cit., p. 296 s. L’inno all’industria non è privo di un certo lirismo: « La necessità e l’amore della libertà sono nati con l’industria e pet merito suo; la libertà può crescere soltanto con essa, può rafforzarsi soltanto per mezzo suo » (p. 308).

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e gli incompetenti, che invece di fatto dirigono i capaci. È necessario sostituire legulei, metafisici e militari con gli industriali nella direzione degli affari pubblici (!°). La classe industriale, la sola veramente utile, diventerà la classe unica: allora la costituzione della proprietà e la sua distribuzione sarà l’unica legge organica della società, di importanza ben superiore alla legge che fissa i poteri e le forme di governo. Anzi, secondo Saint-Simon, il governo e la magistratura sono forme secondarie, in mano a causidici e legulei che vivono alle spalle dell’industria, sì che bisognerà sostituire le attuali forme dell’ordine giudiziario con tribunali industriali. La prospettiva tecnocratico-produttivistica cerca di occultare i conflitti sociali nella produzione e le lotte per la distribuzione della proprietà, perché in ultima analisi la tecnocrazia non ammette che possano intervenire rivoluzioni sotto il regime industriale. L’archetipo di tale posizione è ancora una volta in Saint-Simon, che sottovaluta la drastica divisione in classi della società del suo tempo, e che ritiene che la filantropia dei ricchi possa sistemare la questione: « Ho dovuto rivolgermi prima ai ricchi e ai potenti per disporli favorevolmente nei confronti della nuova dottrina, facendo sentir loro che essa non era affatto contraria ai loro interessi,

poiché era evidentemente impossibile migliorare l’esistenza morale e fisica della classe povera con altri mezzi se non quelli che tendono ad accrescere i piaceri della classe ricca » (°°).

Messa la sordina alla differenziazione tra le classi, il primo dovere dell’uomo è il lavoro e la lotta contro la naturale tendenza alla pigrizia: « La scioperataggine è la madre di tutti i vizi [...] secondo i principi della politica e della morale, così come della fisiologia e dell’igiene, il legislatore deve combinare l’organizzazione sociale in modo da stimolare il più possibile tutte le classi al lavoro e particolarmente ai lavori più utili alla società [...]. Il vizio dell’organizzazione sociale è tanto più grande quando, (‘°) Il sospetto di Saint-Simon verso la classe militare, così pronunciato da fargli avanzare la proposta di licenziare l’esercito, è un luogo assai notevole ma in certo senso superato. In effetti oggi le cose vanno diversamente, poiché i tecnocrati vedono nel budget della difesa un succulento carnet di ordini e di commesse. Peraltro già Saint-Simon aveva acutamente compreso che la guerra era ai suoi tempi divenuta dipendente dall’industria, che la vera forza militare risiedeva negli industriali. (*) IL nuovo cristianesimo, cit., p. 1140.

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come risultato della sua disposizione fondamentale, i lavoratori aspirano a entrare o a far entrare i loro figli nella classe degli oziosi ». Il primo dovere dell’organizzazione sociale è di procurare lavoro al popolo. Naturalmente anche l'istruzione pubblica deve mirare a dare un’adeguata preparazione al lavoro: « L’istruzione di cui il popolo ha maggior bisogno è quella che può renderlo maggiormente capace di eseguire bene i lavori che devono essergli affidati » (Il sistema industriale, p. 741).

Anche lo scientismo industriale di Saint-Simon è persuaso che non c’è società senza idee comuni le quali, vere o false che siano, vi svolgono un compito importante: coglie l’importanza delle scienze positive, che svolgeranno la maggior parte del lavoro di organizzazione sociale; ma anche la morale non potrà essere dimenti-

cata, poiché non vi è società possibile senza idee morali comuni: « La morale ha come scopo di organizzare la specie umana in società » (I sistema industriale, p. 873).

Saint-Simon è però tutt’altro che soddisfatto della situazione della morale: « Occorre rifare l’intero sistema delle idee morali; occorre porlo su nuove basi; occorre passare, in poche parole,

dalla morale celeste alla morale terrestre [...]. Il cristianesimo ha fatto compiere alla morale un grande passo avanti [...] ma occorre riconoscere che il suo regno è finito e che è ben lontano da noi il tempo in cui è stato utile. È iniziata l’era delle idee positive: non si possono più attribuire alla morale altre ragioni che interessi palpabili, sicuri e presenti [...]. Ecco il grande passo che la civiltà deve compiere; consisterà nell’istituzione della morale terrestre e positiva » (L'industria, p. 327 s.). La rotta è tracciata con sicurezza, si tratta di passare dalla mo-

rale teologica alla morale industriale, l’unica in grado di togliere la lotta delle classi e assicurare pace e concordia: « L’Industria è una: tutti i suoi membri sono uniti dagli interessi generali della produzione [...]. I produttori di tutte le classi, di tutti i paesi, sono dunque essenzialmente amici » (p. 87). Non so trattenermi dal segnalare la sapida personificazione dell’Industria, qualcosa di universale, unitario e indivisibile, che richiama la Dea Ragione dell’illuminismo. Il compito della morale appare in Saint-Simon qualcosa di eminentemente sociale; essa assicura carattere coesivo ed organico alla vita comune, in modo che nulla ostacoli il buon andamento della 91

produzione. Essa assicura anche l’estrinsecazione del naturale sentimento filantropico dell’uomo. Perché però la morale possa esplicare i suoi benefici effetti, bisogna che sia deteologizzata e resa positiva: « Le idee morali sono state sinora fondate sulle dottrine del clero; gli scienziati non hanno ancora eseguito, e neppure incominciato la formazione di un sistema di morale positiva, che, senza respingere il soccorso energico e benefico delle altre credenze religiose, ne sia tuttavia indipendente » (Il sistema industriale, p. 631).

Nel saintsimonismo la morale prende nettamente il passo sulla religione. Nel « nuovo cristianesimo » che Saint-Simon intendeva fondare, la dottrina morale sarebbe stata considerata dai nuovi cristiani come la più importante: « Il nuovo cristianesimo, come le associazioni eretiche, avrà la sua morale, il suo culto, il suo dogma; avrà il suo clero, e il suo clero avrà i suoi capi. Ma, nonostante questa somiglianza di organizzazione, il nuovo cristianesimo si troverà purgato da tutte le eresie attuali; la dottrina della morale sarà considerata dai nuovi cristiani come la più importante; il culto e il dogma saranno da loro considerati soltanto come accessori, aventi come scopo di fissare sulla morale l’attenzione dei fedeli di tutte le classi » (Il nuovo cristianesimo, p. 1109).

Il sentimento religioso perde la sua tensione verticale per essere subordinato e integrato nel grande tutto sociale, a titolo di utile agente del benessere generale e della felicità sociale; il nuovo cristianesimo vuole rendere felici gli uomini quaggiù, procurando il grado più alto possibile di felicità raggiungibile nella vita terrena. Nel mutarsi in filantropia la religione cercherà di non dimenticare il grido degli oppressi e tenterà di persuadere in modo rispettoso e non violento i ricchi a promuovere la condizione dei poveri: « La religione deve dirigere la società verso il grande scopo del miglioramento più rapido possibile della sorte della classe più povera » (Il nuovo cristianesimo, p. 1110).

Trasformata la fede cristiana in eudaimonismo sociale, garante e promotore della felicità collettiva, il principio di base del nuovo cristianesimo non è più il congiunto amore di Dio e dell’uomo (ma prima di Dio!), quanto piuttosto lo spirito di fraternità. Secondo Saint-Simon il precetto del Vangelo agli uomini di condursi come fratelli tra di loro racchiude e rappresenta tutto quanto vi è di divino e di permanente nella religione cristiana. 92

Gli esiti di questa posizione si lasciano facilmente tratteggiare: la teologia è molto relativizzata (2), e la Chiesa, privata della finalità soprannaturale e posta in mano al democraticismo laico (in effetti per Saint-Simon i soli buoni cristiani sono i laici), diventa funzionale al nuovo sistema industriale. In ultima istanza solo esso è il cristianesimo definitivo e completo. Il seguito della storia non è difficile da immaginare. Scomparso l’afflato umanistico e pseudo-cristiano, che in qualche modo fermenta il nuovo cristianesimo saintsimoniano, dimenticata la chiave etica con la quale Saint-Simon loda il cristianesimo per il suo spirito di dolcezza e di bontà, il passo è ormai aperto per le crude esigenze dell’efficienza produttiva e commerciale. Il progetto tecnocratico contemporaneo è eticamente sterilizzato e privo di quell’alone un po’ ingenuamente umanitario del saintsimonismo. Emerge invece la quintessenza o il nucleo permanente del progetto: occuparsi di agire sulla natura per modificarla quanto più possibile nel modo più vantaggioso alla produzione ed all’industria; esercitare pressioni sugli uomini per determinarli a considerarsi essenzialmente dei produttori. Ed anche i risultati che Saint-Simon si attendeva dalla vittoria della società industriale: il progresso delle scienze e delle belle arti, il rischiaramento degli spiriti e l’ingentilimento dei costumi, la scomparsa dell’ignoranza, sembrano stare meno a cuore agli attuali profeti della forma tecnocratica.

(2) «La teologia non dovrebbe avere grande importanza pet un clero vetamente cristiano, che deve considerare il culto e il dogma soltanto come accessori religiosi, dovrebbe presentare soltanto la morale come vera dottrina religiosa [...] » (Il nuovo cristianesimo, cit., p. 1114).

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Capitolo quarto La cultura

radicale

La cultura radicale, fase estrema dello sviluppo storico ed ideale di importanti porzioni della cultura europea, esprime oggi stili di vita e modelli di valore che si diffondono con crescente rapidità ed ampiezza nelle società occidentali, occupando un’area sociale molto vasta, in continua espansione e che taglia trasversalmente

tutti i principali raggruppamenti politico-ideologici di tali società (!). Riflettere sulla cultura radicale e sulle sue reali ragioni rappresenta perciò un impegno necessario, anche se non scontato, poi-

ché il mondo della cultura non è stato sinora molto pronto nell’interrogare la cultura radicale. Nell’affrontarla vanno tenute presenti due avvertenze: a) scorrendo gli scritti di esponenti dei radicali italiani (strettamente intesi, ossia appartenenti al Partito Radicale italiano) raramente si incontrano giustificazioni delle loro posizioni, se si eccettua un continuo quanto superficiale richiamo alla libertà: libertà (1) I termini di «radicalismo » e di « cultura radicale » vengono oggi assunti secondo una larga varietà di significati, che contrasta curiosamente con l’esiguità di riflessione al riguardo. Per alcuni radicalismo è quasi sinonimo di costituzionalismo democratico di sinistra, per cui ad esempio Garibaldi, Cavallotti, Calamandrei ed in parte Mazzini sarebbero radicali; pet altri (ad esempio I. Mancini) l’attuale area dell’« autonomia » incarnerebbe con maggior fotza istanze radicali; per altri ancora (ad esempio G. Baget Bozzo) il radicalismo odierno è figlio di numerose e importanti correnti di pensiero del passato. Né va dimenticata la presenza in Italia di un Partito Radicale. A nostro avviso, una retrospettiva storica anche ampia giova solo parzialmente, poiché l’uso contemporaneo del termine « radicalismo » gli attribuisce nuovi significati che, aggiungendosi agli antichi, rendono ancor più vasta l’area significativa e problematica legata al termine. Giovandoci di tale fatto, impiegheremo « radicalismo » e « cultura radicale » con un significato cultural-filosofico. Scelta che si ispira ad una interpretazione della cultura moderna e contemporanea secondo la quale la cultura radicale rappresenta per molti aspetti la fase estrema e dissolutiva di vari filoni della cultura laico-borghese. Questa ipotesi non è per nulla contraddittoria rispetto ai principî di interpretazione della cultura moderna adottati dalla filosofia cristiana.

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per la donna, per gli omosessuali, di uso del sesso e della droga; libertà dalle armi, dall’autorità, dai partiti, dallo Stato, dai preti, dalla Chiesa, etc. Ma tutte queste posizioni raramente vengono atgomentate, bensì propagandate attraverso una loro continua ripetizione ed un impiego « violento » delle tecniche pubblicitarie. Il

rifiuto della mediazione razionale e l’appello ad una immediatezza spesso dirompente costituiscono caratteri tipici del comportamento ideale e socio-politico dei radicali: essi non si dedicano a riflettere sulla loro ideologia e sulla loro cultura, ma le vivono immediatamente. Questo rende più difficile cogliere le prospettive, le linee di forza, e le ragioni del radicalismo; b) le posizioni ideali ed i comportamenti politici del Partito Radicale italiano rappresentano solo una parziale e limitata espressione della cultura radicale, alla cui globalità intendiamo invece riferirci. Come vedremo, la cultura radicale possiede antiche propaggini e si esprime su un vasto arco di problemi umani basilari. Ma anche intesa in tale senso più ampio e più vero, rimane che la cultura radicale sembra più di una volta rifiutare di fondare criticamente il proprio credo ideologico, atteggiamento nel quale si avverte una forma di sfiducia nella ragione ed un appello a forze irrazionali. Vi è poi un altro motivo di tale comportamento: la cultura radicale non sempre procede a giustificarsi criticamente, perché riceve giustificazione ed investitura dalla prassi, dalla « prova del nove » dei fatti. La « giustificazione » della cultura radicale consiste in larga misura nel suo essere diffusamente vissuta. L’esame di questa cultura rappresenta oggi un impegno di patticolare rilievo ed una vera e propria sfida. Sbaglierebbe chi pensasse che il radicalismo è un fuoco di paglia prossimo a dileguarsi; in realtà le proposte e le prospettive radicali si inseriscono in una dialettica ideale e sociale di lunga durata storica e costituiscono fase in certo modo conclusiva di grandi eventi, che si tratta di decifrare correttamente. Tra questi ne segnaliamo in particolare due: a) La società del benessere e del consumo si inscrive come momento interno, per quanto rilevante, di un più vasto processo di formazione della società radicale, il cui punto di arrivo è un assetto di rapporti nel quale ogni altro soggetto umano diviene per me oggetto. La dominante economica della società del benessere risulta inglobata e specificata dalla dominante schiettamente etica della società radi95

cale; b) Si avvertono ormai da alcuni lustri segni sempre più preoccupanti della progressiva crisi di ideali, di prospettive, di proposte in cui versa quella che un tempo fu la grande cultura laica, in varie sue espressioni insidiata dall’irrazionalismo e dall’istintivismo. La crescente crisi e la progressiva dissoluzione della cultura laica è problema di grande rilievo, che vogliamo qui esaminare sotto l’angolo di visuale della cultura radicale, la quale per vari aspetti ne rappresenta il momento oscuro e di caduta. Per procedere speditamente e con chiarezza è anzitutto oppottuno precisare nozioni, quali ad esempio liberismo, liberalismo, illuminismo, empirismo, che ricorrono spesso nel nostro discorso,

ma che non sono intercambiabili. Mentre il liberismo è una dottrina economica che propugna piena libertà di iniziativa economica e di scambio, il liberalismo esprime invece una sorta di filosofia generale della vita, concernendo in particolare la realtà politica e l’affermazione della libertà politica dell'individuo nei confronti dello Stato e della società. Non è qui possibile ricostruire, neppure per cenni, la dialettica ideale e storica del liberalismo: basterà però richiamare che il termine è di un’ampiezza tale che legittimamente si possono al suo interno distinguere varie forme di liberalismo. Vi è un liberalismo di matrice inglese (Hume, Smith, Mill, etc.),

che si sviluppa in un clima culturale empirista, che distingue nettamente tra verificabile ed inverificabile e che in certo modo intende fondare la vita sociale su una sorta di calcolo utilitario (cfr.

ad esempio Bentham) e sulle possibilità offerte dal progresso tecnico-scientifico; vi è un liberalismo illuminista (Condorcet, Rousseau, Voltaire, etc.) che nasce dal razionalismo assoluto di non

lieve parte della filosofia moderna e che interpreta la libertà come puro non impedimento all’azione del singolo; vi è un liberalismo storicistico (ad esempio quello di Croce) che per vari aspetti è una forma temperata del precedente e che sbocca in una sorta di « religione della libertà ». Vi è anche infine una forma di liberalismo cristiano (ad esempio Lord Acton, in parte Manzoni e Rosmini), che intende garantire la libertà religiosa e quella politica, quest’ultima non assunta peraltro come valore assoluto bensì come uno degli ambiti di sviluppo della persona: libe-

ralismo che fa ricorso ad una peculiare ed integrale filosofia della 96

libertà, non assimilabile soltanto alla pura e semplice libertà di scelta (2). L’empirismo esprime un atteggiamento generale nei confronti della realtà, collegato ad una filosofia che sostanzialmente nega la realtà spirituale, che riconduce l’intelligenza al senso e si fida soltanto del verificabile: esso confina perciò con il materialismo. Infine, l’illuminismo — del quale si danno svariate versioni —, rappresenta un atteggiamento culturale e filosofico in cui predomina un certo modo di intendere l’istanza critica (uso della ragione in forma di razionalismo), ed in cui prevale l’impiego della ragione strumentale, l’idea-guida del progresso, la critica della religione. Storicamente l’illuminismo, come del resto il liberismo, il liberalismo e l’empirismo, è espressione della classe borghese ed ancora oggi esprime sotto molti profili il movimento reale della società borghese, caratterizzata da un crescente individualismo atomistico. Figlia della rivoluzione borghese, dell’empirismo, del liberalismo e dell’illuminismo, la cultura radicale si ricollega a fatti e correnti di pensiero, che rimontano al ’600 e al ’700: evento che dovrebbe invitare a non sottovalutarne il radicamento storico.

(2) F.A. Hayek insiste sulla differenza tra liberalismo inglese e liberalismo continentale: « Per “liberalismo” intenderò la concezione di un ordine politico desiderabile che in prima istanza fu sviluppato in Inghilterra dal tempo degli Antichi Liberali (Old Whigs) nell’ultima parte del XVII secolo a quello di Gladstone alla fine del XIX. David Hume, Adam Smith, Edmund Burke, T.B. Macaulay e Lord Acton possono essere considerati i suoi tipici rappresentanti in Inghilterra. Fu questa concezione di libertà individuale sotto la legge che in prima istanza ispirò i movimenti liberali sul Continente e che divenne la base della tradizione politica americana [...]. Questo liberalismo deve essere chiaramente distinto dall’altro, originariamente di tradizione continentale europea [...] che, sebbene cominci con un tentativo di imitare la prima tradizione, la interpretò nello spirito di un razionalismo costruttivista prevalente in Francia e con ciò ne fece qualcosa di molto differente ed alla fine, invece di sostenere limitazioni dei poteri dello Stato, approdò all’ideale di illimitati poteri per la maggioranza. È questa la tradizione di Voltaire, Rousseau, Condotcet e della Rivoluzione Francese, che divenne l’antenata del socialismo moderno » (« The Principles of a Liberal Social Order », in Studies in Philosophy Politics and Economics, Routledge & Kegan Paul, London 1967, p. 160).

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ORIGINI

DELLA CULTURA

RADICALE

Il tema è molto complesso e sarebbe presuntuoso proporre risposte spicciative: si possono al più schizzare alcune considerazioni, che portano in luce talune eredità culturali lontane e vicine, che contribuiscono a comporre la temperie culturale del radicalismo. Esso, in quanto figlio dell’ottimismo e del razionalismo moderni, nega la realtà del peccato originale e ritiene che tutti i primi movimenti della nostra natura siano buoni. Non è perciò azzardato vedere in Jean-Jacques Rousseau uno dei lontani capostipiti del radicalismo filosofico, poiché quest’ultimo e il filosofo ginevrino partono da una concezione naturalistica dell’uomo, considerato come intrinsecamente buono e guastato dai rapporti sociali: prospettiva che spiega anche l’atteggiamento generalmente positivo assunto dalla cultura radicale nei confronti di una libera esplicazione degli istinti. Mentre il naturalismo di Rousseau è venato di pentimenti teologici, col procedere della secolarizzazione si giunge al naturalismo senza riserve del radicalismo. Questo ha anche in comune con Rousseau l’incapacità a percepire metafisicamente la realtà e in particolare a farsi un concetto adeguato di natura. Per Rousseau la natura dell’uomo non è un insieme di caratteri intelligibili, ma si confonde con il comportamento (più immaginario e mitico che storico) dell’uomo primitivo: la natura umana, la vita secondo natura è quella. L’uomo è considerato essenzialmente buono, e costituito in uno stato di natura pura — poi via via corrotto dalla civiltà — che non ha molto a che vedere con la situazione di giustizia originale della teologia cristiana, perché si tratta di una natura separata dall’ordine soprannaturale e interpretata secondo valenze fisiche e sentimentali. Lo prova il severo giudizio di Rousseau sull’uomo che pensa: «lo stato di riflessione è uno stato contro natura [...] l’uomo che medita è animale depravato » (°). Questa svalutazione della ragione è pienamen(*) Cfr. J.J. Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza tra gli uomini, Giuffrè, Milano 1968, p. 36. Analoghi concetti poco oltre: « Non è tanto l’intelligenza che differenzia l’uomo dall’animale, quanto la sua qualità di agente libero » (p. 38). Frase veramente preziosa, perché indica che per Rousseau può esservi libertà senza ragione; viene così perfettamente dipinto il libertarismo radicale, che appunto è libertà senza regola razionale. In gese i Discorso è illuminante ante litteram su vari aspetti dell’antropologia

radicale.

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te congruente con lo scarso apprezzamento del valore della conoscenza, ridotta ad un mezzo di godimento e di piacere: « Noi non cerchiamo di conoscere se non perché desideriamo godere e non è possibile capire perché colui che non avesse né desideri né timori si darebbe la pena di ragionare » (‘). Il naturalismo radicale è fortemente rousseauiano quando, come Rousseau, vede la soluzione dei problemi del soggetto nel lasciarsi andare senza domande alle inclinazioni della natura, che per il filosofo ginevrino sarebbero: essere felici, fare il proprio interesse, avere pietà dell’altro. Anche il rapporto sessuale è vissuto con lo stesso « innocente » abbandono alla natura: « Ciascuno attende tranquillamente l’impulso della natura, vi si abbandona senza scelta, con più piacere che furore, e soddisfatto il bisogno, ogni desiderio è spento » (°). Nel radicalismo, come in Rousseau, vi è un’ingenua fiducia nella bontà della natura e nel suo potere taumaturgico, che richiama qualcosa del romanticismo. Ancora un’osservazione. Nello stato di natura quale è dipinto da Rousseau nel Discorso, la religione non ha alcun posto, alcun rilievo individuale o sociale. La dissertazione di Rousseau ne prescinde totalmente, sì che si trae la convinzione che per il Nostro l’uomo dello stato di natura ignorasse ogni rapporto religioso. L’irreligione del radicalismo contemporaneo, ormai più volto a dimenticare il fatto religioso che a combatterlo, non manear un atteggiamento analogo? In un altro senso ancora il radicalismo è figlio di Rousseau: ossia nel ritenere che la legge è espressione del Numero e della Volontà Generale (il che tra l’altro contribuisce a spiegare la spic-

cata preferenza radicale per un massiccio ricorso al referendum) e non della retta ragione. Inoltre, il netto anticlericalismo e la polemica anticoncordataria del Partito Radicale italiano, fautore di una totale separazione tra Stato e Chiesa, trovano anch’essi chiari precedenti storici: basterebbe porre mente al liberalismo teologico e filosofico, che ha sempre negato alla Chiesa il diritto di intervenire nelle vicende temporali per salvaguardarvi un valore etico o di fede. Ma sono soprattutto il materialismo illuminista francese del ’700 (4) Ibidem, p. 39. (°) Ibidem, p. 51.

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(D’Holbach, Diderot, Lamettrie, Helvetius), l’opera del marchese

De Sade, il radicalismo utilitarista inglese di J. Bentham, di J. Mill e di B. Russell, i principali ispiratori della scelta permissiva, materialista ed individualista della cultura radicale. Né vanno dimenticati certi aspetti del pensiero di Saint-Simon, di Fourier e dei loro discepoli, che hanno proclamato la bontà della carne, la grandezza del sesso, il valore virtuoso delle passioni e dell’amore libero. Il radicalismo si sviluppa perciò alla confluenza di differenti filoni culturali, creando una nuova pasta con ingredienti di diversa provenienza: lo stesso termine « radicalismo » va oggi inteso in un senso diverso da come lo intendeva all’inizio del nostro secolo Elie Halévy, per il quale il radicalismo era solo l’espressione della scuola utilitaristica inglese di Bentham e di James Mill, che propugna un’etica dell'utile e dell’interesse, una dottrina associazionistica della conoscenza, un atteggiamento politico democratico, tutti basati su una forma di razionalismo individualistico (9). Già dai precedenti cenni si avverte che la cultura radicale riconosce tra i propri antenati molti filoni della cultura borghese, in particolar modo quei filoni che si esprimono nel giacobinismo, in un atteggiamento naturalista, utilitarista ed empirista, e in una cultura dell’immediato fieramente avversa ad ogni mediazione. Molti, ma

non tutti, poiché l’idealismo e lo storicismo

idealistico,

manifestazioni rilevanti di quella cultura liberal-borghese particolarmente attenta alla mediazione filosofica e storica, non possono considerarsi progenitori del radicalismo. Inoltre vari succhi della « vulgata » marxista e della psicanalisi (interpretazione materialistica ed istintuale dell’azione morale, sostanziale negazione della responsabilità personale, ecc.) sono rifluiti nel radicalismo, con-

tribuendo a porre in crisi i moduli fondamentali del comportamento etico. Venendo poi più vicino ai tempi nostri, bisogna sottolineare i debiti della cultura radicale verso i risultati e le ricerche operate nel campo delle scienze umane, o meglio, piuttosto, verso un loro uso ideologico, che ha spesso inteso operare una sistematica decostruzione dell’uomo. Intendiamo riferirci ad un certo impiego (9) Cfr. l’amplissima ricerca di E. Halévy, La formation du radicalisme

philosophique, 3 voll., F. Alcan, Paris 1901-1904.

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orientato e spesso scorretto della psicologia, della psicanalisi, della sociologia, che approda ad una sorta di disgregazione del soggetto umano. Tale influsso sulla cultura radicale di una certa interpretazione delle scienze umane costituisce un elemento di novità, che contribuisce a plasmare la cultura radicale attuale nelle sue somiglianze e nelle sue differenze rispetto all’ideologia borghese classica. Non tanto Freud, quanto piuttosto un certo freudismo, quanto piuttosto Reich e talune correnti del pensiero critico, e la spallata operata dal ’68 possono rendere ragione di vari aspetti del radicalismo attuale. Per la sua ventata irrazionalistica la cultura radicale appartiene a quel vasto crogiuolo di idee e movimenti che hanno preparato e seguito il ’68. In effetti quell’ampio fenomeno è andato per vari aspetti configurandosi come una forma di irrazionalismo, in nome di una rivendicazione di totale libertà da ogni regola umana o divina. Anche sotto tale aspetto la cultura radicale si palesa figlia di dottrine che rifiutano Dio come fondamento ultimo della morale, proclamando la totale autonomia etica dell’individuo, secondo cui ciascuno è legge a se stesso, e di conseguenza deve obbedire solo a se stesso. , Un problema schiettamente filosofico, quale è quello della libertà, costituisce il nucleo centrale del radicalismo attuale: quale è il vero senso della libertà umana? Si riduce a semplice libertà di scelta, oppure possiede un significato più profondo? Nella cultura radicale viene eretta a mito la indefinita possibilità di scelta dell'individuo: in queste condizioni la libertà conserva ancora un autentico significato? In effetti nel radicalismo il concetto di libertà, rescisso da ogni sorgente metafisica e religiosa, assume un valore puramente pratico e polemico: in quanto il modello di libertà che viene proposto afferma una libertà separata da ogni responsabilità, non sussiste in sostanza vera libertà di scelta. Non c’è libertà senza responsabilità; ma nel caso del radicalismo non c’è responsabilità perché non esiste più alcuna norma oggettiva dell’agire: se ben si guarda, il mito dell’esercizio indefinito della libertà dell’individuo proposto dalla cultura radicale, viene a dire che la realtà storico-sociale è responsabile al mio posto. Nelle espressioni più esasperate del radicalismo viene perciò raggiunta la massima separazione tra responsabilità e libertà, quest’ultima venendo intesa formalmente

senza limiti, ma in AS

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secondo una concezione vitalistica che la sradica dalla ragione e la sottopone a manipolazioni collettive. Ampi strati della società europea, che trovarono dapprima la loro metafisica naturale nel voltairismo, poi nella morale laica kantiana, successivamente nel materialismo e nel positivismo e in seguito nell’idealismo storicistico, trovano oggi la loro ideologia pratica nel libertarismo radicale, che vieppiù travalica i confini di una singola classe per interessare l’intero corpo sociale. La cultura radicale esprime la vittoria dei filoni materialistici della cultura borghese, di cui rappresenta un momento di dissoluzione, in concomitanza con il dominio planetario dello scientismo tecnologico, che interpreta l’uomo come macchina senza segreti. Non sembra perciò che si possa affermare che la cultura radicale è esplosa quasi per caso in questi ultimi anni. In realtà ha alle spalle un lungo passato, che si è cercato di ricostruire nelle grandi linee, anche per ridonare prospettiva e continuità al nostro presente, spesso privo di memoria storica. Pur senza trascurare gli innesti recenti, la cultura radicale appare più un compimento che un inizio: sotto molti aspetti è il momento finale e conclusivo della secolare dialettica dell’umanesimo antropocentrico, è la fase ultima di quell’umanesimo razionalista e empirista, ma comunque sempre laicista ed individualista, che ha percorso tanta parte della cultura europea, e che si snoda lungo varie fasi: si assiste dapprima nell’età cartesiana ad un rovesciamento dei fini, in virtù del quale la felicità non viene più cercata in Dio ma in un compimento terrestre:

segue poi la ten-

denziale scomparsa del problema di Dio, che si accentua progressivamente in relazione ad un crescente dominio tecnico sulla natura: fase che sbocca in una sostanziale emarginazione dell’umano da parte del materiale. Lungo tale dinamica, la cultura radicale può essere interpretata come un estremo tentativo di rivincita nei confronti del dominio tecnico da parte di ciò che residua dell’umano nella temperie culturale prevalente: il momento biologico, l’istinto, la corporeità. Reazione che dunque è segnata dalla dichiarazione di insignificanza dei valori etici e spirituali.

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L'ANTROPOLOGIA

RADICALE

Il segreto del radicalismo viene svelato e portato a galla solo se si identifica il suo centro ultimo di riferimento: l'individuo assoluto, a partire dal quale vengono prese le prospettive e condizionate le percezioni delle principali realtà di ogni cultura: Dio, uomo, libertà, etica, politica, tecnica, etc. Riferite all’individuo e non al mistero dell’essere, le rispettive percezioni esistenziali, spostate dal loro centro naturale di riferimento, vengono adulterate. Nessuno ha espresso con altrettanta cruda chiarezza come Max Stirner la silenziosa rivoluzione a cui punta il radicalismo, quando

vuole rendere l’individuo l’unico riferimento assoluto: « Come Dio, io sono la negazione di tutto il resto perché io sono per me tutto — sono l’unico {...]. La mia Causa non è generale, ma unica come me stesso che sono urico. Niente vi è oltre me o sopra » (7). Nella filosofia radicale l’uomo è sostanzialmente buono e pienamente autonomo: la sua ragione, la sua volontà, le sue passioni, la sua sensibilità sono buone; la sua libertà deve obbedire solo a se stessa e alle leggi che autonomamente si è data, perché ogni eteronomia etica viene intesa solo come un attentato alla sovranità del soggetto assoluto. Anche a tale proposito Stirner si è espresso con grande lucidità, cogliendo acutamente l’inversione di prospettiva della nuova antropologia: « Alla sentenza cristiana: Noi siamo tutti peccatori, io oppongo questa: Noi siamo tutti perfetti » (p. 485). Dunque l’uomo non porta in sé nella sua struttura ontologica alcuna ferita originale che indebolisca la sua relazione al bene e al vero o, per meglio dire, che possa ostacolare la sua presa di possesso degli oggetti e del piacere. Dal punto di vista della teologia cristiana l’antropologia radicale è una forma estrema di ottimismo naturalistico che rifiuta l’ordine soprannaturale e nega la realtà del male morale, mentre concentra nell’individuo la piena misura di tutte le cose. Esso non deve dipendere da nessuno, né preoccuparsi di nessuno, ma rap(?) M. Stirner, L’Urico e la sua proprietà, Ennesse Ed., Roma 1970, p. 3. Quasi superfluo avvertire che la sua idea di Dio come negazione di tutto il resto non corrisponde a quella offerta dalla rivelazione cristiana. Anche le successive citazioni di Stirner (1806-1856), tratte da questo volume, sembrano felicemente anticipare alcuni tratti del radicalismo attuale. Non vogliamo tuttavia fare di Stirner l’autore-emblema del radicalismo, bensì solo uno scrittore qua e là rivelativo di posizioni culturali e umane sviluppatesi negli ultimi lustri nell’ambito della cultura radicale.

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portarsi agli altri e al mondo come a oggetti necessari per il suo godimento e per il suo incremento di potenza. Annullato il dislivello tra l’individuo come è e l’individuo come dovrebbe essere, il carattere più profondo della persona umana, ossia la sua vita etica, viene messo in crisi.

Il male non è il peccato o la colpa morale, bensì la repressione. Il significato più autentico del permissivismo radicale è che i sensi e gli istinti sono buoni, dunque non vanno né repressi né regolati, ma liberati, in modo che liberamente si esplichino tutti i movimenti della natura sensibile. Anche le idee di libertà, legge, diritto assumono significato diverso nella prospettiva radicale, pure a tale riguardo influenzata da Rousseau. Egli aveva affermato che l’uomo non deve obbedire che a se stesso, e che di conseguenza « la libertà consiste nell’obbedienza alla legge che ci siamo prescritta » (*). Così affermando Rousseau si incamminava lungo una strada che vuole fondare la libertà dell’uomo ed i suoi diritti solo sulla volontà dell’uomo: ma questo è un cammino scivoloso, poiché non tarderà il momento in cui i diritti dell’uomo saranno intesi come qualcosa che, privo di misura e regolazione oggettiva, entra necessatiamente in conflitto con i diritti altrui. Non è difficile rintracciare i motivi ultimi, filosofici, della concezione radicale dell’uomo e della sua libertà: essi provengono in ultima analisi dallo scetticismo o dalla franca negazione che esista un ordine metafisico dell’essere, e che l’intelligenza umana possa conoscerlo. Ma se non vi è certezza di verità, non può esservi una

legge morale, una regola degli atti umani. Allora il soggetto opera non ciò che è bene, ma ciò che la sua volontà vuole: « Ogni giudizio emesso su un oggetto è l’opera, la creazione, della mia volontà » (Stirner, p. 455).

La conquista della libertà verso cui si protende la prassi radicale non è ricerca di una liberazione etica, di una pienezza di vita etica mediante cui la persona si eleva interiormente in virtù, saggezza e amore. Si presenta piuttosto nella pura forma di una richiesta di libertà come soddisfacimento dei bisogni, dei desideri, delle passioni, garantito dal pieno godimento, assicurato dalla società, di un numero crescente di diritti dal contenuto sempre più ampio e senza essere costretti a corrispondenti doveri. Affermazione dis(*) Il contratto sociale, 1. I, cap. VIII.

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simmetrica, perché io posseggo solo diritti e gli altri hanno solo doveri verso di me. Poiché poi la libertà dell’individuo si pone solo nella guisa dell’obbedienza a se stesso, né si accompagna ad una responsabilità verso il bene comune, la dottrina della libertà del radicalismo non può giustificare razionalmente l’autorità politica e l’obbligazione politica: in tale dottrina infatti il potere pubblico riceve significato solo dal principio di utilità. Così la domanda di libertà politiche tende a porsi come richiesta di libertà dalla politica, cioè dal sentirsi persone che partecipano alla vita di un popolo, che comunicano tra loto in cultura, tradizioni, progetti e simboli, e che si sentono responsabili verso la vita collettiva. La conquista della libertà propugnata dalla cultura radicale è volta ad un indefinito esercizio della libertà di scelta e insieme ad affermare una sorta di suprema libertà di indipendenza. Sotto questo secondo aspetto è una libertà dz, che a sua volta può presentarsi come legittima richiesta di libertà dalla povertà, dalla miseria, dalla ignoranza; ma può anche porsi, e spesso di fatto lo è, come richiesta di libertà dalla responsabilità e dal dovere. In tale prospettiva la richiesta di libertà non è finalizzata alla crescita ed alla fioritura della persona, bene che l’uomo deve acquistare a caro prezzo, e che è la conquista dell’uomo da parte di se stesso e l’accessione piena alla vita morale, razionale e spirituale. La libertà radicale non è la libertà pienamente umana, ma un bene largamente disponibile, che la società è obbligata a garantirmi. È quasi superfluo avvertire che un principio disgregatore, rappresentato dalla propensione a mostrare minor senso di responsabilità ed a porsi in relazione con gli altri come verso realtà estranee, viene introdotto nella vita sociale. FELICITÀ

E PIACERE

Affermando la sovranità esclusiva del soggetto individuale, la cultura radicale ritiene di aver posto le premesse necessarie pet garantire il suo diritto assoluto alla felicità. L’aspirazione a poter vivere la propria vita sotto il segno della gioia, dunque l’aspirazione a quella serena e attiva pienezza di vita nella quale l’uomo perlopiù ripone il segreto della felicità, rappresenta appunto una incondizionata e universale richiesta umana. Nella versione radicale essa viene a configurarsi, svelando le sue chiare propaggini 105

illuministiche, non come esercizio di virtù e di libera prassi razionale dell’uomo, per cui la possibilità del raggiungimento della felicità sta in me più che nelle condizioni esterne, bensì come richiesta perentoria di prestazioni che debbono essere fornite da terzi, che si sostanzia in una domanda: voi siete obbligati a rendermi felice. Il luogo da cui deve scaturire la felicità non sta più in me, perché io sono soltanto un soggetto che reclama prestazioni, ma negli altri. E non sarà superfluo ricordare che la cultura di massa veicolata dai mass-media diffonde ormai da diversi lustri nelle sue svariate forme l’ideologia illuminista e radicale del diritto alla felicità e alla autorealizzazione, le cui assenze sono normalmente sentite come risultati di ingiustizia e con ansiosa frustrazione. Questa cultura, che normalmente confonde piacere con gioia e felicità, è contro le sue intenzioni motivo di infelicità e di ansietà sociali: non vi è infatti nulla di peggio che sperimentare di non poter raggiungere quella felice pienezza di vita che viene asserita

raggiungibile, con insistente bombardamento propagandistico, mediante la soddisfazione di ogni bisogno e la rincorsa del piacere. Per meglio percepire i nuovi termini in cui si pone la questione della felicità, dobbiamo sostare un momento sul rapporto tra piacere e felicità. Il piacere, che necessariamente scaturisce dal soddisfacimento di un bisogno, è un primo gradino verso la felicità, che è invece durevole condizione di vita gioiosa proveniente dalla libera attività dell’uomo. La felicità consiste nella durevole fruizione di beni che producono appagamento di vita; perciò la sua latitudine riguarda l’intera vita umana in tutti i suoi aspetti, mentre il piacere proveniente dal soddisfacimento di un bisogno possiede la limitata ampiezza di questo. Secondo la tradizione filosofica classica la felicità non consiste principalmente nel possesso della ricchezza, nella salute, nella buona reputazione, bensì nell’esercizio pieno e costante della virtù. Uomo felice è colui che vive secondo virtù, compiendo in questo atto se stesso e portando al più alto grado di attualità le sue facoltà: per Aristotele la gioia accompagna necessariamente ogni atto perfetto. In quanto la felicità è una conquista e un esercizio dell'umano nell’uomo, la sua possibilità reale risiede soprattutto in me stesso. Possiamo trovare una conferma della nuova idea di felicità identificata col piacere e della sua lontananza dall’armonioso equilibrio 106

della grande tradizione etica, considerando le principali richieste che la cultura radicale viene via via elevando: totale copertura di tutti i bisogni, ma soprattutto piena liberazione e soddisfazione del desiderio, godimento della vita, fuga dalla sofferenza, assenza di pene e di sforzo. Da un lato tali esigenze oggettivamente si saldano con l’ethos consumistico, anch’esso proteso all’ingorda soddisfazione di tutti i bisogni, di quelli naturali e di quelli indotti artificialmente; dall’altro vengono a galla tendenze e richieste che attengono non al puro corporeo, ma allo psichico-biologico: lo scatenamento del desiderio. Nell’uno e nell’altro caso però la dimensione etica e spirituale della felicità è soppressa a vantaggio della dimensione sensibile e psichica, esprimentesi nel desiderio: « Il pio desiderio degli Antichi era la saztità; quello dei Moderni è il corporeo » (Stirner, p. 490).

Esso diventa l’unico parametro essenzialmente reale e produttore di realtà. « L’anti-Oedipe » di Deleuze e Guattari (°), con la

sua proposta di schizoanalisi, intende eliminare tutto ciò che è fisso e costituisce una norma, per sostituirvi il desiderio libero e senza scopi, che rimetta in movimento le macchine desideranti inceppate che noi siamo. « Impadronitevi del godimento, ed esso vi apparterrà di diritto » (Stirner, p. 247). Come non avvertire l’anarchia degli istinti e la morte del logos che provengono da questa corrente psicanalitica, e che costituiscono una delle ali marcianti dell’attuale cultura radicale? Si potrà semmai notare che l’innesto della psicanalisi nella cultura laica provoca seri effetti anche in quei suoi filoni idealistici e storicistici che le sono lontani: né potrebbe essere diversamente quando in una cultura che ha perso il suo baricentro spirituale e umano, si iniettano a dosi massicce analisi e categorie che portano sul lato animale dell’uomo. Chi desiderasse una plastica rappresentazione della differenza tra marxismo classico e cultura radicale, ponga mente alla diversità tra la teoria dei bisogni del marxismo e la liberazione dei desideri del radicalismo. Per tante correnti marxiste l’uomo è liberato quando i suoi bisogni sono soddisfatti. La cultura radicale pone al centro non il bisogno, bensì l’esplosione del desiderio che, a difterenza di quello, non ha un oggetto predeterminato, ma è insazia(*) Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, Capitalisme et schizophrénie - L’anti-Oedipe, Les Editions de minuit, Paris 1972.

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bile, sempre risorgente e sempre nuovo: si può desiderare di 1 tutto, pur senza avere bisogno di nulla. Alcuni esponenti di quella cultura ufficiale, che si esprime negli articoli di maggior impegno su vari quotidiani, si avvicinano a queste posizioni quando predicano la necessità di liberare il desiderio: bisogna non solo desiderare, ma almeno altrettanto è essenziale desiderare intensamente di desiderare, è essenziale caricarsi di stimoli. Tra l’altro vale la pena di notare incidentalmente che la liberazione del desiderio presuppone la risoluzione del problema dei bisogni, possibile solo in un’economia di abbondanza da società opulenta. Cominciamo a trarre alcune conclusioni sulla concezione radicale della felicità. Anzitutto nella società radicale viene smarrendosi il senso stesso della felicità politica, che scaturisce da una retta prassi razionalmente fondata e intersoggettivamente giustificata nella comunicazione personale e pubblica, e che in ultima analisi si fonda nella comunione a valori umani e nel prendersi cura del bene comune. Bisogna allora convenire che nella società radicale si raggiunge la massima privatizzazione del concetto di felicità: l’unità aristotelica di agire virtuoso e di gioia concomitante viene spezzata e non significa più nulla. Caduta l’idea stessa di felicità politica, sola rimane la ricerca del piacere privato: nella società radicale la bella armonia della polis greca è irrimediabilmente infranta.

Estraneazione ed esperienza dell'amore nel soggetto radicale Le precedenti riflessioni già disegnano il profilo della concezione radicale dell’uomo. Ma l’inchiesta del pensiero pretende di procedere oltre per elevarsi al livello del concetto, e per cogliere nella sua luce tutte le essenziali determinazioni del soggetto radicale: la coscienza di se stesso, delle cose, del mondo, dell’altro, di Dio. L’Io dell’antropologia radicale è un puro, nudo ed esteriore essere per sé senza coscienza dell’altro: ogni altro è per lui nulla. Ma nel riportarsi a sé medesimo il soggetto, in quanto non può raggiungere mai la forma piena dell’autocoscienza spirituale, si incontra solo come desiderio materializzato. Ponendo l’altro come cosa, l’Io diviene cosa a se stesso, percependosi come realtà da cui 108

fuggire verso l’esteriorità, nell’ignoranza della perdita della propria essenza. L’altro interviene solo come mediazione estranea ed estraniante, mediante la quale l'Io si rapporta al possesso e al godimento: il soggetto non raggiunge così mai l’autocoscienza e la certezza di se stesso, ma vive la propria individualità singolare come separato dalla propria essenza e scisso da ogni rapporto universale. L’Io radicale, catturato dal suo esserci irriflesso e naturalistico, è inconsapevole della potenza di estraniazione che lo abita, e perciò vive nella guisa dell’inganno. Ma nonostante ciò, confida in se stesso: non nel senso di possedere un qualche significato della vita o la speranza che tale significato sia per essere svelato, ma perché, percorso da molteplici correnti di desiderio, in esse ripone la propria fiducia. Non l’amore dell’essere o l’esperienza dell’angoscia sono il sentimento fondamentale dell'Io radicale, bensì la superficiale ansietà, che lascia il soggetto nell’esteriorità. Esteriore a se stesso e agli altri, l'Io non ritorna a sé neppure nel rapporto immediato con la cosa: non avendo né vero sentimento di sé né vera consistenza, dimora in solitudine presso se stesso, non nella guisa dell’autocoscienza, bensì come soggettività notturna ed estraniata, che si affretta ad uscire verso l’oggetto. Indifferente alla tensione tra finito e infinito, l’Io accetta la determinatezza materiale e la limitazione del finito nelle quali trova la propria quiete. In quanto per essa la trascendenza è vuoto al di là, e la materialità del finito è l’unica verità, la coscienza radicale è soddisfazione della finitezza. In quanto essere per sé senza coscienza dell’altro, il soggetto radicale rende impossibile ogni forma di amore. Questo è desiderio del mio bene e insieme del bene dell'amato secondo una dialettica di unità-differenza: sentimento individuale e universale, l’amore tiene insieme amante e amato impedendone la lacerazione. L’amore umano, che è fedeltà e durata, si colloca al di là dell’amore borghese, possessivo e ingordo, che nell’altro cerca solo se stesso e una proprietà, sia dell'amore romantico. Nel desiderio del bene dell’amato e dell'amante traluce la tensione verso il Bene supremo, sommamente amato non perché è il mio o il nostro bene, ma perché è il Bene (e la Verità, e la Bellezza). L’amore autenticamente umano è riconoscimento che la conci109

liazione di due soggettività può venire solo sotto il cielo del Bene. Alla sua luce le soggettività comunicano, i loro lati oscuri e chiusi si aprono l’un l’altro, l’isolamento si spezza, un soggetto riconosce l’altro e lo fa uscire dalla sua solitudine: nella rivelazione della soggettività dell'amato e dell'amante viene impegnato il destino della vita. L'amore umano è amore della soggettività individuale, di quella soggettività individuale in quanto tale, di quella soggettività unica. In esso Eros e Agape si compenetrano fecondamente e si aprono all’amore di Dio, di modo che le immagini, i sentimenti, le metafore dell'amore umano sono capaci di dirci qualcosa sull’amore che Dio ha verso se stesso e verso l’uomo. Nel suo rapportarsi all’altro, l'Io radicale trema in se stesso di doverne riconoscere la soggettività e sceglie di rimanere senza coscienza dell’altro, estraniandosi dalla comunicazione. L’amore accade soltanto nella guisa dello scambio, in cui partners estranei si pongono di fronte ignorando le rispettive soggettività: l’amore umano decade a possesso limitato di un che di transeunte, che riluce degli allettamenti della venere carnale. Nella prassi di amore del radicalismo non si amano persone, ma si ricercano piaceri. Unica tra le molte rimane aperta la via del possesso, nella quale il partner rimane un che di muto, che non è neppure mediazione per il riconoscimento di me stesso. Nella negazione della natura comunionale dell'amore umano, la ricerca dell’altro come compagno di piacere non rivela nulla, bensì conferma la solitudine (1°). Vivendo la relazione di amore come pura attività sensibile, che non si eleva neppure alla forma del sentimento, primo livello dell’autocoscienza della persona, l’Io si rinchiude nella sua particolarità, rompe la comunione con gli altri e si rapporta all’altro solo nella forma del godimento immediato del piacere. Estraneo a se stesso ed all’altro, il soggetto dimora nella notte della mancanza di un senso assoluto. In tale mancanza sta propriamente l’essenza del nichilismo. L’avventura dell’antropologia radicale, iniziata sotto il segno della ri(‘°) « Se tu mi interessi è perché mi premi in quanto trovo in te piacere per il mio cuore e sollievo per le mie sofferenze; se ti amo, cioè, non è per amore di un essere superiore del quale tu sei l’involucro consacrato, né perché vedo in te un fantasma o il tuo corpo mi mostra uno spirito, ma è per egoismo che ti amo » (M. Stirner, op. cit., p. 39).

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cerca di possesso dell’oggetto e della liberazione del desiderio, si rinchiude infine nel circolo dell’insignificanza. Ancora una volta Stirner ha lucidamente intravisto l’esito nichilista del riporre fiducia nel soggetto individuale elevato ad assoluto: « Se io ripongo la mia coscienza in ze stesso, l’unico, essa riposa sul suo creatore effimero e perituro che da se stesso si consuma; sicché, potrò veramente dire: Io ho riposto la mia causa nel nulla » (p. 495). RADICALISMO

E ABORTISMO

Il piacere va dunque cercato ad ogni costo, mentre l’amore è qualcosa di opzionale, anzi di estraneo nella misura in cui esige la comunione delle soggettività impegnate nel rapporto. Le forme più estreme di radicalismo li contrappongono nettamente, per esaltare il libero esercizio della sessualità svincolato da ogni responsabilità. Né vergini, né madri: tale potrebbe essere il motto di quella liberazione della donna propagandata dalle correnti più estreme del radicalismo attuale. Alcuni autori hanno rilevato un momento sadico nella posizione dell’abortismo liberatorio, sostenuto dalle correnti radicali (!!): il radicalismo abortista è figlio del sadismo. Tra le motivazioni degli abortisti ad oltranza, che sono state innumerevoli volte ripetute negli ultimi anni, e le posizioni di De Sade non c’è differenza. Così egli scrive: « Non temere l’infanticidio, è un delitto immaginario; saremo pur padrone di ciò che portiamo in grembo! Dunque distruggendo questa specie di materia non facciamo più male che a liberarci di un’altra quando abbiamo bisogno di putgarci [...]. Noi siamo, in poche parole, padroni di quel pezzo di carne, per animato che sia, non diversamente da come lo siamo delle unghie che tagliamo dalle nostre dita » (1°). (!!) Ci riferiamo in particolar modo al volumetto Abortismo libertario e sadismo, di Luigi Lombardi Vallauri, Scotti Camuzzi Editore, Milano 1976. Parlando del momento sadico, vogliamo letteralmente alludere all’influsso, esplicito o implicito, esercitato dalle opere del marchese De Sade, pullulanti di motivi che si ritrovano nella propaganda abortista più spinta. (!2) Cfr. De Sade, La filosofia nello spogliatoio, a cura di G. Varchi, Editoriale Corbaccio, Milano 1924, Dialogo III. E sempre nella stessa opera: «Noi possiamo soddisfare in pace tutti i nostri desideri, per quanto strani possano sembrare agli sciocchi che si offendono e si allarmano di tutto, e prendono stupidamente le istituzioni sociali per leggi divine della natura » (p. 124).

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Queste posizioni tentano di giustificarsi attraverso la teorizzazione individualistica del soggetto assoluto, che riferisce ogni cosa a sé solo. Anche a tale proposito De Sade scrive: « Prima noi, poi gli altri, ecco la regola della natura; nessun rispetto, di conseguenza, nessun riguardo per gli altri » (*). E dopo di lui, analogamente si esprime Nietzsche: « I deboli e i mal riusciti devono perire: primo principio della zostra carità ». Un pensiero che non reagisca emotivamente alla provocatoria enormità delle affermazioni, deve domandarsi se il soggetto assoluto è veramente libero o se la sua pretesa libertà è solo una finzione. Ci sono buone ragioni per ritenere che la libertà di cui parlano De Sade e il radicalismo più estremista è apparente, in quanto l’individuo risulta più manovrato che padrone dei suoi meccanismi psicologici e biologici. Sul problema dell’aborto il radicalismo più coerente non difende una sedicente posizione umanitaria, che si esprime nell’abortismo moderato raffigurato come triste necessità sociale, bensì afferma una netta posizione di principio, ossia il libero aborto, libero perché privo di ogni negatività morale. Lo sfondo comune della cultura radicale è il materialismo. Non il materialismo dialettico, che ambisce ad interpretare l’intero corso della storia, in quanto il radicalismo è cultura nettamente antistorica e naturalisticamente orientata, ma un materialismo simile a quello meccanicistico del ’700 aggiornato e modificato in virtù dell’impatto delle scienze umane. Nella prospettiva materialista non solo non c'è Dio, ma neppure il soggetto umano reale, composto di corporeità e di spirito. L’umano è appiattito sul biologico e appare come realtà da manipolare: la natura umana, contrariamente alla tradizione del pensiero religioso e metafisico, è vista come priva di ogni essenza trans-storica e si risolve pienamente solo in ciò che può essere accertato a livello fisico-materiale. Non basta perciò l’individualismo a rendere ragione della cultura radicale: si danno infatti anche individualismi spiritualistici, (*) Si ricorderà che De Sade voleva depenalizzare tutti i crimini consueti, salvo il delitto di cristianesimo o di teismo, punito per i recidivi con l’ergastolo. In « Giulietta o la prosperità del vizio », il nostro autore afferma: « La religione cristiana sarà severamente bandita dal governo », e in « Francesi, ancora uno sforzo »: «I nostri pregiudizi cominciano già a scomparire, il popolo abiura già le assurdità cattoliche » (cfr. La filosofia nello spogliatoio, cit., pp. 40 e 140).

DEZ

che con essa non hanno nulla in comune. L’individualismo radicale è materialistico ed ateo: il libero abortismo radicale è una potente forma (teoria e pratica) di introduzione di massa all’ateismo. ETICA ED ATEISMO

NELLA CULTURA

RADICALE

La cultura radicale si riassume nella formula: ciascuno è legge a se stesso; bisogna dunque ubbidire solo a se stessi. Il radicalismo è una rivendicazione, in campo morale e pratico, di indipendenza da ogni regola che non provenga dal soggetto e che il soggetto non ponga a se stesso. Posizioni nelle quali non è difficile rintracciare l’eredità dell’immanentismo e del liberalismo filosofico. In effetti conviene considerare che si danno tre distinte forme di liberalismo filosofico: — il liberalismo assoluto e sostanzialmente ateo, che respinge ogni autorità ed ogni legge divina, naturale o soprannaturale (!*), per affermare la totale autonomia dell’uomo; — il liberalismo deista e razionalista, che rifiuta l’ordine soprannaturale, e con esso la religione cristiana, la Chiesa, la grazia, riconoscendo però l’esistenza di Dio e di una legge etica normativa, conoscibile con la ragione umana; — il liberalismo moderato che non nega l’ordine soprannaturale, ma ne limita le esigenze alle persone singole, non-alla vita collettiva ed agli Stati. Considera perciò la religione un semplice affare privato. Tutte queste varie forme di liberalismo filosofico negano allo spirituale ed alla Chiesa il diritto di intervenire nelle vicende temporali: la cultura radicale, a seconda delle correnti che la compongono e delle circostanze, fa riferimento all’una o all’altra forma di liberalismo. Il radicalismo dapprima separa risolutamente la morale dalla religione, affermando la verità della norma etica in forma immanente, ossia nell’uomo reso moralmente autonomo. Tende poi a concludere, per impossibilità di fondazione, nella perdita del valore morale, perché eticamente permesso diviene in sostanza ciò che a (4) Cfr. Leone XIII, Enciclica Libertas praestantissimum (1888), in I documenti sociali della Chiesa. Da Pio IX a Giovanni Paolo II (1864-1982), a

cura di R. Spiazzi, Massimo, Milano 1983.

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ciascuno piace. La cultura radicale ricusa il principio ascetico, sostituendolo con il principio individualistico e in molti casi con il principio del piacere: in essa emerge in certo modo una sorta di teologia atea della libertà senza grazia. La cultura radicale è una filosofia della finitezza, che nella dialettica tra finito e Infinito ha preso partito per il primo. La sostanziale compromissione dell’etica è carattere specifico del nuovo radicalismo, che in questo si distingue dal vecchio radicalismo, portandone a rigorosa conclusione spirito e tendenze. Il vecchio radicalismo era connotato da un anti-clericalismo, che mal mascherava un anti-cristianesimo di fondo, ma che peraltro manteneva valori etici; il nuovo lotta invece contro ogni assoluto di tipo metafisico, religioso, morale, per affermare come unico assoluto l’io individuale. Si potrebbe anche dire che il radicalismo mira ad affermare una morale senza peccato, ossia una morale vitalista, connotata dall’irrazionale insurrezione dell’istinto contro i valori. Questi, insieme con l’etica e con l’idea di peccato, sono risolti nella storicità: « Raggiungeremo una penetrazione più pro-

fonda dei problemi, se potremo dimostrare che la moralità e l’etica sono condizionate da certe situazioni definite e che concetti fondamentali quali il dovere, la colpa e il peccato non sono sempre esistiti, ma hanno fatto la loro apparizione come corollati di situazioni sociali determinate » (5). Il radicalismo appare perciò come una forma di storicismo etico. La cultura radicale si presenta come fondamentalmente atea, piuttosto che come semplicemente anticlericale: Dio non c’è più perché è stato soppiantato dall’uomo, che ha rivendicato un’assoluta autonomia. Naturalmente vi è stato anche un esito ateo di vari altri filoni della cultura borghese e della cultura rivoluzionaria. Peraltro la cultura radicale, in quanto post-borghese e post-rivoluzionaria, è a titolo speciale post-cristiana, in quanto si installa succedendo a prassi e stili umani che già da lungo tempo hanno fatto a meno di Dio. Dire che l’universo della cultura radicale è fondamentalmente ateo, significa che tutti i rapporti sono ormai sovvertiti. Tutto appare come prima ma tutto è profondamente cambiato, perché considerato secondo un centro di prospettiva infinitamente diver(5) Cfr. K. Mannheim, Idéologie et utopie, Rivière, Paris 1956, p. 81.

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so: tutti i rapporti subiscono un immoto spostamento, e l’universo appare ormai secondo molteplici punti di fuga. Caduto il centro trascendente di prospettiva, non vi è ragione per preferire questo o quel nuovo centro di prospettiva: il mondo, traguardato attraverso una pluralità di punti di prospettiva tra di loro irrelati, appare una molteplicità sconnessa. Una infinità di punti di prospettiva comporta un'infinità di possibili significati e quindi in realtà nessun significato. Nell’universo radicale, privo ormai di baricentro, ogni parte tende ad affermarsi contro le altre, richiamandosi a frammenti di valori che vogliono imporsi come assoluti. La metafisica della cultura radicale è il pluralismo e la molteplicità pura, in cui ogni senso viene sbriciolato. La società radicale rappresenta perciò uno dei pochi esempi di società che non nasce dal grembo di una religione, ma dalla lotta contro di essa. Il problema che il radicalismo pone non è quello del rapporto tra religione ed emancipazione politica, anche se spesso ama avanzarlo in tale guisa, ma il problema della relazione tra religione e emancipazione umana. Secondo la profonda essenza della cultura radicale, la religione, quella cristiana in special modo, è nemica dell’emancipazione dell’uomo. Il radicalismo pone dunque una scissione tra l’essenza universale dell’uomo e l’essenza della religione, in particolare l’essenza del cristianesimo: per acquisire il suo pieno statuto di cittadino e la forma di uomzo universale il credente deve sacrificare la propria fede. Di fronte alle due generali forme dell’ateismo moderno: quella romantica secondo cui l’uomo vuole essere Dio e sostituirsi a Lui; e quella illuministica che rifiuta Dio perché all’uomo basta la realtà mondana, il radicalismo sceglie la seconda. Anche sotto tale aspetto, la società radicale vive una dimensione totalmente antiromantica, priva di ogni sentimento della comunità e negatrice

della « bella armonia » e della « comunicazione » dell’uomo nel cosmo secondo la concezione romantica. La cultura radicale non nega la libertà religiosa, ma la intende in modo limitativo e errato, restringendo la religione e il suo influsso nell’ambito privato, e vedendo nella coesistenza delle diverse fedi una sorta di libero mercato competitivo delle varie religioni tra di loro. Non viene perciò colta l'essenza del fatto religioso.

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Ostile alle religioni rivelate, la cultura radicale finisce per spazzare via anche le religioni civili o politiche, che costituiscono uno dei più potenti mezzi di integrazione simbolica di un popolo (!9). Si sa che è stato Rousseau a parlare della religione civile e della struttura dogmatica che anch’essa possiede. Nel Contratto sociale vengono enumerate le quattro verità fondamentali della religione civile: l’esistenza dell’Onnipotente; la Sua provvidenza, che abbraccia tutti; la vita futura; il premio per i giusti e la punizione per gli empi. In misura in certo modo indipendente dallo stato di salute della fede soprannaturale, la religione civile può produrre una forma di integrazione sociale del popolo. Ad esempio negli Stati Uniti è tutt'ora forte l'impatto di una forma di religione civile che ha il suo Esodo (i Padri Pellegrini), i suoi profeti (i fondatori e i primi grandi capi), i suoi martiri (Lincoln, Kennedy, etc.), i suoi luoghi di culto, le sue virtù, i suoi giorni festivi, le sue memorie, le sue epopee: religione civile che non è né cristiana né ebrea, ma che è comunque capace di mobilitare con i propri sim-

boli la nazione, come ad esempio il simbolo della nuova frontiera proposto dal Presidente Kennedy. Anche in Italia vi è stata in passato una qualche forma di religione civile, soprattutto nel periodo del Risorgimento e poi durante la Resistenza: ma nella società radicale, fondata sul principio utilitaristico, ogni forma di religione civile si spenge progressivamente. Il successo della cultura radicale proviene dal fatto che esprime la condizione etica reale di larghi strati dell'umanità europea; il radicalismo si incontra quasi alla perfezione con la disgregata condizione dell’uomo di oggi, che aspira ad una liberazione immediata. Nella diagnosi spirituale portata sul radicalismo si mostra una volta di più la strettissima solidarietà tra Dio e l’uomo: l’uomo non è più se stesso, se in lui si oscura l’immagine divina: Dio si nasconde e « scompare » dalla scena del mondo quando l’uomo declina dalla verità del suo essere. Nella società contemporanea non si riscontra soltanto un’estensione senza precedenti del fenomeno dell’ateismo, ma anche una crescente perdita di quel senso « religioso », di quel senso sacrale della vita, di quel rispetto per (5) Sul tema della religione civile, cfr. R. Bellah, Civil Religion in America, Daedalus 1967.

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essa che talune forme di ateismo pure conservavano. Ecco un aspetto che i filosofi atei non avevano previsto: essi pensavano ad un futuro in cui l’uomo, eliminata per sempre la presenza di Dio, avrebbe riccamente fruito dello sviluppo libero e indefinito della sua umanità, avrebbe pienamente goduto il senso autentico della vita. In realtà oggi l’uomo vive, nell’assenza di Dio, la propria vita come insignificante. La prassi cristiana di fronte alla cultura radicale

La cultura radicale, presentandosi come una drastica opera di banalizzazione e di distruzione, comporta anche una sorta di potatura e di pulizia, che potrebbe forse preludere ad una riproposizione di valori non mistificati. Può forse capitare in un futuro più o meno lontano, qualcosa di analogo a quanto successe nel secolo scorso nei confronti dell’ideologia cristiano-borghese, fondata sulle teodicee delle armonie prestabilite tra profitto individuale e benessere sociale, sul dogma del peccato originale interpretato come conferma dello status quo e come impossibilità di superamento dello sfruttamento borghese, sulla legge naturale falsamente intesa come consacrazione di un determinato ordine sociale. Come le critiche portate a quell’ideologia hanno permesso al pensiero metafisico e religioso di riconquistare con maggior fulgore il vero significato della carità evangelica, della legge naturale, del peccato originale, così può darsi che l’opera sostanzialmente decostruente della cultura radicale apra taluni spazi per una ripresa di valori umani e cristiani. Nel confronto serrato con la cultura e la società radicali, il cristiano non cerca avversari da umiliare, ma verità e valori da servire. I caratteri che costituiscono la ragione illuministica, quali la perdita della tradizione, la crisi dell’idea di autorità, la riduzione della religione a religiosità privata, la scomparsa del senso e della razionalità metafisica, sono penetrati anche nella prassi cristiana contemporanea e si sono installati in vari aspetti della ragione teologica. Come al tempo dell’illuminismo il soggetto borghese è stato introiettato nella prassi e nella teologia cristiane (!), la comunità () Cfr. J.B. Metz, La fede nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978, pp. 35-53.

TIZ

cristiana corre oggi analogo rischio di portare al proprio interno il concetto astratto e astorico di libertà e di individualismo della cultura radicale. Per reagire alla minaccia di soffocamento a cui la sottopone la prassi radicale, la comunità cristiana dovrà sormontate il complesso di privatizzazione e sviluppare una critica teologica della religione borghese e della identificazione tra soggetto religioso e soggetto borghese, senza di cui rischia di rimanere subalterna rispetto all'avversario. Dovrà inoltre superare la dicotomia pubblico-privato attraverso forme di mediazione sociale del cristianesimo, capaci di ricostruire esperienze di comunità e ambiti umani di vita. Bisognerà meglio comprendere che la fede non si proietta su soggetti individuali e sociali totalmente costituiti, ma che crea nuove soggettività ed un popolo. Espellendo dal proprio interno il lato oscuro della soggettività radicale e opponendosi alla riduzione individualistica del soggetto e della storia, la vita cristiana potrà meglio cogliere il senso del destino umano, l’esperienza del patire, del formarsi di una identità di popolo, il valore delle esperienze organiche di comunità e la destinazione ultima della persona alla contemplazione della verità. In effetti nel rifiuto della preghiera sta la sorgente della spersonalizzazione dell’individuo, poiché solo nell’atto interiore di orazione e di contemplazione l’uomo diviene veramente soggetto e persona. La scissione tra uomo e uomo, e il nichilismo, che la società radicale genera come prodotti normali del suo funzionamento, non possono essere superati dalle culture laiciste né riconciliati a basso prezzo. Solo una fede soprannaturale e una cultura aperta alla trascendenza possono liberare l’uomo da quella distruzione naturalista della natura, che è l’esito del radicalismo. POLITICA, SOCIETÀ

E DIRITTO NEL PROGETTO

RADICALE

Il progetto radicale, come quello tecnocratico, è uno dei principali esiti di quella serie di spostamenti di centri di prospettiva che la cultura europea ha compiuto dal ’500 ad oggi, dopo aver abbandonato il primitivo riferimento teologico. Il punto di approdo della forma radicale è il dominio della sensazione pura. Tale processo produce effetti dirompenti sul politico. Mentre con i pre118

cedenti centri di riferimento era aperta la strada per cogliere in modo non distorsivo le realtà politiche, quando si entra nel campo dell'economia pura e più ancora della sensazione pura, questo non è più possibile. Nella cultura radicale — come d’altronde in quella tecnocratica — tutto l’ambito del politico subisce uno svuotamento interno, una netta neutralizzazione.

Risolutamente attestato dentro la sfera del privato, desiderata per cercarvi il proprio interesse e voluta come chiusa ad ogni odiata universalità, l’individuo radicale vi trova ciò che desidera più di ogni altra cosa: il non-rischioso, la compiuta sicurezza, quella del benessere e quella dell’assenza di ogni coraggio, anche se poi in tale sfera si fa necessariamente avanti la paura della morte e del dolore (!5). L’individualismo e l’economismo, combinandosi, spoliticizzano la società radicale: negazione del politico — risultato di ogni coerente individualismo, per il quale l’uomo non possiede una naturale vocazione sociale e politica —, che conduce ad una prassi politica di sfiducia verso le forze politiche e lo Stato, ma che non è capace di avanzare una propria visione positiva della società e dello Stato. In effetti nella prospettiva radicale non si può a rigore né parlare di società né di Stato: la prima non è una comunità di vita animata dalla retta prassi etica delle persone e sorretta da reciproca comunicazione razionale, ma un pulviscolo di individui; il secondo possiede al massimo funzioni puramente amministrative (uno Stato dunque simile, nonostante le diverse premesse, a quello che avevano in mente Saint-Simon ed Engels). In una parola, con l’approdo alla sfera del materiale e del sensibile, il processo di banalizzazione e di svuotamento del politico raggiunge un estremo, un punto di arresto oltre il quale non è possibile andare. Fino a quando non si manifesti una svolta in forme storicamente significative, la società radicale non potrà elevarsi al livello della Koinonia politiké, e rimarrà specificata dalla sola tensione al vivere, non al ben vivere; dalla ricerca della utilità e della pura con(4) « Homines enim propter privatum amorem quem inordinate ad seipsos habent, quaerunt solum id quod est sibi ipsis bonum. Et existimant quod hoc solum oporteat unumquemque operari, quod scilicet sibi est bonum. Et ex hac opinione hominum venit quod illi soli sint prudentes qui propriis negotiis intendunt » (S. Tommaso, Ir /. Ethicorum Expositio, L. VI, lect. VII, n. 1205).

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servazione della vita sensibile, non dalla tensione ad un bene eticoumano (bonuz honestum). Il che equivale a dire che la democrazia

della società radicale, priva di valori e fini che uniscano gli uomini in comunità, è sostanzialmente anarchica.

Secondo Donoso Cortès la borghesia è « clasa discutidora », perché discute su tutto e su tutti, ma alla fine non decide mai, non prende mai partito, perché è troppo scettica per schierarsi per alcunché e per credere nella verità. La società radicale, erede della sfiducia nella verità della classe borghese e del suo eterno dibattito, finge ancora di discutere, ma tale discussione è un puro rito: in realtà nessuno vuole dialogare con nessuno, perché il dialogo suppone una ricerca comune e la comune aspettativa che qualcosa po-

trà essere trovato, che infine il dialogo possa approdare alla verità. Nella società radicale l’individuo e il cittadino tendono a scindersi. L'individuo si scopre come essere per sé, rinchiuso nella sua particolarità determinata. Incapace di elevarsi al livello dell’uomo universale, vive estraniato dalla realtà politica quale espressione dell’universale. Stato e società mancano del carattere della totalità organica:

lo Stato, interpretato come

una pura associa-

zione volontaria di individui isolati, sulla base di un consenso giuridicamente garantito, non può elevarsi al livello dell’unità organica di popolo. Nella società decadono le formazioni sociali intermedie (compresa la famiglia), che costituiscono luoghi di progressiva maturazione e arricchimento della persona: è d’altronde noto che nel Contratto sociale Rousseau, seguendo le posizioni di Hobbes, si mostra nettamente avverso ai corpi sociali intermedi secondo un’ideologia antipluralista. Al termine di questo processo rimangono soltanto quali poli estremi l’individuo da un lato e lo Stato, garante della sua libertà, dall’altro, ma non il popolo. Senza un’autocoscienza collettiva, l’interiorità di una tradizione, la continuità di una memoria e di una

cultura, gli individui non possono diventare un popolo, con un proprio destino, con una comunanza di valori etici, con un sentimento ed un impegno comuni. Sola rimane la forma esteriore e puramente sociologica della vita di popolo, nella guisa di individui sottoposti ad uguale amministrazione, ma non la sua reale esistenza collettiva: la società radicale si configura come un « popolo nonpopolo », perché è più un’addizione di individui raggruppati per 120

contiguità spaziale ed uniformità amministrativa, che un tutto derivante dalla partecipazione ad un identico bene comune. Stato e società civile entrano in rapporti analoghi a quelli della più pura tradizione liberale, secondo la quale la società civile è la sfera dei rapporti economici mediati su base individualistica attraverso il principio dello scambio degli equivalenti, e lo Stato è il garante dei rapporti spontaneamente emergenti nella società. Nella prospettiva radicale questa tendenza viene accentuata, poiché si chiede alla legge dello Stato di riconoscere semplicemente i diversi moduli e valori etici presenti nella società civile: lo Stato appare sempre più come una sovrastruttura della società civile. La sua unità è solo di tipo giuridico-formale, non etico, e si esprime al livello dell’universalità della legge e dei compiti di amministrazione del benessere materiale. Lo Stato espresso dalla società radicale è una versione estremistica dello Stato di diritto. La leva culturale della sua produzione sta in una filosofia puramente convenzionalistica e in una concezione contrattualistica della legge positiva, sganciata da quella naturale. Sotto il profilo del diritto la società radicale è il compimento di quella linea del pensiero moderno, che considera il diritto una realtà convenzionale. La legge è semplicemente l’espressione della volontà della maggioranza, mentre per la filosofia cristiana la legge « è un ordinamento della ragione in vista del bene comune, promulgata da colui cui spetta il governo della comunità » (1°). Sganciandosi dalla legge naturale e dal diritto naturale, la prassi radicale interpreta la volontà generale come volontà ponente il diritto; essa è ormai il criterio ultimo della giustizia. La giustizia è garantire ad ogni individuo gli stessi « diritti » che rivendico per me, senza che sia necessario considerare il loro contenuto etico e oggettivo: se ben si considera, un universale permesso di licenza è la condizione e il fondamento per il mio diritto. Il diritto nella società radicale

Due fondamentali istituti giuridici regolano la convivenza sociale: il contratto, ossia il consenso liberamente scambiato tra parti CS:

I IL, va

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private, che regolamenta i rapporti interindividuali; e la legge, che regolamenta i rapporti pubblico-collettivi. Il contratto, che nella società liberale di un tempo regolava soprattutto i rapporti patrimoniali, nella società radicale estende progressivamente la sua validità ai rapporti etico-umani, per tentare di porre rimedio alla dissoluzione della vita sociale. Questa figura tipica del diritto privato è la forma giuridica dominante nella società radicale: d’altronde, se gli individui sono tendenzialmente asociali, solo un contratto può tenerli insieme. Il contratto assurge a istituto genetico della vita comune, a collante della convivenza sociale: esito necessario poiché l’individuo radicale non riconosce la superiorità del bene comune su quello individuale. Nelle correnti più estreme del radicalismo, il contratto non viene inteso come un istituto che regola secondo giustizia diritti preesistenti, ma come assoluto potere convenzionale, in ultima analisi specificato da rapporti di forza. La forza vincolante del contratto risiede nella reciprocità, mentre la legge è vincolante non sulla base del principio di reciprocità, bensì in virtù del contenuto di razionalità e della volontà ponente che la dota di potere coattivo. Venuta meno la razionalità della legge e la sua ordinazione al bene comune e con ciò il suo valore etico, la legge rimane nella sua astratta universalità solo per garantire sempre maggiori spazi per l’esercizio della libertà contrattuale degli individui. La legge, pur rimanendo come norma universale, non è più capace di contrastare la frantumazione della società, e la crescente estensione dell’area di discrezionalità dell’individuo. Il punto di approdo è l'annullamento della dimensione propriamente pubblica e la riduzione del politico al privato, raggiunta sia mediante l’estensione di spazi extraistituzionali regolati da contratto, sia attraverso una concezione puramente convenzionale-contrattuale della legge. La filosofia del diritto e della sua produzione nella società radicale è dunque il decisionismo giuridico, ossia l’attribuzione di validità ad un sistema legislativo solo in virtù della sua emanazione da parte delle istanze idonee, cioè in sostanza le maggioranze parlamentari. Tale decisionismo è il risultato conseguente di un positivismo giuridico, che considera la legge non legata al diritto naturale, ma come puro prodotto dell’autorità competente: il volontarismo giuridico è l’anima del diritto radicale, la tentazione di 122

questa società. Sulla base di un approccio puramente convenzionale, il diritto è trasformato in pura legalità, mentre ne sono recise le radici etiche: nella prospettiva positivistica lo jus — che anche nell’etimo dichiara il suo collegamento con il giusto e quindi con l’etica — va identificato con la lex, che possiede solo valore formale e si forma come risultato di una decisione, in ultima analisi contrattualmente. Naturalmente anche il compito promozionale della legge, per cui Tommaso d’Aquino scriveva: « Lex necessaria est ad faciendum homines bonos », perde significato (°°). Un sistema normativo decisionistico e convenzionale in qualche modo assicura una forma di certezza della legge, anche se precaria, perché sganciata dal diritto naturale. Nelle posizioni radicali estreme, propugnanti l’etica del « tutto è permesso », la certezza della legge e la costanza del diritto sono invece compromesse. Dove tutto è permesso, nulla è veramente garantito: man mano che si estende l’area del permesso, si restringe quella del garantito, l’unica sulla quale sia possibile fondare i diritti dell’uomo. Se tutto è permesso, non ci sono obblighi, e perciò neppure diritti, perché il diritto sussiste nella misura in cui accende in altri un obbligo corrispondente. Quale è il risultato dell’afondamento della società politica implicito nel progetto radicale? È la drastica diminuzione delle possibilità di vita della persona: queste diminuiscono sia quando le sue possibilità di scelta sono fortemente limitate, sia quando sono aumentate ad un punto tale per cui ogni legame sociale, ogni nesso comunitario, entra in crisi, ed ogni valore organico della vita e della tradizione è dissolto dal prepotente emergere del costume individualista. L'ampliamento eccessivo delle opzioni produce al-

lora una reale riduzione delle possibilità di vita (?!), sì che oggi l’assenza di legami, di rapporti, di tradizioni sociali è il pericolo maggiore che si erge contro un loro effettivo e positivo sviluppo. (2°) In I. Ethicorum Expositio, n. 2154. (2!) « La distruzione delle relazioni in settori importanti di alcune società ha condotto a una riduzione della loro complessità, il che di nuovo porta ad un calo di chances di vita: scompaiono le stesse possibilità di scelta che la società moderna dovrebbe offrire a tutti... Sarebbe proprio ingiustificato tradurrte questo concetto nell’osservazione che la teoria politica della libertà si è concentrata tanto sulle possibilità di scelta umane da perdere di vista, così facendo, l’importanza dei legami e delle relazioni? » (R. Dahrendorf, La libertà che cambia, cit., p. 49 s.; cfr. anche p. 215 s.).

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In quanto sistema dell’atomistica, la società radicale richiama lo stato di natura teorizzato dal giusnaturalismo (Hobbes, Locke, Kant, Rousseau), nel quale gli individui vivevano in una condizione asociale e priva dei caratteri conciliati di una vera univer-

salità (2). È curioso notare che la società radicale rappresenta un ritorno a modelli politici che il giusnaturalismo aveva voluto superare. Dopo la rottura della società organica del medioevo, la formazione dello Stato moderno si è largamente basata su un modello duale o dicotomico del rapporto tra società civile e Stato politico: la società radicale rappresenta la caduta di tale rapporto per la sostanziale insignificanza del momento dello Stato politico. Giunge così al momento della verità, dopo una secolare dialettica, una vicenda culturale e politica che, iniziatasi nel 500 e nel

600 con una frattura rispetto al modello aristotelico dell’uomo come animale naturalmente politico, aveva voluto fondare lo Stato su un individuo asociale, che solo per contratto costituisce lo Stato (*). Quale principio d'ordine? Priva di autentico bene comune, la società radicale manca di un vero principio d’ordine. In effetti il principio dell’ordine sociale, in virtù del quale la vita socio-politica si trova rettamente ordinata, altro non è che il bene comune: esso fa dei molti un popolo ed una società (24). Studiare la società radicale alla luce della metafisica dell’ordine (2) Peraltro va considerato che l’analogia della società radicale con lo status naturae del giusnaturalismo è parziale sotto un doppio profilo. Nella società radicale permane, seppure in crisi, il momento del potere astrattamente imparziale e superiore dello Stato, assente nello stato di natura; inoltre gli individui della società radicale, pur privi dell’appetitus societatis e pur riducendo i loro rapporti a scambi interindividuali generici, dipendono reciprocamente sul piano della conservazione e riproduzione della vita, dal fatto che nasce un nesso materiale reciproco e una reciproca connessione di dipendenza. (*) Per una analisi storica e dottrinale dei modelli giusnaturalistico e hegelo-martxiano, cfr. N. Bobbio e M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979. (**) « La società ha per fine la produzione pet opera di tutti dell’integrale gerarchico bene comune — necessario alla conservazione allo sviluppo e alla perfezione umana — e l’attribuzione proporzionata d’esso a ciascuno » (G. La Pira, La nostra vocazione sociale, Ave, Roma 1964, p. 111).

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significherebbe aprire un campo di indagini nuove ed originali: avanziamone alcuni cenni. La filosofia dell'ordine insegna che è necessario considerare, ai fini della comprensione del grado d’ordine di una totalità, sia la relazione di ciascuna parte della totalità ordinata al principio ordinatore, sia la relazione delle parti tra di loro. Nelle società umane il principio ordinatore è soprattutto la giustizia, che coopera a produrre la buona vita umana dell’insieme sociale. Il disordine nasce quando il principio ordinatore non viene riconosciuto, ossia quando si vuole creare l’ordine sociale o mediante un principio d’ordine che è estraneo alla natura della società politica, oppure mediante un principio che non è veramente primo.

Ad esempio nella società liberale classica si attende l’ordine sociale dall’imparziale regola della legge (Rale of Law) e dallo spontaneo dinamismo dei meccanismi del mercato (°°): in questo caso si vuole ottenere l’ordine in base ad un principio ordinatore, quale è il meccanismo di mercato, che non è certamente primo, in quanto non adeguato alla natura essenzialmente etico-umana dei rapporti socio-politici. Nella società radicale non viene invece avanzato espressamente alcun principio ordinatore della totalità sociale. Può forse esserlo l’assoluta libertà dell’individuo-monade? È notevole che la società radicale, sostanzialmente impregnata di eudaimonismo individualistico, si avvicini alle convinzioni liberali, postulando una sorta di mano invisibile, di armonia prestabilita, che creerebbe il massimo bene generale in conseguenza di una decisa ricerca individuale del possesso e della felicità. TRADIZIONE

E MEMORIA

Per molto tempo l’educazione fu un processo nel quale le nuove generazioni venivano inserite fecondamente nella storia della tradizione umana per essere formate a divenire uomini. Questo mo(#) «Il concetto centrale del liberalismo è che sotto l’applicazione di regole universali di giusta condotta, che proteggono un riconoscibile dominio privato degli individui, si formerà spontaneamente un ordine delle attività umane di complessità molto maggiore di quello che potrebbe essere mai prodotto da scelte deliberate » (F.A. Hayek, cif., p. 162).

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dello veniva anche a significare che la tradizione ed il suo contenuto etico sono forze sostanziali della società umana. La cultura radicale rifiuta invece la tradizione, ed è indifferente alla memoria storica, al ricordo di eventi passati, che contribuiscono a costituire il nostro presente. Essa conserva la storia solo come storiografia del passato, come « scienza », ma declassa la storia come memoria e tradizione vivente di una prassi passata che continua. Censurando il ricordo, la cultura radicale cade nell’identico e toglie una delle energie fondamentali di ogni processo di liberazione. Uomini e popoli senza tradizione e senza memoria storica sono destinati alla fine: « la reintegrazione del ricordo nei suoi diritti, e il ricordo come strumento di liberazione, è uno dei compiti più nobili del pensiero » (Marcuse). Là dove non c’è alcuna tradizione, ivi comincia il tempo della povertà e il cammino verso la disumanità. La società totalitaria incomincia quando si sottrae all’uomo il suo patrimonio di memorie e di esperienze del passato; quando la tradizione perde la sua capacità di guidare l’azione e di formare nuove soggettività personali e collettive, per divenire puro e semplice oggetto di ricerca erudita. La tradizione e il passato sono conservati nella cultura radicale solo in forma negativa, cioè solo come sottoprodotti negati dell’idea di progresso, che rappresenta uno dei postulati di base di tale cultura. L’idea di progresso può e deve valere non solo per la realtà tecnica e scientifica, ma anche per la realtà umana, sociale e politica: l'umanità è in costante movimento verso il meglio, e sono le forze oscurantiste ad opporsi al progresso. Ne viene la necessità della critica ai valori tradizionali, e la convinzione che il legame col passato sia un male. Sebbene progressista, la cultura radicale non è rivoluzionaria: la sua parola chiave è « progresso », non « rivoluzione ». È dunque un pensiero riformista, laicista, centrato su una critica più etico-culturale che economica della condizione umana e sociale. È perciò un pensiero non marxista (anche se si incontra con il marxismo nel convergente rifiuto della concezione cristiana dell’uomo) e che raggiunge il suo momento più incisivo nel sovvertimento di determinati rapporti etici, soprattutto in campo sessuale.

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RADICALISMO

E MARXISMO

La cultura marxista e la prassi delle masse comuniste dei Paesi occidentali sembrano oggi patire progressivamente l’influsso della cultura radicale. Una delle principali ragioni è che marxismo e comunismo vanno vieppiù perdendo negli intellettuali e nelle masse il loro carattere di religione atea, tutta protesa a costruire il regno dell’uomo, per assumere connotati ben diversi e meno « nobili ». Il marxismo raggiunge la sua forma di « religiosità » nell’affermazione atea, ma quando il suo antiteismo militante scema, alla attenuazione del momento ateo consegue l’attenuazione della tensione etica e « religiosa », e dell’istanza rivoluzionaria: in tali condizioni le masse comuniste sono aperte a soggiacere all’influenza della cultura radicale. Consideriamone più a fondo le ragioni. La rivoluzione marxista, come rivoluzione mondiale, è già avvenuta ed è sostanzialmente fallita. Fallita, si intende, non sul piano dei rapporti di potenza (dove anzi il blocco comunista segna vari punti a suo vantaggio), bensì come rivoluzione che possa instaurare un nuovo tipo di civiltà: anzi in vari Paesi l’azione comunista si configura come un catalizzatore del consolidamento dell’ideologia borghese. In effetti il comunismo non è in grado di difendersi dall’egemonia dell’etica radicale, poiché anch’esso è materialista, ed in periodi di crisi della condizione umana come gli attuali, il materialismo individualista, naturalista e antiascetico prevale su quello collettivo e storicista. La logica inglobante della posizione radicale e di quella comunista è il materialismo, è l’orizzonte antimetafisico, nei cui confronti esse sono solo momenti. L’evoluzione di larghe masse dei paesi del socialismo reale verso il benessere, il consumo, l’illimitata libertà sessuale pare riprodurre moduli tipici del consumismo e del radicalismo occidentali. Sono noti l’atteggiamento spiccatamente anti-moderno e lo schema anti-borghese della filosofia cattolica dell’età della Restaurazione; si sa anche che alcuni elementi della polemica anti-borghese cattolica (ad esempio di De Maistre, di De Bonald, del primo Lamennais) sono passati nel pensiero di Marx e del marxismo. Nel momento in cui la critica anti-borghese del comunismo si attenua o sparisce sostanzialmente, e ad essa subentra una acquiescenza ai moduli etici radicali, il comunismo si distacca dalle sue origini e 120)

perde molte delle sue ragioni d’essere. Il vero problema di oggi non è di rendere scientifica la critica della società radicale attraverso il marxismo — analogamente a quanto ad esempio pensavano negli anni ’40 taluni gruppi di cattolici comunisti convinti che bisognasse rendere scientifica attraverso l’analisi marxista la critica cattolica della società borghese —, ma di rendere vera la critica della società radicale basandola su una filosofia teista e personalistacomunitaria. IL PARTITO

RADICALE

ITALIANO

Si è già rilevato che la cultura radicale copre un’area sociale ben più vasta di quella raggiunta dal Partito Radicale Italiano (Pr), il quale è soltanto una delle numerose zone di aggregazione ed espressione della cultura radicale. Non è peraltro inutile soffermarsi brevemente sulla vicenda del Pr, anche se al di là della cronaca politica, poche o nulle sono sinora state le riflessioni d’insieme su di esso (°°). Prima di inoltrarci nell’analisi, va avvertito che sarebbe sbagliato operare una sorta di identificazione tra cultura radicale e Pr. Indubbiamente c’è un influsso delle forme culturali sulle scelte partitiche, ma è altrettanto vero che non c’è un meccanico trasferimento tra una specifica concezione dell’uomo e strategie partitiche. Se ci riferiamo al Pr è perché si è fatto promotore di battaglie politiche e civili, parte almeno delle quali venivano giustificate con argomenti tratti dal radicalismo cultural-filosofico. Va infine aggiunto che vari aspetti dell’azione del Pr — la critica del militarismo, della corsa agli armamenti, la richiesta di una maggiore moralità pubblica e di una maggiore attenzione dell’Italia per il problema della fame e del sottosviluppo — meritano attenta considerazione. Il primo Partito Radicale nasce nel dicembre 1955 quale risultato della scissione delle correnti di sinistra del Partito Liberale: vi confluiscono anche ex azionisti, come Leo Valiani e Guido Calogero, collaboratori del « Mondo », intellettuali e giornalisti del(*) Non sfugge a questa regola neppure il volume I nuovi radicali, di M. Teodori, P. Ignazi, A. Panebianco, Mondadori Editore, Milano 1977, a ulteriore testimonianza della difficoltà che incontra il radicalismo attuale ad approfondire i propri motivi e le proprie origini.

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l’area laica, universitari dell’UGI (Unione Goliardica Italiana). Tra i maggiorenti del partito figurano Nicolò Carandini, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Bruno Villabruna, Eugenio Scalfari, Leone Cattani, etc. Il primo Partito Radicale, che contava un limitatissimo numero di iscritti, si spenge nel 1962; alla fine dello stesso anno nasce il nuovo ed attuale Pr presieduto da Elio Vittorini, e di cui presto sarà segretario Marco Pannella. Gli antenati politici e culturali del Pr, identificabili nel Partito di Azione, nel movimento « Giustizia e libertà », nella « Rivoluzione liberale » di Gobetti, ne fanno un partito di sinistra laica non marxista, espressione, particolarmente all’inizio, di gruppi di intellettuali, senza un riferimento alla classe operaia, e animato da un anti-clericalismo attivo, che è anche sotto vari profili un vero e proprio anti-cattolicesimo (”°). Nei radicali la componente libertaria prevale fortemente su quella liberale e la contestazione sul rinnovamento graduale. Il Pr afferma un netto primato della politica e la necessità dell’azione: esso pone i problemi civili prima di quelli economici, i morali prima dei tecnici, le questioni ideali prima degli schieramenti. È perciò un partito di opinione, di mobilitazione e di progetto, non di interessi, un partito-movimento che raccoglie consensi su battaglie di opinione. « Per molti aspetti dunque la loro [dei radicali] vicenda appare più facilmente interpretabile con categorie storiografiche « etico-politiche » che con quelle adatte ad affrontare piuttosto lo studio di conflitti esistenti nel terreno sociale [...] » (2°). Inoltre il Pr, nei cui inizi ha pesato un particolare ceto politico di intellettuali, è partito a scatsa organizzazione, senza quella burocrazia dei funzionari tipica ad esempio del PCI. La sua strategia consiste non nell’operare mediazioni politiche, ma nel riversare direttamente sul sistema politico il peso dei desideri e delle proteste di varie parti della società civile, venendo anche ad assumerne la rappresentanza: in tale processo ciò che (?) I nemici principali del Pr sono la « morale repressiva e sessuofobica della Chiesa cristiana da una parte e lo sfruttamento illimitato del neo-capitalismo dall’altra » (« Prefazione » di Adele Faccio a: G. Aghina e C. Jaccarino, Storia del Partito Radicale, Gammalibri, Milano 1977, p. 13). Di fatto poi, la lotta del Pr allo « sfruttamento neo-capitalistico » è sinora risultata quanto mai debole ed episodica, mentre la sua azione si è concentrata su temi schiettamente etico-politici. (#) Cfr. M. Teodori, cif., p. 202.

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più conta non è soltanto la rappresentazione al sistema politico di questa o quella situazione social-civile, quanto la sua assunzione in una prospettiva di individualismo, di libertarismo, di tendenziale rottura di collaudati comportamenti etici. Questo momento, nel quale si innesta la lettura e l’interpretazione in chiave di cultura radicale, è il perno di tutta l'operazione. Per quanto il radicalismo non sia rivoluzionario in senso marxista, non sono in esso

assenti spinte al mutamento: non le grandi strutture socio-politiche, ma la quotidianità della vita è l’oggetto proprio della strategia radicale, che vuole portare la rivoluzione nella vita di tutti i giorni, più che nella grande politica. L’insistenza sui temi della sessualità e del desiderio è rivelativa. Il metodo costante del Pr è l’appello alla società civile, la volontà di darle espressione e di mettere conseguentemente sotto accusa la qualità della rappresentanza politica esercitata dai grandi partiti. Facendo leva sulle contraddizioni etico-umane della società civile, che i grandi partiti, i gruppi culturali e religiosi o non avvertono o non riescono a risolvere, il Pr occupa uno spazio di azione tanto maggiore quanto più incontra la latitanza o l’inefficienza di altre espressioni politiche e sociali. Ma se non riusciranno a delineare meglio il loro progetto politico, i radicali si troveranno presto costretti a sposare ogni tipo di richiesta, anche le più dissennate, provenienti da gruppi della società civile, rischieranno perciò di essere nulla più che la cassa di risonanza e lo specchio della crescente disgregazione del Paese. Già adesso cominciano ad emergere i limiti dell’azione del Pr che non sono principalmente organizzativi, bensì di tipo culturale: via via che il partito si amplia finisce per far proprie tutte le battaglie, mentre in esso confluiscono persone e gruppi estremamente vari, che non possiedono più l’omogeneità culturale dei primi militanti. Di fronte a tale situazione probabilmente non gioverà molto ricorrere al metodo finora largamente collaudato dai radicali: ossia alla costante drammatizzazione delle scelte, degli obiettivi e della lotta per raggiungerli, e alla spasmodica concentrazione su pochi problemi, al limite su un problema per volta. Atteggiamento nel quale si rivela un’ulteriore differenza rispetto al comunismo portato da sempre al totalismo ed alla riforma complessiva. Il Pr ritiene invece di raggiungere meno difficilmente i propri obiettivi non proponendosi palingenesi rivoluzionarie, bensì organizzando 130

volta per volta la protesta di vari strati della popolazione, su specifici problemi etico-civili: il femminismo, il divorzio, l’aborto, l’omosessualità, la liberalizzazione delle droghe leggere, l’anti-militarismo, i carcerati, ecc. Attualmente il Pr (anche se probabilmente ha già toccato il tetto) ha un peso culturale e di opinione maggiore di quanto dovrebbe provenirgli dalla sua consistenza numerica. Merita infine sottolineare che un motivo del successo dei radicali sta nel loro atteggiamento anti-eroico, anti-ascetico, in una concezione del lavoro come qualcosa di libero, creativo e festoso, ossia in una idea ludica dell’esistenza (?). ISTANZE

ESISTENZIALI

NELLA SOCIETA

RADICALE

L’esito etico del radicalismo è una forma di nichilismo e di perdita di senso, spesso efficacemente mascherati sotto un libertarismo chiassoso ed edonista. Risolvendo i valori ideali ed intelligibili nel sensibile, la cultura radicale si palesa come anticristiana e antiplatonica; essa si presenta come un risultato di dottrine e di stili di vita che risalgono nelle loro origini ad un passato lontano, e che sono state via via introiettate più o meno consapevolmente da ampie masse umane. L’immagine di uomo che in esse si diffonde non rivela la tensione eroica alla santità cristiana, né il composto equilibrio dell’umanesimo classico. Questo approdo si è via via formato nella cultura, prima di diffondersi da lì in tutta la società. Sono già state sottolineate le responsabilità di vari filoni della cultura borghese (°°). (2) Cfr. ad esempio quanto scrive Pannella: « L'etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenta mi ha semplicemente rotto le balle; come al buon “padre di famiglia”, al compagno chiedo una cosa prima di ogni altra: di vivere ed essere felice » (« Prefazione » al libro ei a pugno chiuso! di A. Valcarenghi, citato da Aghina e Jaccarino, Storia..., cit., . 83). < (*) All’inizio del secolo Ch. Péguy aveva espresso in termini molto duri le responsabilità borghesi: « Non si saprebbe ripeterlo troppo. Tutto il male è venuto dalla borghesia. Tutta l’aberrazione, tutto il crimine. È la borghesia capitalista che ha infettato il popolo. E l’ha precisamente infettato di spirito borghese e capitalista » (L’Argert, in Oeuvres en prose (1909-1914), Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1957, p. 1054). L’accusa di Péguy è ripresa anche in altre opere: « La nostra tesi era edè invece cheè la borghesia, il borghesismo, il capitalismo borghese che distrugge la nazione e il popolo [...] i borghesi e i capitalisti han cessato di compiere la loro funzione

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Di fronte alla cultura radicale ed al suo materialismo rimangono, come scelte positive, solo il cristianesimo esplicito, o, in via subor-

dinata, il cristianesimo secolarizzato che si esprime oggi in talune (poche, per la verità) correnti dell’umanesimo laico positivo. Esso peraltro è una posizione instabile, che per lo più cede alla prospettiva nichilista in quanto, sottraendo via via valori alla custodia del cristianesimo con l’intenzione di renderli pienamente « laici », non li sa poi più difendere da solo.

Il problema della cultura radicale si inserisce come importante capitolo della grande questione dei rapporti tra cristianesimo e modernità. È innegabile che la tradizione ebraico-cristiana ha esercitato, nelle forme e attraverso i canali più vari, un consistente

influsso positivo sulla società moderna e sulla « ragione laica » che pretendeva guidarla.-Con lo scorrere del tempo questo influsso è progressivamente assottigliato: varie correnti sociali e culturali hanno tagliato i ponti con il cristianesimo esplicito, cercando altrove i motivi del loro agire e della loro visione del mondo. Tra i vari esiti della cultura moderna, di cui alcuni possono ricollegarsi all’evento cristiano, il radicalismo fa parte di quelli che hanno consumato uno scisma rispetto alla matrice ebraico-cristiana. Esso punta tutto sull’individuo, ma non sull’individuo

quale monade razionale, segnato nella sua essenza da libertà ed autocoscienza, la cui orgogliosa immagine veniva rappresentata nelle grandi metafisiche razionalistiche del ’600 e del ’700, ma sull’individuo casuale in balìa di istinti e di desideri, che sembra aver ormai abbandonato la dimensione della coscienza e della ragione, per far emergere come assoluto il momento sessuale e desiderante del vivere. Prospettiva che si impernia sulla rivoluzione del quotidiano, di cui si è detto, e che proietta sulla vita sociale, in particolare sulla politica, una luce di estraneità e di irrazionalità. Da qui scaturiscono quelle dichiarazioni di assoluta irrazionalità della politica, dell’autorità, del potere, visti come pure manifestazioni di violenza, che provengono dall’area dell’« autonomia ». sociale prima degli operai [...]. Di fatto è avvenuto che una smoralizzazione del mondo borghese, in campo economico, in campo industriale, e in ogni altro campo, sul piano del lavoro e su ogni altro piano, scendendo via via, ha smoralizzato il mondo operaio, e così tutta la società, tutta l’umanità » (La nostra giovinezza, Studium, Roma 1947, p. 92 e p. 103).

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La forza egemonica di massa della proposta radicale — che trova i propri « intellettuali organici » in vari ambiti della stampa e dei « mass-media », nell’estendersi dell’uso della droga, nel libertarismo sessuale, ecc. — soppianta quel consenso egemonico che il PCI ha per decenni cercato di costruire sulla scorta della lezione di Gramsci. Secondo moduli insospettati, l’eredità della rivoluzione borghese non passa al PCI, bensì al radicalismo. Quali sono le prospettive di evoluzione e di durata della cultura e della società radicali? Va dapprima notato che esse non sono oggi in grado di aprire epoche nuove e nuovi fronti di lotta per cui valga la pena di impegnarsi, perché non sembrano più capaci di accendere entusiasmi o di scaldare i cuori e le menti. Ma per rispondere alla domanda sollevata, dobbiamo avanzare uno schema di interpretazione di vari aspetti delle contemporanee società del benessere. Esse hanno come punto di riferimento per la propria produzione e organizzazione il pieno soddisfacimento dei bisogni determinati dalla natura. Acquista perciò dominante importanza il meccanismo dello scambio, che peraltro può soddisfare solo quei bisogni che sono a contenuto economico-materiale. La forma dello Stato evolve da puro e semplice Stato di diritto verso lo Stato-sicurezza, che assicura un ampio godimento di beni materiali agli individui, ma che non è in grado di compiere una vera emancipazione umana. In effetti la struttura sociale e le forme della produzione risultano complessivamente idonee a garantire il soddisfacimento dei bisogni determinati dalla natura, ma non quello delle illimitate esigenze create dalla cultura, dal desiderio, dalla ricerca di beni umani e di valori etici. L'organizzazione della società, largamente basata sullo scambio, è in difficoltà a provvedere alla distribuzione di beni non materiali quali la solidarietà, l'amicizia, la speranza, che non possono essere ottenuti mediante lo scambio economico. Di fronte a questa situazione le varie culture propongono le loro diagnosi e le loro terapie. La cultura radicale può per certi aspetti essere interpretata come una reazione alle angustie del produttivismo, ed un tentativo di assegnare rilievo ai temi della vita quotidiana e della vita civile, nei quali la persona umana è più profondamente impegnata: l’amore, la sessualità, il rapporto di coppia, il tempo libero, la famiglia, la maternità, ecc. Purtroppo la

sua risposta non è all’altezza dei problemi, perché si basa su as133

sunti dottrinali che ignorano o sottovalutano molti aspetti della vita della persona e dei beni di cui ha bisogno. Per questo e per altri motivi, tra cui la critica della tradizione, di cui non si coglie il valore umanizzante, vengono recisi i legami sociali e compromesse le comunità naturali dove matura la persona. Rimane tuttavia che taluni filoni culturali e taluni settori sociali, particolarmente giovanili, vanno oggi rapidamente allontanandosi dall’economismo. Il rapporto sociale fondamentale non è più considerato il rapporto di produzione od il rapporto economico, ma il rapporto che unisce un uomo ad un altro uomo: « Tutta la distinzione delle sovrastrutture come l’ha fatta Marx è un bel lavoro, ma è interamente falso, perché il rapporto primo, da uomo a uomo, è tutt’altra cosa ed è quanto dobbiamo trovare nell’ora attuale » (3). Sembra dunque che possa prevedersi una evoluzione di taluni strati della società attuale verso una nuova forma di esistenziali smo, nella quale la questione etica, prima ancora di quella religiosa, potrebbe profondamente risuonare in questi gruppi: che senso e che fine ha l’agire? Quale speranza lo anima? Se si andasse verso una riscoperta della vita etica della persona, il fare ed i momenti produttivi assumerebbero minore importanza del momento dell’agire morale e di quello della comunicazione personale e sociale. La coscienza morale si porrebbe come coscienza dell’altro e per l’altro, dell’altro non come nemico, bensì come presenza aperta. Su tale base i settori della società che si richiamano alla cultura radicale potrebbero forse aprirsi ad una più vera idea di uomo. Il che però richiederebbe il cambiamento dei suoi assunti dottrinali, tra cui quello che la religione sia nemica dell’emancipazione umana.

(*) J.P. Sartre, « Intervista con B. Lévy », in Nouvel Observateur,

17 e 24 marzo 1980.

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10,

Capitolo quinto Probiemi di base. Sguardi sul progetto moderno

Gli spunti di diagnosi svolti nei capitoli precedenti invitano a porre la domanda sul destino delle prospettive tecnocratica e radicale: questione delicata, che non può avere una risposta precisa, anche se qualche considerazione può essere avanzata. I due progetti, che dipendono da presupposti ideali e antropologici assai diversi, che si esprimono in differenti concezioni della società e del suo rapporto con l’individuo, dovranno trovare il modo di convivere. Non sono infatti prevedibili a breve termine cambiamenti profondi dei modelli di comportamento, poiché le correnti culturali ed i soggetti storici che potrebbero attivarli non raggiungono la « massa critica ». La convivenza tra i due progetti egemoni si esprime in una sorta di condominio

con ripartizione

delle sfere di influenza. Da un lato viene diffuso il modello antropologico dell’uomo produttore, che si esprime nel lavoro e nella dominazione della natura, cioè secondo uno schema a rilevanza più pubblica e collettiva che privata. Nei comportamenti etici individuali del privato ci si ispira alla morale radicale. Il produttivismo prometeico e il libertarismo individualista trovano così un reciproco modus vivendi. L’evoluzione futura della società tecnocratico-consumistica e radicale largamente dipenderà da quale forma di felicità sarà in grado di offrire. Si è già affermato che la felicità dipende da una prassi in cui si dispiega secondo verità e virtù l’attività dell’anima, e che dà luogo ad una durevole condizione di vita gioiosa. La gioia scaturisce necessariamente quale evento concomitante di un’azione perfetta, ossia di un’azione giunta al proprio compimento secondo la sua legge. Vita felice è quella che, raffrenando il desiderio, sussiste ferma in se stessa, matura nelle virtù cardinali e in sapienza, tutto volgendo ad una retta prassi di libertà.

Il produttivismo ed il consumismo cercano la felicità nel campo del fare (produrre e consumare), il radicalismo nella libera135

zione degli istinti e nello scatenamento del desiderio. Ma dal consumo può venire solo il piacere limitato, transeunte e particolare che accompagna il soddisfacimento del bisogno, non la gioia; dalla produzione essenzialmente ripetitiva solo monotonia; dalla liberazione degli istinti qualcosa che può procurare piacere, ma non felicità. Se, come largamente avviene nei progetti discussi, la vita etica della persona è censurata, l'individuo non raggiunge più il bene e la felicità: il piacere non è preambolo della gioia, ma rimane chiuso in sé come rimozione del dolore e come soddisfacimento di un bisogno. Offuscata la dimensione etica, la vita si concentra nel livello prettamente sensibile di stimoli perpetuamente risorgenti dopo il loro soddisfacimento; il che rende difficoltosa la comunicazione razionale, il riconoscimento reciproco tra le persone. Il piacere ed il bisogno rimangono eventi individuali, dai quali normalmente non scaturisce un momento di comunione, anche perché vengono vissuti in maniera solipsistica: anche l’acquietamento del bisogno, per manifestare le sue potenzialità politiche, deve inserirsi in un agire intersoggettivo dotato di razionalità e comunicativo, altrimenti rimane evento muto.

Inoltre il piacere proveniente dal bisogno soddisfatto —

quale

il bere, il mangiare, il dormire, il procreare, etc. — è rigorosamente determinato secondo la sua specie: il piacere del bere non è quello del dormire, e ciascuno è un piacere limitato e particolare, che oltre una cetta soglia può generare assuefazione e anche noia. Perciò in una società che non sospetta l’esistenza della felicità legata all’agire etico-razionale, ma coglie solo la dialettica bisognosoddisfacimento-piacere, lo spirito, distolto dalla sua regione, si esercita a inventare, trasferendo sul sensibile e sull’istinto la sua infinità, sempre nuovi stimoli e nuovi bisogni « artificiali ». Si sa

che il consumismo si regge sull’invenzione e sull’imposizione di bisogni superflui. Ne viene che l’organizzazione sociale, sulla scorta della convinzione che la felicità sia raggiungibile mediante copertura dei bisogni materiali, si configura come pianificazione intesa a massimizzare la produzione per il soddisfacimento dei nuovi e vecchi bisogni. Invece di liberare l’uomo, lo rende più dipendente dai bisogni artificiali, più desiderante e meno capace di bastare a se stesso; lontano dunque da quell’ideale di vita « autarchica » o autosufficiente, che, soddisfatti con frugalità i bisogni essenziali, si volge a crescere in libertà e conoscenza. Inoltre l’intera vita so136

ciale viene curvata verso il livello materiale, sensibile e biologico, il che rende più difficile prospettare forme culturali e politiche attente a temi diversi da quello della pura conservazione della vita. SOCIETA

E STATO

Le prospettive etico-politiche a cui si è fatto riferimento, pur nella loro estrema diversità, hanno complessivamente in comune un atteggiamento di avversione, o quanto meno di indifferenza, nei confronti dello Stato, che spesso è una conseguenza della loro ridotta considerazione della politica. A differenza della forma cristiano-democratica, a cui sarà dedicato il prossimo capitolo, che non sopravvaluta ma neppure annulla lo Stato, quelle prospettive si appoggiano a filosofie della storia, più o meno sviluppate, che interpretano il divenire storico come un processo verso una futura società senza Stato. Si separano perciò risolutamente dallo Stato-ragione di Hegel, dallo Stato considerato come il razionale in sé e per sé; come anche dalle concezioni dello Stato delle correnti socialdemocratiche e liberaldemocratiche. Tutte quelle prospettive o hanno una dottrina dello Stato poco sviluppata, oppure non l’hanno affatto, perché considerano lo Stato una realtà destinata a scomparire: differiscono invece tra di loro, e talvolta profondamente, a livello di teoria della società, sebbene pensino tutte

che la soluzione dei problemi della vita associata va cercata nel sistema sociale più che in quello politico. Si direbbe perciò che delle due linee della filosofia della storia e della filosofia politica moderne: la linea che va da Hobbes a Hegel, passando attraverso il giusnaturalismo, Locke e Kant, e che vede nello Stato il vertice della vita sociopolitica; la linea di Saint-Simon e poi del materialismo storico-dialettico, che interpreta la marcia del progresso come marcia verso l’estinzione dello Stato, vada prevalendo la seconda. Aggiungiamo anche che la nostra posizione si richiama ad una filosofia della società e della politica che, pur senza svalutare lo Stato, ritiene più importante e originaria l’articolazione della vita sociale, di cui lo Stato è momento. Nell’ottica del metodo assunto, che assegna maggior rilievo alla causalità formale-ideale come principio del movimento e della struttura storico-sociali, i problemi più rilevanti non risultano quelli della struttura economica della so137

cietà o dei diversi tipi di Stato. In certo modo ci troviamo in sintonia con le forme etico-politiche che attribuiscono prevalente rilievo alla società, anche se le rispettive dottrine sociali risultano poi nettamente differenti. Quanto al rapporto persona-società, esso è concepito secondo

moduli opposti: nelle società marxista e tecnocratica il bene del tutto sociale è contemporaneamente il bene delle parti, mentre in quelle consumista e radicale il bene delle parti è contemporaneamente il bene del tutto sociale. Si verificano anche sorprendenti capovolgimenti dialettici ed esiti inediti. Lo scientismo tecnocratico pare essere il destino storico delle società marxiste-comuniste dell'Est. Esito non del tutto inatteso se, ridotto l’uomo ai soli

rapporti sociali (l’uomo è « nella sua realtà l’insieme dei rapporti sociali », sesta tesi di Marx su Feuerbach), tali rapporti sono intesi solo come rapporti di produzione, mediati dalla tecnica e dalle scienze dell’industria. I problemi della gestione e dell'amministrazione, resi impellenti dall'enorme copia di beni materiali prodotti da un sistema industriale, che sfrutta sino in fondo l’innovazione e i metodi produttivi continuamente offerti dalla ricerca applicata e dalla tecnica, assumono una rilevanza tale da occultare i problemi etico-politici. Queste considerazioni riconfermano la neutralizzazione del politico, che necessariamente deriva dalla riduzione dell’universo dei valori etico-politici al livello del materiale e del sensibile. La spoliticizzazione avviene lungo le due direttrici della riduzione all’economico (produttivismo e consumismo) zione al biologico (radicalismo). LA QUESTIONE

DELLA

e della ridu-

LIBERTÀ

Larga parte delle prospettive etico-politiche di cui si è discorso, erano partite con la legittima ambizione di edificare una vita terrestre ed una convivenza socio-politica libere, qualificate e pacificate. Credo che si debba oggi elevare più di un dubbio sui risultati ottenuti: i progressi materiali sono stati enormi, i diritti dell’uomo sono stati ampiamente proclamati, ma non è detto che il loro effettivo e concreto rispetto sia molto progredito. Le tensioni profonde e le brutali esplosioni di violenza che percorrono le società industrializzate fanno regredire gli obiettivi etico138

politici della convivenza verso un livello minimale o « hobbesiano », nel quale il bene « vita », la semplice difesa del vivere, della sopravvivenza, vengono nettamente privilegiati. La vita sociale, e con essa la politica, perde la sua ordinazione al bonum faciendum, attestandosi invece al livello del malum vitandum: cerca di salvaguardare un livello minimo di convivenza, di scongiurare danni irreparabili. E la grande idea del pensiero politico classico, secondo cui l’uomo può raggiungere nella polis la felicità politica ed una vita pienamente qualificata, viene messa in mora; e con essa l’avvento della libertà. La questione della libertà deve essere indagata, poiché costituisce un nodo della condizione umana, dal quale il pensiero non può congedarsi. Se non ha ragione Hobbes nell’assegnare alla vita sociopolitica solo la garanzia del vivere, e se invece è legittimo aspirare ad un livello superiore di vita qualificata e liberata, che venga incontro alle attese più profonde dell’uomo, si tratta di valutare quale dialettica della libertà abiti i principali progetti etico-politici, ed insieme delineare nelle sue linee portanti una filosofia della libertà. In una parola il problema concerne le forme di realizzazione della libertà nelle società moderne, ed il dibattito su quale sia il cammino idoneo per conquistare la libertà. La grande battaglia della nostra epoca si riassume a tale riguardo in tre diversi modi di raggiungere la libertà: la libertà attraverso la tecnica, la libertà attraverso la liberazione del desiderio, la libertà attraverso l’amore, l’ascesi e la virtù. Il razionalismo tecnoctatico, amico di una moralità antiascetica, ritiene possibile liberare l’uomo fornendolo di beni e non richiedendogli alcuna trasformazione interiore. Le regole della ragione, che dovrebbero indirizzarsi a normare la vita umana, sono trasformate in principî organizzativi e tecnologici per sfruttare la natura. « Questa moralità non libera l’uomo ma al contrario lo indebolisce, lo spossessa e lo fa schiavo di tutti gli atomi dell’universo, e, soprattutto, della sua miseria e del suo egoismo. Che cosa rimane dell’uomo? Un consumatore incoronato dalla scienza. Tale è l’ultimo regalo, il regalo del ventesimo secolo della riforma cartesiana » (1). (!) J. Maritain, Some reflections on culture and liberty, Univetsity of Chicago Press, Chicago 1933. Ora anche in Notes et Documents, octobre-décembre 1981, p. 8.

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L’umanesimo radicale accoglie e sollecita dalla tecnica l’abbondanza dell’offerta di beni materiali, ma considera tutto ciò nulla più di uno scontato preambolo per la liberazione. Più della liberazione mediante la tecnica, ad esso interessa la liberazione ottenuta

mediante lo sbrigliamento del desiderio e la sua soddisfazione. In tale processo il soggetto radicale porta a compimento perfetto le premesse del liberalismo filosofico, per il quale la vera libertà dell’uomo può consistere solo nell’indipendenza della sua volontà da ogni regola che non derivi dal soggetto. Secondo l’umanesimo cristiano l’uomo raggiunge la libertà regolando la propria vita secondo i dettami di una ragione illuminata dalla grazia. Gli è poi necessaria la disponibilità ad essere potato, se vuole raggiungere il compimento della propria vita nell'amore e con esso la libertà. Il segreto della libertà non consiste nel rapporto tra soggetto e oggetti, e neppure nel solo rapporto ascetico

del soggetto con se stesso, bensì nella relazione dialogica tra persona umana e Persona divina, attraverso cui posso anche riconoscere plenariamente gli altri come persone. Il dinamismo della libertà umana, partendo dall’esercizio della libertà di scelta (libero arbitrio o libertas eligendi), tende a raggiungere la pienezza della libertà, che consiste nella libertà di autonomia e di fioritura della persona. Il livello della libertà di scelta rappresenta solo un primo gradino, indispensabile ma iniziale e insufficiente, della scala della libertà: bloccare l’uomo a tale livello, offrendogli un esercizio purchessia della libertà di scelta non ordinato alla pienezza di vita della persona, è agire contro di lui. In effetti il libero arbitrio è un dato ed un dono di natura comune a tutti gli uomini, che deve essere fatto fruttificare nell’esistenza, affinché la persona umana divenga padrona di se stessa e conquisti la sua libertà terminale, che è la pienezza dell’umano. Mentre la libertà di scelta è connotata dalla assenza di ogni necessità (libertas a necessitate), la libertà terminale di autonomia dalla assenza di ogni costrizione (libertas 4 coactione): tale libertà terminale o di autonomia è a sua volta dislocata su due livelli, quello della libertà dalle costrizioni materiali ed esterne, e quello della libertà spirituale di sviluppo, di sboccio, di fioritura e di esultazione. Le prime due forme di libertà sono per la terza. La persona allora svolge fecondamente le virtualità della propria natura, crescendo in virtù, sapienza e amore. Il compito propriamen140

te umano nei confronti della libertà sta nel raggiungere, appoggiandosi alla libertà di scelta, il livello della libertà di autonomia e di indipendenza: tale è il desiderio della persona ed il suo voto più profondo, quel voto che fin dalle età più remote si è espresso nell’esperienza solidale e convergente dell’umanità. Secondo la filosofia cristiana vi è un ulteriore motivo, che avvalora il fatto che la libertà di scelta non è fine a se stessa, ma è ordinata ad un di più, ad un progresso, ossia alla conquista progressiva della libertà terminale di fioritura e di sviluppo: oltre la morte la libertà di scelta non sussisterà più, mentre nella visione di Dio la libertà di sviluppo e di esultazione della persona crescerà indefinitamente (?). Il dinamismo di crescita della libertà può essere soffocato in due modi: arrestandosi al solo livello della libertà come libero arbitrio e negando perciò la conquista della libertà di indipendenza e di fioritura, di modo che l’esercizio della libertà di scelta esaurisce il compito della conquista della libertà; oppure riducendo la libertà terminale di autonomia, che ha una ineliminabile dimensione spirituale, solo alla ricerca dell’indipendenza rispetto alle servitù materiali scaturenti dalla nostra natura cotporea. Questi cenni di filosofia della libertà, che andrebbero assai più ampiamente sviluppati, sono però sufficienti pet apprestare interes-

santi criteri interpretativi dei progetti etico-politici. Essi perlopiù non colgono i vari livelli della libertà umana, finendo per renderne dominante uno. La concezione liberal-borghese ed illuminista della libertà, oggi in vigorosa ripresa nel radicalismo e nelle scuole neoliberali, ritiene che l’unica libertà di cui ci si debba preoccupare su piano sociale e su quello personale, sia la libertà di scelta, che costituisce così un fine in sé. La società perfetta dovrebbe quindi consentire a ciascuno il più ampio esercizio della libertà di scelta per gli scopi che ciascun individuo si sceglie a proprio piacimento, con l’unica condizione di non danneggiare il prossimo: di per sé, però, l’esercizio della libertà non è specificato da un campo di oggetti e di fini. La moralità sembra essere il semplice esercizio della libertà di scelta. (2) La libertà di scelta verrà meno nei confronti di Dio, non negli altri rapporti.

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Questa concezione distrugge ogni possibilità di bene comune, la cui idea stessa è priva di senso per una società che si rappresenta come un insieme atomistico di individui. « La cultura e la società hanno allora per ufficio essenziale quello di preservare qualche cosa di dato: il libero arbitrio dell’uomo in sé, in modo che tutte queste libertà di scelta possano esercitarsi e manifestarsi come altrettanti piccoli dèi, senz’altra restrizione che quella di non importunare il vicino [...]. Il primato sociale della giustizia e del bene comune si eclissa [...] il diritto assoluto di ogni parte a realizzare le sue opzioni tende di per sé a una completa dissoluzione anarchica del tutto [....] » (3). Questa concezione della libertà fatalmente scivola verso l’identificazione della libertà di scelta con la spontaneità istintiva, ritenuta sufficiente a realizzare il bene individuale e collettivo. Sarebbe solo necessario rimuovere le costrizioni esterne delle strutture, perché la società e l’uomo possano raggiungere la loro libertà di espansione: le condizioni della libertà giacerebbero quindi fuori di noi e la conquista della libertà sarebbe più il risultato di una tecnica sociale che la dura conquista dell’uomo su se stesso. La concezione della libertà propria del radicalismo fa nelle società moderne la propria strada accanto ad un’altra idea di libertà: quest’ultima non idolatra la pura e semplice libertà di scelta, ma vedendone anzi la insufficienza, predilige la libertà terminale, assimilandola però alla libertà di dominio, di potenza e di trasformazione della natura. La collettività organizzata per un compito produttivo e la simbiosi di scienza e tecnologia si incaricano di realizzare questo obiettivo, mentre la vita propria della persona con lo svelamento della sua soggettività risulta sacrificato all’opera prometeica collettiva. La libertà come dominio della natura e come liberazione dai bisogni, che è una forma parziale della libertà di autonomia e di sviluppo, diviene il tutto della libertà. Rimanendo sul piano dell’analisi di base del dinamismo della libertà nel mondo moderno, vediamo che l’idea di libertà vi esercita una presenza assai profonda ed insieme equivoca. Le società occidentali contemporanee mescolano un esteso esercizio della libertà di scelta su piano individuale e privato, con un alto livello

10)

ciJ. Maritain, Strutture

142

SL

politiche e libertà, Morcelliana,

Brescia

1968,

collettivo di trasformazione e di manipolazione della natura ai fini della liberazione dalle costrizioni materiali. In tali società la libertà di scelta del singolo sembra anzi esasperata in alcuni ambiti come valvola di sfogo e di compensazione per la progressiva piena attuazione della « libertà di dominio », ossia del programma di sottomissione e sfruttamento delle risorse naturali, che richiede ordine,

disciplina e uniformità sociali. La condizione della libertà nelle società neo-capitalistiche, consumistiche e tecnocratiche dell’Occidente differisce da quelle dell'Oriente non per una diversa idea della libertà di dominio tecnico, ma per una più ampia area di applicazione della libertà di scelta individuale. Una adeguata filosofia della libertà deve invece tenere fermo che la società non è sottomessa alla libertà di scelta di ciascuno, né ad essa finalizzata, ma è ordinata al bene comune che si estrinseca nella retta vita umana, materiale e morale, del tutto sociale: « La filosofia politica, così rivolta innanzitutto non verso la pura e semplice libertà di scelta, né verso la realizzazione di una libertà di

potenza e di dominazione esterna della natura e della storia, ma verso la realizzazione e il progresso della libertà interiore delle persone, fa della giustizia e della amicizia i fondamenti propri della vita delle società » (‘). Il fine della politica e della vita sociale non sta nel subordinarsi all’indefinito esercizio del libero arbitrio dell’individuo, né soltanto nel consentire alla collettività una crescente disposizione sulla natura, ma di avviare e sostenere la persona umana nella difficile conquista della sua libertà terminale: possesso dei beni dello spirito e dell’intelligenza, crescita nella vita morale e razionale. Il bene comune della società politica è materiale, intellettuale e morale: tra questi aspetti il principale è il morale. Il bene comune non è soltanto un insieme calcolabile di vantaggi e di profitti economici, ma è la buona vita umana di un popolo unito. Le stesse libertà politiche sono godute dalla persona affinché sia agevolata nella conquista della sua libertà sovrapolitica. Questo esige però che si possieda una giusta idea dell’uomo, del suo destino, del fatto che la felicità non risiede nell’avere, bensì nell’essere.

(4) Ibidem, p. 39.

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L'ATTEGGIAMENTO

NEI CONFRONTI

DEL MALE

E DELLA

RELIGIONE

I progetti etico-politici proprî dell’epoca contemporanea svelano, soprattutto nel versante della cultura tecnocratica, un ulteriore carattere di grande importanza, che risale ad alcune opzioni di partenza del pensiero borghese, nelle sue due linee dell’illuminismo e del positivismo, e di quello marxista. Essi mettono da parte la fragilità, la sofferenza, la debolezza dell’uomo, e dimenticano che dietro l’esistenza umana sta sempre in agguato la morte. La fragilità e l'umiltà della condizione umana sono, per così dire, censurate da una concezione riduzionistica ed ideologica del progresso umano, considerato in universale, ossia rivolto ad una massa totale anonima, e come facente astrazione dalla realtà dell’individuo singolo. Dapprima la realtà della persona viene colta soltanto sotto l’aspetto dell’individualità materiale e presto anche questa svapora, poiché l’interesse si volge ormai ad un universale astratto più che al concreto. La fragilità e la sofferenza, che insidiano la condizione umana, rinviano alla grande questione del posto e del significato del male nella storia. Di fronte al problema del male (parliamo qui soprattutto del male morale di colpa) sono possibili due risposte, separate da uno spartiacque invalicabile: o il male è radicato nella società perché è essenzialmente opera dell’uomo, e allora la politica, pur potendo ridurne l’estensione, non può pensare di toglierlo completamente e definitivamente; o il male è accidentale, è una escrescenza che accompagna il progresso e che possiede ragioni sociali, e allora è possibile toglierlo, purché se ne sappiano cogliere le origini e le cause sociali. Sociologizzandosi, la morale si laicizza e cerca di rinunciare all’opposizione assoluta tra bene e male, nella quale indovina l’ombra terrestre della trascendenza. Può ancora esservi male morale, quando non vi è più alcuna norma eterna che possa essere infranta? Anche nelle filosofie della storia di tipo dialettico, il male è in certo modo una forma accidentale, è il negativo in quanto momento necessario della sintesi dialettica, che esige la negazione del negativo stesso: dunque il negativo è il positivo nel momento del suo essere altro. Perciò il negativo è giustificato tanto quanto il positivo. Questo significa che non c’è vero male nella storia, che è già tutta storia salvata e liberata, poiché il male è in essa non essen-

144

zialmente, ma solo in modo transeunte e temporaneo. L’interpretazione del male come realtà storica necessaria al progresso dialettico distrugge l’assolutezza della morale, in quanto non sono più possibili giudizi etici definitivi e assoluti. Anzi in queste prospettive ciò che fondamentalmente conta è il risultato, è il successo. L’etica si configura come una morale del risultato, della riuscita storica, dell’utilità, non un’etica del valore in sé.

Le risposte contemporanee al problema del male sostanzialmente tendono a considerarlo come una realtà storica toglibile, che dipende dai rapporti sociali e produttivi e dalle forme culturali, più che dall’incerta e fallibile libertà dell’uomo. Nella prospettiva tecnocratica il male sembra consistere in un insufficiente dominio della natura, per il consumismo nella scarsità di beni materiali, mentre

nella società radicale viene soprattutto identificato in tutte le culture che impediscono una piena liberazione del desiderio; ma rimane da domandarsi se la realtà tragica ed esistenziale del male venga colta in tutta la sua forza. Si può anche concedere che nelle vicende storiche e umane il negativo abbia un peso eccezionale, ma esso rimane irrimediabilmente negativo e di per sé accidentale rispetto allo sviluppo storico. i Nel problema del male la linea del razionalismo moderno, che ispira posizioni per altri versi irrazionaliste ed empiriste, fa sentire il suo peso di astrazione e di separazione dall’esistenza umana concreta: la ragione razionalista ritiene di essere da sola capace di far avanzare le sorti dell’uomo, di non avere bisogno della sapienza e di essere principio d’ordine della storia. Per il razionalismo immanentista l’uomo è causa del male e del disordine solo in un senso del tutto estrinseco: in realtà l’uomo è principio d’ordine e, come tale, principio della propria libertà. In alcune espressioni degli umanesimi contemporanei sembra l’uomo sia costituito in uno stato di bontà naturale, che, seppure da lontano, ricorda lo stato di giustizia originale e di innocenza adamitica propri dell’uomo prima della caduta. In termini teologici diremo che questi umanesimi sembrano ritenere che ogni uomo goda del privilegio dell’immacolata concezione, senza però che alcun dio glielo abbia concesso. E la stessa immacolata purezza sembra presiedere ad ogni forma di esperienza sessuale. Ma già San Paolo aveva indicato che uno stretto rapporto inter145

corre tra rifiuto di Dio e disordine sessuale: « Perché Dio li [i pagani] ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli » (?).

La questione del male è sempre stata legata al problema della religione e di Dio. Lo stretto nesso che unisce questi argomenti fa sì che coloro che ritengono il male qualcosa di accidentale, perlopiù considerano la religione una sopravvivenza del passato. Sembra che l’uomo debba rifiutare la religione, se vuol essere individualmente e politicamente emancipato: al massimo la religione è affare privato per coloro che credono ancora a questa forma superata e antiquata della coscienza, che invece nella sua veste moderna si è ormai definitivamente installata nell’opzione immanentista. La religione non è neppure necessaria per avviare l’uomo verso una vita piena e felice; semplicemente basta a ciò la ragione, secondo la tendenza più profonda dell’illuminismo. L’atteggiamento pratico verso la religione comprende sia la critica diretta nei suoi confronti, sia l’attacco indiretto attraverso la trasformazione secolaristica dei rapporti etici e sociali. La religione è considerata una forma vetusta che cadrà da sola: il limite religioso scomparirà, non appena verranno soppressi i limiti culturali ed etici che la sostengono. Quale che sia la strategia adottata, l’obiettivo rimane un uomo emancipato, autonomo, libero da ogni riferimento alla trascendenza: quando l’uomo vivrà in pienezza intramondana la sua immanenza atea, la religione cadrà come foglia secca, perché l’uomo non ne avrà più bisogno per raggiungere la propria essenza, per riconoscersi: la potenza della tecnica, la dialettica del desiderio del soggetto gli conferiranno autocoscienza e

sentimento di sé. La presenza dell’ateismo nella storia contemporanea ha motivi più profondi che la ribellione per una situazione di ingiustizia sociale. Secondo alcuni teologi cristiani, coloro che, ribellandosi contro la ingiustizia di un mondo cristiano di pura apparenza, intendono affermare la rivoluzione, altro non sarebbero che cri(°) San Paolo, Romz., 1, 24-25.

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stiani anonimi, che, pur ignorando il vero nome di Dio, lo postulano nell’azione. Sfortunatamente, a rivoluzione avvenuta, il rivoluzionario non ripudia l’ateismo, ma lo riafferma in una pie-

nezza secolaristica assoluta. La filosofia idealista hegeliana si poneva lo scopo di restaurare il divino nella forma di immanenza, di affermare il Dio che è in

noi o per meglio dire il Dio che noi siamo: materialismo e ateismo venivano considerate forme inadeguate e inferiori del principio di immanenza. Di fatto però nella società contemporanea l’ateismo esplicito costituisce, ben più della restaurazione del divino nella forma di immanenza, l’esito prevalente del pensiero e della prassi moderni nelle loro correnti razionalistiche, idealiste, marxiste ed empiriste. In forma non volgare Bloch ha recentemente tentato in prospettiva marxista di fondare una presenza del divino nell’uomo in forma rigorosamente atea: Ateiszzo nel cristianesimo è il titolo

significativo di una sua opera, nella quale si chiede sostanzialmente ai cristiani che vogliono essere tali, di passare dal cristianesimo teista all’ateismo « cristiano » maturo e adulto, ossia al marxismo. La proposta di Bloch è un ulteriore momento della vicenda dell’ateismo moderno, in quanto vuole fondare una religiosità puramente immanente e mondana per l’uomo definitivamente post-cristiano. Vicende che indicano che non si esce dalle maglie dell’ateismo — sia dell’ateismo « areligioso » di stampo illuminista, sia dell’ateismo « religioso » blochiano — rimanendo all’interno dello storicismo, del razionalismo e accettando il principio di immanenza. PROGETTI

ETICO-POLITICI

E FILOSOFIA

DELLA

CULTURA

Le prospettive etico-politiche discusse, sebbene tra loro diverse sotto molti aspetti, rivelano, se guardate nelle loro ragioni più profonde, la loro dipendenza da alcune comuni premesse costitutive « moderne ». Una loro comprensione adeguata deve perciò inoltrarsi nel campo della filosofia della cultura e rintracciare alcuni aspetti dell’evoluzione culturale del progetto moderno, e della sua immagine del mondo. Andrebbe qui affrontata anche la questione del rapporto tra interpretazione della cultura di un’epoca e storiografia filosofica, poi147

ché il periodizzamento storiografico assunto in sede di storia della filosofia non è mai « innocente », e contribuisce a indirizzare quella interpretazione. Basti pensare alle imponenti ricostruzioni storiografiche della filosofia moderna, che si sono susseguite con frequenza notevole da Hegel in avanti, e che hanno proposto un certo canone interpretativo del moderno. La modernità sarebbe connotata dall’emersione della soggettività trascendentale, dal rifiuto del trascendente e dell’ordine soprannaturale, dall’immanentismo, dal considerare ormai totalmente esaurite tutte le virtualità dell’antico classico e del medioevale, dal naturalismo, dal primato del fare, etc. Queste interpretazioni, soprattutto se assunte come le invali-

cabili colonne d’Ercole del pensiero, esercitano un influsso di prim’ordine sulla filosofia della cultura. La rappresentazione della cultura di un’epoca è effettuata quando la totalità dei rapporti basilari del soggetto umano viene esplorata. Secondo la loro integrale latitudine, essi si dispongono lungo tre diadi: uomo-natura; uomo-uomo; uomo-Dio. Espresse in termini di massima universalità, le tre coppie si riducono e si ricomprendono nel rapporto soggetto-essere. Perciò l’orientazione assunta nei confronti di una diade incide anche sulle altre, in quanto esse sono momenti e aspetti di un unico rapporto con l’essere, nel quale giace ogni significato. La coimplicazione mutua delle tre diadi non toglie però che, tra tutti i rapporti del soggetto con l’essere, quello primariamente determinante sia il rapporto con Dio. Dal suo punto di vista l'aveva ben compreso Nietzsche, nella sua giustamente celebre descrizione della « morte di Dio » (9). La precedente inchiesta sui soggetti etico-politici ha ritenuto di individuare nello scientismo tecnocratico, nell’individualismo atomistico, e nella autonomia del soggetto nei confronti della trascendenza, i rispettivi canoni prevalenti dei rapporti uomo-natura, (9) Ne La gaia scienza Nietzsche racconta la vicenda di un uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino e, corso al mercato, grida: «Dove se n'è andato Dio? [...] Siamzo stati noi ad ucciderlo! Voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? [...] Dov'è che ci muoviamo noi? [...] Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? [...] Non seguita a venire notte, sempre più notte? » (La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971, p. 125, n. 125).

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uomo-uomo e uomo-Dio. La tesi della volontà sovrana, che non si ritiene sottoposta ad alcuna norma trascendente e divina, e quella della ragione che è verità a se stessa, possono essere in ultima analisi considerate come il sarcta sanctorum di una certa linea della modernità, che è quella di cui ci occupiamo. A partire dall’incrinarsi della relazione dell’uomo con Dio, l’ordine razionale e sapienziale dell’essere è stato violato in più punti. Separando brutalmente la filosofia dalla teologia, e collegando la metafisica alle scienze fisico-matematiche volte alla ricerca dell’efficacia e del risultato, Cartesio ha aperto una strada al fondo della quale l’intelligenza, divenuta indocile nei confronti di Dio e dell’essere, celebra l’indipendenza dall’oggetto e dalle varie forme di tradizione e di continuità spirituale. Rinunziando a conoscere la Causa prima e mostrandosi indifferente verso la teologia e la metafisica, l'intelligenza dichiara il proprio agnosticismo e rifiuta le luci che le possono venire dall’ordine soprannaturale. Volto verso la conquista del cosmo, il soggetto moderno vive il rapporto uomo-natura secondo le modalità della tecnica. Essa, che di per sé è un’attività umana pienamente legittima se sotto-

posta ad una guida sapienziale, si svela nell’otizzonte intenzionale contemporaneo come volontà di potenza nella forma del dominio della cosa, in cui progressivamente matura l’oblio dell’essere. In effetti la tecnica come volontà di potenza è insensibile ad ogni ordine metafisico proprio della natura. Tra i molti, Heidegger ha espresso con particolare vividezza il rischio insito nel consegnarsi senza riserve alla tecnica ed alla produzione, da cui si attende il realizzarsi di una felice condizione umana: « Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana [...]. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la realizzazione della produzione assoluta possa aver luogo senza pericolo alcuno, purché restino in vigore anche altri interessi, ad esempio quelli della fede [...]. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la produzione tecnica metterà in ordine il mondo; mentre, al contrario, questo genere di ordine livella ogni ordo, cioè ogni rango, nella uniformità della produzione, dissolvendo così, sin dal149

l’inizio la possibile provenienza di ogni rango e di ogni riconoscimento dal fondamento dell’essere » (").

Le metamorfosi dell’esistenza moderna

Quale rappresentazione del mondo e quale autocoscienza divengono ultimamente propri dell’individuo moderno? I rapporti e le relazioni, sui quali un tempo si basava la rappresentazione e la percezione del mondo, si sono talmente moltiplicatie disarticolati, che l’uomo moderno non sa più trovare un principio di unità, un luogo obiettivo di consistenza, un baricentro attorno al quale otganizzare la propria vita e il proprio essere nel mondo, se non volgendosi all'immagine del mondo abbondantemente offerta dalla scienza e dal suo uso tecnico. Ma questa immagine del mondo, che esprime una unità meccanica e in certo modo artificiale, è sempre più priva di significati poetici, di allusioni simboliche, di strutture gerarchiche di ordine e di valore, per diventare solo quantità e misura. Da tale nuova condizione dell’esistenza umana, che si raccorda all’impoverimento delle rappresentazioni del mondo, prende origine l’angoscia come impossibilità di trovare una dimora obiettiva, un ubi consistar,

una penetrazione sapienziale del cosmo, cercati ma non raggiunti: quaesivi et non inveni. Mentre nell'uomo medioevale l’angoscia nasceva dal sentimento della finitezza e del mistero del mondo in contrasto con il desiderio di espansione infinita dell’anima, alla quale apriva possibilità insperate il cristianesimo, nel moderno l’angoscia nasce dall’incapacità di costruire una soddisfacente rappresentazione del mondo e di rinvenire un significato. Non trovandolo nell’ordine teoretico, lo ha cercato e lo cerca nel campo dell’azione, ossia nella politica e nella razionalità strumentale della tecnica. Si può dire che l’abbia trovato? La scienza e la tecnica non intendono più il mondo come creazione, ma come natura, intesa però secondo significati che progressivamente si impoveriscono. All’inizio dell’età moderna la natura era una madre benefica, la sorgente dell'armonia e dell’ordine, il limite da rispettare, il grembo a cui ricorrere per una ripresa della vita: la natura era ancora uno specchio di Dio. Oggi invece la natura è sentita sia (*) M. Heidegger, « Perché i poeti? », in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 271 s.

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fuori di noi come anche in noi — nella nostra natura umana —, come limite da superare, come realtà materiale in cui più non

riluce né l'impronta dell’idea creatrice di Dio, né un’armonia immanente. L’autocoscienza del soggetto e la cultura, che costituiscono, insieme con la natura, le categorie fondamentali dell’esistenza moderna (*), seguono la nuova immagine del mondo. Il soggetto umano, che all’inizio dell’epoca moderna intendeva la propria azione come opera di ingegno e di virtù, diviene il luogo anonimo di funzioni sociali collettive; mentre la cultura, da creazione dell’uomo e momento rivelativo dell’Io e del mondo, si metamorfosa nella tecnica, nella capacità di organizzare e produrre. Le categorie fondamentali dell’esistenza moderna hanno così subito successive trasvalutazioni, e sono oggi poste sotto il segno universale della potenza e della volontà di potenza, che cresce quantitativamente su se stessa spinta da una necessità interna che appartiene all’ordine del materiale. Ogni acquisto di potenza è ritenuto di per se stesso un progresso, indipendentemente dagli impieghi e dai fini. L’espandersi armonico ed il fecondo fiorire della vita, felice promessa dell’umanesimo classico, non accadono. La conquista, lo sforzo, la tensione, la volontà di dominio incamminano l’esistenza umana in una zona di pericolo, e di dura angoscia, che tocca anche le più semplici ed umane realtà della vita. Nel volgere di questa dialettica è stata via via fornita la prova, ed il nostro secolo ne ha offerto più alta testimonianza, di che cosa significhi essere atei e quale sia la qualità del mondo umano che l’uomo può costruire, organizzandolo senza Dio ed espellendolo da tutti i luoghi. Uscendo dal vago e dall’accademico, la scelta atea ci ha concesso il privilegio di contemplare che cosa sia il secolarismo assoluto e un paganesimo senza alcuna misura comune con quello antico. « La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, otdinando in questo raccoglimento la storia uni(8) « Alla domanda quali siano i modi dell’esistenza, il pensiero moderno risponde: la natura, il soggetto-personalità, la cultura. Questi tre fenomeni sono in correlazione. Essi si condizionano e si completano vicendevolmente. Il loro complesso rappresenta qualche cosa di definitivo, al di là del quale non si può andare. Non ha bisogno di alcun fondamento estraneo a sé, né tollera norma alcuna al di sopra di sé » (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1954, p. 49).

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versale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà, perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza [...]. Forse siamo nel momento in cui la notte del mondo va verso la mezzanotte » (?). La linea dell’umanesimo antropocentrico e ateo non esaurisce la dialettica culturale contemporanea. Essa contempla pure un diverso cammino di espansione umana della persona, di ricerca di una sua più profonda autocoscienza, di rispetto concreto dei suoi diritti, di apertura alla trascendenza: la forma cristiana sorregge e ispira questo cammino, e ne fornisce la giustificazione più piena. L’esistenza umana, presa dentro un doppio movimento contrastan-

te che conduce verso la forma cristiana pura o quella atea pura, si accosta al traguardo estremo

delle sue uniche possibilità asso-

lute: il raccogliersi in Dio, o il disarticolarsi in se stessa. La categoria del moderno, lungamente brandita come uno stendardo di liberazione carico di significato assiologico, va lentamente e con fatica recuperando il suo significato storiografico di delimitazione temporale di un’epoca. La stessa ricostruzione storiografica + del pensiero moderno, interpretato come un cammino coerente e unitario verso l’immanentismo e l’ateismo, va problematizzata. Questo schema, fatto proprio per opposti motivi da esponenti del pensiero laicista e del pensiero cristiano, finisce talvolta per presupporre ciò che deve provare, ossia la vittoria piena e senza residui del moderno, inteso come un’essenza unitaria che, svolgendosi nel tempo, sviluppa tutte le sue virtualità naturaliste, immanentiste ed atee. Due considerazioni paiono al riguardo pertinenti. Anzitutto il moderno, pur inteso come processo verso l’immanentismo, è un’essenza molto composita, che tende a sfaldarsi in molteplici tendenze e correnti, e che riceve una sua unità in ne-

gativo, nell’opposizione al « premoderno » e al trascendente (9). (°) M. Heidegger, « Perché i poeti? », in Senzieri interrotti, cit., p. 247 s. (‘°) «Il mondo moderno non è un principio unitario; è una quantità di sviluppi convergenti, ma anche contrastanti, per i quali si è fatto spazio nell’esaurimento del vecchio mondo ». E. Troeltsch, L'essenza del mondo moderno, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 167.

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Inoltre all’interno del pensiero moderno e contemporaneo da | Cartesio ad oggi, è possibile scorgere una galleria di filosofi (azzardiamo un elenco: Cartesio secondo una certa interpretazione, Pascal, Malebranche, Leibniz, Vico, Rosmini, Gioberti, Leone XIII, Bergson, Maritain, Gilson, ecc.) ed una successione di tesi, lontane dal configurare la storia della filosofia moderna come un processo unitario verso la negazione della trascendenza e come il puro svolgimento di un’unica essenza. A meno che non si voglia sostenere che quei filosofi hanno un’importanza del tutto secondaria nella storia della filosofia moderna. Ma anche a tale proposito scatterebbe una presupposizione, che presceglie un certo numero di filosofi e di tesi, qualificandoli come gli unici e soli rappresentanti del moderno. I filosofi appena enumerati non sono certo inquadrabili nello schema della modernità quale è costruito da una certa storiografia filosofica, poiché raggiungono e riaffermano il pensiero metafisico, il teismo, la trascendenza del divino, aspetti che quella storiografia tendeva a espungere dalla modernità. Entrando in crisi il supposto carattere unitario della filosofia moderna, cade anche il valore assiologico attribuito all'idea di modernità, cioè la superiorità dell’immanentismo e la critica del pensiero classico (antico e medioevale). E si apre anche la possibilità di pensare ad un post-moderno, che non esibisca il suo collegamento con la tradizione classica come qualcosa di cui ci si debba vergognare, e che accolga e sviluppi l’eredità di quella corrente teista del moderno di cui si è detto. GLI UMANESIMI

CONTEMPORANEI

E LA FILOSOFIA

CRISTIANA

Non rientra nel mestiere del filosofo avanzare previsioni sul futuro. È invece suo compito cogliere nella storia contemporanea gli eventi più rilevanti, tentare di decifrarne il significato ed ascoltare gli interrogativi che sollevano. Vi sono molti aspetti della civiltà contemporanea che interpellano il filosofo. L’energia propulsiva del complesso tecnico-scientifico, con gli eventi concomitanti dell’universalizzazione dello sviluppo tecnologico e dell’industrializzazione, la richiesta di un nuovo ordine economico mondiale ed i connessi problemi della giustizia sociale, la dilatazione su scala planetaria di numerosi movimenti di emancipazione, costituiscono fatti di grande portata che, investendo la persona uma155

na in tutte le latitudini, producono una crescente omogeneizzazione della condizione umana. Sono così istituite talune premesse perché possa essere recepita una proposta antropologica universale, connessa alla maturazione di comuni domande sull’uomo. Il futuro appartertà a chi saprà avanzare convincenti risposte a quei

comuni problemi; a chi saprà accogliere l’appello di speranza, di pace, di verità che vi è contenuto. Le prospettive etico-politiche discusse, nonostante la loro incisiva diffusione, non appaiono ido-

nee a rispondere positivamente a quell’appello, né in grado di operare forme di autotrascendimento capaci di mutare i loro centri di prospettiva, e di sormontate quella « stanchezza della storia », che sorge quando vengono ripetute esperienze già troppe volte fatte e non se ne annunciano di nuove. Una ripresa di vitalità storica può provenire solo da una nuova ricerca di senso, e da una riassunzione del teologico, del metafisico, dell’etico a rinnovati centri di prospettiva di una cultura amica dell’uomo. La filosofia cristiana avrà una sua parola da dire, se saprà dirla. Essa si trova oggi in una situazione ambivalente e di difficile interpretazione, qualcosa che assomiglia ad uno stato di incertezza dopo la lunga battaglia che l’ha portata a mettere a fuoco le proprie posizioni nella polemica con l’illuminismo, con il liberalismo filosofico, successivamente con l’idealismo, il positivismo, lo storicismo e il marxismo, ed a riaffermare la possibilità della metafisica, del realismo conoscitivo, dell’ascesa razionale a Dio.

La sfida a cui la filosofia cristiana dovrà tentare di rispondere è di accettare consapevolmente la nuova situazione problematica e culturale mondiale, operando per ridonare l'originario senso umano e comunicativo al politico, dopo che secolari processi quali il machiavellismo, la separazione della politica dall’etica, le varie forme di riduzionismo scientista e tecnocratico, ne hanno compromesso e inaridito il significato. Peraltro essa è chiamata ad un dovere ancor più radicale: a entrare con rispetto e meditata attenzione nello spazio della persona, dove traluce un raggio divino. Certe condizioni non mancano. Il grande capitolo del confronto critico

con le asserzioni problematiche della filosofia moderna non è chiuso, ma non è infondato ritenere che il dossier stia divenendo meno voluminoso e scottante per l’esaurimento storico irreversibile di diversi interlocutori. Lo scorrere del tempo ha prodotto prima una moltiplicazione dei problemi, delle ideologie, dei punti di vi154

sta, e poi una loro essenzializzazione e riduzione. Lo stesso evento del Concilio Ecumenico Vaticano II ha fortemente contribuito a ridislocare molti termini di paragone. Non è da pensare che antiche posizioni filosofiche abbiano rinunciato a se stesse e issato bandiera bianca. Ma è la stessa storia contemporanea, sul cui quadrante appaiono nuove questioni e nuove inquietudini, a dettare nuovi ordini del giorno, a rendere desueti vecchi registri e a smorzare il lungo contenzioso che ha contrapposto filosofia cristiana e cultura moderna, Chiesa cattolica e mondo moderno. Né si può trascurare che varie ideologie e varie correnti filosofiche hanno offerto la prova storica ed effettuale della loro inadeguatezza. La filosofia cristiana non ricerca un’astratta universalità, ma l’universale concreto, di cui trova significativo esempio nelle strutture permanenti dell’umano, apprese nella luce della ragione e della rivelazione. Su tale sponda va impegnato il confronto con i principali progetti etico-politici contemporanei, che ambiscono programmaticamente ad una sorta di sovranazionalità e di metaculturalità. Perciò sia le culture immanentiste ed atee, sia quelle aperte alla trascendenza elevano pretese di universalità. Quali conosceranno meglio la condizione umana? L’umanesimo cristiano deve saper mostrare nell’idea e nel fatto la propria validità, adottando il metodo del dialogo, dell’apertura, del rispetto. Questo è l’unico metodo degno dell’uomo, e particolarmente idoneo alla condizione della società contemporanea nella quale credenti ed atei continuano, e continueranno ancora a lungo, a convivere e a partecipare ad un unico bene comune temporale. I sistemi politici ufficialmente atei stanno mostrando un fallimento clamoroso. La filosofia cristiana pensa che anche le antropologie atee, secondo altre forme e modalità, forniranno la prova della loro incapacità di offrire risposte positive e costruttive. Oggi questa prova non è che all’inizio; e la dialettica dell’umanesimo ateo non è ancora definitivamente giunta al momento risolutivo della sua crisi interna. Deve essere ulteriormente offerta su piano storico la prova, già ripetutamente e con successo addotta a livello dottrinale, che l’uomo ateo toglie se stesso, e che il dialogo con Dio della coscienza umana è universalmente necessario per salvare l’essenza dell'umano. Di fronte all’enigma storico dell’ateismo di massa, il filosofo cristiano che venga considerandolo non sempli155

cemente come un caso di deviazione teoretica, ma soprattutto come una sfida lanciata con l’intento di costruire un mondo senza Dio, non può che rispondere: chi ha più filo, tesserà la tela migliore. La tentazione dell’irrazionalismo

Il giudizio complessivamente negativo che portiamo su vari umanesimi contemporanei e sul loro influsso sulle giovani generazioni — esercitato tramite i mass-media, un certo tipo di musica e i nuovi linguaggi — non deve far dimenticare alcuni apporti positivi di quelle prospettive, riassumibili nell’attenzione a vati ti-

toli al tema della libertà nella storia e al lato materiale dell’esistenza umana. Anche il cristiano sa che l’uomo viene dalla terra e vi ritorna: è perciò portato a non sottovalutare la gravezza (e la bellezza) della materia, e la forza dell’istinto di questo animale tormentato dalla ragione, che è l’uomo. Ma il cristiano sa anche che la dignità dell’uomo sta proprio nel logos, e che le varie forme di riduzione o peggio di disprezzo della ragione che si fanno avanti in questi umanesimi non sono altro che l’insurrezione del genere contro la differenza specifica. L’antiintellettualismo, l’irrazionalismo, il rifiuto della ragione come forma sostanziale dell’umano non sono un fatto secondario, né transitorio. Dopo un secolare periodo nel quale la cultura europea, ebbra di razionalismo, aveva disegnato l’orgogliosa immagine dell’uomo come monade razionale, dell’uomo costituito da una ragione sovrana che impera alla volontà, toccandola senza esserne toccata —, siamo ormai da un certo tempo entrati in una nuova epoca culturale in cui ciò che dobbiamo temere è una ventata di irrazionalismo; è la distruzione irrazionalista e naturalista dell’uomo e dei valori, che fa appello al terrestre che è nell’uomo, al suo peso di carne, di sangue e di istinto. I bisogni e i desideri non sono gli unici valori dell’uomo, né sono le uniche molle del suo agire. Se si riduce la persona ad un meccanico campo di forze impersonali in cui si scontrano pulsioni contrastanti, non è possibile parlare di realizzazione e maturazione della persona: come potrà mostrarsi disponibile nella dedizione

ad una causa? Come si potrà evitare che si formino personalità instabili ed immature? 156

Come potranno costituirsi veri soggetti re-

sponsabili? Queste domande mettono in luce che la questione dell’umanesimo è legata all'educazione dell’uomo. È perciò naturale che le varie prospettive etico-politiche cerchino di esprimere forme educative con esse congruenti: l’educazione è il mezzo per conseguire la forma specifica di liberazione a cui i vari tipi di umanesimo fanno riferimento. Ci si può tuttavia chiedere se le carenze delle rispettive antropologie non autorizzano dubbi sulle varie visioni educative, che non sembrano cogliere adeguatamente che l’educazione è un processo per diventare uomini e che come tale non è soprattutto una tecnica, ma un’azione immanente che riguarda l’intelligenza, la volontà e la libertà del soggetto, che parte dal soggetto e ad esso ritorna. Diremo perciò che l’educazione non può consistere soltanto — come vorrebbe l’umanesimo tecnocratico — in un essere preparati a meglio contribuire all’utilità materiale collettiva, ossia in programmi educativi solo professionalizzanti, spoliticizzanti e a base scientifica, per cui le scuole sarebbero luoghi dove si trasmette un puro sapere tecnico che forma degli specialisti. Né può consistere — come vorrebbe il radicalismo — in una prospettiva naturalista e libertaria, che tendesse a descolarizzare la società, sostituendo al processo educativo un comportamento individualistico

e spontaneistico, sulla scorta della convinzione che l’uomo è naturalmente buono, e che perciò abbisogna solo di libertà e autonomia per sgomitolare spontaneamente le sue virtualità. Mentre la pedagogia radicale rifiuta la disciplina, quella tecnocratica la accetta e la invoca. I diritti dell’uomo

Negli umanesimi che fanno da sfondo ai progetti etico-politici considerati, i diritti dell’uomo non sono negati, anzi talune volte sono affermati con un'estensione tale che il diritto rischia di trasformarsi in sopruso. Anche quelle correnti meno sensibili alla problematica dei diritti umani non possono passare sotto silenzio la questione, tanta è la potenza di appello, la forza evocativa, il carico di speranza che gli uomini ripongono in loro, sì che sono anch'esse come obbligate a tenerne conto. Ma tuttavia possono stravolgerli, possono negare di fatto ciò che affermano a parole. La realtà è che questi umanesimi sono sostanzialmente postulatori e perciò in157

capaci di fondare razionalmente i diritti dell’uomo. Se non ci si àncora ad una adeguata dottrina della persona, è assai arduo pervenire ad una comprensione plenaria e coerente dei suoi diritti: vi sarà invece l’inevitabile tendenza ad un troppo o ad un troppo poco. Nella filosofia cristiana i diritti dell’uomo sono inerenti alla persona in quanto elargiti in ultima analisi da Dio creatore: essi perciò non esprimono mai soltanto un puro rapporto tra uomo

e

uomo, ma sempre una relazione triadica uomo-Dio-uomo. E lo stesso vale per l’amore: quando l’amore umano è diritto e autentico, è una relazione a tre termini uomo-Dio-uomo. Il mio povero amore umano per il prossimo e per lo straniero è vero solo se passa in Dio e rimane nella sua luce, prima di raggiungere e riposare nell’altro uomo. Sapendolo o meno, ad ogni vero amore umano è presente Dio come termine medio necessario, come mediazione vivificante, in virtù della quale è possibile il rispetto dell’altro, il riconoscimento della sua soggettività e dei suoi diritti. Solo l’umanesimo o personalismo religioso, che si sviluppa nella forma del dialogo i0-f4 tra uomo e Dio, sa che cosa c’è nell’uomo e sa che cosa gli spetta. Purtroppo, per una contraddizione storica assai istruttiva e insieme deludente per lo spirito, spesso non sono stati i credenti ma le correnti del deismo razionalista ad aprire la lunga strada dell’affermazione storica dei diritti dell’uomo. Resta tuttavia che solo Dio conosce i recessi della nostra soggettività, solo Lui conosce il nostro nome e ci chiama per nome (!). Dio chiama sempre per nome: nell’Eden chiama Adamo, che tenta di nascondersi a Lui; e successivamente nelle vicende più varie e nei tempi più diversi chiama per nome Giobbe, chiama per nome Samuele, e poi Geremia, Ezechiele, e altri ancora (!). Dio chiama (!) « Dio ci conosce scopertamente nella nostra soggettività e conosce le nostre ferite, i dolori segreti, e in pari tempo la segreta bellezza di quella natura che Egli ci ha data, le più piccole scintille di bene della libertà che esercitiamo, tutta la sofferenza e tutti gli impulsi di buona volontà che abbiamo dalla nascita alla morte, recessi di bontà di cui noi stessi non siamo consapevoli. La conoscenza esaustiva di Dio è conoscenza amorosa. Sapere che siamo conosciuti da Dio non è solo un'esperienza di giustizia, è anche un'esperienza di misericordia » (cfr. J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell'esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 63). (‘) «Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formatti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato

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l’uomo per nome, e gli svela la sua vera vocazione. Gli svela anche progressivamente la sua dignità di persona ed i suoi diritti. La Bibbia non elenca esplicitamente i diritti dell’uomo, ma ci fa comprendere il valore della persona umana da come Dio tratta l’uomo, dall’agire di Dio verso l’uomo. Esempio supremo di pedagogia divina, mediante cui siamo portati a comprendere che cosa significhi essere immagine di Dio. Solo la persona umana può essere ad immagine di Dio, perché il termine « immagine » è un nome personale, che con perfetta proprietà si applica solo al Verbo (5). Per tali motivi la persona è un tutto, una soggettività autoco-

sciente capace di rapportarsi all’essere e di amarlo, capace di pensare l’universale e l’eterno, capace di libertà, di amicizia, di comprendere e volere il bene, di trasformare le cose in base ad un’idea creatrice, di volgersi verso il regno dei fini, e di portare dentro se stesso il tutto: Dio, l’altro, il mondo (Anizza est quodammodo omnia). In vittù di proprietà sostanziali della sua natura, che convenzionalmente riassumiamo nell’intelligenza come facoltà percettiva dell’universale e dell’essere, la persona umana ha un valore infinito che non può essere sottoposto a dominazione; non può essere pura parte o strumento della società. In che misura empirismo e naturalismo sono in grado di comprenderlo? Nel confonto con gli umanesimi contemporanei, i cristiani sanno che il loro primo compito è di rimanere fedeli all’umanesimo cristiano, la cui regola interiore proviene dalla vita e dalla morte di un Dio crocifisso: le vere sorgenti dell’umanesimo cristiano non stanno altrove, ma solo nella croce di Cristo. Nel mistero della croce si è operata la discesa della grazia nelle profondità dell’umano e con essa una nuova evangelica coscienza di sé da parte della creatura nella magnanimità e nell’umiltà: esperienza della bellezza che è in essa, e sentimento della grandezza della vocazione a cui è chiamata. In verità Dio è il centro dell’uomo e solo così l’uomo si conosce non in un movimento di diminuzione o di orgoglio, ma in un’esperienza di verità. Di fronte a tante culture, a tante filosofie che hanno fatto della [...]” » (Gerezzia, 1, 5 s.). «Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. Ciò detto, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai Colui che mi parlava » (Ezechiele, 2, 1s.). (DIST a3561.

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negazione di Dio il primo principio del loro slancio storico, sarebbe da parte dei credenti imperdonabile pusillanimità non prendere, capovolgendolo, lo stesso punto di partenza, facendo di Dio primo servito, secondo il motto di Santa Giovanna d’Arco, il primo principio della loro azione. Dio affermato non per colpire, ma per sanare. Dunque un cristianesimo non arcigno, ma amico dell’uomo,

comprensivo, capace di persuadere e di far risplendere la verità. ESSERE

E TEMPO

NEI PROGETTI

ETICO-POLITICI

CONTEMPORANEI

L'immagine essenziale di un’epoca risalta con più vivida luce nelle sue produzioni spirituali, ed in particolar modo nelle concezioni dell’essere e della verità. Diciamo allora che la metafisica costituisce il miglior specchio di un’epoca, il fondamento delle manifestazioni che la caratterizzano, e la più sicura chiave d’ingresso ai segreti della sua rappresentazione del mondo. È così trovato un principio ermeneutico di portata universale, che applicheremo brevemente ai progetti etico-politici contemporanei, soprattutto sotto

il punto di vista del rapporto tra essere e tempo. In effetti, tra tutte le manifestazioni attraverso le quali un’epoca storica si rivela, una delle meno indagate è la sua percezione-concezione del tempo. Agostino diceva: « Cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, lo ignoro ». Il tempo è una nozione prima, raggiunta in modo naturale dalla conoscenza spontanea del senso comune, e indagata poi dai filosofi; né si può dimenticare il tempo formalizzato e matematizzato, impiegato dai teorici della fisico-matematica: ma il tempo matematico, assoluto, infinito verso il passato e verso il futuro, vuoto di eventi e privo di storia, è solo un ente di ragione. Secondo Aristotele il tempo reale è fondato sul movimento, sul divenire: è perciò, come lo spazio, inseparabile dal mondo e dalla potenzialità. Il tempo non possiede realtà assoluta, è il flusso di impermanenza delle cose; propriamente è il numero o misura del movimento secondo il prima e il dopo. Quandoun mobile percorre una determinata estensione, passerà nel suo movimento da un punto all’altro di questa estensione, secondo un prima e un dopo: il tempo è la successione dei prima e dei dopo del movi-

mento, in quanto raccolta in una memoria nella quale sussista il 160

passato e venga connesso al presente. Aristotele affermava che senza l’anima non ci sarebbe il tempo ('‘). Ma torniamo al nostro problema dell’essere e del tempo: quale relazione possiedono queste due idee così apparentemente eterogenee, dal momento che l’una richiama la stabilità, la densità, la

permanenza e l’altra il fluire, il divenire, la variazione? L'essenza metafisica del tempo è l’incapacità dell’ente creato ad esistere tutto insieme, da cui la necessità che distenda le sue potenzialità in sviluppo successivo: da ciò nasce la durata. Il tempo esiste perché la creatura non è atto puro, non è l’essere stesso per se sussistente; perché l’essere creaturale è composto di atto e di potenza. Per percorrere l’arco della sua esistenza la creatura ha bisogno di distendersi lungo il tempo. Dove non c’è potenzialità non vi è tempo. Dio esiste tutto insieme eternamente, in un unico istante che eter-

namente sussiste fuori dal tempo: tale è il privilegio dell'Atto puro (5). Nell’eterno oggi di Dio tutto è presente secondo una presenzialità totale, che costituisce l’essenza dell’eternità. Il tempo è perciò un segno dell’imperfezione metafisica dell’essere creato, che deve con fatica ricomporre in unità i singoli momenti della sua esistenza distesi lungo il flusso del divenire, risalendo con un continuo sforzo di radunamento e di ricapitolazione la dissipazione entropica dell’essere provocata dallo scorrere temporale. Fssere e tempo sono così molto più prossimi di quanto appaia a prima vista: l’essenza del tempo è colta solo in una prospettiva metafisica di comprensione dell’intelligibilità dell’essere e del suo collocarsi sui due piani dell’atto e della potenza. Se nessuno dei progetti esaminati è capace di giungere ad una percezione intellettuale dell’essere come actus essendi, come splendore intelligibile, (4) Il tempo « è qualche cosa del movimento, non è il movimento in sé; è il flusso dell’impermanenza nel movimento, per se stesso al di fuoti di tutto l’ordine della velocità e della lentezza. Pura e semplice grandezza della costante cessazione di essere, della continua disaggregazione imposta all’essere dalla mobilità, ineluttabile procedere del passaggio al non essere, e come tale i poeti lo hanno conosciuto meglio di certi filosofi » (J. Maritain, Theonas, Vita e Pensiero, Milano 1982, p. 57 s.). (1) « È chiaro che le cose che sono sempre, in quanto sono sempre, non sono nel tempo: non sono, infatti, contenute dal tempo, né la loro essenza è misurata dal tempo: ed è prova di ciò il fatto che non patiscono nulla dal tempo, in quanto che non sono in un tempo» (Aristotele, Fisica, 1. IV, P243555)!

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ordine, armonia e gerarchia, formerà del tempo una conoscenza estrinseca e superficiale. Il tempo psicologico o umano è una extersio animi mediante cui nell'anima si fanno presenti il passato attraverso la memoria, l’oggi mediante l’intuizione percettiva dell’istante, il futuro mediante l’attesa. Dal tempo psicologico differisce il tempo oggettivo e matematico della fisica, misurato dall’orologio. Il tempo in quanto numero del movimento secondo il prima e il dopo ed il tempo dell’esperienza umana dell’esistere, pur corrispondenti ad un unico referente, non hanno la stessa ricchezza, né un ugual numero di armoniche. Inserito nella totale esperienza di vita del soggetto, il tempo dell’esistere della persona si qualifica in relazione alla verità ed alla luce che abita nel soggetto. Il tempo di vita acquista un suo fondamentale ritmo interno, una sua direzione: è come il cantus firmzus, la melodia centrale attorno alla quale vengono aggiungendosi, quali temi di contrappunto che si rapportano al cantus firmus, le opere e i giorni della storia. Lo scorrere del tempo non toglie allora la stabilità del movimento verso un fine (19). All’uomo che ha riposto la propria speranza nella materia il tempo parla con voce comprensibile e insieme inquietante: per lui il tempo è l’estrema ricchezza. Il tempo del progetto tecnocratico ignora il tempo psicologico, presenzialità autocosciente di un soggetto, poiché misconosce la coscienza e si regola solo sul tempo fisico misurato sul movimento degli astri o sulla frequenza di oscillazione delle molecole. È perciò assimilabile ad un tempo pianificato privo di vero futuro e senza sorpresa, senza gioia e senza vera cognizione del dolore. Il suo scorrere non ci sorprende perché non procede verso una novitas, ma solo verso un’espansione quantitativa e misurabile del presente. Un tempo concepito come puramente

lineare e matematico

è

indicativo di una percezione dell’essere senza spessore e ricchezza, un essere unidimensionale e monista, semplice materia trasformabile e substrato di attività meccaniche: in una parola il tempo si (!*) Penetranti riflessioni sulla percezione del tempo nella vita monastica sono svolte da L. Lombardi Vallauri nel saggio « Voti religiosi e percezione del tempo », in Archivio di Filosofia, Istituto di Studi Filosofici, Roma 1975, pp. 249-270.

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presenta semplicemente come quadro di riferimento entro cui si iscrivono le mutazioni della materia, che esso provvede a misurare in successione. Un tempo perciò non rivelativo, senza armonia interna, separato dal tempo soggettivo nel quale prendono corpo e perdurano i ricordi, le ansie e le speranze dell’uomo; un tempo senza movitas, semplice perpetuazione del già avvenuto. Nella ferma discrepanza tra il tempo oggettivato ed il tempo soggettivo della memoria, dell’anima, dell’esperienza di vita, sta l’origine dell’alienazione della persona nella società tecnocratica, scissa tra un metro sociale del tempo di tipo quantitativo e matematico, e l’umana esperienza della speranza, della gioia, del dolore. La contraddizione tra tempo oggettivo e tempo soggettivo, con il suo duro pungolo, mantiene però aperta la possibilità di una più profonda ricerca da parte del soggetto per un suo liberante superamento: in quel dislivello può restare viva la fiamma della speranza. Ma di per sé la cognizione del tempo del produttivismo tecnocratico vuol essere egemonica. Punta ad estendersi al tempo soggettivo per portarlo in accordo con quello oggettivato, di modo che la coscienza diventa riflesso e appendice della vicenda fisica esteriore. Allora l’alienazione del soggetto, privato della propria autocoscienza e dell’esperienza del tempo che la custodiva, raggiunge il suo apice.

Il tempo dell’esistenza radicale è invece un tempo spezzato, privo di ogni unità interna, perfino di quella forma minima di unità costituita da una misura comune, da un luogo di concentrazione e di consistenza. Un tempo né lineare né seriale, ma disomogeneo, composto di istanti singolari, che rinvia ad una percezione dell’essere come pura occasionalità e casualità, un essere frammentario, pluralistico, privo di ogni interna direzione, anche di quella estrinseca linearità espressa nel tempo matematico oggettivato. Il soggetto consumista vive questo tempo, formato da una molteplicità pura di episodi e momenti, nella ricerca del possesso e della fruizione materiale da continuamente rinnovare. L'esperienza del tempo avviene nella forma di un avido uso dei suoi momenti: è un tempo ricco, che subito diviene svuotato e povero, appena l’occasione è stata posseduta e ghiottamente consumata, e che subito anela a ridivenire ricco, a riempirsi di occasioni nuovamente destinate ad esaurirsi. L’essere è percepito nella guisa di un che di pieno e di dissipabile, un serbatoio di occasioni di godimento 163

da avidamente suggere. L’essere, che deve sopportare un irreversibile processo di degradabilità man mano che l’uomo ne gode, si presenta nella guisa di ciò che essenzialmente si dilegua. Il tempo è svelamento del progressivo depotenziarsi dell’essere. Chiusi ed orizzontali, tutti questi tempi non possiedono un punto di mira oltrepassante l’orizzonte della temporalità, non entrano mai in rapporto con l’eterno, che dall’alto possiede tutto il tempo, e gli conferisce scansione, misura, armonia, novità, densità ontologica. Così tutti questi tempi sono tempi mondani, abbandonati al flusso del secolo, costituiti come tempi inautentici, e privi di quel cantus firmus che conferisce stabilità e unità a quanto altrimenti scivolerebbe nel transeunte e nell’occasionale. Il cantus firmus è

il tempo fondamentale che proviene dai Principio dell’essere: legge, armonia e perenne bellezza, tempo forte e salvato, di cui quello della vita quotidiana autentica è espansione armonica. Il tempo salvato è un tempo deciso, strutturato, obbediente, libero da ambizioni e nevrosi, nel quale Dio e l’uomo si incontrano. Il significato umano del tempo gli viene dall’essere un tempo deciso, ossia vissuto all’interno di una scelta definitiva e assoluta: l’intero scorrere del tempo della vita quotidiana viene costantemente radunato e ricapitolato nel tempo deciso, melodia fondamentale del canto del soggetto. Il tempo deciso, con le sue caratteristiche di stabilità, di costanza, libertà e gioia, è frutto dell’umana capacità di saper scegliere il definitivo senza averne paura. Per questo al tempo deciso possono sommarsi, senza alterarlo o corromperlo, le molteplici variazioni armoniche del tempo quotidiano. Il tempo tecnocratico e quello radicale sono tempi mondani e non decisi: il primo è un tempo già dato e chiuso nella monotona ripetizione dell’identico; il secondo è un tempo senza struttura, senza una melodia centrale. Per certi aspetti sono tempi condannati, poiché in essi si produce l’alienazione, non la salvezza. Quanto meno sono tempi ambiguamente esposti al secolo. Tale loro ambiguità non è d’altronde priva di qualche charces, perché può darsi che il flusso dell’impermanenza di questi tempi mondani e non salvati possa, tra le molteplici occasioni, incontrare l’Occasione e il Principio.

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Capitolo La forma

sesto cristiano-democratica

In più contesti nazionali aumenta un sordo malcontento verso la democrazia, cresce la stanchezza nei suoi confronti e la nascosta tentazione di rinunciarvi. La sfiducia nella democrazia è un sintomo allarmante, ma non del tutto ingiustificato, se si pone mente alle sue disfunzioni, ed alla profonda crisi di verità, di speranza, di apertura al futuro che insidia i sistemi politici democratici, stretti

tra l’appiattimento tecnocratico e la falsa liberazione radicale. Allontanarsi con disgusto dalla democrazia è però un rischio mortale, di cui il nostro secolo ci ha permesso di contemplare i risultati nefasti. È invece necessaria una grande rinascita spirituale, un ritorno verso le sorgenti dello spirito: bisogna purificare i principî e i comportamenti della democrazia, riportandoli alla loro vera essenza e ponendoli sotto la custodia del Vangelo. Nel primo capitolo si è cercato di delineare la responsabilità e il compito della filosofia ai fini di un suo costruttivo contributo alla vita sociale. Occorre ora determinare l’apporto della filosofia cristiana, e la forma specifica del progetto etico-politico da essa proposto, in relazione alla crisi della società e della democrazia ed in ordine al suo superamento. Quale che sia l’attuale situazione di difficoltà della filosofia cti-

stiana, essa deve procedere ad una critica delle ideologie, ad una adeguata interpretazione della situazione contemporanea, alla proposta di forme etico-politiche diverse da quelle esaminate. Il cammino verso il cambiamento viene aperto, comprendendone le condizioni esistenziali e chiarendone i momenti teoretici. Questi ultimi sono necessari (anche se insufficienti), poiché una battaglia nella società inizia con la giusta conduzione di una battaglia filosofica: altrimenti si rischia di risultare subalterni ad altre logiche

e di venire trascinati in altre direzioni. Si può dire che i cristiani abbiano sempre compreso la necessità di una adeguata maturazione culturale, e la grande potenza ideologica e filosofica delle forme 165

etico-politiche che fanno il loro cammino

nella storia contem-

poranea? LE ORIGINI

DELL'IDEA

CRISTIANO-DEMOCRATICA

Per oltre un secolo nella cultura e nelle nazioni europee si è assistito ad una separazione tra Vangelo e democrazia: le correnti cristiane hanno combattuto quelle democratiche in nome della religione, mentre le seconde attaccavano le prime in nome della libertà. Agli inizi di questa amara vicissitudine nel popolo, più che nella borghesia, viveva ancora il sentimento cristiano, e l’intuizione che le aspirazioni alla giustizia sociale ed al rispetto dell’umile erano un’eredità cristiana. Fino al 1848 i moti operai erano animati da una fiamma cristiana; ma già alcuni decenni più tardi larga parte della classe operaia vedeva nel cristianesimo e nella Chiesa un nemico, mentre non pochi ceti possidenti davano con distratta coscienza un omaggio di facciata alla religione, perché rimanesse garante dell’ordine costituito. La forma cristiano-democratica appariva improbabile: non solo cristianesimo e democrazia si contrapponevano, ma pure la democrazia, ossia etimologicamente « il governo del popolo », non era tale. Già da tempo tuttavia operavano correnti minoritarie che cercavano, per strade anche assai diverse, una via d’uscita. Le lontane ed incerte origini della forma cristiano-democratica sono origini polemiche, e possono essere rintracciate nella nuova situazione ideale e sociale aperta dalla Rivoluzione francese, quando la Chiesa e i cristiani presero coscienza di essere ormai, da ogni punto di vista, patte e non più tutto nella società (!). (') Gramsci aveva colto la nuova situazione in cui le rivoluzioni liberali, con lo sviluppo dal 1789 al 1848 del concetto di nazione e di patria, « che diventa l’elemento ordinatore — intellettualmente e moralmente — delle grandi masse popolati in concorrenza vittoriosa con la Chiesa e la religione cattolica », avevano posto la Chiesa e il movimento cattolico. « Dopo il 1848 [con la vittoria del liberalismo], il cattolicismo e la Chiesa “devono” avere un proprio partito per difendersi e arretrare il meno possibile; non possono più parlare (altro che ufficialmente, perché la Chiesa non confesserà mai l’irrevocabilità di tale stato di cose) come se sapessero di essere la premessa necessaria e universale di ogni modo di pensare e di operare. [...] L’Azione Cattolica segna l’inizio di un’epoca nuova nella storia della religione cattolica: quando essa da concezione totalitaria (nel duplice senso: che era una totale concezione del mondo di una società nel suo totale), diventa parziale (anche nel duplice senso) e deve avere un proprio partito [...] il cattolici

166

Si trattava di confrontarsi con le correnti e gli ideali usciti dalla Rivoluzione francese, con il suo motto che rivelava risonanze cristiane, con la pretesa elevata dai valori, espressi dalla Rivoluzione,

di essere i rappresentanti universali della società perché portatori di istanze universali; di dissipare grandi e gravi equivoci, di riunire ciò che era diviso, di riaccendere un’esperienza di vita cristiana nella società, e di dare una risposta agli immensi problemi sociali del tempo. In tali condizioni l’unica via percorribile era di mostrare nell’idea e nel fatto, che il cristianesimo non ispirava interessi di parte, bensì valori umani universali. Bisognava inoltre far valere questo assunto nei confronti sia del liberalismo filosofico, allora nel pieno del suo vigore, sia della nascente rivoluzione comunista-marxista, che negli anni che vanno dal 1850 al 1870 procede a soppiantare le correnti solidariste e di « socialismo cristiano » sino ad allora maggioritarie, e nelle quali viveva, pur nella critica del cristianesimo, una sensibilità cristiana. Successivamente a quegli anni bisognerà poi confrontarsi con la crisi della democrazia liberale e dello Stato liberale, con la vittoria per via « politica » della rivoluzione comunista in Russia, dopo che le previsioni di Marx sulla vittoria del proletariato in conseguenza della sua crescente miseria non si sono verificate; con l’ascesa dei totalitarismi, nonché con l’accelerazione del processo di secolarizzazione e di scristianizzazione. Non è qui il luogo per tracciare il lento emergere lungo circa un secolo dell’idea cristiano-democratica nella cultura europea, ed il suo collegarsi alle tradizioni democratiche già da tempo vitali nel Nord America. Procedendo per sommi capi v'è da ricordare in Francia il tentativo di Lamennais (°), e più tardi il Silon di Marc Sangnier; e da noi l’intensa azione del cattolicesimo sociale, l’esperienza della Lega Democratica Nazionale di Romolo Murri, e la vicenda del Partito Popolare Italiano di Luigi Sturzo (°). smo è diventato un partito fra gli altri » (Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 297 s., 302 s., 311). (2) «La figura del Lamennais è al centro della storia religiosa dell’ ’800, il suo pensiero rappresenta, nelle sue varie fasi, un punto obbligato di riferimento di tutto quanto è venuto dopo: cattolicesimo liberale, cattolicesimo sociale e democrazia cristiana hanno in Lamennais un antesignano e un profeta » (P. Scoppola, Dal Neoguelfismo alla Democrazia Cristiana, Studium, Roma 1975, p. 11). va (*) Sulla Lega di Murri si veda, ad esempio, P. Scoppola, « Cattolicesimo

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In questo processo le esperienze e le elaborazioni dei laici cristiani si svolgono in stretta relazione con le posizioni magisteriali dei Papi, e con le forme via via assunte dall’insegnamento sociale della Chiesa. Dopo le vicende del Sillabo (1864), il rapporto Chiesa-mondo, pensiero cristiano-cultura moderna trova un primo momento di sintesi nel pontificato di Leone XIII: le encicliche Diuturnum illud (1881) sul fondamento dell’autorità statale, Ir2720r-

tale Dei (1885) sulla concezione cristiana dello Stato e sui rapporti tra la Chiesa e lo Stato, Libertas praestantissimum (1888) sulla questione della libertà e sulla sua concezione liberale, Rerum wo0varum (1891) sulla questione operaia, delineano ciò che è stato definito un ideale storico concreto (*). Il riferimento storico-poli-

tico del pontificato di Leone XIII sono le società uscite dalle rivoluzioni borghesi, liberali e nazionali e caratterizzate su piano istituzionale dal regime repubblicano, dal parlamentarismo, dalla libertà di pensiero e di stampa, etc. In Leone XIII si avvertono ancora una scarsa distinzione tra società e Stato ed una forte rappresentatività accordata allo Stato. Successivamente questa tendenza dapprima si attenua e poi quasi si capovolge: ci si indirizza allora ai popoli ed alla società almeno altrettanto che agli Stati, e si cerca un dialogo diretto con le persone. Il contesto culturale e sociale di questo periodo è connotato dall’aggravarsi della crisi del liberalismo classico, dall’ascesa del socialismo, del nazionalismo militar-conservatore, dalle prime avvisaglie dei totalitarismi. Il positivismo, che veniva sostituendo lo spiritualismo e il liberalismo, relativizzava lo Stato, la religione, il diritto, e vi sostituiva il dogma dello sviluppo indefinito della scienza, insieme ad uno spirito antirivoluzionario e antigiacobino. Nel contempo manteneva salde posizioni la morale laica, spesso colorata di kantismo. L’inizio di un diverso atteggiamento del magistero pontificio nei confronti della democrazia si ha intorno al 1890, cioè nella seconda metà del pontificato di Leone XIII. Lo sforzo principale, talvolta consapevole, talvolta no, svolto da vari movimenti di cattolici e da pensatori cristiani, fu di dissociare la e democrazia nella vicenda della Lega democratica nazionale », in Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1966, pp. 110-169. (‘) P. De Laubier, « Un idéal historique concret de societé. Le projet de Léon XIII », Revue Thomiste, 1978, n. 3, pp. 385-412.

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democrazia, in special modo la democrazia politica, dalle sue premesse razionalistiche. Per vario tempo si ricorse alla separazione dell’azione sociale dall’azione politica, conferendo un senso legittimo alla democrazia sociale e lasciando nello sfondo la questione della democrazia politica. Comincia così ad apparire nei pronunciamenti del magistero il termine di democrazia cristiana. Nell’enciclica Graves de communi (18 gennaio 1901) Leone XIII oppone democrazia cristiana e democrazia sociale d’ispirazione socialista: « L’una [...] non vede nulla di superiore alle cose della terra [...]. La democrazia cristiana, al contrario, per il solo fatto che si dice cristiana, deve

appoggiarsi sui principî della fede divina come sulla propria base. Essa deve provvedere agli interessi dei piccoli, senza cessare di condurre alla perfezione che loro conviene le anime create per i beni eterni » (n. 4). Nella stessa enciclica la democrazia cristiana è definita come actio benefica in populum, dunque con un’accentuazione netta del momento sociale su quello propriamente politico: « Non sia poi lecito di dare un senso politico alla democrazia cristiana. Perché, sebbene la parola democrazia, chi guardi alla etimologia e all’uso dei filosofi, serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni significato

politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo » (n. 4). Nei decenni successivi venne attenuandosi la concezione patriarcale e paternalista della vita sociale, che caratterizzava i primi lineamenti della forma cristiano-democratica, ed anche la concezione della libertà religiosa come male minore, come ipotesi, di fronte alla quale stava la tesi dello Stato cattolico, della religione cattolica come religione dello Stato. Rimaneva però viva la consapevolezza che la questione sociale, intesa nel senso più ampio di questione concernente la vita dell’intera società, fosse soprattutto una questione etica, non semplicemente economica, e che perciò liberalismo e socialismo avessero già iniziato il loro declino ideale, in quanto sostanzialmente incapaci di porre in termini etico-umani e non soltanto economici i grandi problemi contemporanei. Ma venivano anche riconosciuti i meriti (e i limiti) dello Stato laico uscito dalla rivoluzione borghese: « Lo Stato laico sviluppò un notevole elemento etico impregnato di valori cristiani. È vero che i pre-

supposti teorici e le finalità di tale etica erano in prevalenza natu169

ralistici, ma i principî del rispetto della personalità umana, della libertà individuale, dell’eguaglianza legale, della giustizia e dei rapporti privati senza differenza di classi, dell’abolizione della schiavitù e delle servitù legali, erano impregnati di cristianesimo. Fu errore quello di molti il non riconoscerlo, per difendere a fondo quella posizione storica alla quale era allora legata la Chiesa » (?). Sturzo idealmente si ricollega qui alla linea del cattolicesimo liberale dell’ ’800 (Rosmini, Gioberti, Manzoni, Tommaseo, Balbo, Capponi, etc.), che sosteneva la possibilità di conciliazione tra libertà moderne, istituti democratici liberali e cattolicesimo. L'incontro tra cristianesimo e democrazia

Era intanto arrivato il periodo storico contrassegnato dalle guerre mondiali, dall’impetuoso apparire degli Stati totalitari, e da una prolungata fase di riflessione della cultura europea all’insegna della « crisi della civiltà », una civiltà in tanta parte lontana dalle sue sorgenti cristiane e incerta su se stessa e sul proprio futuro. È il tempo in cui diverse prospettive culturali muovono alla riscoperia della persona umana, mentre l’espansione della società industriale, con le connesse questioni dell'impiego della tecnica e dell’organizzazione dell’economia, apre nuovi grandi problemi. In questo contesto, pervaso da cupe aspettative e insieme da aspirazioni personaliste, matura negli anni ’30 e ’40 un più compiuto profilo della forma cristiano-democratica, intesa come una concezione generale della vita, dell’uomo e della politica, come una alternativa globale alla sfida degli umanesimi atei, totalitari e borghesi; come la ri-

presa di un equilibrio spirituale tra senso di Dio e senso dell’uomo, tra religione e politica, tra autorità e libertà —, capace di assumere il trinomio libertà, eguaglianza, fraternità come espressione sociale dei valori del Vangelo. Bisognava inoltre denunciare senza pietà gli errori e i cedimenti delle democrazie borghesi, richiamandole al rispetto reale del diritto naturale ed alla promozione integrale dei diritti dell’uomo, non solo di quelli civili e politici. In generale veniva ripensata l’intera presenza cristiana nella storia contemporanea, alla luce di un’etica dell'impegno nel temporale giuo(°) L. Sturzo, Chiesa e Stato - Studio sociologico storico, Zanichelli, Bologna 1959, vol. II, p. 218. La prima edizione di quest'opera uscì a Parigi in lingua francese nel 1937.

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cato nella fedeltà alla trascendenza, un impegno considerato come un'avventura aperta, per provocare uno spostamento generale degli assi della civiltà più che una riforma « dolce » delle vecchie culture e delle vecchie democrazie borghesi. In questo processo, a cui presero parte con intensità e apporti

diversi varie avanguardie intellettuali e politiche cristiane in numerosi Paesi, vanno particolarmente ricordate le figure di Maritain, di Mounier, ed il magistero di Pio XII, che trovò su questi temi un momento di espressione privilegiata nei messaggi natalizi del tempo di guerra, soprattutto quelli del 1942 e del 1944. Maritain, la cui opera Cristianesimo e democrazia, breve ma di importanza decisiva ed « epocale », è del 1942, si impegnava a mostrare la possibilità di principio di un rapporto fecondo tra cristianesimo e democrazia, e insieme a configurare nei suoi aspetti partecipativi, economico-sociali, etici e politici il progetto cristianodemocratico. Il Pontefice richiamava l’indistruttibile fondamento personalistico della vita sociale (« Origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali

ramificazioni ») (9), ed insieme

accettava

la democrazia

come un contesto nel quale i cristiani potevano liberamente impegnarsi (”). Successivamente il Concilio Ecumenico Vaticano II e le (6) « Le norme fondamentali dell’ordine interno degli Stati e dei popoli », Radiomessaggio natalizio (24 dicembre 1942), n. 5. Il testo dei vari Radiomessaggi di Pio XII è in Le encicliche sociali dei Papi (1864-1956), cit. (*) «I popoli, dopo l’amara esperienza, si oppongono ad un potere dittatoriale insindacabile e intangibile, e aspirano ad un sistema di governo più compatibile con la dignità umana. Se non fosse mancata ai popoli la possibilità di sindacare le attività dei pubblici poteri e la portata delle pubbliche leggi, essi non sarebbero stati trascinati alla guerra. [...] È forse necessario ricordare che un governo temperato, di forma popolare, armonizzante con la dottrina cattolica del rispetto della dignità e della libertà umana, rappresenta la migliore salvaguardia dell’ordine interno e la migliore garanzia della prosperità di uno Stato?

[...] In base a quali norme morali dovrà essere realiz-

zata una simile democrazia, l’unica atta al conseguimento del vero bene comune? [...] I cittadini trovano appunto nella vera e sana democrazia i buoni

frutti del necessario contatto di essi con lo Stato. [...] Esso [lo Stato] è, e dev'essere, in realtà, l’unità organica e organizzatrice di un vero popolo » (Radiomessaggio

natalizio (24 dicembre

1944), n. 1 e s.). Pio XII afferma

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encicliche di Giovanni XXIII (Mater et Magistra e Pacem in terris)

verranno a sanzionare autorevolmente l’evoluzione compiutasi. Mette conto rilevare che le ragioni dell’incontro tra cristianesimo e democrazia non sono di ordine pragmatico, non derivano da un accomodamento pratico-utilitario verso un metodo politico che al presente non avrebbe alternativa. Si tratta invece di un incontro motivato a livello teologico e filosofico, di una inedita feconda composizione tra idealità cristiane e idealità democratiche, che configura una completa riforma intellettuale e morale della vita sociale, e che richiede che nella società risplendano virtù cristiane. Il pensiero etico-politico di Maritain, in special modo quello successivo a Religione e cultura, esprime uno dei momenti più alti e maturi di tale riforma intellettuale e morale: indica un nuovo rapporto tra fede, cultura e storia, le necessarie forme dell’umanesimo cristiano-democratico ed i principî basilari di articolazione della vita sociale e statuale. Dal punto di vista dell’incontro tra cristianesimo e democrazia, l’opera di Maritain rielabora i cardini della filosofia democratica, sottraendoli ad ogni ipoteca individualistica, formalistica e relativistica e riportandoli alle loro origini umane, evangeliche e classiche. Operazione che viene attuata soprattutto ne L’uozzo e lo Stato, che costituisce l’espressione più matura e ricca della prospettiva cristiano-democratica, quella nella quale l'immensa fermentazione di aspirazioni sociali, politiche, etiche, umanistiche di quell’orientamento trova un momento di equilibrio e di sintesi ad un livello autenticamente razionale e filosofico. Nell’opera di Maritain, nonché per vari aspetti in quella di Mounier, assunti emblematicamente a rappresentanti universali della forma cristiano-democratica, giunge ormai a risoluzione positiva l’antico dissidio tra coscienza cristiana e forme etico-politiche uscite dalla Rivoluzione francese: molte delle sue idealità vengono accolte e insieme trasvalutate alla luce della filosofia, del diritto naturale e della antropologia cristiani. Per tale motivo si è ritenuto necessario dedicare il prossimo capitolo all’analisi della concezione etico-politica di Maritain, con particolare riferimento a L’uomo e lo Stato. Sebbene la sua dottrina sia stata elaborata in presenza di un assetto culturale e storico diverso da quello di oggi, anche che la vera democrazia ha come ideale la libertà e l'uguaglianza, e che la do dell’autorità politica è la dignità della sua partecipazione all’autorità di Dio.

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le sue istanze di fondo rimangono tuttora valide, sì che l’ideale storico concreto proposto dalla cultura cristiana francese degli anni °30 nelle sue intuizioni basilari travalica i limiti del tempo e di luogo in cui fu espresso (*). Oltre alla decisa posizione personalista, questa linea intende unire ragione e cristianesimo, separati dall’illuminismo, e contestare la pretesa secondo cui solo la ragione ha valore universale, mentre in tale orizzonte il cristianesimo dovrebbe ricollocatsi in un posto subalterno e settoriale. È opportuno aggiungere ancora un’ulteriore considerazione. Abbiamo esordito asserendo che spetta alla filosofia cristiana nella sua funzione critica e costruttiva, sostenere ed elaborare razionalmente la forma cristiano-democratica: tuttavia non esiste di fatto una sola filosofia cristiana, ma una pluralità di filosofie cristiane di indirizzo platonico, agostiniano, blondeliano, teilhardiano, fenomenologico, tomista, etc. A nostro avviso la filosofia cristiana tomistamaritainiana è la più idonea a sostenere l’elaborazione razionale della forma cristiano-democratica, sia perché si basa su un’universale metafisica dell’essere, sia perché sviluppa fecondamente le grandi posizioni classiche sull’etica, sull’uomo, sul valore della corporeità, sul diritto, la legge, la politica e lo Stato. In una parola perché è dotata, più di altre filosofie cristiane, di una inerente forma politica, ossia di una architettura di pensiero e di concetti capace di cogliere e di rendere ragione dell’essenza del politico. Non intendiamo tuttavia sostenere che sia l’unica filosofia cristiana, che possa aprire un dialogo col mondo laico sul problema dell’umanesimo e della democrazia: ci possono a tale riguardo essere legittime differenze di scuola e di tradizione. PER UN APPROFONDIMENTO DELL'IDEA DI DEMOCRAZIA. INSUFFICIENZA DELLA DEMOCRAZIA FORMALE

Il senso ultimo della forma cristiano-democratica è di fondare la democrazia su basi ideali diverse da quelle rousseauiane, giacobine e contrattualiste, di riaffermare il collegamento tra religione e società, di considerare la democrazia come l’inveramento di una giusta idea della persona umana. La prospettiva cristiano-demo-

cratica deve oggi assumere in pieno la crisi di identità e di valori (8) Per taluni aspetti di tale progetto cfr. A. Acerbi, La Chiesa nel tempo, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 94-130 (vedere anche l’Appendice del volume, a p. 246, con un saggio su E. Mounier).

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della democrazia malata e tentare di rispondere positivamente alla sfida, che quella crisi eleva. Sarebbe una grande tragedia se principio democratico e principio cristiano, incontratisi e riconosciutisi

abbastanza recentemente dopo un secolare reciproco sospetto, si separassero di nuovo per prendere strade divergenti. La forma cristiano-democratica si riassume in un’idea di uomo, di diritto, di progresso umano, di libertà, di giustizia, di valore

dello spirito; in una non ingenua fiducia nella ragione e nella grandezza dell’uomo. Se non si vuole indebitamente limitare il significato di democrazia a quello largamente formale proposto dalla scienza politica, bisogna conferirgli un’accezione ampia, qualcosa

che è insieme una concezione generale della vita e una prospettiva politica di strutturazione e di governo della società. Se la democrazia fosse solo un metodo per la formazione della maggioranza e per la scelta dei governanti, non avrebbe senso parlare di forma cristiano-democratica. La celebre definizione di Lincoln (« governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo ») implica qualcosa di più di un puro metodo. La forma cristiano-democratica è una proiezione, per ciò che concerne la vita sociale, dell'annuncio cristiano, della liberazione cristiana, dell’etica cristiana, progressivamente determinatasi nel contatto e nel confronto con le vicende culturali e sociali dell’epoca moderna; con le lotte che l’hanno contrassegnata, con l’emersione dei temi dei diritti dell’uomo e della democrazia: è perciò una forma che non esclude 4 priori gli apporti di riflessione e gli stimoli che possono venirle (e che le sono venuti) dalla complessa vicenda moderna. La prospettiva cristiano-democratica ha radici esistenziali-umane; non disprezza la vita del popolo, le sue tradizioni, i costumi, la sua cultura, l’esperienza delle generazioni, le loro speranze: tutto questo assume, cercando di conservarlo, di purificarlo e di imprimervi forma politica, autocoscienza, identità collettiva, ossia tutto indirizzando al bene comune. Alla fine di tale processo un popolo, sociologicamente inteso, diviene un popolo nel suo senso pienamente politico, cioè un soggetto capace di comprendersi, di partecipare ad un unico bene comune, di avere obiettivi e speranze comuni: in una parola diviene un soggetto capace di liberazione. Senza questo compimento, la democrazia può diventare un involucro per molti contenuti.

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Tra i problemi dell’attuale epoca storica vanno annoverati quello della costituzione di nuove identità etico-politiche di popolo (le nuove nazioni), e quello della ridefinizione delle identità culturali di popoli che vantano antiche tradizioni culturali e politiche. In entrambi i casi la radice della crisi non si situa soprattutto nell’area dell’economia, ma in quella della cultura, e proprio perché la forma cristiano-democratica non è in primo luogo un sistema di organizzazione economica, ma un modo di intendere la vita, l’uomo e i rapporti socio-politici, essa può avere una valida e importante parola da dire agli antichi e ai nuovi popoli. Ai primi può proporre una Rinascita o un Risorgimento, che è riscoperta di identità e valori che la loro storia ha emarginato ed umiliato. Può anche aiutare i secondi, in un processo che non è più di Risorgimento ma di nascita, a costituirsi in società politiche capaci di elevare ad un più alto livello etico-politico la vita di un popolo. In America Latina, in Africa, in Asia lo sviluppo delle varie identità nazionali può avvenire secondo linee anche molto diverse, a seconda dei valori e delle culture che risulteranno prevalenti: la prospettiva cristiano-democratica, con i valori religiosi, culturali ed etici di cui è portatrice, può validamente contribuire a formare la loro identità spirituale e ad edificare una vera e propria società politica, livello compiuto e terminale dell’organizzazione e della vita politica, senza di cui non può essere raggiunto l’ideale classico e cristiano della buona vita. Un popolo non può conquistare la sua piena identità se non al livello della società politica, che è l’istanza politica suprema, comprendente al proprio interno come parte lo Stato. RELIGIONE

E POLITICA

Converrà ora esporre per sommi capi alcuni elementi dottrinali della prospettiva cristiano-democratica, dedicando attenzione ai rapporti tra religione (e cristianesimo)

e politica. Dovranno

essere

toccate anche posizioni teoretiche, perché il pensiero speculativo è in ultima analisi il punto archimedeo, che consente la presa di distanza dal fatto e la possibile elaborazione di una risposta diversa: il compito costruttivo del pensiero è espresso al meglio da una dottrina secondo cui la ragione è in grado di raggiungere la verità 175

e non soltanto, come ad esempio nel razionalismo critico o nella teoria critica della società, di smascherare errori. Né può essere dimenticato il contesto culturale e sociale della storia europea moderna, nella quale la separazione tra religione e politica ha assunto un’ampiezza senza precedenti, con la conseguenza di mettere in crisi lo stesso ordine politico, in difficoltà nel legittimarsi iuxta propria principta.

Nel caso del progetto cristiano-democratico non abbiamo a che fare con una prospettiva che sia largamente diffusa nella società, ma con una scuola etico-politica che ha sinora ottenuto successi e verifiche complessivamente limitati. È perciò un progetto in senso più proprio, perché è rappresentato da una linea teorica che attende una maggiore incarnazione storica. Pur portatrice di valori universali, la cultura etico-politica cristiano-democratica non è finora riuscita a porsi come l’interprete e la rappresentante universale nelle società e nei sistemi politici a metodo democratico. Questa cultura si inquadra all’interno della più generale elaborazione dei principî, che regolano il rapporto tra religione cristiana e politica, tra spirituale e temporale, ossia: a) trascendenza del principio religioso rispetto all’ordine della cultura e della politica; b) autonomia relativa, a titolo di fine infravalente, dell’ordine temporale rispetto a quello spirituale; c) superiorità del principio religioso cristiano, di origine divina, su quello politico; d) compiti di animazione storico-sociale del principio religioso; e) amichevole cooperazione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato. La religione rimane il principio vitale della società, ma senza cadere nell’integralismo, poiché la vita sociale continua a sussistere nella sua relativa autonomia; né nell’organicismo sacro-profano, perché il principio religioso è distinto e superiore a quello socio-politico. La relazione tra principio religioso e principio politico si configura come un rapporto di comunicazione nell’alterità. Non possono neppure essere accolte le posizioni di talune correnti della teologia della secolarizzazione, secondo cui fede e mondo debbono rimanere rigorosamente separati, affinché ciascuno dei due sia se stesso, il che concretamente significa abbandonare l’intero campo della cultura e della società alla pura razionalità tecnologica e alle forme del radicalismo. Dunque, perché cristianesimo e democrazia possano essere appropriatamente declinati insieme, deve essere posto in premessa 176

che non sono mutuamente impenetrabili, che il cristianesimo ha qualcosa da dire alla vita della democrazia, che l’etbos democratico si è sviluppato nella storia come risultato profano dell’ispirazione evangelica. Solo se cristianesimo e democrazia non sono estranei, è possibile un loro fecondo incontro nella diversità. Tale incontro impedisce che la filosofia pratico-politica si costruisca sulla base del metodo dell’automediazione, tipico delle culture immanentiste, per le quali l’uomo si pone e si automedia nella storia, non dovendo il proprio essere che a se stesso. La concezione laicista dello Stato democratico e del suo negato rapporto con la religione è un esempio rilevante del ricorso alla dottrina dell’automediazione, che esclude ogni intervento di altro ordine. Per tale concezione lo Stato non ha bisogno della religione, perché è l’espressione mondanamente compiuta dell’essenza universalmente umana dell’uomo, che si media solo con se stesso. La religione è propriamente l’ambito del non-universale che, posto in relazione col politico, ne altererebbe l’essenza razionale e universale. La filosofia cristiana sostiene invece che la parola di Dio è pronunciata non solo per l’ambito privato della coscienza e del sentimento religioso, ma per l’intera vita personale e sociale dell’uomo; e che perciò il fondamento puramente profano, e al limite ateo, dello Stato conduce necessariamente ad uno Stato senza fondamento. Poiché la religione è luce per la coscienza dell’uomo, uno Stato che espelle la religione è uno Stato senza luce. Anche se il cristianesimo è una energia che viene da Dio e che va oltre il tempo, e anche se la politica è realtà naturale ed umana, cristianesimo e politica devono entrare in comunicazione, alla condizione però che le rispettive nature e le rispettive vocazioni vengano comprese e salvaguardate. Che non ci si affretti a sovrapporre un frontone cristiano alla politica, senza averla prima compresa per quello che è! Sarà infatti proprio l’analisi acuta e diligente del politico a far via via emergere, proprio nell’indagine della sua consistenza, della sua natura e del suo fine, alterità e connessioni con la religione. Il cristianesimo allora potrà entrare in comunicazione con la politica senza essere travolto e contaminato dalla sua pesantezza, ma anzi garantendone l’illuminazione. È dunque essenziale alla forma cristiano-democratica coniugare positivamente coscienza religiosa e coscienza civile, e promuovere una specie di rapporto « ilemorfico » tra religione e società, in cui 177

la prima svolga nel corpo sociale la funzione vivificante che l’anima svolge nel corpo. Non può essere accolta l'opposizione elevata dal razionalismo tra ragione e religione, che non potrebbero conciliarsi, ma solo entrare in un necessario conflitto. L’opposizione tra ragione e religione è nefasta per entrambe, in particolare per la ragione che, separata dalla religione, tende fatalmente a indurirsi, a formalizzarsi, ad allontanarsi dai grandi problemi che assillano l’uomo e connotano la condizione umana. Privata della speranza e del grido dell’uomo che la religione tiene desti, la ragione filosofica cade in balia dell’adorazione dei fatti e diviene scientista: la rivolta contro la religione si chiude con la sconfitta della ragione. Ogni attacco illuminista contro la religione non ha avuto il successo sperato, non ha ucciso la religione, ma si è ritorto contro la ragione, che alla fine della contesa si trova privata anche di verità assolute di ordine razionale. Il compito della prospettiva cristiano-democratica deve essere ulteriormente elaborato in teoria e assunto in prassi per comporre quella separazione tra dottrina e azione, che costituisce una pecca rilevante su piano intellettuale e operativo, e che comporta un’inaccettabile economia di riflessione filosofico-politica. Al suo posto è stato elevato un omaggio, più di una volta puramente verbale, al Magistero sociale della Chiesa. Ma senza un’attiva opera di elaborazione culturale, si verifica da un lato la fuga nei principî generali e dall’altro la caduta in un’azione empirica scoordinata. L’azione del cristiano risulta allora divisa in due sfere non mediate: quella dei principî e quella della prassi. Infine, affinché possano formarsi società vitalmente cristianodemocratiche, sono necessarie anche condizioni metapolitiche, quali la riforma evangelica dell’uomo, il fiorire della preghiera e della contemplazione, il rispetto concreto della persona, la nascita di movimenti culturali, educativi e religiosi. VANGELO E DEMOCRAZIA. I CARDINI DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-DEMOCRATICA

La come giusta messe 178

bontà della natura e della ragione umane non è sufficiente, invece pensavano deisti ed illuministi, a edificare la società e a promuovere la libertà, l’eguaglianza, la fraternità prodalla Rivoluzione francese. Queste grandi idealità tradiscono

la loro nobiltà, se in esse non passa lo spirito del Vangelo, se non si dischiude e diviene operante l’implicito messaggio etico, politico e sociale, che la buona novella di Gesù di Nazareth contiene per sostenere la speranza dei poveri e degli oppressi. Nell’annunciare ai popoli lungo i secoli cristiani la santità di Dio, il suo amore per tutti gli uomini, il valore universalmente redentivo della Croce di Cristo, la potenza della carità che unisce e salva, la difesa dei deboli e dei perseguitati, le beatitudini del Sermone della Montagna, la provvidenza e la misericordia di Dio per tutti gli uomini, la Chiesa adempiva al suo dovere di predicare Cristo e il suo messaggio. Insieme gettava però un fermento, un lievito potente che avrebbe camminato nella coscienza dei popoli, risvegliandovi tutta una serie di attenzioni e di guadagni relativi alla vita storica, temporale e profana: l’idea di progresso, la dignità della persona, il suo trascendere lo Stato per indirizzarsi verso la fruizione dei beni assoluti, i diritti dell’uomo, la sete di giustizia, di cui i grandi profeti di Israele sono un esempio eminente, il rispetto del popolo — non solo in quanto popolo di Dio, ma come comunità di lavoro e di fatiche —, della sua dignità, delle sue speranze e delle sue pene, l'eguaglianza di natura tra tutti gli uomini, la necessità di obbedire in coscienza all’autorità, che ha la sua origine in Dio. Sotto l’influsso del cammino del lievito evangelico nel sociale-temporale, si è via via compreso che non è possibile separare politica e morale, se non al prezzo di regalare agli uomini l’infelicità; che il diritto è la colonna e il fondamento di

ogni vera società politica; che giustizia e vero ordine politico sono legati; che la fraternità e la pace possono farsi strada, se l’uomo non si rifiuta a Dio; che l’amore di Dio rende retto ogni progetto e ogni amore umano, e fa fiorire l’amore fraterno. Solo così gli uomini possono adempiere rettamente il loro compito sociale ed entrare in comunione con le speranze di riscatto e di liberazione. La concezione generale della vita, i contenuti e il costume democratici rivelano dunque profonde risonanze evangeliche, cristiane; né si sostengono senza quell’eroismo che Cristo ha testimoniato, senza che la linfa cristiana li alimenti, li vivifichi, li corrobori. La forma cristiano-democratica asserisce che la democrazia è legata al Vangelo, non perché bisogni necessariamente essere cristiani per essere democratici, o perché tutti i cristiani debbono essere democratici, ma in quanto la filosofia democratica è come un 179

riflesso ed una rifrazione temporale della speranza evangelica. Ed anche perché, mantenendosi in contatto col principio religioso del Vangelo e con la comunità degli interessi reali dell'umanità oppressa, la democrazia evita di trasformarsi in un puro metodo formale ed in un freddo potere. Non si nega perciò l’alterità tra fede e prassi politica, ma si pone l’accento sul fatto che nell’idealità democratica si esprime una vibrazione evangelica, che ad esempio non poteva riscontrarsi nelle dottrine politiche dell’assolutismo. La forma cristiano-democratica non è un partito, ma un’idea universale dell’uomo e della politica aderente alla dignità dell’uomo; non significa perciò che attraverso di essa i cristiani si riuniscono per affermare i loro interessi come quelli di una parte. Non vi è identità tra la prospettiva cristiano-democratica e le forme di azione e di rappresentanza politiche espresse, soprattutto dalla fine della II guerra mondiale in poi, dai partiti democratico-cristiani. Essi adottano più o meno ampiamente e convintamente il quadro ideale cristiano-democratico, ma appartengono ad un altro livello, quello della mediazione partitica, in cui sono presenti i condizionamenti delle diverse situazioni storiche nazionali e delle diverse tradizioni politiche (?). Né è da dimenticare che la forma cristiano-democratica, pur non rifiutando che la volontà politica si esprima attraverso i partiti, è nettamente avversa all’invadenza dei partiti, a quella infausta partitocrazia, di cui non poche democrazie europee hanno dato non felice esempio nel secondo dopoguerra. Sviluppatasi progressivamente nella cultura dell’Occidente sotto lo stimolo di verità e intuizioni che vengono dal Vangelo, la filosofia cristiano-democratica è un complesso di posizioni etico-politiche, che dobbiamo ora rapidamente tratteggiare. Il suo asse è l’asserzione che il fondamento di ogni società giusta e ben ordinata è la persona, ed insieme il riconoscimento che ogni essere umano (°) Sulla distinzione tra partito ispirato cristianamente e cristianesimo, è sempre da meditare la lezione di Sturzo: « Il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di pattito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della Nazione » (Discorso al primo Congresso del Partito Popolare Italiano, tenuto a Bologna nel giugno del 1919). Qualcosa di analogo, trasposto sul piano culturale, può valere per il rapporto tra dottrina cristianodemocratica e partito.

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è una persona: alla sua base vi è perciò un’intuizione specifica della persona, e la fede nella sua ordinazione metatemporale ad un dialogo di amore e di conoscenza con Dio. Ne segue immediatamente che l’edificio sociale deve essere costruito su principî spirituali, i soli capaci di innervarlo e sostenerlo, poiché le dominanti a specificazione etica e spirituale sono più importanti delle dominanti materiali ed economiche. Dal valore della persona consegue anche la pari dignità di ogni uomo e la partecipazione di tutti alla vita sociale e politica; e l’importanza della cultura per il ben vivere umano. Questo ben vivere umano, che è il fine della politica, si realizza in un popolo unito dalla cultura, da un’identità etica, da comuni speranze e tradizioni. Viene anche affermata la santità del diritto e della giustizia ed il valore della libertà. La forma cristiano-democratica raccoglie l’eredità dello Stato di diritto, la conserva nei suoi aspetti notevoli e la integra, favorendo un ordinamento giuridico finalizzato alla tutela ed allo sviluppo della persona umana. All’affermazione della libertà ed alla fede nel progresso fa da bilancia l’asserzione che il male è nel mondo per opera dell’uomo, e che è toglibile solo in modo relativo e sempre contrastato. Dall’interpretazione personalistica della vita politica provengono i principali pilastri della forma democratica di governo: la scelta dei governanti da parte dei governati, ossia da parte dell’intero corpo politico; l’essenziale dottrina dell’autorità, della sua origine, del suo esercizio, il quale implica una precisa concezione del rapporto governanti-governati; l’affermazione dei fondamentali diritti dell’uomo, compresi quelli economici, volti al superamento del capitalismo ed a consentire forme di partecipazione anche su piano economico. Il progetto cristiano-democratico è un insieme di linee di forza e di possibili direzioni di marcia, in base alle quali otientare le proprie scelte e la propria azione. Non è invece un quadro di improbabili escatologie storiche o l’annuncio di un futuro necessario: soddisfa perciò le condizioni per un rapporto fecondo tra teoria e prassi. Fondando la democrazia su valori e volendo edificare la civitas humana secondo linee aperte alla salvezza trascendente, il progetto cristiano-democratico interpreta la democrazia in un senso molto diverso da quelle posizioni, secondo cui l’idea di democrazia esigerebbe l’abbandono dell’assolutezza dei valori ed una filosofia relativistica. 181

La forma cristiano-democratica afferma che l’autorità, la quale in ultima istanza viene da Dio, risiede nel popolo, che non se ne spoglia, investendone i governanti. Essi fanno parte, insieme col popolo, di un’unica comunità regolata dalla legge naturale, perché l'ordine politico e quello giuridico non sono separati da quello etico. LA SOCIETÀ APERTA O LA COMUNITÀ LA LEZIONE DI BERGSON

UNIVERSALE:

Ogni dottrina etico-politica cerca di prefigurare nel concetto una forma politica compiuta e perfetta, corrispondente alle proprie posizioni. Tale è lo Stato etico di Hegel e di Gentile, la società definitivamente passata dal regno della necessità a quello della libertà per Marx, una società di liberi proprietari sotto la Rale of Law per Locke, la ofene Gesellschaft (open society) ricca di libero dibattito e progrediente sotto lo stimolo della scienza per Popper, e così via. La società fraterna, abitata dalla giustizia e dall’amicizia civile e aperta alla trascendenza, è l’idea-guida o l’idea-limite della prospettiva cristiano-democratica: la società fraterna mondiale, che potremmo anche denominare « società aperta », con un significato però diverso da quello di Popper e assai vicino alla société ouverte di Bergson, costituirà il momento di suprema fioritura e di attuazione degli ideali cristiano-democratici. Nella storia del pensiero politico occidentale hanno visto la luce tre fondamentali dottrine: quella della polis; la teoria della comunità universale; la teoria dello Stato nazionale. Quest'ultima ha nei secoli moderni progressivamente spodestato la prospettiva della comunità universale propria del Medioevo cristiano, in concomitanza con un forte sviluppo di un’etica intramondana (!°). Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel sposano a titoli diversi l’etica intramondana e legittimano lo Stato nazionale come massimo e intrascendibile livello di organizzazione politica: posizioni che rendono ormai sconfitta la dottrina della comunità universale. Poteva tuttavia lo Stato nazionale soddisfare le aspirazioni dell’uomo? La prospettiva della comunità universale non si ripre(O) significativo che il sorgere dell’ethos intramondano e la nascita dello Stato-nazione coincidono » (D. Germino, Political Philosophy and Open Society, Louisiana State University Press, Baton Rouge and London 1982, 10 1%)

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senta costantemente, talvolta secondo moduli aberranti, a testimoniare l’ansia di comunione e di universalità che abita nell’uomo? Nel XX secolo sono stati effettuati vari tentativi per costituire modelli di comunità universale: ad esempio il tentativo dell’internazionalismo proletario comunista, o quello del totalitarismo nazista, entrambi infettati da una previa discriminazione tra proletari e non-proletari, oppure tra padroni e schiavi. Essi perciò negano la struttura stessa della società aperta e universale, che si alimenta di un umanesimo teocentrico e che contempla l’eguale dignità degli uomini sotto la luce della trascendenza. La stessa offene Gesellschaft di Popper, che prefigura una società libera, laica, illuminata dalla più ampia discussione critica, che la preserva da tabù e dogmi, è una comunità che assicura la libertà, ma in cui la religione non ha rilevanza pubblica. Può essere al limite interpretata come una versione liberale della società universale, quando il principio di unità venga posto nel progresso scientifico, nell'espansione del benessere, nel libero dibattito, nello sviluppo della libertà.

Mentre il progetto marxista, quello radicale, quello tecnocratico hanno fallito o stanno facendo fallimento nel loto tentativo di stabilire una società aperta, l’universalismo liberale, che pure non cade nei più macroscopici difetti delle altre forme, approda ad un cosmopolitismo che non ha saputo situare ad un livello sufficientemente profondo il principio di unità della vita sociale. L’autentico processo verso la comunità universale è un processo di umanizzazione e di apertura progressiva dell’anima dell’uomo, ispirato da profeti, da grandi testimoni religiosi e politici, da educatori. Il primo grande tentativo moderno, dopo quelli medioevali, di costituire un quadro ideale per la società aperta o la comunità universale è di Bergson. Ne Les deux sources de la morale et de la religion, moralità e religione sono individuate come gli elementi costitutivi fondamentali della società, sia di quella chiusa che dell’aperta. Quest'ultima è una società di movimento, non di stagnazione; abitata dall'amore, non dal timore; da un’etica di convin-

zione e di oltrepassamento, non da una moralità derivante dalla pressione sociale; il suo fine è la gioia nella comunione con Dio e con le creature. La société ouverte abbraccia tutta l’umanità, trascendendo tutte le comunità politiche particolari: anche se non 183

organizzata, è una realtà spirituale in sviluppo, sostenuta dal dinamismo della morale e della religione aperte, e in special modo dalla mistica, che massimamente rifulge nei mistici cristiani, in cui

meglio risplende l’amore di Dio per tutti gli uomini. A dispetto delle resistenze opposte dalla società chiusa, la mistica apre l’animo umano ad oltrepassarne i limiti. Accadde un grande progresso quando la giustizia non fu limitata a coloro che erano inclusi nelle frontiere della città, ma estesa alla comunità universale: « Non ci pare dubbio che questo secondo progresso, il passaggio dal chiuso all’aperto, sia dovuto al cristianesimo » (!). Non sono stati i filosofi a guidare questa marcia: l’origine dell'idea moderna di giustizia è giudeo-cristiana.

La democrazia alla maniera di Bergson, la società fraterna delineata negli scritti di Maritain, in certo modo la « Città armoniosa » di Péguy sono espressioni della società aperta, della comunità universale, in cui si esprime la vita di persone libere ed eguali, miranti a quella « civiltà dell’amore » di cui ha consegnato il compito al futuro Paolo VI alla chiusura dell’anno santo 1975. Proprio a Bergson chiederemo in prestito qualche tratto della società aperta nella sua opposizione alla società chiusa, che è una società « etnica », i cui membri sono indifferenti al resto degli uomini e sempre in un atteggiamento di combattimento, sia esso di difesa o di attacco: « Dalla società chiusa alla società aperta, dalla città all'umanità non si passerà mai per via di allargamento. Fsse non sono della stessa essenza. La società aperta è quella che abbraccerebbe in linea di principio l’umanità intera » (p. 1202). La democrazia, che « è d’essenza evangelica, ed ha per motore l’amore » (p. 1215), è la forma politica della società aperta: « Tra tutte le concezioni politiche [la democrazia] è in effetti la più lontana dalla natura, la sola che trascende, almeno nell’intenzione, le condizioni della “società chiusa” » (p. 1214) (!). Mentre quest'ultima ha come divisa la triade « autorità, gerarchia, fissità », la () H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, in Oeuvres, PUF, Paris 1963, p. 1040. ('*) Bergson impiega qui il termine « natura » in un senso storico-empirico, qualcosa di analogo al selvaggio stato di natura a cui facevano ricorso vari filosofi contrattualisti. In un altro senso, impiegando « natura » come sinonimo di « natura umana » ed alla luce di una sua interpretazione metafisica, la democrazia è la forma politica più vicina alla natura dell’uomo.

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divisa della società democratica è quella stessa della Rivoluzione francese. Né l’bozzo homini lupus, che assolutizza una lotta spietata e feroce e che è in certo modo la divisa della società chiusa,

e neppure l’bozzo homini deus, che tradisce la sua intenzionalità atea, sono le formule proprie della democrazia e della società aperta, quanto piuttosto l’horzo hormzini homo. Né all’Est, dove regnano versioni burocratiche e senza vigore dell’ethos intramondano, e neppure all’Ovest, in cui si tramanda una democrazia pluralisticamente scettica e priva di vero centro, perché trascura la piena dimensione spirituale dell’uomo e la sua apertura alla trascendenza —, sono oggi presenti in maniera apprezzabile segni della società aperta. Eppure il cammino verso la comunità universale è tuttora operante, ed essa è già in una certa misura presente negli spiriti. La Sacra Scrittura e la grande teologia cristiana ne offrono un’immagine preziosa e feconda, che si riferisce all’unità religiosa in Cristo dell’umanità, ma di cui vari caratteri possono valere per l’unità temporale degli uomini tra loro: « Cristo è come un corpo che ha molte parti. Tutte le parti, anche se sono molte, formano un unico corpo. E tutti noi credenti, schiavi

o liberi, di origine ebraica o pagana, siamo stati battezzati con lo stesso Spirito per formare un solo corpo, e tutti siamo stati dissetati dallo stesso Spirito. [...] Voi siete il corpo di Cristo, e ciascuno di voi ne fa parte » (I Corinzi, 12,12ss). Dodici secoli più tardi S. Tommaso d’Aquino, certamente meditando questo testo dell’Apostolo, si poneva la questione « Utrum Christus sit caput omnium hominum » e riconfermava il concetto della sovranità universale di Cristo. Egli spiegava che il corpo mistico della Chiesa differisce dal corpo naturale dell’uomo, perché le membra del corpo naturale vivono insieme a differenza delle membra del corpo mistico, costituito dagli uomini che furono dal principio del mondo sino alla sua fine: essi inoltre si trovano in diverso stato rispetto alla grazia. « Sic igitur membra corporis mystici non solum accipiuntur secundum quod sunt in actu, sed etiam secundum quod sunt in potentia. [...] Sic ergo dicendum est quod, accipiendo generaliter secundum totum tempus mundi, Christus est caput omnium hominum: sed secundum diversos gradus » (1°).

(3) S. Tb., III, 8, 3. 185

La società fraterna e il corpo mistico di Cristo non sono la stessa cosa. Tuttavia il tipo trascendente della comunità universale, che meglio designa l’unità e la solidarietà di tutti gli uomini tra di loro, è proprio il corpo mistico di Cristo, è la loro solidarietà in Cristo. La marcia verso la società fraterna è attivata dalla presenza dinamica nella cultura e nella vita della fede nel corpo mistico: quanto più ricca è tale fede, tanto più gli uomini desiderano la comunità universale e ne avvertono la mancanza come un vuoto.

Annesso al cap. VI

Struttura e soggetti della La

forma forma

cristiano-democratica cristiano-democratica,

intesa

soprattutto

nei

suoi

risvolti organizzativo-politici, non è l’unico riferimento entro il quale i cristiani possano agire nella società. Altri modi di presenza sono stati e sono possibili: in passato la Chiesa si è mostrata più di una volta avversa alla democrazia, ed anche oggi vi sono credenti che aderiscono ad altre dottrine politiche. Nella locuzione « prospettiva cristiano-democratica » il secondo aggettivo specifica e determina il primo, e viceversa il primo qualifica il secondo. La forma cristiano-democratica è propriamente una forma etico-politica, non religiosa, la quale — connotata dal riferimento ai valori antropologici, etici e religiosi della tradizione cristiana, e dal ritenere che la democrazia è più che un puro metodo formale di governo e di accertamento delle maggioranze —, esprime un’idea etica e personalista della democrazia. La prospettiva cristiano-democratica non è un complesso di idee, in base alle quali la Chiesa come istituzione intende regolare i suoi rapporti con la società in un dato periodo. A rigore non è neppure l’insieme di posizioni e valori che, generalmente ricomprese sotto il nome di Dottrina sociale della Chiesa, raccolgono l’insegnamento del Magistero sulla costituzione e i fini della società. Più vicina a questo secondo caso piuttosto che al primo, la forma cristiano-democratica è un universo teoretico-pratico che, assunto il contenuto morale e sociale permanente del pensiero della Chiesa, reagisce sulla situa186

zione attuale, traendo dalla interazione un complesso di posizioni, di prospettive, di scopi, di valori da realizzare, che può essere denominato un progetto, o anche un’ideale storico concreto. Come già richiamato, il progetto etico-politico presenta e deve presentare un’intrinseca relazione alla prassi. La riflessione sui rapporti tra cristianesimo e società non può

essere elaborata nell'ambito di una « teologia politica » chiusa, immobile e separata dalle continue vicissitudini a cui è sottoposta la vicenda sociale; deve perciò essere sostenuta da una costante coniugazione tra teoresi e storicità. La forma cristiano-democratica

appare come una mediazione tra la dottrina e la storia, nella quale mediazione gli eventi non hanno solo la funzione di materia amorfa dal punto di vista dottrinale, ma di un indispensabile stimolo all’approfondimento, al ripensamento, alla rielaborazione dei principî. Non è perciò soltanto un puro insieme di dottrine e di tesi, un progetto sociale elaborato re varietur, quanto piuttosto una forma storicamente incarnata, un complesso di idee e di esperienze storiche, che non ignora la diversità delle epoche culturali, dei contesti geo-sociali, che conosce il dislivello tra realizzazione escatologica e realizzazione temporale dei valori cristiani. Declinandosi storicamente, non si risolve però nella storicità, nel senso che la sua funzione possa essere riconosciuta solo attraverso le situazioni concretamente e fattualmente emergenti dalla storia, ma conserva una sua consistenza dottrinale e ideale. Il progetto cristiano-democratico non mette l’accento su un’ipotetica struttura ideale e definitiva della società; si volge invece verso ciò che si può fare sin da ora per eliminare i mali, e incamminare la vita sociale verso una situazione migliore. La realizzabilità della forma cristiano-democratica è resa ardua dal confronto con i progetti storici egemoni del radicalismo e dello scientismo tecnologico, che plasmano un contesto culturale e sociale ostile ai valori dell’umanesimo cristiano, poiché la loro filosofia sociale è denotata da due assunti: nulla è al di sopra dell’uomo (naturalismo filosofico); l’origine del potere è puramente umana, sì che la legge non è espressione e partecipazione della ragione divina, ma decisione della volontà umana. Non stupisce perciò che la cultura cristiano-democratica abbia per lo più adottato una lettura in termini di «crisi » della situazione sociale, 187

culturale ed epocale: la crisi è considerata globale, perché i fondamenti della convivenza umana sono in pericolo, perché l’essenza della crisi è il conflitto degli umanesimi (borghese, marxista, scientista, radicale, nazionalista, personalista-comunitario, etc.). La proposta cristiano-democratica intende provare che, per avviare a soluzione la crisi, bisogna inserire nuovamente l’umanesimo cristiano nelle grandi correnti ideali della storia europea e mondiale. Inserimento che deve avvenire attraverso l’idealità democratica (troppo poco sarebbe fare riferimento al solo metodo democratico), nella quale al meglio si esprime il valore e la libertà della persona umana; perciò l’accoglimento della democrazia non è strumentale ma razionalmente e idealmente motivato. La questione dell’umanesimo, dopo aver subito una relativa eclissi negli ultimi lustri anche in relazione ad un uso ideologico delle scienze umane ed al declino delle correnti esistenziali, torna oggi alla ribalta contestualmente alle aporie della prospettiva neoilluministica ed alle contestazioni del modello della pura razionalità tecnologica. L'insegnamento di Paolo VI e di Giovanni Paolo II è un continuo attestato della centralità della questione dell’umanesimo e della sua qualificazione intrinsecamente religiosa. L’accento posto sul problema dell’umanesimo individua l’interlocutore principale della prospettiva cristiano-democratica non nei governi o negli Stati contemporanei, ma soprattutto nei popoli, nella società. In tale confronto la prospettiva cristiano-democratica esplica una notevole carica antiideologica, come liberazione da ogni pretesa totalizzante e disumanizzante che operi nei sistemi filosofici e politici attuali. La forma cristiano-democratica deve sottoporre a critica serrata le soluzioni etico-politiche proposte da altre correnti, ma deve -0prattutto evitare di cadere a propria volta nell’ideologia, coprendosi di nobili parole e di fatto operando nella convinzione dell’irrilevanza dei principî, e dunque nella pratica subalternità rispetto alle forme concorrenti. Il soggetto storico di tale forma, pur nell’ampia varietà da Paese a Paese, non è solo il laicato cristiano, ma anche quell’anima naturaliter christiana degli uomini di buona volontà. In tal senso la forma cristiano-democratica entra in dialogo con quelle correnti dell’umanesimo laico positivo, che hanno contribuito a forgiare il volto della società moderna, si colora an188

che della loro sensibilità e chiede un ritorno alle sorgenti prime della civiltà, che hanno segnato soprattutto la vita di quella occidentale: umanesimo teocentrico, diritto naturale, dignità della persona, valore sacro della giustizia, etc. Poiché molti di questi valori non sono confessionali, possono essere accolti anche fuori dal confine cristiano.

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Capitolo

settimo

| problemi della democrazia. L’uomo e lo Stato nel pensiero di J. Maritain (*)

UN PENSIERO POLITICO TOMISTA, POST-MODERNO, UMANISTA

DEMOCRATICO,

La filosofia della politica esperimenta oggi una situazione paradossale. È più che mai necessaria per costruire la città dell’uomo, per indirizzare la società nazionale e quella internazionale al loro sviluppo pienamente umano, per vincere la sfida del totalitarismo e quella opposta, ma pur sempre pericolosa, del formalismo di una democrazia vuota di valori: ma è anche largamente impotente di fronte alla crisi dell’uomo, al deterioramento del tessuto umano

della nostra convivenza e al rifiuto di Dio da parte di varie espressioni della cultura contemporanea. La filosofia della politica non sta a sé: perché si instauri un fecondo rapporto tra l’uomo e lo Stato e perché la persona umana possa formare con gli altri uomini un popolo e un corpo politico, bisogna che l’uomo rimanga tale e che non declini dalla verità della propria natura e del proprio destino. Il rinnovamento della filosofia della politica esige il rinnovamento dell’uomo e, per dirla in breve, l’accettazione teoretico-pratica dell’antropologia greco-giudeo-cristiana. L’uomo e lo Stato, apparso nel 1951, rappresenta il momento conclusivo e, in certo modo, culminante di una vasta riflessione

politica iniziata circa vent'anni prima da Maritain; per la sua ampiezza tematica questa opera, che tratta la scienza del diritto naturale, i fondamenti dei diritti dell’uomo, la scienza dello Stato e della politica, i rapporti Stato-Chiesa, si avvicina agli ampi orizzonti problematici delle grandi opere di filosofia del diritto dell’Ottocento, le quali peraltro comprendevano vaste fondazioni (*) Il testo di questo capitolo riproduce, con piccole varianti e qualche taglio, l’introduzione a: J. Maritain, L’uomo e lo Stato (Vita e Pensiero, Milano 1982).

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schiettamente etiche, che Maritain ha in buona parte provveduto ad elaborare altrove. Ne L’uomo e lo Stato il filosofo francese presuppone e qualche volta richiama le sue precedenti ricerche in campo politico espresse in numerosi volumi: Prizzato dello spirituale, Strutture politiche e libertà, Umanesimo integrale, Cristianesimo e democrazia, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Per una politica più umana, ecc.

La riflessione di Maritain, profondamente inserita ed ispirata dal grande fiume del tomismo ed in particolare dalla metafisica tomista dell’essere, rivive e rielabora originalmente la tradizione nel contatto e nel confronto dialettico con le principali istanze della filosofia moderna. Attraverso l’opera dei tomisti del Novecento, il tomismo, ossia una filosofia strutturatasi nelle sue intuizioni fon-

damentali prima dell’inizio dell’epoca moderna, si colloca nel corpo stesso del pensiero contemporaneo, per molti aspetti in virtù dell’opera di ri-creazione a cui Maritain lo ha sottoposto: oltre al tomismo « pre-moderno » di san Tommaso, si dà dunque un tomismo maritainiano « post-moderno », che è tale perché ha attraversato tanta parte del pensiero moderno. Di questo Maritain rifiuta i principi gnoseologici e metafisici, ma accoglie l’istanza umanistica, ripensandola in un orizzonte teocentrico: siamo quindi di fronte a un tomismo aperto, reso vivo e attuale da un intellettualismo flessibile e da un’apertura integrale all’esistenza umana. I ricchi materiali speculativi, elaborati lungo molti secoli dalla tradizione classica in contesti dottrinali e storici assai diversi da quelli moderni, vengono così ripensati e riorganizzati in relazione al clima filosofico e storico della modernità e della storia moderna. Si può dunque dire che la filosofia politica di Maritain è classica, perché si fonda sul patrimono della tradizione; derzocratica e postmoderna, in quanto ripropone il valore della democrazia in un contesto estraneo alle illusioni moderne della filosofia razionalistica e « separata »; cristiana, perché mostra il necessario radicamento evangelico delle idealità democratiche; cattolico-tomista, perché prende le mosse dalla concezione metafisica e antropologica di tale tradizione, costituendo una rigorosa e coerente esplicitazione delle potenzialità umaniste, personaliste e democratiche del tomismo; umanista, come vedremo meglio tra breve. Il pensiero politico maritainiano non è né liberale, né collettivista, ma cristiano-democratico: il filosofo francese non nega l’ap191

porto che ad esempio il pensiero liberale (Locke, Kant, Constant, ecc.) ha offerto sulla questione dei diritti dell’uomo, ma ritiene che il liberalismo razionalistico abbia imboccato una falsa strada per giustificare quei diritti, fondandoli su una astratta Ragione e su una astratta Natura, invece che in ultima analisi in Dio, dalla cui

mano provvidente l’uomo li riceve. Così temi tipici della filosofia politica liberale dell’età moderna vengono trasvalutati e riportati al loro luogo naturale e razionale di consistenza. Anche per altre questioni, quali ad esempio quelle del rapporto tra Stato e società, tra Stato e diritto, tra diritto e legge, tra politica e morale, le soluzioni proposte da Maritain non sono né liberali né marxiste. Basta ad esempio meditare il primo capitolo de L’uomo e lo Stato per capire la differenza tra la filosofia liberale dello Stato separato dalla società, e la posizione maritainiana dello Stato radicato nella società e da questa espresso; dello Stato che, pur essendo l’organo più alto del corpo politico, rimane tuttavia parte (e non Tutto) al servizio di questo. I nostri costituenti, in

special modo quelli di parte democratico-cristiana, riuscirono a trasfondere nella nostra Costituzione repubblicana lo stesso ideale, che, pur superando quello liberale classico, non cade nella identità tra società, corpo politico e Stato tipica della democrazia giacobina. Attraverso il pensiero di Maritain l’ideale cristiano-democratico viene raccordato al filone della filosofia cristiana e del tomismo, nella linea di una tradizione di pensiero che prende le mosse dalla Politica di Aristotele, che ha altri punti di emergenza nei commenti di Tommaso alle opere etiche e politiche dello Stagirita, e poi nella seconda Scolastica, per arrivare infine alle principali encicliche di argomento etico-politico di Leone XIII, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI ed in ultimo di Giovanni Paolo II. Non sembri questo un richiamo di maniera ad una tradizione che nelle sue propaggini antiche e medioevali si è formata in contesti politici diversissimi dai nostri. In effetti, nonostante la diversità dei climi storici, parte delle categorie concettuali della Politica aristotelica e della Scolastica si rintracciano ne L’uozzo e lo Stato in un ripensamento creativo e originale. Citerei ad esempio la nozione aristotelica di « ben vivere » indicata come il fine della vita politica; la nozione di « società perfetta », che Maritain nega che possa ancora applicarsi agli Stati-nazione, mentre va attribuita ad 192

una futura organizzazione politica sovranazionale, in quanto ormai società perfetta è la società mondiale. In questa prospettiva si riscontra un influsso della interpretazione aristotelica della formazione della società e dello Stato a partire dalla famiglia: lo schema aristotelico, aperto e gradualistico, mostra la sua flessibilità nel suo essere esteso a confini più vasti della polis. L'impiego di questa o quella parte dell’attrezzatura concettuale di Aristotele e della Scolastica non è fatto ripetitivo, poiché Maritain procede a ricalibrare e a centrare intorno alla persona le categorie e le tesi della tradizione filosofica a cui si ricollega. Qualcuno potrà non essere d’accordo di fronte a queste asserzioni che puntano a rintracciare alcuni nuclei scientifici perenni della filosofia politica, quale scienza pratica donata all'Occidente e al mondo intero dai greci. Avranno soprattutto da obiettare positivisti, storicisti, talune scuole politologiche, che sotto vari titoli vogliono negare ogni statuto scientifico e perciò veritativo e co-

noscitivo alla filosofia politica. Tale posizione spesso assume come postulati una totale separazione tra fatti e valori e la piena soggettività dei giudizi di valore, ritenuti sostanzialmente equivalenti l’uno all’altro. Maritain ritiene invece che la filosofia pratica possa determinare il fine della vita politica, emettere e fondare giudizi di valore, in una parola illuminare l’essenza del politico, che in quanto tale, e pur dando spazio alla più ampia variabilità, ha tratti perenni e metastorici. Il che significa che la filosofia politica, che pur deve rimanere in contatto con il vasto mondo degli eventi storici, non è nella sua radice e nelle sue categorie di base una disciplina storica, ma appunto filosofica; una disciplina che deve indicare la struttura della « buona società ». LA CONCEZIONE

DELL'UOMO

E LA POLITICA

L’idea che ci si fa dell’uomo, della sua situazione esistenziale e del suo destino determina in larga misura la teorizzazione delle forme, delle strutture e del significato dello Stato. Nella prospettiva luterana della natura umana considerata profondamente decaduta e sostanzialmente corrotta, lo Stato si presenta come necessario non per conseguire un bene, che è il pieno sviluppo della vita umana, ma in conseguenza del peccato: lo Stato è necessario r4tione peccati, non ratione boni perficiendi. In virtù poi della con-

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vinzione della inconsistenza dell’ordine naturale, la concezione che incorpora le prospettive luterane giunge a sostenere che lo Stato non è regolato dalla legge e dal diritto naturali. Nella prospettiva cattolico-tomista, la natura intrinsecamente sociale dell’uomo fonda la « naturalità » dello Stato. Vi è poi una legge (etica) naturale che, in quanto partecipazione della legge eterna nell’uomo, è misura razionale del giusto e dell’ingiusto, di ciò che va fatto e di ciò che va evitato. Ogni uomo la scopre in sé, e perciò anche lo Stato, nella misura in cui la conosce, deve rispettarla. Se lo Stato fosse richiesto in ragione del peccato, la più coerente filosofia della politica dovrebbe configurarsi come un assolutismo conservatore, mentre invece la prospettiva della perfettibilità e della progressività della natura umana — spirito incarnato che non è costituito una volta per tutte nella pienezza della sua perfezione specifica ma che deve conquistarla a caro prezzo —, si traduce nella centralità politica delle problematiche della libertà e della liberazione. Alla filosofia della libertà Maritain ha infatti dedicato profonda attenzione, in coerenza con la concezione tomista della persona umana (!). In quanto tomista, la concezione politica di Maritain si distanzia notevolmente, pur essendo pienamente antiperfettistica, da quelle di Donoso Cortés e di De Maistre, che, sulla scorta di una concezione ipertrofica del peccato originale e di un fotte soprannaturalismo pessimista, vedono nello Stato quasi esclusivamente il momento della coercizione volta verso individui fondamentalmente cattivi. Maritain si distacca anche dal facile ottimismo « progressista » di un Lamennais, ossia da una concezione acritica e unilaterale del progresso. « Sarebbe una follia e un grave disastro rifiutare, in una reazione cieca contro gli errori del XIX secolo, con la democrazia anarchicoindividualista anche la democrazia comunitario-personalistica » (2), anche se il nostro autore ritiene che questo ultimo tipo di democrazia richiederà ancora molto tempo per realizzarsi pienamente. Sulla scorta di tale posizione, il pensiero politico di Maritain pro-

pone perciò una filosofia democratica, poiché la democrazia, in (') Su questi aspetti cfr. anche i primi capitoli di H. Rommen, Lo Stato nel pensiero cattolico, Giuffrè, Milano 1959. o Cfr. J. Maritain, Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1968, DI0991

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quanto è una organizzazione razionale di libertà fondata sulla legge, è per il filosofo francese la strada per conseguire una razionalizzazione morale della politica. In quanto realtà fondamentalmente etica, la democrazia può vivere e svilupparsi solo se è ispirata dal Vangelo, e solo in tal modo essa può portare a realizzazione la speranza terrena dell’umanità (*). Maritain ha avvertito con grande forza questi aspetti, sì da diventare, secondo la felice espressione di E. Borne, non un filosofo della democrazia cristiana, ma un filosofo cristiano della democrazia (*). Filosofo democratico dunque, ma non filosofo liberale: è opportuno tenere ben distinti questi due concetti, poiché democrazia e liberalismo non sono la stessa cosa. Indicando la convergenza basilare che esiste tra cristianesimo e democrazia personalista, Maritain propone una tesi opposta a quella di Kelsen, per il quale la democrazia è relativismo e quindi negazione di principi assoluti: in effetti per il filosofo francese la fede nell’Assoluto è la migliore garanzia contro la creazione di falsi assoluti terreni e contro atteggiamenti totalitari. Ma il carattere che meglio definisce il pensiero politico di Maritain è di essere soprattutto una filosofia politica urzanista (e più esattamente ancora personalista-comunitaria), la quale non ritiene che il compito della società politica sia di assicurare il benessere di individui isolati, né solo di perseguire il dominio sulla natura, bensì di promuovere la persona umana aiutandola nella conquista della sua libertà di autonomia, di fioritura e di esultazione, « in modo tale che ogni persona concreta, non solo nell’ambito di una classe privilegiata, ma nell’intera massa della popolazione, possa veramente raggiungere quel grado di indipendenza che è proprio della vita civilizzata, e a ottenere il quale concorrono in ugual modo le garanzie economiche del lavoro e della proprietà, i diritti politici, le virtù civili e la possibilità di coltivare lo spirito » (°). Maritain assegna un valore propriamente etico al bene comune del (*) « Ciò che interessa alla vita politica del mondo... è constatare che la democrazia è legata al cristianesimo e che è sorta nella storia umana come manifestazione temporale dell’ispirazione evangelica », Cristianesimo e democrazia, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 30. (4) E. Borne, « La filosofia politica di Jacques Maritain », in AA.VV., IL pensiero politico di Jacques Maritain, a cura di G. Galeazzi, Milano 1978°, . 28. P (*) L'uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1982, p. 63 s.

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corpo politico: infatti bene comune non significa soltanto buone leggi, sagge istituzioni, equo regime fiscale, ecc., ma anche coscienza civica, virtù politiche, valori spirituali, autentica vita di popolo. In quanto umanista e centrata sulla persona umana, la filosofia della politica di Maritain implica pienamente una concezione metafisica della natura umana, che è sostanzialmente quella di Aristotele e di san Tommaso, ossia l’idea greco-giudeo-cristiana dell’uomo. Secondo tale prospettiva filosofica e culturale è naturale ciò che corrisponde alla essenza umana e alle esigenze ed inclinazioni radicali che ne scaturiscono: concezione metafisica della natura che si lega armoniosamente con quella della legge naturale. Per Aristotele e per san Tommaso la natura umana non va individuata nello stato iniziale, originale ed in qualche modo selvaggio, ma nello stato compiuto, finale e « perfetto ». Nella Politica Aristotele chiarisce che la natura è per ogni cosa il compimento del suo sviluppo: « Ogni stato esiste per natura, se per natura esistono

anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio quello che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia di un uomo, di un cavallo, di una casa » (°). Se si intende invece per natura la condizione primitiva, per di più assimilata allo stato selvaggio, si scriverà allora come Spinoza: « Il diritto naturale di ciascuno si estende fin dove si estende la sua potenza... Chiunque reputi di vivere sotto il solo impero della natura ha il diritto assoluto di bramare ciò che egli giudica utile, tanto se sia portato a tale desiderio dalla sua ragione o dalla violenza delle passioni; ha il diritto di appropriarselo in ogni maniera... » (”); concezione empirista e brutale della natura, e distruzione della giustizia del diritto. In tale posizione in effetti l’uomo, nel suo asociale stato di natura, non è sede di alcun diritto, vive dunque in una situazione pienamente agiuridica: (9) Cfr. Aristotele, Politica, 1252b 31 s., trad. di Renato Laurenti, Laterza, Bari 1973. La concezione maritainiana della natura umana, il suo rapporto con la cultura, i due sensi in cui va inteso il termine « naturale », sono chiariti in Religione e cultura, Morcelliana, Brescia 1966, p. 15 s. (") Cfr. Spinoza, Tractatus theologico-politicus, cap. XVI. Analoghi concetti nel Tractatus politicus (cap. II): «Ogni essere ha dalla natura tanto diritto quanta è la sua forza di esistenza e di azione... il diritto di tutta la natura e di ciascun individuo coincide con la sua potenza... tutto ciò che egli pPuono] fa, spinto dalla ragione o dalla passione, è conforme al diritto naturale ».

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prospettiva secondo la quale il diritto nasce con la società e ha come fonte unica lo Stato, poiché solo lo Stato e la volontà generale creano diritti e leggi. LE CATEGORIE DEL POLITICO: LA LEGGE NATURALE

IL POPOLO,

LA PERSONA

UMANA,

« Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati » (3). Pur senza manifestare adesione ai procedimenti, in verità un po’ sbrigativi, con i quali Schmitt cerca di provare tale suo assunto, si può accoglierlo come storiograficamente fecondo. Va però aggiunto che non può essere eretto a principio universale: non sempre è dato riscontrare un influsso teologico secolarizzato sui concetti della dottrina dello Stato (si pensi a Kelsen), né è sempre detto che quando tale influsso si verifica, necessariamente avvenga ad opera di concetti teologici secolarizzati (ossia svuotati dal loro originario riferimento cristiano). Il pensiero politico maritainiano, e più ampiamente quello cattolico del Novecento, rappresentano dottrine elaborate mediante concetti razionalfilosofici e concetti che palesano una connessione non secolarizzante con la teologia cristiana. È tale ad esempio il concetto di popolo, di cui Maritain mostra in Ragione e ragioni, nel capitolo intitolato « Esistere con il popolo » (°), le an(*) Cfr. Carl Schmitt, Le categorie del « politico », a cura di G. Miglio e di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61. Nell’ ’800 Proudhon aveva già colto acutamente la profonda connessione tra teologia e politica: «Il est suprenant qu’au fond de notre politique nous trouvions toujours la théologie ». Negli stessi anni in cui Schmitt suggeriva questo canone ermeneutico della dottrina politica moderna, Maritain lo andava già individuando e svolgendo per proprio conto ne I tre riformatori nel capitolo dedicato a Rousseau, imperniato sull’idea che il suo pensiero etico-politico comprende categorie provenienti da una piena naturalizzazione di idee cristiane. Peraltro l’impiego del suddetto principio interpretativo da parte di Maritain e di Schmitt si sviluppa lungo cammini molto lontani in relazione alle loro ben diverse posizioni: volontatista, decisionista, venata di irrazionalismo e amoralismo in Schmitt, basata sulla ragione, sul rispetto della persona e dell’etica in Maritain. In Schmitt la politische Theologie viene a significare che l’ordine politico non è di per sé profano e temporale, ma ambiguamente e pericolosamente investito di un carattere sacro; la filosofia politica cristiana di Maritain mantiene invece alle realtà politiche la loto densità storica e razionale, procedendo a determinarne regole e fini mediante il lavoro della ragione che usa i propri mezzi, nonché le luci che le vengono dalla Rivelazione. (°) J. Maritain, Ragione e ragioni, Vita e Pensiero, Milano 1982.

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tiche origini cristiane nella teologia del popolo di Dio: anche oggi una filosofia politica cristiana, pur impiegando la nozione di popolo come un concetto filosofico e razionale, farà bene a non dimenticarne il radicamento arricchente e vitalizzante nella teologia. Il concetto e la realtà di popolo (e quelli di persona, ad essi strettamente legati) sono sicuramente il fulcro di tutta la filosofia della politica di Maritain, la quale, pur impiegando numerose altre categorie (comunità, società, nazione, Stato, pluralismo, autorità,

temporale, spirituale, ecc.), individua nel popolo la realtà politica primordiale e originaria. La nozione di popolo a sua volta rinvia al personalismo metafisico tomista di Maritain e alla sua proposta di umanesimo: prospettiva umanista che lo sviluppo ideologizzato di talune scienze umane (strutturalismo, freudismo, scuola di Lacan, marxismo scientista, ecc.) ha duramente contestato negli ultimi decenni, ma che

oggi riemerge con forza in relazione alla crisi sempre più profonda delle correnti anti-umaniste. Imperniato sulla realtà del popolo, sul valore e la dignità della persona, sulla intrinseca eticità della vita politica, il pensiero politico di Maritain rinvia a Dio supremo Legislatore della comunità umana, alla legge naturale da lui inscritta nella natura umana e all’influsso umanizzante e benefico del cristianesimo. È perciò chiaro che la filosofia politica di Maritain presuppone una metafisica dell’Essere increato, Atto puro per sé sussistente, e una metafisica dell’essere creato come partecipazione di quello: metafisica dell’esse e della partecipazione, di cui si troverà l’influsso nella impostazione del problema dell’autorità politica. E presuppone pure che il cristianesimo sia il fermento perenne che ultimamente ispira e salva la città politica nel raggiungimento dei suoi stessi fini: primato di illuminazione, di animazione e di servizio dello spirituale-evangelico, che è la grande luce di tutto il pensiero pratico di Maritain e del quale il Nostro è stato nel corso storico della filosofia occidentale uno dei più alti ed instancabili testimoni: verità centrale che né Hobbes, né Spinoza, né Rousseau

e neppure Kant hanno colto. Sembra dunque che i pilastri della filosofia politica di Maritain siano sostanzialmente la persona umana e i suoi diritti, il popolo, la legge naturale, dai quali si deducono armoniosamente il vero fine del corpo politico, la critica di una concezione assoluta della sovranità dello Stato, il pluralismo politico, la concezione istrumenta198

lista dello Stato (lo Stato non è né l’unico, né forse il fondamentale soggetto della politica), la natura dell’autorità e della sua origine. Impostazioni e nozioni basilari che consentono di evitare eccessive ipostatizzazioni, quali ad esempio si verificano quando troppo esclusivamente si impiegano termini come Stato, società civile, ecc., che sostituiscono alla reale dinamica della società un gioco dialettico di concetti ed entità astratte il quale, quando è protratto a lungo, è un mezzo eccellente per consegnarsi all’automatismo del pensiero. POPOLO,

CORPO

POLITICO, STATO

L’intenzionalità fondamentale di Maritain non è tanto quella di compiere un’indagine storica sulla costituzione e lo sviluppo dello Stato moderno, quanto piuttosto un’analisi schiettamente filosofica delle realtà politiche basilari. Egli non traccia, se non nelle sue linee portanti, la storia del rapporto cittadino-Stato nei tempi moderni, né concede eccessivo spazio a problematiche e categorie, quali ad esempio quelle di pubblico e di privato, ecc., di cui si fa largo impiego oggi, proprio perché la intenzionalità portante è di indicare costruttivamente la struttura pienamente umana della polis, in special modo di quella moderna. In tale operazione interviene la distinzione classica tra fare o agire poietico, e agire in senso stretto o prassi: il fare, il produrre ha, secondo Aristotele, la sua conclusione (felos) nell’opera, nell’altro da sé; mentre l’agire ha il proprio felos in se stesso. La città politica autentica non è soprattutto il luogo del produrre o del fare, ma dell’agire; non principalmente dell’attività transitiva, bensì di quella immanente. Distinzione che può ricomprendere l’intera dinamica della vita politica, se il momento del libero confronto delle opinioni politiche, che evidentemente non è un'attività produttivotransitiva, viene inteso come momento comunicativo dell’agire. Naturalmente il fare, e con esso tutto il corteo degli interessi economici basilari della vita umana, non possono in alcun modo essere esclusi dalla dinamica della città politica: ma, nella prospettiva di Maritain, essi non occupano il livello primario perché, per quanto l’aspetto della produzione e riproduzione della vita non venga trascurato (!°), l’aspetto specificante della città politica maritainiana (‘9) Cfr. a tale proposito J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale

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non è la produzione bensì la conquista della libertà da parte dell’uomo: ciò altro non è che la semplice esplicitazione di un’antropologia che considera l’uomo quale animale razionale, spirito incarnato e progressivo destinato a conquistare e a godere sempre più pienamente della sua libertà. Maritain è restio ad impiegare la nozione di società civile, concetto che abbonda invece in tante dottrine politiche moderne. Imperdonabile dimenticanza e inaccettabile semplificazione di un pensiero politico che considererebbe soltanto l’uomo da una parte e lo Stato dall’altra? Arretratezza di una riflessione che non tiene conto di acquisizioni scontate (!!)?

In realtà tale nozione, di origine hegeliana, non è indispensabile e può essere sostituita con quella di corpo politico. Se si vuole, sono il popolo e il corpo politico, ossia l’intera moltitudine adunata in società —- un momento di organizzazione della quale è lo Stato — la vera e propria società civile. In tal modo la sfera dei rapporti economici non è confinata al livello della società civile hegelianamente intesa come sistema dei bisogni, ma appartiene all’ambito proprio della politicità; inoltre è chiaro che separare Stato e società civile significa compromettere l’unità del corpo politico e del suo bene comune, e dare partita vinta all’atomismo individualista e tendenzialmente egoista della prassi della società civile liberale (1°). e Da Bergson a Tommaso d’Aquino. In effetti l’attenzione destinata ne L’uomo e lo Stato alle questioni economiche è limitata. (‘) È bene tenere presente che il termine «società civile » è di per sé ambiguo, usualmente designando, oltre all’hegeliano sistema dei bisogni e quindi ciò che non è ancora assurto alla forma statuale, l’intera società politica e lo Stato nella loro differenziazione rispetto alla società religiosa, alla Chiesa. (2) « Nella società civile ciascuno è fine a se stesso, ogni altra cosa per lui è nulla »: Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di F. Messineo, Laterza, Bari 1979”, aggiunta n. 116 di E. Gans, p. 410. Maritain si è opposto con vigore alla concezione hegeliana della società civile e del suo rapporto con lo Stato che finiva per conferire all’individuo identità solo nello Stato. Per Hegel le tre forme dell’eticità concreta sono la famiglia, la società civile, lo Stato: la società civile è in un primo momento la perdita dell’eticità, in quanto l’autocoscienza della libertà dell’individuo si esprime come egoismo borghese, nonché l’apparire dell’universale interdipendenza attraverso la divisione e l’organizzazione del lavoro. Hegel distingue dunque la società civile dallo Stato, ma, secondo Maritain, « guastando questa distinzione nel peggiore dei modi: anziché prendere la società politica o il corpo politico (col quale si identifica il concetto autentico di società civile) per il tutto politico e sociale del quale lo Stato non è che l’organo centrale, fa dello Stato il tutto

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Distinguere tra società civile da un lato e società politica o Stato dall’altro comporta o uno schema dialettico triadico (famiglia, società civile, Stato) nel quale la società civile è solo un momento inferiore della sintesi, oppure una concezione antistatalista,

che vede nella società civile il luogo della libertà e dell’iniziativa potenzialmente sempre conculcabili dallo Stato. Ma entrambe le posizioni non sono sostenibili, perché in esse la nozione di società civile, attentamente esaminata, vi si rivela pensata e definita in relazione-opposizione alla nozione di Stato e di organizzazione statuale: per definizione la società civile è ciò che si distingue da questa organizzazione. Una filosofia della politica che muova i primi passi partendo dalla opposizione (dialettica o meno) di Stato e di società civile, inizia male poiché fin dal principio trascura di partire dall’uomo e dal popolo, che è la realtà politica fondamentale: « Il popolo è la sostanza stessa, la libera e vivente sostanza del corpo politico. Il popolo è al di sopra dello Stato, il popolo non è per lo Stato, ma lo Stato è invece per il popolo » (5). Né la realtà di Stato né quella di società civile, bensì quella di popolo, è il fondamento della politica di Maritain, che sotto tale profilo eredita la tradizione della prima e della seconda Scolastica e si ricollega anche all’eredità della filosofia democratica di Hamilton, di Jefferson e soprattutto di Lincoln. La contrapposizione moderna tra Stato e società civile era un fatto sconosciuto al Medioevo e all’antichità (!). Secondo Maritain

il corpo politico li comprende entrambi, in quanto la società più ampia e autentica non è lo Stato ma il corpo politico stesso (). politico e riduce quella che egli chiama la società civile ad una collezione atomistica di individui e di diritti individuali, collezione che ha a che vedere solo con l’ordine economico e con le relazioni tra interessi privati» (cfr. J. Maritain, La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1973, p. 193). Si sa poi che Hegel nella Filosofia della storia del mondo scrive: «tutto ciò che l’uomo è lo deve allo Stato. Ha il suo essere soltanto in esso. Tutto il valore che l’uomo possiede, tutta la sua realtà spirituale non l’ha che per mezzo dello Stato ». Analoghi concetti sono espressi nella Filosofia del diritto: « Lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, ... è il razionale in sé e per sé... l’individuo esso medesimo ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è componente dello Stato » ($ 258). (**) L'uomo e lo Stato, p. 33. (#) «La scoperta della società civile appartiene al mondo moderno, che assegna per la prima volta il loro diritto a tutte le determinazioni dell’idea » (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, p. 410). «E (*) Lo Stato e il corpo politico « non appartengono a categorie diverse,

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La polis greca e la civitas romana non erano lo Stato, bensì la società politica, anche se talvolta poco correttamente polis viene tradotta con Stato. Un'analisi lessicale mostra che il corpo politico di Maritain, nonostante le ben diverse situazioni storiche, è assimilabile alla koinonia politichè di Aristotele, alla communitas civilis di Cicerone, alla societas civilis di Leonardo Bruni, ma non è la bérgerliche Gesellschaft di Hegel. Il corpo politico è dunque l’insieme dei cittadini: lo Stato in quanto parte della koinonia politichè non può abolire tale comunità, luogo di incontro delle libere opinioni politiche (19). Maritain, inserendo società civile e Stato nel corpo politico, ne

toglie la reciproca tensione tipicamente moderna — che ha dato esiti opposti, poiché Hegel cercava di superare tale tensione integrando la società civile nello Stato, e Marx prevedendo la scomparsa dello Stato —, e nello stesso tempo supera larga parte della filosofia politica moderna che si giocava su tale dialettica. Egli si collega certamente alla tradizione greca classica, ma con una innovazione profonda, la centralità della persona, che quella tradizione non possedeva. Inoltre la prospettiva personalista-umanista di Maritain è insieme pluralista, poiché, ponendo al centro il corpo politico, lo concepisce come una struttura articolata e organica di comunità. Dunque i raggruppamenti sociali e i rapporti civili sono in sé già politici, ossia interni alla vita del corpo politico, che dal suo seno esprime lo Stato, organizzazione centrale del potere, del diritto, dell’ordine pubblico, del benessere comune. Viene così tolta, almeno in linea di principio, quella separazione totale della vita socio-economica da quella politica, che Marx aveva duramente crima differiscono l’uno dall’altro come la parte differisce dal tutto. Il corpo politico o società politica è il tutto. Lo Stato è una parte, la parte dominante di questo tutto » (L’uozzo e lo Stato, p. 13). (!9) « L'insieme di tutte le “case” o famiglie, costituiva quella che Aristotele chiama la comunità politica (Koizoria politichè) e che i latini tradussero con societas civilis, ma che è diversa dalla società civile moderna perché non si contrappone allo Stato, ma è essa stessa la polis, il populus, e detiene il potere in quanto fondata da membri forniti di potere. Nella società antica... non c’è contrapposizione fra lo Stato e la società civile... ». Cfr. E. Berti, Storicità ed attualità della concezione aristotelica dello Stato, « Verifiche », n. 3-4, luglio-dicembre 1978, p. 308 s. L’interessante articolo di Berti propone interpretazioni e prospettive sulle quali concordiamo pienamente.

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ticato nello Stato borghese, accusato di depoliticizzare la società. La posizione del filosofo francese, che supera la separazione borghese secondo la quale i diritti del cittadino diventano nella prassi corrente i diritti di un individuo egoista separato dagli altri uomini e dalla comunità —, tende ad una sostanziale convergenza di civile e di politico, che non è mai totalitaria, poiché è pluralista e poiché in essa pienamente sussiste un ambito del privato: in effetti la convergenza di politico e di civile non implica in nessuna maniera né l’identità di pubblico e di privato, né una qualsiasi forma di panpoliticismo. La distinzione tripartita tra società civile, corpo politico e Stato non è dunque necessaria, bastando la distinzione tra corpo politico e Stato e la struttura articolata e personalistico-comunitaria del corpo politico: in effetti se vi è pieno riconoscimento dei diritti delle comunità naturali anteriori allo Stato e se il corpo politico è internamente differenziato ed articolato in vari livelli, non è più necessario ricorrere alla nozione di società civile per ritagliare un ambito di libertà e di pluralismo nei confronti dello Stato, dal momento che il politico non è solo lo statale. Naturalmente si può comprendere che la nozione di società civile sia emersa nel pensiero e nella prassi dello Stato liberal-borghese, il quale restringeva i rapporti politici in ambiti limitati e generalmente coincidenti con l’area statale strettamente intesa: in tal modo i rapporti sociali, societari ed economici erano definiti come non-politici e confinati nell’area della società civile, mentre, come si è già detto, per Maritain il corpo politico è l’unica sede di rapporti, che in quanto attengono alla polis e la costituiscono,

sono politici. Così la società civile non è più un sistema autonomo tra la famiglia e lo Stato, un sistema che, per l’enorme sviluppo della produzione e dei rapporti economici dell'economia moderna, tende a proliferare in modo tendenzialmente anarchico: l’inserimento dell’attività economica nel corpo politico pone le premesse per una sua regolamentazione e finalizzazione. Abbandonata la nozione hegeliana della società civile quale « sistema dei bisogni », regno della necessità e ambito della produzione e riproduzione a livello economico della vita, nozione storicamente sorta per il fatto che il momento economico della vita familiare antica e medioevale è diventato pubblico, la posizione di Maritain potrebbe essere avvicinata a quella prospettiva che fa del 203

popolo-corpo politico il luogo vitale delle iniziative libere, umane, volontarie, da cui ripartire ogni volta che lo statale strettamente inteso entra in crisi. In quanto imperniata sulla persona umana la filosofia politica di Maritain supera, oltre alle categorie hegeliane, le categorie greco-aristoteliche, secondo le quali il pubblico è il luogo della libertà e il privato-domestico-familiare è il luogo della necessità naturale. I PROBLEMI DELLO STATO E LA CRITICA ALLA FALSA SOVRANITÀ DELLO STATO

La filosofia politica di Maritain conduce verso una vera e propria rifondazione dello Stato, del quale si rifiuta la visione sostanzialista e troppo spiccatamente organicista ed etica: il primo e fondamentale soggetto politico collettivo è il popolo costituentesi in corpo politico, espressione del quale è uno Stato intrinsecamente pluralista in quanto si modella sulle articolazioni del corpo politico. Stato di diritto certamente, nel quale si vive non sotto la signoria di persone, bensì sotto quella di norme e valori spirituali; ma Stato che non si riduce alla sua identità con l'ordinamento giuridico, come in Kelsen. La dottrina statuale di Maritain è politico-istrumentalista: politica perché riconosce che lo Stato è la parte più alta del corpo politico, istrumentalista perché lo Stato è espressione e strumento del corpo politico, né può essere una persona morale separata dal popolo e trascendente rispetto al corpo politico. Lo Stato non è un soggetto di diritti: solo il popolo e il corpo politico lo sono. Lo Stato di Maritain non è più in alcun modo lo Stato liberalborghese e neppure lo Stato collettivistico: è lo Stato pertsonalistacomunitario espresso dal corpo politico, possedente un proprio specifico bene comune temporale, abitato dalla giustizia e dall’amicizia civile, che sono le due essenziali forze costruttrici e conservatrici della società. Un modello di Stato dunque che si oppone sia alle forme totalitarie, secondo le quali tutto deve essere nello Stato e per lo Stato e nulla fuori dallo Stato, sia alle posizioni di Saint-Simon e di Marx che prospettano la dissoluzione dello Stato: lo Stato personalistacomunitario invece, pur essendo parte e non tutto, ha un suo com-

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pito proprio, che non è conservare se stesso e il proprio potere (7), bensì promuovere la buona vita umana della moltitudine, non solo il vivere, ma il den vivere. Ricollegandosi ad Aristotele e a san Tommaso, Maritain insegna che la polis è felice non principalmente quando è potente, ma quando è abitata da uomini perfezionati nelle virtù razionali (dianoetiche) e morali. Il campo d’azione dello Stato è la conservazione dell’ordine pubblico e la promozione del bene comune, e non l’esercizio della costrizione incondizionata come fu ed è tuttora affermato da pensieri politici di derivazione empirista e positivista. Il pensiero politico di Maritain si configura come una delle poche grandi filosofie politiche moderne personaliste-umaniste: come tale non soltanto è una filosofia politica antiborghese e antimarxista, ma anche post-borghese e post-marxista. L’uomo e lo Stato rappresenta una critica senza appello allo Stato assoluto, allo Stato separato e superiore al cotpo politico (Bodin), allo Stato-volontà generale (Rousseau), allo Stato suprema incarnazione dell’Idea (Hegel), in una parola a quello Stato-astra-

zione suprema che troppo facilmente diviene Stato totalitario all'interno e imperialista e guerrafondaio all’esterno: concezioni che sono totalmente estranee alla vera filosofia democratica. La decisiva critica di Maritain al falso concetto di sovranità dello Stato, che risale alle politiche di Bodin, Hobbes e Rousseau, comporta implicazioni rivoluzionarie nell’ambito nazionale (rapporto autorità-cittadini) e internazionale (rapporto degli Stati tra loro nell’ordine internazionale). La critica maritainiana della sovranità dello Stato è perciò un contributo verso una società politica ed una autorità politica mondiali, verso un diverso schema di relazioni internazionali che né la Società delle Nazioni, né l'Onu sono ancora stati in grado di avviare, in quanto tuttora basati sulla

sovranità dello Stato, che non concepisce né accetta alcuna legge internazionale che lo leghi. Pur rifiutando la falsa dottrina della sovranità dello Stato e la piaga del nazionalismo, Maritain accoglie invece in pieno i valori propri della nazione, la più importante comunità umana: « è forse (‘) In molteplici momenti forti del pensiero politico moderno si è sostenuto che il fine dello Stato è la propria autoconsetvazione. Si pensi al Principe di Machiavelli, come anche a Montesquieu: « quantunque tutti gli Stati abbiano generalmente un oggetto medesimo, che è di conservatsi... » (Espri? des loîs, lib. XI, cap. VI).

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la più completa e complessa fra le comunità generate dalla vita civilizzata... Una nazione è una comunità di uomini che prendono coscienza di se stessi, come la storia li ha fatti; che sono legati al tesoro del loro passato e che si amano quali sono o quali si immaginano di essere, con una sorta di inevitabile introversione. Questo progressivo risveglio della coscienza nazionale è stato uno dei tratti caratteristici della storia moderna » (1). Si noterà come Giovanni Paolo II, nel suo discorso all’Unesco (giugno 1980), abbia richiamato i valori della nazione e la loro base culturale e umana: « La Nazione è in effetti la grande comunità degli uomini che sono uniti per diversi legami, ma, soprattutto, dalla cultura. La Nazione esiste “mediante” la cultura e “per” la cultura... esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della Nazione ». La critica della falsa idea della sovranità dello Stato, della fondamentale amoralità della ragion di Stato, del principio di nazionalità, inteso nel senso che ogni gruppo nazionale deve costituirsi come Stato separato, forma i prolegomeni alla proposta di un’autorità politica mondiale, che sia l’espressione della società mondiale per stabilire la pace internazionale e provvedere a un diverso ordine economico mondiale. La riflessione di Maritain si ricollega a quella nutrita schiera di pensatori e filosofi, che negli ultimi secoli hanno indagato le origini della pace e della guerra ed esposto i meriti della soluzione federale e del governo mondiale (basterà ricordare, senza pretese di completezza, A. Hamilton, E. Kant, Lord Lothian, L. Robbins, nonché quei pensatori della Scuola di

(Chicago che nel 1947-48 prepararono un « disegno preliminare di una costituzione mondiale »).

Dal punto di vista del magistero della Chiesa, l’enciclica Pacem in terris (1963) e la costituzione conciliare Gaudium et spes (1965) hanno ripreso e trattato questi problemi. È importante avvertire

che la giustificazione che la Pacem in terris dà della necessità di un’autorità politica mondiale (« i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche... per quanto moltiplichino i loro incontri... non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi {del bene comune universale] adeguatamente; e ciò non tanto per ‘mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una (5) L’uomo e lo Stato, p. 7 s.

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loro deficienza strutturale... Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni: di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale » [nn. 134 e 137] è sostanzialmente identica a quella espressa da Maritain ne L’uomo e lo Stato (« Ma allorché i corpi politici particolari, i nostri moderni Stati nazionali, divenuti incapaci di conseguire l’autosufficienza e di garantire la pace, si allontanano definitivamente dal concetto di società perfetta, il quadro cambia necessariamente... è la società internazionale che deve ormai diventare società perfetta » (p. 234). In effetti a che cosa mira l’autorità politica mondiale? A far vivere insieme i popoli per un compito comune, che è la conquista della libertà umana: per giungere a questo i popoli ricchi devono ormai accettare un abbassamento del loro tenore di vita per stabilire una migliore giustizia sociale internazionale, senza la quale gli uomini non potranno vivere insieme nella libertà (19). L'AUTORITÀ

POLITICA

Il problema dell’origine e dell’esercizio dell’autorità politica è uno dei più spinosi e importanti temi di ogni filosofia della politica: ad esso si collegano questioni basilari quali il diritto del popolo all’autogoverno, lo statuto reale dei governanti, nonché la natura dell’investitura che essi, come rappresentanti del popolo,. ricevono dal basso. Maritain, seguendo una ininterrotta tradizione che risale a san Paolo e a Gesù stesso, situa in Dio l’origine dell’autorità: l’autorità viene da Dio e il popolo riceve da Dio il diritto di governarsi e di scegliersi i propri governanti. Si vede dunque che nel momen() Sulla questione di un’autorità politica mondiale Maritain è tornato nel discorso tenuto all’Unesco il 21 aprile 1966 (cfr. Le condizioni spirituali del progresso e della pace, ora in Approches sans entraves. Scritti di filosofia cristiana, 1, Città Nuova, Roma 1977, pp. 245-252). Non si possono neppure dimenticare né le svariate prese di posizione di Pio XII a favore di un’autorità politica mondiale, né il discorso di Paolo VI all’Onu (4 ottobre 1965), nel quale tra le altre cose si legge: « Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un’autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico-politico? ».

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to stesso in cui una determinata filosofia nega Dio, contemporaneamente cancella l’unica vera sorgente dell’autorità, e compie il passo fondamentale per ridurre l’autorità a puro e semplice potere (2°): l’attuale situazione

critica delle democrazie

occidentali

dipende anche dal fatto che si è via via persa la memoria dell’origine dell’autorità e del suo significato, con un netto scadimento del prestigio morale dell’autorità politica, che non è più in grado di giustificare né a se stessa né ai governanti la propria grandezza e il proprio valore di servizio alla comunità. Nella soluzione maritainiana, che anche a tale proposito si riallaccia alla grande tradizione classico-tomista, l’autorità, originata da Dio, risiede poi nel popolo, che non la perde per il fatto di rivestire di autorità coloro che sono chiamati a governarlo. Essi sono i rappresentanti del popolo, i vicari o i delegati del popolo, non di Dio: l’autorità va dunque da Dio al popolo e da questo ai governanti, non va direttamente da Dio ai governanti, secondo la posizione classica dell’assolutismo. La soluzione proposta da Maritain caratterizza invece pienamente la filosofia politica democratica: l’autorità politica, sebbene in ultima analisi si fondi in Dio e debba rispettare le supreme regole morali dettate da Dio, non è propriamente immagine di Dio, bensì del popolo. Bisogna inoltre aggiungere che i governanti, per quanto delegati del popolo e moralmente obbligati a vivere in comunione con lui, non sono dei burattini, ma realmente investiti di autorità:

il di-

ritto del popolo all’autogoverno non diviene mai in Maritain la « sovranità popolare » di tipo democratico-roussoiano, ossia la totale identità di governanti e di governati; e neppure si avvicina alla discutibile versione di Kant, secondo il quale « ogni membro dello Stato ha verso gli altri diritti coattivi, dai quali solo il sovrano è escluso (poiché egli non è membro dello Stato, ma lo crea e lo conserva) » (7). La questione dell’origine e dell’esercizio dell’autortità politica (*) Non è inutile ricordare la fondamentale distinzione tra l’autorità che è un indispensabile servizio comune basato su leggi etiche, e il potere, che si giustifica solo se è esercitato in funzione dell’autorità. L’autorità è il diritto di dirigere e di essere obbediti; il potere è la forza con cui si possono obbligare gli altri ad obbedire. (*) Cfr. E. Kant, Sopra il detto comune: « questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica », in Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 49 (cotsivo nostro).

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appartiene ad un ambito nel quale più immediatamente e profondamente risaltano le connessioni tra metafisica, in particolare metafisica della partecipazione, e politica. Infatti se il diritto all’autogoverno risiede nel popolo, questo, nominando i propri rappresentanti, non si spossessa di tale diritto ma ne concede loro l’esercizio: quindi i rappresentanti del popolo possiedono il diritto di governare per partecipazione al diritto inerente e radicale del popolo. Nel momento in cui una opzione antimetafisica tolga ogni approccio di questo genere e quindi anche ogni metafisica della partecipazione, il diritto al governo non sarà nei governanti la partecipazione all’originario e permanente diritto del popolo, ma sarà fisicamente loro trasferito in modo totale. In ciò consiste l’essenza dell’assolutismo e del totalitarismo, dietro di cui vi è dunque anche il rifiuto della metafisica della partecipazione. LA LEGGE

NATURALE

AL CENTRO

DELLA

POLIS

Anche per ciò che concerne la dottrina della legge naturale L’uomo e lo Stato costituisce un momento forte della rinascita tomista del XIX e del XX secolo: rinascita che ha, tra le altre cose, provocato rilevanti approfondimenti — in Germania ad esempio non si può dimenticare l’opera di H. Rommen (’) — nel campo della filosofia del diritto e in specie del diritto naturale. La legge naturale, data per spacciata dagli empiristi e dai positivisti, è ritornata di forza al centro di varie riflessioni politiche contemporanee, anche se la sensibilità culturale media attuale non è favorevole a una sua recezione, nella misura in cui tale sensibilità è più storicista che illuminista (si sa infatti che gli illuministi, a modo loro, credevano alla legge naturale). (*) Cfr. ad esempio, di Rommen, Die ewige Wiederkehr des Naturrechts, Késel Verlag, Miinchen 1936 (trad. italiana, L’eterno ritorno del diritto naturale, Studium, Roma 1965, a cura di G. Ambrosetti) e Der Staat in der Katholischen Gedankenwelt, Bonifacius Druckerei, Paderborn 1934 (trad. italiana, Lo Stato nel pensiero cattolico, Giuffrè, Milano 1959, a cura di G. Ambrosetti). Non è inutile notare che anche per Rommen (come per Rosmini) la persona è il diritto: « L’essere personale dell’uomo è dato come presente prima di ogni diritto positivo, almeno per quanto riguarda l’istituzione della comunità giuridica... E invero questo essere una persona, questo essere fine a se stesso, è l’elemento primo e in lui sta il seme originario del diritto » (L’eterno ritorno..., p. 194).

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Di fronte alle critiche portate alla legge naturale dalla scuola storica, di fronte alle riduzioni positivistiche e all’antistorico esprit de géometrie del diritto naturale di derivazione razionalistico-illuministica, Maritain intende procedere ad una vera e propria rifondazione filosofica della legge naturale, connettendola intimamente ai risultati della inchiesta di teologia naturale e di antropologia: posizione di pensiero che recupera, radicandola nella legge naturale, l’unità-distinzione di moralità e di legalità, ossia il valore etico della legge contro i dualismi separatisti kantiani (?). Secondo la posizione che si richiama a Maritain, Rommen, Rosmini, Taparelli D'Azeglio, il diritto naturale quale è espresso dalla metafisica biblico-cristiana della filosofia dell’essere, ossia il diritto naturale classico, differisce foto coelo dal diritto naturale razionalistico: « Concepito come ordine interno all’uomo, il diritto naturale classico — è questo uno dei punti della “tipologia” tomistica — consta di pochi principi essenziali, i più intensi dei quali (che non possono subire deroga alcuna) sono i precetti negativi, che esprimono una contraddittorietà insuperabile tra un’azione e il valore razionale e sociale della natura umana. Non dunque il carattere di codice, o di elaborata precettista, come è invece caratteristico del Giusnaturalismo » (*). La concezione del diritto naturale della filosofia cristiana e quella del giusnaturalismo sono dunque ben differenti. (*) La problematica della legge naturale è uno degli assi portanti della filosofia politica di Maritain, anche se finora tale aspetto è in certa misura

sfuggito all’attenzione degli studiosi, così come anche i sobri ma profondi lineamenti della sua filosofia del diritto. A tale proposito basterà qui richiamare che I diritti dell’uomo e la legge naturale, L’uomo e lo Stato, Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Per una filosofia della storia, nonché vari saggi (cfr. ad esempio La philosophie du droit, Neuf lecons sur la loi naturelle in parte inedite; Knowledge through connaturality) illustrano la nozione di legge naturale, il suo rapporto con la legge eterna, con lo jus gentium e con la legge positiva, ed infine i modi con cui l’umanità prende coscienza della legge naturale nel corso del tempo. Su questi problemi mi permetto di rinviare al mio studio, « Prospettive di filosofia del diritto nel pensiero di Jacques Maritain », in Jus, n. 3, 1982. Sul problema della conoscenza storicamente progressiva della legge morale e sulle prime età della coscienza morale, si veda pure Raissa Maritain, Storia di Abramo o le prime età della coscienza morale (Massimo, Milano 1978). Si può dunque affermare che la riflessione maritaniana rappresenta una consistente riproposizione della legge naturale nel corpo stesso della filosofia contemporanea. (*) Prefazione di G. Ambrosetti alla traduzione italiana di Rommen, L’eterno ritorno della legge naturale, p. XXI.

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Nonostante la rinascita della legge naturale, l’attuale situazione della produzione del diritto è ben lontana dall’essere soddisfacente: secondo una consuetudine ormai antica e radicata nell’Occidente, più di una volta la produzione del diritto civile è stata ed è la distruzione del diritto naturale. Con il che viene colpito il fondamento stesso dei diritti dell’uomo, ossia la legge naturale, ordine intelligibile ed eterno stabilito da Dio. Mentre è vero che la legge umana deriva dalla legge naturale, la esplicita e obbliga in forza di questa, di fatto oggi si insegna e si pratica che la legge positiva deriva tutto il suo valore solo dalla convenzione di volontà libere. La legge, che di per sé è una disposizione della ragione volta al bene comune e promulgata da colui che ha in cura la comunità (*), diviene ormai la pura e semplice espressione della volontà generale, del numero: Auctoritas, non veritas facit legem (il che significa anche che la maggioranza, non la verità, fa la legge). Posizione che viene ad affermare che il principio e l'origine della legalità è la volontà, la volontì cenerale. Moralità e legalità sono dunque separate: mentre la seconda dipende dalla volontà, la prima riguarda solo il soggetto singolo, magari anche la religione, ma è di per sé esterna all’ordine della legge. Opzione che facilmente denuncia la previa negazione di un ordine ideale immutabile e intrinseco all’essenza umana (valore perenne del platonismo) ed il rifiuto della legge naturale: solo riconoscendo la legge naturale, legalità e moralità possono svilupparsi da un’unica base, mentre negandola il diritto appare come prodotto, come creato, non come riconoscimento di un ordine razionale.

Il dibattito sulla legge naturale interviene poi a pieno titolo nella giustificazione razionale dei diritti dell’uomo, dove si riscontra senza troppa difficoltà una netta bipartizione: vi sono filosofi che riconoscono più o meno esplicitamente la legge naturale, e ve ne sono che la rifiutano, come fondamento dei diritti dell’uomo.

In Maritain tutta la dottrina della legge e dei diritti dell’uomo è armoniosamente ricollegata alla legge naturale e infine alla legge eterna, che è la stessa sapienza increata di Dio. Il diritto naturale non concerne solo il diritto privato e prestatale, ma l’intera estensione del diritto. Ogni diritto è tale se è fondato da vicino o da lontano nel diritto naturale: il diritto dello Stato e la legge non (25) Cfr. San Tommaso, Suzz. Tbeol., I II, 90, 4.

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ne sono fuori. I diritti della persona non sono un momento astratto del processo dialettico, bensì costituiscono la prima ed immediata espressione della legge naturale. Attraverso il rispetto della legge naturale, la politica si collega all’etica e a Dio, autore della legge naturale e Legislatore supremo. La ripresa di riflessione sulla legge naturale costituisce il cammino migliore e teoreticamente più saldo per fondare e promuovere i diritti dell’uomo e la strumentazione giuridica necessaria. La legge e il diritto non vanno allora visti principalmente sotto l’aspetto della limitazione della libertà, bensì sotto quello della razionalità: lezione che varie filosofie moderne hanno trascurato nel momento in cui si fondavano su una concezione dell’individuo come monade assoluta e totalmente libera, che deve rinunciare a qualcosa o al limite a se stesso per vivere in società. Il diritto non è allora una disposizione razionale basata sulla legge naturale, ma è « la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione del suo accordo con la libertà di ogni altro, in quanto ciò è possibile secondo una legge universale » (°°). Per il filosofo francese la conoscenza della legge naturale non è ottenuta una volta per tutte — così come accade nell’apprendimento di un teorema di geometria la cui ostensione ne esaurisce il contenuto —, ma è storicamente progressiva, sottoposta ad una

crescita lenta, accidentata e piena di difficoltà; e questo perché la legge naturale non è un codice scritto, ma una legge ox scritta. In quanto espressioni della legge naturale, lo stesso accade per i diritti dell’uomo: il fluire del tempo ne arreca una conoscenza progressivamente più ampia, e così avverrà con sempre maggiori arricchimenti sino alla fine dei tempi. Di fatto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 ne ha proposto un elenco più completo della Dichiarazione del 1789: « Una dichiarazione dei diritti dell’uomo non sarà mai esauriente e definitiva. Sarà sempre in funzione dello stato della coscienza morale e della civiltà in una data epoca della storia. Ed è proprio per questo che dopo la notevole conquista costituita alla fine del secolo XVIII dalle prime formule scritte, c’è ormai per gli uomini un interesse maggiore a rinnovare di secolo in secolo tali dichiarazioni » (??). (*) Cfr. Kant, Sopra il detto comune: « questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica », in Scritti di filosofia politica, p. 45 s.

() Cfr. J. Maritain, Sulla filosofia dei diritti dell'uomo, in AA.VV. I di-

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Proprio in quanto normata dalla legge naturale e attenta in primo luogo ai diritti dell’uomo, che non sgorgano dalla buona grazia dello Stato, bensì derivano direttamente da Dio, la politica di Maritain si sviluppa in un’atmosfera diversa da quella di numerose altre dottrine politiche nelle quali i problemi centrali sono la organizzazione dello Stato, la conquista e la gestione del potere, e nelle quali la volontà generale (ossia il numero) ha sostituito il diritto naturale (ossia la regola razionale del bene e del male). Secondo tale posizione, intrinsa di formalismo e di positivismo giuridico, la legge è giusta quando è espressione della volontà generale (#). CRISI DELLE DEMOCRAZIE

OCCIDENTALI

Le democrazie dell'Occidente sono oggi pressoché interamente intente alla sola sfera del « vivere », ossia alla sfera dei rapporti economici e produttivi, e non riescono ad elevarsi alla sfera pienamente politica del « vivere bene ». Lo spazio reale di attività del corpo politico è ridotto in quanto largamente appiattito sull’attività puramente economica: donde anche un accrescimento innaturale di funzioni statali in tale dominio. Maritain auspicava un accrescimento dei compiti statali di coordinamento economico ai fini di una migliore lotta al sottosviluppo e di una maggiore solidarietà economica internazionale mediante un’autolimitazione del benessere dei Paesi ricchi: di fatto invece l’intervento statale sembra oggi significare soltanto un ulteriore stimolo nella corsa al benessere e al consumismo. Si è dunque, anche sotto tale profilo, accentuata nelle democrazie occidentali quella divaricazione ipocrita tra i grandi principi ideali ai quali una certa retorica politica non cessa di richiamarsi, e la prassi quotidiana e corrente che risponde a ben altri motivi: ritti dell’uomo, Ed. di Comunità, Milano 1952, p. 104. Nel volumetto I diritti dell’uomo e la legge naturale (1942), Maritain aveva provveduto a rielaborare, integrare e ampliare l’elenco dei diritti dell’uomo rispetto a quello del 1789. (#) Nel nostro secolo Kelsen, tra gli altri, respinge nettamente l’idea del diritto naturale e la collocazione del diritto ad un duplice livello (diritto positivo e diritto naturale); per Kelsen il diritto è solo il diritto positivo, posto da un atto di volontà del legislatore.

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profonda malattia morale che mina dall’interno la consistenza ideale, umana e politica delle nostre democrazie. Dopo aver vinto la guerra gli Stati dell'Occidente non si sono dimostrati in grado di vincere la pace. Perché? La ragione basilare è che la vita democratica, più di ogni altro tipo di convivenza politica, è una organizzazione razionale di libertà eticamente e umanamente fondata: la politica è perciò luogo antropologico per eccellenza nel quale il cristianesimo, rivelazione dell’uomo all’uomo e indicazione del suo autentico fine ultimo, deve intervenire con la sua forza di animazione e di ispirazione perpetue. Quei partiti di tendenza democratico-cristiana, sorti in numerosi Paesi dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, avreb-

bero dovuto indirizzare la loro azione a combattere la malattia morale delle democrazie occidentali e a stimolarle verso la sfera del « ben vivere ». Ma così non fu: il giudizio di Maritain sulla loro azione, che diventa esplicito e molto severo nel 1966 (7), è

già pienamente formato ai tempi de L’uorzo e lo Stato, in relazione alla grave disattenzione di tali partiti al problema dei mezzi di una politica cristiana: « Se i partiti di ispirazione cristiana che sono comparsi sulla scena politica dopo la seconda guerra mondiale avessero avuto un più acuto senso di ciò che gli uomini si attendevano da loro, questo aspetto del problema dei mezzi, ossia la scoperta di una nuova tecnica paragonabile a quella di Gandhi, avrebbe fin dal primo istante occupato i loro pensieri » (*). Osservazione che fornisce anche lo spunto per segnalare l’assidua e costante attenzione del pensiero politico di Maritain alla questione dei mezzi, che per il Nostro è il problema fondamentale della filosofia politica (8). Questione alla cui importanza Maritain era stato verosimilmente risvegliato dalla figura di Gandhi e dal suo metodo di lotta politica. La diagnosi della situazione delle nostre democrazie insegna anche che la democrazia è un sistema politico difficile ed esigente. In effetti il popolo ha bisogno di uomini, di testimoni che gli inse(°) Cfr. J. Maritain, I contadino

1969, p. 41.

della Garonna,

Morcelliana, Brescia

(°) L’uomo e lo Stato, p. 82. (*) Sono testimonianza di tale assidua attenzione le pagine dedicate alla questione dei mezzi di lotta politica, in Religione e cultura, Umanesimo integrale, Strutture politiche e libertà, L'uomo e lo Stato, Per una filosofia della storia.

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gnino ad essere autenticamente popolo; necessita di minoranze profetiche di avanguardia che mantengano il movimento politico e la tensione morale nella comunità; ha assoluta necessità di ritro-

vare la propria identità attraverso la testimonianza e l’azione di quelli che Maritain chiama servi ispirati del popolo. Essi adempiono la loto funzione nella misura in cui non pretendono di dominare il popolo, ma di ridestarlo al senso dei suoi compiti: Gandhi è stato appunto uno di loro, e dei più grandi. Le minoranze di avanguardia posseggono quindi una funzione eminente nella paideia politica maritainiana, che può essere svolta solo se lo Stato consente loro libertà di espressione. Per ciò che concerne infine la libertà di pensiero e di stampa, Maritain adotta nel complesso soluzioni aperte o liberali in quanto la censura e la repressione toglierebbero al corpo politico un indispensabile dinamismo e movimento interni: difende quindi l’importanza della libertà di stampa e dell’opinione pubblica, senza peraltro dimenticare il diritto delle società democratiche di proteggere il proprio credo democratico contro coloro che vorrebbero distruggerle. Affermando l’importanza della opinione pubblica e delle libere opinioni politiche, Maritain rigetta implicitamente la dottrina tecnocratica ed epistemocratica, secondo la quale solo gli esperti hanno diritto di intervenire politicamente: in effetti la capacità di giudizio politico non coincide con la capacità di giudizio e di conoscenza puramente scientifici. Non si può applicare all’opinione pubblica il criterio oggettivo epistemologico dell’evidenza universalmente vincolante, poiché tutto il dominio del pratico (etica e politica) è in ultima istanza posto sotto la regolazione non della ragione scientifica, oggettivante ed epistemica, ma della virtù di prudenza. Non è possibile altra soluzione per una filosofia politica né tecnocratica, né scientista, ma imperniata sulla centralità dell’uomo della comune umanità. Tra lo scientismo di origine cartesiana, che pretende di applicare al social-politico una sorta di fisica, e la posizione di quell’antico maestro di realismo integrale che è Aristotele, il quale insegna il ruolo centrale della virtù della prudenza nel pratico, Maritain non ha dubbi (*). (*) Nella tradizione filosofica italiana già Vico, nel 1708, si opponeva

al

ZIO

L’ambito del politico si costituisce allora anche in relazione alle opinioni politiche, dove la diversità delle opinioni non si può ricondurre alla diversità delle situazioni di interesse, poiché non è detto, né è generalmente vero, che la varietà delle opinioni non sia niente altro che il riflesso immediato della particolarità degli interessi e degli egoismi. Lo Stato democratico deve evitare di ideologizzare l’opinione pubblica: chi pensa che questa non sia altro che espressione di interessi, non invece di visioni dell’uomo e del mondo, chi ritiene che sia esclusivamente il campo della ricerca dell’utile e non anche del vero, pone le premesse per giustificare in anticipo la rottura rivoluzionaria.

In realtà, invece, lo Stato

non deve tutelare la particolarità degli interessi e degli egoismi, ma la pluralità delle libere opinioni politiche. Sostiamo ancora un momento a riflettere sulla grave crisi delle democrazie occidentali. Maritain ne chiede una riforma, della quale è momento essenziale la rinuncia alle loro matrici razionalistiche, individualistiche e borghesi. Pur senza rinunciare agli istituti democratici, invece di una democrazia formale è oggi necessaria una democrazia eroica, una democrazia personalista, che è una fase fondamentale della costituzione di una nuova cristianità, la quale rimane sempre l’orizzonte finale e ricapitolativo del pensiero storico-politico e spirituale di Maritain. Peraltro democrazia umanista e nuova cristianità non sono la stessa cosa: la prima è un momento rilevante della seconda, ma non la esaurisce. In effetti parlare di nuova cristianità vuol dire prospettare una nuova epoca di vita e di cultura, una diversa forma di civiltà. Significa collocarsi in un luogo teologico e insieme antropologico, toccare il rapporto radicale tra grazia e libertà e ricercare una nuova evangelica coscienza di sé. Le interpretazioni talune volte formulate (e divenute più frequenti dopo l’uscita de I/ contadino della Garonna), secondo le quali l’ultimo Maritain avrebbe rinunciato alla prospettiva della nuova cristianità, per « ripiegare » o sull’ideale democratico o sulla vita mistica e contemplativa, non trovano riscontro nelle opere dell’ultimo Maritain e il filosofo francese stesso le smentisce: « Vi sono delle persone in Italia che pretendono che io abbia rinnegato matematismo cartesiano, rilevandone la sterilità nelle questioni etiche e politiche. Cfr. IL metodo degli studi del tempo nostro, in G.B. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, Ricciardi, Milano-Napoli 1953.

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Umanesimo integrale! È una sciocchezza e una calunnia; tengo più che mai a tutte le posizioni di Urzazesimo integrale, è della crisi

attualmente subita dall’intelligenza e dalla fede che mi occupo nel Contadino... » (*). La prospettiva della nuova cristianità è e rimane l’orizzonte inglobante e progettuale di tutto il pensiero pratico di Maritain (*), perché traduce il rapporto essenziale ed « eterno » tra religione e cultura, tra cristianesimo e civiltà, che a sua volta si fonda sulla relazione grazia-natura e grazia-libertà. La tesi che comanda tutta la elaborazione ulteriore e che si innerva nelle grandi prospettive cattoliche di Agostino e di Tommaso, è che il cristianesimo deve intimamente lievitare e fecondare la storia e le civiltà umane: è ben naturale allora che per Maritain l’ideale storico concreto della nuova cristianità sia suscettibile di declinazioni analogiche secondo i differenti periodi storici, ma che non sia mai eliminabile. Comunque venga configurata, la nuova cristianità è un’esigenza che deriva sia dal fatto che il cristianesimo fermenta la civiltà, sia in

ultima analisi dall'azione sanante e perfezionante della grazia. CONTRO

E ATTRAVERSO

Inserita nell’antico e maestoso fiume del pensiero politico classico, la dottrina di Maritain si ricollega ai grandi pensatori politici della philosophia perennis e della filosofia cristiana: Tommaso, Suarez, Da Vitoria, Bellarmino, mai passivamente

accettati, ma

ripensati, ricalibrati e rinnovati con una gamma di dottrine elaborate in rapporto alla nuova situazione storica della città politica moderna. Per il suo radicamento nella tradizione classica il pensiero politico di Maritain è meno datato e storicamente situato di altre (*) Lettera di J. Maritain a « Masses Ouvrières », n. 238, marzo 1967, p. 4. (#) Non è neppur vero, come da taluni è stato affermato, che avendo Maritain rinunciato dopo il 1940 alla prospettiva della nuova cristianità, L'uomo e lo Stato non ne contenga più traccia: indubbiamente il libro ha un altro oggetto, ma contiene qua e là cenni inequivocabili sul fatto che Maritain non ha per nulla rinunciato all’ideale storico concreto della nuova cristianità. La controprova risolutiva può aversi consultando Riflessioni sull’America (Morcelliana, Brescia 1960), che raccoglie ed amplia conferenze tenute da Maritain all’Università di Chicago nel novembre 1956, ossia vari anni dopo la pubblicazione de L’uomo e lo Stato. Maritain a più riprese riconferma che la prospettiva di nuova cristianità di Urzanesimo integrale rimane centrale per la sua filosofia politica, della cultura e della storia (cfr. pp. 134-146).

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dottrine politiche moderne, come ad esempio quelle di Hegel e di Marx, che in più parti elevano a livello teoretico contingenti situazioni di fatto: ciò significa che la filosofia politica del Nostro è largamente esente dal rischio di ideologia. Innestato nell’albero della tradizione classica, il pensiero di Maritain si confronta in modo dialettico con le principali dottrine politiche moderne (Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel, Marx, Comte, Proudhon). In tale confronto Maritain privilegia Bodin (lo Stato è sovrano), Hobbes (lo Stato deriva da un contratto e si incarna nel sovrano), Rousseau (lo Stato deriva da un contratto e si esprime nella volontà generale); in effetti quando arrivano Hegel, Comte e Gentile il gioco è in larga parte ormai fatto. Ciò non impedisce però che in questi ultimi autori certe false dottrine si presentino con una virulenza particolare, come è il caso dello Stato etico di Hegel: « Lo Stato è la realtà dell’idea etica, lo spirito etico in quanto volontà manifesta, evidente a se stessa, sostanziale, che si pensa e si conosce e compie ciò che sa e in quanto lo sa » (*). In tal modo per Hegel l’individuo ha realtà solo nello Stato, mentre la legge ha troncato ogni legame con la legge naturale e non è più tenuta ad essere giusta: in effetti Hegel combatte l’idea che lo Stato sia fondato sul diritto naturale. La negazione del diritto naturale quale fondamento dello Stato ha portato consistenti filoni del pensiero politico moderno ad esprimere sia una vocazione apertamente o nascostamente totalitaria, sia una profonda negazione di ogni influsso e illuminazione cristiana della vita sociale, sia anche spesso la compromissione della realtà stessa dei diritti dell’uomo. Per tale ultimo profilo può essere utilmente meditato quanto scrisse nel suo corso di filosofia positiva Comte: « La metafisica degli ultimi cinque secoli ha introdotto dei pretesi diritti umani, i quali non comportano altro che un elemento negativo... Nello stato positivista, che non ammette titoli celesti, l’idea di diritto sparisce irrevocabilmente. Ciascuno ha dei doveri e verso tutti: ma nessuno ha dei diritti propria(*) Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, $ 257 (trad. it. p. 238). È ben nota l’importanza per la politica della filosofia hegeliana: « Nessun altro sistema filosofico ha esercitato un influsso così forte e durevole sulla vita politica quanto la metafisica di Hegel ». Cfr. E. Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano 1950, p. 362.

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mente detti... gli uomini devono essere concepiti non come altrettanti esseri separati, ma come i diversi organi di un solo grande essere ». Ma non c’è bisogno di negare formalmente ed esplicitamente la nozione stessa dei diritti dell’uomo per sboccare in situazioni di cosiddetta democrazia totalitaria. Il democraticismo giacobino di Jean-Jacques Rousseau, esigendo in virtù del contratto sociale la « cessione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti alla comunità tutta », può di fatto raggiungere i medesimi esiti. In effetti il patto sociale di Rousseau si riduce ai seguenti termini: « Ciascuno di noi mette in comune la propria persona ed ogni potere sotto la suprema direzione della volontà generale: e noi riceviamo ogni membro come parte indivisibile del tutto » (#9). Ma qual è il risultato di una così semplice operazione? « Il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere alcun interesse contrario a costoro, sicché tale potere sovrano non ha assolutamente bisogno di dar garanzie ai suoi sudditi... perché dunque il patto sociale non sia una vuota formula, esso deve racchiudere tacitamente in sé questo impegno, ..., e cioè che chi rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà obbligato da tutto il corpo; il che non vuol significare altro che lo si forzerà ad essere libero » (*). Curiosa concezione della volontà generale, che in fin dei conti procura una socialità artificiale che per natura manca all’uomo: « La società più antica di tutte e l’unica naturale è quella della famiglia... [Tutti i componenti del popolo e i componenti della famiglia], essendo nati uguali e liberi, non cedono la loro libertà se non per la loro utilità » (*). L'uomo è dunque per Rousseau naturalmente asociale, mentre per il pensiero classico e cristiano l’uomo è invece naturalmente sociale. Un ulteriore aspetto nel quale si evidenzia la tentazione totalitaria del democraticismo di Rousseau consiste nel rapporto tra la religione e il corpo sociale. A tale proposito Rousseau afferma: (*) Cfr. J.-J. Rousseau, I/ contratto sociale, libro I, c. 6. (*) Ibi, 1. I, c. 6. Non è poi superfluo rilevare la profonda vocazione antipluralista della volontà generale di Rousseau: « È dunque necessario, perché si abbia l’espressione della volontà generale, che non vi siano società particolari nello Stato » (55, 1. II, c. 3). (*) Ibi, 1. I, c. 2 (corsivo nostro).

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« Ci si dice che un popolo di veri cristiani formerebbe la più perfetta società che si possa immaginare. Non vedo in questa ipotesi che una grave difficoltà ed è che una società di veri cristiani non sarebbe più una società di uomini » (°°). La presenza di una vena fondamentalmente antipluralista e totalitaria nella tradizione del pensiero politico moderno non è qualcosa che si arresti alle spalle del nostro secolo. Anche se non si volesse tener conto delle tragiche realizzazioni storiche degli Stati totalitari, e ci si volesse mantenere sul puro piano dottrinale, ci si dovrebbe confrontare con la filosofia dello Stato e della politica di Gentile. Nella sua opera emerge infatti una metafisica dell’unità e dell’identità, tentazione scoperta di molti filoni dell’idealismo, la quale non può che sboccare nel momento politico dello Stato etico, supremo livello di unità e di autocoscienza dei singoli. Tentazione che è intrinseca al neo-hegelismo, se l’ultima opera di Gentile Genesi e struttura della società — composta tra l’agosto e il settembre 1943 quando le tremende vicende della seconda guerra mondiale avrebbero già dovuto insegnare molte cose sulla vocazione antiumana degli Stati totalitari — ripropone la forma dello Stato etico e non coglie la persona come il livello primo e ultimo del politico: « gli uomini, in quanto molti, sono cose » (°).

Le formule con le quali Gentile ripropone il mito dello Stato come creatore di leggi, di verità, di eticità, di valori, vanno attenta(*) Cfr. ibi, 1. IV, c. 8. Nello stesso capitolo Jean-Jacques Rousseau aggiunge: «Io mi sbaglio parlando di una repubblica cristiana: ciascuno di questi termini esclude l’altro. Il Cristianesimo non predica che servitù e dipendenza. Il suo spitito è troppo favorevole alla tirannia, perché questa non ne approfitti sempre. I veri cristiani sono fatti pet essere schiavi... Questa corta vita ha troppo poco valore ai loro occhi ». Non è questo il luogo, ma sarebbe certamente fecondo istituire un paragone tra la religione civile, di cui parla Rousseau, e la fede democratica secolare di Maritain: si vedrebbe allora che mentre la religione civile è una formulazione del naturalismo e del deismo del Settecento che rifiuta ogni illuminazione del cristianesimo, la fede democratica secolare riceve invece tutta la sua animazione reale dalla religione cristiana, a significare il recupero di un fecondo rapporto tra cristianesimo e società politica secondo la linea che da Leone XIII va fino al Vaticano II ed agli ultimi Pontefici. A testimonianza infine della reale intolleranza veicolata dall’apparente tolleranza della religione civile di Rousseau, citiamo questa lapidaria espressione del filosofo ginevrino: « Chiunque osi dire: “fuoti della Chiesa non esiste salvezza” deve essere cacciato dallo stato ». de Cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito, Sansoni, Firenze 1944, p. :

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mente meditate: rappresentano infatti la fase culminante nella quale l'illusione dell’immanentismo idealista raggiunge il delirio, tanto più sconcertante quanto più, dobbiamo ripeterlo, sembra chiudere gli occhi dinanzi alle dure lezioni della storia. Innanzi tutto l’affermazione centrale, vero e proprio protor pseudos del totalitarismo, secondo la quale la persona non ha realtà se non nello Stato: « L’uomo politicamente è Stato; ed è uno Stato o nulla. Poiché può dirsi che lo Stato è l’uomo, nulla di umano può essere estraneo all’essenza dello Stato... Lo Stato, concreta attività dello spirito, è svolgimento, e perciò storia. Tutte le altre storie (dell’arte, della religione, dell’economia, della scienza ecc.) sono storie astratte perché storie di momenti o forme ideali o astratte della vita dello spirito, la quale in concreto è sempre Stato... Lo Stato, in quanto l’Unico, è divino » (‘!). Da siffatte premesse è perfettamente coerente che segua sia la piena distruzione di ogni diritto naturale, sia la totale identificazione tra diritto e volontà dello Stato: « La volontà dello Stato è diritto... Non c’è diritto senza Stato » (‘), per cui veramente lo Stato di Gentile è il nuovo Leviatano. Si comprende infine molto agevolmente che sulla base di tali premesse lo Stato non abbia limiti, né interni e neppure esterni; e che perciò la sua legge non sia l’incontro e la cooperazione con gli altri Stati, ma la propria assoluta autoaffermazione, posizione nella quale l’errore della politica del neoidealismo raggiunge il vertice. Tale linea di pensiero suppone di fatto che l’unica forma di autorità politica mondiale potrebbe realizzarsi solo nella forma di uno Stato-impero mondiale, suprema sintesi di ogni totalitarismo: « La vera assoluta democrazia non è quella che vuole limitato lo Stato, ma quella che non pone limiti allo Stato che si svolge nell’intimità dell’individuo e gli conferisce la forza del diritto nella sua assoluta università... Lo Stato, autoconcetto o volontà, è libero. Perciò infinito. Il concetto perciò di Stato tra gli altri Stati che lo limitano è contraddittorio... Se lo Stato è infinità, uno Stato cesserebbe a questo modo di essere tale appena entrato in rapporto cogli altri... Che se tale tendenza [l'unificazione degli Stati] potes(4) Cfr. G. Gentile, Genesi e struttura della società, Mondadori, Milano

1954, pp. 96, 104 e 140 s. (4) Ibi, p. 89.

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se perfettamente adempiersi (con una confederazione, un impero centrale, una società delle nazioni, ecc.) questo sarebbe non l’assoluta realizzazione dello Stato ma la sua fine » (#).

Ma non è forse ulteriormente necessario proseguire il confronto polemico sia con la linea democraticista (più di una volta non immune da esiti totalitari) sia con quella più apertamente totalitaria del pensiero politico moderno. Non è qui che si può rintracciare un cammino di speranza per la vita politica, quanto piuttosto in quelle posizioni che non hanno rinunciato all’idea dei diritti dell’uomo, della limitazione del potere statuale, della intrinseca

eticità della vita politica e della sostanziale politicità della legge naturale. Si tratta di posizioni fatte proprie più o meno integralmente dai migliori esponenti del pensiero politico liberale, dal costituzionalismo, da vari filoni della filosofia cristiana (‘#). All’interno di quest’ultima tradizione si tratta adesso di scoprire, svolgendo in positivo la nostra indagine, la feconda convergenza con le posizioni generali della politica maritainiana: ci riferiremo ad autori della cultura italiana, ossia a Sturzo, a Rosmini e a Dossetti, nei quali lo scandaglio non fatica a riconoscere una sostanziale vena di continuità delle principali posizioni del pensiero politico cristiano.

Sturzo e Maritain hanno sviluppato una riflessione cristiana sulla democrazia, mostrando che non vi è alcuna incompatibilità di principio tra antropologia cristiana e democrazia, nella misura in cui quest’ultima rinuncia alla tesi, di origine roussoiana, della natura umana buona in sé. Le posizioni fondamentali dalle quali partono Sturzo e Maritain si radicano in un comune retroterra tomista e nella convinzione che bisogna combattere la separazione tra cristianesimo e umanesimo, tra natura e grazia, e denunciare la profonda crisi della morale autonoma non più sorretta dalla fede cristiana. Posizioni fondamentali che portano i due pensatori a negare che lo Stato possa possedere e imporre una morale propria (mo(*) Ibi, pp. 156, 135 e 137. Anche la dottrina della guerra, svolta da Gentile mediante l’opposizione dialettica di categorie preformate, risulta deludente e povera, in quanto sembra ignorare un metodo più analitico, puntuale e fattualmente fondato di indagine fenomenologica sulla guerra. (4) Non è qui possibile prendere in esame la questione, certamente di notevole rilievo, delle convergenze e delle divergenze fra la filosofia politica liberale e le posizioni di Maritain.

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rale laica), e a ritenere inoltre lo « Stato cattolico » un'illusione

pericolosa. Naturalmente non si nega che la società possa e debba essere cristiana, ma la Chiesa esplica un potere direttivo sul temporale soprattutto mediante la illuminazione della coscienza dei fedeli. Diciamo dunque che in Maritain e in Sturzo giunge a pieno e maturo compimento il distacco dell’istituto democratico dalla ideologia illuministica e roussoiana: la concezione della democrazia che essi propongono non è né borghese, né individualista, bensì personalista-cristiana. Sebbene Sturzo sia più uomo di pensiero e di azione piuttosto che un vero e proprio filosofo, di modo che la sua dottrina politica non sempre assurge alla forma della filosofia della politica, si possono facilmente riscontrare notevoli, amplissime convergenze di diagnosi e di proposte tra Sturzo e Maritain, che non è inutile commentare. Per entrambi i nostri autori l’orizzonte di riferimento polemico, ossia l’orizzonte di pensiero e di prassi da sottoporre a critica e da rifiutare, è costituito dal principio totalitario e dallo Stato totalitario, nonché dallo Stato borghese e dalla correlativa ideologia. Sulla base di una concezione etica della vita politica e del primato della persona umana, Maritain e Sturzo convergono nel porre in costante relazione la politica con la morale, nella accettazione del metodo democratico internamente vitalizzato dalla ispirazione e dalla animazione cristiane, nella chiara posizione antifascista, nell’attenzione al problema dell’educazione democratica, nella importanza della strutturazione organica della società in corpi intermedi, nonché in posizioni ancor più basilari quali: il rifiuto di identificare il popolo e la nazione con lo Stato, la riflessione sull’origine e l’esercizio dell’autorità politica, l’affermazione di una corretta laicità dello Stato, e così via (*). Esiste inoltre un’ampia sintonia tra la riflessione di Maritain e (4) Secondo Sturzo bisogna escludere «la concezione panteista, per la quale lo stato è fine a se stesso e fine dei singoli individui... Ciò che deve invece essere assolutamente respinto è la pretesa eticità dello stato, la concezione monista del suo carattere sociologico, il suo conseguente e assurdo totalitarismo, in una parola: la unificazione forzata della società nello stato e l’affondamento in esso della personalità umana ». Cfr. L. Sturzo, La società, sua natura e sue leggi, Zanichelli, Bologna 1960. I brani che abbiamo citato fanno parte della raccolta antologica Luigi Sturzo - Il pensiero politico, a cura di G. Campanini e N. Antonetti, Città Nuova, Roma 1979, pp. 101 e 113.

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quella di Sturzo sulla ispirazione cristiana — per entrambi il Vangelo e l’etica cristiana forniscono la base ideale necessaria per la unificazione politica del mondo — e sulla dura critica da entrambi mossa alla sovranità dello Stato. A tale proposito Sturzo parla di « assurdo dogma » della sovranità dello Stato, al quale rifiuta tassativamente di presentarsi come il tutto (*), e quindi come negatore delle formazioni sociali intermedie. Sia per Maritain che per Sturzo la nozione basilare in democrazia è quella di popolo, dotato di autonomia e del diritto all’autogoverno, diritto però che trova un limite nella legge naturale; entrambi inoltre ritengono fondamentale nel gioco democratico la funzione delle élites culturali, sociali, politiche, e la creazione di una democrazia sociale: « La democrazia non sarebbe tale se mantenesse ordinamenti atti a fare da barriera alla partecipazione dei lavoratori in politica e in economia » (‘). Molto cospicue sono dunque le aree di convergenza tra Maritain e Sturzo, in larga misura riassumibili nell’indirizze programmatico di Sturzo: « Siamo contrari alla democrazia individualista, in nome di una democrazia organica » (*°).

Tuttavia le profonde sintonie non devono mascherare alcune differenze, che attengono in buona parte al fatto che Sturzo si muove su un piano prevalentemente storico e sociologico, mentre Maritain su un piano prevalentemente filosofico: questo contribuisce a spiegare, ad esempio, come Sturzo non instauri un confronto dialettico con le grandi posizioni e le grandi figure della filosofia politica moderna (Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, ecc.). Va anche notato che, a differenza di Maritain, manca in Sturzo un confronto approfondito e costante con il marxismo, anche se naturalmente Sturzo rifiuta la tesi marxiana del primato dell’economia. Venendo ora al pensiero di Rosmini, è bene anzitutto rilevare che, in concomitanza alle differenti situazioni storiche in cui Ro-

smini e Maritain hanno operato, i nostri due autori hanno avversari diversi: la democrazia individualistico-borghese e lo Stato to(‘) Per una migliore conoscenza della posizione sturziana sulla sovranità dello Stato, cfr. lo scritto, datato Londra 1926 e apparso su « La Germania », Berlino, 14 gennaio 1927, e ora riportato nell’antologia citata, pp. 141-148. (‘) Cfr. L. Sturzo, Presupposti e caratteri della democrazia cristiana, edito a cura della S.E.L.I. nel 1947, ora nella antologia citata, p. 201. (*) Cfr. L. Sturzo, Politica morale, Zanichelli, Bologna 1960, ora anche nella antologia citata, p. 181.

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talitario per Maritain, una società in transizione da modelli signorili a schemi mercantili e produttivi per Rosmini. Ma, nonostante i diversi orizzonti storici, le loro filosofie politiche convergono radicalmente nel porre al centro l’uomo, la persona umana, non il cittadino (‘): per entrambi il cittadino è un’astrazione dell’uomo. « Gli uomini esistono indipendentemente da essa [la società civile intesa come Stato] e l’essere suoi membri non è l’essere uomini; anzi, non è... che una mera relazione di più, accidentale che si so-

praggiunge all’umanità. Guai a confondere l’uomo stesso con una semplice relazione » (59). Quando Maritain ne I diritti dell’uomo e la legge naturale elenca i diritti dell’uomo, parla di diritto della persona civica e di diritto della persona operaia, e non di diritti del cittadino: così tutta la filosofia politica di Maritain e di Rosmini è illuminata dalla legge naturale e ricondotta a unità nella persona, che è il diritto e che si fonda sull’essere, di modo che il fondamento ultimo della persona e del diritto è l’ordine oggettivo dell’essere. Da ciò deriva anche nei due pensatori la posizione antiperfettista (°), la critica alla statolatria, la concezione del bene comune come bene pienamente umano, il collegamento necessario tra etica e politica (*). Per salvaguardare un’area inviolabile per lo Stato Rosmini ricorre alla distinzione tra diritto sociale e diritto extrasociale, che consiste nei diritti personali inalienabili: e si sa che per Rosmini l’esagerazione del diritto sociale conduce all’assolutismo, mentre la ipertrofia del diritto extrasociale porta all’ultra-liberalismo e all’anarchia. (4) È ben noto che per Rosmini la persona umana non è solo sede di diritti, ma è il diritto: «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente:

quindi anche l’essenza del diritto »: cfr. Filosofia del diritto, vol. I, n. 49. (5°) Cfr. ibi, n. 1660. (*) Il perfettismo, che nasce dalla ignoranza della « gran legge ontologica della limitazione delle cose », è « quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione », cfr. A. Rosmini, La società e il suo fine, in Filosofia della politica, Napoli 1842, lib. IV, cap. XXXIV, p. 299; e Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, ibi, cap. XIV, p. 35. (2) « Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica... », cfr. A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, n. 14. Nessuna politica dunque senza morale, e nessuna morale senza religione: la morale è l'avvenire della politica, e la religione è l'avvenire della morale.

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Le dottrine politiche di Maritain e di Rosmini e la loro concezione della persona si radicano in ultima analisi nella metafisica dell’essere e della partecipazione: la ragione metafisica ultima del valore e della dignità della persona sta nel suo essere iz4go Dei, nel suo poter conoscere e poter aderire all’essere in tutta la sua ampiezza infinita e conseguentemente nel poterlo amare (*). È ben naturale allora che i nostri due autori affermino che la religione è fuori dalla sfera del governo civile e critichino a fondo la concezione assolutista e amorale dello Stato secondo cui il fine dello Stato è se stesso, la propria conservazione, in vista della quale lo Stato può impiegare qualunque mezzo.

Un abbozzo di confronto tra le posizioni di Maritain e di Dossetti trova il suo luogo tematico più idoneo nella dottrina dello Stato, e più esattamente al livello di una prospettiva di riforma storicamente praticabile dello Stato democratico: in tale orizzonte il discorso maritainiano, che esibisce i caratteri della elaborazione dottrinale del filosofo della politica, e le proposte di Dossetti, che deliberatamente si muove sul piano del concreto progetto storicopolitico, risultano armonicamente complementari: di fatto le incisive proposte di Dossetti sembrano costituire per molti aspetti una coerente traduzione delle prospettive politiche di Maritain. Dossetti, nella sua nota relazione su Funzioni e ordinamento del-

lo Stato moderno tenuta al terzo Convegno nazionale di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (12-14 novembre 1951) (*), impernia tutto il suo discorso sullo Stato come ordinamento politico generale. Sebbene si possa rilevare che Dossetti non proceda a distinguere preliminarmente Stato da popolo, assegnando con ciò alla nozione di Stato una valenza molto ampia, risulta però che Dossetti solleva pregiudizialmente una domanda radicale: qual è l’autentico fine dello Stato? Escluso che possa essere la sua propria autoconservazione, rimane che tale fine è il pieno sviluppo umano dei cittadini. Dossetti eleva un considerevole numero di rilievi allo Stato moderno, il più incisivo dei quali è che lo Stato moderno manca programmaticamente di un finalismo: né lo Stato, né l’ordina(*) « Ama L'essere ovunque lo incontri in ogni suo grado », cfr. A. Rosmini, Principi della scienza morale. (*) La relazione è ora pubblicata insieme con gli atti del Convegno in « Justitia », n. 8/12, agosto-dicembre 1952, pp. 242-265.

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mento giuridico hanno uno scopo. Sono infatti volontà vuote di contenuti, di quei contenuti umani « identificabili in un determinato bene storico, concreto, che sia tappa o modalità storica concreta del bonum humanum simpliciter » (©). Viene così riaffermato chiaramente che il fine dello Stato è l’uomo, è la buona vita umana della moltitudine, ossia il bonum hbumanum, fine che lo Stato non crea, ma riconosce e assume: e viene nel contempo criticata la posizione che vede nello Stato nulla più che la garanzia della libertà spontanea dell’individuo, il sostegno astratto alla sua pura autodeterminazione individuale e non invece il concreto supporto alla esplicazione della persona umana. Le posizioni della filosofia della libertà di Maritain (soprattutto quelle sviluppate in Strutture politiche e libertà) risultano le più idonee a fondare filosoficamente le posizioni a cui si è accennato. Contro Rousseau che situa la felicità nella pura estrinsecazione della libertà spontanea dell’uomo e che fa dell’uomo nel suo stato per così dire « selvaggio » un essere naturalmente buono, Maritain afferma che la pienezza di una vita veramente umana e, quindi, anche la conquista della felicità esigono non tanto un esercizio indefinitamente ripetuto della libertà di scelta, quanto piuttosto la progressiva conquista di una libertà di sviluppo e di esultazione, che consiste nella piena fioritura della vita morale e razionale della persona e nella progressiva liberazione dai limiti della natura materiale. Aggiungerei, infine, che l’insistenza con la quale Dossetti richiama la funzione di propulsione e di reforzzatio dello Stato non è divergente rispetto alla concezione istrumentalista dello Stato di Maritain, la quale ultima significa solo che lo Stato non è il tutto, ma non implica in alcun modo che lo Stato non possa assumere, in problemi e ambiti che attengono soprattutto alla giustizia sociale, una incisiva e profonda azione di reformzatio. Tutto questo richiede sia per Dossetti sia per Maritain un esecutivo forte e dotato di parte dei compiti di scelta normativa generalmente attribuiti alle Assemblee legislative.

(5) Relazione citata, p. 254.

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LA CARTA

DEMOCRATICA

E IL PLURALISMO:

CREDENTI

ED ATEI

Maritain non evita di porre il problema, tipicamente moderno, della condivisione di un unico bene comune temporale della città politica da parte di differenti famiglie spirituali e al limite da parte di credenti e di atei. I principi del pensiero politico cristiano vengono modulati per tener conto di una realtà storicamente nuova e specificamente moderna, ossia il pluralismo delle convinzioni filosofiche e religiose, nonché l'emergenza dell’ateismo non solo di élite ma, in misura crescente, di massa. Situazione che rende necessaria la positiva convivenza di credenti di differenti fedi e di atei all’interno di un’unica città politica. Quali saranno i possibili punti di convergenza tra di loro? I diritti dell’uomo, la carta democratica, l'educazione democratica a una fede temporale comune, i principi pratici che guidano la convivenza democratica, tali sono gli essenziali punti di convergenza tra le differenti famiglie spirituali. Essi sono in grado di operare e di sostenere un incontro pratico tra uomini che professano principi metafisici e religiosi profondamente differenti, e che tuttavia possono collaborare praticamente purché rispettino, « magari per ragioni completamente diverse, la verità e l’intelligenza, la dignità umana, la libertà, l’amore fraterno e il valore assoluto del bene morale » (59). Lo Stato democratico deve dunque promuovere la fede nella libertà e l’insegnamento della carta democratica, e ciò perché la democrazia autentica deve possedere un proprio bene comune, e un credo o una fede temporale comune, la quale, anche se è diversamente giustificata dalle differenti scuole filosofiche e spirituali, trova la migliore giustificazione e il migliore fondamento nel cristianesimo. Il positivo incremento della vita democratica esige l’insegnamento della carta democratica, il quale non nelle sue affermazioni, bensì nelle sue giustificazioni dovrà essere modulato a seconda delle varie posizioni filosofiche o religiose. Il che significa che bisogna salvaguardare il pluralismo educativo e scolastico dello Stato democratico, purché però la scuola e l’educazione trasmettano, a prescindere dalle differenti motivazioni, i principi pratici che nel loro insieme costituiscono il credo democratico comune. A nessuno sfugge l’importanza della fede democratica secolare (*) L’uomo e lo Stato, p. 130.

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ai fini di una ricomposizione delle profonde fratture della vita civile e politica dell’attuale forma occidentale dello Stato democratico: la fede democratica secolare è il massimo livello di convergenza temporale consentito nella città moderna, abitata da famiglie ideologiche e spirituali diverse e da credenti e non credenti. Fede democratica che ha anche trovato una sua parziale espressione in talune costituzioni di stati democratici elaborate nel secondo dopoguerra. CONCLUSIONI

AI centro del pensiero politico di Maritain sta la sua lunga lotta contro la politica di potenza, contro la politica amorale, contro il machiavellismo: in quanto relazione umana, il rapporto politico è etico-giuridico. Assunto epistemologico che, tra le altre cose, nega che la politologia sia un puro sapere positivo tendente soltanto ad accertare fatti e sganciato da ogni comprendente riflessione sulla reale natura del politico. Peraltro l’indissolubile legame posto da Maritain tra etica e politica non comporta né il rifiuto dell’analisi effettuale del politico, né la negazione della componente di storicità presente più o meno fortemente in tutte le dottrine politiche. In effetti ogni filosofia politica è abitata da una inerente porzione di storicità, che ad esempio possiedono dottrine sotto tutti gli aspetti diversissime quali la filosofia del diritto di Rosmini e quella di Hegel, e che deriva sia dal variare delle forme storiche dello Stato, sia da una certa mancanza di sobrietà dell’analisi del social-politico, sia infine, più fondamentalmente, dalla particolare costellazione di valori che orienta una determinata epoca. Per quanto a tale riguardo la prudenza sia d’obbligo, non pare azzardato affermare che la componente di storicità della filosofia politica di Maritain è modesta, il che la rende meno facilmente datata. Hegel possedeva un’alta opinione del valore e della dignità della

filosofia, eppure era persuaso che la filosofia arriva sempre troppo tardi per riformare il mondo, giunge sempre a cose fatte. La filosofia è la civetta di Minerva che « prende il volo soltanto quando già si addensano le ombre della notte » (°°). Ma non è detto che

la filosofia sia solo questo: L'uomo e lo Stato non giunge a sacra(*) Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, prefazione.

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lizzare una certa fase dell’esperienza politica delle democrazie, ma tutto il suo senso sta nella reforzzatio prospettica: indica il cammino da seguire e le battaglie da intraprendere per edificare un nuovo, più umano rapporto tra la persona e la città. Semmai L’uomo e lo Stato è arrivato troppo presto, non troppo tardi.

In effetti l'Europa post-bellica avrebbe potuto essere il laboratorio sperimentale e il luogo di applicazione delle sue prospettive. Di fatto ciò è avvenuto solo in lieve parte per due principali ragioni: la violenta cesura che ha staccato dal corpo vivo e dalla comune eredità culturale europea i Paesi dell’Est; il sostanziale ritorno delle democrazie occidentali a problematiche e a culture ideologizzate e vuote di valori, e all’appiattimento della vita civile e politica sul problema del benessere. Non più la ricerca della buona vita umana, del ben vivere, della pienezza temporale dell’umano, ma l’ansiosa caccia al benessere, la ricerca del vivere, del vivere comunque è ancora oggi il principio specificatore reale dell'Occidente: al livello pienamente politico del «ben vivere » si sostituisce il livello largamente economico del vivere. Se l’Europa riuscirà a riscoprire l’antica eredità cristiana, comune all’Est e all’Ovest, sarà posta una delle condizioni basilari perché la filosofia politica personalista-comunitaria di Maritain trovi applicazione. Se così fosse, sarebbe interamente tolto il fondamento del principio totalitario che è il disprezzo della persona umana, il rifiuto di Dio, dell’ordine soprannaturale

e in sostanza il

rifiuto dell’uomo come imago Dei. In effetti la radice ultima del principio totalitario è l’ateismo: solo se gli uomini si sentono figli di un unico Padre celeste possono veramente incominciare a sentirsi fratelli. Sul piano più strettamente politico la linea di filosofia politica personalista, comunitaria, pluralista, teista espressa da Maritain, e che ha ricevuto un sostanziale avallo dal Concilio Vaticano II, è quella che possiede le migliori carte per avviare a soluzione il secolate conflitto tra Stato e cittadini; conflitto che è inevitabile se lo Stato pone come fine la propria auto-conservazione invece che il bene umano dei cittadini. Nel delineare la struttura di una comunità politica personalista, di un’autorità politica sovra-nazionale, di un fecondo rapporto Stato-Chiesa, nel rielaborare le grandi tesi della tradizione classica sulla legge naturale e sulla legge positiva, sulla sovranità, salvandone

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la sostanza perenne e garantendone la illuminazione storica in rapporto al mondo contemporaneo, la filosofia cristiana della politica produce i suoi frutti più belli e maturi. Ma la più rigorosa dottrina politica rischia la inincidenza se determinati comportamenti fondamentali dell’uomo vengono meno e se la sua sostanza si deteriora, se infine la religione non vivifica dall’interno la realtà umana e le strutture democratiche. A mio avviso, in vaste aree umane dell’Occidente non si è oggi molto lontani da tale situazione, perché il processo di secolatizzazione è andato molto avanti e ha lavorato a fondo, perché la fede nei valori è progressivamente diminuita e la scristianizzazione è assai vasta: scristianizzazione che non è principalmente una opposizione dottrinale all’insegnamento cristiano, quanto piuttosto un profondo rifiuto esistenziale opposto alla presenza e all’azione di Cristo in seno alla storia umana. Se l’uomo di oggi continuerà ad essere separato dalla esperienza dell’essere, dell’amore e di Dio e a cercare se stesso nell’avere, non pottà certamente cogliere l’appello dei valori, a loro volta resi inconsistenti da errate filosofie e concezioni del mondo. Non intendo minimizzare in alcun modo l’importanza del pensare politicamente. Ponendoci nella prospettiva della polis, aiutandoci a ben situare il senso della nazione, del popolo, dello Stato,

portandoci a riflettere sui fini e sui mezzi della politica, sulle fondamentali strutture dello Stato e dell’ordine internazionale, la filosofia della politica adempie un compito di importanza insostituibile e primaria. Ma è un compito che non si sostiene da solo: se la sostanza umana si degrada e se il rapporto con i valori morali si deteriora, la più splendida filosofia della politica si rivela impotente. Bisogna allora riprendere la riflessione e l’azione ad un livello ancor più basilare, ossia al livello della esperienza morale e degli orientamenti etici della persona. L’autentica, integrale filosofia politica per i nostri tempi è un pensiero che, mentre esamina con acuta e diligente attenzione la polis e le sue regole, si mantiene in contatto fecondo con il mondo della morale, della contemplazione, dell’essere, con le energie spirituali dell’uomo, per prospettare infine un compiuto progetto di

liberazione, politico e insieme metapolitico. Tali ci sembrano il dinamismo Maritain.

e l’orientamento

basilare

della

filosofia

integrale

di

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Capitolo ottavo

Égalité

Teilhard De Chardin non era, propriamente parlando, un filosofo e ancor meno un filosofo della politica. Ci ha però trasmesso alcune brevi considerazioni sulla democrazia in cui leggiamo: « Tra le diverse proprietà strutturali inerenti alla stoffa umana, la più fondamentale (0, per meglio dire, quella da cui derivano tutte le altre) è certamente per l’Umanità di trovarsi — per un doppio effetto di compressione planetaria e di compenetrazione psichica — in corso di irresistibile unificazione e organizzazione su se stessa » (!). Quali valori, quali principî dovranno guidare la crescente organizzazione e unificazione del mondo contemporaneo? La Rivoluzione francese ha riassunto nella propria triplice divisa la risposta alla grande questione. A loro volta la democrazia liberale pura e la « democrazia totalitaria » del comunismo reale hanno sostanzialmente scisso ciò che quella divisa voleva tener unito: la prima tentò di realizzare la libertà separandola dall’eguaglianza; la seconda ha tentato di realizzare l’eguaglianza, compromettendo la libertà. Si potrebbero poi sollevare non pochi dubbi sul fatto che i due sistemi si siano preoccupati di promuovere la fraternità. Un’alternativa a questi sistemi, che qualche volta viene chiamata con l’appellativo di « terza via », nasce dall’irrisolto nodo e dall’irrealizzata consegna della Rivoluzione francese: edificare una società in cui libertà ed eguaglianza siano effettive. La « terza via » rifiuta di scegliere tra la libertà liberale senza l'eguaglianza e l’eguaglianza comunista senza la libertà. Ma affinché l’alternativa sia possibile, bisogna che non sia contraddittoria, ossia è necessario mostrare che libertà ed eguaglianza, pur potendo risultare in tensione, non sono antitetiche. Avendo già dedicato nel cap. V alcune (') « L’essence de l’idée de démoctratie », in L’avenir de l'homme, cit.,

p. 310.

riflessioni alla questione della libertà, esamineremo qui brevemente il problema dell’eguaglianza dal punto di vista dell’eguaglianza naturale e sociale tra gli uomini. Dall’idea di eguaglianza che verrà proposta risulterà la sua conciliabilità con la libertà. FORME

E TEORIE DELLA DISEGUAGLIANZA

SOCIALE

Esistono due tipi fondamentali di diseguaglianza: le diseguaglianze individuali, per cui un individuo ha qualità diverse da quelle di un altro (ad esempio, è più dotato, più intelligente, più forte), che in parte derivano da doti di natura ed in parte da esercizio e impegno. Ci sono poi le diseguaglianze sociali, per cui uno svolge un lavoro diverso da quello di un altro, ha maggior ricchezza, maggior potere, maggior prestigio di un altro, svolge un lavoro socialmente meglio considerato, ecc. L’esemplificazione potrebbe prolungarsi indefinitamente, poiché la vita sociale offre un campionario infinito di diseguaglianze. Le diseguaglianze sociali derivano sia da eventi fortuiti, sia dalla volontà delle singole persone, e forse più dal primo fattore che dal secondo. In effetti possono dipendere da un insieme di circostanze — la famiglia in cui si è nati, le tradizioni culturali, i casi della vita, ecc. —, che spesso incidono di più delle doti naturali. In genere gli uomini sono disposti ad accettare diseguaglianze sociali derivanti da diseguaglianze naturali, ad esempio, che compia una miglior carriera chi è più intelligente e dotato. La vita e l’organizzazione della società richiedono una grandissima varietà di funzioni corrispondenti alle sue molteplici necessità materiali e culturali. Tuttavia, sulla normale differenziazione sociale di ruoli e di funzioni in ogni società si innesta sempre una differenziazione di rango, che la sociologia contemporanea definisce come problema della stratificazione sociale. Nel corpo sociale determinate funzioni, spesso non più essenziali e vitali di altre, assumono un rango (o uno status sociale) superiore dal punto di vista dell’autorità, del potere, del reddito, ecc., senza che ciò appaia immediatamente legato a rapporti di dominio o di sfruttamento. Il vero problema della diseguaglianza sociale non sta nella ovvia diversità di funzioni che gli uomini svolgono nella società, ma consiste nella differenza di rango, nella stratificazione sociale che vi si eleva sopra.

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Nel suo celebre Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes Rousseau cercò di dare una risposta a tale problema, ma non fu certo il primo a trattare la questione dell’ineguaglianza sociale (2). Già vi accennarono Platone e Aristotele, riconducendo la diversità di status sociale a diseguaglianze di natura: classica la trattazione aristotelica del problema della schiavitù (°). Rousseau nega ciò che Aristotele afferma, ossia che gli uomini sono per natura diseguali, nel senso di essere divisi in categorie antropologiche essenzialmente diverse; non poteva però non ammettere le ovvie differenze di qualità ed attitudini tra gli uomini. Diventava perciò molto più difficile ricondurre le gerarchie di rango sociale a gerarchie di natura: ad esempio quelli che comandano non valgono necessariamente di più di quelli che obbediscono, non appartengono per natura ad una « razza » superiore (‘). La posizione di Rousseau, nella quale convergono l’insegnamento del cristianesimo e le posizioni del giusnaturalismo, anch’esso

non privo di linfa cristiana, possiede un’evidente portata rivoluzionaria: se gli uomini sono eguali per natura, le diseguaglianze sociali non sono un dato di natura e ancor meno un prodotto della (2) Rousseau ammetteva due tipi di diseguaglianze: «l’una, che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e che consiste nella differenza dell’età, della salute, delle forze del corpo e delle qualità dello spirito o dell’anima; l’altra che si può chiamare diseguaglianza morale o politica, poiché dipende da una sorta di convenzione, e poiché è stabilita, o almeno autorizzata dal consenso degli uomini. Essa consiste nei differenti privilegi di cui alcuni godono a pregiudizio di altri; come l’esser più ricchi, più onorati, più potenti di altri, o anche di farsi obbedire » (Discours sur l’origine et les fonderen de l’inégalité parmi les hommes, Éditions Sociales, Paris 1954, p.

67).

(*) « L’essere che può prevedere con l’intelligenza è capo per natura, è padrone per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo » (Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, 1251a 32 s.). « Quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso, ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo (1254a14 s.). « E evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi » (1255 a 1 s.). (*) Rousseau si domanda se esista un legame essenziale tra la diseguaglianza naturale e quella sociale e politica, e risponde che non si può cercare tale legame, « poiché ciò sarebbe domandare, in altri termini, se coloro che comandano valgano necessariamente di più di quelli che obbediscono, e se la forza del corpo o dello spirito, la saggezza o la virtù, si trovino sempre negli stessi individui in proporzione della potenza o della ricchezza » (Discours, p. 66).

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volontà divina in quanto creatrice della natura. Sono un fatto storico, quindi mutevole e mutabile: si comprende la carica dirompente di questa posizione nella società dell’ancien régimze, largamente basata su rigide stratificazioni sociali per ceti e sulla sostanziale immobilità della stratificazione. Rousseau ammette anzi l’esistenza di uno stato originale di perfetta eguaglianza, dal quale si differenzia lo stato sociale di ineguaglianza, generato dalla nascita della proprietà (°). Non è senza significato che anche Marx si avvicini all’ipotesi di Rousseau, individuando nella proprietà privata l’origine delle classi e della diseguaglianza sociale. L'esperienza storica ha ormai mostrato il semplicismo e la parzialità di questa teoria a prima vista seducente; l’abolizione della proptietà privata non elimina la stratificazione sociale e neppure la divisione in classi: cambia la struttura e la formazione delle classi, ma il fenomeno della suddivisione in classi si riproduce sotto nuove forme. La prova storica irrefutabilmente offerta dovrebbe ormai far comprendere che la questione della proprietà non è un’adeguata e sufficiente spiegazione della diseguaglianza sociale, né può essere il cuore delle teorie della stratificazione sociale. Il problema della stratificazione sociale era una realtà ben nota e corposa nel mondo antico e nel medioevo; ma è stato soprattutto dopo Rousseau che le teorie e i tentativi per spiegarla si sono succeduti numerosi. Essi possono essere complessivamente ricondotti a sei diverse spiegazioni generali della stratificazione sociale: a) le diseguaglianze sociali sono il risultato diretto dell’ineguale distribuzione della proprietà; è immediatamente evidente la portata rivoluzionaria di questa dottrina, che mira a creare una società egualitaria mediante l’eliminazione della proprietà privata; b) la stratificazione sociale proviene dalla divisione del lavoro: la differenziazione dei mestieri, delle arti, delle professioni precede e produce la formazione delle classi e le differenziazioni di rango sociale; (5) « Il primo che, avendo recintato un terreno, si azzardò a dire: questo è mio, e trovò della gente sufficientemente semplice per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti crimini, guerre, assassini, quante miserie e orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando via i pali o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostote; voi siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la tetra non è di nessuno” » (Discours, p. 108). Non sembra però che Rousseau sia in assoluto contrario alla proprietà, ma solo alla sua distribuzione ineguale.

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c) la teoria sociologica funzionalistica (T. Parsons) ritiene che la

diseguaglianza sociale sia necessaria ai fini di una corretta funzionalità delle società umane. In particolare, le vere origini della stratificazione sono la differente valutazione delle varie posizioni sociali, nonché il risultato dell’equilibrio tra domanda e offerta delle stesse; d) le diseguaglianze sociali sono un derivato delle guerre di conquista; e) la già citata teoria secondo cui le diseguaglianze sociali derivano dalle differenze naturali tra gli uomini (a questa categoria appartengono le dottrine razziste); f) altri mettono infine in rilievo che ogni società è una società morale, nella quale esistono norme che sanzionano il comportamento conforme, distinguendolo da quello non conforme o deviante. Secondo questa teoria l’origine della diseguaglianza tra gli uomini sta nell’esistenza in tutte le società umane di norme e di principî di comportamento a cui sono legate sanzioni. Potremmo, come esempio, citare la pras-

si universale di premiare sotto l’una o l’altra forma chi dimostra maggior impegno nel lavoro. Si potrà convenire o meno con queste dottrine, ma non può sfuggire la loro diversità: alcune, infatti, collegano la stratificazione sociale a determinati fenomeni storici in linea di principio mutabili, altre la raccordano all’intrinseco funzionamento delle società umane, che non può essere cambiato, oppure a principî ontologici anch’essi metastorici. Ne segue che, per alcune teorie, la stratificazione sociale può essere annullata, per altre invece è intrinseca alle società umane. Per chi patteggia per questa seconda soluzione, diventa un obbligo di coerenza intellettuale diffidare dei programmi politici che promettono una società pienamente egualitaria. Senza che tuttavia si debba necessariamente sposare la forma attuale della stratificazione sociale, che rimane una variabile anche per chi ritiene che le società non possono fare a meno di forme di diseguaglianza sociale. EGUAGLIANZA E DIFFERENZA. CHE COSA SIGNIFICA CHE GLI UOMINI

SONO

EGUALI?

Da qualunque parte venga considerata la questione dell’eguaglianza sociale si presenta come un problema complesso, che rinvia al tema dell’eguaglianza umana. Che cosa significa che tutti gli uomini sono eguali, asserzione che costituisce un pilastro della dot236

trina democratica? Che cosa vuol dire esattamente che vi è una natura umana, ossia che essa è una sola? Per non escludere alcuna ipotesi sino esaminare le tre possibilità logicamente offerte quando si consideri il concetto di eguaglianza riferito agli uomini: l’eguaglianza spinta; la diseguaglianza spinta; l’eguaglianza derivante dall’unità della natura specifica. Tali posizioni possono essere rispettivamente collegate a tre diverse scuole di pensiero: l’egualitarismo metafisico e giacobino, che si connette a concezioni idealistiche; il nominalismo empirista; il realismo filosofico della tradizione classica. Nella posizione « giacobina », che si richiama ad un platonismo più o meno adulterato, si ritiene che l’unità della natura umana sia quella di un uomo in sé, che riassume tutto l’umano, di modo che le innegabili diseguaglianze empiriche non hanno rilevanza. L’unità della natura specifica è concepita come un’unità geometrica, assoluta, sussistente. La posizione idealista dell’egalitarismo assoluto procede da una concezione puramente logica dell’eguaglianza tra gli uomini: essi sono eguali perché replica di un’Idea sussistente. L’eguaglianza idealista è una pura forma logica che non comporta alcuna varietà di livelli o alcun dinamismo interno: è un’eguaglianza aritmetica, non un’eguaglianza di proporzionalità. Le diseguaglianze di natura sono sottaciute e quelle sociali positivamente combattute, anche a costo di accendere nella società una fiamma di sospetto, di risentimento e di invidia verso ogni diversità. Per coloro che si collocano in tale corrente, l’eguaglianza di natura tra tutti gli uomini esige tassativamente la scomparsa di ogni diseguaglianza. La soluzione nominalista-empirista estrema ritiene che l’asserzione, che vi è una natura o essenza umana eguale in tutti gli uomini, sia null’altro che flatus vocis, sia un’affermazione puramente verbale che non rinvia ad alcun contenuto reale. Per questa scuola filosofica il concetto di essenza o di natura come insieme di caratteri intelligibili non ha senso; essa non vede che l’infinita molteplicità delle diseguaglianze tra gli uomini, innegabilmente molto appariscenti. Per il nominalismo estremo ogni uomo costituisce una realtà a sé, è un insieme di note empiriche e fenomeniche, che non rinvia ad alcuna essenza specifica: posizione che

rende assai problematico parlare di società, che può esistere sino 237

a che i suoi componenti hanno qualcosa in comune, ed anche di diritti dell’uomo. Nel nominalismo assoluto questi ultimi non possono avere un valido significato dottrinale, anche se poi seguaci del nominalismo professano rispetto per i diritti dell’uomo: cosa che rende testimonianza al fatto che la conoscenza pratica, irriflessa e per inclinazione prende in loro il sopravvento sulle conseguenze logiche delle loro posizioni speculative. Di per sé però la posizione nominalista estrema vede negli uomini solo le diversità, che può anche in un secondo momento elevare a categorie di diversificazione pseudo-specifiche di tipo sociale (le caste) o biologico (le razze superiori e inferiori). Per il realismo filosofico la natura umana è identica in tutti gli uomini, ma dall’unità di essenza non segue che tutti gli uomini siano eguali: la scuola del realismo presenta l’eguaglianza degli uomini come unità di natura, come unità specifica, non individuale. La plurificazione degli individui non avviene in virtù dell'essenza, bensì della materia: è la nota tesi metafisica secondo cui la materia è principio dell’individuazione intraspecifica. A_causa del dislivello metafisico tra essenza ed esse in tutti gli enti finiti, nessun individuo di una data specie adegua mai totalmente l’essenza specifica. Nessun individuo umano è l’umanità, è la natura umana. La natura umana è qualcosa di reale, una ed identica in tutti gli uomini: esiste identica in Paolo e in Pietro, ma Paolo e Pietro possono essere diversissimi. Il problema che trattiamo è un aspetto della questione degli universali: l’essenza di per sé non è né universale, né individuale. È universale nell’astrazione logica, è individuale negli individui: universalità e individualità non sono proprietà dell’essenza, ma dei modi in cui esiste. Scrutando l’essenza umana vi rinveniamo note intelligibili quali la razionalità, la socievolezza, la moralità, l’animalità, la sensibilità, la vita, ma non l’individualità né l’universalità (9). Le tre posizioni filosofiche, che abbiamo volutamente ridotto ai loro tipi puri, avanzano concezioni molto diverse sull’eguaglian(9) Su questi problemi cfr. San Tommaso d'Aquino, De ente et essentia, caput 3 (« Quomodo se habeat essentia ad rationem generis, speciei et differentiae »), nn. 16-21.

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za umana. Il nominalismo conseguente rifiuterà l’egualitarismo e non troverà nulla di strano nella stratificazione sociale. L’egualitarismo assoluto vorrà invece livellare senza remissione la società,

mentre la linea del realismo moderato, soprattutto se si combina col principio cristiano, punterà ad instaurare un’eguaglianza proporzionale tra le persone, che sia consona all’unità di natura ed alle ineliminabili diversità individuali. L’eguaglianza come « equal opportunity »

Rigettata l'ammissibilità della più ampia diseguaglianza tra gli uomini, l’eguaglianza sociale può essere intesa o come eguaglianza delle possibilità (chazces) di vita; o come eguaglianza di status sociale. Le due soluzioni sono nettamente diverse, perché una cosa è l'eguaglianza delle condizioni di partenza o delle opportunità, un’altra è la parità delle condizioni effettive o dello status sociale. Quest'ultimo tipo di eguaglianza è utopistico, perché quanto più precisiamo il concetto di eguaglianza e lo estendiamo a parametri e situazioni sempre più numerosi e meglio definiti — processo che non ha limiti poiché i parametri differenziali della situazione sociale sono infiniti —, tanto più irrealizzabile diviene l’eguaglianza. Ne consegue anche che, se questo processo verso l’eguaglianza è spinto troppo in là, nessuno possiede più la possibilità reale di operare scelte e di perseguire i propri piani di vita: l’eguaglianza di status sociale deprime la ricerca del nuovo e la rende non interessante. Senza contare poi che la ricerca parossistica dell’eguaglianza è nemica del progresso. Lasciare aperta la possibilità del progresso esige che nella società possa avvenire il mutamento sociale, e cioè che sia presente la differenza, che svolge un’importante funzione nella vita sociale: vince l’appiattimento, produce mobilità e dinamismo, aumenta le possibilità di vita, combatte il conformismo di massa. La dottrina dell’eguaglianza nelle società contemporanee, almeno in quelle occidentali, si orienta soprattutto verso l’eguaglianza dinamica come parità di condizioni di partenza e di opportunità. Essa assume poi la forma della garanzia e dell’eguaglianza di godimento dei fondamentali diritti dell’uomo, dell’eguaglianza nel rispetto concreto della persona, e dell’accesso quanto più possibile gratuito ai beni (materiali e spirituali) essenziali della vita. 239

Con il riconoscimento dei diritti dell’uomo, il cui elenco è in costante aumento, si è compiuto un deciso passo avanti verso una maggiore eguaglianza. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 afferma: « Gli uomini sono liberi e sono nati

con gli stessi diritti. Le differenze sociali possono basarsi solo sull’utilità generale ». Era così definitivamente posto il problema dell’origine delle differenze sociali ricondotte all’utilità generale, ma non veramente spiegate. Tuttavia veniva rifiutata la diseguaglianza come diritto o come privilegio naturale, cioè l’idea della naturale diseguaglianza tra gli uomini, e si apriva la strada alla concezione dell’eguaglianza come égalité des conditions assicurando a tutti gli uomini il godimento di determinati diritti. Il loro riconoscimento non elimina la stratificazione sociale, ma la rende mobile, variabile, innalzandola sopra un fondamento comune, l’eguale concreto riconoscimento della dignità dell’uomo. Il problema dell’eguaglianza di status sociale non deve essere assolutizzato. La persona non chiede in primo luogo di poter salire al massimo livello sociale, ma di tendere alla pienezza del proprio sviluppo umano, di vivere in uno stato di vita degno dell’uomo. L’égalité des conditions va dunque intesa come eguaglianza di opportunità: è bene che nella vita sociale vi sia circolazione, che le persone possano passare da un livello all’altro della stratificazione sociale. Questo richiede che i vari livelli siano aperti. Ma è ingenuo pensare che tutti possano in partenza avere identiche possibilità di accesso ai massimi livelli sociali. D’altronde non è questo che interessa prima di tutto all'uomo, ma è una equal opportunity di poter svolgere le proprie qualità e i propri doni, di avere accesso alla cultura e ai beni dello spirito, di vivere in pienezza la propria vocazione di vita. Se una società funziona sulla base di questa idea dinamica dell’eguaglianza sociale, favorisce lo sviluppo delle diseguaglianze naturali aprendo più ampie e diversificate possibilità di vita, ma anche vegliando affinché venga attivato un processo di ridistribuzione e di compensazione per venire incontro ai meno dotati e fortunati. In tal modo il principio dell’eguaglianza delle opportunità viene come temperato. In effetti esso può essere interpretato come un

principio secondo cui le ricompense sociali sono attribuite sulla base del merito: se a tutti sono concesse eguali opportunità di realizzazione, andrà più avanti chi è più capace. La ricompensa, il

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riconoscimento al merito possiedono un valore sociale, non solo individuale, perché premiamo chi rende un miglior servizio al bene comune. Tutto questo è vero, ma l’autorità politica ha anche il compito di temperare tale dinamica, offrendo un sostegno a chi, per motivi naturali (ad esempio i minorati fisici o mentali) o sociali, non può dare in misura sufficiente un apporto al bene comune.

L’eguaglianza delle condizioni come eguaglianza delle opportunità è posizione che non riconduce le differenziazioni sociali a differenze di natura o di essenza, ma all’utilità sociale. La stratificazione sociale risulta necessaria dal punto di vista della funzionalità della società, ma non esprime più alcun ordine metafisico legato a supposte diversità o a diversi gradi di natura umana. In altri termini la stratificazione sociale non esprimendo alcuna necessità metafisica, non può essere dedotta dalla natura umana e perciò può essere cambiata. L’eguaglianza delle condizioni è un obiettivo a cui ci si può avvicinare indefinitamente: l’eguaglianza dei diritti ne è un gradino fondamentale, che contempla diverse fasi al proprio interno, secondo che si considerino non solo i diritti civili e politici, ma anche quelli sociali ed economici. Le società moderne hanno compiuto un enorme cammino verso il riconoscimento concreto che ogni uomo ha lo stesso diritto di realizzarsi di ogni altro, che la società deve creare i necessari presupposti a tal fine, garantendo crescenti possibilità o chazces di vita per un crescente numero di persone. L’eguaglianza statica non è la soluzione migliore, perché la società non deve livellare tutti, bensì consentire a tutti di esprimere in pienezza le proprie potenzialità. L’égalité des conditions non può essere interpretata come eguaglianza identitaria, perché l’intervento della libertà e delle pendenze personali non può essere tolto. Gli uomini sono fondamentalmente eguali nelle cose in cui sono non liberi, ma soggetti alla necessità naturale: aver bisogno di mangiare, di bere, di dormire crea un’universale eguaglianza di bisogni. Al contrario, gli uomini sono almeno potenzialmente diversi nelle cose in cui la necessità naturale non interviene e può giocare la libertà, che innesta una indefinita diversità sopra una base naturale comune. Il secolare processo, svoltosi lungo l’età moderna, per un effettivo e crescente riconoscimento dei diritti dell’uomo è interpretabile come aumento delle possibilità di vita per il massimo numero possibile di uomini. Basti, ad esempio, pen-

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sare alle due questioni dell’istruzione pubblica generalizzata e della protezione giuridica della persona, che hanno dato un impulso decisivo alla edificazione di una società meno diseguale, costituendo una concreta base per la realizzazione del principio dell’eguaglianza delle condizioni. Questo discorso chiama in causa la funzione dei poteri pubblici nel promuovere l’eguaglianza. In sociologia sono generalmente ammesse quattro scale per definire il rango sociale: proprietà-reddito; autorità; cultura, prestigio. Se alcuni di questi parametri superano determinati livelli in persone ed aree della società, si può arrivare a forme di dominio che impediscono la normale stratificazione sociale, che la turbano e la rendono inaccettabilmente squilibrata. I poteri pubblici, coerenti col principio di non escludere la stratificazione sociale ma solo i suoi eccessi, dovranno allora porre limiti all'aumento incontrollato della proprietà-reddito e dell’autorità, mantenendo nel contempo aperta e mobile la stratificazione sociale. Nonostante tutti i provvedimenti necessari per assicurare a tutti gli uomini un eguale godimento dei loro diritti, gli uomini rimangono e devono rimanere diversi tra di loro: l’unità di essenza non va intesa come pura moltiplicazione dell’identico, ma come stupefacente ricchezza di individualità umane. Ma l’uomo è fatto come è fatto: è tentato dal voler sopraffare gli altri. La dialettica dell’eguaglianza e della stratificazione sociale rischia di degenerare, se non vi interviene l’amicizia civile: essa pone una volontà di comunione tra non eguali socialmente e crea nella società un attivo spirito di unità e di cooperazione, favorevole alla libertà. EGUAGLIANZA

E GIUSTIZIA

La teoria dell’eguaglianza non può fare a meno di una teoria della giustizia e viceversa, perché anche la giustizia si fonda su rapporti di eguaglianza. « Fai agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te » (oppure: « Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te »): questi assiomi esprimono un comportamento di giustizia, che fa immediato riferimento ad un principio di eguaglianza, in ultima analisi implicito nell’ordine cosmico ed etico e universalizzabile senza riserve. Essi possono poi essere ri-

condotti ad un primo principio di eguaglianza: 242

cose eguali vanno

trattate in modo eguale, che, applicato agli uomini, esige che, a parità di condizioni, essi debbano essere trattati egualmente, perché in essi sussiste un principio radicale di eguaglianza, che è l’unità della natura specifica. Esiste dunque uno stretto rapporto tra eguaglianza e giustizia,

poiché la nozione di eguaglianza, non solo identitaria ma anche proporzionale, è implicata nell’idea di giustizia: la giustizia commutativa, basata sul principio dello scambio degli equivalenti, è riconducibile all’assioma che cose eguali vanno trattate in modo eguale e cose diverse in modo diverso. A sua volta la nozione di giustizia rinvia a quella di diritto: agire secondo giustizia è dare a ciascuno il suo dovuto, riconoscere che l’altro ha diritto a qualcosa come al suo dovuto. La giustizia non crea il diritto, ma lo realizza: affinché la giustizia possa esercitarsi, bisogna presupporre un diritto. Riconoscere e garantire i diritti dell’uomo è dare a ciascuno il suo, ossia è agire secondo giustizia. Non è possibile svolgere una teoria della giustizia senza collegamenti con la teoria del diritto. Il principio di eguaglianza (« cose eguali vanno trattate in modo eguale ») è un principio formale, che potrà essere modulato secondo forme anche estremamente diverse. Nelle società contemporanee uscite dalle rivoluzioni liberali vi è una netta predominanza dello scambio e con esso della giustizia commutativa, da cui non segue necessariamente

una società egualitaria. Maggiore im-

portanza della giustizia commutativa possiede la giustizia distributiva, poiché la stratificazione sociale largamente ne dipende: una valida forma di giustizia distributiva la porta entro limiti fisiologici, mentre una cattiva forma la aumenta. Tra i vari tipi di giustizia distributiva consideriamo due classici principî di giustizia: a ciascuno secondo il suo merito; a ciascuno secondo il suo bisogno (spesso completato dall’altra massima: da ciascuno secondo le sue possibilità). Il primo assioma può forse essere considerato un’espressione della giustizia commutativa: si riconosce di più a chi più contribuisce all’utilità comune. È ovvio che la regola del merito per la giustizia distributiva può dare origine, se applicata con rigore, a forti diseguaglianze, tanto maggiori quanto più si ritiene che la giustizia non presupponga il diritto. Si può dare secondo il merito dopo che a ciascuno è stato assicurato un miri2um vitale, dopo che sono stati garantiti i fondamentali diritti dell’uomo. L’uomo

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deve avere qualcosa dalla società per il solo fatto che è uomo, indipendentemente dal suo apporto all’utilità sociale. È notevole che la divisa della Rivoluzione francese non includa la giustizia, ma l’eguaglianza: eppure una società egualitaria può essere ingiusta. Si è già osservato che l’uomo ha maggior interesse all’incremento delle proprie possibilità di vita piuttosto che all’eguaglianza, che può ridursi alla uniformità sociale. Ora, l’'ampliamento delle chances di vita è garantito in una società libera e giusta, mentre è assai dubbio che lo sia in una società uniformemente egualitaria, spesso bloccata dalla staticità, e qualche volta magari egualitaria nella miseria e nella stagnazione. La stratificazione sociale è inaccettabile non quando vi sono nella società differenze, ma quando vi sussistono palesi ingiustizie e serie violazioni dei diritti umani. L’uomo cerca l’eguaglianza delle opportunità in vista della diseguaglianza: scopo dell’eguaglianza è la diseguaglianza. Perciò le posizioni che si richiamano all’eredità di Hobbes, secondo cui il compito dello Stato è di garantire la sopravvivenza dei cittadini, non sono difendibili. Il minimo scopo dello Stato (che non è lo Stato minimo, anzi in Hobbes lo Stato possiede una corposità e una presenza indiscutibili) va palesemente contro le universali aspettative dell’uomo, che non cerca nella società e nello Stato solo la garanzia della sopravvivenza, ma pure il miglioramento delle proprie prospettive di vita. Va infine aggiunto che l’incremento delle chances di vita non è necessariamente segno di progresso morale: si può solo dire che l’aumento delle chances rende l’uomo più libero, più rispettato nella sua dignità, più sostenuto nel vivere una vita più qualificata. L’uomo vive in una condizione migliore, ma contemporaneamente può essere più egoista e più malvagio: non vi è diretta connessione tra miglioramento delle chances di vita e miglioramento della vita etica della persona. La dottrina dell’eguaglianza umana costituisce un pilastro del credo democratico: aggiungiamo ancora una riflessione sul loro stretto rapporto, che si ispira alla concezione integralmente realista e umanista della filosofia cristiana. Uno dei cardini della filosofia politica democratica è l’eguale capacità di ogni uomo, compreso il comzzon man, di comprendere e valutare i fatti politici. Si assume infatti che la capacità di giudizio politico (inteso come valutazione dei valori, degli obiettivi e delle situazioni della convivenza politica) dell’uomo della strada, del contadino, dell’ope244

raio sia in linea di principio eguale a quella di uomini di cultura, scienziati, ecc. Non si sono avuti infiniti esempi di casi in cui uomini coltivati e preparati si sbagliavano politicamente più del popolo? La saggezza politica, entro certi limiti, non è una specializzazione tecnica, ma dipende essenzialmente dall’equilibrio umano del soggetto, dalle sue virtù, dalla rettitudine della volontà volta verso i veri fini della vita umana, dalle capacità di giudizio, doti che non sono precluse al corzzzon man. Si è appena rilevato che la dottrina dell’eguaglianza umana è un cardine della filosofia democratica. Non ne è però l’unico: la sintesi dell’eguaglianza con la libertà è la caratteristica più vera della democrazia. Essa cerca eguaglianza e libertà rello Stato, non contro di esso: la trasformazione del concetto di libertà dalla prospettiva della libertà dell’individuo nei confronti dello Stato a quella della partecipazione dell’individuo alla vita del corpo politico e dello Stato, segna il passaggio dal liberalismo alla democrazia.

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APPENDICE

! mezzi di lotta politica per il cristiano: ila posizione di E. Mounier (*)

Gli anni Trenta e la coscienza della crisi della civiltà

La riflessione sulla persona non è un diversivo accademico, bensì, se è autentica e va in profondità, diviene sorgente di atteggiamenti spesso radicali e inediti, che gettano la loro luce sul piano della prassi. In tal modo l’approccio personalista, se è coerentemente svolto nelle sue esigenze, implica una dottrina dell’azione e un metodo di lotta politica adeguati alla progressiva scoperta dell’universo della persona e del suo mistero ontologico nonché, se il personalismo è cristiano, congruenti con la legge evangelica. Come vedremo più avanti, non tutti i personalismi si prolungano e si completano con una dottrina dell’azione, la cui presenza in certo modo diventa un indizio importante per diagnosticare la portata della loro possibile incidenza storica. A prima vista la problematica concernente i mezzi di lotta politica appare sufficientemente chiara, anzi quasi scontata e limitata. Ma in realtà si tratta di una questione importante, se non si rifiuta lo sforzo di ripensarla alla luce della scelta personalista e della centralità della persona umana: allora, sembra, si possono dischiudere orizzonti nuovi e l’intero asse del dibattito si sposta, aprendo lo spazio per nuovi possibili metodi di lotta politica più e meglio adeguati al valore proprio della persona. Ecco allora che il nostro argomento coinvolge l’antico e mai spento dibattito della Spada e della Croce, della forza che colpisce e dell'amore che costruisce, dei mezzi temporali e « carnali » di costrizione e dei mezzi spirituali di liberazione e di edificazione. Quali mezzi di lotta sono efficaci e insieme consentiti all’uomo e al cristiano nella vita civile, al fine di combattere per la giustizia (*) Contributo presentato al Convegno « Mounier trent'anni dopo », promosso dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, ottobre 1980) e poi pubblicato negli Atti dallo stesso titolo (Vita e Pensiero, Milano 1981).

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e di instaurare la civitas bumana? I mezzi di lotta politica si limitano a quelli comunemente noti, e spesso non esenti da un ambiguo carico di duplicità e talvolta di cinismo, oppure i tempi attuali rendono più che mai necessario riflettere a fondo sulla questione dei mezzi e su quali mezzi, magari sinora ben poco impiegati, siano particolarmente idonei per l’umanizzazione della politica e per il positivo avvento della rivoluzione personalista e comunitaria? Quali sono infine le ripercussioni nel campo della prassi storica della centralità della persona, quale la dottrina dell’azione adeguata alla scelta personalista? Tali sono le cruciali domande alle quali intendiamo rispondere, seguendo il filo della riflessione di Emmanuel Mounier su queste problematiche. Quando la coscienza della crisi della civiltà si fa più acuta, e tale era la consapevolezza dei giovani di « Esprit » degli anni trenta, il pensiero dispera in certo modo del presente e dei normali mezzi d’azione, per volgersi ai mezzi di profondità, a quei mezzi capaci di far germogliare maturazioni organiche, gli unici veramente idonei a preparare e operare l’ampiezza dei cambiamenti necessari.

Essi sono radicali e non possono essere ottenuti con i consueti metodi dell’azione politica, verso i quali Mounier manifesta una profonda sfiducia: « L’azione politica, quale si concepisce oggi, è viziata nel suo più profondo modo d’essere. I suoi fini sono limitati: la conquista del potere e la conservazione o la riforma delle istituzioni. Ora l’azione politica di oggi è divenuta, quasi insensibilmente, totalitaria nelle sue esigenze » (!).

La riflessione che intraprendiamo non è una pura rivisitazione di un’esperienza passata, poiché l’attuale crisi dell’occidente richiede che ci si interroghi sui mezzi capaci di costruire nuove forme organiche di reale durata storica: così la riflessione sui mezzi di lotta politica aiuta a una migliore consapevolezza del presente. Il problema della rivoluzione spirituale-personalista e dei suoi mezzi deve essere dunque posto al centro della nostra attenzione. Nei primi anni del secondo dopoguerra Mounier rievocava le scelte e le preoccupazioni fondamentali, che condussero il gruppo di « Esprit » nella sua opzione rivoluzionaria a porre l’accento più (!) Cfr. E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di

Comunità, Milano 1955, p. 343 s.

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sulla purificazione della rivoluzione che sui suoi mezzi: « Eravamo animati allora da un bisogno d’assoluto e da una rivolta contro i disordini spirituali piuttosto che dalla preoccupazione potente di una politica da seguire... In tale spirito, una certa preoccupazione della purezza tendeva ad essere il sentimento direttore del nostro atteggiamento: purezza dei valori, purezza dei mezzi... La nostra volontà rivoluzionaria era tuttavia profonda e autentica. Ma era meno orientata verso i mezzi della rivoluzione che verso la purificazione della rivoluzione stessa. Noi cercavamo una “tecnica dei mezzi spirituali”, e se “tecnica”

connotava l’aspetto realista di tale preoccupazione, forse avremmo allora detto che era meglio non fare la rivoluzione che lasciarla fare con certi mezzi. Così, il nostro primo lavoro fu soprattutto di purificare dei valori » (2). Confessione di singolare importanza che aiuta a orientare la nostra ricerca, e che può anche spiegare il taglio e le attenzioni della riflessione mounieriana sui mezzi di lotta politica. Essa doveva, in non lieve misura, inventare il proprio cammino, in quanto obbligata a svilupparsi in un contesto di dottrine politiche e di teorie dell’azione largamente convenzionali e limitate, e perlopiù elaborate al di fuori di una esplicita prospettiva personalista: dottrine dell’azione che sostanzialmente rispecchiano l’emarginazione o la captazione della coscienza cristiana utopica da parte della prassi moderata, mentre invece Mounier partiva da una profonda consapevolezza della radicalità della crisi e della necessità di elaborare e praticare una prassi diversa. In effetti, ad eccezione di Maritain, di Mounier, di Sturzo e di pochi altri, la riflessione su e la presenza del tema dei mezzi di azione e di lotta politica sono assai scarse nel pensiero cristiano del nostro secolo. Il personalismo italiano di Carlini e di Stefanini è naturalmente, come ogni vero personalismo, centrato su di una intuizione originaria della persona; ma la matrice e l’orizzonte speculativi sono complessivamente differenti. Mentre può dirsi che in Mounier la prospettiva personalista si sviluppi progressivamente (?) Cfr. E. Mounier, Qu'est-ce que le personnalisme?, in Oeuvres, Ed. du Seuil, Paris 1962, 4 voll., III, p. 185. In effetti nei primi anni di « Esprit » Mounier aveva scritto: « Purificare la rivoluzione è un problema almeno altrettanto impellente quanto attuare la rivoluzione » (cfr. Rivoluzione, cit., PE329);

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a partire da una previa coscienza di una grande crisi di civiltà, il punto di partenza del personalismo italiano è invece la crisi del neo-idealismo, il che lo porta ad una temperie più classicheggiante e a un contesto meno preoccupato dell’azione. Una delle più rilevanti differenze tra il personalismo francese e quello italiano consiste proprio nel fatto che il secondo non ha messo a punto una dottrina dell’azione e dei mezzi di lotta politica, forse perché pago di aver riaffermato e fondato il valore della persona, o forse anche perché meno sensibile e meno attento dei francesi nel percepire la fase di difficile e radicale transizione storica. L’esame del noto volumetto di Luigi Stefanini I/ personalismo sociale, autentica piccola sumzzza del personalismo italiano, indica che l’autore non si è posto il problema della prassi storica e personalista, ossia dell’agire temporale più adeguato e coerente con l’esplorazione dell’universo della persona. Si può allora affermare che quanto più netta e profonda è la modulazione del personalismo verso l’incidenza storica, tanto maggiore è l’esigenza di una dottrina dell’azione; e viceversa. Il personalismo italiano, prevalentemente accademico, risultava infine meno situato storicamente e sostanzialmente alieno da prospettive di radicali cambiamenti, presenti invece nella prospettiva di Mounier, impegnato nella storia ed esposto in prima persona nelle battaglie contro i totalitarismi, la guerra fredda, la colonizzazione, ecc. Per tutti questi motivi dobbiamo quindi essere consapevoli di muoverci su un terreno complesso e in buona parte inesplorato, reso poi ulteriormente accidentato dalle nuove condizioni ideologiche, umane, economiche, sociali e militari della seconda metà del secolo, con cui devono fare i conti coloro che prendono partito a favore di cambiamenti radicali. Ma come intendere il termine « mezzi di lotta politica »? Per Mounier va considerato in tutta la sua latitudine, ossia come comprendente: a) i mezzi violenti e quelli non-violenti; b) l’impiego della forza al servizio dell’autorità legittima; c) la testimonianza; d) l’azione educativa e culturale, e in essa anche la funzione di lotta di una filosofia combattente; e) la dialettica politico-partitica; f) la resistenza attiva e passiva; g) la coscientizzazione, l’animazione, l’elaborazione dottrinale, ecc. Naturalmente questa pluralità e vastità di mezzi si spiega e si comprende solo in relazione al fine, che è la rivoluzione personalista e comunitaria. È allora chiaro che i 249

mezzi di lotta politica, la loro legittimità e la loro efficacia non possono essere considerati e decisi solo in astratto, poiché ogni mezzo dice relazione al fine in vista del quale viene messo in opera. Per acquisire più approfondita conoscenza del pensiero di Mounier sui mezzi di lotta politica è dunque necessario soffermarsi sulle finalità, le intuizioni e la diagnosi storica della riflessione personalista e della proposta di azione, che formano nel loro insieme la filosofia combattente di Mounier. Il personalismo di Mounier è in larga misura una filosofia dell’azione e dell'impegno storico della persona, nata da alcuni decisivi rifiuti pronunciati alla fine degli anni venti, resi ancor più netti dalla grave crisi europea e mondiale degli anni trenta, e dalla crescente consapevolezza della compromissione borghese dei valori cristiani e della progressiva e inarrestabile caduta del precedente regime di cristianità. In questa prospettiva l’azione personalista in vista di una rivoluzione personalista e comunitaria e nella speranza di un mutamento di civiltà, occupa un posto di elezione. Era perciò essenziale alla riflessione di Mounier proporre o almeno iniziare a elaborare una dottrina dei mezzi di azione temporale, mediante i quali raggiungere le mete principali del proprio programma etico-politico, che risultano sostanzialmente tre: a) dissociare i valori cristiani dalla cattura reazionaria, dal mondo del denaro e dal mondo borghese, mediante una netta rottura con il disordine stabilito (*); b) ricostruire i legami organici tra cristianesimo e persona, attraverso il recupero

della “carnalità” del messaggio cristiano (lo spirituale stesso è carnale, diceva Péguy), della sua forza rivoluzionaria e politica esplicata in un’etica dell’impegno e dell’azione; c) tratteggiare nelle grandi linee le strutture di una società personalista e comunitaria. Tutta la prospettiva storica e filosofica di Mounier è dominata dalla coscienza della crisi, comune a larga parte della cultura più (°) Nella lotta di Mounier all’imperialismo del denaro si ritrovano i vigorosi accenti di Berdjaev (e in questi i potenti assalti di Bloy): « Le banche reggono invisibilmente il mondo » (p. 23). « Esiste per davvero una mistica del denaro, che non è di certo né divina né naturale, bensì diabolica; essa governa segretamente il mondo. Léon Bloy l’aveva magistralmente capita. Di questo mondo fantasmagorico soffrono non solamente le classi operaie, ma tutte le classi senza distinzione, tutti gli uomini, i quali si trovano in balìa d’una forza sovrumana: l’essere umano soccombe, l’immagine umana scompare » (p. 64). Cfr. N. Berdjaev, Cristianesimo e lotta di classe, La Casa di Matriona, Milano 1977.

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viva e creativa degli anni trenta (‘). Il punto di riferimento è uno solo e ad esso Mounier fa costantemente ritorno: la crisi. Bisogna allora uscirne con una rottura rivoluzionaria in direzione di un nuovo assetto personalista e comunitario, verso una nuova via per la Francia e per l'Europa: un cammino diverso dal capitalismo borghese e dal marxismo sovietico. i L’analisi continuamente reiterata del disordine stabilito, la consapevolezza che le strutture sono profondamente deformate, la conseguente sfiducia nella possibilità di cambiare mediante l’otdinaria dialettica politica la società, costituiscono i rifiuti primi e fondamentali da cui muove Mounier; essi lo conducono all’avversione nei confronti dell’individualismo liberale e della democrazia borghese, all’anticapitalismo, nonché infine alla critica della “politica cristiana” praticata dai partiti confessionali e da quelli democratico-cristiani. La finalità essenziale del combattimento di Mounier, almeno del Mounier degli anni trenta, è in sostanza di dissociare lo spirituale dal reazionario, nel quale è stato inglobato da una lunga prassi moderata e borghese. Dissociazione prima e fondamentale, poiché « l’elemento spirituale domina sull’elemento politico e su quello economico » (°): così scrivendo, Mounier esprime con vigore la propria adesione alla legge del primato dello spirituale, a cui rimase sostanzialmente fedele. È importante percepire che all’origine della filosofia militante di Mounier e del gruppo di « Esprit » sta, più che un insieme di certezze, che indubbiamente sono presenti seppure allo stato non solidificato e pienamente riflesso, l’acuta e drammatica coscienza di vivere in una situazione di crisi profonda ed epocale. Declino della civiltà di cui i giovani di « Esprit » avevano iniziato a cogliere tutta l’amara e velenosa portata di fronte agli sconvolgimenti della crisi del ’29 (9). (4) Cfr. ad esempio Berdjaev: « Un dato tipo di società e un dato tipo di civiltà stanno morendo, [...] è spuntata un’epoca rivoluzionaria la quale è forse destinata a durare pet lungo tempo », in Cristianesimo e lotta di classe, CONDI (5) Cfr. Rivoluzione..., cit., p. 30. (9) Non mi pare inutile ricordare che circa dieci anni più tardi anche Felice Balbo in Italia inizia il proprio filosofare partendo dalla consapevole coscienza di vivere dentro una crisi di civiltà: Balbo poi ne approfondirà ri motivi non tanto sul piano storico-politico quanto su quello teoretico-metafisico.

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Coscienza della crisi, dunque: il primo numero di « Esprit » si apre con un ampio editoriale dal significativo titolo Refaîre la renaissance.

Pochi anni dopo Mounier

scriveva:

« L'Europa

è in

presenza per la seconda volta (dopo l’Urss) di una teocrazia pagana. [...] Tutti coloro che direttamente o indirettamente hanno ricevuto una certa eredità cristiana non possono impedirsi di vedere l’avvicinarsi di una delle più grandi battaglie spirituali della storia » (7).

Di fronte a questa crisi globale di civiltà Mounier, pur insistendo per la purificazione della rivoluzione, non milita a favore di una rivoluzione puramente interiore, ma intende saldare e congiungere impegno cristiano e impegno rivoluzionario, rivoluzione spirituale e rivoluzione politica. Rendere lo spirituale “carnale” perché esplichi tutta la sua efficacia, scoprire nel temporale lo spirituale, ridonare efficacia storica all’azione del cristiano, tutto ciò diviene uno dei principali luoghi regolatori della riflessione e dell’azione di Mounier. In quegli stessi anni Bernanos scriveva: « On ne fait pas au surnaturel sa part », intendendo richiamare i credenti all’efficacia, indubbiamente nascosta e invisibile ma reale, del sovrannaturale nella storia. E certamente Mounier aveva colto il lei motiv e l’ispirazione segreta dell’opera di Bernanos, se intitola il saggio, a lui dedicato in L’espoîr des désespérés, Un sovrannaturalismo storico. La riflessione di Mounier sui mezzi d’azione è dunque un tentativo sia di innestare nello storico e nel politico la forza, reale ma misteriosa, del soprannaturale, sia di consegnare l’azione alla persona, di fare in modo che l’azione esprima la persona e non il peso delle strutture e dei determinismi storici. L’ambito della riflessione di Mounier sui mezzi di lotta politica Nonostante la già rilevata scarsità di riflessione del pensiero filosofico-politico cristiano del nostro secolo .sulla problematica dei mezzi, Mounier la affronta in vari contesti: con una certa ampiezza in Rivoluzione personalista e comunitaria, nella quale un intero capitolo le è dedicato; più rapidamente in altri scritti quali Mazifesto al servizio del personalismo comunitario, i saggi su Il personalismo e I cristiani davanti al problema della pace, a testimonian(*) Cfr. E. Mounier, Les certitudes difficiles, in Oeuvres, cit., IV, p. 205.

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za di un non indifferente volume di attenzione di Mounier al riguardo. Per vari aspetti allora Mounier deve innovare e inventare, traendo dalle proprie ascendenze culturali sensibilità e ispirazione per un’efficace elaborazione della questione dei mezzi. Sono note le influenze esercitate sulla formazione del pensiero di Mounier dalla filosofia di Bergson, da Chevalier, le assidue letture di Pascal e anche di Blondel, lo studio sul cogito cartesiano. Ma per gli specifici problemi dell’impatto del cristianesimo e della persona con la storia e della dottrina di un’azione coerente con le premesse cristiano-personaliste, la riflessione mounieriana sembra ispirarsi a due figure che anch’esse hanno avuto, seppure a diversi titoli, non lieve incidenza sulla sua formazione e sulle sue scelte: Charles Péguy e Jacques Maritain. Basterà qui ricordare che il rifiuto di un cristianesimo disincarnato, la distinzione tra mistica e politica, tra spirituale e temporale, l’antigiansenismo e l’antipessimismo di Mounier sono nuclei di riflessione in cui si rinviene più apertamente l’influsso di Péguy e di Maritain: Péguy trasmette a Mounier la convinzione che lo spirituale stesso è carnale; mentre Maritain, la cui riflessione procede alla luce di una meditazione sempre rinnovata del mistero dell’Incarnazione, gli comunica il valore ultimo, animante e salvifico dello spirituale, che deve impregnare di sé ogni molecola del temporale per sanarlo ed elevarlo (*). (8) Non è qui il luogo per ampliare tali considerazioni, essendo sufficiente accennare che di tale influenza rende testimonianza l’opera prima di Mounier, La pensée de Charles Péguy, in cui, echeggiando Péguy, si affetma: «Lo spirituale è incessantemente nutrito dal temporale; il temporale è incessantemente illuminato dallo spirituale » (cfr. La pensée de Charles Péguy, in Oeuvres, cit., I, p. 103). Per quanto riguarda Maritain basta consultare la corrispondenza intrattenuta con Mounier dal 1929 al 1939 (cfr. MaritainMounier, Correspondance 1929-1939, par Jacques Petit, Desclée de Brouwer, Paris 1973), di notevole interesse sotto vari profili e in special modo per il dibattito sulle esigenze della rivoluzione a cui « Esprit » intendeva votatsi. Mi accontenterò di ricordare alcuni concetti di una lettera (18 maggio 1933) di capitale rilievo indirizzata da Maritain a Mounier, e concernente la purificazione dei mezzi implicata dalla rivoluzione spirituale a cui il gruppo di « Esprit » mirava. Maritain invita con forza a porre « la questione della vera natura e delle vere dimensioni della “rivoluzione spirituale”, e dunque, il che è capitale, della purificazione dei mezzi da essa implicata. Fino a che non avrete fatto questo, voi sarete di fatto a rimorchio dell’altra Rivoluzione [quella comunista-collettivista] e non avrete conquistato la vostra specificità. Tale questione della purificazione dei mezzi va molto più lontano di quanto si pensi. Se vi si riflette seriamente, si è condotti a concludere ad un totale rovesciamento delle nozioni e dei valori correnti: i mezzi a base spirituale, i mezzi di “forza di resistenza” e di pazienza attiva come quelli di cui Gandhi

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Quali sono le affermazioni di partenza che orientano la riflessione sul problema dei mezzi di azione politica? « Una rivoluzione per la persona non può che impiegare mezzi che siano idonei alla persona » (°); « Non è la violenza che fa le rivoluzioni, ma la luce » (!9); « Non si domina una società che sia in tristi condizioni con mezzi simili ai suoi stessi mezzi (!!). Tali sono i principî, lucidamente enunciati da Mounier, che dominano tutto il dibattito sui mezzi di lotta politica, poiché non è bene raggiungere un fine con mezzi che di per se stessi si pongono in contrasto con esso. È allora significativo e ampiamente giustificato che Mounier parli di « tecnica dei mezzi spirituali », consapevole che questa problematica risulta cruciale per il coerente sviluppo della rivoluzione personalista e comunitaria, e nuova a causa della scarsa attenzione

che la riflessione politica le ha in passato rivolto. Mezzi spirituali, dunque. Mezzi che salvaguardano la purezza dell’intenzione e dell’azione: la ricerca di una tecnica dei mezzi spirituali non diviene però in Mounier una fuga nel morale ed un allontanarsi dalla storia, ma è perseguita in vista della particolare efficacia da essi esplicata. I mezzi spirituali non sono una scappatoia, né un rifugio per anime perplesse, né infine sono gli unici che si possono legittimamente impiegare. Il capitolo intitolato « Per una tecnica dei mezzi spirituali » trova posto in Rivoluzione personalista e comunitaria subito dopo il capitolo « Elogio della forza », a testimonianza che, secondo Mounier, non è possibile « aderire a un pacifismo che sia semplicemente resistenza innata alle virtù della guerra e legalizzazione dell’indolenza dei mediocri » (1°). In realtà si tratta, più che di escludere mezzi legittimi, di ela-

borare una gerarchia dei mezzi di lotta politica: oltre ai mezzi di forza materiale, mezzi carnali che derivano il loro potere dalla spada, e ai mezzi puramente spirituali e soprannaturali (preghiera, contemplazione, ascesi, ecc.), esistono su piano naturale e indiriz-

zati all’opera temporale, mezzi temporali intimamente animati dalha fornito un esempio debbono passare in primo piano, i mezzi di “forza d’aggressione” divenendo secondari e accidentali » (Ibidezz, p. 79). (°) Cfr. E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ed. Ecumenica, Bari 1975, p. 251. (!) Cfr. Rivoluzione..., cit., p. 41. () Cfr. Manifesto..., cit., p. 252. () Cfr. Rivoluzione..., cit., p. 283.

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lo spirituale e traenti la loro efficacia dall’esempio e dal sacrificio ('). Mounier ne abbozza una esemplificazione: l’azione organica, la fedeltà, il servizio permanente alla verità, la testimonianza, la non-partecipazione, la resistenza alle leggi ingiuste, gli atti di non adesione al mondo del denaro, ecc. Atti che si caratterizzano non come scappatoia per evitare l'impegno temporale e i doveri che urgono, non come rifugio in un falso spiritualismo, ma come un metodo per una trasformazione veramente in profondità dell’attuale regime di civiltà. Nel Manifesto al servizio del personalismo comunitario Mounier riprende l’elaborazione di una prassi adeguata all’obiettivo di una rivoluzione personalista: la conversione integrale e l'impegno di tutto l’uomo, la lotta all’odio, alla confusione, ai miti, ai conformismi, le scelte di rottura, le tecniche individuali di azione spirituale quali l’ascesi dell’azione (meditazione, raccoglimento, spogliazione) e infine le azioni organiche e fecondanti, costituiscono le principali direttrici di una prassi personalista. Mounier è consapevole che bisogna mettere in opera una tecnica personalista dei mezzi collettivi, che non è «un blocco di adesioni ma una catena di impegni », ponendo in atto germi e fermenti di una civiltà nuova e creando quelle comunità organiche che portano frutto dopo un lungo periodo di storia: la tecnica dei mezzi spirituali prospettata da Mounier vuole conferire efficacia all’azione dell’uomo e del cristiano senza toglierle purezza. San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (10,3-4) ha come anticipato e posto i principî della lotta condotta con mezzi spirituali: « Camminando nella carne, essi non militano secondo la carne; le armi dei loro eserciti non sono carnali ». Del tutto coerente con la scelta personalista è anche il suggerimento di Mounier in favore del piccolo gruppo « che vale per gli uomini che raccoglie e per l’intensità dell’irraggiamento, più che per il numero, che non si propone grandi compiti rivoluzionari, compiti di massa, ma... la scoperta ardita di panorami sconosciuti e la vigilanza su di un tesoro necessario al benessere di tutti, tesoro (5) «Non sarebbe possibile immaginare, su un piano specificamente naturale, mezzi che fossero validi sia per coloro che ritengono efficaci solo i mezzi “puramente spirituali” sia per gli altri: mezzi che fossero temporali, incar-

nati, che esigessero una tecnica, ma la cui anima, il cui fine, e quindi lo stesso volto appartenesseto a un mondo diverso da quello in cui dominano le astuzie e le brutalità della forza? » (cfr. Rivoluzione... cit., p. 295).

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che i tumulti dimenticano o minacciano » (!). Privo di tentazioni di successo e di etichetta, il piccolo gruppo più facilmente può essere un nucleo di irraggiamento e di testimonianza. Riflettere sui mezzi di lotta politica necessariamente implica incontrare il grande e temibile problema dell’impiego della violenza: Mounier ammette che « la violenza è sempre impura e un ideale pratico di non-violenza deve essere il limite al quale dobbiamo cercare incessantemente di accostarci » (!). Ma nonostante la preferenza per la non-violenza quale ideale limite, essa non è per Mounier il solo mezzo di lotta politica che rimanga e sia legittimo per il cristiano. In effetti la violenza non è sempre necessariamente ingiusta, almeno nella misura in cui, entrando al servizio della giustizia, diviene la forza che reprime il disordine e l’oppressione. La non-violenza non è dunque idealizzata, né è fatta per le «anime belle », ma « solo colui che è capace di violenza e per giunta è in grado di frenare la propria violenza, è capace di nonviolenza » (19). La non-violenza non deriva dalla paura, ma dalla forza dei forti. Mounier non rifiuta di riflettere sulla forza: essenzialmente questa è generosità, non aggressività, perseveranza più

che attacco. La forza a cui Mounier si riferisce è in fondo la virtù della fortezza, che deve essere tutta permeata di prudenza, di temperanza e di giustizia. Personalismo e dottrina dell’azione

La filosofia dell’azione di Mounier non nasce da un accesso di attivismo di stampo fascista o, per ricorrere a un esempio individuale, alla Malraux, bensì scaturisce da una profonda, ma non ingenua, fiducia nell'uomo, da quell’ottimismo tragico che secondo Mounier è il carattere distintivo del cristiano che vive nella storia. In La petite peur du XX siècle, Mounier scrive appunto: « Certuni amano caratterizzare l’atteggiamento del cristiano come un pessimismo attivo. Ma io credo il cristianesimo meglio definito come ottimismo tragico » (1). SI Cfr. E. Mounier, Che cos'è il personalismo?, Einaudi, Torino 1948, 29. (5) Cfr. Rivoluzione..., cit., p. 312. (!9) Ibidem, p. 298. sa Cfr. E. Mounier, La petite peur du XXme siècle, in Oeuvres, cit., III, p. È

p.

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Proprio tale ottimismo tragico, che ben conosce, oltre alla grandezza, anche la fragilità e la carnalità dell’uomo, non può evadere verso uno spiritualismo angelista e non può quindi neanche escludere nei casi estremi, e come momento finale di lunga maturazione storica, il ricorso alla violenza, operazione legittima solo in quanto si presenti come un taglio cesareo che facilita la nascita di un ordine personalista più umano e la caduta di quello vecchio (!8): per quanto preferiti, i mezzi spirituali e non violenti non sorio dunque gli unici a cui si può far ricorso (!). È in ogni caso importante segnalare che tra i mezzi di lotta politica a cui Mounier fa riferimento non compare come consigliata la militanza nei partiti, nei cui confronti Mounier manifesta a più riprese diffidenza e sfiducia per la pesantezza burocratica, il conformismo e la rigidità ideologica che li caratterizzano fino a soffocarli. Sfiducia che si estende anche alla democrazia parlamentare borghese e talvolta anche ai sindacati, e che dovrebbe spingere, nel pensiero di Mounier, a dar vita a nuove strutture di formazione e di azione politica. Ma perché Mounier ha sentito l’appello e l’importanza dei mezzi spirituali di lotta? Indubbiamente la sua fede cristiana ve lo inclinava; ma ugualmente lo esigeva il clima personalista del suo pensiero. La tecnica dei mezzi spirituali si radica nella fondamentale opzione personalista di tutti i suoi scritti: si deve dunque affermare che esiste un nesso strettissimo tra il personalismo e i mezzi spirituali di lotta, come d’altronde esiste un legame tra questi e la radicale diagnosi di crisi della civiltà. Se i mezzi poveri, se una tecnica dei mezzi spirituali sono sempre necessari in virtù di una scelta coerentemente personalista, essi diventano ancor più necessari, anzi indispensabili, in un periodo di crisi della civiltà, nel quale si tratta di operare e attivare (18) « Certamente nessuna rivoluzione si opera senza qualche violenza », in Rivoluzione..., cit., p. 257. (!9) « Un mondo di persone esclude la violenza considerata come un mezzo di costrizione esterna. Ma alcune necessità, cristallizzate dal disordine anteriore, fanno violenza contro le persone. La nostra azione deve allora esaurire tutti i mezzi idonei per ricondurle al cammino normale. Se ciò alla fine si avvera, e le forme da sostituire sono sufficientemente mature pet pretendere all’eredità del disordine agonizzante, tanto che solo la violenza, come è probabile, prenderà l’ultima decisione, nessuna ragione valida potrà allora escluderla. Ma essa non deve arrivare che come necessità ultima; prematuramente impiegata, o sistematicamente incoraggiata, potrebbe solo deformare gli uomini e compromettere il risultato finale » (cfr. Manifesto..., cit., p. 254).

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quelle maturazioni organiche che lasciano sperare l’alba e l'avvento di un nuovo regime di civiltà. Mounier è esplicito nel dire che il passaggio dal vecchio al nuovo ordine si verifica attraverso preparazioni e maturazioni storiche dipendenti dall'impiego dei mezzi spirituali, mezzi non carnali, non ricchi, che preparano la formazione di una civiltà nuova: « La tattica centrale di ogni rivoluzione personalista non sarà dunque di riunire delle forze incoerenti per attaccare di fronte la potenza coerente della civiltà borghese e capitalista. Essa consiste nel porre in tutti gli organi vitali, oggi sclerotizzati, della civiltà decadente, i germi e i fermenti di una civiltà nuova. Questi gerzzi saranno comunità organiche, formate intorno ad una istituzione personalista embrionale, o ad un atto

qualunque di ispirazione personalista, o semplicemente dallo studio e dalla diffusione delle posizioni personaliste » (2°). Con la tecnica dei mezzi spirituali si vuole ottenere insieme efficacia pratica e purezza etica: le linee di azione personalista elabo-

rate da Mounier mantengono una quasi identità tra la persona e le sue azioni. Ne viene che Mounier tende a sottolineare di più il legame immediato e diretto azione-persona, piuttosto che a distinguere e a sviluppare adeguatamente i vari livelli dell’azione: per questo i marxisti hanno spesso considerato astratta l’impostazione rivoluzionaria di Mounier. Anche quando in I/ personalismzo Mounier espone le quattro dimensioni dell’azione, ossia: fare, agire, contemplare, azione collet-

tiva (quest’ultimo livello è appena accennato), la sua dottrina appare in continua tensione tra il polo politico orientato al successo e

il polo profetico orientato alla testimonianza. Sembra perciò che Mounier si caratterizzi più come teorico dell’azione vista come una dimensione essenziale della persona, piuttosto che come pensatore rivoluzionario che mette a punto un coerente sistema di mezzi per l’azione. Ad esempio, Giorgio Campanini nota che in Mounier vi è soprattutto una teoria dell’azione, non una tecnica dell’azione, che quando è abbozzata riguarda soprattutto i mezzi spirituali, mentre non viene indicata una corrispondente tecnica dei mezzi materiali (7). (°°) Cfr. Manifesto..., cit., p. 252 s. (*) Cfr. G. Campanini, La rivoluzione cristiana - Il pensiero politico di E. Mounier, Morcelliana, Brescia 1968, p. 216. Nonostante ciò Mounier ha colto i legami tra spirituale ed economico: «il primo passo della rivoluzione spiri-

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D'altronde tutto questo è largamente omogeneo con la vocazione di Mounier e di « Esprit », nato per essere un « focolare di protesta e di testimonianza {...] un focolare di purezza [...] noi siamo del partito dello spirito prima di essere del partito della rivoluzione », come scriveva Mounier stesso nel dicembre 1932, presentando ai lettori il programma della rivista per il 1933. Scelta molto chiara dunque che deriva anche da un profondo, leale e decisivo dibattito tra Maritain e Mounier, svoltosi negli ultimi mesi del 1932: Maritain teme che la logica interna delle posizioni trascini « Esprit » a mettere la rivoluzione prima di Cristo, mentre il suo compito è di preparare le condizioni di una rivoluzione cristiana. Nei suoi Etretiens (9 novembre 1932) Mounier

nota che Maritain « teme che così trascinati da un valore culturale [la Rivoluzione] e tacendo d’altronde, per degli scrupoli di tattica, i valori spirituali e cristiani che soli ci animano, noi li lasciamo deperire nelle nostre anime e nella nostra azione. Questo trova in me più che delle risonanze, la sorgente stessa della mia vocazione ». Poco dopo Mounier scrive a Maritain (11 novembre 1932):

« Noi viviamo in una linea di testimonianza e non di successo ». Era allora ben naturale che Mounier dedicasse una maggiore attenzione ai mezzi spirituali di rivoluzione e crescita organica, più che alle tecniche di azione e di lotta politica immediata. Ed era altrettanto naturale che nelle varie problematiche sottolineasse più il lato “esigenze” che quello “soluzioni e programmi”, in linea con l’obiettivo e la vocazione fondamentali di Mounier, che non erano quelli di fornite un risultato politico immediato, ma di esprimere una testimonianza umana ed etica. In effetti Mounier si presenta più come un testimone e un suscitatore di energie, che come un uomo d’azione impegnato a mettere a punto e a praticare una coerente e completa dottrina dei mezzi di lotta politica. Nonostante la diuturna sottolineatura della necessità dell’azione, egli ha optato sostanzialmente per la testimonianza. Va anche rilevato che è soprattutto il primo Mounier, il Mounier della prima metà degli anni trenta, a ritornare a più riprese tuale è la rivoluzione economica e politica, che a quella apre la via» (in

Che cos'è il personalismo?, cit., p. 19). Mounier riconosce dunque il peso e l’importanza dei fattori economico-strutturali in una società moderna e la necessità di profonde riforme delle strutture economiche.

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sui mezzi spirituali di lotta politica. Man mano che passano gli anni questa problematica non scompare, ma indubbiamente si attenua di molto: la salita al potere di Hitler, la guerra di Spagna, Monaco, la seconda guerra mondiale costituiscono per Mounier e per « Esprit » incalzanti sfide storiche che contribuiscono a spostare l’asse della riflessione sui mezzi, e che sembrano far arretrare in un imprecisato futuro la fioritura di una società personalistacomunitaria.

Sotto l’urto dei totalitarismi la lotta dovrà essere spirituale e materiale, la forza dovrà entrare in gioco per difendere valori umani essenziali. Di fronte alla sfida cieca e violenta del nazi-fascismo,

il personalismo non può avvolgersi in un imbelle pacifismo e in una debole utopia, per evitare la guerra al prezzo di una totale sconfessione di tutti i valori: « Delle persone pacifiste ci hanno rimproverato di non prendere come principio politico di evitare la guerra ad ogni costo. Io rispondo...: bisogna evitare la guerra a gran forza, e non ad ogni costo » (?°). Mounier e Gandhi

Tale è nelle grandi linee la valenza propria della riflessione di Mounier sui mezzi di lotta temporale e sulla tecnica dei mezzi spirituali, concepita e sviluppata nelle difficili condizioni dettate dalle convulsioni della società europea degli anni trenta e dai primi passi di « Esprit ». Insegnamento rilevante e coraggioso, che è nel complesso riuscito a evitare la fuga nel morale, ma che, a mio avviso, non sempre arriva a cogliere pienamente il nucleo e la forza essenziale dei mezzi spirituali; il che esige che si superi la zona dell’esigenza etica per volgere verso le scaturigini metafisiche della persona e per entrare nella dura e aspra regione dell’ontologico, là dove, contro ogni apparenza, la forza della libertà, della verità, della sofferenza orienta la storia. Esplorando tale regione si è condotti e quasi costretti a percepire la fecondità temporale e storica dello spirituale: la domanda che allora ci incalza è se la tecnica dei mezzi spirituali tratteggiata da Mounier riconosca e dia adeguato spazio a tutta la potenzialità storico-politica dei mezzi spirituali di lotta, dei mezzi poveri della non-violenza. . (®) Cfr. E. Mounier, L’Europe contre les hégémonies, in Les certitudes difficiles, in Oeuvres, cit., IV, p. 197.

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Parlare di non-violenza significa confrontarsi con la gigantesca figura di Gandhi, e anche con la deludente ed evasiva accoglienza che, tranne poche eccezioni, il suo metodo di lotta ha incontrato in Europa.

Ma quale era l’insegnamento e la pratica di Gandhi sulla nonviolenza, quale il significato della sua dottrina del Sazyagraba? « Il significato etimologico del termine è “la stretta indefettibile della verità”; donde la forza della Verità. Io l’ho anche chiamato forza dell'Amore o forza dell'Anima... La dottrina [del Satyagraba] venne a significare rivendicazione della verità, non infliggendo sofferenze all’avversario, ma a se stessi. Il Satyagraba differisce dalla Resistenza passiva, come il Polo Nord dal Polo Sud... esso è stato concepito come arma dei forti tra i forti ed esclude l’uso della violenza sotto qualsiasi aspetto... il Satyagraha è stato descritto come una moneta nel cui dritto si legge Azzore e nel rovescio Verità. È una moneta che ha corso dovunque ed ha un valote che non si può stimare... Si è, tuttavia, obiettato che il Satyagraba, così come lo concepiamo, non può essere praticato che da un piccolo numero di persone scelte. La mia esperienza prova il contrario. Una volta che si sono compresi i suoi principî semplicissimi — aderire alla verità e difenderla integralmente con la sofferenza volontaria — qualsiasi uomo può praticarlo » (*). Tale è dunque l’insegnamento di Gandhi: non si tratta di farne un assoluto e un metodo universale, poiché contro un avversario disposto a colpire con ogni mezzo la non-violenza gandhiana ha solo un misterioso valore di testimonianza, che viene deposto nel grembo del Signore della storia e delle nazioni; si tratta però di coglierne tutto il peso umano-cristiano. Il cristiano, che desidera lavorare da cristiano a un rinnovamento storico e sociale, può ben fare propria la lezione gandhiana. Esigenza di purificazione dei mezzi che non è un pretesto per evitare ogni impegno, ma il vero e unico modo per far riuscire le rivoluzioni, le quali sempre sono l’opera di un gruppo relativamente ristretto di uomini. Un rinnovamento temporale cristiano, la rivo-

luzione personalista e comunitaria non possono che scaturire dall’eroismo cristiano e da mezzi essi stessi puri (2°). Che dire dell’at(®) Cfr. K. Gandhi, La dottrina del Satyagraha, IV Cap. del Report of the Indian Congress, vol. I, 1920. ; | A ; (4) J. Maritain ha meditato a lungo sulla lezione di Gandhi, cogliendone

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teggiamento di Mounier nei confronti della testimonianza gandhiana? A mio avviso Mounier sembra intendere per non-violenza e per metodo non-violento qualcosa di diverso da ciò che ha esposto e praticato Gandhi, verso il quale indubbiamente mostra ammirazione e approvazione (©). È legittimo domandarsi se Mounier comprenda sino in fondo l’originalità e la forza storica e temporale del metodo gandhiano, che egli vede non solo come qualcosa di esclusivamente spirituale, ma anche come avente un fine esclusivamente spirituale (29). Ma confinando la non-violenza a un atteggiamento tutta la portata di stimolo e di profezia ed esprimendo nel libro Strutture politiche e libertà [Du régime temporel de la liberté] un sostanziale consenso alla sua dottrina: caso raro di comprensione dei muovi termini in cui si poneva la battaglia per la persona, dell’insufficienza dei mezzi carnali, e della potenzialità politica della non-violenza. « Il problema posto oggi dalla situazione del temporale non concerne un tiranno che mette sossopra una città con le sue rapine o la sua crudeltà e sconvolge così il corso delle cose umane già normalmente, umanamente soggette ad alti e bassi. Esso concerne uno stato universale di oppressione e di disordine. Concerne un mondo nuovo da far emergere dalla storia in una crisi di proporzioni mai viste. [...] La giustizia importa più della forza per la conservazione della città. [...] Per questo l'indifferenza nei confronti dei mezzi d’azione sarebbe uno sbaglio singolare da parte di coloro che si dicono rivoluzionari in nome dello spirito... Vi sono altri mezzi di guerra, oltre a quelli carnali. «Se i mezzi spirituali di guerra potessero fornire armi sufficientemente forti, l’asse della battaglia si sposterebbe e soluzioni nuove apparirebbero possibili. [...] L’originalità di Gandhi è stata di individuare i mezzi della pazienza e della sofferenza volontaria e di organizzarli sistematicamente in una tecnica particolare di attività politica. [...] Quelli che vogliono lavorare ad una rivoluzione personalistica non dovrebbero, anche se non sono cristiani, dare a quelle tecniche il primo posto tra i loro mezzi di guerra, perché sono più propotzionate alla dignità e alla forza della persona? » (cfr. J. Maritain, Strutture politiche e libertà, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 115 ss. [corsivo nostro ]). Maritain era pienamente consapevole della portata rivoluzionaria delle posizioni espresse in tale libro e dell’impottanza della questione dei mezzi. In una lettera a Mounier gli domanda di vegliare affinché la recensione che « Esprit » ne avrebbe pubblicato non ne diminuisse in nulla il radicalismo. Ed è ben significativo che Du régime temporel... rimanga ancora oggi una delle opere meno lette e più disattese di Maritain e che il problema dei mezzi spirituali di azione temporale (soggetto sul quale Maritain è tornato in Religione e cultura, Umanesimo integrale, L'uomo e lo Stato, Per una filosofia della storia) venga generalmente sottaciuto. (*) « Abbiamo avuto modo di vedere, di recente, in India il prestigio spirituale di un uomo spezzare pregiudizi che secoli di storia e parole di profeti non erano riusciti a scalzare. Occorre aver davanti allo spirito questi pensieri per difenderci dal prestigio del numero, dei tumulti e dei mezzi ricchi » (Rivoluzione..., cit., p. 286). (*) Parlando dei « mezzi puramente spirituali: azione di presenza, sforzo verso la santità che tutto intorno silenziosamente irradia bontà », Mounier

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religioso, facendola appannaggio dei santi (2?) e negandola in certo modo agli uomini comuni, non si coglie il valore comunitario-collettivo dell’azione e della testimonianza non-violenta, né la loro potenzialità ed efficacia rivoluzionarie in vari tipi di contrasti socio-

politici (3).

In realtà anche Gandhi non cercava una purezza assoluta e totale dei mezzi, una purezza disincarnata, bensì una purezza forte, mediante mezzi che non spengono o addormentano la lotta, ma che la traspongono su un piano coerente con la persona. Le lotte capeggiate da Gandhi, da Martin Luther King, l’agosto polacco e l’atteggiamento di quei lavoratori hanno mostrato l’efficacia e la fecondità della protesta non-violenta nel campo delle lotte in favore dei diritti civili e sindacali. Si può anche ricordare la sostanziale approvazione che il Vaticano II ha dato alle rivendicazioni politiche non-violente (2). accenna alla « mèta “esclusivamente spirituale” come quella di Gandhi », in Rivoluzione..., cit., p. 294. () « Ma la non-violenza è un atteggiamento religioso. Al male oppone la santità, cioè l’invasamento dell’uomo da parte di Dio. Al di fuori di quest’ultima conseguenza io non riconosco alla non-violenza alcun altro senso immaginabile o legittimo. Dieci giusti possono salvare la città; ma occottono dieci giusti. E con questo s’intende dieci santi, non dieci belle intelligenze » (Rivoluzione..., cit., p. 286). (*) Nel 1939, nell’ambito di un’ampia riflessione sulla responsabilità dei cristiani di fronte alla pace, Mounier raggiunge una penetrazione più profonda della singolare estensione dei mezzi di lotta politica e di “guerra”: « Apparterrebbe ai cristiani di inventare per coloro che lavorano sul temporale con dei mezzi temporali, una tecnica di resistenza in forza che non facesse appello né all’odio né alla menzogna, né al ricatto, né alla brutalità... » (cfr. E. Mounier, Les chrétiens devant les problèmes de la paix, in Oeuvres, cit., I, p. 800). Il metodo della non-violenza viene dunque colto come un metodo di resistenza, come applicazione della virtù della fortezza. L’ultimo Mounier non ritorna quasi più sul tema della tecnica dei mezzi spirituali, in quanto sempre più direttamente impegnato nella lotta culturale e politica del suo tempo, anche se la coscienza che la crisi è insieme economica e spirituale non lo abbandona mai. Ma forse la prospettiva della rivoluzione personalista e comunitaria si è allontanata... Rimane però acquisito per Mounier che « il ruolo dello spirito dei cristiani è di allentare a poco a poco dall’interno la servitù della forza, inserendovi progressivamente una giustizia limitativa e grossolana, con la legge del taglione nel codice di Mosè, poi la giustizia di reciprocità, infine la dismisura e la sovrabbondanza della Carità » (cfr. E. Mounier, Les chrétiens devant les problèmes de la paix, cit., p. 798). (2) « Noi non possiamo non lodare coloro i quali, rinunziando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli » (Gaudium et spes, n. 78).

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Mounier ha ripetutamente espresso il proprio apprezzamento nei confronti dei mezzi spirituali, fecondanti, poveri, capaci di costruire forme organiche. Quale può essere il motivo della non piena percezione delle possibili applicazioni storiche del metodo della non-violenza, quale metodo efficace di lotta collettiva? Forse una certa impazienza di fronte alla profonda crisi di civiltà diagnosticata da « Esprit », l’urgere e l’accavallarsi di molteplici impegni, hanno forse portato a una insufficiente considerazione delle condizioni umane profonde per la rivoluzione personalista e comunitaria. Non si può forse qui riscontrare una indiretta conferma del fatto che il filosofare mounieriano della persona sembra porne in luce soprattutto i momenti dell’azione, della comunicazione e della scelta, lasciando più in ombra le profondità metafisiche e quelle contemplative, nelle quali soltanto, come in mare profondo ricco di molti pesci, si preparano le grandi scelte alternative? Conclusioni

Oltre quarant’anni sono trascorsi da quando Mounier prospettava nuove tecniche di lotta politica. Il tempo trascorso non ha diminuito in nulla la sostanziale validità del metodo e delle indicazioni elaborate da Mounier e miranti ad una trasformazione in profondità della persona e della società, nonostante che la riflessione mounieriana non atrivi forse da un lato a cogliere tutte le implicazioni e le esigenze di una dottrina personalista-cristiana dell’azione, e dall’altro a prospettare una dottrina dei mezzi giuridicopolitici di azione. Quest'ultimo aspetto rende il pensiero di Mounier non direttamente utilizzabile dal politico, in quanto Mounier lascia in ombra la strumentazione tecnico-giuridica, che può conferire spessore politico e incidenza storica al personalismo comunitario. Non vi è in Mounier un rifiuto del diritto, il progetto di costituzione pubblicato su « Esprit » sta a mostrarlo, ma una riduzione del suo ruolo, a ulteriore conferma della prevalente inflessione etica, e non direttamente politica, della sua riflessione, che per vari aspetti si ricollega alla grande tradizione moralista francese. I mezzi di lotta politica che Mounier prospetta dipendono largamente dalla sua fede cristiana, dalla scelta personalista, come anche dalla consapevolezza della situazione di profonda crisi della

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civiltà, aspetti che complessivamente indirizzano a ricercare forme inedite di prassi e a considerare nettamente insufficienti i consueti metodi di lotta politica. Mounier sa di vivere dentro una situazione oggettivamente rivoluzionaria, che non richiede come prima cosa la violenza, ma una tecnica dei mezzi spirituali, perché la crisi è complessiva: è un disagio profondo della civiltà, il cui superamento non può consistere soltanto nel cambiare un determinato assetto economico, lasciando invece in piedi l’orizzonte etico, culturale e umano. Si tratta invece di attivare in tutti gli organi vitali della civiltà decadente germi e fermenti di nuove comunità organiche, purificando i mezzi e ricercando nuovi mezzi spirituali di prassi storica. Oggi, in una situazione di radicale crisi della civiltà, per taluni aspetti analoga a quella degli anni trenta, di grande incertezza sul futuro e di crescenti attentati all’universo della persona, l’azione cristiana e l’azione personalista esigono più che mai che si colga la vitale importanza e fecondità dei mezzi poveri e dei mezzi nonviolenti: ad esempio l’importanza di tali mezzi nelle battaglie per l’affermazione e il rispetto dei diritti dell’uomo. Siamo oggi chiamati a percepire con maggiore profondità la legge della gerarchia dei mezzi, non rispettando la quale il cristiano tradisce il suo Dio e la scelta personalista passa interamente a lato del mistero proprio della persona. La legge della gerarchia dei mezzi, — che Jacques Maritain ha eretto in legge fondamentale della storia, pienamente coestensiva al suo corso —, e che possiede un doppio enunciato, a seconda che l’obiettivo sia spirituale o temporale, si esprime così: 1) i mezzi temporali poveri sono superiori ai mezzi temporali ricchi in ordine al raggiungimento di fini spirituali; 2) i mezzi spirituali di lotta temporale sono superiori ai mezzi carnali e coercitivi di lotta temporale. Di fronte all’apparato di violenza e di oppressione dispiegato dagli Stati totalitari, di fronte alla straordinaria ricchezza e alla pesante carnalità dei mezzi tecnici a disposizione dei grandi apparati politici ed economici in occidente, è illusorio pensare di rispondere sullo stesso piano: oggi più che mai chi ha a cuore le sorti della persona deve mettere in opera nuovi metodi di lotta temporale, ispirati alla legge della supremazia dei mezzi temporali poveri e dei mezzi spirituali.

265

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Indice

dei nomi

Acerbi A. 173 Acton J.E. 96, 97 Adorno T.W. 45 Aghina G. 129, 131 Agostino (santo) 160, 217 Albert H. 26, 46 Ambrosetti G. 210 Aristotele. 21, 55, 56, 60, 61, 67, TOCCO CR192193 1961997 202, 205, 215, 234

Baget-Bozzo G. 94 Balbo C. 170 Balbo EM 920218251] Bellarmino R. 217 Bellah R. 116 Bentham J. 80, 96, 100 Berdjaev N. 250, 251 Bergson H. 153, 182, 183, 184, 253 Bernanos G. 252 Berti E. 202

Bloch E. 147 Blondel M. 253 Bobbio N. 9, 124 Bodin J. 182, 205, 218 Borne E. 195 Bovero M. 124

Bruni L. 202 Buber M. 82 Burke E. 97 Calamandrei P. 94

Calogero G. 128 Campanini G. 258 Capponi G. 170 Carandini N. 129 Carlini A. 248 Cartesio R. 149, 153 Cassirer E. 218 Cattani L. 129 Cavallotti F. 94

Chevalier J. 253

Cicerone M.T. 202 pr A. 64, 69, 78, 79, 80, 81, 86,

Condorcet M.-J. 52, 53, 96, 97 Constant B. 192 Cotta S. 64, 66 Cottier G. 8 Croce B. 74, 96 Dahrendorf R. 46, 48-51, 123 Da Vitoria F. 217 De Bonald L.J.M. 127 De Laubier P. 168 Deleuze G. 107 De Maistre J. 127, 194 Del Noce A. 68, 70 D’Holbach P.H.D. 100 Diderot D. 100

Donoso Cortès J. F.-M. 120, 194 Dossetti G. 222, 226-227

Engels F. 85, 88, 119 ‘Ezechiele 158, 159 Faccio A. 129 Feuerbach L. 138 Fourier Ch. 100 Freud S. 36, 38-41, 42, 101

Gandhi M.K. 214, 215, 253, 261-263 Garibaldi G. 94 Gentile G. 182, 218, 220-222

Geremia 158, 159 Germino D. 182 Gilson E. 153 Giobbe 158 Gioberti V. 153, 170 Giovanna d’Arco (santa) 160 Giovanni XXIII 172, 192 Giovanni Paolo II 188, 192, 206 Gladstone W.E. 97 Gobetti P. 129

267

Gramsci A. 133, 166 Guardini R. 151 Guattari F. 107

Halévy E. 100 Hamilton A. 201, 206 Hayek F. 46, 50, 97, 125

Hegel G.W.F. 5, 45, 137, 148, 182, 200, 201, 202, 205, 218, 224, 229 Heidegger M. 73, 149, 150, 152 Helvétius C.A. 100 Hitler A. 260 Hobbes Th. 7, 67, 120, 124, 137, 139, 182, 198, 205, 218, 224, 244 Horkheimer M. 13, 28, 33, 44, 45 Hume D. 96, 97 Husserl E. 12

161, 171, 172, 184, 190-231, 248, 252592018 20257205) Maritain R. 210 Marx K. 37, 40, 42, 44, 45, 61, 127, 134, 138, 167, 182, 202, 204, 218, 235 Mazzini G. 94 Metz J.B. 117

Mill J. 100 Mill J. Stuart 80, 96, 100 Montesquieu Ch.L. 205 Mosè 263 Mounier E. 171, 172, 246-265 Murri R. 167 Newton I. 81 Nietzsche F. 112, 148

Ignazi P. 128

Orwell G. 33

Jaccarino C. 129, 131 Jefferson Th. 201

Panebianco A. 128 Pannella M. 129, 131 Pannunzio M. 129 Paolo (san) 145, 146, 207, 255 Paolo VI 184, 188, 192, 207 Parsons T. 236 Pascal B. 153, 253 Pasini D. 22 Péguy Ch. 131, 184, 250, 253 Piccardi L. 129 Pio XII 83, 171, 192, 207 Platone 234

Kant I. 44, 47, 124, 137, 192, 198, 206, 208, 212, 224

Kelsen H. 195, 197, 204, 213 Kennedy J.F. 116 Lacan J. 198 Lamennais F.R. 127, 167, 194 Lamettrie J.O. 100 La Pira G. 124 Leibniz G.W. 153 Lenin N. 37, 88 Leone XIII 113, 153, 168, 169, 192,

Popper K.R. 26, 46, 182, 183 Proudhon P.J. 197, 218

220

Lincoln A. 116, 174, 201 Locke J. 66, 124, 137, 182, 192, 218, 224

Lombardi Vallauri L. 111, 162 Lothian L. 206. Luther King M. 263.

Macaulay T.B. 97 Machiavelli N. 7, 182, 205, 218, 224 Macpherson C.B. 36 Malebranche N. 153 Malraux A. 256 Mancini I. 94 Mannheim K. 114 Manzoni A. 96, 170 Marcuse H. 14, 36, 38-41, 46, 67, 126

Maritain J. 55, 139, 142, 153, 158,

268

Reich W. 36, 38, 101 Renan E. 53 Robbins L. 206 Rommen H. 194, 209, 210 Rosmini A. 71, 80, 96, 153,

170,

209, 210, 222, 224-226, 229

Rousseau J.-J. 7, 96, 97, 98, 99, 103, 1612012418219 1988205) 218, 2195220 22422108234 4235 Russell B. 100 Sade (De) D.A.F. 100, 111, 112

Saint-Simon (de) C.H. 64, 69, 80, 81, 84, 85, 86-93, 100, 119, 137, 204 Samuele 158 Sangnier H. 167 Sartre J.-P. 134 Scalfari E. 129

Schmitt C. 197 Schmitz H.R. 61, 62

Schopenhauer A. 45 Scoppola P. 167 Smith A. 96, 97 Socrate 12 Sorel G. 52, 53 Spinoza B. 28, 196, 198

Spirito U. 68, 69, 70, 72, 73 Stefanini L. 248, 249 Stirner M. 103, 104, 107, 110, 111 Sturzo L. 167, 170, 180, 222-224, 248

Suarez F. 217 Taparelli d’Azeglio L. 210 Teilhard De Chardin P. 54, 55, 60, 61, 232

Teodori M. 128, 129 Tommaseo N. 170 Tommaso d'Aquino UI9II23:

(san)

29, 21,

8519192196205,

DUI: DIA 238

Topitsch E. 46 Troeltsch E. 152 Valcarenghi A. 131 Valiani L. 128 VicolG.Bal53 215. Villabruna B. 129 Vittorini E. 129 Voltaire F.-M. 44, 96, 97 Weber M. 25 Whitehead AN. 34

269

Indice

Introduzione

Capitolo primo DI

Filosofia e società. Il compito politico della filosofia La filosofia è sempre politica - Eclisse sociale della filosofia - La vittoria dell’empirismo - Il compito della filosofia pratica - Per una filosofia politica umanista - Filosofia e progetto

Capitolo secondo 32

Umanesimi

contemporanei e progresso

Alla ricerca degli archetipi: la questione del metodo - Umanesimi e forme etico-politiche della storia contemporanea - L’umanesimo a sfondo istintuale e psicanalitico - L’istanza del pensiero critico e la forma neo-illuminista - Riflessioni sull’idea di progresso

Capitolo terzo

64

Lo scientismo tecnologico e la prospettiva tecnocratica La scienza come sapere universale, ovvero il candore dello scientismo - Le tribolazioni del soggetto nel produttivismo - Le ascendenze positivistiche - Religione e sociologia nel progetto tecnocratico - La dissoluzione del politico nell’industrialismo - Il progetto tecnocratico e il saintsimonismo

Capitolo quarto 94

La cultura radicale Origini della cultura radicale - L’antropologia radicale - Felicità e piacere - Radicalismo e abortismo - Etica ed ateismo nella cultura radicale - Politica, società e diritto nel progetto radicale - Tradizione e memoria - Radicalismo e marxismo - Il Partito Radicale Italiano Istanze esistenziali nella società radicale

135

Capitolo quinto Problemi di base. Sguardi sul progetto moderno Società e Stato - La questione della libertà - L'atteggiamento nei confronti del male e della religione - Progetti etico-politici e filosofia della

271

e

cultura - Gli umanesimi contemporanei e la filosofia cristiana - Essere e tempo nei progetti etico-politici contemporanei

Capitolo sesto 165

La forma

cristiano-democratica

Le origini dell'idea cristiano-democratica - Per un approfondimento dell’idea di democrazia. Insufficienza della democrazia formale - Religione e politica - Vangelo e democrazia. I cardini della filosofia cristiano-democratica - La società aperta o Ja comunità universale: la lezione di Bergson - Anzesso al cap. VI: Struttura e soggetti della forma cristiano-democratica

190

Capitolo settimo I problemi della democrazia. L’uomo e lo Stato nel pensiero di J. Maritain Un pensiero politico tomista, democratico, post-moderno, umanista La concezione dell’uomo e la politica - Le categorie del politico: il popolo, la persona umana, la legge naturale - Popolo, corpo politico, Stato - I problemi dello Stato e la critica alla falsa sovranità dello Stato - L’autorità politica - La legge naturale al centro della polis Crisi delle democrazie occidentali - Contro e attraverso - La carta democratica e il pluralismo: credenti ed atei - Conclusioni

Capitolo ottavo 232

Égalité Forme e teorie della diseguaglianza sociale - Eguaglianza e differenza. Che cosa significa che gli uomini sono eguali? - Eguaglianza e giustizia

246

Appendice I mezzi di lotta politica per il cristiano:

la posizione di

E. Mounier Gli anni Trenta e la coscienza della crisi della civiltà - L'ambito della riflessione di Mounier sui mezzi di lotta politica - Personalismo e dottrina dell’azione - Mounier e Gandhi - Conclusioni

267

272

Indice dei nomi

La missione costruttiva e critica della filosofia nei confronti della società è entrata in una crisi profonda, da quando l’empirismo e l’utilitarismo celebrano le loro vittorie. Da quasi due secoli il progetto moderno, partito soprattutto dall’illuminismo e dal positivismo, si è fatto mondo e storia, elaborando progetti etico-politici di ordinamento della società. Le evidenze fondamentali della vita della persona non provengono più da un’esperienza immediata dell’esistenza, ma sono ormai mediate dall’ideologia. L’ascesa nella cultura europea della scienza ha dato origine al progetto tecnocratico; e lo svolgimento del principio empiristico e individualistico ha condotto alla cultura radicale. Queste forme compromettono valori essenziali dell’uomo e innervano progetti in cui è negata la politicità autentica della vita. Nella prospettiva di una democrazia fecondata dal Vangelo rimane invece la possibilità di salvare l’uomo e la politica: tale obiettivo deve essere sostenuto da un rinnovamento della filosofia e da una ripresa del rapporto tra filosofia e società.

L. 12.000 (iva inclusa)

ISBN 88-7030-918-5