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Italian Pages 128/119 [119] Year 2004
Antonino Russo
Filosofi italiani del Novecento con una lettera inedita di Norberto Bobbio
ARMANDO EDITORE
RUSSO, Antonino Filosofi italiani del Novecento / di Antonino Russo ; Roma : Armando, © 2004 127 p. ; 22 cm. - (Scaffale aperto - filosofia) ISBN 88-8358-779-0 1. Filosofia - Storia, Novecento CDD 195
© 2004 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-07-061 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. L'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'ingegno (AIDRO), Via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02/809506.
Sommario
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Introduzione di Antonino Russo
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Pantaleo Carabellese
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Antonio Gramsci
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Antonio Banfi
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Romano Guardini
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Aldo Capitini
41
Enzo Paci
49
Remo Cantoni
53
Guido Calogero
61
Nicola Abbagnano
77
Gustavo Bontadini
89
Ludovico Geymonat
95
Norberto Bobbio
105
Eugenio Garin
115
Appendice Lettera di Norberto Bobbio all’Autore
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Bibliografia
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Introduzione
Questo libro è indirizzato ai giovani studiosi di filosofia che, riscontrando un vuoto, nei loro manuali, riferentesi al pensiero speculativo italiano del Novecento, hanno difficoltà a trovare informazioni adeguate In effetti, sembra che la storia della filosofia italiana si fermi a Croce e Gentile, tutt’al più a Gramsci; pare che nel nostro Paese la filosofia non abbia trovato, nel secolo scorso, teoreti di rilievo. Purtroppo ci sono intellettuali che probabilmente hanno contribuito a creare questa opinione, ma la realtà - mi si consenta - è ben diversa. In Italia ci sono molti filosofi che, rifiutandosi di fare da “cassa di risonanza” all'idealismo, movimento egemone nel Novecento, hanno accettato anche l’“ostracismo” della cultura “ufficiale” nonché delle autorità accademiche asservite al regime, pur di manifestare liberamente il proprio pensiero. Spesso queste scelte hanno comportato perdite di cattedre universitarie, ma l'autonomia di pensiero valeva la posta. Questi filosofi, uscendo dai propri confini nazionali, si sono aperti al pensiero europeo e, più in generale, quello occidentale, dimostrando ampiamente, però, originalità elaborative. Non hanno avuto, inoltre, la presunzione di creare sistemi assoluti, ma percorsi interessanti e degni di attenzione. Quest'opera vuole ridare loro cittadinanza nell'Olimpo filosofico e mira, sia pure in modo non esaustivo, a rivelare ai giovani quanto denso sia il pensiero dei nostri filosofi del Novecento. ANTONINO RUSSO
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Pantaleo Carabellese
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La vita Pantaleo Carabellese nacque il 6 luglio del 1877 a Molfetta. Frequentò le scuole nella sua città, proseguendo, poi, per Napoli dove si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Infatti, gli studi giuridici caratterizzarono i suoi primi interessi. Si laureò con il professor De Blasis, nel 1900 con una tesi sulla ierocrazia del Papato. Attratto, in seguito, dalla filosofia; si iscrisse all’Università di Roma, dove poté sviluppare un approfondito studio sul pensiero rosminiano che utilizzò per la sua tesi dal titolo: La teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini, conseguendo la laurea nel 1905. Fra il 1914 e il 1915 pubblicò rispettivamente L’essere e il problema religioso e La coscienza morale, mentre nel 1921 uscì la Critica del concetto. Vinto il concorso nelle scuole secondarie riuscì, poi ad inserirsi all’Università insegnando a Palermo per alcuni anni. In questo periodo darà alle stampe le seguenti opere: La filosofia di Kant nel 1927 e Il problema della filosofia da Kant a Fichte nel 1929. Lasciata la città siciliana, dopo aver vinto il concorso per la cattedra di Storia della Filosofia a Roma nel 1930, insegnò Filosofia teoretica presso la stessa Università. Nel 1931 pubblicò Il problema teologico come filosofia. Frattanto, dopo essere divenuto nel 1935 accademico dei Lincei, l’11 luglio del 1936 sposò Irene, nipote di Giovanni Gentile, il che rinsal9
dò il già ottimo rapporto di amicizia col filosofo di Castelvetrano. Nel 1938 si cimentò in un saggio sull'idealismo italiano. Mentre, è del 1942 l'opera Che cos'è la filosofia. Nel 1946 fu intensa la sua attività produttiva componendo ben tre opere: due riservate al pensiero cartesiano (Le obbiezioni al cartesianesimo e Da Cartesio a Rosmini) ed una di carattere politico e cioè L’idea politica d’Italia. Morì il 19 settembre del 1948 a Genova.
Il pensiero Pantaleo Carabellese è un autore assai complesso e una corretta interpretazione del suo pensiero non è cosa agevole. Tuttavia, la sua concezione può essere definite: ontologismo critico. Dunque l’interesse per l’essere Divino è alla base della sua ricerca. Egli, nell’analizzare il rapporto tra il problema teologico e quello religioso, sostiene che generalmente i due problemi sono stati considerati un solo problema. La religione è vista come adorazione di un Essere che deve avere come caratteristica essenziale l’esistenza. Ma l’esistenza di Dio deve necessariamente essere provata, diversamente avremmo solo l’adorazione che non è assolutamente una prova. Di tutte le altre cose abbiamo esperienza, dunque possiamo definirle reali. Una volta provato Dio con l'esperienza – scrive Carabellese – non si può più, poi, ricorrere alla pura fede per avvalorare questa esperienza. L’esperienza è avvalorabile solo con altra esperienza, non altrimenti. E invece la comune esperienza, l’esperienza residua da quella religiosa, intanto continua ad essere 10
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sperimentabile, in quanto, lungi dal confermare quella religiosa, si contrappone ad essa”1. Ammesso che l'adorazione ipotizzi l’esistenza di Dio sta, poi, alla filosofia dimostrare la veridicità di questa asserzione, cosa che tenta puntualmente Tommaso D'Aquino, avallando la tesi che la filosofia a servizio della religione può assolvere questo compito, cioè di dimostrare l’esistenza di Dio. Com’è noto il procedimento è quello a posteriori, ossia quello che fa riferimento all'esperienza per risalire e Dio, che diventa in tal nodo principio supremo dell'esperienza. Siamo alla prova cosmologica: il mondo ha la sua fonte in Dio. Ma, dal momento che l’esperienza non può essere fondamento della filosofia, quest’ultima non può ridursi all'empirismo. Detto questo la filosofia non può contare sulle prove a posteriori e, dunque, le cinque vie di Tommaso D'Aquino mancano di consistenza. Si potrebbe fare ricorso allora a delle prove a priori, ma anche in questo caso non arriviamo alla soluzione in quanto, partendo dall’idea per arrivare a Dio, ci accorgiamo che dall'idea non possiamo pervenire alla cosa reale, come ha giustamente sostenuto Kant. Da quanto detto sopra se ne ricava che la “religione non proporrà più alla filosofia il problema dell’esistenza di Dio”. D’altra parte, l'elemento costitutivo della religione è la fede, intesa non come dottrina, ma come abbandono fiducioso in Dio, il che porterebbe alla conclusione che la fede comporti la rinuncia alla ragione. Carabellese si pone, poi, un problema: se l’esistenza possa essere ritenuta fede. Bene, egli è convinto che credenza ed esistenza coincidano sulla base del rapporto dell’uno di fronte all'altro in una reciprocità di coscienza. Scrive in proposito Antonio Banfi in una 1 A. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, Roma, 1931, cap. VII, pag. 130.
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recensione all’opera fondamentale di Carabellese: “L’analisi dell'esperienza conduce quindi a considerare la realtà come un sistema di centri soggettivi in reciproca correlazione, rispecchiantesi in ciascuno d'essi come un immanente ordine obbiettivo”2. L’individuo che è fornito di fede vive l’esistenza cogliendo nell'assoluto la propria origine. Ciò gli dà serenità, certezza e beatitudine. Ed è in tal nodo che va intesa la trascendenza religiosa. La religione non mira a spiegare Dio: è adorazione e, come tale, certezza. La filosofia, viceversa, non essendo adorazione di Dio, è dimostrazione. “Che la filosofia è per il Carabellese sapere unitario in cui ogni altro sapere si giustifica e si accentra, sapere quindi non dei singoli esseri o delle particolari forme dell'essere, ma dell'essere universale, cioè del sistema generale dell'oggettività, o, riferendoci a quanto sopra fu detto, della relazione d'interdipendenza dei soggetti, della loro unità transempirica, razionale sapere insomma del sistema noumenico, dell'idea come principio immanente della realtà”3, prosegue Banfi. A parere di Carabellese bisogna rinunciare ad utilizzare vecchie forme dell'argomento ontologico; in altri termini, se si vuole mantenere saldo l’ontologismo bisogna percorrere un’altra strada, cioè quella secondo cui Dio, e Dio soltanto è inseità. A questo punto la caratteristica divina non è la trascendenza, ma l'immanenza. Dio è “l’inseità di me e di ogni altro”, l’oggettività della nostra coscienza; ma se oggetto della coscienza è l’Idea nella sua assolutezza, allora Dio è questa Idea, tolta la quale non esisterebbe più l'attività del pensare. Il pensare. non può che portare all'affermazione di Dio; negare Dio significherebbe non pensare. Questo è lo sbocco 2
A. Banfi, Esperienza religiosa e coscienza filosofica, Argalia Ed., Urbino, 1967, pag. 161. 3 Ibidem, pag. 161.
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che trova l’argomento ontologico secondo Carabellese. Dio diventa, pertanto, Innegabile e, quindi, presente in noi che pensiamo. Solo dando questa interpretazione si può salvare l'argomento ontologico di Anselmo d'Aosta e di Cartesio. Scrive infatti, Banfi nella sua recensione: “L’interdipendenza dei soggetti, per quanto possa sembrare accidentale a ciascuno di essi, è in sé un ordine ideale ed eterno, è l’idea in atto; e poiché l’idea è il principio immanente che sostiene la realtà e trascende insieme ogni sua singola forma, essa può veramente concepirsi come Dio. Così la critica dell'esperienza sbocca in una metafisica a tonalità profondamente religiosa”4. Concludendo, sostiene Carabellese che la filosofia, priva del problema di Dio, finisce per essere senza problema e, quindi, inutile. In tal modo non può che dichiarare la propria morte.
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Ibidem, pag. 162.
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Antonio Gramsci
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La vita Antonio Gramsci nacque ad Ales, in Sardegna, nel 1891. Il padre, impiegato all'ufficio del registro, ebbe non poche difficoltà a mantenere la numerosa famiglia (7 figli), anche perché la moglie Giuseppina Marcias, era casalinga. Antonio, dopo aver frequentato la scuola materna presso un istituto religioso, dove un malaugurato giorno cadde procurandosi una patologia irreversibile alla colonna vertebrale, proseguì gli studi elementari a Ghilarza, conseguendo la licenza elementare nel 1902. In seguito alle ristrettezze economiche, dovute all’assenza del padre perché privato della libertà per presunte irregolarità amministrative, fu costretto ad impiegarsi presso il catasto per aiutare la madre in difficoltà. Ciò, comunque, non lo allontanò dallo studio, che seguì, sia pure in forma privata. Compì gli studi liceali tra Oristano e Cagliari, aiutato dal fratello maggiore, già impegnato nel Partito Socialista. Trasferitosi a Torino, si iscrisse alla facoltà di Lettere, grazie ad una borsa di studio. L'ambiente universitario torinese, politicamente impegnato, lo orienterà verso il Partito Socialista e nel 1913, spinto anche dal suo collega Angelo Tasca, si iscriverà al Partito. Divenuto redattore del giornale l’“Avanti”, si occupò della rubrica “Sotto la Mole”. 15
Iniziò, intanto, un’intensa attività di conferenziere politico che gli permise di farsi conoscere e apprezzare negli ambienti di “sinistra”. In un suo articolo sulla Rivoluzione Bolscevica, apparso sull’“Avanti”, sostenne che la realizzazione di essa fu possibile grazie alla forte spinta rivoluzionaria della classe operaia russa. Nel 1919, assieme a Terracini, Togliatti e Tasca fondò il settimanale socialista «L'Ordine Nuovo», che divenne il giornale dei consigli di fabbrica, organismi nei quali Gramsci riponeva grande fiducia per la realizzazione di una democrazia operaia. Saranno essi, a suo parere, che realizzeranno il “modello dello Stato proletario”. Questa sua notevole esposizione politica lo porterà già nel 1919 ad un primo breve arresto. Nel 1920 si scontrò con Bordiga, esponente della componente comunista del Partito Socialista, perché privilegiava la funzione del potere centrale rispetto a quello dei consigli di fabbrica. Quando al XVII Congresso del Partito Socialista, tenutosi nel 1921 a Livorno, la frazione comunista prese le distanze dalla linea dal PSI, Gramsci aderì alla scissione partecipando alla nascita del Partito Comunista d'Italia al Teatro San Marco, pur non condividendo la linea Bordighiana e non facendo parte dell’esecutivo dell’Internazionale Comunista come rappresentante del PCI e fu in quella occasione che conobbe Giulia Schucht, che diventerà sua moglie. Nel 1924 fu tra i fondatori de “L’Unità”, giornale voluto dall’Internazionale Comunista. Per Gramsci questo giornale doveva essere non l'organo del Partito, ma l'espressione di tutta la sinistra operaia. Dopo un periodo trascorso a Vienna, durante il quale alle elezioni del 1924 avvenute in Italia venne eletto deputato al Parlamento con grande difficoltà dovuta alle persecuzioni cui furono sottoposti dalle squadre fasciste i suoi elettori operai e contadini, rientrò in Italia quasi in segreto ed ebbe non pochi problemi da gestire come 16
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segretario del PCI fra cui la salita all’Aventino delle forze democratiche del Parlamento in seguito all’assassinio del socialista Giacomo Matteotti perpetrato dai fascisti e di cui si assunse la piena responsabilità Benito Mussolini nel discorso del 3 gennaio del 1925 al Parlamento. Frattanto Giulia Schucht, a Mosca, aveva dato alla luce un figlio di nome Delio, ma Antonio lo conoscerà solo nel 1925 in occasione di un suo viaggio in URSS. Raggiunto dalla moglie a Roma, la vedrà per l’ultima volta nell’agosto del 1926, senza avere l’opportunità di conoscere mai il suo secondogenito Giuliano che nascerà sempre a Mosca. Infatti, nel novembre dello stesso anno fu arrestato dalla polizia fascista e condotto nel carcere romano di Regina Coeli, per essere trasferito, quindi, al confino di Ustica, sia pure per breve tempo. Al processo cui fu sottoposto a Roma venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere che dovette trascorrere a Turi in condizioni di salute disastrose, a causa soprattutto della tubercolosi. Nella casa penale di Turi iniziò l'8 febbraio del 1929 la stesura dei quaderni, che rappresenteranno la sua opera fondamentale. Il suo unico conforto era costituito dalle lettere dei familiari, ma, particolarmente dalle visite periodiche della cognata Tatiana, che aveva preso a cuore la sorte di Antonio e che, fra l'altro, ebbe il merito di salvare gli scritti del grande dirigente del PCI. La salute di Gramsci andò sempre più peggiorando, né le sue condizioni morali erano in situazione migliore: la moglie aveva una malattia nervosa, la madre gli era morta nel 1932, i figli crescevano senza la figura del padre. Finalmente, nel 1933, grazie anche ad iniziative internazionali venne trasportato in una clinica di 17
Formia. Nel 1935 sarà trasferito alla clinica Quisisana di Roma. Liberato nella primavera del 1937, muore in seguito ad una emorragia cerebrale. Il pensiero Antonio Gramsci non è un filosofo sistematico, anzi bisognerebbe dire che non è un filosofo nel senso tradizionale del termine. E tuttavia, ciò che scrisse nei Quaderni dal carcere o negli articoli su “Ordine Nuovo” o “L’Unità”, o nelle lettere, può essere definito un pensiero filosofico. Ci sono, indubbiamente, alcuni problemi che lo interessano particolarmente e cioè quello politico, quello sociale, quello economico, ma anche quello storico e letterario. Una gamma di interessi ricca che, pur non potendo attingere ad esperienze esterne dirette, a causa della sue lunga carcerazione, fu alimentata sia dalle visite periodiche in carcere della cognata Tatiana Schucht, che possiamo considerare l’elemento di contatto di Gramsci col mondo esterno, sia dai contatti segreti con gli altri esponenti del PCI. Nei Quaderni dal carcere troviamo, dunque, un’analisi approfondita di alcune problematiche che hanno certamente nella situazione politica del nostro Paese il fulcro principale. La lucidità con cui analizza, per esempio, le cause della nascita del fascismo, è testimonianza di grande riflessione critica. È interessante il quadro che il pensatore fa del fascismo su “Ordine Nuovo” del 25 agosto 1921. Egli scrive: “I fasci di combattimento nacquero, all’indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra il Partito Socialista e le associazioni interventiste nel periodo delle guerra, i 18
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fasci ottennero l’appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo con la necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la loro stessa caratteristica di guardia bianca del capitalismo contro gli ordini di classe del proletariato”. Gramsci individua nei grandi gruppi capitalistici italiani le forze di appoggio al colpo di Stato fascista e non a caso, nel marzo del 1920, ebbe luogo a Milano la prima conferenza nazionale degli industriali, durante la quale furono prese unanimamente drastiche decisioni politiche. Gramsci chiamerà questa iniziativa “sovversivismo dall’alto”, cui, però, farà seguito anche il “sovversivismo dal basso” di ceti popolari. Il fenomeno “fascismo” non può essere spiegato, infatti, solo, come coinvolgimento di reduci della Prima Guerra Mondiale, nazionalisti e, in genere, delle espressioni di malcontento diffuso, dovute alla grave crisi socioeconomica susseguente al conflitto mondiale. Né poteva considerare, il pensatore sardo, la “marcia su Roma” l’elemento scatenante per la presa del potere di Benito Mussolini. Fu il concorso di vari fattori a porre le condizioni perché, invece di affermarsi una concezione moderata e liberale, venisse fuori una soluzione autoritaria e dittatoriale. Né, d’altra parte, le forze di sinistra ebbero la capacità di contrastare l’ascesa del fascismo. Era una fase, quella, assai complessa dell'area di sinistra, non solo a livello nazionale, ma anche europeo. Nel congresso di Lione del 1926 si indicò l’importanza di un preciso collegamento fra gli operai delle fabbriche del nord e i contadini del sud. Gramsci, convinto della 19
necessità di questa linea, se ne fece portatore, ritenendo che solo in questo modo si poteva coinvolgere la maggioranza dei lavoratori per un'azione efficace contro il capitalismo. Già nel 1919 aveva scritto su “Ordine Nuovo” del 21 giugno: “L'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti, le comunità contadine, sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare. Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorreva infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. [...] Un tale sistema di democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di contadini) darebbe una forma e una disciplina permanente alle masse, sarebbe una magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe le masse fino all'ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e ridotto in schiavitù”. Gramsci va oltre la vecchia concezione che attribuiva alla “struttura” la molla dei fatti storici. Intanto considera astratta la distinzione tra struttura economica e sovrastrutture, superando in questo anche Marx, e poi ritiene che siano di volta in volta le circostanze storiche a determinare i fatti. Quindi, il “blocco storico” non sarebbe un accordo di tipo deterministico tra forze sociali o strutture e sovrastrutture, ma una possibilità di relazioni nate da accadimenti che la storia produce. In questa visione delle cose prende corpo la sua concezione del partito delle masse, ossia del PCI. Gramsci riteneva che il partito non dovesse avere una struttura monocratica e, tuttavia, era convinto della necessità del primato del gruppo dirigente, così come sosteneva la Terza Internazionale Comunista, purché questa egemo20
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nia avesse la funzione di direzione culturale delle masse, senza mai perdere di vista il contatto diretto con esse, evitando, nel contempo, la burocratizzazione del partito, “malattia” assai pericolosa. Dunque il “centralismo democratico” consiste per lui in “una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell'apparato di direzione che assicura la continuità e l'accumularsi delle esperienze”, come scrisse nella «Rivista dei due mondi» nel 1930. Il filosofo non sempre fu d'accordo con le decisioni che venivano prese dal Komintern e che riguardavano le sorti del PCI nel momento critico della dittatura fascista, e prese le distanze in più occasioni, come in quella del 1930, quando fu deciso che i fuoriusciti comunisti dovessero far rientro in Italia per organizzare un'insurrezione popolare, iniziativa, a suo parere, destinata a un sicuro fallimento, con la probabilità di vedere i militanti inghiottiti dalle carceri del regime. Gramsci parla di “guerra di posizione”, riferendosi alla possibilità di affermazione delle masse popolari, ossia di progressivo inserimento nella direzione del Paese mediante delle coerenti alleanze, senza far ricorso alla “guerra di movimento”, cioè alla rivoluzione. Scrive il 12 luglio 1919 su “Ordine Nuovo”: “Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell'Ungheria e della Germania che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una creazione fondamentalmente nuova rispetto ad esse, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l'instauramento di una pratica e di un costume 21
economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La formula “conquista dello Stato” deve essere intesa in questo senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dall'esperienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare”. A questo proposito diventa fondamentale l'acculturazione delle masse, poiché la cosiddetta cultura popolare così come è non è altro che folklore, che il filosofo non vede positivamente. Gioca, in questa fase, un ruolo importante l'intellettuale che non può essere né l'umanista tout court, né il tecnico puro, ma una nuova figura che lui definisce “intellettuale organico”, che sa raccordare la teoria con la prassi, visione culturale che deve caratterizzare le masse. Egli è convinto che la società politica possa legittimare e svolgere il potere politico coinvolgendo gli intellettuali e le organizzazioni della società civile, ottenendo, quindi, quel consenso che è indispensabile in un sistema democratico. Perché ciò possa realizzarsi è importante che gli statisti non pensino solo all'essere, ma al “dover essere”, ossia ad una visione etica dello Stato. Non vi può essere, infatti, una politica progressista se non ha delle finalità morali da raggiungere. Il modello socialista che prospetta Gramsci deve avere una morale. Ma quali devono essere i presupposti per una società democratica che sconfigga la dittatura fascista creando una struttura socioeconomica adeguata? È a questo punto che il filosofo inserisce la problematica della “questione meridionale”. Perché si spezzi il “blocco agrario” è necessario acculturare le masse dei contadini, in quanto solo una consapevole presa di coscienza di classe potrà promuovere l'emancipazione 22
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del sud. In verità Gramsci era stato lungimirante poiché gli agrari videro il loro ruolo progressivamente ridimensionato dal processo di acculturazione dei contadini, favorito da tanti intellettuali che ebbero la capacità di aggregarli e organizzarli, ma gli esiti non furono quelli previsti dal filosofo. Infatti, la società non assunse una fisionomia socialista, ma libero-borghese. La scuola riveste un ruolo determinante proprio in rapporto all'alfabetizzazione di massa. Il modello da lui previsto è quello di una scuola unica novennale che deve essere impostata sul rapporto cultura-lavoro, coniugando l'esigenza dello sviluppo intellettuale con quello tecnico-industriale. Infine la scuola secondaria può mantenere l'impronta umanistica, ma non con il permanere del latino e greco, bensì con una visione umanistico-storica, che tenga conto della tecnica e della scienza. “Per Gramsci tutti possono essere educati e quindi elevarsi culturalmente. Alle classi sociali meno abbienti si dà, invece, paccottiglia come ai selvaggi, ossia false opinioni; al contrario esse sono in grado di capire, di gustare la musica, di cogliere i valori dell'arte, insomma gli uomini vanno trattati da uomini perché non si può educare un uomo trattandolo come uno schiavo”1, scrive Italia De Robbio Anziano e continua: “Per Gramsci l'educazione deve avere lo scopo di formare un uomo moderno in cui iniziativa ed autonomia morale, professionalità, produttività e creatività si compongano in una giusta armonia”2.
1 Italia De Robbio Anziano, A. Gramsci e la pedagogia dell'impegno, Ferraro ed., Napoli, 1987, pagg. 38-39. 2 Ibidem, pag. 39.
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Antonio Banfi La vita Antonio Banfi nacque nel 1886 a Vimercate. I suoi primi interessi furono di ordine letterario, tant'è che si iscrisse alla facoltà di Lettere dell'Accademia scientifico-letteraria di Milano, conseguendo la laurea nel 1908. In seguito, attratto dal pensiero di alcuni filosofi e, in particolare di Kant, Hegel e Husserl, approfonditi in tempi successivi, integrò le materie letterarie con quelle specificamente filosofiche laureandosi, quindi, anche in filosofia con Martinetti. E sarà quest'ultima che catturerà totalmente l'attenzione dell'autore. Trasferitosi in Germania conobbe il filosofo Georg Simmel dal quale fu certamente influenzato nello sviluppo del suo pensiero e col quale creò una forte amicizia. Rientrato in Italia, dopo avere pubblicato nel 1922 il libro La filosofia e la vita spirituale, si dedicò all'insegnamento nelle scuole secondarie superiori per qualche tempo e contemporaneamente cominciò a nutrire interessi di ordine politico, assumendo un atteggiamento di rifiuto nei confronti del fascismo, soprattutto dopo l'assunzione della dittatura da parte di Mussolini in conseguenza del discorso del 3 gennanio del 1925 al Parlamento, nel quale quest'ultimo si accollò la totale responsabilità dell'assassinio del socialista Giacomo Matteotti. Condivise, pertanto, il manifesto antifascista di Benedetto Croce, nel 1926 aveva pubblicato l'opera Principi di una teoria della ragione. Frattanto aveva 24
conseguito la libera docenza che gli permetterà l'inserimento nel mondo universitario. Fra il 1929 e il '34 aveva dato alle stampe le opere Pestalozzi, Galileo Galilei, Introduzione a Nietzsche e Sui principi di una filosofia della morale. Ottenuta la cattedra di Storia della Filosofia insegnerà dapprima a Genova e poi a Milano. Nel 1937 era uscita l'opera I problemi di un'estetica filosofica. La creazione della rivista «Studi filosofici» nel 1940 gli consentì di aprire un ampio dibattito, usufruendo, fra l'altro, dell'apporto di illustri studiosi, ma fu anche un'occasione per esternare il suo orientamento politico di marca marxista. Questa sua scelta troverà sbocco nelle file partigiane, durante la lotta della Resistenza, e si consoliderà con una sua partecipazione attiva alla vita politica in qualità di senatore comunista nell'Italia repubblicana. Sarà pubblicato postumo il suo libro Saggi sul marxismo. Morì a Milano nel 1957.
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Il pensiero Banfi, negli anni della sua formazione, ebbe contatti con la Scuola di Marburgo, come anche col filosofo Georg Simmel. Comunque gli interessi del filosofo andarono da Kant ad Hegel, da Husserl a Marx, dagli anglo-americani a Martinetti, che considererà sempre il suo maestro, anche se prenderà le distanze da lui sulla posizione metafisica, che non condivideva affatto. Ha presente la dialettica trascendentale di Kant quando comincia a creare la sua teoria della ragione critica che, in quanto elaboratrice di idee, gode di totale autonomia rispetto all'intelletto. Traendo, dunque, linfa da Kant e da Hegel che riesce a mettere in relazione, va oltre il loro pensiero costruendo una visione originale della ragione che si innesta in una concezione della cultura aperta e libera. Pertanto, 25
pur avendo la ragione una funzione organizzatrice, non si lascia condizionare dalla sua sistematicità. Anzi, è capace di stabilire un rapporto tra la ragione e la vita, individuando un'unità fra di esse. Nei Principi di una teoria della ragione scriverà: “La ragione è la potenza stessa della vita in atto in noi, e la vita è l'atto vivente della razionalità. La pura sistematicità razionale - per ciò appunto che è trascendentale - non ci è mai data, ma essa è immanente alla nostra esperienza come un principio regolativo, e la sollecita, la segue e si distende nelle sue conquiste”1. La vita è vista come fede che produce valore (naturalmente non in senso religioso) e la morte è considerata un momento della vita. Un rilievo merita la concezione dell'amore che è considerato “... flusso dello spirito che sale silenzioso dalla natura”. Scorgiamo in questa affermazione, come appare evidente, qualcosa del pensiero di Simmel. È esaltante la fiducia e la speranza che Banfi nutre nella vita, anche se il mondo, nel periodo in cui formulava queste sue teorie, era profondamente in crisi, anzi, particolarmente per questo motivo, appare invidiabile la sua dose di ottimismo. Scriverà ancora: “L'umanità deve creare la sua storia come vita spirituale, se non vuole subire il suo destino come legge di natura”. Gli avvenimenti storici di quel momento (Prima Guerra Mondiale) lo portarono a queste riflessioni e, contro gli egoismi, gli interessi, le passioni, individua nel messaggio del filosofo un punto di riferimento di recupero morale. La filosofia è, infatti, vista da Banfi come la ricerca della verità, anche se non si tratta di quella metafisica. Ciò non esclude che la sua sia una visione fortemente 1 A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, Paravia, Torino, 1926, pag. 105.
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religiosa della vita, ma in senso mondano e non trascendente. La filosofia non è, quindi, metafisica, ma “sapere della vita profonda, molteplice in sé e armonica, proprio di questo nostro mondo”, antidogmatica, teoretica e storica. Ma anche la scienza ha un ruolo significativo, anche se non esageratamente determinante, come sosteneva la Scuola di Marburgo. La vita, infine, si manifesta anche un’altra espressione e cioè in quella artistica, come sosterrà nell'opera Vita dell'arte, pubblicata nel 1947. Se dal punto di vista teoretico ciò può apparire convincente, non si deve escludere un aspetto pratico senza il quale la vita sarebbe monca. Egli esclude qualunque forma di morale individualistica e ritiene che debba avere cittadinanza solo un'etica sociale ed è ciò che lo porta al marxismo, non tanto quello sovietico, quanto quello cinese. “Il mondo degli uomini nella sua energia autocreativa” è l'espressione del marxismo, non una filosofia, dunque, né una scienza, ma una concreta via di rinnovamento “operante nella libertà della ragione”. Ma la sua scelta marxista dovrà fare i conti con gli avvenimenti politici del 1956, quando i carri armati sovietici invasero l'Ungheria, che voleva riscattarsi dalla dipendenza nei confronti dell'URSS. La direzione del Partito Comunista Italiano aveva ufficialmente condiviso l'intervento a Budapest giustificandolo con i rischi di un'affermazione di marca fascista a causa di infiltrazioni avvenute all'interno del Partito Comunista Ungherese. Banfi accettò questa versione dei fatti, ma ebbe qualche perplessità sull'azione di Stalin nelle nazioni di influenza sovietica. Non a caso nell'VIII° Congresso del PCI dirà che era importante il recupero di una “coscienza critica” nella realtà comunista. Ciò non gli impedì, però, di criticare il manifesto dei 101 intellettuali che non condivisero la linea del PCI. 27
Ma un ritorno alla radice morale della politica lo vedeva come un momento fondamentale. La sua ortodossia politica lo portò a scrivere un libro sull'universalità del marxismo, pubblicato postumo, ma sul quale pare non abbia profuso eccessivo entusiasmo. Per quanto attiene l'atteggiamento di Banfi nei confronti della religione, bisogna dire che certamente essa ebbe qualche influenza nel periodo della sua formazione, peraltro rivelatasi in seguito come interesse speculativo vero e proprio, manifestatosi dapprima come critica alle religioni storiche, anche se con una valorizzazione dell'elemento religioso, e poi con una chiusura rispetto alla religione, privilegiando la filosofia e le sue implicazioni socio-morali (non dimentichiamo la sua adesione al marxismo). Ma anche nei confronti dei filosofi spiritualisti ha una posizione negativa, mettendo in evidenza gli elementi di contraddizione che rivelano in alcune circostanze come la giustificazione dell'intervento militare nella Prima Guerra Mondiale in nome di un presunto motivo religioso, come se Dio “prendesse parte” al conflitto appoggiando i “giusti” invece di registrare l'atrocità della guerra e la mancanza di qualunque validità nella scelta bellica. Eredita dal filosofo Karl Barth una precisa visione della religione, mentre apprezza di Kierkegaard il riferimento alla lontananza fra Dio e l'uomo in una visione austera della religione in cui grande rilievo deve avere la drammaticità del peccato. La scelta religiosa è, pertanto, vista dal filosofo non come scelta di pace, di pacatezza, di tranquillità, ma, al contrario, di inquietudine e di consapevolezza della sofferenza. “Confermerebbe in questa fase il consenso al cristianesimo barthiano anche lo scritto Cristo Dio [...] in cui è rivendicata la personalità storica e vivente di Cristo, al di là dell'interpretazione mitica (che tende a superare il contrasto fra dogmatismo teologico ed empirismo storicistico e psicosociologico, consideran28
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do la figura di Cristo come proiezione mistica di una particolare situazione storico-culturale orientata in senso religioso)”2, scrive Giovanni Maria Bertin, mettendo in rilievo come per Banfi l'organizzazione del culto, pur essendo efficace dal punto di vista storicoculturale, non esaurisce la significativa essenza della religiosità che ripone con Cristo “il centro dell'anima e della vita”. Il filosofo, nel periodo in cui scrive l'opera Cristo Dio si trova ancora a metà del guado della sua indagine religiosa. Questo scritto, infatti, appartiene ad una fase intermedia in cui Banfi ritiene non concluso il suo rapporto con la religione. Egli, nello scritto citato, riportato nell'opera Esperienza religiosa e coscienza filosofica, ha una concezione molto precisa della figura di Cristo. Facciamo parlare, quindi, direttamente l'Autore. Egli scrive: “L'esperienza religiosa, la vita tutta di Cristo è quindi essenzialmente e radicalmente teocentrica: perciò Egli può essere detto il figlio unigenito del padre, e la sua dottrina, in quanto affermazione dell'assoluta validità del trascendente, è, infatti, indipendente da ogni realtà particolare e finita, da ogni contenuto e aspetto della storia: è perciò vera e propria rivelazione”3. Circa l'aspetto mistico della religione il filosofo lo considera in termini riduttivi in quanto gli appare inficiato da “semplicismo spirituale” e da “scarsa serietà religiosa”. È interessante il rapporto che si può stabilire tra la religione e la filosofia, con l'attribuzione alla religiosità di una funzione nella speculazione filosofica in quanto orienta il sapere filosofico, come sosteneva il maestro Martinetti. Ma, Banfi, pur non intendendo attaccare l'ambito religioso, ritiene che il rapporto filosofia-religione sia pretestuoso e, in ogni caso, poco convincente, considerando il sapere religioso possibile solo 2 G.M. Bertin, Introduzione a A. Banfi, in Esperienza religiosa e coscienza filosofica, Argalia, Urbino, 1967, pag. 14. 3 A. Banfi, Esperienza religiosa e coscienza filosofica, cit., pag. 49.
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nel campo della “coscienza critico-razionale”. Queste posizioni di Banfi nei confronti della religione vanno comunque sfumando negli anni successivi allo scritto sopra indicato e la pubblicazione nel 1940 dell'opera Filosofia e religione ne è testimonianza, anche se non dimentica la funzione della religione nella sfera della spiritualità, pur avendo perduto impulso e possibilità di lotta ed impegno ed essendo diventata un elemento di conservazione e “garanzia di un'evasione”. L'esperienza della Seconda Guerra Mondiale e la partecipazione alla lotta partigiana con la concretizzazione della sua scelta ideologica di matrice marxista porranno il filosofo in un atteggiamento critico nei confronti della religione, considerando lo spirito cristiano “alla base delle resistenze opponentesi alla formazione di una nuova coscienza organica etico-sociale adeguata alla formazione autonoma della società moderna in Europa”, come scriverà nelle Note sulla cultura europea del 1954, pag. 807, concludendo che il cristianesimo è stato un freno per lo sviluppo civile e, dunque, con la necessità di contestare questo andazzo. Queste conclusioni saranno pressoché definitive nel pensiero banfiano, anche se il filosofo manterrà nel tempo sempre grande rispetto per i credenti. Ma ciò non gli impedirà di attaccare, soprattutto in campo pedagogico, il confessionalismo. Negli ultimi mesi della sua vita, e cioè nel 1956, Banfi sembra “tirare i remi in barca”, ossia perde quella verve che aveva caratterizzato tutta la sua vita per dedicarsi a tematiche di carattere esistenziale, anzi aveva tracciato un piano di lavoro che doveva vedere la pubblicazione di opere sulla vita, la morte, l'amore, il destino, la scelta, grandi categorie della vita. Sentiva vicina la fine? Forse...
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Romano Guardini
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La vita Romano Guardini, nato a Verona il 17 febbraio del 1885, si trasferì presto con la famiglia in Germania dove il padre era stato nominato console presso la città di Magonza. Nonostante fosse cresciuto, quindi, in Germania, riuscì a mantenere salda la sua origine italiana, alimentando i caratteri della sua patria nel processo di formazione della sua personalità. Durante gli studi liceali non trovò un interesse specifico per particolari settori del sapere, a parte una momentanea attenzione per l'ambito scientifico. Solo in seguito scoprirà in sé una tendenza agli studi teologici, frutto di meditazioni profonde sui testi sacri. Frequentò le più rinomate facoltà teologiche della Germania, passando anche da Tubinga, centro famosissimo in cui avevano studiato i filosofi idealisti. La sua propensione per la teologia lo portò nel 1910 ad abbracciare la vita ecclesiastica, non distogliendolo, tuttavia, dall'attività d'insegnamento, che svolse con grande prestigio, particolarmente presso l'Università di Berlino dove insegnò Storia del cattolicesimo. Contribuì, assieme ad altri studiosi, a tenere alto il pensiero cattolico in una Germania prevalentemente protestante sia con l'attività di insegnamento, sia con conferenze, sia con le opere che andava via via pubblicando. Dopo l'oscurantismo nazista, movimento che creò 31
non pochi problemi a Guardini, il filosofo e teologo ritorno a Tubinga da docente. Solo in seguito passò all'Università di Monaco. I suoi meriti di studioso, ma anche la sua straordinaria capacità di impegno pastorale, soprattutto coi giovani, gli valsero la cittadinanza onoraria di Verona. La morte lo colse il 2 ottobre 1968. Tra le opere ricordiamo: L'opposizione popolare del 1925, Mondo e persona del 1939, Libertà, grazia, destino del 1948, La fine dell'epoca moderna del 1950, La funzione della sensibilità della conoscenza religiosa del 1950, tutte di carattere filosofico. Tra le opere teologiche annoveriamo: Lo Spirito della Liturgia del 1918, Il senso della Chiesa del 1922, I santi segni del 1927, Il Signore del 1937, L'essenza del cristianesimo del 1938 e Introduzione alla preghiera del 1943. Ha scritto anche opere di letteratura religiosa, di psicologia e di pedagogia.
Il pensiero L'annosa dicotomia tra fede e ragione che aveva visto talora assertori convinti, talaltra sostenitori della stretta relazione tra i due termini (vedasi, ad esempio, Agostino e Tommaso), non costituì un problema per Guardini. Egli, infatti, riteneva che non ci fosse antitesi tra fede e ragione, ma che si contemperassero fra di loro. Questa premessa è necessaria per capire meglio il suo pensiero che non è mai esclusivamente filosofico o esclusivamente teologico. Quando scrive opere teologiche sono chiari i riferimenti filosofici e viceversa. Dunque, la frattura creatasi dopo i primi autori cristiani sembra essere risolta dal filosofo veronese. Anzi, a suo giudizio, è proprio la filosofia che può costituire la chiave di lettura dei rapporti fra i valori umani e quelli divini. La teoria-base del pensiero filosofico guardiniano è 32
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quella dell'“opposizione popolare” che sviluppa nell'opera uscita nel 1925 e che porta proprio questo titolo. Egli sostiene che nell'ambito dell'esistenza viga il principio dell'opposizione, ma è convinto, altresì, che ogni identità presupponga il suo opposto. Tutta la realtà sarebbe costituita da una struttura portante di otto coppie di opposti, da cui poi deriverebbero tutti gli altri opposti presenti nel mondo. In questa visione del mondo sarebbe necessario conoscere tutti gli opposti che si manifestano in esse, in modo che nessuno di essi possa essere ignorato. Ma questa concezione totale del mondo è inficiata da una visione troppo unilaterale della nostra mente. E, tuttavia, dobbiamo di diritto pervenire a Dio mediante i nostri mezzi conoscitivi senza ricorrere alla visione di Dio che deriva dall'esterno del mondo, anche se di fatto, la difficoltà permane, talché proprio la nostra visione unilaterale delle cose non ci consente facilmente la scalata verso Dio. Ci può aiutare in quest'opera la Rivelazione che, in quanto testimonianza efficace del divino, è certamente elemento di sicurezza. E la Chiesa si assume il ruolo di perpetuare la conoscenza della Rivelazione, il che Le impone un ruolo assai importante, ma anche complesso. In questa concezione Dio, che rappresenta l’“opposto” del mondo, di fatto lo presuppone, così come il mondo presuppone Dio, poiché ogni entità presuppone il suo opposto, come dicevamo prima. L'interrelazione è, quindi, strettissima. Per quanto attiene l'aspetto più strettamente teologico del pensiero guardiniano, bisogna dire che egli considera la fede fondamento della natura e della salute dell'umanità, purché essa si faccia portatrice della parola di Dio e indirizzi la vita dell'uomo verso il trascendente anziché verso ciò che è mondano. In questa direzione ci orienta Gesù, disceso sulla terra per chiarirci il senso della vita e del mondo e costituisce così un punto di riferimento sicuro. La società, che era stata creata da Dio allo scopo di 33
consentire all'uomo il raggiungimento di un modello di vita conforme alla natura umana (così come era stata voluta dal disegno divino), frantumatasi a causa della conflittualità sviluppatasi in essa, deve tendere alla sua riunificazione, avendo come modello Gesù, come è stato tramandato dalla Chiesa. Quest'ultima diventa la base della vita di ogni uomo, che può attingere da essa i motivi esistenziali più significativi. E in essa si conciliano gli opposti mediante il ricorso alla liturgia, che rappresenta il mezzo che permette all'uomo di capire il senso delle cose, anche quando essa non appare sempre adeguata, a livello operativo, alle esigenze dell'uomo di oggi. Nella visione cristocentrica guardiniana, Gesù rappresenta, dunque, il punto di equilibrio degli opposti. “Il cristianesimo – scrive Guardini – afferma che per l'incarnazione del figlio di Dio, per la sua morte e la sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta la creazione è richiesto di rinunciare alla sua apparente autonomia e di mettersi sotto la signoria di una persona concreta, cioè di Gesù Cristo, e di far di ciò la propria norma decisiva”1. Se Cristo è venuto per la nostra conversione deve essere estremamente chiaro nel presentarci Dio e il senso stesso della nostra vita, affinché la nostra scelta sia consapevolmente orientata verso di Lui. Dice Guardini: “Quel che Cristo predica come ‘amore’, quello che Paolo e Giovanni intendono quando essi parlano di amore alla luce della loro coscienza cristiana, non è quel fenomeno universale umano che si suole designare con questa parola e non è neppure la sua purificazione ovvero la sua sublimazione, ma qualcosa d'altro. Esso presuppone la figliolanza di Dio”2. 1
R. Guardini, L'essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia, 1993, pag. 12. 2 Ibidem, pag. 9.
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Ma, per una redenzione compiuta non basta evidentemente la parola di Gesù, ma il Suo sacrificio sulla Croce, e questo è l'ultimo atto dell'amore divino per l'uomo. “Noi sappiamo, dunque, che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui – si legge nella lettera ai Romani – perché sia annientato il corpo del peccato. Perché chi è morto è prosciolto dal peccato. Ma se noi siamo morti con Cristo, così crediamo che anche vivremo con Lui; poiché noi crediamo che Cristo, dopo che è risuscitato dai morti, non muore più: la morte non ha più nessun potere su di Lui. Il Suo morire, infatti, fu un morire al peccato, una volta per tutte; ma la Sua vita è una vita per Dio. Così dovete anche voi considerarvi come morti al peccato, ma come viventi per Dio in Gesù Cristo”3. Un altro aspetto importante del pensiero guardiniano è la concezione etica. Egli sostiene che non c'è agire umano che non presupponga una conseguenza etica e la personalità non può che arricchirsi quando viene assunto un valore etico a modello di vita. I modelli morali hanno la loro sede naturale in Dio che, dunque, diventa la fonte dell'illuminazione etica. Quando l'uomo opera male, consapevolmente, si illude che il tempo annulli l'azione negativa e vive nella convinzione che essa passi assolutamente inosservata, dimenticando che la trasgressione del messaggio morale divino è azione contro Dio e contro gli uomini (in quanto creati da Dio) e all'Essere Supremo bisognerà rendere conto in quella che è la visione escatologica del mondo. Individua, poi, Guardini una serie di virtù che considera fondamentali per la nostra vita morale, come la veracità che non è altro che “l'amore per la verità”. Nella veracità non hanno diritto di cittadinanza i violenti che non hanno alcun titolo per pretenderla. Essa, però, a volte, può 3
S. Paolo, Lettera ai Romani, 6, 6-11.
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essere nociva quando la persona verace (incapace, appunto, di mentire) per eccesso di sprovvedutezza, può dire o fare delle cose che possono ferire o danneggiare gli altri; occorre, pertanto, che la verità sia accompagnata dal “tatto e dalla bontà” nonché da una comprensione adeguata della vita e da un'estrema sincerità con se stessi onde evitare di ritenersi sempre nel vero e nel giusto. Guai se un uomo ritiene di avere sempre ragione e, quindi, considerare in torto gli altri! Guardini è convinto che non è facile liberarsi dalle cattive inclinazioni, a cominciare dal peccato originale, ma l'uomo deve sforzarsi e acquisire onestà di vita e sincerità, soprattutto in vista del “Giudizio Universale” che porrà fine a ogni possibilità di mentire. Circa, poi, la possibilità di condurre un'adeguata vita etica, il filosofo dice che, sulla base dell'adesione alla fede, premessa fondamentale è l'accettazione della realtà che ci circonda, delle persone e del tempo in cui si vive, cominciando dall'accettazione di sé, anche se disponibili a migliorarsi. Guardini ci ricorda che la vita deve essere vissuta fino in fondo e, quindi, bisogna accettare anche il dolore, cercando di sublimarlo. L'esempio migliore di accettazione ci viene proprio da Gesù, il quale, pur consapevole delle sofferenze che avrebbe patito per riscattare l'umanità dal peccato, accettò la condizione di essere umano per attuare il disegno divino di conversione del mondo. È chiaro che nella accettazione c'è anche una componente importante: la pazienza. Senza di essa non possiamo stabilire con il prossimo rapporti di una qualche validità e stabilità, ma neanche con noi stessi; per cui diventa indispensabile sopportare se stessi, anche quando siamo scontenti di noi perché non ci sentiamo adeguati a tutte le situazioni della vita, pur non perdendo, però, la capacità di autocritica, elemento essenziale per migliorare se stessi. 36
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La pazienza è saggezza, intelligenza e forza, caratteristiche utili per ricominciare ciò che non ha dato frutti positivi. Nella vita associata, poi, è importante la giustizia. Perché essa si realizzi è necessario consentire agli altri di potere esprimere liberamente le proprie idee in modo da chiarirci il loro punto di vista. Ma, anche quando in linea formale si assume questo atteggiamento non è detto che gli uomini operino sempre bene, privi di arroganza, di menzogna o di desiderio di potere. Allora una giustizia reale la si può avere soltanto da Dio. Gli uomini, infatti, se non hanno rispetto l'uno dell'altro non possono realizzare la giustizia. È opportuno che nasca il “riguardo” che consenta all'uomo di convivere con l'altro uomo nel reciproco rispetto; anche se quest'ultimo termine, per Guardini, ha più una valenza religiosa che, addirittura trae origini dall'esperienza primitiva della esistenza e che trova il suo fondamento nell'adorazione di Dio, che ha reso l'uomo libero. Un argomento interessante proposto dal filosofo di Verona è il concetto di “fedeltà” che è la capacità di mantenere nel tempo la stessa disponibilità nei confronti dell'altro, accettando i mutamenti che il tempo stesso ha inevitabilmente operato. Ciò ha particolare significato nel rapporto di coppia che, a parere di Guardini, si mantiene nel tempo, come se dovesse durare in eterno. Ma significato ancora maggiore si ha nel rapporto Diouomo, in quanto Egli ha dato la sua fedeltà eleggendo un popolo per realizzare la salvezza dell'umanità. È importante che l'azione dell'uomo sia disinteressata. “Sembrano farsi rare le persone che compiono la propria opera in dedizione pura semplicemente perché essa è valida, perché essa è bella. Sempre di più l'attività umana viene impostata in ordine a un'intenzione d'utile o di successo che non concerne l'opera in sé”4. 4
R. Guardini, Virtù, Morcelliana ed., Brescia, 1977, pag. 93.
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Ma l'uomo deve vivere da uomo, deve contenere l'istinto e rinunciare agli eccessi, assumersi le sue responsabilità, scegliere ciò che è giusto e allontanare da sé l'errore, cercare di uniformare la propria vita ai dettami divini e tendere all'ascesi come forma di vita vissuta in maniera retta, affrontare le vicissitudini contando, anzitutto, su se stesso e sul coraggio che è frutto di forza morale, valore e onore. La vita, per Guardini, è un dono divino e, dunque, va vissuta così come viene, intervenendo là dove è giusto e possibile. Bisogna avere il coraggio di vivere, ma questa forza trae la sua linfa dalla fiducia nella Provvidenza divina. L'avere una buona opinione della vita porta a una visione libertaria, basata sulla disponibilità al perdono, alla pazienza e, perché no, all'umorismo in quanto ci consente una maggiore capacità di sopportazione. Il vero fulcro della bontà è il silenzio, cioè la capacità di operare nei confronti degli altri senza chiasso o autoesaltazione. Non è concepibile che si attenda la gratificazione da parte di chi ci sta attorno per le azioni che compiamo. La bontà si impone per forza propria anche quando non la riconosciamo, come a volte avviene nei confronti della bontà divina. “Quando uno ha compiuto un'azione generosa o delicata, sa benissimo che se lo dicesse si guasterebbe. E allora egli la copre con il silenzio e là essa resta con lui. E se un giorno in un'ora oscura egli dovesse dubitare del senso della vita, allora quella azione riaffiora in lui a giustificargli l'esistenza”5, scrive Guardini. Il silenzio rappresenta una scelta consapevole di chi, pur potendo parlare o dopo aver parlato, decide di tacere, abbandonare le esternazioni e ritornare in se stesso. Se la parola è il modo in cui esprimere il proprio pensiero (a differenza degli animali) il silenzio è il modo in cui interiorizzare le esperienze esterne e riflettere su di 5
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Ibidem, pag. 199.
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esse. E solo nel silenzio si può raggiungere Dio così come, sia pure con modalità diverse, fanno gli anacoreti o i cenobiti. Il mondo, spesso, è frastornato dalla chiacchiera. I mass-media ne sono un evidente esempio. Le abitazioni sono tormentate da radio e televisori accesi e non si trova (o non si vuole trovare) un momento di calma per riflettere. Ma così come dobbiamo difenderci dal caos esterno, dobbiamo fare altrettanto per quello interno, fatto di depressioni, inquietudini, insoddisfazioni e quant’altro. Il raccoglimento può aiutarci a ritrovare noi stessi, a individuare il senso della vita, a scoprire Dio. Ma per far questo dobbiamo esser capaci di allontanarci dallo stress della quotidianità. Come si vede Guardini attribuisce all'etica un'importanza fondamentale ed essa rappresenta nel pensiero del filosofo di Verona un momento centrale, a cui si aggiunge, in modo originale rispetto alla teologia cattolica tradizionale, il criterio di polarità a base dell'indagine filosofica, con la conseguente rinuncia ai modelli della filosofia scolastica.
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Aldo Capitini
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La vita Nato da una famiglia modesta nel 1899 a Perugia, Aldo Capitini, non potendo frequentare regolarmente le scuole, studiò da autodidatta, riuscendo, tuttavia, ad acquisire una cultura dignitosa che gli permise di trovare lavoro presso la Scuola Normale Superiore di Pisa in qualità di segretario. La sua buona disposizione agli studi, frattanto, gli aveva consentito di laurearsi e di diventare assistente di Attilio Momigliano. Il suo rifiuto di prendere la tessera del partito nazionale fascista lo portò, nel 1933, al licenziamento immediato. Rientrato nella sua Perugia, iniziò l'opposizione al fascismo, sia pure in modo non violento. Entrò in contatto con i migliori intellettuali del tempo, non asserviti al regime, come Calogero, col quale collaborò per fondare il movimento liberal-socialista, Banfi, Calamandrei, Cantimori, Bobbio, per citare solo alcuni. Pur se antifascista non fece parte delle file resistenziali (fedele agli ideali di Gandhi), anche se il regime volle perseguitarlo nel 1942, tenendolo in condizione di costrizione in carcere. Dopo la sconfitta del regime e il riacquisto della libertà, Capitini operò nel campo universitario, conquistando la stima sia del mondo intellettuale sia di quello civile. Unì, infatti, il suo impegno civile non violento con l'attività produttiva di opere di grande significato. Nel 1937 uscì per i “tipi” Laterza l'opera Elementi di un'esperienza religiosa. 41
Nel 1948 pubblicò a Modena il libro Il problema religioso attuale. Nel 1952 creò un centro di orientamento religioso che aveva come obbiettivo il perseguimento di fini non-violenti. Nel 1951 diede alle stampe L'atto di educare e nel 1955 l'opera Religione aperta. Morì a Perugia nel 1968.
Il pensiero L'esperienza culturale neo-idealistica ebbe non poca influenza sulla formazione di Aldo Capitini e, tuttavia, il filosofo perugino, ad una analisi più attenta del pensiero filosofico di Croce e di Gentile, individuò elementi da lui non condivisibili sia di ordine strettamente filosofico (vedi la critica allo storicismo crociano e gentiliano) sia di ordine politico (adesione di Gentile al fascismo). Ma, l'avvenimento di rilievo che determinò una scelta di campo di Capitini fu la stipula del Concordato tra il papato e il regime fascista. Il filosofo accentuò, infatti, la sua posizione antifascista e criticò l'appoggio della Chiesa cattolica al regime, senza il quale esso, non potendo contare sul consenso dei cattolici, che costituivano la maggioranza degli italiani, avrebbe avuto certamente le “ore contate”. Ma la critica indirizzata alla chiesa non significò per lui una rinuncia alla religione, anzi si convinse che fatto religioso e istituzione religiosa percorressero strade diverse: affermazione di valori e principi etici il primo, consolidamento politico la seconda. Egli non riusciva a giustificare come un'istituzione religiosa potesse appoggiare un regime che faceva della violenza la sua regola di vita. Il Vangelo della “non violenza” di Cristo gli appariva francamente calpestato. L'etica cristiana si imbatteva nell'immoralità di un sistema che alimentava 42
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qualsiasi forma di prevaricazione. Ma, evidentemente ciò non veniva valutato sufficientemente dalle autorità ecclesiastiche. Capitini riconsidera la religiosità, sia pure in una visione immanentistica, autodefinendosi, da questo punto di vista, un laico. Il laicismo capitiniano trova il suo naturale sbocco nella pratica della “non violenza” che attinge sia dal messaggio evangelico sia dalla esperienza del Mahatma Gandhi i suoi principi essenziali. Egli così scrive nell'opera Elementi di un'esperienza religiosa: “L’uso della violenza si è molto diffuso oggi anche per sostenere intenzioni che altre volte si affermavano altrimenti; i vecchi scrupoli si vanno perdendo. In ciò confluisce l'impazienza di ottenere e la sua considerazione degli altri che sembrano del tutto estranei a noi. L'uso della violenza è sollecitato dal successo che essa procura a più breve scadenza che non gli altri mezzi: se uno la pensa diversamente da me, eliminandolo non avrò più quel fastidio; resta da vedere a che cosa si riduce la mia vita dopo, e se non sorgeranno prima o poi cinquanta al posto di quello che ho ucciso. Questi successi hanno il potere di inebriare, come sempre, le persone grossolane, tutte volte all'esterno, e pronte a valutare il valore della forza finchè non trovano altri piu forti”1. La creazione del movimento liberal-socialista, assieme a Guido Calogero, lo portò a valorizzare le istanze libertarie di Piero Gobetti e, sia pure in misura minore, dei fratelli Rosselli. Capitini rifiuta l'esercizio del potere che deriva dall'imposizione di una volontà sulle altre, proponendo, viceversa, il raggiungimento di obbiettivi comuni nati da libere scelte dei cittadini. Ritiene che anche il sistema di maggioranza e 1 A. Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza ed., Bari, 1937, pag. 6.
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minoranza riveli limiti democratici: ad esso oppone l’“onnicrazia”, ossia la partecipazione di tutti alle decisioni. Dunque, a motivo del suo orientamento liberal-socialista, non può condividere il comunismo sovietico che gli appare come un sistema coercitivo, anche se solleva le masse da condizioni di indigenza, con la garanzia del lavoro per tutti. L'onnicrazia, al contrario, consente una partecipazione dell'individuo all'esperienza esistenziale degli altri, condividendone gli aspetti vitali e accettando il principio della “compresenza”, che non si riduce al rapporto tra due individui – come in Guido Calogero – ma, appunto, tra il singolo e la comunità in una visione religiosa di tipo laico. L'aspetto religioso scaturisce dalla dedizione che ogni componente della comunità manifesta nei confronti di essa e dallo spirito di solidarietà e collaborazione che deve caratterizzare il comportamento di ogni persona sulla base del rispetto reciproco che impedisca qualsiasi forma di violenza, consentendo l'affermazione della spiritualità sulla materialità. Scrive Capitini: “La religione può e deve rinunziare alla trascendenza nel senso realistico ed assoluto tradizionale: solo così, anzi, sarà possibile una rinascita religiosa. La rivelazione religiosa che salverà la religione e riformerà (o distruggerà per rinnovarla ab imis) la Chiesa, verrà (Carabellese); [...] anche nel campo particolarmente religioso si sente che il culto e i sacramenti, e la loro amministrazione da parte di istituzioni a ciò deputate, non costituiscono l'essenza della religione; che questa è soprattutto spirito di verità e di amore in atto: si è diffuso un certo fastidio per i privilegi, le investiture lontane, e si vuol vedere nella realtà delle azioni che cosa si fa e cosa non si fa; [...] le religioni tradizionali hanno preso un carattere prevalentemente conservatore, e si sono appoggiate ai potenti; in tal modo si sono rese esteriori alle anime umili, alle ispirazioni religiose più intime e più disadorne, che 44
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erano state proprio quelle che avevano suscitato le religioni e spinto anche al martirio dinanzi ai potenti e ai reazionari”2. Ma questa posizione, che può apparire assai drastica nei confronti delle religioni rivelate e, in particolare, della religione cattolica, non significa rifiuto aprioristico di Dio. Capitini, infatti, sostiene: “Nel meglio, nel valore intrinseco di ogni azione, Dio scende, si particolarizza, ci sorregge; e ci dà tutto, ma dalla parte dell'intimo, non dalla parte dell'esterno. Non ci dà il dolore come dolore, ma l'animo con cui lo dobbiamo vivere; il dolore come ogni altra cosa, come un sasso, è contenuto: Dio ci dà la forma, cioè quella serenità, quella purificazione, quella presenza di sè che è come ciò che avvolge e vive il dolore”3. Se alla base del modello di società prospettato da Capitini c'è il principio della “non violenza”, alla base delle istituzioni deve esserci il parlamentarismo, purché sia integrato da innumerevoli organi periferici deliberanti, garantendo, in tal modo, il potere di tutti (omnicrazia). Questo modello di stato deve evidentemente escludere la presenza di un esercito perché sarebbe una chiara contraddizione. Una democrazia compiuta non può, infatti, contemplare strutture di tipo militare che sono, per la loro stessa natura, contrarie al principio della “non violenza”. Come dicevamo, Gandhi ispirò certamente Capitini in questa visione politica nuova che, però, aveva trovato nelle marce non violente, promosse dal famoso personaggio indiano contro il dominio inglese, il motivo ispiratore. Ma, del resto, Capitini non fa mistero di questo sentirsi figlio spirituale del Mahatma Gandhi e, in quanto tale, ripudia la guerra come soluzione ai problemi del mondo. 2 3
Ibidem, pagg. 17-18. Ibidem, pag. 44.
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Interessante appare in Capitini la teoria della continuità di rapporto fra i vivi e i morti, ritenendo che la spiritualità manifestata da questi ultimi permanga come punto di riferimento dei vivi. Egli scrive: “Questa unità amore è la forma attuale dell'adorazione per le persone concrete, dinanzi a noi, lontane, morte, ma sempre concrete. Prima di ogni parola, prima di ogni altro fatto, io sono legato a loro; nel sentirle sempre presenti, vivo e svolgo concretamente questa unità amore, questa adorazione che è l'intimo del mio atto”4. Certamente non si può negare che la morte sia in sé un fatto incontrovertibile, ma se si ha il desiderio e l'esigenza di un dialogo con una persona cara venuta a mancare, nulla esclude che possa esistere una continuità di rapporto, pur consapevoli del “fatto”. In altri termini, dice Capitini che possiamo avvertire la presenza di chi ci ha lasciati. Sulla morte scrive ancora: “È il passaggio dalla vita alla presenza. Io non vedrò con gli occhi corporei la persona cara, ma essa mi sarà vicina, saremo in eterna presenza. Si stabilisce un'unità tra me e lei, che non è soltanto l'unità che c'era quando l'avevo dinanzi, oggetto. Siamo invece a fianco a fianco, intimo più intimo, presenza alla produzione del valore”5. Queste citazioni mi sono sembrate necessarie per far parlare direttamente Capitini su alcuni degli spunti più significativi del suo pensiero per esigenza di chiarezza. Capitini, come la maggiore parte dei filosofi che affrontano la problematica politica, non può non occuparsi, al tempo stesso, dell'educazione. Dai tempi di Platone in poi la trattazione di modelli politici deve necessariamente prevedere uno sviluppo di tematiche pedagogiche, senza le quali non si è in grado di prospettare alcun modello di stato. 4 5
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Ibidem, pag. 130. A. Capitini, La realtà di tutti, Ed. Celebes, Trapani, 1965, pag. 72.
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In altre parole, si può parlare di un modello di società quando si ha ben chiaro in mente il modello di uomo che si vuol realizzare. Ed è quanto fa Aldo Capitini nell'opera L'atto di educare, edito a Firenze nel 1951, per i “tipi” de La Nuova Italia. Egli dice che l'atto educativo è comunicazione di valori e l'educatore è visto come profeta che, in perfetta simbiosi con l'allievo, eliminando il disvalore, trasferisce una serie di valori che liberano il fanciullo. “La fortuna più grande che possa toccare ad un fanciullo è di incontrare familiari, maestri, amici che abbiano una profonda persuasione dei valori e di una realtà di valore, persone appassionate per l'arte, per la giustizia sociale, per la vita religiosa, per la vita del pensiero, per la bontà, per il coraggio di sacrificarsi, per la presenza dei morti, per la lealtà e la veracità; ed altri valori allo stato più puro”6, scrive così Capitini. L'educatore gli appare come colui che profeticamente incontra il discepolo, comunicandogli l'istruzione e prospettandogli il raggiungimento di valori libertari. Ecco, allora, che una visione pedagogica simile si innesta perfettamente nel modello politico di indirizzo liberal-socialista che, a parere del filosofo, interpreta le profonde esigenze degli uomini in antitesi con qualsiasi modello di tipo autoritario.
6
A. Capitini, L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze, 1951, pagg.
9-10.
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Enzo Paci
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La vita Enzo Paci nacque a Monterado, in provincia di Ancona, il 18 dicembre del 1911. Attratto dagli studi filosofici si iscrisse dapprima all'Università di Pavia, quindi a quella di Milano, laureandosi con una tesi su Platone, discussa con il maestro Antonio Banfi, nel 1934. Nel 1938 pubblicò l'opera Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone e l'anno successivo Principii di una filosofia dell'essere. Nel 1940, per i “tipi” Principato, dà alle stampe l'opera Pensiero, esistenza e valore. Nello stesso anno fonda assieme a Cantoni, Banfi e Preti la rivista «Studi filosofici». Frattanto aveva iniziato l'insegnamento nei licei e aveva conseguito la libera docenza che gli permetterà successivamente l'insegnamento all'università. Al 1943 risale uno scritto significativo dal titolo L'esistenzialismo che gli otterrà un certo successo. Dopo un'esperienza drammatica, durante la Seconda Guerra Mondiale, vissuta in un campo di concentramento polacco, inizia il suo insegnamento all'Università di Milano nel 1946. Intanto prosegue la sua attività di saggista con la pubblicazione nel 1950 di Esistenzialismo e storicismo e Il nulla e il problema dell'uomo. L'anno seguente ottiene la cattedra di teoretica presso l'Università di Pavia e fonda la rivista «Aut Aut» che sviluppa un interessante dibattito filosofico. Nel 1954 esce a Torino Tempo e relazione. Il 1957 49
costituisce per Paci un anno di svolta; passa, infatti, all'Università di Milano occupando la cattedra che era stata di Antonio Banfi e pubblica, nello stesso anno, Dall'esistenzialismo al relazionismo. Il suo nome comincia ad acquisire fama internazionale e viene chiamato spesso a conferenze e dibattiti all'estero. Del 1961 è l'opera Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl che tratta il pensiero del filosofo che tanta influenza aveva avuto su di lui. Il Saggiatore gli pubblica nel 1963 Funzione delle scienze e significato dell'uomo. Fra il 1965 e il 1966 vedono la luce tre volumi dal titolo Relazioni e significati. Gli ultimi anni della sua vita sono caratterizzati dalla triste vicenda dell'assistenza alla compagna malata che tanto dolore gli arrecherà, ma che non lo distoglierà dallo studio e dalla pubblicazione, nel 1973, di Idee per una enciclopedia fenomenologica e nel 1974 Fenomenologia e dialettica. Il 21 luglio del 1976 lo vedrà accasciato al tavolo da lavoro, mentre infaticabile, lavorava a degli appunti.
Il pensiero Com'è noto, la prima metà del Novecento, in Italia, è caratterizzata dall'egemonia culturale dell'idealismo. Anche Paci non si sottrae a questa influenza, ma, a differenza di altri filosofi, è più attratto dall'idealismo tedesco e, in particolare, da quello hegeliano, che non da quello italiano. Ciò, tuttavia, non significa che condividesse il razionalismo totale hegeliano, anzi ha rilevato aspetti di negatività nella ragione, opponendo ad esse “[...] l'esigenza esistenzialistica di guardare in faccia l'irrazionale e la passione, il pericoloso, il precario e l'incerto, il male e l'errore, il nulla e la morte”1. 1 E Paci, Esistenzialismo e storicismo, Mondadori ed., Milano, 1950, pag. 33.
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Sia chiaro, Paci non è un antirazionalista, ma è contro ogni assolutizzazione della ragione, e per una visione concreta e operativa di essa. Egli, pur prendendo le mosse dall'esistenzialismo europeo, che aveva avuto come massimo esponente Martin Heidegger, va oltre esso per accostarsi all'esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano e individua gli aspetti fondamentali della vita fatta di precarietà, finitezza, insicurezza. L'uomo non è visto da Paci come entità assoluta, ma nella sua concretezza esistenziale e, soprattutto, nella storia, dunque nel tempo. Egli si apre alle possibilità realizzative e, quindi, al futuro. Questo procedere nel tempo è avvertito nel proprio corpo, come campo di possibilità da raggiungere, tenendo conto del possesso del passato, della memoria come elementi di metabolizzazione in vista del futuro. Ma la vita dell'individuo non può essere vista in maniera solipsistica, che porterebbe solo a una forma di contemplazione delle proprie radici. Pertanto, solo l'ammissione dell'altro da sè e con cui si entra in relazione può giustificare un'autenticità esistenziale. Questa “filosofia del tempo”, come la definisce lo stesso Paci, viene particolarmente evidenziata nell'opera Dall'esistenzialismo al relazionismo, laddove quest'ultimo termine acquista il significato di “processo delle situazioni temporali”. Enzo Paci, nell'elaborazione del suo pensiero, ha certamente presenti Husserl e la sua fenomenologia, come anche Merleau-Ponty. Quest'ultimo lo porta a vedere la fenomenologia in relazione al marxismo e questo rapporto gli fa intravedere un'evoluzione del relazionismo. È, dunque, attento il filosofo anconetano ai contributi dei pensatori sia della fenomenologia che dell'esistenzialismo, ma è altrettanto attento nello stigmatizzare i punti di divergenza da essi. 51
Su Heidegger, per esempio, dice: “Il pericolo della filosofia di Heidegger non sta tanto nel suo mascherato nichilismo, che in fondo è sempre avvertibile, ma nel fatto che, nella sua innegabile profondità, tale filosofia contiene nel suo seno esigenze non rifiutabili dal pensiero contemporaneo, per cui il valore di molte analisi heideggeriane diventa una copertura che non permette spesso di riconoscere il negativo che sta costantemente in agguato dietro il positivo. Heidegger ama il mito e non è del tutto improprio presentare la sua filosofia, senza pretendere di ridurla e questa presentazione, come mito”2. Il collegamento di Paci con la filosofia esistenzialistica italiana è certamente piu stretto e il rapporto con Nicola Abbagnano, come dicevamo prima, più significativo, anche se scriverà: ”Il problema di un esistenzialismo positivo sembra dover passare attraverso Husserl ed è probabile, del resto, che una nuova filosofia non possa essere più definibile né come esistenzialismo né come fenomenologia”3. Per concludere, è interessante quanto scrive Fulvio Papi sulla concezione religiosa di Paci: “La religione – ha scritto Paci – non è qualcosa che l'uomo può avere o non avere, è il fondamento della sua vita. Questa religione senza istituzioni, questa religione della coscienza che non vuole essere compresa ed emancipata da una filosofia che la obiettivi, quest'eco profonda della teologia protestante sino a Kierkegaard, assomiglia molto, se non è la stessa cosa, alla radice di una filosofia espressiva dell'esistenza o anche come preludio a una forma d'arte. Religione, arte, filosofia dunque come triade dell'espressione dell'esistenza, figure della sua verità”4. 2
E. Paci, La filosofia contemporanea, Garzanti ed., Milano, 1966, pag. 210. 3 Ibidem, pag. 204. 4 Fulvio Papi, Vita e filosofia, Guerini e Associati ed., Milano, 1990, pagg. 224-225.
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Remo Cantoni
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La vita Remo Cantoni nacque a Milano il 14 ottobre 1914. Formatosi alla scuola di Antonio Banfi si laureò col filosofo di Vimercate, affrontando una tesi sul pensiero dei primitivi che costituirà un punto di riferimento per il suo pensiero e che verrà pubblicata nel 1941. Nel 1948 divenne libero docente di Storia della Filosofia e pubblicò il libro Crisi dell'uomo in cui affronta la crisi della società del Novecento, richiamandosi al pensiero di Dostoevskij. Del 1949 è La coscienza inquieta. Nel 1950 creò «Il pensiero critico», assumendone la direzione. Gli atenei di Pavia e Milano videro una sua proficua presenza come docente di filosofia morale. Del 1953 è Mito e storia. Frattanto aveva iniziato la sua collaborazione col “Corriere della sera” e poi con la “Stampa”. Questa esperienza non sarà isolata perché scriverà, in seguito, anche sul “Giornale nuovo”, fin dalla sua nascita. Nel 1955 è ordinario presso la Facoltà di Magistero di Roma e nello stesso anno darà alla luce l'opera Ragguagli dell'epoca. La vita quotidiana. Del 1958 è il lavoro Umano o disumano, mentre nove anni dopo esce Illusione e pregiudizio. Interessato alla prolematica esistenziale di Kafka pubblica nel 1970 Che cosa ha veramente detto Kafka. Le ultime opere del filosofo danno, però, lo spessore del suo pensiero. Mi riferisco ad Antropologia quo53
tidiana del 1975 e, soprattutto, a Il senso del tragico e il piacere che conclude la sua produzione. Muore, infatti, prematuramente il 3 febbraio 1978.
Il pensiero Remo Cantoni, allievo di Banfi, ereditò da questi la concretezza della vita in contrapposizione all'idealismo che, affermando che la realtà è costituita dallo Spirito Assoluto, relegava l'uomo a un ruolo di pura comparsa nel teatro del mondo. E questa concretezza si rivelerà già nella prima opera, uscita nel 1941, dal titolo Il pensiero dei primitivi in cui affronta i problemi dell'uomo nella loro vastità. Ciò sarà pretesto per un'analisi delle remore razziste dell'Occidente “civile”, dei settarismi e di tutte quelle manifestazioni che alimentano i nazionalismi, gli imperialismi e i colonialismi. Cominciava, in tal modo, a manifestare interesse per l'antropologia, ma non intesa come studio dei popoli “selvaggi”, bensì come analisi dell'uomo. Questa problematica antropologica sarà la linea di sviluppo del suo pensiero. E, tuttavia, non vedeva l'umanità solo come il complesso di nuclei socio-politici, ma studiava l'uomo anche nella sua individualità, mettendo in rilievo quei diritti inalienabili che sono la libertà, il rispetto della persona, la possibilità di vivere in una realtà democratica. Mantiene questi punti fermi anche quando analizza le contraddizioni dell'uomo e la sua esistenza problematica così come appaiono nell'opera di Dostoevskij o anche di Kafka, di cui coglie la negatività della realtà del suo periodo, fatta di irrazionalità e di tragicità. Quest'ultimo tema, che aveva già trattato in Umano o disumano del 1958, lo porta a sostenere che quando l'uomo pretende di andare oltre i propri limiti, ponendosi come realtà autonoma e assoluta, raggiunge una condizione di disumanità. Ma Cantoni non si appiatti54
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sce su un'accettazione passiva della tragicità; al contrario, sia con la verità (scaturita da una conoscenza obbiettiva), sia con la libertà si può combattere il tragico che c'è nella vita, fatto di distruzione, violenza e servilismo nei confronti dei poteri forti. Solo col rispetto reciproco e con lo spirito di collaborazione che, tuttavia, deve escludere ogni forma di invadenza, si può raggiungere un livello soddisfacente di esistenza. Ma qui il filosofo sembra scivolare nell'utopia, poiché la disponibilità dell'individuo nei confronti dell'altro è assai limitata. E la storia ne è testimonianza. Un'opera certamente interessante e assai attuale è Antropologia quotidiana, il cui titolo già indica l'originalità della trattazione. Infatti, il filosofo, lungi dal limitarsi ad esaminare cultura, mentalità e costumi di popoli dell'area del terzo mondo, si sofferma ad analizzare gli aspetti esistenziali dell'uomo al di là della collocazione strettamente geografica senza, tuttavia, negare le particolarità comportamentali che distinguono un popolo dall'altro. Ecco, Cantoni studia l'uomo nella sua quotidianità, con tutti i suoi interessi, le sue scelte, i suoi atti, ma anche le sue esagerazioni o i suoi estremismi (come il tentativo di raggiungere ad ogni costo il piacere sfrenato che non fa che allontanarlo dall'assunzione di responsabilità, facendogli vivere una vita superficiale e approssimativa). Alla base della vita dell'uomo deve esserci il senso critico, la capacità di giudizio, un'adeguata conoscenza delle cose. Tutto ciò ci permette di raggiungere un vero modello di libertà in una visione autenticamente democratica, fatta di dialogo e sereno confronto. L'opera in cui giungono a maturazione i temi sviluppati nel corso della lunga ricerca di Cantoni si intitola Il senso del tragico e il piacere, pubblicata a Milano nel 1978, anno della sua morte. Il primo argomento trattato in quest'opera è il rapporto fra il senso comune e la filosofia. Scrive il filosofo: “Il senso comune, che è un 55
momento caratteristico della «coscienza collettiva» e dello «spirito obbiettivo» può essere definito un habitat culturale in cui cresciamo e viviamo. È fuori di noi ed è in noi. È un elemento sui generis, ovunque diffuso, che l'uomo assimila con estrema «naturalezza» così come respira l'aria atmosferica, in un processo spontaneo che non sembra richiedere particolare attenzione o particolare sforzo”1. Proprio per queste sue caratteristiche è rifiutato dal filosofo, il quale non può porsi dal punto di vista della maggioranza degli uomini, ma deve scegliere un osservatorio autonomo e originale. La filosofia, in altri termini, non può allinearsi col senso comune, anche perché esso presenta elementi di arretratezza e, tuttavia, può avere una funzione positiva nei suoi confronti in quanto può mirare a rigenerarlo. In verità, la storia del pensiero filosofico, da Socrate ai nostri giorni, è la storia dell'autonomia della filosofia dalla «coscienza collettiva». Spinoza rifiuta i pregiudizi, dovuti alle passioni, presenti nel senso comune e Kant rileva la poca attendibilità del senso comune basato sull'opinione pubblica. Ma anche Hegel si contrappone al senso comune. In sostanza i filosofi considerano la pubblica opinione banale e dogmatica e, tale, comunque, da non consentire percorsi metafisici. Heidegger critica: “[...] le vocazioni a una vita anonima, gregaria e irresponsabile che si possono ritrovare nell'uomo di tutti i tempi e di tutti gli ambienti sociali, in ogni uomo come possibilità o inclinazione latente che spinge a eludere alcuni problemi di fondo come ad esempio quello della morte e della responsabilità personale degli atti che si compiono e delle scelte che si operano”2, scrive Cantoni. 1 R. Cantoni, Il senso del tragico e il piacere, Editoriale Nuova, Milano, 1978, pagg. 7-8. 2 Ibidem, pag. 36.
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Nel senso comune mancano la consapevolezza storica, l'atteggiamento critico e problematico, mentre è presente “una fede ingenua e rozza in pregiudizi volgari e in miti grossolani” e solo quando una società riesce a liberarsi di essi, può essere definita una società aperta. L'altro argomento di rilievo trattato nel libro sopra accennato riguarda il tragico come problema filosofico. Una piena consapevolezza della realtà non può prescindere dalla coscienza del tragico e da una sua accettazione sia pure per fronteggiarlo evitando, comunque, qualunque forma di rimozione psicologica. Dice Cantoni: “Il tragico è un'esperienza-limite o una situazione-limite che impone all'uomo non solo di qualificarsi eticamente, ma altresì di venire in chiaro circa la propria condizione di uomo, circa la propria presenza nel mondo, anche se si deve riconoscere che variano profondamente i modi culturali di fronteggiare la situazione tragica”3. Certo, di fronte al tragico spesso gli uomini ricorrono a forme di consolazione, prevalentemente di tipo religioso. E, nonostante si affannino per sfuggire ai rischi e alle insicurezze, facendo ricorso all'accortezza e alla prudenza, non riescono ad essere immuni dai colpi della “sorte”. Tuttavia, ciò non deve portare a forme di accettazione fatalistica del tragico, considerando la vita in un'ottica assolutamente negativa e confondendo il tragico con il male. Al contrario, l'uomo deve mirare a controllarlo limitando, per quanto gli è possibile, il livello di pericolosità di esso. Un valido contributo può venire dalla scienza e dalla tecnica, almeno per quanto riguarda alcuni aspetti della vita come la miseria o i problemi di salute. Afferma ancora Cantoni: “Mentre noi sosteniamo che la coscienza tragica è una coscienza storica pervenuta a un livello di piena maturità, il Croce, che ha della 3
Ibidem, pagg. 64-65.
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storia una concezione provvidenziale ed euforica, concorda con Eraclito, con Spinoza, con Hegel nel dissolvere e risolvere la negatività del tragico nella superiore positività del reale come processo dialettico”4. In conclusione, il vero significato dell'esistenza si ha nella misura in cui l'uomo, pur consapevole del tragico, non se ne rende succube. Cantoni dedica, poi, una certa attenzione al senso della ricerca filosofica che, contrariamente al parere di alcuni, non può sorgere dal nulla, ma deve avere un aggancio storico-esistenziale da cui partire; diversamente si cade nel dogmatismo in quanto si priverebbe la filosofia di necessari presupposti. La ricerca filosofica, oggi, si dibatte fra posizoni metafisiche e antimetafisiche. Queste ultime, a volte, sono estremamente radicali, tanto da considerare la metafisica “come un blocco di pensiero derivante tutto da un'ontologia arcaica”. Anche in Marx c'è un atteggiamento antimetafisico, ma quest'orientamento è indirizzato verso un tipo di metafisica che, lungi dall'affrontare e risolvere i problemi del mondo, si limita a contemplarlo. E, considerando che anche la teleologia opera in un ambito metafisico, in quanto cerca un senso definitivo dell'esistenza umana, pare opportuno a Cantoni non accantonare la metafisica tout court, ma trarre da essa quegli elementi vitali che possono avere un significato e un valore evitando, tuttavia, che la ricerca filosofica possa essere in qualche modo condizionata dall'ortodossia religiosa, che la porterebbe al confessionalismo. Circa i rapporti tra filosofia e politica, Cantoni sostiene che, onde evitare atteggiamenti elitari e di distacco dalla comunità umana, è opportuno che la filosofia si accosti alla politica, rinunciando, però, ad essere cassa di risonanza di essa e ai condizionamenti che 4
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Ibidem, pag. 86.
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indubbiamente la politica contiene. In altre parole, la filosofia deve estendere la sua ricerca alla politica, non lasciandosi soffocare da essa. Un filosofo che ha, senz'altro, visto nei modelli politici del suo tempo elementi certi di negatività è, per Cantoni, Marcuse, di cui apprezza la testimonianza di un disagio intellettuale e morale, ma rifiuta la “patetica apologia dell'individuo” che, nel secondo Marcuse, sfocia nell'edonismo più sfrenato. “La posizione di Marcuse è, in Eros and civilisation quella di un anarchico e di un esteta, di un individualista contemplativo e sensuale con venature aristocratiche e decadentistiche. Egli invoca nostalgicamente un paradiso perduto”5 scrive Cantoni e conclude: “La filosofia di Marcuse non è mai solidale con le trasfigurazioni eroiche della povertà, del sacrificio o del servizio devoto ed obbediente a una causa”6.
5 6
Ibidem, pag. 188 Ibidem, pag. 192.
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Guido Calogero
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La vita Guido Calogero nacque a Roma il 4 dicembre del 1904 da padre siciliano e madre dell’Italia centrale. Dopo aver seguito gli studi classici si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma. Accostatosi al pensiero filosofico classico, studiò con particolare interesse Platone, Aristotele, Parmenide, Eraclito e Pindaro . A quest'ultimo dedicò il suo primo scritto. Conseguita la laurea nel 1925, pubblicò due anni dopo l'opera I fondamenti della logica aristotelica. Ottenuta la libera docenza in Storia della Filosofia Antica, ottenne una borsa di studio presso l'Università di Heidelberg, dove conobbe Jaspers, Hoffmann e Rickert. Vinta la cattedra di Filosofia e Storia, insegnò presso il liceo “Foscarini” di Venezia, ma, contemporaneamente, per iniziativa di Giovanni Gentile, ebbe l’incarico di Storia della Filosofia antica presso l'Università di Roma. Partecipò per la prima volta ad un congresso nazionale di filosofia, con la comunicazione “Gnoseologia e idealismo”, che gli valse significativi consensi nell'anno 1929. Sposata Maria Comandini, si trasferì nel 1931 a Firenze, dove ottenne la cattedra di straordinario di Filosofia e Storia della filosofia presso l'istituto Superiore di Magistero. Nel 1934 , dopo avere pubblicato il lavoro Studi sull’eleatismo, entrò all'Università di Pisa come ordinario di Storia della Filosofia. Frattanto svolgeva un’intensa atti61
vità di conferenziere all’estero ,che lo portò in città importanti come l'Aja, Berlino e Colonia. Insieme ad Aldo Capitini, nel 1937, fondò il movimento liberalsocialista, che tanti contrasti avrebbe avuto dal regime fascista, tanto che gli sarebbe stato impedito di proseguire la sua attività di conferenziere all 'estero. Aveva, intanto, pubblicato un’opera La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, aprendosi nuove prospettive di lavoro nell’ipotesi che il regime avesse bloccato ogni sua attività di insegnamento. Questi furono anni intensi per il fllosofo, che pubblicò valide opere come La conclusione della filosofia del conoscere, uno studio sul Simposio di Platone e La scuola dell’uomo. Quest’opera vuole essere la dimostrazione di come la dialettica sia possibile solo fra distinti interlocutori mettendo, in tal modo, in crisi la concezione gentiliana impostata sull’unità di maestro e discepolo. Nel 1940 diede alla luce Il metodo dell’ economia e il marxismo. Come era facile prevedere, sia per le pubblicazioni che per l'attività politica svolta dal Calogero, la dittatura fascista fece scattare una forte repressione nei suoi confronti e il 2 febbraio del 1942 promosse il suo arresto che durò fino al 25 luglio del 1943. Frattanto era stato destituito dalla cattedra universitaria. Ottenuta la scarcerazione, fondò il Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali di Roma, convinto della necessità di questa nuova figura professionale in ltalia. Raggiunta l’Inghilterra, dopo il periodo di carcerazione, divenne direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, che riuniva gli antifascisti provenienti dall’Italia. Nel 1945 pubblicò in due volumi l'opera Difesa del liberalsocialismo. E seguì questo orientamento coerentemente fino alla fine dei suoi giorni. Pertanto, le critiche che da più parti gli furono mosse non riuscirono minimamente a scalfire le sue convinzioni. Ma il suo 62
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impegno politico non fu solo teorico: egli, infatti, militò nel gruppo “Giustizia e libertà” (ala sinistra del Partito d'Azione) ed ebbe un ruolo significativo nella lotta antifascista. Alla fine della guerra riprese la sua attività di confereniziere, soprattutto all’estero, prendendo parte ad incontri culturali presso le università. di Cracovia, Praga e Montreal, in Canada, in qualità di ”Visiting Professor”, e proprio alla McGill University di Montreal insegnò per ben due anni storia della Filosofia ed Etica. Fra il 1949 ed il 1950 ebbe modo di farsi apprezzare nelle migliori università americane riuscendo ad acquistare quella notorietà che in gran parte gli negava l'Italia. Non c’era congresso internazionale che non vedesse la sua presenza. Registriamo, ad esempio, una sua efficace partecipazione ai congressi di Amsterdam, Lugano, alla Cambridge University e al Warburg Institute di Londra, nonché al terzo congresso Interamericano di Filosofia di Città del Messico. Frattanto il filosofo aveva ripreso l’attività di insegnamento nel nostro Paese, ottenendo la cattedra di Filosofia, nel 1951, presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Roma e, tre anni dopo, la cattedra di Storia della Filosofia antica presso la Facoltà di Lettere dell’Università romana. La pubblicazione dell’opera Logo e dialogo gli valse riconoscimenti significativi, tant'è che nel 1962 la ripubblicò aggiungendovi una parte nuova, col titolo Filosofia del dialogo. Scioltosi intanto il Partito d’Azione, Calogero aderì al Partito Socialista italiano, di cui, tuttavia, non condivise il “silenzio” in occasione del colpo di stato comunista in Cecoslovacchia nel 1948. E ciò fu motivo della sua uscita dal Partito e della successiva fondazione del Partito Radicale. Sensibile ai problemi della scuola pubblicò l'opera Scuola sotto Inchiesta nel 1965. Due anni dopo diede alle stampe il libro Quaderno laico. Aveva intrapreso la compilazione di una ponderosa Storia 63
della logica antica, riuscendo a pubblicare il primo volume, quando la morte lo colse il 17 aprile del 1986, non consentendogli di completare l' opera.
Il pensiero Calogero visse in un periodo storico assai multiforme, caratterizzato da grandi avvenimenti come le due guerre mondiali e la Rivoluzione Bolscevica del 1917. Egli si formò nella fase che precedette e seguì la Prima Guerra Mondiale, il che lo pose a diretto contatto con il neoidealismo italiano di Croce e Gentile, ma, soprattutto, di quest’ultimo. Calogero non fu un seguace dell’attualismo gentiliano in senso ortodosso; maturava già in lui un orientamento che andava allontanandosi sempre più dal pensiero del Maestro. Questo processo di distacco fu certamente favorito dalla posizione politica assunta da Gentile in favore del fascismo. Calogero, come altri intellettuali italiani, prese le distanze da Gentile e ciò gli procurò non pochi fastidi col regime e col mondo intellettuale condizionato da esso. E nel 1942 il filosofo romano pagò queste scelte con una prigionia di due anni nelle carceri fasciste. Solo con il ritorno alla democrazia Calogero poté riprendere appieno la sua attività culturale, pubblicando diverse opere, insegnando nelle università italiane e svolgendo l’attività di conferenziere, per la verità più all’estero che in Italia. I suoi rapporti con gli intellettuali italiani non furono facili, anche per l’eccesso di egemonia di alcuni di essi: è ormai nota la polemica con Croce che si permetteva di definire Calogero un “ircocervo”, cioè un animale inesistente, per mettere in rilievo i presunti elementi di contraddittorietà del filosofo romano. Ma Calogero era in grado di rimbeccare il filosofo di Pescasseroli e, sul concetto di libertà, opponeva alla libertà astratta di 64
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Croce, ossia la libertà trascendentale, una libertà assai concreta, come la libertà dal bisogno, la libertà politica, la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, ecc. Calogero aveva una visione laica della vita, ciò non significa che si mostrasse intollerante nei confronti delle confessioni religiose: avversava il confessionalismo esasperato proprio perché lo riteneva una forma di intolleranza. Ma questo non escludeva che uno dei suoi interlocutori più validi fosse proprio il cattolico Carlo Arturo Iemolo, per il quale aveva grande stima e rispetto. Dicevamo, dunque, che il valore della tolleranza caratterizzava la coscienza di Ca1ogero. Ciò lo portava a considerare il dialogo non solo come grande forma di comunicazione umana, ma anche come modello di vita, che faceva dell’accettazione degli altri elemento essenziale alla convivenza civile. Nell'opera La filosofia del dialogo, che è un rifacimento di quella pubblicata in precedenza dal titolo Logo e dialogo, l’Autore indica la “regola aurea” che, a suo modo di vedere, dovrebbe caratterizzare i rapporti fra gli uomini. In essa è detto che bisogna agire, mirando a fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi e, quindi, mostrare la piena disponibilità verso l’umanità. Dice, infatti, Calogero: “Ora tutto ciò deriva dal colloquio, dall’interpretazione dei punti di vista altrui. Solo in quanto convivo e discorro so che cosa altri pensano e preferiscono e vogliono. Dal dialogo nasce tutto questo, e siccome il dialogo è storia, così ogni suo risultato è immerso nella contingenza storica. Ciò che altri mi hanno detto potrà essermi detto diversamente domani: una altrui aspirazione può mutare, un'altra ne può sorgere, niente è mai definitivo nell’orizzonte della vita. Ma c’è qualcosa che non è il risultato di questo dialogo, di questo intendimento, perché è la sua stessa base. È la volontà di comprendere le preferenze altrui. E, per averla, non ho bisogno di accertare che cosa gli altri preferiscono. Già all’inizio del mio accertamento essa là è. Il 65
significato più stabile della “regola aurea” si avverte, dunque, quando si traduce mentalmente il “Fai agli altri quel che vorresti fosse fatto a te” in un comprendi gli altri così come vuoi essere compreso tu”1. È necessario, quindi, che ogni individuo sia capace di uscire dal proprio egocentrismo e porsi dal punto di vista degli altri. Ciò può essere possibile solo superando la convinzione che ognuno di noi possegga una verità assoluta, poichè tale atteggiamento presuppone che tutti gli altri siano in torto, il che rappresenta il massimo di intolleranza. In tal modo, infatti, si negherebbe agli altri di avere e sostenere le proprie opinioni, con le evidenti conseguenze antidemocratiche caratterizzanti la società tutta. Bisogna anche svincolare, dice Calogero, l'etica dalla metafisica, in quanto porterebbe ogni singolo credente a ritenere la propria confessione religiosa come assoluta negando, di fatto, alle altre ogni pretesa di veridicità. In altri termini, così facendo si negherebbe agli altri di professare qualsivoglia religione. Allora l’unica forma etica accettabile non può che essere quella laica, in quanto permette la libertà di coscienza. L’etica laica fa sì che ci si ponga nella disposizione ad accettare i punti di vista altrui senza che questo significhi, necessariamente condividerli; e significa anche che ognuno di noi deve impegnarsi affinché gli altri possano liberamente esprimere le proprie opinioni. Questa consapevolezza che bisogna consentire a tutti la possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero si traduce inevitabilmente nel riconoscimento morale e giuridico del diritto al voto garantito ad ogni individuo, affinché l’opinione, e la conseguente scelta di ognuno, possano contribuire a determinare le linee organizzative della società tutta. Il dialogo deve, pertanto, caratterizzare i rapporti fra gli uomini 1 G. Calogero, La filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, pagg 54-55.
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perché si evidenzino i rispettivi punti di vista, senza che ciò comporti scontro di posizioni, ma solo confronto democratico di idee. Alla base del dialogo deve esserci disponibilità all’ascolto prima ancora di quella al parlare. Solo attraverso la capacità di capire e interpretare il pensiero altrui si può pretendere un confronto reale di idee. Ed è anche giusto mantenere le proprie convinzioni fino a che quelle degli altri non ci appaiano più credibili. Ma, nello svolgimento del suo pensiero, Calogero va anche oltre l'abituale concetto di tolleranza, ritenendo questo termine in qualche modo riduttivo di quelli che, a suo parere, devono essere i rapporti fra gli uomini. Sostiene, infatti, che il termine “tolleranza” di fatto significa che, pur convinti della veridicità delle nostre opinioni, consentiamo agli altri di esprimere le proprie, ma ritenendole erronee. In tal maniera, l’unico dialogo che può venirne fuori è quello mirante a convincere presuntuosamente gli altri che sono in errore, mentre noi ci riteniamo depositari della verità. Come appare evidente, ciò è l’esatto contrario di quello che deve essere il dialogo. Ma è anche da rifiutare l’atteggiamento di indifferenza verso le opinioni degli altri, pur riconoscendo ad esse pari dignità. L’unica forma di dialogo possibile è, come dicevamo prima, quella che permette agli individui di ascoltare le idee altrui con spirito democratico, confrontandole, senza preconcetti con le proprie e valutando positivamente quelle più convincenti. Questo spirito liberale, che garantisce la piena e totale espressione di opinione, può, però, ingenerare, se frainteso, forme involutive. È quanto sostiene Calogero nel momento in cui spiega il modo in cui si insediò il fascismo. Egli afferma che, allorquando sostenitori di idee liberali e con alti incarichi politici o costituzionali, per garantire a tutti libertà di espressione, assunsero un atteggiamento fondamentalmente passivo nei confronti dei fascisti, scivo67
lando in un pericoloso “agnosticismo”, rinunciarono a un confronto serrato di idee, lasciando spazio a chi faceva della violenza il proprio modello di vita e precludendosi ogni possibile libertà successiva. È bene rendersi conto che avere spirito liberale non significa garantire anche gli illiberali che mirano a soffocare ogni possibile espressione del pensiero. Questi ultimi, proprio perché non accettano il dialogo democratico, non possono pretendere di imporsi agli altri con le proprie idee. Questa posizione spinse Calogero nelle file antifasciste, convincendolo a creare, con Aldo Capitini, quel movimento liberal-socialista che non voleva essere né un asservimento al marxismo, né al liberalismo tradizionale. Egli infatti, accettava l’ideologia socialista in una visione liberale e democratica. Ma la società, a giudizio di Calogero, doveva essere educata allo spirito libertario e questa iniziativa poteva venire solo dalla scuola. Essa, proprio a motivo del fatto che promuove un dialogo quotidiano tra insegnanti e allievi, senza discriminazioni di sorta e senza indottrinamenti, è il luogo preposto allo sviluppo di coscienze critiche e democratiche, purché essa non sia espressione di regimi autoritari; ma, in quel caso, diventerebbe solo “cassa di risonanza” del potere. E Calogero era ben consapevole delle restrizioni alla libertà di coscienza e di pensiero della scuola fascista; ecco perché propugnava un modello scolastico “aperto” che contemplasse non la trasmissione di un sapere precostituito e dogmatico, ma la creazione di un sapere, mediante uno scambio quotidiano di opinioni fra studenti e docenti. Certo queste “aperture” di Calogero gli attirarono, a volte, anche critiche, soprattutto di fonte cattolica, per l'eccesso di 1ibertà d'insegnamento “turbatore della coscienza giovanile”. Ma il filosofo così rispondeva: “Si ripete l’eterna accusa di corrompere i giovani”, a cui già Socrate soggiacque. L’esempio di Socrate conforta d’altronde, i colpiti dall’accusa; e questi sono 68
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pronti a rispondere magari che il turbare la coscienza dei giovani non è un peccato da cui debbano guardarsi, ma è anzi proprio il loro mestiere. E che dovrebbero farne delle coscienze dei giovani? Lasciarle come stanno per non turbarle? Ogni analisi critica, ogni invito alla riflessione è un turbamento. Anzi è turbamento ogni novità, ogni esperienza diversa dalle precedenti. La migliore maniera di assicurare i giovani contro i turbamenti di coscienza sarebbe allora quella di non far loro leggere niente, anzi di lasciarli analfabeti e possibilmente chiusi nell’ambiente dove sono nati. Ma per questo non occorre fondare scuole; se mai occorre sopprimerle. Basta che gli uomini obbediscano a chi dica loro come cibarsi e sopravvivere”2. Allora si dia spazio all’interrelazione sociale, alla comunicazione, al dialogo in quanto permettono ad ogni individuo di “sentire sé negli altri”, spingendolo ad amare l’umanità, non considerata come mezzo, ma come fine, così come dice Kant nella seconda legge dell'agire morale. Indubbiamente l’attuazione di questo principio non è facile, anche perché bisogna tener conto del relativismo etico, secondo cui ogni realtà etnica esprime la propria morale. Ma concediamo a Calogero questa spinta ottimistica, senza la quale, del resto, cesserebbe ogni speranza nel confronti dell’umanità. L’Autore è contrario a qualsiasi forma di determinismo, sostenendo che l'agire morale dipende dalle singole e libere scelte che ogni individuo fa, considerando sempre che non si può operare moralmente se non si tiene conto dell'altro che sta di fronte a noi. Ciò significa che la nostra libertà di azione deve tener conto dell'alterità, non può esplicarsi in senso assoluto perché costituirebbe una prevaricazione nei confronti delle libertà altrui; deve, quindi, autolimitarsi, così come deve avvenire in ogni altro individuo. La vera libertà è la consapevolezza di garantire agli altri l'esplicitarsi 2
Ibidem, pag. 256.
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della loro libertà. C'è forse dell'utopia in Calogero? Può darsi, ma è preferibile al cinismo. La scuola, come si diceva prima, può avere una grande funzione educativa per lo sviluppo dei principi etici testé menzionati e Calogero dedica ad essa una particolare attenzione pubblicando, fra l'altro, l’opera Scuola sotto inchiesta nel 1965. In essa delinea un modello scolastico laico in quanto consente la più pia discussione e la possibilità che si formino coscienze libere. Viceversa, le scuole confessionali, proprio per la loro natura unidirezionale, a suo giudizio, non lasciano spazi per scelte autonome. La scuola di Stato di indirizzo democratico deve, pertanto, caratterizzare il sistema educativo nazionale. Essa sola deve essere finanziata dallo Stato perché dà garanzie di non confessionalità e alimenta, per la sua impostazione pluralistica, la nascita di orientamenti democratici, consentendo un dialogo aperto che, come detto prima, deve essere alla base della comunicazione umana. Calogero, soddisfatto dell’inserimento nella nostra Costituzione degli articoli 3 e 19 che danno pari opportunità alle varie confessioni, depreca l’accorpamento del Concordato con la Chiesa del 1929 nell’articolo 7, nel quale, fra l'altro, si recitava testualmente: “L’Italia considera fondamento e coronanento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”. Il filosofo reagisce energicamente nei confronti di questo articolo 36 del Concordato scrivendo: “In base a ciò, qualunque insegnante dello Stato italiano, anche se non cattolico, dovrebbe sempre considerare il cattolicesimo come lo scopo e il traguardo ideale di ogni suo insegnamento. Altro che libertà della scuola, del pensiero e della scienza! Di fronte a pretese di questo genere, non si può usare che una parola: totalitarismo dottrinale, fascismo teologico. In uno Stato, invece, il quale rispetti i fondamentali diritti dell'uomo, come lo Stato 70
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italiano è obbligato dalla sua Costituzione a fare non si può mai imporre ad alcuno di insegnare contro la propria coscienza. E si viola altresì la libertà di coscienza dei giovani quando, imponendo loro, in base a un preteso diritto dei genitori, un indottrinamento teologico piuttosto che un altro, s’infirma la loro reale libertà di scelta, la quale può aver luogo soltanto in una scuola in cui risuonino le voci più diverse, e ogni tesi possa, quindi, esser valutata attraverso un lento e pacato dibattito”3. E Calogero, a sostegno di questa sua tesi, cita il fervente cattolico Dossetti passato, com’è noto, dalla vita politica a quella religiosa, il quale non condivise l’inserimento del Concordato nella Costituzione italiana per le evidenti contraddizioni di ordine giuridico. Il filosofo, sull'esempio di Dossetti, invita i cattolici democratici a valutare l'opportunità di aprirsi a spazi pluralistici piuttosto che rinchiudersi in modelli unidirezionali, promuovendo, nelle loro scuole, la presenza anche di qualche “insegnante eretico”. Ma se è contro l’unidirezionalità nei confronti dell’insegnamento confessionale di chiara impronta religiosa, lo è anche nei confronti di eventuali indottrinamenti unidirezionali di carattere ideologico, come quelli marxisti o di altri orientamenti totalitari. E ciò a testimonianza di una sua imparziale presa di distanza nei confronti di confessionalismi di ogni sorta. Appare, invece, discutibile l’impostazione didattico-pedagogica che Calogero vuole dare alla scuola. Egli propone l’abolizione delle interrogazioni orali sostituite da prove scritte trimestrali: è favorevole alla scomparsa dell’obbligatorietà delle materie ed è favorevole all’autonoma scelta di materie e programmi da parte di insegnanti e alunni. 3 G. Calogero, Scuola sotto inchiesta, Einaudi ed., Torino, 1965, pagg. 68-69.
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Francamente un modello simile convince poco, sia perché, paradossalmente si rischierebbe, in tal modo, di far sparire il dialogo come momento comunicativo, sia perché una scuola così impostata (e cioè priva di programmazione educativa e didattica) porterebbe avanti solo argomentazioni episodiche, approssimative e disorganiche; difetti presenti già nel modello scolastico tolstojano. L'Autore conclude il suo discorso sulla scuola stabilendo un collegamento fra la problematica etico-educativa e quella politico-giuridica affermando che: “[...] la politica e il diritto non sono che una parte dell'educazione e, più esattamente, un suo strumento, qualcosa che l’educazione prende a proprio oggetto per esercitare su di essi la sua opera adoperandola ai suoi fini e rendendola sempre più adatta a servire ai suoi fini”4. L'orientamento laicistico, come si diceva all’inizio, caratterizza tutta l’attività di Calogero. Ma, contro ogni fraintendimento, in buona o cattiva fede, del termine laicismo, il filosofo precisa che esso non vuol significare difesa ad oltranza dello Stato da ogni possibile invadenza o, addirittura, prevaricazione della Chiesa, quanto, piuttosto, “difesa di ogni uomo dall’invadenza dei cattivi Stati e delle cattive chiese”. Tutto ciò, però, non trova spiegazione nel coinvolgimento dello Stato della Chiesa e viceversa, presente nei Patti Lateranensi inglobati per intero nella Carta Costituzionale italiana. In essi il filosofo individua sia una precisa forma di “collusione fra autoritarismo cattolico e autoritarismo fascista”, sia un’impossibilità di autonomia dei due poteri perché essi consentono un’ingerenza autorizzata della Chiesa nello Stato, garantendo la validità civile degli atti religiosi e vincolando lo Stato ad intervenire come “braccio secolare” nei confronti dei trasgressori del cattolicesino (soprattutto “sacerdoti apostati o irretiti da censura 4
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G. Calogero, Scuola dell'uomo, Sansoni ed., Firenze, 1959, pag. 90.
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(che) non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico”, come recita l’ultimo comma dell’ articolo 5 del Concordato). In altri termini la Chiesa, in tal modo, potrebbe contare sull'appoggio statale per attuare forme di pressione sulle coscienze dei sacerdoti. Calogero, poi, è contrario all'istituzione dell’“indice” dei libri perché crede nell'opportunità che ogni individuo possa esprimere autonomamente giudizi. A sostegno di questa tesi cita San Paolo, il quale spingeva gli uomini a “guardare” coi propri occhi utilizzando quella libertà che dovrebbe caratterizzare l'esistenza di ogni individuo. Circa la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti del laicismo, Calogero prende in esame la lettera pastorale che l'episcopato italiano inviò al clero nel 1960, pubblicata il 15 aprile sull “Osservatore romano”. In essa il filosofo rileva che il laicismo è considerato l'errore di base da cui deriverebbero tutti gli altri errori, nonché un invito alle irreligiosità; esso, dunque, costituirebbe un pericolo per i sacerdoti, dimenticando che se i sacardoti si facessero condizionare dalle “proposte laiche” le loro convinzioni religiose sarebbero bon poca cosa. Calogero commenta, in conclusione, che il laicismo è ben diverso da quello presentato nella lettera e, soprattutto, non può essere considerato un tentativo di attacco alla religiosità, semmai al monopolio di essa. Del resto, non è il laicismo che può attentare allo sviluppo della religiosità quanto, piuttosto, una scarsa conoscenza dei testi sacri. E, proprio Calogero, facendo un'esperienza in tal senso con gli studenti di filosofia della sua università, si rese conto che i giovani avevano una conoscenza molto approssimativa della Bibbia, nonostante alcuni di essi provenissero addirittura da un liceo gesuita. La religiosità merita ben altra attenzione. Il filosofo cita Giovanni XXIII per evidenziare come il massimo 73
responsabile della Chiesa Cattolica, pur condannando il mondanismo di alcune correnti di pensiero sostenitrici, a suo parere, in nome della libertà dell'opportunità che la società non sia soggetta alla influenza della Chiesa per affermare l'autonomia dello Stato, tuttavia, invitava all'unione “per difendere e aiutare a difendere la verità, la giustizia, l'onestà, prima ancora che la religione e il Vangelo”. Condividendo in pieno questa affermazione, Calogero ritiene che le frasi del Papa: “[...] che prima ancora che Caio cristiano difenda il suo Vangelo che Tizio, mussulmano, difenda il suo Corano, prirma ancora che Sempronio, marxista, difenda il suo materialismo dialettico, prima ancora che ogni altro individuo difenda ogni altra possibile e divergente sua concezione del mondo, è più che mai necessaria l’unione per difendere la verità, la “giustizia” e “l’onestà”. Dove la “giustizia” e “l’onestà” per tutto quanto precede, saranno allora quelle che anzitutto si manifestano nel riconoscere ad ogni altro lo stesso diritto di difendere e diffondere le propria fede, che si rivendica per sé”5. Questa visione laicistica e libertaria portò il filosofo a fondere, come dicevamo prima, con Aldo Capitini il movimento liberal-socialista, teorizzato nel Manifesto del 1940. In esso si perseguiva l'obbiettivo di combattere sia il liberalismo conservatore che aveva portato al fascismo, sia l’autoritarismo comunista, specifico dell’Europa orientale. Si contrapponeva ad essi un socialismo liberale sul modello proposto da Carlo Rosselli. Questo movimento trovò, poi, sbocoo nel Partito d'Azione che combatté il fascismo nella delicata fase della lotta partigiana. Questo partito, che era assai composito, concluse la sua esperienza politica nel 1946, cioè un anno dopo la fine del conflitto mondiale. La scomparsa del Partito 5
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G. Calogero, Quaderno laico, Laterza ed., Bari, 1967, pag 95.
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d'Azione trova le sue motivazioni sia nella uscita dei militanti crociani che temevano che al suo interno prendessero il sopravvento i liberalsocialisti, sia nelle prevenzioni dei militanti marxisti, preoccupati di un eccessivo moderatismo che, a loro parere andava caratterizzando il partito. Detto ciò si spiega la conclusione dell'esperienza azionista, tenuto anche conto che le istanze liberalsocialiste furono assunte e portate avanti dal Partito Socialista. Concludendo, il pensiero di Calogero si può dire che il filosofo romano, anche se vissuto in periodi di egemonie culturali, dapprima gentiliane e crociane, nel secondo dopoguerra marxiste e cattoliche, seppe trovare il suo spazio pur tra mille difficoltà. Oggi, forse, è il caso di conoscere a fondo il suo pensiero e di rivalutarlo alla luce di una visione culturale meno settaria e certamente più moderata, soprattutto dopo la caduta verticale delle ideologie.
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Nicola Abbagnano
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La vita Nicola Abbagnano nacque a Salerno il 15 luglio del 1901. Frequentò la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Napoli, divenendo allievo di Antonio Aliotta. Compiuti gli studi nella città partenopea, iniziò l'insegnamento di filosofia ottenendo consensi fra gli allievi, ma anche qualche dissenso fra i colleghi troppo legati alla filosofia dominante e cioè l'idealismo, sia di marca crociana che gentiliana. Torino lo ebbe come maestro, dapprima presso la Facoltà di Magistero, in seguito, in qualità di storico della filosofia, presso la Facoltà di Lettere. La sua rinuncia ad allinearsi alle posizioni idealistiche gli alienò il mondo accademico ed è noto a tutti come non fu mai accolto nel salotto crociano di palazzo Filomarino; cosa, del resto, che non lo angustiò più di tanto, tenuto conto del suo atteggiamento anticrociano. Ebbe una produzione vastissima a cominciare da Le sorgenti irrazionali del pensiero del 1923, Il problema dell'arte del 1925, Il nuovo idealismo inglese e americano pubblicato nel 1927, mentre del 29 è La filosofia di E. Meyerson e la logica dell'identità. Negli anni '30 uscirono i libri La fisica nuova, Il principio della metafisica e La struttura dell'esistenza. Nel 1942 fu pubblicata a Milano una delle sue opere più significative: Introduzione all'esistenzialismo per i “tipi” de Il Saggiatore. Ma siamo già al periodo torinese, cioè quello più intenso. Dopo avere, 77
infatti, scritto una storia della filosofia, edita dalla UTET, pubblicò, per i “tipi” Taylor Filosofia, religione, scienza, Esistenzialismo positivo e Possibilità e libertà. Successivamente ai suoi studi di sociologia, concretati in una pubblicazione del 1966, diede alle stampe Fra tutto e il nulla, edito da Rizzoli nel 1973. Siamo già a tempi recenti (’79) quando esce Questa pazza filosofia ovvero l'io prigioniero. La saggezza della vita e Ricordi di un filosofo concludono la sua ricca produzione. Muore il 9 settembre 1990.
Il pensiero Nicola Abbagnano si muove nel panorama filosofico dell’esistenzialismo, cioè di quell’orientamento di pensiero che, rompendo i ponti col pensiero hegeliano, riporta l’attenzione dall’uomo totale al singolo, all’ individuo con i suoi problemi, le sue difficoltà, la sua necessità di scelte. È bene precisare, però, che per l’esistenzialismo, almeno nel suo aspetto strettamente filosofico, sia più da considerare come un orientamento di pensiero che non come un movimento di pensiero in senso tradizionale, ossia come scuola filosofica. In altri termini, pur esistendo fra gli esistenzialisti un denominatore comune: i1 problema dell’esistenza del singolo, gli esiti cui pervengono sono affatto diversi. Certo, è assai diffusa una visione che potrebbe essere genericamente definita come negativa rispetto all'esistenza, ma anche all’interno di questa posizione esistono delle differenziazioni evidenti. Abbagnano si presenta, in questo senso, come un esistenzialista “anomalo”, cioè non si unisce al coro dei filosofi che ritengono di individuare nella vita degli uomini più gli elementi laceranti che non quelli positivi. Egli critica l’esistenzialismo sartriano secondo cui ogni scelta che l’uomo fa sarebbe equivalente a qualsiasi altra 78
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e avrebbe valore solo per il fatto di essere una scelta. Ciò porterebbe, infatti, a una non scelta. Ma non è meno critico nei confronti di Heidegger, per il quale esisterebbe un’equivalenza di fondo delle possibili scelte, meno la possibilità della morte che, proprio per il suo significato definitivo (Heidegger non crede all’aldilà), presenta caratteri specifici. Viene respinta anche la tesi di Jaspers perché riduce le varie possibilità all’essere “scelte possibili”. Vale la pena, allora, verificare l’originalità di questo autore che manifesta spunti interessanti. Intanto, anche per Abbagnano la filosofia deve occuparsi del singolo, dell essere concreto, capace di acquisire coscienza di sé e capace anche di decidere e prendersi precise responsabilità. La filosofia, pertanto, riguardando l’individuo, comporta la necessità che le modalità di organizzare la propria vita non possono essere delegate ad altri, ma rientrino nel diritto di decidere autonomamente, essendo il filosofare un fatto intimo di ciascun uomo. È necessario, però, sottolineare che il singolo non vive isolatamente, ma in comunità e può aver bisogno degli altri come può, a sua volta, dare aiuto agli altri. In tal modo la filosofia non è esercizio di erudizione tra pochi, ma mezzo per sentirsi parte attiva di una comunità in un rapporto di reciprocità che arricchisce e migliora. Il senso dell’esistere consiste nel filosofare, dice Abbagnano, ma non necessariamente nel fare della filosofia; significa, quindi, essere nella condizione di prospettarsi il futuro della propria vita, individuando problemi ed aspetti che la caratterizzano e riuscendo, in questa prospettiva, a stabilire un rapporto efficace col mondo e con gli altri, tentando di raggiungere un modello esistenziale autentico e impegnato. Egli è contro ogni astrattezza riflessiva. In questa ricerca di se stessi può essere utile attingere alle dottrine filosofiche, che facilitano un approccio tra l’individuo e la realtà. Ma la vera radice dell'uomo è, a suo parere, la fede. Scrive, infatti: “Ma per essere me, io debbo far 79
mio ciò che è al di là di me e mi trascende, ciò che mi si impone con la suggestione e la potenza di un valore superiore, ciò che instaura tra me e gli altri la possibilità di una intelligenza effettiva”1. L'uomo, dunque, avvertendo i limiti della sua natura e dubitando di se stesso, supera questa condizione attraverso la capacità di trascendere verso l'essere. Nell’opera Filosofia, religione, scienza egli vede la fede come la più valida modalità di esistere, ritenendo il peccato una forma di smarrimento “tra alternative diverse ed equivalenti”. Dice Dal Pra: “[...] per l'Abbagnano, dall'unità di origine che è la fede si diramano due vie: la filosofia nella forma positiva e concreta della chiarificazione esistenziale e la religione nella forma positiva e concreta della rivelazione,”2 e prosegue: “La religione fa valere l'istanza generica della fede e della trascendenza, richiamando così la filosofia dai cieli dell'infinito; la filosofia fa valere l'istanza esistenziale dell'impegno, richiamando così la religione dalla rigidità della trascendenza ontologica”3. Questa visione delle cose è possibile perché l'uomo è fondamentalmente un essere libero, ma libertà non significa arbitrio, anzi esattamente il contrario e cioè eticità, che l'uomo realizza sulla base dei principi fondati dall'essere universale. L’uomo, quindi, è nella condizione di poter scegliere fra una vita anonima e priva di senso e una vita attiva, autentica e impegnata, che lo allontani dalla possibilità del peccato. Per raggiungere questo obbiettivo l'uomo deve accettare la sua finitudine che, in tal, modo, diventa la “sostanza stessa della libertà”. 1 N. Abbagnano, Introduzione all'esistenzialismo, Il Saggiatore ed., Firenze, I978, pag. 33. 2 M. Dal Pra, Filosofi del Novecento, Franco Angeli ed., Milano, 1989, pag. 100. 3 Ibidem, pag. 101.
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Questa consapevolezza della finitudine, assieme agli altri aspetti che caratterizzano l'esistenza degli uomini, ci accomuna in una coesistenza, nella quale ciascuno di noi cerca di comprendere se stesso per comprendere meglio i suoi simili. D'altra parte, il destino di ogni uomo è strettamente legato a quello degli altri. Quanto più riusciamo a penetrare nel nostro essere per capire ciò che ci lega alla comunità tanto meglio riusciremo ad acquisire un giusto ruolo nella società. Qualsiasi forma di autoesclusione è da rifiutare nettamente. Ma, ciò non significa che dobbiamo rimanere chiusi nel nostro essere, anzi dobbiamo tendere verso l'essere trascendendo noi stessi. In quest’opera ci possono aiutare i filosofi purchè vengano attualizzati. Scrive Abbagnano: “La responsabilità di fronte a se stesso è il primo sintomo dell'impegno totale, è la prima rivelazione all'uomo della sostanza del suo essere. Scelta la sua via, egli dovrà percorrerla fino in fondo con la rinnovazione continua della decisione e della scelta, con il ritorno incessante su se stesso e sulle ragioni del proprio essere: sul fondamento e sulla guida della sostanza. Io penso, agisco, dubito, temo, soffro o gioisco in mille modi; ma esisto veramente solo se tutta la somma delle indeterminazioni esistenziali si convoglia per me nell'unità di un compito o di una passione fondamentale nella quale è posta la realizzazione di me stesso”4. Penso che una sintesi più chiara di questa non potesse esser fatta. Dunque, conoscenza di sé e conoscenza del mondo sono basilari per capire il senso dell'esistenza e in questa operazione risulta particolarmente utile la scienza che è uno strumento interpretativo dell'uomo, ma che può, se utilizzata male, avere valenza negativa. Essa, lungi dal potere assumere valore di assolutezza, ci per4
N. Abbagnano, Introduzione all'esistenzialismo, cit., pagg. 62-63.
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mette di conoscere meglio il mondo col quale siamo in relazione, poiché quella scientifica è la sola conoscenza possibile del mondo. Non si unisce Abbagnano al coro degli epistemologi che tendono ad esaltare eccessivamente la sua funzione; anzi, ritiene che un uso indiscriminato di essa può arrecare danni enormi all'uomo: non occorre sottolineare l'uso indiscri-minato del nucleare, come anche quello altrettanto sconvolgente della “ingegneria genetica”. Circa il problema della temporalità dell’esistenza umana Abbagnano scrive: “La temporalità non è una circostanza accidentale dell'esistenza dell'uomo, uno stato provvisorio del suo essere, al quale sia concepibile ch'egli fosse sottratto. La temporalità definisce la natura, la costituzione ultima dell'uomo, perché è la problematicità stessa del suo essere. Tutto ciò che l'uomo è, lo è in virtù della sua natura problematica; e questa è la stessa temporalità. Un ente che non fosse soggetto al tempo e alla morte non sarebbe un uomo”5. Ma l'accettazione della morte viene vista in maniera diversa rispetto ad Heidegger. Questi ritiene che non debba esserci paura della morte perché drasticamente conclusiva della vita dell'uomo. Se la vita è stata spesa bene, la morte non può essere che la naturale conclusione di una valorizzazione di essa. Abbagnano, pur convinto che la morte vada accettata come fatto ineluttabile, ritiene che essa sia viatico per un'altra vita dalle dimensioni trascendenti. Allora l'esistenza non può essere un “non sense” di sartriana memoria, ma deve alimentare una visione di forte collegamento dell'uomo con i suoi simili e col mondo, coi quali deve necessariamente essere in relazione. Il filosofo salernitano, interessato alla tematica dell'esistenza umana, si è occupato dei tanti problemi che 5
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Ibidem, pag. 71.
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la caratterizzano, tra questi certamente c'è il problema della libertà, la difesa della quale deve spingerci a superare qualunque tabù perché essa possa essere affermata con forza. Valorizzare la libertà significa, infatti, dare dignità all'uomo. Un vero “attentato” alla libertà è da considerare l'atteggiamento di quegli intellettuali che, forse per eccesso di modernismo, criticano l'etica (in nome di una presunta libertà), ritenendola in qualche modo superata e opponendole strade alternative. Essa apparse a costoro come un'imposizione proveniente o da Dio (nel caso dell'etica religiosa) o dagli uomini (nel caso dell'etica laica). Nel primo caso la religione non è vista come la strada migliore per guidare l'uomo; nel secondo caso la ragione umana, considerata strumento delle classi dominanti, costituirebbe un impedimento agli impulsi e agli istinti dell'uomo. Nietzsche e Freud sono i promotori di questa teoria, con tutte le conseguenze che essa comporta sia sul piano individuale sia su quello sociale. Negli ultimi decenni, proprio teorie di questo genere hanno portato a un incremento della violenza in ogni sua forma (droga, delinquenza, attentati terroristici, suicidi). In altre parole, quando si dà spazio all’immoralismo, le conseguenze sono disastrose per la comunità umana. Questa non è libertà, ma abuso di essa. Occorre, quindi, ritornare a quei principi che sono alla base della convivenza umana e che trovano, secondo Abbagnano, radici profonde nella religione. Come rinunciare ai Dieci Comandamenti che sono stati e, nonostante tutto, continuano ad essere il fondamento della convivenza civile? Essi sono stati lo spunto delle concezioni etiche di quei filosofi che hanno sostenuto la validità di una visione etica della vita. Ma, quando la morale trova linfa nella fede, allora si raggiunge un corretto modello di vita. Del resto, dice Abbagnano, non c'è contraddizione tra ragione e fede, ma l'una si integra con l'altra. La vita, poi, se è caratterizzata dalla speranza e dalla fiducia, acquista un valore 83
che le è proprio. Quando manca la speranza e ci si lascia abbattere dalle avversità, accettando di essere sconfitti da esse, tutto diventa fosco e il pessimismo sovrasta la nostra vita. Ecco, Abbagnano è un inguaribile ottimista, non di maniera, ma per convinzione. È convinto, infatti, che bisogna sorridere alla vita, anche nelle situazioni più difficili. E, a tal proposito, cita una frase che ha una sua liricità: “Si affrontano con serenità i disagi dell'inverno quando si pensa che la primavera non può essere lontana”6. Nel suo inno alla vita vede con seria preoccupazione l'ingegneria genetica, non soltanto dal punto di vista etico religioso, ma anche da quello rigorosamente scientifico, sia perché i soggetti esposti ad esperimenti differiscono fra di loro e, quindi, non si possono conoscere le conseguenze, che possono anche essere disastrose, sia perché, ammettendo pure la pseudo-validità di un potenziamento dell'intelligenza, non è detto che esso debba essere necessariamente sfruttato a fini positivi, ma potrebbe essere utilizzato a fini criminali o, in ogni caso, violenti. I limiti umani, come si diceva prima, non sono eludibili; dobbiamo renderci conto che facciamo parte di una realtà di cui non siamo gli autori. E, tuttavia, la condivisione di questa realtà ci può spingere ad accettare questa condivisione. Certo le difflcoltà, le lotte, il disorientamento circa i valori, le violenze di ogni genere, possono far sentire agli uomini il bisogno di un intervento superiore che risolva i nostri problemi. Vorremmo che il mondo fosse migliore, più vivibile. Ma: “Se Dio esiste, il mondo non è quel disordine caotico che appare a prima vista, quella casualità cieca che accumula fortune e disgrazie egualmente passeggere, quel gioco inconcludente di forze o di istinti senza scopo o quel destino fatale di cui l'uomo possa essere 6 N. Abbagnano, La saggezza della vita, Bompiani ed., Milano, 2000, pag. 31.
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solo una preda”7, dice Abbagnano. In altri termini, il filosofo salernitano non può non individuare nel mondo un disegno divino, un progetto che veda come protagonista l'uomo stesso, pronto ad accettare le avversità perché pronto a chiedere l'aiuto di Dio. Allora non serve rifiutare la divinità per rifugiarsi in una delle innumerevoli sette religiose. Quelle sì ci allontanano dal vero senso della vita. Ma quali sono l'origine e il significato della vita, perché il mondo è ordinato così, quali giustificazioni può trovare l'uomo al male? Il mistero non si svela facilmente, ma ciò non significa che la soluzione sia più presente nelle menti degli scienziati o degli intellettuali in genere, anzi è possibile che intuiscano meglio il senso della vita le persone semplici. Sono esse, infatti, che accettano con maggiore serenità e saggezza quanto la vita prospetta nel bene e nel male. È proprio questa visione delle cose che può consentire di raggiungere quella pace interiore senza la quale l'uomo rischia di essere un disperato in un mondo ostile. E allora bisogna aprirsi all'amore, all'amicizia, al matrimonio senza paure; non è la vita del kierkegaardiano don Giovanni, fatta di ozio, di passioni effimere, ad essere significativa; essa porta, infatti, all'insoddisfazione e alla noia. “La saggezza popolare giustamente valuta positivamente sentimenti, gesti, atteggiamenti che appaiono e sono spontanei. La spontaneità significa, in questo caso, sincerità, lealtà, assenza di calcolo o di intenzioni riposte. Significa che il sentimento o l'atto, che si dichiara spontaneo, è l'espressione autentica della persona e non una maschera provvisoria che essa assume per fini suoi propri”8. 7 8
Ibidem, pag. 38. Ibidem, pag. 50.
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Ma, sia chiaro che l'uomo è un’entità complessa e non è facile definirlo. A rigor di logica non si potrebbe neanche usare il concetto di uomo perché presupporrebbe caratteri comuni, mentre ogni individuo umano differisce dall'altro; ma, ciò che è ancora più inquietante è che lo stesso individuo agisce spesso in maniera contraddittoria rispetto al solito; il che significa che sono le circostanze a determinare il nostro comportamento e, additittura, rispetto agli animali che sono condizionati dall'ambiente per la loro sopravvivenza, noi uomini rinunciamo, invece, ad agire sull'ambiente e a crearci la nostra nicchia, sostiene Abbagnano. In ogni caso, qualunque siano le circostanze, l’uomo è costretto a scegliere. È nelle sue possibilità decidere quali scelte fare, anche se, a volte, queste ultime sono obbligate dalle situazioni che si presentano. “Raramente la vita presenta le crisi culminanti che esigono eroismo e sacrificio. E quando le presenta, trova spesso disposti ad affrontarle uomini che non se ne erano mai proposto l'ideale. Nell'andamento quotidiano della vita, ognuno può trovare nella sua coscienza, sorretta dalla religione e dalla morale, la guida sicura per affrontare le difficoltà e le perdite materiali e spirituali che sopravvengono, per adempiere con responsabilità e scrupolo i compiti che lo attendono”9. Ciò è quanto scrive il filosofo salernitano ed ha certamente presenti i modelli di vita indicati rispettivamente da Jaspers e da Heidegger. Per il primo la vita autentica consiste nella capacità dell'individuo di gestirsi un suo modello esistenziale senza lasciarsi condizionare dagli altri; per il secondo essa consiste nell'accettazione della realtà fino alla conclusione della morte. Ovviamente il filosofo prende le distanze da questi modelli, così come da quello schopenhaueriano, sia pure con i necessari “distinguo”. In conclusione, la 9
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Ibidem, pag. 75.
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visione ottimistica di Abbagnano lo porta a sostenere che nel mondo ci sono le condizioni per raggiungere la felicità. Certo non quella presunta, fatta di ricchezze e agi, ma quella che ci spinge a valorizzare la vita, vivendola pienamente, ma senza voli pindarici, e coscienti che è giusto raggiungere ciò che è nelle nostre possibilità, pronti ad affrontare qualunque difficoltà di percorso, ma senza abbatterci quando le avversità incombono. L'alternativa è il pessimismo, ma esso è pericoloso perché ci può rendere la vita insopportabile e ci può spingere a perdere la fiducia in noi e negli altri. Purtroppo, sono molti, sia giovani, sia meno giovani, a scivolare nel pessimismo, ma la risorsa dell'uomo è proprio quella di non vedere la vita a tinte fosche. Questo è il vero messaggio di Nicola Abbagnano.
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Gustavo Bontadini
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La vita Gustavo Bontadini nacque a Milano il 27 marzo del 1903. Compiuti gli studi di filosofia, ebbe inizialmente un incarico presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano. Passò, quindi, alla Facoltà di Magistero dell'Università di Urbino. Nel 1938 pubblicò il Saggio di una metafisica dell’esperienza, manifestando un interesse preciso per la neoscolastica. Nel 1942 escono ad Urbino gli Studi sull'idealismo, mentre del 1946 è l'opera Dall’attualismo al problematicismo, edita a Brescia. Nella stessa città il filosofo dà alle stampe, nel 1947, gli Studi sulla filosofia dell'età cartesiana. Due anni dopo vince la cattedra di Filosofia Teoretica all’Università di Pavia. Nel 1951 entrò da titolare all'Univesità Cattolica di Milano. L'anno successivo pubblicò rispettivamente Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno e Dal problematicismo alla metafisica. Nel 1966, a Brescia, vedono la luce gli Studi di filosofia moderna e, infine, nel 1971 escono le Conversazioni di metafisica. Morì nel mese di aprile del 1990.
Il pensiero Gustavo Bontadini riconosce a Gentile un merito: avere riproposto la metafisica, nonostante la lezione 89
kantiana, negatrice di ogni possibile conoscenza della medesima, Croce, al contrario, non avrebbe saputo cogliere queste prospettiva. Ma è, poi, vero? Bontadini condivide con Gentile l'impossibilità della trascendenza naturalistica, così come accetta il concetto di persona derivante dal fatto di essere fornita di ragione. Per quanto attiene la concezione religiosa attualistica Bontadini scrive: “Anche qui l'attualismo, se lo si scruta nel suo spirito e nella sua logica, al di sotto delle proclamazioni verbali talvolta enfatiche, non chiedo altro, se non che la religione sia pensata (concretamente, con impegno, quindi vissuta). E quale spirito religioso potrà, non dico ripugnare ad una tale richiesta, ma non farla propria, ma investirsene? Perciò non negazione della religione, ma negazione della religione morta, letterale, o, si potrebbe dire anche qui, naturalisticamente intesa o presupposta. Questo in generale. In concreto sta di fatto che il Gentile per conto suo, non giunse, a quanto ci risulta, a pensare il Cattolicesimo, a recuperare il contenuto dei suoi dogmi”1, pur proclamandosi in più di un'occasione cattolico, ma riservandosi la totale autonomia di intarpretazione della dottrina. Bontadini esamina, poi, l'esistenzialismo e individua un elemento di continuità con l'idealismo, poiché è simile il condizionamento dovuto alla problematicità del sapere. L'esistenzialismo puro ha due possibili vie: quella religiosa e quella di trovare in se stesso la ragione di sé. Lo gnoseologismo (o criticismo) e il problematicismo appaiono a Bontadini come due correnti antimetafisiche in quanto accusano la metafisica di dogmatismo, ma la corrente gnoseologistica: “[...] vede il dogmatismo nella pretesa di obbiettivare o realizzare le 1 G, Bontadini, Dal problematicismo alla metafisica, Marzorati ed., Milano, 1952, pag. 14.
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determinazioni pensate nella sfera della trascendente cosa in sé; la seconda invece nella pretesa di risolvere tutti gli aspetti dell'esperienza e della vita in un sistema concluso immobile di concetti”2. Tuttavia, per Bontadini, il problematicismo trascendentale ha avuto vita breve e lo stesso Banfi ha ritenuto opportuno “passare ad altro”. Ma, allora la metafisica quale fondamento deve avere? Certamente, come sostiene la scolastica, la base di riferimento deve essere l'esperienza. Non a caso Tommaso d'Aquino perveniva a Dio partendo dal mondo concreto. L'esperienza è immediatezza e non può essere contraddittoria, anche se “[...] non si può ridurre [...] all'esperienza l'idea dell'interiorità all'esperienza stessa, l'idea del mistero ontologico, dell'«enigma»”. Ma vediamo come Bontadini presenta il principio metafisico. Egli sostiene che il fondamento della dimostrazione dell'esistenza di Dio è l'immobilità dell'essere. Se l'essere è immobile il divenire non può che derivare dall'immobile, perché se così non fosse allora il divenire sarebbe a sua volta originario e, quindi, si arriverebbe alla conclusione che in esso il non essere tenderebbe a limitare in origine l'essere stesso. “[...] per conoscere il carattere ontologicamente primario dell'Essere che è necessario rifarsi allo studio di come si rapportano l'Essere che è e l'essere che diviene: ciò è spiegato dalla ragione, servendosi della dottrina cristiana della creazione, che nel suo nucleo speculativo è recepita da Bontadini come «teorema di creazione»”3. E sarà compito della filosofia cristiana «recuperare» il mondo sensibile, mediante la ragione che controlla ogni aspetto della realtà e che è in grado di formulare la dottrina della creazione – afferma 2
Ibidem, pag. 130. Alessandro Ghisalberti, Introduzione a G, Bontadini, Metafisica e deellenizzazione,Vita e pensiero ed., Milano, 1975, pag, IX. 3
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Bontadini – aggiungendo che il creato senza l'atto creatore non ha alcuna consistenza. Certo si pone il problema del rapporto essere-divenire, ma il filosofo risolve la questione dicendo che: “Il divenire è possibile, ma solo per la potenza dell'Indiveniente. Precisamente: non in quanto Dio possa fare l'assurdo (il contraddittorio divenire), ma perché l'assurdo non è più tale quando il divenire è visto come fatto”4. Il filosofo critica la visione moderna del divenire inteso come sviluppo, evoluzione e la realtà come «creazione senza il creatore»; infatti, dal punto di vista metafisico è una concezione assolutamente assurda, anche se la secolarizzazione, a suo parere, può avere il merito di avere riproposto l'autonomia radicale dell'istanza metafisica. Egli, comunque, crede che l'evoluzione storica non è in contraddizione con la metafisica, ma al contrario, in stretto rapporto con essa. Certamente queste considerazioni sono il frutto della rielaborazione del pensiero tomistico alla luce dell'aristotelismo. Pertanto il divenire deve realizzarsi senza far divenire l’Immobile. E ciò è possibile mediante l'atto creativo dell'immobile. Quest'ultimo si presenta, dunque, come Provvidenza, Amore, Motore Immobile, Persona e Creatore, che si coglie al culmine del processo esistenziale e, perciò, come punto di riferimento della vita morale. Come appare evidente da quanto detto, per Bontadini la filosofia ha “nella metafisica il suo nerbo costruttivo”. Egli dissente dal filosofo Flores D'Arcais perché questi, prendendo atto che si possa risalire a Dio assegnandogli gli attributi positivi che sono propri dell'uomo, sia pure esaltati in sommo grado, nega che la metafisica possa essere considerata dottrina dell'essere in quanto tale. Scrive Bontadini: “Rispondo che il trasporto degli 4
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G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione, cit., pag. 20.
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attributi dall'umano al divino si opera con la forza dei principi ontologici (in attesa di vedere come si possa operare anche altrimenti). D'altronde s'è già detto che la metafisica dell'essere, essendo una mediazione dell'esperienza, ha a sua disposizione tutto il patrimonio dell'esperienza stessa, al quale può attingere liberamente; di tale patrimonio fa parte la persona umana”5. Concorda, inoltre, con Michele Federico Sciacca che è la coscienza religiosa a dettare alla filosofia l'ambito della ricerca di Dio. Ovviamente una visione simile non può che prendere le mosse se non dalla coscienza cristiana che, fra l'altro, considera l'uomo “la più ricca delle cose reali”; tant'è che nella sua interiorità è possibile cogliere la verità metafisica. Il filosofo milanese, in diversi convegni, sostenne un dibattito serrato con i «personalisti», con i quali, peraltro, potevano esserci dei punti di convergenza, ma anche motivi di dissenso. Scriverà: “A tutt'oggi la metafisica personalistica, lungi dal distinguersi, come vorrebbe Stefanini, dia una metafisica di tipo fideistico, non ci presenta che un fondamento postulatorio o fideistico appunto, il postulato dell'appagamento delle esigenze esistenziali della persona”6. Sull'esistenzialismo aggiungerà che quello italiano si distingue nettamente da quello tedesco che è “dottrina dell'impossibilità (impossibile per l'esistente di essere l'essere, e di non essere il nulla) e quindi della necessità”. Abbagnano, col suo esistenzialismo positivo, apre nuove prospettive a questa corrente filosofica. Bontadini rivaluta la filosofia classica, riconoscendo a Parmenide il merito di avere analizzato il problema dell'essere, esaltando la metafisica, e conia il cosiddetto 5 6
G. Bontadini, Dal problematicismo alla metafisica, cit, pag. 138. Ibidem, pag. 149.
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P.d.P. (Principio di Parmenide). Secondo questo principio l'essere non può essere limitato dal non essere e ciò camporta che l'essere originario non può coincidere col divenire, ma dà origine ad esso, rivelandosi come P.d.C. (Principio di Creazione), mentre ciò che diviene è l’U.d.E. (Unità dell'Esperienza). Circa, poi, il problema etico il filosofo scrive nel Saggio di metafisica dell'esperienza: “L'eticità è estensione del dominio del soggetto sull'oggetto soltanto in quanto il soggetto accetta di dominare dell'oggetto solo ciò che è bene ch'esso domini; ed è immunizzazione della brutalità dell'oggetto solo in quanto il soggetto cede previamente tutto quello di suo che è soggetto alla brutalità, all'accadimento esterno. Così nasce la potenza del saggio: il quale veramente crea così una nuova vita che è un nuovo ordine naturale...”7. Credo che questa concezione presenti aspetti interessanti e condivisibili, anche se, in tal modo, l'essere finito è limitato in alto dal dovere e in basso dalla natura. Bontadini rappresenta indubbiamente l'autore più significativo e autorevole della neo-scolastica, manifestando grande profondità di pensiero, come sosterrà il suo ottimo allievo Italo Mancini.
7 G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza, vol. I, Vita e Pensiero ed., Milano, 1938, pag. 275.
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Ludovico Geymonat
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La vita Era nato l'11 maggio del 1908 a Torino e in quella città si era formato in un ambiente culturalmente dinamico che vedeva la presenza di giovani studiosi del livello di Bobbio e Pavese nella scuola secondaria superiore di Peano e Juvalta all'università. Attratto dagli studi filosofici frequentò la Facoltà di Filosofia, conseguendo la laurea nel 1930 con una tesi sul positivismo. Nel 1931 aveva pubblicato Il problema della conoscenza nel positivismo. Si andava, intanto, manifestando in lui l’interesse per la scienza che lo portò ad accostarsi al Circolo di Vienna, dopo avere conseguito la laurea in matematica nel 1932. Il contatto con Schlick, Carnap e Reichenbach sarà assai fecondo per una sua adesione al neopositivismo che, nel 1935 fece conoscere in Italia con un lungo articolo pubblicato dalla «Rivista di filosofia». Nel 1934 aveva dato alle stampe l’opera La nuova filosofia della natura in Germania. L’assassinio di Schlick da parte di un nazista e le pesanti chiusure del fascismo in Italia, portarono uno spirito aperto come quello di Geymonat ad accostarsi al marxismo, aderendo al PCI, anche se con un atteggiamento vigile e non acquiescente. ll suo antifascismo lo escluse per lungo tempo dall’insegnamento. Tuttavia non cessava la sua produzione scientifica con una serie di pubblicazioni che vanno da 95
Ricerche filosofiche del 1939 a Studi per un nuovo razionalismo del 1945 a Storia e filosofia della analisi infinitesimale del 1947. Dopo avere partecipato alla Seconda Guerra Mondiale nelle fila della Resistenza, riuscirà a tornare all’insegnamento dapprima presso l’Università di Cagliari nel 1949 e poi a Pavia dal 1952. Nel 1953 esce l’opera Saggi di filosofia neorazionalista e nel 1954 Il pensiero scientifico. Nel 1956 è a Milano, dove ottiene una cattedra di Filosofia della Scienza. Un importante saggio su “Galileo Galilei” nel 1957 e tre anni dopo pubblicherà Filosofia e filosofia della scienza. Intanto la sua posizione “eretica” all’interno del PCI lo portò nel 1965 fuori dal partito, assumendo atteggiamenti antitogliattiani che lo spingerenno verso Democrazia Proletaria prima e, in seguito, Rifon:azione Comunista. Fra il 1970 e il 1977 pubblicherà la monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico in nove volumi. Del 1977 è l’opera Scienza e realismo, pubblicata a Milano per i “tipi” di Feltrinelli. Frattanto le sue pubblicazioni si arricchiranno anche di contibuti politici come il lavoro Contro il moderatismo. Interventi dal 1945 al 1978. Nel 1968 esce l’opera La libertà, argomento fortemente sentito dall’Autore. Negli ultimi anni della sua vita, pur dovendo rinunciare all’insegnamento, anche per motivi di salute, parteciperà lo stesso ai convegni, come quello di Calagonone del 1990 sul tema “Moderno e post-moderno nella filosofia italiana, oggi”. Il filosofo si è spento il 29 novembre 1991 a Rho. Nel 1994 uscirà postuma l’opera La ragione.
Il pensiero Ludovico Geymonat rappresenta nel panorama culturale italiano un innovatore, soprattutto se si tiene 96
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conto che, in un «clima» difficile quale era quello italiano fra le due guerre mondiali in cui imperava l'idea lismo, ebbe il coraggio di far uscire allo scoperto la scienza, facendo conoscere in Italia il neopositivismo del Circolo di Vienna. Dunque, il filosofo prende le mosse dall'esperienza filosofica viennese che, pur accostandolo al neopositivismo di Schlick, Carnap, ecc, lo condurrà ben oltre, portandolo ad una rivisitazione storica dell'epistemologia con conseguenze antidogmatiche e proiettandolo in una ricerca critica al di fuori di schemi precostituiti. Pertanto il suo pensiero viene genericamente definito “razionalismo critico”, ma anche ”storicismo scientifico”. L'analisi storica della scienza porta Geymonat a sostenere che la scienza non può avere come fondamento un metodo rigido che comunemente viene definito “metodo scientifico” anche se non sono stati pochi gli epistemologi che hanno più volte attaccato studiosi che non si attenevano al cosiddetto “metodo scientifico galileiano”, dimenticando che non esiste un metodo galileiano; Galileo Galilei, infatti, ha utilizzato diversi metodi a secondo delle circostanze che si presentavano di volta in volta. Allora se non esiste un metodo scientifico unico qual è il criterio di scientificità? “Per la verità – scrive Geymonat – esiste, semmai, un indirizzo, una corrente di ricerche che, più o meno, si rifà a Galileo, ma in Galileo non troviamo l'esposizione di questo metodo e, tantomeno, poi, il rispetto di questo metodo. Anche le persone che noi diciamo «sono galileiane», hanno effettivamente seguito il metodo che noi possiamo ricavare per astrazione dalle opere di Galileo, oppure no? In verità vediamo che nessuno segue mai un metodo preciso, un metodo «galileiano». Per esempio nella matematica e nella fisica usiamo «modelli matematici» che sono modelli, che si distaccano molto non solo dai «modelli» che usava Galileo, ma anche dal rigore che Galileo possedeva. Del resto oggi nella scienza si ricono97
sce un ruolo alla fantasia che una volta non si riconosceva poiché non si dava affatto largo spazio alla fantasia”1. È importante, poi, capire il nesso tra teoria e pratica, che non sono entità disgiunte, ma semmai in relazione dialettica. Questa consapevolezza è scaturita in tempi moderni e ci ha anche portato ad affrontare i problemi scientifici in naniera diversa, anche se a volte in modo problematico e, in certi casi, drammatico. La scienza moderna, infatti, si trova spesso di fronte a questioni che coinvolgono non poco l’aspetto morale (vedasi ad esempio le manipolazioni genetiche o l’utilizzo del nucleare). Siamo preparati a tutto ciò o non siamo andati troppo avanti? Certo non è facile dare una risposta, ma indubbiamente siamo coscienti che ci troviamo, oggi, di fronte a grossi problemi, per i quali occorre un grande spirito critico, così come quello che possiede il filosofo che, a differenza degli altri intellettuali, ha una visione globale e non settoriale delle cose. Scrive Geymonat: “La razionalità del mondo è affermata da Newton, da Galileo e, prima ancora, dai filosofi greci. Il mondo può allora essere paragonato ad un orologio che funziona bene. È vero che questo orologio ogni tanto ha bisogno di alcune correzioni, tuttavia complessivamente possiamo dire che funziona abbastanza bene. Però possiamo anche chiederci: chi ha fatto questo orologio? Chi è in grado di correggerlo quando funziona male? Di fronte a queste domande, appellarsi al creatore e sostenere che il «grande orologiaio» aveva fissato tutte le regole, era, in fondo, una soluzione molto semplice”2. E prosegue: “Personalmente ho l’impressione che non si possa dimostrare che non esiste Dio – poi, in genere, la dimostrazione che non esiste una determinata realtà è più difficile della dimostrazione della sua esistenza”3. 1 L. Geymonat, La ragione, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1994, pag. 24. 2 Ibidem, pag. 56. 3 Ibidem, pagg. 58-59.
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Ma, ritornando alla problematica razionalistica, Geymonat afferma che lo sviluppo del pensiero dell’uomo e, particolarmente di quello scientifico, è stato possibile grazie a una grande fiducia nell assolutezza della ragione, anche se spesso irrisa dagli scettici propensi, contro le astrattezze razionali, ad accogliere la vita nella sua quotidianità. Secondo costoro non hanno senso le grandi costruzioni metafisiche, pur ammettendo la possibilità di una metafisica, ma scaturita dall’esistenza e al di fuori di qualunque schema razionale. E, tuttavia, il razionalismo classico, a parere di Geymonat, va superato e le tendenze del pensiero odierno sembrano orientate in questo senso. Il filosofo torinese parla, infatti, di «nuovo razionalismo» e dice: “Finché fu soltanto la filosofia a denunciare la difficoltà di struttura del vecchio razionalismo, l’uomo comune poté, come si è visto, non allarmarsi troppo di esse, e continuare sereno nella propria posizione eclettica. Le cose mutarono negli ultimi decenni, perché è stata, questa volta, la stessa scienza esatta – questa grande, complessa, creazione del pensiero moderno – a rivelare senza ombra di dubbio alcune precise incompatibilità con le vecchie concezioni del razionalismo, in qualunque forma enunciate”4. L’impossibilità della conciliazione con la posizione assolutistica del razionalismo classico si manifestò già nell’Ottocento in seguito ad una revisione critica delle metodologie seguite dai migliori studiosi del tempo. E proprio traendo spunto da studiosi come Russel, Wittgenstein, Carnap e Waismann, Geymonat abbandonerà il razionalismo dogmatico al quale si era affidato nelle sue prime ricerche. È merito suo se il pensiero di questi filosofi fu introdotto nella realtà intellettuale italiana. Il carattere del nuovo razionalismo deve essere fondato, secondo il filosofo torinese, sull'estrema modestia e l’estrema superbia. La prima si manifesta 4
Ibidem, pag. 88.
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attraverso la consapevolezza di non pretendere di pervenire a «sistemi razionali forniti di validità assoluta ed eterna», né di ricercare principi metafisici qualsivoglia, ma di operare pazientemente e progressivamente, con la disponibilità a qualunque modifica fosse necessaria in corso d'opera. La seconda si rivela nella fiducia nello sforzo razionale dell'uomo, senza ricorso a verità assolute e trascendenti. È «l’uomo finito di cui parlano gli esistenzialisti che va considerato l’unico artefice della razionalità». Questo nuovo illluminismo, che Geymonat condivide con Abbagnano ed altri, scaturisce dall'uomo concreto, non proviene dall’alto e può presentare caratteri diversi a secondo del luogo in cui si manifesta. C’è quindi, nel neoilluminismo un rifiuto del crocianesimo ed un’impostazione scientifica moderna, non più vittima di assolutezze di qualsiasi genere. Il rapporto tra filosofia e scienza viene impostato correttamente e cioè «nell’aggiornamento dello spirito critico della filosofia moderna sulla base di una piena consapevolezza dei metodi e caratteri delle ultime, più significative ricerche scientifiche». Dunque, alla base di una ricerca moderna ci deve essere un orientamento metodologico senza il quale non possiamo parlare di vera e propria riforma della filosofia. La razionalità va studiata, pertanto, non come facoltà astratta, di antica memoria, ma nella sua concretezza e storicità. Geymonat non vuole una filosofia della scienza come branca della filosofia, ma mira alla realizzazione di tecniche metodologiche che consentano un’analisi delle teorie scientifiche, al di fuori di ogni sistematicità che ci farebbe inevitabilmente cadere nel dogmatismo e nell’asssolutismo. Il razionalismo si presenta, in tal senso, non come una corrente di pensiero, ma come atteggiamento filosofico che è pronto ad affrontare qualsiasi tipo di indagine senza veti e pregiudizi e in 100
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spirito di collaborazione. Quest'ultimo aspetto, se è considerato scontato tra gli scienziati lo è un po’ meno tra i filosofi. Non esiste, oggi, ricerca scientifica che non coinvolga più scienziati, mentre nell’ambito filosofico la tendenza alla ricerca individualistica stenta a tramontare, anche se, forse, Geymonat non tiene conto della particolarità della ricerca filosofica. Ma, il filosofo torinese non orienta i suoi interessi speculativi solo verso l'epistemologia o la ricerca filosofica in genere; è attratto, infatti, da altri aspetti che in una società moderna non sono meno importanti, ossia una visione libertaria della vita in contesti politici democratici. Tutto ciò aveva trovato una concretizzazione nella lotta partigiana, nella quale Geymonat aveva impegnato i suoi ideali, portandoli avanti anche nel dopoguerra con una militanza nelle file della “sinistra”, dapprima nel PCI, poi in Democrazia Proletaria, infine in Rifondazione Comunista. Nel 1988 pubblicò il libro La liberta che può essere definito il canto del cigno del grande studioso. In quest'opera affronta la tematica della libertà individuale nei suoi vari aspetti (pensiero, sentimenti, fantasia) e della libertà sociopolitica. Riguardo a quest’ultimo punto di vista scrive: “La libertà dei popoli degli Stati (che, per semplicità possiamo supporre Stati nazionali),suole venire identificata con la loro indipendenza, cioè con il fatto che furono essi a darsi le proprie istituzioni e sono ancora essi a modificarle se lo ritengono opportuno, senza essere a ciò costretti da forze straniere. Accadrà così che Stati diversi, se indipendenti, avranno istituzioni differenti, leggi differenti, ecc, che ciascuno Stato si sarà dato in via autonoma lungo il corso della propria storia”5. Ma, aggiunge subito dopo che la libertà del modello di Stato sopra accennato non è mai totale e ciò per vari 5
L. Geymonat, La libertà, Rusconi ed., Milano 1988, pag. 15.
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motivi. Ad esempio lo Stato in oggetto presumibilmente non si trova in un territorio isolato e, quindi, è soggetto alle influenze positive o negative degli Stati limitrofi. Inoltre, al suo interno esistono gruppi politici diversi che magari si richiamano a modelli esteri diversi, con ovvie differenze sui rispettivi concetti di libertà (l’Italia nel secondo dopoguerra ne è una testimonianza). A ciò si aggiunga che se uno Stato ha la presunzione di ritenere che la propria civiltà sia superiore alle altre, finisce per volere imporre il proprio modello ad altri popoli, coartando la loro libertà (per il passato vedansi le conquiste spagnole in America). Comunque, ritornando al modello di Stato in cui esistono le libertà individuali, è necessario che vengano precisate queste libertà. “Certamente la libertà dell’individuo ha i suoi notevolissimi pregi; ma la libertà per che cosa? Per sfruttare gli altri individui? Per imporre ed ogni costo il proprio predominio? Chi è vissuto sotto la dittatura fascista o nazista sa molto bene ciò che significava la libertà per i gerarchi di tali regimi, e non può avere dubbi che essa fosse un male. Non ha senso fare della libertà dell'individuo un mito se non lo si inserisce in un quadro di ben precisi doveri morali”6, scrive ancora Geymonat ed è convinto che la libertà presupponga la lotta per raggiungerla, in quanto la strada per conquistarla è costellata di ostacoli. E, se nei tempi passati il concetto di libertà era alquanto generico, oggi ha precisi significati che si riferiscono, in gran parte, nel raggiungimento di alcuni diritti, fra i quali certamente quello del lavoro. Ma, parlavamo di lotta interna ad uno Stato, sia fra Stati diversi; infatti la storia dell’umanità è una sequela di lotte, a volte molto violente che, pur realizzandosi con modalità differenti, difficilmente possono trovare giustificazioni morali. E allora dice Geymonat che non c’è alcuna differenza tra i «battaglioni della 6
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Ibidem, pag. 32.
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morte», magari spinti da fanatismo, e i bombardamenti «mirati» di intere città. Scrive, infatti, Geymonat: “Apparentemente l’operazione bellica razionalmente organizzata è meno violenta dell’azione mossa da fanatismo, anche se produce un maggior numero di morti (si pensi agli effetti dell'uso di gas tossici nella Prima Guerra Mondiale); proprio perciò l'attacco di soldati fanatici che si scatenano in un corpo a corpo crudele viene guardato con una certa aria di superiorità da chi è in grado di combattere con armi automatiche che non insanguinano le mani. Ma si tratta di varianti della violenza, che non ne mutano il carattere di fondo”7. La convinzione dello studioso torinese è che la violenza è presente in ogni società, sia pure in forme diverse, e che una società priva di violenza è purtroppo un'utopia. Tuttavia, bisogna evitare atteggiamenti disfattisti e operare perché nella società si coltivi una cultura libertaria, a cominciare dalla libertà di pensiero, dalla libertà di parola e dalla libertà di espressione in genere. Certo, i mezzi di comunicazione di massa possono incidere sulle nostre libertà di scelta e bisogna lottare per avvicinarsi quanto più possibile all'obbiettività, ma, per fare ciò, occorre un pensiero autenticamente libero, cioè privo di pregiudizi, superstizioni e «mode culturali», facendo tesoro delle esperienze negative del passato e proiettandosi progettualmente verso il futuro, dice Geymonat. Indubbiamente non sono pochi i sistemi politici (soprattutto quelli autoritari) che si difendono dall’incidenza degli uomini liberi e Geymonat individua quattro modalità con cui uno Stato tende a mantenere il proprio ordine interno: con le armi, con le leggi, con una sua presunta sacralità, mediante la propaganda. Ma, quando uno stato rivela tutta la sua autorità, soffocando 7
Ibidem, pag. 48.
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il cittadino, quest ultimo, secondo Geymonat, ha il diritto-dovere di destabilizzare l’ordine vigente, attuando automaticamente il suo ideale di libertà. E conclude: “cio che intendiamo combattere con la nostra analisi non è l’esistenza di un Potere, ma la sua trasformazione in qualcosa di intoccabile, cioè di un’entità metafisica. Difendere la libertà significa difendere il cambiamento, o almeno la possibilità di un cambiamento”8.
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Ibidem, pag. 103.
Norberto Bobbio
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La vita Norberto Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da una famiglia di estrazione borghese. Compiuti gli studi classici presso il Liceo D'Azeglio, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università degli studi della città natale, divenendo allievo di Gioele Solari, che sarà il suo relatore per la tesi di Filosofia del Diritto con la quale si laureerà nel 1931. Ma, Bobbio non ebbe interesse solo per gli studi giuridici; infatti si iscrisse alla Facoltà di Filosofia, conseguendo la laurea nel 1933. Dopo avere ottenuto la libera docenza nell’anno successivo, fu nominato all’Università di Camerino in qualità di incaricato di Filosofia del Diritto. L’Università di Siena lo vide fresco docente di ruolo nel 1938, ma, per le posizioni antifasciste, ebbe non pochi fastidi dal regime. Nello stesso anno prese parte alle prime forme organizzative del movimento liberal-socialista, assieme a Calogero e Capitini. Il periodo politicamente più fecondo fu quello in cui insegnò a Padova negli anni dal 1940 al 1948; perché proprio in questa fase assunse responsabilità dirette fondando nel 1942 il Partito d’Azione nel Veneto e impegnandosi attivamente nella lotta partigiana. Nel 1943 sposò Valeria Cova, che restò al suo fianco per 58 anni. Pur collaborando con il Partito Comunista Italiano, dirà più tardi che fu nei confronti di esso in posizione dialettica, nonostante apprezzasse gli ideali di libertà per i quali si batteva. 105
Quando furono indette le elezioni per 1’Assemblea Costituente partecipò ad esse nel Partito d’Azione, ma, in seguito alla sconfitta di questo ultimo, rinunciò ad una partecipazione diretta nella politica, anche se lo rivedremo attivo in due fasi sucessive, ossia nel 1953 all'interna del movimento di Unità Popolare e nel 1967 in occasione della nascita del Partito Socialista Unificato, Frattanto, per quanto attiene la sua attività didattica, era passato all’Università di Torino, dapprima alla Facoltà di Giurisprudenza, quindi a quella di Scienze Politiche, in qualità di docente di Filosofia della Politica. Dal 1961 al 1993 diresse il Centro Studi Piero Gobetti di Torino; mentre dal 1966 fu socio dell'Accademia dei Lincei. Uscito dai ruoli nel 1984, divenne professore emerito dell’Università di Torino. Nello stesso anno fu nominato senatore a vita da Pertini. Nel 2001 perdette la moglie, il che lo accasciò enormemente. Dopo una breve malattia cardiaca, è scomparso il 9 gennaio 2004, rinunciando, per coerenza di vita, ai funerali religiosi, ma escludendo di essere mai stato ateo o agnostico. Il suo fu un rapporto difficile con la Chiesa istituzionale non con Dio. Numerose le lauree “honoris causa” da lui ottenute in tutto il mondo. Vastissima la sua produzione: pubblicò oltre 9386 tra saggi, introduzioni, prefazioni, interviste, recensioni, ecc. Ecco il motivo per cui non li ho potuti citare in quest'opera. Il pensiero Norberto Bobbio, esponente del movimento liberalsocialista assieme a Calogero e Capitini, militò durante la lotta partigiana, nel Partito d’Azione che, a suo parere, aveva il pregio di essere antifascista, evitando gli estrernismi del Partito Comunista. E, tuttavia, il P.d.A. collabora106
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va con il PCI, ma anche con la D.C. nel comune impegno contro il regime fascista, ormai agonizzante, ma proprio per questo motivo più pericoloso. Il P.d.A, che aveva come fonte ideologica lo storicismo e una impostazione decisamente laica, nato dall’incontro di intellettuali, come Bobbio, che, nonostante non militassero in partiti consolidati, avevano come obbiettivo fisso l'abbattimento della dittatura e la rinascita della libertà in un sistema democratico. Per Bobbio certamente l’opera di ricostruzione delle coscienze italiane, all'indomani della fine della guerra, era un lavoro assai complesso a causa della desuetudine all’impegno politico diretto, dovuto a un ventennio oscurantista e soffocante. In particolar modo, a giudizio del filosofo torinese, il ceto medio sembrava il meno disponibile ad una partecipazione democratica attiva. Gli atteggiamenti che la borghesia assumeva potevano essere di due tipi: il politicantismo o l'apoliticismo. I promotori del politicantismo erano coloro che utilizzavano la politica per scopi personali e miravano a raggiungere posti di potere per desiderio di autoaffermazione economica e sociale; viceversa, i cosiddetti apolitici erano coloro che consideravano la politica una «cosa sporca» tout court e desideravano rimanerne fuori, pronti, d’altra parte, ad accettare qualunque governo pur di essere lasciati in pace e di godere di un lavoro sicuro. A questi inconvenienti si aggiungeva il settarismo politico, antica malattia italiana. Infatti, le posizioni di confronto tra partiti diversi diventano posizioni di scontro in cui ognuna delle parti cerca di affermare dogmaticamente la propria «verità», spacciandola sempre e comunque come l'unica verità. Ciò è quanto affermava Bobbio nel '46, ma anche ciò che sostenne sempre. Bisogna dargli atto di una grande coerenza. La vita politica, dunque, deve evitare eccessiva ideologizzazione se vuole essere costruttiva. “Se entra nel binario 107
morto delle ideologie, soprattutto quando le ideologie assumono pomposamente veste e decoro teologale, è costretta ad arrestarsi bruscamente prima di aver toccato la meta. Tra un’impostazione liberale e un’impostazione socialista del problema economico, una via di mezzo si può anche pensare che possa sussistere: ed è questa la via che, bene o male oggi, per ragioni contingenti o per motivi di principio, partiti dissimili e uomini diversi percorrono; purché questa via non presuma di essere una sintesi filosofica, ma voglia essere unicamente e semplicemente un fatto politico”1, scrive Bobbio nel dopoguerra. Alla fine del fascismo certamente si poneva il problema delle epurazioni dei funzionari fascisti dello Stato, ma il filosofo, saggiamente, più che un’indiscriminata e traumatica epurazione, consigliava un immediato impegno delle forze politiche per modificare le istituzioni in senso fortemente democratico, perché gli uomini passano, ma le istituzioni restano e, quando esse sono saldamente ancorate a principi e valori autenticamente democratici, gli uomini, anche quelli di formazione autoritaria, devono adeguarsi. Con ciò non escludeva il filosofo una «pulizia» nei vari ministeri, ma non poteva essere alimentata una politica di vendetta indefinitivamente, anche perché avrebbe innescato meccanismi pericolosi in un momento di equilibrio instabile. E l'obbiettivo comune doveva essere, invece, quello di creare un modello di Stato che non fosse più affidato a un numero ristretto di cittadini, ma che potesse contare su un allargamento del suffragio elettorale, estendendolo finalmente anche alle donne, nonché su un controllo costante e attento degli elettori, eliminando qualsiasi forma di privilegio. “Democrazia oggi vuol dire prima di tutto dare lo Stato ai cittadini, colmare per 1
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N. Bobbio, Tra due repubbliche, Donzelli ed., Roma, 1996, pag. 12.
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quanto è possibile il distacco tra individuo e Stato, riportare insomma lo Stato al livello degli uomini, portando il cittadino al governo, all’amministrazione non soltanto nei comuni, ma nelle fabbriche, nelle professioni, nella scuola, ecc., dando alla maggior parte degli individui direttamente, e non soltanto indirettamente, gli obblighi e le responsabilità del cittadino”2. Questa è la concezione della demoorazia in Bobbio. E insiste moltissimo sulla necessità che il cittadino non dia una delega in bianco al proprio rappresentante parlamentare, ma controlli responsabilmente ogni suo atto per tutto il periodo della legislatura. Affinché tutto ciò possa trovare la strada più corretta per la propria realizzazione è opportuno che da parte dello Stato si curi particolarmente l’educazione ai valori democratici, perché si crei in tutto il Paese un vero costume democratico. Ciò, a parere di Bobbio, trova elementi favorevoli nella opportunità che i partiti in contatto con le forze sociali collaborino fra di loro, evitando l'egemonia di un partito di centro, che non farebbe che alimentare privilegi. L'equilibrio e la stabilità si possono realizzare solo se la forma politica che deve gestire la cosa pubblica abbia un forte contenuto sociale. Un'utile opera può essere compiuta anche da coloro che, pur fuori dai partiti, non scelgono atteggiamenti qualunquistici, ma si impegnano in un’“opera di critica dell'attività e dell'ordinamento dei singoli partiti”. Ed è quanto ha fatto il filosofo torinese in tanti anni divenendo la coscienza critica italiana. Nei confronti dei possibili modelli di Stato, Bobbio distingue lo Stato etico da quello tecnico. Il primo manifesta una morale unica, superiore a quella degli individui e, a volte, anche in contrasto con essa; il secondo viene utilizzato da persone o gruppi per affermare il proprio potere e perché facciano passare una linea politica di opportunismo, sganciata 2
Ibidem, pag. 29. 109
dalla morale. Il modello che prospetta il filosofo è quello di uno Stato che non sia una divinità né una macchina. Gli scrive: “[...] lo Stato ha un limite, non è più un dio terreno e il suo volto minaccioso si trasforma in un volto benigno. E se entro quel limite lo Stato richiede la partecipazione dell'uomo, di tutti gli uomini, lo Stato non è più una macchina sovrapposta all’uomo, ma è l’uomo stesso nell’incontro col suo simile in una comune volontà di collaborazione. Nella liberazione degli idoli consiste il progressivo incivilimento dell'uomo”3. La Repubblica Italiana lui la vede su base federalistica, ritenendo il federalismo un elemento di profonda innovazione nella società contemporanea, fonte di rigenerazione dell’apparato politico europeo. Ma perché questo si attui è indispensabile che il processo avvenga contemporaneamente sia all'interno dei singoli Stati sia nell'ambito della Comunità Europea. Non vi è, infatti, alcuna possibilità che si affermi un federalismo europeo se permangono Stati fortemente accentrati, portatori di nazionalismi obsoleti. Ciò non significa smantellare lo Stato unitario, ma farlo uscire dal l’elefantiasi burocratica. Queste affermazioni si evincono chiaramente dalle opere del filosofo torinese, ma anche dall’attività di giornalista politico, iniziata sul giornale “Giustizia e Libertà”, organo del Partito d’Azione che, pur avendo vita breve (1945-46) ebbe un ruolo importante per la formazione della coscienza politica italiana dopo la dittatura fascista. Nei suoi articoli, da buon filosofo del diritto, valorizzava “il governo delle leggi rispetto al governo degli uomini”, esaltando la democrazia (non troppo ideologizzata) e il laicismo in opposizione al confessionalismo cattolico e comunista. Il modello politico cui si riferiva era quello inglese, forse per quell'elemento di moderazione che la politica anglosassone manifestava. Permaneva in Bobbio, in quel tempo, (ma la cosa non si 3
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Ibidem, pag. 85.
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sarebbe mai arrestata) una viscerale avversione nei confronti di tutte le dittature e, dopo avere combattuto quella fascista, spostava la sua attenzione nei confronti di quella comunista, pur avendo collaborato con i comunisti italiani lealmente, ai quali riconosceva il merito di avere lottato per la libertà del nostro Paese. Egli si chiedeva, come si riscontra nel libro De senectute: “[...] non era una dittatura anche il regime che era stato imposto da decenni nell'Unione Sovietica?”4. E, tuttavia, Bobbio non rileva che il regime fascista fu imposto, mentre quello comunista (pur discutibile) fu scelto dal popolo in seguito ad una rivoluzione. Comunque: “I comunisti furono in quegli anni avversari coi quali occorreva stabilire un dialogo sui grandi temi della libertà, della giustizia sociale, e soprattutto della democrazia, per resistere alla controffensiva allora forse sopravvalutata, della destra reazionaria”5. L'articolo Invito al colloquio pubblicato da Bobbio nel 1951 segna l’inizio del dialogo tra il filosofo e i comunisti, sulla base di un orientamento indirizzato verso l’affermazione dei diritti dell'uomo, dei quali il primo doveva essere quello della libertà. Questo convincimento si era consolidato in Bobbio anche attraverso la militanza nel socialismo liberale, che rappresentava la terza via (l’unica praticabile) tra capitalismo e comunismo. Quando il Partito Socialista prese le distanze dal PCI, accostandosi al centro, Bobbio ritenne conclusa una sua partecipazione diretta alla politica, allontanandosi per circa un ventennio da un suo impegno concreto che non significò, però, disinteresse per la politica (cosa de escludere categoricamente), ma osservazione di essa a distanza. Solo gli avvenimenti della contestazione giovanile 4 5
N. Bobbio, De senectute, Einaudi ed., Torino, 1966, pag. 130. Ibidem, pag. 131.
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del ’68 avrebbero «coinvolto» il filosofo, il quale visse il confronto col movimento studentesco prima nella sua Torino, poi a Trento. Ed anche se ebbe difficoltà a dialogare con esso, riconobbe che la contestazione aveva forse motivo di essere, tenuto conto che il modello di società prospettato dalle forze resistenziali e basato sulla affermazione di valori, come le giustizia e la libertà, non si era probabilmente realizzato. Ritornerà in seguito su queste asserzioni correggendosi. Intanto i problemi sui quali aveva basato la sua riflessione: democrazia, pace, diritti dell'uomo, torneranno spesso nei suoi scritti, non ultimo ne L'età dei diritti uscito nel 1990. Ciò che appare costante nei suoi lavori è la posizione di moderato, contro ogni estremismo, nonché quella di autentico democratico, anche quando la democrazia mostra le sue inefficienze. Scriverà: “La democrazia, e il riformismo suo alleato, possono permettersi di sbagliare, perché le stesse procedure democratiche consentono di correggere gli errori. L’estremista non può permettersi di sbagliare, perché non può tornare indietro. Gli errori del moderato democratico e riformista sono riparabili, quelli dell’estremista no, o almeno sono riparabili solo passando da un estremismo all'altro”6. Resta centrale nella sua visione democratica la concezione individualistica della società. La persona deve mirare alla propria autorealizzazione e non essere succube dello Stato. È lo Stato a dovere operare per il cittadino. Questa concezione è definita da Bobbio “individualismo etico” e si distingue dal modello comunista basato, invece, sulla piena realizzazione dell’individuo nella società. Altro tema importante, come dicevamo, è per Bobbio quello della pace che è visto da un'ottica particolare. Infatti, più che sviluppare le forme tradizionali 6
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Ibidem, pag. 148.
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di pacifismo (religioso, morale, politico) il filosofo propone il pacifismo giuridico che vede in un’entità giuridica superiore l’autorità preposta a giudicare chi ha torto e chi ragione, facendo rispettare le decisioni finali. Ciò consentirebbe una soluzione dei conflitti. Utopia questa? È possibile, ma presenta anche elementi di praticabilità (l'esperienza di Camp David, pur con gli ovvi “distinguo” potrebbe essere un esempio). Interessante è l'analisi che Bobbio fa del rapporto tra etica e politica, a cominciare dal mondo greco (anche se allora, esistendo tante teorie etiche, il problema assumeva una fisionomia particolare), per continuare con quello moderno che ha come perno centrale il pensiero di Machiavelli e pervenendo, infine, a tempi più recenti. L'etica politica è per il filosofo 1’etica di chi, facendo politica, non deve mirare come obbiettivo al governo tout court, ma al buon governo e, quindi, al bene comune. È questo il fine specifico perché, diversamente, 1’uomo politico perseguirebbe il bene proprio e, dunque, il malgoverno. Inoltre, va rivista la famosa espressione “Il fine giustifica i mezzi”. Scrive, infatti Bobbio, “Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato? Ogni fine che si proponga l’uomo di Stato è un fine buono? Non deve esserci un criterio ulteriore che permetta di distinguere fini buoni da fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buoni?”7. Ma se qualunque azione umana è soggetta a giudizio, a maggior ragione deve esserlo l'azione politica perché si possa esprimere valutazione di liceità o illiceità, senza fare confusione con il giudizio di idoneità o meno. Allora, a questo punto, il giudizio morale deve intervenire per distinguere e sottolineare un’azione politica 7 N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra ed., Milano, 1994, pag. 100.
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buona da una cattiva. Credo che Bobbio, con questa affermazione raggiunga il massimo di lucidità filosofica. Bobbio, comunque, affronta la problematica etica non solamente in relazione alla politica, ma nella sua accezione più completa. Egli pone la questione del problema del Male che, a suo giudizio, va visto non solo dal punto di vista di chi lo fa, ma anche di chi lo subisce. Apparentemente potrebbe sembrare che se c’è chi subisce il Male c'è chi lo ha inferto; ma non sempre il Male è il frutto di una violenza attuata da altri. Esistono le malattie fisiche e mentali che non possono certamente essere imputate ad alcuno. Esistono le sofferenze dovute alle guerre, ma anche esistono quelle dovute ai terremoti, alle alluvioni, ecc. Come si vede il problema è assai complesso e il filosofo lo presenta con tutte le difficoltà che lo caratterizzano. Indubbiamente la questione di fondo è se ci sia un'origine del Male. La teologia individuando in Dio il principio del Bene sostiene che il Male ne è la palese negazione. Bobbio, citando lo scrittore Hans Jonas, secondo cui Dio è fornito dei tre attributi di Bontà, Potenza e Comprensibilità (inconciliabili assieme) mette in risalto come, per questo scrittore, si può ammettere Dio come assolutamente buono e assolutamente onnipotente solo se lo si consideri assolutamente incomprensibile. Ma, Bobbio, a questa ipotesi, oppone una alternativa: accettare l'onnipotenza e la comprensibilità di Dio a discapito della Bontà assoluta, il che lo porrebbe al di là del Bene e del Male e non responsabile del Male del Mondo. Concludendo il pensiero di Bobbio, si può dire che, nonostante ritenesse di far parte della categoria di intellettuali legati alla formula del “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”, ritengo che chi come lui ha sempre creduto nei valori della giustizia, della libertà e della democrazia sembra manifestare fiducia negli uomini. 114
Eugenio Garin
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La vita Eugenio Garin è nato a Rieti il 9 maggio del 1909. Dopo aver frequentato il Liceo Classico “Galileo Galilei” di Firenze e avere attinto alle letteratura come fonte di formazione con opere come Guerra e pace, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov, si è iscritto nel 1925 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, nella quale diventa allievo di Ardigò. A quel tempo la corrente idealistica era abbastanza avvertita negli atenei italiani, e Firenze non si sottraeva a questa influenza, ora per contestarla, ora per condividerla Garin si accosta alla filosofia medievale grazie all'amico di studi Jacob Teicher, di origini ebree, nonché agli scritti della kabbala. Ma sarà il professore Ludovico Limentani che influirà notevolmente nella formazione filosofica del reatino. E, non a caso, questo filosofo, per le sue lezioni di Filosofia morale, adottava il testo La libertà di John Stuart Mill contro le restrizioni che già il regime fascista metteva in campo. Del resto, tutta la Facoltà rivelava il suo atteggiamento antifascista e ne facevano le spese Salvemini e De Sarlo: il primo veniva allontanato dall’insegnamento, il secondo veniva apertamente tacitato. Nel 1929 Garin consegue la laurea con una tesi di filosofia morale su Joseph Butler, relatore il professor Limentani. Lo studio di Cudworth e More spinge Garin ad interessarsi al Rinascimento, e da quel momento non 115
abbandonerà più l’analisi del movimento rinascimentale, affrontando particolarmente lo studio di Ficino e di Pico della Mirandola. Si accosta a quest'ultimo durante il suo insegnamento al liceo scientifico di Palermo e nel 1934 porta a compimento un saggio dal titolo Giovanni Pico della Mirandola uscito, però, solo nel 1937, dopo il suo trasferimento al liceo scientifico di Firenze. Nel 1938 ottiene l’incarico di Filosofia Morale e di Storia delle Filosofia Medievale presso l'università della città gigliata. Gli anni Quaranta saranno fecondi di pubblicazioni. Nel 1940, infatti, esce l'opera Filosofi italiani del Quattrocento nel 1941 Il rinascimento italiano, nel 1946 L’illuminismo Inglese. I moralisti, nel 1947 La filosofia italiana, nello stesso anno a Berna, con l’editore Francke, pubblica Der Italienische Humanismus, in cui presenta il pensiero italiano da Petrarca a Bruno, nel 1949, anno in cui ottiene la cattedra di Storia della Filosofia presso il Magistero di Cagliari, dà alle stampe il libro L’educazione umanistica in Italia, nell’anno successivo, ottenuto l’ordinariato di filosofia medievale a Firenze, pubblica Dal Medioevo al Rinascimento, nel 1952 L’Umanesimo italiano. Intanto, per iniziativa di Nicola Abbagnano, entra a far parte di un gruppo di filosofi che periodicamente si incontravano, scegliendo di volta in volta una tematica da trattare. Ciò lo mette in contatto con Bobbio, Dal Pra, Paci ed altri. Nel 1954 pubblica Medioevo o Rinascimento e l’anno dopo Cronache della filosofia italiana. Nel 1958 esce Studi sul platonismo medioevale e l’anno successivo La filosofia come sapere storico ripubblicato nel 1990. Del 1961 sono rispettivamente La cultura italiana tra 800 e 900 e La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Frattanto il filosofo aveva avvertito la necessità di una Storia della filosofia italiana e pubblica un’opera in tre volumi nel 1966. Interessante è l'excursus storico che fa Dal Rinascimento 116
all’Illuminismo: studi e ricerche. Nel 1970 e nel 1974 pone la sua attenzione su Intellettuali italiani del XX° secolo, in cui si sofferma su grosse porsonalità come Croce, Vailati, De Ruggiero, Codignola, Cantimori, Banfi, Curiel, Gramsci. Nel 1974 passa alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ma il nuovo oneroso impegno non gli impedisce un’ancor valida produzione. Un testo accattivante è Lo zodiaco della vita. Del 1975 è Rinascite e rivoluzioni. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento è del 1976 e nel 1978 esce a Bari Filosofia e scienza. Nel 1983 Il ritorno dei filosofi antichi. Del 1984 è Vita e opere di Cartesio, mentre del 1988 è Ermetismo del Rinascimento. Nel 1989 pubblica Umanisti, artisti, scienziati nel Rinascimento italiano.
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Il pensiero Eugenio Garin è storico della filosofia, tant’è che considera quest’ultima come l’insieme delle varie filosofie in una successione tale che l'ultima in ordine di tempo è “il risultato di tutte le precedenti”. Egli contesta a tanti studiosi la presunta necessità di possedere una filosofia prima di passare a una storia della filosofia. Anzi, per essere precisi, considera la “filosofia” dello storico come “la filosofia per eccellenza”, cioè una filosofia che è in continuo divenire e ricca di una molteplicità di pensieri. Non esiste una filosofia definitiva e assolutamente certa, nonostante i reiterati tentativi di alcuni pensatori di presentare la propria concezione con queste caratteristiche. Ma, le distinzioni e i contrasti fra le filosofie si giustificano proprio in un contesto interpretativo di tipo storico. “Che la storia non dà mai, e da sempre, risposta alle nostre domande: non ci dà mai risposte prefabbricate, ma ci aiuta sempre, attraverso una più articolata coscienza di noi e delle radici del nostro mondo, a dare 117
una risposta nuova a domande reali; ci aiuta a capire quali sono le domande che vogliono risposta; e come, e perché”1, scrive Garin. Ogni filosofia non nasce dalle precedenti, ma è l’espressione di situazioni reali che caratterizzano la vita umana, fatta di classi sociali, conflitti, idee, bisogni, richieste, aspirazioni. Si deve particolarmente ad Hegel se la filosofia si presenta come storia della filosofia. E, indubbiamente l’influenza hegeliana ha spesso determinato scelte didattiche di questo tipo. E, tuttavia, la posizione di Hegel sembra sclerotizzarsi nella convinzione che ogni sistema filosofico ha una sua collocazione; presenta, ognuno di essi, con criteri di veridicità. Scrive, però, Garin: “Le difficoltà intrinseche a cosiffatto «storicismo» sono state ormai così spesso rilevate, da Feuerbach in poi, che è inutile ripeterle. In verità la storicità diventa una semplice «figura» per indicare lo scandirsi del processo logico; il tempo di cui si parla, ben lungi dall'essere la sostanza stessa del reale, è la parvenza dell'eterno”2. Ma la storia della filosofia diventa così filosofia della storia e quest'ultima diventa logica. Garin trova un punto d'appoggio in Remo Cantoni che, nell'opera Umano e disumano alla pag. 29 dice: “I filosofi non spuntano dal terreno come funghi, sono il frutto della loro epoca, del loro popolo, i cui umori più sottili, preziosi e invisibili essi intessono nelle idee filosofiche”. Quindi, stretto collegamento tra i filosofi e la realtà che li esprime. Lo storico della filosofia deve, pertanto, capire questo nesso, interpretarne i linguaggi, intendere quanto i filosofi abbiano relazioni con gli uomini della realtà in cui vivono ed operano e quanto gli stessi uomini siano influenzati dal pensiero dei filosofi. 1 E. Garin, La filosofia come sapere storico, Sagittari Laterza ed., Bari, 1990, pag. 46. 2 Ibidem, pag. 56.
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I sistemi filosofici, dunque, possono determinarsi e acquisire una loro fisionomia nella misura in cui sono in relazione con le cose della vita. “È la storia della filosofia collocata nella storia umana, solidale con essa: storia degli sforzi critici di afferrare i nobili limiti entro cui è feconda l'attività umana; storia dei tentativi di formulare delle concezioni d'insieme capaci di presentarsi come interpretazioni unitarie di tutto l'orizzonte dell'esperienza umana e del suo significato”3. Fondamentale è per lo storico della filosofia l'utilizzo dei documenti che richiedono, da parte di chi vi fa ricorso, preparazione filologica e senso critico. In altre parole, lo storico deve «far parlare» i documenti; non basta, infatti, una lettura asettica di essi, ma è necessario farli rivivere. Il filosofo deve operare tenendo presente sempre la realtà degli uomini, il loro modo di ragionare e di agire. E così ha fatto Garin nella sua analisi storica del pensiero umano, fissando soprattutto il suo interesse sulla filosofia rinascimentale, senza per questo trascurare gli altri periodi, tra cui certamente il Novecento. Ma, proprio sul periodo rinascimentale che, indubbiamente, rappresenta un momento di notevole sviluppo culturale, il filosofo reatino ha le sue riserve, peraltro documentate, circa lo sviluppo socio-economico-politico. In altri termini, al progresso delle humanae litterae non corrisponde un'effettiva evoluzione della società, con un ritorno, veramente anacronistico, a strutture economiche semifeudali. Basti leggere le opere di Leon Battista Alberti per rendersi conto delle tristi condizioni in cui versavano le città. Né le iniziative e le proposte dei singoli umanisti riuscivano a scuotere la mentalità della gente; si pensi, ad esempio, agli inviti alla tolleranza, alla pace e alla fede di pensatori come Niccolò Cusano o Marsilio 3
Ibidem, pag. 77.
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Ficino, caduti completamente nel vuoto. Si incrementavano i processi alle «streghe» e la religione diventava pretesto di intolleranza. Dunque, per gli umanisti il ricorso alle aperture al mondo classico diventava un imperativo categorico, perché, proprio da quel «mondo», scaturivano modelli da riproporre. Ecco, quindi, la necessità dell'imitazione dell'antico che non significava, però, la riproposizione asettica del passato quanto una rilettura analitica di esso, senza dimenticare il Medioevo che rappresenta il primo momento di lettura dei classici. Grande ruolo riveste in questa nuova visione, per Garin, Francesco Petrarca come fulcro della rinascita del mondo antico e come promotore di un rinnovato spirito italico che gli fa scrivere nel 1345: “Latin sangue gentile/sgombra da te queste dannate some.../ I’ vo gridando: Pace, pace, pace”, versi della canzone Italia mia. Ma non meno importante fu l'opera dei suoi «eredi» Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, o di Poggio Bracciolini, scopritore e diffusore di codici fondamentali sottratti alle “carceri monastiche”. La Chiesa, in questo periodo, esce malconcia per le non poche colpe di corruzione, già denunciate da Petrarca e avvalorate, poi, dal Salutati nel periodo del conflitto con il papato di Avignone e dallo stesso Poggio Bracciolini che metteva in risalto l'ipocrisia dei monaci, dice Garin. La cultura, pertanto, subisce una vera e propria laicizzazione. Importante è l'interesse per il mondo ellenico diffusosi nelle grandi città come Milano, Venezia, Firenze e Roma, pur non significando imitazione pedissequa di esso. Scrive Garin: “Se l’imitazione sembra la parola d'ordine della nuova cultura, configurandosi ora come imitazione degli antichi ed ora come imitazione della natura, questa mimesi si trasforma in qualcosa di molto diverso: è, in altri termini, imitazione non già di forme e risultati raggiunti, ma dei processi per raggiungerli, 120
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del segreto dinamismo così delle cose come dei fatti culturali”4. C'è, quindi, un confronto fra il mondo classico e quello moderno. L'interesse per gli antichi coltiva lo spirito, ma non lo «asservisce», né è stimolato, ma non succube. L'uomo si sente libero e artefice del suo destino, in relazione con la natura e capace di impegnarsi nella vita civile. La cultura non può essere appannaggio di pochi e, a tal fine, scrive Garin: “I testi antichi devono circolare, devono essere messi a disposizione, perché il maggior numero di uomini possa attingervi una saggezza illuminante. Non più l'avaro possesso di un dotto solitario, ma biblioteche liberamente aperte”5; siamo lontani dai secoli bui. Ed effettivamente assistiamo a una vera diffusione della cultura, ma non solo nei palazzi dei mecenati, ma anche nelle case della borghesia e nelle botteghe artigiane. Come si puo immaginare grande fu il ruolo della stampa. Rinascono la poesia, la pittura, la scultura e tutte le altre arti liberali e mutano anche i metodi di insegnamento. Ma fulcro di questo fermento culturale non furono le università che, solo in un secondo tempo avranno un certo ruolo, quanto le scuole nate presso le corti, come era convinzione del grande studioso Guarino da Verona. Fu proprio costui che istituì una scuola privata di alto livello dove, oltre allo studio teorico, si faceva attività fisica. Grande spazio dà Garin alla trattazione di Machiavelli e del suo realismo politico, e infatti, scrive: “[...] c’è nella costruzione del Machiavelli uno sforzo singolare verso una veduta razionale della politica e della storia, su cui impiantare tecniche precise di condotta attraverso le quali possa affermarsi la libera iniziativa dell'uomo”6. Ed aggiunge: “[Egli]... trae fino in fondo le conse4
E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza ed., Bari, 1981, pag. 47. Ibidem, pag. 62. 6 Ibidem, pag. 96. 5
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guenze etico-politiche della crisi del mondo medioevale e della fine di una concezione della realtà”7. Non nasconde Garin il giudizio negativo di Machiavelli nei confronti della Chiesa, secondo cui quest'ultima avrebbe allontanato gli uomini dalla religione; giudizio, peraltro condiviso da Francesco Guicciardini. Ma ciò non significa che il Rinascimento intendesse soppiantare il Cristianesimo o pronuovere la diffusione di altre religioni, quanto, piuttosto, promuovere una moralizzazione della Chiesa, sconfiggere la corruzione del clero e alimentare una religione fatta di interiorità. Paradossalmente il Savonarola, invece, vedeva nel Rinascimento un elemento di crisi morale e religiosa della Chiesa. Garin considera Pico della Mirandola il pensatore più affescinante del Quattrocento. Di lui scrive: “Pico indica [...] il significato dell’uomo nella sua libertà; nel fatto che l’uomo è l’unico essere in natura che non sia condizionato da una specie, da una essenza. L'uomo è quello che si fa, il risultato delle sue opere e delle sue scelte. Per questo, e solo per questo, occupa una posizione privilegiata nell'universo”8. Leonardo da Vinci appare a Garin un personaggio emblematico, non un grande scienziato, ma piuttosto un grande statista. Su Bruno, Telesio e Campanella scrive: “La filosofia di Telesio, di Bruno e, domani, di Tommaso Campanella e, in parte, di Francesco Bacone, esprimeva lo sforzo di enucleare la concezione della realtà legata alle nuove indagini e alle nuove scoperte, fissando il metodo necessario per strutturarle e giustificarle: era la coscienza critica dei tempi nuovi”9. 7
Ibidem, pag. 99. Ibidem, pag. 135. 9 Ibidem, pag. 152. 8
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Come si vede da questa breve sintesi del lungo studio di Garin sul Rinascimento, l’interesse del filosofo è fortissimo per questo periodo straordinario dell'umanità, anche se con altrettanta forza si dedica ad altri periodi, come il secolo XX. Quest'ultimo periodo si presenta a Garin ricco di contraddizioni e, in ogni caso, molto articolato sia per gli aspetti socio-politici che caratterizzeranno il nostro Paese sia per quelli di ordine culturale, di respiro più vasto, e cioè europeo. Nel Novecento ci sono stati indubbiamente degli intellettuali di riferimento, non solo i «mostri sacri» Croce e Gentile, ma anche altri pensatori di alto livello culturale che, forse hanno avuto solo il «torto» di essere asistematici e per ciò meno seguiti e apprezzati. Garin ne indica alcuni: Vailati, De Ruggiero, Codignola, Cantimori, Banfi, Curiel; ma su tutti primeggiano ovviamente Croce e Gramsci. Riferendosi a Croce scive: “La sua incidenza profonda egli la ottenne con un dosaggio sapiente e tempestivo di prese di posizione e di giudizi diffusi attraverso la rivista «La Critica», o in collaborazioni a quotidiani, o per il tramite di periodici da lui ispirati, o che si rifacevano a lui (si pensi solo a «La Voce» di Prezzolini, dal 1908 in poi)”10. E ciò contribuì ad allontanare gli intellettuali meridionali dai problemi del Sud e dei contadini, in particolare, per inserirli in una più vasta area culturale, comprendente anche l'Europa. Croce si nutrì di cultura europea e si accostò ad Herbart, Dilthey, Simmel e Rickert, ma anche a Kant. Gentile lo aveva indirizzato allo studio di Hegel (che, per la verità, non amò molto) e Labriola allo studio di Marx (al quale si interessò, ma per un periodo limitato). Si esprime in termini drastici Garin nei confronti delle scelte antiscientifiche di 10 E. Garin, Intellettuali italiani del XX° secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag. 4.
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Croce. Scive, infatti: “Quella che al Croce continuò a sembrare «una tranquilla rivoluzione filosofica», ossia il rifiuto del valore delle scienze, non solo non era una rivoluzione, ma non era né filosofica né tranquilla: era una risposta mistificante a problemi reali, che finì con l’offrire facili formule alla pigrizia mentale”11. Questo atteggiamento, comunque, lo spinge ad interessarsi alla vita dello Spirito a cui dedicherà la sua vita. “La sua visione mondana - scrive Garin - il suo laicismo, il suo coerente rifiuto di ogni trascendenza, circoscrivendo nell'orizzonte terreno il significato dell'uomo, non potevano non portarlo a collocare al centro della sua riflessione le conseguenze di questa concezione del mondo: conseguenze particolarmente gravi per il «savio», che non ha più da pensare all'altro mondo, e a farsene annunziatore, guida ed esperto conoscitore. Qui è il suo posto, questo è il suo compito”12. E direi che questo giudizio dipinge veramente la personalità del filosofo di Pescasseroli. Quanto alla sua visione politica credo che non esista discorso più chiaro di quello pronunciato da Croce all’Eliseo il 21 settembre 1944 in cui disse: “[...] quel che si attiene al fascismo, quantunque io sia poco disposto ad odiare (l’odio è un troppo grave e doloroso peso), così violento e tenace è il mio odio per esso, in tutti i suoi aspetti, che questo sentimento non si placa neppure ora che esso è morto o mal vivo”. L'influenza del Croce si fece sentire anche su Gramsci, del quale condivideva l'aspetto immanentistico e storicistico della sua filosofia, ma, soprattutto, il fatto che avesse un’alta considerazione della cultura. Infatti, scrive Garin: “La rivolta di Gramsci è contro l'accettazione di stampo positivistico di una cultura inferiore, di grado più basso, per le classi lavoratrici. La 11 12
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Ibidem, pag. 24. Ibidem, pag. 54.
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rivoluzione si prepara attraverso un riscatto culturale, che deve essere realizzato al più alto livello”13. Lo stesso Gramsci dirà: “Il marxismo si fonda sull'idealismo filosofico... L'idealismo filosofico è una dottrina dell'essere e della conoscenza, secondo la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si conosce teoricamente, il nostro io stesso”. Certo questo non significa che dal punto di vista filosofico Gramsci possa essere definito crociano, anche se di quest'ultimo accettò l'antipositivismo. Per concludere, Garin ha una chiara visione del mondo intellettuale italiano e riesce a farlo emergere attraverso un'analisi storica di grande respiro.
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Ibidem, pag. 351.
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Appendice
Lettera di Norberto Bobbio all'Autore Torino, 18.2.96 La ringrazio dell'osservazione sulla compassione nel mondo animale, fatta dalle sue alunne. Dica loro che l'ho apprezzata, anche se la “pietà” forse andrebbe distinta dalla compassione. Soprattutto mi ha favorevolmente sorpreso, direi addirittura commosso (i vecchi, come lei sa, e sanno per esperienze familiari le sue allieve, si commuovono facilmente), il fatto stesso che abbiate discusso quel tema, così poco scolastico, della compassione o pietà di una gattina. Le spedisco a parte la bibliografia dei miei scritti, recentemente uscita. Se lo crede può ragguagliarmi sul suo lavoro, ma io non intendo interferire in alcun modo. (Ho tardato a rispondere perché in questo mese sono stato poco bene per una caduta. Roba... da vecchietti!). Un affettuoso saluto alle sue allieve, e, naturalmente, al loro professore. NORBERTO BOBBIO
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