Euroscettici. Quali sono e cosa vogliono i movimenti contrari all'Unione Europea [1 ed.] 9788800748094


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Italian Pages 178 [184] Year 2019

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Euroscettici. Quali sono e cosa vogliono i movimenti contrari all'Unione Europea [1 ed.]
 9788800748094

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DENTRO LA STORIA

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I volumi della collana sono sottoposti alla valutazione preventiva di referee anonimi

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Carlo Muzzi

Euroscettici Quali sono e cosa vogliono i movimenti contrari all’Unione Europea

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© 2019 Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-00-74809-4

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Coordinamento redazionale Alessandro Mongatti Realizzazione editoriale Alessandro Mongatti Impaginazione Maria Rosa Saporito Progetto grafico Alfredo La Posta Progetto copertina Alfredo La Posta Prima edizione Maggio 2019 Ristampa 5 4 3 2 1 2019 2020 2021 2022 2023 La realizzazione di un libro comporta per l’Autore e la redazione un attento lavoro di revisione e controllo sulle informazioni contenute nel testo, sull’iconografia e sul rapporto che intercorre tra testo e immagine. Nonostante il costante perfezionamento delle procedure di controllo, sappiamo che è quasi impossibile pubblicare un libro del tutto privo di errori o refusi. Per questa ragione ringraziamo fin d’ora i lettori che li vorranno indicare alla Casa Editrice.

Le Monnier Università Mondadori Education Via Raffaello Lambruschini, 33 – 50134 Firenze Tel. 055.50.83.223 www.mondadorieducation.it Mail [email protected] Nell’eventualità che passi antologici, citazioni o illustrazioni di competenza altrui siano riprodotti in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi.

Lineagrafica s.r.l. – Città di Castello (PG) Stampato in Italia – Printed in Italy – Maggio 2019 In copertina: Un membro dell’UK Independence Party (UKIP) © OLI SCARFF / AFP /Getty Images.

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Indice Prefazione di Cas Mudde Introduzione Il nucleo storico Scandinavia La sinistra europea del Fronte Sud L’Europa dell’Est allo scontro La Brexit Una guerra di religione

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1. L’Europa e i suoi critici Il populismo Un fenomeno globale Bruxelles nel mirino populista La sinistra antieuropeista Gli euroscettici Il miraggio di un fronte unito

11 11 14 16 17 18 20

2. Francia Tra Front national e Rassemblement national Intervista a Louis Aliot

23 27

3. Olanda Partij voor de vrijheid – Il Partito di Geert Intervista a Marcel De Graaff

35 38

4. Belgio Vlaams belang – Fiandre e populismo Intervista a Tom Van Grieken

47 50

5. Svezia Sverigedemokraterna – Gli ultimi arrivati sulla scena scandinava Intervista a Mattias Karlsson

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Indice

6. Finlandia Perussuomalaiset – La tradizione populista finlandese Intervista a Jussi Halla-aho

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7. Ungheria Jobbik – L’estrema destra anti-Orban Intervista a Martón Gyöngyösi

79 82

8. Spagna Podemos – Dagli Indignados alle soglie del governo Intervista a Juan Carlos Monedero

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9. Grecia Syriza – Populisti diventati pragmatici Intervista a Afroditi Theopeftatou

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10. Regno Unito UKIP – I cavalieri della Brexit Intervista a Nigel Farage

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Appendice. I partiti euroscettici in Europa

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Note

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Prefazione

Di questi tempi tutti parlano di populismo. Dall’Austria agli Stati Uniti, da Atene a Stoccolma, il dibattito politico si incentra sullo scontro tra un populismo rinvigorito e uno status quo sotto attacco. Non c’è dubbio che continuerà ad essere il filo conduttore dell’informazione politica almeno fino alle elezioni Europee del maggio 2019. Se il populismo è un fenomeno relativamente nuovo per la maggior parte delle democrazie occidentali, in Italia ha una storia molto più lunga. Il primo partito populista europeo del Secondo dopoguerra, seppur con vita breve, è stato il Fronte dell’uomo qualunque di Guglielmo Giannini, che fece parte dell’Assemblea Costituente del 1946, per poi finire nell’oblìo politico pochi anni dopo, contribuendo a creare l’immagine stereotipata del ‘partito lampo’ populista, che oggi c’è e domani non c’è – una categoria rafforzata successivamente dai Puojadisti francesi e dal Fremskridtspartiet danese. Circa quattro decadi più tardi, Silvio Berlusconi entrò nella politica italiana con il suo Forza Italia, un partito più associato al populismo che alla sua ideologia di riferimento, il neoliberalismo. Dall’ascesa di Donald Trump in poi, Berlusconi è stato considerato sempre più come l’apripista dei populisti contemporanei. La questione è comunque controversa. Anche in Italia c’è stato precedentemente un partito populista moderno, la Lega Nord di Umberto Bossi, che lo stesso Berlusconi aiutò a diventare il partito dominante di oggi. E in Europa parecchi partiti radicali di destra si trasformarono da elitari in populisti negli anni Ottanta, in particolare il Front national francese (FN) e il Vlaams blok belga (VB). Contemporaneamente, la fonte del populismo europeo della fine del XX secolo non fu la destra, ma la sinistra. Dalla fine VII

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Euroscettici

degli anni Settanta il Movimento socialista panellenico (PASOK) ha dominato la politica greca, unendo populismo e socialismo in uno stato clientelare, abbattuto alla fine dalla Grande crisi del 2008. Ed è stata la Grecia ad essere il centro del secondo momento populista di sinistra, quando la coalizione della sinistra radicale (Syriza) ha sfidato la politica d’austerità della Troika (UE, BCE e FMI), facendo diventare Syriza il polo della sinistra populista nel sistema partitico greco. A loro si è poi aggiunto Podemos in Spagna, una versione più intellettuale del populismo di sinistra, profondamente influenzato sia da due studiosi del populismo residenti nel Regno Unito (il compianto Ernesto Laclau e Chantal Mouffe), sia da esponenti politici populisti dell’America Latina, in particolare il venezuelano Hugo Chavez. Oggi, in tutta Europa i partiti populisti ottengono in media il 20% di voti. La gran parte dei partiti populisti è di destra, principalmente una destra populista radicale, come il Partito della libertà austriaco (FPOE) o il Partito del popolo svizzero-Unione democratica di centro (SVP-UDC), ma ci sono anche populisti neoliberali (come il Partito del progresso norvegese). L’ondata populista di sinistra, ampiamente prevista dai giornali di sinistra come The Guardian, non è mai veramente decollata. Eccetto Podemos e Syriza, la maggior parte dei populisti di sinistra sono ex partiti radicali di sinistra o politici che si sono reinventati con una (leggera) svolta populista – si pensi a Jean-Luc Mélenchon in Francia o Oskar Lafontaine e Sarah Wagenknecht in Germania. L’ascesa del populismo ha attratto un’attenzione esagerata nel mondo accademico e giornalistico. Oltre a migliaia di articoli sui giornali e a centinaia di saggi su riviste accademiche, continuano ad uscire molte nuove pubblicazioni in tutte le lingue. Nella maggior parte di questi libri i populisti sono messi in secondo piano. Quasi tutti gli scritti accademici sono per lo più astratti e teorici, al massimo misurano i comportamenti e gli aspetti socio-demografici degli elettori dei populisti. La maggioranza degli articoli di giornale attingono al racconto che i social media fanno del populismo, cercando di ravvivare il tutto con un aneddoto, una citazione o uno slogan. Solo pochi autori, sia accademici sia giornalisti, si sono confrontati veramente con il programma populista. Per questo il libro di Carlo Muzzi è tanto interessante e unico. Anziché parlare dei populisti, parla con loro. Finalmente possiaVIII

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Prefazione

mo conoscere il populismo attraverso le parole degli stessi populisti. Inoltre, sentiamo parlare populisti sia di destra sia di sinistra, sia del Nord sia del Sud dell’Europa e persino una leader populista. Le interviste ci offrono una più profonda comprensione dei loro programmi, ma anche delle loro mentalità. Questo libro ci mostra che se tutti condividono le stesse lamentele e gli stessi nemici, hanno però alleati e obiettivi ben diversi. È proprio questa complessità, espressa attraverso le parole degli stessi populisti, a fare di questo libro una lettura importante oltre che avvincente. Cas Mudde

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Introduzione

Il 14 settembre 2016 il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, nel suo discorso sull’Unione1 di fronte al Parlamento Europeo ha sostenuto che l’Europa sarebbe in preda ad una crisi esistenziale. Bruxelles era appena stata scossa dalle fondamenta per il risultato del referendum sulla Brexit del 23 giugno e sei mesi prima, con la ratifica di un accordo con il presidente turco Erdogan, era riuscita a chiudere faticosamente la rotta balcanica dei migranti che non solo aveva riversato nel Vecchio Continente oltre 1,5 milioni di richiedenti asilo, ma aveva soprattutto messo in luce gli egoismi dei singoli Stati europei, non disposti ad accollarsi i costi dell’accoglienza e della gestione di quello che era parso come un vero e proprio esodo. Ma Juncker in quell’occasione si è detto preoccupato soprattutto per l’incapacità dei governi di fare scelte nell’interesse europeo, privilegiando piuttosto l’interesse nazionale o addirittura l’obiettivo politico di essere riconfermati alle elezioni successive. Una delle ragioni di questo sbandamento, di questa uscita dai binari della solidarietà quale pilastro di un disegno più di lungo periodo che dovrebbe condurre verso un’UE più forte e politicamente più unita, sarebbe l’emergere e l’affermazione delle forze populiste in Europa2. Forze che seppur non al potere – con qualche eccezione tra cui l’Italia pentaleghista guidata dal Governo del cambiamento (ma nel 2016 c’era ancora il governo Renzi), oltre ad Austria, Ungheria e Polonia – sono riuscite a influenzare il dibattito interno e l’agenda politica di ogni Stato. Forze populiste che hanno storicamente nel mirino l’Europa come un concentrato di tutto ciò che non è nell’interesse del popolo di cui si definiscono rappresentanti autentici. Forze populiste che dopo il voto 1

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sulla Brexit hanno cominciato a ipotizzare referendum in ogni Stato per abbandonare sia l’Euro sia l’UE. E che soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump alle presidenziali americane del 2016 hanno trovato, quasi per uno scherzo della storia, un nuovo fortissimo alleato nel progetto di destrutturazione dell’attuale Unione Europea. È chiaro che non è questa l’occasione per ragionare né sui rapporti euroatlantici con l’amministrazione Trump né su una storia complessiva dei partiti populisti europei. Piuttosto l’obiettivo è quello di presentare le posizioni di alcuni movimenti politici europei che sono marcatamente euroscettici ed eurocritici. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta dunque di populisti e che quindi questo libro di fatto parla dei partiti populisti europei: se non della loro storia, quantomeno delle loro posizioni. È vero solo in parte, perché tutti i populisti sono euroscettici, ma non tutti gli euroscettici sono populisti. Per una questione di chiarezza sarà quindi necessario capire chi sono i populisti e definire che cosa è il populismo europeo. Un compito non facile se si considera che le pubblicazioni sul tema, negli ultimi anni, sono letteralmente esplose e che sulla definizione il dibattito è aperto tra chi sostiene che si tratta semplicemente di un modello comunicativo, uno stile di fare politica e chi lo identifica con una vera e propria ideologia. Sarà anche necessario individuare una definizione di euroscetticismo, ma quello appare un compito decisamente più semplice, perché piuttosto che di un’ideologia si tratta di un atteggiamento, un approccio politico che si aggiunge alle differenti ideologie che caratterizzano un determinato movimento politico. Di questo tratteremo nel Capitolo 1 del volume cercando di dare una definizione per quanto possibile chiara e netta del populismo, ma anche appunto dell’euroscetticismo. In ogni caso è un fatto che l’Unione Europea di oggi può vantare un numero di detrattori crescente soprattutto al suo interno. L’ultimo rapporto Eurobarometro commissionato dal Parlamento europeo alla società Kantar Public3 indica che oltre la metà degli europei intervistati (un campione di oltre 27mila persone) sostiene che i nuovi partiti antisistema e populisti possono trovare soluzioni migliori rispetto a quelli tradizionali, che sono genericamente considerati establishment, e addirittura il 56% ritiene che questi nuovi movimenti possano portare ad un reale cambia2

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Introduzione

mento. In Italia in particolare lo ritiene il 71% degli intervistati (il livello più alto in tutta l’UE alle spalle solo della Croazia). Insomma è giusto interrogarsi su quali siano le reali posizioni di coloro che vengono visti come il nuovo e come il cambiamento. L’obiettivo di questo libro è quindi quello di presentare attraverso una serie di interviste il punto di vista dei rappresentanti dei movimenti euroscettici per capire quali sono davvero le ragioni e gli obiettivi dei partiti che nella quasi totalità degli Stati europei immaginano un ritorno ad un’Europa precedente al Trattato di Lisbona e addirittura precedente al Trattato di Maastricht. Sono state scelte figure politiche di movimenti che potessero essere rappresentative delle varie aree geografiche dell’Unione e di Paesi che per le loro peculiarità possono essere simbolici del fenomeno che sta attraversando l’Europa. Purtroppo nella fase di preparazione di questo volume c’è stato chi ha dato forfait o ha evitato quasi scientificamente di essere coinvolto, così ai rifiuti dei Popolari danesi, dei polacchi di PIS e degli ungheresi di Fidesz ma anche di Movimento 5 Stelle e Lega, si sono aggiunti anche i rappresentanti di Alternative für Deutschland. Il partito tedesco è sicuramente tra quelli più interessanti da un punto di vista politico e politologico, non solo sono tra gli ultimi arrivati sulla scena europea, ma alle elezioni federali del 2017 hanno ottenuto uno straordinario risultato portando al Bundestag ben 92 deputati. Si candidano ora ad essere protagonisti alle elezioni europee del 2019 anche alla luce delle difficoltà della Grosse Koalition e della lenta erosione del consenso della cancelliera Angela Merkel. Il nucleo storico Venendo, quindi, ai protagonisti di questo volume, un primo gruppo di partiti è legato agli Stati fondatori dell’Unione Europea. Paesi nei quali l’euroscetticismo è più radicato e in cui negli anni è montata la critica all’Unione Europea, quando ancora si chiamava Comunità Europea. Quindi non poteva mancare il Front national, il partito francese fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen che nel 1984 ha iniziato la sua battaglia contro l’Europa unita, oggi presieduto dalla figlia Marine che ne ha cambiato il nome in Rassemblement na3

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tional, in occasione del congresso dell’11 marzo 2017. L’ex vicepresidente del Front national, Louis Aliot, oggi membro dell’esecutivo del neonato partito, è il protagonista dell’intervista che compare in questo volume. Il partito frontista ha rappresentato a lungo un riferimento per tutti gli altri movimenti europei sovranisti. Come vedremo i frontisti, o quelli che oggi dovremmo definire membri del Rassemblement national, cercano in De Gaulle il proprio padre nobile, o quanto meno dichiarano di ispirarsi all’idea di Europa che aveva anche il Generale. Idea che sarebbe stata tradita dai Presidenti francesi che gli sono succeduti. È la volta poi di Marcel De Graaff, copresidente al Parlamento europeo del gruppo ENF (che comprende oltre al Front national anche la Lega), che rappresenta il partito olandese PVV (Partij voor de vrijheid, il Partito per la libertà) di cui è presidente Gert Wilders. Quest’ultimo, insieme a Marine Le Pen, è uno dei volti più noti e più controversi del nazional-populismo europeo. Completa questa ideale terna il belga Tom Van Grieken, che è presidente del Vlaams belang, il blocco fiammingo, partito nazionalista ed identitario, nato sulle ceneri del Vlaams blok, dopo che questo venne messo fuori legge all’inizio degli anni Duemila. Il VB vorrebbe rappresentare gli interessi di quella che si definirebbe una piccola patria (le Fiandre) che ambisce ad essere Stato. È interessante considerare come, mentre il Vlaams belang invoca l’autodeterminazione, realtà analoghe come i movimenti indipendentisti di Scozia o Catalogna ambiscano ad entrare nell’Unione Europea abbandonando lo Stato nazionale di cui fanno parte, ma all’interno di un’Europa per così dire riformata dove gli Stati hanno riacquisito tutta la sovranità che hanno fino ad oggi concesso a Bruxelles. Scandinavia Compaiono, poi, due dei tre principali partiti euroscettici scandinavi. Il Nord Europa nel Secondo dopoguerra ha vissuto tre differenti ondate di populismo che hanno interessato prima la Finlandia (tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta), poi Danimarca e Norvegia (negli anni Settanta) ed infine la Svezia negli anni Ottanta4. Ora i partiti eredi di quei movimenti sono convintamente euroscettici e sono tra le voci più critiche nei confronti 4

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Introduzione

di Bruxelles oltre che essere in grado di influenzare le politiche di propri governi nazionali. Mattias Karlsson è il capogruppo al Riksdag svedese di SD, Sverige demokraterna, (i Democratici svedesi). Il movimento ha tra le proprie priorità l’uscita della Svezia dall’Unione Europea e le sue proposte sull’immigrazione hanno influenzato anche i socialdemocratici e gli altri partiti principali, che fino a qualche anno fa avevano costruito una sorta di cordone sanitario attorno ad SD. Restando in Scandinavia il secondo protagonista è Jussi Halla-aho presidente del partito finlandese PS, il Perussuomalaiset, partito erede del primo movimento populista nordico – il Partito rurale fondato nel 1959 da Veikko Vennamo e andato in bancarotta negli anni Novanta. Halla-aho è una figura abbastanza controversa, ha ricevuto denunce ed è stato multato per dichiarazioni a sfondo etnico, ma dall’estate del 2017 ha preso la guida del partito dopo la frattura interna con lo storico leader Timo Soini, che ha lasciato il PS per fondare un altro movimento che ha permesso al governo finlandese in carica di arrivare fino alle elezioni politiche del 2019. La sinistra europea del Fronte Sud Quando si parla di euroscetticismo il rischio è quello di affrontare il tema solo da una prospettiva di destra o focalizzandosi solo sui nazional-populismi. Nei Paesi dell’Unione Europea esistono movimenti di sinistra apertamente eurocritici: non mi riferisco a sparute realtà extra-parlamentari, ma a partiti che negli anni hanno ottenuto successi elettorali nei Paesi di appartenenza. A partire da Podemos, il movimento politico che dopo l’esperienza di piazza degli Indignados è presto salito alla ribalta della politica spagnola. Juan Carlos Monedero è stato uno dei co-fondatori di Podemos, di cui è stato il Segretario costituente tra il 2014 e il 2015, quando ha lasciato il partito contestandone la trasformazione da movimento a partito decisamente più tradizionale. La sua intervista offre moltissimi spunti interessanti su quella che potrebbe essere definita la critica marxista all’Unione Europea. Da politologo fornisce anche un’interessante distinzio5

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ne tra il populismo cosiddetto «di destra» e il populismo «di sinistra». Ma resta il fatto che Podemos e il caso dei greci di Syriza non possono essere considerati populismi, ma movimenti eurocritici di sinistra. In particolare, il partito da cui proviene Alexis Tsipras, pur essendo stato indicato come un partito populista di sinistra, nelle parole della sua capogruppo al Parlamento, Afrodite Theopeftatou, mostra una posizione critica nei confronti dell’Europa, ma allo stesso tempo fiduciosa sulle possibilità di rilancio dell’Unione, cose che al contrario non mostra Monedero né tanto meno i rappresentanti politici dei movimenti nazional-populisti che compaiono nelle altre interviste. L’Europa dell’Est allo scontro Un fenomeno politico che si è fatto largo in questi ultimi anni è stato sicuramente il solco sempre più profondo che si è venuto a creare all’interno dell’Unione Europea tra Bruxelles, intesa come centro dell’istituzione, e l’Europa dell’Est. In particolare i quattro Paesi dell’ex blocco sovietico che hanno fatto il loro ingresso nell’UE nel 2004 – Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca – hanno subito iniziato ad assumere una posizione profondamente critica rispetto ad alcune scelte europee. Con il G4 o gruppo di Visegrad i motivi di frizione sono molteplici e hanno portato alla nascita di una nuova frattura (quasi ce ne fosse bisogno) in Europa: dopo la divisione Nord-Sud ora si può tranquillamente parlare di una frizione Est-Ovest. I punti di scontro sono sostanzialmente due: migranti e stato di diritto. Sulla gestione dei flussi migratori i quattro Stati dell’Est si sono opposti alle politiche di ridistribuzione dei migranti e hanno fatto della difesa dell’identità nazionale una delle priorità della propria azione politica. Contemporaneamente a livello interno, in particolare in Ungheria e in Polonia, si è consumato un duro scontro tra poteri dello Stato con l’esecutivo che ha cercato a più riprese di mettere sotto il proprio controllo il potere giudiziario. Nelle pagine seguenti compare un’intervista a Marton Gyöngyösi che è vicepresidente di Jobbik, Movimento per un’Ungheria migliore. Si tratta del partito che oggi rappresenta la principale forza di opposizione al premier ungherese Viktor Orban e al suo 6

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Introduzione

partito, Fidesz. Nelle parole del capogruppo al Parlamento ungherese emergono tutti i temi e tutte le ragioni di scontro tra i Paesi di Visegrad e l’Unione Europea. Jobbik inizia il suo percorso politico su posizioni molto più reazionarie rispetto a Fidesz e a Orban, ma oggi in Ungheria, dove si sta realizzando l’esperienza di quella che si potrebbe definire una democrazia illiberale, rappresentano l’argine politico interno principale all’avanzata del premier ungherese. La Brexit Non poteva mancare in un lavoro dedicato all’euroscetticismo un capitolo dedicato alla Brexit e a chi ne è stato il principale protagonista: Nigel Farage, l’unico leader dello Ukip, United Kingdom independence party. Per capire la portata del fenomeno Brexit basta sottolineare come tutti gli euroscettici e i populisti europei abbiano guardato al referendum britannico che ha sancito l’uscita di Londra dall’UE come una vittoria collettiva. Tutti lo citano, tutti vorrebbero replicarla nel proprio Stato e come spesso accade nelle cose politiche la percezione gioca un ruolo maggiore di quanto faccia la realtà. Dal 2016 ad oggi se la narrazione è stata quella di un’Europa sconfitta dagli inglesi che si sono riappropriati della propria sovranità, la realtà appare un po’ differente. Il governo May è passato attraverso un voto anticipato che ne ha ridimensionato la forza, il Partito conservatore è fiaccato al suo interno da un’ala hard brexiteer (guidata dall’ex ministro degli Esteri Boris Johnson) e da una componente più soft. Dopo la baldanza iniziale poi gli inglesi si sono presto resi conto che l’Unione Europea non è disposta a fare sconti né dal punto di vista economico finanziario né da quello normativo sulle quattro libertà su cui si fonda il mercato unico dell’UE5, perché come ha avuto modo di dire Jean-Claude Juncker: «L’Europa è una potenza mite, ma non dobbiamo essere ingenui». In questa cornice si inserisce la voce critica ed aspra di Nigel Farage, che del referendum per l’uscita del Regno dall’UE è stato il primo promotore. Uno dei rappresentanti di punta dell’euroscetticismo, che riesce a fornire tra le mille suggestioni alcune letture lucide dell’attuale scontro che vede al centro l’Unione Euro7

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pea. Nigel Farage parla di una guerra di religione tra due fazioni contrapposte, un’immagine molto forte ma che ben illustra quale sia la posta politica in palio per l’Europa e i suoi sostenitori, ma anche per i suoi critici. Per ora hanno sempre vinto gli europeisti, ma cosa succederebbe se dovessero vincere gli euroscettici? Una guerra di religione L’obiettivo di questo libro vorrebbe essere quindi quello di fornire strumenti interpretativi a coloro che considerano l’Europa ancora l’unica soluzione per tenere al riparo gli Stati e i cittadini europei dalla violenza della politica internazionale. In effetti le relazioni internazionali sono un luogo oscuro, fatto di violenza e disperazione, in cui vige lo stato di natura hobbesiano. Scomodando Tucidide il dilemma nelle relazioni tra Stati è dominare o essere dominati. L’Unione Europea è oggi una superpotenza6 da cui i 27 Stati membri possono trarre beneficio e sotto il cui ombrello gli europei possono mettersi al riparo dalle continue tempeste che scuotono la politica internazionale. Certo il suo problema è intrinsecamente legato alla sua storia, è un artificio giuridico, economico e politico e in questo risiede la sua debolezza. Tornare ad un semplice sistema di Stati europei rischia di mettere i nostri Paesi alla mercé di superpotenze come Russia, Stati Uniti e Cina. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può ignorare che in tutti gli Stati europei si stiano affermando movimenti politici che vogliono destrutturare l’attuale architettura europea. Ma soprattutto che il consenso per questi partiti sta crescendo e si sta radicando un’opinione pubblica avversa all’Europa unita. Ma certo spesso non c’è tempo per andare oltre i semplici slogan contro l’Europa. Ritengo che sia invece utile capire cosa davvero pensano i leader euroscettici, quali siano i riferimenti politico-filosofici che stanno dietro questi movimenti. Sarebbe troppo superficiale pensare che gli euroscettici siano semplicemente opportunisti politici che hanno come unico obiettivo quello di cavalcare il malcontento dell’elettorato per un risultato elettorale. Questo volume va quindi considerato come un viaggio nell’Europa che non si riconosce nel sogno federalista. Ad ogni tappa si troveranno delle 8

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Introduzione

costanti, delle singolarità, ma soprattutto le ricette per un’Europa diversa da quella che conosciamo oggi. Non è nemmeno detto che l’Europa immaginata che compare nelle prossime pagine sarebbe sostenibile politicamente ed economicamente o realizzabile dal punto di vista normativo (probabilmente richiederebbe grande fantasia, almeno tanta quanta ne è servita per costruirla fino ad oggi). Siamo quindi nel campo delle idee e dei manifesti politici dei principali euroscettici del Vecchio Continente. Contrapposti a loro ci sono i partiti considerati tradizionali che sono gli eredi delle famiglie politiche del secolo scorso: il loro consenso è previsto in calo. Ed è proprio quando un soggetto politico si percepisce più debole che diventa più aggressivo per difendere il proprio potere. Lo scontro è dunque inevitabile: le forze europeiste sono destinate ad entrare sempre più in conflitto con gli euroscettici, siano essi nuovi arrivati o partiti nazionalpopulisti, che vanno a comporre un fronte antieuropeista sempre più rumoroso e deciso.

Ringraziamenti L’idea di questo volume nasce da lontano quando, tra l’ottobre e il novembre 2015, mi trovavo all’Università di Turku ospite del Dipartimento di Politica per approfondire il populismo finlandese e più in generale il populismo scandinavo. Ma questo libro non sarebbe stato possibile senza Fulvio Cammarano, a lui va la mia più profonda gratitudine anche per avermi sollecitato ad approfondire i temi del populismo e dell’euroscetticismo, ma soprattutto per aver creduto in me. Dopo 25 anni quello che era un mio professore è diventato un mentore, ma soprattutto un amico. Un ringraziamento sentito anche ad Alessandro Mongatti responsabile della Mondadori Education che ha pazientemente aspettato il manoscritto, ma non per questo ha fatto mancare sostegno ed appoggio. Ringrazio tutto il gruppo docente del dipartimento di Politica dell’Università di Turku, in particolare Matti Wiberg e Henri Vogt. Ho incontrato il professor Cas Mudde in un caldissimo mattino di giugno a Firenze e la lunga chiacchierata che ne è scaturita mi ha fornito spunti e molte sollecitazio9

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ni. Gli sono molto grato per aver dato il suo contributo a questo mio lavoro con una prefazione. Nel corso di quello che considero un viaggio nel lato oscuro della forza (politica), ho avuto modo di incrociare ed essere aiutato da molte persone che mi hanno permesso di incontrare ed intervistare i protagonisti di questo libro. Li cito in ordine sparso ma senza tralasciare nessuno: Mikael Bystedt, Sanni Kulkki, Hermann Kelly, Ágnes Pánczél, Rania Messiha, María del Vigo, Arnold Sadhinoch, Giannis Loffreda. Un ringraziamento anche all’ufficio di collegamento del Parlamento europeo in Italia per la collaborazione e l’aiuto, in particolare a Maurizio Molinari. Un ringraziamento particolare a Gabriele Colleoni e a Kostas Zografoupoulos che hanno curato la traduzione rispettivamente di Juan Carlos Monedero dallo spagnolo e Afrodite Theopeftatou dal greco. Così come non posso dimenticare Ombretta Giumelli per la traduzione della prefazione di Cas Mudde. Colleghi e amici (e spesso le cose coincidono) in questi anni mi hanno ascoltato e fornito spunti di riflessione e per questo li ringrazio: Luigi Gorini, Marco Colombo, Valerio Corradi, Lucio Dall’Angelo, Roberto Scarcella, Michele Chiaruzzi. Ubi amici, ibidem opes. Non dimentico Gigi e Rosa che mi hanno messo a disposizione un buen retiro dove ho potuto lavorare tranquillamente. Un pensiero speciale va, poi, ai miei genitori Giovanna e Gian Battista: mi hanno fatto nascere tra i libri e mi hanno insegnato a credere nel libero arbitrio – grazie di tutto ragazzi. Girare mezza Europa alla caccia di euroscettici mi ha tenuto spesso lontano da casa, ma mia moglie Elisa è stata la persona che più di tutti mi ha sostenuto in questi mesi decisamente impegnativi e movimentati, spronandomi a concludere questo lavoro. Per questo motivo, ma soprattutto per tutto ciò che rappresenta nella mia vita, questo libro è dedicato a lei.

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1. L’Europa e i suoi critici

Mai come oggi l’Unione Europea sembra essere sotto l’attacco di movimenti politici che ne contestano il progetto e la struttura istituzionale. Da qualche anno si parla ormai di un’ondata populista che attraversa il continente europeo e che avrebbe come obiettivo il ritorno ad un sistema di Stati pre-unitario. Gli ultimi arrivati, i populisti, vanno ad ingrossare le file di una più vasta corrente di pensiero che si potrebbe definire euroscetticismo, che contesta l’idea di Europa unita e che comprende anche movimenti di sinistra e quelli cosiddetti «sovranisti» quindi di estrema destra. In questi anni l’attenzione di studiosi e media si è concentrata tutta sul populismo quasi fosse una vera e propria moda, ma se si ragiona di Unione Europea e dei suoi critici è bene partire dall’idea che tutti i populisti sono euroscettici, ma non tutti gli euroscettici sono populisti. I nemici dell’Europa, intesa come Unione Europea, sono molto più numerosi di coloro che fanno riferimento all’ideologia di maggior successo di questo primo scorcio di XXI secolo. Il populismo Per capire cosa è l’euroscetticismo è bene prima definire il populismo. Non è questa la sede per approfondire il serrato dibattito sulla definizione che ha visto gli studiosi dividersi tra coloro che ritengono che il populismo sia uno stile politico, un linguaggio o una mentalità o un’ideologia; è necessaria comunque una veloce panoramica per arrivare al nocciolo dell’idea populista1. Il filosofo argentino Ernesto Laclau è il riferimento di tutti coloro che considerano il populismo come uno stile politico, par11

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tendo dall’idea che sia impossibile circoscrivere il fenomeno in quanto tale e che sia inutile semplicemente presentarne le caratteristiche «perché tutti i tentativi di scorgere ciò che è tipico del populismo [...] sono, come abbiamo visto, assai discutibili, perché sollevano una valanga di eccezioni». Laclau sostiene che il populismo non sia riferibile ad un movimento ma ad un «logica politica»2. Come Laclau anche Taguieff sostiene che il populismo sia uno stile politico e retorico «il cui principio è l’appello al popolo, un appello diretto sulla base di un’idealizzazione del popolo. Quest’ultima costituisce la componente mitologica di ogni populismo». Il filosofo francese sostiene, quindi, che la costante di ogni populismo sia proprio l’appello al popolo3. Margaret Canovan considera il populismo come una conseguenza delle contraddizioni delle democrazie, ma in ultima analisi uno stile retorico «un appello al popolo contro il potere e l’autorità»4. Sulla scia di Laclau molti studiosi sono partiti dal presupposto secondo cui il populismo sarebbe un modello di comunicazione dei leader, per poi approdare alla convinzione che il populismo sarebbe una strategia di comunicazione dei leader o un stile politico che si basa su una strategia comunicativa5, il populismo sarebbe però soprattutto una risposta alle contraddizioni interne alle liberaldemocrazie contemporanee, e sarà sempre l’ombra della democrazia6. C’è poi chi, come il politologo italiano Marco Tarchi, sostiene che il populismo sia una mentalità, una forma mentis piuttosto che un semplice stile politico. Ma si tratterebbe pur sempre di un fenomeno meno strutturato di quanto possa essere un’ideologia, perché basato su un approccio emotivo piuttosto che su solide basi filosofiche o su di una Weltanschauung. Tarchi dunque arriva a definire il populismo come la «mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione»7. Dalla mentalità si passa a qualcosa di più, secondo Jan-Werner Müller il populismo «è una particolare visione moralistica della politica, 12

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un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma direi, fondamentalmente immaginario – a delle élite ritenute corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori»8. Resta il fatto, tuttavia, che ormai lo stile e la mentalità populista hanno preso piede in Europa sotto forma di molteplici movimenti politici al punto che, oltre ai partiti che potrebbero essere definiti tali, la politica europea per così dire tradizionale o che potremmo definire mainstream inizia ad essere influenzata dal populismo. Come direbbe Nadia Urbinati: «Il populismo è qualcosa di più di un fenomeno storico contingente e concerne l’interpretazione della democrazia in un contesto rappresentativo». La Urbinati definisce il populismo come una «visione della democrazia», ma poi la definisce «ideologia del popolo»9. I francesi Yves Mény e Yves Surel sostengono a loro volta che il populismo sia un’ideologia, che sarebbe in contrapposizione con il liberalismo e il costituzionalismo, avendo come regola fondamentale «la fusione degli individui in una comunità che presenta tutti gli aspetti di un organismo in cui la vita va oltre la volontà e il tempo di ogni individuo»10. Lo schema ideologico populista proposto dai due politologi francesi si fonderebbe su tre pilastri: il popolo come fondamento di ogni logica politica, socioeconomica e culturale, la legittimità del popolo che sarebbe stata calpestata, la ricerca di una purezza originaria con il rinnovamento politico. C’è chi arriva a definire il populismo come una «cosmologia... che trova la sua espressione più coerente nell’epoca della società di massa e della democrazia», «una visione del mondo dove il popolo è un insieme unitario e indivisibile»11. In sostanza il fenomeno è talmente radicato che si può ormai parlare tout court di un’ideologia o, come direbbe Cas Mudde, di un’ideologia dal centro sottile. Il politologo olandese sostiene che ci troviamo di fronte ad un’ideologia «leggera» che «considera la società fondamentalmente divisa in due campi eterogenei e contrapposti, il vero popolo contro l’elite corrotta, e sostiene che la politica dovrebbe essere un espressione della volontà generale del popolo»12. La sostanziale agilità dell’ideologia che di fatto si fonda solo su tre concetti chiave – ovvero popolo, elite e volontà generale – garantisce una grande adattabilità sulla scena politica. E questo spiegherebbe anche la difficoltà che spesso viene riscontrata nel 13

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definire il populismo, ma anche la sua propensione camaleontica13, o la capacità con cui i partiti populisti si adattano alle contingenze politiche14. Il fatto stesso di essere un’ideologia ‘leggera’ le permette di essere associata anche ad altre ideologie considerate ‘pesanti’: al nazionalismo (o a quello che oggi viene definito sovranismo), ma anche a derivazioni dell’ideologia marxista. Questo fa sì che si possa parlare di populismo di destra e di sinistra, andando oltre l’impasse o l’ambiguità di quell’idea secondo cui il populismo non è né di destra né di sinistra15, che poteva ingenerare confusione. Se una differenza deve essere individuata tra il populismo di destra e quello di sinistra, allora si deve ragionare in termini di esclusione/inclusione16. Il primo si muove in una dimensione di esclusività: la protezione del popolo e dei suoi valori da ciò che è altro (le élites, i migranti ad esempio). Il secondo segue invece un concetto di inclusione: favorire l’accesso alla politica a chi generalmente è escluso o non ha mai avuto benefici dall’economia ultraliberista. Il populismo di destra (quello che potremmo anche chiamare nazional-populismo17) risulta al momento più presente in Europa; se si guarda a sinistra le esperienze che hanno raccolto maggiori consensi sono Podemos in Spagna e Syriza in Grecia18, ma come si vedrà hanno col tempo imboccato due strade differenti. Un aspetto non secondario ma troppo spesso lasciato in secondo piano, che meriterebbe maggiore approfondimento, è quello legato ai processi di delegittimazione messi in atto dai partiti populisti nei confronti degli avversari politici, a cui assistiamo sia nel dibattito interno sia nel confronto con l’Europa. Se a livello nazionale questo processo di delegittimazione non arriva a colpire il sistema19, lo stesso non può dirsi come vedremo per quanto riguarda la dimensione sovranazionale, quando cioè i partiti populisti si confrontano ad esempio con l’Unione Europea (l’idea stessa di far uscire il proprio Paese dall’UE una volta giunti al potere può essere considerato delegittimante per l’intero sistema). Un fenomeno globale Il grande dibattito accademico attorno alla definizione di populismo non è semplicemente una moda, ma ci dice qualcosa di 14

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più: il populismo è diventato un fenomeno politico globale. Se storicamente lo si individua negli Stati Uniti a fine Ottocento, in America Latina con il peronismo e sotto varie forme nell’Europa occidentale nel Secondo dopoguerra, oggi il populismo è diventato globale. Questo ha portato ad interrogarsi su quali forme, quali costanti e soprattutto con che modalità il populismo abbia abbandonato i confini nazionali e come possa essere concepito, seppur con molti correttivi, come un movimento mondiale. C’è chi ha parlato di una globalizzazione della rabbia come effetto diretto della crisi economico-finanziaria del 2008, la crisi dell’euro, il terrore scatenato da quasi 20 anni di revival del terrorismo internazionale (dopo un periodo di calma apparente) con Al Qaeda e l’Isis che si sono susseguiti sulla scena internazionale come attori principali contro l’Occidente. Questi aspetti hanno provocato insicurezza ed incertezza, sentimenti che sommati agli effetti della globalizzazione, ovvero la rarefazione delle strutture politiche tradizionali, hanno permesso a leader populisti, più o meno democratici, di prendere il potere20. I continui appelli al popolo a tutte le latitudini per giustificare la presa del potere, un approccio insurrezionale della politica contro le élites esistenti e per giustificare l’azione politica di alcuni leader e l’attacco ai partiti tradizionali: tutti questi aspetti hanno contribuito alla nascita degli studi in chiave globale, sul cosiddetto global populism21. Si parla oggi di populismo in Africa (su tutti si porta l’esempio dello Zambia col caso politico dell’ex presidente Michael Sata, o quello del sudafricano Jacob Zuma) e nella regione tra Asia e Pacifico (dall’ex primo ministro Thaksin Shinawatra in Thailandia al presidente delle Filippine Rodrigo Duterte). Ad ogni modo Benjamin Moffitt affronta il tema del populismo globale cercando come costante uno stile politico che contraddistingua i leader populisti in tutte le aree del mondo22. Il tutto senza dimenticare ovviamente il presidente statunitense, Donald Trump, immediatamente identificato come il fenomeno populista più dirompente degli ultimi anni23. La necessità di globalizzare il tema populista e il tentativo di reperire costanti a tutte le latitudini24 rischia però di generalizzare molto il problema e far perdere di vista la vera posta in palio, ovvero la tenuta della liberaldemocrazia e a livello europeo la tenuta del progetto politico dell’Unione Europea. 15

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Bruxelles nel mirino populista Tornando a livello europeo e ai populismi del Vecchio Continente sembra quasi inutile sottolineare come l’Unione Europea abbia le caratteristiche perfette per essere il nemico ideale dei populisti25. Il primo punto di conflitto è chiaramente rispetto al concetto di popolo: l’Unione riunisce 28 Stati, ma il nativismo che è insito nell’idea di popolo abbinato alla sua unicità porta immediatamente al cortocircuito. Il popolo non può identificarsi nell’Europa, ma esclusivamente nel proprio territorio immaginario ed immaginato, quindi generalmente all’interno dei propri confini nazionali. Ma l’Europa è uno straordinario nemico anche per ciò che riguarda la contrapposizione popolo-élite che già caratterizza la lettura che il populismo fornisce della politica interna ad un Paese26. Se questa contrapposizione viene, per così dire, fatta ‘salire di livello’, con un passaggio dalla dimensione interna a quella sovranazionale, lo scontro diventa ancora più violento. Non è un caso, dunque, che le ultime campagne elettorali nei Paesi europei siano state caratterizzate da un confronto serrato sull’Europa. Un dibattito sollevato dai movimenti populisti: si pensi al caso del Front national e di Marine Le Pen durante la corsa presidenziale francese nel 2017, o del PVV di Gert Wilders per le politiche olandesi sempre nel 2017 con le ipotesi di scenari di Nexit (l’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione Europea). Lo scontro si consuma, in prima battuta, sulla dubbia legittimità delle élites europee: dai componenti della Commissione Europea a quelli della Banca Centrale Europea, perché, da nominati e non eletti, non sarebbero espressione diretta del popolo. Ne discende la terza critica, che riguarda l’assenza di legittimità delle decisioni prese a livello europeo e le direttive che gli Stati devono adottare. La critica populista sostiene che, posto che alcune persone occupano posti al vertice delle istituzioni europee illegittimamente perché non elette dal popolo, di conseguenze le loro decisioni sono illegittime perché non rappresentano la volontà generale del popolo, anzi a questo punto dei popoli che sono genericamente 28 come gli Stati membri (ma che sono almeno il doppio o il triplo se poi pensiamo alle piccole patrie che caratterizzano le politiche nazionali dei singoli Stati). Quindi la critica diventa che le élites europee antepongono un 16

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fantomatico interesse europeo o sovranazionale a quello dei singoli Stati e quindi non fanno gli interessi del popolo. La sinistra antieuropeista Non esiste solo una critica populista all’Unione Europea: molte voci critiche si sollevano anche da movimenti di sinistra che attaccano Bruxelles e le istituzioni sempre in nome del popolo, ma secondo parole d’ordine molto differenti come austerity, eguaglianza, difesa dei diritti. L’ultimo manifesto anti-europeista da sinistra è stato sottoscritto a Lisbona il 12 aprile 2018 dal leader di Podemos Pablo Iglesias, da Jean-Luc Mélenchon di France insoumise e da Catarina Martins del Bloco de esquerda: «È ora di rompere la camicia di forza dei trattati europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e sociale. È ora che chi crede nella democrazia faccia un passo in avanti per rompere questa spirale inaccettabile»27. Ma per capire la lettura che la sinistra euroscettica fornisce dell’Unione Europea basta leggere ciò che scrive Pablo Iglesias, leader di Podemos. Secondo lo spagnolo l’UE non sarebbe altro che il risultato di quattro forze: il progetto federalista di Jean Monnet per evitare guerre future, il progetto americano per contrastare l’URSS, quello francese di creazione di un asse con la Germania, quello tedesco per arrivare alla riunificazione tra Est e Ovest. Iglesias conclude che ciò che tiene insieme questi quattro piani «è stato l’interesse di garantire prosperità economica all’Europa capitalista»28. L’Unione Europea diventa dunque la rappresentazione del neoliberismo in contrasto con la tradizione del welfare state. Secondo i rappresentanti della sinistra l’Europa del rigore ha di fatto azzerato quelle che a sinistra sono considerate conquiste, come le politiche statali di deficit e gli obiettivi di piena occupazione. Anche in Italia il movimento Potere al popolo nel suo programma per le elezioni politiche del 2018 ribadisce gli stessi concetti, partendo dal presupposto che «l’Unione Europea è uno strumento delle classi dominanti che favorisce l’applicazione delle famigerate e impopolari ‘riforme strutturali’ senza nessuna verifica democratica»29. Gli obiettivi sono identici: cambiare i trattati europei, riformare l’Unione Europea e le sue politiche eliminando l’austerità con 17

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una maggiore attenzione ai lavoratori, restituire sovranità agli Stati membri e garantire una maggiore partecipazione democratica ai cittadini europei. Su questi ultimi due punti si realizza l’incontro e la convergenza con i movimenti populisti e nazionalpopulisti: sul tema della sovranità e su quello della partecipazione popolare. L’idea cara ai populisti è quella della democrazia diretta per cui si sostiene che il popolo possa essere padrone del proprio destino decidendo direttamente le politiche dello Stato e ponendone la volontà addirittura sopra le leggi, anche sopra le carte costituzionali. Gli euroscettici Dopo aver individuato le due principali colorazioni di critica all’Europa possiamo quindi passare all’euroscetticismo. Come abbiamo visto, nonostante il dibattito politico tenda a far coincidere l’euroscetticismo con il populismo, questo fenomeno è più ampio, perché vi convergono anche forze politiche che non sono populiste, ma che partono da una lettura sociale di sinistra della società, antiglobalista e antiliberista (che si può tradurre in quello che è stato riconosciuto come «populismo di sinistra», come nel caso di Podemos). In ogni caso se esiste un punto d’incontro con il populismo sui temi della sovranità, della legittimità e della partecipazione democratiche, le distanze si consumano innanzitutto sulla visione delle relazioni internazionali, ma anche su tutto quel corposo pacchetto di temi collegati ai diritti civili e ai diritti umani. Il dibattito crescente sul populismo e la vera e propria moda esplosa attorno al termine stesso hanno messo in secondo piano quello sull’euroscetticismo che come concetto è stato erroneamente sovrapposto a quello di populismo. In realtà l’euroscetticismo30, a differenza di gran parte dei movimenti populisti, ha radici antiche ed ha accompagnato il percorso dell’Unione Europea dalla sua nascita ad oggi, passando per tutte le tappe fondamentali, trattato di Maastricht, trattato di Schengen e trattato di Lisbona, oltre al dibattito sull’allargamento e alle varie tornate elettorali europee31. Il dibattito sull’euroscetticismo ha dunque radici profonde, ed è stato anche reso più rovente dal referendum del 23 giugno 2016 che ha sancito la decisione del Regno Unito di uscire 18

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dall’Unione Europea. La Brexit ha avuto un effetto quasi eccitante per i populisti di tutta Europa, ma non è questa la sede per discutere dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea 32. L’euroscetticismo è tornato alla ribalta per effetto della crisi economica33, della crisi dei migranti e quindi anche per la tensione crescente provocata da nuove divisioni politiche all’interno dell’Unione non solo tra Nord e Sud (tra artefici del rigore e chi chiede maggiore flessibilità), ma anche tra Est e Ovest, con crescenti tensioni tra le istituzioni europee e Polonia e Ungheria in primis per il mancato rispetto dello stato di diritto34. Certo l’euroscetticismo è semplicemente un tratto caratterizzante della linea politica di un partito, ma è divenuto uno degli aspetti qualificanti di una forza politica, se è vero che stiamo assistendo allo sbiadimento delle grandi famiglie politiche del XX secolo e se contemporaneamente il dibattito sull’Europa è diventato centrale in ogni campagna elettorale. Non solo, si può aggiungere che il populismo sia arrivato ad influenzare la politica a livello europeo35. C’è, poi, chi sostiene che l’euroscetticismo che si sviluppa in ogni Stato non sia semplicemente riconducibile alla strategia politica di un partito, ma sia un movimento composto da partiti piccoli e grandi, da associazioni e gruppi di opinione che a seconda del momento contribuiscono ad ingrossare le file degli euroscettici (anche semplicemente in chiave elettoralistica)36, e che questo sia il risultato di una scelta dovuta alla percezione dell’UE da parte dell’elettorato come una minaccia allo status quo37. In ogni caso, venendo alle definizione di euroscetticismo, Taggart e Szczerbiak hanno distinto tra una versione hard e una soft. L’euroscetticismo duro si realizza «laddove vi è un’opposizione di principio all’UE e all’integrazione europea e quindi può essere riscontrato in partiti che pensano che il proprio Paese dovrebbe abbandonare l’Unione o le cui politiche nei confronti dell’UE sono contrarie all’intero progetto di integrazione europea così com’è attualmente concepito». Quello soft, invece, sarebbe una posizione che emerge quando «non c’è un’obiezione di principio nei confronti dell’integrazione europea o all’appartenenza all’UE ma laddove la critica su una (o più) policy portano all’espressione di un’opposizione qualificata all’UE, quando vi è la sensazione che l’interesse nazionale sia in contrasto con la linea europea»38. Mudde e Kopecky arrivano a sostenere che l’euroscetticismo fa parte di un’ideologia più ampia a cui fa riferimento un movi19

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mento politico, ma che allo stesso tempo l’euroscetticismo può semplicemente essere considerato come frutto di una strategia politica, da parte di un determinato movimento, per ottenere consenso e capitalizzare istanze euroscettiche in occasione di una tornata elettorale39. Per questo propongono una classificazione più complessa che divide le posizioni dei partiti in euroentusiasti, europragmatici, euroscettici ed addirittura euronegazionisti. Apporre un’etichetta su questi movimenti aiuta sicuramente a individuare, oltre alle distinzioni profonde, anche le differenti sfumature tra partiti di diverse nazioni. A questa lettura si potrebbe aggiungere un ulteriore elemento di analisi, per cui così come esiste la distinzione tra populismo di destra e populismo di sinistra, anche l’euroscetticismo può ricalcare le caratteristiche di esclusività o viceversa di inclusività: i populismi di destra propongono l’affermazione della sovranità nazionale (in ambito sia politico sia economico) ed al contempo la chiusura delle frontiere per bloccare il flusso di migranti per la tutela di una presunta cultura europea. I populisti di sinistra attaccano invece la mancanza di sovranità in ambito soprattutto economico per le politiche dell’austerity che impoveriscono le singole economie nazionali, e per questo chiedono da un lato una maggiore solidarietà europea, dall’altro anche una rinnovata sovranità economica nazionale40. Alla luce di quanto detto fino ad ora credo che sia plausibile definire gli euroscettici come tutti quei movimenti e partiti che assumono una posizione critica nei confronti dell’Unione Europea contestandone la legittimità e la sovranità, in contrasto con l’attuale struttura comunitaria, in contrasto con l’euro e con il progetto di un’ulteriore integrazione politica ed economica, spingendosi fino all’ipotesi di uscita dall’eurozona e dall’Unione. Il miraggio di un fronte unito Il sogno di molti dei leader euroscettici del Vecchio Continente è quello di costruire un fronte comune che possa scardinare l’attuale Unione Europea in modo da modificarne la struttura. Come si è già rilevato, un primo problema per la formazione di questa ipotetica internazionale euroscettica è la divisione destra-sinistra, che pone su due fronti contrapposti i partiti appartenenti alle due 20

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grandi famiglie, non tanto sulle critiche mosse all’Unione Europea, che in molti casi possono addirittura sovrapporsi, ma piuttosto sulle soluzioni e sulle linee d’azione politica per rispondere alle esigenze del popolo. Allo stesso modo i partiti populisti che in Europa hanno tendenzialmente preso la strada del nazional-populismo non hanno punti di contatto con i movimenti di sinistra. Se è vero che i dati parlano di una sinistra euroscettica in arretramento in tutta l’Europa a fronte della crescita della destra, in particolare di quella che potremmo definire nazional-populista, è già chiaro che sfuma l’idea di un fronte unito per sfaldare l’Unione Europea. Ma se la sinistra appare un fronte unito, molto più complesso risulta essere il campo dei nazional-populisti41. È vero che l’obiettivo resta quello di scardinare l’Europa, ma sui percorsi per arrivare a questo obiettivo potrebbero velocemente arrivare divergenze. Se nelle dichiarazioni formali esiste una certa omogeneità, lo stesso non può dirsi per le aggregazioni al Parlamento europeo, dove queste formazioni si muovono in ordine sparso e sono addirittura distribuite in tre differenti gruppi parlamentari, senza contare poi gli eurodeputati non iscritti a nessun gruppo. Si tratta dell’ECR (Conservatori e riformisti europei) di cui fanno parte tra gli altri i Conservatori britannici, i polacchi di PiS, i Veri finlandesi, i Popolari danesi. C’è poi l’EFDD – l’Europa della libertà e della democrazia diretta – costituito grazie ad un accordo tra lo Ukip di Nigel Farage e il Movimento 5 Stelle, a cui hanno aderito i tedeschi di Alternative fuer Deutschland ma anche i Democratici svedesi prima di confluire nell’estate del 2018 nell’ECR. Infine l’ENF, Europa delle nazioni e delle libertà, dove sono riuniti Front national, Lega nord, PVV olandese, l’FPOE austriaco, il Vlaams belang e i tedeschi di AFD che tuttavia si sono poi divisi con un rappresentante che è confluito nell’EFDD. Insomma una pluralità di voci che certo hanno come obiettivo comune l’Europa unita, ma che racconta anche di divisioni che sono connaturate a tutti i partiti nazional-populisti42. D’altronde l’aspetto dominante del riferimento ad un popolo che è circoscritto all’interno di confini nazionali non è sicuramente garanzia di una collaborazione che possa andare oltre la semplice negazione di qualcosa o qualcuno. In sostanza si potrebbe dire che si tratta di alleanze complementari: tutti vogliono abbattere l’Europa, ma in ultima analisi ognuno di questi partiti gioca una sua partita a livello nazionale e non rinun21

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cerebbe ad andare in conflitto con un presunto alleato europeo in nome del popolo. Un esempio molto calzante a dimostrazione di quanto appena affermato è ciò che è accaduto in Austria nel momento in cui l’FPOE si è trovato al governo in coalizione con l’OEVP del cancelliere Sebastian Kurz. Dopo la vittoria alle elezioni dello scorso ottobre e la nascita del nuovo esecutivo, esponenti dell’FPOE, tra cui il parlamentare Werner Neubauer, hanno annunciato l’intenzione di fornire di doppio passaporto gli altoatesini di lingua tedesca. A fronte delle dure reazioni italiane, il ministro degli esteri, Karin Kneissl (un tecnico, ma indicato dall’FPOE), ha deciso di congelare ogni decisione ma di avviare comunque una commissione ad hoc per studiare la fattibilità del doppio passaporto. Il Movimento 5 Stelle ha espresso la sua contrarietà così come la Lega con i propri esponenti locali, anche se i vertici del Carroccio hanno preferito non andare in rotta di collisione con un alleato considerato strategico43. Da questo caso diplomatico Roma-Vienna si capisce dove finiscono i confini della collaborazione anti-europeista ed iniziano le ragioni di scontro. Siamo di fronte in sostanza a movimenti nazionali, senza un afflato internazionalista, che nascono e si sviluppano all’interno dei singoli Stati, seguono una propria maturazione ed un percorso politico mai accomunabile ad altri simili in altre nazioni se non per quanto riguarda la lotta comune all’Unione Europea, ma per affrancarsene singolarmente. Mentre il libro sta andando in stampa, si registra un nuovo tentativo di federare tutte le forze nazional-populiste di destra all’interno di unico gruppo, che si chiamerà EAPN (European alliance of peoples and nations – Alleanza europea dei popoli e delle nazioni). I capofila restano tutti i componenti dell’ENF, a cui vanno ad aggiungersi AFD, i Veri finlandesi, i Popolari danesi e che spera, cammin facendo, di allargare i propri ranghi (magari ai Democratici svedesi e agli spagnoli di Vox), per aumentare il proprio peso relativo nel Parlamento europeo. Resta, comunque, un fronte immaginario visto che sono molti i temi che dividono i contraenti di questa nuova coalizione antieuropeista, che necessariamente si presenta con un programma vago e annacquato per non urtare le singole sensibilità. Una vaghezza che si avverte anche e soprattutto nei riferimenti internazionali, con alcuni movimenti dichiaratamente filo-Putin ed altri euroatlantisti. 22

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2. Francia

Tra Front national e Rassemblement national

È indiscutibile che per anni gli unici veri alfieri del populismo europeo e dell’euroscetticismo sono stati i rappresentanti del Front national1. Ma ci sono due nomi che hanno fatto la storia del partito fondato nel 1972 federando e unendo microformazioni dell’estrema destra francese: Jean-Marie Le Pen, creatore e presidente del Front dal 1972 al 2011, e la figlia Marine, che dopo aver ricevuto il testimone dal padre lo ha espulso dal partito da lui fondato e poi ha cambiato il nome in Rassemblement national. La storia dell’euroscetticismo del Front ha radici lontane e basta dire che «Francesi prima di tutto» ero lo slogan di Jean-Marie in occasione delle consultazioni europee del 1984, quando il partito fece il primo di molti exploit elettorali con il 10,9% e dieci eletti all’Europarlamento (si è trattato del migliore risultato di una forza nazionalpopulista in Francia dal tempo del Poujadismo, che nel 1956 ottenne l’11,6%). Da allora Jean-Marie è stato una presenza fissa al Parlamento europeo ed è stato il riferimento per tutti i rappresentanti della destra radicale europea, ma soprattutto tema di approfondimento anche per gli studiosi di euroscettismo e populismo. Se si osservano le caratteristiche del partito, l’impostazione ideologica, lo stile comunicativo, la dimensione della leadership (che oltre ad essere di fatto indiscussa dal 1972 è stata trasferita in maniera ereditaria da padre a figlia) ed infine anche la visione manichea del mondo, si può affermare con una certa sicurezza che il Front national è un indiscutibile modello di partito nazionalpopulista euroscettico. Non solo, guardando i risultati elettorali nelle varie consultazioni tra presidenziali, europee e legislative, si può facilmente sostenere che il Front national sia stato il primo partito nazionalpopulista di massa in Europa. Nel corso di oltre 45 anni di 23

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storia il partito ha attraversato molte crisi interne e profondi processi di rinnovamento2, dal processo di denazificazione avviato quasi immediatamente dopo la fondazione del partito alla dédiabolisation portata avanti da Marine, che è stata alla fine fatale anche per il padre3. Ma già dall’84 si definisce quello che sarà l’approccio euroscettico del Front national, il modello che il FN propone per l’UE è quello di un’«Europa delle patrie», un concetto questo già espresso a suo tempo da De Gaulle e che accompagnerà il Front fino ad oggi. Ma almeno all’inizio la posizione lepenista era alquanto vaga, tanto che Jean-Marie immaginò la possibilità di avere accordi di cooperazione su difesa, politica ed economia. Ad un certo punto il presidente del Front national immaginò pure un mercato unico con una moneta che tuttavia non avrebbe cancellato le divise nazionali4. Con gli anni Novanta la retorica iniziò a cambiare velocemente, per arrivare a Marine Le Pen che ha immaginato più volte l’uscita dall’euro e nelle ultime campagne elettorali ha invocato un sovranismo anche commerciale. Con la caduta del muro e un processo di globalizzazione accelerato, il Front national ha chiuso immediatamente la porta alle novità, mettendo al centro la difesa del popolo francese e del suo lavoro5. Le migliori affermazioni elettorali arrivano comunque sempre alle elezioni europee, che per loro natura, essendo consultazioni che abitualmente cadono all’incirca a metà del mandato del governo in carica, con un’affluenza minore rispetto alle politiche e il sistema proporzionale hanno sempre permesso al Front national di ottenere risultati eccellenti. Tanto che nel 2014 il partito, ormai guidato da Marine, è stato il più votato con il 24% delle preferenze, un risultato ottimo replicato qualche mese dopo alle regionali. Ma Marine, aldilà del successo europeo e dell’aver vestito i panni dell’indiscusso leader della destra populista euroscettica, concentra tutti i suoi sforzi sulle presidenziali del 2017, dove tuttavia, pur prendendo un numero di voti inimmaginabili fino a qualche anno prima, di fatto resta in linea e non va oltre le aspettative6. La sconfitta pesante al ballottaggio contro Emmanuel Macron e i malumori interni al partito per una campagna elettorale gestita in solitaria (peraltro come faceva il padre), hanno avuto strascichi pesanti sul Front national e sulla leadership di Marine. 24

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Francia

Questo ha spinto ad un rinnovamento e al cambio del nome da Front national a Rassemblement national, un restyling comunicativo che non cambia la sostanza dell’ideologia nazionalpopulista del partito. Marine sembra, tuttavia, essere arrivata con i risultati di questi anni al massimo possibile, ad una soglia che pare invalicabile. Forse anche per questo la sua stella potrebbe essersi offuscata: è irrealistico immaginare un exploit ulteriore dopo quelli già ottenuti. Resta innegabile che a livello europeo Marine Le Pen rappresenti forse la leader più carismatica dei populisti. Nelle pagine a seguire parla Louis Aliot, già eurodeputato e dal 2017 deputato all’Assemblea nazionale, attuale vicepresidente del Rassemblement national dopo essere stato quello del FN. Il compagno di vita di Marine Le Pen appartiene a quella ristrettissima cerchia di membri del RN che può davvero esprimere concetti che fotografano la reale posizione politica del movimento. La conversazione fornisce uno spaccato illuminante sull’euroscetticismo non solamente francese. LEGISLATIVE 1º Turno Anno

Voti

2º Turno %

Voti

%

Seggi

1973

108.616

0,5

0

1978

82.743

0,3

0

1981

90.422

0,4

0

1986

2.703.442

9,7

35

1988

2.359.528

9,7

216.704

1,1

1

1993

3.152.543

12,6

1.168.160

5,9

1

1997

3.800.785

14,9

1.434.854

5,6

1

2002

2.862.960

11,3

393.205

1,9

0

2007

1.116.136

4,3

17.107

0,1

0

2012

3.528.373

13,6

842.684

3,7

2

2017

2.990.454

13,2

1.590.869

8,8

8

25

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Euroscettici

EUROPEE Anno

Voti

%

1979

Seggi

Non ha partecipato

1984

2.210.334

10,9

10

1989

2.129.668

11,7

10

1994

2.050.086

10,5

11

1999

1.005.225

5,7

5

2004

1.684.947

9,8

7

2009

1.091.691

6,3

3

2014

4.711.339

24,9

24

PRESIDENZIALI 1º Turno Anno

1974

2º Turno

Candidato

Jean-Marie Le Pen

Voti

%

190 921

0,8

Voti

%

5 525 032

17,8

10 638 475

33,9

Nessun candidato supportato

1981 1988

Jean-Marie Le Pen

4 375 894

14,4

1995

Jean-Marie Le Pen

4 570 838

15,0

2002

Jean-Marie Le Pen

4 804 713

16,9

2007

Jean-Marie Le Pen

3 834 530

10,4

2012

Marine Le Pen

6 421 426

17,9

2017

Marine Le Pen

7 678 491

21,3

26

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Francia

Intervista a Louis Aliot7 Monsieur Aliot, qual è la posizione del Front national sull’Europa?

Pensiamo che questo sistema europeo non funzioni. Non si tratta dell’Europa in sé che è un continente: Paesi come la Francia e l’Italia sono Paesi europei. Da questo punto di vista tutti siamo europei, se si è francesi si è anche europei. Il problema è il sistema di organizzazione del potere che si chiama Unione Europea e che non bisogna confondere con l’Europa. E quello non funziona, come riconoscono tutti, anche il presidente Macron. Si deve quindi fermare questa Unione Europea per costruire un’altra organizzazione europea che noi auspichiamo si possa chiamare Unione delle Nazioni. Un’organizzazione su base confederale in modo che ogni nazione possa conservare la propria indipendenza, la propria sovranità e il proprio sistema giuridico, il sistema sociale e la propria specificità culturale, ma partecipando a progetto allo sviluppo economico, al progresso. Penso a casi che già esistono come il programma Ariane, l’Airbus o in campo militare. Un ambito quest’ultimo in cui collaboriamo da tempo con gli inglesi, quindi non c’è alcuna ragione per non continuare ad avere cooperazioni bilaterali e multilaterali. Ma su dei progetti e non su delle chimere. Il problema se capisco bene è quello della sovranità.

Il problema è che su certi aspetti non si può fare ciò che si vuole. La caratteristica principale di una democrazia resta il governo del popolo, se il popolo è chiamato ad eleggere dei rappresentanti che non hanno il potere di decidere, perché c’è un’entità sovranazionale che decide per loro, allora bisogna prendere atto del fatto che non esiste più una democrazia reale. Il problema di fondo dell’Europa è questo e ciò che domandiamo all’Unione Europea è di non venire a ficcare il naso in questioni di cui effettivamente non deve occuparsi. Ci sono cose assurde: le curvature delle banane, la misura delle patate, la dimensione degli sciacquoni. Creano dei problemi all’economia senza risolverne nessuno. E a questo si aggiunge l’apertura delle frontiere per tutti, piuttosto che giocare a favore del mercato comune come era previsto dai trattati di Roma, oggi non ci sono più frontiere. Si fanno accordi con la Cina e con tutti i Paesi del mondo a danno delle nostre produzioni nazionali. Si tratta 27

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Euroscettici

di un sistema che ci passa sopra la testa, sarebbe quindi necessario tornare ad un equilibrio in ogni ambito. L’ultimo problema causato dall’UE in ordine di tempo è quello dell’immigrazione. Si lascia all’Italia, che riceve i flussi dalla Libia e dalla Siria, e alla Francia, che ha il problema della porosità delle frontiere, il compito di regolare un problema umanamente insostenibile. Poi ci sono dei regimi come l’Ungheria che mettono il filo spinato lungo le frontiere e si arriva a queste assurdità in cui l’Europa di fatto non esiste. Lei è stato un eurodeputato. Non pensa che il Parlamento Europeo possa diventare più importante, possa incidere maggiormente?

Non penso proprio. Penso che sia troppo grande, con 28 Pae­si non può funzionare. Poi non comanda il Parlamento, ma la Commissione che vuole imporre delle cose agli Stati membri; quindi il Parlamento europeo è semplicemente una Camera che fa un lavoro notarile con risoluzioni e testi. Ma quando poi quando si diventa deputato come me (all’Assemblea Nazionale) e si sta sul territorio, ci si rende conto che l’Europa dietro non ha niente. Certo se si parla con un agricoltore dell’Europa lui vi parla delle sovvenzioni, ma oltre a questo? Non c’è niente. E lo stesso vale per i viticoltori, ma anche per i temi di sicurezza stradale. Non esiste un ambito nel quale la gente può affermare che l’Europa ha portato delle cose positive. A parte la pace, ma quello è un principio. Tuttavia resto convinto che la pace sia più legata alla dissuasione nucleare che alla costruzione europea. Certo le tre guerre che la Francia ha avuto con la Germania e le due guerre mondiali hanno sufficientemente traumatizzato il popolo per impedirgli di ricadere negli stessi errori, ma la dissuasione nucleare ha garantito un equilibrio di potenza che ha permesso fino ad oggi una tenuta pacifica. Lei ha scritto un libro sul ruolo dei presidenti francesi nella costruzione dell’UE in cui denuncia il fatto che i presidenti francesi dopo De Gaulle hanno agito contro la Francia.

Il mio libro8 doveva avere la prefazione di Boutros Boutros-Ghali, ma l’allora ministro degli esteri Laurent Fabius ha fatto pressione affinché non scrivesse il segretario generale delle Nazioni Unite. Così c’è la sua prefazione ma l’ha firmata Gilbert Collard. È la storia della costruzione dell’Europa da parte 28

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Francia

dai presidenti francesi, precisamente si racconta ciò che voleva De Gaulle e la rottura che è avvenuta dopo di lui. Noi vorremmo tornare all’Europa che aveva immaginato De Gaulle. Niente di più: resta l’Europa, ma non l’Europa federale che si sta cercando di far passare ora e che non ha né capo né coda. Trovo il riferimento a De Gaulle molto interessante. Anche Marine Le Pen durante l’ultima campagna presidenziale ha citato più volte De Gaulle e ha fatto spesso riferimento anche ad una visione aroniana9 della Francia nelle relazioni internazionali. Avete cambiato posizione su questi aspetti?

La cosa interessante è il prisma attraverso cui i media ci presentano rispetto a cose che abbiamo sempre detto. Il nostro slogan dal 1984 è «Per un’Europa delle patrie»10 e si capisce bene cosa intendiamo: non siamo antieuropeisti, siamo euroscettici rispetto al sistema attuale, siamo per un’Europa delle patrie ed è un’evoluzione del pensiero di De Gaulle. Ci sono due grandi visioni che si sono fronteggiate: la visione di De Gaulle sull’Europa delle patrie e l’Europa di Jean Monnet che era più federalista e filo-americano. Queste due concezioni si sono sfidate e anche De Gaulle ha dovuto farci i conti perché da presidente aveva ereditato i Trattati di Roma, di cui disse «Mi domando come dei parlamentari abbiano potuto approvare una cosa del genere», ma che poi dovette accettare perché la linea francese era già stata scelta e non poteva tornare indietro. Allora il suo obiettivo fu quello di costruire un’Europa con i tedeschi, ma senza gli inglesi. Intende con la politica della sedia vuota?

La politica della sedia vuota venne messa in atto perché volevano imporgli qualcosa che a lui non piaceva, e aveva proposto successivamente dei piani per uscire dalla crisi, i piani Fouchet11, ben tre versioni dello stesso piano, che erano stati sistematicamente smontati dai tedeschi. Il problema dei tedeschi è che sono sotto l’influenza americana, che gli piaccia o meno, dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ciò che si vive oggi nella sfida tra le visioni euroscettiche e quelle più europeiste ha le sue origini nelle tensioni degli anni Cinquanta tra chi voleva un’Europa delle Nazioni e chi voleva un’Europa integrata, federale. E ora Macron ha rilanciato il dibattito sostenendo che serve più Euro29

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Euroscettici

pa, questo ci permette di portare avanti anche la nostra posizione di un’altra Europa, pensata alla nostra maniera. E siete convinti che si possa cambiare?

Si deve cambiare o ci troveremo nella situazione dell’Unione Sovietica che senza un rinnovamento si è dissolta. Ci sono dei trattati che non funzionano e che devono essere cambiati, ma forse bisogna andare in una direzione che non è stata ancora esplorata. Cosa pensa della Banca Centrale Europea?

Dobbiamo riprendere la nostra indipendenza monetaria con la Banca Centrale Francese. Ma tutto questo va negoziato e cambiato: le frontiere, la banca centrale, il trattato di Schengen. Il punto è che in Francia il popolo ha respinto il progetto di Costituzione europea del 200512 e il popolo è sovrano. Dal 2005 siamo in una no man’s land giuridica perché senza l’avallo alla Costituzione bisognava uscire dall’Unione Europea, ma certo non basta semplicemente lasciare l’UE per realizzare un’Europa alternativa. Possiamo cambiare le istituzioni: si può togliere la Commissione che è troppo intrusiva in molti ambiti delle politiche dei governi e magari si possono fare delle alleanze su temi specifici: l’energia, l’ambiente, i trasporti. Siamo riusciti a fare il Concorde con gli inglesi, abbiamo fatto l’Airbus con i tedeschi, gli spagnoli e gli italiani. Si tratta di progetti concreti e non campati per aria e che costano un sacco di soldi e finiscono per non arrivare a niente. Abbiamo avuto già abbastanza scandali alimentari, scandali finanziari, scandali sociali. Cosa pensa dell’immigrazione? La Francia è già operativa con la missione Barkhane13 a cui adesso partecipa anche l’Italia.

Ci sono già anche dei belgi e dei tedeschi e ora sì arrivano anche gli italiani. Appunto, ufficialmente è una missione antiterrorismo, ma l’impressione è che l’Unione Europea voglia fermare il flusso dei migranti in Africa. Lei cosa ne pensa?

Sono obbligati. Perché in questi rapporti di forza mondiali ci sono degli equilibri tra il Nord e il Sud. Cosa spinge le persone ad emigrare? La miseria, la guerra civile e oggi in parte anche il terrorismo. Quindi bisogna mettere a posto le cose, ma non pos30

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Francia

siamo farlo qui da noi, perché il serbatoio dell’immigrazione africana è inesauribile. Quindi se non partecipiamo allo sviluppo del continente africano con dei partner africani per permettere a questi Stati di uscire dalla povertà, l’Europa corre il rischio di scomparire come continente occidentale. L’Africa è prioritaria, io lavoro con gli africani (congolesi, senegalesi, guineani): stiamo lavorando all’Assemblea Nazionale ad un piano di sviluppo africano. Gli africani che sono in Francia, contrariamente a ciò che si crede, preferirebbero vivere in Africa; non stanno bene qui, non è la loro cultura, non è il loro clima, non ci sono le loro abitudini. E quindi sostengono che se non ci fossero le guerre civili, la corruzione, la povertà sarebbe meglio vivere in Africa dove ci sono ricchezze, un clima più accettabile. Quindi lo sviluppo del continente africano è uno dei temi prioritari di questo inizio di XXI secolo. In effetti secondo lei l’Unione Europea è venuta sulle vostre posizioni?

Io ero membro della Commissione Sviluppo del Parlamento Europeo, ma c’era una visione terzomondista: «Siccome ci sono i poveri in Africa portiamo le pompe per l’acqua, facciamo delle piccole scuole». Ma il punto non è questo, dobbiamo fare in modo che l’Africa decolli, serve che gli africani vivano del loro lavoro, delle loro produzioni, dell’agricoltura. Ma per ora non ci sono grandi progetti, o si decide di stanziare 150 miliardi e tutti i Paesi europei investono in maniera massiccia in Africa o l’Europa sarà sommersa. Volete uscire dall’Unione Europea e cosa pensate dell’euro?

L’euro è destinato a scomparire nell’Europa delle Nazioni. Cosa pensa della situazione politica europea e degli euroscettici in Europa?

In Austria funziona, in Italia ha preso una certa direzione. Si discute un po’ ovunque delle idee della destra e allora è inaccettabile che in Francia si continui con un cordone sanitario contro di noi. Non è possibile. Ma è una condizione che prosegue da decenni, come fate?

Dobbiamo fare i conti con il cordone sanitario che fu utilizzato inizialmente contro Jean-Marie Le Pen, ma nella pratica non 31

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Euroscettici

esiste più. Io sono stato eletto al secondo turno contro un deputato di En marche e questo dimostra che sul territorio, tra il popolo, questo non funziona più. Siete stati etichettati come razzisti e antieuropeisti. Lei crede che gli altri partiti francesi siano davvero europeisti?

Per ciò che riguarda la destra, che ormai non è più una sola, le sue origini sono doppie, è da un lato figlia dell’esperienza gaullista e quindi non dovrebbe essere a favore di questa Europa e dall’altro è figlia dell’esperienza centrista di Schumann e quindi è a favore della struttura attuale. Ma è chiaro che queste due posizioni sono inconciliabili e ora si vede che i nodi stanno arrivando al pettine, tanto che gli ultimi sondaggi li danno al 12%. E cosa pensa dell’atteggiamento da principe democratico di Emmanuel Macron?

Penso che stia facendo il gioco del Front national. Perché?

Perché con i suoi progetti di rafforzamento dell’Europa e di rilancio dell’asse franco-tedesco può favorire il Front national e Mélenchon, che sta per prendersi ciò che resta del partito socialista. In sostanza ci saranno due blocchi che si affronteranno alle prossime elezioni Europee. Che opinione ha dei rapporti tra l’Europa e gli Stati Unti da una parte e di quelli con la Russia dall’altra?

Innanzitutto penso che stiamo sbagliando con la Russia, perché non c’è niente da temere da Putin e allo stesso tempo non possiamo fare pagare le sanzioni ai nostri agricoltori e alla nostra economia. Perché mentre si dice che non possiamo commerciare con Putin perché è un dittatore facciamo affari con la Cina, che non è proprio un modello di democrazia visto che ha un partito unico, il partito comunista, che governa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, hanno un’influenza naturale sull’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi c’è Trump e noi siamo accusati di averlo sostenuto. Semplicemente non ci piaceva la Clinton; Trump dice «Prima l’America» come noi diciamo «Prima la Francia». Anche lui è per limitare e fermare l’immigrazione e sostiene che il lavoro americano debba rimanere negli 32

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Francia

Stati Uniti: ha minacciato Apple che ora ha creato nuovi posti di lavoro. Trump è sempre al centro delle critiche, si dice che è razzista e tutto il resto. Sono stato negli Stati Uniti alla fine del 2017 e penso che ci sia una disinformazione totale da parte dei media; ho discusso con un sacco di persone che sono soddisfatte perché la disoccupazione non è mai stata così bassa, Trump ha ridotto le tasse e l’economia cresce. E poi ha un’arma: riesce a tenere testa all’intero sistema tecnocratico americano con il suo profilo Twitter, e questo è incredibile. Ogni tweet raggiunge milioni di persone e funziona. Poi penso anche che il presidente americano, contrariamente a quanto succede in Francia dove il presidente dirige la maggioranza parlamentare, ha veramente a che fare con dei contropoteri e quindi non può fare quello che vuole. Quindi sta facendo davvero un gran lavoro.

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3. Olanda

Partij voor de vrijheid – Il Partito di Geert

Se il Front national francese è da considerare il partito nazionalpopulista ed euroscettico per eccellenza nella storia politica europea dagli anni Settanta ad oggi, il Partij voor de vrijheid e il suo leader Geert Wilders meritano sicuramente un’attenzione di riguardo: si tratta in effetti di un populismo di successo1. Il PVV (Partito per la libertà) è stato fondato nell’estate del 2005 da Wilders con il chiaro obiettivo di raccogliere l’eredità politica di Pim Fortuyn (ucciso nel 2002) e proseguire la sua campagna anti-islamica2. Alla continua denuncia del rischio di islamizzazione dell’Europa, Wilders affianca da sempre la critica feroce alle élites olandesi e dell’Unione Europea, così sull’onda della Brexit ha più volte evocato l’uscita dei Paesi Bassi dall’UE (la cosiddetta «Nexit»). Wilders è presidente e unico iscritto al partito come gli avrebbe suggerito fin dalla sua costituzione Martin Bosma, il suo consigliere storico considerato la vera mente del PVV3. In qualità di unico iscritto, la sua presidenza non può essere contesa ed è lui ad avere l’ultima parola sulle candidature nelle varie legislature e su come gli eletti devono votare. Ma soprattutto il Partito per la libertà è il veicolo per la promozione di un’unica figura: Wilders e le sue idee4. Le posizioni estreme del politico olandese rispetto all’islam lo hanno messo nel mirino delle organizzazioni terroristiche, tanto che nel 2004 Wilders è stato inserito in una lista di obiettivi di Al Qaeda e da allora vive sotto scorta. Negli anni ha ulteriormente radicalizzato le proprie posizioni proponendo di fermare l’immigrazione verso l’Olanda, di chiudere tutte le moschee nei Paesi Bassi e di vietare il Corano, paragonato al Mein Kampf di Hitler5. Dopo la prima affermazione a sorpresa nelle elezioni olandesi del 2006, Wilders è riuscito ad attirare l’attenzione dei 35

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Euroscettici

media olandesi ed internazionali grazie ad una costante spettacolarizzazione delle proprie azioni. Un altro veicolo straordinario per promuovere la propria politica: nel marzo 2008 ha fatto la sua comparsa il film Fitna, pellicola che contesta l’islam in tutte le sue forme. Non solo, nel febbraio 2009 è stato bloccato all’aeroporto londinese di Heathrow6 e l’Home Office gli ha negato l’ingresso nel Regno Unito perché le sue opinioni sono state considerate «una minaccia per l’armonia della comunità e quindi una minaccia per la pubblica sicurezza»7. La sua campagna politica corrosiva ha fatto sì che nelle successive elezioni europee il Partito della libertà potesse arrivare secondo alle urne, il 17%, un esito che ha proiettato Wilders tra i campioni del nazional-populismo europeo8. Anche nel 2010 l’ascesa del PVV è proseguita, quando il partito ha ottenuto quello che finora è stato il miglior risultato elettorale della sua storia: alle politiche olandesi, con il 15,4% e oltre 1,4 milioni di voti, Wilders ha accettato anche di portare il proprio partito nella coalizione di governo, da cui è uscito due anni dopo per aver respinto le politiche dell’austerity in linea con quanto chiesto dall’Unione Europea9. Da allora il PVV, che pur con questa breve esperienza di governo non ha perso la sua credibilità10, è sempre rimasto all’opposizione: si è confermato alle elezioni europee del 2014 e con il fiorire della letteratura sul populismo e l’euroscetticismo ha attirato moltissima attenzione quando, nel 2017, l’Olanda è tornata alle urne, con più di un osservatore preoccupato per un’eventuale vittoria del PVV11. Affermazione che non c’è stata: nonostante la grande risonanza mediatica, il PVV si è fermato al 13% ottenendo meno voti che nel 2010 (poco più di un milione e trecentomila). Dal punto di vista ideologico il PVV si fonda su quattro pilastri: il contrasto alla nascita dell’Eurabia, la valorizzazione dell’uomo comune, patriottismo e maggiore sicurezza in Olanda. All’interno di questa cornice le azioni proposte da Wilders sono, dunque, il controllo delle frontiere da parte dell’Olanda e il blocco completo dei flussi migratori: ne consegue l’inevitabile uscita dall’Unione Europea (preceduta ovviamente dall’abbandono dell’euro), che secondo il leader del PVV non è più riformabile dall’interno e che è gestita da un’élite che non difende la cultura europea e che non fa gli interessi economici dei cittadini12. 36

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Olanda

Il PVV è, a livello europeo, tra gli alleati del Front national e della Lega. Il copresidente del gruppo parlamentare formato da queste tre forze, insieme al Vlaams belang belga e all’FPOE austriaco (oltre a partiti più piccoli, visto che Alternative für Deutschland nel 2014 ha avuto una piccola pattuglia che si è subito dissolta), è un uomo di fiducia di Wilders, Marcel De Graaff13, che tra il 2011 e il 2014 è stato membro del Senato, prima di essere eletto all’Europarlamento. Tra Strasburgo e Bruxelles De Graaf ha portato avanti tutte le sfide contro l’UE secondo le indicazioni di Wilders.

EUROPEE

Anno

Voti

%

Seggi

2009

772.746

16,97%

4

2014

626.060

13,17%

4

Anno

Voti

%

Seggi

2006

579.490

5,9%

9

2010

1.454.493

15,4%

24

2012

950.263

10,1%

15

2017

1.372.941

13,06%

20

LEGISLATIVE

37

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Euroscettici

Intervista a Marcel De Graaff14 Prima dell’intervista ci tengo a dire una cosa: rappresento un partito di destra, ce ne sono molti in Europa. Ma ce ne sono alcuni con cui non vogliamo avere assolutamente nulla a che fare e sono quelli con posizioni anti-semite. Nel nostro gruppo (ENF) ci sono partiti che sono euroscettici, ma non quelli anti-semiti. So che nel progetto editoriale c’è anche Jobbik, voglio precisare che è un partito con cui non vogliamo cooperare. Detto questo possiamo tornare al motivo di questo incontro. Perché il PVV e l’ENF hanno una posizione critica verso l’Unione Europea?

Gli euro-fanatici che sono sovrarappresentati al Parlamento europeo sostengono che ci sia un deficit democratico nell’attuale struttura dell’Unione Europea. Generalmente non sono d’accordo con loro, ma su questo sì. La struttura europea è quella pensata dai leader degli Stati fondatori, che immaginavano la cooperazione economica, e quella era la Comunità europea. Ma quando questa è diventata Unione Europea è stato chiaro che quello che era un progetto esclusivamente economico è diventato politico, ma la struttura era creata senza un’idea di democrazia. Si voleva costituire una superpotenza che potesse competere con gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. Partendo da questo presupposto è chiaro che la struttura dell’UE doveva permettere ai capi di Stato di prendere decisioni insieme. E ciò accade al Consiglio Europeo; poi è stata introdotta la Commissione Europea, immaginata come un’entità neutrale non politica che avrebbe dovuto semplicemente eseguire le decisioni del Consiglio Europeo. Insomma una struttura che non lascia molto spazio alla democrazia, l’idea di fondo è governare senza che i cittadini siano coinvolti. Le cose sono peggiorate: ora vogliono un’Unione ancora più salda e profonda. Per farlo sono stati siglati nuovi trattati che danno più potere alla Commissione Europea e all’Unione Europea in generale, praticamente senza dover rispondere alle richieste dei cittadini. In questo modo si prendono delle decisioni senza doverne rispondere. Lo abbiamo visto nella politica olandese per decenni: la politica ha fatto ciò che chiedeva Bruxelles. Non si prendono la piena responsabilità di essere parte del processo di decision 38

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Olanda

making, ma hanno comunque il diritto di veto. Questa è la struttura di base dell’Unione Europea oggi. Per quanto mi riguarda sono assolutamente contrario. Come si può migliorare la situazione? Ora lei è in un’istituzione europea. Come pensa di riportare la democrazia tra i cittadini?

Personalmente vedo delle istituzioni in cui ci sono diecimila burocrati che sono stati assunti per fare del loro meglio per costruire questa Unione Europea sempre più salda. Diecimila persone che stanno creando direttive su ogni minima cosa che può influenzare la nostra vita quotidiana, ad esempio se puoi o meno mettere una bottiglia di olio d’oliva su un tavolo in terrazza in Italia o quanta potenza deve avere la tua aspirapolvere. Non sto scherzando. L’Unione Europea è anche questo. Partendo da questi presupposti, se si vuole cambiare bisogna iniziare dal vertice della struttura, perché i burocrati sono soldati, non sono generali. Quindi bisogna agire ai vertici, il che è comunque problematico perché se si tocca un aspetto si ottiene un effetto a catena. Per questa ragione ci saranno sempre poteri contrari al cambiamento e sarà molto difficile farlo. Ci saranno sempre resistenze perché se, ad esempio, si decide di dare più potere alla Commissione Europea allora ci sarà conseguentemente una perdita di potere del Consiglio Europeo. Se si decide di dare maggiore potere al Parlamento Europeo le altre due istituzioni ne perderanno. Ci sarà sempre resistenza al cambiamento, sia che lo si faccia in modo graduale sia in modo drastico. Ci sono stati tentativi anche di modificare l’UE: basta guardare al diritto di veto che possono esercitare i Capi di Stato, c’è chi ha provato ad abolirlo. Ma se viene tolto il diritto di veto si rischia di creare dei conflitti di interessi tra gli Stati: prendiamo il caso di Olanda e Germania che sono tra i primi finanziatori dell’Unione Europea. Senza diritto di veto, cosa accadrebbe se coloro che ricevono più di quanto danno all’UE fossero in maggioranza? Praticamente i finanziatori si troverebbero costretti a pagare sempre di più. Considerano sia il diritto di veto sia il processo decisionale a maggioranza da questa prospettiva si capisce perché non si possono risolvere le questioni a livello di Unione Europea. Io avrei un’alternativa, ma non contempla la riforma dell’UE: piuttosto si dovrebbe ripartire dagli Stati nazionali sovrani. Si 39

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tratta di un concetto che in Europa è conosciuto dal tempo dei Romani. Certo quando gli interessi erano differenti ci sono state delle guerre, ma oggi nessuno vuole una guerra. Quindi?

Ci sarebbero degli Stati nazionali che si rendono conto che possono crescere solo attraverso il commercio e che possono formare un’alleanza per difendersi dalle minacce esterne. Quello è un modello che può funzionare e si tratta semplicemente di un’alleanza di difesa comune: oggi c’è la NATO che dimostra di essere un modello di cooperazione che funziona. La NATO esiste dalla fine della Seconda guerra mondiale: gli Stati hanno realizzato strategie congiunte che hanno funzionato. Inoltre per effetto della natura capitalistica degli Stati membri, questi sono stati in grado di avere a disposizione i fondi necessari per finanziare la struttura difensiva. E questo lo si vede se si mette a confronto la NATO con l’Unione Sovietica, che era un impero molto potente con una forza militare imponente, ma alla fine, a causa dell’economia socialista, non è riuscita ad essere efficiente e a distribuire ricchezze come un’economia di mercato, dove si ha un’ottimizzazione della produzione e della distribuzione di beni grazie alle imprese. Credo molto nell’economia di mercato e nelle alleanze basate sulla sovranità e gli interessi comuni. Nell’Unione Europea attuale, un modello come questo è chiamato cherry picking15. Lei è d’accordo con questa definizione?

No. Io penso che se negli Stati del Sud Europa c’è bisogno di una moneta più debole per far crescere l’economia e nel Nord Europa c’è bisogno di una moneta più forte, allora va fatto perché entrambe le aree europee possono trarne beneficio. È ormai chiaro che con culture differenti, differenti strutture statuali e una posizione geografica differente si hanno diverse economie che non richiedono una struttura sovranazionale centralizzata e uniformata, ma è meglio che siano i singoli Stati a mettere in campo meccanismi economici più flessibili per accontentare le esigenze dei propri cittadini. Lei sostiene quindi che era meglio la Comunità Europea, in cui certo c’era una moneta teorica di riferimento, ma in cui ogni Stato faceva una propria politica economica e monetaria? 40

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Sì assolutamente. Con la Comunità Europea c’era un delta all’interno del quale l’economia si doveva muovere, ogni tanto questo intervallo andava rimodulato. Ma questo modello ha funzionato a lungo. In ogni caso credo molto di più in strutture come la Comunità Europea, la NATO, ma anche nelle monete nazionali e non nell’euro. Il problema delle valute in tutto il mondo è che non sono più legate a nessuno standard. Di fatto si può iniziare a stampare moneta e continuare a farlo, ma non c’è niente che può dare a queste valute un valore intrinseco. Questo è stato un problema che c’era già con l’ECU. Ma in ogni caso c’era un intervallo all’interno del quale tutte le valute nazionali dovevano rimanere.

Sì e tutte le valute erano collegate una all’altra ed erano collegate all’economia. In tal modo c’era una realtà economica che rifletteva il reale valore della valuta nazionale. Oggi quando si mette a confronto la forza dell’euro con l’economia italiana si vede che ci sono delle discrepanze, lo stesso accade se si mette a confronto la moneta unica con l’economia tedesca. È ciò che gli economisti chiamano «una misura non adatta a nessuno»16, l’euro è questo. Il PVV, Partito per la libertà, è per la Nexit, l’uscita dell’Olanda dall’Unione Europea?

Sì assolutamente. Vogliamo uscire dall’Unione Europea e vogliamo abbandonare l’euro. Le ragioni sono molteplici e non solo economiche, ma crediamo che dal punto di vista economico l’Olanda abbia una storia centenaria di scambi commerciali con tutto il mondo. È stata la prima nazione che ha avuto una Borsa valori, le società erano basate su azioni che si potevano comprare e vendere. Tutto pur essendo un piccolo Stato, non paragonabile col Sacro Romano Impero o la Spagna. Ma lo stesso abbiamo resistito grazie alla nostra forza economica collegata all’innovazione tecnologica. Questi due aspetti connessi alla forza militare hanno permesso nel tempo all’Olanda di diventare una grande potenza commerciale globale. Non solo, gli olandesi hanno sempre cercato di adattarsi alle abitudini dei popoli con cui commerciavano, siamo stati anche i primi ad avere scambi commerciali col Giappone, che al tempo non accettava gli stranieri. Lo stesso vale per l’Italia, che ha una lunga tradizione a 41

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partire da Marco Polo e che oggi non può essere misurata solo sulle 30 imprese che fanno commercio internazionale ad alto livello. L’Italia ha un potere economico intrinseco molto più elevato. In sostanza Stati come l’Italia e l’Olanda possono fare trattati commerciali bilaterali e in questi accordi possono puntare soprattutto ad ottenere ciò di cui hanno bisogno in cambio di beni necessari all’altro contraente dell’accordo. Se si pensa invece ai trattati commerciali che vengono realizzati dall’Unione Europea con Stati terzi, di sicuro sono tutelati per primi gli interessi tedeschi, poi quelli francesi e poi viene lasciato qualcosa agli altri. Questo in sostanza è il pilastro su cui poggia l’idea per cui la Nexit sarebbe una buona soluzione. Quindi come abbiamo visto c’è un aspetto economico, ma c’è anche un aspetto sociale legato alle migrazioni di massa che è collegato al controllo dei confini. Non sto parlando solo di immigrazione di massa da Paesi islamici, il problema è molto più complesso. Cosa intende?

Prendiamo Rotterdam, che è uno dei porti più importanti del mondo, il più grande d’Europa. C’è un grande traffico di merci attorno a Rotterdam e gli autotrasportatori devono rispettare determinati standard. O meglio è stato così fino a qualche tempo fa. Sicuramente nel momento in cui si guida un camion che trasporta benzina o gasolio sono necessarie delle qualifiche aggiuntive. Con il trattato di Schengen e la libertà di movimento dei lavoratori si possono acquistare i documenti in Lituania per cinquanta euro e guidare qualsiasi tipo di camion trasportando ogni genere di merce. Il fatto di avere salari più alti di quelli dell’Est Europa ha fatto perdere il lavoro agli autotrasportatori olandesi, ma contemporaneamente ha aumentato i rischi sulle strade. Questo per dire che ci sono molteplici ragioni per cui sarebbe meglio poter controllare i propri confini e quindi controllare ciò che accade nel proprio Paese. Altre ragioni per cui la Nexit sarebbe positiva?

Abbiamo commissionato una ricerca alla Capital Economics, una società con base a Londra che fa analisi per tutte le più grandi aziende del mondo. Secondo i loro calcoli, in uno scenario Nexit, i primi sei mesi sarebbero quelli più difficili, dovrem42

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mo fronteggiare una situazione di crisi, dopodiché la Nexit comincerebbe a dare i suoi frutti, quindi i risultati positivi sarebbero molto rapidi. In sostanza all’inizio ci sarebbe la Borsa in agitazione, sarebbe causato anche dal cambio di valuta. Poi la crescita del PIL sarebbe tra il 6% e il 12%: il PIL procapite per ogni cittadino olandese crescerebbe ben oltre quello che ci possiamo aspettare ora che siamo nell’Unione Europea. Lo studio mette a confronto la crescita potenziale con la Nexit e quella con la permanenza nell’UE: lo scenario Nexit è quello più favorevole. Se pensiamo alla Brexit ci sono state molte discussioni su quello che sarebbe potuto accadere: di certo abbiamo potuto verificare che non c’è stato il collasso totale. Si è assistito ad una svalutazione della sterlina, ed era previsto, che dovrebbe aiutare le esportazioni tanto che successivamente la valuta torna ad essere forte e permette il rilancio dell’economia. Come definirebbe il PVV? Dove lo posizionerebbe?

Vorrei prima di tutto prendere le distanze dalla vecchia distinzione tra destra e sinistra. Il nostro è un partito per il popolo, il che significa ad esempio battersi per un buon sistema sanitario; è uno dei nostri cavalli di battaglia. Vogliamo una buona assistenza sanitaria che possa essere sostenibile per tutti. Suona come una cosa di sinistra, ma per noi è qualcosa di logico perché tutti devono essere curati in ospedale se sono malati. Per quanto riguarda il nostro programma economico, siamo più liberali. Non crediamo in un’economia pianificata, ma siamo anche contrari all’idea per cui un ristretto circolo di persone debba trarre profitto dall’economia e gli altri debbano soffrire, diciamo che lo Stato deve definire le regole del gioco. Siamo contrari alla centralizzazione europea e per questo potremmo essere tacciati di estremismo. In realtà i veri estremisti sono i partiti pro Unione Europea perché si battono con una mentalità molto chiusa senza essere disposti al dialogo. Se sei l’ultimo arrivato nell’arena politica come è successo al PVV e vuoi ottenere un po’ di potere per influenzare le politiche allora devi ascoltare con attenzione quelle che sono le vere preoccupazioni degli elettori, dei tuoi connazionali. Siamo stati i primi probabilmente a capire di cosa erano preoccupati gli olandesi. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito alla crescita economica e a tutte le storie miracolose che questo sviluppo ha 43

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portato con sé, ma l’aumento reale delle entrate per le famiglie è stato pari a zero. Questo per effetto di tutta una serie di tasse aggiuntive. L’altro fallimento della politica olandese che abbiamo individuato è che l’integrazione di persone provenienti da altre culture non funziona. Sono stati spesi miliardi per programmi di integrazione nella società olandese per queste persone che hanno valori molto diversi da quelli occidentali. Non funziona, anzi ha creato tensioni nei quartieri e nelle città. Le persone che vivevano in certi quartieri da generazioni se ne sono dovute andare. Nessun partito in Olanda ha espresso chiaramente queste preoccupazioni. Noi l’abbiamo fatto e ci hanno chiamato «populisti». In ogni caso mi piace ricordare una famosa espressione romana che diceva «vox populi vox dei». Mi spiego meglio: ho lavorato a lungo in una compagnia di taxi e dicevamo: «il cliente ha sempre ragione perché se pensi che abbia torto se ne andrà e non tornerà più». Quindi siamo stati etichettati come populisti, ma non mi sento così. Mi sento piuttosto come une persona che è preoccupata per il suo Paese, che lo ama e che lo vorrebbe cambiare in meglio e non in peggio. In generale gli olandesi sono sempre stati aperti a tutti coloro che volevano venire a vivere nei Paesi Bassi, e le persone sono arrivate per secoli da tutto il mondo. Ma chi arriva deve provare quantomeno ad inserirsi rispettando le leggi, lo Stato e le forze dell’ordine. Oggi assistiamo invece al fenomeno per cui chi arriva crea una società parallela con valori differenti non rispettando la società olandese perché è secolarizzata, e continuando a ripetere che il suo dio è il migliore. Non va bene. In Olanda abbiamo tantissime religioni, ne abbiamo almeno 150 registrate e abbiamo sempre cercato di coesistere in maniera pacifica. Implicitamente, però, tutti devono essere disposti ad accettare che c’è qualcosa di più importante dell’opinione individuale, ovvero lo Stato con le sue leggi. E queste due cose devono essere rispettate, ma adesso qualcosa ha iniziato ad andare storto in Olanda. Il PVV è a favore del cristianesimo?

Non siamo esplicitamente cristiani. Piuttosto sosteniamo che in Olanda vi sia una tradizione culturale e umanistica giudai44

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co-cristiana. Da Erasmo da Rotterdam a Baruch Spinoza, abbiamo una lunga tradizione di umanesimo, un umanesimo etico che significa uguaglianza, tra uomini e donne, ma anche tra differenti etnie, il colore della pelle non conta. Il mio assistente è di colore, lavoriamo insieme da anni. L’idea di base dell’Olanda è proprio questa uguaglianza. Oggi però c’è chi dice: «Sei un miscredente e io ti uccido. Sei un apostata e io ti uccido». Questi non sono i nostri valori. Per questa ragione ci sentiamo minacciati dall’immigrazione di massa. Al Parlamento Europeo ci sono molte forze euroscettiche: i gruppi di sinistra da Podemos a Syriza, gli scandinavi a partire dai Democratici svedesi e dai Popolari danesi, ma anche lo Ukip di Farage. Perché è così difficile mettere insieme tutte queste forze politiche e creare un’unica forza euroscettica?

Ho solo una spiegazione parziale sul perché questo accada. Se guardo alla situazione olandese, e so che ad esempio in Germania è anche peggio, mi rendo conto che siamo veramente demonizzati. Siamo stati presentati come estremisti di destra, sono stato definito xenofobo, razzista, omofobo, il peggio del peggio. E lo stesso è accaduto nei rispettivi Stati d’origine a tutti i partiti che ha citato. Noi eravamo già considerati malissimo dai media olandesi, ma se pensiamo a come era trattato il Front national il Francia la loro situazione era anche peggio. Nessuno può immaginare cosa si è scatenato quando il PVV ha iniziato a collaborare con il Front national. I media internazionali sono impazziti, hanno completamente perso la testa. Ci hanno dipinto come il diavolo. Questo è stato il primo grande ostacolo che abbiamo dovuto affrontare, quando abbiamo iniziato a cooperare con il FN, abbiamo dovuto ignorare la demonizzazione. Ma ci sono stati alcuni partiti che hanno pensato che fosse troppo rischioso far parte di questo progetto. In sostanza non hanno avuto il coraggio e hanno pensato qualcosa tipo «vogliamo essere percepiti come un po’ più moderati. Proviamo ad allearci con altri partiti che sono percepiti come meno estremisti». Perché è successo? Perché magari alcuni avevano l’intenzione o l’ambizione di entrare nelle coalizioni di governo. Quindi le suggestioni causate dai principali media hanno influenzato le strategie dei differenti partiti euroscettici. E in sostanza questo ha portato alla formazione di differenti gruppi al Parlamento Europeo. Perciò 45

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se si guarda a questi movimenti da lontano fondamentalmente appartengono tutti alla stessa famiglia, se invece ci si concentra sul singolo caso allora le scelte politiche sono differenti. E questo lo rispetto, è logico. Bisogna sempre tenere conto delle specificità di ogni scenario politico nazionale.

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4. Belgio

Vlaams belang – Fiandre e populismo

Il Vlaams belang (Interesse fiammingo) in questi anni ha attraversato un periodo di declino di consensi, ma resta uno dei partiti più interessanti nella grande e variegata famiglia dei movimenti populisti: il partito fiammingo è sempre stato un mix tra etnonazionalismo e populismo, ma non perseguendo una dimensione nazionale belga (per altro impraticabile) concentrando al contrario le proprie forze sulla difesa dei fiamminghi. Nel caso specifico è stato uno di partiti populisti di maggior successo tra gli anni Novanta e il nuovo millennio: nato nel 1979 come Vlaams blok (Blocco fiammingo), nel 2004 il partito ha dovuto essere completamente rifondato nel momento in cui prima la Corte d’Appello di Gent e poi la Corte di Cassazione belga hanno stabilito che il VB aveva violato le leggi sul razzismo. Con la fondazione del Vlaams belang vengono sfumati alcuni aspetti della piattaforma programmatica: resta l’indipendenza delle Fiandre con Bruxelles capitale; ma sull’immigrazione alcune posizioni vengono leggermente riviste, si passa dal rimpatrio di tutti gli immigrati al rimpatrio di quelli che rifiutano o respingono la cultura europea. È tuttavia sul piano economico che avviene la maggiore trasformazione: il Vlaams belang sposa un modello neoliberista superando le posizioni neocorporative ispirate al fascismo1. Resta però un’organizzazione interna che nel passaggio di rifondazione rimane pressoché intatta e che è stata una delle ragioni alla base dei suoi successi elettorali e anche della tenuta in questo originale processo di palingenesi politica2. Il 2004 è stato anche l’anno in cui il movimento ha ottenuto i migliori risultati elettorali della sua storia sia nelle elezioni per il Parlamento fiammingo (con il 24,2%) sia per le Europee con il 14% (e l’elezione di tre eurodeputati). Ma il «cordone sanitario» 47

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che fin dal 1989 ha visto tutte le altre forze belghe impegnate nel non permettere al VB di accedere a nessuna carica istituzionale ha iniziato a pesare politicamente. Così l’affacciarsi nell’arena politica della Nieuw-vlaamse alliantie (N-VA), la Nuova alleanza fiamminga, ha lentamente eroso consensi per il movimento più marcatamente nazional-populista3. Se in altri casi nazionali per alcuni partiti populisti, come il Front national o l’FPOE austriaco, gli insuccessi elettorali sono arrivati in fasi di scontro interno e di rinnovamento, per il Vlaams belang le ragioni sono da cercare sostanzialmente altrove: sicuramente si è assistito ad un ricambio generazionale nel movimento, ma dall’altra l’elettorato si è convinto che il proprio voto non avrebbe mai avuto lo sbocco dell’accesso al potere del partito e quindi ha deciso di puntare sul N-VA che ha saputo proporre temi analoghi ma senza subire l’embargo politico4. In sostanza il Vlaams belang si è visto sottrarre l’elettorato e in questi anni ha vissuto un inesorabile declino: nel 2014 nella tornata elettorale per Camera dei Rappresentanti ed Europee si è visto dimezzare i consensi rispetto a cinque anni prima, ottenendo rispettivamente il 3,67% (contro il 7,76%) passando da 12 a 3 deputati e il 4,26% (era stato il 9,85 nel 2009)5. Proprio sul voto europeo si può leggere l’avanzamento inesorabile della N-VA dal 6,13% del 2009 al 16,79%. Dopo la batosta elettorale il partito ha affrontato una profonda ristrutturazione interna, nell’ottobre dello stesso anno è stato eletto presidente del VB, il ventottenne Tom van Grieken. Un volto nuovo, si potrebbe dire che Van Grieken rappresenta la faccia pulita dell’estrema destra belga, ma che non ha rinunciato a proposte shock e a posizioni estreme come quella di bloccare per dieci anni il flusso migratorio verso il Belgio6. Il VB è stato anche tra i promotori delle manifestazioni del dicembre 2018 a Bruxelles contro il Patto ONU sui migranti con tanto di tentativo di assalto ai palazzi delle istituzioni europee. In ogni caso il giovane leader del Vlaams belang è riuscito almeno in parte a spezzare il cordone sanitario: il suo libro «Toekomst in eigen handen: opstand tegen de élites» (letteralmente «Il futuro nelle nostre mani: la lotta contro le élites») è stato distribuito in Belgio in tutte le librerie ed è stato tradotto in francese con tanto di lancio promozionale da parte di Marine Le Pen. Solo il futuro potrà dirci se Van Grieken riuscirà a portare il Vlaams be48

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lang agli antichi fasti, soprattutto dopo che il N-VA ha passato gli ultimi anni al governo, uscendone un po’ provocatoriamente e in maniera astuta, a sei mesi dalle elezioni, e proprio per l’appoggio del governo belga al Patto ONU sui migranti di Marrakech. La contesa tra i partiti fiamminghi resta sul campo dei temi cari a tutti i populisti. EUROPEE Anno

Voti

1979

%

Seggi

Non ha partecipato

1984

73.174

2,1%

0

1989

241,117

4,09%

1

1994

463.919

12,56%

2

1999

584.392

9,39%

2

2004

930.731

14,34%

3

2009

647.170

9,85%

2

2014

284.891

4,26%

1

LEGISLATIVE Anno

Voti

%

Seggi

2003

767,605

11,6%

18

2007

799.844

11,99%

17

2010

506.697

7,76%

12

2014

247.738

3,67%

3

PARLAMENTO FIAMMINGO Anno

Voti

%

Seggi

1995

465.239

12,3

15

1999

603,345

15,5%

20

2004

981.587

24,2%

32

2009

628.564

15,2%

21

2014

232.813

5,9%

6

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Intervista a Tom Van Grieken7 Mister Van Grieken lei è il leader del Vlaams belang. Puoi dirmi quale è la sua posizione sull’Unione Europea?

Siamo molto critici. Significa che siamo anti-europei o anti UE? No. Crediamo nella cooperazione e che alcuni problemi debbano essere risolti a livello europeo, ma sono contro quei livelli sovranazionali su cui non vi è un controllo democratico e per cui gli Stati nazionali perdono la loro sovranità senza che il popolo possa votare al riguardo. Come cambierebbe la struttura dell’Unione Europea?

È una domanda da un milione di dollari. Dal punto di vista degli euroscettici ci sono due opzioni: lo si può fare dall’interno o dall’esterno. In realtà un’idea non esclude l’altra, anzi si possono fare entrambe le cose. Potrei fare un paragone con il Belgio, se le Fiandre vogliono essere indipendenti devono votarlo nel Parlamento belga, ma non ci sentiamo parte del Parlamento belga. Lo stesso quindi vale per il fatto che siamo nell’UE, al Parlamento Europeo, ma non ci sentiamo parte dell’Unione. All’Europarlamento abbiamo un ruolo da cane da guardia: se viene presa una decisione sbagliata usiamo la nostra influenza per renderla meno sbagliata. Resta comunque una questione da un milione di dollari e i partiti euroscettici potrebbero passare giorni a discutere se l’UE va riformata o si deve ripartire da zero. All’interno del mio partito la maggioranza vorrebbe riformarla dall’interno, ma è molto complicato perché più passa il tempo più gli Juncker e i Verhofstadt acquisiscono potere. Se poi mi si chiede se l’Unione Europea ha fatto solo cose sbagliate, la mia risposta è ovviamente no. Sarebbe strano che ci fosse un’organizzazione che fa tutto sbagliato. In politica esiste sempre un equilibrio tra le cose positive e quelle negative. Al momento per l’Unione Europea, tuttavia, gli aspetti negativi sono maggiori di quelli positivi. Può dirmi alcune politiche sbagliate dell’Unione Europea?

Alcune cose sono andate veramente male, come l’immigrazione. Non esiste un piano serio per fermare l’immigrazione di massa; siamo onesti, non l’ha sicuramente bloccata l’accordo che abbiamo fatto con Erdogan8, il dittatore della Turchia. Al contra50

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rio abbiamo dato soldi ad un dittatore, ma per ogni clandestino che trattiene sul suo territorio ne spedisce uno in Europa. Non l’ha bloccata Frontex, che non sta funzionando. Va meglio, ma i migranti continuano ad arrivare, lo sapete bene voi in Italia. Ha funzionato fuori dall’Unione Europea, quando l’Austria e gli Stati di Visegrad hanno deciso di chiudere la rotta balcanica. Questo ci permette di arrivare al punto delle politiche europee: un’organizzazione sovranazionale non decide mai e non sa cosa fare, al contrario alcuni Stati sovrani hanno deciso cosa possono realizzare insieme e l’hanno fatto. Ma l’Unione Europea ha fatto altre scelte terribili, come le quote di richiedenti asilo ridistribuite in tutti gli Stati membri. Si riferisce alla politica della relocation?

Esatto. È come se ci fosse il mare e una diga. Se la diga si rompe, cosa si fa? Si ripara e si chiude la falla. L’Unione Europea invece con la marea di migranti cosa ha fatto? Non ha chiuso le frontiere ma li ha ridistribuiti. Non ha penalizzato solo qualcuno, ma tutti. Una scelta davvero stupida. Un’altra cosa molto negativa è l’Unione monetaria con l’euro. La moneta unica è terribile per gli Stati sovrani. Da nessuna parte nel mondo si ha un’unione monetaria senza quella politica, perché una moneta non è qualcosa che può esistere senza una guida politica. Certo a Bruxelles tutti dicono che è comodo pagare in euro; è vero ma è un modo vecchio di pensare: pagare con le banconote fa molto XX secolo, oggi si paga per via digitale. Quando sono andato in vacanza in Svezia dove non hanno l’euro, ho pagato con la carta di credito in euro ma per gli svedesi risultava in Corone. Pur con monete differenti non ci sono più barriere. Comunque l’euro è nato secondo i parametri tedeschi e funziona solo per alcuni Stati: gli scandinavi, l’Olanda, le Fiandre, il Lussemburgo. Ma non funziona negli Stati meridionali: in Italia e in Grecia. Per l’Italia poi farei una distinzione fra il Sud e il Nord, che è molto più vicino economicamente all’Europa centrosettentrionale. Perché non va bene per il Sud Europa?

Perché gli Stati meridionali sono manifatturieri, hanno bisogno di stipendi bassi affinché sia conveniente per le imprese pro51

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durre, ma anche il costo della vita deve essere basso. Con l’introduzione dell’euro è accaduto che i prezzi sono cresciuti sensibilmente mentre i salari sono rimasti gli stessi. Gli Stati del Sud Europa in passato svalutavano la loro moneta per risultare più attrattivi agli investimenti stranieri. Ma oggi è impossibile perché non si può svalutare l’euro, i tedeschi non lo permetterebbero, quindi gli Stati meridionali sono intrappolati in questa situazione. È come se ci fossero due pazienti con differenti patologie e il medico avesse una sola medicina: se ne cura uno perde l’altro. Con l’euro c’è questo problema che si riflette anche sulla politica monetaria. Cosa intende?

Prendiamo il caso greco. L’Unione Europea cosa ha fatto in Grecia? Ha salvato il governo o i greci? No. Ha salvato le banche greche. Questa non è l’Unione Europea che voglio. Riassumendo: immigrazione, euro e politiche monetarie sono tre cose negative prodotte dall’UE. Ma, ancora più importante, c’è un problema di democrazia. Rispetto all’Europa?

In una democrazia si ha la divisione tra governo, parlamento e tribunali: potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Il parlamento controlla il governo e fa le leggi; il governo fa in modo che le leggi vengano applicate e funzionino, e il sistema giudiziario fa in modo che le leggi siano rispettate e tiene un occhio sui politici. Il Parlamento Europeo fa delle leggi? No, si limita a emendare ciò che l’esecutivo europeo gli passa. Questi emendamenti sono per la maggior parte influenzati dalle lobby. Quindi il Parlamento Europeo non fa leggi e non bilancia nemmeno l’azione della Commissione Europea: non ha potere di veto ed è tutto in mano ai commissari. In sostanza si sta dando alla gente la falsa illusione di essere rappresentata all’Europarlamento. E ancora, io sono membro del Parlamento fiammingo e moltissime leggi che noi votiamo sono regolamenti comunitari che dobbiamo convertire in legislazione nazionale. Sono eletto non per adottare leggi prodotte da chi non è stato eletto, sono in Parlamento per rappresentare la mia gente. Il tema è quello della sovranità nazionale.

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Belgio

Mi faccia un altro esempio.

Sono anticomunista al 200%, ma i Greci hanno votato per i comunisti e hanno questa idea folle per cui vogliono spendere anche i soldi che non hanno, sforare quindi i parametri europei. Lo trovo stupido, ma se i Greci hanno votato per una linea politica del genere hanno il diritto di avere questa politica stupida. All’improvviso arriva l’Unione Europea che dice: «No, non potete farlo. Dovete pagare una multa». E questo nonostante la gente abbia votato. Ma mi chiedo chi abbia dato il diritto all’Europa di dire ai greci che il loro voto era sbagliato. Lo stesso è successo in Italia: l’Europa ha fatto cadere un primo ministro per mettere un pupazzo controllato da Goldman Sachs per fare le cose che chiedeva l’Unione Europea9. Non è solo sbagliato, è pericoloso. Ha parlato di moneta digitale, pensa che si possa davvero introdurre?

Teoricamente è possibile, ma la gente non è pronta. Una cosa del genere provocherebbe instabilità e incertezza e sarebbe peggio che avere una moneta come l’euro che non funziona bene e con cui alla fine dobbiamo convivere. Ma cosa pensa dell’ipotesi di un euro a più velocità?

Per dare un futuro all’euro dovremo dividerlo: l’euro settentrionale e quello meridionale. Non sarebbe facile da realizzare, ma risulterebbe sicuramente più funzionale. Pensa che in Europa le élites politiche siano contrarie agli euroscettici?

Ne sono convinto e anche se non credo nei complotti so che, per svariate ragioni, ci sono molte forze che hanno un grande interesse nel fermare le forze euroscettiche. So per certo che tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, durante una riunione riservata a cui partecipava il belga Herman Van Rompuy, che al tempo era presidente del Consiglio Europeo, si discusse del problema dell’immigrazione di massa. A quel livello sapevano già che il problema si sarebbe presentato nei termini che abbiamo visto nel 2015. Ma in quel momento si è deciso di non prendere contromisure e di non rendere pubblica la notizia perché mancavano pochi mesi alle elezioni europee. Van Rompuy sostenne che parlare dei rischi dell’immigrazione di massa sarebbe stato un 53

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Euroscettici

regalo ai partiti populisti. Dall’estate del 2014 in poi migliaia di persone sono morte nel Mediterraneo perché i vertici europei non hanno voluto mettere in campo subito delle misure per prevenire la crisi migratoria. Van Rompuy e tutti gli altri hanno le mani insanguinate. Lei si considera un populista?

Non secondo l’etichetta che i principali media mi vogliono affibbiare. Populista deriva da popolo, colui che rappresenta ciò che la gente chiede e direi che questo non è un male. È l’idea della democrazia. Ma i media mi danno del populista perché sostengono che utilizzo soluzioni semplici per problemi complessi. La mia replica è la seguente: «Un bravo professore è quello che spiega un problema con parole difficili o quello che riesce a illustrare in maniera semplice una situazione complessa?». Il Vlaams belang è un partito nazionalista, lei crede che le Fiandre possano diventare indipendenti nell’Unione Europea o prima servirebbe un’Europa delle nazioni e dei popoli?

Innanzitutto quando la mia terra diventerà indipendente non saremo come un’isola, ma avremo rapporti con gli altri Paesi. Secondo, l’Europa dei popoli e delle regioni è sempre stato un sogno dell’ala destra del movimento fiammingo. E oggi esiste l’Europa delle regioni, ma io voglio che diventiamo uno Stato, sono stufo che siamo una regione. Voglio un’Europa fatta di Stati non di regioni e di aspiranti Stati. Per questo motivo sono veramente arrabbiato, per il fatto che dopo l’atto di coraggio della Catalogna l’Unione Europea si sia voltata dall’altra parte e non abbia condannato la violenza della Spagna contro degli innocenti. Temo che lo stesso possa accadere quando anche noi avremo la maggioranza nelle Fiandre e l’UE non ci considererà. L’Unione è sempre molto solerte nel condannare la Polonia o l’Ungheria, ma è stata silenziosa quando si è trattato della Spagna. Non è giusto, hanno usato due pesi e due misure. L’Unione Europea forse è preoccupata per il rischio di disgregazione degli Stati nazionali.

No, l’UE teme la democrazia. Diciamo che la democrazia e l’Unione Europea non sono una coppia affiatata. Quante votazioni e referendum ci sono stati per contrastare una maggio54

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Belgio

re presenza dell’UE? In Irlanda, in Francia, in Olanda, in Danimarca. E cosa è successo? Tutte le volte l’opposto. Juncker una volta ha detto: «Prima facciamo qualcosa per una maggiore integrazione europea, poi aspettiamo la reazione della gente, quando gli animi si sono placati ci prendiamo più potere»10. L’Unione Europea funziona così e sai chi la comanda? Politici che hanno perso le elezioni nei loro Stati, che sono stati cacciati perché non piacciono più agli elettori. A quel punto si rifugiano a livello europeo, se ne stanno buoni per un anno o due, poi ricompaiono senza alcun mandato democratico e iniziano a dare indicazioni a leader democraticamente eletti di ogni Stato membro su come devono governare la loro nazione. Una situazione decisamente perversa. Ma una delle vere ragioni per cui critico l’Unione Europea è legata al modo di ragionare dei vertici comunitari. Se le cose vanno bene nel Vecchio Continente, Juncker e gli altri dicono: «Ci serve più Unione Europea perché stiamo andando bene». Se le cose vanno male la posizione diventa: «Ci serve più Unione Europea per risolvere i problemi». Non c’è mai alternativa all’idea di un di più di Unione Europea. Noi chiediamo che ce ne sia meno e non che non ce ne sia. In un mondo globalizzato un singolo Stato di fronte a Cina, Russia o Stati Uniti può fare ben poco. Non crede che l’Unione Europea possa difendere economicamente i suoi Stati membri?

In questo momento non lo sta facendo, anzi sta lasciando che gli Stati Uniti, ma soprattutto la Cina, si prendano le aziende europee. Sono un grande amante della Volvo, la celebre industria automobilistica svedese: ora è cinese. Ma nelle industrie europee sono stati investiti anche fondi dell’Arabia Saudita. La Comunità Europea aveva degli aspetti positivi, in particolare la sua idea di cooperazione economica. Era un buon progetto fino al trattato di Maastricht. L’Europa aveva tolto le barriere commerciali tra gli Stati membri per facilitare gli scambi e avrebbe dovuto continuare ad occuparsi solo di quello, non mettersi a interferire con la politica interna. Quindi sono d’accordo sull’idea di formare un blocco europeo contro le altre grandi potenze economiche, a patto che il livello politico interno venga lasciato ad ogni singolo Stato membro. Un’idea del genere può funzionare per piccoli Stati come le Fiandre o l’Austria, ma sicuramente non 55

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per il Regno Unito, la cui posizione sarebbe meno ascoltata di quanto potrebbe esserlo se Londra restasse indipendente. Cosa pensa dell’ipotesi di una difesa comune europea?

Acquisti comuni per la difesa potrebbero essere utili. Ma abbiamo già la NATO, che senso ha farne una replica europea? Si potrebbe dire che sarebbe un’occasione per ridurre l’influenza americana, e credo che sarebbe una buona cosa perché non sono un grande fan della NATO, se uno dei pilastri su cui poggia è Erdogan e uno degli alleati più leali è l’Arabia Saudita. Non sono contrario ad una politica europea in campo militare, ma anche in questo caso nel rispetto dell’interesse di ogni Stato membro. Per esempio in questo momento stiamo boicottando la Russia. Perché? Non lo so, nel senso che le Fiandre o l’Italia non hanno perso niente nel conflitto in Ucraina con i russi. Quindi perché dobbiamo boicottare i russi? Penso sia stupido. È chiaro che se un piccolo Stato come la Finlandia o l’Estonia fossero minacciati dalla Russia, allora sarebbe giusto mettere delle sanzioni. È tutto relativo, e quindi una buona politica comune deve tenere conto delle differenze, perché spesso gli interessi di uno Stato piccolo non sono gli stessi di uno grande.

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5. Svezia Sverigedemokraterna – Gli ultimi arrivati sulla scena scandinava

I Democratici svedesi (Sverigedemokraterna-SD) sono, per quanto riguarda la regione scandinava, il più giovane movimento populista ed euroscettico. La Svezia è, infatti, stato l’ultimo dei Paesi del Nord ad essere investito dal fenomeno del nazionalpopulismo, che è arrivato solo alla fine degli anni Ottanta con il coagularsi di forze spiccatamente nazionaliste e in prima linea nelle campagne anti-immigrazione. Tuttavia il percorso politico dei Democratici è stato abbastanza sofferto fino al 2010, quando per la prima volta sono riusciti ad entrare al Riksdag con venti deputati. La nascita di SD risale al 1988 quando alcuni movimenti anti-immigrati e nazionalisti, come Bevara sverige svenkst (La Svezia resti svedese), il Partito di Svezia e il Partito del progresso hanno deciso di unire le forze. I componenti più giovani della leadership erano tutti collegati ad ambienti di estrema destra e neonazisti, ma ai vertici di SD vi erano anche veterani nazisti1. I primi risultati del neonato movimento non sono stati rilevanti e nel corso degli anni Novanta i Democratici svedesi sono stati oscurati politicamente ed elettoralmente dal partito Nuova democrazia, che ha di fatto occupato per una breve stagione lo spazio politico di riferimento di SD. Nuova democrazia ha saputo essere più convincente su tutti i temi che i Democratici hanno cercato di proporre nell’arena politica: la conservazione di presunti valori di svedesità, la critica alla politica dell’immigrazione e più in generale all’intero sistema politico svedese2. Risulta abbastanza evidente che Nuova democrazia e Democratici svedesi all’inizio degli anni Novanta avevano come caratteristica distintiva la difesa dell’identità svedese3. Nel 1994, quando l’esperienza lampo di Nuova democrazia si è conclusa, i Democratici svedesi sono rimasti comunque una realtà politica marginale, tanto che la Svezia è stata a lungo consi57

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derata come una realtà nazionale immune dal populismo4. Ma le motivazioni sociali per cui inizialmente i nazionalpopulisti hanno trovato la via sbarrata si sono allentate e si è così assistito, a partire dagli anni Duemila, al venir meno della lealtà di classe ai partiti tradizionali, ad una crescente conflittualità sociale e ad un dibattito politico sempre più acceso rispetto al fenomeno migratorio. A questo va aggiunto un alto livello di insoddisfazione rispetto alla classe politica esistente ed una crescente xenofobia, che ha condotto anche alla nascita di uno spazio politico favorevole per una forza euroscettica: insomma le condizioni propizie per l’affermazione di un partito, i Democratici svedesi, che nel 2005 ha rinnovato completamente la leadership affidandosi ad una nuova generazione di politici, rappresentati da Jimmie Akesson e Mattias Karlsson. Da questo momento in poi inizia un’ascesa inesorabile del partito che prima entra in Parlamento nel 2010, poi si conferma quattro anni dopo sia alle elezioni politiche5 sia alle europee, mandando propri rappresentanti anche a Bruxelles6; si arriva poi all’appuntamento elettorale più importante, le politiche del 2018, grazie anche al vento di poppa dei sondaggi7. In ogni caso, nel momento in cui i Democratici entrano nella vita parlamentare svedese iniziano a farsi più serrati i rapporti con gli altri partiti populisti scandinavi: inizialmente nasce una collaborazione con i Popolari danesi (Dansk folkeparti), mentre il Perusuomalaiset finlandese preferisce non stringere accordi per i presunti rapporti che lo SD avrebbe con movimenti di ispirazione neonazista. Così finlandesi e danesi iniziano a collaborare in maniera continuativa nel momento in cui i finlandesi decidono di organizzare a livello di Nordic Council un gruppo euroscettico ed antimigranti, ma resta il veto sugli svedesi che vengono bollati come «impresentabili»8. La distanza si ricompone a livello di Parlamento Europeo, dove inizialmente i due eletti dei Democratici svedesi confluiscono nel EFDD, il gruppo parlamentare formato da Movimento 5 stelle e UKIP 9. Dopo una lunga anticamera, nell’estate del 2018 SD ottiene di poter passare nel gruppo dei Conservatori e riformisti, dove sono già presenti Popolari danesi e Veri finlandesi10. La scadenza delle elezioni politiche svedesi del settembre 2018 e il crescente dibattito in tutta Europa su populismo ed euroscetticismo mettono sotto i riflettori i Democratici svedesi, che accarezzano il sogno di un successo elettorale con l’obietti58

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vo di sfondare la soglia psicologica del 20% ed insidiare la maggioranza relativa dei socialdemocratici del premier Lovfen. In realtà il risultato del 9 settembre è stato al di sotto delle aspettative: SD è arrivato al 17,6%, ma alle spalle non solo dei Socialdemocratici ma anche dei Moderati11. L’effetto diretto di questo risultato è stato una lunga crisi politica, che ha visto la nascita di un nuovo governo Lovfen solo quattro mesi dopo. Per quanto riguarda i Democratici, benché non ci sia stato il risultato elettorale sperato, la grande attenzione mediatica e l’accettazione de facto tra i principali attori populisti europei hanno permesso a Akesson e Karlsson di sdoganare definitivamente il movimento. EUROPEE Anno

Voti

%

Seggi

1999

8.568

0,3%

0

2004

28.303

1,13%

0

2009

103.573

3,27%

0

2014

359.248

9,7%

2

Anno

Voti

%

Seggi

1991

4.887

0,1%

0

1994

13.954

0,3%

0

1998

19.624

0,4%

0

2002

76.300

1,4%

0

2006

162.463

2,9%

0

2010

339.610

5,7%

20

2014

801.178

12,9%

49

2018

1.100.662

17,6%

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LEGISLATIVE

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Intervista a Mattias Karlsson12 Come definirebbe il partito dei Democratici svedesi? Se dovesse inserirlo all’interno dello spettro politico dove vi posizionereste?

Ci definiamo come un partito patriottico social-conservatore. Con un’etichetta del genere è difficile anche per noi posizionarci da destra a sinistra lungo una scala ideologica tradizionale. In generale, siamo un po’ più a destra del partito liberal-conservatore svedese quando si tratta di politiche per la famiglia, difesa, cultura, immigrazione e ordine pubblico. Siamo di centro e a sinistra dei liberal-conservatori per ciò che riguarda le questioni riguardanti i diritti dei lavoratori, come i contributi alle pensioni, i contributi per le famiglie povere, e alcuni altri temi del welfare state, come il supporto alle persone più povere e alle fasce più deboli della società. Si potrebbe dire che siete di destra?

Non in senso tradizionale. Perché seguiamo questa idea trasmessa dai pensatori socialconservatori del XVIII secolo, secondo cui se ti prendi cura della tua gente e se sei aperto alle riforme sociali e di giustizia sociale, allora ci saranno maggiori possibilità di creare armonia e unità nella società. Questo è qualcosa che pensiamo sia davvero importante per il senso di comunione e appartenenza. Penso che sia difficile ottenere armonia e unità se le differenze tra i più ricchi e i più poveri sono troppo marcate. Qual è la vostra posizione sull’Unione Europea?

Vogliamo uscire dall’Unione Europea. Con un referendum come il Regno Unito?

Sì, penso che sarebbe logico, oltre che corretto, abbandonare l’Unione attraverso un referendum. Ci siamo entrati con un referendum13 e peraltro le ragioni che hanno portato alla vittoria il ‘sì’ si sono rivelate delle bugie. Non pensa che fuori dall’Unione Europea la Svezia rischi di avere un posto marginale nell’economia globale?

No. Norvegia e Svizzera sono fuori dall’Unione Europea e vanno molto bene. Anche l’Islanda, benché sia stata colpita dal60

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la crisi economica, sta facendo molto bene fuori dall’UE. Gli islandesi sono trecentomila e sono riusciti, per esempio, a siglare un accordo di libero commercio con la Cina14, una cosa che Bruxelles non ha ancora realizzato. Certo, vogliamo mantenere rapporti molto stretti con i nostri amici e vicini europei, ma non vogliamo questa unione politica sovranazionale che è una minaccia per la nostra sovranità. Sovranità, trattati commerciali ed altro. Quali sono le vostre principali critiche nei confronti di Bruxelles?

Per noi è una questione ideologica, che parte dalla definizione di democrazia e demos, per poi individuare chi ha il diritto di prendere le decisioni per la società svedese. Quindi democrazia per noi significa governo del popolo. E per popolo noi intendiamo gli Svedesi. Noi ci battiamo per il popolo a cui apparteniamo. Pensiamo che tutto il potere in questo Paese debba essere trasmesso dal popolo svedese e non da politici di altre nazioni, e nemmeno da burocrati che nessuno ha eletto. È un crimine contro la democrazia che le decisioni sul futuro del nostro Paese vengano prese da qualcuno che non è svedese. Siamo democratici e patrioti e non cambieremo mai la nostra opinione critica sull’Unione Europea. In questi anni in Europa uno dei grandi temi di scontro è stata la politica migratoria. Come sa Grecia e Italia sono state le nazioni più colpite dal fenomeno, ma Germania e Svezia sono le principali mete finali dei migranti.

Sì, la Svezia ha il più elevato tasso pro capite di migranti. Penso che nessuno in Europa abbia avuto un atteggiamento più folle del governo svedese. Penso che dalla crisi migratoria del 2015 si possa trarre una lezione, ovvero che non si dovrebbero mai sottoscrivere soluzioni sovranazionali, perché è vero che esiste il regolamento di Dublino e normative che indicano come dovrebbe essere gestito il fenomeno migratorio, ma all’improvviso quando la pressione è diventata troppo forte, ogni Stato UE ha iniziato a pensare a sé stesso. Gli svedesi sono stati gli unici così stupidi e ingenui da restare fedeli agli accordi europei: il risultato è stato disastroso per la società svedese. Avremmo potuto evitarlo se chi era al governo si fosse preoccupato per la propria gente come hanno fatto gli altri Paesi eu61

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ropei, a parte la Merkel. L’intera questione mostra l’importanza di poter controllare i propri confini e di come non ci si possa fidare di nessun altro per la sicurezza esterna. La Svezia l’ha pagato a caro prezzo: l’anno scorso abbiamo subito un attacco terroristico da parte di un richiedente asilo che è arrivato qui dopo aver attraversato mezza Europa, nell’attentato ha ucciso donne e bambini in una delle vie dello shopping di Stoccolma. Corrisponde al vero l’idea secondo cui voi Democratici svedesi volete rivedere l’intera impalcatura dell’accordo di Schengen sulla libera circolazione in Europa?

Sì, per noi è molto importante poter controllare i nostri confini perché l’indentità nazionale e la comunità svedese sono al centro della nostra ideologia e della nostra linea politica. Diventa cruciale controllare le frontiere e poter decidere chi può entrare in Svezia e chi no. Dovrebbe essere uno dei principali compiti di un governo, visto che ha tra le ragioni fondative quella di proteggere la propria popolazione. Se non controlli le frontiere non proteggi nessuno. Per quanto riguarda la politica di difesa, la Svezia è un Paese neutrale. Che posizione dovrebbe avere secondo lei Stoccolma rispetto alla NATO, alla difesa comune UE?

Non vogliamo restare proprio neutrali. Vogliamo costituire una cooperazione difensiva rafforzata con la Finlandia che come noi non è nella NATO. Quindi immaginiamo una sorta di affiliazione nordica dei sistemi difensivi con Helsinki, visto che per settecento anni siamo stati un’unica nazione. Ma allo stesso tempo vogliamo mantenere una posizione neutrale che ci può fare comodo. Abbiamo vissuto in pace per oltre duecento anni e questo ci ha permesso di avere un ruolo unico nel contesto internazionale, sia come mediatori sia per lo sviluppo dell’industria svedese. Il nostro Stato si basa molto sull’export e il fatto di essere percepiti come neutrali fa sì che le nostre aziende non vengano penalizzate da parti in conflitto. C’è poi un aspetto che mi tocca direttamente come politico: non schiaccerei mai un bottone in Parlamento per spedire uomini e donne svedesi a combattere e morire per l’interesse di un’altra nazione. Sarebbe una responsabilità troppo pesante e personalmente non potrei giustificare altro fuorché morire per difendere il proprio Stato e la propria 62

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gente. Ma non manderei mai i miei soldati a combattere per la Turchia, per Donald Trump o chiunque altro. Restando sul tema della NATO. In Svezia l’anno scorso se ne è parlato, così come in Finlandia. Il tema però sembra ruotare attorno alla vicinanza con la Federazione Russa.

Ci sono molti report di infiltrazioni e spionaggio russo, ma anche di quelle che chiamiamo campagne di contro informazione. Non so cosa sia vero e cosa no. C’è un po’ troppa isteria sul tema al momento. Certo è che, come abbiamo imparato dalla storia, quando l’orso russo è amichevole o dormicchia non si può stare tranquilli, non so nemmeno quante guerre abbiamo combattuto contro i russi nei secoli. Quindi la soluzione sarebbe un’alleanza difensiva nordica?

Vogliamo rinforzare il nostro sistema di difesa e una cooperazione difensiva. Nessuno crede davvero che potremmo battere la Russia in una guerra, ma la matematica dell’intera situazione è cercare di rendere un’eventuale invasione russa talmente costosa e problematica da far sì che per Mosca non ne valga la pena. E per quanto riguarda i rapporti economici con Mosca? Oggi la Russia è sotto sanzione dell’Unione Europea, secondo lei è possibile un approccio differente?

Forse non è ancora il momento. Anche noi sosteniamo le sanzioni e sarebbero necessarie delle concessioni da parte russa. La Svezia ha forti legami storici con i Paesi baltici e al momento la dottrina Putin prevede il diritto di interferire militarmente laddove Mosca reputa che gli interessi russi siano minacciati od ogniqualvolta la minoranza russa si senta insicura. È una situazione molto pericolosa per i nostri vicini baltici, che non possiamo accettare. Lo stesso vale per la Crimea e prima per la Georgia15. Come Democratici svedesi avete rapporti con gli altri movimenti euroscettici scandinavi, danesi e finlandesi?

Esiste una cooperazione all’interno del Nordic Council e facciamo parte di un gruppo chiamato Nordic freedom.

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Ci sono anche i norvegesi del Partito del progresso?

No, loro si considerano migliori di noi, ma penso che si tratti semplicemente del fatto che da tempo sono al governo. Anche il Partito del progresso è stato molto discusso, come noi, i finlandesi e i danesi, ma loro hanno voluto quasi ripulirsi per andare al governo e a quel punto hanno interrotto tutti i rapporti con gli altri partiti nordici. Addirittura i Popolari danesi e il Partito del progresso norvegese erano lo stesso movimento e avevano legami strettissimi, ma ora non si parlano più. Nel frattempo, da quando è al governo, il Partito del progresso ideologicamente è diventato molto più liberale. Quale è la storia dei Democratici svedesi? Come avete iniziato? Quali sono le vostre radici filosofico-politiche?

È nato nel 1988. Penso che il motivo fosse che non c’era più nessun partito patriottico e conservatore. Il partito moderato era il più grande partito liberalconservatore di Svezia, ma era nato come partito nazionalista e conservatore. Anche il partito di centro e il partito agrario sono stati per lungo tempo conservatori e patriottici. Anche i socialdemocratici negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, erano fondamentalmente un partito conservatore, e questo è stato uno dei motivi per cui hanno tenuto così bene. Avevano cambiato le bandiere rosse del 1° maggio con le bandiere blu e gialle, ma poi con il 1968 e gli anni Settanta tutto è cambiato. I socialdemocratici sono diventati più internazionalisti, più marxisti sotto la spinta dalla sinistra radicale. Non era più di moda essere conservatori. Così i conservatori liberali sono diventati semplicemente liberali. Poi il neoliberismo degli anni Ottanta ha portato all’individualismo. A quel punto alcune parti della società hanno avvertito la necessità di un movimento politico che puntasse ancora su valori come comunità, identità nazionale e ponesse l’interesse svedese al primo posto piuttosto invece di ingenui principi internazionalistici o idee utopistiche. Questa è stata la spinta filosofica che ha portato alla nascita dei Democratici svedesi. Per come la vedo io, tra il 1988 e 1991 il partito non era così male, guardando le foto d’archivio e leggendo le attività del partito si capisce che era un movimento composto da persone molto diverse, provenienti dalla classe operaia ma anche dalla classe media. Poi nel 1991 ha fatto la sua comparsa un partito populista: Nuova 64

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democrazia, che in pochi mesi è passato dall’essere inesistente a sedere in Parlamento. I due personaggi carismatici16 che hanno fondato questo partito erano molto critici nei confronti dell’immigrazione di massa e si consideravano anche loro dei patrioti. All’improvviso i Democratici svedesi non erano più necessari, e quasi tutti gli iscritti se ne sono andati. A quel punto la direzione del partito aveva bisogno di trovare una ragione per continuare ad esistere. I vertici hanno così deciso di prendere posizioni più dure e radicali17. Il partito si è radicalizzato molto tra il 1991 e il 1995, ed è stato un grosso errore. Chiunque poteva partecipare alle nostre manifestazioni e iscriversi al partito, quindi c’erano moltissimi estremisti, anche skinheads. Stiamo ancora pagando gli errori commessi in quel periodo. Nel 1995 è stato eletto un nuovo leader del partito18, probabilmente perché gli iscritti si sono resi conto che quella strategia era sbagliata. Da allora stiamo lavorando per riformare il partito e prendere le distanze dagli errori commessi in quegli anni, ma ovviamente è difficile in un paese come la Svezia, dove viene applicata la politica migratoria più estrema dell’Occidente. Anche per questo motivo continuiamo ad attrarre molte persone che sono contro l’immigrazione; certo poi tra loro ci sono quelli che lo sono per motivi sbagliati, perché sono razzisti. Noi applichiamo la tolleranza zero nei confronti di chi è razzista, ma non possiamo espellerli dal partito finché non dimostrano di esserlo. Questo comporta che ogni tanto compaiono articoli sui giornali che parlano di nostri iscritti che dicono e fanno cose da razzisti, questo ci penalizza molto. Quindi pagate per gli errori del passato?

Sì, ma credo che ora la gente stia iniziando a capire la nostra vera ideologia. Siamo a favore di una «open Swedishness»19, non siamo un partito razzista. Gli effetti di questa chiarezza si traducono nel fatto che il 20% dei nostri iscritti hanno origini straniere. Tra i nostri sostenitori nella classe operaia, la maggior parte sono lavoratori immigrati. Perché secondo lei?

Non trovo strano che molti immigrati siano conservatori, come molti svedesi che sono stati formati con il sistema scolastico 65

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del 1968. In molti quartieri dove vivono gli immigrati, la gente che ci vive da tempo sta scontando le conseguenze dell’immigrazione di massa continua. Le scuole dei loro figli sono sempre più caotiche, perché i nuovi arrivati non conoscono la lingua e gli insegnanti sono costretti a lavorare più con loro che con gli alunni che sono in Svezia da più tempo. In questi quartieri ci sono stati scontri tra immigrati, sono state bruciate macchine degli immigrati regolari, i bambini non possono più uscire la sera perché ci sono gang criminali. Insomma gli immigrati che vivono qui da anni stanno pagando a caro prezzo le irresponsabili politiche di immigrazione del governo e il fatto che la Svezia non è stata in grado di integrare questa massa di nuovi arrivati. Quindi secondo lei il modello Malmö è fallito?

Si, è stato un fallimento completo. Tuttavia Malmö è stato il simbolo della vostra capacità di integrazione e portato come esempio in tutta Europa.

Gli ebrei scappano da Malmö e vanno in Israele o in altre città svedesi, stanno diventando i nostri rifugiati interni per colpa di queste politiche multiculturali. Se analizziamo Malmö e la sua società multiculturale, osserviamo che si sta lentamente trasformando in una società musulmana in molte zone della città e questo sta causando grossi problemi agli altri gruppi etnici. I Democratici svedesi hanno una posizione religiosa?

Non proprio, crediamo nella laicità perché si dovrebbe separare la religione e la politica. Ma da un punto di vista culturale non siamo così neutrali. Rimuovere ogni aspetto del Cristianesimo dalla vita pubblica svedese sarebbe come estrarre un uovo da una torta già cotta. Siamo stati uno Stato cristiano per mille anni, e quindi rimuovere tutti gli aspetti religiosi o cristiani dalle celebrazioni pubbliche o nelle scuole sarebbe come eliminare gran parte della tradizione e dell’eredità culturale svedese. Su questo non siamo assolutamente d’accordo, piuttosto vorremmo che la Chiesa svedese avesse un po’ più di diritti rispetto alle altre religioni per informare e coinvolgere gli studenti. Detto questo siamo per la libertà confessionale.

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Tornando al partito. Come il Front national avete intrapreso un processo di dédiabolisation all’interno del vostro movimento politico per eliminare gli elementi più radicali ed estremi: cosa risponde a tutte le critiche sollevate da giornali nazionali ed internazionali per i vostri presunti legami con Stormfront e il coinvolgimento negli incendi dei centri di accoglienza per richiedenti asilo?

In gran parte si tratta di propaganda. È stato dato grande rilievo mediatico agli incendi di alcuni centri di accoglienza per migranti. Senza nessuna prova siamo stati collegati a quei fatti secondo un ragionamento molto semplice: «Se siete contrari all’immigrazione questo è ciò che accade». È un ragionamento ridicolo, perché significa che allora non si può criticare un fenomeno per il timore che qualche matto possa uccidere qualcuno collegato al fenomeno su cui esprimi critiche. È come se qualcuno attaccasse un contadino perché i Democratici svedesi sono critici con la politica agricola del governo. Le indagini hanno mostrato che quasi nessun rogo è stato appiccato da persone con posizioni anti-migranti, piuttosto la maggior parte degli incendi è stata provocata dagli stessi richiedenti asilo. O perché non sapevano usare fornelli e stufe, o a causa di risse tra gruppi di migranti. Ma ovviamente l’attenzione dei media a questo genere di notizie è molto più bassa e la stampa internazionale le ignora, anzi cavalca l’ondata emotiva di una serie di incendi nei centri d’accoglienza sostenendo che si tratta di azioni razziste di cui i Democratici svedesi hanno la responsabilità morale. Questa è poi l’immagine che resta per gran parte degli svedesi e per l’opinione pubblica internazionale. Poi certo è vero che abbiamo portato avanti un lungo e duro processo di normalizzazione del partito, ci siamo liberati degli elementi più radicali e abbiamo mantenuto una politica interna molto rigida. Penso che abbiamo ottenuto risultati molto migliori rispetto a quelli del Front national ed è per questa ragione che al momento non abbiamo nessun tipo di collaborazione con loro: devono ancora fare molti passi avanti. Sono convinto che Marine Le Pen sia sincera nelle sue intenzioni, non avrebbe espulso suo padre dal partito che ha fondato se non facesse sul serio. Ma è un percorso complesso anche per il Front national, perché al suo interno ha componenti radicali molto forti che tra i Democratici svedesi non ci sono. Penso anche che i vertici del partito frontista siano an67

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cora troppo tolleranti con alcune frange estremiste che per noi sarebbero inaccettabili. Quindi con che partiti, a parte quelli scandinavi, avete una collaborazione in Europa?

Al Parlamento Europeo siamo nel gruppo EFDD che al momento è guidato dallo UKIP, la forza che ha portato alla Brexit. Oltre a loro ci sono il Movimento 5 stelle e i rappresentanti di alcuni partiti della regione baltica. La collaborazione più stretta a livello internazionale è però con i Popolari danesi ed è logico perché siamo molto simili. Questo ci porta ad avere una buona collaborazione anche con il gruppo dell’ECR dove siedono appunto Popolari danesi e finlandesi. E onestamente penso che in futuro sarà quella la nostra destinazione, visto che nel momento in cui non ci saranno più i deputati britannici il nostro gruppo è destinato a collassare. Anche perché non stiamo insieme in nome di una forte visione ideologica comune, quindi con l’addio dell’UKIP gli altri partiti se ne andranno per conto loro. Quindi anche il Movimento 5 stelle?

È un partito molto strano ed è molto difficile etichettarli ideologicamente, al loro interno hanno diverse correnti con visioni molto differenti. Se dovessi trasporlo nella politica svedese, nel M5S ci sono persone che potrebbe essere parte del nostro partito, ma anche dei Verdi o del Partito femminista. Volete lasciare l’Europa, ma come immagina l’Europa fra dieci anni? Un’altra Europa è possibile?

Penso di sì, anche se noi non vogliamo lasciare l’Europa ma l’Unione Europea. È una distinzione molto importante, perché crediamo nell’importanza della cultura e dell’identità e riteniamo fondamentale avere una stretta collaborazione con gli altri Stati che appartengono alla civiltà cristiana occidentale. Da questo punto di vista siamo molti grati alle altre nazioni europee per la cooperazione economica e per lo scambio culturale reciproco. Purtroppo penso che fra dieci anni l’Unione Europea esisterà ancora, anzi sarà ancora più totalitaria di quanto lo è oggi. Questa è la tendenza che vedo, ma penso anche che le tensioni interne all’UE saranno più profonde; si sta facendo largo un conflitto tra i federalisti e alcune nazioni, soprattutto dell’Euro68

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pa centrale e dell’est. Queste nazioni per ora restano solo perché ricevono contributi da Bruxelles. È ovvio che chi oggi guida l’Unione Europea non ha imparato niente dalla Brexit, anzi a Bruxelles sembrano avere più fretta che mai nel voler smantellare lo Stato nazionale e le democrazie; ma sta crescendo una resistenza a questo approccio. È probabile che nel lungo periodo, ma ci vorranno più dieci anni, l’Unione Europea sia smantellata e si passi ad una Comunità Europea in cui gli Stati avranno tra loro relazioni bilaterali di cooperazione. Dobbiamo cancellare l’UE per salvare la Comunità Europea, perché a lungo andare l’Unione sta mettendo gli Stati membri uno contro l’altro e sta provocando grandi conflittualità. Può farmi degli esempi?

L’unione monetaria non è stata d’aiuto nei rapporti tra Grecia e Germania. In generale il problema è che se si forzano nazioni differenti e con interessi diversi all’interno dello stesso paradigma politico, queste inizieranno a litigare tra loro, perché non esiste una sola direzione che funziona per tutti, proprio a cause delle differenze tra gli Stati membri. Ci sono ambiti che sono importanti per uno Stato ma non per gli altri, e di solito con questa logica a rimetterci sono gli Stati più piccoli e più deboli. Questo è ciò che accade a noi svedesi: siamo un piccolo Stato ed è un disastro. Il 90% della popolazione svedese e la maggioranza dei politici svedesi sono contrari a gran parte delle decisioni europee, ma dobbiamo accettarle. Questo per me non è democratico. Quindi il vostro obiettivo è un’Europa degli Stati che cooperano tra loro ma senza una struttura sovranazionale?

Sì e credo che sia possibile. Gli Stati nordici non hanno un’unione politica, ma collaborano molto strettamente. Secondo lei questo si spiega con i legami culturali che esistono tra Finlandia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Islanda?

Penso che la cosa più logica siano delle cooperazioni rafforzate con gli Stati confinanti. Penso che dovremmo avere una collaborazione più stretta su commercio, istruzione, temi ambientali e sicurezza anche con altri Stati europei. Dovrebbe essere un accordo su base volontaria a cui aderire o da cui uscire in ba69

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se alla volontà della maggioranza degli elettori. In Svezia non abbiamo avuto un referendum sul trattato di Lisbona: abbiamo perso la sovranità di 60 ambiti e agli svedesi non è stato chiesto cosa ne pensassero. Ovviamente questo non interessa ai tecnocrati di Bruxelles, anche perché se ci fosse un referendum contrario farebbero rivotare per ottenere un voto favorevole. Resto dell’idea che chiedere l’opinione degli Svedesi sarebbe la cosa moralmente giusta da fare.

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6. Finlandia

Perussuomalaiset – La tradizione populista finlandese

Il Perussuomalaiset – letteralmente Veri finlandesi – è il partito populista scandinavo dalla storia più lunga: le sue origini affondano addirittura alla fine degli anni Cinquanta. Il PS è infatti l’epigono del Partito rurale fondato da Veikko Vennamo nel 1966 e che precedentemente si chiamava Partito dei piccoli coltivatori (fondato nel 1959 in seguito alla rottura con l’Unione agraria). Il movimento politico fondato da Vennamo è a tutti gli effetti il capostipite dei populismi nordici che, partendo dalla Finlandia, si è poi sviluppato negli anni Settanta tra Danimarca e Norvegia, e solo negli anni Ottanta in Svezia. La squassante affermazione alle elezioni politiche del 2011 da parte dei Veri finlandesi con il 19,1% è considerata come il terzo picco del populismo finlandese1; i primi due vengono individuati nelle consultazioni del 1970, quando il Partito rurale di Vennamo ottenne il 10,5% (e 18 deputati), e nel 1983, quando il figlio Pekka Vennamo guidò il partito fino al 9,7% (con la conquista di 17 seggi in Parlamento). Il Partito rurale è scomparso nel 1995 quando è stato dichiarato fallito, lo stesso anno il suo ultimo segretario, Timo Soini, ha deciso di fondare i Veri finlandesi2. Pur in una società profondamente mutata rispetto alla Finlandia dell’immediato Secondo dopoguerra, il PS ha conservato la radice populista del Partito rurale e con essa una connotazione che potremmo quasi definire poujadista. Da Vennamo a Soini, il partito è rimasto caratterizzato dall’uomo solo al comando3, ma soprattutto ha replicato l’immagine di forza politica nuova in contrasto con i partiti tradizionali, proponendosi allo stesso tempo come alfiere del tradizionalismo, ma anche con posizioni marcatamente euroscettiche e anti-immigrati. Le ragioni per cui in un ventennio i Veri finlandesi sono arrivati ad essere uno dei primi partiti populisti ad entrare al go71

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verno sono molteplici. Come si vede nella tabella che riporta i risultati elettorali sia delle europee sia delle politiche, l’accelerazione in termini di consensi per i Veri finlandesi è arrivata all’indomani del 2008, e quindi dopo l’inizio della crisi economico-finanziaria che ha portato ad un profondo cambiamento della società finlandese e alla crisi di quella che Arter definisce Nokia-led society. L’affermazione di quest’ultima fu la ragione, a metà degli anni Novanta, per cui i Veri finlandesi hanno ottenuto consensi nelle fasce meno scolarizzate4, ma la sua profonda crisi è stata addirittura il propulsore per l’affermazione elettorale del PS in quelle fasce di popolazione più deboli che hanno subito le maggiori conseguenze della recessione che ha investito l’Europa dal 20085. Allo stesso tempo, tuttavia, l’affermazione del PS è stato un preoccupante segnale d’allarme per i partiti considerati tradizionali, che si sono trovati spiazzati anche dalla retorica aggressiva che facendo leva sullo spauracchio dell’immigrazione incontrollata ha approfittato dell’incertezza sociale causata dalla crisi economica6. La proposta politica di Soini ha quindi puntato sulla critica ai partiti tradizionali, all’Unione Europea7, all’immigrazione incontrollata e ad una maggiore assistenza alle fasce deboli della popolazione8. Il pay-out elettorale per il partito di Soini è stato incredibile, soprattutto per un sistema politico come quello finlandese, in cui gli spostamenti di consenso da un’elezione all’altra sono stati sempre bassi. Così nel 2015 il partito dei Veri finlandesi è entrato in un governo di coalizione di centrodestra, guidato da Juha Sipila, con il Partito di centro e Kokoomus: Timo Soini è nominato ministro degli Esteri9. Come leader del PS e membro dell’esecutivo ha mostrato tutti i limiti di un partito populista di governo, con oggettive difficoltà nel mettere in pratica quanto promesso al proprio elettorato negli anni precedenti e fino alla campagna elettorale: così sono state riviste le posizioni incendiarie sull’Unione Europea. Questo ha portato innanzitutto ad un calo sensibile dei consensi, scesi dal 17% fino al 9%10, ad una inevitabile tensione interna al partito, fino allo strappo che si è consumato all’inizio dell’estate del 2017 all’interno del PS con Soini che ha rinunciato a ricandidarsi alla guida del partito e l’ascesa e l’affermazione dell’eurodeputato Jussi Halla-aho. Quest’ultimo, con posizioni inizialmente più estreme del suo 72

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predecessore, nei due anni al governo ha poi iniziato a mostrare un maggiore realismo e pragmatismo. Halla-aho nel 2012 è stato condannato dalla Corte Suprema finlandese perché in alcuni post aveva immaginato un legame tra l’islam e la pedofilia, e per aver presentato i somali come propensi al furto. Interessante anche ricordare che come eurudeputato Halla-aho ha proposto in passato di multare le organizzazioni che salvano i migranti nel Mediterraneo, perché sarebbero colpevoli di favorire l’immigrazione clandestina dall’Africa all’Europa11. Il Perussuomalaiset sotto la guida di Halla-aho ha subito minacciato di togliere il sostegno al governo Sipila, questo ha provocato una frattura a livello parlamentare con 21 deputati su 38, compresi tutti i ministri, che hanno abbandonato il PS e fondato con Soini il movimento Riforma blu12 (Sininen tulevaisus). Dopo la frattura i Veri finlandesi hanno vissuto un periodo di bassi consensi, quasi che la spinta populista ed euroscettica finlandese si fosse esaurita, soprattutto dopo l’8,8% ottenuto nel voto locale del 2017. Ma alle elezioni dell’aprile 2019 il Perussuomalaiset si è confermato secondo partito del Paese con il 17,5%, a dimostrazione che la politica di Jussi Halla-aho, con la scelta di prendere le distanze dal governo Sipila, ha pagato elettoralmente. EUROPEE Anno 1999 2004 2009 2014

Voti 9.854 8.900 162.930 222.457

% 0,8% 0,5% 9,8% 12,9%

Seggi 0 0 1 2

LEGISLATIVE Anno 1991 1994 1995 1999 2003 2007 2011 2015 2019

Voti 4.887 13.954 19.624 26.440 43.816 112.256 560.075 524.054 538.731

% 0,1% 0,3% 0,4% 1% 1,6% 4,1% 19,1% 17,7% 17,5%

Seggi 0 0 0 1 3 5 39 38 39

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Intervista a Jussi Halla-Aho13 Cosa pensa dell’attuale struttura dell’Unione Europea?

A livello generale l’eterogeneità economica e culturale dell’Unione non è compatibile con la sua logica armonizzante e federalista. Quando la Finlandia entrò nell’Unione nel 1995, eravamo in una situazione di società comparabili. Oggi non è più così e questo provoca molte frizioni. Come si può migliorare questa situazione?

L’Unione Europea dovrebbe puntare su quelle funzioni che portano valore aggiunto ai suoi Stati membri e ai cittadini europei. Le sue competenze dovrebbero essere ridotte. Quali sono a suo parere i tre aspetti peggiori dell’UE?

Impedisce agli Stati membri di tutelare il loro interesse nazionale su temi come l’immigrazione, ma al contempo non è in grado di proteggerli. Progetti come l’area Schengen e la moneta comune hanno provocato giganteschi problemi all’Europa, mentre i benefici sono stati limitati (benché pubblicizzati al pubblico). Il Parlamento Europeo ha fin troppo potere nel processo legislativo se si considera la bassa affluenza alle elezioni europee, da cui deriva la scarsa legittimità del Parlamento stesso. L’integrazione provoca problemi che vengono risolti con maggiore integrazione. Per esempio il libero movimento dei capitali e dei servizi richiede un’armonizzazione nel campo della tassazione e della legislazione ad esso collegata. E ancora la moneta comune richiede un controllo del budget più centralizzato. Ci sono aspetti positivi nell’Unione Europea?

Ci sono questioni comuni a tutta l’Europa nella sua totalità in cui la cooperazione porta (o potrebbe portare) un valore aggiunto. La questione più grave è quella del controllo delle frontiere esterne e delle migrazioni di massa. Si tratta del problema esistenziale più importante dell’Europa per i decenni a venire. Cosa pensa dell’euro?

L’Eurozona è troppo eterogenea per funzionare.

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Finlandia

Ha una posizione molto dura sull’immigrazione. Cosa pensa delle politiche UE e quale sarebbe il modo migliore per affrontare il problema, in Finlandia e nell’Unione Europea?

Da un punto di vista teorico l’Unione Europea possiede gli strumenti politici e giuridici per gestire il fenomeno migratorio. Sfortunatamente nelle istituzioni europee non ci sono né sufficiente coraggio, né la volontà politica di ammettere che il numero dei migranti che arrivano nell’Unione Europea deve essere drasticamente ridotto. L’idea, poi, di distribuire il problema tra gli Stati membri non è la soluzione e non funziona nemmeno. Anzi, come abbiamo già avuto modo di vedere, il piano di relocation inasprisce le relazioni tra gli Stati membri e provoca conseguenze politiche al loro interno. Lei pensa che l’Unione Europea debba essere riformata dall’interno o che sia necessaria una sorta di rifondazione?

Oggi sono più ottimista su di una riforma dall’interno di quanto lo fossi nel 2014, prima della crisi migratoria. Oggi ci sono chiaramente differenti scuole di pensiero, specialmente a livello di Consiglio Europeo, su ciò che l’Europa dovrebbe o non dovrebbe essere. Dovendosi confrontare con grandi entità geopolitiche come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, non pensa che l’Unione Europea sia più efficace come entità unitaria piuttosto che come semplice sommatoria di Stati con maggior sovranità ma minor potere?

La realtà è che le grandi potenze come Francia e Germania continueranno, a prescindere da tutto, a coltivare le loro relazioni bilaterali con Washington e Mosca. Non rinunceranno alla loro sovranità de facto. Ritiene realistico che la Finlandia esca dall’Euro e dall’Unione Europea?

Secondo l’attuale struttura europea non è possibile rinunciare all’euro senza uscire dall’Unione. La maggior parte dei finlandesi è a favore della permanenza nell’Unione soprattutto per timori di tipo geopolitico, ovvero la vicinanza della Russia. Perciò lasciare l’Unione non è un’opzione realistica nell’immediato futuro. Ma, come ho detto, un cambiamento dall’interno sembra oggi un’eventualità più realistica rispetto a qualche tempo fa, in 75

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questa ottica la Finlandia dovrebbe trovare un nuovo orientamento come membro dell’Unione. Quali sarebbero i vantaggi di abbandonare l’Unione Europea?

Quale è il vantaggio di essere un Paese indipendente? Le persone possono avere maggiore controllo sui decision makers e sulle decisioni che hanno un effetto sulle loro vite. Cosa pensa della politica militare comune?

La maggior parte degli Stati membri è anche nella NATO. Non penso che siano motivati a creare una struttura nel contesto comunitario che sarebbe un semplice duplicato. Certo la cooperazione in alcuni ambiti, come il peacekeeping o l’acquisto di materie prime, può essere vantaggiosa. Cosa pensa della Finlandia e della NATO?

La mia posizione personale è che la Finlandia avrebbe dovuto entrare nell’Alleanza atlantica nei primi anni Novanta, quando una decisione del genere avrebbe avuto minori ripercussioni geopolitiche. Entrare nella NATO, tuttavia, non è mai stata un’idea molto popolare in Finlandia. Il concetto di neutralità si è radicato profondamente nella nostra mentalità durante la Guerra fredda. A livello di politiche regionali scandinave esiste una collaborazione tra voi, i Popolari danesi e i Democratici svedesi?

Sì, siamo nello stesso gruppo nel Nordic Council e auspichiamo in futuro di unire le forze anche al Parlamento Europeo. Ci sono collaborazioni tra il Perussuomalaiset e altre forze politiche europee?

Non c’è una collaborazione formale, ma cerchiamo di mantenere buone relazioni con tutte quelle forze politiche che hanno una posizione analoga alla nostra. I politologi classificano il Perussuomalaiset come un partito populista di destra. Lei è d’accordo con questa definizione?

Siamo un partito nazionalista moderatamente conservatore con una visione negativa del multiculturalismo come modello di società. Per cui siamo contro l’immigrazione in larga scala da 76

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culture distanti. Per ciò che riguarda invece le vicende economiche, siamo più o meno centristi, con un’attenzione particolare all’uso responsabile dei fondi pubblici. Il Perussuomalaiset nel 2017 ha vissuto un drammatico momento di frattura con una fazione filogovernativa, guidata dal leader uscente Timo Soini che ha lasciato il partito. La sua leadership è stata considerata molto più radicale di quella di Soini, il suo predecessore. Lei è d’accordo?

Non mi considero molto radicale. Piuttosto sono molto chiaro sulla linea politica. Soini non è stato mai molto interessato alle questioni dei migranti, le ha solo utilizzate per ottenere consensi alle elezioni. D’altra parte Soini è stato molto conservatore sulle questioni sociali, omofobo, anti-abortista e religioso. L’atmosfera nel partito è diventata molto più rilassata e laica a partire dalla scorsa estate. Per ciò che riguarda invece il radicalismo sotto la mia leadership, posso dire che ciò che stiamo proponendo è stato in larga parte già realizzato o messo in cantiere da governi tradizionali come la Danimarca e l’Austria.

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7. Ungheria

Jobbik – L’estrema destra anti-Orbán

Prima di introdurre Jobbik, il Movimento per un’Ungheria migliore, è necessario fare un veloce inquadramento della situazione politica ungherese. Oggi, sotto la guida del primo ministro Viktor Orbán, leader di Fidesz (Unione civica ungherese), nato come movimento dei giovani democratrici, a Budapest si sta realizzando quella che viene chiamata una democrazia illiberale. C’è chi fa coincidere questo concetto con quello di democrazia populista1, ma in realtà questo processo prevede il sopravvento dei valori conservatori della patria e di una presunta identità culturale ungherese, che prevale sui singoli individui. E se questo è il processo che sta portando all’idea da parte di Orbán di marginalizzare tutti i partiti dell’opposizione, che non sarebbero secondo la sua narrazione rappresentativi dell’Ungheria, dall’altro il Governo sta cercando di manomettere la Costituzione. Nel mirino di Orbán in particolare c’è il sistema giudiziario, che viene regolato dal potere esecutivo. La democrazia illiberale, teorizzata apertamente dallo stesso Orbán2, si realizza per effetto del cosiddetto «costituzionalismo populista», una visione secondo cui lo Stato di diritto e il costituzionalismo non possono essere superiori alla volontà del popolo. In sostanza il costituzionalismo è visto come un vincolo per la politica, che è il luogo in cui si esprime la volontà del popolo3. I populisti al potere tendono, quindi, a mettere mano alla Costituzione per accentrare il potere nelle mani del presidente in carica (e questo è successo recentemente in Paesi sudamericani come Venezuela, Bolivia e Ecuador) o, come nel caso dell’Ungheria, per cambiare gli equilibri di potere a favore del partito che deteneva la maggioranza assoluta in Parlamento4. Nella riforma costituzionale portata avanti nel 2010, che si è tradotta nella nuova Costituzione del 2011 (che peraltro da al79

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lora ad oggi è già stata emendata sette volte solo dal partito di Viktor Orbán), è stata modificata la Corte Costituzionale riducendone il potere e l’indipendenza. Lo stesso Orbán, illustrando questa iniziativa costituzionale, l’ha motivata con l’intenzione di limitare il potere di un organo che altrimenti avrebbe potuto vincolare e ridurre l’efficacia delle decisioni e delle leggi promulgate dal Parlamento, che è espressione del popolo5. Proprio la limitazione del potere giudiziario ha aperto una breccia ed un solco profondo nei rapporti con l’Unione Europea che tra i suoi principi fondativi prevede il rispetto dello stato di diritto da parte degli Stati membri. Non è un caso dunque che l’Europa abbia aperto una procedura d’infrazione nei confronti di Budapest per il mancato rispetto dello stato di diritto6. Se la procedura dovesse arrivare fino al termine del suo iter come previsto dall’articolo 7 del trattato di Lisbona l’Ungheria potrebbe perdere il diritto di voto all’interno del Consiglio Europeo. Ipotesi decisamente remota visto che anche la Polonia deve fronteggiare una procedura simile (ma avviata dalla Commissione Europea) e Varsavia ha già annunciato che qualora si dovesse arrivare al voto decisivo per decidere le sorti dello Stato ungherese si opporrà all’ipotesi di sospensione del diritto di voto. Anche la Polonia deve rispondere di un’infrazione rispetto allo stato di diritto per una contestata legge sulle corti giudiziarie. La procedura è stata avviata nel luglio 2017, nel dicembre dello stesso anno è arrivata di fronte alla Corte di Giustizia e sta tuttora proseguendo7, dopo che nel 2018 anche il Parlamento ha dato il suo sostegno all’iniziativa della Commissione. Ora l’UE sta pensando di legare lo stanziamento dei fondi al rispetto dello stato di diritto, tenendo nel mirino proprio Varsavia e Budapest. Curiosamente e paradossalmente, in Ungheria il principale partito d’opposizione, quello che denuncia gli aspetti illiberali del sistema democratico propugnato da Viktor Orbán, è un movimento antisemita e di estrema destra: Jobbik, Movimento per un’Ungheria migliore8. In passato i vertici di Jobbik, nato nel 2002 da un movimento studentesco che si è presentato per la prima volta alle elezioni nel 2006, hanno addirittura accusato le élites politiche nazionali di essere agenti di Israele e di portare avanti gli interessi delle lobby ebraiche. Oggi il partito è stato superato a destra da Fidesz, che ha individuato come primo 80

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nemico il finanziere ebreo-statunitense, ma di origini ungheresi, George Soros, che secondo il partito di Orbàn avrebbe incoraggiato gli immigrati ad arrivare in Europa per sovvertire il sistema democratico esistente. Lo scontro con Soros ha portato addirittura al rischio di chiusura della Central European University di Budapest, finanziata dalla Open Society di Soros e che ora rischia di doversi trasferire a Vienna. Addirittura Jobbik si è trovato in questi anni in piazza con movimenti degli studenti ed esponenti dei partiti di sinistra per protestare contro le politiche di Orbán. Il punto è che anche Jobbik ha contribuito a creare le condizioni sociopolitiche che hanno fatto sì che Fidesz potesse restare al potere basando tutta la sua politica sul timore dell’invasione dei migranti e sulla difesa dei presunti valori tradizionali ungheresi9. Ora Jobbik rischia di scomparire dopo una multa di circa 2 milioni di euro ricevuta dalla Corte dei Conti ungherese per il mancato rispetto della legge sulle affissioni nella scorsa campagna elettorale10. Per meglio comprendere il clima politico in Ungheria e la mutazione che sta attraversando il partito che anche al Parlamento Europeo siede tra i non allineati (per le sue posizioni antisemite), il vicepresidente Márton Gyöngyösi fornisce un quadro delle battaglie politiche e delle sfide per la società ungherese. LEGISLATIVE Anno

Voti

%

Seggi

2006

119.007

2,2%

0

2010

855.436

16,7%

47

2014

1.020.476

20,2%

23

2018

1.092.806

19%

26

EUROPEE Anno

Voti

%

Seggi

2009

427.773

14,7%

3

2014

340.287

14,6%

3

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Intervista a Márton Gyöngyösi11 Partiamo dalla posizione attuale di Jobbik, che è considerato un partito di estrema destra.

Non so quanto si sappia, ma nel 2013 Jobbik ha deciso una nuova strategia politica per muoversi più verso il centro; siamo un movimento nuovo rispetto al passato. Ci stiamo fondamentalmente preparando per andare al governo, ma non vogliamo arrivarci troppo presto. Dobbiamo essere preparati, ma la posizione più interessante del partito e della leadership Gabor Vona è che non si può vincere un’elezione da una posizione di subcultura o solo con una posizione centrista. Per avvicinarsi alla maggioranza in una democrazia − che non significa necessariamente rinunciare al proprio programma − lo stile politico deve essere più flessibile e appetibile per più persone, per l’intera nazione. Dobbiamo metterci nelle condizioni di poter essere invitati al tavolo delle negoziazioni politiche. Ciò significa che Jobbik potrebbe non essere in grado di convincere tutti, ma la sua posizione deve essere accettata da tutti. Per raggiungere questo obbiettivo, bisogna prendere il centro e avere una politica più tradizionale. È molto interessante perché la maggior parte della gente non ha seguito la cronologia esatta di questo cambiamento interno, avviato nel 2013, un anno prima delle penultime elezioni in Ungheria. Nel 2014, alle elezioni, ci siamo presentati con questo programma e con questa strategia. Un anno dopo, però, nel 2015, la crisi migratoria ha colpito l’Europa e anche l’Ungheria. In una situazione del genere non si può stare nel mezzo, o si dice sì o si dice no. O dai il benvenuto a chiunque arrivi, dal Bangladesh allo Zimbabwe, o non accogli nessuno, non accettando una situazione di immigrazione incontrollata, difendendo il Paese. L’alternativa è tra una posizione liberale e una radicale. Viktor Orbán in quella situazione, ha scelto la posizione di forza. Penso che abbia scelto una posizione molto forte e al contempo inaccettabile perché nella sua retorica non ha mai fatto distinzioni tra rifugiati e migranti. Il suo è stato un messaggio molto semplice da subito: «Se non sei ungherese, non sei il benvenuto». Viktor Orbán l’ha fatto diventare l’unico argomento della vita ungherese. Negli ultimi tre anni, in questo Paese, non si è più potuto parlare del sistema scolastico fatiscente, del sistema sanitario fa82

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tiscente, dei problemi dell’economia, della scarsa competitività dell’economia ungherese, dei bassi salari, delle persone che lasciano l’Ungheria per andare in Europa occidentale alla ricerca di posti di lavoro ben pagati e quant’altro. Nessuno ha più parlato di queste cose, perché c’è stato un solo argomento: difendere il Paese dall’immigrazione. Così Viktor Orbán ha iniziato a parlare di democrazia illiberale, a litigare con Bruxelles e ad aprirsi alla Russia, alla Cina, e fondamentalmente chiudendo tutte le porte all’Occidente. Le relazioni di Orbán con gente come Macron o la Merkel sono diventate pessime. Così, mentre Jobbik ha iniziato a spostarsi verso il centro, Viktor Orbán si è spostato a destra. Se si guarda a come il mondo esterno valuta la situazione politica in Ungheria, si dice che Orbán è un estremista che ora sta conducendo una campagna contro l’Europa, una campagna contro la comunità internazionale, per così dire, a causa dell’immigrazione. Non solo, ora sta portando avanti questa campagna molto stupida contro George Soros senza alcuna base, ma collegata comunque all’argomento dell’immigrazione. Si parla anche di chiudere l’Università dell’Europa Centrale12.

Sì, c’è anche quello. Soros è di origine ungherese, quindi è abbastanza noto in Ungheria. È ora l’obiettivo di una campagna diffamatoria: è un multi-miliardario, è uno speculatore e di origini ebraiche. È l’obiettivo perfetto. Una cosa del genere è estremamente stupida e in Ungheria non si vedeva una campagna così negativa da quando è caduto il Comunismo: ci troviamo di fronte ad una situazione orwelliana. E io non sono certo un grande fan di Soros. In ogni caso penso che sia molto, molto pericoloso che la popolazione si trovi in una spirale così negativa e nel bel mezzo di una campagna di odio.  E per Jobbik è una situazione molto interessante per due motivi.  Prima di tutto abbiamo avuto uno sviluppo organico.  Siamo partiti come movimento extraparlamentare, poi siamo entrati in Parlamento13 e all’improvviso siamo dovuti diventare più responsabili e ci siamo resi conto che dall’opposizione è molto più facile criticare rispetto a quando inizi a porti come potenziale forza di governo. Per noi è stato uno sviluppo interessante trasformare un movimento giovanile in una forza parlamentare 83

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di grandi dimensioni diventando il primo partito di opposizione al governo Orbán, con la possibilità di arrivare prima o poi alla guida del Paese. Questo sviluppo ci ha portato su posizioni più centriste. Il secondo aspetto è che abbiamo assistito al fatto che Viktor Orbán ha ottenuto una maggioranza di due terzi al Parlamento per due volte di fila. Nella storia della democrazia, penso che non si sia mai visto un governo così forte. L’ultima volta è stato probabilmente nell’antica Roma. Quando hai la maggioranza di due terzi fai praticamente quello che vuoi. Proponi una legge il lunedì mattina e la adotti il lunedì pomeriggio. Cambi la Costituzione, cambi la legge sui media. Occupi i media. E per quanto riguarda gli appalti pubblici, li dai tutti ai tuoi migliori amici, al tuo amico d’infanzia, al tuo sindaco. Si tratta di corruzione, e all’estero non si può immaginare quale sia il livello che è stato raggiunto in Ungheria. È il primo ministro che controlla tutto e tira le fila. Ora, vedendo questa situazione dal punto di vista di Jobbik, è stata una grande lezione, è stato un percorso di apprendimento. Ci ha dato lo spunto per riflettere molto sulle istituzioni democratiche, ne abbiamo compreso i fallimenti e abbiamo sviluppato un nuovo atteggiamento. In sostanza abbiamo visto dove si può arrivare se l’impianto democratico viene rimosso. Non c’è libertà di parola, non ci sono media liberi, non c’è competizione libera perché le cose non vengono decise in base alla meritocrazia, ma attraverso i legami col Governo. Praticamente si uccide l’economia se ciò che conta non è quanto sei bravo, ma quanto sei legato al Primo Ministro. È stato un disastro per il Paese, ma per noi è stata una grande lezione per sapere cosa non fare e come valutare i concetti base del funzionamento di una democrazia. Anche se è molto fragile in Ungheria, ed è molto imperfetta e molto lontana dal funzionare come in Italia, in Germania o in Gran Bretagna, è comunque qualcosa che non si può mettere in discussione. Non si può mettere in discussione l’indipendenza della magistratura, l’indipendenza dei media. Non si può mettere in discussione l’indipendenza delle autorità pubbliche, che sono pagate con soldi dei contribuenti. In Italia, penso che sarebbe impossibile avere un capogruppo o un parlamentare del partito di governo seduto alla Corte dei Conti, che con questa carica penalizza ogni singolo partito tranne che quello di governo. La Corte dei Conti, 84

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durante l’ultima campagna elettorale, ha dato un multa di 2 milioni di euro a Jobbik14. Questo ha sostanzialmente ucciso la nostra corsa alle politiche, fondamentalmente Fidesz ha voluto sbarazzarsi di noi non solo attraverso i media, non solo attraverso il ridisegno della mappa dei collegi elettorali e attraverso l’elaborazione di una nuova legge elettorale, ma anche attraverso la Corte dei Conti, che ha dato una multa a ciascuno degli oppositori, al Partito socialista, a LMP, a Jobbik. Siamo stati sanzionati ma non sappiamo esattamente il motivo: per l’acquisto di cartelloni pubblicitari, per l’acquisto di spazi pubblicitari non al valore di mercato. Ora, nel settore pubblicitario le quotazioni sono molto flessibili. Dipende dal distributore che ti vende gli spazi pubblicitari, da qual è la tua liquidità, da quanto dura il rapporto con la società pubblicitaria, da quale quantità acquisti e da dove si trova il tabellone. Un tabellone per le affissioni proprio di fronte al Danubio, di fronte al ponte, è molto più costoso di quello in una strada senza uscita in campagna. Non si può dire che abbiamo comprato la pubblicità sottocosto, va dimostrato che è così, deve essere un tribunale a stabilirlo. Non è accaduto niente di tutto ciò. Sostanzialmente in campagna elettorale abbiamo dovuto scontare il fatto di essere il principale partito di opposizione a sfidare il Governo. È qualcosa di inimmaginabile in Italia, ma in Ungheria ci si deve abituare anche a questo.  Dall’esterno siamo sempre più visti come i difensori della democrazia e del senso comune, perché Viktor Orbán ha praticamente perso la testa e sta costruendo una dittatura. Prima eravate considerati come un movimento ultranazionalista e duramente anti-europeista. Cosa è cambiato?

Molto è cambiato: noi e la situazione.  Ho parlato dei cambiamenti avvenuti all’interno del partito, ma anche la situazione complessiva è cambiata molto.  Prima di tutto, l’UE è cambiata, così come le opportunità politiche al suo interno. Penso che se dovessimo individuare il momento del cambiamento, allora quello sarebbe la Brexit. Diciamo che tutto in Europa ha funzionato nei primi anni, quando la Comunità Europea operava con una cooperazione economica molto morbida e accordi fruttuosi tra gli stati membri. Poi si è deciso di spingere sull’unione politica, Maastricht e la 85

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valuta comune, con quell’idea per cui un’area economica comune porterà ad un’unione politica e ad una struttura federalista. In quel momento siamo stati estremamente critici anche perché a Bruxelles non si discuteva di una struttura non federalista. L’UE che preferisco è quella che prevede una cooperazione di Stati nazionali basata sulla cooperazione economica, culturale e politica. Non mi piace l’idea di un’Europa federale. Jobbik si è sempre battuto contro questa visione. Dopo la Brexit l’UE ha perso uno Stato membro. Anche solo un anno prima della Brexit nessuno avrebbe mai pensato che una cosa del genere fosse possibile, e nessuno aveva presente che ci fosse un quadro giuridico attraverso cui l’uscita dall’UE potesse realizzarsi: in effetti è il trattato di Lisbona che ha reso l’uscita di Londra possibile con l’articolo 50. Credo che la Brexit sia stata una pietra miliare, perché l’Unione Europea si è improvvisamente resa conto che c’era qualcosa che non andava e che senza un cambiamento di rotta lo stesso scenario avrebbe potuto ripresentarsi in altri Stati: con Beppe Grillo in Italia, o se Syriza dovesse diventare ancora più forte in Grecia, o se Podemos dovesse prendere il potere in Spagna. O ancora se Alternative für Deutschland dovesse avere qualche influenza su un futuro governo, o per effetto di Viktor Orbán in Ungheria e del FPOE al governo in Austria. In ogni singolo Paese questi movimenti sono in ascesa, e questo può provocare un’improvvisa disintegrazione dell’Unione Europea. Così a Bruxelles ora stanno cercando di cambiare rotta. È positivo che ora all’interno dell’Unione Europea sia stato aperto un nuovo capitolo e ci sia una discussione su quale direzione prendere. Ci offre l’opportunità di proporre una nuova linea e poter dire: «Ok, il federalismo è un’opzione, ma consideriamo l’Europa a due velocità, un’Europa a più velocità, l’Europa degli Stati nazionali».  Ora c’è l’opportunità di proporre nuove opzioni e possiamo farci nuovi alleati promuovendo una struttura unitaria ma non federalista, in cui gli Stati-nazione si riprendano le competenze da Bruxelles. All’improvviso, possiamo anche parlare di come riassegnare le competenze tra Bruxelles e lo Stato-nazione. È una buona idea lasciare le competenze della politica fiscale a Bruxelles?  No, ma penso che sia un argomento legittimo, in ogni caso se ne può parlare. Abbiamo partner in Polonia, in 86

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Slovacchia, in Italia, praticamente in ogni Stato membro, con cui possiamo far sentire la nostra voce al Parlamento Europeo, alla Commissione UE. Ora, abbiamo questa iniziativa nell’Unione Europea che riguarda un problema molto serio della periferia. Non solo dell’Europa centro-orientale, ma della periferia rispetto ai Paesi principali. Penso che in Italia vi sia lo stesso problema, giovani talenti che lasciano l’Italia in centinaia di migliaia verso il Nord Europa, Germania, Regno Unito ma anche Stati Uniti. Abbiamo un amico e un firmatario della nostra iniziativa in Portogallo, un grande sindacato.  Questo grande sindacato portoghese parla degli stessi identici problemi che abbiamo qui in Ungheria. È lo stesso fenomeno: da lì vanno in Spagna, Lussemburgo, Germania, Francia e Gran Bretagna. Stiamo avviando un dialogo costruttivo con l’Unione Europea su questo problema. Lotteremo per il nostro interesse nazionale, ma in un quadro costruttivo e attraverso uno strumento che l’Unione Europea ci offre, un’iniziativa dei cittadini europei resa possibile anche dal trattato di Lisbona. Siamo molto critici nei confronti della politica di coesione, del modo in cui funziona, e proponiamo che debba essere responsabile. Deve esserci un commissario che supervisioni la politica di coesione, osservando come vengono spesi i fondi e redigendo rapporti per vedere se i Paesi beneficiari stanno diventando più competitivi e più forti economicamente o se è denaro sprecato. Perché sono convinto al 100% che questo denaro non dovrebbe essere usato per costruire strade, ma bisognerebbe investirlo nell’istruzione, nella ricerca e nello sviluppo, nell’aumento dei salari. Se i salari aumentano cresce la competitività, e questa è l’unica cosa che farà tornare i giovani talenti che escono dalle nostre università. Ora, la maggior parte dei nostri studenti universitari prima di ricevere il diploma sta già facendo richiesta di lavoro in Europa occidentale, e le aziende o gli ospedali dei Paesi principali li cercano.  Non appena firmano e ricevono il diploma, se ne vanno e non tornano più. Un bambino ungherese su sei nasce in uno Stato dell’Europa occidentale, non in Ungheria. Per la Bulgaria è ancora peggio: si parla di un bambino su tre. Non è un problema specifico del nostro Paese, ma delle aree alla periferia dell’UE e ciò che stiamo avviando è un dialogo costruttivo con l’Unione.15 87

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Per tornare alla domanda, siamo cambiati. Siamo cresciuti e maturati politicamente.  Abbiamo lasciato indietro i nostri anni dell’adolescenza, che sono stati comunque necessari.  Penso che anche in politica ci sia un ciclo vitale, ogni comunità politica deve ravvedersi e maturare. Abbiamo visto Viktor Orbán al governo per otto anni e penso sia stata una grande lezione per noi, così come i grandi mutamenti avvenuti in Europa e nel contesto internazionale.  Ci siamo resi conto che ora c’è un’opportunità. Sul tavolo ora non c’è solo una proposta dei federalisti europei, non è più uno scenario ‘prendere o lasciare’, ora c’è tutta una serie di opzioni e possiamo sostanzialmente sederci al tavolo dei negoziati con una proposta, insieme agli alleati e con una posizione forte. Stiamo cercando di cogliere questa opportunità e penso che l’atteggiamento di Victor Orbán sia disastroso perché fino ad ora, fino a quando la struttura federalista era l’unica possibilità, ha firmato tutto e ha votato per tutto ed è stato un buon europeo. Ora che si potrebbe cambiare il sistema se ne sta andando dal tavolo delle trattative. Per quanto riguarda l’Ungheria, penso che questo sia un disastro perché, se si guarda alla posizione del governo, in pratica sono rimasti senza partner nella comunità europea.  Sì, ce ne sono alcuni, la Polonia, ma ora siamo fondamentalmente considerati i cattivi che devono stare dietro la lavagna. La Polonia ora ha il problema di tutte quelle leggi che influenzano il sistema giudiziario che è messo sotto il controllo del Governo.

In effetti pare che Kaczyn´ski stia cercando il consiglio di Orbán e che guardi a cosa sta proponendo in Ungheria. Stanno facendo cose simili e questo dipende dallo storico rapporto polacco-ungherese.  Abbiamo una storia cooperazione millenaria e Kaczyn´ski e Orbán stanno seguendo quella tradizione. Sono personaggi molto simili e penso che sia una tragedia per la Polonia e per l’Ungheria. Cosa pensa dell’euro?

Penso che sia una buona idea, ma che sia utile per l’economia a patto che le differenze strutturali tra gli stati membri che lo utilizzano vengano bilanciate o eliminate. Ad esempio penso 88

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che l’euro non vada bene per l’Italia. Il problema è che la politica monetaria dietro l’euro è determinata dalla Germania e che l’interesse economico tedesco è ciò che determina il tasso di interesse, il tasso di inflazione, di fatto la politica monetaria che sta alla base dell’euro, e che a Berlino non si preoccupano degli interessi italiani. Forse ogni tanto ci sono momenti fortunati in cui l’interesse tedesco e l’interesse italiano coincidono, ma può capitare per caso e per periodi brevi. Gli Stati dell’attuale Eurozona avrebbero dovuto fare tesoro di ciò che avveniva prima dell’introduzione dell’euro, col meccanismo di cambio europeo. Prima dell’euro, gli Stati membri, Italia compresa, hanno accettato di mettere il proprio tasso di interesse all’interno di un intervallo. Se il tasso di cambio si muoveva, erano fondamentalmente le banche centrali degli Stati nazionali ad intervenire per mantenerlo all’interno dell’intervallo stabilito. All’inizio degli anni Novanta, dopo la riunificazione della Germania, l’interesse economico tedesco era completamente diverso rispetto a quello di francesi e britannici. La Germania aveva bisogno di una moneta forte dopo la riunificazione; mentre in Gran Bretagna e in Francia c’era un alto livello di disoccupazione e l’economia era molto debole. Parigi e Londra avrebbero avuto bisogno di svalutare la loro moneta, ma non potevano a causa dell’ERM.  A quel punto George Soros ha speculato contro il franco francese e la sterlina britannica, perché sapeva che queste due valute non stavano andando bene in quanto erano inserite in una struttura assolutamente artificiale. Negli anni Novanta gli era permesso di comprare tanti franchi francesi e altrettante sterline, ed era autorizzato a vendere tutti i marchi tedeschi che voleva. Fondamentalmente, Soros e gli speculatori si sono resi conto che c’era un problema: che l’ERM era una cattiva struttura e che speculando contro di essa gli Stati non l’avrebbero tenuta. Avevano ragione. Possiamo dire, ma lo dico molto silenziosamente, che George Soros ha praticamente salvato l’economia francese e quella britannica, perché dopo le speculazioni i Governi hanno dovuto svalutare la loro valuta e i disoccupati francesi e britannici sono potuti rientrare nel mercato del lavoro. In sostanza l’economia britannica e quella francese avevano iniziato a crescere perché gli stupidi politici avevano seguito una logica economica che era contro il loro popolo. Gli speculatori 89

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causano ingenti danni nell’economia mondiale, ma a volte aiutano l’economia ad adattarsi e i politici ad abbandonare le loro idee stupide.  Tornando alla domanda penso che l’euro sia stato introdotto prematuramente. Era un progetto politico, non economico. I politici hanno deciso che avevano bisogno di qualcosa. Dovevano mostrare qualcosa per dire: «Siamo bravi». Per un politico, a volte è una grande opportunità poter annunciare qualcosa di grande, anche se è contro gli interessi del proprio popolo. I Greci sono stati traditi dai loro stessi politici per aver costretto la Grecia a entrare nell’euro, indipendentemente dal fatto che la Grecia non soddisfacesse nessuno dei criteri richiesti.  Non è che i Greci siano pigri o non sappiano lavorare. Magari l’approccio tedesco al lavoro è diverso da quello greco, ma il punto è che l’economia greca non era adatta, strutturalmente non era matura per una moneta comune con la Germania. Questo perché se un investitore doveva scegliere se comprare un titolo di stato greco o un titolo di stato tedesco, non era così stupido da comprare quello greco, perché guardando le statistiche economiche le probabilità di essere ripagato dallo Stato tedesco sono sempre state superiori.  Quindi cosa dovevano fare i Greci? Hanno dovuto aumentare i tassi di interesse mentre quello tedesco era fermo, pur usando la stessa valuta. Gli speculatori hanno quindi puntato sulla Grecia e poi abbiamo visto quello che è successo.  Per farla breve, penso che l’euro sia una grande idea, ma i politici lo hanno adottato senza pensare agli equilibri economici. Ora, se l’Ungheria dovesse entrare nell’euro, sarebbe un disastro. Abbiamo bisogno della politica monetaria in modo da poter svalutare o aumentare i tassi di interesse quando l’economia ungherese ne ha bisogno e di quella fiscale per poter incidere sul nostro bilancio. Se si entra nell’euro, tutto viene deciso dalla Germania e penso che l’Ungheria prima o poi dovrebbe riuscirne. Penso che anche l’Italia sia nei guai, come la Francia. Ora si sta ragionando sull’ipotesi di una sorta di Fondo Monetario Europeo, lei cosa ne pensa?

È necessario perché bisogna introdurre alcune strutture per livellare i problemi, il Fondo serve per aiutare quegli Stati per i quali l’euro sta causando danni economici. 90

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Probabilmente aiuterà anche a tenere in piedi l’euro e a favorire l’ingresso di altri Stati nell’Eurozona.

L’Ungheria ha firmato un accordo secondo cui adotteremo l’euro nel prossimo futuro, ma penso che l’unico modo per avere una valuta stabile che serva l’interesse di ogni singola economia − e spero che questo sia l’obiettivo − sia eliminare le differenze strutturali. Non si possono avere differenze così enormi. Ora non è possibile avere la stessa valuta in una comunità economica che ha differenze così profonde in termini di salari e competitività. Penso anche che all’Ungheria manchino 600.000-700.000 persone in termini di forza lavoro. Siamo un Paese che è appena sotto i 10 milioni di abitanti e le cui migliori teste se ne vanno appena finita l’università. Sono ingegneri, insegnanti, medici, infermieri. Sono da qualche parte in Austria e noi stiamo importando medici dall’Ucraina. Non so nemmeno se abbiano un’Università di Medicina in Ucraina e stiamo portando medici dall’estero perché i nostri stanno lasciando il Paese pur restando all’interno dell’Unione Europea: d’altronde c’è libera circolazione dei lavoratori.  Se vogliono andare a Milano in un ospedale domani, fanno le valigie e se ne vanno.  Non c’è niente che può fermarli.  Sono le persone più produttive. Sono la cosiddetta classe media che di solito si fa carico del Paese. Sono quelli che pagano le tasse, sono imprenditori, costruiscono case, mettono al mondo figli, sono quelli che pagano il sistema sanitario e che sostengono il sistema pensionistico. Non sto dando la colpa a Bruxelles, ma questa è un’emergenza di cui la politica ungherese dovrebbe occuparsi subito visto che è la conseguenza degli errori dei nostri governi. Non mi riferisco solo a quello ungherese, ma a tutti i governi di questa regione che, dopo la caduta del comunismo e delle economie pianificate di tipo socialista, hanno aderito ad una politica economica che credevano avrebbe portato allo sviluppo. Non è stato così, anzi. Il primo punto di questa politica economica mirava ad attrarre investimenti esteri diretti grazie alla manodopera a basso costo. Fondamentalmente i governi hanno sostenuto che il nostro vantaggio competitivo fosse la manodopera a basso costo. Alle aziende straniere veniva detto: «Porta qui la produzione perché qui il lavoro è economico», nella convinzione che questa politica prima o poi avrebbe portato allo 91

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sviluppo grazie al trasferimento di tecnologia. Purtroppo non è accaduto per l’effetto combinato della stupidità dei nostri politici o delle scelte delle lobby industriali che hanno portato in Ungheria i centri di produzione, ma hanno mantenuto i centri di ricerca e di sviluppo in Germania. Penso che sia una nuova forma di colonizzazione. Ecco come va in Ungheria: ci prendono i nostri migliori talenti e portano qui il lavoro a basso costo. Siamo stati stupidi a crederci, ma ora dobbiamo provare a sistemare le cose. È necessario adeguare il trattato di Schengen?

No, è un dato di fatto. Ora c’è libera circolazione dei lavoratori, penso che sia una buona cosa. Penso che in questo Paese, che ha vissuto il comunismo, non sarebbe una buona idea dire alla gente che non è permesso muoversi liberamente. Questo aspetto rende il problema ancora più delicato, ma dobbiamo trovare una soluzione. Perché non è giusto nemmeno per gli ungheresi: non è possibile che con i soldi dei contribuenti si paghi per l’educazione degli studenti che, finiti gli studi, lasciano il Paese e contribuiscono al benessere di altre nazioni. So che è un ragionamento molto egoista. Ma ogni Paese paga per l’istruzione nella convinzione che ci sarà un ritorno all’economia attraverso le tasse. È un accordo implicito tra lo Stato e i cittadini. Con un’area economica europea comune, i confini sono aperti, ovvero noi paghiamo i costi e qualcun altro ottiene i profitti. L’unico modo per aggirare questo problema è creare opportunità in modo che si possa restare nel proprio Paese d’origine. Credo che la maggior parte delle persone voglia vivere nel Paese di nascita. Il nigeriano in Nigeria, il siriano in Siria, l’ungherese in Ungheria, l’italiano in Italia.  Certo, è una grande opportunità poter viaggiare, sperimentare, magari lavorare all’estero per imparare le lingue, per vedere altre culture. L’opportunità dovrebbe esserci, ma non dovrebbe diventare una necessità, perché il problema è che la maggior parte degli ungheresi di talento non lasciano l’Ungheria per curiosità o spirito d’avventura.  Se ne vanno per  necessità. Guardano il loro stipendio alla fine del mese e dicono: «Se questo è lo stipendio, non posso crescere i miei figli, non posso dare loro una vita ed un’educazione adeguata». Il salario minimo ungherese è di 200 euro, lo stipendio medio oscilla tra i 500 e i 600 euro; il salario medio in Ger92

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mania è di 2.500-3.000 euro. Anche i prezzi non sono uguali, ma le differenze sono molto più marcate tra i salari. L’unica soluzione è ripensare l’economia e abbandonare questa strategia dei bassi salari. Va bene, sull’emigrazione la posizione è chiara. Ma vorrei sapere qual è la vostra posizione sull’immigrazione, finora abbiamo parlato della posizione di Orbán ma non di quella di Jobbik.

Viktor Orbán ha sostanzialmente sostenuto la nostra proposta. Abbiamo suggerito di costruire un muro nel 2012. Ha costruito il muro16, bene. Lo abbiamo sostenuto: c’era bisogno di quella legge che è stata approvata con procedura d’urgenza in Parlamento e per cui aveva bisogno dei 4/5 della maggioranza. Noi siamo contrari all’immigrazione incontrollata, siamo contrari al sistema europeo delle quote per la ridistribuzione dei richiedenti asilo, vogliamo proteggere il Paese anche costruendo un muro ed estendendolo se necessario, in modo da mantenere il diritto di scegliere chi entra nel Paese. Ma noi di Jobbik ci differenziamo da Orbán su due punti. Dobbiamo rispettare i nostri obblighi internazionali. Se qualcuno viene in Ungheria e può provare che proviene da un’area devastata dalla guerra e ha diritto allo status di rifugiato, deve essere aiutato. Se si tratta di migranti economici, che provengono dal Bangladesh, dal Pakistan o dall’India o da altri Paesi che sono poveri ma non devastati dalla guerra, non deve essere accolto. La ragione è che non possiamo inviare messaggi a tutto il mondo dicendo: «Guarda, vieni perché in Ungheria abbiamo opportunità migliori rispetto al tuo Paese». Sarebbe una cattiva idea perché potrebbe innescare un effetto domino che si è già tradotto in situazioni surreali per cui i migranti protestano in Germania perché vogliono andare in Svezia. È pazzesco.  Naturalmente il sistema europeo dice che il migrante deve essere assistito e identificato nel Paese di primo soccorso. Il regolamento di Dublino sta facendo molto discutere e in molti chiedono di cambiarlo.

Queste persone attraversano la Grecia, i Balcani, la Serbia, l’Ungheria. So che non vogliono restare qui. Da politico ungherese potrei essere cinico e dire che «l’intero Bangladesh può at93

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traversare l’Ungheria», e potrei mettere a disposizione le ferrovie ungheresi e offrire ai migranti biglietti gratuiti per l’Austria. Ma bisogna essere responsabili e dire chiaramente che il sistema va cambiato. L’altro aspetto è che il diritto internazionale deve essere rispettato: ai rifugiati deve essere data una mano. Senza dimenticare un altro tema. Ovvero?

È un tema molto popolare in questi giorni in tutta Europa, specialmente tra i movimenti nazionalisti. In realtà, questo è l’unico punto del loro programma: essere anti-islam. Ora penso che sia una situazione molto pericolosa per due motivi. Sappiamo che l’islam ha i suoi estremismi, come il cristianesimo, o come qualsiasi altra religione. Abbiamo sempre pensato che il buddismo non ne avesse, ma ora abbiamo visto cosa è successo in Birmania. Penso che l’islam moderato sia un nostro alleato nel combattere l’estremismo islamico. Si tratta di un aspetto molto importante soprattutto per quegli Stati europei dove ci sono comunità musulmane numerose, non in Ungheria, ma in Italia, in Austria, in Germania, in Francia. Penso che sia nell’interesse di questi Paesi cooperare con l’islam moderato per combattere gli estremisti. Quindi non possiamo chiudere la porta e considerare tutto l’islam nostro nemico. Sono molto preoccupato per i messaggi che vengono lanciati dai populisti in Europa occidentale e dal nostro populista Orbán, che sono fondamentalmente quelli per la difesa di un’Europa cristiana contro il mondo musulmano. Sfortunatamente, l’Europa non è più cristiana. Penso che sin dalla Rivoluzione francese e dall’Illuminismo questa posizione sia stata abbandonata. Viviamo in un mondo secolare. Sarei la persona più felice del mondo se potessi dire che siamo un continente cristiano e che la civiltà cristiana ha bisogno di protezione. Ma oggi siamo in una situazione differente: dobbiamo riconquistare i nostri valori cristiani e per farlo dobbiamo combattere l’estremismo islamico. Ad esempio qui in Ungheria dobbiamo preservare il diritto di poter decidere se vogliamo diventare una società multiculturale o meno. So che molti Paesi dell’Europa occidentale non 94

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hanno più scelta: per le ex potenze coloniali le cose sono state decise due o trecento anni fa. In Francia, in Olanda, a prescindere da cosa vogliano la Le Pen o Wilders, non c’è più possibilità di scelta. Prendiamo la Nazionale francese di calcio: è normale che dieci su undici non siano francesi d’origine, ma lo siano di seconda o terza generazione. Provengono dal Nord Africa o dall’Africa Nera. Se fossi francese, direi: «Sono orgoglioso di questa squadra di calcio perché questa è la Francia». In Ungheria non è così. Abbiamo avuto uno sviluppo storico differente, tutto al nostro interno e non abbiamo mai avuto colonie, non abbiamo mai conquistato metà dell’Africa Nera e dell’Asia, quindi siamo monoculturali. Non sta a Bruxelles decidere che ora ogni Paese debba diventare come il Belgio o come l’Olanda o come la Francia. In ogni caso ho letto che voi di Jobbik siete a favore di una collaborazione più stretta con la Turchia di Erdogan.

La Turchia ha tre milioni di rifugiati provenienti principalmente dalla Siria e dall’Iraq; l’Europa è stata molto egoista. Certo si può criticare ogni Paese per qualcosa e sono sicuro che non sia difficile criticare Erdog˘an e l’AKP. Lui è un personaggio controverso, ma non sta a me giudicare quello che sta facendo con l’AKP in Turchia: se i turchi ne sono contenti e se in condizioni democratiche il suo partito ottiene la maggioranza, va rispettata la volontà del popolo turco. Se la Turchia ora decide di abbandonare la secolarizzazione di Atatürk, di riavvicinarsi all’islam e di volgere la propria attenzione ad Oriente va bene. Non spetta agli ungheresi, ai belgi o agli italiani decidere se è giusto o sbagliato. La Turchia ha accolto tre milioni di rifugiati e ha speso, fino al 2017, dieci miliardi di euro per fronteggiare da sola la crisi migratoria. L’Europa ha parlato molto di accoglienza e adozione dei rifugiati e della spesa da sostenere, ma non ha fatto molto se non ricattare i turchi: in cambio di rifugiati che trattengono nel loro Paese gli diamo soldi. Paghiamo 3 miliardi ad Ankara nell’ambito di questo accordo siglato tra Turchia e UE, ma è solo un terzo di quello che la Turchia ha speso per i profughi. È chiaro che un Paese che è vicino ad una zona di crisi è sempre più colpito e si trova a sobbarcarsi la maggior parte del problema, ma penso che se gli europei fossero stati così uma95

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ni e così bravi come dicono, allora avrebbero dovuto aiutare molto di più i turchi. Penso che se lo avessimo fatto, i rapporti tra Erdog˘an e Merkel o tra Erdog˘an e l’UE sarebbero molto più rilassati. La Turchia sarebbe un partner molto più affidabile dell’UE di quanto lo sia ora. Quando sento i diplomatici e i politici turchi parlare di questa crisi migratoria, tendo a pensare che abbiano ragione a provare rancore contro l’Unione Europea per il mancato supporto. Che posizione avete rispetto alla Russia?

La Russia è una superpotenza che si trova alla porta accanto. Grazie a Dio non è uno Stato confinante, ma è comunque vicina. La storia ci ha insegnato che come ungheresi ci troviamo in una posizione geografica di confine tra le civiltà, che è il crocevia tra Est, Ovest, Nord e Sud.  Abbiamo trascorso la maggior parte della nostra storia combattendo contro l’Impero ottomano che cercava di invadere l’Europa da Sud. Abbiamo combattuto contro l’Impero russo o l’Unione Sovietica che voleva invadere l’Europa da Est, e ci siamo battuti contro l’Impero germanico che voleva muoversi verso Est. Siamo proprio in mezzo e diciamo che la civiltà europea è stata a lungo protetta dagli ungheresi. Lo sostiene anche Orbán sulla crisi dei rifugiati, ancora una volta siamo noi che stiamo difendendo l’Europa. Che sia vero o no, è vero che siamo in una posizione geografica critica e in questa posizione non possiamo permetterci il lusso di avere cattive relazioni con nessuna di queste grandi potenze che si trovano vicino ai nostri confini e che stanno cercando di dominare il nostro Paese militarmente, economicamente, culturalmente o politicamente. Oggi viviamo i tempi della colonizzazione economica e del soft power, che sono comunque forme di dominio. La Russia ha riacquistato il suo status sul palcoscenico globale come superpotenza, come potenza militare, politica e diplomatica. Naturalmente usa tutte le risorse che ha per influenzare le aree su cui ha interessi, dal gas agli hacker, alla controinformazione sui media. Ma noi ungheresi dobbiamo cercare di mantenere buoni rapporti con la Russia, soprattutto in campo economico e commer96

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ciale, perché è un mercato enorme. La Russia durante il socialismo è stata una miniera d’oro per i nostri prodotti. Purtroppo, si è persa questa idea di guardare alla Russia come partner commerciale e ora ci troviamo nel mezzo di un conflitto geopolitico tra Russia e Stati Uniti che si contendono le sfere di influenza. Un esempio sono tutte queste rivoluzioni colorate come la vicenda dell’Ucraina, dove non si tratta del povero popolo ucraino che lotta per la democrazia e per l’indipendenza. Si tratta di poveri ucraini che soffrono per il dominio russo e per i tentativi d’influenza occidentale. Sono praticamente stati fatti a pezzi in questo scontro. Il vero problema è che l’Europa centrale non ha un’alternativa. La V417 è la base per questo. Una cooperazione da Nord a Sud che ha alcuni fondamenti storici nel Medioevo, quando sia la Polonia che l’Ungheria erano potenze dominanti, prima dell’Impero ottomano, fino al XVI secolo, quando l’Europa centrale era un’entità indipendente. Il V4 potrebbe influenzare ciò che accade sia ad ovest sia ad est, certo non saremo mai in grado di influenzare la Russia. Piuttosto la nostra responsabilità e il nostro dovere sono di evitare conflitti inutili proprio con Mosca. Penso che quello che sta accadendo ora nella NATO, nell’Unione Europea e nelle strategie geopolitiche globali, rischi di aumentare questa tensione. Penso che la Russia e gli Stati Uniti stiano entrambi cercando di estendere la propria sfera di influenza. Noi siamo lungo la linea di confine, e questa è una brutta notizia. Due guerre mondiali sono scoppiate lungo questa linea. Facciamo parte della civiltà occidentale, siamo membri dell’UE e della NATO, ma in ogni occasione dobbiamo prendere posizione chiedendo di non aumentare la tensione, anzi cercando di ridurla. Ora chiediamo di togliere le sanzioni economiche contro Mosca che certo non aiutano. Anzi se c’è una cosa che rende Vladimir Putin e la Russia più forti, sono le sanzioni. So che è politicamente difficile ammettere che abbiamo sbagliato e che è stata una cattiva idea mettere le sanzioni contro Mosca per la questione della Crimea, ma bisognerebbe farlo almeno come gesto simbolico. Al Consiglio d’Europa, ad esempio, che è stato fondato per risolvere i problemi, non si può dire alla Russia «Stiamo per privarti dei tuoi diritti di voto». In tal modo si spinge la Russia fuori dalla porta sia del Consiglio d’Europa sia dell’OSCE. 97

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Ma è davvero necessario? Lasciamo che questi forum restino come luoghi del dialogo. Anche se non siamo d’accordo con la politica di Putin e anche se non siamo d’accordo con l’azione russa sui media, bisogna lasciare una porta aperta per i negoziati. Oggi al contrario si stanno chiudendo, la Russia sta uscendo dal Consiglio d’Europa e dall’OSCE. Questo scenario complessivo non aiuta a risolvere la situazione. In questo momento tutti i piccoli Stati della regione iniziano a sentirsi un po’ a disagio. Questo è il motivo per cui siamo molto favorevoli al rafforzamento delle relazioni russe. Certo, in modo trasparente.  Sono molto felice che Orbán abbia buoni rapporti con Putin. Non sono altrettanto felice che queste relazioni siano assolutamente opache. In Ungheria c’è questo grande progetto di espansione di una nostra centrale nucleare. L’accordo non è trasparente, non sappiamo cosa prevede, è classificato per 50 anni e quindi solo fra mezzo secolo sapremo cosa prevede. Quindi il problema è l’accordo con i russi?

No, il problema penso siano Viktor Orbán e la corruzione. Non ha nulla a che fare con Putin. O meglio: per lui si tratta di affari, per Orbán è corruzione. Sta facendo in modo che la sua azienda di famiglia ottenga una parte degli appalti pubblici. Come spesso accade i costi sono pagati dal pubblico e i profitti vengono raccolti dalle imprese private. Temo che se avessimo accesso alla documentazione sull’ampliamento della centrale nucleare, troveremmo questo genere di cose.  In ogni caso penso che questa situazione stia danneggiando anche le relazioni ungaro-russe.  Il governo ungherese sta costruendo le relazioni con i russi ai danni di quelle con l’Occidente.  Non possiamo permetterci tali squilibri.  Prima avevamo zero relazioni con Mosca e relazioni euroatlantiche a senso unico. Per un piccolo Paese come l’Ungheria, che si trova sul confine tra due civiltà, ci deve essere un grande equilibrio nelle relazioni internazionali. Dobbiamo costruire ponti, dobbiamo fungere da canali di comunicazione tra Est e Ovest. Dobbiamo essere in grado di offrire una sorta di piattaforma di comunicazione visto che è nel nostro interesse che la Russia e l’Occidente siano in buoni rapporti. È ciò che ha fatto la Bielorussia a Minsk.

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Si riferisce all’accordo sull’Ucraina?

Penso che quella sia stata un’azione brillante. La diplomazia bielorussa con l’accordo di Minsk è stata straordinaria: ha saputo mettere attorno ad un tavolo Russia, Stati Uniti, Germania e Ucraina. Questo è ciò che un piccolo Paese deve offrire. Non saremo mai in grado di dominare o influenzare i russi, o l’UE, o il punto di vista americano. Ciò che possiamo offrire è l’essere mediatori, in modo da raggiungere i nostri interessi favorendo i grandi interessi.

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Podemos − Dagli Indignados alle soglie del governo

Il 15 maggio 2011 iniziò una protesta lunga un mese di giovani che presto sarebbero stati ribattezzati Indignados; l’obiettivo erano i tagli portati avanti dal governo Zapatero in seguito agli accordi firmati circa un anno prima dalla Spagna con la BCE. Ma nel mirino dei protestatari c’erano anche un mercato del lavoro disastrato, i pignoramenti delle banche ai danni di coloro che, dopo aver perso il lavoro, non erano più in grado di pagare le rate dei mutui, e ovviamente il duopolio politico detenuto da due partiti che fino di fatto al 2015 hanno mantenuto il controllo del Paese, il Partido popular e i socialisti dello PSOE. Il movimentismo che per almeno due anni avrebbe condizionato la Spagna, con manifestazioni in tutte le principali città del Paese, avrebbe posto le basi per il futuro partito Podemos. Il primo effetto delle politiche dell’austerity di Zapatero fu la sconfitta pesantissima per lo PSOE alle elezioni del dicembre 2011, passato dal 43,9% di tre anni prima al 28%, e l’affermazione del PP di Rajoy con il 44,6%. Nel corso dell’anno successivo anche il governo di centrodestra fu costretto ad operare nuovi tagli alla spesa pubblica, mentre la disoccupazione schizzava oltre il 26%. È a questo punto che Pablo Iglesias, Íñigo Errejón e Juan Carlos Monedero, colleghi all’Università Complutense di Madrid, iniziarono a ragionare sulla costituzione di un partito. I riferimenti erano il neopopulismo latino americano e le opere di Laclau e Mouffe, in cui si parla chiaramente di una situazione nella società in cui il popolo si contrappone alle élites, in questa cornice si inserisce anche l’idea di quel populismo inclusivo sullo stampo dei neopopulismi latinoamericani, si va oltre la logica destra-sinistra ma si approda alla logica popolo versus casta1. 101

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Ma se Iglesias è l’immagine di Podemos, sono gli altri futuri dirigenti ad avere gli strumenti per permettere la nascita del nuovo partito. Podemos2 in ogni caso non rappresenta l’entrata in politica del movimento degli Indignados, ma una soluzione per fare in modo che parte di chi ha partecipato alla grande stagione della mobilitazione possa entrare nel dibattito politico spagnolo e nelle istituzioni3. In qualche modo vengono mantenute alcune caratteristiche del movimento 15M, quindi l’utilizzo dei social network e il tentativo di mantenere un processo decisionale orizzontale. Si vuole mantenere a tutti costi l’immagine del movimento collettivo di cittadini4 e l’operazione ha ottimi risultati, tanto che nel 2014, appena nato, Podemos ottiene subito l’8% e oltre un milione di voti. Peraltro, pur ispirandosi a modelli teorici che hanno riferimenti a sinistra, gli esponenti di Podemos si propongono come il ‘partito dei professori’ e lo stesso Iglesias si propone con l’immagine del ‘professore con la coda di cavallo’. Ma l’aspetto decisivo per il successo di Podemos è l’applicazione delle teorie proprio di Mouffe e Laclau sul discorso populista e la conquista dell’egemonia. I vertici del neonato movimento conoscono bene l’importanza della comunicazione, della partecipazione e presenza sui mass media per provare a muovere il consenso a loro favore5. Da questi elementi discende che non si possa parlare propriamente di partito populista, non c’è l’ideologia sottile di cui parla Mudde, piuttosto si considera il populismo come uno stile di comunicazione che può permettere di conquistare il potere. Insomma siamo in presenza di uno stile populista, ma non di un’ideologia. In ogni caso per le europee il programma prevede una serie di misure che definire euroscettiche è un eufemismo: uscita dall’Eurozona, abrogazione del trattato di Lisbona, le 35 ore settimanali, rifiuto del pareggio di bilancio come richiesto dall’UE e controllo parlamentare della BCE. Il successo di Podemos prosegue anche diciotto mesi dopo, quando il 20 dicembre del 2015 si vota per le elezioni politiche: il partito arriva al 20,6% e la comparsa contemporanea di Ciudadanos, che ottiene il 14%, di fatto pone fine al sistema bipartitico che aveva contraddistinto la Spagna dal termine della dittatura franchista6. La grande frammentazione parlamentare non permette di trovare un accordo per la costruzione di un governo 102

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e così il Paese deve tornare alle urne il 26 giugno 2016. Podemos per il nuovo appuntamento elettorale costruisce un’alleanza con la Sinistra Unita, ma il risultato non è convincente, la coalizione elettorale ottiene esattamente lo stesso numero di seggi che i due partiti avevano ottenuto separatamente sei mesi prima e soprattutto perdono un milione di voti. Secondo gli osservatori Podemos è il grande sconfitto delle elezioni, probabilmente non essendo più riuscito a mobilitare quella fascia di elettorato che generalmente non andava a votare e che invece aveva deciso di farlo nel dicembre 20157. Ma evidentemente Podemos paga anche la scelta di essersi associato ad una forza di estrema sinistra, dopo che dalla sua fondazione ha sempre cercato di tenersi lontano dalle logiche destra-sinistra. Podemos resta all’opposizione con il governo Rajoy, ma quando al potere arriva il socialista Pedro Sanchez, inizia a farsi strada l’ipotesi di un sostegno esterno al governo. Accordo che arriva l’11 ottobre del 2018, quando con un accordo di cinquanta pagine si mette nero su bianco una serie di punti: il salario minimo che sale da 730 a 900 euro, un nuovo piano nazionale per le case popolari e l’aumento della patrimoniale per i grandi patrimoni8. Con quella che sembra la definitiva rottura tra Iglesias e Errejón, che si è dimesso dal Parlamento9, ci sono grossi interrogativi sul futuro del partito che sembra aver perso parte della sua spinta propulsiva10. Per quanto riguarda Juan Carlos Monedero, che nel 2014 venne eletto segretario fondatore di Podemos dopo esserne stato uno dei fondatori, il suo abbandono del partito è avvenuto nell’aprile del 2015. Poche settimane prima era esplosa una polemica che lo vedeva coinvolto: secondo alcuni mezzi d’informazione negli anni in cui era stato consulente del presidente venezuelano Chavez, ovvero tra il 2005 e il 2010, aveva ricevuto circa un milione e mezzo di euro che aveva portato illegalmente in Spagna. Secondo alcuni i fondi non sarebbero stati il pagamento per le consulenze di Monedero ma un finanziamento per Podemos. Secondo El Pais da Hugo Chavez sarebbero arrivati addirittura quasi 3,5 milioni di euro11. Monedero ha sempre negato ogni addebito. Oggi dopo aver lasciato Podemos prosegue la sua carriera di docente universitario e ha iniziato anche una brillante carriera televisiva con la conduzione di un programma di approfondimento dal titolo En La Frontera sul canale Publico Tv. 103

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LEGISLATIVE Anno

Voti

%

Seggi

2015

5.212.711

20,6

42

2016

5.087.583

21,1

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EUROPEE Anno

Voti

%

Seggi

2014

1.253.837

7,9

5

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Intervista a Juan Carlos Monedero12 Cosa pensa della struttura dell’Unione Europea?

Mi obbliga a pensare quest’ultima parola: la struttura. È più facile rispondere su cosa penso dell’attuale Unione Europea. Approcciarmi alla sua struttura mi crea più dubbi perché la struttura nasconde sempre molto di più le vere intenzioni. In Europa ci sono sempre state una costituzione materiale ed una costituzione formale, e in maniera evidente a partire dal trattato di Maastricht c’è una neoliberalizzazione dell’Europa. A partire da questo momento l’Europa palesemente incomincia a rinunciare a ciò che avevano significato i suoi inizi. Già aveva fatto qualche passo in questa direzione con l’Atto Unico europeo, e in qualche modo tutta la riflessione sul costo della neo Europa si basa su una riflessione neoliberale che prende forza con il trattato di Maastricht, in coincidenza con un fatto fortunato e sfortunato al tempo stesso: l’unificazione della Germania. La Germania finisce la guerra senza un trattato di pace, con una resa incondizionata, e quando cade il Muro di Berlino nel 1989 e si comincia a porre il problema perché c’era Ein Volk, e l’unificazione comincia ad essere reclamata dalla gente, iniziano a rendersi conto che non si può fare perché non c’era un trattato di pace e che perciò devono prima firmare un trattato di pace. E i francesi non volevano. Anzi i francesi andavano a ripescare quella celebre frase di Mauriac: «Amo così tanto la Germania che sono felice ce ne siano due». I tedeschi devono perciò negoziare con i francesi, hanno meno problemi con gli Stati Uniti, hanno meno problemi con l’Inghilterra, con la Polonia risolvono il tutto attraverso compensazioni in denaro e lo stesso fanno con la Russia. Anche i francesi chiedono denaro, in cambio del trattato di pace chiedono di condividere il marco tedesco che è alle origini dell’euro e i tedeschi accettano: accettano di condividere il marco esigendo però i criteri di convergenza, che erano criteri monetari e di taglio neoliberale. Per questo motivo il trattato di Maastricht nasce con l’egemonia tedesca e con un’impronta neoliberale. E lì si spezza la logica che aveva funzionato fino ad allora. C’è, inoltre, un allargamento ad est che risponde alla necessità di far crescere il mercato tedesco. Il che presenta altri due problemi: con l’allargamento l’Europa è più estensiva e meno inten105

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siva, e in secondo luogo il Sud resta senza aiuti. È il caso della Spagna, che riceveva i fondi strutturali: in realtà la Spagna per entrare nell’Unione Europea si dendustrializza, ma in cambio riceve l’uno per cento del PIL, e ciò ha permesso di identificare l’Europa come uno spazio accogliente per la Spagna. In termini politici durante la dittatura l’Europa era stato lo spazio della democrazia, e in quel momento in termini economici ricevevamo aiuti. Aiuti che ora vengono dati ai Paesi dell’Est, in questo modo l’allargamento dell’Europa, che coincide con la messa in moto di questa Unione Europea, non genera un rafforzamento democratico, ma una debolezza. Alla fine abbiamo un’egemonia tedesca, neoliberalismo, problemi economici per finanziare l’unificazione, problemi economici dovuti alla crisi costante che c’è in Europa fin dal 1929, e da ultimo una debolezza democratica per un processo di allargamento nel quale i Paesi dell’Est non hanno avuto alcun aiuto per un consolidamento democratico. E così, alla fine l’Europa si sta trasformando in un’altra cosa. Quando Wolfgang Schäuble parla a Tsipras proibendogli di fare un referendum o obbligandolo a mantenere gli impegni presi dopo il risultato del referendum, non parla come un ministro delle Finanze ma come un mafioso. E questo mina profondamente l’impegno per un’Europa che già non si identifica più con i diritti umani, con la lotta al fascismo, con l’aiuto ai rifugiati, con l’impegno per la democrazia. Resta indietro quell’Europa che era rappresentata, pur non essendo forse questo il nucleo, da Olof Palme, di fronte ad un’Europa rappresentata ora da Wolfgang Schäuble o Angela Merkel. Intendo rispondere in maniera concreta alla tua domanda iniziale. È un fatto assolutamente sicuro e incontrovertibile che la struttura centrale dell’Unione Europea è caratterizzata dall’Ufficio del Commissario alla Concorrenza, incaricato di affermare quello che sosteneva von Hayek: che quanto non si può conseguire nell’ambito dello Stato nazionale, va preteso a livello soprannazionale. In questo modo i nostri Paesi, tra cui anche la Spagna, sono diventati più neoliberali in parte per l’esigenza di un’Europa diretta e dall’altra per la logica neoliberale rappresentata soprattutto dal Piano di stabilità, dalle politiche di austerità, dai tagli. Tutto giustificato con il fatto che l’ambito pubblico deve ritirarsi in nome del mercato cui viene lasciato spazio per la concorrenza. 106

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Che cosa pensa del ruolo del Parlamento Europeo?

In tutti i nostri Paesi abbiamo un problema: conviviamo con la teoria neoliberale, però nella pratica siamo in quello che si può definire lo Stato di partiti. La teoria liberale affidava ai parlamenti tre grandi funzioni: fare le leggi come potere legislativo, controllare il Governo e rappresentare la Nazione. Queste tre funzioni oggi non le svolge il Parlamento. Le leggi le fanno i governi, il potere esecutivo: ad esempio la legge più importante, che è quella di bilancio, è una legge emanata dai governi. Il controllo parlamentare è impossibile perché le maggioranze che devono controllare il Governo sono le stesse che lo nominano, perciò fintanto che non si attribuisca alle opposizioni una capacità maggiore di controllo, la stessa maggioranza che nomina il Presidente del Consiglio sarà la stessa che lo controlla. In terzo luogo, ugualmente la rappresentanza spetta ogni volta di più al governo. Quello che le scienze politiche definiscono come «parlamentarismo razionalizzato» in realtà è un parlamentarismo decapitato, che non funziona. Bisogna aggiungere che buona parte delle funzioni classiche del parlamentarismo vengono svolte sui mezzi di comunicazione, in quella che Bernard Manin definisce «democrazia dell’audience», dove si attribuisce ai programmi televisivi più importanza che a quanto succede in Parlamento13. E i mezzi di comunicazione semplificano sempre il compito politico. Al tempo stesso in tutti i nostri Paesi c’è un articolo che emula un articolo della Costituzione francese del 1791. In Spagna è l’articolo 67.2, che proibisce il mandato imperativo [il vincolo di mandato, NdT]. Vale da dire, che un deputato eletto a Roma non rappresenta i romani, ma rappresenta il popolo italiano. Questo è collegato alla teoria liberale, che è una teoria normativa della società, non una teoria positiva: non ci dice ciò che è, ma ciò che si vorrebbe che fosse. Una teoria costruita dalla borghesia come classe in ascesa rispetto alla monarchia assoluta: dopo aver tagliato la testa al re, c’è bisogno di uno spazio dove rappresentare l’insieme, nel Parlamento. È il discorso agli elettori di Bristol fatto da Edmund Burke nel 1774. Il Parlamento rappresenta la Nazione in un tempo nel quale le donne non votano, i poveri non votano, ma fa lo stesso: il Parlamento rappresenta la Nazione. E perciò la proibizione del vincolo di mandato ha a che vedere con un fatto colto da Burke e che sarà ripreso da Marx: che uno 107

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Stato nazionale è un mercato nazionale. E Burke nel suo discorso sostiene che Bristol è importante, ma è solamente una parte di una Nazione più grande che è anche un mercato più grande, che non può funzionare se frammentato. In questo senso nei nostri Paesi ci troviamo di fronte al fatto che la cittadinanza non può dare mandato ai propri deputati ma ai partiti sì. Noi cittadini non abbiamo alcun potere sui deputati, ma il partito ne ha. Il che non ha senso, è uno svuotamento democratico molto forte. A che serve allora il Parlamento? Per legittimare la democrazia. Di fatto i sondaggi fatti in Spagna attribuiscono sempre una percentuale di importanza maggiore al Parlamento rispetto ai parlamentari. Il che è un po’ assurdo. Però la gente identifica i parlamentari con i partiti che sono molto svalutati. In cambio c’è qualcosa di astratto, la legittimità diffusa diremmo, per cui la gente è convinta che nel Parlamento in qualche modo ci sia la Nazione. Nel colpo di Stato del 1981 in Spagna, i mezzi di comunicazione dicevano: i golpisti hanno sequestrato la Nazione. È curioso perché quando hanno chiesto al Presidente di una delle banche più importanti di Spagna, cosa aveva fatto quella notte del golpe, lui ha risposto: me ne sono andato semplicemente a dormire perché io sapevo che, con gli uni o con gli altri, il giorno dopo io avrei continuato ad essere sempre il Presidente della banca. Se tutto questo ragionamento lo si trasferisce all’Unione Europea, ci troviamo di fronte al fatto che il Parlamento Europeo è un legittimatore della cessione di sovranità dagli Stati nazionali ad un UPO, un Oggetto politico non identificato. Questa cessione di sovranità si giustifica se c’è un ambito in cui la cittadinanza comprenda che vi sia un sostegno democratico. Perciò il Parlamento Europeo deve mettersi addosso dei vestiti democratici perché diversamente quando in Spagna il Presidente del Governo, per esempio in nome dell’Europa, fa dei tagli al bilancio dei Comuni, se non ci fosse un sostegno democratico la gente non obbedirebbe. Pertanto il Parlamento è l’organo per garantire l’obbedienza in un processo di perdita radicale di sovranità e di democrazia. In alcune riforme, ma soprattutto nelle ultime riforme dell’Unione Europea, si sono sempre avuti bastone e carota: il bastone è stato reale, la carota virtuale. Il bastone è sempre stato il taglio, la cessione di sovranità e il crescente neoliberalismo, e la carota è stato l’accrescimento dei poteri del Parlamento Eu108

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ropeo, che non si traduce praticamente in nulla. Quelle che vengono chiamate codecisioni-bugie. È una presa in giro pretendere che siano reali. Ci sono stati cambiamenti rispetto al passato, ma pensiamo alla cessione di sovranità nel caso della Spagna: quando il Partito popolare e il Partito socialista riformano per la prima volta la Costituzione spagnola, ricevono un memorandum della Banca Centrale Europea, e in questa riforma viene data priorità al pagamento del debito e alle spese del welfare sociale che sta nel primo articolo della nostra Costituzione, articolo che definisce il nostro Paese come uno Stato sociale. Ebbene, quando questo memorandum, che ci arriva dall’Europa, obbliga a cambiare la Costituzione, credo ci stia dimostrando questo cambiamento di ciclo dell’Unione Europea, questo svuotamento democratico, lo svuotamento della sovranità nazionale, e l’impossibilità di applicare lo stato sociale a causa della normativa europea. Vale a dire per riassumerlo in una frase: l’Unione Europea in questo preciso momento è incompatibile con la democrazia nei nostri Paesi. Si può cambiare situazione?

Non possiamo non cambiarla perché non ci sono soluzioni nazionali; i problemi della Spagna non li possiamo risolvere solo con la Spagna. L’illusione autarchica e l’illusione isolazionista hanno soltanto una logica elettorale in momenti di rabbia della cittadinanza, tuttavia, come è accaduto con la Brexit, servono per agitare la cittadinanza, per incanalare la rabbia in un ambito elettorale, però sono una strada senza uscita. La rabbia nei confronti dell’Europa ha una risvolto pericoloso perché in fondo il problema non è l’Europa, il problema è la gestione che alcune élites hanno fatto di qualcosa che è essenziale per la vita europea che è l’Unione. Poco più di cinquant’anni fa ci stavamo ancora uccidendo gli uni gli altri. È straordinario che il presidente della Francia possa rappresentare il presidente della Germania, o che il presidente della Germania possa rappresentare il presidente della Francia, perché si ha ancora memoria della Seconda guerra mondiale. E perdere tutto questo è un disastro in termini di convivenza dell’Europa. Ed è anche un disastro nell’economia globale molto violenta, nella quale nessuno sopravviverà all’assalto cinese, nordamericano, indiano, brasiliano. Soprattutto se non saremo capaci, uniti, di stabilire nuove regole. 109

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Perciò credo che non esista democrazia se non nell’Unione Europea. E questo è parte del paradosso che viviamo: l’Unione Europea è fonte di svuotamento democratico ma solamente con l’Unione Europea possiamo reinventare la democrazia. Cosa possiamo cambiare?

Ci sono poche leggi nella scienza politica, una di esse recita che le lotte di ieri sono i diritti di oggi, e che le lotte di oggi saranno i diritti di domani. I diritti civili hanno alle spalle la Rivoluzione francese, quella inglese, quella nordamericana; i diritti politici hanno alle spalle le rivoluzioni del 1830 e del 1848, la Comune di Parigi del 1871, e i diritti sociali non si comprenderebbero senza la Rivoluzioni russa, la Rivoluzione spartachista, la Rivoluzione messicana. Quella del Messico è la prima Costituzione al mondo che include i diritti sociali, la Costituzione di Queretaro del 1917, stilata addirittura prima di quella di Weimar che è del 1919. Noi europei siamo arroganti e abbiamo l’abitudine di scordarcele, queste cose. Allora la possibilità di recuperare l’Europa non potrà avvenire senza lotte. Come cittadino di un Paese semiperiferico qual è la Spagna, non vedo altra strada che un’articolazione dei Paesi del Sud Europa. Credo nella possibilità di costituire un polo di pressione per uscire da questa egemonia tedesca, neoliberale, da questa Europa, per usare un’espressione di Boaventura de Sousa Santos, soggetta al «fascismo sociale»14 che non è il fascismo degli anni Trenta, ma che genera ugualmente violenza, esclusione. Non vedremo certo la Wehrmacht mentre abbatte le barriere doganali con la Polonia, perché non ce n’è bisogno. Basta che Wolfgang Schäuble faccia valere le sue maniere di mafioso, e la pressione di questo nuovo fascismo che esprime la finanza internazionale per piegare la Grecia senza la necessità di sparare neppure un colpo. Allo stesso modo non vedremo gli aerei bombardare il Palazzo della Moneda come l’11 settembre del 1973 a Santiago del Cile, ma vediamo come in Brasile si può fare un colpo di stato contro Djlma Roussef o i giudici possono condannare Lula senza alcun tipo di prova. Però succede lo stesso, perché i giudici sono stati comprati. E qui entra in gioco qualcosa d’altro che mi interessa sempre di più, ed è quello che definiamo con Bob Jessop la «selettività strategica dello Stato»15. Vale a dire questa ‘inclinazione’ di 110

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classe che ha lo Stato, che fa sì che sia più facile per la destra e per i settori del potere economico fare determinate cose rispetto ai settori alternativi. E alla fine ci ritroviamo con un paradosso complicato: cioè che lo Stato è in buona parte colpevole dello svuotamento democratico, però senza lo Stato non possiamo ricostruire la democrazia. Lo Stato è parte del problema e al tempo stesso parte della soluzione. E questo rende ancor più profondamente difficile dare una risposta. Credo che la Spagna, e in questo caso Podemos, abbia l’obbligo di tentare di costruire sinergie con il Portogallo, con la Grecia, con l’Italia ed anche con la Francia, perché l’alternativa è un’Europa centrale, sotto l’egemonia della Germania, neoliberale, molto difficile da contrastare. Bisogna rilevare un elemento molto importante: non dobbiamo dimenticare che il neoliberalismo è oggi un senso comune, e non soltanto un modo di produzione. Il neoliberalismo è un modo di stare nel mondo, in un mondo dove tutto si è trasformato in merce: il sesso, l’amicizia, lo sport, lo studio, il tempo libero. Un mondo nel quale il lavoro è diventato precario a partire dagli anni Settanta, con un indebolimento della classe operaia e dei sindacati. Un mondo dove viviamo in bolle culturali nelle quali con lo sviluppo tecnologico abbiamo perso di vista l’insieme. E soddisfiamo i nostri bisogni vitali in gruppi molto chiusi che ci impediscono di costruire una visione completa. È morto Dio, sono morte le ideologie, è morto lo Stato nazionale, è morto il mondo del lavoro, e noi stiamo francamente male. E in questa perdita di quelli che io chiamo «marcatori di certezza» che organizzavano la nostra società, l’alternativa è il consumo. Il modello di vita è caratterizzato dal consumismo. L’America Latina negli ultimi quindici anni di governi di cambiamento durante i quali 72 milioni di persone sono uscite dalla povertà, ha commesso lo stesso errore fatto dalla sinistra dopo la Seconda guerra mondiale: non ha costruito cittadini ma ha costruito consumatori. Consumatori che trent’anni dopo sono tornati a votare i loro verdugos (carnefici). Il partito laburista inglese ha fatto uscire dalla condizione di proletariato i lavoratori inglesi trasformandoli in classe media, e poi questa classe media ha votato Margareth Thatcher trent’anni dopo. Questa logica secondo la quale a decidere il tuo posto nel mondo è la tua capacità di 111

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consumo è molto funzionale per il neoliberalismo e per le politiche conservatrici o reazionarie, ma non funziona per le politiche alternative. Per questo motivo finché non capiremo che stiamo lottando contro un senso comune avremo molte difficoltà per trovare una via di uscita da questo labirinto. Cioè: come è possibile che in un momento della storia in cui non ci sono mai state così tante diseguaglianze, sia così complicato costruire l’alternativa? Come è possibile che in un momento nel quale i partiti tradizionali sono tutti pervasi dalla corruzione, sia così complicato lottare contro questo sistema di partiti politici? Come è possibile che in un modello in cui stiamo mantenendo questo livello di consumo soltanto perché lavoriamo di più e perché ci stiamo indebitando, non ce la prendiamo con i responsabili di questa situazione, ma ce la prendiamo con gli immigrati, con i sindacati e con altri falsi nemici? Non ci rendiamo conto che stiamo lottando contro un senso comune e che dobbiamo costruire un senso comune alternativo. E questo è urgente perché altrimenti facciamo la fine della mosca che continua a sbattere contro il vetro. In Spagna Ciudadanos, che sono i nostri Cinquestelle, condivide l’idea che non c’è più conflitto: è caduta l’Unione Sovietica, non ci sono conflitti e i problemi sono tecnici, e per questo Ciudadanos e Cinquestelle sono formazioni politiche che presentano i tecnici e gli scienziati quasi come i nuovi eroi a cui tocca risolvere tutti i nostri problemi, e tra i nuovi eroi ci sono naturalmente gli economisti come scienziati che ipoteticamente hanno soluzioni. Ma è una bugia. Tuttavia c’è un rapporto che costruisce questa idea, e in questo contesto di costruzione dei nuovi maghi, dei nuovi eroi, tutto quanto ha a che vedere con la tecnologia viene presentato come la soluzione, come la panacea o, come dice don Chisciotte, «il balsamo di Fierabrás che cura tutte le ferite». Su questa base hanno costruito una grande trappola, un’utopia, che la sinistra invece non ha. L’utopia di Ciudadanos è quella per cui ciò che tu sogni si può convertire in un diritto, a patto che lo si trasformi in una merce. Tu vuoi essere un padre o una madre senza partorire, ne hai diritto. Sempre che tu ti possa comperare un utero in affitto o una persona povera disposta a convertirsi in un oggetto per partorire tuo figlio. Qualunque sogno tu abbia – far sesso con minori, comperarti un rene, comperarti un castello, avere della servitù – tutto 112

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questo si trasforma in un diritto se te lo puoi comprare. E si forma l’idea che se non sei capace a ottenerlo allora la colpa è tua perché sei un loser, un perdente. Vale a dire che si è trasferita la responsabilità ai singoli, agli individui. Dentro questo modello – condiviso da Ciudadanos e dai Cinquestelle – di questa nuova destra dove c’è un certo automatismo, dove le cose sono automatiche perché non ci sono conflitti, non ci sono attori, tutto è tecnologico e tutto è un mondo di opportunità, chi fallisce è perché non ha fatto bene le cose. C’è pertanto il recupero della qualità che era un’idea della vecchia destra, o forse neppure più quella perché sono anche più duri, questi neoliberali non la prendono neppure in considerazione. Secondo questa idea tutti abbiamo avuto presumibilmente più o meno le stesse opportunità e coloro che non le hanno utilizzate vengono considerati come la cicala della favola che merita di morire di freddo quando arriva l’inverno. Sono inoltre molto cinici e quando in qualche modo devono attuare l’espulsione in modo violento di coloro che hanno fallito, quel che facciamo è di subcontrattarli, e comperare per esempio un Paese che non abbia alcun obbligo nei confronti dei diritti umani come la Turchia, per risolvere il problema con i rifugiati, e così manteniamo la sensazione dell’innocenza: siamo puliti, siamo polite, siamo clean, perché non ci siamo sporcati le mani, perché sono altri che se ne occupano e perché noi siamo un mondo tecnologico in questo mondo di black mirror, nel quale viviamo, e non abbiamo bisogno di sporcarci. Questa integrazione, questo network tra i Paesi del Sud è possibile, può diventare reale, si sta sviluppando?

Il sistema politico rappresentato dai partiti socialdemocratici e conservatori ha fatto tutto il possibile per rompere un’unione dei partiti politici alternativi. Uno dei principali attacchi che ha ricevuto Podemos in Spagna è stato per i suoi rapporti con Syriza. È un meccanismo del tutto tipico. Sono due i meccanismi tipici che ha il sistema di fronte alle alternative: il primo è demonizzarle e presentarle come il male, come nel caso del Venezuela, e dopo indicarti come un amico del Venezuela, e nonostante sia una fesseria bell’e buona, dire che tu vuoi esportare il Venezuela in Europa. È come se tu dicessi a un dottore che tu vai a trapiantare il cuore di un’aquila in un rondone. Come se fosse possibile, 113

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e viceversa il cuore di un rondone in un’aquila. E questa fesseria abbiamo dovuto ascoltarla continuamente. Il secondo meccanismo è far fallire un progetto. Questo spiega la brutalità con cui è stata tratta Syriza in Grecia. Non si spiega altrimenti il castigo feroce che ha subito la Grecia, che è un Paese molto piccolo, la cui economia vale come quella della Comunità autonoma di Madrid: vale a dire il 3 per cento del PIL europeo. E l’hanno castigata – con il salvataggio delle banche avrebbe potuto essere salvata più che abbondantemente. Però credo che nel castigo inflitto alla Grecia ci fosse un avviso ad altri Paesi più grandi che dovevano aver presente cosa sarebbe successo se si fossero avviati sullo stesso cammino. Era già successo nel 1981 con la presidenza di Mitterrand. Mitterrand tentò di avviare in Francia delle politiche keynesiane e la destra europea capì che se quel tentativo fosse riuscito avrebbe interrotto la marcia in atto nella costruzione del modello neoliberale. E così castigarono in maniera forte Mitterrand, che aveva peraltro commesso un peccato, quello di aver messo per la prima volta in un governo occidentale ministri comunisti, una cosa che era proibita dagli accordi di Yalta e di Potsdam. Allora a Syriza si mettono i bastoni tra le ruote perché cada, perché il tentativo risulti irrealizzabile, perché fallisca, e nonostante sia fallito per colpa di queste politiche dicono: «Non ti rendi conto di come questo fosse irrealizzabile?». Succede molto anche in Spagna con il Partito popolare, che sta cercando di strangolare i municipi. Uno dei segnali del cambiamento in corso in Spagna negli ultimi quattro anni è che il Partito popolare ha perduto una buona parte dei municipi più importanti: Madrid, Barcellona, Valencia, La Coruña, Santiago de Compostela, Cadice... E che sta facendo il ministero del Tesoro? Sta cercando di strangolarli, sottraendo loro la capacità di spesa con la scusa dell’Europa e della politica di porre dei tetti alle spese. I municipi non possono spendere e il Partito popolare tutti i giorni nei mezzi di comunicazione sostiene che questi municipi non funzionano, non creano posti di lavoro, nonostante sia una bugia: perché pur con queste restrizioni i municipi stanno creando posti di lavoro, maggior spesa sociale. Perché non rubano a differenza dei governi del Partito popolare. Il Comune di Madrid ha un avanzo, come anche quello di Barcellona, ma non lo può spendere. Hanno più entrate di ciò che spendono 114

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ma non possono spendere l’avanzo in opere pubbliche perché il Ministero lo proibisce. E se si fa un bilancio più espansivo, il Comune viene commissariato. Stiamo parlando dunque di un arretramento democratico molto forte per quanto riguarda la Spagna. Vale a dire che sulla base della legislazione europea, il Governo centrale può sottrarre ai Comuni competenze che nel nostro Paese sono sempre state il motore democratico. In Spagna lo sviluppo democratico – nel 1931, nel 1979 o adesso – viene dai Comuni prima che dal Governo centrale. Bene, grazie alla legislazione europea il Governo centrale cerca di asfissiare i Comuni e, una volta asfissiati, sostiene: «ve l’avevamo già detto che la sinistra o i governi alternativi non possono governare». Proprio come hanno fatto con la Grecia. Perciò quello che è importante capire è che, come diceva Trotskij negli anni Venti, è impossibile il socialismo in un solo Paese, oggi nel XXI secolo in Europa la democrazia è impossibile in un solo Paese. O ci uniamo o verranno a strangolarci uno a uno. E per questo credo che sia molto importante il dialogo con tutte le forze politiche del cambiamento. Nell’ambito del Parlamento europeo abbiamo buone relazioni. Per la prima volta, quando ci sono elezioni in un Paese, ci facciamo visita. Pablo Iglesias va a sostenere la campagna di Mélenchon in Francia. Si sta vedendo una costruzione alternativa nella quale si conoscono e si possono apprezzare reciprocamente Corbyn, Mélenchon, Tsipras, Iglesias, Sanders. In Italia è in formazione, tuttavia non smette di stupire che il Paese di Machiavelli, del Partito comunista più forte d’Europa, il Paese di Gramsci abbia avuto un’esperienza di Berlusconi così terribile, e che ancor oggi continui a non rialzare la testa. È un mistero della scienza politica. Questo ha a che vedere con una realtà molto dura, e cioè che nelle società europee si è sempre avuto almeno un venti per cento di fascismo strutturale, generato dalla storia stessa dell’Europa: colonialista, patriarcale, eurocentrica ed anche capitalista, con conflitti operai molto forti e una repressione molto dura di questi conflitti. Il che ha determinato una repressione costante delle alternative, culminata negli anni Trenta con l’imporsi dei fascismi. Dopo il 1945 si è realizzata quella che viene definita «l’età d’oro socialdemocratica». È il momento più splendente dell’Europa, dei diritti sociali, dei diritti umani, del continente dell’accoglienza, di una certa pacificazione nel contesto della politica 115

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dei blocchi, nonostante sia vero che l’Europa non ha mai cessato di essere colonialista, patriarcale e capitalista. E quando arriva il momento di crisi riemerge questa situazione di potere delle minoranze di imporsi sulle maggioranze in base al colonialismo, al patriarcalismo e al capitalismo. Ed è la situazione in cui costantemente ci ritroviamo, da qui la mia insistenza sul fatto che una buona diagnosi passa attraverso l’identificazione della necessità di costruire una alternativa che superi il capitalismo, che superi il patriarcalismo, che superi la condizione coloniale, e che costruisca un’utopia alternativa. Che sia capace di riuscire ad appassionarci. Una delle cose che ho appreso dall’esperienza latinoamericana è che senza passione non puoi costruire l’alternativa. Poi l’ho letto nei libri. C’è un libro di un neurobiologo, António Rosa Damásio, L’errore di Cartesio16, nel quale attraverso la neuroscienza e attraverso Spinoza l’autore arriva a concludere che qualsiasi pensiero è prima un sentimento, e che prima che la neurocorteccia processi il linguaggio e processi un ragionamento che identifichiamo come genuinamente razionale, prima di tutto questo è stato un sentimento passato per l’ipotalamo. Damásio sostiene in questo libro che per porre fine a una passione negativa l’unica possibilità è affiancarla con una passione superiore. Altri autori hanno poi cercato, dal momento che pensiamo con determinati frames, con determinati contesti, di provare che scollegare la rete neuronale che ci permette di pensare sia un esercizio assurdo, sterile. Oggigiorno c’è una percentuale altissima di nordamericani che continuano a pensare che in Iraq c’erano armi di distruzione di massa. Non si tratta di smontare queste strutture neuronali, ma di costruirne altre alternative. Credo che questo spazio che una volta era chiamato sinistra debba ripensarsi con nuovi strumenti, in grado di lasciare da parte queste armi spuntate del pensiero antico. Mi piace ricordare che la Tesi 11 su Feuerbach [di Marx, NdT], «i filosofi hanno interpretato in maniera differente il mondo invece che trasformarlo» adesso non regge più: per trasformare il mondo oggi, dobbiamo pensarlo in maniera differente. Per questo motivo credo sia così importante la costruzione culturale alternativa, e questo ci porta, credo, alla riflessione più importante che abbiamo in sospeso in Europa: ed è la rottura del patto che ha costruito la pace nel nostro continente. Che è il patto intergenerazionale. In Eu116

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ropa abbiamo avuto un patto secondo il quale i figli avrebbero vissuto meglio dei propri genitori, i figli avrebbero avuto lavoro, andando così a pagare le pensioni degli anziani. Questo patto intergenerazionale è stato infranto. Gli anziani hanno paura... Io credo che uno degli elementi che abbiamo in Europa non sia il populismo, ma un ‘anzianismo’: si costruisce intenzionalmente la paura che colpisce gli anziani, ne colpisce il futuro, e colpisce qualsiasi cambiamento. Gli anziani comprendono che è un mondo in trasformazione ed hanno paura perché non sanno, non intravedono in quale direzione andiamo, e tutto questo fa sì che si arrocchino, si chiudano in loro stessi, votando partiti conservatori. Al tempo stesso i giovani sono condannati a lavori precari, che non generano la base fiscale per poter pagare le pensioni degli anziani. E questo scontro è uno scontro che ci conduce allo smantellamento dello stato sociale in Europa. Tutto quello che ti sto raccontando è attraversato da paradossi. Per questo è così difficile pensare l’attualità. Sto leggendo molta fisica, molta biologia perché credo che le metafore di cui abbiamo bisogno per pensare il mondo contemporaneo siano metafore che ci vengono dalla fisica più avanzata, dalla scienza, dalla neuroscienza, dalla biologia più avanzata. Perché nel mondo in cui andiamo a vivere, dovremo vivere con A e con non-A, e pertanto dobbiamo capire questi paradossi perché non ci paralizzino. Ti stavo raccontando un paradosso. E questa idea della rottura del patto intergenerazionale, ma sono convinto che buona parte di quello che succederà all’Europa avrà a che vedere con quello che faranno le nuove generazioni. E per questo gli anziani hanno l’obbligo di tradurre le vecchie lotte per le nuove generazioni, perché le possano reinterpretare. Anche la destra ha le sue difficoltà e per questo stiamo per assistere ad uno scontro tra due destre: una destra più tradizionale, più di ordine, e una destra più neoliberale che può schierarsi a favore del divorzio, delle unioni omosessuali, dell’utero in affitto, e che si riuniranno solamente nei momenti nei quali leggeranno una situazione di pericolo. Al tempo stesso ci ritroviamo con i giovani che vogliono un lavoro ma non vogliono i lavori dei loro padri, vogliono un lavoro differente, vogliono sviluppare la loro vita in maniera differente. Si sta allungando molto l’adolescenza, c’è un ammortizzatore familiare che sta ancora funzio117

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nando in Europa, e credo che questo stia ritardando la risposta, che prima poi arriverà e secondo la mia intuizione, come professore che insegna a gente giovane, sono ottimista. Sono un ottimista tragico o un pessimista speranzoso. Credo ci saranno colpi duri, che ci sarà durezza, ci saranno anche degli arretramenti, ma credo che la gente giovane sia portatrice della possibilità di società più decenti. Ci sono due-tre elementi a favore di questa mia interpretazione. Uno è l’impegno delle giovani donne nel femminismo e nell’uguaglianza, in Spagna è un fenomeno molto forte. Le donne giovani hanno rivendicazioni femministe molto forti. In secondo luogo c’è un’identità globale molto più forte di trent’anni fa: hanno viaggiato molto di più, hanno visto attraverso la Rete un mondo più aperto, e perciò sono meno provinciali. E il terzo elemento è l’impegno nei confronti della natura, degli animali, dell’ambiente, con stili e criteri diversi di consumo. E se vogliamo c’è un quarto elemento che caratterizza la gente giovane, ed è quello che consiste nel lavorare per vivere e non nel vivere per lavorare. Credo che questi quattro elementi permettano di pensare un mondo alternativo più decente, che però non si è ancora consolidato, non ha trovato ancora un coagulo in programmi politici come l’hanno avuto in passato il socialismo, il comunismo o l’anarchismo... È ancora molto frammentato. Viviamo in un mondo più frammentato e perciò è più complicato costruirlo. Io sostengo che l’emancipazione è un mosaico nel quale ogni pezzo che c’è difende qualcosa, le tessere si vanno aggiungendo man mano come nei mosaici sui muri, e il disegno complessivo si vede solo alla fine. La difficoltà è che siccome non c’è il disegno, costa caro avviare la composizione. È una delle difficoltà della nostra epoca. Se non so come sarà il disegno finale, mi costa fare lo sforzo di mettermi in cammino. Però non cessa di essere vero che c’è una relazione che tu intuisci tra la tua piccola tessera e quello che potrà essere questo disegno. La gente interpreta qual è quella domanda che aggiunge o la domanda che toglie. Le formazioni politiche della destra europea hanno rivendicazioni che tolgono, attraverso il recupero della nazione autoritaria che si collega molto strettamente alla proposta di gestire i nostri Pae­ si come se fossero delle grandi imprese. Ed è anche quello che spiega l’auge dei Macron, Macrì in Argentina, dei Temer in Bra118

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sile, dei Trump... Cioè di grandi imprenditori. Come se io fossi un milionario che ha gestito bene la sua impresa e perciò gestirò bene il mio Paese. E di questo senso comune della nostra epoca la gente si fa interprete. Però c’è anche un’intuizione alternativa in base alla quale la gente sa che non tutti possono essere milionari e che questa costruzione autoritaria della Nazione ha bisogno di individuare dei nemici. Per questo stiamo costruendo questo disegno alternativo dove non si sia tutti membri, cioè lavoratori di un’impresa con un capo psicotico, e neppure dove si debba vivere la nostra marginalità in maniera competitiva con gli altri. Tutto questo però è in movimento perché viviamo in un tempo di crisi, e come sosteneva a ragione Gramsci, i tempi di crisi sono tempi in cui il vecchio non smette di funzionare e il nuovo non smette di arrivare. E bisogna stare molto attenti, perché come ancora sostiene Gramsci, concludendo questa frase, nei tempi di crisi compaiono i mostri. E per questo la parte pessimista della mia analisi è che dovremo convivere e lottare contro mostri. Ma per la mia parte ottimista vinceremo, in primo luogo perché se pensassi che perderemo non sarei un progressista ma un conservatore, e in secondo luogo perché analiticamente vedo elementi che mi permettono di avere questo ottimismo. Partiti di sinistra come Podemos e Syriza sono considerati partiti populisti ed euroscettici come il Front national, lo UKIP. Ma quali sono le differenze?

Tutti i partiti politici che mettono in discussione la democrazia liberale e il capitalismo neoliberale sono etichettati come populisti. Ma questo trae in inganno, perché non sono tutti uguali. C’è una cosa che essi condividono, ed è la descrizione dei problemi generati dalla democrazia liberale e dal modello neoliberale. Ed è questa descrizione che accomuna Farage, Marine Le Pen, Podemos... Tutti concordano nel segnalare il numero crescente di disoccupati, la precarietà del lavoro, la corruzione... Ma ci sono due grandi differenze. La prima: cambia la diagnosi. Vale a dire nella diagnosi del populismo di destra funziona l’attribuzione delle colpe agli immigrati, alla politica, alla sinistra. Nel populismo di sinistra, invece la responsabilità viene attribuita al sistema stesso. Bisogna comprendere che il populismo di destra critica gli eccessi del sistema, ma mai il sistema. 119

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La seconda grande differenza consiste nel fatto che il populismo è una fase, non è una cosa permanente ma momentanea. E questa fase è una fase destituente (di decostruzione), e in questa fase destituente c’è la convergenza di tutti coloro che criticano questa democrazia e questo modello. Poi viene la fase costituente, e in questa fase costituente le differenze sono radicali. E qui troviamo allora che forze politiche come Podemos e Cinquestelle hanno posizioni molto differenti. Possiamo comprendere che le forze della destra autoritaria hanno un modello che si può riassumere nell’idea che il Paese può essere governato come una grande impresa, e perciò con l’obbedienza dei lavoratori in senso gerarchico ai loro capi. E in secondo luogo la destra intende la nazione in senso autoritario, non inclusivo, come se dovesse sempre scontrarsi con qualcuno, e in questo senso funziona la demonizzazione degli immigrati. Questa concezione autoritaria della destra, questo nazionalismo autoritario, questa concezione neoliberale offre la spiegazione del perché l’Unione Europea non ha problemi neppure con la Turchia. Vale a dire che questo modello neoliberale messo in moto dall’Unione Europea non entra in conflitto con Paesi che non mettono in discussione il modello neoliberale e che al tempo stesso non mettono in discussione lo svuotamento della democrazia. Nonostante ciò, l’Europa avrà più problemi, per fare un esempio, con il Venezuela che con la Polonia. Questo perché il Venezuela mette in discussione in modello neoliberale, mentre la Polonia non lo fa. E in questo contesto e in questa analisi i diritti umani sono elementi del tutto secondari.

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9. Grecia

Syriza – Populisti diventati pragmatici

L’ascesa politica di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras è legata a doppio filo alla crisi economica che ha investito l’Europa nel 2008 e successivamente ha travolto la Grecia. Il debito insostenibile di Atene, l’incapacità/impossibilità dello Stato greco di affrontare il proprio grave dissesto finanziario e la politica dell’austerity a livello europeo hanno portato ad un vero proprio terremoto politico in Grecia1. Così un partito che fino al 2009 era da considerare marginale (al 4,6% con 13 deputati in Parlamento) nella doppia consultazione elettorale tra il maggio e il giugno 2012 si è visto proiettato al 27% diventando il principale partito di opposizione e tre anni dopo, a partire dal gennaio 2015, ha guidato il Governo greco e il suo leader, Alexis Tsipras, è diventato il Primo Ministro. Syriza peraltro è una sorta di confederazione di partiti di sinistra il cui collante diventa una piattaforma neopopulista in cui al centro c’è, neanche a dirlo, il popolo, riletto soprattutto in chiave economica e che viene presentato come sfruttato dalle élites capitalistiche e neoliberali2. Il linguaggio utilizzato da Tsipras e il programma proposto da Syriza immaginano la contrapposizione tra il popolo greco e i banchieri, l’oligarchia greca, il sistema politico corrotto e gli alleati stranieri (tra cui compare anche Angela Merkel)3. All’interno di Syriza le diverse anime, federate sotto la presidenza Tsipras, hanno comunque espresso anche posizioni contrastanti: prima delle elezioni del gennaio 2015 c’era chi ipotizzava l’uscita della Grecia dell’euro, nonostante la posizione ufficiale del partito fosse quella di rimanere nell’Eurozona seppur non alle condizioni della Troika, mettendo al primo posto la lotta a tutto campo contro l’oligarchia greca4. Tra le richieste avanzate da Tsipras (in accordo anche con gli spagnoli di Podemos) 121

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prima di diventare primo ministro c’era anche quella per cui la Banca Centrale Europea avrebbe dovuto pagare direttamente il debito degli Stati in crisi, richiesta respinta immediatamente al mittente da Mario Draghi5. Il linguaggio è chiaramente quello populista, ma non vengono messi a repentaglio i valori europei, nel senso che non ci sono analogie con il populismo di destra nelle ricette per contrastare le élites, e questo perché si tratta di un populismo inclusivo, molto differente da quello esclusivo rappresentato del nazionalpopulismo6. Syriza ha saputo, comunque, trasformare il populismo all’opposizione in una leadership carismatica al potere7. Lo stesso evolversi degli eventi in Grecia dopo le elezioni del gennaio 2015, con Syriza al governo, racconta di una retorica a livello interno che non si traduce nella rottura definitiva con l’Unione Europea e la Troika, ma nelle capacità di leadership di Tsipras. Il confronto però, almeno all’inizio dell’esperienza di governo, resta aspro, tanto che il 5 luglio 2015 Tsipras convoca un referendum per chiedere ai Greci se sono d’accordo con il piano di rientro immaginato dall’Europa. Il «no» vince con oltre il 61% dei voti, ma il risultato è vago, nel senso che Tsipras non rompe con l’Europa ma, come lui stesso dichiara, rende la posizione negoziale della Grecia più forte nella trattativa con Bruxelles. Ma a quel punto lo stesso Tsipras, con un colpo di scena, fa votare al Parlamento greco un nuovo accordo per il bailout dello Stato greco8, una scelta politicamente sanguinosa che lo costringe ad un rimpasto di governo e che aveva già portato all’addio del controverso ministro dell’Economia Yanis Varoufakis. Alla luce di queste scelte, viene riletta la portata del referendum sul bailout: una consultazione fatta per rafforzare il governo Tsipras a livello unicamente interno e non per ingaggiare un nuovo braccio di ferro con Bruxelles9. A questo punto vengono convocate nuove elezioni anticipate per il settembre successivo e Syriza, pur perdendo qualche seggio, si conferma partito di maggioranza relativa con il 35,4%, che corrisponde a 145 seggi; a quel punto il governo viene reso possibile dalla rinnovata alleanza con il partito nazionalista di destra ANEL10 che porta in dote 10 seggi, sufficienti per avere la maggioranza assoluta nel Parlamento greco. Una coalizione che vede insieme due forze considerate populiste ma con visioni politiche opposte11. L’alleanza è durata per circa quattro anni, ha 122

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garantito una certa stabilità al governo Tsipras, con il leader di ANEL, Panos Kammenos che ha ricoperto l’incarico di ministro della Difesa sia nel primo sia nel secondo governo Tsipras. La coalizione è affondata non sul debito e nemmeno sulle politiche di austerity promosse dal governo greco, ma sul voto parlamentare per dare seguito all’accordo di Prespa tra Tsipras e il primo ministro macedone Zaev per il nuovo nome della Macedonia (a livello internazionale fino ad oggi Fyrom), che si chiamerà Macedonia del Nord: per questo Kammenons il 13 gennaio 2019 ha rassegnato le sue dimissioni ed è uscito oltre che dal governo anche dalla maggioranza. Una mossa letta come una mossa elettorale, in vista sia delle elezioni europee del maggio 2019, sia delle politiche di settembre dello stesso anno. Negli anni Tsipras ha dimostrato di saper modificare la propria linea nei confronti di Bruxelles, e al contempo ha cercato di ritagliarsi un ruolo politico internazionale nella regione mediterranea: oltre alla questione macedone, Atene ha cercato una via diplomatica per normalizzare i rapporti con la Turchia incontrando Erdogan, ma effettuando anche visite a Cipro. Se la retorica interna resta in qualche modo di stampo populista, Tsipras nella sua esperienza di governo ha moderato la sua linea politica12. Resta in Syriza un tratto euroscettico, ma che si traduce nella richiesta di una maggiore eguaglianza all’interno dell’Unione Europea. In questo senso l’intervista con Afrodite Theopeftatou, scelta dallo stesso Tsipras come segretario del gruppo parlamentare di Syriza, è indicativa visto che a fronte di una richiesta di una Europa più equa, la Theopeftatou respinge al mittente l’etichetta populista indicando in quella categoria solo le forze di destra.

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EUROPEE Anno

Voti

%

Seggi

2004

254.447

4,1%

1

2009

240.930

4,7%

1

2014

1.518.608

26,5%

6

LEGISLATIVE Anno

Voti

%

Seggi

2004

241.637

3,2%

6

2007

361.101

5%

14

2009

315.665

4,6%

13

2012 (6 maggio)

1.054.751

16,8%

52

2012 (17 giugno)

1.655.022

26,9%

71

2015 (25 gennaio)

2.244.674

36,3%

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2015 (20 settembre)

1.925.904

35,5%

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Intervista a Afroditi Theopeftatou13 Afroditi Theopeftatou, lei è la capogruppo di Syriza in Parlamento. Cosa può dirci dell’attuale situazione greca?

Una situazione complessa, veniamo da otto anni di crisi economica a cui poi si è aggiunta la crisi dei migranti. Nei prossimi mesi dovremmo aver terminato il programma di rientro stabilito dalla troika. Negli ultimi tre anni il nostro governo ha raggiunto gli obiettivi stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale e questo è il primo anno nel quale abbiamo avuto una crescita economica, anche se piccola, e non una recessione14. Abbiamo registrato anche una diminuzione del tasso di disoccupazione, che è ancora alta – al 20% –, ma è calata del 7%, e contemporaneamente c’è stata una crescita delle esportazioni. Questi sono dati positivi che tutti ormai in Europa ci riconoscono, sia le istituzioni, sia i personaggi influenti, sia i mass media. Per arrivare a questo punto abbiamo dovuto fare molti sacrifici, soprattutto i Greci hanno avuto ripercussioni pesanti su stipendi e pensioni. Ciò che vogliamo è che gli obiettivi che abbiamo raggiunto, come la crescita economica, abbiano effetti positivi sulla società e sullo stato sociale. Il primo punto è la crescita, che significa posti di lavoro, in modo da fermare l’emigrazione dei nostri lavoratori. Syriza è una federazione di più partiti. Ma possiamo dire che siete passati dal 5% nel 2006 al 36% nel 2012 all’apice della crisi politica greca. E l’avete fatto presentandovi come un’alternativa e proponendo un’altra visione di Europa, senza austerità, ma con maggiore distribuzione di benessere. Quell’idea è ancora viva?

Mi permetta semplicemente di sottolineare che Syriza non è una coalizione di più partiti, ma un singolo partito. Cominciamo col dire che i governi che ci hanno preceduto, quello di Pasok prima e quello di coalizione formato da Pasok e Nuova democrazia poi, non sono riusciti a realizzare gli obiettivi del programma che avevano accettato di applicare ed hanno proseguito delle politiche di estrema austerità e di una diminuzione del PIL del 25%, con tutte le conseguenze che hanno comportato per il Paese. La sinistra greca è stata chiamata a governare e ha dimostrato di saper affrontare una situazione difficile, come in molti momenti nella storia del Paese. Nel 2015 abbiamo accettato un programma economico molto duro, che ha avuto un costo 125

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politico – c’è stata infatti una rottura all’interno del partito – e l’abbiamo sottoposto al giudizio del popolo, attraverso le elezioni politiche15. È importante sottolineare che non l’abbiamo accettato senza il consenso del popolo. Ci sono state due tornate elettorali: prima nel gennaio del 2015 e poi nel settembre dello stesso anno. In quel periodo abbiamo comunicato al popolo tutto quello che avevamo ottenuto con estreme difficoltà e la nostra intenzione di far uscire la Grecia dalla crisi e dalle complicazioni di un programma che ci era stato imposto. Il popolo greco si è fidato di noi anche per la nostra posizione netta. Tra un’elezione e l’altra però c’è stato anche il referendum16. Molti sostengono che non si sia trattato di un voto sulla Grecia in Europa, ma fosse semplicemente un modo per Syriza per ottenere ancora più consenso. Lei cosa ne pensa?

Il referendum non è stato un trucco. Non abbiamo utilizzato il referendum per ottenere il sostegno dell’elettorato. Al contrario, l’abbiamo usato per la negoziazione del programma. I punti del programma erano molto rigidi, ed il popolo ha dimostrato – attraverso il voto al referendum e alle elezioni – di volerci sostenere nelle negoziazioni di un programma che era ci stato imposto. Non solo, il popolo ha dimostrato attraverso il referendum e le elezioni di aver apprezzato la nostra sincerità e di aver scelto Syriza per uscire dalla crisi, nonostante tutte le difficoltà. Jean-Claude Juncker ha detto che la dignità del popolo greco è stata calpestata. È stata una svolta e un soffio di democrazia in condizioni estremamente dure. Ma pensa che qualcosa sia cambiato in Europa? Anche l’atteggiamento nei vostri confronti?

L’Europa non è statica, è dinamica, ci sono stati una serie di sviluppi politici dal 2015 ad oggi, positivi e negativi. Chiaramente è negativa l’ascesa dell’estrema destra. Parliamo di noi, però. All’inizio del 2015 eravamo da soli. Poi, abbiamo cercato di creare delle alleanze. Nella prima fase delle negoziazioni eravamo completamente isolati. Sia le istituzioni europee che l’opposizione interna credevano che Syriza fosse una piccola parentesi temporanea nella politica greca. Ma dal settembre 2015 siamo riusciti a negoziare su ogni punto del programma, su ogni aspetto legislativo che ci è stato presentato. Nello stesso tempo, 126

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abbiamo tentato di favorire i ceti più deboli con nuove misure come, ad esempio, l’assistenza ospedaliera gratuita per tutti coloro che erano privi di una assicurazione sanitaria. Si tratta di circa 2,5 milioni di persone che ora possono ricevere cure al­ l’ospedale. Più in generale, se all’inizio eravamo isolati, ora abbiamo delle alleanze e la validità delle nostre proposte viene riconosciuta. Nello stesso tempo, abbiamo cominciato a presentare le nostre proposte e abbiamo messo in campo il Vertice dei Paesi del Sud del Mediterraneo17 a cui non hanno partecipato solo governi di sinistra. Parliamo ora dell’Unione Europea.

L’Unione Europea per anni è stata in una crisi istituzionale e politica. Gli agenti patogeni dell’UE sono venuti alla luce con la crisi economica. L’UE, se non riformata con principi e valori, dovrà fare i conti con problemi molto più seri. Dopo gli anni Novanta e l’allargamento all’Europa dell’Est, non è stato possibile creare una certa convergenza politico-economica per far sì che l’Europa riconoscesse le peculiarità e le priorità dei Paesi dell’Europa dell’Est. Di conseguenza, sono emerse delle differenze tra Nord e Sud da un lato, e tra Est ed Ovest dall’altro. Noi vogliamo cambiare questa Europa, perché al primo posto ci devono essere democrazia, eguaglianza, solidarietà. Questi sono secondo noi i valori dell’Europa. Un’Unione che non deve essere solo monetaria, ma anche economica, politica e sociale. Dobbiamo immaginare come vogliamo il nostro futuro, perché con la crisi economica e quella migratoria l’Europa ha iniziato a virare a destra e questo è molto pericoloso. Cosa pensa della crisi dei migranti?

Non bisogna colpevolizzare tutti coloro che abbandonano il loro Paese a causa di una guerra civile o dell’instabilità politica. I Paesi europei non possono affrontare un problema del genere chiudendo i loro confini, credendo che non li riguardi. Al contrario, è un problema che riguarda tutti, non solo la Grecia e l’Italia. L’Europa deve individuare i problemi che la circondano (nei Balcani, nel Medio Oriente, nell’Africa del Nord). Noi, da parte nostra, vogliamo creare dei legami basati sull’amicizia e sulla sicurezza con questi Paesi, anche perché confiniamo con loro. Vogliamo che ci sia pace in questi Paesi e che non ci siano 127

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né guerre civili né instabilità politica, in modo tale che i profughi possano essere integrati. Lei crede che il futuro sia un’Europa a più velocità?

Non vogliamo un’Europa a più velocità, ma un’Europa di scelte plurali. Come abbiamo detto prima, bisogna riconoscere le varie particolarità esistenti e far sì che ci sia una convergenza politico-economica e sociale proprio nei Paesi europei stessi, perché le particolarità non esistono solo tra Nord e Sud o tra Est ed Ovest, ma anche all’interno di ogni Paese. Come ho già menzionato, non abbiamo solo dei diritti ma anche dei doveri, e ciò vale anche per il caso dei profughi. Ognuno di noi deve prendersi delle responsabilità su questo argomento. Ma lei cosa pensa dell’accordo con la Turchia?

È complesso. Una cosa è certa, sebbene abbia molte debolezze, ha notevolmente ridotto gli annegamenti e le morti nell’Egeo e il contrabbando di essere umani. Deve essere mantenuto e migliorato. Ma dovrebbe crescere anche la solidarietà tra gli Stati europei. Spesso sembra che noi ci limitiamo a pagare il presidente Erdogan.

È un accordo complesso e non viene messo in pratica. In effetti, molto difficile che 29 Paesi possano concordare su tutti i punti e arrivare alla conclusione dell’accordo. Non possono metterlo in pratica solo la Grecia e l’Italia, anche gli altri dovrebbero farlo. Questo accordo non può essere messo realmente in pratica se non ci rendiamo conto del ruolo fondamentale della democrazia in Europa. Anche perché l’Unione Europea si basa proprio su questo ideale, e non sulla prevalenza dei ‘forti’ sui ‘deboli’. Per di più non dobbiamo agire in un modo ipocrita. In realtà, nessuno vorrebbe lasciare il proprio Paese e la propria casa. Vogliamo che la persone vivano nei loro Paesi pacificamente. Non dobbiamo chiudere gli occhi: il caso dei profughi esiste a causa delle guerre, dell’instabilità politica, della povertà. Tutti noi dobbiamo contribuire al consolidamento della pace e della stabilità politica. La crisi migratoria si intreccia con quella economica.

Non direttamente, ma nelle coscienze dei cittadini sono spesso due problemi combinati. Il problema economico è una delle 128

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preoccupazioni principali dell’Europa. Questa crisi economica, insieme al caso dei profughi, ha contribuito all’ascesa dei partiti di estrema destra e dell’euroscetticismo in Europa. Non abbiamo fatto le scelte giuste per affrontare il problema benché l’avessimo visto arrivare. Le élites europee di fronte a questi problemi adottano la sindrome dello struzzo. Oggi tra i temi al centro del dibattito in Europa c’è il rapporto economico con la Cina. Durante la crisi la Grecia ha completato lo sviluppo del porto del Pireo grazie ai cinesi18, quindi siete stati in qualche modo dei battistrada. Che cosa può dirci?

Da un lato, la posizione geografica della Grecia costituisce un ingresso verso l’Unione Europea e il nostro Paese cerca di sfruttarla al meglio per le sue relazioni con i mercati stranieri, come quello della Cina, per ottenere vantaggi economici proprio dalla posizione geopolitica. Dall’altro lato, la Grecia sta rafforzando i suoi rapporti non solo con la Cina (per quanto riguarda il porto del Pireo), ma anche con la Russia, l’Iran, l’Egitto. La politica del nostro governo è quella di avere dei buoni rapporti, sia economici sia di amicizia, con questi mercati. Inoltre, vogliamo creare delle relazioni con questi Paesi (con l’Egitto, per esempio), basate sulla reciproca sicurezza. E tutto ciò lo possiamo ottenere attraverso varie iniziative, come la Prima e la Seconda Conferenza di Rodi per la Sicurezza e la Stabilità19, o la cooperazione nel settore energetico e in quello dei trasporti. Cerchiamo, dunque, di realizzare queste cooperazioni, e certamente i vari investimenti – come quelli della Cina nel porto del Pireo, o gli altri nel porto di Skaramangas20 – sono molto importanti, sia per lo sviluppo economico sia per la riduzione della disoccupazione con la creazione di nuovi posti di lavoro. Con un governo di centrodestra ad Atene sarebbe stato lo stesso?

Penso che ci sarebbero differenze significative nei dettagli che spesso poi determinano il quadro generale. Questa nuova politica estera greca, con l’apertura alla Cina, ma anche alla Russia, fa parte di una visione propria di Syriza?

Certo, gli accordi di cooperazione che abbiamo realizzato fanno parte della nostra visione politica, sia a livello di sviluppo che di rapporti di amicizia e pace. In questo momento, abbia129

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mo una politica estera su molteplici livelli. Al di fuori del quadro dell’Unione Europea, nella quale ci sono tanti problemi, abbiamo dei rapporti preferenziali con alcuni Paesi come per esempio la Cina, l’Iran, Israele, l’Egitto o con i Balcani, che mirano ad un mutuo sviluppo in molti ambiti come la sicurezza e le comunicazioni. I buoni rapporti non si realizzano da soli. Bisogna rafforzarli tramite la cooperazione, come quella commerciale, per esempio. E i vostri rapporti con la Germania come sono?

Come ho già detto, nel 2015 eravamo isolati. Abbiamo cominciato a lavorare duramente, creando dei rapporti di cooperazione, avviando un dialogo in seno alle istituzioni europee. E finalmente oggi, per la prima volta, sia il Consiglio Europeo che il vertice dei leader dell’Unione Europea, ormai, riconoscono i nostri problemi. Hanno in più approvato una risoluzione a proposito dei nostri rapporti con la Turchia. Tutto questo è il risultato di un lavoro continuo per poter stabilire dei rapporti di collaborazione con tutti i Paesi, perfino con il nuovo governo di Macron. È la prima volta che l’Europa ha una posizione così chiara e definita a nostro favore. Lei pensa che la Germania potrà essere una vera nazione-guida per l’Europa?

Non voglio un’Europa tedesca. Voglio la Germania europea. Il presidente Macron ha già presentato una serie di punti sul futuro dell’Europa che sono una base di discussione e di interesse. La Germania è chiaramente il Paese più forte dell’Unione Europea. Vogliamo discutere con tutti i Paesi che definiranno le politiche europee, con la Germania, con la Francia, con l’Italia (queste sono le tre più potenti) ma anche con tutti gli altri. In questo momento ci sono solo due governi di sinistra, cioè non di coalizione. Si tratta del vostro caso, la Grecia, e del Portogallo. Perché nel resto d’Europa la sinistra è in crisi, e in particolare la socialdemocrazia elettoralmente non è più efficace?

Perché la sinistra e la socialdemocrazia non hanno risposto in tempo alle domande della nuova era che sono venute avanti a livello internazionale dalla fine del socialismo sovietico. Non hanno visto la profondità e l’ampiezza del fenomeno della glo130

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balizzazione e quindi non si sono cimentate con le idee e le pratiche di responsabilità democratica e sociale. Credo che il problema sia cominciato quando la socialdemocrazia, il movimento progressista, ha deciso di collaborare con le forze conservatrici e di seguire delle politiche neoliberali. Tutto ciò ha penalizzato sia le forze socialdemocratiche che quelle di sinistra, rinforzando, nello stesso tempo, l’estrema destra. Aggiungerei che dopo gli anni Novanta ed il crollo degli Stati socialisti (il polo opposto del capitalismo) non sono state formulate delle controproposte per la nuova era che si stava facendo avanti. E credo che il dovere delle persone che appartengono sia ai movimenti di sinistra (visto che c’è una certa pluralità di essi) che ai movimenti ambientalisti sia quello di collaborare per poter risolvere i problemi fondamentali di oggi. Nonostante le diversità tra questi movimenti di sinistra, i problemi sono reali e devono essere risolti immediatamente. Un esempio è Syriza che, partendo da una percentuale assai bassa, è stato accettato da tutti i partiti democratici. Un esempio che dimostra che il ruolo della sinistra è quello di mettere insieme tutte le forze democratiche e di cercare di ridurre al minimo le differenze ideologiche tra queste forze, in modo che le persone non abbandonino la sinistra. Il campo progressista e la sinistra hanno l’opportunità storica di rispondere alla domanda «cosa fare dopo la crisi nell’UE» e di diventare nuovamente i regolatori del gioco. Molti studiosi vi hanno definito un partito populista di sinistra.

Un cosa è il popolarismo e un’altra il populismo, questa differenza deve essere compresa nei centri decisionali. Non siamo populisti, siamo una forza che punta alla riaffermazione democratica dell’Unione Europea: secondo me, al momento il pericolo principale è l’ascesa dell’estrema destra. E le politiche di austerità ne sono una concausa. L’estrema destra, infatti, sfrutta l’instabilità creata da queste politiche. È il populismo. Dobbiamo solo essere d’accordo che questo è il rischio e promuovere una maggiore cooperazione. Ma anche Syriza è una forza eurocritica.

Sicuramente vogliamo cambiare questa Unione Europea. Ma alla luce dell’attuale struttura dell’UE, chiunque vuole cambiarne la struttura. L’Europa è riuscita a realizzare molte conquiste 131

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e molte cose positive. Soprattutto è riuscita a stabilire la pace sia in seno all’Unione sia nei territori intorno ad essa. Ora abbiamo una grande opportunità per tornare ai valori comuni e fondanti dell’Unione Europea che erano solidarietà, eguaglianza, Stato sociale, e dobbiamo lavorare in questa direzione. Dobbiamo ritornare ai valori originali per fermare l’impennata dell’estrema destra e del fascismo. Le ultime elezioni italiane sono state come un campanello d’allarme per i leader europei. Il segnale che l’Unione Europea deve cambiare. L’Italia è stata solo l’ultima in ordine di tempo, i segnali sono arrivati anche dalla Francia, dall’Austria e dall’Ungheria. Adesso si avvicinano le elezioni europee. Quindi bisogna reagire.

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10. Regno Unito

UKIP – I cavalieri della Brexit

Il Partito per l’indipendenza del Regno Unito è forse uno dei fenomeni politici più interessanti degli ultimi anni1. Nato nel 1993 per volontà di un gruppo di accademici, già membri dell’Anti-Federalist League (fondata nel 1991 contro il trattato di Maastricht) il movimento è riuscito nell’arco di poco più di vent’anni a passare dall’assoluta insignificanza ad essere uno dei principali protagonisti della campagna per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea in occasione del referendum del 23 giugno 2016. Per poi tornare nell’oblìo e prendere una direzione politica, quella dell’estrema destra radicale, che generalmente ha sempre contrastato anche elettoralmente. Al di là delle tabelle pubblicate, non può non sorprendere il passaggio dai 155.487 voti ottenuti nelle elezioni europee del 1994 ai 4.376.635 conquistati in quelle del 2014. L’UKIP è sempre stato un single-issue party, non è mai riuscito a darsi una dimensione nazionale se non in funzione anti-europea2: da questo punto di vista è riuscito a sfruttare quella fascia di elettorato euroscettico che ha seguito il Partito conservatore3. Il successo è poi arrivato grazie alla natura stessa delle elezioni europee, in cui si vota con il sistema proporzionale (e quindi si favorisce la rappresentanza anche di partiti di piccole dimensioni). Considerate consultazioni di secondo livello rispetto a quelle per la Camera dei Comuni, in esse oltre che come voto di merito sull’Europa il voto allo UKIP veniva utilizzato dagli elettori come strumento di critica ai partiti tradizionali4. Una situazione che ha accompagnato il partito in tutti questi anni, quando, nonostante il tentativo di salire di livello a forza parlamentare, l’UKIP ha ottenuto un solo deputato alla Camera dei Comuni: nel 2015 il movimento ha conquistato 3.881.099 voti alle general elections (il 12,8% a livello nazionale) ma il sistema 133

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maggioritario del first take the post gli ha impedito di conquistare peso a livello parlamentare. Come attore politico l’UKIP ha però contribuito nel Regno ad animare il dibattito che ha portato alla vittoria del leave nel referendum sulla Brexit. E una volta raggiunto l’obiettivo ultimo, ovvero la vittoria nel voto popolare della proposta di divorzio dall’Unione Europea, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito ha perso la sua stessa ragion d’essere e lo ha dimostrato il risultato delle elezioni anticipate volute da Theresa May nel 2017: l’8 giugno l’UKIP ha ottenuto 593mila voti (1,2% a livello nazionale), un risultato che lo ha riportato indietro di 15 anni, sancendone il declino politico. Se si esclude il fondatore del partito, Alan Sked, docente alla London School of Economics, lo UKIP ha legato il suo nome a Nigel Farage che è stato alla guida del partito per circa dieci anni – tra il 2006 e il 20165 – e che nel 1999 fu uno dei primi tre eletti del Partito al Parlamento Europeo. Farage ha saputo portare l’UKIP alla ribalta europea e nazionale, tenendo sempre il movimento distante da posizioni troppo vicine all’estremismo radicale. Gli ukippers hanno sempre voluto distinguersi da partiti estremisti come il BNP – British national party o da esperienze come la English defence league6, allo stesso modo a livello europeo hanno sempre cercato di mantenere una certa distanza dai campioni del nazionalpopulismo, il Front national di Marine Le Pen e il PVV di Wilders. Solo nel breve periodo di interregno nella leadership di Farage da parte di Pearson lo UKIP ha cercato di allargare i temi della propria campagna elettorale su posizioni nettamente anti-islamiche. Dal 2011 al 2015, nonostante la scomparsa del British national party e degli altri movimenti della destra britannica7, la propaganda dello UKIP è tornata alla critica all’Unione Europea, alla richiesta di un referendum per l’uscita dall’UE, al contrasto all’immigrazione dall’Est Europa (in particolare da Romania e Bulgaria) verso le Isole Britanniche. Così sotto la guida di Farage l’UKIP nel 2014 ha vinto le europee nel Regno Unito col 26,6% davanti a Laburisti e Conservatori, e mandando una pattuglia di 24 deputati a Bruxelles8. E l’anno successivo, pur mandando solo un deputato ai Comuni, l’UKIP è stato il terzo partito a livello nazionale. Tutte le energie della leadership di Farage, dalla campagna elettorale per le europee del 2014, sono state concentrate sulla Brexit, e la 134

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grande vittoria al referendum del 2016 ha subito mostrato i limiti dell’UKIP nel gestire politicamente una sfida tanto delicata, tanto che lo stesso Farage all’inizio di luglio del 2016 ha deciso di dimettersi da leader dell’UKIP9 sostenendo che il compito era da considerarsi terminato. Da quel momento il partito è entrato in crisi, innanzitutto a livello di leadership ruolo nel quale si sono succeduti in sei nell’arco di poco più di due anni e mezzo. L’ultimo tentativo di mantenere l’UKIP in linea con le posizioni di Farage è avvenuto quando il suo vice storico, Paul Nuttall, ha guidato il partito fino alle general elections del 2017: gli scarsi risultati lo hanno portato alle dimissioni due giorni dopo il voto. L’ultimo atto dello UKIP è stato l’addio del nucleo storico di politici ukippers, a partire da Farage e Nuttall, nel novembre 2018, quando la leadership di Gerard Batten è stata al centro di dure polemiche per le sue posizioni reazionarie e per posizioni troppo vicine a quelle dei movimenti dell’estrema destra britannica, con posizioni anti-islamiche che lo stesso Farage ha considerato estreme10. Ora, senza l’orizzonte delle elezioni europee per effetto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, lo UKIP rischia di tornare una forza marginale andando semplicemente ad occupare lo spazio politico che fu del BNP, mentre Farage nel bel mezzo del caos politico-istituzionale causato dalla Brexit ha fondato un nuovo partito il Brexit Party. EUROPEE Anno 1999 2004 2009 2014

Voti 696.057 2.660.768 2.498.226 4.352.051

% 7% 15,6% 16,5% 27,49%

Seggi 3 12 13 24

% 0,3 % 1,5% 2,2% 3,1 12,6% 1,9%

Seggi 1 0 0 0 1 0

LEGISLATIVE Anno 1997 2001 2005 2010 2015 2017

Voti 105.722 390.563 605.973 919.471 3.881.099 594.068

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Intervista a Nigel Farage11 Parlando di leader euroscettici probabilmente lei è la punta di diamante, o in ogni caso la figura più avanzata dell’euroscetticismo.

Sono il nonno degli euroscettici. Ma forse non è proprio così, il primo statista degli euroscettici è Vaclav Klaus, io sono più semplicemente un comandante sul campo. Quindi Klaus è il nostro rappresentante più rispettato, ex premier ed ex presidente della Repubblica Ceca. Direi che Klaus è il politico europeo senior che per primo ha adottato in maniera veramente genuina posizioni euroscettiche. Per quanto riguarda invece l’attivismo euroscettico, sono stato tra quelli in prima linea. Devo essere onesto, una delle cose che mi ha fatto più piacere in questi ultimi anni è l’aver visto il movimento euroscettico crescere. Quando sono arrivato la prima volta al Parlamento Europeo12 la maggior parte degli attivisti euroscettici erano scandinavi di sinistra. Al tempo erano soprattutto persone con una prospettiva socialista ad essere euroscettiche, nel senso che erano diffidenti nei confronti delle grandi imprese, delle grandi banche. E questo aspetto esiste ancora, anzi probabilmente è ancora più marcato di quanto si creda. Se prendiamo il Regno Unito, almeno cinque milioni degli elettori che nel 2017 hanno votato per Corbyn l’anno prima avevano votato a favore della Brexit. Ma poi la gente se lo dimentica. In ogni caso l’euroscetticismo che ho vissuto all’inizio era legato alla sovranità, alla democrazia, era il timore che le grandi imprese stessero prendendo un eccessivo controllo delle nostre vite. Tutte queste cose sono ancora valide, ma immigrazione, politica delle porte aperte, libertà di movimento, crisi dei migranti hanno sollevato molte discussioni, discussioni durissime che abitualmente sarebbero associate più al tema del diritto e della politica. Ma in realtà il dibattito ha superato questi confini e va a toccare il tema dell’identità. In origine siamo stati un movimento che era un bizzarro mix di intellettuali, di eccentrici e individualisti, ora siamo diventati un movimento di massa. Riassumerei così gli ultimi vent’anni. Quali sono le origini politiche dello UKIP?

Lo UKIP era un insieme eterogeneo di persone: liberali classici, nazionalisti e alcuni socialisti. Siamo riusciti a raggiungere 136

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un certo livello politico portando i primi eletti al Parlamento Europeo, ma durante il mio primo mandato a Bruxelles, nel 1999, non ho mai parlato nemmeno una volta di migrazioni. La parola non compariva nemmeno su nessun nostro volantino. Perché non era una problema. Il tema della libertà di movimento nell’Unione non era una problema, così come il tema della libertà di movimento tra Germania e Regno Unito non era una questione: avevamo più o meno lo stesso stile di vita, gli stessi salari, lo stesso livello di università, gli stessi standard di assistenza sanitaria. La gente non era preoccupata dalle migrazioni di massa, avrei potuto andare a lavorare a Francoforte e se tu fossi stato tedesco saresti potuto venire a lavorare a Londra, con vent’anni di mercato comune non c’erano più britannici in Europa di quanti ce ne fossero prima. Ma c’è stato un giorno qui al Parlamento Europeo, all’inizio del 2004, in cui abbiamo dovuto votare sull’inclusione di otto Stati ex comunisti13. In quella occasione i tre eurodeputati dello UKIP sono stati gli unici deputati britannici a votare contro. Mentre lasciavamo l’aula agli altri due Ukippers ho detto: «Questo è il miglior giorno di lavoro della nostra vita»» E ho aggiunto: «Questo cambierà tutto». Perché era ovvio che quella decisione avrebbe portato ad una migrazione di massa, soprattutto se si includono nell’UE Stati che hanno salari minimi inferiori del 50% o anche di più rispetto a quelli che tu puoi garantire ai tuoi lavoratori, e se gli Stati di arrivo sono dotati di un sistema di assistenza universale. Avevo previsto questa situazione già nel 2004. Ci causò un sacco di problemi l’aver osato parlare di un tema che molti consideravano come proibito. Questo favorì la crescita dello UKIP. Quindi la trasformazione del partito iniziò in quel momento?

Forse sì, diciamo che è come quando hai una macchina e ingrani le marce, ma non avevamo probabilmente nemmeno messo in seconda. Diciamo che esistevamo, avevamo una filosofia molto coerente. Curiosamente non eravamo abituati ad essere criticati molto. La gente diceva: «Nigel, non siamo d’accordo con te, ma hai una posizione intellettualmente perfettamente coerente». Ma nel momento in cui inizi a parlare di nazionalità e identità immediatamente sei come il diavolo. Insomma quel preciso momento nel 2004 è stato quello che ha spinto il movimento in una nuova situazione. Se mi guardo indietro penso anche al 137

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2015, quando l’Europa si apprestava a lanciare il nuovo programma per le politiche europee d’asilo. In quell’anno ho tenuto due interventi al Parlamento, a marzo e ad aprile14. Ho detto «Ragazzi, questa è una follia», ma la signora Merkel lo ha realizzato comunque. Oggi a che punto siamo?

Si stanno facendo largo grandi movimenti euroscettici. Alcuni vogliono lasciare l’Unione Europea, altri semplicemente la criticano e chiedono di riformarla. Generalmente per i piccoli Stati chiedere di andarsene dall’UE è molto difficile; così per gli Stati che sono nell’Eurozona affrontare il cambio di moneta è molto difficile. La logica di questi argomenti spinge verso un’unica direzione: la necessità di una riforma. Ora, l’Unione Europea va verso una riforma? No. Preferirebbero morire combattendo in trincea. Perché qui abbiamo a che fare con una religione. Questa è una religione. Intende l’Unione Europea?

Certo, la fede nel progetto europeo di coloro che se lo vogliono tenere stretto. Questo è il punto. Come per un convertito al cristianesimo: la relazione con Dio è al centro di tutta la sua vita. In questo caso succede lo stesso: se parli con Juncker o altre persone come lui, il progetto europeo è quello in cui credono. Dicono cose tipo: «Gli Stati Uniti d’Europa», «Saremo una superpotenza globale», «Competeremo con l’America». Penso che abbiano fumato qualcosa di forte per credere ad una cosa del genere. Eppure è così. E per questo non sono disposti a concedere un centimetro. È davvero una battaglia fino alla morte. Letteralmente. E moriranno. Perché?

Perché è falso. Innanzitutto non ha mai avuto alcun consenso: è un sistema che è stato imposto alle persone senza mai essere pienamente spiegato. Proprio come il comunismo. Il socialismo comunista marxista era la grande idea intellettuale della prima metà del XX secolo. Mentre il federalismo europeo è stata la grande idea intellettuale dell’ultima metà del XX secolo. Più li guardi, più sono straordinariamente simili. Si basano su ideali elevati, ideali di pace e di un mondo migliore, e tutte queste co138

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se. Il problema per entrambi è che fondamentalmente fraintendono la natura umana. Il comunismo non ha capito che qualunque cosa tu faccia alle persone, emergerà un sistema di classe perché alcune persone sono più capaci. La ragione per cui il federalismo europeo fallirà è che in realtà le persone amano le bandiere, amano gli inni e vogliono sostenere la loro squadra nazionale di calcio. È il modo in cui le cose umane si sviluppano. Nel 1945 c’erano 55 Paesi nel mondo, adesso ce ne sono 230. In tutto il mondo, in base al principio dell’autodeterminazione naturale, i grandi blocchi si stanno dissolvendo e ogni anno vengono creati più Stati perché la gente trova un senso nella propria identità e dice: «Vogliamo governarci. Vogliamo avere il controllo delle nostre vite». Eppure, l’Europa è l’unica parte del mondo che vuole fare il contrario, stiamo andando contro la natura umana. Penso che stiamo fraintendendo il modo in cui le persone ragionano e che ci sia una responsabilità per le persone come me. Abbiamo il compito di fornire una visione alternativa del progetto di governo europeo. Penso che non abbiamo ancora fatto abbastanza. Necessariamente i piccoli movimenti, quando iniziano, sono movimenti di protesta. È così che inizia, ma poi si sviluppa una propria identità. Gli elettori dello UKIP nei primi tempi amavano bruciare le bandiere europee. Ma quando lo UKIP è diventato un movimento di massa, e dopo che siamo stati votati, la stragrande maggioranza degli elettori ha detto: «No. Non protestiamo, crediamo in quello che stiamo dicendo. Crediamo che questa sia la soluzione a un problema per un futuro migliore». Penso che ora il movimento euroscettico in tutta Europa debba iniziare a escogitare un piano, perché al momento abbiamo una Commissione, un Parlamento, un Consiglio. Tutte queste differenti strutture. Dobbiamo riscoprire lo spirito della fine degli anni Quaranta. Dobbiamo riscoprire il concetto originale del Consiglio d’Europa, che era supportato da Churchill e da tutti gli altri. Penso che gli euroscettici possano andare oltre l’essere visti come arrabbiati, ma affermare: «No. Siamo molto a favore di un’Europa del commercio, della cooperazione e dell’amicizia, ma non dell’unione politica». Penso che questo sia il prossimo passo che il movimento euroscettico deve compiere. 139

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C’è stato un cambiamento anche nell’opinione pubblica britannica. Nel 1975 c’è stato un referendum a favore dell’ingresso in Europa, 40 anni dopo uno per uscirne.

Sì, è vero, c’è stato, ma per quel referendum, alla gente è stato detto che si trattava solo di una questione commerciale. Se nel 1975 fosse stato detto al popolo britannico: «Dobbiamo costruire gli Stati Uniti d’Europa con una valuta», l’esito sarebbe stato un «No» per i due terzi dei votanti. Molto dipende da ciò che viene raccontato alle persone. La Brexit è la Brexit, ma ovunque guardo, Italia, Germania, Francia, ma anche Austria, Svezia, gli euroscettici stanno avanzando. Personalmente, ritengo che il 2016 sia uno di quegli anni che sarà ricordato anche tra un secolo come il momento in cui sono cambiate le cose. Molti in Europa hanno criticato il primo ministro David Cameron per aver indetto il referendum sulla Brexit.

Non aveva scelta. Perché?

Non aveva scelta Cameron e non avevano scelta in Europa, perché volevano fermare il Regno Unito, perché stavamo diventando troppo potenti. Quindi il referendum sulla Brexit era una mossa politica per fermare il Regno Unito?

Esattamente questo. Il ragionamento è stato: «Se lo facciamo possiamo fermare il Regno Unito, altrimenti diventano incontrollabili». In ogni caso lo UKIP ha vissuto un periodo molto difficile dopo la Brexit.

Dopo il referendum, sì, abbiamo avuto alcuni problemi15. Il primo, ma ne ho già parlato abbastanza, riguarda la figura dominante nel movimento. Il secondo è collegato alla percezione pubblica, «Oh, beh, hanno fatto il loro lavoro». Questo perché non ci siamo mai mostrati interessati ad andare al governo. Ci siamo venduti come il veicolo per cambiare il futuro del Paese. La cosa più importante resta la percezione pubblica del fatto che il lavoro sia stato fatto e andando avanti vedremo se è vero. Probabilmente è così, non voglio pensare che saremo costretti a fare 140

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un secondo referendum o qualcosa del genere. Non voglio pensarlo, ma non si sa mai. Non teme l’effetto della Brexit sulle nazionalità e sull’avanzata di partiti nazionalisti? Con la Brexit questo potrebbe essere marcato in Irlanda del Nord ma anche in Scozia?

In Irlanda del Nord è in atto un grande cambiamento demografico. La popolazione cattolica è in aumento, la popolazione protestante sta diminuendo. Con o senza Brexit, quelle sollecitazioni ci sono comunque. Per la Scozia niente. Il nazionalismo scozzese è finito. Quindi per lei Nicola Sturgeon16 è politicamente finita?

È finita. Il nazionalismo scozzese ha goduto di un buon successo per alcuni anni, ma penso sia stata la stessa Europa a chiudere la questione. In occasione del referendum17, il quesito di Alex Salmond18 suonava come: «Se lasci il Regno Unito, vuoi far parte dell’Europa?». Ma allora di che indipendenza si tratta? Alla fine, questo è stato il problema più grosso che aveva Salmond: non era in grado di rispondere a questa domanda. Mi chiedo in che modo il partito nazionalista scozzese sia stato veramente un movimento indipendentista. Piuttosto dovevano dire: «Ci separeremo da tutto». Forse quello avrebbe funzionato. Alla fine, la questione europea è stato il vero grosso problema dei nazionalisti scozzesi. Ad ogni modo non credo che la separazione scozzese sia più all’ordine del giorno. Per l’Irlanda del Nord, come ho detto, è una questione più complicata. Ma perché il Sud vorrebbe andare con il Nord? Se sei a Dublino vuoi davvero prenderti tutti i problemi che ci sono al Nord? No, non li vuoi. Cerchiamo di essere seri: benché ci siano molti temi sul tavolo, tutta la faccenda ruota attorno al confine. Abbiamo già una valuta diversa, diversi sistemi fiscali e un confine aperto. L’ovvia risposta per l’Irlanda è di avere un’esenzione per latte e carne bovina. Latte e carne sono i due prodotti che attraversano il confine continuamente e su cui ci sarebbero delle difficoltà. Tutto il resto non è affatto un problema. Non ci sono possibilità per un referendum irlandese per la riunificazione?

No, non penso proprio. Se ci fosse un referendum in Eire che chiede «Vuoi il Nord?», penso che vincerebbe il no. Sarebbe co141

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me chiedere: «Vuoi prenderti quei fuori di testa che vivono al Nord?». L’Irlanda del Nord è una stranezza della storia; con o senza Brexit ci sarebbero e ci saranno per molti decenni grandi difficoltà con l’Irlanda del Nord. L’Eire è una nazione differente, anche se collegata strettamente all’Irlanda del Nord. Anche se ora c’è un’altra stranezza, il Sinn Féin si è trasformato da partito nazionalista a proeuropeista. E uno degli errori che viene commesso oggi è considerare la Repubblica d’Irlanda convintamente europeista, quando in realtà hanno bocciato l’Europa in due differenti referendum19. Cosa può dire di Gibilterra?

È davvero strano, perché Gibilterra è al di fuori dell’unione doganale, non ha un regime di IVA, è in una posizione fantastica, è stata abbracciata molto calorosamente dalla Gran Bretagna, che l’ha fatta diventare parte della regione sud-occidentale. Eppure, hanno così tanta paura delle rappresaglie spagnole che vogliono rimanere nell’UE. Onestamente credo che il voto di Gibilterra sia stato più per effetto della Spagna che per una questione europea20. Anche Gibilterra è un’altra stranezza della storia, ma prospererà e ne verrà fuori qualunque cosa accada. Lo ha sempre fatto. Venendo alla Brexit, ora dovrete ridiscutere tutti i trattati con l’Europa?

Bene, è un aspetto molto interessante. Questo è il prossimo stadio della Brexit. Speriamo di abbandonare il trattato di Roma, ma mi chiedo se non stiamo per sostituirlo con un trattato o un accordo di cooperazione. È uno dei prossimi grandi dibattiti: ci stiamo accingendo ad uscire dal trattato europeo per siglarne un altro. Non è preoccupato per il Regno Unito post-Brexit in un sistema di relazioni internazionali in cui ci sono delle superpotenze ed entità geopolitiche come l’UE che aspirano ad essere superpotenze? Dovrete vedervela con Cina, Russia, India, USA (nonostante la special relationship che vi unisce). Non è preoccupato dal fatto che la politica internazionale sia un territorio hobbesiano?

Non sono d’accordo. Anzi, penso che sia sbagliato vederla così. Di recente Elmar Brok ha dichiarato che il Regno Unito per 142

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risolvere la questione dei dazi con gli Stati Uniti deve essere parte dell’Unione Europea21. Non sono d’accordo. Prendiamo l’Australia, la piccola Australia. Cosa ha fatto Malcolm Turnbull? È volato a Washington e ha ottenuto l’esenzione dai dazi22. Quali sono le nazioni di maggior successo nelle trattative sul libero scambio? Singapore, Corea del Sud, Cile e Svizzera. Questi quattro Paesi con popolazioni ridotte sono riusciti a concludere enormi accordi commerciali globali. Non è necessario essere parte di un grande blocco. Quello che serve è essere flessibile, adattabile, veloce e speciale in quello che fai. Non ho mai creduto che si debba essere parte di un grosso blocco in alcun modo. Nel caso del Regno Unito, siamo comunque la quinta potenza commerciale mondiale, non siamo un Paese piccolo. Capisco che in Danimarca questa argomentazione possa terrorizzare la gente, ma non c’è ragione per cui un Paese di 65 milioni di persone abbia paura di una discussione come questa. Cosa pensa del fatto che nella fase di transizione della Brexit l’Unione Europea abbia accelerato i trattati multilaterali con gli Stati membri del Commonwealth?

È come se l’avessimo forzata noi a farlo. Sì, ma non trova che il fatto che Bruxelles cerchi un accordo con la Nuova Zelanda o l’Australia sia un modo per mettere i bastoni tra le ruote al Regno Unito?

No, prendiamo il caso dell’accordo multilaterale con il Giappone, la Svizzera ha fatto un accordo del genere quindici anni fa. E quindi? Avremmo potuto farlo quindici anni fa se avessimo voluto. Il fatto che l’Europa l’abbia fatto in realtà facilita la strada anche a noi, perché possiamo semplicemente servircene. La Brexit ha costretto l’UE a pensare un po’ di più in questi termini. Ma non hanno imparato nient’altro, perché per il resto continuano a volere un potere centralizzato. Avete rapporti di collaborazione con altri partiti europei?

Sì certo. Ovviamente, il Parlamento Europeo è strutturato in gruppi. Al momento ci sono tre gruppi euroscettici. I conservatori britannici sono sempre stati parte del gruppo del PPE. Ma il fatto che ora abbiamo un loro gruppo, di cui sono responsabili, 143

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Euroscettici

mostra semplicemente quanto le cose siano cambiate e come il centro di gravità si sia spostato. Mettiamola così, penso di aver avuto una grande influenza perché ora c’è il gruppo ECR, poi c’è il nostro gruppo, l’EFDD e il gruppo ENF. Ci sono diverse sfumature di euroscetticismo. Dall’altra parte dell’emiciclo, nel gruppo GUE, il gruppo di estrema sinistra, diciamo gli euroscettici di sinistra, c’è addirittura un irlandese indipendente eletto nel collegio dell’Irlanda occidentale che è euroscettico. In generale però ci sono state sempre grandi suscettibilità su chi era di estrema destra e chi no. Quando sono stato eletto al Parlamento Europeo, il primo gruppo di cui ho fatto parte era dominato dagli scandinavi, danesi e svedesi. Ed erano tutti o quasi tutti di centrosinistra, ma ci sono sempre stati pochi elettori di centrosinistra con posizioni euroscettiche e lo stesso può dirsi per i partiti. Ma perché non è mai stato possibile formare un unico gruppo di euroscettici?

Si è parlato di una grande alleanza ma non avrebbe fatto grande differenza, anzi, la presenza tre gruppi con posizioni critiche permette di avere più voce rispetto ad un solo gruppo con un solo leader. Oggi qui ci sono più leader. C’è Syed Kamall che guida il gruppo dei conservatori, ci sono io per l’EFDD e poi c’è l’ENF che fino a qualche mese fa era guidato da Marine Le Pen. Quando ci sono i dibattiti importanti possiamo parlare in tre, se fossimo tutti insieme potrebbe intervenire solo uno. I vostri rapporti con i Conservatori inglesi sono interessanti. Oggi perseguite lo stesso obiettivo?

Loro sono stati costretti su questa posizione. Se chiedi agli eurodeputati conservatori scoprirai che la maggior parte di loro al referendum ha votato per il remain. Oggi la linea del governo britannico è Brexit, così la posizione ufficiale del Partito conservatore è Brexit. Ci sono persone all’interno del partito che hanno visioni molto simili alla mia, ma ce ne sono un sacco che lo fanno decisamente a malincuore. In una passata intervista mi ha dichiarato che Theresa May è una finta Brexiteer.23

Quando le è stato chiesto come avrebbe votato se il giorno dopo ci fosse stato un referendum sulla Brexit, non ha saputo rispondere. 144

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Regno Unito

E Boris Johnson?

Boris ci crede. Per anni è stato a metà strada, ma a ridosso del referendum si è convinto e oggi è una delle voci più sincere e genuine all’interno del governo britannico che credono nella Brexit. In molti l’hanno accreditata come possibile ambasciatore britannico con Trump, ma anche viceversa. È realistico?

Il governo britannico non mi darà un incarico. Mi piacerebbe fare di più per migliorare le relazioni tra gli Stati Uniti e il Regno Unito ma i vertici dei Tories mi disprezzano, mi odiano. Perché?

Gli ho imposto il referendum, loro non lo volevano e non mi perdoneranno mai. Nella base e tra le seconde file dei conservatori ho molti amici e grande supporto. Sarebbe meglio avere un vero governo Brexit, ma c’è ancora l’establishment. Cosa ci può dire di Trump?

È un numero uno. Penso che stia facendo un lavoro fantastico. Davvero, non ha paura di dire quello che pensa. Crede nello Stato nazionale ed è un vero euroscettico nel senso che è molto chiaro il suo punto di vista sull’Unione Europea. È diventato un amico. Sta facendo il lavoro più duro del mondo. È molto criticato, ma ha già realizzato in un anno i due terzi del suo programma elettorale e questo è notevole. Ma soprattutto sta ricostruendo la fiducia e la credibilità dell’intero processo elettorale nel rapporto tra gli elettori e gli eletti. Cosa potrebbe esserci di buono nella politica britannica dei prossimi anni?

Sarebbe bello se il Partito Conservatore si dividesse e una parte si aggregasse con gli elettori del Labour, questo porterebbe ad un nuovo inizio della politica britannica. Se non avessimo un sistema elettorale maggioritario secco questo sarebbe già accaduto. E che futuro intravede per lo UKIP?

Dipende. Se dovessimo ottenere una Brexit pulita e se gli elettori saranno felici della Brexit, allora penso che il lavoro 145

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Euroscettici

dell’UKIP sarà terminato. Ma se otterremo una Brexit incompleta o se ci fanno fare di nuovo un referendum allora ci sarà ancora da fare. Pensa che questa seconda eventualità sia possibile?

È possibile, ma io penso che lasceremo il trattato di Roma e quella sarà una rottura storica. E a quel punto quale sarà il suo futuro da politico?

Vedremo. Ma se la Brexit sarà come abbiamo chiesto allora avrò finito. Non sono un politico di professione, sono un businessman. Sono entrato in politica perché avevo un obiettivo storico chiave. Se sarà raggiunto mi troverete al pub. Lei si definirebbe un leader post-ideologico?

Sì, in qualche modo sì. Quale è il suo background filosofico?

Sono un credente, fondamentalmente. La mia filosofia politica è che non mi piace troppo il governo. Credo nella libertà individuale e nella libertà; credo che dobbiamo essere il più possibile liberi di poter prendere le decisioni sulla nostra vita. Sono un grande sostenitore del libero mercato, motivo per cui odio il corporativismo. Ecco perché su alcune delle mie tesi economiche, la sinistra dice «Oh, sì». Perché penso che l’influenza dell’economia globale sulla politica sia ormai eccessiva. Credo nell’imprenditorialità, credo negli uomini e nelle donne che si creano le loro attività, fanno le loro cose. Ho un’etica del lavoro molto protestante e credo nel lavoro duro. Credo nell’educazione selettiva. Ci sono molte cose in cui credo, ma non abbastanza profondamente da rinunciare alla mia vita. Tuttavia ho creduto nella Brexit abbastanza da dare la mia vita per questo obiettivo. Se la otterremo come diciamo noi, dirò «Grazie mille» alla politica e sarò più un commentatore in televisione, in radio, o sulla carta stampata, cose del genere. Quando stai sempre in prima linea in politica e nell’affrontare l’establishment, è molto dura e nessuno può farlo per sempre. Nessuno è così coraggioso o stupido.

146

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Appendice

I partiti euroscettici in Europa

Stato/Partito

Abbreviazione

Europee 2014

Politiche /1

Politiche /2

19,7%

20,5% (2013)

26% (2017)

4,26%

7,76% (2010)

3,67% (2014)

2,96%

4,52% (2014)

AUSTRIA Freiheitliche partei Österreich

FPOE BELGIO

Vlams belaang

VB BULGARIA

Ataka Bulgarsko natsionalno dvizhenie

IMRO

10,66%

Natzionalen front za spasenie na Bulgaria

NFSB

3,05%

Obedineni patrioti**

IMRO+NFSB +ATAKA

=

7,2% (2014)

9,07% (2018)

=

=

4,15% (2018)

Volya CIPRO Anorthotikó Kómma Ergazómenou Laoú

AKEL

26,98%

32,67% (2011)

25,67% (2016)

Ethniko laiko metopo

ELAM

2,69%

1,08% (2011)

3,71% (2016)

=

4,24% (2015)

6,23% (2016)

26,6%

12,32% (2011)

21,1% (2015)

CROAZIA Zivi zid

ZZ DANIMARCA

Dansk folkeparti

DF

147

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Euroscettici

Folkebevægelsen mod EU

N

8,1%

=

=

4%

2,1% (2011)

8,1% (2015)

12,9%

17,7% (2015)

17,5% (2019)

24,95%

13,2% (2012)

13,6% (2017)

France insoumise

3,82%

=

11,03% (2017)

Front de gauche

6%

6,9% (2012)

=*

7,1%

4,7% (2013)

12,6% (2017)

7,4%

8,6% (2013)

9,2% (2017)

SYRIZA

26,57%

36,34% (2015)

35,46% (2015)

KKE

6,11%

5,47% (2015)

5,55% (2015)

ALBA DORATA

9,39%

6,28% (2015)

6,9% (2015)

ANEL

3,45%

4,75% (2015)

3,69% (2015)

19,5%

9,9% (2011)

13,8% (2016)

=

=

4,2% (2016)

1,4%

1% (2011)

3,9% (2016) (+ Antiausterity alliance)

3,66%

1,96% (2013)

4,35% (2018)

ESTONIA Eesti konservatiivne rahvaerakond

EKRE FINLANDIA

Perussuomalaiset

PS FRANCIA

Front national/ Rassemblement national

FN/RN

GERMANIA Alternative für Deutschland

AFD

Die Linke GRECIA Synaspismos rizospastikis aristeras Kommounistiko komma Elladas Laikos syndesmos – Chrysi aigi Anexartitoi Ellines

IRLANDA Sinn féin

SF

Independent alliance

People before profit

ITALIA Fratelli d’Italia

FDI

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Appendice

Lega nord

6,15%

4,09% (2013)

17,53% (2018)

Movimento 5 stelle

M5S

21,15%

25,56% (2013)

32,68% (2018)

Potere al popolo

PAP

=

=

1,13% (2018)

4,03%

=

=

8,26%

12,22% (2014)

9,92% (2018)

14,25%

7,6% (2012)

5,55% (2016)

Un’altra Europa con Tsipras LETTONIA Zal¸o un Zemnieku savienıˉba

ZZS LITUANIA

Partija tvarka ir teisingumas

PTT

LUSSEMBURGO MALTA OLANDA Partij voor de vrijheid

PVV

13,32%

10,1% (2012)

13,1% (2017)

Staatkundig gereformeerde partij

SGP

7,67% +Christien Unie

2,1% (2012)

2,1% (2017)

3,69%

1,9% (2012)

3,1% (2017)

4,21%

1,9% (2012)

3,2% (2017)

PIS

31,78%

29,9% (2011)

37,6% (2015)

K’15

=

=

8,8% (2015)

BE

4,93%

5,17% (2011)

10,19% (2015)

CDU

13,71%

7,9% (2011)

8,25% (2015)

18,7% (2013)

29,6% (2017)

50Plus Partij voor de dieren 

PVDD POLONIA

Prawo i Sprawiedliwos´c´ Kukiz’15

PORTOGALLO Bloco de esquerda Coligação democrática unitária (Partido comunista português + Partido ecologista os verdes)

REPUBBLICA CECA Ano 2011

16,13%

149

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Euroscettici

Komunistická strana Cˇech a Moravy

KSCM

10,98%

14,9% (2013)

7,8% (2017)

5,24%

2,5% (2013)

1,6% (2017)

Svobodni

REGNO UNITO United Kingdom indipendence party

UKIP

26,77%

12,6% (2015)

1,6% (2017)

British national party

BNP

1,14%

=

=

ROMANIA SLOVACCHIA Kotleba – L’udová strana Naše Slovensko

L’SNS

1,6%

=

8% (2016)

Slovenská národná strana

SNS

3,7%

4,55% (2012)

8,64% (2016)

Sloboda a Solidarita

SAS

6,6%

5,88% (2012)

12,1% (2016)

=

=

6,6% (2016)

4%

2,2% (2014)

4,1% (2018)

Podemos

7,98%

20,7% (2015)

21,2% (2016)

Izquierda plural

10,03%

Sme Rodina SLOVENIA Slovenska Nacionalna Stranka

SNS SPAGNA

SVEZIA SD

9,67%

12,9% (2014)

17,53% (2018)

V

6,3%

5,7% (2014

8% (2018)

Fidesz

51,48%

44,87% (2014)

49,27% (2018)

Jobbik

14,67%

20,22% (2014)

19,06% (2018)

Sverigedemokraterna Vänsterpartiet

UNGHERIA

*Molti candidati e rappresentanti del Front de gauche sono confluiti in France insoumise ** Obedineni patrioti, ovvero ‘Patrioti uniti’, è una forza politica nata dalla fusione di Ataka, Imro e NFSB.

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Appendice

NOTA METODOLOGICA Per l’individuazione dei partiti euroscettici suddivisi per Stato mi sono avvalso del Manifesto Project Analysis, progetto di ricerca promosso Fondazione delle Scienze tedesca (DFG) che raccoglie i manifesti di gran parte dei partiti politici di oltre 50 Stati e permette una consultazione con chiavi di ricerca. Nello specifico sono stati indicati tutti quei partiti, ove è stato possibile, che con la chiave «Posizione negativa su Unione Europea e Comunità Europea» totalizzano un punteggio superiore a 50 (in una scala da 1 a 100). I dati sono stati incrociati con l’appendice della relazione The State of populism in Europe – 2016, pubblicato da Foundation for European Progressive Studies, e con Euroscepticism in Small EU Member States edito da Karlis Bukovskis (Riga, Latvian Institute of International Affairs, 2016). Per alcuni casi nazionali mi sono avvalso anche di pubblicazioni, saggi e articoli sulle forze euroscettiche. Tra questi:

K. Agapiou-Josephides, Changing Patterns of Euroscepticism in Cyprus: European Discourse in a Divided Polity and Society, in «South European Society & Politics», 16:1, pp. 159-184. E. Hernandez, H. Kriesi, Turning your back on the EU. The role of Eurosceptic parties in the 2014 European Parliament elections, in «Electoral Studies», 2016. C. Mudde. Electoral winners and political losers in the right-wing Eurosceptic camp”  Open Democracy, 2014, available at: hiip://works.bepress. com/cas_mudde/100/. S. Vasilopoulou, The party politics of Euroscepticism in times of crisis: The case of Greece, in «Politics», 38:3, pp. 311-326. C. Williams, J. Ishiyama, Responding to the left: the effect of far-left parties on mainstream party Euroskepticism, in «Journal of Elections, Public Opinion and Parties», 2018, 28:4, pp. 443-466. FONTI European Parliament, Irelandelection.com, Kiesraad (Netherlands), Archivio elettorale Ministero degli Interni (Italia), Ministry of the Interior (Republic of Cyprus), Ministère de l’Intérieur Français, Statistical office of the Slovak Republic, State Election Commission (Republic of Slovenia), Ministerio da Aministraçao Interna (Portugal), Ministry of Interior (Greece), Ministerio del Interior (España), Valmydigheten Svenska, Danmark Statistiks, Ministry of Justice (Finland), Bundesministerium für Inneres Osterreich, Direction générale Institutions et Population (Belgique), Hungarian National Assembly, Vabariigi Valimiskomisjon (Estonia), Central Electoral Commission of the Republic of Lithuania, Central Election Commission of Latvia, UK Parliament, Czech Statistical Office, Central Electoral Commission (Bulgaria), The Federal Returning Officer (Germany), Commissione elettorale statale della Repubblica di Croazia, Ufficio elettorale nazionale (Polonia).

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NOTE Introduzione L’intero documento dello stato dell’Unione 2016 può essere recuperato a questo indirizzo web: hiips://publications.europa.eu/it/publication-detail/-/ publication/c9ff4ff6-9a81-11e6-9bca-01aa75ed71a1. 2  Il presidente della Commissione UE ha dichiarato: «Mai prima d’ora ho visto i governi nazionali così indeboliti dalle forze del populismo e paralizzati dalla paura della sconfitta alle prossime elezioni». 3  Vd. hiip://www.europarl.europa.eu/at-your-service/files/be-heard/eurobarometer/2018/eurobarometer-2018-democracy-on-the-move/report/en-one-year-before-2019-eurobarometer-report.pdf. 4  B. Fryklund, Nordic Populism – changes over time and space in Right-wing populism in Europe: politics and discourse, edited by R. Wodak, M. Khosravinik, and B. Mral, Bloomsbury, London, 2013. 5  Il mercato unico europeo poggia su quattro pilastri o quattro libertà: libera circolazione delle persone, dei capitali, dei servizi e dei beni. Nel corso del negoziato con il Regno Unito, Bruxelles ha più volte ribadito che Londra non può pretendere di beneficiare singolarmente di una o più libertà, non può fare quello che viene detto cherry picking. 6  A. Moravcsik, Europe is still a superpower, Foreing Policy, 13/4/2017: hiips://foreignpolicy.com/2017/04/13/europe-is-still-a-superpower/. 1 

1. L’Europa e i suoi critici 1  Sono comparse diverse rassegne in italiano che rendono conto delle varie teorie sul populismo. Per una lettura prettamente politologica vd. D. Palano, Populismo, Editrice Bibliografica, Milano, 2017. Mentre un’impostazione maggiormente legata alla sociologia politica è riscontrabile in M. Anselmi, Populismo. Teorie e problemi, Mondadori, Milano, 2017.  Infine per un compendio che illustra anche molti casi nazionali vd. P. Graziano, Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, il Mulino, Bologna, 2018. 2  E. Laclau, La Ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 111. 3  P. Taguieff, La revanche du nationalisme. Neopopuliste et xenophobes à l’assaut de l’Europe, Puf, Parigi, 2015, pp. 81-85. 4  M. Canovan, Trust the people, in «Political Studies», 47, 1999, pp. 2-16. 5  P. Aslanidis, Is Populism an Ideology? A Refutation and a New Perspective, in «Political Studies», 2016, 64 (1_suppl), pp. 88-104. B. Moffitt, S. Tormey, Rethinking Populism: Politics, Mediatisation and Political Style, in «Political Studies», 2014, 62 (2), pp. 381-397. Una posizione intermedia è quella che immagina che una presunta ideologia populista sia comprensibile solo attraverso l’analisi delle strategie di comunicazione populista: cfr. H. Kriesi, The Populist Challenge, in «West European Politics», 2014, 37:2, pp. 361-378. 6  M. Canovan, The people, Polity Press, Cambridge, 2005. 7  M. Tarchi, Italia populista, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 77. 8  J.-W. Müller, Cos’è il populismo, Università Bocconi editore, Milano, 2017 pp. 26-27. 9  N. Urbinati, Democrazia sfigurata, Egea, Milano, 2014, pp. 206-208.

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Euroscettici

Y. Mény, Y. Surel, Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna, 2001, p. 201. Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma, 2013, p. 9. Per Zanatta la cosmologia populista si basa dunque su due aspetti cardine: il popolo e una visione manichea della politica. 12  Questa definizione, di grande successo, compare per la prima volta in un saggio scritto da Cas Mudde nel 2004. Cfr. The populist Zeitgeist, in «Governement and Opposition», 2004, 39-4, pp. 541-563. Solo successivamente è stato aggiunto il concetto di ideologia dal centro sottile – in inglese thin-centered ideology contrapposta alle thick-centered ideologies che sono quelle tradizionalmente riconosciute come il socialismo, il fascismo o il liberalismo. Cfr. C. Mudde, C. R. Kaltwasser, Populism. A very short introduction, Oxford University Press, London, 2017, pp. 5-9. 13  P. Taggart, Populism, Open University Press, Philadelphia, 2000. 14  G. Mazzoleni, The Media and the Growth of Neo-Populism in Contemporary Democracies, in G. Mazzoleni, J. Stewart, and B. Horsfield, The Media and Neo-Populism. A Comparative Analysis, Praeger, London, 2003, pp. 1-20. 15  P. Taguieff, op. cit., p. 84 16  C. Mudde, C. Rovira Kaltwasser, Exclusionary vs. Inclusionary Populism: Comparing Contemporary Europe and Latin America, in «Government and Opposition», 2013, 48(2), pp. 147-174. 17  R. Eatwell, M. Goodwin, National populism. The revolt against liberal democracy, Penguin Random House, London, 2018. I due autori individuano quattro tendenze che stanno ridisegnando la politica occidentale e che conducono al nazionalpopulismo inteso come forma di rivolta contro la liberaldemocrazia. Si tratta delle ‘4 D’: distrust, destruction, deprivation, de-alignement. 18  J. Judis, The populist explosion. How the Great Recession Transformed American and European Politics, Columbia Global Reports, New York, 2016, pp. 109-130. 19  Sul concetto di delegittamazione vd. F. Cammarano, S. Cavazza, Delegittimazione. Note per un approccio storico, in «Kripton», 2013, 2, pp. 56-64 e F. Cammarano, S. Cavazza, Il nemico in politica. La delegittimazione dell’avversario nell’Europa contemporanea, il Mulino, Bologna, 2010. 20  P. Mishra, The globalization of rage, in «Foreign Affairs», 2016, 95:6, pp. 46-54. 21  C. De la Torre, The promise and perils of populism. Global perspectives, University press of Kentucky, Lexington, 2015. 22  B. Moffitt, The global rise of populism. Performance, Political Style, and Representation, Stanford University Press, Palo Alto, 2016. 23  M. Kazin, Trump and american populism. Old wine, new bottles, in «Foreign Affairs», 2016, 95:6, pp. 17-24 e C. de la Torre, Trump’s populism: lessons from Latin America, in «Postcolonial Studies», 2017, 20:2, pp. 187-198. 24  C. De la Torre, Routledge Handbook of Global Populism, Routledge, London, 2019. 25  C. Mudde, Populism in Europe: a primer, in On extremism and Democracy in Europe, a cura di C. Mudde, Routledge, London, 2016. 26  C. Mudde, Populist radical right in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 27  Cfr. Dichiarazione di Lisbona, Per una rivoluzione democratica in Europa. La versione italiana è consultabile sul sito del movimento francese France insoumise: hiips://lafranceinsoumise.fr/2018/04/13/peuple-revolution-citoyenne-europe. 10 

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Note 28  P. Iglesias Turriòn, Democrazia anno zero, Edizioni Alegre, Roma, 2015, pp. 143-150. 29  Per il programma di Potere al Popolo per le elezioni politiche del 2018 cfr. hiips://poterealpopolo.org/potere-al-popolo/programma/. 30  L. Topaloff, Political parties and euroscepticism, Palgrave, London, 2012. 31  M. O. Ultan, S. Ornek, Euroscepticism in European Unioni, in «International Journal of Social Sciences», 2015, vol. IV (2), pp. 49-57; L. Hooghe & G. Marks, Sources of euroskepticism, in «Acta Politica», 2007, 42:2-3, pp. 111-127;. P. Taggart, A touchstone of dissent: euroscepticism in contemporary European party systems, in «European Journal of Political Research», 1999, 33, pp. 363-388; The Eurosceptic 2014 European Parliament Elections. Second Order or Second Rate? edited by J. H. Nielsen, M. N. Frankiln, Palgrave, London, 2017. 32  Per alcune letture di base sulla Brexit consiglio G. Baldini, La Gran Bretagna dopo la Brexit, il Mulino, Bologna, 2016. Sul percorso che ha portato Londra all’uscita dall’UE, D. Baker, P. Schnapper, Britain and the Crisis of the European Union, Palgrave, London, 2015; Brexit. History, Reasoning and Perspectives, edited by D. Troitiño, T. Kerikmäe, A. Chochia, Springer, Berlin, 2018; L. McGowan, Preparing for Brexit. Actors, Negotiations and Consequences, Palgrave, London, 2018. È però chiaro che il grosso della produzione è ancora influenzata da una situazione molto volatile. 33  M. Kneuer, The tandem of populism and Euroscepticism: a comparative perspective in the light of the European crises, Contemporary Social Science, 2019, 14:1, pp. 26-42. 34  L. Antoniolli, L. Bonatti, C. Ruzza, The current crisis of the European union, its origins and consequences, in Highs and lows of European integration. Sixty years after the Treaty of Rome, edited by L. Antoniolli et alii, Springer, Berlin, 2019. 35  C. Ruzza, Populism, EU institutions and civil society, in Highs and lows of European integration. Sixty years after the Treaty of Rome, edited by L. Antoniolli et alii, Springer, Berlin, 2019. 36  C. Ruzza, Populism and euroscepticism: Towards uncivil society?, in «Policy and Society», 2009, 28, pp. 87-98. 37  H. Kriesi, The role of European integration in national election campaigns, in «European Union Politics», 2007, 8(1), pp. 83-108; E. Hernández, H. Kriesi, Turning your back on the EU. The role of Eurosceptic parties in the 2014 European Parliament elections, in «Electoral Studies», 2016, 44, pp. 515-524. 38  A. Szczerbiak, P. Taggart, Introduction: Researching Euroscepticism in European Party Systems: A Comparative and Theoretical Research Agenda, in Opposing Europe? The Comparative Party Politics of Euroscepticism. Vol. 2. Comparative and Theoretical Perspectives, Oxford University Press, London, 2008, pp. 1-27. 39  P. Kopecky, C. Mudde, The Two Sides of Euroscepticism Party Positions on European Integration in East Central Europe, in «European Union Politics», 2002, 3(3), pp. 297-326. 40  P. Chiantera-Sutte, Euroscetticismo e populismo: le nuove sfide alla politica in M. Anselmi, P. Blokker, N. Urbinati, Populismo di lotta e di governo, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2018. 41  Andrea L. P. Pirro & Stijn van Kessel, United in opposition? The populist radical right’s EU-pessimism in times of crisis, in «Journal of European Integration», 2017, 39:4, pp. 405-420.

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Cfr. C. Muzzi, Sovranisti in marcia senza rotta comune, in «Il Giornale di Brescia», 31/8/2018. 43  Lega e M5S: no al doppio passaporto. Alto Adige 23/7/2018 accessibile all’indirizzo: hiip://www.altoadige.it/cronaca/bolzano/lega-e-m5s-no-al-doppio-passaporto-1.1689986. 42 

2. Francia 1  Il Front national e il Vlaams blok sono indicati come i partiti della terza ondata di populismo nella storia politica mondiale, quella che ha investito l’Europa occidentale. 2  D. Albertini, D. Doucet, Histoire du Front national, Texto, Paris, 2014. 3  N. Genga, Il Front national da Jean-Marie a Marine Le Pen, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. 4  C. Mudde, The populist right party in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 5  P. Stockemer, The Front national in France. Continuity and Change Under Jean-Marie Le Pen and Marine Le Pen, Springer, Berlin, 2017. 6  M. Marchi, La lunga marcia del Front National di Marine Le Pen, in La Francia di Macron, a cura di R. Brizzi, M. Lazar, Il Mulino, Bologna, 2018. 7  Vicepresidente del Front national, Louis Aliot, dopo essere stato eletto parlamentare europeo nel 2014, l’anno successivo entra all’Assemblée Nationale dopo essere stato eletto al secondo turno nel collegio Languedoc-Rossillon-Midi Pyrénées. Oggi è membro dell’Esecutivo nazionale del neonato movimento Rassemblement national. 8  L. Aliot, Des Présidents contre la France, Éditions Club Idées & Nation, Perpignan, 2014. 9  L’8 febbraio 2016 in un’intervista al telegiornale di TF1 in prima serata Marine Le Pen ha citato per la prima volta Raymond Aron: «Sullo Stato condivido il pensiero di Raymond Aron, lo Stato deve essere rispettato all’estero e in pace al suo interno». Cfr. hiips://www.lci.fr/politique/invitee-du-20h-de-tf1-marine-le-pen-cite-le-philosophe-raymond-aron-1247423.html. 10  Alle elezioni europee del 1984 il FN guidato da Jean-Marie Le Pen si presentò con una lista dal nome «Front d’opposition nationale pour l’Europe des patries». Il Front ottenne il primo grande risultato elettorale con il 10.95% e 2.210.334 voti, tanto da arrivare a ridosso del PCF e mandando dieci parlamentari al Parlamento Europeo. Cfr. D. Albertini, D. Doucet, Histoire du Front National, Tallandier Editions, Parigi, 2014, p. 106.  11  Sul piano Fouchet cfr. B. Olivi, L’Europa difficile, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 73 e ss. 12  Il 29 maggio 2005 si è svolto il referendum sul trattato che istituiva una Costituzione europea, con un’affluenza del 69,3%. I no hanno vinto col 54,67% delle preferenze. Per tutte le informazioni e l’analisi del voto cfr. hiip://www. conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/documentation/dossiers-thematiques/2005-referendum-traite-constitution-pour-l-europe/referendum-du-29-mai-2005.42598.html. 13  L’operazione Barkhane prevede il dispiegamento di forze militari francesi in cinque Paesi del Sahel: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. Lanciata nel 2014, è la naturale continuazione dell’operazione Serval, lanciata nel gennaio

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2013 per fronteggiare la guerra civile in Mali con l’occupazione della parte settentrionale del Paese da parte di milizie di jihadisti e tuareg. La missione Barkhane è nata come missione antiterrorismo e di stabilizzazione della regione saheliana, conta su di un contingente di 4.500 militari francesi distribuiti sui cinque Stati. 3. Olanda K. Vossen, The Power of populism, Geert Wilders and the Party for freedom in the Netherlands, Routledge, London, 2015. 2  Sarah L. de Lange & David Art, Fortuyn versus Wilders: An Agency-Based Approach to Radical Right Party Building, in «West European Politics», 2011, 34:6, pp. 1229-1249. 3  N. O’Leary, Geert Wilder’s Brain, in «Politico», 16 ottobre 2016. Bosma è deputato del PVV al Parlamento olandese dal 2006, la prima tornata elettorale a cui partecipò il neonato Partito per la libertà. 4  C. Mudde, C. R. Kaltwasser, Populism. A very short introduction, Oxford University Press, London, 2017, p. 44. 5  Th. Escritt, The globetrotter confined: the hardening of Geert Wilders, Reuters, 28 febbraio 2017. 6  Wilders era stato invitato dall’allora leader dell’UKIP Lord Pearson alla proiezione del suo film Fitna alla Camera dei Lord. 7  H. Siddique, P.Walker, Far-right Dutch MP refused entry to UK, The Guardian, 12 febbraio 2009. 8  T. Pauwels, Populism in Western Europe: Comparing Belgium, Germany and the Netherlands, Routledge, London, 2014, pp. 113-124. 9  Dutch government falls in budget crisis, BBC news, 23 aprile 2012. 10  S. van Kessel, Populist parties in Europe. Agents of Discontent, Palgrave, London, 2015, pp. 59-60. 11  A. Hammond, If Geert Wilders does win the popular vote in the Dutch elections this week, there will be consequences for Europe, The Independent, 14 marzo 2017; D. Robinson, Wilders’ one-man band heads for Dutch poll destiny, The Financial Times, 10 marzo 2017; P. Gallori, Olanda al voto tra Erdogan e Wilders, primo test sul futuro dell’Europa, la Repubblica, 14 marzo 2017. 12  F. Turato, Capipopolo, Castelvecchi, Roma, 2018, p. 138. 13  Sua moglie Gabrielle Popken è l’assistente parlamentare di Geert Wilders dal 2009. 14  Copresidente all’Europarlamento del gruppo Europa delle nazioni e della libertà (ENF), nel 2014 è stato eletto al Parlamento Europeo nelle liste del Partito per la libertà. Precedentemente, tra il 7 giugno 2011 e il primo luglio 2014 è stato membro del Senato olandese. 15  Letteralmente ‘raccolta delle ciliegie’, ma a livello comunitario il termine cherry-picking è usato con un’accezione negativa e indica la possibilità o il tentativo da parte, ad esempio, di uno Stato membro, di scegliere quelle parti della legislazione europea (escludendone altre) che vanno a proprio favore. Il che per l’acquis comunitario è impossibile. Un dibattito molto aspro riguardo una situazione di cherry-picking ha caratterizzato tutta la prima fase del negoziato sulla Brexit in cui Londra avrebbe voluto scegliere quali delle quattro libertà definite dal trattato di Schengen poter preservare. Il presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker in un’intervista al Bild am Sonntag nel marzo 2017 ha 1 

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dichiarato: «The U.K. will need to prepare itself to be treated as a third country. There will be no half-membership or cherry-picking. In Europe, the choice is to eat what’s on the table or not come to the table at all». Cfr. hiips://www. politico.eu/article/eu-michel-barnier-mandate-goal-in-brexit-talks-negotiationsdivorce-first-trade-deal-citizens-rights/. 16  Il detto inglese sarebbe «One size fits none». 4. Belgio 1  J. Erk, From Vlaams Blok to Vlaams belang: The Belgian Far-Right Renames Itself, in «West European Politics», 2005, 28:3, pp. 493-502. 2  E. van Haute, T. Pauwels, The Vlaams belang: Party Organization and Party Dynamics, in R. Heinisch, O. Mazzoleni edited by, Understanding Populist Party Organisation. Palgrave Studies in European Political Sociology, Palgrave Macmillan, London, 2016. 3  E. van Haute, T. Pauwels, & D. Sinardet, Sub-state nationalism and populism: the cases of Vlaams belang, New Flemish Alliance and DéFI in Belgium, in «Comparative European Politics», 2018, 16, p. 954. 4  T. Pauwels, Explaining the strange decline of the populist radical right Vlaams Belang in Belgium. The impact of permanent opposition, in «Acta Politica», 2011, 46(1), pp. 60-82. 5  R. Dandoy, M. Reuchamps, P. Baudewyns, The 2014 federal and European elections in Belgium, in «Electoral Studies», 2015, 39, pp. 164-168. 6  Le Vlaams belang veut interdire l’immigration pour au moins 10 ans, 14 gennaio 2019, hiips://www.lavenir.net/cnt/dmf20190104_01277454/le-vlaamsbelang-veut-interdire-l-immigration-pour-au-moins-10-ans. 7  Presidente del Vlaams belang dall’ottobre del 2014 e membro del Parlamento nazionale fiammingo dal 25 maggio 2014. 8  Il 18 marzo 2016 i ventotto Capi di Stato e di Governo hanno siglato un accordo con la Turchia per fermare il flusso di migranti che dal territorio turco passava in Grecia e poi, attraverso la cosiddetta rotta balcanica, fino al Nord Europa. Secondo l’accordo Bruxelles ha versato per i primi due anni 3 miliardi di euro ad Ankara per finanziare anche le strutture di accoglienza per i migranti in territorio turco, entro la fine del 2018 sono stati dati altri 3 miliardi di euro. Nell’accordo era prevista una deroga ai visti dei cittadini turchi per l’ingresso in Europa, ma quel punto non è mai stato realizzato perché Bruxelles chiedeva in cambio la modifica di parte della legislazione turca secondo una logica di maggiori diritti civili e politici. Il precipitare degli eventi politici in Turchia negli ultimi due anni ha di fatto impedito modifiche legislative, così la questione visti è rimasta lettera morta. 9  Van Grieken si riferisce alla caduta del governo Berlusconi con le dimissioni consegnate dal Presidente del Consiglio il 12 dicembre 2011. Quattro giorni dopo a  Mario Monti, che il 9 novembre era stato nominato senatore a vita dal presidente Napolitano, viene assegnato l’incarico di formare un esecutivo. Il suo governo è stato subito ribattezzato come quello dei tecnici. Le ricostruzioni complottistiche sulla fine del Berlusconi IV sono state molteplici: cfr. A. Friedman, Ammazziamo il Gattopardo, Rizzoli, Milano, 2014. 10  Sulla stampa internazionale esiste un’infinita lista di frasi che sarebbero state pronunciate dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude

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Juncker. Quella a cui si riferisce Van Grieken è stata pronunciata prima dell’introduzione dell’euro: «We decide on something, leave it lying around and wait and see what happens. If no one kicks up a fuss, because most people don’t understand what has been decided, we continue step by step until there is no turning back». 5. Svezia 1  A. Widfeldt, Party change as a necessity – the case of the Sweden Democrats, in «Representation», 2008, 44:3, pp. 265-276. 2  P. Odmalm, Political Parties and ‘the Immigration Issue’: Issue Ownership in Swedish Parliamentary Elections 1991-2010, in «West European Politics», 2011, 34:5, pp. 1070-1091. 3  Quello che in inglese viene definito nativism, come protezione dell’identità dei nativi nei confronti degli immigrati. 4  J. Rydgren, Radical Right Populism in Sweden: Still a Failure, But for How Long?, in «Scandinavian Political Studies», 2002, 25, pp. 27-56. 5  L. Berg, H. Oscarsson, The Swedish general election 2014, in «Electoral Studies», 2015, 38, pp. 91-93. 6  J. Strömbäck, & A.-C. Jungar & S. Dahlberg, Sweden: No Longer a European Exception, in Populist Political Communication in Europe, edited by T. Aalberg, F. Esser, C. Reinemann, J. Strömbäck, C. H. de Vreese, 2006, Routledge, London, pp. 68-81. 7  Swedish far right at record high in pre-election poll, Politico, 23 maggio 2018: hiips://www.politico.eu/article/jimmie-akesson-stefan-lofven-swedish-democrats-far-right-at-record-high-in-pre-election-poll/. 8  A. Jungar, A. R. Jupskås, Populist Radical Right Parties in the Nordic Region: A New and Distinct Party Family?, in «Scandinavian Political Studies», 2014, 37, pp. 215-238. 9  N. Bolin, A Loyal Rookie? The Sweden Democrats’ First Year in the European Parliament, in «The Polish Quarterly of International Affairs», 2015, 2, pp. 59-77. 10  Conservatives enter alliance with Swedish far-right in European Parliament, Independent, 4 luglio 2018: https://www.independent.co.uk/news/uk/ politics/conservatives-sweden-democrats-european-parliament-far-right-reformist-group-a8430281.html. 11  Sweden’s election once again undercuts the populist myth of the racial apocalypse, Washington Post, 10 settembre 2018: https://www.washingtonpost. com/news/global-opinions/wp/2018/09/10/election-in-sweden-once-again-undercuts-populist-myth-of-the-racial-apocalypse/?noredirect=on&utm_term=.8ff0a1df67d9. 12  Capogruppo dei Democratici svedesi al Parlamento, dove è stato eletto per la prima volta nel 2010 e confermato nel 2014. Tra l’ottobre 2014 e il maggio 2015 è stato il presidente del partito per il temporaneo abbandono dell’attuale leader Jimmie Åkesson. È considerato l’ideologo dei Democratici svedesi. 13  Il 13 novembre 1994 gli svedesi furono chiamati a votare un referendum sull’adesione della Svezia all’Unione Europea. Si trattava di un referendum consultivo in cui comunque vinse il «sì» all’adesione con il 52,3% (con un’affluenza molto alta dell’83,3%). Cfr. T. Bjørklund, The Three Nordic 1994 Referenda

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Concerning Membership in the EU, in «Cooperation and Conflict», 1996, 31: 1, pp. 11-36. 14  Il 15 aprile 2013 l’Islanda è stato il primo Stato europeo a siglare un trattato di libero scambio con la Cina. 15  Per una veloce e chiara illustrazione della dottrina Putin cfr. A. Leon, The Putin Doctrine.  Russia’s Quest to Rebuild the Soviet State,  Foreign Affairs, hiips:// www.foreignaffairs.com/articles/russian-federation/2013-03-08/putin-doctrine. 16  Bert Karlsson e Ian Wachtmeister. Il primo era un produttore discografico e il secondo un imprenditore. Nuova democrazia venne fondato il 4 febbraio, ma i prodromi erano stati un articolo a firma dei due pubblicato sul «Dagens Nyheter». Cfr. J. Rydgren, Radical Right Populism in Sweden: Still a Failure, But for How Long?, in «Scandinavian Political Studies», 2002, 25-1, p. 33. 17  Per la storia di Nuova democrazia (Ny demokrati), vd. P. Taggart, The New Populism and the New Politics: New Protest Parties in Sweden in a Comparative Perspective, Macmillan, London, 1996. 18  Mikael Jansson, che proveniva dal Partito di centro e ha guidato i Democratici svedesi per 10 anni fino all’attuale leadership con l’accoppiata Karlsson-Åkesson. 19  Letteralmente «svedesità». 6. Finlandia 1  L. Karvonen, Parties, governments and voters in Finland, Colchester, Ecpr Press, 2014, p. 46. 2  «Perusuomalaiset» significa ‘Veri finlandesi’, ma può essere inteso anche come ‘Finlandesi di base’, proprio per dare maggiore forza alla contrapposizione tra il popolo e le tradizionali élites politiche finlandesi. Solo successivamente Soini e i vertici del partito hanno deciso che in inglese il «Perusuomalaiset» si sarebbe chiamato semplicemente The Finns, quindi ‘I Finlandesi’. 3  A. Welker, Historiography and the challegne of Populism in Finland, in «European Review», 2013, vol. 21 n. 3, pp. 489-500. 4  D. Arter, The Breakthrough of another West european populist radical party? The Case of the True Finns, in «Government and Opposition», 2010, Vol. 45, No. 4, pp. 484-504. 5  D. Arter, ‘Big Bang’ Elections and Party System Change in Scandinavia: Farewell to the ‘Enduring Party System’?, in «Parliamentary Affairs» 1-23, 2011. 6  C. Muzzi, Atlante dei populismi scandinavi, accessibile al sito: hiip://www. limesonline.com/atlante-dei-populismi-scandinavi/91776. 7  T. Lähdesmäki, The ambiguity of Europe and European identity in Finnish populist political discourse, in «Identities: Global Studies in Culture and Power», 2015, Vol. 22, No. 1, pp. 71-87. 8  M. K. Niemi, The True Finns Identity Politics and Populist Leadership on the Threshold of the Party’s Electoral Triumph, in «Javnost - The Public», 2013, 20:3, pp. 77-91. 9  F. Turato, Capipopolo, Castelvecchi, Roma, 2018. 10  R. Milne, Collapse of coalition throws Finland into crisis, in «Financial Times», 13 giugno 2017. 11  J. Rosendahl, T. Forsell, Immigration hardliner seeks to lead Finland’s anti-EU party, in «Reuters», 14 marzo 2017.

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R. Milne, Split in Finland’s populist party saves governing coalition, in «Financial Times», 14 giugno 2017. 13  Eurodeputato dal 2014 e leader del Perussuomalaiset dal luglio del 2017. È stato membro del Parlamento finlandese dall’aprile 2011 al giugno 2014. 12 

7. Ungheria T. S. Pappas, Populist Democracies: Post-Authoritarian Greece and Post-Communist Hungary, in «Government and Opposition», 2014, 49, pp. 1-23. 2  Hungarian PM sees shift to illiberal Christian democracy in 2019 European vote, in «Reuters», 28 luglio 2018. 3  P. Blokker, Costituzionalismo populista, in Populismo di lotta e di governo, a cura di M. Anselmi, P. Blokker, N. Urbinati, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2018. 4  C. Mudde, Are Populists Friends or Foes of Constitutionalism?, accessibile al sito: www.fljs.org/sites/www.fljs.org/files/publications/Mudde_0.pdf. 5  P. Blokker, New democracies in Crisis? A comparative constitutional study of the Czech Republic, Hungary, Poland, Romania and Slovakia, Routledge, London, 2015. 6  Secondo il rapporto presentato dall’Europarlamento non ci sarebbe solo il mancato rispetto della magistratura, ma anche la messa in discussione della libertà della stampa o i principi fondamentali dei diritti umani degli immigrati. Il report completo approvato dal Parlamento Europeo il 12 settembre 2018 con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astensioni è reperibile hiip://www. europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+REPORT+A8-2018-0250+0+DOC+PDF+V0//EN. 7  Rule of Law: European Commission refers Poland to the European Court of Justice to protect the independence of the Polish Supreme Court European Commission, Press release, in «European Commission», 24 settembre 2018. 8  In un recente articolo comparso su «European society» si ricava una descrizione molto interessante della composizione dei sostenitori di Jobbik: vd. A. L. P. Pirro & D. Róna, Far-right activism in Hungary: youth participation in Jobbik and its network,  in «European Societies»,  2018, DOI: 10.1080/14616696.2018.1494292, per ora esiste solo in versione online. 9  P. Krekó, G. Mayer, Transforming Hungary-together? An analysis of the Fidesz–Jobbik relationship, in M. Minkenberg edited by, Transforming the Transformation? The East European Radical Right in the Political Process, Routledge, London, 2015, pp. 188-206. 10  M. Dunai, Hungary’s Jobbik party says might disband after second audit fine, in «Reuters», 9 febbraio. 11  Al momento dell’intervista, il 2 febbraio 2018, Gyöngyösi era vicecapogruppo in Parlamento e responsabile delle relazioni estere del partito, ma dopo le elezioni ungheresi dell’8 aprile ed in seguito alle dimissioni di Gabor Vona da presidente di Jobbik, Gyöngyösi è diventato capogruppo di Jobbik in Parlamento e vicepresidente esecutivo del movimento politico. 12  L’Università dell’Europa Centrale di Budapest è finanziata da Soros; per colpirlo il governo Orbán ha approvato una legge che disciplinava i finanziamenti stranieri delle università nazionali, obbligando le istituzioni educative straniere ad avere aree didattiche nel Paese di registrazione – che nel caso dell’UEC 1 

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sarebbero gli Stati Uniti. Dopo aver inizialmente valutato un trasferimento a Vienna, l’istituzione ha deciso di restare in Ungheria e di adeguarsi alle leggi ungheresi. Cfr. Ungheria, Soros sfida Orban: la sua università resta a Budapest, La Repubblica, 27/6/2018, accessibile al sito: hiip://www.repubblica.it/esteri/2018/06/27/news/ungheria_soros_sfida_orba_n_la_sua_universita_resta_a_ budapest-200159048/. 13  Tra l’11 e il 25 aprile 2010 si sono svolte le elezioni politiche, che hanno di fatto sancito l’ingresso in Parlamento di Jobbik  con 47 deputati grazie ad un risultato nazionale del 16,7%. 14  L. Bayer, Fine threatens Jobbik’s Hungarian election campaign, Politico, 8/12/2017, accessibile al sito: hiips://www.politico.eu/article/hungary-jobbik-viktor-orban-fine-threatens-jobbiks-hungarian-election-campaign/. 15  La Wage Union Initiative è stata lanciata proprio da Jobbik attraverso lo strumento, previsto dal trattato di Lisbona, del diritto d’iniziativa dei cittadini europei. Nel caso specifico l’obiettivo è l’armonizzazione degli stipendi dei cittadini europei. La conferenza presieduta per Jobbik da  Márton Gyöngyösi per l’Ungheria ha visto la partecipazione anche di rappresentanti politici di Estonia, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Croazia e Slovenia. 16  Nel giugno 2015, all’acme della crisi dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica, il governo ungherese ha dato il via libera al progetto di costruzione di una barriera alta 4 metri e lunga 175 chilometri sul confine con Serbia e Croazia. Il costo dell’opera, che è stata conclusa a metà settembre 2015, è stato di circa 100 milioni di euro. 17  La V4 è il Gruppo di Visegrad, una sorta di organizzazione internazionale informale composta da Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia, nata formalmente il 15 febbraio 1991 dopo un vertice svoltosi a Visegrad in Ungheria a cui presero parte il presidente cecoslovacco Vaclav Havel, quello polacco Lech Walesa e il primo ministro ungherese Joszef Antall. 8. Spagna A. Kioupkiolis, Podemos: the ambiguous promises of left-wing populism in contemporary Spain, in «Journal Of Political Ideologies», 21:2, pp. 99-120. 2  J. Sola & C. Rendueles, Podemos, the upheaval of Spanish politics and the challenge of populism, in «Journal of Contemporary European Studies», 2018, 26:1, pp. 99-116. 3  A. Bosco, Le quattro crisi della Spagna, il Mulino, Bologna, 2018, pp. 122-123. 4  C. J. Bickerton & C. Invernizzi Accetti, ‘Techno-populism’ as a new party family: the case of the Five Star Movement and Podemos, in «Contemporary Italian Politics», 10:2, pp. 132-150. 5  A. A. R. Casero-Ripollés, & S.Tormey, Old and New Media Logics in an Electoral Campaign: The Case of Podemos and the Two-Way Street Mediatization of Politics, in «The International Journal of Press/Politics», 2016, 21(3), pp. 378-397. 6  L. Orriols & G. Cordero, The Breakdown of the Spanish Two-Party System: The Upsurge of Podemos and Ciudadanos in the 2015 General Election, in «South European Society and Politics», 2016, 21:4, pp. 469-492. 7  T. Buck, Spain’s Podemos mourns losses at 2016 election, in «Financial Times», 28 giugno 2016. 1 

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Aumento del salario minimo e patrimoniale: in Spagna accordo tra socialisti e Podemos, La Repubblica, 11/10/2018, accessibile al sito: hiips://www.repubblica.it/esteri/2018/10/11/news/aumento_del_salario_minimo_e_patrimoniale_in_spagna_accordo_tra_socialisti_e_podemos-208702545/. 9  Terremoto Podemos, Errejon lascia il seggio, il Manifesto, 19 gennaio 2019. 10  Podemos si è rotto, Il Post, 23 gennaio 2019, accessibile al sito: hiips:// www.ilpost.it/2019/01/23/podemos-rottura-iglesias-errejon/. 11  Foundation linked to new party Podemos received €3.7m from Hugo Chávez, El Pais, 18 giugno 2014, accessibile al sito: https://elpais.com/elpais/2014/06/18/inenglish/1403082454_361529.html. 12  È uno dei cofondatori di Podemos, e tra il 2014 e il 2015 è stato Segretario del processo costituente e del programma. Tra il 2005 e il 2010 è stato consulente del governo venezuelano guidato da Hugo Chavez. 13  B. Manin, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna, 2010. 14  Cfr. Boaventura de Sousa Santos, A Reinuencá Solidária e ParticipaUva do Estado, Fundacáo Mário Soares-Edícáo Gradiva, Lisbona, 1998. 15  Cfr. B. Jessop, The State: Past, Present, Future, Wiley, New York, 2015. 16  Cfr. A. R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano,1995. 8 

9. Grecia T. Pappas, Populism and Crisis Politics in Greece, Palgrave, London, 2014. P. Graziano, Neopopulismi, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 64. 3  S. van Kessel, Populist parties in Europe. Agents of Discontent?, Palgrave, London, 2015, pp. 48-49. 4  K. Hope, Taming Greek oligarchs is priority for Syriza, in «Financial Times», 6 gennaio 2015. 5  Draghi «blocks» SYRIZA and Podemos wishes for refinancing by the ECB, Themanews, accessibile al sito: hiip://en.protothema.gr/draghi-blocks-syrizaand-podemos-wishes-for-refinancing-by-the-ecb/. 6  Y. Stavrakakis, G. Katsambekis, Left-wing populism in the European periphery: the case of SYRIZA, in «Journal of Political Ideologies», 2014, 19:2, pp. 119-142. 7  Y. Stravrakis, Populism in power: Syriza’s challenge to Europe, in «Juncture», 2015, 21, pp. 273-280. 8  C. Oliver, Alexis Tsipras wins vote backing Greece bailout, in «Financial Times», 16 luglio 2015. 9  C. Mudde, Syriza. The failure of the Populist promise, Palgrave, London, 2017, p. 16. 10  ANEL è un partito fondato da Panos Kammenos nel febbraio del 2012 quando un gruppo guidato proprio da Kammenos ha abbandonato Nuova Democrazia. 11  P. Aslanidis, C. Rovira Kaltwasser, Dealing with populists in government: the SYRIZA-ANEL coalition in Greece, in «Democratization», 2016, 23:6, pp. 1077-1091. 12  K. Hope, How Greece’s Alexis Tsipras went from firebrand to statesman, in «Financial Times», 24 gennaio 2019. 13  Capogruppo di Syriza al Parlamento greco, è stata eletta deputato nel gennaio 2015 e confermata nelle elezioni anticipate del settembre 2015. 1  2 

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Il 20 agosto 2018 la Grecia ha ricevuto l’ultima tranche da 15 miliardi del prestito e di fatto è entrata nella fase post-programma di recupero economico-finanziario. La nuova fase ha ottenuto il via libera dell’Eurogruppo nella riunione del 22 giugno 2018. La ripresa economica greca è stata certificata dalla Commissione Europea che nel bollettino pubblicato il 12 luglio 2018 ha previsto una crescita del PIL dell’1,9% nel 2018 e del 2,4% nel 2019. Cfr. European Economic Forecast. Summer 2018, accessibile al sito: hiips://ec.europa.eu/info/publications/economy-finance/european-economic-forecast-summer-2018-interim_en. 15  Nella notte tra il 12 e il 13 luglio 2015, dopo un negoziato di tredici ore, i leader europei trovarono un accordo con la Grecia per un nuovo prestito da 80 miliardi. L’accordo è stato poi votato in Parlamento, causando anche una frattura profonda all’interno di Syriza, con la fuoriuscita di fatto dal gruppo parlamentare di 49 deputati nell’agosto successivo. Senza maggioranza il primo ministro Alexis Tsipras fu costretto alle dimissioni dopo solo 8 mesi di governo. Ma il 20 settembre 2018 Syriza ha ottenuto comunque la maggioranza col 35,4% dei consensi ed ha potuto formare un nuovo governo di coalizione con il partito patriottico di estrema destra ANEL. 16  Il 5 luglio 2015 in Grecia si è svolto un referendum consultivo per chiedere agli elettori se erano a favore o contrari al piano di salvataggio economico del Paese proposto Commissione UE, BCE, FMI. Il «no» vinse con il 61,3% con un’affluenza del 62,5%. Nonostante il voto contrario, il primo ministro Alexis Tsipras si risiede al tavolo delle trattative, mentre il controverso ministro delle Finanze Varoufakis si dimette e al suo posto arriva Euclidis Tsakalotos. 17  Il 9 settembre del 2016 ad Atene si è svolto il vertice EuMed che ha visto attorno al tavolo, oltre alla Grecia, anche Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta e Cipro. Da allora con cadenza ciclica si svolgono vertici dei Paesi meridionali dell’UE ospitati ogni volta in una capitale differente. 18  Il 10 agosto 2016 la società cinese Cosco Group ha acquisito il 51% delle partecipazioni del porto del Pireo, un’operazione da 280 milioni di euro, che nel corso del 2015 era stata bloccata proprio dal governo Tsipras perché si stava svolgendo nel bel mezzo della discussione sul piano di salvataggio. Cfr. hiips:// www.reuters.com/article/greece-privatisation-port/chinas-cosco-acquires-51-pctstake-in-greeces-piraeus-port-idUSL8N1AR252. 19  La Conferenza per la Sicurezza e la Stabilità è un appuntamento che mette attorno ad un tavolo i rappresentanti di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo di Europa, Nord Africa e Medioriente. Il primo vertice si è svolto l’8 e 9 settembre 2016, il secondo il 22 e 23 maggio 2017, infine il terzo appuntamento si è svolto il 21-22 giugno 2018. 20  La strutture navali di Skaramanga sono gestite dalla società libanese Privinvest, ma anche in questo caso la cinese Cosco sarebbe interessata all’acquisto. 14 

10. Regno Unito 1  R. Ford, M. Goodwin, Revolt on the right. Explaining support for the radical right in Britain, Routledge, London, 2014. 2  H. Clarke, P. Whiteley, W. Borges, D. Sanders & M. Stewart, Modelling the dynamics of support for a right-wing populist party: the case of UKIP, in «Journal of Elections, Public Opinion and Parties», 2016, 26:2, pp. 135-154.

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K. Tournier‐Sol, Reworking the Eurosceptic and conservative traditions, in «J Common Mark Stud», 2015, 53, pp. 140-156. 4  R. Ford, M. J. Goodwin, and D. Cutts, Strategic Eurosceptics and polite xenophobes: Support for the United Kingdom Independence Party (UKIP) in the 2009 European Parliament elections, in «European Journal of Political Research», 2012, 51, pp. 204-234. 5  Con una breve interruzione di circa 10 mesi tra il novembre 2009 e il settembre 2010, quando alla leadership venne eletto Lord Malcolm Pearson of Rannoch, membro della Camera dei Lords.  6  J. Stanyer, C. Archetti, L. Sorensen, The United Kingdom: Hybrid Populisms, Mixed Fortunes, and Unstable Support, in Populist Political Communication in Europe, edited by T. Aalberg et al., Routledge, Oxford, 2016, pp. 165-177. 7  M. J. Goodwin, Forever a False Dawn? Explaining the Electoral Collapse of the British National Party (BNP), in «Parliamentary Affairs», 2013, 67: 4, pp. 887-906; E. A. Morrow, & J. Meadowcroft, The Rise and Fall of the English Defence League: Self-Governance, Marginal Members and the Far Right, in «Political Studies», 2018, hiips://doi.org/10.1177/0032321718777907 pubblicato solo online. 8  R. Ford, and M. Goodwin, Understanding UKIP: Identity, Social Change and the Left Behind, in «The Political Quarterly», 2014, 85, pp. 277-284. 9  Nigel Farage resigns as Ukip leader after ‘achieving political ambition’ of Brexit, 4 luglio 2016, in «The Guardian», accessibile al sito: hiips://www. theguardian.com/politics/2016/jul/04/nigel-farage-resigns-as-ukip-leader. 10  La decisione viene annunciata con una lettera dello stesso Nigel Farage al Daily Telegraph. Cfr.  With a heavy heart, I am leaving Ukip. It is not the Brexit party our nation so badly needs, 4 dicembre 2018, accessibile al sito: hiips:// www.telegraph.co.uk/politics/2018/12/04/heavy-heart-leaving-ukip-not-brexitparty-nation-badly-needs/; Nigel Farage quits Ukip over its anti-Muslim ‘fixation’, in «The Guardian»,  4 dicembre 2018. 11  Eurodeputato eletto nelle liste dello UKIP, è presidente del gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta, ex leader dell’Ukip, che ha guidato tra il 2006 e il 2009 e tra il 2010 e il 2016. 12  Nigel Farage è stato eletto al Parlamento Europeo il 10 giugno 1999, quando per la prima volta nella sua storia lo Ukip mandò a Strasburgo ben tre deputati grazie ai 696.000 voti ottenuti alle urne. 13  Nigel Farage fa qui confusione: il voto del Parlamento Europeo per l’allargamento dell’Unione si è tenuto il 9 aprile 2003. In quell’occasione Farage fece questo intervento: «Signor Presidente, i Paesi candidati hanno una cosa in comune, vale a dire sono tutte democrazie molto giovani. Alcuni di essi sono ex colonie britanniche, mentre altri, appena un decennio fa, erano sotto il regime sovietico. Di essi alcuni una volta facevano parte dell’impero austroungarico, che era noto come Völkerkerker, ossia ‘prigione delle nazioni’. Adesso proprio la classe politica di questi nuovi Stati membri vuole entrare a far parte della nuova prigione delle nazioni, l’Unione Europea. Per le classi dirigenti, i politici e i funzionari pubblici si tratta di un ottimo affare, che per loro comporterà considerevoli aumenti di retribuzione, mentre per la popolazione in generale significherà un ritorno proprio al sistema di controllo centralizzato e antidemocratico da cui è appena uscita. Sarà la popolazione a pagare il prezzo delle ambizioni dei suoi dirigenti. Per questo motivo, voterò contro l’adesione di tutti e dieci i Paesi. Queste democrazie emergenti meritano di meglio. A giudicare da 3 

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ciò che ho visto nel referendum maltese, il quadro che viene prospettato è del tutto falso, con l’unica conseguenza che negli anni a venire si creerà un clima di dissenso e di conflittualità».  Cfr. hiip://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc. do?pubRef=-//EP//TEXT+CRE+20030409+ITEM-003+DOC+XML+V0// IT&language=it&query=INTERV&detail=3-060. 14  In realtà gli interventi a cui fa riferimento Farage sono dell’aprile e del maggio 2015. Per la precisione il primo si tenne il 29 aprile 2015, durante la discussione sulla «Relazione del Consiglio Europeo straordinario (23 aprile 2015) – Recenti tragedie nel Mediterraneo e politiche UE in materia di migrazione e asilo». Il secondo intervento invece è del 20 maggio 2015, sempre durante una plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, in occasione del dibattito sull’Agenda europea sulla migrazione.  15  Il 4 luglio 2016, a meno di due settimane dalla clamorosa vittoria al referendum sulla Brexit, Nigel Farage si è dimesso da segretario dello UKIP dichiarando alla BBC «Rivoglio la mia vita». Da quel momento è iniziato per il partito nazionalista britannico un periodo quantomeno agitato: alla guida dello UKIP si sono succeduti ben 5 segretari, ma tra risse all’Europarlamento e scandali come le dichiarazioni razziste di una fidanzata di Henry Bolton contro Meghan Markle, il partito non si è più ripreso. Anzi, nelle elezioni del 2017 è letteralmente evaporato passando dai 3,8 milioni di voti del 2015 a 594mila. 16  Il Primo Ministro scozzese e leader dello Scottish national party, il partito nazionalista scozzese. 17  Il referendum sull’indipendenza della Scozia si è svolto il 18 settembre del 2014 con un’affluenza dell’86,4% degli aventi diritto. Il «no» all’indipendenza ha vinto col 55,25% (2.001.926 voti), il «sì» ha ottenuto il 44,65% (1.617.989 voti). Per un report completo della consultazione si veda la documentazione sul sito dell’ufficio elettorale britannico: hiips://www.electoralcommission.org. uk/__data/assets/pdf_file/0010/179812/Scottish-independence-referendum-report.pdf. 18  È stato il Primo Ministro scozzese tra il 2007 e il 2014, colui che ha promosso il referendum sull’indipendenza scozzese. Il 19 settembre 2014, dopo la sconfitta alla consultazione referendaria, ha annunciato che avrebbe lasciato l’incarico sia di Primo Ministro scozzese sia di leader del SNP. Cfr. hiips://www. bbc.com/news/uk-scotland-29277527. 19  Il 7 giugno 2001 l’Irlanda attraverso un referendum respinse il trattato di Nizza con il 53,1% (l’affluenza alla consultazione fu del 34,8%). Un anno e mezzo dopo, il 19 ottobre 2002, si tornò di nuovo alle urne con una serie di correttivi sul testo iniziale ed una serie di concessioni all’Irlanda, e a quel punto il trattato di Nizza venne approvato dal 62,9% dei votanti, peraltro l’affluenza salì fino al 49,5%. Un’analoga situazione si verificò con l’approvazione del trattato di Lisbona sette anni dopo: in occasione del primo referendum, il 12 giugno 2008, il 53,2% dei votanti si espresse contro (affluenza del 53,1%), un anno dopo, il 2 ottobre 2009, il risultato venne ancora una volta ribaltato con l’approvazione del trattato col 67,1% (e affluenza in crescita: 59%). Per tutte le statistiche sui voti referendari irlandesi si può consultare il sito della Commissione per i referendum: hiips://www.refcom.ie/previous-referendums/. 20  In occasione del referendum sulla Brexit a Gibilterra l’affluenza è stata dell’83,7%. Il «remain» ha ottenuto il 95,9% dei voti, mentre per il «leave» si è espresso solo il 4,1% dei votanti. Per i risultati del referendum del 23 giugno 2016 vd. hiips://www.electoralcommission.org.uk/find-information-by-subject/

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elections-and-referendums/past-elections-and-referendums/eu-referendum/electorate-and-count-information.  21  Eurodeputato tedesco eletto nelle liste della CDU e componente del PPE, il riferimento è ad un intervento che Brok ha tenuto il 13 marzo 2018 a Strasburgo durante una discussione sul tema «Orientamenti sulle future relazioni tra l’Unione Europea e il Regno Unito» hiip://www.europarl.europa.eu/sides/ getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+CRE+20180313+ITEM-003+DOC+XML+V0//IT&language=it&query=INTERV&detail=2-015-000. 22  Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull il 23 febbraio 2018 ha incontrato alla Casa Bianca il presidente statunitense Donald Trump. Tra i temi toccati nel bilaterale ovviamente c’è stata anche la spinosa questione dei dazi su alluminio e acciaio. In realtà la vicenda si è risolta qualche giorno dopo, quando Trump in un tweet del 10 marzo ha confermato di aver parlato con il premier australiano annunciando che non ci sarebbero stati dazi nei confronti di Canberra. 23  La mia battaglia continua, May non crede nella Brexit, in «Giornale di Brescia», 14 dicembre 2017.

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DENTRO LA STORIA collana diretta da Fulvio Cammarano

Maurizio Ridolfi, Italia a colori. Storia delle passioni politihe dalla caduta del fascismo ad oggi. Gennaro Carotenuto, Todo cambia. Figli di desaparecidos e fine dell’impunità in Argentina, Cile e Uruguay. Leonardo Campus, Non solo canzonette. L’Italia della Ricostruzione e del Miracolo attraverso il Festival di Sanremo. Arcadi Espada, L’autentica impostura. Giorgio Perlasca e gli eroi dell’ambasciata di Spagna nella Budapest occupata. Hans Kundnani, L’Europa secondo Berlino. Il paradosso del potere tedesco. Paul J. Weindling, Vittime e sopravvissuti. Gli esperimenti nazisti su cavie umane. Antonio Fiori, Il nido del falco. Mondo e potere in Corea del Nord. Eddy Anselmi, Bianca, rosa e nera. Cent’anni di storia d’Italia nella cronaca popolare. Teresa Bertilotti, Caro Presidente. Gli italiani scrivono al Quirinale (1946-1971). Emma Schiavon, Dentro la guerra. Le italiane dal 1915 al 1918. Riccardo Brizzi – Nicola Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930-2018). Valeria Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e le persecuzioni contro gli ebrei. Carlo Muzzi, Euroscettici. Quali sono e cosa vogliono i movimenti contrari all’Unione Europea.

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