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Italian Pages 240 Year 2010
MARCO DE PAOLI
Etiopia, lontano dall’Occidente Un pezzo di vita e uno studio storico e antropologico Vol. II
MIMESIS
© 2010 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www. mimesisedizioni. it / www. mimesisbookshop. com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 E-mail: mimesised@tiscali. it Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: info. mim@mim-c. net In copertina: Axum, Parco delle Stele: una stele
INDICE
I VOLUME
PREMESSA FROM ETHIOPIA LO SPETTACOLO DELLA POVERTÀ IMPUDICA BAMBINI, LA SOLITA STORIA di Maria Maddalena Cusati IL GOURRI E LA DANZATRICE ETIOPE IL CIRCO, LA MUSICA, LA DANZA DI MARIA MADDALENA CUSATI GLI ANGELI DI GONDER E LA RELIGIOSITÀ ETIOPICA INSEGNANTI IN ETIOPIA ANTROPOLOGIA DEL CIBO: INVITO A PRANZO IN ETIOPIA VIAGGIARE IN ETIOPIA ETIOPIA ORIENTALE, UN VIAGGIO E QUALCHE NOTA SU RIMBAUD
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9
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15
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17 41
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p. 59 p. 85 p. 93 p. 105 p. 121
I POPOLI DELLA DANCALIA E DELLA VALLE OMO
p. 133
GLI AFAR DAL MAR ROSSO ALL’INFERNO DELLA DANCALIA LA MADRE TERRA E IL CIELO AVARO DEI BORANA I LACCI DELLA FAMIGLIA E DELLA PARENTELA E LE CERIMONIE DI PASSAGGIO: LA FRUSTA DEGLI HAMER IL RE DEI KONSO, I SUOI WAGA E IL TOTEM LA DECADENZA DEL “SELVAGGIO” E LA SUA SCOMPARSA
p. 135 p. 169 p. 231 p. 305 p. 355
II VOLUME SULLA STORIA DELL’ETIOPIA ANTICA
p. 399
LA CIVILTÀ DI AXUM DALLA RELIGIONE ASTRALE ALLA RELIGIONE EBRAICA E CRISTIANA
L’OFFENSIVA ISLAMICA ASCESA E CADUTA DELLA DINASTIA ZAGWE: LALIBELA E L’ARTE RELIGIOSA ETIOPICA LA CERCA DEL “PRETE GIANNI” E LA LOTTA FRA CRISTIANESIMO E ISLAMISMO
SULLA STORIA DELL’ETIOPIA MODERNA IL DOPPIO VOLTO DEL COLONIALISMO ITALIANO L’ETIOPIA COMUNISTA DI MENGHISTU, L’ERITREA E L’IDEOLOGIA IMPERIALE NOTA SUL RITORNO DELL’OBELISCO APPENDICI ECCIDIO AD ADDIS ABEBA YEMEN: APPUNTI DI VIAGGIO UNA LETTERA A SORPRESA di Maria Maddalena Cusati
p. 403 p. 443 p. 469 p. 483 p. 531 p. 533 p. 571 p. 601 p. 605 p. 607 p. 617 p. 627
SULLA STORIA DELL’ETIOPIA ANTICA
Una vista sull’altopiano etiopico
I monti Semien
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LA CIVILTÀ DI AXUM DALLA RELIGIONE ASTRALE ALLA RELIGIONE EBRAICA E CRISTIANA
In tempi molto lontani le coste del Mar Rosso (da un lato l’attuale costa yemenita e dall’altro la costa eritrea e somala) costituivano la mitica Arabia felix, la Terra di Punt, la Terra degli Dèi. Descritta da Eratostene, da Strabone, da Diodoro Siculo, da Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale e da Tolomeo nella sua Geografia, la Terra degli Dèi era nota come fonte inesauribile di ricchezze. Le carovane di dromedari insieme con gli schiavi portavano oro, pietre preziose, perle, incenso, mirra, cannella, spezie, aromi, profumi, unguenti, caffè, stoffe, sete, ebano, avorio, corna di rinoceronte, animali esotici, in un incessante commercio di importazione e esportazione da un lato nel Mediterraneo con il mondo egizio e greco, attraverso centri come Palmira (attuale Siria) e Petra (attuale Giordania), e dall’altro in Oriente con l’India e la Cina attraverso la Persia. A Sana’a, l’attuale capitale dello Yemen ove interi quartieri sono dediti al suq, al mercato, vi sono ancora alcuni antichi caravanserragli un tempo deposito di merci e ostelli per le carovane. I faraoni, che dai tempi più remoti cercavano di scendere più all’interno del continente africano dove infine annessero il regno di Nubia, a partire dalla V dinastia inviavano per via di terra o per mare lungo il Mar Rosso parecchie spedizioni nella Terra di Punt alla ricerca di beni preziosi, come testimoniano alcuni geroglifici: in particolare un bassorilievo egizio, situato sulla facciata del portico del tempio di Hatcheput (XVIII dinastia, II millennio a.C.) nella valle delle necropoli e dei templi dell’antica Tebe (Luxor), illustra una spedizione e rappresenta anche la regina di Punt; un altro bassorilievo, scoperto dal grande archeologo Mariette nel 1858 e ora conservato al Museo Egizio del Cairo, illustra il Re di Punt insieme alla sua sposa. Varie tracce rivelano questo contatto fra la civiltà egiziana e le culture del Mar Rosso. Sembrano infatti di origine egizia, o quantomeno connessi alla civiltà egizia in uno scambio in cui è difficile distinguere chi prende e chi dà, vari oggetti in uso in Etiopia come alcuni strumenti musicali, la tipica sedia abissina, il poggiatesta usato per dormire in modo da non rovinare le elaborate pettinature, le canoe di papiro
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(le tanqwas), molto funzionali anche se duravano pochi mesi, ancora usate dai pescatori del lago Tana e identiche a quelle raffigurate nei geroglifici egizi. Soprattutto, gli altissimi obelischi nel nord dell’Etiopia rivelano un probabile influsso egizio. Infine, alcune pratiche di mummificazione, che abbiamo visto ancor oggi in uso presso il “re dei Konso”, sembrano rivelare una connessione con l’antichissima civiltà egizia. Pur non potendosi affatto escludere che l’influsso culturale si sia in realtà originariamente orientato dal cuore dell’Africa verso l’area mediterranea egizia e non viceversa, rimane indubbio l’elemento di civilizzazione costituito dalla penetrazione egizia nell’entroterra africano e lungo le coste del Mar Rosso. Vari regni popolavano allora l’interno della costa araba nell’attuale Yemen e ne controllavano i commerci, riscuotendo dazi al passaggio e proteggendo le carovane dagli attacchi dei beduini. Fra tutti il regno per lungo periodo più ricco e potente fu l’antichissimo regno dei Sabei, di lontane origini semitiche: la capitale del regno sabeo, Mari’ib, conserva ancor oggi le tracce di un antichissimo tempio alla Luna (II millennio a.C.) e di un posteriore tempio al Sole (VIII sec. a.C.). La triade astrale oggetto di venerazione, di evidente derivazione dai culti astrali mesopotamici di Ninive e di Babilonia (esistono del resto iscrizioni assire che ricordano i regni yemeniti), era costituita dalla divinità della Luna (Almaqah), del Sole (Dhat Himyam) e della “stella del mattino e stella della sera” ovvero Venere (Athtar o Astarte). Nei musei di Sana’a sono custoditi vari altari sacrificali sabei, rilievi di divinità femminili nonché − interessantissimi − i rilievi scultorei dell’ibex, lo stambecco sacro le cui corna avvolte a spirale poco hanno di naturalistico essendone invece cosmologica la simbologia. Ma il regno sabeo è particolarmente famoso per la regina di Saba (IX secolo a.C.) ricordata, dall’Antico Testamento (Primo Libro dei Re, 10 1-13) e dal Corano (Sura della formica e Sura di Saba) che la denomina Bilkis, per il suo incontro con il sapientissimo re Salomone che, secondo una tradizione araba, avrebbe infine sposato1. I Sabei vivevano principalmente nel deserto, ma si trattava allora di un deserto ricco di oasi e di palme attraver1
La leggenda della regina di Saba colpì l’immaginario occidentale: il suo viaggio venne raffigurato nella scultura dell’Antelami al Battistero di Parma, del Ghiberti al Battistero di Firenze, e nella pittura di Piero della Francesca ad Arezzo; la sua apparizione su un elefante a S. Antonio venne variamente dipinta da Grünenwald a Brueghel fino ad un quadro di Dalì del 1946 e descritta da G. Flaubert in La Tentation de Saint Antoine. V’è anche il racconto di André Malraux, l’autore di La condition humaine, che sorvolò in aereo lo Yemen credendo (a torto) di aver rintracciato la “città perduta” della mitica regina (A. Malraux, La reine de Saba. Une «aventure géographique», 1934, ora Paris 1993, Gallimard).
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so cui passavano tutte le merci e tutte le ricchezze del mondo, poiché essi lo seppero pienamente rivitalizzare con la costruzione nei pressi di Mari’ib, proseguita per secoli, di un grandioso e gigantesco complesso di dighe (di cui la principale era lunga 720 metri, larga 60, alta 35) che raccoglievano le acque che si precipitavano dagli altopiani durante la stagione delle piogge, smistandole in un complesso e avanzato sistema di canali artificiali di irrigazione. Si trattava all’epoca di un portento ingegneristico, di cui oggi rimangono solo le rovine. Ma destino di tutti i regni del mondo è passare e anche il regno di Saba declinò, secondo il Corano per la disastrosa rottura della diga principale avvenuta nel 570 a.C. Il crollo della grandiosa diga, visto come una punizione divina nel Corano, dovette segnare il principio della fine di quella civiltà. Altri regni yemeniti (come quello degli Himyariti) divennero potenti. Molte popolazioni emigrarono sull’altra sponda del Mar Rosso, nell’attuale Eritrea e Etiopia. I greci, che fin dai tempi omerici fanno riferimenti all’Etiopia (Iliade XXIII 275-278 e Odissea I 35-40), chiamavano l’uomo abitante quelle terre “etiope” (aitiops), termine col quale ne designavano la “faccia bruciata”, bruciata dal sole. L’Etiopia era immaginata nell’antichità come una terra lontana e pericolosa, che portava ben oltre la terra di Punt verso contrade misteriose. Erodoto nelle sue Storie la definisce «l’ultima delle terre abitate» (III 114), oltre la quale non si sa cosa vi sia (IV 40) se non gli antropofagi di cui dicono varie voci (IV 106). Egli aggiunge che gli abitanti di questa terra parlano una lingua diversa da tutte le altre ed «emettono strida come i pipistrelli» (IV 183,4). Eppure, in quella terra lontana e misteriosa fiorì (nel nord dell’Etiopia e nell’attuale Eritrea) la civiltà axumita: nata probabilmente nel III sec. a.C. e sviluppatasi nel I millennio d. C. nel nord dell’Etiopia, la civiltà axumita è senz’altro, dopo la civiltà egiziana, la maggiore civiltà dell’Africa e sicuramente una delle più interessanti del mondo antico. Anche se recenti tendenze storiografiche − per lo più di parte etiopica e nazionalista − ipotizzano l’origine autoctona, africana, della civiltà di Axum, appaiono più fondate le tesi storiografiche che vedono l’origine della civiltà axumita e pre-axumita nell’immigrazione, successiva alla fine del regno sabeo, di popolazioni semitiche dalla penisola sud-arabica al di là del Mar Rosso: esse, fondendosi con l’elemento autoctono camitico (formato dalle popolazioni nere che si volevano discendenti da Cam, il terzo dei figli di Noè) e più generalmente cuscitico, diedero vita nei primi secoli avanti Cristo al grande impero di Axum. Già la civiltà pre-axumita di Yeha risalente al VI
Rovine di Yeha
Museo Nazionale di Sana’a (Yemen): lo stambecco sacro
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secolo a.C., le cui rovine si trovano a un centinaio di chilometri a nord-est di Axum, fu probabilmente fondata da mercanti e navigatori poi colonizzatori provenienti dall’Arabia meridionale. Questo sembra dimostrare il “Tempio della Luna”, che sorge in un recinto sacro cui si accede attraverso una scalinata e un portico in pietra: le rovine delle mura in arenaria, fatte da grandi blocchi uniti con precisione millimetrica, sono di chiara impronta yemenita, mentre i vicini grandi pilastri monolitici di Grat Beal Gebri sono simili alle colonne del tempio yemenita della Luna a Mar’rib; parimenti il rilievo degli ibex che, tratto dalle pietre dell’antico tempio, si trova nella chiesa di Abba Afsé rimanda allo stambecco sacro dell’Arabia meridionale, alla cui cultura rimanda anche nella stessa chiesa una pietra incisa in lingua sabea. Per quanto riguarda invece la vera e propria civiltà di Axum, le sculture sulla cima degli obelischi rimandano al culto astrale di origine sabea e mesopotamica rivolto alla Luna, al Sole, a Venere. Anche certe antiche tracce di canali e di sistemi di irrigazione artificiale, che si trovano nel Tigray e mancano più a sud, sembrano connesse agli antichi sistemi idraulici artificiali che furono una delle meraviglie del regno sabeo. Infine, l’origine araba e semitica appare comprovata dall’uso (rilevato dalle iscrizioni) del sabeo e poi del ge’ez: l’antica lingua tuttora usata nella liturgia ortodossa è una variante, derivata dal sabeo, del ceppo semitico comprendente l’arabo e l’ebraico anche se poi la scrittura, priva di articoli, per influsso della lingua greca è stata adottata in direzione da sinistra a destra con parallela introduzione di segni supplementari indicanti la pronuncia per giungere infine, in epoca cristiana, all’introduzione della vocalizzazione. Il ge’ez è strettamente legato alle lingue tigrina e tigrè, attualmente parlate dalla popolazione eritrea e nord-etiopica ove fiorì la civiltà axumita, e da esso deriva sostanzialmente la lingua amarica, un po’ come l’italiano è una volgarizzazione del latino, sebbene nell’amarico appaiano anche lontane ascendenze afroasiatiche per via di migrazioni giunte dall’oriente. L’origine semitica del popolo etiopico, o almeno del popolo amhara, è comprovata (oltre che dagli usi religiosi su cui si tornerà) anche dalla prassi di origine semitica di dare al figlio (non solo al primogenito come in ambito arabo ma a tutti i figli comprese le femmine) il nome paterno o “patronimico” − non il cognome − come secondo nome. Non si può dunque dubitare che la civiltà axumita, derivata dalla penisola sud-arabica al di là del Mar Rosso, sia stata una lontana filiazione del regno yemenita sabeo che la precedette di circa settecento o ottocento anni. I semiti immigrati o invasori si fusero con la popolazione autoctona, e da questa fusione vennero il tipo tigrino e amhara: il termine di origine araba habesha (abissino) deriva secondo alcuni da Habashat, che designa
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una popolazione sud-arabica emigrata in Africa, e secondo altri significa “miscuglio” ricordando l’originario miscuglio etnico fra semiti e indigeni da cui venne il tipo abissino. Tuttora nell’Africa orientale si sottolinea con orgoglio la peculiarità del tipo antropologico abissino. Gli etiopi e gli eritrei in effetti ricordano il tipo semitico, non senza certe vicinanze al nilotico e sahariano settentrionale: sono generalmente di statura abbastanza alta e rivelano tratti somatici piuttosto regolari, con viso allungato, capelli lisci, labbra sottili, pelle non molto scura. Non si ritengono neri, e in effetti il loro tipo non è il “nero” propriamente detto diffuso fra le popolazioni più a sud, che rivela generalmente una più bassa statura, corporatura più tozza, pelle scura, naso piatto, capelli lanosi e labbra carnose. Insomma gli etiopi sembrano essere a metà strada fra il bianco, ovvero l’uomo del nord (la cui pelle chiara assimila più vitamina D produttrice di calcio) e il nero (più ricco di vitamina D e la cui pelle è scura per l’abbondanza di melanina che protegge dai raggi solari ultravioletti). Gli etiopi si ritengono tutt’oggi “bianchi” fra i neri dell’Africa, a cui non vogliono essere assimilati, mentre noi ai loro occhi siamo i “volti rosa” (un po’ come i “visi pallidi” nella denominazione degli indiani d’America). Non a caso negli affreschi delle chiese etiopi il diavolo e i dannati sono spesso raffigurati neri o scuri. Il regno axumita era guidato dal Negus Neghesti. “Negus” in amarico significa “guida”, “via”, mentre nella lingua sud-arabica nagasa è più prosaicamente “colui che riscuote il tributo”: cosicché il Negus è il re e il Negus Neghesti è il Re dei re, in termini occidentali l’imperatore, a cui i singoli re e ras locali debbono fedeltà, obbedienza e tributi. Come comprovano antiche iscrizioni il regno di Axum, emerso fra i popoli circostanti tramite alleanze o sottomissioni, pur con alterne vicende si estese nel periodo del suo massimo splendore, dal II sec. a.C. al III sec. d.C., a nord fino alla valle del Nilo, con la sottomissione nel IV secolo d.C. dell’antico regno nubiano e cuscita di Meroe nell’attuale Sudan (i cui faraoni neri costruttori di piramidi erano giunti a dominare l’Egitto fra l’VIII e il VII sec. a.C.)2, e parimenti si estese ampiamente a sud verso l’entroterra africano nonché su entrambe le coste del Mar Rosso, sia nell’attuale Eritrea grazie all’importante porto di Adulis sia nell’Arabia meridionale che era la terra originaria di provenienza. L’impero axumita, che dominava queste aree cruciali ed era commercialmente legato sia al mondo indiano e orientale sia a quello egizio e greco, nel III secolo d.C. era considerato dal profeta Mani come la quarta potenza mondiale (dopo gli imperi persiano, romano e orienta2
A. Orlando, Faraoni neri. Il regno di Meroe tra dominazione egizia e cristianesimo, Torino 2004, Ananke.
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le). Dopo quella egiziana vi si diffuse, attraverso contatti e commerci, la cultura greca, soprattutto in età ellenistica: la lingua greca, testimoniata da iscrizioni, era ampiamente parlata ed era la lingua ufficiale a corte; si traducevano opere dal greco e l’autore del Periplo del Mar Rosso, un anonimo manoscritto greco risalente al I sec. d.C., narra del sovrano axumita versato nella letteratura greca. Anche la religione greca penetrò nel regno axumita: lo dimostra una stele del II sec. a.C. in cui un imperatore axumita, narrando le sue conquiste, dice di aver fatto sacrifici a Zeus, Ares e Poseidone; lo dimostrano iscrizioni greche in cui Mahrem, dio dei Re e della Guerra, appare come Marte mentre Poseidone sembra la traduzione del dio Beher. Un’antica leggenda dice financo che una volta all’anno gli dèi greci si trasferivano dall’Olimpo ai monti Semien per banchettare e giocare con i pezzi sulla scacchiera con le divinità etiopiche, per poi rovesciare tutta la scacchiera e i suoi pezzi sulla terra squassandone e frantumandone le montagne e spezzando l’altopiano etiopico con canyons e precipizi. La caratteristica universalmente nota della civiltà axumita sono i suoi famosi obelischi (di probabile influsso egizio) ancor oggi visibili ad Axum, che in realtà sono delle stele funerarie spesso gigantesche per lo più fatte in pietra basaltica simile al granito, per lo più collocabili nei primi secoli prima e dopo Cristo. Abbiamo visto che in tutta l’Etiopia sono diffuse le stele funerarie di varia datazione e provenienza. Tuttavia in questi casi si tratta di piccole società di agricoltori-guerrieri, mentre invece ad Axum le stele diventano altissimi obelischi che rivelano un regno potente, superbo ed evoluto. Nei siti si vedono attualmente una cinquantina di stele-obelischi, ma un tempo dovevano essere molte di più. In particolare vi è ad Axum (oggi rovesciata) la grande Stele, che con i suoi 33 metri era non solo il più alto di questi obelischi ma anche il più grande monolite del mondo, più alto ancora dell’obelisco egizio del Laterano. Gli antichi portavano questi enormi e pesantissimi blocchi di granito senza romperli, trasportandoli da cave distanti alcuni chilometri: ancor oggi ad Axum, a sette chilometri dal parco delle stele, si può vedere un gigantesco monolite scavato nella roccia dalla quale avrebbe dovuto essere staccato per trasformarsi in una nuova, colossale stele. Quasi tutte le stele-obelischi di Axum sono innalzate, come a voler raggiungere il cielo, sulle vicine tombe sotterranee di potenti personaggi reali. Sotto, la realtà della morte e dello spazio vuoto, il regno tellurico e ctonio delle Madri, la scala in discesa che come in una discesa agli inferi, come in una katabasis, conduce nel corridoio buio e poi all’oscura cavità uterina, da cui si dipartono le stanze a più camere un tempo riccamente ornate (e
Axum, Parco delle stele: una alta (e celeberrima) stele. Si confronti la straordinaria somiglianza (quale riprova dell’universalità del tema al tempo stesso antropomorfico e cosmologico) fra la parte superiore della stele, che con significato simbolico riproduce la volta del cielo, con la testa della stele di Taponecco della Lunigiana (v. fig. in vol. I, p. 337).
Axum, Parco delle stele: la “Grande Stele” in rovina
Nei pressi di Axum: stele del campo di Gudit
Axum: entrata alla tomba di re Bazen In questo caso però, come nel successivo (tomba di Kaleb), le tombe sono posteriori (VI sec. d. C.) e non affiancate e collegate ad un obelisco.
Axum: interno della tomba di re Kaleb
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ormai depredate) con le tombe; sopra, quale diniego e occultamento di quella realtà di disfacimento e di morte, lo slancio ascensionale, l’obelisco che vuol lasciare la tomba e la terra per raggiungere il cielo. Una lettura in chiave psicoanalitica (più adleriana che freudiana) potrebbe indubbiamente vedere in questi grattacieli dell’antichità dei simboli fallici atti a compensare il senso di insufficienza e l’impotenza reale di fronte alla morte: come se quella civiltà volesse dare l’assalto al Cielo solo per sfuggire alla terra, come se volesse affermare i valori patriarcali solo per sfuggire all’abbraccio della Madre Terra. Gli obelischi infatti presentano talora alla base, oltre ad un’ara in pietra volta verso il Sole e dotata di cavità atte a raccogliere (come dice un’iscrizione) il sangue sacrificale dei tori e dei prigionieri di guerra, anche una finta porta con significato simbolico straordinario quale emblematico luogo di passaggio all’Aldilà: si pensi al dio Ianus, dio della Soglia e della Porta, si pensi alla Porta del poema di Parmenide, alla Porta del Sole e della Luna che si stagliano misteriosamente isolate in un arido terreno nel Perù, si pensi alla Porta del Canova nel monumento funebre a Maria Cristina d’Austria. E siccome si vede anche una finta porta in pietra quale simbolico accesso alla scalinata che conduce alle tombe, allora simbolicamente parlando abbiamo due tipi di Porta opposti ma simmetrici e complementari: l’una che conduce alla katabasis, in basso nella tomba ove il corpo è destinato al disfacimento; l’altra che conduce lo spirito del defunto alla anabasis, in alto attraverso l’obelisco verso il cielo. La moderna archeologia, tutta presa dalle sue misurazioni stratigrafiche e geologiche, ormai da tempo non sa più cogliere il significato simbolico di questi obelischi, le cui due porte conducono il corpo al suo destino in basso nella tomba e lo spirito in alto verso il cielo. Gli obelischi, che si stagliano a fianco delle tombe, appaiono da un lato quali dardi di fecondante luce solare piovuti o scagliati dal cielo, splendenti raggi pietrificati e conficcati nella terra dall’alto in basso; dall’altro lato (al contrario ma in modo complementare) appaiono invece luoghi di ascensione simbolica dal basso verso l’alto e di ritorno purificatorio al cielo del potente personaggio defunto, la cui ascesa viene compiuta attraverso successivi livelli e passaggi dello spirito rappresentati sulla superficie del monolite con vari blocchi, dotati di finte finestre, a piani successivi (9 nel caso della stele più alta) che sembrano richiamare le progressive sfere celesti. In tal modo la stele-obelisco diventa un tramite ed un collegamento fra Cielo e Terra, come l’albero che affonda le radici nel terreno ma svetta verso il cielo. L’obelisco è una specie di ascensore verso il cielo che intende sfuggire alla tomba in terra. Il significato astronomico (oltre che funerario) di questi monoliti, la cui ombra calcolata in lunghezza consentiva misurazioni temporali, è evidente: infatti
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la loro sommità è un arco rappresentante la volta celeste recante i simboli delle divinità astrali di origine yemenita e mesopotamica, ovvero la falce lunare montante simbolo del dio lunare Almaqah e il disco solare simbolo del dio Dhat Himyam.3 L’elemento semitico ravvisabile nella civiltà axumita, attraverso la discendenza sabea, rimanda anche all’elemento più specificamente e più direttamente ebraico. In questo senso va considerata la leggenda, riferita dallo storico ebreo di lingua greca Giuseppe Flavio, di Mosè che avrebbe sposato la figlia del Re degli etiopi dopo averli sconfitti alla testa di un’armata egiziana. Ma ancor più significativa è la leggenda riferita dal Kebra Nagast (“Gloria dei Re”), tradizionale poema epico etiopico scritto in ge’ez e risalente al XIV secolo: esso, probabilmente composto sotto il regno di Amda Sion da uno o più sacerdoti axumiti (ci è stato tramandato il nome di Yeshaq), aveva lo scopo di celebrare la gloria antica dei Re e, riprendendo una precedente tradizione per la quale già il Re Ezana nel IV secolo d.C. annoverava fra i suoi titoli quello di “Re di Saba”, faceva risalire la civiltà axumita direttamente alla mitica regina di Saba4. Per gli etiopi che la denominano Makeda, il regno di Saba sarebbe stato qui, poi continuato − come vuole la leggenda etiopica − da Menelik I, figlio della regina di Saba e del re Salomone. Menelik I avrebbe portato da Gerusalemme (trafugandola o ricevendola in dono dal padre) l’Arca dell’Alleanza, ovvero la preziosa urna contenente le Tavole della Legge mosaica, in un significativo passaggio di consegne dall’ormai indegno popolo ebraico a quello etiopico. Si spiegherebbe così il mistero dell’Arca scomparsa da Gerusalemme: l’Arca non sarebbe stata distrutta da Nabucodonosor che rase al suolo Gerusalemme nel 587 a.C., né sarebbe scomparsa in altro modo, ma fu portata ad Axum da Menelik I che la fece custodire nella chiesa di S. Maria di Zion (Zion appare 152 volte nell’Antico Testamento come nome per Gerusalemme), inaccessibile perfino agli imperatori e severamente sorvegliata da un monaco che sul letto di morte designa il custode successore. I sovrani etiopi vengono così esaltati nel Kebra Nagast come i continuatori della antica dinastia ritenuta salomonica.5
3 4 5
V. il confronto con il semicerchio superiore della stele antropomorfa della Lunigiana in vol. I, p. 337. Il Kebra Nagast è stato tradotto in italiano dall’etiopista O. Raineri (Roma 2008, Fondazione Riva). J. Doresse, Au Pays de la Reine de Saba. L’Ethiopie Antique et Moderne, Paris 1956, Guillot.
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Naturalmente quella del Kebra Nagast è una leggenda, sebbene già il re Ezana nel IV secolo si facesse chiamare “re di Saba”. In realtà, come si è detto, la regina di Saba non ha mai costituito in Etiopia il suo regno, che stando ai dati biblici e archeologici precedeva di settecento o ottocento anni il ben più tardo regno axumita. Tuttavia la storia dell’Arca dell’Alleanza custodita nel santuario di Santa Maria ad Axum è stata congegnata bene perché, essendone la sua vista rigorosamente proibita, nessuno potrebbe mai dimostrare se l’Arca vi sia o non vi sia: detto in termini popperiani, l’esistenza dell’Arca sarebbe infalsificabile per principio. Infatti il custode dell’Arca risponde a chi gli chiede se lì v’è davvero l’Arca: «se credi è inutile che mi chieda se l’Arca c’è davvero, e se non credi lascia stare». Il che equivale a dire: se lo credi, e solo se lo credi, l’Arca c’è. Infatti la leggenda dice che se anche un profano osasse mai entrare nel santuario, l’Arca si renderebbe invisibile, il che significa che l’Arca c’è per definizione anche se il santuario risultasse vuoto perché tale sarebbe solo per il profano. Se uno entrasse nel santuario e dicesse che in esso non c’è nulla, dimostrerebbe soltanto agli occhi del credente di essere un profano: un paradosso logico degno di Bertrand Russell, come il paradosso del barbiere o del mentitore. Un’altra paradossale leggenda connessa è quella che vuole cieco il monaco addetto alla sorveglianza dell’Arca: se egli è cieco, non potrà mai vedere se l’Arca c’è veramente o no. Sottigliezze degne della migliore tradizione scolastica, ma va comunque detto che qualcosa c’è nella chiesa axumita: infatti un’arca lignea rivestita in pesante oro massiccio è stata vista e fotografata di nascosto (si dice per la distrazione del sacerdote preposto) da parte di un architetto italiano, partecipante ad una campagna scavi ad Axum e chiamato per una consulenza in previsione di lavori al tetto della chiesa, che da allora ha compiuto ricerche in proposito e pubblicato un libro6. In ogni modo la storia dell’Arca e di Menelik ha potuto fungere quale legittimazione e fondamento storico dell’impero etiopico nei secoli e ancora compare in tale funzione nella costituzione voluta nel 1931 (e su tal punto riconfermata nel 1955) dall’ultimo imperatore d’Etiopia Haile Selassie7. Tuttora le guide ad Axum mostrano con assoluta convinzione quello che secondo loro è il bagno della regina di Saba (in realtà era un grande serbatoio d’acqua), e tuttora i sacerdoti additano con orgoglio la chiesa contenente l’Arca.
6 7
G.C. Infranca, L’Arca dell’Alleanza. Il tabernacolo di Dio, Roma 2008, Gangemi. Costituzione Etiopica (tr. it. e commento di E. Cerulli), Roma 1936, Istituto per l’Oriente.
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Tuttavia le leggende hanno quasi sempre un residuo storico: e lo sfondo storico della tarda rivisitazione etiopica del racconto biblico dell’incontro fra il re Salomone e la regina di Saba, il cui figlio avrebbe portato in Etiopia le tavole della Legge e con esse la religione ebraica, consiste nell’indubbia realtà di un incontro storico fra la cultura axumita di lontana origine semita, sabea e sudarabica da un lato e dall’altro la religione ebraica. La religione ebraica, nonostante l’elemento semitico di provenienza, non attecchì profondamente nel regno sabeo ove vigevano culti di origine mesopotamica: non a caso l’Antico Testamento contiene una continua polemica in difesa del monoteismo contro i culti politeistici cui indulgevano gli ebrei. Invece secoli dopo la religione ebraica portata nel regno axumita dall’elemento semitico, dapprima in una mescolanza ibrida con l’elemento mesopotamico e successivamente attraverso una graduale sostituzione, prese infine saldamente piede. Ma anche in terra araba dovette in parte avvenire qualcosa di simile, se è vero che nel Corano la Sura della formica parla sia del matrimonio della regina di Saba con il re Salomone sia della conversione della regina al monoteismo ebraico. Così in Etiopia la componente non soltanto genericamente semita, ma anche specificamente ebraica, divenne alla fine preminente. Non si capisce in altro modo il peso, altrimenti incomprensibile nel cuore dell’Africa orientale, svolto nella storia e nella cultura etiopica ed eritrea dalla religione ebraica. Gli etiopi, pur nelle contaminazioni storiche, appaiono veramente in buona misura gli “ebrei d’Africa”: ancor oggi del resto il Leone di Giuda è il simbolo dell’Etiopia. Fin dai tempi più antichi e poi in seguito, per via della diaspora successiva alle numerose tragedie ebraiche (fuga dall’Egitto, caduta di Gerusalemme e distruzione del tempio da parte di Nabucodonosor, conquista della Palestina da parte di Pompeo nel 64 a.C., distruzione di Gerusalemme da parte dei Flavi nel 70 d.C., repressioni sanguinose ordinate da Adriano nel 136 d.C.), l’incessante esodo ebraico portò masse di fuggiaschi dal Sinai, attraverso il Mar Rosso e le sue coste, da una parte giù lungo l’Egitto e il Sudan e dall’altra parte nella penisola sudarabica e poi nella costa orientale africana, per entrambe le vie raggiungendo infine l’Etiopia. Il termine dispregiativo falasha, che in amarico indica gli ebrei etiopi, deriva dal ge’ez e significa “emigrante”, “esule”, “sradicato”, “senza terra”, mentre gli etiopi si denominavano e tuttora si denominano Beta Israel, “casa di Israele”. Probabilmente gli ebrei dovettero pensare che la mitica e favolosa terra di Punt, ricca di pascoli e ricchezze, fosse o potesse diventare la loro Terra Promessa: forse addirittura l’esodo mosaico nella terra promessa, che secondo la Bibbia comportava l’attraversamento della penisola del Sinai e del Mar Rosso, aveva proprio come meta le due rive del
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Mar Rosso e la Terra di Punt in terra araba e etiopica. Sappiamo che molte comunità esuli o nomadiche trovarono ospitalità nel regno axumita, ed esse certamente portarono la propria cultura, la propria religione, la propria visione del mondo. Così, anche stante la costante diaspora da Gerusalemme, il flusso migratorio semitico proveniente fin dai tempi più lontani dalla penisola arabica e dalla costa sudanese comprese anche la componente più specificamente ebraica, e la componente semitica divenne sempre più marcatamente ebraica. Le comunità dei commercianti e dei navigatori ebrei si insediarono da una parte sulle rive del Mar Rosso nell’attuale Yemen, dall’altra parte nell’Africa orientale e particolarmente in Etiopia: essi diedero vita a floride colonie dedite al commercio, economicamente ricche e politicamente potenti, e la comunità ebraica in Etiopia divenne e rimase per secoli importante e consistente. Queste comunità diffusero fra le tribù, in particolare fra gli Agaw di razza e lingua cuscita, la religione ebraica e infine fecero dell’ebraismo la religione dominante di quasi tutta l’Etiopia nordoccidentale. In tal modo le migrazioni e i contatti commerciali e culturali fra civiltà ebraica e axumita introdussero l’elemento ebraico e la sua cultura. Tuttavia la religione ebraica importata nell’Africa orientale, e in parte anche nella penisola sudarabica, per via del lungo esodo aveva perso molti referenti della religione dei padri, di cui erano ignoti i successivi sviluppi: tuttora i falasha parlano il ge’ez e non conoscono l’ebraico, così come non conoscono il Talmud e in genere la letteratura ebraica post-biblica. La loro era una arcaica religione veterotestamentaria, a quanto sembra legata all’apocrifo Libro dei Giubilei, che faceva propria l’antica prescrizione della circoncisione rituale, ed era connessa ad una cosmologia parimenti arcaica (se si pensa alle coeve acquisizioni greche) che immaginava la Terra piatta e poggiante sulle acque, mentre la luce delle stelle e la pioggia giungevano dall’alto attraverso apposite aperture nel cielo. Questa religione e questa cosmologia, risalente al più antico fondo veterotestamentario ed ignara dell’ebraismo successivo, venne poi ulteriormente contaminata nelle tribù Agaw con elementi politeistici e riti sacrificali. Questo è, a quanto possiamo comprendere, lo sfondo e il residuo storico della leggenda narrata dal Kebra Nagast. Sembra che ancora nel XVII secolo i falasha fossero in Etiopia più di un milione, il che ne spiega il grande peso nella storia del paese. L’importanza ebraica in Etiopia fu tale che l’impero negusita (l’impero dei Negus) poté qualificarsi, nella diaspora ebraica e in mancanza di una patria ebraica, come il vero Israele e come il nuovo popolo eletto: non a caso ancora Mussolini, prima di adottare nel 1938 il programma razziale nazista, vagheggiò per un certo tempo di risolvere il problema ebraico fondando un piccolo Stato israelita che avrebbe dovuto avere la
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sua sede naturale proprio in Etiopia. Solo dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1949 migliaia di ebrei (e decine di migliaia di ebrei yemeniti sull’altra sponda del Mar Rosso) lasciarono con un ponte aereo l’Etiopia (o lo Yemen) per la nuova patria, cosa che per gli ebrei etiopi si ripeté nel 1985 e poi nel 1991 all’epoca della caduta del regime di Menghistu, ma a tutt’oggi in Etiopia vi sono circa 100.000 ebrei. Del resto ancora in Ruanda, prima del massacro del 1994, si chiedeva l’esilio forzato dei Tutsi, ritenuti di origine nilotica e semita, auspicandone il “ritorno a casa” in Etiopia.8 Con la declinazione sempre più ebraica dell’immigrazione semitica un diverso principio spirituale si introdusse nella cultura axumita, e questo diverso principio spirituale minò dall’interno la civiltà di discendenza sabea fondata su una religione astrale di tipo mesopotamico, accelerandone il processo di crisi interiore. Spengler ha mostrato che le civiltà nascono, crescono e decadono anzitutto per svolgimento interno quasi come organismi naturali, e anche la decadenza della civiltà axumita era inscritta nel suo fato. Questo declino, come sempre avviene nella crisi di una civiltà, fu dovuto con ogni probabilità alla crisi e alla perdita della propria forma interiore, del proprio principio spirituale. L’emblema di questa crisi e di questa decadenza fu il crollo degli orgogliosi monoliti di granito. Essi erano in realtà giganti i cui piedi d’argilla poggiavano sugli ampi spazi vuoti delle sotterranee camere mortuarie, ancora in gran parte inesplorate, di cui tutta la terra sottostante rigurgitava. Questo sottosuolo friabile e ampiamente vuoto alla lunga non poteva reggere il peso dei mastodontici obelischi ed essi infine crollarono quasi tutti uno dopo l’altro, in una sorta di orrenda castrazione che lasciava impietosamente scoperta solo la realtà originaria, la nuda e spoglia terra che copre il vuoto tombale. Non fu soltanto l’ingiuria del tempo, il suo semplice scorrere e passare: secondo gli archeologi la grande stele, che come si è detto con i suoi 33 metri era il più grande monolite del mondo, molto probabilmente crollò nel IV secolo d.C. proprio nel momento stesso in cui veniva innalzata spezzandosi in quattro parti. Sembra che con questo crollo, interpretato come infausto presagio (come già il crollo delle dighe sabee) e come riprova della chiusura ermetica delle porte del cielo che quei monoliti sembravano sfidare, sia cessata la costru8
Cfr. D. Kessler - T. Parfitt, The Falashas: The Jews of Ethiopia, London 1985, Minority Rights Group; W. Leslau, Coutumes et croyances des Falachas (jufs d’Abyssinie), Paris 1957, Institut d’ethnologie; D. Friedmann, Les Enfants de la Reine de Saba. Les Juifs d’Éthiopie, Paris 1994, Mètailié; J. Quirin, The Evolution of the Ethiopian Jews: a History of the Beta Esrael to 1920, Philadelphia 1992, University Press.
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zione dei monoliti e con essa sia iniziato il declino della antichissima cultura axumita. Un altro di questi grandi obelischi, che per le dimensioni (24 metri di altezza) costituiva la seconda stele funeraria fra le tante di Axum, giaceva esso pure al suolo smembrato in cinque parti (sottratto durante l’occupazione fascista e restituito nel 2005 all’Etiopia, ora il monolite è stato rieretto ad Axum9). Quasi tutti i grandi monoliti giacciono ora infranti al suolo, a pezzi come tanti giocattoli, tanti burattini rotti e disarticolati, in uno scenario di rovine impressionante e desolato: ad Axum (a parte la stele riportata e recentemente rieretta) da secoli vi era una sola grande stele-obelisco rimasta in piedi, alta 21 metri, e paurosamente inclinata come le altre più basse. L’antica civiltà axumita compì dunque il suo ciclo, realizzando ed esaurendo la propria forma interiore e il proprio principio spirituale e infine, ancor prima dell’avvento di fattori esterni, morì di morte naturale con il crollo dei suoi simboli che, precludendo il cielo ai potenti defunti, li condannava a stare giù, per sempre sepolti nella fredda e buia terra. Tuttavia, se era terminato un ciclo − il ciclo axumita di lontana derivazione sabea e di religione mesopotamica − non per ciò era finita la storia di Axum. Gli ebrei infatti introdussero nel regno axumita non soltanto l’antica religione veterotestamentaria dei loro padri, alla lunga destinata a minare e dissolvere dall’interno la religione astrale di origine mesopotamica, ma anche introdussero, con le prime conversioni, la nuova ed “eretica” religione cristiana che si era sviluppata dal seno della religione dei padri ed in polemica con il “fariseismo” legalistico di questa. Un’altra importante fonte − probabilmente ancora più importante − del cristianesimo in Etiopia dovettero essere le relazioni, non solo commerciali, con l’impero bizantino. Il cristianesimo si andava diffondendo nel mondo mediterraneo e medioorientale, a partire dall’Egitto che fu paese di antichissima tradizione cristiana. Secondo la tradizione l’evangelista Marco vi predicò e vi subì il martirio, e tuttora si mostrano lungo le sponde del Nilo i luoghi (spesso sedi di edifici sacri) in cui avrebbe dimorato la sacra famiglia durante la fuga in Egitto narrata dal Vangelo. In Egitto fiorirono (II sec. d.C.) i grandi autori gnostici (Basilide, Valentino, Carpocrate) mentre sempre più si diffondeva il dualismo di origine persiana; in Egitto nacque la teologia cristiana alessandrina che aveva i suoi massimi esponenti (II - III sec.) in Clemente Alessandrino (vescovo di Alessandria) e in Origene, che cercarono di fondere la teologia biblica con la filosofia neoplatonica greca; ad Alessandria la scuola dei Settanta approntò la famosa traduzione greca del9
Sulla nota vicenda rimando al capitolo “Nota sul ritorno dell’obelisco”.
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la Bibbia. In Egitto furono particolarmente cruente le persecuzioni romane di Decio e Diocleziano fra il III e il IV secolo, che causarono centinaia se non migliaia di martiri cristiani. Anche per questo molti asceti si rifugiarono nel deserto, e l’Egitto divenne il luogo di nascita del monachesimo: particolamente importanti furono il messaggio dell’eremita Antonio (III - IV sec.), i cui ideali monastici furono diffusi dalla biografia del patriarca Atanasio, e importante fu la successiva regola per i monasteri (molti dei quali tuttora visibili) scritta in copto da Pacomio (IV sec.) che, tradotta in latino da Gerolamo sulla base di una traduzione greca, influenzò la regola benedettina e tutto il monachesimo occidentale. Fin dai primi secoli del cristianesimo si sviluppò in Egitto una grande letteratura (che va dai testi del Corpus Hermeticum fra il I e il III secolo a quelli di Nag Hammadi del IV) ricca di venature manichee, gnostiche, neoplatoniche, e di reminiscenze della sapienza egizia. Tutta l’antica cultura copta − testimoniata da stele funerarie, codici, manoscritti, affreschi, preziosi tessuti in lino decorati e pregevoli lavori in ebano e avorio − rivela in epoca cristiana una lunga permanenza (come mostrano i reperti del Museo copto del Cairo e del Museo greco-romano di Alessandria) di antichi simboli “pagani” e financo egizi, visibili (fino a tarda età) nei fregi con scene di pesca e di animali come leoni e gazzelle che replicano le antiche raffigurazioni nelle tombe egizie, nonché nei tardi bassorilievi e tessuti in lino con raffigurazioni dionisiache di vendemmia e rappresentazioni di Orfeo e Euridice, di Leda e il Cigno, di Pan e le Baccanti. Ma spesso proprio qui, attraverso una reinterpretazione di questi simboli, in una lunga convivenza e in un peculiare intreccio, avviene il passaggio ad una simbolica più propriamente cristiana: così il mito egizio della morte e resurrezione di Osiride e la millenaria pratica dell’imbalsamazione del faraone in attesa della sua resurrezione hanno indubbiamente lasciato una traccia nell’idea cristiana di resurrezione, mentre il culto della dea Iside, raffigurata iconograficamente mentre allatta il dio Horus (e per questo già denominata “Madre di Dio” in epoca faraonica), si ritrova nell’iconografia della Vergine col Bambino; al tempo stesso l’antica croce ansatica egizia diventa la croce cristiana che sorregge la sfera del mondo, la barca solare egizia diventa in un bassorilievo la barca che porta la croce, mentre la piena annuale del Nilo per secoli sarà celebrata dai cristiani d’Egitto come da tutto il popolo. Parimenti per quanto riguarda la mitologia e la religione greca: la conchiglia di Afrodite diventa nei bassorilievi il prezioso contenente della croce, la ghirlanda di alloro e di fiori che ornava il capo del poeta greco diventa la ghirlanda che orna la croce, l’uva e i tralci di vite di Dioniso che resuscita come Osiride diventano nelle raffigurazioni il simbolo della “vigna del Signore”. L’influsso greco è peraltro
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evidente anche nella lingua scritta: il copto (ormai da secoli usato solo nella liturgia) deriva infatti dal demotico ma la sua forma scritta, pur derivata dall’antica scrittura geroglifica egizia, trovò espressione in un adattamento dell’alfabeto greco. Né la diffusione del cristianesimo era limitata all’Egitto. Il cristianesimo infatti si andava diffondendo in mediooriente, e del resto la stessa politica dell’impero cristiano di Bisanzio favoriva la costituzione e la diffusione di regni cristiani, sebbene poi questi a volte si staccassero dall’ortodossia bizantina: così divenne cristiano il regno di Ghassam, situato vicino alla Palestina, che comprendeva al suo interno le antiche città di Petra e Palmira; “cristianissima” era detta la Siria, ove sulla via di Damasco nel deserto S. Paolo si convertì e iniziò a predicare il Vangelo, ove Simeone lo stilita, come altri asceti del tempo, visse quarant’anni su una colonna, e ove l’imperatore di Bisanzio Teodosio fece costruire una grande basilica in cui si conservava (e tuttora si dice sia conservata) la reliquia della testa del Battista. Parimenti il cristianesimo si diffuse in Africa, in quello che era stato l’antico regno nubiano e cuscita di Meroe: infatti nell’Antico Testamento (Salmi 68.31) si dice che «il paese di Kush tenderà le sue mani a Dio», anche se la versione greca dei Settanta genererà un equivoco perché tradurrà «l’Etiopia tenderà le sue mani a Dio» (la versione latina dice invece, con congiuntivo esortativo: Ethiopia extendat manus suas ad Deum) così identificando il paese di Kush con l’Etiopia; parimenti negli Atti degli Apostoli (VIII 26-39) si ricorda l’evangelizzazione compiuta da S. Filippo, che avrebbe convertito un eunuco etiope (di religione ebraica) ministro della regina di Etiopia Candace, quando invece “Candace” non era un nome di persona bensì il titolo onorifico designante la regina di Meroe10. Invero nella Bibbia il nome “Etiopia” compare ben 66 volte, ma per esso si deve in realtà intendere nella maggior parte dei casi il regno cuscita e nubiano di Meroe. La cristianizzazione della Nubia, che avvenne a partire dal V secolo, fu comunque un processo piuttosto lento e contraddittorio e non del tutto spontaneo, in quanto fortemente voluta prima dall’impero romano ormai cristianizzato e poi nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano che fece chiudere l’ultima pertinace roccaforte dell’antica religione egizia, il tempio di Iside a File poi divenuto basilica cristiana: epicentro del cristianesimo nubiano fu il monastero copto di S. Simeone (risalente al VII secolo), che sarà distrutto dal Saladino nel 1173.
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A. Orlando, Faraoni neri. Il regno di Meroe tra dominazione egizia e cristianesimo, cit., p. 50, 99, 91.
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Anche in Etiopia il cristianesimo si diffuse molto precocemente, costituendovi una delle forme più antiche della cristianità: la tradizione etiope ricorda l’evangelizzazione di S. Matteo; secondo una tradizione occidentale uno dei Re Magi sarebbe venuto dall’Etiopia; secondo un’altra la Sacra Famiglia nella sua fuga in Egitto si sarebbe fermata per un certo periodo in un’isola del lago Tana (ove ancora oggi nei pressi di una chiesa in un’isola, donde si scorge una splendida vista del lago, si mostrano le orme che si vuole siano state lasciate dall’asinello e la roccia su cui sedette la Vergine). Infine, secondo quanto riferisce lo storico Rufino di Aquileia (Historia Ecclesiastica, I 9-10), nei primi decenni del IV secolo («tempore Costantini») due giovani cristiani provenienti dalla Siria, Aedesius e Frumentius, sbarcati sulle coste del mar Rosso, furono fatti schiavi dopo l’assassinio di Meropius, il parente mercante che li portava seco. Liberati dall’imperatore Ella Amida, essi restarono alla corte predicando il cristianesimo. In seguito Aedesius tornò a Tiro ma Frumentius divenne consigliere e tesoriere dell’imperatore e poi, dopo la sua morte, coreggente con l’imperatrice fino alla maggiore età dell’erede al trono Ezana; infine, giunto dal patriarca di Alessandria Athanasius per sollecitare l’invio di un vescovo cristiano ad Axum, Frumentius ne venne direttamente investito come primo vescovo cristiano, come abuna. Il regno axumita così adottò nel 332 d.C. con Ezana, il Costantino di Etiopia, la nuova religione cristiana quale religione ufficiale dello Stato e Frumentius costruì ad Axum una grande basilica cristiana, la prima dell’Africa sub-sahariana11. Ezana rafforzò con successo il regno di fronte alle spinte centrifughe che lo laceravano: a nord sconfisse i Begia e annientò il nubiano impero rivale di Meroe. Le sue gesta sono narrate in due stele con iscrizioni trilingue (greco, arabo e ge’ez) rinvenute ad Axum. La prima, attualmente visibile in un tukul di Axum, rende grazie a Dio e celebra le campagne vittoriose di Ezana sulle coste della penisola arabica e narra la deportazione dei sottomessi Begia. La seconda, originariamente e significativamente collocata all’ingresso di Axum (e ora visibile nel “giardino di Ezana”), testimonia la conversione di Ezana al cristianesimo e narra, non si sa quanto buono agli occhi della divinità, il massacro dei Noba: «Li inseguii continuamente per 23 giorni, uccidendo e catturando e razziando dovunque dimorassi; mentre le mie genti uscite a razziare riportavano prigionieri e bottino io incendiavo i loro villaggi in muratura ed in 11
A. Kammerer, Essai sur l’histoire antique d’Abyssinie, le Royaume d’Axum et ses voisins d’Arabie et du Meroe, cit., e J.B. Coulbeaux, Histoire politique et religieuse de l’Abyssinie, Paris 1929, Geuthner.
Axum: iscrizione di re Ezana
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paglia mentre depredavano i loro cereali, il loro bronzo, il loro ferro ed il loro rame e distruggevano gli idoli delle loro case ed i magazzini di cereali e di cotone e li precipitavano nel fiume Sedà. Molti furono quelli che morirono nelle acque né se ne conosce il numero; e [le mie genti] affondavano le imbarcazioni di quelli, essendo esse piene di gente: donne ed uomini». Ad maiorem gloriam Dei. Il passaggio alla nuova religione, probabilmente favorito dalla necessità di un’alleanza con l’impero di Costantinopoli, non avvenne senza tracce di contaminazioni che probabilmente rivelavano la consapevole volontà di una continuità col passato: così in una delle due iscrizioni di Ezana il “dio del cielo”, che prima indicava Astarte, indica ora il Padre celeste cristiano, e ancora nel 678 d.C. in una traduzione dell’Ecclesiaste dal greco in ge’ez la parola “Dio” è tradotta con Astarte. Questa contaminazione di elementi astrali mesopotamici con la religione cristiana, come già in precedenza con la più arcaica religione ebraica, era visibile anche nelle monete axumite in cui a un certo punto comparve il simbolo della croce in aggiunta agli antichi simboli astrali del Sole e della Luna. Il mercante alessandrino Cosma, detto Indicopleuste per i suoi viaggi in India, avendo fatto tappa in Etiopia verso il 525 d.C. prima di continuare il suo viaggio, tornato in patria e divenuto monaco eremita cristiano, inserì il regno axumita nella sua Topographica Christiana in dodici volumi. Essa era volta a riproporre anacronisticamente contro gli astronomi greci l’idea della Terra piatta e financo rettangolare, contenente un unico continente a forma di monte, circondato dall’oceano con quattro colonne sostenenti il cielo e racchiuso da mura costituenti un tabernacolo secondo la descrizione mosaica. La diffusione progressiva del cristianesimo nelle lande dell’Africa orientale, fino alla sua adozione ufficiale ad Axum al posto della religione veterotestamentaria ebraica, causò in tutti i numerosi “ebrei d’Africa” ligi alla religione dei padri una viva opposizione alla nuova religione percepita come rivoluzionaria ed eversiva. Con l’avvento del cristianesimo nell’impero negusita quale religione di Stato il rapporto fra ebraismo e cristianesimo si rovesciò e i falasha rappresentanti dell’antica ortodossia ebraica vennero discriminati. La punizione per il rifiuto alla conversione fu l’esproprio delle terre (falasha significa anche “senza terra”), ed esso in poche generazioni riportò gli ebrei alla loro condizione originaria trasformandoli da ricchi mercanti in affittuari o braccianti salariati e più spesso in fabbri, falegnami, tessitori, vasai, tintori, artigiani e piccoli mercanti, tutti lavori considerati infimi e servili. Gli ebrei si ritirarono in maggioranza in una zona isolata fra il lago Tana e i monti Semien: ancor oggi, nei pressi di Gonder, esiste un piccolo e povero villaggio, Wolleka, dove i pochi discendenti degli ebrei non rientrati in Israele nel XX secolo (le loro case sono
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riconoscibili perché segnate con la stella di Davide) commerciano oggetti di artigianato piuttosto dozzinale. Da tempo essi hanno cessato di essere i ricchi mercanti che furono. Le comunità falasha non accettarono il passaggio del regno axumita alla religione cristiana, né tantomeno accettarono le discriminazioni a cui si trovarono sottoposte, cosicché ne venne una resistenza al nuovo sistema. Questo portò in certi periodi della storia abissina a stati di conflittualità acuta in cui i falasha vennero duramente perseguitati e le loro sinagoghe distrutte. I cristiani da parte loro, soprattutto dopo l’ufficializzazione del cristianesimo da parte dell’imperatore Ezana, si sentivano una sorta di nuovo popolo eletto: «l’abissino si considera il popolo eletto − scrive L. dei Sabelli − in sostituzione degli Ebrei, decaduti a seguito del deicidio dall’antico privilegio»12. Soprattutto a partire dal VI secolo si moltiplicarono nel regno axumita i segni tangibili della diffusione della religione cristiana. Gli eremiti non si accontentarono più solo delle grotte e, a un centinaio di chilometri a nord di Axum, vennero costruiti fra il V e il VI secolo d.C. i primi monasteri cristiani ad opera dei cosiddetti “nove santi”, esuli di probabile origine siriana perseguitati dalla chiesa bizantina e provenienti da Costantinopoli, da Antiochia e dall’Asia minore o forse dal deserto dell’alto Egitto. Essi, e con essi i primi cristiani che dopo Frumenzio importarono il cristianesimo in Etiopia, furono i monofisiti che dopo la condanna del concilio di Calcedonia (451 d.C.) cercarono salvezza in Egitto e in Arabia, donde poi il passaggio in Etiopia. Da qui in poi i monasteri, o almeno i più importanti fra essi, svolsero un ruolo fondamentale nella vita intellettuale, politica e religiosa del paese. Il più antico monastero etiopico è il monastero di Debre Damo: esso fu costruito, secondo la tradizione, sotto gli auspici dell’imperatore Gebre Meskel da Za-Mikael Aragawi, uno dei “nove santi” rappresentante il più intransigente monachesimo anacoreta. Il santo volle il monastero sul tavolato costituito da un’alta amba (un altopiano) del Tigray a un centinaio di chilometri da Axum, in un luogo a 2800 metri di altezza e in cima ad una parete rocciosa verticale circondata da dirupi a picco alta 24 metri. La leggenda dice che l’arcangelo Gabriele costrinse un gigantesco serpente a penzolare con la sua coda dall’alto del dirupo in modo che l’anacoreta potesse salire fin lassù saldamente avvinghiato alla coda come ad una corda (abbiamo visto che in molta cultura etiopica v’è l’immagine del “buon serpente”). La leggenda dice anche che furono costruite delle scale di pietra per portare sulla cima del tavolato i materiali da costruzione e che poi esse, ultimata la costruzione, furono demolite per sancire una situazio12
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 245.
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ne di non ritorno e di rottura definitiva con il mondo. A tutt’oggi si giunge al monastero solo attraverso l’uso di corde: i profani vi sono issati, ma i monaci − anche anziani o semiciechi − senza fatica si arrampicano con le mani sulla cima semplicemente aggrappati alla fune. Il grande monastero di Debre Damo (la cui attuale costruzione risale probabilmente al X secolo) divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Etiopia, abitato per secoli da migliaia di monaci dediti all’allevamento di pecore e capre: tuttora conserva pregevoli soffitti intarsiati e intagliati in legno e decorati con figurazioni geometriche e rappresentazioni di animali, nonché un centinaio di preziosi e antichi manoscritti miniati. Anche l’eremita Pantalewon, un altro dei “nove santi” dell’Etiopia, si ritirò su una piccola amba in cima ad un pinnacolo, appena fuori Axum: egli visse, alla maniera di certi anacoreti orientali come Simon del deserto, per ben 43 anni in un pozzo che fu la sua cella, in cui secondo la leggenda rimase sempre in piedi. Sul sito fin dal VI secolo fu costruita una chiesa cristiana da cui deriva quella attualmente ancora visibile. Sempre nei pressi di Axum e poco più lontano, un altro dei “nove santi”, Abba Liqanos, perseguiva anch’egli la sua intransigente ricerca della solitudine e della pace mistica su un altro pinnacolo con in cima una piccola amba, ove sulle rovine di un tempio axumita pre-cristiano fece costruire una chiesa anch’essa tuttora visibile. Sotto l’impulso del cristianesimo, si sviluppava la letteratura religiosa13: a partire dal V secolo i monaci tradussero dal greco e anche dal copto in ge’ez i testi sacri, compresi parecchi testi cosiddetti apocrifi e apocalittici che essi (contrariamente alla chiesa cattolica e alla greco-ortodossa) consideravano canonici (come il Libro di Enoch, l’Apocalisse di Esdras, l’Ascesa di Isaia e altri ancora), i cui originali sono per lo più scomparsi. Nacquero così i preziosi manoscritti antichi in ge’ez, con le copertine rilegate in legno, spesso ricoperto di pelle, riccamente illustrati con miniature e redatti su pergamena (ovvero su carta ottenuta dalla pelle di animale, solitamente pecora, secondo una lavorazione di essiccazione originaria della città di Pergamo a partire dal II sec. a.C.). Nel V secolo venne tradotto e adattato dal greco il Physiologos, un bestiario (ma parla anche di pietre e alberi) probabilmente alessandrino risalente alla fine II sec. d.C., carico di simbolismi cristiani e in seguito ampiamente diffuso in occidente: vi troviamo la fenice che risorge dalle ceneri come simbolo della resurrezione, il pellicano che nutre col proprio sangue i piccoli come simbolo del sacrificio di Cristo, il serpente quale simbolo anche positivo perché muta la propria pelle rigenerandosi, la volpe diabolicamente astuta che devasta le vigne del 13
I. Guidi, Storia della letteratura etiopica, Roma 1932, Istituto per l’Oriente.
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Signore, la salamandra che attraversa indenne il fuoco, la rondine che sopporta nascosta l’inverno per ricomparire in primavera, la colomba simbolo dello spirito santo, nonché animali immaginari come la sirena suadente, l’onocentauro dal volto umano ma dal corpo asinino, l’unicorno etc.14 In questo testo si dice fra l’altro che «il redentore venne dal cielo ai giudei, ma deviò da essi la manifestazione della propria divinità verso i pagani che noi eravamo»15. In tutto l’Oriente (dall’Armenia alla Siria alla Grecia a Costantinopoli e anche nell’estremo oriente) si diffuse una letteratura cristiana fatta di racconti, leggende, martirologi, biografie romanzate, narrazioni evangeliche apocrife e spesso venate di gnosticismo (come ad esempio il racconto sull’imperatore Tiberio convertito al cristianesimo a cui l’evangelista Giovanni disegna l’immagine di Gesù, o le due lettere attribuite a Gesù di cui parla anche Eusebio16), in un coacervo di rimandi, richiami, mutui prestiti, traduzioni arricchite di ampliamenti e rifacimenti che spesso passavano attraverso il ge’ez etiopico e poi rifluivano in occidente. Certo questi antichissimi testi non sono rimasti indenni nella traduzione etiope: essi sono sempre stati emendati, purgati e rivisti nei secoli (fino a tempi recenti), in modo da renderli conformi alla dottrina della chiesa etiopica e anche delle singole e varie tendenze religiose diffuse nel paese. Per questo ovviamente non si può ingenuamente dire che il cristianesimo etiopico, per quanto antico, sia rimasto nei secoli lo specchio fedele e incontaminato del più antico e “vero” cristianesimo: anch’esso invece ha conosciuto la sua storia e le sue modificazioni. Tuttavia anche le modificazioni, le interpolazioni, le censure nei testi non devono essere viste soltanto come una posteriore stratificazione incongrua da eliminare per riandare al testo “vero”: anch’esse infatti sono documenti storici, testimonianti la forma peculiare assunta dal cristianesimo nel Corno d’Africa. Il cristianesimo etiopico, indiscutibilmente, mantiene un evidente sfondo ebraico. Ancor oggi, segno fra molti del persistente influsso della reli-
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Il testo, già tradotto in italiano e commentato da C. Conti Rossini nel 1951, ha in anni più recenti avuto un’edizione critica inglese e francese ad opera di C. Sumner, già docente di Filosofia all’Università di Addis Abeba: cfr. l’edizione francese in Philosophie ethiopienne et textes classiques, Addis Abeba 1991, Rotary Club Projet PolioPlus, 2 voll., vol. I, pp. 29-85 (ringrazio per la comunicazione Rodolfo Rini, già preside dell’Istituto Italiano Galileo di Addis Abeba). Sumner ha anche raccolto in traduzione francese le Poesies ethiopiennes, Addis Abeba 1976-1978 (3 voll.), Ministère de la Culture. Physiologos, in Philosophie ethiopienne et textes classiques, cit., p. 35. Cfr. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 193-229.
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gione ebraica sebbene da secoli essa sia stata soppiantata dalla cristiana, le chiese ortodosse etiopiche custodiscono il loro tabernacolo o tabot che, accessibile allo sguardo profano solo nelle più importanti cerimonie religiose, intende essere una copia dell’Arca dell’Alleanza contenente le tavole della Legge veterotestamentaria; ancor oggi si vedono i fedeli poggiare il capo sulle pareti esterne nelle chiese etiopiche alla maniera ebraica (il “muro del pianto”); ancor oggi persiste nel cristianesimo etiopico la pratica ebraica e in genere arcaica della circoncisione sia maschile che femminile («noi tutti siamo stati circoncisi», dicono gli allievi etiopi della scuola italiana quando si affonta l’argomento); ancor oggi nel cristianesimo etiopico vige la tradizione di effettuare il battesimo del neonato al quarantesimo giorno per i maschi e all’ottantesimo per le femmine secondo l’uso ebraico; in amarico l’inferno ebraico, la Gheenna, diventa la Gehanned. Soprattutto, ancor oggi lo sfondo ebraico nel cristianesimo etiopico trapela nella diffusa convinzione secondo la quale l’osservanza della legge consista nell’adempimento delle pratiche del rito e del culto, nell’osservanza letterale del precetto, quasi permanesse una credenza nell’efficacia magica di certi minimi atti, come si rivela nella scrupolosa e meticolosa osservanza dei lunghi periodi di digiuno e dei divieti alimentari di origine per lo più ebraica (come verso la carne di maiale, cavallo, cammello, coniglio, anatra). Molti riti ortodossi sono riti ebraici cristianizzati; la festività del sabato è stata riconosciuta per secoli nonostante l’opposizione di alcuni settori del clero, e tuttora l’anno etiopico inizia a settembre secondo l’uso ebraico. La diversità di questo cristianesimo rispetto ad ogni altro è comprovata anche dalla permanenza, non solo nei sovrani cristiani ma anche in fasce più o meno alte della popolazione, dell’antica pratica, testimoniata dall’Antico Testamento e poi ricomparsa in ambito islamico, della poligamia, nonché dall’usanza tuttora esistente del matrimonio “a tempo”, non religioso né civile ma stabilito per semplici accordi: la famiglia nel tradizionale senso occidentale del termine, in alcuni punti rigettata nel Vangelo ma santificata dalla chiesa cattolica, non mantiene forti legami in Etiopia ove peraltro la prassi antica e assai diffusa dei matrimoni civili consente più facili divorzi. Anche l’antica pratica ebraica del levirato, testimoniata nell’Antico Testamento, è stata molto a lungo diffusa nell’ambito del cristianesimo etiopico. Questo ricalcare la religione ebraica da parte della religione cristiana, questa sostanziale continuità tuttora perdurante fra le due religioni in terra etiopica non fu soltanto l’effetto di un naturale passaggio, di una naturale evoluzione nella continuità e non nella rottura da parte dei convertiti ebrei che nella nuova religione portavano la vecchia, e nemmeno fu soltanto l’inerziale e paradossale resistenza della matrice ebraica proprio nel momento in cui si perseguitavano
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gli ebrei bensì, probabilmente, fu anche inizialmente una esplicita volontà politica del potere imperiale e di parte del clero onde rendere meno traumatico possibile il passaggio imposto per legge da una religione all’altra, in modo da pacificare l’insoddisfazione e il crescente malumore, sempre in procinto di diventare ribellione, delle numerose e un tempo potenti comunità ebraiche rimaste fedeli alla religione dei padri. In generale il cristianesimo etiopico non appare legato solo alla religione ebraica e veterotestamentaria, bensì conserva anche elementi “pagani”, come il rito di fertilità che facilmente si intravede dietro l’antica festa religiosa del Timkat. Però indubbiamente il cristianesimo etiopico per altri aspetti si richiama fedelmente alla tradizione cristiana, mantenendo anche nel rito la fedeltà ai testi sacri. Ad esempio la comunione (per quanto poco praticata stante il diffuso senso di impurità) vi è celebrata non nella forma del solo pane, come nel rito romano che riserva il calice del vino al solo sacerdote, bensì nella forma del pane e del vino come vuole la lettera del Vangelo ove è espressamente detto che Cristo, nell’ultima cena, diede ai discepoli sia il pane che il vino: così il sacerdote etiopico porge la comunione al fedele intingendo il pane nel calice di vino. Un altro esempio di persistenza in Etiopia dell’originaria tradizione cristiana è la possibilità per il prete di essere sposato, almeno se lo era già prima dell’ordinazione, come consente non solo la tradizione ebraica (e in generale la mentalità africana e araba per cui il celibato e la mancata discendenza sono inconcepibili e disonorevoli) ma come consentiva anche la chiesa cattolica dei primi secoli. Del resto, un altro segno del carattere “tradizionale” della società etiopica, sia pur non nel senso strettamente religioso, è ravvisabile nella sua fedeltà al calendario giuliano, istituito in occidente da Giulio Cesare nel 46 d.C. e poi sostituito nel 1582 col calendario gregoriano (dal papa Gregorio XIII): tuttora in Etiopia l’anno, di 7 anni e 8 mesi indietro al nostro, inizia l’11 settembre (il 12 negli anni bisestili) ed è diviso in 12 mesi di 30 giorni, più (secondo l’antico calendario egizio volto ad accordare il tempo solare con quello lunare) un tredicesimo mese di 5 giorni (o 6 giorni nell’anno bisestile), mentre la giornata inizia non alla mezzanotte bensì alle 6 di mattina (cosicché, con sei ore di differenza, le sette corrispondono alla nostra una di notte, etc.) e finisce alle 18. Indubbiamente il cristianesimo etiopico, isolato per millenni sull’altopiano del Corno d’Africa, appare come cristallizzato, rigido, impermeabile ai mutamenti, ma d’altra parte proprio per questo suo isolamento esso, anche al di là dei retaggi ebraici, appare anche «tradizionale» nel senso specifico del termine. Quello che Kierkegaard poteva contestare al cristianesimo occidentale del suo (e del nostro) tempo, di essersi infine risolto in un formalismo esteriore privo di autentica religiosità, certamente
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non può dirsi per questo cristianesimo: la secolarizzazione occidentale con il conseguente processo di scristianizzazione non è avvenuta in questa terra ove il sentimento religioso, pur spesso in forme quanto si vuole arcaiche e superstiziose, appare radicato nel passato. Questo certamente non significa che in Etiopia vi sia il cristianesimo autentico e originario, il solo e vero cristianesimo “puro” e “incontaminato”: infatti la civiltà axumita divenne cristiana nel IV secolo, nel 332 d.C., e dunque più o meno nella stessa epoca (un po’ dopo anzi) in cui con Costantino l’impero romano divenne cristiano (editto di Milano, 313; Concilio di Nicea, 325), ed inoltre − altrettanto originario ed altrettanto antico − v’è anche il cristianesimo armeno, siriano, copto, bizantino. Tuttavia certamente il cristianesimo etiopico ha conservato un volto antico e tradizionale e questo indubbiamente, pur esponendolo pesantemente al rischio della chiusura e dell’isolamento, ne costituisce d’altra parte il grande fascino e l’interesse precipuo in quanto consente all’osservatore la privilegiata condizione etnologica di poter vedere ancora attualmente attiva e operante nel mondo attuale una forma molto più antica di esperienza religiosa in cui è possibile scorgere, nonostante le modificazioni proprie del processo storico, elementi della dottrina originaria. La chiesa ortodossa etiopica per secoli è dipesa dalla chiesa copta di Alessandria d’Egitto: questo anzitutto per un’estensione del VI canone del Concilio di Nicea, precedente all’introduzione del cristianesimo in Etiopia, che prevedeva che sui cristiani di Egitto e di Libia il vescovo di Alessandria «omnium habeat potestatem», e poi (dopo lo scisma alessandrino da Roma) per uno pseudo-canone niceno che espressamente pose la chiesa etiopica sotto quella alessandrina17. Lo stesso calendario etiopico di 13 mesi è sostanzialmente di derivazione egizia, a dimostrazione dell’influsso alessandrino oltre che bizantino ed ebraico sulla cultura etiopica18. Per secoli l’abuna venne consacrato ad Alessandria in quanto egli (dopo l’eccezione del primo vescovo, il siriano Frumenzio) doveva essere un monaco egizio. Nel più antico cristianesimo orientale (che comprende la chiesa copta, armena, siriaca e la chiesa bizantina) sussistevano contrapposte posizioni, soprattutto fra la scuola copta di Alessandria e quella di Bisanzio. Ario sosteneva la creazione e la subordinazione del Figlio al Padre nonché la natura essenzialmente umana di Cristo, divenuto figlio di Dio solo per “adozio-
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A. Tekle Haymanot, Dipendenza della chiesa di Etiopia dal patriarcato di Alessandria, in Miscellanea Aethiopica, Addis Ababa (senza data), Capuchin Franciscan Institute of Philosophy and Theology, pp. 293-297. Ivi, pp. 325-328.
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ne” con il battesimo nel Giordano (adozionismo); Nestorio, patriarca della chiesa bizantina di Costantinopoli, appoggiato dall’imperatore, vedeva fra la natura umana e quella divina in Cristo una sorta di scissione, negava il culto della Vergine e con sfumatura ariana sottolineava la nascita umana di Gesù divenuto Dio solo per adozione. Nel Concilio di Nicea (325 d.C.) Atanasio, in nome del Patriarca d’Alessandria, fece condannare la dottrina di Ario. La scuola di Alessandria fu infine diretta dal potente vescovo Cirillo. Egli fece espellere gli ebrei e perseguitò vari gruppi religiosi; sotto il suo vescovato vari templi “pagani” furono distrutti, e Damascio neoplatonico un secolo dopo lo ritenne financo responsabile (in modo improvato però) dell’uccisione della matematica e neoplatonica Ipazia. Cirillo sosteneva che «una sola è la natura (mono-physis = una sola natura) del Logos incarnato» e di conseguenza fece deporre e condannare all’esilio Nestorio al concilio di Efeso (431 d.C.) dove, non a caso nella patria della dea Artemide vergine e madre, la Vergine fu proclamata “Madre di Dio” (Theotokos). Abbiamo così da una parte la chiesa romana e bizantina, dopo la deposizione di Nestorio sostanzialmente concordi in tema dottrinale, e dall’altra la chiesa copta (“copto” significa “egiziano”) ovvero la chiesa monofisita alessandrina. In seguito il credo monofisita copto e alessandrino (ma anche siriaco e armeno) venne propugnato da Eutiche che fu difeso da Dioscoro, Patriarca di Alessandria dopo Cirillo: egli sosteneva una sola natura in Cristo in cui l’umanità è assorbita nella divinità. In realtà nel più radicale monofisismo copto vediamo qualcosa di molto particolare, che diremmo legato all’anima africana: il dualismo bizantino (di origine pitagorico-platonica) fra natura umana e divina applicato al Cristo, così come in genere il dualismo fra anima e corpo, è inconcepibile per questa mentalità. In realtà il monofisismo in varie sue formulazioni non afferma la sola natura divina di Cristo bensì ne nega la doppia natura che gli appare come una sorta di scissione ibrida e mostruosa fra umano e divino. I monofisiti non negano le due nature ma negano che siano separate, pur negando parimenti che siano confuse: per essi Cristo è Dio e uomo, ma in una sola natura. Non a caso i cristiani etiopi nel farsi il segno della croce dicono come i cattolici “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito”, ma concludono aggiungendo: “che è un Dio solo”, volendo sottolineare che Padre, Figlio, Spirito costituiscono un’unità. In questa accezione il monofisismo, credendo nelle due nature non scisse, attribuisce enorme rilievo alla Madonna che può essere “Madre di Dio”. Senonché, il Concilio di Calcedonia (451 d.C.) stabilì la tesi romana e bizantina sulla duplice natura: esso condannò come eretica la dottrina monofisita e affermò l’esistenza in Cristo di una persona in due distinte nature, umana e divina. In realtà si
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verificò un fraintendimento: Roma e Bisanzio accusavano i monofisiti copti di credere solo nella natura divina e non umana del Cristo, di erigere un rigido spartiacque fra divino e umano, di negare il credo trinitario e di ridurre l’incarnazione (il Verbum caro factum est) al “docetismo” manicheo per il quale la natura corporea del Cristo sarebbe stata soltanto apparente e di conseguenza egli non avrebbe sofferto sulla croce. Viceversa i monofisiti respinsero il Concilio di Calcedonia poiché intesero la duplice natura come una scissione e videro nella formula calcedoniana una pericolosa concessione al nestorianesimo. In realtà fra le posizioni estreme di Nestorio e di Cirillo esisteva un campo dottrinale intermedio in cui la chiesa romano-bizantina e quella copta non erano così lontane. Tuttavia avvenne una grave rottura dottrinale e teologica fra Alessandria da una parte e Roma e Bisanzio dall’altra. La chiesa egizia si spaccò e si divise in una parte calcedoniense (di lingua greca), rappresentante il partito bizantino, e in una parte monofisita non calcedoniense (di lingua egizia), costituita dai melliti, che divenne maggioritaria. Naturalmente dietro questi conflitti dottrinali si celavano conflitti fra Roma, Bisanzio e Alessandria per l’egemonia sulla cristianità. Alessandria vedeva ora ridotto il suo ruolo in favore di Bisanzio alleata di Roma. L’opposizione al Concilio di Calcedonia era quindi in non piccola misura un’opposizione politica della chiesa di Alessandria al primato del patriarca di Bisanzio e alla soggezione politica ed economica dell’Egitto all’impero bizantino cui forniva grano e tasse. Ne seguirono periodi di persecuzione da parte imperiale bizantina (324-640 d.C.) che favorirono le spinte indipendentistiche egizie e resero assai difficile l’egemonia politica di Bisanzio. La chiesa etiopica, che dipendeva da quella alessandrina, si distaccò dalla chiesa greco-bizantina e romana e si allineò sulle posizioni alessandrine. Essa accettò il Concilio di Nicea e quello di Efeso, ma rifiutò il Concilio di Calcedonia: rifiutò cioè la dottrina cristologica cattolica e bizantina, identificandola con il nestorianesimo. Ma non mancarono dissapori anche con Alessandria. Infatti la religione ortodossa etiopica non è propriamente, come spesso si intende, copta. Sulla disputa teologica la chiesa etiopica parla di miaphysis, perché in greco mia significa un’unità composta delle due nature, e non di monophysis perché monos invece indica una sola natura. In altri termini le due nature nel cristianesimo ortodosso etiopico sono unite, senza separazione, in una natura, cosicché la natura di Cristo è una, al tempo stesso divina e umana. È una questione di inflessioni, di spostamenti di accenti, e anche una questione di differente terminologia, se proprio non vogliamo definirla una questione di lana caprina: la chiesa cattolica sottolinea la distinzione nell’unità, la chiesa etiopica sottolinea
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l’unità nella distinzione, ma entrambe rifiutano la confusione e la mescolanza delle nature così come la riduzione di esse ad una19. Per questo il cristianesimo etiopico non respinge l’idea trinitaria, la cui immagine nei più tardi affreschi delle chiese appare nella reiterazione e moltiplicazione serigrafica della stessa e statica immagine del Padre in tre, per quanto indubbiamente questa moltiplicazione per tre della stessa immagine sembra non solo una errata traduzione di una tradizione alessandrina e copta (in cui − come si può vedere in due affreschi del monastero di S. Antonio in Egitto − l’iterazione tripla e quasi identica della stessa immagine rappresenta di volta in volta Abramo, Isacco e Giacobbe oppure Isaia, Elia e Geremia), ma soprattutto risulta una semplificazione rispetto alla teologia patristica dove la Trinità divina non è una moltiplicazione per tre del Padre bensì riguarda la circolazione dinamica di vita fra Padre, Figlio e Spirito. Le divergenze fra Alessandria e la sede etiopica non erano soltanto di tipo teologico e dottrinale, su cui comunque non esisteva una assoluta contrapposizione. Si trattava proprio del fatto che sovente in Etiopia era sentita come umiliante la dipendenza dottrinale dal patriarcato di Alessandria. L’abuna inviato da Alessandria, previo il versamento al patriarca di Alessandria di un’alta somma in denaro, rimaneva in realtà estraneo alla realtà locale anche perché spesso assente (potevano passare vent’anni dalla morte di un abuna all’arrivo del successore), ignaro sia della lingua amarica che del gee’z nonché portavoce di una politica religiosa comunque differente da quella etiope, donde le ricorrenti manifestazioni di insofferenza abissina e i tentativi di costituzione di una chiesa nazionale indipendente: ad esempio nell’820 d.C. l’Etiopia, essendosi rifiutata di accogliere l’abuna inviatole da Alessandria, venne scomunicata e per quasi un secolo rimase priva di abuna (fu il fascismo prima iniziare la nazionalizzazione della chiesa abissina, poi l’imperatore Selassie con un concordato del 1948 sottomise l’elezione dell’abuna all’approvazione imperiale, quindi nel 1959 vi fu il primo patriarca etiopico con il definitivo sganciamento dalla chiesa alessandrina). Per tutti questi motivi dunque la chiesa ortodossa etiopica, proprio stante la differenza culturale nonché la ricorrente lontananza e scarsa influenza pratica dell’abuna, mantenne una sua specificità pur nella sua dipendenza da Alessandria. 19
Un testo, scritto da un teologo cattolico etiope, che nega l’esistenza di sostanziali divergenze cristologiche fra la Chiesa cattolica e quella etiopica è A. Takla Hāymānot, La dottrina della Chiesa Etiopica dissidente sull’Unione Ipostatica, 1956 (poi La chiesa etiopica e la sua dottrina cristologica, Roma 1974, Ed. Saggi ed Esperienze). Il libro, tradotto in amarico, suscitò molte polemiche e venne sequestrato dalle autorità.
Trinità etiopica (chiesa di Arbatu Ensessa, Axum)
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L’avvento della religione ebraica e poi cristiana ad Axum aveva introdotto un elemento di crisi interiore della precedente civiltà, i cui simboli erano i monoliti dal significato connesso alle concezioni arabe e mesopotamiche, proprio come l’introduzione del cristianesimo pur sviluppando una nuova civiltà aveva minato dall’interno la civiltà romana. Anche se la religione ebraica prima e cristiana poi dovettero in certa misura rivitalizzare l’impero apportandovi una ideologia fondata sul diritto divino veterotestamentario, rimane che certamente il primo impero axumita divenne una lontana memoria del passato mentre il nuovo impero non poteva procrastinare la propria crisi. L’acmé di questa crisi fu costituita dalla perdita dell’altra metà della Terra di Punt, ovvero dello Yemen separato dalla costa eritrea dal corridoio del Mar Rosso. Mentre il regno axumita diventava cristiano, l’ebraismo rimaneva invece dominante nel regno yemenita ove era stato diffuso fin da antica data dalle colonie ebraiche. Vi furono anche, in terra sudarabica, persecuzioni nei confronti delle comunità cristiane, ed un profondo solco religioso cominciò a dividere il popolo axumita dall’arabo portando alla rottura degli antichi comuni legami. Ai primi del VI secolo il principe Dhu Nuwas (Dunaa), usurpando il regno, si proclamò re dello Yemen e, contando sull’appoggio della potente comunità israelita per arginare l’influenza bizantina, abbracciò e incoraggiò la religione ebraica in senso anticristiano. La popolazione cristiana, anch’essa diffusa nel regno yemenita che era alleato se non propaggine dell’impero di Axum, fu perseguitata col pretesto dell’assassinio di due ebrei da parte di fanatici cristiani e Nagerân, la città roccaforte del cristianesimo, dopo la resa in cambio dell’offerta di pace fu vilmente rasa al suolo nel 515 fra terribili atrocità. Esiste un inno, risalente al XIV secolo, che celebra i martiri ricordando il loro vescovo che li benedice prima dello sterminio: «Gridarono e dissero i santi martiri: “Non rinnegheremo Cristo”. [...] Ed ancora tutti lo proclamarono, uomini, donne e fanciulli [...]. Dissero i martiri: “Questo mondo è effimero. Crediamo in Cristo”. [...] Il santo Hirut segnò il suo popolo col segno della croce, dicendo: “In nome del Padre, Figlio e Spirito Santo”. E così accennarono col capo il segno della croce i santi martiri, avendo le mani legate dietro la schiena».20 Il colpo fu grave. Da Bisanzio l’imperatore Giustino e da Alessandria il patriarca (sembra non quello copto bensì quello allora rivale, cattolico21)
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Cit. in E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., p. 53. Così suppone A. Takla Hāymānot, che posticipa la separazione della Chiesa etiopica da quella di Roma, in La Chiesa etiopica e la sua dottrina cristologica, cit., pp. 85-87.
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chiesero l’intervento armato del sovrano axumita Kaleb (510-558) che, con l’appoggio della flotta bizantina, inviò nello Yemen una spedizione militare di 30.000 uomini contro le forze ebraiche. Il re yemenita, privo dell’appoggio della consistente parte cristiana della popolazione, si sottomise e Aryat, il nuovo governatore installato da Kaleb, ristabilì il potere axumita nell’Arabia del Sud. Presto tuttavia il deposto sovrano yemenita riprese le ostilità e riconquistò il regno trucidando le forze axumite, massacrando i cristiani che rifiutarono l’abiura in favore della religione ebraica, incendiando le chiese cristiane, marciando su Nagerân e dandosi a feroci rappresaglie sulla popolazione. Iniziò qui un lunghissimo conflitto pluridecennale fra l’imperatore axumita e il sovrano yemenita. La tradizione dice che ad Axum l’eremita Abba (che significa “padre”) Pantalewon, già ricordato come uno dei “nove santi”, si fosse ritirato fuori della città sulla sua piccola amba, nel pozzo che fu la sua cella, proprio per invocare l’aiuto divino alle guerre di Kaleb nella penisola arabica e con l’intenzione di non uscirne fino alla vittoria del sovrano. Kaleb saliva spesso a visitare Pantalewon e ancora oggi i monaci mostrano la pietra su cui sedeva parlando con il santo. Il sovrano axumita allestì una nuova spedizione e invase lo Yemen, sterminando l’esercito yemenita e sconfiggendo definitivamente il sovrano yemenita che morì nella battaglia decisiva. Ma l’esercito axumita come un’orda selvaggia avida di preda e di bottino si abbandonò al massacro delle popolazioni, al saccheggio delle città, alle razzie che oltretutto colpirono indiscriminatamente anche gli alleati cristiani. Così i due popoli, da secoli parte dello stesso impero axumita e legati da una comune discendenza sabea, nonché da fecondi rapporti commerciali, già divisi dalla nuova politica axumita che mal tollerava la comunità ebraica yemenita, si separarono definitivamente: «il vecchio legame del sangue, esistente tra i due paesi, cede a un sentimento di vendetta e di odio»; «il terrore delle atrocità subite [...] rimase tra le genti arabe indelebile e concorse a creare una barriera insormontabile di odio tra Abissini ed Arabi» e «nei canti delle genti arabe il dominio abissino è ricordato con sentimenti di terrore e di odio insieme».22 Così il nuovo regno yemenita con a capo Aryat, il governatore fedele ad Axum, occupato dall’esercito axumita e obbligato ad un tributo annuo, non fu accettato dalla popolazione araba né cristiana né ebraica. La ribellione e la rivolta dilagarono e presero piede fra le stesse truppe axumite che, in gran parte formate da guerrieri delle turbolente tribù africane sottomesse ed insofferenti, appoggiarono la popolazione taglieggiata. Kaleb inviò due spedizioni ma le truppe si unirono agli insorti. Con fatica si giunse ad una 22
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 206, 189, 198.
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pace e all’accettazione di un tributo da parte yemenita. A questo punto un ufficiale abissino, Abraha, uccise Aryat prendendo il potere. Egli stabilì la pace e fece simbolicamente costruire una cattedrale cristiana a Sana’a, ma volle mantenere l’indipendenza del paese. Il conflitto era durato 43 anni: tanti quelli che Abba Pantalewon passò, secondo la leggenda, nel pozzo onde mantenere la sua promessa. Ma quella pace fragile e ambigua non era una vittoria axumita, ed ormai era chiaro che quello yemenita era per Kaleb un alleato infido. Abba Pantalewon non discese più dalla sua rupe. Al contrario fu Kaleb che, amareggiato dai tradimenti e dallo sfaldamento del proprio esercito, abbandonò il potere, abdicando e raggiungendo il monaco nel suo eremitaggio. Il trono fu lasciato al figlio Gebre Meskel, che introdusse nella liturgia sacra gli inni di Yared, dalla leggendaria voce, tratti dai testi biblici e tuttora in uso. Le corone regali attribuite a Kaleb e a Gebre Meskel sono oggi mostrate nella chiesa di Abba Liqanos ad Axum. Le tombe attribuite a Kaleb, al figlio e alle rispettive famiglie, sarcofagi chiusi da enormi massi e da secoli depredati dei loro tesori, sono oggi mostrate in una necropoli sotterranea a camere sempre ad Axum (senza obelisco sovrastante, per probabile rifiuto cristiano degli antichi simboli), sebbene un’altra tradizione dica che Kaleb è sepolto molto più umilmente con Abba Pantalewon sulla loro piccola amba, su cui venne presto costruita una chiesa da cui deriva l’attuale. Kaleb è stato canonizzato dalla Chiesa cattolica. Intanto Abraha cercava sempre più l’indipendenza dal regno axumita; cercava anche di imporre alla popolazione il cristianesimo, che però ormai gli arabi legavano indelebilmente ai soprusi axumiti, e di sottomettere le popolazioni ribelli all’interno del paese. Quando alcuni arabi provenienti dalla regione della Mecca profanarono la nuova cattedrale cristiana voluta da Abraha, egli allestì un esercito di 40.000 uomini e nel 571 d.C. (l’anno della nascita di Maometto) marciò sulla Mecca per sconfiggere gli adoratori della pietra nera. Fu la cosiddetta “spedizione dell’elefante”, dal nome dell’animale che montava Abraha. Ma l’esito della spedizione, come ricorda il Corano (Sura dell’elefante, versi 1-5), fu disastroso per Abraha: il Corano parla di «segni impressi dal cielo», materializzatisi in misteriosi uccelli che scagliavano con infallibile precisione piccole ma micidiali pietre sopra le teste di tutti gli uomini dell’armata abissina. Secondo alcuni storici, fu il vaiolo che decimò l’esercito di Abraha. Ormai la storia del regno dello Yemen si separava sempre più e definitivamente dal regno di Axum. Infine i principi yemeniti ribelli al potere di Abraha chiamarono i persiani sassanidi a «liberare dai corvi, che se ne sono impadroniti, la patria, uno dei più ricchi e fertili paesi del mondo»: e i
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persiani, che non se lo fecero dire due volte, giunsero a coadiuvare l’insurrezione yemenita ormai in atto che nel frattempo procedeva al sistematico massacro degli axumiti. Il governo venne rovesciato, e al suo posto subentrò nel 575 un governo filo-persiano, che impose alla popolazione solo il leggero giogo di un tributo annuo. La perdita per Axum del fondamentale accesso al mare lungo la costa yemenita era ormai avvenuta, ed essa comportò alla fine anche la perdita della costa africana. Infatti dopo breve tempo i principi yemeniti, ora forti della protezione persiana, iniziarono a spadroneggiare su entrambe le sponde del Mar Rosso stabilendo loro sedi nelle città costiere, mentre le tribù marittime con audaci incursioni depredavano le navi axumite e assalivano le carovane. L’impero axumita dovette così assistere non solo alla progressiva indipendenza dei possedimenti yemeniti, su cui invano aveva tentato di stabilire un controllo, ma anche all’affacciarsi minaccioso sulle proprie coste dei principi yemeniti che ora avevano dietro di sé l’appoggio persiano. La crisi dell’impero axumita era inoltre ulteriormente aggravata poiché, sempre più spesso e ad ondate successive, arrivavano i barbari. I barbari che dall’esterno misero in ginocchio l’impero etiopico, già ampiamente incrinato all’interno proprio come il principio interiore romano era già sfaldato all’avvento dei Visigoti che saccheggiarono Roma, furono i bellicosi popoli circostanti non semiti, sottomessi di malavoglia al dominio axumita. Dapprima furono i Blemmi che dall’entroterra iniziarono razzie, saccheggi, distruzioni di chiese cristiane. L’impero in difficoltà fu una prima volta difeso dall’intervento del sovrano cristiano di Nubia sollecitato da Giustiniano, ma più tardi anche il regno di Nubia finì per attaccare l’impero axumita sottraendogli a nord fertili terre comunicanti con il Nilo. Infine come una valanga iniziò da nord l’invasione dei Begia, nomadi e pirati di antica parentela con i Blemmi e un tempo sottomessi, che attaccarono le città costiere strappando all’impero axumita importanti zone del litorale sul Mar Rosso e poi dell’interno nel Tigray, ove infine costituirono nuovi regni (e dove ancor oggi essi vivono). L’impero appariva sempre più stretto e accerchiato dai popoli vicini che rifiutavano la sottomissione e sempre più spesso si presentavano minacciosi alle frontiere. L’impero axumita era ormai in pieno disfacimento. Infine, un nuovo nemico − ancorché inizialmente non configurato come tale − si andava presentando, proveniente ancora una volta dalle terre arabe: il pericolo musulmano.
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Maometto aveva inviato suoi emissari nello Yemen e nel 628 il viceré persiano in Sana’a si convertì all’islamismo iniziando la costruzione della grande moschea, una delle più antiche dell’Islam, tuttora esistente e via via ingrandita e ricostruita nei secoli. Ma il processo di diffusione dell’islamismo era solo all’inizio, e destinato a procedere non soltanto con la forza della conversione ma ancor più con la forza delle armi: l’islamismo infatti fin dall’inizio fu intrinsecamente legato, per le proprie origini, a tribali predoni del deserto, e indubbiamente la grande aridità e desolazione delle terre sudarabiche − dove i sistemi di dighe sabei erano ormai solo rovine e dove, per via dei cambiamenti climatici intervenuti nei secoli, la leggendaria Arabia felix era ormai diventata solo un ricordo − favoriva se non imponeva come una necessità impellente il vorticoso e secolare processo di espansione militare che diffuse l’Islam nel mondo. La penetrazione islamica si diffuse nel litorale del Mar Rosso propagandosi a macchia d’olio. Gli arabi sottomisero la Palestina e subito dopo raggiunsero il regno cristiano di Ghassam con i suoi centri Petra e Palmira, sconfiggendo nel 636 d.C. le armate bizantine e sottomettendo con Khaled ibn al-Walid, il cui mausoleo è tuttora visibile in una moschea di Homs, la “cristianissima” Siria: a Damasco gli islamici edificarono una grandiosa moschea tuttora visibile sulle rovine della precedente basilica cristiana (in cui si vuole sia tuttora conservata la testa del Battista). Quindi le armate musulmane invasero l’Egitto nel 639 e ne completarono la conquista nel 641. La religione cristiana, che fino allora era stata la religione dell’Egitto, divenne sempre più decisamente minoritaria, mentre la lingua araba sostituiva quella copta sempre più limitata alle funzioni liturgiche. Questo poté avvenire anzitutto a causa delle divisioni interne all’Egitto: come sappiamo non tutti i copti erano monofisiti, ed era forte il dissidio fra monofisiti e calcedoniensi. Gli invasori arabi approfittarono delle discordie che dividevano la chiesa egizia, e in un primo tempo trovarono l’appoggio dei copti monofisiti contro i melliti rappresentanti il partito calcedoniano bizantino e romano. I monofisiti accettarono dapprima l’egemonia islamica anzitutto
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come una liberazione dal giogo bizantino, e certamente l’atteggiamento ostile della chiesa romana nei confronti dell’“eresia” copta ne favorì l’avvicinamento all’islamismo al potere: del resto appariva inevitabile per i cristiani d’Egitto convivere con gli islamici al potere. Così, complici le discordie interne e le congiunture esterne, l’Egitto passò dal cristianesimo alla religione islamica. Che nei primi tempi i rapporti fra musulmani e cristiani in Egitto fossero positivi è dimostrato anche dal fatto che il famoso monastero cristiano ortodosso di S. Caterina nel Sinai meridionale non ha mai subito distruzioni ad opera islamica per via di un decreto di protezione richiesto dai monaci (secondo alcuni storici stilato dallo stesso Maometto ma secondo vari specialisti arabi risalente al X sec. d.C.): il monastero conteneva anche, tuttora visibile, una moschea ad uso dei beduini lavoranti in esso, e del resto il monastero di S. Simeone in Nubia ospitava anche i pellegrini musulmani sulla via della Mecca, come testimoniano i loro graffiti). Ben presto però l’occupazione islamica si presentò non nel volto benevolo della tolleranza bensì con la pressione dell’intolleranza. Nonostante alcuni periodi di relativo buon vicinato e nonostante che alcuni cristiani copti fossero chiamati per le loro competenze ad alte cariche amministrative, in genere la situazione dei cristiani d’Egitto divenne difficile. I cristiani d’Egitto si sentirono come assediati: essi dovevano pagare delle imposte maggioritarie rispetto ai musulmani, che a un certo punto vennero estese anche ai monasteri (nel IX secolo il patriarca copto dovette vendere agli ebrei una chiesa al Cairo Vecchio, poi divenuta la sinagoga ebraica, per pagare la somma richiesta dal governatore islamico Ibn Tulun); parimenti, essi vennero sempre più esclusi dalle cariche politiche e amministrative più importanti, e infine furono costretti a portare speciali segni di riconoscimento. Non mancarono episodi di più gravi intolleranze, con periodiche confische, distruzioni, saccheggi e incendi di chiese da parte di turbe islamiche, anche dietro espresso ordine delle autorità: un tempo (come narrano gli storici antichi) erano molte di più le chiese copte al Cairo e in Egitto, ma molte di esse vennero distrutte mentre l’edificazione di nuovi edifici sacri e monasteri diveniva sempre più difficile. Questa situazione portò a ribellioni e conseguenti successive repressioni. L’isolamento del cristianesimo copto, ormai decisamente minoritario in Egitto, è ben testimoniato dalle antiche chiese copte ancor oggi visibili al Cairo Vecchio, protette all’interno di una fortezza romana (detta “Babilonia”) e costruite per lo più con facciate piuttosto dimesse, in modo da non urtare la suscettibilità degli islamici e quasi nascondendole alla loro vista (la chiesa di El Mollaqua − che per questo fu detta “La Sospesa” − fu financo costruita a scopo difensivo sopra la fortezza romana, e fu poi parzialmente abbattuta per ordine dei gover-
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nanti islamici). La preoccupazione difensiva appare evidente anche nella struttura a fortezza (tuttora visibile) dei monasteri copti del deserto, a nord del Cairo (i monasteri di Wadi El Natrum), a sud del Cairo presso el Fayum (El Malak Ghobriyal), nel Sinai (il monastero di S. Caterina), nel deserto dirimpetto al Sinai dalla parte opposta del Mar Rosso (monasteri di S. Antonio e di S. Paolo), nella Nubia (monastero di S. Simeone): la gran parte di questi monasteri sono circondati da robuste mura difensive (quelle del monastero di S. Caterina furono costruite per ordine diretto dell’imperatore bizantino Giustiniano); spesso non vi erano porte di ingresso e si poteva entrare dall’esterno solo issati in una cesta; spesso in essi il maschio interno, isolabile dall’esterno attraverso un ponte levatoio e provvisto di pozzo per l’acqua e di viveri, costituiva l’ultimo rifugio in caso di attacchi (che, prima ancora che dagli islamici, potevano provenire dai beduini razziatori del deserto o, nel VII secolo, dagli invasori persiani). Nel maschio del monastero di Deir Anba Bishoi (presso Wadi El Natrum) esistono ancora, sul tetto, delle cellette che servivano da tomba per i monaci che morivano di fame durante gli assedi; nel non lontano monastero di Deir Abu Makar sono custodite le reliquie di 49 monaci uccisi dai beduini nel V secolo. Proprio questa ostilità circostante causò la chiusura e l’abbandono della maggior parte dei monasteri e la crisi del monachesimo copto (il monastero di S. Simeone, distrutto dal Saladino nel 1173, fu in seguito abbandonato). Tuttavia un periodo di relativa stabilità nei rapporti fra cristiani e musulmani fu raggiunto più tardi, quando nel X secolo i fatimidi sciiti − fondatori di Al Qahira, Il Cairo − presero il posto dei sunniti, e quindi all’epoca delle crociate, che per un certo tempo rafforzarono il legame fra islamici e copti poiché i cristiani del medioriente si sentivano in quanto arabi affratellati agli islamici di contro ai crociati: fu quella l’epoca in cui il Saladino (Salah El Din, nel XII sec.) fece costruire al Cairo la Cittadella fortificata, ricca di moschee all’interno, quale struttura difensiva, autentico contraltare della fortezza romana al cui interno erano molte chiese copte. Ma in seguito (fra XIII e XVI secolo) le ostilità ripresero con i Mamelucchi. L’islamismo sembrava conquistare il mondo. Dall’Egitto, le forze islamiche si espansero verso oriente nell’area mesopotamica a spese dell’impero sassanide; parallelamente si estesero ulteriormente nella costa mediterranea dell’Africa e, devastando nelle loro temibili incursioni le coste mediterranee europee, varcarono lo stretto di Gibilterra passando nelle terre franco-ispaniche. Furono dapprima fermate da Carlo Martello a Poitiers nel 732 ma in seguito, quando i califfi abassidi di Bagdad spodestarono gli omayaddi, questi ultimi fuggiti da Damasco (749 d.C.) giunsero in Andalusia ove fondarono i regni di Cordoba, Sevilla, Granada.
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Per quanto riguarda invece il Corno d’Africa la penetrazione islamica fu più lenta. I primi musulmani che nei primi decenni del VII secolo giunsero ad Axum, trovandovi rifugio ed ospitalità, furono un centinaio di discepoli, perseguitati al tempo della fuga di Maometto dalla Mecca: poiché il cristianesimo, religione ufficiale del regno axumita, proveniva dal ceppo ebraico monoteistico, fu lo stesso profeta che consigliò ai suoi seguaci quella sede, ove inviò anche una figlia e due donne poi divenute sue mogli. Ahmed Negash, uno dei più stretti collaboratori di Maometto, divenne il suo rappresentante alla corte axumita: la sua tomba, a Negash nel Tigray, è diventata un luogo di venerazione e di grande pellegrinaggio islamico e attualmente Negash è un’isola musulmana nel Tigray. Secondo la tradizione, anche lo sceicco Sof Omar si rifugiò durante la prima fase di sviluppo dell’Islam in una zona dell’Etiopia sud-orientale ove sono disseminate le più grandi caverne sotterranee del mondo, in un labirinto scavato da un fiume sotterraneo che le attraversa per 16 km fuoriuscendo in un laghetto circondato da rupi (il luogo, di cui abbiamo parlato, è tuttora venerato dai musulmani come luogo sacro non senza riverberi di culti animistici). Fra le due religioni, nonostante il rifiuto islamico della concezione trinitaria in favore di un esclusivo monoteismo con conseguente rifiuto della dottrina dell’incarnazione, rimaneva il comune riferimento veterotestamentario e il riconoscimento islamico di Gesù come profeta, ciò che sembrava dapprima rendere possibile una pacifica coesistenza. Ma questa pacifica coesistenza fra cristiani e musulmani, anche in Etiopia, era destinata a non durare. Nel 702 una flotta armata cristiana proveniente da Axum aggredì Jedda, il porto della Mecca, e la reazione islamica non si fece attendere. Considerate le difficoltà persiana e yemenita nel pieno controllo delle coste, sia per la resistenza axumita sia per le razzie dei pirati che mettevano a ferro e fuoco le città marittime, i musulmani iniziarono ad inviare scorte armate per la protezione dei traffici. Infine i califfi saccheggiarono le coste dell’Eritrea, occuparono le isole Dahlak, il litorale ed in particolare il porto di Massawa scacciandone i presidi axumiti: verso il X secolo le isole Dahlak erano ormai un sultanato islamico sotto controllo yemenita1. In tal modo gli arabi musulmani iniziarono a comparire nel regno di Axum non più come rifugiati e perseguitati benevolmente accolti nell’impero cristiano, bensì nella nuova veste dell’Islam guerriero e conquistatore in fuga dalle proprie torride terre aride e desertiche, fiumana im1
S. Tedeschi, Note storiche sulle isole Dahlak, Addis Ababa 1966, Conference of Ethiopian Studies (Extracts). Le Dahlak tornarono tributarie dell’Etiopia nel XVI secolo, sempre però rimanendo refrattarie al dominio amhara.
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petuosa in cerca di nuovi spazi vitali e bramosa di espandere la nuova religione nelle terre degli infedeli. Così, dopo i persiani, gli yemeniti e i pirati, furono le forze islamiche a prendere possesso del Mar Rosso, e dalle coste iniziarono numerose razzie nell’entroterra soprattutto volte a fare incetta di prigionieri neri da smistare nei fiorenti mercati di schiavi. In questo modo iniziò la penetrazione islamica nell’Africa orientale e con essa la diffusione in quelle contrade della nuova religione, favorita dal fatto che solo la conversione all’islamismo poteva evitare discriminazioni e maggiori tributi se non la schiavitù. L’attuale terra eritrea, almeno nel bassopiano della lunga fascia costiera del Mar Rosso se non nell’altopiano interno abitato dalla popolazione tigrina e cristiana, fu sempre più esposta all’influsso arabo proveniente dalla sponda opposta del mare. Con i commerci e l’instaurazione dei sultanati arabi della costa si diffusero, accanto al cristianesimo e al tigrino dell’interno e vanamente contrastati dall’impero negusita, la lingua araba e con essa la religione e la cultura islamica. Iniziò qui il secolare conflitto fra cristianità e islamismo nel Corno d’Africa. La perdita dei ricchi domini arabi, causata dall’indipendenza yemenita e quindi dalla conquista persiana e poi araba, era stata un gravissimo colpo per l’impero axumita in aggiunta ai pericoli provenienti dall’entroterra africano. Fu gravissima per l’impero axumita la perdita del mare: infatti dal mare erano venuti un tempo lontano i semiti fondatori dell’impero; dal mare erano venuti i traffici, i commerci e con essi la ricchezza e la potenza; come è stato rilevato, il mare costituiva per le genti amhara e habesha, isolate nel cuore dell’altopiano, «il punto d’attacco col resto del mondo», «una specie di cordone ombelicale attraverso il quale fluiva la vita»2. Ma il mare era per le genti eritree e axumite possesso tanto fondamentale quanto labile ed evanescente, difficilmente difendibile da un serio attacco esterno: «l’abissino − continua lo stesso autore − non ha né la vocazione del mare né l’istinto mercantile. Esso è essenzialmente guerriero. La stessa cultura della terra esercita scarsa attrattiva su di lui. La sua patria sono i monti»3. In effetti l’habesha, in parte di origine nomadica e pastorale e in parte di origine guerriera, ha sdegnato per secoli come schiavile il lavoro dei campi esposto alle decime, alle corvées, ai soprusi dei signori feudali e degli eserciti (a tutt’oggi non è frequente vedere campi ben coltivati in Etiopia) e parimenti sente estranea la cultura marittima. Non a caso dunque «l’Etiopia, fin dall’epoca axumita, non ebbe più, né tenne a riavere, un effettivo 2 3
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 208. Ivi, p. 207.
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dominio sul litorale. Quel popolo non è mai stato navigatore, non conosce il mare, non ha mai sentito il bisogno di comunicazioni marittime: la fascia costiera non è mai penetrata nel suo spirito nazionale e nella leggenda territoriale e tradizionale dell’Etiopia»4. Abbiamo già rilevato come, per la particolare natura del Mar Rosso, le popolazioni del litorale dell’Africa orientale non amino il mare − pur avendone bisogno − e ne diffidino: le pericolose correnti, la dura vita dei pescatori di perle, la presenza dei pirati sono tutti fattori che allontanavano dal mare. Ora, se la diffidenza per il mare è riscontrabile presso i popoli che vivono vicino al mare, certamente ancor più comprensibile sarà l’assenza di una cultura del mare negli etiopi che dal mare sono lontani. Né si tratta solo di semplice lontananza bensì di qualcosa di più, perché «la configurazione stessa del suolo sembra allontanare gli abissini dal mare»5: infatti fra la costa africana del Mar Rosso e le pendici dell’altopiano etiopico si stende e si interpone in grande ampiezza il deserto dancalo vigilato dai suoi feroci guerrieri Afar. Il deserto della Dancalia, assai più che non i pirati e gli invasori persiani e islamici, contribuì a indebolire il possesso axumita del mare, proprio perché per andare dall’entroterra verso il mare, dalla capitale alla costa e dalla costa alla capitale, si devono attraversare le forche caudine della Dancalia e dei dancali. Così il possesso del mare, lontano e difficilmente raggiungibile, se era forse possibile in tempo di pace diveniva assai difficile in tempo di guerra e di attacchi esterni: i principi yemeniti, i persiani, gli arabi musulmani non fecero altro che approfittare di questa oggettiva debolezza e difficoltà, di questa sfavorevole conformazione geografica dell’impero axumita. In tal modo l’antichissima unità etnica, linguistica e religiosa nel Corno d’Africa, dovuta alla lontana invasione dalla penisola arabica di popoli semiti intrecciatisi con le preesistenti popolazioni camitiche e cuscite, andò spezzata. L’etnia dominante amhara, di lingua amarica e religione ortodossa, si rinserrò sempre più negli altipiani dell’interno mentre nel nord divenne predominante l’etnia di lingua tigrina. Quindi, all’interno di tutta la zona settentrionale del Corno d’Africa, apparve sempre più netta la differenza fra la cultura dell’altopiano interno da una parte, essenzialmente pastorale o guerriera, e dall’altra parte la cultura del mare essenzialmente dedita alla pesca e al commercio e quindi per la sua stessa posizione più aperta agli influssi esterni. Così, se all’interno della fascia costiera e soprat-
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A. Frangipani, L’equivoco abissino, Milano 1936, Hoepli, p. 20 (l’autore fu Console in Etiopia nel periodo coloniale). Oggi però l’Etiopia rivorrebbe quello sbocco al mare perso molti secoli or sono. L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 218.
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tutto sull’altopiano si mantenne l’unità religiosa, data dalla religione cristiana ortodossa, viceversa nel bassopiano del lungo litorale del Mar Rosso sempre più esposto all’influsso arabo proveniente dalla sponda opposta del mare, fatto anche di commerci e contatti culturali e non solo di incursioni belliche, si diffuse sempre più la lingua araba e la religione musulmana. Da questo momento in poi i ras del Tigray e ancor più i sultanati della costa resistettero in ogni modo alla politica annessionistica ed espansionistica negusita che voleva ricostruire l’antica unità axumita. Nel IX secolo il solco fra regno axumita, o quel che ne restava, e il lontano possedimento yemenita si aggravò quando sulle numerose tribù yemenite in perenne discordia si impose il dominio del primo Imam musulmano, che (dopo la conversione all’islamismo del reggente persiano nel 628) trasformò quella che era solo un’ampia diffusione dell’elemento islamico in un vero e proprio regno musulmano. La fiabesca città di Sana’a, definita da Moravia nei suoi resoconti di viaggio la «Venezia dei beduini» e immortalata da Pier Paolo Pasolini in Il fiore delle mille e una notte, autentica oasi di civiltà strappata al deserto e costruita sull’altopiano a 2300 metri di altezza, crebbe e divenne una città fortificata, murata e turrita, le cui porte si aprivano all’alba e si chiudevano al tramonto, popolata di grandi palazzi sparsi in un dedalo di stradine e racchiudenti fra le loro mura freschi giardini, attraversata da una grande strada polverosa che in realtà è (lo è tuttora) il letto di un fiume arido riempito dalle acque nella stagione delle piogge. Nello Yemen iniziò così il governo autocratico e teocratico degli Imam, che divennero i signori e i padroni assoluti di un regno dispotico, immobile, chiuso per secoli e impermeabile al mondo esterno: essi fra i monti, le terre desertiche e i campi coltivati a terrazza sparpagliarono a piacere i loro palazzi come quello di Wadi Dhahr. Lo Yemen musulmano costituirà un’ulteriore spina nel fianco del regno d’Etiopia (esso resterà una teocrazia islamica chiusa al mondo, in cui era financo proibita la musica non sacra, fino agli anni sessanta del XX secolo). Quindi la penetrazione islamica raggiunse la terra sudanese, confinante con l’Etiopia e sin dal VI secolo sede di regni cristiani fra cui quello di Nubia, ove è il deserto del Sahara ma anche il Nilo che rende fertili i campi attorno alle sue sponde: questa terra fu occupata al nord dai nomadi musulmani che scendevano dall’Egitto già ampiamente islamizzato, ed essi in seguito (XI secolo) procedettero più a sud nell’invasione, sottomettendo i neri dediti all’agricoltura, in parte cristiani ed in parte animisti, e vendendoli come schiavi. Ne venne fra arabi e neri, fra musulmani e cristiani, fra musulmani e animisti (le tribù Dinka e Nuer), fra nomadi islamici e agricoltori indigeni un secolare odio atavico.
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In questo modo l’Islam, il cui epicentro − La Mecca − si trova appena poco oltre l’altra sponda del Mar Rosso, circondò e isolò l’impero cristiano di Etiopia. L’accerchiamento islamico nei confronti del vecchio impero axumita divenne una morsa che attanagliava sia a nord sul litorale del Mar Rosso, e poi via via sempre più all’interno, sia a ovest nell’entroterra sudanese: divenne insomma «un cerchio di ferro che si viene a saldare tutto intorno alle propaggini dell’altopiano e lo isolerà materialmente da ogni contatto col resto del mondo»6. Lo storico E. Gibbon scrisse financo che «circondati da ogni lato dai nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per quasi mille anni, del tutto dimentichi del mondo che li aveva dimenticati». Per secoli i popoli musulmani, sia gli arabi invasori provenienti dal mare sia i popoli da essi islamizzati, circondando e assediando l’altopiano, muoveranno all’attacco e cercheranno di scalarne gli ardui bastioni di pietra, vere e proprie fortezze naturali, per accedere alle ambe, fertili e abitate, della sommità dei monti, piatte perché erose nei millenni dai venti, e se non vi riuscirono fu più per la disunione e le lotte reciproche fra i vari sultanati che non per un’effettiva forza di resistenza degli habesha. Inizia qui, in terra africana e medio-orientale, il grande scontro fra cristianità e islamismo che caratterizzerà per secoli anche il mondo mediterraneo e occidentale7. Eppure, per lunghi secoli nessun vero contatto vi sarà fra il mondo africano e medio-orientale da una parte e il mondo mediterraneo e occidentale dall’altra: in ciascuno dei due mondi la lotta contro l’islamismo avvenne separatamente dall’altro, senza alcun collegamento o ricerca di alleanze. Con la crisi della corte di Bisanzio e dell’impero d’oriente successiva alla morte di Giustiniano, e nella lontananza del regno copto egiziano ormai in mano araba, ciascun regno cristiano medio-orientale dovrà combattere la sua guerra da solo. Come si è visto, il regno di Nubia, il regno di Ghassam e la Siria cedettero ben presto (il regno nubiano sarà poi inglobato dall’Egitto nel XIV secolo). Il regno axumita, invece, resistette, protetto in certa misura dai suoi bastioni naturali. Ma questo regno, un tempo potente, apparì sempre più isolato, lontano, dimenticato. Si dipana qui un periodo di oscurità nella storia etiopica, che durerà secoli. A quanto sembra il regno axumita, soprattutto nei bassipiani poco fertili e malarici, fu vittima di siccità e carestie. Nel IX secolo, un sultanato islamico perdurante all’incirca fino al XVI secolo si costituì nel cuore dello Shoa, un tempo parte dell’impero etiopico (nel 2006 sono state ritrovate le rovine di Nora, cittadina islamica come sembrano dimostrare i resti di una moschea). 6 7
Ibidem. Cfr. J.S. Trimingham, Islam in Ethiopia, London 1952, Oxford University Press.
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Infine la tradizione narra della terribile regina Judith, alla testa di un vicino regno che (secondo alcune leggende probabilmente antisemite) fu un regno ebraico, probabilmente agaw: ella, ai primi del decimo secolo, devastò e ridusse a un cumulo di rovine quanto restava dell’impero axumita, distruggendo la grande basilica cristiana di Frumentius ad Axum e tutte le altre chiese, provocando l’esodo della popolazione abissina (ancor oggi l’antica chiesa rupestre di Wukro Cherchos nel Tigray mostra segni di un antico incendio dovuto secondo la tradizione a Judith; non attendibile invece la leggenda che vuole incendiata da Judith la chiesa rupestre di Mikael Barka, che è posteriore di almeno quattro secoli). La crisi del regno axumita era sempre più grave. La stessa corte sovrana divenne e restò per molti secoli una corte mobile, costituita da centinaia di migliaia di uomini e animali, che si spostava nomadicamente con le tende per sfuggire ai numerosi rivali e per cercare terre adatte allo stanziamento. I contadini temevano le visite reali (che potevano protrarsi per mesi generalmente a distanza di dieci anni) più delle micidiali invasioni delle locuste e più delle incursioni dei briganti per via delle devastazioni dei campi, delle razzie, dei tributi e delle corvées: in effetti l’esercito habesha non era, e non fu per molti secoli, una milizia di Stato regolarmente stipendiata cosicché i soldati, non pagati, con l’assenso tacito o esplicito dell’imperatore si rifacevano con le razzie. Nelle sue peregrinazioni questa corte sovrana si ritirò via via sempre più verso l’interno col passar dei secoli, così sempre più allontanandosi dal mare e dall’epicentro axumita. Fu una fuga, un secolare arretramento progressivo verso il centro e il sud in cerca di nuove sedi. Ne vennero, naturalmente, conflitti sanguinosi con le popolazioni e le tribù dell’entroterra (in particolare Agaw, Sidamo, Guraghe) che resistettero con ogni forza alla calata degli invasori che, se in precedenza esercitavano una sovranità lontana, ora invece giungevano dal nord a cacciarli dalle loro terre. Quanto restava dell’impero non aveva più ormai alcuna continuità con la grande civiltà axumita, nemmeno etnica stante una inevitabile contaminazione col tipo aborigeno. Nel frattempo l’avanzata islamica, prima dalle coste settentrionali e poi dalle coste meridionali del Mar Rosso, si spingeva ancor più profondamente nell’entroterra africano giungendo nelle lande meridionali a sud del regno amhara. Penetrando all’interno del paese, i guerrieri musulmani razziavano e deportavano in schiavitù intere popolazioni di oromo o galla “infedeli”, destinate nella penisola sudarabica al duro lavoro agricolo disdegnato dai beduini nomadi e dai mercanti: ancor oggi il termine “galla” è sinonimo di “schiavo”. Verso il XII secolo i Dancali a nord, i Begia nelle terre sudanesi, i Somali e i Sidamo a sud del regno amhara, dopo l’epoca
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dei conflitti, sono ormai convertiti all’islamismo. Se si domanda il perché di questa crescente diffusione dell’islamismo anche nei paesi più vicini al regno amhara e da esso controllati, la risposta è presto data: nelle parole di uno studioso dell’età coloniale, l’Etiopia «è stata per secoli il nemico implacabile, distruggitore, di tutte le stirpi con le quali è venuta a contatto. E questa sua feroce politica, ben più che la propaganda dell’Islam, ha finito per isolarla in un cerchio di nemici, che non disarmeranno mai»8; «l’orgoglio di razza oppose una barriera insuperabile all’affratellamento con stirpi, considerate inferiori e disprezzate come paria. Si volle imporre con le armi la religione del popolo dominante, come vincolo di vassallaggio. E così l’odio contro l’oppressore si ritorse contro la fede cristiana. Queste stirpi, disprezzate e violentate dai cristiani, si rivolsero fiduciosamente verso gli Arabi. L’Islam si mostrò verso di esse paternamente soccorrevole. [...] Gli apostoli mussulmani [...], con l’accogliere i neofiti in una società di uguali, hanno dato loro la fierezza di entrare in un mondo superiore. L’Abissino chiude invece in faccia a questi derelitti le porte del tempio e li ricaccia, in tal modo, nelle braccia dei suoi più feroci avversari»9. Il giudizio sul dominio islamico è in realtà eccessivamente indulgente. Non bisogna dimenticare che (dal settimo secolo fino, illegalmente, agli anni sessanta del ventesimo) la tratta di milioni di schiavi neri (condannata con scomunica da Paolo III nel XVI secolo e da Urbano VIII nel XVII) fu fatta per lo più non dai bianchi (che l’abolirono nel XIX secolo) bensì soprattutto dai mercanti arabi e financo swahili e neri che catturavano decine di migliaia di schiavi per gli arabi proprietari di piantagioni, inviando le donne come concubine per gli harem dei sultani e i bambini per farne degli eunuchi, castrati per sviluppare doti canore o per sorvegliare le concubine una volta cresciuti. Tuttavia rimane indubbiamente il fatto che queste popolazioni, avverse ai tentativi di dominio e di sfruttamento da parte del regno amhara che imponeva con la forza la religione cristiana, divennero islamiche; almeno una parte delle popolazioni prima sottomesse e deportate si convertì, anche perché questo era il solo modo per avere diritto ad un trattamento paritario rispetto agli altri musulmani. E col passare del tempo l’influsso arabo e musulmano non apparve più solo nella forma della razzia e del saccheggio, ma anche nella forma del commercio e nell’instaurazione di stabili regni musulmani sulla costa del Mar Rosso e dell’Oceano indiano e poi ancor più all’interno, mentre una estesa produzione culturale, attraverso i manoscritti religiosi privi di immagini ma scritti con raffinata calligrafia, 8 9
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 19. Ivi, pp. 239-240.
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diffondeva sempre più l’islamismo. I mercanti arabi, che fin dal I sec. a.C. giungevano per i loro commerci dall’Iran e dal Golfo Persico, si insediarono fra il IX e il X secolo a Mogadiscio sulla costa somala. Quindi, a partire dal X secolo, gli arabi scesero ancora più a sud nell’isola di Zanzibar, parte di un arcipelago dell’attuale Tanzania, dove fra il XII e il XV secolo presero il sopravvento giungendo infine a governare l’isola che trasformarono in una città-stato araba retta da un sultanato, con le moschee, i bazar e le caratteristiche viuzze e stradine strette (che garantiscono l’ombra grazie ai camminamenti coperti e alle tettoie): gli islamici si impadronirono dei terreni e delle piantagioni migliori, costituirono un grande centro per il commercio dell’avorio, dell’ebano e delle pietre preziose, e ampliarono la tratta degli schiavi neri (soprattutto bantu) che venivano catturati attraverso spedizioni nelle contrade più interne. Ai neri, che nelle zone africane sotto il dominio islamico costituivano l’ottanta per cento della popolazione, rimaneva − quando evitavano la schiavitù − la pesca, il lavoro nei campi e in genere le mansioni più umili. Infine, nel XIII secolo, tutta l’attuale Somalia, già ampiamente musulmana, era ormai centro di sultanati; la Nubia invece divenne definitivamente islamica nel XIV secolo, quando l’ultimo re cristiano fu rimpiazzato con un sovrano musulmano con conseguente conversione all’islamismo di gran parte della popolazione.
Chiese rupestri del Tigray: Bet Medhane Alem
Chiese rupestri del Tigray: Bet Mikael Imba
Chiese rupestri del Tigray: Bet Gabriel Tsilal Meo
Chiese di Lalibela: Bet Ghiorgis
Chiese di Lalibela: Bet Emmanuel
Chiese di Lalibela: Bet Medhane Alem
Chiese di Lalibela: Bet Abba Libanos
Dintorni di Lalibela: Bet Naakuto Laab
Dintorni di Lalibela: Bet Yemrehanna Kristos
Dintorni di Lalibela: Bilbila Kirkos, codice in ge’ez illustrato
Lago Tana: resti del palazzo di Sousenyos (o di chiesa annessa)
Lago Tana: Bet Maryam
Bet Maryam, interno: dipinto su tema “lacustre” (Passaggio del Mar Rosso)
Lago Tana: Bet Debre Sina, interno, crocefissione
Lago Tana: Bet Ura Kidane Meret, interno Cerva allattante bimbo (probabile allusione alla leggenda, particolarmente significativa in una cultura pastorale, che vuole S. Stefano bambino allattato da una cerva).
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ASCESA E CADUTA DELLA DINASTIA ZAGWE: LALIBELA E L’ARTE RELIGIOSA ETIOPICA
Nel medioevo etiopico, che susseguì alla caduta del regno di Axum, i luoghi in cui poté sopravvivere, sia pur isolatamente, la civiltà cristiana nata negli ultimi secoli di storia axumita, furono i monasteri. L’antica architettura cristiana propria dell’epoca dei monasteri etiopici si caratterizza, proprio come l’architettura di Cappadocia e di altre zone orientali, anzitutto come architettura rupestre. La ricerca di solitudine, l’esigenza di ambienti freschi atti a contrastare il clima torrido, la necessità di sfuggire al pericolo islamico che dalle coste eritree e dai sultanati sudanesi premeva verso l’entroterra, spiegano la particolare caratteristica dell’architettura religiosa rupestre etiopica. Infatti le 150 chiese rupestri del Tigray, non lontane da Axum, scolpite dal IX al XV secolo nella roccia o all’interno di grotte, sono come mimetizzate e a tutta prima quasi invisibili, sovente nascoste da cerchi di ginepri o eucalipti. Spesso vi si arriva camminando per ore per sentieri ripidi, impervi, anche pericolosi, che costeggiano i monti spalancandosi su baratri e precipizi; le chiese sono sovente poste, come fortezze in cima a un monte, a quasi tremila metri su pareti a picco sospese nel vuoto alte anche decine o centinaia di metri, e in certi casi sono accessibili solo scalando la parete che si innalza sullo strapiombo, affidandocisi agli appigli e alle sporgenze della roccia o (come nell’antichissimo monastero di Debre Damo) tirati appesi ad una fune. Qui si vede bene un carattere tipico del monachesimo orientale, ben differente da quello occidentale: mentre infatti i monaci occidentali costruivano i loro monasteri in luoghi sì appartati ma comunque passibili di una vita maggiormente interattiva con la possibilità di lavorare la terra utilizzando anche i contadini del posto, invece nei monaci orientali, capaci sì di vita cenobitica ma meno legati alle popolazioni, appare proprio una esasperata ricerca di solitudine e di fuga dal mondo, che li portò a costruire i propri monasteri nel deserto come in Sinai o sulle cime dei monti a tremila metri d’altezza come nel Tigray. Queste chiese sono nascoste al punto che rimasero a lungo quasi del tutto sconosciute, tranne ai contadini del luogo e a pochi esploratori occidentali: le conosceva il gesuita Manuel Barrada che visse nel Tigray nel XVII secolo e le descrisse nel XX secolo il viaggiato-
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re David Buxton (The Rock-Hewn and Other Medieval Churches of Tigre Province, Ethiopia), ma solo negli ultimi decenni esse sono state veramente riscoperte e parzialmente catalogate e studiate. All’interno di queste chiese rupestri − in queste zone ostili fra dirupi, gole e vette sconvolte dai sommovimenti geologici in cui il solo elemento umano è costituito dalle povere case dei nomadi e dei pastori − si trovano, in ambienti freschi e sovente aerati da cunicoli e gallerie, mirabili sculture e affreschi, notevoli bassorilievi, colonne, capitelli, volte a botte, cripte, cupole decorate, soffitti a cassettoni con intagli elaborati, porte in legno riccamente decorate, affreschi (generalmente tardi, dal XVI secolo in poi), croci e manoscritti preziosi. In alcune di queste chiese si ripropone lo stile architettonico axumita, tanta era la nostalgia di un forte e glorioso impero cristiano. Poi, nell’XI secolo, si formò un nuovo elemento politico accentratore. Più a sud del Tigray, i re Agaw fondarono la dinastia zagwe con capitale a Roha. Zagwe in ge’ez allude appunto alla stirpe agaw: come già indicavano le antiche iscrizioni axumite di Adulis e quelle dei sovrani Ezana e Kaleb, gli Agaw − di lontane origini cuscite − costituivano anticamente una vasta popolazione meridionale dell’impero axumita di cui, dopo il soggiogamento e la successiva conversione all’ebraismo e poi al cristianesimo, erano divenuti parte integrante con parziale fusione con l’elemento semitico. Dopo la fine dell’impero axumita gli Agaw fondarono una nuova dinastia, mantenendo le loro terre meridionali ed anzi spostandosi ancora più a sud, oltre 500 chilometri più a sud di Axum, ove fecero di Roha la loro capitale in modo da stabilire una grande distanza dal mare su cui ormai spadroneggiavano gli arabi: il sito fu scelto sui fertili terreni degli altipiani (a 2600 metri di altezza) caratterizzati da un clima temperato con ampie precipitazioni favorevoli alle colture, lontani dalle zone malariche e paludose e vicino al fiume Tekezé. La dinastia zagwe (1137-1270) fu un regno, una di quelle monarchie costituite su base etnica di cui è piena la storia dell’Africa: essa, contrariamente all’originaria civiltà axumita di origine ebreo-yemenita, è una dinastia prettamente africana. In effetti solo la vecchia etnologia può ridurre all’elemento tribale, considerato privo di storia, la capacità di agglomerazione politica in terra africana. Invero la dinastia zagwe, da secoli cristianizzata, portò con sé il ricordo dell’antico retaggio axumita e certamente rivendicò con orgoglio la supposta discendenza salomonica dai mitici re di Axum quale elemento fondante della propria legittimazione, anche per vie traverse avvalorando la leggenda secondo cui Salomone avrebbe generato un figlio erede al trono non solo dalla regina di Saba ma anche da una sua ancella, e il ge’ez venne assunto come lingua ufficiale
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dello Stato. In realtà però si trattava di una diversa dinastia e di un nuovo regno dai caratteri peculiari. Gli Zagwe approfittarono del vuoto di potere creatosi dopo la caduta del regno di Axum per estendere il più possibile il loro dominio, tenendosi lontani dalla costa islamizzata. Ciononostante essi non furono usurpatori, come una certa storiografia ufficiale etiopica ancor oggi vuole, per il semplice fatto che il regno di Axum non c’era più da secoli: gli Zagwe non usurparono il regno di Axum, bensì fondarono un altro regno. Piuttosto il filo conduttore con il passato fu costituito per questa nuova dinastia dall’elemento cristiano: ma tale filo conduttore derivava non direttamente dalla linea cosiddetta “salomonica” di origine axumita, di cui restavano solo ricordi e vestigia, bensì dal più recente monachesimo etiopico tigrino, in realtà non del tutto e non solo anacoretico e solitario ma anche cenobitico e comunque tale da costituire un elemento almeno parzialmente evangelizzatore. La dinastia zagwe iniziò a costruire o permise ai monaci di costruire le prime chiese nel territorio circostante Roha, per lo più in montagna all’interno di grandi grotte naturali secondo l’uso tigrino. Varie tradizioni locali, tuttora avallate dalle guide, attribuiscono addirittura la fondazione delle più antiche di queste chiese allo stesso Re Kaleb datandole così al VI secolo dopo Cristo, ma queste tradizioni sembrano in realtà semplicemente avvalorare ad hoc l’idea di una diretta continuazione fra civiltà axumita e dinastia zagwe. Il sovrano di maggior spicco della dinastia zagwe fu − fra il XII e il XIII secolo − il re Lalibela, un principe che la leggenda dice predestinato, avvolto alla nascita da uno sciame di api benauguranti, che giunse al potere supremo solo dopo essere scampato ai molteplici attentati alla sua vita orditi dai signori rivali (secondo altre fonti dal fratello). Con Lalibela il cristianesimo apparve veramente l’elemento fondante del regno zagwe: egli infatti è un santo della chiesa etiopica e i tardi Atti di Lalibela del XV secolo ne narrano (in ge’ez anche in prosa rimata) i prodigi1. Lalibela, come anche il suo successore, protesse per quanto poté i cristiani d’Egitto dalle persecuzioni del sultano, a quanto sembra anche minacciando di deviare il corso delle acque del Nilo Azzurro passante per l’Etiopia. In realtà, come si sa, il Nilo Azzurro che nasce dal lago Tana è solo un affluente del grande Nilo nascente dal lago Vittoria, per cui un simile atto non avrebbe avuto l’effetto devastante desiderato, ma la minaccia fu efficace in un’epoca in cui non era chiaro quali fossero le sorgenti del grande fiume. Come ringraziamento per essere scampato all’avvelenamento ordito ai suoi danni, che lo lasciò per alcuni giorni fra la vita e la morte, Lalibela fece 1
V. una scelta di brani in E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 65-70.
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un voto: egli doveva creare nel cuore dell’Africa una nuova Gerusalemme dopo la caduta di Edessa. A tal scopo, come dice un manoscritto conservato a Lalibela, sembra che egli abbia fatto giungere apposite maestranze da Gerusalemme (che si vuole conoscesse per esservi stato in esilio) e forse anche maestranze egizie cristiane fuggite da Alessandria per via delle persecuzioni islamiche, ma certamente dovette avvalersi anche del lavoro manuale di moltissimi pastori e contadini della zona. Così, da un sogno visionario, si sviluppò Lalibela, la città di Roha che presto prese il nome dal suo più grande re, con le sue celebri chiese rupestri. La leggenda dice che esse furono costruite nel giro di vent’anni (alcune in una sola notte grazie all’aiuto degli angeli), ma naturalmente il periodo di costruzione è stato molto più lungo e tale da impegnare anche i sovrani successori di Lalibela. Memori dell’architettura religiosa rupestre del Tigray rinvenibile qualche centinaio di chilometri a nord, le chiese rupestri di Lalibela appaiono quasi sotterranee e nascoste, collegate fra loro da un sistema labirintico di grotte e gallerie, da un groviglio e da una rete inestricabile di passaggi sotterranei. Esse furono costruite e quasi ricavate ed estratte dalla roccia e dal tufo con un michelangiolesco “levare”, e poi pazientemente scolpite con colonne, capitelli, arcate, navate e spesso affrescate con certo influsso dei moduli della fissità bidimensionale bizantina. Si scavavano nel terreno fino a decine di metri di profondità i quattro lati di un quadrato o di un rettangolo in modo che questi lati scavati isolassero al centro un grande blocco di roccia, e poi si scavava entro questo grande blocco facendovi porte e finestre, svuotandolo all’interno o lavorando la roccia fino a farle assumere la forma di navate, colonne, capitelli; oppure si scavava la roccia solo per tre quarti in modo che il fondo della futura chiesa fosse il prolungamento della roccia, oppure ancora (fuori Lalibela) si costruiva la chiesa sotto una di quelle enormi caverne di cui il territorio etiopico abbonda.2 Vi era veramente un elemento visionario in questa impresa: il fiume che attraversa Lalibela (in realtà un canale artificiale ora, e spesso probabilmente anche allora, privo di acque) venne denominato Giordano; il nome della chiesa di Beta Debre Sina (o Beta Mikael) significava “Casa del Monte Sinai”; nella chiesa di Medhane Alem si additarono (e si additano) le tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe; la chiesa di Beta Golgotha, che prende il nome dal monte della crocefissione, secondo un manoscritto di Abba Amha (conservato a Londra) conterrebbe addirittura la tomba di Cristo accanto alla tomba del re Lalibela; infine, in un grande blocco di roccia si trovereb2
L. Bianchi Barriviera, Le chiese in roccia di Lalibelà e di altri luoghi del Lasta, Roma 1963, Istituto per l’Oriente.
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be la tomba di Adamo. La volontà universalistica e non solo nazionalistica del progetto architettonico è anche evidente nell’edificazione della piccola chiesa di Beta Dangal, dedicata alle cinquanta novizie del monastero femminile di Odessa in Turchia fatte uccidere dall’imperatore Giuliano l’Apostata nel IV secolo. Il programma politico-religioso di Lalibela, nel suo universalismo, era chiaro: se Gerusalemme era divenuta la capitale degli ebrei deicidi che rifiutavano la nuova e vera religione, se cadeva in mano musulmana, allora non le competeva più il ruolo di guida della cristianità come non competeva alla chiesa romana. Quel ruolo doveva passare al nuovo e autentico centro della cristianità: Lalibela. Come Menelik, il figlio della regina di Saba e del re Salomone, aveva sottratto l’Arca dell’Alleanza da Gerusalemme e fatto dell’impero di Axum il centro della religione ebraica, così Lalibela, il nuovo e predestinato sovrano, sottraeva da Gerusalemme i suoi simboli cristiani e li portava nel cuore dell’Africa. Se ad Axum si mostrano, con suprema indifferenza di ogni filologia storica e archeologica, il palazzo e i bagni della regina di Saba, a Lalibela con orgoglio e altrettanta suprema indifferenza si lascia intendere che qui siano le tombe dei profeti, di Cristo e di Adamo. E se anche non si dice che qui siano veramente sepolti Adamo, Abramo, Isacco, Giacobbe, il Cristo, si intende comunque che qui è la ricostruzione simbolica della vera Gerusalemme. Lalibela fu espressamente voluta, concepita e costruita come una città santa e proprio questo ne spiega il gran numero di chiese, che in un raggio di pochi chilometri quadrati sono ben undici (senza contare quelle, per lo più un poco precedenti, del territorio circostante). Lalibela non è un centro che si sia dotato di qualche chiesa: tutto al contrario, prima sono state costruite le chiese, nell’intento di farne un luogo di raccordo e di pellegrinaggio della cristianità habesha e non solo habesha, e soltanto dopo attorno a queste chiese si è formato un piccolo villaggio di pastori e contadini (che come tale appariva ancora nelle fotografie di poche decine di anni fa) per il quale tale numero di chiese sarebbe stato certamente eccessivo. Non potevano mancare in queste chiese, qua e là, finestre e fregi in stile axumita onde richiamare al mito fondatore: ad esempio certe finestre ogivali ricordano chiaramente la parte superiore delle stele axumite, e nella chiesa di Bilbila Giyorgis (fuori Lalibela) un’iscrizione sul tabot, a detta del sacerdote che solo può vederla, attribuisce la costruzione della chiesa allo stesso Re Kaleb. Ma queste memorie axumite, pur indubbiamente legate alla reminiscenza di un antico impero di cui gli Agaw erano stati parte, erano anche e soprattutto la ripresa cosciente e volontaria, politicamente e ideologicamente orientata, di un mito fondatore paragonabile al mito dei sette re di Roma. E invece, dal punto di vista costruttivo e probabilmente
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anche spirituale, la differenza con Axum non potrebbe essere più netta: la civiltà axumita anche cristianizzata conservava nel segno della continuità i suoi orgogliosi e altissimi monoliti svettanti verso il cielo, simbolo di un grande e possente impero che riservava i sotterranei solo alle tombe e costruiva le chiese cristiane financo sulle più alte ambe, mentre invece ora la dinastia zagwe non affermava più orgogliosamente la propria potenza ma quasi si nascondeva sottoterra, prediligendo il buio e l’oscurità, i dedali e i labirinti sotterranei, le caverne e le grotte. Perché questa volontà di costruire sottoterra? Non era tanto, come in certi luoghi del medio-oriente, il desiderio di costruire ambienti refrigeranti sotterranei poiché il caldo in questa zona dell’Etiopia non è insopportabile come nel deserto della Dancalia; nemmeno si trattava soltanto del desiderio di nascondersi alle razzie islamiche, ancora non giunte in quelle zone, anche visto che i costruttori di Lalibela erano i sovrani di una dinastia e non umili pastori. Con ogni probabilità questa scelta costruttiva rivela proprio una determinata inclinazione spirituale: all’elemento axumita più solare, più celeste e diurno succede una predilezione notturna, emblema di una spiritualità che come memore delle catacombe appare ancora molto legata all’elemento tellurico ed anzi ctonio. Il simbolismo è voluto, e ad esempio il gran numero di stretti cunicoli e gallerie che si vedono a Lalibela allude con ogni probabilità alla evangelica “porta stretta” del cielo attraverso cui è difficile passare. Per tutto questo, non bisogna eccedere nel sottolineare la continuità fra civiltà axumita e dinastia zagwe: del resto tutto il problema della “legittima discendenza” e degli “usurpatori” è un falso problema, poiché tutti coloro che nella storia abissina hanno conquistato il potere si sono con ciò stesso “legittimati”, e pressoché tutti furono “usurpatori”.3 Lalibela regnò decine di anni, e morì settantenne. Dopo la sua morte, lentamente la grande dinastia zagwe decadde e infine cadde. Con ogni probabilità tutta la zona fu preda di una delle terribili epidemie e carestie ricorrenti nella storia abissina e ciò, unitamente alle crescenti scorrerie islamiche che ormai entravano da sud e da nord sempre più nell’entroterra africano (abbiamo detto del regno islamico di Shoa nell’Etiopia centrale), ne determinò infine l’abbandono. L’ultimo re della dinastia zagwe fu Neakutelaab, nipote di Lalibela. Al suo posto, nel 1270, subentrò Yekuno Amlak, un principe amhara dello Shoa. La cronaca reale dice che l’ultimo 3
A torto insiste sulla pretesa continuità fra civiltà axumita e dinastia zagwe M. Gobezie in Lalibela and Yimrehane Kirstos: The Living Witnesses of Zagwe Dynasty, Addis Ababa 2004, Kesis Egziabher Baye.
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sovrano zagwe abdicò a favore del nuovo reggente amhara, ma la storia è fatta dai vincitori e la cronaca reale espone la linea ufficiale del nuovo reggente: in realtà un’abdicazione a favore non di un congiunto o di un fido vassallo ma a favore di un estraneo è poco credibile, ed è probabile che il passaggio di consegne sia stato meno pacifico. Naturalmente anche questo nuovo potere aveva bisogno di una legittimazione sacrale, e dove trovarla se non nel mitico regno di Axum? Così, previa certificazione di nobiltà a briganti, dopo la parentesi zagwe culminata nel regno di Lalibela ma ciononostante qualificata come usurpatrice, si disse ripristinata la linea salomonica axumita. I nuovi sovrani compresero molto bene il ruolo insostituibile del clero, di cui avevano bisogno. In particolare sembra che l’imperatore Amda Sion avesse ordinato ad alcuni monaci di raccogliere le antiche tradizioni nel Kebra Nagast, che divenne la saga nazionale etiopica legittimante il potere sovrano riannodandolo alla leggenda di Salomone e della regina di Saba. Ma se il sovrano aveva bisogno del clero, anche il clero a sua volta aveva bisogno del sovrano. Si cementò qui quell’alleanza fra potere regale e chiesa ortodossa che caratterizza tutta la storia dell’Etiopia. Secondo una tradizione, in base ad un antico documento il sovrano avrebbe stretto con Tekle Haymanot, un eremita destinato a diventare il santo più celebre della chiesa etiopica, un patto col quale avrebbe concesso un terzo di tutte le terre etiopiche al clero con la facoltà di edificarvi monasteri. Il documento, di origine monastica, era un falso simile alla pseudo donazione di Costantino (smascherata dal filologo Valla) che sanciva il potere temporale della chiesa cattolica. Rimane tuttavia il fatto che in Etiopia le terre dei religiosi furono sempre vastissime. Il clero nel suo insieme possedeva (ancora fino a poco tempo fa) enormi latifondi. Fino a pochi decenni or sono, esso aveva in prerogativa per secolare consuetudine i diritti feudali: la popolazione locale doveva ad esso tasse, dazi per l’uso delle terre e dei pascoli, parte dei raccolti (le “decime”), prestazioni lavorative (le corvées) che ne trasformavano la condizione in una servitù della gleba (ghebbar). Non a caso del resto la chiesa etiopica, in un paese per molti secoli fondato sulla schiavitù, non ha mai riconosciuto agli schiavi fuggitivi il diritto d’asilo nelle chiese, riconosciuto invece ai peggiori criminali. Il clero esercitava un grande potere sulla popolazione ed era in numero enorme, ben superiore all’attuale (sebbene ancor oggi vi siano in Etiopia ben 400.000 religiosi, fra cui 100.000 preti). Il sacerdozio, più che una vocazione, appariva in troppi casi come un modo di procacciarsi in un paese poverissimo una dimora e un sostentamento senza troppo faticare, in una misura certamente maggiore di quanto analoghi fenomeni potessero comparire nel mondo europeo. In
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linea di principio l’accesso allo stato sacerdotale richiedeva appositi cicli di studi di vari livelli (del resto in Etiopia fino al XX secolo le scuole erano solo religiose), ma nella pratica l’accesso al sacerdozio non era sufficientemente regolato e selezionato, e presto divenne prassi consueta (ancora nel XX secolo) comprare l’ordinazione sacerdotale in cambio di un tributo, spesso ingente, ai superiori ecclesiastici, cosicché il clero etiopico era in molti casi ignorante e financo analfabeta, in gran parte incapace sia di leggere che di scrivere e solo capace di recitare a memoria le preghiere di rito. Spesso il clero era avido e venale, ozioso e indolente, indisciplinato e rilassato nei costumi e il sacerdozio tendeva a trasformarsi in una carica onorifica che permetteva una vita piuttosto privilegiata e parassitaria, spesso tramandata (stante la possibilità del matrimonio ecclesiastico) di padre in figlio. Questo stato di cose, e soprattutto l’esosità delle decime e delle corvées che configuravano una vera e propria servitù della gleba diretta dal clero, finì in taluni casi − perfino in una popolazione religiosa e tradizionalista come quella habesha − per suscitare ribellioni che giunsero talora anche al saccheggio e alla devastazione dei monasteri. Tekle Haymanot, cui si attribuiva l’alleanza col sovrano, era un eremita erede della durissima tradizione ascetica dei nove santi, ed è spesso raffigurato nell’iconografia etiopica orante in piedi su una gamba sola, avendo perso l’altra − dice la leggenda − per aver passato gli ultimi anni della sua vita in una cella tanto stretta da non potersi sedere (e si vede qui il tentativo di raccordo all’eremita Pantalewon, che visse 43 anni in un pozzo su un’amba come in una cella, secondo la leggenda perennemente in piedi per l’esiguo spazio). Ma Tekle Haymanot era evidentemente anche un uomo di ferro con una precisa visione politica. Egli fondò il grande monastero di Debre Libanos nell’Etiopia centrale, che da quel momento giocò un ruolo fondamentale nella vita religiosa e politica dell’Etiopia, e diffuse sempre più il cristianesimo anche sugli altipiani centrali dell’Etiopia. Così, grazie al supporto della nuova dinastia la tradizione monastica si diffuse più a sud nell’Etiopia. In particolare il grande lago Tana nel Goggiam, situato a 1800 metri di altezza e grande otto volte il lago di Garda, da cui si diparte il Nilo Azzurro (che, dopo aver prodotto le impressionanti cascate del Tisisat o “acque fumanti”, si congiunge nel deserto sudanese con il Nilo Bianco proveniente dal Lago Vittoria, per poi giungere mescolato ad esso in Egitto e sfociare nel Mediterraneo), si popolò sulle coste e in alcune delle sue 37 piccole isole di chiese e di monasteri. Anche qui come altrove l’esigenza di solitudine e la ricerca di sicurezza permase fortissima: infatti i monasteri del lago Tana sono nascosti dal fitto frondame oppure posti, invisibili da lontano, sui remoti isolotti. Certamente non si trattava soltanto della ricerca
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mistica di un luogo solitario di pace e di preghiera da parte dei monaci, ma anche della opportunità di luoghi appartati, isolati ed impervi onde evitare attacchi e persecuzioni: attorno al lago Tana vi sono reti di grotte scavate e collegate con corridoi, che evidentemente servivano agli eremiti per trovare rifugio in caso di attacco. Questi monasteri risalgono in alcuni casi al XIII-XIV secolo, e più spesso al XVI-XVII. I dipinti dei monasteri e delle chiese etiopiche (spesso restaurati fino al XIX secolo) raramente sono affreschi: in realtà il più delle volte sono eseguiti su tele fatte di vecchi vestiti di cotone poi incollate al muro4. Le più antiche testimonianze della pittura religiosa etiopica (risalenti al XIII secolo) risentono dell’influenza bizantina e orientale (siriana e armena) e anche copta, soprattutto per la ieraticità e la bidimensionalità aprospettica visibile nelle icone e nelle illustrazioni giustamente celebri delle miniature in pergamena. L’iconografia dei dipinti si ripete quasi immutabile: temi dell’Antico e Nuovo Testamento, l’onnipresente S. Giorgio che uccide il drago, la Vergine col bambino, la vita di Gesù e di Maria, i santi e i martiri. La fissità dei canoni appare comprovata anche dal racconto (dell’avventuroso viaggiatore Bruce nel XVIII sec.) secondo cui un pittore europeo del XVI secolo alla corte etiopica (impropriamente confuso dal Bruce con il pittore Brancalion) sarebbe stato contestato per aver dipinto il Bambino sul braccio sinistro della Vergine − essendo la sinistra un simbolo malefico − e non sul destro. Invero l’iconografia orientale e anche etiopica non manca di rappresentazioni del Bambino sul braccio sinistro della Vergine, e le rimostranze dovettero essere sicuramente dovute anche a xenofobia, ma il racconto testimonia comunque di una rigidezza nell’osservanza dei 4
Durante la missione Dakar-Djibouti (1931-1933) oltre 350 dipinti etiopici su tela − principalmente del XVII e XVIII secolo − furono staccati dall’etnologo M. Griaule (poi noto studioso dei Dogon) dalle pareti delle chiese nei pressi di Gonder “per salvarli” (in parte fra le proteste e in parte con l’accondiscendenza del clero e delle autorità etiopiche): sostituiti con copie essi furono portati nel Musée d’ethnographie (poi Musée de l’Homme) di Parigi, mentre 300 manoscritti etiopici finirono alla Bibliothèque Nationale (v. C. Bosc-Tiessé - A. Wion, Peintures sacrées d’Éthiopie. Collection de la Mission Dakar-Djibouti, St. Maur des Fossés 2005, Sépia). Leiris scriveva che il gruppo, di cui egli rappresentava la coscienza inquieta, era diventato «un’impresa di traslochi» dove gli oggetti ricevuti venivano portati via «seduta stante, con un cinismo da businessmen o da ufficiali giudiziari» (L’Africa fantasma, cit., p. 150). Molti anni dopo Leiris, con evidente allusione alle acquisizioni durante la missione di Griaule, scrive che «nel caso di oggetti religiosi o artistici trasportati in un museo metropolitano, in qualunque modo siano stati indennizzati i loro proprietari, è pur sempre parte del patrimonio culturale di un intero gruppo sociale che viene sottratta ai reali aventi diritto» (L’etnografo di fronte al colonialismo, in L’occhio dell’etnografo, cit., pp. 115-116).
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canoni. Ma questa rigidezza non impediva l’illustrazione vivace di temi specificamente etiopici: la fuga in Egitto, poiché per la tradizione etiopica la Madonna sarebbe passata anche per l’Etiopia facendo sosta proprio in un monastero sul lago Tana, i santi specificamente etiopici, la leggenda di Belay il Cannibale con il suo messaggio di speranza di remissione dei peccati. L’ingenuità e la semplicità dei tratti, e il ritardo con cui vennero accolte alcune novità occidentali, può far pensare a datazioni molto più antiche del reale: si vedono dipinti del XVII secolo che a prima vista si potrebbero tranquillamente scambiare per dipinti di tre o quattro secoli prima. La simbologia vi è chiara: i personaggi sono tutti rappresentati in bianco o rosa; i personaggi positivi come i santi sono rappresentati frontalmente o al massimo di tre quarti; i personaggi cattivi e negativi sono rappresentati di profilo, affinché il loro sguardo malvagio non abbia un nefasto effetto sull’osservatore; il diavolo è rappresentato in nero poiché evidentemente per gli habesha, fieri della loro origine semita, il nero sembra più atto alla personificazione del male. Fra i dipinti delle chiese molti sono immagini-talismano, immagini magiche spesso ricche di motivi geometrici il cui sguardo è protettivo e che, anche quando rappresentano immagini a prima vista inquietanti, intendono in realtà essere delle medicine per cacciare i demoni, offrendo la possibilità di proiettarne e deviarne fuori di sé l’immagine interna5. Nei dipinti delle chiese del lago Tana compaiono soprattutto i temi biblici legati alle acque: la pesca miracolosa, Cristo che salva S. Pietro la cui vacillante fede gli impedisce di camminare sulle acque, la tempesta sul lago che angoscia i discepoli mentre Cristo tranquillamente dorme, il passaggio del mar Rosso le cui acque si aprono per Mosè ma si richiudono sugli egiziani. Sembra veramente che per i monaci il lago Tana sia un lago di Tiberiade o addirittura un Mar Rosso trasportati in Etiopia, così come Lalibela è stata costruita ad immagine di una nuova Gerusalemme. Il tema dell’acqua che fornisce l’alimento ai pescatori ma è anche infida e pericolosa sembra il filo sotterraneo di questi dipinti: in effetti ancora oggi, come al tempo degli antichi egizi, i pescatori si muovono su sottili ed esili canoe fatte di papiro che, anche se più adatte alla navigazione di quanto non sembrino a prima vista, certo poco possono quando dopo ore di traversata sul lago ci si imbatte in una tempesta, senza considerare il fatto che il lago era (e ancora in piccola parte è) popolato di ippopotami e anche di coccodrilli.
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Una panoramica con commento di queste immagini-talismano è in C. Kaiteris, Euchantement du démon. Rouleaux magiques éthiopiens, 2 voll., Paris 2006, Minotaure. Sulla pittura e l’arte cristiana etiopica v. AA.VV., Etiopia. Storia, arte, cristianesimo, Milano 2005, Jaca Book.
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Con lo sviluppo della pittura nell’arte cristiana etiopica si diffondeva anche l’uso delle croci, le più antiche delle quali risalgono al XII secolo o anche prima. Nei secoli successivi, comparvero molte croci di tutte le tipologie, greche, egizie a “tau”, di S. Antonio, fatte in legno, in ferro, in bronzo e più tardi (a partire dal XV secolo) in oro e in argento, via via col tempo sempre più finemente lavorate e intagliate in varie forme6. Le croci latine comparvero molto tardi e si diffusero sostanzialmente solo dopo il XVII secolo. La cosa rilevante è che, in queste croci etiopiche e particolarmente in quelle più antiche, non compare mai il crocefisso: non si trattava di una volontà iconoclasta quale quella che si andava diffondendo in oriente, bensì di un legame − residuo di più arcaiche concezioni − con l’antichissimo simbolo (nordico-ariano ma anche mesopotamico) solare e cosmologico della croce racchiusa nel cerchio simboleggiante la sfera del cosmo; il pathos della crocefissione, diffuso in occidente a partire dal V secolo (a parte un paio di eccezioni nel II secolo), si è diffuso solo tardi in Etiopia, e solo nellʼiconografia. Il simbolo della croce, aliena dal crocefisso, è importantissimo in Etiopia: se baciata dal fedele, può equivalere ad una confessione e remissione dei peccati; uomini e donne portano croci sul petto come simbolo di appartenenza religiosa o anche, in una strana ibridazione, come un amuleto contro gli spiriti maligni; croci sono ravvisabili all’ingresso di molti tukul e spesso − quale cristianizzazione delle scarificazioni tribali − sono tatuate sulla fronte o (come la nostra mamité) sul viso o anche su altre parti del corpo. In particolare l’antico uso del tatuaggio della croce sulla fronte, fatto col fuoco, rivestiva un importante significato: addirittura imposto come segno di riconoscimento, esso allude al «battesimo nel fuoco» contraltare al battesimo nell’acqua, ed essendo il tatuaggio il marchio con cui gli animali e anche gli schiavi (in certi casi ancora fino a pochi decenni or sono) venivano marcati a fuoco col sigillo del padrone, si intendeva con esso rimarcare che il cristiano era il servo di Dio, il suo armento. Nella reviviscenza monastica etiopica i problemi dottrinali teologici, intrecciati a quelli politici, tornarono al centro dell’attenzione come al tempo delle dispute calcedoniensi. Per quanto riguarda la natura del Cristo, si riformulava l’antico dilemma: Gesù era un uomo su cui la natura divina scese con lo Spirito al momento del battesimo nel Giordano, o era da sem-
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La più ampia documentazione fotografica sulle croci etiopiche è stata pubblicata dallo studioso polacco W. Korabiewicz (The Ethiopian Cross, Addis Ababa 1973, Holy Trinity Cathedral). Un’interessantissima raccolta (300 croci) si trova oggi al Museo Etnografico di Addis Abeba.
Antica croce in bronzo proveniente da Lalibela (attualmente in S. Maria di Zion, Axum)
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pre divino in quanto Figlio coeterno al Padre successivamente incarnato in una natura umana? I debrelibanesi (dal monastero di Debre Libanos) sostenevano la tesi dell’unione fra le due nature, che tuttavia rimangono distinte, emblematizzandola nelle “tre nascite”: la prima dall’eternità nel Verbo, la seconda temporale dalla Vergine, la terza con la discesa dello Spirito al momento dell’Unzione nel Giordano. Invece per i goggiamesi del lago Tana, vicini al monofisismo radicale e docetista, Gesù era figlio di Dio dall’eternità ed aveva una natura divina e umana, in cui però la persona umana solo al momento dell’Unzione con la discesa dello Spirito si tramuta in natura divina, totalmente assorbita e sublimata in essa, cosicché il corpo acquista una diversa sostanza non equiparabile a nessun corpo umano7. Parallelamente fra il XIII e il XIV secolo il movimento facente capo a Ewostatewos e al monastero di Debre Damo nel nord del paese, cui facevano riferimento i monasteri tigrini molti dei quali fondati da Ewostatewos, formulava precise contestazioni dottrinali nei confronti dei debrelibanesi: i tigrini, che spesso riprendevano la dottrina adozionistica, propugnavano fra l’altro la necessità di introdurre insieme alla domenica la festività del sabato secondo la tradizione ebraica mai obliterata nel cristianesimo etiopico, mentre invece i debrelibanesi opponevano che il Vangelo avesse abolito la legge mosaica anche nelle prescrizioni delle festività. La questione dell’Unione e dell’Unzione, e anche la questione del sabato, divise per secoli il monachesimo etiopico fra fazioni contrapposte. Ma in realtà, naturalmente, sullo sfondo di questi conflitti dottrinali vi erano precisi dissidi politici. In particolare Ewostatewos, alla testa del monastero di Debre Damo e dei monasteri tigrini del nord, contestava l’alleanza stretta fra la nuova dinastia e il clero debrelibanese che si riconosceva nell’insegnamento di Tekle Haymanot: egli rifiutava la supremazia del monastero di Debre Libanos. Le opposte fazioni cercavano ciascuna di tirare il sovrano dalla propria parte, con conseguenti reciproche scomuniche e continue ribellioni. I conflitti dialettici e le opposizioni politiche degenerarono in scontri armati fra i monaci, e sullo sfondo di un dissidio politico si giunse a scannarcisi per l’Unzione o per l’Unione: si poteva finire in ceppi, o peggio, per aver proferito una formula teologica errata o semplicemente invisa in quel momento al sovrano di turno. Si sviluppò una lunga lotta fatta di anatemi e di persecuzioni: Ewostatewos, in seguito ad un attentato
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La polemica vide in un primo tempo la vittoria dei debrelibanesi con scomunica dei goggiamesi e poi le sorti si invertirono, soprattutto nel XIX secolo con l’imperatore Yohannes (sulla questione dottrinale v. A. Takla Hāymānot, La Chiesa etiopica e la sua dottrina cristologica, cit., pp.160-239).
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contro la sua persona, dovette lasciare l’Etiopia e fuggire prima in Egitto e poi in Armenia dove morì quindici anni dopo. La rivalità fra i seguaci di Tekle Haymanot e quelli di Ewostatewos, e fra i potenti monasteri di Debre Libanos e di Debre Damo, divenne sempre più esplicitamente una rivalità fra nord e sud del paese e finì per formare nel monachesimo etiope due movimenti religiosi rivali separati: questa rivalità, protratta per lunghi secoli, mise spesso in crisi l’unità della chiesa etiopica, della monarchia e dell’Etiopia tutta.
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Nel 1165 il papa Alessandro III, l’imperatore di Bisanzio, l’imperatore Federico Barbarossa e il re di Francia ricevettero una lettera dall’Etiopia scritta in greco il cui firmatario, qualificatosi come il “Prete Gianni”, diceva di avere una grande armata e di essere pronto a soccorrere la cristianità nella lotta contro la “serpe islamica”. La lettera, in realtà firmata da Christian de Mayence, era un falso forse proveniente dalle corti imperiali germaniche (forse stesa dallo stesso imperatore Barbarossa intento a rincuorare l’occidente per allestire una crociata) ma, in quel frangente delicato in cui l’occidente aveva perso con la seconda crociata il regno di Gerusalemme, venne ritenuta autentica. La lettera venne tradotta in più lingue, e sempre più elaborata e abbellita da copisti e traduttori con descrizioni fantastiche cosicché, alla fine del XII secolo, sempre più si diffuse in occidente la leggenda del Presbyter Johannes o “Prete Gianni”1, la leggenda del cristiano Rex orientis, immensamente ricco e potente e di secolare longevità grazie alle sue periodiche immersioni in una magica “fontana della giovinezza”: egli si sarebbe unito al re cristiano d’occidente, cioè al papa, e ai sovrani europei nella nuova crociata contro gli infedeli. Nel 1177 il papa Alessandro III, nel tentativo di prendere contatto con il misterioso personaggio, scrisse una lettera all’imperatore di Etiopia chiamandolo “Illustre e Magnifico Gianni, Re delle Indie” nonché «figlio carissimo in Cristo» (affinché fosse subito chiaro chi era il padre); inviò anche un ambasciatore in cerca del Prete Gianni con lo scopo di ricongiungere la chiesa etiopica alla cattolica, ma questi non fece mai ritorno. Nel 1221, dopo la sconfitta nella quinta crociata, il vescovo di S. Giovanni d’Acri scrisse una lettera al papa Onorio III assicurandolo dell’imminente discesa in campo dell’invincibile Prete Gianni contro gli infedeli. Anche nella letteratura araba cristiana della stessa 1
Cfr. F. Zarncke, Der Priester Johannes, Leipzig 1883 e P. Benoît, Le Prêtre-Jean, Paris 1952; v. anche J. Evola, che connette il tema del Prete Gianni al simbolo del “Re del Mondo” (Il mistero del Graal, Bari 1937, Laterza poi in Roma 1994, Mediterranee, pp. 69-77).
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epoca si trovano vari testi che profetizzano l’incontro fra un re d’occidente e un altro d’oriente destinati a porre fine al dominio musulmano. Parimenti, un’antica novella indiana e altre leggende medievali occidentali riferiscono che il Prete Gianni inviò un’ambasciata all’imperatore Federico (doveva trattarsi di Federico II), inviandogli preziosi doni di cui l’imperatore non avrebbe compreso il valore: si trattava di tre preziose pietre magiche, dotate del potere di rendere invisibili, invulnerabili e capaci di vivere sott’acqua. Altre leggende occidentali parlano invece, oltre che dell’ampolla contenente l’acqua della “fontana della giovinezza” datrice di vita, anche di una veste incombustibile di pelle di salamandra che rende capaci di rimanere illesi nel fuoco; altre leggende ancora dicevano che in passato Serse, Alessandro Magno, alcuni imperatori romani ed Oggero di Danimarca avevano visitato il regno dell’immortale Prete Gianni e il suo palazzo. Invero i confini nebulosi della geografia del tempo non consentivano al riguardo localizzazioni precise. Nell’antichità non era molto chiaro che cosa fosse precisamente l’Etiopia: come si è visto, a partire dalla traduzione della Bibbia dei Settanta si confondeva l’Etiopia con il regno nubiano e cuscita; le antiche carte geografiche erano assai vaghe e sotto il nome di “Ethiopia” comprendevano, anche alle soglie dell’età moderna, tutta l’Africa orientale quando non l’intero continente africano. Se dunque nella leggenda del Prete Gianni v’era qualcosa di vero, se questo re “cristianissimo” dell’oriente esisteva veramente, allora dove risiedeva esattamente? Invero nel XIII secolo Marco Polo, narrando nel Milione dei suoi viaggi in Cina, dove i nestoriani perseguitati dopo il Concilio di Efeso si erano rifugiati evangelizzando le popolazioni, disse che in realtà il Prete Gianni aveva il suo regno nelle steppe asiatiche ove è l’albero magico che (come l’albero del Paradiso terrestre) conferisce l’immortalità e ove viveva il potente Gran Khan dei Tartari: donde la leggenda per la quale occorreva ricercare India superior, in qua stat Presbiter Johannes. Marco Polo scrisse anche che un leggendario re delle Indie fosse stato ucciso in battaglia, ma in occidente nessuno volle credere che si trattasse del Prete Gianni e invano Roger Bacon scrisse (Opus Majus, I 367) che sul Prete Gianni «multa falsa dicta sunt et scripta». Così, nel 1245 e nel 1253 alcuni emissari del papa furono inviati in Asia alla ricerca del Prete Gianni. Ma, se il Prete Gianni non si trovava nelle Indie, allora, come si iniziò sempre più a pensare in oriente nella letteratura profetica cristiana e in occidente a partire dai Mirabilia del francese de Sévérac (1329), egli poteva essere solo l’imperatore d’Etiopia, come peraltro attestava la sua lettera del 1165, che con quella lettera aveva avviato un avvicinamento alla chiesa cattolica romana per far fronte al comune nemico; e poiché allora per Indie si intendeva anche il Medio Oriente
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e la costa dell’Oceano Indiano, allora l’identificazione del Prete Gianni con l’imperatore d’Etiopia ne veniva facilitata. Così il Prete Gianni venne definito Rex regum, Re dei re, proprio come l’imperatore d’Etiopia era Negus Neghesti ovvero Negus dei Negus; e parimenti lo si diceva discendente del re David (De rege Davis filio, qui presbyter Johannes a vulgo appellatur). L’immaginario occidentale e cristiano riandava alla mitica e antica Terra degli Dèi, alla Terra di Punt, all’Arabia felix, e con essa si immaginavano le mitiche e ancora sconosciute sorgenti del Nilo e infine si riandava alle terre etiopiche che vennero ad identificarsi con il giardino dell’Eden, nella convinzione sempre più diffusa (e già rintracciabile nelle Etimologie scritte da Isidoro di Siviglia al principio del VII secolo) per la quale la terra abissina era un luogo da sempre predestinato al cristianesimo e non meno importante di Gerusalemme: questa geografia immaginaria si mescolò infine con la geografia più scientifica di origine tolemaica e nei planisferi il Paradiso terrestre cominciò ad essere rappresentato nel luogo dell’Etiopia: come commenta Jean Doresse, «nous avons là [...] une dernière version d’une mythologie de la Corne de l’Afrique jadis imaginée par les anciens Egyptiens»2. Si favoleggiava che il Prete Gianni stesse combattendo i sultanati arabi saccheggiandone le città con rappresaglie feroci, e si trepidava come per l’avvento imminente di un nuovo grande dominatore. In effetti in Etiopia nel XIV secolo viene scritta la Cronaca delle guerre di Amda Sion, opera di un ecclesiastico vissuto alla corte regale che narra le gesta vittoriose dell’imperatore contro il sultano d’Egitto, reo di maltrattare i cristiani d’Egitto, e contro sultani e principi musulmani circostanti. Queste gesta vennero anche celebrate dai canti guerrieri che esaltano Amda Sion. Egli «della spada fa mulinello» e continuamente «va e torna alle frontiere» per guerreggiare: «di chi non hai guastato il volto? − dice un canto − di chi non hai catturato donne e figli?»3. L’imperatore, che (come sappiamo) sembra aver ordinato la composizione del Kebra Nagast volta a rintracciare per la dinastia etiopica la legittimazione salomonica, perseguitò duramente anche i monaci che contestavano la corruzione dell’abuna alessandrino, che vendeva le ordinazioni sacerdotali e avallava il matrimonio dell’imperatore con una delle mogli di suo padre. Amda Sion stabilì che i cristiani apostati durante le persecuzioni dei musulmani fossero 2 3
J. Doresse, Histoire de la corne orientale de l’Afrique, Paris 1971, Geuthner, p. 106. Cfr. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 31-36, 50-51. Tr. inglese delle cronache di Amda Sion in The glorious victories of Amda Seyon, king of Ethiopia, Oxford 1965, Clarendon Press.
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segnati a fuoco come gli schiavi e condannati a portare il collare di ferro e le catene: gli apostati, anche se forzati, non solo non dovevano essere riammessi nella cristianità, come già voleva l’antica setta donatista condannata da Agostino, ma addirittura dovevano essere additati per sempre al disonore e alla pubblica vergogna. La lotta contro gli islamici proseguì con i successori di Amda Sion: suo figlio Sayfa Arad, divenuto sovrano, continuò la guerra contro il sultano dell’Egitto, così come più tardi l’imperatore Dawit che inviò un esercito e costrinse il sultano a pagare un forte pegno, mentre nel XV secolo l’imperatore Yeshaq occupò alcuni regni musulmani giungendo a sottrarre loro il porto di Massawa sul Mar Rosso (che però dopo ottant’anni fu rioccupato dalle tribù costiere). Il regno etiopico avvertiva la necessità di un’alleanza militare con l’occidente, anche stante la fiera resistenza opposta dal confinante regno musulmano dello Shoa ad ogni tentativo di invasione, e tale era anche il desiderio occidentale. Ne seguirono così alcuni contatti fra l’impero etiopico e l’occidente: già nel 1306 una delegazione etiopica soggiornò a Genova, e poi altre missioni etiopiche giunsero a Venezia (1402) con doni da parte del Prete Gianni, ripartendo con artigiani e pittori veneziani; vi furono alcune traduzioni in amarico di testi latini, e nel 1432 tre uomini (un napoletano, un francese e uno spagnolo) furono inviati dal duca di Berry alla corte di Etiopia; anche alcuni missionari francescani e poi domenicani raggiunsero l’Etiopia. Ma, in merito all’attesa alleanza in funzione antiislamica, nulla di conclusivo sortì da questi contatti. Sempre nel XV secolo, l’imperatore Zara Yakob, che non casualmente si fece incoronare ad Axum, combattè una energica e dura lotta per la riaffermazione dell’unità politica e religiosa del regno, isola cristiana circondata da popolazioni non cristiane, domando con mano durissima le congiure di corte e financo familiari, le numerose ribellioni e le persistenti pratiche paganeggianti, perseguitando gli ebrei, sconfiggendo i musulmani nel 1445 e sottomettendo le regioni meridionali. Il sovrano con un editto trasformò anche in un obbligo, pena la persecuzione e l’esilio, l’antica consuetudine degli etiopi cristiani di portare inciso sulla fronte e sulle braccia quale affermazione della propria identità religiosa il marchio della croce, già spesso (anche tuttora) visibile all’ingresso dei tukul e portato al collo dalle donne, in modo che chiunque non l’avesse (pagano o musulmano che fosse) fosse immediatamente riconoscibile come un eretico ed un nemico. Zara Yakob cercò anche di ricomporre il dissidio fra Debre Damo e Debre Libanos, riconoscendo la festività del sabato richiesta dai primi, ma fu durissima la sua repressione del gruppo, considerato eretico, degli stefaniti. Fondato da Est’ifanos e diffuso in molti monasteri etiopici fino a diventare
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un forte e severo movimento ascetico e riformatore che si voleva fedele al cristianesimo originario, era ancora vivo nel XVI secolo: secondo le accuse gli stefaniti rifiutavano di prostrarsi alla Croce negandone il culto e parimenti negavano il culto di Maria (Myriam), culti entrambi molto importanti in Etiopia. Soprattutto, gli stefaniti rifiutavano di riconoscere la sacralità dell’imperatore: convocato a corte dall’imperatore, Est’ifanos rifiutò di inchinarsi davanti al sovrano come prescriveva il protocollo, asserendo che ciò era dovuto solo a Dio. Egli misconosceva il legame fra potere civile e religioso, negava che l’imperatore potesse interferire negli affari ecclesiali, rifiutava le prebende e le donazioni reali e delegittimava i monasteri che le accettavano. Zara Yakob perseguitò con particolare accanimento e ferocia il movimento, imprigionando e torturando Est’ifanos cui vennero amputati la mano e il piede, nonché facendo amputare, lapidare, deportare e sterminare i suoi seguaci. La persecuzione continuò a fasi alterne con i suoi successori (al contempo impegnati contro i regni musulmani), ma non impedì il diffondersi di una letteratura volta a celebrare le vite dei martiri stefaniti e di un’arte pittorica vicina al movimento e notevole soprattutto nelle illustrazioni dei Vangeli e dei testi religiosi.4 In realtà il movimento stefanita non fu che la punta emergente di un più vasto movimento “ereticale”. Infatti in Etiopia era piuttosto fiorente una letteratura cristiana esoterica e gnostica, talora con venature apocalittiche o numerologiche. Possiamo ricordare, fra il XIV e il XV secolo, il Libro dei Misteri del Cielo e della Terra, che contiene un’interpretazione dell’Apocalisse; la Vita di S. Anna, che mostra la trasmissione della Perla gnostica come una catena nel tempo attraverso il corpo di pochi eletti; il Romanzo cristiano di Alessandro Magno, che narra il viaggio di Alessandro Magno attraverso il Paese della Tenebra ove il Sole tramonta verso la Terra dei Viventi; la Vita di S. Alessio nella versione etiopica, ove la storia del figlio cristiano dell’imperatore che abbandona la reggia e vi torna come mendicante maltrattato dai suoi stessi schiavi, e non riconosciuto fino alla morte con grande disperazione dei familiari, riecheggia il tema gnostico della perla preziosa vicina ma non riconosciuta5. Tutte queste correnti religiose suscitavano le più vive preoccupazioni nell’ortodossia religiosa 4
5
Sugli stefaniti v. R. Beylot, Un épisode de l’histoire ecclésiastique de l’Éthiopie. Le mouvement stéphanite. Essai sur sa chronologie et sa doctrine, Annales d’Éthiopie, 1970, VIII, pp. 103-116; T. Taddesse, Some Notes on the Fifteenth Century Stephanite «Heresy» in The Ethiopian Church, Rassegna di Studi etiopici, 1966, vol. XXII, pp. 103-115. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 36-50. Cfr. D. Lifchitz, Textes éthiopiens magico-religieux, Paris 1940, Institut d’ethnologie.
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legata al potere politico. Particolarmente preoccupante per Zara Yakob, dopo gli stefaniti, fu il movimento dei mikaeliti che faceva riferimento a Zamika’el: essi rifiutavano l’osservanza della festività del sabato e il culto mariano; negavano inoltre la teologia trinitaria, rifacendosi all’antica dottrina di Sabellio, e più in generale negavano la conoscibilità stessa di Dio ritenendo impossibile che l’uomo fosse stato creato a immagine e somiglianza di Dio, perché in tal caso si sarebbe abbassato il divino ad una rozza rappresentazione antropomorfica. In tal modo i mikaeliti facevano crollare tutta la sottile e complessa impalcatura teologica ufficiale, talora affiancata da un’iconografia volta alla rappresentazione antropomorfica della Trinità6. Zara Yakob convocò un concilio per dirimere la questione: impose con un decreto la credenza nella natura antropomorfica di Dio, che addirittura doveva avere una faccia umana, e i seguaci di Zamika’el che rifiutarono le decisioni regali vennero esiliati, incarcerati o uccisi. Poi vi erano le antiche dottrine adozioniste, per le quali Gesù non era di natura intrinsecamente divina bensì sarebbe stato adottato quale figlio di Dio solo al momento del battesimo nel Giordano. Molte di queste dottrine − in particolare stefanite e mikaelite − erano impregnate di uno sfondo gnostico. Nella sua dura politica repressiva, supportata da vari testi da lui scritti o da lui ispirati come le Cronache del Re, l’imperatore Zara Yakob fu coadiuvato dal patriarca giunto da Alessandria che minacciava la scomunica per ogni ribelle od eretico: «il Signore − scriveva Zara Yakob nel Libro della Natività − mi ha fatto regnare su questo trono regale ortodosso perché io sradichi tutti gli adoratori degli idoli»7. Stante questa precisa volontà la diffusione della fede ritenuta ortodossa proseguiva alacremente, attraverso traduzioni dall’arabo di antichi testi ascetici siriaci (come i Libri dei monaci, antologie di padri greci e latini) − anche Beeda Maryam, figlio e successore di Zara Yakob, e la moglie imperatrice Elena, scriveranno inni religiosi. Si diffuse in particolare una ricca agiografia dei monaci martirizzati che, prodotta nei conventi e per lo più risalente ai primi del XV secolo (come il Senkesar, tradotto dall’arabo ma in seguito arricchito con le vite dei santi nazionali)8, si saldò idealmente con le agiografie più tarde (XVI secolo) dei “nove santi” e dei fondatori del monachesismo etiopico nonché con la versione in ge’ez dall’arabo (XV secolo) ad uso liturgico del Libro dei Miracoli di Maria (nato in Francia nel XII secolo e poi diffuso
6 7 8
Cfr. la raccolta di E. Cerulli, Tre opuscoli dei mikaeliti, in Scritti teologici etiopici dei secoli XVI-XVII, Roma 1985, Città del Vaticano. Ivi, p. 104. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 57-63.
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con arricchimenti e integrazioni in Europa e in oriente)9. Sempre nel XVI secolo vennero tradotti dall’arabo (molta letteratura religiosa etiopica proviene da traduzioni riadattate da testi scritti in greco o in arabo) ampi brani dei principali Padri della Chiesa orientale (lo Haymanota Abaw o La fede dei Santi Padri).10 Intanto in occidente cresceva il mito dell’imperatore di Etiopia, idealizzato e sempre più identificato con il Prete Gianni. Il duca di Milano Francesco Sforza inviava una lettera al sovrano di Etiopia pregandolo di inviargli le opere dell’avo Salomone non note in occidente, e anche Enrico IV d’Inghilterra inviò una lettera al sovrano etiopico. Dietro al mito dell’imperatore di Etiopia e del prete Gianni, sempre più identificati, v’era in effetti una difficoltà reale, sempre più percepita nel mondo occidentale, di fronte alla minaccia islamica: da qui il desiderio pressante di ristabilire sotto l’egida romana, contro il comune nemico, l’unità del mondo cristiano da mille anni spezzato fra la chiesa cattolica e le chiese orientali. Questa esigenza venne sentita anche dagli imperatori d’Etiopia, e fra gruppi influenti di alti dignitari di corte si diffuse la convinzione della necessità di un avvicinamento all’occidente onde far uscire l’impero dal secolare isolamento e accerchiamento islamico, reimmettendolo nel circuito politico, economico e militare occidentale in modo che l’alleanza con i regni cristiani d’occidente in nome della comune cristianità consentisse la definitiva sconfitta dell’islamismo. In questo clima di attesa e di fiducia il papa Eugenio IV, che nella prospettiva di un ritrovato accordo aveva scritto una lettera all’imperatore d’Etiopia appellandolo Prete Gianni e, secondo la consueta formula, «in Christo filio», indisse nel 1440 prima a Ferrara e poi a Firenze un concilio a cui furono invitati i rappresentanti della chiesa bizantina, alessandrina ed etiopica (vi partecipò anche il cardinale e filosofo Niccolò Cusano), onde esaminare i rispettivi punti dottrinali e dogmatici nel tentativo di giungere ad una riunificazione fra la chiesa romana d’occidente e le chiese orientali 9
10
Ivi, pp. 73-80 e 81-99 (cfr. E. Cerulli, Il libro etiopico dei miracoli di Maria e le sue fonti nella letteratura del Medio Evo latino, Roma 1943, Bardi). Nel libro si racconta che quando Gesù, tornato sulla Terra a prendere Maria per portarla in cielo, le mostra le sofferenze dei dannati all’inferno, Maria impietosita gli fa promettere (“patto di misericordia”) che chiunque la invocherà con cuore sincero otterrà il perdono dei peccati. Un lodevole lavoro di traduzione di parti della ricchissima letteratura religiosa etiopica − inni sacri, preghiere, martirologi, salmi nonché una silloge dai Miracoli di Maria − è stato svolto (per Ed. Studium, per Pontificium Institutum Orientale, per Fondazione Montandon etc.) da O. Raineri, docente di Lingua e istituzioni etiopiche presso il Pontificio Istituto Orientale in Roma.
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in vista del pericolo turco e islamico. L’abate Nicodemo, priore della comunità etiopica di Gerusalemme, inviò una missiva a Eugenio IV in cui auspicava con fervore la riunificazione: «Anche noi − scriveva il priore − desideravamo essere una sola cosa, come dice Paolo: “Un solo Dio, una sola fede ed un solo battesimo”. Anche il Negus [Zara Yakob], quando avrà sentito questa parola, gioirà. Anche egli desiderava che unica fosse la fede. [...] Tu cerca di riunire insieme tutti i Cristiani affinché unica sia la fede [...]. Ché, se unica sarà diventata la fede, Dio scaccerà i nostri nemici da Gerusalemme, terra santa; e li disseminerà come grani di teff innanzi al vento [...]. Quindi, o Padre onorato, per quanto riguarda l’amore che sarà tra noi, io Ti dico: sappi che noi ed il nostro grande Sovrano lo desideriamo molto. [...] Circa la dottrina dei Franchi [dei Latini]: la dottrina dei Franchi è grande ed onorata ed antica e palese in tutto il mondo»11. I delegati etiopi, provenienti da una terra così esotica e misteriosa e giunti a Firenze e poi a Roma nel 1441, suscitarono molto interesse: Poggio Bracciolini, che nel De varietate fortunae parlava del favoloso palazzo del Prete Gianni, li interrogava ansiosamente intorno alle sacre sorgenti del Nilo che si ritenevano etiopiche; e l’arrivo della delegazione venne scolpito nei bassorilievi del Filarete sulle porte in bronzo della basilica di S. Pietro. Tuttavia, anche se vari delegati orientali sembravano disposti ad accettare la supremazia del pontefice romano rientrando nel mondo latino e cattolico, il concilio fallì per le vivissime proteste suscitate dalla parte maggioritaria del clero che al Cairo, ad Alessandria e anche in Etiopia rifiutò il rientro nell’alveo romano come una defezione e un tradimento della specificità della propria tradizione religiosa; e poiché in queste proteste il clero alimentò la ribellione popolare, anche i sovrani e i delegati disposti all’accordo con la chiesa romana dovettero ritirare il loro assenso. Il mancato accordo, e la conseguente mancata alleanza militare, fu gravido di conseguenze: nel 1453 Costantinopoli, l’ultima grande roccaforte cristiana in Oriente, separata dalla chiesa romana fin dall’XI secolo, cadeva nelle mani dei turchi e divenne Istanbul; nel 1456 i turchi conquistarono la Grecia (che si libererà solo nel 1825). Invano il papa Callisto III cercò di allacciare un contatto con Zara Yakob, per invitarlo a schierarsi con gli altri principi cristiani contro l’Islam per la riconquista di Gerusalemme (che in realtà sembrava non interessare più a nessuno): i delegati etiopi a cui era stata inviata la
11
V. Lettere tra i pontefici romani e i principi etiopici (sec. XII-XX), a cura di O. Raineri, Roma 2005, Archivio Segreto Vaticano, pp. 24-35 (rinviamo a questo testo, che riporta gli originali in amarico e in latino, per tutti i richiami alla corrispondenza fra pontefici romani e reggenti etiopici).
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lettera del pontefice per l’imperatore furono scoperti e uccisi dai turchi. La grande occasione era persa: ma se era stato un errore chiedere un’alleanza esigendo dall’imperatore d’Etiopia una sottomissione alla chiesa romana, era anche un’illusione pretendere che i sovrani etiopici potessero stornare il pericolo turco in Europa. Nonostante ciò ancora non venne meno in occidente il mito del “Re cristianissimo” d’oriente e i contatti fra il mondo etiopico e il mondo occidentale − almeno per quanto lo consentivano le grandi distanze, l’incerta geografia e i grandi pericoli del viaggio − continuavano. In un planisfero catalano del 1459 (attualmente conservato nella Biblioteca Estense di Modena) si collocava il Paradiso terrestre nelle contrade etiopiche, e nel 1460 il celebre mappamondo di Fra Mauro (ora alla Biblioteca Marciana di Venezia) lasciò ampio spazio all’Etiopia segnalando il Nilo Azzurro, Axum e Lalibela. Chiamatovi dal sovrano etiope, giunse alla corte di Lebna Dengel con altri artigiani il noto pittore veneziano Brancalion (Nicolaus Venetus da una sua firma), che visse in Etiopia ricco e stimato ma senza poterla lasciare fra il 1480 e il 1520 (anno di morte) e illustrò il libro dei Miracoli di Maria12. I pittori occidentali, o direttamente con la loro presenza o indirettamente attraverso la diffusione di stampe, influenzarono la pittura etiopica contribuendo a sganciarla dai modelli bizantini: l’influsso dell’arte occidentale (particolarmente cretese-veneziana, ma anche italiana, nordica e spagnola) apparve in certi dipinti delle chiese etiopiche e nelle illustrazioni dei testi sacri. Nel 1481 Sisto IV ricevette a Roma in un solenne concistoro sei delegati dell’imperatore d’Etiopia (che tornavano dall’Egitto ove invano avevano chiesto il consenso alla nomina di un abuna etiopico), concesse l’antico monastero di S. Stefano dei Mori a Roma (posto dietro la basilica di S. Pietro) che in seguito divenne centro di accoglienza dei pellegrini etiopi a Roma al pari di quello esistente in età medievale a Gerusalemme, fondò il Collegio Etiopico ove si formarono i primi etiopisti e scrisse al Prete Gianni, «charissimo in Christo filio nostro», inviando una missione in Etiopia. Avvenne financo che uno dei delegati etiopici, Ghebre Mikael, a Roma si convertì al cattolicesimo e, tornato in patria, fu per questo assassinato: la chiesa cattolica lo beatificò nel XX secolo. Non è dunque del tutto vero, come scrisse il Gibbon, che 12
S. Tedeschi, Venise et l’Ethiopie à travers les siècles e Nuova luce sui rapporti tra Venezia e l’Etiopia (sec. XV), Addis Abeba, Istituto Italiano di Cultura, rispettivamente 1971 e 1974; dello stesso autore Note storiche sull’arte figurativa etiopica medievale, in “Bollettino dell’Istituto di Studi etiopici”, Asmara 1964, Tipografia Francescana.
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l’Etiopia cristiana fu per un millennio del tutto separata dall’occidente, per quanto certo i contatti fossero difficili e precari. Infine, nell’età dei grandi viaggi di navigazione e delle scoperte geografiche il momento dell’incontro diretto con la mitica terra d’Etiopia si avvicinava. Il principe del Portogallo Enrico il Navigatore aveva detto che la sua massima ambizione era andare nella terra del Prete Gianni e nel 1487, per conto del sovrano portoghese Giovanni II, Bartolomeo Diaz doppiò e circumnavigò il Capo significativamente detto di Buona Speranza, aprendo la via dell’Oceano Indiano e delle Indie, quella via al levante che Colombo cercò di buscar por el poniente nel 1492. Fu quello un momento di riscossa ed espansione europea: proprio nel 1492 i Reali cattolici di Spagna, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, portarono a termine, nello stesso anno in cui finanziavano la spedizione di Colombo, la Reconquista degli ormai decadenti regni arabi andalusi con la caduta di Granada. In quello stesso anno l’Ordine di Cristo spedì dal Portogallo Pedro de Covilhan alla ricerca del Prete Gianni, sebbene egli, giunto in Etiopia nel 1493, non poté fornire alcuna informazione in patria perché costretto dalle sospettose autorità etiopiche a fermarsi per sempre in terra abissina. Nel 1497 i portoghesi giunsero ad partes Indiae per mare oceanum con Vasco de Gama, e nel 1502 si impossessarono della costa del Mozambico: costruirono vari avamposti e fondarono colonie lungo la costa dell’oceano indiano per facilitare la via delle Indie, stabilendo intensi traffici nel Mar Rosso e, in crescente contrasto con egiziani e turchi a loro volta reciprocamente invisi, procedettero all’occupazione dell’intera costa orientale africana (vari piccoli forti di guarnigioni portoghesi − costruiti con fango, argilla e gesso − sono tuttora visibili lungo le coste della Tanzania e del Kenya fino alle coste degli emirati arabi e dell’Oman). Nel frattempo il mito continuava ad aleggiare, e alcune opere facevano conoscere meglio la civiltà abissina: così nel 1513 Joannes Potken stampò in Roma il Davidis Psalterium e il Canticum Canticorum in ge’ez (da lui denominato “lingua caldea”). Il mito etiopico persisteva e nei primi anni del XVI secolo Ludovico Ariosto diceva ammirato nell’Orlando Furioso (XXXIII, 106.3-6) che l’imperatore d’Etiopia, quando è in rotta con i sovrani musulmani egizi, devía addirittura il corso del Nilo come sembra avesse minacciato Lalibela: «è in poter di lui dal cammin dritto/ levare il Nilo e dargli altro ricetto/ e per questo lasciar subito afflitto/ di fame il Cairo e tutto quel distretto». L’Ariosto, il poeta che rifiutò di andare in Ungheria al seguito del cardinal Ippolito perché preferiva una rapa a casa sua che un raffinato tordo in lontane contrade, costruiva nell’Orlando Furioso (canto XXXIII) un viaggio e una geografia immaginaria: Astolfo sull’ippogrifo
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andava in Etiopia alla favolosa corte del Prete Gianni, rappresentata tutta sfolgorante di oro, cristallo, rubini, smeraldi, zaffiri, topazi, perle e gemme («tutto quel lavoro/ che noi di ferro usiamo, ivi usan d’oro»: XXXIII, 103.7-8), e poi da lì, accompagnato da S. Giovanni sul carro d’Elia, giungeva al Paradiso Terrestre donde nasceva il Nilo, e infine si dirigeva sulla Luna a recuperare il senno perduto di Orlando pazzo d’amore; dalla Luna tornò dal Prete Gianni, guarendolo dalla cecità da cui era stato colpito e scacciando le arpie che lo perseguitavano per aver egli osato tentare la conquista del Paradiso, ottenendo da lui un enorme esercito con cui accorrere in soccorso dei cristiani contro i saraceni, che sarebbero così scacciati definitivamente dall’Africa settentrionale e dalla Francia.13 Nella realtà però il favoloso regno d’Etiopia traballava, circondato da sultanati e regni islamici: nel 1517 i turchi entrarono trionfalmente al Cairo sbaragliando i mamelucchi (in origine schiavi di origine turca e poi soldati dell’esercito egizio impadronitisi del potere), così conquistando definitivamente l’Egitto (ove iniziarono un rigido controllo sulla chiesa copta) e ponendo una pesante ipoteca non solo sul Mediterraneo (essi peraltro minacciavano l’Europa anche penetrando nell’area danubiana) ma anche sul regno etiopico: tutto l’attuale Sudan diventò musulmano. Nel 1520 una missione portoghese inviata dal re Manoel I e guidata dal padre Francisco Alvarez andò in Etiopia, fermandosi a Lalibela, nell’intento sempre ricorrente di riportare la chiesa ortodossa alla chiesa romana, mentre i portoghesi sondavano la possibilità di un’alleanza militare. Leone X inviò nel 1521 una missiva all’imperatore Lebna Dengel, caldeggiando l’alleanza contro i turchi «minaccianti grande terrore e pericolo ai cristiani», ma al contempo richiedendo che gli etiopi tutti «convengano in quelle cose che sono proprie della fede della Santa Romana Chiesa, madre di tutte le Chiese, e non si discordino da essa in nessuna cosa, benché minima (ab ea ne in minimis quicquam discrepent)», auspicando al «figlio ossequioso» (obsequentem filium) la «dovuta obbedienza (obedientia) verso di Noi e questa Santa Sede Apostolica in cui sediamo per concessione divina». Lebna Dengel, che nel 1516 aveva sterminato 12.000 adaliti islamizzati, era certamente interessato all’aiuto militare occidentale: lo dimostrano due sue lettere a Clemente VII del 1524 in cui, non senza ricordare al pontefice la sua discendenza salomonica, diceva di stare fra i suoi nemici «come un leone da folta selva circondato» (ut leo ingenti sylva circundatus) e richiedeva, pressantemente nella seconda let13
Vedi E. Cerulli, Il volo di Astolfo sull’Etiopia nell’“Orlando Furioso”, Roma 1932, Accademia Nazionale dei Lincei, n. 1-2.
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tera, un intervento militare contro gli islamici; inviava anche in dono una croce d’oro seguita poi da un ritratto dello stesso imperatore, la cui copia è attualmente agli Uffizi di Firenze. In cambio dell’appoggio militare, l’imperatore sembrava dire (non si sa quanto sinceramente) la sua disponibilità a sottomettersi alla Santa Sede in nome della comune fede cristiana. L’ambasciata fu accolta positivamente e si iniziò a preparare la grande opera di riconciliazione e di riavvicinamento volta a ricondurre la chiesa etiopica a quella romana. Certo però l’imperatore d’Etiopia non poteva non percepire come pericoloso l’ingresso di una grande potenza coloniale quale quella portoghese nel Mar Rosso, che consentiva l’accesso ad un paese vastissimo e ricco di risorse quale quello etiopico, né poteva non essere preoccupato dalla volontà della Chiesa cattolica di subordinare l’alleanza in funzione antiislamica e l’intervento militare europeo all’abiura della fede alessandrina e alla conversione dei “carissimi figli” alla dottrina cattolica con sottomissione a Roma, cosicché, temendo l’ingerenza cattolica e portoghese e avendo ottenuto alcune vittorie sui musulmani, il sovrano pensò di poter fare da solo rifiutando ai portoghesi la concessione del porto di Massawa: la missione così fallì e tornò in Portogallo nel 1526. Dal punto di vista politico l’impero negusita estendeva ancora nominalmente la sua sovranità su vaste contrade, che comprendevano anche alcune province musulmane rette da capi islamici previa l’obbedienza e il tributo fiscale. Ma proprio questa vicinanza faceva sì che le tensioni − religiose, economiche, politiche − fra due mondi in secolare conflitto fossero sempre sul punto di esplodere. Così, in aggiunta al conflitto fra l’impero negusita e gli emirati musulmani della penisola arabica e filomusulmani eritrei, avvenne l’ancor più grave conflitto con l’emirato di Harar. Esso, isola musulmana ad est degli altipiani amhara fin dal XII secolo popolata da mercanti indiani musulmani provenienti dal Mar Rosso, fu trasformato in sultanato da Abu Bakr nel 1520: la cittadina divenne una città-stato indipendente e un centro sempre più importante di scuole coraniche e di cultura islamica, con circa novanta moschee (in maggioranza fatte di semplici stanzette) e trecento santuari e tombe di capi religiosi, di sceicchi e di emiri che ne fecero un luogo di pellegrinaggio e la quarta città santa dell’Islam, con una propria lingua (l’harari, una lingua semitica simile all’amarico ma trascritta a partire dal XVI secolo in caratteri arabi), una propria moneta, un grande centro artigianale e commerciale con potenti e ricchissime dinastie di mercanti che viaggiavano in Egitto, Arabia e India, il tutto racchiuso in un piccolo abitato fatto di case bianche (il bianco protegge meglio dal caldo) in un dedalo di viottoli e stradine fra cui ogni tanto si intravede una
Harar: una moschea
Harar: antica dimora Lo stile architettonico, per via dei commerci hararini, risente di influssi orientali. Attualmente la dimora, con ogni probabilità a torto additata quale residenza di Rimbaud, è stata restaurata e adibita a museo in onore del poeta francese. Della dimora presentiamo una foto storica, antecedente al restauro.
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dimora in stile orientale (come quella falsamente ritenuta di Rimbaud)14. Abu Bakr, forte del solido epicentro islamico di Harar, proclamò il jihad contro l’Etiopia cristiana e mise a ferro e fuoco la terra etiopica, distruggendo le chiese e i monasteri cristiani, razziando moltitudini di schiavi ed enormi quantità di bestiame. E venne l’epoca del Gragn. Usurpatore del regno di Harar e poi sultano di Awdal (nell’attuale Somalia), Ahmed ibn Ibrahim al-Ghazi soprannominato Mohammed Gragn (“Il Mancino”) rifiutò nel 1527 di pagare il tributo all’imperatore d’Etiopia e, coadiuvato da validi emiri e luogotenenti, alla testa di oltre 50.000 uomini, in gran parte dancali agaw e somali che egli seppe unificare nonostante le loro abituali contese, provvisto di armi da fuoco e cannoni e di archibugieri turchi, con la flotta turca in appoggio sulle coste, riprese l’impresa di Abu Bakr proprio l’anno successivo all’abbandono del suolo etiopico da parte della missione di Alvarez, e per dieci anni razziò e seminò il terrore sempre più avanzando verso le ricche terre degli altipiani. «Per gli Abissini − scrive dei Sabelli − quest’uomo portentoso, che minacciò di abbattere il loro impero e scosse dalle fondamenta la Chiesa Etiopica, è la personificazione delle forze del male, il genio della distruzione, lo strumento sacrilego delle potenze infernali»15. Avanzando, i musulmani del Gragn dilagavano con la furia devastatrice di un uragano tutto mettendo a ferro e fuoco, saccheggiando e incendiando sistematicamente i villaggi, trucidandone gli abitanti, deportandone come schiavi donne e bambini, razziando il bestiame e depredando tutto ciò che essi potevano trovare. Nei combattimenti, e ve ne furono centinaia, si contavano parecchie migliaia di caduti. Il Gragn distrusse anche centinaia di chiese e di monasteri (a quanto pare ancor oggi una chiesa del Tigray reca i segni di un antico incendio appiccatovi dalle milizie islamiche), e bruciò moltissimi libri e manoscritti preziosi: oggi le chiese cristiane in Etiopia sono per lo più piuttosto povere, anche se ancora custodiscono codici e oggetti sacri, ma un tempo − prima dell’avvento del Gragn − esse recavano rivestimenti in oro e argento, pietre, stoffe, tessuti e tappeti preziosi. Molti tesori e reliquie vennero nascosti nei monasteri del lago Tana, fra cui anche le presunte Tavole della Legge, ma il danno fu comunque incalcolabile. Il Gragn giunse ad occupare tutta l’Etiopia meridionale e orientale penetrando fin nello Shoa ove distrusse il venerato monastero di Debre Libanos; poi giunse al lago Tana e proseguì verso nord nel cuore dell’impero cristiano. L’esercito di Lebna Dengel, nel 1529, fu distrutto. Nel 1535 il Gragn 14 15
E. Cerulli, Studi etiopici. La lingua e la storia di Harar, Roma 1936, Istituto per l’Oriente. L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. II, p. 61.
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attaccò Axum e la rase al suolo, devastando la basilica cristiana di Maryam Zion già a suo tempo ricostruita dopo le distruzioni del IX secolo. L’odio del clero ortodosso e della popolazione vessata fu tale da generare, quale spregio delle usanze arabe e turche, il veto della carne di cammello, il tabù del tabacco e del fumo con divieto a chiunque avesse fatto uso di tabacco di baciare il crocefisso (nell’Ottocento l’imperatore Yohannes giunse a tagliare le labbra o il naso dei fumatori), nonché il divieto del caffè così diffuso in Etiopia (ancora oggi del resto in Etiopia, pur in un clima certo assai differente, i cristiani non mangiano la carne macellata secondo la consuetudine islamica). L’ondata islamica sembrava veramente inarrestabile. Tuttavia va detto che spesso essa non incontrava alcuna valida resistenza, in quanto l’esercito abissino sembrava liquefarsi come neve al sole: l’impressionante avanzata musulmana, se da un lato dimostrava il valore bellico islamico, dimostrava però anche indubitabilmente la mancanza di unità e coesione dell’impero amhara, costruito sul sopruso e retto sulla forza. La prova di ciò è anche data dal numero di popolazioni che passarono all’islamismo: con l’avanzata del Gragn le conversioni divennero generali e si riprodussero a catena. Stando alle cronache etiopiche dell’epoca, per aver salva la vita ed evitare le stragi e le persecuzioni quasi tutti rinunciarono col tempo alla fede cristiana e si convertirono all’Islam. Ma le conversioni non furono soltanto forzate, allo scopo di evitare le persecuzioni e i saccheggi. Certo, la conversione era il solo modo di evitare il perpetuarsi indefinito dei saccheggi e delle incursioni, ma va anche detto che gran parte di quelle popolazioni non erano cristiane o lo erano solo esteriormente: questi popoli in realtà odiavano i signori amhara che li opprimevano con razzie e pesanti tributi, e sapevano bene che il cristianesimo era la religione dei nemici loro oppressori: da secoli sottomessi e schiavizzati con la forza al giogo amhara, il cui centro di potere era inoltre per lo più lontano e sconosciuto, essi furono felici che i loro oppressori venissero ora a loro volta oppressi. Per questo, passato il primo uragano islamico, queste popolazioni poterono senza fatica passare da una religione fondamentalmente animistica verniciata di cristianesimo ad una religione animistica verniciata di islamismo. Esse passarono all’islamismo ritenendo il nuovo padrone preferibile al precedente. Così (come scrive dei Sabelli) «il popolo passa all’islamismo in masse compatte. Città, province intere, abiurano l’antica fede. Tutti si adattano facilmente al nuovo regime. L’Abissinia cristiana, l’Abissinia crociata, è felice di schierarsi sotto il vessillo della mezzaluna».16
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Ivi, p. 142.
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Quasi contemporaneamente all’offensiva delle armate islamiche, e come ispirata e trascinata da quella, vi fu anche nel XVI secolo l’avanzata degli Oromo dalla Valle Omo (o, secondo alcuni, dai monti Bale) verso le terre del nord e altrove. Come si è già detto, per gli antichi cronachisti etiopi gli Oromo, denominati Galla, erano degli invasori che attaccavano il loro regno, mentre per gli attuali storici oromo essi difendevano il loro territorio e attaccavano il nemico che li vessava. Le invasioni e le razzie oromo, o il loro contrattacco all’occupazione amhara, in un paese già prostrato dalle lotte fra cristiani e musulmani e ormai in preda a gravi carestie, furono un altro flagello. Valorosissimi guerrieri, gli Oromo ebbero facilmente ragione di un impero ormai solo nominale: nel XVI secolo il monaco Bahrey (già ricordato), scrivendo in ge’ez una concisa Storia dei Galla in cinque pagine diceva che, mentre fra gli amhara erano numerosissimi gli uomini (soprattutto monaci) non usi a combattere, invece presso i “Galla” da lui spregiati «tutti, dal piccolo al grande, sono istruiti per la guerra. Perciò ci rovinano e ci ammazzano». Gli Oromo si portarono dapprima ad est ove distrussero tutti i villaggi musulmani. Ma Harar, centro del potere islamico, resistette e infine in molti casi gli avversari finirono per guardarsi in volto. Infatti, per quanto in un primo tempo fossero stati in conflitto con l’esercito del Gragn, di cui subivano le razzie e che essi combattevano financo spingendosi alle porte di Harar, molti gruppi oromo finirono infine in molti casi per allearsi alle truppe del Gragn contro i comuni nemici, gli amhara, così come al Gragn si alleavano, oltre ai gruppi dancali che venivano dal deserto in cerca di terre migliori, anche molte tribù sidamo e somale ormai islamizzate. A questo punto gli Oromo, o come parte del grande esercito del Gragn o in modo indipendente, si riversarono come un fiume in piena ancora più a nord, distruggendo i villaggi e occupando tutti i territori, volti alla conquista finale delle salubri, non malariche, ricche e fertili terre dell’altopiano possesso del regno amhara: «i Galla − scriveva l’Alvarez nella sua più tarda cronaca − cominciarono a comparire verso l’anno 1532 e si diffusero in diverse province e regni, mettendo tutto a ferro e sangue, distruggendo i luoghi per i quali passavano e trucidando senza distinzione di età o di sesso quanti in loro s’imbattevano». Nel frattempo i turchi presero il pieno controllo del Mar Rosso e di molte aree costiere dell’Africa orientale, strappandone il controllo ai portoghesi (già in competizione con gli inglesi stanziati a Zanzibar) che venivano scacciati dalle loro roccaforti anche dagli arabi dell’Oman che reintrodussero i sultanati. Nel 1539 i turchi stabilirono un regno nello Yemen (ove aggiunsero le loro cupole bianche alle moschee di Sana’a) che durerà fino al 1630, e lo stesso governatore incaricato per la zona eritrea divenne alleato
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dei turchi. Lebna Dengel vedeva il suo esercito sempre più decimato per la guerra contro il Gragn e gli Oromo, e si trovò isolato. Il sovrano con la sua tendopoli mobile continuava a fuggire di contrada in contrada, sempre inseguito dalle forze musulmane: tuttavia, pur braccato dal Gragn, continuava a sfuggire miracolosamente alla morsa mentre vari suoi familiari cadevano l’uno dopo l’altro prigionieri del nemico. Nei momenti più drammatici, l’imperatore dovette fuggire con pochi uomini, nascondendosi fra caverne, dirupi, boscaglie mentre le sue armate venivano fatte a pezzi. Infine dovette continuare la lotta con pochi seguaci e per sfuggire alle armate del Gragn si rifugiò fra i monti del Tigray ove, dopo essere fortunosamente sfuggito alla cattura, morì sfinito nel 1540 a 35 anni nel monastero di Debre Damo. Nel frattempo, proprio nel 1540 mentre Lebna Dengel moriva in solitudine, in Europa venne pubblicata la Verdadera informaçam das terras do Preste Joam di Alvarez17. In essa, descrivendo retrospettivamente i costumi etiopici e una terra ricca di ogni bene che in realtà veniva in quegli anni distrutta dalle guerre e dalle carestie, comparve finalmente la narrazione dell’incontro − preceduto da una interminabile e snervante attesa − con il Prete Gianni, che era poi il giovane Lebna Dengel di 25 anni («là vedemmo il Prete Gianni seduto su un palco riccamente adornato»). L’Alvarez narrò anche di quanto, primo europeo, vide a Lalibela, e ancora si percepisce dopo tanti anni la sua ammirazione stupefatta e al contempo il suo timore di non essere creduto: «Mi viene difficile raccontare ciò che ho visto, perché certamente non sarò creduto. Giuro su Dio − premette il sacerdote portoghese − che tutto quanto qui sta scritto è verità, e c’è molto di più di quanto io abbia scritto, e se mi sono limitato a questo è perché non mi si accusi di mendacio». Senonché, appunto perché non si trattava di mendacio, appunto perché si trattava di una Verdadera informaçam, padre Alvarez come non taceva le mirabilia di Lalibela così non taceva nemmeno la realtà dell’impero del Prete Gianni, il cui mito foriero di troppe illusioni egli senza volerlo iniziò a demistificare con la sua semplice descrizione: Alvarez non aveva visto, e lo disse, né palazzi fatti di topazio, di gemme e di cristalli né alberi e strade ricoperte d’oro, né fontane della giovinezza né altre mirabilia similia. Soprattutto, e questa notizia interessava molto i sovrani europei, non aveva visto eserciti portentosi. Aveva visto invece una corte regia che viveva in capanne o in tendopoli e un regno pieno di storpi e mendicanti che, ben lungi dal salvare l’occidente dal pericolo islamico, 17
Parte dell’opera fu tradotta in italiano nel XVI secolo (v. La historia d’Ethiopia di Francesco Alvarez, Roma 2007, Biblioteca Apostolica Vaticana).
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rischiava di esserne esso stesso sopraffatto e che anzi, ciò che il ricordo retrospettivo non poteva sapere, era sopraffatto. Certo le attività e i contatti continuavano: una grammatica ge’ez circolava in Europa e nel 1548 un monaco etiopico denominato Petrus Ethiops fece stampare a Roma in cinquecento esemplari il Testamentum Novum in ge’ez, copia del quale venne offerta al re Enrico II e all’imperatore Carlo V; l’anno successivo egli pubblicò in ge’ez le lettere di S. Paolo e dal ge’ez tradusse in latino alcuni testi liturgici etiopici; molti pellegrini etiopi giungevano a Roma, formando una comunità che nel 1551 si dette un regolamento scritto in amarico e poi tradotto in latino (attualmente conservato nei Codici etiopici della Biblioteca Vaticana). Ma la crescente conoscenza della realtà abissina consentita dai viaggi, dai contatti e dalle attività culturali editoriali, se da un lato alimentava la curiosità dall’altro smitizzava la leggenda: così nel 1564 in una mappa geografica (ora alla Bibliothèque nationale di Parigi), composta dal veneziano Gastaldi e ripresa in un atlante di Abraham Ortelius stampato ad Anversa nel 1573, in una Presbiteri Johannis sive Abissinorum Imperii Descriptio si collocava più realisticamente l’impero del Presbiter Johannes, in cui scorreva il Nilo Bianco (mentre invece è il Nilo Blu), fra la Nubia e l’Arabia felix senza alcun Paradiso terrestre. A partire dalle informazioni dell’Alvarez, che non riguardavano solo gli estasiati racconti sulle chiese di Lalibela, il mito del Prete Gianni che tanto aveva colpito l’immaginazione occidentale finì per agire assai meno sul cinico realismo dei capi di stato: il mito sfumava in lontananza, sempre più privo di efficaci riscontri sul piano politico reale, e la ricerca del Prete Gianni diventava meno importante della ricerca di nuove terre e nuovi sbocchi commerciali. Di fronte all’ondata islamica e oromo, le cui fila erano sempre più ingrossate dalle popolazioni vessate, la situazione era ormai disperata e il regno etiopico era ormai sul punto di cedere definitivamente. La situazione peraltro era gravissima anche in occidente, dove dal 1517 lo scisma protestante spaccava in due la cristianità e dove nel 1527 i lanzichenecchi luterani avevano messo Roma a ferro e fuoco, nel mentre sempre più aumentava la pressione dell’impero ottomano, erede dell’espansionismo arabo, che aveva conquistato l’Egitto e la Grecia e minacciava l’area balcanica. Come il Gragn e gli Oromo stavano affondando l’Etiopia, così i turchi mettevano in ginocchio l’occidente. Per quanto le situazioni fossero diverse e lontani i luoghi, per quanto gli islamici che minacciavano l’Etiopia fossero ben diversi dagli islamici turchi che minacciavano l’occidente, ed anzi ad essi rivali per il possesso delle coste del Mar Rosso, comunque si verificava un’oggettiva convergenza fra i due mondi cristiani − africano
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e occidentale − presi nella tenaglia islamica. Quanto avveniva nell’Africa orientale non poteva ormai non interessare l’occidente, visto che sul Mar Rosso i portoghesi perdevano definitivamente ogni controllo della via del Pacifico e delle Indie. Parimenti, quanto avveniva in occidente non poteva non preoccupare l’Etiopia: infatti la chiesa etiopica dipendeva da quella di Alessandria d’Egitto, ma certamente nessun aiuto militare poteva provenire dall’Egitto sottomesso dai turchi in cui la chiesa copta aveva un ruolo subordinato. A quel punto, l’unica politica che potesse spezzare l’isolamento e l’accerchiamento e salvare il regno etiopico dall’invasione politica e religiosa musulmana era cercare l’appoggio − prima rifiutato − delle potenze cattoliche occidentali. Per questo, bisognoso di aiuti, nel 1541 Galaudeuwos, figlio di Lebna Dengel, si risolse infine a riallacciare i contatti con l’occidente e le potenze cattoliche europee, onde arginare le molteplici minacce, islamica, oromo, dancala, turca. Si appellò così al papa Paolo III, cui inviò un’ambasciata con una lettera: «noi siamo cristiani − scriveva −. Non vedete forse che i lupi arabi ci danno la caccia? (Nos vero christiani sumus. Nonne videtis quod venantur nos lupi Arabes?)». Il momento era grave: «se la cristianità d’Europa non fosse intervenuta in tempo, il Cristianesimo africano non sarebbe stato tra breve che un mero ricordo»18. Così, alla fine, lungi dall’ottenere l’aiuto del Prete Gianni furono invece le armate europee che dovettero soccorrere quelle del “Prete Gianni” contro gli islamici. Peraltro l’aiuto occidentale non era facile: poiché in quegli stessi anni i turchi spadroneggiavano nel Mediterraneo, entravano nell’area danubiana, e infuriavano le guerre di religione, diveniva difficile uno smistamento di forze nella lontana Etiopia, il cui cristianesimo era considerato eretico e che in precedenza aveva spesso guardato con sospetto gli stranieri, visto che la missione dell’Alvarez si era conclusa con un nulla di fatto; gli stessi portoghesi avevano accettato con rassegnazione la perdita del Mar Rosso, ormai meno importante dopo la scoperta della rotta atlantica. Infine comunque arrivarono le forze portoghesi: quattrocento moschettieri, comandati da Dom Cristovão (Cristoforo) de Gama (figlio del famoso navigatore e ammiraglio del re del Portogallo Vasco de Gama), sbarcarono a Massawa nel 1541 con molti indiani e vari gesuiti inviati da Ignazio di Loyola. Mentre i gesuiti chiudevano gli occhi, i portoghesi iniziarono con un bel bagno di sangue nella Massawa turca e poi saccheggiarono le ribelli isole Dahlak. Poi il Gragn sconfisse l’armata portoghese: fatto prigioniero, il comandante mantenne un contegno eroico e, avendo rifiutata l’abiura, fu torturato e 18
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. II, p. 117.
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decapitato. I portoghesi però, pur privi del loro comandante, riuscirono a collegarsi con il nuovo imperatore etiopico che, arroccato nel Tigray sui bastioni rocciosi dei Semien, era pronto a scendere nello Shoa, e più che mai deciso a continuare la lotta fino all’ultimo. Le sorti del conflitto iniziarono a mutare. Il Gragn, quasi sazio di vittorie, molto arricchitosi grazie ai bottini, sicuramente dopo vent’anni aveva perso qualcosa della sua indomita energia guerriera: si esponeva meno in prima persona e, fidando nei suoi generali e luogotenenti, non dava l’affondo finale. Inoltre anche per forti e valorosi guerrieri era estremamente difficile salire su altipiani a più di 2000 metri di altezza e sui monti Semien a 4000 metri, ove era asserragliato il nemico: si trattava di luoghi aspri e impervi, di sentieri scoscesi attorniati da burroni, fra pareti lisce e a picco sormontate da bastioni praticamente imprendibili, per giungere ai quali occorreva salire dal basso inerpicandosi e occorreva combattere mentre il fiato mancava e dall’alto i tiratori d’arco con tutta calma potevano prendere la mira e falciare i nemici. Inoltre, la potenza delle armi da fuoco e dei cannoni del pur piccolo esercito portoghese si faceva sentire. Il Gragn tornato in prima linea iniziò a retrocedere dal Tigray e dai Semien al lago Tana, mentre nel suo esercito aumentavano vistosamente le defezioni e le perdite. Infine, l’esercito islamico venne sconfitto nel 1543 sulle sponde del lago, ove il Gragn trovò la morte ucciso da un colpo di moschetto. Con la sua morte, l’esercito islamico si dissolse: dopo 20 anni, cessava l’incubo per il regno amhara. Nel 1551 l’esercito musulmano privo della sua guida e ormai allo sbando venne sconfitto, e allora iniziò la spietata controffensiva abissina. L’impero etiopico era stato salvato all’ultimo, proprio sull’orlo dell’abisso, da un concorso di congiunture favorevoli: in parte certamente poterono i cannoni del modesto esercito portoghese, ma forse ancor più fece il naturale estenuarsi dopo una campagna ventennale dell’immane slancio guerresco delle truppe del Gragn nonché infine l’imprendibilità delle ultime difese abissine sui bastioni degli altipiani tigrini e dei monti Semien. Nel mentre si profilava la vittoria sui musulmani, la chiesa romana accentuava gli sforzi onde ottenere il definitivo rientro della chiesa etiopica nella dottrina cattolica. I gesuiti portoghesi, che sembravano esigere ciò come la dovuta e quasi promessa ricompensa per l’intervento militare occidentale, iniziarono a fare pressioni su Galaudeuwos: gli europei cattolici gli avevano salvato il trono e la vita, ed ora egli avrebbe dovuto sdebitarsi per mantenere quello che a loro giudizio era un impegno preciso assunto già dal padre e così procedere alla riunificazione fra la chiesa etiopica e
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quella romana. Tuttavia, la cosa si profilò difficile e quando il papa Paolo IV inviò in Etiopia un gesuita pronto ad assumere le funzioni di nuovo Patriarca affinché l’imperatore e gli etiopi fossero «ammaestrati e istruiti» (come recita una lettera del pontefice all’imperatore del 1556), questo fu naturalmente percepito quale un affronto nonostante una missiva che Ignazio di Loyola in persona aveva affidato per Galaudeuwos. Ne seguì un irrigidimento da parte del sovrano etiopico. Per quanto ormai l’Egitto in mano islamica non potesse garantire alcun aiuto militare, staccarsi dal patriarcato di Alessandria e riconoscere la supremazia del pontefice romano non era cosa da poco: il clero manifestava odio e sospetto contro i gesuiti portoghesi, e opponeva una strenua resistenza alla loro penetrazione in Etiopia, e da parte sua Galaudeuwos non intendeva aprire le porte del regno ad un’influenza straniera né religiosa né politica né militare. Né il sovrano né la chiesa etiopica né il popolo intendevano abbandonare da un giorno all’altro la religione dei padri con le sue tradizioni e i suoi riti per accogliere la religione dei ferengj, per quanto anch’essa cristiana. Così Galaudeuwos scrisse una Confessio fidei in difesa della dottrina cristiana etiopica e infine, nel 1557, escluse dalla corte i gesuiti che avevano redatto un trattato sugli errori teologici della chiesa etiopica, in pratica imprigionandoli. Nel frattempo, anche se il momento peggiore che aveva messo a rischio la stessa sopravvivenza del regno amhara era cessato, le guerre non cessavano affatto. Tutto il XVI secolo fu un drammatico susseguirsi in Etiopia di guerre e distruzioni. Galaudeuwos dovette continuare la guerra contro gli Oromo, che continuò fino alla fine secolo. Nel 1557 i turchi, già padroni dell’Egitto e della costa araba del Mar Rosso, si impadronirono di Massawa e così completarono l’occupazione di tutti i porti del Mar Rosso. Con ciò l’impero etiopico perse il solo accesso al mare rimasto in suo possesso, mentre si configurava il rischio di un’invasione nell’entroterra: i turchi giunsero a saccheggiare perfino il monastero di Debre Damo posto sull’impervia roccia, e Galaudeuwos dovette rinforzare le frontiere tigrine al nord. Contemporaneamente il nipote del Gragn, che per la tradizione di levirato ne sposò la vedova, per anni rilanciò l’offensiva anche se essa andava sempre più esaurendosi. Il grosso delle forze musulmane si concentrò o meglio si ritirò ad Harar. La lotta amhara contro le armate islamiche, ora condotta da posizioni più favorevoli, proseguiva e l’esercito imperiale, che aveva già attaccato e duramente colpito Harar nel 1550, nuovamente la attaccò nel 1559. Non poté però giungere ad occupare la città santa islamica, alle cui porte il Negus Neghesti trovò la morte in combattimento a soli 37 anni. Egli fu decapitato e la sua testa venne mostrata quale trofeo. Dopo lo scampato pericolo, Harar nel 1567 venne cinta di mura a scopo difensivo
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(ancor oggi visibili): le chiavi delle cinque porte della città dovevano essere consegnate ogni notte al sultano. Harar divenne una città autarchica: l’ingresso in città era precluso ai bianchi e ai cristiani (tale fu ancora nel XIX secolo: l’esploratore R. Burton poté entrarvi solo travestito da mercante arabo), e il commercio con gli “infedeli” (spezie, tessuti, etc.) poteva esservi praticato solo fuori dalle mura (ove tuttora si svolge il cosiddetto “mercato cristiano”). Il pericolo per i musulmani non era solo nei cristiani amhara, ma anche nell’atteggiamento aggressivo di alcuni gruppi oromo non giunti all’islamizzazione. Portoghesi e musulmani si scontravano nel Mar Rosso mentre amhara e musulmani si scontravano alle falde degli altipiani etiopici, e tuttavia la difficile alleanza fra portoghesi e abissini, gravata da reciproci sospetti, non rispondeva ad una vera unità di intenti. Nuovamente molti cristiani, onde evitare le angherie nei territori divenuti islamici, rinnegarono la loro fede passando alla religione islamica. Per questo i monaci cristiani moltiplicarono gli sforzi per rafforzare la fede e la dottrina: abbiamo così nel XVI secolo varie traduzioni e rifacimenti in ge’ez dall’arabo di antichi testi cristiani greci (come gli Atti e miracoli di San Giorgio); il Libro dell’impurità che dettava le speciali penitenze atte a rendere possibile riaccogliere gli apostati che intendevano tornare al cristianesimo; La Porta della Fede, apologia del cristianesimo contro l’Islam ad opera di un arabo convertito che fattosi monaco (e traduttore di testi arabi cristiani) difendeva il culto delle immagini, il dogma trinitario e l’universalità del messaggio cristiano. Da parte musulmana invece abbiamo il resoconto in lingua araba delle guerre nella Storia delle conquiste di Abissinia e nella Storia dei combattenti la guerra santa, un tentativo di diffusione della dottrina islamica nel Libro dei doveri composto nell’antico harari, nonché (sempre in harari) la Canzone dei quattro Califfi, un poema esaltante Maometto e la dottrina sunnita islamica19. Ormai, chiaramente, non si trattava più solo della forza delle armi perché la cultura islamica, filosoficamente impregnata del pensiero greco, iniziava una sua diffusione, per quanto lenta e parziale, fra i dotti etiopi. Un esempio di ciò è il Fetha Negast, le “Leggi dei Re”, una raccolta di antichi canoni religiosi e civili di origine araba databili fra l’XI e il XIV secolo, tradotta e riadattata in ge’ez nel XVI secolo. Un altro esempio è il Libro dei filosofi, una raccolta di massime morali per lo più attribuite a filosofi greci, tratte da un antico testo greco risalente probabilmente all’VIII secolo e nel IX secolo tradotto in arabo in modo adattato e interpolato e quindi verso il 1510-1520 tradotto in amarico da Abba Mikael, che fu anche autore di 19
Cfr. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 119-136, 141-142.
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scritti cristiani20. Un esempio ancora è La vita e le massime di Skandas, una ritrascrizione del mito di Edipo (il giovane filosofo Skandas, per verificare se sia vero che tutte le donne sono prostitute, torna dopo vent’anni in incognito dalla madre vedova e la vede corruttibile; saputa la sua identità la madre si impicca per la vergogna e Skandas per punizione fa voto di non parlare più, fornendo tuttavia per iscritto all’imperatore le sue risposte a domande sulla cosmologia, la teologia, la morale): questo testo, molto probabilmente di origine greca risalente al II sec. d.C. e tradotto in siriano, in arabo, in latino, fu tradotto nel XVI secolo in amarico sulla base di una traduzione araba del IX secolo.21 Insieme alle persistenti guerre contro gli Oromo e gli islamici, vi fu anche la guerra contro gli ebrei falasha dei monti Semien. Essi, dopo aver subito vari soprusi, si ribellarono abbandonandosi a profanazioni delle chiese cristiane e a incursioni armate. La reazione delle armate cristiane, guidate dal Negus Neghesti Naod, fu durissima. Dice una cronaca abissina delle stragi e dei massacri di Naod: «la Madonna punì questi empi, divenuti peggiori dei cani e delle iene, e per castigarli si servì di Naod. Egli fece un generale massacro di uomini e di donne, e il loro sangue corse come un fiume e tutte le bestie feroci del deserto poterono saziarsi. Così tutti gli eletti trasalirono di gioia, sentendosi l’anima riconfortata, come pure il cuore della Madonna, la santa e pura Maria, loro sovrana». La discriminazione contro gli ebrei non era mai cessata: come si è detto essi non avevano diritto a proprietà e venivano relegati ai mestieri ritenuti più disonorevoli quali quello di vasaio e fabbro, i cui stessi termini amarici sembrano di lontana discendenza ebraica, e ancora nel XV secolo l’imperatore Yeshaq aveva ribadito: «chi è battezzato nella religione cristiana può ereditare la terra di suo padre. Altrimenti, che sia un falasha, un vagabondo». Queste guerre sono testimoniate da vari testi di parte cristiana dell’epoca, come la Cronaca abbreviata, la Cronaca del Re Claudio e gli Atti di Tekle Alfa, un abate che narra le sue continue peregrinazioni da un monastero all’altro onde scampare alle razzie e distruzioni cercando un qualche rifugio in una terra ormai infestata da briganti, ribelli oromo e musulmani bellicosi dove ormai ciascuno pensava per sé. Abbiamo infine, sulla guerra contro i falasha, la Cronaca del Re Malac Sagad.22
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Libro dei filosofi, in Philosophie ethiopienne et textes classiques, cit., vol. I, pp. 86-297. La vita e le massime di Skandas, in Philosophie ethiopienne et textes classiques, cit., vol. II, pp. 299-408. L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. II, pp. 153-158.
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Alla fine di questo secolo di guerre − contro gli Oromo, contro gli arabi del sud e i turchi del nord, contro i falasha − l’impero etiopico, scampato al pericolo della sua stessa sopravvivenza, poteva dirsi rinsaldato. Tuttavia, la sua natura era ormai mutata. Infatti, per quanto infine l’offensiva musulmana fosse stata rintuzzata, restava il dato inoppugnabile che ormai quasi tutti i bassipiani del meridione dell’Etiopia − laddove non erano rimasti “animisti” − erano diventati islamici. Ricostruire completamente la base religiosa dell’impero, sentita così necessaria quale elemento unificante e coesivo, dopo la tempesta del Gragn fu impossibile: i segni lasciati dal passaggio delle armate islamiche sul suolo etiopico furono indelebili. Il regno abissino era sempre stato incapace nei secoli di dare una vera unità politica e morale alle genti sottomesse, e per questo esse passarono all’islamismo. I popoli camiti divennero musulmani, adottando la religione dei nemici dei loro veri nemici, i dominatori amhara. Invero, non si può dire che questa islamizzazione fosse penetrata nel fondo dei cuori, come non lo fece in tanti secoli nemmeno il cristianesimo. Infatti, né la religione cristiana né quella islamica poterono mai soppiantare del tutto il fondo nativo di una arcaica religione, propria dei padri e degli avi, largamente impregnata di animismo. Al riguardo, scrive con rude ma efficace franchezza di conoscitore, certo venata di spirito coloniale, un esploratore italiano dell’Ottocento: «fra i Galla molte tribù si dicono musulmane, alcune altre si dicono cristiane, ma le masse confondono e accettano i nomi del Cristo e del profeta con la stessa indifferenza con cui continuano a inchinarsi dinanzi alle grandi manifestazioni delle forze della natura. È questa la sola forma possibile, nella sua semplicità, presso un popolo primitivo. Un popolo primitivo deve adorare il sole e il fulmine; deve adorare il cielo, le acque, le montagne. [...] Volete che popoli abituati a quella vita abbraccino una forma diversa nell’adorare le forze della natura? Inciviliteli prima, senza di che essi accetteranno tutto quello che dite di Cristo, di Maometto, della vergine e simili, come altrettanti nomi dati alle loro divinità»23. Ma certo, seppur non potesse dirsi profondamente radicata, almeno nelle regioni meridionali dell’impero, né la religione cristiana né quella islamica, resta il fatto indubbio che ormai, dopo il Gragn, gli islamici apparivano come i nemici dei propri nemici e l’abiura del cristianesimo imposto e mal assimilato sempre più si accompagnava con la repulsione crescente per l’elemento cristiano identificato con l’oppressore amhara. Di fatto così dopo il Gragn l’islamismo, in queste popolazioni, divenne un ulteriore elemento fomentatore di rivolta. L’impero, da sempre tenuto assieme es23
G. Bianchi, In Abissinia alla terra dei Galla, cit., p. 381.
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senzialmente con la forza, apparve dopo la tempesta ancor più disgregato, oltretutto pullulante delle spinte autonomistiche dei signori feudali. Luca dei Sabelli si interroga su questo decisivo crinale storico, in cui poco mancò che l’intera Abissinia divenisse musulmana, e giunge a domandarsi se alla sopravvivenza di un impero cristiano esausto e privo di coesione interna non sarebbe stata preferibile una vittoria islamica. Egli si domanda se i moschetti e i cannoni dei portoghesi non abbiano tenuto artificiosamente in vita un organismo putrefatto e quasi morto, e se non fosse stata preferibile per l’Etiopia una vittoria completa dell’islamismo che a suo giudizio sarebbe stato capace di ridare linfa ad una civiltà esausta infondendo una più alta civiltà in un paese barbaro e arcaicamente feudale: «La sua capacità organizzativa [del Gragn] era tale da riplasmare lo Stato, popolarlo di città, di moschee, di scuole, di ordinarlo sotto la legge dell’Islam, di farne una forza conquistatrice, che avrebbe trasformato i destini dell’Africa. L’Abissinia sembrò un momento adattarsi al nuovo fato. L’apostasia del cristianesimo fu generale. [...] Quando l’invasione fu respinta, l’involucro dell’Impero era intatto, ma l’anima era morta»24. La domanda e il dubbio sono legittimi, tuttavia sorgono alcune considerazioni di diverso segno: anzitutto, il Gragn era un grande capo guerriero di indomita audacia, ma avrebbe egli avuto le capacità del grande uomo di Stato? Il regno di Harar avrebbe potuto essere l’epicentro di un nuovo impero non più cristiano ma islamico? Non si può naturalmente rispondere a questa domanda, e può darsi che l’autore citato abbia ragione. Tuttavia rimane il dubbio su quale sarebbe stata, in Abissinia, la “superiore civiltà islamica”: l’islamismo nel XVI secolo, in tutto il mondo, era ormai da tempo ben lungi dagli splendori dell’islamismo ispanico o persiano e probabilmente l’Abissinia islamizzata non sarebbe stata diversa dallo Yemen arretrato rimasto fino agli anni sessanta del XX secolo in mano ad Imam integralisti per non dire fanatici. Infine, in caso di definitiva vittoria islamica che ne sarebbe stato di un antichissimo regno e di tutta la sua storia? Che ne sarebbe stato ad esempio delle chiese di Lalibela, visto che le armate islamiche avevano fatto terra bruciata distruggendo al loro passaggio ogni traccia di cristianesimo? E quale sarebbe stata la sorte della stessa civiltà occidentale, se tutta l’Africa fosse divenuta islamica? Intanto, nel regno di Etiopia, scampato il pericolo, gli occidentali cristiani che si sentivano i salvatori del paese accrescevano la loro influenza. Il prestigio occidentale crebbe nel 1571: se infatti in quell’anno Cipro cadde 24
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. II, p. 438 (cfr. pp. 138-140).
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in mano turca, con la morte atroce del governatore Marcantonio Bragadin scorticato vivo, in quello stesso anno l’alleanza fra Venezia, la Spagna, la Chiesa e vari Stati italiani portò alla folgorante per quanto effimera vittoria di Lepanto. Anche se nel 1580 il regno portoghese − assorbito da Filippo II di Spagna − sospese la politica di intervento in Abissinia, in Etiopia rimase una comunità non piccola, fondata dai soldati portoghesi che si unirono con le donne indigene. La chiesa cattolica persisteva nel suo tentativo di riportare a Roma la chiesa etiopica sganciandola da Alessandria ed era sempre interessata ad un’alleanza con i sovrani etiopi in funzione antiislamica: in questo senso Gregorio XIII nel 1579 e nel 1580 scrisse al «serenissimo re d’Etiopia»25. Da parte loro, di fronte alle persistenti minacce al loro impero, gli imperatori etiopi ai primordi del XVII secolo chiamarono nuovamente in aiuto i contingenti europei, nell’intento di rinsaldare la lotta contro le forze islamiche che l’occidente aveva sconfitto a Lepanto. L’imperatore Za Dengel inviò a questo scopo delle missive al papa Clemente VIII e a Filippo III di Spagna. Nuovi contingenti giunsero così a incrementare la già viva comunità portoghese, il cui influsso si fece sentire: i portoghesi, che costruirono anche mirabili ponti (un paio sono rimasti, di cui uno sulla via che conduce alle cascate del Nilo Azzurro), con l’aiuto di maestranze indiane iniziarono a costruire la città di Gonder poco più a nord del lago Tana. La cittadina in un secolo divenne ricca di splendidi palazzi, separati dai tukul contadini da un recinto imperiale con dodici porte: questi palazzi (così li vide il Bruce nel XVIII sec.) erano sontuosamente decorati in oro e avorio e ornati con specchi veneziani e dipinti. L’apertura ai ferengj era dunque ben visibile nell’architettura gonderiana, nel suo arredamento, nell’arte figurativa. Per garantirsi l’appoggio occidentale, gli imperatori d’Etiopia accolsero anche i gesuiti le cui missioni vennero con le truppe portoghesi e ancora successivamente. Alla fine del XVI secolo i gesuiti introdussero una macchina tipografica in Etiopia, e l’influenza occidentale apparve evidente nell’iconografia religiosa. Nuovamente in nome della chiesa romana i dignitari romani promisero il sostegno militare dell’Europa cattolica in cambio della conversione dell’impero etiopico al cattolicesimo, ma nuovamente l’impresa si presentava ardua in una terra dagli endemici conflitti religiosi. In quegli anni avvenne perfino che un sedicente messia che prese il nome di Cristo (Za Krestos) fondò un movimento strutturato come una sorta di chiesa che si sosteneva grazie alle razzie e ai saccheggi. Quando Za Denghel fece decapitare Za Krestos, la sua setta ne proclamò 25
Cfr. R. Lefèvre, L’Abissinia nella politica di Gregorio XIII, in Gli Annali dell’Africa Italiana, Roma 1939, Mondadori, voll. 3-4, pp. 1170-1209.
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l’avvenuta resurrezione e solo negli anni successivi il movimento venne definitivamente stroncato26. Infine Za Dengel, che già soleva assistere alla messa celebrata con rito romano, si convertì al cattolicesimo riconoscendo la supremazia del pontefice romano su quella dell’abuna alessandrino. Ma la cosa creò scandalo e, quando il sovrano in conformità alla sua nuova religione cercò di abolire la festività del sabato, vi fu una ribellione: l’abuna lo scomunicò e sciolse il popolo dal vincolo di obbedienza, mentre i grandi feudatari, col pretesto del ritorno alla fede ortodossa, mossero contro di lui, lo deposero e lo assassinarono. Dopo un periodo di lotte dinastiche, divenne imperatore nel 1607 il figlio Susenyos: come il suo predecessore e padre, anch’egli condusse aspre lotte sempre culminanti in feroci repressioni contro gli Oromo, contro gli Agaw di religione ebraica (che furono sterminati e venduti come schiavi a migliaia), contro i falasha tutti, nonché contro i signori feudali ribelli. Di fronte agli ingenti sforzi militari richiesti dalle circostanze e desideroso di aiuti militari, Susenyos continuò la politica di avvicinamento all’occidente. In questa rinnovata politica di avvicinamento all’occidente giocò anche l’influsso che su di lui ebbe il consigliere e gesuita spagnolo Pedro Paez: questi era un uomo attento e moderato, capace di tatto nei rapporti umani, da tutti ammirato per l’austerità di vita che contrastava non poco con la rilassatezza morale di ampia parte del clero etiopico; era inoltre in grado di parlare e scrivere in ge’ez ed era un ottimo conoscitore dell’Etiopia di cui più tardi scriverà la storia. Fu anche architetto di talento e costruì per Susenyos un palazzo a Gonder, mentre a Gorgora sul Lago Tana costruì il Ghemb Maryam, il “castello di Maria” di cui oggi rimangono solo rovine: per alcuni era il palazzo di Susenyos ma più probabilmente (come sembra provare il nome) era una chiesa cattolica forse annessa a una residenza imperiale27. L’influsso esercitato da quest’uomo fu davvero profondo non solo nella corte etiopica ma anche nella popolazione attraverso la sua opera di evangelizzazione. In generale i gesuiti svolsero in Etiopia in questa fase un’attività in diretto contatto con le popolazioni, da cui invece il clero ortodosso si manteneva distante: stando ad una relazione di un gesuita al Padre Generale della Compagnia (riportata da Monti della Corte) varie conversioni vennero facilitate quando durante una pestilenza i gesuiti, che predicavano in amarico, andarono a portare il loro conforto nelle case dove
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La notizia è riportata nelle Cronache del Re Susenyos (v. E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 158-160). A.A. Monti della Corte, La chiesa portoghese di Gorgorà, in Gli Annali dell’Africa Italiana, cit., 1938, vol. II, pp. 633-639.
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non osavano recarsi i preti ortodossi. I gesuiti pubblicarono anche numerosi volumetti in amarico che, come veri e propri catechismi accessibili a tutti, esponevano in linguaggio semplice e piano i fondamenti della dottrina cattolica. Operarono anche conversioni alla corte imperiale e fra gli alti dignitari e infine anche Susenyos, radicalizzando la politica del padre Za Dengel, abiurò la fede alessandrina e si convertì al cattolicesimo, tentando di introdurlo in Etiopia. A tal fine inviò missive a Paolo V e a Filippo III di Spagna onde ottenere aiuti contro i suoi nemici. Non si trattava soltanto di una questione di opportunità politica volta a procacciarsi aiuti militari: lo stesso Susenyos, giustificando le sue scelte, contrappose apertamente la positiva opera culturale e religiosa svolta in Etiopia dai gesuiti con le carenze del clero ortodosso, lontano e distante dal popolo e sovente di scarsa fibra morale (alcuni abuna vivevano come sovrani attorniati da concubine). L’avvicinamento del sovrano al cattolicesimo avrebbe anche potuto significare l’uscita dell’Etiopia dal suo isolamento e l’apertura al mondo occidentale da cui i sovrani etiopi aspettavano concreti aiuti nelle loro lotte, ma sia Susenyos che i gesuiti successori del Paez, dimentichi della sua linea volta a non ferire l’anima etiopica, commisero gravi errori di valutazione. Quasi da un giorno all’altro il cattolicesimo venne ufficialmente riconosciuto come la nuova religione di Stato con atto di sottomissione alla chiesa di Roma, e una serie di nuovi obblighi e prescrizioni caddero sul clero e sulla religione etiopica: venne abolita la liturgia ortodossa e introdotta la messa con rito romano, poco mancando che si sostituisse il latino come lingua sacra al posto del millenario ge’ez; venne dichiarata la dottrina teologica della duplice natura umana e divina del Cristo passando sopra a secoli di discussioni dottrinarie; fu abolita la festività di origine ebraica del sabato e imposta la domenica, proibita la pratica ebraica della circoncisione (cosa che non fece nemmeno S. Paolo), ordinata la sostituzione del sacro tabot con l’altare cattolico, modificate in tutto le norme del digiuno, consentito a tutti l’ingresso nelle chiese (sia ai puri che agli impuri), abrogata la poligamia la cui pratica era testimoniata anche dai libri veterotestamentari, impartito l’obbligo per i fedeli di essere ribattezzati, imposta la riordinazione dei preti ortodossi, la riconsacrazione delle chiese, il calendario gregoriano e la nuova autorità religiosa inviata da Roma che assunse il ruolo di abuna al posto di quello alessandrino. Susenyos volle imporre come leggi queste nuove disposizioni, richiedendone l’osservanza sotto pena di gravi sanzioni: ad esempio era prevista la confisca delle terre per chi le avesse lavorate la domenica. D’un tratto, usi millenari venivano brutalmente soppressi. Si trattava di una rottura totale con tut-
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ta la tradizione religiosa etiopica: l’introduzione del cattolicesimo in terra abissina pretendeva di cancellare tradizioni e pratiche religiose secolari; tutta la millenaria fede degli avi veniva d’un colpo soppressa a favore della religione cattolica importata dai gesuiti in cui molti etiopi vedevano l’anteprima di una prossima occupazione coloniale spagnola. La reazione del clero ortodosso fu durissima: esso nell’abolizione delle antiche tradizioni e delle proprie usanze liturgiche vedeva sminuito il proprio ruolo e nel passaggio al cattolicesimo paventava l’imminente perdita delle proprie ampie ricchezze e dei propri poteri e privilegi, ma non mancarono voci più alte e meno interessate al mantenimento dei privilegi28. Così, come già aveva fatto con Za Dengel, il clero nuovamente insorse: l’abuna alessandrino scomunicò il sovrano, e i monaci dai conventi incitarono apertamente alla disobbedienza e alla ribellione, chiamando alle armi. Anche i grandi feudatari, da sempre ostili al sovrano, trovarono nella difesa della religione dei padri un ulteriore motivo per muovergli contro. Per tutti gli occidentali viventi in Etiopia fu un momento difficile e la comunità portoghese, additata al pubblico disprezzo, dovette affrontare una crescente ostilità. Con viva preoccupazione Susenyos scrisse della pericolosa situazione nelle sue missive al pontefice (1618 e 1624), chiedendo l’aiuto del re di Spagna. La sua azione fu durissima: mentre ufficializzava il passaggio suo e del regno al cattolicesimo, accentuò le proprie disposizioni autoritarie e iniziò una dura persecuzione, sempre più intensificata, nei confronti del clero ortodosso e di tutti coloro che non intendevano piegarsi alle nuove disposizioni. Ne venne una vasta ribellione nazionalistica e una guerra civile, nella quale Susenyos fece sterminare 70.000 persone. Il clima di quegli anni − caratterizzato dalle dure lotte fra ortodossi, cattolici, musulmani − è ben visibile nel Trattato in ge’ez attualmente attribuito a Zar’a Ya’qob, un pensatore fuggiasco perseguitato come eretico sotto il regno di Susenyos, a lungo vissuto nascosto travestito da monaco eremita e autore in tarda età (1667) del suo libro dai tratti autobiografici29. Il carattere veramente anomalo di questo testo di impianto razionalistico nel clima religioso e intellettuale etiopico ha fatto perfino pensare al Conti Rossini che esso fosse l’opera di un autore italiano ottocentesco sotto 28
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La voce più alta e forte di questa opposizione all’introduzione del cattolicesimo in Etiopia fu quella di Wolatta Petros, badessa di un convento, di cui testimoniano gli Atti di Wolatta Petros (in E. Cerulli, La letteratura etiopica, cit., pp. 160-162). Cfr. P. Caraman, L’Empire perdu. L’histoire des jésuites en Éthiopie, Paris 1988, Desclées de Brouwer. Zar’a Ya’qob, Trattato, 1667, in Philosophie ethiopienne et textes classiques, cit., vol. II, pp. 409-462.
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mentite spoglie (Giusto da Urbino il cui nome di battesimo era Giovanni Iacopo, equivalente di Zar’a Ya’qob)30. Sicuramente questo trattato in ge’ez era l’opera di un autore vivente in Etiopia e influenzato dalle novità della cultura occidentale. Scrive dunque Zar’a Ya’qob, testimoniando di quegli anni drammatici: «il re [Susenyos] accettò la fede dei ferengi e a partire da quel momento si mise a perseguitare tutti coloro che non l’accettavano» (Trattato, 2v); «a quell’epoca i ferengi dominavano» (4r). Zar’a Ya’qob crede in un Dio creatore, crede nell’immortalità dell’anima e nella vita ultraterrena, crede nell’efficacia della preghiera e conosce a fondo la Bibbia. Ma su altri contenuti delle fedi religiose esprime le sue perplessità e respinge nel modo più netto come un tradimento della verità rivelata gli odi, i fanatismi e le persecuzioni religiose che dilagavano per il paese: «in questo momento i ferengi ci dicono: “La nostra fede è la vera, la vostra non lo è”. Noi invece diciamo loro: “Non è così: la vostra fede è falsa, la nostra è vera”. Ma se noi domandassimo la stessa cosa ai maomettani e agli ebrei, essi rivendicherebbero la stessa verità. Chi può essere giudice in questo genere di argomenti?» (5v-6r). Gli uomini − scrive con visibile amarezza l’autore − si combattono in nome della verità, ma non la conoscono e vivono fra le menzogne. I testi sacri esprimono certamente la verità, egli aggiunge, ma è una verità velata e occultata dalle menzogne umane: di conseguenza questi testi, in un senso quasi spinoziano, vanno purificati, depurati, chiariti e compresi alla luce della ragione che Dio ci ha dato. Così, coloro che vennero dopo Mosè «aggiunsero storie di miracoli; pretesero che essi avessero avuto luogo in Egitto e sul Monte Sinai e li attribuirono a Mosè. Ma per chi ha uno spirito di ricerca queste storie non sembrano veritiere» (8v); «quando esamino [...] il Pentateuco, la legge dei cristiani e la legge dell’Islam − scrive Zar’a Ya’qob −, trovo parecchie cose che non sono d’accordo con la verità e la giustizia del nostro creatore che la nostra intelligenza ci rivela» (9v). Che le mestruazioni, necessarie alla fecondità femminile, rendano la donna impura e con lei tutto ciò che tocca, come pretende la legge ebraica, è falso (10r). Che sia giusto abbandonare i genitori e i figli per seguire la perfezione, come dice il Vangelo, è falso. Che sia giusto ridurre un uomo in schiavitù, come pretendono gli islamici, è falso (10v). Le pratiche del digiuno sono inutili e dannose: «Dio non ci ordina delle assurdità, non ci dice: “Mangia questo, non mangiare quello; mangia oggi, non mangiare domani”» (11r). Non esiste nessun popolo eletto: «perché Dio avrebbe rivelato la sua legge a una nazione nascondendola 30
La tesi del Conti Rossini fu fatta propria anche dal Cerulli (La letteratura etiopica, cit., p. 180).
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ad un’altra?» (12r). Infine: «come l’uomo, che è piccolo e povero, può dire mentendo: “Io sono inviato da Dio per rivelare agli uomini la sua saggezza e la sua giustizia”?» (22r). Di conseguenza: «quando esaminiamo le credenze professate dagli uomini non siamo d’accordo con esse, perché vi troviamo la menzogna mescolata al vero. Gli uomini disputano fra loro. Uno dice: “Ecco la verità”. L’altro dice: “No, questo è falso”. Ma essi mentono, mentono tutti quando pretendono di attribuire alla parola di Dio la parola degli uomini» (13r). In realtà, «Dio ha donato la ragione a tutti e a ciascuno affinché essi possano distinguere la verità dalla menzogna [...]. Pertanto non possiamo raggiungere la verità attraverso le dottrine degli uomini, perché tutti gli uomini mentono» (14r). Non si fa fatica a credere che l’autore di queste tesi, in un paese sempre dilaniato dalle guerre religiose, abbia dovuto nascondersi per gran parte della sua vita. Lungo il tracciato delle idee di Zar’a Ya’qob si muoveva anche il discepolo Wäldä Haywat. Egli apre il suo Trattato31 con una critica alle idee accettate per mera tradizione: gli uomini, scrive, «hanno accettato e creduto senza esame preliminare ciò che hanno inteso dai loro padri. Così i bambini dei cristiani sono cristiani, i bambini dei maomettani sono maomettani, i bambini degli ebrei sono ebrei: non v’è alcuna altra ragione per la loro fede. Fin dall’infanzia essi hanno sentito dire che la fede dei loro genitori era vera ed essi vi hanno creduto senza ricerca o conoscenza rigorosa. Tutti si battono per la loro fede ed affermano che essa è quella vera. Ma non è possibile che tutte le credenze degli uomini siano vere, perché esse non si accordano affatto fra loro. È possibile invece che esse siano tutte false, perché l’errore è molteplice ma la verità è una» (32r). Ne segue un atteggiamento di diffidenza verso l’autorità, la tradizione, i libri. Le parole umane sono menzognere anche quando pretendono di parlare in nome di Dio: «i libri sono scritti da uomini che possono scrivere delle falsità. [...] Quale ragione avete voi di credere in tutto ciò che è scritto? Non v’è altra ragione che questa: voi avete inteso dalla bocca degli uomini che ciò che era scritto nei libri era vero. [...] Ma come voi avete inteso ciò da essi, essi a loro volta l’hanno inteso dai loro padri! Così gli uomini credono alle parole degli uomini che possono essere false, ma non credono alle parole di Dio» (36v-37r). La volontà divina vale più delle parole umane. La tradizione non può diventare coercitiva. Tutto va esaminato in base alla ragione che Dio ha dato agli uomini affinché se ne servano al meglio: «una fede senza ricerca non ci è richiesta da Dio e non è degna della natura di una creatura 31
Wäldä Haywat, Trattato, in Philosophie ethiopienne et textes classiques, cit., vol. II, pp. 463-523.
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razionale. Non conviene che noi crediamo alla fede dei nostri padri senza aver ricercato e senza essere arrivati alla certezza che la loro credenza era vera. Dio non ha dato la ragione soltanto ai nostri padri, ma anche a noi» (38v). Scrive così l’autore, quasi cartesianamente: «per non essere ingannato nella mia fede, non credo in nulla se non a ciò che Dio mi ha dimostrato attraverso la luce della mia ragione» (37v). Anche se in realtà ciò poi lo porta contraddittoriamente a scrivere che proprio per questo il suo sarebbe un libro di verità esente da errori (38v), in ogni modo le endemiche e secolari lotte di religione fra ortodossi, cattolici, ebrei, musulmani, pagani sono condannate come insensate: «L’uno dice: “credete nella fede di Alessandria”. Un altro dice: “credete nella fede di Roma”. Un terzo dice: “credete nella fede di Mosè”. Un quarto dice: “credete nella fede islamica di Maometto”. [...] Tutti dicono: “la nostra fede viene da Dio”» (37v). La polemica contro i molteplici fanatismi tutti lontani dalla carità e dall’amore è continua, e aspra contro la cristianità fratricida: «noi non dobbiamo essere come i cristiani del nostro paese, che insegnano l’amore di Gesù Cristo con le loro labbra ma non hanno amore nel loro cuore: essi si insultano, si maledicono l’un l’altro e si battono in nome della loro fede. Questo genere d’amore non viene da Dio: esso è inutile» (50v). La critica al comune modo di intendere e vivere la religione è continua, come dimostra la polemica contro la pratica, diffusissima in Etiopia, dell’anacoretismo selvaggio: «non lodare chi si isola dagli uomini per vivere da eremita nelle caverne» (47v). Similmente contro le pratiche di digiuno: «non dobbiamo essere come quegli insensati che pensano che Dio ci impedisca di mangiare il nutrimento creato per la vita degli uomini» (56v). Poi il trattato continua con consigli e indicazioni in senso pedagogico e morale, certamente più ispirati al buon senso e meno eversivi. Gli aspri conflitti religiosi che travagliavano la terra etiopica, di cui appare testimonianza negli scritti di Zar’a Ya’qob e di Wäldä Haywat, portarono infine − stante la ribellione del potente clero ortodosso − all’abdicazione di Susenyos accusato di tradire e vendere la patria ai ferengj. Al trono di Susenyos successe il figlio Fasilidas che reintrodusse la fede degli avi e la direttiva alessandrina ristabilendo la religione ortodossa. Si diffuse un canto popolare che diceva: «rallegratevi, perché l’Etiopia è sfuggita alle iene dell’occidente». Il nuovo imperatore anzi avviò una politica persecutoria contro i cattolici. Ne nacque un fanatismo anticattolico, e iniziò così un nuovo ciclo di persecuzioni questa volta di opposto segno rispetto a quelle di Susenyos, che si trasformò in una caccia all’uomo. Fasilidas ordinò che tutti i missionari cattolici, e i loro proseliti convertiti, fossero presi
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e messi a morte: abbandonati all’odio dei nemici, vari gesuiti e convertiti persero la vita fustigati, impiccati, lapidati, decapitati, e in alcuni casi si giunse perfino a riesumarne le salme lapidando e scuoiando i cadaveri. Mentre il paese precipitava nella carestia (1635), Zar’a Ya’qob, che nella sua lunga vita attraversò anche queste vicende, scrisse nel suo trattato che Fasilidas «divenne un cattivo re e si calò nella sua malvagità: versò il sangue, giunse a odiare e a perseguitare i ferengj che avevano ben meritato presso di lui costruendo torri e belle dimore e abbellendo il suo regno in numerosi e saggi modi. Come ricompensa per il bene che avevano fatto, egli li maltrattò. Questo Fasilidas faceva il male in ogni modo [...]. Dio aveva dato un re crudele a un popolo crudele» (Trattato, 26v-27r). Coloro che non furono uccisi, furono cacciati e rimpatriati: gesuiti e soldati portoghesi videro confiscati i loro beni e le proprietà e dovettero andarsene. In questo clima xenofobo la chiusura del paese per gli occidentali e in particolare per i missionari divenne totale: Fasilidas giunse al punto di appoggiarsi agli eterni nemici turchi onde garantire l’interdizione del Mar Rosso ad ogni sacerdote cattolico e, di fronte al pericolo di un intervento militare spagnolo, si cautelò avviando in contrappeso una politica di avvicinamento agli olandesi protestanti nemici della Spagna. Del resto egli perseguitò anche i monaci ortodossi che, come attesta una cronaca, lo accusavano di immoralità (come già avevano fatto i gesuiti) perché egli secondo il costume levitico si era tenuto le mogli del padre avendone dei figli, ed aveva sposato contemporaneamente una donna e sua figlia: dapprima uccise quasi un migliaio di monaci etiopi e poi, come riportò un medico francese alla corte reale, ne fece gettare settemila da un’alta rupe. Una simile efferatezza fa peraltro pensare a un dissidio politico di natura più complessa, forse dovuto al desiderio del sovrano di estirpare dal suo regno l’eccessivo potere dei religiosi di qualunque parte fossero. Fasilidas mosse anche dure guerre da un lato contro gli Oromo e dall’altro contro i feudatari ribelli. Alla fine della sua vita, conscio dei suoi eccessi, cercò di espiare costruendo monasteri e facendo ricostruire la chiesa di Axum a suo tempo distrutta dal Gragn. Con la cacciata dei gesuiti e il conseguente raffreddamento dei rapporti con Roma, e in un clima di crescente autarchia xenofoba, il regno etiopico tornava al proprio isolamento. Fin dal 1636 Fasilidas aveva trasferito la capitale a Gonder, e con questo la corte reale si ritirava emblematicamente ancora più all’interno del regno etiopico: quella dell’impero negusita è in fondo la storia di un arretramento continuo verso l’interno del paese, lontano dal mare e vicino ai monti. Il successore e figlio di Fasilidas, Johannes, proseguì l’autarchica politica paterna, espellendo da Gonder verso il deserto sudanese i musulmani, gli ebrei e qualunque persona non disposta
Castelli di Gonder
Gonder: complesso di Kweskwam
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all’abiura in favore del cristianesimo etiopico. In realtà però l’arrivo dei portoghesi e dei gesuiti e in genere degli occidentali era stato importante: oltre all’apporto delle milizie portoghesi nella sconfitta delle truppe del Gragn, un positivo influsso si era manifestato nelle arti, nell’architettura, nella cultura, e indubbiamente costituì un soffio di linfa vivificatrice nell’impero etiopico. Ora tutto ciò, seppur certamente non senza ragione viste le pretese occidentali di snaturare la tradizione etiopica, finiva. Troncando i rapporti con l’occidente per il timore − reale − di soccombere ad esso, il regno etiopico si trovò vieppiù isolato, sempre più travagliato dalle aspre lotte intestine con i ribelli e inquieti popoli sottomessi e sempre in gravi difficoltà nel fronteggiare gli islamici e i turchi (che peraltro dilagavano anche in occidente nell’area danubiano-balcanica giungendo nel 1683 alle porte di Vienna, qui fermati dall’esercito guidato dal principe Eugenio di Savoia la cui vittoria fu premiata con il Palazzo d’Inverno e il Palazzo d’Estate che ancor oggi si ammirano a Vienna). Nel regno di Gonder iniziò un lungo periodo di travagliate lotte intestine. L’ultimo grande imperatore fu Yasou, che governò fra XVII e XVIII secolo: egli arginò le invasioni oromo e dopo molte vittoriose battaglie giunse ad una pacificazione con alcune tribù, che in cambio del libero usufrutto di terre fecero atto di sottomissione; rintuzzò varie popolazioni nilotiche responsabili di razzie e incursioni ai bordi dell’impero; combatté duramente gli Agaw e a nord i secolari nemici Baria e i Begia usi alle scorrerie, sterminando intere tribù e stabilendo il controllo imperiale sulle terre del bassopiano eritreo. Al contempo debellò le ribellioni e le congiure dei ras pretendenti al trono: i responsabili − che egli volle giudicati da regolari tribunali − furono condannati a morte (fra essi il nipote di Susenyos), o esiliati, o condannati all’amputazione alternata delle mani e dei piedi, o al taglio della lingua, delle orecchie o del naso. Yasou riuscì a garantire durante il suo regno venticinque anni di relativa stabilità. Ripristinò anche buoni contatti con la chiesa romana, accettandone l’invio di alcuni emissari e riconoscendone l’autorità in una missiva del 1702 a Clemente XI (scritta con molta prudenza in lingua araba), esprimendo però la necessità di agire gradatamente onde evitare nuovi disordini. Alla fine, uso a ritirarsi in preghiera dopo ogni carneficina, non sopportò più la vista degli eccidi e si chiuse sempre più in solitaria meditazione, studiando le scritture e promuovendo dibattiti cristologici fra i monaci del suo seguito. Infine (1706), mentre nel paese imperversava una grave carestia, fu deposto da una cospirazione di nobili guidata dal suo stesso figlio (Takla Haymanot), contro cui non volle muovere in armi: fu relegato in un monastero su un’isola del lago Tana e infine assassinato. Il figlio che ne usurpò il regno finì a sua
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volta assassinato dopo due anni, vittima di una congiura di palazzo, mentre la madre imperatrice che l’aveva incitato al parricidio fu più tardi imprigionata e poi (caso unico nella storia etiopica per una donna reale) impiccata. La chiesa etiopica canonizzò Yasou come santo. Ne seguì un ulteriore periodo di turbolenze e di “re fantasmi”, nel totale sfaldamento del regno: i sovrani divennero fantocci nelle mani dei ras locali che si disputavano il potere. Nel XVIII secolo il regno di Gonder agonizzava fra rivolte, faide, intrighi di palazzo, avvelenamenti: in un turbinio di vicende i sovrani si successero l’uno all’altro per brevissimo tempo, e quasi tutti vennero uccisi. In questa situazione caotica, le incursioni oromo si fecero sempre più pericolose e gli Agaw giunsero a distruggere Gonder. Dawit III ordinò il massacro dei monaci di Debre Libanos che rifiutavano le sue tesi teologiche adozioniste e fece lapidare tre cappuccini giunti in Etiopia a fini missionari (l’abuna ordinò il martirio dicendo: «chi non getta almeno cinque pietre contro questi infedeli è nemico della Vergine Maria ed io lo scomunico fino alla settima generazione»). Venne poi l’imperatore Bakaffa, che si appoggiò alle forze oromo per conquistare e mantenere il potere di contro ai nobili, e suo figlio Iyasou II proseguì in questa politica grazie ad un’alleanza matrimoniale con una principessa oromo. I secolari nemici oromo potevano ben dirsi un corpo estraneo al ceppo amhara, ma tuttavia avrebbero potuto in certo modo rivitalizzarlo: senonché la cosa suscitò vieppiù intrighi e rivolte a corte e l’imperatore Yosas, figlio di Iyasou, venne deposto e impiccato. I due sovrani successivi furono assassinati, il terzo venne esiliato, e poi seguirono vari sovrani-fantoccio. A un certo punto il trono non venne più conteso soltanto all’interno della cerchia dei signori feudali, che facevano valere i loro diritti dinastici reali o presunti, bensì divenne oggetto delle brame di avventurieri senza scrupoli, di soldati della guardia imperiale, di elementi di corte di dubbio rango e qualità: non v’era più nemmeno l’ombra o la parvenza di una successione legittima ma, semplicemente, diventava sovrano chi riusciva ad uccidere il sovrano, fosse anche un soldato di corte. Di fatto Gonder non era più ormai la capitale di un impero, perché l’autorità in essa temporaneamente esercitata da questo o quel sovrano non si estendeva molto al di fuori della cittadina, mentre in tutta l’Etiopia sussistevano varie entità indipendenti (più potente fra tutte era il regno di Shoa). In particolare permaneva grave la conflittualità fra l’impero ufficialmente cristiano e la numerosa popolazione islamica. Dopo la sconfitta del Gragn i musulmani interni al regno etiopico (ad eccezione dei turchi sul Mar Rosso) entrarono forzatamente a farne parte, ma sempre furono (come gli ebrei e gli oromo) discriminati o perseguitati: nel regno etiopico
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i musulmani non accedevano alle cariche pubbliche, non possedevano terre (immediatamente confiscate dopo le occupazioni amhara), avevano poche moschee, svolgevano i lavori più umili. Da qui vennero i ricorrenti tentativi indipendentistici volti alla costituzione di sultanati autonomi, e le ribellioni delle popolazioni musulmane e oromo e di intere regioni. Queste ribellioni però, se potevano costituire focolai di resistenza all’espansionismo amhara che dagli altipiani tendeva a riversarsi sui bassipiani per assoggettarvi le popolazioni, non potevano dare avvio a movimenti in grado di dare l’assalto agli imprendibili e fertili altipiani amhara, non potevano riuscire dove il Gragn aveva fallito. Dalle terre desolate e aride, dalle solitudini immense, dalle valli anguste separate da monti e precipizi paurosi, turbe di pastori, di razziatori, di predoni, di guerrieri famelici si spostavano verso le terre fertili, ma esse rimanevano nel loro cuore inespugnabili: «l’altopiano etiopico, che sembrava dover costituire una base di espansione, è divenuto, per la resistenza del popolo abissino, un frangente contro il quale si è spezzato per mille anni lo sforzo unificatore degli Arabi»; «la potenza dei bastioni dell’altopiano ha avuto, nella storia abissina, non l’importanza d’una base d’attacco, ma quella di un centro di difesa»; la «formidabile scarpata dell’altopiano etiopico», autentico «tetto dell’Africa» e vera «muraglia di rocce cristalline» sorretta da bastioni e contrafforti in pietra, fa sì che l’Etiopia si presenti ai popoli invasori, provenienti dal mare o dal cuore dell’Africa, «come una fortezza imprendibile». Per questo, «dall’alto dei suoi bastioni di roccia l’abissino si è abituato a considerare le genti della bassura alla stregua di animali da basto e da macello». Infine l’orgoglio di razza, favorito dalla conformazione geografica, «ha creato barriere più forti di quelle che le asperità del terreno hanno frapposto fra stirpe e stirpe», accentuando in un solco incolmabile le diversità di lingue e costumi32. Gli altipiani furono il nucleo intangibile e inviolabile a partire dal quale, in un lentissimo processo millenario e solo con la forza e sempre fra nemici ribelli, si poté costituire l’impero negusita. La conflittualità fra cristiani e islamici in Etiopia non venne meno nemmeno nell’età moderna. Venne l’epoca di Tewodros. Il brigante figlio di un ras caduto in disgrazia e di una venditrice ambulante, proclamatosi imperatore nel 1855 (col nome di un mitico e atteso liberatore dell’Etiopia) dopo aver sbaragliato tutti i ras rivali, represse ferocemente le ribellioni interne sia tigrine che shoane e più non riconobbe il vecchio ed esausto impero: portò la capitale a Maqdala e attaccò Gonder saccheggiandone le 32
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. I, p. 19, 29, 25, 179, 180.
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chiese, danneggiandone i castelli ed incendiando la città da cui fuggirono diecimila persone. Oggi, dopo spoliazioni, un terremoto, attacchi di dervisci (e dopo i bombardamenti inglesi contro gli italiani colà asserragliati nella seconda guerra mondiale), a Gonder rimangono quasi solo gli esterni a testimonianza del passato splendore. Le ribellioni contro Tewodros furono particolarmente aspre. Egli, pur colpendo il corrotto clero ortodosso con molte confische di terre e spoliazioni e devastazioni di conventi, intendeva riaffermare il cristianesimo di stretta osservanza etiopica come religione di Stato esigendo la conversione forzata di ebrei (dopo aver favorito l’inglese Falasha mission for promoting Christianity amongst Jewos) e musulmani e abolendo la poligamia; parimenti combatté sulle coste i turchi e l’Egitto che aveva occupato il porto di Massawa, ciò per cui richiese invano l’aiuto inglese ed europeo trovandosi anzi a fronteggiare i complotti europei con il ras del Tigray suo rivale, il futuro imperatore Yohannes. L’intendimento di Tewodros era attuare un vasto programma di riforme (abolizione della schiavitù, riforma dell’amministrazione, dell’esercito e della giustizia) ma, fatto segno della reazione dei ras e del clero intaccato nei suoi privilegi e oggetto di numerosi attentati, divenne infine un tiranno sanguinario e spietato i cui nemici a migliaia venivano amputati, sgozzati, decapitati, impiccati, arsi vivi: egli trasformò il suo regno, come scrisse un contemporaneo, in «un vasto cimitero, nel quale non viveva più che gente sfregiata o storpiata». Restò tristemente famoso il suo modo di debellare la lebbra: dopo aver invitato a pranzo 500 lebbrosi, una volta che questi furono entrati nella sala preposta la fece bloccare dall’esterno e la fece incendiare. Tewodros morì poi suicida nel 1867, nella disfatta di Maqdala ad opera dell’esercito inglese che, coadiuvato dai ras locali con 40.000 etiopi, era venuto a vendicare l’imprigionamento di diplomatici e missionari protestanti.33 A Tewodros successe nel 1868 l’imperatore Yohannes, di origini tigrine (la sua residenza reale è ancora visibile a Makallé): nuovamente egli combatté gli Oromo autori di sanguinose razzie e ne fece uccidere 3000 a tradimento, dopo averli fatti convenire a un convegno di finta pacificazione; difese anche, infine con successo, il porto di Massawa e la costa del Mar Rosso dagli egiziani che intendevano sostituirsi ai turchi (l’Egitto aveva conquistato il Sudan fin dal 1820 ed Harar nel 1875). Al contrario di Tewodros, egli cementò il potere mantenendo sempre salda l’alleanza col
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Cfr. S. Rubenson, King of Kings. Tewodros of Ethiopia, Addis Abeba - Nairobi 1966, Haile Selassie - Oxford University Press; G. Annequin, Théodore. Un Négus incompris et mal-aimé, in AA.VV., Les Africains, Paris 1977, Éditions J.A., vol. I, pp. 287-318.
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clero. Nel 1875 varò una legge che imponeva ai musulmani la conversione al cristianesimo quale religione di Stato: gli abitanti di Gheta, centro islamico a nord di Addis Abeba (ora luogo santo di pellegrinaggio che custodisce le tombe di importanti personaggi), che non vi si piegarono, furono vittime di un pogrom che fece 33.000 vittime, il cui luogo di sepoltura è ancor oggi mostrato. Ritenendoli rei di minare l’unità religiosa del paese, fece anche perseguire ed espellere i missionari cattolici europei (fra cui il Massaja, troppo intimo del suo nemico Menelik). Combatté i dancali a sud e i dervisci islamici, che dopo aver seminato il panico nel Sudan erano giunti fino a Gonder saccheggiandone le chiese, mentre gravi carestie ed epidemie falciavano la popolazione e sterminavano il bestiame, e in combattimento trovò la morte (la sua testa mozzata venne portata in trofeo dai dervisci). Quindi Menelik, sconfitto da Tewodros dal quale era stato adottato sposandone poi la figlia, divenuto ras di Shoa (come già suo padre) conquistò nel 1887 il sultanato di Harar (che era tornato indipendente dopo una decennale occupazione egizia) insediandovi ras Makonnen, il padre del futuro imperatore Selassie. Il suo primo atto all’ingresso da vincitore in Harar, in spregio della popolazione musulmana, fu la demolizione della più importante moschea e l’edificazione di una chiesa ortodossa; ancor oggi i muri interni delle case di Harar appaiono spesso dipinti di rosso o di ocra per ricordare le vittime della resistenza all’aggressione di Menelik, il cui nome è aborrito. Infine, dopo aver invano cercato di strappare la corona imperiale a Yohannes che lo aveva sconfitto, dopo la morte di questi poté (nel 1889) proclamarsi imperatore grazie alle forniture militari italiane, e presto raddoppiò con la conquista i confini dell’impero: procedendo di massacro in massacro, conquistò le terre dei dancali a nord, dei somali, dei dervisci e degli oromo a sud. Un nuovo capitolo della secolare lotta fra cristiani e musulmani vi fu quando alla morte di Menelik nel 1913 successe al trono il nipote Ligg Jasu: egli, figlio di una figlia di Menelik e di ras Alula (poi Mikael) che era un dancalo di origini yemenite, forse anche per le sue origini parzialmente arabe si avvicinò presto alla religione islamica insediandosi ad Harar, praticando la poligamia con più donne islamiche, manifestando simpatie turco-tedesche nella prima guerra mondiale e prendendo contatti con ambienti turchi e con il capo della resistenza somala (denominato Mad Mullah) nella prospettiva di un impero etiopico-somalo. Tuttavia lo scandalo in Etiopia fu enorme, fra i dignitari, il clero ortodosso e la popolazione cristiana, e il nuovo sovrano (che peraltro progettava ardite riforme) fu deposto nel 1916. Ligg Jasu fuggì da Harar cercando rifugio in Dancalia presso il ras suo padre, mentre il ras del Tigray suo alleato affilava le armi. Si profilava una guerra civile fra due
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eserciti opposti, ma nella battaglia decisiva ras Mikael fu sconfitto e fatto prigioniero: morì poco dopo, in circostanze non chiare. Poco dopo Ligg Jasu, che godeva di vaste simpatie nell’esercito imperiale, venne arrestato: fuggì con la complicità di ras Kassa (di cui era parente) adibito alla sua sorveglianza, ma fu ripreso. Il ras di Gonder, la cui complicità con Ligg Jasu venne scoperta, fu arrestato e dopo di lui anche suo figlio che aveva tentato una pacificazione: al figlio si dovettero amputare le gambe andate in cancrena per i ferri della prigionia, mentre il padre, cui vennero spezzati gli arti, morì poco dopo. La corona passò (1916) alla figlia di Menelik, Zauditù (zia di Ligg Jasu), il cui marito passato dalla parte del deposto sovrano fu ucciso in uno scontro. Zauditù morì pochi giorni dopo per un attacco cardiaco, secondo talune fonti causato da un avvelenamento. Tafari Makonnen, figlio di ras Makonnen e alto notabile cugino di Menelik, che come principe reggente aveva (sebbene solo formalmente) abolito nel 1923 la tratta degli schiavi (erano allora 500.000 in Etiopia), onde far entrare l’Etiopia nelle Nazioni Unite e salvaguardare il paese dalle ingerenze coloniali e dai nemici interni, si fece incoronare nel 1930 con il nome di Haile Selassie (“La mia Forza è la Trinità”). Ligg Jasu fu tenuto in carcere per diciotto anni dal cugino imperatore (la cui suocera era sorellastra di Ligg Jasu) con cui giocava da bambino. Infine morì, secondo alcuni per avvelenamento, e si avanzarono sospetti su Selassie per la morte di Ligg Jasu (come già in precedenza per la morte dell’imperatrice): prendeva avvio il conflitto franco-etiopico, l’imperatore Selassie si preparava all’esilio londinese, e certo un pretendente vivo al trono poteva essere un pericolo poiché gli italiani avrebbero potuto liberarlo e rimetterlo sul trono come alleato e protetto.34 Come si vede, il plurisecolare conflitto fra cristianesimo e islamismo ha avuto in Etiopia lunghe propaggini anche nell’età moderna. Un dato appare alla fine chiaramente: l’impero amhara ha fronteggiato nei secoli i suoi avversari e spesso li ha sottomessi e soggiogati, ma non ha saputo assimilare le altre popolazioni con la civiltà di una superiore cultura; per secoli anzi le periodiche e ricorrenti devastazioni hanno portato la servitù e il terrore fra le popolazioni circostanti e soprattutto fra le popolazioni oromo e musulmane. Accozzaglia di genti e territori disparati (habesha vuol dire “miscuglio”), l’impero etiopico non ha mai costituito un’unità geografica né tanto-
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La storia della deposizione di Ligg Jasu e della concomitante ascesa al potere di Haile Selassie è tratteggiata, in modo un po’ romanzato ma con dovizia di informazioni anche di prima mano, da H. de Monfreid, Le masque d’or ou le dernier Négus, Paris 1936, Grasset.
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meno etnica e nemmeno religiosa, nonostante l’adozione del cristianesimo quale religione ufficiale. Fa così riflettere la cruda diagnosi dello storico dell’età coloniale: «Il più delle volte la conquista è il risultato d’una rapida spedizione militare, che afferma la sovranità abissina sui territori percorsi e impone ai vinti, sotto minaccia di rappresaglie, il pagamento d’un rovinoso tributo. L’Abissino prende, non dà. Il concetto della responsabilità morale d’un Governo verso i propri amministrati è estraneo alla sua coscienza. La sovranità abissina si risolve, per un paese vinto, in pura perdita. Nessun solido legame può stabilirsi in tali condizioni fra il vincitore e il vinto; l’unico rapporto è un rapporto di forza. Le genti sottomesse son tenute eternamente schiave col terrore. La piaga non si cicatrizza mai. Alla prima occasione le genti mal dome, che vedono falcidiati i propri armenti, requisiti i prodotti della terra, confiscati i propri campi, ridotti schiavi i propri figli, cercano di scuotere l’insopportabile giogo col coraggio della disperazione. Sono lotte di cui nessun cronista riuscirà a ritrarre l’orrore. La rappresaglia, istigata dal fanatismo e dall’odio, trascende in massacri di interi villaggi. Così, per gli effetti delle guerre, il paese si spopola, i territori s’inselvatichiscono, la ricchezza diminuisce, la barbarie scende inesorabile sul paese»35. Certo, lo storico coloniale è indubbiamente volto alla giustificazione della “tutela” occidentale su popoli ritenuti incapaci di autodeterminazione, ma la diagnosi − sfrondata dalla deformazione ideologica − appare sostanzialmente corretta per chi conosca la storia dell’impero etiopico. Si consideri al riguardo la questione delle terre. In molte popolazioni tradizionali non esisteva una vera e propria proprietà privata (il senso della proprietà privata riguarda più gli oggetti personali sentiti come parti della propria persona), quanto piuttosto sussisteva una proprietà collettiva di terre coltivate in comune secondo un sistema fondato sulla periodica redistribuzione da parte di tribù essenzialmente nomadi che coltivavano la terra per un certo periodo per poi abbandonarla in cerca di terre migliori: una sorta insomma di “comunismo primitivo” di marxiana memoria, per quanto non generalizzabile stante l’esistenza della proprietà privata in gruppi stanziali, ove la comunità assegnava terre in proprietà anche permanente ed ereditabile (non però agli stranieri o alle donne passibili col matrimonio di entrare in un altro clan). Ma coll’imporsi del regno negusita la terra divenne tutta, come noi diremmo, “demaniale” o meglio proprietà dell’imperatore che la concedeva in assegnazione (Gult) al clero, ai dignitari, ai ras feudatari e ai loro soldati; soprattutto le terre di conquista, abbandonate dalle popolazioni in fuga per sfuggire alle raz35
L. dei Sabelli, Storia di Abissinia, cit., vol. II, p. 12.
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zie e ai saccheggi, venivano assegnate a comandanti e soldati. La terra era dunque del sovrano, anzi gli stessi sudditi appartenevano al sovrano, tutto era del sovrano. Certo l’imperatore era lontano e i contadini di fatto potevano lavorare per generazioni una data terra, ma il potere sovrano poteva da un momento all’altro strapparla agli agricoltori per concederla in feudo agli alti dignitari, ai ras, o alla chiesa, ciò che immediatamente legava i contadini all’obbligo di varie prestazioni quali decime e corvées. Di conseguenza l’assegnazione e concessione di terre a militari, funzionari, feudatari, clerici totalmente privi di cultura terriera, assegnazione che poteva essere revocata con espropriazione ad arbitrio in qualsiasi momento (come provano le secolari confische dei beni ai ras ribelli o semplicemente scomodi o malvisti), ha diffuso nelle terre etiopiche un sistema feudale responsabile del mancato sviluppo dell’agricoltura abissina, nonostante l’esistenza di molti terreni e pascoli fertilissimi nonché di un patrimonio zootecnico unico al mondo perché nessun semplice usufruttuario (sia pur a tempo indeterminato con diritto di trasmissione ereditaria), oltretutto privo di conoscenze agricole, aveva interesse all’incremento della produzione in una terra non sua, senza considerare il veto di possedere terre per quelle persone che veramente le avrebbero lavorate, come falasha e muslim. Si può dire: questo è in sostanza il sistema feudale, diffuso anche in occidente. Ma, se questo è vero, rimane il fatto che le convulse e tragiche vicissitudini belliche dell’impero etiopico hanno reso molto più instabile che non in occidente, se non impedito, il possesso e il lavoro della terra. Le continue guerre in tutto ciò hanno svolto un ruolo decisivo. Per secoli gli habesha, fino a Menelik, hanno combattuto contro gli Oromo e i musulmani di origine somala, cercando di tenerli lontani dai propri fertili altipiani e invadendone le terre, razziandone e distruggendone i villaggi, depredandone il bestiame, uccidendoli e riducendoli in schiavitù. In realtà gli etiopi, fieri della rivendicata discendenza arabo-semitica, non vogliono essere assimilati ai neri e per questo l’etnia dominante degli Amhara ha sempre considerato l’etnia degli Oromo come una razza di schiavi, i “galla”, destinata ai mestieri più bassi della società. In realtà gli africani hanno molto praticato la schiavitù su altri africani. Basti pensare alla Liberia, ove dal XIX secolo fin quasi ai giorni nostri i neri discendenti dagli schiavi d’America, liberati e reimpatriati in Africa ad opera di organizzazioni umanitarie americane, instaurarono come in una sorta di oscura rivalsa un regime schiavista basato sullo sfruttamento e sull’apartheid nero nei confronti della maggioranza nera locale che, ritenuta razzialmente inferiore, venne espropriata delle terre, privata di ogni diritto, ridotta in schiavitù, segregata
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in appositi territori nel divieto assoluto di qualsiasi commistione, finché nel 1980 dopo un colpo di stato militare i neri schiavizzati della giungla si ribellarono instaurando a loro volta il terrore (e ancora si potrebbe ricordare la tragica vicenda del Ruanda, con lo sterminio dei Tutsi da parte degli Hutu). Per quanto riguarda l’Etiopia, per secoli il dominio amhara si concretizzò sostanzialmente nella forma della vessazione, della razzia e della schiavitù. L’esploratore italiano Bottego, narrando delle sue esplorazioni nell’Ogaden e nella valle del Giuba (allora Somalia inglese), racconta delle razzie abissine nei confronti delle popolazioni locali, dei villaggi depredati, saccheggiati, abbandonati e della paura delle popolazioni (peraltro esse stesse use alle razzie) che ogni estraneo attraversante le loro terre potesse essere un odiato amhara, contro il quale richiedevano protezione: «è un continuo venire di capi − scriveva − a presentarmi i loro reclami e domandarmi giustizia»36. Al nord eritreo ove vivevano i Cunama (un antico popolo cuscita di origine nilotica immigrato e poi mescolato con elementi sudarabi) le razzie amhara di bestiame, i pesanti tributi imposti, gli stermini nei villaggi, il ratto delle donne ridotte in schiavitù (tutti episodi raccolti dal Pollera dalla viva voce dei testimoni) sono stati tali da spopolare queste terre, causando l’abbandono dei villaggi e delle
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Del Boca, che dipinge Bottego come un criminale comune (Gli italiani in Africa orientale, Milano 1992, Mondadori, vol. I, p. 573 e 748), si rifà alle memorie di M. Grixoni che aveva abbandonato la spedizione di Bottego (la diserzione fu tenuta nascosta per non offuscare l’impresa) e che, pieno di livore verso il più celebre collega (che lo oscurava e ne manometteva i testi riportandoli nel suo libro), dichiarò di aver egli stesso comandato (oltretutto in territorio sotto la giurisdizione inglese) una razzia con saccheggio ordinata da Bottego. Bottego invece (di cui peraltro era indubbio il carattere autoritario e accentratore) scrisse nel suo diario di aver soltanto ordinato di riprendere armenti acquistati da una tribù e rubati, e narra delle vergate impartite alla sua soldataglia indigena di ergastolani di Massawa (la sola messagli a disposizione) rea di razzia, nonché delle restituzioni del maltolto e dei risarcimenti (molto parziali secondo il Grixoni) alle vittime (V. Bottego, L’esplorazione del Giuba, cit., pp. 31-35, 42-46 e altrove). Occorre peraltro dire che altre requisizioni furono praticamente forzate stante i furti subiti e l’alternativa della morte per fame. Del Boca sembra non sapere cosa volesse dire avventurarsi alla fine dell’Ottocento nelle lande più sperdute della Somalia o dell’Etiopia attraverso la Dancalia o per la Valle Omo (ove infine l’esploratore troverà la morte in un agguato di una tribù oromo). Il materiale naturalistico ed etnologico raccolto da Bottego in Africa si trova tuttora al Museo Eritreo Bottego di Parma, sua città natale (sulla controversa figura dell’esploratore v. M. Bonati, Vittorio Bottego. Un ambizioso eroe in Africa, Parma 1997, Silva Editore, in particolare pp. 151-153 e 284-285 sulle accuse di Grixoni).
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coltivazioni e talora financo l’appoggio all’occupazione italiana contro il dominio etiopico. Guglielmo Massaja, per decenni missionario cappuccino in Etiopia, racconta di una razzia dei soldati dell’imperatore Johannes, cui suo malgrado dovette assistere, nelle capanne di una famiglia di un villaggio nello Shoa ove tutti furono fatti schiavi: «All’improvviso un grosso gruppo di soldati abissini dà l’assalto alla casa, e legati padre, madre, figli, schiavi e servi, cominciano a dividersi gli animali, poscia le granaglie, gli attrezzi, e tutto quanto quegli sventurati possedevano. Saccheggiata ogni cosa e fatte schiave le persone, le spogliano e se ne dividono le vesti; e, caricata poscia la roba sui muli, sui cavalli e sulle persone medesime, portano via ogni cosa, prendendo chi una direzione chi un’altra. Immagini il lettore le grida strazianti di quei poveri sventurati nel vedersi ridotti a tale misera condizione, e nell’essere costretti a separarsi, forse per non vedersi più, il marito dalla moglie, la madre dai figli, i servi dall’amato padrone! Ed a quelle grida come rispondevano i feroci soldati di Johannes? Con forti staffilate, con colpi di bastone e con tali inumane spinte, da farli cadere a terra sotto il grave carico, che avevano loro addossato!»37. Sempre i neri delle regioni confinanti con l’altopiano amharico, da sempre terra di razzia e di conquista, sono stati per secoli resi in schiavitù dagli habesha amhara così come dagli arabi. Ecco 37
G. Massaja, I miei 35 anni di missione nell’alta Etiopia, Roma 1928, 12 voll., vol. XI, §15 (Tipografia Mantero; ora Il Poligrafo di Padova). Il testo, pur con tutti i suoi limiti nella comprensione della cultura oromo, rimane un documento di informazione storico-etnografica. Il Massaja, amato dalle misere popolazioni abissine e oromo fra cui curava il vaiolo attraverso la vaccinazione, ma malvisto dal clero locale che ne temeva i rapporti con Menelik (allora governatore dello Shoa) e la vicinanza ai monaci di indirizzo debrelibanese più vicini alla dottrina cattolica, fu espulso dal paese dall’imperatore Johannes: nominato cardinale, visse gli ultimi anni in una piccola casa (ora museo) annessa al convento dei cappuccini di Frascati ove è sepolto nella chiesa attigua (v. AA.VV., Guglielmo Massaja Vicario Apostolico dei Galla, Atti di Convegno, Roma 1990, Istituto Francescano). Sulla figura del cardinal Massaja (erroneamente esaltato in epoca fascista come fautore del colonialimo) esiste un film di G. Alessandrini intitolato Abuna Messias, girato dopo la fine del conflitto italo-etiopico e premiato a Venezia nel 1939, ove si mostra l’operato di pace del Massaja vanificato dal complotto ordito dal clero che ne causa l’espulsione. Il film, girato in Etiopia con attori italiani ma con molte comparse etiopiche, non manca dei segni dell’ideologia coloniale (il Massaja, che rimprovera gli abissini di eresia per aver dimenticato l’insegnamento del “romano” Frumenzio, vi appare addirittura come il fondatore di Addis Abeba nonché un elemento centrale nella contesa fra Yohannes e Menelik); tuttavia è interessante per la ripresa di scene di vita dell’Etiopia del tempo e culmina nell’epica e corale scena finale di guerra, veramente degna di un film western di John Ford, che vede la sconfitta di Menelik.
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la descrizione di una razzia abissina in un villaggio ai confini sudanesi, ormai nel XX secolo, testimoniata da un giornalista inglese nel racconto del viaggiatore L. Weiel: «armati di sciabole ricurve, le orde assalitrici correvano per le strade afferrando le giovani donne e gli uomini validi e legatili saldamente, li radunavano in una spianata erbosa, assieme agli armenti. I vecchi venivano passati a fil di spada o sgozzati con un corto pugnale. Quando le prime luci dell’alba fugarono a levante le ombre della notte, del villaggio non rimanevano che poche rovine fumanti, mentre i razziatori risalivano verso l’altopiano sospingendo gli uomini incatenati e gli armenti»38. Esiste al riguardo una descrizione di E. Baudi di Vesme, esploratore di fine Ottocento per incarico del governo italiano, sulle stragi amhara nei confronti delle popolazioni oromo e somale, ma si potrebbe anche citare la testimonianza di A. Franzoj, al seguito dell’esercito di Menelik in una delle sue spedizioni contro i “galla”: «quando Menelik, che è sempre accompagnato da quasi tutta la sua armata, prende guarnigione in una città − scrive il Franzoj −, quella città è dopo un mese letteralmente spogliata di ogni vettovaglia. Non avendo quindi tante città per quanti sono i mesi dell'anno, che fa egli per provvedersi i viveri e per liberare un po’ da quelle guarnigioni lo Scioa? Se ne va in uno qualunque degli immensi territori delle tribù galla che ancora non gli sono soggetti. E là il suo esercito, tutto devastando, tutto mettendo a sacco, si provvede di quanto può occorrergli per vivere qualche mese. I capi tribù, spaventati dalla rovina che portano i soldati, offrono di pagare i tributi mensili, purché si effettui subito lo sgombero dei loro paesi. [...] Quali orrori lungo la via! Villaggi in fiamme e saccheggiati, morti dappertutto o meglio dappertutto assassinati. Tutti i galla, al nostro appressarsi, incendiano i villaggi ed esportando i bestiami fuggono. Restano i vecchi, gli infermi; e costoro impotenti a salvarsi od a difendersi sono gli uccisi ed i castrati. [...] Ho veduto tre bellissime fanciulle con una corda al collo per ciascuna, legate lateralmente alla sella d’un cavallo montato da un giovinotto tutto tronfio per la caccia fatta»39. Lo stesso Menelik, infuriato per questi eccessi, si disse intenzionato a impiccare e mutilare i responsabili. 38
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L. Weiel, Orrori e miserie della schiavitù in Abissinia, Milano 1935, Ed. SACSE, p. 15. Respingendo l’idea della schiavitù quale umana servitù alla maniera del buon zio Tom, e testimoniandone direttamente la realtà in Etiopia all’epoca dell’imperatore Selassie, Weiel narra di maltrattamenti e torture, di schiavi abbandonati in ceppi e morti di sete durante i trasporti. A. Franzoj, Continente nero. Note di viaggio, Torino 1885, Roux e Favale, pp. 166-200 (cit. nell’antologia di A. Del Boca, La nostra Africa, Vicenza 2003, Neri Pozza).
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Il regno etiopico − si è detto spesso − costituì per secoli nel cuore dell’Africa un baluardo della cristianità arginante la minaccia musulmana. Ma resta il fatto che nessun impero può essere cementato solo con la forza: questo eccesso, questo spreco di forza fu in realtà la causa della secolare debolezza dell’impero etiopico, che non assimilò mai veramente i popoli sottomessi e vide il suo dominio progressivamente eroso dalla penetrazione islamica.
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Dans toutes les guerres il ne s’agit que de voler. (Voltaire, La pucelle d’Orleans, cap. XIX)
L’Etiopia, l’Eritrea e parte della Somalia − come si sa − costituivano l’Abissinia dell’Impero coloniale italiano. Per molti decenni, a partire dagli ultimi dell’ottocento − da Depretis a Crispi, da Giolitti a Mussolini − l’Italia fu, in Libia e in Africa orientale, una ambiziosa potenza coloniale. La colonizzazione italiana in Africa orientale iniziò in Eritrea nel 1882, in Somalia nel 1889, in Etiopia nel 1935. Finì nel 1941, con la disfatta nella seconda guerra mondiale. L’occupazione italiana dell’Abissinia iniziò nella seconda metà dell’Ottocento quando nel 1869 l’apertura del canale di Suez, collegante il Mediterraneo con il Mar Rosso e con l’Oceano Indiano, fece di quest’area uno dei punti strategici del globo. In quello stesso anno un appezzamento di terreno nell’Eritrea meridionale nella baia di Assab, possesso di due sultani, fu acquistato per conto del governo italiano dall’ex-missionario Giuseppe Sapeto, cui immediatamente subentrò la compagnia di navigazione Rubattino dietro a cui si celava l’Italia: seguirono altri acquisti di terre limitrofe e infine nel 1882 il governo italiano subentrò rilevando la compagnia, stabilendo un’amministrazione locale e stanziando una guarnigione permanente. L’Italia mise così un piede nel Corno d’Africa e nel 1885 occupò senza colpo ferire e con l’avallo inglese l’importante porto di Massawa sul Mar Rosso, allora possedimento egiziano in procinto di smobilitazione. Il Negus Neghesti Johannes sconfisse gli italiani a Dogali (1887), decimandone le forze grazie al suo generale ras Alula, ma trovò la morte combattendo contro i dervisci. Il ras Menelik, cresciuto, protetto, finanziato ed armato dall’Italia (e anche da Rimbaud), dopo aver ridotto in catene il figlio di Yohannes che morì di stenti pochi anni dopo, fra vari rivali si proclamò imperatore e, preoccupato dalla persistente ostilità della regione settentrionale del Tigray da cui proveniva Yohannes e in cui si configurava un duro
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conflitto etnico fra amhara e tigrini, nonché preoccupato dagli oromo a sud e per questo bisognoso dell’appoggio italiano grazie al quale era diventato imperatore, concesse vaste terre all’Italia. Così la sconfitta di Dogali non arrestò l’avanzata italiana: ultimi interessati al Mar Rosso dopo portoghesi, egiziani e turchi, gli italiani proseguirono nell’occupazione di Keren, di Asmara e di tutta l’attuale Eritrea. Presto, favorite dalla neonata Società Geografica Italiana1, iniziarono le spedizioni esplorative: missionari come G. De Jacobis, il padre Massaja e poi vari esploratori (come P. Antonelli, E. Ruspoli, E. Baudi di Vesme, O. Antinori, G. Bianchi, A. Cecchi, G. Chiarini, V. Bottego) andarono in Abissinia.2 Nel 1889 l’Italia, che nel frattempo iniziava tramite accordi il protettorato sui sultanati della costa somala finendo per affittarne alcuni porti, aveva sancito con Menelik il trattato di Uccialli: l’Italia, che aveva trasformato un ras locale in imperatore, si impegnava a proteggerne i fragili feudi dai pericolosi rivali interni ed esterni e dal canto suo Menelik, pur sussistendo vari problemi nella definizione dei confini, sostanzialmente riconosceva il controllo italiano sulla regione che sarebbe diventata lo Stato eritreo. Il governo italiano eritreo si macchiò a Massawa di gravi abusi al punto da provocare, in seguito a rivelazioni, una crisi parlamentare seguita da un’inchiesta poi “insabbiata”, e quando (1893) si procedette (come avverrà poi in Somalia) all’esproprio dei due terzi delle terre coltivabili, si scatenò una rivolta soffocata nel sangue seguita da un esodo di 15.000 profughi in territorio egiziano. Quindi Menelik, ormai abbastanza forte e sicuro nei confronti dei suoi rivali e nemici, denunciò nel 1893 le pretese dell’Italia (che manteneva ambigui rapporti con il ras del Tigray nemico di Menelik) sul territorio abissino e rifiutò la “protezione” prevista dal trattato di Uccialli (il cui articolo 17 conteneva una ambiguità, probabilmente voluta da una o da entrambe le parti: il testo amarico parlava di possibile aiuto italiano nelle relazioni internazionali mentre il testo italiano parlava di obbligo e dunque di protettorato). L’esercito italiano procedette dall’Eritrea verso sud nel Tigray occupando importanti centri dell’impero negusita (come Adua e Adigrat), e a questo punto la guerra fu fatale. Menelik, che nel frattempo 1 2
M. Carazzi, La Società geografica Italiana e l’esplorazione coloniale in Africa, Firenze 1972, La Nuova Italia. Oltre le opere già citate (Massaja, Bianchi, Bottego) ricordo: G. Sapeto, Etiopia, Roma 1890, Tipografia Reale; P. Antonelli, Il mio viaggio da Assab allo Scioà, Roma 1883, Società Geografica; A. Cecchi, Da Zeila alle frontiere del Caffa, Roma 1886, Loescher; O. Antinori, Viaggio nei Bogos, Roma 1887, Società Geografica (Antinori è rilevante per aver fondato una stazione naturalistica ad Ankober); E. Ruspoli, Nel paese della mirra, Roma 1892, Cooperativa Romana.
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con le armi europee aveva raddoppiato l’impero, forte della consulenza e dell’armamento francese e russo affrontò gli italiani: li sconfisse ad Amba Alagi (1895), costrinse alla resa il forte di Makallé (1896), e infine (grazie agli errori delle forze italiane che si divisero in tre colonne isolate ma ancor più grazie alle armi francesi e all’enorme superiorità numerica abissina: 120.000 uomini contro 17.000) sterminò le truppe italiane ad Adua (1-2 marzo 1896). I cadaveri degli italiani vennero evirati secondo l’antico uso abissino, ma Menelik fece curare i feriti di entrambi gli schieramenti e un generale italiano prigioniero poté conservare tenda, cavallo e servi3. In Italia la notizia fu traumatica: ne vennero disordini di piazza e cadde il governo Crispi. L’anno seguente (1897) Bottego, l’esploratore che per conto della Società Geografica Italiana ricercava le sorgenti dell’Omo, assalito da un gruppo oromo rifiutò la resa e venne ucciso. L’esercito italiano dovette abbandonare gli ultimi territori occupati ed ogni idea di protettorato sull’Etiopia, ma ciononostante l’Eritrea rimase colonia italiana e in essa il governo italiano avviò grandi opere: fu avviata la costruzione della linea ferroviaria Massawa-Asmara (1909) poi prolungata fino a Keren, una vasta rete stradale, l’ampliamento del porto di Massawa che divenne il maggiore porto dell’Africa orientale, e venne impiantata una struttura industriale. Infine, durante il ventennio fascista l’Italia, approfittando di un incidente di frontiera con molte vittime, avvenuto nel 1934 fra truppe italiane e etiopi presso il forte di Ual-Ual fra Etiopia e Somalia, dopo aver represso varie ribellioni in Somalia, con imponente spiegamento di forze procedette nel 1935 (senza dichiarazione di guerra) alla conquista dell’impero etiopico. Le Nazioni Unite, al cui seggio era anche la rappresentanza etiopica, condannarono l’intervento ma (evidentemente memori delle loro imprese coloniali) solo formalmente, limitandosi all’applicazione di un embargo economico piuttosto inefficace in quanto non applicato al petrolio (lo stesso Mussolini confessò che di fronte ad una sanzione sul carburante avrebbe dovuto ritirarsi nel giro di una settimana). La campagna militare che condusse all’assoggettamento completo dell’impero etiopico fu estremamente dura. Il 30 settembre 1935 Mussolini aveva ordinato per telegrafo «decisione inesorabile contro tutti gli armati, rispetto e umanità per le popolazioni inermi disarmate»: ma così non fu
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Sulla celebre battaglia, più di molti lavori di storici professionisti, è interessante la ricostruzione del funzionario coloniale e etnologo Pollera che visitò i luoghi e cercò di recuperare le salme (A. Pollera, La battaglia di Adua, Napoli 1928, Carpigiani & Zipoli).
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per le «popolazioni inermi disarmate». Per volontà del duce stesso, furono effettuati centinaia di mitragliamenti aerei e vennero sganciate centinaia di tonnellate di bombe su obiettivi non solo militari ma anche civili. I gas tossici e soffocanti, fra cui l’iprite, banditi dalla Convenzione di Ginevra già nel 1925, usati dai tedeschi contro gli italiani nella prima guerra mondiale e poi dagli italiani durante la guerra libica nel 1923 e nel 1928, vennero usati anche in Abissinia. Il primo a usare i gas fu Graziani in Somalia (telegramma di Mussolini a Graziani del 27 ottobre 1935, telegramma a Lessona del 15 dicembre 1935 e autorizzazione di Mussolini il 16): il 30 dicembre 1935 i gas, il cui uso fu ordinato da Graziani, colpirono anche un ospedale svedese della Croce Rossa, con notevoli ripercussioni e proteste internazionali. Poi i gas furono usati da De Bono e infine da Badoglio in un momento in cui la controffensiva etiopica recuperava terreno. Gli etiopi dal canto loro, armati da Francia e Inghilterra, usarono in alcuni casi le pallottole dum-dum, che esplodevano nel corpo dei soldati. Le campagne e i villaggi etiopici furono dati alle fiamme con gas e sostanze incendiarie (12-20 gennaio 1936). Risulta che dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936 furono sganciate con le bombe 272 tonnellate di iprite. Il 9 gennaio 1936 un telegramma del generale Badoglio mostra soddisfazione: «Impiego iprite si è dimostrato molto efficace, specie verso la zona del Tacazzé. Circolano voci di terrore per effetti gas». Lo stesso giorno Mussolini autorizza Graziani in Somalia a «impiegare in caso di necessità qualsiasi mezzo»; Graziani telegraferà a Lessona in tal senso il 7 marzo. Il 14 con nuovo telegramma Badoglio annuncia: «A giorni farò un’emissione di gas che avvelenerà tutto fino al Tacazzè». Il 19 gennaio telegramma di Mussolini: «Autorizzo V.E. a impiegare tutti i mezzi di guerra − dico tutti − sia dall’alto come da terra. Massima decisione». Il 4 febbraio ribadisce: «Autorizzola impiegare qualsiasi mezzo»; il 29 marzo Mussolini ripete a Badoglio l’«autorizzazione all’impiego di gas di qualunque specie e su qualunque scala», ciò che sarà fatto in modo massiccio il 4 aprile. L’esercito italiano, pur rallentato nella sua avanzata dalla scarsa padronanza del territorio, dalla paralizzante stagione delle piogge e dalla mancanza di strade che occorreva costruire in fretta e furia, gode di una superiorità schiacciante soprattutto grazie all’aviazione che ne accompagna la marcia e contro cui nulla possono i fucili abissini. Il 5 maggio 1936 le truppe italiane entrano ad Addis Abeba mentre l’imperatore e la corte fuggono in treno a Gibuti per Londra. La città era stata da poco saccheggiata (secondo i commentatori fascisti dagli shifta, ma più verosimilmente dalla popolazione abbandonata dal sovrano e in preda al panico): soprattutto gli edifici pubblici, le residenze degli stranieri e gli stessi quartieri imperiali
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erano stati bruciati e la città era precipitata nel caos. La repressione italiana ad Addis Abeba e nell’Etiopia non si fa attendere. Il 6 giugno 1936 Mussolini via telegramma ordina: «Tutti i ribelli fatti prigionieri dovranno essere passati per le armi». Il 9 giugno ribadisce: «Per finirla con i ribelli […] impieghi i gas». Come testimonia un telegramma del viceré Graziani a Roma del 30 giugno 1936, nei bombardamenti aerei vennero impiegate grandi quantità di iprite. Il 30 luglio un telegramma di Graziani a Roma dichiara che l’abuna Petros, il vescovo di Addis Abeba che aveva incitato alla resistenza e marciato con i patrioti, è stato giustiziato (disse che il suo vero processo sarebbe avvenuto davanti a Dio e prima di morire benedisse i suoi carnefici); aggiunge che «tutti i prigionieri sono stati passati per le armi» e che «sono state effettuate repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza almeno di mancata reazione». L’11 settembre 1936 Graziani in un telegramma comunica una rappresaglia aerea con «gas asfissianti», «in perfetta identità vedute con S.E. Capo Governo». Lo stesso giorno in un nuovo telegramma Graziani ordina che «rappresaglia deve essere senza misericordia attuata su tutti paesi del Lasta senza dare ascolto alle lusinghe che i preti adesso cercano di mettere innanzi. Lasta est roccaforte fratelli Cassa ormai tutti irriducibilmente ribelli. Bisogna perciò distruggere sistematicamente paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità abbandonare questi capi. Poiché est oggi impossibile agire con colonne truppe scopo può raggiungersi con impiego tutti mezzi distruzione aviazione per giornate et giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti». 12 settembre, nuovo telegramma: «provveduto giorno undici corrente distruzione tutti villaggi conca Bilbelà Georghis et passato armi ribelli armati catturati». Lo stesso giorno: «domattina accordo […] tutti apparecchi disponibili campo Asmara effettuino bombardamenti iprite su quattro zone segnalate come rifugio armati». 21 ottobre 1936, telegramma di Graziani: «villaggi sono stati distrutti prima da bombe esplosive et incendiarie et poscia ypritati. In particolare due grossi paesi […] sono stati pressoché distrutti dall’azione apparecchi bombardamento». Furono anche avvelenati i campi e i fiumi, e avvelenati i cibi, cosicché anche i contadini, la gente dei villaggi e il bestiame vennero contaminati con migliaia di persone che bruciavano e morivano dopo agonie di ore: la guerra abissina si configurava ormai come genocidio. In essa il ruolo dell’aviazione fu decisivo perché per le forze italiane sarebbe stato indubbiamente ben più difficile sconfiggere il nemico in battaglie campali. Il telegramma continua denunciando due conventi che nonostante una sottomissione formale hanno dato rifugio ai ribelli e prosegue: «Le suddette azioni saranno continuate lungo tutti passi ferroviari sen-
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za tener conto delle pseudo sottomissioni». 27 ottobre 1936, telegramma di Graziani: «Mi compiaccio vivamente. Bisogna continuare nella opera inesorabile di distruzione. Est superfluo che aggiunga come razzie bestiame et qualsiasi altro valore appartiene per intiero ai reparti che lo compiono». Telegramma di Graziani dello stesso giorno: «Colonna Generale Mariotti ha incendiato circa cinquecento tukul. Passati per le armi perché trovati nei tukul guardiabestiame oltre cento indigeni. Catturati trecentocinquanta bovini». Telegramma di Graziani, 9 novembre 1936, si riferisce di una colonna che inviata per rappresaglia trova un villaggio abbandonato per la fuga degli abitanti: «Distrutte varie centinaia tukul. Passato per armi sei indigeni». Molti altri telegrammi in varie date danno ordine di fucilazione o conferma della stessa per tutti i ribelli, parecchie decine, fatti prigionieri. Il 25 dicembre 1936 i due figli di Ras Kassa, che si erano presentati alle autorità italiane con la promessa di aver salva la vita, furono fucilati e questo episodio (come riferisce un governatore italiano allora in Etiopia) determinò la ribellione del capo della polizia di Addis Abeba, fino ad allora fedele al governo italiano, che si dette alla macchia.4 Il 19 febbraio 1937, in seguito ad un fallito attentato a Graziani ad Addis Abeba, si scatena immediatamente una terribile rappresaglia: per tre giorni la città fu messa a ferro e fuoco, con i soldati italiani che correvano impazziti per le strade bruciando migliaia di tukul e uccidendo a caso. Telegramma di Mussolini del 20 febbraio: «Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma». Quante furono le vittime di questa caccia all’uomo che ad Addis Abeba imperversò per tre giorni? Secondo stime non esagerate, furono parecchie migliaia gli etiopi − uomini, vecchi, donne, bambini − impiccati, fucilati, bruciati vivi nelle case, decapitati e sbudellati per le strade: alcune immagini sono visibili ancor oggi nella mostra permanente del Museo etnografico di Addis Abeba. Dopo questo massacro, Graziani passò a un regolamento di conti: oltre l’esecuzione dei due esecutori materiali dell’attentato, vennero passati per le armi numerosi notabili e graduati del vecchio esercito del Negus Neghesti, implicati secondo l’accusa nell’attentato. Telegramma del 1 marzo di Graziani: «Ordino che essi siano immediatamente passati per le armi tutti secondo direttive del Duce mille volte ripetute et purtroppo poco ascoltate da molti. Est ora di finirla. […] Occasione migliore per sbarazzarcene nel momento più favorevole non potrebbe esserci. Dia assicurazione con frase “Passaggio per le 4
L. Calabrò, Intermezzo africano. Ricordi di un residente di Governo in Etiopia (1937-1941), Roma 1988, Bonacci, p. 13.
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armi”». Quindi fu avviata una persecuzione nei confronti degli «indovini e stregoni», in realtà personaggi, spesso anziani, che soprattutto nei villaggi godevano di grande considerazione e autorità. 15 marzo 1937, promemoria di un colonnello: «Addis Abeba è stata ormai ripulita da tutta la mala genia degli stregoni e degli indovini. Si prospetta la opportunità che uguale pulizia sia estesa anche a tutti i territori del vecchio Shoa, ove siffatti elementi infidi godono di grande ascendente presso le popolazioni, e sono particolarmente pericolosi». Analoga persecuzione fu avviata nei confronti dei «cantastorie», ovvero nei confronti degli azmari. Essi erano menestrelli erranti con il loro tipico violino con una sola corda (mësenkò), nei tempi più antichi al seguito delle carovane o giullari alla corte imperiale. Ancora oggi cantano le loro ballate in occasione di matrimoni o improvvisano come cabarettisti nei locali. Spesso essi con sapienti rime poetiche dicono tutto ciò che passa loro per la mente, anche in un linguaggio estremamente scurrile e offensivo, a quanto pare mal tollerato dallo stesso imperatore Selassie. Le autorità fasciste, specie dopo l’attentato a Graziani, tollerarono ancor meno i loro racconti epici sulla resistenza etiopica. 19 marzo, telegramma di Graziani sui «cantastorie gli indovini et gli stregoni» che «vanno perfidamente diffondendo tra queste popolazioni primitive ignoranti et superstiziose le più inverosimili notizie circa futuri catastrofici avvenimenti (distruzione completa di tutte le popolazioni da parte degli italiani, prossimi attacchi alla capitale condotti da imponenti formazioni ribelli con aiuti stranieri, prossimo ritorno del negus alla testa di imponente esercito, eccetera eccetera)». In realtà questi cantastorie e stregoni non erano del tutto disinformati e le loro notizie non erano così inverosimili: era infatti vero che la campagna coloniale italiana era partita con l’opposizione della Francia e dell’Inghilterra e fra la riprovazione internazionale (peraltro un po’ ipocrita e interessata), anche grazie al vibrante discorso del Negus in esilio alle Nazioni Unite a Ginevra nel ’36 contro l’aggressione italiana (che denunciava l’uso dei gas proibiti contro intere popolazioni), e questa riprovazione aveva causato per reazione nel ’36 l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista; ed era vero che dall’estero arrivavano se non proprio eserciti comunque armi moderne (fucili, mitragliatrici e bombe) per i ribelli etiopi, così come era vero che ampia parte della popolazione quantomeno sognava il ritorno pur al momento impossibile dell’imperatore. Così il telegramma conclude: «convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti cantastorie, indovini et stregoni della città et dintorni fossero arrestati et passati per armi». Mussolini rispose con telegramma il 20 marzo: «Approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli. Occorre
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insistere sino a che situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla». Il 21 marzo un telegramma di Graziani informa che dal 19 febbraio (giorno dell’attentato) sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie, «senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni diciannove et venti febbraio». Al 3 agosto le repressioni saranno 1918. Sempre nel telegramma del 21 marzo 1937 Graziani comunica di aver fatto inviare in un campo di concentramento a Danane in Somalia (un altro era a Nocra, una delle isole Dahlak davanti a Massawa) «millecento persone fra uomini donne ragazzi […] di nessun particolare valore ma che pel momento est meglio levare dalla circolazione»: si trattava di persone di etnia amhara. Tremila prigionieri, tenuti al lavoro forzato in condizioni disumane, morirono di fame, di stenti, di infezioni e malattie o per impiccagione o per violenze (dopo lo scoppio della guerra mondiale, i decessi assommarono a 35.000). Il 23 marzo Graziani, confermando con telegramma l’avvenuta esecuzione o deportazione di «eremiti-stregoni-indovini-cantastorie, che con le loro stupide profezie tenevano in subbuglio, o quanto meno in uno stato di perplessità la popolazione della capitale», auspica l’estensione dell’epurazione alle altre regioni «in modo totalitario» laddove «prediche o profezie siano rivolte contro il Governo o turbino – comunque – l’ordine pubblico»: ove l’accenno nuovo agli eremiti e alle prediche indica chiaramente che la persecuzione colpiva ormai sempre più anche il clero. In effetti era indubbio che, anche se il clero di Axum aveva fatto subito atto di sottomissione onde evitare i bombardamenti sui monumenti axumiti, in generale il clero etiopico non era certo favorevole all’occupazione italiana. Il 24 marzo un telegramma di Graziani rivela che la persecuzione prosegue contro i capi amhara, su cui si cercano informazioni (32 saranno fucilati il 23 aprile). Il 12 maggio in un telegramma Graziani invita ad eliminare i capi amhara «senza alcuna falsa pietà umanitaria» in quanto «il resto est massa amorfa che, una volta eliminati i capi, può essere con facilità assorbita da noi». Il 19 maggio Graziani comunica con telegramma al generale Maletti di avere «prova assoluta correità dei monaci convento Debra Libanos con gli autori dello attentato» e ordina: «passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente compreso il vicepriore». Così, nel monastero di Debre Libanos, a un centinaio di chilometri da Addis Abeba, il 20 maggio 1937 furono uccisi 297 monaci e 23 laici. Graziani scrisse al generale Lessona: «il monastero è chiuso, definitivamente». Tre giorni dopo Graziani con nuovo telegramma insiste: «confermo pienamente responsabilità convento Debra Libanos. Ordino pertanto at V.E. di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debra Libanos. Assicuri con parola “Liquidazione completa”».
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Così il 27 maggio anche i restanti 129 giovani diaconi, prima risparmiati, vennero uccisi. Ma non solo il monastero venne colpito: anche la cittadina che ospitava il convento subì la rappresaglia, cosicché il numero delle vittime salì a 1200. Nello stesso mese vi fu il massacro di Engecha, in cui 600 persone fra cui 300 monaci e molti bambini furono mitragliati. Altri cento furono uccisi a maggio nel villaggio di Uosecrà Mariam, che venne raso al suolo. Altri conventi furono chiusi e molti monaci deportati. Il 12 settembre 1937, in merito ad una rivolta, il generale Lessona telegrafa a Graziani: «Il Duce raccomanda che […] tu agisca con la massima energia contro i ribelli usando ogni mezzo. Ivi compresi i gas». Il 9 novembre, telegramma di Graziani: «Bisogna distruggere tutti i paesi lungo la camionale e tra il monte Feicha […], che sono tutti complici dei ribelli o ribelli essi stessi. Bisogna eliminare tutti i prigionieri. Nessuna pietà ». Occorre continuare? Si va avanti così: abbiamo oggi 65 fra telegrammi e documenti rinvenuti dove si ordinano o si dà comunicazione di fucilazioni, deportazioni, rappresaglie che colpiscono ribelli, contadini, interi villaggi, “stregoni”, cantastorie, preti. Non mancarono, in Abissinia, soldati inorriditi da quanto videro né ufficiali e medici che presero posizione piuttosto chiara contro i soprusi militari. Il nuovo comandante del campo di concentramento di Danane (E. Mazzucchetti), che cercò di migliorare le disastrose condizioni del campo più volte scontrandosi con l’inerzia e l’indifferenza dei superiori, confessò in un diario segreto tutti i suoi dubbi e le sue angosce per una situazione che non era in suo potere cambiare. Il governatore di Harar venne rimproverato dai “falchi” per atteggiamenti ritenuti troppo morbidi e filoetiopi. L’operato di Graziani fu improntato a tale efferata crudeltà, con tali ripercussioni internazionali, che alla fine lo stesso Mussolini il 20 novembre 1937 lo richiamò in patria chiamando al suo posto il duca Amedeo d’Aosta, che cessò le esecuzioni sommarie, svuotò in parte il campo di Danane, cercò di recuperare il sostegno dei capi locali affidando loro alcune competenze giuridiche e amministrative. In tal modo cessò la strategia del terrore e venne favorito il passaggio dalla fase puramente militare alla fase costruttiva dell’amministrazione dell’impero. Il duca rimpatriò centinaia di funzionari corrotti. Vi fu anche il generale Nasi che implacabilmente denunciò, arrestò, rimpatriò persone anche di rango colpevoli di abusi, corruzioni, frodi. Nel 1941 con l’occupazione inglese ha fine l’avventura italiana in Abissinia: Haile Selassie rientra solennemente ad Addis Abeba il 5 maggio (lo stesso giorno in cui cinque anni prima vi erano entrate le truppe italiane), e invita con proclami la popolazione a non abbandonarsi a ritorsioni contro gli italiani il cui lavoro e le cui competenze peraltro dovevano servire alla ricostruzione.
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Può sembrare inutile questo lungo elenco di atrocità (e se ne potrebbero fornire altri su Eritrea e Somalia) che alla fin fine dimostra solo che la guerra è cosa crudele. Ma siccome una certa tradizione ha presentato l’occupazione italiana nel Corno d’Africa come una passeggiata quasi pacifica compiutasi fra l’appoggio della popolazione locale ai “liberatori”, allora è bene precisare. In particolare è bene chiarire definitivamente la vecchia polemica sull’uso di gas asfissianti. Indro Montanelli, ufficiale in Africa all’epoca, scrisse in anni non lontani di non sapere nulla al riguardo e nessuno vuole discutere la sua buona fede: forse Montanelli operò in una zona lontana dall’epicentro delle operazioni belliche, e comunque era ovvio che i gas proibiti non venissero lanciati dagli aerei in zone occupate da truppe italiane terrestri. Invero nel 1996 il Ministero della Difesa italiano ha ammesso − sia pur in modo molto reticente e parziale − l’uso dei gas, ma siccome si trova ancora qualche vecchio generale che minimizza la cosa, dicendo che tutto ciò che è saltato fuori è un ambiguo telegramma di Graziani al riguardo, allora è bene precisare che i telegrammi e le testimonianze inequivocabili sono invece decine e decine e che da esse indubitabilmente emerge l’uso prolungato e massiccio da parte italiana dei gas proibiti per convenzione internazionale. I testi che cito sono tratti da vari documenti e in particolare da un libro, senza data né luogo di stampa, dal provocatorio titolo La Civilisation de l’Italie Fasciste en Ethiopie, stampato dal governo imperiale d’Etiopia (dunque non oltre il 1974, anno della caduta dell’impero), che ho ritrovato in una libreria scartabellando fra vecchi testi: il libro contiene tutte le fotografie dei telegrammi suddetti (tradotti a fianco in francese) nonché le raccapriccianti immagini di teste impalate e di soldati italiani facenti orgoglioso corteo attorno a un mucchio di teste decapitate5. Sui terribili effetti del gas, che avvelenavano fiumi, laghi, pascoli, distruggevano colture e vegetali, uccidevano i contadini e il bestiame devastando intere regioni, abbiamo inoltre la drammatica testimonianza del capo della resistenza etiopica e cugino dell’imperatore, ras Immirù (poi confinato prigioniero a Ponza), di ras Kassa e dello stesso 5
La Civilisation de l’Italie Fasciste en Ethiopie, senza data, Dipartimento della stampa e dell’informazione. Un’altra testimonianza sulle violenze, le illegalità, i furti e i soprusi italiani è quella del medico ungherese antifascista Ladislas Sava, vissuto ad Addis Abeba durante l’occupazione fascista i cui articoli furono pubblicati fra il 1940 e il 1941 sul New Times & Ethiopia News, diretto da Sylvia Pankhurst, nota sostenitrice della causa etiopica (v. gli articoli in AA.VV., Cronache del colonialismo italiano. Il Corno d’Africa, Roma 1991, Ed. Associate, pp. 75-160. Particolarmente vivida la testimonianza oculare del massacro che seguì l’attentato a Graziani, pp. 134-150).
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imperatore (ad esempio nelle sue memorie), nonché di innumerevoli giornalisti e medici della Croce Rossa6. Da questi documenti si comprende che l’occupazione italiana dell’Abissinia avvenne solo a prezzo di un conflitto molto cruento; che certamente non tutta la popolazione locale era dalla parte italiana (per quanto gli oromo, da sempre nemici degli amhara, fossero con gli italiani così come molti ras locali con le loro truppe, anche convinti a suon di denaro); che i “ribelli” trovavano appoggio e riparo nei villaggi e nei conventi; che gli italiani, in spregio ad ogni norma internazionale, nelle operazioni militari non facevano prigionieri o comunque li passavano immediatamente per le armi; che le forze italiane avevano campi di concentramento in Somalia e nelle Dahlak; che le esecuzioni sommarie, gli incendi e le distruzioni dei villaggi, le razzie del bestiame erano frequenti e avvenivano anche solo sulla base di semplici sospetti o per notizia di movimenti di ribelli o addirittura con atto di ferocia gratuita nei confronti di inermi contadini nei loro tukul o di indigeni casualmente trovati nei campi. La distruzione massiccia e intensiva dei villaggi in effetti ricorda molto i Crimes of war in Vietnam a suo tempo denunciati da Bertrand Russell in un famoso libro7. Perfino l’insistenza sull’uso dei gas proibiti può sembrare inutile, perché non meno gravi appaiono i massicci bombardamenti a tappeto sulle popolazioni civili, gli incendi e le distruzioni dei villaggi, il massacro di persone inermi, tutte cose non proibite dalla Convenzione di Ginevra. Alla fine, l’impari guerra costò la vita a 4.530 soldati italiani e (ma il numero delle vittime etiopi non è preciso) a circa 275.000 etiopi nella prima fase bellica nonché ad un numero almeno pari di vittime negli anni dell’occupazione. Dunque, quello in Abissinia non fu un colonialismo “buono” da “italiani brava gente”. Non esiste il colonialismo buono. E per tutto questo oggi in Etiopia il 2 marzo (anniversario del 2 marzo 1896 in cui l’esercito italiano subì ad Adua la clamorosa disfatta ad opera delle truppe di Menelik) e il 5 maggio (data del rientro dell’imperatore in Etiopia) sono feste nazionali: queste sono date molto importanti perché segnano la festa dell’orgoglio e del riscatto nazionale etiopico e più in generale africano; in particolare la battaglia di Adua è ricordata ovunque, spesso rappresentata nei quadri degli artisti etiopici e perfino affrescata nelle chiese. Se ora ci si domanda come venne vissuta questa guerra non nella retorica fascista ma sul terreno dai soldati che combattevano e dagli operai che 6 7
Vedi le testimonianze raccolte da A. Del Boca in Gli italiani in Africa orientale, cit., vol. II, pp. 487-497 e 532, 577, e AA.VV., I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma 1996, Ed. Riuniti. B. Russell, War Crimes in Vietnam, tr. it. Crimini di guerra nel Vietnam, Milano 1967, Longanesi.
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costruivano le strutture, indubbiamente dovremmo dire: con molto disincanto. Del resto tutta la letteratura coloniale italiana, dopo i miti pascoliani dell’Italia «grande proletaria» che nelle contrade africane avrebbe trovato lavoro e dignità e dopo i miti dannunziani e marinettiani della conquista eroica e virile, se da un lato rievoca nostalgicamente a posteriori un sogno dall’altro lato però (soprattutto nel furore della guerra e ancor più nell’approssimarsi della sconfitta) appare segnata dalla disillusione e dal disincanto8. Un esempio per quanto riguarda l’Etiopia ne è dato dal romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, in quegli anni ufficiale in Eritrea e in Etiopia. Il romanzo narra di un ufficiale che si perde invischiato nell’altopiano etiopico: uccide per errore una giovane indigena, rischia di contrarre la lebbra, diserta e tenta di uccidere due persone che potrebbero denunciarlo, e alla fine scopre che non succede nulla perché nessuno si accorge di lui («il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri»). Ma il senso del grottesco e dell’assurdo è forse ancor più dato dalle brevi e sparse annotazioni finali aggiunte in appendice (Aethiopia. Appunti per una canzonetta), frammenti di un diario significativo: si legge così che il duca di Bergamo, ritratto da Beltrame su una delle sue celebri copertine per la “Domenica del Corriere” nello slancio di un eroico attacco, viene invece visto dai soldati correre lentamente mormorando “Savoia... Savoia” a bassa voce con il fiatone. Si legge della presa di Makallé con i cuochi che entrano in città precedendo l’esercito e preparando il rancio, cosicché gli operatori del “Luce” che seguivano l’attacco glorioso devono far ripetere la scena dell’ingresso in città «con più approssimazione bellica». Esilarante, nel dramma, è anche leggere degli etiopi che, avendo preso delle bombe e avendo visto che i soldati italiani le innescavano con i denti per poi farle esplodere lanciandole, prima di gettarle le baciano con atto magico tranne poi stupiti vederle inesplose. L’età coloniale italiana è oggi un vero e proprio rimosso della storia italiana. I testi di storia delle scuole ne parlano poco, i docenti che poco la conoscono ne parlano ancor meno e sembra che, tranne qualche anziano nostalgico, nessuno più sappia quanto queste terre furono e ancora sono intrecciate alla storia italiana. Su tutta quest’epoca della storia italiana grava oggi una damnatio memoriae. Sussiste un imbarazzo e una volontà di dimenticare l’occupazione di uno Stato sovrano che passò attraverso momenti di feroce repressione. Del resto, tutta la storia del colonialismo 8
G. Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Palermo 2004, Sellerio.
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europeo determina oggi nella coscienza più avveduta dell’occidente un rimorso, un senso di colpa per i crimini commessi: quel rimorso di cui parlava Claude Lévi-Strauss viaggiando per i “tristi tropici del cancro”. Non certo solo l’Italia, ma quasi tutti gli Stati europei (Germania, Francia, Belgio, Inghilterra) perseguirono allora una politica coloniale e certamente non con le buone maniere: basti ricordare il sovrano del Belgio Leopoldo II, che finanziò le esplorazioni “armi in pugno” di H. Stanley e avviò una politica di depredamento sistematico delle ricchezze naturali del Congo (gomma, caucciù, avorio, diamanti) attraverso il lavoro coatto e lo sfruttamento schiavile della manodopera locale, attuando un genocidio che infine provocò ondate di denuncia e protesta internazionale (da E. Morel fino alla voce prestigiosa di Russell): era questo il tratto peculiare di un’epoca ormai alle nostre spalle e di cui non sentiamo nostalgia. Ma è possibile, dopo settanta anni, cominciare a considerare ora in modo più equo quella vicenda? L’occupazione italiana in Abissinia ebbe aspetti molto crudeli, né noi l’abbiamo nascosto. Però essa non fu soltanto guerra, ferocia, massacro e sterminio come appare da molti testi unilaterali e faziosi anche di storici acclamati. Ho con me sottomano (li si trova ad Addis in qualche libreria praticamente come pezzi d’antiquariato) i voluminosi testi degli Annali dell’Africa italiana, editi dalla Mondadori negli anni coloniali e stampati a Roma fra il 1938 e il 1940 a cura dell’allora Ministero dell’Africa Italiana. Contengono una gran quantità di serissimi studi geologici, idrici, mineralogici, geografici, forestali, biologici, zootecnici, e anche (seppur venati di razzismo) antropologici, storici, linguistici. Soprattutto, costituiscono il resoconto ufficiale e molto dettagliato (con relazioni, cartine, mappe, fotografie, planimetrie e quant’altro) delle opere compiute o in progetto di costruzione in quegli anni nelle colonie africane dell’Italia fascista. Apro uno dei volumi: «Non s’è sentita la difficoltà, non s’è conosciuta la forza dell’impedimento, la bruta resistenza dell’ostacolo, l’incaglio della contrarietà, dell’ingombro, dello sbarro. La galleria del Termaber, di 586 metri, per volontà di uomini e pertinace fatica accorcia, sulla Strada della Vittoria [la strada Addis Abeba - Gonder], il tracciato finora seguito sulla pista militare, di otto difficilissimi chilometri. Sul costone dell’Uolchefit − lungo la strada da Asmara a Gonder − si lavorò a un’altezza di 700 metri, su una parete a strapiombo, da uomini assicurati con funi, sospesi sul precipizio, assorti nel compito immane, consapevoli che solo quel loro pericolo avrebbe permesso la posa delle mine e l’opera dei minatori. La strada del Tana fu aperta a palmo a palmo, senza riposo. L’imprevisto appariva ad ogni passo, ad ogni istante. L’altopiano, il bassopiano e le pendici della Dancalia furono vinti con una lotta che non diede quartiere, con un lavoro che non
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concesse tregua, con un cuore che non conobbe sgomento, saldo contro ogni avversità»9. È facile oggi, di fronte a brani simili, sorridere della retorica di quei tempi: ma, a parte il sentimento di rispetto che comunque impone l’immagine di un cippo sulla strada di Mogadiscio in onore dei caduti sul lavoro (che però non cita i caduti indigeni), v’è da dire che quella retorica ufficiale non sembra poi molto lontana dal vero quando si considerano le iniziative poste in opera dal governo di allora nelle colonie. Non la retorica fascista degli anni trenta ma un inviato speciale dei giorni nostri, certo non sospetto di vecchie nostalgie, parlando della strada coloniale che da Asmara tuttora conduce ad Addis Abeba, dice che essa «si lancia con arditezza incredibile a conquistare metro a metro le altitudini, i picchi, le gole scoscese», arrampicandosi «per tornanti vertiginosi»10. E Del Boca, anch’egli certo non nostalgico, scrive: «Protagonista è ancora dunque l’uomo, come ai tempi di Cheope. L’uomo che affronta l’inferno della Dancalia, le pareti a strapiombo dell’Uolchefit, i roccioni di basalto del Termaber, le acque vorticose del Millè e del Borchennà, le foreste impraticabili di Uondo, gli smisurati dislivelli della valle dell’Omo, i torrenti insidiosi dell’Ogaden, le paludi della valle dell’Auasc. L’uomo che affetta le montagne per costruire migliaia di tornanti, che taglia le pianure e i deserti con allucinanti rettifili d’asfalto»11. In effetti la ruspa, il cemento, il ferro, il mostro meccanico di futurista memoria sembravano veramente voler rifondare quelle contrade. Opera di civilizzazione, la chiamavano. Ma non lo fu? Certo, sappiamo bene che le strade furono per la maggior parte costruite in fretta e furia nei primi mesi della guerra con lo scopo prioritario di farvi passare in tempi celeri gli eserciti e i mezzi motorizzati. Intuiamo anche facilmente che quegli uomini, lontani da ogni retorica ufficiale, non pensavano tanto alla conclamata esigenza di portare la civiltà in quelle contrade bensì stavano semplicemente facendo un lavoro faticoso e rischioso in una terra straniera, tutto sopportando più per la prospettiva di un guadagno impossibile in Italia che non per fede nel Duce12. Ma intanto, soprattutto in Etiopia e in Eritrea, fu costruita una mirabile rete stradale «dove prima non esistevano che carovaniere, sentieri impervi e mulattiere», con ponti in ferro e cemento là dove prima v’erano solo ponti di tronchi marci e dove vecchi camion e 9 10 11 12
Annali dell’Africa italiana, cit., 1939, vol. IV, “Le opere stradali”, p. 320. F. Prattico, Nel Corno d’Africa. Eritrea ed Etiopia tra cronaca e storia, Roma 2001, Ed. Riuniti, p. 19. A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, cit., vol. II, p. 163. Vedi le narrazioni disincantate di molti lavoratori in Africa raccolte da N. Labanca, Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d’Africa, Rovereto 2001, Museo Storico Italiano della Guerra.
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vetture affondavano fra le acque in piena e gli uomini che tentavano il guado venivano divorati dai coccodrilli. La stessa attuale politica del governo etiopico incentivante la rete stradale non fa che ricalcare la vecchia rete stradale attuata dal governo fascista e poi rovinata in decenni di mancata manutenzione e di erosioni dovute alle stagioni delle piogge. A prescindere dunque dagli iniziali fini militari, fu un grande vantaggio anche per le popolazioni locali la possibilità di percorrere in poche ore distanze che in precedenza richiedevano giorni di viaggio faticoso ed estenuante, peraltro impossibile durante la stagione delle piogge quando le piste diventano torrenti di melma; fu un grande vantaggio l’economia di tempo e di denaro nei trasporti, la loro maggior facilità e il conseguente abbattimento dei costi. Si scrive ad esempio negli Annali: «mentre l’anno scorso il trasporto di un quintale di merce da Massawa ad Addis Abeba costava 493 lire, attualmente ne costa 130, e presto scenderà a lire 100»13. Valutazioni non dissimili potrebbero farsi per le opere portuali in Somalia (Mogadiscio) ed in Eritrea (soprattutto Massawa), con lavori di moderna ristrutturazione o con nuovi impianti anche tramite impiego di manodopera locale. Certamente però l’occupazione rimaneva occupazione. Consideriamo al riguardo il problema dell’agricoltura. Come la Francia in Algeria e come in genere le altre potenze coloniali anche il fascismo effettuò nelle colonie africane espropri di terre e di bestiame previo magro indennizzo, e naturalmente trattavasi delle terre migliori: insieme alla casa, alle sementi e al bestiame queste terre venivano concesse ai coloni italiani e alle loro famiglie, ed essi con gli anni le avrebbero comprate rimborsando le spese anticipate. In alcune colonie vennero espropriati i due terzi delle terre, con gran delusione delle popolazioni oromo che avevano confidato che l’occupazione italiana togliesse le terre ai latifondisti amhara per darle ai contadini. Qui si vede bene una delle originarie motivazioni del colonialismo italiano (oltre alla politica di potenza e alla ricerca di importanti sbocchi marittimi): al di là dei miti eroici dannunziani, trasformare la «grande proletaria» di pascoliana memoria, l’Italia umiliata, paese di poveri emigranti che col loro triste fagotto portavano il loro lavoro in tutto il mondo sottraendolo alla patria, in una potenza colonizzatrice in grado di trovare nelle terre africane lavoro per i suoi figli. Questo lavoro non era tanto il lavoro operaio (si comprese presto che un operaio della madrepatria costava troppo di più rispetto a un locale), quanto, nella prospettiva, il lavoro dei campi. Questa peraltro, negli intendimenti, avrebbe dovuto essere la differenza fra il colonialismo 13
Annali dell’Africa italiana, cit., 1939, vol. IV, “Le opere stradali”, p. 321.
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italiano e quello degli altri stati europei, che non avevano conosciuto nella loro storia il problema demografico e il dramma dell’emigrazione. Così in Libia i coloni arrivavano a migliaia, con partenze programmate, e all’arrivo ciascun nucleo familiare trovava ad attenderlo una casa decorosa e spaziosa già pronta, già arredata e fornita di bestiame, mangimi, sementi, attrezzi e macchine agricole, inserita in un villaggio con la sua chiesa, la sua scuola, il suo ambulatorio, i suoi servizi. Queste persone, un tempo emigranti lontani dalle famiglie e abbandonati a se stessi in cerca di incerta fortuna in un paese straniero (e il fascismo proibì questo tipo di emigrazione), divennero coloni in una terra annessa ove una struttura organizzativa predisposta a riceverli provvedeva a loro. Per questo, in quegli anni, mai in Italia il consenso al regime fu più vasto e convinto. Nessun’altra potenza coloniale esportò un numero così alto della propria popolazione nelle colonie: Francia, Inghilterra, Germania, a parte le forze armate (non massicce quanto quelle italiane), inviarono per lo più commercianti, imprenditori, tecnici e persone qualificate in numero abbastanza ristretto ma non migliaia e migliaia di agricoltori (oltre 30.000 in Etiopia in cinque anni), per il semplice fatto che questi stati non avevano nessun impellente bisogno di trovare uno sbocco alla popolazione agraria povera e in esubero. Non a caso Curzio Malaparte, desideroso di riscattarsi agli occhi del regime che lo aveva mandato al confino e inviato in Etiopia nel 1938 per il “Corriere della Sera”, parlava nei suoi articoli (certo senza cogliere in profondo la peculiarità etiopica) di “lembi d’Italia” riscostruiti in terra africana, sentiva già sul ponte della nave per il Mar Rosso «un’aria familiare, di cucina, di tinello, di aia, di piazzetta» italiana, parlava di una nuova Romagna nell’“impero bianco” d’Etiopia popolato da sanguigni e robusti contadini e operai friulani, sardi, romagnoli usi a spaghettate innaffiate di Lambrusco.14 Invero nella politica agraria coloniale fascista non mancarono indirizzi generali ispirati, se non ad un’impossibile equità dato il carattere di conquista armata del paese, quantomeno ad un’esigenza di rispetto dei diritti dei nativi. Ad esempio in una pubblicazione di E. Brotto del 1939 si prospetta, in linea di massima, una politica agraria volta in linea generale all’acquisizione demaniale dei soli terreni abbandonati o incolti, nel rispetto dei diritti acquisiti dai nativi sulla terra lavorata da generazioni e con la concessione di permute o rimborsi in caso di acquisizione demaniale15. Ma
14 15
Gli articoli africani di C. Malaparte sono ora raccolti in Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, Firenze 2006, Vallecchi. E. Brotto, Il regime delle terre nel governo del Harar, Addis Abeba 1939, Servizio Tipografico Governo Generale.
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queste disposizioni, peraltro generali e sempre accompagnate da distinguo ed eccezioni, rimasero in pratica lettera morta. Ovviamente infatti le terre abbandonate e incolte erano spesso le più remote e le meno produttive, mentre le terre più appetibili erano già acquisite dai nativi, donde gli espropri (soprattutto nei confronti dei ras nemici). Imporre poi al nativo, sia pur con il comprensibile timore delle frodi, la certificazione probatoria scritta e magari catastale dei propri diritti alla terra pena confisca della stessa costituiva ovviamente un ricatto e un trucco in una cultura ove il patto agrario era fondamentalmente orale e consuetudinario e in una situazione in cui gli scarsi e incompleti registri catastali del passato regime imperiale erano andati distrutti nel saccheggio di Addis Abeba precedente l’occupazione italiana. In realtà le nuove terre offerte ai coloni erano spesso frutto di esproprio e questo esproprio, con indennizzo spesso solo nominale e permute terriere (quando vi furono) del tutto svantaggiose, trasformò molti proprietari in salariati. Inoltre il lavoro agricolo (e non solo agricolo) era spesso facilitato tramite l’assunzione di manodopera locale a basso costo. Questa manodopera indigena, pagata tre volte meno di quella italiana poiché gli operai e i contadini italiani non sarebbero certamente andati in Africa senza salari ben maggiori di quelli consueti, era in genere pagata secondo il costo della vita locale e ben di più di quanto non fosse durante le corvées spesso gratuite cui era usa. Ma anche qui non mancarono casi (soprattutto in Somalia) di durissimo lavoro coatto sotto scorta armata che mieteva vittime in quantità. La cosa venne denunciata da Marcello Serrazanetti, segreterario federale per la Somalia e dunque massima autorità di quella colonia, che in tre memoriali inviati in alto loco a Roma scrive fra l’altro: «il lavoro forzato che s’impone da alcuni anni ai nativi della Somalia, invano cinicamente mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro, è assai peggiore della vera schiavitù» perché almeno lo schiavo − prosegue l’alta autorità italiana − era comprato e venduto e dunque aveva un certo valore. Serrazanetti prosegue parlando di «morti trovati nei campi o per le strade, di ammalati e moribondi abbandonati alla loro sorte senza alcuna assistenza o aiuto, di lavoratori morti in seguito alle bastonate ricevute dal concessionario da cui dipendevano»16. Serrazanetti verrà immediatamente “promosso” e confinato ad un modesto incarico in Sardegna. Tutto questo naturalmente disgregò e stravolse antichi modelli di vita e sistemi di lavoro, disarticolò e distrusse la struttura socioeconomica tradizionale etiopica, e causò varie ribellioni sempre represse nel modo più spietato. 16
M. Serrazanetti, Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia, Bologna 1933, Tipografia La Rapida.
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Questa politica italiana inficiò in Libia e in Abissinia la possibilità, tutt’altro che remota, di un appoggio di parte consistente della popolazione agricola e dei suoi ras locali alla politica coloniale: così i contadini italiani lavoravano la terra etiopica protetti da cinte di filo spinato e da soldati armati di mitragliatrice. Anche la meccanizzazione dell’agricoltura non fu completamente avviata, perché mancavano spesso i pezzi di ricambio e perché la potenza dei mezzi (come ben sa chi guida un’auto ad Addis Abeba) diminuisce drasticamente sull’altopiano. Tuttavia, vedendo la cosa da tutte le prospettive, si deve anche al riguardo rilevare che la sottrazione di terre spesso incolte e abbandonate per incuria, o coltivate solo con faticosissimi metodi arcaici, in favore di agricoltori in grado con l’appoggio statale italiano di impiantare moderne aziende agricole, di attivare colture estensive, di introdurre trattori al posto dell’aratro, pur rimanendo un trapianto forzato di nuovi sistemi produttivi in strutture arcaiche che ne venivano stravolte, si rivelerà di fatto infine un beneficio e un incentivo anche per la popolazione locale, favorendone il passaggio dal nomadismo all’agricoltura stanziale, soprattutto nei casi (come in Eritrea nel 1930) in cui parte delle terre vennero alfine restituite ai legittimi proprietari onde evitare la recrudescenza della conflittualità. In Somalia si deve anche ricordare l’opera meritoria del principe Luigi di Savoia che, fra il favore della popolazione locale, diresse un’azienda modello. Si pensi ora al grave problema dell’acqua, cui si è già più volte fatto riferimento, e si leggano i progetti al riguardo: «si sta affrontando il problema con una visione più larga, tenendo presente, da una parte, che per molti centri abitati seguiterà a salire con ritmo accelerato la curva delle popolazioni nazionali, e dall’altra che il consumo specifico per abitante deve in Africa segnare un continuo aumento, sia nei riguardi dei nazionali […] sia nei riguardi degli indigeni, il cui consumo specifico di acqua deve raggiungere almeno quel livello che segna il confine fra la civiltà e la barbarie. In nessun caso quindi dovrà essere contratto il consumo, e quindi il prezzo dell’acqua non dovrà mai superare un limite tollerabile […]; in molti casi occorrerà stabilire un prezzo politico dell’acqua e lo Stato dovrà intervenire a pareggiare i bilanci di quelle gestioni che non riuscissero a coprire le spese con gli introiti ricavabili dalla vendita dell’acqua. […] Insomma il problema dell’acqua non è solo un problema tecnico, ma anche un problema politico e quindi non può essere trattato con criteri puramente commerciali»17. In ottemperanza a queste disposizioni in tutti i centri mag17
Annali dell’Africa italiana, cit., 1939, vol. IV, “Le opere idrauliche ed elettriche”, p. 488.
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giori e minori dell’Abissinia furono avviati i lavori per la costruzione di nuovi acquedotti, di centrali idroelettriche e laghi con dighe artificiali per la raccolta delle acque e, soprattutto in Eritrea e Somalia, di pozzi per le riserve idriche e canali per la regolamentazione dell’afflusso delle acque e per l’irrigazione dei campi. Stante la diffusa contaminazione e non potabilità delle acque, furono anche usati filtri di depurazione e costruiti impianti di distillazione. Parlando dei lavori di rinforzo ad un bacino naturale di acque in Somalia (ricca di acque fluviali al sud ma povera al nord), con costruzione di canali e di una diga, la relazione degli Annali così commenta: «l’esistenza del bacino eviterà che le popolazioni della valle del Giuba debbano recarsi ad abbeverare il bestiame nella colonia britannica del Kenia: sarà così tolta una delle ragioni del loro perpetuo nomadismo e facilitato il fissarsi alla terra col passaggio dallo stato pastorale a quello agricolo»18. Peraltro una più razionale distribuzione delle acque nel tormentato suolo dell’Africa orientale, unitamente ad un’opera (per quanto solo embrionale) di bonifica delle zone paludose, non poteva non risolversi in un potente contributo per il debellamento della malaria, ancor oggi endemico e grave flagello delle zone dei bassipiani: questi benefici, va detto, ricaddero non solo sulla componente italiana ma più in generale sulla popolazione tutta. L’insalubrità, le malattie, la miseria delle popolazioni costituirono un grave problema che le autorità italiane dovettero affrontare. Il quadro rivelato dalle relazioni degli Annali è drammatico: «sifilitici, lebbrosi, tifosi, piagati ripugnanti, mutilati, ciechi, paralitici in turbe intorno alle chiese, all’ombra degli eucaliptus sacri, in attesa di un obolo e della morte. Cumulo di miserie, di dolori, di strazi; centri di infezioni che mietevano a migliaia vittime vicine e lontane; interi paesi resi deserti; scheletri e carogne lungo le piste; nugoli di avvoltoi in servizio di becchini e di pubblici funzionari dell’igiene»19. Questo drammatico quadro non era dissimile da quello che nel 1854 diede il viaggiatore inglese R. Burton dopo essere entrato, solo uomo europeo, ad Harar, quando descrisse uomini che «hanno perso un occhio a causa del vaiolo, e sono sfigurati dalla scrofolosi [una forma di tubercolosi che colpisce soprattutto i bambini causando cicatrici deturpanti] e altre malattie». La carenza igienica fonte di tante malattie è del resto ancor oggi visibile. I tukul di fango e paglia, che ancor oggi si vedono ovunque viaggiando in Etiopia, possono essere molto belli da vedere per chi non ci vive e fanno tanto folklore, tanto “pittoresco”: a chi non piace nel XXI secolo vedere dal vivo una famiglia a piedi scalzi che vive in una 18 19
Ivi, p. 540. Ivi, 1940, vol. III, “I servizi sanitari”, p. 762.
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capanna di fango e paglia praticamente come nell’età della pietra? Però certo queste capanne non sono abitazioni salubri, igieniche, confortevoli. In epoca coloniale, nemmeno lo spettacolo delle grandi città era migliore. Come dimostrano le foto d’epoca la stessa Addis Abeba, capitale dell’impero fondata da Menelik allora governatore dello Shoa ma non ancora imperatore d’Etiopia, era solo un agglomerato informe e caotico di capanne e catapecchie di lamiera il cui nome, che significa “nuovo fiore”, suonava in stridente contrasto. Il suo solo vantaggio era che, stando su un altopiano fra i 2300 e i 2600 metri ove l’ossigeno è più rarefatto, non vi giungono le zanzare portatrici di malaria. Del tutto credibili appaiono così le relazioni degli Annali: «all’epoca dell’ingresso delle nostre truppe in Addis Abeba, lo stato igienico della città e la salute pubblica erano in condizioni deplorevoli. La massa della popolazione era spesso decimata dal vaiuolo, dal tifo petecchiale, dalla lebbra e quasi per il 90% era affetta dalla lue. […] Dovunque polvere, fango, sporcizia; non esistevano né latrine, né fogne, né scoli d’acqua, né alcuna norma di profilassi e disinfezione»20. Il quadro non doveva essere esagerato, se si pensa a quanto ancor oggi si vede a distanza di settant’anni in Etiopia: i lebbrosari ci sono ancora (uno appena fuori Addis Abeba), una carestia spaventosa c’è stata in tempi non lontani, i ciechi malati di tracoma che vagano per le strade ci sono ancora come i mutilati e i poliomielitici, la malaria c’è ancora in molte zone e l’Aids è subentrato alla sifilide. Il problema dell’organizzazione sanitaria apparve quindi prioritario e dovette essere affrontato con urgenza e con radicalità: in tutta l’Abissinia fu avviata una campagna igienica e profilattica, con vaccinazioni di massa e controlli periodici non solo sulla popolazione italiana ma anche e soprattutto su quella locale, nei cantieri di lavoro, nelle carceri, nelle zone e nei paesi contaminati nonché nei centri lontani attraverso le “carovane sanitarie”; i tukul di fango e le case in lamiera vennero disinfettati, sterilizzati e i più sudici e maleodoranti vennero bruciati e gli abitanti trasferiti in nuovi tukul o casette più salubri; i luoghi, i locali e gli esercizi pubblici vennero sottoposti a severi controlli igienici e diffidati o chiusi se inadempienti; pozzi di acqua infetta vennero chiusi; i cani affetti da rabbia, che a migliaia infestavano la città, furono abbattuti; vennero costruiti (spesso in concorso con le istituzioni religiose) ospedali, infermerie, ambulatori, ricoveri, orfanotrofi, lebbrosari; controlli severi vennero disposti nei luoghi di partenza e di arrivo alle frontiere e negli aeroporti; le prostitute locali vennero sottoposte a controlli sanitari e talora ospitate in apposite case. Si può facilmente immaginare − le relazioni lo dicono − che alcune di tali misure 20
Ivi, p. 812.
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venissero percepite come vessatorie da quella parte della popolazione locale che preferiva la miseria, l’accattonaggio, la vita al bando all’assistenza forzata, ma sui tempi lunghi non si può negare l’effetto positivo di questa politica sanitaria.21 Particolarmente importante fu la capillare azione profilattica esercitata nei confronti del ricco patrimonio zootecnico abissino. Laddove la peste bovina ed altre malattie infettive tropicali decimavano il bestiame fra il rassegnato fatalismo di pastori e allevatori, che nel migliore dei casi si limitavano a portare gli animali a maggiori altezze prive di insetti trasmettitori o ad insufficienti se non dannose vaccinazioni empiriche (portando gli animali in pascoli infetti o facendo loro ingerire prodotti contaminati), subentrò un’azione pianificata di ispezione, controllo, vaccinazione su centinaia di migliaia di capi che, se dapprima suscitò ostilità e diffidenza soprattutto in coloro i cui animali infetti venivano isolati o abbattuti, vide alla fine la popolazione accorrere spontaneamente all’arrivo delle carovane vaccinatorie reclamando il vaccino immunizzante. Anche i macelli e le macellerie, luoghi insalubri (e lo sono tuttora) di rivendita di carne malata e infetta da larve, vermi e parassiti, vennero accuratamente controllati e nuovi più igienici macelli vennero costruiti. Si cercò di diffondere la pratica della certificazione sanitaria per gli animali, soprattutto nei mercati e nei macelli. Nelle città venne affrontato il problema urbanistico e architettonico come mostrano, negli Annali, i piani regolatori − in non piccola misura attuati − di Addis Abeba, Asmara, Mogadiscio e di tanti altri centri minori: laddove «le strade erano [e in molti casi sono ancora] al tempo stesso letti di torrenti, fogne e pubblici lavatoi e le casupole si addossavano e si accavallavano alle casupole»22, subentrò nel giro di pochi anni una moderna urbanistica ispirata a criteri funzionali di razionalità, efficienza, spazialità, con impianti idrici, elettrici, sportivi, fognature, acquedotti, alberghi, cinematografi, teatri, spesso tuttora funzionanti. Asmara ad esempio è in Eritrea una nuova città ordinata e decorosa, pulita e vivibile, con belle strade larghe ombreggiate da palme: ancor oggi (nonostante l’attuale grave crisi eritrea) sembra una bella cittadina italiana di provincia di quarant’anni fa, ove ancora esiste il vecchio cinema Impero e si vedono insegne in italiano e ancora molti parlano italiano. Il vecchio centro di Mogadiscio, tutto casupole accatastate, fu invece espropriato con indennizzo e sventrato ma 21 22
V. L’Italia in Africa, a cura del Ministero degli Affari Esteri, Roma 1965, Istituto Poligrafico, vol. I, Parte Prima. Annali dell’Africa italiana, cit., 1939, vol. IV, “I piani regolatori”, p. 366.
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con successiva migliore sistemazione dei suoi abitanti. Ad Addis Abeba fu riedificato un nuovo centro, senza spianare la vecchia città (al contrario di quanto a volte fa ora l’attuale governo etiopico). Certo, gli abitanti di Addis Abeba, di Asmara e di Mogadiscio furono espropriati della loro città che fu riadattata alle nuove esigenze dello straniero: vi fu il trasferimento forzato fuori del centro città di 100.000 indigeni ad Addis Abeba, 60.000 a Mogadiscio, 45.000 ad Asmara. In particolare ad Addis Abeba le centomila persone che vivevano in ventimila tukul vennero traslocate con un misero indennizzo fuori del centro in una zona più a sud dove le case vennero ricostruite in condizioni più igieniche, e al riguardo va detto: saranno state catapecchie, ma erano le loro catapecchie. Certo le nuove strutture erano fondamentalmente riservate agli italiani: ad Addis Abeba come in tutte le città colonizzate gli indigeni vivevano in quartierighetto nettamente separati (attraverso fasce di verde o corsi d’acqua) dai quartieri residenziali italiani; i mezzi pubblici di trasporto (come autobus e treni), gli ospedali, i cinematografi, i teatri riservati ai nazionali erano nettamente separati da quelli riservati agli indigeni o, quando erano unici, la prima classe dei mezzi pubblici, appositi padiglioni ospedalieri, appositi settori e palchi di sale cinematografiche e di teatro erano riservati agli italiani; l’accesso ad alberghi e ristoranti era vietato ai locali; i tassisti non potevano trasportare passeggeri etiopi; un italiano non poteva essere assunto alle dipendenze di un proprietario locale; la convivenza e il matrimonio fra italiani e donne etiopi, già proibiti nella colonia eritrea da due decreti del 1909 e nel 1914 ma comunque di fatto attuati anche con la possibilità per i nati di ottenere la cittadinanza italiana ed entrare nell’amministrazione, vennero nuovamente e più decisamente proibiti rispettivamente nel 1937 e nel 1940, con reclusione fino a cinque anni in caso di infrazione, e agli scapoli italiani fu vietato di avere donne locali alle proprie dipendenze. La canzone “Faccetta nera, bella abissina”, che prospettava agli italiani esotiche avventure erotiche con le donne abissine, venne proibita. Vigeva insomma, soprattutto a partire dalle leggi razziali del 1938, un apartheid che era anche una ripartizione razionale per zone delle città: zona politica, amministrativa, militare, commerciale, ospedaliera, quartiere residenziale, popolare, quartiere italiano, copto, arabo, nero, operaio etc. La “città proibita” era inaccessibile ai colonizzati se non previa loro disinfestazione, anche se la legislazione segregazionistica non fu integralmente applicata, soprattutto nei confronti dei notabili locali. D’altra parte proprio per via della ripartizione razziale il regime costruì anche ospedali, chiese e scuole ad esclusivo uso dei locali, e rimane il fatto che con la caduta dell’impero coloniale gli edifici, i palazzi, le ville,
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le scuole, gli ospedali, le case popolari, costruite ove erano case di fango e lamiera, rimasero al popolo etiopico. In particolare, riguardo l’apartheid, ci si domanda infine: era preferibile il tardivo e vano divieto fascista volto ad impedire il meticciato e le gravissime infezioni veneree, allora poco curabili, che colpirono almeno 15.000 italiani molti dei quali rimpatriati d’urgenza, ciò per cui si istituirono apposite case di tolleranza sotto vigilanza sanitaria per prostitute appositamente inviate dall’Italia, o era preferibile la prassi italiana di comprarsi bambine locali minorenni ad uso sessuale strappandole alle famiglie? era preferibile la prassi di alti ufficiali che andavano al mercato additando alle loro guardie le donne che desideravano per la sera e sorteggiavano fra loro le giovani donne e le figlie a cui era stato ucciso il marito e il padre per farne delle concubine forzate? era preferibile la prassi di tenersi la famiglia in patria e la madame locale in casa tutta fiera del suo nuovo status, era preferibile la prassi di contrarre e diffondere le più gravi malattie ampiamente diffuse fra la popolazione, e di seminare ovunque figli illegittimi abbandonati per il paese? Invero esistevano anche molti casi di funzionari coloniali italiani che, sposati o meno, fondavano di fatto una famiglia con donne locali di cui riconoscevano i figli, ma la realtà dei rapporti fra italiani e abissine era solitamente ben diversa, fatta di sfruttamento, prostituzione, malattie veneree, figli abbandonati. In questo senso bisognerà allora pur dire che una netta separazione razziale poteva anche evitare, almeno in parte, gli abusi assai frequenti dei “civilizzatori” e che le leggi razziali nella specifica realtà coloniale affrontavano comunque una piaga sociale. L’esotica “faccetta nera, bella abissina” in realtà non era una Venere nera ma più spesso una donna analfabeta che viveva in miseri tukul assai poco curata nell’igiene, vestita di cenci, piena di pulci e pidocchi, con i capelli impomatati nel burro, precocemente invecchiata, bestia da soma usa ai lavori più pesanti, fatalmente spesso pronta a vendersi per pochi talleri austriaci (la moneta allora in vigore in Etiopia) e facilmente veicolo di gravi malattie: veramente «schiava fra gli schiavi», come diceva il testo della canzone, ma priva del fascino esotico dell’“odalisca”. Poteva andare per giovani soldati soli in Africa con le loro voglie, ma essi stessi spesso nei loro diari dicono il disgusto ad avvicinarle fra tanto sudiciume. Le leggi razziali risultano oggi odiose, ma non si può dire che nel contesto specifico non fossero dettate da una grave realtà a cui occorreva far fronte. Peraltro non è un caso che il fascismo, che contrariamente al nazismo non aveva precedentemente mostrato evidenti segni di ideologia razziale, varò le leggi razziali solo nel 1938 e cioè dopo l’alleanza con Hitler ma soprattutto dopo la conquista della nuova colonia in Etiopia. Comunque le leggi razziali furono assai poco rispettate, e qui
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in Etiopia si dice scherzando che, nonostante tutte le severe disposizioni fasciste, nove meticci su dieci sono figli di un italiano. Anche nel campo dell’istruzione occorre ricordare alcuni positivi riverberi della politica coloniale. Non parlo naturalmente delle numerose scuole costruite per l’educazione dei figli degli italiani in tutto l’impero coloniale, bensì proprio delle scuole costruite, dapprima con mezzi di fortuna, per l’istruzione della giovane popolazione locale. Il regime infatti considerava prioritaria l’opera di propaganda e di persuasione volta ad attrarre i nativi ed a favorirne l’assimilazione attraverso l’estensione, pur parziale e incompleta, di alcuni benefici: occorre procedere − è scritto nelle relazioni − alla «conquista morale, mediante la scuola, della popolazione indigena»23; «la scuola deve essere strumento politico di penetrazione pacifica e di conquista morale della popolazione indigena»24. Invero l’istruzione dei giovani etiopi era consentita solo per i livelli elementari o comunque inferiori, atti alla preparazione ad un mestiere, in quanto il livello superiore era riservato alla futura classe dirigente italiana (con qualche eccezione per i figli dei notabili locali o per persone particolarmente meritevoli e ritenute affidabili): senonché anche un’istruzione al livello inferiore non era cosa da poco in una realtà arretrata ampiamente caratterizzata dall’analfabetismo e dalla piaga dell’abbandono parentale dei minori alla strada. In questo contesto, spesso caratterizzato da secolare ignavia e inerzia, anche la semplice istruzione al lavoro manuale (artigianale, meccanico, ma soprattutto agricolo) costituiva fattore progressivo: «l’insegnamento teorico − si legge − trova il suo completamento, dovunque è possibile, nella pratica agricola, allo scopo di far conoscere agli alunni nuove culture e una più razionale coltivazione delle piante da essi conosciute, e soprattutto di instillare nel loro animo l’amore della terra»25; «l’Africa Orientale Italiana è un paese di agricoltori e di pastori; la sua grande ricchezza attuale e virtuale è la terra, onde la necessità di trasformare la vita agricola per il miglioramento della economia generale del paese e in particolare della vita indigena e di avere ai fini della nostra colonizzazione una mano d’opera specializzata nel settore dell’agricoltura».26 Le scuole italiane destinate alla popolazione locale provvedevano non solo all’istruzione ma, quando la popolazione scolare era di basso ceto,
23 24 25 26
Ivi, 1940, vol. III, “La scuola e le istituzioni educative”, p. 690. Ivi, p. 692. Ivi, p. 688. Ivi, p. 693.
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anche alla strumentazione didattica, al vestiario, al vitto, alla sanità con controlli medici periodici, e talora anche all’alloggio. L’insegnamento era bilingue, ovvero in italiano e nella lingua locale (amarico, tigrino, arabo, somalo, armeno) ad opera di docenti locali. Anche i diversi culti nelle scuole italiane per i nativi venivano rispettati per espresse disposizioni di legge (1 giugno 1936): il fascismo, pur abolendo i diritti feudali del clero ortodosso e pur stroncandone spietatamente le connivenze con la resistenza al nuovo ordine, non solo tutelò la religione etiopica (operando perché si staccasse dalla chiesa copta di Alessandria) ma rispettò tutti i culti, anche paganeggianti o minoritari (come nel caso degli ebrei e dei valdesi italiani, discriminati in Italia), finanziando il clero di ogni religione e costruendo indifferentemente numerose chiese ortodosse, cattoliche o islamiche nell’intento di assicurarsi con il controllo del clero l’appoggio della popolazione. Non è assolutamente vero, come si legge in testi al riguardo poco informati27, che l’Italia fascista abbia svolto opera di evangelizzazione forzata e di crociata missionaria contro l’“infedele”, copto o musulmano: certamente vi furono le missioni e le strutture cattoliche, vi fu il clero fascista, vi furono le benedizioni di gagliardetti e di truppe, ma le autorità fasciste avevano ben altri interessi che non «la politica di cattolicizzazione dell’Etiopia»28. Anzi, particolarmente significativo fu l’appoggio delle autorità italiane alla popolazione di religione islamica, numerosa in Etiopia ma discriminata e spesso perseguitata nell’impero negusita, priva di cariche pubbliche, di terre, con poche moschee e dedita a lavori umili. Il regime favorì in tutti i modi l’Islam in Africa, costruendo decine di moschee e offrendo generosi contributi finanziari, facendo perno sull’ostilità musulmana nei confronti dell’impero negusita e attraendo a sé alcune popolazioni che durante il conflitto italo-etiopico presero posizione per l’Italia (abbiamo letto del resto i positivi giudizi di uno studioso dell’età coloniale sul mondo islamico). Così nelle scuole italiane per studenti arabi (particolarmente ad Harar), finalizzate anche a studi superiori e alla formazione di quadri dirigenti, era previsto lo studio del Corano e della lingua araba ad opera di docenti islamici. Particolarmente in Somalia, dove prima del fascismo vigevano vari sultanati musulmani, il regime fu attento a rispettare la religione islamica. Al riguardo le relazioni dei tecnici, pur valutando positivamente l’opera da lungo tempo svolta in Abissinia dalle istituzioni religiose, esprimono tuttavia con cautela (quando in Italia il Concordato imponeva l’insegnamen27 28
A. Aruffo, Storia del colonialismo italiano. Da Crispi a Mussolini, Roma 2003, Datanews, pp. 87-91. Ivi, p. 91.
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to obbligatorio del cattolicesimo come religione di Stato con conseguenti discriminazioni delle minoranze) «una qualche diffidenza nei riguardi di nuove Congregazioni e missioni che, non avendo esperienza del paese, non sempre sanno astenersi dal fare della scuola strumento di proselitismo religioso»29. Si deve financo al riguardo dire che la politica coloniale italiana in Etiopia, urtando la sensibilità di un paese di grande e antichissima tradizione cristiana, favorì anche in modo eccessivo l’elemento islamico, desideroso di sostituire il proprio predominio a quello amhara e mai alieno (come dimostrava la rivolta sudanese del Mahdi) dalla tentazione della guerra contro l’infedele. In sintesi occorre dunque dire che, pur nell’indubbia convinzione, che traspare ovunque dalle relazioni, della superiorità della propria civiltà, il sistema scolastico coloniale italiano indubbiamente favorì in certa misura nei locali una qualche valorizzazione della loro storia rispettandone la cultura e la religione: si asseriva infatti che, stante le profonde differenze di razza, di religione e di ceto, «la scuola non può essere concepita secondo un rigido criterio di uniformità, ma deve diversamente atteggiarsi a seconda delle condizioni e delle necessità locali»30. Cosa che peraltro contrastava con il notevole grado di uniformità imposta nelle scuole in Italia dal regime. Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia le autorità italiane posero fine ad antiche pratiche tribali come il taglio delle mani e dei piedi per il colpevole (applicata agli ascari dopo Adua), la morte per mussolina (a cui assistette Griaule) in cui il reo bendato e cosparso di cera veniva arso vivo, il liabascià per il quale veniva giustiziata una persona indicata come colpevole da un bambino drogato dai sacerdoti, il diritto di uccidere il mago della pioggia in caso di fallimento con sopraggiunta siccità (ne parla il Pollera per le popolazioni eritree), e parimenti venne abolita la prassi dell’esecuzione del reo per mano dei congiunti della vittima. Certamente in Etiopia la concezione della giustizia era molto diversa da quella occidentale, non solo nella prassi della precedente giustizia imperiale ma anche nel diritto consuetudinario di popoli in cui spesso una morte accidentale portava alla vendetta su una persona ritenuta responsabile di un maleficio magico. In genere il diritto consuetudinario rispondeva equamente ai bisogni della collettività, ma l’atmosfera poteva facilmente essere inquinata dalle credenze nella stregoneria. 29 30
Annali dell’Africa italiana, cit., 1940, vol. III, “La scuola e le istituzioni educative”, p. 691. Ivi, p. 692.
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In effetti nei villaggi di molte società tradizionali le accuse di stregoneria sono così frequenti da far dubitare del quadro idilliaco con cui gli etnologi non di rado ne rappresentano la vita: queste accuse riflettono gli odi, le rivalità, le beghe, i risentimenti, le gelosie, le invidie reciproche tipiche di ogni piccola comunità, ma al contempo a sua volta la credenza nella stregoneria, secondo cui ogni sventura non è mai casuale e ogni morte mai naturale bensì sempre effetto di un maleficio inviato da qualcuno mal visto del villaggio o di un villaggio vicino, retroagiva su quelle invidie e quegli odi avvelenando i rapporti sociali e creando un clima di perenne reciproco timore e sospetto. Levy-Bruhl riferisce al riguardo di usanze in cui in caso di una morte lo stregone del villaggio in base a date operazioni magiche cercava il colpevole cosicché «anche il più onesto trema all’idea di vedersi designato e, in meno di un minuto, condannato, perduto, oggetto dell’esecrazione e dell’odio pubblico, senza speranza di provare la propria innocenza»31. Egli raccolse una vasta documentazione di testimonianze sulle modalità attraverso cui le popolazioni tradizionali rinvenivano i “colpevoli”. Essi ad esempio potevano essere scoperti in sogno: essendo i sogni ritenuti molto importanti quali messaggi dal mondo invisibile dei morti e degli spiriti (si ricordino le teorie di Tylor sul sogno come radice della credenza nell’anima e della religione), allora un uomo poteva accusarne un altro come ladro, assassino o stregone (e financo farlo condannare a morte) solo perché tale costui gli era apparso in sogno32. Altrimenti i “colpevoli” potevano essere scoperti in vari altri modi (un sussulto del moribondo o un rumore nei pressi del cadavere quando veniva pronunciato il nome del reo, oppure vedendo quale di due galline assegnate agli indiziati moriva per prima una volta tagliata loro la testa), secondo le più varie usanze che a noi, pur con tutta la buona volontà di capire, non possono non apparire aberranti superstizioni. Un metodo indiziario comune a molti popoli tradizionali consisteva nell’osservare la direzione presa da un animale nei pressi del morto (abbiamo visto che nella festa del Meskel la direzione in cui cade il traliccio indicherebbe buoni o cattivi auspici): così l’inclinazione della testa del morto o la direzione di un insetto nei pressi della tomba erano assunti come indizi indicanti il luogo di provenienza del colpevole, e la traccia lasciata sulla tomba da un serpente indicava il colpevole nel clan del serpente33. Presso gli Azande una persona, ritenendo la morte di un suo
31 32 33
L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 333 (pp. 333-336). L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., particolarmente pp. 90-96. Ivi, ad es. pp. 160-167, 194-195, 216-224 et varia, nonché Psiche e società primitive, cit., pp. 336-339.
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familiare causata dal maleficio di uno stregone, poteva sottoporre all’“oracolo del veleno” i nomi dei sospettati (in un tempo ancor più lontano era lo stesso indiziato a doversi sottoporre all’ordalia del veleno): lo stregone sospettato diventava colpevole, e quindi tenuto a rifondere in beni economici il crimine imputatogli, se di due polli avvelenati quello designato moriva mentre l’altro riusciva a sopravvivere34. Anche se Evans-Pritchard, che ha studiato questo rituale, difende la sostanziale onestà degli operatori, la variabilità delle dosi di veleno usato e la possibilità di arrestarsi al primo responso se favorevole lasciavano naturalmente il dubbio sulla possibilità di un verdetto “pilotato” in modo da ottenere il colpevole desiderato: in questo modo ogni morte di un parente anche per motivi del tutto naturali, ma anche qualsiasi altro pretesto, diveniva l’occasione per accusare terzi malvisti di questo o quel misfatto ed imporre loro un risarcimento economico. Un colpevole doveva esserci e andava trovato o inventato. Per quanto riguarda l’Etiopia un esempio di tentata “giustizia” sommaria, sulla base di indizi incredibili al nostro sguardo e sventata all’ultimo momento, viene riportata in un libro di memorie di un ambasciatore italiano all’epoca governatore in una regione etiopica il quale (stante le antiche credenze etiopiche nella licantropia e negli uomini-iena) riferisce di un «povero diavolo» indigeno che, seminudo e tremante dal terrore, stava per essere linciato da una folla di persone che lo accusava di essere un lupo mannaro uso a trasformarsi di notte in lupo per portare sventura al villaggio: costoro infatti, cercando l’uomo-lupo che infestava il villaggio, la notte avevano catturato e rinchiuso in una capanna un lupo, e quando la mattina dopo nella capanna trovarono non il lupo evidentemente fuggito bensì quest’uomo forse ubriaco, ne conclusero che sicuramente egli era proprio l’uomo cercato uso a trasformarsi in lupo.35 In generale le autorità italiane decisero di non abolire integralmente da un giorno all’altro gli antichi codici consuetudinari abissini e di rispettare − entro certi limiti ed eliminate quelle che erano ritenute aberrazioni − le prassi giuridiche preesistenti, lasciando le cause ordinarie in mano ai giudici locali (ad esempio musulmani per cittadini musulmani) con l’assistenza di notabili indigeni sotto la supervisione e il controllo italiano, al contempo rimodernando le vecchie fatiscenti prigioni in cui facilmente i detenuti morivano di stenti e di malattie: «a popolazioni vissute per secoli in una fede o in una determinata concezione dei loro rapporti e dei loro diritti − si 34 35
E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, cit. L. Calabrò, Intermezzo africano. Ricordi di un residente di Governo in Etiopia (1937-1941), cit., pp. 99-100.
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scrive negli Annali − non è possibile, se non per brutale segno d’inutile, anzi di micidiale tirannia, imporre di colpo una “forma mentis” nuova il cui risultato è non la collaborazione da noi desiderata, ma l’odio»36. Certo, gli elementi locali non favorevoli al nuovo regime vennero esautorati dalle funzioni cui erano preposti magari da lungo tempo, e generalmente le autorità locali riconosciute e mantenute a dirimere le questioni avevano più che altro un ruolo consultivo o simbolico e comunque limitato alle contese e pratiche di significato circoscritto: per lo più esse dovevano semplicemente trasmettere gli ordini. Ma se il nuovo governo italiano, all’indomani della proclamazione dell’unità d’Italia, avesse agito nello stesso modo nel mezzogiorno anziché soppiantarvi di peso e traumaticamente il codice albertino, la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Va dunque rilevata, oltre le stragi e i massacri, anche l’opera costruttiva svolta dagli italiani in Abissinia. Gli studenti etiopi della scuola italiana di Addis Abeba, che dicono molto importante per loro che la scuola chiuda il giorno della ricorrenza di Adua e il giorno della pasqua etiopica rispettando le feste loro e non soltanto quelle italiane (né lo dicono per marinare perché i giorni di scuola rimangono gli stessi), dicono anche, scherzando ma non troppo, che il colonialismo italiano ha costruito e fatto in cinque anni ad Addis Abeba più di quanto non abbiano fatto tutti i governi successivi in settant’anni, e nella battuta c’è del vero. Lo stesso imperatore Selassie, tornato dall’esilio nel 1941, ebbe espressioni di lode per il lavoro e le opere compiute dagli italiani ad Addis Abeba e in Abissinia: e se nei suoi proclami volle impedire le rappresaglie contro gli italiani sconfitti non fu soltanto per magnanimità ma (oltre che per controbilanciare l’invadenza inglese) anche per la chiara consapevolezza della necessità della presenza italiana per il funzionamento dell’industria e delle aziende agricole; egli fece di tutto perché gli italiani, che gli inglesi volevano cacciare, rimanessero per dare il loro contributo di lavoro e di competenze, giungendo a proteggere la permanenza clandestina di molti italiani nonostante il veto inglese. Sappiamo del resto quanto i migliori funzionari coloniali (Pollera, Calabrò etc.) godessero nella loro azione della stima e della fiducia delle popolazioni locali e dei più alti notabili. Oggi la nuova storiografia decolonizzatrice e vagamente terzomondista rischia di essere altrettanto unilaterale quanto la precedente storiografia colonialista: per esempio dai libri, pur importanti e assai documentati, di 36
Annali dell’Africa italiana, cit., 1940, vol. III, “L’amministrazione della giustizia”, p. 729.
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Del Boca trapela continuamente lo sprezzante giudizio leniniano sull’“imperialismo straccione” italiano tacciato di avventurismo, dilettantismo, incapacità, incompetenza, di cui si mette in evidenza solo e unicamente l’aspetto aggressivo e repressivo. Così tutti gli italiani alla corte di Menelik sono intriganti, mestatori, pasticcioni, corrotti. Se un italiano alla corte di Menelik fa un buon ritratto del sovrano questo è senz’altro un ritratto veritiero, ma se un altro italiano ne fa un ritratto negativo questo è solo indice del suo razzismo. Se gli italiani portano al Negus Johannes dei doni questi sono solo «paccottiglia»37, mentre viceversa quelli ricevuti sono certamente «doni preziosi»38. Così la baia di Assab e il porto di Massawa vengono sviliti come zone infruttuose e desertiche, che possono interessare solo una scalcinata armata Brancaleone, e invece si deve dire: giustissimo condannare la politica colonialista, ma non si neghi la grande importanza strategica e commerciale del Mar Rosso altrimenti si rischia semplicemente di far passare per deficienti, oltre che per criminali, tutti gli italiani che vi andarono. Sulla strage delle forze italiane a Dogali ad opera di ras Alula, per ritorsione contro taluni avamposti costruiti dagli italiani fuori Massawa in territorio abissino, Del Boca sposa la tesi etiopica che vedeva in tali avamposti la testa di ponte per l’occupazione dell’intera Abissinia, senza prendere in considerazione la tesi italiana che li giustificava con la necessità di protezione delle carovane in un territorio insidioso: certamente il governo italiano avrebbe dovuto chiedere l’assenso del governo etiopico per quelle costruzioni, ma non è probabile che già allora pensasse ad una conquista armata dell’intera Abissinia; al riguardo Del Boca sembra giustificare anche l’atto illegale con cui il ras trattiene come ostaggi italiani ospiti alla sua corte minacciandoli di decapitazione39. Anche la difesa fatta da Del Boca dell’ambiguo Menelik, che trama contro il suo sovrano mentre questi difende il regno dagli egiziani e dai dervisci e per succedergli si garantisce l’appoggio dell’Italia cui regala e poi vende parte consistente delle terre abissine, lascia molto perplessi e non convince nemmeno gli attuali storici etiopi40. Parimenti non convince l’additata sola responsabilità italiana della 37 38 39 40
A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, cit., vol. I, p. 153 e altrove. Ivi, p. 159. Ivi, pp. 219-220. Gäbrä Egzi’abhēr, intellettuale tigrino fautore di una politica nazionale di modernizzazione dell’Etiopia e di laicizzazione dello Stato, traduttore al servizio degli italiani che poi lo arrestarono come spia, fuggito dal carcere e entrato al servizio della burocrazia etiopica scrisse una dura lettera a Menelik (con invio per via gerarchica tramite ras Makonnen) in cui, rappresentandolo come un «flagello» e un «castigo» per l’Etiopia, lo accusava (con impietoso confronto con Johannes
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traduzione dell’articolo 17 del trattato di Uccialli41: anche ammesso che l’inganno fosse solo da parte italiana, rimane grave responsabilità etiopica l’accettazione della traduzione senza previo controllo. Così nella battaglia di Amba Alagi, che vede la disfatta italiana, i guerrieri abissini sono «patrioti» ma i musulmani e i dancali con i loro ras alleati degli italiani per Del Boca costituiscono soltanto «bande»42 composte evidentemente di traditori prezzolati e privi di spirito patriottico, ove Del Boca dimentica che dancali e musulmani sono stati per secoli soggiogati, sterminati e perseguitati dagli abissini amhara. Anche l’esaltazione delle capacità militari abissine ad Adua va ridimensionata: ad Adua gli abissini, armati di tutto punto con le armi più moderne dai francesi e dai russi, erano 120.000 (chi dice 200.000) contro 17.000 italiani che certamente avrebbero dovuto evitare lo scontro. Sul patriottismo etiopico, che Del Boca vede cementato dagli appelli di Menelik all’unione che condusse ad Adua, v’è da dire che dopo tali appelli strumentali Menelik non esitò ad avvalersi delle truppe inglesi ed italiane per combattere e sottomettere i dervisci somali. Infine nell’attentato a Graziani Del Boca43 vede piuttosto inverosimilmente soltanto l’opera di due esecutori isolati e non un più vasto complotto. Insomma è difficile sfuggire all’impressione di un lavoro storico documentatissimo ma privo di quell’equilibrio che si richiede allo storico. E ci si chiede: gli altri colonialismi furono forse migliori? A questo proposito occorre segnalare una costante della attuale storiografia coloniale italiana, ravvisabile in particolare in un libro dello storico Labanca: il lamento per la rimozione e l’oblio, per il mancato dibattito sulla realtà del colonialismo italiano, per i mancati processi e la mancata consegna alle autorità etiopiche dei responsabili di atti di guerra criminosi, il lamento insomma per la mancata «Norimberga italiana», l’accusa di un’«autoassoluzione» italiana per le colpe e i crimini commessi in Africa44. Certo la rimozione di una memoria scomoda (che noi stessi abbiamo stig-
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morto difendendo i confini patrii contro i dervisci) di aver «venduto sua madre, l’Etiopia, per denaro», dicendo agli italiani «occupate il tale e tal altro luogo» (I. Taddia, Un intellettuale tigrino nell’Etiopia di Menelik: Gäbrä Egzi’abhēr, Università degli Studi di Cagliari, Milano 1990, Giuffré: la lettera a pp. 167-172). E questa lettera è del 1899, dunque dopo Adua. Anche l’imperatrice Taitù, rappresentante del partito tigrino, rimproverava in tal senso Menelik (come riporta il conte Salimbeni) dicendogli: «cosa dirà la storia di te?». A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, cit., vol. I, pp. 246-257. Ivi, pp. 593-595. Ivi, vol. II, pp. 91-93. N. Labanca, Una guerra per l’impero. Memorie della campagna d’Etiopia 193536, Bologna 2005, Il Mulino. Riporto qui di seguito alcuni passi di un mio articolo
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matizzato) non è positiva, e tuttavia bisogna precisare: è antistorico giudicare sulla base delle consapevolezze acquisite settant’anni dopo, in una temperie culturale e storica del tutto diversa, quanto avvenuto settant’anni prima. Che in Italia non vi sia stato un dibattito sul passato coloniale non vuol dire molto perché la società italiana non ha vissuto il contraccolpo (come in Francia per la guerra d’Algeria) di una lunga lotta anticoloniale e indipendentistica, stante che la perdita delle colonie fu la conseguenza immediata della sconfitta nella seconda guerra mondiale. E comunque in nessun paese ci si cosparse il capo di cenere: si abbandonarono le colonie quando si capì che erano diventate un onere e un peso insostenibile da tutti i punti di vista, assai più che per la pressione degli intellettuali e dell’opinone pubblica. Non è corretto esaminare con la penna rossa (come fa lo storico Labanca) la memorialistica dei reduci di quella guerra, per valutarla in base a quanto si avvicini o si allontani all’attuale sentimento democratico e antifascista politically correct. Chiunque ad esempio (anche oggi, settant’anni dopo) conosca l’Etiopia sa perfettamente che spesso la scarsa igiene e la scarsa attitudine al lavoro non sono affatto «stereotipi più antichi e più vieti»45. Per questo è più interessante leggere per intero le memorie di questi reduci − con i loro umori, le loro tristezze, i loro sogni e financo con il loro razzismo e la loro retorica “romana” e “imperiale” − che non i brani scelti e opportunamente commentati dallo storico, che ti guida per mano dicendoti come devi leggerli e vagliarli. È ovvio che questi anziani reduci di guerra siano intrisi di nostalgia, di rimpianto, anche di idealizzazione del passato e financo di astio per un presente da cui sono esclusi, è vero che tendono a rivendicare quella loro epopea e non a anatemizzarla, ma come stupirsi di ciò? I crimini individuali certo rimangono, ma per quanto riguarda la guerra cosa rimproverare a chi vi partecipò controvoglia perché chiamato alle armi e cosa rimproverare a chi invece vi partecipò nella convinzione in un ideale in cui pur nessuno oggi crede? Anche il rimprovero all’«autoassoluzione» lascia infine perplessi. Le reticenze del generale Lessona all’ammissione dell’uso dei gas sono deprecabili, ma cosa sappiamo noi del vero motivo per cui l’oscuro aviatore inviato a sganciarli non ha mai voluto parlarne? Lo storico Labanca vorrebbe trovare nella memorialistica di guerra i mea culpa e i j’accuse rivolti a se stessi e al proprio passato, vorrebbe trovare il rimorso, il pentimento, l’espiazione, nonché la catarsi nel ripudio del passato e nell’adesione ai nuovi valori re-
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pubblicato (in modo oscenamente tagliato e deformato da un redattore incompetente) in “Il Domenicale” l’8.7.2006. Ivi, p. 236.
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pubblicani e democratici e, non trovandoli, scuote il capo segnando con la penna rossa. Ma davvero viene da domandare quanti convinti democratici di oggi, compreso magari lo storico oggi convinto democratico, sarebbero stati fascisti convinti negli anni venti e trenta in tutt’altra temperie storica e culturale. V’è sempre in Italia un certo cattolicesimo, peraltro mal assimilato, che conduce a ragionare in termini di colpa, pentimento, espiazione e infine perdono. Se vuoi essere perdonato, ti devi pentire. A uno ammazzano la moglie tirando sassi dal cavalcavia e subito i giornalisti: “ma lei perdona?”. E all’assassino: “ma lei è pentito?”. Laddove invece per l’autentico cristianesimo il pentimento e anche il perdono sono il frutto di un doloroso percorso interiore, e l’autentico perdono anzi qualcosa che pertiene solo a Dio. In realtà scavare nelle proprie carni con occhio spietato e implacabile, vedere se stessi e i propri errori lucidamente e dal di fuori senza mentire, dissezionare la propria anima come esigeva Nietzsche, questa non è cosa che si può pretendere da tutti. Certo, poi v’è la giustizia degli uomini: ma, per quanto riguarda l’auspicata «Norimberga italiana», noi diciamo che ci è bastato e avanzato Piazzale Loreto. Per quanto concerne le relazioni tecniche a cui abbiamo attinto, che finivano sul tavolo dello stesso Mussolini, certamente in esse si tendeva a porre in buona luce rispetto ai superiori e allo stesso capo di governo le opere compiute e i progetti ad attuarsi evidenziando le molte difficoltà da superare e superate. Tuttavia in esse non si vede, solitamente, il tono retorico e trionfalistico di tanta propaganda fascista: predomina il linguaggio tecnico asciutto, preciso, circostanziato di dati e riferimenti, basato su studi seri ed approfonditi; è il linguaggio di chi non nasconde le difficoltà e le cose ancora da fare, e proprio per questo questi documenti sembrano nell’insieme attendibili. Certo, non mancavano fra gli scritti che giungevano a Roma le menzogne e la totale falsificazione della realtà. Ad esempio un direttore sanitario del campo di concentramento di Danane aveva il coraggio di scrivere che «la salute dei confinati è ottima, l’alimentazione è perfetta, l’assistenza morale e sanitaria è scrupolosa e il morale di questi è ottimo». Un altro esempio: «alcune volte, nelle azioni importanti, si fece uso moderato di aggressivi chimici, con effetto notevole. Ma non si volle abusare di questo nuovo mezzo di combattimento; di preferenza si gassavano taluni punti o zone obbligate di passaggio da cui si voleva tener lontano l’avversario [vale a dire, se capisco bene, che si gassavano zone vuote proprio per impedire che vi si entrasse]. Mai furono bombardati né gassati centri abitati importanti privi di valore militare [vale a dire, se capisco bene, che Addis Abeba non fu gassata]. Considerazioni umanitarie,
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ordini precisi da Roma limitarono del resto grandemente l’azione degli aerei»46. Al riguardo abbiamo documentato quali fossero gli “ordini precisi da Roma”, e dunque non si vuol qui minimamente dire che queste relazioni debbano essere prese come oro colato: tuttavia è non di rado possibile attraverso esse capire, in filigrana e facendo anche abbondantemente la tara, cosa il regime (dopo i massacri) stesse facendo nelle colonie africane. In questo senso si deve dire che l’organizzazione politica, civile, amministrativa, economica dell’impero, che seguì alla conquista militare, merita una più pacata considerazione. Alla fin fine tutto quanto fatto, e sia pur in nome di finalità ultime estranee alla popolazione, dopo la sconfitta italiana rimase alle popolazioni e almeno in parte giovò anche ad esse. La stessa imposizione fin dai tempi crispini di un governo centrale italiano, di contro alle eterne faide locali fra decine e centinaia di tribù ed etnie diverse, che resero praticamente impossibile allo stesso Menelik prima e poi a Selassie l’instaurazione di un governo centrale efficiente e funzionale, costituì alla fine un abbozzo statuale la cui linea fu poi seguita dalle successive classi dirigenti etiopiche. Non a caso molti ras locali in conflitto col vecchio potere appoggiarono l’occupazione italiana: ad esempio molti capi tigrini, molti capi islamici con il loro seguito, le tribù oromo e sidamo furono con gli italiani onde liberarsi degli antichi dominatori amhara da cui furono sempre soggiogati. Non stupisce che le tribù oromo non sentissero nessun “senso patrio” e facessero pervenire varie richieste di protezione all’Italia e che in molti casi, in piena occupazione fascista, non esitassero a schierarsi dalla parte italiana contro il negus; né stupisce che la popolazione islamica, beneficiata e sottratta a secolari persecuzioni, sia stata la più favorevole all’occupazione italiana. Come disse Flaiano con una battuta, «anche i cani abissini, se tenuti da bianchi, rincorrono gli indigeni, che odiano»47. Di fatto, i popoli non amhara videro nell’occupazione italiana un modo per liberarsi da una dura oppressione. In realtà i guerrieri etiopici combattevano non tanto per il lontano imperatore quanto per il loro ras feudatario che, spesso solo formalmente, ne dipendeva: se il signore obbediva al richiamo dell’imperatore per combattere gli italiani essi lo seguivano, ma se si rifiutava essi si rifiutavano con lui. Alcuni signori feudali spodestati o ridimensionati dall’imperatore si schierarono con gli italiani, e i loro soldati li seguirono. Checché ne dica Del Boca, si trattava più di un sentimento di fedeltà al signore feudale che non di uno spirito patriottico. Molti ascari, 46 47
Annali dell’Africa italiana, cit., 1938, voll. III-IV, “La guerra etiopica sul fronte sud”, p. 819. E. Flaiano, Tempo di uccidere, cit., p. 281.
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giovani etiopi per lo più musulmani, giunsero da tutto il regno a coadiuvare l’esercito italiano contro il vecchio governo centrale, spesso inefficiente e corrotto e noncurante delle realtà locali, e la vendetta amhara contro questi “traditori”, che traditori non si sentivano, fu sempre terribile: Menelik fece amputare mani e piedi a parecchie centinaia di ascari catturati dopo la battaglia di Adua, e quasi tutti morirono dissanguati; e nel 1941, quando gli amhara tornarono al potere dopo la fine del dominio coloniale, la loro vendetta su oromo e sidamo fu spietata. Ovviamente il governo coloniale italiano non ha fatto opera di beneficenza in Africa, né certo una campagna umanitaria: anche se ha edificato ex novo strutture e infrastrutture nel paese, lo ha fatto per trarre da quelle terre tutti i vantaggi economici possibili. Il colonialismo consiste nel conquistare con le armi una terra e nello sfruttarla e usarla ad uso e consumo dei vincitori. Questa fu del resto la prassi consueta non solo di ogni colonialismo, ma di ogni azione bellica di tutti i tempi: da sempre i popoli più forti in cerca di terre e benefici hanno aggredito i più deboli sottomettendoli: tutta la storia umana è in questo senso storia di conquiste e depredamenti. Gli italiani che invadevano l’Abissinia, gli inglesi che invadevano il Kenya e quant’altro, i francesi che invadevano la Tunisia, l’Algeria e il Marocco non erano diversi né peggiori nelle loro atrocità dai dori che dal nord scendevano nella Grecia. Né si negherà certamente che la realtà fosse diversa rispetto a quanto dicono i proclami e i testi ufficiali: molti funzionari corrotti e incapaci, usi solo ad arricchirsi, si resero colpevoli di ruberie, furti, vessazioni, sprechi ed appropriazioni indebite di denaro pubblico, spoliazioni e crudeltà ai danni delle popolazioni, sfruttamento della prostituzione (a centinaia furono per questo rimpatriati dal generale Nasi)48. In particolare, dopo l’espropriazione delle terre, nefasta è stata la politica fascista che, nell’intento di combattere il feudalesimo etiopico, da un giorno all’altro tolse le terre, i feudi, i tributi e i privilegi alla nobiltà e alle autorità locali (ras, fitaurari, degiac) sostituendola con funzionari italiani: è vero che tale nobiltà era spesso inefficiente, corrotta e vessatoria sulle popolazioni (e come tale già aspramente combattuta da Tewodros), ed è anche vero che ad essa non si potevano attribuire troppi poteri perché spesso ostile all’Italia, ma è anche vero che tali riforme andavano semmai fatte gradualmente per non recidere di colpo secolari legami d’autorità, spesso fondati su rapporti personali, senza umiliare e spezzare l’orgoglio 48
Una ricerca storica su inefficienze e sprechi dell’amministrazione coloniale italiana è in A. Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia (1936-1940), Milano 1980, Mursia.
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dei capi locali che così, non paghi di ricompense in denaro e di titoli puramente onorifici, tramavano occultamente con doppio gioco contro il potere coloniale e in molti casi passarono alla ribellione armata. Certo ormai nella nostra cultura è diffuso un diverso livello di consapevolezza: alla nostra coscienza ripugna la sottomissione forzata e l’esproprio delle culture e popolazioni “altre”, e oltretutto si è compreso che le colonie sono in realtà un enorme peso finanziario e politico e non una ricchezza. Ma questa consapevolezza non esisteva, o era largamente minoritaria, nel secolo passato. Nella fattispecie lo sbocco sul Mar Rosso, importantissimo dopo la costruzione del Canale di Suez, era considerato prioritario da molti governi europei e dunque anche dai governi italiani che − da Crispi a Mussolini − avviarono la politica coloniale; e l’esproprio di molte terre ai locali in favore della popolazione italiana giunta in Etiopia fu comune a tutte le politiche coloniali. Certamente non c’è contraddizione fra il volto “benefico” del colonialismo italiano in Abissinia e il volto della più feroce repressione militare: le interessantissime relazioni dei tecnici (ingegneri, architetti, geologi, etc.) sono speculari ai telegrammi di Graziani, per quanto le prime si leggano con animo più disteso dei secondi. I due aspetti del colonialismo non si contraddicono ed anzi sono del tutto complementari perché l’aspetto costruttivo e anche positivo poté sussistere solo in virtù del terreno sgombro garantito dalla preliminare occupazione militare: la pars destruens consentì l’avvio della pars construens, e la pars construens si esplicitò solo grazie alla preliminare azione della pars destruens. Ma allora proprio per questo, come si devono riconoscere senza infingimenti e ipocrisie i crimini commessi da Graziani e dalle forze italiane di occupazione in Abissinia, così si devono riconoscere le positive opere compiute. Si dirà: non è il caso di rivalutare l’età del colonialismo italiano in Africa. No, certo che no. Tuttavia, forse è il caso di riandare oggi a quelle vicende con una considerazione più globale. Invece oggi si può parlare storicamente e criticamente delle riforme di Nerone, di Tamerlano, di Gengis Khan, di Stalin: ma sul colonialismo italiano, fiat anathema! Oggi, ad Addis Abeba, nella grande struttura moderna voluta nel 1961 dall’imperatore Selassie come sede della sezione africana delle Nazioni Unite (l’Economic Commission for Africa o ECA), campeggia un’opera dell’artista A. Tekle, fiduciario di commissioni governative fin dal tempo dell’imperatore, che costituisce la più grande vetrata istoriata del mondo. Si intitola Africa: Past, Present and Future e presenta in tre grandi riquadri tre momenti della storia africana: nel primo riquadro la sventura dell’Africa sotto il drago del colonialismo, raffigurata da un gruppo di africani che seguono uno scheletro con la frusta, rappresentanti gli africani traditori
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che hanno consegnato la propria terra ai bianchi colonizzatori (il Passato); nel secondo riquadro la lotta contro il drago coloniale che conduce alla liberazione simboleggiata dal sole sorgente (il Presente); nel terzo riquadro i paesi africani tutti che, unitamente ad una famiglia che regge delle torce simbolo del risveglio, avanzano insieme verso il progresso accompagnati da un cavaliere armato che − con aspettativa veramente ingenua − rappresenta le Nazioni Unite con la bilancia della giustizia (Futuro). Il messaggio ideologico sembra chiaro: l’Africa unita avanza, e alla sua guida non possono esservi coloro che l’hanno tradita e consegnata ai colonizzatori. Però le drammatiche vicende africane degli ultimi decenni dimostrano che i traditori vi sono ancora, che questa avanzata non è affatto una marcia trionfale e che l’Africa non è affatto unita.
L’imperatore Haile Selassie con la famiglia reale
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L’ETIOPIA COMUNISTA DI MENGHISTU, L’ERITREA E L’IDEOLOGIA IMPERIALE
Quando l’imperatore Haile Selassie tornò in Etiopia nel 1941, vide subito che il nuovo problema non era più costituito dagli italiani bensì dagli inglesi: ma essi, che sembravano intenzionati a sostituirsi all’Italia, dovettero invece ritirarsi dopo undici anni. L’imperatore dovette sventare vari complotti, dovuti a giochi di potere ma anche alla esplicita volontà di procedere ad una più decisa modernizzazione del paese da parte delle correnti più aperte all’influsso occidentale. Un serio problema era costituito dalle rivendicazioni indipendentistiche: Selassie fece impiccare nel 1941 Belay Zeleke, patriota ed eroe della resistenza antiitaliana che reclamava l’indipendenza del Goggiam al nord; nel 1943 stroncò duramente una rivolta nel Tigray facendo bombardare, con l’aiuto dell’aereonautica inglese, i mercati di vari centri con conseguente strage di migliaia di persone. Ma il principale problema dell’imperatore era l’Eritrea: egli mirava all’Eritrea e alle sue coste sul Mar Rosso. Nel 1945 l’imperatore incontrò su un incrociatore nel canale di Suez il presidente americano Roosvelt di ritorno da Yalta, e gli concesse importanti basi militari in cambio dell’appoggio alle sue rivendicazioni eritree. Gli Stati Uniti, che volevano impedire che l’Eritrea, strategicamente importantissima per l’accesso al Mar Rosso, cadesse nell’orbita araba o sovietica, sancirono l’unione fra l’Eritrea e il fidato impero etiopico. In Eritrea bande armate addestrate in Etiopia scatenarono un’ondata di violenza appoggiando le mire annessionistiche di Addis Abeba. Le Nazioni Unite nel 1950, dopo lunghe discussioni e ignorando le rivendicazioni indipendentiste eritree, fecero dell’Eritrea uno Stato autonomo federato all’Impero etiopico e sottoposto alla sua sovranità. Gli americani ottennero una importantissima base militare ad Asmara, e dagli Stati Uniti cominciano a piovere i finanziamenti sull’Etiopia. La personalità di Selassie è stata assai discussa1. Henry de Monfreid vide dapprima in lui un riformatore in lotta contro l’inerzia feudale del 1
Scrivo Haile Selassie (e non Hailé Selassié come spesso si usa) perché mai in Etiopia ho sentito pronunciarne il nome accentato (l’accento è raro nell’amarico
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suo paese2 ma in seguito, quando appoggiò l’operato del fascismo e venne espulso dall’Etiopia, ne diede nel 1936 un crudo ritratto. Nel suo libro (già ricordato) egli si propose espressamente di svelare «ce qu’il y a derrière» la «masque d’or», la maschera dorata di civiltà e spirito progressista portata dall’imperatore: il volto astuto, spregiudicato e anche feroce dell’autocrate che in un paese barbaro e feudale conquista passo dopo passo il potere, accumula ricchezze nelle banche europee ed elimina tutti i suoi rivali3. Indubbiamente Selassie si muoveva all’interno di una concezione autocratica del potere: sotto di lui v’era infatti un senato sancito da una carta costituzionale ma formato solo da nobili di nomina imperiale, nonché una camera dei deputati eletti fra i latifondisti, ed entrambe le istituzioni avevano funzioni puramente consultive atte solo a ratificare le decisioni imperiali. Le due costituzioni promosse da Selassie, nel 1931 e nel 1955, per quanto redatte con la consulenza di giuristi europei, lungi dal favorire un’evoluzione costituzionale dell’impero appaiono pensate essenzialmente quali strumenti per la celebrazione della sacralità del monarca e per il rafforzamento del suo potere assoluto: come recita la Costituzione del 1955, «la dignità imperiale rimarrà eternamente legata alla linea di Haile Selassie I, la cui linea discende senza interruzione dalla dinastia di Menelik I, figlio della Regina di Etiopia, la regina di Saba, e del re Salomone di Gerusalemme. […] In virtù del suo sangue imperiale […], la persona dell’Imperatore è sacra, la sua dignità inviolabile e il suo potere indiscutibile». La corte che circondava l’imperatore era un perenne luogo di intrighi, la burocrazia era corrotta e inefficiente. Esiste un libro del noto giornalista
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ed è comunque privo di un segno grafico). Per una valutazione storiografica ampiamente positiva di Selassie v. A. Del Boca, Il Negus. Vita e morte dell’ultimo Re dei Re, Bari 1995, Laterza. Piuttosto al vetriolo invece l’intervista di O. Fallaci in Intervista con la storia, Milano 1974, Rizzoli, pp. 295-314. H. de Monfreid, Vers les terres hostiles de l’Ethiopie, Paris 1933, Grasset, a pp. 193-200 il colloquio con l’imperatore, e Le drame étjiopien, Paris 1935, Grasset, p. 223. H. de Monfreid, Le masque d’or ou le dernier Négus, cit. Va però considerata l’animosità di de Monfreid: ad esempio egli apre il suo libro additando in Selassie il vero e sottaciuto responsabile del caso ricordato di terribile “morte per mussolina” (descritta da Griaule in Les flambeurs d’hommes), ma è difficile che Selassie abbia fatto una cosa del genere nel 1932 al ghebì imperiale addirittura con testimoni occidentali. Monfreid raccoglie anche nel suo libro le voci secondo le quali Selassie non sarebbe stato in realtà figlio del ras Makonnen, e altre voci più o meno dubbie. Tuttavia il libro è interessante perché, ancorché mosso da animosità e piuttosto romanzato, raccoglie varie informazioni di prima mano particolarmente (pp. 122-140, 213-217) circa il dissidio fra l’imperatore e il figlio Asfa Wossen, che doveva esplodere molti anni dopo.
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e viaggiatore Kapuscinski in cui l’autore, dopo la caduta di Selassie, raccoglie le voci (anonime) dei dignitari e serventi di corte sull’uomo e sulla trama di potere da lui gestita4. Certamente non può dirsi un libro storico, visto che i nomi degli autori delle dichiarazioni sono riportati solo con le iniziali, e vista l’impossibilità di un controllo sulla loro veridicità: tuttavia, pur preso con cautela, il libro fornisce indubbiamente un quadro della corte dell’imperatore e delle sue abitudini e sistemi di governo (anche perché molte testimonianze, pur fornendo un quadro oggettivamente desolato, non intendono essere negative). Leggiamo così la dichiarazione del servente che per dieci anni ha avuto la sola mansione di pulire le scarpe degli alti dignitari in udienza presso il Negus e impossibilitati a muoversi mentre il cagnolino reale faceva i suoi bisogni ai loro piedi (p. 12); vediamo i dignitari alla fine dell’udienza uscire camminando all’indietro perché non si può voltare le spalle all’imperatore (p. 16; anche Del Boca del resto narra l’usanza dopo il suo colloquio con l’imperatore); vediamo le lotte fra i cortigiani per l’ordine di precedenza nei cortei imperiali (p. 66); leggiamo la dichiarazione di chi ricorda il Negus che in una Limousine faceva distribuire monetine e raccogliere suppliche dagli straccioni che prostrati si avvicinavano all’auto reale (p. 20, 44-45); altri ricordano i fastosi ricevimenti che gravavano sulle casse reali mentre all’esterno del palazzo reale, in un paese di endemica e tragica povertà, si accalcavano i miserabili per riceverne gli avanzi (pp. 25-27); altri ancora ricordano il potere di vita e di morte riservato all’imperatore, che con un cenno del capo poteva donare terre e capitali a un dignitario o al contrario confiscarne tutti i beni e magari farlo decapitare (pp. 52-53, 86); altre testimonianze dicono che la sola preoccupazione del sovrano era circondarsi di dignitari fedeli e volutamente poco validi, non importa se corrotti (p. 56). Stando alle testimonianze, l’adulazione, il servilismo, il timore, l’intrigo, il complotto dominavano alla corte reale. E poi le testimonianze parlano dell’agricoltura a cui si destinava solo l’1% del bilancio (p. 97) e degli aggravi fiscali sui contadini (p. 100). Leggendo queste testimonianze viene da pensare che la fosca e certo interessata descrizione del regno del Negus fatta dai testi fascisti non fosse troppo lontana dal vero. Poi però appare anche il volto di un Selassie riformatore fra mille ostacoli. Dopo il ritorno dall’esilio, Selassie cercò la modernizzazione del paese: migliorò la giustizia (pp. 56-57), mantenendo la pena capitale e la pubblica fustigazione ma ponendo fine ad antiche pratiche già combattute dal fascismo (taglio delle mani e dei piedi, liabascià, ese4
R. Kapuscinski, Cesarz, 1978, tr. it. Il negus. Splendori e miserie di un autocrate, Milano 2003, Feltrinelli.
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cuzione per mano dei congiunti della vittima); curò lo sviluppo edilizio di Addis Abeba, fece costruire fabbriche, ospedali, scuole, università, inviò i giovani migliori a studiare in Europa e negli Stati Uniti. Senonché, proprio questi passi verso la modernizzazione del paese, comunque insufficienti perché non intaccavano le strutture di un regime autocratico e latifondista, a un certo punto gli si rivolsero contro. Infatti l’imperatore, con la sua stessa politica volta a estendere l’istruzione in alcune parti della popolazione per lo più attraverso qualificati docenti europei, finì per formare nuovi quadri dirigenti politicamente radicali e critici nei confronti dell’autorità imperiale. I giovani etiopi che tornavano laureati dagli Stati Uniti, spesso imbevuti di ideologia marxista, non sopportavano più le arcaiche strutture del paese rispetto a cui le iniziative dell’imperatore apparivano troppo blande, e financo arretrate rispetto a talune iniziative della passata politica coloniale italiana. Nel 1960, durante una visita ufficiale dell’imperatore in Brasile, la guardia imperiale tentò un colpo di stato. La mente (Germane Neway) era un ras progressista che, governatore della regione di Sidamo, aveva costruito scuole e distribuito la terra ai contadini e per questo era stato destituito da Selassie; fra gli altri cospiratori vi era suo fratello (Menguistu Neway), capo della Guardia Imperiale. Il principe ereditario Asfa Wossen, figlio dell’imperatore (si disse poi per costrizione ma assai più probabilmente perché egli stesso congiurato) dichiarò l’abolizione dell’impero colpevole di «tremila anni di ingiustizia» e proclamò la monarchia costituzionale. Invero v’è una lunga tradizione etiopica di ribellioni al sovrano o alla sua politica da parte dei parenti e financo dei figli: Fasilidas contro il padre Susenyos, Takla Haymanot uccisore del padre Yasou etc.: non a caso in passato i figli eredi e i parenti pericolosi venivano spesso inviati dai sovrani in esilio sulle ambe quale misura precauzionale per evitarne le trame. Gli studenti appoggiarono il colpo di stato pressoché all’unanimità. I capi della rivolta sterminarono i notabili dell’impero prigionieri al Palazzo Reale, e negli scontri (secondo le posteriori cifre ufficiali) vi furono oltre trecento morti. Il colpo di stato, che ormai diventava insurrezione, venne però sventato dall’esercito e, al ritorno dell’imperatore, alcune decine di persone capi della rivolta vennero impiccate in pubblico in Piazza S. Giorgio ad Addis Abeba (il figlio dell’imperatore venne salvato, ma ne seguì una gelida distanza nei rapporti col padre che gli disse: «noi ti perdoniamo e ti dimentichiamo»). Nel 1962 l’Etiopia, desiderosa di un controllo più serrato sullo sbocco al Mar Rosso e del porto di Massawa, dopo aver sovvenzionato per anni bande di shifta che razziavano e rastrellavano i territori eritrei, pose fine
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alla federazione − peraltro più nominale che reale − sancita dalle Nazioni Unite e annesse l’Eritrea che, divenuta quattordicesima provincia dell’impero, scomparve dalla mappa geografica. Tutte le strutture industriali, i nuclei produttivi e i centri di potere furono smantellati e portati in Etiopia, spossessando l’Eritrea; nel paese annesso l’amarico sostituì nelle scuole il tigrino e l’arabo; la bandiera eritrea venne abolita; la libertà di stampa, i partiti, i sindacati e infine il parlamento vennero sciolti; le proteste vennero represse con violenza e i leaders eritrei furono costretti all’esilio. Iniziò così la trentennale resistenza armata eritrea, a cui parteciparono movimenti di matrice cristiana, islamica e marxista-leninista spesso in reciproca sanguinosa discordia. Forte di queste divisioni, l’esercito etiopico entrò a più riprese in Eritrea incendiando i villaggi e uccidendone gli abitanti rei di offrire rifugio, sostegno e ospitalità ai ribelli: ne conseguì un esodo della popolazione eritrea che giungerà a un milione di profughi (ecco perché a Milano e a Roma vi sono molti ristoranti eritrei ma pochissimi etiopici), ma al contempo la resistenza eritrea si rafforzò. Anche all’interno dell’Etiopia, dopo il fallito colpo di stato e le drammatiche vicende eritree, la situazione si fece delicata. Vi furono complotti, l’opposizione studentesca e intellettuale crebbe, e ne seguirono dure repressioni. Nel 1963 il paese fu scosso da insurrezioni contadine contro l’imposizione di esosi tributi e da ribellioni musulmane contro le discriminazioni. Nel 1968 vi fu la rivolta del Goggiam, partita dalla protesta contro la pressione fiscale: stando ad una fonte di Kapuscinski (p. 100) che ricorda i rapporti dalla provincia, i contadini «spaccavano la testa agli esattori, impiccavano i poliziotti, scacciavano i dignitari, incendiavano fattorie e distruggevano i raccolti». L’intervento dell’esercito fu pesante, come lo fu nel 1970 in altre zone del paese divenute focolai di jacqueries. Nel 1969 l’Università di Addis Abeba, a causa dei continui disordini, fu chiusa per un anno. Sostanzialmente tre erano i grandi problemi agitati dalle opposizioni: la riforma agraria, volta a fare dei contadini dei produttori indipendenti sottraendoli al giogo feudale; l’autodeterminazione (in senso realmente federale o indipendentistico) delle etnie e nazionalità tigrine, oromo, somale, eritree, musulmane che più non tolleravano l’imposizione dell’egemonia amhara e cristiana; la laicizzazione e democratizzazione dello Stato, la sua evoluzione in una forma repubblicana o almeno monarchico-costituzionale. Ma il governo imperiale appariva totalmente incapace di dare risposta a queste richieste. L’imperatore, legato mani e piedi alla nobiltà feudale e fondiaria nonché alla propria concezione autocratica dell’impero rigidamente unitario, in nessun modo poteva spingere il proprio cauto e moderato riformismo paternalistico fino a simili soluzioni.
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Così il dramma si compì. Il paese precipitò fra il 1972 e il 1974 in una spaventosa carestia che causò la morte di oltre 300.000 contadini senza che, a quanto pare, l’imperatore nemmeno ne venisse informato stante che durante i suoi pochi viaggi nel paese egli poteva vedere solo una realtà di cartapesta accuratamente predisposta come una quinta teatrale. A lungo le voci ufficiali negarono l’esistenza del dramma, e quando si dovette riconoscerla si pretesero le percentuali sugli aiuti umanitari. Secondo una testimonianza raccolta da Kapuscinski, «ogni giorno la polizia, per ordine dei dignitari locali, sparava il colpo di grazia alle centinaia di scheletri viventi che si aggiravano per il paese» (p. 142). Ma era un colpo di grazia o piuttosto un colpo che toglieva di mezzo testimoni viventi della carestia, che potevano essere fotografati dagli studenti o dai giornalisti occidentali travestiti da infermieri volontari? Si formò un’opposizione militare interna e a questo punto Selassie sembrò perdere la capacità di reagire, come lasciando che le cose seguissero il loro corso: forse era la vecchiaia (aveva ormai più di ottant’anni), forse capì che non v’era più nulla da fare, forse non se la sentì più di ordinare repressioni, eccidi, arresti che colpivano soprattutto la gioventù intellettuale del paese, forse si illuse che il nuovo emergente gruppo di giovani militari che aveva studiato in Italia e proclamava di fare la rivoluzione in suo nome potesse realizzare sotto la sua benevola protezione quel ciclo di riforme che lui faticava ad avviare all’interno della corrotta burocrazia statale, forse pensava di salvare l’impero lasciandolo trasformare in una monarchia costituzionale, o forse tardava a bella posta a nominare il principe ereditario e a riformare in senso costituzionale il regno affinché l’impero cadesse con lui: après moi, le deluge! Ma così facendo la mancata energia o l’ingenuità o l’errato calcolo del vecchio sovrano, che non dominava più gli eventi, consegnarono il paese ad una dittatura militare che fu spietata e terribile. Nel 1974 cadde il governo. Se ne formò uno nuovo ma il primo ministro venne subito sostituito da un comitato militare detto Derg. Il nuovo governo militare arrestò uno dopo l’altro tutti i membri della vecchia classe dirigente, accusata di corruzione nell’accumulazione di enormi ricchezze: Selassie protestò blandamente, come se in fondo condividesse quel provvedimento. Ai generali fedeli che gli dicevano allarmati e preoccupati che bastava qualche carro armato per riportare l’ordine, l’imperatore rispondeva ostinatamente di non far nulla. Così tutti i politici gravitanti attorno all’imperatore finirono in carcere e l’imperatore finì col rimanere praticamente solo nel suo palazzo, nel cui parco ormai entravano liberamente uomini e capre. Sciolto il parlamento, si formò una dittatura fra i cui quadri
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dirigenti una dura lotta intestina culminò nell’uccisione di 57 ufficiali e uomini politici. Emerse il colonnello Haile Mariam Menghistu, in cui Selassie aveva riposto ingenua fiducia, che dopo incerti tentativi di ottenere l’appoggio americano accettò gli aiuti sovietici e cubani virando la dittatura in senso marxista e comunista. Il 20 dicembre 1974 fu proclamato il nuovo Stato socialista. A questo punto il Derg organizzò una campagna stampa contro l’imperatore, che culminò nel 1975 con la trasmissione di un estratto del reportage televisivo di un giornalista inglese dedicato l’anno precedente alla spaventosa carestia che flagellava il paese, inframmezzato con immagini dei sontuosi banchetti di corte e di Selassie che nutre i suoi leoni con ricchissime quantità di carne. Il giorno dopo un ufficiale si recò dall’imperatore per annunciargli, con voce tremante e rotta dall’emozione, la sua deposizione. Selassie, caricato sul sedile posteriore di una Volkswagen, venne portato via. Tutti i suoi familiari furono arrestati e incarcerati per anni, tranne Asfa Wossen che si trovava in Germania (o vi si era preventivamente rifugiato). I massimi dignitari dell’impero vennero uccisi a mitragliate, in parte personalmente da Menghistu. Il 27 agosto 1975 Selassie moriva, a quanto pare prima gradatamente avvelenato (la sua cuoca era stata allontanata la settimana precedente) e poi soffocato nel sonno probabilmente dallo stesso Menghistu, che dal giorno seguente fu visto portare l’anello detto di Salomone che il deposto imperatore portava al dito. Che bisogno aveva Menghistu di uccidere un vecchio ormai innocuo che passeggiava per i giardini di una caserma? La risposta a questa domanda me la diede un etiope trasferito in Italia dopo un lungo colloquio precedente la nostra partenza: «aveva paura della sua anima», mi disse. Infatti, nella caserma, tutti i soldati e i graduati trattavano con grande rispetto e deferenza l’innocuo vecchio ormai semidemente e perso nei suoi pensieri, inchinandosi al suo passaggio e abbassando la voce mentre egli tracciava con la mano indecifrabili segni nell’aria. La notizia della morte dell’ex imperatore venne diffusa il giorno seguente con una scarna nota, ripresa il 29 dal The Ethiopian Herald, che attribuiva la morte a collasso cardiocircolatorio. La dittatura agì in ottemperanza ai principi comunisti5: le proprietà terriere tutte vennero espropriate e la proprietà privata dei mezzi di produzione abolita. Seguì una radicale statalizzazione: banche, attività commerciali, alberghi, fabbriche, fattorie che sole garantivano lavoro e produttività, intere zone rurali, tutte le seconde case, le case non abitate o superiori ad una certa 5
Cfr. R. Lefort, Ethiopie, la révolution hérétique, Paris 1981, Maspero e AA.VV., La révolution éthiopienne, Paris 1990, Harmattan.
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metratura vennero statalizzate e nazionalizzate (conosciamo varie persone in Etiopia che in quegli anni hanno avuto la casa o, in un caso, il supermarket sequestrato). Poi venne la conclamata riforma agraria. Un esperimento socialista centrato sul problema agrario, imprescindibile in Africa, era già stato tentato in Tanzania: Julius Nyerere, intellettuale di formazione europea, insegnante e poi leader dell’opposizione al dominio coloniale inglese succeduto al dominio tedesco, divenuto nel 1962 (dopo l’indipendenza) primo presidente della repubblica (a cui nel 1964 veniva unito l’arcipelago di Zanzibar), a partire dal 1967 aveva varato una politica socialista centrata sulla diffusione dell’istruzione e sulla riforma agraria: ma quest’ultima, ispirata al modello cinese e volta a promuovere l’autogestione agricola collettiva di villaggio (in cui anche gli arnesi da lavoro erano in comune), non risolse l’endemica povertà della popolazione rurale cosicché subentrò il diretto controllo dello Stato con l’imposizione del trasferimento coatto dei contadini in villaggi pianificati, ciò che peggiorò ulteriormente la situazione economica e politica portando infine alle dimissioni di Nyerere nel 1985, a cui seguì l’introduzione di una repubblica parlamentare supportata dai prestiti occidentali. Ma se in Tanzania Nyerere ebbe la capacità di riconoscere l’impasse e il coraggio di dimettersi favorendo il passaggio al multipartitismo, le cose non andarono così nell’Etiopia di Menghistu. La riforma agraria partì in Etiopia in modo radicale. La terra quasi senza eccezioni fu tolta ai latifondisti e anche le proprietà del clero vennero intaccate, mentre ai contadini vennero promessi in usufrutto fino a dieci ettari di terra ciascuno; ma in seguito anche la più minuscola proprietà terriera fu abolita e la terra fu data in semplice usufrutto a collettivi di contadini: essi in apposite farms dovevano mettere in comune anche gli animali e gli attrezzi (a volte anche i più elementari), e lavorare la terra e vendere la metà del prodotto allo Stato per un prezzo nominale. Si intendeva ovviamente riproporre la vecchia esperienza sovietica delle aziende agricole di Stato, in vista della futura dotazione di moderne attrezzature e di un’organizzazione razionale del lavoro, al posto del tradizionale lavoro contadino familiare: ma con ciò all’antica solidarietà contadina, in cui la comunanza degli animali e degli attrezzi era spontanea, si sostituì una collettivizzazione forzata, in cui i contadini diventavano dipendenti di Stato. I contadini non avevano alcun incentivo a lavorare una terra non loro, che poteva esser tolta in qualsiasi momento per le ridistribuzioni arbitrarie ad opera delle corrotte associazioni agrarie, né avevano alcun incentivo dovendo essi dare allo Stato la metà del frutto del loro lavoro. Dall’Unione Sovietica in cambio di caffè vennero trattori e macchinari moderni, ma i contadini analfabeti, che spesso non conoscevano nemmeno l’aratro, non sapevano
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farli funzionare e li mettevano fuori uso: anche al semplice livello di manovalanza, essi non erano in grado di condurre un’azienda agricola ispirata a criteri moderni. Nel 1975-76, secondo il più pretto insegnamento maoista già applicato anche in Tanzania, oltre 50.000 studenti vennero sottratti agli studi e allontanati dall’università, ove peraltro costituivano una pericolosa massa d’urto pensante, e inviati alle campagne per imparare dai contadini e purificarsi dalla loro macchia borghese, oltre che per zappare la terra senza salario e per compiere nelle campagne corsi di alfabetizzazione e di indottrinamento al marxismo-leninismo. Ma allora si respirava ancora, almeno in parte, un clima di festa e di speranza rivoluzionaria: per molti studenti, ignari delle conseguenze dell’errata politica agricola del regime e spesso calorosamente accolti nei villaggi come una speranza di aiuto, si trattò della prima inebriante esperienza di libertà lontani dalle loro famiglie e con la possibilità di molteplici discussioni ideologiche e avventure amorose6. Ma molti altri studenti, che ben vedevano la realtà, abbandonarono i campi subendone le conseguenze (impossibilità di proseguire gli studi e di trovare un lavoro, nel migliore dei casi): in molti entrarono nel movimento di lotta armata clandestina contro il nuovo regime. Presto tutti gli studenti vennero frettolosamente richiamati in città, non solo per i numerosi incidenti e risse verificatisi ma soprattutto perché si vide che i contadini imparavano un po’ troppe cose dai loro corsi politicizzati. Le tentate riforme di Menghistu fallirono, mentre la carestia continuava ad infierire nel paese. Gli studenti della scuola italiana di Addis Abeba riportano i ricordi, dei loro genitori se non personali, di quegli anni: ricordano che vigeva il coprifuoco, e che la polizia sparava a vista su chiunque fosse visto per strada dopo il tramonto; ma anche di giorno le strade erano semideserte e la gente usciva quasi solamente per andare e tornare dal lavoro, perché la polizia poteva arrestare a piacimento chiunque, soprattutto giovani studenti, ritenesse di aria sospetta; le prigioni erano stracolme di persone di cui spesso poi non si sapeva più nulla. Gli studenti dicono anche (e si ha il sospetto che anche nelle loro esagerazioni vi sia del vero) che allora non si poteva vedere nemmeno uno dei mille e mille mendicanti che ora vagano per la città, perché chiunque venisse scoperto ad elemosinare veniva immediatamente falciato da una raffica di mitra; dicono che il regime attuò una campagna di alfabetizzazione forzata (condotta in amarico anche nelle più lontane campagne di lingua tigrina o oromo) e che ai refrattari allo 6
In questo senso le testimonianze di ex-allievi del Liceo francese di Addis Abeba (raccolte in Licée Guebre Mariam, Melanges pour le cinquantenaire, Addis Abeba 1997, Mission Laïque Française, pp. 157-184).
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studio poteva essere amputata la mano. A parte possibili esagerazioni, di sicuro un controllo capillare veniva effettuato sulla popolazione attraverso gli onnipresenti “comitati di quartiere”: i kebelé, che dovevano essere unità amministrative di quartiere, divennero sistemi di vigilanza che attuarono ovunque e su tutto un sistematico e capillare sistema di spionaggio e delazione; essi giunsero a rilasciare una sorta di “patente rivoluzionaria” senza la quale era impossibile circolare per la città e per il paese (e senza la quale spesso era anche impossibile vivere). Anche solo non partecipare ai comizi indetti dal governo, o non fare l’autocritica maoista dei propri trascorsi reazionari poteva costare anni di carcere; occorreva circolare con un “attestato rivoluzionario” sui propri trascorsi politici e sul proprio contributo rivoluzionario, senza il quale le probabilità di sopravvivenza si riducevano alquanto7. La musica venne in gran parte censurata in favore di inni marziali. Il corrispettivo amarico del “lei”, ritenuto un saluto borghese, venne proibito: non in favore del “voi” come nelle disposizioni fasciste, bensì in favore del più proletario “tu” che avrebbe dovuto sancire nel saluto un’assoluta eguaglianza senza alcuna forma di distacco o di gerarchia. Nelle campagne, dove molti contadini protestavano contro la collettivizzazione forzata, vennero fatte molte repressioni. Si parla di 40.000 incarcerati, parecchie migliaia di vittime per lo più studenti, e di 30.000 etiopi fuggiti in esilio. Nel 1977 fu scatenata una spaventosa ondata di “Terrore rosso”, come lo definì lo stesso Menghistu nei suoi proclami, quale risposta al “terrore bianco” attuato dall’opposizione comunista clandestina che aveva ucciso un centinaio di funzionari governativi: secondo le stime il “terrore rosso” causò oltre centomila omicidi. Sulle strade si trovavano corpi abbandonati di studenti trucidati, nerbo intellettuale dell’opposizione e per questo colpiti spesso del tutto a caso solo in quanto studenti. Recavano appeso il cartello a firma “Terrore rosso” che li diceva reazionari: in ottemperanza alla sinistra usanza cinese per i condannati a morte, i corpi delle vittime potevano essere recuperati dai familiari pagando 25 birr per la pallottola che li aveva uccisi, sebbene allora avrebbero dovuto pagarne centinaia per i corpi crivellati e spezzati in due dalle sventagliate di mitragliatrice; altrimenti venivano gettati fuori città in pasto alle iene e agli avvoltoi. Il proprietario italiano di un noto ristorante di Addis Abeba, nostalgico del colonialismo ma testimone attendibile, ci ha raccontato le efferatezze cui dovette assistere in quegli anni: le studentesse uccise i cui cadaveri per 7
V. il diario di prigionia di un uomo politico imprigionato dal Derg dal 1976 al 1981: T. Deguefé, A tripping Stone. Ethiopian Prison Diary, Addis Ababa 2003, University Press.
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spregio estremo venivano abbandonati sempre con le gonne sollevate; la donna a cui egli impedì di gettarsi sul cadavere della figlia appena uccisa e di farsi così riconoscere; il ragazzo assolutamente normalissimo e di nulla colpevole che per sua sventura si trovò semplicemente a camminare nella strada davanti al ristorante proprio nel momento in cui passava una camionetta di soldati che, avendolo visto e probabilmente vedendo nei suoi capelli lunghi un indizio eversivo, innestarono la retromarcia, lo raggiunsero, lo costrinsero a mettersi in ginocchio e poi lo uccisero con un colpo alla nuca. Aggiunge anche che in quegli anni la vita valeva così poco che chi voleva poteva far fuori una qualunque persona, anche solo per motivi personali e non politici, pagando un migliaio di birr a qualche funzionario corrotto dei kebelé. Il palazzo di ras Mikael Sehul (XVII sec.) a Gonder divenne una sinistra prigione del Derg, luogo di abusi e torture: la sua fama è ancor oggi così sinistra che là noi abbiamo trovato il solo guardiano scortese di tutta l’Etiopia che ci ha impedito di fare fotografie, pur essendo il portone aperto e pur essendo questo palazzo ormai chiuso al pubblico e privo di qualsiasi funzione. Ysar, un etiope da noi conosciuto uscito dal liceo francese di Addis Abeba ed attualmente titolare di una catena di ristoranti, ci ha detto: «furono anni terribili. Un fratello e due mie sorelle erano stati arrestati senza che sapessimo nulla di loro. Io andavo tutti i giorni a vedere i cadaveri degli studenti abbandonati dal giorno prima per le strade principali della città. In ogni volto martoriato temevo di vedere mio fratello o mia sorella. Avevo dieci anni. In seguito i miei fratelli, rilasciati, fuggirono tutti all’estero. Io invece volli restare, ma furono anni durissimi». Ma Ysar è una delle pochissime persone adulte da noi conosciute in Etiopia che accetta di parlare di quegli anni. Ad eccezione degli studenti, tuttora la gran parte dei testimoni di quel tempo preferisce non parlarne affatto, chiudendo subito il discorso con poche frasi generiche: una donna italiana da noi conosciuta, sposata con un etiope vissuto in clandestinità negli anni del Derg, dice di non sapere quasi nulla al riguardo perché tuttora il marito evita nel modo più assoluto di toccare quel tasto nelle discussioni; un docente universitario anglofono e un tempo ricco proprietario poi espropriato, che ora affitta una villetta rimastagli ai ferengj, dopo aver fatto dieci anni di carcere per le sue passate compromissioni con il regime di Menghistu in funzione dirigenziale, rifiuta ora qualunque accenno di discussione politica. Una cosa del genere io la vidi in Grecia, quando giovanissimo vi andai subito dopo la caduta del regime dei colonnelli: nessuno voleva esprimersi in proposito, e addirittura le persone si allontanavano se si toccava l’argomento, tanto la dittatura aveva instillato la paura negli animi. Ma in Grecia la cosa era comprensibile: il regime era appena caduto, non si sapeva bene cosa
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sarebbe successo, e naturalmente si era diffidenti perché ogni persona che facesse certe domande poteva essere facilmente percepita come un possibile delatore o una spia. Invece in Etiopia attualmente non v’è nessun rischio del genere, perché il Derg è ormai caduto da molti anni. La gente non ha paura di parlare di quegli eventi per non compromettersi: è che proprio non vuole fare riemergere ferite mai cicatrizzate. Una descrizione drammatica degli anni della fine dell’impero e del regime di Menghistu, che si intreccia con la narrazione dell’infanzia e della giovinezza del protagonista, si trova nel libro di Nega Mezlekia, Notes from the Hyena’s Belly8. Egli a un certo punto, a proposito della sua permanenza ad Addis Abeba durante il Terrore rosso, scrive: «vivevo come una gazzella spaventata in una savana dell’Africa Orientale»9. Il ventre della iena di cui parla il libro, che è come il ventre della balena del biblico Giona, non è solo il regime di Menghistu: è l’Africa stessa, l’Africa che partorisce i Bokassa, gli Amin Dada, i Siad Barre, i Mobutu e per il protagonista fuggire da questo ventre malefico e divoratore è stato riparare in occidente. Sempre nel 1977 scoppiò il conflitto con la Somalia10. Da tempo l’Etiopia doveva fronteggiare le spinte separatiste nelle zone somale e islamiche dell’Ogaden e di Harar confinanti con la Somalia. Lo Stato somalo che proteggeva il Fronte di liberazione della Somalia Occidentale fomentava queste spinte separatiste e ribelli, e a sua volta l’Etiopia avanzava rivendicazioni sulla Somalia musulmana. In tal modo l’Etiopia entrò necessariamente in conflitto con il vecchio progetto pansomalo, avviato alla fine dell’Ottocento da Mohamed Hassan che in nome del jihad islamico rifiutava la spartizione della Somalia fra zone di influenza francese, inglese, italiana ed abissina scagliando i suoi guerrieri dervisci e somali contro gli invasori. Nonostante le fratricide divisioni dei clan la nazione somala era ritenuta unitaria perché di religione musulmana e di lingua araba, stante il secolare contatto della lunga zona costiera con la cultura islamica. Così, poiché la Somalia (affidata nel dopoguerra all’amministrazione fiduciaria italiana) era nata nel 1960 dalla fusione della Somalia inglese e della Somalia italiana, allora il progetto pansomalo intendeva ampliare lo Stato ricostruendo la “Grande Somalia” riappropriandosi dei restanti territori somali divisi nel 8 9 10
N. Mezlekia, Notes from the Hyena’s Belly, 2000, tr. it. Dal ventre della iena. Ricordi della mia giovinezza in Etiopia, Milano 2002, Mondadori. Ivi, p. 267. Le questioni di confine fra Etiopia e Somalia sono di lunga data: v. P. Petrides, The Boundary Question between Ethiopia & Somalia, New Delhi 1978, People’s Publishing House.
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1948 fra l’Etiopia, il Kenya e Gibuti che fu Somalia francese fino al 1977. In Somalia il regime nazionalista e comunista di Siad Barre, iniziato con un colpo di stato nel 1969, aveva ripreso il progetto pansomalo (anche se Barre impose per la trascrizione della lingua somala i caratteri latini e non la grafia araba), cosicché ne venne il conflitto con l’impero negusita che fin dal XVI secolo cercava di sottomettere le genti somale. La Somalia comunista di Siad Barre invase l’Etiopia comunista di Menghistu: ma il Cremlino, che sosteneva entrambi gli Stati, di fronte alla scelta appoggiò l’Etiopia più strategicamente importante, salvandola attraverso massicce forniture di armi nel mentre Cuba inviava esperti piloti (la Somalia fu invece appoggiata dagli Stati Uniti). La guerra fu fatale. L’esercito somalo dovette ritirarsi e un milione di profughi somali iniziarono l’esodo dall’Ogaden per sfuggire alla rappresaglia etiopica (anche questo è narrato con viva partecipazione nel libro di Mezlekia). In Somalia le etnie intensificarono l’opposizione al regime, e ne venne un tentativo di colpo di stato: il paese precipitò nella guerra civile mentre il regime (finanziato dal governo italiano) di Siad Barre, corrotto, nepotistico e volto ad imporre il predominio del proprio clan tribale sulle numerose altre etnie, intensificò la repressione, che giunse al bombardamento aereo di due città nel nord che causò decine di migliaia di vittime ed esodi di massa. Nel 1982 il governo etiopico, approfittando della crisi in cui si dibatteva il regime di Barre, passò al contrattacco occupando parti del territorio somalo. Parimenti il governo etiopico apriva contenziosi territoriali anche con il governo sudanese, cercando di incunearsi a fini annessionistici e “protettivi” nelle difficoltà interne del Sudan, il cui governo tentava di imporre la sharia islamica alle province meridionali abitate da popolazioni a larga componente cristiana, fra cui serpeggiavano (e tuttora serpeggiano) mire autonomistiche e secessionistiche che, complici i “signori della guerra”, hanno causato una ventennale guerra civile con oltre un milione e mezzo di vittime solo attualmente seguita da una precaria tregua. Nel frattempo si faceva sempre più forte in Eritrea il movimento per l’indipendenza, la cui componente islamica era finanziata dall’Arabia saudita e dai paesi arabi che cercavano di fagocitare la resistenza eritrea ai fini di un incuneamento sull’altra sponda del Mar Rosso, con il pericolo concreto di un passaggio definitivo dell’Eritrea al campo arabo. L’esercito etiopico, il più potente e meglio attrezzato dell’Africa stante l’appoggio sovietico e cubano, fornito di cacciabombardieri, carri armati, navi da guerra e assistito da militari, piloti e consulenti russi e cubani (Cuba inviò 20.000 uomini), iniziò nel territorio eritreo devastanti bombardamenti a tappeto che proseguirono per anni. In Eritrea il movimento di resistenza divenne molto organizzato, e
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anche estremamente ideologizzato soprattutto nella componente marxista. I guerriglieri organizzarono in tutti i villaggi comitati di liberazione: tutti furono chiamati a combattere, anche le donne e i ragazzini, mentre nei villaggi si insegnava a leggere e scrivere alla popolazione che veniva politicamente edotta; infine i combattenti, per evitare i devastanti bombardamenti aerei etiopici, costruirono interi villaggi sotterranei con scuole, ospedali, fabbriche (come ancor oggi si può vedere nel villaggio di Nakfa). Tra il 1984 e il 1986 l’Etiopia fu colpita da una tragedia immane: una nuova gravissima carestia e siccità che provocò la morte per fame di centinaia di migliaia di persone. Menghistu, che aveva costruito la sua ascesa politica sull’accusa a Selassie di non aver fatto nulla contro la carestia del 1972-1974, fu altrettanto incapace contro la replica del vecchio dramma. Egli anzi, con totale indifferenza per le sorti della popolazione, usò nel modo più cinico gli aiuti umanitari giunti da tutto il mondo per armare l’esercito e per imporre un esodo forzato, un resettlement di tre milioni di abitanti (ma in prospettiva dovevano essere dieci volte tanto, ovvero il 10% della popolazione) delle regioni del nord colpite dalla calamità verso le più fertili regioni del sud, più fertili sì ma anche più esposte alla malaria11. Lo scopo non era debellare la calamità, quanto approfittare della tragedia per allontanare coattivamente le popolazioni nordiche dell’area tigrina confinante con l’Eritrea, a cui mai giungevano gli aiuti umanitari perché quelle erano le zone in cui principalmente la guerriglia separatista trovava alimento e sostegno. I contadini profughi, recalcitranti ad abbandonare le loro terre, venivano spesso catturati durante incursioni nei villaggi, nei campi, nei mercati, e imprigionati e trasferiti sotto la minaccia dei mitra; sradicati a forza dalle loro terre dichiarate improduttive e sterili, essi furono costretti all’esodo o meglio deportati in terre insalubri e malariche ove, dopo aver abbandonato le loro colture tradizionali, dovevano vivere in appositi villaggi collettivi (spesso del tutto improvvisati in luoghi inadatti e nella più totale carenza di servizi e strutture) in cui − sorvegliati da soldati che sparavano su chiunque tentasse la fuga − coltivavano quasi esclusivamente il caffè che doveva essere inviato a Mosca per risarcire in parte i finanziamenti ricevuti. Anche l’Italia finanziò la politica di Menghistu. I “villaggi”, le farms, fuor di metafora erano in realtà e sempre più divennero campi di lavoro sottoposti al duro imperativo della massima produzione in cui i contadini, strappati dal loro contesto, potevano essere facilmente controllati. Il contadino si trovò sfruttato ed espropriato 11
P. Palmeri, Etiopia. L’ultimo socialismo africano. Il trasferimento forzato delle popolazioni sotto il regime di Menghistu, Milano 2000, Guerini.
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non più dal latifondista, dal burocrate imperiale, dal clero ma, in modo ancor più disumano, dallo Stato: anche i piccoli produttori autonomi o almeno parzialmente tali divennero lavoratori salariati costretti a lavorare per lo Stato e le cooperative. In 100.000 morirono durante la marcia di trasferimento forzato o subito dopo preda della malaria. Altri 450.000 si rifugiarono in Sudan, più di 50.000 in Somalia e in Kenya e parecchie decine di migliaia nello Yemen, tutti ospitati in appositi campi di accoglienza per profughi. In complessivo, fra il 1984 e il 1985, in Etiopia − fra carestia, siccità, malaria ed esodi forzati − morirono due milioni di persone. In queste condizioni la produzione del caffè (che costituiva il 50% delle esportazioni etiopiche) si ridusse alla metà e perse in qualità. Il 22 giugno 1988 ad Hawsien, un villaggio del Tigray, durante il mercato che radunava migliaia di persone provenienti dal circondario con animali e mercanzie, comparvero all’improvviso i mig dell’aviazione etiopica che per un’intera giornata lanciarono bombe al napalm e a frammentazione causando, secondo dati non ufficiali, più di duemila morti. Oggi il villaggio di Hawsien nel Tigray appare poco popolato, segno di una fuga di massa della popolazione da quel giorno, e ancora si vedono le macerie delle case distrutte dai bombardamenti e mai ricostruite. Un monumento nella piazzetta del paese ricorda la strage. Ormai il regime era allo stremo. Nel 1989 crollava il comunismo sovietico, e con ciò veniva meno il più potente alleato di Menghistu e il decennale rifornimento di armi all’Etiopia. La defezione di Mosca fu un grave colpo per il governo etiopico. I ministri di Menghistu si affrettarono a dire che in fondo il regime etiopico non era mai stato così comunista come si credeva, e che tutto sommato un pochino di proprietà privata restava nel paese le cui strade e piazze rigurgitavano di falce e martello e di gigantografie di Marx, Lenin e Stalin. Il massimo esponente della fazione filo-sovietica venne rimosso dalle sue funzioni: il governo cercò nuovi appoggi in occidente, ma la sua credibilità era ormai compromessa. La situazione interna degenerò sempre più: la situazione finanziaria del paese appariva disperata. Nel 1989 vi fu un fallito tentativo di colpo di stato, mentre i diversi gruppi di opposizione politica − un partito marxista di estrema sinistra e vari movimenti di liberazione a base etnica − confluivano in un fronte alquanto variegato ma sempre più minaccioso, l’Ethiopian People’s revolutionary Democratic Front. Menghistu ottenne armi e finanziamenti da Israele in cambio della libertà di espatrio per i falasha, ma il conto alla rovescia per il regime era cominciato. Nel 1989 l’opposizione marciò compatta su Addis Abeba. Nel frattempo l’offensiva eritrea, galvanizzata dall’abbandono sovietico e dalla crisi etiopica, riprese decisa: essa giunse ad occupare gran parte dell’Eritrea e, nel 1991, penetrò financo in territorio etiopico
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giungendo a meno di cento chilometri da Addis Abeba. Il 21 maggio 1991, mentre il paese precipitava sempre più nella guerra civile, Menghistu fuggì in aereo prima in Kenya e poi in Zimbabwe, ove comprò col denaro israeliano una sterminata piantagione di caffè e ove tuttora vive. Sette giorni dopo, il fronte rivoluzionario entrava ad Addis Abeba12. Un paio di alti personaggi del regime di Menghistu trovarono rifugio nell’Ambasciata italiana ove, ormai vecchi e pallide ombre dei potenti che furono, tuttora vivono senza poter uscire pena l’arresto (Menghistu è stato invece condannato all’ergastolo in contumacia nel 2007). Nel frattempo, sempre nel 1991, nella Somalia preda di una gravissima siccità (400.000 vittime), cadeva anche Siad Barre e il paese, precipitato nella guerra civile con esodi biblici, offrì il pretesto ai successivi bombardamenti “umanitari” americani su Mogadiscio.13 Anche se ad Addis Abeba fra il residuo “zoccolo duro” del veterocomunismo irriducibile, e financo fra alcuni docenti della scuola, si trova ancora qualche nostalgico delle “importanti riforme agrarie del presidente Menghistu che, con qualche necessaria durezza, hanno smantellato il latifondo”, in realtà l’esperimento comunista etiopico si chiuse evidentemente con un bilancio fallimentare. Può sembrare troppo severo il giudizio storico dato in queste pagine su questo regime, soprattutto in confronto al giudizio non di totale condanna ma più sfumato che invece emerge dalle pagine da noi dedicate al colonialismo italiano che cinquant’anni prima aveva governato l’Etiopia: a qualcuno cioè potrà sembrare che questa disparità di giudizio non emerga dalle cose stesse ma sia semplicemente il riflesso ideologico di un’opzione o di una preferenza politica personale di chi scrive, ritenuto più orientato ideologicamente “a destra” che non “a sinistra”. Tuttavia riterrei ingiusta l’accusa di parzialità ideologica, perché quella che è emersa in queste pagine è semplicemente una differenza sostanziale di natura fra i due regimi. In Etiopia sia il regime fascista sia il posteriore regime comunista si sono mantenuti non con la sola autorità ma con la forza e la violenza − con la guerra di conquista per il regime fascista e il “terrore rosso” per quello comunista −, con l’aggravante per il regime fascista di essere un dominio non autoctono bensì imposto dall’esterno. Però vi è una differenza sostanziale fra i due regimi, che ne impedisce l’equiparazione in una sola generica condanna o assoluzione. Alla base delle riforme del regime
12 13
Cfr. M. Fontrier, La chute de la junte militaire ethiopienne (1987-1991), Paris Montrèal 1999, Harmattan. Sulle drammatiche vicende somale v. G. Porzio, Somalia, quando muore la speranza, Milano 1994, Mursia.
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di Menghistu era la pretesa totalizzante di rifare la storia annullando e azzerando il passato e addirittura di riplasmare da un anno all’altro la natura umana, facendo di colpo cadere sul tessuto vivo della società ed in spregio alla sua esistenza reale una serie di riforme astratte, puramente teoriche, del tutto utopiche e palingenetiche, capaci come tali di proibire agli uomini della campagna perfino la semplice proprietà di un attrezzo da lavoro e capaci di imporre a milioni di essi, senza la minima considerazione delle loro tradizioni e consuetudini, di spostarsi da un capo all’altro del vastissimo paese come fossero semplici pedine o marionette nelle mani del “grande timoniere”. Il regime comunista in Etiopia, tranne forse la campagna per l’alfabetizzazione, non ha lasciato quasi nulla se non un ricordo doloroso che quasi nessuno vuole riesumare. Invece il regime coloniale fascista, i cui eccidi non ci sembra di aver nascosto, è stato sicuramente nella fase progettuale e costruttiva più realistico e concreto, in un’attività volta non ad un sogno di palingenesi sociale bensì concretamente alla riedificazione urbanistica di intere città, alla costruzione di strade, case, ponti, canali, acquedotti, scuole, ospedali, alla diffusione della vaccinazione profilattica sia fra gli armenti decimati dalla peste bovina sia fra le popolazioni colpite dalla lebbra, dal vaiolo, dalla tubercolosi e dalla poliomielite. Proprio questa differenza sostanziale impedisce l’equiparazione fra i due regimi. Dopo la caduta del regime comunista, nel 1993 in Eritrea andò al potere il movimento di liberazione che, dopo un suffragio popolare a schiacciante maggioranza, proclamò l’indipendenza del paese con a capo Isaias Afewerki: chi vi era, mi dice che fu un grande giorno di festa popolare, in un clima di grande ottimismo e speranza per il futuro. All’Etiopia fu concesso l’accesso al mare attraverso il porto di Assab, e sembrò così avere fine un trentennale conflitto che aveva causato molte distruzioni, un numero altissimo di vittime e un milione di profughi all’estero dall’Eritrea, precipitando entrambi i paesi in una crisi economica gravissima. In Etiopia il nuovo Stato assunse una forma parlamentare e democratica secondo il modello occidentale, e nel 1995 l’Etiopia fu costituita in Repubblica Federale Democratica con Melles Zenawi presidente del consiglio. A riprova della volontà di chiudere con la passata dittatura, i dirigenti del Derg sono stati chiamati in processo a rispondere dei loro crimini; il giorno della caduta di Menghistu è ora celebrato come festa nazionale; a Bahar Dar sul Lago Tana e a Makallé nel Tigray sono stati eretti dei monumenti per commemorare le vittime del passato regime; del monumento di Hawsien abbiamo detto, e una degna sepoltura è stata data nel giardino della Cattedrale della Santissima Trinità di Addis Abeba agli ufficiali e ai politici uccisi dal Derg
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nel 1974 e buttati in una fossa comune, così come più tardi alla salma recuperata dell’ex imperatore. Si direbbe anzi, a giudicare da questi monumenti alla memoria, che l’attuale regime politico ricordando la caduta del regime di Menghistu celebri il proprio mito fondatore, la propria mitologia della Resistenza. La fallimentare politica di nazionalizzazione e statalizzazione ad oltranza voluta da Menghistu venne abrogata: le aziende confiscate, agricole e industriali, tornarono ai legittimi proprietari o furono rilevate da privati, le terre furono restituite, e oggi rimane solo qualche albergo (costoso e poco funzionante) di proprietà statale. Il governo ha avviato una capillare politica di ricostruzione della rete stradale che in questo riprende la passata politica fascista. Tuttavia il processo verso la normalizzazione del paese appare ancora lungo e difficoltoso. La povertà e la mancanza di strutture costituiscono ancora un grave problema. Si ritiene che nelle carceri etiopiche vi siano ancora oltre diecimila prigionieri politici. Vari oppositori del governo sono spariti. La libertà di stampa non sussiste pienamente, e pochi anni or sono una ventina di giornalisti finirono in carcere per aver criticato l’operato del governo. Negli ultimi anni sono avvenuti eccidi repressivi ad Addis Abeba (ne parliamo nell’Appendice). La pace con l’Eritrea non doveva durare. Nel 1997 il governo eritreo, perseguendo la via dell’indipendenza sancita nel 1993, introdusse una propria moneta (il nakfa) posta di pari valore al birr, rifiutando di pagare in dollari le transazioni commerciali con l’Etiopia; il governo eritreo introdusse anche alcuni dazi all’uso etiopico dei porti di Massawa e di Assab; risorsero infine questioni di confine, peraltro più legate ad orgogli nazionalistici che non all’effettiva importanza di poche terre pietrose. Nel 1998 forze armate etiopiche occuparono alcuni territori eritrei rivendicandoli ed espellendone gli abitanti, e le guardie di confine etiopiche uccisero quattro eritrei inviati a mediare nelle zone contestate. La guerra ricominciò. Le truppe eritree invasero l’Etiopia, ma l’anno seguente l’esercito etiopico respinse l’offensiva e invase a sua volta l’Eritrea. Il governo etiopico attuò una “pulizia etnica” cacciando i cittadini di origine eritrea, attirandosi una condanna internazionale che valse a fermare l’offensiva in territorio eritreo. Vi furono oltre centomila vittime da entrambe le parti. La guerra fra poveri è cessata nel 2000 e ora con l’intermediazione dell’Onu si sta cercando di ridefinire i nuovi confini che rimangono incerti: certamente però la questione vera non è su quei pochi lembi di terra, bensì sullo sbocco al mare e sul porto di Massawa al quale il governo etiopico non sembra voler rinunciare. È difficile entrare nel merito di questo conflitto. In Etiopia si giudica erronea la pretesa indipendentista eritrea, si ricorda che l’Eritrea non c’è per-
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ché è soltanto il nome fittizio della vecchia colonia italiana, si ricorda che il popolo eritreo ha partecipato alla resistenza etiopica contro la colonizzazione italiana, si obietta che da sempre la terra eritrea è parte dell’impero etiope, si dice che etiopi ed eritrei costituiscono uno stesso popolo (come dimostrano lo stesso abbigliamento, la stessa alimentazione, le famiglie miste), e si vede nel movimento che ha portato all’indipendenza eritrea una recrudescenza di vecchi particolarismi feudali legati a ras locali e a fenomeni di banditismo ostacolanti la formazione di uno Stato unitario in senso moderno. Gli italiani residenti in Etiopia, forse per gratitudine stante l’opportunità loro offerta di guadagni impensabili in Italia, sembrano aver smarrito il senso critico e appaiono unilateralmente filoetiopi. Essi dicono che l’indipendenza eritrea ha lo stesso senso dell’indipendenza della Liguria in Italia; dicono che in Eritrea sono brutti cattivi e arroganti, mentre qui sono tutti miti e gentili; che in Eritrea non c’è niente mentre qui c’è la storia, Axum, Lalibela, Gonder; altri che si dicono cattolici evangelicamente aggiungono che l’Etiopia dovrebbe annettersi anche la Somalia. Dicono anche che in Eritrea sono diventati tutti straccioni dopo essersi separati dalla cara madre Etiopia. Più nazionalisti degli stessi etiopi, essi non vogliono nemmeno sentir dire che l’Etiopia ha praticamente perso la guerra perché per loro non è vero. Ma come non è vero? Come in Eritrea non c’è niente? Quantomeno, c’è lo sbocco al Mar Rosso e Massawa. L’Etiopia voleva l’Eritrea per lo sbocco al mare e per il grande porto di Massawa: e l’ha perso. Voleva impedire il conio della moneta eritrea, o quantomeno non ne voleva il cambio parificato: la moneta eritrea c’è, e parificata. Come si fa a dire che l’Etiopia non ha perso la guerra? Certo, è vero che l’attuale situazione eritrea è molto difficile. In Eritrea i partiti di opposizione sono illegali, le voci discordi sono soffocate, la libertà di stampa è inesistente; vige un oppressivo regime militare sorretto da una martellante propaganda nazionalistica, il governo arresta e deporta, vi sono i campi di prigionia e i dissidenti tentano la fuga rischiando di saltare sulle mine al confine etiopico. Il governo eritreo svolge attualmente una politica rigorosamente autarchica: non accetta aiuti umanitari per le sue popolazioni allo stremo, e mi è stata raccontata la vicenda di privati italiani che si sono visti sequestrare dal governo fondi destinati ad opere benefiche (un’adozione a distanza). Oggi l’Eritrea, a quanto mi dicono docenti italiani che vi hanno vissuto recentemente, è una nazione impoverita e in grave crisi: manca o è razionato il carburante, il pane, il latte, i generi anche di prima necessità. Ma, senza dimenticare che anche l’Etiopia rimane tuttora uno dei paesi più poveri al mondo in cui le decantate libertà civili non sono in tutto garantite, v’è da dire che gli eritrei non sono diventati “straccio-
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ni” perché staccati dalla provvida e benevola madre Etiopia bensì perché hanno un cattivo governo, perché il commercio con l’Etiopia è attualmente precluso, perché sono usciti stremati da un conflitto durato pluridecennale in cui hanno combattuto da soli contro una potenza ben protetta e finanziata. In particolare la grave crisi economica in cui versa attualmente l’Eritrea, dove a detta di chi v’è stato si viveva bene fino a non molti anni fa, si spiega solo con un fatto: mentre l’Etiopia è stata ed è tuttora finanziata con enormi flussi di denaro e molti trattati commerciali dagli Stati Uniti (che versano l’80% dei loro finanziamenti africani in Etiopia) e da molti paesi europei, compresa l’Italia che vi ha profuso cifre ingenti, viceversa l’Eritrea è praticamente abbandonata a se stessa. Ci si potrebbe domandare perché la trentennale, eroica e coraggiosa lotta del piccolo popolo eritreo contro una potenza molto più forte, che massicciamente e per anni ne bombardava la terra, non abbia riscosso alcuna simpatia non solo fra gli italiani in Etiopia ma nemmeno nell’opinione pubblica italiana “progressiva” che appariva addirittura del tutto ignara, e la risposta purtroppo è presto data: il popolo eritreo non combatteva come il popolo vietnamita contro l’odiato imperialismo americano, né come il popolo palestinese contro gli ebrei, bensì combatteva contro un paese appoggiato, protetto, finanziato e armato fino ai denti dall’Unione Sovietica. Per questo l’opinione pubblica europea non ne ha mai saputo nulla. Per questo nel 1999 il governo D’Alema accordò al governo etiopico, in piena aggressione all’Eritrea, un aiuto di 240 milioni di dollari. Poi gli Stati Uniti diffidavano di almeno due dei movimenti di liberazione eritrea, uno dei quali era di impostazione marxista-leninista e l’altro filo-arabo. Per tutto questo, l’Eritrea rimase abbandonata. Volendo riflettere sulla questione, dobbiamo dire che (come si è visto) non è vero che etiopi ed eritrei (almeno parlando degli eritrei della costa) costituiscano in tutto uno stesso popolo ed una stessa cultura: a parte la componente etnica e linguistica tigrina, va considerata la fondamentale componente etnica e linguistica araba di religione islamica. Queste componenti furono sempre vanamente contrastate dall’impero negusita: di fatto, esso non fu mai in grado di riconquistare il mare perso ai tempi lontani delle conquiste yemenite, persiane, arabe, turche, egiziane, coloniali. In Eritrea sono passati molti invasori e in realtà le mire etiopiche sul Mar Rosso non erano più legittime delle mire arabe, turche, egiziane. In realtà non si può dire che il popolo etiopico e eritreo siano uno stesso popolo: nemmeno nella sola Etiopia vi è un solo popolo, stante le grandi differenze etniche fra le varie popolazioni (tigrine, oromo, somale etc.) che spesso non vedono riconosciuta la loro specificità e reclamano l’autonomia. Fra queste, nella parte settentrionale dell’Etiopia, nel Tigray, v’è l’etnia
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tigrina che rivendica l’uso della propria lingua e pur nelle differenze gravita attorno all’etnia tigrina eritrea: donde una questione di confini non da poco, che ricorda in Italia la minoranza sudtirolese che si sente austriaca. Naturalmente non si intende dire che ad ogni specificità etnica debba corrispondere necessariamente una nazione: ma è evidente che etnie, lingue, religioni diverse possono convivere all’interno di un medesimo Stato solo se in esso si evita una politica accentratrice e omologante in favore di una componente dominante, qualunque essa sia, e proprio questo il governo etiopico (passato ma anche presente) non sa o non vuole fare. Di fatto l’Etiopia ha fallito la possibilità federativa in senso moderno, per lungo tempo imponendo l’uso dell’amarico e rifiutando il tigrino in Eritrea, che lo stesso fascismo aveva rispettato: questo ha determinato la riscossa eritrea che, in effetti forse inizialmente opera di particolarismi feudali e centrifughi, è poi maturata divenendo coscienza nazionale. Ma c’è un’altra ancor più importante e decisiva questione. L’Eritrea a un certo punto della propria storia divenne di fatto Stato. Questo Stato esisteva, c’era: all’epoca del colonialismo italiano l’Abissinia non era che un nome generico che compendiava in sé quali realtà del tutto specifiche l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia. Lo stesso governo italiano tripartì rigorosamente la sua azione nei tre centri focali di Addis Abeba, Asmara e Mogadiscio. Fu una decisione unilaterale delle Nazioni Unite a unire l’Eritrea all’Etiopia nel 1950, seguendo il diktat americano e tornando allo status quo ante di sessant’anni prima, proprio come una decisione unilaterale delle Nazioni unite cancellò l’indipendenza palestinese in favore del nuovo Stato di Israele. In realtà gli Stati Uniti e i paesi occidentali favorivano l’alleata Etiopia e non desideravano l’incognita di un’Eritrea indipendente: sia perché l’accesso al Mar Rosso e il controllo del Canale di Suez collegante il Mediterraneo all’Oceano Indiano era troppo importante per lasciarlo ad un nuovo Stato che avrebbe potuto gravare nell’area arabo-islamica o magari sovietica, sia per la presenza colà di un’importante base militare americana che con gli anni divenne un’avanzatissima struttura di spionaggio satellitare. Per tutto questo era preferibile che l’importante zona strategica dell’Eritrea fosse in mano etiopica. Le Nazioni Unite hanno preteso di creare e di cancellare con un tratto di penna gli Stati e le nazioni, secondo la disinvolta prassi con cui a Yalta Churchill e Stalin fra un sigaro e una vodka facevano e disfacevano il mondo, e il risultato qual è? Che ne nascono non le solite guerre che in pochi anni stabiliscono chi vince e chi perde, bensì sanguinosissimi conflitti che si trascinano per decenni e decenni senza tregua e senza fine. Il problema, detto in breve, sembra questo: il governo coloniale italiano alla fine dell’Ottocento ha preso una parte dell’Abissinia, dapprima col con-
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senso interessato di Menelik in cambio dell’appoggio italiano alle sue mire; ne è nata così l’Eritrea, che in seguito anche il successivo governo coloniale fascista ha sempre considerato quale realtà distinta e privilegiata all’interno dell’Abissinia. Non l’Etiopia poverissima e misera, oppressa dal peso del suo stesso passato e carica di reliquie rupestri, di funerei obelischi spezzati, di castelli abbandonati, e nemmeno la Somalia un po’ francese un po’ inglese un po’ italiana, ma l’Eritrea, l’Eritrea con le sue splendide barriere coralline ricche della più incredibile fauna marina, con gli atolli dell’arcipelago Dahlak, l’Eritrea con la sua decorosa e pulita Asmara era la gemma e la punta di diamante del vastissimo impero coloniale italiano14. L’Etiopia fu colonia italiana per cinque anni, ma l’Eritrea lo fu per sessant’anni. E ancor prima del fascismo, fin dagli anni venti in Eritrea fu disposto da parte italiana un sistema di dighe e canali e tutte le città furono dotate di acquedotti. Ora, una volta che l’Eritrea fu costituita come una realtà specifica, e sia pur sotto un dominio coloniale, diventava difficile per essa tornare alla fine di questo dominio al vecchio sistema feudale e arretrato incardinato su Addis Abeba; dal momento che, pur fra espropri di terre e repressioni, indubbiamente il governo coloniale italiano aveva comunque messo al primo posto fra i suoi domini abissini l’Eritrea dotandola di strutture moderne come strade, ferrovie, industrie, strutture portuali, dal momento che l’Eritrea aveva ormai acquisito la conformazione di un piccolo Stato (nemmeno quattro milioni di abitanti) consapevole di possedere non grandi terre coltivabili (vista l’inospitalità della torrida e arida Dancalia) ma di possedere la grande ricchezza del mare aperto alle rotte del petrolio nonché le ricchezze frutto dell’opera italiana e le non indifferenti ricchezze minerarie, dal momento che l’Eritrea dopo la fine del governo italiano riuscì (con l’appoggio degli organismi internazionali) a darsi un certo grado di libertà democratiche e civili, con partiti, sindacati, un parlamento, libertà di stampa e di sciopero, una avanzata costituzione, di conseguenza essa nelle sue avanguardie politiche e studentesche sentì come una palla al piede il ritorno al vecchio, lontano, immenso e povero governo etiopico sia nella forma imperiale negusita sia nella forma della dura dittatura comunista di Menghistu sia in quale si voglia altra forma. Sì, è vero: il governo italiano strappò l’Eritrea dall’impero negusita, ma lo fece col consenso di Menelik: «il mare datoci da Dio come frontiera», di cui parlava Menelik nel suo proclama patriottico ai popoli abissini prima della battaglia di Adua, era in realtà stato ceduto all’Italia col pieno consenso di Menelik in cambio di forniture di armi e della richiesta di appoggio, prima per diventare imperatore e poi per difendere 14
I. Rosoni, La colonia eritrea, Macerata 2006, Eum.
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il suo impero, e la cosa ha mutato per sempre la situazione geopolitica nel Corno d’Africa. L’occupazione italiana, durata sessant’anni, indubbiamente allontanò gli eritrei dal resto dell’Etiopia: sia perché quell’occupazione risvegliò il sentimento nazionalistico e indipendentistico eritreo (che a quel punto voleva l’indipendenza non solo dall’Italia), sia perché l’amministrazione italiana pur con tutte le storture di un dominio coloniale diede comunque all’Eritrea uno sviluppo che l’Etiopia ancora feudale non conobbe. L’Eritrea fu per sessant’anni in contatto con l’occidente, proprio quel contatto che all’Etiopia era mancato per millenni: quindi per l’Eritrea, come disse una volta De Gasperi, ritornare a far parte dell’Etiopia sarebbe stato tornare indietro alla fine dell’Ottocento. Così quando Selassie, a partire dagli anni cinquanta, agì sempre più decisamente per riprendersi l’Eritrea, al popolo eritreo la cosa apparve come un nuovo, insopportabile colonialismo peggiore di quello italiano. Ormai il solco, rispetto all’Etiopia, era diventato un baratro incolmabile. La storia aveva di fatto separato i due popoli. Ancor oggi è sufficiente fare un viaggio nel Tigray, e dunque nell’Etiopia settentrionale confinante con l’Eritrea e all’Eritrea unita da una lunga storia e dalla comune lingua tigrina, per toccare con mano la differenza rispetto al resto dell’Etiopia: nelle campagne del Tigray, per non dire nelle città, si vede l’architettura in pietra retaggio della sapienza costruttiva sabea ed axumita, e i tukul di paglia e le case di fango sono praticamente assenti; le città sono decorose, con molti edifici dell’epoca coloniale italiana, le vie e le strade per lo più asfaltate, i mendicanti sono meno onnipresenti e la gente non assilla i ferengj guardandoli come animali allo zoo. L’etnologo Leiris, già nel 1932, mettendo piede in Eritrea dopo aver accompagnato Griaule nella famosa missione Dakar-Djibouti, scriveva alla moglie: «n’importe quel coin perdu d’Erytrée où l’on arrive après l’Abyssinie fait figure de Paradis». Del resto la grande civiltà axumita nasce qui, in Eritrea e nel Tigray. Alcuni dicono: l’Eritrea è uno Stato artificiale, è una realtà inventata dall’Italia, è una ex colonia che pretende di essere Stato. Ma, a prescindere dal fatto che il primo confine fra Etiopia e Eritrea ebbe a suo tempo il consenso dello stesso Menelik, occorre dire che se l’Eritrea è uno Stato artificiale allora fu artificiale anche la sua annessione federale all’Etiopia nel 1950 da parte delle Nazioni Unite. La realtà è che, piaccia o non piaccia, senza volerlo l’Italia coloniale ha creato uno Stato e la realtà è da 70 anni ormai cambiata. Stante le sue vicissitudini storiche l’Eritrea ha acquisito, da secoli ma soprattutto nell’ultimo secolo, una sua specificità, una sua identità storica e culturale che la rende inassimilabile all’Etiopia. Questo era già chiaro al ministro delle Colonie P. Lanza di Scalea che, in un discorso alla Camera del novembre 1924, disse: «l’Eritrea si va di giorno in
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giorno individualizzando; si distacca dalla razza dei popoli che l’attorniano; si sente fiera di essere figlia d’Italia». A parte il nazionalismo dell’affermazione, rimane vera l’affermazione sull’Eritrea ormai staccata dai popoli circostanti. Il governo etiopico avrebbe anche potuto in passato tentare di ricomporre la vertenza riallacciando buone relazioni con l’Eritrea: invece ha preferito rivendicarla come proprio diritto esclusivo e inalienabile. È probabilmente vero che il governo eritreo, riconosciuto come tale dal 1993, avrebbe potuto a sua volta più saggiamente tentare una riconciliazione e riconoscere all’Etiopia una sorta di “diritto consuetudinario” o se si vuole di “privilegio” (nel senso proprio del temine) per l’uso tanto ambito del porto di Massawa, senza imporre da un giorno all’altro dazi che sarebbero risultati provocatori, ma a quel punto le relazioni fra i due Stati erano deteriorate da decenni di guerra e del resto è anche vero che da parte sua il governo etiopico avrebbe potuto a suo tempo riconoscere la lingua tigrina. Io ho parlato della guerra fra Etiopia e Eritrea a Milano, con i proprietari di un ristorante etnico etiopico-eritreo (il Selam). Lui è etiopico, lei eritrea, e in questo sì si vede una comunanza di popolo. Quando accenno alla guerra, lei si rabbuia. Alcuni figli sono nati in Etiopia, altri in Eritrea. In linea teorica, i fratelli avrebbero potuto spararsi addosso nella guerra. Ma la moglie mi ha detto mestamente che la guerra, di cui non capiscono il senso, «la comandano gli altri, loro, i politici» e certamente non c’è nella loro famiglia: poi, mentre la voce le si incrinava, ha aggiunto che da molto tempo non aveva più nessuna notizia del figlio chiamato a combattere in Eritrea e, chiedendo scusa, è tornata nelle cucine. In realtà, quanto emerge dalle ultime decennali vicende etiopiche rivela il problema costituito da una volontà ideologica etiopica tuttora imperiale, che sembra addirittura volersi porre come guida della riscossa dell’intero popolo africano. Non va dimenticato che proprio ad Addis Abeba l’imperatore Selassie volle la sede della sezione africana delle Nazioni Unite, così idealmente proponendo l’Etiopia, erede di un impero che si vuole far risalire alla regina di Saba e al re Salomone, quale leadership nel processo dell’unità africana. Quando il sindaco di Addis Abeba concesse nel 2005 a Rita Marley la cittadinanza onoraria in occasione del grande concerto in memoria di Bob Marley, egli disse in un discorso ufficiale che «The theme of this concert is Africa Unite and Addis is the diplomatic center of Africa and the seat of African Union».15 15
Lo riporta il The sub-saharan informer, il cui significativo sottotitolo è The paper that integrates Africa, 4.2.2005.
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L’Etiopia può espletare la sua politica perché gode dell’appoggio americano ed europeo. Questo appoggio è dovuto al fatto che nello scacchiere internazionale l’Etiopia è una importante pedina, seguita con attenzione in funzione di una politica antiaraba in anni in cui il fondamentalismo islamico è percepito come un pericolo grave, anche negli stessi paesi islamici: così in Algeria, dove pur avevano vinto le elezioni, i fondamentalisti islamici sono stati allontanati dal potere; in Egitto, dopo gli attentati di Sharm e ancor prima nel 1997 al Museo Egizio e alla città di Luxor, con turisti fatti saltare in aria o trucidati a sventagliate di mitra, i “Fratelli islamici” che costituiscono l’ala integralista e fondamentalista dell’islamismo sono combattuti dal presidente Mubarak che pur è musulmano. L’Egitto è attualmente un paese blindato con la polizia ovunque all’erta e in assetto di guerra fra un centro abitato e l’altro, onde evitare il ripetersi degli attentati che oltretutto, colpendo il turismo, affondano l’economia del paese. Così il recente intervento armato etiopico in Somalia (2007), a fianco degli alleati americani autori di un irresponsabile bombardamento su Mogadiscio, è stato giustificato con l’esigenza di difendere il legittimo governo somalo dall’offensiva interna di matrice fondamentalista che ha l’appoggio eritreo e vuole il potere, e questo evidentemente onde impedire la trasformazione della Somalia dopo il Sudan in uno Stato islamico fondamentalista a dispetto delle sue varie componenti etniche e religiose. Tuttavia con evidenza l’appoggio americano ed europeo in funzione antiislamica ha poi l’effetto di rinsaldare e fornire mezzi ad una volontà politica etiopica non dimentica della propria origine imperiale. In realtà il nazionalismo etiopico è il vero motore della politica etiopica. Al riguardo è emblematico lo sciovinismo con cui al Museo Nazionale di Addis Abeba si mostra una “copia conforme” della famosa Lucy (scoperta nel 1974) come l’ominide progenitore, l’ominide antenato dell’uomo che così sarebbe nato nell’Etiopia “culla dell’umanità”: mentre invece Lucy, che risale a tre milioni di anni fa, è ancora un primate e comunque sono stati ritrovati in Africa (in Kenya e in Tanzania) resti di ominidi molto più antichi, forse addirittura risalenti a sei milioni di anni fa. Ancora, soltanto l’attuale nazionalismo etiopico, tinto di storiografismo ideologico, può rovesciare approfondite e classiche indagini storiche per negare l’evidente influsso semitico, arabo, yemenita sulla civiltà axumita (visibile a livello linguistico, archeologico, antropologico) pretendendo di farne un esclusivo prodotto autoctono africano sorto magicamente dalle popolazioni tribali. L’Etiopia attuale si crede ancora discendente ed erede di Salomone e della regina di Saba, se non del primo uomo, e custode del vero cristianesimo, e si riallaccia alla passata politica negusita, alla politica accentratrice ed espansio-
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nistica erede di Menelik. La stessa tenacia con cui il governo etiopico ha perseguito politicamente la restituzione dell’obelisco di Axum, restituzione che comportava mille difficoltà e oggettivi rischi per lo stesso reperto, è emblematica di una volontà di ricompattamento politico intorno ad un simbolo comune e antico. In tal modo il ruolo egemonico rivendicato dall’Etiopia nella politica africana assume valenze dubbie, e lo dimostrano proprio l’ostinato e pluridecennale diniego dell’indipendenza eritrea nonché le insistenti rivendicazioni territoriali nei confronti degli Stati sovrani del Sudan e della Somalia. L’attuale governo etiopico rivorrebbe l’Eritrea e il suo sbocco sul Mar Rosso perché un millennio fa l’Eritrea faceva parte dell’impero negusita, e guarda alla Somalia e al Sudan avanzando rivendicazioni: ma sarebbe come se in Italia si volesse il ritorno all’impero coloniale e si reclamasse la Dalmazia o la Libia, perché così era settanta anni fa o addirittura ai tempi dell’impero romano. Alcune componenti delle élites intellettuali e politiche etiopiche sembrano non vedere che da un secolo a questa parte, o anche solo da sessant’anni a questa parte, molte cose sono cambiate in modo irreversibile, e rimangono ancorate al vecchio sogno imperiale. In realtà l’unità etiopica è un mito: non c’è mai stata un’unità etiopica, se non imposta con la forza. L’Etiopia vorrebbe l’Eritrea come vorrebbe consistenti fette di Somalia, ma dovrà rassegnarsi all’impossibile. L’ideologia imperiale etiopica si fonda su un antico mito, il mito della regina di Saba e della legittimità della dinastia salomonica. In realtà noi sappiamo che il regno della mitica regina di Saba era sudarabico e non era quello axumita, che semmai ne derivò circa settecento o ottocento anni dopo. La pretesa sostenuta da tutti i Negus Neghesti di rappresentare la discendenza della dinastia salomonide è errata: essa è naturalmente dovuta al desiderio di legittimare il proprio potere sacralizzandolo e ancorandolo ad un mitico passato ma, a parte il carattere leggendario ed anzi costruito a posteriori e ad arte della storia della regina di Saba e del re Salomone, v’è da dire che tutta la discendenza imperiale a partire da quella origine mitica non costituisce un filo, una linea diretta. Non c’è un filo diretto costituito dalla “linea salomonica” che collega la civiltà di Axum con la dinastia Zagwe e il re Lalibela, né un filo diretto che collega quest’ultima con l’età gonderiana, né tale continuità dinastica sussiste fra il regno gonderiano e l’imperatore Tewodros. Semplicemente, la civiltà di Axum si è esaurita verso il X secolo; in tutt’altra e lontanissima aerea, a Roha, si poi è formato un regno, il regno Zagwe degli Agaw, e i suoi capi onde legittimare il loro potere si sono posti come i continuatori dell’impero axumita che invece era a quel punto morto e sepolto. Quindi è venuta una nuova dina-
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stia che si è pretesa “salomonica”, poi il regno di Gonder che però a sua volta e nonostante le rivendicazioni è tutt’altra storia. Poi è venuto Tewodros, personaggio tragico e romantico che però nulla aveva a che fare con la civiltà axumita né era il continuatore del regno gonderiano per quanto lo desiderasse e lo affermasse, essendo egli in realtà un avventuriero che conquistò il potere e, alle origini, soltanto un figlio di ras decaduto e di una venditrice ambulante: non a caso egli, violando la libertà di satira ad essi riconosciuta, mise a morte immediatamente l’azmari giullare di corte che, con i suoi doppi sensi e giochi di parole in rima (i kiné) evidentemente non abbastanza celati, si permise di ricordargli nelle sue battute la sua nascita, e non a caso, ben lungi dall’essere il continuatore del regno gonderiano, egli mise a ferro e fuoco Gonder proprio per eliminare un potere rivale che aveva le sue stesse pretese e rivendicazioni. Cose simili potrebbero dirsi per Yohannes, Menelik e Selassie: tutti pretesi continuatori della dinastia salomonide e tutti in realtà ras vincitori nella spietata lotta per il potere e solo per questo imperatori. Dire questo smonta certamente una leggenda, che è storicamente falsa fin dalle sue origini anche se di grande significato storico, ma in ultima analisi consente di vedere la storia di queste terre africane in tutta la sua complessità e tragica ricchezza: anziché avere una sola linea diretta, un solo filo indiscutibile che lega come in una catena unidirezionale la regina di Saba e Salomone, la civiltà di Axum, la dinastia Zagwe e Lalibela, il regno di Gonder e tutto il resto, anziché una storia univocamente direzionata e teleologicamente determinata, che sarebbe poi solo la storia di Axum con le sue propaggini, ne avremmo una storia multipla, e certamente più autoctona e più africana, con focolai sparsi e multipli che soltanto la ricerca di certificazione divina da parte del potere ha voluto a tutti i costi riannodare in un filo unico. In questo modo non abbiamo più solo un’unica storia che da Axum giunge a Selassie, bensì abbiamo la civiltà di Axum, altrove e più tardi la dinastia Zagwe, altrove e più tardi la civiltà gonderiana, abbiamo la cultura amharica ma anche la cultura oromo, islamica etc. Bisogna insomma smettere di pensare che l’Africa sia solo il regno del Primitivo fatto di tribù selvagge cosicché tutta la civiltà, non solo alle origini ma anche dopo, sia solo la conseguenza dell’originaria invasione semitica (che pur c’è stata, checché ne dicano molti africanisti contemporanei). In realtà negli altipiani e nei bassipiani etiopici si sono formate non soltanto isolate e sperdute tribù selvagge, ma anche regni, monarchie, sultanati, sistemi di potere in buona misura autoctoni e non semplicemente importati: la dinastia Zagwe è africana, il suo cristianesimo (originariamente importato, ma poi supportato dall’intensa opera dei santi e dei monaci etiopi) è africano,
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ed essa non è l’erede di Salomone; il regno di Gonder è africano, nato dalla feroce lotta per eliminazione progressiva fra i ras africani. In realtà non c’è mai stato, se non forse con Tewodros e “successori” − e comunque molto rabberciato e tenuto insieme a forza − l’“impero etiopico”: c’è stato il regno di Axum, la dinastia Zagwe, il regno gonderiano etc., sebbene tutti i sovrani si siano ricollegati alla mitica linea sabeo-salomonica. Oggi in Etiopia da tempo è stato soppresso l’impero che sentiva il bisogno assoluto di legittimare il proprio potere con il richiamo alla nobile origine sabeo-salomonica, e tuttavia gli etiopi continuano a mantenere una fede assoluta in quel mito: essi sono veramente convinti, come se non vi fossero mai state lotte per il potere e usurpazioni, che una linea diretta va dal mitico Menelik I al Menelik di Adua e a Selassie. Non solo l’imperatore Selassie era di ciò convinto, e si capisce, ma ancora oggi lo sono tutti in Etiopia. Non si parla minimamente di metodo storico, di critica filologica, di documentazione. Ad Axum le guide e i preti ti propinano come “palazzo della regina di Saba” un grande palazzo del VI-VII secolo d.C., dunque posteriore di almeno 1500 anni, e ti fanno vedere il “bagno della regina di Saba”, ti spacciano una rozza stele frantumata per la tomba della regina di Saba, e tutti ti guardano male se osi manifestare qualche dubbio sul fatto che la mitica regina abbia mai dimorato o fatto il bagno o sia sepolta lì. Essi sono impermeabili al dubbio, presi dal loro mito, ma non si rendono conto che così rimangono in una posizione di subalternità culturale proprio nel mentre credono di rivendicare con orgoglio un’origine nobiliare, perché di tutta la loro storia finiscono per vedere soltanto il mito fondatore, dietro cui c’è certamente un residuo storico ineliminabile ma che rimane un mito fondatore che comunque non esaurisce, non può esaurire, tutta la complessità e la ricchezza di questa storia, autoctona e africana, che non può risolversi tutta in quel mito anche se ossessivamente vi si richiama. La storia ricorda un po’ quella del tale che va in giro vestito di stracci, continuando a dire che però la sua origine è nobile, e deve dire questo, perché soltanto così la sua miseria, la sua fame, la sua povertà e sofferenza gli appaiono tollerabili. Certo, sappiamo che le leggende, le tradizioni possono avere una grande importanza nella vita dei popoli, ed essere esse stesse fatto storico del tutto a prescindere dal “fatto” della loro oggettiva verità, così come sappiamo che comunque dietro una leggenda o una tradizione per quanto fantasiosa c’è probabilmente sempre comunque un elemento di verità storica (così dietro alla leggenda etiopica della regina di Saba c’è indubbiamente il fondo storico dell’influsso ebraico e semitico). Tuttavia è spiacevole sentirsi dire in tutta serietà e senza la minima ombra di dubbio da una guida che ha studiato, che parla inglese o anche altre lingue, o da un monaco che
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qualche lettura dovrebbe averla fatta, che sicuramente “quello” era il bagno della regina di Saba come se nemmeno esistessero tonnellate di materiale storico e archeologico che quantomeno dovrebbero rendere prudenti le affermazioni troppo sicure. Questa totale mancanza di attitudine critica in chi comunque qualche studio l’ha fatto lascia sconcertati, e veramente verrebbe da rispondere: piantala di contarmi fole perché un po’ di storia l’ho studiata, e dunque a chi vuoi darla a bere, se non forse a te stesso, e come puoi essere così certo che quello sia il bagno della regina di Saba? Il punto, naturalmente, non è disprezzare le tradizioni e le leggende, ma vedere con preoccupazione come esse diventino un feticcio ingombrante che può perfino ritardare la crescita di un paese. Si capisce ora perché l’attuale governo etiopico non perdona Menghistu e ne celebra ogni anno la caduta: non gli contesta gli espropri statali, le collettivizzazioni forzate, l’ossequio moscovita, il terrore rosso, la dittatura ideologica. Quello che l’attuale governo etiopico non perdona a Menghistu è di aver deposto l’imperatore anziché tenerlo come un vecchio fantoccio incartapecorito, e di aver con ciò affossato il millenario impero etiopico le cui radici affondavano nella leggenda e nel mito. Non a caso mentre le deficienze della passata dittatura comunista sono ricordate, invece sui limiti e le incongruenze dell’opera politica di Selassie è steso un velo e a tutt’oggi l’immagine dell’ex imperatore, di cui la setta dei rastafariani continua ad attendere il ritorno, appare come benevola e protettiva in molte bancarelle e rivendite di Addis Abeba, quale emblematica riprova di un ricordo e di una rivalutazione in chiave nazionalistica del passato imperiale del paese: non a caso uno dei primi atti del nuovo governo dopo la caduta di Menghistu fu quello − encomiabile ma pregno di implicazioni ideologiche − di riesumare le spoglie mortali di Selassie, abbandonate in una anonima fossa comune nel giardino di una vecchia caserma, per ridare loro solenni esequie in un maestoso mausoleo nella cattedrale della Santissima Trinità di Addis Abeba. Gli attuali gravi problemi di confine, non solo con l’Eritrea ma con tutti i paesi vicini tranne il Kenya, sembrano comprovare una volontà di espansione dell’Etiopia e il suo sogno di ricostruzione di un lontano passato. La responsabilità in questi conflitti non è solo e unicamente degli altri. Già dopo la seconda guerra mondiale l’imperatore Selassie aveva cercato invano di imporre alle Nazioni Unite la costituzione di un impero che raggruppasse nel suo nome l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia. È vero che l’Etiopia è stata invasa negli ultimi anni dall’esercito somalo ed eritreo, ma è anche vero che questo è nondimeno il frutto di una politica etiopica cieca rispetto al problema delle etnie e delle nazionalità. In questo senso il recente intervento etiopico in Somalia a fianco dell’alleato americano, per quanto
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motivato dall’esigenza di salvare il paese e il suo governo dalle mire fondamentalistiche, diventa un affare preoccupante a livello internazionale se nell’intromissione etiopica traspare una volontà di sconfinamento e soggiogamento. Certo, anche in Somalia si persegue il sogno imperialista della Grande Somalia: ma la Somalia, soprattutto dopo la guerra civile che ha portato alla caduta di Siad Barre e alla successiva occupazione americana, non ha la forza per attuare i suoi velleitari propositi; la “grande Somalia” è solo un miraggio in un paese dilaniato dai contrasti fra nord e sud, fra cristiani e musulmani, fra etnie diverse. Nemmeno il Sudan, il cui risveglio nazionale data dalla rivolta di Mohamed Ahmed e dei suoi dervisci alla fine dell’ottocento, sembra avere la forza per rivendicare alcunché. Il caso dell’Etiopia invece è diverso, poiché essa gode del potente appoggio americano e in ampia misura europeo e dispone del più forte esercito di tutta l’Africa.
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NOTA SUL RITORNO DELL’OBELISCO*1
La vicenda dell’obelisco-stele di Axum è ben nota. Risalente al III secolo d.C., alto 24 metri, costruito in pietra basaltica simile al granito, giaceva al suolo come molti altri, smembrato in cinque parti dopo essere crollato in antica epoca imprecisata. Trasportato in Italia nel 1937 durante l’occupazione fascista per disposizione di Mussolini, fu restaurato e i suoi pezzi riuniti attraverso blocchi di ferro e di cemento interni. Quindi fu collocato in Piazza di Porta Capena a Roma, gesto simbolico col quale l’impero mussoliniano intendeva ripetere le gesta degli imperatori romani che portavano gli obelischi al caput mundi. Dopo decenni di negoziati, che datano dal trattato di pace italo-etiopico del 1947 che ne prevedeva la restituzione (art. 37), l’obelisco-stele è stato infine nuovamente smontato e rimosso nel 2003 per essere restituito all’Etiopia. L’arrivo dell’obelisco per la sua rierezione e ricollocazione nel sito originario è avvenuto un pezzo dopo l’altro, l’ultimo il 25 aprile 2005. Nell’imminenza dell’occasione il 14 marzo 2005 si è tenuto all’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba un convegno sul tema alla presenza di vari ambasciatori, fra cui quello italiano (G. La Tella), con relazioni di vari esperti (Unesco, Banca Mondiale, Ministero dei Beni Culturali italiano) e di studiosi di archeologia axumita (R. Fattovich e Y. Beyene). Per l’occasione l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto italiano “Galilei” di Addis Abeba avevano anche messo in palio un premio fra gli studenti della scuola per il miglior scritto sull’evento. L’evento, perché di evento si tratta per l’Etiopia, è stato molto discusso in Italia. Anzitutto si è detto: se tutti dovessero restituire tutto, non si finirebbe più. A Berlino c’è l’altare di Pergamo, al British di Londra vi sono interi edifici mesopotamici, e il Louvre rigurgita di capolavori italiani trafugati. Il governo inglese da parte sua ha già dichiarato che, dopo aver a suo tempo restituito il famoso Kebra Nagast, non intende restituire tutti gli altri preziosi tesori e manoscritti trafugati e portati a Londra dal palazzo reale di *
Rielaboro qui un mio articolo pubblicato (con interpolazioni redazionali vergognose) in “Il Domenicale” il 26.3.2005.
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Maqdala nel 1867 (dopo la famosa battaglia che vide suicida l’imperatore Tewodros). Né il governo francese ha mai pensato di restituire le centinaia di dipinti e di codici preziosi portati via dalla missione Griaule fra il 1931 e il 1933 e stipati al Musée de l’Homme. Cosa fatta capo ha. È però vero che per quanto riguarda l’Italia c’era un trattato con le sue clausole da onorare. Invero si è detto che nel 1969 l’imperatore Haile Selassie, di fronte alle enormi spese di trasporto, avesse deciso di lasciare il monumento dov’era, come dono all’Italia in nome di una rinata amicizia, ma l’attuale governo etiopico (anche in cerca di credibilità popolare) da anni tornava alla carica per quella che è una questione di orgoglio nazionale: «questo problema dell’obelisco lo sento un po’ dappertutto nei miei incontri», scriveva nel 1974 un politico italiano in visita ufficiale ad Addis Abeba. Così il governo italiano, per evitare incidenti diplomatici e per salvare i rapporti italo-etiopici e far cessare il coro di proteste provenienti da tutto il mondo africano, ha deciso la restituzione dell’obelisco. Naturalmente nessuno nega le buone intenzioni dell’operazione, così come nessuno nega che un reperto archeologico sia in genere meglio collocato nel sito originario. Tuttavia un problema si pone. L’obelisco di Axum era stato trafugato come una sorta di bottino di guerra, ma il governo fascista l’aveva comunque restaurato e rimontato. Viceversa ora il governo italiano lo restituisce, ma nuovamente smontato in tre pezzi donde la necessità di una nuova operazione di rimontaggio ad Axum. Ebbene: questo, a parte i motivi politici, era proprio necessario? Fino a quando ancora il reperto (già colpito nel settembre ’43 da armi automatiche e da un fulmine in anni recenti) potrà sopportare queste continue manomissioni? Era proprio indispensabile spaccarlo nuovamente come se fosse un giocattolo, un puzzle componibile e scomponibile? Da alcune parti si pensa di no. Forse l’obelisco sarebbe potuto essere rinviato integro per nave: ma l’Etiopia non può più usufruire del porto di Massawa, ormai passato all’Eritrea, mentre le vie terrestri, nonostante la politica del governo etiopico incentivante lo sviluppo della rete stradale, rimangono ancora (come sa chiunque viaggi per il paese) altamente precarie e difficoltose. Così l’obelisco è stato portato a pezzi in tre riprese su un gigantesco Antonov, uno degli aerei più grandi del mondo, che ha dovuto atterrare al limite delle possibilità sulla pista troppo corta del piccolo aereoporto di Axum. La delicata operazione è riuscita, ma si pongono nuovi problemi. Anzitutto vi è il rischio costituito dal terreno friabile, che già nei secoli passati ha causato la caduta di quasi tutti gli obelischi di maggiori dimensioni e che che rende difficoltosa la riedificazione dell’obelisco ad Axum, cosicché secondo vari esperti sarebbe stato meglio lasciare tutto com’era. Infine varie riserve sono state mosse in
Nota sul ritorno dell’obelisco
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Italia sulle spese veramente enormi di tutta l’operazione (ufficialmente si dice 60 milioni di euro, ma si suppone quasi cento), a carico quasi esclusivo dello Stato italiano sebbene ciò non fosse contemplato nel trattato del ’47. Si è detto dunque: se proprio si dovevano spendere vagonate di soldi in nome dell’amicizia italo-etiopica, non sarebbe stato meglio spenderle per rialzare le stele cadute di Axum con un opportuno lavoro di rinsaldamento del friabile terreno sottostante? Di tutto questo però i murmurantes non hanno espressamente parlato al convegno all’Istituto Italiano di Cultura (ove fra l’altro si è parlato solo in inglese benché si fosse quasi solo fra italiani), prioritaria apparendo evidentemente la preoccupazione di non urtare la suscettibilità del governo etiopico. Quando l’ultimo pezzo dell’obelisco è atterrato con l’Antonov ad Axum, il 25 aprile 2005, nell’antico sito vi è stata per il ritorno dell’obelisco una grande festa con discorsi ufficiali, danze tradizionali e canti. La televisione etiopica ne ha fatto la notizia del giorno, per quanto da tempo ne parlasse quotidianamente, con un servizio ininterrotto. Alla festa era presente il presidente della repubblica, il primo ministro, tutto l’alto clero schierato con i suoi più preziosi paramenti. Ma non è stata semplicemente una celebrazione fra personalità. È stata invece una grande festa di popolo. L’obelisco di Axum, è indubbio, è da tempo ormai diventato un simbolo nazionale. Certamente in Italia non sarebbe neppure concepibile una simile festa di popolo nel caso dalla Francia ritornasse la Gioconda. Vedendo dunque tutta questa festa, comprendendo quanto importante fosse per gli etiopi il ritorno del loro obelisco, non si può non sciogliere ogni residuo dubbio e pensare che la restituzione sia stata un tardivo e doveroso atto dovuto.*2
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Con grande festa di popolo, e con partecipazione a nome del governo di rappresentanze italiane, l’obelisco è stato rieretto ad Axum nel settembre 2008.
APPENDICI
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ECCIDIO AD ADDIS ABEBA*
Giugno 2005 Non preoccupatevi per noi, perché noi non dovremmo correre molti rischi: non ce l’hanno con noi bianchi e poi si sa che toccare un ferengj causa complicazioni politiche internazionali. È vero però che al telefono, anche per prudenza viste le possibili intercettazioni, abbiamo minimizzato: si sparava per le strade anche vicino a casa nostra, e la scuola dove insegna Marilena è vicinissima all’università e dunque in un punto focale degli scontri cosicché gli studenti sono stati colti dal panico. Il rischio comunque era nell’aria, visto che l’Ambasciata italiana aveva da poco indetto una riunione fra i docenti italiani ad Addis Abeba per metterli in allerta, e visto che quasi tutte le scuole straniere avevano già chiuso l’anno scolastico con anticipo anche notevole. Le tensioni già covavano ma tutto è partito dal 15 maggio 2005, quando in Etiopia vi sono state le elezioni. Il partito di governo, quello che ha cacciato il dittatore Menghistu ed ha instaurato la “democrazia”, è stato praticamente obbligato a indirle, perché c’era la scadenza ed aveva gli occhi degli osservatori internazionali puntati: indicendo le elezioni il primo ministro Melles Zenawi − di fatto arbitro del paese − ha cercato di convincere tutti, soprattutto in occidente, che lui è democratico. Molto probabilmente era sicuro di vincerle come in passato e invece a quanto pare le ha perse, non solo ad Addis Abeba dove la grande maggioranza ha votato per l’opposizione ma anche nel resto del paese, e questo nonostante i numerosi brogli *
I gravi disordini avvenuti ad Addis Abeba fra il 6 e il 10 giugno 2005, e poi ancora nel novembre successivo, dopo molte reticenze hanno suscitato eco nella stampa internazionale e messo a nudo la reale natura del governo etiopico. Ho pensato che il carattere drammatico di quei giorni fosse meglio espresso non da una posteriore ricostruzione bensì riportando in successione la parte centrale di alcune mie e-mail scritte di fretta un po’ in stile “reportage” e inviate a caldo a familiari e amici. Ho però inserito a posteriori un passaggio di una e-mail di Marilena e alcune brevissime notizie successivamente acquisite.
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elettorali e nonostante il fatto che i due partiti principali di opposizione siano disuniti e si siano presentati divisi alle elezioni. Senonché, pur in quella che sembra veramente una sconfitta, il partito di governo non se ne è voluto andare: prospettandosi i disordini ha vietato ogni assembramento e manifestazione e, tranne pochissimi, ha rinviato in patria i giornalisti stranieri. Il governo ha anche detto che i risultati elettorali di maggio sarebbero stati vagliati e comunicati ufficialmente l’8 giugno, prendendo tempo. Poi però, pochi giorni prima di questa scadenza, ha rinviato ulteriormente la comunicazione dei risultati, evidentemente per prendere ancora tempo nell’illusione di far decantare le passioni, affermando di avere ancora bisogno di un mese e così fissando la comunicazione dei dati all’8 luglio. A questo punto la popolazione tutta si è sentita ingannata, anche perché correva voce che il ritardo nella comunicazione dei risultati fosse dovuto a un ultimo tentativo di broglio: circolava la voce che, in questo lungo lasso di tempo prima della comunicazione ufficiale, il partito di governo o chi per esso stesse sostituendo le vecchie urne che lo davano sconfitto con altre urne contenenti migliaia e migliaia di schede fasulle che lo danno vincente. Così il malcontento è esploso. I disordini sono cominciati fra il 5 e il 6 giugno di notte, quando centinaia di studenti (chi dice 700, chi 900) sono stati sorpresi nel sonno, arrestati nel campus universitario e deportati in una località segreta fuori città. La mattina dopo molti studenti sono scesi in strada a manifestare. Le loro famiglie − qui le famiglie sono fatte di molti componenti − richiedevano pressantemente notizie. Nel frattempo la città veniva paralizzata da scioperi che coinvolgevano tutta la popolazione, dai taxisti ai mezzi pubblici, dai negozianti ai professionisti. Tutti hanno scioperato, chi per convinzione chi per timore: i pochi taxisti non in sciopero sono stati presi a sassate. Gli scioperi svolsero un ruolo importante già in passato, sia nella caduta dell’imperatore Selassie nel 1974 sia nella caduta del dittatore Menghistu nel 1991. Non è giusto dare la colpa di quanto successo all’opposizione, come ha dichiarato Melles, perché i disordini e gli scioperi sono stati spontanei, con una specie di tam-tam. Sono state le centinaia di arresti notturni di studenti che hanno scatenato il dramma. L’opposizione nell’insieme è stata responsabile ed ha invitato alla calma e al lavoro la popolazione, ma gli studenti e quanti con essi non hanno certo aspettato il via libera e il permesso dei partiti per scendere in strada e manifestare. Le manifestazioni si sono presto moltiplicate. A quanto pare c’è stata anche una rapina in banca e fra i commercianti è cresciuto il timore che delinquenti comuni potessero approfittare della situazione per assaltare negozi e supermercati. La polizia è intervenuta, qualcuno ha tirato le pietre,
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la polizia ha sparato e sono cominciati gli scontri. Marilena era a scuola, ed io ero preoccupato: la scuola italiana è vicina all’università e dunque in un punto focale degli scontri. Riporto da una sua mail: «Sono andata a scuola normalmente, ma le classi erano dimezzate perché non c’erano né autobus né minibus né taxi. Alla quarta ora (le 10.30 circa) ero in aula-video con la mia prima. Arriva un padre che chiede di portare a casa il ragazzo. Ha già parlato col preside ed ha l’autorizzazione: il ragazzo esce. “C’è qualche problema?”, gli chiedo io e gli chiedono i compagni. Lui ha il volto sconvolto e dice qualcosa in amarico. Gli etiopi si spaventano, io e gli studenti italiani ripetiamo: “C’è qualche problema?”. Lui risponde solo: “sì, ci sono problemi vicino a casa mia”. “Dove abiti?”. “Vicino al macello”. Continuiamo a guardare l’“Odissea”. Passano cinque minuti. Arriva il fratello maggiore di un altro studente. Ha parlato col preside ed ha l’autorizzazione: il ragazzo esce. Gli chiedo: “Si può sapere che cosa succede?” “Sparano, prof, sparano!” “Dove?” “Qui vicino!”. E fugge via. Interrompiamo la visione del film. Vado in sala professori. Alcuni colleghi hanno sentito gli spari. Un docente è arrivato bagnato fradicio, perché nel frattempo ha cominciato a piovere: ha raccontato che mentre veniva a scuola si è trovato fra gli spari e ha cercato scampo in chiesa. La pioggia però è stata provvidenziale, perché ha disperso la gente ed i poliziotti». Il bilancio di due giornate di scontri è stato pesante. Si è sparato nella zona Merkato, si è sparato nei pressi dell’Ambasciata inglese, si è sparato nella centralissima Bole a due passi da casa nostra. Le cifre ufficiali parlano di 27 morti, ma sono sicuramente almeno il doppio1. Alcuni sono stati freddati con esecuzioni sommarie, con un colpo in fronte. Sono intervenuti anche i carri armati. Il giornalista del Manifesto Emilio Manfredi, fra i pochi giornalisti occidentali rimasti qui avendo finto di non aver ricevuto la convocazione con l’ordine di rientro, è andato con un docente della scuola italiana2 (coraggiosamente, si deve dire) all’obitorio dell’ospedale Black Lion dove il docente ha fotografato i corpi. Il Manifesto ha pubblicato, e il giornalista, prima solo fermato per un paio d’ore con il docente, avendo trovato la polizia ad attenderlo fuori di casa ha invertito la direzione andando all’Ambasciata italiana dove ha chiesto rifugio. I telefoni non funzionavano, evidentemente deliberatamente onde impedire i contatti, e molte linee si percepivano disturbate e chiaramente controllate3. Ben 500 1 2 3
A successive fonti ufficiose le vittime di quei giorni risulteranno almeno cinque volte tanto. Si trattava di Mauro Del Re. Nei successivi due anni il governo rese indisponibile l’uso degli sms, utilizzati via cellulare dai rivoltosi nei giorni della rivolta (il loro uso fu ripristinato solo a
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licenze e targhe di taxisti scioperanti sono state ritirate, così rinfocolando gli odi anche perché c’è chi ha scioperato solo per evitare i sassi. Insomma non è come da noi, che chi sciopera perde solo la giornata di paga: qui facendo sciopero puoi subire rappresaglie gravi. Proprio ieri parlavo con un imprenditore nostro amico: mi ha detto che gli è bastato andare a ritirare la posta con due giorni di ritardo per vedersi domandare con tono fra il sospettoso e il minaccioso se anch’egli avesse scioperato. Ora è tornata la calma anche se non si sa per quanto, ma l’inutile eccidio c’è stato proprio come c’era già stato alla fine del 2004 prima del nostro arrivo, perché in questo paese ogni volta che uno studente scende per strada a protestare o a gridare quattro slogan vi è un eccidio. Quando dico che la polizia spara, non intendo dire che il poliziotto perde il controllo e nella colluttazione parte il colpo (come da noi è avvenuto con Carlo Giuliani che attaccava con l’estintore la camionetta): qui i tutori dell’ordine prendono freddamente la mira da lontano e sparano anche ai passanti come ai piccioni. Qui la vita umana non vale molto, e la polizia spara per un nonnulla. In particolare l’odio che i poliziotti hanno per gli studenti, che essi vedono come dei privilegiati sovversivi, è viscerale. Qui in certi frangenti anche uno studente apolitico o perfino filogovernativo rischia, per il solo fatto di essere riconoscibile dallo zaino. Nessuno ha spiegato a questi poliziotti né tantomeno a chi li governa che per disperdere una folla disarmata bastano ed avanzano i manganelli, le cariche, i lacrimogeni, gli idranti di cui sono ampiamente dotati e non occorrono i carri armati e i mitra. Da noi per molto meno succede il putiferio con interrogazioni alla Camera. Qui invece la gente alza le spalle, sorride e dice che così va l’Africa. Dopo la tempesta Addis Abeba è ora apparentemente tranquilla, solo con meno traffico del solito, come se non vi fossero stati oltre cento morti in pochi giorni. Un’altra città sarebbe sconvolta e in lutto, ma qui è normale. Alcuni giorni dopo i disordini, venerdì pomeriggio, Melles in nome del governo ha firmato un accordo con i membri dell’opposizione, alla presenza degli ambasciatori e del rappresentante Onu, ma non si sa fino a quando durerà e le cose possono peggiorare. L’ex presidente americano Carter in veste di osservatore internazionale ha detto che i brogli elettorali non sono stati tali da inficiare i risultati, ma l’opposizione dice che non è così. I rappresentanti dell’etnia oromo (maggioritaria nel paese) hanno fatto sapere che se Melles non se ne va si batterà per la secessione, il che vorrebbe dire partire dall’11 settembre 2007, in occasione della celebrazione del millennio del calendario etiopico).
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la guerra civile. Il punto è che probabilmente il governo non ha nemmeno l’appoggio pieno delle forze armate: mi sembra infatti molto strano che il giornalista e il docente che hanno scattato le foto all’obitorio non si siano visti fare a pezzi la macchina fotografica, e siano stati semplicemente blandamente fermati per nemmeno due ore. Infatti corre voce che in una caserma sulla Debre Zeit Road militari filogovernativi e antigovernativi si siano sparati fra loro. Per quanto riguarda il massacro (poiché le vittime sono molte di più di quelle ufficialmente dichiarate) Melles ha detto in televisione che gli spiace ma ha difeso il diritto della polizia a sparare dicendo che i manifestanti cercavano di rovesciare il governo legittimo e violavano il divieto, non revocato da oltre due mesi, di assembramento e manifestazione (fra l’altro se questo persistente divieto non viene tolto non è molto chiaro dove stia la “democrazia”). Ora la cosa importante, in questa situazione in cui quasi tutti i giornalisti sono stati rimpatriati, è che si sappia: il governo infatti teme molto la perdita di credibilità internazionale perché è sostenuto economicamente dall’estero, anche dall’Italia con cui ha rapporti piuttosto stretti. Probabilmente le foto del Manifesto hanno avuto la loro parte nelle firme di venerdì. Gli studenti stanno inondando l’Europa e gli Stati Uniti di e-mail perché si sappia: infatti in occidente di tutto questo si sa poco, anche perché per via delle alleanze si preferisce che non si sappia. È brutto che in Italia, a quanto so, sebbene le notizie siano giunte né Rai 1 né Rai 2 abbiano ancora parlato di ciò (sì invece Televideo, Rainews24, Repubblica, Manifesto): paginoni sulla solita italiana rapita che affetta dalla sindrome di Stoccolma dice quanto sono stati gentili i rapitori, ma ben poco sulle decine e decine e forse centinaia di morti di Addis. Il giornalista del Manifesto ha invece inviato un servizio per l’Espresso, ma a quanto pare non gli viene pubblicato4. Si attende ora la definitiva dichiarazione dei risultati elettorali, se mai vi sarà all’8 luglio, ma credo sia abbastanza scontato che il partito di governo, alla fine di tutto, risulterà vincente. Che poi lo sia veramente, è altra questione.5 4
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Dacia Maraini pubblicò il 26 giugno sui fatti di Addis Abeba un articolo sul Corriere della Sera, dal titolo Il mio diario di Addis Abeba. Quei giorni di dolore e morte. Ma non si capisce bene di che diario si tratti visto che lei, dopo essere venuta ad Addis il 6 e il 7 giugno per tenere due conferenze piuttosto scialbe e insipide, appena finita la seconda conferenza e spaventatissima per i disordini è stata accompagnata da un docente della scuola italiana in albergo, per poi partire la mattina dopo (il giorno culminante dei disordini) in aereo per il Kenya. La facile previsione che dava ufficialmente vincente il partito di governo è stata naturalmente confermata alcuni mesi dopo. Per salvare le apparenze il governo
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Novembre 2005 Siamo appena tornati da un viaggio nella parte orientale e islamica del paese6, quasi al confine con la Somalia. Il cellulare non captava campo elettromagnetico, i rari telefoni degli alberghi non raggiungevano l’Italia, e noi eravamo preoccupati per questo isolamento dal mondo mentre ci trovavamo sui monti Bale a 4000 metri d’altezza. Qui la situazione è grave. L’Ambasciata ci aveva allertati, in previsione di disordini dopo la fine del ramadan il 3 novembre, consigliando a tutti i docenti di non viaggiare per il paese, non uscire la sera, evitare gli assembramenti e i locali pubblici. Ma, nonostante il diffuso timore antiislamico, noi pensavamo che il pericolo in Etiopia non provenisse da quella parte: si è esagerato con la storia dell’attentatore “etiopico” di Londra che qui tutti, a giudicare dalla fisionomia, ritengono piuttosto somalo (anche se magari con cittadinanza etiopica)7. In Somalia e in Sudan il problema islamico è molto grave, ma in Etiopia è diverso: qui vi sono state per più di mille anni lotte feroci fra cristiani e musulmani, ma attualmente fra le due metà del paese v’è una accettabile convivenza anche se non forse una vera e propria integrazione. Il problema era naturalmente costituito dagli strascichi delle elezioni di maggio: Melles aveva fatto arrestare i leaders dell’opposizione, col pretesto di essere venuti meno ai propri compiti disertando in massa il parlamento, ed ora si avvicinava la data del processo.8 I disordini sono scoppiati la notte successiva alla nostra partenza. Due giorni dopo attraverso il cellulare un nostro amico docente alla scuola italiana ci chiama per dirci, stante la situazione, di non tornare ad Addis Abeba (in cui comunque non saremmo tornati perché volevamo proseguire il viaggio). Chiamiamo subito per cellulare il nostro amico Aimorò: è l’imprenditore che è un po’ diventato un indispensabile factotum e che ci aveva inviato il carro attrezzi a 300 Km dopo l’incidente del cavallo. Ci dice che è bloccato in Ambasciata, dove è arrivato il nuovo ambasciatore. Parla di 20 morti, dice di non poter parlare per telefono, e aggiunge che lui è molto depresso e non ne può più di questo paese che non trova pace. Vediamo
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aveva disposto il rifacimento delle elezioni in vari seggi per via dei brogli e all’atto della comunicazione ufficiale della propria vittoria ha riconosciuto un balzo avanti dell’opposizione. Abbiamo parlato di questo viaggio nel capitolo “Etiopia orientale, un viaggio e qualche nota su Rimbaud” (tratto dalle stesse e-mail). Si allude al fallito attentato della metropolitana di Londra del 2005. Gli imputati sono poi stati liberati in occasione del millennio etiopico (11 settembre 2007).
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per strada una colonna di dieci autocarri blindati con le forze di sicurezza che si dirigono verso Addis Abeba. Poi, inoltrandoci per le piste fra le foreste e i monti, il cellulare diventa muto. La sera in un modesto alberghetto (quello che si trova insomma) vediamo la televisione: mostra un pullman vuoto incendiato dai dimostranti. Non mostra le raffiche di mitra dell’esercito contro la folla che aveva fatto un blocco stradale. La guida che nel frattempo abbiamo preso con noi cerca notizie sintonizzandosi la sera su radio straniere. Da mezze frasi si apprende che non solo Addis ma tutte le maggiori città etiopiche sono in subbuglio, con molti morti. Sembra chiaro che la rivolta ormai dilaghi nel paese, ben oltre Addis Abeba. Faccio ancora in tempo a telefonare a mia madre per dirle di non temere per noi, che non siamo nell’occhio del ciclone, e di avvisare la madre di Marilena, e poi più nulla. Impossibile telefonare anche dagli alberghi, ma noi lo sapevamo: già durante i disordini di giugno erano state fatte saltare le comunicazioni telefoniche per impedire i contatti fra i ribelli. Oggi, dopo 9 giorni e 4 di mancati contatti, torniamo: non facciamo in tempo ad aprire il cellulare che ha finalmente campo, e ci raggiunge la voce concitata del segretario della scuola. Dice che il governo sta “uccidendo tutti quelli dell’opposizione”. Subito dopo ci chiama Aimorò, che dice di averci telefonato invano più volte. È amareggiato ma rassegnato: diamine, ha vissuto in diretta gli anni di Menghistu quando la gente andava la mattina nella piazza dell’università a vedere se fra i cadaveri del giorno prima vi fosse qualcuno dei propri cari, dunque è ben fortificato. E noi torniamo dopo il viaggio nella solita, incredibile Addis Abeba dove in pochi giorni vi sono stati oltre decine e decine di vittime e centinaia di arrestati di cui non si sa nulla, e dove però tutto è apparentemente tranquillo anche se nei negozi cominciano a scarseggiare alcune cose. Il bilancio ufficiale parla di 50 morti ad Addis ma la cifra va almeno raddoppiata e v’è chi parla di 500 morti in tutto, poiché anche in vari centri dell’Etiopia vi sono stati disordini con vittime. Tutto questo in pochi giorni. La ricostruzione degli eventi (per quanto abbiamo potuto capire una volta tornati) non è chiara: c’è stato un blocco stradale ad Addis, e poi sassaiole dei manifestanti e incendi ai minibus statali (vuoti), nonché le raffiche della polizia e dell’esercito. Non si capisce se sassaiole e incendi siano venuti prima o dopo le raffiche, ma in ogni modo la reazione delle forze armate sembra folle. Ora la città è apparentemente calma, e solo lo scarso traffico di mezzi privati e pubblici rivela qualcosa di anomalo. Si sa però che i rastrellamenti proseguono incessanti durante la notte. Mi viene da pensare che forse sia cominciato il conto alla rovescia per questo governo e che ormai sia solo questione di tempo, anche se qui i tempi possono
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essere molto lunghi: questo governo non è più amato dalla popolazione, sebbene a dire il vero abbia anche fatto cose positive, ed è chiaro che se certe ambasciate sanno dire con un mese di anticipo e con una certa precisione in che giorno e dove succederanno gli incidenti, questo vuol dire che i disordini non sono scoppi “tellurici”, endemici e spontanei, ma atti preparati e sufficientemente noti. Probabilmente anche l’opposizione sbaglia: per protesta è uscita dal parlamento, ma la scelta dell’Aventino priva il governo di ogni residuo controllo. Bisogna ora vedere fino a quando potrà andare avanti questa periodica catena fatta di centinaia di omicidi. Per noi è già predisposto il piano di evacuazione, e speriamo non serva. Spero veramente che i governi europei seguano l’esempio inglese9 e la smettano di mandare denaro a questo governo, denaro che non viene usato per migliorare le condizioni della popolazione. Oggi ci è stato riferito che i berretti rossi (le forze speciali) fanno cose del genere: entrano in una casa, chiedono alla donna presente dov’è il marito ricercato e quando quella dice di non saperlo la uccidono immediatamente. Oppure ancora: prendono due bambini piccoli di un ricercato politico, li uccidono all’istante e poi vanno dalla madre e le dicono “vatti a prendere i figli all’angolo della strada”. Post scriptum Poco tempo dopo questi disordini l’anziano presidente della repubblica di Etiopia Girma Woldegiorgis (che, nato nel 1925, ha studiato al Liceo Italiano di Asmara ed è stato dirigente delle linee aeree etiopiche e proprietario di un’azienda agricola sequestrata da Menghistu) è giunto per invito con una vecchia Cadillac al Liceo Italiano di Addis Abeba. Era espressamente vietato rivolgere qualunque domanda sui disordini politici, ma egli, pur visibilmente relegato ad un ruolo puramente rappresentativo e simbolico, prendendo la parola fra molte guardie del corpo che sembravano controllare più lui che terzi, dopo aver salutato gli «amici italiani» (e financo ricordato Mussolini come l’uomo «che ha fatto camminare gli italiani sulle due gambe») ha detto non senza una certa visibile amarezza che in Etiopia «siamo solo nell’infanzia della democrazia e il cammino è ancora lungo»; parlando dei problemi del paese ha detto che «per uscire dalla povertà dobbiamo lavorare forte e a questo scopo l’istruzione è importante, perché l’Etiopia non è un paese per natura povero»; parlando di come deve essere un uomo politico, ha detto con velata polemica che «un politico che non è 9
L’Inghilterra nel 2005 ha cessato l’erogazione di fondi al governo etiopico.
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vicino al suo popolo, e si stacca dal suo popolo, non è un buon politico»; rispondendo infine alla domanda di una studentessa circa le opportunità politiche per le donne, ha detto testualmente: «penso che sarebbe un bene che le donne governassero di più, perché noi uomini spesso amiamo combattere. Invece le donne, come sorelle e come madri, sono più pacifiche».
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YEMEN: APPUNTI DI VIAGGIO*1
Sono arrivato a Sana’a a notte fonda. La città era deserta e il taxi, mentre l’autista arabo fumava silenzioso e calmo, procedeva lentamente. A un certo punto apparvero parte delle antiche mura della città, parzialmente ricostruite perché in gran parte abbattute durante gli anni non lontani della guerra civile, e l’autista, entrando attraverso la grande antica Porta − la sola rimasta − si inoltrò lungo la via centrale dai grandi argini laterali, che attraversa la città vecchia tagliandola in due e si trasforma in fiume durante la stagione delle piogge. Incantato, io guardavo le alte case-torri di quella che Pier Paolo Pasolini, girando nello Yemen nel 1971 Il fiore delle mille e una notte, definiva una «Venezia costruita sulla sabbia», svelandone al mondo l’incanto fiabesco della città vecchia e denunciando il degrado di una società tradizionale alterata dall’impatto con la modernità e dal rinvenimento del petrolio. Il casuale, non cercato e disagevole ingresso notturno in città si era rivelato il migliore possibile per un primo contatto: di notte, Sana’a è incredibilmente bella e sembra veramente un luogo fiabesco. Il centro antico di Sana’a è costituito da circa 14.000 case-torri: vi sono case risalenti a oltre 400 anni fa, ma tutte sono costruite nell’antico stile architettonico yemenita già sussistente in epoca preislamica come attestano antiche iscrizioni. Per conoscerle meglio, io ho preferito dormire in una casa-torre della vecchia Sana’a adibita ad albergo, nella sola stanza dotata di servizi all’ultimo piano, anziché in un più comodo ma anonimo albergo della città nuova. La casa-torre è fatta in media di cinque piani, ma possono essere anche otto o nove (una iscrizione del Museo di Istanbul parla addirittura di una antica casa di 14 piani). Essa è costruita con mattoni di *
In questi anni non abbiamo viaggiato solo in Etiopia ma, come chi legge avrà potuto osservare da certi riferimenti − ad esempio al monachesimo copto egiziano −, abbiamo viaggiato parecchio anche nei paesi vicini (Yemen, Egitto, Gibuti, Siria). Mi è sembrato così opportuno, stante gli antichi legami storici fra il regno yemenita e quello axumita, l’inserimento di alcune riflessioni sorte da un viaggio nello Yemen, riguardanti le case-torri, il velo femminile, la cucina, le “mollizie orientali”, lo Yemen oggi.
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argilla impastata con fango e paglia e poi seccata al sole. All’interno è caratterizzata da un grande pilastro centrale che funge da asse attorno al quale si attorciglia una vecchia scala dagli alti gradoni. La scala salendo conduce di piano in piano e ad ogni piano vi sono tre o quattro stanze; dalle finestre dell’ultimo piano e dalla terrazza si gode dall’alto la vista sulla città vecchia. Gli ambienti interni sono molto freschi, riparati dal calore esterno. Nelle case-torri numerose finestre in stile arabo, comprese due nella camera ove alloggio, sono dotate di vetri colorati e decorati con motivi geometrici che, soprattutto al sorgere del sole all’alba, rifrangono la luce solare scomponendola come un prisma nei diversi colori e proiettandola sul muro opposto, mentre il grido lancinante del muezzin diffuso con l’altoparlante dal minareto della vicina moschea e subito riecheggiato da altre impressionanti “grida nel deserto” spezza il silenzio invitando alla preghiera. Ancora fino al secolo scorso a queste case-torri di Sana’a si affiancavano giardini con fiori e palme, di cui pochi attualmente rimangono. Fuori Sana’a, collocata su un altopiano a 2300 metri, le case-torri si trovano ovunque: la città di Shibam, la “Manhattan del deserto”, è interamente costituita di case-torri. Il significato di questa architettura in verticale sembra essere multiplo: in primo luogo naturalmente la casa-torre doveva dare un’immagine di potenza e rispondere come una piccola fortezza a un’esigenza difensiva, tale da costringere l’assalitore a difficili scalate, e infatti le case-torri dei personaggi più potenti fuori della città (come il famoso palazzo dell’Imam a Wadi Dhar risalente al XVIII secolo e ampliato nel 1930) spesso poggiano su alte rocce né mancavano di cunicoli segreti onde permettere nell’emergenza una sotterranea via di fuga verso l’esterno. In secondo luogo la casa-torre rifletteva l’organizzazione gerarchica della tradizionale società yemenita: al pianterreno vi era infatti (oggi assai meno) il ricovero per il bestiame e ai primi piani i depositi, i magazzini; nei piani successivi erano e sono le cucine con i forni, i pozzi e i mulini, quindi gli alloggi della servitù e poi − in quella che, stante anche la poligamia, era sempre una famiglia numerosa che facilmente comprendeva anche genitori e parenti − via via gli alloggi dei bambini, quelli delle donne e quindi all’ultimo piano quelli del padrone di casa che vi riceveva gli ospiti. Infine le alte case-torri dei villaggi cinti di mura, sparse in un ristretto spazio orizzontale al bordo del precipizio sulle colline a picco del territorio yemenita, rispondevano all’esigenza funzionale di controllare dall’alto il territorio in pari tempo utilizzando i pochi spazi pianeggianti abitabili senza immani lavori di traforo e spianamento delle montagne e soprattutto senza sottrarre spazio alle colture, faticosamente ricavate a terrazze digradanti sui fianchi delle colline dagli eredi dei costruttori della diga di Mari’ib. Ciò che dun-
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que favorì la costruzione di questi “grattacieli di argilla” del deserto e delle montagne fu un misto di fattori: le esigenze difensive di controllo dall’alto del territorio, la struttura gerarchica della famiglia e della società, la scarsa utilizzabilità orizzontale del territorio già riservato alla colture, tutto ciò spiega il peculiarissimo sviluppo in verticale dell’architettura tradizionale yemenita. Andando per Sana’a e per i villaggi yemeniti, si vedono gli uomini camminare con i sandali a piedi nudi e indossare la tunica (dishdasha) o una lunga gonna avvolta. Ciascuno di essi porta con fierezza e orgoglio su una cintura attorno alla vita in una fodera ricurva un grande pugnale, la jambiyah. Esso non ha più ormai funzioni di difesa e di offesa, bensì è un elemento simbolico e rituale (con foggia diversa a seconda del censo e della zona di provenienza) di cui nessun uomo a partire dalla giovane età vuole essere privo. Le danze maschili yemenite celebrate in occasione di matrimoni e feste, in cui un osservatore attento non farebbe fatica a scorgere un elemento latentemente omosessuale nonostante il tabù islamico, sono proprio effettuate brandendo in aria al ritmo dei tamburi le lame luccicanti di questi coltelli dai sinistri bagliori: un tempo esse sancivano le alleanze fra tribù, sublimando e stemperando nell’accordo e nel ritmo della danza la valenza bellica e omicida di cui comunque la lama brandita in alto rimaneva monito. Un altro elemento che molto colpisce nello Yemen è il mondo femminile. Come in tanti altri paesi arabi, sebbene non in tutti, nello Yemen solo le bambine si possono vedere in volto perché le donne portano tutte non solo il chador, il tradizionale largo mantello nero che le copre dalla testa ai piedi lasciando scoperto solo il volto, ma anche il burqha il cui velo cela anche il volto tranne gli occhi, e spesso anche quelli attraverso un velo semitrasparente a rete. Il manto femminile che cela il corpo o il velo che cela il volto, non imposti dal Corano, hanno origini molto antiche: nell’antica Mesopotamia e nel mondo bizantino erano prerogative della donna altolocata, in contrapposizione alle prostitute (le sciarmutte) e alle serve. «Una donna discretamente vestita è come una perla nel suo guscio», dice un motto arabo. Noi occidentali abbiamo una certa idea del burqha, condivisa anche dagli intellettuali progressisti del mondo islamico. Il regista iraniano Moshen Makhmalbaf ha girato nel 2001 il film Viaggio a Kandahar, in cui l’attrice di origine afghana Nilufur Pazira fece nel film quel viaggio che non poté fare anni prima per andare in Afghanistan a salvare un’amica di infanzia che, soffocata in un clima opprimente per le donne e non solo per loro,
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intendeva suicidarsi. Ella girò tutto il film in burqha, e in un’intervista così raccontò l’esperienza: «le donne che vivono sotto questa copertura ne diventano dipendenti per un falso senso di sicurezza. Psicologicamente si diventa dipendenti dal burqha per la tua sicurezza, ti abitui all’oscurità, non lo vuoi togliere. Diventa duro per una donna rifiutarlo, se è costretta ad indossarlo dall’inizio. La tua fiducia se ne va completamente. Anche la visione del mondo cambia completamente: non lo vedi nella sua interezza, lo vedi a frammenti, piccole schegge di cose, e capisci di esserne esclusa, non sai cosa significhi far parte di quello che ti succede intorno». Makhmalbaf ha anche fatto un altro film nel 2001 (Alfabeto afghano), girato in Iran e ancora più bello, su una scuola frequentata da bambine figlie di profughi afghani, e ha mostrato tutto l’imbarazzo e la reticenza a mostrarsi di queste bambine che pur ancor non donne non possono mostrare il proprio volto a un non familiare perché, come dicono timide e incerte con frasi smozzicate, mostrare il proprio volto a un non familiare «è peccato»: la donna − dice una di queste bambine − deve rimanere per sempre chiusa in una scatola che solo l’uomo può aprire. A noi tutto questo, certo, può apparire folle: nemmeno il prossimo sposo può vedere il volto della sua donna finché non l’abbia sposata, ed egli spesso si ingegna a mandare in avanscoperta la sorella che poi gli riferisce sulle sue fattezze. Tuttavia, se è vero che il burqha non era soltanto un’imposizione talebana bensì fa parte della cultura − pur arcaica quanto si vuole − di molte donne islamiche, allora devo dire che l’atteggiamento illuminista del regista che con l’occhio intrusivo della telecamera vuol sollevare il velo alla bambina e ancor più l’atteggiamento della maestra progressista che la manda fuori dall’aula poiché ella recalcitra a ciò mi lasciano perplesso, anche se poi è bella la scena finale del velo che cade mostrando un volto di bimba sorridente. Anche la vivida descrizione di Nilufur Pazira della vita quale appare dall’interno di un burqha è comunque l’esperienza di una donna ormai occidentale che ha superato il suo passato e non certo l’esperienza di una donna islamica. Ma il fatto è che Nilufur Pazira e il regista Makhmalbaf parlavano dei profughi e dell’Afghanistan dei Taliban che impedivano alle donne di studiare, di lavorare e di uscire di casa senza un marito o un fratello al fianco, ciò che spiega la carica di denuncia del film. Peraltro in molti paesi arabi con la recrudescenza del fondamentalismo accettare o rifiutare il chador o il burqha è diventato ormai un simbolo di accettazione o di rifiuto della modernità e dell’occidente: un giovane in Egitto mi ha detto che sua madre, che non aveva mai portato il chador, lo indossa ora per un’esplicita volontà di ritorno alla tradizione. Ma ben diversa, devo dire, mi è apparsa la situazione nello Yemen rispetto alle realtà caratterizzate dai segni più o meno profondi del fonda-
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mentalismo: aggiungerò anzi che al riguardo un tipico pregiudizio occidentale è per me caduto viaggiando in questo paese arabo. Certo, è innegabile che il chador e il burqha siano nati anticamente in una società prettamente patriarcale che non si fida delle sue donne e, nascondendole, le vuole sottrarre allo sguardo e alla cupidigia altrui: infatti nella società yemenita (come in altre società islamiche) la separazione dei sessi − in moschea, nelle danze, perfino nelle feste di matrimonio − è assoluta. Però a me queste donne yemenite, o più generalmente islamiche avendone già viste in Etiopia e in Turchia, non sono affatto sembrate sottomesse o schiavizzate. Anzi, mi sono sembrate non poco “emancipate”. Vanno in giro da sole o con le amiche anche di sera, fanno spese anche voluttuarie, rimproverano ad alta voce Mohammed, l’autista che mi guida che non aveva lasciato loro la precedenza, e che in buon francese mi dice desolato che esse sono molto costose per l’uomo perché amano molto i gioielli e in particolare l’oro. Ho anche visto una giovane ragazza fumare in un bar a viso scoperto avendo scostato il velo del burqha. All’aereoporto di Sana’a, di sera, ho visto molte donne sole in burqha in attesa dell’aereo per Addis Abeba. Certo, non ho visto nessuna cameriera sia pur in chador, perché naturalmente nessun padre o fratello o marito islamico consentirebbe mai una cosa del genere, ma ci si domanda quanto queste donne desidererebbero fare la cameriera in un locale (le domestiche sono solo nelle case private). Ma poi, se osservate attentamente quel poco che si può osservare in una donna vestita col burqha, cosa vedete oltre agli “occhi fuggitivi”? Sotto il lugubre burqha, intravedete moderni jeans nonché scarpe da ginnastica o con i tacchi alti e financo a spillo. Inoltre, le unghie delle mani e dei piedi sono quasi sempre smaltate, gli occhi non di rado truccati. Di fronte a un raffinato centro commerciale della capitale, vedendo una donna in burqha ammirare articoli di biancheria intima femminile non ho potuto fare a meno di sorridere fra me e me pensando: chissà, sotto il burqha le guepières? Del resto in questo stesso centro commerciale ho visto in esposizione in eleganti boutiques vari burqha molto costosi (almeno per gli standard yemeniti) e molto raffinati con decorazioni in oro e argento. Peraltro, questo vestito che le rende tutte uguali e irriconoscibili ha per le donne i suoi vantaggi in quanto consente di vedere senza essere viste: in realtà l’astuzia femminile sembra avere trasformato in un’arma quella che originariamente doveva indubbiamente essere un’imposizione maschile. Certo, l’attrice afghana e occidentalizzata del film di Makhmalbaf diceva che quello offerto dal burqha è in realtà un «falso senso di sicurezza», ma sentiamo al riguardo (dopo aver ascoltato anche la parola delle bambine interrogate dal regista) il parere di un uomo occidentale. Scriveva dun-
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que Renzo Manzoni, il nipote di Alessandro che non poteva non chiamarsi Renzo, narrando un suo viaggio nello Yemen: «le donne musulmane, una volta fuori di casa loro, mascherate tutte a uno stesso modo, come sanno riescire perfettamente a farsi riconoscere da chi vogliono, così sanno rendersi sconosciute al loro sposo, ai loro parenti più prossimi. E un uomo, fosse pure un marito tradito, e avesse quasi la sicurezza che una di quelle donne mascherate è sua moglie, non può levarle il velo, perché ciò è delitto grave, e poi perché basta che una donna sia stata veduta in viso da un altro uomo, e in pubblico, perché diventi obbligatorio il divorzio tra lei e il marito»1. Anche Lévi-Strauss del resto trarrà nei suoi viaggi la stessa impressione: «la segregation des femmes − egli scrive − fait en un sens obstacle aux intrigues amoureux, mais les favorise sur un autre plan: par l’attribution aux femmes d’un monde propre, dont elles sont seules à connaître les détours»2. Esiste dunque uno spazio riservato al mondo femminile e del resto l’harem, riduttivamente visto in occidente come una lasciva prigione per concubine, è in realtà semplicemente il gineceo della casa riservato alle donne: nemmeno il padrone di casa ha il diritto di entrarvi ed esse vi regnano sovrane. Così, cosa sia veramente vivere nascosti dentro un burqha sfuma in un gioco prospettico di sguardi, maschili e femminili, in cui la testimonianza più recalcitrante è certo quella di chi vi vive sempre. Ho però il sospetto che, come noi non troviamo nulla di strano se in un tram a Milano ci siede a fianco una suora con il suo nero “burqha”, così nessun arabo − a partire penso dalle donne − trova qualcosa di strano nell’uso del chador e financo del burqha. La passata realtà talebana non è rappresentativa di tutto il mondo arabo. Diremmo quindi che le donne yemenite trovano il modo di sottrarsi alla sottomissione, e che il chador e il burqha costituiscono semplicemente il loro vestito tradizionale che esse portano con molta naturalezza e non sembra affatto per imposizione. Anche un pranzo nello Yemen è indubbiamente un’esperienza che va raccontata. La cucina yemenita, pur nella specificità di alcuni piatti (come il salta, uno stufato ammorbidito e arricchito con varie spezie e vegetali vagamente simile a una immaginaria polenta senza farina), è essenzialmente la cucina araba. Il pranzo è un momento importante della giornata dello yemenita ed è un’esperienza eminentemente collettiva: non ho mai 1 2
R. Manzoni, El Yèmen. Un viaggio a Sana’a, 1877-1878, Torino 1991, EDT, pp. 213-214. C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., p. 465.
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visto uno yemenita mangiare da solo e anche i piccoli gruppi di due o tre persone sono piuttosto rari. Per capire la cosa, dovete evitare i ristoranti più costosi e occidentalizzati. Dunque, voi entrate in una locanda e (salvo che abbiate desideri particolari) non dovete ordinare nulla. Vi togliete le scarpe e entrate nella stanza o in una delle stanze in genere rettangolari adibite al pasto: per terra vi sono tappeti e, tutto intorno al perimetro della stanza, materassini, divani, cuscini appoggiagomito. Vi sedete a gambe incrociate, e dopo un po’ vi arriva su un piatto gigante una sfilza di portate, anche una dozzina o molte di più: zuppe, antipasti arabi ricchi di vegetali (le mezze che diventano un tripudio nella cucina libanese), due o tre piatti di carne fra cui il salta, frutta e dolci al miele. La cosa che più colpisce nel pranzo arabo è proprio questo prevalere della sincronicità sulla diacronicità: non vi è una portata dopo l’altra secondo l’ordine seriale a noi noto (antipasti, primi, secondi, formaggi, dessert), bensì un assemblaggio nel segno dell’abbondanza in un trionfo di profumi che lascia al convitato la scelta di mescolare i sapori secondo il suo gusto personale. Il tutto è accompagnato da grandi focacce piatte e circolari di fumante pane arabo cotto nel forno: molto probabilmente il tipico pane indiano, che molto vi somiglia, è un derivato della penetrazione araba fin là, ma io ritengo probabile che questo pane, per via dell’espansione islamica nell’area mediterranea, costituisca anche la base su cui la fantasia napoletana con le sue aggiunte ha inventato la pizza (basti pensare del resto a quanto la cucina araba nord-africana ha influenzato quella calabrese). Generalmente (a meno che non le si richieda esplicitamente) non si servono posate tranne il cucchiaio per le zuppe: ci si serve dai piatti posti nel mezzo facendone, esclusivamente con la mano destra, dei bocconi direttamente con dei pezzi di pane arrotolato. L’esperienza comunitaria del pranzare è data proprio dal fatto che le portate sono in comune, il che fra l’altro vieta qualsiasi ingordigia e prevaricazione per rispetto degli altri commensali. Questa cucina dell’abbondanza è anche una cucina dello spreco e della dissipazione, perché è praticamente impossibile mangiare tutto. Tuttavia, non ci si deve lasciare ingannare: questa è comunque una cucina memore di antiche povertà non del tutto superate, appunto perché l’Abbondanza, la Cornucopia è il sogno dei poveri, il sogno del paese di Cuccagna. Avanzare qualcosa (come è consuetudine anche in Etiopia) è precisamente sintomo di sazietà e soddisfazione, mentre il piatto vuoto è sinonimo di penuria. La carne è sempre halal, cioè completamente dissanguata e quindi nell’intendimento arabo depurata dalle impurità, secondo una macellazione rituale certamente crudele per l’animale (per quanto non più crudele del modo in cui in occidente si cucina l’aragosta gettandola viva nell’acqua bollente
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affinché non perda il sapore o si ottiene il raffinato foie gras alimentando incessantemente e meccanicamente le oche fino a far loro quasi scoppiare il fegato). Alberto Moravia, che nei suoi resoconti di viaggio si sofferma a più riprese sullo Yemen, racconta di aver visto in una locanda yemenita sgozzare, squartare in più pezzi, cucinare nel forno incandescente e servire un capretto nel giro di pochi minuti3. In ogni modo, anche probabilmente per il divieto di servire alcolici, il pur abbondante pranzo arabo lascia piuttosto leggeri e non risulta mai pesante. Esso può essere concluso con un caffè, di cui lo Yemen al pari dell’Etiopia sull’altra sponda del Mar Rosso è un importante produttore fin dall’antichità (la città di Mokha ne era e ne è un centro di vendita e esportazione). Dopo il pranzo, che scandisce la giornata dello yemenita non meno delle cinque preghiere quotidiane a cui il muezzin invita a ore stabilite attraverso l’altoparlante, gli yemeniti si ritrovano, in una sala dell’ultimo piano di una delle loro case-torri ma anche in qualsiasi altro luogo, a masticare il chat. Come si è detto altrove, è una blanda droga diffusa anche in Etiopia ove un tempo era usata dagli asceti per produrre stati estatici. Le sedute collettive in cui il vegetale è consumato, rigorosamente riservate agli uomini, sono interminabili: in particolare nelle ore post-prandiali e pomeridiane, gli yemeniti rimangono per ore e ore mollemente e pigramente seduti su cuscini fra aromi e tazze di the perdendosi nei propri pensieri fino a quando il muezzin non scandisce l’ora della preghiera serale. Le diremmo, queste, mollizie orientali peraltro già evidenti nella consuetudine degli yemeniti (uomini e donne in giorni diversi) a passare anche più volte la settimana lunghe ore in uno dei numerosi “bagni turchi” (hammam) della città. Ne parlava già Renzo Manzoni: «rimanere sdraiati su molli materassi, in uno stato di assoluta quiete fisica e intellettuale, in una giacitura indolente e piacevole, quasi una specie di letargia, ecco che cos’è il keff o la siesta degli yemeniti»4. Durante il tempo del chat le attività si fermano, le città e i villaggi si spopolano. Ovunque si vedono masticatori di chat, peraltro riconoscibili a prima vista per la guancia gonfia. Anche coloro che devono lavorare, come i mercanti, masticano il loro chat sdraiati e non perdono molto tempo a inseguire i clienti e a contrattare con loro; tassisti e camionisti, immersi nei loro pensieri, ne fanno uso per mantenersi svegli durante le lunghe ore di guida sui loro vecchi e sgangherati mezzi, così aumentando i pericoli di incidenti. Alla lunga l’uso massiccio e diffuso del chat è debili3 4
A. Moravia, Viaggi, cit., p. 1616. R. Manzoni, El Yèmen, cit., p. 206.
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tante e certamente non favorisce l’attività: esso produce alla fine uno stato di stanchezza e spossatezza generale. Tuttavia, come si è già detto, in passato ogni tentativo proibizionistico è risultato vano e controproducente, sia da parte del governo comunista yemenita del sud sia da parte di quello del nord: nello Yemen come in Etiopia esistono ricchi agricoltori e possidenti che coltivano il chat proteggendone i campi con uomini armati, e potenti lobbies preposte alla sua vendita. Lo Yemen oggi è un paese che vive in un precario equilibrio fra tradizione e progresso. Sana’a e l’antica società tradizionale yemenita con i suoi mestieri sono state non poco alterate dall’irrompere della modernità, come già lamentava Pasolini. Tuttavia oggi è in pieno corso la campagna lanciata dall’Unesco per la salvezza e il restauro di Sana’a vecchia, dichiarata patrimonio mondiale, e delle ricchezze storiche yemenite, nonché per la salvaguardia degli antichi mestieri. L’importanza strategica del porto di Aden sul Mar Rosso, il rinvenimento del petrolio, la presenza inglese cessata solo nel 1967, dovevano del resto fatalmente aprire infine una breccia nell’arcaica società di agricoltori e pastori retta dagli Imam. La rivoluzione del 1962, favorita dall’Egitto di Nasser, ha cacciato l’Imam invano protetto dall’Arabia Saudita e dagli inglesi. Ne venne una lunga guerra civile fra il nord e il sud del paese (già separati alla fine del XIX secolo per la spartizione del paese fra i turchi a nord e gli inglesi a sud), con la formazione a sud di un regime marxista e a nord di una repubblica, finché nel 1990 − dopo il crollo del regime sovietico e la conseguente caduta del comunismo yemenita ormai privo di sovvenzioni − fu proclamata la repubblica dello Yemen unificato. Ma in seguito (1994) scoppiò un’altra guerra civile fra nord e sud solo precariamente uniti, mentre le numerose e bellicose tribù dell’interno di origine beduina procedevano a numerosi sequestri di turisti (oltre 200 dal 1990 ad oggi) onde ottenere dallo Stato strade, scuole, lavoro. Attualmente la foto gigante del presidente Saleh, che la guida Mohammed mi dice molto amato dalla popolazione, campeggia rassicurante ovunque come quella di un buon padre, e su tante rocce si vede impresso il cavallo simbolo del suo governo, ma in realtà (nonostante l’ottimismo patriottico di Mohammed per il quale tutto procede al meglio) il paese non ha ancora trovato del tutto la pace. Questo fa sì che occorra prudenza viaggiando per lo Yemen: i militari armati sono ovunque, le entrate e le uscite da Sana’a sono registrate ai posti di blocco ove lo straniero uscente è segnalato, certe zone sono proibite, in altre si può accedere solo con speciali permessi o con la scorta armata. Del resto non bisogna dimenticare che questo è un paese in cui chiunque può liberamente comprare al mercato
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un kalashnikov per 200 dollari. La pena di morte (recentemente introdotta anche per i reati di sequestro) è applicata normalmente: Mohammed mi dice che vi sono circa una trentina di esecuzioni all’anno sulle pubbliche piazze, non so se ancora per decapitazione come in passato. È inoltre appurata la presenza nel territorio di terroristi di al-Qaeda, il cui metodo (con sinistra inclinazione all’apologia di reato) viene definito da una guida «finora forse il più efficace»: su di essi, già responsabili nel 2000 di un attentato ad una nave da guerra americana nel porto di Aden donde la permanente diffidenza americana nei confronti del governo yemenita, grava il sospetto della responsabilità di un grave attentato nel luglio 2006 ai turisti di Mari’ib; inoltre vi sono stati altri successivi e recenti attentati (a turisti e anche all’Ambasciata italiana) da essi esplicitamente rivendicati. Tuttavia, per quanto posso dire, non mi sembra che la popolazione simpatizzi per l’integralismo islamico: certo nello Yemen (come peraltro nell’Arabia Saudita e nella parte islamica dell’Etiopia) non è consentito agli “infedeli” di entrare nelle moschee, però devo dire che mai ho riscontrato atteggiamenti discriminatori verso l’occidentale portatore di un’altra cultura e per lo yemenita presumibilmente appartenente ad un’altra religione, bensì ovunque viva cordialità e ospitalità.
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UNA LETTERA A SORPRESA di Maria Maddalena Cusati
Voglio dedicare questo capitolo all’autore di questo libro, che è poi colui con cui ho condiviso la mia esperienza in Etiopia... e con cui condivido la vita. E proprio per la mia fede in questa condivisione mi sembra giusto offrirgli questo racconto, che fino ad ora non ho condiviso con lui... Solo ora, Marco, apprendi questo episodio, ma sappi che è stato per me difficile non dirti nulla e che l’ho fatto solo per il tuo bene, per farti vivere con serenità questa esperienza. Ma bando ai preamboli: vengo al racconto. Era l’ottobre del 2005. Vivevamo in Etiopia da poco più di sei mesi. Mi sembrava di essere ormai “acclimatata” quando invece ora mi accorgo che non lo ero, né lo sono... L’Etiopia non finirà mai di stupirmi, di interrogarmi, di farmi pensare, e di questo mi rendo conto ogni giorno di più. Comunque: era l’ottobre del 2005. La scuola era iniziata da poco più di un mese, ma ancora c’erano quelle riunioni che si fanno all’inizio dell’anno scolastico, quelle che dovrebbero servire per programmare e che invece a me hanno sempre semplicemente creato tensione... C’era stato un collegio docenti e poi una breve riunione in preparazione di un “progetto” (uso le virgolette perché mi rendo conto che i non addetti alla scuola potrebbero stupirsi di questo termine: ma ormai la scuola si serve di un lessico tecnico che ha preso a prestito da questa o da quella disciplina, un lessico tecnico di cui ha fatto un gergo particolare, non sempre comprensibile - POF! - e mai bello). Io uscii da scuola in compagnia di alcuni colleghi. Ci fermammo a parlare al parcheggio. Quante volte ho ripensato a quella chiacchierata! Quante volte mi sono detta che avrei potuto trattenermi cinque minuti di più o andarmene cinque minuti prima. Invece non lo feci. Me ne andai esattamente in quell’istante in cui me ne andai, non un minuto prima, non un minuto dopo. Salii sulla macchina.
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La macchina. Ero felice di riaverla, finalmente! Non l’avevo avuta per più di un mese a causa di quell’incidente col cavallo... Ora l’avevo. Potevo andare a casa per conto mio, senza cercare taxi o passaggi. Potevo guidare. Non che sia bello guidare in Etiopia: è stressante, è pesante. A me in Italia piace guidare: non mi stanca, mi rilassa. Ma qui! Quante partenze in salita! Io detesto le partenze in salita, anzi detesto le salite. Milano è una città stupenda: tutta in piano. All’esame di guida l’istruttore mi aveva mostrato prima la partenza in salita che avrei potuto fare. E l’ho fatta, l’ho fatta bene. Sono stata promossa. Ma una cosa è l’esame ed un’altra è la quotidianità. Qui ogni giorno per andare a scuola rischio di fare tre partenze in salita. Ho tre stop in salita. Anzi: due stop ed un punto in cui la precedenza è mia ma non sempre me la danno. Supero quel punto suonando e passando con una certa prepotenza. Supero gli altri due votandomi a tutti i miei santi. Senza contare il fatto che a volte ti capita di fermarti in salita anche in punti imprevedibili, inaspettati. Perché ti attraversa la strada un cane, o un asino, o una mucca. O semplicemente perché si ferma la macchina che ti precede. “Perché si è fermata?” − ti chiedi. E poi scopri che si è fermata semplicemente perché l’autista ha incontrato un amico. A volte scende per salutare, a volte si limita ai soliti convenevoli: “Come stai?” − chiede. E poi aggiunge: “E tuo fratello? E tua sorella? E la famiglia? Va tutto bene?”. E finalmente riparte. Tu hai perso tre mesi di vita ed hai bruciato un terzo della frizione. Ma torniamo al racconto. Era un pomeriggio dell’ottobre 2005, io avevo chiacchierato con i colleghi ed ero salita sulla macchina. Avevo percorso poco più di cinquecento metri e procedevo pensando ai fatti miei, quando mi si para davanti un uomo. Forse sta attraversando, forse vuole chiedere l’elemosina, forse… ma non ho in quel momento pensato a nulla di tutto ciò, non in maniera conscia almeno… in quel momento ho solo pensato che per non investirlo dovevo frenare. Freno. E lui con un balzo fulmineo mi sale in macchina e si siede accanto a me. È lacero, ha gli occhi da pazzo. Io sono terrorizzata. Comincio a suonare il clacson con tutte le mie forze, mentre lui mi dice “Go, sister, go!”. Quante cose mi sono passate per la testa in quel momento! Ero terrorizzata. Non sapevo che cosa fare. Avevo afferrato la mia borsa e tenevo d’occhio tutto ciò che c’era sulla macchina. Ma non sapevo come liberarmi di lui. “I don’t know you, I don’t know you!”. Gli dico che non lo conosco, gli ripeto che non lo conosco, ed intanto con la destra lo spingo verso la portiera che lui ha già chiuso. E poi quello strano istinto, quel gesto non premedita-
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to… comincio a suonare il clacson, continuo a suonare il clacson. È un suono lungo, continuo, ininterrotto: tengo la mano sinistra sul clacson mentre continuo a spingerlo fuori con la destra. Ed intanto con voce singhiozzante gli ripeto quel ritornello: “I don’t know you, I don’t know you!”. Accorre un capannello di persone. “What’s the problem?” − mi chiede un tale più colto degli altri. Io sono incapace di formulare un discorso sensato e con voce terrorizzata continuo solo a ripetere che non lo conosco. “I don’t know him, I don’t know him”. Ciò che segue è incredibile. Io penso che possa accadere solo in Etiopia. Non penso che possa accadere anche altrove. Due o tre nerboruti si staccano dal capannello e vanno verso la portiera di destra, mentre il “colto” mi ripete: “Don’t worry”. I nerboruti aprono la portiera e tirano giù a forza il pazzo che continua a ripetere che sono sua sorella, e che mi afferra e mi bacia la mano destra. E loro lo tirano giù e mi dicono di non preoccuparmi, e mi dicono di andare. “You are my sister, you are my sister”, ripete ancora. Però è giù: sono libera. E così parto, parto senza dire nulla. Il cuore mi batte all’impazzata. Mi sento il “magone” che sale. Sto tremando come una foglia. Capisco che non posso guidare e mi fermo al lato della strada. C’è una piazzetta dove mi sono fermata. Sono davanti alla chiesa di S. Giorgio. C’è tanta gente. Mi guardano mentre sono lì ferma, in macchina, a singhiozzare e tremare. Nessuno mi rompe le scatole. In Etiopia è così: quando piangi nessuno ti rompe le scatole. Capiscono che hai bisogno di stare da sola. Come quando all’inizio piangevo stressata dalla vita di Addis: nessuno si avvicinava, tutti si dileguavano. Ed anche adesso nessuno si avvicina. Vedo che mi guardano ed intuisco che capiscono che non è il momento per chiedere il birr o anche solo per chiedere “How are you?”. Io continuo a tremare ed intanto mi pulisco la mano che quell’uomo ha baciato, sporcato, bagnato. Mi viene persino il dubbio che mi possa avere trasmesso l’Aids o qualche malattia, ma poi mi dico che la mia mano non ha nessun taglio e che le malattie non si trasmettono così. Ripenso a quanto è accaduto. Mi accorgo che non ho neppure ringraziato quella brava gente che mi ha dato una mano. Vorrei tornare indietro per ringraziarli, per abbracciarli, per dire che sono partita senza dire nulla perché ero spaventata e sconvolta… Ma come ritrovarli? E con quale coraggio tornare “sul luogo del delitto”? Rinuncio dunque al pensiero di tornare. Intanto però comincio a rinfrancarmi. Penso che posso ripartire.
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E mentre metto in moto afferro il cellulare e compongo il numero di Marco. Ho bisogno di parlare, ho bisogno di parlargli. 0911….. mi fermo. Mi ricordo che lui si preoccupa già abbastanza. Mi chiedo quanto si preoccuperà se gli racconterò questa esperienza. Riattacco. Riattacco e decido di non dirgli niente neppure una volta a casa. Giro un po’ per la città in modo che la tensione passi, che il volto riprenda colore, che la voce cessi di tremare. E così, arrivata a casa, riesco a dire che “tutto è andato come al solito”. Ma quanto mi è costato questo sotterfugio… Quante volte sono stata sul punto di raccontarti quella giornata. Però ho resistito. Qualche tempo dopo ho scritto queste pagine e le ho “messe da parte”, o meglio le ho nascoste in una cartella del computer che sapevo che tu non avresti aperto. Ora, ormai alla fine dell’esperienza, ora che stiamo per allontanarci dall’Etiopia, ti devo questo racconto. Non so se lo inserirai in appendice. Forse non lo troverai interessante. O forse sì. A me ha colpito non solo perché mi sono spaventata, ma (ed a distanza di tempo posso aggiungere “soprattutto”) per quella persone che sono accorse, che mi hanno dato una mano senza chiedere niente. Non le ho neppure ringraziate. Le ringrazio ora, dalle pagine di questo libro che non leggeranno mai. Prima di concludere vorrei aggiungere una cosa, un dettaglio di cui non ti sei accorto in questi anni ma che ora forse noterai pensando a ritroso… È un dettaglio (ed anche un consiglio) con cui chiudo questo capitolo e che rivelo a te ed a chiunque leggerà questo brano...: È da quel giorno che chiudo sempre la macchina prima di partire.