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Italian Pages 196 Year 1966
SAGGI
DI VARIA
Cesare Segre
Nistri-Lischi
UMANITÀ
4
SAGGI DI VARIA UMANITÀ — Collana fondata da Francesco Flora Nuova
serie
diretta da L.
Caretti
4
C. SEGRE
Esperienze ariostesche. Gli studi che Cesare Segre ha dedicato all’Ariosto, minore e maggiore, e che sono qui raccolti sotto la triplice insegna dell’arte, della cultura e della tradizione, lumeggiano proprio dall’interno, ovvero nelle sue più segrete fibre costitutive (fonti letterarie, procedimenti tecnici, modi linguistici) la grande arte ariostesca. Segre ci conduce infatti, con mano esperta e lucido acume, entro il laboratorio del poeta ferrarese, ne ricostruisce la particolare biblioteca e il retroter‘ ra letterario, classico, medievale e umanistico, ne analizza e interpreta il vario materiale espressivo, ne delinea in filigrana il costituirsi laborioso e insieme geniale dello stile. Il saggio di apertura sulla « poesia » ariostesca mette felicemente a frutto tutta la serie delle esperienze particolari e delle esplorazioni capillari condotte da Segre sugli scritti minori dell’Ariosto e sul poema, e ci offre una lettura rigorosa e veramente moderna del Furioso, in cui è illustrata la tradizione culturale e stilistica che è sottesa all’arte ariostesca e nello stesso tempo ne è rilevata la straordinaria originalità inventiva. Mostrato come trovino conciliazione le interne tensioni dell'animo ariostesco, tra spirito contemplativo e senso del movimento o senso della variabilità del reale, Segre indica poi come si attui al più alto grado, nel poema, l’equilibrata fusione delle tradizioni stilistiche sviluppatesi nel campo della narrativa e della lirica del Quattrocento. Sì che, precisata
Nistri-Lischi
TORO"T CEN ì HAL
LIBRARY
SAGGI DI VARIA UMANITÀ
Languages Centre
Collana fondata da Francesco Flora Nuova
serie
diretta
4
da L. Caretti
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https://archive.org/details/esperienzeariost0000cesa
Cesare Segre
Esperienze
ar1ostesche
Nistri - Lischi
PROPRIETÀ
RISERVATA
Tra
63814
METROPOLITAN
TORONTO CENTRAL LIBRARY
Languages Centre {ae
SEP 221971
85| ARI
© Copyright 1966 by Nistri-Lischi Editori - Pisa
IENEDIRGIE
L'arte
La
I.
La
poesia
2.
Storia
dell’Ariosto
interna
Pas:
dell’Orlando
Furioso
29
cultura
3% La
biblioteca
dell’ Ariosto
4. Un
repertorio
linguistico
45
e stilistico
dell’ Ariosto:
la Commedia
. Leon
Battista
. Appunti
sulle
. Negromanzia La
5I
Alberti fonti
e Ludovico
dei Cinque
e ingratitudine
.
Ariosto
Canti
.
85
97 ILI
tradizione
8. Studi
sui Cinque Canti
.
I2I
178
Nota Indice
dei
nomi
Indice
dei luoghi ariosteschi
179
citati
183
ii
L'ARTE
di
I. LA POESIA
DELL’ ARIOSTO
Il dilemma azione-contemplazione affligge chiunque af. fronti l'avventura di esistere; ma s'impone più decisivamente a ogni poeta. Perché la poesia non può non avere come oggetto immediato la vita — la cerchi sulle strade del mondo o nei labirinti dell'anima —; ma nell’istituirla a oggetto essa se ne allontana, e s’addentra in un’altra vita, quella. dell’arte e della fantasia. La critica ha tuttavia avuto i suoi buoni motivi se per l’Ariosto, più che per altri poeti, ha sentito di doversi affidare nelle sue esplorazioni all’ago magnetico di questo dilemma. Il quale infatti ritorna insistente, e doloroso, proprio negli accenni autobiografici dell’ Ariosto (integrabili con i dati di una cronaca esterna documentatis sima): d’un uomo che si sentiva chiamato a contemplare e a creare bellezza, e ch'era invece obbligato a un’attività pratica (diplomatica e governativa). Cosi, ci sono stati proposti i ritratti d’un Ariosto edonista e distaccato, insensibile ai travagli del suo tempo; e d’un Ariosto uomo d’azione, elaboratore e partecipe della politica dei suoi Signori e della sua patria — due ritratti che impongono prospettive contrastanti anche per l’interpretazione della sua opera maggiore. Per fortuna non è il caso, questo, né di pronunciarsi per l’una o per l’altra delle due tesi, né di suggerire, tra le due, un acquiescente « giusto mezzo». Il dilemma è sostanziale alla realtà dell’uomo e del poeta: occorre accettarlo e approfondirlo. E ci viene in aiuto l’Ariosto stesso, a saperlo ascoltare.
Si potrà far leva, invece di affrontare subito il poema, sulle Satire, lo scritto in cui l'elemento personale e autobiografico è posto, coraggiosamente, in primo piano. Le Satire, si noti, appartengono alla maturità del poeta, essendo poste-
IO
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
riori al primo Furioso; né c’importa di controllarne l’esattezza documentaria, quando anzi quel tanto di idealizzazione e di stilizzazione che ne lucida la superficie non fa che perfezionare l’immagine interiore dell’Ariosto. Le Satire hanno di rado, e solo parzialmente, uno scopo pratico (Sat. VI: il Bembo viene pregato di trovare un buon insegnante di greco per Virginio) o didascalico (Sat. V: consigli al cugino Annibale Malaguzzi sulla scelta della moglie e sulla vita matrimoniale); più spesso esse esprimono il risultato della meditazione (che tende a trascolorare in autobiografia) del poeta sulle sue vicende. Cosî, momenti tra i più decisivi della vita dell’ Ariosto ci appaiono nella luce in cui egli li vide o li ripensò: il rifiuto di seguire il Cardinale in Ungheria (Sat. I); le sgradevoli esperienze a contatto con la Curia romana, in occasione di pratiche per benefici ecclesiastici (Sat. II); la scelta di una vita tranquilla e semplice presso il duca Alfonso, rinunciando a maggiori ambizioni (Sat. III); le difficoltà del commissariato in Garfagnana (Sat. IV); il rifiuto del posto d’ambasciatore presso Clemente VII (Sat. VII). Ogni volta le notizie sull'argomento della satira s'inseriscono nella prospettiva della memoria e dell’autoanalisi, e danno l’avvio a un giudizio morale ora bonario, ora vivacemente polemico. Tutt'intorno si svolge un gioco tra soggettivo e oggettivo, perché da un lato l’introspezione s’allarga, alle svolte più vive del ricordo, in rappresentazione drammatica di episodi (l’incontro deludente con Leone X; le grandezze e le miserie del governo della Garfagnana), dall’altro la meditazione moralistica si fa esempio concreto (il cameriere spagnolo che difende dai postulanti il riposo del prelato; i corrotti parenti e protetti del Papa; i mariti incapaci di farsi obbedire; i vizi e le vanità degli umanisti) o si purifica in favola (la gazza e il pastore; i contadini che voglion prendere la luna; il pittore premiato dal diavolo; la zucca e il pero). L’autobiografia, insomma, svolgendosi secondo il ritmo del ricordo, si sporge verso la fa-
I. LA POESIA DELL’ARIOSTO
TI
vola; e la favola non ignora, nel suo breve volo, da che suolo abbia preso il balzo per ritornarvi. Il tono delle Satire è dunque un tono conversativo: modi familiari, anche proverbiali, scherzi amabili, si da ricordare, più che le Satire, le Epistole oraziane. Ma la presenza, abbondante, di espressioni dantesche (che conferiscono al
lessico possibilità realistiche); ma la frequenza di definizioni concettose, di suggestive brachilogie, di tagli violenti delle immagini (che rendono robusto, persino asprigno, il tono di certe terzine), mostrano quanto sia lontana, nella sostanza, la satira dell’Ariosto da quella di Orazio, dettata com'è da un risentimento morale vissuto e sofferto, più che da saggezza edonistica. Non devono insomma ingannare gli atteggiamenti rinunciatari, le lodi all’abitudinarietà serena e alla sedentarietà meditativa: esse hanno una funzione dialettica (mostrare nel risvolto delle rinunce la ferma volontà dell’ Ariosto di tutelare il proprio lavoro di poeta) e una polemica (di fronte alle bassezze dell’arrivismo e dell’ambizione). È chiaro, ora, che se anche potevano apparire all’Ariosto come una violenza le necessità e volontà esterne che gl’'imponevano la scelta dell’azione ai danni della contemplazione, a guardar meglio i due estremi del dilemma venivano a integrarsi come polarità ed anzi complementarità entro i confini del suo mondo poetico: l’invenzione, almeno nelle Satire, era stimolata dalla realtà e di essa concretata. In più, la lettura delle Satire ci scopre un altro nesso essen-
ziale tra la vita e la poesia: la moralità, che cosî spesso traspare, nobilitandole, al di là delle attitudini bonarie e affabili dell’ Ariosto. Traspare, nelle Satire; e s'impone, alta e libera, nelle lettere, che alle Satire sono per molti rispetti vicine.
Non destinate alla stampa, esse sono scritte in occasioni concrete e con linguaggio spoglio ed efficace. Sulle relazioni a proposito di incarichi ricevuti, sulle epistole di cortesia, sulle suppliche, prevalgono di gran lunga, anche numericamente,
le lettere inviate al duca di Ferrara durante il com-
I2
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
missariato di Garfagnana: tra le difficoltà del governo e le direttive contraddittorie del principe, l’Ariosto scrive per dar notizie e suggerimenti, per ricevere ordini. La concisa relazione dei fatti, svolta con segno netto e sicuro, diventa a volte quadro unitario e potente; ma quella che si apre una strada sempre più ampia tra una materia in fondo meschina, e reclama immediatamente la nostra attenzione, è la rivendicazione d’una coscienza. Perché la moralità dell’ Ariosto, tesa all’universale nelle commedie e nel Furioso, posata sull’estuario della meditazione nelle Satire, nelle lettere è ancora tutta carica del sentimento che l’ha infiammata, erta e vibrante. Questa coscienza combattiva diventa, nella scrittura, quadro di situazioni rigorosamente spoglio, definizione di programmi, rimprovero schietto e coraggioso al principe; diventa, e sono le cose più belle, accorato consuntivo
mora-
le, abbattimento, esortazione. Il carattere dell’Ariosto ci si apre insomma senza alcuna mediazione letteraria, e tuttavia con un vigore di stile proporzionato alla statura umana dello scrittore. È un carattere al quale, a costo di smentire l’Ariosto stesso, l’attitudine all’azione dev'essere riconosciuta in alto
grado. Gli Estensi sapevano valutare i loro uomini; a ragion veduta, e confortati dalla qualità degli esiti, devono aver deciso di affidare all’ Ariosto, piuttosto che le varie e poco avventurose
mansioni
adatte a un poeta di corte, quelle, ol-
tre che di governatore, d’inviato diplomatico anche in frangenti difficilissimi. Del resto, la chiarezza dei giudizi politici, la capacità di dominare razionalmente i fatti contemporanei, risultano da tante pagine del Furioso; e risultano ancor più da una lettura diacronica, che commisuri ai mutamenti politici gli ampliamenti e i ritocchi subiti, in tre successive edizioni, dal poema.
L’opzione che l’Ariosto vagheggiò, e poté appena attuare nei suoi ultimi anni, era solo apparentemente antitetica a quella impostagli (né le erano estranei motivi di salute e mo-
I. LA POESIA DELL’ARIOSTO
13
tivi sentimentali). Dominare idealmente i fatti invece d’esserne protagonista, significava per lui integrarli in un disegno più ampio, di cui fossero oggetto non gli uomini e le passioni dell’ora, ma quelli di sempre. Ed è qui che vien meno il parallelismo più volte, e opportunamente, proposto col Machiavelli: il quale ansioso, a differenza dell’Ariosto, di agire sugli avvenimenti, si dovette accontentare di teorizzarne le leggi. Perché quello del Machiavelli era un interesse esclusivo, per i fatti politici e per il loro sottofondo storico, mentre per l’Ariosto il fatto politico appare soltanto come una delle configurazioni assunte, nel suo attuarsi, dalla vita degli uomini: una vita infinitamente variegata e misteriosa. Ora, finalmente, la polarità azione-contemplazione, dopo esserci apparsa prima come sostanziale alla natura, anzi alla moralità dell’ Ariosto, poi come operante nei rapporti tra esistenza e rappresentazione poetica, ci si rivela come punto decisivo di orientamento nella formulazione stessa degli oggetti della poesia. L’aspirazione a un’analisi acuta e totale delle passioni umane da un lato entrava in concorrenza col libero dominio della fantasia, dall’altro incontrava le resistenze d’una tradizione letteraria classicistica (alludo insieme al gusto del maturo Umanesimo e a quello del petrarchismo bembesco), portata soprattutto a eleganti e cristallizzate trasfigurazioni di tipo lirico. Questi contrasti e queste antinomie verranno superati (si vedrà) nel Furioso; ma ci appaiono scoperti nell’attività poetica che lo precede (la lirica latina) e in parte ne accompagna l’elaborazione, quasi
come una frangia sperimentale (le Rime). Essi spiegano anzi, meglio di quanto non si sia fatto, perché quest'attività sia in parte un’attività minore, servile, in parte un'attività carica di straordinari fermenti innovativi, che però, condensandosi tutti nel poema, non raggiunsero una vera autonomia e lasciarono scarse tracce nella lirica rinascimentale. Le liriche latine risalgono in gran parte alla giovinezza
I4
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
del poeta (1494-1504 circa). Alcune sono poco più che esercizi scolastici; in altre la tecnica è già matura e appaiono, in nuce, atteggiamenti e invenzioni degni del maggiore Ariosto. Si tratta di epitaffi, di epigrammi spesso incisivi e spiritosi, o galantemente ironici, ma soprattutto di carmi dove gli accenni, spesso convenzionali (sulle orme di Catullo, Orazio, Ovidio...) ai primi amori, si mescolano con quelli nostalgici e affettuosi ai cari e dotti amici (Ercole Strozzi, Pandolfo Ariosto, Pietro Bembo, Alberto Pio, Michele Marullo) e al maestro Gregorio da Spoleto, ai lieti soggiorni in villa e alle fervorose illusioni della giovinezza. Tra le composizioni d'occasione, l’Epitalamio (di tipo catulliano) per le nozze di Alfonso d’Este con Lucrezia Borgia (1502): esempio di felice evocazione classica. La musa latina fu presto abbandonata dall’ Ariosto (contro il parere del Bembo); egli deve aver sentito che la resistenza del « genere » era accentuata da quella della lingua, dall’artificiosità stessa dell’intento. Le liriche latine restano poco più che come primi tentativi sulla strada della poesia; oltre che come segni d’una familiarità con gli autori classici e con i loro valori formali, che darà risultati ben più superbi nelle ottave del poema. Più interessanti, sulla linea del nostro discorso, le Rime; anche se esse costituiscono un settore senz'altro periferico dell’opera del poeta. Tolti alcuni componimenti d’occasione, le liriche sono quasi tutte amorose; ed escono dalla convenzione petrarchistica (pur se ne sono sensibili le tracce, insieme con quelle del gusto bembesco) per nettezza e immediatezza d’immagini, per pienezza di sentimento e calda sensualità (si da mostrare piuttosto la profonda assimilazione degli erotici latini). Più che lo schema chiuso della canzone, si confaceva all’Ariosto quello aperto del capitolo: non per nulla un intero capitolo fu assorbito nel Furioso, e altri fornirono materiali figurativi. Nei capitoli infatti 1’Ariosto può soddisfare la sua vocazione narrativa e svolgere,
I.
LA POESIA DELL’ARIOSTO
IS
oggettivandole, intere situazioni sentimentali, quasi a saggiare, in un’analisi più decisa, la fenomenologia amorosa: la transizione dall'atmosfera magica dell’attesa all’esultanza del piacere; l’incontro improvviso della freddezza da parte d'un amante felice; il tentativo, fallito anche di fronte allo spettacolo del dolore, di attutire o scordare le pene amorose;
l’attesa
febbrile
d’un’inammorata,
mentre
l’uomo
è
lontano e forse dimentico di lei; e cosî via. È chiaro, anche a un’enunciazione spoglia dei temi, che l’Ariosto lirico è più vicino all’Ariosto narratore che agli altri lirici del Cinquecento: insofferente dei complessi schemi metrici e della stilizzazione neoplatonizzante, egli disegna nel più lineare andamento del capitolo quadri in cui il gusto contemplativo abbellisce senza sacrificarla la narrazione d’una vicenda: in particolare d’una vicenda del sentimento. Far agire dei personaggi; evocarne le voci; annodarne i movimenti; ricrearne lo sfondo ambientale: queste le possibilità offerte all’ Ariosto, ben più che dagli altri « generi», dalla forma drammatica; ma subito limitate, è naturale, dalle trame convenzionali ereditate dalla commedia latina (a cui egli si collegava nel comporre, primo non solo in Italia, commedie
in volgare,
e nell’alternarle
a traduzioni
di-
rette da Plauto e da Terenzio), dall’indole mondana che le rappresentazioni necessariamente assumevano nel quadro della corte ducale. Tuttavia queste possibilità devono essere almeno balenate nella mente del poeta, se egli compose, e ritoccò e rifece, un bel numero
di commedie,
e se mise tanta
passione anche nell’opera di regista. Pare di scorgerne una crescente consapevolezza quando si esaminano le commedie nella loro successione. Nella Cassaria e nei Suppositi (1509) l’Ariosto ricorre dichiaratamente al procedimento classico della contaminatio: personaggi e situazioni dei modelli latini intrecciati in una nuova trama. Anche i temi sono quelli della commedia classica: amori di giovani nobili per schiave, e inganni
IO
ESPERIENZE
dei loro servi ai danni
ARIOSTESCHE
del ruffiano
(Cassaria);
scambi
di
persona tra padrone innamorato e servo, antagonismo tra giovane e vecchio pretendente, agnizione finale (Suppositi).
Cassaria e Suppositi furono composte dapprima in una pro-
sa con un andamento vagamente boccacciano
e non senza
tracce umanistiche e dialettali; più tardi (1528-31) l’Ariosto le rifece in endecasillabi sdruccioli sciolti, cosî da riprodurre il ritmo dei senari giambici. Esse assumevano in tal modo un andamento più armonioso, anche se un po’ monotono; ma soprattutto fruivano delle successive esperienze stilistiche e linguistiche del poeta. Direttamente in endecasillabi
sdruccioli furono composte le altre commedie dell’Ariosto, con trame di tipo più novellistico e con riferimenti diretti al mondo contemporaneo. Il Negromante (1520) è basato su un quadrangolo amoroso, complicato da nozze segrete e ma-
trimoni imposti e non consumati; il negromante imbroglione porta, nonostante i suoi errori, anzi grazie ad essi, a felice conclusione ogni difficoltà. Gl’intrighi della Lena (1528) sono piuttosto di ordine psicologico: circondano senza toccarlo il nucleo dell'amore tra due giovani, e fanno invece risaltare il complesso personaggio cui l’opera s'intitola e l’ambigua situazione in cui esso muove. Ancora una serie di sostituzioni di persona negli Studenti, che però l’Ariosto lasciò incompiuta: la commedia fu conclusa da suo fratello Gabriele (La scolastica) e da suo figlio Virginio (L’Imperfetta).
La caratterizzazione
delle opere minori
permette dun-
que di determinare alcuni indirizzi e di cogliere alcune stanti dell'attività poetica dell’Ariosto. Ma dominano, che per ingenza di applicazione, questa attività le cure dicate quasi ininterrottamente al Furioso, incominciato so il 1505, quando il poeta aveva soltanto svolto le sue
coandeverpri-
I.
LA POESIA DELL’ARIOSTO
I7
me prove liriche in latino e in volgare, e portato al suo aspetto definitivo nel 1532, un anno prima della morte. Si può dire che, precorrendo i suoi critici, fu l’Ariosto a puntare tutte le carte sul poema, e ad applicare personalmente al resto l'etichetta di «opere minori» («alcune mie cosette », come dice in una lettera). E si può aggiungere che la scelta della materia cavalleresca fu assai precoce: già nell’elegia De diversis amoribus l’Ariosto accenna a progetti di narrazioni epiche; e tra le sue esercitazioni giovanili in volgare c'è l’inizio d'un poema
cavalleresco,
to in cui egli decise di comporre
l’Obizzeide.
Il momen-
una «giunta » all’Orlando
Innamorato del Boiardo è anche quello in cui si possono ritenere ormai chiaramente impostati (e nelle successive stampe avranno via via soluzioni più eleganti e di maggiore ampiezza) i problemi di cui abbiamo rilevata la presenza, suggestiva ma ancor limitata quanto agli esiti, nelle altre opere.
Dal punto a cui l'aveva condotta il Boiardo, e per certi episodi un po’ più indietro, il Furioso riprende infatti la storia della lotta, svoltasi in Francia, tra l’esercito saraceno di Agramante e quello cristiano di Carlo Magno; e dell’Innamorato conserva i personaggi principali e i loro prece-
denti. Ma diversa è la prospettiva ideologica in cui si poneva per l’Ariosto, rispetto ai suoi predecessori più illustri, il Pulci e il Boiardo, il mondo cavalleresco: non più paradigma attraente e pur lontano (donde la compiacenza dell’evocazione alternata con la familiarità dello scherzo), ma finzione letteraria della quale celebrare i valori ancora attuali (l’eroismo, l’onore, soprattutto l’amore) e attraverso i cui personaggi esaltare la varietà, e spesso la grandezza, dell’azione umana. Il poeta, proprio perché libero dalle suggestioni dirette della materia, poteva dominare e sublimare il mondo che con questa aveva costruito, e anzi plasmarlo secondo le proprie aspirazioni, a specchio dei suoi sogni. Cosi, accettata l'immersione del ciclo carolingio (epico) nell'atmosfera brettone e romanzesca della Tavola Rotonda,
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ESPERIENZE ARIOSTESCHE
continuata l’alternanza tra utilizzazione dei romanzi francesi medievali (tanto apprezzati a Ferrara) e testi classici, l’Ariosto elaborò qualcosa di assolutamente nuovo. Ci converrà anzi partire, per misurare questa novità, proprio dalle zone del Furioso che sono, in apparenza, più remote dalla sua sostanza poetica: quelle di argomento più scopertamente encomiastico. L’adombramento delle glorie estensi in Ruggiero, le pseudo-profezie a celebrazione dei signori di Ferrara, costituivano per l’Ariosto nient'altro che un obbligo. Ma un obbligo accettato senza piaggeria, e anzi con consapevole adesione: gli accenni precisi a recenti avvenimenti della storia italiana o alle direttive della politica estense, che s’inseriscono in varie connessure del poema, costituiscono piuttosto i limpidi giudizi politici di chi partecipò, anche con l’azione concreta, alle fortune dei signori di Ferrara. L'elemento contemporaneo entra dunque nel Furioso come un richiamo alla realtà, quella realtà che è tanto meno libera e felice del mondo evocato dal poeta, ma in esso è pur adombrata, e ad esso può, nei momenti e negli uomini più gloriosi, adeguarsi. Da un lato, per esempio, l’invettiva contro le armi da fuoco può sembrare invocazione nostalgica ad un'esistenza dominata soltanto dai valori individuali, ma dall’altro i riferimenti ai più brillanti protagonisti e alle più belle imprese della storia contemporanea mostrano le vie attraverso le quali gl’ideali enunciati astoricamente possono storicizzarsi e incarnarsi. Del resto la fantasia dell’ Ariosto, anche qui, anzi specialmente qui, non mira a una fuga della realtà, ma bensi alla creazione d’un mondo poetico che della realtà ripresenti, in una scala maggiore e con maggior libertà di sperimentazione, le proporzioni. È insomma del distacco giudicante
e incondizionato
che l’Ariosto
sentiva
nostalgia,
non
dell'evasione in un’arbitrarietà inventiva aliena dal suo carattere e dalle sue abitudini. La realtà, anzi, non è mai tradita dal disegno, pur idealizzato, dei personaggi, ai quali
I. LA POESIA DELL’ARIOSTO
19
l’Ariosto mantiene la latitudine di tipizzazione esperita dalla precedente letteratura cavalleresca, ma articolando e dialettizzando individualmente i dati del comportamento che in quella venivano tracciati senza sfumature o giustapposti senza giustificazione. I personaggi dell’ Ariosto sono coerenti nella loro complessità: a Orlando e Ruggiero, di cui si parlerà più ampiamente, si possono aggiungere la guerriera Bradamante, che, già cosî donna nella pietà e nelle passioni d’innamorata, mostra la sua vocazione di madre di famiglia nella docilità quasi borghese ai genitori; Rodomonte, tremendo e magnifico nell’assalto di Parigi, ma incapace di penetrare nella psicologia femminile di Doralice e bestialmente ingenuo di fronte ai casti inganni di Isabella; Angelica, spinta sotto il fuoco delle infatuazioni e dei desideri dalla sua bellezza di cui tante volte si scopre vittima, e infine approdata a un’Arcadia in cui Medoro le fa scoprire le dolcezze dell’abbandono amoroso;
Atlante,
ora suscitatore imbattibile di incanti, ora
povero vecchio solo difeso dall’astuzia. Pari alla varietà di atteggiamenti dei personaggi è la varietà dei personaggi stessi e delle loro vicende: l’amicizia e la fedeltà dei giovani amici Cloridano e Medoro; l’amore forte e sicuro di Fiordiligi e Brandimarte; quello avventuroso, e sbocciato in eroismo, d’Isabella e Zerbino;
le traversie boccaccesche
di Giocondo;
la storia di guerra e di sangue affrontata intrepidamente da Olimpia, poi abbandonata dall’uomo per il quale aveva osato tanto; Marfisa, la guerriera che porta nelle imprese cavalleresche la sua estrosità e la sua caparbietà femminile; le donne omicide, col loro matriarcato ispirato dal rancore ma permeabile all'amore e alla devozione. Quasi un atlante della natura umana, il Furioso; o piuttosto il culmine della scoperta dell’uomo (nella sua libertà e nelle sue determinazioni causali), portata a conclusione dal pensiero filosofico e politico del Rinascimento. Si può dire che, immersi in un mondo dalle dimensioni completamente
20
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
fantastiche, i personaggi dell’Ariosto abbiano potuto trovare uno spazio più sgombro, più limpido, nel quale muoversi ed esprimersi,
nel quale essere,
senza limitazione,
se stessi.
Perché quasi tutti questi personaggi esprimono una forte spinta esistenziale: l’arturiana attrazione dell’aventure si concreta quasi sempre per loro in una «inchiesta » (ricerca), che può avere per oggetto un’arma fatata o un destriero, un nemico col quale provarsi o una persona amata. Amore e gloria attendono i fortunati; ma il poema, che è colmo di azioni gloriose descritte con mirabile ricchezza, più indugia sull'amore, evocato in tutte le sue gradazioni e nella gamma delle sue esplicazioni. E sono forse proprio le storie d’amore quelle che più s’avvantaggiano dell’estensione dello spazio inventivo: che spinge a trasformare in azione e in fortunosa conquista (conformemente al gusto sensuale ma non morboso dell’Ariosto) la ricerca, la contemplazione e il godimento della bellezza muliebre. Cogliamo cosi il rapporto di necessità reciproca tra l’impegno realistico rilevabile nei ritratti individuali, nel panorama degli affetti umani, nella rappresentazione delle azioni e reazioni che li governano, e, dall’altra parte, il dilettoso abbandono alle possibilità della favola e dell’evasione fantastica, in mezzo a palazzi ed isole incantate, ippogrifi, viaggi interstellari,
armi
fatate, miracolose
invulnerabilità,
giganti
e mostri. È un rapporto ragionato e allusivamente esplicato dall’Ariosto, che attraverso i riferimenti contemporanei e le sottolineature signorilmente moralistiche rileva la verità e la effettualità dei caratteri e dei sentimenti, mentre con l’ironia o con lo scherzo segna i margini della libera invenzione. L’Ariosto, insomma, coinvolge il lettore nella spirale: distacco-rispecchiamento idealizzante-considerazione realistica, che sintetizza i suoi rapporti con la materia narrativa, facendogli godere, proprio come tali, le incursioni verso l’iperbole o gli abbandoni all’immaginazione, ma richiamandolo all'ordine quando egli stia per toccare il terreno della verità.
I.
LA POESIA
DELL’ARIOSTO
2I
Sì svolge cosi un teso gioco dell’intelligenza: un gioco sorridente ed amabile, perché i suoi quadri sono quelli dell’ironia. L'ironia esercita un richiamo continuo all’equilibrio, non solo sottolineando i voli della fantasia, ma attenuando le pun-
te dell’idealizzazione. L'ironia è insomma il segno della saggezza, ma d’una saggezza che sa anche il valore dell’illusione e dell’immaginazione. Il metodo creativo dell’Ariosto tende infatti a trasfigurare, per lo più ricreando la visione secondo il gusto rinascimentale
dell’euritmia
architettonica
e cromatica,
ma
altret-
tanto spesso creando: si da suscitare un mondo poetico fornito di inesauribili possibilità e prospettive. La fantasia costituisce insomma una delle dimensioni del senso della bellezza proprio dell’Ariosto; e del senso della bellezza mostra il sigillo nella misura che la ispira e la imbriglia. Questa misura si palesa nel sorriso del poeta: un sorriso di avvertimento, perché la realtà della poesia non sia confusa con la realtà della vita. Ma questo sorriso illumina anche il piacere dell'invenzione, esprime l’affetto dell’autore verso un mondo che sarà pur costruito con la materia dei sogni, ma
che ha raggiunto la vitalità dell’arte.
Dopo aver messo a nudo il complesso equilibrio di forze sul quale si regge il poema, e averne definito, nella prospettiva che ci è parsa più proficua, lo spirito, è tempo di dar la parola all’artefice: di esaminare cioè il Furioso nell'aspetto con cui esso si presenta al lettore. Complessa ma calibratissima la struttura del poema, che
da quaranta canti fu portato nell’ultima edizione a quarantasei. Fanno da impalcatura le vicende della guerra tra Carlo Magno e Agramante, divisa in tre fasi: l'assedio stretto dai Saraceni intorno a Parigi; la riscossa dei Cristiani e il ri-
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ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
piegamento ad Arli di Agramante, che vi subisce una nuova disfatta; il passaggio dei Saraceni in Africa, dove le loro terre sono devastate da un secondo esercito cristiano, e la loro sconfitta in una battaglia navale. La guerra si risolve poi con un duello nell’isola di Lipadusa, dove Agramante viene ucciso da Orlando. L’alternarsi dei periodi di tranquillità e di attesa con quelli di guerra guerreggiata governa quasi sempre i movimenti dei personaggi, dato che i cava-
lieri delle due parti, immersi nelle avventure che le loro passioni o la sorte hanno posto sul loro cammino, si ricordano dei doveri militari nei momenti del maggior bisogno, muovendo, si potrebbe dire, dall’esistenza romanzesca (brettone)
a quella epica (carolingia). Tale la connessione istituita più comunemente tra gli atti dei personaggi e i fatti della guerra; ma altre, via via più sottili e sfumate, operano nella struttura del poema: vi sono personaggi che, nel momento d’entrare in scena, nar-
rano le loro precedenti vicende (Olimpia, Fiordispina, ecc.), e vi sono narrazioni inserite nel poema esclusivamente in modo indiretto
(come quelle di Giocondo
e di Lidia). Con
questa varia gradazione di legami tra le innumerevoli storie del Furioso, l’Ariosto riesce a tenere in pugno le fila del racconto e ad annettervi temi e ambienti lontani da quelli su cui il poema s’incentra. Questo procedimento strutturale è poi corroborato sia dal sempre vigile equilibrio degli accostamenti (vicende e tonalità s’alternano con suggestivo contrasto), sia dalla presenza, discreta ma ferma, del poeta, che con una sottile arte delle transizioni porta il lettore a una superiore contemplazione degli estremi positivi e ne-
gativi di un sentimento, dei limiti (tragico e comico, sublime e miserabile) che può di volta in volta raggiungere l’azione umana. Due sono le principali trame che vengono a posarsi, nel modo descritto, sull’impalcatura costituita dalle vicende belliche: esse riguardano Orlando e Ruggiero. Orlando, il
I.
LA POESIA DELL'ARIOSTO
23
prestigioso eroe carolingio che il Boiardo aveva fatto cade-
re nei lacci amorosi d’Angelica, giunge ora, quando apprende, dopo magnifiche imprese, che i capricci d’Amore hanno gettato la fuggitiva Angelica tra le braccia dell’umile Medoro, alla follia: una follia che raddoppia le sue forze ma lo riduce nelle condizioni d’un bruto. Astolfo dovrà recarsi fin sulla luna, per recuperare il suo senno perduto; e allora Orlando tornerà ad essere il severo campione del mondo cristiano, e darà un apporto decisivo alla vittoria di Carlo. Il personaggio di Ruggiero è invece invenzione del Boiardo, che ne voleva fare il capostipite degli Estensi, e a tal fine aveva preparato le sue nozze con una donna guerriera, Bradamante. L’Ariosto ripercorre le orme del Boiardo; ma perché le nozze possano costituire il coronamento del poema, pone una serie di ostacoli alla loro conclusione: gl’incanti del mago e istitutore Atlante, le illecebre di Alcina, la solidarietà del giovane (saraceno anche se di origine cristiana) col suo signore Agramante; il matrimonio, progettato dai genitori, tra Bradamante e Leone, imperatore d'Oriente; infine il carattere del guerriero, meno risoluto nella fede coniugale che nei doveri di cavaliere e di vassallo. Nelle avventure di Orlando e di Ruggiero (tra le quali sussiste un sottile parallelismo antagonistico) è chiaro l’intento di tracciare esemplarmente la parabola di due personalità morali. E piuttosto che sul troppo scoperto allegorismo del passaggio di Ruggiero da Alcina (lussuria) a Logistilla (ragione), o sul simbolismo della perdita del senno subita da Orlando per amore (questo pit ricco e complesso di quello, grazie alle implicazioni satiriche del viaggio sulla luna), occorre insistere sul disegno che porta Ruggiero a consapevolezza del proprio essere e del proprio destino, che riconduce Orlando all’epica grandezza delle sue origini. Persino nell’andamento del poema si percepisce un diagramma ascensivo: nei pressi della sua conclusione si attenuano i vivi
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ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
colori dell'avventura a vantaggio di un predominio dei toni epici e tragici. Da qualunque parte s’affronti il poema, si è dunque portati a constatare che il fulgore della sua materia è garantito proprio dalla complessità di significati conferitale dall’Ariosto col trapiantarla in un orizzonte spirituale infinitamente più ampio e complesso di quello in cui essa era stata elaborata. Trapianto eseguito non solo per forza d’intelletto, ma anche di cultura e d’applicazione stilistica.
Non è difficile notare che i suggerimenti del principale modello, l’Innamorato, e delle fonti tematiche utilizzate dall’Ariosto senza discriminazione e su un’area culturale vastissima (si va dai romanzi della Tavola Rotonda, specialmente il Palamedés e il Tristan, ai poemi latini: l’Eneide, le Metamorfosi, la Tebaide, l’Argonautica e alla traduzione latina — umanistica — di Omero; dalle compilazioni cavalleresche italiane — la Spagna, l’Aspromonte, Vl Uggieri il danese — a quelle spagnole, come l’Amadis de Gaula; dal Decameron e dalle altre opere del Boccaccio ad Apuleio), giungono nella pagina ariostesca con una fisionomia stilistica nuova, quasi irriconoscibile, sia per ciò che riguarda le attribuzioni più ovvie della forma, quelle descrittive, sia per altre più ardue e, in questo ambito, originali, quelle dell’analisi e della descrizione dei sentimenti. Riappaiono dunque i poeti che l’Ariosto aveva incominciato ad assimilare per le sue prime prove di verseggiatore in latino; e riappaiono con le loro opere più riccamente diffuse sul piano dei sentimenti e della loro minuziosa ed elegiaca espressione: soprattutto l’Ovidio delle Eroidî. Avveniva cosi un innesto che ringiovaniva la classicità con le linfe della fantasia medioevale, e conferiva a quest’ultima la venustà formale di quella. Le osservazioni sull’uso delle fonti ci portano dunque con un passaggio diretto a rilievi di ambito stilistico: favoriti, nel caso del Furioso, dall'esistenza di tre redazioni suc-
cessive
(1510, 1521 e 1532) e dei frammenti
autografi an-
I. LA POESIA DELL’ARIOSTO
25
teriori di poco alla terza. L’analisi delle varianti ci documenta il travaglio formale dell’Ariosto solo nei suoi strati più prossimi alla superficie, ma è sufficiente per farci cogliere i segreti della vittoria da lui conseguita nel suo impegno letterario. Quest'impegno consisteva, in un certo senso, nello sforzo di conformare a un ideale di perfezione intesa come elezione di vocaboli, come callidità di iuncturae e come armonia di rapporti e richiami verbali (ideale in cui si congiungevano e si completavano l’educazione classicistica e i paradigmi petrarchistici) un materiale narrativo legato a una tradizione
di stile
popolaresco,
d’ibridismo
linguistico,
di
sintassi impressionistica e paratattica. Il sistema dei mezzi espressivi fu pertanto completamente mutato dall’Ariosto. Egli si mise alla testa della corrente
che mirava all'affermazione del toscano letterario come lingua nazionale, e sostitui alla Rormè padana dell’Innamorato (toscano screziato di emilianismi e latinismi) un linguaggio molto più omogeneo e filtrato. Il blocco degli affluenti idiomatici esterni veniva poi compensato dalla scoperta dei più riposti valori espressivi negli alti esemplari letterari toscani: dall'opera di Dante, del Petrarca e del Boccaccio a quella del Poliziano; nello stesso modo che il ricorso al latino, messa fine all’anarchia umanistica, veniva guidato da un felice istinto nell’individuare i vocaboli che meglio potessero amalgamarsi con l'impasto linguistico del poema. Questa omogeneità, nella quale ben s’incastonava il termine elegante o s’innestava l’espressione familiare (col variare giocondo dei toni da parte del narratore) veniva avviata nel tempo narrativo da quello strumento agilissimo nella sua complessità, solido nella sua varietà, ch'è la famosa « ottava d’oro », frutto d’un’incantevole alleanza di sintassi e di musica. L’Ariosto, infatti, coglie tutti i frutti possibili dall’esperienza petrarchesca, costruendo i versi e le unità sintattiche su un equilibrio di parallelismi e contrapposizioni, di asindeti e polisindeti, che sale dagli aspetti formali ai rapporti di
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ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
forze tra i concetti o le immagini. Ma adibendo questa esperienza a problemi diversissimi da quelli lirici: i problemi di uno svolgimento aperto e polifonico, l’Ariosto seppe trovare una soluzione più libera e flessibile, si da evitare la giustapposizione di unità strutturali isolate e da rendere invece tanto fluidi i passaggi tra versi o ottave, tra proposizioni o periodi, quanto lo dovevano essere quelli tra le varie situazioni o i quadri figurativi. Questo raggiungimento, la cui storia ha il punto di partenza nelle Rime, è il contrassegno stilistico della conciliazione tra spirito contemplativo e senso del movimento e della variabilità del reale, tra sottilità raziocinante e dominio sovrano delle forze storiche, è insomma il sigillo, in ambito espressivo, di quella che è stata chiamata l’armonia del Furioso. Ecco: è venuta fuori questa parola, diventata formula troppo vaga, forse, e troppo fortunata (molte delle osservazioni precedenti vi si potrebbero riportare; ma ne riuscirebbero, crediamo, alquanto impoverite). A questo punto, tuttavia, è anche lecito recuperarla: proprio perché è il momento di avvertire che la linea ascendente con cui si può configurare il passaggio dalle opere minori al Furioso, dalla prima all’ultima edizione del Furioso stesso, non fu senza tracce d’incertezze e di cedimenti. Questi cedimenti erano soprattutto nell'animo del poeta: delusioni e amarezze private accompagnavano l’oscurarsi dell'orizzonte politico, specie se visto dalla specola di Ferrara. Solo al perdurare dell’istinto, della volontà di armonia si deve se l’ Ariosto poté difendere la sua opera dai riflessi cupi che minacciavano di depositarvisi. È ciò che ci dice il confronto tra gli episodi accolti nell’ultima edizione del Furioso e quelli, pur tenuti per molti anni sul telaio, che furono esclusi alla fine. Le aggiunte di quest'edizione sono costituite dagli episodi di Olimpia, della Rocca di Tristano, di Marganorre, di Ruggiero e Leone, oltre che dai nuovi accenni a personaggi contemporanei (signori, pittori, poeti), quasi a celebrare, al
I. LA POESIA DELL’ARIOSTO
217
di là dei doveri diplomatici o di gratitudine, la partecipazione della più illustre società italiana alle sorti del poema, o a significare che lo sguardo dell’Ariosto, fattosi più acuto, spazia su più ampie regioni della vita e della cultura. E non si può escludere che ciò significhi, anche, un impegno meno diretto, un allentarsi della partecipazione sentimentale ai fatti. Ma il poema resta, nella sostanza, quello che era; ciò che
non avrebbero permesso i Cinque Canti. Iniziati intorno al I52I, essi furono abbandonati dal poeta verso il 1528, a favore dell’episodio di Leone, che manteneva, di quelli, l’intento di narrare nuove difficoltà frappostesi alle nozze di Ruggiero e Bradamante (si che la conclusione diventasse più ardua conquista), ma evitava gli scompensi tonali e narrativi che i Cinque Canti avrebbero apportato al Furioso. E certo, i Cinque Canti attestano, oltre che un certo declino nella ve-
na del poeta, presentimenti di un gusto diverso, più portato a un’austerità intinta di religione (Ruggiero divenuto una specie di Giona), a un « meraviglioso » tra mitologico e allegorico (concilio delle Fate e dei Demoni sull’Imavo) — un gusto che si sarebbe affermato più tardi nelle nostre lettere. Ma il prevalere delle battaglie campali sui duelli, le personificazioni del Sospetto e dell’Invidia, il rilievo conferito al traditore Gano (quasi assente nel Furioso), l'atteggiamento ottusamente severo di Carlo, mostrano il poeta in preda a un disgusto della vita cortigiana, a un pessimismo amaro, nemmeno arginati, come nelle Satire, dalla bonomia scherzosa, dagli affetti familiari. Questi sentimenti l’Ariosto non volle registrati nel suo poema; ch’egli varò a una navigazione serena e sicura verso l'avvenire.
2. STORIA
INTERNA
DELL’ORLANDO
FURIOSO
Quando, nel gennaio del 1507, Isabella d’Este, moglie di Francesco Gonzaga, diede alla luce Ferrante, fu Ludovico Ariosto a portarle i rallegramenti del fratello, il cardinale
Ippolito. Una lettera di Isabella esprime ad Ippolito il gradimento
per la scelta di quell’eccezionale inviato che, «cum
la naratione de l’opera ch’el compone », le ha recato « piacere grandissimo ». L’opera è l’Orlando Furioso, ancora inedi-
to, ma già noto e famoso. Nel 1516 ne usciva la prima edizione; nel 1521 la seconda, minutamente corretta ma sostanzialmente immutata; nel 1532 la terza, quella che tutti conosciamo, arricchita di episodi che portavano da quaranta a quarantasei i canti, e completamente rinnovata nella lingua e nello stile. Meno di un anno dopo, Ludovico Ariosto moriva, mentre ancora vagheggiava una nuova edizione. Poiché già nell’elegia De diversis amoribus Ludovico accenna a tenta-
tivi di epopea, uno dei quali, l’Obizzeide, ci è stato conservato, si può dire che il poema sia stato l’opera di tutta una vita. L’esistenza di tre redazioni del Furioso ci offre dunque la magnifica possibilità di osservare il poema nella sua storia interna, nella sua avanzata verso la perfezione.
Ma la sorte
ci è stata anche più generosa. Di alcuni degli episodi inseriti nell’ultima redazione, noi possediamo gli autografi in brutta
e in bella copia: cosî, accanto ai mutamenti maturati attraverso gli anni, possiamo anche osservare quelli operati dal poeta nel corso stesso della stesura, la sequela avvincente dei suoi tentativi di espressione. E non basta: l’allargamento del poema non fu uniforme e rettilineo, avendo l’Ariosto progettato svolgimenti ai quali non diede séguito, abbozzato narra-
30
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
zioni poi lasciate a mezzo o scartate. Anche di tutto questo ci è rimasta una parte: i famosi Cinque Canti e le ottave note come Storia d’Italia. Cosi la fantasia del poeta si dipana quasi sotto ai nostri occhi; noi ne scorgiamo il nesso o, altre vol-
te, le ragioni di pentimento. Per trovare una strada sicura tra questi materiali, sarà meglio seguire un itinerario discendente: dalle aggiunte alle correzioni alle prime stesure. Le osservazioni di più vasto àmbito culturale e strutturale illumineranno quelle più tecniche. Porremo dunque la nostra spècola al livello della terza edizione, quella che subi il rinnovamento di gran lunga più decisivo. I famosi Cinque Canti furono forse incominciati a scrivere
verso
il 1521,
come
vuole
Dionisotti,
ma
furono
ab-
bandonati dal poeta poco prima del 1528, come appare dal loro aspetto linguistico. Se noi cerchiamo nel Furioso l’ottava a cui essi avrebbero dovuto essere innestati (45 del canto XL della prima e della seconda edizione), troviamo che proprio un’ottava prima di quella ha termine l’episodio di Leone inserito dall’ Ariosto nella terza. Sembra dunque che l’episodio di Leone abbia in un certo senso sostituito, nei progetti di ampliamento del Furioso, i Cinque Canti. L’ipotesi trova facile conferma: ambedue gli episodi narrano difficoltà frappostesi alle nozze di Ruggiero e Bradamante, cosî che la conclusione divenga una più ardua conquista; in ambedue gli episodi Ruggiero svolge una parte di primo piano, e appare con atteggiamenti più seri e meditativi che nel resto del poema. Com'è noto, il contenuto, per cosi dire ufficiale, del Furioso, è l'esaltazione di Ruggiero e Bradamante come progenitori degli Estensi; e il poeta deve aver ritenuto necessario fornire a Ruggiero, col tardivo battesimo, quella tempra che mancava al guerriero valoroso ma volubile, e proclive a sensuali smemoratezze. Nei Cinque Canti, anzi, le riflessioni a cui Ruggiero è portato dal soggiorno nel ventre della balena rinviano chiaramente, dietro alla diretta fonte lucianea, al
2.
STORIA
INTERNA
DELL’« ORLANDO
FURIOSO »
3I
simbolismo biblico di Giona. Come si deduce anche da questo particolare, gli indirizzi di gusto attestati dai Cinque Canti, mentre contrastano con quelli del Furioso, sembrano anticipare propensioni tardo-rinascimentali: l’apertura a un «meraviglioso » tra mitologico e allegorico, col concilio delle Fate e dei Demoni sull’Imavo; la concezione cupa e grandiosa della guerra e della battaglia campale, in contrasto con i vivaci e coloriti duelli del Furioso. Si capisce dunque perché l’Ariosto mise da parte questo grosso frammento; e s’aggiunga che 1 Cinque Canti, con l’allegoria del Sospetto e dell’Invidia, col predominio del traditore Gano, per lo più in ombra nel Fu710s0, presentavano troppi cedimenti a una vena pessimistica che il poeta aveva saputo relegare negli sfoghi delle Satire per far luogo nel Furioso a un più alto dominio dei fatti umani. L’episodio di Ruggiero e Leone, che entrò al posto dei Cinque Canti nella terza edizione, non solo svolgeva la funzione che s'è detto sopra, ma offriva a Ruggiero una corona, quella di Bulgaria, e rendeva partecipi delle sue nozze gli imperi d’Oriente e d'Occidente. L’aggiunta, a differenza dei Cinque Canti, non turbava l'economia del poema, anche se in essa veniva meno la varietà di toni e di argomenti che per il resto Jo caratterizza. Ma Orlando? Orlando, che pure dà il suo nome all’opera, cadeva nella sua famosa pazzia d’amore,
nella prima e nella seconda edizione, prima di aver mostrato i segni della sua grandezza, se si esclude il duello, rumoroso ma incruento, con Ferrai. Con l’aggiunta dell’episodio di Leone, Orlando finiva per essere schiacciato, nelle proporzioni, dal bravo Ruggiero. È forse per aver avvertito questa conseguenza che l’Ariosto aggiunse, nel canto XI della terza edizione, le imprese di Orlando
in difesa di Olimpia;
imprese
che restituiscono all’eroe tutta la sua grandezza, e offrono al poeta una delle occasioni più belle. Infatti Orlando libera Olimpia dal mostro affamato di donne, come poco prima Ruggiero ne aveva salvata Angelica; ma la lotta di Ruggiero non
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ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
era stata né terribile (dato l’impiego dello scudo incantato), né decisiva (perché non ne era seguita la morte del mostro); e il salvataggio di Angelica, con l'immediata concupiscenza di Ruggiero e la pronta astuzia della donna, riusciva intonato, più che ad eroismo, a una vivacità romanzesca. Invece, di fronte a Orlando, il mostro appare come visione d’Apocalisse, e ne trae spicco il coraggio del guerriero: Come d’oscura valle umida ascende nube di pioggia e di tempesta pregna, che più che cieca notte si distende per tutto ’1 mondo, e par che ’l giorno cosi nuota
la fera,
e del mar
spegna;
prende
tanto, che si può dir che tutto il tegna
(XI, 35, 1-6).
La lotta tra l’audace e l’essere immondo porta il terrore sino alle divinità marine, che fuggono atterrite; e Orlando, solo contro la natura, e solo contro gl’ingrati abitanti di Ebuda, che lo assalgono, raggiunge una statura gigantesca. Il nudo di Olimpia legata allo scoglio è uno dei più perfetti che l’Ariosto abbia dipinto; ma tanta bellezza deve solo colpire Oberto, compagno del paladino; Orlando, due volte salvatore di Olimpia, attua una disinteressata, cavalleresca difesa della giustizia. La grandezza di Orlando e della sua impresa
è proporzionata alla tragicità della vicenda di Olimpia, indomabilmente fedele al suo amore, inesorabilmente perseguitata dal tradimento. Felice invenzione, quella di Olimpia, che portando nel Furioso le gravi note della tragedia, completa la galleria dei personaggi femminili ariostei. Che poi l’Ariosto abbia sentito proprio nelle ultime aggiunte al poema il bisogno di figurare una donna appassionata, perseguitata e fedele, quasi correggendo tante maliziose insinuazioni misogine, è un’altra conseguenza del suo approfondito sentimento della vita. Parti escluse e parti inserite nel Furioso ci mostrano dunque che la «sapiente armonizzazione di temi» di cui parla il Caretti è stata anche selezione e armonizzazione dei senti-
2. STORIA
INTERNA
DELL’
« ORLANDO
FURIOSO »
33
menti del poeta, mutati e progrediti con gli anni. E ciò si può constatare ricorrendo a un altro genere di aggiunte, quelle di carattere politico e storico. Tra il 1516 e il 1532 la situazione italiana era stata rivoluzionata; e Alfonso d’Este, che per difendere le sue città di Mantova, Modena e Reggio ave-
va seguito una difficile linea politica quasi sempre favorevole ai re francesi e avversa a Venezia e al Papa, era riuscito a fatica, quando il predominio di Carlo V fu sancito con la Lega di Cambrai, a mantenere i suoi territori. Di tanti rivolgimenti l’Orlando Furioso non tace; anzi l’ Ariosto, celebratore
e partecipe della politica di Alfonso, nella terza edizione del poema tenta di tracciare una visione complessiva degli ultimi decenni di storia, superando le passioni contingenti e cam-
panilistiche. Arduo impegno, e nobile riuscita. Pochissimo esclude l’Ariosto del già detto: solo qualche allusione a rancori ormai morti o superati dagli eventi: come quella ai falsi amici degli Estensi nel canto XXXV della prima edizione («Quanti n’avete, o gloriosi nati / d'Ercole invitto, a questi di veduto, / che vi son stati e son di cor amici, / e ne li effetti poi come nemici!», XXXV, 5), o una, più pericolosa, alle lotte col pontefice. Ma in ciò che aggiunge, nessuna palinodia, nessuna
adulazione.
Carlo
V è citato una
sola volta,
soprattutto in rapporto alle imprese americane dei suoi guerrieri: Veggio la santa croce, e veggio i segni imperial nel verde lito eretti: veggio altri a guardia dei battuti legni, altri all'acquisto del paese eletti: veggio da dieci cacciar mille, e i regni di là da l'India ad Aragon suggetti; e veggio i capitan di Carlo quinto, dovunque vanno, aver per tutto vinto
(XV, 23).
E per contro, Ludovico osa anche ricordare nel canto XXXIII,
pur senza nominarlo come responsabile, la sua impresa ingloriosa del sacco di Roma.
34
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Il maggiore sforzo di comprensione storica è rappresentato dal canto XXXIII, di cui il frammento della Storia d'Italia costituisce il precedente a ragione rifiutato. In questo canto l’Ariosto rievoca le imprese dei re francesi in Italia, accomunando in una cavalleresca ammirazione tutti coloro che si distinsero,
per eroismo e cortesia,
nelle loro armate
e in
quelle che a loro si opposero. Il criterio di giudizio storiografico che l’Ariosto abbozza, discutibile certo, costituiva una sottile giustificazione della politica estense. Ogni re di Francia, cioè, come ha d’acquistar vittoria e onore, qualor d’Italia la difesa prenda incontra ogn’altro barbaro furore; cosi, s'’avvien ch’a danneggiarla scenda, per porle il giogo e farsene signore, comprenda,
dico,
e rendasi
ben
certo
ch’oltre a quei monti avrà il sepulero aperto (XXXIII, 12, 2-8).
Non dunque un passaggio, da parte dell’Ariosto, dalla politica militante alla contemplazione distaccata, ma, secondo suggerisce Bacchelli, un ripiegamento forzato in tempi che avevano diminuito il campo d’azione alle audacie estensi. Ripiegamento non privo di sofferenza, come indicano altre aggiunte alla terza edizione: in particolar modo l’invettiva contro le armi da fuoco, distruttrici del valore individuale. L’Ariosto, dunque, seppe mantenere l’equilibrio tonale del Furioso pur esprimendo i sentimenti maturati attraverso
una vigile partecipazione alle vicende italiane. Il suo sguardo, fattosi più acuto, spazia ormai su più ampie regioni del mondo e della cultura: come ci indicano le ottave dedicate, nella terza edizione, ai grandi pittori (Mantegna, Leonardo, Giambellino, Raffaello, Michelangelo, Tiziano) e ai grandi scrittori (Pontano, Bembo, Castiglione, ecc.); e le ottave consacrate ai nuovi Argonauti, che allargarono i confini della
2. STORIA INTERNA DELL’ « ORLANDO FURIOSO »
35
nostra civiltà. E in questo quadro che si deve valutare l’aggiunta di nuove lodi a personaggi contemporanei: dai figli di Alfonso ai Gonzaga, da Guidubaldo della Rovere a Francesco e Alfonso D’Avalos, da Andrea Doria a Francesco Sforza. Si tratterà senz'altro di un’accentuazione dell’intento encomiastico dell’ Ariosto; ma un’accentuazione che, al di là
dei doveri diplomatici o di gratitudine, celebra la partecipazione della più illustre società italiana al poema che, del nostro Rinascimento, esprime più altamente gli ideali. Alla luce di queste considerazioni si possono anche inter-
pretare i mutamenti linguistici e stilistici. Il periodo che intercorre tra il Boiardo e l’Ariosto fu decisivo per l’assestamento del toscano letterario come lingua nazionale; il materiale lin-
guistico padano di un Boiardo o di un Castiglione, quello napoletano di un Masuccio, stavano per essere spazzati via dalle opere letterarie, la cui lingua si avviava ad essere unica in tutta Italia. Questa unificazione linguistica era unificazione
di gusto e di cultura. Nel Furioso si verificò appunto, e per la prima volta, una coincidenza tra universalità di ispirazio-
ne e universalità linguistica. Già nella prima edizione del poema l’elemento dialettale risulta abbastanza scarso, rispetto al Boiardo. E già nella seconda edizione i mutamenti dall’emiliano al toscano sono vistosi: si sostituisce ad annonzio, annunzio; a credeti, credete; a mostrarò, mostrerò; ad arete e areste, avrete e avre-
ste; si elimina tràrro per trassero; si sostituisce tosto a presto ; si escludono parole di sapore dialettale come abbragiato, 0rba, ronchi; e cosî via. Si noti che ancora non erano pubblicate le Prose della volgar lingua del Bembo, che diedero una spinta decisiva all'affermazione del toscano letterario; sicché, quando esse apparvero, l’Ariosto vi trovò soprattutto un’autorevole conferma, e una guida sicura, alle correzioni che già stava eseguendo. Cosi nella terza edizione l’opera di affinamento linguistico viene proseguita con maggior rigore. Si elimina l’articolo
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ESPERIENZE ARIOSTESCHE
el ; il tipo în la terra per ne la terra, o il specchio per lo specchio ; l’aferesi nanzi per inanzi ; il plurale mano o mane per mani ; le forme avate per avevate ; serà e seria per sarà o saria, drieto per dietro ; si adottano gli imperfetti di prima persona in -a, si reintegrano le preposizioni tra verbi reggenti e infiniti. Ma l’ibridismo linguistico del primo Cinquecento implicava, oltre a quella dialettale, una forte componente latina, segno della persistente soggezione del volgare alla lingua madre. L'autonomia del toscano significò, presso i teorici e i poeti, il termine di questa soggezione. Cosi, l’Ariosto sostituisce, sempre nella terza edizione, battezzare a battizzare (I, 9, 6; XVIII, 56, 6; XXXVI, 73, 6; XXXVIII, 18, 45 XL, 19, 6; ecc.), entrare a intrare (II, 61, 6; VIII, 32, 7;
85; 1; XV, 04,1; XVI; 55} 6; XLVI, 130, 4, ecc.), sospetto al suspetto:(1;v22;0:33406; [2:43 aVo4808 VIL 7001) completa, espungendo cicada VIII, 20, 6, incetta III, 19, I ed erradicare II, 40, 2, disgombrare XVIII, 143, 8; divietare VII, 61, 1; XIV, 103, 2, la decisa potatura di latinismi lessicali (cOmere I, 76, 2, dolato XIII, 37, 3, essicio XIII, 3, 6,
implicato XIII, 38, 7, tuto XIX, 60, 7) e di composti di tipo latino (condolersi II, 39, 3, deportamenti VII, 17, 3, dischiodare XII, 50, 6, malconstante VII, 18, 8, pinifero III, 55, 2) già attuata in B. Queste correzioni l’Ariosto attuava con orecchio di poeta, non con rigore di grammatico. Donde la non completa sistematicità dei mutamenti, e donde anche il recupero a scopo stilistico di forme condannate. Cosî soave sostituisce in genere suave, che però è conservato «dove pare si esprima un intimo soddisfacimento più pieno e profondo » (Debenedetti); ed è mantenuto il latineggiante murmurare, che anzi sostituisce mormorare nei versi onomatopeici: «cosf murmura e stride e sì coruccia / quel mirto offeso, e al fine apre la buccia » (VI, 27, 7-8). Orecchio di poeta, gusto sicuro, decretarono pure l’eliminazione di parole che facevano macchia nell’armonioso verso: parole troppo espressive, o burlesche, o gergali, o arcaiche: ceffo, improperare, ostiero,
2.
STORIA
INTERNA
DELL’« ORLANDO
FURIOSO »
37
ricovro, scrignuto, soia, sudoroso (rispettivamente XIV, 120,
Salle ORI L\, 5,10 XIIL, sg VI 36,0; Insrpog #X;038; 4; tmproperare e sudoroso già eliminati in B). Anche le correzioni di lingua si risolvono dunque in perfezionamenti di stile. Ma ad individuare le aspirazioni stilistiche del poeta contribuiscono ancor più le correzioni più ampie, quelle di sintassi e di metrica, quelle che rifanno in tutta la loro struttura le ottave. Esse indicano infatti, entro la generica elaborazione linguistica, da quali posizioni, o verso quali mète, il poeta abbia mosso la sua invenzione. Il completo rinnovamento dei temi cavallereschi aveva lasciato, nella prima edizione, alcune tracce della tecnica popolaresca con la quale essi venivano svolti prima del Furioso : ripresa di parole tra una proposizione e l’altra, facile cantabilità delle rime baciate finali. Queste tracce vengono progressivamente eliminate: «Ma con sospir Rinaldo al caval trarsi, / con sospir che parean del foco usciti », diventa: «Ma il buon Rinaldo al suo cavallo trarsi / con sospir che parean del fuoco usciti » (II, 18, 5-6); nello stesso modo: « E quella donna riconobbe, quella / che l’amoroso incendio in cor gli ha messo », diventa:
«E riconobbe l’angelica faccia
/ che
l’amoroso incendio in cor gli ha messo » (I, 81, 5-6). Nelle rime baciate, si elimina ogni parallelismo troppo meccanico, delle parole e della sintassi: «Da indi in qua tutte le cose averse / furo a costei, tanto che ’l regno perse », diventa: «Da indi in qua sempre Fortuna a sdegno / ebbe costei, fin che le tolse il regno » (XI, 5, 7-8); nello stesso modo: «Con gaudio e festa entrar fa ne la terra / Arimanno e Odoardo d'Inghilterra », diventa: «Odoardo raccoglie et Arimanno / ne la città, col lor popul britanno » (XVI, 85, 7-8). Ed apparteneva pure alla tradizione canterina la ricerca di effetti comici attraverso espressioni familiari o plebee. Ma se nella prima e nella seconda edizione l’Ariosto scrive ancora: « Rinaldo si cacciò ne l’acqua a nuoto / per aiutarsi, e la fatica perse », nella terza sostituisce: «e quasi si sommerse » (VI, 42, 1-2); e
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ESPERIENZE ARIOSTESCHE
se là scrive: «Che ’1 gigante crudel gli tra’ la buccia, / sel mangia crudo, e sorbe il sangue e succia », qui sostituisce: « Ch’altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia, squarta, e vivo alcun ne ’ngoia » (XV, 43, 7-8).
/ molti
ne
Quasi sempre l’Ariosto riusci, miracolosamente, a far coincidere la maggior elezione stilistica con esattezza e felicità di immagini. Per esempio: « Trovan la piazza più di sangue ereda / che molte volte non è d’acqua stagno, / dove
poveri e ricchi, e re e vassalli / giaccion sossopra, et uomini e cavalli ». Questi versi della prima e della seconda edizione son cosî trasformati nella terza: «Vengon nel campo, ove fra spade et archi / e scudi e lance in un vermiglio stagno / giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, / e sossopra con gli uomini i cavalli » (XVIII, 182, 5-8). L’Ariosto concepi sin dagli inizi un ideale sintetico dell'ottava, attuato dapprima sotto tensione, poi con distesa armonia. L’ideale era perseguito spesso nella prima edizione attraverso il contrasto fra lo schema sintattico e quello metrico, con una spirale di enjambements di tendenza prosastica. Per esempio: «Sicura dal leon, per li boschi erra / la leonessa, e presso a l’orso giace / l’orsa; col lupo è la lupa sicura ». Ma nella seconda e nella terza edizione abbiamo: « L’orsa con l’orso al bosco sicura erra, / la leonessa appresso il leon giace; / col lupo vive la lupa sicura » (V, I, 5-7). E se nella prima si legge: « Perché di cibo e nutrimento brama / non abbiano a patire, avea il palagio / fornito si, che vi si sta con
agio », nella seconda e nella terza troviamo invece: « Perché di cibo non patischin brama, / sî ben fornito avea tutto il palagio, / che donne e cavallier vi stanno ad agio » (XII, 22, 6-8). Ancora nella seconda edizione quell’ideale era attuato con ipèrbati e prolessi, abbandonati nella terza: «la maggior crudeltade e la più espressa / che fosse a Tebe, Argo o Micena mai / o in altro più crudel luoco commessa ». Questi versi diventano nella terza edizione: «la maggior crudeltade, e la più espressa / ch’in Tebe o in Argo o ch’in Micene mai / o
2. STORIA INTERNA DELL’« ORLANDO FURIOSO »
39
in loco più crudel fosse commessa » (V, 5, 2-4). Cosi da « La spada, il scudo e fe’ l’elmo perfetto / far tutto a un tempo, e solo a questo effetto » si giunge a «l’elmo e lo scudo fece far perfetto, / e il brando insieme; e solo a questo effetto » (XIV, 118, 7-8). Analogamente, seconda edizione: «Di busti senza capo e bracci monchi, / di spalle e gambe et altre membra sparte / piena avendo la piazza, al fin si parte ». Terza edizione: « Lasciando capi fessi e bracci monchi, / e spalle e gambe et altre membra sparte / ovunque il passo volga, al fin si parte» (XVIII, 20, 6-8). Si potrebbe dunque dire che nella tecnica ariostesca si attua un passaggio dal contrasto all’alleanza di sintassi e di metrica. Passaggio documentabile con correzioni di questo tipo. Prima edizione: «Poi che Ruggier fu d’ogni cosa in punto, / avendo già debite grazie rese / a quelle donne, a cui sempre congiunto / col cor rimase, uscî di quel paese ». Seconda e terza edizione: «Poi che Ruggier fu d’ogni cosa in punto, / de la fata gentil commiato prese, / alla qual restò poi sempre congiunto / di grande amore, e usci di quel paese» (X, 68, 1-4). Prima edizione: «Giace del cavallier in su la strada / morto il caval: Ruggier, ch’al fatto attende, subito inchina l’animo...». Seconda e terza edizione: « Giace morto il cavallo in su la strada. / Ruggier si ferma, e alla battaglia attende;
17, 57) Riequilibrato
/ e tosto inchina l’animo... » (XI,
pa
dina
il verso, le immagini apparivano con purezza cristallina; né più si potevano ammettere affievolimenti o indugi. Di qui la cura portata, come osserva Contini, a «rassodare il mezzo del verso, isolarvi una nuova entità ritmica, trovare un tempo forte di più ». Basti citare un esempio: « E ben che possan tor non poca preda, / par di salvar la vita amplo guadagno ». I due versi sono stati corretti co-
sf: « E ben che possan gir di preda carchi, / salvin pur sé, che fanno assai guadagno » (XVIII, 182, 1-2).
40
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
La misura dell’ottava appare dunque con tutta la sua eccellenza nella terza edizione. Per questo il poeta le dedica tante cure. Noteremo soltanto la caccia che egli diede agli endecasillabi di quarta e settima, o l’eliminazione di troncamenti poco canonici, come trastul (IV, 22, 7) e metàl (IV, 5, 3), sostituiti con piacer e ferro ; e infine il superamento di certi indugi ritmici, causati da eccessivo uso di dieresi. « Giunse in l’ulterior Sarmazia » diventa « Giunse alle parti di Sarmazia»; «da l’ostinazion ch’avea Baiardo » diventa «Da l’ostinata furia di Baiardo »; « Pit... / de l’ostinazion puote il timore » diventa « Pur... / più de l’ostinazion poté il timore » (rispettivamente X, 71, 6; II, 8, 2; XXI, 54,8).
Limpida come un arcobaleno, vediamo ormai flettersi davanti a noi la parabola tematica, stilistica e linguistica dell’Ariosto. La parabola si presenta con la medesima curvatura a chi osserva, invece che le correzioni apportate al poema a distanza d’anni, i mutamenti e i pentimenti rilevabili negli autografi. Ma gli autografi ci permettono di scendere, lungo quella parabola, sino a un segmento ancora inesplorato, più vicino alla luce della creazione poetica. Immagina, l’ Ariosto, una scena; e dalle brume della fantnasia questa esce sempre più netta nei colori, nei suoni, nella tonalità sentimentale. Il poeta si fa spettatore della propria immaginazione. Le brutte copie ci documentano appunto la tensione del creatore ad approfondire, concretare, precisare, ciò che egli ha intravisto dapprima in modo generico e scialbo. Siamo nel canto XI. Tra le ottave 34 e 35 si assiste al differenziarsi e all’ordinarsi delle sensazioni visive e auditive. Orlando sta per incontrare l’Orca: «gonfiar vede in questo la marina », scrive l’Ariosto; ma corregge: «muggiar sente», ecc.; e completa con: «e rimbombar le selve e le caverne »; sicché dopo il preannuncio sonoro, il giganteggiare del mostro appare visualmente solo alla fine: « Gonfiano l’onde, et ecco il mostro appare ». Viceversa, se l’ottava successiva inizia con un'immagine pittorica (« Come d’oscura valle umi-
2.
STORIA
INTERNA
DELL’« ORLANDO
FURIOSO »
4I
da ascende / nube di pioggia »), l’iperbole, ancora visiva, abbozzata per chiuderla, è sostituita dall’eco del fragore che misura lo spazio dell’apparizione: « Rimbombano al rumor che di lei s’ode / le selve, i scogli e le lontane prode ». Nell’ottava 36 invece, l’immagine di Orlando che si appresta alla lotta è già chiara al poeta, ma è espressa con la precisione e l'indifferenza di un enunciato: «L’àncora, con la gòmona che pende / da l’àncora, apparecchia e in mano prende ». L’ Ariosto se ne accorge subito; e, correggendo, accentra l’immagine intorno al coraggio sovrumano dell’eroe: « L’àncora con la gòmona in man prese; / poi con gran cor l’orribil mostro attese ». Infine, nell’ottava 42, il progresso è dall’erudizione all’immagine. Un freddo riferimento al braccio «che strinse Anteo / e squarciò il griffo all’animal Nemeo » lascia infatti il posto alla magnifica descrizione dell’agitarsi impotente dell’Orca: «Facendo mille guizzi e mille rote / siegue la fune, e scior non se ne puote ». E quante di queste immagini sono abbandonate dal poeta non appena balenate alla sua mente:
mezzi versi, abboz-
zi di rima, frammenti di ottava. Residui di una felicità inventiva cui ci sembra, leggendo gli autografi, di partecipare. Constatando questa felicità, e conoscendo d’altra parte la disciplina e lo sforzo di perfezionamento a cui essa è stata sottoposta, si fa forse più consapevole, più profonda la nostra ammirazione per il maggior poeta del Rinascimento. E anche
la nostra gratitudine.
i
n
è DI
LÀ CULTURA
3. LA BIBLIOTECA
DELL’
ARIOSTO
Se l’amore per gli studi e il rimpianto di essere stato troppo presto strappato loro trovano espressione soltanto nella solitudine aspra della Garfagnana, è segno forse che il de-
stino dell’Ariosto non fu in sostanza troppo avverso alla vocazione della sua anima. Lo studio attento e sistematico rappresentò insomma per lui un momento
fecondo,
necessario,
ma
non
definitivo;
la
malinconia con cui egli rievoca la sua giovinezza umanistica è quella di chi abbandona la mente alle memorie: dell’infanzia e delle villeggiature reggiane, dei primi amori e delle prime poesie. Comunque, nell’affidare il figlio Virginio alle cure del grande Bembo, Ludovico accenna con dolce orgoglio alle letture in cui egli stesso, condottolo con sé in Garfagnana, l’ha
guidato: Già per me
sa ciò che
Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio; e le plautine scene ha vedute, guaste e a pena vive;
e ciò anticipa alla nostra ricerca alcune delle propensioni del poeta. Anche Ludovico aveva incominciato a contemplare il mondo della bellezza, e ad esprimerlo, con la guida dei poeti latini, secondo le belle consuetudini di allora. Tuttavia solo nelle prime sue liriche latine si può avvertire un gioco compositivo di erudito: l’abilità sempre più signorile e sicura con cui egli rimaneggia il repertorio classico tende fin dagl’inizi a una ricreazione stilistica. Quasi si potrebbe mettere al fianco dei principali toni tentati dalla prima lirica ariostesca, il nome dei poeti che più giovarono nell’attuarli.
40
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
Ed ecco cosi l’elegante epigrammaticità ispirata dai poeti dell’Antologia greca, forse conosciuta attraverso traduzioni; e la viva espressione dei sentimenti e delle passioni, appresa da Catullo e Properzio; e i grandi, fluenti paesaggi tratteggiati con la guida di Virgilio o di Lucano; ma soprattutto
l’equilibrio sovrano degli elementi, la capacità di porre limiti alle corse dell’ispirazione: equilibrio di cui Ludovico è debitore, oltre che a Orazio, al principe dei prosatori, Cicerone. Ma
all’Ariosto,
nella cui voce,
quando
ricorda
il suo
maestro Gregorio da Spoleto, trema la commozione che la memoria del padre stesso non riesce a destargli, non fu dato di godere troppo a lungo gli ozi dello studio; del resto, forse, egli sentiva già che sarebbe stato non umanista illustre, ma poeta grandissimo. Cosi le rime volgari prendono veloci il sopravvento sui carmi latini; inevitabilmente sotto il segno del Petrarca. Eppure l'imitazione del Petrarca, modello tirannico dei nostri poeti cinquecenteschi, è nell’Ariosto molto più libera che negli altri, e comunque diversa. Non che manchino nella sua opera reminiscenze o citazioni petrarchesche, tutt'altro; ma neppure vi è un tentativo di adeguazione totale alla tematica e alla stilistica del poeta di Laura. Ciò che l’Ariosto trae dal Petrarca è solo nelle prime rime il bruto materiale lessicale e sintagmatico; presto egli si sente signore della poesia, e il Petrarca gli diviene esemplare e non suggeritore. Al Petrarca, cioè, egli chiede senz’altro il segreto della pura espressione e della melodia. Dagli amori furtivi con le Lidie e le Licori, dai sogni riposti del poeta, alla vita agitata della Corte. Tale fu il destino di Ludovico; e pure non gli nocque. Lo troviamo fin dai primi anni nientemeno che in veste di regista: a tradurre per le scene Plauto e Terenzio, a stendere egli stesso nuove commedie volgari, naturalmente di stampo classico. Sono altri elementi acquisiti per la sua opera maggiore; ché dello studio dei comici ebbe poi a giovarsi chi doveva muovere sul più grande palcoscenico della poesia i cento personaggi del Furioso.
3. LA BIBLIOTECA DELL’ARIOSTO
47
E un’altra opera, diversa di lingua e di stile, doveva ritornare spesso, in quegli anni, tra le mani di Ludovico: il Decameron. Perché l’Ariosto, nella sua strada di prosatore, non era più guidato dall’ininterrotta traccia che lo poteva congiungere idealmente, come rimatore, alla tradizione toscana;
rendendo spedito, a lui emiliano, il discorso poetico. L’Ariosto ricorse dunque, per la prosa, al Boccaccio, cercando di proiettare sul piano di un parlato attuale le ricche invenzioni espressive che rivestivano i volumi stilistici del Decameron.
Ne nasce un incontro aspro di realtà viva e
di remota tradizione affrontata troppo improvvisamente; ma anche riprese tematiche, e narrazioni bene scandite, armoni-
che nel tutto e nelle parti, pronte alla commozione come al riso. E ora, tra questi ideali maestri dell’Ariosto, se ne fa avanti uno che non ci attenderemmo in cosî poco austera compagnia: il severo, accigliato Dante. Invero, se nel Furioso spicca qualche espressione dantesca o qualche perifrasi medievaleggiante, è evidente lo scopo scherzoso; ma certe rime aspre ci conducono già in clima di più rispettosa adesione. Si tratta di un corretto usufruimento dello stile comico (in senso retorico) di Dante, volto all'attuazione di motivi realistici o espressionistici. E di ciò le prove più impegnate si trovano nelle Satire: che se nel loro complessivo aspetto colloquiale e nei toni più quietamente rinunciatari mostrano spiccate simpatie per le Epistole di Orazio, si spingono a durezze dantesche nei momenti più rabbuiati e amari: nell’accusa e nel sarcasmo. RETE A questo punto, dopo aver elencato sommariamente le opere più care all’Ariosto, non è possibile dire al paziente lettore: la biblioteca del poeta esiste, comunque è nota, e li contiene. La biblioteca dell’ Ariosto è dispersa; né doveva essere molto ricca. Ludovico non era bibliofilo:
nessuna sua lettera
48
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
parla di libri, se non, per necessità, dei suoi; e si potrebbe aggiungere che, in un secolo di umanisti e di letterati di mestiere, egli metteva le attività dell'anima al riparo dalle proprie vicende di uomo. A questa osservazione giungono di rincalzo, e quasi severi, i biografi del poeta, particolarmente suo figlio: « Non fu molto studioso — egli scrive — e pochi libri cercava di vedere. Gli piaceva Virgilio; Tibullo nel suo dire; ma grandemente commendava Orazio e Catullo; ma non molto Properzio ». Affermazione che crediamo esatta, quando s’intenda che, nell’orizzonte poetico dell’Ariosto, di pochi autori era imponente e costante la presenza ispiratrice. Ma aggiungeremo subito che le sue letture vastissime sono attestate dalle sue fonti, che comprendono un numero davvero cospicuo di opere, e spesso ben poco note. Se ci siamo tanto soffermati sulle opere minori dell’ Ariosto, è perché in realtà la sua formazione si completa e si documenta quasi tutta entro il loro ambito. Le letture che però resero possibile, nei più marcati tratti esteriori, la creazione del Furioso, sono di altro genere: in lingua volgare, e di tipo narrativo e popolaresco. L'incontro con la letteratura
cavalleresca (che di questa si tratta) fu comunque un incontro piuttosto tardivo; o meglio, un incontro della cui importanza il poeta non si accorse subito. Si potrebbe aggiungere che nella vita poetica dell’Ariosto esso corrispose alla scoperta del giusto cammino: e ce lo mostrerebbe facilmente una scorsa al primo tentativo epico di Ludovico, l’Obizzeide, goffo ordito classicheggiante per
una trama petrarchesca. Eppure la materia cavalleresca aveva una parte cospicua nella vita culturale di Ferrara. Nata dagli entusiasmi guerreschi e religiosi del remoto medioevo francese, arricchita dalle esotiche avventure del ciclo arturiano e dalla passione fatale di Tristano e Isotta, l’epica, dopo essere giunta ai
3. LA BIBLIOTECA
DELL’ARIOSTO
49
volghi di tutta Italia, e specialmente di Toscana, aveva ritrovato nella Corte estense una nuova nobiltà; di nuovo l’ar-
te le aveva sorriso. Le grandi epoche della cultura trovano uno schema letterario in cui poter riversare la propria ricchezza di poesia: il nostro Cinquecento lo trovò nella forma cavalleresca,
con
una
parabola che, avendo
il Furioso
nel
suo punto più alto, parti dall’Orlando Innamorato per giungere alla Gerusalemme Liberata. Lo schema cavalleresco era quello che permetteva di ribaltare su un piano fantastico l’uomo, con tutta la complessità della sua natura e delle sue azioni (l’uomo, la scoperta del Rinascimento); ed era pure quello che poteva accordare la libertà dei singoli elementi narrativi alla compattezza della composizione e della contemplazione. Viene da questo la massima latitudine nella scelta delle fonti, perché l’elemento centrale non consisteva più nel tema delle vicende, bensi nel senso di vita che da esse si sarebbe sprigionato e nella bellezza che esse avrebbero collaborato a creare. Per questo, quando si tratti del Furioso, le fonti non possono essere distribuite in ordine di importanza, ma solo, quan-
titativamente, in base ai prelievi che il poeta vi operò; né ci stupirà più che si tratti spesso di opere di secondo piano. L’Ariosto infatti ricorse regolarmente alle versioni più diffuse, e conobbe il Tristan e il Lancelot solo dai lunghi rimaneggiamenti in prosa; e si servi assai spesso delle tarde manipolazioni italiane:
dalla Spagna ai cantari di Andrea da Barberino;
e si abbandonò talora alle offerte del caso, per esempio accordando una singolare attenzione a compilazioni spagnole quali l’Amadis de Gaula e Tirante el blanco, perché ne esistevano esemplari a Ferrara. Le fonti cavalleresche, veramente, servivano all’Ariosto solo come repertori tematici; nuovo Mida, era possibile a lui trasformarle in oro. Ben altro l’atteggiamento verso le opere classiche: di reverenza e di emulazione. Non per nulla, scor-
50
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
rendo il volume fondamentale del Rajna, è facile accorgersi che quasi tutte le concidenze testuali, cioè di forma, di stile,
sono con poeti latini: e non solo con i prediletti Catullo Virgilio Orazio Stazio Lucano Ovidio, ma con Valerio Flacco, e Apuleio, e Manilio...
L’Ariosto riusci in tal modo ad attuare quell’ideale che già ad altri aveva sorriso: di un’opera letteraria in cui le favole cortesi e amorose e burlesche del medioevo si snodassero con quella perfezione di discorso che la letteratura latina sfoggiava agli occhi ammirati dell’artista cinquecentesco. Era l’ideale del Boiardo,
al cui Orlando
Innamorato,
quasi in segno di omaggio e d’ideale continuità, il Furioso si collega. E sono infiniti i casi in cui l'avvio fantastico è dovuto al Boiardo;
o in cui i vecchi racconti tornano a muoversi
con quello stesso ritmo che egli ha loro impresso. Cosî, di fronte alle mansioni puramente strumentali delle altre opere cavalleresche o novellistiche (dalle Novelle del Sercambi al Mambriano), si può dire che il volume del Boiardo fosse per l’Ariosto un amico continuamente interrogato, un
paragone alla bellezza del poema nuovo.
Se tale bellezza poi era destinata ad oscurare quella dell’Innamorato, ciò era dovuto, oltre che al merito del poeta, al fatto ch'egli aveva dato luminosa soluzione a tutti i problemi linguistici e stilistici di fronte ai quali il Boiardo si era per lo più attenuto a partiti provvisori. Forse il verso dell’Ariosto, giunto con la guida del Petrarca alla massima purezza di espressione, ebbe a giovarsi, nella costituzione dell’ottava, del precedente polizianesco. E nel passaggio dalla svelta ottava cristallina della Giostra a quella fluente e sempre variata del Furioso è adombrata la storia intensa di quell’epoca felice di poesia.
4. UN REPERTORIO LINGUISTICO E STILISTICO DELL’ARIOSTO: LA COMMEDIA
L’Ariosto non cita mai Dante!; Boiardo,
come non
cita mai il
ilPetrarca.
Sono frequenti in cambio (e costituiscono una gigantesca antonomasia) le allusioni ai tre regni d’oltretomba e ai
1 Quest’ analisi ragionata delle riprese dantesche dell’ Ariosto è, a quanto so, la prima. Semplici raccolte di materiali (particolarmente meritoria per diligenza quella del Maruffi, nonostante l’ingenuità dell’impianto critico) sono dovute a L. O. KuHns, Some Verbal Resemblances in the
Orlando
Furioso
and
the
Divina
Commedia,
in
« Modern
Lan-
guage Notes » X (1895), pp. 340-47; G. MARUFFI, La Divina Commedia considerata quale fonte dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata, Napoli 1903; H. HAUVETTE, Réminiscences dantesques dans le Roland Furieux, in Mélanges... A. Jeanroy, Paris 1928, pp. 299-306. Altri raffronti s'incontrano essi sono
stati tutti
nei commenti
controllati
antichi
e vagliati,
e moderni
in modo
da
del Furioso;
eliminare
rasso-
miglianze troppo vaghe e non pertinenti, nel mio commento mondadoriano, base principale di questo lavoro. Gli spogli ora proposti (probabilmente ancora lontani dalla completezza, ma sufficientemente sintomatici) sono alquanto più ampi, grazie a ricerche dirette o ad ulteriore analisi della bibliografia. Quanto alle opere minori, oltre al mio commento ricciardiano ho utilizzato,
per le Satire, quelli di C. Berardi,
Venezia
19292, M. Ferrara,
Firenze 1932, A. Marenduzzo, Milano 1933, e per i Cinque Canti lo studio di Lea Rossi, Saggio sui « Cinque Canti » di Lodovico Ariosto, Reggio d’Emilia 1923, pp. 46-50. Sono escluse da questa ricerca le altre opere dell’Ariosto (in cui l’influsso dantesco è ad ogni modo piuttosto episodico) per mancanza di qualunque indagine in proposito. I rinvii non preceduti dalla sigla CC (Cinque Canti) o Sat. (Satire) sono da intendersi riferiti al Furioso. 2 Forse troppo sottile la spiegazione di questo silenzio proposta da R. BAccHELLI, Codicillo ariostesco, in La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti ariosteschi, Milano 1958 (Opere XV), pp. 637-52.
52
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
loro frequentatori, fatte secondo gli schemi creati da Dante nella Commedia. Incontriamo cosi Caronte: ...et a Caron dissi con alti gridi: « Dopo morte non vo’ lo spirto levi di questo bosco... Corse lo spirto all’acque, onde tirollo Caron nel legno suo col graffio adunco Esser Caron lo giudicò da lunge che venisse a portarlo all’altra riva
(XXXVI,
(XLII,
65, 5-7);
9, 5-6);
(CC IV, 36, 1-2)
(cfr. Inf. III, e in particolare, per il terzo brano:
«i’ vegno
per menarvi a l’altra riva », 86); Chirone: tra quelli spirti che con suoi compagni fa star Chiron dentro ai bollenti stagni
(XIII, 36, 7-8)
(cfr. Inf. XII, 71 sgg.; ma i « bollenti stagni », pure in CC II, 13, 2, vengono da Inf. XXII, 141); lo stagno di Cocito: ...git sin da Cocito scesa, e più là, ...
in su la proda (XXXIII,
127, 7-8)
(cfr. Inf. XXXI, 42, dove si parla della sua « proda »); il fiume Acheronte: Alle squalide ripe d’Acheronte...
(XLVI,
140, 5)
(cfr. Inf. III, 71); la città di Dite, con le sue meschite (XL, 33, 4-6, in rima le due parole, come in Inf. VIII, 68-70); e vediamo ricordata una delle pene del Purgatorio (Purg. XXIII, 22-36): ...più di quelli macro che stan bramando
in purgatorio il pomo
(Sat. VII, 155-6).
4. UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA
»
59
D'altra parte un indizio dell'importanza di Dante per l’Ariosto si trae già dalla citazione implicita del proemio: Le donne
e i cavallier,
l’armi
e gli amori
(E
che deriva infatti da Purg. XIV, 100: Le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi.
E si può aggiungere il caso di un verso di Dante usato a solenne apertura di canto: Tutti gli altri animai che sono in terra ...gli animai che sono terra
(VEGLIE (L71102)
Sono anzi moltissimi i riecheggiamenti di espressioni o frasi di Dante con il valore di un’allusione implicita, quasi familiare: in eterno da te non fia divisa questi, che mai da me non fia diviso
(LVAMIGaRZoE (af AViar35);
qualunche s’adagia, il re d’Algiere / ...uccide batte col remo qualunque s’adagia
ognun l’ammira, e gli fa grande onore Tutti lo miran, tutti onor li fanno
(XV, 62, 8): (Za f@BIVisix33);
ma poté la pietà più che ’1 timore (CISSE
3:
(XVII, 48, 5) 0205)
più de l’ostinazion poté il timore poscia, più che ’1 dolor, poté ’1 digiuno venuti in man degli avversari loro venuto a man de li avversari suoi Tenner lo ’nvito senza alcun sospetto soli eravamo,
e sanza alcun sospetto
SCIARE TO,7=8)ì (CT IRBE, app
(XXI, 54, 8): (Inf. XXXIII, 75); (XVIII, 091, 8): (Inf. XXII, 45); (SEXGATO7ZIET)E (2
MViMitzo);
54
ESPERIENZE ARIOSTESCHE ... gridando: Mora, mora! (:) ... a gridar: Mora, mora! (:)
3)E (SSL. (L'axWVIIIG875)5
né che ben giusto alcun giudicio cada Giusto giudicio da le stelle caggia
(CCCKRIISTO TREO) (Purg. VI, 100);
col dolce stil di che il meglior non odo di qua dal dolce stil novo ch'i’ odo
(XXSXCVILIMMTo 0) (Purg. XXIV, 57);
e va quanto più può con vele e remi con la vela e coi remi / quantunque può
Ove la familiarità gimento di giochi perché svolta sul in un rapporto di riosto e Dante: e cada come
(GG 114272: 05) (Purg. XII, 5-6).
può spingersi fino alla ripresa o allo svoldi parole, con una giocosità al quadrato, piano formale, alla pari con Dante, e poi complicità e di voluta disinvoltura tra 1’A-
corpo morto cade
e caddi come corpo morto cade io credea e credo, e creder credo il vero com’io credo che credi, e creder déi
(LES55
4)
(nf Votr42); (IX23:07) (XIII TOT72)E
Cred’io [var. io credo] ch’ei credette ch’io credesse (Inf. XIII, 25);
e par ch’aggiunga un altro sole al cielo (X, 1009, 8); ch’orna a’ di nostri il ciel d’un altro sole (COTXVII, 17,09) parve giorno a giorno / essere aggiunto, come... / avesse il ciel d'un altro sole adorno (Pax 21, 61-3)5 Gli è teco cortesia l’esser villano e cortesia fu lui esser villano e tornò il pianto in riso Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto Non,
per andar,
(COSVITIRE 7061) (Inf. XXXIII, 150); (XXVIII, 39, 4): (Inf. XXVI, 136);
di ragionar lasciando,
non di seguir, per ragionar, lor via
(XXXI,
34, 1-2):
4. UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA
né ’1 dir l’andar, né l’andar lui più lento facea, ma, ragionando, andavam forte
Ma
»
55
(Purg. XXIV,
1-2);
poste per simil fallo in simil pena a simil pena stanno / per simil colpa
(COSV) (Inf. VI, 96-7);
E vo’ dolermi, e fin ora mi doglio Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
(XXXVI, 78, 5): (Inf. XXVI, 19).
si tratta di familiarità che non incrina, tutt'altro,
il ri-
spetto, come mostra il richiamo a frasi di Dante in forma di auctoritates : Se per amar, l’uom debbe essere amato Amor, ch’a nullo amato amar perdona
(XIV (Inf. V, 103)
e il verbo «ditta », (si noti che subito dopo s’usa per Amor 59, I, come in Purg. XXIV, 54); O esecrabile Avarizia, o ingorda / fame d’avere... (XLIII, 1, 1-2): Perché non reggi tu, o sacra fame / de l’oro l’appetito de’ mortali? (Purg. XXII, 40-41);
riferimento che una volta ha una funzione, si potrebbe dire, eponima o pseudo-eziologica. Dante aveva scritto, in una sua comparazione: Si come
ad Arli, ove Rodano
stagna
fanno i sepulcri tutt’il loco varo
(Inf. IX, 112-5);
ebbene, l’Ariosto ci dà la «spiegazione » del fatto, rubando
le vesti di storico e di archeologo a Turpino: egli scrive infatti che nella battaglia contro Agramante vi furono tanti morti che presso ad Arli, ove il Rodano stagna, piena di sepolture è la campagna
(XXXIX,
72, 7-8).
50
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
L’importanza di Dante per l’Ariosto non sta in riprese di episodi o riquadri completi: basti vedere, nel Rajna*, che
sarebbero solo sei i contatti sicuri di questo genere tra Dante e Ariosto (vicini ai quattro del Cieco da Ferrara e ai sei di Valerio Flacco, contro i tredici del Tristan o i ben ventinove di Ovidio). L’utilizzazione dell’opera di Dante è più sottile e diffusa: pari solo a quella del Petrarca, o dei classici latini. Partiamo
dalle
derivazioni
utilitarie,
in cui l’opera
di
Dante funge soltanto come repertorio linguistico. Anzitutto: derivazione di parole (Tavola A). Si nota subito che il linguaggio fortemente caratterizzato di Dante ha fornito, oltre a un bello stock di rime (cimiterio, guazzo, rancia, trito,
sortilla, fesso, dotta ecc.), parole a forte concentrazione semantica (raccogliere «ascoltare », adocchiarsi «riconoscersi», îngordo «desideroso », agognare «augurare », cadere « scendere »), che sono spesso — inventate o no da Dante — vere trovate linguistiche (sedere, avallarsi e lavare, detti di fiumi,
consistoro dei beati, romita,
buccia,
ruminare
ecc.);
termini fortemente espressivi (spallaccie, scoglio, s'adocchiàr,
3 Ne Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002, pp. 169, 178, 18I, 420, 537, 545, P. Rajna considera imitati direttamente dalla Commedia: I. La discesa di Astolfo nell’Inferno (XXXIV), specie per l’offerta,
alle anime,
di portar loro
notizie
ai vivi
(9; cfr. Inf. XIII,
52-4;
XXVIII, 92), per la posizione delle donne colpevoli verso amore all’inizio dell'Inferno (10), come nel r° girone di quello dantesco stanno gli amanti (Inf. V), per la descrizione della caligine (6), affine a quella di Purg. XVI, 1 sgg.). II. La descrizione di Erifilla (VII, 3) e della Cupidigia (XXVI, 31), che arieggiano la lupa di /rf. I, 40 sgg. III. La descrizione dei sepolcri di Arli, già citata qui. IV. La trasformazione di Astolfo in mirto (VI, 26 sgg.), imitata da /nf. XIII, 31. V. La descrizione del paradiso terrestre (XXXIV, 50), dedotta da quella di Purg. XXVIII, 7-11, oltre che da Purg. VII, 73-81 (citata avanti). VI. La descrizione della Frode (XIV, 80-91), simile a Gerione (Inf. XVII, 10-18). Altri raffronti meno sicuri sono raggruppati nell’indice del volume del Rajna; mentre il numero dei sicuri risulta, anche da questo nostro scritto, più ampio.
4. UN REPERTORIO: LA « COMMEDIA »
57
sacco, cuticagna, dischioma) o parole con funzione nobilitante, che dànno un incremento di solennità (tuba, suffolta, cacume, corregge); esse appartengono a una serie più vasta, quella dei latinismi di mediazione dantesca (/arva, nota, profano, metro, moto, redire, deserta, corregge, indulto, sitire ecc.), che proprio per l’autorizzazione di Dante devono essere stati risparmiati dall’ Ariosto anche nell’ultimo Furioso (alleggerito in genere dei latinismi più violenti, cfr. p. 36). Se si passa a sintagmi e gruppi più complessi (Tavola B), si ritrovano i motivi appena enucleati: rime (senza far motto,
membra
sparte, uscir del chiuso, dove
non luca,
a’ panni), parole a forte concentrazione semantica e trovate linguistiche (occhi e atti bieci, erboso smalto, occhi supini, gravar le ciglia, l’arena pesta), termini espressivi (occhi più che bracia rossi, aer fosco, avide canne, gonfiate labbia) o con funzione nobilitante (Miserere di me, maestro e donno, alta fantasia, antiqua fiamma, mondo cieco), latinismi (valle inferna). Ma qui si coglie, in più, l’elemento allusivo, quasi di citazione implicita (a viso aperto, benigno aspetto, morta gora); l’allusività è scherzosa quando il sintagma viene portato in un contesto tonalmente più umile o marcatamente eterogeneo (maestro e donno è riferito ai papassi saraceni, antiqua fiamma è l’amore tutto terreno di Ricciardetto per Fiordispina, fiero pasto è quello delle arpie), altre volte è autoironica (alta fantasia). E già si può notare un elemento, del resto ovvio, che si potrebbe designare come « vischiosità »: una parola per rima ne porta con sé un’altra (XL, 33, 4-6, cit. a p. 52; XXVII, ORD NXIX 35047003 ag AAAII=3752XLVL,.2,, 1;,.05, 050 2[11::305;(CGIp7m. 6xsempremella TawsAyeco,ecc.); una reminiscenza è seguita da un grappolo di altre (XIII, 36 a p. 52; XV, 83, 5 nella Tav. C). Sarebbe ormai troppo facile applicare la stessa nomenclatura a riprese verbali che, più ampie d’un sintagma o d’un frammento di frase, presentano i materiali danteschi sotto lo sforzo della rielabora-
58
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
zione, nella giacitura o nella scelta delle parole, da parte dell’Ariosto: strappati a un sistema stilistico, essi si riassestano nell’altro, diversissimo, in cui sono trapiantati (Tavola C). TAVOLA viaggio
A
« via » I; 33: 6; IV, 8, 6.ecc.
=
InjeRicgon
sedere (fra Varo e Rodano siede) II, 64, z = magna e quel di Carlo) cimiterio (:) III, 12, 1 = Par. XXVII, guazzo (:) III, 20, 6 = Inf. XII, 139
Purg. V, 69 (siede tra Ro-
25
rancia (:) « ingiallita » IV, 34, 4 = Purg. II, 9 adizza IV, 46, 4 = Inf. XXVII, 21 spallaccie VI, 37, 4 (della balena) = Inf. XVII, scarso
« restio » X, 6, 6 =
Par.
XVII,
oI1 (di Gerione)
3
turbo « turbine » X, 40, 4 = Iwf. III, 30 scoglio « pelle scagliosa » X, 104, 8 = Purg. II, 122 trito (:) XII, 56, 4 (detto di sentiero, via) = Inf. XVI, 40 tuba « canto epico » XIII, 65, 4; XXXV, 26, 2; Sat. VII, 170 = Par. XXX, 35 sortilla (:) XIV, 23, 3 = sortille (:) Par. XVIII, 105 suffolta XIV, 50, 3; suffolse (:) XXVII, 84, 7; suffolti (:) XXXV, 9, 5; suffulti XLII, 77, 2 = soffolge (:) Inf. XXIX, 5; soffolce (:) Par. XXIII,
consistoro
130
« consesso
dei beati » XIV,
100,
7 =
Par.
XXIX,
67
avallarsi XV, 64, 5 (detto di fiume) = Inf. XXXIV, 45 larve « maschere » XVII, 46, 5 (:parve); XXII, 19, 1 (:parve: apparve); XXXIX, 7, 7; XLII, 65, 5 (:parve) = Purg. XV, 127 (:parve: apparve) fesso (:) « apertura » XVII, 53, 4 = Inf. XX, 24 bizzarro (:) « iracondo » XVIII, 3, 7 = Inf. VIII, 62(:) dotta (:) « paura » XVIII, 159, 3 = Inf. XXXI, I1o0(:) fattura « creatura » XVIII, 162, 2 = Purg. XVII, 102 collegio « comunità » XX, 78, 4 = Inf. XXIII, or romita « assorta » XX, 104, 4 = Purg. VI, 72 buccia (:) « pelle » XX, 120, 1 = Purg. XXIII, 25 si specchia « guarda » XXI, 7, 1 = ti specchi Inf. XXXII, 54 comprese (:) « vide » XXII, 37, 3 (cfr. XXVIII, 60, 3) = Purg. XXXI,
78(:) disagio (: malvagio)
« penuria » XXIII,
4, 4 =
Inf. XXXIV,
99
4. UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA
»
59
raccolte (:) « comprese » XXIII, 32, 3 = ricolte (:) Par. IV, 88 calca « calpesta » XXIII, 35, 5 = Inf. XIX, 105 nota « pecca » XXIII, 41, 7 = Purg. XI, 34 profano (:) « empio » XXIV, 84, 6 = Inf. VI, 21(:) sincera « pura » XXV, 87, 8 = Par. VII, 130 gorgiera (:) XXVI, 35, 6 = Inf. XXXII, 120 vallea
XXVI,
66, 5 =
Inf. XXVI,
affonde (:) « sommerga ge ») rtuminare
» XXVI,
« riflettere » XXVII,
29
III, 3 = 1,7
=
Par. XXVII,
Purg.
XXVII,
121
(« sommer-
oI
marche (:carche) « province » XXVII, 129, 6 = marca (:carca) Purg. XIX, 45 s’adocchiàr « si riconobbero » XXVIII, 56, 5 = t’adocchio Inf. XXIX, 138 dispaia (:) « separa » XXIX, 23, 5 = Inf. VII, 45 (:) cacume (:fiume) « cima » XXIX, 35, 4 = Par. XX, 21 (:fiume) cadere « scendere » XXIX, 54, 4 = Purg. XII, 106 scheggion « sporgenza » XXIX, 55, 1 = Inf. XXI, 89 metro (:vetro) « misura » XXIX, 63, 3 = Purg. XXVII, 51 (:vetro) orizzon XXXI, 22, 4 = Purg. IV, 70(:) scaltri (:altri) « scaltrisca » XXXII, 57, 8 = scaltro (:altro) « scaltrisco » Purg. XXVI, 3 roggia (:) « torrida » XXXIII, 126, 6 = Inf. XI, 73(:) acquistare « avanzare » XXXIV, 45, 3 = Inf. XXVI, 136 mirabilmente « miracolosamente » XXXIV, 73, 5 = Purg. XXV, 86 biche
« mucchi
mota
(:) « mossa » XXXVIII,
redire
» XXXIV,
76,
(:) « tornare » XXXVIII,
1 =
Inf.
39, 6 = 52, 6 =
XXIX,
66
Purg. XXIII, Par.
19
XVIII,
11
divino (:) « indovino » XL, 9, 3 = divina (:) Purg. IX, 18 deserta (:) « abbandonata » XL, 36, 1 = diserto (:) Inf. XXVI, corregge « governa » XL, 50, 6 = Inf. V, 60 feggia (:) « ferisca » XLII, 6, 6 = Inf. XV, 39; XVIII, 75 segno
« statua » XLII,
81,
1; 95,
2 =
Purg.
XII,
102
47
indulto « concesso » XLII, 87, 5 = indulse Purg. XXVII, 97 sitire « bramare » XLIII, 109, 5 = Purg. XII, 57 lavare « bagnare (detto d’un fiume) » VI, 34, 2; VIII, 35, 2; X, 92, 6; XS0NS,
Bo, 2
=
247%
VAS,
55
tuono (:suono) « rumore » XLVI, 2, 1 = Par. XXI, 142 (:suono) disfatto « morto » XLVI, 46, 4 = Inf. VI, 42 pieta (:lieta) « dolore » XLVI, 65, 6 = Inf. XXVI, 04 nutrico (:) Sat. III, 25 = Purg. XVI, 78 sezzai (:) Sat. III, 140 = Par. XVIII, 93
60
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
attendere « mantenere » Sat. III, 187 = Inf. XXVII, 110 ingordi (di volerla) Sat. III, 222 = ingordo (di riguardarla) Inf. XVIII, 118 agogna (:vergogna) « augura » Sat. III, 305 = Inf. XXVI, 9 sgannare
Sat. V, 39 =
Inf. XIX,
21
vivagni (:compagni : stagni) « rive » CC I, 71, 6 = Inf. XIV, 123 (vi vagno : stagno); XXIII, 49; Purg. XXIV, 127 (vivagni : compagni)
TAVOLA
B
studiare il passo I, 17, 6 = Purg. XXVII, 62 occhi bieci II, 5, 4; atto bieco V, 62, 3 = opere bieche Inf. XXV, 31 occhi... più che bracia rossi II, 5, 4 = occhi di bragia If. III, 109 con larghe ruote IV, 24, 8 = Inf. XVII, 98 senza far motto (:) V, 56, 1 = Inf. XXXIII, 48 tenere
il viso asciutto V, 61, 3 =
in su l’erboso smalto (:salto Inf. IV, 118 Miserere...
di me
VIII,
Inf. XX,
21
: alto) VI, 23, 4 = sopra
46, 5-6
=
’l verde smalto
Inf. I, 65
aer fosco (:tosco) VIII, 82, 2 = aura fosca (:tosca) Inf. XXIII, 78 le gonfiate vele (:) IX, o1, 7 = Inf. VII, 13 maestro
e donno
XII, 59, 6 =
alta fantasia XIV, 65, 1 = gli occhi... supini (:) XIV,
Inf. XXXIII,
28
Par. XXXIII, 142 69, 5; XXVII, 28, 3 =
Purg:
XIVÌ
0
valle inferna (:) XV, 5,5 = Purg. I, 45 membra sparte (:parte) XVI, 89, 6 = Purg. XII, 33 (:parte) avide canne (:) XVII, 42, 8 = bramose canne Inf. VI, 27 uscir del chiuso (:muso) XVII, 59, 1 = Purg. III, 79 gravar... le ciglia XVII, 108, 2 = Par. XI, 88 la età novella (:) XVIII, 166, 4; XXXVI, 67, 5 = Inf. XXXIII, 88 alla spola, all’aco, al fuso XIX, 72, 1 = l’ago, / la spuola e ’1 fuso Inf. XX, 121-2 dove non luca (:) XXI, 47, 2 = ove non è che luca Inf. IV, 151 antiqua
fiamma
gonfiate
labbia
XXV,
49, 8 =
(:arrabbia)
Purg.
XXVIII,
XXX,
25,
48
5 =
infiata
labbia
(:rabbia)
NATE a viso aperto XXIX,
5, 5; Sat. I 21 = Inf. X, 93 in piede « tra gli artigli » XXIX, 10, 4 = Purg. IX, 27 genti grosse XXIX, 23, 6 = gente grossa Inf. XXXIV, 02 più che stral da cocca (:) XXIX, 64, 1 = come da corda cocca XVII,
136
(:) Inf.
4. UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA »
6I
l'arena pesta XXIX, 66, 8 = la rena trita Inf. XVI, 40 camin malvagio XXIX, 71, 4 = Inf. XXXIV, 95 nel mondo cieco XXXI, 96, 8 = in questo mondo cieco Inf. XXVII, 25 entrar inanzi XXXII, 59, 7 = Purg. XXIV, 100 benigno aspetto XXXIII, 47, 7 = Purg. VII, 104 monte alpestre XXXIII, 110, 1 = alpestro monte Purg. XIV, 32 fiero pasto (:guasto) XXXIII, 122, 7 = Inf. XXXIII, 1 fiamma viva XXXIV, 51, 6 = Purg. XXX, 33 ne’ lor secreti (:) « nel loro intimo » XXXIX, 75, 7 = nel tuo secreto (CRU a T06 man
violente
XL,
32,
5 =
man.
violenta
Inf. XI,
40
nel sangue e ne l’aver XL, 32, 6 = Inf. XII, 105 si poco gli calse XLI, 47, 7 = si poco a lui ne calse Purg. XXX, morta gora XLIII, 195, 6 = Inf. VIII, 31 Sinon
falso
XLVI,
82, 3 =
il falso Sinon
Inf. XXX,
135
98
a’ panni (:anni) XLVI, 88, 3 = Inf. XV, 40 (:anni) costà sotto il polo Sat. I, 35 = là sotto il freddo cielo Inf. XXXII, 27 le montagne...Rifee (:) Sat. I, 45 = le montagne Rife Purg. XXVI, 43 ne l’alto seggio (:peggio) Sat. III, 15 = Inf. XXVII, 111 con si saldi chiovi Sat. IV, 42 = con maggior chiovi Purg. VIII, 138 Dio Sabaot Sat. VI, 26 (lezione rifiutata) = Par. buone scorte (:) Sat. VI, 149 = Purg. XXVII, 19
VII,
1
al caldo e al gielo (:) Sat. VII, 83 = Inf. III, 87 spada e pastorale CC II, 52, 5 = Purg. XVI, 109-110
TAVOLA
C
occhi... d’ogni baldanza privi III, 61, 2 = Li occhi... e le ciglia avea rase / d’ogni baldanza Inf. VIII, 118-9 Attenta e fissa stava IV, 23,
5 =
Noi eravam
tutti fissi e attenti Purg.
Tris
e coronate
di frondi novelle VI, 72, 6 = coronati ciascun di verde fronda Purg. XXIX, 93 un... duol l’orecchie gli feria XI, 83, 4 = ne l’orecchie mi percosse un duolo
Inf. VIII,
65
spicciar il sangue di si larga vena XII, 76, 4 = come sangue che fuor di vena spiccia Purg. IX, 102 dipinte di pietade il viso pio XIV, 74, 4 = nel viso mi dipigne / quella pietà Inf. IV, 20-21 altri ne scuoia, / molti ne squarta XV, 43, 8 = scuoia e disquatra [var. ed isquatra] Inf. VI, 18
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
62
la chioma in man s’avolse XV, 83, 5 = i capelli in mano avvolti Inf. XXXII, 103 (e subito dopo cuticagna (:) 85, 5 = 97; dischioma 87,2 = 100) all’uscir del chiuso Purg. III, 79 avea
XVII,
(:muso)
le luci inebriate
XVIII,
117,
1 =
59, 2
=
escon
avean
del chiuso
le luci
mie
(:muso)
si inebriate
Inf. XXIX, 2 Con esso un colpo il capo fesse e il collo XXI, 49, 1 (con esso un colpo XL, 35, 2) = a cui fu rotto il petto e l’ombra / con esso un colpo Inf. XXXII, 61-2 sparvier... nel piede grifagno (:compagno) XXI, 63, 1; falcon grifagno (:stagno:compagno) XXV, 12, 3 = sparvier grifagno (:compagno: stagno) Inf. XXII, 139 non v’inveschi l’ale XXIV, 1, 2 = inviscate l’ali Inf. XXII, 144 fu diffuso / il parlar XXXIV, 68, 1-2 = fu lo suo parlar diffuso (:) Purg. XXXII,
9I
gravò... d(i) some (:) « chiese un favore » XL, 78, 5 = disposta avea la soma (:) « aveva soddisfatto la mia domanda » Purg. XVIII, 84 e le bolgie infernal cercare
intorno XLIV,
5, 4 =
cercate
intorno
le bo-
glienti pane Inf. XXI, 124 [per il vento] fuggon le fiere, e col pastor l’armento XLV, 72, 5 = [il vento] fa fuggir le fiere e li pastori Inf. IX, 72 un rumor... che s’aggira (:spira : adira) XLV, 112, 5 = un tumulto, il qual s’aggira (ira : spira) Inf. III, 28 or giaccion per le chiese e per li chiostri Sat. V, 57 = La gente che per li sepolcri giace Inf. X, 7 levò la bocca alla percossa grande / da le amare e pestifere vivande CC I, 40, 7-8 = La bocca sollevò dal fiero pasto Inf. XXXIII, 1
È naturale che Dante, con l’infinita varietà e ricchezza del suo linguaggio, sia stato seguito particolarmente dell’ Ariosto nell’ambito della tecnica. Possiamo citare ad esempio gl’interi sistemi di rime utilizzati dall’Ariosto — quasi sempre rime rare o a forte carica espressiva‘ (Tavola D). 4 Occorre però avvertire che qui, in mancanza di rimari sistematici della poesia italiana dei primi secoli, i criteri della rarità o dell’espressività sono appunto quelli che permettono di evidenziare i più probabili rapporti Dante-Ariosto. L’eventuale ripresa, da parte dell’Ariosto, di rime dantesche « facili » è solo dimostrabile, per ora, quando soccorrano prove supplementari (coincidenza con particolarità lessicali, se-
4. UN REPERTORIO:
LA « COMMEDIA »
TAVOLA pieta
: cheta
delubri
II, 59,
: colubri
III,
D
2-6 26,
63
Inf. I, 19-21 2-4;
colubri
:
colubro
:
rubro
Ttubri VIII, 67) 03-57 XIII, 63, ‘1-3 sevra 5 : persevra : Ginevra V, 26, 1-5 Mezzo: .rezzo ©: ribrezzo V, 50, 1-5; XXIII, I0I, 1-56
Par. VI, 77-81 Par. XVI, 11-15 Inf. XVII, 83-7
occulto
Par.
92,
rmsepulto
7-8;
XLI,
INVII;
62,
2-45
XXXII
VII56:8
1-3
reo : Briareo VI, 66, 7-8 novembre : membre : insembre IX, 7, I-5; membre : rimembre : settembre Sat. VII, 53-7
stilo 8 filo biscia (cfr. cinque
: delubro
: filo : Nilo X, 56, 2-6; stilo : XV, 90, 4-6 : liscia : striscia X, 103, 2-8 XIII, 38, 7-8 : biscie : liscie) : relinque : propinque XII, 19,
Inf. XXXI, 98-102 settembre : insembre membre Inf. XXIX, 4751; novembre : rimembre : membre Purg. VI,
143-7 Purg. XXIV,
62-6
Purg. VIII, 100-102
Par. IX, 38-42
1-5 speglio
: veglio
XII,
82,
1-3;
XIV,
9,
Inf. XIV,
103-5
SD sempre I-5; Sat.
: stempre tempre :
: tempre distempre
XIII, 20, : sempre
Purg. XXX,
92-6
V, 212-6
mantiche, sintagmatiche). Appunto il maggior peso, sulla bilancia, del piatto destinato al lessico o di quello destinato alle rime, ha suggerito di distribuire gli elementi documentari nelle tavole precedenti (dove sono già segnalate tra parentesi similarità di rima) o in questa. Avverto poi che mi sono limitato, con l’eccezione di casi che mi parevano indubbi per altri motivi, alla ripresa di sistemi completi di tre
rime;
se
ci si accontenta
dell’identità
di due
rime,
questa
tavola
può essere notevolmente incrementata. 5 Con seura « discosta ». 6 A XXIII,
101, 3 c'è anche
morte a XXXI, 104, 6 (:mezzo). 7 Con sepulto « nascosto ». 8 Con stilo « stile ».
ribrezzo
« brivido », che è quello della
64
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
registra
: sinistra
2-6 oncia : concia
balestre
ministra
XIV,
72,
silvestre
120,
XIII,
36,
Par.
2-6
finestre?
XIV,
veltro
: feltro
torce
: raccorce
: peltro XIV,
130,
: force XV,
IX, 53-7 : silvestra
balestra
: finestra
Inf. I, 101-5
2-6
Par.
86, 2-6
volpe : colpe polpe 10 XVI, 13, 2-6; XXVII, 27, 2-6 sape ? cape i rape !I XVII, 46, 2-6 strozza : ingozza XVIII, 81, 2-6 : guazzo
pazzo austro
52-7
Inf. XIII, 98-102
2-6
pazzo
Inf. XXIX,
: cagnazzo
: guazzo claustro
XIX,
42, 1-5;
Sat. VI, 104-6 plaustro XIX,
78,
XVI,
5-9
Inf. XXVII,
71-5
Par. XXVIII, 68-72 Inf. VII, 125-9 Inf. XXXII, 68-72 Purg. XXXII,
95-9
1-5 ponno
: donno
: sonno
goccia guizza
: doccia : adizza
: roccia XXIV, 51, 1-5 : drizza XXIV, 106, 1-5
XX,
61, 2-6
stagno
: grifagno
: compagno
XXV,
12,
Inf. XXXIII, 26-30 Inf. XIV, 113-7 guizzo : drizzo : adizzo Inf. XXVII, Inf. XXII,
17-21 137-41
1-5 sirocchia 28, 86,
causa
occhi
: conocchia
1-5;
adocchia
: adocchia : sirocchia
XXV,
Purg. XXI, 26-30
XLIV,
1-5
:
pausa : ausa ! XXVI, 19, 1-5 : accocchi : tocchi XXVII, 72, 2-6
spiccia
: arsiccia XXIX,
risposto
: proposto 13
59, 7-8 : tosto
XXX,
43,
1-5 medesmo : battesmo : paganesmo XXXI, 44, 2-6; medesmo : battesmo : cristianesmo
XXXVIII,
22,
2-6
Par. XXXII, Inf. XXI,
Inf. XIV, 74-6; Purg. IX, 98102 tosto : disposto : proposto Inf. II, 134-8
battesmo medesmo battesmo Purg. XX,
? Con 10 Cfr. più che di !! Con 12 Con 1 Con
finestre « aperture ». p. 75 per il sintagma ossa volpe. rape « trascina ». ausa « ardita ». proposto « proposito ».
59-63
98-102
cristianesmo Inf. IV, 35-9; paganesmo
XXII,
89-01;
Par.
125-7
e polpe, e per di cui l’opere fur
4. UN
talpe 4 biche
; Alpe XXXIII, : antiche
crebre
REPERTORIO:
XXXIV,
: tenebre XLII,
LA « COMMEDIA »
18, 7-8 76,
65
Purg. XVII, 1-3 Inf. XXIX, 62-6
1-6
47, 3-5
crebra
: tenebra
Par.
XIX,
65-9 impara
: zara
Sat.
I, 116-29
Purg.
calvo : salvo : alvo Sat. I, 218-22 rotto : sotto : di botto Sat. I, 248-52 macro
sacro
VII,
Sat.
I,
260-64;
IX,
castiga : briga stimo : primo mozzo : sozzo delibra : libra serocchie
acro
155-9
VI,
Sat. II, 7-9 : ad imo Sat. II, 152-7 !5 Sat. II, 220-22 Sat. II, 242-4
: ginocchie
Sat. III,
coltregsipoltiegoltresSa
17-21
gUl7=51
1-3
Purg. XXVII, 23-7 Inf. XXII, 128-32 sacra : acra : macra Inf. II, 49-51 Par.
I, 134-8
Inf. XXVIII, 19-21 dilibra libra Par.
XXIV,
orbo
coil:
: sorbo
trial
Sat.
IV,
Vor7i-5
104-8
collit: molli : satolli Sat. VI, 50-4 plebe :Iebe Sat. VI, 82-4 guancie : lancie : ciancie Sat. VI, 155-9
XXIX,
2-4 ginocchia : serocchia Purg. IV, 107-I1 coltre : spoltre : oltre Inf. 44-8;
oltre
tre Purg. XXIV, pacigeglo
Purg.
134-8
: pol-
131-5
latra atra Inf. VI, 14-6, Par. VI, 74-8; patre : a-
tre Purg. XXX, 50-4 sorbi : orbi Inf. XV, 65-7 Purg.
XXIV, 122-6 Inf. XXXII, 11-3
Par. XXIX,
110-14
Riappare anche qui la «legge di vischiosità »: VIII, 67 (liti rubri), più tutte le rime commentate in nota, e quelle di Sat. VII, 155, che anche nel contenuto alludono al Purgatorio.
La «legge di vischiosità» non va considerata naturalmente come a senso unico: se per lo più si deve partire dalla
decisione dell’Ariosto di usare in rima una certa parola (il caso più evidente è quello dei nomi propri), ed essa avrà trascinato con sé un sintagma corrispondente o un sistema 14 Con talpe « talpa ». 15 Per il sintagma col capo mozzo, cfr. co’ crin mozzi in Inf. VII, 57.
66
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
di rime, altre volte sembra che il sistema di rime preceda, nell’interessamento del poeta, i contenuti corrispondenti, come indicano certe descrizioni che vengono sostanzialmente trasformate, ma lasciando incolumi le rime: Come d’alto venendo aquila suole, / ch’errar fra l’erbe visto abbia la biscia, / o che stia sopra un nudo sasso al sole, / dove le spoglie d’oro abbella e liscia... (X, 103, 1-4): Tra l’erba
e i fior venia
testa, e ’1 dosso 100-102) Gli augelli... / hanno più li colombi... / sciano star
la mala
/ leccando
striscia,
come
/ volgendo
ad
bestia che si liscia
ora
ad or
(Purg.
la
VIII,
...vanno in fuga pieni di paura, / né di cibo né d’altro cura (XXXIII, 125, 7-8): se cosa appare ond’elli abbian paura, / subitamente lal’esca / perch’assaliti son da maggior cura (Purg. II,
124-9).
La derivazione verbale non è limitata a parole e sintagmi: frasi intere sono assorbite e rielaborate, quasi sempre a riconoscimento della loro ricchezza descrittiva o espressiva: TAVOLA
E
Ogni pelo arricciossi, / e scolorossi al Saracino il viso (I, 29, 2-3): già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura (Inf. XXITI, 19-20); scolorocci il viso (nf. Vi 131); brancolando
n’andava
già cieco, a brancolar
come
sovra
cieco
ciascuno
(XI 9562)
(Inf. XXXIII,
73);
...-per tutto era fatato / fuor che là dove l’alimento primo / piglia il bambin (XII, 48, 2-4): e quella parte onde prima è preso / nostro alimento (Inf. XXV, 85-86); Mentre sua doglia cosi rinovella (:favella) (&IL32065)8 Tu vuo’ ch’io rinovelli (:favelli) / disperato dolor (Inf. XXXIII, 4-5);
4. UN REPERTORIO: LA « COMMEDIA » fin giù dove lo stomaco è forcuto l’altro che l’uomo ha forcuto
67 (XVIII, 53, 4): (Inf. XXX, 51);
e fe’ cadere a quel furor la vela (XXVII, 109, 8): Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte... (Inf. VII, 13-4); Si morde il papa per dolor le labbia Le mani insieme si percosse e morse ambo le man per lo dolor mi morsi
(XXXIII, 4I, 2); (XLIII, 164, 5): (Inf. XXXIII, 58);
con spaziose ruote in terra scese le rote larghe, e lo scender sia poco
(CSS (Inf. XVII,
scérse / di molte cose di silenzio degne parlando cose che ’1 tacere è bello
(XXXIV, 62, 1-2): (Inf. IV, 104);
come accade ch’un pensiero / un altro dietro, mena E come l’un pensier de l’altro scoppia
2) 98);
e quello un altro (XLIII, 64, 1-2): (Inf. XXIII, 10);
O terra, acciò ti si gettassi dentro / perché allor non t’apristi insino al centro? (XLIII, 140, 7-8): Ahi dura terra, perché non t’apristi? (Inf. XXXIII, 63); nembo d’erbe e di fior d’alto si spande, / ...che... / donne e donzelle gittano a man piene (XLIV, 32, 4-8): e fior gittando di sopra e dintorno, / « Manibus o date lilia plenis » (Purg. XXX, 20-21);
con le man proprie squarcierà la fascia (:lascia : ambascia) / che cinge l’alma (XLV, 58, 5-6): quella fascia (:lascia: : ambascia) / che la morte dissolve
(Purg. XVI, 37-8).
Le reminiscenze dantesche conservano spesso, nelle riprese da parte dell’ Ariosto, la loro originaria struttura ritmica e sintattica. È una buona occasione per constatare la continuità di procedimenti che caratterizzano, generalizzati, lo stile dell’Ariosto: coppie sinonimiche, di sostantivi o aggettivi, ecc. (IV, 61, 5-6; XVIII, 3, 3-4; XIX, 77, 2; XXIII, 90, I ecc.) (Tav. F).
68
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
TAVOLA
F
corrispondenti fai nostri desiri foran discordi li nostri desiri Tra si e no la giovane suspesa che no e si [var. si e no] nel capo mi tenciona ...è volga in riso il pianto ...® tosto tornò in pianto oltre ch’onor e fama
(LI 21,82) (Par @IIl74)p (LISROST®5)L (/rf. VIII, 111); (IIS 2IO)k (Inf. XXVI, 136);
te n’aviene
ch’in eterno da te non fia divisa perché onore e fama li succeda questi, che mai da me non fia diviso
per esser valoroso a maraviglia né per parer dispetto a maraviglia ...né sfiorato il Giglio (:) ... disfiorando il giglio che ’1 ragionarne pur mette paura che nel pensier rinnova la paura
a quel parlar alzò l’ardita faccia tanto ch'io volsi in su l’ardita faccia
(IV, 61, 5-6): (Par M@VicWt14); (Inf. V, 135);
(VESZISAE)E (Par. XI, 90); (CIVIT4O) (Purg. VII, 105); (SCLVEAR9 IS) (Inf. I, 6);
(IVA 2702)E (Purg. XIII, 121);
ma sol per contemplar sua bella guancia si trasse per formar la bella guancia
(XLV7957,09)E (Par. XIII, 38);
la rapiccava, che parea di cera (:era) Poi s’appiccar, come di calda cera (:era)
(XV, 69, 8): (Inf. XXV, 61);
e quando il va troncando a brano a brano coi denti la stracciava a brano a brano troncandosi co’ denti a brano a brano
(XV, 82, 4); (XXI, 52, 8); (Inf. VII, 114);
che del lor sangue oggi faranno un lago di sangue fece spesse volte laco
(XVI, 75, 6): (Inf. XXV, 27);
4. UN REPERTORIO:
LA « COMMEDIA »
perché tanta viltade in voi comprendo? perché tanta viltà nel cuore allette?
(XVI, 80, 3): (FS aer22):
ch'ad uno, o a dua, o a tre veniano in giostra a una,
a due,
69
(SVII72,
a tre, e l’altre stanno
(Purg.
4)
III, 80);
(NALE 10, 2) (Par. XI, 88);
stanco, o gravasse il sonno pur le ciglia Né li gravò viltà di cor le ciglia
a voi utile e onor sempre successe / denigrò sua fama egli (EVIL 34 perché onore e fama li succeda (Par. VI, 114); candido più che nievi ancor non la terza parea neve testé mossa “*di macchie e ‘di rotelle ...di nodi e di rotelle (:)
mosse
(XVIII, 78, 4): (Purg. XXIX, 126);
(:)
(KIE77A2)E (Inf. XVII, 15);
Di qua di là, di su di giù smarrita Di qua di là, di su di giù discorre di qua, di là, di giù, di su li mena
(COC40056); (SEVERA (Inf. V, 43);
che non pur tinge di rossor la guancia (:lancia) si che mi tinse l’una e l’altra guancia (:lancia)
Non però ch’altra cosa avesse manco Non però ch’altra cosa desse briga
(XX, 130, 6): (Inf. XXXI, 2);
(CERO E (Purg. VII, 55);
de la buona opra, qui poco gradita (:vita) fu l’ovra grande e bella mal gradita (:vita)
(XXI, 33, 4): (Ray N9129);
...qui si paga il fio (:) ...qui si paga il fio (:)
(XXII, 59, 4): (Purg. XI, 88);
La bestia, ch’era spaventosa e poltra come fan bestie spaventate e poltre
(COSI (Purg. XXIV,
dt 135);
credenza al ver c'ha faccia di menzogna sempre a quel ver ch’ha faccia di menzogna
(CCKV.I7822307)): (Unf.-XVI, 124);
che d’un piccol sentiero era segnato che da nessun sentiero era segnato
(XXVIII, 95, 4): (Ur:fWXIII3)5
70
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Vorrebbe de l’impresa esser digiuno vorrebbe di vedere esser digiuno
I) (SSA: (Inf. XXVIII, 87);
E se vuoi che di te porti novella se vuo’ ch’i’ porti su di te novella
(KXXIV, 10, I): (Inf. XXVIII, 092);
Tutto quel giorno, e l’altro fin appresso tutto quel giorno né la notte appresso
(XXXVII, 122, I): (Inf. XXXIII, 53);
che non vi bisognò priego né voto non sarà lor mestier voto né preco
(XICIVASTISES)E (Inf. XXVIII, 90);
che fu si altiera al mondo
e si orgogliosa
(:sdegnosa) (XLVI,
Quei fu al mondo
persona orgogliosa (:sdegnosa)
140,
8):
(Inf. VIII, 46).
In questi casi, molto più che gli emistichi (o segmenti anche più ampi) conservati dall’Ariosto (XVII, 72; XIX, 77; XX, 90; XXI, 29; XXII, 59), colpisce l’imitazione della
struttura
ritmico-sintattica della frase, con
gli accenti
battono sulle stesse sedi (IV, 61; XV, 69; XVI,
che
80; XXVI,
22; XXVIII, 95; XXXI, 25; XXXVII, 122) o su parole concorrenti (II}T;SVR18tXIV:4# 3179218590 130) 0 VvIC8=
versa il gioco di variatio attuato dall’ Ariosto sul materiale verbale e ritmico dantesco
(XV, 82; XVI,
XVIII:»3,78 AXI733;//AXLIIL: 00; XXXIV
75; XVII,
108;
LIVES:
XLVI, 140), talora limitato alla ripresa di una mera suggestione fonica (II, 65; III, 32). Altre volte i prestiti dell’Ariosto da Dante si riferiscono
a un altro settore della tecnica, quello del discorso narrativo, col suo ritmo, le sue interruzioni, le sue riprese. Ecco una serie di esempi: or seguitando, To dico,
dico
(CITI
seguitando
(Un
0)
SVI):
!6 È interessante il fatto che l’ Ariosto ha preso da Dante anche un’al-
tra metafora tratta dalla sfera semantica 122 (Tavola A).
della fame:
ingordo Sat. III,
4. UN
REPERTORIO:
LA « COMMEDIA »
7
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio, / finire il canto, e riposar mi voglio (XXXIII, 128, 7-8): ma perché piene son tutte le carte / ordite a questa cantica seconda, / non mi lascia più ir lo fren de l’arte (Purg. XXXIII, 139-4I); Si che continuando il primo detto E sé continuando al primo detto
POOA5. £, 59)E (Inf. X, 76);
Al tornar de lo spirto Al tornar de la mente
(XLIII, 158, 1): (Ip VAL 69
Taccia
chi loda Fillide o Neera
Taccia
Lucano
omai...
Taccia
(CI di Cadmo
e
d’Aretusa
5
de
Ovidio
(Inf. XXV,
94-7).
E si noterà nel primo un voluto scadimento tonale, in base al parametro della letteratura canterina e romanzesca, nel secondo
invece
un incremento,
un’arsi nell’intonazione
me-
dia del Furioso. *
>
Negli esempi addotti sinora, gli elementi danteschi, quasi tessere d’un mosaico, sono estratti dal poema divino e inseriti, con qualche ritocco, nel grande romanzo del Rinascimento. È tempo ora di esaminare i casi in cui le derivazioni istituiscono un contatto tra le due opere nella loro unità di significato e di narrazione, in cui insomma i prestiti portano bagliori, luci, atmosfere della Commedia nel FuriosO. I dati di questo genere, numerosissimi, ci presentano l’Ariosto allievo attento e avveduto, che trae insomma il massimo profitto dalla sua assiduità alla grande scuola. Egli infatti assorbe da Dante:
I. I procedimenti della profezia e dell’escatologia: Bradamante, / non giunta qui senza voler divino (III, 9, 1-2); Credi tu qui vedermi... sanza voler divino? (Inf. XXI, 82);
72
ESPERIENZE
pur credi che non (XXXIV, 55, ma credete / che chiar questa sin ch’oda
il suon
ch’al novissimo
ARIOSTESCHE
senza alto misterio / venuto sei da l’artico emisperio 7-8):
non sanza virtù che dal ciel vegna parete (Purg. III, 97-99); de l’angelica tromba
di forse fia desto
/ cerchi di sover-
(III, II, 2);
(XXIV,
6, 4, cfr. XXXIV,
più non si desta / di qua dal suon de l’angelica tromba mi mosse amore Amor mi mosse
(IV, 20, 6); pietade (Inf. II, 72);
e amor m’ha
59, 7-8):
(Inf. VI, 94,5);
mosso
(XXVI, 6, 2):
cieco abisso (« inferno ») (XI, 28, 3): cieco carcere (« id. ») (Inf. X, 58-9);
[Enoch ed Elia] che non han vista ancora l’ultima sera (XXXIV, 59, 4): Questi non vide mai l’ultima sera (Purg. I, 58); Gli è ver che ti bisogna altro viaggio
[nella luna] A te convien tenere altro viaggio (Inf. I, 91);
(XXXIV,
67, 1):
che col. M. e col. D. fosse notato / l’anno corrente dal Verbo incarnato (KXXV, 4, 7-8); che ’1 tempo si potria segnar con l’emme (CC II, T1083).: segnata con un’I la sua bontate / quando ’1 contrario segnerà un’M (Par. XIX, 128-9).
II. I procedimenti di denotazione dell’elemento sovrannaturale, divino, demoniaco, mitologico: Alchino
e Farfarello,
O santa
Dea...
nomi
di diavoli
/ ch’in cielo, in terra
184, 3 = O somma Sapienza... mal mondo (Inf. XIX, 11);
Colei che qua giù regge regge [Proserpina]
VII,
50,
1
e ne l’inferno
=
Inf.
XXI,
118-23;
mostri
ecc.
(XVIII,
/ che mostri in cielo, in terra e nel
[la Fortuna] (XX, 12, 8) = della donna che qui (Inf. X, 80);
l'antiquo aversario XXVII,
13,
1 =
Purg. XI, 20;
4. UN
l’angel nero XXVII,
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA »
16, 3 = li angeli neri Inf. XXIII,
73
131;
descrizione delle Arpie, con richiami testuali (le... arpie brutte XXXIII, 108, 4 = le brutte Arpie Inf. XIII, 10; L’alaccie grandi avean XXXIII, 120, 5 = ali hanno late Inf. XIII, 13); [Lucifero] pensò di muover guerra al suo Fattore (XXXIII, 100, 6): [Lucifero] contra ’1 suo Fattore alzò le ciglia (Inf. XXXIV, 35); il mio sommo il mio numi
alto Fattore
alto Fattore « beati
(Inf.
(CC IV, 78, 5):
III,
4);
del paradiso » XXXIII,
115,
4 =
Par.
XIII,
3I;
farsi amica Cirra (XXXV, 24, 7): perché Cirra risponda (Par. I, 36); Maia,
per Mercurio
XXXVII,
17,
3 =
Par.
XXII,
144;
descrizione di san Giovanni evangelista (XXXIV, 54) e dell’eremita (XLI, 52), imitate da quella di Catone (in part.: di molta reverenzia e d’onor degno XLI, 52, 8 = degno di tanta reverenza in vista Purg
I;082); i duo primi parenti (Adamo ed Eva) (XXXIV, (i)l primo parente (Adamo) (Inf. IV, 55); (i)l gran vermo
(«il demonio»)
XLVI,
60, 7):
78, 4= Inf. VI, 22 («Cerbero »).
III. Elementi descrittivi per paesaggi infernali e paradisiaci, con eventuali connotazioni allegoriche: ritrovossi in una selva oscura II, 68, 4; aspra solinga, inospita e selvaggia VIII, 19, 4; camino aspro e selvaggio XV, 094, 5; bosco spesso e forte XXIII, 5, 6: mi ritrovai per una selva oscura Inf. I, 2; selva selvaggia e aspra e forte INTRISO: Aspro concento, orribile armonia / d’alte querele, d’ululi e di strida (XIV, 134, 1-2); levossi un pianto, un grido, un'alta voce, / con un batter di man ch’andò alle stelle (XVI, 21, 5-6):
74
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonaron per l’aere sanza stelle / (...) / Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle (Inf. III, 22-7) fece le strida più crebre
/ con un batter di man
gire alle stelle (XXIII,
46, 3-4);
e l’aria ne senti percossa e rotta / da pianti e d'urli e da lamento eterno (XXXIV, 4, 6-7): Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle (Inf. III, 22-3); Quivi le strida, il compianto, il lamento (Inf. V, 35); Paradiso terrestre XXXIV = Paradiso terrestre e valletta dei principi (e di tutti [gli odori] faceva una mistura / che di soavità l’alma notriva XXXIV, 51, 3-4 = ma di soavità di mille odori / vi facea uno
incognito
e indistinto
par che vaghi...
XXXIV,
to... Purg. XXVIII,
Purg. VII,
50,
5 =
80-81;
Un’aura
Una
dolce
dolce, sanza
aura
che ti
mutamen-
7-8).
IV. L’allegoria, specie per i contenuti moraleggianti: Molti suoi figli [di Erifilla] son, tutti seguaci (VI, 79, 7): Molti son li animali a cui [l’avarizia] s'ammoglia (If. I, 100) (e il lupo = l’avarizia VII, 3, 6 = Inf. I, 49-54);
bellezza eterna et infinita grazia / che ’1 cor notrisce e pasce, e mai non sazia (X 45. 7-8): al pan de li angeli, del quale / vivesi qui, ma non sen vien satollo (AA, DUE, sa) descrizione della XVII, 7);
descrizione
con
(XIV,
della Cupidigia
I, 49-51)
descrizione
Frode
87) arieggiante
(XXVI,
31-3) con
quella di Gerione
elementi
della
lupa
(Inf.
(Inf.
e di Gerione;
dell’Avarizia
(XXVII,
31-42)
arieggiante
quella
di Gerione,
allusioni anticlericali;
come [la Fortuna] tosto alzi e tosto al basso metta (XLV, 6, 3): E quando la Fortuna volse in basso... (Inf. XXX, 13); ch’el sia di sua grandezza in basso messo (Purg. XVII, 117).
4.
UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA
»
V. La tecnica della concettosità polemica, procedimenti stilistici : di finzioni
padre IV, 3, 2 =
padre di menzogna
75
con
Inf. XXIII,
i suoi 144;
le fraudi sue volpine V, 73, 4; di cui l’opere fur più che di volpe (:colpes:ossale polpe) XVI, 13:52: l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe (:colpe : d’ossa e di polpe) Inf. XXVII, 74-5;
ha dato per guardian lupi arrabbiati (« governanti ») (XVII, 3, 8) (e cfr. lpifapreti Sai V,425)E in vesta di pastor lupi rapaci (Par. XXVII, 55); de tutti i vizii il vaso vasel
d’ogne
froda
nati solo ad empir
(i)l tristo sacco
(XVII,
124,
(Inf. XXII,
82);
di cibo
il sacco
1):
(XXXV,
21,
6):
/ che merda fa di quel che si trangugia
(Inf. XXVIII,
26-7); che le virti premendo, et esaltando / i vizii, caccian le buone arti in bando (XXXV, 23, 7-8); l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto / li buoni (Sat. IV, 100-101): calcando i buoni e sollevando i pravi (Inf. XIX, 105); ch’aggiunto al mal voler gli ha la natura / una possanza fuor d’umana sorte (XXXVII, 4I, 3-4): [l’argomento de la mente] s’aggiugne al mal volere ed a la possa (Inf. XXXI, 56); Ah
sfortunata plebe, / che dove del tiranno utile appare, / sempre è in conto di pecore e di zebe! (XXXIX, 71, 2-4): Oh sovra tutte mal creata plebe /.../ mei fosse state qui pecore o zebe!
(Inf. XXXII,
13-5);
invettiva antipapale Sat. II, 211-109, cfr. Inf. XXVII, Non è il suo studio né in Matteo né in Marco,
/ ma
85 sgg.; specula e contem-
pla a far la spesa (Sat. II, 196-7): Per questo l’Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia (Par. IX, 133-5)
76
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
VI. La tecnica dell’incontro e del dialogo tra personaggi: accoglienza grata e onesta (IX, 21, 7); Poi che furo a iterar l’abbracciamento complessi
iterati
accoglienze
(XXXI,
belle...
32,
(XI, 63, 3);
6);
e poi ch’una
o due
volte
iterar
quelle
(CC
III,
105, 5); Poi che piangendo all’abbracciar più d’una / e di due volte ritornati furo (CC IV, 53, 1-2): Poscia che l’accoglienze oneste e liete / Furo iterate tre e quattro volte (Purg. VII, 1-2); e l’abbracciaro ove il maggior s’abbraccia (XXIV, 19, 3): e abbracciòl là ’ve ’1 minor s’appiglia (Purg. VII, 15).
VII.
La tecnica dell’allusione e del discorso evocativo:
Or giudicate s’altra pena ria / (...) può pareggiar la mia (II, 57, 7-8): Or vedi la pena molesta /.../ vedi s’alcuna è grande come questa (Inf. XXVIII,
130-32);
L’antiquo sangue che venne da Troia (III, 17, 1): L’antico sangue (Purg. XI, 61) che venne da Troia
Qual che tu sii...
/ 0 spirto umano,
qual che tu sii, od ombra
od omo
(Inf. I, 74);
o boscherecchia dea (VI, 29, 7-8): certo
(Inf. I, 66);
Ma
voglio sappi la prima radice (:felice) / che produsse quel mal che mi flagella (XIII, 5, 5-6): Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto (Inf. V, 124-5) (con altre reminiscenze); Mentre sua doglia cosi rinovella... (XIII, 32, 5): Tu vuoi ch’io rinovelli / disperato dolor (Inf. XXXIII,
4);
si che, continuando il primo detto (XXXV, 30, 1): E se, continuando al primo detto (Inf. X, 76).
VIII. Entro questo discorso, la tecnica della descrizione geografica : Fuor de la ricca mia patria, che siede... allato alla marina
(XLIITON6)8
Siede la terra dove nata fui / su la marina (Inf. V, 97, 8);
4. UN REPERTORIO: LA « COMMEDIA » fin che di Gange
nacque al mondo XI, 50-51);
uscisse il nuovo
un sole,
albore
(ID,
n
3106, II
/ come fa questo tal volta di Gange
del lito di Chiassi (:) (KXXIII, 39, 8): in su il lito di Chiassi (:) (Purg. XXVIII,
(Par.
20);
la terra, ove l’Isauro / le sue dolci acque insala in maggior vase (XLII,
89, 1-2); dove
l’acqua
di Tevero
s’insala (Purg.
II, 101);
quel monte che divide e quel che serra / Italia, e un mare l’altro che la bagna (Sat. III, 59-60): si com’a Pola presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna (Inf. IX, 113-14); dove il fiume di Molta è ricevuto / da l’acque d’Albi all’Oceàn correnti
(CC II, 98, 5-6): la terra dove l’acqua nasce / che Molta porta (Purg. VII, 89-9).
in Albia,
e Albia
in mar
ne
Sinora abbiamo, almeno in linea di massima, considera-
ti i rapporti tra Ariosto e Dante come rapporti tra allievo e maestro. Ma l’allievo era, si sa e si è visto, ben degno del maestro, se non pari a lui. Ora, c'è un ambito particolare di osservazioni in cui, più di quanto non abbiano fatto sinora, indubbi
rapporti con la Commedia si configurano in aspetto di concorrenza più che di imitazione. È quello che rientra sotto la rubrica tradizionale: «le comparazioni» (Tavola G). TAVOLA
G
anzi cozzaro a guisa di montoni (I, 63, 2) (cozzaro insieme come due becchi / cozzaro insieme (Inf. XXXII, 50-51);
I° red.):
Come ceppo talor, che le medolle / rare e vòte abbia, e posto al fuoco sia /...| dentro risuona, e con strepito bolle / tanto che quel furor truovi la via (VI, 27, 1-6): Come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’ capi, che da l’altro geme / e cigola per vento che va via (Inf. XIII, 40-42);
78
Non
ESPERIENZE
cosi strettamente s'abbiam(VILlazo
ARIOSTESCHE
edera preme
/ pianta
ove
intorno
abbarbicata
MI-2)i
Ellera abbarbicata mai non fue / ad alber si... (Inf. XXV,
58-59);
Ruggier si stava vergognoso e muto, / mirando în terra (VII, 65, 1-2): Quali i fanciulli, vergognando, muti / con li occhi a terra stannosi
(Purg. XXXI,
64-5);
e sembra forsennata [...] o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia, / vistosi morto Polidoro al fine (X, 34, 3-5) (cfr. Sat. VI, 172-3): Ecuba trista [...] poscia che vide Polissena morta, / e del suo Polidoro [...] si fu, la dolorosa, accorta, / forsennata latrò (Inf. XXX, 16-20); Simil battaglia fa la mosca audace / contra il mastin nel polveroso agosto /.../ negli occhi il punge e nel grifo mordace, / volagli intorno e gli sta sempre accosto; / e quel suonar fa spesso il dente asciutto, / ma un tratto che gli arrivi, appaga il tutto (X, 105): non
altrimenti
morsi
fan di state i cani,
/ or col ceffo, or col piè, quando
/ o da pulci o da mosche
o da tafani
(Inf. XVII,
Come toro salvatico ch'al corno / gittar si senta un improviso salta di qua di là, s’aggira intorno, / si colca e lieva, e uscir d’impaccio (XI, 42, 1-4): Qual è quel toro che si slaccia in quella / c'ha ricevuto già mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella (Inf. XII,
che meglio conterei ciascuna foglia,
/ quando
l'autunno
spoglia (XVI, 75, 7-8): Come d'autunno si levan le foglie... fin che ’1 ramo tutte le sue spoglie (Inf. III, 112-4);
son
50-52);
laccio / non può ’1 colpo 22-4);
gli arbori
ne
/ vede a la terra
Va con più fretta che non va il ramarro, | quando il ciel arde, a traversar la via (XVIII, 36, 5-6): Come ‘l ramarro sotto la gran fersa / dei di canicular, cangiando siepe | folgore par se la via attraversa (Inf. XXV, 79-81); Come il mastin che con furor s’aventa / adosso al ladro (XX, 139, 1-2): e mai non fu mastino sciolto / con tanta fretta a seguitar lo furo (Inf.
XXI, 44-5); Qual buono
astor che l’anitra o l’acceggia,
/ starna o colombo o simil
4. UN
REPERTORIO:
LA
« COMMEDIA »
79
altro augello /.venirsi incontra di lontano veggia, / leva la testa e sì fa lieto e dello (XXIV, 06, 1-4): Quasi falcone ch’esce del cappello, / move la testa e con l’ali si plaude, | voglia mostrando e faccendosi bello (Par. XIX, 34-6);
Come l’infermo, che dirotto e stanco / di febbre ardente, va cangiando lato ecc. (XXVIII, 90, 1-6) (in fine all’ottava infermo : schermo); Ma simile son fatto ad uno infermo, / che dopo molta pazienzia e molta / quando contra il dolor non ha più schermo ecc. (XXX, 2, 1-3). vedrai te somigliante a quella inferma | che non può trovar posa in su le piume, /ma con dar volta suo dolore scherma (Purg. VI, 149-51); come nave... / va di nochiero e di governo priva (XXXII, 62, 1-3): nave sanza nocchiere in gran tempesta (Purg. VI, 77); quella che di noi fa come il vento / d’arida polve, che l’aggira in volta, / la leva fin al cielo, e in un momento / a terra la ricaccia, onde l’ha tolta (XXXIII, 50, 1-4): facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
/ come
la rena
quando
turbo
spira (/rf. III, 28-30);
Come chi da noioso e grave sonno, / ove o vedere abominevol forme / di mostri che non son, né ch’esser ponno /.../ ancor si maraviglia, poi che donno
/ è fatto de’ suoi sensi...
Qual è colui che somniando pressa
/ rimane,
(Par. XXXIII,
vede,
e l’altro
(KXXIX,
58, 1-6):
/ che dopo il sogno la passione im-
a la mente
non
riede,
/ cotal
son
io...
58-61);
comeda verde margine di fossa / dove trovato avean lieta pastura, / le rane soglion far subita mossa / e ne l’acqua saltar fangosa e scura (CC V, 62): E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso... una rana rimane ed altra spiccia (Inf. XXII, 25).
Il rapporto con Dante è quasi sempre dichiarato da richiami verbali, o talora dalla conservazione di rime, che co-
stituiscono quasi la trama, esile ma sicura, intorno alla quale è stato rinnovato completamente l’ordito (si avverta che VI, 27 si riferisce anche a situazioni analoghe: Pier delle Vigne divenuto sterpo; Astolfo divenuto mirto). Ma si nota subito che l’Ariosto, dopo aver preso da Dante lo spunto, ha lavo-
80
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
rato in proprio, secondo i canoni del suo gusto rinascimentale. Da un lato, infatti, egli risale spesso, da Dante, a precedenti più remoti d’un tema (VII, 29: Orazio e Ovidio; X,
105: l’Iliade ;XXVIII, 90: Virgilio, Catullo, Properzio), o a rielaborazioni a lui più vicine (XI, 42: Boiardo). Ma dall’altro lato egli tende a completare, per dir cosi, gli spunti brachilogici e fulminei di Dante. Ecco VI, 27, dove l’osservazione « polare » di Dante è sostituita da una osservazione «trasversale » dell’ Ariosto, quasi diremmo
scientifica.
In X,
105, alla generalizzazione di Dante vien sostituita una scenetta, quasi una favola, con le varie mosse della mosca e del mastino, e la nemesi finale. In XXIV, 96 c'è una nomenclatura
ornitologica che rievoca il gusto per i lieti svaghi della caccia, e c'è il gusto euritmico delle coppie di sostantivi e di aggettivi; anche se la descrizione di Dante, cosi esatta e simpatetica verso il falcone asservito, è sostituita in modo più banale. Noteremo in XXXIII, 50 l’esatto sentimento spaziale: un infinito dominato e imbrigliato;
più evanescente, e forse
perciò più moderna, la notazione dantesca. E coglieremo in CC V, 62 un indugio contemplativo e paesistico, dalla lieta pastura ch'è al margine della fossa, all'acqua fangosa e scura. Noterò infine che XXVIII, 90 rappresenta solo il punto più esposto di un’elaborazione di cui si riscontrano tracce in almeno tre altri punti (XXIII, 122; XXXII, 12-3; XXXIII, 59), per rimanere solo al Furioso: e le fiume appaiono a XXXII,
gli *
*
*
Sottoponendo ora a misure statistiche i materiali raccolti, troviamo che le tre cantiche sono citate o utilizzate nel Furioso in questa proporzione !: Inf. 211 (61,6%)
Purg. 87 (25,4%)
Par. 44 (12,6%);
! L’interpretazione d’una statistica è sempre opinabile; tanto più con un oggetto cosi sfuggente come l'imitazione poetica. I criteri adottati sono questi: un elemento dantesco imitato ripetutamente è compu-
4. UN REPERTORIO:
LA « COMMEDIA »
8I
nelle Satire in questa: Inf. 21
(48,8%)
Purg.
14
(32,5%)
Par.
8 (18,6%);
nei Cinque Canti in questa: Inf.
6 (46,1%)
Preminenza
Purg.
6 (46,1%)
Par.
1 (7,6%).
assoluta dell’Inferno, dunque, nel Furioso ;
incremento di suffragi alle altre due cantiche nelle Satire e
nei Cinque Canti, tanto che in questi ultimi il Purgatorio balza allo stesso livello dell’Inferno ; verrebbe fatto di pensare all’ispirazione meditativa e moralistica degli scritti più tardi dell’Ariosto (per i Cinque Canti si potrebbe parlare di spirito purgatoriale) se non invitasse alla prudenza la minor documentazione di cui si può disporre. In complesso, si direbbe, la lettura ariostesca della Com-
media è quella del gusto comune, più colpito dai vivi colori e dagli effetti passionali dell’Inferno che dai più sottili suggerimenti delle altre cantiche. Ma sarebbe una conclusione affrettata. Ecco i canti citati più spesso nel Furioso! (e noteremo che sono pochissimi quelli non citati mai): Inferno T5gvolte ffI CKSXIIN(CE1) 14 volte: V 3 voi 108 (673) tato tante volte quante imitato, salvo quando si tratti di parole isolate o rime, nel qual caso il modello è contato una sola volta; se per spiegare un luogo ariostesco si ricorre a due o più riferimenti danteschi, questi vengono tutti computati, anche quando a rigore l’Ariosto potrebbe averne tenuto presente uno solo (ma non si può appurare); non vengono considerati i brani ariosteschi citati tra parentesi e preceduti da cfr., perché in essi l'imitazione di Dante è probabilmente mediata dagli altri brani citati fuori parentesi. 18 Mi sono basato sul Furioso per omogeneità di documentazione. Tengo però conto delle riprese di ogni canto dantesco nelle Satire e nei Cinque Canti, indicandole con numeri preceduti da + tra parentesi.
82
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
volte: VI (+1), XVII volte: VIII, XIII 7 volte: IV, VII, XXV, XXVI (+1), XXXII (+3)
(e .i\©)
Purgatorio
8 volte: VII (+3) 7 volte VISSXIVA(+#3) Si v@er d0, 2:99 (3923)
Paradiso Agvolte volte:
w
svga) MEX IX, XXVII
Di fronte al rango prevedibilmente molto alto dei canti di Ugolino e di Paolo e Francesca, del I, ricco d'un simbolismo di cui l’Ariosto fece tesoro e del III, vera ouverture infernale, ecco la predilezione per canti che potremo chiamare, se non ci si prenderà troppo alla lettera, preariosteschi, per originale descrizione di paesaggi inconsueti (VIII) o per la fioritura di una fantasia, diciamo cosî, metareale
(XVII),
unita però a forte carica allegorica, o per l’imbandigione di similitudini (XXV); e la predilezione per i canti linguisticamente rilevati, dall’agghiacciante «comicità » e dalle rime «aspre e chiocce » (VII, XXXII). Nella memoria dell’ Ariosto s’incidono, come in quella di qualunque lettore, i grandi personaggi e le scene drammatiche, ma egli coglie anche i toni congeniali dei canti dove si muovono i compagni di poesia (Sordello e Bonagiunta, in Purgatorio VII e XXIV, i più citati della cantica; e l’affettuosa reverenza dell’abbraccio di Sordello a Virgilio diventa per l’Ariosto il paradigma di qualunque incontro d’amici). L'attenzione dell’Ariosto non è travolta dalla partecipazione; egli coglie anzi ogni gesto e ogni minimo particolare (noteremo, per fare esempi elementari, la scomposizione opera-
4. UN REPERTORIO: LA « COMMEDIA »
83
ta su Gerione e Cerbero; di quest’ultimo l’Ariosto coglie l’attributo il grande
vermo,
i verbi iscoia ed isquatra e latra,
con la forte parola-rima atra, le bramose canne, e ne fa uso
in punti diversi del suo poema). Ma un'analisi minuta dei materiali raccolti richiederebbe troppo spazio e troppa pazienza. Per ora si può dire che il cammino percorso ci ha fatto tracciare un diagramma funzionale dell’influsso dantesco sull’ Ariosto. Le punte e gli avvallamenti del diagramma corrispondono ad allusioni cultu-
rali o scherzose, ad ambizioni allegoriche e a spunti polemici; ma i valori medi dànno la misura dell’assimilazione e del rinnovamento,
entro
linguaggio di Dante.
il sistema
stilistico rinascimentale,
del
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5. LEON BATTISTA
ALBERTI
E LUDOVICO ARIOSTO
Una delle scoperte letterarie più importanti degli ultimi anni, quella, dovuta a E. Garin!, di venticinque Intercenali sconosciute di L. B. Alberti, invita ad affrontare per ben due volte il viaggio verso la luna. Infatti (ed è osservazione curiosa) è da queste Intercenali che certamente l’Ariosto ha preso lo spunto per i due episodi (Sat. III, 208-231; Fur. XXXIV, 72-82) di cui la luna è protagonista o teatro. Nel primo episodio, una delle «favole » che concretano
in una misura distesamente fantastica e autobiografica delle Satire, l’opera lo spunto e alcune espressioni, indenni te innovazioni dell’ Ariosto. Trascrivo mio al libro VII delle Intercenali?:
la meditazione morale dell’ Alberti ha fornito pur attraverso le molqui di seguito il Proe-
Fauni et satyri plerique leves dii lunam perdite adamare et sectari occeperant. Ea re ut paulum consisteret, suique adeundi videndique copiam liberalius prestaret, obtestari non intermittebant. Luna vero vaga et lasciva miris modis amantes ludificasse ad voluptatem ducebat, modo quasi ex rimula ut se interea spectarent exhibebat. Amantes iccirco cum spretos ac despectos se intelligerent, quod per gratiam et benivolentiam singuli nequissent, communi coacto in unum consilio, vi et dolo consequi
1 E. GARIN,
Venticinque Intercenali inedite e sconosciute
di L. B.
Alberti, in « Belfagor », XIX, 1964, pp. 377-396. 2 Che esso dovesse servire all’illustrazione della Sat.
III dedussi, e non era difficile, dal riassunto che ne dà Garin nell'art. cit., pp. 387-388: « Fauni e satiri, innamorati della luna ‘ vaga et lasciva ’, decidono di acchiapparla tendendo le loro reti al margine del bosco da cui la vedono uscire ogni sera. Di loro urlanti, stanchi e delusi della vana caccia, ridono le Naiadi... ». [Il testo del Proemio mi fu gentilmente fornito da Garin; ora è edito: L. B. ALBERTI,
Intercenali inedite a cura di E. Garin, Firen-
ze 1965 (Quaderni di « Rinascimento »)].
86
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
instituerunt. Perspecta igitur procul sylva unde luna emergere inque auras sese consuesse attollere videbatur, illuc omnes convolarunt, locumque ardenti opera maxima vi omnium retium infinitaque laqueorum copia cireumseptum et obvallatum reddiderunt. Compositisque rebus suas ad pristinas sedes ea spe rediere, ut arbitrarentur non defuturum longius quin postridie illam irretitam invenirent. Itaque diurno pre opere et labore fessi, noctem
ipsam
obdormiere.
Cum
autem
mane
crepuscolo
illuc
omnes leti redissent et se falsos ac frustratos intellexissent, tamen quod machinas illas cassium insidiasque omnes integras et intactas reperirent, in futuram noctem supersedendum censuerunt. At nocte in sequenti, ut lunam ipsam alacri vultu et veluti ludibundam e sylva atque ut ex intervallo spectantibus videbatur, mediis ex plagis sublatam ethere spatiari animadvertissent, multo maiori retium copia adacta, in frequentem noctem stationibus positis, fuse ac late, a prima vigilia sese regionibus disposuerunt atque edixerunt, ut suo quisque excubiarum loco omnia curiosissime circumspectans et lustrans pervigilaret. Eo enim pacto futurum opinabantur, ut posset nusquam luna effugere quin a multitudine interciperetur. Dumque se ita solertes haberent, evenit cuique, ut per sylvam dissipati ac dispersi erant, ut luna certo aliunde ex loco, quam fuerant suspicati, delabi videretur: protinus alter alterum ut vel ferro, si aliter nequeat,
fugientem
passim defatigabantur Naiades.
remoretur
raucique
omnes
summis
clamoribus
clamitando
effecti
Si ricordino ora, della Sat. III, i vv. 208-231: Nel tempo ch'era nuovo il mondo ancora, e che inesperta era la gente prima e non
eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima parea toccassi il cielo, un popul, quale non so mostrar, vivea ne la val ima; che più volte osservando la inequale luna, or con corna or senza, or piena or scema girar il cielo al corso naturale; e credendo poter da la suprema parte del monte giungervi, e vederla come si accresca e come in sé si prema; chi con canestro e chi con sacco per la montagna cominciar correr in su, ingordi tutti a gara di volerla. Vedendo poi non esser giunti più
,
admonendo,
sunt.
Risere
5. LEON
BATTISTA
ALBERTI
E LUDOVICO
ARIOSTO
87
vicini a lei, cadeano a terra lassi, bramando in van d’esser rimasi giù. Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi, credendo che toccassero la luna, dietro venian con frettolosi passi. Questo monte è la ruota di Fortuna, ne la cui cima il volgo ignaro pensa ch’ogni quiete sia, né ve n’è alcuna.
All’evidente rassomiglianza del tema s’aggiungono richiami verbali non trascurabili (vederla / come si accresca e come in sé si prema = suique adeundi videndique copiam liberalius prestaret; chi con canestro e chi con sacco per la I montagna cominciar correr in su, / ingordi tutti a gara di volerla = illuc omnes convolarunt, locumque ardenti opera maxima vi omnium retium infinitaque laqueorum copia circumseptum ... reddiderunt; cadeano a terra lassi = diurno pre opere et labore fessi, noctem ipsam obdormiere). Tuttavia sono anche notevoli le differenze: esplicabili, credo, sulla base di una analisi strutturale della Satira. A una lettura continuata risulta subito, mi pare, che la « favola » della luna è legata a quella della gazza (vv. 100150) non solo dalla funzione dimostrativa, ma da rapporti di complementarità, e in genere di rassomiglianza. Tutte e due le « favole » sono riportate a un’antichità mitica (Una stagion fu già, che sf il terreno / arse ... 109-110; Nel tempo ch'era nuovo il mondo ancora ... 208); nella prima il movente della vicenda è il sole, causa di siccità, nella seconda la luna, og-
getto d’un amore impossibile; nella prima i fatti si svolgono «nel fondo / di certa valle » (122-123), nella seconda ne «la suprema / parte del monte » (217-218); i personaggi sono pastori nella prima, contadini, o comunque paesani nella seconda; persino il « vase picciolo ed angusto » per attingere l’acqua (128) sembra richiamare i canestri e i sacchi per catturare la luna (220). Ci troviamo insomma di fronte a un'umanità primitiva; i colori preziosi della mitologia sarebbero
88
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
stati causa di turbamento. Ecco perché l’accenno a Fetonte, nella prima «favola», è quasi parentetico, quasi privo di «messaggio », ed ecco perché i Fauni e i Satiri del racconto dell’Alberti divengono «un popul, quale / non so mostrar» (212-213) nella seconda. Ma estendiamo le osservazioni, dalla «favola », a tutta la Satira. La Satira è dominata dal tema della Fortuna (qualunque erge / Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete 170-171), presente, appunto, alla fine della nostra Satira (Questo monte è la ruota di Fortuna... 220). Le variazioni della Fortuna sono indicate, come sempre, con movimenti più o meno accelerati di ascesa e discesa (lo sublimasse al sommo degli uffici 87; qualunque erge / Fortuna in alto 170-171; et ancor brami / salir più in alto 239-240); e ciò si accentua nei versi che incorniciano la « favola » (in ch’util mi risulta essermi stan-
co / in salir tanti gradi ? 205-206; Questo monte è la ruota di Fortuna, / ne la cui cima il volgo ignaro pensa / ch'ogni quiete sia ... 220-231). Ma il « saliscendi » diventa immagine fondamentale della «favola » stessa (un alto monte
... la val
ima 211-213; la suprema / parte del monte 217-218; per la / montagna cominciar correr in su 220-221; bramando in van d’esser rimasti gi 225; Quei ch’'alti li vedean dai poggi bassi 226), sino all’ironia imitativa delle rime ossitone su : piu : giu
(221-225). È un ritmo che, assente nel brano dell’Alberti (dove la luna sorge da una selva e non da un monte), segna il perfetto inserimento della «favola » nel tessuto della Satira.
Inserimento attuato anche con altri richiami tematici: la inesperta ... gente (209), divenuta nella cornice volgo ignaro (230), richiama /a pazzia ... de le ranocchie (19) e il popul soro (267) — varietà delle illusioni umane di fronte ai miraggi d’una miglior fortuna —; mentre i canestri e i sacchi per catturare la luna (220) sembrano già preparati dalla rete con cui l’autore avrebbe potuto « uccellare benefici » (83-84). S'è forse toccato,
in occasione
di questa breve analisi,
un problema dibattuto a lungo anni fa: quello dell’unità del-
5. LEON
BATTISTA
ALBERTI
E LUDOVICO
ARIOSTO
89
le Satire ; e s'è forse intravista una possibilità di soluzione. Perché ci è apparsa una trama di richiami tematici e d’immagini che non solo stringe le varie parti della Satira, ma ne condiziona la forma narrativa. E si potrebbe proseguire, per elementi che non toccano la nostra « favola », con i temi della parsimonia nei cibi (meglio è s’appresso il Duca mi nutrico ... 25; in casa mia mi sa meglio una rapa... 43; che non digiuni quando vorria trarse / l’ingorda fame... 247248; questo tema ha l’epicentro nella sete che domina la « favola » della gazza), o della varia disponibilità ai viaggi (Chi vuole andare a torno, a torno vada: / vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna ... 55-56; Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia / non che a Roma, anderò 199-200), di contro a quelli dell’abbigliamento come simbolo di potere (chi brama onor di sprone o di capello 40; la cresta dentro verde e di fuor nera 105; a vestirsi il più bel de tutti i manti 156; tante mitre e diademe / mi doni 190-191; Che gloria ti è vestir di seta e d’oro...? 265; Quante collane, quante cappe nuove / per dignità si comprano...! 271-272; Vestir di romagnuolo ... vestir d’oro 274-275; e come cosi vesti e cosî sguazzi 208; facendosi veder con quella aguzza / mitra 308-300). Ma bastino, per ora, questi accenni.
Molto più ampia e fedele è la derivazione di un secondo episodio lunare (Furioso XXXIV, 72-82) dalle Intercenah. I modelli presenti alla mente dell’ Ariosto nell’invenzione del viaggio di Astolfo erano stati indicati con la consueta esattezza dal Rajna*. Ma sull’origine delle ottave 72-82, che descrivono con l’indiavolata spregiudicatezza che tutti sanno le esperienze lunari del paladino, nulla egli aveva potuto tro3 P. RAJINA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002, pp. 545-546.
090
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
vare, salvo i limitati e vaghi raffronti col Mogtas éyx@puoy di Erasmo, già suggeriti dallo Zumbini. È chiaro che il Rajna considerava schiettamente ariostesche le nostre ottave: nella « mirabile valle delle cose perdute » l’Ariosto «ci descrive le cose di lassi per rappresentarci in esse i fatti degli uomini» mediante un sistema di simboli volutamente incontrovertibili: «lo studio del poeta consiste nel trovare simboli che possano essere a un tempo immagine e satira ». Affermazioni che citiamo distesamente non per confutare il grande filologo (che non poteva conoscere l’Intercenale ora scoperta, intitolata Somnium)', ma perché esse valgono come richiamo all’eccezionale sintonia in cui l’Ariosto si deve esser
trovato con lo spirito dell’invenzione albertiana: tanto da poterne foggiare delle ottave che sono tra le più ariostesche del poema. L’inizio di Somnium ha scarse rassomiglianze col canto del Furioso. Il Libripeta, stomacato dall’abbondanza di stolti che frequentano le contrade terrene, ha impetrato da un incantatore d’esser condotto «ad eas ipsas provincias ... ad quas pervolant somniantes ». Ora ch’è ritornato alla luce del sole —
attraverso una fogna, ahimè — narra la sua avven-
tura a Lepido. Ma il nocciolo della descrizione del paese dei sogni è stato riportato tal quale nella luna dall’Ariosto, sf che il volubile paladino inglese ce ne possa ragguagliare maliziosamente. Data l’evidenza della derivazione, basterà indicare, nell’ordine, i raffronti, senza graduarne l’affinità; ma userò i
corsivi per segnalare i casi di vera e propria traduzione. 4 Edita da E. GARIN, art. cit., pp. 390-392 [e « quaderno » cit., pp. 25-9]. Siamo stati in molti ad accorgerci, non so con quale ordine di precedenza, dei rapporti di Somnium col Furioso: cfr. M. MARTELLI, ne « La bibliofilia », LXVI, 1964, pp. 163-170; R. CESERANI, in « Giornale storico della letteratura italiana », CXLI, 1964, pp. 269-270; Tutte le opere di L. Ariosto a cura di C. SeGRE: I, Orlando Furioso, Milano 1964, PANL397A
5. LEON
BATTISTA
ALBERTI
E LUDOVICO
ARIOSTO
OI
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono
là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne
(72, 1-3).
Cfr.: « Multo magis miranda ea sunt quae in illis provinciis conspexi:
flumina,
montes,
prata,
campos ...»
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto ciò lchelsi perde l(..£) ciò che si perde qui, là si raguna
(73, 3-8).
Cfr.: « Adsunt namque illic convalles montium, ubi res amisse servantur ». Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora... Le lacrime e i sospiri degli amanti
(75, 1-2); (Z501)1
Cfr.: «auctoritates, beneficia, amores, divitie et eiusmodi omnia, que postea quam amissa sunt, numquam in hanc lucem redeunt ». là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno
Cfr.:
«hunc circa montem
(74, 7-8).
consident vota et preces homi-
num dis expostta ». I vani desidèri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco
Cfr.: «veluti in lebete aliquo res omnes expectate ebulliunt». ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai
(75, 5-6).
desiderate atque
(75. 7-8).
Cfr.: «Isthic, inquam, prorsus que amiseris omnia repenies ».
092
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Vide un monte di tumide vesiche, che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone
antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci...
(76, 3-7).
Cfr.: «Sunt namque in mediis campis imperia in unam congeriem accumulata, que tu si videris despexeris (...). Nam sunt ea quidem pergrandes vesice, plene licentia, mendaciis atque sonitu tibiarum et tubarum ». Ami d'oro e d’argento appresso vede in una
massa,
ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
(7700823)?
Cfr.: « Proximo stant beneficia, atque ea quidem sunt hami argentei aureique ». Di nodi d’oro e di gemmati ceppi vede c’han forma i mal seguiti amori
Cfr.:
«Tum
prope
adsunt
(76001-2)1
manice atque compedes ignite,
quas dicunt esse amores ». V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi, l'autorità ch’ai suoi dànno i signori
(78, 3-4).
Cfr.: «adsunt plumbee quedam ale, quas dicunt esse auctoritates hominum ». Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenzie
nostre:
sol la pazzia non v'è poca né assai
(81, 3-7).
Cfr.: «denique, ne sim prolixior, isthic quevis omnia preter stultitiam reperies ».
5. LEON
BATTISTA
ALBERTI
E LUDOVICO
ARIOSTO
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch'egli già avea perduti, si converse; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse
93
(82, 3-4).
Cfr.: « Vah quantos tuos annos recognovisti? (...) — Omnes (...). Ne novissem quidem quippiam, ita pleraque omnia illic alia erant quam putassem, ni custodes qui aderant omnium fecissent me rerum certiorem ». Poi giunse a quel che par si averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non férse; io dico il senno...
Cfr.: «primum fendi ».
illic partem non minimam
(82, 5-7).
mei cerebri of-
Come si vede, le ottave del Furioso derivate dal Somnium costituiscono un blocco compatto; l'imitazione ariostesca sfiora, anche su punti secondari,
la traduzione.
Il meto-
do satirico dell’ Ariosto s'è venuto a incontrare con un metodo strettamente affine, e le immagini sono state accolte tali e quali: le vesciche, gli ami, i ceppi. Ma le metafore che nel-
l’Alberti hanno ancora una secchezza intellettualistica (e agisce forse il modello lucianeo), nel Furioso divengono immagini amaramente comiche nella loro corposità: il moralismo si cala nella realtà temporale. Intanto, l’Ariosto prolunga la serie metaforica, scendendo a un livello linguistico familiare,
come
per aumentare la forza viva del sarcasmo:
i versi a
lode dei signori sono cicale scoppiate; i favori capricciosi (i fumi) dei principi sono mantici; i servizi prestati nelle « misere corti» sono bocce rotte; le elemosine prodigate per lascito testamentario sono versate minestre. E poi, questo vanitas vanitatum d’ispirazione laica viene riferito con precisione al panorama etico-politico della più impegnata espe-
94
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
rienza dell’ Ariosto uomo di corte; e culmina nella condanna per la leggendaria donazione di Costantino, apparsa come un monte di fiori « ch’ebbe già buono odore, or putia forte ».
Queste due derivazioni albertiane nel Furioso costituiscono forse, nella storia della cultura rinascimentale, più che un semplice riscontro erudito. Basti notare da un lato che l’Alberti non è mai stato considerato tra i « fornitori» dell’Ariosto (il suo nome non appare né nell’indice del Rajna®, né in quello della Bibliografia fatiniana)® — e sarà ora opportuno scorrerne tutta l’opera, perché l’Ariosto era uomo di non sterminate, ma sistematiche e approfondite letture —, dall’altro che i riscontri ariosteschi aprono un nuovo barlume nella storia, ritenuta sinora tutta sotterranea e clandesti-
na, delle Intercenali: si può affermare che un manoscritto dell’opera era presente a Ferrara nei primi del Cinquecento. Che proprio a Ferrara le [ntercenali diano segni di vita quasi un secolo dopo la stesura, non può stupire chi ricordi: I) i soggiorni dell’Alberti a Bologna, e nel periodo dei suoi studi, e più avanti; II) i vari passaggi dell’ Alberti a Mantova, i cui signori erano legati da parentela e amicizia con gli Estensi, e a Ferrara stessa, dove tra l’altro progettò il campanile della Cattedrale; III) ilegami dell’ Alberti con Lionello d'Este, cui dedicò il Philodoxeos, il Teogenio, il De equo animante,
e col ferrarese F. Marescalchi,
destinatario
degli
Apologi ; IV) il fatto che l’Alberti incominciò a Bologna la stesura delle Intercenali, durante la sua giovinezza; V) la provenienza bolognese del principale codice delle Intercenali (Canon. 172 della Bodleiana di Oxford). 5 Op. cit. è G. FATINI, ze 1958.
Bibliografia
della critica ariostea
(1510-1956),
Firen-
5. LEON BATTISTA ALBERTI E LUDOVICO ARIOSTO
95
Anche più interessante il discorso che queste derivazioni permettono di iniziare a proposito dei rapporti tra l’Alberti e l’Ariosto: non sono molti gli scrittori non classici a cui l’Ariosto attinga con tanta attenzione formale come all’Alberti, e pochissimi sono gli umanisti delle cui concezioni l’Ariosto sembri aver risentito. Quando si sarà compiuto uno studio sistematico sulle derivazioni dell’Ariosto dall’ Alberti, il nostro discorso andrà portato a termine; non sia sgradita, intanto, questa anticipazione.
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6. APPUNTI
SULLE
FONTI DEI
«CINQUE
CANTI»
Strappare il Furioso da quella specie di acquario in cui l'ammirazione dei critici ha finito per relegarlo; riportarlo nello spazio di una vita poetica — quella dell’Ariosto — e di
una storia letteraria. È cosa che, per l’ascesa che condusse al poema, fu già fatta, suggerita dalla successione delle opere: la quale sembra concludersi col Furioso del ‘32, che precedette di poco la morte del poeta. Tuttavia la terza edizione del poema non ci conserva che in minima parte la fioritura autunnale dell’Ariosto: le aggiunte inseritevi sono il frutto di una scelta, fatta, è evidente, proprio in base alla maggiore affinità con le parti anteriori, cioè con criteri opposti a quelli che ispirano la nostra curiosità. Si approverà cosî, ancora
una
volta,
la discrezione
del poeta;
ma
è inevitabile
che si vada a frugare tra i suoi refusi. In mezzo ai quali primeggiano i Cinque Canti. In effetti, le giunte
alla terza edizione del Furioso,
in
parte contemporanee, in parte successive ai Cinque Canti!, furono scelte o scritte quando l’Ariosto si avvide che l’inserimento dei Cinque Canti nel Furioso era impossibile strutturalmente, perché in molte parti contraddittorii al resto del poema, e più ancora poeticamente, come scritti in diversissimo clima morale?. Eppure i Cinque Canti non solo ci rappresentano un momento ulteriore dello spirito ariostesco, ma anticipano in qualche modo atteggiamenti che avrebbe assunto l’epica del maturo Cinquecento. E probabile che le sue ultime esperienze abbiano fatto vedere al poeta con altro 1 Vedi pp. 30-32. 2 Vedi p. 27.
98
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
occhio il mondo in cui viveva; ma è anche questo mondo ch’era cambiato, la sua moralità, il suo gusto — e lo sentî la sensibilità dell’Ariosto. Per questo, penso, uno studio approfondito della nuova poetica dei Cinque Canti sarebbe illuminante. Qui, come primo avvicinamento, mi accontenterò di in-
dicare alcune delle loro fonti*. Non si tratta poi di un avvicinamento tanto timido, se si esaminano le fonti, come del resto fecero i migliori anche nel periodo del positivismo postromantico, soprattutto per quanto esse possano chiarire il fatto poetico:
dai lati meno
lirici, ma pure fondamentali
e
corroboranti per l’artista e per noi, quelli culturali; a quelli che direttamente ci svelano, attraverso la sua scelta, l’animo dell’artista o la sua accensione a un motivo; a quelli che scoprono, quasi, l’articolarsi, dai suggerimenti, dell’immagine rappresentativa; a quelli, infine, che permettono di constatare le direttive dell’elaborazione stilistica, il trasferimento di una figurazione, poniamo, classica, in termini rinascimentali e ariosteschi. In tale ricerca, si capisce, l’opera non è più un pretesto a divagazioni erudite; la ricerca è anzi, giustamente, in funzione del suo intendimento.
Inutile rievocare la vasta cultura classica dell’ Ariosto. Cultura latina, per lo più, che spesso utilizza fonti rare e preziose: quasi per un innocente sfoggio. Il palazzo di Gloricia, per esempio, di cui dice il poeta: dai demoni tutto in una notte lo fece far Gloricia incantatrice,
ch’avea l'esempio nelle idee incorrotte d’un che Vulcano aver fatto si dice;
3 Per cui sono scarsissimi i rilievi in P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002; alcune fonti in E. Proto, Per una fonte dei Cinque Canti, in « Rass. crit. lett. ital. », IV, 1899, p. 59 sgg.
6. APPUNTI
SULLE
del qual restaro
FONTI
DEI
poi le mura
« CINQUE
CANTI »
99
rotte
quel di che Lenno fu da la radice svelta, e gettata con Cipro e con Delo dai figli de la Terra incontra il cielo
(Cinque Canti, I, 79).
Lascio stare il concetto platonico dell’archetipo, come pure il ricordo del palazzo di Vulcano a Lemno, tutt'altro che tri-
viale (uno dei pochi esempi in Cic. De Nat. Deor. III, XXII). Ma rarissima è la notizia del lancio di Lemno contro i Superi durante la gigantomachia: secondo la descrizione più diffusa, che tutti hanno a mente per gli accenni di Orazio e Ovidio, i Giganti avrebbero messo l’uno sopra l’altro l’Ossa e il Pelio. La fonte dell’ Ariosto è l’incompiuta Gigantomachia di Claudiano: vi è infatti ricordo, oltre che del tentato lancio di Lemno,
della distruzione
derivatane
del palazzo
di Vul-
cano: Occurrit pro fratre Mimas Lemnumque calentem cum lare Vulcani spumantibus eruit undis, et prope torsisset, si non Mavortia cuspis ante revelato cerebrum
fudisset ab ore
(vv. 85-8);
e, come ultima conferma, il tentativo di lanciare Delo, ai vv. 114-128 (mentre l'accoppiamento con Cipro veniva affatto naturale). Qualche volta si è poi in presenza di una vera interpretazione di dati storici: La città nominata da l’antico Barchino Annon, tumultilar si vede
(Cinque Canti, IV, 12, 1-2).
Il Polidori* riporta in proposito una nota del Molini: « Cioè Barcellona, cosî denominata da Amilcare Barca, che la fondò. L’aggiunto Annon fu distintivo di molti capitani carta4 Opere minori in prosa e in verso di L. A., per cura di F. L. Poli dori, Firenze 1857, vol. I.
100
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
ginesi ». Effettivamente, data la supposta connessione etimologica tra il nome classico di Barcellona (Barcino) e il cognome Barca (per cui cfr. AUSON. Epist. XXVII [XXIV], 68-09) — favorita dai noti rapporti fra Cartagine e la Spagna e dalla frequente presenza in Ispagna di generali cartaginesi in occasione delle guerre puniche — fu talora affermata la fondazione della città da parte di Amilcare. Ma mentre di Amilcare l’Ariosto non cita il nome, la spiegazione dell’ «aggiunto» Annon è insoddisfacente. Credo che la frase dei Cinque Canti sia ispirata da un brano dell’Hist. Nat. di Plinio, opera notissima all’Ariosto: Fuere et Hannonis Carthaginiensium ducis commentarii Punicis rebus florentissimis explorare ambitum Africae iussi, quem secuti plerique a Graecis nostrisque et alia quidem fabulosa et urbes multas ab eo conditas ibi prodidere, quarum nec memoria ulla nec vestigium extat (V, 1, 8).
Con le due premesse: dazione di città in Ispagna za pare naturale. Annone famiglia Barca; ma tra i
connessione Barcino-Barca e fonda parte di Annone, la conseguenil navigatore non apparteneva alla molti Annone di cui si ha notizia,
alcuni dei quali effettivamente « barchini», non stupisce che l’Ariosto
abbia erroneamente
creduto,
o persino suggerito,
che il « navigatore » fosse dei Barca: tanto più che le notizie su di lui sono malcerte. Le vastissime conoscenze geografiche dell’Ariosto furono spesso argomento di studio?. Una volta tanto, si può indicare una fonte sicura e sicuramente letteraria. Ecco una serie di tribi aquitane, con nomi di sapore esotico di cui certo il poeta si sarà compiaciuto: Usciti erano di Auscii e gli Tarbelli sotto i segni d’Unuldo alla campagna; 5 Particolarmente da parte di M. VERNERO, Studi critici sopra la geografia nell’Orlando Furioso, Torino 1913; I concetti cosmografici e le cognizioni geografiche dell’ Ariosto in rapporto a quelle del suo tempo, in « La geografia », IV, 1916, pp. 62-73.
6. APPUNTI
SULLE
FONTI
DEI
« CINQUE
CANTI »
IOI
gli Cotiieni e gli Ruteni, e quelli de le vallee che Dora e Niva bagna Rinaldo gli Vassari e gli Biturgi, Tabali,
Petrocori
avea
in governo,
e Pittoni e gli Movici e Cadurgi,
con quei che scesi eran dal monte Arverno (Cinque Canti, V, 43, 1-4; 44, I-4).
Esse sono elencate, tutte insieme, ancora da Plinio: Aquitanicae ... mox
sunt... Pictones...
in oppidum
... dein Lemovices, ciae contermini
Petrocori
Bituriges liberi cognomine
contributi Convenae...
Tarbelli,
... Ausci,
Vivisci,
... Vassei,
Arverni liberi, Gabales... Rursus Narbonensi provin-
Ruteni,
(Hist. Nat.
Cadurci,
IV, XIX,
... Tarneque
amne
discreti a Tolosanis
108-9).
Sulla conoscenza del greco da parte dell’Ariosto si discusse a lungo; per le liriche latine, come risulta dalla mia edizione, si possono citare nuove fonti sicure. Non si può escludere che l’Ariosto frequentasse alcuni dei testi greci attraverso traduzioni in latino, numerose nel Rinascimento; comunque li conosceva. Cosî, per esempio, la balena che sovrasta con la sua mole il canto IV dei Cinque Canti, sebbene già apparsa, fuggevolmente, nell’O7/. Innam. II, XIII, 5-6, e nell’Orl. Fur. V, 40-2°, offre troppe analogie con la balena della Storia vera di Luciano (I), con cui già intravvide i rapporti il Barotti, seguito dal Polidori, perché le si possa ritenere casuali. Là la balena ingoia l’eroe con un sorso; qua con un gran sorso d’acqua se lo ingoia
là il suo ventre è pieno di relitti di naufragi, qua Passavano pochi anni, ch’una o due volte non si rompesson legni quivi;
6 P. RAINA,
op. cît., p. 218.
(LIVES3278);
102
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
donde i prigion per le bisogne sue cibi traean da mantenersi vivi
(IV$08700=2);
là l’eroe si nutre dei pesci ingoiati dalla balena, qua di vari pesci varie le vivande a rosto e lesso al foco erano poste
(IV, 85, 4);
là, nel mezzo del ventre mostruoso, è un tempio di Posidone circondato da tombe; qua si vedono [...] scendendo
al basso
degli infelici amanti
i scuri avelli,
de’ quali è alcun si antico, che nel sasso gli nomi non si puon legger di quelli
(IViT431=4)5
e si giunge in più capace luogo, ove all'esempio d’una moschea, fatto era un picciol tempio
(IVANA
O7=5);
là l’eroe incontra, nella balena, un vecchio decrepito che dapprima si spaventa a vederlo, poi si rinfranca e gli parla; qua appare similmente un vecchio vestito da pescatore, il quale, «tosto che del splendor... s’accorse Che feria l’armi e si spargea per l'ombra », si trasse a dietro e per fuggir si torse, come
destrier che per camino
adombra;
ma poi che si mirar l’un l’altro meglio, Ruggier fu il primo a dimandar al veglio...
(IV, 37, 5-8);
e 1 raffronti, anche più minuti, potrebbero continuare”. ? [Anche Cassio da Narni, amico e discepolo dell’Ariosto, s’ispirò allo stesso episodio lucianeo ne La morte del Danese, Ferrara 1521, libro III, c. V, 13 sgg.: cfr. F. FoFFano, Il poema cavalleresco, Milano 1904, p. 118. Sulla direzione degli eventuali rapporti di imitazione o polemica allusiva tra l’Ariosto e Cassio — che comunque hanno tutti e due presente la Storia vera — vedi C. DIONISOTTI, Per la data dei Cinque Canti, in « Giorn.
stor. d. lett. it. », CKXXVII,
1960,
pp.
1-40,
e P. FONTANA,
balena dei « Cinque Canti » e un problema di fonti e di cronologia, « Aevum », XXXV, 1961, pp. 511-8].
La
in
6. APPUNTI
SULLE
FONTI
DEI
« CINQUE
CANTI »
103
Le fonti poi, come dicevamo, ci permettono di ricostruire l'atto compositivo operato dal poeta; nei casi dove, ricorso ad un brano che sapeva gli avrebbe resi buoni servigi, ne trasse anche altri spunti fondendoli in una nuova unità. Si veda questo caso caratteristico. Nel canto II appare la personificazione del Sospetto, antico tiranno tornato dopo morto sulla terra per scontare la più terribile delle pene, la paura. Della sua vita precedente si narrano interessanti particolari: Uno di questi [tiranni], il qual prima a nudrire usò la barba,
per tener discosto
chi gli potea la vita a un colpo tòrre, nel suo palazzo edificò una torre, che, d’alte fosse cinta e grosse mura, avea un sol ponte che si leva e cala; fuor ch’un balcon,
non v'era altra apertura,
ove a pena entra il giorno e l’aria esala: quivi dormia la notte, et era cura de la moglier di mandar già la scala: di quella entrata è un gran mastin custode, ch’altri mai che lor due non vede et ode.
Non ha ne la moglier però si grande fede il meschin, che prima ch'a lei vada, quand’uno e quando un altro suo non mande, che cerchi i luoghi onde a temer gli accada. Ma ciò poco gli val, ché le nefande man de la donna, fér d’infinito mal
e la sua propria spada, tarda vendetta,
e all’inferno volò suo spirto in fretta (Cinque Canti,
II, 10-12).
Secondo la nota apposta dal Polidori (p. 32) all'ottava 13, «quanto... segue dà chiaramente a conoscere essere questa, più ch’altro, una poetica parabola ». Eppure l’inizio del-
l’ottava 6: [...] qual sotto Fallari Agrigento, qual fu sotto i Dionigi Siracusa, qual Fere in man del suo tiran cruento...
(II, 6, 1-3)
IO4
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
doveva già indicare che questo tiranno-tipo si ispira a modelli storici; tanto più che il particolare della barba non tagliata costituisce uno dei più diffusi aneddoti su Dionigi di Siracusa. Orbene, i tre tiranni citati nell’ottava 6 si trovano uniti in Cic. De offic. II, VII; e per toglierci ogni dubbio sull'esistenza di un rapporto diretto, il capitolo ciceroniano inizia con una divagazione sul metus che prelude alla personificazione del sospetto fatta dall’ Ariosto; e per di più una considerazione di Cicerone è pressoché tradotta nel brano dei Cinque Canti: Quinci dimostra che timor sol d’uno han tutti gli altri, et essi n'han d’ognuno Etenim qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem necesse est
(II 27-9); metuant ipsi (LISV.LL225)0
Il tiranno dell’Ariosto è senza dubbio ottenuto dalla somma di Dionigi e di Alessandro di Fere come li descrive Cicerone nel luogo citato: Quid enim censemus superiorem illum Dionysium quo cruciatu timoris angi solitum, qui cultros metuens tonsorios candente carbone sibi adurebat capillum? quid Alexandrum Pheraeum quo animo vixisse arbitramur? qui, ut scriptum legimus, cum uxorem Theben admodum diligeret, tamen ad eam ex epulis in cubiculum veniens barbarum, et eum quidem, ut scriptum est, compunctum notis Thraeciis, destricto gladio iubebat anteire praemittebatque de stipatoribus suis, qui scrutarentur arculas muliebres
et, ne quod
in vestimentis
telum
occultaretur,
exqui-
rerent. O miserum, qui fideliorem et barbarum et stigmatiam putaret quam coniugem! Nec eum fefellit; ab ea est enim ipsa propter pelicatus suspicionem interfectus (II, VII, 25).
Mancano, come si vede, pochi particolari, perché si abbia tale e quale il tiranno ariostesco: questi particolari li fornî pure Cicerone. Ecco infatti nelle Tusc. V, XX, 59 — capitolo certo ben presente all’ Ariosto, che dai paragrafi 61-62 trasse in parte l'ispirazione per una sua lirica latina, la II —
6. APPUNTI SULLE FONTI DEI « CINQUE CANTI »
105
un nuovo accenno a Dionigi; dove, dopo il solito aneddoto della barba, si narra: autem
Cumque duas uxores haberet, Aristomachen, civem suam, Doridem Locrensem, sic noctu ad eas ventitabat, ut omnia specularetur et
perscrutaretur ante; et cum fossam latam cubiculari lecto circumdedisset eiusque fossae transitum ponticulo ligneo coniunxisset, eum ipse, cum forem cubiculi clauserat, detorquebat. Idemque cum in communibus suggestis consistere non auderet,
contionari
ex turri alta solebat.
Con ciò si esauriscono le fonti di codesto ritratto. Per la trasformazione del cubiculum in una torre si può pensare a innovazione dell’Ariosto; o forse anche alla suggestione della turris dell’ultimo periodo del brano, quella da cui Dionigi «contionari... solebat». Ricorderò comunque che Valerio Massimo, nei Fact. et dict. memor. IX, XIII Ext. 3-4, che ricorda Dionigi e Alessandro sulle orme di Cicerone, aggiunge all’espediente del ponte levatoio una similitudine sintomatica: «perinde quasi castra »; e che infine Ammiano Marcellino, Rerum gest. libri XVI, VIII, 10, già trasforma il cubiculum in aedem. L’influsso di Valerio Massimo, autore notissimo all’ Ariosto, è poi sicuro per l'ottava 80 del canto II: E dubitava non facesse Orlando
quel che Fabrizio e che Camil già féro, che l’uno a Pirro, e l’altro già assediando Falisci, in mano
i traditor lor diero;
ci basta ricordare il cap. V del libro VI, ove sono citati, e per gli episodi a cui si riferisce l’Ariosto, Fabrizio e Camillo. Tra le più interessanti sono, per noi, le fonti formali. Ed è uno dei punti in cui si rivela di più la differenza tra il nostro interesse critico e quello delle generazioni passate: il Rajna, per esempio, relegava in nota le indicazioni essenziali di tali fonti, ove il travaso
rioso eliminava
immediato
dell’originale latino nel Fu-
la possibilità di divagazioni
erudite.
Con
106
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
l’importanza che ha assunto per noi l’analisi stilistica, le fonti dirette, le traduzioni, acquistano importanza grandissima. E traduzioni
abbondano
nel Furioso;
forse mai
però cosi
estese e fedeli come questa, vista da Lea Rossi*: Quindi una lega appresso, era una antica selva di tassi e di fronzuti certi, che mai sentito colpo d’inimica secure non avea né d’altri ferri
(Lr)
Lucus erat longo numquam violatus ab aevo obscurum cingens conexis aera ramis (Luc. De bello civ. III, 399-400); Né mai Diana, né mai Ninfa alcuna, né Pane mai, né Satir, né Sileno
si venne a ricrear all'ombra bruna di questo bosco di spavento pieno; ma scelerati spirti et importuna religion quivi dominio avieno, dove di sangue uman a Dei non noti si facean empi sacrifici e voti
(LI r02)E
Hunc non ruricolae Panes nemorumque potentes Silvani Nymphaeque tenent sed barbara ritu sacra deum;
omnisque
structae diris altaribus
humanis
arae,
lustrata cruoribus
arbor
(402-5);
L’imperador commanda che dal piede taglin le piante a lor bisogno et uso: l’esercito non osa, perché crede, da lunga fama e vano error deluso, che chi ferro alza incontra il bosco, fiede
se stesso e more
(II, 118, 1-6):
Hanc iubet inmisso silvam procumbere ferro
Sed fortes tremuere manus, motique verenda maiestate loci, si robora sacra ferirent,
in sua credebant redituras membra securis
(426; 429-31I);
8 L. Rossi, Studi sui « Cinque Canti », Reggio dell'Emilia
1923.
6. APPUNTI
SULLE
FONTI
DEI
« CINQUE
107
CANTI »
[Carlo] entra nel bosco, et alza una bipenne, e ne percuote un olmo più vicino
(II, 119, 3-4):
Inplicitas magno Caesar torpore cohortes ut vidit, primus raptam vibrare bipennem ausus et aeriam ferro proscindere quercum
(432-4);
Cade l’eccelso pin, cade il funebre cipresso, cade il venenoso tasso, cade l’olmo atto a riparar che l’ebre viti non giaccian sempre a capo basso; cadono,
e fan cadendo
le latebre
cedere agli occhi et alle gambe il passo: piangon sopra le mura i Pagan stolti, vedendo alli lor Dei gli seggi tolti. Alcun dentro ne gode, ché n’aspetta di veder sopra a Carlo e tutti i Franchi scender dal ciel cosi dura vendetta ch’a sepelirli il populo si stanchi
(25:20)
Procumbunt orni, nodosa inpellitur ilex, silvaque Dodones et fluctibus aptior alnus et non plebeios luctus testata cupressus. Tunc primum posuere comas et fronde carentes admisere diem... ... Gemuere videntes Gallorum populi; muris sed clausa iuventus exultat. Quis enim laesos inpune putaret esse Deos?
(440-48).
Foresta oscura abitata da spiriti molesti è anche, un poco, l’animo
dell’Ariosto nel periodo dei Cinque
Canti;
ma
pure in quello una scure di poesia sa portare il sole. E cosiî, in questo brano, la solennità lucanea è interrotta da aperture gioiose, come la rievocazione delle feste del Battista a Ferrara (« Chi si ricorda il dî di san Giovanni, / Che sotto Ercole o Borso era si allegro? ecc. », 120, 1-2), da schizzi nervosamente realistici: Fuggon da’ nidi lor guffi e civette, che vi son più che tortore o colombi;
108
ESPERIENZE ARIOSTESCHE e, con le code fra le gambe, i lupi lascian l’antiche insidie e i lochi cupi
(II, 122, 5-8),
da visioni dantesche (« Un fremito, qual suol da l’irate onde Del tempestoso mar venir a’ lidi, Cotal si udi fra le turbate fronde, Meschio di pianti e spaventosi gridi» II, 124, I-4). Il tono s’innalza di un’ottava, e si spinge sino ai trilli del riso. Ciò appare, nei riguardi della traduzione, in certe sottolineature finali (come nei sonetti le terzine spesso racchiudono il concetto o il concettino, le rime baciate dell’ottava ario-
stesca sono spesso sede dello scherzo): dopo l'abbattimento dell’olmo da parte di Carlo, già citato, il poeta aggiunge: l’arbor, che tanta forza non
sostenne,
ché Carlo un colpo fe’ da paladino, cadde in duo tronchi, come fu percosso; e sette palmi era d’intorno grosso!
(II, 119, 5-8),
ricordando a noi la fine di certi duelli del Furioso ; e persino in qualche modifica espressiva, come il tono spaccone del: ch’a
sepelirli il populo si stanchi.
pure già citato. Di modo
che,
proprio
con
tali raffronti
testuali,
ci si
avvicina a quell’indagine del momento psicologico in cui, pure, le fonti dicono molto. Tutta la serie di guerre che costituiscono la materia dei
Cinque Canti deriva certo dal canto XXVIII ed ultimo del Morgante. Vi troviamo infatti: la guerra contro Unuldo in Aquitania (72-3), quella contro Desiderio (74-7) con la battaglia a Vercelli (78), quella contro Tassillone unno (04-5) e contro gli ungheresi (96). Guerre in parte storiche, e in parte
argomento di numerosi poemi; ma che l’Ariosto trovava, già ridotte a secondo e più breve poema in coda al maggiore, nel Morgante. E non è solo per questo pretesto narrativo che l’Ariosto ritorna al Morgante, di preferenza che all’Innamo-
6. APPUNTI SULLE FONTI DEI « CINQUE CANTI »
100
rato, nei ai poemi Orlando Furioso),
Cinque Canti. È perché il Morgante, ancora legato quattrocenteschi per il motivo della sorda lotta tra e Gano (pressoché trascurata nell’Innamorato e nel forniva all’Ariosto, in cerca di una figura truce da
mettere
al centro dei Cinque Canti, quella tradizionale
del-
l’invidioso traditore maganzese. Tale ritorno all’antico è, in realtà, la conseguenza di uno svolgimento nuovo della concezione
morale
dell’ Ariosto, meno
staccata,
meno
misurata.
Sicché con questa ultima indicazione di fonte potrebbe avere inizio, come dicevo, un esame del mondo spirituale dei Cinque Canti ; sulla soglia del quale, per il momento, credo opportuno fermarmi.
7. NEGROMANZIA E INGRATITUDINE (Juan Manuel, il Novellino, Ludovico Ariosto)
La moda degli studi di novellistica comparata è in declino; del resto, i robusti studiosi dell’epoca positivistica non hanno lasciato molto da spigolare. Ulteriori ritrovamenti, s'intende, non si possono escludere, ma essi saranno per lo più frutto di un caso fortunato o di una felice associazione di ricordi. Queste associazioni, comunque, continuano a costituire premi inattesi per il lettore fortunato, cui si rivela improvvisamente la traccia di un collegamento fra testi ai quali erano riservati, negli scaffali della memoria, posti assai lontani. In queste pagine vogliamo appunto offrire i risultati di una siffatta avventura. Uno dei più belli exemplos del Conde Lucanor di Juan Manuel è certamente l'undicesimo, quello del « dean de Sanctiago » e di «don Yllan, el gran maestro de Toledo ». Si ricorderà: il decano di Santiago, desideroso d’apprendere l’arte della negromanzia, si reca, a Toledo, presso il famoso don Yllan; nessun maestro è migliore di lui in quel campo. Don Yllan fa lo scontroso; sa troppo bene che «los omnes que grand estado tienen (...) olvidan mucho ayna lo que otrie ha fecho por ellos ». Il decano lo rassicura, con larghe promesse. Don Yllan conduce allora il decano in una sua camera segreta, nel sottosuolo della città; ponendo però cura, prima, di far preparare a una sua serva delle buone pernici che verranno buone, al loro ritorno, per la cena. Ma nemmeno nel suggestivo ricetto c’è la tranquillità necessaria per gli insegnamenti arcani. Messaggeri giungono ad annunciare al decano
la malattia, e poi la morte dello zio arcivescovo;
da allora
ha inizio
per il decano
un
fulminea
e
carriera.
II2
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Egli riceve infatti, sempre nei sotterranei, la nomina ad ar-
civescovo di Santiago; poi, recatosi nella sua città con don Yllan, apprende di essere stato nominato vescovo di Tolosa. A Tolosa rimane solo due anni, perché ben presto il papa gli conferisce la tiara cardinalizia; dopo la quale resta all’ex-decano un solo gradino da salire, quello del papato; e anche questa sorte gli arride, rimasta vacante la sede pontificia. Ogni fase della carriera del decano è accompagnata da richieste sempre più pressanti di don Yllan perché egli si compiaccia di concedere a suo figlio le dignità che di volta in volta sono rese disponibili dalle sue promozioni; e ogni volta il decano ha qualche parente da beneficiare prima del figlio di don Yllan.
Non
solo, ma
con
l’intensificarsi delle
rimostranze di don Yllan, che vede confermate le sue pessimistiche opinioni sull’ingratitudine dei potenti, aumenta l’arroganza dell’ex-decano, che alla fine minaccia il negromante di processarlo come eretico e incantatore. Cosi don Yllan decide di partirsene; e poiché il papa gli rifiuta anche le provviste per il viaggio, egli dichiara che si accontenterà delle pernici preparategli dalla serva. Cosî le povere pernici diventano segnali della realtà oggettiva: in effetti ciò che è accaduto, è accaduto soltanto nella fantasia (o meglio, nel mondo della suggestione); ma è bastato a scoprire la natura morale del decano, che don Yllan licenzia bruscamente. La fonte della novella è indicata dal Knust! nel Prompituarum exemplorum, dove si legge (cap. II Z): Dicitur quod quidam nigromanticus habebat discipulum qui promittebat ei multa bona. Cumque vellet experiri utrum ita faceret fecit ei per incantationem videri quod eligeretur in imperatorem constantinopolitanum et quod ad eum venirent primo nuncii, post milites eum rapientes et imperatorem facientes eum et homagia terrarum suarum. Cum-
! Juan MANUEL, El libro de los enziemplos del Conde Lucanor et de Patronio. Text und Anmerkungen aus dem Nachlasse von H. KnusT, herausgegeben von A. BrrcH-HIrscHFELD, Leipzig 1900.
7. NEGROMANZIA que multe
terre
obvenirent
E
INGRATITUDINE
ei que non habebant
dominos,
II3 ut videbatur
ei, rogavit eum magister suus ut recordaretur promissi, dans ei aliquam terrarum
illarum. Cumque
ille diceret se nescire quis esset, intulit:
« Ego
sum ille qui vobis dedit hec omnia et vobis hec aufero ». Et exsufflata incantatione ipse invenit se pauperem.
Evidentissimi i rapporti tra i due racconti, se si astrae dalla qualità letteraria e dalla sostituzione di cariche ecclesiastiche a cariche civili. Ma il Knust, dopo aver indicato altri exempla affini, aggiunge: « In ahnlicher Weise wurde Kaiser Friedrich dem Zweiten, wAhrend er sich die Hinde wusch,
eine scheinbar iber einen langen Zeitraum sich erstreckende Gaukelei vorgespielt (Cento novelle antiche, n. 20) ». Indicazione preziosa, perché per questo racconto del Novellino non furono mai indicate in modo soddisfacente le fonti?. Nel Novellino, XXI (numero della redazione in cento novelle), si narra che l’imperatore Federico II, all’inizio d’un convito,
aveva già ordinato di dare l’acqua per lavarsi le mani, quando giunsero tre negromanti. Questi offrirono un saggio della loro arte, chiedendo come compenso l’aiuto del conte di San Bonifazio per la difesa della loro città assalita dai nemici. Il conte di San Bonifazio li accompagna, sbaraglia i nemici, conquista successivamente tre città; poi, divenuto signore della regione, si sposa, gli nascono dei figli, invecchia. Un giorno i tre negromanti gli propongono di far visita a Federico; il conte immagina che l’Impero e i suoi governanti 2 Oltre ai principali studi complessivi sulle fonti del Novellino
(A.
D’ANCONA, Del « Novellino » e delle sue fonti, in Studj di critica e storia letteraria, Bologna 1912, vol. II, pp. 1-163; R. BESTHORN, Ursprung und
Eigenart ceERTY
der dlteren italienischen Novelle, Halle 1935), si veda A. Hac-
Krappe,
The
Source
of Novellino
XXVIII,
in « Neuphil.
Mitt. »,
XXVI, 1925, pp. 13-17. Unico a raccogliere il suggerimento del Knust, e a distinguere tra il tema dell’ingratitudine e quello del « tempo fallace », A. DeL MONTE, La novella del tempo fallace, in « Giorn. stor. d. lett. it. », CXXXI, 1954, pp. 448-452. 3 Edito ne La prosa del Duecento, a cura di C. SEGRE e M. MARTI, Milano-Napoli 1959 (La letteratura italiana. Storia e testi, 3).
EIA.
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
avranno subîto, in tanti decenni, chissà quali rivolgimenti. I quattro si mettono in viaggio, e giungono a corte che ancora si sta dando l’acqua per le mani. Sono passati non decenni, ma pochi minuti: il tempo della fantasia ha misure più scorciate. Confrontata col Promptuarium exemplorum e con l’exemplo XI del Conde Lucanor, la nostra novella risulta priva di un elemento sostanziale: la riconoscenza messa alla prova. Per contro, il Novellino resta vicino al Promptuarium nel parlare di dignità civili, e non ecclesiastiche. Abbiamo a che fare con un incontro fortuito, o con una trasformazione drastica del tema da parte dell’autore del Novellino (o d’un suo antenato)? Che nel nostro caso esistano rapporti, anche se non diretti, tra il Novellino e il Promptuarium, lo fa pensare intanto il tema non ovvio: il fatto che gli studiosi a cui sfuggi il suggerimento del Knust abbiano dovuto disturbare testi cosî remoti come il Serglige Conculaind, il Fiachna's Sidh, VEchtra Nerai, che del resto hanno ben poco di simile
alla nostra novella, induce a tenersi ben stretti a una fonte culturalmente e cronologicamente tanto prossima come il Promptuarium. Un altro dato da valorizzare è l’insistenza sull’allargarsi della potenza del protagonista, che nel testo latino («cumque multe terre obvenirent ei que non habebant dominos ») deve far contrasto
con
la sua
ingratitudine,
in
quello italiano (« E poi ne fece tre delle battaglie ordinate in campo. Vinse la terra... Dopo, molto tempo tenne la signoria ») è collegato col senso della durata temporale, ma non si da cancellare le tracce del modello. Tuttavia la testimonianza più schietta a favore di una parentela tra Novellino e Promptuarium è proprio pronunciata da Juan Manuel. Si ricordi come i margini dell’avventura fantastica del decano siano costituiti dal tema delle pernici per la cena: orbene, affatto identico è il ruolo che svolge nel Novellino l'operazione del lavaggio delle mani, iniziata mentre il conte di San Bonifazio parte, non ancora termina-
7. NEGROMANZIA
E
INGRATITUDINE
InES
ta quando egli ritorna dopo un’intera vita vissuta solo nella fantasia. Difficile resistere alla tentazione d’ipotizzare un intermediario o collaterale comune tra il Promptuarium da una
parte, il Conde Lucanor e il Novellino dall’altra. Dopo averci
portati, esplicitamente,
al primo testo no-
vellistico italiano, le note del Knust all’exemplo XI di Juan Manuel ci aprono uno spiraglio su una scena totalmente diversa, che nemmeno il Knust riconobbe. A proposito infatti dell’ingratitudine del decano, e anche del travestimento ecclesiastico della novella, il Knust cita un raccontino di Lorenzo Abstemio (poco più che uno sfoggio erudito, data la posteriorità di questo scrittore di fine Quattrocento rispetto al nobile scrittore spagnolo). Ecco il testo, che si trova in Hecatomythium primum, 23, del 1495: De viro qui ad cardinalem nuper creatum gratulandi gratia accessit. Vir quidam facetus admodum et urbanus, audiens amicum suum ad cardinalatus dignitatem assumptum, ad eum gratulandi gratia accessit, qui honore tumidus amicum veterem agnoscere dissimulans quisnam esset interrogabat. Cui, ut erat ad jocos promptus: « Miserere, inquit, tibi caeterisque qui ad hujusmodi honores perveniunt: quamprimum enim dignitates ejusmodi estis assequuti, visum auditumque et caeteros sensus ita amittitis, ut pristinos amicos amplius non recognoscatis ».
Appunto in questa situazione ebbe a trovarsi Ludovico Ariosto, quando andò a congratularsi con un amico, eletto non già cardinale, ma primo tra i porporati, papa insomma. Subito dopo aver riverito, con poco costrutto, Leone X (Giovanni de’ Medici), egli scriveva a Benedetto Fantino, il 7
aprile 1513: È vero che ho baciato il piè al papa, e m'ha lontera; veduto non credo che m’abbia, ché dopo più l’occhiali. Offerta alcuna né da Sua Santità né nuti grandi novamente me è stata fatta: li quali tino il papa in veder poco.
mostrato de odir voche è papa non porta da li amici miei divemi pare che tutti imi-
110
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
E alcuni anni dopo (1518 circa), ripensando a quell’esperienza e rievocando la scena: Piegossi a me da la beata sede; La mano e poi le gote ambe mi prese, E il santo bacio in amendue mi diede. Di mezzo quella bolla anco cortese Mi fu, de la quale ora il mio Bibiena Espedito m’ha il resto alle mie spese. Indi col seno e con la falda piena Di speme, ma di pioggia molle e brutto, La notte andai sin al Montone a cena
(Sat. III, 178-186),
le metteva sotto un’epigrafe che pare il succo della favola di Abstemio : Meglio è star ne la solita quiete, Che provar se gli è ver che qualunque erge Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete
(Sat. III, 169-171).
Evidenti le rassomiglianze (sfuggite, come s’è detto, al Knust) tra la favola di Abstemio e questi luoghi ariosteschi. Diciamo per ora rassomiglianze, non rapporti, anche se porterebbero a preferire il secondo termine l’andamento sintattico dei versi, che paiono riferirsi a una auctoritas («se gli è ver che, ecc. »), e la riflessione che i nostri incontri con la realtà avvengono spesso attraverso il filtro degli schemi letterari. L’ipotesi di rapporti abbastanza diretti può comunque esser meglio circostanziata. Anzitutto si dovrà ricordare che alle favole di Abstemio arrise una fortuna che non è giustificata dal loro valore letterario (modestissimo) ma dal gusto per le « facezie » cosi diffuso nell’epoca rinascimentale. Vi attinsero infatti il Morlini, il Doni, lo Straparola, più tardi il
La Fontaine, per fare solo qualche nome; e non si dimentichi che l’Abstemio fu il primo a introdurre in Italia la storia
7. NEGROMANZIA
E
INGRATITUDINE
IND7
di Belfagor, che il Machiavelli avrebbe poi reso immortale. Proprio la novella che qui ci interessa vanta una lunga serie di traduzioni e rielaborazioni francesi e inglesi, elencate dal Knust, tra le quali ci sembra particolarmente interessante un aneddoto? di L. Guicciardini®, che trascriviamo qui: L’huomo che sale a alto grado, spesso non il prossimo, se medesimo non riconosce.
che
Benedetto degli Albizi andava per congratularsi con un suo amico, il quale alla dignità del Cardinalato era stato promosso. Ma il Cardinale gonfiato, & insuperbito per quel grado, fingendo di non conoscerlo, gli domandò chi ei fusse. La onde Benedetto giovane nobile, & altiero, sdegnatosi, mutò subito il proposito, per il quale egli era andato, et disse: Monsignore io vengo per l’amicizia nostra a condolermi con esso voi della vostra fortuna, overo cecità, che vi ha condotto a questo grado: perché voi altri, incontinente
che a simile grandezza ascendete,
perdete tan-
to il vedere, l’udire, & gli altri sensi, che non che gli amici voi non conoscete pur voi stessi.
Interessante, perché esso fu pubblicato pochi anni dopo la prima edizione ufficiale, postuma, delle Satire ariostesche, la giolitina del 1550, e mostra che la favola di Abstemio, cosî pungente in epoca di prepotere clericale e di nepotismo, continuava ad essere gustata dai lettori. Non l’avrà gustata, a suo tempo, anche l’Ariosto, ricordandosene poi nel riferire, con più sottile umorismo, la sua vicenda personale? I° P.S. — Uno dei casi fortunati cui alludiamo di sopra ci permette d’aggiungere un riscontro assai aderente al particolare del lavaggio delle mani nel Novellino. Come avverte M. Kasimirski nella sua traduzione 4 Cfr. L. DI FRANncIA, Novellistica, Milano 1924-1925, voll. 2 (Storia dei generi letterari italiani): I, pp. 477-478, 582, 614, 693, ecc. 5 La cui derivazione II piz34.
da Abstemio
nota pure L. DI FRANCIA,
of. cit.,
6 Col titolo originale L’hore di ricreatione l’opera usci ad Anversa, dove
l’autore
risiedeva,
nel
1568;
ma
era già stata stampata,
col titolo
apocrifo di Detti, et fatti piacevoli, et gravi, di diversi principi, filosofi, et cortigiani, a Venezia, nel 1558, con numerose ristampe (usiamo quella del 1598).
118
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
francese del Corano (Le Koran ecc., Paris 1852), ripreso poi da J. L. Borces, Manual de zoologia fantdstica, México 1957, v'è una tradizione araba secondo la quale il miracoloso viaggio aereo di Maometto alla Mecca, al tempio di Gerusalemme e infine al trono divino « s’est fait si rapidement (...) que le pot où il chauffait de l’eau étant près de se renverser à son départ, il revint assez à temps pour le relever sans qu'il y eùt une goutte d’eau de répandue » (p. 219, n. 2). Anche qui, dunque, la visione permette di superare la categoria temporale, e anche qui l’istantaneità del trapasso viene indicata come intervenuta in un tempo più breve di quello necessario per versare un liquido. II° P.S. — Al caso del racconto tradizionale che si fonde con un'’esperienza personale può esser confrontato quello, più comune, del topos che si confonde con un sentimento. Possiamo darne un esempio che ci pare inedito. Di Gregorio da Spoleto,
suo maestro,
l’Ariosto scrive nella lirica
latina IX, Ad Albertum Pium: «Io! videbo qui tribuit magis / ipso parente, ut qui dedit optime / mihi esse, cum tantum alter esse / in populo dederit frequenti! ». Analoga considerazione aveva espresso Alessandro Magno, secondo i Bocados de oro, ed. H. Knust in Mittheilungen aus dem Eskurial, Tiibingen 1879, p. 311: « E dixeronle: — Porque honrras a tu maestro mas que a tu padre? — E dixo: — Porque por mi padre he la vida finable e por mi maestro la vida fincable. — ». Non abbiamo seguito la storia di questa battuta dal Due al Cinquecento; ma si sa che i Bocados de oro, specie attraverso la traduzione latina, ebbero grande diffusione. Risalirà però direttamente all’Ariosto il secondo esempio che possiamo citare, di Olimpia Morata, in Opuscoli e lettere de’ Riformatori italiani del Cinquecento, II, Bari 1927, p. 172, dove afferma « a patre... vivendi, a magistro bene vivendi initium sumpsisse ».
LA TRADIZIONE
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)
8. STUDI SUI «CINQUE CANTI» $ I. CLASSIFICAZIONE.
Il materiale per un’edizione dei Cinque Canti! di Ludovico Ariosto è fornito da due stampe e da un manoscritto. Il manoscritto (T), codice Taddei, CI. I, 706 della Comunale di x
Ferrara?, non è datato. Esso è intitolato: Stanze di messer Ludovico Areosti, e contiene tutto quanto noi conosciamo dei
CC.
Inizia con l’ottava:
Oltre che già Rinaldo
e Orlando
1 Li indicheremo d’ora in avanti con la sigla CC. Ne abbiamo dato il testo
nel
volume
L.
Ariosto,
Opere
minori,
a
cura
di C.
Segre,
Milano-Napoli 1954; in seguito pubblicheremo l’edizione critica. La precedente edizione, quella di A. B. Baldini, / Cinque Canti di L. A. fatti pubblicare da Virginio Ariosto nel 1545, Lanciano 1915 (v. rec. di G. Fatini, in « Giorn. stor. lett. it. », LXVII, 1916, pp. 417-419), ha interessanti Indicazioni in cui si discorre delle stampe e del manoscritto. Esse
dànno
l’illusione
che
si tratti
di edizione
criticamente
condotta;
in realtà il testo è quello, non delle prime stampe o del ms., bensi delle rimaneggiatissime
edizioni
sette
ed
ottocentesche,
amabilmente
mesco-
lato con lezioni del ms., e arricchito di errori di stampa e curiose ipermetrie. Sui CC si veda: A. Gaspary, Zu Ariosto’s Cinque Canti, « Zeitschr. rom. Phil. », III, 1879, pp. 232-3; L. Bonollo, I Cinque Canti di L. A., Mantova 1901; G. Agnelli, Il « Codice Antonio Taddei », « Gazzetta ferrarese », 18-12-1912; L. Rossi, Saggio sui « Cinque Canti »
di L. A., Reggio d’Emilia 1923 (v. rec. di G. Fatini, « Giorn. stor. lett. it », LKXXV, 1925, pp. 330-332); M. Catalano, Vita di L. A., Genève 1930, I, pp. 598-600; C. Dionisotti, Per la data dei Cinque Canti, « Giorn.
stor. lett. it. », CKXXVII, 1960, pp. 1-40; Id., Appunti sui Cinque Canti e sugli studi ariosteschi, in Studi e problemi di critica testuale (Convegno di studi di filologia italiana), Bologna 1961, pp. 369-82; P. Fontana, La balena dei Cinque Canti e un problema di fonti e di cronologia, « Aevum
», XXXV,
1961,
pp.
511-18;
Id., I Cinque
Canti
e la storia della
poetica del Furioso, Milano 1962. 2 Descritto
Cimelio Ariosteo
P. 455.
da G.
Agnelli,
Il « Codice
donato a Ferrara,
Antonio
Taddei
» cit.;
« Giorn. stor. lett. it. », LXI,
Id.,
1913,
I22
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
ucciso, che appartiene al Fur., AB XL, 45; C XLVI, 68°, e manca nelle due stampe; differisce pure dalle due stampe per l’ordine di alcune ottave del canto terzo (v. p. 156), e perché non scrive, come quelle, al termine del canto quinto, Manca il fine. Scrive invece come le stampe: Qui mancano molte stanze dopo l’ottava 73 del canto quinto, e al pari di esse omette i primi quattro versi dell’ottava 75 dello stesso canto. Da notare che lo spazio corrispondente a quattro versi viene lasciato bianco dopo i versi rimasti, invece che prima: prima c’è un asterisco (e, escluso l’asterisco, ciò vale anche per le stampe). La prima edizione (M) è quella del Manuzio, del 1545: segue, con nuova numerazione delle pagine e nuovo frontispizio ‘, il Fur.
dello
stesso anno.
Inizia con
l’ottava:
Ma
prima che di questo altro vi dica (preceduta dall’indicazione: 3 Indichiamo
con
A, B, c le tre edizioni
del Furioso
curate
dall’ A-
riosto, dando la grafia di A quando si citino insieme A e B, quella di c quando si citino B e c. Quando le tre edizioni presentino la stessa lezione,
o ci basti
citare
la terza,
abbrevieremo
con
Fur.,
dando
lezione
e
numerazione di c. Con Sat. indicheremo le Satire, citandole nel testo critico di S. Debenedetti di cui abbiamo curato la pubblicazione nel volume L. A., Opere minori cit. Quando di un verso delle Sat. indicheremo due lezioni, la prima sarà quella dell’apografo prima della correzione, la seconda quella dopo la correzione. Si tratta infatti di varianti d’autore,
la cui
storia
sarà
fornita
dalla
prefazione
di S. Debenedetti
(che indicheremo con DebS) all’edizione critica, che speriamo di apprestare tra non molto. FR indica I frammenti autografi dell’Orlando Furioso a cura di S. Debenedetti, Torino 1937 (la cui Introduzione indichiamo con la sigla DebF), intendendosi, quando si riferiscano due lezioni dello stesso verso, che la seconda rappresenta una correzione alla prima; li citiamo per pagina e ottava. 4 CINQVE CANTI DI VN NVOVO LI/BRO DI M. LVDOVICO ARIO/STO, I QVALI SEGVONO/LA MATERIA DEL/FVRIOSO./DI NVOVO MANDATI IN LVCE./ Con priuilegio del sommo Pontefice, & della Illustrissima Signoria/di Vinegia, M.D.XXXXV. Se ne veda la descrizione in G. Agnelli-G. Ravegnani, Annali delle edizioni ariostee, Bologna 1933, I, pp. 71-72. Ci serviamo dell’esemplare S.Q.L.X.0 dell’Ambrosiana
VI.37,
di Milano;
mancante
la stessa
Biblioteca
del frontespizio.
ne
possiede
un
altro,
STONDI
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
Manca
T23
il principio del primo canto), ch'è la seconda di T.
Oltre alle particolarità comuni
con T, sono da notare:
nel
secondo canto la mancanza delle ottave 8-20 (con l’indicazione: Qu mancano parecchie stanze, dell’habitatione del sospetto) e 81-87 (Quiui mancano stanze); nel terzo la mancanza delle ottave 55-56, senza alcuna indicazione, e muta-
menti nell'ordine delle ottave attigue (v. p. 156), inoltre la mancanza degli ultimi quattro versi dell’ottava 65, al posto dei quali c'è un asterisco; nel quarto la mancanza delle ottave 58-73 (Qui mancano parecchie stanze); al termine la scritta: Manca il fine. L'edizione di Giolito (G), del 1548, che segue con nuova numerazione delle pagine e nuovo frontispizio® il Fur. dello stesso anno, rimedia a tutte le omissioni di M, salvo a quella comune con T; inizia con l’ottava: Sorge tra il duro Scita e
l’Indo molle, seconda in M e terza in T; lascia uno spazio 5 CINQVE CANTI/DI VN NVOVO LIBRO DI M. LV/DOVICO ARIOSTO, I OVALI SEGVO/NO LA MATERIA DEL FVRIOSO./DI NVOVO CON SOMMA DILIGENZA RISTAM/pati, & corretti dall’originale di mano
dell’Auttore,
con
le Allegorie,
& Tauo/la
delle cose,
che
in essi si contengono; & con alcune altre Stanze del medesi/mo, che mancauano, aggiunte & poste a i suoi luoghi nouamente. Con priuilegio del sommo Pontifice, & della Illustrissima Signoria di Vinegia. // In Vinegia appresso Gabriel/Giolito de Ferrari/MDXLVIII. Tale il frontispizio nell’esemplare di cui ci serviamo, XX.XV.43 della Braidense di Milano, che corrisponde alla descrizione degli Annali di Giolito de’ Feryari... descritti ed illustrati da S. Bongi, Roma, 1890-95 I, p. 215, in cui però non viene indicata la divisione per linee. Segue la descrizione
del
Bongi
però Lodovico. G. Agnelli-G.
dovico, conda
G.
Agnelli,
Ravegnani,
ristampato, con
IX « Codice
Molto diversa
Annali
corretto;
M., la terza con
invece
Antonio
Taddei
citt., I, pp. 79-80,
le linee vengono
I OVALI;
» cit.,
la descrizione data dove
scrivendo
in seguito è scritto.
fatte terminare:
infine vengono
omesse,
da Lo-
la se-
nel Som-
mario del primo canto, le parole si dimostra. Siamo in grado di spiegare queste numerose divergenze grazie alla grande cortesia del dott. Luciano Capra, direttore della Comunale di Ferrara. Egli ci comunica che l'esemplare di Ferrara, di cui si servivano gli autori degli Annali, ha il frontispizio mutilo, ed ha le i finali di ristampati e corretti raschiate e modificate in o: di qui la lezione errata della descrizione. L’omissione
I24
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
corrispondente a due ottave tra la 58 e la 59 del canto terzo (v. p. 157); termina con l’indicazione: Manca il fine. MG hanno errori comuni assenti in T°: distinti (distinto: vinto) I, 75, 2; il commise (i commise) II, 51, 8; avea (avean) II, 89, 6; co (con) II, 105, 7; liti (lidi:gridi) II, 124, 2; o vinto, preso o spento (v. o p. o s.) III, 10, 6; cosa (casa) III, 98, 3; era (eran) III,
102,
8; udirmi
(udir) III,
112,
7; lato (lito) IV,
12,
3; cercar
(car-
car).1V} 123, 45 può (puon) V$},130, 57 cerron(certi:tferri)V;463,82-
Neanche per le ottave che ha in comune con mM, G ne deriva: si vedano questi errori di M assenti in G e T: Ligustrici (Ligustici) I, 72, 1; altro (altra) II, 35, 7; genti (gente) II, 45, 3; ricontrarlo (ricontarlo) II, 103, 3; plebei (i plebei) II, III, 4; sotte (sotto) II, 120, 2; popule (popul) III, 22, 3; avien, come questo aviso (vien, come l’aviso) III, 58, 8; processo (il processo) IV, 47, 1; nonantanove (novantanove) IV, 76, 8; brutto (bruto: perduto) IV, 78, 4; caua i r(cavallier) IV, 84, 7; giunga (giugna : ugna) IV, 92, 6; mulo (molo) V, 30, 7; di (de) V, 38, 7; da l’Alemagna
(polacca: attacca) V, 78, 1; andass
(da la Magna)
V, 74, 8; polaca
(andasse) V, 83, 8.
Errori caratteristici di G sono”: fortezza
(fortezze) I, 09, 8; lui (lei) IZ, 76, 2; qui (quei) II, 47, 3; a voltar
(al v.) II, 63, 3; seguitasse (seguitassi: passi) ZI, 85, 6; nutrisce (nutrisse: udisse) IZ, 86, 4; ecceso (eccelso) II, 125, 1; fallire (salire) III, 2, 4; diè (diede) III, 21, 8; la lettera (le lettere) III, 25, 1; Avorio (Avolio) III,
di sì dimostra è invece vero errore di trascrizione:
l'esemplare di Ferra-
ra ha la medesima lezione di quello di Milano. Resta da spiegare l’errata divisione in linee, che si trova in una parte del frontispizio che manca
in quell’esemplare — e che comunque renze concorda con quello di Milano —; imprecise fornite agli Autori o di loro 6 Avvertiamo che per il gruppo MG ne contraria,
la lezione di G; e in genere,
in quello della Nazionale di Fisi deve trattare di informazioni errore. daremo sempre, salvo indicazionelle citazioni dei CC., daremo
pure il testo di G, in lezione interpretativa, correggendone gli errori in base a quanto qui si dice. ? Per tutto l’articolo daremo in corsivo le indicazioni dei luoghi dei CC. mancanti in Mm.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » 66, 3; nano 35,
125
(uano) IV, 10, 3; avea (avean) IV, 29, 4; umila (umiltà) IV,
1; ne l’altrui città (nell’altrui) IV, 42, 5; dedole
(debole) IV, AZGIGI
tecco: ciecco (teco: cieco) IV, 45, 7; sua (suo) IV, 62, 7; dove (donde) IV, 64, 3; a udir (udir) IV, 97, 8; cavi (cavai) V, 09, 8; aveva (avea) V; 25, 6; parue (parte) V, 61, 7.
T ha numerosissimi
errori, tutti sconosciuti a MG:
alta (altra) I, 3, 4; cento (e cento) I, 7, 2; c’aparir (che sparir) I, 8, 4; onte (onta) I, 13, 4, Maganzi (Maganzesi) I, 58, 7; essa (esse) I, 80, 3; accade
(accada) II, 12, 4; entrano
(entrando) II, 25, 7; stata (stava) II, 29,
4; Paldin (Paladini) II, 38, 4; avea (avean) II, 59, 6; lanzaciando (lanciando) II, 61, 3; ma (man) II, 61, 8; senza (sanza: usanza) II, 66, 3; ho (hor) II, 68, 5; effetto (esempio) II, 69, 6; percusse (percosse: fosse) II. 86, 5; Verei
(Vercei) II, 86, 8; lo (loco) II, 98, 7; sicuro
(più sicuro)
II, 99, 7; del tutto (di tutto) II, 106, 8; popuo (populo) II, 126, 4; vogli (voglia) III, 2, 1; cher (che dir) III, 2, 6; lume (lumi) III, 18, 4; preme (or geme)
III, 32, 7; chiera
PAfaltoag(altro)MIk773)18 strier) III, gI, 3; cenna
(schiera)
III, 63, 7; Avino
(Othone)
ITI, 66,
dali(del)}I[IN70 74 /ilidestrierg(inifrettanitice: (accennar)
III, 107, 5; vuoi
(vui) IV,
1, 4; con-
Vvienego(convienche), IV, 6,08; e la (ettorMla) IV; 11,33; fpassal(pas: S)BIVARTA 02; Mopporned(apporme)BlVit4tg get ila (ct ion) RIVARA483: dat (da far) IV, 58, 8; aiuti (aiute: salute) IV, 84, 2; inanazi (inanzi) IV,
85, 5; fedeli da (fedel de’) IV, 80, 3; dar
(dal) IV, 92, 5; altro
(il)
V, 7, 7; trovaro (trovoro: loro) V, 16, 1; potria (potrian) V, 17, 8; chiusa (chiuso) V, 27, 6; chiere (schiere) V, 41, 7; procede (precede) V, 51, 8; fianchi (fianco: manco) V, 52, 2; haven (havean) V, 62, 2; dinanda (dimanda) V, 70, 6; a bassa (a basso) V, 74, 1; le sue genti (la sua gente) Wi 45 2:
Possiamo dunque dire che M e G derivano, per quanto hanno in comune,
da uno stesso capostipite,
T da un altro;
e che G non deriva nemmeno da T, né T da G, per le ottave che mancano in M. Un accordo TG sarà dunque segno di errore di M:
De’ (Da m) II, 33, 5; salvo che in due punti, dove il carattere delle lezioni, e soprattutto la ben diversa imponenza dei tratti che accomuna-
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
120 no
G con m,
rendono
evidente
a che fare con
che s’abbia
lectiones difficiliores conservate da M: cadono [gli alberi], e fan cadendo le latebre cedere (GT: cadere) agli occhi et alle gambe il passo (II, 125, 5-6);
D’Arriguccio ch’era
s'avea presa la faccia,
di Carlo un
cavallaro
(G: cavallero;
T:
cavalier)
antico (III, 40, 1-2).
Esigono però una discussione apposita i luoghi in cui MT s’accordano contro G (la lezione di G è tra parentesi): parendo
a lei (parendo lei) I, 23, 5; torre al ladro e uccider l’omicida
(torre al ladro,
uccider l’o.) I, 85, 6; e gli marini
da Bertolaggi.... nato 1; al voltar (a voltar) TI, 119, 3; egli essere posta s. s.) III, 57, 8;
(di B. II, 63, (esser Vernia
III, 84, 3; quei nodi
(tai n.) III, 99,
(et i marini)
I, 103, 4;
n.) II, 32, 8; al Mon Senese (a M. S.) II, 56, 3; ti fuggisti (tu f.) II, 113, 2; entra (entrò) egli) III, 13, 3; avea posto sua speranza (a. (Uvernia) III, 70, 2; c'attenda (c’attendea) 8; chi più ne
brama
udir...
invito
(c. p. ne brama, a udir... i.) IV, 97, 8; giù dal ponte (giù del p.) V, 02, I.
Un esame limitato alle varianti qui riportate sarebbe assolutamente tranquillizzante: si tratta di lectiones faciliores in G: a Mon Senese (simmetria con a Mon Ginevro, a meno che non si tratti di errore comune e corretto di sua iniziativa da G), tu fuggisti, a udir; o in MT: da Bertolaggi (mentre: « del duca Amone e di Beatrice nacque », Fur. II, 31); errori 0 lievi rimaneggiamenti in G: uccider (senza e), entrò,
posta, attendea, tai, a cui si uniscono senza fatica le poche differenze nell'ordine delle parole. L’unica lieve difficoltà è nell'errore comune in MT: Vernia, mentre la lezione corretta è Uverma (cîr. Fur. IX, 6); anche qui però, se si pensi alla parola scritta secondo le consuetudini grafiche del tempo (come la troviamo infatti in G, e similmente in Fur., ABC: Vuerma), riesce facile spiegare il comune errore di MT, nato
indipendentemente,
e pensare che sia dovuto, in M, all’edi-
8. STUDI
SUI
« CINQUE
CANTI »
I27
tore — la copia, da cui poi derivò G, aveva certamente Vuerma. Nessun rapporto dunque tra M e T. Vi sono però due punti dei CC. in cui le cose stanno alquanto diversamente. Perché il lettore ci possa seguire bisogna che sia avvertito di un fatto che studieremo in seguito: che la tradizione MG e la tradizione T hanno, oltre alle comuni differenze dovute ad errori o ad interventi dei copisti, divergenze spesso notevoli che sembrano ricollegarsi a due momenti diversi della storia dei CC. Tali divergenze accomunano MG contro T; ma in due zone si notano cose strane. Una si trova nelle prime venti ottave del canto primo; qui MT si accordano contro G: G 7 : 7 : 13: 19:
i
dai fier demoni cento volte e cento tentò in suo danno il Mago, onde fu spento fin che le tolse poi Gigliante il biondo Levarsi Alcina non potea dal core
MT da li demoni fraudolento tolse Ziliante
Non
potea A. levarsi
L’altra, nella prima metà del canto quinto, è testimone di fenomeni anche più conturbanti: mentre, quanto alle divergenze del secondo tipo, MG si accordano regolarmente contro T (oltre ad avere un errore in comune, V, 36, 5, v. p. 124): MG
tì
6 : e sua gente ne li ordini raccolta 29:
Il mutabil
Vertunno,
ne
che Sinibaldo avea sendo 31: un spirto a sé incognito
l'anello
nascosto
e la sua g. în gli o. r. ch’'in
l'a.
stava un spirito a sé ignoto,
vi sono differenze di lezione, e persino errori, comuni ad MT contro G: MT IO:
vreggea nel mezzo
20: tratto avea quivi 28: Belzabu 37: accordio
G veggeva
al mezzo
quivi avea Belzebu accordo
128 41: 52:
ESPERIENZE ARIOSTESCHE star di mezzo Andar da l’altra parte non s'aspira, ché l’acqua vi facea sicuro e franco a Rinaldo il sinistro; < conte serra il destro corno il gran fiume de l’Erra
star in mezzo
al
Si tratta di due situazioni molto differenti. Nel primo caso va escluso che G, in genere abbastanza riguardoso verso il testo, si sia sbizzarrito per le prime stanze in esercizi poetici. E poi fiero è attribuito ariostesco dei demoni: «dal demonio fiero », Fur. VIII, 35; la lezione onde fu spento, più viva dell’altra, è prettamente ariostesca sia per il termine (spegnere « uccidere » è in Fur. XVIII, 16; XXIII, 40) sia per la iunctura sintattica (« si trasse l'elmo, onde ne fu ferita », Fur.
IV, 41); l’ultima variante è, ritmicamente, almeno altrettanto ariostesca che l’altra. Ora, che M derivi in questo punto da T è escluso dall’errore di T: c’'aparir (v. p. 125), mentre T non può derivare da M perché mancante, quest’ultimo, della stanza di collegamento col Fur. Che infine M, T e G rappresentino tre letture di uno stesso manoscritto, è reso improbabile (non diciamo impossibile) dall’assoluta identità di MT,
salvo l’errore, che sarà suo, di T. È dunque verisimile che G discenda, per queste ottave, da un altro capostipite*. Ma nel secondo caso una differenza di capostipite tra G ed M è messa in dubbio, oltre che da un lieve errore (v. p. 124) è Sarebbe invece indizio di capostipite comune, non solo a GM, ma un errore dell’ottava 17. Dice Alcina alle fate, incitandole a vendicare le ingiurie sofferte dai paladini di Carlo: Se toleriam l’ingiuria, oltra che segno
a GMT,
mostriam
di debolezza
o di viltade,
et oltra che si tronca al nostro regno il nervo principal, la maiestade, facciam ch’osin di nuovo, e che disegno di farci peggio in altri animo cade. Il Polidori suggeriva di correggere
animo in animi;
il Baldini apo-
strofava altr'animo. Noi crediamo che non vi sia errore. Osserviamo anzitutto che si tratta di una frase fatta: « Ne l’animo a Leon subito cade
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » dalle lezioni comuni
divergenti da T, mentre
129 M è legato a T
da veri errori: accordio?, il conte, e, lo si consideri errore o dialettalismo (è anche in T, II, 124), Belzabu. E soprattutto MGT insieme sono uniti da una serie vistosissima di errori (v. p. 153). Viene allora in mente che quando Giolito pubblicò, dopo il Manuzio, i CC., li dichiarò «corretti dall’originale di mano dell’ Auttore ». Concludere che M e T derivano da una copia, o brutta copia, già con gli errori; che le divergenze di T sono dovute al bell’umore del copista; che G si rifece ad una bella copia sostanzialmente
simile ad Mm, però senza gli
errori? Ma dove, nelle prime venti stanze del canto primo, M può servire di controllo a T, questi risulta alieno da attacchi di originalità — al massimo facilone —;
e d’altra par-
te la ipotetica bella copia, tanto avara da non giungere a colmare la lacuna dopo l’ottava 73, a che sarebbe servita in conclusione? A correggere tre errori evidenti lasciandone intatti altri ben più gravi (p. 150). Esaminiamo dunque più riposatamente l’ultima tabella: al mezzo è lezione sospetta, a
meno che ci sia lectio faciltor in M e T; quivi avea è uno spostamento di parole d’un tipo in cui G incorre altre volte (v. p. 126); star 11 mezzo, col significato di « rimanere neutrale »,
è errore. Restano i tre errori Belzabu, accordio, il conte, che G corregge. Tre correzioni non eccessivamente geniali: il ricorso all’autografo avrebbe partorito tre modeste correzioncine. È facile dunque che si tratti di qualcosa di molto più semChe ’1 cavallier di chi costei ragiona Sia quel che ecc. » Fur. XLVI, il che rende improbabile la congettura del Polidori. D'altra parte l'apostrofo del Baldini l’espressione riesce un po’ troppo vaga. Ci meglio pensare ad una (e riconosciamo alquanto ardita) aplologia: tendo
da
costruzioni,
comunissime
nell’Ariosto,
del tipo
« avea
25, con par par-
prima
disegnato.... O da [cioè di da] sé torla, o di farla morire » Fur. II, 72, interpreteremmo, condensando nell’in anche la funzione di una a: « cade in animo ad altri disegno di farci peggio ». ? Non crediamo che possa autenticare come ariostesco accordio il fatto che ne siano attestati dai Vocabolari esempi di Guittone o della Bibbia volgarizzata.
130
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
plice. Lungo le ottave dei CC. segni di una collazione di G con l’autografo mancano; G ha leggeri interventi forse incoscienti, e può darsi che abbia corretto, se non sono tutti da attribuirsi alla stampa,
gli errori dell’ascendente di M e pro-
prio, evidentissimi; probabile (a noi pare quasi certo) che abbia corretto anche qui. E gli errori, in MT, saranno cacografie o sviste dell’Ariosto (il quinto canto fu certo il meno curato, v. pp. 153 Sgg.; p. 167, n. 52) o del suo copista, se, come per le Sat., l’Ariosto esegui le sue correzioni su di un apografo. Salvo che per l’inizio del primo canto, crediamo dunque che la classificazione MG; T sia assolutamente solida, e successive
collazioni di G molto,
molto ipotetiche.
$ 2. DIFFERENZE DI LEZIONE.
Ci siamo serviti, ai fini della classificazione, di evidenti errori. Ma tra i due rami della tradizione dei CC. esistono differenze cosi notevoli da ispirare motivati sospetti di interventi estranei sulla materia ariostesca. Siamo condotti cosi alla questione dell’autenticità; e vi giungiamo con un bagaglio supplementare di argomenti contro i supposti colpevoli. Ché, mentre uno scetticismo integrale sull’autenticità dei CC. è ignoto, crediamo, alla storia della critica ariostea
(troppo numerose, antiche ed autorevoli le attestazioni dell’esistenza dell’originale)', dubbi sull’aspetto in cui i CC. ci sono stati tramandati furono affacciati più volte!!. In 10 Diciamo, e diremo sempre, « originale », non « autografo », perché non è escluso che, come per le Sat., l’Ariosto abbia fatto trascrivere
da un copista il suo lavoro, ciò
che
non
lo soddisfacesse
correggendone più.
Alcune
poi gli errori deviazioni,
e modificando
comuni
in MGT,
dall’usus ariostesco (v. p. 172), e gli errori (v. pp. 1209, 153) potrebbero esser portati in appoggio a tale supposizione. 1! Per citare solo due studiosi moderni,
da G. Fatini, v. p. 150; e da
S. Debenedetti (« a causa delle enormi disuguaglianze e dei tratti troppo infelicemente mediocri, io sospetto che, nella forma in cui ci sono
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » realtà, le sciagurate
T9l
edizioni antiche e recenti erano
insospettire: specialmente requieta e mutevole lungo l’Ariosto !. È vero che un genuine dell’opera pare a lire, una propensione alla glio di indizi nuovi: quelli
tali da
nei riguardi della lingua, cost irgli anni dell’attività poetica delesame linguistico delle fonti più noi che rafforzi, anziché indebofiducia. Ma ora ci pesa il bagache abbiamo raccolto sotto i rami
inameni della tradizione dei CC. Liberarcene, eliminare questo settore di dubbio sarà il primo obiettivo della ricerca. Le differenze di lezione, che, ben più colorite ed estese
di quelle che si possano attribuire a meccanici incidenti di copiatura, percorrono la vasta superficie dei CC. con femminile volubilità, in caso d’interventi estranei dovrebbero offrire un’ideale incrinatura alla leva della critica. E invece esse hanno riserbato a un esame, crediamo, discreto e attento, una sorpresa: esse sono dovute in parte notevole all’Ariosto. L’opera che si riteneva, orfana e fragile, abbando-
trasmessi, i Cinque Canti non s’abbiano a ritenere in tutto genuini », DebF XXI), che però pensava si potessero « fermare, con lo studio della grammatica dell’ Ariosto, dei punti abbastanza sicuri » riguardo a « testi sui quali è lecito sollevar dubbi, almeno nella forma che ci sono pre-
sentati, come i Cinque Canti» (Quisquilie grammaticali ariostesche, « St. Romanzi », XX, 1930, pp. 217-225, a p. 224). 12 Elenchiamo qui gli studi principali sulla lingua dell’Ariosto, se-
gnando tra parentesi l’abbreviazione con cui li indicheremo: M. Diaz, Le correzioni all’« Orlando Furioso », Napoli 1900 (Diaz), lavoro modesto e incompleto, ma utile per l’esemplificazione, pur che la si controlli; Orlando Furioso, con le varianti, commentate, delle tre edizioni,
a cura canto
di G. Lisio: XI
(Lisio);
non
pubblicato,
S. Debenedetti,
ne
Nota
possediamo all’Orlando
le bozze Furioso
sino
al
laterziano,
Bari 1928, III, pp. 395-447 (DebN); Id., Quisquilie cit. (DebQ); Id., Per la data
di un
« baratto » ariostesco,
659-664 (DebB); du « Roland
« Arch.
M. Malkiel-Jirmounsky,
Furieux
» de l’ Arioste,
Rom.
», XVII,
1933,
pp.
Notes sur les trois rédactions
« Humanisme
et Renaissance
», III,
1936, pp. 428-446 (Malk.); B. Migliorini, Sulla lingua dell’ Ariosto, « Italica », XXIII, 1946, pp. 152-160, ora in Saggi linguistici, Firenze 1957 (Migl.). Manca una seria concordanza ariostesca: citeremo, quando sia sufficiente, il Manuale ariostesco di G. B. Bolza, Venezia, 1866 (Bolza), preferendo in genere i nostri spogli.
132
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
nata alla impietosa tutela di copisti ed editori, ci consegna, conservati sotto un velo sottile e amico, le impronte ancor vive del lavoro correttorio dell’ Ariosto. Come si possa spiegare codesta distribuzione di varianti d’autore attraverso i rami della tradizione dei CC., ora, dimostrarla e descriverla.
vedremo
in seguito.
Basta,
Ecco prima di tutto una serie di varianti tra la lezione MG e la lezione T (daremo sempre nella prima colonna la lezione di MG, nella seconda
quella di T), di cui l’una e l’al-
tra mostrino altrettanto chiaramente la loro appartenenza alle costellazioni figurative, lessicali, stilistiche dell’ Ariosto. I, 32
cerca tre volte e più tutta la Sensa
due
volte
e più;
cfr.: tre volte e più (Fur. VIII, 4); la lez. di T, che, ci pare, non ha corrispondenti precisi nel Fur., può derivare da contaminazione con: * due volte o tre, per cui cfr. Fur. XLVI, I, 47
freni omai
33.
tutto ’/ Ponente
tutto Ponente;
cfr.: « tra i Ponente e l’Aquilone », Fur. IX, 16; « tornò verso Ponente », Fur.
I, 52
96; « volavan
per Levante
», CC.
la bionda Aurora
l’Aurora fulgebat Am. II, La bella sco
XXXIII,
bianca;
è tradizionalmente bionda (« aethere ab alto Aurora in roseis lutea bigis », Aen. VII, 26; « placuit croceis... capillis », Ovid. 4, 43) 8, e cosi ce la mostra Fur. XI, 32: «le chiome gialle Aurora avea spiegate al Sole » 14; bianca è poi attributo arioste-
dell'Aurora:
I, 75.
« la bianca
Aurora », Fur.
XIII,
D’odoriferi cedri era il bel colle con maestrevole ordine distinto; la cui bell’ombra al sol si i raggi tolle c’al mezzodi dal yezzo è il calor vinto
13 V. Milano
I, 88.
L’Orlando
1900,
Furioso
di L.
A., con
note
43.
fresco ;
del prof.
A.
Romizi,
pp. 202.
14 Il Papini, senza però raccogliere molti consensi, riferisce le « chiome gialle » al Sole (Orlando Furioso di L. A., con commento di P. Papini, Firenze
1903,
l. c.).
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » per
il paesaggio
all’ombra
cfr.:
« nel più intenso
ardor
133
del mezzo
giorno
(...)
d’una torre antica (...) godeansi il fresco rezzo in gran di-
letto », Fur. X, 35-37, dove si trovano pure, uniti in un rapporto attributivo, i due termini che nei CC. rappresentano un’alternativa sostantivale. Mancano nell’Ar., salvo errore, esempi di fresco sostantivo: lieve difficoltà, che si potrebbe pur superare considerando il fresco di T come lezione
traccia di una
che comportasse
iniziata o abbandonata,
tutto
il
sintagma * fresco rezzo. I, 77 per
diversae MG
soavissima armonia
cfr.:
«con
dolce
di trombe torte e pifare armonia;
e suavissima
favella », Fur.
XIII,
2; per T:
« Fra il suon d’argute trombe e di canore Pifare e d’ogni musica armoma », Fur. XLIV,
I, o4
34.
Ebbe l’astuto Conte chiaro e piano
L’astuto Maganzese, ch’ebbe piano
quanto la donna Carlo in odio avesse, Ruggiero, Orlando e gli altri; e tosto
altri, tosto
prese
l’util partito, et a salvarsi attese; il sintagma
chiaro
e piano
è in Fur.
VII,
1; XXIII,
r11;
XXVII,
77;
per la lezione di T cfr.: « ciò che di questo avvenne, altrove è piano », Fur. XXIII, 38; « che faccia il tutto ai due guerrieri piano », Fur. XXIV, 110. Quanto a passaggi tra subordinazione relativa e coordinazione, cfr.:
Marphisa, ch’ acchetarli avea riguardo, molto s’affanna, e perde il tempo
M. ad acchetarli have r., e s’affatica, e perde...
e l’opra
(CESSVASO2)7
(AB XXIV, 109) Orlando, il cui pensiero era ben fermo Di quanto volea far, si mosse ratto (FR, 26, 36);
L’ audace pensier
conte
col
e l’elenco si potrebbe allungare, anche con casi opposti. I, or
per poter non
dar l'impresa sunto
assunto ;
darli impresa in vano
è in Fur.
XXXVIII,
65; XXXIX,
XXVI,
8; XXXVIII,
61; XL,
è in Fur.
25; XLV,
16; XLIII,
54; 87.
dar l’as-
134 n°
ESPERIENZE
I, rog
ARIOSTESCHE
per dar colore a cosi bel dissegno
effetto;
per MG cfr.: « non starò, per repulsa o finto sdegno, Ch’io non adombri e incarni il mio disegno », Fur. I, 58; per T cfr.: «si desse al matrimonio effetto », Fur. XXIII, 25; « dato avea alla speme effetto », Fur.
69.
XLVI,
HNO0
fece
ne
l’arcione
saliy d’ Amon
la liberata figlia
scender ;
cfr., per MG: « salisce ad un centauro in groppa », Fur. VI, 62; per T, tenuto conto che scender vale, nel suo usus scribendi, ascender (come in V,
30):
« ascese
Su
l’ippogrifo »,
Fur.
bilmente, di una lezione abbandonata risulterebbe ipermetro.
IV, 63
la via
più dritta
inverso
XXIII,
dall’Ar.,
Scozia
prese 5
si tratta di due sintagmi frequenti nell’Ar.: CER
AZIO:
00,0;
205
D:O.0,8VA
gg
camiîn dritto in Fur. I, 64; XXVI, via trita è in Fur. XX, 104; XXIX,
d:0:0;0 DÈ
27:
residuo,
ché altrimenti
proba-
il verso
trita;
via dritta è in Fur. III, 77
NINE
ap
(60)
89; XXXIII, 98, 106; XXXIV, 38 (e camin trito in Fur. XIX,
(E
62); 41).
Naturale che la via più trita, dunque più frequentata, possa essere la più dritta; e naturale dunque nell’Ar. il passaggio dall’uno all’altro termine. Ma l’attiguità dei due aggettivi nel repertorio mnemonico x dell’Ar. ci è mostrata in modo palese da questo passo: Molti fra alcuni la ch’a quei altra non V, 10
pochi di vi capitaro: via dritta vi condusse, che verso Italia o Spagna andaro era che più trita fusse (Fur. XXIX,
duchi, marchesi
e principi vassalli
38).
d., marchesi, ev;
principi
per l’unione di vassalli attributivo a principi cfr.: « re tuoi vassalli », XXXVIII, 53; per vassalli sostantivo in un’enumerazione, cfr.: « di principi, baroni e gran vassalli » (AB, XV, 21).
Fur.
55 G ha, metrica.
veramente,
diritta,
che
va
evidentemente
corretto
per la
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » V, 31
un spirto a sé incognito
135
un spirito a sé ignoto;
spirto e spirito si trovano ambedue nell’Ar. (v. Bolza, s.v.); e cfr. le varr. II, 22 a p. 147; quanto ad incognito e ignoto cfr.: « L’incognito campion
», Fur.
I, 64;
e:
« un
scudiero
Ignoto
in quel
paese », Fur.
VIS6r3:
E passiamo ora ad una serie anche più interessante. In essa le differenze tra le due tradizioni riproducono tali e quali mutamenti che avvennero pure durante l’elaborazione del Fur. e delle Sat. Vogliamo dire che una lettura comparata delle tre edizioni del Fur., o delle Sat. considerate senza e con le correzioni dell’ Ariosto, permette di osservare
passag-
gi tra due lezioni che si trovano in modo simile nelle due tradizioni dei CC. Viene cosî colta sul vivo non solo la legale appartenenza delle due lezioni al patrimonio ariostesco, ma la loro intercambiabilità funzionale. T823
se non distrugge Carlo o insieme 0 prima
a un
tempo 0 imprima;
et ad un tempo armato tutto quanto videro intrar (AB, X, 97).
e insieme entrare armato Mvideri(CEXU293)E
I, 35
appresso a Carlo
appresso C.;
III, 84
dietro un
drieto 4 un s.;
V, 23.
in cima un
Cfr:
sasso sasso
in cima
4a un
t. q.
s.;
nel Fur. si nota una certa tendenza a sostituire in casi del genere il dativo all’accusativo, ma con numerosi ritorni (v. Diaz, 91): quel che a noi importa è proprio quest’incertezza: appresso quei di Spagna (AB, XIV, 41) drieto a quercia (AB, XVII, 6) Isr42:
i sospiri mesto
c’uscian
dal
petto
appresso a q. di S. (COXV4); dietro quercia (c, XIX, 6). del;
136
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
II,86
si levò de l’Alpi
da;
IV, 13
un'isoletta uscir vide de l’on-
da;
da GEE a pena trar potea dal petto il fiato (A, XIV, 86)
potea a p. trar del (B: dal) petto ili (BEXIVTSG;ECEXVI5
questa
del
86); follia levar
(A, XXIV,
dal petto
99)
son tolti de l’oblio (AB, XXXII, 22) avendole del mondo tolto
dail'oa(c_
il marito (A, XXXIII,
99;
c,
XXVI,
—XXVif22);
avendole dal (B; del) mondo cacciato il genitor (B, XXXIII,
64) I, 107
(B, XXIV, 102);
60;%c,
MOEXVI,
©60).
indugia ;
indugio
argo l’indugio (c, I, 25), l’indugia (AB, I, 25) notandosi che casi di femminile restano in c (XII, 40; XXII, 64; XXXVII, 67).
II, 97
di cui se sî volesse
un
uom
chi ne volesse
uno
più ardito si cercheria invano
per il mutamento
forse
pel mondo
nella sintassi del periodo cfr.:
i’ serei folle se quel ch’io non vorrei trovar cercassi (AB, XXXIX, 6) Ù
per l’alternanza
un
uom-uno
Il vero onore te tenga II, 98
ed ebbe
lo ;
cfr.:
è c’un da ben
miglior guardia
sue genti
Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar cercasse (c, XLIII, 6);
a le
c’ uom
(Sat. III, 259).
maggior ;
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
ic
Corsi
Non fu di questa mai la maggior fede
miglior (FR,
105, 63);
od anche:
Che
III, 51
non fe’ il più bel salto a’ giorni suoi
maggior
(FR, 93,
121)
le ville, le cittadi e le castella
dal re per forza rubella;
e per amor
del
CES:
e per suo amor dal padre fu ribella (A, XXXIII, 77) III, 98 sono
si corca
tutte e due
del (8, XXXIII, 73).
73; c, XXXVI,
si colca ; forme
ariostesche
carsi di AB (XXI, 116) mutato
(v
Bolza, s. v.); interessante
in corcarsi in c (XXIII,
IV, 57
violenzia
violenza;
V,.5
diligenzia
diligenza ;
in Fur.
sia violenza
(VII,
67; XIX,
un
col-
116).
10), sia violenzia
(XLII,
1), in ABG;
solo diligenzia (XXX, 74; XXXVII, 1). I seguenti raffronti: benivolenzia (A, XXXITI, 31; B, XXXIII, 27) = benivolenza (c, XXXVI, 27); sentenzia (AB, XXV, 61) = sentenza (c, XXVII, 61); esperienza (A, XXVII, 23) = esperienzia (B, XXVII, 23; c, XXIX, 23) mostrano un certo movimento, nella lingua dell’Ar., tra le forme più e meno latineggianti.
IV, 41
quando giunger li può negli ampli mari (però che mai non ne abbandona l’orme)
non abandona;
CH
ti darò da far tanto, mi spero, che
mon avanzerà troppo a Ruggiero (AB, XXIV, 105); La parte che ti pensi non avrai (ivi, 106)
non n’avanzarà
non
n’avrai
(c, XXVI,
(c, ivi,
109).
108)
138 IV, 59
ESPERIENZE ARIOSTESCHE pur pensai
di sforzarlo
disegnai di s.;
Cir:
Perciò non pensa il dispiaMa non però disegna de l’afspiacer, la noia fanno in ch’ella vede il misero che che lo distrugge alleggierir chi l’ama l’ama di convertirli (AB, I, 51); (GCI,351); altro esempio, con i sostantivi corrispondenti, in Diaz, 71. V, 84
fuggian come a’ cani o la perdice sciolti
? cervo a
inanzi
Zi sparvieri
come
cervo
a sparavieri;
CITA
con
che
con quella fretta seguir suol caprioli
il pardo
(AB, VIII,
7)
con
che
/e lepri
suol
seguire
ilipardoz(c,&VIII37):
ove il Lisio (105) ritiene che « l'A. volle aggiungere l’articolo anche davanti all’oggetto, per euritmia con il soggetto: secondo la regola fissata dal Bembo (Prose, p. XLIX) »; e: e come volpe che /a lepre come la volpe al varco i! lepre aspetta (AB, XL, 44) aspetta (c, XLVI, 67). Si situano benissimo in questa serie procedimenti di condensamento e di diradamento ritmico adottati in pari modo durante l’elaborazione dei CC. e del Fur.: IV, 38
IV, 43 IV, 63
ma
se per ciò morissi, non discerno che quando venni, a pena uscian dal mento Avev’io alcuni miei fedel mandati
io morissi;
Che
ch'io (c, I, 41);
io venni; avevo
alcuni;
etc
debbio far? poi che son giunto tardi (AB, I, 41) come vi seguirò ne l’altro canto (AB, II, 76)
come
fo (c, II, 76);
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » credendo, amando, sai (A, V, 8)
7 II, 49
î0 non ces-.
amando,
che
non
ha finto (acciò che îo m’allontani (AB, V, 73)
acciò
puoi tu patir c’or signoreggi del’un canto e de l’altro fatto avea
che signoreggi; or fatto a.;
giaceno uccisi li uomini e i cavalli (AB, XIV, 58);
uccisi
139 c.
(Bc, V, 8);
(c, V, 73).
Giro:
or gli (c, XVI,
58);
come si vede non si tratta di una correzione a senso unico; né è escluso che, secondo il parere del Fornari, l’aggiunta di to si proponga una maggior dolcezza di suono (Lisio, 9).
Pure riguardo all’uso delle congiunzioni si ritrovano nei CC. oscillazioni assai frequenti attraverso le tre redazioni del Fur. Raccogliamo qui due elenchi caratteristici: il primo contenente gruppi di tre sostantivi (per cui c, rispetto ad AB, mostra notevoli cambiamenti, sia che abbia introdotto la congiunzione tra il primo e il secondo sostantivo, sia che, già essendovi, l’abbia eliminata), il secondo con coppie di membri in rapporto disgiuntivo, nelle quali in genere c, rispetto ad AB, tende a sostituire o ad e. 26
poi Griffonetta, quella
e poi
I, 42 III, 51 ING
d’oro e di seta e di ricami gai le ville, le cittadi e le castella Sia d’alta sorte, 0 mediocre, o d’ima
di0ro,#d1s:; lEsvanenicae: sorte, mediocre;
IV, 26
da prora
prora, da p.;
e da poppa
questa
e poi
e da le sponde
G., poi;
CHE:
col Tartaro e Ruggiero (AB, XXV, 80) il ventre
e il Sericano
e il petto e il fianco
(AB, XXXI, 65)
Tartaro, Ruggiero (c, XXVII, 80); ventre,
il p.
(c, XXXIV, 65);
I4O
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
la patria, il padre e li fratelli (A, XXXIII, 78; B, 74) d’Alemagna,
e d’Italia,
gna (A, XXXV,
e vedi pure — I, 48 II, 4t III, 53 IV, 131 Vas
patria e ’l (c, XXXVI,
e di Guasco-
d’Alemagna,
4I)
74);
d’Italia
(B, XXXV, 30; c, XXXIX, 30);
ma ci pare errato —
Diaz 93.
il che natura o il ciel non può patire per tre scudi e per prezzo minore dei falli... che fece o puote far in me s’allenti, o che giammai riposi altro non è che ascolti, vegga e pensi
e; O; e; e; 0;
corona
e d’erbe
o (c, XXXIII, 90);
nardo
o (c, XXXV, 24);
Cis: d’oro, e non di fronde
(A, XXX, 71; B, 75) piu grato
odore
avrian
che
e
mirra (A, XXXII, 24) d’ogni testa che tronca e divisa sia da la orribil spada (A, XXXV, 24; B, 13)
stimò che capo o che signor lor fosse (AB, XXXVI, che mani e pene le uccida cosa al fratello e
76) io non so si nefande o faccia o trami agli altri suoi dannosa
o (c, XXXIX,
el(Cy Ao
13);
8970);
o0(FRt33%71); o (FR,
103, 55). mondi
Sono infine numerosi i casi in cui le differenze tra MG e T obbediscono a norme linguistiche o stilistiche a cui l’Ariosto si sottopose in certi punti — determinabili — della sua carriera poetica. Casi, dunque, in cui si può indicare persino la direzione della correzione. I, 79
incontra
ulaers
contra
il cielo il bosco
contra
per contra mutato in incontra, cfr. AB. XXV, XXIX,
13 con B, XXIX,
il c.;
incontra il b.; 13; c, XXXI,
68 con c, XXVII,
13; AB, XXXIV,
68; A,
64 con c, XXXVIII,
64 ecc.; è correzione non sistematica, si che restano frequenti contra in c.
8. STUDI
I, 80
IV, 9o
SUI
« CINQUE
CANTI »
Tenea Gloricia splendida e gran corte, non men ricca d’Alcina e di Morgana; né men d'esse era dotta in ogni sorte d’incantamenti inusitata e strana; li migliori
[destrieri],
a chi facea
non men
JAM
d'essa
me-
stieri,
largamente partia fra i suoi guerrieri. [91] Non solo aver per sé buona ar-
Né
matura
ma
V,71
trovarne ai compagni anco avea cura; In questo mezzo i cavallieri e i fanti per tutto il campo fanno aspra battaglia; né si vede anco in mezzo,
né dai canti
qual parte abbia vantaggio vaglia;
Non
e che più
pure per l’uso delle negazioni, correlative o no, si può rimandare a Diaz 92, i cui esempi, se anche non ce, una decisa regolarizzazione
tenzione posta dall’Ar. ip
dimostrano forse, come vorrebbe l’autriin senso logico, servono a mostrare l’at-
a codesti avverbi.
PE
dove è;
frequentissimo il mutamento versi, come
di ove in dove, specialmente all’inizio dei
qui; in c è attuato
regolarmente
solo nell’ultimo
terzo
del-
l’opera (v. DebB 664).
II, 18. II, 26 II, 47
Lo scoglio che fa ’l rio spirto entrar del strepito
Quel scoglio; che °l spirto nio fa; di strepito;
III, 86
mel scontro
a lo scontro;
CIEE quel scoglio (B, XXXVIII,
21)
lo
scoglio 20))
(c,
XLII,
142
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
L’eliminazione del tipo il scoglio, quel scoglio !6 si trova nei CC. in fase incipiente: di fronte ad il stato, II, 39; nel stuol, II, 62; del stretto, III, 59; quel scudier, III, 93 ecc., troviamo lo sdegno, I, 67; de lo stato, I, 94;
lo scettro, I, 63; lo spirto (1; G: il suo spirto), II, 12. Si tratta di tutti gli esempi dei CC., e il trovarli, al pari di quelli sopra elencati che ci tramandano la correzione in atto, quasi tutti nei primi due canti ed uno solo nel terzo, è segno forse di una correzione iniziata e presto tralasciata.
II, 19 II, 33 III, 81
in grande affanno e è gran tristezza e a donnee a cavallieri i giochi e risi per l’ ira e per la stizza
III, 88
eccetto
IV, 44
né
l’elmo,
gli anni
il scudo
annoverar,
e gran; ai cavalier i gde i? r.; per ira;
e ? bando
e brando;
né
né mesi;
î mesi
in tutte queste varianti è attuato (in MG per il primo, terzo, quarto e quinto esempio, in T per il secondo) quel movimento verso la simmetria delle preposizioni e degli articoli per cui si veda Diaz 107-108. II, 47
Sonan
di qua,
di là tanti
martelli
di qui e di là;
l'abolizione della congiunzione in questo modulo descrittivo risponde a una vera e propria norma stabilita a sé dall’ Ar. stesso : v. Diaz 94; Lisio 7; nei CC. predomina ancora il tipo con copula: II, 55, 133; III, 99; V, 56 (« di qua, di là, di su, di giù », III, 54, è una cosa un po’ diversa). II, 85.
Lasciò che ’1 fuoco insino al di nutrisse
l'oscillazione
tra che e chi fu eliminata
chi;
nel terzo Fur.
I, 108 Il conte di Pontier le avea narrato II, 24 ch’in tutto le credesse II, 95 A prima giunta i varchi le occuparo basta rimandare a Diaz 40; Migl. 157.
li; [OE
III, 69
Ne
In
III, go
Poi se n’andò fin che a Mattafellone, il buon destrier di Gan, prese la briglia
le Marche,
in Sansogna
si distese
gli;
Sansogna, in Marche ; che Mattifellone ebbe in la b.;
le
16 Su cui, per le Sat., v. Le Satire di L. A., a cura di G. Tambara, Livorno 1903, Introduzione, p. 16.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » IV, 18. IV, 63
143
in acqua; cadde ne gli a.;
VELO
gittar fa in l’acqua i palischermi non molto andò, che si trovò in gli aguati e sua gente ne li ordini raccolta
V,29
Il mutabil
ch’in la. stava;
Vertunno,
che Sinibaldo
ne
avea,
l'anello
sendo
nascosto
e la sua gente in gli o.;
l'abolizione del tipo în + articolo, attuata regolarmente (v. Diaz 37-38; cui ultima veste riportano a una MGT concordano 62 (e ancora IV, nellalmente, IL, 131;
nel terzo Fur.
Migl. 183) !7, appartiene già al periodo delle Sat., la presenta senza eccezione la forma innovata. I CC. ci fase di consolidamento, dove accanto a luoghi in cui nel primo tipo: în la bolgia, III, 40; in la foresta, IV, 70; V, 27); 0, com'è molto più frequente, nel secondo: 57; ne l'antenna, I, 104 (e I 105; II, 25, 37) 30,007,
III, 7, 6I, 62,
65, 80, 87, 90 ecc.),
si accampano
quelli sopra ri-
portati che ci documentano una correzione. E, per questo, è molto simile la situazione delle Sat., il cui apografo presenta, poi sempre corrette, le forme del primo tipo; e ci porge un significativo raffronto alla prima variante di questa serie:
III, 71
In la Marca lasciando e in la Romagna
Ne la M. lasciando et DIA a)
Giunge
Gionse
in
Narbona
a
l’oscurar
del
giorno,
e, giunto, fa serrar tutte le porte
UeSs
si tratta di una tendenza, più volte notata, ad adottare il presente storico in luogo del perfetto nelle narrazioni (v. Diaz 95-98; Malk. 445); meno precisabile invece, sebbene anch’essa sottoposta a mutamenti attraverso
le edizioni
piano storico III, 73
del Fur.,
dei verbi,
una
tendenza
specialmente
analoga riguardante il vario
nelle incidentali:
senza timor, senz’armi corse al lito credendosi ire in braccio al suo marito,
[74] Il qual sia, per alcun nuovo accidente tornato a lei con parte de l’armata: non dal marito, ma dal fraudolente Gano si ritrovò ch’era abbracciata;
17 Cfr.
G. Tambara,
Intr.
a Le
Satire
cit., p. 17.
corre
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
144 IV, 47
altro non
Rimedio il vecchio,
che
ci è, soggiunse
di oprar l’animo
appresso
soggionge
forte
Cosi dicendo, Ruggier indi mena...; d’un parlar mordente Rinaldo a ferir venne, e di Fusberta, al cavallier d’Anglante; e insiememente
ViatO7
III, 78
.
gli dice: « traditor! »...
disse.
gli fratei gagliardi
frati;
attraverso le tre edizioni
del Fur. vanno
diminuendo
le forme
frate,
frati, a favore di fratello, fratei (v. Diaz 65); i CC. si trovano in un momento abbastanza avanzato dell’evoluzione, avendo un minor numero di frate (II, 78, 112; III, 66; V, 20, 22) che di fratel (I, 63, 65, 98; II, 85; III, 46, 61, 93; IV, 71; V, 18, 39, 45, 47) — e codesta variante si inserisce in pieno nell’azione correttoria.
II, 24 IV, 71
che poté in qualche parte assicurarlo Fe’ che tornar non poté il messo
puote; puote;
correzione sistematicamente attuata in c (v. Diaz 31; Lisio 112-3; DebN
445-47). I, 58 III, 78 III, 79
premiato; fermato;
IV, 3. IV, 47
fuor che la lor premiata abbia ogni lancia e fermati a Valenza avea i stendardi d’aver quest’onta il tuo avversario antiquo fatta al tuo sangue concedo che v’ha offese la mia rima l’industria e il tempo n’ha adagiati
Vis
gli avea
occupato;
cosi occupati
i sensi
fatto; offeso; adagiato;
per queste varianti, tutte riguardanti l’accordo del participio con l’oggetto, basta rimandare a Diaz 102-4, avvertendo però che nel Fur. vi sono pure esempi del mutamento inverso (c, II, 67; VIII, oI) e residui del tipo non accordato (c, V, 81; VII, 60 ecc.: cfr. Bolza CVI) e che i CC. presentano per lo più il tipo non accordato (I, 15, 3; 25, 7; 27, 8; 109, I ecc., contro II, 130, 2; III, 24, 7 ecc.), si che non si può escludere la partecipazione del gusto dei copisti nell’estensione della serie. III,
V, 29
V,9g1
1
a cui commande
Vertunno,
chi;
a cuiì il parlar non
a cui più d’ogni biasmo
fu interdetto
il morir pesa
chi;
chi ;
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
145
la sostituzione di cui a chi nei casi obliqui avvenne appunto tra la conda e la terza redazione del Fur. (v. Diaz 43). Va però notato in c restano ben numerosi casi di chi per cui (I, 20; II, 62 ecc.); e anzi nei CC. il tipo chi è il più frequente (I, 5, 107; II, 4; III, 96; 28,
66; contro
seche che V,
cut I, 27) 18.
Dopo questo esame ci pare ormai dimostrata l’esistenza di varianti d’autore !. Ci pare dimostrata poi, dato che sono chiaramente d’autore proprio le varianti più vistose ed energiche, l'assenza di interventi volontari da parte dei copisti. Naturale
che non
tutte le differenze tra le due tradizioni,
di
cui diamo qui l’elenco (esclusi gli errori, già esaminati, le varianti puramente linguistiche, e quelle già entrate nella precedente discussione) saranno da attribuire all’autore; le più importanti, comunque, devono essere dell’Ariosto. I, 25 I, 26 io
de’ suoi prigion, si cun non vi rimase figlio che sia Orlando, sia Carlo, sia il lignaggio
Je
i suo’
di Francia,
sia tutto
denar
l’Imperio
v’en figliuol sia C., sia O.
spento; il suo
18 Non ci è parso il caso di aggiungere all’elenco la seguente serie: IV, 59 aveva (T: avevo); IV, 60 studiava (T: studiavo); IV, 61 aveva (t: avevo); IV, 64 udiva (T: udivo); IV, 69 mandava (T: mandavo),; IV, 72 aspettava (T: aspettavo). Si tratta, naturalmente, di prime persone singolari. È una correzione dovuta all'autorità del Bembo (v. DebQ 227) e già parzialmente attuata nei FR (v. p. 163). Ma il trovarla soltanto in una serie di ottave dove all’attestazione di 6 non può essere
unita quella di m, ci fa trasse dall’autografo la 19 Nella precedente ferenze nell’ordine delle sere dovute a correzioni
temere che si tratti di un uso linguistico di chi copia delle ottave omesse da m. discussione abbiamo evitato di esaminare le difparole, perché esse possono almeno in parte esmarginali o interlineari dell’originale non chia-
ramente richiamate nell’interno dei versi. Indichiamo, comunque, i luoghi che sarebbero stati degni di discussione, e che si troveranno almeno elencati nella tabella che ha qui inizio: II, 115; IV, 18, 31, 63; V, 12; e,
perché quasi certamente dell’Ariosto, la variante di I, 19 (v. p. 127). Luoghi adattissimi ad un’indagine del genere di quella svolta sui FR da G. Contini, Come
lavorava l’ Ariosto, in Esercizi di lettura, Firenze 1947,
ESPERIENZE
130 JRa58 I, 59 IM0z I, 64 I gd
si ben con umil voce... che gli occhi lieti avea fuor di tende, fuor de pension di molti mila le grazie... Tutte ho a apparea
TT
che curi et ame
ARIOSTESCHE
Sapea finger bontade fissi nel volto padiglioni franchi motar
i popoli
se ben e e fuor molte 20 narrar parea cami
IWE,.S1
e s’alcun pur riman col vizio, manco
DIO II, 9
nuoce a nessun perché a nessun è odioso infelici altretanto e più i tiranni a cui né notte mai né di riposo dà questa peste, e /or raccorda i danni e morti date od in palese o ascoso.
suo,
Quinci dimostra che timor sol d’uno
II, 10
han tutti gli altri, ed essi n’han il qual prima a nudrire usò la barba
d’ognuno
e
curi
mnissuno,
pur
c'a
gli ricorda 21 a quello e a tutti esoso. E gli d. c’a temer esso sol primo
II, 12.
a Vinferno
II, 13
oscure
scure
Il, 18
Garfagnino
Grafagnino 22
PP. 309-321,
volò
è suo
spirto
in fretta
e in particolare inseribili nel paragrafo
i
suoi popoli il vizio tiene
lo
sull’« abbassamento
di tono in funzione armonica », p. 318. Ma, oltre che per il dubbio sopra sollevato, non intraprendiamo tale ricerca perché questi studi sulle varianti, troppo rari in Italia nonostante i modelli illustri, possono dar luce (e gran luce) solo lungo un asse di polarizzazione che, quando sia ignota la successione cronologica, è difficile individuare con certezza. 2 Mila è usato dall’Ariosto in tutti e due i generi: fem. (Fur. XXXVIII,
57), mas.
(Fur. XLVI,
80; CC.
II, 89).
21 Non si tratta di un gli per « loro »: infatti, più avanti, esso. Probabilmente siamo in presenza di un resto di precedente lezione, in cui invece che tiranni ci sarà stato *tiranno. L'originale doveva essere molto bisbetico: la lez. a quello e a tutti esoso non dà senso. Avvertiamo pure che ricordare è innovazione rispetto a raccordare, e faceva già parte delle « buone intenzioni » dell’Ariosto fin dall’Errata di B. 2 In Sat. IV, 8, 187, Grafagnino; pure nelle Lettere è la forma più comune.
147
S. STUDI SUI « CINQUE CANTI » (ME, T9 IU 22 Ju 3I Ur 99
Là dentro... Il Sospetto meschin dentro s’annida e scongiurando gli spirti infernali tante
fuste, galee,
carache
solo 23
e barche
I 114 nb, II5
ogni speme... Di poter frutto cor de li lor campi prima che mai lasciarti l’onor torre déi mille vite perdere ma tal milizia solo era per uso di bisogno e d’onor de la sua terra quantunque il cavallier senza paura non si vendette mai se valesse il conforto col più bello Modo che seppe le propose per segreti calli salva ridurla a le città dei Galli di ciò non seria stato contento c’aver gli parria odor di tradimento sé et 1 cavalli mentre era difeso ed assalito da un lato il muro.... fuor d’una porta era d’un altro uscito aveva usanza di ragunarsi il popolo li sei [giorni].... confusamente i nobili e i plebei: in questa dimandavan perdonanza fate vigilie avea mille demoni a guardia posti
LI 122 LP, 124 DE 134 INI ne INUL IO RUE 14 III, 19
con le code fra le gambe Un fremito.... s'udi fra le turbate fronde par che ’1 suo error veda dietro e da lato col tuo campo pei fortunati antichi lor successi il suo parer... fu per lo miglior di tutto eletto
Il 42 I
44
LE 63 Ju 66 IE 70 IDE 74 II, 79 LIL $2 ILE 97
II:
III
23 Sembra
migliore
la lez.
solo,
che
spinti e galee frutti lasciarsi 24
sol per bd. e 0. rendesse 25
varrebbe 26 con ridur
parea
e li
de la p.
dimandava
vigilia mille demoni a g. aveva pd. lov
si vide fra t. creda eta
con per tutti
evita la ripetizione
di dentro.
Si noti però che trovandosi il precedente dentro due versi prima, il secondo poteva benissimo essere sfuggito, in un primo tempo, all’Ariosto. 24 Forse
residuo
di periodo in cui c’era,
invece
che déi, dobbiamo.
25 Quantunque è usato dall’Ariosto sia col cong. Bolza, s. v. 26 Per questo condizionale cfr. Bolza, p. cv.
che coll’ind., v.
148
ESPERIENZE
Tiso III, 43 III, 44
ORE, Ra
ARIOSTESCHE
vi esorta a prender quel partito ch’egli ha di tor di sé già statuito se false o vere son non si consiglia con lui consiglia chi si debba porre nei luoghi onde gli due s’'aveano a e poche terre aspettan la battaglia
per sé sian
li duci s'hano
torre
espettano batta-
glia III,55 IlI, 56 III, 69
MIK-78 TKI,002
III, 94 III, 95 KsTOz Livi
TIVO IV, 10
IV, 16
[Wsers
si al
volta senza cagion la buona lancia a divietar s’apparecchiasse frode Si trovò presa ella e la rocca insieme, ché non vi poté far difesa alcuna potria Marsiglia aver per questo mezzo sopra un debol roncin di queste cose e d’altre... la donna a Sinibaldo tutte diede in certe case guaste Ch’era tra via 29 io v’ho offeso, ignorante, in un sol loco ogni percossa di corvi, d’avoltor ben si vede esca dal vivo e mobil scoglio a salutarlo manda umanamente
fraude 27 potea
con picciol 28 tutto
eran
ignorando una e d'avoltor nudo 30 lo manda a salutar
come folgor dal ciel ratto giv scende 31 venne
IV, 22
LVR23
ad
investire,
e riusci
il disegno:
IV, 24 IVEzI
ché tutto a un tempo fur l’ancore gravi scuro acciò la morte în lungo un poco mande
IV, 34
ovunque
LViRNa8
fa ch'io
2? L’Ariosto
e oscuro un poco in longo calca
egli la calchi tema
usa
temo
esser morto
ambedue
u.
veloce
le forme:
v. Bolza,
s. v.
28 Piccol ronzino in Fur. XXIII, 52. 29 Cfr.:
« perch’ivi
30 Nudo
è attributo
di liti non
si parla Che
ariostesco
noti però che qui, trattandosi della balena, ed espressivo. 31 Si confronti,
per una
certa
assonanza
il pian ratto si mosse », Fur. XXIII, vede
sia tra lor », CC.,
di scoglio (Fur.
I, 20.
16); si
vivo è molto più indovinato visiva:
55; e meglio:
pel ciel discorrer ratto », CC., IV, 66.
II, 68; XLI,
« lasciolla,
«
come
e verso
foco, Che si
8. STUDI
SUI
« CINQUE
tutta
si raguna
donde entra,
149
CANTI »
onde e nel ventre
entra
nel
v.
e
tutta
studiava in procacciargli oltraggio potea
pensa mandarla in Scozia... [62] Quindi segretamente alcune some de le sue miglior cose in Scozia invia ne l’insidie che i miei lî avean già tese Quella portano in fretta entro una torre ben sarai trovato, e a tempo e a loco ti punirà quello a chi ingiuria hai fatto ch’ivi tenea a mia posta Ben
fu Gualtier
de la ventura
studiavo procacciarli potrà 32
Quivi 3 già gli avean in trovato;
a tem-
po
che vi
lieto,
che si gli apria la strada a la vendetta Non manchi in noi contrizione e fede e di pregar con purità di mente procacciamo con buon’opre che sia più grata a Dio la tua fede poi seguia un stuol di Traci e di Valachi Bulgari, Servian, Russi e Polachi Ben di lor mossa e d? lor porse in via
ché se gli et il p. procacciam con buon’ opere Russi Traci
del
avuto Carlo avea più d’una spia ritrarre ai monti et a la strada alpestra che tutto insieme fusse il popol franco imagini sacre, sacre carte i loro primi saluti furo abbassarsi a le visiere i ferri per che causa e cessi intanto l’ira e ’1 brando né si vede anco in mezzo, né dai canti qual parte abbia vantaggio e che più vaglia alzar... La voce
al monte fosse insieme sacre e s. abassar qual
l’ira intanto
chi Le voci
32 Trattandosi di un discorso indiretto, tutte e due le forme sono ammissibili; ma certo la loro vicinanza grafica fa sospettare di un semplice errore di lettura in T o in G. 33 Pleonastico il Quivi, essendovi subito dopo în Scozia. Ma probabilmente si tratta di un residuo di verso sere, differente.
il cui seguito era, o doveva
es-
ESPERIENZE
I50
ARIOSTESCHE
V, 73
ché, oltre che prigioni e carriaggi vi guadagnasse
V, 74
lodando
V,gI1
e ’I bel paese ove il gran fiume ne perde la contesa
oltre che de
il ricco e di cittadi pieno
gira
il quella
impresa
$ 3. AUTENTICITÀ.
Dimostrato che le differenze di lezione tra stampe e manoscritto sono in buona parte ariostesche, e soprattutto che mancò l’intervento premeditato d’un falsificatore, possono rimanere dubbi per i luoghi mancanti in M e completati in occasione della stampa giolitina. Sentiamo il Fatini (rec. Bal-
dini cit.): «in certe stanze, mancanti o difettose nella stampa aldina e giolitina, non è temerario sospettare la mano di Virginio o di Gabriele Ariosto ». Lasciamo stare le imprecisioni (stanze mancanti nella giolitina ?). Ma vediamo uno po’: Virginio consegnò al Manuzio, per la prima edizione, una copia lacunosa: perché non vi inseri sin da allora le sue zeppe? E perché segnare così a chiare lettere il luogo in cui si sarebbe poi svolto il suo delitto poetico? E poi, Virginio non sarà stato un’aquila; ma non era un avventuriero della penna, e non
si teneva all’altezza di suo padre; l’eredità materiale e morale amministrò in modo degno. La falsificazione sarà di Gabriele o d’altri; ma perché Virginio la permise, non la denunciò in qualche modo? Esiste però una migliore prova a favore dei due indiziati: c’è un altro caso di intervento di Virginio e Gabriele su un’opera dell’Ariosto, la continuazione de I studenti. Orbene, sia l’uno sia l’altro avvertono in prefazione,
avvertono
nel prologo, nel titolo stesso d’aver ter-
minato l’opera incompleta *. Per esser sinceri poi — confessando la nostra scarsa sensibilità — diremo che le ottave pePI
34 L.
A.,
Gli studenti,
con
le continuazioni
di Gabriele
Ariosto, a cura di A. Salza, Città di Castello 1915, Prefazione.
e Virginio
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
ISI
ripatetiche ci sembrano degne dell’Ariosto (dell’ Ariosto minore dei CC., s'intende). Queste considerazioni potrebbero però andare in lungo, e non esser decisive. Il fatto decisivo è questo: pure sulle sospette integrazioni continua a distendersi quella maglia di varianti che porta nel complesso — e anche in molti punti all’interno delle integrazioni — la marca di fabbrica ariostesca. Il falsificatore dunque non solo scrisse dei versi « all’ Ariosto », ma ne scrisse delle varianti, che cosparse intorno al testo alla maniera di messer Ludovico...
$ 4. DISTRIBUZIONE
DELLE VARIANTI.
Esaminando le varianti sopra elencate, la conclusione che si affaccia per prima, come più semplice, è che le due tradizioni (MG e T) discendano da due momenti distinti dell’elaborazione dei CC. E la relativa prevalenza di varianti linguisticamente innovate o ritmicamente più mature in MG potrebbe indurre a sostenere senz'altro la posteriorità di questa tradizione rispetto a quella di T. Un esame più accurato, crediamo, porterà a differenti conclusioni. Innanzi tutto: le serie di varianti in cui la lezione di T rappresenta
regolarmente una fase anteriore
(I, 58;
II, 39, 95) sono allo stesso tempo forme dialettali o più grezze di fronte a forme toscane. Ora il copista di T ha un’evidente propensione al dialetto (v. p. 173); le sue varianti possono rappresentare perciò una scelta personale o incosciente della forma a lui più vicina — né si può escludere senz'altro che qualche volta la variante linguistica sia dovuta a lui e non all’Ariosto, nello stesso modo che in qualche raro caso può essere G ad introdurre di sua iniziativa una forma più «regolare » (cfr. n. 18). Poi: l’aspetto ritmicamente più primitivo di T può dipendere in parte dalla sua sciatteria. Si veda l’elenco di er-
ARIOSTESCHE
ESPERIENZE
I52
rori di t, confrontandoli con quelli di mG (p. 125). E vale la pena di notare che in alcuni punti il ms. T, dopo aver mutato l’ordine delle parole, corregge con rimandi numerici: 2
facean
tener
1
al ciel levati i volti
2
Di ricche vesti e lucid’armi 2
Quanto
(I, 90);
1
adorno
(II, 59);
1
un sasso si può gittar con mano
(IV, 15).
Questo fatto ci autorizza sia ad attribuire ipoteticamente una parte delle varianti ritmiche al suo modo affrettato di comporre, sia ad addebitare al suo poco orecchio la scelta delle forme meno finemente elaborate, o la cattiva interpretazione di correzioni marginali. Viceversa nei riguardi delle varianti dialettalmente indifferenti (I, 79, 80; II, 13, 18, 86; III, 60) non sono rari i
casi in cui la lezione di T sia quella innovata rispetto ad MG; e se anche si passa a varianti non inquadrabili nel catastrofismo linguistico dell’ Ariosto (e la soluzione cronologica è allora opinabile), risulta difficile sostenere un’anteriorità di T. È ormai chiaro verso quale opinione propendiamo: MG e T rappresentano due letture, due interpretazioni di un unico originale. Se si pensa che le tradizioni MG e T ci riportano, per quanto riguarda gli elementi più notevoli e di difficile trasposizione personale da parte dei copisti, ad uno stesso momento della storia linguistica ariostea (v. p. 173), e che anzi unanimemente denunciano lo stadio incompiuto dell’elaborazione (v. p. 142 e n. 52), la soluzione risulta, a giudizio ponderato, convincente. Del resto non è difficile scovare, sparsi qua e là per i CC., indizi probatori dell’unicità dell’originale. Non insistiamo 3 Ben diverso il parere di L. Bonollo, op. cit., pp. 15-17, si, op. cît., p. 15, n. 2, che sostengono
l’esistenza
di « varie
ni »; a noi pare insostenibile, e le ragioni sono ormai note,
e L. Rostrascrizio-
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
153
sulla numerazione dei canti — comunque non dell’ Ariosto — che era facile istituire in base alla loro chiara delimitazione. Elemento notevole è invece la lacuna (o meglio la «soluzione », ché i due gruppi d’ottave potevano essere destinati a zone diverse del Fur. « maggiore ») tra le prime 73 ottave del canto quinto e le altre venti, segnata da MGT con la medesima frase: Qui mancano molte stanze ; altrettanto notevole, subito dopo, la mancanza dei primi quattro versi dell'ottava 75, anche perché sia MG che T lasciano lo spazio ad essi corrispondente dopo, e non prima, dei quattro versi residui (pur se l’asterisco posto sopra ad essi da T possa esser segno di una tardiva resipiscenza). Ancor dopo un errore comune: Con gran cavalleria Russia e polacca l’esercito di Slesia e di Sansogna guida Gordamo (V, 78),
resto, forse, di una diversa impostazione del periodo. Ma questo quinto canto è una vera miniera di errori comuni ad MGT. All’ottava 32,4, si parla del «lito di Pisoni e di Bordea »; ed è evidente che si debba leggere Pittoni (come è scritto infatti a V, 44,3 e V, 60,8), dato che l’Ariosto allude alla tribi aquitana dei Pictones, che aveva sede proprio nei pressi di Bordeaux (Bordea): nell'odierno Poitou. A 37,5, si trova un duolo che va certamente letto dolo: evidente ipertoscanismo difficilmente ariostesco. All’ottava 44, dove sono elencate altre tribi aquitane, si ricordano « quei che scesi eran dal monte Averno » (v. 4); si dovrà leggere Arverno, tanto più che gli Arverni sono citati accanto ai Pittoni, appunto come qui, nell’ottava 32. Nella descrizione di un duello, si dice che Orlando e Rinaldo si scambiano dei « colpi, quai fece in A/fegra Marte »
(58,7); e si dovrà leggere Val Fegra o Val Flegra, rammentanto i Phlegraea juga dove Marte fece strage dei Giganti in lotta con i Superi.
I54
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
Nell’ottava successiva si descrive un cavallo che s’aggira, pungolato dall’estro, « nei paschi tra Primaro e Filo, Vol tando in giù verso Volana a Goro »: quella a non si può proprio giustificare, e sarà da mutare in e, come già suggeriva il Barotti. Altro errore comune presenta lo stesso canto all’ottava 63. A prima vista pare che MG presentino un errore (cerro: ferri) che T non ha (cerri) (v. p. 124). Ma a veder bene il cern di T è corretto su un precedente cerro (cer(r0)ri), e non è certo, il cerro, una svista, se presente anche in MG, bensi il cerri una facile correzione. Questo condensarsi degli errori nell’ultimo canto è segno indubbio che l’Ariosto vi dedicò minori cure; come conferma una sgradevole ripetizione: L’un campo e l’altro venia stretto e chiuso, con suo vantaggio, stretto ad affrontarsi (53, 1-2);
e costituisce una conferma ideale alla nostra supposizione di tentativi di congettura da parte di G (p. 130); inoltre rende probabile la non autografia dell’originale (o le pessime condizioni degli ultimi fogli). Di veri e propri errori comuni, fuori di questo canto, uno solo, ci pare: ma quei che se ne fuggon, che son rari, si come esserne un tu credo d’apporme, quando giunger i può [Alcina] negli ampli mari (però che mai non ne abbandona l’orme), gli caccia in ventre a quest’orribil pesce (IV, 41);
ma qua e là fanno capolino prove, sia pure meno corpose, dell’unicità dell'originale. Si vedano questi versi: Gano con molta instanza lo [Carlo] conforta che di Rinaldo levi la sorella prima che di Provenza et Acquamorta
di Marsiglia
tolga
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI » seco gli faccia ogni città rubella, et al fratello apra quest’altra porta d’entrar in Francia
sin ne le budella
155
a Rinaldo (III, 61).
È evidente che le lezioni al fratello e a Rinaldo sono in funzione della presenza o meno, nel secondo verso, della men-
zione di Rinaldo. Né si può dire senz'altro qual sia la lezione ultima, perché già risulta dall’ottava 59 che il fatto debba svolgersi a Marsiglia, e dall’ottava 60 * che si tratti della so-
rella di Rinaldo, cioè di Marfisa. Quello che ci pare caratteristico è quel levare di MG, che con la variante di Rinaldo non dà senso, mentre lo darebbe benissimo con la variante di Marsigha di T, mentre per la lezione di T si può addurre a conferma: «per tor la figlia Del duca Amon, con fraude, di Marsiglia» V, 69, 7-8. L'originale dunque, secondo noi, attestava tre possibilità: di Rinaldo tolga ; di Marsiglia tolga ; di Marsiglia levi ; di cui la prima e l’ultima furono contaminate da MG. E per l’autenticità di un’incertezza ariostesca fra togliere e levare, questi raffronti ci sembrano ottimamente probativi: La
Donna che gli vuol toglier la testa (A, IV, 27) ma non già in libertà, che pur gli ha quella tolta colui, che gli la tol sf spesso (AB, XI, 48)
Disegnando /evargli ella la teSta g(BCR1 Vi) ma non è già in sua libertà, che quella pur gli ha levata il tuo nemico ancora (c, XIII, 48);
3 Improbabile che la variante di Rinaldo sia dovuta al copista di M. È vero che in Mm manca la stanza precedente, la 60, in cui è citato Rinaldo, si che ci sarebbe stata ragione di apportare la modifica, ma: ben altri nonsensi apporta ad m lo sconvolgimento delle ottave 52-61 del canto,
senza
che cerchi
di rimediarvi;
nei dintorni
delle altre lacune,
M
non interviene sul testo; essendo la lezione di Rinaldo collegata con la lez. al fratello del v. 5, si farebbe credito ad m di troppa finezza, attribuendogli la seconda modifica come ritocco per eliminare una ripetizione; G, che rimise ordine in queste ottave, avrebbe dovuto eliminare la manipolazione; comunque non si spiegherebbe l'oscillazione levi-tolga.
156
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
e si possono inquadrare in quanto dice Diaz 66. E si legga quest'altra ottava: D’odoriferi con
cedri era il bel colle
maestrevole
la cui bell’ombra
ordine
distinto,
al sol si i raggi tolle
c'al mezzo di dal rezzo è il calor ricco d’intagli, e di soave e molle
vinto;
getto di bronzo, e in parti assai dipinto, distinto un lungo muro in cima lo circonda (I, 75)....
Prima di dichiarare senz'altro che il distinto di T è caduto dal distinto del secondo verso, va considerato che il copista aveva scritto in precedenza dip-, e poi si corresse. L’esistenza d’un dubbio rende meno facile una distrazione. A noi pare più probabile che la lezione risalga all’Ariosto stesso, che poi, notata la ripetizione, si corresse: tra le due lezioni sovrapposte il copista di T scelse la prima, ma dopo una momentanea propensione per la seconda, quella scelta da MG. In effetti dipinto e distinto appartengono al repertorio mnemonico, ai rimari mentali dell’ Ariosto:
« per note minute, ol-
tra il dipinto, Di tempo in tempo il tutto era distinto », FR, 147; «di nativo color vago e dipinto E di molti e belli arbori distinto », Fur. XXIII, 100.
Crediamo che anche una differenza nella distribuzione delle ottave possa ricondursi all’identità dell’originale. Nel canto terzo, prendendo a base la numerazione di G, le ottave 52-61 presentano la seguente situazione:
Ti 52 55 50 57 53 53 54 50 60 61; Gi 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61; M: 52 53 54 59 60 57 58 G1. Da notare che M, contro le sue abitudini, l’omissione delle due ottave; e che G lascia dopo uno spazio bianco di due ottave. Caratteristico noi, il fatto che lo spazio bianco di G corrisponde
non segna l’ottava 58 è, secondo esattamen-
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
157
te alle ottave 53-54 che in T si trovano appunto dopo l’ottava 58. Se si pensa a certe pagine dei FR, ove le ottave aggiunte trovano un posticino nella colonna destra dei fogli, o vengono anche trascritte in altre pagine, o s’allineano in due colonne, magari partendo da destra verso sinistra, non susciterà stupore questo disguido nell’ordine delle ottave; ma che si tratti proprio dello stesso foglio, ce lo dice lo spazio bianco di G: ci sarà stato qualche richiamo che indicava in modo ambiguo le ottave 53-54; G, che già le aveva inserite al posto giusto, non vide di meglio che indicare una lacuna; T si la-
sciò convincere, e le pose dopo l’ottava 58. Si noti poi che G tornava con più attenzione su un luogo che M aveva conciato molto male: sempre perché la pagina era difficile, ed anche tratto in errore dall’inizio analogo delle ottave 56 e 57 (Quel c’averria...; Quel c’averebbe...) e dalla disposizione
con ogni probabilità su due colonne (saltato, tratto da un richiamo, da una colonna all’altra [59-60], tornò solo parzialmente alla prima [57-58]). Non ci sarebbe difficile tracciare lo schema d’una pagina tale da giustificare la triplice interpretazione; ma non vogliamo costringere il lettore a troppo arditi voli nei paesi d’Ipotesi. Potremmo aggiungere infine i casi di contaminazione di lezioni,
se sono
corrette le spiegazioni
da noi avanzate
per
le varianti I, 32, 75; III, 90 alle pp. 132-4; II, 0, 10, 42 alle
pp. 146-7.e IV, 62, a p. 149. In altri due luoghi le prove di unicità dell’originale mancano dell’attestazione di M, sebbene nel primo il suo silenzio possa costituire argomento. Ecco quasi tutta l'ottava 65 del canto terzo: Carlo pensava chi d’Orlando in vece, e chi degli altri dui poner dovea.... Come quel mulatiero in Soman fece, c’avea il coltel perduto e non volea che si stringesse il fodro voto e secco, e ’n luogo del coltel rimesse un stecco.
in Soma
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
158 In Mm mancano
gli ultimi quattro versi; e tale mancanza,
se esso appartiene, come appartiene, alla tradizione di G, non può essere attribuita ad alcuna altra ragione plausibile che all’incomprensione del copista: egli non trascrisse versi di difficile lettura,
o oscuri.
Che
cosa
avvenne?
Secondo
noi
l’Ariosto o il suo copista scrisse per distrazione il suo solito avverbio riassuntivo o conclusivo in somma con la s maiuscola — e col titulus —; il copista di T copiò tal quale, e si noti, colla maiuscola; quello di M passò oltre sornionamente; quello di G, corso a pescare nell’originale i versi mancanti nella copia già servita ad M, credette si trattasse di un nome
di luogo, e sciogliendo l’abbreviazione inventò una località sconosciuta agli atlanti. E, per finire, una prova infima: E. tanto; posta
fa,
c'a
mandava
Antona,
un
mio
corrier,
ch'in
a gli fa andar in ma-
ni (IV, 60).
Pensiamo che nell’originale l’a omessa
cun
mandavo
Antona
li
fosse stata aggiunta
in margine; il copista di T non se ne accorse, quello di G la inseri al posto sbagliato (o la inseri poco chiaramente nella sua copia traendo in errore i tipografi). Naturalmente tutto questo costituisce soltanto un supplemento di istruttoria: le prove di maggior peso son quelle che porgono le condizioni generali, l’aspetto linguistico dell'originale, come ci è dato di intravvederlo attraverso i suoi discendenti.
Sono istruttive le osservazioni che abbiamo fatto per le prime cinquanta ottave del canto quinto (p. 127 sgg.). In quelle infatti l'originale, diciamo pure solo di M e T, era certamente unico, lo dicono gli errori; eppure quante differenze di
lettura tra l’una e l’altra copia, non minori di quelle che si notano per il resto dei CC. Decisive poi sono le illazioni che si possono trarre dalle vicende di trascrizione dell’originale.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
159
Due originali completi non esistettero mai: per il canto quinto le prove dell’unicità dell’archetipo sono fin troppo numerose, e tali anzi da eliminare quella percentuale di dubbio sopra avanzata solo per scialo dimostrativo. E qua prove, là indizi gravi abbiamo già indicato lungo i CC. a provare l'unicità dell’originale. Il massimo che si possa ammettere è che qualche « doppio » navigasse nelle acque territoriali del codice principale; uno, anzi, rivela effettivamente a noi la sua presenza: quello da cui trasse partito per le prime venti ottave del canto primo chi completò la copia da consegnare a Giolito (v. p. 128). Ma si badi. Il copista di T o di un eventuale suo intermediario
utilizzò evidentemente
un
originale
unitario e ordinato in modo soddisfacente; il margine di inno-
vazioni che presenta MG non è abbastanza ampio per giustificare l’ipotesi di una nuova trascrizione da parte dell’ Ariosto o di suoi incaricati —
trascrizione che tra l’altro, data la
compattezza dei CC., non si vede perché avrebbe dovuto essere parziale (mentre d’altra parte gl’indizi sopra segnalati escludono che fosse totale). Non per nulla l’unica traccia di « doppi » si offre proprio per le ottave iniziali, quasi si trattasse di una trascrizione presto tralasciata ”. Mancando dunque prove dell’esistenza di altri brani in edizione riveduta e corretta, e dimostrata la possibilità di doppia interpretazio—————_——___)\ì
37 Saranno
esistite, piuttosto,
brutte
copie,
evidentemente
più diffi-
cili e certo non utilizzate. Salvo che in un punto, se è valida la supposizione che qui proponiamo con molti punti interrogativi. Nel brano IV, 58-73 mancante in m, le varianti di G sono, un po’ pit spesso del solito, conservative rispetto a T (v. varianti IV, 59 a p. 138; IV, 63 a p. 143). Se si accettasse l’ipotesi che T derivi da una copia tratta dall’originale prima che esso ricevesse altre correzioni d’autore (v. p. 160), si potrebbe sostenere che in G, non ritrovandosi la bella copia del brano omesso, per smarrimento dei fogli corrispondenti, da m, ed essendo ignota la copia da cui discese T, si fosse colmata la lacuna con brutte copie, e che perciò T presenti, per quel brano, la lezione innovata. Ma poiché non mancano nel brano innovazioni di g rispetto a T (v. var. IV, 131 a p. 140; IV, 7I a p. 144), preferiamo addossare la responsabilità del maggior numero di forme conservate alla cattiva scelta delle varianti da parte di chi fece
160
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
ne della pagina ariostesca in luoghi ove è sicuro che questa fosse unica, l’utilizzazione di « doppi» da parte di MG resta per noi una eventualità meramente teorica. Come possano esser fiorite cosi numerose varianti dalle pagine dell'originale, capirà facilmente chi conosca o si prenda il gusto di sfogliare i FR del Fur. nella riproduzione fotografica*. In essi appaiono spesso correzioni eseguite senza cancellare la versione anteriore; spesso le correzioni di poche lettere sono sovrapposte a quelle del primo strato, sf che non sempre riesce evidente quale sia la lezione definitiva; quasi sempre le correzioni più estese sono fatte a lato, e con rimandi non frequentemente incontroversi; né infine è raro il caso che la lezione definitiva si rannicchi in qualche angolo del foglio, risultando di molto più difficile lettura che la lezione anteriore, solo percorsa da un tratto di penna. Ed ecco allora che il copista di T, intriso di dialetto, sarà portato a scegliere, cosciente o no, la lezione meno toscana;
e che,
affrettato e facilone com'è, condurrà alla svelta e di seguito la sua lettura trascurando di far correr l’occhio al lato delle
ottave, dove l’Ariosto ha posto le correzioni, oppure preferirà un verso cassato perché più facile a leggersi. E talora sarà invece indotto in errore il copista di MG, ma meno spesso, perché più calmo e diligente; e si ricordi che questo copista, se pur non fu lo stesso Virginio, certo lavorò sotto la sua sorveglianza. Ferma restando, che ci pare dimostrata da elementi non dubbi, l’unità dell’originale, solo si possono tentare ipotesi supplementari ad eliminare il margine di prevalenza di innovazioni in MG. L'unica che possa reggere, è quella che T
copia dei brani da aggiungere in G, evidentemente meno accurato deldell’ascendente di mG (cfr. n. 18); e trarne anzi una nuova prova della possibilità di esser tratti in errore dalla lettura di un foglio ariostesco. 8 L. A., I Frammenti autografi dell’« Orlando Furioso », pubbl. a cura di G. Agnelli, Roma, s. a. [ma 1904]. l’autore
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
I6I
discenda dall’originale in un momento in cui ad esso non erano ancora state apportate dall’ Ariosto tutte le correzioni. Le innovazioni di T rappresenterebbero cosî correzioni già presenti nell’originale all’epoca della prima copia (e poi sfuggite al copista di MG), mentre un numero x di innovazioni di MG rappresenterebbe correzioni successive. Questa ipotesi richiede che T, certamente tardo (v. $ 6), sia disceso dall’originale attraverso un intermediario. Bisognerebbe allora ammettere che l'oscillazione di(P)stinto (v. p. 156) fosse già stata nell’intermediario; che la frase Qui mancano molte stanze, in T stretta stretta tra le ottave, e protesa nel margine sinistro, sia stata aggiunta (ma certo dal copista) in seguito a un confronto con MG — di cui sarebbe però l’unica traccia. Lasciano poi da pensare gli spostamenti nell’ordine delle parole (v. p. 152), che ci sembrano più ammissibili trascrivendo da un originale molto maltrattato che da una semplice copia (o che siano frutto di collazione? ma chi mai collaziona l’ordine delle parole e non le parole ?). Le obiezioni più gravi vengono da elementi esterni: Giulio, autore di T, della cui opera di copista si valse spesso Virginio (v. p. 164, n. 42), attingeva con ogni probabilità ai ripostigli dell'erede materiale e curatore poetico di Ludovico: come sfuggi a quest’ultimo l’esistenza di una copia completa dei CC., quando pubblicando Mm si accorse che l’originale era lacunoso? E con che scopo fece trar copia di una copia, quando di buona parte dei CC., o della loro totalità entro il 1548, data di G, possedeva l’originale? Presentiamo pertanto quest’ipotesi in sottordine, preferendo quella della doppia lettura d’un originale unico nel medesimo stadio di elaborazione. E chiaro che, qualunque versione si preferisca, le conseguenze da trarne agli effetti dell'edizione sono le medesime:
ché non potendosi,
allo stato
dei fatti, discriminare la prima dalla seconda ondata di correzioni; essendo certa, sia dovuta a virtà filologiche o a van-
taggi di fatto, la superiorità della tradizione MG, ma anche certa l’esistenza di innovazioni in T, si possono enunciare i seguenti:
162
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
$ 5. CRITERI DI EDIZIONE. Le norme per la prassi dell’edizione si traggono abbastanza naturalmente dalle considerazioni già fatte. Andrà tenuto a base G, eliminati gli errori, perché appartenente alla tradizione MG e, a differenza di Mm, completo; e si dovrà ricorrere a T sempre e solo nei punti in cui sia estremamente dubbia la validità d’una lezione di MG, o la lezione attestata da T appartenga certamente ad uno strato più recente. Vedremo più avanti le norme da adottare per il colorito linguistico. Aggiungiamo che per questo testo si rende molto più del solito impellente l’esigenza di un’edizione con apparato. Non solo per salvare lezioni pure ariostesche conservate da T, ma perché, costituendo l’insieme della tradizione una pro-
lezione sincronica di elementi linguisticamente e poeticamente diacronici, qualunque versione, le stampe e il ms. antichi o il testo criticamente più perfetto, costituiranno sempre una scelta, una «decisione» provvisoria a cui quella definitiva non seguirà mai. Con l’apparato dell’edizione critica sarà ricostruita la pagina ariostesca; ma una pagina in cui tra le varianti non sia inequivocabilmente indicata la differenza gerarchica. $ 6. STORIA ESTERNA.
Nello studio condotto sin qui sul diverso comportamento dei copisti nei confronti dell’originale, abbiamo seguito gesto per gesto, parola per parola, quel lavoro che ci ha conservato — e la nostra gratitudine dev’esser viva — un’opera abbandonata dall’Ariosto alla pietà del futuro. Ma gesti e parole non c’interessavano di per sé: guidati da essi cercavamo d’intravvedere l’originale dei CC., quasi nel suo aspetto concreto, nella materialità commovente di fogli e tratti d'inchiostro che furono investiti da un atto di poesia. Rac-
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
163
colti tanti indizi, ed evocata l’immagine del manoscritto perduto, possiamo ora tentarne una breve storia.
Dunque: il Manuzio riceve da Virginio, circa dieci anni dopo la morte dell’Ariosto, una copia dei CC. («cinquecento e trenta stanze, composte dal medesimo auttore, che di questi anni io hebbi dal nobile M. Virginio Ariosto, degnissimo figliuolo di tanto padre »). Sî, una copia; e come avrebbe potuto raccapezzarsi sull’originale? Era giustamente orgoglioso di questa primizia editoriale: «sono molto certo, che ogni uirtuosa persona
l’hauerà carissima,
& me,
& chi
ha degnato di honorarne la mia stampa, ringratierà infinitamente dell’hauer comunicato al mondo l’ultimo frutto di messer Ludouico Ariosto » (Dedica). All’originale da cui la copia discendeva mancavano 1 fogli contenenti le ottave 8-20; 81-87 del canto secondo e 58-73 del quarto; dopo l’ottava 73 del canto quinto vi era stata segnalata da qualcuno la lacuna, o soluzione, con le parole: Qui mancano molte stanze; e l’ottava 75 era priva di quattro versi. Chi trasse la copia aggiunse, di suo, l’omissione delle ottave 55-56 del terzo canto, dove sconvolse pure l’ordine delle ottave (v.
p. 156), e della seconda metà dell’ottava 65 di cui non intendeva il senso (v. p. 158); inoltre tralasciò, probabilmente a ragion veduta, la stanza di collegamento col Fur. Quando
tre anni dopo Giolito ristampava i CC., affermava
sin dal
frontispizio di averli «corretti dall'originale di mano dell’Auttore », e di avere «alcune altre Stanze del medesimo, che mancauano, aggiunte & poste a i suoi luoghi nouamente». La prima affermazione è molto sospetta, se vi si allude ad una collazione con l’autografo (v. p. 128); in verità però,
presa a base la stessa copia di cui si era servito il Manuzio, egli ebbe la possibilità di migliorarla: avvalendosi per le prime venti ottave di un paio di fogli meglio elaborati; inserendovi copia dei fogli in precedenza smarriti, e in quel lasso di tempo ritrovati; infine ricorrendo all’originale per completare l'ottava lasciata a metà ed eliminare l’imbroglio av-
ARIOSTESCHE
ESPERIENZE
104
venuto intorno alle ottave 52-61 del canto terzo. Se fece collazioni, furono
da riuscirci impercettibili.
cosî minime
Non
si sa da chi egli abbia avuta la copia completata e corretta: «dagli eredi dell'autore » afferma il Bongi”, e sarebbe difficile supporre altrimenti — ma da chi in particolare non è dato saperlo con certezza. Ricordiamo però che Giolito ancora nel 1551 pubblicava la Lena, il Negromante e i Suppositi da esemplari fornitigli da Virginio stesso, al quale anzi dedicava l’ultima di queste commedie‘. Ed allora non riesce troppo ardito immaginare che Virginio, riavuta dal Manuzio la copia lacunosa, e ritrovati nel frattempo i fogli mancanti, l'abbia consegnata poco dopo a Giolito, inserendovi copia dei nuovi fogli e mettendo a posto i luoghi più disgraziati. Da un esemplare intatto deve discendere T. Il manoscritto, segnalato per la prima volta dal Cappelli* ed attribuito in principio a Gabriele fratello di Ludovico, è dovuto invece a Giulio di Giammaria*, appartenente ad un altro ramo della famiglia Ariosto. Copista dell’Imperfetta di Virginio che è del 1551-4# e della Lena, autore di una 39 Annali citt., p. 216. 4 v. L. A., Le Commedie,
a cura
I, pp. XXXIV, L. 41 Lettere di L. A., per cura notizia
davvero
sensazionale
cioè che l’ed. veneta col ms.
Catalano,
di A. Cappelli,
Bologna
Bologna,
18662.
19402,
Una
dànno
le Indicazioni
di A. B.
del Misserini,
1617, presenta
« molte concordanze
di Gabriele ». Notizia
collazioni eseguite per me 4 L'attribuzione
di M.
falsa, naturalmente,
come
Baldini,
e
mi confermano
dal dott. L. Capra.
è di M. Catalano,
Introd.
a Le commedie
cit., PP.
LVII-LIX, il quale allo stesso Giulio attribuisce il codice M della Lena e il codice M de I studenti (p. LXII); essa era già stata avanzata nella Vita di L. A. cit., I, p. 219, n. 28, ove però l’A. riteneva si trattasse di
Giulio figlio di Gabriele. Il facsimile di una lettera di Giulio di Giammaria pubblicato ne Le commedie citt., II, p. 189, ci convince del tutto, almeno per i CC. 4 M. Catalano, Vita cit., II, Appendice, Tav. II. 4 L. A., Gli studenti cit., p. xI. 45 Il ms. è del « secolo XVI inoltrato », v. L. A., Le commedie
IPRPERIE VII
citt.,
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
165
lettera del 1558 (v. n. 42), deve aver trascritto i CC. in epoca vicina a questi termini cronologici, e certamente da un manoscritto fornitogli da Virginio, erede di Ludovico, e a cui «è probabile che, con le altre scritture paterne, siano venuti (...) gli autografi del poema, che, nel complesso, si conservarono ancora per due secoli in casa degli Ariosti di Ferrara » (DebF VIII); anche i CC., aggiungiamo noi, che si trovavano con gli altri frammenti quando il Ruscelli li vide in mano a Galasso Ariosto”. A seconda che si accetti l’una o l’altra delle ipotesi affacciate a p. 161, egli trascriveva dall’originale o da una copia trattane vivo ancora l’Ariosto. E nel primo caso si potrebbe supporre che Virginio gliene avesse dato l’incarico essendosi accorto che l’originale si stava deteriorando. Certo è che le tracce dell’originale vengono a mancare immediatamente; e la nostra fantasia è libera di fingergli le avventure più mirabolanti, o di pensarlo, con malinconia, abbandonato a una lenta morte per muffa o per voracità di roditori. $ 7. DATAZIONE. Quando
siano nati nella mente
dell’Ariosto
i fantasmi
dei CC., non si può dire con precisione: l’atto di nascita di un’opera d’arte è raramente trascritto in qualche registro terreno. C’è una lettera dell’Ariosto, in cui forse si allude, forse non si allude ad essi“; c’è, e serve di più, l’ottava iniziale del codice T, che corrisponde a B, XL, 45; C, XLVI, 68 (più vicina a B che a c: de’ /or malvagi [di lor malvagi B; di quei malvagi c]; li comun disagi [li commun d. B; è commun d. c], anche se ha, come c, oltre [oltra B]); e rappresenta senz'altro il cordone ombelicale che lega questo amSoEVAENINCata
ANO
MITAC
P0z41
4 v. il brano in DebF VIII, n. 4. EVA NI 54:
166
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
pliamento poi abbandonato al Fur. Ché, se si può vedere una ragione per eliminare l’ottava (essa manca in MG) nel render noti al pubblico i CC. — e cioè l’intento, in un editore scaltro, di render meno precise le coordinate per la localizzazione dei CC., presentati, si ricordi, come «continuazione » del Fur. (non per nulla G elimina pure la prima ottava di M, riuscendo a raggiungere la solennità di una protasi: «Sorge tra il duro Scita e l’Indo molle....»; ed elimina insieme, naturalmente, l’indicazione: Manca il principio del primo canto)* — non si vede perché il mediocre copista di T avrebbe sentito la necessità di trovare, e davvero bene, una incatenatura col Fur., compiendo per di più il non piccolo explott di mutare gli ultimi due versi. È questo un primo elemento per la storia poetica dei CC.; un altro è l’esistenza del frammento de « Lo scudo della Regina Elisa » (v. DebF XXI; FR 151-4), che ha in comune coi CC. «l’intento di far muovere, ai danni di Carlo e dei suoi, Gano e Alcina ». Se tale fram-
mento, che è linguisticamente anteriore agli altri, trati in Cc, potesse essere anche cronologicamente ai CC., un altro po’ di luce potrebbe esser fatta stione. La risposta è affermativa, come si vedrà. fine che pure altre delle aggiunte introdotte in c
quelli enavvicinato sulla queSi noti inson legate
al progetto di far scoppiare, verso la fine del poema, una discordia alla corte di Carlo, onde aver argomento a narrare nuove avventure. Perciò i FR, collegandosi da un lato ai CC.°, dall’altro al Fur. quale riuscî nell’edizione defini4 Sia il Bonollo sia la Rossi, convinti dell’esistenza di parecchi esemplari, scagionano del tutto gli editori. Il massimo che noi si possa ammettere è l’assoluzione di G, che si serviva per l’inizio del canto di altra copia; ma un’assoluzione per mancanza di prove (tanto più che Giolito avrà almeno avuto per le mani m). 5% E in modo quasi palpabile, con un accenno a un ciclo epico che, ignoto al Fur. e presto abbandonato anche dai FR, riappare nei CC. Alludiamo al Fr. 137, 67, ove sotto una cancellatura c’è, in un elenco di traditori, il nome dei Macarii, di cui S. Debenedetti, Le nuove otta-
ve dell’Ariosto,
« La cultura », N. S., I, 1920, pp. 171-176, a p. 173, no-
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
167
tiva, appartengono chiaramente ad una medesima area del paesaggio fantastico dell’Ariosto. Noi vorremmo però rovesciare la questione. Se alcuni indizi ci si fanno avanti per individuare la posizione iniziale dei CC., altri ben più sicuri ci permettono di indicarne quella finale. Questo secondo problema, nella nostra prospettiva di lavoro”, ci pare molto più concreto. Quando abbandonò l’Ariosto l’idea d’inserire i CC. nel Fur. ? È nota, specialmente per i lavori di S. Debenedetti, l’insistente autocritica a cui l’ Ariosto sottopose la lingua dei suoi scritti; né è qui il caso di ricordarne le ragioni e i modi. Av-
vertiamo soltanto che, mentre alcuni mutamenti vennero eseguiti tiepidamente, e ricadendo di continuo nella forma abbandonata (sia che l’Ariosto sentisse come più sua la forma che pure scartava in omaggio a un ideale linguistico, sia che non avesse ben chiare le ragioni della modifica, o questa fosse solo giustificata, di volta in volta, dall’impasto vocale del verso), altri furono attuati, sia pure dopo una fase d’incertezze, con tutta la sistematicità che si può chiedere a un poeta, e all’Ariosto. Uno di questi è la sostituzione di tosto a presto, di cui si può indicare persino il ferminus post quem, e cioè il 1525 (v. Deb0Q);
orbene, i CC. hanno quasi sempre tosto (I, 32, 45;
II, 84; III, 5; IV, 25; V, 68) e, a maggior ragione, più tosto (I, 34, 95; II, 41, 43 ecc.) ”. Un altro è la sostituzione del tava l’assenza nel Fur., ma di cui è anche più interessante la presenza nei CC. (III, 83). Ed è già stato notato che l’Orca dell’episodio di Olimpia, aggiunto nella terza edizione del Fur., utilizza elementi del canto quarto
dei CC.:
v. P. Rajna, Le fonti dell’O.
Alcune buone osservazioni 51 Appunto per questo per una retrodatazione dei tende annullare) il discorso di composizione
dei CC,
F., Firenze
19002, p. 218.
pure in L. Rossi, op. cit., passim. l’intervento brillante e decisivo di Dionisotti CC a prima del 1521 non annulla (e non prequi condotto. Dionisotti ha stabilito la data
noi la data della loro ultima revisione
da parte
dell’autore. 5 Rimangono solo un presto (IV, 25) e un più presto (V. 40); altri segni, forse, di una minore elaborazione degli ultimi canti.
168
tipo amava cabilmente vo (I, 107; espresso la
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
al tipo amavo, pure successiva al 1525, e immanattuata in c (v. DebQ); i CC. hanno ancora amaIV, 78), tranne in quei casi su cui abbiamo già nostra diffidenza (v. n. 18).
Ci troviamo dunque negli anni tra il 1525 e il 1532 (data di c). Ma si può precisare di più. In questi anni si situano pure le Sat. e i FR; questi successivi a quelle”. Dobbiamo dunque esaminare in base ad innovazioni significative la lingua dei CC. in rapporto con quella delle Sat. e dei FR. Il metodo che ci sembra più proficuo è quello di contrapporre via via serie di innovazioni e di conservazioni, con cui si
può benissimo caratterizzare ognuna delle opere dell’Ariosto. Le innovazioni principali delle Sat. sono: sostituzione di dietro a drieto (II, 180, 195; IV, 131, 222; V, 122, 281; VII, 54 — dneto a VI, 200), di tosto a presto (I, 160, 161, 245; III, 261; VI, 188; VII, 118), ditne + art. a in4 art. (v. p. 143), di alcuno a ignuno (II, 72; III, 231). Le innova-
zioni principali dei FR sono, oltre a quelle delle Sat., vo”
per vuo’ (10, 33; 13, 93; 39, 33; 34; 5I, 93; 52, 4; 68, 70; IOI, 45 ecc.), amava per 40, 4I ecc.), li scogli per del secondo tipo: 24, 20; Se misuriamo le Sat.
amavo (7, 22, 23; I0, 33; 309, 35; 1 scogli (43, 52; 126, 80; con resti 25, 35). al metro di questa seconda serie di
innovazioni,
che
osserviamo
esse
azzardano
pochi
vo’
(I,
151; III, 133) a fianco d’un gran numero di vuo’ (I, 194; II; 1r4;.IIL:Is1t; IV, 216; V,7,148;(197; 207 2003) ;icono:
scono soltanto il tipo amavo (III, 14, 85; VI, 163, 206, 240) e soltanto il tipo è scogli (III, 113, 313; V, 72; VI, 82). Quanto a quest'ultimo, abbiamo parlato sinora solo del plurale, perché l’innovazione, per il singolare, fu attuata dall’ Ariosto alquanto prima: ecco infatti nelle Sat., accanto al tipo il 53 Se ne troverà la dimostrazione in DebS. Precisiamo che, parlando di data delle Sat., intendiamo alludere non all’epoca della composizione,
ma a quella dell’ultima revisione.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
169
scogho:(Jm4b;011758,9188,2200IIIc20IVp 1740 Vizio; VI, 36) alcuni esempi dell’innovazione /o scoglio (IV, 219; VI, 49, 66; VII, 094), che sarà attuata regolarmente in c (v. pir42)i Esaminiamo ora i CC. col canone sopra abbozzato. Le innovazioni delle Sat. sono tutte presenti: per tosto v. p. 167; dietro è ad 1,7 (:), 71; II, 35; IMI, 1; un solo drieto (:) V, 47;
poi una
serie di luoghi in cui MG
hanno
dietro,
T
drieto (II, 99; III, 81, 84, 86, 92; IV, 37), ed è una questione su cui ritorneremo, anticipando qui la conclusione che si tratta di peculiarità linguistica di T; per ne+art. v. p. 143; e infine, mentre mancano esempi di ignuno, alcuno è a I, 65; II, 44. Confrontando ora i CC. con i FR, risulta che vi mancano le innovazioni che li caratterizzano: abbiamo infatti vuo’ (II, 78; IV, 66), amavo (v. n. 18), i scogli (II, 22, 46, 63; III, 78; IV, 43, 49, 69; V, 25), con due soli esempi del secondo tipo: gl statichi (II, 04), gli spirti (II, 22; T: spiriti). Al singolare qualche esempio di lo scoglio, accanto a.una maggioranza del tipo conservativo (v. p. 142). Quanto poi alla questione sopra accennata, dei rapporti cronologici con «Lo scudo della regina Elisa », l'esame linguistico ci fa porre quel frammento appunto vicinissimo ai CC. (e fors’anche un tantino prima, nonostante l’autorità del Debenedetti): esso ha infatti sempre 1/ scoglio (152, 5, 6, 0; 153; IO, II, I3 ecc.), sempre în + art. (153, 12; 154, 14), e persino parentella, 152, 6 (:), stuccicando, 154, 15. 54 Queste ottave, che secondo S. Debenedetti, Le nuove ottave cit., p. 175, « segnano il momento della liberazione » dal mondo dei CC., ne sono invece l'annuncio, secondo P. Rajna, Un episodio inedito dell’ Orlando Furioso ?, in « Il Marzocco
», XXXIV,
1929, n. 6; opinione che ra-
gioni linguistiche ci portano a condividere.
Si noti, col Rajna, che por-
tando
ad
cosi
indietro
codeste
ottave,
viene
adattarsi
loro
l’accenno
famoso dell’ Ariosto ad « un poco di giunta » che egli nel 1519 stava preparando al Fur. (Lettera all’Equicola, in Lettere di L. A., a cura di A. Stella, Milano 1965, p. 26), che altri però, tra cui Dionisotti, riferiscono agli stessi CC.
ESPERIENZE
I70
ARIOSTESCHE
Ecco dunque che ai limiti 1525-1532 possiamo sostituire un’affermazione ben più precisa: i CC., nel loro ultimo stadio, appartengono al periodo tra « Lo scudo della regina Elisa » e l’ultima revisione delle Sat. 5, e sono alquanto anteriori ai FR. Non
crediamo
che si possa
l'ubicazione esatta dei CC. differenza dei FR, né Sat. in un abbastanza limitato DebS) sia i secondi (v. p.
dire di più, determinando
nel tempo delle Sat. né CC. furono scritti spazio, ed anzi sia le 142 e n. 52) mostrano
Intanto, a e corretti prime (v. i segni di
correzioni saltuarie, o presto interrotte. Cosî se i CC. hanno,
rispetto alle Sat., l’innovazione gli scogli, d’altra parte hanno ancora, oltre a un presto per tosto, come Sat. IV, 223; V, 195, persino un pi presto, ormai abbandonato dalle Sat. (v. n. 52); se le Sat. hanno del tutto normalizzato il tipo ne + art., mentre i CC. hanno residui del tipo precedente (v. p. 143), d’altra parte le forme me per mi? restano in maggior numero nelle Sat. che nei CC. E poi, se le Sat. ci sono conservate da un apografo riveduto si dall’autore, eppure ricco di forme che gli erano sconosciute, ai CC., conservati da un manoscritto iperdialettale e da due stampe rispettosissime per i tempi, ma non rivedute dall’Ariosto e per di più basate, come il codice, su un originale di lettura non certo agevole, si pretenderebbe davvero troppo se si volesse che avessero conservato minuzie linguistiche, che spesso sfuggivano allo stesso Ariosto. C’è infine una terza ragione, che molto deve valere nel giudizio di un’opera, co5 Questi termini si accorderebbero benissimo con la datazione 152628 proposta da M. Catalano, op. cit., p. 598, che ha il solo difetto di essere troppo
esatta e categorica.
Per il Bonollo,
op. cit., p. 30, essendo
i
FR posteriori al 1529, i CC., che « devono essere stati pensati, composti, corretti
subito
prima », sarebbero
del
periodo
1526-29.
Nessuno
degli
elementi di datazione proposti, né per CC. né per FR., ci convince; ma soprattutto ci pare da sottolineare che tra CC. e FR. (come segnalano bene le Indicazioni
del Baldini) esiste un discreto iato fantastico —
iato linguistico già ci siamo occupati.
del
8. STUDI SUI «CINQUE CANTI »
ugai
me i CC., non sottoposta a definitiva revisione. C’è che, nel gettar giù, obbedendo all’ispirazione, i suoi versi, 1’Ariosto ripete ogni volta, anche se con altra prestezza, tutto il cammino linguistico già percorso. Si veda per esempio la brutta copia dei FR XI, 21-44; 71, 73. Non c’è dubbio ch’essa sia
posteriore alle Sat.; e ce lo confermano l’abbondanza di i, che l’Ariosto tendeva a sostituire a ld come articolo plurale, ce lo dicono i due dove, uno corretto su ove (23, 28; 27, 43) ecc. Eppure, accanto alle forme ne + art. (24, 20, 31; 26, 39), ecco tutto un gruppo di in + art:--(22, 24; 23, 28; 26, 37), che già nelle Sat. è abbandonato. Ma non appena l’Ariosto copia in bella le ottave (FR, 59-63), ecco che gli in + art. spariscono (v. DebF XXVI); alle Sat. e ai CC. mancò certamente una cura cosi assidua: scritti in un momento linguisticamente un po’ arretrato, furon corretti qua e là, ora per un fenomeno ora per l’altro, e poi abbandonati. Preferiamo cosi limitarci a vedere, su un gruppo di mutamenti caratteristici, se trovi conferma la datazione stabilita.in precedenza. Ci serviamo prima di tutto di luoghi in cui l'attestazione di MGT sia concorde. Cc sostituisce sempre oltre ad oltra (v. DebN 425); le Sat. hanno sia oltra (I, 9) sia oltre
(VII, 13, 177), e in modo simile i CC. hanno oltra (I, 17) ed oltre (II, 131; V, 45, 47), senza contare due luoghi in cui MG dànno oltra e T oltre (I, 17; II, 49). C elimina tutti i /assare per lasciare, tranne che in rima; le Sat. invece ne conservano uno fuori rima (V, 203), più uno in rima (V, 207), pur dando la preferenza a lasciare (V, 271; VI, 122, 120, 195); similmente i CC., con numerosi lasciare (I, 57; II, 15,
23, 42,70, 85, 86; III, 54, 92; IV, 5 ecc.) o lassare in rima (I, 33; II, 57; IV, 4, 21; V, 90), hanno alcuni esempi di lassare fuori rima (II, 27, 30; III, 82, 85, 86), oltre a quelli di T, in corrispondenza con lasciare di mc (II, 14; III, 48, 105; V, 57), di cui va tenuto poco conto, e ad uno di MG contro un lasciare di T (II, 100). Cc tende ad eliminare frate per fratel; le Sat. hanno già in minoranza frate (II, 129) in con-
I72
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
fronto a fratel (I, 2; II, 30; IV, 61), e allo stesso modo i CC. hanno più fratel che frate (v. p. 144). C sostituisce altretanto ad altrotanto,
attuando
un’intenzione
già espressa
nell’E7-
rata di B; le Sat. hanno l’una (VII, 60) e l’altra forma (VI, 90), al pari dei CC. (II, 9 e II, 33). Le Sat. sono all’inizio del passaggio da dimandare (II, 124; IV, 169, 202) a do-
mandare (V, 311; VI, 8), e cosf i CC. (I, 12; II, 14, 78, III; III, 27, 48, 93; IV; 37; V, 70 e II, III). E si potrebbe proseguire. Ma spesso la forma attestata da MG è in disaccordo con quella di T, e conviene perciò passare a un esame delle condizioni linguistiche delle due tradizioni dei CC.
$ 8. COLORITO LINGUISTICO.
Noi leggiamo i CC., s'è visto, in due stampe non corrette dall’ Ariosto e già derivate da una copia, e in un manoscritto tutt'altro che impeccabile. Abbiamo stabilito una sostanziale fedeltà di trasmissione; ma non si può chiedere ai vecchi trascrittori una cura che manca cosi spesso nel nostro secolo filologico. Ecco qui. Dissegnare (o dissegno) è ad I, 23, 86, 110; II, 55, 87; III, 76; abbiamo poi luoghi in cui l’accordo GT dovrebbe farci propendere per dissegnare (I, 21), e luoghi neutri, con dissegnare in GM (III, 31) o in T (II, 62; III, 35, 81); solo pochi luoghi con disegnare (I, 17; II, 06;
IV, 23), ed uno in cui la forma disegnare è sostenuta dall'accordo MT (III, 58). Ebbene, tra centinaia di disegnare si contano nell’Ariosto pochi sporadici casi di dissegnare, tanto che si può sospettare siano dovuti a copisti e stampatori. Un altro esempio. Nella formazione delle preposizioni articolate i due casi che si presentano più spesso nei CC. sono: accordo MTG nella forma de la (I, 2, 3, 12, 20, 57, 59,
66, 68, 81, 04, 110) ed a la (I, 9, 37, 47, 66, 60, 81, 86, 0I, 92, IOI);
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
173
accordo di GT per de la contro della di m (I, 8, 28, 38, 39, 41, 44, 45, 50) o per a la contro alla di m (I, 25, 30, 38,
39, 40, 44, 45, 48). Nessun elemento ci potrebbe far scoprire la norma che cì appare quasi costantemente
seguita nelle altre opere del-
l’Ariosto: unione con a (alla) e scissione con de (de la). Ancora: i CC. ci attestano una gran maggioranza di fusse, fusserb(il #10-22523, 36,0047108;s01, CITI; 11 #23, 048N87 70100, 116 ecc.) di fronte a pochi fosse, fosser (I, 16; II, 5, 86 (:), 105 (:) ecc.) o a casi ancipiti (fosse MG; fusse T, III, 5, 71; fusse MG; stanza
rara
fosse T, III, 46). Ma la forma fusse è abba-
nell’Ariosto,
che
preferisce
fosse.
Non
c’è da
scandalizzarsi: come per le Commedie, nell’edizione dei CC. andrà sempre tenuto presente l’uso ariostesco. Ma tenendo a base il ms. o le stampe? Il codice Taddei è spiccatamente dialettale. Certi raddoppiamenti: eletto (III, 19, 32, 46, 47, 66 ecc.); Pappa (II, 25), tradittor (II, 80), seguittarlo (II, 121), tella (III, 23), calla: esalla: scalla (II, 11), mollo (V, 30), fernire (IV, 15, 01), pelli (IV, 43), dilletti (IV, 45), connoscere (II, 50; III, 82, 89); e scempiamenti: monacheti (I, 51), galina (III, 97), rato (I, 105; II, 84; III, 62), tropo (III, 103), Apemino (II, m3)\\sacta (II, 121; IV, 14); fato (IV, 40), invito (Vi, 1), valee (V, 43), done (V, 77); certe e ed o protoniche: legnaggio (I, 30), occidere (I, 85; IV, 81), soprema (II, 19), Ongheria (II, 92); certe o toniche: giongere (I, 48; II, 55; Best) longoIV;51: 11774, 9g;(1II, 87#gz:ecc.); certi esiti di -cj- e c-: Franza (I, 52; II, 120; III, 55, 63; IV, 54), zeppo (I, 86), lanza (II, 80, 94; III, 85, II0 ecc.), cianzar (IV, 2), sono abbastanza eloquenti. Si tratta non solo di forme del volgare illustre ferrarese, ma di veri dialettalismi (mentre già in A « pochissimi sono.... i veri e propri dialettalismi» Migl. 179); sconosciuti in gran parte all’Ariosto. Questo fatto ci permette di affermare che
I74
ESPERIENZE
ARIOSTESCHE
quand’anche si possano indicare, per certune delle forme dialettali di t, raffronti con A o B (occidere A, II, 16 [in MTG II,
33]; connoscere A, III, 71; AB, IV, 56; V, 52 ecc.), il sospetto che esse risalgano all’Ariosto è senz'altro da scartare, quando non sia dimostrabile la loro convivenza, in altre opere dell’ Ariosto, con le fasi tosto, ne + art.; e la loro accettazione è comunque condizionata, in via prudenziale, dalla loro presenza in MG — salvo che la forma di MG sia assolutamente non ariostesca. Ci permette pure di accettare come più prossima al vero l’alta percentuale di forme innovate, sostenuta da MG, che quella con forme conservate sostenuta da T, per le alternanze dietro-dnieto, lasciare-lassare, sarei-serei, che rappresentano, contemporaneamente, un’opposizione di forme emiliane o del volgare illustre a forme toscane, e l'opposizione del primo Ariosto ancora boiardesco all’Ariosto toscanizzato dalle teoriche del Bembo e dal modello petrarchesco. Si tratta cioè di forme che furono dell’Ariosto, ma che, sostenute dal solo emiliano T, e per di più in una fase linguistica che lo stesso T si piega a confessare, non possono risalire che al copista di T. Ecco un esempio caratteristico: T scrive vittuaglia ove G dà vettovaglia (II, 82); vittuaglia è forma ariostesca (A, II, 25; VIII, 25), ma già abbandonata
sin dalla seconda
edizione
del Fur.
(B, II, 25;
VIII, 25); che si tratti di uso linguistico di T, e non di forma residua dell’Ariosto, ci conferma il parallelismo con auto, pure solo in T — di fronte ad avuto di MG — (I, 27, 64, 97, 106; II, 40, 93, 128 ecc.), ch'è invece affatto sconosciuto all’ Ariosto (kauuto già in A, XXI, 41; XXII, 32; XXIII, 44, 65, r°eta;) DI Ha tutte le ragioni di essere unita a questi cenni sulle caratteristiche dialettali di t l'abbondante dittongazione,
an-
che in corrispondenza con vocali chiuse del toscano: si trat% Casi di auto si notano nelle Commedie; fatto ben poco impressionante per chi conosca la inamena storia della loro tradizione.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
175
ta di una «falsa ricostruzione» caratteristica del volgare illustre ferrarese”. Citiamo un vuolle «volle» (V, 38), ed una curiosa variante che può trarre in inganno: Ma quel c’oggi dir volsi è qui finito: chi più ne brama udir domani invito
vuolsi
(IV, 97),
variante che avrebbe qualche senso interpretandola come un presente di impersonale (naturalmente il Baldini ci cade), ma che, dato l’usus linguistico e narrativo dell’Ariosto, non può essere che un perfetto, si che va adottata la forma senza dittongo. L'esistenza di tali dittongazioni (pure con un esempio di riduzione: arruta III, 54; GM: arruota), ci permette
in modo analogo di attribuire al copista forme come vietro, lievo, spiero, priego, che in linea di massima potrebbero essere ariostesche*, e in qualche caso non è escluso lo siano, ma sono in T troppo insistenti, anzi sistematiche (vietro I, 7; deco a Il T, 24, 37 All 0r,0IV 2222452; SariVvozio: spero Il.S3 III, 42; prego Il '34; IlI,..01: IV, 89; V, 28, 78); mentre MG, al caso, non le rifiuta: prieghi MGT,. IV, 84; o. anche: nieghi MET, I,.16; IV,.809.ecc. — e allora vanno accettate. Il colorito linguistico di T è dunque assai lontano da quello dell’originale dei CC. Bisogna ricostruire ipoteticamente? A noi pare che, come in genere la lettura del testo è molto più diligente e acuta in MG che in T, anche la conservazione degli elementi fonetici e morfologici vi sia abba57 v. G. Contini, Un manoscritto ferrarese quattrocentesco di scritture popolareggianti, « Arch. Rom. », XXII, 1938, pp. 281-319, p. 318, ino ZI 58 Per lieve v. DebN, p. 419; per vietro G. Contini, art. e luogo cit. Naturalmente se si accetta l’ipotesi che T derivi dall’originale meno corretto, una piccola parte delle sue forme di « volgare illustre » può essere ritenuta ariostesca.
ESPERIENZE ARIOSTESCHE
176
stanza accurata ”. Si potrebbe raggruppare facilmente un'abbondante esemplificazione: nuovo, già frequente in AB, è quasi normale in c (v. DebN 423); ebbene, nei CC. MG e T concordano per nuovo a I, 21, 76; II, 57, IIO ecc., e in un caso
per novo, III, 80; mG hanno nuovo, contro novo di T, ad I, 33, 410 II; 1075 (IIIT21,74;\V278, solo timtuettasiane un novo di G contro nuovo di T (II, 15, 16) o di MT (II, 33):
evidentemente le percentuali di MG sono più soddisfacenti. In modo analogo, nell’ uso delle consonanti geminate MG conservano abbastanza bene l’uso ariostesco: scrivendo per esempio commune, contro comune di T, I, 12, 13, 18, 64; III, 1 ecc. (cfr. DebN 418); o annello, contro anello di T, III, 95, 96. Ma l’esemplificazione più ricca è già fornita, nel contrasto, da quanto s'è detto per T: nei casi in cui T usa forme dialettali, la lezione di MG corrisponde quasi sempre all’uso dell’ Ariosto negli anni dei CC. Naturalmente non si vuol dire che la copia da cui derivano MG fosse perfetta: qualcosa s'è già visto, che toccava anche T (v. p. 171). E in qualche punto si dà il caso che la forma di T sia preferibile a quella di MG: per esempio, oltre ai casi in cui MGT hanno popolo (I, 55; II, I, 38, SI ecc.) o populo (II, 27), v'è una serie di popolo in MG contro fopulo.di«Ti(I,:53700;.98;ell33 1132120 Hire che depone a favore di T, dato che la forma di gran lunga preferita dall’Ariosto è populo. E casi analoghi non mancano. Ma sono una sparuta minoranza, di fronte al numero imponente in cui la forma di MG s’impone senza discussioni. Siamo dunque in grado di stabilire con una certa tranquillità anche per il colorito linguistico la norma da seguire 5 Non
è necessario,
almeno
qui, uno
studio
comparato
della
fone-
tica di M e di G. Le differenze sono poche e irrilevanti; dal che consegue evidentemente
che
nell’edizione
va
tenuto
a base
G, completo,
al fine
di evitare un testo rappezzato. Ma il fatto che i brani aggiunti in occasione dell’ed. giolitina nella copia già fornita al Manuzio siano dovuti ad altro copista (v. nn. 18 e 37), dà una nuova conferma della fedeltà linguistica di quella e di questo, se cosi minime sono le differenze.
8. STUDI SUI « CINQUE CANTI »
177
nella pubblicazione dei CC.: dare sempre la lezione di G salvo che quando essa sia assolutamente non ariostesca. Norma anche più pragmatica di quelle che si seguono in genere per un’edizione: ché se le varianti non toscane di T sono certamente da respingere nel loro assieme, nessuno ci assicura che singoli tipi e in singoli casi non fossero nell’originale,
corretti
o no in un secondo tempo. Anche qui risulta viva
la necessità di un apparato, che raccolga come una rete capace, tra i detriti, qualche modesta briciola delle preoccu-
pazioni ortografiche di messer Ludovico.
NOTA Raccolgo in questo volume tutti i miei scritti ariosteschi, escluse le Note al testo delle due edizioni del Furioso e di quella delle Opere minori, i profili critici di queste ultime, le recensioni. Provenienza dei capitoli. 1. Costituisce l’introduzione al Furioso mondadoriano, Milano 1964; 2. Testo scritto per la RAI, poi pubblicato in « Terzo Programma. Quaderni trimestrali », 3 (1961), pp. 140-48; 3. Testo scritto per Radio Lugano, poi pubblicato in « La Scuola » di Bellinzona, LII (1955), pp. 29-31; 5. Da « Rivista di cultura classica e medioevale », VII
(1965), pp. 1025-33 (Studi in onore di A. Schiaffini); 6. Da « La Rassegna della letteratura italiana », LVIII (1954), pp. 41320; 7. Dai Mélanges de linguistique et de philologie médiévale offerts à M. Delbouille, Gembloux 1964, II, pp. 653-8; 8. Da « Studi di filologia italiana », XII
(1954), pp. 23-75.
Inedito è invece il cap. 4, solo letto, in redazione più sommaria, come conferenza all’ Università di Padova per invito di Vittore Branca e Gianfranco Folena. Tutti i capitoli sono stati riveduti, ampliati e aggiornati. Cito il Furioso da Tutte le opere di L. Ariosto, I: Orlando Furioso, a cura di C. Segre, Milano
1964, e le varianti delle due edizioni del 1516 e del 1521 da L. Ariosto, Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna 1960; le altre opere da L. Ariosto, Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli 1954, salvo indicazione diversa. Ringrazio vivamente l’amico Giorgio Luti, che s’è assunto il gravoso impegno di preparare gl’indici dei nomi e dei luoghi ariosteschi citati.
INDICE
Abstemio
Lorenzo,
115, 116, 117.
DEI NOMI
Barotti Giannandrea,
101, 154.
Acquamorta (Aigues - Mortes), 154. Africa, 22, 100. Agnelli Giuseppe, 121, 122, 123, 160. Agrigento, 103. Alberti Leon Battista, 85, 95.
Bembo Pietro, 10, 14, 34, 35, 45; 138, 145; 174. Berardi Cirillo, 51. Besthorn Rudolf, 113.
Albi (Elba), 77.
Maria in Portico, 116. Birch-Hirschfeld Adolf, 112. Bocados de oro, 118.
Albizi,
Benedetto
Alemagna,
degli,
117.
124, 140.
Alpe (Alpi), 65, 136. Amadis de Gaula, 24, 49. Ammiano Marcellino, 105. da Barberino,
Annone
il navigatore,
Antologia Greca, 46. Apenino (Appennino), Apollonio Rodio, 24. Apuleio,
24, 49.
Orbiciani,
131,
173.
Bordeaux (Bordea), 153. Borges Jorge Luis, 118.
16, 45,
22.
Bulgaria, 31.
161, 164. 10,
137,
82.
Borgia Lucrezia, 14. Bretagna: letteratura bretone,
Virginio,
Santa
135,
Bongi Salvatore, 123, 164. Bonollo Luigi, 121, 152, 166, 170.
Ariosto Pandolfo, 14. 150,
160,
161, 163, 164, 165. Aristomaco, 105. Arli (Arles), 22, 55, 56. Arti: ciclo arturiano, 48. Arverno, Ausonio,
Battista, 148.
Bonagiunta
Argo, 38. Ariosto Gabriele, 16, 150, 164. Ariosto Galasso, 165.
Ariosto
di
100.
24, 50.
Giulio,
cardinale
SIE COMLOTMIZA.
Bologna, 94. Bolza Giovan 144, 147,
Aquitania, 108. Aragona, 33.
Ariosto
Bernardo,
Boccaccio Giovanni, 24, 25, 47. Boiardo Matteo Maria, 17, 23, 35, 50,
Alessandro di Fere, 104, 105. Alessandro Magno, 118.
Andrea
Bibbiena
IOI, 153. 100.
Avalos, Alfonso d’, 35. Avalos, Francesco d’, 35. Bacchelli Riccardo, 34, SI. Baldini Antonio B., 121, 128, 129, 150, 164, 170, 175. Barca (famiglia), 100. Barca Amilcare, 99, 100.
Barcellona (Barcino), 99, 100. Barchino Annon (Annone), 99, 100.
Cambrai (lega di), 33. Camillo Mario Furio, 105. Cappelli Antonio, 164. Capra Luciano, 123, 164. Caretti Lanfranco, Carlo V, 33.
32.
Carlo Ma no,17,021022,827853; TOSSIZOMMT29,
122,
157, 166; ciclo carolingio, Carnaro (Quarnaro), 77.
Cartagine, Cassio
17, 22.
100.
da Narni,
102.
Castiglione Baldassarre, Catai,
B107,
RII5MIA5:0149;
34, 35-
89.
Catalano
Michele,
121, 164, 165, 170.
Catone Marco Porcio, 73.
Catullo, 14, 46, 48, 50, 80. Cesare Caio Giulio, 107. Ceserani Remo, 90. Chiassi (Classe), 77. Cicerone Marco Tullio, 46, 99, 104, 105.
180
ESPERIENZE
Cieco Francesco
da Ferrara,
Fontana
50, 56.
99.
Clemente VII, 10. Contini Gianfranco,
Costantino Magno, D'Ancona Dante
39, 145, 175. 94.
Alessandro,
Alighieri,
Gange,
113.
25, 47, 51-83.
Alberto,
102,
12I.
77.
Garfagnana, 10, 12, 45. Garin Eugenio, 85, 90.
Dazia (Dacia), 89. Debenedetti Santorre, 36, 122, 130, 131, I4I, 144, 145, 165, 166, 167, 168, 100,170, (171175: 1/0, Del Monte
Pio,
Fornari Simone, 139. Francia, 17, 89, 145; 155-
Cipro, 99. Claudiano,
ARIOSTESCHE
113.
Gaspary Adolfo, 121. Gerusalemme, 118. Giambellino, 34.
Giolito Gabriele de Ferrari, 123, 129, 159, 163, 164. Giovanni Battista (San), 107. Giovanni Evangelista, 73.
Delo, 99.
Gonzaga
(casa), 35.
Desiderio, re dei Longobardi, 108. Diaz Maria, 131, 135, 138, 140,
Gonzaga Gonzaga
Ferrante, 29. Francesco, 29.
141,
142, 143, 144, 145, 156.
Di Francia
Letterio,
Goro, 154.
117.
Gregorio da Spoleto, 14, 46, 118.
Dionigi di Siracusa, 103, 104, Dionisotti Carlo, 30, 102, 121, Doni Anton Francesco, 116.
Dora (Adour),
101.
Doria
35.
Andrea,
Echtra Nerai,
casal
90.
16, #23:18203033:004;
corte estense, 49.
Henry,
51.
Isauro,
77.
Italia,
153034,
(40,077;
1100134;
140,
146.
Este, Alfonso d’, 10, II,
14, 33, 35, 89.
Este, Borso d’, 107. Este, Ercole
140.
Guicciardini Lodovico, 117. Guittone d’Arezzo, 129.
India, 33. Inghelterra (Inghilterra), 89.
114.
diain2,
Guascogna,
Hauvette
Erasmo da Rotterdam, Erra (Loira), 128. Este,
105. 167, 169.
Juan Manuel
don,
1II,
112,
114, IIS.
d’, 107.
Este, Ippolito d’ (cardinale), 29.
Kasimirski M., 117. Knust Hermann, 112, 113, 114, 115, 116, TINSNZIO:
Este, Isabella d’, 29. Este, Lionello d’, 94.
Fabrizio Gaio Luscino,
105.
Fallari (Falaride di Agrigento),
Krappe A. Haggerty, Kuhns L. Oscar, SI.
113.
103.
Fantino Benedetto, 115. Fatini Giuseppe, 94, 12I, 130, 150. Federico II, 113.
Lancelot,
Fere,tt03,
Lenno
Ferrara, 18,120; "F49 040,094; NIO7, VIZI; 124, 165. - Biblioteca Comunale Ario-
Leonardo da Vinci, 34. Leone X (Giovanni de’ Medici), 10, 115. Lisio Giuseppe, 131, 138, 139, 142, 144. Lucano Anneo, 46, 50, 71, 106, 107.
stea, 123. Ferrara
Mario,
SI.
Fiachna's Sidh, 114. Filo, 154. Firenze: Biblioteca Nazionale, Flegra, val, 153.
Foffano Francesco,
102.
124.
La Fontaine
Lampedusa
Jean de, 116.
(Lipadusa),
22.
49.
(Lemno),
Luciano,
93,
Macarii,
166.
IOI,
99.
102.
Machiavelli Nicolò, 13, 117. Malaguzzi Annibale, 10.
INDICE
Malkiel-Jirmounsky Myron, Manilio
131.
Pio Alberto, 14. Pirro, 105. Pittoni, 153.
M., 50.
Mantegna Andrea, 34. Mantova, 33, 94. Manuzio
Aldo,
122,
129,
150,
163, 164,
176. Maometto,
Marche (del Belgio e dell’Olanda), Marco evangelista, 75. Antonio,
142.
51.
Marescalchi F., 94. Marocco, 89. Marsiglia, 148, 154, 155. Martelli
Mario,
Primaro,
Michelangiolo Migliorini
Provenza,
131,
Rajna
34.
142,
143,
173.
122; Bi-
164.
Modena, 33. Molini Giuseppe, 99. Molta (Moldava), 77. Mon Ginevro (passo del Monginevro), 126. Senese
(passo del Moncenisio),
Morata Olimpia, Morlini
126.
118.
Girolamo,
(Nive),
Novellino, Omero,
I0I.
56, 89, 90, 94, 98, I0I,
Ravegnani
Giuseppe,
122,
123.
Reggio Emilia, 33. Rodano, 55, 58. Roma, 10, 89. Romagna, 58.
Romizi Augusto,
132.
Rossi Lea, 51, 106, 121,
Rovere,
Guidobaldo
Ruscelli Girolamo,
152, 166, 167.
della, 35.
165.
Santiago di Compostella
113, 114, IIS.
Sarmazia,
1II, 112.
40.
Scozia, 134, 149.
24.
Biblioteca
Palamedés,
49,
Salza Abdelkader, 150. Sansogna (Sassonia), 142, 153.
Orazio, 11, 14, 45, 46, 47; 48, 50, 80, 99. Ossa, 99. Ovidio, 14, 24, 45; 50; 56, 71, 80, 99, 132. Oxford:
Pio,
105, 167, 169.
116.
Nilo, 63, 89.
Niva
98.
154.
Pulci Luigi, 17, 108.
Milano: Biblioteca Ambrosiana, blioteca Braidense, 123-4.
Mon
114,
Raffaello Sanzio da Urbino, 34.
Buonarroti,
Nicolò,
112,
75.
Bruno,
Misserini
154.
Proto Enrico,
142.
Matteo evangelista, Mecca, 118. Micene, 38.
153.
Pola, 77. 3 Polidori Filippo Luigi, 99, 101, 103, 128, 129. Poliziano Agnolo, 25, 50. Pontano Gioviano, 34.
Promptuarium exemplorum, 115. Properzio, 46, 48, 80.
90.
Marti Mario, 113. Maruffi Guido, 51. Marullo Michele, 14. Masuccio Salernitano, 35. Mattafellone,
Plauto, 15, 45, 46. Plinio, 100, I0I.
Poitou,
118.
Marenduzzo
I8I
DEI NOMI
Bodleiana,
094.
24.
Papini Pietro, 132. Parigi, 19, 21. Pelio (catena montuosa),
Petrarca Francesco, 174.
99.
25, 46, 50, 51, 56,
Segre Cesare,
90,
113,
I2I.
Sercambi Giovanni, 50. Serglige Conculaind, 114. Sforza Francesco, 35. Siracusa, 103. Slesia, 153. Sordello
da Goito,
82.
Spagna, 89, 100, 134, 135. Spagna (La), 24, 49. Stazio Publio Papinio, 24, 50. Stella Angelo, 169. Straparola
Gianfrancesco,
Strozzi Ercole, 14.
116.
182 Tambara
ESPERIENZE Giovanni,
Tavola rotonda,
142.
17, 24.
Tebe, 38, 65, 104. Terenzio, 15, 45, 46. Tevero (Tevere), 77.
Tibullo, 48. Tirante el blanco, 49. Tiziano Toledo,
Vecellio, III.
Tolosa, 112. Toscana, 49. Tristan, 24, 49. Troia, 76. Turpino,
55.
34.
ARIOSTESCHE Uggieri il Danese, 24. Ungheria (Ongheria), Uvernia,
10, 89, 173.
126-127.
Valenza, 14. Valerio Flacco, 50, 56. Valerio Massimo, Varo, 58.
105.
Venezia, 33, 122, 123. Vercelli (Verei - Vercei), Vernero
Michele,
108, 125.
100.
Virgilio, 24, 45, 46, 48, 50, 80, 82. Volana, 154. Zumbini
Bonaventura,
90.
INDICE
I. Cassaria,
DEI LUOGHI
- COMMEDIE
p. 16, 150,
164.
Suppositi, p. 15, 16, 164. *
Imperfetta (di Virginio), p. 16, 164. Scolastica (di Gabriele), p. 16.
3. - LIRICHE
LATINE
H Ad Pandulphum, p. 154. IX Ad Albertum Pium, p. 118. LIV De diversis amoribus,
p. 17; 29.
p. 14.
4. - OBIZZEIDE 20) 26 5. - ORLANDO
FURIOSO
(red. A) IN
#p0130; 2418138;
IX, 26,4 p. 37; X, 5:7-8 P. 37; 38; 50,6 p. XI, 3,6 p. 36; 48 p. 155.
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XII,
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Poi
VIN Op AR 7212371
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2. - LETTERE
LV Epitalamium,
CITATI
VIN: 3 EP 30:13: 326; 07 pb VITI 7A p=0x38;0820;6/0p.120;0250por7s-
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ARIOSTESCHI
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XXV, 68 p. 140; 80 p. 139. ROGVII:2 200137 XXIX, 13) (pi 140: XXX, 71 p. 140. XXXI, 65 p. 139. XXXII, 22 p. 136; 24 p. 140. XXXIII, 31 p. 137; 64 p. 136; 77 p. 137; 78 p. 140. XXXIV, 64 p. 140. XXXV, 24 p. 140; 35,5 p. 33; 4I p. 140. XXXVI, 76 p. 140. XXXIX, 6 p. 136. XL, 044 Pi 138; 45 pi 30, 122.
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(red. B)
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184
ESPERIENZE
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(red. C)
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69,5 p. 60; 72,2-6 p. 64; 74-4 p. 61; 80-91 p. 56; 87 p. 74; 100,7 p. 58; 103,2 p. 36; 116,7-8 p. 53; 118,7-8
INDICE
DEI
LUOGHI
P. 39; 120,2-6 p. 64; 120,5 p. 37; 130,2-6 p. 64; 134,1-2 p. 73.
XV, 5,5 p. 60; 21 p. 134; 23 P. 33; 43; 781 P- 38; 43;90p.
61; (62,8, p. 53;
64,5 p. 58; 69 p. 70; 82 p. 70; 82,4 p. 68; 62; 85,5 p. 62; 86,2-6 p. 62; 90,4-6 p. 63;
69,8 p. 83,5 p. p. 64; 94,1 p.
68; 57, 87,2 36;
ARIOSTESCHI
40 p. 128; 41,7 p. 59; 46,3-4 P. 74; 52 p. 148; 52,3 p. 54; 55 p. 148;
90 p. 70; 90,1
XVI; 13;2 P. 75;
13:2-0
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P- 73; 41 p. 135; 55,6 p. 36; 58 p. 139; 75 P. 70; 75,6 p. 68; 75,78
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64; 46,5 p. 58; 48,5 p. 53; 53:4 P.
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P. 78; 53:4 p. 67; 56,6 p. 36; 78
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ARIOSTESCHE
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a cura
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AUTOGRAFI (*)
10,0 0P054;017;30D:
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P. 154: 14 p. 169; p. 154: 15 p. 169.
di S. Debenedetti.
I Frammenti
sono citati per pagina
INDICE
DEI
LUOGHI
CINQUE CANTI I:
ARIOSTESCHI
CITATI
187
18 p. 141, 146, 152; 19 p. 142, 147,
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188
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INDICE
DEI
LUOGHI
ARIOSTESCHI
124; 75 p. 122, 153, 163; 77 P. 173;
220
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6. - SATIRE
189
CITATI
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paso:
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III, PRTOS5: DINP:65;
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FINITO DI STAMPARE IL 30 NOVEMBRE
1966
PER I TIPI DELLE INDUSTRIE GRAFICHE Vi.
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la coincidenza tra l’armonizzazione di narratività e liricità e il raggiunto dominio dei sentimenti e delle spinte e condizioni storiche, sembra al Segre che l’Ariosto si ponga come vertice vittorioso dell’esperienza poetica cavalleresca e di quella umanistica che l’avevano preceduto e ci offra con il Furioso « quasi un atlante della natura umana...; 0 piuttosto il culmine della scoperta dell’uomo (nella sua libertà e nelle sue determinazioni causali), portata a conclusione dal pensiero filosofico e politico del Rinascimento ». Vol. di pp. 192
* CESARE SEGRE, nato a Verzuolo, presso Saluzzo, nel 1928, è stato allievo a Torino di Santorre Debenedetti, Benvenuto
Terracini,
Ferdinando
Neri. Inca-
ricato di filologia romanza nell’Università di Trieste dal 1954, in quella di Pavia dal 1956; poi ivi ordinario della stessa materia. I primi lavori sono dedicati
alla storia della prosa italiana dalle origini al ‘500 (con puntate sino ai giorni nostri): Volgarizzamenti del Due e Trecento. (1953), La prosa del Duecento (1959), e gli studi raccolti in Lingua, stile e società (1963). Imponente anche l’attività sul testo delle opere dell’Ariosto: Opere minori (1954), Furioso (edizione critica, 1960; commento, 1964). Il Segre ha pure fornito l’edizione critica, notevole anche metodologicamente, del Bestiaire d’Amours di Richart de Fournival (1957), e sta preparando quella della Chanson de Roland; ha collaborato ai Poeti del Duecento di Gianfranco Contini, altro maestro del Segre. Interpretazioni generali e particolari sull’epica francese delle origini, Maria di Francia, Ritmo cassinese, Bono Giamboni, Boccaccio, e. giù giù sino a Machado, Montale, Giotti, Bacchelli, Sklovskij.
Tra i contributi linguistici, la prefazio-
ne e l’appendice a Linguistica generale e linguistica francese di Charles Bally della collana (1963). E’ condirettore « Critica e filologia» e della rivista «Strumenti critici»; redattore di « Pa‘ ragone ».
Nistri-Lischi