Il mistero dell'elefante. Esperienze di dialogo fra credi diversi 889956518X, 9788899565183

L’incontro ed il dialogo con vari credi, in una società multietnica come la nostra, può non solo favorire una crescita p

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Table of contents :
Prefazione di Laurence Freeman
Prefazione di Marco Cassuto Morselli
Prefazione dello shastri Daniele Bollini
Introduzione
L'esperienza personale e il movimento interculturale e interreligioso ``Credere per essere''
Il cammino personale
Gli incontri interreligiosi
Gli incontri del primo anno
L’incontro con i Sikh
Incontro con la Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana
Il dialogo ebraico-cristiano
L'incontro con gli Islamici
Incontro con la Comunità Dzogchen
Gli incontri del secondo anno
L’incontro con Padre Anthony della Missione Satcitananda
L’incontro con Dom Laurence Freeman
Le Danze meditative dello Dzogchen
Incontro con il Tantrismo
L’incontro con il Sufismo
La meditazione Yoga
L’incontro con l’Hinduismo
Incontro con la Fede Bahai
Gli incontri ecumenici del terzo anno
Incontro con il teologo cattolico Don Carlo Molari
Incontro con la Chiesa Evangelica Pentecostale
Incontro con Valdesi e Luterani
Incontro con le Chiese Avventista e Metodista
Incontro fra Chiesa Anglicana e Cattolica
I convegni interreligiosi al Campidoglio
Il dialogo con gli islamici nella Conferenza Nazionale Wccm
Alcuni ulteriori spuntiper un percorso personale di riflessione
La recente rivalutazione della spiritualità
Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni
Primi passi di ravvicinamento fra le varie fedi
Illustri precursori del dialogo interreligioso
Differenti approcci metodologici al pluralismo religioso
Considerazioni finali
Bibliografia
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Il mistero dell'elefante. Esperienze di dialogo fra credi diversi
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IL MISTERO DELL’ELEFANTE ESPERIENZE DI DIALOGO FRA CREDI DIVERSI

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Maria Elettra Cugini

IL MISTERO DELL’ELEFANTE

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Esperienze di dialogo fra credi diversi

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Copyright © 2016 PM edizioni via XXIV Maggio, 1 00049 Velletri (RM) www.pmedizioni.it I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-99565-18-3 Prima edizione: giugno 2016

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Tutti gli uomini, dal primo all’ultimo, sono una sola immagine di Colui che È. Gregorio di Nissa

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Non c’è pace tra i popoli senza pace fra le religioni. Hans Kung Tutte le religioni sono sorelle... ma le somiglianze sono altrettanto importanti delle differenze. Dalai Lama Se crediamo nel mistero di Cristo, è giunto il momento di diventare veramente “cattolici”, ossia appartenenti al mondo intero. Raimund Panikkar Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio. Atti degli Apostoli 2, 1-11

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INDICE

Prefazione di Laurence Freeman . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

Prefazione di Marco Cassuto Morselli . . . . . . . . . . . . . . .

11

Prefazione dello shastri Daniele Bollini . . . . . . . . . . . . .

15

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

17

Parte I. L’esperienza personale e il movimento interculturale e interreligioso “Credere per essere” 1.

Il cammino personale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

27

2.

Gli incontri interreligiosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

33

3.

Gli incontri del primo anno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1. L’incontro con i Sikh . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2. Incontro con la Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana 3.3. Il dialogo ebraico-cristiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4. L’incontro con gli Islamici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.5. Incontro con la Comunità Dzogchen . . . . . . . . . . . . . . .

35 37 40 44 50 55

4.

Gli incontri del secondo anno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. L’incontro con Padre Anthony della Missione Satcitananda . 4.2. L’incontro con Dom Laurence Freeman . . . . . . . . . . . . 4.3. Le Danze meditative dello Dzogchen . . . . . . . . . . . . . . 4.4. Incontro con il Tantrismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5. L’incontro con il Sufismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.6. La meditazione Yoga . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.7. L’incontro con l’Hinduismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.8. Incontro con la Fede Bahai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . .

59 62 65 69 70 77 83 86 91

5.

Gli incontri ecumenici del terzo anno . . . . . . . . 5.1. Incontro con il teologo cattolico Don Carlo Molari 5.2. Incontro con la Chiesa Evangelica Pentecostale . . 5.3. Incontro con Valdesi e Luterani . . . . . . . . . . . 5.4. Incontro con le Chiese Avventista e Metodista . . 5.5. Incontro fra Chiesa Anglicana e Cattolica . . . . .

. . . . . .

97 98 103 108 115 116

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8

Il mistero dell’elefante

6.

I convegni interreligiosi al Campidoglio . . . . . . . . . . . . . 123

7.

Il dialogo con gli islamici nella Conferenza Nazionale Wccm 141

Parte II. Alcuni ulteriori spunti per un percorso personale di riflessione 8.

La recente rivalutazione della spiritualità . . . . . . . . . . . . 147

9.

Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni . . . . 155

10. Primi passi di ravvicinamento fra le varie fedi . . . . . . . . . . 165 11. Illustri precursori del dialogo interreligioso . . . . . . . . . . 171

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12. Differenti approcci metodologici al pluralismo religioso . . . 185 13. Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199

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PREFAZIONE

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DI LAURENCE FREEMAN

Attraverso gli anni dedicati allo studio e alla pratica, Maria Elettra Cugini ha sviluppato una particolare e molto significativa capacità di comprensione e di sintesi che unisce lo psicologico al mistico e al religioso. Si tratta di un atteggiamento altamente necessario al nostro mondo frammentato e spesso iper-specializzato, in cui le diverse polarità di spiritualità e religione, di secolare e di sacro, sono divenute spesso fonti di divisione piuttosto che di arricchente confronto. Oggi, ancora più pericolosamente, le differenze fra le religioni sono state politicizzate e rese assolutistiche. La ricerca di unità non è un programma che abbia come meta il raggiungimento di una falsa uniformità. Le differenze fra gli individui, come fra le tradizioni ed opinioni politiche, sono altrettanto importanti delle somiglianze. Naturalmente, dobbiamo stabilire da dove cominciare — se dalle differenze o dalle somiglianze — come catalizzatore dei nostri primi incontri con gli altri. Se scegliamo le differenze, scivoleremo con facilità verso la divisione e il sospetto. Se partiremo dalle somiglianze, saremo più vicini a quell’area misteriosa ma esperienziale di unità, di non dualità o, per dirla in modo più diretto, saremo più vicini alla nostra comune umanità. Questa unità essenziale non può essere concettualizzata. Non appena cerchiamo di definirla, si dissolve e rimaniamo senza parole, senza pensieri o con un semplice ricordo di un’esperienza. Descritta così, l’esperienza dell’unità potrebbe suonare come qualcosa di vago, di indefinito e anche di molto sospetto per la percezione del nostro cervello sinistro. Ma questo non sarebbe vero. L’esperienza di per sé è molto reale, incontestabile, e lascia un’influenza permanente su tutte le nostre facoltà percettive. Semplicemente non si può esprimere in concetti e perfino i simboli riescono solo ad indicarla. Se cominciamo dalle somiglianze, ci avviciniamo di più a questa esperienza di unità che è comune e che appartiene ad ogni essere

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Il mistero dell’elefante

umano. I bambini la conoscono intuitivamente, benché l’educazione tenda a distanziarli dalle loro capacità innate a riguardo. Partire dalle somiglianze, come fa Maria Elettra Cugini, è cominciare con un’attitudine di fiducia ed amicizia verso l’altro, piuttosto che con sospetto e paura. Poi, quando le differenze fra noi e gli altri emergeranno nel dialogo e nell’azione comune, esse potranno allargare la nostra mente, piuttosto che minacciare i nostri abituali modi di vedere. Come psicologa che ha capito e scritto profondamente sull’amore, ella si rende conto di quanto essenziale esso sia alle sane relazioni umane. Estendere questa saggezza al regno della religione e della spiritualità è ciò che questo libro si prefigge. Il lettore potrà beneficiare sia della sua storia personale di dialogo ed incontro con gli altri, nelle loro differenti tradizioni, sia della prospettiva globale che tutto questo l’ha portata a sviluppare. Verso la fine del libro, Maria Elettra Cugini invoca la visione profonda e chiara di una profetessa dei tempi moderni, Simone Weil. Weil ha anche coniato un nuovo termine “a new holiness” (“una nuova sacralità”) che ella affermava appropriato alle circostanze uniche dei tempi moderni. È una “sacralità” che comprende le somiglianze e include le differenze, perché generata dall’esperienza di unità entro se stessi e fra noi stessi e gli altri. Maria Elettra Cugini ci ha offerto un nuovo approccio a questa indispensabile meta del nostro periodo storico. Ella parla della nostra necessità di diventare “cittadini del mondo”, non meno che cittadini della nostra terra e della nostra singola tradizione. Questo è un messaggio che richiede il tipo di autorità data dall’esperienza che lei possiede. Laurence Freeman Direttore della Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana

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PREFAZIONE

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DI MARCO CASSUTO MORSELLI

A immagine e somiglianza di D. è stato creato Adàm, l’umanità1 . La nostra umanità condivisa precede le nostre diversità religiose. Ma chi è questo D. a immagine e somiglianza del quale noi tutti siamo creati? In Esodo 3,13-14 Mosheh chiede a Eloqim cosa dovrà rispondere ai figli d’Israele che gli chiederanno qual è il Suo Nome e Eloqim risponde: «Eheyèh ashèr eheyèh», che san Girolamo tradurrà con «Ego sum qui sum», ma l’originale ebraico contiene un futuro: «Sarò chi sarò». Un futuro che ritroviamo nel profeta Zekharyah: «In quel giorno Ha-Shem sarà Ehàd, Uno e il Suo Nome sarà Uno» (Zaccaria 14,9). L’umanità ha dunque una comune origine, e un comune futuro. Il Nome, come tutti i nomi, è intraducibile. Nelle circa 2.000 traduzioni della Bibbia esistenti, è invece stato tradotto, facendo ricorso ai nomi delle diverse divinità locali, di modo che il libro che avrebbe dovuto portare al mondo la conoscenza dell’Unità del molteplice è divenuto il ricettacolo di tutte le divinità: «Questo Nome essenziale è stato radicalmente eliminato da tutte le traduzioni della Bibbia nelle duemiladuecentosessanta lingue e dialetti nei quali quel libro viene letto altrimenti che in ebraico. Per coloro che conoscono l’importanza del Nome, in particolare presso i Semiti, tale eliminazione costituisce una mutilazione tanto più grave in quanto Ha-Shem Eloqim è il solo Nome direttamente rivelato, da Colui che esso indica, a Mosheh. Per quanto sia paradossale, quel Nome è sostituito da nomi di idoli, quegli stessi che aveva la funzione di detronizzare...»2 . 1. In Genesi 1,26 leggiamo: «Wa-yòmer Eloqìm: “Naasèh adàm be-salmènu ki-demutènu”» e nel v. 27 si precisa che imago D. non è il maschio, ma il maschile-femminile: «Wayivrà Eloqìm et ha-adàm be-salmò be-sèlem Eloqìm barà otò zakhàr (maschio) u-neqewàh (femmina)». 2. Chouraqui A., Mosè. Viaggio ai confini di un mistero rivelato e di una utopia possibile, tr. di M. Morselli, Marietti, Genova 1996, p. 134. In tre pagine Chouraqui elenca alcuni di questi nomi, tratti dalle lingue del mondo (cfr. pp. 142-144).

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Il mistero dell’elefante

In che modo possiamo conoscere D.? Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la Sua volontà. Aderendo alla Sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione. Scrive Emmanuel Levinas: «La Legge di Dio è Rivelazione poiché in essa si enuncia: “non uccidere”. Tutto il resto è forse un tentativo di pensare questo, una “messa in scena” certamente necessaria, una “cultura” in cui ciò “si può capire”. È per lo meno così che cerco di dirlo a me stesso. Beninteso, “non uccidere” significa: “fai di tutto affinché l’altro viva”»3 . «Non uccidere», il resto è commento. Aggiunge Rav Jonathan Sacks: «L’unità in cielo crea diversità sulla terra. Lo stesso vale per le civiltà. Il messaggio fondamentale della Bibbia ebraica è che l’universalità — il patto con Noah/Noè — è solo il contesto e il preludio dell’irriducibile molteplicità delle culture, quei sistemi di significato tramite i quali gli esseri umani hanno cercato di comprendere il rapporto che li lega, il mondo e la sorgente dell’essere»4 . Monoteismo, politeismo, panteismo, ateismo sono tutti termini inadeguati ad esprimere la nostra condizione di creature all’interno della creazione in riferimento al Creatore. La Bibbia è a-tea, scrive paradossalmente André Chouraqui, nel senso che non vi compaiono Theòs, Zeus, e neppure God o gli altri milioni di divinità dei Panteon dell’umanità. Ha-Shem Eloqim è il luogo del mondo, anche se il mondo non lo contiene: «in D. siamo e D. rimane in noi», e noi lo sappiamo perché ci ha dato del Suo Spirito, è il versetto di Yohanan/Giovanni5 che Barukh Spinoza cita più volte nelle sue opere e addirittura inserisce nel frontespizio del Trattato teologico-politico6 . Egli è l’essere che era, è e sarà — Eheyèh ashèr eheyèh — un essere 3. Levinas E., Trascendenza e intelligibilità, a cura di F. Camera, Marietti, GenovaMilano 2009, pp. 36-7. 4. Sacks J., La dignità della differenza. Come evitare lo scontro delle civiltà, tr. di F. Paracchini, Garzanti, Milano 2004, p. 66. 5. «Per hoc cognoscimus quod in Deo manemus et Deus manet in nobis, quod de Spiritu suo dedit nobis», 1Gv 4,13. 6. Cfr. Spinoza B., La relgione universale, a cura di Cassuto Morselli M., Belforte, Livorno 2012.

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Prefazione di Marco Cassuto Morselli

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al futuro. È Ha-Shem, il Nome senza nome. Di Lui non possiamo farci nessuna immagine, perché quale immagine potrebbe essere adeguata all’Infinito? Il Suo Nome non deve essere pronunciato invano, perché nessuno può impadronirsi di Lui se non trasformandolo in un idolo. E l’idolatria non rappresenta una fase ormai superata dell’evoluzione religiosa dell’umanità, ma un pericolo costante anche per i nostri monoteismi e i nostri ateismi. Il mistero dell’elefante è il frutto di un decennio di incontri interreligiosi e esperienze di dialogo fra uomini e donne di fedi diverse che Maria Eletta Cugini ha voluto organizzare. La pubblicazione del libro consente ora di riflettere sul cammino percorso e guardare con fiducia, nonostante tutto, al nostro comune avvenire. Marco Cassuto Morselli Presidente dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma

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PREFAZIONE

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DELLO SHASTRI DANIELE BOLLINI

Da un certo punto di vista il dialogo interreligioso è operazione disperata e la religione comparata missione impossibile. L’atteggiamento necessario a dialogare con apertura è quello dell’illuminato e il paragone con cognizione di causa di percorsi diversi sottintende l’aver viaggiato personalmente su tutti questi stessi sentieri. Nello stesso tempo il compito di ogni tradizione di saggezza implica una certa dose di audacia, necessaria, per dirla con Sakyong Mipham Rinpoche, a «rendere possibile l’impossibile». In tal senso ciò che conta non è tanto il risultato, inevitabilmente imperfetto, bensì la genuina aspirazione a una comunicazione aperta, a una crescita reciproca, a un’esplorazione vicendevole di cui questo mondo ha bisogno disperato. Lo spirito del contributo della Dottoressa Cugini soddisfa pienamente questi parametri, al punto da suscitare nel lettore un sentimento di profonda nostalgia per quelle che sono le possibilità dell’essere umano — umano e divino nel contempo — e di profonda fiducia nella possibilità di trascendere l’egocentrismo culturale che tanto limita la portata del nostro agire. Shastri Daniele Bollini Direttore Centro Shambhala Ticino e Responsabile per i Centri Shambhala italianofoni

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INTRODUZIONE Inizierò con lo spiegare il titolo di questo saggio, ispiratomi dal racconto hindu I ciechi e l’elefante, che parla di un gruppo di ciechi che, inaspettatamente, durante il suo cammino, si trova di fronte l’enorme mole di un elefante, animale che nessuno di loro ha mai incontrato prima. Nel tentativo di capire l’identità di questo enorme e misterioso soggetto incontrato, ciascuno di loro inizia ad aiutarsi con il tatto e, toccandone le parti più raggiungibili e vicine (chi una zampa, chi la coda, chi la proboscide), inizia a descrivere l’animale in base alla sua parziale e riduttiva esperienza tattile (chi come una colonna, chi come un serpente, chi come un tubo semovente...) e, pur traendo conclusioni del tutto arbitrarie e soggettive della misteriosa realtà che ha di fronte, non rendendosene conto, inizia a discutere animatamente con l’altro, che a sua volta ha ricavato dalla sua esperienza impressioni del tutto differenti. Credo che questa metafora sia oltremodo significativa sia della nostra assoluta incapacità e inadeguatezza nel decifrare l’enorme mistero del sovrannaturale, del metafisico, dell’universale, della vita e di Dio, sia la nostra frequente riottosa e presuntuosa tendenza a ritenere la nostra interpretazione dell’indecifrabile come sola ed unica verità, in contrapposizione con quelle, altrettanto riduttive, formulate da altri a riguardo. Questo errore ha per secoli non solo impedito un dialogo fra i vari credi e inficiato l’ascolto dell’altro, ma ha anche creato muri invalicabili di incomprensione e feroci ostilità sia nel passato (vedi l’ormai fortunatamente superata affermazione cattolica «Extra Ecclesiam nulla salus» e le stragi dei cosiddetti “eretici”), sia tuttora nel presente (vedi il seguace dell’Isis che uccide nel nome di Allah i cosiddetti “infedeli”). Le esperienze interreligiose, che fortunatamente oggi compaiono sempre più numerose anche negli alti vertici — e di cui fanno parte, nel loro piccolo, anche quelle riportate in questo scritto — hanno come finalità primaria proprio quella di abbattere questi muri di incomprensione e di esclusivismo settario, per incentivare un atteggiamento di umile ascolto dell’altro, di rispetto, ma anche di grato

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18

Il mistero dell’elefante

riconoscimento dell’arricchimento e dell’insegnamento che questo dialogo può apportare a chi lo intraprenda, senza minimamente scalfire la propria acquisita identità di credenti (o non credenti). Quanto a me, sono una psicologa che, oltre alla sua professione di psicoterapeuta, si dedica ormai da anni allo studio di quel “Sé Spirituale” che, dopo essere stato rinnegato dalla psicologia dell’800 e dell’inizio del ’900, è oggi oggetto di rivalutazione e di ricerca soprattutto da parte di molte correnti della psicologia umanistica (a cui appartengo). Mi sono dedicata per anni alla ricerca sulle altre religioni, sia occidentali che orientali, ricerca inizialmente finalizzata alla mia crescita spirituale personale (non facile, anzi direi piuttosto travagliata). Ciò mi ha portato anche a frequentare credenti di fedi diverse — in primo luogo i Buddhisti Tibetani — e ad approfondire la conoscenza dei fondamenti di altre forme di spiritualità, specialmente orientali, attraverso numerose esperienze e letture. Ne ho tratto grandi fonti di arricchimento personale e mi sono quindi convinta che la conoscenza delle altre religioni — in Italia ancora molto scarsa — sia un elemento primario, sia per il proprio percorso di crescita spirituale, sia per un incontro fra cultori di religioni differenti, obiettivo che, nelle società multietniche attuali, diventa sempre più essenziale alla pacifica convivenza fra “diversi”. Conseguentemente, dal 2007 a tutt’oggi, mi sono dedicata con entusiasmo all’organizzazione di incontri interreligiosi che allargassero e approfondissero la conoscenza di altre forme di spiritualità, giacché (come Hans Kung ci insegna) non può esserci dialogo fra le varie religioni, senza una sufficiente conoscenza dei vari credi. Tale conoscenza è anche, a mio avviso, indispensabile per superare tutti quei preconcetti, stereotipi tradizionali e false informazioni che travisano il modo di relazionarsi fra appartenenti a fedi diverse. Tanto per fare un primo esempio, durate un incontro organizzato con la religione Sikh (di cui poi parleremo), scoprimmo che, ben differentemente dal preconcetto che si trattasse di una religione violenta ed aggressiva, il loro fondatore — il Guru Nanak — si vestiva per metà come un Musulmano e per metà come un Hindu, proprio per il suo intento di mettere pace fra questi due popoli in violento conflitto.

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Introduzione

19

Nei primi anni del 2000, il dialogo interreligioso (inizialmente sostenuto dal Concilio Vaticano II) non era affatto diffuso come è oggi, a seguito dell’opera del grande Papa Francesco, che ha ripreso la mirabile visione di quel Concilio che era stato, almeno in parte, dimenticato. Si trattava quindi, all’epoca, di una iniziativa molto sporadica, inusuale e, prevedibilmente, poco popolare. Malgrado ciò, il mio tentativo ha incontrato fin dall’inizio un gran numero di attenti e coinvolti ascoltatori, incitandomi a continuare la mia fatica anche in forma, come vedremo, più allargata, e a darne poi un resoconto in questo libro, nella convinzione che molte persone siano attualmente pronte a tale interesse e desiderose di approfondirlo adeguatamente. Nella prima parte del testo, cerco di descrivere, pur nella necessaria sintesi, le esperienze degli incontri interreligiosi da me organizzati in tutti questi anni, con i rappresentanti di numerose religioni e orientamenti spirituali sia occidentali che orientali. Nella seconda parte invece, dopo aver dato una breve panoramica di quel mutamento di ottica, anche a livello scientifico, che ci sta finalmente facendo superare il meccanicismo materialista ateo dei secoli scorsi, rivolgo un rapido sguardo a quelle fonti di rivalità ed inimicizia che hanno portato nel tempo alla diffidenza e talvolta alla lotta aperta fra le principali religioni mondiali, cogliendo infine i primi tentativi di ravvicinamento, operati in primo luogo dal cattolicesimo, nei confronti delle altre fedi. Dopo aver tributato un dovuto omaggio ai primi grandi cultori dell’interreligiosità a cui mi sono ispirata (come Swami Abhishiktananda o Dom Henri Le Saux, Raimund Panikkar, Paul Knitter, Thomas Merton, il già citato Hans Kung, il Dalai Lama ed altri), darò una breve panoramica delle varie ottiche e metodologie con cui ci si può avvicinare al pluralismo religioso e, conseguentemente, all’attuazione di un dialogo e confronto interreligioso. Questo lavoro è in linea e, in un certo senso, completa un mio precedente scritto, intitolato Credere in modo nuovo, nel quale sostenevo che oggi la nostra fede ci impone di “andare avanti”, sradicando alcuni falsi stereotipi, false abitudini, falsi insegnamenti e falsi comportamenti provocati dal fatto che nel tempo abbiamo dimenticato — o ci sono stati mostrati in modo travisato — i Valori di quei messaggi originari che sono presenti in tutte le varie fedi.

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20

Il mistero dell’elefante

Il Dalai Lama scriveva nel suo libro Tutte le religioni sono sorelle che alla base di tutti i credi esistono degli Alti Valori comuni (come la pace, la giustizia, la bellezza, il bene, il rispetto dell’altro) che li avvicinano, pur nella differenza delle loro identità. Pur tuttavia, nei secoli, sia il Cristianesimo che le altre religioni — in minore o maggiore misura — sono state mal interpretate e distorte, rispetto a ciò che i grandi Spiriti Illuminati che le hanno fondate avevano inteso insegnare all’umanità. Per averne conferma, basterebbe pensare a tutti quegli episodi di violenza e sopraffazione di cui, nei secoli scorsi, si sono resi responsabili gli stessi cristiani (tradendo in toto gli insegnamenti di pace, amore e non violenza del loro grande Maestro) o constatare come l’attuale terrorismo islamista abbia rinnegato, con le sue atrocità, l’originario spirito del Corano e del vero Islam che vorrebbe rappresentare. Si tratta purtroppo di una caratteristica tipicamente umana, che tende a sottomettere anche i messaggi più alti all’affermazione della propria “parte d’ombra” (come la chiamava Jung) e cioè, in primo luogo, alla propria brama di potere, di ricchezza e di primato. Non a caso, se ricordate il passo del Vangelo che parla delle tentazioni di Gesù nel deserto (Matteo 4,1-11), egli fu sottoposto dal demonio a tre tentazioni che, tutte, riguardavano proprio la ricerca di ricchezza, di successo e di potere, a dimostrazione di quanto siano proprio questi i principali pericoli in cui può cadere l’essere umano, e, con esso, perfino le religioni. Uno dei concetti più illuminanti fra i tanti espressi da Papa Francesco recentemente, è, a mio avviso, proprio quello in cui affermava che «il potere ha una sola giustificazione, e cioè che sia messo al servizio del bene comune». Sono convinta che le Religioni, se rivalutate nella purezza dei loro insegnamenti originari, così come predicati da un Buddha, da un Gesù, da un Maometto o da tanti altri Spiriti Illuminati che ne furono i primi sommi Maestri, potrebbero tornare ad essere dei punti di riferimento preziosi per noi tutti, e specie per le nuove generazioni, travolte e destabilizzate dai disvalori attualmente dilaganti, quali, come tutti sappiamo, il materialismo, l’iperindividualismo, l’egocentrismo, la ricerca di potere e di ricchezza, l’ “avere” e l’ “apparire” al posto dell’ “essere”, la perdita di valori etici e

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Introduzione

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spirituali e dei concetti di bene comune e solidarietà... Ma non dimentichiamoci che politica e religione le facciamo anche noi, nel nostro piccolo apporto e contributo individuale, nel procedere del nostro cammino personale e nell’apertura progressiva a pacifiche interazioni nell’ambiente in cui viviamo. Un ulteriore importante obiettivo del mio presente lavoro è quello di invitare a non rinchiudersi nella cittadella senza finestre della propria fede, ignorando, sottovalutando, denigrando o addirittura rinnegando il valore di tutti gli altri credi, che hanno avuto anch’essi, alla loro origine, dei grandi Spiriti Illuminati dai quali, in altri tempi, altri luoghi ed altra forma, sono stati generati. Ciò vuol dire quindi aprirsi alla visione, alla conoscenza e alla comprensione di altre fedi che per secoli abbiamo ignorato o snobbato, tutti presi dall’illusione deleteria di una nostra presunta superiorità (cosa che riguarda soprattutto, purtroppo, proprio noi cristiani e le tre fedi monoteistiche in generale). Simone Weil chiamava questo atteggiamento mentale il patriottismo religioso (che la trattenne sempre, malgrado la sua fede fervente, dal definirsi cristiana), e che può portare a presuntuosa miopia, o addirittura, a considerare come antagonisti e nemici coloro che non aderiscono al nostro stesso credo. È il grave rischio evidenziato dai fondamentalisti di tutte le varie fedi, che tanti disastri hanno creato e continuano a creare nel nostro mondo, ma anche, a livelli meno apparenti ma non meno deleteri, è l’atteggiamento di chi snobba o emargina il “diverso” come non degno della sua attenzione, della sua stima e del suo rispetto. Solo ora, forse, si sta iniziando a superare quella rigidità esclusivista che faceva presumere la propria ottica come l’unica possibile, valida ed assoluta, ma il cammino del vero dialogo e del confronto è ancora solo agli inizi. Come dire (scusandomi per la banalità del paragone): siccome sono italiano mangio soltanto spaghetti e non voglio assaggiare nessun altro cibo, che sarà certo inferiore al mio... Personalmente, ho verificato in me stessa l’effetto esattamente contrario, e cioè che l’assaggiare altri cibi spesso mi faceva rivalutare i miei spaghetti (ricordate il grande Alberto Sordi quando voleva fare l’americano?)... A livello meno banale, il contatto con altri credi, oltre ad arricchire la mia spiritualità, mi ha spesso convalidata nella scelta della mia fede, proprio in quanto “scelta”, che non può essere, quindi, il frutto

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Il mistero dell’elefante

di passive eredità o di condizionamenti ambientali subiti, ma deve avere tutta la dignità di una decisione consapevole e ponderata di appartenenza ad un determinato credo, possibilmente anche a seguito del confronto con altri. Si può desiderare un confronto con le altre religioni anche quando non si sia ancora operata una scelta definitiva, proprio nella ricerca propedeutica al poterla effettuare, e, del resto, anche questo è un atteggiamento molto sano di crescita responsabile ed attiva. Un grande psicologo, Paul Tillich, scriveva nel suo libro Il coraggio di esistere che «il coraggio di esistere ha le sue radici in quel Dio che appare quando Dio è scomparso nell’angoscia del dubbio», e trovo la sua affermazione acutissima (oltre che rispondente alla mia personale esperienza di ricerca interiore). Ma si può desiderare un confronto con il “diverso” anche quando la propria scelta è stata ormai effettuata, e ci si sente abbastanza solidi nelle proprie convinzioni, al punto da poterle confrontare con altre, senza cadere nella paura di perderle, ma semmai con il desiderio di convalidarle ed arricchirle attraverso orizzonti più vasti. Si tratta di percorsi esperiti anche da uomini illustri e da grandi credenti, come Raimund Panikkar, Bede Griffiths ed altri di cui poi ci occuperemo, pur brevemente: essi ne uscirono con una fede rinnovata e rafforzata, capace di accogliere anche il “diverso” nelle proprie salde radici. Il primo titolo che avevo scelto per questo saggio era Le tessere del mosaico ed esso partiva dal concetto (tuttora da me condiviso) che, ferma restando l’impossibilità di raggiungere su questa terra la Verità Assoluta (che i Buddhisti dicono appartenere solo agli Spiriti Illuminati e che per i Cristiani sarà raggiunta solo quando, come diceva San Paolo, «Dio sarà tutto in tutti»), se riusciremo ad armonizzare fra loro, come in un mosaico, le tante verità relative che le diverse culture e fedi hanno acquisito nei vari luoghi e nei vari tempi, la verità (pur sempre relativa) che ne risulterà, potrà essere molto più multiforme e variegata, e quindi più ricca ed arricchente. Ciò chiaramente non presuppone né la perdita delle singole identità, né la rinuncia all’importanza delle differenze, ma l’arricchimento reciproco, nella consapevolezza dell’esistenza dell’altro e nel reciproco rispetto. Date queste premesse, penso che risulti evidente come questo

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Introduzione

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lavoro miri, soprattutto, ad attivare in ciascuno di noi degli spunti di riflessione e il desiderio di arricchire la propria spiritualità in un’ottica pluralistica, che potenzi le proprie facoltà cognitive e spirituali attraverso l’apertura anche a credi diversi da quello da noi prescelto. Esso potrà poi contribuire a favorire il superamento di falsi stereotipi e pregiudizi — dovuti alla mancanza di reciproca conoscenza — e una maggiore comprensione e vicinanza con l’altro, nella consapevolezza della nostra origine comune, in quanto figli dello stesso inconoscibile Mistero Universale, e della stessa potente Forza di Vita (da molti indicata col nome di Dio). Nella sua celebre canzone Blowing in the wind, Bob Dylan sosteneva che anche un semplice soffio può contribuire a generare il vento e, con ben altra autorevolezza, Madre Teresa di Calcutta sosteneva: «Io da sola non posso cambiare il mondo, ma posso scagliare una pietra sulle acque per creare molte ondine...». Quindi non mi scoraggio per la presumibile irrilevanza che un piccolo tentativo esperienziale come questo può operare, ma spero che sia un passo seguito da molti altri futuri, attuati da chi ne condivide l’utilità, per proseguire in questo arduo cammino.

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PARTE I

L’ESPERIENZA PERSONALE E IL MOVIMENTO INTERCULTURALE E INTERRELIGIOSO “CREDERE PER ESSERE”

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CAPITOLO 1

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IL CAMMINO PERSONALE Come accennato nell’introduzione, posso affermare sinceramente che il mio interesse per lo scambio e il dialogo interreligioso nacque in tempi non sospetti, ormai abbastanza lontani, in cui tale tendenza era abbastanza trascurata, dopo l’apertura avvenuta attraverso il Concilio Vaticano II, malgrado alcuni tentativi operati da Papa Giovanni Paolo. Ora sia l’atteggiamento del grande Papa Francesco, sia la presenza nella nostra terra di tante persone straniere, appartenenti a credi diversi, e forse perfino la paura suscitata dai tanti eventi terroristici verificatisi, riporta in primo piano questo interesse, che potrebbe perfino correre il rischio di diventare una “moda”, visto che purtroppo anche la ricerca ed il pensiero positivo possono diventare vittime di questo pericolo. Nella mia esperienza personale, da dove è iniziato il mio interesse per le altre religioni? Sicuramente, inizialmente, dalla curiosità di approcciare modi di concepire la fede e la trascendenza in modo diverso, ma, successivamente, anche dall’interesse di confronto fra la mia fede cristiana — da cui per lungo tempo mi ero allontanata ma che ormai avevo riconquistata — e i messaggi di grandi Fondatori di altri credi. Come ho qui già accennato e scritto in un mio precedente libro sull’argomento, dopo essere nata da una famiglia cattolica ed aver ereditato da essa questa religione — che inizialmente condivisi in modo poco coinvolto e superficiale — vi fu un periodo di totale distacco, in cui mi dedicavo alla “fede nell’uomo”, e cioè alla mia professione di insegnante prima e di psicologa poi, prendendomi ovviamente cura, nel contempo, anche della mia famiglia: quindi ero tutta dedita, con entusiasmo, ad interessi puramente terreni. Quando, dopo diversi anni, si risvegliò in me il desiderio irrisolto di religiosità, non sapevo realmente dove indirizzarlo, giacché non volevo tornare alle mie tiepide radici cattoliche, anche per una serie di critiche che muovevo all’Istituzione Chiesa, e cominciai

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Il mistero dell’elefante

quindi ad interessarmi di altre religioni. Cercavo altrove... e leggevo... leggevo senza sosta qua e là, senza una meta precisa, imparando solo successivamente che alla teoria e allo studio va unita anche l’esperienza e che alla ricerca intellettuale va anche affiancata quella esperienziale. Lessi moltissimi saggi e trattati degli autori più disparati e cominciai a mettere il naso anche in comunità diverse, ascoltando le mie reazioni interiori, sia al positivo che al negativo, giacché non è solo la testa che deve aiutarci in questa ricerca, ma anche la “pancia”, ciò che lo psicologo Gendlin chiama, con termine intraducibile, il “felt sense”. Cioè è importante ascoltare le nostre reazioni emotive più profonde, il nostro percepirci a proprio agio o meno di fronte a determinate esperienze, il nostro senso di condivisione o invece di distacco o addirittura di rifiuto. Prima e più importante fra tutte queste esperienze fu quella con il Buddhismo, di cui mantengo tuttora molti mirabili insegnamenti. Ebbi poi la fortuna di incontrare (o forse, meglio, l’iniziativa di cercare) alcuni rappresentanti aperti ed illuminati della religione cattolica, che mi ricondussero a pensare che avrei potuto anche tornare alle mie radici, seguendo il loro spirito che a me risultava nuovo (corrispondendo ben poco ai miopi insegnamenti catechistici che avevo ricevuto), ma che in realtà era solo l’enunciazione e l’attuazione di ciò che Gesù Cristo ci aveva insegnato ben 2.000 anni or sono, essendo stato poi spesso travisato e deformato dalle dottrine e dai comportamenti dei suoi successori. Chi ebbe un effetto decisivo nella mia decisione di non diventare buddhista, ma di tornare invece al cristianesimo, furono due illustri personaggi, e cioè il Dalai Lama e un monaco benedettino inglese, suo amico, Dom Laurence Freeman, oggi Presidente della Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana. Avevo già letto molti libri del Dalai Lama, sempre ammirandone la grande saggezza, apertura, assenza di giudizio e profondità. Un giorno vidi la sua foto sulla copertina di un libro intitolato The Good Heart, tradotto in italiano col titolo Incontro con Gesù, con la prefazione di Laurence Freeman, allora a me sconosciuto, che sarebbe poi diventato la mia principale guida spirituale. Il Dalai Lama era stato da lui invitato a commentare dei brani del Vangelo a Firenze, nell’Abbazia di San Miniato, dove tale evento memorabile ebbe luogo, alla presenza di più di 200 persone, buddhiste e cristiane.

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1. Il cammino personale

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L’introduzione al libro di questo monaco-laureato in letteratura inglese ad Oxford, amante della psicologia, amico e fervente ammiratore dei Buddhisti, appassionato di musica classica (quante cose in comune con la sottoscritta!) — mi affascinò tanto che scrissi a Londra per sapere se anche in Italia ci fosse una sede della Comunità di Meditazione Cristiana, di cui egli era a capo. Dopo circa due mesi, una telefonata da Londra mi fornì l’indirizzo della principale sede italiana, che era a Brescia, e lì seppi che ogni anno Padre Laurence teneva un raduno internazionale in Toscana, nel monastero Benedettino di Monte Oliveto, vicino Siena, raduno che frequentai per molti anni successivi, rientrando progressivamente sempre più nei ranghi della mia fede originaria. Ma in realtà, il primo input in questa direzione mi era stato offerto proprio dal Dalai Lama. Ad un giornalista francese che gli chiedeva cosa pensasse di quelle persone — oggi numerose — che lasciano il Cristianesimo per diventare Buddhiste, egli aveva risposto, con parole come al solito illuminate, che la religione non è solo una serie di credenze e rituali, ma costituisce la radice della cultura e della civiltà di un popolo, ed aveva aggiunto quindi che gli sembrava difficile poter sostituire le proprie radici con quelle di altri popoli e di altre civiltà. Gli sembrava utile, piuttosto, potersi confrontare ed integrare reciprocamente attraverso il contatto e l’insegnamento offerto dalle altre religioni, specie se ricche di valori affini, come Cristianesimo e Buddhismo. Aggiunse che, ad esempio, i Buddisti potrebbero insegnare ai Cristiani tecniche da loro praticate per secoli, come la meditazione. Queste parole mi fecero molto riflettere sul tornare a quella mia religione originaria che avevo abbandonato e credo abbiano cominciato anche ad aprire una porta che mi portò successivamente, spronata dallo stesso Padre Laurence, ad iniziare una attività interreligiosa da me organizzata. Nacque così il Movimento Interculturale ed Interreligioso “Credere per Essere”. I Buddhisti dicono che quando l’allievo è pronto il Maestro compare e può finalmente gettare dei semi che diano frutto. Io, evidentemente, ero ormai pronta. La mia attività interreligiosa però cominciò molto dopo, e precisamente nel 2007, quando ormai ero tornata saldamente a condi-

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Il mistero dell’elefante

videre la religione cristiana delle mie origini, anche se devo confessare che il definirmi “cattolica” costituiva per me ancora una difficoltà, che riuscii a superare completamente solo con l’avvento insperato e per me miracoloso di Papa Francesco, che mi ricondusse, come credo molti cattolici, alla speranza di una vera svolta nel comportamento della Chiesa di Roma, alla quale prima a volte sentivo perfino l’imbarazzo di appartenere. Il mio motto ispiratore fu, fin dall’inizio, quel detto di Hans Kung che affermava:

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Non c’è pace tra i popoli senza pace tra le religioni, non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni, non c’è dialogo tra le religioni senza conoscenza dei loro fondamenti teorici

Inizialmente pensavo che la mia iniziativa potesse servire soprattutto a far incontrare fra loro persone di religione diversa, per favorire quel senso di mutua comprensione e di pace che era così ben espresso dal mio ispiratore. Mi resi poi conto che quelle riunioni si rivelarono utili anche e soprattutto a due differenti tipi di ascoltatori: da un lato ai cattolici, per aiutarli ad uscire da quella chiusura e presunzione — che ci è stata così profondamente inculcata — di essere gli unici detentori della Verità Assoluta, e dall’altro agli indecisi e dubbiosi, che oggi sono tanto numerosi, cioè a coloro che avvertono un profondo e forte desiderio di spiritualità, che però non sanno dove indirizzare, e che non hanno ancora trovato il modo di appagare. Nessuno può capire queste persone meglio di me, che ho provato sulla mia pelle i loro stessi vissuti, e che, direi, ho fatto parte della loro schiera per tanto tempo. Ma in realtà, ho capito solo successivamente che tali incontri furono altrettanto utili anche alla sottoscritta, perché quel confronto ravvicinato con altri credi si rivelò poi foriero di tante riflessioni e, stranamente, rinforzò — invece di attutire — il mio profondo desiderio di “ritorno a casa”, il mio senso di vera appartenenza e il ritrovamento delle mie radici, in forma però totalmente rinnovata. Volevo infatti le mie radici sì, ma le volevo verdi, vitali e rivivificate proprio dalle tante ricerche e dai tanti confronti a cui mi ero sottoposta per anni. Proprio perché ero ormai convinta di quali fossero queste mie radici, potevo lasciare che i rami del mio albero

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1. Il cammino personale

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spaziassero altrove, anche al di fuori dei confini del mio giardino, senza paura di perdere l’identità dell’albero ormai cresciuto, ma anzi con il desiderio di arricchirlo e rafforzarlo con ossigeno ed orizzonti nuovi. Riconobbi poi queste caratteristiche diverse dell’esperienza interreligiosa in alcune riflessioni di Raimond Pannikkar, il quale, parlando appunto del dialogo fra le religioni, distingue sapientemente — come poi vedremo meglio — fra dialogo interreligioso e dialogo intrareligioso, e cioè fra dialogo con l’altro e dialogo intimo e profondo con se stessi. Oltre a lui, come poi vedremo, mi interessai molto a tutti quei grandi credenti cristiani che avevano studiato e assimilato le religioni orientali, cercando di fare da ponte fra le due spiritualità — orientale ed occidentale — come Bede Griffiths, Henri Le Saux (Swami Abhishiktananda), lo stesso Raimund Panikkar, Paul Knitter ed altri. L’effetto su di me fu quello di allargare i miei orizzonti di fede e farmi vedere lo stesso Cristianesimo con occhi nuovi, collegato ad una spiritualità universale che, al di là delle differenze, mostra dei denominatori comuni, non tanto e non sempre nella sua concettualità e dottrina, quanto nella sua esperienza — in particolare mistica e contemplativa — e nel suo sentire. Così continuo da ormai quasi dieci anni questa iniziativa, che, seppur non poco faticosa, mi è stata veramente preziosa e che spero sia stata utile anche ai partecipanti (come, in verità, da loro spesso confermato). L’attuazione pratica delle mie iniziative interreligiose/intrareligiose è avvenuta in varie forme: dapprima, per i primi tre anni, con incontri a livello di conferenze, con uno o al massimo due rappresentanti di fedi sempre differenti (e a volte anche poco conosciute) e poi con l’organizzazione di Convegni, a cui parteciparono simultaneamente molti relatori seguaci di credi diversi, per un più vasto confronto interreligioso e con un’audience più ampia e numerosa. Passerò quindi a descriverli, il più succintamente possibile, per non ingenerare noia in chi legge, tenendo però conto che si tratta di orizzonti complessi e diversi, difficilmente sintetizzabili in poche battute.

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CAPITOLO 2

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GLI INCONTRI INTERRELIGIOSI A questo punto, sono stata in dubbio su quali di questi criteri seguire e cioè se riportare in dettaglio — anche se opportunamente condensato — il resoconto della maggior parte degli incontri svolti, ovvero riferirne solo le impressioni e le riflessioni ricavatene. Ho deciso infine per la cronaca, stringata sì, ma abbastanza puntuale, di ogni singola esperienza. Questo per un duplice motivo (che ci riporta alle peculiarità intra-religiose ed inter-religiose, che, come vedremo, Panikkar ci indica): 1. ogni singola esperienza — peculiare e diversa da tutte le altre — può fornire spunti di riflessione personale profondi, ma difficilmente rilevabili, senza focalizzare, almeno a grandi linee, l’input da cui possono trarre origine; 2. riportare le mie personali considerazioni, impressioni e riflessioni sulle varie esperienze, potrebbe forse solo ostacolare le genuine reazioni del lettore, ed infatti, tranne in alcune occasioni, mi sono molto trattenuta dal farlo; 3. credo che la nostra realtà italiana, sostanzialmente chiusa — almeno fino a tempi recentissimi — al confronto con altri orizzonti religiosi, possa trarre da queste esperienze uno spunto di maggiore conoscenza delle varie Fedi, seppure nella brevità ed inadeguatezza di queste sommarie relazioni. Ciascuno degli incontri qui riportati è, come si può ben immaginare, solo il misero specchio di un intero mondo, spesso variegato, complesso ed a volte anche molto distante dalla nostra mentalità e tradizione. Quindi il loro scopo non è quello, come dicevamo, di dare quadri esaurienti delle enormi tematiche trattate, ma piuttosto quello di offrire degli input, degli stimoli che saprà poi il lettore come convogliare nella sua personale ricerca, sempre tenendo conto di quel famoso “felt sense” gendliniano di cui abbiamo parlato, che tanto ci può aiutare nell’intuire cosa sarebbe auspicabile per noi approfondire, e cosa invece lasciare ad un livello più

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Il mistero dell’elefante

superficiale, poiché non ci riconosciamo più di tanto in esso. Può inoltre accadere, nella lettura di queste relazioni, ciò che io stessa ho provato: può avvenire cioè che alcuni input vengano recepiti all’inizio superficialmente, ma poi si facciano spazio anche inconsciamente nella nostra mente e continuino a lavorarvi silenziosamente, quasi a nostra insaputa, finché un bel giorno appare un imprevedibile e subitaneo nuovo insight, o flash di consapevolezza. Così come avviene nel campo psicologico — che è sempre stata la mia principale attività — bisogna lasciar lavorare le emozioni e le esperienze nel profondo, non avendo fretta di dare loro un nome o di trarne un significato immediato. Se sono state significative riappariranno, dando i loro frutti e spronandoci, ad esempio, ad approfondire l’argomento o, al contrario, a lasciarlo cadere come per noi irrilevante. È anche accaduto ad alcuni partecipanti che l’aver assistito a queste esperienze abbia fatto sorgere la curiosità e l’interesse di andare a conoscere meglio di persona i rappresentanti e seguaci di altri credi incontrati, cosa che penso abbia giovato, oltre che alla loro crescita individuale, anche ad una maggiore comprensione fra “diversi”, in questa nostra società multietnica, multireligiosa e multiculturale che non sempre, purtroppo, è aperta all’altro come dovrebbe.

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CAPITOLO 3

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GLI INCONTRI DEL PRIMO ANNO Iniziai il primo ciclo di incontri interculturali ed interreligiosi mensilmente, nel 2007. Al primo incontro, inaugurale, oltre ai relatori che ritengo doveroso citare, quali la dott.ssa Lavinia Oddi Baglioni (presidente del Club culturale Montevecchio), la dott.ssa Franca Eckert Coen (delegato alle Politiche della Multiculturalità e Multietnicità del Comune di Roma), il dott. Marco Lazzeri (presidente della Comunità Interreligiosa di Firenze) e la sottoscritta (fondatrice del Movimento “Credere per Essere”), presero parte esponenti di più di tredici religioni, confessioni e credi diversi: Giovanni Bitetti (Missione Satcitananda), Dora Bognandi (Chiesa Avventista), Mario Bossù e Silvia Bachelet (Comunità di Meditazione Cristiana), Federico De Angelis Lilananda (Hare Krishna), Alessandra de Vita (Chiesa Evangelica Pentecostale), Federico Falcolin e molti altri credenti della Chiesa Cattolica, Jobst Grapow (Comunità Buddhista Shambhala), Hari Singh Kalsa (religione Sikh), Sherri Mac Ferran (Thomas Merton Society), Marco Morselli e Claudio Fano (religione Ebraica), Gabriella Mezzetti (Buddhista di tradizione Soka Gakkai), Mario Scialoja e Shevalyn Papia (religione Islamica), Sergio Quaranta e Chistiane Klein (Buddisti di tradizione Dzogchen), Lucia Valcimino e Carlo Giudicepietro (Centro Umanista delle Culture), solo fra quelli che riuscimmo a registrare. La dott.ssa Franca Cohen, dopo aver presentato i rappresentanti delle religioni da lei invitati, espresse alcune sue riflessioni sull’iniziativa interreligiosa da lei portata avanti ormai da alcuni anni nell’ambito delle attività del suo ruolo di delegato alle Politiche multiculturali e multietniche del Comune di Roma. Dopo il gentile benvenuto espressoci dalla dott.ssa Lavinia Oddi Baglioni, da parte mia considerai necessario puntualizzare subito le finalità, le caratteristiche, ma soprattutto lo spirito che ci animava in questa iniziativa. Citai sia le affermazioni del teologo Hans Kung, che ho già qui

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riportate precedentemente, sia le parole del Cardinal Martini che, come al solito, con una visione estremamente aperta ed obiettiva delle cose, una volta così si espresse:

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Non sono favorevole al dialogo religioso quando considera le religioni come monoliti, realtà che devono dialogare restando immutabili... occorre lasciarci fermentare a vicenda da parole vere e autentiche, non collegate ad una tradizione religiosa precisa, come quelle espresse dal Discorso della Montagna, che toccano nell’intimo il nostro cuore e hanno la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un mussulmano, un indù, un buddhista, proprio in quanto attingono alle profondità dello spirito.1

Citai anche alcune parole della Pastora Valdese Teodora Tosatti, che mi erano particolarmente piaciute, e che sottolineavano un punto essenziale e preliminarmente indispensabile per raggiungere queste finalità, e cioè la volontà di deporre qualsiasi velleità di primato e di supremazia di un culto sull’altro, mettendo da parte la presunzione di essere gli unici detentori della Verità Assoluta (in opposizione quindi a qualsiasi posizione di rigido inclusivismo o esclusivismo). Non ipocrite e presuntuose “tolleranze”, perciò, ma confronto e scambio “alla pari” di reciproca considerazione. Espressi anche una metafora a me cara (come si è già potuto vedere io amo molto le metafore) e suggerii di vedere ogni religione come una diversa finestra aperta sullo stesso cielo: le ottiche e le prospettive possono essere diverse, ma tutte le varie finestre, proprio per la loro differente angolazione, possono aiutarci ad acquisire una visione più vasta ed aperta di quello stesso misterioso cielo a cui tutti guardiamo. Esplicitai subito che, pur non mirando assolutamente a minimizzare le indispensabili e ineliminabili differenze esistenti fra le varie religioni, i nostri incontri si proponevano una reciproca conoscenza ed un confronto, per scoprire possibilmente indirizzi e valori comuni che uniscano invece di dividere, atti ad incentivare un arricchimento reciproco, fermo restando l’assoluto rispetto per la diversa identità di ciascuno. Dissi che il Dalai Lama aveva ricordato anche alla sottoscritta come ogni religione rappresenti, allo stesso tempo, il frutto e la radice culturale di ogni singola civiltà, e sia quindi ben distinta e 1. la Repubblica, 29 settembre 2007

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3. Gli incontri del primo anno

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distinguibile da ogni altra, sottolineando come, di conseguenza, le somiglianze siano altrettanto importanti delle differenze. Quindi aggiunsi che, come sarebbe utopistico pensare ad un linguaggio universale, comune a tutti gli uomini e derivante dalla fusione di tutte le lingue esistenti (e infatti l’esperimento dell’esperanto si è rivelato solo un fallimento), così sarebbe assurdo e paradossale pensare ad una religione universale, frutto della fusione dei singoli credi, o anche ritenere che, in fondo, ogni religione equivalga l’altra. Eppure qualcuno diceva che se Gesù, Buddha e Maometto si incontrassero, le parole di ciascuno non suonerebbero in contraddizione con quelle dell’altro, e credo che l’ipotesi potrebbe allargarsi anche all’incontro fra i fondatori di molti altri credi. Gli incontri del primo anno furono organizzati con le seguenti religioni: • i Sikh; • la Comunità mondiale di meditazione Cristiana; • la Comunità Buddhista Shambhala; • gli Ebrei; • gli Islamici; • la comunità Buddista Dzogchen. La maggior parte degli incontri si tenne nella bella e antica sala del Club Culturale Montevecchio, a Roma, a pochi passi da Piazza Navona, per gentile disponibilità della proprietaria, dott. Lavinia Oddi Baglioni, che ringraziamo ancora per la sua generosa accoglienza.

3.1

L’incontro con i Sikh

Devo dire che questo incontro ebbe un primo impatto particolarmente significativo a livello estetico e folkloristico, per la originale foggia dei vestimenti dei suoi rappresentanti, elegantissimi nel drappeggio delle loro lunghe vesti bianche e dei loro candidi turbanti, dando subito la sensazione che stavamo per confrontarci con una realtà totalmente diversa e sconosciuta. Il relatore, il Prof. Hari Singh Khalsa, iniziò parlando delle opportunità e delle difficoltà incontrate dai Sikh nell’inserimento nel nostro paese, dove essi svolgono soprattutto attività di allevatori, agricoltori, commercianti e lavoratori in aziende zootecniche.

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Il mistero dell’elefante

Egli descrisse la religione Sikh come non amante del proselitismo (in quanto Dio, comunque venga denominato, rimane sostanzialmente uno per tutti i suoi credenti), ed infatti i figli dei Sikh hanno libertà di culto e vengono battezzati, se lo vogliono, solo da adulti. C’è collaborazione ed apertura con le altre religioni. Come esempio di queste caratteristiche egli citò l’esistenza di un piccolo tempio Sikh, a nord dell’India, dove si entra attraverso quattro porte situate ciascuna su uno dei quattro punti cardinali a simbolizzare che è possibile entrare nel tempio provenendo da qualsiasi direzione, etnia, casta o religione. A tutti indiscriminatamente infatti viene offerto del cibo che tutti mangiano insieme (cosa considerata prima impossibile, in base all’appartenenza alle varie caste). Questa religione nacque intorno al XV secolo ad opera del profeta Guru Nanak, che svolse una funzione pacificatrice nel Panjab (attuale Pakistan) durante una guerra fratricida fra Hindu e Musulmani, per la supremazia del rispettivo potere. A simboleggiare questa sua missione di pace, il Guru Nanak vestiva come un musulmano dalla cintola in su, e come un hindu dalla cintola in giù, e predicava la pace, cercando di distogliere dalle materialistiche mire di potere che alimentavano le discordie. Predicava anche il rispetto per le donne, in un’epoca in cui in India le bambine venivano spesso uccise appena nate, e si fece portavoce di parità fra le varie caste, e della possibilità di poter rimanere non più confinati dalla propria nascita all’attività dei padri, come a quei tempi avveniva, ma di poter scegliere il proprio lavoro in base alla propria vocazione. È proprio per questo che nel piccolo tempio indiano citato, vengono distribuiti gratis all’aperto fino a 30.000 pasti al giorno, da poter consumare gomito a gomito fra uomini ricchi, poveri e appartenenti alle caste più umili, come gli intoccabili. La parola Sikh significa “discepolo”, ed infatti Guru Nanak non intendeva fondare una nuova religione, ma diffondere messaggi di pace e fratellanza, ed era infatti sempre accompagnato da due fedeli amici, uno musulmano ed uno hindu. Alla sua morte, il suo messaggio fu trasmesso oralmente da vari guru successivi (interessante: imparai che la parola guru deriva da gu=buio e ru=luce, e quindi il guru è colui che conduce dalle tenebre alla luce). Successivamente, per evitare il pericolo che questi guru potes-

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3. Gli incontri del primo anno

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sero acquisire troppo potere, si trasfuse il messaggio in un Libro Sacro e nessun guru venne più nominato, in quanto da allora il guru vivente è il Libro Sacro stesso. Felicissima decisione, riflettei, che attesta come questa religione avesse giustamente individuato proprio nelle mire di potere della gerarchia istituzionalizzata la principale fonte dell’inquinamento e della deformazione del messaggio originario, e volesse quindi evitarlo. Nel Libro Sacro sono raccolti anche gli insegnamenti di Santi Hindu e Musulmani, ad indicare il desiderio di superamento delle differenze, e la prospettiva di poter integrare l’umanità in un unico popolo comprendente l’intero pianeta. Alcuni astanti rimasero stupiti da queste parole, giacché la fama dei Sikh è quella di essere un popolo di guerrieri, per cui domandarono spiegazioni anche dello spadino che essi portano sempre sotto la lunga veste bianca. Il prof. Hari spiegò che i Sikh erano in origine prevalentemente ricchi commercianti e vivevano nel benessere, fino a che i musulmani, provenendo dal nord, invasero le loro terre, volendoli costringere con la forza alla sottomissione e a convertirsi alla loro religione. Allora essi impugnarono le armi per difesa e divennero guerrieri. Lo spadino — ci spiegò — è simbolico e rappresenta la differenza fra il bene ed il male, a ricordare la diversa natura dell’aggressività difensiva e di quella offensiva e prevaricatrice. Ovviamente quest’uso — egli disse sorridendo — crea delle difficoltà oggi nei paesi ospitanti (o, anche di più, nel prendere un aereo) così come ne crea il turbante (che non si può mai togliere in pubblico e quindi, per esempio, non consente di indossare un casco per guidare una moto). Fu chiesto dai presenti anche il perché della lunga barba, ed egli spiegò che essa deriva dal divieto di tagliarsi qualunque pelo del corpo (in omaggio a come Dio ci ha creati). Il pettinino, indossato sotto il turbante per raccogliere i capelli, sta invece a significare l’obbligo dell’igiene e dell’armonia del corpo e dell’anima. Ci spiegò anche che i Sikh sono vegetariani, e, oltre alla carne, non mangiano né pesce né uova fecondate, nel rispetto degli altri esseri viventi. Devo dire che da questo incontro furono tratte vivaci impressioni e conseguenti riflessioni.

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Il mistero dell’elefante

Innanzi tutto l’osservazione di quanto poco siamo a conoscenza della fede di persone con le quali, pure, siamo in diretto contatto (attualmente i Sikh presenti in Italia sono più di 150.000, accentrati specie nel nord e centro Italia). Inoltre riflettemmo su quanto la nostra presunta conoscenza degli altri si basi spesso solo su stereotipi ed etichette precostituite, non corrispondenti alla vera natura delle persone e delle loro credenze. Mi riferisco all’idea nutrita da molti di noi di Sikh aggressivi e violenti, quando, al contrario, almeno il messaggio del loro fondatore, Guru Nanak, era esattamente l’opposto, al punto da vestire per metà come un musulmano e per metà come un hindu. Si trattava di un messaggio di pace, di parità fra forti e deboli (ricchi e poveri, uomini e donne), con un invito all’amore e alla fratellanza che può perfino ricordare, sotto alcuni aspetti, gli insegnamenti di Gesù Cristo. Infine, non ultima, facemmo anche qui la riflessione che tali messaggi di pace e fratellanza, vuoi per deformazioni operate nel tempo da quel lato d’ombra degli esseri umani che è fatto più di odio e aggressività che di fratellanza e di amore, vuoi per ragioni contingenti (come l’aggressione di altri popoli invasori) sono stati in parte deformati e deviati, anche in questo caso, verso comportamenti molto meno pacifici ed amichevoli (come ad esempio l’uccisione di Indira Gandhi che si disse perpetrata proprio da un Sikh). La conclusione, credo, riconferma sulla necessità, anche in questo caso, di riportare in vita i messaggi originari delle varie religioni, superando le deformazioni operate nel tempo, che li hanno progressivamente resi più che fonti di pace e fratellanza, strumenti di guerra, di rivalità e di odio, ben sfruttati, poi, da chi potesse far leva su di essi per i suoi biechi interessi di potere e di conquista, avvantaggiandosene per aizzare meglio le folle. Ma non erano questi gli insegnamenti di Gesù, Buddha, Maometto, o anche di questo Guru Nanak, da poco da me scoperto come ulteriore messaggero di pace.

3.2

Incontro con la Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana

Dopo l’incontro con i Sikh, tornammo più vicini a casa nostra con la Wccm (Comunità mondiale di meditazione cristiana), rappresen-

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tata dal dott. Mario Bossù, suo esponente romano e leader di uno dei vari gruppi che s’incontrano settimanalmente per meditare, sia a Roma che in altre città italiane e di tutto il mondo. Anche questo incontro ci portò qualcosa di nuovo, perché, dalle domande rivolte al relatore, si capì bene che molti dei presenti non avevano mai avuto nessuno contatto con alcuna forma di meditazione, cristiana o non, o che ne avevano un concetto totalmente diverso. In realtà, come il dott. Bossù sottolineò, si tratta di una pratica universale comune a molte religioni, come i Buddhisti, i mistici islamici e cioè i Sufi, gli ebrei, ma anche i Cristiani dei primi secoli dopo Cristo, e, in particolare, i Padri del Deserto e Giovanni Cassiano, nel V e VI secolo d.C. Ma la religione cristiana confinò poi questa pratica nell’ambito monastico, per seguire altre forme di preghiera e di contatto spirituale, ovvero la trasformò — come nel caso della meditazione gesuita di Sant’Ignazio — in una sorta di riflessione silenziosa su passi tratti dai testi sacri. Essa, nel XX secolo, fu riscoperta da John Main, un monaco benedettino irlandese, che imparò dapprima la meditazione in India da un guru, e la adottò poi come sua pratica religiosa fondamentale, malgrado la iniziale opposizione dei suoi superiori che gliela proibirono. Spinto probabilmente proprio da questa proibizione (che gli pesava moltissimo), si dedicò a studi e ricerche e riuscì così a dimostrare l’antichissima origine di questa pratica anche nell’ambito del Cristianesimo. Fondò una piccolissima iniziale Comunità di Meditazione Cristiana in Canada, convinto della capacità del silenzio di poter andare spesso ben oltre la parola nel creare un rapporto profondo dell’essere umano con la divinità. Oggi questa pratica è stata diffusa in tutto il mondo, in ben 126 paesi, dal suo discepolo e successore, Dom Laurence Freeman, attuale direttore spirituale della Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana. Il dott. Bossù proiettò un interessante filmato, girato in Inghilterra ma doppiato in italiano, che illustrava, oltre a cenni storici sulla Comunità, sia le finalità che le norme pratiche per eseguire una meditazione. Il relatore spiegò come essa miri, innanzi tutto, a “domare la

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Il mistero dell’elefante

nostra mente” che è come una scimmietta che salta continuamente sugli alberi da un ramo all’altro, senza mete precise e senza sosta. Il nostro cervello è infatti in eterno movimento, affermò Bossù — facendo un altro paragone significativo — come la proboscide di un elefante a cui, per evitare i danni della sua continua ricerca, gli indiani durante le parate offrono un ramoscello d’olivo, che la tenga impegnata almeno per qualche tempo. Il ramoscello d’olivo, per la nostra mente, è il mantra, e cioè la ripetizione silenziosa di alcune parole. John Main consigliava le quattro sillabe di Ma-ra-na-tha, una espressione aramaica che usava anche Gesù nella sua preghiera e che significa “Vieni Signore”. Il mantra può aiutarci (come il respiro per i Buddhisti) non solo a rimanere immobili fisicamente col nostro corpo, ma anche a tenere a bada i nostri pensieri, lasciando finalmente spazio ad “Altro”. Le distrazioni, le immagini, i pensieri, si continueranno a presentare, ma l’importante è non aggrapparsi ad essi, lasciandoli andare con gentilezza, come foglie che scorrono trascinate via da un ruscello. Si tratta, in sostanza, di mettere da parte la nostra quotidianità e il nostro Ego, e di porci in ascolto della scintilla divina che è anche dentro di noi, oltre che fuori di noi, nell’intero universo. Ma perché oggi è diventato forse anche più importante che nel passato meditare? Non solo per reagire nell’immobilità e nel silenzio alle continue tensioni, all’incessante rumore e all’iperattività a cui siamo sottoposti, non solo perché rilassarsi “fa bene” e pare provato che la meditazione giovi anche al benessere fisico della persona, o perché, come diceva John Main, il silenzio può generare forme di solidarietà e comprensione fra le persone, anche appartenenti a fedi diverse, superiori alle parole, ma, soprattutto, perché può creare un contatto uomo-Dio che difficilmente può essere raggiunto da altre forme di preghiera. Si tratta di una pratica apparentemente semplice (sedere immobili con la schiena dritta ma non rigida, le mani sulle cosce e gli occhi chiusi per circa 20 minuti, due volte al giorno), ma non è facile da attuare, proprio perché il nostro Ego spesso si rifiuta di essere messo da parte e le distrazioni tendono a sopraffare le nostre migliori intenzioni. John Main dichiarava con molto senso dell’humour — concluse

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Mario Bossù — che «i primi venti anni sono i più difficili», ma questo non deve scoraggiare... Vorrei terminare questo breve e solo parziale resoconto di quanto in questo incontro fu detto, con alcuni brevi concetti, che ascoltai dalla viva voce di Laurence Freeman l’estate successiva a Camaldoli, dove egli tenne un seminario dal titolo Il futuro del Cristianesimo nella contemplazione. Egli così si espresse: Un grande teologo tedesco, Hans Kung, dice che l’unico possibile futuro del Cristianesimo sta nella contemplazione. Attraverso i secoli abbiamo tutti visto interi eserciti fronteggiarsi e uccidersi invocando entrambi il nome di Dio. Più recentemente, abbiamo visto alla televisione i soldati di Amas che sparavano, distruggevano e poi si fermavano a pregare. Sono deformazioni della religione. Il Corano diceva che il perdono è più elevato della vendetta e tutti sappiamo quale sommo messaggero di pace sia stato Gesù Cristo. Come possono le religioni diventare così contraddittorie? Penso che sia proprio la perdita della dimensione mistica a far diventare una religione politica o moralistica. Ciò è avvenuto, ad esempio, in America, dove la religione è divenuta manifestazione dell’individualismo, del finto benessere socioeconomico e del potere. È avvenuto in Sud Africa, dove la religione era divenuta la difesa dell’apartheid. Cos’è la contemplazione? Non è manifestazione di potere, non è ideologia morale. Ma è una pura esperienza d’Amore e di Fede. È un’esperienza che include una profonda fiducia e la consapevolezza di non poterla capire nè spiegare, ma che percepisce la sicurezza della Presenza: è questo che chiamiamo Fede. Essa va oltre qualsiasi parola e si realizza nel silenzio. È la forma più semplice di preghiera perché riduce tutto a Fede e Amore. La dimensione contemplativa — continua Padre Laurence — è molto importante per il futuro non solo della Chiesa Cattolica, ma di quella Cristiana Ecumenica, e di tutte le altre religioni. Oggi dialoghiamo con le religioni: questo confronto appare pericoloso ad alcuni cristiani, come ogni forma di dialogo, ma lo Spirito sembra che oggi ci guidi proprio al dialogo con le altre fedi. Questa è una parte della sfida della vita cristiana di oggi. E la dimensione contemplativa è essenziale a questo dialogo, perché praticare il vero silenzio significa aprirsi alla trascendenza, qualunque sia la fede da noi professata. In questa apertura alla trascendenza possiamo sentirci uniti gli uni agli altri, in quello spirito di accettazione e di amore uni-

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Il mistero dell’elefante versale che ci ha insegnato Gesù Cristo e che nessuno di noi deve mai dimenticare.

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3.3

Il dialogo ebraico-cristiano

Nella stessa sede del Club Montevecchio, l’aprile successivo si tenne un incontro sul tema del dialogo ebraico-cristiano, avendo come relatore il Prof. Marco Morselli, Presidente dell’Amicizia EbraicoCristiana di Roma e autore, fra l’altro, di un saggio I passi del Messia che affronta proprio tale tematica, essendo egli da anni studioso e fervente fautore della ripresa di un dialogo più ravvicinato fra ebrei e cristiani (sicuramente incentivato anche dal fatto di essere, fra l’altro, di madre ebrea e di padre cattolico). Direi che l’incontro con il Prof. Morselli abbia, innanzi tutto, riconfermato la nostra tesi della necessità di una maggiore reciproca conoscenza, giacché molti degli astanti dichiararono alla fine di aver scoperto di sapere ben poco dell’Ebraismo o, peggio ancora, che le poche notizie acquisite su di esso erano poco rispondenti alla realtà di quanto ascoltato. Inoltre ci fu fatto capire che pure l’Ebraismo non è affatto una verità monolitica assoluta, ma una lettura/interpretazione sempre nuova e continuamente rielaborata degli infiniti significati della Parola del Signore, costituita dalla Torah. Ciò ha fatto dire umoristicamente al relatore che dove ci sono due Ebrei esistono tre pareri diversi. Il Prof. Morselli ha paragonato la Torah ad una lettera che un Padre molto amato lascia ai suoi figli prima di partire per un lungo viaggio in terre lontane. In attesa del suo ritorno, i figli leggono e rileggono con molta attenzione la lettera del loro Padre e Maestro e cercano di fare la sua volontà, come egli desidera, ma in maniera diversa. Abbiamo anche appreso che esiste una duplice struttura dell’Ebraismo, e cioè il noachismo e il mosaismo, che l’alleanza con Noè non è considerata affatto inferiore a quella con Mosè e che mentre il mosaismo consta di ben 613 mitzvot, il noachide si impegna a rispettare solo 7 comandamenti, che sono: l’istituzione di tribunali (che assolvono al bisogno umano di giustizia), il divieto di blasfemia, il divieto di idolatria, il divieto di adulterio, il divieto di omicidio, il divieto di furto ed infine il divieto di mangiare una

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parte di animale vivo (uguale al divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna. A questo proposito, abbiamo appreso realtà anche meno immaginabili per molti di noi, e cioè che, mentre al tempo di Gesù i Farisei credevano nella resurrezione alla fine dei tempi, i Sadducei negavano l’esistenza di una vita oltre la morte. Quanto alla relazione fra giudaismo e cristianesimo, nel libro citato, il Prof. Morselli presenta dieci autori (nove ebrei ed un cristiano semi-convertito all’ebraismo) che si sono occupati del cristianesimo, ben prima che il dialogo ebraico-cristiano avesse inizio, e cioè Elia Benamozegh, Aimè Pallière, Joseph Klausner, Jules Isaac, Israel Zoller, Franz Rosenzweig, Gershom Scholem, André Chouraqui, Leon Askenazi, Jacob Taubes. Morselli ha iniziato la sua relazione leggendo quanto scritto nell’introduzione del suo libro: È opinione diffusa che il maggior problema del rapporto tra Ebrei e Cristiani sia costituito da Gesù. Come speriamo di poter mostrare, non è così. La questione di Gesù, se sia o no il Messia, se quindi il Messia sia già venuto o debba ancora venire, potrà essere affrontata solo dopo che molti altri punti siano stati chiariti e il principale di questi riguarda la Torah. Rabbi Yeshua Ben Yosef (ossia Gesù) è venuto ad abolirla o a diffonderla nella sua pienezza? Questa domanda — il Prof. Morselli ha affermato — trova risposta in Matteo 5, 17-19: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge ed i Profeti. Non sono venuto ad abolirli ma ad osservarli nella loro pienezza. In verità vi dico: finché non siano passati i cieli e la terra neppure uno yod o un segno di lettura della Torah saranno cancellati, fino al compimento di tutte le cose. Perciò chi sceglierà la più piccola delle miswot2 e insegnerà così agli uomini sarà il più piccolo nel Regno dei cieli, chi invece le farà e le insegnerà sarà considerato grande nel Regno dei cieli.»

In altre parole, ciò che conta per il Prof. Morselli non è tanto se il messia sia già venuto o debba ancora venire, ma da quali “passi” o da quali radici possa aver tratto le sue origini. E conta non tanto l’ortodossia (cioè la dottrina), quanto l’ortoprassi (e cioè il modo in cui si agisce). 2. I 613 comandamenti per gli ebrei seguaci del mosaismo e i 7 per i noachidi.

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Il mistero dell’elefante

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A questo punto, per continuare la sua relazione con leggerezza, lessi un episodio pieno di humour, tratto appunto dal libro sopracitato I passi del Messia che così suona: Ascoltiamo le parole rasserenanti di Amos Oz, anzi di sua nonna: da piccolo mia nonna mi spiegò con parole semplici la differenza tra ebrei e cristiani. I cristiani, disse, credono che il messia sia già arrivato e che un giorno tornerà. Gli ebrei invece credono che debba ancora arrivare e che lo farà presto. Questi due modi di vedere hanno causato molti spargimenti di sangue, persecuzioni, discriminazioni e odio. E per cosa? si domandava mia nonna e suggeriva: invece di versare sangue si potrebbe semplicemente stare a vedere cosa succede. Se il Messia arriverà e dirà «Shalom, è bello rivedervi», gli ebrei dovranno ammettere di essersi sbagliati. Ma se dirà: «Piacere di conoscervi», saranno i cristiani a dover chiedere scusa agli ebrei. E fino allora: vivi e lascia vivere.

Penso che ci sarebbe molto da imparare da questa nonna nell’affrontare con semplicità, leggerezza di cuore, senso dell’humour e purezza di spirito un confronto che, per divenire costruttivo, ha bisogno proprio di queste caratteristiche. Del resto anche Gesù sosteneva che il regno dei cieli è dei “poveri di spirito”, che non sono certo gli stupidi, ma i puri di cuore come questa grandiosa nonna. Secondo uno dei più illustri autori citati nel libro, Benamozegh, il cristianesimo è “uscito” dall’ebraismo, nel duplice senso che ha avuto in esso la sua origine ed anche che in seguito se n’è allontanato. Però il filo che li unisce non si è spezzato. E mi sembra che il Prof. Morselli sostenga in pieno questa tesi. Egli ritiene auspicabile la possibilità che il cristianesimo si spogli di tutto ciò che ha tratto dall’ellenismo e torni alle sue origini «come un ponte gettato sull’abisso, sul quale si può passare, ma anche ritornare». Questo sarebbe il percorso di “teshuvah” (= conversione, nel senso di cambiamento di rotta, ritorno) da lui auspicato e questo può essere il preludio della venuta o del ritorno del Messia di Israele e dell’umanità. Altro punto importante contenuto nell’opera di Rosenzweig La stella della redenzione è il superamento della vecchia tesi che il cristianesimo sia il completamento dell’ebraismo, a seguito della quale l’ebraismo diverrebbe inutile in quanto incompleto.

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Al contempo, Morselli sostiene, sta agli ebrei, a loro volta, studiare e finalmente riconoscere la grandezza del loro grande figlio Yeshua. Klausner fu il primo a scrivere un libro in ebraico su Yesù ha Nosrì (Gesù il Nazareno) in cui così si espresse: «Nel codice di Gesù vi è una sublimità, chiarezza ed originalità che non hanno un parallelo in nessun codice ebraico e non vi è neppure un parallelo per l’arte notevole delle sue parabole, l’acutezza dei suoi proverbi. I suoi energici epigrammi riescono mirabilmente a fare delle sue idee etiche un possesso del popolo [...]». Morselli ritiene che i discepoli di Yeshua abbiano già iniziato questo cammino di riconoscimento delle loro radici, per non più disprezzarle e disconoscerle, come nel passato. Il Concilio Vaticano II è stato proprio l’inizio di questo cammino di ravvicinamento, che tutti speriamo non si interrompa per cadere nelle antiche incomprensioni: Ma in realtà esso sta proseguendo con visite reiterate alle sinagoghe da parte di vari Pontefici, e con un interesse sempre più diffuso sulle origini ebraiche di Gesù. Come afferma Don Carlo Molari in una conferenza del febbraio 2016. «L’ebraismo di Gesù fu negato per lungo tempo e durante il Nazismo si affermò perfino che Gesù non era un ebreo, essendo nato nella Galilea pagana». Ma sono qui evidenti i motivi ideologici di questa affermazione e Don Carlo Molari prosegue dicendo che in realtà «Gesù fu un ebreo di nascita e di tradizione che però invitò il mondo giudaico ad un rinnovamento». Devo ammettere che prima la lettura del suo libro e poi l’ascolto delle parole del prof. Morselli mi hanno fatto sentire un po’ come quel signore da lui citato che, essendo un cattolico, aveva sempre considerato gli Ebrei come personaggi un po’ morti e sepolti, come quelli ritratti nelle illustrazioni di Dorè dei vecchi libri, per poi scoprire con un flash di meraviglia, entrando un giorno in una sinagoga, che, invece, erano persone vive e vegete, dotate anche di insospettata energia vitale. Più seriamente parlando, il cammino indicato da Morselli non appare né semplice né rapido, ma, se si è iniziato, sperabilmente si potrà continuare. Stereotipi e poca conoscenza reciproca sono anche qui causa di scarsa vicinanza e comprensione, considerazione questa che, non a caso, vedremo ricorrente in tutti questi incontri.. Onestamente, devo anche però aggiungere che mie ulteriori ri-

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Il mistero dell’elefante

cerche in proposito — come ad esempio l’ascolto e la lettura di un grande studioso delle origini del Cristianesimo, il prof. Romano Penna — mi chiarirono meglio dei dubbi che alimentavo nel profondo sui rapporti cristianesimo-giudaismo. Capii ad esempio perché il Prof. Morselli si fosse soffermato a citare proprio un brano del Vangelo di Matteo rispetto ad altri scritti. Matteo infatti rappresentò, nella storia del Cristianesimo delle origini, proprio quella corrente giudaico-cristiana (anche rappresentata da Giacomo, fratello di Gesù) che si contrappose a quella di Pietro, e poi, soprattutto, a quella di Paolo, che ne rappresentarono le correnti più aperte ed innovatrici rispetto alle componenti giudaiche, più restrittive e conservatrici. Ad esempio Paolo fu ripreso dai giudeo-cristiani per aver aperto un dialogo con i pagani (ma Gesù non parlava forse con tutti, come ad esempio con i Samaritani, considerati fra i più disprezzati pagani?). Romano Penna sostiene che se è vero che il Cristianesimo non si oppone e non contraddice la Torah e gli insegnamenti giudaici, è anche vero che ne costituisce una variante nuova. Basti pensare che se al giudaismo si toglie la legge, egli afferma, si toglie la sua stessa anima. Non è così per il Cristianesimo, perché Gesù non fu mai un legislatore. Il Discorso della Montagna non contiene una legge, ma una visione del mondo, dell’uomo e di Dio che costituisce un modello di vita e di fede. «Non ci sono regole, ma c’è un Modo di Essere», sostiene Penna. Per il Cristianesimo conta l’Essere e non la norma, ed infatti Gesù dice che il sabato deve servire all’uomo e non l’uomo al sabato. Gesù è un uomo libero dalle prescrizioni e dalle norme, quando queste umiliano o danneggiano l’uomo, come ad esempio nel caso dei divieti e delle prescrizioni alimentari che egli ritiene inutili («Non ciò che entra nell’uomo lo contamina ma ciò che esce dall’uomo»). Pasolini diceva che: «Per la libertà Cristo ci ha liberati: non la libertà dal peccato, ma la libertà dalla legge». Ciò che conta è essere giusti di fronte a Dio e di fronte all’uomo, così come Gesù ci ha mostrato attraverso la sua vita e la sua morte. Sarà poi conseguenziale all’essere giusti compiere azioni giuste (che quindi non hanno bisogno di essere prescritte o vietate da norme).

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Si tratta di un grande salto di libertà e responsabilità individuale che è ciò che io credo più contraddistingua il Cristianesimo dalle altre due religioni monoteistiche, il giudaismo e, ancor più, l’islamismo: l’uomo è sì al servizio di Dio e degli uomini, ma in ottemperanza non a norme, bensì ad un modo di essere che gli è stato mostrato da Gesù in prima persona soprattutto attraverso l’amore e che egli sceglie liberamente fino alla sua morte (scelta e non predestinata, come ben ci insegna Don Carlo Molari) Mi sembra — e posso sbagliare — che non sia più Dio a scegliere la Terra Promessa per gli schiavi d’Egitto e a condurveli, ma è l’uomo ad aprirsi all’amore di Dio e a trovare in esso la forza per diventare libero protagonista della sua vita e del suo destino. Dio non è più il giudice implacabile e vendicativo che sprofonda gli Egiziani nel Mar Rosso, ma è il “Padre” che ama tutti i suoi figli (e non solo il suo popolo eletto)con pari amore, insegnando all’uomo che con pari amore deve amare i suoi simili, e perfino i suoi nemici. Certamente non dico questo per creare barriere nei confronti dei fratelli Ebrei, né per rendere più difficile il dialogo con loro, né tanto meno per denigrare la loro religione, ma solo per ribadire ciò che abbiamo sostenuto fin dalle nostre premesse, e cioè che, a nostro modesto avviso, dialogo interreligioso non vuol dire annullare le differenze, e quindi l’identità di ogni singola religione, ma solo trovare dei comuni denominatori e delle fonti di arricchimento reciproco. Di conseguenza, se sono d’accordo con il Prof. Morselli che esista l’esigenza di una maggiore conoscenza reciproca fra giudaismo e cristianesimo, non concordo né con Benedetto XVI che vorrebbe che gli Ebrei riconoscessero Gesù come loro Messia, né con il Prof. Morselli quando parla di “conversione” dei Cristiani, e cioè di un ritorno alle loro prime radici, poiché dalle stesse radici possono nascere piante di colori e profumi molto diversi, come è successo, a mio avviso, in questo caso. Ebraismo e Cristianesimo sono fedi in gran parte diverse, pur essendo nate dallo stesso ceppo, così come un padre può essere diverso dal figlio che egli ha generato e che non potrà mai costringere a diventare come lui... anche se sono parenti e si possono — anzi si devono — amare. Non è un caso che le maggiori conflittualità nascano proprio fra i più simili e più vicini, come infatti avviene fra fratelli o membri di una stessa famiglia e, in questo caso, fra religioni nate dallo stesso ceppo.

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Ovviamente qualcuno potrà non essere d’accordo con queste mie modeste opinioni (per primo penso proprio il Prof. Morselli), ed infatti anche Erik Fromm, ben noto filosofo e psicoanalista, afferma che la Bibbia Ebraica e il Vecchio Testamento vengono dai più considerati come una rispettabile quanto superata “voce del passato”, nella quale verrebbero affermati solo principi di giustizia e di vendetta, a differenza del Nuovo Testamento, che esprimerebbe invece quelli di carità e di amore. «Nelle scritture più antiche invece — nota Fromm, in concordanza con il parere più recente di molti esperti — coesistono molteplici aspetti, che vanno da quello dell’autoritarismo e nazionalismo primitivi, fino al concetto di libertà e fratellanza di tutti gli uomini». Credo peraltro che queste considerazioni possano condurre ad ulteriori interrogativi e ricerche anche i nostri lettori, e, se ho qui citato pareri contrapposti, è proprio perché possano servire di stimolo a questo scopo, a prescindere dalla mia personale opinione sull’argomento.

3.4

L’incontro con gli Islamici

Prima di ciascuno di questi incontri, dedicavo parecchio tempo a documentarmi un poco sulla storia di ciascuna religione e, soprattutto, sulle vicende che l’avevano portata ad eventuali conflitti con le altre fedi e culture e, in particolare, con quella cristiana. Facevo poi un breve sommario delle ricerche svolte e le mandavo via mail ai partecipanti degli incontri, in preparazione degli incontri stessi, inviando poi loro, successivamente, anche una relazione da me compilata dell’avvenuto evento. Procedura alquanto faticosa, ma che mi dava modo di riflettere io stessa meglio e più a lungo sulle singole culture, sulla loro storia e sulle loro caratteristiche, e che speravo giovasse anche ai partecipanti, almeno a quelli più motivati. Il Concilio Vaticano II esortò a dimenticare i tanti dissensi sorti nei secoli fra Cristiani e Musulmani, per poter difendere insieme la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà. Certamente, i fatti terroristici dell’11 settembre e le orribili stragi perpetrate dai fondamentalisti islamici contro cristiani e non cristiani anche recentemente, hanno gettato una nuova grande ondata di diffidenza e di paura nei confronti dell’Islam, equivocan-

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3. Gli incontri del primo anno

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do fra estremismo terroristico e Islam autentico. Lo spettro della bomba atomica in Iran ha fomentato paure non minori, ma pare finalmente risolto. La regina di Giordania, degna erede della saggezza e dell’equilibrio del suocero Re Hussein, dichiarava in una intervista televisiva la sua convinzione che non siano assolutamente i principi dell’Islam a condurre a comportamenti violenti e prevaricanti, in quanto gli ideali di convivenza pacifica insegnati dal Corano non sono molto diversi da quelli di altre religioni. Ma esiste purtroppo la deviazione di questi stessi ideali operata da parte della politica per manipolare le masse. E la riprova è che l’Ajatollah iraniano dichiarò che la bomba atomica non avrebbe potuto mai essere usata, perché la religione islamica non lo consente. Ma ovviamente nessuno gli credeva, visto che con queste parole parlava il leader religioso, ma nessuno sapeva poi come si sarebbe comportato il leader politico, che fa parte della stessa persona, visto che potere politico e religioso in questo credo sono connaturati nella stessa autorità. Durante questo nostro incontro ricordammo anche che nel settembre 2006 si era tenuto a York, in Inghilterra, un incontro cristianimusulmani, organizzato dalla Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana, dove le due tradizioni esplorarono lo spazio spirituale che entrambe possono condividere. Questo incontro si aprì sotto una sontuosa pittura moresca che raffigurava un Cristiano e un Musulmano che giocavano a scacchi e nella sala, su un tavolo, una Bibbia ed un Corano erano stati posti fianco a fianco, illuminati da una torcia. Durante l’incontro, fu ricordato un significativo momento di ospitalità, riportato da un testo islamico intitolato La vita di un Profeta, dove si racconta come un gruppo di cristiani, andati a Medina per discutere la natura di Gesù con Maometto, non raggiunsero un accordo se Gesù fosse più propriamente definibile come “il Figlio” o come “il servitore” di Dio, ma qualcosa di grande significato avvenne ciò malgrado: con il sopraggiungere della sera, i Cristiani, ansiosi di praticare i loro rituali, si preparavano ad andare nel deserto per erigere un altare, quando Maometto propose loro di rimanere nella santa moschea per adorare Dio e dire le loro preghiere in quella sede, invece di andare via, e così fu fatto. È stato proprio all’ombra di questa storica ospitalità che in quel

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Il mistero dell’elefante

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week end di settembre musulmani e cristiani si incontrarono amichevolmente a York, malgrado l’atmosfera fosse stata all’inizio appesantita da alcune espressioni pronunciate da Benedetto XVI che sembravano aver turbato gli animi. Ma l’equivoco fu presto chiarito, così come speriamo che, nel tempo, anche tanti storici dissidi possano via via dissolversi e sanarsi. Durante il nostro incontro fu letta una lettera che, alla fine del digiuno del Ramadam del 2007, le massime autorità dell’Islam contemporaneo indirizzarono alle diverse Chiese Cristiane e che, per la sua grande significatività, mi sembra qui interessante riportare: Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso Insieme Musulmani e Cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra Musulmani e Cristiani. La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi principi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’Islam e del Cristianesimo. L’Unità di Dio, la necessità di amarLo e la necessità di amare il prossimo sono così il terreno comune tra Islam e Cristianesimo.

Segue un parallelo fra le parole del Corano e quelle pronunciate da Gesù: Sull’Unità di Dio, Dio dice nel sacro Corano: Egli è Dio, l’Uno, Dio, sufficiente a Se stesso (Sura della Sincerità 112:1-2) Sulla necessità dell’amore di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: «Così invoca il nome del tuo Signore e sii devoto a Lui con una devozione totale» (Sura dell’avvolto nel manto 73:8). Sulla necessità dell’amore per il prossimo, il Profeta Mohammad (su di lui la Pace e la benedizione divina) disse: «Nessuno di voi ha fede finchè non ama per il proprio prossimo ciò che ama per se stesso». Nel Nuovo testamento Gesù Cristo (su di lui la pace) disse: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno, e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze». Questo è il primo comandamento. E il secondo è questo: «Tu amerai il tuo prossimo come te stesso». Non c’è altro comandamento più grande di questi. (Marco 12, 29-31)

Dopo altri esempi che qui non sto a riferire per brevità, la lettera conclude:

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3. Gli incontri del primo anno

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Così, nell’obbedienza al Sacro Corano, come Musulmani invitiamo i Cristiani ad incontrarsi con noi sulla base di ciò che ci è comune, che è anche quanto vi è di più essenziale nella nostra fede e pratica: i due Comandamenti d’amore.

Questa lettera del 13 ottobre 2007, unitamente alla Charta dei Musulmani in Europa firmata il 10 gennaio 2008 da 400 associazioni musulmane in Europa, sono fra i documenti essenziali che furono presentati alla Conferenza Cristiano-Musulmana Europea che si tenne a Bruxelles il 20-23 ottobre 2008 sul tema “Essere cittadini europei e credenti. Cristiani e musulmani come partners attivi nelle società europee”. Fra gli esponenti islamici c’era anche l’Imam Yahya Pallavicini che avevamo invitato al nostro incontro ma che, nell’impossibilità di essere presente, ci mandò da Milano il Prof. Nicola Isa Abd al Haq Benassi, docente dell’Accademia ISA (Interreligious Studies Academy) e facente parte della Coreis (Comunità Religiosa Islamica) di cui è presidente l’Imam Pallavicini. Egli ci parlò anche del bellissimo libro scritto recentemente da quest’ultimo, Dalla parte della moschea che dà un’efficace idea delle grandi difficoltà che gli Islamici moderati trovano oggi anche in Italia nel contrapporsi alle tendenze più estremiste, e a continuare quindi quell’opera di distensione politica e di pace con le altre culture che tutti auspichiamo. Successivamente a questo incontro, conoscemmo anche un altro insigne esponente e docente della cultura islamica in Italia, il Prof. Adnane Mokrani, di cui vorrei riportare brevemente alcune opinioni, che, io credo, siano una sapiente interpretazione del difficile cammino dei popoli arabi verso la democrazia. Egli sostiene che l’immagine iniziale delle rivoluzioni arabe (chiamate forse con pessimismo “primavere arabe”, quasi prevedendo che ad esse dovessero seguire duri autunni ed inverni) avvenute in Tunisia, Egitto e Yemen — certo con molto meno spargimento di sangue rispetto a quelle di Libia e Siria — facevano sperare in un post-islamismo ricco di riforme e cambiamento, ma ci troviamo invece di fronte ad un “neo-islamismo” dovuto all’ascesa al potere degli islamisti e all’emergere dei salafiti, la branca più conservatrice e litteralista del movimento islamista. In Egitto il primo presidente eletto democraticamente è in prigione dopo il colpo di

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Il mistero dell’elefante

stato del luglio 2013 e i Fratelli Musulmani non hanno saputo usare il potere per la salvaguardia della rivoluzione. Si aggiungono i fallimenti dell’oppressione della rivolta in Bahrein con l’intervento dell’esercito saudita, l’instabilità cronica della Libia dopo la caduta del regime ad opera di Francia e Nato, che ha offerto al terrorismo un grande mercato d’armi, e il grave conflitto in Siria che, nato in modo pacifico, è stato costretto a cadere nella lotta armata per le gravi provocazioni del regime. Così, fra l’entrata in scena di gruppi qaedaisti (non si sa bene da chi sovvenzionati), l’ascesa degli estremisti al potere e le lotte intestine, si è ritornati al tribalismo religioso e alla secolare lotta fra sunniti e sciiti, oscurando le vere motivazione della rivoluzione: democrazia, libertà, dignità, diritti, lavoro. Purtroppo, in questo quadro di regressione, assistiamo di nuovo alla violenza islamica, tanto giustamente deprecata, non solo nelle loro lotte intestine ma anche nei confronti delle altre religioni: primi fra tutti i Cristiani, uccisi addirittura durante le loro cerimonie religiose in Chiesa o assassinati orrendamente nelle scuole! E tutti sappiamo cosa sia poi successo a livello di feroci attentati in alcune nazioni europee. Mi rendevo ovviamente conto molto spesso con sgomento dell’esiguità e della totale inadeguatezza del microscopico tentativo pacificatore operato dai nostri incontri, ma non mi facevo scoraggiare da questa inevitabile considerazione. Nel confronto con gli islamici, in particolare, mi sembrò molto importante che le affermazioni di nostri relatori presenti, il ricordo di avvenimenti storici e la citazione di accordi intercorsi, potessero sottolineare la tendenza ad una sostanziale possibile convergenza fra il credo islamico e quello ebraico-cristiano, contrapponendosi positivamente alle temute fratture acuite da tanti recenti avvenimenti negativi, spronando invece ad affiancare gli islamici moderati nel loro difficile tentativo di porre freno all’ondata terroristica islamista, della quale, insieme ai cristiani, sono essi stessi le principali vittime designate, e a cui possono divenire le principali forze oppositrici. In altra sede, successivamente, l’Imam Ataul Tariq espresse la sua scarsa simpatia per il termine Islam “moderato”, proprio per sottolineare che con questo termine si opera in realtà una scarsa

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3. Gli incontri del primo anno

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distinzione fra il “vero” Islam e quelle frange deviate ed estremiste che con esso non hanno nulla a che vedere. Mi scuso quindi se ho usato o altre volte userò questo termine, per una maggiore facilità di comprensione, ma sulla cui sostanziale inesattezza concordo pienamente.

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3.5

Incontro con la Comunità Dzogchen

A differenza degli altri incontri svoltisi nella sede del Club Montevecchio, questa volta fummo invitati dai Buddisti Dzogchen a raggiungerli nella loro sede, nella zona Piramide. Il relatore, Costantino Albini, iniziò l’incontro illustrando brevemente la figura del grande maestro Namkhai Norbu, nato in Tibet nel 1938, che fu il primo ad introdurre l’antichissimo insegnamento buddista Dzogchen nel mondo occidentale, dopo essere stato chiamato in Italia da Giuseppe Tucci ed aver ricoperto la cattedra di Lingua e Letteratura Tibetana e Mongola presso l’Istituto Orientale di Napoli. Egli fu riconosciuto a tre anni come la reincarnazione di un precedente grande maestro di Dzogchen e iniziò già a cinque anni a ricevere l’istruzione tradizionale di un lama reincarnato, per divenire poi allievo di un maestro la cui casa aveva visto in sogno e con cui trascorse molto tempo a partire dal suo 17° anno. Svolge ancor oggi la sua attività, tenendo seminari e ritiri in ogni parte del mondo, anche qui a Roma. Costatino Albini illustrò poi brevemente la figura del Buddha Siddharta (che penso perfino i più sprovveduti fra noi conoscessero già attraverso il libro omonimo di Herman Hesse, o il film di Bertolucci, o il proprio bagaglio culturale, ma che egli ha voluto comunque ricordare con poche e succinte parole). Figlio di un ricco possidente, ancor giovanissimo, Siddharta fugge dal suo palazzo per scoprire nel mondo la triste realtà della sofferenza, da lui fino a quel momento ignorata e decide di dedicare la sua vita alla comprensione e alla risoluzione di questo grande male del mondo. Albini ha citato le 4 nobili verità buddhiste, che consistono nella sofferenza (o samsara), nell’origine (cioè nella comprensione delle sue cause), nella cessazione (una volta identificate tali cause) e nella via (cioè nel modo per debellarle).

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Il mistero dell’elefante

È proprio dalla diversa interpretazione della “via” che nascono le differenze tra le varie scuole buddhiste, pur rimanendo inalterata la meta finale, che è per tutte il superamento della sofferenza attraverso la riscoperta del nostro stato primordiale, nel quale “tutto è bene” e non esistono dualità. I tre veleni che portano alla sofferenza sono l’ira, l’attaccamento (ad esseri animati ed inanimati del mondo) e l’offuscamento mentale (cioè quella percezione limitata e condizionata, quella condizione relativa che ci impedisce di accedere alla vera consapevolezza e conoscenza del nostro stato primordiale, cioè alla nostra vera natura fondamentale). Alcune scuole (i Sutra) vedono la via di cessazione della sofferenza nella rinuncia alle passioni (ad esempio nel soffocamento dell’ira), altre (i Tantra) nella trasformazione (cioè nella capacità di trasformare le passioni in saggezza). Lo Dzogchen ritiene che la via sia quella dell’autoliberazione, che parte dall’idea che non sia necessario né rinunciare né trasformare, perché la vera natura della mente è pura: se riusciamo quindi a contattarla, purificando la nostra mente ottenebrata e condizionata, scopriremo la totale perfezione che c’è nella mente primordiale, pura e vuota. Per riscoprire la vera natura della mente, gli strumenti fondamentali sono la meditazione e la contemplazione, che ci aiutano ad operare il grande salto di qualità dal condizionato al non condizionato, dall’ottenebrato all’illuminato, dalla verità relativa a quella assoluta. È possibile cioè, attraverso una apposita disciplina, accedere ad una essenza e ad un livello che è già dentro di noi, ma che richiede la nostra consapevolezza. Lo Dzogchen non è quindi né una religione, né una scuola, ma l’insegnamento di un percorso spirituale di crescita che si basa sulla comprensione di sé e che mira alla consapevolezza (chiamata appunto autoliberazione). Per tale motivo lo Dzogchen è conciliabile con qualunque altro credo religioso o laico. Dopo questa interessante e chiara illustrazione, Albini ha chiesto agli intervenuti se erano disponibili ad un breve esperimento di pratica meditativa guidata, ed ha scelto uno dei temi fondamentali del Buddhismo, l’ “impermanenza”, cioè quella caratteristica fon-

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3. Gli incontri del primo anno

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damentale della nostra esistenza e dell’universo intero, su cui ci soffermeremo anche in un successivo capitolo. Tutto cambia, muta e passa nel tempo, e questa consapevolezza può incidere molto sull’ottica della nostra mente, facendoci perdere illusioni ed evitare quindi conseguenti delusioni, allontanandoci da uno dei tre veleni — e cioè l’attaccamento — e insegnandoci a vivere pienamente il presente, proprio perché transitorio. Albini ci ha illustrato le modalità fondamentali della meditazione e ci ha indicato alcune direttive basilari sulla postura (seduti sul cuscino a gambe incrociate o anche su una sedia con la schiena dritta) e poi ci ha detto di focalizzare la nostra attenzione sul respiro, percependo l’aria fresca che passa dalle nostre narici. Ci ha poi invitato a visualizzare un oggetto a noi familiare, immaginandolo dapprima com’era all’origine — quando lo abbiamo visto per la prima volta — e poi, via via, nella sua trasformazione nel tempo, proprio per toccare con mano come tutto, dagli oggetti agli esseri animati, sia soggetto a questa legge della continua evoluzione e trasformazione. Il nostro relatore mi disse poi, a parte, che non aveva osato scegliere come oggetto della meditazione una persona cara, perché temeva giustamente che l’impatto emotivo per gli astanti potesse diventare troppo forte. Queste tecniche infatti, che possono sembrare di primo acchito molto dolci, in realtà, nella corrente Buddista Dzogchen, come in altre che ho contattato in altre occasioni, possono rivelarsi molto potenti e dare reazioni emotive anche molto forti, proprio nel loro tentativo di profonda purificazione. I presenti si sono coinvolti molto, anche se in modo non certo traumatico, con mio grande piacere, visto che sin dall’inizio avevo desiderato che la pratica meditativa, così comune in oriente e tanto poco conosciuta in occidente, fosse resa nota e sperimentata in questi incontri. Essa può abbinarsi, come in questo caso, ad una visualizzazione, oppure, come nella meditazione Shambala, focalizzarsi solo sull’attenzione al respiro, ovvero anche, come nella Meditazione Cristiana, essere accompagnata da un mantra, ripetuto interiormente per tutta la sua durata, come focalizzatore dell’attenzione ed aiuto a distogliere dalla distrazione e dal pensiero. Va detto che, se è vero che sta certamente a noi sentire questa pratica adatta o meno al nostro modo di essere — come del resto

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Il mistero dell’elefante

qualsiasi tipo di percorso spirituale — è però anche vero che, per fare una scelta, le cose vanno innanzi tutto conosciute e sperimentate dal vivo senza preconcetti, come infatti in questo incontro penso sia avvenuto per molti, attraverso questo piccolo e breve “assaggio”: ma sono proprio gli “assaggi” esperienziali, molto più che la semplice teoria, a farci capire se la cosa è adatta a noi, e se può quindi essere coltivata, oppure abbandonata, perché non conforme al nostro modo di essere e di vivere la spiritualità. Ho saputo, subito dopo questo incontro, che in Irlanda Padre Laurence Freeman, il fondatore della Comunità Meditazione Cristiana, aveva condotto contemporaneamente un ritiro cristiano-buddhista intitolato “Passione e compassione” proprio in un Centro Dzogchen di Bere Island, e mi è sembrata una significativa coincidenza. Del resto i contatti fra il Buddismo e detta Comunità Cristiana sono ormai di lunga tradizione, come testimoniato anche dal libro di cui vi ho parlato precedentemente Incontro con Gesù in cui il Dalai Lama commentò dei brani del Vangelo, con la prefazione di L. Freeman. Si può ben immaginare come tutto ciò mi rincuorasse, sentendo ormai da tempo dentro di me, come più volte esplicitato, una grande ammirazione per il credo buddista, ma anche la mia appartenenza sempre più convinta al messaggio di Gesù Cristo, e apprendendo che, anche a parere di fonti illustri, queste due verità, certo non sovrapponibili, potevano però essere conciliabili e ben integrate fra loro.

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CAPITOLO 4

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GLI INCONTRI DEL SECONDO ANNO L’anno successivo ebbi il privilegio di ricevere il Patrocinio dal Comune di Roma e potei continuare la mia iniziativa, per merito sia dei relatori (tutti volontari, anche se illustri) sia della dott. Lavinia Oddi Baglioni, che ci concesse nuovamente l’uso della sala Montevecchio. Durante il 1° incontro, lessi il testo del Patrocinio ricevuto in data 27 luglio 2008 dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma e spiegai il perché del nome dato all’iniziativa (Movimento interculturale ed interreligioso “Credere per Essere”) dove il termine “credere” non va inteso in modo restrittivo come “credere in Dio” (o verrebbero esclusi sia i laici che le fedi non teistiche, in netto contrasto con la nostra finalità interreligiosa e interculturale), ma come un credere in alti valori spirituali, siano essi a livello terreno (pace, giustizia, fratellanza, cooperazione) o a livello trascendente. Spiegai inoltre il perché della tematica (“La pratica meditativa nei vari movimenti religiosi”), scelta sia a seguito di una quasi unanime risposta positiva — formulata nel compilare dei questionari da me inviati via mail — sia per la mia personale convinzione che fosse più facile un’intesa interreligiosa attraverso un approccio mistico-meditativo, piuttosto che attraverso dibattiti teorici che a volte possono anche correre il rischio di dividere. Come conciliare, ad esempio, tanti modi diversi di concepire la divinità nelle varie religioni, o addirittura di non concepirla affatto, come nel caso dei Buddhisti? A questo proposito, sempre nel primo incontro, proposi agli astanti un brano tratto dal libro Hindu Christian Meeting Point di Abishiktananda (personaggio di cui poi parleremo più dettagliatamente) in cui egli così si esprime significativamente: In India gli uomini non hanno sentito il bisogno di proiettare al di fuori di se stessi il mistero percepito nella profondità del loro essere

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Il mistero dell’elefante e nel cuore stesso dell’Universo: non concepiscono un Dio al di fuori dell’uomo. Ciò ha portato a sfere di pensiero totalmente diverse e ad altre forme di religione e spiritualità rispetto all’Occidente. Eppure — egli prosegue — le parole che l’occidentale può leggere ed ascoltare da questi saggi provocano in lui risonanze intense, come se provenissero dalle profondità della sua stessa esperienza. È dunque da queste profondità, dal recesso più intimo del cuore da cui il Mistero si rivela alla consapevolezza, che può iniziare un vero dialogo.

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Un proverbio inglese dice: «Silence is the Mother of Truth», cioè il silenzio genera la verità. Padre Laurence Freeman (che avemmo poi l’onore di ospitare nel secondo incontro) afferma: Il linguaggio riesce con difficoltà a spiegare la pienezza del Mistero. Ecco perché il silenzio della meditazione riveste una così grande importanza.

Ed ecco ciò che ci insegna Krishnamurti: Lasciate che il vostro cuore sia vuoto. Non riempitelo di parole e di azioni della mente. Lasciate che il vostro cuore sia totalmente vuoto. Solo così esso sarà ricolmo.

A cui fanno perfetto riscontro le parole di Gesù Cristo: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli», dove, come tutti sappiamo, i poveri di spirito sono appunto i puri di cuore, coloro che si affidano con la semplicità e la fiducia dei bambini alla Fede. Per noi occidentali, abituati a pensare, muoversi e parlare anche troppo, la meditazione è un’impresa difficile, ma è una sfida che andrebbe raccolta, senza per questo escludere tutte le altre forme di dialogo o di preghiera verbale. È ciò che provai a fare nell’impostare in questo senso il nostro lavoro di questo secondo anno. Avevo ormai chiarito con me stessa la mia tendenza ad una spiritualità mistica, ed avevo maturata la convinzione — ovviamente del tutto soggettiva, anche se convalidata da fonti molto autorevoli, come quelle testè citate — che sia proprio dalla pratica del silenzio e da un approccio mistico-meditativo–contemplativo, che possa scaturire la forma forse più profonda di contatto con se stessi, con la propria vera essenza e con il trascendente, nonché una

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4. Gli incontri del secondo anno

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possibile vicinanza e compartecipazione fra appartenenti a credi diversi. Ciò non poteva escludere, peraltro, quella parte teorico-illustrativa che permette una maggiore conoscenza reciproca (come lo stesso Hans Kung ci aveva ricordato dicendo: «Non c’è dialogo fra le religioni senza conoscenza dei loro fondamenti teorici»). La via da percorrere, pensavo, dovrebbe essere prima di tutto quella di conoscerci, e poi tentare di meditare assieme, trovando nel silenzio un punto di contatto per superare le barriere. Credo che, fra le due mete, in questo secondo anno, sia stato dato forse maggiore risalto alla prima (e cioè all’aspetto teoricoillustrativo), rispetto alla seconda (e cioè all’aspetto meditativo), e questa consapevolezza, ovviamente raggiunta in un secondo tempo, è stata successivamente fonte di un certo rammarico da parte mia. Ma, come già detto, le cose non vanno mai come le abbiamo preventivate, e questo non accade a caso, ma forse proprio perché i tempi non sono ancora maturi per qualcosa di diverso (o anche per la nostra mancanza di coraggio). Gli appuntamenti del secondo anno furono più numerosi rispetto al primo anno, e previdero i seguenti incontri: • Missione Satcitananda, relatore il suo fondatore, Padre Anthony Elenjimittam; • Comunità di Meditazione Cristiana, relatore il suo fondatore, Padre Laurence Freeman; • Danze meditative Vajra, presso il Centro Dzogchen; • il Tantrismo, relatore il prof. Daniele Bollini, shastri e responsabile dei centri Shambhala italofoni; • il Sufismo islamico, relatore il maestro Burhanuddin; • la meditazione Yoga, relatore il prof. Furlan; • l’Hinduismo, relatore il Prof. Gardini; • la Fede Bahai, relatore il dott. Guido Morisco. Mi sforzerò di fare un resoconto il più possibile stringato di questi incontri, per non tediare i lettori, cercando possibilmente di cogliere quegli elementi che abbiano portato qualche luce nuova sia a me che ai partecipanti (secondo le loro dichiarazioni e commenti).

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Il mistero dell’elefante

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4.1

L’incontro con Padre Anthony della Missione Satcitananda

Fra i relatori più entusiasticamente accolti fu certamente Padre Anthony, un vegliardo di più di novant’anni, appartenente inizialmente all’ordine dei domenicani e successivamente discepolo in India del Mahatma Gandhi, da cui ricevette il mandato, non trascurabile, di tentare di unificare le religioni del mondo. In Italia fu ricevuto da Papa Giovanni XXIII, il quale approvò e benedisse la sua iniziativa che egli tuttora prosegue con la sua Missione Interreligiosa Satcitananda. Sat — spiegò poi — vuol dire “essere”, cit “consapevolezza” e ananda “beatitudine”. Iniziò la sua relazione con quattro preghiere appartenenti alle più diffuse religioni del mondo: una preghiera cristiana in latino, una hindù, una buddista ed infine una islamica, tutte pronunciate nelle lingue originali, da lui parlate. Invocò quindi il Grande Spirito Universale, perché infondesse la saggezza di cogliere la quintessenza delle varie religioni, che, dalla conoscenza di se stessi, conduce poi alla conoscenza di Dio. Ciò che Padre Anthony disse di considerare suo compito è di lavorare per la famiglia umana, superando il concetto tradizionale che fuori della Chiesa cattolica non esista salvezza, perché esistono e sono esistiti nel mondo tanti grandi spiriti illuminati, come ad esempio Gandhi, che pure non appartengono a questa chiesa. Racconta che Papa Luciani, da lui incontrato più volte quando era ancora Patriarca di Venezia, gli disse, a conferma di questo concetto: «Ma tra i nostri cristiani, dove possiamo trovare un essere eccezionale come Gandhi?». Egli disse questo, ovviamente, non per sminuire i grandi spiriti cristiani, ma solo per riconoscere che, anche sotto altre fedi, ne possono nascere di ugualmente grandi. Sottolineo questa precisazione — anche se a me sembrerebbe ovvia — perché proprio questa obiezione fu fatta in sala, a riprova dell’intransigenza e, mi scuso, miopia, di chi, per difendere i propri territori, non si accorge o non vuole riconoscere quelli altrui, e si impermalisce (o si spaventa?) non appena qualcuno gli mostra orizzonti più vasti. Si trattò comunque di un episodio sporadico, poiché invece l’elasticità mentale di questo saggio vegliardo fu molto apprezzata dagli altri astanti. L’anima — continuò Padre Anthony — non è altro che un frammento

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4. Gli incontri del secondo anno di Dio, e questa consapevolezza va raggiunta al più presto, nell’ambito della nostra breve vita. Tutti possediamo un altissimo potenziale di spiritualità, che però va incrementato e coltivato, ed uno dei mezzi migliori a tal fine è la meditazione. Purtroppo la meditazione non compare nella tradizione ufficiale del Cristianesimo, e quando ho proposto ad un cardinale questa pratica, non sono stato affatto ascoltato. Ma non servono le liturgie, i rituali, le messe cantate: serve mettersi in contatto con il divino che è dentro di noi. È proprio Gesù a dirci che il Regno di Dio non è un luogo fuori di noi (un tempio, una sinagoga, una moschea o altro), ma è dentro di noi. Ed è quindi con questa nostra interiorità che dobbiamo entrare in contatto per trovare noi stessi e Dio. Dobbiamo riuscire ad astrarci da tutto ciò che è esterno e dalla nostra mente sensoriale, che ci impedisce di vedere il Regno di Dio dentro di noi. Sant’Agostino diceva: «Anima mia, non andare fuori, perché nella tua interiorità troverai Dio». Con la meditazione rompiamo i legami con il mondo esterno e lì possiamo trovare la nostra serenità, il nostro benessere e diventare lo strumento, il tramite, il canale che ci porta a Dio. Nell’interiorità scopriremo tesori inestimabili che non ci faranno mai sentire soli. Ma va fatto subito, in modo che il nostro risveglio interiore ci prepari anche alla nostra morte, o dovremo vivere una seconda vita per poterlo fare. Se non troveremo questa dimensione, la nostra crescita spirituale sarà bloccata, come quando un carretto si mette davanti al cavallo: quello non potrà camminare e non si muoverà. Tutti noi siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, e solo con la meditazione riusciamo a vederci per ciò che siamo, al di là delle apparenze, e potremo raggiungere la consapevolezza. Siamo inondati in occidente da troppi messaggi tecnologici, materialistici e pratici, mentre in oriente si mira di più alla vita interiore. Inoltre siamo invasi da insegnamenti ufficiali che portano fuori dall’essenzialità della vita spirituale («Se non vai a messa sei in peccato mortale»): non sono queste le cose essenziali. Le cose essenziali sono l’autocontrollo, il controllo della mente, liberarsi dalla sensualità, purificarsi, trasformare la nostra energia in una forza superiore. Non si può condannare all’isolamento un uomo come Mazzolari perché comunicava con Sai Baba! Ciò che conta è arrivare in sintonia con il divino.

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Il mistero dell’elefante San Paolo diceva: «Prova tutto e prendi ciò che ti giova». «Solo la verità rende liberi», dice Gesù, e la strada della verità è la meditazione. Non ci servono autoritarismi né dalla politica né dalla religione: abbiamo bisogno solo dell’indipendenza del pensiero e dell’illuminazione. Sono stato in India proprio là dove Buddha ricevette l’illuminazione dopo averla cercata per cinque anni, sotto lo stesso albero (o il suo pronipote) dove oggi hanno costruito un tempio. Anche Buddha ottenne l’illuminazione attraverso la meditazione. Abbiamo bisogno di vivere una vita all’unisono con il divino, e questo va fatto subito, dovunque siamo nati, perché la vita è breve e finisce. Ciò che è scritto in milioni di volumi si può condensare in poche parole: Dio è reale e bisogna trovare la via per raggiungerlo. Non siamo stati mandati quaggiù per cercare ricchezze, onori o piaceri, ma per trovare la nostra vera realtà essenziale. Nella meditazione, quando siamo soli in questo oceano di conoscenza che è Dio, arriviamo alla verità.

Le parole di Padre Anthony, oltremodo decise fino a divenire talvolta drastiche e crude, ma così piene di entusiastica convinzione, mi fecero ulteriormente riflettere sulla profonda differenza esistente fra fede e religione e sulla necessità di distinguere fra gli aspetti essenziali del nostro credo e quelli che non lo sono, e che anzi possono distorcerlo, fino a fargli perdere quell’universalità che, sola, può unire la grande famiglia umana. Non a caso questo spirito saggio fu a suo tempo riconosciuto ed incoraggiato da grandi personalità come Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Papa Luciani, il cui messaggio oggi sembra a volte dimenticato, come dimenticati sono sembrati, almeno fino all’avvento di Papa Francesco, gli illuminati intenti del grande Concilio Vaticano II. La relazione di Padre Anthony mi fece venire in mente una citazione mandatami qualche tempo prima dall’amico Marco Lazzeri (coordinatore di un sostanzioso movimento interreligioso fiorentino), citazione tratta dal discorso che Krishnamurti tenne nel 1929, anno in cui decise di sciogliere l’organizzazione “Stella d’oriente” di cui era presidente. Diceva: Essendo la verità senza limiti, incondizionata e non accessibile attraverso un percorso pianificato, qualunque esso sia, non può essere organizzata. Non si dovrebbe altresì costituire alcuna organizzazione che abbia come scopo quello di condurre o forzare le persone a seguire

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4. Gli incontri del secondo anno

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determinati percorsi. Non appena avrete compreso ciò, comprenderete come non sia possibile organizzare un credo, o una fede. La Fede è un aspetto strettamente individuale, e voi né potete né dovete organizzarla. Se lo fate diverrà cosa morta, cristallizzata, una dottrina, un credo sistematico, una setta, una religione che deve essere imposta agli altri. Questo è ciò che in tutto il mondo si tenta di fare. La Verità viene imprigionata, resa banale, ridotta ad un giocattolo da destinare alle persone fragili e a coloro che sono temporaneamente insoddisfatti.

Ogni commento mi appare superfluo, vista l’efficacia dei contenuti.

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4.2

L’incontro con Dom Laurence Freeman

Vedo che, malgrado i miei sforzi, non riesco ad essere sintetica quanto vorrei, perché ognuno di questi incontri accese in me profonde risonanze che, per tornare alla mia metafora preferita, contribuivano a rimettere al loro posto le tante tesserine del mio mosaico interiore. Quando Padre Laurence arrivò all’incontro, mi chiese chi si sarebbe trovato davanti in sala, e io gli dissi che, oltre a cristiani, agnostici e dubbiosi, vi sarebbero stati molti ascoltatori buddisti. Egli decise di conseguenza di trattare un tema — il dualismo — che è ampiamente analizzato dalle scuole buddhiste e parlò di concetti tipicamente buddhisti — come l’impermanenza, l’interdipendenza, la vacuità — e colse alcune somiglianze, ma anche differenze, fra l’ottica buddhista e quella cristiana. Seguì cioè quell’impostazione di dialogo sua tipica, messa in atto anche quando, in senso inverso, chiese al Dalai Lama di commentare brani del Vangelo, proprio perché — come egli disse — anche nel dialogo interreligioso dobbiamo affrontare il problema del dualismo, come confronto fra posizioni diverse, confronto nel quale (a detta anche del Dalai Lama) le differenze non sono meno importanti delle somiglianze. Ogni aspetto della vita — egli disse — ci presenta dei dualismi, che si pongono ovunque si affaccino idee, sentimenti, bisogni o aspettative opposti, che comportino la necessità di una soluzione o di una scelta. Le differenze possono generare conflitti, ma se ci fossero solo somiglianze la vita sarebbe molto noiosa. La musica è così terapeutica proprio perché implica la risoluzione

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Il mistero dell’elefante di tensioni in essa contenute.

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E citò la sua opera prediletta in questo campo: La sonata per pianoforte op. 111 di Beethoven — egli disse — è un dialogo poderoso, quasi violento, fra le forze dell’oscurità e della luce. Normalmente le sonate hanno 3 movimenti, ma qui Beethoven li ridusse a due, e questa riduzione è simbolica, perché il 2° movimento è un’estatica trascendenza del dualismo contenuto nel 1°. È un risanamento temporaneo, che dura poco, ma questa è la bellezza e la potenza della musica. Si può capire la meditazione meglio in termini di musica che di idee. Se pratichiamo la meditazione come disciplina seria, essa riesce a funzionare nel guarire il dualismo, ma, a differenza della musica, lo fa con effetti duraturi, permanenti. Uno dei dualismi classici della natura umana è quello della mente e del corpo. Concezione, questa, della persona che risale ai greci, ma che è anche comune alla maggior parte delle filosofie orientali. Nella visione biblica osserviamo un’evoluzione di questa concezione e notiamo tre dimensioni al posto di due: mente, corpo e spirito, e, in questa ottica, il dualismo è trasceso in una terza realtà che unifica, perché questo terzo regno non è più dualistico, non è né uno né due. E forse il vero significato del percorso spirituale è proprio questo superamento del dualismo nella trascendenza, che non significa rinnegare né il corpo né la mente, ma unificarli nello spirito. Buddha cercò di superare le sofferenze di questo conflitto attraverso la mortificazione e l’autonegazione in un’ascesi estrema, ma non vi riuscì, ed infatti sappiamo che a questo punto sedette sotto il famoso albero cercando una soluzione nella meditazione: e questa arrivò nella scoperta della moderazione e della via di mezzo. Affrontare la sofferenza del dualismo è quindi cercare la Via di Mezzo. Solo che questa via di mezzo è un equilibrio sottile e non generalizzabile che non si può realmente definire.

Egli ricordò che anche San Benedetto — il fondatore del suo ordine monastico — è famoso per la “via media”, che ricerca sempre nella sua Regola: Ma cos’è poi la “via media”? Essa non è assolutamente generalizzabile, per le regole, appunto, dell’impermanenza e dell’interdipendenza, per cui al cuore di tutte le cose c’è il cambiamento, la transitorietà, la mortalità, la morte, ed anche lo stato di non essere indipendenti da ciò che ci circonda: per cui ciò che è moderato, e può essere considerato oggi “via di mezzo” non lo sarà più domani.

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E, per dare levità all’intervento, a questo punto egli ha citato la regola sul vino di San Benedetto: San Benedetto sosteneva che i monaci non dovrebbero bere affatto, ma oggi, riconosceva, nel XVI secolo, non si riesce a convincere i monaci a non bere. Allora dobbiamo mettere un limite, e stabilì che essi potessero bere una “oemina” di vino al giorno. Ma nessuno ha mai saputo cosa sia questa “oemina”, perché è la prima volta che in latino compare questa parola! Così il conflitto era stato, elasticamente ed intelligentemente, sanato!

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Dom Laurence ribadì, a questo punto, l’importanza del concetto buddhista di vacuità. Molti occidentali pensano che si tratti di un concetto negativo, nichilistico, ma la vacuità — o vuoto — non è il nulla: essa è caratterizzata appunto dall’impermanenza e dall’interdipendenza, il che significa che non dobbiamo cadere nell’illusione di attribuire alle cose e a noi stessi un’indipendenza e una permanenza che non esistono, per poi provarne l’inevitabile delusione. Ma sono solo i Buddhisti a possedere questo concetto di vacuità? No, se pensiamo che vacuità è appunto impermanenza, mortalità e interdipendenza. E questa è un’ottima definizione di ciò che il Cristianesimo e le religioni teistiche chiamano “creazione” e “creatura”. Corrisponde anche al termine cristiano di “povertà di spirito”, che Gesù descrive come la prima delle beatitudini, ed è ciò che pratichiamo nella meditazione, in cui prestiamo attenzione a ciò che ci passa davanti (l’impermanenza) e ci sperimentiamo come dipendenti (ed è appunto per queste ragioni che essa risulta tanto difficile).

A questo punto Padre Laurence ci lesse un brano del Mahayama, che definisce le caratteristiche di un “falso profeta” e di un vero “Bodhisattva”, (cioè di un essere che, avendo raggiunto lo stato di Nirvana o di Illuminazione Suprema, vi rinuncia per venire sulla terra in aiuto di chi ancora soffre, nell’ardua impresa del proprio percorso spirituale). Coglie in queste caratteristiche esattamente quelle attribuibili a Gesù Cristo, definito dallo stesso Dalai Lama e dai Buddhisti in genere come un sommo Bodhisattva. Per i Cristiani, ovviamente, egli è anche qualcosa di più, e qui ricompare di nuovo la somiglianza e differenza fra i due credi. Per Gesù la soluzione del dualismo non è tanto nella via di mezzo,

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Il mistero dell’elefante quanto soprattutto nell’amore, perché è l’amore la forma più alta di soluzione di ogni conflitto. Ed infatti i due massimi comandamenti cristiani parlano di amore per Dio e, poi, per il prossimo, da amare al pari di se stessi.

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In consonanza con quanto affermato da Padre Laurence, mi è capitato oggi di rileggere la parabola detta dell’ “adultera”, che tutti conosciamo, e l’omelia che su di essa pronunciò Don Carlo Molari. Anch’egli, concordando con Laurence Freeman dice: Due sono le possibilità di fronte al peccato: il giudizio/punizione/condanna (che volevano attuare gli ebrei lapidando la donna secondo la legge ebraica del tempo), oppure il lassismo/permissivismo/ relativismo di oggi, che sostiene che tutto è possibile perché tutto è permesso e non ci sono regole. Né l’uno né l’altro atteggiamento è quello di Gesù, per il quale esiste una terza via, che è appunto quella dell’amore, che perdona e che offre misericordia, non per lassismo, o perché non ci siano regole, ma perché solo dall’amore il peccatore può trarre quella forza di vita che potrà rinnovarlo e salvarlo. Ed infatti Gesù non pretende nemmeno che la donna si penta, ma le dice: «Vai e non peccare più», con lo stesso atteggiamento di amore e di perdono che assume il padre nell’altrettanto famosa parabola del “figliol prodigo” e con lo stesso atteggiamento di accoglienza che dovremmo assumere tutti noi nei confronti dei nostri fratelli, poiché solo la forza dell’amore può portare a cambiamento positivo e a rinascita.

Spero che così sia stato anche per gli altri partecipanti, ma per me, come al solito, ascoltare Padre Laurence fu una nuova boccata di ossigeno, per questa sua visione dinamica, aperta, pluridimensionale della vita — e quindi della religione — che culmina poi sempre in un discorso di comprensione, di non giudizio e d’amore, con un messaggio che dovrebbe essere comune a tutte le religioni e a tutti i Maestri dello Spirito. È un’ottica che, non a caso, nel suo “volare alto” mi aiuta sempre anche a superare quel dualismo fra Buddhismo e Cristianesimo che, di fronte a lui, non ho infatti mai avvertito (come del resto in presenza dello shastri Daniele Bollini, caro maestro ed amico). Non ultima, mi accomuna a questo grande monaco anche la sua raffinata sensibilità per la musica classica. Come diplomata in pianoforte e appassionata di musica, ho ascoltato anch’io mille volte la 111 di Beethoven, ma mai l’avevo percepita o sentita descrivere con la forza e l’intuizione delle sue parole, che infatti ho voluto qui

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riportare. La spiritualità è un’entità variegata e indefinibile, fatta di tante cose altrettanto indefinibili, come, forse, la appena esaminata “via di mezzo” o come la altrettanto difficile strada dell’amore gratuito e incondizionato.

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4.3

Le Danze meditative dello Dzogchen

Posso purtroppo trasmettere molto poco, a parole, di questa esperienza. Fummo invitati ad assistervi dai nostri amici Buddhisti della Comunità Dzogchen di Roma. Posso dire che il significato di queste danze è quello di essere uno strumento per entrare in contatto — e quindi poter poi trasmettere — la natura divina che è dentro di noi, con la quale si può faticosamente arrivare a collegarsi. Per questo esse richiedono una lunga e costante pratica. A differenza della meditazione, che comporta l’assoluta immobilità del corpo — ad eccezione della cosiddetta “walking meditation” o meditazione camminata — qui il corpo è in movimento, ed è anzi, in questo caso, proprio l’armonioso movimento del corpo a favorire la concentrazione e a dissipare il “pensiero vagante”, aprendo la mente a livelli più profondi di conoscenza e di consapevolezza. Nel nostro caso, si trattava della “danza del Vajra”, insegnata agli inizi degli anni novanta dal Maestro Norbu (di cui ho già parlato), per integrare, attraverso gesti semplici ed armoniosi, al suono di una musica rilassante, l’energia fisica e mentale con la contemplazione. La danza viene praticata da varie persone di ambo i sessi su un Màndala, e cioè una raffigurazione dipinta a terra con vivaci colori, che sta ad indicare al tempo stesso l’individuo con i suoi vari chakra ed il suo ambiente, che può andare dal pianeta terra — in un Màndala relativamente piccolo — all’Universo, in uno più grande. Nel nostro caso, il Màndala era un brillante disegno a terra, formato da vari cerchi concentrici vivacemente colorati, e rappresentava la terra, circondata da un grande cerchio blu. Al centro c’era una candela accesa, ad indicare l’origine, la fonte originaria.

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Il nome della danza significa “liberazione dai sei spazi di Samantabhadra” (che è lo stato in cui viviamo) e quindi vuol rappresentare la liberazione dalla sofferenza. La danza era guidata dall’insegnante Margit Martinu, e, come facilmente intuibile, non può essere descritta a parole. Se ne traeva peraltro un senso di profonda armonia e di pace. I Buddisti non sono i soli ad usare la danza come strumento di meditazione. Anche i Sufi sono famosi per le loro cosiddette “danze rotanti” nelle quali il vorticoso movimento del corpo può creare un distacco totale dalla mente quotidiana, per dare spazio ad una connessione trascendente. Si tratta, del resto, di antichissimi rituali presenti anche in alcune tribù africane, secondo il concetto che l’apparente perdita della consapevolezza possa creare una via di contatto con il divino.

4.4

Incontro con il Tantrismo

L’incontro con il Tantrismo fu tenuto da Daniele Bollini, un professore Buddista del Canton Ticino, arrivato dalla Svizzera italiana apposta per noi. Avevamo avuto già modo di ammirare, l’anno precedente, la sua grande chiarezza, semplicità e coerenza espositiva, doti che aiutano tanto la comprensione di chi ascolta, specie quando ci si avvicina a dottrine ben poco note come questa. Il termine “tantra” — egli iniziò — appare come una delle parole più spesso soggette a malintesi nel contesto del buddismo himalayano. Letteralmente il vocabolo sanscrito significa “continuità”, ed indica un filo rosso ininterrotto che serpeggia nel profondo della nostra mente nevrotica, discorsiva, attanagliata da un costante bisogno di identificazione con un supposto Io molto meno solido di quanto tendiamo a pensare. Al di sotto di tale stato confuso risplende però una mente spaziosa, luminosa e compassionevole, sempre accessibile, indistruttibile ed adamantina. Da tale punto di vista, il tantra o vajrayana non è che il sentiero, dotato di una miriade di tecniche meditative per situazioni di vita diverse e variabili, che permette al praticante di riconnettersi a tale mente spaziosa, rilassata e piena di apprezzamento per ogni esperienza della quotidianità.

Il Prof. Bollini ha quindi puntualizzato che la sua sarebbe sta-

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ta «una conferenza più su ciò che il Tantra non è, rispetto a ciò che è», per i numerosi malintesi e fraintendimenti che forse hanno una radice storica nei contatti travagliati fra Oriente e Occidente e, in particolare, fra l’Occidente giudaico-cristiano e la tradizione Buddhista Himalayana (Tibet, Butan, Nepal) Al di là dei contatti sporadici precedenti, le prime interazioni significative fra queste tradizioni si ebbero a partire dal Colonialismo nel XVIII e XIX secolo. Si verificò probabilmente allora una proiezione dei paradigmi occidentali sulle tradizioni orientali. All’epoca, in Occidente la spiritualità aveva solo due possibili espressioni, e cioè monoteismo e politeismo e questi due paradigmi furono, ad esempio, proiettati sull’interpretazione dell’arte himalayana allora scoperta. Furono infatti scambiate figure simboleggianti aspetti, particolari e caratteristiche diverse della stessa divinità, per divinità differenti, ed il monoteismo himalayano fu frainteso come politeismo, con tendenza, a volte, ad un erotismo perverso. Purtroppo, per non comprensibili ragioni, i malintesi sono molto più duri a morire della sana e retta comprensione e anche tuttora, nelle nostre immagini popolari del buddhismo, ci sono malintesi e luoghi comuni riscontrabili perfino nei manuali di storia delle scuole medie. Hanno anche contribuito a queste interpretazioni falsate alcune traduzioni all’epoca effettuate in modo poco felice. Ad esempio, la prima traduzione del Libro Tibetano dei Morti; esso in realtà era intitolato La liberazione nel bardo attraverso l’udire, in sanscrito Bardo Thodol (bardo è il momento di transizione fra la morte e la successiva reincarnazione n.d.a.). La traduzione fu effettuata con l’aiuto di alcuni monaci che però appartenevano a tutt’altra tradizione buddista. Il testo fu poi studiato da Jung a proposito della sua definizione degli archetipi e divenne interessante molto più dal punto di vista occidentale, che per la comprensione del punto di vista orientale. In Svizzera — Bollini proseguì come altro esempio di questi malintesi — si effettuano corsi per bambini di disegno e colorazione del mandala, come se questa fosse un’attività trascendente spiritualmente potente: ovviamente per un bambino, senza una debita ed approfondita spiegazione e comprensione, disegnare un mandala può equivalere a colorare un pupazzo di Walt Disney! Ci sono anche molti equivoci sui termini sanscriti usati dalla tradizione buddhista, come ad esempio “karma” (che significa semplicemente azione-reazione, ovvero causa-effetto) e che sta ad indicare semplicemente che ad ogni causa corrisponde un effetto ed ad ogni

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azione una reazione. Il termine viene invece inteso come un credo dogmatico, come destino o anche come punizione, dovuta ad azioni negative di vite precedenti. Il termine “nirvana” da alcuni vocabolari viene tradotto con “estinzione”, come se si dovesse raggiungere l’illuminazione attraverso uno stato di perfetto vegetale in cui la nostra vitalità di esseri umani sia stata estinta! Anche per il Tantra è avvenuto tale fraintendimento ed esso viene inteso ora come una pratica vagamente mistica, vagamente sensuale e vagamente sessuale, dal misterioso fascino romantico. “Tantra”, come già accennato, è una parola sanscrita che significa “continuità”. Continuità di uno stato mentale che viene chiamato “la natura Vajra” (o indistruttibile).

Per tutti i fraintendimenti che gravano su tale parola, al termine Tantra Daniele Bollini preferisce il termine “Vajrayana” (vajra significa indistruttibilità e yana percorso o sentiero). Si tratta dell’indistruttibilità di uno stato mentale che corrisponde all’idea di Buddhità, cioè alla prospettiva nettamente ottimista che l’essere umano non sia affatto miserabile e sprofondato nel samsara, ma che sia già un Buddha, che però non sa di esserlo o che non ha la fiducia sufficiente per credere di esserlo. È uno stato mentale continuo e presente in ogni essere senziente, che si può oscurare — così come il sole può venire oscurato temporaneamente dalle nuvole — per effetto di emozioni conflittuali, aggressività, attaccamento, gelosie, nevrosi, che però non sono fondamentali come la natura Vajra da cui tutto si manifesta. Tutto si crea e si dissolve in questa natura fondamentale e, dissipate le nuvole, torna a splendere il sole. Il Tantra o Vajaryana è quindi il sentiero o percorso che ci riporta a questa nostra natura fondamentale, al di là dei limiti della nostra mente offuscata. Nel Buddhismo tibetano si distinguono differenti veicoli (o percorsi): il Piccolo Veicolo, in sanscrito Hinayana, (che lavora con la mente individuale per cercare di calmarla affinché, nella calma, possa riuscire a vedere se), il Grande Veicolo — o Mahayana — (che si propone di lavorare per il bene di tutti gli esseri senzienti). Il Vajrayana non ha una prospettiva diversa dal Mahayana, ma usa tecniche un po’ differenti, al fine di evidenziare questa continuità con la natura fondamentale e indistruttibile Vajra. Il Vajrayana (o Tantra) viene illustrato da un testo che significa “Il continuum supremo”, il cui autore è Asanga, sotto il patrocinio di Maitreya (che è il Buddha che deve ancora venire e che arriverà quando tutti gli insegnamenti Buddhisti spariranno).

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Asanga ha una storia tanto paradossale quanto significativa, perché rivelatrice del significato più profondo della pratica tantrica, e il Prof. Bollini ce la raccontò brevemente: Asanga effettuò un ritiro tradizionale di dodici anni in una caverna per meditare e ricercare questa nostra natura fondamentale che si chiama Tantra di Base o Vajra e che non è facilmente riconoscibile. Dopo circa tre anni, non essendo avvenuto nulla, decise di desistere, ma notò sulla roccia un nido in cui gli uccelli cercavano di modellare la roccia stessa con lo sfregamento delle loro ali. Pensò che se gli uccelli avevano questa pazienza e costanza, avrebbe dovuto averla anche lui, e tornò a meditare. Trascorsi altri tre anni, senza aver ottenuto nulla, uscì dalla caverna per rinunciare. Nella valle incontrò un uomo con pala e piccone che cercava di smantellare la montagna perché non oscurasse la sua casa in inverno privandola del sole: Asanga si disse di nuovo che avrebbe dovuto imitare la volontà costante di quell’uomo. Tornato a meditare per altri tre anni, ne riuscì deluso per la terza volta e a quel punto lungo la strada incontrò un uomo che stava strofinando una banda di ferro con un batuffolo di cotone, per ottenere un ago che gli serviva per rammendare i suoi calzoni. Di nuovo colpito dallo sforzo costante di quell’uomo per un fine così futile, decise che il suo era ben più degno di sforzo, e tornò a meditare ancora una volta. Non successe nulla. Uscito, lungo la strada del villaggio vide un cane con una ferita infetta piena di vermi. Impietosito, non si limitò solo a togliere via i vermi con la mano, ma, per non uccidere questi ultimi, perfino con la bocca. A quel punto, il cane si trasformò in Maitreya, lasciando Asanga non solo attonito ma anche sconcertato per il fatto che questa rivelazione fosse avvenuta solo ora, dopo la sua meditazione di dodici lunghi anni senza risultato. Alla sua costernazione, il Buddha rispose che era stato sempre presente, solo che lui non se ne era mai accorto. E se ne andarono via insieme, senza però che quasi nessuno riuscisse a vedere Maitreya, costantemente sul capo di Asanga. Si tratta quindi — continuò il Prof. Bollini — di riscoprire ciò che già siamo e che è già in noi: il Tantra di Base, che ha varie caratteristiche. Esso è uno stato della nostra mente vasto, aperto e spazioso, in grado di sanare la confusione e la sofferenza; ha inoltre una capacità brillante di chiara visione, intelligente, acuta e penetrante. Ma la sua qualità suprema è la compassione, la tenerezza e l’empatia, come il racconto di Asanga ha voluto sottolineare (egli infatti riesce a vedere il Buddha solo dopo aver compiuto un atto di grande compassione, anche se in realtà questi era sempre stato con lui).

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Il mistero dell’elefante Nell’insegnamento del Tantra di Base, e, successivamente nel Tantra del Sentiero, il discepolo viene istruito sull’esistenza di queste qualità e di queste capacità di cui siamo naturalmente dotati. Il paradosso, disse Daniele Bollini, è che dobbiamo imparare ad essere ciò che già siamo e a vedere ciò che è già dentro di noi. Ciò che caratterizza il Tantra è la ricchezza di tecniche che permettono al praticante di abituarsi a questo stato. Se la pratica dell’Hinayana è quella della Presenza Mentale — del calmare la mente attraverso un punto di riferimento che è normalmente il respiro — e se la pratica del Mahayana sviluppa la compassione, il Vajrayana accusa questi due veicoli di essere troppo lenti e di ottenere l’illuminazione in ere geologiche infinite. Il Vajrayana invece è dotato di pratiche più potenti e varie, per essere adattate ai vari praticanti. Per esempio pratiche che lavorano specificamente sul problema dell’attaccamento e della passione, o altre per l’ira e l’aggressività, o altre ancora per la pigrizia e la passività. Esistono anche differenti situazioni transitorie della nostra mente (sogno, paura della morte, orgasmo ecc.) e le pratiche tantriche hanno il potere di ricondurre la nostra mente alla natura Vajra fondamentale nelle diverse situazioni transitorie o permanenti in cui ci troviamo, (quando ad esempio siamo in un posto tranquillo o convulso, quando siamo innamorati o depressi, quando facciamo l’amore). Tutte queste differenti tecniche sembrerebbero accelerare i risultati della pratica. Molte di queste pratiche implicano un rituale che fa uso del corpo, della mente e della parola: ad esempio compiere dei gesti come se si fosse un buddha o emettere dei suoni (i mantra) cosicchè la mente, che non è abituata ad essere ciò che è, venga forzata a farlo. È un multitasking illuminato, che porta ad essere ciò che siamo In realtà è un qualcosa-afferma Daniele Bollini- di cui la nostra società avrebbe molto bisogno per superare tutte le sue nevrosi. Il risultato del Tantra è l’ottenimento di: Dharmakaya (che è l’esperienza e realizzazione della vastità della nostra mente), Sambhogakaya (che è l’esperienza e realizzazione della brillantezza, vivacità e intelligenza della nostra mente), e Nirmanakaya (che è l’esperienza e realizzazione della mente compassionevole). Come detto, tutte qualità già possedute, ma non coscientizzate precedentemente. Ciò però non esclude dei pericoli. Il Vajrayana viene definito il Tantra del risultato, del frutto e, se per capire la vera natura della mente devo agire come se fossi un Buddha, ciò può portare, invece che a scoprire la natura Vajra, ad orgoglio, ad egoismo, ad arroganza, a potenziare a dismisura l’Ego, il che è esattamente il contrario dello spirito vero di tale pratica.

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Quindi il Vajrayana non può mai essere una pratica iniziale, e deve venire alla fine, come il tetto di un palazzo, dopo aver costruito i primi piani (calmare la mente) e i più alti (usare la mente per il benessere degli altri). Si tratta di un veicolo estremamente rapido, che però può portare a dei rischi, ed è solo un maestro a poter giudicare il livello del discente e a capire se questi insegnamenti siano o meno adatti a lui. Presuppone una grande consapevolezza e preparazione e non si può assolutamente dare luogo ad improvvisazioni. Attenzione infine — ci ammonisce il Prof. Bollini — ai tanti ciarlatani che inquinano la genuina tradizione!

Sono seguite delle domande che qui sarebbe troppo lungo riportare. Nel corso di esse Daniele Bollini ha convenuto con un interlocutore che molti sentieri spirituali, se approfonditi, sono come sentieri diversi che portano alla stessa montagna. Ha parlato del dibattito fra Tantra Hinduista (che tende a vedere le deità come esterne) e Tantra Buddhista (che nega l’esistenza di alcunché di esterno) ed ha anche sottolineato come ogni sentiero e ogni credo possano diventare preda di subdole trappole. Ad esempio il Buddhismo, se insiste troppo sull’assenza di un io, può cadere in un approccio nichilista, come l’Hinduismo (e la sottoscritta vorrebbe aggiungere i credi teisti in genere) può cadere nella trappola di un teismo popolaresco, di una forma di deità esterna che ci deve venire in soccorso nelle difficoltà senza che noi facciamo niente per reagire, creando una passività poco responsabile. Dobbiamo sentire che la tradizione a cui apparteniamo è una tradizione genuina, ma, aggiunge Bollini, questo ce lo dice solo il nostro cuore, che in fondo lo sa percepire. Ha aggiunto poi una precisazione sul significato della compassione, che va intesa come sinonimo di calore, comunicazione ed empatia, senza alcuna sfumatura di atteggiamento paternalistico operato dall’alto verso il basso, nei confronti dei poveretti che non hanno raggiunto il nostro status. La compassione è un impulso innato, presente in tutti gli esseri senzienti — anche negli animali — che molte volte blocchiamo per difesa e per paura. Si tratta, ancora una volta, di rientrare in contatto con il Buddha che è in noi e cioè con la gentilezza, la generosità, e il calore innato che possediamo per natura.

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Il mistero dell’elefante

Come esempio della necessità della pratica e della durezza e faticosità del sentiero Tantrico, ci ha infine raccontato la storia di Milarepa, grande e veneratissimo maestro tibetano che si macchiò in gioventù di una serie di delitti. Incontrò il suo Guru Marpa che lo sottopose per lunghi anni a prove durissime di lavoro manuale (costruire delle torri che poi gli faceva regolarmente distruggere e riedificare in altro luogo o in altro modo) fino al punto da portarlo quasi al suicidio: solo allora si realizzò per lui l’illuminazione. Nessuno è escluso dal sentiero tantrico, ma esso può essere faticosissimo, proprio perché, per arrivare al nostro cuore, esso deve talvolta superare muraglie quasi invalicabili (n.b. per i Buddisti il cuore non è solo il centro degli affetti ma anche della mente). La conferenza si è conclusa con una breve meditazione guidata dallo stesso Prof. Bollini, il cui intervento fu apprezzatissimo da tutti gli astanti. Esso, ancora una volta, fece luce sul fatto che molti credi ci pervengono in modo del tutto deformato, attraverso stereotipi fuorvianti da abbattere attraverso una opportuna conoscenza. Si tratta certo di discipline complesse, che non possiamo sicuramente apprendere attraverso una conferenza o una breve relazione. Ed è proprio per questa complessità e differenza dalla nostra mentalità e tradizione che ho potuto riassumere questa conferenza molto meno succintamente di tante altre. Ma, come ho più volte sostenuto, anche questi inadeguati input possono dare spunto ad eventuali ulteriori approfondimenti, se sentiamo che l’argomento ci stimola e ci interessa. Quanto alla sottoscritta, so ormai da svariato tempo che queste tecniche, sicuramente più incisive e veloci di quelle che ho fin qui praticate — anche nel campo del Buddhismo — esistono e sarebbero da scoprire e provare. Devo dire che però sono abbastanza restia ad avvicinarmi a strumenti troppo drastici, forse perché, dopotutto, sono un po’ paurosa di natura e tendo ad apprezzare il detto popolare: «Chi va piano va sano e va lontano», pur non volendo mai arrivare all’opposto, perché: «Chi dorme non piglia pesci»! La famosa Via di Mezzo di cui ci parlava Padre Laurence? Comunque sia, il mio “felt sense” mi invita a tempi più lunghi ma, forse, più sicuri. Peccato solo che la vita sia breve e che io, in questo campo, abbia iniziato molto molto tardi!

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L’incontro con il Sufismo

E veniamo ora ad uno degli incontri più turbolenti, che fu quello con un maestro Sufi, Hermann Burhanuddin, di origine tedesca. Il Sufismo, come molti già sapranno, è una corrente mistica dell’Islam, avversata e perseguitata dagli islamici ortodossi. Essa crede in un Dio inconoscibile, indescrivibile, illimitato, al di fuori di qualunque comprensione umana e di qualunque tentativo di definizione (non molto diversamente dalla corrente mistico-apofatica cristiana) Per il Sufismo quindi ci si può avvicinare all’Assoluto solo attraverso pratiche meditative quali lo Dhkr (o ripetizione costante di uno o più nomi divini) o le famose “danze rotanti” (una forma particolare di meditazione in movimento, che, con le dovute differenze, può ricordarci il principio su cui si basano anche le Danze Dzogchen, a cui abbiamo assistito). Per i Sufi (che sono stati e sono tuttora in aperta polemica con il fondamentalismo islamico) l’unica grande vera Jihad che l’uomo è tenuto a fare, è quella nei confronti del proprio ego, che gli impedisce di arrendersi a Dio. “Islam” infatti vuol dire proprio “obbedienza, resa”. Per il Sufismo Dio non si deve credere: si deve amare, e questo va fatto non solo attraverso la meditazione, ma nel modo in cui si vive nel mondo ““essere nel mondo senza esservi”, sapendo cioè cosa cercare, a cosa partecipare e cosa invece rifiutare o lasciarsi dietro le spalle. Queste le premesse che avevo inviato, via mail, ai partecipanti del gruppo, e questo, in sostanza, ciò che speravo sarebbe stato illustrato, in modo ben più ampio e significativo, dal relatore. In realtà non si trattò tanto di un “Incontro con il Sufismo”, quanto di un “Incontro con il Maestro Burhanuddin” perché, come del resto lui stesso ha detto, di tutto si è parlato meno che di Sufismo. Siamo rimasti tutti piuttosto sconcertati sia dal fatto che ciascuno di noi si aspettava appunto una spiegazione di quali siano, pur a grandi linee, le caratteristiche di questo credo(cosa che non avvenne affatto), sia dal tema affrontato dal Maestro Burhanuddin, con toni lugubri e quasi apocalittici. Egli ci offrì, spiegandoci poi anche il perché, una visione assolutamente sconvolgente del mondo in cui stiamo vivendo, inquinato, avvelenato e distrutto da violenza, disonestà, ingiustizia, falsità,

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Il mistero dell’elefante

utilitarismo e materialismo, fattori che stanno portando alla rovina più completa del pianeta e dei suoi abitanti. Ci parlò anche della profezia di Einstein, il quale predisse che entro pochi anni le api sarebbero morte e, che, da quel momento, sarebbero passati soli quattro anni dalla distruzione totale: e, in effetti, le api stanno morendo. Rimanemmo tutti dapprima scioccati da questo intervento che sembrava un misto fra le invettive di un moderno Savonarola e le predizioni catastrofiche di una contemporanea Cassandra. Qualcuno cercò di esternare il generale sconcerto ed anche la delusione di vederci fatti segno a messaggi solo negativi, come se non ci fossero vie d’uscita, quando invece da parte di una religione ci si aspetta — come puntualizzò Lavinia Oddi Baglioni — anche e soprattutto un messaggio di speranza e di fiducia. Il Maestro rispose che: «visti i tempi, l’unico messaggio che si sentiva di inviarci era quello di guardare la realtà, di rendercene ben conto e di svegliarci per combatterla». Attesi qualche giorno per formulare un resoconto di questo incontro, proprio per lasciare che le emozioni iniziali si sedimentassero e potessi dare una relazione più obiettiva dei fatti. Sicuramente penso che il quadro offertoci dal Maestro non sia purtroppo lontano dalla realtà, e credo nella sua assoluta autenticità nel sottoporcelo, al fine di prendere atto di un qualcosa che oggi mette a repentaglio sia la nostra sicurezza, sia il futuro dei nostri figli e nipoti. Non mi sembrava però quello il modo migliore per “svegliarci”. So anche che i Maestri Sufi sono estemporanei, non amano la teoria ma la libertà dell’esperienza nella sua immediatezza, ma mi restava il rammarico — anche per i partecipanti — di non aver ascoltato nulla del Sufismo, un credo che mi aveva tanto affascinato, anche attraverso la lettura di libri scritti da questo stesso relatore. Il caso ha voluto che il giorno seguente io abbia partecipato ad un seminario Buddhista Shambhala, ed il mio occhio cadde proprio su alcune frasi del testo, intitolato Scintilla di Fiducia che ci era stato dato, frasi che sembravano fatte apposta per avvalorare la mia tesi e ciò che avevo provato. Dicevano: Naturalmente ci sono vari modi per svegliare gli altri: bussare alla loro

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4. Gli incontri del secondo anno

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porta, gridare, versare addosso acqua fredda, martellare la loro testa, cercare di dominarli in modo oppressivo; ci sono un sacco di modi per svegliare la gente... Shambala non agirebbe mai in tal modo. Se qualcuno si esaspera, si accanisce di fronte agli spettatori e si fa in quattro per convincere la gente, se il pubblico è abbastanza ingenuo potrebbe funzionare. È stato fatto in passato. Alcuni lo sanno fare con successo... ma la logica di povertà non tiene... l’idea è di scoprire da sé che ci sono sempre molte risorse in sé stessi: risvegliamoli in tal modo. L’idea di fiducia viene dal nulla. Semplicemente sorge. Semplicemente emerge. È un lampo improvviso dotato di un carattere salutare... Ma la gente non sarà ispirata se avete la mano pesante.

Come già più volte esplicitato, amo molto gli insegnamenti Shambala, perché li sento in piena consonanza con la mia professione di psicoterapeuta rogersiana (a proposito, inutile dire che anche per gli psicologi il Maestro Burhanuddin manifestò profonda sfiducia e disistima e, in sala, eravamo in molti!). Posso affermare che, per la mia ormai lunga esperienza, ho verificato che le persone non si aiutano né giudicandole, né spaventandole, ma creando intorno a loro un clima di fiducia e di non giudizio che permetta loro di venir fuori con la loro autenticità, i loro problemi ma anche con le loro risorse profonde per combatterli. Ma poi mi sono chiesta: eppure il Maestro Burhanuddin, nei suoi splendidi libri, è altamente capace di tutto ciò. Perché non l’ha fatto? E allora mi sono andata a rivedere alcuni passi del suo libro Il Cammello sul Tetto ed ho letto “La prova”: Lo Sheik ti ama, e per amore ti mette alla prova. Come fa? Ti manda persone che ti fanno arrabbiare, oppure ti espone a degli imprevisti. E poi ti osserva. Come si comporta il mio figliolo? È intrappolato oppure è in grado di vedersi, di afferrare la sua rabbia, prima che questa afferri lui?

E ancora: Quando scegli l’amore vivi in opposizione alla società, ed è per questo che molti di coloro che hanno scelto la via dell’amore sono stati assassinati... Eppure non è possibile fermarli, perché sono messaggeri di un grande potere che si chiama amore. Se sei in armonia con quel potere, che va insieme all’altro potere, la verità, sei come una spada e nessuno può arrestare il tuo cammino.

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A questo punto mi sono posta una domanda: forse il giorno 6 febbraio non abbiamo ricevuto la teoria, ma una pratica diretta del Sufismo, e forse il messaggio, che sembrava essere provocatorio, era in realtà un messaggio d’amore... nella forma criptica e certo non semplice per noi da afferrare, che è quella di un Maestro Sufi! E forse ha recepito tutto questo solo quell’unico orecchio- Raffaeleche, al termine del discorso, è stato il solo a ringraziare il Maestro per ciò che aveva detto... (fra lo stupore generale e anche la reazione di aperta disapprovazione di qualcuno che se ne era andato mentre egli ancora parlava, e non so dargli un gran torto!) Del resto queste modalità apparentemente dure ed aggressive sono tipiche di tante scuole orientali, come, ad esempio, anche quella del Buddhismo Zen, che sottopone a volte i suoi discepoli a pratiche che possono sembrare anche “crudeli” (come mi è stato a volte riferito da testimoni diretti) Si tratta di scegliere. Personalmente, sono tecniche che non mi piacciono, anche se esistono in tutte le discipline, compresa la psicologia, che, in alcune sue correnti molto diverse da quella rogersiana a cui appartengo, fanno uso di strategie molto drastiche ed invasive, come ad esempio la “prescrizione del sintomo” che invita il paziente ad assumersi la responsabilità di adottare fino in fondo quel comportamento distruttivo che l’ha portato in terapia («Vuoi ammazzarti? Eccoti la pistola!») Metodi rischiosi e drastici che a volte possono essere forse gli unici a scuotere menti troppo confuse, ma da cui la mia personalità peraltro rifugge categoricamente, non solo con spavento, ma anche con un certo orrore. È verissimo che empatia significa mettersi nei panni dell’altro e capire ciò di cui ha bisogno (e può avere bisogno talvolta anche di misure drastiche). Lo stesso Gesù non fu molto tenero con i mercanti del Tempio che deturpavano il luogo santo con i loro traffici, né con i Farisei che inquinavano la fede con le loro ipocrisie. Ma se vediamo l’intero corso della sua predicazione, sono episodi del tutto eccezionali, riservati alle pochissime persone che disprezzava e voleva condannare anche come esempio di fronte agli altri. Di fronte alla sofferenza di tutti, invece, si servì sempre dell’amore, per guarirli, per risanarli nel corpo e nella mente, senza usare mai la minima violenza o prevaricazione, ma, al contrario, la comprensione che uno spirito sensibile prova verso chi soffre. E, ancora una volta, i miei modelli rogersiano, cristiano e sham-

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baliano, mi fecero risentire tutta la loro validità e, soprattutto, consonanza con il mio modo di essere e di pensare. Pur tuttavia, continuai — e continuo tuttora — a pensare che, a parte l’exploit per me poco felice del maestro Burhanuddin, anche dalla fonte Sufi si possano trarre validissimi insegnamenti, e mi andai a rileggere con grande interesse dei brani molto significativi, tratti proprio da due bellissimi libri dello stesso Burhanuddin, intitolati Il Cammello sul Tetto e Il derviscio napoletano, che vi consiglio di leggere. A titolo di esempio, vorrei riportarvi qui alcuni passi tratti da Il Cammello sul Tetto: Il Primo Sufi C’era una volta un angelo, che, avendo ascoltato innumerevoli racconti sulla bellezza dell’uomo, divenne curioso di vederlo nella realtà. Chiese il permesso divino e gli fu concesso di visitare il nostro pianeta per un giorno. Rimase affascinato dalla bellezza dei colori e delle forme della natura, degli animali, ma quando vide l’uomo, se ne innamorò perdutamente. Prima di tornare in cielo, decise di aiutarlo. Si guardò in giro e vide un gruppetto di quattro individui spirituali. Gli angeli, come sapete, sono dotati di grandi poteri, sono i maestri della forma e possono modellare la nostra anima e il nostro aspetto esteriore. Si avvicinò al gruppetto e disse: «Concederò un desiderio a ognuno di voi». Poi, rivolgendosi al primo: «Qual è il tuo?» «Ho lottato tutta la vita, senza sosta, per la verità. Ora concedimi la pace.» E l’angelo rispose: «Ma quella lotta non è stata una delle tue ragioni di vita?» «No, no» soggiunse «voglio la pace». «Come vuoi», disse allora l’angelo, e l’uomo si ritrovò trasformato in una mucca. Il sì in preghiera Islam significa “arrendersi”, “accettare”. L’inchinarsi ne è l’esercizio e noi lo facciamo almeno cinque volte al giorno. La preghiera esprime questo “sì” in movimento. La prostrazione è la posizione più intima e la più vicina a Dio, nella quale devi porre la mente in basso e il cuore in alto. Allo stesso modo sei venuto al mondo, i neonati escono così dal ventre materno. La forma islamica è la più bella per me perché ti riporta all’origine.

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Il mistero dell’elefante Ogni volta che assumi questa posizione sentirai la connessione, in qualunque momento, in qualunque luogo ti trovi.

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Non puoi cambiare la realtà Tutto ciò che accade semplicemente è. Come puoi dirgli “no”? Per questo sei incapace di vivere: continui a negare l’esistente, e, così facendo, logori te stesso. Perdi l’aereo e dici «No!» L’esistente, il presente, la realtà non possono causarti ansia. Succede solo quando si scontrano con le tue fantasie. Non sei in grado di cambiare la realtà, non riuscirai mai a riportare indietro quell’aereo. Devi solo rilassarti. Ma tu fai l’opposto: ti innervosisci, cerchi di forzare tutto e tutti a mutare il corso degli eventi per te. Questa è follia. Perché ti senti separato Spesso mi rivolgono questa domanda: «Perché è così difficile raggiungere il divino? Perché mi sento così lontano, separato, se, come dici sempre, noi tutti siamo Dio?» Esiste soltanto un’Anima, eppure tutti noi, che ne facciamo parte, ci percepiamo come unità separate. Questo perché la verità è un raggio del medesimo sole, che brilla attraverso un diamante e si divide in una moltitudine di raggi. Tu sei uno di questi raggi. Ogni raggio pensa di essere un singolo, un individuo, ma quando ritorna alla fonte, scopre che la sua vera natura è nel sole. A quel punto, la consapevolezza si espande. La vita consiste nel muoversi all’interno del raggio riportando la consapevolezza dall’estremità alla fonte. Ciò che è, ciò che non è Il cuore è sempre felice perché guarda solo a “ciò che è”. La realtà è sempre in pace: è amore, bellezza, perfezione. L’esistente non ha opposto: è l’Assoluto. L’ego invece si lamenta sempre perché guarda solo a “ciò che non è”, che è doloroso e non da mai pace. «Mia moglie non è come la vorrei», «Non ho un lavoro» oppure «Voglio qualcosa di meglio che ora non c’è». Qualunque possa essere il problema, esiste solo “ciò che non è”. Ma il “ciò che non è” è soltanto un’illusione, una fantasia che insegui ogni giorno. Questa è follia, perché non puoi ottenere l’inesistente. Qui risiede la tua sofferenza, la tua continua lotta.

Malgrado tutto, grazie al Maestro Burhanuddin e, soprattutto, alla saggezza dei dervisci, con — primo fra tutti — il loro grande Maestro Rumi.

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La meditazione Yoga

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L’incontro sulla meditazione Yoga fu tenuto dal Prof. Giorgio Furlan. Egli, innanzi tutto, ci ha ricordato le caratteristiche prettamente spirituali di questa filosofia indiana, che risale a circa 5000 anni fa, e che mira ad uno sviluppo interiore dell’essere umano, attraverso varie tecniche e varie modalità. Essa si propone infatti di risvegliare e potenziare le qualità, in grandissima parte sopite e non sfruttate, del nostro organismo, costituito, secondo lo Yoga, da tre corpi principali: il corpo fisico, il corpo energetico (con i suoi centri energetici o chakra ed i suoi canali energetici) e il corpo mentale. La nostra mente, ad esempio, viene sfruttata per una percentuale bassissima, quasi irrisoria, rispetto alle sue reali potenzialità, percentuale che la scienza stessa dice aggirantesi fra il 2 e il 3 per cento, mentre lo Yoga parla addirittura di un 1,5 per cento. La differenza sta nel fatto che per corpo mentale lo Yoga non intende solo il nostro cervello, ma l’insieme di energie mentali scaturenti anche dagli altri due corpi. In ogni caso, anche la scienza oggi è d’accordo nel sostenere che il 98% circa delle nostre qualità mentali non viene sfruttato (pare che lo stesso Einstein non ne mettesse in atto più del 18-20%!). Ciò comporta evidentemente l’esigenza di portare avanti questo processo di evoluzione dell’essere umano (che è poi lo stesso che portò lo scimpanzé a trasformarsi in homo erectus e poi in homo sapiens e sapienssapiens fino ad oggi), mettendo a frutto le sue qualità “addormentate”, che vanno risvegliate. Su questa scarsissima utilizzazione delle nostre risorse naturali giocano vari fattori Uno è lo spreco di molte energie, impiegate nella necessità di depurare il nostro organismo dalle molte tossine presenti nell’organismo stesso: quelle ingerite attraverso un’alimentazione sbagliata o quelle create da squilibri interiori. Gli squilibri interiori possono essere, ad esempio, una scarsa armonia fra gli elementi opposti del Tao (lo Yin e lo Yang che presiedono l’uno alla passività e l’ altro al movimento), dando luogo ad un eccesso di iperattività o, al contrario, di passività, oppure come vedremo, possono essere collegati ad interferenze dannose da parte dell’inconscio. Sono quindi necessarie innanzi tutto tecniche di disintossicazione e di purificazione, che permettano alle nostre energie di poter agire a beneficio del nostro sviluppo e della nostra evoluzione positiva, invece che allo scopo di disintossicarci.

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Il mistero dell’elefante

Il Prof. Furlan ci ha parlato dell’importanza di una alimentazione vegetariana, poiché, mentre la carne — proveniente da animali morti — è pregna di tossine di vario tipo che noi poi ingeriamo, gli alimenti vegetali — come ad esempio un fagiolo, una lenticchia o un chicco di grano — sono dei semi vivi (da cui infatti nascerebbero nuove piante e nuove forme di vita), e sono quindi portatori di energie vive e benefiche. Ci ha parlato poi di quanto una mancata armonia interiore fra Yin e Yang possa produrre delle patologie e quindi diminuire l’energia vitale, fino a farla scomparire con la morte delle cellule. Recenti scoperte scientifiche in America ed in Francia hanno dimostrato l’influenza di un’armonia interiore e di una mente calma e serena (quale può essere prodotta dalla meditazione) anche sul DNA, scoprendo che i benefici della meditazione possono agire anche su malattie congenite, oltre che sul benessere della persona sana. Il Prof. Furlan sostiene quindi che sarebbe necessario unire sempre alle terapie mediche corporee anche terapie mentali, per potenziare le nostre energie interiori atte a debellare la patologia. Lo Yoga afferma che “la mente può farci sani o malati”. Un influsso molto dannoso può essere anche il predominio dell’inconscio, che ha sede nella materia sub-corticale, è il depositario delle nostre esperienze vissute e la fonte principale delle nostre paure, ansie e sofferenze: esso deve riuscire ad essere convogliato nella mente conscia (che ha sede nella corteccia cerebrale) per garantirci una vera serenità interiore. Come si vede, lo Yoga ha intuito secoli e secoli prima ciò che hanno scoperto, poco più di due secoli fa, i nostri grandi psicologi, da Freud, a Jung ad Adler. Si dice che gli Spiriti Illuminati (come ad esempio Buddha) siano stati tali proprio in quanto la loro mente inconscia era completamente trasformata in mente conscia, consentendo loro una visione totalmente purificata e lungimirante della realtà. Il Prof. Furlan ci ha poi ricordato quanto la nostra civiltà occidentale — tutta volta ad uno sviluppo tecnologico e scientifico “esteriore” — e cioè proiettato all’esterno del sé- abbia da imparare dalle antichissime culture orientali, che hanno sempre teso invece a potenziare lo sviluppo interiore. Le sue parole mi hanno ricordato quella riflessione di Osho secondo cui, mentre l’oriente ha prevalentemente sviluppato la “par-

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4. Gli incontri del secondo anno

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te femminile” (o Yin) e cioè la spiritualità, l’introspezione, la sensibilità, la passività, il mondo occidentale ha prediletto lo Yang o parte maschile (l’attività, la forza, la razionalità): finchè ciascuna di queste civiltà non si sarà integrata anche con l’altra parte trascurata, non ci sarà vera armonia e quindi vero benessere né in ciascuna di esse né nel mondo. I Veda — Furlan continuò — gli antichissimi testi che pare siano frutto di quel poco che rimane di una civiltà precedente — evolutissima ma scomparsa — contengono intuizioni a livello psicologico, medico, astronomico, che solo moltissimi secoli dopo la nostra scienza è riuscita ad identificare e convalidare (come ad esempio che la terra giri intorno al sole e non viceversa, o come la scoperta dell’inconscio). Questa visione illuminata è appunto il portato di uno sviluppo interiore che non si basa solo sui 5 sensi o sulla ragione, ma su un’evoluzione mentale e supermentale che consente fortissime capacità intuitive, che l’occidente ignora. Tale potenziale peraltro esiste, benché addormentato, entro ciascuno di noi e sta a noi, quindi, il compito di risvegliarlo e di educare le nuove generazioni a farlo.

L’intervento del Prof. Furlan ha ribadito, sotto nuova forma, l’importanza di un approccio spirituale che miri allo sviluppo interiore dell’individuo, fattore questo importantissimo nel tipo di civiltà in cui viviamo, tutto teso a conquiste di mete esteriori e materialistiche e finalità a cui mirano, in varia forma e con diverse modalità, tutti gli approcci e le correnti spirituali che abbiamo fin qui brevemente esaminato. Furlan ha altresì ribadito l’importanza della meditazione, come strumento di superamento dei nostri limiti razionali e sensoriali. In questo caso, l’interesse è stato centrato non tanto sul trascendente — anche se esistono sentieri dello Yoga che si focalizzano proprio sull’importanza del collegamento della nostra energia di esseri umani con l’energia universale di cui siamo parte — quanto sulle capacità di una mente calma e serena e di un’armonia interiore, al fine di potenziare le nostre energie vitali, le nostre capacità di benessere fisico e psicologico e le nostre facoltà mentali e super-mentali. Credo peraltro che da questo incontro — oltre alle informazioni e agli stimoli concreti che se ne possono dedurre — possiamo anche ricavare una possibile riflessione su una realtà che abbiamo

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Il mistero dell’elefante

già più volte sottolineato, e cioè che, non di rado, esiste una falsa conoscenza delle varie discipline, condizionata dalle informazioni distorte che ce ne impediscono una reale comprensione. Ciò avviene soprattutto nel caso di insegnamenti di origine lontana, come quelli orientali, importati ma poi filtrati dalla nostra cultura occidentale sulla base di schemi totalmente diversi. Il Prof. Furlan ci riferiva, a conferma, di aver visto sorgere centri di Yoga dove si insegna un improbabile Punching Yoga, una forma di box totalmente assurda e deviante, laddove si pensi che uno dei principi fondamentali dello Yoga è proprio la non competitività e la non violenza. Del resto abbiamo tutti esperienza di palestre nelle quali lo Yoga è presentato — spesso da persone del tutto inadeguate — come una forma particolare di ginnastica, e deprivato quindi completamente dei suoi ben più profondi significati. Ben vengano, a questo punto, dei relatori qualificati, che possano ricondurci ad una conoscenza più genuina di tali antichissime forme di saggezza e di sviluppo spirituale, permettendoci di assaporarle nella loro vera essenza (sia pure con così brevi e sintetici interventi). E ben vengano anche altre possibili fonti di informazione, come ad esempio un bellissimo documentario, comparso di recente inaspettatamente e purtroppo fugacemente, in alcune sale cinematografiche romane, intitolato Il sentiero della felicità, che descrive, con fotogrammi autentici, la vita e il pensiero di Paramahansa Yogananda, il primo Yogi che portò la meditazione yoga negli USA degli anni ’20. Egli, fervente ammiratore di Gahndi — ma anche degli insegnamenti di Gesù Cristo — è autore di un libro che ebbe molto successo nei paesi anglofoni e che è stato tradotto in italiano con il titolo di Autobiografia di uno Yogi: vi consiglio di leggerlo, se interessati ad approfondire l’argomento.

4.7

L’incontro con l’Hinduismo

Nell’aprile 2009 organizzai anche un incontro su questa antichissima religione, che non poteva mancare all’appello, ma che certo sarebbe degna di ben altro spazio. Come sempre dobbiamo accontentarci di piccoli flash! Il nostro relatore fu il Prof. Riccardo Garbini, il quale ci fornì

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4. Gli incontri del secondo anno

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importanti spiegazioni, che qui sommariamente riporto. L’Hinduismo o Brahmanesimo, trae le sue origini dalla più antica disciplina metafisica di cui si abbia una conoscenza completa e precisa basata su fonti scritte, e cioè dai Veda: il più antico, il Rig Veda, risale al 1200 a.C. I Veda sono testi spesso molto oscuri che trattano specialmente delle tecniche degli antichi riti sacrificali, ma che contengono anche brani di una bellezza e di una attualità sorprendenti, come tutto ciò che riesce a raggiungere valore universale e che sembra incontaminato dal tempo trascorso dalla sua comparsa. Le molto più recenti Upanishad (che risalgono al I secolo a.C.) sono invece maggiormente rivolte all’essenza di questa religione, trattano anche della meditazione e costituiscono una lettura per noi più densa di significato. Il compendio di tutta la dottrina vedica, dei Brahmana e delle Upanishad, è costituito dalle Bhagavad Gita, opera in diciotto capitoli tuttora studiata in ogni parte dell’India, recitata a memoria da milioni di hindù di ogni culto, in quanto fulcro dell’intera spiritualità induista. L’hinduismo non è né panteista né politeista, e venera un’Identità Suprema che è il Sé Universale di tutte le cose, animate e non animate, un Uno inestinguibile che si manifesta in una molteplicità di forme in perenne divenire, e che si presta a tutte le possibili modalità di esistenza. I vari nomi (Brahma, Rudra,Vishnu...) non sono che personificazioni simboliche di questa Unità e nomi degli atti divini. Il più elevato di tutti i nomi e le forme di Dio è la sillaba Om, che totalizza ogni suono ed è “la musica stessa delle sfere celesti, cantata dal sole risonante”: è la sillaba che nella meditazione ricollega all’unità dell’universo.

I testi hindù sono ricchi di una saggezza che sorprende, e che spesso anticipa le intuizioni e le dottrine di religioni molto più recenti, Cristianesimo compreso. Nell’impossibilità di approfondire l’argomento, penso utile riportare qui dei piccoli brani, tratti dall’insegnamento di vari maestri hindù, che penso possano dare un’idea di questa profondità e dell’assoluta attualità di questa disciplina. Il primo ci esorta a non dipendere nelle nostre credenze dalla limitatezza dei nostri cinque sensi e così si esprime: Il fuoco non si può vedere fino a che un bastoncino non viene sfregato contro un altro benché il fuoco sia sempre lì, nascosto nel bastoncino.

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Il mistero dell’elefante

Così il Signore rimane nascosto nel corpo Fino a che rivelato dal mistico mantra. Shvetashvatara Upanishad

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Il secondo riguarda i pericoli e la necessità di superamento dell’ego, ed è tratto dagli antichi insegnamenti diffusi ad opera di un mistico indiano del XIX secolo, Ramakrishna, il quale ebbe il grande merito di essere fra i primi a far conoscere all’occidente questa antica saggezza. Così recita: Un discepolo aveva nel suo guru una fede così grande che attraversava il fiume camminando sull’acqua, semplicemente ripetendo il suo nome. Il guru, quando vide con i suoi occhi questo fatto, si disse: «Che io sia proprio così grande e così potente che il solo fatto di pronunciare il mio nome possa avere un simile potere?» Il giorno dopo si avventurò sul fiume ripetendo continuamente: «Io, io, io!», ma sprofondò nell’acqua ed annegò perché il disgraziato non sapeva nemmeno nuotare. Ramakrishna

Il terzo brano è ancora di Ramakrishna, che ferventemente sosteneva il rispetto per le verità — e le religioni — altrui. Ramakrishna racconta la storia di quell’elefante che ho riprodotto sulla copertina del libro e che ha dato il titolo a questo scritto, e che ora voglio riportare nei suoi termini letterali: Una volta alcuni ciechi, mentre se ne stavano andando per la loro strada, si accorsero di aver incontrato una gigantesca creatura. Uno di loro chiese ad un passante di che si trattasse: quello rispose che era l’elefante del tempio e proseguì il suo cammino. Uno dei ciechi disse ai suoi compagni: «Su, vediamo un po’ com’è un elefante!» Uno gli toccò una zampa e disse: «Un elefante è come una colonna.» Un altro palpò un orecchio e gridò: «No, no, un elefante assomiglia ad un grosso ventaglio» «Che stupidi siete» strillò un terzo che aveva toccato la coda. «È come un serpente.» Infine il quarto cieco, che aveva palpato il ventre disse forte: «Siete tutti in errore, un elefante assomiglia ad un grosso tamburo»

Infine vi trascrivo una parte di un brano tratto dal Mahabharata. Pone la domanda di chi siano gli uomini che “vanno al cielo” (che altri potrebbero chiamare gli illuminati o gli eletti o i santi, quelli

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4. Gli incontri del secondo anno

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che, comunque, hanno terminato il loro processo di crescita e di purificazione) e dà questa risposta: Coloro che, nella solitudine della foresta, hanno completamente rinunciato anche a vivere delle offerte altrui e non recano danno ad altri neppure col pensiero sono uomini che vanno al cielo. Coloro che non desiderano mai i beni degli altri sia che si trovino in un villaggio o in una casa o in un luogo solitario, sono uomini che vanno al cielo. Allo stesso modo coloro che non offendono neppure col pensiero le donne degli altri quand’anche le raggiungano in un luogo appartato inclini alla passione, sono uomini che vanno al cielo. Coloro che costantemente e con atteggiamento amichevole trattano allo stesso modo il nemico e l’amico, sono uomini che vanno al cielo. Coloro che sono saggi, caritatevoli virtuosi, veraci contenti di quello che hanno sono uomini che vanno al cielo Credo che, a proposito di denominatori comuni fra le varie religioni, perfino da questi brevissimi flash si riesca a cogliere, ad esempio, la singolare coincidenza fra Hinduismo, Sufismo, Buddismo ed anche Cristianesimo su alcuni concetti fondamentali, comuni a tutte queste religioni, come ad esempio la lode dell’umiltà, della non violenza, del rispetto (anche per le donne), dell’autenticità, della carità (come ben descritto da quest’ultimo brano). Altro concetto fondamentale, per tutte queste religioni, è la necessità di superamento dell’ego,(vedi il 2° brano) per raggiungere quella che, con vari termini, viene definita Illuminazione, Beatitudine nel raggiungimento di Dio, identificazione con Atman, conquista della Verità Assoluta o scoperta del proprio vero Sé. Ciò, malgrado si siano a volte verificate anche aperte conflittualità fra questi credi, come ad esempio fra Hinduismo e Buddhismo.

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Il mistero dell’elefante

Penso che a voi, come alla sottoscritta, la lettura del 2° brano abbia portato ad una immediata associazione mentale fra questo passaggio, in cui il discepolo attraversa il fiume, solo pronunciando il nome del Maestro, e la famosa parabola di Pietro che, guardando negli occhi Gesù, riesce a camminare sulle acque. Il fattore comune è la fede (fiducia assoluta) necessaria per il superamento dei propri limiti terreni, concetto evidentemente fondamentale per entrambe queste religioni (e non solo). Ciò che invece fa affogare è l’ipertrofia dell’io, e cioè l’orgoglio e la presunzione di bastare totalmente a se stessi, come accaduto allo stesso maestro del racconto (non certo a Gesù!). Prezioso insegnamento di alcuni credi orientali — quali appunto l’Hinduismo, il Buddhismo ed il Sufismo — è una meravigliosa consapevolezza della relatività dell’umana percezione e, quindi, della relatività della verità terrena, (qui ben rappresentata dall’aneddoto dell’elefante). Lo stesso Gesù del resto disse ai discepoli che c’erano molte altre cose che avrebbe potuto dire loro, ma che non le avrebbero capite. La realtà è che ciascuno di noi vede, come nel caso dei ciechi con l’elefante, solo verità parziali, distorte e limitate dalla nostra inevitabile ristrettezza di orizzonti mentali, purtroppo tipici della condizione umana. Come i poveri ciechi della piccola storia, peraltro, ci basta un piccolo contatto con uno sprazzo di verità parziale, per pensare di essere divenuti gli unici depositari della verità assoluta e di avere quindi titolo a controbattere e contestare la ugualmente limitata e povera percezione altrui. Sono convinta che, se queste varie esperienze interreligiose avessero solo contribuito a smussare queste rigide tendenze assolutistiche e dogmatiche — che troppo spesso compaiono in ciascuno di noi, perfino ad onta del nostro raziocinio e comune buon senso — già questo potrebbe considerarsi un notevole risultato raggiunto da tali iniziative, perché è su questo presupposto infatti che si basa l’accettazione dell’altro. È più che evidente come un orientamento di umile rispetto per le verità e le convinzioni altrui si riveli fondamentale al giorno d’oggi in una società multietnica come la nostra, nella quale, senza il superamento di tanti miopi e presuntuosi integralismi sia politici che religiosi, sarà impossibile una qualunque forma di pacifica convivenza.

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Incontro con la Fede Bahai

Proprio in relazione a quanto appena detto, direi che la stagione degli incontri del 2° anno non avrebbe potuto concludersi meglio, con l’intervento del Prof. Guido Morisco, convinto seguace della Fede Bahai e brillante e coinvolgente relatore. Il Prof. Morisco infatti, al di là di un necessario quadro storico — di cui farò breve menzione — ci regalò una visione aperta, anticonflittuale e serena del rapporto fra le varie religioni, che coincise pienamente con una delle mete dei nostri incontri. Cogliemmo tutti, io credo, la positività delle parole di questo relatore, che ci illustrava la sua visione armoniosa e serena secondo la quale le religioni non sarebbero altro che messaggi successivi inviati dall’unico Dio all’unico uomo, messaggi progressivamente rivelati attraverso vari profeti che, di volta in volta e in varie forme, hanno esternato la Sua Verità nei modi più adatti al luogo, al tempo ed al livello di evoluzione raggiunto dai destinatari del messaggio, in quella certa fase storica. Ciò rende le varie tradizioni portatrici di valori universali non contraddittori, in quanto inviati da un unico mittente (Dio) ad un unico destinatario (l’umanità), valori che però purtroppo nel tempo sono stati spesso deformati dalle manipolazioni dei vari prosecutori. È evidente quindi la finalità di rifarsi ai “testi sacri” di ogni religione, in quanto portatori dei veri messaggi originari, per poterli studiare ed interpretare in chiave moderna, conforme cioè al livello evolutivo oggi raggiunto. È ora — ha detto il Prof. Morisco — di deporre finalmente le armi per collaborare al fine comune di un rispetto reciproco, contrario ad ogni pregiudizio, ad ogni forma di pretesa superiorità di una fede sull’altra e ad ogni tipo di chiusura arrogante ed esclusivista, per cercare invece un arricchimento dal reciproco confronto, pur essendo sempre consapevoli e fedeli alla propria identità e alla propria scelta.

Ciò mi fa pensare ad un seminario buddista-Shambhala recentemente frequentato, in cui si parlava del “garuda”, un uccello simbolico che rappresenta la capacità dell’essere umano di “volare alto con audacia”, perché da lassù il garuda vede più chiaro, non ha una visione limitata delle cose e può sentirsi libero di dirigersi dove vuole con consapevolezza, a patto di non essere preda di

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Il mistero dell’elefante

aspettative, di conflittualità o di false onnipotenze dell’ego. Oppure penso alla frase di San Paolo: «Provate tutto, tenete ciò che vi giova». Se fede vuol dire scelta di una spiritualità libera, ricca e responsabile, credo che queste siano le sue coordinate. Credo anche però che l’acquisizione di questa visione aperta, pacifica, consapevole e non già “tollerante” (parola ambigua) ma sinceramente e profondamente rispettosa ed apprezzante le verità dell’altro, non sia purtroppo cosa innata né facile da raggiungere per l’essere umano, ma sia una dote che va costruita con fatica a livello individuale, cercando di aprirsi ad orizzonti più vasti poco a poco, in un processo lento e graduale che potrà poi passare dall’individuale al sociale. Don Carlo Molari — di cui avremo modo di parlare più a lungo — dice sempre, a questo proposito, che l’uomo nasce imperfetto ed incompiuto, ed è solo il suo graduale processo di maturazione che lo porta poi a livelli più alti di spiritualità, di civiltà e di completezza. È finito il tempo in cui si pensava che il bambino nascesse buono, saggio e puro(come il buon selvaggio), per travisare poi la sua natura al contatto con la vita: come Freud aveva ben intuito, il bambino in realtà nasce molto più egocentrico, egoista, istintivo ed immaturo di un adulto che, attraverso il suo lungo cammino di autoconsapevolezza, autocontrollo e crescita spirituale, si sia voluto liberare da tante forme originarie di immaturità e di egocentrismo narcisistico. Lo stesso processo si può vedere anche nell’umanità che, non a caso, ha impiegato secoli per arrivare, ad esempio, ad abolire la schiavitù, vista una volta come perfettamente logica e naturale (anche se tante forme di inciviltà permangono pure allo stato attuale, perché siamo tuttora incompiuti) Non c’è quindi da stupirsi che anche nel campo del reciproco rispetto e riconoscimento religioso, ci sia rimasta ancora tanta strada da percorrere. Il Prof. Morisco ha anche sottolineato giustamente il fatto che la rigidità di molti corrisponde spesso ad una scarsa informazione non solo sulle fedi altrui, ma perfino sulla propria; una lacuna, direi, comune alla maggioranza di noi tutti, che spesso ci diciamo appartenenti ad una fede, ma ne conosciamo peraltro i testi sacri ed i messaggi originari in maniera veramente limitata e grossolana (il brano del Vangelo letto a messa la domenica, quando ci andiamo).

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4. Gli incontri del secondo anno

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Tornando all’ intervento del Dott. Morisco, vorrei qui riferire brevemente i cenni storici offertici sulla Fede Bahai. La Fede Bahai — Morisco ci spiegò — è una delle religioni più recenti, perché vede i suoi inizi nel 1844, quando un giovane venticinquenne di nome Bab (che significa porta) si disse portatore di un messaggio rivelato che diffuse nella sua terra per 6 anni, attirando gli odi sia degli ottomani che dell’Imperatore. Venne preso mentre stava predicando e fu sottoposto a fucilazione dalle guardie imperiali, benché avesse detto di essere disposto a morire, a patto di poter prima terminare i suoi insegnamenti. Non solo i proiettili non lo uccisero — così racconta la tradizione — ma egli, apparentemente dissoltosi dalla vista dei soldati, fu ritrovato a concludere la sua rivelazione esattamente nel posto da cui era stato forzatamente prelevato, e solo dopo potè essere definitivamente ucciso. Il giovane Bab costituì la prima manifestazione di questa fede, che è un messaggio rivolto a tutta l’umanità, portatore di valori di pace e di collaborazione fra gli uomini, di rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani — donne comprese — e che quindi non poteva che suscitare l’odio dei potenti, come a suo tempo fece il messaggio di Gesù da parte dei Romani, di Erode e dei Farisei. I messaggi di ogni grande profeta, infatti, costituiscono una rigenerazione di valori sociali, etici, spirituali e religiosi, che destabilizzano lo status quo. Ciò è evidente, ad esempio, anche nel caso di Maometto, il quale purificò le tribù a cui si rivolgeva da superstizioni e riti ancestrali — come l’uccisione di bambine appena nate — elevando il livello di umanità del suo popolo e dando incentivo ad una civiltà che, in breve tempo, divenne avanzata e raffinatissima (anche se poi, certo non per sua colpa, il messaggio del Corano fu stravolto dai suoi prosecutori e trasformato in aggressiva barbarie). Tutti i profeti costituiscono, afferma il Prof. Morisco, una spinta in avanti per l’evoluzione dell’umanità. Essi dicono sempre di agire non in loro nome, ma di essere ispirati da forze superiori di cui sentono di essere manifestazioni e di cui rivelano i messaggi (come ad esempio fece anche Mosè quando ricevette le tavole della legge). Sono anche spesso preannunciati da profezie che ne presagiscono l’avvento (come fu anche il caso di questo giovane, di cui fu predetto l’anno ed il luogo della predicazione da parte di una scuola islamica). È come se, prima di questi grandi eventi, si verificasse un fermento nell’energia cosmica o spirituale che li preannuncia e che prevede la grande trasformazione che ne seguirà. Alla morte del giovane Bab seguì una feroce persecuzione che vide

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Il mistero dell’elefante più di 20.000 martiri perdere la vita per non rinnegare la propria fede. Se ne farà sommo interprete Baullah — considerato il fondatore della religione Bahai — al quale, per le sue nobili origini ed il suo prestigio, fu offerto un posto a corte se avesse rinunciato al suo credo e che, non avendolo fatto, fu rinchiuso incatenato con altri 40 amici in una buia e profonda cisterna del diametro di 12 metri a Teheran. Malgrado il lungo supplizio di sei mesi, una sera il Gran Visir sentì un canto di lode a Dio provenire dalla cisterna, e, su pressione di tanti che lo amavano e stimavano, decise di liberare Baullah, mandandolo però in esilio a Bagdad, convinto che, nel freddo viaggio invernale sulle montagne, non avrebbe avuto scampo. Invece, in assoluta povertà, egli riuscì colà ad iniziare la sua missione, riaggregando intorno a sé la sua comunità, rivelando per 12 giorni consecutivi i suoi insegnamenti in un bellissimo giardino, e scrivendo poi a tutti i grandi della terra, fra cui lo stesso Napoleone. Tutti questi documenti sono consultabili anche in lingua italiana. Il suo carisma lo rese amatissimo anche da appartenenti ad altre fedi, al punto che, quando decise di lasciare Bagdad, alcune persone si sdraiarono ai piedi del suo cavallo per non lasciarlo partire. Baullah fu di nuovo imprigionato in completo isolamento ad Accra e sorvegliato a vista per circa 2 anni, per essere poi trasferito in una casa dove infine morì. Il governo della comunità fu preso dal figlio, che portò il suo messaggio in Europa e poi in America, con tale alacrità e dedizione che oggi, a livello di luoghi — non di persone — la religione Bahai è la più diffusa nel mondo, in più di 180 nazioni. Il suo centro amministrativo è sul Monte Carmelo in terra Santa e la comunità ha avuto la fortuna di poter rimanere coesa, basandosi sui testi scritti dallo stesso Baullah, che eliminano il rischio di scissioni ideologiche. Lo scopo fondamentale di questa fede è quello di promuovere un livello di maggiore maturità e consapevolezza negli essere umani attraverso il dialogo. Fondamentali i concetti di unità di Dio (in quanto creatore di tutti gli esseri umani), di unità della razza umana (pur nelle sue differenze) e di unità delle religioni (pur nella loro diversità) in quanto messaggi non contrastanti rivelati da vari profeti dell’unico Dio. Gli aspetti sociali infatti possono essere difformi in quanto transitori e legati a luoghi e tempi diversi, ma i concetti ed i principi spirituali affermati sono sempre sostanzialmente corrispondenti. L’invito della fede Bahai a tutti i capi spirituali e credenti del mondo è quindi quello di superare le inutili conflittualità pervenendo ad un dialogo arricchente e costruttivo.

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4. Gli incontri del secondo anno

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Ovviamente percepii in questo auspicio una forte affinità con i principi del Concilio Vaticano II, che peraltro da cinquant’anni a questa parte — a mio parere — era stato piuttosto dimenticato, prima della venuta di Papa Francesco. Non a caso, il grande Cardinale Martini diceva, nell’ultima intervista prima della sua morte, che la Chiesa fosse rimasta indietro di 200 anni. Ancora una volta, la nostra speranza in proposito è oggi tutta rivolta a Papa Francesco, che, anche nel campo dell’interreligiosità, dimostra una vivissima consapevolezza dell’importanza del problema e ne sta dando prove concrete con la sua attività instancabile (e non solo su questo fronte!) La fede Bahai crede anche fortemente nel valore della collaborazione, che ottiene sempre risultati maggiori di quelli raggiungibili dal singolo, e nella valorizzazione delle positività di ogni essere umano, e rifiuta quindi atteggiamenti giudicanti. Fummo tutti profondamente colpiti ed allietati dai messaggi costruttivi e pacificatori di tale fede, precedentemente sconosciuta ai più, sottoscritta compresa. A ben pensare, peraltro, essi contengono delle verità unificatrici che erano già presenti, secoli prima di Cristo, negli insegnamenti del Buddha Siddharta. Nel Sutra del Loto, infatti, egli sosteneva che esiste un’Unica Verità Assoluta per tutti gli uomini, che si trova già nel profondo del cuore di ciascuno — anche se è difficile arrivarne a consapevolezza — ma che si realizzerà e rivelerà pienamente solo nel Grande Risveglio dell’Illuminazione. Tale messaggio è sorprendentemente unificatore per tutta l’umanità (specie se consideriamo l’epoca in cui fu rivelato) — giacché esso sosteneva che, anche se in maniera parziale ed incompleta, la Buddhità esiste in tutti ed in tutti essa si rivelerà completamente solo nella fase finale della completa Purificazione. Gli insegnamenti fungono da strumento per indicare la via, permettendo all’essere umano di volgersi progressivamente verso questa Verità, come fa il fiore di loto verso il sole. Tale bellissimo messaggio in realtà fu poi travisato, nell’ambito stesso del Buddismo ad opera di un monaco giapponese del XIII secolo, Nichiren, che equivocò sulla parola “Unica Verità” intendendola non più come verità comune a tutti, ma come se quella del

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Il mistero dell’elefante

Buddha fosse la sola verità, a scapito di ogni altro tipo di credo, perdendo quell’universalità che il Sutra del Loto incarnava. Ed infatti questo significato restrittivo e assolutistico fu poi ereditato — nella fase iniziale — anche dalla Sokka Gakkai (che considerò tale monaco come suo ispiratore), un movimento fiorito negli anni 1930 in Giappone e poi diffusosi notevolmente anche in occidente negli anni 70, che solo successivamente uscì da questa travisata interpretazione. Ma l’universalità del messaggio del Buddha Shakamuni è quello che tuttora rende tale credo capace di accettare seguaci di ogni tipo di religione, proprio nella consapevolezza che ciascuno, nel suo piccolo, è portatore di quella particella di Buddhità che si realizzerà poi come Verità Assoluta solo alla fine del percorso evolutivo. Queste riflessioni mi riconfermarono, ancora una volta, l’eccezionale lungimiranza e saggezza del messaggio buddhista, precorritore nel tempo, sotto tanti aspetti, dei messaggi di fede più illuminati che poi, a distanza di secoli, rivelarono le sue stesse intuizioni.

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CAPITOLO 5

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GLI INCONTRI ECUMENICI DEL TERZO ANNO Una successiva esperienza di incontri che mi sentii di organizzare, per me e per il nostro gruppo “Credere per Essere”, fu piuttosto diversa dalle precedenti. Pensai infatti — dopo molti dubbi se fosse il caso di continuare o meno nello stesso tipo di impostazione — di dare vita a dei confronti non più propriamente interreligiosi, ma, piuttosto, ecumenici, e cioè fra diverse confessioni della stessa religione cristiana. Ciò per varie motivazioni. La prima perché sentivo che nei due anni precedenti era stato dato spazio solo al Cattolicesimo, ma non erano state rappresentate invece le altre forme di Cristianesimo esistenti. La seconda perché, se un confronto pacifico, corroborante e costruttivo è auspicabile fra appartenenti a religioni diverse — e a volte molto differenti — a maggior ragione dovrebbe esserlo nell’ambito di varie correnti che si rifanno ad un unico identico ceppo, che è il messaggio di Gesù Cristo, poi differentemente, per varie ragioni, interpretato. Ma la ragione sicuramente prevalente consisteva nel mio desiderio di poterci focalizzare sull’attualità, per vedere, attraverso le varie ottiche, cosa significhi oggi essere Cristiani, nella difficile e scomposta società di cui facciamo parte, nella quale, ad esempio, si celebra anche la nascita di Cristo con White Christmas, che non è, come si spererebbe, la bella canzone natalizia, ma la “pulizia” dagli immigrati! Nessuno meglio dei sacrosanti valori cristiani, infatti, potrebbe sanare questo generale disorientamento che si evidenzia ormai in ogni campo dell’attività umana, se tali valori fossero genuinamente intesi, ma, soprattutto, applicati alla vita reale da tutti coloro che si dicono a parole cristiani (e magari si battono per un crocifisso appeso o meno nelle aule scolastiche di uno stato laico che deve accogliere tutti), per poi sovvertirli completamente nella pratica delle

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Il mistero dell’elefante

loro azioni quotidiane e nelle decisioni veramente importanti da prendere a nome di tutti. Il tema proposto, uguale per tutti i relatori, fu: “Importanza e significato del messaggio di Cristo oggi, secondo l’ottica delle varie confessioni cristiane”. Programmammo gli incontri con uno o due relatori per volta, appartenenti alla Chiesa Anglicana, Avventista, Battista, Calvinista, Cattolica, Luterana e Valdese (poi non riportati in quest’ordine alfabetico ma cronologico) per concludere infine con una tavola rotonda che permettesse uno scambio e un confronto diretto fra i vari relatori. Darò un breve resoconto anche di questa esperienza, che è risultata molto significativa non solo per me, ma credo pure per gli altri partecipanti.

5.1

Incontro con il teologo cattolico Don Carlo Molari

Come accennato, conobbi questo eccezionale personaggio già qui più volte citato (che ha oggi più di novanta anni, ma dalla vitalità di un ragazzo), al San Leone Magno sulla Nomentana, un complesso scolastico religioso tenuto dai Fratelli Maristi, che non avevo mai avvicinato e a cui mi indirizzò un amico. Fui subito colpita dalla preparazione, profondità e apertura mentale di questo teologo che, d’altronde, è molto noto negli ambienti romani e non, ed è suo merito se, dopo tanti anni di titubanza, iniziai a recarmi tutte le domeniche ad ascoltare la sua messa delle 11:30, che si rivelò veramente una fonte di accoglienza calorosa e di insegnamenti preziosi, cosa che solo con Padre Laurence avevo potuto sperimentare. Don Carlo, inoltre, radunava ogni martedì alle 21 un gruppo di fedelissimi, dove, dopo una lettura ed un suo commento del Vangelo, seguiva uno scambio di considerazioni di riflessioni e di domande, veramente pregevole, visto che, oltre al principale protagonista, anche gli altri partecipanti erano persone, direi, di eccezionale cultura, apertura mentale ed impegno sociale. Unico neo è che tale esperienza — per altri durata anni ed anni — per me si concluse nell’ambito di un anno e mezzo, visto che Don Carlo, sia per la sua età che per i suoi molti impegni di studioso e conferenziere, decise di ritirarsi nella sua terra natale, la

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5. Gli incontri ecumenici del terzo anno

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Romagna, e interruppe questi preziosi incontri. Peraltro il gruppo che lo seguiva decise di non sciogliersi e tuttora (purtroppo non più con la sua presenza) ci incontriamo ogni quindici giorni a casa dell’uno o dell’altro per confrontarci su tematiche prestabilite. Circa due o tre volte l’anno, tuttavia, Don Carlo torna per tenere dei seminari che corriamo a frequentare e, come vedremo più avanti, egli accettò anche di essere mio ospite come relatore nei tre Convegni interreligiosi da me organizzati al Campidoglio. Ma torniamo all’incontro suddetto di Don Carlo Molari sul significato che può avere oggi l’insegnamento di Gesù Cristo. La questione essenziale, sostiene Don Carlo, è nel contenuto del messaggio di Gesù, e cioè: cosa Egli ha annunciato e che valore questo messaggio ha per noi. Il valore della testimonianza di Gesù sta nella vicinanza di Dio. Quando Gesù afferma che «Il Regno di Dio è vicino» non intende ciò che anche alcuni discepoli erroneamente capirono, e cioè che stava per avvenire la fine del mondo, ma il fatto che l’esperienza di Gesù rende visibile quell’amore che, avvolgendoci, crea nuove forme di vita e che Egli ci manifesta con la sua azione ed il suo comportamento (consolando, perdonando, aiutando, esprimendo fratellanza e solidarietà verso gli altri e, quindi, testimoniando l’amore di Dio). Questa modalità nuova di fede e di vita che egli ci ha indicato non può essere solo detta, ma va vissuta, espressa con la forza di vita, per verificare che, affidandoci all’amore di Dio (come lo stesso Gesù ha fatto) si può arrivare a forme nuove di amore, di solidarietà, di condivisione. Peraltro, il Suo messaggio non fu colto che da pochissimi dei suoi contemporanei e fu da loro travisato, per la paura di essere scalzati dal proprio potere. Di contro, egli li sollecitava solo ad un cambiamento, ad una “nuova novella”. Perché questa resistenza al cambiamento? Essa non riguarda solo la storia: può capitare anche a noi di ridurre il messaggio di Cristo solo a pratiche religiose, a dottrina (come facevano i sacerdoti del Tempio da lui avversati), senza arrivare ad un tipo di fraternità nuova. Può accadere anche a noi di non cogliere questo messaggio nel suo vero significato. La ragione per cui allora esso non fu accolto (e Gesù fu ucciso) fu l’attaccamento alle strutture tradizionali ed al potere che ne conseguiva. A quei tempi il potere religioso si era fuso con quello politico, e fu questo il motivo per cui alcuni ebrei (come ad esempio gli Esseni), si staccarono dal nucleo centrale. Ciò mette in luce che la religiosità di

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quel tempo si era sclerotizzata nel potere religioso ed anche in quello politico (nella collaborazione con i Romani). Questo attaccamento impedì l’apertura e l’accoglienza della novità. Tale dramma si è spesso ripetuto nella storia e si ripete anche ora con l’impedire la nuova forza di vita ed ostacolare l’azione che introduce qualità nuove, in nome della tradizione, proprio come avvenne allora. Fra tutti i Cristiani, aggiunge Don Carlo, i Cattolici sono purtroppo i più facili a cadere in questo errore. La vita è un divenire continuo e nella prospettiva di fede in Dio ciò si rivela molto chiaramente: la creatura è imperfetta, è incompiuta, non è in grado di recepire tutta la Verità e la Forza Divina, ma lo fa lentamente, solo a piccoli passi. Come creature non possiamo mai dire: questo è definitivo. Invece ci sono resistenze continue al cambiamento, dovute al ritenere che la verità sia unica e assoluta, che il passato sia tale da essere considerato perfetto, privo di errori e che ci siano strutture definitive che non richiedono cambiamento. Ma che ci siano errori nella storia è invece evidente e pacifico. Alcuni oggi contestano il Concilio Vaticano II proprio perché esprimeva novità — e novità importanti — rispetto alla tradizione. Il messaggio di Gesù non è stato accolto per queste stesse ragioni, perché imponeva cambiamenti sostanziali che destabilizzavano la tradizione. Gesù come ha reagito a questa resistenza? Ha pregato, si è confrontato con la tradizione e poi ha deciso di salire a Gerusalemme — pur essendo ben consapevole del rischio che ciò comportava — per proclamare colà il Vangelo, al fine di avviare la fase nuova della storia di salvezza. Ciò perché era convinto, per la sua piena fiducia in Dio, che qualsiasi decisione gli altri avessero preso e qualsiasi cosa gli fosse successa, la forza dell’amore che alimentava la sua vita avrebbe portato a compimento la sua missione. Con una totale fiducia in Dio. Anche quando vide in faccia la morte, Egli continuò a tradurre la forza dell’amore nella sua azione, nei suoi comportamenti. Rese quell’evento una carica di vita tale da portare alla salvezza, proprio dimostrando che tutte le situazioni — anche le più negative — possono essere vissute in modo salvifico, ivi comprese quelle di sconfitta, di ingiustizia, di morte. Questo è il punto fondamentale.

Ed ha continuato: come possiamo esprimere la nostra fede in Dio? Non sappiamo chi è Dio e non possiamo saperlo, ma Gesù ci ha mostrato a cosa può condurre l’affidarsi interamente a Lui.

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5. Gli incontri ecumenici del terzo anno

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La vita possiede già in se stessa una Verità e una Bontà che può esprimersi in forme nuove in noi. Sappiamo che possiamo vivere il rapporto con Dio facendo fiorire forme di vita nuova e di salvezza con la forza dello spirito. Sono seguite poi varie domande, di cui ne riporterò alcune, che mi sembrano le più significative, con le relative risposte. Un partecipante ha chiesto quale sia l’importanza e il valore dei Santi nella religione cattolica, visto che essi diventano spesso oggetto quasi di idolatria. Don Carlo ha risposto che essi sono semplicemente dei testimoni di quella fede che Gesù ci ha mostrato e che la sua vita ha provocato. Non sono certo loro ad operare i miracoli, ma essi sono i riflessi del Vangelo in chi, come loro, ha vissuto il messaggio di Gesù con particolare intensità. Quindi, per noi, sono semplicemente degli esempi di vita da poter seguire. Altra domanda interessante ha riguardato la questione del libero arbitrio. Don Carlo ha ricordato come tale questione abbia portato a grandi contrasti fra il concetto di libera azione dell’essere umano e, d’altro canto, il fluire della grazia (lo Spirito che soffia dove vuole):la famosa questione della salvezza in base alla fede o in base alle opere, che ha diviso le convinzioni di tanti cristiani, e li divide tuttora. Don Carlo ha affermato che in realtà non esiste nessuna contraddizione fra i due concetti, (come se si trattasse di due differenti buoi che trainano uno stesso carro), in quanto Dio offre a tutti la sua grazia, ma sta poi all’uomo accettarla o respingerla, e quindi accogliere la possibilità di salvezza o rifiutarla, con le conseguenze che ne possono derivare. A proposito della rigidità delle strutture gerarchiche religiose, un’altra partecipante ha osservato che la Chiesa diverrà veramente degna di questo nome quando esse saranno tramontate, per dare posto alla comunità di tutti i fedeli. Don Carlo non le ha dato torto, ma ha aggiunto umoristicamente, peraltro, che siamo ancora così lontani dall’aver raggiunto, come comunità cristiana, una tale maturità, che quando questo avverrà, sarà anche arrivata la fine dei tempi... Ringraziammo e ringraziamo tuttora il nostro splendido relatore per quanto ascoltato e dibattuto.

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Il mistero dell’elefante

La concezione dinamico-evolutiva del singolo essere umano, dell’umanità nel suo complesso, della storia e quindi anche della religione, è l’atteggiamento mentale che più mi colpì in Carlo Molari, quando inizialmente lo conobbi, ed è ciò che mi ha di nuovo colpito in questa circostanza. Egli è un sostenitore dell’evoluzionismo, sulla scia di Teilhard de Chardin, gesuita famoso, un autore che avevo letto ma, mi accorsi, mai apprezzato nella molteplicità dei suoi significati, fino a che non li sentii riaffermati per bocca di Don Carlo. Fu lui che mi diede anche, per la prima volta, una spiegazione accettabile del male, così poco, per me, assimilabile al concetto di Dio come Padre Buono, indicatoci da Gesù Cristo. Avevo per anni fatto mia la considerazione che “se Dio è onnipotente non è buono e se è buono non è onnipotente”, proprio a causa della presenza del male. L’ipotesi evoluzionista vede invece, all’inizio dei tempi, non una caduta da una creazione perfetta, deturpata dal peccato originale, ma una lenta, progressiva evoluzione dal caos originario che culminerà solo alla fine dei tempi nel trionfo del bene sul male quando, come dice San Paolo, «Dio sarà tutto in tutti». Ma per ora, ci ricorda Don Carlo, siamo ancora imperfetti, incompiuti, ed il male e la disarmonia che trionfavano nel caos sono ancora purtroppo presenti fra noi e in noi. È del resto un concetto che si coniuga benissimo con la visione dell’impermanenza — o cambiamento costante — che ci insegnano i buddhisti, e che, in un continuo cambiamento e in una progressiva purificazione, potrà portare, anche secondo loro, all’Illuminazione finale. Quanto alla resistenza al cambiamento, citata da Don Carlo, non è un caso che anche oggi qualcuno parli di uno “scisma sotterraneo” che si starebbe verificando nel seno della Chiesa, a riprova del malessere di un rilevante numero di fedeli che a questo immobilismo tentano di opporsi. E la tragedia è — disse Don Carlo in un’altra occasione — che questi errori vengono fatti in assoluta buona fede e nella convinzione di operare al meglio! «Siamo in ritardo di 200 anni», sosteneva un’altra mente eletta, il Cardinale Martini, poco prima della sua morte! Devo qui ammettere però che i tempi sembra stiano cambiando in modo sostanziale con la venuta di Papa Francesco, che, in una

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5. Gli incontri ecumenici del terzo anno

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molto più recente conferenza, lo stesso Don Carlo lodava come artefice mirabile di una ripresa al cambiamento e all’evoluzione della Chiesa, conformemente all’evoluzione della società e dei tempi, e come oppositore fervente di quell’immobilismo di cui essa si è per anni ed anni macchiata. Ritrovo anche un’assonanza fra la tesi sostenuta da Don Carlo — che dentro ciascuno di noi esista una Verità, una Bontà potenziale e una Energia Divina che sta poi a noi contattare e attualizzare nella nostra vita e nei nostri comportamenti — e il concetto Buddhista — spiegatoci lo scorso anno dal Prof. Bollini — di Bontà Fondamentale. Il che, in altre parole, mi sembra evidenziare quanto anche il Cristianesimo tenda a responsabilizzare l’essere umano (certo non meno di altre religioni), giacché senza l’azione attiva e responsabile della persona umana quella potenziale positività, o grazia, insita in ciascuno di noi, potrebbe non dare alcun frutto. Dico questo per controbattere alcune critiche di presunta passività e dipendenza rivolte non di rado alla concezione dell’uomo secondo il credo cristiano, ed anche perché mi gratifica sempre la scoperta di denominatori comuni fra le varie religioni di cui abbiamo fin qui parlato (in particolare, poi, quando queste consonanze riguardano i due credi da me prediletti, che sono appunto, come i lettori avranno capito, Cristianesimo e Buddhismo) Non intendo infine dimenticare di sottolineare quanto Don Carlo Molari abbia enfatizzato l’importanza per noi laici dello studio delle Scritture, il cui valore fu riscoperto solo dopo il Concilio Vaticano II e che, precedentemente, veniva erroneamente trascurato al di fuori degli ambiti religiosi (a differenza di quanto fatto da parte di altre confessioni cristiane, come, ad esempio, i protestanti). Ed anche questo credo che sia un insegnamento da ricordare.

5.2

Incontro con la Chiesa Evangelica Pentecostale

Il giorno 18 dicembre 2009 si tenne il secondo incontro ecumenico con la Chiesa Evangelica Pentecostale, attraverso la testimonianza della dott. Alessandra de Vita, psicologa, appartenente a questa confessione cristiana, della quale successivamente è divenuta Pastore.

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Il mistero dell’elefante

La relazione della dott. de Vita è iniziata proprio dichiarando che la sua voleva essere innanzi tutto la testimonianza di un’esperienza di vita — la propria — e di come il risveglio spirituale operato dalla scoperta della fede in Gesù Cristo possa trasformare e dare un nuovo senso all’esistenza di una persona, allorché questa fede non sia solo razionale e teorica, ma maturata emotivamente e vissuta come autentico modo di essere, modellato sull’esempio di Cristo. E questa — a prescindere da alcuni utili cenni storici riguardanti la nascita ed il significato della Chiesa Evangelica Pentecostale a cui ella appartiene — è stata l’impostazione della sua relazione, e cioè sentire, più che capire, cosa Gesù Cristo, con la sua venuta, ci abbia insegnato e come improntare la nostra esistenza in modo nuovo, affidandoci all’esempio della Sua vita, oltre che al messaggio verbale che ci ha lasciato. Gesù Cristo — ella dice — è anche un personaggio storico realmente esistito, ma non è il personaggio storico che può realmente trasformare la vita di una persona. Gesù non è venuto a fondare una nuova religione — non ne ha mai parlato — ma è venuto a creare una nuova relazione con Dio e a fare da ponte fra noi esseri umani ed il Padre, ricongiungendo l’umanità a Dio. Egli si è opposto a tutta la tradizione religiosa dell’epoca, e sono note le sue critiche alle ipocrisie di Scribi e Farisei (la classe sacerdotale del tempo) che egli chiama “sepolcri imbiancati” e che critica nel loro dire ma non fare, e nel loro voler apparire giusti essendo invece dentro pieni di iniquità e di falsità. Si è opposto alla realtà del Tempio, che, invece di adorare il Padre, si dava a speculazioni commerciali, come dimostra la sua rivolta contro i mercanti del Tempio di cui ci parlano i Vangeli. Egli inoltre si oppone a qualsiasi discriminazione di razza, sesso, stato sociale e censo, come dimostra per esempio l’aver ascoltato un centurione romano (e cioè un nemico degli Ebrei del tempo), o l’aver parlato con i Samaritani (considerati esseri inferiori) o addirittura con una donna Samaritana (che in quanto donna e in più samaritana era agli ultimi gradini della scala sociale), o l’aver guarito la donna dal flusso di sangue (quando una donna mestruata era considerata impura, inavvicinabile ed intoccabile). È una figura che impatta completamente con la società del suo tempo, rivoluzionandone valori e credenze. Di nessuna persona si può dire che ci siano state date tante profe-

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zie, prima della nascita, come per Gesù, come ad esempio quella di Isaia 53, che la relatrice ci legge e che parla di un uomo disprezzato, perseguitato, umiliato e condannato ad una morte infamante (quale era appunto all’epoca la crocefissione), che però guarisce l’umanità e muore per salvarla. La sua nascita — se si crede ai Vangeli — avviene attraverso lo Spirito Santo, e per i Pentecostali lo Spirito Santo è molto importante, anche di più che per altre confessioni cristiane, anche se tutte ne parlano e ne prendono atto. Per comprendere il Gesù soprannaturale infatti è necessaria la rivelazione dello Spirito Santo, affinché Egli non venga recepito solo in modo razionale ma con il cuore, e affinché venga colto come lo strumento divino che riporta l’uomo al Padre, prendendosi sulle sue spalle — di uomo e di Dio allo stesso tempo — tutte le colpe dell’umanità. Sant’Agostino dice che entrare in contatto con il Padre colma un vuoto del nostro essere che non può essere colmato altrimenti, anche se se ne cercano tante alternative. Gesù, nelle parole della celebre parabola del figliol prodigo, ci mostra l’amore di Dio come amore incondizionato del padre verso il figlio, che egli aspetta con disponibilità totale, che va incontro al figlio prima ancora che questi sia arrivato, senza attendere neppure che gli chieda scusa per i suoi torti È un amore senza condizioni che Gesù ha mostrato in tutto ciò che ha operato, risanando e portando un messaggio di vita, che egli descrive alla Samaritana come acqua che non le farà sentire mai più la sete. Si tratta di un personaggio che, se non lo si ritiene un Dio che può trasformare l’essere umano completamente nel suo profondo, nel suo comportamento e nella sua anima, sarebbe equiparabile a tanti altri personaggi della nostra storia, ricca di figure bellissime, come un Gandhi, o un Martin Luther King o tanti altri che hanno anche sacrificato la loro vita per amore o per senso di giustizia, ma che non hanno questo potere divino di risveglio spirituale nei confronti dell’uomo. Il suo messaggio ci dice che essere cristiani è un modo di essere, è la scelta di seguire quel modello così come il discepolo segue le orme di un Maestro. Se una volta pensavo che la religione fosse l’oppio dei popoli, e cioè una fuga da se stessi e dalla realtà triste ed ingiusta del mondo, ho poi capito che la relazione reale col modello di Cristo è all’opposto di una fuga: è un trovare se stessi e mettere in atto nel concreto questi insegnamenti nel rapporto non solo con Dio ma con il mondo. Allo stesso tempo è però un rinnegare il proprio ego per trovare una nuova e superiore identità come figli di Dio.

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Il mistero dell’elefante

La fede è fiducia incondizionata che si può ottenere solo con l’aiuto di Dio, perché rinunciare alle proprie illusioni di autosufficienza, di saggezza, di verità, richiede un terribile sforzo di umiltà, come affermava San Paolo che diceva di vedere la sua sapienza nulla rispetto alla Verità di Dio. Il messaggio cristiano presuppone anche il grande coraggio di vivere contro corrente, di incarnare una grande sfida contro i disvalori della società attuale: ad esempio il focalizzarsi sul dare più che sul ricevere, sulla spiritualità più che sul materialismo, il rifiutare l’ingiustizia, il razzismo, l’ipocrisia e tutti quei disvalori che Gesù ha combattuto fino ad attirarsi l’odio dei suoi contemporanei e quindi la morte, proprio al fine di indicarci la Via. Il Cristianesimo dovrebbe, per sua natura, alimentare anche l’accettazione e la pace fra le varie confessioni cristiane (malgrado nella storia ciò in realtà non sia purtroppo avvenuto), come fede in un Gesù che libera, che ama e che accoglie. Un cristiano dovrebbe essere uno strumento ed un canale dell’amore di Dio, ed in questo trovare la sua vera identità, che trascende il suo fragile ego. Le Chiese Protestanti in genere sono tutte partite come risveglio e come ritorno al messaggio originale di Cristo, per opporsi ad una tendenza all’istituzionalizzazione della Chiesa. Così avviene anche per la Chiesa Evangelica Pentecostale, che si vuole contrapporre al pericolo di istituzionalizzazione delle stesse Chiese protestanti. Questo movimento nacque all’inizio del XX secolo, ad opera di un teologo di nome Parham e si manifestò poi come tendenza trasversale in varie Chiese Cristiane: ad esempio nella Chiesa Cattolica esiste il movimento carismatico che, pur con le debite differenze esistenti fra cattolici e protestanti, mostra un’affinità con quello pentecostale. Il movimento nasce essenzialmente per riscoprire e rivalutare l’importanza dello Spirito Santo. La prima Chiesa nacque proprio il giorno di Pentecoste, quando, secondo la promessa di Gesù, lo Spirito discese sopra i discepoli in forma di lingue di fuoco. Agostino diceva che ciò che l’anima è per il corpo lo Spirito Santo è per la Chiesa: è l’anima della Chiesa, la sua vitalità, la rivelazione del Cristo Spirituale. I Quaccheri già nel XVII secolo parlavano della rivelazione dello Spirito Santo attraverso il silenzio, ma oggi viene riconosciuto proprio al movimento pentecostale il merito sia di aver focalizzato ed evidenziato l’importanza dello Spirito Santo-che Gesù disse avrebbe lasciato agli uomini dopo la sua dipartita-sia di esercitare una grossa spinta all’unificazione fra le varie confessioni cristiane. Il movimento fu riconosciuto ufficialmente per la prima volta nel-

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l’ambito cattolico da Papa Giovanni Paolo II. Un’espressione dello Spirito Santo è il Battesimo, che nella Chiesa pentecostale si fa per immersione e viene concesso solo a chi crede, e quindi agli adulti (Matteo 28 e poi Marco 16-15 dicono entrambi che prima bisogna credere e poi essere battezzati, riportando le parole di Gesù). Altre manifestazioni dello Spirito Santo sono i doni carismatici. In Corinzi 1 si dice che a ciascuno viene dato un dono diverso, che può essere: parola di sapienza, di guarigione, operare miracoli, profetizzare, parlare lingue straniere ecc. e si considera lo Spirito Santo capace di agire in modo potente attraverso alcune persone. Ovviamente esiste il rischio di contraffazioni, ma il fatto che alcune persone posseggano tali doni è reale, nell’operare sia la trasformazione interiore, sia la guarigione del corpo, ed io stessa ho visto operare tali trasformazioni.

Così si è conclusa la relazione di questa giovane credente, che mi ha colpita — e a tratti perfino commossa — non tanto, forse, per la sua conoscenza dottrinale e teologica (che pure ha dimostrato) quanto, a livello umano, per una fede intensa, profonda e sentita che traspariva con assoluta spontaneità e autenticità dalle sue parole, a riprova di quanto da lei espresso, e cioè che essere cristiani, anche oggi, è un vero e proprio modo di essere, forgiato sul modello di Cristo, che va sentito più che con la mente con il cuore e che, soprattutto, va attuato nella vita quotidiana. Come sempre, al di là di questo, mi sono soffermata a cogliere possibili denominatori comuni con altri credi (almeno i pochi da me più conosciuti), e non è stato difficile trovarli. La citazione di Agostino che solo il riconnettersi con il divino possa colmare in noi un vuoto altrimenti incolmabile, mi ha fatto ricordare, ad esempio, ciò che sostiene Patanjali, e cioè che l’uomo deve la sua tristezza al considerarsi «una fiammella scissa dalla fonte». O anche mi ha riportato alla mente le asserzioni dello psicologo Viktor Frankl, il quale sostiene che l’assenza di una credenza in Dio può provocare anche una nevrosi, che egli chiama “noetica”, causata cioè da una mancanza di significato che il soggetto avverte nel proprio esistere. Nel concetto qui espresso di dover perdere la propria identità per ritrovarla ho riassaporato la saggezza Shambala, nel considerare l’ego come un bozzolo da cui dover uscire per poter arrivare ad essere illuminati dal Grande Sole dell’Est. E mi sono ricordata di

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un intero ritiro a cui partecipai a Monte Oliveto due anni or sono, in cui la tematica svolta da Padre Laurence era proprio “Perdere per trovare”. Il tutto, a conferma che la vera saggezza, su vari fronti, ha molti punti in comune da poter regalare alle nostre costanti insicurezze e che, come ha scritto il Dalai Lama: «Tutte le religioni sono sorelle», anche al di là della sfera cristiana. Credo peraltro che il principale merito di questo incontro sia stato quello di ricordarci e sottolineare come la fede — ben lungi dall’esaurirsi in un aspetto razionale e teorico della nostra esistenza — abbia un senso vero quando Dio sia «il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe e non il Dio dei filosofi» (come aveva scritto Pascal in un biglietto che teneva cucito nella fodera del suo soprabito) e quando cioè essa si traduca in un fattivo modo di essere, che porti concretamente a «dare doni di vita» (per usare le parole di Don Carlo Molari) e cioè ad attive manifestazioni di comprensione, di accettazione e di amore sia verso Dio che verso il nostro prossimo(come già da tutti i relatori fin qui ascoltati è stato all’unisono asserito). E questa mi sembra essere già la migliore risposta al mio interrogativo iniziale su quale sia oggi il significato di Gesù, e della nostra fede in Lui.

5.3

Incontro con Valdesi e Luterani

Il giorno 10 gennaio 2010, come preventivato, ospiti della Facoltà Valdese di Teologia di Roma, abbiamo realizzato il nostro terzo incontro ecumenico con i relatori Prof. Daniele Garrone, Decano Valdese, e dott. Throsten Maruschke, teologo luterano, sul tema da noi proposto. Ha preso per primo la parola il Prof. Garrone, che ha iniziato sottolineando come in Italia le varie Chiese Protestanti siano una sparuta minoranza — a differenza di altri paesi quali, per esempio, la Germania, l’Inghilterra o gli Stati Uniti — e come quindi esse non siano percepibili nella cultura comune, e vengano molto spesso fraintese. «Si è arrivati al paradosso», egli dice «di sentirsi chiedere se esse credano nei fondamenti del cristianesimo o perfino in Gesù Cristo». In realtà il Credo che viene recitato nelle Chiese Cattoliche è esattamente lo stesso di quello che viene pronunciato nelle Chiese Protestanti.

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La fede protestante inoltre non è settaria e limitata a certi determinati paesi o comunità, ma cattolica (nel senso proprio della parola), e cioè universale e quindi riferibile a tutti. L’universalità del Cristo è il punto focale comune a tutti i cristiani, protestanti compresi, ma, a partire dal XVI secolo, con la Riforma si sostenne che alcuni importanti aspetti del messaggio di Cristo non fossero stati rispettati nel corso della storia dalla Chiesa Romana, divenuta di impronta imperiale fin dai primi Concili — dominati dall’autorità dell’Imperatore — dove perfino alcuni termini (quali ad esempio “curia”) furono tratti proprio dal modello romano imperiale. La Riforma, a partire da Martin Lutero, intendeva recuperare le fonti genuine del Nuovo Testamento, a suo avviso in gran parte perse o deformate dalla Chiesa Papale. Le Chiese Riformate sorsero a partire dal XVI secolo, analogamente a quella Luterana, in nazioni diverse, ad opera di vari riformatori, quali, ad esempio, Calvino in Svizzera, John Knox in Scozia, ed altri. Il Calvinismo si diffuse soprattutto in Olanda, in Scozia e negli Stati Uniti e non ci sono differenze sostanziali nei principi fondamentali (come la giustificazione per fede, la centralità di Dio ecc.) rispetto a quanto affermato da Martin Lutero. Il concetto di Chiesa per i protestanti è molto diverso da quello cattolico-romano, poiché, essendo la Chiesa, secondo il concetto protestante, una formazione umana e non divina, la congregazione dei fedeli non incorpora l’opera e la verità del Cristo, ma cerca di seguirla. Essa viene governata da Assemblee a partire dalla base, con varie Comunità locali dove, ad esempio, il Pastore è eletto dai fedeli e il Consiglio Presbiteriale è eletto dai membri della Chiesa. Anche al vertice (che è sempre considerato prettamente umano e non divino) ci sono due Collegiali che rispondono del loro operato agli elettori. Altra differenza è nell’ambito della morale, che non viene codificata, ma dove tutto si gioca in termini di libertà. Ciò ovviamente non significa che ciascuno possa fare ciò che vuole, ma che tutto è lasciato alla responsabilità e coscienza individuale, non essendoci una precettistica codificata. La morale è la risposta all’appello e ai valori trasmessi dal Cristo, e si basa quindi soprattutto sul concetto di amore di Dio e del prossimo. Ad esempio, per toccare argomenti molto attuali, parlando di bioetica, di testamento biologico, di ricerca sulle cellule staminali ecc. la domanda sarà: in che modo la mia risposta riesce ad esprimere un maggiore amore per il mio prossimo? Nelle tematiche etiche stanno oggi rilevandosi maggiori differenze rispetto a quelle dottrinali fra gli stessi protestanti e, ad esempio, negli USA c’è oggi un rigurgito di fondamentalismo contro lo stesso Obama.

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Quanto all’Italia, non si può dire che il Protestantesimo sia stato ignorato e Lutero e Calvino furono tradotti sin dall’inizio da una serie di circoli attratti dall’idea di deromanizzare la Chiesa, per poterla rendere più Cristiana, nel senso originale del termine. Ma la Chiesa Romana è stata sempre troppo vicina e dominante perché il Protestantesimo potesse affermarsi e furono portate avanti una serie di persecuzioni, uccisioni ed esili imposti anche a semplici Pastori. I Valdesi, anche se perseguitati da Carlo Borromeo in Valtellina, riuscirono a sopravvivere. Ma il pluralismo e la dialettica fra Cristiani in Italia venne così perduta, a differenza di altri paesi in cui si accetta che ci siano tanti modi diversi di leggere il messaggio di Gesù Cristo.

Seguì l’intervento del dott. Maruschke, che così tentiamo di riassumere: La tematica fondamentale di tutti i Cristiani è sempre il messaggio di Cristo e Lutero affermava “solus Christus”, intendendo che solo in Cristo si trovano la grazia, la giustificazione e le risposte. Lutero ha anche detto “sola Fede” (che significa che solo la grazia e non le opere possono giustificarci) e “sola Scriptura” (e cioè che solo le Scritture possono fornirci tutte le risposte). Una delle maggiori differenze (se non la principale) con la Chiesa Romana è proprio che quest’ultima concepisce la Chiesa come una materializzazione di Gesù Cristo e quindi alla Chiesa si possono chiedere delle risposte. Noi non abbiamo invece questo mediatore e possiamo riferirci solo alle Scritture per trovare delle risposte. Esse devono cambiare, per adeguarsi alle esigenze del tempo, poiché se Cristo è sempre lo stesso, il suo Verbo, proprio perché universale, deve rispondere al cambiamento e all’evolversi dell’umanità. La Chiesa deve quindi riformarsi in continuazione, a differenza della Chiesa Cattolica che tende a restare sempre la stessa. Nostro compito è invece chiederci sempre qual è la risposta che si deve dare oggi. Abbiamo anche molte domande di oggi che trovano risposte nelle scritture. Ad esempio, noi in Germania abbiamo avuto forti discussioni sull’opportunità della guerra in Afganistan, come sulla bioetica, la giustizia e l’economia, e cerchiamo di dare risposte che siano adeguate allo spirito e a quanto detto dalle Scritture, anche se ciò spesso non è affatto facile.

A questo punto, si è passati a formulare delle domande ai relatori, di cui darò alcuni accenni. È venuta spontanea ed irrefrenabile alla sottoscritta l’osserva-

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5. Gli incontri ecumenici del terzo anno

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zione che forse il vedere la Chiesa Cattolica ancor oggi come immobilista possa costituire un grave ostacolo all’ecumenismo e non risponda più al vero, se consideriamo le molte correnti innovatrici e progressiste che in essa si stanno sempre più affermando e che accettano il concetto di evoluzione, come iniziato ad opera del Concilio Vaticano II. Devo anche aggiungere, oggi, che all’epoca non potei portare un argomento che sarebbe stato anche più valido, e cioè l’opera innovatrice di Papa Francesco, perché ancora purtroppo non c’era. Il Prof. Garrone rispose riconoscendo sia l’esistenza di molte correnti innovative e progressiste, sia l’apertura del Concilio Vaticano II, che riconobbe come la Chiesa si possa aprire senza irrigidimenti alle altre confessioni e alle altre chiese, ma sottolineò di nuovo la differenza fra l’essenza prima della Chiesa Protestante, che è appunto il riformarsi continuamente sulla base delle decisioni che vengono dal basso, e quella della Chiesa Romana in cui ciò non può avvenire, essendo essa verticalista e concepita come incarnazione di Gesù Cristo. Seguì una domanda sulla giustificazione per grazia e non per opere nella visione luterana. Il dott. Maruschke rispose che la Grazia viene da Dio e quando l’uomo ha ricevuto la Grazia da Dio può operare azioni giuste (i frutti si riconoscono dall’albero). Quindi le azioni sono il risultato della Grazia, e non dell’uomo, in cui c’è sempre una lotta fra il bene e il male, proprio perché viviamo nel mondo che è terreno di peccato e non potremo quindi operare in modo veramente giusto, fino a che non verrà il Regno di Dio. Venne replicato allora che quando l’uomo non opera il bene ma il male, questo non sarebbe colpa sua perché sarebbe Dio che non gli ha concesso la Grazia (la platea sorride), e ciò toglierebbe quindi responsabilità e pregnanza alla libera decisionalità umana. Il Prof. Garrone rispose che il discorso non va visto a livello individuale, ma a livello di umanità intera. Anche Sant’Agostino (riscoperto da Lutero) affermava che Dio ci salva non per nostro merito o per il riconoscimento del nostro operato, che è sempre imperfetto, ma per la decisione di Dio di venire incontro alla sua creatura, malgrado tutti i suoi peccati (a partire dal peccato originale) e il massimo dei suoi peccati è proprio quello di pensare che l’uomo possa redimersi da solo, in funzione delle sue opere. Esse

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Il mistero dell’elefante

diventeranno buone quando accetterò che derivano dalla Grazia e non dal mio merito personale. Altra domanda venne posta sulla questione della guerra e della pace. Cosa significa essere Cristiani, a proposito di tali dilemmi di natura politica? Se come credente in Cristo devo offrire l’altra guancia è giusto che lo faccia, ad esempio, anche come governante, quando ciò può comportare la sopraffazione e l’oppressione di altri esseri umani del mio stesso popolo di cui sono responsabile? I relatori concordarono nel rispondere che il comportamento del singolo individuo nel privato va distinto da quello di chi ha ruoli pubblici e va distinto inoltre se le conseguenze della propria non aggressività ricadono solo su se stessi o anche su altri. Il Prof. Garrone citò un esempio riportato da Lutero in cui fu chiesto ad una persona cosa fare, vedendo degli uomini che stavano per stuprare una donna, avendo un bastone a portata di mano. La persona rispose: «Niente perché noi Cristiani dobbiamo porgere l’altra guancia». E Lutero replicò significativamente «Sì, la propria, ma non la guancia della donna». Altro quindi è il nostro diritto di subire le conseguenze della nostra non aggressività ed altro è il diritto dell’altro, anche nella decisione di un governante, che non può sacrificare ai suoi ideali di pacifismo il popolo di cui è responsabile. Come del resto — prosegue il Prof. Garrone — non si può ad esempio impedire l’opera dei Tribunali di Giustizia solo per aderire al principio che l’uomo non deve giudicare il suo prossimo, visto che qui si tratta del bene comune. Riferirò solo, per concludere, di un’altra domanda posta sul matrimonio omosessuale e sulla procreazione delegata ad altri (il cosiddetto utero in affitto). Il Prof. Garrone sostenne la sua personale opinione che il matrimonio sia un civile negozio che non è stato affatto istituito come monogamico e indissolubile sin dal giardino dell’Eden. Come spiegare altrimenti le tanti mogli dei patriarchi e dello stesso Salomone? Il matrimonio è continuamente ed enormemente cambiato nel corso della storia — egli affermò — ed io personalmente farei sposare tutte le coppie (gay compresi) in municipio, salvo poi chiedere di celebrare il matrimonio religioso solo a chi veramente crede nei valori cristiani (e non nella pompa della cerimonia). Quanto al matrimonio gay, la Bibbia non dà risposte e non parla

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di questo tema. Venne obbiettato dalla platea che nell’Apocalisse si parla espressamente della condanna dei sodomiti, ma il prof. Garrone disse che in quel caso si parlava di Sodoma e Gomorra, dove degli eterosessuali agivano per vizio e deviazione sessuale, il che non è paragonabile ad una coppia omosessuale unita da vero amore. E sento oggi risuonare nelle mie orecchie la frase stupenda di Papa Francesco: «Chi sono io per giudicare un omosessuale?» Ma purtroppo ancora non l’aveva pronunciata. Quanto alla sterilità e all’utero preso in prestito, egli pensa che forse a volte bisognerebbe cominciare ad accettare di più i limiti imposti dalla natura umana, che purtroppo possono comportare anche eventuali impossibilità a procreare, e sentirsi quindi meno onnipotenti di fronte ad essa. L’interesse principale di questo incontro è stato proprio nell’attualità dei temi che sono stati sollevati, anche attraverso i quesiti dei partecipanti. Ammiro molto — devo dirlo — la capacità dei Valdesi in particolare, di avere una visione assolutamente dinamica e sempre in cambiamento della realtà umana e delle risposte che ad essa la religione può e deve dare, e ciò mi ha portato allora a significativi raffronti con la visione dinamico- evolutiva di un Carlo Molari (recentemente ascoltato) ed anche di un Dalai Lama (le cui affermazioni sono sempre dotate di un illuminante senso di concretezza, di senso di realtà e quindi mai di immobilismo), come pure di Laurence Freeman e di tanti altri spiriti aperti e illuminati, alcuni dei quali sono stati o saranno citati anche in questi scritti, perché da me profondamente ammirati e amati. La spiritualità, a mio modesto avviso, non ci deve relegare in una sfera astratta di trascendenza, ma aiutare anche ad affrontare in modo adeguato ed ottimale la nostra vita terrena, con tutti i dilemmi e le problematiche quotidiane che essa ci impone e che cambiano e si evolvono col passare del tempo. Non riesco a non esprimere ancora una volta la mia convinzione profonda che il Cristo non sia stato mai, nelle sue parole come nei suoi comportamenti, un replicante od un conformista, bensì un eccezionale Innovatore e Riformatore anche a livello sociale e che quindi dare al suo messaggio un’impronta immobilista e resistente al cambiamento non possa costituire che un travisamento, direi,

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indegno ed offensivo per il suo Grande Ispiratore. Se è vero, come afferma Paolo Ricca e come io condivido, che una delle “novità” del messaggio di Gesù Cristo fu proprio quella di rifiutare la legge laddove essa era di intralcio o di danno al bene dell’uomo (il famoso sabato che deve servire all’uomo e non l’uomo al sabato) se ne deduce che questa legge non può essere immutabile, ma deve adeguarsi alla storia e al mutare dei tempi. Certo, all’epoca di Gesù non poteva esistere un “accanimento terapeutico” visto il livello ancora primitivo delle conoscenze mediche e scientifiche, ma se ciò che conta davvero è essere giusti nei confronti dell’uomo e porsi verso le creature con l’amore totale, incondizionato e gratuito che egli ci ha mostrato, non credo ci possano essere dubbi su ciò che si debba considerare “cristiano” (nelle circostanze ad esempio di una Eluana Englaro o di altri malati irreversibili) e quale, invece, non lo sia. Così come, se Egli si interessava, parlava e frequentava samaritani, pubblicani e prostitute, non si vede perché, ad esempio, dovrebbe oggi discriminare nei confronti degli omosessuali. Essere cristiani non significa battersi il petto in chiesa e poi uscire ad ammazzare il prossimo come un mafioso, o a criticarlo e giudicarlo come un fariseo, ma significa, ad esempio, non rifiutare la Comunione ad un divorziato o ad un omosessuale... che hanno forse ancora più bisogno degli altri di questo aiuto. E staremo a vedere, a questo proposito, cosa deciderà il Sinodo convocato da Papa Francesco. Osiamo sperare che questo sia l’inizio anche di molti altri cambiamenti, che aprano la Chiesa ad un vero ravvicinamento con i Protestanti (e viceversa, ovviamente) e ad un ascolto sempre più attento ed empatico delle problematiche che via via nascono nel mondo, per offrire risposte attuali, in armonia con i tempi che cambiano, ma anche in armonia con il vero spirito di misericordia ed amore per il nostro prossimo, insegnatoci proprio da Gesù Cristo. Comunque questi incontri con i Protestanti — come poi i successivi che vedremo — mi rafforzarono nell’idea che anche da loro abbiamo tutti molto da imparare.

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5.4

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Incontro con le Chiese Avventista e Metodista

Relatrice della Chiesa Avventista del settimo giorno (così chiamata in quanto in attesa del preannunciato ritorno di Cristo su questa terra) fu la dott. Dora Bognandi (presidente del Dipartimento Libertà Religiosa della Chiesa Avventista), Chiesa che venne riconosciuta dallo Stato Italiano nel 1987-88. Ella parlò prevalentemente della ricerca di speranza e di salvezza dell’uomo — credente e non credente — e citò una metafora di Norberto Bobbio che vede l’essere umano come una mosca caduta in una bottiglia, che si dimena e, se ha fortuna, riesce anche ad uscirne (se non c’è il tappo), o come un pesce caduto in una rete, che rimane lì fermo per paura che la rete lo intrappoli anche di più, o come una creatura (il laico), che si trova in un labirinto e cerca con la sua intelligenza varie strade di fuga, l’una dopo l’altra, per poterne uscire, ma non ci riesce. Ella poi così si espresse: Per il cristiano il ponte levatoio che lo porterà fuori dal labirinto è Gesù, che salva e che, come dice Luca, porta la libertà a chi è schiavo. Egli può salvarci perché Lui stesso era libero dagli stereotipi del suo tempo, dalle tentazioni del potere, della ricchezza o della fama e osservava la legge senza però rendersene mai schiavo, ove questa non fosse a misura d’uomo. Non ebbe mai paura di essere in minoranza nella sua società, rispettò e valorizzò i diseredati e non fu forte con i deboli, né debole con i forti, ma fu allo stesso tempo agnello e leone.

Ella crede che sia questo il significato principale del messaggio di Cristo ancor oggi, per essere liberi DI (credere o non credere), liberi DA (condizionamenti, convenienze e poteri), e liberi PER (rendere liberi anche gli altri). Inoltre la Chiesa Avventista ritiene che la salvezza non debba riguardare solo l’aldilà, ma questa terra, e perciò essa si dedica a molte attività di stampo prettamente terreno, come l’igiene e la cura del corpo attraverso una sana alimentazione prevalentemente vegetariana (e per questo, ad esempio, esistono numerose fabbriche alimentari gestite da avventisti mirate a produrre cibi sani). Il Rev. Trevor Hoggard ci spiegò che: Il metodismo fu inizialmente un movimento missionario della Chiesa Anglicana, fondato nel 1700 in Georgia dai fratelli Wesley, per evangelizzare gli indiani d’America. Essi crearono piccoli gruppi di convertiti che leggevano la Bibbia e si confessavano senza ministri intermediari.

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I pastori metodisti sono uomini e donne e possono sposarsi. Viene predicato un amore non esclusivo ma inclusivo, nel concetto che Dio ama tutti gli uomini, sia chi crede che chi potrebbe credere, e confida in un cambiamento progressivo del credente (dottrina della santificazione) che porta alla restaurazione graduale della forma divina insita nell’essere umano, processo questo disponibile per tutti i fedeli. Per i Metodisti il Cristianesimo è una religione sociale, attraverso cui tutti possono cambiare se stessi e, di conseguenza, cambiare il mondo, e non è una fede che si ripiega sul singolo individuo, ma che viene spesa per gli altri.

«La Fede che non si spende per gli altri» concluse il Rev. Hoggard «non è da veri Cristiani», e questo concetto mi sembrò particolarmente utile in una società come la nostra attuale, così ferocemente individualista e priva di solidarietà. Mi scuso con questi due relatori per aver forse eccessivamente riassunto i loro interventi, ma purtroppo, in questa circostanza, il registratore mi tradì e ho potuto quindi contare solo sulla mia memoria e sugli appunti da me presi durante l’incontro. Questa è quindi l’unica ragione per cui mi sono limitata a queste poche considerazioni, malgrado l’interesse delle loro più ricche ed elaborate relazioni.

5.5

Incontro fra Chiesa Anglicana e Cattolica

Concludemmo la serie di incontri ecumenici con un evento che risultò forse fra i più interessanti, anche per la piena assonanza di ottica fra il relatore anglicano e quello cattolico. Quanto all’origine di questo incontro, fu proprio Padre Laurence (che mi ha sempre stimolato a continuare questa attività interreligiosa in cui anch’egli crede molto) a consigliarmi di contattare i rappresentanti della Chiesa Anglicana in Roma a suo nome (visto che a Londra egli è molto amico dell’Arcivescovo di Canterbury). Fu così che una domenica fui invitata dal Rev. David Richardson all’Anglican Centre in Rome (di cui è Presidente) con sede a Palazzo Pamphili, in Piazza del Collegio Romano, per assistere con lui e la sua famiglia alla loro Messa e per condividere poi un pasto con loro ed altre persone appartenenti anche ad altre fedi cristiane. Fu una giornata piacevolissima che ricordo con gioia, ma fu an-

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che fonte di ulteriore convinzione che ciò che ci divide ormai, in particolare, con tale tipo di protestantesimo, sia, nella sostanza, ben superabile. La Messa mi sembrò la nostra, ad eccezione del fatto che veniva pronunciata in inglese, ed infatti gli Anglicani hanno dogmi e rituali religiosi molto simili al Cattolicesimo: perfino i parati liturgici usati nelle celebrazioni sono simili ai nostri e i celebranti si chiamano “preti” come i nostri sacerdoti. Però si possono sposare. Successivamente, il Rev. David Richardson fu ospite di un nostro incontro, unitamente a Padre Laurence, che, con il suo solito humour inglese, iniziò la riunione facendoci fare una bella risata, notando quanto tutto in quel contesto fosse piuttosto surreale, visto che lui, inglese, era Cattolico, che il Rev Richardson, australiano, era Anglicano, che la traduttrice era Buddista e che in lontananza, pur essendo vicinissimi a San Pietro, invece di musiche sacre si sentivano echi di musica jazz provenienti da un pub adiacente alla nostra sala. Il Rev. Richardson iniziò illustrando sinteticamente le origini dell’Anglicanesimo, puntualizzando come esse non vadano tanto fatte risalire ad Enrico VIII — come di solito affermano i libri di storia — poiché questo sovrano non voleva il divorzio ma l’annullamento del matrimonio e, pur essendo stato scomunicato dal Papa, si considerò sempre un buon cattolico. Fu piuttosto la figlia Elisabetta I che mise la Chiesa sul sentiero di un Protestantesimo poi definito Anglicanesimo. Pio V cercò di resisterle con una guerra, la scomunicò, e da quel momento furono attuati molti aspetti della Riforma. «Uno di questi consiste nel non credere nell’infallibilità del Papa e gli Anglicani furono molto felici — affermò il Reverendo — quando Giovanni Paolo II iniziò un dialogo sul ruolo del Papa nella Chiesa». Quanto alle somiglianze, egli confermò che gli Anglicani condividono le scritture canoniche. Passò poi a raccontare degli aneddoti molto significativi. Il primo parlava di un sant’uomo che meditava ogni mattina sulla riva del Gange. Un giorno vide uno scorpione intrappolato nelle radici di un albero trascinato dal fiume. Si buttò nell’acqua e cercò di aiutarlo, ma lo scorpione si girò e lo morse ripetutamente sul braccio, per cui, malgrado i suoi vari tentativi, non riusciva nel suo intento di liberarlo.

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Il mistero dell’elefante

Un uomo lo vide dalla riva e gli gridò: «Non ti rendi conto che questo animale non merita il tuo sforzo?» Egli rispose: «Poiché la natura dello scorpione è quella di pungere io dovrei rinunciare alla mia che è quella di salvare?» A questo racconto, di chiara origine orientale, il Rev. Richardson ne fece seguire un altro di matrice cristiana, ma di significato affine. Il cap. V del Vangelo di Giovanni racconta di un uomo che giaceva vicino ad uno specchio d’acqua che si diceva avere un potere di guarigione. Nelle vicinanze c’era un tempio e molti malati arrivavano per essere guariti. L’uomo era stato lì per 38 anni quando arrivò Gesù che gli chiese: «Vuoi guarire?» Lui rispose che non aveva nessuno che lo potesse accompagnare a bagnarsi nell’acqua risanatrice. Gesù allora disse: «Alzati e cammina» e quello si alzò e iniziò a camminare. Non aveva risposto alla domanda se volesse essere guarito, perché non è possibile che in ben 38 anni non avesse mai trovato il modo di avvicinarsi all’acqua! La realtà è che non voleva guarire perché non voleva cambiare. Se vogliamo avere un futuro dobbiamo far morire il presente. Secondo la legge mosaica, quell’uomo di sabato non avrebbe dovuto camminare, portando per di più il suo tappetino sotto il braccio. Gli fu chiesto chi l’avesse guarito e lui rispose: «Gesù.» Non solo se ne era andato senza ringraziare per essere stato guarito, ma mise pure il suo guaritore in una posizione difficile. Sicuramente quest’uomo (come lo scorpione dell’aneddoto precedente) non meritava ciò che Gesù aveva fatto per lui, e fu guarito non per i suoi meriti ma perché l’amore era la natura di Gesù. Dio ci ama a dispetto di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri difetti. Noi invece parliamo d’amore ma poi distinguiamo fra chi lo merita e chi no. «Anche la Chiesa — disse il Rev. Richardson — si macchia della colpa di amare solo quelli che ritiene degni di essere amati. La grazia invece semplicemente accade e ci avvolge tutti. Ciò che dobbiamo sempre chiederci — aggiunse — è se le parole che noi utilizziamo corrispondano alla Parola. Le sue parole mi ricordarono molto le tesi di due sacerdoti, per me grandi guide spirituali, che sono Dan Carlo Molari e Don Pino Cangiano, che insistono sempre sulla nuova immagine di Dio che Gesù ci ha trasmesso: un Dio che non punisce ma comprende, che

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non giudica ma abbraccia, dando la possibilità così al peccatore di ravvedersi nell’amore. Basti pensare a parabole come quella del figliol prodigo o dell’adultera (che abbiamo già citato), in cui non viene chiesto ai peccatori di pentirsi, ma in cui essi vengono accolti col perdono e con l’amore riservato alle “pecorelle smarrite”, chiedendo loro al massimo — e nemmeno sempre — di non peccare più. L’oratore concluse parlando del suo lavoro che è ecumenico, e che si occupa del dialogo fra la Chiesa Anglicana e la Chiesa Cattolica, dialogo non sempre facile, per la diversità frequente di ottiche e modi di pensare. Citò a questo proposito un ulteriore e significativo aneddoto: «Due uomini stanno ciascuno sulla riva opposta di un fiume. Il primo chiede: “Come posso passare dall’altra parte?” e il secondo risponde: “Ci sei già”. Nell’esprimerci dobbiamo tenere sempre conto della difficoltà di capirsi, per la diversa ottica dell’altro. La chiave per capirsi è chiedersi se parlando in un certo modo costruiamo oppure distruggiamo e diamo energia o invece la togliamo all’altro. Se sapremo gestire bene il rapporto con noi stessi gestiremo meglio anche il rapporto con gli altri. Nell’ecumenismo è sempre molto importante tenere presente questa difficoltà di reciproca comprensione e chiedersi se le parole che stiamo usando corrispondono alla Parola. Ricordò infine ciò che San Paolo afferma nelle lettere: «per la libertà Cristo ci ha resi liberi. Nell’ecumenismo è anche fondamentale tenere sempre presente il principio di libertà» e ribadì, a questo proposito, senza saperlo, un concetto già da noi ascoltato precedentemente dalla rappresentante della Chiesa Avventista, cosa non poco significativa nel cogliere la sostanziale affinità fra queste confessioni È stata quindi la volta di Padre Laurence, il quale ha esternato tutta la sua ammirazione per chi lavora nel campo ecumenico, che richiede grandi doti di pazienza e tolleranza, doti a suo avviso meno necessarie in un contesto contemplativo come quello in cui lui opera. Egli vede l’unità dei Cristiani essenziale per la Cristianità e per l’efficacia dei Vangeli: Gesù infatti non parla di amore solo per una fetta di umanità, ma per tutti.

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Il mistero dell’elefante

Peraltro, l’immagine originaria della Cristianità è stata nel tempo pesantemente danneggiata. Basti pensare a ciò che è accaduto in Irlanda o in Ruanda(lì l’80% si diceva cristiano) o nella Bosnia... Anche i grandi centri della Cristianità sono essi stessi molto divisi, e questo non vale solo per Roma, ma per tutto il mondo: la sede del Santo Sepolcro ne è un esempio, come esatto opposto allo Spirito Santo. Come cristiani, non diamo al mondo un’immagine molto bella, un po’ come la Toyota — aggiunse umoristicamente — che emette e manda per il mondo macchine difettose. È solo l’amore e l’unione della Cristianità che può essere un mezzo per rialzare questa bassa immagine che si è creata, malgrado ci siano individui, chiese, comunità davvero meritevoli. Ma è la dimensione istituzionale che è difettosa e purtroppo in TV o nei media nessuno si occupa del buono, ma solo del cattivo e vengono riportati solo gli scandali. Più spesso quelli sessuali perché il sesso serve di più a vendere e ad essere venduto. Nietsche diceva che Eros una volta era una divinità, ma noi lo abbiamo trasformato in un demone... E tutto questo riesce a tenere nascosta la vera fede. Il concilio Vaticano II tentò di rinnovare l’intera cristianità. Papa Giovanni si rifiutò di condannare il mondo moderno, come voleva la Curia, ed affermò che la Chiesa non rifiuta niente di ciò che è sacro per le altre religioni, non riconoscendosi come l’unica fonte di salvezza, ma come fonte di riunificazione e di amore. Quarant’anni anni fa il risveglio, oggi un periodo di adattamento e di transizione (eravamo nel maggio 2010). Dovremmo guardare ai Profeti che parlano di non cedere alla tentazione del potere, perché tutti ci cadiamo. Simone Weil, una profetessa ebrea del Cristianesimo, diceva di non accettare la Chiesa perché avrebbe dovuto escludere le persone che la Chiesa non accettava. Bonhoeffer nel ’35 era profondamente deluso e ferito dall’incapacità dei cristiani tedeschi di rifiutare il nazismo (e morì proprio per non rinnegare la sua fede). Dobbiamo vedere oggi il Cristianesimo come un luogo in cui si rinuncia al potere, un male che contamina tutti, e siamo quindi tutti coinvolti nel processo di purificazione della Chiesa. Il Regno di Dio è dentro di noi e dentro di noi deve fiorire. Non vogliamo avere una “mente romana” o una “mente di Canterbury”, ma una “mente di Gesù”. L’unico modello da rispettare è un modello pluralistico perché solo la pluralità può dare unità a tutte le diversità esistenti. Tutto questo può scaturire solo dalla vita dei cristiani di base e dalla contemplazio-

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ne, necessaria per raggiungere l’unità: l’ecumenismo spirituale. Il fine non sono le grandi Chiese, ma la fede, ed è solo dalla base che può giungere il cambiamento. Concluse: noi non abbiamo il compito di convertire: il nostro compito è quello di vivere Cristo.

Si può ben immaginare quanto tutti gli ascoltatori, me compresa, siano rimasti entusiasti da queste dichiarazioni, come sempre avviene quando si sente risuonare nell’aria lo spirito di un messaggio di vera fede, espresso da persone che ci credono veramente, come nel caso di questi due nostri esimi ed amati relatori, che, oltretutto, parlavano all’unisono, ed esprimevano concetti che anche molti di noi condividevano profondamente. Oggi, rileggendo ciò che questi illustri personaggi dissero nel maggio 2010, non posso che rallegrarmi pensando a quanto il nostro grande Papa Francesco stia operando proprio nella direzione da loro auspicata, perché la parola della Chiesa si ricongiunga alla Parola di Cristo, perché la libertà di tutti sia rispettata e si smetta di giudicare l’altro in base solo alla propria ottica unilaterale. E mi risuonano anche le sue parole illuminate quando affermò che il potere ha una sola giustificazione: essere messo al servizio del bene comune (cosa che ben pochi oggi sembrano ricordare, anche a livello politico e individuale). A conclusione di tutti questi numerosi incontri fra varie confessioni cristiane, non potei non riflettere sui tanti punti in comune che legano i culti non cattolici al cattolicesimo (come anche da queste righe sarà risultato evidente) e mi chiedo a tutt’oggi se una mentalità aperta, elastica, consapevole e umilmente benevola, (come quella di Papa Francesco) non possa davvero riuscire ad unificare tutti questi credi cristiani, che, nella sostanza, mi sono sembrati così affini e conciliabili, a condizione che non si pretenda, come nel passato, la supremazia della Chiesa cattolica su di loro e a condizione di accettare le differenze non superabili, senza per questo pregiudicare l’unità dei cristiani. Anche i fratelli possono presentare delle diversità, che vanno rispettate. L’unione in Cristo dovrebbe oggi essere più forte delle divergenze, perché i tempi sono totalmente cambiati rispetto a quelli della Riforma (avvenuta ben 500 anni or sono) e lo stesso potere della Chiesa di Roma non è più temporale ma solo spirituale.

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Il mistero dell’elefante

Certamente ci sono degli scogli da superare: alcune divergenze a livello dottrinale, come, ad esempio, un diverso concetto del Battesimo e dell’Eucarestia, il ruolo delle donne nella gerarchia ecclesiastica, il celibato dei preti, una concezione non più solo verticalista del potere ecclesiastico, la libera interpretazione delle Scritture... ma credo che oggi già si stia sulla strada di rivedere molte di queste problematiche nella stessa Chiesa di Roma, e, con il tempo, mi auguro che un incontro possa realizzarsi, purché si accetti, con pazienza, di non avere fretta. Come in psicoterapia, quando i mali sono molto remoti, bisogna avere il tempo di coscientizzarli, elaborarli e quindi affrontarli con piccoli passi successivi. Del resto (e non è poco) il Papa è arrivato a chiedere scusa alle Chiese non Cattoliche per tutto ciò che la Chiesa di Roma ha fatto loro patire nel passato e mi dicono che a Santa Marta il Vescovo di Roma preghi spesso al mattino affiancato da un Pastore Protestante. Ancora più positiva e quasi sorprendente è la notizia che, per la prima volta nella storia, un Papa si è incontrato con un Patriarca ortodosso: l’incontro è avvenuto il 12 febbraio 2016 fra Papa Francesco e il Patriarca Russo Kirill e speriamo che questo passo giovi a rapporti che finora sono stati molto difficili — per non dire ostili — a partire dalla grande rottura avvenuta nel 1054 tra Oriente e Occidente. Il 5 marzo, poi, si è verificata la prima udienza di una delegazione delle Chiese Valdese e Metodista in Vaticano e il moderatore della tavola Valdese Eugenio Bernardini si è così espresso: «Il Papa ci ha spronati a proseguire sulla strada dell’azione comune al servizio degli altri, sottolineando che l’ecumenismo della carità è il fatto fondamentale di quest’epoca.» Pare veramente che una nuova strada di confluenza si sia aperta. Mi sembra quasi un miracolo che tale mutamento abbia avuto inizio, e prego davvero che esso possa durare tanto da dare risultati concreti e irreversibili. Tornando ai nostri incontri, le mie esperienze non erano finite, e mi portarono negli anni successivi ad ancor più ardue imprese, come ora cercheremo di vedere brevemente.

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CAPITOLO 6

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I CONVEGNI INTERRELIGIOSI AL CAMPIDOGLIO A volte, nella nostra insicurezza, crediamo di essere inadeguati e impossibilitati quindi a mirare più in alto, mentre, se osiamo, constatiamo che l’obiettivo si poteva raggiungere facilmente. Fu il mio caso allorché (pur sempre grata alla dott. Oddi Baglioni che ci aveva permesso per ben quattro anni di svolgere i nostri incontri nella sala del suo Club Culturale Montevecchio), osai, senza avere alcuna conoscenza in loco, rivolgermi al Comune di Roma, sperando di poter avere l’uso di una sala in Campidoglio, dove organizzare un Convegno Interreligioso di ben altre dimensioni. Inoltre, devo dire onestamente che ero oltremodo affaticata dal ritmo martellante di quegli incontri mensili, con tutto ciò che comportavano di lavoro, e desideravo degli intervalli meno ravvicinati, compensati da una frequenza più numerosa. Al di là di ogni aspettativa, ottenni quanto richiesto e mi fu data la splendida sala Pietro da Cortona, nella Pinacoteca dei Musei Capitolini, con una capienza di ben 140 persone ed una meravigliosa terrazza da cui, negli intervalli, potemmo ammirare il panorama di tutta Roma. Temetti, a questo punto, che molti posti rimanessero vuoti — anche per il disinteresse che oggi è generalmente rivolto alle questioni religiose — e mi diedi da fare a recapitare (leggasi “portare a mano”) varie locandine, specialmente nelle principali Biblioteche ed Università romane, perché desideravo in primis che fossero proprio i giovani questa volta ad essere coinvolti. Fui invece felice di vedere la sala tutta piena, coll’imbarazzo perfino di osservare alcune persone costrette a stare in piedi. Credo che tanto pubblico sia stato attratto sia dalla tematica “I valori che i messaggi originari delle varie fedi ci hanno tramandato (e che nel tempo abbiamo spesso dimenticato)”, sia da un cast di relatori veramente di grande spessore quali (in ordine alfabetico): • prof. Daniele Bollini e Fabio Risolo per la fede buddhista;

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Il mistero dell’elefante

• prof. Adnane Mokrani per la religione islamica; • don Carlo Molari, per la religione cristiana; • prof. Guido Morisco, per la fede Baha’ì; • prof. Marco Morselli per l’ebraismo. Tutti nomi che non restano nuovi a chi ha letto fin qui queste righe, ma nemmeno al pubblico romano e non, per la loro alta credibilità. La sottoscritta si occupò di introdurre i lavori, e la dott. Oddi Baglioni di fare da moderatrice. Qual’era la mia finalità? Direi duplice: da un lato portare un dibattito interreligioso alla portata di un grande pubblico, visto che la mentalità interreligiosa non è ancora così diffusa, almeno in Italia. Affissi infatti in bella vista sotto il lungo tavolo dei relatori un poster con la scritta del detto di Hans Kung, che ho già precedentemente citato e che suona: Non c’è pace tra le nazioni senza pace fra i popoli, non c’è pace tra i popoli senza pace tra le religioni, non c’è pace tra le religioni senza conoscenza dei fondamenti delle religioni stesse. Il secondo scopo era quello (già qui più volte ribadito) di tentare di lottare — almeno nel nostro piccolo — contro i disvalori imperanti nella nostra società, come l’egocentrismo, l’individualismo, il materialismo, la ricerca di denaro, potere e successo, come uniche fonti di autorealizzazione, cancri che hanno sostituito quegli alti Valori costruttivi e benefici che, appunto, i messaggi originari delle varie Fedi ci avevano tramandato ma che noi — e spesso anche le stesse religioni — abbiamo in gran parte dimenticato. Mi ispirarono anche alcune affermazioni del grande Panikkkar che così suonavano: «Se da una parte è evidente che dobbiamo studiare le altre religioni, è importante ricordare che l’essenza del dialogo è l’incontro fra persone. Per capire (understand) gli altri, dobbiamo stare al di sotto (stand under), ascoltando con umiltà». Iniziando, spiegai ai presenti quelle che erano state le mie intenzioni nel convocare questo convegno e parlai di come tutti i messaggi originari delle religioni, fin dalle più antiche, siano portatori di altissimi valori, anche a livello di comportamento quotidiano e, come primo esempio, lessi un brevissimo brano tratto dai Veda, una

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6. I convegni interreligiosi al Campidoglio

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tradizione orale che fu trascritta verso il 1200 a.C. ma che risale a molti millenni prima, addirittura all’epoca in cui gli Arii erano ancora al centro dell’Asia, prima di trasferirsi in India e poi verso l’Europa. Esso dice:

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Se facemmo torto ad un fratello, un amico, un compagno, un vicino, un indigeno o un forestiero, o a chi è stretto da un patto, o Dio Varuna, dissolvi ciò. Se, come fanno i bari al gioco, abbiamo ingannato, sia che ciò sia evidente sia che lo ignoriamo, dissolvi tutto ciò, o Dio Varuna, cosicché possiamo essere cari a te.

E successivamente lessi altre brevi citazioni, anch’esse molto antiche nel tempo. Un brano del Profeta Isaia (che visse nel VII sec. a.C., anche se lo scritto risale probabilmente al V sec a.C.) afferma: «Se toglierai da te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio». Confucio, nel VI secolo a.C. diceva: «Tutti coloro che hanno un’anima non possono sopportare di vedere gli altri soffrire» e, ancora, aggiungeva: «Nutrirsi di cibo comune, bere acqua, far cuscino del braccio, anche così si può essere felici: ricchezze ed onori mal acquisiti sono come nubi fuggenti». Con questo, puntualizzai, non intendevo dire che le religioni abbiano il monopolio dell’etica, né che l’etica sia nata dalle religioni, perché esiste anche un’etica laica, ricca di valori altissimi e rispettabilissimi, pur non essendo religiosa. Ciò non toglie che le religioni siano sempre state validissime e importantissime portavoce per la diffusione di valori etici e spirituali, di cui avremmo tanto bisogno anche oggi e di cui speriamo esse riescano a farsi di nuovo credibili intermediari1 . In primis, la solidarietà e l’amore per il prossimo, quella qualità che gli antichi romani chiamavano pietas, i cristiani carità, i buddisti compassione e la psicologia empatia, qualità che oggi sembra essersi persa (lo psicanalista Zoja ha scritto recentemente un libro proprio sulla Morte del prossimo). E, a questo proposito, ho concluso la mia introduzione leggendo proprio un brano sulla perdita della solidarietà, espresso nella 1. Dall’articolo Alcune osservazioni sul dialogo interreligioso pubblicato sulla rivista “Interdependence”, alcuni giorni dopo l’incontro.

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metafora di un sogno. Si tratta di un brano di Giorgio Gaber, un autore che, pur non essendo religioso, è fra i miei preferiti per la sua profonda sensibilità. Il brano che lessi era intitolato “Il sogno interrotto” e ve lo ripropongo, anche come omaggio a quest’uomo che non fu solo un cantautore, ma anche un filosofo e un poeta: Il sogno rappresenta un uomo su una barca. Di fronte, dietro, ai lati, c’è il mare. Non è un mare agitato. C’è qualche onda, ma la barca regge bene. L’uomo è sereno, tranquillo, fino a quando avviene un fatto: all’orizzonte comincia a vedere un punto; all’inizio sembra immobile, forse uno scoglio, poi si accorge che si muove. Pensa che potrebbe essere un grosso pesce, ma, man mano che si avvicina, capisce che è un uomo. Una persona. Vede che si sta avvicinando, pensa che potrebbe avere bisogno di lui, nota che sta annaspando, sta per affogare, è in grossa difficoltà. Pensa: devo aiutarlo, sono sempre stato solidale, ho sempre creduto nell’altro. Pausa. Riprendono i pensieri: però potrebbero esserci delle complicazioni, forse la barca non ce la farà, si potrebbe ribaltare, non c’è spazio per tutti e due, farò molta più fatica a remare per due... Mentre nella sua mente si accavallano questi pensieri, l’uomo in mare si avvicina alla barca. Lui si sta ancora arrovellando e si sta chiedendo: gli tendo il remo per farlo salire? lo aiuto? Io che persona sono veramente? A quel punto il sogno si interrompe, lui si sveglia senza riuscire a conoscere se stesso, a capire chi sia veramente. Il sogno si ripete e si ripete, senza mai arrivare alla fine. Finché una notte si ritrova in quel preciso momento. Con una differenza: lui non è più sulla barca, ma sta nuotando in mezzo al mare, è in difficoltà, annaspa. Vede un uomo su una barca e pensa: è la mia salvezza, è fatta. L’altro mi aiuterà, certamente sono salvo. Con le ultime forze che ha in corpo, nuota verso la barca, ma quel remo teso inevitabilmente lo abbatte e lo fa affogare. Al risveglio l’uomo ha avuto la sua risposta. L’altro siamo noi, siamo sempre anche noi.

Lessi questo brano (che mostra anche tante evidenti assonanze con le tragedie che avvengono quotidianamente nei nostri mari) per indicare come molti problemi attuali a livello sociale potranno essere risolti solo superando i nostri egoismi e le nostre paure e

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6. I convegni interreligiosi al Campidoglio

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mettendoci, almeno qualche volta, nei panni degli altri in prima persona (come il protagonista del sogno è costretto a fare nello scambio dei ruoli). Cercherò di riassumere brevemente gli interventi dei vari relatori, scusandomi per essermi dilungata forse troppo sul mio. Il dott. Marco Morselli, prima di affrontare la tematica del Convegno, volle puntualizzare alcuni concetti base dell’Ebraismo, cosa sempre utile, vista la nostra più volte affermata ignoranza nei confronti delle altre religioni. Cos’é la Torah? Il termine significa insegnamento e designa in primo luogo i cinque libri del Pentateuco; ad essi vanno poi aggiunti gli Scritti dei Profeti e gli Agiografi. Va tenuto presente però che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale: in una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico (e cioè la distruzione del Tempio), la Torah orale venne messa per iscritto, ed abbiamo così la Mishnah. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmud. Abbiamo poi ancora il Midrash e la Qabbalah. Il Talmud fa parte della storia degli Ebrei da millenni... e più che un libro è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire... La Qabbalah (che noi chiamiamo Cabala) è la mistica ebraica, in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano.

Egli affrontò poi la tematica dei valori affermando: Quali sono i valori che il messaggio originario della Torah ci ha tramandato e che noi nel tempo abbiamo dimenticato? Secondo Rav Elia Benamozegh il valore della cui perdita l’umanità piange ancora è quello della connessione tra la dimensione universalistica (della Creazione e della Redenzione) e quella particolaristica della Rivelazione. L’ebraismo per millenni è stato accusato di essere una religione particolaristica (e cioè centrata solo sul popolo eletto di Israele e basata su un numero enorme di comandamenti n.d.a.). Nell’ebraismo in realtà ci sono tre alleanze principali fra Dio e l’uomo: la prima è stipulata con l’umanità intera e contiene i 7 precetti noachidi (una morale universale). La seconda è stipulata con Abramo e ai 7 precetti se ne aggiunge un ottavo: la circoncisione. La terza è l’alleanza con Israele, con i suoi 613 precetti. Nel mio libro I passi del Messia mi chiedevo se Yeshua (Gesù) abbia o meno abolito la Torah e mi rispondevo che non lo fece, visto che lo stesso Marco(5,17-19) riporta parole di Gesù che confermano questa continuità. Se quindi la Torah non sarà più considerata superata da parte dei

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Il mistero dell’elefante

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discepoli di Gesù, questo consentirà di sanare quello scisma del 1 secolo che ha causato tanti danni agli ebrei e ai cristiani, a beneficio dell’intera umanità.

I dotti insegnamenti del Prof. Morselli — che io stessa mi auguro di aver riferito brevemente ma correttamente — sono spesso molto complessi, forse troppo, per la nostra generale ignoranza, e spero che quindi, anche in questa circostanza, siano stati capiti ed apprezzati dalla maggioranza dei presenti nel loro corretto significato. Seguì la relazione del Prof. Bollini, il quale tornò a parlare di quella qualità basilare per il Buddhismo Shambhala che è la Bontà Fondamentale, di cui i lettori hanno già sentito parlare in alcuni precedenti incontri. La Bontà Fondamentale per un Buddhista Shambhala è la vera natura primaria dell’essere umano, che lo rende capace di relazionarsi con la realtà per ciò che è, con piena consapevolezza ma anche con profonda compassione, con la voglia cioè di fare del bene. Ma perché dimentichiamo questi valori e queste qualità che ci sono connaturate?. La dimenticanza avviene attraverso un processo psicologico in cui l’ego si reifica, solidifica e fossilizza i contenuti della nostra mente sveglia ed illuminata: a poco a poco tendiamo a scambiare i contenuti della nostra mente con la realtà e le nostre proiezioni si sostituiscono alla consapevolezza del reale (il samsara o circolo vizioso della sofferenza), arrivando così all’avidya, ovvero all’ignoranza o assenza di vera conoscenza. Se la nostra mente non è consapevole, le sue proiezioni sono come dei cani sguinzagliati che possono portare rabbia, aggressività e che poi diventano una catena malefica nel Karma (azione-reazione). Se prevale l’avidya la società diventa un inferno. Nel caso contrario si riesce a costruire, poco per volta, la società illuminata.

Fu poi la volta dell’Imam Mokrani, che ho già precedentemente citato e che è portavoce di quell’Islam autentico e saggio che tutti vorremmo prevalesse oggi nel mondo. Egli disse che la parola Islam viene spesso tradotta come “sottomissione”, termine che fa pensare ad una perdita di libertà. Migliore traduzione è “l’essere in pace con Dio, affidandosi a Lui con fiducia totale”. Nella religione islamica, egli dice, non c’è costrizione, c’è una libera scelta. Questa pace con Dio si traduce con la pace dentro di noi, con la serenità e la chiarezza. Mohamed non è il fondatore dell’Islam, è importante, ma non è l’inizio: la storia comincia con lui solo

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6. I convegni interreligiosi al Campidoglio

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perché egli vuole accomunare i principi perenni della spiritualità umana. Nella storia dell’Islam tutti i Profeti sono considerati inclusi, anche quelli che non conosciamo e Mohamed è solo l’ultimo anello di questa catena. Ciò permette di non giudicare le altre religioni e le altre culture. Essere Islamico significa appartenere ad una comunità, credere negli articoli della fede (i 5 pilastri), ma cosa più importante è la visione divina: vedere la bellezza, la maestà di Dio. È una religione sana e viva nell’unione di questi vari punti che, se presi separatamente, possono divenire un ostacolo. Il valore principale è la misericordia, che il Corano descrive come base di tutti i valori. Il pericolo è quindi perdere questa visione unitaria e perdere questa visione dei valori, impostare le coscienze su concezioni rigide, dogmatiche, che portano poi al conflitto con gruppi diversi. Altro ostacolo è il pregiudizio religioso e le posizioni assolutiste. È necessario non solo un dialogo interreligioso ma lavorare insieme per costruire un futuro. Non pensiamo che le istituzioni siano fonte primaria del divenire: lo sono i singoli ed anche l’unità degli insegnamenti religiosi. Dobbiamo procedere sviluppando le nostre qualità spirituali con un’attitudine partecipativa e di servizio, che superi l’individualismo, aiutandoci a scrivere il nostro futuro insieme.

Fu un intervento portatore di una spiritualità aperta e profonda che sempre vorremmo ascoltare, in particolar modo poi dalla bocca di un esponente islamico. Sono costretta, per necessità di sintesi, a sorvolare sugli interventi di Don Carlo Molari e di Guido Morisco, visto che abbiamo altrove più volte riportato il loro pensiero e accennerò solo brevemente alla relazione del Prof. Fabio Risolo, anch’egli Buddista, ma della corrente Dzogchen. Nell’insegnamento tantrico è importante un aspetto che in altri approcci non viene così considerato, e cioè il maestro. Noi siamo luce sin dall’inizio ma non ne siamo consapevoli. Socrate diceva che la conoscenza parte dalla trasmissione da mente a mente, da maestro ad allievo, e questo è anche l’orientamento del Buddhismo Dzogchen. Non perché il maestro sia superiore al suo discepolo, ma perché egli, pur avendo le stesse potenzialità del discepolo, le ha già sviluppate. Il sonno della coscienza è quello che fa dimenticare i valori, trasformandoli in disvalori. La via che porta alla consapevolezza è una via spirituale basata sull’esperienza di seguire la natura Vajra: osserva te stesso, osserva la tua condizione e utilizza gli altri come uno specchio, considerando che la negatività che vedi in loro può essere la proiezione di una tua negatività.

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Il mistero dell’elefante

L’anno successivo, forte del consenso ottenuto da questa iniziativa, mi rifeci avanti a richiedere la stessa sala per un nuovo Convegno, la cui tematica questa volta fu “Il senso della vita”, certo non meno impegnativa e coinvolgente della precedente e, tutto sommato, molto collegata ad essa, giacché possono essere proprio i nostri valori e le nostre credenze a dare un senso alla nostra vita. Intervennero: Don Carlo Molari (come teologo cristiano), il Prof. Marco Morselli (come teologo ebraico), la dott.ssa Paola Versari (psicologa), il Prof. Guido Morisco (esperto di fede Bahai), l’Imam Ataul Washih Tariq (della Comunità Islamica Ahamadiyya), il Prof. Fabio Risolo e lo Shastri Daniele Bollini (per il Buddhismo rispettivamente Dzogchen e Shambhala). Moderatore fu il dott. Luigi De Salvia (presidente di Religions for Peace Italia). Io introdussi, al solito, i lavori. Perché la scelta di questo tema? Ovviamente si tratta di un problema antico quanto il mondo e credo che tutti noi, almeno una volta, ci siamo chiesti se questa vita valga o non valga la pena di essere vissuta. Laici e religiosi di tutti i tempi ci hanno dato e ci continuano a dare risposte diverse. Citai il filosofo Gurdjieff che scriveva: Esistono menti che si interrogano, che desiderano la verità del cuore, la cercano, si sforzano di risolvere i problemi generati dalla vita, cercano di penetrare loro stessi e l’essenza delle cose e dei fenomeni. Se un uomo ragiona e pensa bene, non importa quale cammino egli segua per risolvere questi problemi, deve inevitabilmente tornare a se stesso e incominciare dal quesito che cosa egli stesso sia e quale sia il suo posto nel mondo che lo circonda.

Concorde sul fatto che bisogna innanzi tutto iniziare da se stessi, avevo invitato una valente psicologa, la dott. Paola Versari, esperta di logoterapia, una scuola psicologica fondata da Viktor Frankl, che si pone soprattutto interrogativi sul senso della vita. Ed ella, nel suo lungo intervento che fu molto apprezzato, ci parlò innanzi tutto proprio di questo psicologo, Viktor Frankl (autore anche di un libro Uno psicologo nei lager), che fu rinchiuso e perse in un campo di concentramento nazista tutta la sua famiglia, traendo però da queste tragiche vicende la forza interiore di capire che, se il nostro corpo può essere imprigionato e reso schiavo, una cosa sola può restare libera: il nostro spirito, ed è quindi questa la parte che può

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6. I convegni interreligiosi al Campidoglio

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e deve dare un senso alla nostra vita. Ella ci regalò una serie di esempi concreti di persone che riuscirono a reagire alle loro disgrazie proprio puntando sulla forza del loro spirito, e ci ricordò anche che un’energia vitale importantissima per tutti noi è il senso dell’umorismo, che ci aiuta a prendere le distanze dai fatti negativi della nostra esistenza ed anche da noi stessi, guardando la nostra realtà dall’alto e facendoci riuscire perfino a trarne un sorriso. Ella è diventata ormai un’esperta sull’argomento, poco sviluppato da altri, malgrado la sua importanza nel vivere meglio la nostra esistenza (ed anche nel condurre a buon fine una psicoterapia), e lo ha reso tema centrale di vari suoi incontri e di alcune sue apprezzate pubblicazioni. Fu anche fatta segno a molto interesse la relazione dell’Imam Ataul Tariq della Comunità Islamica Ahmadiyha, che arrivò con un vasto seguito di uomini e donne islamiche velate, che suscitarono per un attimo la perplessità di un incaricato della Sala, visto che la Pinacoteca contiene molti capolavori e visto che purtroppo molti di noi non possono fare a meno di abbinare la presenza di islamici ai tanti atti terroristici visti in televisione. Ma il guardiano fu rassicurato prima dall’intervento di mia figlia Emanuela (che è vice questore aggiunto), e poi dalle parole stesse dell’Imam, il quale disse subito che il motto della loro Comunità è “Amore per tutti, odio per nessuno” e che il loro ispiratore Mirza Gherlan Ahamd, alla fine del 1800, predicava proprio per convincere a porre fine alle guerre di religione, abolendo il fanatismo religioso e riportando l’Islam ai suoi veri insegnamenti originari ed essenziali. Non a caso, questa Comunità di moderati trova una grossa opposizione nel mondo musulmano estremista, cosa comune — come abbiamo già visto altrove — a tutti gli islamici che si oppongono ad ogni tipo di violenza. Vorrei soffermarmi qui proprio a parlare di questa comunità islamica, il cui Leader è oggi Mirza Masroor Ahmad, che risiede a Londra e che cerca di diffondere in tutto il mondo la causa dell’Islam, attraverso messaggi di pace e compassione. Il loro Leader fu invitato nel 2008 a parlare alla House of Commons di Londra, ed ha scritto un libro World Crisis and the Pathway to Peace, in cui riporta gli appelli da lui inviati all’allora Papa Benedetto XVI, al Primo Ministro di Israele, al Presidente Iraniano, ai Presidenti degli USA e del Canada, in cui affermava l’impellente necessità di un dialogo

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Il mistero dell’elefante

fra le nazioni, onde evitare disastri mondiali. Egli sostiene infatti che esistono oggi gravissimi conflitti della dimensione di guerre separate su piccola scala, ma se le loro richieste di giustizia non saranno attuate, la conflagrazione rischierà di divenire mondiale, perché si formeranno blocchi di forze contrapposti su larga scala. «In questo villaggio globale che la terra è diventata — egli afferma — dobbiamo prenderci tutti le nostre responsabilità di esseri umani, per appianare questa rivendicazione di diritti umani che può portare, se non ascoltata, ad una conflagrazione totale». Egli riconosce che deprecabili e orribili comportamenti di alcuni Musulmani hanno causato sfiducia e condanna nelle nazioni non islamiche. Però quest’odio che si respira un po’ ovunque non farà cessare, ma anzi aumenterà, la tendenza degli estremisti musulmani a concepire azioni “non islamiche” nella loro efferatezza, il che, a sua volta, aumenterà l’opposizione dei non-islamici. «Ma i non estremisti, che veramente amano il Santo Profeta dell’Islam — egli dice — sono i primi ad essere terribilmente feriti da questi operati insani, e la Comunità Amadihya lo è in modo speciale, viste le sue finalità di amore e di pace nel mondo». Su questa linea di pensiero, anche l’Imam presente in sala, Ataul Wasih Tariq, iniziò parlando delle tante morti nel mondo per le guerre (Sudan, Iraq, Siria) e per i tanti crimini ovunque. Ci ha ricordato che il Corano dice che la perdita di una vita vale tutta l’umanità e la salvezza di uno solo è vita per tutta l’umanità. Quanto poi al senso della vita egli affermò — e sono costretta a sintetizzare — che tutto non è stato creato invano, ma c’è un senso e una saggezza nella creazione. Tutto è in perfetto equilibrio e l’uomo deve stare attento a mantenere questo equilibrio per permettere la vita. È il creatore che stabilisce il senso e l’uso della sua creazione e non l’uomo, così come è il produttore che stabilisce l’uso di un oggetto (es. un telefonino) e non il suo utente. Allah ci ha creato nel migliore dei modi per essere al servizio dell’umanità ed essere garanti degli attributi di Allah. L’uomo deve quindi entrare in contatto con il suo creatore per scoprire il senso della sua vita.

Ho creduto di dedicare molta attenzione a questi islamici cosiddetti moderati — cosa che farò successivamente di nuovo — pro-

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prio per controbattere quell’avversione che comportamenti “non islamici” hanno giustamente creato in ogni parte del mondo contro i maomettani, e per spezzare una dovuta lancia in favore di quei veri seguaci dell’Islam a cui auguriamo di riprendere il sopravvento, in nome del loro vero credo, sui fanatici e criminali integralisti. Lessi quindi la testimonianza che Padre Laurence Freeman, assente per impegni di lavoro, ci aveva mandato e che vi riporterò nei suoi brani più salienti. Oggi il mondo è globale ma questo suo essere globale non lo rende eccitante com’era una volta. Per la maggioranza delle persone la vita è diventata una routine: perfino quando la vita è improntata all’amore fedele o ad una ricerca di verità o ad una causa appassionante, nessuno sfugge a questo tran tran. Quindi, scappiamo da un mondo ripetitivo e privo di sfide, diventando spettatori... abbiamo secolarizzato, analizzato, demitologizzato ciò che ci faceva incantare... qualcosa di magico si è perduto e gran parte dell’incanto è diventata solo interpretazione falsata o autoinganno, come sono anche gli Oscar e la celebrità.

Parla poi delle dimissioni del Papa Benedetto e continua: C’è qualcosa di genuinamente affascinante che questa auto-rinuncia al potere ci rivela: è qualcosa di straordinario nella semplice accettazione di essere umani. Qualcosa che la storia della Pasqua ci trasmette appassionatamente. Qualcosa che non ha bisogno di trucchi o effetti speciali. Un modo di essere al mondo che rifiuta lo spettacolo, la celebrità, la ricchezza, il potere o il mistico. Qualcosa di glorioso ed autenticamente vero nella nostra natura che ci apre il cuore come nessuna soap opera potrebbe fare: un Roveto Ardente che incontriamo sul cammino per capire che, per quanto a lungo lo contempliamo, esso non muore mai.

E continua: Il risveglio spirituale comincia con la domanda umana universale: «Chi sono io realmente?» ed il nostro viaggio verso la conoscenza di noi stessi avviene attraverso gli impegni e le responsabilità della vita, giorno per giorno. Ma il terreno su cui procediamo ogni giorno è sacro. Questo è ciò che ci insegna la nostra meditazione quotidiana e questi i frutti che essa produce.

Egli conclude citando John Main, il suo Maestro, che così si esprime:

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Il mistero dell’elefante

Molta della frustrazione del nostro tempo è dovuta alla sensazione condivisa da molti che noi siamo stati creati per qualcosa di più di questo, per qualcosa di più serio della pura sopravvivenza giorno per giorno. Per conoscere noi stessi, per capire noi stessi e per essere capaci di risolvere i nostri problemi, per poter vedere noi stessi e i nostri problemi in prospettiva, dobbiamo fare una cosa molto semplice: entrare in contatto col nostro spirito.

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Interessante e costruttivo, come sempre, fu, anche su questo tema, l’intervento di Don Carlo Molari, che cercherò, anche in questo caso, di sintetizzare al meglio: Non sappiamo la ragione del nostro cammino e il senso è da ricercare continuamente attraverso la partecipazione alla nostra esperienza. C’è sempre qualcosa di ulteriore da scoprire: è un cammino e una ricerca continua. Paolo dice che noi siamo chiamati verso uno stato di umanità perfetta e una maturità compiuta. Nella prospettiva evolutiva la perfezione umana non è all’inizio, ma alla fine del percorso: la forza creatrice contiene delle qualità che non siamo stati ancora in grado di cogliere, come creature che vivono nel tempo, dove non è possibile il tutto e subito. Siamo frammento che rende possibile l’accoglienza di un nuovo frammento nel tempo, fino alla compiutezza finale... Oggi vi sono qualità umane che prima non erano possibili, quindi senso è anche individuare queste qualità, per farle fiorire sempre di più anche nel rapporto con gli altri, perché noi ci realizziamo attraverso le relazioni umane fra noi, e attraverso la relazione con la Forza di Vita che è la forza creatrice, sempre all’opera e in azione. Solo che noi possiamo accoglierla solo in base al livello di maturità raggiunto da noi, dagli altri e dalla storia. Siamo tutti in cammino verso la perfezione, e il senso è in questa fiducia=fede e in questa responsabilità di procedere, con l’attesa fiduciosa di raggiungere questi doni di vita che ancora non abbiamo colto. Questo concetto di evoluzione vale sia per il cammino del singolo, che per tutta l’umanità.

Come si vede, un intervento sempre concreto, realistico, ma fiducioso e pieno di inputs stimolanti alla crescita, sia a livello individuale che sociale. Riassumerò anche l’intervento dello Shastri Daniele Bollini, il quale iniziò parlando degli insegnamenti fondamentali del Buddhismo Shambhala, che, come già sappiamo, ruotano attorno a due concetti fondamentali: la bontà fondamentale e la società illuminata.

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La bontà fondamentale è il potenziale della mente umana, cioè tutte quelle qualità di cui siamo naturalmente dotati, ma che vanno riscoperte, perché spesso le temiamo: temiamo la nostra stessa intelligenza, la nostra compassione e quindi le nascondiamo fingendo di non possederle, sentendoci poi spesso smarriti e confusi. Ma la bontà fondamentale ci permette di dare un senso naturale alla vita; se la contattiamo, se abbiamo fiducia nella sua esistenza, la vita acquista significato, evitando di darle un senso solo superficiale (la mia squadra di calcio ha vinto, il mio conto in banca si è rimpolpato), e cioè quei sensi minori della vita che il Buddhismo definisce le otto preoccupazioni mondane (perdita e guadagno, piacere e sofferenza, lode e biasimo, fama e disgrazia). Non esprimiamo la bontà fondamentale al suo massimo potenziale perché abbiamo paura degli obiettivi supremi e ci diamo quindi obiettivi minori. Il percorso della riscoperta della bontà fondamentale presenta tre tappe: la prima in cui la vita ha un senso minore, temporaneo e limitato; quindi, in un secondo momento, si può scoprire che gli obiettivi egoistici e superficiali sono irrilevanti ed insoddisfacenti; a questo punto sembra che la vita non abbia più senso e ci potrebbe essere una fase di vuoto, di incertezza, di crisi. In un terzo momento, la vita torna ad avere senso, perché abbiamo scoperto l’esperienza della bontà fondamentale, come fonte del senso della vita. La buona società è quella in cui i membri conducono una vita che abbia un senso, in cui la bontà fondamentale è valorizzata nel processo educativo degli individui, in cui essa costituisce la norma ed i comportamenti in antitesi l’eccezione: la gentilezza è la norma, la prevaricazione l’eccezione. La vita non ha un senso, non possiede un senso, ma la vita “È senso”. Noi siamo il senso. Il senso è sempre stato presente dentro di noi, ma nessuno (o pochi) ci hanno indicato il potenziale di coraggio e gentilezza che risiede in ogni essere umano; nessuno (o pochi) ci hanno segnalato che tutto ciò che ci serve risiede nel nostro cuore.

Mi sembra molto interessante cogliere in queste varie relazioni il diverso spirito che le anima, a seconda evidentemente dei vari approcci culturali e delle ottiche diverse, tipiche dei vari credi. Se ho ben colto i vari significati, per il Buddhista la vita non ha senso, è il senso e noi siamo il senso; per i Cristiani il senso non è nelle cose materiali ma nelle spirituali (Laurence Freeman), ma comporta una continua ricerca da parte dell’uomo per raggiungerlo (Carlo Molari), mentre per l’Islamico è Dio che dà il senso a tutte le cose e l’uomo deve quindi conformarsi al suo volere obbedendolo.

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Il mistero dell’elefante

Ciascuno si potrà sentire più in sintonia con l’una o con l’altra tesi, a seconda della propria cultura e della propria sensibilità (il famoso felt sense gendliniano), ma, al di là delle differenze, ciascuno potrà anche cogliere il messaggio comune a tutte, di spronare l’essere umano a coltivare quelle doti che possiede naturalmente (o gli sono state date da Dio) per raggiungere quel “senso della vita” che non è mai gratuito, ma frutto di buona volontà ed impegno costanti. Il grande Hebbel diceva: «la vita non è qualcosa, ma l’occasione per realizzare qualcosa», affermazione che mi convince molto e sento particolarmente mia. Il mio maestro Carl Rogers, grande psicologo umanista, sosteneva: «Nella vita non esistono pranzi gratis», come ulteriore testimonianza che ciò che otteniamo ce lo dobbiamo sempre guadagnare, non aspettandoci mai che le nostre conquiste — come, in questo caso, il senso della vita — ci piovano miracolosamente dal cielo, senza il nostro fattivo contributo, non di rado molto faticoso, sia esso frutto dell’obbedienza, della ricerca, della scoperta e potenziamento delle proprie capacità individuali, o di tutte queste cose insieme, che i nostri relatori hanno di volta in volta citato. Quanto all’anno 2014, inoltrai domanda ai Musei Capitolini per ottenere la stessa sala e potemmo tornare di nuovo alla nostra splendida sede capitolina il 5 aprile, con un’altra tematica, che non mi sembra meno interessante delle precedenti, e che riecheggia il titolo di un mio recente libro, e cioè: “Credere in modo nuovo. Può una sana spiritualità aiutarci a creare un mondo migliore?” Ottima la partecipazione del pubblico in sala, dove ho visto con piacere affluire anche diversi giovani, visto che il creare un mondo migliore è soprattutto nelle loro mani. I relatori furono sostanzialmente gli stessi invitati gli anni precedenti, e il moderatore fu il dott. Luigi De Salvia (Presidente di Religions for Peace Italia). Dissi nell’introduzione che questa tematica si ricollegava molto strettamente a quella affrontata nel primo convegno, e cioè ai «valori che i messaggi delle varie fedi ci hanno tramandato, ma che poi abbiamo spesso dimenticato». A mio avviso, infatti, credere in modo nuovo vuol dire proprio ricollegarsi a quello spirito, a quei valori e a quegli ideali dei messag-

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gi originari delle varie fedi che nel tempo sono stati spesso travisati e deturpati: in un certo senso, credere in modo nuovo è tornare a credere in un modo antico, oltre che aggiornare le varie dottrine in base all’ascolto delle nuove esigenze spirituali, individuali e sociali del nostro tempo, visto che tutto — come ci insegnano i Buddhisti e come ci ha indicato anche Don Carlo Molari — è in eterno divenire e che quindi, in quest’ottica evolutiva, anche le dottrine non possono rimanere immobili. Aggiunsi che è ciò che sta tentando di fare quel grande Papa illuminato che è Papa Francesco, a cui volli dedicare un ringraziamento ed un augurio, pur trovandoci in un contesto interreligioso giacché, a mio modesto avviso, quando, in qualunque luogo e qualunque tempo, nasce ed opera nel mondo uno spirito illuminato, egli diventa una fonte di ricchezza non solo per i suoi seguaci, ma per l’intera l’umanità. Lessi poi un brano tratto dal libro Nel cuore dell’Essere di Giovanni Vannucci, che mi sembrò un messaggio innovativo di gioia e di speranza, anche nell’ambito del Cristianesimo, purtroppo spesso invece deformato in passato da oscuri sensi di peccato, di colpa e di sacrificio espiatorio. Ve lo trascrivo: Ecco, sia così la vostra vita: vivete la vostra vita cristiana con un totale senso di gioia, senza aver paura di niente, senza limitare la vostra coscienza o appesantirla con tutte quelle ombre che non nascono da Dio, ma da coloro che hanno interpretato la parola di Dio, e, non essendo uomini liberi, uomini maturi, uomini pienamente fioriti nella pienezza della vita che dovevano raggiungere, hanno interpretato il cristianesimo e la fede secondo le loro misure pessimistiche, tristi, pavide. Siamo chiamati alla vita, siamo chiamati alla gioia... credo che se non cominciamo a sentire di nuovo il Cristianesimo come gioia, come cristiani siamo falliti. Non dobbiamo predicare la morte, né l’inferno, né il peccato... come fece Cristo: siamo sulla terra per portare la vita e per intensificare tutte le manifestazioni della vita.

Lessi poi un breve articolo di un moderato islamico (Alidad Shiri), pubblicato il 25 febbraio scorso dalla rivista “Tempi di Fraternità” che mi sembrava importante per cogliere questi sforzi di rinnovamento che, malgrado tutto, cercano di farsi strada anche nei credi ritenuti più immobilisti ed intransigenti. Alidad Shiri scrive:

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Il mistero dell’elefante

È proprio di questi giorni la notizia, che arriva dall’Arabia Saudita, secondo cui la suprema autorità religiosa ha imposto una nuova fatwa che vieta alle donne di andare da sole da un medico, senza essere accompagnate dal marito o da un parente stretto. Anche se questo divieto era precedente, le donne lo ignoravano facilmente, e quindi c’è stato un giro di vite che ha portato anche a tragedie come quella della studentessa universitaria che non ha potuto essere soccorsa da medici uomini ed è morta per un attacco di cuore. Io da piccolo, cresciuto in una famiglia islamica, ho sempre conosciuto il rispetto delle persone, la religiosità delle donne che era sincera e non conosceva oppressioni e divieti. Provo quindi un senso di sdegno e di vergogna di fronte alla grande ingiustizia che, in Paesi che si vantano di essere Islamici, le donne siano tanto offese. Faccio quindi un appello: per migliorare la religione, come la politica, come la società, bisogna anche criticarla... non si può interpretare il Corano in modo restrittivo. Questi errori appartengono al passato, noi dobbiamo cambiare, come è successo per altre religioni e culture. Credo che anche l’Islam abbia bisogno di un cambiamento forte che avvenga alla base, per vedere il testo sacro in modo nuovo e condannare i poteri politici che usano a modo loro la religione. Questo però vuol dire aprirsi ad una mentalità nuova, al dialogo con le altre religioni, al rispetto dei diritti delle donne, a nuovi modelli di vita, pur conservando i grandi valori della tradizione che sono il rispetto, la solidarietà e l’ospitalità del diverso.

Il dott. Guido Morisco ci lesse poi dei brani di Abdu’l Bahà di cui ve ne riporterò uno. Diceva: Tutte le manifestazioni di Dio vennero con lo stesso scopo, tutte hanno voluto condurre l’uomo sulle vie della virtù. Eppure noi, suoi servi, ancora disputiamo fra noi! Perché è così? Perché non ci amiamo l’un l’altro e non viviamo in unità? È così perché abbiamo chiuso gli occhi ai principi fondamentali di tutte le religioni, e cioè che Dio è uno, che Egli è il padre di tutti noi, che siamo tutti immersi nell’oceano della Sua misericordia e riparati e protetti dalla Sua amorevole sollecitudine... questo Dio amoroso desidera la pace per tutte le sue creature.

L’Imam Ataul Tariq vede il cambiamento del “credere in modo nuovo” soprattutto come cambiamento interno a noi stessi e dice: Non dobbiamo cambiare le nostre religioni, ma dobbiamo cambiare il livello della nostra Fede... e dobbiamo infondere la fede di un Dio vivente nel nostro futuro. Il Sacro Corano insegna: «Tu, anima tranquilla,

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6. I convegni interreligiosi al Campidoglio

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ritorna al tuo Signore, soddisfatta di Lui ed Egli, soddisfatto di te. Entra, così, a far parte dei miei Servi eletti, ed entra nel mio Giardino» (Surah Al Fajr (89): 28-31). Il Cristianesimo, che è la religione predominante in occidente, aveva, fino alla fine del secolo scorso, un forte ed efficace potere sul comportamento morale dei suoi seguaci. Purtroppo non lo ha più. Oggi il comportamento morale in occidente ha poco Cristianesimo nel suo carattere, così come il comportamento morale nella maggior parte dei paesi musulmani non è più islamico. Lo stesso stato di comportamento morale si trova, purtroppo, in altre parti del mondo. Nel mondo d’oggi, ci sono molti buddhisti, hindù e confuciani, ma purtroppo molto poco del Buddhismo, del Confucianesimo o dell’Hinduismo può essere osservato. Come dice un poeta: «Water, water everywhere, but not a drop to drink» (acqua, acqua ovunque, ma nemmeno una goccia da bere).

Egli sostiene quindi che la mera credenza in un Dio non può influenzare il comportamento sociale dei credenti, se essa non viene tradotta in azioni che seguano le direttive divine. Quando sento la parola “servi”, qui usata sia dal relatore islamico che dal Bahai, avverto un senso di disagio, ma poi mi rallegro per la mia Fede Cristiana, che pone il rapporto uomo-Dio in termini molto meno coercitivi. Gesù diceva che i suoi seguaci erano suoi “amici” e che noi siamo gli amici del Signore, e quest’atmosfera mi rincuora e mi riscalda molto più del distacco che può esserci fra padrone e servo. Ecco un esempio di differenza fra religione e religione, ed ecco pure la scelta di aderire a quella che, come diceva il Dalai Lama, sentiamo che ci può far diventare persone migliori, o che, come diceva Gendlin, attiva in noi quel felt sense che ci fa sentire più a nostro agio... e in fondo questa è proprio la libera scelta di cui abbiamo parlato, ed è anche il dialogo intrareligioso — o cammino operato dentro di sè — che sempre accompagna quello interreligioso di dialogo con l’altro (come Panikkar ci ha insegnato). Credo comunque che queste iniziative siano state come piccole bombole di ossigeno per chi le ha condivise, perché sulle facce di tutti c’era, all’uscita, un sorriso e un’aria di viva soddisfazione, come di chi ha ascoltato messaggi corroboranti da portare a casa e su cui riflettere. Riporto qui una foto dell’ultimo Convegno effettuato in Cam-

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Il mistero dell’elefante

pidoglio nel 2014, con i vari relatori presenti. Da sinistra: Maria Elettra Cugini (organizzatrice e presentatrice), il dott. Luigi De Salvia (moderatore, presidente di Religions for Peace Italia), Don Carlo Molari (teologo e scrittore cattolico), l’Imam Ataul Tariq (della Comunità islamica moderata Amadyhja), lo Shastri Daniele Bollini (esponente del Buddhismo Shambhala) e il dott. Guido Morisco (rappresentante della Fede Bahai).

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CAPITOLO 7

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IL DIALOGO CON GLI ISLAMICI NELLA CONFERENZA NAZIONALE WCCM Molto è stato già detto a proposito di Imam illuminati (come Adnane Mokrani, Yahya Pallavicini e Ataul Tariq) nel corso degli incontri e convegni precedentemente citati, quindi voglio a questo punto solo aggiungere che, in considerazione dei tempi estremamente difficili recentemente vissuti — negli Stati Uniti, Francia e Belgio, per non citare i continenti asiatico e africano, a causa degli efferati attacchi terroristici verificatisi — in occasione della Conferenza Nazionale della Comunità di Meditazione Cristiana, tenutasi a Roma nel gennaio 2016 e presieduta da Dom Laurence Freeman, ho ritenuto importante riproporre ai numerosi presenti un dialogo con l’Islam, nelle persone dello stesso Laurence Freeman, di Luigi De Salvia (Presidente di Religions for Peace Italia) e di due Imam a noi già noti, e cioè l’Imam Yahia Pallavicini (consulente della Grande Moschea di Roma e presidente della COREIS) e l’Imam Ataul Tariq della Comunità islamica Amadyhia, proprio con lo scopo di ribadire la necessità di distinguere molto chiaramente il vero Islam da quelle frange terroristiche di cui è esso stesso la prima vittima. Sono tempi duri in cui prevale ovunque la paura, e gli stessi Musei Capitolini, di cui siamo stati più volte ospiti, ci hanno negato la possibilità nella prossima primavera di usufruire della bella sala dove sono stati tenuti i nostri convegni interreligiosi qui citati, in quanto questa attività è ritenuta oggi gravemente rischiosa, specie per una sede come quella capitolina che ospita opere d’arte di grandissimo valore. Il tema prescelto per la Conferenza Wccm era quello della misericordia, in armonia con la tematica scelta da Papa Francesco per il corrente anno giubilare, ed ho iniziato quindi sottolineando come un aspetto della misericordia sia anche l’apertura al dialogo con le altre fedi e religioni, non certo per annullarne l’identità o per diminuirne le ineliminabili differenze, ma per ribadire la consapevolezza della fratellanza fra i seguaci di tutte le fedi, e anche fra

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Il mistero dell’elefante

questi ed i non credenti, in quanto tutte creature appartenenti alla stessa specie umana. I relatori— il primo dei quali fu il dott. Luigi De Salvia, seguito dall’Imam Pallavicini e poi dall’Imam Ataul Tariq, che già conosciamo — si sono detti unanimemente convinti che, al di là dei mirabili incontri ad altissimo livello (come la recente visita del Papa alla Sinagoga di Roma o la progettata visita dello stesso alla Grande Moschea di Roma, quando, per la prima volta nella storia, un Papa entrerà in una moschea) siano anche importantissime le occasioni di incontro e di dialogo “alla base”, e cioè fra le persone “normali”, non caratterizzate da titoli e ruoli particolarmente importanti. Questo cammino d’incontro non può essere infatti solo sancito da eventi eccezionali, ma deve essere un lungo percorso di consapevolezza e di evoluzione della mentalità corrente per liberarsi dai tanti pregiudizi, condizionamenti e chiusure del passato, che peraltro ancora sussistono almeno parzialmente e che sono duri a morire, come tutto ciò che affonda le sue profonde radici nel tempo. Dom Laurence Freeman non ha mancato di sottolineare l’importanza che in tale percorso può rivestire il silenzio, come strumento d’incontro che, andando al di là della parola, può unire in modo più profondo, e la tavola rotonda si è conclusa proprio con un momento in cui i discorsi e le parole hanno lasciato spazio a quest’altra preziosa dimensione priva di suoni, che ha accomunato tutti i presenti. Vorrei ricordare una citazione dello stesso Laurence Freeman a proposito del silenzio, che amo molto e tengo sempre in vista, al di sopra del mio computer, e che così suona: Il silenzio è la dove la domanda ultima è stata superata non tentiamo più di trovare risposte ma cominciamo ad aprirci alla realtà che trascende ogni domanda e ogni risposta.

Altro modo concreto per andare al di là delle parole e trovare un’armonia di sentimenti ed emozioni, è stato quello attuato, poche

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7. Il dialogo con gli islamici nella Conferenza Nazionale Wccm

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settimane dopo, dalla Coreis (Comunità Religiosa Islamica) di cui, come detto, è presidente l’Imam Pallavicini, che ha organizzato un bellissimo evento presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, dove il trait d’union fra le varie culture e spiritualità è stato creato dalla musica (cristiana, islamica e hinduista) dalla poesia (con brani scelti dai Veda) e dalla danza (con danze indiane tradizionali). Indubbiamente, come dicevano i relatori della Conferenza, il passo più importante è quello di sensibilizzare a questo confronto e vicinanza non solo le alte autorità delle singole correnti religiose, ma l’opinione pubblica, attraverso incontri e manifestazioni in cui le varie tradizioni si possano confrontare, apprezzare ed anche riconoscere sotto taluni aspetti comuni, armonizzandosi. Ed infatti, nel concludere questa prima parte del mio scritto, vorrei esternare un mio antico sogno — che per il momento rimane tale e che non so proprio come e quando potrà trovare attuazione concreta — e cioè che in primis a Roma (visto che io appartengo a questa città) possa aprirsi una sede stabile — non importa se piccola e modesta — in cui i seguaci di qualunque credo e fede, di qualunque origine, provenienza, colore e razza, possano radunarsi in ogni momento della giornata per pregare tutti insieme in silenzio, a loro modo e con le loro prerogative, ma uniti nella pace e nella consapevolezza della loro profonda fratellanza, non escludendo neppure i cosiddetti non credenti, che, nel silenzio, possano anche loro sentirsi uniti e fratelli, in quanto esseri umani, agli altri astanti, in un sentimento di pace profonda, che possa estendersi con il tempo sperabilmente all’intera umanità. Mi rendo conto che oggi questa iniziativa possa trovare ancora meno probabilità di attuazione che nel passato, proprio per i rischi attualmente temuti, ma poco per volta le cose cambieranno e chissà che il sogno si possa realizzare, come evidente simbolo di pace fra tutti gli uomini e donne di questo pianeta.

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Il mistero dell’elefante

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Ecco una foto della tavola rotonda interreligiosa tenuta a Roma nel gennaio 2016, alla Conferenza Mondiale di Meditazione Cristiana. Nell’ordine, da sinistra: l’Imam Ataul Tariq, il dott. Luigi De Salvia, Maria Elettra Cugini, l’Imam Pallavicini, Dom Laurence Freeman e l’interprete Valentina Dolara.

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PARTE II

ALCUNI ULTERIORI SPUNTI PER UN PERCORSO PERSONALE DI RIFLESSIONE

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CAPITOLO 8

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LA RECENTE RIVALUTAZIONE DELLA SPIRITUALITÀ A questo punto, ritengo utile introdurre alcune ulteriori considerazioni collegate alla nostra tematica-base dell’interreligiosità. Alcune si riferiscono, come vedremo, al diverso e nuovo sentire che mi sembra di cogliere oggi nei confronti della spiritualità, a vari livelli di tendenza, di studio e di ricerca, visto che in questo stesso nuovo sentire si inquadra anche l’esperienza interreligiosa. Altre si riferiscono invece ad alcuni illustri precursori dedicatisi, in tempi passati o più recenti, al dialogo e alla ricerca di integrazione fra spiritualità occidentale ed orientale. Vedremo anche succintamente come, dopo secoli di contrasto, di incomprensione o di reciproca indifferenza fra le religioni, si siano fatti recentemente dei passi sempre più positivi di ravvicinamento fra le varie fedi ed i vari credi. Esamineremo infine brevemente le varie modalità e metodologie con cui è stato ed è attualmente affrontato il dialogo intra- ed interreligioso, cercando di individuare quali possano essere le forme più auspicabili ed efficaci con cui realizzarlo. Certamente la conditio sine qua non per apprezzare e avvertire l’esigenza di un dialogo fra le diverse religioni, è avere acquisito la consapevolezza dell’importanza della spiritualità, nella propria vita e nel procedere costruttivo delle nostre società. Gli orientali nel saluto si inchinano gli uni verso gli altri, congiungendo silenziosamente le palme delle mani rivolte verso l’alto, in origine non per rendere omaggio alle rispettive persone, ma per ossequiare quella parte di “luce”, di “infinito” o di “divino” che riconoscono essere dentro ciascuno di noi. Mi sono spesso chiesta perché per un orientale (ovviamente non occidentalizzato) la spiritualità sia così istintiva e le sue manifestazioni così facilmente apprese ed esercitate, mentre, nell’area spirituale, per noi occidentali sia tutto così difficile.

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Il mistero dell’elefante

Osho — un maestro orientale piuttosto controverso, ma anche autore di bellissimi libri — sosteneva che la civiltà occidentale abbia incarnato la parte cosiddetta “maschile” dell’essere umano (fatta di forza, esplorazione, intraprendenza, affermatività), mentre quella orientale la parte cosiddetta “femminile” (fatta di sensibilità, intuizione, disponibilità, introspezione). Concludeva anche che fino a che queste due parti non si saranno riuscite ad integrare sia negli occidentali che negli orientali, non si avrà una vera civiltà degna di questo nome (come del resto noi psicologi affermiamo avvenire in una persona, la cui individuazione comporta appunto l’integrazione fra queste due diverse parti, maschile e femminile, dagli orientali chiamate yin e yang). Certo, la nostra società odierna, con la sua impronta decisamente materialista, ha il suo grande peso di responsabilità nel distogliere da ottiche spirituali, per additare mete e valori — o disvalori — ben diversi. Eppure sembra che oggi la spiritualità si stia finalmente rivalutando, sia nel comune sentire, che nell’atteggiamento della filosofia, della psicologia e della scienza. Entrando in una libreria, sono moltissime le pubblicazioni di argomento spirituale (non importa se a favore o contro) e innumerevoli i dibattiti dei giornali e dei media su tale tematica, cosa che fino a qualche anno fa non avveniva, ma che ne rivela l’interesse. Anche l’atteggiamento della psicologia, della filosofia e della scienza nei confronti della spiritualità e della trascendenza si è molto modificato nel tempo. Basti pensare a Sigmund Freud che considerava la spiritualità come una “sublimazione della libido”, e cioè come uno spostamento e una compensazione di bisogni primari irrisolti e inappagati e chiamava la religione, sulla scia di Schopenauer, “oppio dei popoli”, e cioè un’illusione fittizia creata dall’uomo come tappabuchi alle sue angosce primarie e secondarie di vita. Malgrado ciò, non tutti sanno che egli mantenne per più di 30 anni un carteggio continuo e costante con il Pastore Pfister, suo amico, rivelando in tal modo una sua profonda ambivalenza, giacché è ovvio che se una cosa si rifiuta veramente, non si sente più nemmeno il bisogno o il desiderio di discuterne. Egli è forse proprio il simbolo vivente di quella tesi junghiana che ora vedremo, e che sostiene che, in questo campo, fra conscio ed inconscio esista spesso un acerrimo conflitto.

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8. La recente rivalutazione della spiritualità

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Già Jung andò ben oltre le credenze del suo maestro a questo riguardo, sostenendo che in una personalità ben equilibrata istinto e spirito sono due componenti fuse in una vera e sana integrazione Egli sostenne che «nel profondo di ogni essere umano esista una funzione religiosa naturale, e cioè una spiritualità che fa parte dell’inconscio collettivo ed è quindi un archetipo ineliminabile», anche se a volte non coscientizzato. Su questa linea i suoi seguaci — ed in primo luogo Josef Rudin — compirono ricerche empiriche basate sopratutto sull’analisi dei sogni dei pazienti, arrivando a conclusioni che credo spieghino sufficientemente sia la diversità di atteggiamento delle persone nei riguardi della religiosità, sia la loro molto frequente ambivalenza a questo proposito. Essi scoprirono infatti che esistono in moltissime persone dei conflitti — spesso irrisolti — fra forze religiose ed areligiose consce ed inconsce, ed in particolare fra forze tendenti alla religiosità in pazienti non religiosi e forze invece areligiose in pazienti credenti. Nel suo interessante libro Psicoterapia e religione, Rudin riporta molti esempi di persone che, a livello conscio, erano profondamente religiose (come ad esempio alcuni preti) ma che poi nel sogno mettevano in serio dubbio la propria fede o addirittura la rinnegavano; alla stessa stregua altre persone, che si ritenevano decisamente atee, facevano dei sogni in cui palesemente desideravano o si comportavano come convinti credenti (immaginandosi perfino in vesti talari). Tutto ciò, dice Rudin, si può spiegare solo con il fatto che esistono spesso negli esseri umani tendenze opposte fra conscio e inconscio, il che prova un grande conflitto a questo riguardo, rivelando però la religiosità come vissuto profondo dell’essere umano, anche se ambivalente, conflittuale e spesso sofferto. La psicologia umanistica, nata successivamente, comprende molte correnti che considerano la spiritualità come componente fondamentale della personalità umana. Viktor Frankl, il fondatore della logoterapia, rinchiuso in un lager nazista dove perse tutta la sua famiglia, riuscì a superare questa terribile prova, proprio facendo leva sul suo spirito, poiché sentì che i nazisti avrebbero potuto impossessarsi di tutto in lui, meno che di questo. E successivamente, nella logoterapia, vide proprio lo spirito come ciò che riesce a dare all’essere umano il senso della

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Il mistero dell’elefante

vita, altrimenti difficilmente raggiungibile. Alla stessa stregua, sia la psicosintesi, sia la scuola transpersonale, danno enorme rilievo alla spiritualità nella vita psichica della persona umana. Assagioli, il fondatore della psicosintesi, così si esprime:

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Il poeta, che sente un’arcana potenza dettargli versi ispirati; il religioso alla cui coscienza attonita e rapita si rivela la potenza e la grandezza dell’anima amante e volente il sommo Bene; tutti coloro che hanno avuto simili esperienze testimoniano concordemente che vi è una forza interna possente che opera nella loro coscienza ordinaria e che quella forza agisce nel senso delle loro aspirazioni più profonde, corrisponde a ciò che sentono di più intimo, di più individuale, di più “proprio”. Esse la riconoscono insomma come una emanazione del loro vero io.

Questa forza interna è frutto della presenza di un Io superiore o di un Sé spirituale, che Assagioli infatti vede incluso nella realtà della vita psichica, a metà strada fra la parte più profonda inconscia e quella più superficiale conscia. Ken Wilber, un recente teorico transpersonale, sostiene che, all’incirca dal 500 a.C. fino al XVI secolo d.C., esisteva una filosofia universale — presente non solo in Europa, ma anche in tutto il mondo — caratterizzata dalla convinzione che il mondo materiale fosse pervaso da una realtà trascendente. Questa realtà ultima o trascendente, egli dice, era conosciuta in Cina come Tao, nel Buddhismo Mahayana come Vuoto, nell’Hinduismo come Brahman, nell’Islam come al Haqq la Realtà e nel Cristianesimo come la Divinità o Essere Supremo. Successivamente, questa filosofia cominciò ad indebolirsi e iniziò a prevalere la filosofia materialista, che giunse al suo culmine nel XIX secolo e che portò ad una visione materialistica della realtà, in cui la conoscenza si iniziò a concepire solo come basata sulla testimonianza dei sensi. Cartesio, nel suo concetto di dualismo mente-corpo, accentuò la separazione fra realtà materiale (res extensa) e mentale (res cogitans) Crebbe poi con Galileo l’idea che solo la materia può essere misurata quantitativamente e quindi compresa matematicamente, mentre tutto il resto (arte, religione morale...) è soggettivo. Siamo arrivati così alle origini del meccanicismo moderno: l’universo è visto come un sistema funzionante su basi meccanicistiche

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8. La recente rivalutazione della spiritualità

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e, di conseguenza, anche l’idea di Dio non è più concepibile, o almeno non necessaria e del tutto opinabile (“Dio è morto”). Attualmente, nonostante il prevalere tuttora della filosofia materialista, si tende a riconoscere che ci sono molti aspetti del mondo naturale che la teoria meccanicistica non riesce a spiegare. Sheldrake fa l’esempio di una radio e dice che se una radio fosse portata ad una tribù primitiva, gli indigeni penserebbero che le voci provengano proprio dalla radio e potrebbero addirittura provarlo perché, rompendo la radio, le voci non si sentono più. In realtà però noi sappiamo che quelle voci provengono dall’esterno della radio e sono estranee all’apparecchio stesso che le riproduce. La scienza tende oggi a vedere l’universo come un campo di energie in cui, dietro l’ordine manifesto, esiste un ordine immanifesto e la materia viene organizzata nella forma da campi morfogenetici: il campo contiene quindi una memoria intrinseca che la visione meccanicistica non prevede. In tale campo, inoltre, le parti sono interdipendenti e possono essere comprese solo in relazione al tutto (Einstein e Bohm). Il fisico americano Fritjof Capra, nel suo bellissimo libro La rete della vita, vede la natura e gli esseri viventi come una rete in cui ogni elemento è in stretta connessione di interdipendenza con l’altro e in cui la vita è data proprio dalla somma di queste interazioni, in continuo mutamento. Nella sua famosa opera Il Tao della fisica egli così si esprime: Più si studiano i testi religiosi e filosofici degli Indù, dei Buddisti e dei Taoisti, più risulta evidente che in ognuno di essi il mondo è concepito in termini di movimento, di flusso e di mutamento... I mistici orientali vedono l’universo come una rete inestricabile, le cui interconnessioni sono dinamiche e non statiche. Questa rete cosmica è viva: si muove, cresce e muta continuamente. Anche la fisica moderna è giunta a concepire l’universo come una siffatta rete di relazioni e, come il misticismo orientale, ha riconosciuto che questa rete è intrinsecamente dinamica.

Egli afferma quindi che «la fisica moderna ha confermato nel modo più drammatico una delle idee fondamentali del misticismo orientale: tutti i concetti che usiamo per descrivere la natura sono limitati; non sono aspetti della realtà, come tendiamo a credere, ma creazioni della mente». È, direi, veramente sorprendente che

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Il mistero dell’elefante

la scienza arrivi ora a conclusioni che i mistici orientali avevano intuito secoli e secoli or sono. C’è una storiella che racconta come un gruppo di scienziati che, a scopi scientifici, volevano raggiungere la vetta di una montagna, si misero faticosamente in cammino e, dopo una lunga ascesa, arrivarono distrutti in cima al monte, dove trovarono un mistico comodamente seduto, che stava lì da molto tempo e che li guardò con grande curiosità e sorpresa nel vederli così affaticati. Scherzi a parte, non sono un’addetta ai lavori nel campo della fisica, e quindi non vado oltre, ma credo che anche uno sprovveduto come me possa avvertire un profondo mutamento di ottica che si sta verificando nel campo della filosofia, della psicologia e della scienza, con la constatazione di una nuova tendenza in cui materialismo e meccanicismo tendono ad essere superati in un approccio che torna a dare rilievo al concetto di una potenza organizzativa interna all’universo e a forze che ordinano la materia e favoriscono — secondo alcuni studiosi, come Teilhard de Chardin — un processo evolutivo a livelli sempre più alti. Allora se, come abbiamo rapidamente visto, la nuova ottica scientifica ci porta a considerare l’universo come un campo di energie in cui tutte le varie forze sono interconnesse ed interdipendenti fra loro, questo concetto potrebbe essere assunto come valido anche nei confronti dei rapporti fra le varie religioni, che verrebbero a risultare come aspetti diversi di una stessa ricerca, nel tempo e nello spazio, di contatto dell’uomo con il grande mistero di cui fa parte. L’essere umano infatti, fin dai primordi, pur nella sua inadeguatezza, ha cercato di leggere ed interpretare in vari modi quell’immenso mistero insondabile che è l’universo, proprio perché ha sempre sentito di appartenervi e di esservi immerso, ben al di là della transeunte realtà terrestre e quotidiana di cui fa parte. Da sempre filosofi, astronomi, scienziati e, soprattutto, grandi Spiriti Illuminati, hanno cercato di cogliere l’essenza ed i significati di questa realtà trascendente, formulando ipotesi, teorie e rappresentazioni multiformi, proprio per il bisogno innato di conoscere questa dimensione di cui sentiamo, al di là di tutto, di appartenere come parte integrante. La recente rivalutazione della spiritualità, quindi, è, a mio vedere, un fenomeno nuovo: oggi stiamo forse cominciando a rivalutare la spiritualità non più come illusione o credenza soggettiva non at-

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8. La recente rivalutazione della spiritualità

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tendibile, bensì come bisogno primario dell’essere umano che la riconosce come parte vera e profonda del suo sé, in quanto lo collega all’universo, dalla prima esplosione del Big Bang fino ad oggi e dalla sua nascita fino a (o forse anche oltre) la sua morte.

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CAPITOLO 9

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FONTI DI INCOMPRENSIONE E CONTRASTO FRA VARIE RELIGIONI Anche se l’impresa appare ardua, credo sia utile, a questo punto, procedere a ritroso nel tempo e nella storia per tentare di cogliere alcuni flash su quelle che furono alcune dinamiche di contrasti e di conflitti sorti fra varie religioni — almeno quelle più diffuse — nell’occidente dei giorni nostri. Come vedremo, molte di queste diffidenze e di questi contrasti nacquero molti secoli or sono per motivi molto spesso non propriamente religiosi, ma di supremazia o di difesa da pericoli che si delineavano al potere politico-economico delle varie religioni. Basti pensare alla Chiesa Anglicana, che si separò dalla chiesa di Roma nel XVI secolo solo perché Enrico VIII Tudor volle liberarsi, attraverso l’Atto di Supremazia, dai tributi da pagare a Roma e dal peso dell’autorità di quest’ultima che interferiva con la sua, per cui si autonominò lui stesso Capo Supremo della sua Chiesa. Sono spesso ragioni che, se andiamo a risalire alle cause originarie, possono apparire ormai obsolete, poco pertinenti alla sfera della fede, e soprattutto ingigantite nel tempo e cronicizzate. Giorgio Gaber, un cantautore molto acuto e sottile che ho sempre amato, in un suo recital degli anni ’80, diceva che le fratture nelle relazioni fra le persone nascono spesso inizialmente da piccoli errori o da fraintendimenti banali che poi si ingrandiscono diventando barriere insormontabili. È come quando, egli dice, si commette un errore in un’espressione algebrica: all’inizio può essere solo un + scritto al posto di un −, ma poi, nel proseguire, cominciano a comparire numeri sempre più assurdi ed inverosimili, che portano alla fine a risultati del tutto improbabili. Ed è difficile risalire all’errore inizialmente compiuto. Bisogna tornare indietro e ripercorrere il processo a ritroso, fino a rintracciare il momento clue che ha poi generato la deviazione portandoci sempre più lontano dalla soluzione corretta. Nel nostro caso, rintracciare da dove possono essere partite le

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Il mistero dell’elefante

prime fonti di incomprensione, di rivalità e di astio che si sono poi cronicizzate ed ingigantite nel tempo, creando muraglie che oggi possono apparire insormontabili, anche se probabilmente non avrebbero motivo di esserlo. Ovviamente riusciremo a cogliere solo dei piccoli flash nella lunga e complessa storia di interazione fra alcune religioni, ma perfino questi piccoli flash potrebbero rivelarsi significativi. Come detto, si tratta spesso di conflitti che toccano più la sfera politico-economica che quella religiosa, e ciò dovrebbe aiutarci a riflettere sulla necessità, anche attuale, di saper distinguere fra i due molto diversi campi d’azione e di pensiero, che invece molto spesso vengono confusi, specie per la specifica ed interessata volontà da parte di alcuni di usare tale contaminazione ai fini del proprio egoistico potere.

Le prime rivalità fra ebrei e cristiani Si tratta di una rivalità che appare, fra tutte, la più assurda, visto che Gesù era un ebreo e che la prima comunità cristiana fu appunto giudeo-cristiana, e cioè costituita da ebrei. Essa — come ci insegna Hans Kung nel suo libro Cristianesimo, essenza e storia — era formata da ceti umili (contadini, pescatori, artigiani e gente comune) e soprattutto da persone emarginate e poco riconosciute dalla società dell’epoca (fra cui le donne), ma non fu mai pervasa da spirito di rivolta o rivalsa verso il ricco e il potente per la non importanza data ai beni ed al potere terreno. Nella comunità giudeo-cristiana non esistevano gerarchie, ma diakonie (cioè servizio per il bene di tutti) e non esisteva contrapposizione con la legge ebraica. Ma da subito, dopo la morte di Gesù, si creò una contrapposizione fra i Dodici Apostoli (ebrei) ed i sette seguaci di Stefano (una cerchia più colta di greci che tese a formare un collegio direttivo) e sarà poi proprio l’influenza ellenistica a portare il cristianesimo sempre più lontano dalle sue origini ebraiche e dal messaggio originario di Cristo, con la formazione di dogmi che non compaiono negli scritti neo-testamentari (come la preesistenza di Cristo alla sua nascita, il concepimento verginale, la Trinità, l’obbligo del celibato, l’esclusione delle donne dagli uffici del culto e così via). La comunità primitiva giudeo-cristiana si sentiva ancora tenuta

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9. Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni

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alla stretta osservanza della legge ebraica, frequentava il tempio e non si considerava distinta da questa fede: si sentiva solo portatrice del verbo di un nuovo grande Profeta che sperava di far conoscere anche agli altri ebrei. Il punto fu che gli ebrei videro prima in Gesù e poi nei suoi seguaci un pericolo politico-religioso e sia Giacomo (fratello carnale di Gesù che era divenuto guida della comunità cristiana di Gerusalemme dopo la morte di Pietro), sia Paolo che Stefano furono condannati a morte come “violatori della legge ed eretici”, causando così un totale distacco dalla sinagoga e dando inizio a quell’anti-ebraismo cristiano che si doveva protrarre poi fin quasi ai nostri giorni. È comprensibile del resto che il venerare Cristo come Dio non potesse conciliarsi con la fede ebraica monoteista, anche se in realtà la comunità giudeo-cristiana venerava Gesù come Uomo, elevato solo dopo la sua morte-resurrezione a sedere alla destra del Padre (la teoria adozionista). Sarà solo nel IV secolo, e precisamente nel 325 d.C., che il Concilio di Nicea definirà Gesù «Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del Padre», secondo la teoria omousiana da allora prevalsa. È interessante peraltro sapere che tale Concilio, più ancora che dalla Chiesa di Roma, fu voluto dall’imperatore Costantino che, da scaltro uomo politico, intendeva con esso sanare i pericoli di scissione fra le teorie di Ario e di Attanasio, che minacciavano l’integrità della Chiesa, venendo a minare così quell’unità fra potere imperiale ed ecclesiastico che egli vedeva come suprema garanzia di affermazione e di potere. La teoria omousiana ingenerò molte diatribe su come conciliare questa duplice natura divina col monoteismo, questione che venne risolta nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli nel 381, sancendo il dogma della Trinità. Ciò portò alla definitiva separazione dall’Ebraismo. Sotto Teodosio, poi, alla fine del IV secolo, il Cristianesimo venne assunto a religione di stato e l’eresia fu definita da allora “crimine contro lo stato”, dando inizio così a tutte quelle bieche persecuzioni cruente che trasformarono la chiesa fino ad allora perseguitata in chiesa persecutrice: per la prima volta, contro l’esplicito messaggio di Cristo, cristiani uccisero altri cristiani, e ciò colpì duramente anche l’ebraismo che, sotto Teodosio, venne bandito dal sacro impero: due poteri — quello statale e quello religioso — si erano fusi

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Il mistero dell’elefante

per potenziarsi e sostenersi a vicenda, a scapito dei loro rivali. Vennero proibiti i matrimoni misti fra ebrei e cristiani, ciò che darà origine nel tempo ad una razza ebraica che rimarrà sempre più isolata ed emarginata nei ghetti. Il tutto giustificato dall’accusa verso gli ebrei di essere “deicidi” per aver ucciso Gesù Cristo Figlio di Dio. Cosa era rimasto a questo punto dell’originario messaggio di Gesù Cristo? Possiamo ancora considerare giustificato oggi il reciproco odio fra ebrei e cristiani? Come si vede, esso fu più provocato da intrighi politici e lotte di potere che da reali divergenze religiose, anche se queste esistono e vanno rispettate. Ma la differenza di credo non giustifica rivalità, antagonismo o denigrazione reciproca. Altre cause storiche successive alimentarono nuove discordie e nuove persecuzioni (pensiamo al nazismo), ma fortunatamente anche queste sembrano oggi in gran parte superate, e non è un caso che i papi più recenti abbiano fatto visita alle sinagoghe, ivi accolti con cordiale disponibilità. Non è neppure un caso che gli storici ed i teologi cristiani contemporanei rivalutino sempre più le origini giudaiche del cristianesimo, vedendo in esse la fonte più genuina del messaggio di Cristo, al di là di tutte le deformazioni operate sia da manipolazioni politiche, sia dalle complicate elucubrazioni teologiche aggiunte in concili successivi, sia da un malinteso potere terreno che si è spesso sovrapposto al Regno di Dio che, come affermava Gesù, “non è di questo mondo”.

Il conflitto con l’Islam Un illustre storico italiano, Alessandro D’Ancona, nel suo libro La leggenda di Maometto in occidente tratteggia chiaramente quel processo per cui l’islamismo — nato come religione molto vicina sia all’ebraismo che al cristianesimo — in Oriente riscosse sempre maggiore onore e gloria, mentre in Occidente venne invece reso oggetto di avversione e perfino di scherno, ricoprendo di preconcetti ed odio teologico la figura di Maometto. In realtà, afferma D’Ancona, Maometto non intendeva essere il fondatore di una nuova religione, ma un Profeta che voleva portare il suo popolo dal culto politeistico di vari idoli alla fede in un solo Dio, sulle orme del giudaismo e del Cristianesimo. Non

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9. Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni

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a caso, la preghiera islamica originariamente era orientata verso Gerusalemme, e non verso la Mecca. Dopo l’egira — o emigrazione a Medina — gli Ebrei di Medina non intesero affatto riconoscere Maometto come Profeta e a quel lontano periodo risalgono le prime gravi incomprensioni fra Arabi ed Ebrei, che si trasformarono poi in stragi e vendette. Gli Ebrei si videro confiscati i beni e allontanati dalla città dalla sempre maggiore forza militare degli Arabi, vincitori contro la Mecca. Fu allora che la preghiera, prima orientata verso Gerusalemme, si orientò verso la Mecca e il digiuno, ispirato dall’esempio ebraico, venne fissato dall’alba al tramonto di tutti i giorni del mese di ramadam (il mese nel quale Maometto ricevette le prime rivelazioni celesti). Si fece strada la concezione del “monoteismo abramico” come culto tributato da Abramo a Dio, che si ritenne riportato da Maometto alla sua primitiva purezza. Le conquiste arabe continuavano trionfalmente in Siria, Palestina, Egitto (645) e poi, nel 711 in Spagna e in Sicilia (827). Nel 846 gli Arabi erano alle porte di Roma e continue scorrerie avvenivano in Avignone, Arles, Bari, Garigliano; venne occupata anche Creta. L’Islam terrorizzava ed era visto come “flagello di Dio” in tutta Europa, e soprattutto nel bacino mediterraneo. Tutto ciò rese, molto comprensibilmente, l’Islam inviso agli occhi dei Cristiani per tutto il Medioevo. Si aggiunsero poi controversie ideologiche ed odio teologico. Si diffuse perfino la leggenda che Maometto fosse un prelato cristiano deluso dal non essere stato fatto papa e che avesse scatenato lo scisma per vendetta. Lo stesso Dante collocò Maometto nella nona bolgia dell’Inferno fra i seminatori di scismi e di discordie. Alla verità si sovrappose la favola dissacrante e distorcente. Il tutto mentre in Oriente, al contrario, fiorivano un insieme di leggende idealizzate sulla nascita e vita di Maometto (racconti chiamati hadith): il fuoco sacro che si spegne alla sua nascita, la stella notata in cielo da un ebreo di Medina (come la cometa dei Magi), il profeta che nasce già circonciso... Egli viene dipinto come la somma di ogni virtù: dalla pazienza alla dolcezza alla generosità verso i poveri e i deboli alla mitezza verso i nemici, come un essere perfetto già preesistente nel consiglio divino, senza però essere mai

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Il mistero dell’elefante

assimilato in modo sacrilego a Dio. Nel 1700 la considerazione dell’Islam si fece più benevola in Occidente e Maometto venne visto come un saggio riformatore che aveva saputo dare agli Arabi un credo conforme a ragione e natura. Con la sola eccezione di Voltaire, che definì il Corano un libro inintelligibile e Maometto un bandito nella sua tragedia Mahomet ou le fanatisme. Successivamente si ricredette e riconobbe che la sua religione era saggia, in quanto priva di misteri, severa perché proibiva gli alcolici ed i giochi d’azzardo e ordinava la preghiera 5 volte al giorno. Ma le sue idee precedenti influenzarono negativamente l’opinione pubblica del tempo più delle sue conclusioni finali. Di parere diverso fu Goethe che iniziò una tragedia, Mahomet, con il proposito di esaltare la figura mistica di Maometto, fino al momento in cui egli, ormai capo di stato, si sarebbe trasformato, per esigenze pratiche, in un abile politico ma freddo calcolatore. Le parti finali però rimasero incompiute e resta quindi solo quella iniziale in cui Maometto è esaltato come una delle più alte guide spirituali dell’umanità ed è paragonato ad un ruscello che, attirando a sé i suoi seguaci, si gonfia sempre più fino al suo sbocco al mare (simbolo di Dio) Il Romanticismo, a differenza del medioevo, vide Maometto come una grande figura della storia e una grande guida spirituale per tutta l’umanità. Thomas Carlyle scelse Maometto come simbolo degli eroi e dei profeti dell’umanità. A fine ’800, uno scrittore francese, Henri de Bornier, in un dramma intitolato Mahomet, pur prefiggendosi di dimostrare la superiorità della fede cristiana su quella islamica e pur dipingendo il profeta arabo come invidioso di Gesù e tutto teso ad emularlo e superarlo, pure tratteggiò la sua figura come uomo di genio, trascinatore di masse, ma anche buon pastore di anime. Nel nostro secolo, infine, la valutazione di Maometto è connotata da simpatia e stima per un Profeta che creò una nuova società e religione di livello molto superiore a quelle preesistenti: di soli altri due uomini — Gesù e Buddha — si può dire altrettanto. Anche la Chiesa oggi rispetta i musulmani che adorano l’unico Dio e va anche detto che l’Islam ha sempre onorato Gesù come nobilissimo Profeta, dotato di capacità taumaturgiche perfino superiori a Maometto, anche se ovviamente non lo considera Figlio di Dio.

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9. Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni

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Il documento del Concilio Vaticano II Nostra Aetate esortò a dimenticare i tanti dissensi sorti nei secoli fra Cristiani e Musulmani(come, del resto, fra le altre religioni non cristiane) per difendere insieme la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà. Le problematiche nuove sorte oggi nei confronti dell’Islam sono nella difficoltà di saper distinguere fra i seguaci islamici moderati (che sono poi la maggioranza)ed i terroristi-fondamentalisti e di proiettare su tutti indistintamente la paura e il rifiuto giustamente provati verso questi ultimi, soprattutto a partire dal famoso 11 settembre e a seguito delle più recenti stragi ed efferati delitti perpetrati, in particolare, dall’Isis. Ciò che si teme e che fa paura porta al fenomeno irrazionale della generalizzazione, in cui si confonde il colpevole con l’innocente, il responsabile con la vittima o, comunque, con il non-coinvolto. Questa dinamica psicologica ha riportato in vita quel senso di diffidenza verso la gente islamica che era stato superato e che ci si deve oggi sforzare di combattere. Problema scottante è certo quello del riconoscimento di una nazione araba e di una israeliana in una terra che non può che venire equamente e pacificamente condivisa dai due popoli, per mettere fine agli odi e alle stragi fra Arabi ed Ebrei. Ma, come si vede, questo è un problema essenzialmente politico e, ancora una volta, sono più gli aspetti politico-economici (qui troppo complessi da considerare) che quelli religiosi a dividere e creare conflitti. Altro problema è che le nazioni arabe non fomentino più quell’odio verso l’Occidente che inquina gli animi di quei popoli fin dai banchi della scuola e che viene appositamente inculcato in modo manipolatorio fin da bambini. Magdi Allam, giornalista musulmano di origine egiziana ma di nazionalità italiana, fin dal febbraio 2005, in un articolo sul Corriere della Sera dal titolo Così i cattivi maestri del Corano insegnano a odiare ebrei e cristiani, denunciava proprio questa “scuola dell’odio” che viene impartita contro l’Occidente e l’America in particolare. Ciò, a suo avviso, non ha niente a che vedere con la religione islamica, ma piuttosto con una crisi d’identità del mondo arabo che, vedendo minacciate le proprie tradizioni e caratteristiche dalla modernità e dalla cultura occidentale, come tutte le società o comunità in crisi, si difende con l’attacco all’esterno, invece di cercare di individuare i fattori di crisi al proprio interno.

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Il mistero dell’elefante

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A seguito di tale articolo e di altri pubblicati anche su “La Repubblica” (come quello in cui fece una levata di scudi contro l’etica dei kamikaze) egli fu fatto segno alle più dure critiche dei Fratelli Musulmani e definito “nemico dell’Islam”, asserzione che, nella prassi islamica, è una vera e propria “fatwa” e cioè sentenza di morte. In realtà ciò che Magdi Allam sostiene, anche nel suo libro Vincere la Paura, è che la violenza fondamentalista diffusasi anche nella stessa Italia, non ha niente a che vedere con la religione coranica. Egli così si espresse: L’Islam che ho vissuto, l’Islam in cui sono nato e cresciuto è un crogiolo dove si amalgamavano il sacro e il profano, il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, noi e gli altri, l’uomo e la donna. Era fatto di rispetto per i principi di tolleranza per l’altro, di curiosità per la novità, di interesse al cambiamento: era voglia di vivere. Poi le cose cambiarono anche in Egitto dopo la morte di Nasser, che, essendo un dittatore, aveva sempre tenuto a bada gli integralisti (ed infatti fu fatto segno ad un attentato da parte dei Fratelli Musulmani). Sadat invece, pur essendo un lungimirante politico per quanto riguardava la politica estera, liberò gli integralisti dalle prigioni e permise che le moschee venissero controllate da fondamentalisti. Due anni prima, Khomeini si era insediato in Iran, due anni dopo in Libano esordiranno i kamikaze sciiti dell’Hezbollah (o partito di Dio). E via via sempre di più si diffonde una “involuzione del pensiero che ha fatto venir meno il valore della sacralità della vita rispetto all’ideologismo religioso, che ha trasformato la fede semplice nel Dio della Vita, del Bene e dell’Amore in uno spietato apparato di odio, del male e della morte”. Il male erano e sono i regimi dittatoriali sia nella loro versione laica che religiosa, e non l’Islam in quanto tale. E noi qui stiamo parlando di Islam, e non di regimi dittatoriali.

È quindi compito dell’Islam cosiddetto moderato tentare di sconfiggere gli estremismi per tornare all’autentica osservanza della fede, alla sacralità della vita e ai principi del Corano, ma è anche nostro compito avere la capacità di discriminare fra politica e religione e, soprattutto, fra integralismo, estremismo e fondamentalismo da un lato e fede pura ed originaria dall’altro.

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9. Fonti di incomprensione e contrasto fra varie religioni

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La relazione con i credi buddisti ed orientali Si tratta di una relazione sempre stata meno conflittuale, anche per la minore conoscenza che, fino a pochi decenni fa, era limitata a pochi cultori occidentali e che soprattutto non ha mai interferito con le vicende politico-economiche dell’Occidente. Al contrario, le tristi sorti e le persecuzioni subite in particolare dal Dalai Lama e dalle popolazioni tibetane ad opera della dittatura cinese, hanno attratto verso il credo buddhista sempre più solidarietà e simpatie. La lungimiranza e l’apertura mentale di un capo illuminato quale appunto il Dalai Lama ha poi contribuito a far avvicinare a questo culto — che in realtà comprende più culti differenti tra loro — molti seguaci o ex seguaci di altre religioni e, in particolare, molti dubbiosi alla ricerca di una religione che fosse scevra da gerarchie e poteri terreni, ma che si ispirasse ad una spiritualità pura e ad un totale rispetto non solo per l’essere umano ma per l’intero creato. Ciò non ha mancato di provocare alcune reazioni di diffidenza e di discredito da parte delle religioni istituzionalizzate, che hanno cominciato a vedere in questi credi orientali dei rivali che sottraevano numerosi seguaci al loro culto. Ovviamente sarebbe compito delle altre chiese chiedersene le ragioni, mettendo se stesse in seria autocritica, invece di denigrare chi nemmeno si pone come avversario e fa ben poca opera di proselitismo (o addirittura nessuna, come nel caso del Dalai Lama). Personalmente posso dire di aver imparato moltissimo dall’antica saggezza buddista. In particolare alcuni concetti fondamentali allargarono la mia comprensione del senso della nostra vita. Primo fra tutti il concetto di vacuità e cioè dell’intima connessione di ogni singolo fenomeno o essere vivente con tutti gli altri esistenti, e dell’impossibilità di dare un senso alle cose senza vederle in stretta interdipendenza con il Tutto di cui sono parte. Questo sentirsi parte inscindibile del tutto credo sia utilissimo a far superare quel gretto individualismo onnipotente e distruttivo da cui è gravemente contaminato il nostro mondo odierno ed anche ad istillare un più profondo rispetto per gli altri esseri umani, per gli animali, le piante, la natura in genere. Non siamo nessuno senza gli altri, senza la Natura e l’Universo che ci circonda e quindi di questo Tutto dobbiamo imparare a sentirci parte e a rispettare le sue leggi, che non saremo certo noi a

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Il mistero dell’elefante

poter modificare. Altro concetto che ho fatto profondamente mio è quello dell’impermanenza e cioè dell’inevitabile transitorietà di tutte le cose e di tutte le situazioni, transitorietà che non deve impedirci di dare ad esse valore — anche se non dureranno — ma che può impedirci quell’attaccamento eccessivo e quella staticità che si scontrano poi con il perenne divenire e acuiscono i sensi di perdita e le angosce di abbandono. Un fiore non va meno amato e apprezzato perché domani sarà sfiorito, ma dobbiamo essere consapevoli di ciò che domani gli accadrà. Ciò può contribuire a ridimensionare il senso di possesso e l’illusione della stabilità e staticità delle cose, che non è di questo mondo. Certamente basilare nella mia ammirazione per il buddismo è stata la profonda fede(=fiducia) che esso nutre per l’essere umano e quella totale responsabilizzazione che lo vede unico artefice del suo karma, sia nelle sue scelte positive che negative. Ciò può avvalorare, io credo, il concetto che ci si può avvalere ed arricchire degli insegnamenti di altre fedi senza per questo doversi necessariamente allontanare dalla propria. E vorrei riportare qui una frase felice del Prof. Romeo De Maio (docente all’Università Federico II di Napoli) il quale sostiene: «Noi dovremmo parlare più del divino che di Dio, giacchè il divino unisce più delle immagini di Dio che ogni religione ha creato ed imposto nel tempo ai suoi seguaci». In fondo, è ciò che disse, con altre parole, anche Gesù Cristo quando esclamò: «Io sono venuto per distruggere il Tempio» e cioè le norme, le leggi, le istituzioni che spesso soffocano la vera spiritualità e impediscono di comunicare nella comune e pura ricerca della fede. Concludendo quindi, se, come abbiamo qui solo parzialmente analizzato, le fonti di incomprensione e di contrasto fra le varie fedi sono state molteplici e durature nel corso di ben 2000 anni, anche a questo proposito mi sembra di notare attualmente un positivo processo evolutivo, con chiari segnali di fattivo e benefico ravvicinamento, come vedremo, altrettanto sinteticamente, nel prossimo capitolo.

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CAPITOLO 10

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PRIMI PASSI DI RAVVICINAMENTO FRA LE VARIE FEDI Al di là di alcuni sporadici tentativi operati da singoli illuminati che, ad esempio, nella Inghilterra del ’500 o nella Spagna del ’600, tentarono di affermare il diritto alla libertà religiosa nelle loro nazioni (venendo ovviamente tacciati da eretici e messi a morte), va dato atto alla Chiesa Cattolica di aver operato i primi passi nel tentare un ravvicinamento con le altre Fedi, malgrado per secoli il suo atteggiamento di superiorità verso gli altri credi le avesse fatto affermare che, al fuori del proprio ambito, non esistesse possibilità di salvezza per gli esseri umani (“Extra Ecclesiam nulla est salus”). Da questa posizione intransigente, integralista (e, mi si consenta, anche presuntuosa) peraltro, specialmente nel secolo XX, si è operato un lento riconoscimento del valore delle altre religioni e della possibilità che esse rappresentino vari aspetti di una multiforme ricerca di verità e di salvezza nella storia degli esseri umani. Fu per primo il Concilio Vaticano II, indetto dal grande Papa Giovanni XXIII e proseguito sotto Paolo VI, a riconoscere «elementi di verità e di grazia per una nascosta presenza di Dio» nelle altre religioni (Ad gentes n. 9), per cui «quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari o nelle culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell’uomo» (Lumen Gentium n. 17). Questo spirito di ravvicinamento fu poi proseguito da Giovanni Paolo II che convocò nel 1986 ad Assisi i rappresentanti delle diverse religioni e fece seguire a questa felice iniziativa le giornate di preghiera europea per la pace nei Balcani nel 1993 e quella internazionale per la pace nel mondo, in occasione della seconda guerra del golfo (2002). Egli incontrò poi gli Ebrei nella sua visita alla sinagoga di Roma (dove mai un precedente Papa era entrato), distruggendo quello stereotipo popolare che ha visto per secoli gli ebrei come “deicidi”,

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Il mistero dell’elefante

in quanto responsabili della morte di Gesù Cristo. Nel 1985 lo stesso Papa Giovanni Paolo incontrò i giovani Musulmani in Marocco nello stadio di Casablanca, si recò nel 2000 al Muro del Pianto a Gerusalemme per commemorare la shoà e alla Moschea di Damasco nel 2001, come ulteriore passo di ravvicinamento ai Musulmani. L’attuale Papa Francesco ha seguito e intensificato questi passi, recandosi in Israele e Palestina accompagnato da un rabbino e da un Imam e portando messaggi di pace ovunque, al di sopra delle varie fazioni politico-religiose. Nel 20016 ha iniziato il nuovo anno recandosi alla Sinagoga di Roma, accolto direi fraternamente dal Rabbino Di Segni e dagli altri astanti. È anche progettata una sua visita alla Grande Moschea di Roma, evento questo di livello storico, perché mai avvenuto prima da parte di un Pontefice. Inoltre, a testimonianza della sua volontà ecumenica anche nei confronti delle altre correnti cristiane, egli è arrivato a chiedere scusa agli altri rappresentanti del cristianesimo per quanto operato nei loro confronti nei secoli passati da parte della chiesa di Roma. Infatti, nella cerimonia conclusiva della settimana ecumenica nel gennaio 2016 nella basilica di San Paolo a Roma, egli ha chiesto «perdono per i comportamenti non evangelici tenuti da parte dei cattolici nei confronti di cristiani di altre chiese». Ha ricevuto una delegazione delle Chiese Valdese e metodista in Vaticano e incontrato il Patriarca della Chiesa Ortodossa Kirill... e chissà quanti passi di ravvicinamento ancora egli ha intenzione di fare. Il cattolicesimo ha quindi riconosciuto progressivamente che anche le altre religioni possono essere strumenti di pace e benessere per i loro seguaci, svolgendo un servizio mirante all’attuazione di un Regno di Dio su questa terra (ove per Regno di Dio si intendano quegli Alti Valori di Pace, di Amore, di Giustizia, di Bene e di Armonia che sono tipici anche dei credi che non prevedono l’esistenza di Dio, come i Buddhisti). Contemporaneamente, pare anche diminuita la conflittualità fra le varie confessioni cristiane, unite tutte, in ultima analisi, dalla credenza basilare comune, che è la fede in Gesù Cristo, e speriamo che un giorno esse riescano a confluire pacificamente in un unico credo, in piena parità e senza supremazie di una confessione sull’altra, pur nel rispetto delle differenze, ove ineliminabili.

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10. Primi passi di ravvicinamento fra le varie fedi

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Nell’enciclica del 2013 Evangeli Gaudium (come ci ha ben ricordato il pastore Paolo Ricca in una recente conferenza) al n. 35, si sostiene che all’interno di qualunque Chiesa è importante arrivare all’ “essenziale”. In ogni credo infatti esistono delle “verità irrinunciabili”, ma ce ne sono altre non così importanti e quindi marginali, perché il loro nesso con la vita del credente non è così evidente (pensiamo ad esempio nel cattolicesimo a dogmi come l’infallibilità papale) e solo attraverso questa “gerarchia delle verità” si potrà arrivare anche ad un incontro e ad una unità ecumenica. Dopo il Concilio Vaticano II, solo Papa Francesco ha osato riparlare di questo importantissimo concetto della “gerarchia delle verità” come fonte di unione fra i vari credi (in particolare cristiani). Nella stessa Enciclica, al n. 485, si sostiene che: «sono tante e preziose le cose che ci uniscono e che possiamo imparare dagli altri, per raccogliere ciò che lo Spirito ha seminato in loro come dono anche per noi». Dal 18 al 25 gennaio 2014 si è tenuta una Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, ma è soprattutto il decreto sull’Ecumenismo Unitatis Reintegratio che ha inteso riaffermare che tutti i cristiani «giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo» e sono quindi un solo corpo nell’ambito del cristianesimo. A livello poi di attività concrete, Papa Francesco, come già accennato, si è recato recentemente a fare visita alla sinagoga di Roma, accolto direi fraternamente in particolare dal Rabbino Di Segni, si recherà prossimamente, come prima volta nella storia, a visitare la Grande Moschea di Roma, ed ha incontrato, anche qui come prima volta nella storia, il Patriarca russo Kirill, come segnale di superamento di quella scissione fra Oriente e Occidente che avvenne nel 1054. Come tentativo di riconciliazione con le Chiese Protestanti, il nostro grande Papa ha chiesto loro pubblica scusa per tutte le incomprensioni createsi con la Chiesa di Roma, a partire dal 1517, inizio del grande scisma operato dalla Riforma. Si sta arrivando quindi, poco per volta, ad una visione pluralistica convergente in cui si sta realizzando che, pur essendo Dio unico per tutti, ogni cultura ne ha concepito un’immagine diversa nei vari luoghi e nei vari tempi, anche in base ai diversi livelli evolutivi dei differenti periodi storici. Nel corso della storia umana, ad esempio, si è passati da una vi-

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Il mistero dell’elefante

sione politeistica in cui i vari aspetti della divinità venivano scissi in divinità diverse (come ad esempio nella mitologia greco-romana) ad una visione monoteistica unitaria dell’Essere Supremo che, progressivamente, è stato anche concepito in modo sempre meno antropomorfico, nella consapevolezza della non sovrapponibilità fra le caratteristiche limitate dell’essere umano e quelle illimitate (e quindi inafferrabili) dell’Essere Supremo. Si sta anche capendo (ancora solo parzialmente purtroppo) che le diverse immagini che attribuiamo a quella Energia Universale o a quella Forza di Vita che tutto muove e tutto crea, possono anche non essere necessariamente chiamate con il termine “Dio”, senza che questo crei un baratro e delle fratture incolmabili fra teisti e non teisti. Il muro invalicabile fra credenti e laici sta cedendo, con un molto maggiore rispetto reciproco da ambo le parti. Come diceva Enzo Bianchi, dentro di noi c’è sempre un piccolo ateo che ogni tanto si riaffaccia e semina dubbi, obiezioni e proteste. Anche il grande Cardinale Martini affermava che dentro ciascuno di noi c’è, al tempo stesso, un credente e un non credente. Ma è un bene che sia così — Enzo Bianchi aggiungeva — perché è proprio lui, il non credente, che tiene lontana la nostra fede dall’integralismo e dal fanatismo, purificandola proprio nel rimetterla sempre in discussione. Ed è lui, aggiungerei, che ci tutela dalla paura che Simone Weil chiamava giustamente «il patriottismo religioso», quello spirito di parte che toglie obiettività e capacità di guardare alle altre fedi con rispetto ed anche con costante disponibilità ad imparare. E se la nostra ricerca ci porterà a non raggiungere mai una spiritualità trascendente -verticale, ma solo una terrena-orizzontale? Sarà comunque anch’esso un risultato degno di rispetto perché, come diceva il grande Papa Giovanni XXIII: «Credo che si possa essere religiosi anche senza mai pronunciare il nome di Dio, se si agisce per il bene dell’umanità», concetto con cui, nel mio piccolo, concordo pienamente, nel mio grande rispetto per il “laico-giusto” (con il quale, anzi, a dire il vero, non di rado dialogo con maggiore facilità rispetto al “credente bigotto”). Padre David Maria Turoldo, un altro credente illuminato, scriveva:

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10. Primi passi di ravvicinamento fra le varie fedi

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Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che non so darti, andiamo oltre le foreste delle fedi, attraversiamo insieme il deserto, liberi e nudi, verso il nudo Essere e là dove la Parola muore abbia fine il nostro cammino.

Il filosofo Roberto Bobbio sosteneva che «non esistono credenti e non credenti, ma solo persone che pensano e persone che non pensano», una frase che ripeteva spesso anche il Cardinale Martini, il quale, pur essendo ovviamente un grande credente, dava più importanza alla ricerca di Verità, che al raggiungimento di essa. Comunque, su questo terreno dell’incontro, della comprensione e del dialogo fra fedi e credenze diverse e anche fra credenti e non credenti, rimane innegabilmente ancora molto da fare, anche a causa degli integralisti che, in tutte le religioni, oppongono un netto rifiuto a questo processo di ravvicinamento, e tendono a scoraggiarlo per ricreare fratture, incomprensioni e separatismi. Di contro, esistono molti movimenti, anche laici, che si sono battuti e si battono per un incontro ed un dialogo fra le varie religioni, e credo che, a questo proposito, un riconoscimento particolare vada dato all’organizzazione internazionale “Religions for Peace”, che opera anche in Italia, ed il cui Presidente, il dott. Luigi De Salvia, è stato più volte ospite, come abbiamo visto, anche dei nostri incontri. Potrei concludere quindi dicendo che, complessivamente parlando, il ravvicinamento fra le varie fedi è un fenomeno in atto, anche se i suoi tempi, modi e risultati, sono da considerarsi ancora tanto auspicabili quanto sostanzialmente imprevedibili e, soprattutto, molto lenti, vista la radice antica e plurima delle reciproche conflittualità.

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CAPITOLO 11

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ILLUSTRI PRECURSORI DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO A questo punto della trattazione, ritengo utile ed anche doveroso rivolgere brevemente l’attenzione almeno ad alcuni di quegli illustri personaggi che, in epoche passate o anche più recenti, hanno avvertito l’importanza di un dialogo interreligioso, specialmente inteso come incontro fra spiritualità occidentale ed orientale. Fra le personalità che più mi hanno colpito citerò brevemente Bede Griffiths, Henri Le Saux, Raimund Panikkar, Paul Knitter e Thomas Merton. Bede Griffiths, un monaco benedettino inglese fu fra i primi a vivere, nello scorso secolo, in India, la spiritualità orientale e ad integrarla con quella occidentale. Nel suo libro Una nuova visione della realtà, egli esamina con grande acume quella che lui chiama “ascesa alla Divinità”, e sostiene che ci sia stata in India una esplorazione di questi livelli superiori di coscienza che superò grandemente qualunque altra parte del mondo, fin dal VI secolo a.C. con le Upanishad e con il Buddha, il Mahayana ed il Vajrayana del Tibet: un mondo quasi sconosciuto all’occidente che solo da poco si sta iniziando a scoprire ed apprezzare. Il campo di conoscenza più fertile di Bede Griffiths, date le sue esperienze, è però l’hinduismo, ed è quindi di questa religione che egli si sofferma maggiormente a parlare. Egli riferisce dei vari livelli di conoscenza che, secondo l’hinduismo, partono dal livello più basso, che è quello dei sensi (gli indriyas) che ci offrono una esperienza immediata; essi sono poi misurati e valutati dal manas, cioè dalla mente inferiore, mentre la buddhi è l’intelletto o intelligenza superiore, quella che conosce la Realtà trascendente ed i primi principi dell’essere e della verità. Griffiths dice che in occidente noi abbiamo raggiunto livelli molto alti di intelletto manas, ma non di intelletto buddhi e non abbiamo quindi raggiunto il Mahat, o grande sé, che è il livello della coscienza cosmica, in cui si comprende che il mondo fisico è un’unità in cui ogni cosa è interconnessa e in cui ci si apre al trascendente.

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Il mistero dell’elefante

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Allo stesso modo — egli dice — non abbiamo raggiunto la consapevolezza che anche la nostra coscienza individuale fa parte di una coscienza più larga di cui tutti siamo parte, che è la coscienza universale o cosmica. Mentre per i Greci l’uomo era il centro dell’universo e tutto veniva considerato in relazione a lui, egli afferma, per gli Indiani la realtà suprema era Brahma, l’Essere Assoluto, e l’intero mondo finito dell’uomo e della natura era sempre guardato in relazione a questa realtà assoluta.

Simile a questo, egli sostiene, è il concetto cinese del Tao. Come accennavamo precedentemente, tutti i popoli antichi sapevano che al di là dell’umano c’era questo ordine cosmico, ma la tradizione occidentale ha rifiutato questo concetto per secoli, riducendo la conoscenza all’intelletto, che impedisce di raggiungere l’Assoluto che è oltre (Brahman) e impedisce anche di cogliere l’Atman, e cioè quella parte di Assoluto che si cela dentro noi stessi, in un’unità che non contiene alcuna forma di dualismo. Le dualità infatti sono create dalla ragione, ma qui la ragione è stata superata e quindi non ci sono più dualità, ma c’è pace e amore, che sono le caratteristiche della Realtà Ultima. Si comprende così che Realtà interna (o Se interiore) e Realtà esterna sono la stessa cosa. Ogni meditazione, del resto, tende proprio a questo, e cioè a raggiungere nel proprio intimo quel sè autentico che è aperto a Dio e agli altri, sconfiggendo quel falso sè che si aggrappa al proprio ego, vedendo tutto alla luce di se stesso e in realtà rendendosi cieco alla sua vera identità e natura cosmica o, con altre parole, alla sua natura divina che lo collega a tutto l’universo come parte integrante di esso. Oggi Bede Griffiths è considerato un profeta del cristianesimo moderno. «La civiltà — egli sostiene — ha i suoi alti e bassi, ma i suoi cicli non sono determinati dalle leggi della storia (come sostiene Vico) o dalle condizioni economiche (come afferma Marx), ma dalla forza della spiritualità.» Nel XIX secolo in occidente l’idea del Progresso viene a sostituirsi a quella di religione e ciò fa cambiare la società dalle fondamenta, con il culto della ragione nell’Illuminismo ed il centrare tutto sull’uomo nel Rinascimento, il che alimenta all’inizio anche espressioni positive come la creatività e l’arte, ma fa tracollare completa-

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11. Illustri precursori del dialogo interreligioso

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mente la visione trascendente, trasformando, poco a poco, i valori fondamentali nel potere materiale e nella ricchezza. Due concezioni opposte, fra oriente ed occidente, che (come affermava anche Osho) andrebbero fuse ed integrate nei loro estremi, integrazione che Griffiths rese concreta nel suo ashram indiano, dove realizzò una mirabile fusione fra la liturgia e spiritualità hinduista e quella cristiana Egli trovò il suo conforto nel misticismo, il che non gli impedì però di essere in profondo contatto con la vita, visto che per lui la contemplazione non era solo sedere a gambe incrociate in perfetta staticità, ma era quella forma mentale che permette di rimanere in costante contatto con Dio, in qualunque tipo di occupazione e di attività quotidiana e terrena, secondo i precetti e lo spirito dell’ “Ora et labora” della regola di San Benedetto. Egli fu anche contrario all’accentramento di potere della Chiesa di Roma e del papato e ad un cristianesimo sviluppatosi secondo i canoni della civiltà occidentale. Sostenne che: «il Cristianesimo non raggiungerà mai la sua pienezza come vero Cristianesimo, e cioè come religione universale, fino a che non avrà incorporato tutto ciò che è valido e vero in tutte le altre differenti tradizioni religiose». Diede vita in questo modo ad un’ottica interreligiosa che era profetica e a quel tempo ancora molto poco riconosciuta — malgrado i primi tentativi fatti dal Concilio Vaticano II — e tuttora così bisognosa di sviluppi e di pratiche realizzazioni. Parlando della nostra religione, Bede Griffith dice ancora che questa concezione elimina il dilemma se Gesù sia nato uomo o Dio, perché, mentre per un musulmano o per un ebreo dire che Gesù è Dio è una bestemmia gravissima, in quanto Dio è uno e non può essere associato a nessuna creatura, per l’hinduista non c’è alcuna difficoltà a parlare di Gesù-Dio, perché nell’hinduismo ogni essere umano è potenzialmente divino, e Gesù è quindi un avatara, cioè una delle forme in cui Dio si è manifestato su questa terra, forma non dualistica che comprende allo stesso tempo l’umano e il divino. Ciò, io credo, risolverebbe una grande difficoltà nel dialogo paritario fra le religioni, poiché ovviamente esso non può essere paritario laddove una sola religione (il Cristianesimo) vanti come suo fondatore un Dio, a differenza delle altre che, da Buddha a Mao-

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Il mistero dell’elefante

metto, da Mosè a Confucio, riconoscono alle loro origini solo dei Profeti. Gesù stesso, dice Griffiths, non parla mai di sè come di un Dio, ma si definisce Figlio dell’Uomo, che in ebraico è praticamente equivalente a Uomo. Come sostenevo anche in altri miei scritti, ciò non mi sembra tolga alcun valore alla sua Esistenza, al suo Messaggio e alla sua Venuta, ma anzi, a mio avviso, aggiunge valore alla sua Figura, indicandoci come quella parte divina che è insita in ogni persona, se improntata al suo esempio, ai suoi insegnamenti e alla sua grandezza, possa trasformarci, come Lui, in esseri immortali e divini, e cioè in veri Figli di Dio. Nel contempo, ciò rende possibile superare quella pretesa superiorità del nostro credo sugli altri, superiorità che rende impossibile un vero dialogo paritario e che ha reso irraggiungibile per secoli un reciproco apprezzamento. Quando Bede Griffiths arrivò in India, egli andò a vivere in un piccolo ashram, che poi divenne la sua dimora, ma che era stato fondato dal monaco benedettino francese Henri Le Saux, giunto in India nel 1948, che poi prese il nome di Swami Abhishiktananda. Dopo la morte di quest’ultimo, nel 1973, Bede Griffiths continuò la sua opera, i suoi studi e la sua esperienza in quello stesso ashram che divenne sempre più conosciuto anche in occidente, dove egli morì, assistito da un altro grande monaco benedettino inglese che aveva chiamato al suo fianco per accompagnarlo nel suo trapasso (e di cui abbiamo qui numerose volte parlato), Laurence Freeman, poi fondatore della Comunità Mondiale di Meditazione Cristiana. Henri Le Saux ci riferisce che, nello spirito ecumenico del Concilio Vaticano II, si tennero in India negli anni ’60 e ’70 vari incontri, per favorire un dialogo fra la tradizione spirituale indiana e le Chiese cristiane, con l’obiettivo comune di leggere e meditare sulla Bibbia e sulle Upanishad, e per entrare nel profondo dell’esperienza mistica Cristiana, Hinduista, Musulmana e Buddhista, ed egli, che poi assunse il nome di Abhishiktananda, ce ne parla mirabilmente nel suo libro Hindu-Christian Meeting Point. Una prima considerazione che si trasse da questi incontri — egli sostiene — fu che: Non c’è possibilità di intesa se ci si limita ad affrontare il problema

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11. Illustri precursori del dialogo interreligioso

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sul piano concettuale della discussione teologica, ma si deve cercare di capire le varie esperienze sul piano spirituale interiore, cioè partendo dalle esperienze “dal di dentro” del proprio se spirituale

Le Saux parla, fra gli altri, di un gruppo, tenuto in Almora nell’aprile del 61, alla fine del quale ogni partecipante fu invitato ad esprimere cosa, come Cristiano, sentisse di avere imparato in India, e come l’India l’avesse aiutato a meglio capire il mistero di Cristo. Uno di loro disse che aveva scoperto in quei giorni una dimensione di interiorità, non solo psichica, ma religiosa e, ancor più, spirituale, della cui esistenza il Cristianesimo borghese, in cui era stato allevato, non gli aveva fornito alcun sentore. Il confronto fra questo Cristianesimo, da lui superficialmente vissuto, e l’Hinduismo profondamente spirituale a cui era stato da poco iniziato, lo portava inevitabilmente a perdere ogni interesse nei riti, nelle abitudini e nelle formulazioni concettuali della sua religione tradizionale. Scoprì poi nella spiritualità Ortodossa e soprattutto nella Preghiera di Gesù la vena di quei valori profondi che gli erano stati rivelati. Un altro partecipante disse che questa esperienza all’inizio lo aveva disorientato, ma un giorno, in questo abisso di non-dualità rivelatagli dalle Upanishads e dall’esperienza dei saggi, in cui l’anima e Dio non sono “due”, ma una cosa sola, riuscì a capire anche il concetto di Trinità, che per lui era stato sempre un dilemma, e capì che la Trinità Padre-Figlio e Spirito Santo, non è una realtà esterna e separata, ma è l’unità della divinità dentro di noi (figlio) e fuori di noi (Padre), collegati dallo Spirito. Un missionario, che era stato in contatto con i poveri dell’India e con alcuni discepoli di Mahatma Gandhi che li servivano in umiltà e povertà, disse di aver ritrovato in questa esperienza il vero spirito dei Vangeli, e capì che non dobbiamo vantarci di aver portato, come Cristiani, “il Cristo in India”, perché i Suoi insegnamenti erano già lì e che queste persone già vivevano il Vangelo delle Beatitudini nella loro opera e vita quotidiana. Due conclusioni principali — dice Henri Le Saux — scaturirono da questo incontro: la prima è che il Signore è già in India, e noi, povere e deboli creature, non dobbiamo immaginare che siamo stati noi a renderlo presente. Il nostro ruolo può essere solo quello di aiutare a far germogliare quel seme che è già stato seminato lì dal-

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lo Spirito Santo, o, meglio ancora, di porci al servizio dello Spirito perché esso germogli. La seconda conclusione fu che l’India ha ricevuto dal creatore un dono speciale di interiorità ed un orientamento unico dello spirito verso l’interiorità. «La presentazione del messaggio cristiano quindi non può solo ridursi ad una predicazione dei Vangeli — egli sostiene — ma essere una perpetua rivelazione del messaggio di Cristo, attraverso l’esempio delle Chiese Cristiane e specialmente attraverso l’esempio di vita dei suoi seguaci cristiani e, in particolar modo, dei suoi capi.» Come si vede anche attraverso queste esperienze (che non sono che una minima parte di quelle riportate dal bellissimo libro citato), il dialogo interreligioso non porta a rinnegare ciò in cui si crede, ma ad arricchirlo attraverso il riconoscimento dei valori altrui (facendo fiorire talvolta anche preziosi insights), ma soprattutto contribuisce a generare un vero rispetto e apprezzamento per l’altro, che giova alla nostra umiltà di credenti, senza per questo eliminare la nostra identità. Altro geniale ed irripetibile portavoce dell’incontro fra culture occidentali ed orientali che indubbiamente ebbe un grande impatto su di me, fu Raimond Panikkar, definito da qualcuno «il profeta del dopodomani». Egli, fedele a quattro religioni diverse (la cattolica, l’induista, la buddhista e la secolare, ciascuna delle quali egli disse di non aver tradito mai), pare che sia stato anche l’ispiratore di Giovanni Paolo II per dare vita alla grande Giornata Interreligiosa di Preghiera che ebbe luogo nel 1986 ad Assisi. Panikkar fu certamente favorito, nel suo percorso spirituale, dall’essere figlio di una madre catalana, cattolica molto aperta, e di un padre indiano, che egli dice rispecchiava nella sua personalità tutta la tolleranza hinduista. Entrato nel 1940 all’Opus Dei (quando i suoi primi fondatori erano degli intellettuali idealisti dalle mire ambiziose ma oneste ed altruistiche) se ne allontanò (anzi ne fu praticamente estromesso) quando le cose cambiarono, dopo essere stato anche vicedirettore del CNR (anch’esso agli albori) e quando lo stesso fondatore dell’Obra, Mons. Escrivà, si dimise. Fu praticamente esiliato in India, a Benares, dove fu accolto a braccia aperte dal Prefetto Apostolico dei frati cappuccini

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11. Illustri precursori del dialogo interreligioso

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e dove ritrovò le sue radici indiane, non rinnegando mai la sua fede cristiana. Divenne anche amico di Henry Le Saux e di Bede Griffiths. Ma lo studio, la contemplazione, la solitudine e il silenzio non lo portarono mai al rifiuto del mondo e anzi visse per lungo tempo in parte a Benares e in parte a Santa Barbara in California, dove insegnava religioni comparate all’Università di Harvard. Il pensiero di questo grande maestro è molto complesso e non certo qui riassumibile in poche righe. Consiglio, a chi voglia approfondirlo, sia la lettura de La mia opera e, in particolare, della sezione “Vita e Parola” dello stesso autore, sia una piacevole biografia a lui dedicata (anche se in forma dialogata e un po’ romanzata) di Raffaele Luise (Raimund Panikkar, ed. San Paolo). Potrò solo cercare di riferire alcuni concetti fondamentali che io ho colto, specie riguardanti il nostro tema dell’interreligiosità. Panikkar, innanzi tutto, vede l’uomo come una realtà unica, espressa dalle quattro parole greche soma, psyche, polis e kosmos. Per questo pensatore la pienezza umana si realizza attraverso queste quattro componenti non scindibili, e cioè il corpo, l’anima, ma anche la polis, e cioè l’essenza non solo individuale ma sociale e comunitaria dell’essere umano (popolo, collettività, società, famiglia) e infine, altrettanto essenziale, il kosmos, cioè la sua appartenenza all’universo e al mondo. Egli afferma: Io non sono più corpo che anima, che popolo che mondo. Tutto è una totalità. Recuperare la coscienza di questa totalità è essenziale perché, come diceva anche il Vangelo di Tommaso: «il regno verrà quando di due si farà uno, quando l’interno sarà come l’esterno e l’esterno come l’interno; la parte superiore come l’inferiore [...]: allora entrerai nel regno.

Di conseguenza, anche la spiritualità non può dividere ma unire, in quanto: Nessuna religione, ideologia, cultura o tradizione può ragionevolmente pretendere di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana. Se quelle vie che intendono migliorare la presente condizione umana potessero riunirsi in uno sforzo reciproco... allora potremmo forse scoprire uno dei compiti fondamentali e permanenti della religione e della laicità, intesa come secolarità sacra: aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

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Il pluralismo entra necessariamente in gioco in tempi come i nostri in cui si scopre la reciproca incommensurabilità delle posizioni umane. La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via di sopravvivenza. Dobbiamo ascoltare un’altra volta — egli afferma — la saggezza di Re Salomone. Le nostre molte soluzioni vogliono tagliare il bambino in due, quando non possiamo averlo per noi. La verità è nostra, come il bambino. Ma per mantenere vivo il bambino, per mantenere viva l’umanità, per mantenere viva la polarità della realtà umana, per mantenere viva la buona fede delle persone, per mantenere viva la libertà come la dignità più elevata, non possiamo giudicare con la Ragione soltanto. Salomone ci ha dimostrato che quando interviene l’amore, quando il bambino è tuo, tu preferisci perderlo, preferisci perfino essere battuto, ma il bambino è vivo.

D’altro canto, egli afferma: «la verità non è mai assoluta, ma ha sempre un carattere di soggettività (unito a quello di oggettività)». Anche da queste poche righe inadeguate, si capisce, io credo, che il nostro autore riesce a coniugare il senso dell’Amore,(ereditato sia dal Cristianesimo che dal Buddhismo che dall’Hinduismo), con un profondo senso dell’interdipendenza fra tutte le cose e di profonda unione nel Tutto che esse stesse compongono (concezione, questa, tratta soprattutto dalle religioni orientali e dal Buddhismo in particolare). Secondo Panikkar: «Mondo, Dio e Uomo si compenetrano, pur senza essere identici, e formano un tutt’uno». La sua posizione concettuale infatti supera sia il teismo (Dio è fuori dell’uomo e della natura), sia il panteismo (Dio è la natura), sia anche il più moderno panenteismo (Dio è sia fuori che dentro l’uomo e la natura), perché anche questa visuale, a suo avviso, separa in un certo senso il concetto di Dio dal resto, mentre per P. «mondo, Dio e uomo sono un tutt’uno, pur nella differenza». Dio non si può definire né unico, né non unico, egli sostiene, perché non si può sapere cosa sia Dio, come affermarono anche Tommaso D’Aquino e Sant’Agostino: «Se lo capisci quello non è Dio». Dio per P. non è singolare né plurale, perché non è un oggetto, o diverrebbe idolatria (e le religioni indiane possono aiutare l’occidente ad evitare quella tendenza antropomorfica che vuole attribuire a Dio qualità e caratteristiche umane). Egli non vede nell’hinduismo una religione politeista (come ab-

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biamo già qui sentito affermare da alcuni nostri relatori) perché quella serie sterminata di divinità diverse non sono altro che i tanti aspetti di Dio. Cosippure vede la rivelazione vedica né come comunicazione di fatti esoterici né come rivelazione nell’ambito delle esperienze umane, ed essa non è neppure, a suo avviso, svelamento del velo che ricopre la realtà, ma piuttosto «consapevolezza che tutto ciò che vediamo è “velo” che manifesta la realtà e allo stesso tempo la nasconde». Quindi la massima consapevolezza diviene la consapevolezza del non sapere (Socrate docet). Anche il Buddhismo (egli incontrò il Dalai Lama nel 1959 quando fuggì dal Tibet in India) lo rafforzò nella convinzione che ogni affermazione su Dio non è Dio. Se si dice che Dio è Essere, si può anche dire che Dio è Non Essere, rimanendo aperti al Mistero. Egli puntualizza la grande differenza che esiste fra il cosiddetto ateismo buddista e l’ateismo di chi esclude qualsiasi forma di trascendenza, perché la perdita della trascendenza alla fine fa perdere il senso dell’orientamento e volatilizza il soggetto umano. Ma la visione buddhista ricorda la teologia negativa di un Dionigi o di un Meister Eckhart, in cui la relazione Dio-Uomo-Cosmo non può raggiungersi attraverso una conoscenza intellettuale, ma solo con un percorso spirituale e mistico, e cioè attraverso il silenzio, in cui possiamo rivolgerci a questo Dio Misterioso e Sconosciuto e dargli il nostro cuore. Il che non significa rifiuto del mondo o alienazione di sè, ma una via che conduce alla pace e alla gioia, attraverso la fede (fede che è poi la speranza di raggiungere questa felicità) e attraverso le nobili azioni, la retta coscienza, il linguaggio trasparente e la condotta sincera. Il “silenzio del Buddha” è, in fondo, solo il simbolo di questa profonda impossibilità di dare risposte verbali e razionali al grande Mistero, a cui si può accedere in altro modo. Egli sostiene infatti che «il fine dell’uomo non è “conoscere Dio”, ma “essere in unione con Dio”, o non lo si conoscerà mai». Così Cristo diviene per Panikkar il simbolo universale del Divino, del Mistero, dell’Infinito e, in quanto tale, appartiene a tutti, non solo al cristianesimo.

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Gesù non venne infatti a fondare una nuova religione, ma a rivelare agli esseri umani la piena potenzialità della relazione fra l’Uomo e Dio, ed è questa rivelazione che gli fa dire «io sono la via, la verità e la vita» e «io e il Padre siamo una cosa sola» perché uomo e Dio sono una cosa sola. Egli diviene così il Cristo Cosmico che appartiene a tutta l’umanità, e non solo ai cristiani. Desidero concludere, citando la sua celebre frase: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno buddhista, ma senza mai aver cessato di essere cristiano... anzi, al mio ritorno mi sono scoperto cristiano migliore perché, da cristiano, non affermo più di essere unicamente cristiano». Si scuserà l’inadeguatezza di questi miseri tentativi di riassumere in poche righe personalità tanto complesse, considerando che lo scopo non è certo quello di dare una visione esauriente di questi grandi precursori dell’ottica interreligiosa, ma di offrire solo degli spunti che invoglino il lettore ad una ben maggiore ed approfondita conoscenza. Va anche aggiunto che ci sarebbero molti altri personaggi da esaminare, come cultori del dialogo interreligioso e, in particolare, come mediatori fra la spiritualità occidentale ed orientale. Ad esempio Padre Antony della Missione Saccidananda (che, come abbiamo visto, fu ospite ai nostri incontri), Swami Sahajananda (John Martin Kuvarapu), monaco camaldolese, allievo di Bede Griffiths e suo collaboratore, di cui ci parla molto significativamente il libro La Verità non ha confini, ed altri ancora. Vorrei però qui ricordare brevemente almeno due altri personaggi. Il primo è Paul Knitter, un sacerdote cattolico, che aderì al buddhismo, per tornare poi alle sue radici cristiane, ed è autore di un libro dal titolo originale e, volendo, anche azzardato: Senza Buddha non potrei essere cristiano, nel quale ho trovato, fra l’altro, una frase che mi corrisponde completamente e che condivido al massimo, e cioè: «la ragione per cui si è o si rimane cristiani è — o dovrebbe essere — l’esperienza che nessun altro ci ha toccato, ci ha parlato, ci ha messo in grado di scoprire chi siamo, come ha fatto Gesù». Ciò peraltro, a mio avviso, comporta un confronto e una pluralità di esperienze, per poter diventare una vera scelta. È pur vero che, nella vita, non tutte le scelte possono essere fatte attraverso dei confronti, o, per sposare un uomo, si dovrebbero prima conoscere tutti gli altri esseri maschili del pianeta... Possono esistere

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“colpi di fulmine” o “innamoramenti a prima vista” o “consapevolezze improvvise di affinità profonde” che determinano la scelta, anche senza confronti ulteriori, e ciò può accadere anche, io credo, nell’ambito religioso. Ma può avvenire invece che sia proprio il confronto con altri nel determinarci o rafforzarci nella nostra scelta, avvalorandola, e forse proprio questo è avvenuto a Panikkar, a Paul Knitter e a tanti altri personaggi qui citati o non citati (me compresa). Knitter si chiede: «Il mio dialogo con il Buddhismo mi ha reso un cristiano buddhista? O un buddhista cristiano? Sono un cristiano che ha capito più profondamente la propria identità con l’aiuto del buddhismo, o sono diventato un buddhista che conserva ancora vestigia cristiane?». Sono domande che possono sembrare inquietanti, e che possono far pensare perfino ad una perdita d’identità, o a sovrapposizioni improprie, e che invece denotano a volte solo una spiritualità più aperta, che è riuscita a cogliere delle tessere preziose da aggiungere al mosaico delle proprie credenze, rendendolo più ricco, sentito e, forse, veritiero. Non mi stupiscono, ed anzi, per certi versi, mi sento affine, nel mio piccolo, a questi grandi personaggi in quanto il loro cammino, entro certi limiti e con le dovute differenze, è stato anche il mio. Nel mio caso, l’avvicinamento, lo studio e la pratica del Buddhismo per moltissimi anni, ha ampliato la mia spiritualità di matrice cristiana con acquisizioni nuove. Ad esempio, un senso nuovo di appartenenza all’Universo, e la sensazione profonda che tutte le cose siano interdipendenti; una concezione nuova della transitorietà, dell’impermanenza e del divenire di tutte le cose, che non scoraggia ad amarle, ma le inquadra nella loro non immutabilità e le fa accettare per quelle che sono, finché e come durano, nella realtà del continuo cambiamento. Il Buddhismo mi ha anche fatto scoprire il silenzio e l’immobilità della meditazione (che inizialmente rifiutavo con veemenza, vista la mia indole molto razionale, che si ribellava al distacco anche temporaneo dal pensiero, percepito non come componente, ma come essenza stessa, quindi irrinunciabile, della persona), meditazione che ignoravo del tutto come forma di preghiera cristiana e che ho poi riscoperto attraverso Dom Laurence Freeman. Ho imparato dai buddhisti il grande rispetto per la natura e per

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Il mistero dell’elefante

tutte le cose, anche le più piccole, e perfino per gli oggetti, che essi maneggiano e curano con una grazia ed eleganza che mai avevo visto prima, così come aggraziata ed elegante è la loro gestualità e il loro amore per l’estetica, non concepita come superficiale apparenza, ma come rispetto per il Bello che, come il Bene, compenetra l’universo e che, essi dicono, può essere offuscato — come il grande sole dell’est — solo da nuvole temporanee che dovremmo riuscire a debellare. Questo aspetto dell’interreligiosità (ossia avvicinarsi all’altro per imparare ad aprirsi a nuovi insegnamenti) è stato quindi da me vissuto in prima persona, ed è forse anche per questo che, al di là delle finalità sociali o di mutua comprensione fra le genti, ritengo questo aspetto della spiritualità auspicabile e perfino primario nel cammino di ciascuna persona che sia disposta a percorrerlo. È l’aspetto che Panikkar chiama “intrareligioso”, e che si sviluppa nel profondo di se stessi. Ovviamente, come quando si torna da un viaggio in paesi lontani, si guarda la propria realtà con occhi differenti e il ritorno alle proprie radici non è più lo stesso. Esso può condurre anche ad uno spirito critico (che io stessa per un certo tempo ho provato) che però non è più disfattista e distruttivo, come quando ci siamo allontanati, ma portato a combattere quell’immobilismo e quelle contraddizioni che rifiutavamo e che ci stavano conducendo a rinnegare la tradizione a cui appartenevamo. Tanto per fare degli esempi, Paul Knitter sostiene che la Chiesa, pur dichiarando l’incomprensibilità di Dio, poi si contraddice definendolo drasticamente nei dogmi, mentre il Mistero ovviamente non può che fare pochissimo uso di definizioni, parole, e, tanto meno, di imposizioni dogmatiche. Cito questo esempio proprio per evidenziare come questo spirito critico non vuole andare ad intaccare la Fede (che è ciò che conta e che rimane immutabile) ma solo la dottrina (che può ed anzi deve cambiare nel tempo). Credo che così come un “viaggiatore del mondo” possa benissimo mantenere la propria identità, allargandola però con acquisizioni, concezioni e modi di vita diversi dal proprio, così anche l’appartenente ad una religione che si apra alla conoscenza delle altre (un “Viaggiatore dello spirito”) può mantenere salde le pro-

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prie convinzioni di base, mettendone però in discussione altre ed acquisendone delle nuove attraverso i diversi orizzonti esplorati. Credo che egli possa diventare non già più confuso, ma più ricco, di chi ha sempre soggiornato unicamente nel suo piccolo “orticello”, perché potrà fare dei confronti, e, di conseguenza, delle scelte più libere e ponderate, sentendosi, inoltre, più vicino ai proprietari degli altri “orticelli” visitati. Paul Knitter è anche un accanito sostenitore dell’ “ortoprassi”, e cioè dell’agire correttamente, rispetto all’ “ortodossia”, e credo che questa impostazione sia essenziale da riscoprire anche nell’ambito del nostro Cattolicesimo, come Papa Francesco sta finalmente iniziando a fare, giacché non sono le parole ma le azioni che possono definire come tale un cristiano, rendendo giustizia al messaggio primo del suo Fondatore ed ai Valori che Egli ci ha insegnato. L’ultimo precursore del dialogo interreligioso che voglio ricordare, anche se in modo brevissimo, è Thomas Merton, un monaco trappista del monastero di Nostra Signora del Getsemani, in Kentucky, che, figlio di un padre neozelandese e di una madre statunitense, crebbe in un clima cosmopolita di apertura e curiosità intellettuale, che forse lo indusse ad intraprendere un dialogo con le tradizioni orientali — ed in particolare con il Buddhismo zen — e a mettere in opera molti interventi a favore della pace. Morì a Bangkok all’età di soli 53 anni nel 1968. È famosa la sua opera, composta a 33 anni, La montagna dalle 7 balze, un lavoro autobiografico sul suo percorso spirituale giovanile, ma direi ancora più interessante è la sua raccolta Lo zen e gli uccelli rapaci pubblicata lo stesso anno della sua morte (ed. it. Gribaudi). Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo autore, anch’egli mirabile per la sua opera di mediazione fra spiritualità occidentale ed orientale (da Agostino allo zen) suggerirei un volume di vari autori, recentemente pubblicato dalle ed. Paoline, Thomas Merton. Il sapore della libertà, che cerca di illustrare la complessa figura di questo eccezionale personaggio. Questi precursori del dialogo interreligioso che abbiamo brevemente ricordato, sono peraltro solo alcuni dei molti che negli ultimi due secoli hanno tentato strade nuove di ricerca nel campo intra- ed inter-religioso, offrendoci le loro preziose intuizioni ed esperienze di precursori, in un percorso che è ancora tutto da scrivere.

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CAPITOLO 12

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DIFFERENTI APPROCCI METODOLOGICI AL PLURALISMO RELIGIOSO Dopo quanto detto, credo che a questo punto sia molto utile chiedersi quali forme e modalità possa prendere la ricerca sul pluralismo religioso e quali possano essere i metodi più consoni al raggiungimento di una vera armonia fra le varie credenze, senza né deformarle, né tanto meno assimilarle indistintamente le une alle altre, ma senza nemmeno vederle come entità incommensurabili ed inevitabilmente separate, ferma restando la estrema difficoltà dell’impresa, che giustamente, nella presentazione Daniele Bollini definiva come una missione quasi impossibile. Il teologo Don Carlo Molari — un grande Maestro qui già più volte citato — in un suo scritto intitolato Teologia del pluralismo religioso, sostiene che esistono vari modi per affrontare il problema della pluralità religiosa, ed elenca, in particolare, quattro differenti approcci metodologici, e cioè l’esclusivismo, l’inclusivismo, il pluralismo convergente ed il pluralismo relativista. L’esclusivismo è la tendenza di chi ritiene che la propria sia l’unica religione vera e che quindi sia giusto riferirsi unicamente ad essa, ignorando le altre religioni. Nel Cristianesimo questo atteggiamento può essere riassunto nella famosa frase «Extra Ecclesiam nulla est salus», con cui si affermava l’esclusività della salvezza, come appartenente alla Chiesa cattolica, atteggiamento intransigente e chiuso che fortunatamente abbiamo visto poco per volta superato dalle stesse istituzioni, oltre che, progressivamente, dalla mentalità di molti credenti. Oggi si riscontra in ambienti tradizionalisti che si oppongono al dialogo con le altre religioni, ma, in passato, fu l’atteggiamento proprio di grandi teologi o filosofi cattolici ed anche protestanti, che sostenevano rigorosamente la superiorità del Cristianesimo sulle altre religioni e che quindi le snobbavano, non ritenendole degne di attenzione e considerazione. Ciò avveniva — e avviene tuttora — negli ambienti integralisti

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Il mistero dell’elefante

ed ultra-conservatori, ma, forse, è proprio l’atteggiamento mentale che ci è stato insegnato fin da quando eravamo piccoli, e da cui, quindi, non è facile liberarsi completamente. Senza contare che ci viene ancora ribadito in alcuni ambienti ecclesiastici esclusivisti come l’unico possibile. Non è un caso che io, spesso, sia fuggita dalle omelie domenicali di alcune parrocchie, in cui ascoltavo frasi del tipo: «ma chi è poi questo Buddha che oggi va così di moda?» Per non parlare poi del passato, se pensiamo che a Firenze, nel Duomo, c’è un dipinto che ritrae Maometto sprofondato nell’inferno. All’estremo opposto ci sono i relativisti (o pluralisti radicali) i quali sostengono che tutte le religioni, quanto alla salvezza, abbiano lo stesso valore, per cui ha poca importanza a quale di esse si appartenga. J. Dupuis afferma: «Questo nuovo paradigma consiste nel riconoscere che le varie religioni gravitano attorno ad un solo centro: Dio. Le religioni, benché differenti, hanno tutte fondamentalmente lo stesso valore come manifestazioni diverse di Dio allo spirito umano nelle diverse regioni culturali del mondo». Per cui “tutto sarebbe uguale a tutto” in una superficiale equiparazione fra realtà a volte molto diverse. Il pluralismo convergente — sostiene Don Carlo Molari — afferma che unica è la parola salvifica di Dio ma molti sono i mediatori storici della salvezza, tra cui le strutture religiose... ma tutti riflettono, anche se in modo diverso e secondo forme culturali a volte irriducibili, la stessa Parola misericordiosa di Dio e la stessa potenza purificatrice del suo Spirito.

In un certo senso, sostiene Molari, anche il pluralismo convergente, che sostanzialmente sembra essere l’atteggiamento migliore, potrebbe sconfinare nel relativismo, laddove esso, ponendo tutte le religioni sullo stesso piano, di fatto non riuscisse a coglierne le diverse peculiarità, e finisse per fare di un’erba un fascio, non prendendo atto dell ’unicità dei singoli credi. E questo è infatti il rischio che si può correre. Ricordo una frase del Dalai Lama — che mi accompagnò sempre nelle mie esperienze interreligiose e a cui esse si sono sempre ispirate — che diceva: «Le eguaglianze non sono meno importanti delle differenze», atteggiamento a mio avviso indispensabile per

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12. Differenti approcci metodologici al pluralismo religioso

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non cadere in un’ottica appiattita ed appiattente che non rende giustizia alla peculiarità dei vari credi. Pluralismo infatti significa riconoscimento della pari validità delle varie Fedi e apertura al dialogo ed al confronto, per un arricchimento reciproco, nella consapevolezza peraltro che ogni credo, nato da differenti culture ed in luoghi e tempi diversi, non può venire equiparato a nessun altro, ma va anzi tentato di capire nelle differenti mentalità ed ottiche, sia terrene che trascendenti, che esso manifesta (cosa, fra l’altro, non sempre facile per appartenenti a culture diverse). L’inclusivismo pare che oggi raccolga ancora un gran numero di seguaci (il che dimostra quanto ci sia da procedere ulteriormente in questo cammino interreligioso). Esso sostiene che tutto ciò che in frammenti può trovarsi nell’ambito delle altre religioni, è già compreso nell’ambito del Cristianesimo, ovvero presenta Cristo come norma definitiva per giudicare il bene o il male contenuto nelle altre religioni, perché, per usare le parole di Don Carlo, «sempre e solo attraverso Cristo componenti di Grazia Divina sarebbero presenti nelle altre religioni»: c’è cioè una tendenza ad universalizzare Cristo come presente, in vari modi e forme, nelle diverse fedi, ed è questo che le renderebbe degne di valore e di attenzione. Si vede bene come non ci si sia, in questa tendenza, ancora molto spostati dall’ottica integralista, in quanto lo spazio accordato agli altri credi è solo in funzione del fatto che essi contengano brandelli della Verità del credo Cristiano, negando quindi a ciascuno di essi la possibilità di “dire qualcosa di nuovo e di diverso”, degno di ascolto anche da parte dei cristiani, e di aprire così la strada ad un vero arricchimento reciproco. Si tratta, ovviamente, di operare una scelta fra i vari modi di considerare la realtà delle altre religioni e degli altri credi, senza cadere né nella rigidità dell’integralismo o dell’inclusivismo (tendenze che, in vari modi, appartengono non solo al mondo cattolico e cristiano, ma anche a molte altre religioni) né nel facile e riduttivo relativismo L’importante, ritengo, è che ogni credo sia considerato differente, ma degno dello stesso valore e della stessa dignità, e quindi in grado di scambiare con gli altri preziosi spunti di arricchimento. Per tornare alla nostra metafora, sarebbe auspicabile che le varie religioni e le varie fedi fossero considerate come preziose ed

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Il mistero dell’elefante

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ineliminabili tessere di uno stesso mosaico, in cui ciascuna è parte integrante ed essenziale all’insieme, pur non potendolo da sola raffigurare. Esiste infine un altro aspetto interessante nel considerare le possibili modalità del dialogo fra religioni e credi diversi, che ci viene magistralmente illustrato dal già citato Panikkar, il quale fa una opportuna distinzione fra dialogo interreligioso ed intrareligioso con queste parole: Molto spesso il dialogo tra le religioni non oltrepassa i limiti della sociologia: assume la forma di una discussione fra i vari rappresentanti, oppure di una inchiesta sulle influenze reciproche in un determinato ambiente. In tal modo il dialogo diventa un esercizio intellettuale: si studiano le dottrine nelle diverse religioni. Questo è il dialogo inter-religioso. Più raramente il dialogo si svolge all’interno della persona stessa: siamo allora nel dialogo intra-religioso, che diventa esso stesso un itinerario religioso. Si effettua nel cuore della persona umana alla ricerca del proprio sentiero. Si partecipa a questo dialogo non soltanto guardando verso l’alto, cioè verso la realtà trascendente o indietro, verso la tradizione originaria, ma anche orizzontalmente, verso il mondo degli altri uomini i quali, anch’essi, possono aver trovato delle vie che conducono al destino umano. Il dialogo è profondo perché non si dialoga esclusivamente con la propria tradizione, oppure con gli altri in quanto altri, ma con un se stesso che ha assimilato, a suo modo, una concezione della realtà attinta a fonti diverse. In questo dialogo l’uomo è alla ricerca della sua salvezza, ma accetta di farsi insegnare dall’altro. Il dialogo intra-religioso, aiutandoci a scoprire l’altro in noi stessi, contribuisce alla realizzazione personale e alla mutua fecondazione fra le tradizioni dell’umanità, che non possono più vivere in stato di isolamento, separate fra loro da muri di diffidenza reciproca o in stato di guerra più o meno camuffata dall’emulazione e dalla competizione. Come dice il Vangelo di Tommaso: «Quando io avrò scoperto l’ateo in me, così come l’hindu e il cristiano, quando considererò mio fratello come un altro me stesso e quando l’altro non si sentirà alienato da me... allora noi ci avvicineremo meglio al Regno».

Ho voluto riportare interamente questa citazione, perché credo essa colga due forme altrettanto importanti del dialogo fra le religioni, sottolineando anche questo aspetto di crescita interiore profonda, che molte volte non viene visto in tutta la sua unicità e preziosità. Ovviamente, nel presentare qui sinteticamente le possibili me-

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12. Differenti approcci metodologici al pluralismo religioso

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todologie di ricerca sul pluralismo religioso e sul tipo di dialogo inter- o intra-religioso che se ne può trarre, vorrei sottolineare come questi temi presentino una complessità davvero notevole, che sarà soggetta ad ulteriori sviluppi e che lascio anche al libero approfondimento del lettore.

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CAPITOLO 13

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CONSIDERAZIONI FINALI A cosa poterono servire questi lunghi anni dedicati alle tante ricerche e ai tanti incontri descritti? Certamente non posso purtroppo sapere se, quante e quali conseguenze tali eventi possano aver suscitato nelle molte persone che li hanno frequentati, anche se spero che possano avere offerto loro degli input ad una ricerca ulteriore sia, come affermava Panikkar, a livello interreligioso, e cioè di una maggiore comprensione e vicinanza nei confronti di appartenenti a credi diversi, sia a livello intrareligioso, ossia di una maggiore chiarezza interiore e di un arricchimento della propria spiritualità. Posso quindi solo parlare della mia esperienza personale, dei suoi sviluppi e delle conseguenze psicologiche e spirituali che ne derivarono. Devo dire che molte riflessioni sopraggiunsero in un secondo momento, tutta presa com’ero, specie nei primi tre anni, dall’organizzazione non facile e dall’impegno non trascurabile a cui mi ero sottoposta, dall’allestimento materiale della sala prima degli incontri, agli accordi con i relatori, agli inviti ai partecipanti, corredati da brevi notizie pre-incontro e seguiti da relazioni post-incontro, il tutto da assommare, ovviamente, alla mia normale attività di psicoterapeuta e... al resto della mia vita. Ma credo che, a livello interreligioso, imparai, in questi anni, più sulle altre religioni di quanto non avessi fatto — veramente troppo poco — in tutto il resto della mia vita e, a livello intrareligioso, questo arricchimento interiore fu molto importante per il mio cammino spirituale (mai stato facile e pianeggiante). Posso dire innanzi tutto che esperienze così, almeno apparentemente, differenti, mi si rivelarono portatrici di un filo rosso e di un comune denominatore che le collegavano fra loro, tanto da non provocare la minima confusione nella mia testa, ma piuttosto degli importanti chiarimenti. Anche perché ero molto in contatto con il mio felt sense e, istinti-

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vamente, coglievo in ogni esperienza ciò che sentivo affine e consolidante per i miei valori, il mio tipo di spiritualità ed il mio modo di essere, lasciando cadere il resto, senza un preciso sforzo volontario. Forse avevo proprio fatto mio il detto di San Paolo, per cui conviene provare tutto, salvo poi ritenere solo ciò che serve, in quanto bello e utile (e questo bello e utile, ovviamente, non può essere che soggettivo). La mia sensazione era simile a quella di quando si raccoglie in un bicchiere dell’acqua mista a sabbia: basta avere la pazienza di farla depositare perché, poco a poco, la sabbia si raccolga sul fondo e l’acqua torni limpida e chiara. In questo caso, però, con una qualità in più, e cioè quella dell’arricchimento raggiunto attraverso quanto esperito. È ciò che desidererei avvenisse anche in chi avrà avuto il coraggio e la pazienza di leggere questi scritti. Questi incontri mi furono anche utili per riconfermarmi ulteriormente nella validità della meditazione e del silenzio, come strumenti atti a creare un collegamento fra terra e cielo, fra noi e il nostro vero sé e fra noi e gli altri, superando e mettendo da parte la ragione. Il grande Bede Griffiths, già citato, descrive la meditazione come la via diretta verso Dio. «La meditazione —- egli dice, in modo analogo a quanto sentito nei nostri incontri da molti relatori — consiste nell’apprendere a prestare attenzione e a controllare la mente. Quando la mente è ferma, allora la luce dell’intelletto comincia a risplendere». Quando il nostro corpo, immobile, è ben ancorato a terra, e la nostra mente è tenuta sotto controllo, allora il nostro intelletto può spaziare. Similmente, i buddisti dicono che allora la nostra mente grossolana può iniziare a trasformarsi nella mente sottile degli illuminati. Questa è stata l’esperienza di tutti i Mistici, e questa è l’esperienza che può anche veramente accomunare fra loro esseri umani dai credi e dalle confessioni più diverse, perché è in grado di trascendere i rituali, i dogmi, le dottrine e le diversità concettuali, riassorbendoli nell’unica visione universale della Realtà Suprema, qualunque sia il nome che ad essa vogliamo dare e in qualunque modo sia stata appresa, concepita e formulata. Vito Mancuso afferma:

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13. Considerazioni finali

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La vita si risolve nell’essere, non nel professare o negare dottrine. Dobbiamo imparare ad essere fedeli a ciò che siamo, e che siamo armonia.

E vorrei anche ricordare di nuovo quella citazione che tanto amo di Laurence Freeman e che dice:

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Il silenzio è la dove la domanda ultima è stata superata, non tentiamo più di trovare risposte ma cominciamo ad aprirci alla realtà che trascende ogni domanda e ogni risposta

Ho però anche sperimentato di persona nei miei incontri che ci sono molte persone che, di primo acchito, rifiutano l’approccio meditativo (come del resto inizialmente accadde anche a me). Credo che la prima origine di questo atteggiamento di rifiuto vada ricercata nella modalità sempre prevalentemente razionale tipica di noi occidentali, e anche nel fatto che mai, nell’ambito religioso, tale, chiamiamola, “tecnica” ci è mai stata insegnata, e risulta quindi molto nuova e lontana, rispetto, ad esempio, alla preghiera parlata o all’ascolto di un’omelia. In più, come diceva Carl Rogers, siamo “unici e irripetibili” e quindi anche in questo campo abbiamo il diritto di avere gusti e tendenze diversi. L’esperienza tratta da questi incontri interreligiosi mi ha suggerito quindi (cosa richiestami anche da molti partecipanti) che, in molti casi, prima di questo approccio meditativo, sia necessario instaurare un minimo rapporto di conoscenza e comprensione con le altre religioni, molto spesso pochissimo conosciute o, come abbiamo visto, non di rado distorte da falsi stereotipi o preconcetti errati. Lo stesso Hans Kung diceva del resto che un dialogo fra le religioni può instaurarsi solo laddove esista una conoscenza dei fondamenti teorici delle varie religioni. È verissimo che, come sostiene John Main, mentre la parola può dividere, il silenzio può unire, ma è anche vero che, specie per noi occidentali, un sentimento di comunanza a livello concettuale ed emotivo può creare a volte una condizione propedeutica all’efficacia del silenzio. Ne conclusi quindi che, di fronte a credi che non si conoscono, oltre al silenzio, anche la parola può essere molto necessaria.

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Posso ricordare, a questo proposito, le affermazioni del citato Henry Le Saux, in cui egli sostiene che, malgrado gli indiani abbiano sfere di pensiero molto diverse ed altre forme di religione e spiritualità rispetto all’Occidente, pure le parole che l’occidentale può leggere ed ascoltare da questi saggi provocano in lui risonanze intense, come se provenissero dalle profondità della sua stessa esperienza. È dunque da queste profondità, dal recesso più intimo del cuore da cui il Mistero si rivela alla consapevolezza, che può iniziare un vero dialogo.

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E mi risuonano anche le parole del Cardinale Martini che citai proprio nel mio primo incontro interreligioso e che dicevano: Occorre lasciarci fermentare a vicenda da parole vere e autentiche, non collegate ad una tradizione religiosa precisa, come quelle espresse dal Discorso della Montagna, che toccano nell’intimo il nostro cuore e hanno la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un mussulmano, un indù, un buddista, proprio in quanto attingono alle profondità dello spirito.

Sembra a volte molto difficile arrivare a questa condivisione profonda, che però la parola, a certi livelli, può raggiungere non meno del silenzio, in alcuni privilegiati e forse rari momenti, in cui le parole riescano a toccare quella autenticità e profondità che parla più al cuore che alla mente. Ricordo anche, come esempio veramente indicativo, quella frase contenuta nella lettera inviata nel 2007 dalle massime autorità dell’Islam alle Chiese Cristiane (da me citata durante un incontro con gli islamici) che diceva: Così, nell’obbedienza del sacro Corano, come Musulmani invitiamo i cristiani ad incontrarsi con noi sulla base di ciò che ci è comune, che è anche quanto vi è di più essenziale nella nostra fede e pratica: i due Comandamenti d’amore.

È un mirabile esempio di come, anche fra fedi concettualmente notevolmente diverse, sia possibile trovare dei fili rossi e dei denominatori comuni che possano avvicinarle e penso che, dopo la lettura di una frase del genere, il silenzio possa arrivare più denso di significato e di comunione spirituale. A questo proposito, vorrei ricordare le parole mirabili che Laurence Freeman ha usato nella presentazione, quando parlava della

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13. Considerazioni finali

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scelta che va fatta fra le somiglianze e le differenze. Egli diceva saggiamente che:

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Se scegliamo le differenze, scivoleremo con facilità verso la divisione e il sospetto. Se partiremo dalle somiglianze, saremo più vicini a quell’area misteriosa ma esperienziale di unità, di non dualità o, per dirla in modo più diretto, saremo più vicini alla nostra comune umanità.

Vorrei citare, a questo punto, le mirabili esperienze interreligiose organizzate a Firenze dal mio amico Marco Lazzeri, in cui, in incontri settimanali presso una sede di culto diversa, offerta a turno dai vari credenti (ed anche non credenti), si unisce la pratica del silenzio a quella della parola: i partecipanti infatti, dopo una meditazione collettiva, si offrono di leggere dei brani che ritengono significativi del loro credo, che vengono attentamente ascoltati dagli altri, anche se appartenenti a fedi diverse. Assistetti ad uno di questi incontri e fui colpita dall’impatto emotivo che riuscivano a creare e dalla bellissima atmosfera di compartecipazione, non facile da raggiungere altrove e altrimenti. Da queste premesse si potrà poi sperabilmente partire per un successivo passaggio all’azione (che è, sostanzialmente, la cosa fondamentale senza la quale le parole, anche le più belle, restano solo tali). Oggi, come già affermavo nei miei precedenti scritti, abbiamo bisogno di una spiritualità nuova che sia relazionale, unitaria ed interreligiosa e che ci aiuti a superare quelle barriere per cui l’essere umano, nella società attuale, pare scisso dalla natura, dagli altri, da Dio e perfino da se stesso, portandolo a ritrovare la sua dimensione universale. Abbiamo bisogno di una spiritualità che non divida ma unisca, che non rifiuti ma si apra al dialogo e che si confronti con l’altro per un reciproco arricchimento nella pace. Albert Einstein affermava: «La religione del futuro sarà una religione cosmica. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come parti di un’unità intelligente». Arturo Paoli, un grande maestro di vita recentemente scomparso, affermava la necessità di «amourisé le monde», il nostro grande Papa Francesco ci incita a costruire ponti e non muraglie... e, in sintonia con questi grandi spiriti, abbiamo qui citato almeno alcuni

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dei grandi precursori di questa ottica pluralistica della spiritualità. Sarebbe necessario innanzi tutto acquisire la profonda consapevolezza della nostra comune appartenenza al Tutto e della nostra interdipendenza con la natura e con gli altri esseri viventi — umani e non umani — (come ci insegnano mirabilmente i nostri amici Buddhisti), per avvicinarsi quindi al resto del creato con umiltà e desiderio di conoscere la sua vera essenza e le sue positività, superando preconcetti, pregiudizi, diffidenze, paure ed ostilità, nella convinzione che «l’altro siamo noi, siamo sempre anche noi». Gesù Cristo parlava di portare il Regno di Dio su questo mondo proprio attraverso l’acquisizione di queste doti positive che trasformino l’ingiustizia, la violenza, l’odio e la sopraffazione in Armonia, Amore e Pace universali. E così hanno insegnato, come abbiamo potuto brevemente accennare, i Fondatori di molte altre religioni. Ma come abbiamo poi messi in pratica questi insegnamenti illuminati? Attraverso le tesi dei seguaci dell’ottica evoluzionista — come Teillhard de Chardin e Don Carlo Molari — ho iniziato a nutrire la speranza che l’essere umano (nato dal caos ed evolutosi attraverso il lento passaggio da esseri monocellulari ad animali via via sempre più complessi) stia progressivamente acquisendo capacità superiori anche a livello spirituale, evolvendosi da una mentalità egocentrica, iperindividualista, iperrazionale e materialista, verso la consapevolezza che il suo benessere potrà essere raggiunto solo attraverso ottiche che lo conducano a solidarietà, pace e giustizia universali. Purtroppo questa trasformazione positiva ci appare così lenta nel tempo che a volte verrebbe istintivo il negarne l’esistenza e bisogna solo ricorrere al confronto con un passato molto remoto per cogliere dei segnali di progresso, apparentemente poco evidenti. Rispondevo pochi giorni or sono ad una amica che metteva in serio dubbio il progresso dell’umanità nella storia chiedendole: «Ma tu, come donna, vorresti essere nata qualche secolo fa?», non ricevendone ovviamente alcuna risposta. L’homo sapiens sapiens ha acuito le sue doti intellettive e sperabilmente riuscirà anche a rendersi conto che solo una solidarietà collettiva a livello mondiale potrà evitare il collasso totale, che solo il rispetto della natura potrà sventare il pericolo della fine del pianeta e che solo una reciproca considerazione positiva potrà ga-

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13. Considerazioni finali

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rantire un’esistenza degna di questo nome a tutti gli abitanti della terra. Come già affermato più volte in questo lavoro, vorrei ancora una volta ribadire che, a tal fine, la funzione delle religioni mi appare primaria, a condizione che esse per prime, non facendosi più contaminare dai disvalori del passato (e talvolta anche del presente), sappiano tornare ad essere vere Maestre di Vita, come lo furono i loro Fondatori, in qualsiasi luogo e tempo vissuti. Il già più volte citato Hans Kung affermava che nelle religioni «ci sono elementi che, conosciuti e messi in comune, possono dare un contributo ad un’etica mondiale» e servire quindi a “credenti” e “non credenti”, visto che l’etica è di tutti. Queste mete possono sembrare ardue e lontanissime, ma sembrava tale anche una pace fra gli stati europei che finalmente è stata in parte ottenuta, almeno nell’ assenza di guerre cruente fra la maggior parte di essi, come avvenuto per secoli e secoli (conquista che, forse, siamo ancora portati a non valutare pienamente e a negare talvolta sconsideratamente nella sua rilevanza). La lentezza del processo evolutivo è innegabile ma non deve scoraggiare. Ciò che conta è potenziare gli strumenti da usare per poter accelerare i tempi di evoluzione. E mi sembra qui utile affermare che uno strumento a mio avviso utilissimo possa essere proprio il dialogo interreligioso, sottolineando quindi l’importanza di incrementare e diffondere l’iniziativa di ogni possibile esperienza di incontro — formale o non formale — fra seguaci di credi diversi, giacché soprattutto da iniziative individuali opportunamente mirate può nascere e svilupparsi un reale mutamento positivo nella mentalità, sensibilità, consapevolezza e maturità dell’essere umano a livello collettivo. Vorrei concludere infine con una citazione di Simone Weil che sostiene: Lo sforzo mirato a cercare la verità — il desiderio di luce — alla fine porterà a trovare la verità e la luce, anche se tale sforzo dapprima può sembrare improduttivo per anni.

Come mio particolare desiderio di luce, mi sento di ritornare, in questa sede finale, a quel mio “sogno”, a cui ho già accennato alla fine della prima parte di questo scritto, e cioè che possa aprirsi, per iniziare, nella mia Roma, una sede stabile in cui i seguaci di qualun-

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que credo e fede, di qualsiasi origine, provenienza, colore e razza, possano radunarsi per pregare tutti insieme in silenzio a loro modo, uniti nella consapevolezza della reciproca profonda fratellanza, non escludendo anche i cosiddetti “non credenti”, partecipi di un sentimento comune di pace universale che tutti può accomunare. Potrebbe essere un primo piccolo punto di partenza e una prima piccola scintilla di pace ed armonia verso mete successive ben più complesse e rilevanti che il nostro “desiderio di luce” ci può ispirare.

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Finito di stampare nel mese di giugno 2016 presso Press Up S.r.l. – stabilimento di Nepi (VT)

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