Ernesto De Martino
 8843044826, 9788843044825

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Pietro Angelini

ERNESTO DE MARTINO

Carocci editore

2a ristampa, dicembre 2014 la ristampa, giugno 2009 la edizione, marzo 2008 © copyright 2008 by Carocci editore S.p.A., Roma

ISBN

978-88-430-4482-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

l' ristampa, giugno 2009 l' edizione, marzo 2008 © copyright 2008 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel giugno 2009 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN

978-88-430-4482-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

9

Avvertenza

I.

2.





L e due guerre

13

Storicismo eroico La persona magica

13 24

Gli anni del sole a picco

51

«La civiltà contadina» Il folklore progressivo

51 62

Dal campo al libro

75

«Una spedizione etnologica» Magia lucana Sud e magia

75 89 1 06

«Gli ultimi tempi»

II8

Verso La fine del mondo L'alienazione e la riconquista del bene-tempo

I I8 128

Nota biobibliografica

145

Indice dei nomi

1 65 7

Avvertenza

Questa non è un'introduzione a "tutto" de Martino: un'introduzione siffatta avrebbe richiesto un numero doppio di pagine e di velleità. Il lettore troverà qui invece la ricostruzione, in forma più o meno narra­ tiva, di alcuni "momenti" del lavoro scientifico e dell'impegno civile dello studioso, scelti tra quelli che non presuppongono un livello al­ tissimo di conoscenze in campo etnologico e storico- religioso. Mo­ menti di passaggio, per lo più: il passaggio in generale dalla riflessio­ ne alla scrittura, il passaggio dal primo al secondo libro, il passaggio dal liberalsocialismo alle file del Partito comunista, il passaggio dal lavoro sul campo alla confezione di un libro fortunato come Sud e magia e il passaggio infine dalla stagione "meridionalistica" al pro­ getto di un'opera-mondo come l'ultima e incompiuta ricerca sulle apocalissi culturali. Passaggi difficili e mai indolori, che consentono di seguire, a volte passo per passo, un itinerario ricco di feconde con­ traddizioni e di "eroiche" coerenze, non sempre colte dai lettori e dai compagni di strada a cui de Martino si rivolgeva. Ciò detto, veniamo alla piccola ma dolorosa lista delle "esclusio­ ni" che ho dovuto operare. Il discorso critico, per prima cosa, non tocca il lungo periodo degli esordi ( 1 929-3 7 ), di cui si parla - e fuga­ cemente - solo all'interno della Nota biobibliografica a fine volume. Sono gli anni in cui de Martino guarda al fascismo come a una " reli­ gione civile" e non nasconde la sua simpatia per la componente mi­ stica dell'ideologia fascista (anche se questa poco trapela dai lavori scientifici che viene pubblicando ) . Si tratta d'altronde di un periodo fino ad ora mal documentato e che lo stesso autore, pur lungi dal rimuoverlo, ha tuttavia lasciato nell'ombra. Fra l'altro è pure scarna, e per la massima parte ancora inedita, la documentazione relativa ai rapporti che de Martino ebbe con intellettuali che certamente incise­ ro sulla sua formazione scientifica, come Macchioro, Pettazzoni, Buo­ naiuti, Gentile e Aliotta. Tali ed altri argomenti, che qui è inutile elencare, mi hanno alla fine persuaso a non dedicare un intero capito-

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ER�ESTO DE MARTI�O

lo a questo periodo così frastagliato, per non complicare eccessiva­ mente il ritratto di un autore già di per sé abbastanza complesso. Un altro aspetto che forse poco emerge dalle pagine che seguono è il ruolo di punta svolto da de Martino nella promozione e diffusio­ ne delle scienze religiose in Italia. Lo studioso è noto per la sua vigo­ rosa (e ventennale) attività di consulente per la casa editrice Einaudi; ma anche nel catalogo di altri editori allora emergenti, come Giangia­ como Feltrinelli e Alberto Mondadori, sono presenti le tracce di un programma di letture scopertamente demartiniano, come del resto documentato dalle carte dei rispettivi archivi. Non è azzardato dire che, per una quindicina d'anni, la metà dei libri che uscirono in Italia in campo etnologico e storico-religioso portò l'impronta di de Marti­ no. E anche sulle riviste, da quelle specializzate a quelle più impe­ gnate nella diuturna "battaglia delle idee", il nome di de Martino fu per anni una costante: spesso scomodi, a volte impiegati come para­ fulmini, i suoi interventi, anche quando entravano in questioni parti­ colarmente calde e contingenti, non rinunciavano mai a rimettere in discussione la storia e il metodo - oltre che il ruolo - delle discipline che veniva imponendo nel panorama culturale. Le ragioni per cui tut­ to ciò poi non produsse un'effettiva egemonia - a livello nazionale del suo pensiero esulano almeno in parte dall'economia del presente scritto, ma il lettore potrà giovarsi della letteratura sull'argomento se­ lezionata nella Nota finale. Anche per quel che riguarda l'esposizione delle principali opere, si è dovuta operare una drastica scelta. Già scorrendo l'indice, il let­ tore noterà l'assenza di due capitoli importanti: Morte e pianto rituale e La terra del rimorso - i libri non a caso più ampi e complessi di de Martino - sono qui ricordati solo in relazione ai lavori che li hanno preceduti. Sono libri che mal si prestano, per la loro grandiosa archi­ tettura, ad essere sintetizzati in poche pagine, e che nemmeno favori­ scono l'estrapolazione e l'isolamento di un singolo punto, tale è la compattezza del discorso complessivo e l'estensione del viaggio nel tempo in cui trascinano il lettore. Il rimando più opportuno, in que­ sti due casi, non è alla solita Nota finale (comunque da consultare, per avere maggiori informazioni) , ma alla lettura diretta, trattandosi di opere che si trovano facilmente in commercio. Uguale discorso si potrebbe fare per La fine del mondo, l'opera ultima e incompiuta di de Martino, che per la sua natura di work in progress è impresa disperata (oltre che inutile) riassumere in uno schizzo. Ma a differenza dei due libri sopra citati, si presta benissi­ mo - proprio perché è un cantiere - ad essere vivisezionata; che è quello che ho fatto, ricostruendo uno solo tra i percorsi di lettura che IO

AVVERTENZA

l'opera offre con una generosità senza pari: la manipolazione cultura­ le del tempo. Ho preferito seguire questo percorso - rinunciando per ragioni di spazio a un tema che pure mi pareva altrettanto stimolante quale !'"addomesticamento del mondo" - perché ci consente di vede­ re, quasi dal vivo, "de Martino al lavoro" . Un'immagine che ho cer­ cato di ricreare anche nella trattazione delle altre opere, con il chiaro intento di rendere un poco più "fisico" l'incontro con questo autore.

II

I

Le due guerre

Storicismo eroico

L'ingresso di de Martino nel piccolo e quieto panorama dell'etnologia italiana del r940 è improvviso e teatrale. Il libro che costituisce il suo esordio ufficiale - dopo anni di appartati studi filosofici e storico-reli­ giosi è perentoriamente intitolato Naturalismo e storicismo nell' etno­ logia ed è un libro-squilla che si rivolge, da pari a pari, agli etnologi e ai filosofi: ai primi comanda di cambiar rotta, ai secondi consiglia di navigare in mari più aperti. Ma al di là dei toni un poco pompieri­ stici, il discorso fila lucido e mette a nudo, uno dopo l'altro, tutti i limiti dei metodi praticati dalle scuole etnologiche più note in Italia (la vittoriana, la francese e la viennese) e con minore virulenza, ma altrettanta determinazione, i limiti umanistici di quell'indirizzo filoso­ fico che de Martino ha fatto suo: l'idealismo di Benedetto Croce. Di conseguenza due sono le guerre che vuole combattere: una contro l'etnologia naturalistica, per innalzare l'etnologia a scienza storica; l'altra contro il crocianesimo ortodosso che, come non prevede una storia delle piante o degli animali, così non prevede una storia dei popoli allo stato di natura. E il bene da difendere è subito dichiarato: è la civiltà europea. La stessa civiltà che da decenni è in crisi e che ora, con la guerra vera che è in atto, rischia di frantumarsi. È polvere quella che si respira ad apertura di libro: polvere che si spande dai vecchi libri che de Martino allinea e maltratta, polvere che si aggiunge a quella sollevata dalla guerra che infuria e si allarga anche al nostro paese e che impone a ciascuno di assumere non solo una posizione, ma anche un "posto di combattimento " . Il mio posto è qui, dice l'autore, in questa fortezza chiamata "Europa" , che è la mia patria culturale. Ma è una fortezza entro la quale io non debbo rinchiudermi, ad aspettare vilmente l'imminente attacco dei barbari; è una fortezza che io voglio attrezzare di collegamenti sotterranei con -

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ERNESTO DE MARTI:-.10

l'esterno, per usarli come vie non di fuga ma di comunicazione verso i popoli più lontani, che proprio grazie alla distanza sono in grado di fornirmi gli strumenti che mi mancano per raggiungere quella consa­ pevolezza storica che sola mi può salvare. Questo è il mio compito, dice l'autore, e questo è il compito dell'etnologia, la scienza che l'Eu­ ropa ha fondato e che finora ha aggirato il problema del confronto critico tra la propria cultura e le altre, e soprattutto non si è giovata delle occasioni di «catarsi culturale» che il suo statuto offre. Vuole insomma rifondare la disciplina, da solo e senza avere mai fatto l'etnologo, né sul campo né a tavolino. Direi che è questo - non il linguaggio e nemmeno l'arroganza tutta crociana - che ci fa leggere oggi con imbarazzo, e anche una punta di divertita simpatia, Natura­ lismo e storicismo, malgrado il tono drammatico e gli argomenti di tutto rispetto. Tanto più che non si tratta di baldanza da esordiente: gli articoli che aveva scritto in precedenza non ponevano problemi di impatto di questo genere, per il semplice fatto che nascevano come contributi, non come proclami. Ma vediamo come l'autore giudicava il libro tredici anni dopo l'uscita, con l'occhio dell"' etnologo" che ha già lavorato sia in patria che in loco: A spingermi agli studi etnologici non fu la «bramosia di lontane esperienze ataviche», ma, al contrario, la difesa della civiltà moderna e l'esigenza di un più largo umanesimo storicistico come non trascurabile contributo alla catarsi culturale. Erano quelli gli anni sinistri in cui Hitler sciamanizzava in Germania e in Europa: ed erano al tempo stesso gli anni in cui la nostra generazione andava lentamente riprendendo coscienza di ciò che è umano e civile attra­ verso le pagine della Storia come pensiero e come azione. Davanti al rigurgito del primitivo, del barbarico, del selvaggio io scelsi, come mio modo di reazio­ ne culturale, la ricerca etnologica, la storia del mondo primitivo, con la fede alquanto ingenua che una volta dominato nella prospettiva storiografica il mondo primitivo "vero " delle civiltà etnologiche, ci saremmo liberati anche di quello, contesto di sermon prisco e bugia moderna, che si andava manife­ stando ancora così immediatamente operoso nella cultura e nella politica del tempo (Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, I95 3, p. 3 r4).

Qui de Martino fa quello che faranno per lungo tempo i suoi critici: si affanna a contestualizzare storicamente il libro e a salvarne il nu­ cleo da cui scaturirà Il mondo magico ( r 9 4 0-48 ) . E non mette in ri­ salto quel che oggi fa di Naturalismo e storicismo un libro vivo e in­ novativo, cioè il suo sforzo " eroico " di rifondare l'etnologia e di rive­ dere e correggere nel contempo alcuni dei capisaldi dello storicismo crociano. Invitando bruscamente gli etnologi (o i «signori etnologi», come li chiama) a riaprirsi alla storia - nel senso idealistico del termi-

I.

LE DUE GUERRE

ne - e i filosofi a non snobbare il pensiero primitivo, de Martino di­ mostra di rifiutare anche la contrapposizione, di matrice illuministica, tra etnologia e storia. Perché l'etnologia che intende rifondare non è quella - priva di autonomia epistemologica - degli evoluzionisti, ma l'etnologia profetizzata da Rousseau, che in un passo del Discorso sul­ l'origine delle lingue, segnalato da Lévi- Strauss in un famoso saggio, così distingue l'oggetto dell'etnologo da quello del moralista e dello storico: «quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vi­ cino a sé; ma per studiare l'uomo, bisogna imparare a guardare lonta­ no; bisogna anzitutto osservare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà». Questo «guardare lontano» circoscrive una scienza che pone l'altro prima dell'io, proprio per il fatto - aggiunge Lévi- Strauss - che «per riuscire ad accettarsi negli altri, fine che l'etnologia asse­ gna alla conoscenza dell'uomo, occorre anzitutto rifiutarsi in sé» (]ean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell'uomo, 1 9 62 ) . Ora, è proprio questa " spoliazione dell'io" che d e Martino rifiuta energicamente, in questo e anche nei lavori successivi: io etnologo, attraverso lo sguardo a distanza, non riesco a conoscere l'altro, riesco a conoscere meglio me stesso e le scelte della mia cultura, perché nel­ l' altro mi specchio, non mi annullo. Io etnologo non posso rifiutare le mie radici europee, perché in questo caso rifiuterei anche la scienza che mi permette di far luce sugli altri modi di essere o non essere. Su questi punti de Martino è chiaro e fermo, almeno nel libro che stia­ mo esaminando. Solo più avanti, venendo a contatto, non solo fisico ma anche politico, con i portatori di culture diverse dalla sua, si apri­ rà a una dimensione più "umanistica" e teorizzerà un incontro etno­ grafico basato sulla duplice tematizzazione del "proprio " e dell"' alie­ no " . Ma a trarre giovamento (e sofferenza) dal non paritario rappor­ to, sarà sempre e solo l'etnologo, sempre che egli sappia profittare dell'occasione e si sottoponga al «più radicale esame di coscienza che sia possibile all'uomo occidentale» (come dirà l'autore in un appunto più tardo) . Solo se le condizioni storiche in cui è nata e ha preso forma l'etnologia muteranno, i limiti umanistici di questo incontro potranno essere oltrepassati, non prima. E non certo nel 1 940, con tutto il mondo non occidentalizzato ancora in stato di servitù.

Naturalismo e storicismo non è un libro a tutto tondo, dotato di una precisa struttura, come le opere che de Martino scriverà in seguito. A prima vista non sembra che una raccolta di saggi (redatti, per quel che ne sappiamo, proprio nell'ordine in cui sono disposti) , ma in realtà - come tutti i "programmi" a carattere didascalico - si compone di due parti: una parte critica, o se vogliamo distruttiva, che copre buona parte delle 15

ER�ESTO DE MARTI�O

pagine e si rivolge quasi esclusivamente agli autori e ai lettori di scritture etnologiche, e una parte propositiva, a cui sono dedicate le pagine iniziali e quelle conclusive, diretta sia agli etnologi che ai filosofi. Cominciamo dalla prima, che è anche quella che all'epoca colpì di più e in particolare trovò consenzienti Adolfo Omodeo e Raffaele Pettazzoni. Le correnti etnologiche prese qui in considerazione sono tre: la scuola sociologica francese, la scuola storico- culturale di Vien­ na e l'evoluzionismo britannico. Ma i problemi trattati (o almeno quelli su cui l'autore si impegna e si sofferma di più) sono essenzial­ mente due, che riguardano in particolare l'etnologia religiosa: la natu­ ra del pensiero primitivo e la genesi della religione, entrambi mal po­ sti e risolti dalle scuole in questione attraverso l'impiego di uno pseu­ do-concetto naturalisti co come il "prima cronologico" , di cui l' etnolo­ gia per rifondarsi si deve rapidamente sbarazzare se non vuole scom­ parire nella filologia. Il Saggio critico sul prelogismo di Lévy-Bruhl è sicuramente il capi­ tolo più meditato, quello che più anticipa - nello stile di pensiero e per i temi trattati - il de Martino del Mondo magico e dei grandi articoli teorici degli anni cinquanta. Come vedremo più avanti, il so­ cioetnologo francese è il primo di una lunga schiera di pensatori con cui de Martino intratterrà un rapporto (a distanza) ambivalente e fe­ condo. Lo stesso accadrà con Van der Leeuw, con Eliade e con altri. Pensatori che danno filo da torcere allo studioso, per il duplice ruolo che rivestono nel contenzioso: da una parte, vanno utilizzati in quan­ to toccano gli aspetti della vita magico-religiosa che de Martino ritie­ ne più nevralgici; dall' altra, vanno stroncati, perché il metodo che usano non è filosoficamente fondato. Nel caso di Lucien Lévy-Bruhl de Martino apprezza il suo sforzo di spingersi più in là delle riduttive interpretazioni del pensiero primitivo elaborate dagli evoluzionisti (l'animismo di Tylor, la magia intesa come " errore" da Frazer ecc.), ma al tempo stesso non gli perdona di non essersi spinto più in là del suo maestro: Durkheim . Il "prelogismo " teorizzato dal Lévy-Bruhl parte infatti dalla distinzione tra una logica collettiva, propria delle società inferiori, e una logica individuale, diffusa solo tra le civiltà su­ periori e fondata sul principio di identità e non contraddizione. La pre-logica non è un'assenza di logica, ma una logica sui generis, go­ vernata da una legge che il sociologo chiama «partecipazione», cioè un principio affettivo che tende a unificare tutte le rappresentazioni, dello spazio, del tempo, della causa, della quantità e della persona: per cui, ad esempio, un indigeno strappato dal suo spazio sociale «non respira più la sua aria, non beve più la sua acqua» e perde ogni interesse per la vita; così come la solidarietà fisiologica che si presu-

I.

LE DUE GUERRE

me esistere tra due fratelli porta a considerare il fratricidio un suici­ dio, e così via. Tutto ciò è vero - dice de Martino -, ma questa è solo una delle funzioni mentali che si possono riscontrare nelle socie­ tà primitive. Basti pensare - per tornare alle rappresentazioni dello spazio - alla presenza, accanto allo spazio "vissuto " , di uno spazio "mitico " , che non è in differenziato ma svolge anzi «una funzione or­ dinatrice e semplificatrice della molteplicità empirica» (p. 2 6 ) . Qui de Martino, per confutare Lévy-Bruhl si serve di Cassirer e del suo libro sul pensiero mitico (Philosophie der symbolischen Formen, n), ma per le successive e più radicali obiezioni, chiama a raccolta - come ora vedremo - gli argomenti dello storicismo più classico. Anzitutto (è un problema che si era posto anche Wilhelm Schmidt), dato e non concesso che nella storia dell'umanità si possa­ no distinguere due tipi di "mentalità" , come si spiega il passaggio da un pensiero tutto prelogico a un pensiero prevalentemente logico? Il prefisso pre- dà evidentemente per scontato che questo passaggio si sia a un certo stadio verificato: e qual è allora questo stadio? Lévy­ Bruhl ha tentato di risolvere il problema sul piano intellettualistico, escogitando uno stadio intermedio, occupato (provvisoriamente?) dal pensiero mitico, che attesterebbe una forma mediata di partecipazio­ ne. Ma questo, per de Martino, è un altro segno della debolezza spe­ culativa del Lévy-Bruhl, perché, come abbiamo visto sopra, il pensie­ ro mitico si esplica accanto, e non dopo, il pensiero vissuto. Per cui il problema è destinato a restare senza soluzione come tutti i problemi mal posti, e per due ragioni: in primo luogo, perché il filosofo parte dal presupposto evoluzionista che le due logiche corrispondano ad al­ trettanti " stadi " ; in secondo luogo, perché identifica sommariamente e riduttivamente lo stadio "logico" con i frutti intellettuali della ci­ viltà europea (la filosofia razionalistica, la scienza positiva ecc. ) , esclu­ dendo così dall'orizzonte ogni altra logica; terzo, perché in fondo nemmeno lui riesce a distinguere con rigore le due mentalità, la pri­ mitiva e la colta (tanto che spesso parla di concezioni del tempo o dello spazio presenti con poche varianti sia nelle società inferiori che in quelle superiori) . Evidentemente, è proprio la distinzione tra pen­ siero individuale e mentalità collettiva che si rivela astratta, basata com'è sulla contrapposizione tra libertà individuale e psiche collettiva anonima, e sulla identificazione di quest'ultima con la " società" che eserciterebbe sull'individuo una costrizione a tutto raggio. Si tratta di un dualismo che non fa che replicare il dualismo tra uomo e natura e che dipinge la società come una comoda prigione. Anche qui, de Martino fa sua, senza discuterla, la diffidenza di Croce e di Omodeo nei confronti delle teorie della scuola sociologica francese e dello sta-

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ER�ESTO DE MARTI�O

tuto in generale della sociologia (anche da lui giudicata un inutile " doppione" della storiografia) e da questa diffidenza - va detto subi­ to - non si liberò mai. Ma va anche detto che, al contrario dei suoi maestri, non ebbe remare nel divulgare - attraverso i suoi studi e la sua ventennale attività di consulente editoriale - i risultati di questa avversata scuola francese, che grazie anche a lui cominciò lentamente ad affermarsi in Italia. Ma tornando alla distinzione tra collettivo e individuale, essa è gravida di pericolose conseguenze per de Martino e soprattutto nel­ l' ambito degli studi etna religiosi. Durkheim scorge tra la società e la religione un rapporto non dialettico, ma genetico: tutte le rappresen­ tazioni e le esperienze, anche le più intime, della vita dello spirito, trovano nella società il luogo di nascita e di specificazione: in questo modo, dice de Martino, «la società diventa la causa della vita religio­ sa» e «al problema della genesi ideale della religione si sostituisce così quello della sua origine nel tempo», il che significa esporsi a «quel molto grave errore speculativo che è lo storicizzare le categorie ideali» (p. 5 6 ) . Di qui deriva anche l'insolubilità di quel problema che ha inutilmente travagliato l'etnologia religiosa fin dagli esordi: la prima forma di religione. Una trappola epistemologica in cui eviden­ temente anche Durkheim è caduto, e con lui Lévy-Bruhl. La ricerca della prima forma di religione è come la ricerca del Graal, bellissima ed estenuante, destinata a durare in eterno: ha un senso solo per chi crede che la religione sia la propria. Eppure ha avuto, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del xx, uno spazio di tutto rilievo negli studi etnologici e storico-religiosi, per decenni impegnati nel più generale problema delle origini delle idee e delle istituzioni. Con invidiabile pazienza, de Martino ripercorre tutta la più seria let­ teratura sull'argomento (una letteratura, come ebbe a notare un suo recensore, «rimasta speculativamente nello stadio della puerizia») evi­ denziandone l'aspetto metodologico più irritante: quel regressum ad infinitum che fa perdere alla ricerca ogni prospettiva storica e che de­ nuncia il signorile disprezzo dei paletnologi e degli etnologi per la filosofia in genere. Da questo spoglio di polverosi volumi, vien fuori che tutti i cercatori del primo documento di religiosità hanno trovato solo tracce di antichissime religioni, le quali a loro volta rimandano a religioni più arcaiche, e che l'unica fonte "originaria" da loro "sco­ perta" non è altro, invariabilmente, che un mito di fondazione, più o meno documentato, ma sempre un mito, frutto di un pensiero già re­ ligioso. L'unico, in fondo, di questi archeologi dello spirito, che abbia costruito un'opera coerente oltre che eruditissima, è Padre Schmidt, il quale ha edificato perlomeno un monumento alla sua fede ( che a li-

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I.

LE DUE GUERRE

vello scientifico può essere letto come una scrittura sacra da inter­ pretare): ma questo solo in teoria, giacché il suo discorso, fondato come è sulla tesi di una " rivelazione primitiva" , non può essere di­ scusso, dato che poggia non su una base di fatti etnologicamente ac­ certabili ma sul dogma cattolico, a cui rimanda implicitamente. Alla domanda "Chi ha fondato la prima religione? " , Padre Schmidt ri­ sponde con una sola parola: "Dio " , ma si guarda bene, owiamente, dal dire che è il suo Dio. E qui sta il limite appunto "implicito" della monumentale opera del gesuita, che può tornare utile solo per i do­ cumenti che allinea, dato che «Padre Schmidt non la fede invoca a sostegno delle sue edificanti teorie, ma i fatti e la scienza dei fatti, e questo ingenuo belletto vale almeno a sconcertare l'ingenuo volgo de­ gli etnologi, molto sensibile a tutto ciò che è wissenscha/tlich [scienti­ fico]». E anche per quel che riguarda il metodo, Schmidt non si di­ stacca - pur rovesciandolo - dal procedimento degli evoluzionisti. Il tratto essenziale della sua indagine consiste infatti nel risalire a ritroso il corso del tempo, per stabilire il prima del poi e il prima del prima fino a un cominciamento assoluto: in questo pseudo-diveni­ re affetto da mala finitezza resta nell'ombra la determinazione dell'inverso processo d 'incremento, e invano si cerca un centro generatore intorno a cui si raccolgano gli eventi. In secondo luogo, il metodo naturalistico del sot­ trarre le determinazioni positive, e le ulteriori differenziazioni che si sono prodotte in un tratto più o meno ampio di tempo, non restituisce a/fatto il passato, o meglio lo restituisce solo in via negativa, per quello che non è (pp. r o r-2, corsivo mio) .

(Il citato e altri passi simili irritarono Padre Schulien, l'ambasciatore della scuola viennese presso la Santa Sede, che in una recensione al libro tenne a ribadire che «la ricerca delle origini appare indiscuti­ bilmente postulata proprio dall'oggetto dell'etnologia» . ) Questa vigorosa polemica contro il maggiore rappresentante del­ l' etnologia cattolica (alla quale de Martino riconosce comunque il me­ rito di avere provato a tener distinto il metodo storico da quello delle scienze naturali) offre all'autore l'occasione per riaffermare due prin­ cipi già esposti nei primi articoli degli anni trenta e che riguardano il concetto di religione: concetto «che non è da attingersi», dice, «per­ correndo a ritroso la catena dei tempi e delle cause (poiché in tal guisa la religione resta sempre un al di là per il pensiero), ma è bensì da determinarsi nell'orbita di una compiuta filosofia dello spirito», la quale, come sappiamo afferma «che il Sacro non è una categoria, ma una formazione storica correlativa a una determinata fase della storia !9

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umana». Per cui definiremo " religioso" non soltanto il rapporto che si instaura con le entità extraumane, ma anche ogni atto della volontà che comporta un superamento del " qui" e dell"'ora" e che viene a testimoniare la fede in un "ideale" da realizzare in terra: la religione, conclude infatti l'autore, sull'onda sia di Croce che di Omodeo, «non è sempre dove tradizionalmente la si cerca, ma talora è proprio in certe correnti del mondo laico che meno si sarebbe disposti ad accet­ tare per religiose: è, per esempio, nel moto illuministico e nell'apo­ stolato mazziniano molto più e molto meglio che nel cattolicesimo post-tridentino» (pp. I q-8) . Ma qui già siamo sul versante propositivo del libro, che dopo un capitolo (il terzo, sicuramente il più debole e ripetitivo) sugli altri auto­ ri che fanno capo alla scuola storico-culturale (Ratzel, Frobenius, Graebner e Pinard de la Boullaye) sfocia in un più diretto e generale discorso sul metodo. De Martino prende qui in esame, più che altro a titolo esemplificativo, i prontuari metodologici di Schmidt (ancora ! ) , di Miihlmann e di Hulrich, e li stronca uno dopo l'altro, fino all' esauri­ mento della sua e nostra pazienza: dopodiché si rende conto che «è ormai venuto il tempo di dichiarare esplicitamente come debbano esse­ re determinati, dal punto di vista dello storicismo, il concetto, i compiti e il fine del sapere etnologico»; e per esporre le sue tesi con la maggio­ re chiarezza possibile ricorre all'espediente retorico di fissare un vero e proprio " codice" della etnologia storicista, in dodici punti. Per evitare ripetizioni qui mi limiterò ad elencare solo quelli più scopertamente innovativi, anche rispetto al discorso fin qui condotto. Al primo posto sta intanto la decronologizzazione del concetto di primitivo, «che può essere fissato solo idealmente, e cioè come prevalenza della corpulenta fantasia nell'ambito teoretico, e della economicità o della m era vitalità nell'ambito pratico» (p. I I 5 ) : una definizione di chiara ascendenza vichiana che sembra scritta da Croce. Mentre tutto demarti­ niano è il secondo punto, che solo in apparenza sembra procedere dal primo: «occorre che l'etnologia religiosa si sottragga da questa superstizione del primo, e abbassi il tempo aritmetico, la causalità e altrettali determina­ zioni naturalistiche del reale a momento euristico della ricerca storia­ grafica» (p. 1 1 6 ) . Quest'ultimo è forse il tasto più battuto lungo tutto il corso del libro, ma de Martino sa di dovere insistere: per fare dell' etnolo­ gia una scienza storica è prima di tutto necessario tenere distinta l' eurisi (cioè il momento filologico) dall'anamnesi, che è il momento dell'effettiva ricostruzione storica. Una tesi destinata a sollevare più perplessità che consensi, e da entrambi i pubblici a cui il "codice" si rivolgeva. Terzo ordine di questioni: che cosa è e che cosa non è l'etnologia che de Martino propugna? Assolutamente non coincide con l' etnolo-

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gia che i suoi connazionali praticavano in quegli anni: la cosiddetta " etnologia coloniale" ( che lui chiama "funzionale" , senza però alcun riferimento agli antropologi britannici) . L'autore non esprime un giu­ dizio negativo in termini politici di quella etnologia, ma due argo­ menti nel r 940 li ha già: «è chiaro - scrive - che una politica colonia­ le, che si illumini di sapere etnologico, è politica e non etnologia, com'è anche chiaro che l'etnologo che offre servigi al funzionario co­ loniale è egli stesso, almeno in quell'atto dell'offrir servigi politici, un politico e non un etnologo»; «il che certo non guasta», si affretta a precisare, «sempre che la ragion politica non induca l'etnologo a tra­ dire il vero» (p. 203 ) . Questa sorta di non anticolonialismo, presente nel libro del r 940, è destinata a rarefarsi e poi a scomparire del tutto dal pensiero demartiniano negli anni del dopoguerra. Altra disciplina da cui l'etnologia riformata deve rigorosamente staccarsi è l' antropolo­ gia (termine che si usava in Italia per indicare la " scienza delle raz­ ze" ) , che è disciplina naturalistica e che tra l'altro viene sempre più giovandosi di «contingenze extrascientifiche». L'autore, comunque, non entra nello scottante argomento, ma sottolinea il fatto che «si parla ora di qualità spirituali della razza, di trasmissione ereditaria di tali qualità, di una "Etnobiologia" , e simili. La cosa meriterebbe un lungo discorso, tanto più che negli etnologi che impugnano queste tesi fa difetto quella solida preparazione speculativa che per l' occor­ renza è necessaria» (p. 20 7 : il riferimento è a Krause) . Inaspettato, invece, almeno per il panorama italiano, è il posto che de Martino assegna alla scienza del folklore. Pur mostrandosi scettico, in altre se­ zioni del libro, nei confronti delle aperture al folklore operate dagli etnologi britannici (Frazer, Marett ecc. ) , l'autore sostiene che la disci­ plina ha sì per oggetto la storia delle civiltà più lontane dalla nostra, ma che la distanza non va misurata col metro della geografia, bensì col metro della filosofia; per cui anche i «relitti di atteggiamenti cul­ turali» presenti ancor oggi nel cuore dell'Europa, ugualmente lontani da noi in termini ideali, vanno studiati con gli strumenti dell' etnolo­ gia. «Pertanto anche la Demologia», scrive, «deve essere considerata come momento di una etnologia storicistica: nella determinazione de­ gli anelli che ci legano al mondo primitivo, la demologia può fornire un materiale documentario notevole» (p. 206). Come si vede, de Martino - come Croce - non attribuisce uno spazio autonomo allo studio del folklore, delineando una posizione che si radicherà nel suo pensiero; in qualche misura sembra però ancorato a una concezione evoluzionistica (la stessa che permeava le ricerche svolte negli anni trenta da un autore a lui lontano come Giuseppe Cocchiara) dei fatti folklorici, intesi come «sopravvivenze». Dei fili di questa ambigua 2I

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concezione del folklore, l'autore malgrado gli sforzi non si libererà mai del tutto, e continuerà a servirsi di questo termine - «relitto» così torbido, così approssimativo, anche in seguito e soprattutto nel corso delle indagini degli anni cinquanta. Ma è un problema che qui non possiamo affrontare. E siamo al punto conclusivo: a che serve una etnologia siffatta? A chi giova? De Martino non ha dubbi: l'etnologia è per noi, per noi europei e per noi moderni. Per noi che l'abbiamo creata a nostra im­ magine. «L'etnologia non può non essere europeocentrica, non può, cioè, non essere accompagnata dalla coscienza che la civiltà occiden­ tale, maturatasi attraverso il cristianesimo, la riforma, l'illuminismo e lo storicismo, rappresenta il livello più alto a cui, fin ora, il genere umano è riuscito ad elevarsi». E pertanto il suo compito è quello di illuminare la storia dell'Occidente e «di dare incremento e consape­ volezza al nostro essere e al nostro dover essere» (p. 2 ro). Sono paro­ le che cadono verticali come macigni e che cancellano dalla faccia dell'etnologia tutti i segni che la facevano un tempo amare: il primiti­ vismo, l'esotismo, l'umanitarismo, e via di seguito. Parole che de Martino non sconfesserà mai, pur raschiandone via in seguito quella patina di «boria occidentale» che qui ci disturba. Ma il nucleo epi­ stemologico emerge giù chiaro, ed è un ossimoro che solo Cantoni, tra i recensori, notò: il mondo primitivo viene intravisto come uno dei fili che costituiscono l'ordito della nostra modernità. Perché mo­ derni non siamo nati, ma siamo diventati, e per quali vie non sappia­ mo (o almeno poco ancora sappiamo) ed è nostro dovere appurarlo, anche per diventare, eroicamente, più moderni. Il libro si chiude con una metafora che ci mostra come la storiografia, che è storia del pre­ sente, può darci in questo senso un aiuto decisivo: n grande albero della storia si diffonde in una molteplicità di rami, e noi ci troviamo su uno solo di essi. Compito dell'etnologia è, sì, di ripercorrere a ritroso quella linfa che ci alimenta e che proviene da lontane radici, ma al fine di cogliere quei punti in cui la corrente devia verso l'alto, in una direzione diversa da quella da cui proveniamo (ibid. , corsivo mio).

Il libro, come ho detto, per essere il libro di un esordiente, fu bene accolto, ma non fu recepito nella direzione desiderata da de Martino. In particolare il progetto di innalzare l'etnologia a sapere storico fu letto in chiave disciplinare e ridotto a una somma di competenze diffi­ cilmente attuabile. Ma all'autore interessava soprattutto il parere di Croce, l'unico forse in grado di capire a fondo le premesse teoriche del suo programma di lavoro: Croce, tuttavia, che in una lettera del no22

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vembre 1 940 gli aveva scritto «sono assai contento che abbiate compiu­ to un così importante lavoro. Auguro e spero che gioverà agli studiosi, se non stranieri, italiani», appena il libro cominciò a circolare, tacque e non tornò più sull'argomento. O meglio, lo fece, ma per interposta persona, affidando a Omodeo il compito di recensirlo sulla "Critica" . Una recensione, per quattro quinti favorevole, che conteneva però in coda una inaspettata obiezione di fondo. Giudicata infatti piena­ mente condivisibile la parte critica del libro, Omodeo di fronte alle nozze tra etnologia e storiografia negava (o rimandava? ) il suo con­ senso. «Ridotta l'etnologia a filologia euristica, il de Martino vorrebbe procedere oltre [abbassando il momento naturalistico ad eurisi del processo di anamnesi storiografica]. A questo punto mi pare che l'au­ tore ecceda alquanto per entusiasmo». E spiega: l'etnologia come la filologia può essere portata al momento storiografico se e quando nasce il problema che l'investa e la trasfiguri, ma non dobbiamo neppure mortificarla esigendo da essa quel che non sempre può dare. [. .. ] Noi per ora non possiamo (perché in noi non è germinato il problema ) tra­ sformare in istoria la descrizione della vita e dei costumi degli Arunta au­ straliani; ma non per questo sarebbe giusto rinunziare all'analisi e alla regi­ strazione descrittiva, come sarebbe ingiusto arrestare o svalutare la raccolta di documenti e monumenti che pel momento restano inerti, ma che possono da un momento all'altro risolversi in istoria ( "La Critica " , r, 1 94 1 , p. ro7).

Ora io non credo che Omodeo, come è stato ipotizzato, intenda con ciò "abbassare" l'etnologia al rango di una disciplina dichiarata inutile come la sociologia, riconducendola perciò alla sua matrice positivista, ma gli argomenti addotti sono di chiusura e di ridimensionamento del progetto demartiniano: e vengono proprio da uno storico vicino a Cro­ ce che in precedenti occasioni aveva con insistenza raccomandato l'al­ largamento dell'orizzonte storiografico idealistico. La sindrome dell'iso­ lamento, che tanto avrebbe poi pesato sulla vita intellettuale di de Mar­ tino, ha forse qui la sua prima attestata, e imprevista, insorgenza. Ma è l'autore stesso che si autopungola sulla via dell'isolamento, che è la sola via che può portarlo all'indipendenza; e glielo fa notare , per cui l'ideologo militante «deve saper padroneggiare la cultura del suo paese sia nella forma più alta, più raffinata, sia nella forma popolare religiosa o superstiziosa: solo così il suo marxismo sarà coscienza vi­ vente, storicamente radicata» (corsivo mio ) . Gramsci, insomma, non annulla Croce, ma lo supera; e con lui si apre, per de Martino (ma la sequenza si tramuterà in uno slogan storico-filosofico) una nuova fase dello storicismo: dopo Vico, Kant, Hegel e Croce, il materialismo sto­ rico può entrare a far parte del «plesso storico della nostra vita cultu­ rale» nella addomesticata forma di uno storicismo giunto alla sua quinta epoca. Ma è con il saggio su " Società" del 1 949 che si ha la vera irruzio­ ne di Gramsci nella storia della demologia italiana. A passare però, per la porta aperta da de Martino, non è il Gramsci della scienza politica o il teorizzatore del «senso comune», ma il Gramsci meno 66

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ispido e complesso, quello che associamo ai concetti di «blocco stori­ co» e di «nazional-popolare». Come abbiamo visto sopra, de Martino opera - attraverso l'efficace immagine del mondo dei vinti che si sol­ leva - una sostantivizzazione dell'aggettivo " subalterno " , che corre il rischio (lo rilevò subito Cesare Luporini) di presentare la costellazio­ ne dei sommovimenti mondiali in atto come una marcia indifferenzia­ ta di identici morti viventi che sembra tratta dal repertorio delle pau­ re della classe al potere. Anche la durezza (che non esclude la serietà) con cui Gramsci guarda alle tradizioni popolari, in quanto ostacolo sulla via della «riforma popolare moderna» (un ostacolo che deve es­ sere «rimosso») , non rientra nel sentire e nell'argomentare di de Mar­ tino, che è per la trasformazione non la demolizione dei monumenti del cattivo passato (poco importa se poi in parte si ricrederà) . E tuttavia de Martino usa Gramsci anche all'interno di u n concet­ to così poco gramsciano come quello di "folklore progressivo" . Nel­ l'omonimo articolo del I 9 5 I , il folklore progressivo viene a forza in­ serito in un contesto gramsciano: viene cioè visto come una delle vie che possono e devono condurre in Italia alla unificazione culturale. Almeno questo traspare da passi come il seguente: l'unificazione della cultura nazionale, così come Gramsci la concepì, cioè la formazione di una nuova vita culturale della Nazione che sani la frattura fra alta cultura e cultura del popolo, non può limitarsi alla nuova narrativa, al nuovo cinema realistico, alla nuova sensibilità che affiora in taluni dei nostri pittori, ecc., ma se si vuole che sia una unificazione concreta, reale, deve anche implica­ re la immissione nel circolo culturale di quella produzione popolare progressiva che rompendo con le forme tradizionali del folklore si lega al processo di eman­ cipazione politica e sociale del popolo stesso (''L'Unità" , 28 giugno 1 95 1 ) .

S e poi Gramsci d i folklore progressivo propriamente non parla, que­ sto per de Martino è un limite: ma un limite storico, non teoretico; perché Gramsci, quando tocca l'argomento-folklore allude al foklore idoleggiato dai romantici, oppure si riferisce al folklore dei folkloristi di fine e inizio secolo, non ovviamente al folklore che non ha veduto e che si è sviluppato dopo la sua morte: il folklore della Resistenza, delle occupazioni e degli scioperi, il folklore delle feste dell"'Unità" e del I 0 maggio. Pertanto - è a questo che de Martino vuole arriva­ re - «il giudizio di Gramsci sul folklore [. . ] deve essere svolto e in­ tegrato». Quest'ultima frase è tratta da Gramsci e il folklore, un articolo che uscì sul "Calendario del popolo " nel I 9 5 2 ma che riproponeva il succo di un intervento a un convegno organizzato nel I 9 5 I dalla .

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Fondazione Gramsci per l'uscita di Letteratura e vita nazionale. Un intervento che non accolse tutti i favori dei funzionari presenti del PCI: non erano quelli i tempi giusti per una lettura critica dei testi gramsciani, e de Martino in fondo sembrava toccare questioni ritenu­ te marginali. Ed era lui il primo, probabilmente, a rendersene conto, se scrisse e riscrisse più volte l'intervento, apportandovi gradualmente piccole ma significative modifiche. Esistono almeno quattro versioni di questo testo ( di cui una scomparsa: proprio quella letta al conve­ gno); eppure in nessuna di esse si trova un accenno a quel frammen­ to delle Osservazioni sul /olklore in cui Gramsci riconosce l'esistenza di un folklore anche progressivo . Rileggiamolo: è lì dove Gramsci constata, accanto alla religione del popolo anche una morale del po­ polo, intesa quest'ultima come «un insieme determinato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente legata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli imperativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della "morale" ufficiale». Anche in questa sfera, continua Gramsci, «occor­ re distinguere diversi strati: quelli fossilizzati, che rispecchiano condi­ zioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazionz; spesso creative e progressive, determina­ te spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di svi­ luppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla mora­ le degli strati dirigenti» (Letteratura e vita nazionale, r ed., pp. 2 r 6- 7 , corsivi di de Martino) . È difficile pensare che il brano, compreso nelle sette paginette delle Osservazioni sul /olklore, sia sfuggito a de Martino: se non lo cita, se non lo utilizza, se addirittura lo occulta, una ragione ci deve essere. L'ipotesi più probabile è che de Martino abbia ritenuto il rife­ rimento a queste tendenze innovatrici vago e debole, quasi in contra­ sto con la presunta compattezza del proprio concetto di folklore pro­ gressivo. Le innovazioni di cui infatti parla Gramsci, imbrigliate come sono nel caotico agglomerato che per lui è il folklore, non appaiono sufficientemente distinguibili e isolabili, se non attraverso un lavoro di selezione del tutto arbitrario. Non basta: anche quando sorgono o si pongono in contraddizione con la morale "ufficiale" , queste inno­ vazioni non devono essere parse a de Martino significative e operanti sul piano storico, in quanto non collegabili - e comunque da Gram­ sci non collegate - a un qualunque vasto movimento di emancipazio­ ne. Il folklore progressivo per de Martino è sempre il frutto di una lotta e di un nuovo assetto sociale, e non rimanda a una presunta categoria del modo " subalterno " di pensare e agire.

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Viene naturale chiedersi, a questo punto, qual è il concetto di fol­ klore che de Martino sta elaborando, con visibile fatica, e se è com­ patibile con quello fissato da Gramsci. «Il folklore», ci dice in uno degli articoli del I 9 5 I , «per la concezione borghese, è la cultura po­ polare nel senso tradizionale, cioè le costumanze, le credenze, le feste, i prodotti letterari che esprimono le aspirazioni tradizionali del popo­ lo». A noi, prosegue, questa vita culturale del popolo orientata nel senso del passato deve certa­ mente interessare, non certo da un punto di vista turistico o per amore del pittoresco, e neanche per erudito zelo di conservare le memorie più arcaiche del nostro popolo, ma per la ragione molto più seria e impegnativa che per modificare la tradizione bisogna conoscerla, e che per attuare il programma di unificazione della cultura nazionale nel quadro della problematica di Let­ teratura e vita nazionale di Gramsci è necessaria una consapevole presa di contatto con le tradizioni popolari ( '' Il Calendario del popolo " , 7, 1 95 1 ) .

Come s i vede, intanto, d e Martino non fa sua l a famosa definizione del folklore come «concezione del mondo e della vita» che veniva evidentemente, e frettolosamente, attribuita a Gramsci; e fa bene, perché non è una definizione, ma una indicazione metodologica. Il folklore non è un'entità superorganica, è un oggetto da studiare e non da contemplare (né da lasciare come è). E fin qui, c'è un accor­ do di massima. Ma appena i due passano a considerare la natura del­ l'intervento che va compiuto, il cammino si biforca: per Gramsci «co­ noscere il folklore significa conoscere quali altre concezioni del mon­ do lavorano di fatto alla formazione intellettuale delle generazioni più giovani, per estirparle e sostituirle con concezioni ritenute superiori». Il corsivo è di de Martino, che nelle Postille su Gramsci (recentemen­ te riesumate da Cannarsa) respinge nettamente «questa concezione del folklore immondezzaio della storia culturale». In altre parole, se in pubblico de Martino affermava che questo Gramsci andava svol­ to ed integrato, mentalmente procedeva oltre: questo Gramsci, per lui, andava riveduto e corretto. Cerchiamo di vedere come. Una strada precisa de Martino non la indica, ma da almeno tre sue pagine emergono spunti che possono tornarci utili. Il primo lo traggo da una pagina rimasta inedita fino agli anni novanta, dove si trova una definizione più allargata di ciò che intende per folklore progressivo, il quale «non esprime soltanto il riflesso delle lotte per l'emancipazione, ma anche la nuova vita cultu­ rale ispirata dalla edificazione socialista, delle trasformazioni relative nel costume, nei rapporti sociali, nel dominio tecnico della natura». =

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Qui de Martino sembra non solo negare di nuovo ogni autonomia alla sfera del folklore, ma sembra anche propenso alla cancellazione del termine: che viene inglobato in quello più pertinente di cultura. Rimane però il problema della trasformazione: la cultura popolare "tradizionale" non va estirpata, va "guidata" nel delicato processo di trasformazione che è in atto; perché se il processo non viene ben se­ guito, il popolo può prendere un'altra strada, ben più comoda ma senza uscita: quella della cultura " di massa" . Ed è proprio questo il punto debole, datato, della proposta demartiniana: il folklore pro­ gressivo è un baluardo da erigere contro la massificazione della cul­ tura, che sta distruggendo con la sua tentacolare e rapida espansione le tradizioni e gli stili di vita del mondo rurale. E come tale viene invocato, in una pagina (pubblicata nel r 9 5 2 ) che si legge con imba­ razzo: n problema di innestare il nuovo e il moderno nella tradizione (altrimenti il nuovo rischia di restare inefficace, senza capacità di diffusione e di persua­ sione) è tanto più importante in quanto, se trascurato, può dar luogo a un grave rischio. Per quanto la radio e il cinema non abbiano, fra le masse con­ tadine del Mezzogiorno, una efficacia notevole, tuttavia per mezzo loro, come per mezzo dei contatti stabiliti dal servizio militare e dalla emigrazione, il costume subisce un rapido processo di dissoluzione. In tal modo accade che talora a elementi negativi del costume tradizionale se ne sostituiscano altri peggiori: mi riferisco a vaghe forme di cosmopolitismo culturale, all'ame­ ricanismo nei gusti e nelle tendenze, al divismo, alla passione sportiva come evasione morbosa, alla frenesia per le lotterie associate a varie forme di sport, o per i romanzi a fumetti, ecc., tutti elementi che alimentano una vita culturale di qualità assai scadente, senza radici, senza nazione, senza regione, e quindi anche senza solidità etica e vigore di lotta e di emancipazione (La cultura nel mondo contadino meridionale, in "Letture per tutti " , r o, 1 9 5 2, p . 2 3 , corsivi miei ) .

Sono motivi irrimediabilmente datati ( come del resto è datato il pro­ blema dell'"innesto" ) che tuttavia circolavano - e circoleranno fino agli anni sessanta - fra gli intellettuali di sinistra: lo spauracchio mul­ tiforme della cultura di massa riassumeva le minacce dell'imperiali­ smo culturale statunitense e veniva associato al progetto di unificazio­ ne-omologazione avviato dall'industria culturale con l'appoggio dei partiti di centro . Motivi e toni allarmistici, sia detto per inciso, che probabilmente Gramsci non avrebbe condiviso, come non avrebbe preso sul serio il mito della civiltà contadina. Ma è anche vero che questi problemi, relativi alla "trasformazione" , erano destinati, se non a scomparire, ad essere comunque fortemente ridimensionati dallo 70

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stesso de Martino : nel giro di pochissimi anni il folklore progressivo esce dal tronco centrale delle sue meditazioni e delle sue ricerche, per occupare una postazione sempre più laterale. Nonostante ciò, la scoperta di questo fenomeno storico-culturale lascia una traccia inde­ lebile, nel suo itinerario scientifico: l'impulso a scendere sul campo, ad attrezzarsi per una serie di spedizioni etnografiche, viene dal ri­ chiamo di questa «voce sonora del presente», che lo esorta a cercare nel Sud documenti viventi, di storia nel suo farsi. Di quella storia che è l'anima non immateriale del folklore: la storia religiosa. È la terza via che troviamo indicata negli appunti di quegli anni, quella che di gran lunga risulterà più praticabile e remunerativa; la leggiamo trac­ ciata in una pagina che anticipa in nuce il grande disegno storiografi­ co che l'autore sta evidentemente maturando: Il folklore come fenomeno storico individuabile, come sapienza popolare e subalterna respinta e combattuta dalla sapienza egemonica, ovvero da essa abilmente padroneggiata e influenzata (ma giammai realmente risolta e stori­ camente compresa nel suo nucleo fondamentale) ha inizio con la diffusione del cristianesimo e il crollo della civiltà antica, con la persistenza di una cul­ tura dei pagi di fronte alla nuova cultura dei centri urbani. Potremmo pren­ dere come punto di riferimento per l'inizio di questa storia l'editto di Teo­ dosio e la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato, intollerante verso il paganesimo. Questa cultura rurale, o essenzialmente dominata dal mondo contadino, ha un suo sviluppo, una sua storia, per entro lo sviluppo e la storia della cultura egemonica, la storia della civiltà cristiana: una storia fatta senza dubbio di vari rapporti, ora di resistenza, ora di compromesso, ora di adattamento, ora di influenza, ora di trasformazioni relativamente au­ tonome, senza che tuttavia, lungo tutto il periodo, si possa mai parlare fra le due civiltà di un discorso storico risolutore e radicalmente unificante (Ar­ chivio de Martino, r4- r).

Lo spazio folklorico viene qui individuato, come si vede, non nel cuore di una civiltà, ma lungo il confine che non separa mai netta­ mente una cultura egemonica da una cultura subalterna; e non ha nulla di ancestrale, ha anzi una genesi storica precisa, individuata (al­ meno per quanto riguarda il nostro paese) nelle fasi della vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Uno spazio fluttuante, oggetto di conti­ nue contese e negoziazioni. Con questo passo il folklore viene ridefi­ nito come un concetto storico che rende superflue - se non inganne­ voli - tutte le distinzioni precedentemente operate fra tradizionale e progressivo. È un concetto di folklore che deve molto a Gramsci, ma non tutto: perché se è vero che Gramsci parla di una «religione di popolo», anch'essa viene inghiottita in quell' «agglomerato indigesto

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di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia» che non consente individuazioni di sorta, se non a livello di classe. La pagina sopra citata, che è coeva alle riflessioni su Gramsci, ci mostra dunque un de Martino meno entusiasta e più pensoso, già de­ ciso a liberarsi mentalmente di un concetto come quello del folklore progressivo, che rischia di tramutarsi in un ostacolo al suo lavoro di storico delle culture; ma la rinuncia è dolorosa, soprattutto sul piano politico, e per qualche tempo lo studioso continua nei proclami pub­ blici a utilizzare la fortunata locuzione. Solo nel 1 954, il concetto (non l'interesse, che rifiorirà più tardi sotto altra forma, come vedremo nel CAP. 3 ) verrà ufficialmente accantonato: e ciò avviene nel corso di una serie di precisazioni che de Martino fornisce per controbattere le ac­ cuse mosse da Giuseppe Giarrizzo alla folkloristica del dopoguerra ( cfr. Moralità scientifica e folclore, in "Lo Spettatore Italiano " , 4, 1 954). A quest'ultimo, che sulla scorta di Croce e Gramsci giudica assurda e goffa la pretesa dei demologi di elevarsi a " storici" della cultura, de Martino risponde con una lettera aperta che si trasforma dopo poche righe in un saggio di metodologia: e qui l'autore ha modo di additare i pericoli che effettivamente possono correre i folkloristi che intendono seguire la via tracciata da Croce e da Gramsci. Sono pericoli in parte già familiari al lettore ( come «il semplice raccogliere per il raccogliere senza aver chiaro come e perché racco­ gliere; l'idoleggiamento del folkloristico nel senso del pittoresco [. .. ] ; il culto dell'arcaico che nasconde un torbido impulso irrazionalistico e l'incapacità di accettare la dura razionalità della vita; lo sproposito accademico del folklore come "scienza autonoma" [ . ] ; la mitologia della " civiltà contadina"»), ma anche pericoli che de Martino non aveva precedentemente mai segnalato. E sono: primo «le stolide infa­ tuazioni per il "popolo creatore"»; secondo «la tendenza a distorcere e a corrompere l'interesse storico per la materia folkloristica mercé preoccupazioni di politica immediata e di propaganda»; terzo «la ma­ nia di considerare i dialetti come abissi di potenza espressiva». Dopo di che è lo stesso autore ad aggiungere: «debbo lealmente riconoscere che io stesso in passato sono rimasto in qualche modo impigliato in queste illusioni o contraddizioni o equivoci, che ho dissipato di poi con qualche fatica» (Storia e /olklore, in " Società" , 5 , 1 954, pp. 943 -4 ) . Riassumendo e schematizzando le tappe d i questa difficile m a ab­ bastanza rapida presa di coscienza, possiamo dire che de Martino in un primo tempo è incline a parafrasare la XI tesi su Feuerbach con affermazioni del tipo: «i folkloristi hanno finora esaltato o pauperizza. .

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to, naturalizzandolo, il mondo popolare: si tratta ora invece di tra­ sformarlo, storicizzandolo». Ma poi si ritaglia, nella labirintica deci­ frazione dei frammenti gramsciani, una pausa di riflessione, che lo porta al rifiuto del ruolo dell'intellettuale al servizio solo della " rivo­ luzione" e che lo mette di fronte al dovere scientifico di riprendere il filo del discorso intrapreso con il Mondo magico, continuandolo per altra strada. Non quindi alla trasformazione del mondo popolare si sente ora chiamato, ma alla trasformazione del sapere dei folkloristi, degli storici del cristianesimo e di quanti altri hanno contribuito alla percezione del popolare come un mondo separato. Così scrive in un'altra delle Postille a Gramsci, rimasta inedita fino al 1 9 92 : Nel Mondo magico i o dicevo: «Fate progredire la @osofia dello Spirito mercé un allargamento della coscienza storiografica al mondo primitivo». [. .. ] Oggi sarebbe da dire: «Fate progredire il materialismo storico mercé la critica del­ la etnologia e del folklore e della storia delle religioni borghesi, e mercé la costruzione di una nuova interpretazione storicistica dell'arcaico nell'atto stesso in cui si è impegnato a trasformare l'arcaico nel moderno, nel raziona­ le, nel laico». [. . . ] L' affermazione che solo nell'attività pratica trasformatrice è possibile conoscenza storica costituisce una "ritraduzione" della espressio­ ne crociana che la conoscenza storiografica nasce solo nell'impegno della prassi, come momento delucidatore della creazione di nuova storia. Ma biso­ gna fare attenzione di non dire (come dice a un certo punto Gramsci) che la filosofia si deve in ultima analisi identificare con la volontà attualizzatrice. Af­ fermare che si conosce solo quando si è impegnati nel trasformare (che si è storiografi solo in quanto si è impegnati a produrre nuova storia più umana) non significa dire che conoscere è trasformare, e che storiografia è produzio­ ne di nuova storia più umana. Teniamo fede alla distinzione e ricordiamo la notte in cui tutte le vacche sono nere !

Il progetto, più volte annunziato a partire dal 1 950, di procedere alla sistematica raccolta di materiali di folklore progressivo in Lucania e altrove, non viene comunque meno: solo che è un compito che de Martino non si sente più di svolgere in prima persona. Lo faranno altri, al suo posto, muovendosi nella direzione da lui indicata e tesau­ rizzando i risultati pratici raggiunti nel corso delle sue prime informa­ li ricerche. D'altra parte nel progetto stesso covava implicita una for­ ma di delega: fin dal 1 95 I de Martino, sul "Calendario del popolo " , invitava i lettori raccogliere e a mandare in redazione i migliori canti popolari progressivi italiani che si trovavano a udire nelle piazze e nei luoghi di lavoro, ricordando loro che

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vi è oggi in Italia tutto un patrimonio cospicuo, vero solenne commento ca­ noro che accompagna nella sua storia il movimento operaio e contadino. Si tratta di canti che esprimono ora semplice protesta e ora aperta ribellione alla condizione subalterna a cui il popolo è condannato, ovvero di stornelli satirici contro il nemico di classe, di epiche memorie di lotte antiche e re­ centi, di lirici abbandoni all'appassionata anticipazione del mondo migliore di domani.

E a questo accenno di classificazione seguiva pure un prontuario del­ le regole da rispettare. Il grosso del lavoro non sarà tuttavia svolto dai lettori del "Calendario" , né l'invito sarà subito recepito dagli in­ tellettuali: il protagonismo contadino è lì per crollare e nell'Italia del miracolo economico ogni discorso relativo al folklore è destinato ad essere letto come la descrizione di un paesaggio lunare. Solo negli anni sessanta, lentamente e negli ambienti più politicizzati, il folklore tornerà a imporsi come oggetto di studio, sull'onda della scoperta del folklore operaio (tema appena sfiorato da de Martino, anche se inclu­ so nei suoi programmi) . Sorgerà allora l'istituto che darà risposte al questionario proposto dal "Calendario del popolo " e che si porrà problemi e compiti che lo studioso nel I 95 I non poteva prevedere: l'Istituto "Ernesto de Martino " , fondato da Gianni Bosio e Alberto M. Cirese nel I 965 . Così come verrà rilanciato, poco dopo, anche il concetto di folklore progressivo, in un filone di studi inaugurato dal libro Il folklore come cultura di contestazione ( I 96 7 ) di Luigi Lombar­ di Satriani. Ma sono riprese e capitoli di una storia che de Martino non ha scritto.

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Dal campo al libro

«Una spedizione etnologica»

All'inizio del 1 9 5 2 , nel corso di una conferenza tenuta presso il Gabi­ netto Viesseux a Firenze (e intitolata L'opera a cui lavoro) de Martino annunzia di avere in cantiere un nuovo libro: il titolo - Etnologia luca­ na - è largamente provvisorio e dalle sue carte sappiamo che si tratta di un'opera costruita su due bande parallele, la prima consistente in una raccolta ragionata di canti; la seconda dedicata alle credenze e pra­ tiche magiche presenti nel territorio. L'autore, pur tenendo distinti i due oggetti di studio, concepisce l'opera in chiave vigorosamente uni­ taria, perché pensa ancora di muoversi nel solco del folklore progressi­ vo. Tuttavia, nella conferenza, pone l'accento sulla seconda parte del programma, quella relativa alla magia; e ci dice in modo chiaro che essa nasce dall'esigenza di verificare le tesi esposte nel secondo capitolo del Mondo magico in un diverso contesto storico- culturale, e cioè quel mondo già efficacemente disegnato in Note lucane ( 1 95 0) che sta "ol­ tre" Eboli. Sarà un libro diverso dal precedente anche per un altro motivo, nel senso che non sarà il frutto di un lavoro, come si diceva allora, a tavolino, ma di una ricerca in loco, condotta da un'équipe. Con ciò de Martino non intendeva buttare il tavolino al robivecchi, intendeva però dire che il lavoro si sarebbe svolto in tre fasi distinte: una fase preparatoria tutta tesa alla delucidazione delle ipotesi teoriche e degli intenti pratici, una fase liminale di trasferimento sul campo per la raccolta mirata del materiale documentario e un " ritorno a casa" , dedicato al controllo e all'interpretazione dei dati oltre che alla scrittu­ ra. Al materiale raccolto e alle stesse imprescindibili "note di campo", come si vede, de Martino non assegna - fin dal 1 952 - lo statuto di opera: un tratto fondamentale che distingue le spedizioni da lui guidate dalle "imitazioni " che verranno. I primi viaggi nel Sud di de Martino nascono comunque in un clima marcatamente "neorealistico" . La demologia italiana, con queste

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spedizioni, cambia pelle e statuto, ma la sua autonomia viene subito messa in pericolo dalla ingombrante presenza sulla scena nazionale del neorealismo letterario, cinematografico e artistico, e da cui è difficile prendere con una sola mossa e gli stimoli e le distanze. Perché si è ormai affermato un nuovo modo di "guardare" e di intendere la cultu­ ra degli strati più bassi, e questo modo non viene soltanto da Carlo Levi - che è il maggiore ma anche il meno neorealista di quella schiera di intellettuali che escono dagli anni trenta e dalla guerra profonda­ mente mutati - viene pure con l'aria che si respira nel dopoguerra, effervescente e attivistica, talora esagitata, e che troviamo compressa nei libri di Micheli, di }ovine, del primo Calvino, di Rea e tanti altri, non tutti letti o apprezzati da de Martino, ma sicuramente presenti nella sua mente e discussi negli ambienti che frequenta. Anche le tele di Vespignani, di Belardinelli, di Guttuso, dello stesso Levi, forniscono a de Martino uno sfondo iconografico (oltre che un efficace pretesto) alla enunciazione "visiva" dei suoi intenti: ad esse l'etnologo rimanda spesso per esemplificare il Sud che intende studiare con strumenti che sembrano provenire dalla officina del neorealismo. Ma sono soprattut­ to i film di quella breve stagione, i film di Rossellini (Paisà), di Visconti (La terra trema) , di De Sica e Zavattini, di Lizzani (Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato) , di De Santis, con cui de Martino per forza di cose deve fare i conti, specie quando si trova a dover ridisegnare la mappa dei luoghi visitati con troppa fretta e calore da quella cinemato­ grafia, più interessata alla visualizzazione degli "stracci" al sole dell'Ita­ lia del dopoguerra che alla esplorazione delle zone d'ombra. In chiave neorealistica, del resto, fu presentata dalla stampa la pri­ ma spedizione demartiniana in Lucania. Principale costruttore dell'e­ vento Marcello Venturoli, un giovane intellettuale di punta, fresco vincitore del Premio Viareggio e destinato a far parlare di sé come critico d'arte. L'annunzio - subito ripreso da altri giornali - avvenne sul "Rinnovamento d'Italia " nell'estate del 1 9 5 2 e fu sapientemente preceduto dalla pubblicazione di un discorso (inedito) di Cesare Za­ vattini, tenuto alla Casa della cultura qualche anno prima e troppo rapidamente archiviato. Cosa diceva in sostanza Zavattini in quel di­ scorso? Invitava, con zavattiniana incontinenza e gusto del paradosso, gli intellettuali italiani a non scrivere più libri, a non restarsene chiusi in casa, ma a uscire all'aria aperta, e andare in giro come reporter, per le città i paesi e le campagne, a raccogliere notizie sull'Italia sco­ nosciuta, l'Italia che le cartoline non illustrano e che viene tenuta pa­ vidamente nascosta al temuto sguardo degli stranieri (e soprattutto degli "americani" ) . Zavattini voleva all'uopo la creazione di una sorta di "bollettino " , da stamparsi settimanalmente magari col titolo di Dia-

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rio d'Italia, e chiedeva a gran voce la partecipazione di tutti gli scrit­ tori interessati a «tenere viva l'attenzione per gli altri». Ecco le sue parole, destinate a passare alla cronaca: Qualcuno ha detto che un vero scrittore passerebbe sul cadavere di sua ma­ dre per scrivere il proprio libro. Non lo so. È certo in ogni modo che egli non ha ancora finito di piangere vedendola con gli occhi chiusi per sempre, che pensa di scrivere Mia madre è morta. Nella mia ignoranza è apparsa spesso l'idea che saremo migliori solo quando non avremo più bisogno di scrivere, ma la nostra partecipazione alla vita sarà così aperta - ad angolo piat­ to - che l'essere e il raccontare si susseguiranno come il baleno al tuono, anzi si identificheranno ( " II Rinnovamento d'Italia " , 4 agosto 1 9 5 2 , corsivo mio) .

Non passa un mese e il "Rinnovamento d'Italia " può intitolare: Im­ portanti sviluppi della iniziativa Zavattini. Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzo­ giorno. Gli sviluppi sono due: Giulio Einaudi ha fatto sua l'idea del "bollettino" , mettendo in cantiere una collana, "Italia mia " , che sarà diretta dallo stesso Zavattini con la partecipazione di un gruppo (piuttosto eterogeneo) di scrittori e cineasti: Blasetti, De Si ca, Levi, Monelli, Rea, Rossellini e Visconti. Non è chiaro se anche de Martino fa parte di questo gruppo: lui sembra muoversi in proprio, con un programma autonomo, ma a suo modo parallelo; e lo dice in un arti­ colo che il giornale pubblica dandogli il massimo risalto. In questo articolo egli non si mostra affatto sorpreso di trovarsi coinvolto in un "moto " neorealista, così come non sorprende noi oggi: in fondo il neorealismo, nella sua accezione più ampia, rappresentava una scelta culturale che affratellava tutti quegli intellettuali che alla fine degli anni trenta e l'inizio degli anni quaranta si erano opposti al regime senza rinunciare alla propria formazione idealistica e liberale, come lo sbocco più o meno naturale di una intera generazione (cfr. G. C . Ferretti, L a letteratura del rifiuto, Mursia, Milano r 9 6 8 ) . E proprio perché le maglie di questa scelta data quasi per scontata risultano poi troppo larghe, de Martino per prima cosa sente di dover prendere le distanze dal "fondamentalismo" che rischia di bruciare il movimento in una ammuina , in un attivismo urlato e senza orizzonte. Così scrive ai lettori del giornale: Vi debbo confessare che non comprendo molto la utilità e la efficacia di im­ pegnare gli scrittori a raccogliere nudi /atti di cronaca sulla miseria e sulla disperazione dei poveri. I fatti diventano efficaci, anche sul piano politico e sociale, quando diventano cultura, cioè quando la passione del politico, del-

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l' artista o dello scienziato, li rende trasparenti, e perciò acquisiti alla memo­ ria storica; altrimenti, come nudi fatti di cronaca, hanno la vita di tutti i fatti di cronaca, e non vedo perché dovrebbero averla più lunga per la sola circo­ stanza che a segnalarli è stato uno scrittore. Che cosa può fare un intellettua­ le per i poveri? Semplicemente dar loro voce e diventarne la voce, ma come intellettuale, non come semplice cahier de doléance ( '' Il Rinnovamento d'Ita­ lia " , I0 settembre 1 9 5 2 ) .

D'altra parte, d e Martino s i rende ben conto che il neorealismo (che per lui è sinonimo di "nuovo umanesimo " ) , soprattutto quello cine­ matografico, ha uno sguardo volto principalmente al mondo urbano e agli umili di quel determinato mondo (operai, disoccupati, sottoprole­ tari, pensionati ecc. ) : al mondo delle campagne guarda poco e quan­ do lo fa si mostra refrattario a coglierne gli elementi magico-religiosi. In un articolo pubblicato sempre nel 1 9 5 2 , ma su "Filmcritica" , e scritto probabilmente prima di partire per la spedizione in Lucania, de Martino, pur ribadendo l'importanza dell'opera di Rossellini, di De Sica e Zavattini, di Visconti e di De Santis (di Lizzani stranamen­ te non parla) , tiene a segnalare quello che definisce un «limite inter­ no» del realismo contemporaneo; ed è un limite che ha due facce: da una parte la difficoltà a entrare nel mondo dei contadini, specialmen­ te se meridionali, dall'altra lo squilibrio tra la rappresentazione della miseria materiale e la rappresentazione della miseria culturale, a tutto svantaggio della seconda (unica eccezione, forse, La terra trema di Vi­ sconti, a cui l'etnologo può giusto rimproverare il mancato allesti­ mento di un lamento funebre per la morte del vecchio padre).

È senza dubbio assai difficile - ammette d e Martino - inserire organicamente in un racconto di ambiente contadino meridionale gli aspetti più salienti del dram­ ma ideologico dei suoi protagonisti: sta comunque di fatto che questo dramma diventa irreale, è sfiorato e non penetrato, quando si omette ogni seria analisi preparatoria della vita culturale del mondo popolare, o quando ci si attiene ai suoi aspetti pittoreschi, strani, grotteschi o addirittura incomprensibili (p. r84).

Non si può, in altre parole, affrontare il tema dell'amore contadino se non si conoscono i relativi incantesimi, se non si assiste alle cerimonie che accompagnano il fidanzamento e le nozze e se si ignora l'ideologia della "prima notte"; così come non si può rappresentare adeguatamente il mondo del lavoro campestre se non si ascoltano i canti che lo asse­ condano e non si sa distinguere una festa stagionale da un rito religioso. Anche se è vero che questi temi culturali rappresentano l'aspetto più arcaico della vita culturale del mondo contadino meridionale, anche se è vero che que­ sti temi non esauriscono affatto la vita contadina, è anche vero (come posso af-

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fermare per esperienza diretta) che essi esistono e sono ancora vivi e operosi, soprattutto fra le donne, e che pertanto ogni racconto di ambiente contadino che voglia meritare il nome realistico non può non tenerne conto (ivi, p. 1 8 5 ) .

Oggi ci è chiaro il senso di questi rilievi che all'epoca dovettero ap­ parire eccessivi e un po' fuori luogo: si comprendono alla luce del programma che de Martino ha ancora tutto in mente e che avrà tra gli esiti proprio la nascita di un cinema etnografico. Ma di questo parleremo più avanti: qui ci preme sottolineare che de Martino sta indicando, a Zavattini e agli intellettuali interessati alla scoperta del mondo degli " altri " , la strada da prendere; che non è quella di ri­ nunciare ai libri, e non è nemmeno quella di cogliere dal vivo la pri­ ma realtà che si presenta agli occhi: al contrario, quel mondo va os­ servato e studiato; soprattutto va liberato dalle strettoie della "crona­ ca" e restituito alla storia - proprio quella " storia" che Zavattini, per mancanza di prospettiva o per spicciola polemica antiretorica, nem­ meno vuoi sentire nominare. È dunque il "Rinnovamento d'Italia " a dare il primo annunzio della spedizione, presentandola, forse frettolosamente, come un prima concreta risposta all'appello di Zavattini: ma dalle parole di de Marti­ no già si vede che il progetto non è soltanto di andare "oltre Eboli" , m a di andare molto più in l à del programma d i Zavattini. Scrive de Martino passando alla prima persona:

È

da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale: per settembre, ne sarà organizzata una con qualche attrezzatura tecnica più com­ pleta delle precedenti. Abbiamo il nostro programma, i nostri itinerari, i nostri questionari. Incideremo i canti popolari e sorprenderemo nell'obiettivo foto­ grafico ambienti, situazioni e persone. Affideremo a una donna il compito di penetrare nelle più intime pieghe dell'animo femminile e di avvicinare i bam­ bini. Gireremo di paese in paese, chiamando in ogni paese una leva di nuovo tipo, la leva delle persone umane. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato: in una serie di conferenze sceneggiate, di ar­ ticoli per quotidiani e periodici, in opuscoli a carattere divulgativo e in un'o­ pera a carattere scientifico renderemo pubblico questo dimenticato regno degli stracci, faremo conoscere a tutti le storie che si consumano senza orizzonte di memoria storica nel segreto dei focolari domestici. Pagheremo così noi, in pri­ ma persona, l'immenso debito contratto verso questi uomini dalla società e dalle classi dirigenti [ .. .] ( " TI Rinnovamento d'Italia" , I0 settembre 1 9 5 2 ) .

Ma dalle conclusioni emerge anche un contro-programma di più lar­ go respiro e più ambizioso: 79

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Io penso che intorno a queste spedizioni organizzate dovrebbero raccogliersi gli intellettuali italiani, a qualunque categoria essi appartengano, narratori, pittori, soggettisti, registi, folkloristi, storici, medici, maestri, ecc. Il nuovo realismo, il nuovo umanesimo, manca, per quel che mi sembra, di questa esperienza in profondità, e spedizioni di questo genere costituiscono una oc­ casione unica per formarsela, e per colmare quella distanza tra popolo e in­ tellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale (ibid. ) .

C i dobbiamo soffermare s u questi due brani, perché è qui che s i pro­ filano quelli che saranno i binari metodologici del progetto che terrà impegnato de Martino nei successivi sette anni. Cominciamo dal se­ condo, che è chiarissimo e consequenziale a quanto finora detto: de Martino non è interessato alla vita minuta degli oppressi, ma alla loro storia culturale; una storia «che nessuno ha scritto mai». Il riferimen­ to a Gramsci è anche polemico: non scrivere ora questa storia equiva­ le a tradire il suo pensiero e il suo programma. Ma l'appello a Gram­ sci ha anche un altro scopo: de Martino, pur chiamando a raccolta come Zavattini - intellettuali di tutte le categorie, vuoi rimarcare la distanza che lo separa dal neorealismo più urlato e cronachistico (non quello, s'intende, di un Levi o di un Visconti) ; non vuole sguinza­ gliare reporter, vuole collaboratori, per un'impresa che già sente tita­ nica. Il lavoro di gruppo che ha in mente è diverso, per farla breve, da quello che intendono e praticano i neorealisti: è un lavoro di sca­ vo e non di denuncia. In che senso, di scavo? Il primo brano dell'articolo che stiamo esaminando, in cui de Martino fornisce qualche anticipazione sul la­ voro che intende svolgere e le strategie che ha pensato, è per necessi­ tà di spazio piuttosto approssimativo, ma anche sufficientemente indi­ cativo. Intanto non è del tutto esatto l'accenno alle precedenti spedi­ zioni: de Martino aveva sì alle spalle già alcune inchieste (come quella in Terra di Bari del 1 946, quella sul lavoro bracciantile in Lucania del 1 9 5 0 e quella sul folklore progressivo in Emilia del 1 95 ! ) , così come aveva già compiuto, insieme alla compagna de Palma, un nu­ mero imprecisabile di sopralluoghi, avvalendosi dell'ospitalità di Roc­ co Scotellaro (l'ultimo proprio in quell'estate, con l'assistenza di un fotografo d'eccezione: il figlio di Zavattini); ma nessuno di questi "viaggi" poteva fregiarsi del titolo di " spedizione scientifica" . Il salto tra le precedenti esperienze etnografiche e quella che de Martino sta per vivere è nettissimo: la spedizione dell'ottobre del 1 9 5 2 va infatti intesa come il vero atto di fondazione della etnografia che verrà defi­ nita " demartiniana" : è la prima spedizione preparata a tavolino e non 8o

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autofinanziata, pensata come un lavoro di équipe e con l'ausilio di una attrezzatura tecnica, organizzata inoltre attorno a un oggetto defi­ nito di studio e preceduta da una serie di riflessioni sul metodo. Di questa spedizione disponiamo oggi del dossier quasi completo - tac­ cuini, materiale a stampa, cartelle dattiloscritte e quaderni di appun­ ti -, il tutto raccolto, ordinato e annotato da Clara Gallini: senza que­ sti due volumi, usciti nel 1 995 e nel 1 996, la linea tracciata in questo capitolo sarebbe più esile. Dell'équipe che de Martino ha allestito per l'occasione, in questo " annunzio" per la verità si parla poco, non abbastanza comunque per consentire al lettore di rendersi conto della portata innovativa del progetto. L'autore si limita a parlare al plurale e ad accennare al compito (già definito) che spetterà a Vittoria de Palma - di intervista­ trice, ma soprattutto di addetta alla comunicazione di genere - e alla presenza di un giornalista: il Venturoli di cui sopra. Sarà lo stesso Venturoli a rendere pubblici i nomi degli altri membri dell'équipe (tre giorni dopo, su "Paese sera " ) : alla spedizione parteciperà anche un etnomusicologo (Diego Carpitella) , un fotografo (Franco Pinna), un pittore (Lorenzo Vespignani) e un critico teatrale, Gherardo Guerrieri ( questi ultimi due nomi poi scompariranno dal cast definiti­ vo) . La presenza dell'etnomusicologo, in questa e nelle immediata­ mente successive spedizioni, viene particolarmente enfatizzata, perché de Martino, almeno ufficialmente, parte per andare a raccogliere principalmente canti popolari (a carattere progressivo ) . È quanto gli chiedono i più generosi finanziatori della spedizione: la Rai in primo luogo (tramite il Centro nazionale studi di musica popolare), il parti­ to comunista e la CGIL . In realtà questo è solo l'oggetto di facciata: de Martino ha altro per la mente, il folklore progressivo non è più il primo dei suoi pensieri, come emerge da almeno due documenti: il primo è il testo della conferenza tenuta qualche mese prima presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, in cui - dopo aver mostrato alcune convergenze tra Mondo magico e il Cristo si è fermato a Eboli a pro­ posito di alcune situazioni ierogoniche (ne abbiamo parlato all'inizio del precedente capitolo) - de Martino dice che l'opera in preparazio­ ne avrà per oggetto il mondo magico dei contadini lucani. L'altro fat­ to da rimarcare è che tra i finanziatori dell'impresa compare anche l'editore Giulio Einaudi, e a Einaudi de Martino ha promesso un li­ bro, naturalmente per la "Collana viola" , che seguita a chiamare di «etnologia lucana». Del resto, è sufficiente una scorsa alle Note prepa­ ratorie stese prima della spedizione, pubblicate in due tempi da Clara Gallini (cfr. qui la Nota biobibliografica finale) , per rendersi conto che 81

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i temi mag1c1 e magico-religiosi hanno preso ampiamente il soprav­ vento su tutti gli altri previsti o elencati nell"' annunzio" . Avremo modo più avanti di vedere qual è il senso di questa espressione - "magia lucana" - e a quali istituti culturali essa riman­ da. Ora ci interessa tornare sugli aspetti apparentemente esteriori del­ la spedizione: la composizione dell'équipe e l'equipaggiamento tecni­ co. Certamente innovativi nel campo degli studi folklorici italiani, questi due aspetti non rappresentavano certo una novità a livello in­ ternazionale: gli etnografi sovietici lavoravano in gruppo e si avvaleva­ no già di una tecnologia avanzata, e proprio in quegli anni un'altra spedizione, guidata dal filosofo e sociologo americano Friedmann, stava studiando con proclamato metodo interdisciplinare la comunità di Matera all'indomani della legge sui " sassi" . Per non parlare dell'il­ lustre precedente costituito dalla Missione Dakar-Gibuti organizzata negli anni trenta da Griaule con la partecipazione di tre etnografi, due linguisti, un musicologo, un geografo e un cineoperatore. Ma de Martino non si rifà a questi modelli: la sua concezione del lavoro d' é­ quipe non è " pluralistica" , e non rimanda a quello che a posteriori potremmo definire un "liberalismo etnografico" , sia nei confronti del­ le persone con cui entra in contatto sia nei confronti dei compagni di lavoro. Come tutte le imprese pionieristiche, anche quelle di de Mar­ tino sono passate precocemente alla leggenda, trasfigurandosi ma an­ che dando luogo a pericolosi equivoci. Prendendo spesso per oro co­ lato l'immagine della spedizione che Venturoli e lo stesso de Martino, per ovvi motivi di visibilità, venivano confezionando ad uso dei mezzi di informazione, gli storici e gli addetti alla divulgazione etnologica hanno avvolto non solo questa spedizione, ma anche tutte le successi­ ve, in una nuvola di retoriche, da cui è ancora difficile districarsi. E tra queste leggende, una in particolare sembra dura a morire: quella che narra di un de Martino compagno tra compagni, mentalmente a braccetto con gli altri membri della spedizione e cristianamente di­ sposto «a mettere da parte ambizioni egocentriche» (A. Rossi, Pro­ fondo Sud, Feltrinelli, Milano r 9 7 8) pur di salvare il carattere colletti­ vo della ricerca . Al contrario, de Martino si serve dell'équipe, per po­ tenziare il proprio ego scientifico ed estendere le capacità dei suoi sensi. Non vuole etnologi al suo fianco, perché è lui l'etnologo; così come non ha bisogno del folklorista o del filosofo. Vuole con sé un musicologo e un fotografo, per il solo motivo che con la musica e la fotografia - come sappiamo - non ha alcuna dimestichezza. All'ausi­ lio del parapsicologo e dello psichiatra, invece, ricorrerà solo in un secondo tempo, quando si renderà conto che le conoscenze acquisite in questi campi (prevalentemente sui libri) mancano del sostrato pro-

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fessionale. Ma la formula non cambia: i membri dell'équipe rimarran­ no, per tutta la durata della spedizione, degli " accompagnatori" , dei raccoglitori, preziosi fin che si vuole, ma senza alcuna funzione vica­ ria: i compiti restano divisi e la direzione resta unica, anche quando il terreno sembra offrire spunti per ricerche parallele o autonome. Mai per un istante de Martino permetterà alla collegialità di sforare nella coralità: l'autore dell'opera che la ricerca prepara e presuppone, il ga­ rante dell'unità di questa opera in fieri resta lui, e lui soltanto. D'altra parte, il problema della collegialità tendeva a confondersi, nel 1 9 5 2 , con il problema più nuovo e complesso della interdiscipli­ narità. E anche su questo punto non sono mancati gli equivoci. Se è vero che la spedizione viene presentata come interdisciplinare sia dal­ l' autore che dai giornali, è anche vero che il predicato viene usato da de Martino con una cautela che lo distingue dalle altre iniziative che in quegli anni si accostavano con approccio multiplo allo studio di un fenomeno culturale. Come osserverà più tardi, le ricerche interdisciplinari più vaste compiute sul terreno sono in generale esposte al pericolo della mancanza di una prospettiva specialistica centrale che coordini e subordini a sé le altre collaborazioni e ne integri e unifichi i risulta­ ti: di guisa che, malgrado il lavoro comune svolto sul terreno, e malgrado lo stimolo unificante che esercita sui membri dell 'équipe la analisi globale di uno stesso gruppo umano concretamente impegnato in un certo ordine di risposte culturali, i singoli contributi collaborativi rischiano di restare irrelati o scarsamente relati fra di loro, privi di ciò che potremmo chiamare un focus della comprensione (La ricerca interdisciplinare, in C . Gallini, I rituali del­ l'A rgia, Cedam, Padova 1 967, p. XIII, corsivo mio) .

La scelta di una prospettiva specialistica dominante, che per il nostro autore è quasi sempre la prospettiva storico- religiosa, e il ricorso agli strumenti delle altre discipline unicamente là dove non arrivano le competenze dello specialista, sono altrettanti punti fermi che de Mar­ tino ha già posto, e in modo perentorio, nel 1 9 5 2 . Oggi fanno ri­ flettere, ma all'epoca sfuggirono: e passò l'immagine dell'équipe con un capo inter pares, facile da narrare e da imitare. Meno esposto ai travisamenti è il discorso che concerne l'insieme e l'uso dei supporti tecnici. Pur avvertendone e proclamandone la ne­ cessità, de Martino non approntò (forse per mancanza di tempo o più probabilmente per il primato che assegnava alla scrittura) un pia­ no preciso riguardo allo spazio che essi avrebbero coperto nel corso della ricerca. Di fatto fu uno spazio occupato con una certa libertà dai responsabili del settore, che in più di un caso si trovarono co­ stretti - ben volentieri - ad "improvvisare " : quel tanto che ci permet-

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te di definire relativamente autonoma o comunque non puntigliosa­ mente demartiniana questa larga porzione dell'attività del gruppo . E dato che si tratta di un momento germinale di portata storica - l'et­ nomusicologia, la fotografia etnografica, il @m etnografico trovano qui il crogiuolo di idee sonore e visive su cui si costituiranno come discipline e generi, per quanto riguarda il nostro paese - due parole vanno spese sui singoli contributi. Il progetto prevedeva il ricorso a tre tipi di supporto audiovisivo: il magnetofono, la macchina fotografica e la cinepresa. Il primo, date le dimensioni dell'apparecchio e l'inevitabile timore che destava, era de­ stinato non alle interviste, ma alla registrazione dei canti e delle musi­ che, e già questo ci dice qual è la posizione di de Martino rispetto alle raccolte di documenti sonori: i canti popolari non sono per lui (a diffe­ renza dei tanti che lo hanno preceduto) un patrimonio letterario o un tesoro da disseppellire, sono invece frammenti di una cultura orale da studiare nel contesto storico, sociale e psicologico in cui nascono e si riproducono, e che quindi vanno colti in flagranti. Il testo del canto popolare, che fino ad allora costituiva l'oggetto principale di interesse e di studio per i folkloristi, passa in seconda linea, o meglio viene inglo­ bato in quell'insieme unitario che comprende oltre al testo lo schema melodico, l'interpretazione dell'esecutore, l'occasione del canto e le condizioni materiali su cui il canto stesso si fonda. Tutto questo de Martino lo aveva già intuito ed espresso un anno prima, nel corso della breve ricerca sul folklore progressivo emiliano ( I 9 5 I ) : li testo delle canzoni, nella sua semplice trascrizione letteraria, non costitui­ sce il documento folkloristico concreto. Stabilire questo testo, registrare le sue varianti, determinare, determinare il luogo d'origine e l'area di diffusione della canzone non dà il documento reale, ma un'immagine astratta e distorta di esso. [ . . ] Il documento comincia a essere reale quando noi lo integriamo col canto, quando alla trascrizione letteraria noi associamo la trascrizione musicale. C'è di più: il documento reale non è la canzone cantata in genera­ le, ma la canzone cantata da un determinato portatore di folklore, per esem­ pio Maddalena di Conselice, la Cuciretta di Ravenna, il coro delle "Reggia­ ne " . [ . . . ] Infine il documento reale è la canzone cantata in un certo ambiente e in un dato momento, cioè la canzone accompagnata da quel movimento scenico del pubblico che fa di ogni concreto atto di produzione culturale popolare un dramma sceneggiata vivente, una sorta di spontaneo teatro di massa (Il folclore progressivo emiliano, cit . , p. 25 3 ) . .

S i tratta ora d i fissare il documento, andando p1u m l à quindi della semplice trascrizione stenografica. Il mezzo più adeguato, de Martino lo intuisce subito, è la cinepresa, il film sonoro; ma è anche il mezzo di

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gran lunga più costoso: dovrà accontentarsi, per il momento, del ma­ gnetofono, che già per l'epoca è un bel lusso. Ma è anche un apparec­ chio che fa perdere molto tempo e che svia de Martino dall'altro setto­ re di indagine, a cui è più interessato: la rilevazione delle credenze e pratiche magiche. Per questo si affida a Carpitella, il "braccio musico­ logico" della spedizione, a cui fornisce indicazioni solo di massima e non di ordine tecnico, sapendo evidentemente che il giovane studioso ha già fatto sue le premesse metodologiche sopra esposte. Il risultato però è che in questa prima spedizione la auspicata unità non si verifica e la ricerca prende due strade, parallele e solo episodicamente conver­ genti: da una parte si lavora alla raccolta del materiale relativo alla ma­ gia, che tiene occupati de Martino e la sua compagna (e in qualche misura anche Venturoli) , dall'altra si provvede all'allestimento delle "scene" per i musicisti e i cantori, alla registrazione dei brani e al ria­ scolto degli stessi con la partecipazione degli esecutori (è quest'ultima la novità introdotta da Carpitella) . Il materiale raccolto, nel corso di un densissimo mese di lavoro sul campo, lascia comunque stupefatti, sia per la mole che per l'importanza dei documenti trascritti o registrati. Della messe di dati raccolta da de Martino e dalla de Palma sulle cre­ denze e i costumi parleremo tra poco, qui mi limito a ricordare l' ap­ porto di Carpitella: 1 42 registrazioni di canti e musiche popolari, 1 30 trascrizioni di testi e 3 dettagliate relazioni. Un repertorio ancora oggi fondamentale, che ha contribuito in modo decisivo alla formazione di due generazioni di etnomusicologi e che all'epoca rappresentava un' as­ soluta novità, non esistendo a stampa alcuna raccolta di canti popolari lucani. Un repertorio che Carpitella però non costruisce sulla base di un percorso autonomo e propriamente musicologico, perché il pro­ gramma è stato già fissato da de Martino: i canti e le musiche da racco­ gliere devono rientrare infatti nello schema che i folkloristi del tempo denominavano " dalla culla alla bara" (con ciò intendendo il ciclo della vita umana: la gravidanza e il parto, la nascita e il battesimo, l'infanzia e l'adolescenza, il fidanzamento e il matrimonio, la morte e il seppelli­ mento). Uno schema "naturalistico" - destinato a scomparire dall'o­ rizzonte metodologico di de Martino - che in questa prima spedizione "scientifica" viene però adottato, e per tre motivi: la spedizione, pro­ prio perché si proclama scientifica, deve fare i conti anche con le cate­ gorie e i ferri del mestiere che i folkloristi usano da tempo, deve met­ terli come minimo alla prova, tanto più che tra i promotori dell'im­ presa c'è la Società di etnografia italiana, diretta allora da un demologo serio e di antico stampo come Paolo Toschi. L'altro motivo per cui lo schema viene utilizzato è di ordine operativo: l'unità della ricerca è garantita, per lo meno esteriormente, dalla presenza di questo principio

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selettivo e classificatorio che abbraccia tutti i settori d'indagine (ed è da questa presenza ingombrante che Carpitella cercherà in qualche misura di prendere le distanze). Ma il motivo principale che spinge de Martino a iniziare da qui la ricerca - dal primo capitolo del Manuel de folklore di Van Gennep, intitolato appunto Du berceau à la tombe - è ovvia­ mente di ordine teorico: la nozione di passaggio, da lui inteso come momento critico dell'esistenza, restituisce unità e coerenza a tutti quei riti e quei canti che l'etnografo tradizionale aveva, fino ad allora, osser­ vato e trascritto, magari con amore e precisione, ma senza accertarne la funzione sociale e culturale. In questo senso, lo schema " dalla culla alla bara" viene intenzionalmente manipolato da de Martino e trasformato in un dispositivo epistemico. Ma tutto ciò passa sulle teste dei suoi collaboratori, che solo gradualmente si adatteranno al nuovo focus che la ricerca ha preso, dopo che per mesi si era parlato di folklore pro­ gressivo. E questo iato si rispecchia nelle discrepanze che emergono dai due piani dei risultati prodotti dalla spedizione: com'è stato osservato da Giorgio Adamo nel I995, l'atmosfera cupa che si respira a livello magico-rituale si attenua, o addirittura scompare, quando è di scena la musica, dove vige un regime d'inaspettata serenità. «Questa sostanziale separazione tra i due piani», che frammenta la ricerca del I 95 2 , è de­ stinata comunque a non durare nel tempo: già a partire dalle indagini del I 954 sul lamento funebre (un oggetto cioè più mirato), Carpitella e de Martino si situeranno in sintonia, dando luogo a un sodalizio scien­ tifico del tutto inusuale nella storia dei nostri studi. Il magnetofono, comunque, de Martino sapeva usarlo: quando Car­ pitella per una ragione o per l'altra non era presente, le registrazioni si tenevano lo stesso, anche se in modo meno professionale. Di un foto­ grafo invece la spedizione non poteva fare a meno, data l'imperizia in questo campo dello studioso e l'importanza in ogni caso del supporto. Alla fotografia era stato infatti assegnato, sia nel programma del I 9 5 I che nel progetto del I 9 5 2 , un posto di tutto rilievo nel decalogo della etnografia demartiniana: le immagini dovevano istituire un continuum fra canti esecutori e ambiente, e mano a mano illustrare anche il rap­ porto tra osservatori e osservati. Due istanze evidentemente recepite solo in parte dal primo fotografo di cui si servì de Martino: il sopra accennato Arturo Zavattini, che aveva già lavorato nel set dei film di De Sica e di De Sanctis . Fu lui il fotografo della pre-inchiesta condotta a Tricarico nell'estate del I 9 5 2 , una specie di sopralluogo che de Mar­ tino effettuò insieme alla compagna e a un giornalista di "Vie Nuove": ma le pur belle I50 foto che Zavattini scattò in quell'occasione, se­ guendo più il suo estro che il filo della raccolta dei dati, non risposero alle aspettative di de Martino, che a settembre preferì convocare, al 86

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suo posto, Franco Pinna (probabilmente anche per cancellare dall'im­ magine della spedizione ogni possibile riferimento a Zavattini senior) . Con Pinna il rapporto non solo quagliò, ma andò oltre le aspettative: il fotografo capì al volo quale era il suo compito e capì subito anche quali erano i suoi margini di autonomia. De Martino si trovò a fianco non un collaboratore, ma un autore perfettamente in grado di muo­ versi e operare sia all'interno che all'esterno della ricerca: in grado cioè di tradurre visivamente il percorso concettuale dell'etnologo e di rein­ terpretarlo alla luce del suo personalissimo stile. Quando noi oggi pen­ siamo alle spedizioni demartiniane, immediatamente si levano ieratiche e incancellabili le immagini di Pinna, che da un lato rimandano all' ap­ passionato rigore di quelle ricerche ma dall'altro impongono un mes­ saggio che demartiniano non è: che cioè quel mondo documentato dal­ le foto sia "un mondo da salvare" . A parte questo aspetto, che h a molti punti di contatto con il "neorealismo visionario " di Otello Martelli e del primo Fellini, il modo di fotografare di Pinna non lasciava dubbi sulla sua vocazione etnografica: il parco uso dei primi piani, il ricorso didascalico alla "sequenza" , la diffidenza nei riguardi delle istantanee non concordate e il discreto ma continuo riferimento alla presenza e al lavoro degli osservatori, sono solo alcuni dei capisaldi del suo metodo, che all'e­ poca fu forse sottovalutato, come schiacciato dalla forza dirompente delle immagini prodotte. Ciò malgrado, o proprio per l'alto profilo del rapporto, tra Pinna e de Martino non s'instaurò un vero sodali­ zio: sul piano umano i due s'intesero fino a un certo punto e in più d'un'occasione il fotografo rinunciò a far parte dell'équipe delle spe­ dizioni organizzate da de Martino nel corso degli anni cinquanta; spe­ dizioni che prevedevano, come abbiamo visto, la presenza di un solo autore. Uno scotto da pagare che dovette risultar chiaro a Pinna fin dal primo atto della collaborazione - la spedizione appunto del 1 9 5 2 - che vide ingabbiato anche lui ( come Carpitella, ma con u n tasso d'insofferenza maggiore) nello schema "dalla culla alla bara " , che lo costringeva a stare al passo di un itinerario tematico che non sentiva suo. Sarà una mera coincidenza, ma il corpus di foto relativo a questo schema scomparve dall'insieme del materiale raccolto (e da allora non se n'è trovata più traccia) . Un incidente che non deve ma può essere letto come un segnale dell'avvio di un fecondo e sacrificale rapporto tra intelletti chiaramente gelosi dell'autonomia del proprio discorso. Non basta; anche un altro prezioso documento andò perduto nel corso di quella avventurosa spedizione del 1 9 5 2 , e sempre frutto del lavoro di Pinna: un documentario cinematografico, pure esso intitolato Dalla culla alla bara, e di cui ancor meno si sa. Stando alla relazione

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ufficiale di de Martino (e a una scaletta ritrovata tra le carte) doveva trattarsi di un cortometraggio, probabilmente muto e in bianco e nero, «comprendente aspetti della miseria, della "fatica" , la cronaca di un funerale, danze popolari, nozze, etc.»; ma anche di questa prima incur­ sione demartiniana nel campo del documentario etnografico non è ri­ masta alcuna traccia, nemmeno nella memoria degli altri membri della spedizione. Ed è un vuoto che si fa sentire: perché alla cinepresa, nel programma del I 95 I , era stata data un'importanza perfino maggiore del registratore e della macchina fotografica nella lista dei supporti tec­ nici da portare sul terreno. Non sappiamo se de Martino avesse in mente le pionieristiche riprese cinematografiche condotte da Boas, dal­ la Mead e da altri; non sappiamo nemmeno se conoscesse i primi con­ tributi di Michelangelo Antoniani (Gente del Po, 1 942; Superstizione, I 949) alla nascita del genere-documentario o l'interessante esperimento di Luciano Emmer (Il miracolo di San Gennaro, I 94 8 ) ; forse aveva semplicemente intuito, nella veste di occasionale spettatore - prima at­ traverso i cinegiornali dell'Istituto Luce e poi di fronte ai film-inchiesta del neorealismo più impegnato e alla straordinaria fioritura di cortome­ traggi "dal vero " del primo dopoguerra - il possibile duplice impiego del mezzo: come taccuino a tre dimensioni per la ricerca sul campo e come " rotocalco animato " per la esposizione del lavoro compiuto e dei problemi incontrati. Duplice, ma cauto allo stesso tempo, l'impiego non porta a un ribaltamento del lavoro etnografico: l'operatore rimane per de Martino un tecnico al servizio dell'etnologo, più o meno come il fotografo, in grado di integrare e di potenziare lo sguardo dell' etno­ logo, non di sostituirlo. In altre parole, al film viene riconosciuto lo statuto di documento, non lo statuto di discorso scientifico autonomo. Di qui la bicefala natura dei documentari "firmati " da de Martino, rigorosi nell'assunto e infedeli nella realizzazione, e da qui anche l'in­ negabile fascino che ancora oggi emanano come prodotti di confine, dove l'esposizione didascalica viene continuamente interrotta - ma mai travolta - dall'irruzione di figure perturbanti. Perché perturbanti? Perché rispetto a quanto era stato progettato nel I 9 5 I , il materiale etnografico da raccogliere con la cinepresa nel frattempo è cambiato; non è più l'esecuzione dal vivo dei canti popola­ ri a costituire l'obiettivo primario, e nemmeno la tanto sbandierata rile­ vazione di elementi foklorici "progressivi " : de Martino, nel breve giro di due o tre anni, ha rinunciato ad accanirsi nel dibattito sulla scienza del folklore (avvertendo probabilmente la esiguità degli sbocchi teori­ ci) ed ha spostato di nuovo l'asse della sua ricerca, tornando a privile­ giare lo studio della dimensione magico-religiosa dei riti di passaggio presenti e ancora operanti nelle culture del Sud. E questo comporta 88

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un problema ermeneutico che la visualizzazione mette più che mai a nudo: il punto di vista dell'autore e il suo rapporto con questa di­ mensione, in parte aliena e in parte a lui familiare. Col tempo, de Mar­ tino saprà rivendicare la portata epistemologica di questo ineludibile problema e formulerà al riguardo una specifica teoria (detta dell"'in­ contro etnografico " ) , ma al momento - nel corso delle prime spedizio­ ni - il problema resta parzialmente irrelato e venato da qualche ambi­ guità. Lo spettatore, ad esempio, dei documentari (e anche dei servizi fotografici) che via via de Martino mise in circolazione con il suo aval­ lo scientifico, non sa bene " da che parte" mettersi, in quanto non rece­ pisce dall'insieme delle immagini e del commento un messaggio univo­ co e coerente. Di qui l'ambiguo fascino di questi prodotti, con il testo letto dallo speaker che fa quasi da contrappunto allo strapotere delle immagini, che di per sé afferrano e pongono quesiti (per lo più relativi alla reale efficacia dei riti) apparentemente irrisolvibili. Anche perché i veri autori - i registi - di questi film (sette in tutto, compreso quello andato perduto) sono artisti alla ricerca di un linguaggio autonomo, che non intende rifarsi né al filone del documentario di maniera né al filone del documentario di denuncia, e che si rifà semmai al linguaggio onirico e carico di simboli dei lungometraggi post- (e non neo-) reali­ sti. E più è dotato il regista più il rischio dello scollamento è alle por­ te. È il caso di Luigi Di Gianni, che diresse uno solo dei cortometraggi autorizzati da de Martino, ma molti (quattordici) ne realizzò ispirati alle sue ricerche: i suoi sono contributi notevolissimi, per intensità e interesse, alla fondazione di questo piccolo "genere", ma ad essi si deve anche la propagazione di un'aura che farà da sfondo a quasi tutti documentari " demartiniani" o comunque ambientati nel "magico" e miserrimo Sud: un'aura lunare, vagamente kafkiana, di paesi e donne fuori del tempo e dello spazio, che ha più punti in comune (casomai) con la pensosa fantasia di Carlo Levi che con la vigile tensione della pagina di de Martino. E questa scelta, culturale e stilistica, graverà un poco su tutta la seconda ondata di film più o meno " demartiniani" , usciti negli anni sessanta prima e dopo la scomparsa dell'etnologo ( e per lo più scritti d a una sua appassionata allieva: Annabella Rossi) .

Magia lucana

Ma l'intento principale della spedizione, lo abbiamo detto a inizio di capitolo, era quello di mettere alla prova dei fatti lucani il nucleo teo­ rico del Mondo magico. Intento, come pure abbiamo visto, non del tutto esplicitato e in parte, anzi, abbastanza occultato: de Martino

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deve fare i conti non solo con le varie committenze ma anche con la generalizzata diffidenza dei padroni universitari delle discipline che sembra smantellare. Nel programma-fiume allegato a uno degli an­ nunzi dati alla stampa, sono enumerati 3 3 questionari che sembrano equivalere ad altrettanti momenti della ricerca, alcuni dei quali deci­ samente estranei allo spirito della spedizione: fumo negli occhi che forse è Venturoli a gettare, per sollevare il viaggio a una dimensione epico-enciclopedica, ma che de Martino non si sforza di dissipare (al punto che il programma viene ribattuto senza sostanziali modifiche in coda alla proposta per Einaudi) . Ma nelle più private Note preparato­ rie si assiste già a una drastica serie di tagli: i punti del programma si riducono a 2 8 , di cui solo 5 da approfondire con la somministrazione di questionari, e precisamente il numero 1 3 (Dalla culla alla bara), il n. 1 5 (Canti popolari) , il n. 16 (Danze), il n. 1 7 (Magia) e il n. 2 1 (Cristianesimo, chiesa e mondo contadino) . Che fine hanno fatto gli altri 2 3 punti? Evidentemente alcuni ( come Fiabe, racconti e leggende, Proverbi e detti, Giuochi e divertimenti, Letteratura pia popolareggian­ te ecc.) erano stati inclusi per non trasformare il programma in un manifesto contro mezzo secolo di studi folklorici; mentre altri - i più attinenti alla sfera dell'economico - rimandavano in realtà a una ri­ cerca nata nel solco del rapporto con Scotellaro (una sorta di raccolta di biografie contadine) e che non fu mai portata a termine. Per quanto concerne i cinque punti rimasti - quelli realmente af­ frontati dalla spedizione - abbiamo già visto quale fosse la divisione dei compiti: il primo (Dalla culla alla bara) interessava tutti i membri; il secondo e il terzo (Canti e Danze) erano di pertinenza di Carpitella e Pinna; del quarto e del quinto (Magia e Cristianesimo, chiesa e mon­ do contadino) si occupavano invece de Martino e de Palma, con lo sporadico aiuto di Venturoli. Da questa organizzazione del lavoro che abbiamo ovviamente assai schematizzato - si può evincere che de Martino intendesse mettere alla prova le tesi del Mondo magico in tre ambiti di indagine distinti ma comunicanti: i riti di passaggio, le pra­ tiche magiche, la religione popolare. Proviamo a vedere se è vero. Naturalmente dobbiamo tornare ancora una volta - forse l'ultima - allo schema detto " dalla culla alla bara " , e controllare cosa c'è sotto il suo utilizzo. Dalle letture e dalle riflessioni compiute prima della partenza emerge che de Martino, pur non rifacendosi direttamente al testo di Van Gennep del 1 909, intende riprendere, criticamente, la fortunata (ma ancora poco studiata) nozione di " rito di passaggio" , in quanto si avvede che - spogliata della veste sociologica - essa può servire da categoria antropologica, anche se in senso molto lato. Pur­ ché si intenda il passaggio non come uno " spostamento" da una con-

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dizione a un'altra, ma come forma del divenire storico. Si legge nelle Note preparatorie: La teoria dei riti di passaggio che si articolerebbero nelle tre fasi dei riti preli­ minari, liminari e postliminari, mi sembra fondamentale per illustrare il gran­ de tema storico della non integrazione della persona nella storia. n "passag­ gio " è appunto termine che designa il tratto caratteristico del divenire stori­ co, l'essere che non è più e che "passa" ad altro essere: ed il fatto che si passa da uno stato (o condizione) all'altro, significa semplicemente che non si accetta, non si sopporta, perché angoscia, la continuità graduale del passa­ re, e perciò il passare è soppresso mercé un'azione di passaggio che non è storica, ma metastorica, sacra, archetipamente fissata, e iteratasi sempre allo stesso modo, secondo una sequenza immutabile di atti particolari.

Questa continuità graduale del passare non fa però sempre e dapper­ tutto problema: de Martino non cade in una facile " esistenzializzazio­ ne" della teoria di Van Gennep, perché il passare è per lui storico e non spaziale o temporale, e sono solo i momenti critici dell'esistenza dell'individuo o della comunità quelli in cui il dramma del passare si manifesta in tutta la sua potenza. Come dirà nel corso di una tra­ smissione radiofonica, il tema unitario del ciclo lucano dalla culla alla bara «è la magia, cioè un sistema di garanzie e di compensi per ren­ dere sopportabile una storia che angoscia» (Panorami e spedizioni, Bollati-Boringhieri, Torino 2002, p. w6). Come si vede è qui presente un concetto nuovo, rispetto alle pre­ cedenti speculazioni di de Martino: l'angoscia della storia. Un concet­ to che l'autore aveva già introdotto, ma fugacemente, nel corso della conferenza al Viesseux, dove aveva detto che il materiale da racco­ gliere nel corso delle future spedizioni serviva alla costruzione di un'opera appunto «sull'angoscia della storia, [. . ] cioè sulle forme di vita culturale che nascono da questa angoscia». La gestazione di Ma­ gia lucana (è questo il titolo che viene ormai dato al libro) e le ri­ flessioni su questo tema più generale sembrano quindi scorrere pa­ rallele: de Martino aveva da poco letto Le mythe de l'éternel retour di Mircea Eliade, pubblicato a Parigi nel 1 949, e in questo libretto assai ben scritto e argomentato, ma speculativamente debole, aveva trovato teorizzata una "antologia primitiva " fondata appunto sul rifiuto della storia. Una teoria luccicante, che scaturiva da una serie di quasi ovvie considerazioni e che seduceva proprio per la innegabile linearità come si può constatare rileggendo il famoso esordio: .

Un fatto ci ha soprattutto stupito nello studiare le società tradizionali : la loro rivolta contro il tempo concreto, storico, la loro nostalgia di un ritorno pe­ riodico al tempo mitico delle origini, al "grande tempo" . Il senso e la funzio-

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ne di quelli che abbiamo chiamati " archetipi e ripetizione " [è il sottotitolo del libro] si sono rivelati a noi solamente quando abbiamo colto la volontà di quelle società di rifiutare il tempo concreto, la loro ostilità a ogni tentativo di " storia" autonoma, cioè di storia senza regolazione archetipica. Questo proposito di non ricevere e questa opposizione non sono semplicemente l'ef­ fetto delle tendenze conservatrici delle società primitive, come proverà pro­ prio questo libro. A nostro parere, è fondato leggere in questo deprezzamen­ to della storia, cioè degli avvenimenti senza modello trans-storico, e in que­ sto rifiuto del tempo profano, continuo, una certa valorizzazione metafisica dell'esistenza umana (trad. it. Borla, Torino 1 9 6 8 , p. 9 ) .

D e Martino conosceva bene Eliade e aveva contribuito alla diffusione delle sue opere in Italia. In particolare aveva definito «senza dubbio assai suggestiva e penetrante» la sua interpretazione dello yoga e delle sue tecniche «alla luce della aspirazione arcaica ad abolire la storia» (sono parole scritte nel 1 94 8 , nel corpo di una recensione a Techni­ ques du Yoga) ; ma di fronte a questa "valorizzazione" e universalizza­ zione di un carattere specifico del pensiero induista, si sente spronato a rivedere e mettere a punto il suo concetto di estraniazione dalla storia, in fondo già presente ma " relativizzato" nella tesi del Mondo magico. Nello specifico ha bisogno di uno schema concettuale per in­ tendere le pratiche magiche del Sud, visto che fino ad ora (lo si è visto in Note lucane) esse stentano ancora a presentarsi alla sua mente come un insieme intelligibile. Un insieme che invece acquista una particolare coerenza se queste pratiche possono essere interpretate come altrettante tecniche culturalmente predisposte alla abolizione temporanea del divenire storico nei momenti in cui si prospetta inso­ stenibile: non un granitico rifiuto della storia, quindi, ma una com­ movente quanto astuta strategia per aggirarla. Occorre dunque proteggere, con una cortina metodologica, l'in­ sieme di intuizioni di Eliade relative al senso delle varie tecniche di salvezza (yoga, sciamanismo ecc.) dalla sua decadente e perniciosa teoria della storia. E questo è fattibile solo se il toro viene preso fi­ nalmente per le corna, attraverso una meditata e più incisiva recen­ sione. Operazione tanto più urgente in quanto Le mythe de l'éternel retour è stato già recensito - con grande tempestività e preoccupazio­ ne - dal Croce, sicché la questione non può esser più lasciata in so­ speso . Pur assorbito dai pensieri della spedizione, de Martino si con­ centra e stila la più impegnata e articolata delle sue recensioni, con un occhio a Eliade e un occhio a Croce. Quest'ultimo - che non vie­ ne prudentemente mai citato nel corso dello scritto - aveva infatti cercato di dimostrare l'inconsistenza filosofica delle tesi eliadiane ri­ correndo a un argomento piuttosto debole: il "terrore" - dice Croce 92

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- è un sentimento e in quanto tale non può riguardare la storia, che è un concetto; Elia de evidentemente confonde la storia con la "vita" , che a volte ci spaventa e ci travolge. D e Martino invece - che inter­ preta il terrore come il sintomo di una crisi della presenza - non in­ tende affatto sottovalutare il problema posto da Eliade: casomai il problema per lui è come calare nella storia anche il rifiuto della me­ desima. Eliade non si serve di categorie filosofiche, ed è inutile stare a spennarlo per questo: è un mistico - e un erudito - che interviene su molti e importanti nodi tematici della storia delle religioni da un punto di vista dichiaratamente religioso, ed è chiaro che per lui la storia si identifica con l'anti-regno della corruzione e del peccato; prenderlo alla lettera, è tempo perso. Quel che va salvato, del suo discorso, è l'avere additato a oggetto di studio la diffusa e documen­ tata presenza, in alcune civiltà religiose, di questo modo, problemati­ co e a volte angoscioso, di rapportarsi con il tempo irreversibile della storia: aprendo con ciò un campo tutto da esplorare, con pazienza ma anche senza pregiudizi. È lo stesso de Martino a dare un piano dei passi da fare (un piano che ha tutta l'aria di un'agenda di ricer­ che da condurre personalmente, nei mesi e negli anni che verranno) : S i tratterà di articolare assai meglio per entro i l mondo delle civiltà etnologi­ che e anche nelle singole grandi civiltà " storiche " , i modi concreti di questo " rifiuto della storia " , al che dovranno provvedere, ovviamente, monografie su determinati complessi mitico-rituali. Si tratterà di chiarire meglio il processo mitopoietico, il carattere e la funzione del mito. Si tratterà di caratterizzare con maggior vigore, e sulla base di ricerche speciali, la novità rappresentata, rispetto alla concezione arcaica, dal giudaismo e dal cristianesimo primitivo. Si tratterà di sistemare, in questo corso storico complessivo il valore e la funzio­ ne della magia, che è anch 'essa (come ho cercato di mostrare nel Mondo magi­ co) salvezza della presenza, ma non già dalla storia, sebbene nella storia, onde attraverso la magia e i suoi istituti la presenza, che non si mantiene davanti al divenire storico, cerca di 'esserci' in qualche modo in esso, secondo i tempi e i modi di un dramma esistenziale caratteristico. Infine si tratterà di analizzare assai meglio questa ' angoscia' magico-religiosa in cospetto della storia, e la correlativa paradossia dei tentativi di "salvare " la presenza, in termini magici o religiosi. Comunque la storia delle religioni è debitrice a Mircea Eliade di una interessante prospettiva ermeneutica, che va saggiata in medias res, cioè nel lavoro storiografico effettivo ( '' Studi e Materiali di Storia delle Religioni " , 2 3 , 1 9 5 2 , p. q8, corsivo mio) .

Questa prospettiva, in realtà, de Martino ha cominciato già a saggiar­ la in medias res: qualche mese prima, in una comunicazione alla So­ cietà di storia delle religioni (poi stampata sotto il titolo di Angoscia 93

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territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini, 1 9 5 2 ) ve­ niva sottolineata, sulla scorta appunto delle intuizioni di Eliade, «la funzione di riscatto del mito di fondazione rispetto al carattere stori­ co "insopportabile" di un certo attraversamento o di una certa occu­ pazione del territorio» da parte di una tribù nomade: gli Achilpa. Questi aborigeni australiani si portano sempre dietro, nelle loro itine­ razioni, un palo sacro che viene ritualmente piantato nel luogo di soggiorno e che da quel momento serve a rappresentare il " nuovo" centro del mondo. «Nella marcia da sud verso nord delle comitive Achilpa il palo kauwa-auwa [variamente denominato presso altre po­ polazioni, ma ugualmente presente] assolveva dunque al compito di destorificare la peregrinazione: gli Achilpa, in virtù del loro palo, cam­ minavano mantenendosi sempre al centro [del mondo] » (p. 5 9 ) . Col che ci troviamo già di fronte al grande tema della " destorifìcazione mitico-rituale" che sarà al centro delle riflessioni demartiniane dal 1 9 5 2 in poi, e che a partire dalla famosa spedizione in Lucania verrà saggiato oltre che sui testi (nel citato contributo la fonte è nei lavori di Spencer e Gillen e di Elkin) anche sulla base dell'osservazione di­ retta. E sarà proprio grazie all'osservazione del rito "in azione" - spe­ cialmente di quello funebre - che de Martino riuscirà a evidenziare meglio il limite della tesi di Eliade, arrivando alla conclusione che le "uscite" dalla storia sono finzioni rituali ad hoc e drammaticamente precarie, poiché la storia è comunque sempre «più forte dei tentativi umani di evadere da essa» (Note di viaggio, 1 95 3 ) . Stabilito il problema storiografìco che farà da sfondo alla ricerca, resta però da precisare quali documenti de Martino intende racco­ gliere sul campo. Nelle Note preparatorie sta scritto infatti che affinché la scienza storiografica sia possibile sono necessarie due condizioni: il problema e il documento. Senza problema i documenti non escono dal loro isolamento irrelativo, non entrano in rapporto fra di loro, non acqui­ stano significato e valore, non accennano a uno svolgimento; ma senza docu­ mento il problema non raggiunge nessuna verità, e si tramuta in opinione, in ipotesi, o addirittura in ozio della immaginazione (L'opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1 996, p. 6 8 ) .

I documenti da privilegiare, trattandosi di una storia della vita cultura­ le del mondo contadino lucano e delle sue vicissitudini, sono docu­ menti che in un primo tempo l'autore denomina «documenti del pen­ siero contadino»; ma questa locuzione viene subito abbandonata, evi­ dentemente perché troppo onnicomprensiva e vaga (e anche perché richiama troppo la nozione di mentalità primitiva del Lévy-Bruhl) . Il 94

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ricorso alla magia, specifico di questo mondo, verra mvece mano a mano inquadrato tra le forme di "miseria culturale" che a sua volta è il prodotto della somma di due miserie: quella psicologica e quella mate­ riale. Si dimostra quindi qui impiegabile il concetto di J an et di miseria psicologica che era stato escluso dall'armamentario del Mondo magico (in quanto applicabile solo a contesti europei): un concetto che si apre e chiude come un ventaglio e che ora torna utile, non tanto per l'inter­ pretazione quanto per la selezione e l'accorpamento dei documenti da raccogliere e studiare. Scriverà de Martino in seguito: Dal complesso delle ricerche è risultato che le forme di dissociazione della personalità, gli stati di sonnambulismo e oniroidi, gli impulsi automatici, l'eide­ tismo, le allucinazioni e la suggestionabilità sono largamente rappresentati fra i ceti più disagiati, e in particolare fra le donne. È stato inoltre osservato come molto spesso questi momenti di "miseria psicologica" intervengono in condi­ zioni di particolare affaticamento fisico, nel quadro dei modi di vita del mondo contadino lucano (per es. durante le lunghe marce dal paese al luogo del lavo­ ro o dal luogo del lavoro al paese; negli stati di sonnolenza durante i periodi di riposo dai lavori campestri, ecc.). Infine una larga parte dei fenomeni di !abilità della persona si è mostrata in rapporto stretto con la frequenza di esperienze traumatiche, cioè con l'imponenza della pressione che sulla persona è esercitata dalla frequenza e dall'intensità di stati esistenziali critici (pubertà, malattia, fame, morte; miseria e disoccupazione; segregazione e disagi connessi alla vita pastorale; ecc.) (Inchiesta etnografica in Lucania, 1 954, rist. in Mondo popolare e magia in Lucania, a cura di R. Brienza, Licata ed. , Matera-Bari 1 975, p. ro3).

I momenti critici, che mettono a repentaglio l'unità della persona, non sono quindi solo quelli relativi agli stati di "passaggio" : anzi, dal­ l' esemplificazione riprodotta esce forte l'ipotesi che tutte le ore e tutti i giorni della dura vita dei contadini lucani siano gravemente esposti alle insidie e agli attacchi del demone che ruba l'anima, perché que­ sto è il demone della miseria (personaggio mitico chiamato talvolta esplicitamente in causa dai soggetti afflitti da forme di dissociazione) contro il quale sono vane le preghiere in chiesa e le ricette del medi­ co condotto. Solo il mago può erigersi a difensore e confessore di questi "miseri " , nominando il male e integrandolo in un sistema ideo­ logico condiviso dalla comunità. Di queste pratiche magiche esistevano all'epoca ottimi cataloghi, accurate descrizioni e poche interpretazioni. Ma de Martino non si serve - pur tenendoli presenti - dei volumi fino ad allora pubblicati del manuale di Van Gennep ( relativo peraltro alle regioni francesi) o delle varie edizioni della Guida di Toschi o dei repertori di Casti­ gliani, Pazzini e Corso; si serve invece di Levi. Si serve cioè di un 95

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romanzo (o memoriale che fosse) e dei suggerimenti - dati a voce di uno scrittore, che tutto era tranne che un esperto di tradizioni po­ polari. Le ragioni di questo insistito richiamo a Levi sono almeno tre. La prima l'abbiamo già colta dal vivo nell'incalzante (anche se forza­ ta) comparazione di passi tratti dal Mondo magico e dal Cristo espo­ sta nel corso della conferenza al Gabinetto Viesseux: il mondo stori­ co attraversato da Levi, per ciò che esso presenta di arcaico e di " arretrato " , è lo stesso dei popoli primitivi delle civiltà etnologiche. Nell'uno e nell'altro appare la stessa situa­ zione esistenziale, la stessa disintegrazione della presenza rispetto alla storia, e pertanto gli stessi drammi culturali magico-religiosi. Nell'uno e nell'altro caso appare la stessa soggezione rispetto alla natura, la stessa mancanza di un piano umano per dominare l'ordine naturale. E nell'uno e nell'altro appare la stessa soggezione sociale rispetto alla civiltà cristiana [ . . ] (corsivo mio) . .

Un secondo motivo è più sottile, e si può rintracciare nella " disposi­ zione etnografica" dello scrittore, in quel suo sapersi calare nella di­ mensione magica della vita dei lucani recitando egli stesso, e con estremo garbo, la parte del mago. Ma quel che è più importante è che da questo esercizio di comprensioni scaturisce non solo poesia, ma anche indignazione: frutto di una tensione etico-politica che mai viene meno, e che attraversa pure le pagine più morbide e serene del libro. Di tutto ciò, de Martino non trova traccia nella letteratura spe­ cialistica, nelle "algide" e neutrali e spesso impacciate scritture dei folkloristi. Ed anche se è del tutto contrario alla possibile riduzione (o elevazione) del testo del Cristo a monografia antropologica, da esso trae la carica euristica che lo spinge a partire, nel duplice senso del termine, con un problema e un programma. E con ciò arriviamo alla terza e più pratica ragione del ricorso al testo e all'autore: il Cristo oltre che un libro da tenere a modello per lo stile e il tempismo con cui è stato scritto - è anche un insostituibile repertorio di luoghi, persone e casi da studiare, che permette all'etnologo di stendere a casa, prima della partenza, una mappa, un indirizzario e un'agenda di lavoro. Vale a dire: un itinerario comprendente i luoghi visitati da Levi ma anche le aree economicamente o politicamente più progredi­ te (dato che il progetto della raccolta di documenti folklorici progres­ sivi è ancora in piedi); i nomi veri dei personaggi del romanzo da contattare e da convertire in informatori (prima tra tutti Giulia, la mezza-strega di Sant'Arcangelo) ; e infine l'elenco dei casi di magia descritti o rievocati nelle pagine del libro, che de Martino intende "verificare" sul campo. Quest'ultima intenzione può sembrare oggi

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paradossale (si può "verificare un romanzo " ? ) , ma va presa per quel­ lo che è: non un programma scientifico, bensì una strategia di avvici­ namento, destinata ad essere sostituita sul campo da altre strategie. Quali sono i " casi " , le storie, gli esempi di magia lucana che de Martino estrae dal Cristo, per avviare la ricerca? Il libro, come è noto, non solo dedica a tal sorta di fenomenologia gli episodi e i per­ sonaggi più riusciti, ma è tutto costruito sull'alternanza tra tempo della fatica e tempo della magia, per cui ad ogni pagina il lettore può aver notizia di tesori nascosti e di incantesimi, di mali misteriosi e di licantropi, fino a non sapere più dove si trova, se in Lucania o in un romanzo di fine medioevo . . . Dalle Note preparatorie viene fuori tutto questo, alla rinfusa, come dal cilindro di un mago: de Martino sem­ bra interessato ad ogni più piccolo dettaglio e disposto ad andare a frugare dappertutto, negli angoli più bui e tra i sassi sotto il sole. Una credenza, in particolare, o una "mitologia" , lo intriga all'inizio: quella relativa ai "monacelli" (in lucano monachicchi) , pericolosissimi spiritelli che tormentano senza requie la povera gente. Il mito, perlo­ meno nella versione cristiana, li descrive come bambini morti senza battesimo - privi di identità ma non di leggiadria - che tornano tra i vivi a far dispetti, spesso crudeli. Levi, a differenza dei precedenti os­ servatori, aveva preso sul serio questa credenza, ma ovviamente non si era preoccupato di interpretarla. Né si era preoccupato di descrivere questi strani esseri con la relativa esattezza dell'etnografo: recuperando invece la tavolozza di colori della "sua" infanzia, e senza starei troppo a pensare, li aveva dipinti come i folletti delle fiabe del Nord . Opera­ zione scopertamente etnocentrica, che si era però dimostrata remune­ rativa sul piano dell'arte e della ricezione media, trasformando le pagi­ ne del Cristo dedicate ai monacelli in una sorta di intermezzo scespiria­ no. Operazione che naturalmente non sfugge a de Martino, che pro­ prio da queste pagine parte per erigere un ponte tra il Mondo magico e la magia lucana e sente appunto la necessità di "verificarle" nel corso della spedizione. I monacelli usciranno profondamente trasformati dal suo intervento epistemologico: da una parte verranno inseriti in un orizzonte mitico-rituale più vasto, dall'altra subiranno una metamorfosi drammatica, estranea alla rappresentazione stilizzata del Levi. Sul primo punto, in una delle Note di viaggio, si legge: alcune storie relative al monacello si spiegano con vere e proprie interruzioni della continuità unitaria della presenza. Molti " dispetti " del monacello non sono altro che atti compiuti in istato di coscienza dissociata, e possono rea­ lizzare impulsi rimossi. Naturalmente alla vista dei risultati di questi atti (p. es. la promessa sposa trova il suo corredo tagliuzzato) , risulta confermata la

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credenza nei monacelli: interpretazione del resto non molto lontana dalla ve­ rità, dato che quaggiù in Lucania si staccano di tanto in tanto dalle persone dei frammentini psichici relativamente autonomi e indipendenti, che si com­ portano proprio come degli spiritelli (p. r i i ) .

Frammentini, spiritelli che possono però, con un piccolo salto, passare dalla favola al dramma: diventando incubi, o bestie che ti prendono alla gola senza farsi vedere. Ed è questo il secondo aspetto che emerge dalla lettura di de Martino e che sembra toccare il tema, anche questo più ge­ nerale, delle possessioni. Ma dagli appunti stesi sul campo già si vede che questa troppo semplice connessione è destinata a cadere: come non va naturalizzata la possessione così non va naturalizzato il monacello, che non è altro che un "pretesto" per la messa in atto di tecniche di­ fensive e protettive più complesse. A de Martino in fondo non interessa sapere "chi è" il monacello e "cosa fa" : a lui interessa sapere " come ci si difende" dall'azione disgregatrice delle potenze liberate da una presenza in crisi. Per questo il lettore del Cristo si è fermato a Eboli rimarrà delu­ so dal progressivo disinteresse di de Martino non solo per i monacelli ma anche per tutti quei prodotti del pensiero magico lucano che aleg­ giano nel libro e che spetterà ad altri studiare (Branzini per esempio) con gli strumenti della filologia e della scienza del folklore. I temi magici desunti dalla lettura del libro di Levi si ridurranno a pochi, raggruppabili sostanzialmente in due classi: quelli relativi alle tec­ niche usate per fronteggiare le crisi di passaggio (gravidanza, puerperio, matrimonio, morte) e quelli relativi alle " cure" dei mali fisici e d'amore. Tutti temi che pur disponendo di un comune denominatore - e forse proprio perché il concetto che li accomuna è la " miseria psicologica" non si organizzano attorno a un problema storico unificante, proprio come le " superstizioni" e le "sopravvivenze" studiate dai folkloristi, a cui de Martino non intende aggregarsi. Da questa impasse - che fece ri­ tardare e poi impedì del tutto la costruzione del libro promesso - co­ munque egli uscì, nel giro di un anno, grazie a due decisioni che si rive­ larono fondamentali per il futuro delle sue ricerche. Per prima cosa, mette da parte - in sospeso - il materiale raccolto concernente fatture, incantesimi e rimedi, promettendosi di riprenderlo non appena avrà ac­ quisito nella sua mente il quadro storico in cui inserirlo; e al tempo stes­ so decide di concentrarsi sopra l'istituto culturale che si prospetta come un sistema protettivo già inquadrabile storicamente: il lamento funebre. I due piani, quello magico e quello canoro, su cui si era svolta la ricerca del 1 9 5 2 , vengono finalmente - se non a combaciare - ad interagire, so­ stenendosi a vicenda. Il lamento, a differenza delle forme di «bassa ma­ gia cerimoniale», sfugge all'isolamento del documento folkloristico e ha

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il pregio di presentarsi subito nella veste di problema storico: «il pro­ blema dei rapporti tra cristianesimo cattolico e paganesimo nelle cam­ pagne nei venti secoli di storia cristiana dell'occidente» ( 1 95 3 ) . La scelta è dunque pregna di sviluppi futuri: perché de Martino da questo mo­ mento concepisce il materiale etnografico che viene raccogliendo, di spedizione in spedizione, come una delle basi documentarie non per una opera sulla magia lucana e basta, ma per una più complessa storia religiosa del Sud, in più capitoli o libri si vedrà: una storia che tra i suoi propositi ha anche quello di strappare l'oggetto-magia dall'astorico e aculturale "paese delle meraviglie" in cui è stato fino ad allora confina­ to. Proposito, sia detto una volta per tutte, che non manda all'aria l'inte­ laiatura della storia del magismo da lui tracciata negli anni quaranta, ma che sconfessa certamente la nozione di "mondo magico" . Che fine fece il materiale relativo alla magia raccolto nel corso della spedizione del 1 95 2 e che doveva servire alla composizione di Magia lucana? Drasticamente selezionato, servì ad illustrare comunicazioni di diverso genere e livello, dal meditativo all'informativo e al divulgativo. Fra tutte spiccano le Note di viaggio, uscite su "Nuovi Argomenti" (una rivista più aperta di " Società" e probabilmente più letta) all'indo­ mani della spedizione e che suscitarono un enorme interesse. Appa­ rentemente diseguali e non organizzate secondo una precisa scansione, contengono pagine che sono tra le più lette e citate di de Martino, ma soprattutto si rivelano - specialmente oggi - come un esempio pionieri­ stico di diario di campo compilato a casa sul filo della memoria e con largo spazio riservato al controllo dell'indignazione politica e culturale accumulata nel corso del viaggio. Se Note lucane anticipava per certi versi i Tristi tropici ( 1 9 5 5 ) di Lévi-Strauss, Note di viaggio ha tra i suoi lontani precedenti un libro forse mai letto da de Martino, I'A/rique fantòme ( 1 93 8) di Leiris. E comunque si trattava di un modo di fare etnografia completamente nuovo in Italia, con un io narrante voluta­ mente e problematicamente ingombrante: un testo in cui i dati vengo­ no forniti solo per essere interrogati e in cui «non teorizzato, ma prati­ cato nella scrittura, il tema della soggettività - delle soggettività - emer­ ge perentorio, per proporsi come direzione esplorabile», come ha ben osservato Clara Gallini. Tuttavia lo scritto non riserva uno spazio auto­ nomo alla riflessione sulle pratiche magiche: i due filoni della ricerca canti e magia - sono ancora intrecciati, il concetto di "miseria psicolo­ gica" li stringe in una morsa che impedisce a de Martino di individuare e specificare i nessi tra la storia del Sud e le tecniche di destorificazio­ ne: nessi che verranno alla luce proprio nel momento in cui il pianto rituale verrà isolato dalla congerie di temi magici e canori ed elevato a 99

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oggetto principale di studio. Da quel momento in poi, e solo da quel momento (peraltro assai vicino), la magia potrà tornare ad essere con­ cepita come un insieme relativamente autonomo di pratiche e di cre­ denze da restituire alla storia, e alla storia specifica del Mezzogiorno. Il materiale del 1 9 5 2 fu anche utilizzato per altre occasioni, a sco­ po più divulgativo. De Martino se aveva qualche preconcetto nei con­ fronti della cultura " di massa " , si dimostrava - a differenza dei suoi colleghi - assai aperto riguardo ai mezzi di comunicazione di massa, come il cinema, la radio, la stampa quotidiana e anche i rotocalchi. In questo si dimostrava in linea con le posizioni più avanzate del par­ tito in cui militava, addirittura a volte travalicandole e giocando d'an­ ticipo . La sua presenza - poco "fisica " , ma intellettualmente incisiva - nelle pagine illustrate dei periodici più o meno popolari, per alme­ no un decennio fu costante e puntuale: nei mesi che seguirono la spe­ dizione in Lucania, i risultati dell'inchiesta vennero divulgati e pro­ blematizzati in una ventina di articoli e di servizi, spesso con il corre­ do delle fotografie di Pinna e il più delle volte su settimanali e fogli che raggiungevano un pubblico vario ma ricettivo come "Il Calenda­ rio del popolo" , "Vie Nuove" , "Il Mondo" e perfino il "Radiocorrie­ re" . Naturalmente è su " Società" o su "Lares " o, come abbiamo vi­ sto, su "Nuovi Argomenti" , che de Martino tiene aggiornati i lettori più interessati allo stato delle sue ricerche, ma l'impressione - assai avvertita all' epoca - che egli non si rivolgesse agli esperti del settore, ma appunto a un pubblico più vasto e politicamente motivato, non viene smentita dalla stesura fugace ed ellittica di queste relazioni, tut­ te scritte (con l'eccezione di Note di viaggio) più per espletare un compito promesso che per proseguire un discorso metodologico sulla elaborazione e la destinazione del materiale raccolto. Un altro canale utilizzato nei due anni successivi alla spedizione, fu quello della radio. Per la RAI, che aveva cofinanziato l'impresa, de Mar­ tino allestì una serie di trasmissioni che solo di recente sono state riesu­ mate da L. Lombardi Satriani e L. Biodi, dedicate tutte alla divulgazio­ ne del materiale sonoro registrato da Carpitella e dei documenti di magia raccolti dall'autore e dalla sua compagna. Il livello di queste tra­ smissioni è diseguale e i testi letti dallo speaker ci rimandano a un de Martino minore, in palese imbarazzo e incerto nella valutazione critica dei documenti offerti. Ma sono testi che vanno probabilmente letti proprio alla luce delle difficoltà che l'etnologo sta incontrando nella elaborazione del materiale raccolto, che non si organizza ancora attor­ no a un tema storico unitario. I dati relativi alla " magia lucana" si presentano in certo modo disgregati e isolati, e non a caso l'autore è costretto più volte ad usare termini vaghi come "superstizioni" , "reIOO

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litti " , "arcaismi " ; e questo non tanto (o non soltanto) per farsi com­ prendere facilmente dal pubblico radiofonico, quanto per tenersi nella zona franca del senso comune e rimandare a giorni più chiari la solu­ zione del problema. E il problema è la integrazione dei dati in un "plesso" storico meno angusto di quello fino ad allora individuato, dove è alto il rischio di tramutare la Lucania in un mondo a sé. La maggior parte dei dati raccolti viene quindi lasciata per il mo­ mento in sospeso, a decantare, e dal r 9 53 in poi, sicuramente fino al 1957, de Martino si immerge nello studio del lamento funebre, dedi­ cando ad esso tutte le attenzioni. Le successive (cinque) spedizioni in Lucania saranno dedicate quasi esclusivamente alla raccolta di testi di lamenti e all'osservazione di riti funebri, con qualche laterale indagine sulla mitologia del " cadavere vivente" : la magia, intesa come insieme di pratiche di "pronto intervento" , esce dall'orizzonte della ricerca, per riapparire solo nel 1 95 7 - quando il lavoro, prima etnografico e poi comparativo, relativo a Morte e pianto rituale è ormai giunto a termine - e de Martino, forte della compiuta esperienza storiografica, può con altro animo tornare al progetto accantonato quattro anni prima. Que­ sta ripresa d'interesse per la magia si traduce infatti in una nuova spe­ dizione - allestita in grande stile e congruamente finanziata - che si svolge nella tarda primavera del 1 95 7 e che intende studiare, ad Alba­ no lucano e nei paesi limitrofi, «i guaritori e la loro clientela» . Di questa ricerca - compendiata in un capitolo di Sud e magia, ma rimasta ancora sconosciuta nei dettagli - due aspetti ci interessano. Il primo riguarda l'équipe, che si presenta particolarmente nutrita, nono­ stante le assenze di Carpitella e di Pinna; l'etnologo e la sempre atti­ vissima compagna sono circondati da un vero stuolo di nuove acquisi­ zioni e soprattutto di nuove pertinenze: c'è lo psicoanalista (Emilio Servadio) , il medico (Mario Pitzurra), il sociologo (Adam Abruzzi), l'e­ sperto di comunicazioni di massa (Romano Calisi) e il fotografo che sostituisce Pinna (Ando Gilardi) . Ma la novità è rappresentata dall'ente committente, che è la Parapsychology Foundation di New York, lauta finanziatrice della inchiesta per diretto interessamento di Servadio . Quest'ultimo quindi partecipa all'iniziativa non nella veste di psicoana­ lista ma in quella di parapsicologo; e la cosa può apparire strana, aven­ do de Martino tagliato da un bel po' i ponti con la metapsichica. Ma evidentemente l'etnologo vuole ora affrontare il problema del ricorso alla magia dal punto di vista - anche - dei soggetti che offrono e chie­ dono servizi di questo genere, e deve quindi tener conto anche delle " categorie" entro cui si stabilisce il rapporto. E questa è la seconda novità che ci interessa. Nella spedizione del 1 9 5 2 , l'approccio alla ma­ gia lucana era avvenuto - in definitiva - all'insegna di schemi e struIO I

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menti di innegabile utilità euristica, ma più adatti alla raccolta che alla interpretazione delle credenze e delle pratiche e soprattutto delle moti­ vazioni che concernono la genesi, la funzione e la relativa persistenza dei predisposti apparati simbolici. Passata la temperie del folklore pro­ gressivo, lo studio di questi apparati richiede ora un approccio diverso, che rimanda inevitabilmente alla antologia del Mondo magico, riletta però alla luce del concetto di destorificazione impostasi nel frattempo. Anche nel regime esistenziale lucano viene individuato un "negativo" che non concerne soltanto la fame e la malattia, ma anche il rischio di naufragio della presenza: ed è su queste condizioni di permanente !abi­ lità che «si innesta la funzione protettiva delle pratiche magiche». La magia viene a coincidere con il rito, con la potenza del gesto e della parola cerimoniali e con l'istituzione di un piano metastorico che da una parte fornisce un orizzonte alle crisi e dall'altra funziona come strumento di destorificazione del divenire: il che consente di "stare nel­ la crisi" e di negarla al tempo stesso. Ma non basta. La finzione rituale è la condizione necessaria e tuttavia non sufficiente per il riassorbi­ mento del "negativo " : occorre anche un orizzonte mitico che inquadri le fascinazioni, le possessioni ecc. , in un insieme relativamente coeren­ te; e soprattutto occorre la figura - istituzionalizzata - dell'operatore magico, che sa a memoria il mito (la historiola) da rievocare e il gesto da compiere, in una parola il maciaro, o la maciara locale, di cui il soggetto si fida. Ed è per entro il sistema formato da queste coppie di relazioni (mito/rito, operatore/soggetto) che la magia lucana acquista quella dignità culturale e quella decifrabilità che consentono a de Mar­ tino di rieleggerla a oggetto di studio: oggetto meglio delineato rispetto al 1 95 2 e integrabile in un discorso di più ampio respiro . Nel frattempo è ripreso il faticoso lavoro di costruzione del libro . Già probabilmente prima della spedizione ad Albano lucano, de Mar­ tino ha cominciato a stendere la Prefazione, la "lista" dei temi da trat­ tare e una serie di riflessioni sul metodo da impiegare. Il taglio è an­ cora quello della monografia mirata, come si evince dal titolo ( che è sempre quello del 1 952-5 3 ) e dal sottotitolo che ora lo accompagna (Pratiche magiche e ciclo della vita umana nel folklore lucano), ma lo schema stenta a precisarsi. L'autore insiste, negli appunti stesi per la Prefazione, sul robusto filo che collega Il mondo magico a Magia luca­ na e anzi questa seconda è definita come «una verifica in miniatura» delle tesi esposte nel libro del 1 948, «assumendo come materiale da interpretare non già lo sterminato campo della magia presso le cosid­ dette popolazioni primitive attualmente viventi, ma il molto circoscrit­ to ambito dei relitti folklorici della magia nelle campagne della Luca­ nia» (dagli Scritti inediti sulla ricerca in Lucania, in "La ricerca folklo1 02

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rica" , 1 3 , 1 986, p. 1 2 ! ) . Una verifica però che non si propone come un "seguito" , sia pure in sedicesimo, del Mondo magico, ma come un perfezionamento e una correzione del metodo impiegato in quell' occa­ sione: lì «fenomeni diversissimi, appartenenti a civiltà diverse, erano ridotti violentemente ad un unico principio esplicativo», qui invece il campo è drasticamente delimitato e almeno a prima vista si presenta omogeneo, sia per le condizioni di esistenza che per la storia culturale. Per non aggiungere che lì l'esperienza etnografica diretta era del tutto assente, mentre qui c'è stato un contatto ravvicinato e prolungato con gli informatori; non con gli informatori utilizzati dai folkloristi tradi­ zionali (corrispondenti locali, sacerdoti, maestri delle elementari, medi­ ci ecc.), ma i portatori delle ideologie studiate: soprattutto donne, contadine e anziane. E anche se la documentazione raccolta presenta lacune e difetti - de Martino non è mai stato così severo con se stesso come nel corso della lavorazione di Magia lucana - il problema storia­ grafico che deve fornire la linea interpretativa di questi documenti è giunto ormai a definizione: il relitto folklorico non è un dato isolato e inerte, come è già emerso nella grande ricerca sul lamento funebre: «per lo studioso degli istituti storico-religiosi del mondo antico [esso] rappresenta una opportunità documentaria in dati casi non surrogabi­ le; [e] per lo studioso della espansione del cristianesimo nelle campa­ gne e della politica culturale della Chiesa il relitto folklorico attesta i limiti di espansione, in una data epoca, della civiltà religiosa egemoni­ ca, o i compromessi a cui fu costretta per penetrare in qualche modo in un ambiente sociale ostile o resistente» (dagli Scritti inediti sulla ri­ cerca in Lucania, cit., p. 1 2 2 ) . Il libro sarà quindi non solo il resoconto di una etnografia, ma sarà anche e principalmente un contributo alla storia delle religioni, e in particolare alla storia dei rapporti fra paga­ nesimo, cattolicesimo e mondo popolare lucano. In questa fase di transizione, in cui si delinea molto lentamente un nuovo progetto di libro, la sezione etnografica viene progressiva­ mente asciugata e snellita: si riducono o addirittura scompaiono i temi favolistici, come i " monacelli" e i tesori nascosti, suggeriti dalla lettura di Cristo si è fermato a Eboli, mentre si irrobustiscono i motivi che rimandano al tema della "fascinazione" , inteso ormai quest'ulti­ mo come «il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale luca­ na», e subentrano i risultati della ricerca sui guaritori di Albano. Pro­ babilmente, alla fine del 1 9 5 7 , Magia lucana ha finalmente trovato il suo assetto definitivo. Ma per diventare libro - per convertirsi nella prima parte del futuro Sud e magia - deve diventare "problema" a tutto raggio: il nesso magia-cattolicesimo, balenato negli appunti pre­ paratori, va in altre parole individuato in qualche nodo cruciale e do1 03

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cumentato. Il tutto avviene in pochi, intensissimi mesi, e già nell'a­ prile del 1 9 5 8 in un articolo-resoconto apparso su " Tempi moderni " intitolato Miseria psicologica e magia in Lucania, de Martino spiega il ricorso alle cure magiche non solo rimandando alle pessime condizio­ ni igienico-sanitarie, alla impreparazione dei medici condotti e alla ca­ renza di forme assistenziali, ma rimandando anche - specialmente nei casi di dichiarata o presunta possessione spiritica - a un altro ordine di cause storiche, che pone in primo piano il ruolo giocato dalla Chiesa. Sono pensieri che già covavano nelle note stese prima della famosa spedizione del 1 9 5 2 e nelle glosse a Gramsci, e che avevano poi trovato vie di agglomerazione nella seconda parte di Morte e pianto rituale, ma che solo ora vengono recuperati per dare un senso e un respiro ai documenti di sopravvivenze magiche: Vi è infine un'altra indicazione che favorisce nel complesso il mantenersi del ricorso a guaritori e a fattucchiere nei villaggi lucani più arretrati. Quando noi ci stupiamo che questo ricorso sia possibile ancor oggi, e leviamo scandalo che nel mondo moderno le pratiche superstiziose siano ancora in atto come co­ stume e come tradizione, dimentichiamo di solito di misurare in concreto il grado di disorganicità che in un dato ambiente hanno di fatto tali pratiche rispetto alle forme superiori di vita culturale. Dimentichiamo in particolare che il cattolicesimo ha una sua demonologia e una sua pratica dell'esorcismo, come anche una sua ideologia intorno alle guarigioni miracolose e ai miracoli della Chiesa che continuano la taumaturgia di Cristo e sono motivo di credibi­ lità della Chiesa stessa: pertanto il ricorso all'esorcismo più o meno pagano di guaritori e fattucchiere apparirà un fatto culturalmente disorganico quando sia astrattamente misurato con l'unità di misura di concezioni razionalistiche della vita e del mondo, ma l'apparirà relativamente di meno nel quadro della vita religiosa di villaggi come quelli da noi visitatz; dove la Chiesa e il suo clero esercitano una influenza notevole nel governo delle anime, e dove i temi dell'e­ sorcismo contro le potenze demoniache e delle operazioni taumaturgiche /anno parte della stessa /orma egemonica di religione. Com'è noto la ideologia cattoli­ ca dell'esorcismo solenne trova espressione ufficiale nel rituale romano, dove il suo impiego è previsto negli stati di possessione [. ] (da Mondo popolare e magia in Lucania, cit., p. 1 5 6 , corsivo mio) . ..

E pur constatando il graduale abbandono della pratica esorctsttca da parte della Chiesa (che ha preso sempre più a distinguere i posseduti dal demonio dai soggetti psichicamente disturbati) e la consolante scomparsa delle demonopatie a carattere collettivo, tuttavia è da tenere ben presente che in passato «il clero in lotta contro i residui di pagane­ simo soprattutto nelle campagne fu costretto ad andare incontro alla forte richiesta di interventi esorcisticz; dando luogo alla trasformazione di anti­ chi scongiuri pagani in scongiuri più o meno cristianizzati che di fatto ri-

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sentono della influenza diretta o indiretta della Chiesa anche se non en­ trarono mai, com'è ovvio, nel culto ufficiale» (ivi, p. 1 5 7 , corsivo mio). Queste considerazioni consentono di leggere in una doppia chiave (protettiva e sincretistica) i numerosi esempi di scongiuri raccolti nel 1 9 5 2 : sia quelli contro l'emicrania o l'ingorgo mammario, che quelli contro il malocchio o le tempeste. Preceduti in genere o seguiti dal segno della croce e dall'appello alla Trinità, questi scongiuri venivano un tempo ritenuti (dai folkloristi ma anche dagli osservatori medio­ colti) prodotti spontanei od occasionali di una riplasmazione operata direttamente dal Popolo con la p maiuscola. «Ma troppe cose - ag­ giunge de Martino - sono state attribuite a questo ente misterioso e inafferrabile, le quali viste più da vicino, sono in realtà il prodotto di un centro organizzato di vita e plasmazione culturale, che nel caso in esame potrà essere stato almeno in parte lo stesso clero secolare locale e gli stessi ordini religiosi» (ivi, p. 1 5 8 ) . E la posta in gioco è alta, perché ad essere conteso non è solo il terreno dei culti tradizionali, ma anche il mondo delle idee. La polemica del sacerdote contro il mago comporta, come abbiamo visto, la polemica sui miracoli "veri " della religione e i miracoli "falsi" della magia: e come la religione non è una, come il cristianesimo non è uno, così è relativo il concetto di magia. Una cosa è la magia primitiva, un'altra è la magia rinascimentale e un'altra ancora è la magia delle campagne lucane negli anni cinquanta, quella che de Martino chiama ora «bassa magia cerimoniale». E con ciò torna alla ribalta uno dei postulati della Storia del magismo pro­ gettata quasi vent'anni prima: «la civiltà moderna nasce nel momento in cui essa, con la Nuova Scienza, sceglie di rinunciare una volta per tutte alla magia, e di combatterla in nome della razionalità», come scri­ veva nella lettera citata più sopra a Omodeo. Solo per entro le vicissi­ tudini di questa lunga battaglia, da cui è sorto il concetto occidentale di "magia" , il documento magico può tornare a vivere come oggetto di studio. Resta solo da circoscrivere l'area culturale in cui l'alternativa tra magia e razionalità è stata vissuta più drammaticamente che altrove: ma qui de Martino, che non ha mai smesso di meditare Croce, ha di fronte una via già segnata nella sua mappa mentale, e può anche anticipare la direzione che la ricerca sta prendendo: «da un punto di vista storia­ grafico il materiale relativo alle attuali sopravvivenze magiche in Luca­ nia può trovare posto e significato soltanto in quella storia religiosa del regno di Napoli che, in un certo senso è ancora da scrivere» (corsivo mio). Una storia diversa e più infera di quelle scritte dal Giannone e dal Croce, che lui ha già cominciato a delineare in Morte e pianto ritua­ le e che ora si propone di continuare con un secondo volume, che s'intitolerà Sud e magia, e un terzo che verrà: La terra del rimorso. 1 05

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magia

Siamo arrivati al punto di coagulo e di arrivo di questo lungo capito­ lo, in cui abbiamo assistito alla complessa gestazione di Sud e magia, il libro forse più letto (e certamente più venduto) del nostro autore, ma anche paradossalmente il meno trasparente dei libri che ha scrit­ to. In parte ciò è dovuto al fatto che la prima parte è il risultato di un lavoro molto diluito nel tempo - cinque o sei anni - mentre la seconda è il frutto più che maturo di pochi e concentrati mesi di ful­ mineo passaggio alla scrittura. A prima vista, le due parti sembrano nettamente distinte - etnografica la prima, storiografica la seconda ma a una lettura più attenta ci accorgiamo che la struttura è triparti­ ta, ed è la stessa che intravediamo nelle altre opere demartiniane. Detto molto schematicamente: l'autore prima spiana davanti al lettore i dati etnografici relativi alle pratiche magico-religiose prese in consi­ derazione; poi passa a interrogare questi dati per individuarne, alla luce della teoria della crisi della presenza, la funzione protettiva; e poi ancora, allargando l'orizzonte spaziale e temporale dell'indagine e ricorrendo alla comparazione, apre grandi squarci sul passato e il fu­ turo di questi istituti culturali, recuperandoli alla anamnesi storica. La Prefazione con cui si apre Sud e magia ha poco a che vedere con il precedente abbozzo: scritta evidentemente all'ultimo, quando il libro aveva assunto la forma definitiva, chiarisce subito quale è il problema storico che restituisce unità alle varie parti dell'opera (oltre che alle varie fasi della ricerca): pur proponendosi un compito a detta dell'au­ tore «molto circoscritto e modesto», il saggio vuole essere un contribu­ to alla determinazione dei modi in cui «la vita culturale del sud ha partecipato consapevolmente alla grande alternativa fra magia e razio­ nalità da cui è nata la civiltà moderna» (p. 7) . Quanto al metodo, c'è un esplicito rimando a Morte e pianto rituale e un implicito invito a leggere le due opere come il frutto di un'unica, grande ricerca durata sette anni (de Martino non lo dice, ma dalle sue carte risulta che aveva pure tentato di leggere il lamento funebre come una forma di "incante­ simo" , riconducibile alla logica delle pratiche magiche) : sono due viag­ gi nello spazio e nel tempo, che partono da una comune base docu­ mentaria - uno sconcertante insieme di relitti folklorici - che funge da stimolo a due ricerche storico- religiose distinte: mentre la prima ha ri­ costruito «quel particolare modo di risoluzione culturale della crisi del cordoglio che si espresse nel pianto antico e che ebbe validità egemoni­ ca sino all'avvento del Cristianesimo», Sud e magia intende invece «uti­ lizzare il materiale relativo alla magia lucana come istanza documenta-

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ria che ci aiuta a individuare nella stessa alta cultura del sud alcune arretratezze rispetto ai corrispondenti livelli europei» (p. 1 2 ) . Segue la sezione etnografica, che conserva del libro progettato sei anni prima solo il titolo e solo una selezione degli argomenti a suo tempo allineati: " depurata" di tutti quei frammenti di magia che giusto il libro di Levi poteva far stare insieme, e arricchita dei risultati della ricerca sui "guaritori" , la sezione si avvale ora di un preciso baricentro: il tema della fascinazione, su cui poi poggerà l'intero libro. Con questo termine de Martino intende «una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l'autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta». La fascinazione è però, sempre, un rapporto a due, che suppo­ ne una vittima e un agente: e quando quest'ultimo assume fattezze umane la sindrome si organizza attorno al motivo mitico dello " sguar­ do invidioso" e richiede un trattamento particolare, tradizionalmente affidato a operatori magici, specializzati appunto nella cura del maloc­ chio. Ed è su queste cure, e soprattutto sul momento dello scongiuro, che de Martino si concentra: ma lo scongiuro lo interessa non come "dato" (non prova nemmeno a comparare gli scongiuri lucani con gli scongiuri siciliani raccolti nel 1 95 3 da Bonomo) , e nemmeno come au­ tomatismo di gesti e parole (in cui l'aspetto psicopatologico prevale sul culturale) : lo interessa per la regolare recitazione, al suo interno, di un exemplum mitico, la historiola, che trasferisce l'operazione sul piano metastorico e che permette di interpretare l'istituto non come un re­ litto folklorico ma come un complesso mitico-rituale, ossia come un oggetto che pertiene alla storia delle religioni. Come si vede, è scomparso lo schema " dalla culla alla bara " . I dati etnografici, organizzati quasi tutti per entro il tema unificante della fascinazione, sono presentati nudi e asciutti - senza il soccorso di note esplicative - al digiuno lettore, e ciò crea una situazione di sconcerto e di attesa che si allenterà solo all'inizio della seconda par­ te, quando i dati verranno illuminati da una interpretazione comples­ siva. Non si tratta soltanto di un sapiente montaggio : de Martino ha voluto in certo modo far rivivere al lettore le fasi della storia del pro­ prio rapporto con la "magia lucana" , costringendolo a fare lo stesso sforzo intellettuale da lui compiuto. Lette in questa chiave, le pagine che aprono la parte del libro intitolata Magia, cattolicesimo e alta cul­ tura, ricordano - per il vigore e il pathos che le attraversano - le pa­ gine centrali del Mondo magico: lì lo stato latah e la condizione olon venivano ricondotti al dramma di una presenza che si dissolve senza compenso, in cui «il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo star1 07

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mir delle foglie, diventa un albero le cui foglie sono agitate dal ven­ to»; qui la potenza del negativo - un negativo che riflette ma anche oltrepassa la fame, la miseria, la malattia e si apre al rischio del nau­ fragio della presenza individuale - viene rappresentata dall'esperienza (studiata a fondo da Janet) dell'essere-agiti-da. Esperienza che a sua volta si configura in eventi morbosi che vanno dal sentimento di vuo­ to ( spersonalizzazione) , al vuoto che si riempie dell' " altro da sé" ( de­ lirio di influenza o dominazione), fino agli stati di possessione in cui la presenza non è più una fortezza assediata, ma una rovina occupata dal nemico, integralmente. E contro questo negativo al quadrato, il contadino lucano - a differenza del primitivo che può avvalersi di un sistema ben integrato di soccorsi istituzionalizzati - non dispone di altra arma che quella della negazione, la cui efficacia protettiva è pre­ caria ed esilissima. Di qui un regime di esistenza esposto agli scacchi e alle inadeguatezze dei dispositivi messi pateticamente in atto e l'im­ possibilità di conoscere, per le vie della magia, la soluzione del ri­ scatto. Qui non vige un concetto di realtà diverso dal nostro, non c'è spazio per i cosiddetti "poteri magici " : contro la potenza del negati­ vo, in Lucania, non si leva alcun «eroe della presenza» e quella anzi degli operatori locali non è altro, alla fine, che una occultata impo­ tenza. E si capisce a questo punto perché i dati della magia lucana avevano costituito, per tanto tempo, un problema per de Martino : non inquadrabili nella teoria della magia avanzata nel Mondo magico (e probabilmente non inquadrabili in nessuna teoria della magia) , essi sono destinati - se non inseriti in altro più generale contesto - a re­ stare imbrigliati nella melma astorica della «miseria psicologica» . In questa parte del libro, in cui de Martino utilizza finalmente e distesamente anche i "taccuini di viaggio" redatti nel corso delle spe­ dizioni, serpeggia un umore nero e una non-condivisione dello spirito delle pratiche registrate, che all'epoca almeno in parte sfuggirono: de Martino sembrava stare in toto dalla parte dei contadini lucani e "sembrava" in certo modo giustificare col senno dell'etnologo e del meridionalista ogni forma di miseria culturale. Ma questa disposizio­ ne si esaurisce nel momento i cui i dati etnografici vengono sottoposti al giudizio storico: la pietas, pur presente, è ben lungi da quella che attraversava Note lucane, non c'è più alcun indugio sulle ferite e sui gesti che le lavano, l'occhio è asciutto. È un mondo quello che al di là delle fugaci apparenze non ha nulla di nobile e di antico, e che è destinato a scomparire senza rimpianti (ma attenzione: de Martino non dice che si deve fare in modo che scompaia; dice che è giunta l'ora per le genti meridionali di «abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia») . Come si fa a " rimpiangere" , tanto 1 08

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per fare un esempio, la povertà culturale dell'espediente che si usa in Lucania contro l'ingorgo mammario? L' historiola chiama in causa il quatacomero - una sorta di nanetto deforme e barbuto - che irriso da un gruppo di donne si vendica trapassandole i seni con un pelo della barba: rabbonito dallo scongiuro, il nanetto provvederà a disfare lui stesso il malefizio. Ci troviamo qui, dice de Martino, dinanzi a una delle più anguste forme di magia: L'angustia concerne in primo luogo il tecnicismo magico, che dà orizzonte soltanto a un modo particolarissimo della crisi esistenziale e che destorifica un solo particolarissimo aspetto del negativo, esibendo un exemplum il cui impie­ go vale solo per tale aspetto. In secondo luogo l'angustia concerne il valore mediato, che non va oltre il senso morale di fiducia e di sopportazione che nasce dall'attraversare la malattia 'come se' si fosse già guariti (p. 8 8 ) .

L'efficacia simbolica non basta, in altre parole: occorre che i simboli - per assolvere alla loro funzione culturale - facciano parte anche di un insieme integrato e coerente, tale da dischiudere valori e prospet­ tive. La " bassa" magia cerimoniale lucana, anche se fa ricorso ad ap­ parati mitico-rituali strutturalmente simili a quelli diffusi presso i po­ poli cosiddetti primitivi, non sembrerebbe a questo punto configurar­ si in nessun modo come un "mondo" magico comprensibile alla luce della ragione storica, e qui il discorso potrebbe chiudersi, se de Mar­ tino non operasse l'ulteriore sforzo di inquadrare i presunti relitti nel­ la storia dei rapporti tra magia e cattolicesimo, tra forme subalterne di cultura e forme egemoniche. Torniamo, per non cambiare registro, all'esempio dell'ingorgo mammario. Il gran numero di versioni dell' historiola insiste sulla me­ desima struttura del mito: alla colpa (il riso) fa seguito la punizione (il pelo della barba che si trasferisce nel seno della donna, occluden­ do il condotto del latte e procurando freddo e febbre) e il cerchio si chiude con il pentimento, il perdono e lo scioglimento del malefizio. Ma l'agente non è sempre uno spirito risibile e vendicativo come il quatacomero - il nanetto deforme e barbuto che abbiamo incontrato a Grottole e Colobraro: a Tricarico è un frate, a Campomaggiore è un santo (Marciano) e a Pisticci viene addirittura identificato con la persona di Gesù. In quest'ultimo caso l'historiola ha tutti i crismi di una pia leggenda dall'andamento ben noto: alla porta di una puerpe­ ra bussa Gesù in cerca di riparo dalla pioggia, ma la donna non si fida di quell'uomo barbuto e lo tratta con sospetto; l'ospite allora la punirà, trasmettendole un pelo della barba nella menna gonfia di lat­ te, e solo quando la vedrà pentita disferà la fattura.

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Ora, queste non sono variazioni, ma riplasmazioni del tema, che resta strutturalmente identico ma si presenta pedagogicamente orien­ tato. Anche contro il feroce mal di testa da sole, l'invocazione al dio uranico, che levandosi leva il male, si arricchisce in taluni casi del parallelo tra il movimento del sole e la possente "levata" del Salvato­ re, che risorgendo cancella i mali. Il passaggio a un grado "meno bas­ so" di magia è appena percettibile nel profilo di questi esempi: il rac­ cordo tra mito e rito è fragile e meccanico, e l'orizzonte che l' exem­ plum dischiude resta angusto, circoscritto alla soluzione immediata di un male particolare e irrimediabilmente legato al contingente, senza prospettive e senza alcun spiegamento di un ventaglio di valori. Tut­ tavia de Martino non vuoi cadere, come tanti suoi compagni di ideo­ logia, nella trappola illuministica del rifiuto in toto delle forme di mi­ seria culturale, e scorge per entro i sincretismi appena citati l' apertu­ ra di uno spiraglio: essi comunque rimandano, sia pure confusamente, a un orizzonte mitico, che è quello cristiano, e chiamano in causa la figura di un esorcista esemplare - Cristo - il cui gesto salvifico va ben oltre la cura delle emicranie o degli ingorghi mammari. Ed è natu­ ralmente al cristianesimo, a quella forma egemonica religiosa che è il cattolicesimo, che si deve la sopravvivenza non inerte di questi fram­ menti lucani di magia: il clero, alla cui influenza diretta o indiretta sono dovute queste manifestazio­ ni di sincretismo e di riadattamento, intuì la funzione pedagogica di raccor­ do che, nelle condizioni date, veniva a stabilirsi, anche se soltanto su un pia­ no elementare: lasciò quindi che gli scongiuri pagani fossero a imitazione de­ gli esorcismi cristiani, aperti o coronati da segni di croce e da preghiere, so­ stituì alle historiolae pagane quelle cristiane, e si provò persino a sostituire alle historiolae veri e propri espedienti mnemonici per meglio fermare nelle menti i temi della religione cristiana (p. 8 9 ) .

Anche sul piano teorico, il fatto che la magia lucana " comunichi" con i temi fondamentali del culto cattolico e persino con i sacramentali e i sacramenti non costituisce un problema particolare e conferma sem­ mai il non netto confine che separa la magia dalla religione. Qui de Martino non fa che ribadire un punto che era alla base del suo pen­ siero etnologico-religioso già negli anni delle prime speculazioni: le religioni - nel senso proprio, collettivo del termine - non possono per definizione fare a meno di un nucleo mitico-rituale che le con­ traddistingua, di un apparato di segni " esteriori" che sottolinei la so­ lennità delle pratiche, e di un ricorso più o meno continuo alle regole del pensiero magico, le sole in grado - insieme alla fede - di sosteneIlO

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re il peso dei " misteri" che gravano sulla trasparenza del sistema di simboli a cui ci si affida. Il cattolicesimo, forse più di altre confessio­ ni, ha da sempre intessuto con la magia un fitto dialogo, anche quan­ do è parso muoversi sul filo della polemica o sul filo più esile del compromesso. Un dialogo, s'intende, mai aperto e ufficializzato, che ha però invigorito il cattolicesimo, specialmente quello meridionale, non solo favorendo la moltiplicazione dei miti e dei riti, ma incu­ neandosi anche nel rapporto tra operatori e devoti. Con ciò de Martino prende una posizione decisamente originale, rispetto alle accese discussioni dell'epoca che partivano di norma dal­ la stolida riaffermazione di due stereotipi largamente diffusi e artifi­ cialmente contrapposti: un Sud superstizioso e paganeggiante da una parte, un Sud ligio e religiosissimo dall'altra. La terza via perseguita tenacemente dal nostro autore può essere oggi definita, parafrasando Geertz, una sorta di sorvegliato anti-anti- cattolicesimo: nel senso che viene riconosciuto lo spessore culturale dell'azione non smantellatrice esercitata dalla Chiesa e dai suoi rappresentanti più impegnati (alme­ no a partire dal Concilio di Trento) nella politica di una convivenza pacifica. E fin qui la linea sembra proseguire il discorso iniziato da Gramsci; ma subito prende un'altra direzione, perché diversa è la concezione demartiniana della funzione assolta dalle forme di religio­ sità popolare: ai gesuiti e agli umili parroci del Sud viene riconosciu­ to anche il merito di avere fatto del tutto per rimodellare, e non estir­ pare alle radici, queste formazioni culturali che permettono ai tribola­ ti comunque di " esistere" . Ho parlato di un de Martino qui (e in generale) anti-anti-cattoli­ co; e non vorrei essere frainteso. La sua non è una scelta del "male minore" o una resa di fronte alla violenta campagna di rivincita cul­ turale messa in atto dal Vaticano nel decennio 1 94 8 - 5 8 ; la sua resta una scelta come sempre laica, doppiamente laica anzi, in quanto in­ tende aggirare sia il settarismo anticlericale che la polemica confessio­ nale. Che a volte, anziché annullarsi a vicenda, finiscono col coincide­ re, almeno negli effetti. È il caso di certa storiografia di matrice pro­ testante (il principale bersaglio di de Martino è il Trede, autore di una monumentale e caustica storia della Chiesa romana) che tende a vedere nel cattolicesimo popolare una specie di squilibrato sincreti­ smo che attesterebbe, in certe zone come il Sud d'Italia, la mancata vittoria del cristianesimo sul paganesimo . La tesi è rozza e lardellata di luoghi comuni, ma de Martino deve demolirla proprio perché è una tesi largamente diffusa, anche tra chi non ha letto né leggerà mai il Trede. Primo punto, l'equazione " culto dei santi politeismo" è insostenibile, è come equiparare il culto degli eroi al culto degli dei: i =

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primi sono uomini divini, che agiscono per entro le categorie di spa­ zio, tempo e persona, mentre i secondi sono esseri soprannaturali, che trascendono le sorti umane; quindi il parallelo vale solo per il luogo, il tempo e il nome che vengono impiegati per dare continuità al culto, ma non concerne la tipologia del rapporto che viene instau­ rato tra soggetto e oggetto, ovvero tra gli attori della rappresentazio­ ne del negoziato. Secondo, il ricorso al concetto di " sincretismo" ha più il sapore dell'invettiva interconfessionale che le proprietà di una definizione: è vero che anche a de Martino sfugge questo termine, che all'epoca veniva usato dai più come sinonimo di "miscuglio " , ma è anche vero che nel passo sopra citato, e in altri luoghi del libro, egli tiene subito a precisare il significato che attribuisce alla parola, che è quello di «riadattamento». In altre parole, non ci troviamo di fronte - dice - alla convergenza nel Sud tra elementi di due diverse civiltà religiose: il paganesimo è ben morto ovunque, e solo a titolo di insulto - o di vagheggiamento - viene di volta in volta resuscitato e riproposto come " sopravvivenza" o "essenza" , dimenticando che que­ st'impiego del termine aveva un senso unicamente nelle stratigrafie degli evoluzionisti (o per altro verso nelle mitologie del neopaganesi­ mo storico-religioso) . Gli elementi che ci "turbano", per l'incon­ gruenza o la marginalità, non fanno parte di un incontro-scontro tra universi religiosi che ancora si fronteggiano, ma di «una rete di co­ municazioni e di raccordi dal basso verso l'alto, del subordinato e del frammentario verso l' egemonico e l'unificatore» (p. 9 5 ) che denuncia­ no e descrivono i dislivelli di cultura presenti nella struttura di una religione complessa e pervasiva come la cattolica. E questo è il terzo, forse il più importante, dei temi che una storia religiosa del Sud do­ vrà affrontare; una storia che non ha precedenti nel nostro panorama culturale e che de Martino, con maggiore consapevolezza rispetto a Morte e pianto rituale, sente di avere iniziato a stendere, mantenendo una promessa stipulata con il lettore sette anni prima. Nell'ultima parte del libro - quella che possiamo chiamare più a ragione la pars costruens - de Martino comincia dal terzo dei punti di questo programma storiografico, e come aveva già fatto in Morte e pianto rituale traccia un ponte tra il documento etnografico raccolto e i documenti scritti che riflettono l'interpretazione "alta" dei fenomeni presi in considerazione. E dato che il fenomeno a cui ha prestato maggiore attenzione nella sezione etnografica è quello della fascina­ zione, il compito si presenta alquanto complesso e non privo di rischi metodologici: si tratterà infatti di stabilire la posizione, o meglio le posizioni assunte dalla cultura alta riguardo a temi - come il maloc­ chio e la iettatura - che non fanno parte soltanto del patrimonio II2

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ideologico delle classi subalterne, ma al contrario hanno costituito un problema (non importa se esplicitato) anche per i ceti alfabetizzati e più abbienti. Pure qui, come nel precedente libro, il materiale da prendere in esame è a dir poco sterminato, oltre che eterogeneo: dal­ le fonti classiche si passa alla demonologia tardo-medievale, alla pole­ mica anti-magica dei filosofi rinascimentali e alla trattatistica degli il­ luministi, fino alla grande letteratura romantica imperniata sul perso­ naggio dell'uomo (o la donna) "fatale" , che fascina e distrugge con lo sguardo. Troppa carne al fuoco, e troppe vie da percorrere all'interno di un unico, coerente e unitario discorso, che nella mente dell'autore è già chiaro da anni, ma che il lettore non è pronto a seguire fino in fondo. Per cui de Martino è costretto, ancora una volta, a intervenire sulla struttura del libro, rinunciando quasi del tutto alla ricostruzione del filo rosso evidenziato nella Prefazione (il conflitto storico tra ma­ gia e razionalità) e a concentrarsi, per quel che riguarda la credenza nel malocchio, sopra una sola ma esemplare vicenda: i modi in cui è stata elaborata e discussa un'ideologia della iettatura nel comparti­ mento culturale del Regno di Napoli, e precisamente nel secolo che segna il trapasso dalle mitologie dell'illuminismo alle mitologie del ro­ manticismo. Alla ricostruzione del conflitto tra magia e razionalità da cui è nata la " civiltà moderna" , de Martino dedicherà un libro auto­ nomo, Magia e civiltà concepito come una sorta di antologia ragio­ nata degli studi sulla magia in generale, ma da leggersi come un frut­ to tardivo di quel progetto (la Storia del magismo) che lo aveva ap­ passionato ed estenuato vent'anni prima -: un libro, uscito nel 1 9 6 1 presso Garzanti e sicuramente catalogabile tra l e opere dello studioso dall'architettura meno solida e chiara. Mentre al problema dei rap­ porti tra iettatura e alta cultura napoletana saranno dedicati gli ultimi tre capitoli di Sud e magia, pensati come un'anticipazione di quella "non-storia" del Reame di Napoli che farà da sfondo alla storia dei livelli e delle forme di vita magico-religiosa. Perché è bene ricordarlo: siamo nel regno di Croce, o comunque in quello che era il suo regno. In questa ultima parte del libro, due sono i punti in cui de Martino rimedita Croce: quando ricorre ap­ punto al concetto di non-storia del Regno e quando traccia una nuo­ va interpretazione del famoso libello del Valletta sulla iettatura, stu­ diato a suo tempo anche dal Croce. Sul primo punto c'è poco da dire: la storia del Sud è una storia «particolarmente ingrata, e difficile da narrare», a differenza della storia di altre parti dell'Italia, perché è una storia che non partecipa al vasto processo commerciale e indu­ striale che si svolge in Europa e dà il nerbo a tante altre formazioni politico-sociali: solo sul piano speculativo, con i vari Bruno e Campa-

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nella, l'Italia meridionale ha lasciato un segno, marcando a suo modo il trapasso dalla civiltà feudale a quella moderna, un segno che tra il Seicento e il Settecento si è tradotto in un risveglio culturale e morale e in una forte partecipazione al movimento illuministico, con gli scrit­ ti del Giannone, del Genovesi, del Filangieri e soprattutto del Vico, la cui Scienza Nuova si inerpica in zone occluse alla ragione degli illu­ ministi. Ma anche in questo, che rappresenta il momento più alto e " civile" della storia del Regno, un limite è pur presente: la quasi tota­ le disattenzione - frutto anche di ignavia intellettuale - per il pro­ blema della religione tradizionale e la conseguente posizione di non­ intervento nei confronti della persistenza di forme di " superstizione" che al contrario formavano l'oggetto della corrosiva critica di altri il­ luminismi, come l'inglese o il francese. L'illuminismo napoletano, in altre parole, non ha preso compiutamente coscienza della alternativa tutta moderna tra magia e razionalità, e a livello pratico ha optato casomai per forme di compromesso. Al punto che anche credenze come quella nel fascino o nella iettatura - in cui si dispiega la po­ tenza del negativo che grava sulle vicende del Regno - diventano nei circoli illuministi napoletani oggetto non di critica ma di scherzo e bagattella. Ma è proprio a partire dall'accertamento di quest'ultimo dato che de Martino, fin qui d'accordo con la ricostruzione crociana, comincia a distaccarsene. La letteratura folklorica, al pari della letteratura di viaggio e della meno innocente storiografia protestante, tendeva a non distinguere il malocchio dalla moderna iettatura, descrivendo di norma quest'ultima come una sopravvivenza del primo oppure adottando la fissità delle classificazioni tipologiche (natura intenzionale e cerimoniale del ma­ locchio, involontarietà e imprevedibilità della iettatura ecc. ) . Per que­ sti autori, inoltre, e per l'opinione corrente, i due fenomeni sfuggiva­ no a ogni determinazione storica e geografica, collocandosi nella sfera degli "universali" dai tanti nomi. De Martino invece intende dimo­ strare proprio il contrario, e cioè che l'ideologia della iettatura è un prodotto culturale moderno, elaborato nel Settecento da una classe medio-alta e in un preciso centro urbano - Napoli, come hanno nota­ to per primi i viaggiatori - da cui si è poi irradiata, diffondendosi in tutti i ceti dell'Italia meridionale - magari perdendo per strada e col tempo l'iniziale carica intellettuale - senza però mai rinunciare a con­ figurarsi come una forma di compromesso tra l' antico tema della fa­ scinazione e i moderni temi del razionalismo illuminista. Il testo che fissa, e in un certo senso anche /onda l'ideologia della iettatura è la famosa Cicalata sul /ascino, volgarmente detto jettatura, pubblicata nel 1 7 87 (naturalmente a Napoli) da un professore uni1 14

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versitario, docente in Diritto civile, Nicola Valletta, che la scrisse più per sé e per gli amici che per i posteri, senza nemmeno immaginare il successo clamoroso che avrebbe riscosso, dando vita a una moda, a un genere e a uno stile discorsivo che si usa collocare "tra il serio e il faceto " . E proprio perché non opera di scienza, né di eccelsa lettera­ tura, ma di inusitata fortuna, il trattatello suscitò anche l'interesse di Croce che nel 1 945 fermò il suo parere in un saggio uscito sui " Qua­ derni della Critica " , rifuso poi in un capitolo della Letteratura del Set­ tecento. Amalgamando l'antica passione per l'erudizione con l' accen­ tuato cinismo del dopoguerra, il Croce qui attestava la non sostanzia­ le novità della Cicalata come genere, ricollegandola al poemetto di tipo bernesco, che nei secoli barocchi si tesseva «in lode delle cose non lodevoli e in asserzione delle verità non vere»; per cui muoven­ dosi in un gioco tutto letterario, il V alletta fingerebbe di credere nella iettatura, burlandosi del lettore e in certo modo anche di se stesso, visto che si auto-annovera fra le vittime del fenomeno. E fin qui, l'in­ terpretazione dotta e sdrammatizzante del Croce ha tutta l'aria di es­ sere corretta. Ma c'è un ma: tra le sventure che il Valletta narra di avere patito, per colpa di qualche iettatore, ne spicca una che " sto­ na " , la morte della figlioletta, che sappiamo essere occorsa veramente. Si può scherzare - qualcuno per caso riesce a scherzare - sopra una disgrazia di tal specie? Il Croce si trae dall'impaccio definendo l' epi­ sodio una «nota stridente», che in fondo conferma la scarsa unità sti­ listica della composizione; ma questa esegesi, puramente estetica, non convince affatto de Martino, che legge il saggio crociano con visibile disagio e non ha nessuna intenzione di lasciar passare una così evi­ dente forzatura del testo. E dice: «a noi sembra che le cose non stia­ no propriamente così, e che su questo punto la interpretazione del Croce abbia bisogno di correzione» (p. 140). È vero, la descrizione che il Valletta fa dei subdoli attacchi e dei devastanti effetti della iettatura - interpretata come una forza cosmica - ha la impagabile e perentoria comicità di certi " crescendo" rossinia­ ni, come quello ben noto della " calunnia" , ma si tratta di una comici­ tà particolare, di una comicità "nera " : dietro gli svolazzi e le amenità della prosa avverti sempre un'angoscia che monta, come un sassolino che cresce fino a diventare valanga. Il riso che suscita è ambiguo, e il mondo che fa da sfondo è un mondo catastrofico, in cui «tutto va di traverso», «con una regolarità e una prevedibilità che costituiscono esattamente il rovescio di un mondo illuminato», come scrive de Martino. Di tutto questo Croce non si è accorto, o non ha voluto accorgersi: ai devoti della ragione sparsi in tutta l'Europa avanzata, il Valletta contrappone la «cieca religione» della iettatura, che a Napoli 1 15

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vede accomunate tutte le categorie, dal lazzarone al togato, dalla don­ netta ignorante al matematico sublime. Il suo non aureo, ma sintoma­ tico libretto va dunque letto come un documento di storia del co­ stume, che registra la comparsa in ambiente urbano di una nuova versione, aggiornata, dell'antico fascino (mentre quest'ultimo continua a sopravvivere nelle campagne nelle stentate forme che ci sono state descritte) . «Non si tratta quindi», ribadisce de Martino, «di finzione letteraria che serba sul piano dello scherzo frivolo ciò in cui più non si crede, ma piuttosto di un espediente psicologico che in tempi non più adatti a trattare certi argomenti come cose serie, finge a sé e agli altri di trattarli come scherzosi, consentendo in tal modo di non ri­ nunziare ad una ideologia e ad un comportamento nei quali, in /an­ do, ancora si crede» (p. 1 0 7 , corsivo mio ) . Resta u n problema, non d a risolvere ma d a toccare. L'interpreta­ zione di de Martino non si limita ad essere una interpretazione stori­ ca, contiene anche una ammissione della " realtà" del fenomeno, non in assoluto s'intende, ma relativamente alla cultura napoletana moder­ na. Mentre Croce (tutt'altro che insensibile al problema) intrattiene con la iettatura un rapporto a distanza, per lo più bonario, il nostro autore prende come al solito il toro per le corna e non nasconde la partecipazione al dramma che sta alla base di questa rappresentazio­ ne, apparentemente tragicomica. Un dramma che nasce, ancora una volta, dall'incertezza della vita quotidiana e dall 'essere-agiti-da forze ignote. Dramma del resto paventato e ben intuito dallo stesso Vallet­ ta, che in un passo sottolineato da de Martino scrive: Dobbiamo adunque dire che la iettatura dalla fantasia grandissima forza prende. Per essa talvolta quel che non è vediamo. Onde se [. . . ] io debbo far cosa, mi si avvicini alcuno che io apprenda esser malaugurioso e iettatore, o che veramente mi stia antipatico, e cogli effluvi suoi a me contrari la fantasia mi sconcerti, ecco che non sono più io, dentro di me più non mi trovo, gl'in­ terni sensi e le operazioni dell'animo non hanno più regola, tutto mi par catti­ vo, e la mia sorte stessa sembra funesta. [ . . ] Direte che sarà mal di fantasia. Ma non è anche questo reale, ed esistente? (capitolo XXVIII della Cicalata, corsivo mio) . .

Il teatro della iettatura, oggettivando la forza ignota, in qualche modo ferma o mette sotto vuoto il dramma vero, ma in misura minima e momentanea, e soprattutto non dischiude alcuna prospettiva di riscat­ to. Per cui bisogna andare molto cauti quando - magari celiando - si prospetta un de Martino rassegnato ma fiero nella sua napoletanità, disposto anche lui a credere nell'efficacia di queste forme di difesa e II6

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DAL CAMPO AL LIBRO

offesa. Alexandre Dumas, lo scrittore dell'Ottocento che seppe dare forse la più acuta e meno impressionistica rappresentazione della vita magico-religiosa di Napoli, osservava che due venti soffiavano sulla città, uno malefico e uno benefico: quello appunto della iettatura, di mai assodabile provenienza, e quello dei miracoli, governato dai santi e in primo luogo da san Gennaro. L'osservazione viene registrata e valutata da de Martino, che da un quarto di secolo ha un conto in sospeso, sul piano scientifico, con il santo e le sue parenti: ma la con­ trapposizione, suggestiva sul piano letterario, è insostenibile su quello storico e quello ermeneutico, perché mette sullo stesso piano forme inconfrontabili di protezione dal negativo. Per cui, pur ammettendo che sussista «un motivo di vero» nella polarità iettatura - san Genna­ ro, e che più di un " raccordo " si possa rinvenire, alle due sfere va riconosciuta una autonomia di fondo. De Martino temeva gli iettatori (non lo ha mai nascosto) e credeva anche nella fiducia riposta nel santo dalle devote, ma non tollerava che si confondesse o si equipa­ rasse - alla maniera dei romantici o degli stessi illuministi - l' espe­ rienza magica con l'esperienza religiosa, o una tecnica di destorifica­ zione a circuito chiuso con una forma di religiosità popolare comun­ que mediatrice di valori (in questo caso cristiani) . Tragico anche quando è più comico, il teatro della iettatura non sa mandare che messaggi allarmistici e paralizzanti; i copioni su cui si basa parlano di pericoli e talismani, di mali e rimedi, ma non prevedono alcuna via di salvezza o di riscatto. A differenza della religione inaugurata da Cri­ sto, che anche nei suoi più vistosi cedimenti alla esteriorità e alla ma­ gia - come il culto di san Gennaro o l'historiola che accompagna la cura del mal di sole ha comunque assolto una funzione positiva tra le genti del Sud, offrendo loro sia un soccorso immediato che una pro­ spettiva metastorica. Ma è anche vero - e siamo all'ultima pagina di Sud e magia - che un altro e più "alto" destino attende queste genti chiamate a vivere nella modernità e a costruirsi una città terrena affi­ data non al capriccio dei monacelli e dei santi, ma all'ethos dell'opera umana. «Nella misura in cui questo avverrà - la conclusione ha l'en­ fasi del discorso lungamente rinviato nel corso del libro, ma è anche il de Martino eroico che qui prende la penna - sarà ricacciato nei suoi confini il regno delle tenebre e delle ombre [ . ] e impallidirà anche il fittizio lume della magia, col quale uomini incerti in una so­ cietà in sicura surrogano, per ragioni pratiche di esistenza, l'autentica luce della ragione». . .

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«Gli ultimi tempi»

Verso La

fine del mondo

Il 1 960 è l'anno in cui de Martino conclude il lavoro relativo a La terra del rimorso, il libro che segna finalmente il suo definitivo ingres­ so sulla scena internazionale e che segna il culmine della sua fama in Italia, dove è ormai considerato il massimo, anzi l'unico vero rappre­ sentante della etnologia meridionalistica; e tutti si chiedono quale sarà il successivo passo: il sempre rimandato studio sul culto di san Gennaro a Napoli? O una nuova grande indagine sul campo, magari in Sardegna, dove ora insegna e dove sono ancora presenti, ma di­ versamente configurate, le forme di religiosità popolare che ha esplo­ rato nella trilogia? De Martino invece prende tutti - lettori e colleghi - in contropiede e proprio nel 1 960 interrompe bruscamente la de­ cennale attività di ricercatore sul campo e ancora più inaspettatamen­ te " chiude" con il Mezzogiorno, inteso come mondo da indagare nel­ le sue espressioni culturali. Le ragioni di questa scelta sono talmente ovvie per lo studioso, che ritiene forse triste e inutile motivarle: è in­ fatti la prima volta che egli rinuncia a dare conto, per iscritto, di una sopravvenuta svolta. Ma il lettore deve sapere che queste ragioni sono indirettamente e sufficientemente esposte all'interno di due testi ben noti: nelle ultime pagine della Terra del rimorso, e nell'architettura di quella raccolta di scritti sparsi che de Martino intitolò, quasi a sigillo del suo pensiero, Furore Simbolo Valore. Le pagine della Terra del rimorso a cui alludo fanno parte, a dire il vero, non del saggio, ma di una delle Appendici (è la relazione di Vittoria de Palma, che nella ricerca ha rivestito le funzioni dell'assistente sociale, scritta però in stretta collaborazione con l'autore) per cui quel che è detto non balza subito all'occhio; ma il senso è chiaro: il tarantismo è fenomeno cul­ turale totalmente disgregato e degradato. Le manifestazioni osservate nella cappella di Galatina non sono espressioni di cattolicesimo popoII8



«GLI ULTIMI TEM P I »

lare, né un avanzo pagano e neppure un esempio di sincretismo paga­ no-cattolico, sono semplicemente comportamenti patologici, che chia­ mano in causa il medico, non lo storico del presente. Siamo d'altronde nell'anno delle Olimpiadi, e il miracolo che si celebra (e che semmai andrebbe allora studiato) è quello economico. Il processo di industrializzazione e di modernizzazione in atto ha comportato nella seconda metà degli anni cinquanta il progressivo spopolamento delle campagne e la caduta verticale dell'interesse per la " cultura contadina" (sono i popoli del Terzo Mondo a prendere il posto delle "plebi rustiche" nel dibattito politico). Il problema di un "folklore progressivo " non scompare, ma si sposta a Nord, diventa un problema della cultura operaia (peraltro avvertito, ma mai diretta­ mente affrontato, da de Martino) e lo stesso progetto di una storia religiosa del Sud, ancora attuale qualche anno prima, rischia - se pro­ seguito - di tramutarsi in una storia naturale delle sopravvivenze, proprio quello che l'autore aveva cercato in ogni modo di evitare, so­ stenendo la continua intermediazione tra forme egemoniche e forme subalterne di religiosità. Un rischio comunque mai esorcizzato del tutto, come dimostra la lunga "fatica" con cui de Martino ha portato a termine Sud e magia, e che trapela in molte pagine (non solo quelle ricordate) della Terra del rimorso. L'altra spia del mutamento d'orizzonte è - come dicevo - il pro­ cedimento usato dall'autore nella confezione di Furore Simbolo Valo­ re, che non è soltanto un'antologia ragionata degli articoli pubblicati negli anni cinquanta con l'inserimento di due più recenti contributi, ma è sostanzialmente una ricostruzione - che a posteriori possiamo dire definitiva - delle tappe di un itinerario che parte dalla " sco­ perta" del Sud e si conclude con l'apertura di nuove prospettive di ricerca . Già dal titolo si vede che per de Martino è giunto il mo­ mento di " fissare" una volta per tutte, anche a livello tipografico, i punti di arrivo della sua riflessione teorica. I tre momenti erano stati già compiutamente delineati in una lunga e densa " nota" , apparsa nel 1 95 7 su " Studi e Materiali di Storia delle Religioni " : Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, come illustra il passo che segue: In generale una storia delle religioni che voglia restituire la realtà al processo ierogenetico al di là dell'immediatezza della esperienza religiosa in atto - e senza cadere nelle banalità del filologismo e del positivismo - richiede la de­ terminazione del rapporto dinamico fra momenti critici, destorificazione pro­ tettiva e orizzonte umanistico. Tale determinazione, volta a volta diversa se­ condo le concrete civiltà religiose e i particolari nessi mitico-rituali presi in

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considerazione, si articola corrispondentemente in tre fondamentali momenti di analisi ricostruttiva, e cioè a) la identificazione dei momenti critici esisten­ ziali - che sottendono le civiltà religiose e i nessi mitico-rituali - e dei corri­ spondenti modi di crisi della presenza; b) la individuazione delle tecniche di destorificazione religiosa; c) la configurazione dell'orizzonte umanistico che in tal modo viene dischiuso, sia in quanto il mito e il rito si vanno permean­ do di valenze culturali determinate, sia in quanto oltre la vita mitico-rituale tali valenze si vanno rendendo autonome, come ordine profano della vita economica, sociale, politica, giuridica, morale, estetica e speculativa (p. 9 8 ) .

Il senso di Furore Simbolo Valore è dunque duplice: da una parte, vuole ribadire la priorità dell'assunto teorico-metodologico, dall'altra vuole precisare che l'autore non si occupa solo di Meridione, ma an­ che di temi che concernono le grandi e contraddittorie trasformazioni che si susseguono nel globo, dopo lo sconvolgimento provocato dalle due guerre. Per cui, quando questa raccolta uscì (nel 1 962, nella se­ zione etnologica e storico-religiosa della prestigiosa collana "La cultu­ ra" del Saggiatore, diretta per breve tempo anche da de Martino) , il lettore si trovò di fronte a una sequenza di scritti apparentemente eterogenei, ma scelti e disposti con la massima cura in tre sezioni di­ stinte (che non equivalgono, come è stato detto, ai tre momenti del­ l'analisi): la prima, più ampia, raccoglie due saggi che rimettono in discussione lo statuto di due discipline (la storia delle religioni e l'et­ nologia) alla luce di due "momenti critici " della cultura occidentale: la moderna irruzione del mito nel panorama delle ideologie ( che è il tema da cui prende avvio Mito, scienze religiose e civiltà moderna del 1 9 5 9 ) e il tramonto dell'epoca coloniale, che costringe l'etnologia a ripensare il proprio rapporto con l'Altro e a trovare gli strumenti per lo studio del risveglio politico e culturale dei paesi un tempo assog­ gettati (che è il problema d'approdo di Promesse e minacce dell'etno­ logia, saggio in piccola parte già anticipato ai lettori di " Società" nove anni prima) . Scritti in cui non mancano - specialmente nel secondo ­ vasti squarci di autobiografia intellettuale, che se un tempo rappre­ sentavano un pretesto per veri e propri "esami di coscienza" , fanno ora parte del bagaglio metodologico dell'autore, che pretende da se stesso la massima trasparenza e tiene a ridisegnare continuamente la mappa delle coerenze e delle contraddizioni del suo itinerario. In questa chiave va letta in particolare la seconda parte del libro, che racchiude le tappe fondamentali dell'esperienza meridionalistica dal 1 9 5 0 al 1 960, «dal fervore e l'intemperanza del primo incontro» (Note lucane) ai primi semi di Morte e pianto rituale, fino agli articoli redatti per "Espresso Mese " , che secondo l'autore «lasciano intrave120



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dere altre possibili ricerche», sempre nel Sud. Ma è proprio su que­ sto ultimo punto che de Martino, stranamente, si inganna: la parabola si è ormai conclusa e gli articoli in questione non presentano sostan­ ziali novità, rivangando temi già affrontati e spremuti nelle precedenti ricerche. Uno solo di questi articoli sembra avventurarsi in un campo ancora vergine per l'autore: è quello dedicato al "santuario" di San Giovanni Rotondo, dove de Martino riesce elegantemente a parlare di Padre Pio senza quasi nominarlo. Ma questa eleganza nasconde un "fastidio" che lo studioso non aveva mai manifestato nei confronti dei suoi oggetti di studio, e già si capisce che sull'argomento, lui per­ sonalmente, non tornerà. Il suo interesse sta spaziando altrove: in Promesse e minacce del­ l'etnologia ha già lasciato intendere che l'antropologia deve ora fare i conti con i movimenti religiosi, di protesta e liberazione, che da de­ cenni si susseguono tumultuosamente nelle colonie e nelle ex colonie, ma è nella terza parte del libro che affiorano con sufficiente chiarezza i temi del nuovo corso demartiniano: il capodanno svedese del 1 95 6 , che sembrò capovolgere, con una esplosione d i violenza non rituale, una tradizione culturale che ha il suo modello nell'akitu, l'antica festa babilonese di chiusura e apertura dell'anno, quasi a significare la fine di un mondo - quello civile - e proprio nel paese della " democrazia reale" e del benessere industriale; i rigurgiti di occultismo nella Ger­ mania del cancelliere Adenauer, che fanno nascere il sospetto che il popolo tedesco non abbia fatto ancora i conti con il recente passato e che la cultura germanica, un tempo tanto amata da Croce e dallo stesso de Martino, sia ormai un monumento all'Europa che non c'è più; e infine la nota semi-positiva, che viene dai paesi socialisti e che contrappone alla «sterminata letteratura sul simbolo» che dilaga da noi, un interessante (anche se ingenuo) tentativo di sostituzione del­ l' orizzonte miti co-rituale proprio del cristianesimo con una serie di miti e riti di natura laica, che dovrebbero assecondare la difficile transizione dal socialismo al comunismo. Un problema, questo ulti­ mo, che ha sempre tormentato de Martino, fin dai tempi del dibattito sulla laicità dello Stato e del "folklore progressivo " , ma che negli ulti­ mi anni viene ad assumere un posto di rilievo nel suo pensiero, al punto da far corpo con le riflessioni che lo accompagneranno nel cor­ so del successivo (e purtroppo ultimo e incompiuto) suo lavoro: La fine del mondo.

Contributo all'analisi delle apocalissi culturali è il dimesso sottotitolo del libro che de Martino cominciò a scrivere presumibilmente tra il 1 960 e il 1 9 6 1 e che doveva rimanere allo stato di prezioso e immen121

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so " cantiere" : ma il titolo, come l'autore stesso osservò divertito, era una «bomba». Io qui mi limiterò a dare una notizia, sommariamente ragionata, del piano dell'opera e a seguire uno, uno solo, dei tanti fili che la tengono unita: ma è inutile nascondere il disagio che invaria­ bilmente si intromette nella visione, sia pure generale, di un edificio che non è stato costruito e che forse mai - secondo autorevoli critici - avrebbe veduto la luce nella forma e nelle dimensioni progettate. Tanto più che si tratta di un cantiere in cui ci insinuiamo senza il permesso dell'autore, nella odiosa veste di rilevatori non autorizzati. Dalle poche carte che ci sono rimaste del piano di lavoro ( sei pa­ gine a stampa sulle settecento del libro) e dagli scritti pubblicati come annunzi e anticipazioni ( due conferenze e un lungo articolo per "Nuovi Argomenti " ) emergono intanto due dati che contraddicono sia il sottotitolo che il titolo dell'opera: de Martino non eleggerà a oggetto di analisi solo le apocalissi culturali - che più avanti definire­ mo - ma anche le cosiddette "apocalissi psicopatologiche " , ossia le apocalissi senza riscatto. Forse, in un primo tempo, l'autore aveva progettato di lasciare lo studio di queste ultime a un esperto (lo psi­ chiatra Callieri, sostituito poi da J ervis ) , riservando a se stesso lo stu­ dio delle apocalissi religiose, socio-politiche, filosofiche ecc. Evidente­ mente, man mano che il lavoro procedeva, de Martino si accorse che l'analisi delle une e delle altre doveva andare di pari passo: perché le psicopatologiche alludono alla fine " del " mondo tout court, in un de­ lirio che non distingue il proprio dal mondo degli altri, mentre le cul­ turali additano, con esplicita consapevolezza, la fine di "un" mondo: che può essere il mondo della servitù coloniale, o il mondo che ha le radici nel proprio paese, o il mondo che disegniamo col nostro corpo o al limite anche il mondo dell'infanzia: tutti mondi che possono e talvolta devono finire. È chiaro che a de Martino interessano queste ultime apocalissi, che sono crisi più o meno acute legate a un de­ terminato passaggio, ma nel contempo deve incessantemente distin­ guerle dalle prime, che sono crisi che non si risolvono perché ruota­ no attorno a un allucinatorio punto fisso. Del resto, anche il titolo complessivo dell'opera va letto in senso lato, e non nel senso "lettera­ le" e contingente che all'epoca poteva attirare o spaventare i lettori: non è al rischio atomico che allude primariamente de Martino, anche se il libro viene ideato in quella temperie (sono gli anni in cui il pre­ sidente Kennedy invita ancora gli americani a munirsi di rifugio anti­ atomico e nell'ottobre del 1962 l'allarme tocca la punta più alta) : nel­ la già accennata conferenza sul tema, l'autore anzi arriva a dire che i duecentomila morti di Hiroshima vanno contati insieme ai sei milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio, e che nemmeno queste due 122



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immani stragi bastano a darci la misura di quel senso della fine e del­ la perdita di un centro che da alcuni decenni si è impadronito del pianeta, come dimostrano le scritture dei filosofi e le opere degli arti­ sti. Torniamo, in altre parole, allo spettro di quella «crisi della civil­ tà» che si agitava nelle pagine di Naturalismo e storicismo, uno spet­ tro che nel frattempo è cresciuto di dimensioni e si è fatto carne, non solo con la guerra e le sue conseguenze ma anche con la incontrollata crescita tecnologica, che ha portato l'umanità sia alle soglie del possi­ bile auto-annientamento che alla frantumazione coatta delle culture indigene o tradizionali. Di positivo, rispetto al quadro prebellico, c'è per de Martino una sola grande novità: la presenza - ora - di un altro spettro, antitetico al primo e in grado di fronteggiarlo: il comu­ nismo. Come vedremo, l'autore non si lascerà intimorire - a livello teorico - dal fragore della battaglia in corso, ma nemmeno rinuncerà a prendere posizione, visto che è partito dall'assunto che oltre a un mondo che "può" finire c'è anche un mondo che " deve" finire. E proprio da questa tensione tra il "può" e il " deve", nascono le pagine forse più belle del libro (per qualcuno certo le più datate), che tengo­ no alto il profilo dell'impegno morale e si accompagnano allo sforzo epistemologico. Perché La fine del mondo, malgrado il titolo a sensazione, è un libro pensato per un pubblico decisamente qualificato e motivato, se non specializzato: lo stesso a cui si rivolgevano, almeno nelle intenzio­ ni di de Martino, i volumi della "collana viola" . Per cui anche il ter­ mine "apocalisse", impiegato nel sottotitolo, non va preso nel signifi­ cato dell'uso corrente: a quell'epoca la parola - pur riferendosi meto­ nimicamente alla drammatica sequenza degli eventi profetizzati da Giovanni - aveva quasi perduto il connotato religioso e veniva ado­ perata come sinonimo di " cataclisma" o " catastrofe", senza più allu­ dere a una dimensione culturale dell'evento ed evidenziandone caso­ mai l'aspetto oscuro e negativo. Invece de Martino sembra prendere tutt'altra strada e - almeno in prima battuta - sfiora appena il tema delle catastrofi naturali e del suicidio del mondo, e non sembra nem­ meno particolarmente interessato al testo attribuito a Giovanni. La definizione da cui parte sembra essere quella impiegata dai tecnici della storia delle religioni, che può essere condensata nelle parole di Bertholet (autore di un dizionario ben noto a de Martino) : «Apoca­ lissi: furono così chiamate certe visioni circa i tempi futuri che, fissate da una ricca letteratura e nate soprattutto in tempi di grandi afflizio­ ni, volevano infondere la speranza in un migliore avvenire». Ma an­ che questa è una formula che sta stretta all'autore, il quale - per tut­ to il corso del lavoro - non fa altro, in fondo, che cercare una nuova

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definizione del concetto di apocalisse, tale da poter essere compresa e spiegata nell'alveo della sua teoria della crisi della presenza (o della caduta dell'ethos del trascendimento, secondo l'espressione che co­ mincia ora a usare). Un primo tentativo di ridefinizione del termine e del concetto si trova già nelle ultime pagine del saggio posto in apertura di Furore Simbolo Valore, il già citato Mito, scienze religiose e civiltà moderna, che risale al 1 9 5 9 : in questo caso è il mito dello "sciopero generale" ad essere preso in esame nella versione teorizzata da Sorel, per il qua­ le questo grande simbolo operava sul presente e dischiudeva una pro­ spettiva nel futuro grazie anche al fatto che «in ogni sciopero i sinda­ cati rivoluzionari vedono una imitazione ridotta, un saggio, una pre­ parazione del grande rivolgimento finale». «l primi cristiani - scrive Sorel nelle Considerazioni sulla violenza - attendevano il ritorno di Cristo e la rovina completa del mondo pagano, con la instaurazione del regno dei santi, per la fine della prima generazione. La catastrofe non si produsse: ma il pensiero cristiano trasse siffatto partito dal mito apocalittico, che alcuni dotti contemporanei opinano che tutta la predicazione di Gesù si riferiva a quest'unico soggetto». De Marti­ no, pur apprezzando lo spessore di questa interpretazione, non è d'accordo su un punto essenziale: il mito dello sciopero generale è tutto e unicamente proiettato nel futuro, manca di un riferimento alle "origini" che lo puntelli e lo converta in un mito di fondazione; e in questo senso non può essere equiparato a una "apocalissi " . Mancava a Sorel, per motivi anagrafici ma anche storici, il richiamo a un gran­ de evento iniziatore - quale fu la Rivoluzione di Ottobre - che avreb­ be poi permesso e richiesto la fondazione di una serie di miti pro­ priamente socialisti. Tuttavia si vede subito che de Martino da questa discussione trae uno spunto che entrerà a far parte delle premesse concettuali della Fine del mondo: le apocalissi non saranno analizzate come delle " rivelazioni" circa la fine (come recita l'etimologia e la vulgata dei teologi) , ma come dei " rivolgimenti" che segnano la fine di "un" mondo e l'inizio di un altro e che possono anche fallire, così come possono morire di mera inedia le tartarughe capovolte. L'altro, fondamentale, problema di metodo che de Martino deve af­ frontare fin dal piano di lavoro concerne l'individuazione dei docu­ menti da raccogliere e mettere a confronto. L'autore ha chiari i due rischi che un progetto del genere presenta: da una parte, l'eccesso di dati può far smarrire il filo conduttore della ricerca, dall'altra, lo sti­ molo delle passioni immediate può far incorrere in incaute genera­ lizzazioni; per cui il lavoro preliminare di selezione e classificazione

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del materiale da analizzare procede inevitabilmente lento e con conti­ nui ripensamenti, come dimostra la fluidità delle prime e numerose "scalette " che de Martino stende e man mano aggiorna nel corso del­ l' opera. Qui, per semplificare, prenderemo per buono e relativamente definitivo il programma che espone nel saggio Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche redatto nel settembre del 1 964, quando or­ mai il lavoro era a un punto di non ritorno e le convergenze tra il progetto e l'indice provvisorio risultano già numerose. In questo sag­ gio, l'autore dichiara di voler prendere in considerazione cinque tipi di documenti. Al primo posto e «in funzione di stimolo inaugurale della ricerca, e di permanente centro di riferimento, di unificazione e di controllo», egli pone il documento apocalittico dell'Occidente mo­ derno e contemporaneo, che a sua volta si biforca in due distinti or­ dini di percezione ed elaborazione: il tema della fine nella cultura "borghese" e la prospettiva apocalittica che si sprigiona dal pensiero marxista. Al secondo posto (si direbbe anche in ordine di importan­ za) sta invece il documento apocalittico della tradizione giudaico-cri­ stiana, che è il tipo di documento che il lettore medio maggiormente si aspetta da una ricerca del genere: e de Martino lo rassicura pro­ mettendo un esame «della letteratura paleo- e neo-testamentaria e dei ricorrenti millenarismi della storia cristiana dell'Occidente, nel qua­ dro escatologico di una immagine unilineare della storia umana», an­ che se poi finirà per concentrarsi sulla più problematica sequenza dei documenti prato-cristiani. Sempre nell'ambito della storia delle reli­ gioni, ma separato e distinto dal precedente, sta poi il documento apocalittico delle religioni non monoteistiche che fanno riferimento al «mito delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo» che comporta una concezione ciclica del tempo (vedremo più avanti che a questo tipo di documento de Martino non assegnerà volutamente una sezione autonoma del libro ) . Il quarto è il documento "etnologi­ co" , che inizialmente - stando alle prime " scalette" - prevedeva l'in­ clusione di dati raccolti nel corso delle spedizioni nel Sud (lamenti, incantesimi lucani, tarantismo) , ma che viene poi usclusivamente cir­ coscritto agli «attuali movimenti religiosi profetici e millenaristici del­ le culture cosiddette primitive, sottoposte al violento urto con la cul­ tura occidentale ed ora, nell'epoca della crisi del colonialismo, im pe­ gnate in un vasto e complesso processo di emancipazione»: un inte­ resse maturato negli ultimi anni, che de Martino aveva già anticipato in Promesse e minacce dell'etnologia e soprattutto promovendo l' edi­ zione del libro di Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popoli oppressi ( 1 96o), e la tempestiva traduzione del libro di Worsley, La tromba suonerà ( 1 96 ! ) . Quinto, infine, il documento che

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l'autore definisce «psicopatologico» (in un primo tempo aveva parlato di documento psichiatrico e di documento etna-psichiatrico) e che si rivela - fin dalle pagine del saggio a cui mi riferisco - il seme più fecondo e innovativo, sul piano metodologico, dell'intera opera in fie­ ri. E il primo a esserne consapevole è proprio l'autore, che attribuisce a questo tipo di documento un «valore euristico decisivo», che per­ mette confronti non occasionali ma sistematici con gli altri documen­ ti, in quanto: a) ci mette in rapporto con un comune rischio di non­ esserci-nel-mondo; b) ci fa prendere atto di differenze storico-cultura­ li estremamente significative; c) non ci fa smarrire quella prospettiva antropologica che può dare un senso unitario al quadro senza cornice e senza centro delle apocalissi; d) garantisce una certa flessibilità alla classificazione stessa del materiale, che presenta frequenti casi di apo­ calissi "intermedie" , non riconducibili a rigore né alla sfera religiosa né alla sfera del patologico . Nonostante l'individuazione di questo punto d'ingresso e di fuga, costituito appunto dal documento psicopatologico, e nonostante la solidità virtuale che l'impalcatura teorica acquisisce con il sistematico richiamo alla fragilità della nostra presenza nel mondo, la mole e la molteplicità dei documenti che de Martino si trova di fronte, non an­ cora allineati e depurati, è immane: a noi, oggi, fa tremare i polsi. E anche a lui, che pure era riuscito a tempo di record a portare a ter­ mine in meno di due anni un lavoro articolato come La terra del ri­ morso, l'immagine di Atlante si sarà presentata più volte, specie nei mesi in cui il male cominciava ad avvisarsi. Anche se d'incerta data­ zione, una sua comunicazione a un convegno di studi sul Terzo Mon­ do, provvisoriamente intitolata Per una ricerca sulle apocalissi, conser­ va una traccia - toccante - di questi momenti di controllata vertigine; ed è un passo - l'ultimo del " de Martino eroico " - che va letto, an­ che col senno del poi:

È

probabile che il progetto di ricerca delineato nella presente comunicazione sollevi da più parti riserve e diffidenze per quanto concerne la legittimità del problema proposto e la metodologia da seguire. Sembrerà a taluni che i pro­ dotti culturali introdotti nella comparazione siano troppo eterogenei perché la comparazione sia legittima e concludente; che la forzatura è evidente nel voler comprendere nello stesso nesso comparativo le apocalissi escatologiche del terzo mondo, la tradizione apocalittico-escatologica giudaico-cristiana, l' apocalisse senza escaton della cultura occidentale in crisi e le apocalissi psi­ copatologiche; che dilatare sino a tal punto i compiti della ricerca etnologica significa farle perdere il solido terreno specialistico su cui si è mossa fino ad oggi; che le ricerche preparatorie non sono ancora sufficienti per rendere attua­ le un progetto del genere; e infine che non si comprendono bene le modalità

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del dialogo interdisciplinare fra specialisti diversi, che la ampiezza del tema necessariamente richiede. A queste, o ad altre simili riserve e diffidenze po­ tremmo rispondere per disteso se il tempo a disposizione ce lo consentisse. Qui, a modo di conclusione, vorremmo !imitarci a impetrare ai più severa­ mente disposti almeno una certa indulgenza per un progetto che, malgrado tut­ ti i pericoli e le dzfficoltà a cui va incontro, riflette pur sempre la esigenza di promuovere sul terreno scientifico quell'ethos dell'incontro e del confronto, del rapporto e dell'unificazione che mai forse come oggi l' umanità sta così drammaticamente esperendo.

E chi potevano essere mai i critici capaci di sollevare le sensate ri­ serve che ho sottolineato, se non il relatore stesso (il de Martino sco­ laro di Croce, che vigila sul de Martino eroico) ? Per renderei conto però delle difficoltà, dei ritardi, m a anche delle assodate acquisizioni e delle novità che figurano nell 'opera al punto in cui era nel 1 964, dobbiamo scendere nei dettagli ed esaminare non tutte ma almeno qualcuna delle "scatole" in cui de Martino aveva de­ posto i documenti raccolti; seguendo questa volta non l'ordine in cui l'autore le aveva citate nei lavori anticipatori, ma l'ordine in cui si dispongono, per capitoli, nell'indice probabilmente definitivo del li­ bro: per cui quella che tentiamo è una ricostruzione - puramente se­ quenziale - del filo del "ragionamento" che il libro intendeva proba­ bilmente sviluppare, tenendo presente la grande importanza che de Martino attribuiva alla struttura di un'opera nel momento in cui si sceglie la forma di trasmissione del libro, e non altra. Il "ragionamen­ to" procede per capitoli, ma è chiaramente tripartito: la prima parte ( cap . I) si occupa infatti delle apocalissi non culturali ( psicopatolo­ giche) e di quelle apocalissi religiose, in parte irrisolventi, che si ri­ fanno a una concezione ciclica del tempo. La seconda parte ( capp. n, III e IV) pren de in esame le apocalissi della tradizione giudaico-cri­ stiana, le apocalissi dei popoli impegnati nella lotta anticolonialista e infine l'apocalisse marxiana. Quanto alla terza parte, che è quella da cui sembra avere preso awio l'intera ricerca e che corrisponde a quello che l'indice chiama Epilogo, è una scatola senza etichetta, che sembra raccogliere da un lato le testimonianze (filosofiche e letterarie) della apocalisse senza escaton che è in pieno corso nel mondo occi­ dentale; e dall'altro le riflessioni che dovrebbero costituire la pars co­ struens del progetto, in altre parole la messa a punto dei metodi e delle categorie che l'autore offre al servizio di un radicale ripensa­ mento e rinnovamento delle discipline coinvolte nella ricerca. Ma in realtà è di più: vi si trovano, allo stato di " semi " , tutti quei simboli =

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laici che possono fare del mondo una casa meno esposta alla tempe­ sta della fine. Nel prossimo paragrafo ci limiteremo a seguire uno solo degli iti­ nerari che l'autore ha percorso: l'itinerario forse più visibile e facile da seguire, che concerne il problema del tempo nello studio delle apocalissi - un filo teso di riflessioni che attraversa in pratica tutta l'opera.

L'alienazione e la riconquista del bene-tempo

Mundus è il denso titolo del primo e più complesso capitolo del li­ bro, forse quello che era allo stato più avanzato di elaborazione, come attestano le uscite pubbliche. La sindrome più analizzata, che offre il maggior numero di documenti da prendere in considerazione per una ricerca sulle apocalissi è naturalmente la WUE (da Weltunter­ gangserlebnis) ossia quella alterazione dell'Io che si dipinge in un de­ lirio di fine del mondo e che insorge nei casi di schizofrenia, ma tal­ volta anche nelle epilessie, nelle paranoie di distruzione e in altre psi­ copatie, dove appunto si sperimenta la "nuda crisi senza orizzonte" . Era questo u n tema che aveva particolarmente interessato, fin dagli anni cinquanta, gli psichiatri e i filosofi che ruotavano attorno alla figura di Danilo Cargnello, massimo rappresentante in Italia di quella che veniva allora chiamata la "psichiatria esistenziale" , e proprio a uno di costoro (il già citato Callieri) de Martino si rivolse per avere un aiuto. Questa "scuola" , piccola ma all'avanguardia, si rifaceva esplicitamente alla antropologia fenomenologica di Ludwig Binswan­ ger, il grande medico svizzero che aveva applicato alla psichiatria gli spunti fenomenologici contenuti in Essere e tempo di Heidegger: da cui il termine di Daseinanalyse con cui si affermò il suo metodo. A questa corrente di studi, connotata da un fermo antimaterialismo, de Martino si sentiva vincolato fin dai tempi del Mondo magico, ma pubblicamente aveva sempre evitato di prendere una netta posizione a favore, almeno sul piano filosofico: qui invece, nel cantiere della Fine del mondo, alla antropoanalisi ( come lui la chiama) viene ricono­ sciuto anzitutto il merito di avere profondamente " accorciato " quella distanza che impediva in passato una feconda collaborazione tra gli studiosi dei fenomeni culturali e gli studiosi della psiche malata; e non secondariamente anche il merito di avere raccolto una documen­ tazione pressoché esaustiva di casi clinici relativi a vissuti deliranti primari. E su questa documentazione de Martino sostanzialmente si basa, estraendo quasi tutti i "casi" dalle opere di autori che si rifanno 128



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appunto alla Daseinanalyse di Binswanger, come Kunz, Van Den Berg, Straus, Gebsattel e soprattutto Alfred Storch (quest'ultimo già utilizzato per Il mondo magico) . Sono questi gli autori - insieme agli imprescindibili Janet e Jaspers - che de Martino tratta non solo come fornitori ma anche come interpreti dei documenti; mentre scarsa e laterale - almeno per quanto riguarda questa sezione del lavoro - è l'attenzione prestata ai contributi della psicoanalisi: le teorie di Freud e Jung sull'istinto di morte verranno infatti discusse nel luogo che l'autore ritiene più pertinente, e cioè all'interno della sezione che se­ gue immediatamente, dedicata alle radici psicologiche del simbolismo miti co-rituale. Il limite comunque della documentazione psicopatologica raccolta fino al 1 9 64 è evidente: riguarda solo il mondo occidentale. Ma di questo limite de Martino è ben consapevole: nei piani di lavoro aveva previsto una sotto-sezione etnopsichiatrica: Devereux, il fondatore di questa disciplina, non viene utilizzato, ma il suo nome compare tra gli autori da prendere in considerazione (l'altro grande assente, in questo campo, è Fanon). D'altra parte sono numerosi i brani già re­ datti interamente dedicati ai problemi che l'etnopsichiatria (ovvero lo studio transculturale dei disturbi psichici, come si cominciava a desi­ gnarla) è chiamata ad affrontare; che sono poi tre, essenzialmente: la distinzione tra normalità e anormalità, tra ordine e disordine psichico («poiché se è vero che determinate malattie psichiche sono universal­ mente tali è anche vero che vi è un diverso modellamento culturale dell'anormale e che i quadri di una psichiatria europeocentrica non sono puntualmente applicabili a tutte le culture dell'ecumene»); l'al­ largamento della gamma dei disturbi psichici, in cui vanno compresi i disturbi specificamente " etnici " (come l' amok melanesiano o il peyoti­ smo nordamericano o il famoso olon dei Tungusi); e infine il ricono­ scimento non occasionale dell'efficacia simbolica delle pratiche tera­ peutiche tradizionali, problema quest'ultimo già avanzato da Lévi­ Strauss, ma aggirato fino a quel momento da de Martino. Il documento su cui l'autore si sofferma più a lungo è il " caso del contadino bernese", descritto da Storch e Kulenkampff nel 1 950 e a cui l'autore intendeva dedicare uno spazio ancora maggiore nella ste­ sura definitiva. Si tratta di un caso particolarmente emblematico, di un giovane contadino ricoverato in ospedale nel 1 947 in preda al ca­ ratteristico delirio schizofrenico di fine del mondo, il quale si riteneva responsabile dell'abbattimento di un aereo militare, caduto presso Berna alla fine della guerra. Malgrado il ricovero e le cure, il male peggiorò e il delirio, con gli anni, assunse le proporzioni di un affre­ sco apocalittico: da una fossa nel terreno, creata dallo sradicamento 129

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di una quercia, comincia a sgorgare come per incantesimo dell'acqua, ma le conseguenze non sono quelle che si raccontano nelle leggende, l'acqua continua a fuoriuscire inarrestabile e con sempre maggiore impeto, fino a sommergere le campagne circostanti, la Svizzera e tut­ to il mondo. Al centro di questa immane catastrofe sta il malato, che la vive sia nelle veste di vittima che nella veste di responsabile. De Martino, a differenza dei due psichiatri, si accorge subito della di­ mensione anche culturale del quadro descritto, con ovvie contraddi­ zioni ma implacabile precisione, dal contadino bernese: si tratta infat­ ti di un quadro da cui emergono motivi mitologici e folklorici assai diffusi (l'albero cosmico, l'accesso al mondo dei morti ecc.) che pos­ sono aver dato materia alla forma del delirio e fornito al soggetto uno schema di simboli entro cui la crisi acquista una prospettiva, sia pure su un piano metastorico. Naturalmente quest'apertura alla dimensio­ ne extra-psichica del caso costringe de Martino a operare una serie di "violenze" sul documento: noi leggiamo le parole del malato tradotte nel lessico dell'interprete e non sappiamo mai se de Martino sta for­ zando il testo per ricorrere alle categorie che sono sue. Ma è uno scotto che paghiamo volentieri, perché comunque ci rendiamo conto che così il documento esce dalla rispettosa ma inquietante fissità del " caso clinico" per acquistare una parvenza e una problematicità che non ci sono aliene. Il caso del contadino bernese chiude, drammaticamente, la sezio­ ne psicopatologica del primo capitolo, ma fa anche da ponte di pas­ saggio alla sezione storico-religiosa: il crollo cosmico descritto si pre­ senta infatti come una cosmogonia a rovescio, con infiniti rimandi ai miti delle origini e delle periodiche alluvioni, tali da porre all'autore un quesito che sfugge all'analisi clinica: questa concezione patologica del Tempo ha o non ha qualche analogia con l'immagine del Tempo che alcune religioni - non cristiane - hanno elaborato attraverso un insieme complesso di miti e riti? Inizia così un nuovo percorso, che si avvale stavolta di documenti che riguardano il pensiero religioso degli antichi e dei primitivi, con particolare riferimento alle credenze che prevedono una periodica fine e rinascita del mondo, o come si diceva allora - sulla scia del libro di Eliade - alle teorie dell' " eterno ritorno" (ed è così che la curatrice della Fine del mondo intitola l'intera sezio­ ne che ora esamineremo) . Sezione che si apre con l'analisi, appena abbozzata, ma significativamente posta al centro del capitolo, di un complesso e spettacolare rituale della Roma antica, noto col nome di Mundus patet. Il mundus era una fossa scavata al centro della città, tenuta normalmente chiusa nel corso dell'anno, ma ritualmente aperta in occasione di eventi straordinari: i morti, in questa sacra rappre-



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sentazione, fuoriuscivano dall'infero e si mescolavano ai vivi, gettando temporaneamente la città nel caos e per essere poi invitati a ridiscen­ dere sottoterra. In tal modo Roma si rigenerava, cancellando la cappa dei giorni nefasti. Come si vede, è un tema platealmente eliadiano, che de Martino introduce per meglio operare la distinzione tra apoca­ lissi con catastrofe terminale e apocalissi con periodica distruzione e ricreazione del mondo: le prime farebbero parte delle religioni che si rifanno a una concezione lineare del tempo, le seconde presupporreb­ bero invece una concezione ciclica. All'epoca, il problema di questa contrapposizione tra tempo lineare e tempo ciclico era all'ordine del giorno negli studi storico-religiosi e di filosofia della storia ed era anzi un problema a due facce: da un lato, la polarizzazione, presa troppo alla lettera, rischiava di ridurre la storia comparata delle religioni al raffronto tra due continenti artificiali, uno abitato dalle religioni pri­ mitive, politeistiche e popolari, e uno dalle religioni monoteistiche e civili; dall'altro, si riformulava, in termini religiosi, la vecchia e mai dimessa contrapposizione tra popoli senza storia (naturvolker) e po­ poli dotati di senso storico (kulturvolker) . De Martino, che fino a tut­ ti gli anni cinquanta non aveva preso una netta posizione nel dibatti­ to in questione, decide ora, in questa precisa e stringente occasione, di intervenire. E lo fa non schierandosi da una parte o dall'altra, ma proponendo - come al suo solito - una soluzione alternativa: una teo­ ria più flessibile e articolata, tale da non far ricadere la scienza delle religioni nelle rigide e sospette classificazioni del passato. Va comunque notato che i documenti che de Martino raccoglie per sostenere questa teoria che stiamo per esporre, non sono tratti dagli autori che ci aspetteremmo, come Eliade (qui paradossalmente poco utilizzato) o Lowith o Benjamin (mai citati) o Culmann ( che è il principale interlocutore in negativo) ; sono tratti invece, per la gran parte, dalla Fenomenologia della religione di Gerardus Van der Leeuw e da Urzeit und Endzeit, il testo forse più " spremuto" di questa sezio­ ne del libro. Anche se le riserve sul metodo lanciato da questo autore, già compiutamente espresse in un saggio del 1 954 (Fenomenologia re­ ligiosa e storicismo assoluto) permangono, è nel trattato di Van der Leeuw che de Martino trova ben formulati i due concetti-chiave su cui fonderà la sua teoria: primo, il tempo è uno solo, anche se può essere pensato in più modi; secondo, la visione cristiana del tempo è la più elaborata e matura che l'umanità ha espresso, e ha nel mito dell'incarnazione il suo centro motore. Del secondo parleremo più avanti: limitiamoci per ora al primo punto. Solo a livello puramente teorico - dice Van der Leeuw - il movimento del tempo può essere comparato a quello di una ruota o a quello di una freccia: a livello

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pratico la distinzione viene meno, in quanto attraverso l'iterazione li­ turgica il tempo ciclico torna a farsi valere, anche presso le culture che lo negano. Il tempo, sia nel mito che nel rito, è sempre un tempo misto, che può arrestarsi o retrocedere, o girare perpetuamente come il sole, ma anche procedere o precipitare. Quel che cambia, ogni vol­ ta, non è la qualità del tempo, ma la cultura che lo misura. De Marti­ no, pur inglobando questa sensata serie di osservazioni, non è dispo­ sto a seguire fino in fondo il fenomenologo imbarcandosi in una tipo­ logia enciclopedica delle concezioni del tempo, ma al tempo stesso non intende assumere una posizione relativistica, come le premesse sembravano indicare. Il suo proposito è di arrivare comunque a una visione unitaria di questa classe di fenomeni, che si spiegano solo nel momento in cui viene impiegato il metodo storico. E quella che ab­ bozza - a titolo forse provvisorio - non è una vera teoria, ma la trac­ cia di un continuum, quantitativo e qualitativo, dei "gradi" della con­ sapevolezza storica presente nelle varie concezioni religiose del tempo. Uno schema verosimilmente frutto delle ultime riflessioni dell'autore (e quindi databile tra il I 962 e il I 965 ) che vede il succedersi - ma anche l'alternarsi - di situazioni storiche che favoriscono o richiedono il ricorso a determinate concezioni del tempo, ridotte da de Martino drasticamente a quattro: un tempo delle origini, un tempo ciclico, un tempo lineare e un tempo etico. Lo schema, anche se ha tutta l'aria di una sequenza, non va letto in senso cronologico ma logico: il passag­ gio da un grado all'altro non è mai completo né garantito, per cui il continuum risulta alla fine aperto e flessibile. È uno schema tuttavia che non convince del tutto, specialmente oggi che il dibattito sul con­ cetto di tempo si è alquanto affinato, ma bisogna prenderlo per quello che si proponeva di essere: un antidoto contro gli eccessi di un bipola­ rismo che stava fortemente ideologizzando gli studi religiosi. Cominciamo dal primo "grado " , quello che si riferisce al tempo delle origini. De Martino scrive che «un minimo di consapevolezza della storia» si trova anche in quelle culture che controllano l' ango­ scia del tempo che scorre ricorrendo a uno o più riti che ripetono e rinnovano il mito delle origini. Questo grado minimo di consapevo­ lezza storica sarebbe attestato proprio dal fatto che questi popoli, preoccupandosi di cancellare la storia, dimostrano di possederne la nozione: si cancella ciò che si teme, non ciò che si presume non esi­ stere. Quindi anche quelle società primitive, che non hanno avuto duraturi contatti con il mondo occidentale e che gli etnologi si osti­ nano a ritenere sfornite di senso storico perché prive di un orizzonte escatologico, sono società che comunque fondano un tempo, anche se



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è quello del mito, e fondano pure una storia, nel momento stesso in cui la temono e la cancellano nella finzione rituale. Come si vede, de Martino distingue queste religioni che si limita­ no a proporre un "passo indietro " nel tempo, dalle religioni dell"'e­ terno ritorno " : le prime non prevedono una fine, le seconde equipa­ rano la fine al principio . Una distinzione assente in Eliade, per il qua­ le il mito delle origini descrive o la fine di una condizione paradisiaca o il sacrificio cosmogonico di un essere primordiale o entrambi gli eventi. Ma anche il tempo propriamente ciclico viene inteso da de Martino, almeno sul piano antologico, in netto contrasto con Eliade. Per quest'ultimo il mito dell'eterna rigenerazione costituisce una sorta di passaporto per il ritorno periodico e costante, e sempre garantito, alla condizione paradisiaca; mentre per de Martino il tempo che ri­ torna e "non passa" è la metafora del rischio estremo, è una imitatio naturae che anche a livello psichico e culturale non produce altro che nostalgia per l'identico e coazione a ripetere. E d'altra parte non è vero, come pretende Eliade, che ogni complesso mitico-rituale consa­ crato alla fine e alla ricreazione del mondo si riduca a una cancella­ zione della storia e basta: la grande festa del capodanno babilonese, ad esempio, non si limita a polverizzare la sequenza temporale nella rappresentazione del caos pre-cosmico, ma prevede anche una " rica­ pitolazione" dell'anno che è passato e una serie di "anticipazioni" dell'anno a venire. In altre parole: a un uso patologico del tempo ci­ clico, noi umani sappiamo anche contrapporre un uso culturale, qua­ le emerge dalle filosofie della storia elaborate dalle più svariate civiltà religiose: come il mito greco delle stirpi metalliche o la teoria dei quattro regni che emana dalla visione di Daniele. Sia le religioni del passo indietro che le religioni dell'eterno ri­ torno si fondano comunque sul mito delle Origini: sono religioni che Eliade definisce «cosmiche» e che si contrappongono a quelle dette «storiche» per due motivi, essenzialmente: queste ultime infatti stabi­ liscono con il divino un rapporto non diretto, ma mediato, e si di­ spiegano in un tempo che chiamiamo con molta approssimazione "li­ neare" . Come già anticipato, de Martino tende a sfumare questa con­ trapposizione e distingue, tra le religioni dotate di senso storico, quel­ le che si fondano sul mito della Fine e quelle che si fondano sul mito del Centro. Cosa intende l'autore per "mito del Centro" ? Un evento storico, decisivo, che taglia in due la successione temporale e stabili­ sce un "prima" e un " dopo" : come il trasferimento di Maometto dal­ la Mecca a Medina o come - ma a un livello «incomparabilmente superiore» - l'incarnazione di Cristo. E qui entriamo nell'ordine dei 133

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problemi relativi alla concezione cristiana del tempo: nell'ossatura del secondo capitolo. A questa parte del libro, quando uscì l'edizione dei frammenti, fu riservata una strana e fredda, se non astiosa, accoglienza, culminata in vere e proprie stroncature (Bori e Di Nola) . Eppure Clara Gallini, che all'epoca non era stata tenera con alcuni aspetti dell'opera de­ martiniana, aveva già presentato le pagine dedicate all'apocalittica protocristiana come «le meno discutibili e caduche di tutto il libro». Solo più tardi, grazie anche all'autorevole intervento di Arnaldo Mo­ migliano e alle successive ricerche di Marcello Massenzio, questo blocco di spunti e riflessioni è stato restituito al de Martino "maggio­ re" . Ma le riserve che inizialmente suscitò sono, almeno in parte, comprensibili: l'autore non aveva ancora cominciato la rilettura degli scritti di Omodeo sull'argomento, e non aveva preso minimamente in considerazione (per scelta deliberata?) il problema delle apocalissi apocrife, basandosi quasi esclusivamente sui testi neotestamentari (per di più tratti da un'edizione popolare della Bibbia) e lasciando ina­ spettatamente in sospeso l'analisi della apocalissi giovannea. Il lavoro - c'è bisogno di ripeterlo ? - era appena agli inizi. Ciò malgrado, il pensiero dell'autore su due punti fondamentali si presenta già suffi­ cientemente orientato; e i due punti sono, come ora vedremo, il drammatico problema del differimento della Parusia (il ritorno di Cri­ sto) e l'interpretazione del cristianesimo come grandioso complesso funerario . Sono due temi che mettono a fuoco il faticoso processo di elabo­ razione del tempo compiuto dai primi teologi cristiani, che portò mi­ rabile coesistenza di entrambe le concezioni, la ciclica e la lineare. I Vangeli, presentando come eventi imminenti il ritorno di Cristo e la fine del mondo, avevano creato un tale clima di fiducia, ma anche di spasmodica attesa, da compromettere drammaticamente la formazio­ ne e la tenuta di una "civiltà cristiana" , di un mondo in grado di sostituire per sempre, attraverso una pacifica rivoluzione, quello dei pagani. La fondazione di un tempo liturgico, l'istituzione dei sacra­ menti (in particolare quello della eucaristia, che consente al credente di incontrarsi di nuovo e subito con Cristo) e infine il progetto pente­ costale resero possibile il rinvio continuo e sistematico degli eventi legati alla fine, garantendo un orizzonte temporale all'azione missio­ naria e il dischiudersi di una Storia, radicalmente nuova rispetto alle precedenti. Ma l'elemento fondamentale di questa grandiosa manipo­ lazione del tempo attraverso l'iterazione liturgica non è individuato da de Martino nella istituzione del sacramento eucaristico, bensì nella centralità del mito cristologico, basato su quei tre inscindibili mo1 34



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menti - la Passione, la Morte e la Resurrezione - che i riti pasquali ripetono e riattualizzano, ma che si estendono a tutto l'anno liturgico e a tutta l'umana parabola. È questo un punto che l'autore aveva chiaro ben prima della ideazione della Fine del mondo e che troviamo espresso in vari modi in Morte e pianto rituale e anche in un blocco di appunti più recentemente edito con il titolo di Fondamenti di una teoria del sacro. Il passo che segue fa parte proprio di quest'ultimo testo: Gli anni storici calcolati sulla base del ciclo solare, e articolati in mesi storici calcolati sulla base del ciclo lunare, sono destorifìcati nell'anno liturgico. Ogni anno liturgico ripete innanzitutto il ciclo della nascita, passione, morte e risurrezione di Cristo, e tocca il suo vertice di destorifìcazione nella risurre­ zione dell'Uomo-Dio, che toglie i peccati del mondo. La Pasqua è pertanto il vertice di destorifìcazione dell'anno liturgico cattolico. La settimana di Pa­ squa è la settimana esemplare, la domenica di Pasqua il punto di riduzione di tutti i giorni dell'anno: così tutte le altre settimane e tutte le altre domeniche ripetono quella settimana e quella domenica. [ ] La Pasqua è il giorno in cui l 'uomo-dio è risorto vincendo la morte; la vigilia di Pasqua fu il modello delle vigilie cimiteriali presso le tombe dei martiri, e le vigilie cimiteriali det­ tero luogo alle feste dei martiri. . . .

Il seguito di questo ragionamento lo troviamo negli appunti per La /ine del mondo (brano 1 64 ) , dove si legge:

È

dunque possibile interpretare la genesi del protocnsuanesimo come la esemplarizzazione di una storica risoluzione di una crisi del cordoglio: risolu­ zione che trasforma Gesù morto nel Cristo risorto, e il morto-che-torna della crisi nel morto-risorto presente nella Chiesa e per eccellenza nel banchetto eucaristico, sino a quando il già accaduto della promessa sarà compiuto me­ diante lo slancio missionario. Ciò suggerisce un approfondimento ulteriore della tesi di Morte e pianto rituale nel mondo antico e autorizza a interpretare il Cristianesimo come un grande rituale funerario per una morte esemplar­ mente risolutiva del vario morire storico e come pedagogia del distacco e del trascendimento rispetto a ciò che muore.

Attenzione però: se è vero che il cristianesimo ha una marcia in più rispetto alle altre religioni che ricorrono a una concezione lineare del tempo ( come l'ebraismo) in quanto colloca il proprio mito fondatore - il sacrificio di Cristo - nel cuore stesso della storia umana, è anche vero che l'iterazione rituale di questo evento tende comunque ad an­ nullare la storia e a dissolvere quel «lievito umanistico» che è pre­ sente nel simbolo del dio che si fa uomo e per l'uomo muore. Il limi­ te del cristianesimo resta quello già a suo tempo individuato da de 135

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Martino: pur piantando la croce al centro della storia, questa religio­ ne ha sempre negato ai suoi credenti la possibilità di vivere nella sto­ ria, offrendo loro solo la possibilità di viverne fuori, attraverso il col­ laudato sistema della destorificazione. In parole più spicce, il limite del cristianesimo sembra risiedere proprio nel fatto che è - non sol­ tanto, ma soprattutto - una religione. Ma naturalmente de Martino intende andare più in là di questa apodittica e per nulla originale af­ fermazione; il problema dell'uscita dal cristianesimo, che a questo punto coincide con il problema dell'uscita dalla religione, va affronta­ to non con gli argomenti pro e contro della propaganda, ma con gli strumenti della storia delle religioni, come laicamente la concepiva Pettazzoni: una disciplina delegata anche allo studio della scomparsa o della perdita di attualità ed efficacia simbolica delle varie forme di culto. Presa questa strada, de Martino comincia ad analizzare i termi­ ni dell'uscita dalla religione partendo proprio dal problema che stia­ mo inseguendo: il problema del tempo, che a questo punto si identi­ fica con il dramma del passaggio da un tempo pre-definito (lineare) a un tempo in fieri (etico ) . E il problema non è astratto come sembra: perché il dramma è già presente nel pensiero cristiano, soprattutto in quello più avanzato. Due erano, in quegli anni, gli indirizzi che si ponevano, da un punto di vista strettamente religioso, il problema del tempo e del fu­ turo della religione: il primo, di ispirazione eliadiana e orientamento cattolico, sosteneva la nota tesi di una " eclissi del sacro " , basandosi essenzialmente sui dati statistici relativi al comportamento religioso di massa nell'Occidente industrializzato; il secondo, di matrice prote­ stante, sosteneva che il cristianesimo, per rilanciarsi, doveva liberarsi del suo involucro mitico . Indifferente al primo, de Martino trova al­ l'interno del secondo indirizzo un interlocutore a distanza di quelli che predilige: un teologo che affronta i suoi temi con un metodo quasi opposto al suo e che scrive un libro di grande impatto, con cui si devono fare assolutamente i conti. Il teologo è Rudolf Bultmann e il libro è Storia ed escatologia ( 1 957 ) , tradotto in Italia nel 1 962 . De Martino intervenne sulle questioni sollevate dal libro nel corso di un dibattito organizzato dalla rivista "De Homine" nella primavera del 1 964; ma sono questioni su cui intendeva evidentemente tornare, vi­ sto che tra gli appunti per la Fine del mondo si leggono riflessioni più ampie sul libro. C'è anzi una interessante discrepanza tra i due testi: nel primo prevalgono i rilievi critici, nel secondo le sollecitazioni. Cosa diceva, in sintesi, Bultmann? Diceva che il momento escatologi­ co va strappato di forza dal pensiero mitico, perché solo la pigrizia e la cautela delle istituzioni lo ha relegato nel passato o nel futuro: il



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momento escatologico è invece pensiero in atto, incapsulato nel pre­ sente e tutto teso alla presentifìcazione di una scelta, di una decisio­ ne. Una decisione che comporta - è vero - una reinterpretazione del passato e una responsabilità rispetto alle azioni future, ma viva e reale solo nell'istante e nel luogo in cui viene presa: hic et nunc. La tesi, che ha un sapore storicistico, viene letta da de Martino come un'ulte­ riore prova della presenza di un lievito umanistico nel pensiero cri­ stiano, come un esplicito riconoscimento della positività della storia; ma è una tesi che, più o meno espressamente, taglia via dall' espe­ rienza del credente tutto un mondo di simboli che non è affatto estraneo a questo nucleo di fede e che contribuisce alla fondamentale operazione di non lasciare il soggetto in balia della solitudine e del­ l' assurdo. De Martino qui ricorda il simbolo trinitario, il culto della Madonna e dei santi, la Chiesa come amministratrice di sacramenti e tutto quanto «parla al cuore e alla immaginazione di un cattolico»; e potrebbe anche andare avanti su questa linea vagamente rivendicati­ va, ma si frena, consapevole forse della particolarità del suo anti-anti­ cattolicesimo, permeato da una esperienza etnografica e storiografìca che continua inevitabilmente a condizionarlo, anche sul piano episte­ mologico. Più incisiva e gravida di sviluppi è invece la lettura di Storia ed escatologia che l'autore compie nelle private carte della Fine del mon­ do, che rimandano solo in parte al citato intervento. Qui infatti la domanda non è più "perché Cristo e solo Cristo? " ; le domande si moltiplicano e toccano il cuore del problema: "perché Dio e solo Dio ? " , "perché gli dei e solo gli dei ? " , "perché non gli uomini? " . Se la possibilità di una decisione valorizzante è data, perché escludere allora una decisione integralmente umana, nella sua genesi, nella sua destinazione e nella qualità dei valori prodotti? Perché, in altre paro­ le, per raggiungere e amare gli altri io dovrei seguire la via più lunga, che passa per i cieli? - Ma è meglio lasciare la parola all'autore: In particolare l'umanista può muovere al Bultmann una obiezione di fondo. Perché dovrei avere bisogno oggi, nella mia posizione storica di europeo mo­ derno, della opzione a favore della immagine del Dio-Uomo per amare gli uomini e per mettere me stesso in causa davanti ai loro dolori e alle loro miserie? Perché questa necessità del "mediatore " per impegnarmi verso la gente che vive intorno a me e che incontro nella concretezza di volti indivi­ duati rammemoranti hic et nunc biografie personali che non debbono lasciar­ mi indifferente? Questi volti chiedono a me, qui ed ora, decisioni in loro nome e non in nome di Cristo, e già la sensibilità moderna avverte un princi­ pio di offesa recata all'altro il dover ricorrere al détour, all' Umweg [alla stra­ da più lunga] della decisione a favore di Cristo per individuare questo altro

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nella folla, nel vicinato, nella fabbrica, nella scuola, nella famiglia e per ri­ stabilire con questo altro il vivente circuito della operosità sociale (brano 177·3).

Tutto questo è possibile, ma tutt'altro che facile, perché ancora una volta è necessario compiere un "passo eroico " , un gesto prometeico: rubare il tempo agli dei e restituirlo finalmente agli uomini. Non più vivere in un tempo in cui l'oggi è come era al principio e come sarà nei secoli dei secoli, ma in un tempo in cui è l'uomo a decidere, na­ turalmente nei limiti della sua condizione: un tempo che de Martino non definisce laico, ma etico, perché è il tempo della presenza, che sotto lo stimolo di problemi presenti ripercorre scegliendo la storia della civiltà occidentale, confronta questa storia con quel­ la delle altre civiltà, e prospetta una proposta umana di unificazione del no­ stro pianeta per renderlo degno della conquista degli spazi cosmici, e della nuova storia, che ne risulterà: una proposta umana, come tutte le proposte culturali ancorché sono state consapute come divine, e che nella piena consa­ pevolezza della sua origine e destinazione umana non può contare su nessun destino scritto nelle stelle, ma unicamente sull 'uomo che vive in società (bra­ no 1 2 3 : un inciso che prorompe mentre sta pazientemente schedando Urzeit und Endzeit di Van der Leeuw) .

Questo concetto di tempo " etico" non viene definito per esteso da de Martino, tuttavia esce sufficientemente chiaro dal contesto. Per co­ minciare ci dice quello che non è. Non è il tempo unilineare e trion­ fale degli illuministi e dei positivisti; non è il tempo del «progresso dell'idea nella speculazione idealistica», né «il rovesciamento di que­ sto progresso nella dialettica marxiana»; e nemmeno è quella sorta di tempo «frantumato» a cui fanno riferimento gli esistenzialisti e i rela­ tivisti. È un tempo al contrario che deve partire da un centro, da un evento-frattura capace di imprimere una nuova direzione alla storia e di prospettare una nuova meta, da raggiungere e superare: come il tempo cristiano ha il suo centro motore nella incarnazione di Cristo, così il nuovo tempo ha già il suo evento centrale, fondato dagli uomi­ ni per gli uomini: la Rivoluzione russa, i dieci giorni che sconvolsero il mondo; un inizio non assoluto, aggiunge de Martino (brano r 67 ) , m a relativo all'epoca in cui "io" vivo e scrivo. Questa ferma fiducia nel nuovo corso storico instaurato dalla Rivo­ luzione del 1 9 1 7 , che oltrepassa i drammatici ma «meno sconvolgenti» giorni del 1 9 5 6 , non ci sorprende. Nel r 96 r , in un " atto di fede" che invia a Pietro Secchia, de Martino scrive che con la Rivoluzione di Ottobre si è comunque «messa in movimento la nuova era, così come



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la precedente si aprì con la predicazione di Cristo» e crede «nella uni­ ficazione dell'umanità che vive sul nostro pianeta in una varietà di re­ pubbliche socialiste plasmate secondo il principio della origine del de­ stino umano di tutti i beni culturali, senza residuo alcuno per il meta­ storico» (Compagni e amici, a cura di R. Di Donato, La Nuova Italia, Firenze 1 99 3 , p. IL) . Inoltre de Martino credeva fortemente nel simbo­ lismo socialista e guardava con la massima attenzione ( cfr. l'ultimo dei saggi compresi in Furore Simbolo Valore) al possente lancio, in atto nell'Unione Sovietica, di una serie di riti laici, pur avvertendo l'assenza di un vero dibattito a livello teorico. Tutto questo, ripeto, non sor­ prende. Sorprende invece che in una teorizzazione di ampio respiro come quella che ci sta tracciando compaia un inaspettato riferimento alla desacralizzazione del tempo operata dai sovietici nel solco della tradizione marxista, dopo tutti gli sforzi che de Martino aveva compiu­ to per la totale revisione della "infantile" teoria marxista della religio­ ne, dimostrando di possedere una visione molto più articolata e pro­ fonda circa il problema dell'uscita dal cristianesimo. È vero che l'auto­ re, quando parla dei vistosi limiti della storiografia religiosa marxista (nel IV capitolo del libro) si riferisce soprattutto ad Engels, denunciato come il primo responsabile dell' «imbarbarimento positivistico» della dottrina, ma è anche vero che non mancano rilievi di ordine generale, come quando scrive che su quella storiografia «grava il pericolo di un continuo scambio fra la presa di coscienza rivoluzionaria della agonia del divino nella nostra civiltà e il criterio di interpretazione della vita religiosa nelle umane civiltà» (brano 249); o addirittura di fondo, come quando mette in discussione la categoria marxiana dell'economico, in un brano che rovescia il senso del discorso pronunciato da Engels sul­ la tomba di Marx . Quale era stato, detto in sintesi, il grande merito di Marx? Quello di avere scoperto la legge dello sviluppo umano, e cioè il fatto elementare, semplice, sino ad oggi velato da schermi ideologici, che gli uomini prima di occuparsi di politica, di scienza, di arte, di religione, ecc., debbono prima di tutto mangiare, bere, vestirsi e trovare alloggio; e che, di conseguenza, la produzione dei mezzi materiali di esistenza, e con ciò il grado di sviluppo economico di un popolo o di un'epoca, costituiscono (e non inversamente come si riteneva sino ad oggi) tutte le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l' arte e le stesse idee religiose dell'uomo (brano 2 5 5 ) .

Riprendendo e sviluppando poi i n modo del tutto indipendente l e ri­ flessioni dell'ultimo Croce sulla categoria dell'Utile e del Vitale, de Martino osserva che tutto questo è vero, ma non è tutto: la nuda eco­ nomicità è un'astrazione che non ha alcun fondamento storico, alla 1 39

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sua radice c'è sempre un ethos che la genera e la condiziona e che è l' ethos primordiale della presenza (da qui in poi definito ethos del tra­ scendimento); un'energia morale che carica l'economicità di valori in­ tersoggettivi e che «in ultima analisi non deriva dall'ordine socio eco­ nomico ma lo condiziona alla radice». Vediamo però come giunge a questa perentoria affermazione, che tanto ha fatto e fa discutere. Il ragionamento prende avvio proprio dalle ultime parole della "legge" riformulata da Engels: E tuttavia " mangiare, bere, vestirsi e alloggiare " , o "la produzione dei mezzi materiali di esistenza " o "il grado di sviluppo economico di un popolo o di un'epoca" sono a loro volta testimonianza di un ethos primordiale di farsi presente al mondo da uomini, cioè dall'ethos della presenza come energia di presentificazione secondo valori intersoggettivi: infatti un determinato regime economico comporta una scelta socializzata, una volontà di emergere dalle con­ dizioni naturali mediante una ripartizione di compiti produttivi, una fedeltà al regime prescelto che obbliga a rispettare nelle operazioni economiche de· terminati condizionamenti oggettivi, e al tempo stesso un margine di iniziati­ va che si esprime in invenzioni tecniche, in riplasmazioni e ridistribuzioni dello stesso ordine economico e sociale. Ora tutto questo è già ethos che va oltre la mera individualità naturale, e se questo ethos viene meno, la stessa pietra scheggiata del paleolitico, la stessa divisione del lavoro fra caccia (affi­ data agli uomini) e raccolta (affidata alle donne e al loro bastone da scavo) sarebbero stati impossibili. [. .. ] L'aver trascurato questo ethos fondamentale è il limite del marxismo, la ragione di tutte le sue insufficienze analitiche, come lo scarso rilievo alla funzione positiva del simbolismo mitico-rituale, nelle società divise in classi, la incomprensione della funzione permanente della vita simbolica (anche nella società socialista) , e infine il credere che una scienza della natura e una scienza della società possano come tali "sostituire " la religione, una volta che la società senza classi sia stata realizzata" (brano 2 5 5 , corsivo mio) .

Sicché, anche se dispone di un centro storico e di un orizzonte uma­ no, la concezione del tempo dei marxisti rimanda solo imperfetta­ mente e senza la necessaria radicalità al tempo etico che de Martino ha in mente e che resta un tempo "non garantito " , perennemente da conquistare e da salvaguardare dalle sirene dell'eterno ritorno e dalle chimere di un paradiso in cielo o in terra. Un tempo eroico - sempre nel senso laico e non individuale del termine - che non è dato, ma è da costruire, qui ed ora, senza mai perdere di vista il fatto che nessun uomo vincerà mai la paura del buio assoluto. Ho detto qui ed ora, e questo è l'ultimo e più problematico aspet­ to del problema posto dall'autore: il tempo etico è infatti per lui, sen­ za esitazioni, il tempo dell'Occidente moderno e in quanto tale anche

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il tempo dell'antropologia. Ma cerchiamo di seguire le tappe del ra­ gionamento di de Martino su questo punto fondamentale della sua metodologia, che solo con La fine del mondo trova una precisa for­ mulazione. Il punto di partenza è, ancora una volta, non solo la liqui­ dazione definitiva di una concezione ciclica del tempo (con il suo eterno ritorno dell'identico) ma anche la liquidazione, più difficile ma già in atto, delle concezioni lineari (che tendono tutte a riproporre il piano di una Storia Universale) : queste concezioni sono palesemente inattuali, in un mondo in cui le genti le culture e le storie sono tante e disperse. Si deve quindi far valere l'esigenza di «un dover relaziona­ re (confrontare) l'attuale molteplicità delle genti, delle culture, delle storie, nella prospettiva di un comprendere e di un operare che unifi­ chi l'umanità dispersa: unificazione che sta però come compito da­ vanti a " noi " , e non come piano prestabilito da Dio o dalla Materia» . E il riconoscimento, senza infingimenti, che «al centro dell'impulso confrontante, unificante e pianificante siamo "noi" in quanto occiden­ talz� cioè in quanto depositari dell'unica cultura umana che, a capo di un lungo corso storico, ha prodotto la scienza del confronto di sé con le altre culture: la etnologia» (brano 1 96, corsivo mio). Queste considerazioni, molto nette ma di ordine ancora generale, sono la necessaria premessa alla parte propositiva del discorso, che intende mettere a fuoco i problemi della ricerca etnografica e che è contenuta in un blocco omogeneo e tesissimo di appunti che l'autore si era prefisso di sviluppare nell'Epilogo. Questi appunti - complessi­ vamente intitolati L'umanesimo etnografico - si trovano ora, nell'edi­ zione postuma dell'opera, a coronamento del terzo capitolo, e costi­ tuiscono il punto più alto e anche più discusso della riflessione meto­ dologica dell'ultimo de Martino. I due concetti ivi espressi e le due relative locuzioni - incontro etnografico ed etnocentrismo critico sono entrati di forza, negli ultimi anni, nel dibattito sul metodo delle scienze antropologiche: ci limiteremo qui, per ovvie ragioni di spazio, a ricostruire il filo delle due enunciazioni, senza entrare nel merito delle obiezioni che sono state avanzate da più parti. Abbiamo visto come il discorso intorno al tempo etico ha portato l'autore a dover chiarire qual è il rapporto tra questo tempo - che è essenzialmente il tempo moderno - e la scienza che ha prodotto: l'et­ nologia. Si tratta quindi di ridefinire questo campo del sapere e di dargli un impulso tutto nuovo: «Una etnologia adeguata alle esigenze dell'umanesimo moderno deve prender coscienza che il suo oggetto non è semplicemente la scienza delle culture a basso livello tecnico, o non letterate, o " cosiddette primitive " , ma piuttosto la scienza del loro

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rapporto con la cultura occidentale, a partire dall'incontro etnografico in quanto tematizzazione di tale rapporto» (brano 2 1 3 ) . Vediamo al­ lora a quale umanesimo de Martino si riferisce: è quello che lui chia­ ma «umanesimo etnografico», distinguendolo naturalmente dall'uma­ nesimo classico o filologico coltivato negli alti ambienti europei fino al Quattrocento e basato sul recupero di un passato illustre; mentre i primi semi del futuro umanesimo etnografico vengono gettati fin dal secolo (il XVI) delle grandi scoperte geografiche e della fondazione dei principali imperi coloniali, quando l'incontro con i popoli transo­ ceanici pose in primo piano «sia pure nel quadro di interessi coloniali e missionari, una nuova modalità di rapporto con l'umano: la modali­ tà dell'incontro sincronico con umanità aliene rispetto alla storia del­ l'Occidente, e quindi anche la modalità dello scandalo e la sfida di tale alienità». Ed anche se il rapporto fu per molto tempo inquinato dall'immaginario dei viaggiatori e dalla violenta prassi dei conquista­ tori, la storia dell'Occidente si arricchiva di una nuova dimensione: «guadagnava potenzialmente una nuova possibilità umanistica: quella di mettere in causa se stessa, di problematizzare il proprio corso, di uscire dal suo isolamento corporativo e dal suo etnocentrismo dogmati­ co, e di attingere un nuovo orizzonte antropologico mediante la con­ frontante misurazione di sé con altri modi di essere uomini in socie­ tà» (brano 2 1 9, corsivo mio). Si trattò naturalmente di un umanesimo etnografico fortemente li­ mitato, per secoli, dalla strumentalità e dalla violenza del rapporto, basato sullo sfruttamento e sulla conquista dei corpi e delle anime; e che solo nel xx secolo, con la seconda Rivoluzione industriale e il tramonto del colonialismo, ha trovato modi per dispiegarsi ed instau­ rare le condizioni di un dialogo. Ma un nuovo pericolo, di natura epistemologica, incombe ora sulle modalità dell'incontro e del con­ fronto: questo pericolo è il relativismo culturale. Purtroppo qui (come altrove) de Martino parla solo in negativo di questo indirizzo di pen­ siero: lo confuta sulla base di antichi preconcetti e scende poco nel­ l' analisi dei "misfatti" , senza probabilmente rendersi conto che il suo anti-relativismo può essere letto in chiave esclusivamente idealistica. Egli pensava - almeno questa è la mia impressione - che fosse più urgente la definizione di un indirizzo alternativo, per liquidare una corrente di studi che stava già entrando in crisi per proprio conto. Una cosa è certa: la stessa definizione di «etnocentrismo critico» e le connesse riflessioni sull' «incontro etnografico» contengono di per sé tutti gli elementi di questo netto rifiuto. Cominciamo dalla definizio­ ne (cito una delle più sintetiche) :



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Solo l'Occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel sen­ so largo di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene: ma questo confronto non può essere con­ dotto che nella prospettiva di un etnocentrismo critico, nel quale l'etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma, al tempo stesso, nell'atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma e di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone all'inizio della ricerca. Solo ponendo in modo critico e deliberato la storia dell'Occidente al centro della ricerca confrontante, l'etnologo potrà concorrere a inaugurare una consape­ volezza antropologica più ampia di quella racchiusa nell'etnocentrismo dogma­ tico (brano 2 I 9, corsivo mio) .

E passiamo ora a vedere come è possibile tradurre tutto ciò nel con­ creto della ricerca etnografica. De Martino non scende in particolari, si limita a segnalare il problema che fonda lo stesso sguardo dell'et­ nografo: e cioè l'uso delle categorie interpretative. Di solito viene raccomandato all'etnografo di osservare senza preconcetti i fatti etnografici e di descriverli con esattezza. Ma tale raccomandazione, pro­ prio in ragione della sua ovvietà, dice molto poco quando si ritiene di aver dato con essa il fondamento della ricerca etnologica: in realtà proprio questo "fondamento" chiede di essere "fondato" . Quando l'etnografo osserva feno­ meni culturali alieni, cioè impartecipi al corso storico attraverso il quale si è venuta formando la cultura cui l 'etnografo appartiene [ . . . ] , l'osservare è reso possibile da particolari categorie di osservazione, senza le quali il fenomeno non è osservabile (brano 2 I 4 ) .

Queste categorie, che entrano sempre in azione - e in misura maggio­ re se il fenomeno osservato esce dal campo della nostra esperienza non sono soltanto quelle fissate una volta per tutte da Aristotele ma anche quelle che si sono venute formando nel corso della storia del­ l'Occidente e che non appartengono alla sfera della logica ma alla sfera dell'interpretazione (come le dicotomie natura e cultura, sanità e malattia, individuo e società, utile e dannoso ecc. ) . Ma de Martino insiste naturalmente su quelle distinzioni che scaturiscono dall'impie­ go della categoria "magia" (razionale e irrazionale, normale e para­ normale, cristiano e pagano, alto e basso ecc.) e che lo hanno messo in feconda difficoltà fin dagli anni quaranta. È qui in particolare che si presenta la paradossale alternativa che è alla base dell'incontro et­ nografico:

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o l' etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di " farsi nudo come un verme" di fronte ai fenomeni culturali da osservare, e allora diventa cieco e muto davanti ai fatti etnografici e per­ de, con i fatti da osservare e da descrivere, la propria vocazione specialistica; ovvero si affida ad alcune " ovvie" categorie antropologiche, assunte magari in un loro preteso significato "medio " o "minimo" o di "buon senso " , e allo­ ra si espone senza possibilità di controllo al rischio di immediate valutazioni etnocentriche, a partire dallo stesso livello della più elementare osservazione (brano 2 r4).

Da questo vicolo cieco non si esce che tornando indietro, risolvendo l'incontro etnografico in una duplice tematizzazione: del "proprio" e dell"'alieno " . De Martino non prende nemmeno in considerazione la via estrema tentata dal relativismo cognitivo (che consiste nello spo­ gliarsi delle proprie categorie e assumere mimeticamente le categorie altrui) , e si capisce: per questa via si rinuncia non solo ad essere occi­ dentali, ma anche etnologi. Solo una quarta via, per assurdo, si po­ trebbe dare: quella di «uscire dalla storia per contemplare tutte le culture, compresa la occidentale», che è poi in fondo quella teorizza­ ta in vari scritti da Lévi- Strauss. Ma per questa via si opera di nuovo quella distinzione tra prospettiva storica e prospettiva etnologica, che ha costituito sempre, per de Martino, il principale ostacolo alla co­ struzione di una scienza unitaria dell'uomo: sin da quando, nel lonta­ no 1 940, era sceso in campo con il proposito di rivendicare «il ca­ rattere storico dell'etnologia».

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Nota biobibliografica

Quando de Martino morì, il 6 maggio r 965 , a soli cinquantasette anni, non mancarono, oltre ai consueti elogi funebri, le ricostruzioni a caldo del suo iter intellettuale e delle tappe del suo impegno civile, ma soprattutto si ri­ parlò dei libri e degli articoli che avevano fatto di lui un protagonista nel panorama culturale italiano degli anni cinquanta. Se si eccettua una tavola rotonda messa in onda dal terzo programma della RAI (a cui parteciparono il filosofo Enzo Paci, lo scrittore Carlo Levi, l'etnomusicologo Diego Carpitella e lo psichiatra Giovanni Jervis, e recentemente ristampata nel volume Pano­ rami e spedizioni, a cura di L . Lombardi Satriani, L. Bindi, Bollati-Borin­ ghieri, Torino 2002) e l'uscita su "Quaderni piacentini " di due lungimiranti articoli di Cesare Cases e Franco Fortini ( di cui si parlerà più avanti) , pre­ valse l'immagine di un de Martino meridionalista a tutto campo, con scarsi accenni al suo metodo di lavoro e ai suoi apporti teorici nel dominio delle scienze religiose. Il de Martino " filosofo della cultura " , il de Martino "fonda­ tivo " , per essere scoperto e studiato, doveva aspettare ancora molti anni, malgrado il cospicuo capitolo dedicatogli da Giuseppe Galasso nel suo Cro­ ce, Gramsci e altri sto rici (Il Saggiatore, Milano r 96 8 ) , dove però non risalta­ va la relativa autonomia dello studioso rispetto al pensiero crociano. Un altro aspetto che emerge dalle prime rievocazioni è che della vita di de Martino si sapeva poco o nulla: si sapeva in pratica solo quello che lo stesso autore aveva più volte, nei suoi frequenti e sistematici " esami di co­ scienza " , detto di sé e quindi voluto che si sapesse. E in questa singolare situazione ci troviamo, sostanzialmente, ancora oggi, dato che nel frattempo una biografia non è uscita. Le parche notizie che forniamo nel testo e in questa succinta Nota, provengono essenzialmente da tre tipi di fonti: r . La Nota biobibliografica stilata da Mario Gandini nel lontano r 972 ( ''Uomo e cultura " , 5 ) ; la voce redatta da Vittorio Lanternari per il Dizionario biografico degli italiani, vol. XXXV I II, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma r 99o; Le date di una vita, l'accurata " cronologia" che Cesare Bermani ha posto in apertura del fascicolo 5 - 6 ( r 9 96) di " Il de Martino. Bollettino dell'Istituto Ernesto de Martino " , a cui rimandiamo il lettore che desideri maggiori infor­ mazioni; L'opera di E. de Martino. Promemoria bibliografico, di Annamaria Fantauzzi, in "L' acropoli " , 6, 2 005 , per le aggiunte e gli aggiornamenti. 2. I riferimenti e talvolta anche gli aneddoti contenuti nei testi dei suoi principali

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collaboratori o allievi, come Carpitella, Jervis, Brelich, Gallini, Lanternari, Si­ gnorelli ecc. 3 · Le varie interviste che Vittoria de Palma, la sua compagna di vita e di lavoro, ha rilasciato a giornalisti e studiosi nel corso degli anni. Cfr. anche la voce de Martino da me stesa per la Encyclopedia o/ Religion , fonda­ ta da Mircea Eliade, Macmillan, New Y ork 2 004, vol. IV. Più confortante lo stato delle ricerche bibliografiche, almeno per quanto riguarda l'elenco dettagliato degli scritti di de Martino (libri, articoli, prefa­ zioni, recensioni, interviste ecc. ) : anche qui alla base c'è la accuratissima e già citata bibliografia del Gandini (aggiornata nel I 9 95 da Silvio Previtera e oggi consultabile anche in rete sul sito dell'Associazione internazionale Erne­ sto de Martino, www . ernestodemartino.it) ; ma ulteriori integrazioni si trova­ no nel citato Promemoria bibliografico di Annamaria Fantauzzi. Assai più lungo e complesso sarà il lavoro, in gran parte ancora da compiere, relativo alla bibliografia degli scritti su de Martino, piuttosto contenuta fino agli anni sessanta, ma cresciuta a dismisura negli ultimi decenni. Qui mi limito a se­ gnalare i libri di maggior rilievo e gli articoli che hanno più contribuito alla valutazione generale dell'opera e del pensiero. I principali libri da vedere sono: Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, cit . ; P. Cherchi, M . Cherchi, Ernesto de Martino: dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori , Napoli 1 9 8 7 ; La contraddizion e felice? De Martino e gli altri, a cura di R. Di Donato, ETS, Pisa I 990 (sono gli atti del Convegno tenutosi a Pisa nel I 9 8 7 ) ; V. Lanternari, La mia alleanza con Ernesto de Mar­ tino, Liguori, Napoli I 9 9 7 ; Ernesto de Martino nella cultura europea, a cura di C. Gallini, M. Massenzio, Liguori, Napoli I 997 (sono gli atti del Conve­ gno tenutosi a Roma e a Napoli nel I 9 9 5 l ; R. Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, manifestolibri, Roma I 999; G. Sasso, Ernesto de Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2 oo r . Numerosi inoltre sono i fascicoli dedicati alla figura e all'opera dello studio­ so da varie riviste specializzate, come " Studi e materiali di storia delle reli­ gioni " (5 1 , I 9 8 5 ) ,"La ricerca folklorica" ( r 3 , I 986), "Materiali per Io studio della cultura folclorica " ( I -2 , I 9 8 8 ) , " Storia, antropologia e scienze del lin­ guaggio" ( 3 , I 99 5 ) , " Il de Martino" già citato e la "Rivista sperimentale di freniatria" ( 2 , 2005 ) . Tra gli articoli ( e l e prefazioni a carattere generale) sono d a segnalare: R. Solmi, E. de Martino e il problema delle catego rie (in "il Mulino " , I, I 9 5 2 ) ; C. Cases, Un colloquio con E. de Martino (in "Quaderni piacentini " , 2 3 -4, 1 9 65 ) ; F. Fortini, Gli ultimi tempi (ibid. ) ; S . Badiali, C . Prandi, Ernesto de Martino (in due puntate, " Il portico " , 6 , I 96 5 , 8-9, I 9 6 7 ) ; C . Cases, Introdu­ zione a E. de Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino 1 973 ; A. Rivera, De Martino ieri e oggi (in "Problemi " , 3 9 , 1 974) ; P. Rossi, Sul relativismo culturale, de Martino e l'Introduzione di Cases a "Il mondo magico" ( ''Rivista di filosofia" , 2, 1 97 5 ) ; S. Barbera, Primitivismo e storia nazionale (ivi, 3 , 1 9 75 ) ; R . Brienza, Prefazione a Ernesto d e Martino, Mondo popolare e magia in Lucania [scelta di scritti] , Basilicata editrice, Roma-Matera 1 975 ; C . Galli­ ni, Introduzione a E. de Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 1 9 77; L . Lombardi Satriani, Introduzione a E. de Martino, Furore Simbolo Valore,

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NOTA BIOBIB LIOGRAFICA

Feltrinelli, Milano r 98o; P. Clemente, Alcuni momenti della demologia storici­ stica in Italia, in AA . vv . , L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Laterza, Bari 1 9 8 5 , pp. 3 -49; P. G. Solinas , Idealismo, marxismo, strutturalismo, ivi, pp. 207-30; M. Massenzio, Destorificazione istituzionale e desto rificazione irre­ lativa in E. de Martino ( '' Studi e materiali di storia delle religioni " , 5 1 , 1 9 85 ) ; G. Angioni, Un de Martino maggiore? ( "La ricerca folklorica " , 1 7 , 1 9 8 8 ) ; C . Ginzburg, Momigliano e de Martino ( ''Rivista storica italiana " , 2 , 1 9 8 8 ) ; F. Battistrada, E. de Martino: crisi del marxismo e "riscoperta" della religione, in "Critica marxist a " , 3 , 1 9 8 9 ; G. Imbruglia, Mondo, persona e storia in E. de Martino. Tra Croce e Cassirer ( "Archivio di storia della cultura " , 3 , 1 99o ) ; G. Giarrizzo, Note su Ernesto de Martino (ivi, 8, 1 995 ) ; M. Gandini, E. de Mar­ ' tino e R. Pettazzoni: dall'incontro dei primi anni 3 o all'autunno del 1 9 5 9 , in "Rivista di storia della storiografia moderna" , r - 3 , r 996; A . Signorelli, Il "si­ gnificato umano degli accadimenti": alcuni spunti di riflessione sull'epistemolo­ gia di E. de Martino, in AA.VV . , Filosofia e storia della filosofia. Studi in onore di F. Tessitore, Morano, Napoli 1 9 9 7 ; V. Vetere, Parole al limite. Lo stile del pensiero di E. de Martino, in "L'acropoli " , r , 2 oo r ; F. Ciaramelli, "L'asprezza della storicità". E. de Martino e la critica filosofica , in "L' acropoli " , 5 , 2 002 ; E. Montanari, De Martino e Pettazzoni: aspetti di un confronto metodologico, in " Studi e materiali di storia delle religioni " , 7 2 , 2006. De Martino era nato a Napoli, il r 0 dicembre 1 908, e amava dire che il mon­ do lo aveva salutato dopo pochi giorni con un terremoto: il terremoto di Messina, che riempì la città di sfollati provenienti dalla Calabria e dalla Sici­ lia, disperati e in lutto. Lo scrive nelle pagine di una autobiografia che lasciò allo stato di abbozzo (qualche frammento si trova in E. de Martino, Vita di Gennaro Esposito, Napoletano [appunti per una biografia, a cura di L . Chi­ datti] , Edizioni Kurumuny, Calimera 2004 ) . Della madre qualcuno dice che era interessata ai fenomeni spiritici. Il padre, più prosaicamente, era un inge­ gnere delle ferrovie, costretto per lavoro a continui trasferimenti: per cui Er­ nesto trascorse gli anni dell'adolescenza a Firenze, dove frequentò il liceo e dove strinse un'amicizia con un compagno (Armando Forte) destinata a tra­ sformarsi in uno scambio epistolare di esperienze intellettuali (cfr. G. Chatu­ ry, Il poeta e lo studioso. Una corrispondenza giovanile, in Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero, a cura di C . Gallini, Liguori, Napoli 2 005 , pp. 9 -4 ! ) . Presumibilmente per pressioni paterne nel 1 9 2 7 si iscrive alla facoltà di Ingegneria del Politecnico di T orino, ma dopo un anno lascia e opta per la facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Napoli. Tra il 1 9 2 9 e il 1 9 3 0 entra i n contatto con Vittorio Macchioro, u n archeologo passato alla teoria e alla storia delle religioni, autore di un libro famoso e discusso (Zagreus, La­ terza, Bari 1 92 0 : una erudita e fascinosa interpretazione in chiave orfica degli affreschi della Casa dei misteri di Pompei). De Martino ebbe con lui (ed anche con la figlia, Anna) un rapporto sia intellettuale sia affettivo molto in­ tenso: un rapporto piuttosto complesso che è stato studiato a fondo da Ric­ cardo Di Donato (Preistoria di E. de Martino, in " Studi storici " , r , 1 9 8 9 ) e

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che risulterà più chiaro quando sarà reso pubblico integralmente il carteggio intercorso tra i due. È altamente probabile, comunque, che sia stato proprio Macchioro a indirizzare de Martino allo studio del magismo e della fenome­ nologia paranormale. All'università, i due docenti da cui trae i maggiori stimoli sono Adolfo Omodeo (il grande storico delle origini cristiane e del Risorgimento italiano) e il filosofo Antonio Aliotta (autore di libri come La guerra eterna e il dram­ ma dell'esistenza [ I 9 I 9 ] e Le origini dell'irrazionalismo contemporaneo [ I 92 8 ] ) . È Omodeo a presentarlo, nel I 9 3 2 o giù di lì, a Raffaele Pettazzoni, il nume laico della Storia delle religioni in Italia (cfr. M. Gandini, R. Pettaz­ zoni nelle spire del fascismo, I9J I-JJ. Materiali per una biografia, in " Strada maestra " , 50, 200 I ) ; ed è con Omodeo che alla fine si laurea, con una breve e succosa tesi su I Gephirismi (scritte blasfeme ritrovate sul ponte che colle­ gava Atene ad Eleusi) preceduta da una Introduzione metodologica che servi­ rà da base al primo articolo scientifico pubblicato da de Martino : Il concetto di religione, in "La nuova Italia " , I I , I 9 3 3 , pp. 3 2 5 - 9 . Sul passaggio dalla tesi all'articolo, cfr. I greci selvaggi di Di Donato (saggio compreso nel libro omonimo) e Ernesto de Martino e le sirene. A proposito della tesi su "I ge­ phirismi" di Antonello Armando ( " Il sogno della farfalla " , 3 , I 994) . Gli anni della formazione intellettuale, comunque, sono in gran parte an­ cora da studiare (una prima e pionieristica ricostruzione fu tracciata da An­ drea Binazzi [Ernesto de Martino, in "Belfagor" , I 9 6 , I 9 69 ] ; ma oggi il letto­ re dispone anche del volume collettaneo Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero , cit . ) . Due importanti tasselli sono infatti da affiancare alla questione del sodalizio con Macchioro: il rapporto intercorso con Ernesto Buonaiuti, il "prete modernista" perseguitato dalla Chiesa, dagli idealisti e dai fascisti, sulla cui rivista ( "Religio " ) de Martino pubblicò quattro piccoli ma significativi articoli (ristampati nell'antologia Scritti minori su religione, marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura, P. Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma I 9 9 3 ) e l' adesione del giovane studioso al versante mistico delle dottrine fasciste. In un saggio rimasto inedito e incompiuto Sulla reli­ gione civile, che risale appunto a questi anni ( I 9 3 3 -3 6 ) pochissimo analizzati dai "biografi " , de Martino vede nella Rivoluzione fascista la fondazione di una "terza religione roman a " , dopo la pagana e la cristiana. II manoscritto di questo confuso e imbarazzante testo, ricostruito con molta fatica da Eugenio Capocasale per la sua tesi di dottorato ( Gli appunti inediti giovanili di E. de Martino per un "Saggio sulla religione civile", ruo, Napoli I 99 7 ) , si trova nel­ l'Archivio de Martino ed è stato studiato sia da Di Donato che da Sasso. Sul piano delle vicende personali, si registrano nello stesso periodo due eventi di particolare rilievo: il padre di de Martino viene trasferito a Bari e il figlio lo segue, assumendo prima la su 12 plenza e poi la cattedra dell'insegna­ mento di storia e filosofia in un liceo. E qui che si consuma il lento ma pro­ gressivo distacco dal fascismo, grazie anche ad alcuni incontri che risulte­ ranno decisivi nella transizione al liberalismo e al liberalsocialismo: T ommaso Fiore, Carlo Muscetta, Fabrizio Canfora e Michele Cifarelli. Nel I 9 3 5 , inol­ tre, de Martino si sposa: con la figlia di Macchioro, Anna ( r 9 r i -7 2 ) , da cui

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avrà due figlie, Lia e Vera. Un matrimonio che entrerà in crisi pochi anni dopo la rottura con Vittorio (awenuta, per quel che si sa, nel 1 9 3 7 ) . Sempre a l 1 9 3 7 risale, con ogni probabilità (cfr. l'utile articolo di V . Seve­ rino, E. de Martino nel circolo crociano di Villa Laterza, in "La cultura " , r , 2002) l'incontro con Benedetto Croce, anche s e è l a lettura di La storia come pensiero e azione (Laterza, Bari 1 9 3 8 ) che farà di de Martino - per due o tre anni - un " crociano" relativamente ortodosso. È anche il periodo ( 1 93 8-4o) in cui de Martino si apre, a differenza del maestro, all'etnologia e scrive i saggi che confluiranno in Naturalismo e storicismo nell'etnologia, nella collana la­ terziana diretta appunto da Croce (il libro, stampato nell'ottobre del 1 940, uscirà nelle librerie solo all'inizio dell'anno successivo, segnando insieme a I primitivi di Remo Cantoni una data-svolta nella storia degli studi etnologici italiani) . All'epoca, ebbe una certa risonanza e anche un buon numero di re­ censioni importanti (Omodeo, Antoni, Cantoni, Pettazzoni) e una sola mezza stroncatura (quella, ampiamente scontata, di Schulien sull ' "Osservatore roma­ no" del 25 giugno 1 94 1 ) : lo stesso Croce, pur non recensendolo di persona, mostrò in due occasioni di avere letto il libro con interesse. E a queste voci altre più tardi dovevano aggiungersi, come quelle di Cesare Pavese e di Giu­ seppe Cocchiara. Ma qui finisce la fortuna di Naturalismo e storicismo: in par­ te perché schiacciato dallo spessore delle successive opere dell'autore, in parte per la scomparsa della filosofia crociana dal quadro nazionale dei riferimenti culturali, il libro ha subito una specie di rimozione da parte del pubblico e della critica. A parte il saggio di Galasso del 1 969 e lo spazio dedicato al libro da lavori a carattere didattico (S. Giusti, Cultura e civzltà. La prospettiva storici­ stica di E. de Martino, Bulzoni, Roma 1 974; S. Todesco, Naturalismo e storici­ smo in E. de Martino, Edas, Messina 1 9 7 8 ) , la letteratura critica su de Martino si è attestata per molto tempo sulla " negazione" di Naturalismo e storicismo, in quanto ritenuto la " ragione apriori" delle sue chiusure nei confronti dei grandi indirizzi di pensiero del Novecento. Dopo la pubblicazione della Fine del mondo, con tutti i suoi rinvii ai temi dell'opera prima, i critici lentamente han­ no cominciato a riprendere in mano il libro e a scovarci spunti che esulano dal crocianesimo ortodosso: vedi C. Pasquinelli, Lo "Storicismo eroico" di Ernesto de Martino, in "La ricerca folklorica " , 3 , 1 9 8 1 e il citato saggio compreso nella raccolta L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Laterza, Bari 1 9 8 5 , di Pie­ tro Clemente, in cui si dà largo spazio al libro incriminato. Dieci anni fa è uscita anche, finalmente, una dedizione: Naturalismo e storicismo nell'etnolo­ gia , a cura di Stefano De Matteis, Argo, Lecce 1 997, con le citate recensioni in appendice. Gli anni della genesi e della stesura del Mondo magico ( 1 940-46) sono gli anni del secondo conflitto mondiale, e forse proprio al 1 944, l'anno zero del­ la civiltà europea, risale il nocciolo teorico del libro (come hanno ipotizzato Carlo Ginzburg e Placido Cherchi: quest'ultimo in Il Signore del Limite. Tre variazioni critiche su E. de Martino, Liguori, Napoli 1 994). La prima fase ( 1 940-4 3 ) di questa lunga gestazione è fittamente documentata dall'epistola­ rio (R. Boccassino, E. de Martino, Una vicinanza discreta. Lettere, a cura di

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F. Pompeo, Edizioni dell 'Oieandro, Roma I 996; E. de Martino, Da/ laborato­ rio del "Mondo magico". Carteggi I 9 4 D - I 9 4 J , a cura di P. Angelini, Argo, Lecce 2007 ) , dalle recensioni redatte dall'autore nello stesso periodo e da quattro lunghi saggi, che costituiranno la base del primo e del terzo capitolo del libro: Lineamenti di etnometapsichica ( "Problemi di metapsichica " , I , I 942, pp. I I 3 - 3 9 ) , Religionsethnologie u nd Historizismus ( "Paideuma " , 4-5 , I 942 , pp. 2 6 3 - 8 8 ) , Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, in " Studi e Materiali di Storia delle Religioni " , I 8 , I 942, pp. I - I 9 ) e Di alcune condi­ zioni delle sedute metapsichiche, in "Rivista di antropologia " , 34, I 943, pp. 479-90 (il saggio per "Paideum a " , la rivista di Frobenius, è stato tradotto e collocato nelle appendici dell'edizione di Naturalismo e storicismo curata da De Matteis ) . Risale a questa fase anche il contatto con la Società Italiana di Metapsichica, dapprima nella veste di membro corrispondente e poi addi­ rittura in quella di segretario generale (facevano parte di questa Società, fon­ data dal neuropsichiatra Ferdinando Cazzamalli, anche Lidio Cipriani, Adal­ berto Pazzini, Emilio Servadio e Giuseppe Tucci). E proprio nella veste di "membro corrispondente " della Società, de Martino si presenta a Einaudi, nel I 942, per proporgli «un volumetto divulgativo (ma naturalmente di ca­ rattere strettamente scientifico) sulla natura e sui metodi della ricerca metap­ sichica, ovvero un lavoro sui fenomeni psichici paranormali presso i popoli primitivi». La proposta viene immediatamente accettata e subito tra de Mar­ tino ed Einaudi si intromette Cesare Pavese, a quell'epoca direttore della sede romana della casa, e il libretto - che nel giro di pochi mesi ha assunto il titolo di Prolegomeni a una storia del magismo ed è cresciuto di mole, al­ meno nelle intenzioni - viene progettato come il numero I di una collezione etnologica Oa futura e famosa " collana viola " ) . La data di consegna dei Pro­ legomeni è fissata per i primi mesi del I 943 · ma prima è de Martino a farla slittare e poi è la storia a cancellarla: con i primi bombardamenti, l'ufficio romano dell'Einaudi deve precipitosamente chiudere, mentre de Martino ha già raggiunto moglie e figlie a Cotignola, nel ravennate (cfr. C. Pavese, Erne­ sto de Martino, La collana viola. Lettere I94 J - I 9 J O , a cura di P. Angelini, Bollati-Boringhieri, Torino I 990, pp. 49-5 7 ) . Quasi per nulla documentata è invece l a fase 1 943 -45 del lavoro. De Martino, che era stato a Bari tra i fondatori del Partito liberalsocialista (che confluirà nel Partito d'azione) e che era stato diffidato dalla polizia per la sua frequentazione del circolo crociano (malgrado fosse sempre iscritto al PNF) , viene colto dagli avvenimenti del 25 luglio mentre è appunto a Coti­ gnola. Dopo 1'8 settembre si nasconde nella casa di un insegnante, Bruno Ferlini, dove continua a lavorare con la sua Olivetti portatile al Mondo magi­ co. In piena apocalisse, lo chiamano da Roma: deve prendere servizio al liceo Virgilio, dove è stato traferito. De Martino naturalmente non si presenta e preferisce andare a sostituire un collega arrestato a Faenza: ma anziché inse­ gnare storia e filosofia tiene un corso di sei mesi sul Mondo magico. Sempre nel I 944 è tra i fondatori di un nuovo partito (non riconosciuto dal Partito d'azione) : il Partito italiano del lavoro (PIL), e nel corso di un rastrellamento tedesco rischia di essere fucilato, pur non avendo mai partecipato a vere e I5 0

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proprie azioni di guerra. Dopo altri sei mesi passati a Masiera, sempre sul Fronte del Senio, nel giugno del 1 945 fa ritorno a Bari, dove diventa mem­ bro (e poi commissario di federazione) del neonato PSIUP. Ultima fase: la pubblicazione ( 1 945-48). Nel giugno del 1 945 riprende finalmente i contatti con Pavese e gli dice: «sono anch'io vivo, dopo fortuno­ se vicende. Appena in questi giorni ho potuto rivolgermi di nuovo al lavoro scientifico, poiché ho svolto il secondo periodo clandestino in Romagna, in un paese completamente distrutto dalla guerra. Tuttavia la mia efficace colla­ borazione alla vostra casa è subordinata alla mia stabile permanenza a Roma, poiché solo Roma può fornirmi gli strumenti di lavoro necessari a condurre a termine la mia "storia della magia" [sic] » (La collana viola, cit . , p. 6 3 ) . E promette, alla fine della lettera, di consegnare il lavoro entro il maggio del­ l'anno successivo. Ora, se de Martino chiede un anno di lavoro, vuol dire come minimo che il terzo capitolo è da fare e che il libro non è stato ancora "montato " . Comunque il sospirato trasferimento al liceo Virgilio verrà notifi­ cato solo nel 1 947, e per qualche tempo de Martino continuerà a pendolare tra Roma e Bari (dove insegna in un istituto magistrale: tra le sue allieve c'è Vittoria de Palm a) . Nel luglio del 1 946 compare su "Comunità " una sintesi del secondo capitolo del libro (La rappresentazione e l'esperienza della perso­ na nel mondo magico, p. 1 2 ) e 1'8 agosto dello stesso anno Pavese riceve il dattiloscritto completo. Ma la collana che lo ospita e che ha preso il nome di "Collezione di studi etnologici, psicologici e religiosi " , non è stata ancora de­ finitivamente varata, per cui l' uscita del Mondo magico verrà più volte riman­ data (con grave dispetto dell'autore, che sta per partecipare al concorso per la libera docenza in Etnologia ed è costretto ad allegare le bozze ai suoi tito­ li) . Il libro sarà distribuito solo nel gennaio del 1 9 4 8 , e non servirà a far vincere a de Martino il posto all'Università. Il mondo magico è sicuramente l'opera demartiniana che ha più attirato l' attenzione dei critici. Appena uscito, fu recensito favorevolmente dal Croce (sui "Quaderni della critica " , r o , marzo 1 948) che però, subito dopo, tornò sui suoi passi, e alla luce di una seconda lettura del libro («che di essere riletto è degno») decise di dedicare alla questione addirittura un saggio, In­ torno al magismo come età sto rica ( ''Atti dell'Accademia Pontaniana " , n.s., r , 1 94 8 ) : u n saggio che d a molti fu visto come u n severo richiamo all'ordine e che si concludeva con le seguenti parole: «O per lo meno la venerazione che il de Martino coltiva per lo stregone, ponendolo a capo dell'origine della sto­ ria e della civiltà, mi dà qualche pensiero. Preferisco allo stregone il "be­ stione" primitivo, che, secondo il mito vichiano, allo scoppio e al lampo dei fulmini sentì in sé svegliarsi l'idea latente di Dio». Il mondo magico, quando fu ristampato, nel 1 95 8 , fu ristampato tale e quale, «salvo qualche lieve ritocco formale», ma con due importanti aggiunte: una nuova, rapida prefazione (in cui de Martino scrive che avrebbe «desidera­ to apportare alla prima edizione importanti correzioni e integrazioni» e che «chi voglia conoscere particolareggiatamente in che senso le tesi del Mondo magico si sono andate modificando nell'ulteriore svolgimento delle mie ricer­ che, potrà farlo leggendo il mio lavoro storico-religioso Morte e pianto rituale

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nel mondo antico») e in appendice la riproduzione degli interventi critici, di Croce, Eliade, Pettazzoni e Paci, apparsi al tempo della uscita del libro, con la sola ma significativa assenza dell'articolo già citato di Renato Solmi. «Alcune delle istanze polemiche contenute in questi scritti - aggiunge l'autore, rife­ rendosi chiaramente a quelli del Croce ma anche a quello, altrettanto tagliente, di Eliade - sono state da me accolte nel mio lavoro sull'antico pianto rituale». La letteratura sul Mondo magico è particolarmente consistente, a comin­ ciare dall'articolo - citato dall'autore stesso nella seconda edizione - di E. De Renzi, E. Turolla, Reazione psicogena di tipo schizofrenico apparentemente indotta: analisi psicopatologica alla luce dei temi esistenziali propri nel mondo magico primitivo ( ''Rivista sperimentale di freniatria " , So, 1 95 6 ) . Nello speci­ fico vanno segnalati i seguenti contributi: la citata e fondamentale Introduzio­ ne di Cases alla ristampa 1 9 7 3 del libro; G. Galasso, ((La funzione storica del magismo": problemi e orizzonti del primo de Martino, in "Rivista storica italia­ na " , 2, 1997 ( con ampi riferimenti a Naturalismo e storicismo ) ; la Postfazione di S . Mancini alla traduzione francese del libro (Institut Sanofi-Synthélabo, Paris 1 9 9 9 ) ; F. Dei, Le zucche del missionario Grubb. Ernesto de Martino fra razionalità e relativismo, documento pubblicato sul sito del dipartimento di Studi glottoantropologici dell'Università "La Sapienza " , Roma 2 005 ; G. Sat­ ta, Le fonti etnografiche del "Mondo magico", ristampato in appendice all 'ulti­ ma edizione del libro, Bollati-Boringhieri, Torino 2007; R. Pàstina, Le realtà magiche. Commento al n capitolo del "Mondo magico", in "Rivista sperimenta­ le di freniatria " , 3, 2oo6. L'incontro con Carlo Levi avvenne nell'immediato dopoguerra, sulla scia del­ la grande impressione che suscitò la comparsa di Cristo si è fermato a Eboli ( 1 945 ) . Ce ne parla lo stesso Levi nel citato dibattito radiofonico svoltosi al­ l'indomani della morte di de Martino, nel 1 9 65 (il dibattito fu stampato nel 1 966 sul primo dei "Quaderni dell'rssE" di Sassari; ma è stato recentemente riedito, a cura di Luigi Lombardi Satriani e Letizia Biodi, in appendice al volumetto Panorami e spedizioni di Ernesto de Martino, Bollati-Boringhieri, Torino 2002 ) . Levi ci dice, nei suoi interventi, che l' uscita del Mondo magico aveva suscitato in lui un'impressione in certo modo simmetrica, in quanto in quel libro ritrovava posizioni «simili teoreticamente a quelle che io avevo adombrato intuitivamente senza pretesa di sistemazione scientifica nel mio libro e anche [ . .] nel precedente Paura della libertà». I due probabilmente ebbero a frequentarsi presso l' ufficio romano del loro editore, in via del Vi­ cario 49, che per molti anni costituì un luogo privilegiato di incontro per gli intellettuali di sinistra (una divertente ricostruzione delle "irruzioni" di Levi in via del Vicario si trova nei Frammenti di memoria di Giulio Einaudi, Riz­ zoli, Milano 1 9 8 8 ; ma sui rapporti tra la casa editrice e Levi è da vedere anche Luisa Mangani, Pensare i libri, Bollati-Boringhieri, Torino 1 99 9 ) . C'è chi dice che il Martino dell'Orologio sia proprio Ernesto de Martino. Di cer­ to resta il fatto che i riferimenti al Cristo sono frequentissimi negli scritti demartiniani che vanno dal 1 948 al 1 954, anche se col tempo si registra una netta presa di distanza dalle posizioni ideologiche che il libro fa balenare .

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(per quanto mi risulta, de Martino non prese poi mai in considerazione le altre opere saggistico-letterarie di Levi ) . Sul rapporto Levi-de Martino sono comunque d a vedere i seguenti volu­ mi: Carlo Levi nella storia e nella cultura italiana, a cura di Gigliola De Do­ nato, Lacaita, Manduria I 9 9 3 (interventi di Carpitella, Lanternari e Cirese) ; Il germoglio sotto la scorza: Carlo Levi vent'anni dopo, a cura di Franco Vi­ telli, Avagliano, Cava dei Tirreni I 9 9 8 (interventi di Fofi, Bronzini e Vittore Fiore) ; Il tempo e la durata in "Cristo si è fermato a Eboli", a cura di G. De Donato, Edizioni Farenheit 4 5 I , Roma r 999 (interventi di Clemente, Fab re e Gallini) ; Verso i Sud del mondo. Carlo Levi a cento anni dalla nascita, a cura di G. De Donato, Donzelli, Roma 2003 (interventi di Gallini, Angelini, Lom­ bardi Satriani e Buttitta) . Sono tutti atti dei convegni su Levi che si tennero, rispettivamente, nel 1 9 84, nel 1 9 9 5 , nel 1 9 9 6 e nel 2002 , per iniziativa di Gigliola De Donato, autrice tra l'altro del fondamentale Saggio su Carlo Levi (De Donato, Bari I 97 4 ) . Di Gianbattista Branzini è anche da vedere Il viag­ gio antropologico di Carlo Levi. Da eroe stendhaliano a guerriero birmano, De­ dalo, Bari 1996, che costituisce fino ad oggi l'unica monografia imperniata su Levi " antropologo " . Una locuzione quest 'ultima, sia detto per inciso, che non scandalizza più gli addetti ai lavori, soprattutto dopo la lettura compiuta da Daniel Fabre ( Carlo Levi au pays du temps, "L'Homme " , 4-5, 1 990) e la proposta di Pietro Clemente di promuovere il testo del Cristo a mito di fon­ dazione della demologia italiana del secondo dopoguerra ( Oltre Eboli: la ma­ gia dell'etnografo, dagli atti del citato convegno del 1 99 6 ) . A favorire i contatti con Levi concorre il trasferimento a Roma. il 24 novem­ bre I 947 infatti de Martino scrive a Pavese avvertendolo che il suo recapito non è più Bari (con Napoli ha da tempo tagliato i ponti) ma Roma, via Giulia, liceo Virgilio, dove è stato definitivamente trasferito (cfr. il citato carteggio) . In questo liceo lo studioso terrà la cattedra di storia e filosofia per dodici anni: ma dai riscontri effettuati da Riccardo Di Donato (cfr. il saggio che precede Compagni e amici. Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze I 9 9 3 , pp. XIX ss.) viene fuori che furono più i congedi, le aspet­ tative e i comandi presso vari enti, che i mesi di effettivo insegnamento (sono del resto anche gli anni in cui si consuma la crisi senza ritorno del matrimonio con Anna Macchioro, anch'essa trasferita presso il liceo Virgilio, mentre si consolida il legame con Vittoria de Palma, che era stata sua studentessa a Bari e che diventerà la sua compagna di vita e di lavoro). Anche se il lavoro di insegnante alle superiori non doveva spiacergli (lo attesta in certo modo il li­ bretto pubblicato a Bari nel I 945 : una Guida per lo studio della storia della filosofia ad uso dei licei classici e scientifici, che probabilmente raccoglie i testi delle sue lezioni) , è all'università che punta: ma il concorso a cui partecipa nel 1 948 non ha buon esito, la sua produzione scientifica viene giudicata di natura più filosofica che etnologica (e Boccassino è tra i commissari). Quanto all'itinerario propriamente politico, i documenti relativi al gra­ duale passaggio dal Partito d' azione al movimento liberalsocialista e dal Par­ tito italiano del lavoro al Partito socialista di unità proletaria fino alla breve

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ma intensa militanza nel PSI sono scarsi. Oggi vediamo che il tragitto fu meno lineare di quanto emergeva dal saggio di Galasso del I 969 e dalla Nota biobibliografica del Gandini del I 9 7 2 : un utile aggiornamento viene dal fa­ scicolo 5 -6 di " ll de Martino" ( I 996 ) che presenta una accurata cronologia (Le date di una vita di Cesare Bermani) e un cospicuo blocco di testimo­ nianze, alcune delle quali inedite. L'elenco più completo degli articoli de­ martiniani apparsi tra il I 947 e il I 9 5 2 si trova in Fantauzzi, L'opera di Erne­ sto de Martino. Promemoria bibliografico , cit. Per la pertinenza ai temi trattati nel paragrafo, oltre a quelli citati nel testo sono da segnalare i seguenti arti­ coli demartiniani: Ancora sulla storia del mondo popolare subalterno, in " So­ cietà" , 2, I950, pp. 306-9; Il folk/ore progressivo emiliano, in "Emilia " , 2 1 , I 95 I , pp. 25 I -4; Nuie simme 'a mamma d'a bellezza. Dz/esa della letteratura dialettale, in " Il calendario del popolo " , 8 , I 9 5 2 , p. I o6 I . Più difficile d a ricostruire è il passaggio dal PSI al PCI, che secondo Gandini doveva risalire al I 95o: non esistendo prove al riguardo, per molti anni i de­ martinologi hanno giocato con l'intuito spostando a piacere il passaggio dal I 949 al I 9 5 1 . Oggi dobbiamo rassegnarci ad una elasticità ancora maggiore, visto che Valeria Severino (in Ernesto de Martino nel PCI degli anni Cinquanta tra religione e politica culturale, in " Studi Storici " , 2, 2003) ci ha puntigliosa­ mente dimostrato che l'ingresso nel partito fu formalizzato solo nel I 9 5 3 · Sul difficile e delicato rapporto di de Martino con il PCI - che nel testo, per man­ canza di spazio, abbiamo appena sfiorato - sono da vedere: Giuseppe Galasso, Croce, Gramsci e altri storici ci t.; Gallini, Introduzione a La fine del mondo, cit.; Di Donato, Un contributo su de Martino politico, in Compagni e amici, cit.; Bermani, Le date di una vita, cit . ; Franceschini, Cultura popolare e intellettuali. Appunti su Carducc� Gramsci e de Martino (La contraddizione felice?, cit.) e naturalmente l'articolo del 2003 di Severino. Per un inquadramento generale, cfr. Nello Ajello, Intellettuali e PCI ( I944-I9J8), Laterza, Bari I 979· Non docu­ mentata - e forse non documentabile - è anche l'" uscita" dal partito, che se­ condo Galasso (e anche Vittoria de Palma) di fatto non si verificò, nemmeno dopo i fatti d'Ungheria. Se uscita vi fu essa avvenne comunque all'insegna del silenzio: forse, come suggerisce Di Donato, «non rinnovando o non ritirando come si dice - la tessera», esprimendo con ciò un non assenso, come del resto la maggior parte degli intellettuali comunisti in quei due anni ( 1 957-5 8 ) di attonita diaspora. Di sicuro non c'è che un dato: a partire dal I 9 5 8 de Martino non interviene più, per iscritto, nel dibattito politico. Il rapporto de Martino-Scotellaro non è stato ancora indagato a fondo, né è stato finora possibile ricostruire il carteggio che tra i due sicuramente inter­ corse. È comunque da vedere il recente e molto polemico intervento di Al­ berto Maria Cirese a un seminario tenutosi nel 2003 presso il Museo nazio­ nale delle arti e tradizioni popolari, ripreso e integrato col titolo Per Rocco Scotellaro: letizia, malinconia e indignazione retrospettiva nella pubblicazione degli atti ( Contadini del Sud, contadini del Nord. Studi e documenti sul mon­ do contadino in Italia a 5 0 anni dalla morte di Rocco Scotellaro, a cura di G. Kezich, E. De Simoni, in "Annali di San Michele" , 1 8 , 2005 ) . Fra i prece-

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denti scritti di Cirese su Scotellaro spicca la recensione ( "La Lapa" , 3 -4, I 9 5 5 ) di Contadini del Sud, che si può ora leggere in Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro e Gramsci, Einaudi, Tori­ no I 976). Per ulteriori accertamenti va consultata la Bibliografia critica su Rocco Scotellaro di Franco Vitelli (Basilicata Editrice, Matera I 97 7 ) . Su Sco­ tellaro e la demologia italiana sono poi intervenuti: Pietro Clemente (Il "caso" Scotellaro, in P. Clemente, M. L. Meoni, M. Squillacciotti, Aspetti del dibattito sul folklore in Italia nel primo decennio del secondo dopoguerra, Uni­ versità di Siena, Siena I 975 , pp. I - 2 3 , ristampato un anno dopo a Milano dalle Edizioni di cultura popolare); Vincenzo Padiglione ( Osservatore e osser­ vato. Problemi di conoscenza e rapp resentazione: la vicenda Scotellaro, in "Pro­ blemi del socialismo " , I 5 , I 979); Giovanni Battista Branzini (L'universo con­ tadino e l'immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Dedalo, Bari I 9 8 7 ; C. Au­ gieri, La struttura narrativa delle biografie di "Contadini del Sud", in AA . vv . , Scotellaro trent'anni dopo [Atti del Convegno di Tricarico del I 9 84] , Basilica­ ta Editrice, Matera I 9 9 I ) . Per ulteriori accertamenti cfr. F. Vitelli, Biblio­ grafia critica su Rocco Scotellaro, Basilicata Editrice, Matera I 97 7 · Gli unici riferimenti demartiniani alla figura di Rocco presenti nell'opera finora edita sono in Note lucane, cit . , in Per un dibattito sul folklore ( '' Lucania " , I, I 954, pp. 76-8) e in Rocco Scotellaro ( " Gioventù socialista " , I, I 954· p . 9). De Martino ebbe modo di vivere giorno per giorno il lancio editoriale e poli­ tico degli scritti inediti di Gramsci ( I 947-5 I ) , ma fu coinvolto nella presenta­ zione dei volumi solo una volta (per Letteratura e vita nazionale, nel giugno del I 9 5 I ) . Fu l'occasione per mettere in chiaro il suo pensiero su Gramsci e il folklore, non di più: una riflessione a fondo sulle tematiche gramsciane in sostanza manca nell'opera edita di de Martino, anche se l'appropriazione del lessico è istantanea e perentoria. L'intervento di cui sopra fu riscritto tre vol­ te: per gli atti del convegno (mai usciti), per "Mondo operaio" ( 3 , I 95 I ) e per " Il calendario del popolo" ( 8 , I 9 5 2 ) . Tra le carte sono state poi trovate delle Postille a Gramsci e un'altra versione dell'intervento del I 95 I : il tutto è comparso sul n. 25 ( I 9 92) della "Ricerca folklorica" col titolo Due inediti su Gramsci, a cura di S. Cannarsa. Nell'autunno del I 95 I , dovendosi tenere un altro convegno di studi gramsciani, con la partecipazione di Muscetta e Sali­ nari, de Martino aderiva proponendo una comunicazione su Lo storicismo italiano e il pensiero di Antonio Gramsci; ma la manifestazione - che non incontrava il favore di Ambrogio Donini - saltò (la misteriosa vicenda è rie­ vocata da Severino nell'articolo citato più sopra) . È possibile che sia le Po­ sttlle che gli altri appunti su Gramsci ancora inediti e conservati nell'Archi­ vio si riferiscano a questa promessa comunicazione. Negli anni successivi alla polemica con Giarrizzo (Storia e folklo re, in " Società " , r o, 1 954, pp. 940-4), saranno rarissimi i riferimenti (espliciti) di de Martino all'opera di Gramsci: solo nei tardi appunti poi confluiti nella Fine del mondo il lettore troverà una rilettura di Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, il volume gramsciano più meditato e glossato da de Martino, come testimonia la copia da lui posseduta oggi consultabile nell'archivio. I55

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Sulla presenza di Gramsci in de Martino: Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, cit . ; C. Pasquinelli, Antropologia culturale e questione meridionale, La Nuova Italia, Firenze 1 977; P. Angelini, Gramsci, de Martino e la crisi della scienza del /olklore, in Antonio Gramsci e il "progresso intellettuale di massa", a cura di G. Baratta, Unicopli, Milano 1 995 . Sulla presenza in generale di Gramsci nella demologia italiana degli anni cinquanta: A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo 1 97 1 ; D. Carpitella, Motivi critici negli studi di /olklore in Italia dal 1945 a oggi, Bulzoni, Roma 1 97 1 ; Clemente, Meoni, Squillacciotti, Il dibattito sul /olklore in Italia, cit . ; Cultura popolare e marxismo, a cura di R. Rauty, Editori Riuniti, Roma 1 976; P. Cle­ mente, Alcuni momenti della demologia storicistica in Italia, in AA.vv . , L'an­ tropologia italiana: un secolo di storia, cit. La letteratura sul concetto di fol­ klore in Gramsci è vastissima; mi limito a ricordare: V. Santoli, Tre osserva­ zioni su Gramsci e il folklore, in " Società " , 3, 195 r (è l'intervento al conve­ gno cui parteciparono anche de Martino e Toschi); L. M. Lombardi Satriani, Gramsci e il folk/ore: dal pittoresco alla contestazione, in AA.vv . , Gramsci e la cultura contemporanea, vol. n , Editori Riuniti, Roma 1 970 (sono gli atti del Congresso cagliaritano del 1 9 6 7 ) ; G. Bonomo, Studi demologici, Palumbo, Palermo 1 970; A. Buttitta, Ideologie e /olklore, Flaccovio, Palermo 1 97 1 ; Ci­ rese, Intellettuali, /olklore, istinto di classe, cit. (che raccoglie anche la rela­ zione al Convegno su Gramsci del 1 967); C. Gallini, Gramsci i /olklor, in Filosofia i Cultura Wloska, a cura di M. Nowaczyc, Polka Akademia Nauk, Warszawa 1 9 80. Un quadro complessivo delle discussioni sul folklore nei primi anni cin­ quanta è stato tracciato da diversi volumi usciti uno a ridosso dell'altro subito dopo il convegno fiorentino del 1 9 7 5 : il citato Dibattito sul /olklore di Cle­ mente , Meoni e Squillacciotti, l' antologia curata da Raffaele Rauty ( Cultura popolare e marxismo, Editori Riuniti, Roma 1 976), il Dibattito sulla cultura del­ le classi subalterne (r949·5o), a cura dello scrivente, Savelli, Roma 1 977, e il già ricordato Antropologia culturale e questione meridionale di Pasquinelli. Al centro ideale di tutte e quattro le antologie sta il saggio demartiniano del 1 949. Delle numerose spedizioni etnografiche organizzate da de Martino nel dopo­ guerra e per tutti gli anni cinquanta, si è privilegiata nel testo quella "stori­ ca" del 1 9 5 2 , anche per il fatto che è l'unica di cui disponiamo - come ve­ dremo più avanti - di un consistente apparato di notizie e documenti. Un elenco completo delle spedizioni è ancora da fare e forse resterà un mirag­ gio, trattandosi molto spesso di viaggi e sopralluoghi non formalizzati di cui è restata solo una minima traccia: per il momento dobbiamo attenerci al ca­ talogo parziale fornito da Clara Gallini nel lontano 1 9 8 6 in La ricerca sul campo in Lucania ( "La ricerca folklorica " , 1 3 , numero dedicato a Ernesto de Martino. La ricerca e i suoi percorsi) , ripreso e integrato nel successivo I viag­ gi nel Sud di Ernesto de Martino a cura di C . Gallini, F. Faeta, Bollati-Borin­ ghieri, Torino 1 9 99 ( dove la coautrice può finalmente annunciare che «la cronologia delle ricerche etnografiche di de Martino, anche se presenta anco­ ra diverse zone d 'ombra, è stata ricostruita nelle sue linee essenziali», p. 1 5 ) .

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Qui di seguito mi limiterò a segnalare i dati cronologici e bibliografici delle ricerche più note, basandomi quasi sempre su quest'ultima ricostruzione. Il primo lavoro, informale, sul campo, risale probabilmente al I 946: de Martino, insieme alla moglie Anna Macchioro e a Mario Potenza (entrambi membri della Federazione socialista di Bari) conduce un 'inchiesta per "Quarto Stato " sulle trasformazioni socio-economiche verificatesi nell'imme­ diato dopoguerra nel territorio barese: i risultati vengono pubblicati l'anno dopo sul quindicinale diretto da Lelio Basso (Inchiesta di "Quarto Stato" sul Mezzogiorno. Terra di Bari. Relazione di Ernesto de Martino, Mario Potenza, Anna de Martino, nn. 2 5 - 6 , febbraio 1 947, pp. 3 2 - 6 ) . Più documentata è una ricerca, iniziata nel I 949 e forse interrotta proprio nel I 95 2 , sulla "miseria bracciantile" a Tricarico e dintorni: condotta forse in collaborazione con Rocco Scotellaro, consiste in una cospicua raccolta di interviste ad agricoltori della zona, depositata poi presso la CGIL di Matera e rimasta inedita. Tra il I 949 e il I 95 2 comunque de Martino, insieme a Vittoria de Palma, si reca numerose volte a Tricarico, quasi sempre ospite di Rocco, interessandosi so­ prattutto, come abbiamo visto, alla raccolta di documenti relativi al "folklore progressivo " . L'ultimo di questi viaggi (estate I 9 5 2 ) vede la presenza anche di un fotografo (Arturo Zavattini) e di un giornalista (Benedetto Benedetti) : "Vie Nuove " pubblicherà due articoli d i d e Martino, corredati d a foto relati­ ve alla spedizione, intitolati Sonno, fame e morte sotto le stelle ( 27 luglio) e Amore e morte nei canti dei braccianti lucani ( 3 agosto) . Intanto, nel I 9 5 I , l' autore è tornato sui luoghi in cui h a vissuto la Resistenza e ha raccolto, a Conselice, a Ravenna e a Reggio Emilia, il materiale di cui ci parla nel più volte citato Il folklore progressivo emiliano (pubblicato su " Emilia " , 2 I , I 95 I ; e ristampato sul n. 5 - 6 di " Il de Martino " , I 996, a cui si rimanda per l'ampia documentazione relativa a quel viaggio) : oltre che il più maturo frutto del­ l'interesse per il folklore progressivo, è l'unica ricerca demartiniana di quegli anni che abbia eletto per oggetto di studio la cultura proletaria del Nordita­ lia, e ciò malgrado ha lasciato il segno, come è bene raccontato da Cesare Bermani in Ernesto de Martino: alle origini della ricerca sul canto sociale e sull'uso delle fonti orali (nel citato volume che raccoglie gli Atti del Conve­ gno del I 99 5 ) . Dopodiché s i apre l a stagione delle ricerche sistematiche: l a prima è quel­ la appunto dell'ottobre del I 9 5 2 , che toccò le seguenti località: Matera, Grottole, Ferrandina, Pisticci, Valsinni, Colobraro, Stigliano, Viggiano, Mar­ sico Vetere, Savoia, Potenza, Tricarico. I risultati ufficiali furono resi subito pubblici da de Martino e da Carpitella in un articolo a due mani ( Una spedi­ zione etnologica in Lucania, in " Società " , 4, 1 95 2 , pp. 7 3 5 - 7 ) , mentre un pri­ mo saggio di scrittura etnografica apparve su " Nuovi argomenti " ( 2 , I 9 5 3 , pp. 47-79 ) col titolo Note di viaggio e firmato esclusivamente d a d e Martino. Per il resto, a parte le 1 67 registrazioni di poesie canti e musiche depositate presso il Centro nazionale di studi sulla musica popolare, il materiale raccol­ to nel corso della spedizione rimase a lungo inutilizzato e inedito. Una parte, come abbiamo visto, confluirà nei primi sei paragrafi di Sud e magia (Fel­ trinelli, Milano 1 9 5 9 ) ; il rimanente invece, costituito dai taccuini della ricerI5 7

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ca, dalle note preparatorie, dai " quaderni " compilati al ritorno e da un cor­ poso dattiloscritto (intitolato Magia I) , tutto questo è stato pubblicato in edi­ zione critica da Clara Gallini, in due volumi: il primo apparso nel 1 995 (Note di campo) e il secondo nel 1 996 (L'opera a cui lavoro, con apparato documentario) , entrambi per le edizioni Argo di Lecce. Un parallelo tra il lavoro demartiniano e le coeve ricerche svolte da Branzini sempre in Lucania è stato tracciato da Annamaria Fantauzzi (A distanza ravvicinata: E. de Marti­ no e G. B. Branzini nella Lucania degli anni '5 o , in "Lares " , 2 , 2003 ) . Finalizzate allo studio del lamento funebre lucano sono l e cinque spedi­ zioni successive, che toccano anche località non comprese nell'itinerario del 1 9 5 2 : due con Vittoria de Palma (nel settembre del 1 9 5 3 e nell'agosto del 1954 ) , due con la presenza anche di Carpitella e di Michele Gandin (aprile e novembre 1 954) e una, l'ultima e più importante, con l'équipe al completo, nell'agosto del 1 95 6 , rimasta famosa per le immagini scattate da Pinna. I te­ sti di de Martino che fanno riferimento a queste spedizioni sono: Rapporto etnografico sul lamento funebre lucano ( '' Società " , 4, 1 954, pp. 65 5 -65 ) , Con­ siderazioni storiche sul lamento funebre lucano ( " Nuovi argomenti" , 1 2 , 1 9 5 5 , pp. 1 - 3 3 ) , l e trasmissioni radiofoniche del 1 9 5 4 (raccolte ora i n Panorami e spedizioni, a cura di L. M. Satriani, L. Bindi, Bollati Boringhieri, Torino 2002) e naturalmente Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (Boringhieri, Torino 1 9 5 8 ; Premio Viareggio per la saggistica) : il libro più profondo e maturo di de Martino, ma anche per mol­ ti anni il meno letto e studiato. Sulla lunga - ma non tormentata - gestazio­ ne di quest'opera, che comportò pure un mese di permanenza a Bucarest per lo studio del bocet (il lamento funebre rumeno) , è da vedere l 'Introduzio­ ne di Gallini alla dedizione Bollati-Boringhieri del 2ooo, dove si ricostruisce un iter etnografico e teorico che nasce e si sviluppa lungo tutte le ricordate spedizioni, dall'inchiesta a Tricarico alla ricerca finale del 1 95 6 . Il " rilancio" scientifico del libro, poco conosciuto anche all'estero, si deve in parte a tre interventi susseguitisi negli anni ottanta: Morte e pianto rituale. Riflessioni su un lavoro di E. de Martino, di Pietro Clemente ( ''Annali della facoltà di Let­ tere e filosofia dell'Università di Siena " , 4, 1 9 8 3 ) , S. Mirto, La morte e i vivi. Il cordoglio nel mondo antico secondo E. de Martino (al seminario pisano del 1 9 8 7 sui fondamenti dell'antropologia storica, promosso da Arnaldo Momi­ gliano e Riccardo Di Donato, ora nel citato La contraddizione felice?) e Gior­ dana Charuty, Morts et revenants d'Italie, in "Etudes rurales " , 1 05 -6, 1 9 8 7 . Chiusa l a grande ricerca sul lamento funebre lucano ( d i cui sono ancora da pubblicare i " taccuini " e i lavori preparatori o connessi) torna su un pro­ blema - lontanissimo dal "folklore religioso" - non ancora direttamente af­ frontato e forse continuamente rinviato, che doveva far da ponte tra Il mon­ do magico e Sud e magia: il problema dell'impiego dei poteri magici nella cura dei disturbi mentali presso popolazioni che erano state (volutamente) escluse dalla panorama etnologico del libro di dieci anni prima. A quanto già detto nel testo su questa spedizione effettuata tra il maggio e il giugno del 1 9 5 7 ad Albano lucano e dintorni, è da aggiungere che solo una minima par­ te del materiale raccolto è confluita nel settimo paragrafo di Sud e magia: il

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dossier completo, ancora inedito, sarà tra breve pubblicato, a cura di Adeli­ na Talamonti, dalla casa Argo di Lecce. Al momento il lettore dispone sol­ tanto dell 'annuncio della spedizione (E. de Martino, Esplorazione etnografica nell'Italia meridionale e fenomenologia paranormale, in " Luce e ombra " , 5 , I 9 5 7 l e di un salottiero riassunto (E. Servadio, Psicologia dell'attualità, Lon­ ganesi, Milano I 9 6 I , pp. 3 2 9 - 3 4 ) . Siamo a l I 9 5 9 : eccettuata un'inchiesta a San Cataldo sulla partecipazione al sacramento della confessione (precipitosamente sospesa per la rivolta del clero locale) e una piccola verifica dal vivo, a San Giorgio Lucano, del "gio­ co della falce " (un rito già descritto nel sesto capitolo di Morte e pianto ri­ tuale), la stagione delle spedizioni nel Sud si chiude in Puglia con la grande ricerca sul tarantismo, preannunciata alla fine di Sud e magia: l'unica ricerca demartiniana che si traduce subito in un libro (La Terra del Rimorso. Con­ tributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano I 96 I ) . La grande novità, nella composizione dell'équipe, è stavolta la presenza sia di uno psi­ chiatra e che di una psicologa (Giovanni Jervis e Letizia Comba) , chiamati a verificare l'attendibilità dell'interpretazione vigente del tarantismo come stato morboso. Per affrontare inoltre il rapporto del tarantismo con l'ordine eco­ nomico e sociale, veniva reclutata anche Amalia Signorelli, da poco laureatasi con de Martino, che ci ha lasciato tra l'altro un'interessantissima memoria sui modi in cui venne condotta la ricerca (Lo storico etnografo, in "La ricerca folklorica " , I 3, I 9 86). Agli altri membri "storici " - Carpitella, de Palma ( coinvolta per la prima volta nella veste più ufficiale di assistente sociale) e Franco Pinna - si aggiunse infine un'altra laureata, Annabella Rossi, che par­ tecipò alla spedizione senza un compito specifico. Il lavoro preparatorio fu più accurato e mirato delle volte precedenti, e si svolse a Roma nei primi mesi del I 9 5 9 = mentre il lavoro sul campo, che si proponeva di cogliere nel vivo e "senza ricostruzioni " il complesso dei rituali connessi alla festa di San Paolo a Galatina durò meno di un mese (un mese intensissimo, se si guarda all'eccezionale quantità e qualità del materiale raccolto: 464 foto, 24 brani musicali, uno straordinario filmato di Carpitella, un ancora imprecisabile nu­ mero di interviste ecc. ) . Un'idea del lavoro di scavo effettuato nel corso della spedizione si ha consultando A. Signorelli, La ricerca sul tarantismo. Materiali dell'archivio de Martino, nel citato numero monografico della "Ricerca Folk­ lorica " ; ma il quadro si preciserà e si arricchirà quando codesti materiali ver­ ranno alla luce (la casa editrice Argo ha in programma un volume curato dalla stessa Signorelli) . Altre notizie si desumono dal saggio aggiuntivo che Jervis pubblicò sul "Lavoro neuropsichiatrico" ( 3 , I 962 : Il tarantismo puglie­ se) . Per un quadro dei risultati complessivi di questa storica ricerca va co­ munque vista l'Introduzione di Giuseppe Gal asso alla ristampa della Terra del rimorso che Il Saggiatore curò nel I 976. Al ricordo della spedizione (Ri­ torno alla terra del rimorso) fu dedicata una puntata di una famosa inchiesta televisiva trasmessa nel I 9 7 7 : la rievocazione, curata da A. Rossi, si trova nel volume Profondo Sud di C. Barbati, Feltrinelli, Milano I 97 8 . Sui tentativi odierni di far resuscitare il corpo emozionale e musicale del tarantismo, si

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legga il duro articolo di Signorelli, Il tarantismo. . . che "purtroppo" non c'è più, in " Studi e materiali di storia delle religioni " , 62, 1 99 6 . De Martino ave­ va in animo di estendere più tardi la ricerca alla variante sarda del taranti­ smo, ma quando le sue condizioni di salute peggiorarono il progetto fu pre­ so in mano e condotto a termine dalla sua principale collaboratrice, C. Galli­ ni (cfr. I rituali dell'argia, Cedam, Padova 1 967, con appendici etnomusicolo­ giche e sociopsichiatriche di Carpitella, Jervis e Michele Risso) . Ricchissima fu anche la fioritura di studi sul tema che il libro suscitò (a partire dalle Lettere di una tarantata, di A. Rossi, De Donato, Bari 1 970) come si può constatare dal volume collettaneo Quarant'anni dopo de Martino. Il taranti­ smo, Besa, Nardò 1 9 9 9 : mi limito a citare uno dei primi, A. Turchini, Morso morbo morte. La tarantola fra cultura medica e terapia popolare, Franco Ange­ li, Milano 1 9 8 7 , e uno degli ultimi, G. Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso, Congedo, Galatina 2004. Da rivedere anche la recensione al li­ bro che uscì sulla "Rivista storica italiana" (74, 1 962) a firma di Arnaldo Momigliano. Per chiudere con il capitolo-spedizioni, il problema della raccolta delle musiche è stato affrontato da Francesco Giannattasio in L'incontro fra Erne­ sto de Martino e Diego Carpitella come prefigurazione italiana di una antropo­ logia della musica (a termine del Convegno Antropologia della musica e cultu­ re mediterranee svoltosi a Venezia nel 1 99 2 , con atti editi l'anno dopo dal Mulino, a cura di T. Magrini) . Sulla documentazione fotografica invece è da vedere F. Pinna, Viaggio nelle terre del silenzio. Reportage dal profondo Sud I9JO- I959 , Idea Editions, Milano 1 9 80 (con un 'importante introduzione di Carpitella) ; il numero dedicato alla fotografia etnografica da "La ricerca folk­ lorica" (2, 1 98o) ; e naturalmente il saggio di Faeta (Dal paese al labirinto. Considerazioni intorno all'etnografia visiva di Ernesto de Martino) compreso nel citato volume di immagini I viaggi nel Sud. In una interessante prospetti­ va si colloca l' articolo di V. Severino, La ragione storica dei colori (in " Storia­ grafia " , 8, 2004 ) , che coglie lo specifico etnografico della fotografia in bianco e nero. Sul ruolo svolto da de Martino nella storia del film etnografico italia­ no, la letteratura è oggi assai vasta: contributi non specifici ma ricchi di inte­ ressanti notizie sono quelli di Fabio Carpi (Cinema italiano del dopoguerra, Schwartz, Milano 1 9 5 8 ) , di Pepa Sparti (Cinema e mondo contadino , Marsi­ lio, Venezia 1 9 8 2 ) e di Pasquale laccio (Cinema e mezzogiorno, saggio com­ preso nel XIV volume della Sto ria del Mezzogiorno delle Edizioni del Sole, Napoli 1 99 1 , pp. 3 5 3 -6 ) ; mentre dedicati al "genere " fondato da de Martino sono i due fascicoli di Carpitella sulle Giornate del film etnografico italiano, Associazione italiana di cinematografia scientifica, Roma 1 97 7 e 1 9 8o; gli ar­ ticoli di Gallini (Il documentario etnografico "demartiniano") e di Seppilli (Sud e magia. Ricerca etnografica e cinema documentario sul Mezzogiorno d'I­ talia nel secondo dopoguerra), pubblicati rispettivamente sui numeri 3 ( 1 9 8 1 ) e 8 ( 1 9 8 3 ) della "Ricerca folklorica " ; nonché l' utile repertorio, presentato al già citato convegno del 1 99 5 , La cinematografia demartiniana a cura di Emi­ lia De Simoni, Luigi Di Gianni, Vincenzo Padiglione. Per un inquadramento

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generale: Paolo Chiazzi, Manuale di antropologia visuale, Unicopli, Milano 1993 · Gli anni tra il 1 9 5 2 e il 1 9 5 9 non sono anni soltanto di continui viaggi nel Sud e di riflessioni sulle procedure da usare nella raccolta dei dati etnografi­ ci: de Martino continua a partecipare con ardore ( almeno fìno al 1 9 5 7 ) al dibattito politico e soprattutto continua a riflettere sulla storia e il metodo delle scienze religiose, con un crescendo di lavori di grande impegno teoreti­ co. Con il Partito comunista il rapporto non è idilliaco: Salinari e Alicata lo attaccano, anche se esclusivamente sul piano ideologico, in più di una occa­ sione (famose le pagine di Il meridionalismo non si può fermare a Eboli ["Cronache meridionali" , 2 , 1 954] di Alicata, in cui de Martino viene coin­ volto nella polemica contro Levi ) . Uno dei pochi " compagni " con cui riesce a intrattenere un dialogo è Pietro Secchia (cfr. Compagni e amici. Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia, a cura di R. Di Donato, cit . ; con una Introduzione che ricostruisce l'iter politico demartiniano degli anni cinquan­ ta) : comunque, come già accennato sopra, pur non militando più apertamen­ te, il nostro autore non ruppe mai del tutto con il partito e anche il partito, con lui, fece lo stesso. Sull 'intera questione del dissenso all'interno del parti­ to (con accenni anche a de Martino) cfr. Ajello, Intellettuali e PCI, cit . e L. Raggianti, Marxismo perplesso, Editoriale Nuova, Milano 1 9 80. Sempre allo stesso periodo ( 1 9 52-59) risalgono gli scritti alimentati dal "ritorno a Croce " : sei scritti che appartengono al de Martino "maggiore " e che qui possiamo soltanto elencare. Sono: A ngoscia territoriale e riscatto cul­ turale nel mito A chilpa delle origini ( " Studi e materiali di storia delle religio­ ni " , 2 3 , 1 9 5 2 , pp. 5 2 -66) , Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni ( '' Società " , 3, 1 9 5 3 , pp. 3 1 3 -42 ) , Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto ( '' Studi e materiali di storia delle religioni " , 2 5 , 1 954, pp. r - 2 5 ) , Crisi della presenza e reintegrazione religiosa ( ''Aut-aut " , 3 1 , 1 95 6 ) , Storicismo e irrazio­ nalismo nella storia delle religioni ( '' Studi e materiali di storia delle religioni " , 2 8 , 1 9 5 7 ) e Mito, scienze religiose e civiltà moderna ( ''Nuovi argomenti " , 3 7 , 1 9 5 9 , pp. 4-4 8 ) ; a cui vanno aggiunti i frammenti postumi che Marcello Massenzio ha radunato nel volume Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1 995 ( dove si trovano ristampati anche i so­ pracitati saggi del 1 9 5 4 e del 1 9 5 7 ) . Naturalmente n é i viaggi nel Sud, n é l a militanza nel PC!, n é gli articoli per i vari periodici che lo ospitavano, aiutavano de Martino a sopravvivere. Lo stipendio che percepiva presso il liceo Virgilio restò per molto tempo la sua unica fonte sicura di guadagno. A giovarsi del suo insegnamento furono però gli studenti dell'Università di Roma: qui a partire dal 1 9 5 3 de Martino cominciò a tenere un corso "pareggiato" di Etnologia e poi un corso da libe­ ro docente in Storia delle religioni. Alla cattedra arrivò solo il r 0 dicembre del 1 9 5 8 , vincendo - insieme ai più giovani Brelich e Bianchi - un concorso non di Etnologia o di Storia delle tradizioni popolari ( dove non aveva che nemici ) , ma di Storia delle religioni, presieduto dall'ancora vivo Raffaele Pet-

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tazzoni. E quest' ultimo lo appoggiò, ma non fino in fondo: a de Martino toccò infatti Cagliari, la meno ambita (a torto) delle tre sedi.

Gli ultimi tempi è il titolo di un famoso articolo di Franco Fortini su " Qua­ derni piacentini" ( 2 5 , 1 966) che in coppia con l'altrettanto noto Colloquio con Ernesto de Martino di Cesare Cases, svoltosi poche settimane prima della mor­ te dello studioso (ivi, 24, 1 9 65 ) , pose le basi della riscoperta, ancorché tardiva, del de Martino teorico. Fino ad allora, a parte il dibattito suscitato dal Mondo magico, erano state le etnografie meridionaliste ad attirare l' attenzione dei criti­ ci, ed erano passate in secondo piano tutte le tesi filosofiche e le proposte metodologiche dell'autore, persino quelle relative al rapporto tra marxismo e religione, che rappresentavano il momento " alto" di una riflessione che troppo spesso si attardava in prese di posizione rigide e di corto respiro. Per la verità, questa rivisitazione del de Martino teorico della cultura ha avuto tempi di crescita piuttosto lenti e, se si eccettuano i citati interventi e quelli già ricordati di Galasso ( r 969), di Binazzi ( r 969) e dello stesso Cases ( 1 97 3 ) , nel complesso poco pertinenti alle aree di specifica competenza (l'etnologia e la storia delle religioni) . Solo dopo la pubblicazione della Fine del mondo, si è avviato un processo, continuo e direi irreversibile, di studi a tutto campo, che ha ridato respiro europeo al pensiero dell'autore. Eppure, de Martino negli ultimi anni si era dedicato quasi totalmente alla messa a punto delle sue teorie pubblicando non solo Furore Simbolo Valore (li Saggiatore, Milano 1 962; ristampato nel 1 9 80 con una Introduzione di L. Lombardi Satriani, e nel 2 002 da Feltrinelli, con una Introduzione di M. Massenzio) , ma intervenendo anche, con impegnative relazioni, ai dibattiti organizzati per l 'uscita della monumentale biografia freudiana di Jones (Etno­ logia e storiografia religiosa nell'opera di Freud, pubblicato poi su "Homo " , I , 1 9 6 3 , pp. 47-50) e di Bultmann (A proposito del volume "Storia ed escatolo­ gia", comparso su "De homine " , 9 - r o , 1 964, pp. 2 I 8-22) e scrivendo per "Cultura e scuola" una introduzione alla storia del pensiero etnologico (Et­ nologia e civiltà moderna, I I , I 9 64, pp. 5 - 1 4 ) che integra il discorso iniziato con l'articolo del 1 9 5 9 sul mito. A questa fase riordinatrice della sua attività risalgono pure alcune antologie e rassegne da lui curate a scopo informativo, ma lontane dalla compattezza e dalla tensione discorsiva dei suoi libri: mi riferisco a Magia e civiltà (Garzanti, Milano r 962 ) , a La religione nell'uRSS (Feltrinelli, Milano 1 9 6 1 ) e a Il sogno e le civiltà umane (Laterza, Bari 1 9 66) . La prima, che è un'antologia ragionata con ampi brani di raccordo tra testo e testo, si riconnette alla parte generale di Sud e magia e ricostruisce ( con qualche immotivata esclusione) il corpus delle interpretazioni della magia che hanno più convinto o deluso l'autore. La seconda (che de Martino firmò ab­ torto collo, lasciando la cura del volume ad Alessandro Bausani) è una scioc­ cante rassegna degli studi sovietici in materia di religione, con la traduzione di molte voci desunte dalla Grande enciclopedia sovietica ( 1 949-58) e una pic­ cola scelta di coevi saggi metodologici. Il clima politico e culturale non è più quello del I 9J I , e anche de Martino è cambiato: «questi articoli», dice nel­ l'Introduzione, «palesano nel dominio delle scienze religiose un innegabile li-

NOTA BIOBIB LIOGRAFICA

vello di arretratezza», ma proprio per ciò sono in molti, sia a destra che a sinistra, a chiedersi il perché di una simile iniziativa. Anche il terzo dei volu­ mi citati non è firmato da de Martino, che pure lo aveva ordinato, prati­ cando una selezione tra i contributi presentati al convegno internazionale su Il sogno e le civiltà umane tenutosi a Royaumont nel 1 9 6 2 : la raccolta uscì postuma, con un'introduzione non del curatore, bensì di Vittorio Lanternari e una nota di Clara Gallini. Va per ultimo ricordato che a Cagliari, sempre nel 1 962, de Martino ebbe finalmente l'opportunità di organizzare un convegno "tutto suo " : ma per una serie di motivi (alcuni dei quali intuibili) il convegno riuscì poco " demartiniano" e molto sardo-accademico, relegando in secondo piano il di­ battito sul metodo e le massime questioni. Gli atti di questo Convegno di studi religiosi sardi, a cui parteciparono anche Bianchi, Brelich e Cirese, furo­ no pubblicati dalla Cedam (Padova 1 9 6 3 ) . Ma de Martino non aveva "tirato i remi in barca " , non aveva smesso di "pensare in grande " : non passano tre mesi dal convegno che è già al lavoro sulla Fine del mondo ( come si evince dalla pagina da me citata nell'Immaginario malato, in "La ricerca folklorica " , 1 3 , 1 9 8 6 ) . Una ricerca che doveva durare molti anni, comunque più dei tre che gli restavano da vivere. Chi conosceva e leggeva de Martino (cfr. per esempio i citati ricordi di Cases e Fortini) sapeva bene che egli negli ultimi anni stava lavorando sul tema delle apocalissi culturali, e i primi risultati erano stati già resi pubblici (in Il problema della fine del mondo, conferenza tenuta al seminario su Il mondo domani, organizzato da Pietro Prini [Edizioni Abete, Roma 1 9 64] ; in Per una ricerca sulle apocalissi, altra conferenza tenuta probabilmente nel r 964 e stampata poi in appendice alla Fine del mondo del 1 9 7 7 ; e soprattutto nel vasto saggio Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche pubblicato su "Nuovi argomenti " , 69-7 1 , 1 964, pp. 1 0 5 -4 1 ) , però nessuno sapeva a che punto era il lavoro. La prematura morte dell'autore distolse per molti anni l'attenzione dei critici da questo punto d'approdo e solo nel 1 977, quando apparve dopo lunghe peripezie editoriali e redazionali (ricostruite ovviamen­ te solo per sommi capi e con delicatezza dalla curatrice, nelle premesse alla prima e alla seconda edizione) la piramidale raccolta delle note preparatorie: La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, a cura e con introduzione di C. Gallini, Einaudi, Torino. Il libro destò un grande inte­ resse, favorendo tra l'altro la rinascita degli studi demartiniani, e andò subito esaurito (verrà ristampato, con una nuova introduzione di Gallini e Massen­ zio, soltanto nel 2 002 ) . Non tutti gli appunti relativi al triennio 1 9 62-65 con­ fluirono nella raccolta, ordinata secondo i criteri già esposti dall'autore: ad esempio tutte le note a carattere strettamente filosofico rimasero a lungo ine­ dite (ma si possono ora leggere in E. de Martino, Scritti filosofici, a cura di R. Pàstina, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 2005 ) . La ricerca pre­ vedeva inoltre un apporto specifico di Giovanni Jervis, che pubblicò subito, ma in sede separata, le sue riflessioni (Il tema della fine del mondo nelle ma-

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lattie mentali, sulla rivista di "Psichiatria generale e dell 'età evolutiva " , 3 , I 9 65 ) . Gli studi e l e riflessioni che il libro, dal I 9 7 8 a oggi, h a promosso occu­ perebbero, solo a elencarli, due pagine di questa nota. Mi limito a ricordare la vivace tavola rotonda del I 978 presso l'Istituto Cervi, a cui parteciparono la curatrice, Cesare Cases, Pier Cesare Bori, Carlo Ginzburg, Giovanni Jer­ vis, Michele Risso e Luigi Lombardi Satriani (il tutto venne riproposto su "Quaderni storici " , 40, I 979) e i numerosi seminari attorno ai temi del libro organizzati dall'Istituto dell'enciclopedia italiana e dall'Associazione interna­ zionale Ernesto de Martino, tra il I 9 9 9 e il 2 0 0 3 , rimasti purtroppo inediti . Nel testo abbiamo seguito uno solo dei fili tesi nel libro da de Martino, per cui il lettore dovrà ricorrere, per avere un quadro relativamente completo, ad altri contributi: o settoriali (in particolare sui temi della "perdita del Cen­ tro " , del simbolismo laico, della letteratura della crisi, della triade Io-Corpo­ Mondo, della dicotomia spaesamento/domesticità e delle "patrie culturali " ) o generali (sui diversi approcci allo studio delle apocalissi) . Qui di seguito cito solo quelli che mi paiono più orientativi: C. Gallini, Introduzione all'edizione del I977; V. Lanternari, L'apocalisse come problema antropologico, in Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo I 9 8 3 ; C . Pasquinelli , Trascendenza ed ethos del lavoro. Note sulla "Fine del mondo", in "La ricerca folklorica " , 9 , I 9 84 ; A. Momigliano, Per la storia delle religioni nell'Italia contemporanea: A . Banfi e d E . de Martino tra persona e apocalissi, i n "Rivista storica italian a " , 99, I 9 8 7 ; G . Villa, Delirio e fine del mondo, Liguori, Napoli I 9 8 7 ; C . Tullio­ Altan , Soggetto, simbolo e valore. Per un 'ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano I 9 9 2 ; G. Saunders, L'etnocentrismo critico e l'etnologia di Ernesto de Martino , in "Ossimori " , 7 , I 99 5 ; P. Cherchi, Il peso dell'ombra. L'etnocentri­ smo critico di E. de Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli I996; G. Sasso, Le apocalissi culturali. Ultime riflessioni di E. de Mar­ tino, in "Nuovi argomenti " , 5 , I 999; R. Nisticò, Ernesto de Martino e la teo­ ria della letteratura, in "Belfagor" , 3 , 2 oo i ; D. Fabre, "La fine del mondo " , une antropologie de l'histoire, i n "Annali del dipartimento d i storia " , Uni­ versità di Roma di Tor Vergata, I , 2 005 . La "stroncatura" di Di Nola a cui si accenna nel testo uscì sulla "Critica sociologica" (48, I 9 7 8 : Le "apocalissi" di E. de Martino) .

Indice dei nomi

Abruzzi Adam, I O I Adamo Giorgio, 86 Adenauer Konrad, I 2 I Adorno Theodor W., 3 3 , 5 0 Ajello Nello, I 54, I 6 I Alicata Mario, 5 9 , I 6 I Aliotta Antonio, 9 , I48 Altamura Roberto, I48 Anderlini Luigi, 5 8 Angelini Pietro, 1 5 0, I 5 3 , 1 5 6 Angioni Giulio, 1 4 7 A ntoni Carlo, 45 , 1 4 9 Antoniani Michelangelo, 8 8 Aristotele, I 4 3 Armando Antonello, I 4 8 Augieri Carlo Alberto, I 5 5

Blasetti Alessandro, 77 Boas Franz, 88 Boccassino Renato, 30, I49, I 5 3 Bonomo Giuseppe, I 5 6 Bori Pier Cesare, I 3 4, I 64 Bosio Alberto, 7 4 Bosio Gianni, 7 4 Boullaye Pinard de la, 2 0 Brelich Angelo, 146, I 6 I , I 6 3 Brienza Rocco, 9 5 , I 4 6 Branzini Giovanni Battista, 98, I 5 3 , I55, I58 Bruno Giordano, I I 3 Bultmann Rudolf, I 3 6-7, I6z Buonaiuti Ernesto, 9 Buttitta Antonino, I 5 3

Badiali Sandra, 1 4 6 Banfi Antonio, 2 9 - 3 0 Baratta Giorgio, I 5 6 Barbera Sandra, I46 Basso Lelio, 53, 58, I57 Battistrada Franco, I47 Bausani Alessandro, I6z Belardinelli Carlo, 7 6 Benedetti Benedetto, I 5 7 Benjamin Walter, I 3 I Bermani Cesare, I45, I54, I 5 7 Bertholet Alfredo, I 2 3 Bianchi Ugo, I 6 I , I 63 Binazzi Andrea, I48, I 62 Bindi Letizia, 145 , I 5 2 , I 5 8 Binswanger Ludwig, 1 2 8-9

Calisi Romano, I O I Callieri Bruno, I 2 2 , I 2 8 Calvino Italo, 7 6 Campanella Tommaso, 5 2 , I I 3 Canfora Fabrizio, 1 4 8 Cannarsa Stefania, 6 6 , 6 9 , I 5 5 Cantoni Remo, 2 2 -4, 5 7 , I49 Capocasale Eugenio, I48 Cargnello Danilo, I 2 8 Carpi Fabio, I 6o Carpitella Diego, 8 I , 85-7, 90, I45-6, I 5 3 , I 5 6-60 Cases Cesare, 49-50, I45-6, I 5 2 , I 62-3 Cassirer Ernst, I 7 , 3 0 Castigliani Arturo, 9 5

ERNESTO DE MARTI:-lO

Cazzamalli Ferdinando, 1 5 0 Charuty Giordana, 1 4 7 , r 5 8 Cherchi Maria, q 6 Cherchi Placido, 1 4 6 , I 4 9 , I 64 Chiazzi Paolo, I 6 I Cifarelli Michele, 148 Cipriani Lidio, 1 5 0 Cirese Alberto Maria, 64, 7 4 , I 5 3 -6, I 63 Clemente Pietro, I47, I49, I 5 3 , I 5 5 -6 , I 5 8 Clifford Hugh , 3 8 Cocchiara Giuseppe, 2 I , I49 Comba Letizia, I 5 9 Corso Raffaele, 95 Croce Benedetto, I 7 , 20-4, 29-3 I , 4 2 - 8 , 5 0 , 5 2 - 6 , 66, 7 2 , 9 2 , I 0 5 , I I 3 , I I 5-6, I 2 I , I27, I49, I52, I6I Culmann Oscar, I 3 I Daniele, profeta, I 3 3 De Donato Gigliola, I 5 3 D e Matteis Stefano, I49-50 de Palma Vittoria, So- I, 85 , 90, n 8 , I 5 I , I 5 3 -4 · I 5 7-9 De Renzi Ennio, I 52 De Sanctis Francesco, 86 De Santis Giuseppe, 76, 78 De Sica Vittorio, 65 , 76-8, 86 De Simoni Emilia, I54, I 6o Dei Fabio, I 5 2 Devereux George, I 2 9 D i Donato Riccardo, I 3 9 , I46-7, 1 5 3 -4 , 1 5 8 , I 6 I Di Gianni Luigi, 8 9 , I 6o Di Nola Alfonso Maria, I 34 · I 64 Donini Ambrogio, I 5 5 Dumas Alexandre, I I 7 Dumas Georges, 3 9 Durkheim Émile, I 6 , I 8 , 4 5 Einaudi Giulio, 4 I , 5 3 , 6 6 , 7 7 , S I , I 5 0, I 5 2 Eliade Mircea, I 6 , 4 4 , 54, 5 6 - 7 , 9 I -4 , I 3 0- I , I 3 3 , I46, I 5 2

Elkin Adolphus Peter, 9 4 Emmer Luciano, 8 8 Engels Friedrich, I 3 9 , I 4o Fabre Daniel, I 5 3 , I 64 Faeta Francesco, I 5 6 , I 6o Fanon Franz, I 2 9 Fantauzzi Annamaria, 1 4 5 - 6 , I 5 4 , I58 Fellini Federico, 87 Feltrinelli Giangiacomo, Io Ferdinando n, 5 2 Ferlini Bruno, I 5 o Ferretti Gian Carlo, 7 7 Ferretti Patrizia, I 4 8 Feuerbach Ludwig, 72 Filangieri Gaetano, I I4 Fiore Tommaso, 58, I48 Fiore Vittore, I 5 3 Fofì Goffredo, I 5 3 Forte Armando, I47 Fortini Franco, 64, I45-6, I62-3 Franceschini Fabrizio, I 5 4 Frazer James George, I 6 , 2 I Freud Sigmund, 49, I 2 9 Frobenius Leo, 2 0 , I 5 0 Galasso Giuseppe, I 4 5 , I 4 9 , I 5 2 , I 54, I 5 6 , I 5 9 , I 62 Gallini Clara, 8 I , 99, I 34, 146-7, I 5 3 -4, I56, I 5 8 , I 6o, I 63-4 Gandin Michele, I 5 8 Gandini Mario, I 4 5 - 7 , I 5 4 Gebsattel Viktor E., I 2 9 Geertz Clifford, I I I Genovesi Antonio, I I 4 Gennaro, santo, 5 2 - 3 , I I 7-8 Gentile Giovanni, 9 Gesù, I 0 9 , I 2 4 , I 3 4-5 , I 3 7 Giannattasio Francesco, I 6o Giannone Pietro, I 05 , I 1 4 Giarrizzo Giuseppe, 7 2 , 1 4 7 , I 5 5 Gilardi Ando, I O I Gillen Francis James, 94 Ginzburg Carlo, 3 3 , 147, 149, r 64

r66

INDICE DEI NO MI

Giovanni, evangelista, r2 3 Giusti Sonia, 149 Gorki Maksim, 63 Graebner Robert, 20 Gramsci Antonio, 52, 5 5 , 66-72 , B o , 1 04 , r r r , 1 5 5 - 6 Griaule Marcel , B 2 Guerrieri Gherardo, B r Gusinde Martin, 3 6 Guttuso Renato, 65 , 7 6

62 - 3 ,

Harris Marvin, 3 5 Hegel George Wilhelm Friedrich, 4 1 , 4 9 · 66 Heiddeger Martin, 39, 1 2 B Horkheimer Max, 3 3 Hubert Henri, 47 laccio Pasquale, r 6o Imbruglia Girolamo, 147 Janet Pierre, 37, 39, 4B, 95 , r o B , !29 Jaspers Karl, 1 2 9 Jervis Giovanni, r 2 2 , 1 4 5 - 6 , 1 5 9 -60, ! 6 3 -4 Jones Ernest, r 62 }ovine Francesco, 65 , 76 Jung Carl Gustav, 54, 1 2 9 Kant Immanuel, 3 9 , 66 Kennedy John Fitzgerald, 1 2 2 Kezich Giovanni, r 54 Krause Fritz, 2 r Kulenkampff Caspar, 1 2 9 Kunz Hans, 1 2 9 Lang Andrew, 2 7 , 3 1 Lanternari Vittorio, r 2 5 , r 4 5-6, r 5 3 , ! 6 3 -4 Laterza Editori, 2 7 , 5 9 Leiris Michel, 9 9 Levi Carlo, 3 3 , 5 2 , 5 5 - 9 , 6 2 , 6 5 , 76-7, Bo, B 9 , 9 5 - B , ro7, 1 45 , 152-3, r6r

Lévi-Strauss Claude, r 5 , 9 9 , 1 2 9 , 1 44 Lévy-Bruhl Lucien , r 6- B , 2 7 , 45 , 5 7 Lizzani Carlo, 76, 7 B Lombardi Satriani Luigi Maria, 7 4 , I OO, I45-6, I 5 2 - 3 , I 5 B , I 6 2 , I 64 Lowith Karl, I 3 I Luporini Cesare, 67 Macchioro Anna, 147-B, I 5 7 Macchioro Vittorio, 9 , 3 I , 4 1 , 5 6 , 147-9 Magrini Tullia, r 6o Mancini Silvia, 1 5 2 Mangoni Luisa, I 5 2 Marciano, santo, I 09 Marett Robert Ranulph, 2 I Martelli Otello, B7 Martino Lia de, 149 Martino Vera de, 149 Massenzio Marcello, I 3 4, I46-7, I 6 I - 3 Mauss Marcel, 47 Mead Margaret, 8 8 Meoni Maria Luisa, I 5 5 -6 Michelangelo Buonarroti, 64 Micheli Silvio, 7 6 Momigliano Arnaldo, I 34 , I 5 B , I 6o, I 64 Mondadori Alberto, I o Monelli Paolo, 7 7 Montanari Enrico, 147 Mi.ihlmann Wilhelm, 20 Muscetta Carlo, 5 9 , 14B, I55 Nenni Pietro, 5 8 Nietzsche Friedrich , 4 1 Nisticò Renato, I 64 Nowaczyc Miroslaw, 1 5 6 Ohlmarks Ake, 3 5 Omodeo Adolfo, r 6- 7 , 2 0 , 2 3 , 27-3 1 ,

Paci Enzo, 3 0 , 43 , 45 , 4 B , 145 , 1 5 2 Padiglione Vincenzo, 1 5 5 , r 6o

ERNESTO DE MARTI:-lO

Padre Pio, I 2 I Panzieri Raniero, 5 8 Pasquinelli Carla , I49· I 5 6 , I 64 Pàstina Roberto, I 5 2 , I 63 Pavese Cesare, 4 I , 47, I49-5 I , I 5 3 Pazzini Adalberto, 9 5 , I 50 Pepe Gabriele, 5 8 Pettazzoni Raffaele, 9 , I 6 , 29-30, 34, 44, I48-9, I 5 2 , I 6 I -2 Pinna Franco, 8 I , 87, 90, I oo- I , I 5 9-60 Pitré Giuseppe, 62 Pitzurra Mario, I O I Pompeo Francesco, I 5 0 Potenza Mario, I 5 7 Prandi Carlo, I46 Previtera Silvio, I46 Prini Pietro, I 63 Purificato Domenico, 65 Ratzel Friedrich, 20 Rauty Raffaele, I 5 6 Rea Domenico, 76-7 Rissa Michele, I 6o, I 64 Rivera Annamaria, I46 Rossellini Roberto, 76-8 Rossi Annabella, 8 2 , 89, I 5 9 Rossi Doria Manlio, 5 7 Russo Luigi, 5 8 Salinari Carlo, 5 9 , I 5 5 , I 6 I Santoli Vittorio, I 5 6 Sasso Gennaro, 46-7, I46, q 8 , I 64 Satta Gino, 4 I , I 5 2 Saunders George, I 64 Schmidt Wilhelm, I 7 - 2 0 Schulien Michele, I 9 , 3 4 Scotellaro Rocco, 5 8 - 6 I , S o , 9 0 , I 5 5 , I 57 Secchia Pietro, 1 3 8, I 6 I Seppilli Tullio, I 6o Serao Matilde, 5 2 Servadio Emilio, I O I , I 5 o , I 5 9-6o Severino Valeria, I49, I54• I 6o

Shirikogoroff Sergei M., 3 3 - 7 , 5 2 Signorelli Amalia, I46-7, I 5 9 Sokolov }uri M . , 64 Salmi Renato, 49-50, I46, I 5 2 Sorel George, I 2 4 Sparti Pepa, I 6o Spencer Herbert, 94 Spinoza Baruch, 5 5 Squillacciotti Massimo, I 5 5 - 6 Stalin J osif, 6 3 Storch Alfred, I 2 9 Straus Erwin W . , I 2 9 Talamonti Adelina, I 5 9 Teodosio 1 , 7 I Tedesco Sergio, I49 T ogliatti Palmiro, 66 Tolstov Sergej Pavlovic, 63 Toschi Paolo, 85, 95, I 5 6 Trede Theodor, I I I Tucci Giuseppe, I 5 0 Tullio-Altan Carlo, I 64 Turchini Angelo, I 6o Turolla Enzo, I 5 2 Tylor Edward Burnett, I 6 V alletta Nicola, 5 2 , I I 5-6 Vallone Giancarlo, r 6o Van Den Berg Jan Hendrik, I29 Van der Leeuw Gerardus, I 6 , I 3 I , 138 Van Gennep Arnold, 86, 90- I , 95 Venturoli Marcello, 76, 8 I -2 , 90 Vespignani Lorenzo, 76, 8 I Vico Giambattista, 2 8 , 5 2 , 66, I I 4 Villa Giorgio, I 64 Visconti Luchino, 6 5 , 76-8, So Vitelli Franco, I 5 3 , I 5 5 Volpedo Pellizza Giuseppe d a , 55 Worsley Peter, I25 Zavattini Arturo, 86, I 5 7 Zavattini Cesare, 76, 78-So, 87

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