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Italian Pages 405 Year 2023
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Collana
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Saggi
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Francesco Virga
Eredità dissipate
Gramsci Pasolini Sciascia
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Immagine di copertina: Eretici del ‘900, opera di Antonio Corrado Copertina, redazione e impaginazione: Redazione Diogene Multimedia ISBN: 978-88-9363-284-3 © Casa Editrice Diogene Multimedia Piazza di Porta Santo Stefano 1, 40125 Bologna E-mail: [email protected] Prima edizione: Luglio 2022 Seconda edizione rivista e ampliata: Giugno 2023
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Ai miei figli Irene, Luisa e Gaetano
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Ringraziamenti Sono tante le persone a cui sono grato perché, in modi diversi, hanno contribuito a far nascere questo libro. Non potendole nominare tutte mi limito ad indicare di seguito gli amici che da tempo mi hanno spinto a raccogliere in un unico volume i saggi che avevo scritto e pubblicato in varie riviste: Emanuele Buttitta, Claudia Calabrese, Antonino Cusumano, Pippo Di Falco, Aldo Gerbino, Rosario Giuè, Elisa Lanzilao, Santo Lombino, Nicolò Messina, Vincenzo Ognibene, Bernardo Puleio, Giovanna Sanfilippo, Nuccio Vara. Un ringraziamento particolare alla casa editrice Diogene di Bologna e a Mario Trombino che ha avuto fiducia, fin dal principio, nel valore del mio lavoro.
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Indice
Introduzione
p. 11
Parte Prima
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Antonio Gramsci I. La filosofia della prassi
e la rivoluzione culturale di Antonio Gramsci
p. 19
1. Come leggere un classico del Novecento
p. 19
2. Socialismo e cultura
p. 22
3. La guerra e la Rivoluzione russa
p. 31
4. La rivoluzione contro Il Capitale (1917-1918)
p. 33
5. L’Ordine nuovo (1919-20)
p. 36
6. Gli anni delle responsabilità politiche (1921-1926)
p. 46
7. La ‘quistione meridionale’ secondo Gramsci
p. 49
8. Genesi dei Quaderni del carcere 9. “Appunti per una introduzione allo studio
p. 56
10. Cultura, cultura popolare e folklore
p. 62
della filosofia e della storia della cultura”
p. 60
11. L’analisi critica della religione e del senso comune p. 66 12. La critica alla filosofia di Benedetto Croce
p. 70
13. La critica a Bukharin e al materialismo volgare
p. 72
14. Il Risorgimento
p. 75
15. Gli intellettuali
p. 78
16. Gramsci “storico integrale”
p. 81
17. Conclusione
p. 86
Note
p. 89
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Parte Seconda
Pier Paolo Pasolini II. Il “nuovo modo di essere gramsciano” di Pier Paolo Pasolini 1. Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini 2. La scoperta del mondo contadino Dalla poesia alla politica (1943-1949) 3. La scoperta di Gramsci 4. Nuove questioni linguistiche Documento acquistato da () il 2023/09/12.
e crisi del marxismo
p. 103 p. 103 p. 106 p. 114 p. 120
5. Pasolini corsaro e luterano
p. 125
6. Nostalgia del volgar’eloquio
p. 139
7. Scalia traduce l’ultimo Pasolini
p. 142
8. Critica al consumismo
p. 143
Note
p. 145
III. Giuseppe Giovanni Battaglia e Pasolini
p. 161
1. I primi versi di Battaglia nell’antica lingua di Aliminusa
p. 162
2. Dialetti e universo contadino
p. 165
3. Un corsaro dentro la CGIL
p. 169
4. Sacralità della poesia e della vita
p. 172
Note
p. 179
IV. Pasolini tra incanto e disincanto
p. 183
1. Gli Studi su Bach del giovane Pasolini
p. 186
2. Musica, poesia e politica in Pasolini 3. L’ interpretazione di Claudia Calabrese
p. 189
del cortometraggio pasoliniano
Che cosa sono le nuvole? 4. Il canone sospeso
p. 196 p. 198
Note
p. 201
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Parte Terza
Leonardo Sciascia V. La Sicilia di Leonardo Sciascia
p. 209 p. 223
VI. La mafia secondo Leonardo Sciascia
p. 229
Note
1. Mafia siculo-americana, razza e storia, mafia e classi dirigenti
2. La mafia agrigentina Documento acquistato da () il 2023/09/12.
Note
VII. L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia
p. 231 p. 237 p. 240 p. 243
1. Il prologo pasoliniano
p. 245
2. Letteratura e storia Borges, Pasolini e le ossessioni di Sciascia
p. 248
3. L’analisi critica delle lettere di Moro Sciascia diviso tra filologia e ideologia
p. 251
4. Servizi, BR e Mafia
p. 257
Note
p. 259
VIII. Sciascia morde ancora
p. 263
1. Sciascia scrittore “arabo”
p. 265
2. La Sicilia araba di Leonardo Sciascia
p. 268
3. Sciascia in Africa, Turchia e Persia
p. 270
4. Il Convegno Internazionale del 2019 5. Il fuoco di Leonardo Sciascia
p. 274
nelle sue ultime parole
Note
p. 283 p. 288
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Parte Quarta
Gramsci, Pasolini e Sciascia oggi X. Indifferenza. Una parola chiave da Antonio Gramsci a papa Francesco
p. 295
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1. La religione nella visione gramsciana del mondo p. 296 2. Gramsci e la tradizione biblica nella teologia della liberazione p. 300 Note p. 307
XI. La sensibilità religiosa di Pasolini
p. 309 p. 312
XII. L’eresia di Sciascia
p. 313 p. 321
Note Note
XIII. Pasolini e Sciascia:
p. 323 p. 324
due eretici a confronto 1. Storia di un’amicizia 2. L’influenza di Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia
p. 327
Note
p. 337
Nota conclusiva
p. 343
Appendice
Note critiche di
- Claudia Calabrese - Salvatore Costantino - Santo Lombino - Nicolò Messina - Gaspare Polizzi - Bernardo Puleio
p. 349
Nota redazionale Indice dei nomi
p. 389
p. 353 p. 363 p. 365 p. 373 p. 377
p. 391
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Introduzione
A prima vista potrebbe apparire discutibile l’accostamento tra Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Si tratta, infatti, di autori che hanno avuto ruoli e pesi diversi nella storia del Novecento. Secondo gli schemi tuttora dominanti, il primo – nonostante che di recente sia stato finalmente compreso tra i principali filosofi contemporanei1 – continua ad essere considerato soprattutto un politico e il suo spazio, nel tempo della frammentazione dei saperi, andrebbe confinato nell’ambito della scienza politica. Mentre gli altri due – pur avendo sempre disprezzato i letterati puri e scritto tanto su giornali e riviste politiche – essendosi occupati prevalentemente di letteratura, cinema e poesia, andrebbero esaminati nell’ambito ristretto della critica d’arte e letteraria. Ma se si leggono attentamente le opere dei tre e si dà una veloce occhiata alla vasta letteratura critica esistente, soffermandosi particolarmente su quella prodotta nell’ultimo decennio, non si tarda a cogliere il legame profondo e i tratti comuni, pur nelle loro differenze. Gramsci, Pasolini e Sciascia, seppure in modi diversi, hanno riconosciuto il peso determinante avuto dalla cultura (intesa in modo nuovo rispetto alla tradizione) nella storia e colto il legame stretto tra lingua e potere. 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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In specie i tre, seguendo vie e metodi diversi, si sono ritrovati uniti nella critica alle classi dominanti. Così come Gramsci, fin dal 1926, aveva individuato in Giustino Fortunato e Benedetto Croce (da cui aveva pur appreso tanto) «le chiavi di volta del sistema» e «le due più grandi figure della reazione italiana»;2 Pasolini è stato il primo in Italia, dopo Gramsci, ad aggiornare la sua analisi critica sugli intellettuali denunciando con forza il loro ruolo servile e subalterno: «Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti “dentro il Palazzo”».3 Leonardo Sciascia non è stato da meno nel criticare gli «intellettuali organici»4 ai vari sistemi di potere. Infatti, fin dal 1963, nello scrivere uno dei suoi racconti più belli, Il Consiglio d’Egitto, non risparmia critiche ad archivisti, storici e preti – servi del potere del tempo – che utilizzano le loro competenze per giustificare e legittimare domini e privilegi. Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia. Per questo il capitale prezioso lasciato da questi tre grandi autori rischia oggi di essere disperso e dissipato. Nell’odierna società, appiattita in un eterno presente, tanti vivono ignorando il passato e senza pensare al futuro. Ecco perché temo, con Leonardo Sciascia, che la memoria possa persino scomparire. Nel corso delle presentazioni della prima edizione di questo libro si è tanto discusso del suo titolo provocatorio. Credo di aver spiegato alcune delle ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, malgrado il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei. Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai suoi stessi compagni di lotta al punto tale che Umberto Terracini 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
– stretto collaboratore del sardo nella redazione de L’Ordine Nuovo, fin dal 1919, e suo compagno di carcere durante la dittatura fascista – è arrivato a scrivere:
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Dal 1930 al 1945 – bisogna pur dirla almeno una volta senza perifrasi questa triste verità – la consegna fu di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica. […] E come dimenticare che, dietro lo squallido carro funebre che ne trasportò la bara al cimitero, altro non c’era che una scia di vuoto?5
Non parliamo poi di quello che è accaduto in Italia dopo il 1989, quando persino gli stessi dirigenti nazionali del Partito che aveva contribuito a creare hanno apertamente dichiarato di considerarlo inservibile politicamente dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Se in Europa e in India non avessero ripreso a leggerlo un gruppo di antropologi e sociologi che hanno dato vita ai cosiddetti subaltern studies (utilizzando, fin dal nome, una parola chiave del lessico gramsciano); se, in America Latina, Paulo Freire (il pedagogista gesuita autore della famosa Pedagogia degli oppressi) non l’avesse scoperto insieme ai teologi della liberazione (G. Gutiérrez, L. Boff, ecc.); se gli stessi intellettuali argentini di sinistra (vicini al populismo peronista) non avessero contribuito a diffonderne il pensiero, oggi, forse, non si parlerebbe più di Gramsci nel mondo. Qualcosa di simile è avvenuto con Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato nella sua ricerca dei “perché” della condizione presente […]. Faceva domande e sollecitava risposte[...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le polemiche […], o, come diceva con il “silenzio”».6 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Negli ultimi anni della sua breve vita tutti i suoi interventi, pubblicati sul Corriere della Sera e su altri giornali e periodici, sono stati accolti in modo ostile, oltre che da tutti gli uomini di potere del regime democristiano, persino da tanti intellettuali di sinistra. Basti ricordare, per tutti, gli scontri e le polemiche avute con Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, ecc. E le incomprensioni non sono ancora finite. Infatti, malgrado si continui a parlare e a scrivere tanto sulla sua opera, rimangono pochi i contributi critici seri. Leonardo Sciascia è stato uno dei pochi a difenderlo e a restargli vicino nel corso degli anni. Ecco perché lo scrittore siciliano, dopo la sua morte, dirà: «Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».7 E non è casuale che uno dei suoi saggi più discussi, L’affaire Moro, si apra proprio con una citazione di Pasolini, ripresa dal suo famoso articolo sulle lucciole del 1 febbraio 1975. Per la verità Sciascia, come Pasolini, ha sempre diviso l’opinione pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico. Basti ricordare che, negli anni in cui scriveva sul giornale comunista L’Ora di Palermo, era soprannominato “iena dattilografa” dai suoi stessi colleghi. Insomma, sarò pure – sciascianamente – pessimista, ma credo di avere delle buone ragioni per temere che i tre più grandi eretici italiani del 900 rischiano davvero di essere dimenticati in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno spazio per il pensiero critico e indipendente.
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Note 1. Basti qui ricordare che una recentissima iniziativa editoriale del Corriere della Sera, curata dal Prof. Carlo Sini, uno dei maggiori studiosi di filosofia contemporanea, ha compreso Antonio Gramsci tra i principali filosofi del Novecento accanto a Heidegger, Popper, Russell, Sartre, Wittgenstein, ecc. 2. GRAMSCI Antonio, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 150. 3. PASOLINI, Pier Paolo, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 93-94. 4. Questo termine gramsciano è stato sempre fonte di equivoci e malintesi. Cercherò di chiarire più avanti il significato che esso assume nel lessico e nella visione del mondo gramsciana. 5. TERRACINI Umberto, Prefazione a Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto, Rizzoli, Milano 1980, p. 10. Si rimanda anche ad altri suoi due libri: Intervista sul comunismo difficile, a cura di Arturo Gismondi, Laterza, Bari 1978, e Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli, con Prefazione di Davide Lajolo, Rizzoli, Milano 1981. 6. SCALIA Gianni, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, Portatori d’acqua, Urbino 2020, pp. 50-51. 7. SCIASCIA Leonardo, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, p. 176.
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Parte Prima
Antonio Gramsci Manca nel popolo italiano lo spirito di solidarietà disinteressata, l’amore per la libera discussione, il desiderio di ricercare la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l’intelligenza. (Antonio Gramsci, Per un’Associazione di Cultura, in Avanti! 18 dicembre 1917)
La critica marxista all’economia liberale è la critica al concetto di perpetuità degli istituti umani […]: è la riduzione a storicità e contingenza di ogni fatto, è una lezione di realismo agli astrattisti pseudo-scienziati, difensori delle casseforti. (Gramsci, L’ Ordine Nuovo, 1 giugno 1919, p. 4)
La filosofia della prassi […] è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico. […] Perciò avviene che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne. (Gramsci, Storicità della filosofia della prassi, 1932-1933, Q 10, vol. II, pp. 1487-1489)
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Sigle dei libri di Antonio Gramsci utilizzati Q - Quaderni del carcere, voll. I-IV, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 L1 - Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Einaudi, Torino 1965 L2 - Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele (questa edizione comprende anche le lettere di Tatiana Schucht), Einaudi, Torino 1997
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L3 - Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A. Santucci, 2 voll., Sellerio, Palermo 1996 L4 - Lettere 1909-1926, a cura di A. Santucci, Einaudi, Torino 1992 SG - Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1958 SLM - Sotto la Mole, Einaudi, Torino 1960 CT - Cronache teatrali 1916-1920 in Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950; Roma, Editori Riuniti 1971 ON - L’Ordine nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1955 CPC - La costruzione del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1971 QM - La questione meridionale, Roma, Editori Riuniti 1966 2000 p - 2000 pagine di Gramsci, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1964
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I.
La filosofia della prassi
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e la rivoluzione culturale di Antonio Gramsci Occorre creare uomini sobri, pazienti, che non disperino di fronte alle difficoltà e non si esaltino ad ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q 28, 11, pp. 2331-2)
1. Come leggere un classico del Novecento
L’originale pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937) è stato scoperto decenni dopo la sua prematura morte. I suoi scritti venuti alla luce, in edizioni diverse, a partire dal 1947, attendono ancora oggi una definitiva sistemazione.1 Leggere Gramsci non è facile. I suoi scritti, anche per via del loro carattere frammentario e non sistematico, hanno sempre diviso i critici e si sono prestati a molteplici interpretazioni. Il pensatore e uomo politico sardo non ci ha lasciato testi pronti per la pubblicazione. La sua opera, interamente postuma, è costituita per una parte da articoli apparsi su giornali e riviste, frutto di una decennale attività di giornalismo in uno dei momenti più drammatici della storia italiana ed europea (19161926), che l’autore si rifiutò sempre di raccogliere in volume; per l’altra, da lettere e appunti di lavoro scritti in carcere (1926 -1937). 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Insomma siamo di fronte ad un’opera aperta, problematica ed incompiuta. Per la sua corretta lettura, si sarebbe dovuta seguire la stessa metodologia che lo stesso Gramsci suggeriva di seguire per lo studio di Marx:
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Occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso […] la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole citazioni staccate.2
Raramente, però, questa indicazione è stata seguita. Inoltre, da più parti, è stata ignorata un’ altra elementare regola filologica indicata argutamente dal sardo in una nota dei suoi Quaderni: Sollecitare i testi. Ossia far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche al di fuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?3
Forse in Italia era inevitabile che la fortuna di Gramsci seguisse quella del partito che aveva contribuito a creare. Togliatti, attraverso la prima edizione tematica dei suoi Quaderni, necessaria per cominciare a far circolare le idee di Gramsci, ne ha dato un’interpretazione che, nel bene e nel male, ha segnato un’epoca. Come ha lucidamente osservato Franco Fortini, in Italia, anche chi ha rifiutato il togliattismo, ha finito per leggere Gramsci con le sue stesse lenti. L’edizione critica dei Quaderni, curata nel 1975 da Valentino Gerratana, ha contribuito a creare le condizioni per la formazione di una nuova generazione di 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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studiosi che hanno cominciato a leggere Gramsci con occhi diversi, liberandolo dagli schemi paralizzanti del passato.4 Le riserve espresse da Fortini all’edizione Gerratana dei Quaderni appaiono oggi superate, anche se risultano sempre stimolanti le sue osservazioni critiche.5 Per essere ben compresi i Quaderni del carcere vanno letti insieme all’epistolario gramsciano che, negli ultimi anni, si è arricchito di nuovi contributi. Preziosa risulta in specie la nuova edizione del carteggio che Gramsci in carcere ebbe con la cognata Tatiana Schucht, a cui si deve, peraltro, la salvezza e la conservazione dei 33 Quaderni.6 Da questo carteggio si comprende meglio la genesi di alcuni Quaderni e si vede bene come Gramsci sia stato anche stimolato dall’amico Piero Sraffa7 a scrivere su Benedetto Croce e sul ruolo svolto dagli intellettuali nella storia d’Italia. Peraltro nelle stesse lettere del sardo, che sono un capolavoro anche dal punto di vista letterario ed umano, si trovano delle eccellenti sintesi degli studi che riuscì a fare in carcere tra mille difficoltà. Particolarmente acuta mi è apparsa una recente osservazione del grande storico Erich Hobsbawm che, riferendosi all’uso intelligente che un gruppo di antropologi di lingua inglese sta facendo dell’opera di Antonio Gramsci, ne ha colto la vera attualità: Gramsci è divenuto ‘importante’ persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subalterni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi delle mode ideologiche […]. È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pensatori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’.8 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Giuseppe Vacca, Presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma e della Commissione scientifica dell’Edizione nazionale degli scritti gramsciani ancora in corso d’opera, ha giustamente rilevato che la prolungata inaccessibilità di molte fonti ha favorito il fiorire di una vasta letteratura basata su congetture che, al posto di chiarire i dilemmi, li hanno resi inestricabili (Vacca G., Vita e pensieri di Antonio Gramsci 19261937, Einaudi, Torino 2014). Gramsci, pur essendo stato profondamente radicato nel suo tempo, è riuscito ad andare oltre il suo tempo, lasciandoci un’opera che, seppure incompiuta, ha tutti i tratti dell’opera classica destinata a durare nel tempo. D’altra parte egli in carcere ha detto di voler studiare e scrivere für ewig.9 Anche per questo credo che sia sbagliato cercare oggi in Gramsci un prontuario politico, la ricetta per la soluzione dei problemi odierni. Ma il suo approccio critico ai problemi (non solo politici), il suo metodo antidogmatico di analisi della realtà, ci serve ancora per comprendere meglio il nostro tempo.
2. Socialismo e cultura “Non c’è nella storia, nella vita sociale, niente di fisso, d’irrigidito, di definitivo. E non ci sarà mai”. Antonio Gramsci, 16 febbraio 1918
Le fonti che hanno contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci sono molteplici. Una, comunque, ha prevalso su tutte, specialmente nel periodo giovanile, ed è stato lo stesso sardo a riconoscerlo con molta onestà intellettuale nella sua piena maturità: Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta.10
Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi critica del fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai primi scritti fino agli ultimi suoi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci vi si riconosce immediatamente e, nel 1917, oltre a proporlo nel numero unico La Città Futura, lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i giovani socialisti torinesi nel suo Club di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su L’Ordine nuovo con il titolo La vanità della religione. Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione critica sull’ opera del filosofo napoletano: Per il Croce la religione è una concezione della realtà, con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, ogni concezione del mondo, in quanto è diventata ‘fede’ (…). Il Croce tuttavia è molto cauto nei rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più avanzato è il capitolo IV dei Frammenti di Etica […] Religione e serenità.11
Ma l’influenza di Benedetto Croce non è stata esclusiva. Il giovane Gramsci legge di tutto e non sempre le sue letture e i suoi autori parlano lo stesso linguaggio. Infatti accanto allo storico e filosofo neoidealista, Gramsci è attratto anche da Gaetano Salvemini, Georges Sorel, Henry Bergson, Romain Rolland e da un poeta romantico tedesco, Novalis, per fare soltanto qualche nome.Va ricordato, inoltre, il grande interesse e la profonda ammirazione con cui il giovane studente di lettere sardo segue le 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lezioni di glottologia del prof. Matteo Bartoli. Su questo punto si è giustamente soffermato Franco Lo Piparo in un saggio che ha dato un contributo fondamentale per comprendere meglio l’originalità del suo concetto di egemonia rispetto a quello di Lenin. Lo Piparo, infatti, ha ben documentato l’origine linguistica del concetto gramsciano che la successiva lettura di Lenin ha soltanto rafforzato.12 La questione rimane, comunque, uno dei punti più controversi nella storia della critica gramsciana.13 Rileggere i numerosi articoli scritti dal giovane Gramsci nei suoi anni torinesi sull’Avanti! e il Grido del Popolo è l’unico modo per comprendere il suo complesso processo di formazione. Fin dalle prime battute Gramsci pone al centro della sua attenzione il problema della cultura. Non a caso uno dei suoi primi pezzi, risalente al gennaio 1916, è intitolato proprio Socialismo e cultura. Per intendere bene l’articolo bisogna tenere presente lo scontro tra Angelo Tasca ed Amadeo Bordiga avvenuto nel corso di un Congresso della Federazione giovanile socialista di qualche anno prima. La polemica tra i due esponenti socialisti era stata ricostruita, sulle pagine dell’Unità di G. Salvemini, in questi termini: contro il Tasca, deciso assertore del principio che “per creare, per sostituire, bisogna prima conoscere i bisogni, poi sapere ciò che si deve creare[...]: ci vuole insomma cultura, cultura, cultura”; il Bordiga, da convinto determinista, sosteneva che non sono gli uomini ma le cose che muovono la storia: “La consapevolezza - ripete il Bordiga con Hegel - arriva sempre a cose fatte”.14 Da qui il noto epiteto di culturista appioppato da Bordiga a Tasca e la sua nota polemica affermazione secondo la quale lo studio è una rivendicazione tipica di un congresso di maestri di scuola e non di socialisti rivoluzionari. Bordiga tornerà a polemizzare con il gruppo torinese - formato da Tasca, Gramsci, Terracini e Togliatti - che daranno vita nel 1919 alla rivista L’Ordine nuovo, qualche anno dopo, e precisamente nel 1920, affermando: 24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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La rivoluzione non si determina per l’educazione, la cultura, la capacità tecnica del proletariato, ma per le intime crisi del sistema di produzione capitalista.15
Quella del Bordiga è una interpretazione economicistica e deterministica del marxismo che si situa agli antipodi di quella gramsciana. Eppure, malgrado i contrasti ideologici e politici, Gramsci nel gennaio del 1921 sosterrà l’elezione di Bordiga a Segretario Generale del nuovo Partito Comunista d’Italia, sez. dell’I.C.,- nato dalla scissione del Partito Socialista - e manterrà fino all’ultimo rapporti fraterni di amicizia con l’ingegnere napoletano realizzando insieme una “scuola” quando si ritroveranno insieme ad Ustica, tra il 1926 e il 1927, confinati dal regime fascista.16 Possiamo adesso passare all’esame analitico dell’articolo Socialismo e cultura del venticinquenne Gramsci che si apre con la citazione di G. B. Vico e di Novalis che, in quegli anni di rinascita idealistica, circolavano in tutte le riviste culturali italiane. Particolarmente degna di attenzione appare quella del Novalis: Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso e di intelligenza piena degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri.17
L’esegesi del giovane sardo risente fortemente del clima culturale imperante nell’Italia di quegli anni anche se, a mio avviso, non vi si risolve del tutto. In particolare il giudizio estremamente positivo che in questo stesso articolo si dà dell’Illuminismo è una prova più che sufficiente della sua relativa autonomia di giudizio rispetto ai canoni della storiografia neoidealista allora imperante. Insomma, il giovane Gramsci usa Novalis e Vico per polemizzare contro il vuoto nozionismo ed il sapere enciclopedico che degrada l’uomo a «recipiente da riempire e stivare di dati empirci, di fatti bruti e sconnessi» (SG p. 23).Tutto l’articolo ri25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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echeggia, anche nel lessico usato, la polemica salveminiana contro i piccolo-borghesi spostati che credono di essere superiori al resto dell’umanità perchè hanno ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date che snocciolano ad ogni occasione per farne una barriera tra sé e gli altri. Gramsci inizia qui la sua ricorrente irrisione del tipo sociologico piccolo-borghese che sa un po’ di latino e di storia, «l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea e tutta la noiosissima caterva di saputelli a cui fanno degno riscontro i professori canagliuzze, insaccatori di leggiadre pule e di perle, venditori di cianfrusaglie, distributori di sporte di viveri che riempiono lo stomaco e non lasciano traccia».18 È questa la pseudocultura da respingere, secondo Gramsci. Ma la cultura vera è cosa ben diversa; essa è «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico» (SG, p. 24). A questo modello di cultura, secondo il giovane sardo, non si arriva «per evoluzione spontanea», attraverso azioni e reazioni indipendenti dalla nostra volontà, come avviene nella natura vegetale e animale dove tutto procede per legge fatale delle cose. L’uomo non è una cosa tra le cose, «l’ uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica e non natura» (SG, p. 24). Su questo punto il giovane Gramsci tornera più volte, specialmente nell’arco temporale 1916-1920, a polemizzare contro i socialisti positivisti che hanno «sterilizzato» il pensiero di Marx. Per costoro, sostiene il giovane sardo divenuto segretario della sezione socialista torinese, i processi storici sono determinati da leggi indipendenti dalla volontà e dall’intervento cosciente e organizzato degli uomini: «la società è per loro un organismo naturale, governato, nella sua evoluzione, da leggi fisse, definibili esattamente e rigidamente col metodo sperimentale e positivo» (SG, p. 327); «la vita è per costoro come una valanga che si osserva da lontano, nella sua irresistibile caduta» 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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(ib., p. 85). C. Treves è un tipico rappresentante, in quegli anni, di questo marxismo determinista e fatalista: «Il Treves […] ha ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volonta degli uomini» (Id: 154). Il giovane Gramsci non ha dubbi: il marxismo, se vuole rigenerarsi e ridiventare critico, deve respingere i residui di positivismo che lo stesso Marx vi ha introdotto, condizionato dal suo tempo, e ritornare alle sue origini: «Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati bisogna sostituire la volontà tenace dell’uomo» (Id: 85); «il comunismo critico non ha niente in comune col positivismo filosofico […]. Il marxismo si fonda sull’idealismo filosofico» (Id: 327-8). Tanti si meravigliano di leggere affermazioni simili negli scritti di Antonio Gramsci. E i critici più colti, per sostenere la dipendenza del pensiero del giovane sardo dal Gentile, hanno notato che parole simili erano state scritte da Giovanni Gentile nel lontano 1899: «La natura non è la sua natura immediata (l’astrazione di Rousseau) [...] ma è […] la natura fattasi storicamente. Lo spirito è essenzialmente storia; e cercarlo fuori dalla storia è cercarlo fuori di sé».19 Ma a costoro è facile replicare ricordando che un concetto simile era stato espresso nel 1844 dallo stesso Marx: «Come tutto ciò che è naturale deve nascere, così anche l’uomo ha il suo atto di nascita, la storia».20 Tornando all’articolo Socialismo e cultura del gennaio 1916 a ben vedere non tutto dipende da Croce e Gentile. Infatti in esso si trova una chiara e netta rivalutazione dell’Illuminismo che il sardo, seguendo Salvemini, considera la vera base della rivoluzione francese dell’89: Ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavoro di critica, di penetrazione culturale. […]. Le baionette degli eserciti napoleonici trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, sciamati da Parigi fin dalla prima metà del sec. XVIII, che avevano preparato uomini e istituzioni. (SG pp. 24-25). 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Scrivendo queste parole il giovane sardo è ben consapevole di prendere così nettamente le distanze da alcuni suoi maestri: L’illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, […] non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Europa una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese […] che era la preparazione migliore per la rivoluzione». (SG p. 25)
Per Gramsci un fenomeno simile si stava ripetendo ai suoi giorni e avrebbe condotto, prima o poi, all’avvento del socialismo: È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata e si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura [...]. Critica vuol dire appunto quella conoscenza dell’io che Novalis dava come fine della cultura [...]. Conoscere se stessi vuol dire […] essere padroni di se stessi, […] e non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri. (Ib.)
Mi sono soffermato tanto su questo articolo perchè in esso si trovano espressi, per la prima volta, concetti che, anche se saranno sviluppati meglio successivamente, non saranno mai rinnegati. Un altro documento fondamentale per comprendere il modo originale con cui il giovane Gramsci si è formato si trova nel numero unico intitolato La Città futura che egli redige da solo, per conto della Federazione giovanile socialista piemontese, nel febbraio del 1917. In questo numero unico, oltre ad alcuni suoi famosi articoli come Indifferenti, Disciplina e libertà, Tre principì, tre ordini,21 Gramsci ristampa alcune pagine di Gaetano Sal28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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vemini, Che cosa è la cultura, tratte da Cultura e laicità del 1914, «volumetto che tutti i giovani dovrebbero leggere», e un brano de La Religione di Benedetto Croce di cui abbiamo già parlato. Sulla questione dei rapporti tra cultura e socialismo Gramsci torna nel dicembre 1917, quando propone ai socialisti torinesi la creazione di un’Associazione di cultura, con «scopi di classe e limiti di classe», che possa diventare anche un «Club di vita morale» (SG, p. 143; vedi anche p. 132). In tal modo il giovane sardo intendeva superare la debolezza dei dibattiti nei circoli operai, condizionati se non addirittura sopraffatti dall’attualità dei problemi, costretti dall’urgenza a fornire soluzioni affrettate. L’Associazione culturale ipotizzata da Gramsci doveva servire, dal suo punto di vista, all’approfondimento disinteressato dei «problemi filosofici, religiosi e morali che l’azione politica ed economica presuppone» in quanto il socialismo non è soltanto un progetto politico ma «una visione integrale della vita» (SG, p. 144). Con questa Associazione si sarebbe risolta anche la questione degli intellettuali che «rappresentano un peso morto nel nostro movimento perchè in esso non hanno un compito specifico, adeguato alle loro capacità. Lo troverebbero, sarebbe messo alla prova il loro intellettualismo, la loro capacità di intelligenza» (ivi, p. 145). Gramsci tornerà a parlare di questa Associazione di cultura e del Club di vita morale, creati a Torino da un gruppo di giovani socialisti a lui vicini, in una lettera del marzo 1918 indirizzata a Giuseppe Lombardo Radice. Si tratta di un documento molto ingenuo che conferma pienamente l’influenza che ha avuto il neoidealismo nella formazione del giovane Gramsci. Nella lettera si riconosce il contributo dato dal Lombardo Radice all’opera di «risanamento spirituale della gioventù italiana» e si chiedono consigli. Non ci vuol molto ad immaginare la delusione del giovane socialista di fronte alla risposta che, qualche set29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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timana dopo, il pedagogista interventista darà dal fronte della Prima guerra mondiale: «Il mio posto è quassù, per l’Italia, cioè per l’umanità che non vuole servire la Germania. Mala fede dei socialisti, o cieca loro astrattezza, certo che essi hanno collaborato, più o meno, coi tedeschi! Oggi non è l’ora delle accademie pedagogiche, ma dell’azione per la Patria! Viva l’Italia e non dimentichiamo Mazzini» (Gramsci, Lettere 1908-1926, Einaudi 1992, pp. 92-94). Sicuramente più lungimirante risulta l’altra lettera dello stesso periodo indirizzata da Gramsci a Leo Galletto. Qui il sardo, forte dei sui amati studi glottologici e linguistici, riprende un suo precedente articolo contro la moda esperantista, che si andava diffondendo in quel periodo storico in Europa, affermando22: Il purismo è una forma linguistica irrigidita e meccanizzata, e pertanto la mentalità del purista è simile a quella dell’esperantista. Io sono un rivoluzionario, uno storicista, e affermo che sono utili e razionali solo quelle forme di attività sociale (linguistiche, economiche, politiche) che spontaneamente sorgono e si realizzano per l’attività delle energie sociali libere. Perciò: abbasso l’esperanto, così come abbasso tutti i privilegi, tutte le meccanizzazioni, tutte le forme definitive e irrigidite di vita, cadaveri che ammorbano e aggrediscono la vita in divenire. (...) Gramsci Panta rei! (Eraclito) Tutto si muove!
Probabilmente non è forzato vedere in queste righe abbozzata la figura dell’intellettuale organico che sarà meglio definita da Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. Facendo entrare la cultura dentro il partito socialista, aggiunge Gramsci, si dà un duro colpo alla «mentalità dogmatica e intollerante creata nel popolo italiano dalla educazione cattolica e gesuitica» che impedisce «lo spirito di solidarietà disinteressata, l’amore per la libera discussione, il desiderio di ricerca30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
re la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l’intelligenza». (SG, p. 145) Questo è uno dei punti fermi del pensiero di Gramsci che l’esperienza, le letture e gli studi successivi rafforzeranno in lui. Non a caso in carcere scriverà che «l’Italia è stata dominata e continua ad essere dominata dalla Controriforma».23
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3. La guerra e la Rivoluzione russa
La “grande guerra” del 1915-18 e la Rivoluzione Sovietica del 1917 hanno cambiato la vita a tanti, non solo a Gramsci. Interrotti gli amati e promettenti studi universitari,24 il giovane si impegnerà a tempo pieno in un lavoro politico e culturale contrassegnato da una forte impronta pedagogica e da una intensa attività giornalistica nella stampa socialista. Su l’Avanti! e sul periodico socialista torinese Il Grido del Popolo, scrive di tutto, non solo di politica. Particolarmente significativo appare un suo pezzo, siglato a.g., pubblicato sul Grido il 24 novembre del 1917: Tre anni di guerra hanno portato delle modificazioni nel mondo. Ma forse questa è la maggiore di tutte le modificazioni: tre anni di guerra hanno reso sensibile il mondo. Noi oggi sentiamo il mondo, prima lo pensavamo solamente. […]. Disabituati al pensiero, contenti della vita del giorno per giorno, ci troviamo oggi disarmati di contro alla bufera. […] mancavamo completamete di senso storico, e non vedevamo che l’avvenire sprofonda le sue radici nel presente e nel passato.25
Le riflessioni del giovane Gramsci sulla prima guerra mondiale e sulla rivoluzione russa del 1917, strettamente legate tra loro, sono di grande importanza e segnano una prima svolta nel suo pensiero politico. Infatti, mentre negli anni precedenti aveva mostrato qualche simpatia per le idee liberali e liberiste di Luigi Einaudi, guerra e rivoluzione gli apriranno gli occhi e gli faranno toccare con mano quanto illusorio fosse il liberismo einaudiano: il militarismo improduttivo diventa il mezzo più potente per accumulare profitti; con la guerra i monopoli si 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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rafforzano «assoggetando tutto il mondo agli interessi egoistici di pochi capitalisti».26 Ecco perchè al giovane Gramsci la rivoluzione dei bolscevichi apparirà come l’unica via d’uscita dagli orrori della guerra e occasione di riscatto delle classi subalterne. Memorabili rimangono poi le note di costume e le Cronache teatrali che scriverà in un’apposita rubrica dell’edizione torinese dell’Avanti! intitolata Sotto la Mole.27 È noto come sia stato proprio il giovane Gramsci a dare una interpretazione dell’opera pirandelliana che ha lasciato il segno nella critica del grande autore agrigentino: «Luigi Pirandello è un ardito del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero».28 E non è casuale il fatto che il giovane critico teatrale abbia particolarmente apprezzato una delle pièces dialettali dell’autore siciliano: Liolà. La cosa si spiega sia con la sua costante attenzione per tutte le forme di cultura popolare che con la sua convinzione che «il teatro dialettale è stato in Italia un gran maestro di sincerità».29 Le cronache teatrali scritte dal giovane Gramsci nell’edizione torinese dell’Avanti!, scoperte da Italo Calvino nel 1949, vennero pubblicate per la prima volta nel 1950, in appendice al volume della prima edizione tematica dei Quaderni del carcere, con il titolo Letteratura e vita nazionale. Proprio in questi giorni, mentre correggevo le prime bozze di questo libro, Maria Luisa Righi e Fabio Francione, sulla base di un’accurata ricognizione filologica e storica, hanno attribuito a Gramsci un gruppo di articoli dedicati alla musica raccolti nel volume Concerti e sconcerti. Cronache musicali (1915-1919), Mimesis, Milano 2022. Ne dà notizia Giancarlo De Cataldo in un pezzo pubblicato dal giornale la Repubblica il 14 giugno 2022, pag. 43, intitolato Un melomane di nome Gramsci. In uno di questi articoli, pubblicati nel corso della prima guerra mondiale, il sardo afferma: «La musica esprime quel32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lo che costituisce la comunione delle anime, l’emozione pura e indeterminata […]. L’umanità sarà migliore e meno violenta quanto più si avvicinerà a Beethoven». E se si pensa che queste parole Gramsci le scrive durante la guerra, quando gli idioti di allora (non molto diversi da quelli che oggi vorrebbero cancellare dai programmi la musica russa!) volevano proibire la Quinta sinfonia perché l’autore era tedesco, si vede come la storia spesso si ripete. Nel corso della prima guerra mondiale il giovane Gramsci scrive uno dei suoi pezzi più belli: Noi siamo persuasi che i fatti dovevano rimanere tali anche in tempo di guerra, e che la storia e la cultura sono cose troppo da rispettare perché possano essere deformate e piegate dalle contingenti necessità del momento. La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti. Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire.30
Sbagliano profondamente quanti pensano che queste parole siano l’ingenua manifestazione di un giovane idealista. La ricerca e l’amore della verità contrassegnano l’intera opera di Antonio Gramsci e ne costituiscono uno dei principali leit-motiv. Lo stesso atteggiamento ritroveremo, infatti, nei suoi Quaderni e nelle sue Lettere del carcere, indifferentemente dal rilievo personale o teorico delle questioni affrontate.
4. La rivoluzione contro Il Capitale (1917-1918) Particolarmente originale appare il modo in cui il giovane Gramsci saluta la rivoluzione russa del 1917. Quando in Italia arrivano le prime confuse notizie di essa, in un articolo pubblicato da Il Grido del Popolo con il titolo Note sulla rivoluzione 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
russa (aprile 1917) dice di essere rimasto colpito soprattutto da una notizia apparentemente marginale trascurata dai «giornali borghesi»:
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I rivoluzionari russi hanno aperto le carceri non solo ai condannati politici, ma anche ai condannati per reati comuni. In un reclusorio questi ultimi, all’annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro.31
Per quanto idealista, il giovane Gramsci possiede già una forte coscienza di classe derivante anche dalle sue umili origini. Anche per questo è particolarmente importante ai suoi occhi la notizia ignorata dalla stampa borghese: Lo zar sarebbe stato cacciato anche dai borghesi. Ma per i borghesi questi condannati sarebbero stati sempre i nemici del loro ordine, della loro ricchezza, della loro tranquillità […]. I rivoluzionari non hanno avuto paura di rimettere in circolazione uomini che la giustizia borghese ha bollato col marchio infame di pregiudicati, che la scienza borghese ha catalogato nei vari tipi di criminali delinquenti. […]. È questo il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo nella mia coscienza dentro di me. È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale che queste piccole notizie ci rivelano. È l’avvento di un ordine nuovo […].32
Ancora più originale e straordinario appare il modo in cui il giovane Gramsci saluta, dopo quella del febbraio, la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. Questa volta se ne accorgono persino i dirigenti nazionali del Partito Socialista al punto che decidono di pubblicare come editoriale dell’edizione nazionale de l’Avanti! il 24 novembre 1917 il famoso articolo del sardo intitolato La Rivoluzione contro Il Capitale. Eccone il passo chiave: 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e come si è pensato.33
Per Gramsci il pensiero di Marx va liberato dalle ‘incrostazioni positivistiche e naturalistiche’ del suo tempo. Ma si sbaglia a pensare che si tratti di un abbaglio giovanile. Concetti simili si ritrovano negli scritti successivi, anche se soltanto nei Quaderni troveranno una forma più rigorosa. Per comprendere bene il punto di vista gramsciano bisogna tenere presente che uno dei suoi leit motiv è la critica alla versione deterministica ed economicistica del pensiero di Marx. Un graffiante ritratto di questa interpretazione, largamente diffusa in Italia tra la fine dell’800 e i primi decenni del Novecento, si trova in un articolo che Gramsci scrisse poco prima dell’arresto: La storia secondo tale concezione elaborata da A. Loria e da E. Ferri - due esponenti socialisti del tempo - diventava la cosa più facile di questo mondo. Essa era una specie di libro mastro con una partita di ‘avere’ cui corrispondeva matematicamente una partita di ‘dare’. Cinque lire di capitalismo e di interessi economici alla partita ‘dare’ determinava esattamente cinque lire di politica e di socialismo alla partita ‘avere’. Il parroco del villaggio affermava: ‘Non si muove foglia che Dio non voglia’, Masticabrodo rispondeva: Tutto è determinato dagli interessi economici. Era in fondo la stessa concezione quella del parroco e quella di Masticabrodo: il positivismo e l’evoluzionismo si erano innesta35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ti sul vecchio tronco della mentalità cattolica imprestandole un nuovo frasario, ricoprendola di qualche straccetto multicolore, pseudoscientifico.34
Come vedremo meglio più avanti, la critica al materialismo volgare e al determinismo è uno dei punti fermi del pensiero di Gramsci. Bisogna però riconoscere che dal 1921 al 1925, via via che assume ruoli di sempre maggiore responsabilità nel PCd’I, il suo pensiero appare più incerto e oscillante del solito. Lo dimostrano gli articoli pubblicati in questo periodo su L’Unità35 che, utilizzando a piene mani il lessico e le categorie marxiste-leniniste della terza internazionale, hanno molto poco in comune con gli scritti del periodo precedente così come di quello successivo. Andrebbe comunque verificato meglio se tutti gli articoli di questo periodo attribuiti a Gramsci siano stati effettivamente scritti dal sardo. Resta il fatto che La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia (1921) di Nikolaj I. Bucharin - che Gramsci smonterà punto per punto nei suoi Quaderni del carcere - viene utilizzato dallo stesso Gramsci nel 1925 per la scuola dei quadri del PCd’I.36 Un primo punto di rottura con questa tradizione, ossificata con l’avvento di Stalin, si ha nella drammatica corrispondenza che Gramsci, un mese prima del suo arresto (ottobre 1926), ha con Togliatti sulle lacerazioni del partito comunista russo (diviso tra le correnti che facevano capo a Stalin e Trockij), conducendolo a scrivere profeticamente: «Voi state distruggendo l’opera vostra».37
5. L’Ordine nuovo (1919-20) Si è scritto tanto sul periodo ordinovista di Gramsci ma non sempre in modo convincente. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso alcuni intellettuali che criticavano da sinistra il PCI togliattiano (Asor Rosa, Marramao, Tronti, ecc.) hanno contrapposto, con più di una forzatura, il Gramsci dei Consigli 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di fabbrica e del biennio rosso a quello precedente e persino a quello dei Quaderni.38 In realtà, se si analizzano con obiettività i testi gramsciani di questo periodo, è facile vedere che le categorie concettuali usate non sono molto diverse da quelle degli anni precedenti. Nel 1919 si fa più pressante in Gramsci l’assillo a «operare perché il vero diventi fatto ed evitare che le grandi idee ammuffiscano nelle soffitte della coscienza».39 È vero, comunque, che sono proprio questi gli anni in cui il sardo comincia a leggere Lenin e a conoscere meglio Marx. Ed appare anche evidente la maturazione del suo pensiero politico insieme alla consapevolezza della gravità della situazione e del momento storico che l’Italia sta attraversando: La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano la ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietatria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile.40
Per cominciare va ricordato un fatto generalmente trascurato dalla sterminata letteratura critica gramsciana: in pieno 1920, il Settimanale di cultura socialista L’Ordine Nuovo - creato a Torino nell’aprile del 1919 da Angelo Tasca, Antonio Gramsci, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti - ripropone come modelli da seguire due testi pubblicati tre anni prima nel numero unico La città futura redatto solo da Gramsci. I testi riproposti sono: - Religione e serenità (B. Croce), uno dei testi più cari al sardo, come già detto nelle pagine precedenti; - Che cos’è la vita? (A. Carlini). Documenti emblematici del neoidealismo imperante in quegli anni in Italia e di cui Gramsci subì il fascino al punto tale che 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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in questo stesso periodo, malgrado la sua ormai piena coscienza di classe, ama ancora definirsi idealista.41 Secondo il mio punto di vista, il pensatore sardo continua a far proprio, in modo creativo, il pensiero crociano, ritenendo che «la filosofia non può essere se non idealismo. [...]. Idealismo critico, o realistico, e persino (ove per metafisica si intendano forme arbitrarie di pensiero) come idealismo antimetafisico».42 Va precisato, peraltro, che i testi suddetti vengono pubblicati tra luglio e settembre del 1920, nei numeri 10 e 15, anno II dell’Ordine nuovo.43 Come si vede non ci si trova di fronte ai primi numeri della rivista, in seguito severamente criticati da Gramsci.44 Per quanto riguarda la questione del rapporto tra socialismo e cultura - tema particolarmente caro al nostro autore - la nuova rivista riprende la campagna culturale degli anni precedenti senza alcuna soluzione di continuità. Lo stesso motto che campeggia nella testata dell’Ordine nuovo - Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza - è indicativo al riguardo. Uno studioso che ha particolarmente rivolto la sua attenzione a questo periodo dell’opera gramsciana ha ben evidenziato la continuità di fondo esistente tra l’attività svolta dal giovane Gramsci su Il Grido del Popolo (1914-1918) e quello su l’Ordine nuovo (1919-1920).45 La persuasione di fondo rimane quella espressa dal sardo nel gennaio 1916: «Ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale» (SG p.24). Infatti per Gramsci non può esserci alcuna rivoluzione sociale senza una rivoluzione culturale. Nel primo numero della Rassegna di cultura socialista, pubblicato il 5 maggio 1919, in fondo alla seconda pagina, in grassetto si legge: «Il nostro compito non è facile. Non si tratta di attuarlo né in un giorno né in un mese. Abbiamo bisogno e diritto a non essere oppressi da ingiuste impazienze». 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nel luglio del 1919, nel commentare la recente conquista delle otto ore lavorative, osserva che questa importante legge, nel lasciare un margine maggiore di tempo libero ai lavoratori, può favorire l’incontro del mondo del lavoro manuale con quello intellettuale. A tal fine occorre «convincere gli operai e i contadini che è loro interesse sottoporsi a una disciplina permanente di cultura e farsi una concezione del mondo, del complesso e intricato sistema di relazioni sociali». Come non ricordare quanto aveva scritto un anno prima sul Grido del Popolo: «Far sentire al proletario che egli è uomo e non macchina, destare in lui il bisogno di elevarsi spiritualmente, di partecipare alla vita dell’intelligenza, della bellezza. [...] Il tempo libero necessario per essere anche uomini, e non solo macchine, le otto ore».46 Scaturisce da queste premesse la proposta di istituire «soviet di cultura proletaria»47, espressione che dimostra il sempre maggiore potere attrattivo che la rivoluzione dei soviet russi esercita sui giovani socialisti torinesi, ma che, nel caso di Gramsci, appare soltanto un modo à la page di rilanciare alcune sue precedenti proposte (Club di vita morale o Associazione di cultura) che non avevano incontrato grande accoglienza all’interno del partito socialista. Infatti Gramsci insiste nel sostenere che, oltre a studiare i problemi locali e regionali, raccogliere dati per compilare statistiche sulla produzione agricola e industriale, bisogna occuparsi anche di religione e filosofia per consolidare la propria visione alternativa della vita. Non può sorprendere, da questo punto di vista, che nella Scuola di propaganda e cultura socialista, creata nel novembre del 1919, e il cui programma viene pubblicato nel n. 28, Anno I, dell’Ordine nuovo48, il tema Religione venga assegnato proprio a Gramsci. È particolarmente significativo, inoltre, quanto lo stesso sardo scriverà nel luglio del 1919, in risposta ad alcuni compagni che si lamentavano per il linguaggio difficile49 della rivista: Il periodo della propaganda elementare, cosiddetta evangelica, è superato. Le idee fondamentali del comunismo sono state assimi39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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late anche dai ceti più arretrati della classe lavoratrice. È incredibile quanto abbia contribuito a ciò la guerra, la vita di caserma e la necessità in cui si è trovata la gerarchia militare di sviluppare una sistematica ed assillante propaganda anticomunista, che ha diffuso e inchiodato nei cervelli più refrattari i termini elementari della polemica ideale tra capitalisti e proletari […] dall’evangelo bisogna passare alla critica e alla ricostruzione. Le esperienze comuniste di Russia e Ungheria attraggono irresistibilmente l’attenzione. Si è avidi di notizie, di dimostrazioni logiche (siamo pronti in Italia? Saremo all’altezza del nostro compito? Quali errori è possibile evitare! ecc.). Abbiamo bisogno oggi di critica, di critica, di critica e di concetti pratici sperimentali.50
D’altra parte non era solo Gramsci, all’interno della Redazione della rivista, a rivendicare l’importanza dello studio e dell’educazione. Nel giugno del 1919 Togliatti aveva scritto: «Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione» (ON p. 10). Nello stesso mese la rivista riproduce in grassetto un testo non firmato, ma di cui non appare difficile accertare la paternità, in cui il tema del ruolo degli intellettuali viene posto in termini quasi illuministici: «Gli intellettuali [...] debbono rischiarare le coscienze, chiarire i giudizi. Diventando in tal modo veri educatori possono, al pari degli uomini politici, collaborare all’avvento della rivoluzione».51 Gramsci continua a presentare i protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi, come degli educatori, formatori di coscienze, contrapponendoli agli «agitatori di sangue messo in tumulto dal fuoco fatuo dei discorsi» (ON, La taglia della storia, 7 giugno 1919, pp. 6-10). E in un altro articolo, pubblicato due mesi dopo, scrive: «I comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare maieutica».52 Per Gramsci la nuova rivista deve svolgere, innanzitutto, un compito educativo: «La rivista dovrebbe dare l’incitamento ad uno sviluppo concreto delle proprie facoltà mentali, ad una vita più alta e più piena, più ricca di motivi ideali e di armonia, lo stimolo ad un arricchimento della propria personalità».53 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ecco perché nell’Ordine nuovo verranno pubblicati, insieme a veri e propri saggi politici, articoli divulgativi di recenti scoperte scientiche, novelle e poesie. Il tutto nella ferma convinzione che ogni lavoratore dovrebbe poter trovare in essa ciò che lo interessa e l’appassiona, e lo solleva dal peso quotidiano del lavoro. In questo stesso articolo Gramsci, citando una pagina del Manifesto dei comunisti e della Miseria della filosofia, riprende un altro suo antico cavallo di battaglia per denunciare la mercificazione dell’intera vita umana operata dal capitalismo: Vi sono in realtà, nel cumulo di nozioni tramadateci da un millenario lavoro di pensiero, degli elementi che hanno un valore eterno, che non possono, che non debbono perire. Uno dei più gravi segni della degradazione cui ci ha portati il regime borghese sta nel fatto che si perde la coscienza di questi valori; tutto diventa oggetto di commercio e strumento di guerra. Il proletariato, conquistato il potere sociale, dovrà porsi all’opera per riconquistare, per restituire nella sua integrità per sé e per l’umanità il devastato regno dello spirito.54
Come si vede, anche in questo periodo, Gramsci parla di Spirito e un concetto simile l’aveva già espresso due mesi prima su L’Avanti torinese: «Il bolscevismo è specialmente una reazione dello spirito e dell’umanità che vuole essere reintegrata nei suoi valori essenziali, che non vuole più essere un oggetto di speculazione e di scambio» (SLM, p. 480). Per concludere l’analisi critica dell’operato di Gramsci nel biennio 1919/’20 vogliamo tornare a mettere a fuoco il suo concetto di cultura che, in questo periodo, sembra subire qualche oscillazione. Lo dimostra il fatto che da un lato sembra sostenere un’idea classista di cultura - «la cultura proletaria» contrapposta alla «cultura borghese» - sull’onda delle notizie confuse e contraddittorie provenienti dal fronte rivoluzionario russo55; dall’altro continua a proporre l’immagine classica della cultura intesa 41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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come coscienza critica della realtà e culto di ogni forma di bellezza. Non saranno certamente le poche righe attribuite a Gramsci - scritte per la scuola di partito, creata nel 1925, quando il suo Partito è stato sciolto e dichiarato fuorilegge dal regime fascista - nelle quali si trovano parole davvero tanto poco gramsciane come queste: “Né uno studio oggettivo né una cultura disinteressata, possono aver luogo nelle nostre file, nulla quindi che somigli a ciò che viene considerato come oggetto normale di insegnamento secondo la concezione umanistica borghese” (CPC, p. 49) - a cancellare le migliaia di pagine scritte da Gramsci sul valore della critica e della cultura disinteressata. Anche per questo appare del tutto infondato affermare che «la scuola di partito costituisce l’approdo critico della meditazione ed esperienza pedagogica del giovane Gramsci».56 Affermazione peraltro contraddetta, nello stesso libro, dal suo fondamentale assunto secondo il quale il socialismo e il comunismo non saranno mai considerati dal pensatore sardo fini a se stessi ma mezzi e strumenti per la liberazione di tutti gli uomini; sta qui, in fondo, «l’origine di quella profonda istanza umanistica che Gramsci non tradirà mai, […], la vigile coscienza che fine di tutto è l’uomo».57 Se è vero che mai, come nel caso di Gramsci, la ricerca del leit motiv conta di più delle singole affermazioni, non si può non condividere quanto ha scritto Eugenio Garin: La cultura del popolo deve essere cultura, la cultura senza aggettivi. Gramsci vuole per tutti la stessa cultura che è stata per pochi, non un’altra cultura; anche se è chiaro che, rompendo le barriere di classe, diventerà per ciò stesso un’altra cosa: la quantità si farà qualità. Comunque questo è uno dei punti fermi della sua posizione: l’arte degli uomini liberi ed uguali non sarà un’altra arte da quella di Dante e Michelangelo.58
D’altra parte Garin non si è inventato nulla, Gramsci usa parole molto simili nei suoi articoli giovanili: 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e dell’esperienza, è l’indipendenza delle masse dagli intellettuali. La fase più intelligente della lotta contro il dispotismo degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino, è costituita dall’opera per intensificare la cultura, per approfondire la consapevolezza. E quest’opera non si può rimandare a domani, a quando saremo liberi politicamente; essa stessa libertà, è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione.59
L’Ordine nuovo doveva servire proprio a questo: educare, fornire agli operai torinesi un mezzo per liberarsi dal «dispotismo degli intellettuali di carriera». Ecco perché nel gennaio del 1920 si difende con passione dall’accusa di avere pubblicato articoli ‘difficili’: Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto.60
Nella stessa rivista, infatti, Gramsci aveva scritto: 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna vedere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell’arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitù del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell’uomo, che la rende degna di essere vissuta. Lo sforzo che i comunisti russi hanno fatto per moltiplicare le scuole e i teatri di prosa e di musica, per rendere accessibili alle folle le gallerie; il fatto che i villaggi e le fabbriche che si distinguono nella produzione vengono premiati con l’assegnazione di godimenti culturali ed estetici, dimostrano come il proletariato arrivato al potere tende a instaurare il regno della bellezza e della grazia, tende a elevare la dignità e la libertà dei creatori di bellezza.61
Non mi risulta, a proposito, che qualcuno, nella sterminata letteratura critica gramsciana, abbia finora notato la straordinaria somiglianza tra il pensiero del giovane Gramsci e quello di Trockij. Eppure la cosa è fin troppo evidente: «Radicalmente sbagliata è la contrapposizione della cultura proletaria e dell’arte proletaria alla cultura borghese e all’arte borghese» - scrive il rivoluzionario russo nel 1923 - «Le prime non esisteranno mai poiché il regime proletario è temporaneo e transitorio. Il significato storico e la grandezza morale della rivoluzione proletaria stanno nel fatto che questa pone le fondamenta di una cultura che non sarà di classe, ma sarà la prima cultura veramente umana».62 Non appare, peraltro, casuale che lo stesso Trockij nel 1922 chieda a Gramsci notizie sul futurismo italiano. Il sardo non deluderà le aspettative del leader russo scrivendo uno dei suoi migliori articoli giovanili che verrà pubblicato l’anno successivo in appendice a Letteratura e rivoluzione. Considerato che finora non si è prestata la dovuta attenzione a questo testo, ne vogliamo parlare qui di seguito. La prima parte dell’articolo, in cui ricostruisce sommariamente la storia del movimento e dei suoi protagonisti (Marinetti, Palazzeschi, ecc.) prima e dopo la prima guerra mondiale, non contiene nulla di particolarmente originale tranne un cenno critico sul Palazze44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
schi, considerato lo scrittore più interessante del movimento da cui prenderà le distanze. È la parte centrale quella più interessante ed originale. In questa Gramsci scrive:
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Prima della mia partenza la Sezione torinese del Proletkul’t ha invitato Marinetti a una mostra della pittura futurista perché all’inaugurazione ne spiegasse il significato agli operai membri dell’organizzazione. Marinetti ha accettato di buon grado l’invito e, dopo aver visitato la mostra con gli operai, ha espresso la sua soddisfazione per essersi potuto convincere che in fatto d’arte futurista gli operai hanno molta più sensibilità della borghesia.
E aggiunge subito dopo: Prima della guerra il futurismo era molto popolare tra gli operai. La rivista Lacerba, che tirava ventimila copie, per i quattro quinti era diffusa tra gli operai. Durante le numerose manifestazioni d’arte futurista, nei teatri delle maggiori città italiane, gli operai prendevano le difese dei futuristi contro i giovani – semiaristocrazia e borghesia - che si azzuffavano con loro.
Questo interesse mostrato dagli operai torinesi verso il futurismo e, in particolare, verso l’arte futurista è molto verosimile e deve far pensare. Non mi sembra casuale il fatto che, in un contesto sociale completamente diverso, come la Sicilia, in quegli stessi anni, il movimento futurista raccogliesse consensi anche nei ceti popolari. Emblematica per tutti resta la figura del poeta pecoraio Giacomo Giardina63 cresciuto tra Godrano e Bagheria. Nella parte finale del suo articolo Gramsci offre un piccolo saggio del suo acume critico: Nell’Italia meridionale, soprattutto in Sicilia […], escono numerose rivistine futuriste, alle quali Marinetti invia articoli; ma si tratta di riviste edite da studentucoli, che scambiano l’ignoranza della grammatica italiana per futurismo. La cellula più forte tra i futuristi è quella dei pittori. A Roma esiste una galleria permanente di pittura futurista […]. Tra i pittori futuristi il più noto è 45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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G. Balla. D’Annunzio pubblicamente non ha mai preso posizione sul futurismo. Bisogna tener presente che il futurismo, alla sua nascita, aveva uno spiccato carattere antidannunziano […]. Benché durante la guerra i programmi politici di Marinetti e D’Annunzio coincidessero in tutto, i futuristi sono rimasti antidannunziani. Essi non hanno mostrato quasi alcun interesse per il movimento di Fiume, benché più tardi abbiano preso parte alle dimostrazioni. Si può dire che dopo la guerra il movimento futurista ha perso completamente la sua immagine caratteristica e si è disperso nelle varie correnti, […]. I giovani intellettuali sono diventati quasi tutti reazionari. Gli operai, che nel futurismo vedevano gli elementi di una lotta contro la vecchia cultura accademica italiana immobile e lontana dalle masse popolari, adesso devono lottare con le armi in pugno per la propria libertà e poco s’interessano dellevecchie polemiche. Nei grandi centri industriali il programma del Proletkul’t, che mira a risvegliare lo spirito creativo degli operai nel campo della letteratura e dell’arte, assorbe l’energia di chi ha ancora la voglia e il tempo di occuparsi di questi problemi.64
6. Gli anni delle responsabilità politiche (1921-1926) Nel gennaio del 1921 a Livorno le correnti comuniste del Partito Socialista danno vita al Partito Comunista d’Italia (PCd’I), Sezione dell’Internazionale Comunista (IC). Gramsci, pur sostenendo Amadeo Bordiga eletto Segretario Generale del nuovo Partito, non svolge inizialmente un ruolo di primo piano nel PCdI. Preferisce continuare ad occuparsi della stampa de L’Ordine Nuovo che, diventato quotidiano del nuovo Partito, per forza di cose, non ha più lo spessore culturale precedente, quando era un settimanale del variegato mondo socialista. Eppure nella prima pagina del nuovo quotidiano campeggia il motto di Lassalle: “Dire la verità è rivoluzionario”. Gramsci in questo periodo sembra più interessato a seguire gli sviluppi della Rivoluzione sovietica. Pertanto, nel mag46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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gio del 1922, accompagna Bordiga a Mosca per partecipare ad una Conferenza dell’IC. Durante la Conferenza ha un malore e viene ricoverato in una casa di cura, nei pressi di Mosca, dove conosce la sua futura moglie Julija (Giulia) Schucht. Ripresosi, entra a far parte dell’Esecutivo dell’ IC. Invitato a rimanere a Mosca, nel settembre dello stesso anno, scrive, su invito di Trockij, un interessante articolo sul movimento futurista italiano in cui è chiaramente riconoscibile lo stile e lo spirito critico del sardo.65 Intanto il 28 ottobre del 1922 in Italia, con la Marcia su Roma, i fascisti prendono il potere. La forza del fascismo viene sottovalutata da tanti, Gramsci compreso. Nel febbraio del 1923 la polizia italiana arresta Bordiga, Grieco e numerosi dirigenti locali del PCdI. Qualche mese dopo viene spiccato un mandato d’arresto anche per Gramsci. Ma il sardo è ancora in Russia dove si ferma fino al novembre del 1923, mese in cui viene trasferito a Vienna, città chiave in quel drammatico periodo storico, dove ha sede uno dei principali centri dell’Internazionale Comunista. Ma si sa ancora molto poco di quello che Gramsci farà a Vienna, centro da cui passano i principali esponenti del marxismo europeo, tra cui V. Serge e G. Lukacs. Sarebbe particolarmente importante sapere quali notizie Gramsci avesse allora dell’autore di Storia e coscienza di classe, la cui prima edizione in lingua tedesca era stata pubblicata proprio nel 1923. Malgrado la notevole affinità di vedute tra le opere dei due autori, dai pochi cenni che Gramsci dedica nei suoi Quaderni a Lukacs, sembra che sia da escludere che il sardo possa aver letto quel libro considerato eretico, qualche anno dopo la morte di Lenin, dalla Chiesa marxista-leninista istitituita a Mosca da Stalin.66 Nella primavera del 1924 in Italia si svolgono le ultime elezioni politiche semi libere. Il 6 aprile Gramsci viene eletto deputato nazionale nelle liste del PCd’I, nel Collegio del Veneto, 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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e può a questo punto rientrare in Italia, illudendosi di poter liberamente godere della immunità parlamentare. In questo periodo scrive delle bellissime lettere d’amore alla sua compagna russa Julija Schucht, che nell’agosto del ‘24 darà alla luce un bambino: Delio. Nella lettera del 21 luglio 1924 leggiamo: «Non ci si può spezzettare […]; la vita è unitaria e ogni attività si rafforza nell’altre; l’amore rafforza tutta la vita, crea un equilibrio, una maggiore intensità nelle altre passioni e negli altri sentimenti» (2000 Pagine di Gramsci, II, Lettere edite e inedite 1912-1937, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 50). L’anno successivo, alla Camera dei Deputati, pronuncia un importante discorso contro il disegno di legge sulle Associazioni segrete, ascoltato con particolare attenzione dal Capo del Governo. Nel gennaio del 1926, a Lione, nel corso del terzo Congresso del PCd’I diventa segretario nazionale del Partito al posto di Bordiga. Nei mesi successivi arrivano anche in Italia le notizie dello scontro furibondo apertosi nel Partito Comunista russo, dopo la morte di Lenin, tra le correnti che fanno capo a Stalin e Trockij. Gramsci segue sgomento queste notizie e il 14 ottobre, a nome del PCd’I, invia al Comitato Centrale del Partito Comunista russo una lettera in cui esprime tutta la sua preoccupazione sul pericolo che le divisioni dentro il Partito possano indebolire o annullare “il ruolo dirigente che il partito comunista dell’U.R.S.S. aveva conquistato per l’impulso di Lenin”; un passo di questo importante documento oggi risulta particolarmente profetico: «Voi state distruggendo l’opera vostra» (2000 p, I, p. 823). La lettera di Gramsci è trattenuta da Togliatti, che aveva sostituito il sardo nell’Ufficio Esecutivo dell’ IC. Gramsci considera arbitraria la decisione di Togliatti e ribadisce il suo punto di vista in una nuova lettera in cui, tra l’altro, afferma: «Saremmo dei rivoluzionari pietosi e irresponsabili se lasciassimo pas48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità» (Ivi, II, p. 486).67 Secondo alcuni critici, il sospetto e l’isolamento in cui venne tenuto in carcere Gramsci da alcuni compagni comunisti è legato anche a questo contrasto con Togliatti.68 Ma sulla questione i pregiudizi politici hanno prevalso sull’ esame obiettivo dei documenti e dei fatti. Personalmente condivido quanto di ricente ha scritto Paolo Desogus: Per molto tempo la discussione intorno alla figura di Gramsci è stata dominata da questioni inerenti alla sua biografia e in particolare al suo rapporto con il PCd’I durante gli anni carcerari. Le differenze, peraltro note e discusse, tra quanto teorizzato nei Quaderni e la condotta politica del partito hanno alimentato una ricerca sempre più ossessiva e talvolta pretestuosa sul “tradimento” subito dal pensatore sardo ad opera dei suoi stessi compagni. Attraverso l’impiego di un discutibile armamentario filologico è stata addirittura ipotizzata la sottrazione di un quaderno, allo scopo di censurare una presunta conversione del prigioniero al liberalismo. Numerosi studi hanno già messo a nudo la fragilità di queste spericolate ricostruzioni biografiche, senza tuttavia essere riusciti a frenare del tutto la loro diffusione nella discussione giornalistica. Nonostante le numerose recenti pubblicazioni scientifiche, non di rado di grande qualità, continua infatti a circolare l’immagine di un Gramsci abbandonato, incompreso dai suoi compagni e in definitiva estraneo alla vicenda storica e politica del suo partito.69
7. La ‘quistione meridionale’ secondo Gramsci L’origine sarda ha reso Gramsci precocemente sensibile a quella che lui stesso, in un articolo dell’aprile 1916, definisce «l’annosa e ormai cronica quistione meridionale».70 L’articolo, intitolato Il Mezzogiorno e la guerra, mostra quanto a lungo il Nostro abbia riflettuto sulla questione prima di arrivare a quella prima sintesi che si trova nel manoscritto incompiuto, ritrova49 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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to tra le sue carte, dopo l’arresto avvenuto nel novembre del 1926.71 Il sottosviluppo meridionale rispetto al Nord del Paese, secondo il giovane sardo, oltre ad avere radici antiche, si è accentuato dopo il 1860 a causa dell’«accentramento bestiale» che non ha tenuto conto dei bisogni specifici delle diverse regioni italiane; i protezionismi hanno aggravato ulteriormente la situazione, arricchendo industriali ed agrari e impoverendo soprattutto i contadini del sud. La guerra, infine, diventata fonte di profitti colossali per le imprese industriali del Settentrione, ha completato il quadro: «Si parla spesso di mancanza di iniziativa nei meridionali. È un’accusa ingiusta. Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme più sicure e redditizie di impiego».72 Sorvolando su tanti altri pezzi scritti nel periodo della prima guerra mondiale su questo stesso tema, ripresi in gran parte nel volume curato da Franco De Felice e Valentino Parlato già citato in nota, voglio soffermarmi su un articolo del 1919, pubblicato nell’edizione torinese dell’Avanti!, massacrato dalla censura e scoperto di recente tra le Carte d’archivio: I signori torinesi, la classe borghese di Torino, che nel 1898 ha seminato di lutti e rovine l’isola di Sardegna facendo perseguitare, dai carabinieri e dai soldati, come cinghiali, per monti e per valli, i contadini e i pastori sardi affamati [si potrebbero usare le stesse parole per indicare quello che avvenne in Sicilia, nel biennio 1893-94, a seguito della feroce repressione voluta da Crispi del movimento dei Fasci Siciliani]; i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia, che ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia, i figli, la moglie per emigrare nell’Argentina e nel Brasile; i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che ha sempre considerato la Sardegna [e il resto del meridione italiano], come una colonia di sfruttamento, che ha rubato, nell’ultimo cinquantennio, più di 500 milioni di imposte, denaro sudato dai contadini e dai pastori rimanendo sotto la sferza del sole per 16 ore quotidiane; i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che si 50 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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è arricchita distruggendo le foreste sarde, che ha riempito i suoi portafogli col sangue, la fame, la miseria del popolo di Sardegna.73
È questo uno dei primi testi gramsciani in cui il tema dell’emigrazione viene accostato alla questione meridionale. Da questo momento in poi i due temi si troveranno sempre connessi tra loro per essere ripresi e sviluppati nel manoscritto del 1926, prima, e nei Quaderni dopo. Particolarmente significativo appare il modo in cui il deputato sardo ne parlerà, nel maggio del 1925, nell’ultimo discorso che terrà alla Camera dei deputati in occasione del dibattito sul disegno di legge proposto dai fascisti contro la massoneria e le società segrete. Durante il suo intervento Gramsci verrà interrotto più volte dallo stesso Mussolini che lo ascolta attentamente. Malgrado le continue interruzioni e provocazioni il sardo, con calma e determinazione, riuscirà a non perdere il filo del suo ragionamento e di arrivare alla conclusione. Il passo centrale del suo discorso è questo: La questione meridionale, cioè la questione dei contadini, è legata strettamente al problema dell’ emigrazione (interruzioni) il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione e una parte non piccola di questa popolazione è costretta a emigrare. […] L’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione, produttivamente attiva. […] Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva, che grava su quella attiva. È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico.74
Appare notevole la distinzione operata, dallo stesso Gramsci, tra quistione meridionale e quistione siciliana in un articolo pubblicato il 15 marzo 1924 su L’Ordine Nuovo quindicinale dove, nel fare riferimento ai Presidenti del Consiglio di origine siciliana, afferma: «I Presidenti siciliani rappresentavano la Sicilia e non il Mezzogiorno perché la quistione siciliana è notoriamente distinta dalla quistione meridionale» (QM, 85). Come 51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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vedremo, il sardo tornerà su questa distinzione nei Quaderni, convinto com’è della specificità dei problemi della regione siciliana. Fare come in Russia è la parola d’ordine che circola in Italia alla fine della prima guerra mondiale. E Gramsci è convinto, come tanti altri socialisti, che in Italia ci siano tutte le condizioni per farla. Eppure è consapevole del peso che hanno i contadini, con la loro psicologia individualista ed anarchica, e dell’influenza che su questi esercita la Chiesa Cattolica. In un gruppo di articoli, pubblicati tra l’agosto del 1919 e il febbraio del 1920 su L’Ordine Nuovo, Gramsci espone chiaramente il suo punto di vista, partendo dall’analisi della mentalità dei contadini e dal mutamento che questa ha subito a seguito della guerra: La mentalità del contadino è rimasta quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i signori in determinate occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come membro di una collettività e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale. La psicologia dei contadini era, in tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci. […] Il contadino è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, frenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo.75
Quattro anni di trincea, prosegue Gramsci, hanno radicalmente mutato la psicologia dei contadini. E questo mutamento è stato una delle condizioni essenziali della rivoluzione in Russia. Sono nati, infatti, proprio sul fronte russo i Consigli dei delegati militari, così i soldati contadini hanno potuto partecipare 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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attivamente alla vita dei Soviet di Pietrogrado, di Mosca e degli altri centri: Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subìto collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Così organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell’impossibilità di svolgere un’azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate.76
Le condizioni storiche dell’Italia non erano e non sono molto differenti da quelle russe, secondo Gramsci. Per questo, ai suoi occhi, il problema dell’unificazione di classe degli operai e dei contadini si presenta negli stessi termini indicati da Lenin: occorre l’unità degli operai e dei contadini per realizzare il comunismo. Questa analisi verrà ripresa nel saggio incompiuto del 1926 che, non a caso, si apre proprio con la citazione di un articolo apparso su L’Ordine Nuovo nel gennaio del 1920: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali».77 In tal modo, aggiunge ora il sardo, «l’operaio rivoluzionario di Torino e di Milano diventa il protagonista della quistione meridionale e non più i Giustino Fortunato, i Gaetano Salvemini».78 Il saggio riprende e sviluppa anche un altro tema caro al giovane Gramsci, ossia la consapevolezza del peso che hanno le ideologie e i pregiudizi nella storia: È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mez53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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zogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato.79
Questa è una delle pagine più attuali di Gramsci. Basti pensare, per fare solo un esempio, alla recentissima dichiarazione del Ministro della Pubblica Istruzione sulla ‘pigrizia’ e il presunto scarso impegno degli insegnanti meridionali. Per il resto questo saggio, pur ammirevole dal punto di vista storico e letterario, oggi appare datato. Infatti, anche se il Mezzogiorno continua ad essere «una grande disgregazione sociale», nell’Italia d’oggi non esistono più né gli operai né i contadini del tempo di Gramsci; per non parlare dei grandi intellettuali, come Benedetto Croce e Giustino Fortunato, scomparsi da tempo. Resiste solo la burocrazia statale e regionale, più numerosa e potente di prima, che rimane forse uno dei maggiori ostacoli al cambiamento. Comunque nelle trenta pagine di questo importante manoscritto, più tardi sottovalutato dal suo stesso autore, non è esagerato vedere il primo nucleo dei Quaderni del carcere.
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8. Genesi dei Quaderni del carcere Nel novembre del 1926 Gramsci, malgrado l’immunità parlamentare di cui gode come deputato del Pcd’I, viene arrestato e recluso in galera dal regime fascista che nel 1925 aveva sciolto tutti i partiti antifascisti. Gramsci manifesta alla cognata Tatiana80 la sua volontà di mettersi a studiare in carcere, quando ancora ignora l’esito che avrebbe avuto il processo in corso con la grave accusa di avere attentanto alla sicurezza dello Stato. Infatti nella lettera del 19 marzo 1927, scritta dal carcere di S. Vittore di Milano, il sardo dichiara di essere assillato dall’idea di scrivere qualcosa per l’eternità (für ewig), aggiungendo di avere già individuato quattro temi centrali su cui concentrarsi: 1. «Uno studio sulla formazione dello spirito pubblico in Italia» ossia, precisa lo stesso Gramsci, occorre capire bene e svolgere ampiamente “da un punto di vista disinteressato” la tesi già abbozzata sul ruolo svolto in Italia da intellettuali come B. Croce e G. Fortunato riprendendo il “rapidissimo e superficialissimo” articolo sulla questione meridionale81 rimasto incompiuto anche per via dell’arresto (Cfr. LC p. 58); 2. «Uno studio sulla linguistica comparata […] che cosa potrebbe essere più disinteressato e für ewig di ciò?». Con questa significativa chiosa: «Uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato mio buon prof. Bartoli dell’Università di Torino il quale era persuaso essere io l’arcangelo destinato a profligare defiitivamente i “neogrammatici”, poiché egli, della stessa generazione e legato da milioni di fili accademici a questa geldra di infamissimi uomini, non voleva andare, nelle sue enunciazioni, oltre un certo limite fissato dalle convenienze e dalla deferenza ai vecchi monumenti funerari dell’erudizione» (ivi, pp. 58-59); 3) «Uno studio sul teatro di Pirandello» (ivi, p. 59); 4) Uno studio sui romanzi d’appendice e il gusto popolare in letteratura (ib.) 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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I temi sopra indicati, aggiunge lo stesso Gramsci, sono strettamente legati tra loro: «A chi bene osservi, tra questi quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo82, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi». D’ altra parte il sardo continua ad avere della cultura una visione unitaria che preciserà meglio negli ultimi anni della sua vita. Ma Gramsci potrà cominciare a studiare e a scrivere in carcere, in modo più o meno continuo, anche per via delle limitazioni cui è stato costretto dalla vita di recluso oltre che dalla sua malferma salute, soltanto due anni dopo. Infatti soltanto nel febbraio del 1929, nella Casa penale speciale di Turi, potrà iniziare materialmente a scrivere i suoi appunti su dei quaderni, simili e quelli che nell’ultimo dopoguerra si usavano ancora nelle scuole italiane. Sarà la Direzione del carcere di Turi (BA) a concedere al recluso, l’8 febbraio del 1929, la possibilità di scrivere su questi quaderni timbrati, con l’annotazione del numero di matricola (7047), dopo che una richiesta simile, contestualmente alla possibilita di poter consultare libri e riviste, era stata inoltrata da Gramsci direttamente al Duce. Sul frontespizio del primo quaderno, oltre al timbro del carcere e alla data di consegna, si può leggere, grazie alla chiara grafia del sardo, il suo nuovo piano di lavoro: PRIMO QUADERNO (8 febbraio 1929) Note e appunti. Argomenti principali: 1) Teoria della storia e della storiografia. 2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870. 3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani [...]. 4) La letteratura popolare dei romanzi d’appendice e le ragioni della sua persistente fortuna. 5) Cavalcante Cavalcanti [...]. 6) L’ Azione Cattolica in Italia e in Europa. 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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8. Il concetto di folklore. 9. Esperienze della vita in carcere. 10. La ‘quistione meridionale’ e la quistione delle isole. 11. Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell’emigrazione. 12. Americanismo e fordismo. 13. La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G.I. Ascoli. 14. Il “senso comune” (cfr. 7). 15. Riviste tipo. 16. Neo-grammatici e neo-linguisti. 17. I nipotini di padre Bresciani.
Scorrendo il primo quaderno si comprende come fosse difficile per chiunque, in carcere, concentrarsi sui problemi, lucidamente individuati, senza poter disporre di una biblioteca specializzata. Gramsci, infatti, è costretto a procedere a zig zag - utilizzando i libri, i giornali e le riviste disponibili di volta in volta - fiducioso com’è, all’inizio, di riuscire a “cavar sangue anche da una rapa”.83 Una delle riviste che segue con maggiore attenzione è La Civiltà Cattolica. Dalla lettura critica che ne fa apprende tante cose: innanzitutto la metamorfosi subita da tanti intellettuali, seguiti dal giovane Gramsci sulla Voce, come ad esempio Prezzolini, Papini e Soffici. Il sardo si mostra particolarmente feroce con Papini. Di questi, infatti, dirà che è diventato il «pio autore»84 della rivista dei gesuiti italiani. E in una nota precedente, in un sommario bilancio dell’operato di intellettuali che avevano contribuito a formarlo, li liquida in due righe: «La vecchia generazione degli intellettuali ha fallito, ma ha avuto una giovinezza[...]. La generazione dei giovani attuali non ha neanche questa età delle brillanti promesse: asini brutti anche da piccoletti».85 Colpisce poi la costante attenzione prestata ad un autore, Achille Loria, con cui aveva polemizzato anche negli anni pre57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cedenti, che nei Quaderni diventerà uno dei suoi bersagli preferiti fino al punto da arrivare a coniare un neologismo, lorianismo, che gli servirà per indicare un modo di essere e di pensare sempre più diffuso di cui sono responsabili, secondo Gramsci, i grandi intellettuali come Croce e Gentile che, non curandosi del senso comune, non hanno saputo o voluto porre un argine a questo malcostume. Uno dei meriti della biografia del grande sardo curata da Giuseppe Fiori sta nell’essere riuscito a farci conoscere, insieme alle idee, l’uomo, lo stesso corpo di Gramsci, con tutte le sue fragilità. E Gramsci in carcere non pensa solo ai libri e a scrivere für ewig. In certi periodi, addirittura, anche per via di un’emicrania che non gli dà pace, non ci pensa proprio ai libri e alla gloria futura. Allora cerca solo di star meglio e si prende cura anche delle piantine, i cui semi gli erano stati donati da Tania in una delle sue prime visite a Turi. Da uno di questi semi sorgerà una pianta di rosa rampicante che Gramsci seguirà con particolare cura, tenendo informata Tania, con lettere bellissime che le invia tra aprile e luglio del 1929. In una di queste scriverà: Sai, la rosa si è completamente ravvivata [...]. Dal 3 giugno al 15, di colpo, ha cominciato a metter occhi e poi foglie, finchè si è completamente rifatta verde: adesso ha dei rametti lunghi già 15 centimetri […]. Il cielo delle stagioni, legato ai solstizi e agli equinozi, lo sento come carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente, perché il caldo prepara il gelo e sotto la neve palpitano già le prime violette , ecc. ecc.; insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta da quando lo spazio non esiste più per me (Lettere dal carcere, Einaudi 1965, pp. 285-286).
Malgrado le sue precarie condizioni di salute e le oggettive difficoltà in cui è costretto ad operare, Gramsci riesce e concentrarsi e a portare ad un notevole livello di approfondimento i temi ed i problemi che maggiormente lo assillano. Primo, tra tutti, avverte l’esigenza chiarire a se stesso i rapporti esistenti tra la “filosofia della prassi” (che è il nome che Gramsci, seguendo una tradizione italiana, dà alla sua originale interpretazione del 58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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marxismo) e la filosofia di Benedetto Croce che, come abbiamo visto, era stato uno dei suoi principali punti di riferimento negli anni giovanili. Nello stesso tempo comprende che, preliminarmente, occorre ridefinire il senso ed il significato della ricerca filosofica. Va precisato, infine, che i 33 quaderni manoscritti dal sardo comprendono sia le note e gli appunti di prima stesura (che non vennero tenute in considerazione dalla prima edizione tematica dei Quaderni) sia quelle di seconda stesura in cui Gramsci riprende, con varianti talora significative, i suoi primi appunti. Molto interessanti sono anche i quaderni di traduzioni, compresi tra i 33. Tra questi ultimi risultano particolarmente importanti le traduzioni delle marxiane Tesi su Feuerbach e delle favole di Grimm. Molti equivoci ha generato infine la numerazione casuale dei Quaderni fatta dalla cognata Tatiana nelle Case di cura in cui Gramsci trascorse gli ultimi due anni di vita. Al riguardo, negli ultimi vent’anni sono state scritte una gran quantità di menzogne. Si è arrivati persino ad inventare una improvvisa e improbabile conversione di Gramsci, in punto di morte, al cattolicesimo.86 Ma ancor più imperdonabile ci sembra il tentativo di far apparire la libertà condizionata richiesta nel 1934 da Gramsci per gravi motivi di salute, dopo aver più volte rifiutato di chiedere la Grazia al Duce, come una generosa concessione del regime fascista ad uno dei suoi principali oppositori. In un bello e documentato libro di Aldo Bondi87, pubblicato di recente, si trova la risposta a tutte le grossolane falsità e insinuazioni circolate negli ultimi anni sul periodo di “libertà condizionata” trascorso da Antonio Gramsci nella Clinica Quisisana di Roma. In questi diciotto mesi, che sono poi stati gli ultimi suoi mesi di vita, il grande sardo è stato tutt’altro che libero; malgrado, infatti, l’aggravamento del suo stato di salute, il controllo poliziesco, dentro e fuori la clinica, divenne più 59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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stringente perché i fascisti misero in giro la voce che i comunisti avevano intenzione di “rapirlo” con un’azione armata. Ma le pagine più belle Bondi le dedica al disperato tentativo di Gramsci di riallacciare i rapporti con la compagna Julija rimasta in Russia. Tramontata, per ragioni sanitarie e politiche, l’ipotesi di un suo trasferimento a Mosca - su cui aveva lavorato l’ambasciatore sovietico Potemkin a Roma che incontrerà direttamente Mussolini -, la cognata Tatiana cerca di convincere la sorella a raggiungere Antonio in Italia con una bellissima lettera del 25 gennaio 1936. Di fronte al silenzio di Julija, Gramsci concentra le sue residue energie sui figli, Delio e Giuliano, a cui indirizza le sue ultime toccanti lettere che, non a caso, risultano essere gli ultimi suoi scritti (L1, pp. 883-905). Non c’è dubbio, comunque, che abbia continuato a pensare, fino all’ultimo, alla sua amata compagna e che il suo persistente silenzio abbia contribuito a fermare per sempre il suo cuore.
9. “Appunti per una introduzione allo studio
della filosofia e della storia della cultura”
È questo il titolo dato da Gramsci, in uno dei suoi ultimi quaderni, il n. 11, ad alcune sue fondamentali riflessioni che vogliamo adesso mettere a fuoco: Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”, propria di “tutto il mondo”, e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.88 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Lo stesso concetto si trova espresso in forma diversa nei primi appunti scritti da Gramsci in carcere e va collegato a quanto lo stesso autore scrive in un altro quaderno speciale, il n. 21, compilato tra il 1934 e il 1935. La nota s’intitola Nesso di problemi e fornisce la chiave per comprendere il legame stretto esistente, in tutti i quaderni del carcere, tra i vari problemi di cui il pensatore sardo si è occupato e, in particolar modo, del rapporto dialettico esistente tra storia e filosofia, tra la storia del risorgimento italiano e la questione meridionale, tra classi dirigenti e classi subalterne, tra la questione della lingua e quella degli intellettuali, tra il folclore e il senso comune, tra il teatro e la letteratura popolare. Gramsci, infatti, osserva: Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di approfondimento; la trattazione ne è stata perciò fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse una soluzione politico-sociale concreta e coerente. […]. D’altronde pare inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni (unità della lingua, rapporto tra arte e vita, quistione di una riforma intellettuale e morale cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione francese, quistione della ‘popolarità’ del Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915-18 e coi rivolgimenti successivi, onde l’impiego inflazionistico dei termini di rivoluzione e rivoluzionari) può dare la traccia più utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e proposte per la soluzione.89
Deriva da questa visione dialettica del mondo la percezione del rapporto stretto esistente tra filosofia, storia e politica. Ed 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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è essenzialmente questa la ragione per cui Gramsci in carcere concentra la sua attenzione critica più alle opere storiche che a quelle teoretiche e speculative di Benedetto Croce e trascura del tutto l’analisi critica della filosofia gentiliana che considera molto più speculativa e ideologica di quella crociana. Gramsci si mostra sempre più consapevole del legame stretto che hanno tra loro le cose e dimostra di possedere una chiara visione olistica, come si usa dire oggi, dei problemi. Questo approccio dialettico alla realtà delle cose emerge da ogni pagina dei suoi Quaderni.
10. Cultura, cultura popolare e folklore Gramsci in carcere torna ad occuparsi di un problema dalle mille facce che gli è stato sempre particolarmente a cuore: la cultura. A questo complesso tema, direttamente o indirettamente, dedica quasi tutti i suoi 33 Quaderni. Come abbiamo visto, fin da giovane, ha cercato di mettere a punto un concetto di cultura, capace di superare i limiti angusti della visione scolastica e borghese di essa. Ci siamo soffermati tanto sull’articolo intitolato Socialismo e cultura, pubblicato su Il Grido del Popolo il 29 gennaio 1916, quando il sardo aveva solo 25 anni, proprio perché in esso, dietro l’involucro neoidealista, è già possibile intravedere un concetto nuovo di cultura. Infatti il giovane Gramsci respinge con forza l’idea, ancora oggi tanto diffusa, secondo cui è colto soltanto l’uomo che ha riempito il proprio cervello di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi da esibire di volta in volta per rispondere agli stimoli esterni: Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date. (SG p. 23)
Per il giovane sardo la vera persona colta non si limita a possedere un magazzino ben fornito di notizie. Ha vera cultura solo chi 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri umani e con il mondo intero. Perché cultura, per Gramsci, è soprattutto «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità» e, soprattutto, comprensione del «proprio valore storico, della propria funzione nella vita, dei propri diritti e doveri» (ivi, p. 24). Fondamentale per la messa a punto del nuovo concetto di cultura risulta l’esperienza fatta nel corso della redazione de L’Ordine Nuovo, la rivista settimanale di “cultura socialista” (1919-20), aperta anche al contributo di scrittori ed intellettuali europei come H. Barbusse, H. Bergson, A. L. Lunaciarskij, R. Rolland, G. Sorel. Nel biennio rosso Gramsci, oltre ad approfondire la sua conoscenza di Lenin e della rivoluzione russa, prova a tradurre nella prassi le sue idee anche attraverso l’esperienza dei Consigli nelle fabbriche torinesi. Vero è che tra il 1919 e il 1920 Gramsci mostrò particolare interesse ed attrazione per il Proletkul’t di Anatolij V. Lunacarskij, Commissario popolare per l’istruzione pubblica fin dal 1917 nella nuova Repubblica Sovietica. A tal punto da creare una Sezione torinese del Proletkul’t. Ma Gramsci, pur avendo fin da giovane cercato di valorizzare al massimo quello che in carcere chiamerà «spirito popolare creativo», non ha mai pensato di buttare a mare quella che Lunacarskij sbrigativamente definiva cultura borghese. Anche perché, come abbiamo visto, la stessa personale cultura del giovane Gramsci era fortemente radicata in essa. E ad essa continuerà a fare riferimento, pur ponendosi l’obiettivo di liberarla dai suoi limiti di classe e di casta. Su questo punto Gramsci mostra di essere completamente d’accordo con quanto sostenuto nel 1923 da Trockij: Radicalmente sbagliata è la contrapposizione della cultura proletaria e dell’arte proletaria alla cultura borghese e all’arte borghese. Le prime non esisteranno mai poiché il regime proletario è temporaneo e transitorio. Il significato storico e la grandezza morale della rivoluzione proletaria stanno nel fatto che questa pone le fondamenta di una cultura che non sarà di classe, ma sarà la prima cultura veramente umana (Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, a cura di Vittorio Strada, Einaudi 1973, p. 7).
Bisogna però riconoscere che, dal 1921 (anno di nascita del PCd’I) al 1925, - periodo in cui maggiore fu l’influenza di Lenin e degli altri 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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leaders sovietici nel pensiero di Gramsci – il suo pensiero (di cui si conosce ancora troppo poco) oscillerà spesso tra poli opposti. Tant’è che, divenuto Segretario nazionale del Partito, quando gli chiedono di creare una “scuola di partito” per la formazione dei quadri, mostra scarsa originalità e contraddice molte sue precedenti affermazioni, utilizzando una mediocre antologia di Bucharin per spiegare il materialismo storico di Marx. Ma veniamo ai Quaderni. Abbiamo già visto che, appena riceve il permesso di studiare e di scrivere nella sua cella, Gramsci individua nell’analisi del senso comune e del folclore due temi tra loro strettamente correlati da mettere a fuoco. Già prima della pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni, Ernesto De Martino, attraverso la lettura attenta dell’edizione tematica curata da Felice Platone, era arrivato a questa conclusione: Se si considera l’opera di Gramsci nel suo complesso, nella sua problematica fondamentale, e se si intende lo studio del folklore non già come amore del pittoresco o come oziosa curiosità senza riattacco con i problemi vivi della nostra cultura, […], non sarà difficile convincersi che il problema del folklore sta col pensiero di Gramsci in un nesso organico e sostanziale.
Mentre Alberto M. Cirese, sulla base dell’edizione critica dell’opera di Gramsci pubblicata dal Gerratana nel 1975, oltre a rilevare la centralità del tema in questione nei Quaderni, ha saputo coglierne anche l’evoluzione nel tempo: Nel succedersi delle riflessioni di Gramsci sul folklore è nettamente evidente un processo di crescita […]. Nel ’29 il folklore è solo pensiero invecchiato e sorpassato; nel ’35 diviene il corrispettivo culturale di una condizione sociale.
Ma vediamola da vicino questa nota gramsciana del 1935, che è molto più complessa e problematica di quanto comunemente si crede. Essa si trova adesso raccolta nel Q 27, la cui stesura secondo i timbri carcerari risalirebbe al 1935. Dopo un veloce riferimento ad uno studio sul “folclore” degli anni venti di Giovanni Crocioni, Gramsci fa la sua prima personale osservazione che riproduco per esteso: 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento «pittoresco» (in realtà finora è stato solo raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione e la classificazione di tale materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell’erudizione, né con ciò si misconosce l’importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico). Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popolo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati.
Il passo citato è di una densità tale da richiedere una analisi dettagliata. Innanzitutto Gramsci invita a considerare il folklore come “una concezione del mondo e della vita” delle “classi subalterne” contrapposta alle concezioni del mondo ufficiali. Per il sardo quindi è una cosa seria e da prendere sul serio e il suo studio deve superare la fase della ricerca di “elementi pittoreschi” in cui si sono esercitati in passato oziosi eruditi. Gramsci precisa, subito dopo, che questa particolare concezione del mondo non è “elaborata e sistematica” perché il popolo - cioè, “l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni società finora esistita” - per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro molte65 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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plice e contraddittorio sviluppo – non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folklore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati. Come ha giustamente osservato Giovanni Mimmo Boninelli, i fenomeni folklorici per Gramsci sono una cosa molto seria e da prendere sul serio anche se e anzi proprio perché sono «un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia». Lo studioso bergamasco, prematuramente scomparso, ha dedicato un libro prezioso alla ricerca di tutti i luoghi folklorici presenti, oltre che nei Quaderni del carcere, negli scritti giornalistici dell’intellettuale sardo. La sua minuziosa ricerca ci ha restituito un Gramsci inconsueto e inaspettato: un uomo che si è misurato quotidianamente con gli aspetti più vari del folklore. Così è riuscito a farci incontrare un Gramsci inedito che suona musiche popolari sarde sull’organetto a mantice, narra fiabe e inventa nuove storie anche per i suoi figli, s’imbatte in processioni religiose e in fatti magici, canta canzoni e improvvisa gare poetiche, ragiona su proverbi e modi di dire. Ecco perché Gramsci ha preso nettamente le distanze da tutti coloro che si sono accostati allo studio del popolo, ossia all’insieme delle classi subalterne, con supponenza e disprezzo. D’altra parte sapeva bene che «per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico». Anche per questo inviterà gli storici a studiare meglio lo «spirito popolare creativo» e ad accostarsi con maggiore obiettività ai soggetti che stanno «ai margini della storia».
11. L’analisi critica della religione e del senso comune
Pochi hanno notato che, in una pagina dei Quaderni del carcere, si trova questa significativa citazione di Plutarco: 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Viaggiando potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza case, senza ricchezze e senza l’uso di monete, prive di teatri e di palestre. Ma una città senza templi e senza dèi, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né sacrifici per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai. (Q, 6, 41, vol. II, p. 715)
Gramsci ha sempre mostrato una particolare attenzione e un vivo interesse per la religione, cercando di capire, fin da giovane, le ragioni della sua penetrazione nel senso comune del popolo. Anche per questo ha criticato l’indifferenza di tanti di fronte a questo problema e ha considerato magistrale quanto scritto da Benedetto Croce nel 1915 nel saggio Religione e serenità. Ecco perchè non ha mai mostrato simpatia per l’ateismo dominante negli ambienti socialisti dei primi anni del Novecento, anche se in alcuni suoi articoli giovanili si avverte l’eco del clima anticlericale dominante in quegli anni. Ma, quando era ancora un giovane studente universitario a Torino e aveva cominciato a scrivere su l’Avanti!, in diversi articoli mostra di aver capito alcune ragioni della straordinaria capacità mostrata dalla Chiesa Cattolica di penetrare nella testa della gente specialmente in un periodo critico come quello determinato dalla prima guerra mondiale. Negli anni successivi e in carcere, soprattutto, la sua riflessione diventa ancor più meditata e problematica. D’altronde egli ha già assimilato il metodo dialettico che lo conduce a vedere immediatamente il nesso esistente tra tutte le cose. Particolarmente indicativo di questo suo nuovo modo di porsi di fronte ai problemi si trova nel quaderno n. 8 del 1931-1932. In una pagina particolarmente sintetica di esso, infatti, riesce a collegare tra loro diversi temi e problemi - la critica al Saggio popolare di N. Bucharin; la critica a B. Croce; rapporti tra filosofia, senso comune e religione; il problema degli intellettuali - che negli anni successivi riprenderà e svilupperà singolarmente. Ma rileggiamola insieme questa importante nota: 67 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Un lavoro come il Saggio popolare [di N. Bucharin], destinato a una comunità di lettori che non sono intellettuali di professione, dovrebbe partire dalla analisi e dalla critica della filosofia del senso comune, che è la «filosofia dei non filosofi», cioè la concezione del mondo assorbita acrìticamente dai vari ambienti sociali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: esso è il «folclore» della filosofia, e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente, conforme al carattere delle moltitudini di cui esso è la filosofia. Quando nella storia si elabora un gruppo sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia «omogenea», cioè sistematica. Gli elementi principali del senso comune sono dati dalle religioni, e non solo dalla religione attualmente dominante, ma dalle religioni precedenti, da movimenti ereticali popolari, da concezioni scientifiche passate ecc. Nel senso comune predominano gli elementi «realistici, materialistici», ciò che non è in contraddizione con l’elemento religioso, tutt’altro; ma questi elementi sono «acritici», «superstiziosi». Ecco un pericolo rappresentato dal Saggio popolare: esso conferma spesso questi elementi acritici, basati sulla mera percezione immediata, per cui il senso comune è ancora rimasto «tolemaico», antropomorfico e antropocenttico. Nella cultura filosofica francese esistono trattazioni sul «senso comune» più che in altre culture: ciò è dovuto al carattere «popolare-nazionale» della cultura francese, cioè al fatto che gli intellettuali tendono, più che altrove, per determinate condizioni storiche, ad avvicinarsi al popolo per guidarlo ideologicamente e tenerlo legato al gruppo dirigente. Si potrà trovare quindi nella letteratura francese molto materiale sul senso comune utilizzabile: anzi l’atteggiamento della cultura filosofica francese verso il «senso comune» può offrire un modello di costruzione culturale egemonica; anche la cultura inglese e americana possono offrire molti spunti, ma non in modo così completo e organico come quella francese. Il «senso comune» è stato trattato in due modi: 1°) è stato messo a base della filosofia; 2°) è stato criticato dal punto di vista di un’altra filosofia; ma in realtà, nell’un caso e nell’altro, il risultato fu di superare un determinato «senso comune» per crearne un altro più aderente alla concezione del mondo del gruppo dirigente. Atteggiamento del Croce verso il «senso comune»: non 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mi pare chiaro. Per il Croce, la tesi che «ogni uomo è un filosofo» ha finora troppo gravato sul giudizio intorno al «senso comune»; il Croce sembra spesso compiacersi perché determinate proposizioni filosofiche sono condivise dal senso comune, ma che cosa può ciò significare in concreto? Perché sia vero che «ogni uomo è un filosofo» non è necessario ricorrere, in questo senso, al senso comune. Il senso comune è un aggregato incomposto di concezioni filosofiche e vi si può trovare tutto ciò che si vuole. D’altronde in Croce, questo atteggiamento verso il senso comune non ha portato a un atteggiamento fecondo dal punto di vista «popolare-nazionale», cioè ad una concezione più concretamente storicistica della filosofia, che del resto può trovarsi solo nel materialismo storico.
Questa densissima nota, che abbiamo voluto citare per esteso, contiene in nuce gran parte del contenuto dei Quaderni del carcere di Gramsci. Infatti in essa, oltre ad affrontare il problema dei rapporti tra filosofia e senso comune, vengono indicati temi e problemi che saranno oggetto delle sue future riflessioni - la critica alla filosofia di Benedetto Croce; quella a N. Bucharin; l’esame critico del ruolo svolto dagli intellettuali nella storia nazionale ed europea; la definizione del concetto di nazionale-popolare - che esamineremo nei capitoli successivi. L’analisi critica del senso comune occupa gran parte delle riflessioni di Gramsci in carcere. Il sardo aveva capito che la cultura che conta e che pesa nella storia non è solo la cultura alta (dei grandi scienziati, filosofi, artisti e letterati) ma, soprattutto, quella bassa del popolo da cui deriva il senso comune. In una pagina dei suoi Quaderni si legge: «Occorre osservare la realtà così com’è se la si vuole trasformare» (Q 9, p. 1131). Una delle ragioni per cui nessuno si pone il problema di studiare e capire il senso comune dominante nei nostri giorni deriva proprio dal fatto che nessuno oggi crede più nella possibilità di cambiare il mondo.
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12. La critica alla filosofia di Benedetto Croce Nei Quaderni 10 e 11, scritti negli anni 1932-1935, Gramsci riordina le sue precedenti osservazioni critiche su Benedetto Croce e Nikolaj Bukharin che appaiono, ai suoi occhi, due opposti estremismi da superare. Le due critiche sono strettamente legate tra loro, l’una sostiene l’altra, e lette insieme aiutano a capire meglio l’originalità del pensatore sardo. Il Q 10 è quasi interamente dedicato all’analisi critica dell’opera di Croce che, secondo Gramsci, ha avuto un peso decisivo non solo nella storia del pensiero filosofico ma anche nella storia della cultura e della politica europea. Alla base della critica gramsciana sta una premessa metodologica che va tenuta costantemente presente perché in essa è riconoscibile un tratto distintivo del suo stile: Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità […], si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata […] nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario [...] significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico.100
Gramsci fin da giovane ha mostrato un grande interesse per la ricerca filosofica ancorata alla vita e alla storia. L’iniziale simpatia per la filosofia di Benedetto Croce - definito nel 1917 «il più grande pensatore d’Europa in questo momento» - deriva proprio dalla capacità mostrata dal filosofo napoletano di rimanere aderente ai problemi reali che la storia quotidianamente ci pone, rifuggendo da ogni atteggiamento metafisico e da ogni forma di pedanteria ed astruseria. Gramsci riconosce al Croce il 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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merito di aver cercato di espungere dalla sua filosofia ogni traccia e residuo di trascendenza e di metafisica e di aver capito che «la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta» (Cfr. Q 10, vol. II, pp. 1216-1225). In questo quaderno speciale Gramsci espone con grande chiarezza il suo punto di vista, riconoscendo insieme i pregi e i limiti della filosofia crociana: Nel febbraio 1917 in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità […] io scrissi che come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della praxis nel sec. XIX, […], così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La quistione era appena accennata, in una forma certo primitiva e inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano.101
Siamo qui davanti ad un nodo cruciale del pensiero di Antonio Gramsci. Il passo evidenziato in grassetto spiega, più e meglio di tanti altri, la distanza che separa ormai la visione del mondo del politico e del filosofo sardo da quella espressa, quando era ancora un giovane studente, nella stampa socialista torinese: «In quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano». Gramsci non poteva essere più chiaro ed esplicito di così. Eppure, ancora oggi, sono tanti (L. Geymonat in testa a tutti) a ritenere la gramsciana filosofia della praxis dipendente dalla filosofia dello Spirito di B. Croce. È stata persino fraintesa la bozza del suo progetto di scrivere un Anticroce articolato in tre punti: a) Rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della prassi hanno fatto per la concezione hegeliana. b) Tenere presente il rapporto dello storicismo del Croce 71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
con la tradizione moderata del Risorgimento e col pensiero reazionario della Restaurazione. c) Svelare il carattere revisionistico della sua opera tesa a procedere alla sostanziale liquidazione della filosofia della prassi.
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D’altra parte Gramsci aveva cominciato a prendere le distanze dal Croce da tempo. Non si dimentichi che nel suo saggio, rimasto incompiuto, sulla questione meridionale del 1926 era arrivato a definire il filosofo napoletano, insieme a Giustino Fortunato, “i reazionari più operosi della penisola” (QM p. 155).
13. La critica a Bukharin e al materialismo volgare
La critica alla filosofia di Benedetto Croce è strettamente legata nei Quaderni alla critica del Saggio popolare di sociologia scritta dal marxista sovietico Nicolaj Bukharin. Questa critica occupa gran parte del Q 11 scritto nel biennio 1932-33. In carcere Gramsci avverte con forza l’esigenza di liberarsi dalla «prigione delle ideologie».102 E, nell’opera di recupero dell’autentico pensiero di Marx, si riallaccia alla interpretazione che ne aveva dato Antonio Labriola, senza però condividere il fondo determinista che la cultura positivista del tempo aveva lasciato in eredità al pensatore di Cassino.103 Non è stato il timore della censura carceraria, come è stato erroneamente detto, a condurre Gramsci a recuperare la denominazione ‘filosofia della prassi’ (presente già in Labriola, oltre che in Croce e Gentile) per indicare il pensiero di Marx. I Quaderni mostrano ampiamente la netta presa di distanza di Gramsci dal catechismo marxista-leninista che nel Manuale di Bucharin aveva trovato una prima sistemazione. Ma il pensiero del sardo, anche se appare più aperto e problematico del marxismo-leninismo, in corso di canonizzazione nell’URSS sta72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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linista dei primi anni trenta, a mio avviso, rimane ancorato al pensiero critico di Marx e Lenin. La filosofia della praxis si distingue da tutte le altre, secondo Gramsci, per la sua apertura al processo storico reale. Essa non ha la pretesa di spiegare tutto o di mettere le brache alla vita e alla storia, anche perché consapevole della sua storicità. In una delle pagine più originali dei Quaderni, dedicate alla riflessione intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi”, la religione cristiana viene indicata come «la più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica - e si tenga presente che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione negativa - le contraddizioni reali della vita storica». Infatti, affermare come fa il cristianesimo, che «l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico» ha contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste ultime infatti «fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni».104 Sono pagine davvero straordinarie queste che Gramsci, malgrado le tante limitazioni e sofferenze patite in carcere, riesce scrivere tra il 1932 e il 1933 sulla storicità della filosofia della prassi. Il suo limpido pensiero anticipa, ad esempio, quello di Jean Paul Sartre che, nella sua introduzione del 1957 alla Critica della ragione dialettica, sosterrà che il marxismo è «l’orizzonte culturale del nostro tempo» insuperabile fino a quando le condizioni materiali che l’hanno generato non saranno esse stesse superate.105 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Gramsci, infatti in questo Quaderno scrive: Che la filosofia della prassi (F.P. d’ora in poi) concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata […]. Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro, pur nella forma di romanzo filosofico, si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insieme dei sistemi, in polemica tra loro, in contraddizine tra loro. In un certo senso, pertanto, la F.P. è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni […]. L’ uomo in generale, comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente unitari vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di uomo in generale o di natura umana immanente in ogni uomo. Ma se anche la F.P. è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla necessità e non alla libertà, che non esiste e non può ancora esistere storicamete. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata anche la F.P.: nel regno della libertà il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e delle necessità di lotta. Attualmente il filosofo della prassi può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre […].106
E senza tema di scandalizzare quanti, ai suoi tempi molto più numerosi d’oggi, consideravano il pensiero di Marx un sistema di verità assolute ed eterne, concludeva la sua argomentazione così: Si può persino giungere ad affermare che, mentre tutto il sistema della F.P. può diventare caduco in un mondo unificato, molte 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare verità dopo il passaggio ecc. Non si può parlare di Spirito quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti di... spirito di corpo (cosa che è riconosciuta implicitamente quando, come fa il Gentile nel volume sul Modernismo, si dice, sulle tracce di Schopenhauer, che la religione è la filosofia della moltitudine, mentre la filosofia è la religione degli uomini più eletti [...].107
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Va, comunque, tenuta costantemente presente l’Avvertenza che lo stesso Gramsci scrive nella prima pagina del quaderno: Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che dopo il controllo, debbano essere radicalmente corrette perché proprio il contrario di ciò che è scritto risulti vero.108
Questa avvertenza, che dimostra ancora una volta la profonda onestà intellettuale di Gramsci, va presa comunque cum grano salis pena la totale svalutazione della sua straordinaria opera scritta in carcere. Essa deve servire soltanto a stimolare lo spirito critico del lettore per evitare di trasformare in un nuovo dogma il suo pensiero aperto e critico.
14. Il Risorgimento Gramsci ha seguito criticamente l’indicazione crociana secondo la quale l’esercizio filosofico più serio da compiere è quello di cercare di comprendere meglio il passato per sapere cosa fare nel presente. Anche per questo è stato sempre attratto dallo studio della storia. La sua attenzione, in particolare, è stata rivolta a due nodi cruciali della storia nazionale, strettamente legati tra loro, il Risorgimento e la questione meridionale. Fin 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
da giovane il sardo ha mostrato di avere le idee chiare su questi temi. Infatti, in un articolo pubblicato su L’Avanti nel 1919, scrive:
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Il Risorgimento italiano ha significato la conquista del potere politico della borghesia commerciante, industriale e intellettuale della città, che ha dato ai già ricchi proprietari rurali i beni ecclesiastici e ha sciolto i vincoli feudali che gravavano sulla terra: ai contadini poveri ha dato la mitraglia dei carabinieri e la storia scolastica del ‘brigantaggio meridionale’.109
Il Risorgimento, secondo Gramsci, è un caso esemplare di “rivoluzione passiva”. Il sardo riprende dallo storico napoletano Vincenzo Cuoco il termine dandogli anche nuovi significati. Per Gramsci è stata la borghesia a dirigere e guidare il processo di unificazione nazionale, attraverso Cavour e Vittorio Emanuele II. Questi ultimi sono riusciti abilmente a mettersi in tasca i mazziniani e il Partito d’Azione attraverso la cooptazione di alcuni loro esponenti. Esemplare, per tutti, il caso Crispi, rivoluzionario nel ‘48, reazionario e colonialista dopo la spietata repressione del movimento socialista dei Fasci siciliani. Gramsci coglie nel trasformismo un tratto tipico della storia nazionale dal 1870 fino al regime fascista. Scrive infatti nel suo primo quaderno che porta la data 1929-1930: Tutta la politica italiana dal ‘70 ad oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il ‘48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche.110
In questa stessa pagina Gramsci espone con chiarezza il suo concetto di egemonia offrendo anche un piccolo saggio del metodo seguito per studiare la storia del nostro Risorgimento: Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè dirigente e dominante. È dirigente delle classi alleate, e dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
potere può essere dirigente (e deve esserlo); quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche dirigente.[...] Ci può e ci deve essere una egemonia politica anche prima dell’andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica.111
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Il sardo tiene presente questo criterio quando spiega l’egemonia che i moderati hanno avuto nel corso del Risorgimento: L’affermazione di Vittorio Emanuele II di avere in tasca […] il Partito d’Azione è esatta e non solo per i suoi contatti personali con Garibaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele. […]. I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il ‘70 e il trasformismo è l’espressione politica di questa azione di direzione.112
Secondo Gramsci la principale debolezza del Partito d’Azione è stata quella di non aver saputo porre all’ordine del giorno una riforma agraria capace di mobilitare le masse contadine. E il sardo non risparmia critiche a Garibaldi e ai garibaldini che non seppero distribuire ai contadini i beni ecclesiastici espropriati alla Chiesa e schiacciarono implacabilmente i contadini insorti contro i baroni.113 Gramsci torna ad occuparsi della storia del Risorgimento e delle sue diverse interpretazione in uno dei suoi ultimi quaderni tra il 1934 e il 1935. Qui riprende i suoi primi appunti, precisando meglio il suo pensiero. Particolarmente significativa appare oggi una sua pagina che sembra parlare, mutatis mutandis, delle classi dirigenti dei nostri giorni «che annunziano un sole che mai vuole spuntare»: Risulta che non c’è stato nessuno cambiamento essenziale nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il Paese non è dovuto al regime parlamentare (che rende pubblico e notorio ciò che prima rimaneva nascosto) ma alla debolezza e inconsistenza della classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese.114 77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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15. Gli intellettuali In carcere Gramsci torna a ripensare criticamente al suo operato dentro il partito socialista torinese prima e nel PCd’I dopo, compresa la diretta esperienza internazionale a Mosca e a Vienna, fino all’avvento del regime fascista e all’arresto. In particolare torna a riflettere sul peso e sul ruolo svolto dagli intellettuali nei diversi momenti della storia d’Italia. L’aspetto frammentario delle sue riflessioni non deve trarre in inganno. Dietro l’apparente frammentarietà dei suoi appunti c’è un rigore metodologico da tenere costantemente presente. Gramsci in carcere sa di non poter disporre di tutti gli strumenti necessari (libri, riviste, confronto con altri studiosi, ecc.) per poter svolgere in modo compiuto la sua ricerca verificando tutte le sue ipotesi. Ma le sue note e i suoi appunti hanno sempre una forte coerenza interna e non vanno mai confusi con i pensieri e gli aforismi di tanti altri pensatori. Colpisce il rigore usato per definire lo stesso termine e concetto di intellettuale. Gramsci dimostra di conoscere le mille facce che hanno avuto gli intellettuali nella storia occidentale. Ma, innanzitutto, afferma: «Tutti gli uomini sono intellettuali […]; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali» (Q vol. III, p. 1516). Tutti gli uomini sono intellettuali perché l’aspetto intellettuale è presente in ogni lavoro, lo stesso sforzo fisico più brutale richiede un minimo di coordinazione mentale: «Non si può separare l’homo faber dall’ homo sapiens» (Ib. e ss.). Gramsci smonta l’illusione idealista che conduce tanti intellettuali, anche per spirito di corpo, a considerarsi svincolati dai condizionamenti di classe. La filosofia idealistica, da questo punto di vista, è espressione di questa illusione, di questa «utopia sociale». Gramsci sa che, in una società divisa in classi, ogni classe si crea uno o più ceti di intellettuali. In generale gli intellettuali sono «i commessi del gruppo sociale dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale». (Ivi, p. 1519) 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Lo stesso Benedetto Croce, forse inconsapevolmente, è stato “commesso” del blocco agrario-industriale, al punto tale d’avere contribuito a distaccare gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, come già mostrato nei suoi primi appunti del 1926 sulla questione meridionale. Da buon pensatore dialettico Gramsci sa comunque che il rapporto degli intellettuali con le classi di appartenenza e con il mondo della produzione non è immediato ma mediato dal complesso delle sovrastrutture (ideologie) di cui gli intellettuali sono i “funzionari”. Ad una società che ha fatto degli intellettuali una ‘casta’, Gramsci contrappone il progetto di una società senza caste e senza classi, in cui tutti possano diventare intellettuali. In una pagina dei Quaderni Gramsci è particolarmente chiaro al riguardo: Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari. […] Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto. […] Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? […] Per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più. (Q 15, pp. 1752-3).
È un brano questo in cui Gramsci utilizza magistralmente la coppia dialettica realtà/possibilità per spiegare dove vuole arrivare: da un lato riconosce la realtà effettuale delle cose il genere umano è diviso, esistono realmente dirigenti e diretti 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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- ma insieme mostra la possibilità di cambiare questo stato di cose. Non a caso, in un’altra nota dei Quaderni scrive: «Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è se si vuole trasformarlo». Ma torniamo a parlare della casta degli intellettuali. Gramsci è stato spietato con loro. La storia nazionale mostra che sono stati sempre lontani dal popolo, «più legati ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano» (Q: 2116). Questo perché la cultura in Italia, come aveva già detto Francesco De Sanctis, ha avuto una tradizione libresca ed astratta: È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri e di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui segni del tempo, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc. non se ne leggono mai. […]. Manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta. […]. È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale.115
La casta degli intellettuali, naturalmente, non ha gradito il trattamento ricevuto e ha reagito di conseguenza. Le accuse contraddittorie di “idealismo”, di “populismo”, di “utopismo” e di “totalitarismo”, rivolte a Gramsci, prive di qualsiasi fondamento, sono in gran parte frutto del risentimento della casta. Come ha ben visto Eric Hobsbawm nell’opera del sardo non c’è posto per alcun “ismo”. Per Gramsci la cultura, se vuole essere autentica e vitale, deve «rimanere a contatto coi ‘semplici’ e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere» (Q: 1382). Credo che abbia visto giusto Tullio De Mauro quando ha scritto che nell’usare la parola cultura Gramsci si distacca consapevolmente dall’uso dominante in Italia.116
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16. Gramsci “storico integrale”
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Uno degli ultimi Quaderni del carcere ha questo significativo titolo: Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni.117 Gramsci riesce a scrivere poche pagine in questo quaderno, probabilmente prima del ricovero nella Clinica Quisisana di Roma, avvenuto nell’agosto del 1935, per il peggioramento del suo già precario stato di salute. In questo quaderno si sofferma ad analizzare alcuni studi del suo tempo intorno alla figura di un capopolo toscano, Davide Lazzaretti, riuscendo a dare alcune importanti indicazioni di metodo e a cogliere acutamente il difetto principale di tali studi: Questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico.118
Ecco perché non si è compresa la ragione vera del successo avuto da Davide Lazzaretti nel 1870 tra i contadini e i pastori del monte Amiata, prima della sua brutale eliminazione fisica compiuta dagli apparati repressivi dello Stato. La verità è che si voleva nascondere il grande malessere sociale che regnava in Italia in quel periodo. La stessa cosa, aggiunge Gramsci, è avvenuta più in grande per il brigantaggio meridionale. Malessere sociale accresciuto anche dal fatto che, al Governo del nuovo Stato unitario, erano andate le sinistre suscitando nel popolo speranze e aspettative presto deluse. È interessante notare l’attenzione prestata da Gramsci alla presenza di elementi e motivi religiosi nel movimento di protesta guidato dal Lazzaretti. Particolarmente significativo appare ai suoi occhi il fatto che la bandiera usata da Davide, nel corso delle sue manifestazioni, era rossa con la scritta “La Repubblica e il Regno di Dio”. 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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E qui, anche a rischio di ripeterci, non si può non ricordare quanto aveva scritto due anni prima, in un contesto completamente diverso: La religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca metafisica, apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma […] che l’uomo ha la stessa natura […], in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, […] e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (- utopico -). Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni.119
Tornando al Quaderno intitolato Ai margini della storia, rimasto purtroppo incompiuto, Gramsci, dopo aver notato che i gruppi subalterni subiscono quasi sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono, invita «lo storico integrale» a cercare e valorizzare ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni (ivi, pp. 2283-4). Quanti storici hanno seguito il metodo di Gramsci per raccontare la storia? In ogni caso Gramsci muovendosi nella direzione della “unificazione culturale del genere umano”, pur criticando il “senso comune” (dove spesso si depositano i pensieri egemoni) ha sempre avvertito maieuticamente l’utilità di partire da esso per superarlo. Da questo punto di vista è fondamentale l’idea gramsciana secondo la quale «tutti gli uomini sono filosofi». È questa sua profonda convinzione che lo conduce a guardare con fiducia alla possibilità che le classi subalterne si liberino dalla loro subalternità. 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Gramsci, malgrado il pessimismo della sua intelligenza, ha creduto fino alla fine all’utopia comunista dell’unificazione del genere umano. Su questo punto è notevole la somiglianza del suo pensiero con quello di Walter Benjamin anche se i due non si sono mai incontrati né letti. Entrambi hanno vissuto e si sono formati nello stesso tragico periodo storico compreso tra la prima guerra mondiale e l’avvento del nazifascismo. Entrambi hanno salutato con entusiasmo la Rivoluzione russa del 1917. Ma, non appena sia in Italia che in Germania, con l’ affermazione del fascismo, si spense ogni speranza rivoluzionaria, Benjamin e Gramsci cominciarono a riflettere sulla ragioni della loro sconfitta. Così, per vie e modi diversi, entrambi cominciarono ad organizzare il pessimismo, per usare una espressione dell’ebreo tedesco (si veda il suo Aura e choc, Einaudi, Torino 2012, p. 332). Ma il loro pessimismo non è rassegnazione e capitolazione di fronte alla forza brutale del nemico. Cos’altro è il pessimismo dell’intelligenza, più volte invocato da Gramsci nei suoi scritti? Si potrebbe obiettare che il sardo è del tutto privo della speranza messianica del tedesco. Ma, se da un lato è vero che Gramsci non condivide la fede religiosa di Benjamin, dall’altro appare evidente che lo spirito dialettico del primo non è meno forte ed acuto di quello del secondo. Gramsci ha saputo maneggiare benissimo la dialettica. Basti ricordare il modo in cui analizza i rapporti tra realtà e possibilità e il suo modo di insistere sulla storicità della filosofia della praxis. Così anche Gramsci ha lasciato sempre una porta aperta alla possibilità dell’ impossibile. Tra le numerose incomprensioni dell’autentico pensiero gramsciano un posto centrale occupa l’accusa di populismo. Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione gramsciana di nazionale-popolare.118 Gramsci non ha mai mitizzato il popolo 83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la partecipazione popolare nessun cambiamento potrà mai realizzarsi. Gramsci nei suoi scritti ha usato poco il termine ‘popolo’. Soltanto nei suoi ultimi appunti scritti in carcere ne troviamo una chiara definizione, laddove precisa che per “popolo” deve intendersi «l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita».120 Non mi sembra casuale il fatto che questa definizione si trovi proprio nelle sue celebri Osservazioni sul ‘folclore’ che, a partire dall’ultimo dopoguerra, tanta fortuna hanno avuto negli studi demologici italiani. Indubbiamente le veloci e profonde trasformazioni della società italiana hanno contribuito a mettere in crisi alcune categorie gramsciane. La scomparsa, nel giro di pochi lustri, della millenaria civiltà contadina, in cui trovava radici gran parte della cultura popolare nazionale, non poteva non produrre effetti. Il boom economico prodotto dal disordinato sviluppo industriale del Paese, il consumismo e la mutazione antropologica degli italiani denunciati da un incompreso Pasolini, il proliferare delle mafie hanno fatto il resto. Per non parlare della rivoluzione informatica e della globalizzazione. Appare oggi sempre più evidente che le classi dirigenti, specialmente in Italia, non hanno saputo governare i cambiamenti epocali avvenuti. E la maggior parte degli intellettuali italiani, con il loro conformismo e opportunismo, hanno fatto parte di questa classe dirigente e sono stati organici al sistema di potere esistente. Aveva ragione Pasolini di scrivere nel 1975: Quando si saprà […] tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi la loro omertà. [...] Mai la distanza tra il potere e il Paese è stata più grande.121
La realtà è molto diversa da come spesso viene rappresentata. Intanto le “classi”, anche se diverse e molto più frammen84 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tate rispetto a quelle dei tempi di Gramsci, esistono ancora. E non credo che «le differenze tra le classi sociali dipendono più da elementi culturali che da elementi obiettivi», come sostiene P. Sylos Labini122, anche se gli elementi culturali contano e non vanno mai sottovalutati. Ma dove ha visto Luca Ricolfi la società signorile di massa?123 Una delle poche cose certe oggi mi sembra questa: la classe operaia non ha più, nel processo produttivo e nella società, la centralità che aveva prima. È questo dato di fatto ad aver indebolito il pensiero politico gramsciano e soprattutto la sua idea di partito. Anche per questo sbagliano, secondo me, quanti ancora pensano di trovare in Gramsci un prontuario per la soluzione di tutti i problemi odierni. Gramsci, come Marx, non ha predisposto ricette per l’osteria dell’avvenire. Anzi è Gramsci stesso in carcere a temere di non riuscire ad essere all’altezza del proprio tempo: Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è ‘anacronistici’ nel proprio tempo, che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi.124
Dobbiamo tenere presente costantemente questa domanda per non diventare fossili prima del tempo. Secondo me la dialettica gramsciana tra il polo egemone e quello subalterno della società è ancora uno strumento utile per comprendere il mondo di oggi. Non a caso, mentre in Italia si archivia Gramsci, nel resto del mondo fioriscono i cosiddetti Subaltern Studies che, fin dal nome, si richiamano allo studioso sardo. Per non parlare del successo mondiale del film coreano Parasite che mette in scena una modernissima forma di “lotta di classe” che conserva, comunque, tratti dell’antica guerra tra poveri. Insomma, anche se tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, continuano ad esistere classi dominanti e classi subalterne e le disuguaglianze sociali, invece di diminuire, crescono. A 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mancare oggi è soltanto quella che una volta si chiamava “coscienza di classe”; e questa coscienza manca soprattutto tra le classi subalterne proprio perché subiscono spesso l’egemonia delle classi dominanti. È la realtà dei fatti a rendere ancora attuale gran parte dell’opera di Gramsci. Il suo stesso concetto di “egemonia” aiuta ancora a comprendere quello che accade sotto i nostri occhi. Oggi, infatti, anche attraverso la televisione, è la visione del mondo delle classi dominanti che viene ogni sera rappresentata e che il popolo, ossia l’insieme delle classi subalterne, fa propria. La cosa che rimane per me più viva e vitale in Gramsci è la sua serietà, la sua onestà intellettuale, la sua sobrietà. L’invito costante ad osservare storicamente e criticamente tutto e a respingere ogni forma di dogmatismo e di fanatismo. Le sue domande, spesso, contano più delle risposte. Il suo rifiuto di considerare il marxismo un formulario meccanico che pretende di avere tutta la storia in tasca (si veda Q XI, p. 25). Ecco perché lo stesso Gramsci, nella solitudine del carcere, quando si sentì incompreso e tradito dai suoi stessi compagni, trovò la forza per superare i momenti di sconforto e scrivere: Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di genî incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori errori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà (Q 28, pp. 2331-2).
E di questo mi pare che ci sia particolarmente bisogno oggi.
17. Conclusione Nei suoi Quaderni Gramsci, oltre a prendere nettamente le distanze dal materialismo volgare e dall’interpretazione econo86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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micistica e deterministica del pensiero di Marx, afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» ricordando un principio elementare del metodo scientifico che tanti hanno dimenticato: Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia alla, ricerca della verità […], si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversari significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico. (Q 10, vol. II, p. 1263)
Giorgio Baratta è stato uno dei primi a cogliere il carattere socratico e dialogico del pensiero di Gramsci. In uno dei suoi ultimi libri ha utilizzato una metafora musicale per riassumere quello che ha appreso dal suo attento studio: «“Tutti gli uomini sono filosofi” è la linea di base, il basso continuo nella polifonia dei Quaderni. Ma allora, tutti gli umani sono in contrappunto con gli altri, le altre, perché la filosofia è un abito logico-dialogico, relazionale, uno strumento di unificazione attraverso le differenze di lingue e linguaggi in cui gli uomini parlano, anche quando si ignorano, o sono ignoranti, com’era Socrate, che la città ha messo a morte».125 Una delle ragioni che spiega la straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorìo del tempo e di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura mentale e il suo approccio storico e non dogmatico ai problemi. Quando nei suoi Quaderni scrive della necessità di liberarsi dalla ‘prigione delle ideologie’, Gramsci sa di cosa parla. Infatti 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mostra di avere ben compreso il senso della critica marxiana ad ogni forma di sapere ideologico, inteso esattamente come forma di falsa coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia tedesca di Marx. Il nostro presente rischia di passare alla storia come l’epoca del tramonto delle “ideologie”. Eppure, secondo me, nel corso della storia non c’è stato un tempo più “ideologico” di questo. Dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino e della successiva implosione dell’URSS, la casta odierna degli intellettuali ha trasformato il presente nel tempo più ideologico che il genere umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra le altre cose, insegnano che una cosa tanto più invisibile è, tanto più reale può apparire. Ma il gioco funziona fino ad un certo punto. Che l’imperatore e ogni forma di potere siano nudi, oggi possono vederlo tutti. E la storia che si considerava finita - una delle peggiori ideologie del nostro tempo - non è finita affatto. La storia continua.
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Note 1. Il 1947 è l’anno in cui vede la luce in Italia il primo libro di Gramsci. Si tratta della prima, parziale, edizione delle lettere dal carcere che otterrà un successo straordinario di critica e di pubblico. Seguirà l’anno successivo, sempre a cura dell’Editore Einaudi, la stampa della prima edizione tematica dei Quaderni del carcere, voluta da Palmiro Togliatti, che ha segnato una straordinaria svolta nella storia della cultura nazionale. Gli scritti giovanili verranno pubblicati successivamente in diverse edizioni. È tuttora in corso di lavorazione l’edizione nazionale di tutti gli scritti del grande sardo. Di questa, finora, sono stati pubblicati soltanto quattro grossi volumi, a cura dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, comprendenti gli scritti giovanili (1910-1916), gli articoli pubblicati su l’Avanti e Il grido del popolo nel 1917 e, in due tomi, i Quaderni di traduzioni a cui Gramsci si dedicò in carcere dal 1929 al 1932. 2. GRAMSCI Antonio, Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo, in Quaderni del carcere (d’ora in poi Q) a cura di Valentino Gerratana,Torino Einaudi 1975, vol. I, p. 419. 3. Q, Vol. II, p. 838. 4. Tra i tanti studi pubblicati negli ultimi anni, oltre a quelli notevolissimi di Giorgio Baratta, segnalo il volume di AA. VV. Tornare a Gramsci, Roma Avverbi Editore 2010, promosso dall’Istituto Gramsci Toscano, a cura di Gaspare Polizzi, dove si distinguono per la loro originalità i contributi di Bartolo Anglani, Alberto Burgio, Pietro Clementi, Tullio De Mauro, Giulio Ferroni e Franco Lo Piparo. Una recensione critica di questo bel volume si deve a CINGARI Salvatore, Il giovane Gramsci e la ‘guerra civile europea’, reperibile oggi in rete. Copyright Rivista di Studi sullo Stato, ISSN 20384882. 5. FORTINI Franco, Una questione non filologica, 1989. Testo ripreso da un numero monografico de Il de Martino. Bollettino dell’Istituto Ernesto de Martino, intitolato Rileggere Gramsci, n. 3, 1994, pp. 25-27. In questo pungente articolo Fortini è poco generoso con Valentino Gerratana che ha compiuto un gran lavoro nel 1975 per consentire a tutti di leggere i Quaderni nell’ordine (e nello stesso disordine) in cui sono stati concepiti. La Prefazione che Gerratana ha posto in apertura del I vol. (pp. XI-XLII) va letta attentamente, insieme al suo successivo Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti 1997. 6. Cfr. GRAMSCI A. - SCHUCHT T., Lettere 1926-1935, a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Torino, Einaudi 1997. D’ ora innanzi abbreviato con L 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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2. I 33 quaderni, di cui 29 di note e appunti e 4 di traduzioni, vennero numerati da Tatiana con numeri romani. Un probabile errore materiale compiuto dalla cognata di Gramsci, nella fretta di porre in salvo tutti i Quaderni, ha condotto Franco Lo Piparo ad ipotizzare lo smarrimento di uno di questi. 7. Gramsci aveva conosciuto Piero Sraffa nel periodo in cui redigeva a Torino la rivista L’Ordine nuovo. Con l’avvento del fascismo, Sraffa si trasferì in Inghilterra e, grazie ai suoi brillanti studi economici, riuscì ad avere una cattedra di economia all’Università di Cambridge. Da qui aiutò l’amico in carcere in modi diversi (libri, consigli e assistenza sanitaria). Secondo Franco Lo Piparo, Sraffa riuscì a leggere in tempo reale alcuni Quaderni nel corso delle visite che potè fare al prigioniero in carcere e nelle cliniche in cui venne ricoverato. E del contenuto di essi ebbe modo di parlare anche con il famoso collega Wittgenstein a Cambridge: LO PIPARO F., Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Roma Donzelli 2014. 8. HOBSBAWM Eric, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Milano, Rizzoli 2011, p. 339. 9. GRAMSCI A. - SCHUCHT T., op. cit., pp. 60-66. In questa famosa lettera scritta in carcere nel marzo del 1927 Gramsci espone alla cognata Tatiana la prima bozza di un suo piano di lavoro - che rivedrà successivamente tenendo anche conto di alcune indicazioni dell’amico Piero Sraffa - affermando di volerlo portare avanti in modo disinteressato, für ewig (per l’eternità), scrive usando un’espressione di Goethe. D’altra parte il sardo in carcere studierà anche la lingua tedesca traducendo Marx, Goethe e i fratelli Grimm. 10. Lettera del 17 agosto 1931, ora in L2, p. 764. 11. Q. 10, La filosofia di B. Croce, vol. II (ed. Gerratana), p. 1217. 12. LO PIPARO Franco (1979), Lingua, Intellettuali, Egemonia in Gramsci, Bari, Laterza. Dopo questo notevole saggio critico, che ha segnato una svolta nella storia della critica gramsciana, Franco Lo Piparo ha pubblicato due libri discutibili e deludenti che risentono del clima ideologico anticomunista dominante negli ultimi decenni. Mi riferisco a: LO PIPARO, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista, Donzelli, Roma 2012 e LO PIPARO, L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, Donzelli, Roma 2013. 13. CARLUCCI Alessandro (2007), L’influenza di Lenin su Gramsci: per uno studio degli aspetti glottopolitici, Urbino, Isonomia. Vedi pure LIGUORI G. (1996), Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Roma, Editori Riuniti. 90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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14. MONDOLFO Rodolfo, Umanismo di Marx, Antologia di scritti a cura di BOBBIO Norberto, Torino, Einaudi 1968, p. 119. Il Mondolfo, pur riferendo fedelmente i termini oggettivi dello scontro tra i due giovani esponenti socialisti, parteggia chiaramente per il suo discepolo Tasca. Lo stesso Mondolfo, qualche decennio dopo, scriverà che il giovane Gramsci ha finito per risentire la sua stessa influenza tramite Angelo Tasca, allora amico strettissimo del sardo. Cfr. MONDOLFO R. op. cit. p. XLV. Anche SPRIANO Paolo, nella sua Antologia de L’Ordine nuovo, Torino, Einaudi 1963, p.130, ha riconosciuto l’influenza di Angelo Tasca sul giovane Gramsci. Ma va detto che nei Quaderni Gramsci, ripensando all’antica querelle, prenderà nettamente le distanze sia dall’estremismo economicista di Bordiga che dall’opportunismo culturalista diTasca. Cfr. Q 9, vol. II, p. 1112. 15. BORDIGA Amadeo, cit. da SALVADORI M. L., Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi 1963, pp. 502-503. 16. L’Istituto Gramsci Siciliano nel 1987 ha pubblicato un libretto, a cura di Vincenzo Tusa, intitolato Gramsci al confino di Ustica, nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga. Lo scambio epistolare tra i due dirigenti politici comunisti, tenuto nascosto da Togliatti per tanti anni, è venuto alla luce alcuni decenni fa e dimostra quanta stima reciproca ci fosse tra i due, malgrado la loro diversità di vedute su tante questioni. Negli anni settanta del secolo scorso la posizione del politico napoletano è stata rivalutata, correlativamente alla svalutazione dell’opera di Gramsci: A. DE CLEMENTI, Amadeo Bordiga, Torino, Einaudi 1971; MARRAMAO, Per una critica della ideologia di Gramsci, in Quaderni piacentini, n. 46, 1972; PERLINI T., Gramsci e il gramscismo, Milano, CELUC 1974. 17. GRAMSCI Antonio, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi 1958, (d’ora in poi SG), p. 23. Gli scritti giovanili sono stati pubblicati in diverse edizioni che hanno compreso, di anno in anno, sempre nuovi articoli. Considerato che Gramsci generalmente non firmava quanto scriveva sui giornali, nel corso della prima edizione critica nazionale di tutte le opere di Gramsci, è stato dato incarico ad una apposita Commissione di esperti di accertare l’autenticità di tutti gli articoli finora attribuiti a Gramsci. 18. Cfr. SG, pp. 23-24; 64; 133-5; 195. Insomma in questi, come in tanti altri articoli del periodo, si trova una «fenomenologia dell’intellettuale piccolo-borghese» come ha ben detto il MANACORDA, La formazione del pensiero pedagogico di Gramsci (1915-26), in AA.VV. Gramsci e la cultura contemporanea, vol. II, Roma, Editori Riuniti 1972, p. 237. 19. GENTILE Giovanni, Scuola e filosofia, Palermo, Sandron 1908, p. 30. 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Tra i tanti studiosi che hanno sostenuto la dipendenza del pensiero di Gramsci dal Gentile ricordiamo Giancarlo Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo 1911-1918, Milano, Feltrinelli 1977. Ma, anche se è vero che, fino all’avvento del regime fascista, non era facile distinguere Croce da Gentile, noi continuiamo a ritenere che il giovane sardo preferisse di gran lunga Croce a Gentile. 20. MARX Karl, Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti 1969, pp. 268-269. 21. Ora leggibili in SG, pp. 73-82.
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22. GRAMSCI, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, p. 90. D’ora in poi questo volume sarà così citato: L 4. 23. Q, vol. I, p. 401. In un’altra nota del 1930, in cui polemizza con «l’impotenza degli intellettuali laici», si afferma che «l’Italia è ancora, come popolo, nelle condizioni generali create dalla Controriforma», ivi, p. 345. Il giudizio gramsciano sulla Chiesa Cattolica e sulle religioni nei Quaderni è comunque molto più articolato e problematico rispetto agli scritti giovanili. 24. Gramsci stesso confesserà più tardi alla cognata Tania che uno dei suoi maggiori rimorsi intellettuali è stato il dolore procurato al prof. Bartoli, glottologo dell’Università di Torino, che intravedeva per lui un grande futuro tra i “neogrammatici”. Franco Lo Piparo è stato il primo studioso a rilevare la centralità che hanno nell’opera gramsciana i suoi studi linguistici e le sue riflessioni sul rapporto tra lingua, società e potere. Per un approfondimento della questione si rimanda al suo Lingua Intellettuali Egemonia in Gramsci, Bari, Laterza 1979. Meno convincenti risultano però i suoi studi gramsciani più recenti. 25. SG, pp. 130-131. 26. GRAMSCI, La nostra città futura, in Avanti! 25 maggio 1919. 27. Mentre le Cronache teatrali verranno ristampate, per volontà di Togliatti, in appendice al volume della prima edizione tematica dei Quaderni, intitolato Letteratura e vita nazionale (Einaudi 1951), i corsivi e i pezzi di critica di costume verranno raccolti e pubblicati da Einaudi nel 1960 con il titolo Sotto la Mole (d’ora in poi SLM). 28. GRAMSCI, Il piacere dell’onestà di Pirandello al Carignano, in l’Avanti! del 29/11/1917, ora in Pirandello, Ibsen e il teatro, Roma, Editori Riuniti 1992: 51. 29. GRAMSCI, Ridicolo e comico, in Avanti! del 5/3/1916, ora in SLM p. 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
61. 30. GRAMSCI, La conferenza e la verità del 19/2/1916, ora in SLM, pag. 43. 31. SG, pp. 106-107. 32. Ibidem, pp. 107-108. 33. SG. p. 150.
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34. GRAMSCI, La costruzione del partito comunista. 1923-1926, Roma, Editori Riuniti 1971 p. 335. 35. La maggior parte degli articoli scritti da Gramsci i questo periodo si trovano nel libro indicato nella nota precedente. Gli studi principali che hanno messo a fuoco questo periodo sono i seguenti: PAGGI Leonardo, Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti 1970; PAGGI Leonardo, Le strategie del potere in Gramsci. Tra fascismo e socialismo in un solo paese 1923-1926, Roma, Editori Riuniti 1984; MALTESE Pietro, Dalla scuola di partito all’Anti-Bucharin, Palermo Istituto Poligrafico Europeo (in collaborazione con l’Istituto Gramsci Siciliano), 2018. Ma, per quanto quanto approfonditi, questi studi hanno lasciato in ombra tante questioni. La verità è che si sa ancora molto poco, soprattutto, sui suoi soggiorni in Unione Sovietica – dove conoscerà le sorelle Schucht, una delle quali diventerà la sua compagna e madre dei suoi figli – e a Vienna, dove aveva sede uno dei principali Uffici dell’Internazionale Comunista. 36. Il MALTESE, nel saggio citato nella nota precedente, ha documentato in modo inoppugnabile che fu Gramsci stesso ad incaricare la cognata Tatiana Schucht - principale corrispondente del sardo negli anni di carcere e protagonista prima, insieme a Sraffa, del salvataggio dei Quaderni – a tradurre in lingua italiana alcune parti del libro di Bucharin che verranno utilizzate come dispense per la scuola di partito nel 1925. 37. 2000 pagine di Gramsci. I. Nel tempo della lotta, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Milano, Il Saggiatore 1964, p. 823. 38. Una sommaria sintesi di questo dibattito si trova in LIGUORI G. (1996) Gramsci conteso, op. cit. 39. GRAMSCI, SLM, op. cit., p. 469. 40. GRAMSCI, L’ Ordine Nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1955, p.117. Volume che d’ora in poi sarà citato in forma abbreviata con ON. 41. ON, p. 41. 93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
42. GARIN Eugenio, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari 1966, pp. 275-276. 43. Oltre al volume indicato nella nota 41, dove sono stati raccolti gli articoli attribuiti a Gramsci scritti nel periodo 1919/20, per chi volesse dare un’occhiata alla rivista nel suo insieme, ricordiamo che l’editore Feltrinelli, nel 1971, ha pubblicato una edizione reprints de L’Ordine Nuovo. I testi di B. Croce e A. Carlini, in questa ristampa integrale della rivista, si trovano, rispettivamente, nelle pagg. 76 e 116.
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44. GRAMSCI, Il programma dell’ Ordine Nuovo, agosto 1920. Ora in ON pp.146-154. 45 PAGGI Leonardo (1970) ha ben analizzato la redazione culturale del periodico socialista torinese Il Grido del Popolo. Cfr. Gramsci e il moderno principe, Editori Riuniti, Roma 1970. 46. GRAMSCI, Scritti 1915-1921, a cura di Sergio Caprioglio, Moizzi Editore, Milano 1976, p. 67 (grassetto mio). Le famose 150 ore che il movimento operaio italiano conquistò negli anni settanta del secolo scorso, secondo me, hanno un debito ideale con quella costante, contrastata azione di organizzazione culturale all’interno dello stesso partito socialista che ha caratterizzato l’opera del giovane Gramsci. 47. ON. p. 447. 48. L’Ordine Nuovo, ed. Reprint Feltrinelli, cit., p. 85. 49. Questo del linguaggio difficile è un tema ricorrente negli scritti del giovane Gramsci. Vedi, per tutti, il suo precedente pezzo Cultura e lotta di classe, del 25 maggio 1918 in SG pp. 239-241. 50. ON. op. cit., p. 446. 51. Reprint Fetrinelli, op. cit. p. 80. 52. ON, p. 16 (grassetto mio). 53. ON, p. 452. 54. ON, p. 452-453. Ma cose simili aveva già scritto anche in anni precedenti: Cfr. SG. pp.117, 200; SLM pp.406-7, 480; S. 1915-21 p.91; ON pp. 443-4; Cronache teatrali (1916-20) pubblicate postume in Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, 1971, pp. 437; 447-448. 55. Ad esempio, tra il 1919 e il 1920, Gramsci cita due volte il Commissario del popolo dell’istruzione pubblica A. V. Lunaciarskij: ON: 444 e 493. Va ricordato, comunque, che nel 1920 Gramsci contribuisce a creare la Sezione 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
torinese del Proletkul’t. 56. G. URBANI, La formazione dell’uomo. Scritti di pedagogia, Editori Riuniti, 1967, p. 160. 57. URBANI, ivi, pp. 23-24. 58. GARIN Eugenio, Gli intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 349-350. 59. SG: 301. Questo tema sarà ripreso e sviluppato da Gramsci in carcere. Vedi quanto scriverà in uno dei suoi ultimi Quaderni (il 21° uno dei cosiddetti quaderni speciali in cui riprende appunti e note precedenti) a p. 2116 (vol. terzo ed. Gerratana). Documento acquistato da () il 2023/09/12.
60. ON, pp. 469-470. 61. Ivi, p. 444. 62. TROCKIJ Lev, Letteratura e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 7. Le parole di Trockij sono state scritte nel 1923. Pare opportuno ricordare qui che nel 1922 Gramsci e Trockij si incontreranno nel corso di una Conferenza dell’Internazionale Comunista. Trockij chiederà a Gramsci notizie sul movimento futurista italiano. Gramsci risponderà con una lettera alla richiesta del compagno. E Trockij pubblicherà nel libro sopra indicato il punto di vista gramsciano. 63. GIARDINA Giacomo (1901-1994) verrà incoronato poeta futurista da Marinetti a Napoli nel 1930. Il suo capolavoro, Quand’ero pecoraio, verrà pubblicato da Vallecchi Editore nel 1931 con una Prefazione dello stesso Marinetti. Su questo singolare poeta ho pubblicato un articolo sul n. 1/2012 di NUOVA BUSAMBRA intitolato Francesco Carbone e Renato Guttuso sulla poesia di Giacomo Giardina. 64. GRAMSCI sul futurismo in TROCKIJ, Letteratura e rivoluzione, op. cit., pp. 142-143. 65. L’articolo verrà pubblicato dallo stesso Trockij nel 1923, in appendice al suo Letteratura e rivoluzione. Noi abbiamo consultato l’edizione italiana del libro, curata da Vittorio Strada, stampata da Einaudi nel 1973. Il pezzo di Gramsci, datato Mosca 8 settembre 1922, in questa edizione si trova nelle pp. 141-143. 66. Chiunque abbia letto Storia e coscienza di classe (1923) di G. LUKACS (1885-1971) non ha mancato di notare la notevole affinità di vedute tra quanto scrive l’ungherese in questa sua opera e gli scritti giovanili di Gramsci. Come è noto l’opera giovanile di Lukacs venne considerata eretica ri95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
spetto ai canoni del marxismo-leninismo sovietico, diventato ideologia di Stato negli anni trenta del 900. E Lukács, per sopravvivere, dovette fare una pubblica autocritica.
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67. Questo famoso carteggio tra i due dirigenti politici venne reso pubblico, per la prima volta, nel 1964 dallo stesso Palmiro Togliatti e stampato nel volume 2000 pagine di Gramsci, I., Nel tempo della lotta, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Milano, Il Saggiatore 1964, p. 823. 68. Sulla questione negli ultimi anni è stato scritto tanto, spesso in modo assai discutibile. Mi limito qui a rimandare a questi saggi: FIORI, Giuseppe, Gramsci Togliatti Stalin, Bari, Laterza 1991; CANFORA, Luciano, Gramsci in carcere e il fascismo, Roma, Salerno edit. 2011; LO PIPARO, Franco, I due carceri di Gramsci, Roma, Donzelli 2012. Il saggio di Fiori, anche se scritto dieci anni prima degli altri, è molto più attendibile degli altri due influenzati dal clima di caccia alle streghe comuniste di quegli anni. 69. DESOGUS Paolo, Recensione del volume di Gianni Fresu, A. Gramsci l’uomo filosofo, Cagliari 2014, in Critica marxista, n.4, settembre 2020. 70. SG, p. 31. Articolo ripreso in Gramsci, La questione meridionale, a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato, Roma Editori Riuniti 1966, pp. 55-58. (D’ora in poi questo testo sarà citato in forma abbreviata con QM) 71. Per ulteriori notizie su questo importante documento si rinvia all’ottima introduzione di DE FELICE F. e PARLATO V. in op. cit. QM pp. 7- 50. Recentemente Paolo DESOGUS ha scritto un acuto articolo sulle riflessioni gramsciane intorno alla questione meridionale: Cfr. Appunti sul rapporto tra questione meridionale e nazionale-popolare in Gramsci, con una nota sul cinema di Matteo Garrone. Articolo consultato in rete nel gennaio 2022: https://journals.openedition.org/narrativa/654 72. QM, pp. 56-7 73. GRAMSCI, Il nostro Marx: 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Torino Einaudi 1984, pp. 590-591. 74. GRAMSCI, Scritti politici, a cura di P. Spriano, vol. II, 1921-1926, Roma, Editori Riuniti 1987, pp.607-608. 75. QM, p. 64 76. Ivi, p. 68 77. Ivi, p. 132 78. Ivi, p. 134 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
79. Ivi, p. 136 80. Tatiana Schucht, negli anni in cui Gramsci sarà rinchiuso in carcere, risiede a Roma lavorando come traduttrice presso l’Ambasciata Sovietica. Sarà lei ad assistere il cognato durante tutto il suo periodo di detenzione fino alla sua prematura morte, riuscendo con l’aiuto di Sraffa a salvare i Quaderni. 81. Il manoscritto sulla quistione meridionale, esaminato nelle pagine precedenti, venne ritrovato da Camilla Ravera e pubblicato sulla rivista STATO OPERAIO, a. IV, 1930.
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82. Vedremo più avanti come questo tema sarà ripreso da Gramsci soprattutto nelle sue riflessioni sul folclore e sulla storia delle classi subalterne. 83. LC, 1965, p. 270. 84. Q p. 10. 85. Ivi, p. 8. 86. Cfr: ANSA.it 2008-11-26 VATICANO: Gramsci, la fede in punto di morte; LA STAMPA, 26 novembre 2008, Gramsci falce martello e crocifisso. L’arcivescovo De Magistris rivela: “Sicura la conversione in extremis”; LA REPUBBLICA, 26 novembre 2008, Riaffiora una notizia già discussa e smentita 30 anni fa; IL GIORNALE, 26 novembre 2008, Gramsci si convertì in punto di morte. 87. A. BONDI, Compagni di umanità. Dietrich Bonhoeffer e Antonio Gramsci, Edizioni Helicon, Fano 2022, p. 492. 88. GRAMSCI, Q 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, Quaderni del carcere, ed. cit., vol. II, p. 1375. 89. Q 21, vol. 3, pp. 2107-2108. 90. BERMANI Cesare, Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria, Cooperativa Colibrì, Milano 2007. 91. Va ricordato al riguardo che, per l’Edizione Nazionale delle opere di Antonio Gramsci ancora in corso di lavorazione, si stanno seguendo criteri diversi dal passato per decidere con maggiore precisione l’attribuzione degli articoli giornalistici pubblicati anonimi: Cfr. Chiara BASILE e Maurizio LANA, L’attribuzione di testi con metodi quantitativi: riconoscimento di testi gramsciani, in Aida Informazioni, Anno 26 gennaio-giugno, Numero 1-2/ 2008. Questo vuol dire che testi attribuiti in passato al sardo potrebbero domani non esserlo più. 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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92. Si rinvia, al riguardo, a quanto già detto nelle pagine precedenti e, in specie, nelle note n. 35 e 36. 93. DE MARTINO Ernesto, Due inediti su Gramsci. Postille a Gramsci e Gramsci e il folklore, a cura di S. Cannarsa, in La Ricerca folklorica, n. 25, aprile 1992, pp. 73-9. 94. CIRESE A. M., Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1976, p. 147. 95. GRAMSCI, Q 27, pp. 2311-2312. 96. BONINELLI G.M., Frammenti indigesti. Temi folklorici negli scritti di Antonio Gramsci, Carocci editore, Roma 2007, pp. 16-17. 97. GRAMSCI, Q 25, p. 2279. 98. Ivi, pp. 2279-2284. 99. GRAMSCI, Q 8, Appunti di filosofia, 1931-32, vol. II, p. 1045-1046. 100. Q 10, La filosofia di Benedetto Croce, ed. Gerratana, II, p. 1263 (grassetto mio). 101. GRAMSCI, Q 10, La filosofia di B. Croce, 1932-35, II, p. 1233. 102. Gramsci, pur non avendo potuto leggere L’ideologia tedesca di Marx, ancora inedita fino ai primi anni trenta del ‘900, dimostra di conoscere bene l’accezione negativa data dal pensatore tedesco al termine ideologia: Cfr. Q. 11, vol. II, pp. 1490-1491 e Q 10, p. 1263. 103. Il giudizio di Gramsci sull’opera di Antonio Labriola è comunque piuttosto ondivago. Nei suoi Quaderni si trovano sia parole di elogio (Cfr. Q 11, II, pp. 1507-1509) che di critica, anche aspra (cfr. ivi pp.1366-1368). 104. Q 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura. Storicità della filosofia della prassi. (19321933), ed. Gerratana, cit., II, pp. 1487-1490. 105. SARTRE J. P., Questioni di metodo, in Critica della ragione dialettica, I, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 32-34. 106. Q 11 (1932-1933), II (ed. Gerratana), Storicità della filosofia della prassi, pp. 1487-1488. 107. Ivi, p. 1490. 108. Q 10 (1932-1935), II, p. 1365. 109. GRAMSCI, Il rivoluzionario e la mosca cocchiera, Avanti!, 21 nov. 1919. 110. GRAMSCI, Q I, p. 41. 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
111. Ib. 112. Ib. 113. Q I, pp. 39-40, e III, pp. 2045-2046. 114. Q III, pp. 1977- 1978. 115. GRAMSCI, Q II, pp. 706-708. In questa pagina dei Quaderni sento risuonare le parole del De Sanctis: “Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro”. 116. DE MAURO T., Una certa concezione della cultura, in AA.VV, Tornare a Gramsci, cit., p. 117.
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117. GRAMSCI, Q III, p. 2277. 118. GRAMSCI, Q II, p. 1488. 119. Successivamente Asor Rosa ha corretto il suo giudizio. 120. GRAMSCI, Q III, p. 2312. 121. PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi Torino 1976, p. 108. 122. SYLOS LABINI P., Le classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1986. 123. RICOLFI L, La società signorile di massa, La Nave di Teseo, Milano 2019. 124. Gramsci, Q II p. 1377. 125. BARATTA G., Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma Carocci 2007, p. 11. Dello stesso autore si raccomanda la lettura del suo studio precedente: Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci, Carocci, Roma 2003.
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Parte Seconda
Pier Paolo Pasolini Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti dentro il Palazzo. (P. P. Pasolini, Fuori dal Palazzo, in Corriere 1975)
della
Sera, 1 agosto
Ho sempre pensato […] che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi» l’autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell’autorità. Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca. (P. P. Pasolini, Chiesa e Potere, 6 ottobre 1974, Corriere della Sera)
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II.
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Il “nuovo modo di essere gramsciano” di Pier Paolo Pasolini
1. Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini La lingua è la spia dello spirito.1 I potenti […] che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire […]. Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua la pietra dello scandalo. […] La loro lingua è la lingua della menzogna.2
Nell’ampia bibliografia critica esistente su Pasolini gli studi che hanno messo a fuoco le sue riflessioni sui rapporti tra lingua e potere sono pochi;3 eppure, l’analisi delle diverse forme del linguaggio umano e dei suoi poteri, la questione dei rapporti tra lingua e dialetti, con i suoi nessi stretti con la politica e la società, come rilevato per primo da Tullio De Mauro4, occupano un posto centrale nell’opera del poeta e attraversano tutti i suoi scritti. Il Volgar’eloquio5, oltre ad essere il tema del suo ultimo intervento pubblico, è stato al centro dei suoi interessi fin dagli anni giovanili, quando era «un linguista ossessionato».6 Indubbiamente con gli anni Pasolini ha affinato gli strumenti della sua analisi e non ci vuol molto a cogliere le differenze esistenti tra l’articolo Dialet, lenga e stil, pubblicato nel 1944 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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su una rivistina provinciale friulana, ed i saggi e gli articoli dei decenni successivi. D’altra parte chi, fin dagli anni ‘50, aveva concepito l’attività critica come una verifica continua, un continuo adattamento del periscopio all’orizzonte dei fenomeni7, contro gli ideologi d’ogni tipo che hanno sempre fatto il contrario, era particolarmente predisposto a cogliere e decifrare i segni dei tempi. Così Pasolini è stato tra i primi ad intravedere gli albori di una nuova epoca storica che, oltre a cancellare i tratti dell’antica civiltà contadina, caratterizzante gran parte dell’Italia ancora nei primi anni ‘60, avrebbe finito per mutare «antropologicamente» gli stessi italiani.8 La valutazione critica della complessa opera pasoliniana, è ancora oggi controversa. Il carattere non sistematico dei suoi scritti, il loro continuo sforare i tradizionali confini disciplinari, prestano il fianco a letture e interpretazioni diverse. Nessuno può avere la pretesa di possedere l’unica chiave interpretativa giusta. Ogni interpretazione deve essere consapevole della propria parzialità ed essere offerta alla discussione come ipotesi di lavoro. Tutti hanno riconosciuto il legame stretto esistente tra vita e opera in Pasolini, tanto che ad alcuni egli è apparso come la «dimostrazione vissuta», un «martire», nel senso etimologico della parola, dei propri pensieri.9 Ma non tutti hanno colto la continuità di fondo che c’è nella sua opera. Chi scrive ritiene che sia, quanto meno, discutibile sostenere che, a partire dagli anni ‘70, si delinei un “nuovo Pasolini”.10 È stato, peraltro, lo stesso poeta a segnalare questa continuità, sia nella famosa lettera aperta indirizzata ad Italo Calvino nel luglio del 1974, che sarà esaminata più avanti, sia nella Nota introduttiva agli Scritti corsari, inspiegabilmente trascurata dalla critica,11 i cui passaggi chiave si ripropongono di seguito: La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. 104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). […]. Mai mi è capitato nei miei libri, più che in questo di scritti giornalistici, di pretendere dal lettore un così necessario fervore filologico. Il fervore meno diffuso del momento. Naturalmente, il lettore è rimandato […] ai testi degli interlocutori con cui polemizzo o a cui con tanta ostinazione replico o rispondo. Inoltre, all’opera che il lettore deve ricostruire, mancano del tutto dei materiali […] fondamentali. Mi riferisco soprattutto a un gruppo di poesie italo-friulane […]. Non potevo raccogliere qui quei versi, che non sono “corsari” (o lo sono molto di più).12
Le poesie italo-friulane, cui si fa cenno, non sono quelle famose del 1941-42, ma un gruppo di versi, meno noti, scritti tra il 1973 e il 1974, che si richiamano ai precedenti. Nell’Autopresentazione di tutti i suoi versi friulani, editi da Einaudi nel 1975, con il titolo La nuova gioventù, lo stesso Pasolini, rivendica ironicamente il diritto a diventare «un po’ diversi» in trent’anni e ammette di sentirsi ossessionato dal pensiero di «non aver detto e non poter dire la parola ultima e definitiva, o almeno precisa, sull’unica cosa che mi sta a cuore».13 L’affermazione del poeta, così troncata nel testo, risulta assai enigmatica. Ma Pasolini non sempre è stato chiaro. Egli ha fortemente subito il fascino dell’enigma e del mistero. D’altra parte era convinto che «bisogna essere folli per essere chiari» e che «alcune cose si vivono soltanto; o, se si dicono, si dicono in poesia».14 Non casuale appare, inoltre, il fatto che nell’articolo pubblicato dal Corriere della sera nel novembre 1974, col titolo Che cos’è questo golpe?, Pasolini segua lo stesso metodo ed eserciti proprio quel fervore filologico, sopra richiamato, nel tentativo di spiegare alcuni dei misteri italiani: Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.15
Nelle pagine che seguono si analizzerà l’opera di Pasolini, cercando di mostrare com’egli sia riuscito a rompere il circolo perverso che lega il potere della lingua alla lingua del potere; come sia riuscito a trovare parole chiare per svelare «le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia».16 Si cercherà, inoltre, di applicare il metodo pasoliniano per «rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta», «ricongiungere passi lontani che però si integrano», «ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero», facendo riferimento, con particolare riguardo, agli articoli apparsi su giornali e periodici diversi, nell’arco di trent’anni, evidenziandone la sostanziale coerenza, ma senza «sollecitare i testi»17 o chiudere gli occhi di fronte alle contraddizioni del pensiero dello scrittore che, comunque, risultano sempre feconde.18
2. La scoperta del mondo contadino Dalla poesia alla politica (1943-1949)
Fontana di aga dal me paìs. A no è aga pì frescia che tal me pais. Fontana di rustic amour.19
Poesie a Casarsa è il titolo del primo libro di Pasolini, pubblicato a sue spese, dalla Libreria Antiquaria Landi di Bologna nel luglio 1942. Pier Paolo ha appena vent’anni e studia lettere nell’Università della sua città natale. In quegli anni non poteva aver letto Gramsci, allora ancora inedito; ma a Bologna ha studiato filologia romanza e ha avuto modo di conoscere gli studi del goriziano Graziadio Isaia Ascoli che, oltre a dare una chiara 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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spiegazione delle ragioni storico-culturali che hanno condotto il fiorentino a diventare lingua nazionale, si era anche soffermato ad analizzare la posizione singolare delle diverse parlate friulane rispetto agli altri idiomi della penisola.20 Casarsa è il paese friulano dov’è nata la madre del poeta e dove quest’ultimo trascorreva le vacanze estive. Ma Casarsa e il Friuli, fino a quel momento, sono più un mito che una realtà21 come riconosce lo stesso Pasolini: Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna senza conoscere neanche un poeta in questa lingua e invece leggendo abbondantemente i provenzali. Allora (nel ‘41-‘42) per me il friulano era un linguaggio che non aveva nessun rapporto che non fosse fantastico con il Friuli.22
Eppure questo libretto, che a prima vista sembra fatto a tavolino «col Pirona, dizionario friulano-italiano accanto»23, colpì immediatamente l’attenzione di un lettore attento come Gianfranco Contini, allora docente di filologia romanza all’Università di Friburgo. Nella famosa recensione che ne fece, censurata dall’Italia fascista che mal tollerava le realtà regionali con i loro dialetti, il critico oltre a fiutare «l’odore […] della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare», intravedeva profeticamente nell’opera del giovane autore lo «scandalo ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale».24 Sarà lo stesso giovane Pasolini, nell’articolo dell’aprile 1944 intitolato Dialet, lenga e stil, a spiegare, col suo tipico stile pedagogico che ritroveremo intatto ancora negli ultimi anni della sua vita,25 la radicale novità rappresentata dal suo uso inedito della lingua friulana, rispetto alla tradizione dialettale, che nel Friuli aveva avuto come massimo esponente Pietro Zorutti. Ne ripropongo i passi che mostrano, tra l’altro, come egli avesse perfettamente assimilato la lezione dell’Ascoli: 107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Quando parlate […] adoperate quel dialetto che avete imparato da vostra madre […]. E sono secoli che i bambini di questi posti succhiano dal seno delle loro madri quel dialetto […]. E per impararlo non servono sillabari, libri, grammatiche; lo si parla così, come si mangia o si respira. Nessuno di voi saprebbe scriverlo, questo dialetto, e, quasi quasi, neanche leggerlo. Ma intanto lui è vivo, […] nelle vostre bocche, […], nei petti dei giovanotti […]. Così il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi, è solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse […] l’idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l’ambizione di dire cose più elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? […] allora quel dialetto diventa “lingua”. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. Così […] l’Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in latino […], un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l’emiliano, il siciliano, il lombardo […]. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. […] Purtroppo il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza […] Verrà bene il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione! […].26
Oltre che un’«ottima lezione di filologia romanza»27, il testo è uno dei primi documenti in cui Pasolini espone la sua poetica. Da esso trapela, insieme alla fede romantica nella naturale forza educatrice della poesia, la convinzione che il dialetto, usato per esprimere grandi sentimenti, può trasformarsi in lingua e quindi in poesia.28 Sul periodo vissuto in Friuli il poeta tornerà più volte negli 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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anni della maturità. Queste sue dirette testimonianze vanno tenute presenti, non tanto per la ricostruzione obiettiva dei fatti, quanto piuttosto per capire il senso e il valore che queste esperienze hanno avuto per lui. Particolarmente significativo appare, da questo punto di vista, quello che dirà, alla fine degli anni ‘60, a Jean Duflot: Il friulano non è la mia “lingua” materna […]. In effetti, si parlano tre “lingue” in Friuli: il vecchio friulano, che è una lingua completa, autonoma, come può essere il catalano o il bretone; il veneziano, parlato dalla piccola borghesia; e l’italiano. Io mi sono imbevuto del dialetto friulano in mezzo ai contadini, senza mai però parlarlo veramente a mia volta. L’ho studiato da vicino solo dopo aver iniziato a fare tentativi poetici in questa lingua. Qualcosa come una passione mistica, una sorta di felibrismo, mi spingevano ad impadronirmi di questa vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali che scrivevano in dialetto, in un paese dove l’unità della lingua ufficiale si era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica… Avevo diciassette anni. Scrivevo queste prime poesie friulane quando era ancora in piena voga l’ermetismo, il cui maestro era Ungaretti […]; in poche parole, tutti i poeti ermetici vivevano nell’idea che il linguaggio poetico fosse un linguaggio assoluto. […]. Presi molto ingenuamente il partito di essere incomprensibile, e scelsi a questo fine il dialetto friulano. Era per me il massimo dell’ermetismo, dell’oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è successo ciò che non mi aspettavo. La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani […] Col passare del tempo avrei imparato ad usare il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica.29
Questa testimonianza - che conferma l’altra: «I primi anni più importanti della mia vita sono contadini, come lo sono, nel significato letterale della parola, le mie prime prove poetiche nel periodo friulano»30 - è illuminante anche perché consente 109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di capire meglio come la scoperta del mondo contadino sia in Pasolini mediata dalla lingua e come tale mediazione abbia contribuito a creare il primo nucleo del mito della civiltà contadina nella sua opera. In questo contesto va inserita la fondazione della Academiuta di lenga furlana nel febbraio del 1945. Nell’atto costitutivo si ritrova l’ennesimo rimando alle teorie linguistiche ascoliane e all’ideologia delle «Piccole Patrie»: Stabilito filologicamente (cioè con un volontario ritorno alle teorie ascoliane) che il nostro friulano non può essere considerato un dialetto […]. Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumania e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza.
Nonostante il nome altisonante dato a questa sua ultima iniziativa, in polemica con il circolo filologico di Udine, Pasolini si proponeva di rompere con la tradizione friulana folcloristica, nel senso deteriore del termine, per favorire la nascita di una nuova coscienza civile e culturale. Lo spirito è, quindi, quello antiaccademico di sempre. Con il cugino Naldini, il pittore Zigaina ed altri, continua a registrare le parlate locali in interminabili uscite in bicicletta, curioso di conoscere culture diverse da quella piccolo borghese in cui è stato educato. Così lo stesso poeta - iniziato «per nascita» al «mistero di quella lingua speciale ch’è la lingua letteraria»31, altrove definita «il nuovo latino»32 - s’impegna attivamente a dare dignità di lingua al dialetto parlato dai contadini di Casarsa fino ad usarlo, come vedremo tra poco, per comunicare e scrivere, anche in manifesti murali, le sue nuove convinzioni politiche. Nonostante il suo sempre maggiore radicamento nella realtà friulana, Pasolini non perde i contatti con il suo primo recensore, Gianfranco Contini, e con la cultura europea. Così nel giugno del 1947 pubblica il Quaderno romanzo che accoglie una antologia di poesia catalana, inviatagli dal monaco antifran110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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chista Carles Cardó, conosciuto tramite Contini. Si tratta di uno dei documenti che meglio spiegano come la giovanile passione per la filologia avesse in nuce un risvolto politico. Particolarmente eloquente appare la presentazione che ne fa: La dittatura fascista di Franco ha condannato la lingua catalana al più duro ostracismo, espugnandola non solo dalla scuola e dai tribunali, ma dalla tribuna, dalla radio, dalla stampa, dal libro e perfino dalla Chiesa. Ciò nonostante, gli scrittori catalani seguitano a lavorare nelle catacombe in attesa del giorno […] in cui il sole della libertà splenderà di nuovo su quella lingua, erede della provenzale, che fu la seconda in importanza - dopo l’italiana - nel Medio Evo e che oggi è parlata in Spagna, in Francia […] e in Italia […] da non meno di sei milioni di persone.33
Come si vede il giovane Pasolini fonda il diritto all’autonomia politica della Catalogna sulla riconosciuta differenza della lingua catalana rispetto alla castigliana. Con analoghe argomentazioni, un anno prima, lo stesso Pasolini aveva rivendicato il diritto all’autonomia politica del suo Friuli, in diversi articoli pubblicati in giornali e periodici locali.34 Il 1947 è l’anno in cui il nostro autore non solo aderisce al PCI, ma diventa segretario della sezione comunista di San Giovanni a Casarsa. Pertanto, in questi primi anni della sua formazione, ci troviamo di fronte a un Pasolini che è insieme un poeta, un filologo e un attivista politico con una fortissima vocazione pedagogica. Anche se le ricostruzioni autobiografiche vanno sempre prese con il beneficio dell’inventario, ci sembra attendibile quello che Pasolini ha scritto di sé a proposito della decisione d’iscriversi al PCI nel 1947, due anni dopo l’uccisione del fratello Guido da parte di un gruppo di partigiani comunisti:35 Ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.36 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Anche se non conosciamo il modo in cui Pasolini partecipò alle lotte dei braccianti friulani nell’ultimo dopoguerra, rimane un dato di fatto il continuo rimando a questa esperienza che il poeta fa in più luoghi e che costituisce lo sfondo de Il sogno di una cosa. Particolarmente significativo sembra quanto riferito l’8 luglio 1961 su Vie Nuove, soprattutto perché rivela il percorso lungo e complicato seguito dal giovane: Allora io vivevo in Friuli, che era un po’ un paese ideale, quasi fuori dallo spazio e dal tempo, una specie di sentimentale e poetica Provenza, per me, che scrivevo poesie rimbaudiane o verlainiane o lorchiane in friulano. Quei mesi di lotte contadine, a cui ho fisicamente partecipato, occhi e orecchi ben tesi, hanno trasformato il Friuli in un paese reale, e i suoi abitanti da antichi provenzali in esseri viventi e storici. Sembrerebbe una cosa così semplice: invece è stata lunga e complicata: ho dovuto compiere con la ragione tutto un viaggio di ritorno dal territorio in cui mi ero addentrato con la più folle, turbata e univoca delle fantasie […] è stata la diretta esperienza dei problemi degli altri che ha trasformato radicalmente i miei problemi: e per questo io sento sempre alle origini del comunismo di un borghese una istanza etica, in qualche modo evangelica.37
Tra i pochi documenti della breve ma intensa militanza di Pasolini nelle file del PCI ci sono rimasti alcuni manifesti, scritti di suo pugno in friulano, verso la fine degli anni ‘40, per le campagne elettorali condotte dalla sezione che dirigeva. La maggiore sorpresa leggendoli è constatare come in essi si ritrovi, tra l’altro, la prima espressione di un tema particolarmente caro al Nostro - il rapporto che lega il cristianesimo al comunismo - ripreso lungo tutti gli anni ‘60 fino agli ultimi suoi scritti. A titolo di esempio, ecco di seguito il testo di uno di questi manifesti, intitolato L’anima nera, scritto nella lingua parlata realmente dai contadini di Casarsa, ben lontana da quella concepita in laboratorio per scrivere le sue prime poesie: Se e sia duta sta pulitica ch’a fan i predis cuntra di nualtris puares? A saressin lour cha varesin da vei il nustri stes penseir; a ni 112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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par che i nustri sintimins a sedin abastanza cristians! Sers democristians a si fan di maraveja se i Comunisc a van a Messa quant che i comunisc a podaressin fasì a mondi di pì maraveja par jodi chei democristians ch’a van a Messa cu l’anima nera coma il ciarbon.38
In queste parole di denuncia dell’ipocrisia dei preti democristiani del tempo si intravede la stessa motivazione etica della critica serrata che, negli anni successivi, Pasolini condurrà contro l’intera classe dirigente nazionale. Questi manifesti pare che siano stati particolarmente efficaci se, come ha rilevato Enzo Siciliano, contribuirono a far vincere le elezioni ai comunisti di San Giovanni, in una regione dove la DC aveva la maggioranza assoluta. Al contempo dovettero suscitare invidie e malevole attenzioni. Così il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per presunta corruzione di minorenni. Prima ancora della sentenza giudiziaria che lo assolverà, arriva l’espulsione dal partito per indegnità morale con un terribile comunicato pubblicato su l’Unità: Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese.
Nonostante il grande dolore provato dal giovane Pasolini, decisa e puntuale sarà la sua replica: Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola.39
Secondo Roberto Roversi questa dolorosa esperienza va considerata «nodale» nella storia di Pasolini.40 L’essere stato 113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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messo al bando della società civile, l’aver perso il lavoro, l’essere stato espulso dal partito nel quale militava, l’aver sentito su di sé la condanna e l’esclusione dalla sua classe di appartenenza, ha sicuramente contribuito a farlo sentire particolarmente vicino al mondo del sottoproletariato romano negli anni ‘50, al residuo mondo contadino sopravvissuto nel Meridione d’Italia degli anni ‘60, e a tutti i “dannati della terra” fino all’ultimo dei suoi giorni.
3. La scoperta di Gramsci Le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me.41
Pasolini ha dichiarato di aver letto Gramsci, per la prima volta, nel biennio 1948-1949, anni in cui cominciano a vedere la luce, seppure in modo incompleto, i suoi scritti42. Ma l’assimilazione critica del pensiero del sardo è successiva al periodo indicato. Ciò è dimostrato, tra l’altro, da un testo inedito del marzo 1949,43 che affronta il tema classico dei rapporti tra cultura e politica, senza alcun riferimento al lessico e alla filosofia gramsciana, e da una lettera a Carlo Betocchi dell’ottobre 1954, dove l’Autore svela con candore le proprie incertezze ideologiche.44 È probabile che, in un primo momento, Pasolini sia rimasto colpito dalla statura morale dell’uomo imprigionato dal regime fascista: «tanto più libero - come scriverà - quanto più segregato dal mondo, fuori del mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero.»45 L’immagine di un Gramsci leopardiano torna in un passaggio centrale dell’intervista rilasciata ad Arbasino nel 1963, dove si afferma: «L’unico antenato spirituale che conta è Marx e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci».46 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Solo a partire dai primi anni ‘60 è possibile trovare, negli scritti di Pasolini, tracce significative del pensiero gramsciano. Soprattutto se si considera l’aspetto più problematico di esso, ch’egli è stato tra i primi a cogliere. Occorre, infatti, tenere costantemente presente che il Gramsci di Pasolini non è il Gramsci ufficiale del PCI, ma il Gramsci studioso del linguaggio e del senso comune che riesce a vedere, anche nelle più elementari espressioni del linguaggio umano, una particolare visione del mondo.47 Da questo punto di vista, l’intera rubrica che curerà, dal 1960 al 1965, sul settimanale comunista Vie Nuove, diretto da Maria Antonietta Macciocchi, ha un’inconfondibile impronta gramsciana. Non è un caso che, in questo periodico popolare, intrattenendo uno straordinario dialogo con lettori spesso incolti, a proposito di questioni linguistiche, elogi il filologo Isaia Graziadio Ascoli e, una volta asserito che «Gramsci non è mai normativo», citi a memoria un passo dei Quaderni: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi».48 Quello praticato da Pasolini in Vie Nuove è un esempio di giornalismo rivoluzionario, assai vicino al modello gramsciano.49 Forse, persino superiore allo stile corsaro degli anni ‘70 che rimane legato al modello tradizionale dell’intellettuale vate o profeta, dei cui limiti Pasolini mostra di essere ben consapevole fin dal 1962. Infatti, ad un lettore che gli chiede se ritiene possibile che un grande scrittore, denunciando le ingiustizie, possa mettere in crisi la società, replica: No, non credo possibile che l’opera di uno solo, per quanto grande, possa porre in crisi uno stato di cose. […]. La democrazia ha abituato, bene o male, alla discussione e alla partecipazione: lo scrittore-oracolo non è concepibile in tempi di produzione in serie. È una figura del passato (se mai ce ne sono stati): tipica di una civiltà agricolo-artigianale. Ma anche ammesso che ci fosse uno scrittore di tale levatura […] da poter mettere in crisi una società, egli verrebbe inesorabilmente sconfitto, oggi, dalla poten115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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za industriale, dalle catene dei giornali e dei mezzi di diffusione conservatori e reazionari.50
Un critico severo ed esigente, come Franco Fortini, ha giustamente individuato proprio nelle pagine di Vie Nuove il Pasolini migliore.51 Lo stesso Pasolini, nel dicembre 1962, poco prima di partire per quel viaggio in Africa che lascerà un segno indelebile nella sua vita,52 nel congedarsi dai lettori della sua rubrica, la definirà «uno dei punti fermi di questi ultimi anni: addirittura, in certi momenti neri, un’ancora di salvezza».53 Rileggendo queste pagine - scritte, peraltro, in una delle fasi più convulse e creative dell’autore che aveva trovato nel cinema una nuova via per esprimersi - colpisce la straordinaria capacità di ascolto insieme alla volontà di capire e di essere capito. Nei dialoghi coi lettori Pasolini parlerà di tutto; ma due costanti, fra loro congiunte, predomineranno: la riflessione sui rapporti tra comunismo e cristianesimo e l’analisi dei rapporti tra le diverse forme del linguaggio umano e le cose. Va precisato, comunque, che il Pasolini di quegli anni è talmente lontano dalla vulgata marxista-leninista, allora in voga, da essere considerato eretico, non solo dai lettori più sprovveduti, ma persino dagli intellettuali marxisti più aperti.54 A tutti replica, con grande mitezza ed efficacia, lasciandoci pagine esemplari. Così, a chi gli chiede di rompere con il proprio passato piccolo-borghese, risponde: La sua è una richiesta mistica. Lei pensa l’ideologia come un’ascesi. Questi ‘distacchi’ dal proprio io, dal proprio passato (che è poi la storia), sono tipici delle conversioni ‘nevrotiche’ che hanno caratterizzato tante santità. I marxisti non sono dei santi: sono degli uomini. La loro vita, la loro opera, la loro lotta si svolge nella storia: e la storia è una mescolanza inscindibile di passato, presente e futuro.55
Lo stesso concetto verrà ripreso piú concisamente nell’articolo del 3 maggio 1962 intitolato Cultura contro nevrosi: 116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Essere marxisti, oggi, in un paese borghese, significa essere ancora in parte borghesi. Finché i marxisti non si renderanno conto di questo, non potranno mai essere del tutto sinceri con se stessi. La loro infanzia, la loro formazione, le loro condizioni di vita, il loro rapporti con la società, sono ancora oggettivamente borghesi. La loro ‘esistenza’ è borghese, anche se la loro coscienza è marxista.56
Pasolini è sempre più convinto che il marxismo non va chiuso in un sistema fisso e dogmatico, altrimenti diventa la copia capovolta del dogmatismo clericale. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, la replica a Lucio Lombardo Radice che, nel luglio 1962, gli attribuisce le sommarie equazioni Cristo = Marx e DC = fascismo: Io non scrivo solo questa rubrica “parlata”, del resto… Mi integri con gli altri miei scritti, e non mi faccia dire quello che non voglio dire! Non ho mai inteso inglobare Gesù in Marx! […]. Ho sostenuto poi, anche, che nulla di ciò che è stato sperimentato storicamente dall’uomo, può andare perduto: e che quindi non possono andare perdute neanche le parole di Cristo. Esse sono in noi, nostra storia. E io sono ancora (e ancora ingenuamente) convinto che per un borghese una buona lettura del Vangelo è sempre un fertilizzante per una buona prassi marxista. Quanto alla “DC come nuovo fascismo”, io ho solo citato il mio corrispondente con una certa simpatizzante ironia. Non volevo dire che la DC è, alla lettera, un nuovo fascismo. Le faccio notare, ad ogni modo, che la borghesia italiana che ha espresso il fascismo è la stessa che esprime la DC: la sfido a elencare sostanziali differenze nel campo della scuola, della magistratura, della polizia, della pubblica amministrazione, dei rapporti con la potenza clericale del Vaticano. E la sfido a dimostrarmi anche le ragioni vere, culturali nel senso gramsciano della parola, per cui la DC può essere definita, come lei fa, un “grande partito cattolico”. Quale cultura ha mai espresso?57
Sul valore rivoluzionario del Cristianesimo Pasolini tornerà più volte, soprattutto, nel 1964, dopo l’uscita del suo Il Vangelo secondo Matteo, dedicato alla memoria di Papa Giovanni XXIII. Il film, nonostante i riconoscimenti della critica, verrà 117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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accolto con freddezza e diffidenza dai settori più retrivi del mondo cattolico e comunista. E il poeta sarà costretto a dare spiegazioni anche su Vie nuove: Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco cattolico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’amore (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddizione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta.58
Papa Giovanni, insieme a Kennedy e Kruscev, costituirà nei primi anni ‘60 la principale fonte di speranza di un mondo nuovo; e Pasolini condividerà con milioni di uomini questa speranza. In una deliziosa pagina, scritta sullo stesso periodico nell’ottobre del 1964, il poeta non manca di notare, tra le altre cose, l’influenza dell’amata filologia nella formazione del “papa buono”: Non c’è nulla di più follemente aberrante del razzismo. Ora, da parte dei comunisti verso i preti, e da parte dei preti verso i comunisti, c’è una specie di atteggiamento razzistico: essi, volendolo o no, cedono a una specie di tentazione discriminatoria, che svaluta l’interezza umana e storia dell’altro, lo destituisce di realtà, lo dissocia. […] Come comunista anch’io non sono immune da questa malattia inconscia, e l’anticlericalismo serpeggia come un verme dentro di me, a succhiare il sangue dell’altro fino a renderlo ombra, simbolo, schema di un insieme di cose che mi sembrano ingiuste, di un mondo che rifiuto […] Papa Giovanni era incapace di discriminare, di vedere nell’uomo l’altro, il nemico per definizione […]. Questo voleva significare il suo sorriso […]. Ho saputo in questi giorni che quando era a Istanbul, egli frequentava 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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le lezioni di filologia e di critica stilistica di Auerbach; e questo mi spiega molte cose, non solo il suo particolare modo di fare “lo spirito” (che è tipico della persona raffinatamente specializzata), ma del “distacco” luminoso che egli aveva dalle cose della vita, dello sguardo globale che egli gettava sul mondo, al di là delle sue folli discriminazioni.59
L’articolo si conclude con due affermazioni che diventeranno pietre angolari nella storia del dialogo tra marxisti e cristiani in Italia: 1. «Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo»; 2. «Il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma il materialismo borghese».60 Pasolini è rimasto talmente colpito dalla lettura del Vangelo da trarne spunto, oltre che per uno dei suoi film più belli, per una Preghiera su commissione, raccolta in Trasumanar e organizzar, dove riprende il discorso evangelico sulle beatitudini: Caro Dio, liberaci dal pensiero del domani. […] l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani […] Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi.61
La figura del Cristo rimarrà sempre un punto di riferimento per Pasolini; in alcuni momenti persino il principale modello, accanto a Gramsci, della necessaria unità tra teoria e prassi. In particolare il binomio scandalo-follia (tratto dalla paolina lettera ai Corinti, 1-23: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i Gentili») ricorre frequentemente nelle sue pagine, applicata alle proprie o altrui esperienze come criterio di misura della validità autentica di gesti, parole, fatti artistici che si pongono spesso come “scandalo e follia”, rispetto al sistema socio-politico e ai codici linguistici dominanti. Su questo ultimo punto, tuttavia, dato che finora è stata sempre evidenziata la fondamentale presenza di Gramsci nella vita 119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
e nell’opera di Pasolini, occorre precisare che il poeta friulano è andato certamente oltre il pensatore sardo.
4. Nuove questioni linguistiche e crisi del marxismo
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Secondo il pensiero di Gramsci, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà.62
I testi che ancor più rivelano la creativa assimilazione del pensiero gramsciano da parte di Pasolini, sono quelli scritti tra la fine del 1964 e i primi mesi del 1965, raccolti successivamente nel capitolo iniziale, titolato Diario linguistico, di Empirismo eretico. Il primo di essi viene pubblicato il 26 dicembre 1964 su Rinascita col titolo Nuove questioni linguistiche e il suo contenuto è anticipato in Vie Nuove, il mese precedente, con un esplicito riferimento al sardo: Si ricordi Gramsci: ogni volta che si ripropone la questione della lingua, vuol dire che si ripropongono problemi sociali e politici di fondo, diceva Gramsci, pressappoco […] spero di avere finalmente centrato l’argomento.63
L’avvio del saggio è piuttosto incerto e sfocato e tradisce l’origine orale del testo; l’argomentazione diventa più convincente quando si comincia a spiegare le ragioni per le quali «in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale»: La lingua italiana è la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale: […] è la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, insomma della sua lotta di classe.64
Seguono un cenno alla dualità tra lingua parlata e lingua letteraria, la prima dominata dalla pratica la seconda dalla tra120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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dizione, ed una sommaria e non sempre persuasiva analisi dei rapporti tra lo stile di alcuni scrittori del Novecento, come Di Giacomo, Cassola, Bassani, Moravia, Calvino, Morante, Gadda e Fortini, e la koinè italiana. La parte più originale del saggio è quella centrale che, analizzando il linguaggio politico e giornalistico, trasmesso dai mass-media, coglie in essi le spie dei cambiamenti profondi in corso nella società italiana. Pasolini si sofferma, in particolare, ad analizzare il brano di un discorso di Aldo Moro, trasmesso dalla TV, in occasione dell’inaugurazione dell’Autostrada del sole, e sembra utile riportare le sue acute osservazioni anche per la loro straordinaria attualità in tempi di crescente tecnocrazia: Non si tratta di un discorso a tecnici come il quantitativo di terminologia tecnica potrebbe far credere; si tratta di un discorso a un pubblico normale, trasmesso per televisione a un numero di italiani di tutte le condizioni, le culture, i livelli, le regioni. […] Le sue frasi crudamente tecniche hanno addirittura una funzione di captatio benevolentiae: sostituiscono quei passi che un tempo sarebbero stati di perorazione e enfasi. Infatti Moro strumentalizza l’inaugurazione dell’autostrada per fare un appello politico agli italiani […]: quello di cooperare al superamento della congiuntura. […] Una tale raccomandazione nell’italiano che noi siamo abituati a considerare nazionale, avrebbe richiesto un tour de force dell’ars dictandi […]. Qualcosa di fondamentale è dunque successo alle radici del linguaggio politico ufficiale.65
Per Pasolini la tecnologia dominante nelle società altamente industrializzate ha trasformato anche il linguaggio politico. Mentre, fino a ieri, l’osmosi con il latino, tendeva a differenziare il linguaggio politico dagli altri linguaggi, la tecnologia tende ad omologare tutto. Televisione e giornali sono stati i primi a registrare questo cambiamento epocale per il quale «centri creatori, elaboratori e unificatori di linguaggio, non sono più le università, ma le aziende».66 121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Un ulteriore segno della rivoluzione in corso è dato dal «potere di suggestione linguistica enorme che hanno gli slogan nel linguaggio della pubblicità»; Pasolini sa che si tratta di un linguaggio vero e proprio, i cui principi cominciano a passare nella stessa lingua parlata; anche nel linguaggio della pubblicità: «il principio omologatore e direi creatore è la tecnologia».67 Il fenomeno tecnologico, secondo Pasolini, investe «come una nuova spiritualità», dalle radici, la lingua in tutte le sue estensioni, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi particolarismi. E questo accade perché «è finito un tipo di società […] e ne è cominciato un altro».68 Nel momento in cui Pasolini pubblica il saggio, non era in corso alcun dibattito sui mutamenti linguistici in atto nella società italiana. E, in effetti, il nostro Autore affronta la “questione della lingua” a partire dai profondi sconvolgimenti sociali che nella prima metà degli anni ‘60 stavano cambiando l’Italia (crisi della secolare civiltà contadina, urbanesimo, emigrazioni interne ed esterne, imborghesimento della classe operaia, esplosione dei mass-media). E, probabilmente sarà proprio lo sconfinamento nel terreno sociologico, a fare arricciare il naso ai linguisti ed ai semiologi del tempo, chiusi nelle loro fortezze e certezze disciplinari. Insieme all’avvento del neocapitalismo, Pasolini in Italia è tra i primi a segnalare la crisi dei partiti che si richiamano al marxismo. Così sarà proprio sulle pagine a lui molto care del settimanale comunista Vie Nuove che nell’estate del 1965 pubblica l’articolo Due crisi di cui trascrivo i passi salienti: Quello del capitalismo è un violento sviluppo, che, […] si presenta addirittura, al limite, come “rivoluzione interna”, che viene a modificare addirittura certe strutture del capitalismo classico: c’è per esempio nei paesi capitalistici molto evoluti un superamento delle strutture familiari e confessionali. La crisi del marxismo è proprio dovuta a questo sviluppo in qualche modo rivoluzionario del neocapitalismo. 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Il bersaglio contro cui il marxismo ha sparato, metaforicamente e realmente, in tutti questi decenni, sta cambiando […]. Da qui la crisi dei partiti marxisti. Di qui la necessità di prenderne coscienza, fin che il marxismo resta la vera grande alternativa dell’umanità.69
Pasolini è convinto che la crisi del marxismo è determinata, da un lato, dallo «sviluppo in qualche modo rivoluzionario del neocapitalismo», dall’altro, dal persistente stalinismo, sopravvissuto a Stalin e agli stessi Kruscev e Togliatti. Anche per questo chiederà al PCI «un’autocritica reale degli errori del passato».70 Ma, pur rimanendo senza risposta, costretto ad interrompere la collaborazione con Vie nuove, il poeta continuerà a cercare dentro il PCI ed il suo eterodosso marxismo la via d’uscita dalla crisi. Pasolini sa comunque che «nessuna formula è mai buona per superare i momenti critici della realtà» e, dal momento che «ogni cosa si muove col muoversi della storia» e «non esistono cose immobili», si richiama ancora una volta a Gramsci per esortare tutti a «guardare in faccia la realtà così com’è».71 Per questo il laico Pasolini, spiazzando ancora una volta i suoi principali interlocutori, additerà come rivoluzionaria l’opera di un prete, don Milani, e, in particolare, la sua Lettera ad una professoressa, pubblicata nel maggio del 1967. Proprio di recente è stato recuperato un documento che attesta la prontezza con cui egli ne comprese il valore. Il 17 e 18 ottobre 1967, infatti, partecipando a una discussione con i ragazzi della scuola di Barbiana, organizzata dalla Casa della Cultura di Milano, Pasolini dirà tra l’altro: «C’è in questo libro una delle definizioni della letteratura più belle che io abbia mai letto, cioè la poesia sarebbe un odio che una volta approfondito e chiarito diventa amore».72 E, qualche anno dopo, conversando con Jean Duflot, collegherà, in modo particolarmente significativo, la sua attenzione nei confronti di don Milani al suo antico impegno a favore del dialogo con il mondo cattolico progressista: 123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Credo di avere contribuito al dialogo, perché difficilmente un uomo di sinistra oggi può fare altrimenti. Il cristianesimo, e soprattutto il cattolicesimo, rimangono una potente struttura ideologica, specie presso i contadini dell’Italia meridionale e dell’America latina. Ora, sia in America del Sud che in Italia, certi gruppi di cattolici tendono a costituire una sorta di sinistra, tutt’altro che ostile al socialismo, anzi. Alcune esperienze, come quelle di Torres e di don Milani, costituiscono incoraggianti ragioni per proseguire questo dialogo. Prendiamo il caso di questo prete, don Milani: ha fondato una scuola per i figli dei contadini, per i piccoli montanari, tra Bologna e Firenze. È questo un fatto molto rilevante. Non c’è oggi rivoluzione, senza partecipazione dei contadini […] E in questo paese mi pare che i contadini abbiano, teoricamente, probabilità di diventare rivoluzionari. La nuova sinistra italiana sta nascendo da questa presa di coscienza delle masse cattoliche contadine. L’esperienza di don Milani negli Appennini è un’esperienza rivoluzionaria. E forse sarà il ripetersi, il diffondersi di tali esperienze a impedire al Nord di colonizzare i contadini del Sud: il Nord mira a farne dei piccolo-borghesi consumatori […] per integrarli nel sistema.73
Questo testo è particolarmente importante, in quanto documenta come, fino alle soglie degli anni ‘70, Pasolini confidi ancora nel residuo mondo contadino, come unica fonte di resistenza al consumismo neocapitalista, e consideri ancora possibile la rivoluzione. È vero, comunque, che, anche in questa intervista, pubblicata in Francia prima che in Italia, le contraddizioni non mancano. Infatti più avanti, ed in modo particolare nel capitolo intitolato L’apocalisse secondo Pasolini, il poeta appare molto più problematico: La società non ha risolto, più di quanto sia riuscito ad Edipo, il mistero della sua esistenza. Io guardo la faccia d’ombra della realtà […].Alcuni anni fa, pensavo che i valori sarebbero sorti dalla lotta di classe, che la classe operaia avrebbe realizzato la rivoluzione, e che questa rivoluzione avrebbe generato dei valori chiari, giustizia, felicità, libertà…Ora, prima sono stato richiamato alla realtà dalle rivoluzioni russa, cinese, poi da quella cubana. Ogni 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ottimismo beato, incondizionato, mi veniva da allora precluso. Per di più attualmente, il neocapitalismo sembra seguire la via che coincide con le aspirazioni delle “masse”. Così scompare l’ultima speranza in un rinnovamento dei valori attraverso la rivoluzione comunista. Questa speranza è diventata utopia, almeno in me. Per i giovani, forse, è diverso, forse i giovani hanno riscoperto la speranza.74
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5. Pasolini corsaro e luterano È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.75
Pasolini è consapevole di avere rotto una lunga tradizione: da Gramsci ha appreso che «gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani» e sono sempre vissuti «dentro il Palazzo».76 Perciò li considera corresponsabili dell’«orrendo potere» che si è costruito in Italia a partire dalla prima metà degli anni ‘60. La critica contro questo potere, come visto, comincia allora, ma diventa più radicale e serrata, sfiorando talora l’invettiva, negli ultimi anni della sua vita. Per rendersene conto, basta rileggere gli articoli scritti tra il 1973 e pochi giorni prima della sua tragica morte: I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio. Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare, bisogna tapparsi le orecchie. Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia.77
Questo testo, pubblicato il 25 marzo 1975, può considerarsi il manifesto programmatico del Pasolini corsaro e luterano. In esso si trova anche una chiave per comprendere alcune delle ragioni che lo spingono a collaborare contraddittoriamente con due giornali borghesi per continuare la battaglia iniziata quindici anni prima su Vie Nuove. Con i giornali ed i periodici Pasolini ha avuto sempre un rapporto ambivalente. Da un lato li ha disprezzati, convinto com’era della superficialità e della radicale malafede che li contrassegna;78 dall’altro ha saputo usarli come pochi, suscitando invidie e gelosie di cui era ben consapevole: Molti non mi hanno mai perdonato di scriver tra di loro senza essere infeudato ad alcun potere né vincolato dalla legge della sopravvivenza. Il mio vero peccato è di aver esercitato il mestiere di giornalista da polemista e da poeta, nella più totale insubordinazione.79
La verità è che Pasolini non ha mai smesso di svolgere quello che riteneva essere il «primo dovere di un intellettuale», ossia «esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti».80 Particolarmente mirato appare, da questo punto di vista, l’articolo comparso il 9 dicembre 1973 sul Corriere della sera, con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione.81 Qui la TV viene indicata quale principale veicolo di quella che, l’anno successivo, verrà definita la mutazione antropologica degli italiani. Secondo Pasolini neppure il fascismo è riuscito a fare ciò che ha fatto il neocapitalismo con la televisione: il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottopro126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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letarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata a causa del potere della televisione che, già in quegli anni, era entrata in tutte le case: La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. [...]. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. [...] Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.82
Sembra comunque opportuno ricordare che Pasolini, fin dal 1958, in una intervista ad Arturo Gismondi, dal titolo profetico, coglie la «funzione livellatrice» della TV, con la sua potente capacità di diffondere, anche indirettamente, «una visione unitaria della vita e del mondo».83 E nel 1963, conversando con Alberto Arbasino, con una straordinaria preveggenza affermerà: «Si produrrà e si consumerà, ecco. E il mondo sarà esattamente come oggi la televisione - questa degenerazione dei sensi umani - ce lo descrive con stupenda, atroce ispirazione profetica».84 Nello stesso anno arriva nelle sale cinematografiche il film La rabbia.85 In una scena lo speaker del cinegiornale annuncia trionfante che presto gli abbonati della TV saranno «decine di migliaia»; Pasolini lo corregge: «No. Saranno milioni. Milioni di candidati alla morte dell’anima: Il nuovo mezzo è stato inventato per la diffusione della menzogna».86 La televisione occupa un posto centrale anche nei saggi linguistici del biennio 1964-65, precedentemente esaminati. Ad essa, infatti, Pasolini attribuisce anche il merito di avere operato la prima unificazione linguistica nazionale. 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Come si vede, dietro ai giudizi trancianti degli ultimi anni, c’è più di un decennio di riflessioni. Così, lo stesso Pasolini che aveva scoperto «il linguaggio delle cose», negli ultimi mesi della sua vita sperimenta l’impotenza delle sue denunce e della sua pedagogia di fronte alla prepotenza della TV:
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È enorme l’importanza dell’insegnamento della TV, perché altro non fa che offrire una serie di “esempi” […]. Anche se annunciatori, presentatori parlano (e orrendamente) in effetti il vero linguaggio della televisione è simile al linguaggio delle cose: è perfettamente pragmatico e non ammette repliche, alternative, resistenze.87
Bisogna comunque anche ricordare che, pochi giorni prima di morire, in un pubblico dibattito che si analizzerà nella parte conclusiva, Pasolini, nel precisare che tanti equivoci ed incomprensioni del suo pensiero sono stati determinati dal suo stile comunicativo provocatorio e paradossale, smentisce la visione apocalittica che in qualche momento ha dato di sé, sostenendo: «Non ho nulla contro la scuola e la televisione come strumenti. Sono strumenti meravigliosi, la televisione soprattutto. Pensa un po’ cosa potrebbe essere la televisione».88 Il tema della mutazione antropologica degli italiani sarà affrontato dal poeta nell’articolo Gli italiani non sono più quelli, che nella raccolta corsara diventerà Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia. Prendendo spunto dall’esito del referendum sul divorzio, scandalizzando molti suoi amici, Pasolini sostiene che la vittoria del NO è una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano ma anche di Berlinguer e del partito comunista, a cui è ancora vicino.89 A questi rimprovera di non aver capito nulla delle trasformazioni profonde avvenute in Italia negli ultimi dieci anni e, precisamente: 1) che i “ceti medi” sono radicalmente - direi antropologicamente - cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori [...] dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo america128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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no. È stato lo stesso Potere - attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la TV) - a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo. 2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto […].90
Questo articolo suscita un vespaio di polemiche. Pasolini viene accusato di estetismo ed irrazionalismo, di mancanza di senso storico: Calvino91 gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta provinciale e contadina ed altri gli ricorderanno l’elogio della civiltà borghese contenuto nel Manifesto dei comunisti del 1848. Ma il corsaro replica a tutti precisando meglio il suo pensiero: È stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita edonistico che ha determinato il trionfo del NO al referendum. [...] È vero che in tutti questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito che cosa doveva censurare. Doveva censurare per esempio “Carosello”, perché è in Carosello, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, il nuovo tipo di vita che gli italiani “devono” vivere [...] Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un “modello di vita” ha potuto essere propagandato con tanta efficacia [...].92
Ad altri - e a Calvino soprattutto, dal cui intervento si sentì profondamente ferito e offeso - risponderà con una lettera aperta pubblicata da Paese Sera l’8 luglio 1974: Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’“Italietta”? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.93 129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Qui Pasolini, oltre a rivendicare la continuità di fondo esistente nella sua opera, fa un primo tentativo di precisare meglio il senso del suo rimpianto della «millenaria civiltà contadina»94 affermando: L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie - che erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale […]. È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).95
Pasolini comunque mostra di sapere che gli uomini in carne ed ossa di questo mitico «universo contadino» non vivevano in un’età dell’oro. Ricordando, infatti, il titolo di un libro di Felice Chilanti, recensito qualche mese prima, aggiunge: Vivevano quella che Chilanti ha chiamato “l’età del pane”. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita […]. Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica.96
E, tornando ad esaminare gli effetti prodotti dal neocapitalismo sul piano culturale e linguistico, ribadisce con chiarezza: L’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco […] anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli son costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!97
Per non fraintendere Pasolini, comunque, occorre tenere costantemente presente che il suo punto di vista non è quello del sociologo, che guarda con distacco le cose, ma quello del poeta98 che ama e soffre osservando, con tutti i sensi e non soltanto con la ragione, i cambiamenti in corso. Ciò appare con particolare evidenza nei nuovi versi friulani scritti nel biennio 1973-74, arricchiti da due feroci note intitolate Appunto per una poesia in lappone e Appunto per una poesia in terrone, in cui il poeta polemizza con la politica riformista del PCI del tempo, considerata subalterna al “modello di sviluppo” capitalistico: Il “modello di sviluppo” è quello voluto dalla società capitalistica che sta per giungere alla massima maturità. Proporre altri modelli di sviluppo, significa accettare tale primo modello di sviluppo. Significa voler migliorarlo, modificarlo, correggerlo. No: non bisogna accettare tale “modello di sviluppo”. E non basta neanche rifiutare tale “modello di sviluppo”. Bisogna rifiutare lo “sviluppo”. Questo “sviluppo”: perché è uno sviluppo capitalista […]. I comunisti che accettano questo “sviluppo”, considerando il fatto che l’industrializzazione totale e la forma di vita che ne consegue, è irreversibile, sarebbero indubbiamente realisti a collaborarvi, se la diagnosi fosse assolutamente giusta e sicura. E invece non è detto - e ci sono ormai le prove - che tale “sviluppo” debba continuare com’è cominciato. C’è anzi la possibilità di una “recessione”.99 Cinque anni di “sviluppo” hanno reso gli italiani un popolo di nevrotici idioti, cinque anni di miseria possono ricondurli alla loro sia pur misera umanità.100 131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’originalità dell’analisi di Pasolini non va, comunque, ricercata nella critica al riformismo comunista di quegli anni. I fogli extraparlamentari del tempo - Lotta Continua in testa - erano pieni di attacchi simili contro la subalternità del PCI al «modello di sviluppo capitalistico». L’originalità sta tutta nella radicalità della critica allo “sviluppo” e nella affermazione eretica - dal punto di vista marxista - secondo cui lo sviluppo economico e l’industrializzazione, di per sé, non sono portatrici di Progresso. Per quanti dubbi possano nutrirsi sulla razionalità di questa analisi, non mi pare esagerato intravedere in essa un’anticipazione della teoria della “decrescita” avanzata recentemente dell’economista Serge Latouche. Pasolini aveva comunque l’onestà di riconoscere la difficoltà di argomentare in maniera scientifica il suo pensiero. Anche per questo ricorreva alla poesia:101 Si torna indietro? Stupida verità Jo mi vuàrdi indavour, e i plans i paìs puòrs, li nulis e il furmint; la ciasa scura, il fun, li bisicletis, i reoplàns ch’a passin coma tons: e i frus ju vuàrdin; la maniera di ridi ch’a ven dal còur; i vuj che vurdànsi intòr a àrdin di curiositàt sensa vergogna, di rispièt sensa paura. I plans un mond muàrt. Ma i no soj muàrt jo ch’i lu plans. Si vulìn zi avant bisogna ch’i planzini il timp ch’a no’l pòs pi tornà, ch’i dizini di no a chista realtàt ch’a ni à sieràt ta la so preson…102
Il testo friulano a questo punto s’interrompe per proseguire in italiano. Non credo, però, per una presunta “aridità creativa” dell’Autore, quanto piuttosto per il permanente carattere pedagogico della sua scrittura.103 Così per rafforzare la denuncia di una realtà avvertita come prigione, Pasolini incalza: L’hanno costruita i signori: cioè i nemici di classe. Adesso hanno delle difficoltà. 132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Noi dovremmo dargli una mano? Certo se fosse loro il futuro, ciò sarebbe realistico… Ma non saremo stati troppo lucidi (la lucidità del piacere di morire) a credere che quella loro realtà fosse quella di tutto il futuro? Non ci sarebbe stato niente da fare, se fosse stato così. E tanto valeva dargli una mano, chinare la testa e dargli una mano. Chinare la testa e dire ai lavoratori: “Che farci?” La stessa forza che ai lavoratori ha tolto la capacità, la facilità di sorridere (il sorriso di chi si rassegna e di chi si rivolta) ha tolto al mondo ogni voglia di rivoluzione.104
Questi versi, poco noti, intitolati Significato del rimpianto, ne evocano tanti altri scritti nello stesso periodo e confluiti in Nuova gioventù. E, a ulteriore dimostrazione di quanto essi siano comunicanti e correlati con gli Scritti corsari e le Lettere luterane, come già rilevato all’inizio, si ricorda la recensione del libro di Ignazio Buttitta, Io faccio il poeta: Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male […]. Dico povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale […]. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la proprio cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so.105
Il sarcasmo, con cui Pasolini replica ai critici che l’accusano di farneticare, si placa solo quando, in una deliziosa pagina autobiografica, fa riferimento agli stessi versi di Nuova gioventù, scritti nel periodo della crisi petrolifera e delle domeniche a piedi (1973-1974), che il poeta sperava sfociasse in un lungo periodo di recessione: 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo […]. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent’anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai “del potere”).106
Come si vede, oltre al rimpianto di un mondo e di una giovinezza irrimediabilmente perdute, torna in queste righe l’analisi delle trasformazioni linguistiche e sociali già fatta dieci anni prima. Analisi aggiornata in occasione del commento dei versi di Buttitta: Questo svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva - svuotamento dovuto all’acculturazione del nuovo potere della società consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più sostanzialmente fascista che la storia ricordi - è esplicitamente il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto Lingua e dialettu (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è il siciliano). Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma rimane ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. […] Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere.107 134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Questa cultura, nel senso antropologico del termine, è andata in crisi, incalza Pasolini, soprattutto a causa dell’emigrazione in massa dei giovani siciliani in Germania108 e nell’Italia del Nord. Simbolo della crisi, «brutale e niente affatto rivoluzionaria», della propria tradizione culturale è «l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto»:
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La chitarra del dialetto perde una corda al giorno. […] Chi lo parla è come un uccello in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!).109
Questa poesia, «così perfettamente tragica», secondo la lettura fattane da Pasolini, ha un equivalente in un’altra intitolata U rancuri, che non lascia adito a speranza alcuna: Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano)110 raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro “rancore”, la loro rabbia, la loro esplosione di odio: si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nella casa degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c’è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo.111
A questo punto va riportata per esteso la stoccata finale dello scrittore corsaro che, con il suo rigore critico luterano, nulla concede a populismi e buoni sentimenti: Tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia, […]. Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto da un grande modello inaugurale. Tale modello è ambiguo, ma 135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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solo esteriormente. È il modello espresso dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi: il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema “affiche” formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta – prima di chiedere di essere giustiziato come borghese – predica in realtà a sé i caratteri che predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all’immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici. Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica. […] La figura retorica del popolo che, in una vampa guttusiana, affolla di pugni chiusi e vessilli le sue poesie, diventa perfettamente reale se vista (come non può non essere vista dalla coscienza del poeta che ha scritto Lingua e dialettu) come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si parlava il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si voleva la rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva comunque una grazia (e una violenza) da cui ora si abiura.112
La presa di distanza dall’immagine del popolo trasmessa dai partiti comunisti e il rimpianto dell’«universo contadino» rimarcano l’acuta critica del poeta nei confronti del “socialismo reale”. Nell’Appunto per una poesia in terrone Pasolini radicalizza ulteriormente il suo punto di vista: Così non si può andare avanti. Perché avete lasciato che i nostri figli fossero educati dai borghesi? Perché avete permesso che le nostre case fossero costruite dai borghesi? Perché avete tollerato che le nostre anime fossero tentate dai borghesi? Perché avete protestato solo a parole mentre pian piano la nostra cultura (sapere, modo di essere) si andava trasformando in una cultura borghese? […]. Perché vi siete condotti in modo da trovarvi di fronte a questo fatto compiuto, e, vedendo che ormai non c’era più niente da fare, eravate disposti a salvare il salvabile, partecipando, realisticamente, al potere borghese? 136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Così non si può andare avanti. Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo. […] Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo. Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vostro problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari.113
Pasolini aveva indubbiamente ragione di considerare questi testi, spesso trascurati dalla critica, più corsari114 di quelli noti come tali. In essi, infatti, si trovano anticipati alcuni dei temi presenti nel famoso articolo sulle scomparsa delle lucciole, pubblicato sul Corriere della sera l’1 febbraio 1975, col titolo Il vuoto di potere in Italia. Eccone un passo: Per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla [...]. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque «coi miei sensi» il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. [...] oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Gli uomini di potere democristiano sono passati dalla “fase delle lucciole” alla fase della “scomparsa delle lucciole” senza accorgersene [...] non hanno sospettato minimamente che il potere che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una normale evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura [...] Gli uomini di potere DC hanno subito tutto questo, credendo di amministrarlo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione [...] gli uomini di potere DC hanno bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.115 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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La densità del brano richiederebbe un commento particolareggiato. Per ora mi limito ad osservare che non è casuale che Leonardo Sciascia116, tra i pochi ad averlo compreso ed apprezzato fino in fondo, apra L’affaire Moro richiamandosi proprio ad esso. In secondo luogo, noto che l’esplicito rimando a Gramsci conferma la persistente e decisiva influenza del sardo nell’ultimo Pasolini. Il riferimento critico agli uomini di potere democristiani diventerà ancor più stringente nell’articolo del 24 agosto 1975, intitolato Il Processo, in cui chiederà un vero e proprio processo penale per l’intera classe politica che aveva governato l’Italia in quegli anni. Impressionante appare, ancora oggi, l’apertura in cui vengono elencati i reati contestati: Disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, uso illecito dei servizi segreti, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna [...], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia.117
Si dovranno aspettare quasi vent’anni per sentire l’eco della solitaria denuncia pasoliniana in aule giudiziarie. Gli unici uomini politici contemporanei che, seppure in ritardo, non rimasero insensibili ad essa si chiamavano Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa.118 Ma, non a caso, i due incontrarono più di una resistenza all’interno dei loro stessi partiti. Cosa che non avrebbe potuto sorprendere chi aveva scritto che «il coraggio intellettuale della verità e la pratica della politica sono due cose inconciliabili in Italia».119 La spietata analisi del consumismo e del conformismo dilaganti voleva essere soprattutto un grido d’allarme contro i pericoli incombenti intravisti all’orizzonte ed indicati chiaramente nell’ultima profetica intervista: 138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
State attenti. L’inferno sta salendo da voi.[…] Non vi illudete. Voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere.120
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In questa stessa intervista, che l’autore non ha fatto in tempo a rivedere, si trova una delle migliori definizioni del concetto di potere che Pasolini ci ha lasciato: Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. […] Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo […] L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.121
6. Nostalgia del volgar’eloquio Io sono marxista […] quando urlo, mi indigno contro la distruzione delle culture particolari […]. È necessario lottare contro questo nuovo fascismo che è l’accentramento linguistico e culturale del consumismo.122
Ormai in conclusione, non posso non fare riferimento all’ultimo intervento pubblico di Pasolini che affronta di petto il tema sommariamente indicato nel titolo di questo saggio. Si tratta di un documento di fondamentale importanza, colpevolmente trascurato dalla critica;123 una sorta di summa del suo pensiero, in cui si ritrovano i principali temi dibattuti appassionatamente dall’autore nel corso della sua breve vita. Esso, peraltro, conferma la sostanziale coerenza di Pasolini e la centralità che ha nella sua opera la questione dei rapporti tra lingua e potere. 139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’intervento del poeta, come accennato, si svolse al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975, pochi giorni prima della sua tragica morte, nell’ambito di un Corso di aggiornamento per docenti di Scuola Media Superiore sul tema «Dialetto a scuola». Fu Pasolini a voler dare all’incontro il titolo dantesco Volgar’eloquio,124 così evocativo della tradizione letteraria italiana. Lo scrittore esordisce affermando di non saper parlare e di non essere in grado di tenere una lezione. Propone, pertanto, di passare immediatamente al dibattito. Ma di fronte al silenzio imbarazzato degli astanti decide di leggere, come introduzione, il monologo finale del dramma, allora inedito, Bestia da stile, che gli ha fornito l’idea d’intitolare l’incontro nel modo bizzarro che sappiamo. Riprendo di seguito solo i versi iniziali della nota poesia, per dare un’idea del suo stile comunicativo e del suo singolare rapporto con la tradizione letteraria italiana:125 Il volgar’eloquio: amalo. Porgi orecchio, benevolo e fonologico, alla lalìa (“Che ur a in!”) che sorge dal profondo dei meriggi, tra siepi asciutte, nei Mercati - nei Fori Boari nelle Stazioni - tra Fienili e chiese -.126
Si trattava di uno spunto dichiaratamente provocatorio. Come confermano diversi testimoni, lo smarrimento dell’uditorio, a lettura finita, non poteva che crescere, tanto più che l’invito ad amare il Volgar’eloquio era rivolto ad un inesistente giovane di una immaginaria «Destra sublime», che solo Pasolini poteva inventarsi! Ma per comprendere meglio quanto avvenne quel giorno nel liceo di Lecce è opportuno riprendere le parole di Gustavo Buratti, presidente dell’AIDLCM (Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate), uno degli 140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
organizzatori dell’incontro che aveva direttamente invitato Pasolini, ricordandogli l’antica «militanza» per quelle che Frédéric Mistral chiamava «li lengo meprisado» (le lingue disprezzate):
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Ma questi temi (l’amore per il “volgar’eloquio” e l’impegno conseguente), diceva Pasolini, sono una specie di palla al piede per noi, uomini della sinistra. […]. Tuttavia, noi che abbiamo lottato per la nostra lingua, sappiamo quanto Pasolini avesse ragione… sovente i nostri discorsi sono travisati; siamo accusati di dividere, con problematiche sovrastrutturali, la classe operaia; di “fare il gioco dei padroni” e della destra, magari financo di essere razzisti.127
In effetti Pasolini, in questo suo ultimo intervento pubblico, appare particolarmente problematico. Sa di non avere la ricetta per risolvere tutti i problemi: «È tutto problematico, ed è problematica soprattutto un’azione politica chiara, che non vedo da nessuna parte».128 Torna allora a discutere dei rapporti tra lingua e dialetti, con cui aveva fatto i conti fin da giovane; rimette a fuoco, aggiornando l’analisi, l’annosa questione dei rapporti tra lingua e società, evidenziando come i rapidi mutamenti delle abitudini linguistiche degli italiani fossero uno dei frutti della scomparsa della millenaria civiltà contadina. Nel riconoscere infine la crisi della vecchia ideologia marxista-leninista, incapace di comprendere il neocapitalismo, invoca la necessità di «un nuovo modo d’essere gramsciani». Più precisamente il poeta, dopo aver rivendicato con orgoglio di essere stato un marxista critico da trent’anni129 e di aver dato un contribuito originale alla storicismo gramsciano, memore della classica lezione marxiana, afferma: «Bisogna tenere presente l’assioma primo e fondamentale dell’economia politica, cioè che chi produce non produce solo merci, produce rapporti sociali, cioè umanità».130 Ora, aggiunge Pasolini, considerato che il neocapitalismo ha rivoluzionato il vecchio modo di produzione e attraverso la produzione di beni superflui ed il consumismo ha trasformato 141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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antropologicamente gli italiani, i vecchi comunisti non sanno più cosa fare. Nella confusione tendono a trasformarsi in «un nuovo tipo di chierici» che, non tenendo conto dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi dieci anni, ripetono salmodicamente il catechismo marxista-leninista, accusando di eresia tutti coloro che la pensano diversamente: Dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto, e io […] vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento […] Gramsci lavorava quaranta anni fa, in un mondo arcaico che noi non osiamo neppure immaginare […] puoi ricordarmi Gramsci come anello di una catena storica che porta a fare nuovi ragionamenti oggi, a riproporre un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere gramsciani.131
Come si vede, anche da queste parole esce confermata l’immagine che Pasolini aveva dato di sé nell’intervista ad Arbasino del 1963: «La mia caratteristica principe è la fedeltà.»
7. Scalia traduce l’ultimo Pasolini Uno dei lettori più attenti delle ultime opere di Pasolini (Dagli Scritti corsari agli ultimi versi friulani, dalle Lettere luterane a Salò) è stato Gianni Scalia. Amico e collaboratore del poeta fin dagli anni cinquanta, quando si ritrovarono, insieme a Franco Fortini, Francesco Leonetti, Angelo Romanò e Roberto Roversi, a redigere la rivista Officina.132 I due vecchi amici, dopo aver seguito strade diverse, si ritrovano sulla stessa lunghezza un mese prima che Pasolini venga assassinato. Lo dimostra un importante carteggio che si trova oggi in Appendice alla riedizione arricchita di un libro dello Scalia.133 142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È quest’ultimo a riaprire il dialogo con l’amico nel settembre del 1975, con una lettera in cui si compiace di notare come solo chi non vuole capire si ostina a fraintendere il senso dei suoi ultimi articoli pubblicati sul Corriere della Sera, accusandolo di “irrazionalismo, vitalismo, arcaismo eccetera eccetera”. Al contrario Scalia, intravedendo tra le righe pasoliniane l’antico spirito critico marxiano, propone di “tradurre” in termini marxisti gli articoli dell’ amico. Il successivo 3 ottobre Pasolini risponde con entusiasmo a Scalia affermando: «La tua idea di “tradurre” in termini di economia politica ciò che io dico giornalisticamente mi sembra non solo bellissima, ma da attuarsi subito».134 Purtroppo il poeta non fa in tempo a leggere la “traduzione” dell’amico che, comunque, mantiene l’impegno scrivendo, tra l’altro: Credo che l’ultima ricerca di Pasolini (la sua scoperta di Marx)135 sia tutta qui: capire la società del capitale nella sua ultima figura; chiedere di essere aiutato a capire sempre di più, e più profondamente; di essere aiutato cioè tradotto. Insomma, Pasolini stava facendo, a suo modo, con i suoi mezzi e la sua cultura, attraverso le sue intuizioni, un’analisi della società del capitale da marxista, […], in mezzo a marxisti progressisti e storicisti: ritrovava l’analisi della totalità del Capitale, della sua produzione non solo di merci e di plusvalore ma di rapporti sociali […] totalmente alienati nella mercificazione […]. Riconosceva, in mezzo a un marxismo endemico, o, meglio, introuvable, l’analisi marxiana, incentrandola in tre grandi questioni: la “mutazione antropologica”prodotta dal capitale nella sua ultima figura di ‘modernità’; la totalizzazione e socializzazione del modo di produzione capitalistico nel ‘produttivismo-consumismo’; il “genocidio delle culture” (secondo una espressione marxiana del Manifesto, che continuava a ‘recitare’) nella produzione culturale capitalistica.136
8. Critica al consumismo Rileggendo gli ultimi scritti di Pasolini si rimane colpiti dalla loro intatta forza espressiva e comunicativa, dalla loro resisten143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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za al tempo. Il fatto stesso che alcune sue parole-chiave (Palazzo, omologazione, mutazione antropologica, sviluppo senza progresso) siano diventate senso comune mi sembra un’ulteriore prova dell’attualità dell’analisi pasoliniana. Particolarmente centrata la sua critica al consumismo, percepito e vissuto come «un vero e proprio cataclisma antropologico».137 È vero che in essa si ritrovano motivi presenti già nella Scuola di Francoforte,138 ma sono sicuramente una novità il linguaggio usato, la sua estrema chiarezza ed immediatezza che l’hanno reso comprensibile a tutti. Pasolini, con il suo acuto sguardo antropologico, è stato tra i primi a capire la centralità che hanno i mass-media nella società contemporanea. Fin dagli anni ‘60,139 sviluppando la geniale intuizione gramsciana rilevante il nesso stretto esistente tra lingua, società e potere, aveva colto nelle prime manifestazioni del linguaggio tecnocratico l’emergere di una nuova classe sociale tendenzialmente egemone. Ma, a differenza di tanti intellettuali odierni, non ebbe paura di andare contro corrente, di mettersi in gioco in prima persona, rompendo schemi e logiche di schieramento consolidate. Più volte, dopo la sua morte, si è cercato di metterci una pietra sopra. I più cinici hanno perfino usato la sua orribile fine per farlo. Soltanto Leonardo Sciascia, a modo suo, ha tentato di mantenere viva la sua lezione. E non è un caso che sia stato proprio un discepolo di quest’ultimo, Vincenzo Consolo, insieme a pochi altri, in un manifesto del giugno 2000, ad utilizzare il lessico pasoliniano per tentare di aggiornarne l’analisi: Caduto il regime democristiano per corruzione interna, per mafia, per crimini, è subentrato ad esso un partito di destra il cui leader (Silvio Berlusconi) è proprietario (caso unico in Europa) di tre reti televisive, oltre che di giornali e case editrici. Queste reti televisive, che poggiano la loro esistenza e la loro potenza sui messaggi pubblicitari, hanno negli anni inciso enormemente sulla cultura e sulla lingua italiana. La televisione statale, per ragione di concorrenza o di volontaria omologazione, si è conformata alla cifra culturale e stilistica di quella privata. Sempre più piccolo 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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borghese, consumistico, fascista, il paese, telestupefatto, ha perso ogni memoria di sé, della sua storia, della sua identità. L’italiano è diventato un’orrenda lingua, un balbettio invaso dai linguaggi mediatici che non esprime altro che merce e consumo.140
Note 1. P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, Mondadori, Milano 1999, p. 2844. 2. L’esergo è tratto dall’incompiuto Trattatello pedagogico intitolato Gennariello, pubblicato a puntate sul settimanale Il Mondo nella primavera del 1975, e poi raccolto in P. P. PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, p. 29. 3. Esiste soltanto una bella monografia - rielaborazione della tesi di laurea - di Francesco FERRI, Linguaggio, passione e ideologia. Pier Paolo Pasolini tra Gramsci, Gadda e Contini, Progetti Museali Editore, Roma 1996. Non a caso questo lavoro del giovane Ferri è stato seguito ed incoraggiato da Tullio DE MAURO che - con i suoi brevi ma fondamentali saggi Pasolini critico dei linguaggi e Pasolini linguista, scritti in tempi diversi e raccolti nella II ed. del suo L’Italia delle Italie, Editori Riuniti, Roma 1992 - è stato il primo a rilevare la particolare attenzione di Pasolini nei confronti delle diverse forme del linguaggio umano. Va ricordato, inoltre, il saggio di Gustavo BURATTI, Pasolini: dialetto rivoluzionario e minoranze linguistiche, L’impegno, XIV 3, dicembre 1994. Si devono, infine, ad Antonio PIROMALLI la prefazione e la cura degli Atti del pubblico dibattito, svoltosi al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975 con la partecipazione attiva di Pasolini: Volgar’eloquio, Athena, Napoli 1976. Se non s’è visto male, non risultano altri contributi a stampa che, fin dal titolo, affrontano espressamente la tematica linguistica in Pasolini. Data, comunque, la centralità che essa ha nell’opera del poeta di Casarsa è corso l’obbligo di consultare tutti i principali studi che vi sono stati dedicati. 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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4. T. DE MAURO, Pasolini linguista, in L’Italia delle Italie, cit., p. 274, ha scritto: «Grazie a Gramsci, Pasolini intese che le scelte di linguaggio non avevano solo premesse e conseguenze di natura letteraria, ma si inscrivevano nel tessuto dei rapporti e contrasti sociali, avevano, […] una valenza politica […]. Questa interpretazione di Gramsci non solo fu significativa per orientare il seguito dell’attività intellettuale di Pasolini, ma per la sua interna originalità. Essa scorgeva con chiarezza la natura portante che le questioni di lingua e, dunque, di cultura avevano nella teoria politica e sociale di Gramsci, ciò che solo molto lentamente, più di vent’anni dopo si doveva acquisire.» 5. Titolo dantesco dato da Pasolini stesso all’intervento tenuto al Liceo Palmieri testè citato, dieci giorni prima di essere assassinato. L’importante documento si trova ora in P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, vol. II, pp. 2825-2862. Recentemente gli scritti pasoliniani, pubblicati nel tempo da editori diversi, sono stati raccolti da Mondadori, nella collana dei Meridiani, in dieci volumi, a cura di Walter SITI e Silvia DE LAUDE. Questa ultima sistemazione dell’opera di Pasolini non ha ottenuto consensi unanimi. Particolarmente dure le osservazioni critiche di Carla Benedetti, pubblicate su L’Unità del 29 aprile 2003, che prende le mosse dalla discutibile Postfazione con cui Siti ha chiuso l’ultimo tomo dell’opera. Personalmente, mi sembra contestabile, soprattutto, la separazione dei saggi letterari da quelli socio-politici ed antropologici. Forse, rispettando l’ordine cronologico in cui sono state concepite tutte le opere di Pasolini, a prescindere dal loro genere, sarebbe stato più agevole cogliere il ritmo e il naturale sviluppo del pensiero di un autore che non amava i confini disciplinari. 6. P.P. PASOLINI, I parlanti (1951), ora in Appendice a Ragazzi di vita, Einaudi, Torino 1979, p. 230. 7. P.P. PASOLINI, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, pp. 486-487. 8. Vedi, per tutti, P. P. PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975. È singolare che l’intuitivo giudizio del corsaro sul particolare sviluppo del capitalismo italiano abbia ricevuto di recente conferme nel saggio dell’economista Giulio SAPELLI, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Bruno Mondadori, Milano 2005, il quale ha valorizzato sapientemente «lo sguardo antropologico» del poeta, ma ha preso anche qualche abbaglio, come quando tenta di far passare Gramsci per «un attualista gentiliano». Ivi, p. 27. 9. Per ultimo v. Roberto CARNERO, Morire per le idee. Vita letterarìa di 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Pier Paolo Pasolini. Con un’appendice sul caso giudiziario, Bompiani, Milano 2010, pp. 7-9.
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10. Cesare SEGRE, Vitalità, passione, ideologia. Introduzione a P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. I, pp. XXXVI-XXXVII. D’ora innanzi questa raccolta, discutibilmente distinta dall’altra intitolata Saggi sulla politica e la società, sarà citata con l’abbreviazione SLA. 11. Con l’eccezione di Marco BELPOLITI che, in un saggio del 2003, apparso sulla rivista Nuovi Argomenti, ad essa espressamente si richiama, ricordando la singolare revisione pasoliniana del 1974 dei suoi primi versi friulani, rinviando però ad altri tempi e luoghi l’esame analitico di essi. Ciò che comunque non convince, nella pur originale rilettura del Pasolini corsaro effettuata dal Belpoliti - ripresa nel suo ultimo saggio Pasolini in salsa piccante, Guanda, Parma 2010 - è la presunta centralità che in essa assume la tematica omosessuale, di cui certo non si può ignorare la presenza, ma che considero riduttivo considerare centrale, se non ossessiva. Non risulta, inoltre, confermata dall’analisi testuale l’affermazione secondo la quale, negli scritti degli anni ‘70, l’analisi linguistica è sostituita dall’analisi semiologica. Basti ricordare che i principali saggi semiologici del poeta sono certo raccolti in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, ma erano stati scritti e pubblicati in diverse riviste tutti negli anni sessanta. D’altra parte Pasolini, proprio per il suo tipico “empirismo eretico”, non ha mai seguito con ortodossia alcuna scuola di pensiero. Per questo, fin dagli anni ‘60, riesce a conciliare Gramsci e Contini, ed il suo marxismo eterodosso con la psicoanalisi e lo strutturalismo. E, non a caso Contini, ai suoi occhi apparirà fino all’ultimo, «il solo critico italiano i cui problemi siano stati i problemi letterari di Gramsci […] scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili». Cfr. P.P. PASOLINI, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, p. 443. 12. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., pp. 1-2. Il corsivo dei testi citati in questo saggio, salvo diverso avviso, è mio. 13. P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino 1975, p. 267. 14. P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, a cura di Jean DUFLOT, II ed., Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5. D’ora innanzi questo testo, che raccoglie una delle più importanti interviste rilasciate da Pasolini, tra la fine degli anni 60 ed i primi anni 70, sarà citato con l’abbrev. Duflot. 15. Ora col titolo Il romanzo delle stragi, in Scritti corsari, cit., p. 108. 16. P.P. PASOLINI, Lettere luterane, cit. p. 29. 147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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17. Espressione di Antonio Gramsci, che tanto contribuí alla formazione di Pasolini. Sarebbe tradire entrambi dimenticarsi del giudizio severo espresso dal sardo contro la diffusa tendenza a: «“sollecitare i testi”, cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità di quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?». Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di V. GERRATANA, Einaudi, Torino 1975, II, p. 838. 18. Tra i tanti critici che hanno evidenziato la «contraddizione costitutiva» dell’opera pasoliniana si segnala il saggio di Vittorio SPINAZZOLA, La modernità letteraria, Il Saggiatore, Milano 2001, ripreso recentemente da Roberto CARNERO, Morire per le idee, cit., p. 9. 19. Con questi versi friulani, intitolati Dedica, si aprono le Poesie a Casarsa, scritte da Pasolini ventenne, che tanto colpirono Gianfranco Contini. Nella revisione del 1974 questi stessi versi, con lo stesso titolo, diventeranno «Fontana di aga di un paìs no me. / A no è aga pì vecia che ta chel paìs. / Fontana di amòur pur nissun». Cfr. P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, I ed., Einaudi, Torino 1975. Qui è stata utilizzata la ristampa del 2002, arricchita da un saggio filologico di Furio Brugnolo. La poesia citata si trova nella p. 7. Il significato letterale degli ultimi versi - dedicati ancora a G. Contini, «e sempre con amor de loinh» - è apparentemente opposto ai primi riportati in epigrafe. 20. G.I. Ascoli (I829-1907) è stato uno dei primi studiosi delle tre isole linguistiche che caratterizzano il Friuli Venezia Giulia. Il giovane Pasolini mostra di conoscere i suoi Saggi ladini del 1873, frutto di una accurata ricerca sul campo, ed applicherà le stesse tecniche di rilevazione del famoso glottologo negli anni del suo soggiorno a Casarsa. Pasolini tornerà ad evidenziare l’importanza di Ascoli nella rubrica che curerà, nei primi anni ‘60, sul settimanale Vie Nuove. È probabile che, proprio tramite l’Ascoli, Pasolini abbia iniziato ad avere quella particolare sensibilità nei confronti del valore sociale dei problemi linguistici. D’altra parte è stato ampiamente documentato da Franco LO PIPARO, Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Laterza, Roma-Bari 1979, quanto sia stata decisiva l’influenza di Ascoli nella formazione del concetto gramsciano di egemonia. 21. Quanto sia stretto in Pasolini il rapporto tra realtà e mito è abbastanza noto. Giuseppe ZIGAINA ha dimostrato che, per l’amico poeta, decisiva è 148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
stata la lettura del libro Mito e realtà di Mircea Eliade, dove si afferma che il mito è alla radice del linguaggio. Meno convincenti risultano però altre ipotesi avanzate da Zigaina in Pasolini e l’abiura. Il segno vivente e il poeta morto, Marsilio, Venezia 1993.
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22. P.P. PASOLINI, Lettera dal Friuli, La Fiera letteraria, 29 agosto 1946, ora in SLA, pp. 173-174. 23. E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978, p. 73. Sarà, comunque, lo stesso Autore, a riconoscere che il friulano del suo primo libro non era quello realmente parlato a Casarsa ma «un friulano inventato sul Pirona». Cfr. P. P. PASOLINI, Al lettore nuovo, Introduzione a Poesie, Garzanti, Milano 1970. I testo, concepito dall’Autore appositamente per la pubblicazione in edizione economica di una parte della sua produzione poetica, è uno dei documenti più ricchi di dati ed informazioni utili per la ricostruzione della biografia intellettuale del poeta. 24. Pubblicata dal Corriere di Lugano il 24 aprile 1943, la recensione di Contini (La letteratura italiana, tomo IV, ora in SLA, tomo II, p. 2204) fece ballare di gioia il giovane poeta. Tre anni dopo sarà lo stesso Pasolini a ricordare che quella recensione era stata respinta dalla rivista romana Primato per la nota ostilità del regime fascista verso i dialetti. 25. Basti pensare all’incompiuto e postumo Trattatello pedagogico ora in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976. 26. L’articolo, pubblicato dalla rivista Stroligut di cà da l’Aga (aprile 1944), si trova oggi riprodotto, anche in versione friulana, nel primo volume dei SLA, pp. 61-67. 27. C. SEGRE, Introduzione a SLA, p. XVIII. 28. Il carattere romantico dell’articolo è provato, soprattutto, dal suo ancoraggio al mito delle origini, che trapela già dall’epigrafe di Shelley che lo apre: «Nell’infanzia della società ogni autore è necessariamente un poeta, perché il linguaggio stesso è poesia.» 29. DUFLOT, pp. 11-12. 30, Ibidem, p. 18. V. pure P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 108. Gli anni trascorsi in Friuli, ininterrottamente dal 1943 al 1949, sono decisivi per la sua formazione. Qui riscopre «il gusto della vita e del realismo». Per una puntuale ricostruzione del periodo, cfr. Nico NALDINI, Un paese di temporali e di primule, Guanda, Parma 1993. Molto utile risulta, inoltre, la lettura dell’epistolario di Pasolini pubblicato in due volumi da Einaudi a cura dello stesso Naldini. 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
31. P.P. PASOLINI, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, p. 164.
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32. P.P. PASOLIN, Al lettore nuovo, cit., p. 8. 33. P.P. PASOLINI, La letteratura catalana, in Quaderno romanzo, ora in L’Academiuta friulana e le sue riviste, a cura di N. NALDINI, Neri Pozza, Vicenza 1994, p. 31. In questa stessa pagina si trova un bel profilo storico della lingua Catalana che di seguito trascriviamo: «La lingua catalana, distaccatasi dalla provenzale verso la metà del sec. XIII, fu per tre secoli il verbo culturale dell’antica corona d’Aragona, che signoreggiò tutto il mediterraneo. Il suo contatto con la cultura italiana fu sì profondo che i migliori scrittori catalani imitarono i sommi poeti e prosatori italiani di quel tempo: Ramon Llull fu figlio di San Francesco come poeta, di San Bonaventura come filosofo, Bernart Metge imitò il Boccaccio, Jordi de Sant Jordi ed il grande Ausiàs March furono seguaci del Petrarca, e catalana fu la prima traduzione […] della Divina Commedia. L’unione delle Corone di Aragona e Castiglia e la conseguente formazione della Spagna sotto l’egemonia castigliana, diede alla lingua catalana un colpo che sarebbe stato mortale se mortali fossero le lingue parlate da popoli forti e coscienti. Il catalano scese lentamente alla categoria di dialetto, subendo una sorte simile a quella dei suoi fratelli di oltre Pirenei, i dialetti dell’antica gloriosa lingua d’Oc». Per l’approfondimento dell’analisi dei rapporti tra Pasolini e la cultura spagnola, cfr. Francesca FALCHI, EI Juanero. Pasolini e la cultura spagnola, Atheneum, Firenze 2003. 34. Una parte di questi articoli sono stati ristampati recentemente nel Meridiano che raccoglie i Saggi sulla politica e sulla società (d’ora innanzi, SPS), pp. 33-49. 35. Su questa dolorosissima esperienza che l’ha segnato nel vivo, il poeta tornerà più volte. Qui piace rimandare alla sobria ricostruzione dei fatti che farà nel 1961 su Vie Nuove, e ricordare la chiosa finale: «Nulla è semplice, nulla avviene senza complicazione e sofferenze». Ora in Le belle bandiere, cit., pp. 110-112. 36. P.P. PASOLINI, Al lettore nuovo (1970), cit., p. 10. Corsivo d’Autore. 37. P.P. PASOLINI, Le belle bandiere, cit., p. 108. 38. «Che cos’è tutta questa politica che fanno i preti contro noi poveri? Dovrebbero essere loro ad avere il nostro stesso pensiero; ci sembra che i nostri sentimenti siano abbastanza cristiani! Certi democristiani si meravigliano se i Comunisti vanno a Messa quando i comunisti potrebbero meravigliarsi di più a vedere quei democristiani che vanno a Messa con l’anima nera come il carbone.» 150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
39. L’intera vicenda è ben ricostruita da Enzo SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., pp. 140-144. 40. Roberto ROVERSI, La tenerezza vitale di Pasolini, in AA.VV., Per conoscere Pasolini, Atti del Convegno svoltosi al Teatro Tenda di Roma, dicembre 1977, Bulzoni & Teatro Tenda editori, Roma 1978, pp. 59-63.
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41. J. HALLIDAY (a cura di), Pasolini su Pasolini, Guanda, Parma 1992, pp. 37-38; ora in SPS, p. 1295. 42. Com’è noto, l’opera di Antonio Gramsci (1891-1937) ha avuto la sua prima parziale pubblicazione, presso Einaudi, con la supervisione di Palmiro Togliatti, soltanto a partire dal 1947, con la prima edizione delle Lettere dal carcere. Seguiranno i volumi tratti dai Quaderni del carcere, tematicamente raccolti, nel seguente ordine: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948), Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949), Il Risorgimento (1949), Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1949), Letteratura e vita nazionale (1950), Passato e presente (1951). In più volumi saranno poi raccolti gli scritti giornalistici del periodo pre-carcerario. L’edizione critica dei Quaderni, a cura di Valentino Gerratana, verrà pubblicata sempre da Einaudi solo nel 1975. 43. Il testo, preparato per il Congresso provinciale del PCI di Pordenone, sarà pubblicato, per la prima volta, il 4 novembre 1977 su Rinascita. Ora, insieme ad altri inediti, si trova raccolto in SPS pp. 81-84. 44. Cfr. P. P. Pasolini, Vita attraverso le lettere (a cura di G. Naldini), Einaudi, Torino 1994, pp. 163-165. 45. P.P. PASOLINI, Passione e ideologia, cit. p. 487. 46. A. ARBASINO, Sessanta posizioni, Milano: Feltrinelli, 1971. Ora in SPS, p. 1573. In questa stessa intervista Pasolini, dopo aver ricordato anche i debiti contratti con Longhi e Contini, assicura di non aver dimenticato nessuno di loro, «perché la mia caratteristica principe è la fedeltà». Non manca però di dare una stoccata a quanti «hanno fatto di tutto per rendere intollerabile l’uso dei padri». Cfr. ibid., pp. 1573-1574. 47. T. DE MAURO, Prefazione a P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma 1991 (I ed. 1977), p. 8, ha giustamente osservato che il PCI «non ha mai saputo attuare la lezione di Gramsci». 48. Ibid., pp. 86-88 e p. 229. 49. Sono frequenti nel lessico pasoliniano di quegli anni espressioni analoghe a quelle gramsciane. Così, ad esempio, il brano seguente: «So quanto 151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
l’operazione giornalistica sia falsa: prende, della realtà, brani isolati, appariscenti […]. Non pensa il giornalista borghese, nemmeno per un istante, a servire la verità» (Le belle bandiere, cit., p. 53), riecheggia in modo impressionante un passo dell’epistolario gramsciano: «Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione,e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli» (Lettera del 12 ottobre 1931, ora in A. GRAMSCI - T. SCHUCHT, Lettere 1926-1935, Einaudi, Torino 1997, pp. 833-834).
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50. P.P. PASOLINI, Il cinema e la poesia, Vie Nuove, 6 dicembre 1962, ora in Le belle bandiere, cit., pp. 209-210. 51. FRANCO FORTINI, Pasolini e le ultime illusioni (1977), ora in Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993. Quanto Pasolini tenesse in conto il giudizio di Fortini è stato recentemente evidenziato da Enzo GOLINO, Tra lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Sellerio, Palermo 1995, pp. 91-113. 52. È stato giustamente osservato che l’Africa, negli anni ‘60, prende il posto del Friuli nell’immaginario pasoliniano: «Dal Friuli alle borgate romane, al meridione d’Italia, all’Africa, all’India si susseguono in Pasolini le tappe di un’interrotta ricerca di nuove incarnazioni del mito di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati». G. SANTATO, L’abisso tra corpo e storia. Pasolini fra mito, storia e dopostoria, in Studi pasoliniani, 1, 2007. 53. P.P. PASOLINI, Le belle bandiere, cit. pp. 210-211. 54. Intervenendo nel dibattito in corso su Vie Nuove, sul tema dei rapporti tra marxismo e cristianesimo, un intellettuale non codino come Lucio Lombardo Radice accuserà Pasolini di eresia e dilettantismo. Cfr. ibid., pp. 179183. Critiche analoghe riceverà, negli anni successivi, da Asor Rosa, Salinari, Sanguineti, Calvino ed altri. Questi ed altri critici verranno più tardi bollati dal poeta come «nuovi chierici». 55. P.P. PASOLINI, Mistica e storia, Vie Nuove, 27 maggio 1961, ora in Le belle bandiere, cit., p. 102. 56. Ibid., p. 171 57. Ibid., pp. 181-183; e cfr. anche pp. 76-78 e 136-140. 58. Ibid., pp. 222-224. 152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
59. Ibid., pp. 225-226. 60. Ibid., p. 226. Pasolini è stato senz’altro uno dei più convinti sostenitori del dialogo tra cristiani e marxisti. In merito, particolarmente interessante appare il testo della conferenza Marxismo e cristianesimo tenuta nel dicembre del 1964 a Brescia, ora in SPS, pp. 786-824. In uno dei passi centrali di questa conferenza Pasolini afferma: «nel fondo dell’azione di Marx c’è un profondo spiritualismo» (ibid., p. 801). 61. P.P. PASOLINI, Trasumanar e organizzar (1971), Garzanti, Milano 1976, pp. 44-45, corsivo nel testo. 62. P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., p. 46. Documento acquistato da () il 2023/09/12.
63. P.P. PASOLINI, Le belle bandiere, cit., p. 229. 64. P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., pp. 5-6. 65. Ibid., p. 17. 66. Ibid., p. 18. Qualche anno dopo scriverà: «L’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata del PCI, è passata nelle mani dell’industria». Cfr. P. P. PASOLINI, Il caos, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 41. 67. Mi pare opportuno evidenziare come il passo anticipi di quasi due lustri l’analisi linguistica dello slogan pubblicitario dei jeans Jesus che farà negli Scritti corsari. 68. Ibid., p. 22. 69. P.P. PASOLINI, Le belle bandiere, cit., pp. 315-316. 70. Ibid., pp. 324-325. 71. P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit. p. 46. 72. Il testo del dibattito oggi si può leggere in SPS, pp. 830-837. 73. DUFLOT, pp. 24-25. Qualche anno più tardi, recensendo la prima edizione delle Lettere alla mamma di Don Lorenzo Milani, Pasolini gli riconosce d’avere precorso il ‘68 e di avere «portato a termine l’unico atto rivoluzionario di questi anni». La recensione, pubblicata da Tempo illustrato (8 luglio 1973), fu poi raccolta tra i Documenti e allegati di Scritti corsari, cit. 74. DUFLOT, p. 46. 75. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., p. 30. 76. P.P. PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 93-94.
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77. Ibid., p. 29. 78. Al riguardo, si potrebbero fare infinite citazioni. Ci si limita a due testi scritti a distanza di 15 anni in luoghi e circostanze diverse: «So quanto l’operazione giornalistica sia falsa: prende, della realtà, brani isolati, appariscenti […]. Non pensa il giornalista borghese, nemmeno per un istante, a servire la verità» (Le belle bandiere, cit., p. 53); «il massacro del Circeo ha scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica» (Lettere luterane, cit., p. 166). 79. DUFLOT, pp. 160-161. Parte finale dell’intervista, dove torna ad esprimere un giudizio molto negativo sul ceto giornalistico.
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80. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit. p. 31. 81. Soppressa la parte conclusiva, in cui si articolava la sfida ai dirigenti televisivi, il nuovo titolo del saggio nella raccolta corsara, come a voler sottolineare il suo prevalente carattere antropologico, diventa: Acculturazione e acculturazione (sic). 82. Ibid., p. 30. 83. Neocapitalismo televisivo, intervista a cura di Arturo GISMONDI, Vie Nuove, XIII 50, 20 dicembre 1958, ora in SPS, pp. 1553-1559. 84. Intervista ora in SPS p. 1572. 85. Il film, nella sua versione originale, è stato restaurato nel 2008 da Giuseppe Bertolucci. 86. Curzio MALTESE, Il film-profezia di Pasolini, così nel ’63 raccontò l’Italia d’oggi, La Repubblica, 28 agosto 2008. 87. P.P. PASOLINI, Lettere luterane, cit., pp. 36-37. 88. P.P. PASOLINI, Volgar’eloquio, cit., p. 2846. 89. Basti ricordare il famoso articolo Il romanzo delle stragi (14 novembre 1974) - in origine Che cos’è questo golpe? - dove arriva a definire il PCI «un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota». Ora in Scritti corsari, cit., p. 110. 90. Ibid., pp. 47-48. 91. Italo Calvino interviene nel dibattito dalle colonne del Messaggero (18 giugno 1974). Ma non è l’unico intellettuale del tempo a farlo. Ricordiamo, per tutti, gli interventi di Alberto Moravia, Lucio Colletti, Franco Fortini e Leonardo Sciascia pubblicati da L’Espresso la settimana successiva alla pub154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
blicazione dell’articolo in questione. E non è un caso che, nell’occasione, sarà proprio il siciliano a mostrarsi più comprensivo e generoso di tutti nei confronti del corsaro. A distanza di trent’anni, la critica è ancora divisa sulla valutazione del Pasolini corsaro; così accanto ai Sanguineti e Guglielmi che hanno, da sempre, considerato reazionaria l’analisi pasoliniana, si trovano altri (Betti, Mantegazza) che la ritengono rivoluzionaria. Una posizione più equilibrata sembra quella espressa da Alfonso BERARDINELLI, Prefazione a P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Nuova ed., Garzanti, Milano 2007, pp. VII-X.
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92. Ibid., pp. 69-70. 93. Ibid., p. 60. Va ricordato che la lettera di Pasolini a Calvino verrà compresa negli Scritti corsari col titolo Limitezza della storia e immensità del mondo contadino (pp. 60-65). I due torneranno a confrontarsi nell’ottobre dell’anno successivo. Per quest’ultimo scambio epistolare si rinvia a P. P. PASOLINI, Lettere Luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 179-184. Corsivo d’A. 94. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit. p. 32. 95. Ibid., p. 62. 96. Ibid., pp. 62-63. Il corsivo nel testo è dello stesso Pasolini. È opportuno ricordare che si tratta di un’espressione ricorrente nei Quaderni gramsciani, laddove si esorta a prestare attenzione alla realtà così com’è, se si vuole davvero trasformarla. Per la recensione del libro, cfr. oggi P.P. PASOLINI, Descrizioni di descrizioni, cit, pp. 317-319. Corsivo d’A. 97. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., pp. 63-64. 98. Giovanni Raboni non ha tutti i torti, quando paradossalmente afferma che c’è più poesia nella prosa e nel cinema di Pasolini che nei suoi versi. Cfr. P. CONTI, Raboni: poeta senza poesia, Corriere della sera, 2 novembre 1995. 99. Si ricordi che nel 1973 l’occidente aveva conosciuto la prima crisi petrolifera mondiale, a seguito della rivoluzione komeinista in Iran. 100. P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, cit., p. 241. Corsivo d’A. 101. Cfr. DUFLOT, op. cit. p. 5: «Alcune cose si vivono soltanto; o, se si dicono, si dicono in poesia.» 102. Ibid., pp. 236-237. Lo stesso Pasolini a piè di pagina ha steso, con particolare cura, la versione italiana del testo friulano: «Io mi guardo indietro, e piango i paesi poveri, le nuvole e il frumento; la casa scura, il fumo, le biciclette, gli aeroplani che passano come tuoni: e i bambini che guardano; 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
il modo di ridere che viene dal cuore; gli occhi che guardandosi intorno ardono di curiosità senza vergogna, di rispetto senza paura. Piango un mondo morto. Ma non sono morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo di no a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione…». 103. È lo stesso Pasolini (Lettere luterane, cit. pp. 15-67) a confessare tale carattere prevalente della sua scrittura. E quanto forte e presente sia stata, in tutta la sua vita e nella sua opera, la vocazione pedagogica è stato riconosciuto da tutti e, con particolare attenzione, da Enzo GOLINO, Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia, Eros, Letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Bompiani, Milano 1992. Documento acquistato da () il 2023/09/12.
104. P.P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit. p. 237. 105. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., pp. 220-221. La recensione, pubblicata originariamente sul periodico Tempo illustrato (11 gennaio 1974), verrà compresa l’anno successivo nella sezione Documenti e allegati della raccolta corsara. Corsivo d’A. 106. Ibid., pp. 221-222. 107. Ibid., p. 222. 108. Sull’emigrazione siciliana in Germania, cfr. il bellissimo Stefano VILARDO, Tutti dicono Germania, Germania, Garzanti, Milano 1975; ora Sellerio, Palermo 2007, arricchito da una succosa nota introduttiva di Leonardo Sciascia. 109. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., p. 223. 110. Visto l’emblematico, ennesimo riferimento pasoliniano a Gramsci, ci pare opportuno precisare che nell’opera del pensatore sardo, con buona pace di Asor Rosa, non c’è traccia alcuna di populismo. Se qualche elemento di esso è rinvenibile in Pasolini ciò non può essere, in alcun modo, addebitato a Gramsci. 111. Ibid., pp. 223-224. 112. Ibid., pp. 224-225. Corsivo d’A. 113. P.P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit., pp. 245-246. Corsivo d’A. 114. Pasolini, da buon filologo quale era, conosceva il significato delle parole e, come pochi, sapeva usarle. Se decise d’intitolare l’ultimo suo libro Scritti corsari, una ragione doveva esserci. Il termine corsaro, come si sa, è un termine equivoco o, se si preferisce, polisemico. I dizionari storici distin156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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guono i corsari dai pirati, dal momento che i primi, a differenza dei secondi, venivano autorizzati ad issare una speciale bandiera ed a praticare in mare la cosiddetta guerra di corsa. Nel senso comune odierno è andata smarrita la differenza tra i due termini. Credo comunque che, in questo caso, la filologia aiuti più della storia ad avvicinarci al senso nascosto attribuito dal poeta di Casarsa al termine corsaro; essa, infatti, ci consente di scoprire l’origine mediolatina della parola cursariu(m), deriv. da cursus ‘viaggio per mare’ e da currere ‘correre’. Ricordando, peraltro, il costante impegno di Pasolini a «non adattare l’orizzonte al periscopio, ma il periscopio all’orizzonte, all’immenso orizzonte dei fenomeni», vedo in corsaro il significato di «corsa in mare aperto». D’altra parte, se ci si pensa bene, cos’altro è stata la vita di Pasolini, prima ancora della sua opera? 115. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, pp. 160-163. 116. Singolare appare il fatto che, pur essendo tanto diversi tra loro per formazione e temperamento, Sciascia e Pasolini si siano ritrovati, alla fine, sulla stessa lunghezza d’onda. Particolarmente toccante la testimonianza resa dal siciliano dopo la morte dell’amico: «Io mi sentivo sempre un suo amico; e credo anche lui nei miei riguardi. C’era però come un ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto - come dire? - razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero - e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare» (Leonardo SCIASCIA, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 175-176). Lo stesso Sciascia curò un prezioso volumetto con dei versi giovanili: P. P. PASOLINI, Dal diario (1945-47), Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1979, chiosandoli nell’introduzione con queste parole: «Dopo aver riletto queste sue poesie, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?». 117. L’intero articolo pubblicato dal Corriere della sera, sarà raccolto, insieme ad altri, in P. P. PASOLINI, Lettere luterane, cit., pp. 114-123. Un’acuta analisi critica di questo articolo pasoliniano si deve al Magistrato Luigi Cavallaro: https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-e-societa/2324-pasolini-sciascia-e-il-processo 157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
118. Per quanto riguarda Berlinguer sono note le resistenze incontrate, dentro il suo stesso partito, quando propose la politica dell’austerità e la centralità della questione morale. Meno nota, invece, l’attenzione prestata da Ugo La Malfa al poeta, venuta alla luce recentemente con la pubblicazione di un suo inedito sul Corriere della sera, 6 maggio 2004. 119. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., p. 110. 120. P.P. PASOLINI, Siamo tutti in pericolo, intervista a cura di Furio COLOMBO, La Stampa, inserto Tuttolibri, 18 novembre 1975, ora in SPS, pp. 1728-1729. 121. Ibid., pp. 1725-1726.
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122. P.P. PASOLINI, Volgar’eloquio, ora in SLA, cit., pp. 2845-2862. 123. Si rimanda alla bibliografia indicata e discussa nell’Introduzione. 124. La prima trascrizione dell’intervento di Pasolini, come già ricordato all’inizio, è stata curata e pubblicata da Antonio Piromalli. Oggi il documento si trova raccolto nel secondo tomo dei saggi letterari dell’edizione Meridiani, più volte citata. 125. Una delle contraddizioni più feconde presenti nell’opera di Pasolini è l’uso democratico dell’aristocratica tradizione letteraria nazionale. Questo è uno degli ossimori più persistenti nel poeta di Casarsa su cui si sono soffermati diversi critici. Per tutti cfr.: Alberto MORAVIA, Pasolini poeta civile (1977), in AA.VV., Per conoscere Pasolini, cit., pp. 7-10 e Arcangelo LEONE DE CASTRIS, Sulle ceneri di Gramsci. Pasolini, i comunisti e il 68, CUEN, Napoli 1993, pp. 31-32. 126. P.P. PASOLINI, Volgar’eloquio, cit., pp. 2825-2827. 127. G. BURATTI, Pasolini: dialetto rivoluzionario e minoranze linguistiche, cit. 128. P.P. PASOLINI, Volgar’eloquio, cit., p. 2854. 129. Ibid., p. 2839. 130. Ibid., p. 2840. Il passo, in effetti, è una delle più ortodosse espressioni della critica marxiana al sistema di produzione capitalistico. 131. Ibid., pp. 2843-2844. 132. Rivista che, secondo il giudizio di Leonardo Sciascia, è stata “la sola, a conti fatti, che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano” (L. SCIASCIA, Introduzione a P. P. PASOLINI, Dal diario (1945-47), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1979, p. 8. 158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
133. Gianni Scalia, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, Portatori d’acqua, Urbino 2020. La prima edizione di questo libro aveva visto la luce nel 1978 per i tipi dell’editore bolognese Cappelli. 134. Ivi, p. 242. 135. Per la verità Pasolini aveva scoperto Marx fin dai primi anni Sessanta. 136. SCALIA Gianni, cit., pp. 52-53. Questo testo di Scalia risale al 1977. 137. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, cit., p. 135.
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138. Mi riferisco, in specie, ai Minima moralia di T.W. ADORNO e a L’uomo a una dimensione di H. MARCUSE. Su questo punto rimando ad un mio precedente saggio: F. VIRGA, Pasolini corsaro, Colapesce, Almanacco di scrittura mediterranea, X.11, 2004, p. 101. 139. Cfr. soprattutto i saggi linguistici di Empirismo eretico, cit. 140. Il testo integrale del Manifesto è stato pubblicato dal Corriere Sera, 6 giugno 2000.
della
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III. Giuseppe Giovanni Battaglia e Pasolini
La storia mi sembra che abbia superato l’antica divisione del mondo tra laici e chierici; anche per questo parole come laicità e religiosità oggi non hanno più il senso che avevano un tempo. Tant’è che, ai nostri giorni, è possibile incontrare laici più chierici dei chierici d’una volta e uomini religiosi più laici di tanti presunti tali. Pertanto parlerò del poeta di Aliminusa al di fuori dello schema proposto dal titolo del Convegno che potrebbe generare equivoci e malintesi. Sono sempre più convinto che il sentimento della meraviglia, come avevano già intuito gli antichi greci, sia il principio non solo della filosofia ma anche della poesia. Da questo sentimento germina, infatti, la poesia anche nel giovanissimo Battaglia. Chi si accosta a Giuseppe Giovanni Battaglia (1951-1995) non tarda a comprendere che la fonte prima della sua originalissima poesia, più che sui libri, va ricercata, specialmente per quanto riguarda il periodo giovanile, nella vita, nei volti e nelle parole degli uomini e delle donne del suo piccolo paese natale, Aliminusa. Non è un caso che uno dei suoi primi libri s’intitoli La piccola valle di Alì, dove Alì non è altro che l’abbreviazione del nome del paese termitano, particolarmente amato dal poeta, protagonista assoluto dei suoi primi versi. 161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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La recente raccolta in un unico volume di tutte le poesie in lingua italiana del Battaglia1 - curata da Vincenzo Ognibene e resa possibile dall’impegno comune della famiglia del poeta, del Comune di Aliminusa e del Parco Letterario intestato al poeta - è un’occasione per rileggere con occhi nuovi l’intera sua opera e verificare la possibilità di un suo radicale ripensamento. Purtroppo questo bellissimo libro di poesia è stato, pressoché, ignorato da gran parte dell’industria culturale nazionale. Eppure i versi di Giuseppe Battaglia, spentosi a soli 44 anni, reggono benissimo al confronto con i più grandi autori del ’900. E, prima o poi, il tempo gli dovrà rendere giustizia. Fin dagli anni ottanta, Salvatore Silvano Nigro2, nel presentare una raccolta di versi dialettali del Battaglia, esortava a non considerarlo un semplice epigono di Ignazio Buttitta. E lo stesso Battaglia3, nel 1988, ricordando di avere smesso di scrivere in lingua siciliana dieci anni prima, protestava contro coloro che s’attardavano a considerarlo un provinciale poeta dialettale.
1. I primi versi di Battaglia nell’antica lingua di Aliminusa A 18 anni Giuseppe Giovanni Battaglia pubblica, insieme a Tano Gullo, il suo primo libro di versi intitolato La terra vascia. Non è casuale che il libro abbia per titolo una delle prime composizioni del poeta. La terra vascia è un testo chiave per comprendere Battaglia; qui si trova, infatti, quella che Donatella La Monaca, nel bel saggio introduttivo all’ultima edizione di tutti i versi italiani del poeta, ha felicemente definito «cellula originaria»4 della sua opera creativa. Rivediamolo allora subito questo brevissimo testo: La terra ia vascia, vascia Signuri, e si zappa calatu; 162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
suduri e suduri ca ia megghiu la morti. Un ia iocu zappari si la terra ia vascia lu zappuni ‘un sciddica, si la notti lu viddanu si sonna a zappari sempri la terra vascia.5
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Eccolo il «dialetto integrale e lontano», colto immediatamente da Leonardo Sciascia che non mancò di incoraggiare il giovanissimo autore con parole memorabili: Caro Battaglia, quello che a prima lettura, immediatamente, mi ha interessato alle sue poesie, è il dialetto. Un dialetto integrale e lontano, come una restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi, all’interno dell’isola come erano tra le due guerre; e da far pensare anche alla parlata dei nostri emigrati che tornano dopo mezzo secolo, alle parole che hanno conservato come in vitro, nel vitreo immobile ricordo della povera vita di allora - diversamente povera oggi. E poi ho visto che alle parole corrispondevano le cose, la realtà, la situazione in cui l’assume, la condizione cui si ribella - e insomma il sentimento, la poesia. Ritengo che questo sia, ancora, il dialetto che si parla ad Aliminusa - questo piccolo paese nato come escrescenza del feudo e ancora legato alla terra, sicché non per facile retorica i suoi versi dicono l’odio del contadino al padrone, come più di cent’anni fa nei paesi rurali che si sollevavano per la “libertà”.6
Sciascia riconosce al giovane Battaglia il merito di aver saputo sfuggire al rischio della maniera, l’artificiosa ricerca di parole desuete e dismesse, e di essere rimasto invece ancorato al linguaggio di ogni giorno, «alla pena che ad ogni giorno basta», e di essere stato capace di esprimere i sentimenti più intimi dei luoghi e delle cose. La bellissima lettera di Leonardo Sciascia al giovanissimo autore diventerà Prefazione del secondo libro di Pino Battaglia, La piccola valle di Alì, pubblicato da Flaccovio nel 1972, che raccoglie tutti i suoi primi versi dialettali. E sarà proprio questo 163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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libro ad arrivare sul tavolo di Pier Paolo Pasolini e a condurre quest’ultimo, l’anno successivo, a citarlo come un caso unico nel panorama nazionale. Lo dimostra l’intervista che lo scrittore corsaro rilascia a Enzo Golino nel dicembre 1973. Infatti, al giornalista che gli chiede: «È possibile oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?», Pasolini risponde: Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Pierro per la Lucania, Tonino Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia.7
Il ragazzo palermitano di cui Pasolini non ricorda il nome è proprio Pino Battaglia. In una conferenza tenuta nella Sala Picta di Termini Imerese, sei mesi fa, ho documentato analiticamente quanto Battaglia deve a Pasolini. E rimando al testo in corso di stampa, intitolato Pasolini nell’opera poetica di G.G. Battaglia, che offre una più ampia documentazione circa tale rapporto. In questa sede mi limiterò a mostrare solo alcuni dei fili che legano il poeta di Aliminusa ad uno dei più grandi autori del nostro ’900. Finora, comunque, tra i tanti che hanno scritto su Battaglia, soltanto Vincenzo Ognibene ha indicato Pasolini come suo principale «amico e méntore»: Sei andato nel giorno della festa dei morti, nel giorno di Pasolini, tuo primo amico e méntore col quale nel tempo così parlasti: sabbia fine non è l’oro che riluce / ma grigio sogno nel circo superiore. Quasi trent’anni è durata la nostra amicizia e mi è difficile parlarne […]. È giusto ricordare questo nostro sodalizio che ci ha visto assieme attraversare come viandanti questo nostro tempo, partendo dai nostri paesi per immetterli nel processo della modernità.8 164 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
2. Dialetti e universo contadino
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Le prime poesie di Battaglia risentono parecchio, dal punto di vista tematico, dell’influenza di Ignazio Buttitta. I temi principali sono la denuncia delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali, l’inno alla libertà e all’amore in tutte le sue forme. Ma, fin dal principio, i versi di Battaglia, rispetto a quelli di Buttitta, si distinguono per la loro maggiore essenzialità. Basta ricordarne solo alcuni: Vriogna! tuttu lu jornu sucati l’ossa a lu viddanu e mancu arrussicati la sira nta la chiazza.9 Ci voli amuri a crisciri nta la campagna aviri paroli duri chi duna la terra parrari quantu basta pi farisi capiri di l’autri viddani.10
Battaglia, fin da giovane, apprende ad usare con parsimonia le parole. È fortemente attratto dal modo di parlare dei contadini (li viddani) del suo paese che sanno usare poche essenziali parole, che riescono a colpire sempre per la loro durezza e aderenza alle cose. Il 1972 è l’anno in cui vede la luce anche la prima edizione del libro di Ignazio Buttitta Io faccio il poeta, introdotto dello stesso Sciascia. Lo scrittore di Racalmuto è stato il trait d’union tra Battaglia, Buttitta e Pasolini. Nei primi anni settanta, i rapporti tra Battaglia e Buttitta sono molto stretti. Battaglia accompagna spesso il poeta di Bagheria alle Feste dell’Unità della provincia di Palermo, dove vengono letti i loro versi. Entrambi riescono a dare dignità di lingua al dialetto siciliano che, nelle loro mani, diventa anche uno strumento di lotta per una società più libera e giusta. 165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’introduzione di Leonardo Sciascia al libro di Buttitta si conclude con un rimando alla poesia U rancuri e un polemico riferimento a Neruda. Ma il nocciolo dell’analisi sciasciana va ricercato nel passo in cui, da un lato, si riconosce la radice popolare e contadina della poesia di Buttitta, dall’altro, con un’apparente contraddizione, si afferma che quelle indiscutibili radici non fanno di lui un poeta popolare. È singolare che due anni dopo Pasolini, nel recensire questo stesso libro di Buttitta, riprenda le osservazioni critiche di Sciascia. E non mi sembra casuale il fatto che questa recensione venga ripresa nei suoi Scritti corsari11 che Battaglia mostra di conoscere perfettamente. Questa recensione è importante anche per la ricostruzione della biografia intellettuale dello scrittore corsaro. In essa, infatti, tra l’altro, Pasolini spiega la ragione per cui, proprio negli anni 1973-75, torna a scrivere versi in friulano: Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano [12]. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent’anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai “del potere”).13
Ho voluto riprendere per esteso questo passo della riflessione pasoliniana per evidenziare come in essa si trovino fusi 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tra loro, come spesso accade nei suoi testi, i livelli del pensiero astratto con i sentimenti e le emozioni derivanti dalla vita vissuta. E questo, come vedremo più avanti, è uno dei tratti distintivi comuni al modo di pensare e di essere sia di Pasolini che di Battaglia. Pasolini nella sua lettura di Buttitta va ben oltre Sciascia e, forse, offre una chiave per comprendere meglio le ragioni per cui Battaglia prenderà successivamente le distanze dal poeta di Bagheria: Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro “rancore”, la loro rabbia, la loro esplosione di odio: si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nella casa degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c’è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo.
Pasolini, con il suo rigore critico, in questa sua pagina, non concede nulla a populismi e buoni sentimenti: Tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia […]. Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto […] dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi: il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema affiche formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta - prima di chiedere di essere giustiziato come borghese - predica in realtà a sé i caratteri che predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all’immagine che ne hanno 167 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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avuto i partiti comunisti storici. Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica […].14
Siamo qui di fronte a un punto alto di riflessione dello scrittore corsaro, che Battaglia riprenderà in molte sue poesie e negli articoli che, tra il 1979 e il 1980, pubblicherà in un periodico della Camera del Lavoro di Palermo. Su questo punto credo che Salvatore Silvano Nigro abbia visto meglio di Tullio De Mauro che, nel 1977, introducendo una nuova raccolta di versi dialettali di Battaglia intitolata Campa padrone che l’erba cresce, «fraintende Sciascia e tradisce la vera poesia di Battaglia», non riuscendo a cogliere l’originalità di quest’ultima rispetto a quella di Buttitta.15 In realtà un’eco del pensiero e dello stesso lessico pasoliniano si avverte già nelle poesie scritte nel biennio 1976-1977, intitolate Le strade delle mutazioni, che segnano un primo cambiamento nei contenuti e nello stile di Battaglia. Basti pensare a due brevissime composizioni di questa raccolta: Parramu a lu suli picchi mai amu parratu! (Parliamo al sole perché mai abbiamo parlato!) Cu parra a li praneti camina rarenti! (Chi parla ai pianeti cammina radente i muri!).16
Ma la svolta vera si ha nel 1979/1981, quando scrive e pubblica i suoi primi versi in lingua italiana raccogliendoli in un libretto intitolato I luoghi degli elementi che, non a caso, si apre con una citazione in esergo di M. Heidegger («Incamminati, / e mancanza e domanda sopporta / lungo il tuo solo sentiero»)17 e una metaforica Apologia della chiocciola in cui il poeta si paragona alla lumaca che «sul fradicio cammina / e, pur se lenta, arriva / […] / e la direzione mantiene, / lo scopo affer168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ma».18 Non può non colpire la citazione heideggeriana fatta da un giovane marxista, per quanto eretico, qual’era ancora nel 1979 Battaglia. Si può cogliere in essa un chiaro e netto rifiuto di ogni chiusura dogmatica insieme ad una aperta e laica volontà di muoversi senza certezze precostituite.
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3. Un corsaro dentro la CGIL Sia Pasolini che Battaglia hanno avuto chiara consapevolezza che l’universo contadino, da entrambi, forse, un po’ idealizzato, fosse condannato a scomparire. Eppure, così come Pasolini non avrebbe scambiato una lucciola per tutta la Montedison, Battaglia considerava più prezioso un piccolo albero d’ulivo che l’intero stabilimento della FIAT di Termini Imerese. Le ragioni del cuore, cui si richiama esplicitamente Pino Battaglia in una importante nota introduttiva ai suoi ultimi versi scritti nella «lingua della madre»19, sono state sempre anteposte dai due poeti alle ragioni della storia. Una spia dei profondi mutamenti sociali in corso, Battaglia li avverte già nella metà degli anni ’70, quando, ancora studente universitario ospite del Pensionato palermitano di S. Saverio, tornando al suo paese non si sente più riconosciuto dai vecchi contadini. Scriverà più tardi: Unni nascivu ‘un mi canuscinu chiù (dove sono nato non mi riconoscono più). Proverà, infatti, sgomento davanti alla piazza vuota del suo paese.20 Verso la fine degli anni ’70 Battaglia comincia a scrivere anche in prosa. Ma in tutto quello che scrive si trova sempre un fondo di poesia. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai pezzi che pubblica su un periodico palermitano nel biennio 1979/1980. A differenza di Pasolini, infatti, Battaglia scrive questi articoli su un modesto periodico della Camera del Lavoro di Palermo, intitolato Sindacato, che pochi leggevano. A spingerlo a scrivere e a pubblicare su questa testata sarà lo 169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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stesso direttore del periodico, Aurelio Colletta, che, conosciuto Pino quand’era ancora un suo alunno dell’Istituto Tecnico Commerciale di Termini Imerese, ed avendo letto con simpatia i suoi primi versi, gli affida, senza alcuna esitazione, l’autogestione di una pagina della rivista, oltre alla cura di alcune originali inchieste, pur sapendo quanto fosse imprevedibile e poco addomesticabile il poeta. Battaglia dimostra la sua autonomia e indipendenza di giudizio, la sua profonda laicità, appunto, fin dal suo primo pezzo, intitolato Corsivo, pubblicato nell’aprile del 1979. Qui, infatti, insieme ad alcuni brani (allora inediti) de L’ordine di viaggio, vede la luce un testo polemico, intitolato Dai primi anni ‘50, in cui si rappresenta un dirigente sindacale che rivolge a dei giovani compagni questa domanda: In una delle mie mani ho una patata bollita, nell’altra Proust; al contadino che mi sta di fronte cosa è giusto che io dia? E cosa pensate, se gli fosse dato di scegliere, che prenda?»
Lo stesso Battaglia, caustico, risponde: Aveva, di già, scelto per il contadino la patata bollita; aveva disposto che solo quella gli era necessaria.21
Come si vede, pur scrivendo su un foglio della CGIL, Battaglia non teme di criticare l’operato di tanti sindacalisti del tempo, dimostrando, ancora una volta, quanto laico fosse il suo punto di vista in anni in cui i furori ideologici e lo spirito di appartenenza prevalevano nettamente sullo spirito critico. Un mese dopo intervista il poeta cileno Herman Castellano Giron e, successivamente, pubblica un lungo resoconto dell’incontro che il cileno ha con gli operai di una fabbrica palermitana.22 In un graffiante articolo del giugno 1979, intitolato Sindonia di anime morte, prendendo spunto dalle notizie relative alle famigerate imprese del banchiere Michele Sindona, sferra un duro attacco al sistema di potere democristiano con un esplicito 170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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richiamo al famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole di Pasolini. Ne riprendiamo di seguito l’amaro e sarcastico passo finale: O mostri dell’intelligenza, menti mostruosamente fantastiche, genìa sublimemente illuminata. O sterminatori di lucciole e di rami, amici degli uomini e della poesia, puri di cuore che, anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la vostra Opera, non possiamo fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati ai vostri piedi, […]. E, se la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice Renard, figlie di una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre più definitiva, a noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose città; ai centri storici; alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle immense opere di Lor Signori. E siamo felici, lo confessiamo. Il mondo, ormai, è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed, anche, i fiordalisi, finalmente. Le morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio.23
Sarcasmo a parte, Battaglia nel 1979 mostra ancora di avere fiducia nella storia, non si spiegherebbe altrimenti il rimando alla battuta finale, mutuata dal compagno contadino. Ma il pezzo che mostra, inequivocabilmente, quanto il poeta di Aliminusa avesse assimilato in profondità lo stile dello scrittore corsaro, capace di scandalizzare i benpensanti di destra e di sinistra, viene pubblicato nel novembre del 1979. L’articolo, intitolato Note ai margini di un funerale, è dedicato ad uno dei tanti “funerali di Stato” celebratisi a Palermo in onore dei rappresentanti delle Istituzioni caduti sul fronte dell’antimafia. Battaglia ricorda che l’espressione Càrinu comu li pira viene usata a Palermo per indicare i morti ammazzati dalla mafia. Il poeta è colpito, soprattutto, dall’indifferenza che traspare già da questo modo di dire. Ma, a differenza di tanti altri, prova a darne una spiegazione non moralistica, avvalendosi, oltre che di Rousseau, di una antica metafora contadina: La violenza che è nell’indifferenza, soglia di ogni male, a Palermo si respira ovunque. Negli occhi degli uomini, vuoti, come l’occhio 171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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delle capre. Negli occhi impertinenti dei bambini, impudichi, che, in questa sciagurata città, la vita porta a disprezzare sé e gli altri. Non è problema di educazione e rieducazione; la violenza che è nell’indifferenza, soglia di ogni male, affonda le radici, per fermarci alle cose vicine, in quella classe di inetti e spergiuri che, da trenta anni, ha governato all’insegna del detto tiriamo a campare (o ad ammazzare?), assopendo la coscienza dei molti, consentendosi rapacità principesche. Da educare e rieducare c’è, soltanto, la classe politica al potere. (Rousseau: È certo che i popoli sono alla lunga ciò che il Governo li fa essere…). Vale il principio della terra da seminare. Bruciare le male erbe, spetrare, tracciare i solchi e arritibulari, cioè ripassare con l’aratro il terreno, in senso contrario; si potrà, poi, seminare. Soltanto dopo aver zappato i fili di grano primieri e tolte le male erbe […] si potrà mietere e raccogliere. Vale, per questo Stato, il principio della terra da seminare, se si vuole raccogliere.24
Particolarmente tagliente la stoccata finale contro la retorica dei “funerali di Stato”: Il F. S. - mi si perdoni la brutalità, ma la cosa è brutale - serve ad incontrarsi e a tessere e disfare orditi. Nella sfarzosa cornice della Cattedrale, molte, troppe persone sembrano dicessero: volemose bene.25
4. Sacralità della poesia e della vita Battaglia, come Pasolini, non ha mai smesso di svolgere quello che riteneva essere il “primo dovere di un intellettuale”, ossia «esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti».26 Nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, proprio qualche giorno prima d’essere trucidato, Pasolini aveva lanciato un allarme: State attenti. L’inferno sta salendo da voi. Non vi illudete. Voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere.27 172 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
In questa intervista si trova, a parer mio, una delle più intelligenti definizioni del concetto di potere che io conosca:
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Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. […] Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti giù fino ai poveri. Ecco perché vogliono tutti le stesse cose e si comportano nello stesso modo […]. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.28
Una rappresentazione simile del potere si trova anche in Battaglia, particolarmente nei suoi testi teatrali dei primi anni Ottanta, che mi riservo di analizzare puntualmente in un’altra occasione. Qui basta ricordare il rapporto stretto che si stabilì, in quegli anni, tra Pino, Lina Prosa e Michele Perriera. Lina Prosa ha saputo fare una bella, per quanto sommaria, ricostruzione di quella creativa stagione di Battaglia nella Presentazione dei testi raccolti in un bel volume.29 Mentre Francesco Muzzioli, nel saggio introduttivo al Dramma-farsa G. III dello stesso Battaglia, oltre a richiamare un passo centrale dell’opera (Il potere è figlio di ignoti […]. In qualsiasi modo lo amministri, dilani, squarti. E sia secondo ragione e sia secondo follia)30 ne evidenzia la “vischiosità” da cui è difficile districarsi: il potere è come il ventre materno, vischioso come l’umidità che respiro. Il potere somiglia all’acqua: Mai fidarsi dell’acqua! Diabolica, senza forma ne assume mille!31 Ma è, soprattutto, in alcuni versi raccolti nei suoi ultimi libri di poesie in lingua italiana che si ritrova espressi, con forza, il senso del vuoto avvertito e la sua opposizione radicale ad un mondo in cui non era più possibile riconoscersi: Non ci era dato di conoscere il senso ultimo del nostro affanno, Non sognavamo più niente […] Chinare il capo e tacere, I morti con noi consumavano l’artificio e l’autentico. […] 173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
bruciammo parole giunte a mal partito» (Lo scoppiettio del vuoto)32
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Questa opposizione, infatti, raggiunge il suo apice in una delle sue ultime composizioni che ha per titolo L’ira del pastore: Voi che avete distrutto i pascoli verdi dove le epoche avevano sedimentato il sogno, voi che avete reso minimo l’oro delle costruzioni dei boschi, voi che dell’infanzia del mondo avete saputo imbastire un groviglio, voi i destinatari del mio disprezzo. Io, nella rocca del mondo, m’ascolto esistere e mi rivolgo alle pietre, alle canne, agli incantati pagliai, e non scricchiolano le ossa dei miei cent’anni.33
Pasolini amava ripetere che tutto è sacro e, in una lunga intervista a J. Halliday, risalente alla fine degli anni Sessanta, ha precisato meglio il suo pensiero: Il mio modo di vedere il mondo […] forse è troppo rispettoso, troppo reverenziale, troppo infantile; io vedo tutto quello che c’è nel mondo (gente, natura) con una certa venerazione sacrale. […]. Non sono interessato alla dissacrazione. È una moda che detesto[…]. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle.34
Lo stesso Pasolini, in un’altra famosa intervista a Enzo Biagi, che gli domanda, sorpreso, come mai un pensatore marxista mostrasse tanto interesse per il Vangelo di Cristo, afferma: Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico: tratto le cose un po’ come miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione - in maniera sempre informe, diciamo così - non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere. 174 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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[…] Per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero che non consola: che riempie, che integra, che rigenera.35
Una visione del mondo simile a questa si trova in tutta l’opera poetica di Pino Battaglia. Essa trova una prima forte espressione nei versi che scrive, nel biennio 1984-1985, a seguito di una sua personalissima rilettura della Bibbia. Questi versi vengono raccolti in un libretto, intitolato Genesi e Requiem che, tradotti in tedesco da Bruna Dal Lago e Elmar Locher e musicati da Heinrich Unterhofer, saranno pubblicati nel 1986 in un prezioso volume.36 Fin dalle prime righe, in un linguaggio ermetico che gli è familiare, Battaglia enuncia il suo programma: Primo giorno L’arido regni dov’è terra e l’oscuro dov’è il cielo luce dia dunque risalto alla mia luce affinchè io possa definire il mio contrario. Il giorno sia del puro e sia dominio, la notte del perso nel suo equivoco.37
Gli elementi contraddittori (i contrari) presenti in apertura della sua Genesi tornano in tutti i sei giorni successivi. In forme diverse le coppie dei contrari s’inseguono tra loro (maschio e femmina, sapienza e mancamento, perdita e allontanamento, limpido e torbido, generazione e corruzione, umido e secco) e sembra che trovino pace solo nel settimo giorno, quando il poeta sembra aver raggiunto, seppure in forma vaga, la consapevolezza dialettica che tutto l’universo è pervaso da contrari: settimo giorno
(sospensione) M’abbandono, e mi dona altra vaghezza il perdurare nell’umido e nel secco.38
Ancora più drammatici appaiono i versi del suo singolare Requiem, sotto titolato preghiere di un morto per i morti, che si apre così: 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Anthipona ad introitum «Io ti cerco, Signore, e disangue mi si macchia l’occhio e la mano. Nel mare del buio mi sostengo come la palmata foglia in attesa. Non sono stati gli escrementi di una rondine, Signore, a rendermi cieco, né la mia mano è stata resa inoperosa da una vigna che pazienta. Io non ho fatto come la terra che nutre il chicco , ma come il vento che lo disperde.39
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Questo tema torna nel suo Dies irae: Non somiglio al grano che nutre e che è grato, né dell’uva al grappolo che fragile compie, ma al casuale vento che patisce e distrugge. […] Un muratore operoso e severo, con pietra viva e cemento, definisca il mio fosco passare e il mio male declini nel luogo. […] Signore, giorno d’ira è il Tuo giorno, il vero ritorna tramite Te, spoglio, ormai, e ogni senso perduto.40
Ma raggiunge il suo apice nell’Offertorium: «Ti offro, Signore, la mia carne devastata e i minuzzoli dei miei occhi. Per fossi e per borri, le ali agitate della mia inquietudine, le fredde mani con cui palpo le pietre venose della terra, e i sotterranei rivoli della mia disperazione. Se perdendo il corpo io ritrovo l’essenza, sia persa la briciola in nome del seme.41
Traspare chiaramente da questi versi straordinari un vago senso di colpa e un presentimento della prossima malattia che lo condurrà ad una prematura morte. Battaglia nei suoi ultimi anni di vita è stanco ma - a differenza di Pasolini, a cui pur non mancava il senso religioso della vita 176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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- è sostenuto da una fede potente. Si avverte, soprattutto nei suoi ultimi versi, una personale rilettura dei Salmi e del libro di Giobbe dell’Antico Testamento. Non a caso, tra le ultime cose che ha scritto, si possono leggere preghiere come queste: Lo scriba è stanco e, in punta di piedi, s’allontana dalla vita; in silenzio, s’appressa alle vette, ai manti di neve, e in tanto mare, come il dolce passero, che si nutre di quel che resta […] La verità dell’anima esige distanza. Lo scriba è stanco d’essere scriba, chiede dunque, dissolvimento e mutazione.42
Pino Battaglia sa che il suo viaggio sta per volgere al termine, egli ha ormai preso distanza da tutte le cose amate nel corso della sua breve ma intensa vita. Non gli costa nulla, ora, riconoscere d’essere stanco e si rivolge così al suo unico Signore: Mia roccia, mio Signore, donami il sigillo della dimora perché, ormai, è sera e io sono il viandante, […]. Ora io sono stanco. Le vene dolci della viva pietra voglio per dimora e nella legna che brucia consumare l’arte. Vengano ai tuoi piedi tutte le strade che ho percorso. Ti chiedo grazia.43
Oltre che dalla sua solida fede e dalla sua poesia, negli ultimi giorni della sua vita, Pino è stato sostenuto dai suoi amici più cari, dalle sorelle e dalla madre. Alla madre aveva dedicato questi versi quando aveva solo 18 anni: Casa dove tutto ha sapore di lei un libro ordinato nella scrivania, il pavimento pulito, l’amore disegnato su tutti i muri. Madre stammi vicino ora che i fiori sono lame sguainate pronte a ferire chiunque in un mondo di nemici e di sangue 177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
sparse al vento […]. Stammi vicino e non mi lasciare.44
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Sarebbe facile qui ricordare cosa ha rappresentato la madre per Pasolini. Ed evito quindi di farlo. Ma va ricordato che il poeta di Aliminusa, nel 1992, in una breve nota introduttiva alle sue ultime raccolte di versi dialettali Fantàsima (1991) e Discesa ai morti (1992), scrive: Mai dire mai. Dopo tredici anni è riaffiorata la lingua della madre, primigenia e assoluta, integra e viva, qual è ancora oggi, mai persa, nonostante la lontananza da questi luoghi, certo, discontinua, ma reale. Per quel che vi può essere di reale nelle cose della vita. Tirate le somme, ad ogni modo, contano, quanto meno dovrebbero contare, le ragioni del cuore.45
Fino alla fine, pertanto, Battaglia rimane fedele sia alle ragioni del cuore che alla lingua della madre con la quale scrive alcuni dei suoi versi più belli: “Vinninu scuru”, rici lu scuru “Vinninu lustru”, rici lu lustru. ‘Mpurrazzàssiru ‘na larma di ventu, scuvassi ventu, e ci sfunnissi lu sensiu!46
Battaglia ha vissuto le gioie, i dolori e i misteri della vita «con teneri occhi di bimbo»47. Ha conservato fino all’ultimo il suo stupore infantile, non ha mai tradito le cose in cui credeva; anche per questo, nei primi incendi che hanno bruciato i boschi dell’isola, ha visto bruciare il cuore stesso delle nostre infelici città: Il bosco brucia ed è peggio che bruci il cuore di una città […] La strada, in salita, ci porta al di là del fuoco, in una radura sicura. La formica che una mollica porta s’assume l’onere della conservazione.48
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La poesia degli ultimi mesi di vita di Battaglia diventa allora “la formica” che si assume, appunto, “l’onere della conservazione”. E sta tutta qui, secondo me, il suo carattere “sacrale”.49 Lo stesso Battaglia, peraltro, si è mostrato consapevole fino all’ultimo della sua segreta forza:
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Non tradire mai la tua luce poiché quando morirai luce dovrai espandere.50
Note 1. G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, a cura di Vincenzo Ognibene, Lithos Editrice, Roma 2015. 2. Il testo di S. S. Nigro si trova ora in G.G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio. Poesie 1968-1992, a cura di Vincenzo Ognibene, Arbash edizioni, Bagheria 2005, pp. 161-163. 3. G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, cit., p. 141. 4. Donatella La Monaca, Lo scriba ramingo, Introduzione a G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, cit., p. 21. 5. G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, cit., p. 26. 6. Il testo integrale della lettera di Leonardo Sciascia si trova ora in G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, cit., p. 155. 7. L’intervista di Enzo Golino a Pasolini esce sul quotidiano Il Giorno il 29/12/1973. Il testo dell’intervista, insieme ad altri testi, verrà poi raccolto dallo stesso autore nel volume Letteratura e classi sociali, Laterza, Bari 1976. I passi citati si trovano a p. 111. 8. La testimonianza di Vincenzo Ognibene, preziosa per me, si trova ora in Giuseppe Giovanni Battaglia, L’Ordine di Viaggio, cit., p. 175. Il testo del poeta di Aliminusa, intitolato Fanciulli, si trova ora raccolto in G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, cit. pp. 161-162. 9. G. Battaglia, Vriogna, in La piccola valle di Alì, Flaccovio, Palermo 1972, ora in L’Ordine di Viaggio, cit., p. 36. 179 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
10. Ivi, p. 31. 11. La recensione di Io faccio il poeta, pubblicata nel gennaio 1974 sul periodico Tempo, rispunta in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp. 221-225.
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12. Nel saggio Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, pubblicato nel novembre 2011 sulla rivista dell’Università di Barcellona Quaderns d’Italià, ho cercato di mostrare, tra le altre cose, come le ultime poesie friulane di Pasolini, raccolte nel volume La nuova gioventù (Einaudi 1975), coeve ai più famosi Scritti corsari, contribuiscono a comprendere meglio il suo pensiero. Queste poesie, scritte all’indomani della crisi petrolifera del 1973, anticipano di quarant’anni i teorici odierni della cosiddetta decrescita (Latouche e altri). In esse viene indicata una possibile via d’uscita dalla crisi. Ma i poeti, si sa, tanto più geniali sono, tanto meno vengono ascoltati. 13. Ivi, pp. 221-222. 14. Ivi, pp. 223-225. 15. S. S. Nigro, La nuova follia di Giuseppe Battaglia, Prefazione a L’Ordine di Viaggio (1988), ora in L’Ordine di Viaggio, cit., pp. 162-163. 16. Questi versi intitolati Proverbi, raccolti nella sezione “Tra l’incudine e il martello”, fanno parte della raccolta Le strade delle mutazioni 1976-1977, ora in L’Ordine di Viaggio, cit., pp. 67-69. 17. Ora in G. G. Battaglia, Poesie, 2015, p. 65. 18. Ivi, p. 69. 19. G. G. Battaglia, Nota dell’autore (1992) all’ultima edizione de L’Ordine di Viaggio, 1968-1992, comprendente gli ultimi versi scritti in dialetto da Battaglia Fantasima e Discesa ai morti (1992), ora nella nuova edizione Arbash già citata, p. 143. 20. La chiazza vacanti è il titolo di una sua poesia. 21. Sindacato. Periodico della Camera del Lavoro di Palermo, n. 3, aprile 1979, p. 22. 22. Ivi, n. 4, maggio 1979, pp. 4-7. Significativo appare il fatto che lo stesso periodico, qualche mese dopo, e precisamente sul n.7/1979, pubblichi un profilo di Neruda firmato dallo stesso H. Castellano Giron. 23. Ivi, n. 5, giugno 1979, p. 21. 24. Giuseppe Battaglia, Note ai margini di un funerale, in Sindacato, novembre 1979, pp. 5-6. 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
25. Ivi, p. 6. 26. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 31.
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27. Pasolini, Siamo tutti in pericolo, Intervista a cura di Furio Colombo, La Stampa, Tuttolibri, 18 novembre 1975, ora Sps, pp. 1728-1729. 28. Ivi, pp. 1725-1726. Tanti hanno comunque dimenticato che affermazioni simili Pasolini le aveva fatte fin dai primi anni ’60. Basti ricordare, per tutti, questo passo: «L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società» (P.P. Pasolini, in Vie Nuove 1962). 29. G. Battaglia, Sei testi teatrali, a cura di V. Ognibene, Presentazione di Lina Prosa, Arbash, Bagheria 2005. 30. Ivi, p. 58. 31. F. Muzzioli, Saggio introduttivo a G. Battaglia, G.III, cit., pp. 146-147. 32. G. Battaglia, Storia minima delle situazioni generali (1992), ora in Poesie 1979-1994, cit., p. 448. 33. G. G. Battaglia, La conta delle ore, 1988-1992, ora in Poesie 1979-1994, a cura di Vincenzo Ognibene, Lithos Editrice, Roma 2015, p. 446. 34. Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday [1968-1971] ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 1332-1336. 35. Il testo dell’intervista rilasciata da Pasolini a Biagi si trova negli Archivi RAI. La copia audiovisiva della stessa si trova oggi anche in YouTube. Il passo citato l’abbiamo ripreso dalla rivista Nuovabusambra, n. 3/2013, Giovanni XXIII visto da P.P. Pasolini (a cura di Francesco Virga): 68-84. Una copia integrale dell’intervista si trova anche in http://www.doppiozero.com/ materiali/ppp/produco-poesia-una-merce-inconsumabile. 36. G. G. Battaglia, Genesi e Requiem, Introduzione di Bruna Dal Lago, Progetto scenico di H. Unterhofer, Disegni di M. Vallazza, Edizioni Nuovo Studio Bolzano, 1986. Nel 2018 il Conservatorio di Musica Vincenzo Bellini 181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
di Palermo ha in programma la prima esecuzione nazionale dell’opera di Battaglia nella versione musicata da Heinrich Unterhofer. 37. Ivi, p. 20. 38. Ivi, p. 32. 39. Ivi, p. 40. 40. Ivi, p. 42. 41. Ivi, p. 44. 42. G. G. Battaglia, Lo scriba è stanco, in La conta delle ore (1988-1992) ora in Poesie (1979-1994), p. 452. Documento acquistato da () il 2023/09/12.
43. G. G. Battaglia, Preghiera serotina, ivi, p. 429. 44. G. G. Battaglia, Lettera alla madre, in La terra vascia, cit., pp. 40-41. 45. G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, cit., p. 143. 46. G. G. Battaglia, Discesa ai morti (1992), ora in L’Ordine di Viaggio, cit., p. 130, dove si trova anche la traduzione italiana fatta dallo stesso poeta. 47. Poiché io ebbi freddo in una lunga notte ora in G. G. Battaglia, Poesie (2015), cit., p. 445. 48. Incendio, 1994, ora in Poesie, cit., p. 447. 49. Ferruccio Ulivi è stato uno dei primi critici a cogliere la “sacralità” della poesia di Battaglia nella sua Introduzione a Il libro delle variazioni lente, Lithos, Roma 1987. 50. G. G. Battaglia, Poesie (2015), p. 451.
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IV.
Pasolini tra incanto e disincanto
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«Nella musica abbiamo le vere parole della poesia». Pier Paolo Pasolini
La letteratura critica sull’opera pasoliniana è vastissima ma non sempre di grande qualità. Su Pasolini è stato scritto davvero tanto ma, spesso, in modo ripetitivo e superficiale. Pochi sono riusciti ad entrare nel cuore del suo pensiero. Gli stereotipi e i pregiudizi hanno avuto tante volte la meglio sullo studio serio ed attento di uno dei più complessi e problematici autori del Novecento. Guido Santato1, attraverso l’esemplare analisi testuale della sua immensa opera, è stato uno dei primi a liberare Pasolini dalla presenza ingombrante del suo personaggio (costruito ad arte anche dai suoi numerosi denigratori) che, più di una volta, ha finito per oscurare il valore reale dell’uomo e della sua opera. Peraltro la recente riedizione di tutti i suoi scritti nella collana Meridiani della Mondadori2, ha fatto toccare con mano l’ampiezza e profondità di un’ opera che non può essere rinchiusa nei tradizionali confini disciplinari. Durante la sua breve vita Pasolini è riuscito ad occuparsi di tutto - poesia, musica, linguistica, antropologia, cinema, teatro, critica letteraria, filosofia e politica - riuscendo a lasciare la sua impronta originale su tutto quello che toccava. Già solo questo dato potrebbe spiegare la ragione per cui la sua opera è 183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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stata in gran parte incompresa. Era inevitabile, infatti, che, in un tempo, come il nostro, dominato dallo specialismo e dalla frammentazione dei saperi, Pasolini apparisse un dilettante, e come tale trattato, spesso, da tanti critici.3 Il libro di Claudia Calabrese, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Editrice, 2019), scaturisce dalla rielaborazione della tesi dottorale discussa dall’autrice nel 2018 presso l’Università La Sapienza di Roma. Basta dare un’occhiata all’Indice e alla bibliografia del volume per cogliere immediatamente la serietà del lavoro compiuto. Se lo si legge poi con l’attenzione che merita non si tarda a capire che il libro segnerà una svolta e lascerà un segno durevole nella storia della critica pasoliniana per la sua originalità, per il suo rigore argomentativo nonché per la scioltezza e la felicità espressiva dell’autrice che riesce a coinvolgere, anche emotivamente, il lettore attento. Claudia Calabrese ha sempre amato sia la musica che la poesia. Questa doppia passione l’ha sostenuta nel corso della sua non facile ricerca per superare i dubbi e gli ostacoli che ha incontrato. Risolutiva è stata la lettura di quella sorta di autobiografia in versi di Pasolini, intitolata Il poeta delle ceneri, risalente agli anni sessanta ma rimasta inedita fino al 1980.4 È in questo testo che il poeta afferma di aver desiderato di essere soprattutto uno scrittore di musica: […] vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo […] e lì comporre musica l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.5
Partendo proprio da questo testo, Calabrese riesce a penetrare nel «pensiero musicale» del poeta bolognese-friulano fino a comprenderne il senso profondo. Musica, infatti, per Pasolini 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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non è soltanto la grande arte di Bach e Mozart (i suoi musicisti preferiti), ma anche «tutto ciò che risuona nel mondo»: i suoni naturali, il canto degli uccelli, le foglie, le acque, i canti del popolo. Pasolini, fin da giovane, intuisce che musica e suoni oltrepassano i confini visibili del reale e ne evocano il mistero. Da qui deriva «l’in-canto per l’arcaica parola poetica», l’entusiasmo con cui ascolta tutti i suoni della vita, dal «grembo sonoro del Friuli» alle borgate romane. Le correspondances tra musica e poesia, che l’autrice ha voluto indicare già nel titolo del suo lavoro, vengono ben spiegate nella sua Introduzione: Musica e poesia, suono e parola arcana e arcaica sono strettamente connessi e dalla riflessione razionale transitano all’opera artistica la cui costruzione, attraverso lo stile, porta il poeta all’intuizione consapevole che, come accade nella scrittura musicale, l’espressione del senso più profondo, nella poesia, nella letteratura e poi nel cinema, passa per la composizione di un’architettura che presenta analogie con la scrittura musicale, evocativa e, in ultima analisi, sospesa.
Altri studiosi, prima della Calabrese, si sono occupati del rapporto tra Pasolini e la musica, con particolare riferimento al suo cinema. Ma, come nota Stefano La Via nella Prefazione, nessuno prima era riuscito a mostrare in modo altrettanto ampio, sistematico e convincente come, nella dimensione poliedrica della musica, trovi la sua prima radice la poesia, e come essa accompagni Pasolini non solo nella sua opera letteraria e cinematografica, ma anche nelle sue riflessioni estetiche e filosofiche. C’è voluto tanto coraggio per scrivere un libro come questo. E di questo coraggio parla la stessa autrice in una nota del libro quando afferma: È […] il coraggio il segno distintivo di ogni soggetto che compie una ricerca e in qualche modo innova, in barba ad ogni ‘autorità’ più o meno costituita, più o meno incorporata. Nel mondo arcaico greco, è il coraggio dell’eroe. Per scrivere ci vuole coraggio, 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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per pensare nuovi versi o un nuovo film o un romanzo, un articolo per un giornale e darli in pasto alla barbarie della cosiddetta civiltà, tutta intrisa e guidata dallo ‘sviluppo’ e spesso incapace di pensare un pensiero originale. Ci vuole coraggio intellettuale a guardare in faccia la realtà e cercare sempre la verità e il linguaggio migliore per esprimerla. Ci vuole coraggio a mantenere in vita, ricreandola man mano, la fiammella della meraviglia, della stupefazione e della curiosità infantili di fronte alle manifestazioni del mondo, anche di quello interiore, sentendola come la culla sia della poesia, sia del pensiero razionale, senza farsi sommergere da qualsiasi ‘autorità’ che ti voglia addomesticabile, o addirittura già addomesticato crescendo. E questo coraggio appartiene a Pasolini e sin dall’inizio ha un suono.6
1. Gli Studi su Bach del giovane Pasolini Il libro di Calabrese ha una struttura simile a quella di un’opera musicale e si sviluppa attraverso due movimenti e un intermezzo con frequenti ritorni e variazioni sullo stesso tema. Nel primo movimento l’autrice prende le mosse dall’analisi di un testo giovanile del poeta intitolato Studi sullo stile di Bach. Il saggio risale al biennio 1944-1945, inedito fino al 1999, anno in cui viene pubblicato nel primo tomo dei Saggi sulla letteratura e sull’arte dei Meridiani Mondadori. La Calabrese, avendo consultato il manoscritto custodito, insieme ad altri, nel “Fondo Pasolini” presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, non manca di notare alcuni errori di trascrizione compiuti dai curatori dell’Edizione meridiana. Il saggio del giovane Pasolini viene analizzato dalla Calabrese con acribia, seguendo costantemente il suo rigoroso metodo che la conduce a non isolare mai il testo dal suo contesto linguistico e storico. Bach è stato il musicista prediletto di Pasolini. A iniziarlo a Bach fu la violinista slovena Pina Kalc, conosciuta a Casarsa, in 186 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Friuli, nel febbraio del ’43: «Bach rappresentò per me in quei mesi la più forte e completa distrazione: rivedo ogni rigo, ogni nota di quella musica; risento la leggera emicrania che mi prendeva subito dopo le prime note, per lo sforzo che mi costava quell’ostinata attenzione del cuore e della mente», ricorda il poeta nei suoi Quaderni rossi. La Kalc, addirittura, tentò di dare al giovane Pasolini lezioni di violino. Ma non ebbe successo, come ha raccontato la violinista: «Non studiava. Mi diceva: Ma no, Pina, mi suoni lei, e mi suoni Bach. Sempre finiva così. Metteva il violino nell’astuccio, si metteva a sedere: Mi suoni Bach». Quelle audizioni però, folgorarono Pasolini tanto che, nei suoi Scritti corsari nota: «Mi sento ancora fortemente commuovere dalla sua immagine che suona Bach; lei ha costruito un edificio saldissimo nella mia vita». Ed è vero: la musica e Bach, per Pasolini, hanno costituito un edificio saldissimo. Eppure lo stesso Pasolini coglie una contraddizione nella musica di Bach, una oscillazione continua tra una forma di serenità celeste e una sensualità profonda. Insomma il giovane Pasolini, in questo saggio, intravede una prima espressione del conflitto tra carne e cielo che, secondo Calabrese, è uno dei principali leit motiv della sua vita e della sua opera: ‘Carne e Cielo’, due tensioni opposte e inconciliabili, ma coesistenti, che egli sente nella musica di Bach di cui tento, collegandole al vissuto, di individuare la genesi nell’animo del poeta. Vanno naturalmente interpretate per comprendere come poi s’innestino ‘nel pensiero musicale’, che ruolo abbiano nella ricerca della sorgente della parola poetica nella quale più si condensa la sostanza sonora, e come il poeta le collochi nell’opera. E gran parte delle declinazioni del suo pensiero - la tensione verso l’infinito, la necessità di fare ordine nel caos della passione, il problema del rapporto fra contenuto ed espressione, inesprimibile ed espresso, il mistero della musica, delle parole poetiche arcane e ‘universali’, il tema della significazione musicale e poetica - mi sembra rimandino a ‘Carne e Cielo’, che è anche contrasto tra imperfezione e perfezione, che dalla vita si trasferisce all’opera.
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La stessa Calabrese più avanti, seguendo puntualmente persino lo spartito della Siciliana bachiana, osserva: C’è nella Siciliana, nella visione di Pasolini, una tensione reciproca all’incontro fra la dolcezza carnale e il canto liturgico, nei quali si possono intravedere gli opposti: ‘Carne e Cielo’ che spezzano e si avvicinano. La voce umana e quella sacra. Simbolicamente, con i termini ricadute e liberazioni Pasolini indica l’inutile tentativo dell’uomo di superare il dramma, di accordare gli opposti ‘Carne e cielo’, riducendoli a uno. Ma la (ri)composizione dell’unità non coincide con l’annullamento, o la fusione, delle forze contrastanti in gioco, e si attua nella permanenza del contrasto, che per Pasolini sembra avvenire attraverso la compresenza drammatica, e il dialogo, di queste forze dentro una dimensione spazio/temporale che rimanda a ciò che egli chiama ‘sacro’: anche nell’opera, come nella vita, la lotta rimane, e le forze non si annullano.
L’autrice si mostra sempre problematica, consapevole com’è della complessità e delle contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini. L’unica certezza che mostra di avere è solo quella di sapere che c’è ancora tanto da esplorare. Attraverso l’analisi attenta del saggio bachiano Calabrese riesce a cogliere, non solo il «pensiero musicale» del poeta, ma anche la sua stessa poetica. Un passo del saggio le appare illuminante al riguardo: Prima il silenzio, poi il suono o la parola. Ma un suono o una parola che siano gli unici, che ci portino subito nel cuore del discorso. Discorso, dico. Se c’è un rapporto tra musica e poesia questo è nell’analogia, del resto umana, di tramutare il sentimento in discorso, con quel risparmio, quella misura, quell’accoratezza che sono semplicemente comuni ad ogni opera d’arte. Basta rievocarsi il Partenone, un San Pietro di Masaccio, i Sepolcri, la Quinta Sinfonia; da per tutto il medesimo inizio perfetto, cioè passaggio perfetto dal nulla alla realtà dell’opera; la stessa conclusione perfetta, lo stesso svolgimento perfetto. E in fondo a tutto, un sentimento, una passione, un’esperienza umana che divengono figure concrete. Tali somiglianze si fanno più sensibili tra l’arte musicale e l’arte poetica.7 188 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Le parole per Pasolini somigliano alle nuvole e il silenzio, spesso, le mantiene vive. Come scriverà più tardi, «alcune cose si vivono soltanto o, se si dicono, si dicono solo in poesia».8
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2. Musica, poesia e politica in Pasolini Pasolini è riuscito a tenere sempre unite tra loro la sua straordinaria sensibilità musicale e poetica all’impegno pedagogico e politico. Calabrese nel suo lavoro ne parla diffusamente. Sorvolo su quanto al riguardo ne scrive l’autrice; anche se penso che il suo punto di vista andrebbe confrontato con quanto è stato scritto da altri. Qui mi limito a rinviare a due miei precedenti studi.9 Il trasferimento di Pasolini a Roma, nel 1950, avviene nel momento in cui è ancora in corso la stampa della prima edizione tematica dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. La lettura di Gramsci ha avuto un peso notevole nella formazione di Pasolini e se ne ha una prima conferma nei lavori che impegnano il poeta nei primi anni cinquanta: La poesia dialettale del Novecento (1952), curata insieme a Mario Dell’Arco, Il canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955) e, soprattutto, nei versi raccolti in Le ceneri di Gramsci (1957), concepiti negli anni precedenti. Calabrese dedica alcune delle sue più belle pagine nel mettere a fuoco questa fase cruciale della vita e dell’opera di Pasolini. Proviamo a seguirne il percorso che, come spesso accade, assume una forma a spirale piuttosto che lineare. Nel farlo riprendo anche testualmente il suo racconto. Il canto popolare, uno dei testi chiave de Le ceneri di Gramsci, è «un inno critico di Pasolini all’espressività popolare che svuota di significato il canto, per secoli tramandato di padre in figlio». Nella visione di Pasolini, l’assenza di una dimensione storica della coscienza popolare porta il singolo «a ripetere ingenuo quello che fu». Le classi dirigenti, bene o male, seguendo 189 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
i loro interessi, fanno la storia. Il popolo la subisce incosciente, e canta supino:
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Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l’antica, la festiva leggerezza dei semplici. Ma quale dura certezza tu sollevi insieme d’imminente riscossa, in mezzo a ignari tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare?10
E Calabrese, opportunamente, a questo punto accosta i versi sopra citati a quelli scritti qualche anno prima dallo stesso Pasolini: Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la Storia vuole, questa storia il cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria… E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa.11
Per spiegare questi versi Calabrese riporta le stesse parole scritte dal poeta a Franco Fortini nel 1955: «Il popolo che canta del Canto popolare è il popolo com’era prima della civiltà industriale: mentre il canto finale (la canzonetta) di chi ‘è ciò che non sa’ si riferisce appunto al sottoproletariato sulle soglie della coscienza di classe, che vive dall’Aniene a Eboli…».12 Se i richiami alla musica del tempo hanno contribuito nei romanzi a definire situazioni e contesti, riflesso delle trasformazioni sociali, quei ‘ragazzi di vita’ che cantavano canzonette tuttavia, negli anni Cinquanta, esprimevano ancora una loro umanità:13 perciò, forse, Pasolini si esprime contraddittoriamente 190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sulla canzonetta di consumo, avvertendone la capacità, da una parte, di porsi come segnaletica della storia sociale - e, in questo senso assume la funzione di strumento ‘narcotizzante’ che favorisce la «diffusione ideologica della classe dominante sulla classe dominata»14 - dall’altra, di intrecciarsi alla vita individuale registrandone le tappe più significative. L’allegria, il sentimentalismo, la banalità dei testi delle canzonette si contrappongono al ricordo del canto popolare che si va svuotando di significato perché il popolo, oramai in quel mondo nuovo, «è diverso da quello che è sempre stato per secoli».15 E neppure lo sa. Nel 1956, alla rivista Avanguardia che avvia un dibattito sulla canzone italiana coinvolgendo scrittori e intellettuali, così risponde Pasolini: Non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle. Un intervento di un poeta colto e magari raffinato non avrebbe niente di illecito. Anzi, la sua opera sarebbe sollecitabile e raccomandabile. Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni: ossia, come alla maggior parte dei miei amici, non mi si è presentata l’occasione. Musicisti e parolieri si sono stretti in un impenetrabile clan, si sono ben protetti dalla concorrenza (e si capisce, i diritti di autore fruttano talvolta milioni). Quanto a me, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi ad una bella musica, tango o samba che sia.16
E ancora, nel 1964: Sulle ‘canzonette’ potrei dare due tipi di risposte del tutto contrari. Niente meglio delle canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico, di rievocare un ‘tempo perduto’. Io sfido chiunque a rievocare il dopoguerra meglio di quel che possa fare il ‘boogie-woogie’, o l’estate del ‘63 meglio di quel che possa fare ‘Stessa spiaggia stesso mare’. Le ‘Intermittences du coeur’ più violente, cieche, irrefrenabili sono quelle che si provano ascoltando una canzonetta. (Chissà perché i ricordi delle sere o dei pomeriggi o dei mattini della vita, si legano così profondamente alle note che fila, nell’aria una stupida radiolina o una volgare orchestra. E anche la parte odiosa, repellente di un’epoca aderisce per sempre 191 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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alle note di una canzonetta: pensate a ‘Pippo non lo sa’… ). Il modo immediato che io ho di mettermi in rapporto con le canzonette è dunque particolare, e non so prescinderne. Non sono un buon giudice. Soffro inoltre di antipatie e simpatie profonde per i cantanti e le melodie (il massimo dell’antipatia è per la canzonetta “crepuscolare” di cui potrei dare come paradigma ‘Signorinella pallida’). Aggiungo infine che non mi dispiace il timbro orgiastico che hanno le musiche trasmesse dai juke-boxes. Tutto ciò è vergognoso, lo so: e, quindi contemporaneamente devo dire che il mondo delle canzonette è oggi un mondo sciocco e degenerato. Non è popolare ma piccolo-borghese. E, come tale, profondamente corruttore. La Rai-Tv è colpevole della diseducazione dei suoi ascoltatori anche per questo. I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del Circo.17
Intravediamo già le bellissime poesie per musica di Pasolini degli anni Sessanta-Settanta che, una volta musicate, diventano canzoni dallo stile molto diverso rispetto a ciò che il mercato musicale diffondeva in quegli anni. Ricordiamo qui, per tutte, La recessione, cantata da Alice, che riprende alcuni versi friulani dell’ultimo Pasolini che Calabrese avrebbe potuto citare e commentare meglio di noi.18 Gli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento sono stati anni fervidi di dibattiti. Pasolini e gli intellettuali del tempo da un lato avvertono la necessità di individuare un approccio teorico e metodologico che guidi le loro indagini, in linea con la tradizione storicista - Gramsci soprattutto, ma anche De Sanctis e Croce - al fine di evitare il rischio di una sterile raccolta di dati, e dall’altro si interrogano sul loro ruolo nella società del tempo. Sono questi i temi sui quali Pasolini si confronta con gli intellettuali italiani del tempo, anche di stampo progressista, con i quali collabora e pure, a causa della radicalità delle sue posizioni sulle trasformazioni della società e della cultura italiane, entra in conflitto.19 Le polemiche riguardano più che altro la posizione dell’intellettuale nella società del tempo. Alcuni di loro, più orientati alla creatività poetica e letteraria (Pasolini, Calvino, Fortini, Jona) 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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scrivono testi di canzoni destinati a interpretare un sentimento popolare che scaturisce dalla dura cronaca quotidiana.20 Da Milano, Gianni Bosio e Roberto Leydi orientano la ricerca scientifica soprattutto nel campo dell’etno-musicologia, assumendo a punto di riferimento gli studi di De Martino. Questi, partendo dall’esperienza della civiltà contemporanea, aveva avviato una riflessione sul folklore ponendosi il problema di quale fosse la prospettiva giusta da cui guardare alle culture ‘altre’ [21] in uno sforzo di comprensione storica universale. è sullo sfondo di questi fermenti che nel 1958 a Torino nasce Cantacronache, per iniziativa di Michele L. Straniero e Sergio Liberovici.22 Negli stessi anni, in Italia, accanto alla canzone impegnata a sfondo politico, si diffonde la canzonetta di consumo che ha la sua più prestigiosa vetrina nel Festival di Sanremo. A partire dal 1955, il Festival della Canzone Italiana diventa un evento televisivo trasmesso in Eurovisione dalla Rai. Anche Cantacronache si pone come alternativa a Sanremo23 e produce dischi con ‘Italia Canta’, società di proprietà del Partito Comunista che già da qualche anno stimolava una cultura attenta alle classi popolari, sull’onda dell’edizione dei Quaderni del carcere gramsciani. Gli intellettuali del tempo, impegnati nel movimento di riscoperta del canto popolare e sociale, si confrontano tutti, e tra loro Pasolini, con il pensiero di Gramsci sui rapporti tra espressione artistica popolare e società e tra intellettuali e popolo.24 Come poteva il popolo, in questo quadro, farsi portatore di una nuova cultura, indipendente e alternativa rispetto a quella delle classi dominanti? Cosa potevano fare gli intellettuali per favorire questi processi? Questi sono i temi sui quali si interrogano gli intellettuali. Il passo dalla cultura all’impegno politico è breve, la ricerca è essa stessa azione politica. Anche Pasolini avverte il ‘pericolo’ di una trasformazione orientata dalla classe egemone e subìta dai ceti popolari che non ne possono cogliere significato e dinamica. È d’accordo con Gramsci sulla necessità di riavvicinare intellettuali e popolo per mettere quest’ultimo in condizione di avere una visione storica della realtà e elaborare 193 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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una nuova cultura che abbia identità e forza. Ma mentre Gramsci ha una visione tutta politica del processo storico e pensa che lo strumento del cambiamento e anche della formazione unitaria del popolo debba essere il ‘moderno Principe’ (dal Machiavelli), cioè il Partito, guidato anche da esponenti della ‘classe operaia’ con la partecipazione ‘organica’ degli intellettuali più avveduti, Pasolini pratica un rapporto diretto e non mediato con le diverse espressioni popolari, in virtù di un amore viscerale verso il popolo, del quale vorrebbe far parte. A ciò si aggiunga che, mentre il pensiero di Gramsci espresso nei Quaderni è molto razionale e procede per concetti, quello di Pasolini è fatto di immagini, poesia, suoni e musica e non è esente da contraddizioni, che peraltro lui stesso mette in evidenza: il suo è un sentimento che, passando attraverso il corpo, diventa estetica, stile personale, ed è refrattario a seguire qualsiasi direttiva politica. Ne è testimonianza poetica una strofa de Le Ceneri di Gramsci (1957), laddove scrive: Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere.25
Per Pasolini l’uomo non è solo un prodotto della storia che deve essere messo in condizione di fare la storia. Anche chi appartiene alle classi subalterne ha una propria identità, sia pure frammentata, tendenzialmente conservatrice se non involutiva, ma pure originale26, che si esprime qui e ora nel confronto quotidiano con l’esperienza concreta e, seppure non abbia profondità né capacità di delineare prospettive, tuttavia è. Il popolo di Pasolini, frammentato, stratificato, s’esprime con le sonorità della propria lingua e anche con il canto; ma, tra gli «incantati rumori» che risuonano a Roma, a evocare il dolore delle trasformazioni in atto, v’è pure l’urlo di una scavatrice che, solo, raschia il silenzio27: Quasi non avesse meta, un urlo improvviso, umano, 194 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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nasce, e a tratti si ripete, così pazzo di dolore che, umano, subito non sembra più, e diventa morto stridore. Poi piano, rinasce, nella luce violenta, tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, urlo che solo chi è morente, nell’ultimo istante, può gettare in questo sole che crudele ancora splende già addolcito da un po’ di aria di mare…28
Il dibattito culturale di quegli anni è ben ricostruito da Calabrese. Ma, per quanto riguarda il rapporto tra Gramsci e Pasolini, penso che ci sia ancora tant’altro da dire. Qui mi limito ad osservare che andava sicuramente ricordato uno degli ultimi scritti del poeta che, per me, ha un valore testamentario. Si tratta di un testo di fondamentale importanza, spesso ignorato dalla critica, in cui Pasolini afferma chiaramente che occorre «un nuovo modo di essere gramsciani».29 Immerso in questo clima culturale, Pasolini approda al cinema e realizza i primi film, da Accattone a Edipo Re, in modo che corrispondano all’idea gramsciana di opera nazional-popolare: «abbastanza oggettivi, con personaggi a tutto tondo ed un andamento epico abbastanza solenne».30 Esprimere attraverso il cinema «la realtà con la realtà» per Pasolini significa registrarla ponendosi dentro il campo della realtà, accanto a ciò che egli osserva e vede con quello sguardo mistico-sensuale-religioso che richiede uno stile e una tecnica in grado di mantenere la realtà carica della sua sacralità. Ed è proprio la musica che, intervenendo nello stile, rende esplicita la sacralità dei fatti. L’io, che nei romanzi aveva cercato faticosamente di proiettarsi/escludersi (attraverso l’uso del discorso libero indiretto) nella/dalla realtà oggettiva, ora più che mai, in coincidenza con un presente sempre più desolato, ritorna al bisogno di affermare quell’«infinità che noi sentiamo da ogni parte, ma più ancora in noi stessi» che era stata prero195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
gativa della soggettiva e sonora parola poetica e della narrativa friulana.
3. L’ interpretazione di Claudia Calabrese
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del cortometraggio pasoliniano Che cosa sono le nuvole?
Nelle pagine centrali del libro l’autrice - analizzando il cortometraggio di Pasolini del 1967, Che cosa sono le nuvole? - ci offre un ulteriore saggio del suo acume critico. In questo piccolo capolavoro, Pasolini intreccia i diversi codici e linguaggi delle diverse arti (teatro, cinema, poesia, musica, pittura), padroneggiati in modo singolare, per far riflettere il pubblico. Al centro della narrazione è la messa in scena dell’Otello di Shakespeare, ridotto a commedia «ad usum populi»; il testo viene modificato nel suo significato originario e interpretato da burattini in un teatro popolare. Ciascun personaggio-burattino recita la propria parte, fino a quando, al punto della narrazione in cui Otello sta per uccidere Desdemona, gli spettatori, che non accettano l’epilogo shakespeariano, interrompono lo spettacolo.31 Nella colluttazione che segue Jago e Otello vengono uccisi dagli spettatori e gettati in una discarica di rifiuti. Scrive la Calabrese: Nel film ogni elemento sostiene un gioco di rispecchiamenti che capovolge la prospettiva narratologica: la finzione teatrale dentro la finzione del cinema, rappresentata da attori-burattini, ora di legno ora in carne e ossa, che si trovano come in un sogno dentro un sogno, mira a un’interlocuzione continua con lo sguardo dello spettatore cui Pasolini sembra affidare il ruolo di disvelamento di ciò che veramente è, oltre la finzione. Il film inizia infatti con un avviso ai naviganti: un quadro di Diego de Silva y Velázquez, Las Meninas, rappresenta la locandina dello spettacolo che sta per iniziare. Descritto con minuzia di particolari e con grande intelligenza in quegli anni da Michel Foucault, Las Meninas è un vertiginoso gioco di specchi. Un’opera che rappresenta l’atto di ritrarre il potere che non si vede, se non attraverso uno specchio, 196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
e che mette in primo piano coloro che in qualche modo del potere sono sudditi. Pasolini con il pennello di Velázquez forse ci sta dicendo che il suo cortometraggio usa le stesse logiche speculari e paradossali, perché ciò che sta per rappresentare riguarda direttamente chi osserva, e ascolta, contemporaneamente fuori e dentro il film Due mondi si mescolano in perfetta simmetria: gli spettatori esterni al film - che non vediamo e tuttavia siamo noi, riflessi nello specchio del cinema - e gli spettatori interni, ovvero il popolino che assiste alla rappresentazione teatrale.32
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Ecco perché Pasolini mette in bocca del burattinaio (Leonetti?) queste parole: Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice.33
Ma la vera chiave di lettura del film, nota acutamente Calabrese, si trova in un dialogo dietro le quinte che avviene tra Otello e Jago OTELLO: Ma allora qual è la verità? Quello che penso io di me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro… JAGO: Mah… qualcuno dice che la verità non c’è… qualcuno dice che la verità è ‘na media de tutte le verità diverse che ce stanno… ma tu non dà retta a nessuno de questi… Perché c’è la verità. OTELLO: E qual è? JAGO: Senti qualcosa dentro di te? Concentrati bene! Senti qualcosa? Eh? OTELLO: (dopo essersi ben concentrato) Sì… Sì… sento qualcosa… che c’è… JAGO: Beh… quella è la verità… ma ssssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più…34
Questo dialogo mostra il grande interesse mostrato da Pasolini per la maieutica socratica. Interesse confermato anche da 197 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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una sua dichiarazione rilasciata a proposito del cortometraggio in questione: «Non ho voluto imporre un significato allo spettatore. Ho posto delle domande. Cioè è quello che Barthes, di Brecht, avrebbe detto “un’opera a canone sospeso”».35 I critici cinematografici dell’epoca mostrarono scarsa attenzione a questo cortometraggio di Pasolini, convinti di trovarsi di fronte ad un’opera minore di scarso valore. Calabrese è riuscita brillantemente a dimostrare il contrario.
4. Il canone sospeso A questo punto la Calabrese coglie l’occasione per dare la sua interpretazione al significato dato da Pasolini al concetto di “Canone sospeso”, considerandolo fondamentale per la comprensione dell’intera opera pasoliniana, oltre che per la piena intelligenza del film esaminato nel punto precedente. Per farlo cita un brano del saggio pasoliniano La fine dell’avanguardia (1966), raccolto successivamente nel suo Empirismo eretico (1972): Il segno dominante di ogni arte metonimica – e quindi sintagmatica – è la volontà dell’autore a esprimere un senso piuttosto che dei significati. Quindi a far succedere sempre qualcosa nella sua opera. Quindi a evocare sempre direttamente la realtà, che è la sede del senso trascendente i significati […] “Sospendere il senso”: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore. […] “C’è senz’altro nel teatro di Brecht un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda”.36
E questo è il commento che ne fa la nostra autrice: Evocare direttamente la realtà e sospendere il senso: certo, Pasolini sa che la realtà, come la verità, è inconoscibile nella sua totalità e all’artista non rimane che una parziale rappresentazione. Perciò è con una domanda che il regista dà forma al titolo di Che cosa 198 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sono le nuvole? e all’omonima canzone che apre e chiude il film, assegnando sin dall’inizio a noi spettatori il compito di cercare il senso. Ma perché, nel già complesso rapporto tra realtà e finzione, Pasolini introduce la metafora dello specchio? A cosa rimandano nella serietà del gioco narrativo il rapporto fra uomo e burattino (e burattinaio), i temi della ricerca dell’identità, dell’inconsapevolezza e della colpa? Qual è la realtà, collocata sempre dietro le quinte - è infatti quello il ‘luogo’ in cui i burattini si fanno le domande - che si vuole evocare in Che cosa sono le nuvole? Come interpretare quell’‘altro mondo’, esterno al teatrino, dove si va quando si muore, che si percepisce solo con l’udito – il brusio, i suoni, gli echi, le voci - e la figura dell’immondezzaro Modugno che canta e mette in comunicazione i due mondi, assegnando alla musica l’importante funzione di sostegno di questo doppio livello narrativo? Tutta la musica - dal sublime Adagio dal Quintetto per archi in Sol minore n. 3 K 516 di Mozart, alle toccanti note soffiate dal cielo e interpretate da Modugno, allo sfrenato Can-can di Offenbach, alla leggerezza cristallina del mandolino che accompagna la messa in scena teatrale nel film - entra in scena con una funzione molto importante: da una parte sostiene la narrazione orizzontale, dall’altra simbolicamente evoca il doppio livello narrativo e si fa trait d’union tra ciò che viene rappresentato e ciò che sta dietro le quinte della finzione.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che l’interpretazione data da Calabrese al film Che cosa sono le nuvole?, oltre ad essere molto suggestiva, coglie diversi elementi di verità. Ma si può estendere a tutta l’opera pasoliniana l’ipotesi sostenuta dall’autrice di questo bellissimo libro? In altri termini, il Canone Sospeso, teorizzato da Roland Barthes negli anni sessanta, ripreso da Pasolini nel 1968 anche per indicare la difficoltà di comprendere la realtà e di dire tutta la verità sulle cose, può considerarsi davvero l’ultima parola di Pasolini? La sospensione del giudizio, in quegli anni convulsi e confusi, non dura tanto a lungo. Qualche anno dopo, infatti, Pasolini riprende, con rinnovata energia, sui giornali e sui periodici del tempo, la battaglia culturale intrapresa nei primi anni sessanta 199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sul settimanale comunista Vie Nuove. I testi di questo suo nuovo impegno verranno raccolti nei suoi celebri Scritti corsari e nelle sue famose Lettere luterane. E non mi pare che in questi suoi ultimi libri, così come nelle sue ultime poesie italo-friulane del biennio 1973-1974, Pasolini abbia sospeso il suo giudizio. Per concludere non possiamo non ricordare la bella intervista a Dacia Maraini, condotta dalla stessa Calabrese, insieme alla conversazione con la cantautrice Giovanna Marini, che si trovano nel capitolo finale del libro. Della prima appare particolarmente interessante la parte finale dell’intervista: Pier Paolo aveva molto rispetto per le donne. Ma le voleva madri più che compagne. Infatti, in ciascuna delle donne che ha amato, ha cercato la madre. Anche con me, e l’ho sentito soprattutto in quel famoso momento del “tienimi, tienimi”, ho sentito allora che per lui ero soprattutto una madre, anche se ero più giovane di lui […] Di Pasolini mi manca la sua compagnia, quasi sempre silenziosa, ma intensa e affettuosa. Come compagno di viaggio poi era perfetto. Si adattava a tutto. Aveva uno sguardo intelligente e profondo delle cose. Era un piacere stargli accanto.
Della conversazione con Giovanna Marini mi ha colpito soprattutto un passaggio che mi sembra una indiretta conferma dell’idea che ci siamo fatti di Pasolini e del suo costante rapporto critico rispetto a tutte le tradizioni, ben consapevole com’era della verità contenuta nella celebre affermazione di Mahler: «La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere». Ad una domanda della Calabrese circa i rapporti di Pasolini con Fortini, Calvino ed altri, G. Marini risponde: «Pasolini era sempre critico […] Era un gruppo: c’era Franco Fortini, profondamente comunista e marxista, come Gianni Bosio d’altra parte; Calvino non lo era affatto, era socialista piuttosto […]. Pasolini era critico con tutti, come un riccio di castagna, con tutti gli aghi. Non riuscivi a prenderlo mai da nessuna parte». Rimandiamo ad un’altra occasione, infine, l’analisi del gran 200 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lavoro compiuto dall’autrice, nel II Movimento del suo libro, per ricostruire La memoria con voci e orchestre di Sylvano Bussotti, per i versi che Pasolini ha dedicato Alla bandiera rossa [37], e del Notturno dello stesso poeta per le Danze della sera di Ettore De Carolis.38
Note 1. Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Carocci, Roma 2012. 2. L’opera di Pasolini, pubblicata nel tempo da editori diversi, è stata raccolta circa venti anni fa da Mondadori, nella collana dei Meridiani, in dieci volumi, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude. Questa edizione non ha ottenuto consensi unanimi. Particolarmente dure le osservazioni critiche di Carla Benedetti, pubblicate su L’Unità del 29 aprile 2003, che prende le mosse dalla discutibile Postfazione con cui Siti ha chiuso l’ultimo tomo dell’opera. Personalmente, mi sembra contestabile, soprattutto, la separazione dei saggi letterari da quelli socio-politici ed antropologici. Forse, rispettando l’ordine cronologico in cui sono state concepite tutte le opere di Pasolini, a prescindere dal loro genere, sarebbe stato più agevole cogliere il ritmo e il naturale sviluppo del pensiero di un autore che non amava i confini disciplinari. 3. Vedi, ad esempio, il modo sbrigativo con cui vennero valutate, negli anni Sessanta, le sue riflessioni linguistiche. Soltanto Tullio De Mauro ne colse immediatamente il valore. 4. È stato Enzo Siciliano a pubblicare per la prima volta l’inedito pasoliniano nella rivista Nuovi Argomenti, luglio-dicembre, 1980. Successivamente il testo è stato raccolto in PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, due tomi indivisibili, Meridiani Mondadori, 2003. 5. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, op. cit., p. 1288. 6. Claudia Calabrese, p. 87, nota 77. 7. P.P. Pasolini, Studi sullo stile di Bach, in SLA I, p. 79. 201 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
8. P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5. 9. Francesco Virga, Poesia e mondo contadino nel giovane Pasolini, in Nuova Busambra n. 6, 2014 e Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, Quaderns d’Italià, n.16, 2011. Quest’ultimo articolo è reperibile anche in rete: https:// doi.org/10.5565/rev/qdi.304
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10. Il canto popolare [Le ceneri di Gramsci], in Tutte le poesie, cit., vol. I, p. 784, vv. 73-81. 11. Trascrivo di seguito l’illuminante nota della Calabrese che si trova a pag. 127: «Scritta a cavallo tra il 1952 e il 1953, nel periodo in cui inizia a intravedersi la grande ‘mutazione antropologica’ che trasforma l’Italia in paese industriale, con riflessi mediatici dirompenti, grazie alle trasmissioni televisive che dal 1954 potenziano quanto già da decenni andava facendo la radio, Il canto popolare aiuta meglio a collocare le scelte politiche di Pasolini in rapporto alla sua attenzione verso l’espressività popolare». Pier Paolo Pasolini, Il canto popolare [Le ceneri di Gramsci], in TP I: 784-786, i versi riportati (82-90) sono a p. 786. Cfr. anche Roberto Calabretto, Pasolini e la musica, Cinemazero, Pordenone 1999, pp. 179-180. 12. Ivi: 180. L’impegno di Pasolini, orientato a educare i giovani, si manifesta anche con la sua disponibilità a scrivere testi per canzoni più belle di quelli che l’industria discografica andava diffondendo in quegli anni. Su questo terreno avviene l’incontro con la ricerca intellettuale di Ettore De Carolis e con Danze della sera le cui parole, nelle intenzioni del compositore, sono un invito ai giovani del tempo a darsi una coscienza politica. Argomento che Calabrese riprende nel capitolo IV del suo libro. 13. Come osserva Filippo La Porta, i ‘ragazzi di vita’ «ci appaiono feroci e innocenti, sentimentali […] e senza scrupoli […] in ogni caso non soggetti da redimere o da correggere, ma figure di una religiosità immanente, arcaica, paganeggiante, e che insomma attestano, sia pure diversamente dai contadini friulani, il sacro perduto nella modernità». Filippo La Porta, Pasolini, Il Mulino, Bologna 2012, p. 29. 14- P.P. Pasolini, Rinnoviamo i canzonieri!, Le parole dei poeti. Una proposta di “Avanguardia” per la maggiore dignità della canzone italiana. – Il parere di Pier Paolo Pasolini, Mario Socrate, Nino Oliviero, «Avanguardia», a. IV, n. 14, 1 aprile 1956 ora in SLA, II, pp. 2725-2726. 15. La lettera di Pasolini a Leonetti, datata 20 gennaio 1958, è riportata in Roberto Calabretto, Pasolini e la musica, cit., p. 180. 202 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
16. P.P. Pasolini, «Mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare versi ad una bella canzone», Rinnoviamo i canzonieri!, Le parole dei poeti, cit., ora in SLA II, pp. 2725-2726. 17. P.P. Pasolini, Il fascino del juke-boxes, a cura di G. Calligarich (a cura di), Cultura e Ye’-ye’. Quel che penso della canzone, in «Vie Nuove», 8 ottobre 1964. Ho voluto riprendere per esteso i passi citati dalla Calabrese perché lo stesso concetto espresso con parole diverse perde tutta la sua forza. 18. P.P. Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino 1975, pp. 242-244.
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19. Quest’aspetto si coglie bene in un pamphlet di Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 20. Calvino, che in quegli anni lavora alla raccolta delle fiabe popolari italiane compiendo un’operazione analoga a quella di Pasolini con i canti popolari del Canzoniere (la prima edizione, Einaudi, delle Fiabe italiane documentate da Calvino è del 1956), scrive cinque bellissime canzoni: Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte, Canzone triste, Il sentiero e Il padrone del mondo tutte musicate da Liberovici. Fortini è autore di dieci canzoni, tra le quali ricordiamo: Quella cosa in Lombardia, un inno nazionale (parodia dell’inno di Mameli) e Tutti amori. Altre canzoni importanti sono: Cantata della donna nubile e Valzer della credulità (di Jona-Liberovici) e Un paese vuol dire non essere soli di Cesare Pavese. 21. Bisogna tenere presente che si tratta di intellettuali ‘di sinistra’ – pur non essendo organici ai partiti della sinistra, nei confronti dei quali assumono posizioni critiche (ma sempre fraterne) – cresciuti nel seno della società borghese e colta. L’incontro con le culture ‘altre’ spesso diventa uno scontro e sul piano psicologico e su quello culturale. Mentre De Martino approda a una posizione definita di ‘etnocentrismo critico’ e sostiene la necessità per lo studioso di allargare la propria coscienza culturale di fronte a ogni cultura ‘altra’, avviando un sofferto processo di consapevolezza critica dei propri limiti, Pasolini, intellettuale borghese come i suoi colleghi, col cuore aderisce in toto al suo popolo. 22. «È la Torino della Fiat e degli operai, degli impiegati che arrivano da tutte le parti d’Italia, soprattutto dal Sud, abbandonando spesso un lavoro contadino e bracciantile e le comunità delle quali facevano parte, nelle quali avevano radici antiche, che vengono via via sgretolate. È la Torino resistenziale, quella della casa editrice Einaudi, di Pavese e di Italo Calvino in particolare. È interessante constatare che, nello stesso periodo, molte delle opere di Pasolini, dalle poesie ai romanzi, hanno come riferimento le borgate 203 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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romane. È naturale che tra gli intellettuali di riferimento di Cantacronache ci siano Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini» (Calabrese, p. 130). 23. Bisognerà attendere gli anni Sessanta e Settanta perché anche all’interno del Festival di Sanremo si manifestino alcuni sussulti resistenziali nei confronti della canzonetta che ‘istupidisce’. Basti pensare ad Adriano Celentano che con Il ragazzo della via Gluck (1966) critica l’esasperata urbanizzazione e la cementificazione delle periferie e, soprattutto, alla storia travagliata del testo di Ciao amore, ciao (1967) di Luigi Tenco il cui suicidio matura proprio in quell’ambiente che lo costringe a modificare la sua canzone in modo da stravolgerne il significato. Così scrive in un biglietto il cantante prima di darsi la morte: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale, e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». È importante la testimonianza di Tenco, perché nel 1971 proprio a Sanremo nasce un Contro-Festival - Il Club Tenco, ancora oggi attivo - che si pone l’obiettivo di cambiare dall’interno l’industria culturale sostenendo una canzone più impegnata culturalmente: in questo quadro si inserisce e consolida il fenomeno dei cantautori Cfr. http://clubtenco.it/ storia/ (Calabrese, p. 131). 24. Secondo Calabrese sia Gramsci, sia Pasolini, si pongono dentro la tradizione marxista e hanno la medesima visione del processo storico: «Per entrambi è ‘popolare’ tutto ciò che non appartiene alla classe dominante e al ceto degli intellettuali, sinonimo di ‘diretto’, che si collega ad una cultura subalterna. ‘Popolare’ nel pensiero di Pasolini veicola memorie non prive di una certa idealizzazione per i valori che trasmettono (purezza, semplicità) ma allo stesso tempo è il terreno sul quale si innesta l’elemento pedagogico che vorrebbe ‘educare’ proprio gli strati popolari, asserviti al potere distruttivo delle classi dirigenti. Secondo Gramsci, il cui pensiero si distacca da quello degli studiosi coevi, a partire dal Cinquecento, in Italia era avvenuto un progressivo distacco degli intellettuali dalle classi subalterne e la cultura popolare nazionale non era stata in grado di intervenire efficacemente nel processo storico. Il popolo era un coacervo di diversità linguistico-culturali e di stratificazioni sociali senza un baricentro e la sua cultura, che pure aveva assimilato i cascami della cultura dominante, dal Cinquecento al Novecento era rimasta legata all’immediatezza dell’esistenza quotidiana, senza visione storica, capacità di immaginare un futuro, né tantomeno di costruirlo» (Calabrese, p. 132). 204 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
25. Sono i versi di apertura della IV parte de Le ceneri di Gramsci: P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in TP I, p. 820. 26. Cfr. Canzoniere Italiano, Antologia della poesia popolare, Introduzione di Pier Paolo Pasolini, in SLA I, pp. 886-887. 27. Il riferimento è a Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, in TP I: 833. 28. Ivi, pp. 847-848. 29. P.P. Pasolini, Volgar’eloquio, ora nell’edizione meridiana di tutte le sue opere, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, pp. 2845-2862.
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30. P.P. Pasolini, Incontro con Pasolini, in Per il cinema, Meridiani Mondadori, vol. II, p. 2962. 31. A livello della narrazione più superficiale, gli spettatori, ingenui e moralisti, assaltano il palcoscenico per impedire la morte di Desdemona e uccidere i colpevoli. Ma a un livello più profondo, qual è il significato di questa scena? E se qui, oltre all’Otello, ci fosse anche l’influsso dell’Amleto? Pasolini, che nell’adolescenza ha letto tutto Shakespeare, conosce sicuramente la funzione della rappresentazione teatrale nell’Amleto, cui l’autore inglese attribuisce il compito di svelare la verità. D’altra parte, l’influenza shakespeariana è anche nella massima che Jago, rivolgendosi a Otello, pronuncia nella scena 12: «Eh, figlio mio, noi siamo IN UN SOGNO DENTRO UN SOGNO». Nell’Amleto di Shakespeare, com’è noto, il teatro nel teatro è strumento di finzione dal quale emerge la verità. Basti pensare agli effetti che produce la rappresentazione teatrale che mette in scena l’omicidio del padre di Amleto. Come in Shakespeare, anche nel teatrino di Che cosa sono le nuvole? la finzione teatrale è destinata a far emergere la verità, che provoca l’interruzione dello spettacolo. Due rappresentazioni teatrali dunque che si servono della finzione per rivelare la verità. Gli spettatori shakespeariani (il re zio, in primo luogo, e la regina madre dello stesso Amleto) identificandosi reagiscono immediatamente, gli spettatori pasoliniani, pur ingenuamente e senza vera consapevolezza, reagiscono distruggendo. È solo un astratto amore per la giustizia che spinge il popolino a irrompere sulla scena? o, giacché quell’irruzione produce distruzione, Pasolini, ricorre alla finzione teatrale per rivelare, tentando di distruggere, la rocciosa realtà della cosiddetta ‘rivoluzione antropologica’? Cfr. Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole? in PC I: 959, e William Shakespeare, Amleto, Mondadori, Milano 1993. 32. Claudia Calabrese, cit., pp. 260-261. 33. L’introduzione del burattinaio (alter ego di Pasolini) viene eliminata nel 205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
film ma rimane nella sceneggiatura. Cfr. Pasolini, Che cosa sono le nuvole? Scena 5, in PC 1, pp. 939-940. 34. Ivi, p. 959. 35. Cfr. Luciano De Giusti, I film di Pier Paolo Pasolini, Gremese editore, Roma 1983, p. 91.
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36. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, pp. 138-139. 37. Pasolini scrisse i versi intitolati Alla bandiera rossa tra il 1958 e il 1959. Questi versi vennero raccolti, insieme ad altri, nel volume La religione del mio tempo pubblicato da Garzanti nel 1961. Il musicista Sylvano Bussotti cominciò a scrivere la musica per il testo di Pasolini, col consenso del poeta, in vista della Settimana Internazionale Nuova Musica svoltasi a Palermo nel 1962. Claudia Calabrese dedica un intero capitolo del suo libro all’analisi testuale dei versi del poeta e allo spartito musicale di Bussotti (cfr. pp. 181220). 38. L’analisi testuale del Notturno di Pasolini, insieme alla sua collocazione nel contesto storico-culturale del tempo in cui venne concepito, oltre all’analisi della versione musicale compiuta da Ettore De Carolis, occupa l’intero IV capitolo del II Movimento del libro di Calabrese (cfr., pp. 221-258).
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Parte Terza
Leonardo Sciascia Quando si vuol conoscere la storia d’Italia, bisogna prima di tutto evitare di leggere gli scrittori generalmente approvati: in nessun paese è stato meglio conosciuto quale valore ha la menzogna, in nessuno essa è stata meglio pagata. (Stendhal, Cronache italiane)
Sarò un moralista - e dunque un qualunquista: ma mi pare che i particolari guai del nostro paese nascano tutti da una inveterata e continua doppiezza, da un vasto e inesauribile gioco della doppia verità [...]. Mai c’è stata un’epoca, mi pare, in cui come oggi quello che si dice ha più importanza di quello che si fa. Basta che uno della retroguardia dica di essere per l’avanguardia ed è un avanguardista; che un reazionario dica di essere per la rivoluzione, ed è un rivoluzionario; che un mascalzone dica di essere per l’onestà, ed è onesto. (L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 14-15)
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V.
La Sicilia di Leonardo Sciascia
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La Sicilia non è la mafia, in Sicilia c’è la mafia ma la Sicilia non è la mafia [...].1 Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia continua a far parlare di sé. Più d’uno, all’indomani della sua morte, ha cercato di mettere una pietra tombale sulla sua opera. Tra tutti il più brutale è stato Mario Centorrino che, senza peli sulla lingua, nel 2010 pronunciò queste parole: «Le ideologie sono ormai superate. Destra e sinistra, tutti assieme, almeno per un anno prendiamoci una pausa. Non leggiamo più per un po’ Camilleri, Tomasi di Lampedusa o Sciascia perché sono una sorta di ‘sfiga’ nei confronti della Sicilia. Ci vuole ottimismo».2 E, in modo sorprendente, persino un giornalista che deve molto allo scrittore di Racalmuto, nell’incipit di un libro ancora fresco di stampa, ha scritto: «Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso. Non ne posso più di vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezz’uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaracquà».3 Ma lasciamo perdere le provocazioni giornalistiche e politiche e cerchiamo di riprendere l’opera di Leonardo Sciascia a partire dagli inediti pubblicati recentemente4 e dagli ultimi contributi critici che tengono presente la nuova edizione critica 209 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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dei suoi scritti, tuttora in corso, curata attentamente dal filologo Paolo Squillacioti.5 Precisiamo che in questo saggio non abbiamo la pretesa di analizzare l’intera opera creativa dello scrittore siciliano, ma di riprendere criticamente soltanto la sua produzione saggistica e giornalistica in cui si sofferma a parlare di mafia e Sicilia. Sciascia, oltre che un grande scrittore, è stato un uomo libero e indipendente, impegnato a dire sempre la verità (almeno quella che lui riteneva tale), non stancandosi mai di denunciare il trasformismo di tanti uomini politici ed il conformismo della maggioranza del popolo italiano. Un anno prima di morire scriverà: Ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia e di difenderla troppo. […]. Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere molte cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è. (La Stampa, 6 agosto 1988)
Lo scrittore di Racalmuto con i libri e, soprattutto, con i suoi puntuali e taglienti interventi sulla stampa quotidiana e periodica - di cui si avverte la mancanza particolarmente oggi, in un momento in cui tanti intellettuali sembrano diventati ciechi e muti - è riuscito a togliere la maschera a chi si nasconde dietro “valori” e parole solenni e a quel sistema di potere basato sulla intimidazione e sullo sfruttamento dei più deboli, ben collaudato in Sicilia, e così spesso utilizzato nella storia dal governo nazionale. In quest’opera di demistificazione, non ha mai preso le mosse da principi astratti e/o ideologie ma dall’analisi puntuale di fatti realmente accaduti. Nella ricerca continua di quella che lui stesso amava chiamare, utilizzando una espressione del Machiavelli ricorrente nel lessico sciasciano, la realtà effettuale delle cose. 210 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Sciascia, pur sapendo che tutte «le classificazioni sono pericolose, e più quando se ne tenta l’adattamento ad una realtà sfuggente e contraddittoria come quella siciliana»6, forse non ha tenuto sempre nel debito conto questa avvertenza. Così un suo articolo del 1969, intitolato Sicilia e sicilitudine7, ha generato molteplici equivoci e malintesi. Persino un critico acuto come Massimo Onofri ha preso l’abbaglio di considerarlo «saggio fondativo, vera e propria condizione trascendentale della raccolta»8. Ma se si analizza l’articolo, punto per punto, salta agli occhi che in esso di “trascendentale” non c’è proprio nulla. In esso, infatti, Sciascia si limita a passare in veloce rassegna alcuni studi dedicati all’Isola - lavoro ripreso, con ben altro respiro, negli anni ottanta in quella splendida antologia in più volumi che curerà per l’editore Sellerio9 - con l’indice puntato sull’esperienza fallimentare dell’autonomia regionale che ha ridato vita a “privilegi” e “immunità” che andavano cancellati del tutto: Il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa.10
Nel saggio, inoltre, si evidenzia gramscianamente che tutto ciò che generalmente si attribuisce alla natura, al clima o alla razza non è altro che frutto di «particolari vicissitudini storiche». La stessa insicurezza definita «componente primaria della storia siciliana» è legata alla storia delle continue invasioni dal mare e da queste scaturiscono «paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo». Nell’articolo in questione non ci si sofferma neppure a discutere il termine e il concetto di “sicilitudine”, la cui paternità, attribuita erroneamente a Sciascia, appartiene a Crescenzio Cane.11 E, probabil211 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mente, il fatto che lo scrittore non discuta la legittimità dell’uso del neologismo si deve al fatto che, negli anni Sessanta, il termine sicilitudine, derivato dal francese négritude, coniato da Leopold Senghor12, si era talmente diffuso da essere diventato senso comune. Ma Sciascia, specialmente in quegli anni, come mostrano ampiamente i suoi saggi pirandelliani13, era fin troppo gramsciano perché qualcuno potesse pensare ch’egli accettasse acriticamente qualsiasi espressione del senso comune. Per usare un’espressione pasoliniana, Sciascia è stato un empirista eretico, che ha osservato la realtà senza aprioristici schemi ideologici. Egli parte sempre dall’osservazione di dati empirici, spesso da fatti di cronaca minuta, e raramente da essi trae conclusioni di carattere generale. Il suo approccio alla realtà è sempre aperto e problematico. Persino lo storico Salvatore Lupo, che pure non ha risparmiato critiche alle polemiche politiche dell’ultimo Sciascia, ha dovuto riconoscere che lo scrittore siciliano non è mai stato un intellettuale «che giudica le cose partendo da una specifica ideologia e visione generale del mondo».14 Sciascia era talmente consapevole del posto centrale che occupa la Sicilia nella sua opera al punto da affermare: Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.15
Per ricostruire il suo articolato punto di vista sulla Sicilia vogliamo partire da un testo poco noto risalente all’aprile 1960. Si tratta del discorso tenuto a Palma di Montechiaro in occasione del Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale organizzato da Danilo Dolci.16 Esso rappresenta una sorta di manifesto di quella “Letteratura d’opposizione” che, in quegli anni, lo stesso Sciascia identificava con il neo-realismo: 212 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nel messaggio che il Presidente Gronchi rivolse alla Nazione, all’atto della sua elezione, è detto che ancora le classi popolari non hanno varcato le soglie dello Stato, ne sono ancora fuori. Ma non crediate che soltanto voi, contadini e zolfatari, ne siete fuori: ne siamo fuori anche noi che insegniamo ai vostri figli, come si diceva un tempo, ‘a leggere, scrivere e far di conto’; ne siamo fuori anche noi che scriviamo libri, che raccontiamo al mondo la vostra e la nostra vita.
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Nel suo appassionato intervento lo scrittore non manca di denunciare, con parole che non hanno perso la loro attualità, l’ipocrisia e l’omertà che hanno spesso regnato nell’Italia intera: Un paese di poveri troppo poveri e di ricchi troppo ricchi, un paese di furbi troppo furbi, di ipocriti troppo ipocriti […]. L’omertà ufficiale, quell’omertà che nasconde le piaghe della nazione, l’omertà dei ‘panni sporchi che si lavano in famiglia’ (che è lo slogan di gente molto sporca, che non usa lavarli nemmeno in famiglia), si ritrae di fronte alla forza della verità.
Per concludere: Tempo addietro mi chiesero quali fossero a mio giudizio le pagine migliori che avessi scritto. Ho risposto press’a poco così: Nel 1956, fino al 1956, i salinari del mio paese [...] avevano un salario di seicento lire al giorno e lavoravano circa 12 ore. Dopo la pubblicazione di un mio libro in cui parlavo anche dei salinari [...] la loro sorte è cominciata a migliorare: al punto che oggi il loro salario è doppio rispetto a quello del ‘56 e lavorano regolarmente 8 ore. Perciò ritengo che quelle sui salinari siano le migliori pagine che io abbia mai scritto.
Sembrano parole d’altri tempi; e, in un tempo in cui si tesse l’elogio del letterato ozioso e dell’intellettuale disimpegnato17 (ossia impegnato a non disturbare i soprastanti), più d’uno le troverà stonate ed inopportune. Ma proprio Sciascia ci ha insegnato a considerare preferibile dare fastidio, piuttosto che ungere. Che non si tratti, comunque, di parole datate e legate alla stagione neorealista, successivamente superata18, è lo stesso 213 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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scrittore di Racalmuto a mostrarlo in un testo scritto, un anno prima di morire, per introdurre un reportage fotografico di Ferdinando Scianna sulle ultime miniere siciliane di salgemma, intitolato Il sale della terra.19 La forma ed il contenuto di esso, anche per il tempo in cui è stato concepito, fanno pensare al testamento, a un ideale testamento che lo scrittore ha voluto dedicare ai salinari del suo paese, quasi con le stesse parole di trent’anni prima: Quel mio libro pubblicato nella primavera del 1956, e si può dire contenga tutti i temi di quelli che ho poi scritto, ha un titolo felicemente trovato dall’editore Vito Laterza: Le parrocchie di Regalpetra. Io lo avevo intitolato Il sale sulla piaga, per un capitolo dedicato alle saline e ai salinari, al loro salario. Salario, da sale: ‘denota - dice il Tommaseo - insieme il giornaliero bisogno di chi lavora per averlo, e il dovere di chi l’ha a pagare’; ma proprio lì stava il dramma di quel salario: che era misero a chi lavorava per averlo e pochissimo sentito il dovere, nonché di pagarlo giustamente, a misura del profitto, di pagarlo. Il sale sulla piaga, dunque: sull’antica piaga di quel paese di cui avevo tentato di raccontare la storia, la vita.20
Quanto, per altro, lo scrittore di Racalmuto tenesse all’originario titolo del suo primo libro è dimostrato anche da una sua poesia del 1952, inedita fino a qualche anno fa: Il paese del sale, il mio paese che frana – sale e nebbia – dall’altipiano a una valle di crete; così povero che basta un venditore d’abiti smessi – ridono appesi alle corde i colori delle vesti femminili – a far festa, o la tenda bianca del venditore di torrone. Il sale sulla piaga, queste pietre bianche che s’ammucchiano lungo i binari – il viaggiatore alza gli occhi dal giornale, chiede il nome del paese – e poi in lunghi convogli e 214 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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scendono alle navi di Porto Empedocle; il sale della terra – “e se il sale diventa insipido come gli si renderà il sapore?” (E se diventa morte, pianto di donne nere nelle strade, fame negli occhi dei bambini?)21
Come si vede, fino ai suoi ultimi giorni di vita, Sciascia non ha dimenticato i vecchi salinari del suo paese, quegli “strati infimi” della società che, secondo Giovanni Gentile, non avevano alcuna importanza storica. D’altra parte egli non ha mai dimenticato le sue origini: Uomini del mio sangue furono carusi nelle zolfare, picconieri, braccianti nelle campagne. Mai per loro la carta buona, sempre il punto basso, come alla leva, sempre il piccone e la zappa, la notte della zolfara o la pioggia sulla schiena. Ad un momento, ecco il punto buono, ecco il capomastro impiegato; e io che non lavoro con le braccia e leggo il mondo attraverso i libri. Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare nella miseria, tornare a vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura. Altrove gente che lavora con le braccia ha già conquistato dignità speranza serena fiducia; qui non c’è dignità e non c’è speranza se non si sta seduti dietro un tavolo e con la penna in mano.22
Con il filosofo neoidealista Sciascia polemizza più volte. In uno dei suoi primi saggi pirandelliani, nel prendere di petto la tesi centrale de Il tramonto della cultura siciliana23 osserva: Dello scritto di Gentile diamo un giudizio simile a quello che Lukács dà del libro di Croce su Hegel: dove, sembra dire il Lukács, ciò che il Croce in Hegel trova di morto è appunto ciò che è vivo, e morto è ciò che trova di vivo. Così il tramonto della cultura siciliana è per noi un’alba: la cultura siciliana perde quei caratteri di naturale isolamento e volontario secessionismo, entra nel circuito nazionale ed europeo senza per questo alienarsi dalle sue profonde e particolari ragioni; ed è anzi nazionale ed europea in forza di quegli “strati infimi” che secondo Gentile ‘non hanno 215 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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grande importanza storica’. Gli ‘strati infimi’, ai quali non sappiamo se il Gentile si riferisce in quanto ‘oggetti’ o ‘soggetti’ di cultura, sono la forza e il limite della narrativa siciliana: e si può anzi dire che ne sono la forza in quanto ‘soggetti’ (Verga, Pirandello: dove i personaggi sono soggetti che esprimono una visione del mondo, una cultura) e il limite in quanto ‘oggetti’ (Capuana, appunto): cioè nella misura in cui il verismo si fa realismo, lo studio rappresentazione, la poetica poesia.24
Tolta la ruggine che il tempo ha depositato su alcune espressioni demodé che si trovano in questo brano, il nocciolo del ragionamento in esso contenuto non lo si può liquidare o esorcizzare considerandolo legato alla prospettiva gramsciano-lukacsiana successivamente superata. Tanto più che Sciascia aveva già scritto Le parrocchie ed era più che vaccinato contro le sirene del “realismo socialista”.25 Un altro documento importante, per capire con quali occhi Sciascia ha guardato la sua Isola, si trova in Feste religiose in Sicilia: un libro di fotografie di Ferdinando Scianna, ormai introvabile, per il quale curò la prefazione.26 E qui, per leggere meglio quest’ultimo testo che tante polemiche suscitò a suo tempo27, ci vorrebbero anche le foto. Scaturiscono infatti proprio dall’attenta osservazione di queste ultime le affermazioni sulla scarsa religiosità del popolo siciliano. Sciascia ironicamente prende le mosse dal “più grande errore di governo” compiuto nel 1783 dal viceré Domenico Caracciolo, nel tentativo di ridurre da cinque a tre i giorni di festa che la città di Palermo era solita celebrare in onore di santa Rosalia. Il viceré riformatore, che era riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare i privilegi feudali, appena osò toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò a perdere il favore di tutti i ceti popolari e i nobili subito ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia reazione. Con la sua tagliente ironia, e un po’ di sarcasmo, lo scrittore chiosa così l’episodio: 216 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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La cultura siciliana (quella che Giovanni Gentile caratterizza e definisce nel saggio Il tramonto della cultura siciliana) pure contribuì con alti lai, con rampogne e satire; e persino in sede storica, per tutto il secolo successivo ed oltre, non fu risparmiato al Caracciolo […] biasimo e vituperio. […] E il Pitrè, cent’anni dopo, gode dello scorno di Caracciolo […]. Né con minore irritazione ricorda l’episodio lo storico Isidoro La Lumia […]. Ed è curioso vedere questi due ultimi studiosi, risorgimentali e presumibilmente massoni, levarsi in postuma indignazione contro una disposizione, motivata e giustificata, che tendeva più a ridurre, come misura di contingenza, un dispendio che ad abolire una tradizione. Tutto sommato, più sereno è il giudizio del benedettino Giovanni Evangelista Di Blasi, testimone diretto della vicenda: e ne parla come di un errore politico […]. Quest’errore, comunque, si sono ben guardati dal ripeterlo i successivi viceré e luogotenenti, i prefetti savoiardi e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali, i socialisti, i comunisti. I cortei dei Fasci Siciliani si aprivano con le bandiere dell’Internazionale e le immagini dei santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi, tra i primi e più zelanti sostenitori delle feste religiose. (Feste religiose in Sicilia, pp. 184-186).
Sciascia, subito dopo, ricostruisce brevemente le vicende attraverso cui Santa Rosalia si afferma come patrona di Palermo e si sofferma a spiegare illuministicamente le ragioni per cui i ceti popolari hanno da sempre privilegiato il rapporto coi Santi rispetto a quello con Dio: Che i santi avessero, tutti, uguale potere di intercessione e che il Redentore fosse il più potente di tutti, non era nozione che potesse aver corso in un popolo vessato da una particolare feudalità. Sulla quale […] veniva esemplata la gerarchia celeste: e come i gabelloti, gli sbirri, i famigli erano, per la loro stessa vicinanza e presenza, più potenti del feudatario chiuso nella sua dorata dimora cittadina o nel castello inaccessibile; come il viceré era effettualmente più potente del re (un antico proverbio dice ‘ncapu a lu re c’è lu viceré), così i santi, più vicini alla terra per il fatto di essere stati mortali, dovevano indubbiamente essere più potenti di Dio. (Feste religiose in Sicilia, p. 189) 217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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A questo punto lo scrittore utilizza due gustosi racconti – uno di Serafino Amabile Guastella, definito «acuto studioso di costumi popolari» (190), ed uno di Giovanni Verga - per arrivare ed esporre le tesi principali sostenute nel saggio. Secondo Sciascia, la cultura siciliana, intesa in senso antropologico, mostra una «totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica»: Già il Gentile notava come il materialismo fosse il carattere originale e peculiare della cultura siciliana: ma fermava il suo discorso alla cultura espressa, per così dire, in opere d’inchiostro; non spingeva la sua indagine alla cultura degli strati popolari infimi […]. (Feste religiose in Sicilia, p. 193)
Sciascia, oltre che dalla osservazione diretta del modo in cui il popolo siciliano partecipa alle feste religiose, di cui le foto di Scianna sono documento, sembra trarre gran parte delle sue conclusioni da Le parità e le storie morali dei nostri villani pubblicate dal barone Serafino Amabile Guastella nel 1884. Il libro è un vero e proprio antivangelo, una summa della refrattarietà del popolo siciliano al cristianesimo [28]. Per questo saggio Sciascia venne violentemente attaccato dalla gerarchia cattolica siciliana del tempo, guidata dal cardinale Ruffini. Da qui la replica garbata dello scrittore che si trova nello stesso testo: A noi i siciliani non sembrano nemmeno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una visione più rigorosa di quella che ne hanno gli alti prelati, i quali proclamano (e fino all’anno scorso, da parte del cardinale arcivescovo di Palermo, in una lettera pastorale largamente discussa dalla stampa) cattolicissima la Sicilia. Certo è, comunque, che cristiana la Sicilia non può dirsi» (193).
Mentre sulle pagine de L’Ora è molto più duro: Imbattendosi in certe mie pagine in cui considero la refrattarietà dei siciliani alla religione, qualche imbecille ritiene che io ne trag218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ga chi sa quale fierezza e godimento, mentre il presupposto della mia indagine è questo: che dove non c’è religione non ci sono rivoluzioni religiose: e un popolo che non ha fatto una rivoluzione religiosa difficilmente farà una rivoluzione civile. E la storia e la condizione della Sicilia l’abbiamo sotto gli occhi: per come volevasi dimostrare.29
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Ma gli attacchi subiti negli anni Sessanta da parte della gerarchia cattolica hanno lasciato il segno nella memoria dello scrittore. Così circa quindici anni dopo ci lascerà del cardinale Ruffini un ritratto feroce, anche se corrispondente alla realtà, che non possiamo dimenticare: Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno […]; intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento. Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa.30
Una variazione sul tema può considerarsi la frequente denuncia della mancanza di fede nelle idee che si trova in luoghi diversi della sua opera. Il concetto, in modo particolarmente efficace, viene espresso in una intervista televisiva del 1977: Qui non si è mai creduto che le idee muovano il mondo. Ci sono naturalmente delle ragioni, ragioni di storia, di esperienze. Ma la ragione che ha impedito alla Sicilia di andare avanti è il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato.
Su tale concetto torna due anni dopo indicando puntualmente fatti e ragioni storiche che stanno dietro la scarsa fiducia nelle idee: 219 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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In noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. È una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo - è un giudizio per cui io mi batto da sempre - è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee.31
Eppure, nonostante il suo costante riferimento alla storia e a fatti precisi, si è attribuita a Sciascia - confuso col principe Tomasi di Lampedusa - la colpa di aver trasmesso un’immagine della Sicilia e dei siciliani non corrispondente alla realtà. L’immagine di un’isola immobile e irredimibile, e del popolo siciliano come di una razza impermeabile alla storia. Anche un critico acuto come Pasolini ha contribuito a diffondere l’equivoco che attribuisce allo scrittore di Racalmuto una rappresentazione mitica sia della Sicilia che del fenomeno mafioso. Basti rileggere la recensione fatta dallo scrittore friulano nel 1973 de Il mare colore del vino. Si trova qui, per la prima volta, affermato che storia della Sicilia e storia della mafia in Sciascia tenderebbero a confondersi, che la storia della Sicilia è «una lunga storia che si ripete» e che al centro di questa storia c’è la mafia, legata ad essa dalle origini: cioè praticamente senza origine propria. Questo suo esistere ‘ab 220 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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aeterno’ nella storia siciliana le conferisce caratteri metastorici, almeno in quanto essa non è traducibile in termini logici. […] La mafia intesa così, come centro propulsore, come motore immobile, della storia siciliana, è ben radicata dentro le singole coscienze dei siciliani (dal cui insieme è costituita questa strana storia ferma e ripetitiva).32
Pur riconoscendo che questa rappresentazione della Sicilia e della mafia si trova in alcune pagine della sua opera, solo un abbaglio può condurre a confondere il punto di vista dell’Autore con quello di alcuni suoi personaggi. Lo stesso Sciascia, in un suo articolo poco noto33, coevo alla recensione suddetta, ha denunciato il malinteso ricordando l’incontro avuto con una scolaresca che, non avendo le idee chiare su cosa fosse un’opera narrativa, poneva all’autore domande di questo tipo: “a pagina tale di quel tale suo libro lei dice…”, e giù la citazione, che era un elogio del fascismo e dello stalinismo o della mafia. E poi: “lei è fascista?”, “lei è stalinista?”, “lei ritiene che la mafia sia una cosa buona?”. Erano in perfetto candore; e difatti cominciarono a fare domande più sensate dopo che ebbi a spiegare cos’era un racconto e come l’autore facesse parlare i personaggi in base all’identità di ciascuno, e non alla propria. Ora qui - osservava il Nostro - non siamo in una scuola: eppure mi trovo costretto a spiegare che il fatto di aver rappresentato - con evidente distacco ed ironia - una realtà che possiamo anche chiamare qualunquista dimostra appunto che non sono qualunquista: ‘Non è colpa dello specchio’ - diceva Gogol - ‘se i nostri nasi sono storti’.34
Avviandoci alla conclusione vogliamo ricordare un articolo di poche righe, intitolato L’uomo del sud?, pubblicato nel periodico di Racalmuto, Malgrado Tutto, nel luglio del 1980, un anno dopo la pubblicazione del libro intervista La Sicilia come metafora [1979] che, secondo tanti critici, segna una svolta nella sua opera. Ci pare opportuno riproporlo integralmente, dal momento che esso rimette in discussione tanti luoghi comuni: 221 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’uomo del sud - e cioè un tipo umano riconoscibile, catalogabile e giudicabile in quanto uomo del sud - non esiste. Esistono nel sud condizioni economiche, generate dal corso della storia, che possono anche dare l’illusione di essere state invece generate da una particolare umanità. È l’illusione di cui è suggestivamente intriso il Gattopardo; e funziona anche da alibi, alibi di classe. La Sicilia del principe di Lampedusa è una astrazione geografico-climatica e l’uomo siciliano che ne deriva è ugualmente un’astrazione. Il clima, le lunghe estati, le siccità, gli scirocchi, non servono molto a spiegare le condizioni della Sicilia e il carattere dell’uomo siciliano; molto di più serve il considerare la storia delle dominazioni straniere, dagli arabi agli Spagnoli. L’immagine che si ha nei Promessi Sposi della Lombardia nel Seicento somiglia moltissimo a quella che, fino ad oggi, possiamo avere della Sicilia. Ma nel Settecento la Lombardia è già diversa, non somiglia più alla Sicilia: non c’è più la Spagna, c’è l’Austria con le sue sagge riforme, la sua amministrazione efficiente e corretta. Che cosa sarebbe stata la Lombardia se fosse passata dalla dominazione spagnola ai Borboni di Napoli e poi ai Savoia? Che cosa diremmo oggi dell’uomo lombardo?
L’affermazione perentoria con la quale si nega l’esistenza di una categoria antropologica, fuori dal tempo e dallo spazio, denominata “uomo del sud” non poteva essere più chiara e netta. Tra le righe si avverte l’eco del sarcasmo con cui Antonio Gramsci aveva respinto il razzismo dei Lombroso e dei Loria. Certamente ci sarebbe ancora tanto da dire sull’articolato giudizio che, nel corso del tempo, Sciascia ha dato del capolavoro del Principe di Lampedusa, ma non c’è qui lo spazio per farlo. E chiudiamo con le stesse parole usate dallo scrittore siciliano nell’ultima intervista rilasciata a Benedetta Craveri, qualche giorno prima di morire. La giornalista, nel fare riferimento a quella pagina de Il cavaliere e la morte in cui viene evocato «il pessimismo innato, atavico e disperato degli uomini di Sicilia», chiede a Sciascia conto del suo pessimismo e questi risponde: Sì, pessimista. Ma c’è realmente qualcosa, in Sicilia, in Italia, e direi anche nel mondo, che può incitare all’ottimismo? Pessimi222 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sta, sì. Ma, parlando del mio ultimo libro, Moravia ha detto una bella cosa, e, ciò che più conta, di un assoluto buon senso: che c’è l’ottimismo della scrittura. E poi bisogna considerare che, come cittadino, sono stato talmente ottimista da fare per diciotto mesi il consigliere comunale a Palermo e per quattro anni il deputato al parlamento nazionale. E quale più bella prova d’ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su ciò che Machiavelli chiamava la “verità effettuale” delle cose ed incassando per questo le reazioni più violente degli imbecilli, per non dire di più? Il vero pessimismo sarebbe di non scrivere più, di lasciare libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuole dire, in definitiva, che sono incurabilmente ottimista.35
Note 1. Il testo di Sciascia, citato in epigrafe, continua con queste profetiche parole: «Qui la mafia non sarebbe durata tanto a lungo se non fosse stata aiutata da un patto con lo Stato, che naturalmente non è un patto steso a tavolino ma è un patto da vedere in quella che Machiavelli chiamava la verità effettuale delle cose» (Leonardo Sciascia in: G. Mingozzi, Con il cuore fermo, Sicilia. Un viaggio tra cinema e TV, Dino Audino Editore, Roma 1995, p. 39. 2. La Repubblica, Palermo, 13 febbraio 2010. 3. Gaetano Savatteri, Non c’è più la Sicilia di una volta, Laterza, Roma-Bari 2017, p. VII. Chi ha, comunque, la pazienza di leggere il libro fino in fondo non tarda a capire che il bersaglio dell’autore non sono i grandi scrittori indicati sopra quanto i luoghi comuni fioriti intorno a loro. 4. Negli ultimi anni sono stati pubblicati gli importanti carteggi del nostro autore con Mario La Cava (2012), Roberto Roversi (2015), Vito Laterza (2016) e, solo in parte, la sua corrispondenza con Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. È stata, inoltre, creata la Rivista internazionale di studi sciasciani Todomodo che sancisce la fama mondiale ormai raggiunta dallo scrittore. 5. L’opera omnia di Leonardo Sciascia aveva avuto una prima sistemazione, a cura di Claude Ambroise, vivo ancora l’autore, in tre volumi editi da Bompiani. Dopo la morte dell’autore, avvenuta nel novembre del 1989, il 223 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
filologo Paolo Squillacioti, avendo avuto libero accesso all’Archivio Sciascia, custodito nell’omonima Fondazione, ha potuto curare una nuova edizione critica di tutti i suoi scritti, tenendo anche conto dei manoscritti e della fitta corrispondenza dell’autore con i suoi diversi editori ed amici. La casa editrice Adelphi ha già pubblicato i primi due volumi, così distinti: Opere. I. Narrativa - Teatro - Poesia, Milano, 2012; Opere. II/1, Inquisizioni - Memorie - Saggi, Milano, 2014. Restiamo in attesa di vedere, quanto prima, i volumi restanti di questa nuova edizione e, specialmente, la stampa del fondamentale epistolario completo di Leonardo Sciascia. 6. Leonardo Sciascia, Feste religiose in Sicilia, in La corda pazza. Scrittori e cose di Sicilia, Einaudi, Torino 1970, p. 202. Documento acquistato da () il 2023/09/12.
7. Ivi, pp. 11-17. 8. M. Onofri, Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 140. È vero comunque che, come nota il critico, tutti i saggi raccolti in La corda pazza non fuoriescono dall’orizzonte gramsciano-lukacsiano. 9. AA. VV., Delle cose di Sicilia, testi inediti o rari, a cura di L. Sciascia; introduzione di D. Fernandez, I, Sellerio, Palermo 1980; II, 1982; III, 1984; IV, 1986. 10. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in La corda pazza, cit., p. 14. 11. Salvatore Di Marco, La sicilianità non è questione di parole, in Rivista Storica Siciliana, 41-43, 1996, pp. 10-22. 12. Si rimanda al riguardo al bel saggio di Aldo Gerbino, Senghor, “saudade” e sostanza nera, in AA.VV. (a cura di Muriel Augry e Tommaso Romano), Senghor: 100 anni. Umanesimo civile e poesia della Negritudine, Atti del Convegno internazionale, Palermo, 9 ottobre 2006, Palumbo, Palermo 2007, pp. 43-49. 13. Vedi, per tutti, i saggi raccolti nel volume Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1961; Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1974 e 1996; Bernardo Puleio, I sentieri di Sciascia, Kalós, Palermo 2003; Francesco Virga, Due grandi eretici, in Segno, 252, febbraio 2004. 14. Salvatore Lupo, Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Donzelli, Roma 2007, p. 36. 15. Leonardo Sciascia, Prefazione del 1967 a Le Parrocchie di Regalpetra. Morte dell’inquisitore, Laterza, Roma-Bari, 1967, poi in Opere, I, 1956-1971, p. 5. 224 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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16. Su questo convegno conservo una copia ciclostilata degli Atti curata dai collaboratori di Danilo Dolci che doveva servire da base per la stampa definitiva, che è stata realizzata soltanto di recente. Al convegno, oltre Sciascia, parteciparono, tra gli altri: Carlo Levi, Paolo Sylos Labini e Girolamo Li Causi. La rivista di Palermo Segno, n. 209, autunno 1999, pubblicò l’intervento inedito di Sciascia con il titolo redazionale “Una letteratura d’opposizione”. 17. Bisogna comunque riconoscere che uno dei critici che si è maggiormente impegnato negli ultimi anni a prendere le distanze dalla «pericolosa e mistificante ideologia dell’impegno» (M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. IX), nel suo programmatico intento di «tornare dal contesto al testo, dall’ideologia alla letteratura» (p. VIII), non ha mancato di riconoscere il rapporto stretto che lega storia e letteratura, ed il valore di controstoria che ha assunto spesso l’opera sciasciana. 18. Anche chi, attraverso una raffinata analisi letteraria dei testi, è arrivato a cogliere le differenze tra il primo e l’ultimo Sciascia, ha dovuto riconoscere che resiste nello scrittore fino all’ultimo la concezione della funzione civile della letteratura. Cfr. Nunzio Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, in L’ombra del moderno, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992. 19. Supplemento de Il Sole 24 ore del 16 aprile 1989. 20. Ivi, p. 5. In questo stesso testo si trova la notizia, del tutto trascurata dalla critica, secondo la quale per l’edizione americana del libro, Sciascia ripropose il titolo Il sale sulla piaga respinto da Laterza. Ed ho accertato che, in effetti, la traduzione inglese de Le parrocchie, a cura di Judith Green, è stata pubblicata con il titolo: Salt in the Wound, The Orion Press, New York 1969. Quanto, per altro, lo scrittore di Racalmuto tenesse all’originario titolo del suo primo libro è dimostrato anche da una sua poesia del 1952, inedita fino a qualche anno fa. 21. Questa poesia, scritta da Leonardo Sciascia nel 1952, è stata ritrovata da Francesco Izzo tra le Carte Pasolini, presso l’Archivio A. Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. E a darne notizia è stato il sito ufficiale degli Amici dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia Web nell’ottobre del 2009. 22. Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra [1956] in Opere, I, cit.. p. 112-113. Il critico francese nel suo Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano, 1974 e 1996, è stato tra i primi ad evidenziare la centralità che ha la zolfara nell’opera dello scrittore di Racalmuto. Più recentemente Luciano Curreri ha ripreso lo spunto del critico francese sviluppandolo in un interessante articolo che lascia presagire un saggio più compiuto: Per le zolfare che 225 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ovunque fiorivano. Scavi zolfiferi nell’opera sciasciana (1952-1964), in Leonardo Sciascia vent’anni dopo, Il Giannone, 13-14, 2009, p. 69-89.
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23. Il saggio di Giovanni Gentile, apparso a brani su La Critica del Croce a partire dal gennaio 1915, e pubblicato in volume due anni dopo, aveva cantato il de profundis alla cultura siciliana a seguito della morte, avvenuta nel 1916, di tre dei suoi più rappresentativi esponenti: Salvatore Salomone-Marino, Gioacchino Di Marzo e Giuseppe Pitrè. 24. Pirandello e la Sicilia, cit., p. 44. 25. Cfr. Walter Mauro, Sciascia, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 22. 26. Leonardo da Vinci, Bari, 1965. 27. Si ricordi che l’anno precedente il cardinale Ruffini aveva pubblicato la famosa lettera pastorale al “diletto popolo siciliano” in cui attaccava Danilo Dolci e Tomasi di Lampedusa. 28. Il libro verrà ristampato in edizione economica “BUR” (Rizzoli, Milano, 1977) con una bella introduzione di Italo Calvino che conferma puntualmente il giudizio di Sciascia. 29. Leonardo Sciascia, I siciliani e la religione, L’Ora, 27 febbraio 1965, ora in Quaderno, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991, p. 51. 30. La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979, pp. 129-130. 31. Leonardo Sciascia, Elogio dell’eresia, L’Ora, 9 maggio 1979. 32. PP. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, p. 133. La Fondazione Sciascia ha comunicato recentemente di avere messo a disposizione degli studiosi lo scambio epistolare tra i due scrittori. Sarebbe interessante accertare se, in privato, Sciascia abbia mai replicato all’amico. In pubblico, come si sa, non lo fece mai, mostrandogli sempre stima ed affetto. Al riguardo merita di essere ricordata una sua pagina particolarmente toccante: «Io mi sentivo sempre un suo amico; e credo anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto - come dire? - razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero - e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare» (Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 175-176). 226 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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33. Leonardo Sciascia, A proposito del mio qualunquismo, in Quaderni Siciliani, giugno 1973: 44-47. Appare interessante notare che la rivista, diretta emanazione del nuovo gruppo dirigente del PCI siciliano, guidato da Achille Occhetto, era in rotta di collisione con i vecchi dirigenti capeggiati da Macaluso. Nell’articolo Sciascia polemizza apertamente con quest’ultimo, oltre che con Gerardo Chiaromonte, replicando alle accuse di qualunquismo che gli erano state rivolte, all’indomani della pubblicazione del Contesto. 34. Ivi, p. 45. In questo stesso articolo si trova un significativo rimando al caso Camus che aveva diviso la sinistra francese negli anni Cinquanta e Sessanta: «Forti di una tradizione del tutto negativa - quella stessa, tanto per intenderci, che relegava il dissenso di Camus al servizio della CIA: e quanta ragione avesse Camus, e quanta il tempo e la storia interna del comunismo gliene abbiano data, è ormai bilancio scontato - costoro [scl. i detrattori come Macaluso e Chiaromonte] mi hanno appiccicato delle etichette di pessimismo, di qualunquismo, di rassegnazione e di disperazione». 35. Leonardo Sciascia, intervista a cura di Benedetta Craveri, pubblicata su Le Monde¸ 6 ottobre 1989. Concetti simili a quelli espressi in questa intervista si ritrovano in più luoghi. Il testo integrale dell’intervista si trova ora in AA.VV., Il Giannone, Semestrale di cultura e letteratura diretto da Antonio Motta, anno VII, n. 13-14, gennaio-dicembre 2009, pp. 37-39.
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VI. La mafia secondo Leonardo Sciascia
Ricorre quest’anno il centenario della nascita e il 32° anniversario della morte di Leonardo Sciascia (1921-1989). Gli anniversari sono i momenti peggiori per parlare o scrivere criticamente di un autore. Sciascia, peraltro, è stato un autore che ha sempre amato le polemiche ed è stato uno dei più grandi polemisti del Novecento. Anche per questo non meritava di essere sommerso da un diluvio di parole retoriche. Ma così va il mondo, cosicché anche quelli che, fino a poco tempo fa, dicevano e scrivevano che era giunta l’ora di smettere di leggerlo, si sono uniti al coro delle celebrazioni. Sciascia, con Pasolini, è stato uno degli autori più controversi del Novecento. Negli ultimi vent’anni della sua vita, almeno a partire da Il contesto (1971), è stato attaccato da più parti: Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso gli hanno dato del qualunquista2; Giorgio Amendola nel 1977 l’ha chiamato vigliacco e disfattista3; L’affaire Moro, oggi glorificato, quando uscì nel 1978, ignorato e incompreso da tanti, condusse Eugenio Scalfari ad evocare La trahison des clercs; non parliamo del putiferio che scatenò nel 1987 l’articolo pubblicato dal principale quotidiano nazionale, con titolo redazionale, I professionisti dell’antimafia. 229 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Si arrivò a dire che era stato “stregato” dalla mafia; e non si è voluto capire che in tutte le sue opere Sciascia ha messo alla berlina ogni forma di cultura mafiosa (da quella espressa da Capuana e Pitrè a quella di Don Peppino Genco Russo). In questo capitolo focalizzerò la mia attenzione su un testo poco noto dello scrittore siciliano. Eppure si tratta della sua prima articolata riflessione sul fenomeno mafioso, come indica il suo stesso titolo La mafia. Il pezzo uscì nel lontano 1957 sulla combattiva rivista Tempo Presente di Ignazio Silone. Per raccoglierlo qualche anno dopo nel suo primo libro di critica letteraria e di costume Pirandello e la Sicilia (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1961). Sciascia non ha mai amato essere considerato un mafiologo; eppure non conosco scrittori che hanno scritto quanto lui sulla mafia e sulla cultura mafiosa. A lui dobbiamo soprattutto l’idea originale secondo cui il vero spirito mafioso si annida in ogni forma di potere assoluto. Per questo non conosce confini geografici e ha avuto nella storia molteplici incarnazioni, dagli antichi Tribunali della Santa Inquisizione ai più recenti campi di concentramento e gulag. Sciascia comincia a scrivere di mafia in anni in cui pochi ne parlavano e molti ne negavano perfino l’esistenza. Lo ricorderà lo stesso Autore, con un po’ di civetteria, un anno prima di lasciarci: Ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia e di difenderla troppo. […]. Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere molte cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.4
Leonardo Sciascia ha studiato la mafia con la stessa libertà e 230 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
la stessa passione che ha attribuito ad uno dei maggiori studiosi siciliani di tradizioni popolari: In piena libertà, senza quelle remore, quelle preoccupazioni, quelle direttrici (e quei disguidi) che la carriera accademica impone, da anni Antonino Uccello studia le tradizioni popolari siciliane (L. Sciascia, Quaderno, Palermo 1991, pp. 116-119).
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Anche per questo Sciascia ha potuto dire sulla mafia quello che gli storici accademici non hanno mai voluto o potuto dire.
1. Mafia siculo-americana, razza e storia, mafia e classi dirigenti
Il filologo Paolo Squillacioti, che ha curato la nuova edizione Adelphi delle Opere di Leonardo Sciascia, nel 2010 ha raccolto nel volume Il fuoco nel mare un gruppo di racconti dispersi (1947-1975) del nostro scrittore. Tra questi almeno tre, più o meno direttamente, fanno riferimento al fenomeno mafioso: Il signor T protegge il paese (1947); 10 luglio 1943; Una kermesse (1949). I tre racconti, inediti fino al 2010, descrivono con realismo la vita quotidiana di Racalmuto (AG) tra gli ultimi mesi di regime fascista, lo sbarco a Licata del 10 luglio 1943 delle truppe anglo-americane e l’ingresso dei soldati americani a Racalmuto. In uno di questi racconti si nota con arguzia: «Gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire come mai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati (lo sbarco in Sicilia) non fosse per tanti siciliani un segreto».5 I tre racconti anticipano quanto lo stesso autore scriverà ne Le parrocchie di Regalpetra (Laterza 1956), descrivendo l’insediamento di un pregiudicato mafioso a sindaco di Racalmuto, con la copertura dei nuovi padroni americani. L’episodio, come vedremo, lascerà un segno indelebile nella memoria di Sciascia. Squillacioti, oltre a rilevare l’importanza che hanno sempre avuto le microstorie nella sua opera, ricorda anche queste sue 231 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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parole: «La letteratura […] sempre detiene e comunica più verità di quelle discipline che si ritiene attingano alla più oggettiva verità».6 Ma, l’anno successivo alla pubblicazione delle Parrocchie, Sciascia pubblica nella rivista Tempo Presente di Ignazio Silone un lungo articolo intitolato La mafia. In questo articolo, che ha la forma di un vero e proprio saggio, si trova la prima organica espressione dell’originale concezione sciasciana del fenomeno mafioso. Lo scrittore articola e sviluppa il suo pensiero a zig zag in modo polemico e problematico. Prende le mosse da una intervista concessa al quotidiano milanese Il Giorno, nell’estate del 1956, dall’allora Presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi. In un momento storico in cui «Palermo pareva diventata la Chicago dei tempi del proibizionismo», osserva Sciascia, l’on. Alessi, con «allarmante candore», pur riconoscendo i mali della sua Isola, invita l’intervistatore a guardare “la mafia del nord” coi suoi aggiotaggi e giochi di borsa: Come l’Alessi, sono molti i siciliani che in buona fede riducono la mafia a sporadici fatti delinquenziali e ritengono che sia un’offesa alla Sicilia ammettere l’esistenza di un’associazione per delinquere con vasto raggio d’azione e con precisi addentellati nella vita pubblica. Sono sicuro […] che l’Alessi, vivendo tra Caltanissetta e Palermo e con la sua notevole esperienza di avvocato penalista, non ignora le vere proporzioni del fenomeno, né le collusioni ormai universalmente riconosciute tra mafia e classe dirigente.7
A questo punto Sciascia passa ad analizzare criticamente due libri editi nel 1956 che affrontano, da due diversi punti di vista, lo stesso tema. Il primo, intitolato La mafia, opera del giornalista americano Ed Reid, era stato pubblicato in Italia dall’editore Parenti e si avvaleva anche di una importante Prefazione di Piero Calamandrei. Secondo Sciascia Reid tende a dilatare la materia e in certi punti a romanzarla. Ma coglie un elemento di verità laddove individua lo stretto legame esistente tra la mafia siciliana e quella americana. Il legame è rafforzato dal continuo 232 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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flusso di emigrati siciliani negli USA. È stata accertata, infatti, la necessità di un’organizzazione clandestina per far partire dalla Sicilia, e assicurare loro solidale ricezione in America. Risulta, infatti, che gran parte degli emigrati negli Usa dovevano rendere conto alla Giustizia italiana: Uomini che vivevano alla costa perché ricercati o per vocazione al brigantaggio vero e proprio, omicidi abigeatari e ricettatori che da un momento all’altro temevano che il braccio della legge dovesse piombare su di loro, pregiudicati che - a ragione o a torto - si sentivano costantemente pesare lo sguardo del carabiniere […]. Si capisce che, stante la potenza che i mafiosi siciliani venivano acquistando in America, non potevano fare a meno di rivolgersi a loro anche gli onesti che la miseria costringeva ad emigrare: e non è certo che, una volta in America, venissero avviati a un lavoro onesto.8
Particolarmente interessante appare una digressione che dimostra la profonda conoscenza di Leonardo Sciascia della psicologia sicula: Personalmente, dalla conoscenza di molti siciliani d’America, ho tratto l’impressione che in loro il fatto di far parte della mafia o di doverla subire assume un valore, direi, legalitario. Associandosi a un pragmatismo elementare, a una religione del benessere e della ricchezza, alla mistica della concorrenza, nel povero bracciante siciliano trapiantato negli Stati Uniti, il concetto di mafia è ben lontano dal perdere quel carattere morale che persino Vittorio Emanuele Orlando aveva avallato. Il siciliano d’America ha subìto una specie di arresto psicologico e morale al momento, indubbiamente traumatico, in cui a causa della povertà o della persecuzione della legge è stato costretto ad emigrare.9
Notevole appare anche quest’altra osservazione critica che tornerà in altri testi dello scrittore di Racalmuto: Così come il suo dialetto non ha subìto evoluzione (chi volesse comporre un lessico di parole ormai in disuso – per esempio burcetta per forchetta, bunaca per giacca, muccaturi per fazzoletto, 233 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ecc. – dovrebbe cercare tra i siciliani d’America), così come la Sicilia è ferma nel suo ricordo, sicché tornandoci si stupisce oggi di trovare l’elettricità e l’acqua e la radio nelle case, così la mafia è rimasta per lui quella che era 40 anni or sono.10
Sciascia si mostra anche consapevole del peso politico della mafia negli USA. Mentre nella vecchia Sicilia il controllo capillare del territorio e del voto si esercita in modo artigianale, nella little Italy esso ha ormai assunto modalità industriali. Ma, di fronte ad una affermazione di tipo razzista del giornalista americano, Sciascia prende immediatamente le distanze, sollevando una fondamentale questione di metodo di cui appare evidente l’origine gramsciana11:«Non è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa».12 A questo punto Sciascia propone una sommaria storia della mafia, sostenendo che essa, da fenomeno rurale, quale era originariamente in Sicilia, in America è diventata «espressione deteriore del capitalismo industriale» pur rimanendo «fedele alla classe padronale»: così, mentre in Sicilia difendeva il feudo dalla fame di terra dei contadini, negli USA sovrintende a «forme sanguinose di crumiraggio». (Ivi, pp. 167-168) Sciascia, in questo saggio, mostra di aver fatto sua la lettura di classe dei sociologi marxisti; arriva persino ad affermare che «dove la coscienza di classe manca, la mafia riesce a sostituirsi al sindacato» (ivi, p. 169). Eppure non manca di mostrare la sua maggiore duttilità riconoscendo la necessità di considerare un’infinità di scarti e di eccezioni: per esempio, a Bagheria, in provincia di Palermo, la mafia ha agito da ente di riforma, grazie alla paura che ha saputo incutere nei proprietari latifondisti, ha creato la piccola proprietà (ivi, p. 168).
Tuttavia, pur consapevole dei rischi connessi ad ogni generalizzazione, propone una definizione della mafia che riterrà ancora valida più di vent’anni dopo: 234 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi violenti.13
Per spiegare l’alzata di testa della mafia alla fine della seconda guerra mondiale, dopo i duri colpi che le aveva inferto il regime fascista14, lo scrittore siciliano se la prende con le truppe anglo-americane sbarcate a Licata il 10 luglio del 1943. Secondo Sciascia, infatti, quando gli Americani sbarcano in Sicilia, una delle prime cose che fanno è quella di insediare nei Comuni i mafiosi più noti; da quel momento tutti comprendono che «la mafia avrebbe avuto una specie di estate di San Martino» e aggiunge: Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto l’AMGOT trovarono cariche e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’è da chiedersi se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di persone di fiducia che - guarda caso! - erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costantemente mantenuto con la mafia siciliana.15
Nelle pagine seguenti Sciascia si sofferma ad analizzare il caso del boss mafioso Vito Genovese, di cui si occupa Ed Reid nella parte centrale del suo libro evidenziando, in particolare, le coperture politiche ricevute da parte del colonnello Poletti, Responsabile dell’AMGOT a Palermo. Il Poletti nel 1993 ha rilasciato al prof. Gianni Puglisi una incredibile intervista in cui, per smentire le accuse che gli sono state rivolte, arriva ad affermare, nel vecchio stile mafioso, che «la mafia è un’invenzione intellettuale».16 Proprio mentre scrivo queste righe, ricevo il primo numero del trimestrale Studi Storici Siciliani, diretto da Gero Difrancesco e Marcello Saija, stampato a Caltanissetta il 25 gennaio 2021. Colpisce la bella foto inedita che illustra la copertina della 235 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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rivista. Come spiega Gero Difrancesco la foto, scattata da un fotografo amatoriale, ritrae i protagonisti dell’incontro che si tenne a Mussomeli (CL), il paese di Don Peppino Genco Russo, tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944, tra il maggiore inglese D. Morley Fletcher, comandante dell’AMGOT della Valle del Platani, il prefetto di Caltanissetta Arcangelo Cammarata, i sindaci e i maggiorenti del territorio sottoposto alla giurisdizione dell’Allied Military Government. Nella foto sono riconoscibili, tra gli altri, accanto al Prefetto, il famoso Don Calò Vizzini, sindaco di Villalba (CL), capo riconosciuto della mafia siciliana. Difrancesco, oltre ad evidenziare che tra i Sindaci e i Prefetti designati dall’AMGOT molti avevano legami stretti con Cosa Nostra, accenna alla fitta rete clientelare tessuta in quel periodo, nella provincia di Caltanissetta, dall’uomo politico democristiano Calogero Volpe, facendo riferimento al libro Esperienze e riflessioni (Laterza 1974) di Danilo Dolci.17 Sciascia rimarcherà più volte, in tempi e luoghi diversi, il contributo decisivo dato dall’AMGOT, tra il 1943 e il 1945, alla rinascita della mafia in Sicilia. Ne parla diffusamente ed ironicamente nel suo Candido (1977) e molto seriamente in Sicilia come metafora (1979). Ma è particolarmente incisivo in una delle sue ultime interviste quando afferma: La mafia, che era stata combattuta dal fascismo - due mafie non avrebbero potuto coesistere - si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani in posti chiave delle istituzioni, i mafiosi, oltre al prestigio, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani.18
Evidentemente ha lasciato il segno nella sua memoria la scena vista coi propri occhi nel 1943 a Racalmuto, quando de236 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
linquenti e mafiosi cominciarono a gridare “Viva la libertà!” e “Viva la repubblica stellata!” subito dopo essere stati liberati dalle forze americane di occupazione.19
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2. La mafia agrigentina La parte conclusiva del saggio sciasciano del 1957 è dedicata all’analisi del libro del Maggiore dei Carabinieri, Renato Candida, comandante del gruppo CC di Agrigento, pubblicato l’anno precedente. Si tratta di un testo importante, ricco di dati di prima mano, frutto dell’osservazione diretta di un ufficiale dell’Arma che, non a caso, dopo la pubblicazione del libro verrà trasferito nel nord Italia. Sciascia tornerà a parlare del lavoro del Candida nel novembre del 1988, in un suo importante articolo pubblicato su La Stampa, poi raccolto insieme ad altri nel libro A futura memoria (se la memoria ha un futuro), dove ne fa un gran bel ritratto (ivi, pp. 161-164). Secondo Sciascia i libri di Candida e di Reid si integrano e si completano a vicenda. La tesi del Reid - che la mafia nelle sue diramazioni internazionali abbia in Sicilia la sua base centrale - anche se non comprovata dal Candida viene avvalorata almeno per quel che riguarda l’identità di metodi usati. Quando il Candida dice che «l’evoluzione mafiosa, in senso economico, abbraccia quanti più campi è possibile: dal commercio della birra [...], della frutta, della carne da macello, delle sigarette da contrabbando, del pesce, della verdura, dello zolfo e sottoprodotti, del salgemma; agli appalti dei lavori stradali, edili, agricoli, minerari e, infine, alla pseudo-sorveglianza (qui detta guardiania)», quando Candida dice questo non si può più dubitare dell’organizzazione unitaria della mafia siculo-americana. Candida, pur non essendo siciliano, è venuto in Sicilia senza pregiudizi; ed essendo intelligente ha capito presto che la mafia è un problema molto complesso, che non si esaurisce nella fenomenologia delittuosa. Egli sa, ad esempio, che a Favara la 237 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mafia prospera in un ambiente sociale molto favorevole, perché la popolazione ha un basso tenore di vita e scarse possibilità di lavoro; a Palma di Montechiaro oltre il 65% della popolazione è analfabeta, migliaia di uomini per tutto l’anno è in ozio forzato; a Siculiana 1600 braccianti lavorano 120 giorni l’anno per 600 lire giornaliere; in tutti i Comuni della provincia agrigentina l’infanzia è brutalmente sfruttata, dodicenni appena vengono strappati all’affetto materno e all’educazione scolastica per essere adibiti a lavori pesanti che logorano il fisico. La mafia studiata dal Candida è la mafia della provincia agrigentina legata alla terra e alla zolfara ma che si va evolvendo verso forme di delinquenza gangsteristica. La tesi principale del Candida è questa: che nessun fatto delittuoso (a parte quelli cosiddetti d’onore: e anche in questi bisogna considerare una notevole ‘tara’ mafiosa) avviene in Sicilia al di fuori della mafia e che ogni reato contro la proprietà e la persona emana, se non direttamente, almeno con la tacita approvazione della ‘onorata società’. O meglio: tutti i delitti oscuri, in cui l’identificazione del colpevole è difficile se non addirittura impossibile, sono compiuti, o almeno avallati, dalla mafia (Ivi, p. 175).
A questo punto Sciascia fa una digressione sull’uso che le forze dell’ordine hanno sempre fatto della figura del cosiddetto confidente e dell’istituto della pena del confino, retti entrambi da rischiosi margini di discrezionalità (ivi, pp. 175-176), che tralasciamo in questa sede per soffermarci, invece sulla scoperta, compiuta dal Candida, di una cosiddetta “mafia di sinistra” che incuriosisce lo scrittore di Racalmuto: Di una mafia di sinistra (avendo finora i partiti di sinistra monopolizzato la lotta contro la mafia) nessuno prima del Candida aveva parlato: eppure esiste, e in molti centri dell’agrigentino riesce a battere sistematicamente la mafia di centro-destra. Ciò non toglie che l’essenza della mafia risieda in quell’ideale d’ordine di cui si è detto. Peraltro è da osservare che la scelta di un partito in Sicilia è determinata da circostanze che niente hanno a che fare con un ideale politico (eccezion fatta per il bracciantato agricolo che 238 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
segue la bandiera comunista con religiosa speranza): rivalità di gruppi, di famiglie o semplicemente di individui; gelosie e invidie (Ivi, pp. 177-178).
Particolarmente originale risulta comunque la conclusione di Sciascia:
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Pur ritenendo valida l’interpretazione classista che le sinistre danno della mafia, sul piano della cronaca non va trascurata la collisione che tra mafia e partiti di sinistra si realizza in certi Comuni dell’agrigentino (Ivi, p. 179).
Inoltre, nel ribadire il rapporto organico esistente tra mafia e classi dirigenti, respinge nettamente la rappresentazione folcloristica che generalmente se ne fa: Nella fantasia di coloro che non conoscono la Sicilia, la connivenza dei membri della classe dirigente coi mafiosi si configura in convocazioni e riunioni segrete, in un meccanismo deliberatorio e tribunalizio. In realtà tale connivenza si realizza in modo indiretto, attraverso un giro di amici degli amici così largo da rendere impossibile un risultato d’indagine che valga veramente a provare il rapporto tra un uomo politico e l’associazione mafiosa. […]. Qualche uomo politico ha creduto, agli inizi della propria carriera, di potersi servire della forza elettorale della mafia con machiavellica disinvoltura, con la riserva mentale di non corrispondere, una volta eletto, agli impegni, peraltro non espliciti, in cui veniva a cadere (Ivi, pp. 179-180).
Per concludere con un’affermazione profetica che, non a caso, ricorderà più volte negli anni successivi: In Sicilia la mafia è una forza. […]. Se dal latifondo riuscirà a migrare e a consolidarsi nella città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo enorme problema (Ivi, p. 180).
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Note 1. Affermazione di Leonardo Sciascia nel corso della tavola rotonda, organizzata dal settimanale L’Espresso, il 12 novembre 1970, tra lo scrittore di Racalmuto, Michele Pantaleone e il Presidente della Commissione antimafia Francesco Cattanei. Il testo integrale degli interventi, svolti nel corso del confronto, è stato riprodotto da Gino Pantaleone in appendice al suo libro, Servi disobbedienti, Dario Flaccovio Editore, Palermo 2016, pp. 205-219.
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2. Si rimanda al riguardo all’ottima antologia critica curata da Antonio Motta, Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra verità, Lacaita Editore, Manduria 1985, pp. 367-444. A queste critiche Sciascia replicò in un articolo, poco noto, intitolato A proposito del mio qualunquismo, pubblicato nel 1973 dalla rivista Quaderni siciliani. 3. Cfr. AA.VV., Coraggio e viltà degli intellettuali, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1977. 4. La Stampa, 6 agosto 1988, ora in L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1988, p. 154. 5. L. Sciascia, Il fuoco nel mare. Racconti dispersi (1947-1975), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano 2010, p. 175. 6. Ivi, p. 186. 7. L. Sciascia, La mafia (1957) ora in Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1961, pp. 163-180. 8. Ivi, p. 166. 9. Ibidem. 10. Ivi, pp. 166-167. Questo passo del ragionamento di Sciascia mi fa tornare alla mente un altro dello stesso autore scritto nel 1972 a proposito del dialetto usato dal poeta di Aliminusa (PA), Giuseppe Giovanni Battaglia: «Un dialetto integrale e lontano, come una restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi, all’interno dell’isola come erano tra le due guerre; e da far pensare anche alla parlata dei nostri emigrati che tornano dopo mezzo secolo, alle parole che hanno conservato come in vitro» (L. Sciascia, Prefazione a G.G. Battaglia, La piccola valle di Alì, Flaccovio, Palermo 1972. 11. Rinvio ad un nostro precedente saggio, pubblicato in questa stessa rivista (Dialoghi Mediterranei, n. 25, maggio 2017) http://www.istitutoeuroarabo. it/DM/leonardo-sciascia-e-lottimismo-della-scrittura/, dove abbiamo ampiamente documentato l’influenza di Antonio Gramsci nell’opera sciasciana. 12. Ivi, p. 167. 240 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
13. Ivi, p. 168. Lo stesso Sciascia, nel settembre del 1982, sul Corriere della Sera, richiamerà questa sua lontana definizione considerandola ancora attuale.
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14. Sciascia ha riconosciuto che il fascismo è riuscito a togliere potere alla mafia: «Il popolo vide nelle gabbie delle assise capimafia e protettori; [...] temibili pistoleri presero la via dell’emigrazione clandestina; uomini che facevano tremare paesi interi tremarono di davanti alle squadre di Mori, lo stesso don Calogero Vizzini fu visto nel vagone cellulare, diretto al confino. Il mito della mafia cadde; il termine mafioso acquistò sfumature di disprezzo e di scherno» (Ivi, p. 170). 15. Ivi, p. 170. Sull’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories) che, sotto la guida del colonnello americano Charles Poletti, gestì l’amministrazione della Sicilia occidentale, all’indomani dello sbarco a Licata delle truppe anglo americane, esiste un’ampia e controversa letteratura. In tempi di dilagante revisionismo storico non può sorprendere che il punto di vista di Leonardo Sciascia, confermato da mille documenti e testimonianze, sia stato messo in discussione, tra gli altri, da Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli e Pasquale Marchese. Ma Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, anche tramite i documenti desecretati dal vecchi servizi segreti americani e inglesi, hanno dimostrato i contatti esistenti tra autorità USA e alti esponenti di Cosa Nostra prima dello sbarco in Sicilia. Comunque sulla delicata questione dei rapporti tra apparati statali e Cosa Nostra rimane sicuramente ancora tanto da accertare e nessuno può avere la pretesa di possedere la verità assoluta. 16. Cfr. AA. VV., I protagonisti. La storia dell’Italia attraverso i siciliani illustri. Gli anni difficili dell’autonomia, S.T.ASS., Palermo 1993, pp. 13-46. Pubblicazione a cura della Regione Siciliana e dell’Università degli Studi di Palermo in occasione del Convegno di Studi svoltosi nel Palazzo Chiaramonte (Steri) di Palermo il 5-21 maggio 1993. 17. Sarà proprio il sociologo triestino, nei primi anni sessanta del secolo scorso, a coniare l’espressione “sistema di potere clientelare-mafioso” e a documentare il suo invadente peso nella Sicilia occidentale. Ma le sue denunce inviate alla prima Commissione Parlamentare sul fenomeno mafioso, istituita con legge n. 1720/6 del 20 dicembre 1962, e successivamente raccolte nel volume Chi gioca solo (Einaudi 1965), faranno un buco nell’acqua. Anzi, a seguito delle querele avanzate dagli onorevoli Bernardo Mattarella, Messeri e Calogero Volpe, Danilo Dolci verrà condannato, nei tre gradi di giudizio, per diffamazione, e il suo libro verrà tolto dalla circolazione. Non ho mai ben compreso le ragioni della rottura tra Danilo Dolci e Leonardo 241 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Sciascia, dopo l’iniziale e promettente collaborazione tra i due, sancita dalla partecipazione di Sciascia al Convegno Internazionale di studi svoltosi nel 1960 a Palma di Montechiaro, e la loro successiva collaborazione con il giornale L’Ora. Non credo che tutto si possa spiegare con l’incompatibilità caratteriale indicata da Vittorio Nisticò in Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’Ora di Palermo, Sellerio, Palermo 2001. 18. Il passo sopra citato è tratto dall’intervista rilasciata da Sciascia a James Dauphiné alla fine del 1987. La traduzione italiana di questo importante documento si trova nella rivista Linea d’ombra, n. 65, novembre 1991, pp. 37-47.
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19. L. Sciascia, 10 luglio 1943, in Il fuoco nel mare. Racconti dispersi, cit., p. 179.
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VII. L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia
Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi.1 (L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio 1978, p. 63)
L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo l’orribile strage della scorta di Aldo Moro, e il sequestro e successivo assassinio del politico democristiano. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me compreso) e stroncato da due grandi giornalisti.2 Il libro apparve frutto di una mente delirante dopo che stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere di Moro non erano state scritte da Moro. Rileggerlo dopo 45 anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la luce. Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi penali, inchieste parlamentari e tanti libri3 pubblicati sul tema, appare ancora più straordinaria questa sua singolare opera. Anche se non tutto convince, come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e originale analisi delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano,4 in assoluta solitudine, quando tanti preferirono chiudere occhi e cervello. 243 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Sciascia finisce di scriverlo, come si evince dalla data del dattiloscritto, il 24 agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in mano, arriva persino a dubitare di poterlo stampare in Italia. Per questa ragione, prima ancora di parlarne con l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi per accertare che l’editore Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua francese. Appare utile, per meglio comprendere L’affaire Moro, tenere presente il contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la Corte di Assise di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e altri presunti capi storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia. Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà degli intellettuali che avrà in Leonardo Sciascia e in Giorgio Amendola i contendenti maggiori.5 Il durissimo scontro tra i due avrà un peso notevole nella genesi del pamphlet. Qualche mese prima, esattamente nel febbraio 1977, all’Università di Roma-La Sapienza viene contestato il leader sindacale Luciano Lama; nel mese successivo, dopo un violento scontro tra studenti e polizia nel centro di Bologna, viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Sono questi, sommariamente, gli esiti più drammatici del cosiddetto “Movimento del Settantasette” che, tra strette repressive della magistratura inquirente e chiusura di radio sospette di fomentare l’illegalità, si protrarrà per almeno un biennio. Di un tale clima è frutto l’Appello degli intellettuali francesi del luglio 1977, in cui si chiede la «liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale». L’Appello – predisposto da Maria Antonietta Macciocchi, già direttrice del periodico comunista degli anni Sessanta Vie Nuove, dove Pasolini scrisse alcuni dei suoi pezzi più belli – viene 244 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sottoscritto, tra gli altri, da Jean Paul Sartre, Michel Foucault, Roland Barthes, Gilles Deleuze e Félix Guattari. In questo contesto Sciascia scrive il libro che arriva in tutte le librerie italiane e francesi nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato considerato un instant book perché il suo contenuto riguarda quanto accaduto in Italia nei 55 giorni del sequestro Moro, dopo la strage della scorta, avvenuta a Roma, in via Fani, il 16 marzo 1978. A prima vista siamo di fronte ad un pamphlet, il cui titolo richiama immediatamente alla memoria il celebre libretto di Emile Zola che tanto clamore suscitò alla fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le prime righe per capire che si tratta di ben altro. I primi due capitoli, i più letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due scrittori particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges. Come ha ben visto Massimo Onofri, siamo di fronte a un libro profondamente sciasciano: in esso convergono «quella contro-storia d’Italia tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con la tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per citare solo alcuni dei nomi più cari allo scrittore), intesa come «sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità».6 Acuta ci appare anche la lettura che ne ha fatto il critico più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è un vero e proprio saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal linguaggio e dalla comunicazione umana.7 D’altra parte, in quasi tutti i libri di Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo stile saggistico prevale nettamente su quello narrativo.
1. Il prologo pasoliniano Nelle prime sei pagine de L’affaire Moro Sciascia riprende letteralmente brani interi del famoso articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato dallo scrittore bolognese sul Corriere del245 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Sera il 1° febbraio 1975, raccolto successivamente nei suoi Scritti corsari col titolo L’articolo delle lucciole. E sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella crepa del muro della sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a fargli tornare alla mente Pasolini:
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la
Era proprio una lucciola […]. Ne ebbi una gioia immensa. E come doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, […]. Fraterno e lontano Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze.8
L’amicizia tra Pasolini e Sciascia nasce nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Un’amicizia scaturita dal comune interesse per le diverse forme della poesia popolare e dialettale nazionale. Non a caso sarà proprio Pasolini a introdurre uno dei primi libri dello scrittore siciliano dedicato alla poesia romanesca9 e quest’ultimo ad ospitarlo nella rivista nissena Galleria nella stessa prima metà degli anni Cinquanta.10 L’intesa e la reciproca collaborazione tra i due scrittori si allenta negli anni Sessanta per riaccendersi nel decennio successivo, fino agli ultimi giorni di vita di Pasolini. Da qui deriva il rammarico espresso da Sciascia di non aver fatto abbastanza per mostrare all’amico quanto egli si sentisse vicino al suo modo di pensare.11 Le lucciole conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa metafora pasoliniana: il Palazzo. Pasolini voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle stragi di Milano (Piazza Fontana, 12 dicembre 1969), Brescia (Piazza della Loggia, 28 maggio 1974) e Bologna (Treno Italicus, 4 agosto 1974). Pasolini arriverà a chiedere un vero e proprio «processo penale» contro i dirigenti nazionali della DC.12 246 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Sciascia sottolinea, inoltre, riprendendone passi interi, che il famoso articolo pasoliniano sulle lucciole si apre con la perentoria affermazione secondo la quale «il regime democristiano» è «la pura e semplice continuazione del regime fascista» (AM, p. 15) – tesi questa, in più occasioni, ripresa e condivisa dal nostro autore. Ancora più significativa appare la citazione di un altro testo fondamentale di Pasolini della metà degli anni Sessanta, forse uno dei più gramsciani dello scrittore bolognese, notato da Sciascia fin dal 1965 sulle pagine del giornale palermitano L’Ora (6 febbraio), in un corsivo intitolato La lingua di Moro: L’onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull’asse Milano-Torino. E dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell’oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi elettori nei Viceré di Federico De Roberto […]. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete.13
Sciascia era rimasto talmente colpito dal linguaggio di Moro, e dall’analisi che ne aveva fatto Pasolini nel 1965,14 da tornarci 13 anni dopo in questo prologo de L’affaire Moro: Pasolini aveva parlato del linguaggio di Moro in articoli e note di linguistica (si veda il libro Empirismo eretico15). […]. «Come sempre – dice Pasolini – solo nella lingua si sono avuti dei sintomi». I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, «la pura e semplice continuazione del regime fascista». Nella lingua di Moro, nel suo linguaggio completamente nuovo e però, nell’incomprensibilità, disponibile a riempire quello spazio da cui la Chiesa cattolica ritraeva il suo latino proprio in quegli anni. [...]. Pasolini non sa decifrare il latino di Moro, quel «linguaggio completamente nuovo»: 247 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ma intuisce che in quella incomprensibilità, […], si è stabilita una «enigmatica correlazione» tra Moro egli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo latino (che è ancora il latinorum che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In questo breve inciso di Pasolini – «per una enigmatica correlazione» – c’è come il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la «correlazione» era una «contraddizione»: e Moro l’ha pagata con la vita. Ma prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo «linguaggio completamente nuovo», sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata.16
2. Letteratura e storia
Borges, Pasolini e le ossessioni di Sciascia Indubbiamente la grande letteratura ha aiutato spesso a comprendere le cose e la stessa verità storica dei fatti più di tanti libri di storia, di sociologia e di scienza della politica. Sciascia ne è stato sempre consapevole e, in una intervista rilasciata a un celebre giornale francese, ha ben sintetizzato il suo punto di vista: Credo che all’uomo – all’uomo umano – non resti che la letteratura per riconoscersi e riconoscere la verità. Il resto è macchina, è statistica, è totalitarismo. È il sistema della menzogna: la grande mostruosa macchina che ingoia tante verità per restituirle in menzogna. E lo stato finirà per identificarsi in questa macchina, se non si è già identificato. Non avrà niente a che fare con l’uomo, con la nozione dell’uomo che ancora abbiamo e che troviamo nella letteratura.17
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Ma Sciascia ne L’affaire Moro, ripensando a due suoi precedenti racconti, Il contesto e Todo modo, scritti nei primi anni Settanta (rispettivamente, 1971 e1974), afferma che con essi era riuscito a prevedere quanto accaduto in Italia negli anni successivi (le cosiddette Stragi di Stato, già ricordate, e quella di via Fani col susseguente sequestro Moro).18 Qui diventa opportuno ricordare la recensione di Todo modo, fatta proprio da Pasolini, che, evidentemente, ha tanto influenzato Sciascia. In un passaggio di essa lo scrittore corsaro afferma: Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come diranno i futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un’aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità.19
Che questa lettura pasoliniana di Todo modo abbia suggestionato Sciascia è indubbio. I suoi amici romani riferiscono che, nei 55 giorni del sequestro Moro, Sciascia era davvero ossessionato dall’idea che l’immaginazione e la scrittura abbiano straordinari poteri creativi.20 Nel libro che stiamo analizzando lo stesso autore, facendo riferimento ad un racconto di Borges contenuto nelle sue Ficciones (Pierre Menard, autore del Chisciotte), scrive: Come il Don Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vi249 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto e Todo modo […]. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – […] – sembrò generata dalla letteratura.21
Massimo Onofri ha intravisto in queste parole di Sciascia un nuovo modo di intendere la letteratura che, invece di rispecchiare la realtà, profeticamente la crea.22 Ancora più discutibile mi sembra il punto di vista di Bruno Pischedda secondo il quale lo scrittore siciliano ha ripreso da Pasolini l’«attitudine vaticinante», il «piacere inorgoglito del presentimento e della prefigurazione».23 Io credo che, se si vuole davvero cercare di comprendere il valore di quest’opera, occorre evitare gli opposti estremismi dell’esaltazione e della denigrazione. Dal punto di vista strettamente letterario non credo che si tratti del capolavoro dello scrittore siciliano. Vale la pena, al riguardo, ripetere quanto scrisse lo stesso Sciascia contro Eugenio Scalfari che, subito dopo le prime anticipazioni giornalistiche del contenuto del libro ancora inedito, ne elogiava ipocritamente la forma letteraria per contestarne meglio il contenuto. Al giornalista il maestro di Racalmuto – ribadiamolo – replicò così: «Ma è possibile […] che il libro non abbia qualità letterarie; che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità».24 Penso, inoltre, che sia sbagliato ritenere che Sciascia, con questo libro, abbia cambiato il suo modo d’intendere la letteratura. Il pregio maggiore de L’affaire Moro, secondo me, va invece ricercato soprattutto nel coraggio mostrato dall’autore di andare controcorrente nell’interpretazione delle lettere scritte da Moro durante il suo sequestro, di cui rifiuta la presunta e propalata apocrifìa, dando così prova ancora una volta di non avere mai avuto timore di contrapporsi a qualsiasi potere costituito.25 E sta qui una delle cifre distintive dell’intera produzione letteraria di Leonardo Sciascia, come è dimostrato anche da una intervista rilasciata negli stessi giorni in cui scrive L’affaire Moro: 250 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Le fa piacere passare per uno scrittore impegnato? (Domanda dell’intervistatore) Certo, io mi sento “impegnato”: ma con me stesso e con gli altri “me stessi”. I due più grandi scrittori impegnati che io conosco sono André Gide e Georges Bernanos, ed essi lo furono veramente, fino in fondo. Tuttavia, il primo, che si sentiva comunista, scrisse la verità sull’Unione Sovietica, e il secondo, che era cattolico, scrisse contro il mondo cattolico che esaltava la crociata di Franco. Ben vengano dunque gli intellettuali impegnati, ma purché si battano sempre contro il Principe, contro i Poteri, contro le Chiese, anche se si tratta di quelle in cui credono.26
Io sono sempre più convinto che la cosa meno sciasciana che si possa e debba fare di fronte a tutti i suoi libri è quella di prendere per verità assolute tutte le sue affermazioni, le sue opinioni, i suoi giudizi politici, storici e letterari. Credo che non sia mai stato ben compreso il senso pirandelliano dell’originaria intenzione di far incidere sulla propria tomba queste parole: «Contraddisse e si contraddisse».27
3. L’analisi critica delle lettere di Moro
Sciascia diviso tra filologia e ideologia Sciascia non ha dubbi sull’autenticità delle lettere scritte da Moro durante la sua detenzione nella cosiddetta “prigione del popolo”. Moro naturalmente sa di essere usato dai suoi carcerieri e di non potere, pertanto, scrivere tutto quello che vuole. Allora si autocensura «adattando alla funzione del dire il suo antico linguaggio del non dire».28 Lo scrittore siciliano, pur non avendo mai stimato né provato alcuna simpatia per l’uomo politico, di fronte al prigioniero inerme, di fronte all’«uomo solo, tradito, dato per pazzo dai suoi stessi amici»,29 prova pietà e intravede nelle lettere che i suoi carcerieri gli consentono di scrivere la disperata ricerca di salvare la sua vita. Sciascia nell’occasione dimostra una lucidità straordinaria. 251 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Quasi da solo, grazie alla sua antica e radicata diffidenza nei confronti dello Stato e di ogni forma di potere costituito, comprende le ragioni che spingono Moro, rinchiuso nella prigione del popolo «sotto un dominio pieno e incontrollato»,30 a cercare, con la sua collaudata arte del dire e non dire, una via per salvarsi; e comprende benissimo il doppio gioco dei brigatisti che fanno finta di consentire al prigioniero di scrivere in modo riservato quelle lettere al vero scopo di screditarlo definitivamente. Tutto questo Sciascia lo comprende subito dopo la prima lettera indirizzata al Ministro dell’Interno Francesco Cossiga (definito «capo degli sbirri» nel comunicato delle BR che accompagna la lettera) e inviata di proposito dagli stessi brigatisti in più copie ai principali quotidiani nazionali per renderla pubblica. Sciascia, prima di analizzare il testo della lettera di Moro, è colpito da un passo del messaggio delle BR (il cosiddetto terzo comunicato dalla prigione del popolo) che riproduce: Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica.31
Moro, secondo Sciascia, non è mai stato uno statista ma un mediocre politicante. E le stesse lettere che invia alla famiglia e ai suoi amici di Partito stanno a dimostrarlo. Ma la vera ragione per cui Sciascia stima poco Moro è dovuta principalmente al severo giudizio ch’egli, in tutti i suoi precedenti libri e in tutta la sua attività giornalistica, ha sempre espresso sul partito di cui Moro è stato uno dei massimi dirigenti. Al riguardo merita di essere ricordato un particolare riferito da Matteo Collura nella sua eccellente biografia del maestro di Racalmuto. Il giornalista racconta in maniera documentata che Sciascia apprende la notizia del rapimento di Moro e della strage di via Fani in casa di amici siciliani che avevano un vivo 252 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ricordo delle polemiche suscitate tanti anni prima dalla candidatura di Don Peppino Genco Russo nelle liste locali della Democrazia Cristiana di Mussomeli (CL). In quel periodo Moro era Segretario Nazionale del Partito e venne personalmente investito dalle polemiche perché, dopo aver declinato ogni responsabilità e competenza sul caso specifico, ebbe l’imprudenza di affermare che «non sembra che ci sia qualcuno disposto ad affermare e a provare quanto si addebita a Genco Russo».32 Chi non poteva avere dubbi sul carattere mafioso del padrino di Mussomeli, erede di Don Calò Vizzini, era proprio Sciascia che nel 1965 aveva avuto modo di intervistarlo per conto del settimanale Mondo nuovo.33 Comunque, dopo le polemiche, Genco Russo venne giudicato socialmente pericoloso e allontanato dalla Sicilia. L’analisi critica compiuta da Sciascia delle lettere scritte da Moro nel periodo del suo sequestro, parzialmente pubblicate dalla stampa, è davvero esemplare. Particolare attenzione il nostro autore presta ad una lettera proveniente dalla prigione del popolo, pubblicata dai giornali il 10 aprile 1978, che lascia intravedere una chiave di lettura de L’affaire Moro completamente diversa da quella accreditata dall’opinione pubblica e, almeno in parte, dallo stesso scrittore. La lettera viene riprodotta quasi per intero,34 riconoscendone immediatamente l’autenticità e l’importanza, in polemica con Montanelli, Antonello Trombadori e un gruppo di «amici di Moro» che ripetono di non riconoscere nella lettera il Moro che hanno conosciuto. A prima vista il documento sembra un attacco personale di Moro al senatore Paolo Emilio Taviani, uno dei principali esponenti della DC contrari all’ipotesi di trattare con le BR; una delle tante polemiche interne tra le correnti democristiane cui quel partito aveva abituato l’opinione pubblica. Nella lettera si ricostruisce sommariamente la carriera politica del senatore che, nel periodo in cui era stato Ministro della Difesa e dell’Interno, aveva avuto contatti frequenti con il «mondo americano» e con «centri di potere e diramazioni segrete».35 Alla fine della lettera 253 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Moro si pone una domanda inquietante: «Vi è forse, nel tener duro contro di me, una indicazione americana e tedesca?»36 Insomma, leggendo attentamente la lettera, sembra che lo stesso Aldo Moro sia arrivato a sospettare «interferenze di ambienti americani»37 nel suo sequestro. Sciascia lascia cadere la pesante domanda di Moro senza trarne tutte le conseguenze; si limita soltanto ad osservare: Se Moro formalmente, retoricamente, se lo domanda, non vuol dire che sostanzialmente ne è certo? E dunque l’azione delle BR – nell’aver catturato Moro, nel tenerlo prigioniero – corrisponde anche a un disegno americano e tedesco, vi concorre involontariamente, casualmente lo agevola o addirittura ne è parte?38
Sciascia non va oltre questi punti interrogativi. Ma l’ipotesi della regia e della diretta partecipazione dei servizi segreti americani nell’affaire Moro sarà ripresa vent’anni dopo da un magistrato, fratello di Aldo Moro. Né può essere dimenticata la testimonianza della vedova Eleonora Moro che, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro,39 affermerà candidamente che l’assassinio del consorte «è stato deciso molto in alto», convinta che le BR hanno soltanto svolto l’apparente funzione di esecutori e manovali di morte.40 È strano che Sciascia su questo punto appaia evasivo e finisca per contraddirsi. Infatti, dimenticando quanto affermato precedentemente, sposta la sua attenzione critica dalla DC al PCI, accusando quest’ultimo d’essere stato il principale ostacolo ad una trattativa con le BR che potesse salvare la vita di Moro. Così nella parte finale del libro la polemica e la critica al partito comunista di Enrico Berlinguer supera in veemenza quella contro la DC. Avrà sicuramente influito ad alimentare questa polemica sia lo scontro durissimo di Sciascia con uno dei massimi dirigenti del PCI, Giorgio Amendola, avvenuto nel giugno del 1977, che 254 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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l’ottuso attacco del Direttore comunista del Paese Sera, Aniello Coppola, che in un corsivo pubblicato sul suo giornale tre giorni dopo il sequestro Moro, chiede conto allo scrittore siciliano del suo silenzio. Il polemista Sciascia, la iena dattilografa – come, con invidia e fastidio insieme, denominavano il suo inconfondibile stile giornalistico, i suoi colleghi de L’Ora di Palermo – replicando al giornalista romano lo stenderà a tappeto dandogli dello stalinista: Con mezzi terroristici, polemizzando col mio silenzio, vogliono che io dica o che bisogna difendere questo Stato così com’è o che hanno ragione le BR. Tutta la mia vita, tutto quello che ho pensato e scritto, dicono che non posso stare dalla parte delle BR. E in quanto a riconoscermi nello Stato com’è (e sarebbe più esatto dire com’era fino al rapimento dell’on. Moro) continuo a dire di no […]. Il fatto è che questa specie di terrorismo verbale è stato battezzato nella stessa parrocchia in cui è stato battezzato quello che spara: La parrocchia dello stalinismo innestatosi con indefettibile continuità sul fascismo e sul nazismo.41
Qualche giorno dopo, in una intervista rilasciata a Bernardo Valli, più pacatamente preciserà: La ragione del mio silenzio è questa: che mi è venuto nei riguardi dello scrivere una specie di repulsione, di rigetto. Quando mi si dice, a titolo di complimento, che io ho previsto, dolorosamente mi dico che la sola cosa che non ho previsto è che la previsione si realizzasse. […]. E so cosa farò appena avrò ritrovato la voglia di scrivere. Un’analisi delle lettere di Moro che sono state pubblicate – come se fossero documenti di archivio – lontani quanto quelli sui pugnalatori di Palermo o sulla morte di Raymond Roussel. Perché io credo che le lettere di Moro non siano state lette bene, che ci siano dentro dei messaggi non decifrati.42
Queste polemiche lasciano il segno in Sciascia; così, un anno dopo il suo Affaire Moro, tornando sulle polemiche intorno al coraggio e alla viltà degli intellettuali,43 nella sua Sicilia come metafora scriverà: 255 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Quali garanzie offriva questo Stato, non soltanto ai fini della protezione dei cittadini che si assumevano il rischio di far parte di una giuria, ma per quanto attiene all’applicazione del diritto, della legge, della giustizia? […]. L’impunità che copriva i delitti commessi contro la collettività e contro i beni pubblici, era degna di un regime di tipo sudamericano: neppure uno dei grandi scandali scoppiati in trent’anni aveva avuto un chiarimento, nessuno dei responsabili era stato punito; alla testa dello Stato stava un uomo assai discusso, Giovanni Leone, il quale sarebbe stato costretto a rassegnare le dimissioni il 15 giugno 1978; in ogni città e in ogni villaggio, era possibile compilare un lungo elenco di malversazioni, di casi di concussione e di abusi rimasti impuniti; i cittadini che facevano il proprio dovere, innanzitutto come semplici contribuenti, si vedevano regolarmente presi in giro prima, e ridicolizzati poi, non soltanto perché altri non compivano il loro dovere fiscale, ma anche perché le leggi promosse dalla Repubblica erano esse stesse ingiuste. Il condono fiscale non finiva forse per depenalizzare tutti quelli che avevano frodato il fisco […]. Ed è in questo Paese, che vive in condizioni simili, che Amendola giudica vile affermare che questo Stato non merita di essere difeso! Incredibile! Per lui lo Stato deve essere una sorta di entità mitica e metafisica, che si colloca al di là dei servizi resi. Lo Stato, per me, non è invece che un insieme ben coordinato di servizi. E quando i suoi servizi sono deficitari o del tutto assenti, bisogna o correggerli o crearne di nuovi. Se questo non avviene, si difende null’altro che la corruzione e l’inefficienza, con il pretesto della difesa dello Stato.44
A provocare la dura polemica di Sciascia con il PCI ha avuto anche la sua parte il discutibile editoriale di Rossana Rossanda apparso su il manifesto del 28 marzo 1978 che attribuiva ai brigatisti una patente marxista-leninista di stampo sovietico. Ecco perché Sciascia ideologicamente li considera «figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista», che si fanno grottescamente interpreti di «un’etica […] carceraria maturata sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault», per introdurre un’«esile vena libertaria nella loro pietrificata ideologia».45
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4. Servizi, BR e Mafia Nel penultimo capitolo de L’affaire Moro Sciascia analizza acutamente le somiglianze tra il comportamento delle Brigate rosse e quello della mafia siciliana (Cosa nostra):
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Le BR funzionano perfettamente ma (e il ma ci vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra, quali che siano gli addentellati che possono avere con sette rivoluzionarie o servizi segreti di altri paesi.46
Evidentemente questo passo finale del suo libro dimostra tante cose: 1) Sciascia non ha dimenticato il contenuto inquietante della lettera di Moro del 10 aprile 1978, precedentemente analizzata, in cui, parlando dei rapporti del senatore Taviani coi servizi segreti americani e tedeschi, arriva a ipotizzare la regia straniera del suo sequestro. 2) Lo scrittore siciliano, pur avendo sempre rifiutato d’essere considerato un mafiologo, è stato uno dei maggiori esperti di Cosa nostra e non c’è un suo libro dove, in un modo o in un altro, non c’entri la mafia. 3) Particolarmente illuminante risulta il riferimento al bandito Giuliano e alla strage di Portella – nodo cruciale della storia d’Italia, secondo Sciascia – quando scrive: È facile sentir dire, specialmente in Sicilia, che questa delle Brigate rosse è tutta una storia come quella di Giuliano:47 e ci si riferisce a tutte quelle acquiescenze e complicità dei pubblici poteri che i siciliani conoscevano ancor prima che diventassero risultanze (queste sì, risultanze) nel famoso processo di Viterbo. Atteggiamento che si può anche disapprovare, non poggiando su dati di fatto; ma che trova giustificazione in quel distico di Trilussa che dice la gente non fidarsi più della campana poiché conosce la mano che la suona.48
4) Infine, mostrando di non aver mai preso sul serio la matrice rossa del brigatismo italiano, conclude con una battuta che ritorna frequentemente negli ultimi suoi scritti: 257 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
La loro ragion d’essere, la loro funzione (delle BR), il loro servizio stanno esclusivamente nello spostare dei rapporti di forza […]. Di spostarli nel senso di quel cambiare tutto per non cambiar nulla che il principe di Lampedusa assume come costante della storia siciliana e che si può oggi assumere come costante della storia italiana.49
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Ritengo pertanto che non sia forzato concludere questa mia lettura critica de L’affaire Moro con queste parole dello stesso Sciascia: C’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra […]. La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.50
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Note 1. Queste parole Sciascia le scrive, con palese sarcasmo, nel suo pamphlet, in risposta agli ottusi statalisti, di destra e di sinistra, che si opposero a trattare con le BR in nome di un fantomatico Stato che lo scrittore siciliano aveva già deriso nel suo Todo modo: «Ma signori […] spero che non mi darete il dolore di dirmi che lo Stato c’è ancora… Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più». 2. Sarà lo stesso Sciascia, in un suo tagliente corsivo, facendo riferimento agli editoriali di Eugenio Scalfari e di Indro Montanelli, pubblicati sui loro giornali nel settembre 1978, a mettere alla berlina il malcostume di gran parte della stampa nazionale: «Ma è possibile che i due illustri giornalisti – e quanti altri si sono occupati di questo libro senza averlo letto – sbaglino: e cioè che il libro non affascini, non commuova, non abbia qualità letterarie; che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità» (Leonardo Sciascia, La palma va a Nord. Articoli e interventi 1977-1980, Gammalibri, Milano1982, p. 61, grassetto mio, qui e in tutto il testo, se non altrimenti segnalato). 3. Sul caso è stato scritto tanto. Tra i numerosi libri pubblicati il più attendibile, secondo me, rimane quello di Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, già presidente del Tribunale per minorenni di Roma e presidente di sezione della Corte di Cassazione, che – nel suo Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998 (nuova ed., con Introduzione di Guido Formigoni, 2018), attraverso l’analisi puntuale degli atti giudiziari, già disponibili vent’anni dopo i fatti, partendo dalle incertezze e dalle contraddizioni in cui sono caduti i presunti carcerieri di Moro – arriva persino a ipotizzare che il sequestro del Presidente della DC sia stata opera di Servizi Segreti stranieri più che delle BR. Molto meno convincente appare invece quanto scritto recentemente da Miguel Gotor, Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica [2019], Premessa di Marco Bellocchio e Prefazione di Gian Carlo Caselli, 2ª ed., Paper FIRST, Roma 2022. 4. «Bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio […] che Moro non era sé stesso, che era diventato un altro» (La palma va a Nord, cit., p. 61). 5. Gran parte del dibattito sarà raccolto da Domenico Porzio in Coraggio e viltà degli intellettuali, Mondadori, Milano 1977. 6. Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Bari 2004, nuova ed. arricchita rispetto alla prima uscita nel 1994, p. 213. 7. Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1996, pp. 231-239. 259 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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8. L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio editore, Palermo 1978, p. 12. Sciascia tornerà a parlare di queste reciproche insofferenze nel suo diario pubblico Nero su nero, Einaudi 1979, pp. 175-176. D’ora in poi il libro che stiamo analizzando verrà citato con l’abbreviazione: AM. 9. Leonardo Sciascia, Il fiore della poesia romanesca: Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco, Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1952. 10. Pier Paolo Pasolini, Dal diario: 1945-47, Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1954 (I quaderni di Galleria). 11. Un’analisi più approfondita di questa singolare amicizia si trova nel capitolo intitolato “Pasolini e Sciascia. Storia di un’amicizia”. 12. Pier Paolo Pasolini, «Il Processo», Corriere della Sera, 24 agosto 1975, poi raccolto in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 114-123. 13. Ora in Leonardo Sciascia, Quaderno, Intr. di Vincenzo Consolo, Nota di Mario Farinella, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991, pp. 36-37. 14. Cfr. al riguardo anche il mio «Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini», Quaderns d’Italià, 16 (2011), 175-196. 15. Nel libro Empirismo eretico, pubblicato da Garzanti nel 1972, Pasolini inserisce il capitolo Diario linguistico che comprende diversi pezzi scritti intorno al 1965. 16. AM, pp. 15-16. 17. Leonardo Sciascia, intervista a Le Monde del 4 febbraio 1979. 18. AM, p. 27. 19. Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, pp. 459-460. 20. Cfr. Matteo Collura, Il maestro di Regalpetra, Longanesi, Milano 1996, p. 271; Felice Cavallaro, Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo, RCS MediaGroup, Milano 2021, p. 157. 21. AM, pp. 27-28. Ma sono da leggere anche le pp. 23-26. 22. M. Onofri, Storia di Sciascia, op. cit., p. 218. 23. Bruno Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 102-118. 24. La palma va a Nord, cit., p. 61. 25. Nel 1981 Sciascia dirà all’amico Davide Lajolo: «Quel che mi ha indignato e mi ha fatto scrivere un libro che sarà […] sempre più vero è stata l’operazione da regime, e complice quasi totalitariamente la stampa, di far diventare Moro un altro, un uomo che non sapesse quel che dicesse, un uomo che aveva soltanto paura. Questa è stata una atroce mistificazione» 260 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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(Leonardo Sciascia - Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer, Varese 1981, p. 31). 26. Epoca, 5 luglio 1978. 27. Un’eco dell’epigrafe scartata anche nel titolo del saggio: Rosario Castelli, Contraddisse e si contraddisse. Le solitudini di Leonardo Sciascia, Cesati, Firenze 2016. 28. AM p. 22. 29. La palma va a nord, cit., p. 144. 30. AM, p. 50. 31. AM p. 38. 32. M. Collura, Il maestro di Regalpetra, cit., p. 260. 33. La celebre intervista è stata riproposta nel dicembre 2007 dal periodico di Racalmuto Malgrado tutto. 34. AM pp. 68-72. 35. AM p. 71. 36. AM p. 72. 37. AM p. 71. 38. AM pp. 74-75. 39. Cfr. A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit. 40. L. Sciascia-D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, cit. p. 26. 41. Matteo Collura, op. cit., p. 265. 42. Ivi, p. 266. 43. I numerosi interventi sul dibattito svoltosi nel 1977 intorno a questo tema, come abbiamo ricordato in una nota precedente, vennero raccolti da Domenico Porzio e pubblicati lo stesso anno da Mondadori. 44. Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, Milano 1979, pp. 102-3. 45. AM p. 17. 46. AM p. 128. 47. Attenzione: il grassetto è mio, ma il corsivo è di Sciascia. 48. AM p. 129. 49. AM p. 130, corsivo dell’A. 50. L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 130-131.
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VIII.
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Sciascia morde ancora
Non può esserci luogo più indicato di Mazara del Vallo e di una rivista come Dialoghi Mediterranei per parlare di questo bel libro: Un arabo che ha letto Montesquieu. Leonardo Sciascia e il Mediterraneo sud-orientale (Olschki editore, 2021). Il suo titolo, come spiega uno dei curatori, Giovanni Capecchi dell’Università per stranieri di Perugia, è tratto da una significativa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia nel 1979 su cui torneremo più avanti: «Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Montesquieu. Lo consiglierei anche a loro».1 L’altra curatrice del libro, Francesca Maria Corrao, dell’Università Luiss di Roma, nella sua breve ma incisiva Introduzione, ricorda che Sciascia è stato uno dei pochi intellettuali italiani ad essersi speso per promuovere il dialogo tra la Sicilia e il mondo arabo, convinto com’era che la Sicilia avesse molte più affinità con quel mondo piuttosto che con l’Europa. Per lo scrittore di Racalmuto le pagine dimenticate della presenza araba in Sicilia, che non si stancò mai di cercare e raccogliere, a partire dalla grande opera di Michele Amari, hanno sempre avuto una importanza centrale nella sua opera. Basti pensare al suo geniale 263 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Consiglio d’Egitto, alla sua riscoperta del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis e del geografo Idrisi, e alla stessa figura popolare di Giufà che ha condotto la studiosa ad approfondirne la conoscenza in un fortunato libro che, non a caso, ha trovato in Sciascia la sua principale fonte di ispirazione. Riconoscente la Corrao non manca di notarlo: Arti nel dialetto siciliano è sinonimo di mestiere manuale o, spregiativamente, di artificio, di inganno. Arte è quella del sarto, del falegname, del potatore, del contadino; di chiunque insomma sa lavorare, accorto e paziente, con le mani: arte vera, che produce, che serve; ma quella dell’avvocato, del medico è arte in quanto è arte tutto quello che dà pane: ma imparagonabile a quella concreta che si fa con le mani (guidate dalla testa, si capisce), da diffidarne anzi, […]. In quanto appartiene alla manualità, all’abilità manuale [...], arte sono la scultura e la pittura, un po’ più su di quelle dello scalpellino e dell’imbianchino; ma in senso contrario la scrittura che, partendo da quella del notaio, dell’avvocato, dell’intendersi sulle illeggibili ricette del medico e del farmacista, ha sempre a che fare con l’inganno e lo sfruttamento.2
Viene ricordata anche la nota manoscritta di Leonardo Sciascia del 30 dicembre 1967, alla vigilia del tremendo terremoto che colpì la valle del Belice qualche giorno dopo, in cui lo scrittore trascriveva la sua personale traduzione di alcuni versi di Antonio Machado: Tengo dentro un erbario Una sera disseccata Lilla violetta dorata Capricci di solitario.3
D’altra parte, in quel periodo, Sciascia era molto preso, oltre che da quella araba, dalla poesia spagnola. I due curatori del libro, nel riprendere una ricerca avviata negli anni precedenti, sono riusciti a raccogliere i migliori studi esistenti finora sui rapporti tra lo scrittore siciliano e il mondo arabo. 264 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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1. Sciascia scrittore “arabo” Il primo saggio che apre il libro si deve a Salvatore Pappalardo (Towson University, USA) che, sulle orme dei primi studi della Corrao e del Capecchi, si era già occupato del tema trascurato dalla più nota critica sciasciana. Pappalardo è particolarmente colpito dal giudizio positivo espresso da Leonardo Sciascia sui tanti segni della presenza araba in Sicilia. Il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo, per Pappalardo, è stato talmente profondo fino ad arrivare a farne una «questione di famiglia»: lo scrittore di Racalmuto (altro nome arabo) è, infatti, convinto che persino il suo stesso cognome avesse origini arabe: «Sciascia è un cognome propriamente arabo che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa» (Occhio di capra, 1984). Secondo Pappalardo il punto di vista sciasciano dipende in gran parte dagli studi dello storico e filologo spagnolo Américo Castro (1885-1972). Indubbiamente questo autore è stato molto caro a Leonardo Sciascia, che aveva letto fin dal 1955 la traduzione italiana del suo capolavoro La realidad historica de Espana (1954) [4]. Ma, pur riconoscendo il peso che ha avuto Castro nella formazione di Sciascia, lo scrittore di Racalmuto deve a Michele Amari e agli altri autori raccolti nei quattro volumi che fece pubblicare all’editore Sellerio con il titolo Delle cose di Sicilia (1980-1986), le sue principali fonti storiche.5 D’altra parte è il racalmutese stesso a dirlo in un articolo del 1960, Le acque della Sicilia, raccolto in Cruciverba (Einaudi,1983).6 Da questo importante articolo si evince chiaramente che Sciascia ha scoperto il geografo arabo Idrisi e il poeta Jbn Hamdis grazie alla Biblioteca arabo-sicula dell’Amari.7 Vale la pena di riprodurre il brano dell’articolo in cui si parla del geografo arabo valorizzato dal re normanno Ruggero II: Di Palermo, città oggi assetata, Idrisi dice: “Le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni […]. C’è da credere che proprio da Idrisi, geografo, sia sorta la favola delle acque siciliane, della Sicilia copiosa di 265 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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acque [...]. Solo che Idrisi era, appunto, un geografo, non poteva essersi inventato fiumi, sorgenti, orti irrigui, pesca fluviale e persino il gusto dei pesci. Una certa esagerazione, una certa enfasi, va bene. Ma al re che gliel’aveva commissionata non avrebbe osato consegnare una descrizione fantastica della Sicilia. [...] Quello che è per noi favola, mito, non era dunque tale per Idrisi. [...] Gli arabi, speculativi e sagaci anche in fatto di idrica, avevano creato una Sicilia di orti e giardini […]. Per quanto possa sembrare incredibile, in fatto di ricerche idriche ben poco si è fatto in Sicilia dopo gli arabi.8
Va detto, inoltre, che Sciascia è stato sempre sensibilissimo al tema dell’acqua, di cui ha sofferto, come tutti i siciliani del ‘900, la carenza. Sul giornale L’Ora, infatti, il tema è stato uno dei suoi principali cavalli di battaglia; memorabile, per tutti, l’articolo intitolato Gattopardi e sciacalli del 6 febbraio 1965, dove parla della penuria d’acqua che da decenni affligge Caltanissetta mentre risulta che il problema non esistesse nei secoli precedenti.9 Sull’annosa questione - che, com’è noto, ha impegnato tanto il Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci nei suoi primi vent’anni di attività in Sicilia10 - il Pappalardo ricorda pure un testo inedito di Sciascia che accompagnava il documentario La grande sete, girato nel 1968 da Massimo Mida con la sceneggiatura del giornalista de L’Ora Marcello Cimino. Nel documentario Sciascia afferma: Sembra incredibile che Palermo sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque. E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell’acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni. Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle.11
Si deve anche a Sciascia la riscoperta del poeta siculo-arabo Jbn Hamdis che, in una poesia del 1960, il nostro scrittore ricorda per il suo encomio della palma: «Albero / foggiato dalle 266 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mani di Dio / a immagine dell’uomo: albero eccelso / che segue la marcia dell’Islam».12 Versi che Sciascia riprende ne Il giorno della civetta (1961) dove il poeta arabo viene sostituito da non meglio identificati scienziati che affermerebbero che «la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su verso il nord, di cinquecento metri… ogni anno». Sciascia torna ad occuparsi del poeta Jbn Hamdis in un sorprendente articolo divulgativo apparso il 12 giugno 1960 sul settimanale per ragazzi Il Pioniere, diretto da Gianni Rodari, finanziato dal PCI per contrastare Il Vittorioso cattolico e il liberaldemocratico Corriere dei Piccoli. E si deve proprio a Pappalardo la scoperta di questo significativo articolo, ignorato da tanta critica sciasciana. Nell’articolo Sciascia, oltre a parlare del poeta arabo-siculo, fa riferimento alla guerra di liberazione del popolo algerino dal colonialismo francese e polemizza aspramente con Indro Montanelli.13 Lo studioso non manca poi di notare come l’opera più significativa del percorso arabo di Sciascia rimanga Il Consiglio d’Egitto dove, nelle pagine che descrivono le barbare torture a cui sarà sottoposto l’avvocato Di Blasi, appaiono evidenti i riferimenti alla repressione francese in Algeria. Nella parte conclusiva del suo saggio Pappalardo fa un acuto riferimento critico alla figura di Giufà che, come tutti sanno, occupa un posto di rilievo nella tradizione folclorica siciliana e sulla cui origine araba nessuno ha mai nutrito dubbi. Sciascia individua in Giufà «un atteggiamento di potente sovversione nei confronti di norme sociali stabilite» e dissente dalla rappresentazione che ne aveva fatto Italo Calvino. Ma anche Pappalardo prende un abbaglio nell’interpretazione di uno dei saggi più citati ma meno compresi di Leonardo Sciascia, Sicilia e sicilitudine del 1969.14 Infatti, sulla scia della lettura che ne aveva fatto tanti anni prima Massimo Onofri15, attribuisce allo scrittore siciliano una 267 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
visione naturalistica e metastorica della Sicilia e dei siciliani che, a guardar bene, non corrisponde alla realtà.16
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2. La Sicilia araba di Leonardo Sciascia Alberto Petrucciani (Università “La Sapienza” di Roma) riprende alcuni temi affrontati dal Pappalardo approfondendoli e mettendone a fuoco altri più o meno connessi ai primi. Innanzitutto lo studioso accerta, in modo chiaro ed inequivocabile, come Sciascia sia arrivato, tramite Michele Amari, a scoprire il poeta siculo-arabo Ibn Hamdis di cui l’Amari era stato uno dei primi traduttori. Peraltro proprio un passo dell’articolo pubblicato nel 1960 sul Pioniere mostra il legame profondo che Sciascia intravede tra i due esiliati: Michele Amari [...], come Ibn Hamdis, aveva preferito l’esilio alla servitù. Amari traduceva: “Oh se la mia patria fosse libera…”, e nelle parole dell’antico poeta trovava la sua stessa pena, la sua stessa ansia, la sua stessa nostalgia.
L’Amari infatti, oltre che storico, era stato un protagonista del Risorgimento italiano e, come tale, aveva patito l’esilio politico come l’antico poeta. Sciascia ha ammirato tanto l’autore della Storia dei musulmani di Sicilia. Tant’è che, in una pubblicazione poco nota del 196317, scriverà: Prima di lui la Sicilia musulmana […] giaceva nel buio passato, nell’amorfa memoria, nel caos […] solo la passione di Michele Amari ha potuto travalicare quei secoli di storia dall’oscurità alla luce, dal caos all’ordine. […]. Come si può parlare della Sicilia, conoscerla, giudicarla, se non si sa che un poeta arabo ha cantato di lei, patria perduta, luogo del cuore, verde paradiso dell’infanzia, come oggi ne canta Salvatore Quasimodo?18
Petrucciani, inoltre, documenta l’interesse e la simpatia con cui Sciascia ha seguito le lotte del popolo algerino contro il 268 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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colonialismo francese condividendo la posizione politica della sinistra francese e italiana. Negli anni sessanta del ‘900, infatti, lo scrittore siciliano è particolarmente vicino al PCI, anche per questo pubblica tanti articoli su giornali e periodici legati al Partito. Ricorda persino la dichiarazione pubblica di voto al PCI apparsa su L’Unità il 25 aprile 1963, pur senza lesinare critiche all’URSS e alla politica del Partito in Sicilia. Sono state, al riguardo, più volte ricordate le parole scritte da Sciascia sul giornale palermitano L’Ora il 3 aprile 1965: L’Ora sarà magari un giornale comunista: ma è certo che mi dà modo di esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono e senza sfumature.19
Particolarmente attento ed acuto il capitolo dedicato all’analisi dei rapporti dello scrittore di Racalmuto con il Gattopardo del Principe Tomasi di Lampedusa che vogliamo qui, almeno in parte, riprendere anche perché collegato al tema centrale del libro. Petrucciani, senza temere di smarrirsi nel mare magnum delle collaborazioni giornalistiche dello scrittore e nei suoi carteggi con editori e amici, venuti alla luce negli ultimi anni, utilizza con particolare acume critico articoli e documenti, inediti fino a ieri, che aiutano a ricostruire meglio il processo, non sempre lineare, attraverso il quale Sciascia si è confrontato con l’autore di uno dei capolavori della letteratura contemporanea.20 Petrucciani parte dalla famosa conferenza tenuta da Sciascia nel Circolo della Stampa di Palermo nel gennaio del 1959, un mese dopo la pubblicazione del Gattopardo. Ma, invece di fare riferimento al noto articolo pubblicato dallo scrittore su L’Ora palermitana, si sofferma sul meno noto apparso il 27 gennaio 1959 sul quotidiano socialista ticinese Libera Stampa dove Sciascia risulta ancor più pungente fin dal titolo.21 Un polemista nato come Sciascia non poteva lasciar passare inosservato quel famoso passo del Gattopardo in cui il Principe si sente chiamato in causa dalle idee socialiste dell’ebreuccio tedesco che 269 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
se la prende con il feudalesimo ignorando l’influenza decisiva dell’ambiente e del clima nella storia.22 Infatti è pronta la replica del racalmutese:
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Noi sappiamo bene che, in quanto a clima e a paesaggio, l’Arabia non è da meno della Sicilia: e ciò non ha impedito ad un popolo disperso e indolente di muovere alla conquista di tutte le terre mediterranee. Perciò siamo più portati a sottoscrivere le idee dell’ebreuccio tedesco che le considerazioni climatico-ambientali del principe Salina.23
D’altra parte Sciascia, avendo ben assimilato la lezione dello storicismo gramsciano, sa che la storia, e non la natura, spiega tutto. Per questo afferma con decisione: «La Sicilia è come la sua storia l’ha fatta, terra di contrasti e di contraddizioni. […]. La storia è la chiave per intendere la Sicilia».24 Nello stesso periodo in cui scrive questo articolo, Sciascia è impegnato a mettere a punto i suoi primi saggi su Pirandello che in prima edizione erano stati pubblicati due anni prima con il titolo Pirandello e la Sicilia.25 Petrucciani ricostruisce con acribia la lunga e faticosa gestazione dei primi saggi sciasciani su Pirandello, Verga e De Roberto. Si tratta di testi scritti negli anni precedenti. I primi risalgono addirittura al 1953. Tutti, comunque, tesi a cercare di comprendere il rapporto stretto esistente tra letteratura e storia, con una particolare attenzione al periodo risorgimentale. Il bel saggio di Petrucciani si conclude con una attenta analisi dello scrittore siciliano traduttore di Ibn Hamdis che conferma la grande sensibilità poetica di Sciascia.
3. Sciascia in Africa, Turchia e Persia Giovanni Capecchi, oltre a riprendere i punti principali trattati dai suoi colleghi precedentemente, dedica la parte centrale del suo intervento a tratteggiare con finezza lo spirito laico e 270 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tollerante dello scrittore di Racalmuto. Sciascia sa che il laicismo vero non può prescindere dal rispetto di ogni credo e dal riconoscimento che nessuno può avere la pretesa di possedere la verità assoluta in qualsiasi campo. Capecchi lo dimostra chiaramente citando dei testi poco noti di Sciascia. Il primo è tratto da una singolare intervista che il neo deputato radicale Sciascia nel 1979 rilascia al quotidiano Lotta Continua. Il dialogo tra lo scrittore e il giornalista parte dall’analisi dell’Affaire Moro, pubblicato l’anno precedente, ma si conclude con un riferimento ad un fatto di cronaca di quei mesi che riprendiamo: - Trattative per Moro e trattative per lo Scià. Lo Scià lo daresti a Khomeini? - No, lo Scià non lo darei. Per un antico rispetto delle regole. Tu non puoi buttare in pasto alla morte una persona a cui hai dato rifugio. Sarebbe quello che nella Divina Commedia è il “tradimento del commensale”. Avrei potuto non riceverlo, ma non posso consegnarlo… I suoi averi sì, certo. Ma forse gli iraniani non si accontenterebbero, perché nel mondo musulmano lo spirito di vendetta è fortissimo. Khomeini non riusciamo a spiegarcelo interamente. Per me è il fanatismo […]. Non mi piace. È un uomo molto vecchio, ma non degli anni suoi, degli anni del mondo musulmano. È brutto questo momento, questo mondo. Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Montesquieu. Lo consiglierei anche a loro.26
Giustamente Capecchi afferma che questa autodefinizione di Leonardo Sciascia ha «la forza iconica di una carta d’identità». Il secondo testo utilizzato da Capecchi è tratto da una intervista di Corrado Augias allo scrittore siciliano, pubblicata dal settimanale Panorama il 10 novembre 1985, con il titolo In nome di Maometto re. Ne riprendiamo di seguito il passo centrale: Domanda: Nelle settimane scorse s’è tornato a parlare delle due eterne anime italiane, l’europea e la levantina. Lei che in un certo senso le incarna entrambe […] che giudizio dà al riguardo? 271 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Risposta: È un destino che ci hanno assegnato la storia e la geografia; sono cose contro cui si può fare poco [...]. Parlando in particolare della Sicilia, non si può dimenticare che gli Arabi vi sono rimasti per due secoli e che il loro dominio si è impresso nella fantasia, nella lingua, nel modo di essere, nelle facce, nei nomi di luoghi e di persone, compreso il mio. D. C’è però chi sostiene che quella araba fu solo una dominazione non diversa dalle tante altre che l’Isola ha subìto nel tempo. R. Lo so. Michele Amari, per esempio, scrive che la Sicilia fu dominata dagli Arabi ma non arabizzata. È evidente che non è così.27
In questa stessa intervista, accompagnata da un ritratto dello scrittore sovrapposto a un paesaggio arabo (con cupole di moschee e minareti), Sciascia torna a ripensare alla tolleranza che ha caratterizzato la presenza araba in Sicilia contrapponendola al terrorismo diffuso nel presente, ed afferma: «Mi dà vera sofferenza pensare che il mondo arabo dia oggi prova di una così feroce e sanguinaria intolleranza». Sciascia è ben consapevole della distanza abissale che separa il mondo arabo antico, descritto da Michele Amari, da quello contemporaneo. Eppure non concorda con quanti rappresentano in modo caricaturale i Paesi islamici odierni. Il 19 febbraio 1989 Sciascia, intervenendo sul caso internazionale nato attorno ai Versi satanici di Salman Rushdie, condannato a morte dall’ayatollah Khomeini, su La Stampa prende nettamente le distanze dall’irrisione con cui tanti trattano i sentimenti religiosi: Ho avuto sempre disinteresse, se non avversione, per le rappresentazioni letterarie o figurative che toccano - stravolgendole, irridendole o bestemmiandole - le rivelazioni religiose. Il laicismo vero non può prescindere dal rispetto per coloro che a quelle rivelazioni credono, fermo tenendo il principio di combatterne le emanazioni temporali.28
Giovanni Capecchi, in questo suo bel saggio, mostra come sia tutt’altro che inutile soffermarsi a leggere e rileggere attentamente i numerosi articoli e corsivi pubblicati dallo scrittore 272 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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siciliano sulla stampa quotidiana e periodica. Molti di questi, ancora oggi, risultano dispersi e, solo in parte, sono stati recuperati nella nuova edizione critica curata da Squillacioti.29 Così, grazie al recupero di un corsivo pubblicato da Sciascia nel 1965 su L’Ora di Palermo, in un tempo in cui la Sicilia era governata dalla DC e da un cardinale30 che somigliava tanto a Khomenei, Capecchi può completare il suo sfaccettato ritratto dello scrittore di Racalmuto: Quel tanto di sangue e di sogno (e di nome) che c’è in me di arabo, mi fa sentire il tempo della Sicilia musulmana - vita, poesia, cultura - profondamente vicino: ma non al punto di barattare il Discorso del metodo con il Corano.
Il capitolo conclusivo di questo saggio è dedicato all’analisi di una amicizia tra lo scrittore siciliano e Bruno Arcurio, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Ankara negli anni settanta del secolo scorso. Capecchi riesce a ricostruire questa amicizia, finora assente dalle biografie e dalla critica sciasciana, grazie al recupero del carteggio tra i due conservato nell’Archivio della Fondazione Sciascia di Racalmuto. Lo studio di questo carteggio, oltre a consentire di avere delle informazioni di prima mano sulle prime traduzioni turche dell’opera di Sciascia, aiuta anche a comprendere meglio la genesi di Todo modo. Il saggio di Giovanni Capecchi trova, in questo stesso libro, una opportuna integrazione nell’articolo di Cristiano Bedin che riprende un suo recente studio sulla fortuna di Sciascia in Turchia31, dove la letteratura italiana è apprezzata e diffusa più di quanto lo sia quella turca in Italia. Bedin, nel rilevare il successo che hanno avuto in quella terra le traduzioni de Il giorno della civetta, A ciascuno il suo e Il Consiglio d’Egitto, sottolinea il particolare apprezzamento turco nei confronti del suo impegno sociale e del suo rifiuto delle rappresentazioni stereotipate della Sicilia. Completano il volume – comprendente in appendice XXXII tavole a colori riproducenti copertine di traduzioni arabe di Sciascia, articoli poco noti di cui si parla nel libro, ecc. 273 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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– l’articolo di Zakariya Jumaah che parla delle traduzioni egiziane dell’opera del nostro autore; il testo di Sandro Caruana e Sergio Portelli che ricordano il viaggio a Malta di Sciascia; e lo scritto, infine, di Mehrnaz Montaseri e Zohreh Montaseri i quali si soffermano sui principali studi e sulle traduzioni iraniane dell’opera di Leonardo Sciascia. Per concludere ritengo particolarmente felice la pubblicazione di questo libro nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Leonardo Sciascia. Tutti i saggi che lo compongono hanno una forte impronta critica e rifuggono dal clima retorico e celebrativo che ha contrassegnato gran parte degli articoli e dei libri stampati in questi mesi. E particolarmente bene ha fatto Petrucciani, dal mio punto di vista, a cacciare nel secchio della spazzatura tutte le chiacchiere sull’identità siciliana, «riciclate negli ultimi decenni perfino nei nomi di assessorati e biblioteche».
4. Il Convegno Internazionale del 2019 Ancora fresco di stampa ho in mano gli Atti del Convegno Internazionale sull’opera di Leonardo Sciascia, svoltosi a Palermo nel novembre 2019, in occasione del trentennale della morte dello scrittore di Racalmuto.32 Un Convegno particolarmente interessante e sorprendente che ha messo a fuoco, in una prospettiva nuova rispetto al passato, i molteplici aspetti dell’opera di Leonardo Sciascia che, com’è noto, vanno ben oltre il loro valore strettamente letterario. Ho trovato particolarmente stimolante la lettura delle 380 pagine che compongono il volume. Pensavo che non ci fosse più nulla di nuovo da dire sull’opera di Sciascia. Ma mi sono dovuto ricredere. D’altra parte è proprio vero che gli autori classici - e Sciascia indubbiamente lo è33 - non finiscono mai di dire quello che hanno da dire. 274 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Di seguito mi soffermo sulle relazioni mi sono apparse più originali e ricche di spunti per nuovi ulteriori approfondimenti. 4.1. La “filosofia” di Leonardo Sciascia:
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la garbage science
Andrea Le Moli tratteggia, in modo sommario e generico (pp. 51-56), la profonda vocazione filosofica dello scrittore siciliano. La principale fonte di Le Moli sembra essere Gaspare Polizzi che - in un suo ottimo articolo, Sciascia nello specchio della filosofia, pubblicato nel 2015 su Todomodo - aveva provato a fissare la cornice entro cui va collocato ogni discorso sul tema. Convince poco però l’affermazione secondo cui “l’autore filosofico inconsapevolmente più vicino a Sciascia è il raramente citato Platone” (p. 55); più fondata mi appare, invece, la sua ricerca dei rapporti tra mistero, ragione e verità che attraversa tutta l’opera del nostro autore, da Il giorno della civetta (1961) a Una storia semplice (1989), con il miraggio della cosiddetta “legge del pozzo”: La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità. (Il giorno della civetta)
Aiuta molto di più a comprendere la “filosofia” di Sciascia l’intervento di Giuseppe Traina (pp. 107-118) che, soffermandosi ad analizzare, con grande acume critico, Il cavaliere e la morte, individua in Michel Foucault la chiave per decifrare, oltre ad uno dei migliori racconti sciasciani, il senso della sua intera opera. Secondo Traina i libri di Foucault - e in specie la Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, 1977 - sono stati meditati a fondo da Sciascia: “Tutta la sua produzione degli anni Settanta e Ottanta, sia sul versante narrativo che su quello polemistico e saggistico, lo dimostra” (p. 109). 275 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Insomma, secondo Traina, il racconto di Sciascia chiarisce in forma narrativa quello che Foucault aveva sostenuto una dozzina di anni prima, ovvero il valore “produttivo”, non solo “repressivo”, del potere:
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Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale. (M. Foucault, Microfisica del potere, cit., p. 13)
Ma per la verità questa rappresentazione del potere si trova già in Pasolini, prima ancora che in Foucault. E, considerati i rapporti stretti che ci sono stati tra Sciascia e Pasolini, sorprende non poco che nessun relatore se ne sia occupato.34 Traina più avanti offre un altro spunto particolarmente stimolante facendo riferimento alla passione storica dello scrittore siciliano: In diversi suoi testi, in cui ha utilizzato fonti e metodologie tipiche degli storici di professione, Sciascia si è spesso trovato in disaccordo con costoro […]. La forza e l’attualità ancora perturbante di tanti suoi libri (soprattutto de L’affaire Moro ma anche de Il cavaliere e la morte) è data proprio dall’uso di quello sguardo verso il basso che per Foucault è tipico della “storia effettiva”: un uso che in Sciascia dimostra determinazione, consapevolezza, precisione dettagliata, straniante prospettiva di sguardo. E se analizziamo nel concreto i materiali dell’analisi sciasciana, nel romanzo dell’88 troviamo elementi come l’attenzione per i sensi e per i corpi, ma anche per l’oblio sociale che ha investito la memoria, per la condizione dei bambini e dei cani nel mondo contemporaneo, per la presenza invasiva dell’immondizia: “l’immondizia non mente mai” (Il cavaliere e la morte, Adelphi, 1988, p. 29): precetto sociologico, ormai.
Sciascia riserva due pagine esemplari del suo racconto alla scienza dei rifiuti, la garbage science, ricordando che un giorna276 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lista aveva cercato i segreti della più segreta politica americana nelle immondizie di Henry Kissinger e la polizia i segreti della mafia siculo-americana in quelle di Joseph Bonanno (si veda Il cavaliere e la morte, cit. pp. 28-29). Se si tiene poi presente quanto sia invadente l’immondizia in una città come Palermo, dove Sciascia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, e dove la munnizza ha assunto ormai un valore anche simbolico, il cerchio sembra chiudersi davvero. Anche Foucault, peraltro, invita a cercare la vera storia del mondo, la “storia effettiva”, fra le decadenze. Un altro elemento tipicamente foucaultiano, che andrebbe ricercato in altre opere di Sciascia, è quello che si è soliti definire “biopolitico”. E lo stesso Traina giustamente indica nell’attenzione per i corpi un’altro tratto distintivo del modo di narrare dello scrittore siciliano che, ad esempio, mentre ne Il Consiglio d’Egitto e in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia festeggia una vera e propria gioia dei corpi, ne Il cavaliere e la morte mette a nudo la potenza distruttiva della malattia e della morte (si veda pp. 111-112). 4.2. Nero su nero Nero su nero è uno dei libri di Leonardo Sciascia più citati e variamente interpretati da quasi tutti i partecipanti al Convegno di cui parliamo. Il libro venne pubblicato dall’editore Einaudi nel giugno 1979. Lo stesso autore spiega, nella quarta di copertina, la sua genesi: siamo di fronte ad una sorta di diario, simile al Diario in pubblico di Vittorini. In esso Sciascia ha raccolto note e appunti scritti nell’arco temporale compreso tra l’estate del 1969 e il 12 giugno 1979. La maggior parte di queste note erano già state pubblicate su giornali come Corriere della sera, La Stampa e L’Ora. Il titolo, precisa l’autore, “vuole essere parodistica risposta all’accusa di pessimismo che di solito mi si rivolge: la nera scrittura sulla nera pagina della realtà”. Sciascia, come è noto, cu277 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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rava spesso anche le copertine dei suoi libri. In questo è riprodotta l’acquaforte del cecoslovacco Jindrich Pilecek, intitolata Specchio, che Sciascia teneva nel suo studio palermitano, come ironico memento del realismo socialista. Oltre ai libri di Sciascia, mancano oggi particolarmente i suoi puntuali e taglienti interventi sulla stampa quotidiana e periodica. In un momento in cui tanti scrittori ed intellettuali sembrano diventati ciechi e muti, si avverte ancora di più il vuoto che ha lasciato. In alcune delle pagine più belle di Nero su nero, Sciascia ricorda in modo struggente l’amicizia che lo ha legato, fin dai primi anni cinquanta, a Pasolini, scrivendo: Io ero - e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. […] La sua morte - quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, [...] - io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del Mondo, una lettera a Italo Calvino. (Nero su nero, cit., pp. 175-176)
“Non è più possibile scrivere: si riscrive”, ricorda Ester Gurnari nella sua bella relazione citando Sciascia (pp. 39-49). La studiosa dell’Università di Cambridge riflette in modo originale sulla pratica della riscrittura e dell’intertestualità nell’opera sciasciana. L’autrice mette a fuoco l’arco temporale che va dal 1969 al 1979, anni che corrispondono alla stesura di Nero su nero, che invita a leggere come un palinsesto su cui poggia l’analisi di intertesti e riscritture come Il Contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975) e L’affaire Moro (1978). In questi testi si può osservare come i riferimenti letterari abbiano una funzione sia epistemologica che etica che affronta i problemi della Verità e della Giustizia sempre intimamente legati nell’opera di Sciascia. Nella sua articolata ed acuta esposizione Ester Gurnari prende le mosse da una intervista rilasciata dallo scrittore di 278 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Racalmuto nel 1987 a Claude Ambroise, primo curatore delle sue opere complete, pubblicate da Bompiani mentre era ancora vivo l’autore, laddove Sciascia afferma: “Non è più possibile scrivere: si riscrive. [...] Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere” (14 domande a Leonardo Sciascia). 4.3. Letteratura e microstorie (confronti) Il Convegno ha dato spazio alla ricerca di inediti confronti tra l’opera di Sciascia e quella di altri importanti autori del 900. Particolarmente convincenti mi sono apparsi i contributi di Donatella La Monaca e Michele Maiolani che, rispettivamente hanno messo a fuoco i rapporti dello scrittore siciliano con Anna Maria Ortese e Carlo Ginzburg. Donatella La Monaca ha colto ne La comune passione del giusto il profondo legame che unisce Sciascia alla Ortese. La Monaca prende le mosse dal carteggio tra i due scrittori venuto alla luce nel 2009, grazie all’infaticabile lavoro di ricerca di Antonio Motta che lo ha pubblicato sulla sua rivista Il Giannone. La lettura di questo “carteggio lacunoso”, risalente al 1978, offre più di uno spunto per comprendere il comune sentire tra i due autori. La Monaca concentra la sua attenzione, soprattutto, nell’analisi di due loro grandi opere: Il mare non bagna Napoli (1953) e Le parrocchie di Regalpetra (1956). Libri generati entrambi da grumi autobiografici fondanti, la militanza giornalistica nella rivista Sud per la Ortese e la prassi dell’insegnamento elementare per Sciascia: “Sin da allora la voluta ibridazione di saggio antropologico, documento e invenzione narrativa si alimenta dalla percezione acuta delle divaricazioni sociali, dell’indigenza mortificante, della privazione dei diritti fondamentali” (p. 124). Ed è proprio attraverso l’analisi puntuale delle opere dei due autori che l’autrice comprende le ragioni che spingeranno Scia279 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
scia il 4 novembre 1978, dopo un lungo silente dialogo con la scrittice napoletana, a scriverle una straordinaria lettera dove si possono leggere queste parole:
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Le sue domande sono anche le mie. E principalmente questa: che cos’è questo Paese? Un Paese, sembra, senza verità; un Paese che non ha bisogno di scrittori, che non ha bisogno di intellettuali. Disperato. Pieno di odio. E nella disperazione e nell’odio, propriamente spensierato di una insensata sciocca vitalità.
Il confronto tra le narrazioni documentarie sciasciane e i saggi di microstoria di Carlo Ginzburg è il tema che affronta Michele Maiolani nel suo ottimo intervento. Il legame tra Sciascia e lo storico torinese, spesso taciuto dalla critica, rivela diversi punti di contatto, non solo nei temi trattati, ma soprattutto nel campo delle scelte stilistiche e delle tecniche retorico-narrative adottate. Benchè le opere dei due autori facciano riferimento a due distinti criteri di verità - quello della storiografia e quello della letteratura - Sciascia e Ginzburg ricorrono a metodi e strumenti simili per far parlare documenti d’archivio lacunosi e di difficile lettura. Maiolani mette a confronto la Morte dell’inquisitore (1964), uno dei testi più cari allo stesso Sciascia che più si avvicina ai canoni della scrittura storica, con due libri di Ginzburg, I benandanti (1966) e Il formaggio e i vermi (1976). Non c’è prova di filiazione diretta tra queste opere. Ma è fuor di dubbio che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Sciascia e Ginzburg conoscessero le opere dell’uno e dell’altro. D’altra parte esse, oltre ad avere una comune radice manzoniana, mostrano una particolare attenzione verso il tema dell’eresia e dell’inquisizione, come aveva già notato in maniera piuttosto isolata Ivan Pupo nel saggio del 2011 Narrare l’inquisizione. Appunti sul “paradigma indiziario” in Ginzburg e in Sciascia. L’importante contributo di Michele Maiolani mostra come focalizzare l’attenzione su aspetti apparentemente minori del passato o riscoprire vicende dimenticate può portare a rileggere 280 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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un periodo storico in modo inaspettato, rimediando alle distorsioni etnocentriche della storiografia positivista (Ginzburg) o portando avanti un’operazione critica di “controstoria” (Sciascia) (si veda p. 151). 4.4. La Sicilia come metafora del mondo La centralità che ha la Sicilia nell’opera di Leonardo Sciascia è fin troppo nota. Nessuno ha mai avuto dubbi sulle radici siciliane dello scrittore di Racalmuto. Ma taluni hanno preso spunto da questo dato di fatto per tentare di ridimensionarne il valore arrivando a considerarla provinciale. In realtà non meriterebbero neppure di essere prese in considerazione certe posizioni. Nel Convegno è toccato ad Alessandro Secomandi il compito di parlare della fortuna internazionale di Sciascia ricordando l’opera dello scrittore messicano Federico Campbell. A Campbell, oltre a tanti racconti, si deve una delle migliori monografie che siano state scritte su Sciascia. Così ne parla Claude Ambroise: La migliore presentazione […] è un libro in lingua spagnola, scritto da un messicano [La memoria di Sciascia] che, senza pedanteria, ma con precisione e passione, delinea il contenuto della ricerca sciasciana. L’appartenenza di Campbell alla hispanidad gli consente anche di dare maggiore spessore al lato spagnolo dello scrittore siciliano: non per sentito dire, il critico messicano riattiva […], in un contesto sudamericano, le riflessioni sull’inquisizione e sulla giustizia. (C. Ambroise, La fortuna critica di L. Sciascia, in Opere, III, 1991, citato da Secomandi a p. 168).
Secondo Campbell il Messico è simile alla Sicilia per le radici storico-culturali comuni: dominazione spagnola, cattolicesimo, Inquisizione. Anche per questo in Italia, come in Messico, “nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che ab281 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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biano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere” (p. 163). Campbell ammira anche lo stile narrativo dello scrittore siciliano: “Leonardo Sciascia è uno scrittore secco: appartiene a quella specie che aspirano a dire il più con il meno. […] La stessa Sicilia è la metafora del mondo” (p. 167). Sono i fatti a dare ragione a Sciascia. I suoi ragionamenti non scaturiscono da precostituiti schemi ideologici ma dalla osservazione critica della realtà. Tutti gli scritti di Sciascia riescono a rappresentare la realtà senza veli, anche quelli considerati minori. Ad esempio Marina Castiglione, nel proporre una originale “analisi pragmatica” di una piece teatrale, L’onorevole (1965), dello scrittore di Racalmuto, svela i meccanismi della corruzione che hanno trasformato radicalmente intellettuali e politici: Un esame impietoso e profetico, che ancora nulla sapeva di ciò che sarebbe accaduto tra prime, seconde e terze repubbliche, della sua stessa esperienza di onorevole deluso, ma che nella mente lucida e senza pregiudizi di Leonardo Sciascia aveva già tutti gli addendi necessari per ricavarne la futura somma di vizi pubblici e privati. (La parabola disonorevole del prof. Frangipane e del ruolo dell’intellettuale, p. 237).
4.5. Studi linguistici
su
Sciascia
e nuova edizione di tutte le sue opere
Come nota Roberto Sottile nel suo intervento (Per uno “sciasciario dialettale” 100 e più parole delle “Parrocchie” siciliane), Sciascia è stato poco esplorato dal punto di vista linguistico, pur essendo stato uno degli scrittori italiani più studiato sul piano storico-letterario. Il Convegno ha cercato di colmare questa lacuna riservando una ampia e approfondita sezione all’analisi linguistica della sua opera. Non possiamo adesso, in questo spazio, riprendere per esteso i diversi contributi che occupano 282 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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più di cento pagine del volume che stiamo esaminando, come si può vedere già dall’Indice. Ci riserviamo di analizzare e discutere questi importanti ed originali contributi in un’altra occasione. Qui ci limitiamo a segnalare, tra gli gli altri, il prezioso contributo di Salvatore Claudio Sgroi (Gli studi (meta)linguistici su Leonardo Sciascia) che, oltre al suo indubbio valore specialistico, aiuta a sgombrare il campo da tante inutili polemiche che hanno accompagnato la sfortuna critica dello scrittore di Racalmuto. I lavori del Convegno si sono conclusi con la relazione del filologo Paolo Squillacioti che ha illustrato il metodo ed i criteri seguiti nel proporre la nuova edizione delle Opere di Leonardo Sciascia nella collana La Nave Argo di Adelphi.
5. Il fuoco di Leonardo Sciascia nelle sue ultime parole
“Perché c’è tanta gente che insegue il genere di felicità che dà il potere?” (DP) “L’uomo mediocre sente l’appagamento che dà il potere, il fatto di avere un potere sugli altri. Mi sembra un segno inconfondibile della mediocrità questo desiderio di sovrastare gli altri, di dominarli, di avere un potere su di loro.”(LS) (Leonardo Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, Adelphi Edizioni, Milano 2021, p. 75)
Vorrei cominciare a parlare dell’ultimo libro di Leonardo Sciascia a partire dalla fine nel punto in cui lo scrittore siciliano, conversando con Domenico Porzio, afferma che «le riviste sono finite perché è finito il colloquiare; non ci si incontra più. […] La televisione ha ammazzato la conversazione, ha ammazzato la lettura serale. Ha ammazzato tante cose». Con la stoc283 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cata finale contro la «classe digerente» che non ha mai saputo dirigere nulla.35 Ma procediamo con ordine. L’anno scorso l’editore Adelphi ha curato una nuova edizione di Fuoco dell’anima, un libro di Leonardo Sciascia pubblicato da Mondadori tre anni dopo la sua morte. Come spiega il suo sottotitolo si tratta di Conversazioni che lo scrittore di Racalmuto ebbe, tra il 1988 e il 1989, suo ultimo anno di vita, con l’amico Domenico Porzio, curatore dell’edizione italiana, per i tipi dei Meridiani Mondadori, delle opere di Borges. Michele Porzio, figlio di Domenico, in appendice a questa nuova edizione del libro (vedi le pp. 139-155), nel rendere pubbliche alcune carte del padre - compresa la scaletta preparata per l’occasione - rivela che l’idea originaria del giornalista era di fare la solita intervista. Fu Sciascia a proporre, in alternativa, la registrazione del dialogo che, da tempo, i due intrattenevano tra loro parlando, a ruota libera, d’ogni cosa. Si parla, infatti, davvero di tutto in questo libro: dei rapporti tra lingua e dialetti (il dialetto, afferma Sciascia laconicamente, riecheggiando le parole di Pasolini, “consente di raggiungere la madre” ma, subito dopo osserva: “nessuna opera di pensiero può essere scritta in dialetto”: pp. 11-12); della “frutta martorana” e dei “pupi di zucchero” che si regalavano ai bambini per la festa dei morti (p. 19); della familiarità dei siciliani con la morte e delle vedove “captivae”, ossia prigioniere del marito defunto (pp. 20-24); del rapporto tra leggi e privilegi (pp. 29-30); della mafia antica e di quella sempre più sfuggente dei giorni nostri (pp. 68-70). Ma, attenzione, la cosa meno sciasciana da fare è quella di prendere per verità assolute, rivelate, le sue opinioni, i suoi giudizi politici, storici e letterari. Ad esempio, il suo giudizio su Vittorini (cfr. pp. 37-38) è molto discutibile, come lo è quello su Napoleone (p. 52), sul comunismo e sulla Chiesa cattolica (pp. 64-65). Pienamente condivisibile appare, invece, quanto scrive 284 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sulla forza delle parole evangeliche: «Il Vangelo continuerà a vivere nel cuore degli uomini che hanno cuore».36 Sciascia si sofferma a raccontare la sua prima esperienza lavorativa nel Consorzio Agrario di Racalmuto, svolta dal 1941 al 1948, prima di cominciare ad insegnare nelle scuole elementari del suo stesso paese. Il Consorzio, in quegli anni, si occupava, soprattutto, della gestione del grano che i contadini erano costretti a conferire all’ammasso comunale. Il contatto quotidiano con i problemi concreti del suo paese ha permesso allo scrittore di conoscere meglio la realtà locale e i problemi di quegli anni. Scrive infatti Sciascia: Era un mestiere che permetteva la conoscenza del mondo contadino. Momenti tristi in cui mancava il pane e i contadini erano particolarmente vessati perché consegnassero il grano all’ammasso. Lì ho avuto, si può dire, il primo impatto con la giustizia. C’era una squadra di polizia che girava per fare delle perquisizioni nelle case di chi aveva la terra. Un giorno [...] hanno scoperto un contadino che aveva sottratto all’ammasso un quintale di frumento [...], l’arciprete quindici. […]. Sono stato chiamato come testimone, per confermare che i due avevano denunciato una quantità minore di grano. Ho seguito il processo. Il contadino è stato condannato a due anni, l’arciprete assolto. […] Così la giustizia ha cominciato a darmi delle inquietudini.37
Altrettanto eloquente risulta il suo racconto dell’ingresso dei soldati americani a Racalmuto, avvenuto circa cinque giorni dopo il loro sbarco tra Gela e Licata. Sciascia ne aveva già scritto nel 1979, in Nero su nero e in La Sicilia come metafora, e nei primi anni cinquanta nel suo capolavoro Le Parrocchie di Regalpetra. Evidentemente il ricordo di quelle giornate gli era rimasto talmente vivo da tornarci più volte, in diverse occasioni, successivamente. Ma fin dai suoi primi scritti ha manifestato tutto il suo stupore per il modo in cui il governo e l’esercito americano hanno trattato i mafiosi. In queste sue ultime pagine, infatti, lapidariamente scrive: 285 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Gli americani arrivarono con l’elenco dei mafiosi in tasca. I sindaci di quasi tutti i paesi furono scelti tra i mafiosi.38
Ma lo stesso Sciascia, molti anni prima, aveva scritto:
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Gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire come mai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati (lo sbarco in Sicilia) non fosse per tanti siciliani un segreto.39
Non va dimenticato che Sciascia è stato uno dei primi scrittori siciliani a sottolineare il carattere devastante che ha avuto nella storia della nostra isola la “legittimazione” che la mafia ricevette dagli Stati Uniti d’America nel periodo dell’ occupazione militare della Sicilia. E ne ha scritto e parlato in più luoghi. Particolarmente significativa appare quest’altra testimonianza: La mafia, che era stata combattuta dal fascismo - due mafie non avrebbero potuto coesistere - si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani in posti chiave delle istituzioni, i mafiosi, oltre al prestigio, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani.40
Tornando alle conversazioni di Sciascia con Domenico Porzio, non può sorprendere ritrovare in esse temi e motivi presenti in altre sue precedenti opere. Ad esempio, è ricorrente in tutti i suoi scritti la denuncia dell’ ipocrisia e della doppiezza come causa prima della crisi della sinistra in Italia. La doppiezza della vita italiana, secondo lo scrittore di Racalmuto, “è un malcostume da addebitare soprattutto alle sinistre. Si dice una cosa in privato e se ne fa un’altra - il contrario - in pubblico” (Fuoco all’anima, cit., p. 63) Sciascia conferma la sua profonda simpatia per il Settecento, il secolo dei lumi, ed in specie per Diderot e Voltaire. Singolare appare l’ammirazione mostrata dallo scrittore siciliano, così so286 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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brio e castigato in tutti i suoi racconti, nei confronti del modo d’intendere l’amore in quel secolo, quando i rapporti tra i due sessi erano soprattutto “un gioco di gioia, nient’altro. I corpi, l’incontro dei corpi” (p. 79). Nel corso di queste sue ultime conversazioni Sciascia mostra la sua antica passione filosofica, il suo forte interesse nei confronti del razionalismo illuminista e la sua ferma opposizione nei confronti di ogni forma di romanticismo, da cui derivano nazionalismi e fanatismi d’ogni tipo. E quando il suo interlocutore cita uno dei suoi scrittori preferiti, Alessandro Manzoni, non manca di sottolinearne la formazione illuministica (p. 108). I passi centrali del libro sono indubbiamente quelli in cui Sciascia parla dei suoi scrittori preferiti. Allora, dopo aver ricordato gli amati Stendhal e Manzoni, lo scrittore di Racalmuto si sofferma su quelli che ritiene i maggiori e più rappresentativi scrittori mondiali del Novecento: Pirandello, Kafka e Borges. Su Pirandello ribadisce di averlo “incontrato nella natura” e di averlo “respirato nei luoghi” (p. 104). Questi tre giganti del Novecento, osserva Sciascia, sono stati più filosofi che narratori. Pirandello, Kafka e Borges – pur condividendo la stessa visione scettica e negativa della vita – hanno saputo coglierne i risvolti comici e riderne. Per questo si sbaglia a considerarli disperati. Per Sciascia il solo fatto di scrivere è già un atto di speranza (pp. 106-107). Insomma siamo di fronte ad un libro importante, sotto diversi punti di vista: 1) È una viva testimonianza, una delle ultime, del grande scrittore siciliano. L’ultima conversazione è datata 5 ottobre 1989, il mese successivo Sciascia chiuse gli occhi per sempre. 2) Le conversazioni registrate conservano la vivezza e la spontaneità del linguaggio verbale. 3) Molti dei temi trattati si ritrovano in altri suoi libri, ma in questo vengono rivelate fonti insospettate del suo pensiero. 287 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Innanzitutto viene sottolineata l’importanza che ha avuto nella formazione dello scrittore la sua prima esperienza lavorativa, presso il Consorzio Agrario di Racalmuto, negli anni Quaranta del secolo scorso, durante la seconda guerra mondiale e subito dopo, quando contadini e piccoli produttori agricoli erano costretti a conferire il grano all’ ammasso comunale. Non a caso questa sua diretta esperienza si collega alla triste storia del cognato di Palmiro Togliatti, Paolo Robotti, sospettato di essere una spia dai servizi segreti sovietici. Il Robotti, pur essendo stato accusato ingiustamente e torturato dalla polizia negli anni feroci delle purghe staliniste, non perse mai la sua fede comunista. E Sciascia rivela che fu proprio Robotti nel 1948 a tenere il comizio nel suo paese natale, ironicamente descritto nelle Parrocchie di Regalpetra, in cui provò a spiegare cosa fossero i kolchos sovietici. I contadini di Racalmuto, osserva argutamente lo scrittore, vessati dall’ammasso obbligatorio del grano, intuirono immediatamente che i kolchos somigliavano tanto agli ammassi italiani: «Ed è allora – aggiunge sornione Sciascia che il PCI tocca in Sicilia il punto più basso di voti».41
Note 1. AA.VV., Un arabo che ha letto Montesquieu. Leonardo Sciascia e il Mediterraneo sud-orientale, (a cura di G. Capecchi e F. M. Corrao), Leo S. Olschki Editore, Firenze 2021, p. 70. 2. L. Sciascia, L’arte di Giufà, in Francesca Maria Corrao, Le storie di Giufà (1991), Sellerio, Palermo 2011, p. 18. 3. La Corrao allega foto della nota manoscritta da Leonardo Sciascia nel registro degli ospiti di casa Corrao. 4. È lo stesso Sciascia a riconoscerlo in apertura dei suoi primi saggi pirandelliani: L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1961, p. 9. 288 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
5. AA. VV., Delle cose di Sicilia, testi inediti o rari, a cura di L. Sciascia, Introduzione di D. Fernandez, I, Sellerio, Palermo 1980; II, 1982; III, 1984; IV, 1986. 6. La data reale (1960) di redazione dell’articolo è stata accertata dal filologo Squillacioti, curatore della nuova edizione critica di tutta l’opera sciasciana: L. Sciascia, Opere, II, Inquisizioni-Memorie-Saggi, due tomi, Adelphi, Milano 2014-2019. 7. L. Sciascia, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, p. 264. 8. Ivi, pp. 261-263.
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9. L’articolo gustosissimo si trova oggi compreso tra quelli ristampati in L. Sciascia, Quaderno, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991, pp. 37-39. 10. Per quanto riguarda l’opera del Centro Studi e Iniziative di Partinico si rimanda a Danilo Dolci, Spreco, Einaudi, Torino 1960; Lorenzo Barbera, La diga di Roccamena, Laterza, Bari-Roma 1964; Danilo Dolci, Il potere e l’acqua (scritti inediti con una testimonianza di Vincenzo Consolo), Melampo, Milano 2010 e ad un recente saggio storico di Giuseppe Oddo, Il miraggio della terra in Sicilia, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2021 che ricostruisce con particolare attenzione le battaglie del Centro Studi di Dolci su questo fronte. 11. Il testo di Sciascia, riportato anche dal giornale La Repubblica il 14 maggio 2008, si trova anche on line sul sito www.suddovest.it. 12. L. Sciascia, La palma va a nord, a cura di Valter Vecellio, Gammalibri, Milano 1982, p. 9. 13. In Appendice al volume di cui stiamo parlando, nelle tavv. IV-V sono riprodotte a colori la copertina del Pioniere del 12 giugno 1960 e la p. 7 dove inizia l’articolo di Sciascia. 14. Il saggio apre La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino 1970, pp. 11-17. 15. M. Onofri, Storia di Sciascia, Laterza, Bari-Roma 2004, p. 140. 16. Contro questa rappresentazione, al tempo stesso naturalistica e metafisica della Sicilia, mi permetto di rinviare a due miei precedenti studi: F. Virga, La Sicilia di Leonardo Sciascia, in “Nuova Busambra”, n.1, giugno 2012; Leonardo Sciascia e l’ottimismo della scrittura, in “Dialoghi Mediterranei”, maggio 2017.
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17. L. Sciascia, Sicilia, in AA.VV., Cara Italia, Montecatini 1963, citato da Petrucciani, pp. 47-48. 18. Ibidem. 19. L’Ora 3 aprile 1965. Parole riprodotte in quarta di copertina del Quaderno pubblicato da Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991.
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20. Petrucciani comunque ignora, come tanti altri critici, l’importante intervento che Sciascia terrà nell’aprile del 1960 a Palma di Montechiaro, partecipando al Convegno organizzato da Danilo Dolci Sulle condizioni di vita e di salute nelle zone arretrate della Sicilia occidentale. L’intervento è stato pubblicato nel dicembre 2012 sulla rivista “Nova Busambra”, dove lo scrivente nella nota introduttiva sottolinea il significato che ebbe nell’occasione la sua polemica con l’autore del Gattopardo. 21. L’articolo, intitolato Marx, Manzoni e il Gattopardo, insieme ad altri, è stato ristampato nel volume di AA.VV., Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, a cura di Renato Martinoni, Leo S. Olschki, Firenze, 2011. Il volume comprende un DVD dove sono raccolti tutti gli articoli e gli interventi radiotelevisivi dello scrittore siciliano nella Svizzera italiana. 22. Ecco il celebre brano del Gattopardo con cui polemizza Sciascia: «Ho detto i siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano… Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima… Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè per così dire». 23. L. Sciascia in AA. VV., Troppo poco pazzi, cit., p. 103. 24. Ivi, pp. 102-103. 25. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1960, p. 9. 26. L’intervista è stata successivamente raccolta da Valter Vecellio nel libro La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982. Il brano citato si trova nella p. 245 del libro di Vecellio. 27. In nome di Maometto re, Intervista con Leonardo Sciascia di Corrado Augias, in Panorama,10 novembre 1985. Cit. da Capecchi, p. 72. 28. L. Sciascia, Il Diavolo, Maometto e Voltaire, articolo pubblicato su La Stampa il 19 febbraio 1989, ripreso da Capecchi, p. 73-74. Il pezzo di Scia290 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
scia, in prima pagina, affianca un articolo intitolato Rushdie si scusa, giallo sul perdono, incentrato sulle scuse che lo scrittore inglese ha chiesto ai musulmani respinte da Khomeini.
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29. Che siano ancora tanti i testi dispersi di Sciascia l’hanno ammesso apertamente lo stesso Squillacioti e Ivan Pupo (autore di numerosi ritrovamenti) in una diretta radio trasmessa il 15 ottobre 2021 dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia. 30. Di questo cardinale Sciascia ci ha lasciato un ritratto indimenticabile: «Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno […]; intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento. Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa» (La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979, pp. 129-130). 31. Il contributo di Cristano Bedin riprende un suo precedente articolo sulle traduzioni turche di Sciascia pubblicato in Todomodo, IX, 2019, pp. 81-92. 32. Gli Atti pubblicati sono stati curati da Marina Castiglione e da Elena Riccio che hanno collocato i diversi contributi dei partecipanti al Convegno all’interno di cinque macro aree tematiche: Pensiero e metodo, Opere, Confronti, Lingua, Tradizione. Gli interventi degli studiosi sono stati inseriti, all’interno delle suddette sezioni, senza alcuna distinzione di carattere anagrafico e di ruolo accademico, al fine di tenere insieme le voci più affermate della critica sciasciana con alcuni degli sguardi più recenti e innovativi sull’opera dello scrittore. 33. Colgo l’occasione per polemizzare cordialmente con i curatori di questo bel volume che nell’Introduzione, in modo discutibile, affermano che Sciascia non avrebbe “tuttora a pieno titolo compiuto il suo ingresso nel canone italiano del ‘900” (ivi, p. 8). Ma vien da chiedersi: a cosa servono i canoni? e quale autorità può stabilire chi è dentro e chi fuori? 34. Rinvio, al riguardo, ad un mio saggio, disponibile in rete, pubblicato dieci anni fa su Quaderns d’Italià, n. 16, 2011: Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini.
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35. L. Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazione con Domenico Porzio, Adelphi, Milano 2021, pp. 131-135. 36. Ivi, p. 66. Appare straordinaria la somiglianza di queste parole di Sciascia con quelle del giovane Marx: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo senza cuore, lo spirito di un mondo privo di spirito» (K. Marx, Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, ripresa dal volume La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 92) e con quelle di Gramsci che, nei suoi Quaderni del carcere - dove peraltro si trova una sua diretta traduzione del testo marxiano - dopo aver riconosciuto con Benedetto Croce che, “dopo Cristo, non si può non essere cristiani”, arriva a sostenere che le «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà» hanno cominciato a circolare nel mondo grazie al Cristianesimo (Quaderni del carcere, vol. II, Edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, p. 1488). 37. L. Sciascia, cit., pp. 40-41. 38. Ivi, p. 43. Compreso, naturalmente, il Sindaco di Racalmuto successivamente ucciso in una delle piazze principali del paese. 39. L. Sciascia, Il fuoco nel mare.Racconti dispersi (1947-1975), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi Edizioni, Milano 2010, p. 175. 40. Questa testimonianza si trova nell’intervista rilasciata da Leonardo Sciascia a James Dauphiné nel 1987 e pubblicata nel n. 65, novembre 1991, pp. 37-47, della rivista Linea d’ombra diretta da Goffredo Fofi. 41. Ivi, pp. 114-115. In queste stesse pagine si trova anche un veloce riferimento a Gramsci. Ma qui Sciascia prende un abbaglio affermando che il sardo non ha mai criticato Stalin.
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Parte Quarta Documento acquistato da () il 2023/09/12.
Gramsci, Pasolini e Sciascia oggi
Tutti gli uomini sono filosofi. (A. Gramsci, Q 10, 1932-1933, p. 1342)
La possibilità non è la realtà ma è anch’essa una realtà. (A. Gramsci, Q 10, 1932-1933, p. 1337)
1) Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo. 2) Il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma il materialismo borghese. (P.P. Pasolini, Le belle bandiere, Editori Riuniti, 1991, p. 226)
Ritengo che l’ idea di un marxismo autentico costituisca un’utopia nell’utopia, un sogno, un’illusione. (L. Sciascia, La Sicilia come metafora. Intervista di M. Padovanì, Mondadori, Milano 1979, p. 93)
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IX.
Indifferenza
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Una parola chiave da Antonio Gramsci a papa Francesco
Nel febbraio del 1917, mentre è ancora in corso la prima guerra mondiale, il giovane socialista Antonio Gramsci, allora studente di Lettere all’Università di Torino, scrive un celebre articolo dove, in un suo passo centrale, si afferma: L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […]. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare […], nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? (A. Gramsci, Indifferenti, 1917; ora in Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1960, pp. 78-79).
Chi scrive è rimasto particolarmente colpito dal fatto che, in uno dei suoi primi interventi pubblici, subito dopo la sua imprevista elezione al soglio pontificio, Francesco, il papa argentino di origini italiane, abbia ripreso una parola chiave del pensiero di Antonio Gramsci denunciando la “globalizzazione dell’indifferenza” di fronte ad un problema epocale del nostro 295 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tempo, come quello delle migrazioni, di cui la sua famiglia d’origine aveva fatto diretta esperienza: Oggi nessuno si sente responsabile dei migranti che muoiono in mare. Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna, siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro. E con questo ci sentiamo a posto. […] La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza (Dall’Omelia di Papa Francesco tenuta a Lampedusa nel luglio del 2013).
Naturalmente diversi rimangono il lessico e la visione complessiva del mondo tra Gramsci e il papa argentino. D’altra parte, dal momento in cui in cui vengono scritte le parole del sardo ad oggi, è trascorso più di un secolo segnato da due guerre mondiali, grandi rivoluzioni che hanno tradito le loro originarie promesse e tante dolorose tragedie. È indubbio che il tema dell’indifferenza viene assunto da Francesco con una connotazione diversa rispetto a Gramsci. Eppure, tra i due diversi punti di vista esiste una convergenza che cercheremo di mostrare, anche per mettere in discussione alcuni luoghi comuni duri a morire.
1. La religione nella visione gramsciana del mondo
Il giovane Gramsci è stato fortemente attratto dal pensiero di Benedetto Croce. Anche per questo ha riconosciuto che la religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da 296 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo.
Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica Sotto la Mole dell’edizione torinese dell’Avanti! il 4 marzo 1916.1 Il sardo - che mostra persino di seguire la miriade di fogli e riviste parrocchiali che, pur sfuggendo ad ogni controllo critico, continuano a circolare in tutte le case - è particolarmente colpito dalla capacità della Chiesa cattolica di creare consenso attorno a sé, riuscendo a mantenere costantemente un rapporto tra intellettuali e semplici. Scriverà infatti nei Quaderni: La forza delle religioni e specialmente della Chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa religiosa e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori (Quaderni del carcere, II, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1380-1381).
Ma proprio qui il Gramsci maturo prenderà le distanze da Benedetto Croce, la cui influenza, comunque, ha sempre lealmente riconosciuta: Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta. (Lettere dal carcere, 17 agosto 1931, Einaudi, Torino 1997, p. 764).
Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi 297 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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critica del fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai suoi primi scritti agli ultimi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci vi si riconosce immediatamente e, nel febbraio del 1917, oltre a proporlo nel numero unico La Città Futura, lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i giovani socialisti torinesi nel suo Club di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su L’Ordine nuovo. Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione critica sul filosofo napoletano: Per il Croce la religione è una concezione della realtà, con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, ogni concezione del mondo, in quanto è diventata “fede” […] Il Croce tuttavia è molto cauto nei rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più avanzato è il capitolo IV dei Frammenti di Etica […] Religione e serenità. (Q 10. La filosofia di B. Croce. 1932-1935, in Quaderni del carcere, II, cit., p. 1217).
Segue un’accurata analisi delle differenti posizioni assunte dal Croce e dal Gentile nei confronti della religione cattolica, con una punta polemica rivolta particolarmente a quest’ultimo che aveva introdotto l’insegnamento confessionale della religione nella scuola elementare. La nota si conclude con un significativo riconoscimento di Croce quale “vero riformatore religioso”, soprattutto per aver capito che «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», poiché «la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna». Una straordinaria traduzione del testo crociano si trova nella memorabile lettera che Gramsci scrive nel 1931 alla madre. In essa infatti si trova riassunto, in forma toccante e personalissima, lo stesso punto di vista storicistico del filosofo napoletano: 298 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Se ci pensi bene tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli. (Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965, p. 442).
In una delle più originali pagine dei Quaderni, dedicate alla riflessione intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi” - termine col quale, secondo una certa tradizione italiana, Gramsci designa il pensiero di Marx, che distingue nettamente dall’economicismo e dal materialismo volgare - il Cristianesimo viene presentato come «la più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica - e si tenga presente che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione negativa - le contraddizioni reali della vita storica». Infatti, affermare come fa la religione cristiana che «l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico» ha contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste ultime infatti fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni. (Q 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, in Quaderni del carcere, II., cit., p. 1488).
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2. Gramsci e la tradizione biblica nella teologia della liberazione
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Quest’ultimo pensiero di Gramsci si ritrova, espresso con parole diverse, in molti esponenti della teologia della liberazione sorta e sviluppatasi in America Latina nel corso degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. D’altra parte l’opera di Antonio Gramsci aveva trovato terreno fertile nei paesi latino-americani e i suoi scritti, seppure in modo parziale, circolavano già in quei Paesi. Non può sorprendere, pertanto, che l’opera fondativa di questa corrente teologica, pubblicata da Gustavo Gutiérrez nel 1971, si apra proprio con una citazione dei Quaderni del carcere: Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”, propria di “tutto il mondo”, e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”. (A. Gramsci, Q 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, in Quaderni del carcere, II., cit., p. 1375, citato da G. Gutiérrez, Teologia della liberazione, Editrice Queriniana, Brescia 2012, p. 55, nota 1).
In particolare, il teologo peruviano, tra gli iniziatori di questa corrente teologica, ha contribuito in modo decisivo a diffondere nella Chiesa cattolica latino-americana la cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”. Gustavo Gutiérrez e Leonardo Boff, per superare le resistenze che il loro pensiero incontrava tra i settori più conservatori del mondo cattolico, hanno più volte ribadito che l’uso originale che proponevano di alcune 300 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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categorie marxiste, utili per la comprensione del sottosviluppo e delle disuguaglianze prodotte dal sistema di produzione capitalistico, non comportava automaticamente l’assunzione della filosofia marxista. Una cosa è la critica del neocolonialismo che regna nell’America Latina, frutto della divisione internazionale del lavoro che caratterizza l’odierno neocapitalismo; altra cosa la filosofia marxista - così come viene comunemente intesa e non fu sicuramente interpretata da Antonio Gramsci - come una forma di materialismo e/o di economicismo intriso di ateismo, ovviamente incompatibile con la visione del mondo cristiana. Boff, in specie, è stato particolarmente esplicito al riguardo: Sostenere che la teologia della liberazione abbia come padre Karl Marx è frutto di fantasia e non ha il minimo di fondamento nei testi e nella pratica pastorale dei teologi della liberazione. I testi che le comunità di base leggono sono quelli di Gutiérrez, di Carlos Mesters, di Frei Betto, di Jon Sobrino, di mio fratello Clodovis e miei: questa è la sola teologia della liberazione, l’altra non esiste. D’altra parte non c’è teologia derivata direttamente dal Vangelo, c’è solo quella che le Comunità fanno e che è il prodotto della lettura popolare della Bibbia.2
Ora non c’è alcun dubbio che il Cardinale argentino Bergoglio, ben prima di diventare papa Francesco, avesse fatto propria questa opzione. Non può sorprendere, pertanto, che il nuovo Pontefice, fin dal suo primo incontro con la stampa, abbia svelato il suo sogno di una Chiesa povera e per i poveri. E, in una recente ricerca sul lessico usato da Papa Francesco è stata rilevata la centralità che vi hanno i termini poveri, povertà, lavoro, capitalismo. Ma Francesco si sofferma in modo più organico sul tema delle ingiustizie, prodotte dalla globalizzazione neocapitalistica, nella sua prima esortazione apostolica del novembre 2013. In uno dei passi della Evangelii gaudium, che ha suscitato tante discussioni, si prendono di mira alcuni dei luoghi comuni del pensiero economico dominante contemporaneo: 301 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Alcuni difendono ancora le teorie della “ricaduta favorevole” secondo la quale ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione che non è stata mai confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo gli esclusi continuano ad aspettare.3
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Successivamente, in una intervista al quotidiano catalano La Vanguardia del giugno 2014, Francesco si mostra ancor più radicale: Qualcuno mi ha detto che 75 milioni di giovani europei con meno di 25 anni sono disoccupati. È una enormità. Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno sempre fatto i grandi imperi. Ma, visto che non si può fare la terza guerra mondiale, allora si fanno guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano.4
Di fronte a parole simili, che non si udivano da decenni, non può sorprendere che il settimanale britannico The Economist abbia gridato al lupo, accusando Francesco d’essere addirittura un leninista: dichiarando un collegamento diretto tra capitalismo e guerra, [il Papa] sembra prendere una linea che - consapevolmente o meno - segue quella proposta da Vladimir Lenin nella sua analisi di capitalismo e imperialismo, causa dello scoppio della I guerra mondiale, un secolo fa.5
Com’era prevedibile, le parole pronunciate dal nuovo Pontefice hanno creato disagi crescenti nei settori più conservatori del mondo cattolico che difendono l’antico connubio tra capitalismo e Cristianesimo e persino la funzione storicamente positiva della speculazione finanziaria. 302 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ma i difensori di Francesco hanno avuto buon gioco a ricordare che la critica al sistema di produzione capitalistico non è una novità assoluta nella tradizione cattolica. Fin dall’Ottocento Leone XIII, con la sua enciclica Rerum Novarum, ha criticato il capitalismo. Naturalmente il gesuita Bergoglio non poteva non aggiornare il magistero sociale della Chiesa alla luce della storia più recente dei disastri provocati dalla finanza virtuale alimentata dalle politiche neoliberiste. E nella sua ultima enciclica sociale, Fratelli tutti, lo ha fatto in modo davvero efficace.6 È certo comunque che l’origine argentina di Francesco abbia contribuito a far assumere alle sue parole un carattere e uno stile diverso dal consueto. Bergoglio viene dall’America latina e ne rappresenta perfettamente lo spirito, la cultura, persino il linguaggio, compreso un certo populismo. Non è un caso che esponenti storici della teologia della liberazione, fin dall’inizio del suo Pontificato, l’abbiano accolto con simpatia e favore. Leonard Boff ha sostenuto da subito il Cardinale Bergoglio divenuto Papa con il significativo nome di Francesco. E non è stato certamente casuale l’incontro in Vaticano tra Francesco e l’anziano teologo peruviano Gustavo Gutiérrez che condusse la Chiesa latino-americana a fare propria “l’opzione preferenziale per i poveri”. Del resto era lo stesso Osservatore Romano a far presente, nel settembre del 2013, che «con un Papa latino-americano la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da anni, almeno in Europa». Francesco, in questo primo lustro del suo Pontificato, non si è stancato di ripetere che la Parola di Dio e la Buona Novella di Gesù Cristo non sono proprietà esclusiva della Chiesa Cattolica. Anche per questo si è impegnato a fondo nel rilancio del dialogo interreligioso con le Chiese protestanti, con quella ortodossa e con le comunità islamiche. Di recente Raniero La Valle ha scritto che, così come si è parlato agli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso di “mystère 303 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Roncalli”, alludendo al mistero o carisma del papa che aveva convocato il Concilio, un “segreto” simile porta con sé Bergoglio che va interrogato e svelato. Quello di Francesco appare ogni giorno di più un pontificato profetico. Ma l’opera di Francesco, pur se agli occhi di tanti ha assunto l’aspetto dirompente del ciclone, anche per via del linguaggio nuovo usato, ad una analisi più attenta rivela una profonda continuità con la Tradizione. Non per nulla Francesco ha citato le parole del suo predecessore, Benedetto XVI, il quale ha più volte ricordato come essa non è trasmissione di cose o di parole morte: «La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Francesco, La luce del Vangelo, Mondadori, Milano 2016, p. 196). E non per nulla, proprio in questi ultimi giorni, è stata resa pubblica una lettera del dimissionario Ratzinger, Pontefice emerito, che, pur riconoscendo «le differenze di stile e di temperamento», difende il successore Francesco dalle accuse e dai pregiudizi infondati, riconoscendogli una «profonda formazione teologica». (La Repubblica, 13 marzo 2018, p. 16). Francesco ha respinto nettamente l’opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e “accademisti”, tra quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stanno dalla parte della dottrina. Si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione e la vita; la vita allora non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi Padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio […] furono grandi teologi perché furono grandi pastori. Uno dei principali contributi del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare il divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. (Francesco, Videomessaggio per il Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica argentina, settembre 2015).
Per concludere, questo sommario profilo di problematiche che avrebbero bisogno di ben altro spazio per essere adeguata304 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mente trattate e comprese, vorrei accennare ad un tema che fin dai suoi primi passi è stato al centro del pontificato di Francesco: l’attenzione costante verso i poveri e gli ultimi. Nel luglio del 2015, nel corso di un incontro con alcuni rappresentanti della società civile del Paraguay, Francesco, nel ribadire il dovere primario che ha la Chiesa di accogliere il grido dei poveri, ha precisato: Non serve uno sguardo ideologico che finisce per utilizzare i poveri al servizio di altri interessi politici o personali. Le ideologie finiscono male, non servono. […] Le ideologie non si fanno carico del popolo. Per questo, osservate nel secolo passato, che fine hanno fatto le ideologie? Sono diventate dittature, sempre. Pensano per il popolo, non lasciano pensare il popolo. (Francesco, La luce del Vangelo, op. cit.: 176).
La tragica storia del ‘900 sembra dare ragione a Bergoglio. Occorre però riconoscere che gli stessi Marx e Gramsci hanno sempre diffidato di tutte le “ideologie” e si sono sempre ben guardati dal presentare i loro studi in forma ideologica. Basti ricordare che il giovane Marx, nel 1845, scrisse un ampio saggio contro i principali esponenti della “ideologia tedesca” del suo tempo (cfr. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, Editori Riuniti, Roma 1975). E in quest’opera, come nell’altra scritta due anni dopo e intitolata significativamente Miseria della filosofia, Marx ha parole molto dure contro il sapere ideologico arrivando a definire ogni forma di ideologia una forma di «falsa coscienza». La sistemazione ideologica del pensiero critico e aperto di Karl Marx è iniziata negli ultimi anni di vita del pensatore tedesco che, non a caso, di fronte alle falsificazioni del suo pensiero, ebbe più volte a ripetere di non essere un “marxista”: «Moi, je ne suis pas marxiste!» Né tanto meno può essere addebitato al barbuto ebreo tedesco il successivo ingabbiamento del suo pensiero nel cosiddetto 305 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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«marxismo-leninismo» di marca sovietica dopo l’iniziale successo della Rivoluzione del 1917. Da parte sua, Antonio Gramsci, pur senza aver avuto il tempo di conoscere direttamente la terribile piega stalinista presa da quella stessa rivoluzione che da giovane socialista aveva salutato con tanto entusiasmo, intuì genialmente la deriva a cui era destinata. Così nel chiuso del carcere fascista, nei suoi Quaderni, attraverso la sua serrata critica de La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia (1921) del sovietico Nikolaj I. Bucharin, prende nettamente le distanze dall’interpretazione economicistica e deterministica del pensiero di Marx e afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» (nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico»).7
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Note
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1. Da questo stesso articolo giovanile di Gramsci prende le mosse Franco Lo Piparo, Per Gramsci la religione è necessaria, «L’Osservatore Romano», 26 aprile 2017. E, anche se risulta convincente gran parte dell’articolo del filosofo bagherese che con i suoi studi ha pur dato un contributo notevole ad una più attenta lettura dell’opera gramsciana, non ci convince la conclusione che insiste sulla sua ossessiva ricerca dell’inesistente “spirito liberal-democratico” che, secondo la sua immaginazione, anima tutti i Quaderni del pensatore sardo. 2. Leonardo Boff, Teologia della liberazione ed ecologia: una lotta comune per la sinfonia del creato. Intervista, in Adista, a. XXX (1996), n. 44, p. 4. Vedi pure Rosario Giuè, Chiesa e liberazione. Linee essenziali di teologia della liberazione, Tau Editrice, Todi 2013, pp. 28-31. 3. Brano dell’intervista di Papa Francesco citato da Francesco Peloso, Francesco e la rivoluzione dell’economia giusta, in JESUS. Inchieste e dibattiti sull’attualità religiosa» [San Paolo Editore, Alba], n. 3, marzo 2015, p. 32. 4. Ivi, p. 30. 5. Ibidem. 6. Chi volesse conoscere la mia interpretazione dell’enciclica sociale di Francesco Fratelli tutti, può leggere on line l’articolo pubblicato nel gennaio 2021 sulla rivista Dialoghi Mediterranei, accessibile gratuitamente a tutti: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-rerum-novarum-del-nostro-tempo-considerazioni-in-margine-allultima-enciclica-di-papa-francesco/ 7. Q. 10, La filosofia di B. Croce, in Quaderni del carcere, II, cit., p. 1263.
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X.
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La sensibilità religiosa di Pasolini
Pasolini non è stato soltanto il poeta e l’intellettuale trasgressivo noto, più meno, a tutti. Pasolini è stato anche uno degli uomini del ‘900 più attento e sensibile nei confronti del sacro e della dimensione religiosa della vita. Eppure pochi, tra i tanti che hanno scritto su Pasolini, ne hanno parlato. In occasione del 100° anniversario della nascita del poeta, tra i mille articoli pubblicati su giornali e riviste soltanto Enzo Bianchi1 se ne è occupato ricordando, soprattutto, la lunga gestazione del suo Vangelo secondo Matteo (1964).2 Ma Pasolini, già molti anni prima del suo film, aveva mostrato la sua attenzione nei confronti della problematica religiosa. Basti ricordare qui due sue raccolte di poesie, scritte negli anni cinquanta: L’usignolo della Chiesa Cattolica (Longanesi, 1958) e La religione del mio tempo (Garzanti, 1961). Pasolini è stato sempre attento e sensibile nei confronti del sacro. Ma con la realizzazione del suo film sulla figura di Gesù Cristo, anche grazie alle polemiche che ne seguirono, ha avuto modo di chiarire il suo pensiero al riguardo Il Vangelo secondo Matteo, dedicato alla memoria di Giovanni XXIII, uscì nel 1964. Ma, nonostante l’immediato apprezza309 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mento della critica, inizialmente venne accolto con freddezza e diffidenza dai settori più retrivi del mondo cattolico e comunista. Il regista, infatti, fu costretto a dare spiegazioni anche sul settimanale Vie nuove: Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco cattolico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’amore (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddizione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta.3
Papa Giovanni XXIII, insieme a Kennedy e Krusciov, nei primi anni ‘60 costituivano la principale fonte di speranza di un mondo nuovo; e Pasolini condivise con milioni di uomini questa speranza. E in una deliziosa pagina, scritta sul periodico comunista Vie Nuove nell’ottobre del 1964, il poeta non mancherà di notare, tra le altre cose, l’influenza dell’amata filologia nella formazione del “papa buono”: Non c’è nulla di più follemente aberrante del razzismo. Ora, da parte dei comunisti verso i preti, e da parte dei preti verso i comunisti, c’è una specie di atteggiamento razzistico: essi, volendolo o no, cedono a una specie di tentazione discriminatoria, che svaluta l’interezza umana e storia dell’altro, lo destituisce di realtà, lo dissocia. […] Come comunista anch’io non sono immune da questa malattia inconscia, e l’anticlericalismo serpeggia come un verme dentro di me, a succhiare il sangue dell’altro fino a renderlo ombra, simbolo, schema di un insieme di cose che mi sembrano ingiuste, di un mondo che rifiuto. […] Papa Giovanni era incapace di discriminare, di vedere nell’uomo l’altro, il nemico per 310 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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definizione […]. Questo voleva significare il suo sorriso […]. Ho saputo in questi giorni che, quando era a Istanbul, egli frequentava le lezioni di filologia e di critica stilistica di Auerbach; e questo mi spiega molte cose, non solo il suo particolare modo di fare “lo spirito” (che è tipico della persona raffinatamente specializzata), ma del “distacco” luminoso che egli aveva dalle cose della vita, dello sguardo globale che egli gettava sul mondo, al di là delle sue folli discriminazioni.4
L’articolo si conclude con due affermazioni che diventeranno pietre angolari nella storia del dialogo tra marxisti e cristiani in Italia: 1. “Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo”; 2. “Il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma il materialismo borghese”.5 Pasolini, infatti, è stato uno dei più convinti sostenitori del dialogo tra i due diversi mondi culturali. Sul merito rimando al testo di una sua conferenza sul tema, tenuta a Brescia nel dicembre del 1964 dove, tra l’altro, afferma: “Nel fondo del pensiero di Marx c’è un profondo spiritualismo”.6 In effetti risulta che Pier Paolo sia stato assai prossimo alla conversione. Lo confermano, tra l’altro, gli scambi epistolari che ebbe con alcuni volontari della Pro Civitate christiana di Assisi e, in particolare, con Don Giovanni Rossi, al quale il 27 dicembre 1964 scrisse una lettera di cui vogliamo ricordare alcuni passi: Caro Don Giovanni, La ringrazio tanto per le sue parole della notte di Natale: sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui. Io non ho nulla da darle per ricompensarla: non ci si può sdebitare di un dono che per sua natura non chiede d’essere ricambiato. […] Ho detto delle parole aspre contro una data Chiesa e un dato Papa: ma quanti credenti, ora, non sono d’accordo con me? […] Sono “bloccato”, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. […] Forse perché io sono caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella… 311 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nonostante l’esplicito rifiuto del cattolicesimo, la figura di Cristo rimarrà sempre un punto di riferimento per Pasolini; in alcuni momenti, insieme a Gramsci, il principale modello esistenziale e ideologico, l’origine culturale indubbia di quel rifiuto della frattura tra ideologia e vita, come mostrano molti suoi versi: Bisogna esporsi (questo insegna il povero Cristo inchiodato?), [...] noi staremo offerti sulla croce, alla gogna, tra le pupille limpide di gioia feroce, [...] miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco, per testimoniare lo scandalo.
In particolare il binomio scandalo-follia - tratto dalla Prima Lettera ai Corinzi, 1-23: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i Gentili” - ricorre frequentemente nelle sue pagine, applicata alle proprie o altrui esperienze come criterio di misura della validità autentica di gesti, parole, fatti artistici che si pongono spesso come “scandalo e follia”, rispetto al sistema socio-politico e ai codici linguistici dominanti.
Note 1. BIANCHI Enzo, Il Vangelo secondo Pasolini, in La Repubblica, 14 marzo 2022. 2. Per una analisi aggiornata della genesi del capolavoro di Pasolini rinvio a: VITTORELLI Paolo, Il vangelo secondo Matteo. Pasolini e il sacro, in http:// riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/06-03-INT09/82; FANTUZZI Virgilio, Pasolini e la religione del suo tempo, in La Civiltà Cattolica, Q. n. 4121, Anno 2022, pp. 432-438. 3. PASOLINI Pier Paolo, Le belle bandiere, Editori Riuniti, pp. 222-224. 4. Ivi, pp. 225-226. 5. Ivi, p. 226. 6. PASOLINI Pier Paolo, Saggi sulla politica e la società, a cura di W. Siti e S. de Laude, Mondadori, pp. 786-824. 312 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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XI. L’eresia di Sciascia
Ripropongo una parte del colloquio, svoltosi nella primavera del 1979 tra Leonardo Sciascia e una scolaresca di Santo Stefano di Quisquina (AG), che anticipa molti dei temi ripresi dallo scrittore nella famosa intervista rilasciata a Marcelle Padovani lo stesso anno, pubblicata da Mondadori con il titolo La Sicilia come metafora. Marcello Cimino registrò l’incontro e pubblicò il documento sul giornale L’Ora il 9 maggio 1979, con una breve presentazione che saltiamo, e con il titolo Elogio dell’eresia. In questo importante documento si trova la celebre affermazione: «L’eresia è di per sé una grande cosa, e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare di essere eretici, se no è finita. Voi avete visto che non è stata soltanto la Chiesa cattolica ad avere paura delle eresie. È stato anche il Partito Comunista dell’Urss ad avere paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico».
Elogio dell’eresia1 Prima di cominciare questo gioco di domande e risposte voglio dirvi che sono nato in linea d’aria a pochi chilometri da qui, eppure questa è una zona che non conosco. Ci sono passato solo una volta, tornando da Cianciana, dove ero andato a parlare di Alessio Di Giovanni. Bivona, per esempio, è per me un nome che mi ricorda i rapporti di Sant’Ignazio con il collegio dei gesuiti e le lettere che egli scrisse a una nobildonna di qui, riportate in un libro intitolato Sant’Ignazio e le donne. Bivona poi mi 313 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ricorda l’esistenza di una sott’intendenza, della sottoprefettura. E basta. Considerando che sono nato a pochi chilometri di qui, colpisce questo isolamento che c’è fra un comune e l’altro della stessa provincia. Inoltre questa è una zona in un certo senso letterariamente deserta. Un nostro professore abbastanza razzista, direi, ritiene che si possa fare una mappa dell’intelligenza sicula, e che questa zona ne sia deserta. Non è assolutamente vero. Io credo che qui ci siano delle condizioni che non hanno permesso all’intelligenza di svilupparsi, di fiorire. Effettivamente c’è un deserto. La sola cosa dopo Alessio Di Giovanni (poeta e dialettologo, nato a Cianciana nel 1873) che sia stata scritta su questa realtà, è quel bellissimo libro, veramente straordinario [Terra di rapina], di Giuliana Saladino, che spero tutti voi conosciate. Ecco, non ho altro da dire. Domandate ora quello che volete, molto liberamente, non considerando che fra noi ci sia distanza di anni, come invece purtroppo c’è. Questi ragazzi che accedono a questa scuola sono un po’ perplessi: parlare di missione dell’educazione? È retorica o è vana poesia? Parliamone come di un lavoro, è meglio. Lei ha scritto:“Mi disgustano coloro che da fuori esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro (di insegnante). Qui e in molti luoghi della Sicilia è come il lavoro di un minatore che scende in una miniera. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla dal mestiere di insegnare”. Quali potrebbero essere questi altri luoghi e condizioni? Questo brano ha una notazione personale perché riguarda un momento particolare della mia vita. Da noi, in questa nostra realtà, la cultura non è concepita come un fatto unitario, cioè come lavoro, come una cosa di cui tutti abbisogniamo, di cui ci serviamo, che serve per capire il mondo, per spiegarcelo, per capire la storia, la nostra situazione di fronte alla storia. La cultura è sempre stata concepita come un ornamento, come qualcosa 314 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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che non ha niente a che fare con le condizioni di vita. Per me, quindi, entrare in una classe dove c’erano quaranta bambini, fra i quali almeno trenta avevano fame, e dover spiegare loro la storia, limitandomi però alla prima guerra mondiale, senza andare avanti perché si doveva parlare del passato solo in termini retorici, questo per me non solo era assurdo, ma anche un poco infame. Oggi le condizioni della scuola sono molto diverse. Si può dire che la scuola non esiste più, in un certo senso. È vero che qui, da voi, a Santo Stefano, avete un liceo a indirizzo linguistico e pedagogico. E l’agricoltura? È una cosa assurda che qui non esista un liceo con indirizzo agricolo. La scuola è un po’ come ai tempi miei, tutto sommato. È un piccolo ornamento. Allora diventa un po’ assurdo che voi stiate qui ad ascoltare l’insegnante che vi parla di linguistica, quando intorno a voi avete tanti problemi reali. Il mestiere di insegnare e anche il mestiere di apprendere in queste condizioni continua a essere assurdo. Pensa che la scuola conservi ancora l’esclusività della formazione dei giovani? No, e credo che non l’abbia mai avuta, tutto sommato. E oggi meno che mai. In una scuola di massa, non ha più senso la vecchia maniera di considerare la letteratura come materia privilegiata. Quale indirizzo, secondo lei, dovrà seguire la letteratura per essere più utile? La letteratura non ha nessun indirizzo da seguire. La letteratura soffia dove vuole. Non ci può essere un modo per incanalarla, di farla andare verso determinati risultati. L’esercizio della letteratura deve essere necessariamente libero. Il problema della letteratura è piuttosto il modo come nella scuola questa letteratura dovrà entrare. La nostra è una letteratura un po’ povera, anche una letteratura un po’ noiosa, quindi bisogna offrire una prospettiva che sia la più consona agli interessi - diciamo - della massa, anche se a me il termine massa non piace molto. La scuola di massa in Italia è un po’ così: tutti sul palcoscenico; 315 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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la scuola di massa, invece, secondo me, dovrebbe dare a tutti in partenza le stesse condizioni favorevoli, e poi vadano avanti coloro che credono nella meritocrazia. Non sono un reazionario, ma credo che non si possa accedere alle professioni senza conoscenza. Magari un professore di lettere fa poco danno se confonde Petrarca con Boccaccio, ma le case si devono costruire, i ponti si devono fare, i malati bisogna assisterli, gli imputati bisogna difenderli, e ci vuole conoscenza, e chi non ce l’ha non deve esercitare una determinata professione. Nell’introduzione al libro Le parrocchie di Regalpetra, lei fa quest’amara considerazione: “Chissà quando la meridiana della matrice segnerà l’ora di oggi, quella che per tanti uomini nel mondo è l’ora giusta”. Non crede che quest’ora sia già scoccata? Anche oggi partecipiamo al benessere. Nelle nostre case sono entrate televisioni, radio, frigoriferi, gli elettrodomestici che rendono la vita più facile. Ma lei ritiene un’ora giusta questa per la Sicilia? Che il progresso materiale, che il cosiddetto benessere abbia raggiunto anche noi, su questo non c’è dubbio. Però non corrisponde a un’effettiva crescita del Meridione, anzi corrisponde una ulteriore degradazione. Questo benessere, automobili ed elettrodomestici, in Sicilia sono pagati da almeno 700 mila emigranti i quali vivono in condizioni ben peggiori di quanto non vivano le loro famiglie qui. No, io non credo che sia ancora l’ora giusta, anzi quello che accade in campo nazionale ritengo metta davanti a un aggravamento di quella che è stata definita la questione meridionale. Nel libro Gli zii di Sicilia si legge: “…Io credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono”. Non crede che questo sia il segno della rassegnazione e della sconfitta nostra? Non bisognerebbe piuttosto manifestare questa sofferenza e il dolore dell’ingiustizia per affermare i valori di una società più umana? C’è un tipo di siciliano molto estroverso, molto simpatico, 316 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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molto avvocatesco, per così dire. Generalmente questo tipo di siciliano che parla troppo, è poi quello che accede, senza distinzione di partiti, alla carriera politica e quindi al parlamentarismo. Spesso sono i siciliani peggiori. Sì, certo, gli altri siciliani bisognerebbe che uscissero fuori dal loro silenzio, che però su un piano umano di giudizio, io dico che sono i migliori. Si parla dello Sciascia de Il Contesto come di uno scrittore che incarna nel suo pensiero l’angoscia dell’uomo offeso da tempo nella sua libertà e dignità. Lei si riconosce in questo giudizio? Sì, potrei riconoscermi in questo giudizio. Si parla di me come autore del Contesto perché questo è il libro che ha suscitato più polemiche, più risentimenti. Ma Il Contesto è il risultato di tutta una visione delle cose italiane. Recentemente ha scritto sul Giornale di Sicilia e ha detto in un’intervista televisiva che la refrattarietà del popolo siciliano alle idee che cambiano il mondo e la carenza di spirito pubblico costituiscono il male peggiore della realtà siciliana. Potrebbe spiegarci le motivazioni storiche di questi difetti e dirci in che modo la scuola potrebbe contribuire al loro superamento? Le radici storiche di questo sono abbastanza lunghe e molto ramificate. Comunque si possono identificare nella perpetua insicurezza del siciliano di fronte alla storia, in quest’isola che è stata al tempo stesso isola eppure aperta come continente alle invasioni, a tutte le dominazioni. Comunque, in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. È una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quel317 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lo degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo - è un giudizio per cui io mi batto da sempre - è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee. Che fra Diego La Mattina sia stato in eretico, non c’è dubbio. Lei può darci ulteriori chiarimenti riguardo alla sua eresia? Ha scoperto qualcosa di nuovo? Chiarimenti che possano farci capire perché fra Diego sia rimasto fermo nel suo tenace concetto tenendo alta la dignità dell’uomo? No, non ho altre notizie, oltre a quelle trovate allora su frate Diego La Mattina. Ho tentato delle deduzioni. Ho pensato che fosse un’eresia di carattere sociale più che teologico, ma non sono andato oltre. Comunque l’eresia è di per sé una grande cosa, e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare di essere eretici, se no è finita. Voi avete visto che non è stata soltanto la Chiesa cattolica ad avere paura delle eresie. È stato anche il Partito Comunista dell’Urss ad avere paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico. Vorrei sapere che analogia c’è tra lei, scrittore contemporaneo, e i suoi personaggi storici, come il Di Blasi, o il fra Diego La Mattina, da lei attentamente cercati. Le analogie forse ci sono, ma per me è più facile parlare della simpatia, che io ho sempre avuto, per questi personaggi eretici, 318 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ribelli, sconfitti. In un certo senso è la loro sconfitta quella che mi ha arrovellato. Perché vorrei non essere sconfitto anch’io. Cioè non vorrei che la Sicilia fosse sempre sconfitta, che nella Sicilia la ragione debba essere sempre soccombere. Da ciò la mia simpatia per questi personaggi. Ma ho avuto simpatia anche per un personaggio che un tempo si sarebbe detto negativo, l’abate Vella che era un falsario, un imbroglione. A parte la simpatia umana che si può avere per lui, lo riconosco come uno che a suo modo ha pensato di ribellarsi contro il privilegio. Ha fatto dei falsi per rivendicare alla Sicilia i suoi diritti contro il potere baronale. Ecco, la mia simpatia viene da questo, dal fatto che è stato uno strumento di lotta contro il potere baronale. Tutti i guai della Sicilia - lo ripeto - prendono inizio dal potere baronale che si è poi trasmesso a quella classe che io chiamo borghese-mafiosa. Vorremmo sapere in quale libro e in quale personaggio lei è stato il più autobiografico. “Candido”. Che cosa è cambiato nella mafia siciliana dagli anni ’50 a oggi? La mafia da fenomeno rurale è diventata fenomeno cittadino e parapolitico; si è trattato di una specie di integrazione nel potere. La mafia non è più apparentemente riconoscibile come un tempo. Personaggi pittoreschi sono stati eliminati, e in questo ha avuto la sua funzione la Commissione Antimafia, appunto eliminando le frange pittoresche della mafia e portandola un po’ più dentro il potere. Lei con il suoi libri ha scritto tanto di fatti e personaggi siciliani. Quale contributo potrebbe dare al rinnovamento della cultura, e quindi della società civile, la riscoperta delle culture locali? Credo che la riscoperta delle culture locali sia un’operazione da fare seriamente. Purtroppo nelle nostre Università è entrato, per esempio, lo strutturalismo, una cosa che funziona pressap319 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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poco come l’affettatrice della mortadella, e allora le culture locali si perdono di vista. Tutto quello che si è conservato si deve a quei poveri galantuomini che senza registratori, senza questi mezzi di oggi, hanno raccolto una messe ingentissima di tradizioni, di usi, di letteratura popolare. Parlo di Pitré, di Salomone Marino, di Gaetano Di Giovanni. Ora nell’Università si vive di rendita su quello che hanno fatto costoro. Se invece si lavorasse seriamente, questo è il momento della riscoperta delle culture locali. In un certo senso io mi sento uno che riscopre le culture locali. Tanta cultura si proclama popolare ma l’intellettuale appartiene ancora a una casta, il che lo pone al di fuori e al di sopra della gente comune. No? Ciò dipende dal carattere della cultura italiana. Per cominciare, dal fatto che c’è un diaframma tra la lingua di ogni giorno e la lingua di uno scrittore. C’è anche il costume dell’intellettuale che è sempre un po’ cortigiano, un po’ conformista, che è quasi sempre col potere. Senza dubbio c’è anche questo, però è pure vero che per esempio il diaframma tra la lingua di tutti i giorni e quella degli scrittori è stato superato, è stato rotto da uno scrittore come Pirandello. Non da Verga, il quale forse questo diagramma l’ha un po’ alimentato. Ma scrittori come Pirandello, cui seguono scrittori come Moravia, credo abbiano rotto questo diaframma. Penso anche che lo scrittore italiano sia un po’ mutato. Certo, c’è ancora il vizio dei manifesti, delle dichiarazioni, come se lo scrittore effettivamente contasse, mentre invece non conta un granché. Io personalmente credo di aver tentato di scrivere per più persone possibile. Non dico che l’abbia fatto volontariamente, perché è un’ipocrisia dire che lo scrittore scrive per essere inteso dal contadino e dall’operaio. Lo scrittore scrive per se stesso, e per gli altri se stessi. In me c’è quest’essere popolo, questo essere della vita di ogni giorno, a contatto con la realtà, e in questo senso credo di essere uno scrittore un po’ diverso dalla media italiana, e, come me, altri. 320 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nelle Parrocchie di Regalpetra ho letto che per lei la pietà è un terribile sentimento. Un uomo deve amare e odiare, mai avere pietà. Questa affermazione non sovverte le basi su cui si basa tanta morale? Alla fine del fascismo io ho avuto un certo movimento di pietà, di cui però negli anni successivi mi sono pentito, perché ho visto il fascismo tornare, essere più forte, come forse ancora è. E allora ho fatto questa ritrattazione riguardo alla pietà. Ora debbo dire schiettamente che in questo momento mi sento pieno di pietà.
Nota 1. Documento ripreso dal quotidiano L’ora, 9 maggio 1979. 321 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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XII. Pasolini e Sciascia Due eretici a confronto
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“Sciascia non ha mai smesso di essere attuale”. (Pier Paolo Pasolini, 24 gennaio 1975, in Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, p. 458) “Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare”. (Leonardo Sciascia, Nero su nero, Einaudi 1979, pp. 175-176).
Con un titolo simile, qualche mese fa, sono stati pubblicati gli Atti del Convegno svoltosi nel novembre del 2019, nella sede del Centro Studi P.P. Pasolini di Casarsa della Delizia, dedicato all’analisi dei rapporti tra il poeta corsaro e Leonardo Sciascia.1 Nel riservarmi di fare una puntuale recensione di questo libro, che raccoglie contributi di diverso valore, in un’altra occasione, oggi voglio dire la mia sulla controversa questione riprendendo un discorso avviato sommariamente dieci anni fa in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Università di Barcelona, Quaderns d’Italià.2 Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Leonardo Sciascia (19211989) sono stati due tra i maggiori scrittori italiani del ‘900 che hanno apertamente rotto la tradizione curiale e cortigiana della storia letteraria nazionale. Si addice ad entrambi la celebre espressione paolina, tanto cara a Pasolini, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili».3 Entrambi, ben conoscendo la potenza delle parole, le hanno saputo usare per denunciare 323 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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menzogne e imposture nella loro indefessa ricerca della verità e dell’intelligenza delle cose. Pasolini avrebbe sicuramente sottoscritto quanto un giorno, dopo la sua scomparsa, scrisse Leonardo Sciascia: L’eresia è di per sé una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. È stato anche il Partito Comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere eretico.4
«Esercitare […] un esame critico dei fatti»5, per dirla con Pasolini, è stato sempre un loro comune impegno, essendo per loro questo il primo dovere di ogni autentico intellettuale. I due autori, malgrado il loro diverso stile di vita e di scrittura, si sono ritrovati, quasi sempre, sulla stessa lunghezza d’onda e hanno più volte collaborato nei loro impegni letterari e civili. I due scrittori, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, hanno avuto una fitta corrispondenza tra loro, hanno seguito con reciproca simpatia i loro primi lavori e collaborato alla messa a punto di tanti loro progetti. Anche se il loro rapporto si è indebolito successivamente, su fronti diversi, hanno combattuto entrambi contro ogni forma di ipocrisia e di prepotenza. Sono stati sempre ostili ad ogni potere costituito e insofferenti verso ogni forma di inquisizione. Hanno amato entrambi contraddire e contraddirsi al punto che molti critici hanno individuato proprio nella contraddizione uno dei loro tratti distintivi.6
1. Storia di un’amicizia È stato soprattutto il loro comune interesse ed amore per la cultura popolare e i dialetti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni, a farli incontrare nei primi anni 50 del secolo scorso. 324 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È stato Mario dell’Arco a propiziare l’incontro tra Pasolini e Sciascia, essendo amico e collaboratore di entrambi.7 Pasolini e Sciascia si sono subito riconosciuti e stimati. Infatti è proprio Pasolini a recensire il primo libretto dello scrittore siciliano, Favole della dittatura, pubblicato, a spese dell’autore, nel 1950 dall’editore romano Bardi.8 Pasolini coglie immediatamente il valore di questa prima opera dello scrittore siciliano: Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confine il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza.9
Sciascia mostrerà gratitudine all’autore di questa recensione per tutta la durata della sua vita. L’altro elemento che colpisce, in questo esordio di Sciascia, è una citazione, posta ad epigrafe dello stesso libretto, che tocca un tema di fondo di tutta la sua opera: Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile? (L. Longanesi)
Si sente in queste parole l’eco dell’idea manzoniana, tanto cara a Sciascia, secondo la quale soltanto la letteratura può colmare i vuoti di ogni storiografia. Insieme all’amicizia comincia così la collaborazione tra i due scrittori. Sciascia fornisce alcuni consigli per la ricerca, avviata nello stesso periodo da Pasolini e dell’Arco, sulla poesia e la cultura popolare italiana che sfocerà nella pubblicazione della famosa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma 1952. Consigli e suggerimenti che dell’Arco e Pasolini ricambiano nel corso della preparazione dell’antologia sciasciana, Il fiore della poesia 325 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco) che viene pubblicata dall’editore nisseno Salvatore Sciascia nello stesso 1952, con una Premessa dello scrittore bolognese.10 Due anni dopo Leonardo Sciascia cura la pubblicazione, in un Quaderno collegato alla rivista Galleria, da lui diretta, di alcuni versi inediti in lingua italiana di Pasolini, intitolate Dal diario (1945-47). Lo stesso Sciascia, nell’introduzione alla ristampa del libretto avvenuta nel 1979, ricorda come la sua iniziativa fosse collegata all’idea di invitare altri amici di Pasolini - Roberto Roversi, Angelo Romanò e Alfonso Leonetti - a collaborare con la sua rivista. Risultano oggi particolarmente significative le parole con cui Sciascia chiude la sua Introduzione: Nel gennaio del ‘54, dovendo preparare una nuova terna di poeti, Pasolini mi scriveva: “Quanto al poeta su cui mi chiedi consiglio, per me non ci sono dubbi: Leonetti”. Si prefigurava così, nei primi “quaderni di Galleria”, il gruppo da cui doveva venir fuori la rivista Officina: la sola, a conti fatti, che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano post 18 aprile 1948. Questo libretto ha dunque una storia […]. Me ne ero quasi scordato, come forse se ne era scordato Pasolini. Rileggendo ora le sue lettere, e dopo aver riletto queste sue poesie, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?11
Quindi, come si evince chiaramente da questo importante documento, Leonardo Sciascia, oltre ad essere stato amico di Pier Paolo Pasolini, è stato anche uno dei suoi primi editor quando Pasolini era ancora poco conosciuto. Stefano Vilardo, l’amico del cuore di Sciascia, un giorno mi ha raccontato di aver visto piangere Sciascia solo una volta in tutta la sua vita, ed esattamente il giorno in cui appresero la notizia della morte di Pasolini. La cosa non può sorprendere visto che lo stesso Sciascia, in una pagina del suo diario Nero 326 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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su Nero (1979), nel cercare di spiegare a se stesso le ragioni per cui, dopo l’entusiasmo dei loro primi incontri e la promettente reciproca collaborazione degli anni Cinquanta, i loro rapporti si fossero allentati, scrive: Io mi sentivo sempre un suo amico; e credo anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto - come dire? - razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero - e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. […] La sua morte - quali che siano i motivi per cui è stato ucciso [...] - io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del Mondo, una lettera a Italo Calvino.12
D’altra parte i due, sia pure a distanza, hanno continuato ad occuparsi di problemi e temi simili anche negli anni Sessanta, scrivendo persino sugli stessi giornali e periodici. Basti qui ricordare, per tutti, la stretta collaborazione di Pasolini con il settimanale comunista Vie Nuove e quella di Sciascia con il giornale L’Ora.
2. L’influenza di Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia Pasolini e Sciascia hanno la stessa idea di cultura di Antonio Gramsci. Per quanto tanti critici continuino ad ignorarlo e tanti ex comunisti abbiano dissipato la grande eredità gramsciana, il pensatore sardo è stato uno dei principali punti di riferimento di entrambi. Se ci si attiene ai testi, senza sollecitarli13, ciò risulta inoppugnabile. 327 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È stato lo stesso Pasolini a dichiarare più volte: «Le idee di Gramsci coincidevano con le mie, mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me».14 Pasolini afferma di aver letto Gramsci, per la prima volta, nel biennio 1948-1949, anni in cui cominciano a vedere la luce, seppure in modo incompleto, i suoi scritti.15 Ma l’assimilazione critica del pensiero gramsciano è successiva al periodo indicato. Ciò è dimostrato, tra l’altro, da un testo inedito del marzo 194916, che affronta il tema classico dei rapporti tra cultura e politica, senza alcun riferimento al lessico e alla filosofia gramsciana, e da una lettera a Carlo Betocchi dell’ottobre 1954, dove l’Autore svela con candore le proprie incertezze ideologiche.17 È probabile che, in un primo momento, Pasolini sia rimasto colpito dalla statura morale dell’uomo imprigionato dal regime fascista, «tanto più libero - come scriverà - quanto più segregato dal mondo, fuori del mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero».18 E colpisce la somiglianza che hanno queste parole con quelle scritte, negli stessi anni, da Leonardo Sciascia: Bisogna tener conto che egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene, accanto a Benedetto Croce, l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia del fascismo.19
L’immagine di un Gramsci leopardiano torna in un passaggio centrale dell’intervista rilasciata ad Arbasino nel 1963, dove si afferma: «L’unico antenato spirituale che conta è Marx e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci».20 Solo a partire dai primi anni ‘60 è possibile trovare, negli scritti di Pasolini, tracce significative del pensiero gramsciano. Soprattutto se si considera l’aspetto più problematico di esso, ch’egli è stato tra i primi a cogliere. Occorre, infatti, tenere costantemente presente che 328 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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il Gramsci di Pasolini non è il Gramsci ufficiale del PCI, ma il Gramsci studioso del linguaggio e del senso comune che riesce a vedere, anche nelle più elementari espressioni del linguaggio umano, una particolare visione del mondo.21 Da questo punto di vista, l’intera rubrica che curerà, dal 1960 al 1965, sul settimanale comunista Vie Nuove, diretto da Maria Antonietta Macciocchi, ha un’inconfondibile impronta gramsciana. Non è un caso che, in questo periodico popolare, intrattenendo uno straordinario dialogo con lettori spesso incolti, a proposito di questioni linguistiche, elogi il filologo Isaia Graziadio Ascoli e, una volta asserito che «Gramsci non è mai normativo», citi a memoria un passo dei Quaderni: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi».22 Quello praticato da Pasolini in Vie Nuove è un esempio di giornalismo rivoluzionario, assai vicino al modello gramsciano.23 Forse, persino superiore allo stile corsaro degli anni ‘70 che rimane legato al modello tradizionale dell’intellettuale vate o profeta, dei cui limiti Pasolini mostra di essere ben consapevole fin dal 1962. Infatti, ad un lettore che gli chiede se ritiene possibile che un grande scrittore, denunciando le ingiustizie, possa mettere in crisi la società, replica: No, non credo possibile che l’opera di uno solo, per quanto grande, possa porre in crisi uno stato di cose. […]. La democrazia ha abituato, bene o male, alla discussione e alla partecipazione: lo scrittore-oracolo non è concepibile in tempi di produzione in serie. È una figura del passato (se mai ce ne sono stati): tipica di una civiltà agricolo-artigianale. Ma anche ammesso che ci fosse uno scrittore di tale levatura […] da poter mettere in crisi una società, egli verrebbe inesorabilmente sconfitto, oggi, dalla potenza industriale, dalle catene dei giornali e dei mezzi di diffusione conservatori e reazionari.24
Un critico severo ed esigente, come Franco Fortini, ha giu329 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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stamente individuato proprio nelle pagine di Vie Nuove il Pasolini migliore.25 Lo stesso Pasolini, nel dicembre 1962, poco prima di partire per quel viaggio in Africa che lascerà un segno indelebile nella sua vita26, nel congedarsi dai lettori della sua rubrica, la definirà «uno dei punti fermi di questi ultimi anni: addirittura, in certi momenti neri, un’ancora di salvezza».27 Rileggendo queste pagine - scritte, peraltro, in una delle fasi più convulse e creative dell’autore che aveva trovato nel cinema una nuova via per esprimersi - colpisce la straordinaria capacità di ascolto insieme alla volontà di capire e di essere capito. Nei dialoghi coi lettori Pasolini parlerà di tutto; ma due costanti, fra loro congiunte, predomineranno: la riflessione sui rapporti tra comunismo e cristianesimo e l’analisi dei rapporti tra le diverse forme del linguaggio umano e le cose. Va precisato, comunque, che il Pasolini di quegli anni è talmente lontano dalla vulgata marxista-leninista, allora in voga, da essere considerato eretico, non solo dai lettori più sprovveduti, ma persino dagli intellettuali marxisti più aperti.28 A tutti replica, con grande mitezza ed efficacia, lasciandoci pagine esemplari. Così, a chi gli chiede di rompere con il proprio passato piccolo-borghese, risponde: La sua è una richiesta mistica. Lei pensa l’ideologia come un’ascesi. Questi ‘distacchi’ dal proprio io, dal proprio passato (che è poi la storia), sono tipici delle conversioni ‘nevrotiche’ che hanno caratterizzato tante santità. I marxisti non sono dei santi: sono degli uomini. La loro vita, la loro opera, la loro lotta si svolge nella storia: e la storia è una mescolanza inscindibile di passato, presente e futuro.29
Lo stesso concetto verrà ripreso più concisamente nell’articolo del 3 maggio 1962 intitolato Cultura contro nevrosi: Essere marxisti, oggi, in un paese borghese, significa essere ancora in parte borghesi. Finché i marxisti non si renderanno conto di questo, non potranno mai essere del tutto sinceri con se stessi. La loro infanzia, la loro formazione, le loro condizioni di vita, il loro 330 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rapporti con la società, sono ancora oggettivamente borghesi. La loro ‘esistenza’ è borghese, anche se la loro coscienza è marxista.30
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Pasolini è sempre più convinto che il marxismo non va chiuso in un sistema fisso e dogmatico, altrimenti diventa la copia capovolta del dogmatismo clericale. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, la replica a Lucio Lombardo Radice che, nel luglio 1962, gli attribuisce le sommarie equazioni Cristo = Marx e DC = fascismo: Io non scrivo solo questa rubrica “parlata”, del resto… Mi integri con gli altri miei scritti, e non mi faccia dire quello che non voglio dire! Non ho mai inteso inglobare Gesù in Marx! […]. Ho sostenuto poi, anche, che nulla di ciò che è stato sperimentato storicamente dall’uomo, può andare perduto: e che quindi non possono andare perdute neanche le parole di Cristo. Esse sono in noi, nostra storia. E io sono ancora (e ancora ingenuamente) convinto che per un borghese una buona lettura del Vangelo è sempre un fertilizzante per una buona prassi marxista. Quanto alla “DC come nuovo fascismo”, io ho solo citato il mio corrispondente con una certa simpatizzante ironia. Non volevo dire che la DC è, alla lettera, un nuovo fascismo. Le faccio notare, ad ogni modo, che la borghesia italiana che ha espresso il fascismo è la stessa che esprime la DC: la sfido a elencare sostanziali differenze nel campo della scuola, della magistratura, della polizia, della pubblica amministrazione, dei rapporti con la potenza clericale del Vaticano. E la sfido a dimostrarmi anche le ragioni vere, culturali nel senso gramsciano della parola, per cui la DC può essere definita, come lei fa, un “grande partito cattolico”. Quale cultura ha mai espresso?31
Sul valore rivoluzionario del Cristianesimo Pasolini tornerà più volte, soprattutto, nel 1964, dopo l’uscita del suo Il Vangelo secondo Matteo, dedicato alla memoria di Papa Giovanni XXIII. Il film, nonostante i riconoscimenti della critica, verrà accolto con freddezza e diffidenza dai settori più retrivi del mondo cattolico e comunista. E il poeta sarà costretto a dare spiegazioni anche su Vie nuove: 331 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco cattolico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’amore (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddizione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta.32
Papa Giovanni, insieme a Kennedy e Kruscev, costituirà nei primi anni ‘60 la principale fonte di speranza di un mondo nuovo; e Pasolini condividerà con milioni di uomini questa speranza. In una deliziosa pagina, scritta sullo stesso periodico nell’ottobre del 1964, il poeta non manca di notare, tra le altre cose, l’influenza dell’amata filologia nella formazione del “papa buono”: Non c’è nulla di più follemente aberrante del razzismo. Ora, da parte dei comunisti verso i preti, e da parte dei preti verso i comunisti, c’è una specie di atteggiamento razzistico: essi, volendolo o no, cedono a una specie di tentazione discriminatoria, che svaluta l’interezza umana e storia dell’altro, lo destituisce di realtà, lo dissocia. […] Come comunista anch’io non sono immune da questa malattia inconscia, e l’anticlericalismo serpeggia come un verme dentro di me, a succhiare il sangue dell’altro fino a renderlo ombra, simbolo, schema di un insieme di cose che mi sembrano ingiuste, di un mondo che rifiuto […]. Papa Giovanni era incapace di discriminare, di vedere nell’uomo l’altro, il nemico per definizione […]. Questo voleva significare il suo sorriso […]. Ho saputo in questi giorni che quando era a Istanbul, egli frequentava le lezioni di filologia e di critica stilistica di Auerbach; e questo mi spiega molte cose, non solo il suo particolare modo di fare “lo spirito” (che è tipico della persona raffinatamente specializzata), ma del “distacco” luminoso che egli aveva dalle cose della vita, dello sguardo globale che egli gettava sul mondo, al di là delle sue folli discriminazioni.33 332 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’articolo si conclude con due affermazioni che diventeranno pietre angolari nella storia del dialogo tra marxisti e cristiani in Italia: 1. «Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo»; 2. «Il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma il materialismo borghese».34 Pasolini è rimasto talmente colpito dalla lettura del Vangelo da trarne spunto, oltre che per uno dei suoi film più belli, per una Preghiera su commissione, raccolta in Trasumanar e organizzar, dove riprende il discorso evangelico sulle beatitudini: Caro Dio, liberaci dal pensiero del domani. […] l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani […] Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi.35
La figura del Cristo rimarrà sempre un punto di riferimento per Pasolini; in alcuni momenti persino il principale modello, accanto a Gramsci, della necessaria unità tra teoria e prassi. In particolare il binomio scandalo-follia - tratto dalla paolina lettera ai Corinti, 1-23: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i Gentili» - ricorre frequentemente nelle sue pagine, applicata alle proprie o altrui esperienze come criterio di misura della validità autentica di gesti, parole, fatti artistici che si pongono spesso come “scandalo e follia”, rispetto al sistema socio-politico e ai codici linguistici dominanti. Su questo ultimo punto, tuttavia, dato che finora è stata sempre evidenziata la fondamentale presenza di Gramsci nella vita e nell’opera di Pasolini, occorre precisare che il poeta friulano è andato certamente oltre il pensatore sardo. Altrettanto grande è stata l’influenza di Gramsci nell’opera di Leonardo Sciascia. Lo ha riconosciuto apertamente uno dei maggiori critici dello scrittore siciliano, Massimo Onofri, 333 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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che, oltre a rilevare l’impronta gramsciana nei primi studi pirandelliani di Sciascia, non ha avuto dubbi nell’ammettere che tutti i saggi degli anni Sessanta, raccolti nel volume La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (Einaudi 1970), rientrano perfettamente nell’orizzonte gramsciano-lukacsiano. Ma è stato soprattutto un giovane studioso palermitano, Bernardo Puleio, a ricordare, in una sua documentata monografia sullo scrittore di Racalmuto (I sentieri di Sciascia, Kalos, Palermo 2003), la decisiva influenza di Gramsci nell’“intricato e labirintico” processo di formazione di Sciascia. Il Puleio dimostra che la stessa visione della letteratura come “buona azione” è di origine gramsciana e che questa influenza - pur riconosciuta da altri critici, limitatamente agli anni Cinquanta e parte dei Sessanta - persiste, sia pure con qualche contraddizione, anche negli anni successivi. Ciò è dimostrato da uno dei testi più autobiografici di Sciascia, il Candido. Ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977), scritto all’indomani della sua rottura col PCI. Ne trascriviamo di seguito per intero il passo su cui si sofferma il critico, anche per mostrare come gli stessi testi, talvolta, si prestino ad essere letti in maniera diversa. D’altra parte, nell’opera di Sciascia, la verità scaturisce sempre dal dialogo e dal confronto dialettico delle diverse posizioni, la verità non è mai espressa da un unico personaggio: Candido dunque leggeva Marx. Aveva letto prima Gramsci, poi Lenin; ora leggeva Marx. Su Marx si annoiava ma si ostinava. I libri di Gramsci li aveva invece letti con grande interesse e anche con la commozione che gli veniva dall’immaginare quel piccolo uomo gracile e malato che divorava libri e annotava riflessioni: e così aveva vinto il carcere e il Fascismo che ve lo teneva. Gli pareva proprio di vederlo, di vedere la cella, il tavolo, il quaderno, la mano che scriveva, e di sentire il lieve raschio del pennino sulla carta. Ne aveva parlato spesso con don Antonio […]; ma don Antonio non amava molto Gramsci, vedeva nelle pagine dei Quaderni serpeggiare un errore, un’incrinatura. I cattolici italiani: e dove li aveva visti Gramsci? La domenica alla messa di mezzo334 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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giorno: poiché non altrimenti esistevano. Erano una debolezza, e Gramsci aveva cominciato a farne una forza […]. Ma a Candido pareva che su questo argomento don Antonio non avesse sufficiente serenità. Del suo essere stato prete restava in lui troppa delusione, troppo risentimento; e che un po’ troppo, quindi, quel che era stato agisse su quel che voleva essere.36
Appare, infine, significativo che l’ultima polemica giornalistica di Sciascia, pochi mesi prima di morire, avvenga proprio nel nome di Gramsci. L’occasione è data dalla pubblicazione del libro di Luciano Canfora, Togliatti e i dilemmi della politica, pubblicato da Laterza qualche settimana prima della recensione che lo scrittore siciliano ne fa il 17 marzo 1989.37 Nel libro Canfora sostiene la necessità di tenere costantemente presente il contesto storico in cui il Migliore fu costretto a muoversi per comprenderlo bene: così, a suo dire, comportamenti che presi per sè e trasferiti in un regime di normalità, non sarebbero che indifendibili prevaricazioni o meglio veri e propri crimini; se si svolgono all’interno di eventi di “epocale rilievo” quali la Rivoluzione francese o la Rivoluzione d’ottobre, quelle “prevaricazioni” e quei “crimini” cessano di essere tali ed assumono diversa natura. Questo poté leggere Sciascia alle pp. 6-7 del libro di Canfora: e ce ne sarebbe già abbastanza per comprenderne l’intervento, dato che si trattava di temi sui quali la sua sensibilità era diventata particolarmente acuta. Sciascia nella recensione, invece di prendere di petto l’interlocutore, lo affronta lateralmente spostando l’attenzione su un testo riportato nel libro in appendice: si tratta della “strana lettera” - così la definirà lo stesso Gramsci - che quest’ultimo ricevette in carcere nel 1928. La lettera del 10.2.28 porta la firma di Ruggero Grieco e risulta spedita da Mosca. Il documento, ritenuto autentico dal sardo e ulteriore prova del sospetto d’essere stato abbandonato dal Partito, secondo Canfora è un falso costruito ad arte dalla polizia fascista. Sciascia non ritiene fondata l’ipotesi di Canfora e, sapendo che la stessa filologia può essere usata come uno strumento di mistificazione, vede nell’operazio335 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ne l’ultimo tentativo di falsificare la storia del PCI. Per questa via Sciascia arriva a cogliere un’affinità tra il caso Gramsci e il caso Moro: ambedue abbandonati se non addirittura traditi dai propri partiti.38 Bisogna però riconoscere che Sciascia, in tutta la sua opera, si mostra meno ideologo di Pasolini. Lo scrittore siciliano non perde tempo a discutere dei massimi sistemi e non è mai stato attratto dalla storia delle idee. Egli ha sempre preferito prestare attenzione alle cose concrete, alle piccole storie e alla stessa cronaca. Da questo punto di vista Sciascia è stato, oltre che eretico, ancor più empirista sia di Pasolini che di Gramsci. Secondo me, il suo maggiore debito nei confronti del pensatore sardo va ricercato nel suo empirico storicismo che lo condurrà a respingere qualsiasi forma di idealismo e di naturalismo. Basti qui ricordare il suo metodo di approccio al fenomeno mafioso, che deriva tutto dallo storicismo gramsciano: «Non è partendo dalla razza che si può gettare luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa.39 Non meno gramsciana risulta la sua radicale critica a Giovanni Gentile che affronta di petto discutendo Il tramonto della cultura siciliana: Dello scritto di Gentile diamo un giudizio simile a quello che Lukàcs dà del libro di Croce su Hegel: dove, sembra dire il Lukàcs, ciò che il Croce in Hegel trova di morto è appunto ciò che è vivo, e morto è ciò che trova di vivo. Così il tramonto della cultura siciliana è per noi un’alba [corsivo mio]: la cultura siciliana perde quei caratteri di naturale isolamento e volontario secessionismo, entra nel circuito nazionale ed europeo senza per questo alienarsi dalle sue profonde e particolari ragioni; ed è anzi nazionale ed europea in forza di quegli “strati infimi” che secondo Gentile ‘non hanno grande importanza storica’. Gli ‘strati infimi’, ai quali non sappiamo se il Gentile si riferisce in quanto ‘oggetti’ o ‘soggetti’ di cultura, sono la forza e il limite della narrativa siciliana: e si può anzi dire che ne sono la forza in quanto ‘soggetti’ (Verga, Pirandello: dove i personaggi sono soggetti che esprimono una visione del mondo, una cultura) e il limite in quanto ‘oggetti’ (Capuana, 336 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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appunto): cioè nella misura in cui il verismo si fa realismo, lo studio rappresentazione, la poetica poesia.40
Appare evidente qui la personale assimilazione, da parte di Sciascia, della critica gramsciana al pensiero gentiliano e la sua particolare attenzione alle sorti degli “strati infimi” della società che, nel linguaggio dello scrittore di Racalmuto, diventano «i carusi delle zolfare, i picconieri, i braccianti delle campagne».41 Sciascia è stato sempre legato, anche per ragioni di sangue oltre che di classe, a quelle che chiamava classi subalterne. La cosa appare particolarmente evidente in opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956) e in Occhio di capra (1984). Ma occorre anche riconoscere che questa sua costante attenzione non si trasforma mai in lui in una bandiera ideologica. Insomma Sciascia, a differenza di Gramsci e di Pasolini, ha guardato alla storia del mondo con maggiore disincanto e, consapevole delle dure repliche della Storia, non ha mai creduto nella rivoluzione comunista. E sta qui, secondo me, la principale differenza di Sciascia rispetto a Gramsci e Pasolini.
Note 1. AA. VV., Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, a cura di Filippo La Porta, Marsilio Editori, Venezia 2021. 2. F. Virga, Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, Quaderns d’Italià, n. 16, 2011, pp. 175-196. 3. P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, p. 443. 4. L. Sciascia, Elogio dell’eresia, L’Ora 9 maggio 1979. 5. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 31 6. Fin troppa nota l’affermazione di Sciascia che avrebbe voluto che sulla sua tomba venissero scolpite queste parole: “Contraddì e si contraddisse”. Per quanto riguarda Pasolini, invece, tra i tanti critici che hanno evidenziato la «contraddizione costitutiva» della sua opera, si segnala il saggio di Vitto337 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rio Spinazzola, La modernità letteraria, Il Saggiatore, Milano 2001, ripreso da Roberto Carnero in Morire per le idee, Bompiani, Milano 2010, p. 9. 7. Uno dei primi accurati studi sul ruolo giocato da Mario dell’Arco in quegli anni si deve a Franco Onorati, La stagione romanesca di Leonardo Sciascia. Fra Pasolini e dell’Arco, Edizioni La Vita Felice, Milano 2003. 8. Paolo Squillacioti, nell’appendice critica con cui conclude il primo volume della nuova edizione delle Opere di Sciascia, fornisce una ricca e dettagliata informazione sul suo libro d’esordio (L. Sciascia, Opere. Narrativa – Teatro – Poesia, Adelphi, Milano 2012, pp. 1703-1715)
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9. P. P. Pasolini, Dittatura in fiabe in La libertà d’Italia, 9 marzo 1950. Ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo I, Meridiani, Mondadori, Milano 1999, p. 339. 10. Leonardo Sciascia, Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, dell’Arco), Premessa di Pier Paolo Pasolini, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1952. 11. P.P. Pasolini, Dal diario (1945-47), Introduzione di Leonardo Sciascia, Salvatore Sciascia editore, 1979, p. 8. 12. L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 175-176 13. Espressione di Antonio Gramsci, che tanto contribuì alla formazione di Pasolini. Sarebbe tradire entrambi dimenticarsi del giudizio severo espresso dal sardo contro la diffusa tendenza a: «“sollecitare i testi”, cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità di quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?” Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, II, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 838. 14. J. Halliday (a cura di), Pasolini su Pasolini, Guanda, Parma 1992, pp. 3738, ora in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani, Mondadori 1999, p. 1295. D’ora in poi questo libro sarà citato con l’abbreviazione SPS. Com’è noto, l’opera di Antonio Gramsci (1891-1937) ha avuto la sua prima parziale pubblicazione, presso Einaudi, con la supervisione di Palmiro Togliatti, soltanto a partire dal 1947, con la prima edizione delle Lettere dal carcere. Seguiranno i volumi tratti dai Quaderni del carcere, tematicamente raccolti, nel seguente ordine: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto 338 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Croce (1948), Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949), Il Risorgimento (1949), Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1949), Letteratura e vita nazionale (1950), Passato e presente (1951). In più volumi saranno poi raccolti gli scritti giornalistici del periodo pre-carcerario. L’edizione critica dei Quaderni, a cura di Valentino Gerratana, verrà pubblicata sempre da Einaudi solo nel 1975. 15. Il testo, preparato per il Congresso provinciale del PCI di Pordenone, sarà pubblicato, per la prima volta, il 4 novembre 1977 su Rinascita. Ora, insieme ad altri inediti, si trova raccolto in SPS, pp. 81-84. 17. P. P. Pasolini, Vita attraverso le lettere (a cura di G. Naldini), Einaudi, Torino 1994, pp. 163-165. Documento acquistato da () il 2023/09/12.
18. P. P. Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 487. 19] L. Sciascia, Opere (1984-1989), III, Bompiani, Milano 1991, p. 1028. 20. A. Arbasino, Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano 1971. Ora in SPS, p. 1573. In questa stessa intervista Pasolini, dopo aver ricordato anche i debiti contratti con Longhi e Contini, assicura di non aver dimenticato nessuno di loro, «perché la mia caratteristica principe è la fedeltà». Non manca però di dare una stoccata a quanti «hanno fatto di tutto per rendere intollerabile l’uso dei padri». Cfr. ivi, pp. 1573-1574. 21. Tullio De Mauro nella Prefazione a P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1991 (I ed. 1977), p. 8, ha giustamente osservato che il PCI «non ha mai saputo attuare la lezione di Gramsci». Colgo l’occasione per ricordare che il giovane Pasolini, quando nel 1949 viene espulso per indegnità morale dal PCI, scriverà: «Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola». L’intera triste vicenda, che lascerà un segno indelebile nel cuore di Pasolini, è ben ricostruita da Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978, pp. 140-144. 22. Pasolini, proprio per il suo tipico “empirismo eretico”, non ha mai seguito con ortodossia alcuna scuola di pensiero. Per questo, fin dagli anni ‘60, riesce a conciliare Gramsci e Contini, e il suo marxismo eterodosso con la psicoanalisi e lo strutturalismo. E, non a caso Contini, ai suoi occhi apparirà fino all’ultimo, «il solo critico italiano i cui problemi siano stati i problemi letterari di Gramsci […] scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili». Cfr. P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, p. 443. 23. Sono frequenti nel lessico pasoliniano di quegli anni espressioni simili 339 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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a quelle gramsciane. Così, ad es., il brano seguente: «So quanto l’operazione giornalistica sia falsa: prende, della realtà, brani isolati, appariscenti […]. Non pensa il giornalista borghese, nemmeno per un istante, a servire la verità» (Le belle bandiere, cit., p. 53), riecheggia in modo impressionante un passo dell’epistolario gramsciano: «Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli» (Lettera del 12 ottobre 1931, ora in A. Gramsci – T. Schucht, Lettere 1926-1935, Einaudi, Torino 1997, pp. 833-834). 24. P. P. Pasolini, Il cinema e la poesia, Vie Nuove, 6 dicembre 1962, ora in Le belle bandiere, cit., pp. 209-210. 25. F. Fortini, Pasolini e le ultime illusioni (1977), ora in Attraverso Pasolini, Torino: Einaudi, 1993. Quanto Pasolini tenesse in conto il giudizio di Fortini è stato recentemente evidenziato da Enzo Golino, Tra lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Sellerio, Palermo 1995, pp. 91-113. 26. È stato giustamente osservato che l’Africa, negli anni ‘60, prende il posto del Friuli nell’immaginario pasoliniano: «Dal Friuli alle borgate romane, al meridione d’Italia, all’Africa, all’India si susseguono in Pasolini le tappe di un’interrotta ricerca di nuove incarnazioni del mito di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati». G. Santato, L’abisso tra corpo e storia. Pasolini fra mito, storia e dopostoria, Studi pasoliniani, 1, 2007. 27. P. P. Pasolini, Le belle bandiere, cit., pp. 210-211. 28. Intervenendo nel dibattito in corso su Vie Nuove, sul tema dei rapporti tra marxismo e cristianesimo, un intellettuale non codino come Lucio Lombardo Radice accuserà Pasolini di eresia e dilettantismo. Cfr. ivi, pp. 179183. Critiche analoghe riceverà, negli anni successivi, da Asor Rosa, Salinari, Sanguineti, Calvino ed altri. Questi ed altri critici verranno più tardi bollati dal poeta come «nuovi chierici». 29. P. P. Pasolini, Mistica e storia, Vie Nuove, 27 maggio 1961, ora in Le belle bandiere, cit., p. 102. 30. Ivi, p. 171. 31. Ivi, pp. 181-183; e cfr. anche pp. 76-78 e 136-140. 32. Ivi, pp. 222-224. 340 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
33. Ivi, pp. 225-226. 34. Ivi, p. 226. Pasolini è stato senz’altro uno dei più convinti sostenitori del dialogo tra cristiani e marxisti. In merito, particolarmente interessante appare il testo della conferenza Marxismo e cristianesimo tenuta nel dicembre del 1964 a Brescia, ora in SPS, pp. 786-824. In uno dei passi centrali di questa conferenza Pasolini afferma: «Nel fondo dell’azione di Marx c’è un profondo spiritualismo» (ivi, p. 801). 35. P. P. Pasolini, Trasumanar e organizzar (1971), Garzanti, Milano 1976, pp. 44-45, corsivo nel testo.
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36. L. Sciascia, Candido, cit. da Puleio in op. cit., p. 129. 37. L. Sciascia, Gramsci e quella strana lettera da Mosca, in La Stampa, 17 marzo 1989. 38. B. Puleio, cit., pp. 133-134. 39. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1961, p. 167. 40. Ivi, p. 45. 41. L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Opere, I, a cura di C. Ambroise, cit., pp. 112-113.
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Nota conclusiva
So di aver sorpreso tanti cercando i punti d’incontro tra Gramsci, Pasolini e Sciascia, tre grandi protagonisti del secolo scorso apparentemente distanti tra loro. Gramsci, prima ancora di essere un uomo impegnato politicamente, è stato un grande storico, un filosofo e un critico letterario. È stato proprio Gramsci ad insegnarmi che «la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico» è quella di «trovare le somiglianze anche dove esse pare che non esistano […] e le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze».1 Questo libro non è nato in un giorno, non è un instant book, ci sono anni di lavoro dietro. Così, mentre cercavo i punti di contatto tra questi tre grandi autori non ho mai dimenticato le loro differenze. Per comprendere bene Gramsci, Pasolini e Sciascia bisogna, innanzitutto, liberarli dai luoghi comuni e dai pregiudizi che ancora oggi circolano sul loro conto. Tanti hanno scritto e parlato di questi tre protagonisti della scena culturale e politica del nostro Novecento, ma pochi, dal mio punto di vista, l’hanno fatto correttamente. È troppo generico individuare nello spirito critico ed eretico il fil rouge che li accomuna. Il libro prova a smontare tanti luoghi comuni e a dimostrare in maniera documentata che il principale punto d’incontro fra i tre autori va ricercato nella loro comune critica di ogni forma dogmatica di sapere ideologico inteso, per dirla con le stesse parole di Gramsci, «nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico».2 343 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Pasolini ha concepito l’attività critica come una verifica continua, «un continuo adattamento del periscopio all’orizzonte dei fenomeni» (Passione e ideologia, Garzanti 1960, pp. 486487) e la sua interpretazione del marxismo è simile a quella di Gramsci dal momento che lo considera un metodo e uno strumento per comprendere i fatti storicamente determinati e non un sistema fisso e dogmatico in cui fare entrare forzatamente le cose. Tra il 1962 e il 1965 è uno dei protagonisti del dialogo con i cattolici democratici; partecipa ai Convegni organizzati dalla Pro Civitate Christiana ad Assisi, dove concepisce il suo Vangelo secondo Matteo. E, nello stesso anno in cui esce questo suo capolavoro, sul settimanale comunista Vie Nuove scrive: «Io credo che il nuovo marxismo […] non debba conoscere alcuna rigidezza, ma al contrario debba essere quella scienza storica che è, e che quindi abbia come sua caratteristica principale la formulazione continua di ipotesi, la ricerca continua di spiegazioni […]. È preferibile il rischio di un pensiero disordinato e critico che il rischio di un pensiero attratto da un qualsiasi ipse dixit».3 Pasolini, con la sua grande apertura mentale, è riuscito a cogliere in anticipo i segni dei tempi e a comprendere le ragioni della crisi del marxismo dogmatico sovietico ben prima della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin. E, fino agli ultimi giorni della sua breve vita, sosterrà la necessità di rimanere fedeli allo spirito gramsciano riconoscendo la necessità di «rileggere Marx e Lenin ma non come si rilegge il Vangelo», senza mai stancarsi di «guardare in faccia la realtà così com’è.4 Una puntualizzazione, ora, riguardo al celebre poemetto Le ceneri di Gramsci pubblicato nel 1957 ma concepito almeno tre anni prima. Nel libro non mi soffermo ad analizzarlo di proposito, perché in quest’opera, piuttosto che il fedele ritratto del pensatore sardo che Pasolini in quegli anni non aveva ancora ben compreso ed assimilato, si trova la confessione poetica dei dubbi, delle incertezze e delle contraddizioni del poeta bolognese. 344 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Pasolini-Sciascia. L’amicizia tra i due inizia nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Ne parlerà lo stesso scrittore siciliano all’indomani dell’assassinio dell’amico affermando di aver «sentito e pensato le stesse cose».5 Anche Leonardo Sciascia deve tanto a Gramsci. Molti hanno dimenticato che il Pirandello sciasciano è tutto fondato sulle cronache teatrali del giovane Gramsci, pubblicate per la prima volta in Italia nel 1950, in appendice al volume Letteratura e vita nazionale della prima edizione tematica dei Quaderni voluta da Togliatti. Quanto Sciascia scriverà nei primi anni Cinquanta su Pirandello6 è dichiaratamente preso da quel Gramsci. Non meno gramsciane sono le critiche di Sciascia al nostro Risorgimento e al modo retorico e accademico di scrivere la storia d’Italia. La sua lunga collaborazione, come pubblicista, sulla stampa comunista (vedi soprattutto i suoi articoli e corsivi sul giornale L’Ora) ha una inconfondibile impronta gramsciana persino nello stile graffiante della sua scrittura. È anche vero, comunque, che nei suoi ultimi anni di vita, dopo la rottura con l’amico Renato Guttuso e con il PCI (definito “chiesa rossa”), lo scrittore siciliano, nel fuoco della sua polemica contro il compromesso storico di Berlinguer, finisce talvolta per coinvolgere persino Gramsci. Ma – come ricordato nell’Introduzione – c’è un altro punto d’incontro fondamentale tra Gramsci, Pasolini e Sciascia ignorato da tanti critici: la denuncia e la severa critica del ruolo servile e subalterno mostrato dagli intellettuali italiani, nel corso della storia, nei confronti delle classi dominanti. Gramsci, Pasolini e Sciascia, malgrado gli scacchi subiti nel corso della loro vita, tutto sommato hanno avuto fortuna e lasciato un segno indelebile nel secolo scorso. Oggi però sono meno amati di ieri e le loro opere, giudicate datate dalla cultura dominante, rischiano davvero – mi spiace ribadirlo ancora una volta in chiusura – di cadere nell’oblio in un mondo dove il pensare in modo critico e indipendente sembra sorpassato, 345 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
vezzo fuori luogo, ai tanti opinionisti finto pop e pseudo-anticonformisti che popolano i salotti social e dei talk shows.
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Note 1. 2. 3. 4. 5.
Q, pp. 33-34 e 914. Q, p. 1263. Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 311-312. Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, pp. 37 e 46. Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, pp. 175-176.
6. Si veda il suo Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1961.
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Appendici
Note critiche
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Nota critica di Claudia Calabrese
Ci serve questo libro? Certo! Ci serve, soprattutto oggi. Il fatto stesso che siamo qui a parlarne indica che il nostro auspicio profondo, come per Francesco Virga, sia proprio di non dissipare le eredità di Gramsci, Pasolini e Sciascia, tre autori che sono stati per Virga oggetto di studio serio e appassionato sin dagli anni Settanta. Ma la mia impressione è che per Virga non siano stati soltanto un oggetto di studio: da studioso preparato, appassionato e militante, qual è – non a caso ha lavorato con Danilo Dolci a Partinico, ha insegnato nelle scuole medie, creato il Centro Studi e Iniziative di Marineo che anima tutt’oggi - ha lasciato che questi autori svolgessero una funzione pedagogica prima di tutto per se stesso e ora, con questo libro, per noi lettori. Per noi queste eredità sono importanti, da non dissipare e da affrontare con spirito pedagogico. Ha fatto bene Virga a mettere insieme Gramsci, Pasolini e Sciascia, la sua intuizione ci invita a cercare un filo rosso che leghi i tre autori e anche i saggi confluiti nel volume e scritti in momenti diversi. Giustamente Virga dice che i tre sono accomunati dal loro atteggiamento critico nei confronti del proprio tempo. E per me è la passione che li ha portati a essere critici nei confronti delle classi dirigenti e verso gli intellettuali pavidi che non esercitavano lo spirito critico perché volevano sedersi al desco di chi governava. Loro no, ecco un altro tratto comune. Gramsci è stato in carcere, Pasolini ha subito 33 processi e Sciascia è stato molto criticato dai suoi stessi lettori quando ha cominciato a parlare, per esempio, di professionismo dell’antimafia perché diceva che con la militanza dell’antimafia, se si tralasciava il pensiero critico, non si faceva altro che confermare l’esistenza della mafia. Tutti e tre questi autori si sono mossi con grande passione politica e pedagogica che li ha condotti a una critica costante alle classi dirigenti. Tutti e tre. 349 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ma se Sciascia e Pasolini sono scrittori e hanno un’indiscutibile fiducia nell’azione letteraria e nella sua capacità di influire sulla vita e sul potere, diverso è il caso di Gramsci che non può essere considerato uno scrittore nel senso stretto del termine ed è stato invece un dirigente rivoluzionario e un pensatore comunista − uno dei maggiori del ’900 − che ha fatto della scrittura uno strumento per resistere con tutte le forze della sua intelligenza e della sua volontà. Di fili rossi ce ne sono insomma, ma non dobbiamo cadere nella tentazione di escluderne le contraddizioni: Pasolini per esempio è critico nei confronti della DC ma anche del PCI che nasce con Gramsci nel 1921, come dichiara apertamente nelle Ceneri di Gramsci. La sua posizione è contraddittoria: d’accordo con Gramsci nella luce, ma non nelle viscere, quelle viscere che per lui sono una prigione. Virga ne scrive laddove si riferisce al mio libro, ma il tema del rapporto fra Pasolini e Gramsci come emerge dalle Ceneri e anche dal Pianto della scavatrice e poi dall’epigramma Alla bandiera rossa merita d’essere approfondito. Negli anni Sessanta e Settanta la realtà si va destrutturando e gli ideali sostenuti dalla bandiera rossa si sgretolano fino al punto che il simbolo perde qualunque significato. Insomma, Pasolini ha in mente Gramsci ma anche l’evoluzione del PCI che considera lievito per il futuro pur essendo pessimista. Silvano Bussotti che mette in musica La bandiera rossa coglie questo fenomeno e lo trasferisce alla scrittura musicale. Riguardo al rapporto tra Pasolini e Sciascia c’è accordo rispetto alla critica alle classi dirigenti della DC. Come ben sottolinea Virga, il pensiero di Sciascia, autore di Todo Modo e poi dell’Affaire Moro, è legato fraternamente a quello di Pasolini. Le lucciole, Il Palazzo, il Processo sono luoghi della Storia presenti sia in Sciascia sia, nello stesso periodo, in Pasolini. Cambia solo la forma: per Sciascia il romanzo, per Pasolini gli articoli di giornale. Basti leggere le Lettere luterane e ciò che scrive nello stesso periodo Sciascia in Todo modo. Insomma, come scriveva Rilke, entrambi avevano la sensibilità di sentire il futuro prima che accadesse. Come Pasolini aveva intravisto le conseguenze del potere dei consumi sull’uomo, Sciascia a suo modo è profetico per esempio nei confronti della vicenda Moro. Aveva visto giusto Sciascia: l’uccisione di Moro da parte delle Brigate 350 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Rosse era stata favorita da una parte della classe dirigente della DC che era arrivata a un punto tale che tutti si odiavano e Moro fa da capro espiatorio. Anche Pasolini mette sotto la lente di ingrandimento le manchevolezze della classe dirigente della DC. Ma dice anche di più: la DC aveva agevolato la rivoluzione antropologica. Insomma, per concludere, se vogliamo che queste eredità non vengano dissipate dobbiamo situarle nel loro tempo e cercare di comprenderne anche i limiti per raccoglierne il senso, il fuoco non le ceneri. C’è una citazione di Mahler che mi piace ricordare: “La memoria è la custodia del fuoco e non l’adorazione della cenere”. Il senso di queste parole vale anche per qualsiasi processo critico. Dobbiamo comprendere Sciascia, Pasolini e Gramsci nel loro tempo perché siano fonte di ispirazione per il nostro tempo. Altro che eredità dissipate! Il tuo libro, caro Franco, è uno strumento prezioso nelle mani di chi attualizza proprio per non dissipare.
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Nota critica di Salvatore Costantino
Un libro su tre giganti del Novecento - Gramsci, Pasolini e Sciascia - su tre geniali interpreti delle contraddizioni e delle patologie di quello che Eric Hobsbawm ha definito il “Secolo breve”, ma che in realtà è diventato “un secolo lungo” che continua a gettare ombre cupe nel mondo in cui viviamo, può sembrare un atto di “presunzione”. FrancescoVirga, a proposito del bel libro di Claudia Calabrese su Pasolini e la musica, parla di “coraggio”. E di coraggio, di lotta all’indifferenza, di scelte coraggiose nella politica, nella società, nella cultura c’è bisogno, oggi più che mai, nella “società dell’inconsistenza” di cui parla Roberto Calasso. Nel caso di Eredità dissipate bisogna riconoscere che il suo coraggio è, per così dire, “temperato” da un rigore analitico che, come nel caso di Gramsci, si è sviluppato nell’arco di decenni. A proposito dell’antico spirito di ricerca e degli “astratti furori” sessantotteschi mi piace ricordare anche le mie, antiche ricerche gramsciane. All’indomani della pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni del carcere, giovane collaboratore della cattedra di Sociologia tenuta da Giacinto Lentini, organizzai un seminario, al quale partecipò anche Francesco, che successivamente si fece promotore di una iniziativa gramsciana presso il Centro Studi di Danilo Dolci. Alla fine degli anni Settanta questo spirito di ricerca trovò nuovi impulsi con la pubblicazione nel 1979 di Lingua Intellettuali Egemonia in Gramsci di Franco Lo Piparo. Come Istituto Gramsci siciliano organizzammo la presentazione del libro con Tullio De Mauro che nella Prefazione sottolineava l’assunto del libro nel fatto che “gli studi linguistici non solo hanno accompagnato Gramsci nella formazione del suo pensiero di teorico della politica, della società, della cultura, ma hanno avuto una parte decisiva in tale pensiero”. 353 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Non è facile parlare in modo sommario del libro di Francesco Virga che affronta simultaneamente la complessità del pensiero di Gramsci, di Pasolini e di Sciascia. Virga pone al centro della trattazione quello che a me pare il nucleo centrale che accomuna Gramsci, Pasolini e Sciascia, e cioè l’analisi del potere nei suoi molteplici aspetti e ramificazioni, l’analisi di quella fitta rete di legami che circonda e informa di sé l’intera società. Michel Foucault parlava anche di una diffusa Microfisica del potere che “non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere”. Anche di questo modello di potere sono impregnate le opere di Gramsci, Pasolini e Sciascia. Con “esasperante meticolosità” – come dice Lombino – Virga mette in evidenza l’approfondita e documentata critica delle classi dominanti che si trova, in forme diverse, nelle opere dei tre autori. L’analisi del potere delle classi dominanti si intreccia con quella della società, della politica, della cultura, con l’individuazione delle contraddizioni e delle patologie della modernità. Il metodo seguito da Virga sembra quello di Gramsci che parlava di “un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica”. Leggendo e rileggendo questi tre autori è sorprendente constatare non solo la loro capacità di interpretare il moderno, ma nello stesso tempo di evidenziarne la complessità, le contraddizioni, le patologie. Aggiungerei la capacità di Gramsci, Pasolini e Sciascia, di analizzare fondamentali processi del Novecento come la “modernizzazione violenta”, a partire dalla prima guerra mondiale, dello stesso fascismo: processi che sono stati al centro della più importante riflessione europea. Queste analisi, a me pare che richiamino per diversi aspetti il progetto di ricerca di Elias Canetti che si proponeva di “afferrare il secolo alla gola”. Gramsci in particolare, come giornalista e dirigente politico prima (va ricordato che Gramsci è autore di 2 mila articoli di cui l’80% non firmati - fa bene Virga a collegare sistematicamente questi scritti a quella dei Quaderni), e successivamente come teorico-politico, 354 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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(come emerge con maggiore chiarezza dalla organizzazione in una edizione nazionale, ancora in corso, del suo lascito teorico-politico), di un programma di rifondazione delle basi filosofiche e scientifiche del Movimento operaio. Si tratta di un progetto che analizzando i principali fenomeni e attori del Novecento (libertà, universalismo, democrazia, americanismo, rapporto tra capitalismo, mercato mondiale, globalizzazione e processi di modernizzazione violenta come il fascismo), si propone di gettare le basi – come è stato osservato da Giuseppe Vacca - di una possibile modernità alternativa. Proprio su questo aspetto mi sorprende che della ricca e scrupolosa bibliografia di Francesco non faccia parte un libro di Vacca che ritengo di particolare importanza: Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci. Credo che una delle ragioni fondamentali della permanenza di Gramsci risieda proprio di pensare con le categorie della “scienza politica” di una possibile modalità alternativa. In questo quadro, io credo, va inserita la categoria gramsciana di “Interregno” intesa come un periodo di transizione, di disgregazione, di conflitto tra “ogni sistema di idee cristallizzate, che rappresentano una fase passata della storia e le necessità pratiche attuali [...], tra conservazione e rivoluzione, tra il pensato e il nuovo pensiero, tra il vecchio che non vuol morire e il nuovo che vuol vivere” (Gramsci, Quaderni dal carcere, 1975, Q.6: 802). Nel progetto gramsciano centrali sono il concetto di rivoluzione passiva e quello di egemonia: nella concezione storiografica e di teoria politica generale di Gramsci, la lotta politica è sempre lotta per l’egemonia. In questo progetto, Gramsci entra in contatto con punti alti della riflessione Europea. È sicuro che conoscesse Parlamento e Governo di Max Weber e sembra che nel periodo del suo soggiorno viennese avesse letto anche La politica come professione, mentre non abbiamo informazioni di suoi rapporti con rappresentanti dell’austro-marxismo. Mi pare che, mutatis mutandis, l’analisi gramsciana della “modernità alternativa”, delle potenzialità universali della democrazia e al tempo stesso, – come dice Gramsci stesso - della fragilità delle situa355 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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zioni democratiche, fornisca qualche spunto di riflessione significativo per riflettere oggi su una concezione cosmopolitica della politica. Mi pare che questo progetto di elaborazione di una possibile modernità alternativa, sia di grande importanza e di attualità. Significativo è il fatto che un grande intellettuale del livello di Zygmunt Bauman abbia più volte affermato che nello sviluppo della sua analisi sociale abbiano contribuito, in ambiti diversi, Italo Calvino e Antonio Gramsci. In particolare il Gramsci dei Quaderni del carcere ha potenziato in lui lo spirito critico contro ogni determinismo e il dogmatismo dei marxismi ufficiali. Rilevante e attuale diventa per Bauman l’analisi gramsciana del senso comune che è un aspetto centrale dell’interpretazione non dogmatica di Marx. Bauman attualizza in particolare la categoria di interregno come momento nel quale il vecchio ordine si disgrega e non è più praticabile ed il nuovo non esiste ancora, essendo per ora solo una forza crescente non organizzata. Si producono quindi fenomeni di patologia sociale e politica che non solo ci aiutano a capire la nascita e l’affermazione dei regimi totalitari del Novecento, ma che, molti versi, richiamano il nostro presente e alcune delle caratteristiche rilevanti della situazione europea e mondiale in cui come, sosteneva Gramsci, la “crisi organica”, e lo stesso “interregno” potrebbero risolversi “a favore di una restaurazione del vecchio”. Più in generale, metterei in evidenza la sorprendente attualità delle opere di Gramsci, Pasolini e Sciascia, se si pensa a come le loro opere ancora per molti versi ci aiutino a capire anche le tragedie del mondo in cui viviamo. Uso il termine “classico” nel senso utilizzato da Calvino nelle a me molto care Lezioni Americane nel senso cioè dell’apprezzamento del valore del libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Ovviamente, precisa Calvino, quando il classico “funziona come tale”, deve cioè riuscire a stabilire un “rapporto personale” col lettore e col suo mondo. Da questo punto di vista, il “classico”, continua a fare i conti con il presente. Virga teme che la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia possa essere dissipata oggi. Ma la sua analisi, mostra come i diversi tentativi di dimenticare le loro opere cozzi con la 356 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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costante circolazione di esse non solo in Italia, ma nel mondo intero. L’esame del pensiero di Pasolini si apre con una citazione che sarà ripresa da Elias Canetti :“La lingua è la spia dello spirito. I potenti […] che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire […]. Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua la pietra dello scandalo. […] La loro lingua è la lingua della menzogna”. La citazione ricorda molto l’analisi della lingua di Elias Canetti. La lingua per quest’ultimo, infatti, non è tanto né solo Sprache, linguaggio, sistema di segni, ma soprattutto – sin dalla sua origine – Zunge, organo corporale, materia vibrante, possibilità di entrare fisicamente nel mondo, di “essere il mondo” (Scuderi). La lingua è strettamente connessa con la politica e la società, come ha rilevato più volte Tullio De Mauro nei suoi scritti su Pasolini. Giustamente Wittgenstein nel Tractatus parlava del “mondo come rete di linguaggio”, e proponeva la famosa massima: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Canetti pone al centro della sua analisi del potere e delle masse e dello stesso cosmopolitismo il problema fondamentale dell’esistenza di un “mosaico” di lingue e di conflitti etnolinguistici. Non so se si possa parlare di un cosmopolitismo pasoliniano ma mi pare che mantenne rapporti stretti con la cultura europea. Proprio dalla scoperta di Gramsci si sviluppa il pensiero di Pasolini, la critica della “mutazione antropologica di massa”, la critica del modello capitalistico di sviluppo e la denunzia della riduzione della lingua da mezzo di comunicazione e di intesa a strumento di dominio. Per quanto riguarda la produzione filmica, Alberto Arbasino ha affermato che Pasolini è stato un’icona e lo è diventato anche grazie ai suoi film. A proposito della produzione filmica di Pasolini e dei suoi collegamenti con la musica, mi sembra molto bello il riferimento che, sulla scorta del libro di Claudia Calabrese, Virga fa a Che cosa sono le nuvole?, una ispirata allegoria sulla vita, in cui l’autore abbandona l’approfondimento ideologico per riprendere soprattutto la dimensione poetica, attraverso la proposizione in chiave delicatamente surreale della tragedia shakespeariana Otello. Ne sono interpreti alcune 357 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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marionette parlanti, metà uomini, metà pupazzi. Il vero protagonista è Jago-Totò, che architetta alle spalle dell’ingenuo Otello il falso tradimento di Desdemona con Cassio, vantandosi con il pubblico della propria perfidia. Nel dialogo riportato tra Otello e Jago viene fuori il problema di che cos’ è la verità. Per capire cos’è la verità, Otello invita Jago a cercare dentro di sé, a concentrarsi per cercare di capire se sente qualcosa. Jago dopo essersi ben concentrato, si dichiara sorpreso di sentire qualcosa. E Jago risponde: “Beh… quella è la verità… ma ssssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più…”. Pasolini fu instancabile ricercatore di verità (che è centrale in tutte le ricerche), quella verità sulla tragedia della sua morte che non c’è mai stata, pur non essendo stata mai pronunziata. Nella parte finale del suo lavoro Virga affronta il tema del rapporto di Pasolini con Leonardo Sciascia. Io comincerei con il fare riferimento ad una lettera dello scrittore siciliano, rimasta finora inedita, esposta nelle scorse settimane nella sede della Fondazione Sciascia di Racalmuto in occasione dei due centenari della nascita. Si tratta di un documento molto importante che getta ancora più luce sull’ opera di Sciascia. Si tratta di un esempio concreto del valore autentico dell’amicizia che va nettamente distinta dalli “amicizia strumentale”. Giovanni Nicosia, un partigiano originario di Caltanissetta, autore di diversi libri e per qualche anno correttore di bozze presso la casa editrice Einaudi, alla vigilia del premio Strega dell’anno 1968 chiama Sciascia chiedendogli di votare Alberto Bevilacqua. Nicosia chiede il voto per Bevilacqua impegnandosi in cambio a realizzare una riduzione televisiva di un racconto di Sciascia. Sciascia non solo rifiuta l’ offerta, ma la condanna nelle ventotto righe scritte a macchina il 29 giugno 1968. Nella lettera lo scrittore spiega le ragioni per cui avrebbe dato il suo voto a Pier Paolo Pasolini che quell’anno si era ricandidato per la terza volta allo Strega, con un susseguirsi di polemiche, con Teorema. Scrive Sciascia: 358 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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“… voglio dirti le ragioni per cui ho votato per Pasolini e non per Bevilacqua. In primo luogo perché lo scrittore, se non il libro portato in gara, merita, e specialmente in questo momento, tutta la mia stima e solidarietà. E poi perché direttamente e francamente ha chiesto il mio voto, senza offrirmi o farmi intravedere contropartite, in un rapporto di amicizia e di reciproca stima che, anche nel possibile dissenso, c’è tra noi da anni lontani. Questa seconda ragione vale credo, a spiegare perché non potevo votare per Alberto.[…]. Del mio affetto nei suoi riguardi e della mia ripugnanza a muovermi sul piano degli interessi personali lui non poteva né doveva dubitare. L’offerta da parte sua della realizzazione televisiva di un mio racconto, subito seguita dalla tua telefonata elettoralistica, mi ha sorpreso amaramente. Ho fatto di tutto infatti per far cadere l’offerta e ho risposto a te che avrei votato Pasolini. La tua lettera, ora, conferma che non mi sono sbagliato. Ma l’amicizia portata a questo livello è un’altra cosa: e tu sai che nome ha qui da noi.” Appunto, l’amicizia che nome ha “qui da noi”? Tutta l’opera di Sciascia analizza l’“amicizia strumentale” come uno degli aspetti caratterizzanti di quei comportamenti che si sviluppano in contesti condizionati da quello che stato definito come “agire mafioso”. Il problema storico fondamentale di sempre è ancora proprio quello di contrastare la genesi, la produzione e riproduzione della subcultura mafiosa. Ricordiamone alcune caratteristiche: la violenza, l’illegalità, la corruzione, la vendetta, la prevaricazione, la furberia, l’omertà, l’ “aspettativa di impunità” di cui parlava Sciascia. Nell’iniziativa antimafia Sciascia continua a spiegarci che è necessario, non fermarsi al solo dato simbolico e a guardare concretamente al che fare. In primo piano, al di là degli indubbi successi dell’azione di contrasto, è la permanenza di una, purtroppo ancora solida e diffusa, subcultura di derivazione mafiosa che si innerva in sistemi di pensiero e di comportamento, disvalori, costumi, pratiche e codici di interazione sociale, stili di vita, modi di vedere e di fare. Non si tratta di vedere mafia dappertutto, ma neppure di ignorare la persistenza di una subcultura di derivazione mafiosa che continua ancora ad ibridare istituzioni, politica, economia, cultura, società. Sciascia ritornò più volte, e con diversità di accentuazioni, sul tema della violenza e sul carattere siciliano, tradizionalmente presen359 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tato, per natura e storia, come incline all’uso privato della violenza, alla ricerca individualistica della protezione. In un intervento del 1982 Sciascia sviluppa un’analisi sulla natura nonviolenta/violenta dell’“anima siciliana”. Il suo punto di partenza è la non violenza dei siciliani. Ma ad essa si accompagnerebbero fenomeni radicati di chiusura, di tendenza all’isolamento, all’inibizione. In breve, l’anima siciliana sarebbe caratterizzata da un fascio di atteggiamenti che sprigionerebbero, nel loro reciproco rapporto interattivo, una sorta di energia o di miscela pronta ad esplodere improvvisamente nelle direzioni più diverse. A questa sorta di compressione della “visione della vita”, della “intelligenza delle cose”, della “ricerca della verità” entro le quattro mura familiari, corrisponderebbe una violenza esterna che, come dice lo stesso Sciascia, “ha quasi la garanzia dell’accettazione e della impunità”. Sciascia parla di una non violenza chiusa, di una Sicilia non violenta che può diventare supporto di violenza (Sciascia, 1982, Sicilia non violenta supporto di violenza, in “Bozze82”, n. 4, 1982). Quella della Sicilia non violenta che diventa supporto di violenza è una categoria chiave per riflettere sul ruolo importante della presenza diffusa della subcultura di derivazione mafiosa e della presenza di ampie aree grigie. La narrazione sciasciana ci descrive mirabilmente questi processi e sbagliano quanti inchiodano le sue descrizioni alla categoria dell’irredimibilità della Sicilia. Dall’analisi di questi comportamenti, dall’analisi profonda della realtà così com’è emerge al tempo stesso la necessità di pensare la realtà come potrebbe essere. Da qui l’insistenza sulla formazione, la cultura, su uno sviluppo economico sostenibile, su adeguate politiche integrate nel territorio. Ma ciò non basta: sono necessari mutamenti reali anche negli individui. Questo possibile mutamento, come la verità, sembrano realizzarsi in diverse opere. Per questo Sciascia insisteva molto sul ruolo della formazione e sullo sviluppo culturale. Già all’alba del Novecento Gaetano Mosca, nel cuore dell’analisi della mafia, si poneva il difficilissimo problema di come liberarsi di questa subcultura affermando acutamente: “Disimparare è una cosa molto più difficile dello imparare”. 360 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È necessario, dunque, anche oggi, non solo ricordare e imparare, ma anche un “disimparare di massa”. L’azione coordinata di contrasto deve mirare a mettere in campo politiche pubbliche adeguate e integrate, che realmente aggrediscano le reti corruttive e le mafie in modo sistematico e multidimensionale, oltre che sul piano della repressione penale anche su quello della formazione e dell’educazione, della trasparenza, della partecipazione e delle buone pratiche etiche, economiche, politiche e sociali. Ma al centro delle opere di Sciascia, di Pasolini e di Gramsci metterei non solo la condanna dell’indifferenza, ma anche quella categoria che emerge dalle loro opere, quella che coinvolge l’azione individuale responsabile: è la categoria del “coraggio”. Già il coraggio! Analizzando Una storia semplice, ultimo racconto breve di Sciascia, una storia di corruzione e di mafia, proprio nel momento in cui sembra che stia per trionfare la giustizia e la verità, proprio quando basterebbe pronunziarla quella verità nota a tutti, la verità si dilegua beffardamente. La verità non viene detta. Non c’è il coraggio per dirla. E così continua a trionfare la solita storia. Concludo la mia analisi del bel libro di Virga con la citazione di un testo di un grande filosofo, Peter Sloterdijk, autore di un saggio di grande importanza che nasce dalla grande tradizione europea. Vorrei proporvelo: “Nei nostri istanti migliori, quando davanti allo splendore perseverante della buona riuscita, il fare, il più energico, fa luogo al lasciar stare, e il ritmo vitale ci sostiene spontaneamente, allora può annunciarsi all’improvviso il coraggio, come una chiarezza euforica oppure come una serietà mirabile e serena. In noi si risveglia il presente. L’attimo vigile si eleva con un balzo all’altitudine dell’essere. Freddo e chiaro, ogni istante entra nel tuo spazio, né tu differisci da quella chiarezza, da quella freddezza, da quella esultanza. Le cattive esperienze recedono davanti a nuove opportunità. Non vi è storia che ti invecchi. Il disamore di ieri non costringe a nulla. Nella luminosa presenza di spirito l’incantesimo di un continuo ripetersi è rotto. Ogni secondo consapevole estingue il disperante “già stato” e diventa il primo di un’altra storia” (Peter Sloterdijk, 1983, trad. it. Critica della ragione cinica, Garzanti, Milano, 1992).
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Nota critica di Santo Lombino
Non sono uno storico delle idee, né un critico letterario, ma per la pluriennale amicizia nata sui banchi di scuola con l’autore di questo volume, sono stato spinto nel corso dei decenni alla lettura degli articoli e dei saggi che, con instancabile lavorio, Francesco Virga ha dedicato alla vivisezione del corpus delle opere occasionali e non di Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, autori, per noi comuni lettori, diversissimi tra loro e senza apparenti legami tra loro. Della nostra generazione, quella per intenderci che irruppe nella storia nel decennio 1968-1978, una parte, dato che sembrava che il mondo nuovo dovesse nascere dalla cancellazione forse (pacifica, forse no), di quello vecchio, avemmo per una certa fase la tentazione di impegnarci a fare tabula rasa di ogni pensiero più o meno sistematico che la precedeva. Una seconda parte si diede, almeno nei primi tempi, alla supina accettazione di scritti dommatici da sventolare durante le manifestazioni e da imparare quasi a memoria per intervenire nelle affollate assemblee di allora. Pochi cercarono però di individuare nei pensatori e scrittori non allineati (qui si parla per esempio di Walter Benjamin) dei “segnalatori di incendio”, degli uomini-libro che potessero fornire strumenti per ricavare, utilizzando la ragione critica, possibili istruzioni (organiche o meno), per l’uso della vita, individuale o collettiva. «L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita» – diceva una canzone/inno degli anni ’70 del Novecento. Credo che soprattutto per tale finalità e non per semplice sete di conoscenza Francesco si sia dedicato ad un “corpo a corpo” a spirale sulle diverse tappe della riflessione (e delle scelte di vita) degli eretici che hanno caratterizzato la vita culturale del XX secolo, specialmente della seconda parte di esso: e questo tenendo costantemente presente la lezione metodologica di un altro maestro, che ci incitava a rendere omaggio al dubbio come grimaldello per una approssimazione possibile alla verità, ad una accettabile spiegazione delle vicende umane. Gramsci ci ha dato visioni d’insieme di grande portata della storia e 363 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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della vita politica italiana ed è stato apprezzato per le osservazioni sulla letteratura italiana e sui suoi riflessi nella storia sociale e politica (e il volume su La questione meridionale era nelle nostre piccole biblioteche); Sciascia, che abbiamo conosciuto con Il giorno della civetta e non abbiamo più lasciato, osservatore acuto e scomodo degli aspetti apparentemente oscuri della società siciliana e italiana dagli anni ’40 agli anni ’80 del secolo scorso; Pasolini, partito dalla poesia e dal profondo Nord, conosciuto per Ragazzi di vita e Il sogno di una cosa, ha messo in luce la sofferenza degli ultimi e degli esclusi e le conseguenze dell’esercizio del potere su di essa: tutti e tre ci hanno fornito chiavi di lettura per comprendere la realtà italiana, il mondo in cui viviamo e le sue storture. Queste e altre cose ci ha fatto capire Francesco nelle sue note a volte di esasperante meticolosità pubblicate su Segno mensile, documentato vademecum della Palermo della Primavera degli anni 1980-2000, sulla rivista di periferia Nuova Busambra impegnata nella ricerca del tempo presente, sul periodico digitale di antropologia Dialoghi mediterranei o su altri mezzi di comunicazione, questi ultimi spesso considerati con supponenza dagli accademici. Negli ultimi anni ho più volte insistito con il mio amico perché desse a noi che lo conoscevamo (e a chi ne avesse il desiderio) la possibilità di una lettura non episodica della ricerca svolta nel corso del tempo, tanto più che la pubblicazione di un ragionato percorso può consentire ai lettori nello stesso tempo la possibilità di apprezzare la profondità e l’ampiezza di tale scandaglio e di scoprire connessioni, differenze e vicinanze fra i tre pensatori, la cui ricchezza e attualità, anche a distanza di tanti lustri dalla loro scomparsa, appare sempre più evidente a chi le voglia effettivamente vedere.
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Nota critica di
Nicolò Messina
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Postilla (fra critica e autobiografia)
Un tratto casuale sembra accomunare uomini e libri. Per gli uni, si pretendono nome e cognome (lo seppe bene, e dolorosamente, Alessandro Meis, alias Mattia Pascal), generalità ancorate nello specifico di luogo e data di nascita, residenza, ecc. Per gli altri, si indicano il titolo e l’autore (l’attribuzione, la paternità), e dove, da chi e quando sono stati pubblicati. Ma un libro, quando nasce? Ci sarà pure un momento in cui il magmatico diviene concreto; il potenziale, realizzazione. C’è addirittura una scienza al riguardo che frequento episodicamente, la filologia critico-genetica. E nel caso particolare di questo libro di Francesco Virga? Liberiamoci per una volta dai legacci di appunti e scartafacci, autografi e dattiloscritti, versioni edite a stampa e online, lezioni tutte da filtrare al setaccio di disamina e recensione; facciamo per un attimo fantascienza filologica. Mi piace immaginare che il nucleo originario del libro risalga a tanti anni fa, ai nostri primi incontri personali in quel di Trappeto (Palermo) dove analoghi e diversi astratti furori ci fecero conoscere, sul nome di Danilo Dolci e complice quel cenobio laico – il Borgo (di Dio), il Centro di formazione del Centro studi e iniziative di Partinico – che mi aveva accolto nella primavera del 1974, e dove mi ero trasferito in pianta stabile, e aveva accolto lui un anno dopo – Giovanni Cacioppo favente – per soggiorni sempre frammezzati da repentini e frequenti ritorni alla sua natia Marineo. Furono anni in cui ci misurammo – ognuno a suo modo – con la realtà assai reale di adolescenti, giovani, adulti di un paesino falcidiato dall’emigrazione, condizionato da logiche 365 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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clientelari-mafiose, e dove tuttavia non mancavano portatori di speranze alternative con cui collaborare: anni in cui, pungolati da nuovi stimoli, interrogammo con nuove domande le nostre letture e altre ne facemmo soprattutto sul fronte educativo, sull’onda dei corsi e dei seminari che nel Centro si organizzavano e si svolgevano, rigorosamente residenziali, in convivenza autogestita, all’insegna di uno stude et labora che alternava riunioni maieutiche alla Dolci e manualissime pratiche quotidiane. Francesco Virga si era laureato a Palermo in Filosofia con una tesi promettente (Educazione e socialismo nel giovane Gramsci, 1975), quindi sembrò naturale incoraggiarlo a tenere uno di questi seminari per operatori educativi. Nacque così l’idea di Educazione e società in Gramsci (28-30 gennaio 1977), tre giorni di attività articolate in tre gruppi che produssero alla fine tre schede sintetiche che riprendevano i temi trattati: 1. Senso comune, religione e folclore; 2. Educazione e scuola; 3. Pedagogia e politica: a) Il rapporto intellettuali/masse, b) La formazione degli intellettuali, c) Il partito come intellettuale collettivo. Il mini-dossier che ne derivò – “cicl.[ostilato] in propr.[io]”, come era nell’uso del tempo – girò dall’aprile dello stesso anno con la selezione di letture fatte. Ebbene, in questo approccio “fantafilologico”, mi piace immaginare che questo libro sia nato in quella circostanza, da quel confronto aperto, sia partito da quegli scambi di riflessioni su brani scelti dei Quaderni gramsciani. Veniamo all’oggi. Il libro nella sua odierna scommessa coi lettori provoca due reminiscenze montaliane. Da un lato, infatti, mi fa pensare al bel titolo del noto volume di Gianfranco Contini, Una lunga fedeltà (1974), che raccoglieva pagine fondamentali sul poeta. Dall’altro, rievoca il titolo altrettanto bello e prudente di una delle liriche di chiusa di La bufera e altro: “Conclusioni provvisorie”. Sì, questo libro nella sua tripartizione è testimonianza dell’interesse di studio, appassionato e prolungato, di Francesco Virga per tre intellettuali – il filo 366 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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gramsciano ha coinvolto Pasolini e Sciascia – che non si fa fatica a immaginare trasfigurati in numi tutelari suoi e di varie generazioni, e che sono ormai riconosciuti da tutti – nella loro eresia critica, e con alti e bassi di fortuna di ricezione (Fortleben) dovuti agli umori dei tempi (Zeitgeist) – come indubbi “classici”. In più il libro rappresenta la sedimentazione e conclusione momentanea delle riflessioni dell’autore disposte in un largo arco temporale (e per la bisogna ripensate) e fa presagire che esse ne fermentino già altre che si attendono presto. Questa seconda edizione di Eredità dissipate, invero, con le sue novità, non è se non la prova di quanto ancora si agita nello scriptorium di Francesco Virga e delle sorprese che ne possono fuoriuscire.
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Il Seminario su Gramsci 1977 nel Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci
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svoltosi nel
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Nota critica
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di
Gaspare Polizzi
Francesco Virga mette a frutto in questo libro un suo sforzo di ricerca lungo e sincero, disinteressato, nato con la tesi di laurea discussa nel 1975, mettendo in gioco il pensiero di Antonio Gramsci nel contesto letterario, saggistico e politico di due “eretici” italiani del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Su Gramsci, Sciascia e Pasolini Virga si era già variamente soffermato; basti ricordare Il concetto di egemonia in Gramsci (1979), Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999), Pier Paolo Pasolini corsaro (2004), Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011). Ma qui Gramsci, Pasolini e Sciascia sono convocati intorno al tema delle «eredità dissipate», con un focus sul problema del rapporto, molto aspro e contrastato, tra l’impegno culturale e il potere, e della necessaria e imprescindibile vocazione critica degli intellettuali dinanzi al potere politico, che in Italia si è fatta particolarmente difficile, assumendo toni tragici sia in Gramsci, con il fascismo, che in Pasolini, con il predominio della politica democristiana, mentre in Sciascia la metafora, o meglio l’iperbole, siciliana della realtà sociale italiana ha ingigantito e reso barocche le diatribe tra cultura e politica, spesso intrisa di un ethos mafioso. A ragione, Virga rileva come «Gramsci, Pasolini e Sciascia, seppure in modi diversi, hanno riconosciuto il peso determinante avuto dalla cultura (intesa in modo nuovo rispetto alla tradizione) nella storia e colto il legame stretto tra lingua e potere». E nella Parte prima, dedicata a Gramsci, procede a presentare La rivoluzione culturale di Antonio Gramsci, imitando la metodologia attuata dallo stesso Gramsci per lo studio delle 373 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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opere di Karl Marx e proposta nei Quaderni del carcere: «Occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso (…) la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole citazioni staccate». Virga non sollecita oltre misura i testi e legge i Quaderni del carcere insieme all’epistolario gramsciano, tenendo sempre presente come il suo approccio critico e il suo metodo antidogmatico siano ancora utili per comprendere meglio il nostro tempo. Non manca anche l’attenzione alle più recenti ricerche, come per esempio quelle di Franco Lo Piparo, che hanno messo in luce l’origine linguistica di alcuni importanti concetti gramsciani quali quello di “egemonia”, connesso alla formazione universitaria di Gramsci con il linguista e glottologo Matteo Bartoli. Lo Piparo è stato il primo a rilevare la centralità nell’opera gramsciana delle sue riflessioni sul rapporto tra lingua, società e potere, che trovano la loro radice nei suoi studi linguistici universitari. A mio avviso, risulta ugualmente importante l’indagine di Lo Piparo sul ruolo svolto dalle analisi linguistiche di Gramsci (Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, 2014), protrattesi fino agli ultimi anni e depositate negli ultimi quaderni, nelle discussioni di Piero Sraffa con Ludwig Wittgenstein a Cambridge, foriere della nota “svolta” filosofica di Wittgenstein verso le Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953 e considerate una delle più importanti opere filosofiche del Novecento. Il largo spazio concesso alle riflessioni gramsciane sulla questione culturale e sul ruolo degli intellettuali testimonia di una lettura aperta e priva di pregiudizi dell’intera opera gramsciana, aggiornata al lume degli studi e dei documenti più recenti, anche marginali rispetto al tema del libro, come la raccolta degli articoli gramsciani dedicati alla musica, curata da Maria Luisa Righi e Fabio Francione nel volume Concerti e sconcerti. Cronache musicali (1915-1919) (2022). Ci si sarebbe tuttavia aspettata 374 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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una maggiore attenzione per gli studi di Giuseppe Vacca, che – soprattutto con Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937 (2012) – ha rinnovato ampiamente lo sguardo complessivo sulla biografia intellettuale e politica di Gramsci. Virga rintraccia fin dai primi scritti di Gramsci la centralità del problema della cultura, soffermandosi su Socialismo e cultura (gennaio 1916) e ritrovandovi in germe la teoria dell’intellettuale organico, che sarà meglio definita da Gramsci nei Quaderni del carcere. La “rivoluzione culturale” è il passaggio preliminare obbligato perché si possa arrivare a un radicale cambiamento sociale e politico: lo vide bene Gramsci già durante la Prima Guerra Mondiale e lo si vede bene ancor oggi, in un clima nel quale i “venti di guerra” tornano a farsi forti e pericolosi per l’intera umanità. Così pure Virga valorizza lo scritto Alcuni temi della quistione meridionale (ottobre 1926, pubblicato nel 1930), nel quale rintraccia il primo nucleo dei Quaderni del carcere. Bene fa l’Autore a richiamare il valore del concetto di “cultura” nella sua ampiezza, richiamando le belle pagine dedicate da Tullio De Mauro a tale concetto in Gramsci, da questi consapevolmente distinto dall’uso allora dominante in Italia, ricavate dalla sua relazione al convegno svoltosi a Firenze in occasione del 70° anniversario della morte di Gramsci il 15-17 novembre 2007, a cura dell’Istituto Gramsci Toscano e raccolte nel volume Tornare a Gramsci (2010). Pagine e parole che ben si collegano a quanto scrisse Eugenio Garin: «La cultura del popolo deve essere cultura, la cultura senza aggettivi. Gramsci vuole per tutti la stessa cultura che è stata per pochi, non un’altra cultura; anche se è chiaro che, rompendo le barriere di classe, diventerà per ciò stesso un’altra cosa: la quantità si farà qualità. Comunque questo è uno dei punti fermi della sua posizione: l’arte degli uomini liberi ed uguali non sarà un’altra arte da quella di Dante e Michelangelo» (Gli intellettuali italiani del XX secolo, 1974). 375 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’“eredità dissipata” in Italia di Gramsci, come quella di Pasolini e di Sciascia, si confronta con un proliferare ampio di studi internazionali. Gramsci è tra gli autori italiani più letti e discussi nel mondo e in questi anni lo sono stati anche Sciascia e Pasolini, grazie alle numerose iniziative internazionali realizzate in occasione del centenario dalla loro nascita, rispettivamente nel 2021 e nel 2022. Il libro di Virga contribuisce a ravvivare, in Italia e – si spera – tra le giovani generazioni, l’interesse intorno all’eredità culturale di questi tre grandi intellettuali, che in forme diverse hanno esercitato una cultura critica, funzionale a riaccendere l’attenzione sulla gravità dei complessi problemi sociali e politici che ci attanagliano e che richiedono, insieme al coraggio della volontà, la forza di un pensiero critico, attivo e consapevole.
376 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nota critica di
Bernardo Puleio
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Nani sulle spalle dei Maestri Quando, nel primo canto dell’Inferno, Dante, spaesato e terrorizzato, credendo di aver perso la bussola, incontra Virgilio e si accerta di avere di fronte il grande poeta Latino, dice Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore. Il riferimento dantesco non sembri inappropriato nel presentare Eredità dissipate, il libro di Francesco Virga (Casa Editrice Diogene Multimedia, Bologna, 2022), che fa riferimento a tre grandi maestri del ‘900: Gramsci, Pasolini e Sciascia, autentici auctores, maestri, guide scomode nel labirinto della storia e delle idee. Come mai allora, se i tre autori sono assimilabili, secondo il principio di auctoritas del canone medievale, a tre imprescindibili maestri Francesco Virga intitola il suo acuto, analitico e originale, saggio, Eredità dissipate? L’autore ce ne dà una interpretazione che potrebbe apparire pessimistica nella Avvertenza iniziale. Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia. E tuttavia fin dall’esergo del primo saggio, dedicato con grande attenzione e accuratezza agli scritti giovanili di Antonio Gramsci, emerge attraverso la citazione di un famoso passo tratto dai Quaderni quello spirito indomito dualistico che si innerva sul contrasto tra pessimismo e ottimismo che, pure in presenza del pessimismo della Ragione, non rinuncia a una lotta aperta titanica e intelligente. «Occorre creare uomini sobri, pazienti, che non disperino di fronte alle difficoltà e non si esaltino ad ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà». 377 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Un piccolo preliminare suggerimento metodologico. Non so se Virga, redigendo il suo saggio, abbia pensato a una famosa conferenza tenuta da Michel Foucault il 22 febbraio 1969 che diede poi origine a un famosissimo saggio, Che cos’è un autore? Tra le tante cose inserite in quel denso saggio il filosofo francese attribuiva alla funzione autore – non in tutti i casi ovviamente, ma nei grandi autori, nei grandi riferimenti, nei maestri, si potrebbe dire – una funzione di installatori di discorsività e, in questa categoria, inseriva Marx e Freud, oltreché Omero, Aristotele e i padri della Chiesa. Cioè autori a partire dai quali si sviluppa una riflessione, autori nei quali sono presenti dei segni, diremmo delle chiavi di lettura, per cui è possibile in contesti, campi e momenti storici diversi, ritornare alla loro auctoritas per apprendere nuove possibilità di discussione, di ermeneutica, di interazione tra epoche e contesti diversi. In ogni caso il testo di Virga sembra muoversi su questa linea interpretativa quando propone questi tre modelli nella loro diversità – riconducibili comunque a un filo unitario che è quello di una visione autonoma eretica, conflittuale, dialettica della storia – in cui certamente, il primo dei tre, Gramsci, svolge una funzione importante per avere tracciato un solco, un campo di discorsività nuovo nella storia della cultura italiana e non solo italiana.
Gramsci Intanto va osservato, come è stato ricordato da uno storico di valore, Eric Hobsbawm, citato da Virga, che il pensiero di Gramsci è sopravvissuto alla caduta del comunismo e che anzi fuori dall’Italia, e pure fuori dall’Europa, si assiste ad una diffusione sempre maggiore del pensiero dell’autore dei Quaderni, infatti fioriscono studi e saggi sul piccolo grande sardo. Gramsci è divenuto ‘importante’ persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta 378 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subalterni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi delle mode ideologiche […]. È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pensatori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’.
Ma come orientarsi all’interno delle migliaia di pagine scritte da Gramsci? Con acribia filologica Franco Virga ripercorre fin dall’inizio, fin dagli scritti giovanili, l’elaborazione di un percorso e di un processo di formazione che appaiono assolutamente autonomi ed eretici rispetto all’idealismo o al neoidealismo imperante all’inizio del ‘900 con Croce e Gentile ma anche rispetto alla tradizione di Marx. Ne è testimonianza uno scritto del 1916, Socialismo e Cultura, in cui il giovane Gramsci elogia pienamente l’Illuminismo e considera le elaborazioni culturali dei philosophes non intellettualistiche, ma come la base su cui poi si è innervata la Rivoluzione francese, auspicando l’avvenire di una Rivoluzione socialista che possa ugualmente trovare un terreno comune a cultura e idee di progresso. Non siamo ancora alla formulazione di concetti come intellettuale organico e egemonia culturale ma il giovane Gramsci vede nella Rivoluzione francese un modello da seguire, in chiaro contrasto con l’idealismo e il neoidealismo, ma anche in netta antitesi con Marx: Ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavoro di critica, di penetrazione culturale. […]. Le baionette degli eserciti napoleonici trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, sciamati da Parigi fin dalla prima metà del sec. XVIII, che avevano preparato uomini e istituzioni. […]. L’Illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, […] non fu insomma solo un fenomeno di intellettua379 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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lismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Europa una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese […] che era la preparazione migliore per la rivoluzione.
Ma c’è di più: il giovane Gramsci legge la Rivoluzione bolscevica in un’ottica anti marxista e anzi reputa che il Capitale di Marx in Russia sia appannaggio della classe borghese ma non dei proletari. La Rivoluzione d’ottobre è La rivoluzione contro il Capitale come si intitola un famoso editoriale apparso su L’Avanti il 24 novembre 1917: La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e come si è pensato.
Un altro elemento centrale dell’opera giovanile, che poi diventerà una base della formazione anche del pensiero maturo, riguarda l’educazione: il proletariato si deve affrancare dagli intellettuali di professione non rimanendo emarginato all’interno di una cultura proletaria, ma seguendo gli stessi percorsi di formazione della classe dirigente, in maniera autonoma. D’altronde, mentre redige le pagine della rivista Ordine Nuovo, Gramsci pensa che anche i bolscevichi siano degli educatori. 380 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Diventato segretario del Partito comunista d’Italia, nel 1926, di fronte alle aspre lotte interne alla Partito comunista sovietico, Gramsci invia una lettera che ha un sapore profetico. Ma la lettera indirizzata come tramite a Togliatti che era il rappresentante italiano presso l’Internazionale comunista non verrà mai presentata a Mosca. Uno dei passi fondamentali di questa lettera con quasi profetica premonizione dichiara: «Voi state distruggendo l’opera vostra».
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La questione meridionale Gramsci legge la storia in maniera dialettica, certamente non acconsentendo alla retorica borghese e nazionalista dell’Italia post unitaria: leggere ancora oggi a distanza anche più di cento anni alcune delle sue pagine che hanno un senso di freschezza, una intelligenza e un coinvolgimento empatico con il lettore, è cosa di straordinario interesse, uno dei tanti meriti di questo testo che ripercorre, dando la parola agli autori, gran parte del loro modo di pensare, autenticamente, senza forzature e ipotesi precostituite. È dialettica e antiborghese la sua formazione in quanto comunista e lo è a maggior ragione in quanto meridionalista. Gramsci osserva che col processo unitario le discrepanze tra nord e sud hanno continuato ad esistere, anzi si sono incrementate. Peggio ancora, è nata una ideologia che intende legittimare le differenze e in maniera discriminatoria e razzista accusare i meridionali di colpe che non sono loro. Virga analizza con attenzione – e ne traccia una mappatura interessante e fondamentale per chi voglia approfondire studi su questo argomento – il meridionalismo critico di Antonio Gramsci, mettendo insieme per esempio articoli apparsi su L’Ordine nuovo nel 1920 e saggi successivi. La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali. 381 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato.
D’altronde il Risorgimento, nella lettura gramsciana, è un fenomeno in cui la borghesia commerciale e industriale cittadina sopravanza il mondo rurale, che era soprattutto il mondo del sud, senza una partecipazione popolare o, escludendo o, peggio ancora reprimendo manu militari quelle eventuali rivoluzionarie svolte popolari. Un fatto di dominio borghese e reazionario che ha creato un’Italia borghese e reazionaria in cui l’industrializzazione del nord ha colonizzato il sud.
Pasolini È Gramsci che svela a Pasolini la strada da seguire. «Le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me». Da Gramsci Pasolini apprende che la ricerca verso la verità non è riconducibile a un unico perimetro d’azione ma che bisogna costruire ponti, non demonizzare gli avversari ma dialogare e comprendere le loro ragioni. Da qui comincia un percorso, del laico Pasolini, ricco di attenzioni nei confronti del mondo cristiano. Per esempio il suo film, il Vangelo secondo Matteo, è un atto di riconoscimento di verità nei confronti di Giovanni XXIII: Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei brac382 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco cattolico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’amore (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddizione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta.
Gramsciana è anche l’accusa che Pasolini formula agli intellettuali italiani di essere cortigiani e chiusi dentro il Palazzo, la felice immagine usata dallo scrittore friulano per indicare il luogo del potere, quello che una volta era la Corte. Della corruzione degli intellettuali della società italiana è chiaro segnale il linguaggio del potere, un linguaggio tecnologico e incomprensibile, frutto della nuova linea capitalistica imposta nel Paese. I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio. Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare, bisogna tapparsi le orecchie. Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia.
Pasolini individuava nella TV il nuovo strumento di omologazione di massa, la nuova epifania di un potere apparentemente più bonario ma che creava una sorta di unitarismo indiscusso e indiscutibile che noi oggi definiremmo ‘politicamente corretto’, una nuova forma di fascismo, deteriorando irrevoca383 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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bilmente l’identità e la coscienza dei cittadini e realizzando la cosiddetta mutazione antropologica, attraverso il ricorso anche ad un linguaggio apparentemente più vicino alla realtà ma proprio per questo portatore di nuovi rischi, di nuove forme di dogmatismo, di nuove forme di catechismo. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. [...]. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. [...] Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.
Attraverso il consumismo, la concezione fascista del potere capitalistico, a giudizio di Pasolini, ha mutato l’antropologia, il modo di essere, anche di vestirsi, degli Italiani e, in cambio di una maggiore libertà in termini di diritti (vedi per esempio il divorzio), ha guastato e corrotto, degradato moralmente l’intera nazione: tutti allineati lungo lo stesso modello e la stessa concezione della visione del mondo. Osservazioni queste che crearono non poche polemiche a sinistra perché in definitiva la riflessione di Pasolini postulava un circolo vizioso: il potere appariva inequivocabilmente fascista sia quando negava i diritti sia quando, dopo aspre lotte contro il conservatorismo, li concedeva o, per meglio dire, era costretto a cederli. La conquista – altro che concessione – dei diritti a una massa di persone, il miglioramento sociale, il progresso economico, diciamolo pure la trasformazione di un proletariato privo di tutto in una classe piccolo borghese, proprietaria di case – anche di seconde case –, con la facoltà di effettuare le vacanze, non sono ovviamente la stessa cosa della privazione di tutti questi beni e di tutte queste risorse: non appare né corretto sotto il profilo metodologico né onesto sul piano intellettuale dire che tutto e il contrario di tutto sono la stessa cosa. C’è un rischio, questo sì 384 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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grave di una pericolosa omologazione, pur di effettuare una critica a tutti i costi del potere, senza discernimento storico delle evoluzioni e delle situazioni: tanto più che quei miglioramenti avvennero grazie alle aspre lotte dei sindacati e dei partiti di massa di sinistra. E pertanto anche a sinistra Pasolini fu attaccato, a volte anche vergognosamente. Ma chiarisce giustamente Virga che, al di là del merito delle riflessioni del friulano, quello che va tenuto in considerazione è il carattere volutamente provocatorio antifrastico dialettico del suo pensiero. «L’originalità sta tutta nella radicalità della critica allo “sviluppo” e nella affermazione eretica – dal punto di vista marxista – secondo cui lo sviluppo economico e l’industrializzazione, di per sé, non sono portatrici di Progresso. Chissà che non gli sia costata la vita questo famoso articolo, Il Processo, pubblicato il 24 agosto 1975 in cui Pasolini criticava la corruzione e il tradimento del regime democristiano: Disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, uso illecito dei servizi segreti, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna [...], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia.
La problematicità delle questioni poste da Pasolini viene molto ben evidenziata nel saggio di Virga col riferimento a un episodio meno noto sul quale viene focalizzata un’attenzione notevole. Una delle ultime cose effettuate da Pasolini fu la docenza in un corso di aggiornamento per insegnanti presso un liceo di Lecce, sulla questione della lingua, intitolato Volgar eloquio, con titolo dantesco appositamente scelto dallo scrittore. Pasolini non tenne nessuna relazione, volle sconvolgere l’uditorio dicendo di non essere in grado di insegnare nulla a nessuno, invitando a passare direttamente al dibattito. Pasolini non solo ribadì la sua fedeltà e lealtà ai problemi posti da Gramsci, per esempio sull’identità culturale, ma affermò un principio che 385 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ancora oggi è oggetto di discussione e cioè il problema della identità attraverso la lingua. Un problema che gli intellettuali progressisti sfiorano con un certo imbarazzo perché parlare di identità attraverso la cultura della lingua sembra quasi un terreno favorevole alle riflessioni nazionaliste e di destra. E invece la difesa della identità della lingua materna che come scriveva Dante nel De vulgari eloquentia, il bambino apprende assieme al latte materno, è una difesa trasversale della propria identità, non è una rivendicazione nazionalista, è una rivendicazione di umanità, una mappa, un punto di riferimento che rimanda al senso laico e progressista del principio di auctoritas: senza una mappatura precisa non è possibile sviluppare una identità precisa e si è più vulnerabili.
Sciascia Per leggere il maestro di Racalmuto, Virga si serve di questa chiave di lettura, un lapidario ma acuto giudizio critico: Per usare un’espressione pasoliniana, Sciascia è stato un empirista eretico, che ha osservato la realtà senza aprioristici schemi ideologici. Egli parte sempre dall’osservazione di dati empirici, spesso da fatti di cronaca minuta, e raramente da essi trae conclusioni di carattere generale.
D’altronde l’autore cita una preziosa, quanto rarissima, testimonianza in copia ciclostilata: si tratta degli atti di un convegno tenuto a Palma di Montechiaro nell’aprile del 1960. Un convegno nella città del Gattopardo a cui parteciparono tra gli altri Danilo Dolci e Leonardo Sciascia, che tra di loro non ebbero mai rapporti particolarmente amichevoli o significativi. Virga in questo suo saggio mette insieme e tesse la sua rete, intrecciando fili di autori e opere che gli sono cari, da Gramsci a Pasolini a Sciascia, passando attraverso le interpretazioni e le correlazioni, in primo luogo, con Franco Fortini, Danilo Dolci e Giuseppe Fiori. 386 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È di lunga data la frequentazione attenta dell’autore nei confronti dell’opera di Sciascia. E di questa acuta analisi è testimonianza la rivista Dialoghi Mediterranei sulla quale Virga ha più volte scritto proprio a proposito del maestro di Racalmuto. E risultano particolarmente interessanti le annotazioni che Virga pone sia a proposito della mafia – ovviamente un capitolo indispensabile di studio dal punto di vista storico e sociologico per chi voglia affrontare l’opera dell’autore de Il giorno della civetta – sia anche relativamente alle contaminazioni culturali e alla presenza di una Sicilia araba. Ecco due passi illuminanti in questo senso: il primo è tratto dal saggio La mafia, un saggio del 1957 inserito in Pirandello e la Sicilia, il secondo invece è un’intervista di Sciascia a Lotta continua del 1979: Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto l’AMGOT trovarono cariche e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’è da chiedersi se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di persone di fiducia che – guarda caso! – erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costantemente mantenuto con la mafia siciliana. - Trattative per Moro e trattative per lo Scià. Lo Scià lo daresti a Khomeini? - No, lo Scià non lo darei. Per un antico rispetto delle regole. Tu non puoi buttare in pasto alla morte una persona a cui hai dato rifugio. Sarebbe quello che nella Divina Commedia è il “tradimento del commensale”. Avrei potuto non riceverlo, ma non posso consegnarlo… I suoi averi sì, certo. Ma forse gli iraniani non si accontenterebbero, perché nel mondo musulmano lo spirito di vendetta è fortissimo. Khomeini non riusciamo a spiegarcelo in¬teramente. Per me è il fanatismo […]. Non mi piace. È un uomo molto vecchio, ma non degli anni suoi, degli anni del mondo musulmano. È brutto questo momento, questo mondo. Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Montesquieu. Lo consiglierei anche a loro.
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Conclusioni
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Lasciamo l’ultima parola all’autore. Credo di aver spiegato le ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, malgrado il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei. Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi compagni di lotta. […] La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non compreso. […] Malgrado il successo di critica e di pubblico che tutte le sue opere hanno registrato nel mondo intero, in Italia Leonardo Sciascia ha sempre diviso l’opinione pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico.
Eredità dissipate dunque nella concezione pessimista che Francesco Virga evidenzia in questo suo saggio. E il verbo dissipare certamente ha a che vedere anche con lo scialacquare, lo sperperare. Dissipare, in senso attivo, rimanda ad un’altra accezione: dissipare le tenebre dell’ignoranza, per esempio, si dice quando si disperde cacciando qualcosa di pregiudizievolmente negativo. E non ci resta che leggere e ripartire da qui, dalle eredità dissipate, per evitare di dissipare il nostro patrimonio culturale.
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Nota redazionale
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Alcuni saggi raccolti in questo libro sono stati pubblicati, in tempi e forme diverse, su libri e riviste indicate di seguito:
1. Su Gramsci - La grande eredità di Gramsci, in Sindacato, Periodico della Camera del Lavoro di Palermo, aprile 1981 - Gramsci dimenticato, in Cntn, Cieli nuovi terra nuova, Settimanale di ispirazione cristiana, 27 aprile 2001 - Gramsci sulla religione, in Cntn, 14 dicembre 2008 - Bergoglio e Gramsci: due letture dell’indifferenza, in Poliedro, mensile dell’Arcidiocesi di Palermo, maggio 2018 - Élites e popolo secondo Gramsci, in Poliedro, aprile 2019 - Dove sta il popolo oggi?, in Dialoghi mediterranei, 1 maggio 2020.
2. Su Pasolini - Pier Paolo Pasolini corsaro, in Colapesce, Almanacco di scrittura mediterranea, n. 11, novembre 2004 - Il Vangelo secondo Pasolini, in Cntn, Anno IX, novembre 2008 - Lingua e potere in P. P. Pasolini, Quaderns d’Italià, Rivista della Universitat Autònoma de Barcelona, n. 16, 2011. - Pasolini e la televisione, in Nuova Busambra, n. 1, giugno 2012 - Poesia e mondo contadino nel giovane Pasolini, in Nuova Busambra n. 6, giugno 2014 - Pasolini tra incanto e disincanto, in Dialoghi mediterranei, 1 luglio 2020 - Pasolini e Sciascia, due eretici a confronto, Dialoghi mediterranei, 1 gennaio 2022 - La sensibilità religiosa di Pasolini, in Poliedro n. 33, aprile 2022 389 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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3. Su Sciascia - In memoria di L. Sciascia (se la memoria ha un futuro), in Città nuove, novembre 2000 - Gramsci e Sciascia: due grandi eretici, in Segno n. 252, febbraio 2004 - Sciascia vivo, in Cntn, nn. 16/17, dicembre 2009 - L’Assessore e Sciascia, in Cntn, n. 25, febbraio 2010 - La Sicilia di Leonardo Sciascia, in Nuova Busambra, n. 1, 2012 - Sciascia morde ancora, in Dialoghi mediterranei, 1 marzo 2021 - La mafia secondo Leonardo Sciascia, in Dialoghi mediterranei, 1 luglio 2021 - Un sorprendente Sciascia, in Dialoghi mediterranei, 1 novembre 2021 - Rileggere l’Affaire Moro di L. Sciascia, in Dialoghi mediterranei, 1 maggio 2023 Segnalo, infine, il blog del Centro Studi e Iniziative di Marineo dove sono stati pubblicati in anteprima tanti pezzi dedicati alle mie stelle polari: http://cesim-marineo.blogspot.com/
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Indice dei nomi
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In quest’Indice non sono stati inseriti i nomi di Gramsci, Pasolini e Sciascia perché ricorrono molto frequentemente e, in alcune parti, quasi in ogni pagina. Adorno T.W. 159 Alessi G. 232 Amari M. 263, 268, 272 Ambroise C. 223-225, 279, 280, 340 Amendola G. 229 Anglani B. 89 Arbasino A. 114, 151, 339, 357 Arcurio B. 272 Ascoli G.I. 107, 115, 148, 329 Asor Rosa A. 36, 83, 340 Augias C. 271, 290 Augry M. 224 Bach J.S. 185, 186 Balla G. 45 Baratta G. 87, 89, 99 Barbera L. 289 Barbusse H. 63 Barthes R. 198, 199, 245 Bartoli M. 23, 374 Basile C. 97 Bassani G. 121 Battaglia G.G. 161, 182, 240 Bauman Z. 356 Bedin C. 273, 291 391 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Beethoven L. 32 Belli G. 260 Bellocchio M. 259 Belpoliti M. 147 Benedetti C. 201, 203 Benedetto XVI 304 Benjamin 82-83, 363 Berardinelli A 155 Bergami G. 92 Bergson H. 23 Berlinguer E. 128, 138, 158 Bermani C. 97 Betocchi C. 114, 328 Betto F. 301 Bevilacqua A. 358 Biagi E. 174, 181 Bianchi E. 307, 312 Bobbio N. 91 Boff L. 13, 300, 307 Bonanno J. 277 Bondi A. 59, 97 Boninelli G.M. 66, 68, 98 Bordiga A. 24, 46, 91 Borges J.L. 245 Bosio G. 193, 200 Bucharin N. 36, 67-72, 306 Buratti G. 140, 145, 158 Burgio A. 89 Bussotti S. 201, 206 Buttitta I. 134, 165-168 Cacioppo G. 365 Calabrese C. 184-192, 196-206, 349, 353, 357 392 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Calabretto R. 202 Calamandrei P. 232 Calderón de la Barca P. 129 Calligarich G. 203 Calvino I. 14, 32, 104, 121, 129, 155, 192, 200, 203, 204, 223, 267, 278, 327, 340, 356 Camilleri A. 209 Cammarata A. 236 Campbell F. 280 Camus A. 227 Candida R. 237, 238 Cane C. 211 Canetti E. 354, 357 Canfora L. 96, 335 Carnero R. 146, 148, 338 Caselli G.C. 259 Cavallotti F. 43 Conti P. 155 Capecchi G. 262, 271, 272, 288 Caprioglio S. 18 Capuana L. 216, 230 Caracciolo D. 216, 217 Carbone F. 95 Carlini A. 37, 94 Carlucci A. 90 Carnero R. 148, 338 Caro A. 80 Caruana S. 274 Casarrubea G. 241 Cassola C. 121 Castellano Giron H. 180 Castiglione M. 281 Castro A. 265 393 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Cattanei F. 240 Cavallaro L. 157 Cavour C.B. 76 Centorrino M. 209 Chiaromonte G. 227, 229 Chilanti F. 130 Cimino M. 266, 313 Cingari S. 89 Cirese A.M. 64, 98 Claudel P. 226 Clementi P. 89 Colletta A. 170 Colombo F. 158, 172 Consolo V. 144, 289 Conti P. 155 Contini G. 110, 339, 366 Corrao F.M. 263, 288 Costantino S. 353 Craveri B. 222, 227 Crispi F. 51, 71 Croce B. 12, 23, 27, 28, 37, 54, 57, 58, 61, 67-72, 79, 94, 215, 292, 296, 297, 298, 339 Crocioni G. 64 Cuoco V. 76 Curcio R. 244 Dal Lago B. 175, 181 Daniele C. 18, 89 D’Annunzio G. 45 Dauphiné J. 242, 292 De Carolis E. 201, 202, 206 De Castris L. 158 De Cataldo G. 32 394 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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De Clementi A. 91 De Felice F. 50, 96 De Giusti L. 206 De Laude S. 146, 200 Dell’Arco M. 189, 338 Deleuze G. 245 De Martino E. 64, 98, 193, 203 De Mauro T. 80, 89, 99, 145, 146, 151, 168, 201, 339, 353, 357, 375, De Roberto F. 270 De Sanctis F. 28, 80 Desogus P. 49, 96 Di Blasi G.E. 217, 267 Difrancesco G. 235, 236 Di Giacomo 121 Di Giovanni A. 313 Di Marco S. 224 Di Marzo G. 226 Dolci D. 109, 123, 147, 149, 153-155, 202 Duflot J. 109, 123, 147, 149, 153-155, 202 Einaudi L. 31 Eliade M. 149 Falchi F. 150 Fanfani A. 128 Fantuzzi V. 312 Fernandez G. 224, 289 Ferrata G. 18, 93, 96 Ferri F. 145 Ferroni G.89 Feuerbach L. 59 Fortini F. 89, 116, 121, 142, 152, 190, 192, 200, 203, 204, 329, 340, 386 Fiori G. 58, 96, 386 395 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Fortunato G. 12, 53, 54 Foucault M. 196, 245, 275, 276, 353, 378 Francione F. 32, 374 Freire P. 13 Fresu G. 96 Fubini E. 18 Gadda C.E. 121 Galletto L. 30 Gallo N. 18, 93, 96 Garibaldi G. 77 Garin E. 42, 93, 95 Genco Russo P. 230, 236 Genovese V. 235 Gentile G. 27, 57, 91, 92, 215-218, 226, 298, 336 Geymonat L. 71 Gerbino A. 224 Gerratana V. 18, 89, 90, 98, 148 Giardina G. 45, 95 Gide A. 226 Ginzburg C. 279, 280 Giovanni XXIII 118, 309, 331 Gismondi A. 15, 127, 154 Giuè R. 307 Giuliano 257, 258 Golino E.152, 156, 164, 179, 340 Gotor M. 259 Green I. 225 Grieco R. 47, 335 Grimm (Fratelli) 59 Gronchi G. 213 Guastella S.A. 218 Guattari F. 245 Guerra T. 164 396 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Gullo T. 162 Gurnari E. 278 Gutiérrez G. 13, 300, 301 Guttuso R. 95, 209, 345
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Halliday J. 151, 174, 338 Hegel G.W. F. 74, 215 Heidegger M. 168 Hobsbawm E. 80, 90, 353, 378 Ibn Hamdis 262, 265, 268, 270 Idrisi M. 264, 265 Iona 192, 203 Izzo F. 225 Jumaah Z. 274 Kalc P. 186, 187 Kennedy J.F. 118, 310, 332 Khomeini R. 271, 273, 291, 387 Kissinger H. 277 Kruscev N.S. 118, 123, 310, 332 Labriola A. 72 La Cava M. 223 Lajolo L. 15 La Lumia I. 217 Lama L. 244 La Malfa U. 138 Lana M. 97 La Mattina D. 318 La Monaca D. 162, 179, 279 La Porta F. 202, 337 Lassalle F. 46 Laterza V. 214, 223 397 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Latouche S. 132 La Valle R. 313 La Via S. 185 Lazzaretti D. 81 Leidi R. 193 Le Moli A. 275 Lenin 37, 53 Leone De Castris A. 158 Leone G. 256 Leone XIII 303 Leonetti A. 143, 326 Leopardi 43 Leydi R. 193 Levi C. 225 Liberovici S. 193, 203 Li Causi G. 225 Liguori G. 90 Locher E. 175 Lombardo Radice L. 29, 117, 329 Lombino S. 354, 363 Lombroso C. 222 Longanesi L. 325 Lo Piparo F. 23, 89, 90, 92, 96, 148, 307, 353, 374 Loria A. 57, 222 Lorusso F. 244 Lukàcs G. 47, 96, 216 Lunaciarskij A.L. 63, 94 Lupo S. 224, 241 Macaluso E. 227, 229 Machado A. 264 Machiavelli N. 194, 223 Maciocchi A. 244, 329 398 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Mahler G. 200, 350 Maiolani M. 279, 280 Maltese P. 93, 154 Manacorda 91 Mangiameli R. 241 Marx K. 26, 27, 35, 37, 64, 92, 114, 117, 292, 299, 305, 328, 379, 380 Maraini D. 200 Marchese P. 241 Marcuse H. 159 Marinetti F. 44, 45 Marini G. 200 Marramao G. 36, 91 Martinoni R. 290 Masaccio 188 Mattarella B. 241 Mauro W. 226 Mazzini G. 30 Messina N. 365 Mesters C. 301 Mida M. 266 Milani (Don) 123 Milazzo S. 220 Mingozzi G. 223 Mistral F. 141 Modugno D. 199 Mondolfo R. 91 Montale E. 244 Montanelli I. 253, 259, 267 Montaseri M. 274 Montaseri Z. 274 Morante E. 121 Moravia A. 121, 158, 223 Morley Fletcher D. 236 399 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Moro A. 243, 245, 247-261, 271, 350, 351 Moro A.C. 259 Mosca G. 360 Motta A. 227, 240 Mozart W.A. 185, 199 Mussolini B. 51, 60 Muzzioli F. 173, 181 Naldini D. 110, 149, 150, 339 Natoli A. 89 Neruda P. 166 Nicosia G. 358 Nigro S.S. 162, 179, 180 Nisticò V. 242 Novalis 25 Occhetto A. 227 Oddo G. 289 Ognibene V. 162, 164, 179 Oliviero N. 202 Onofri M. 211, 224, 225, 245, 267, 289, 333 Onorati F. 338 Orlando V.E. 233 Ortese A.M. 279 Paggi L. 93, 94 Palazzeschi A. 44 Pantaleone M. 240 Papini G. 57 Pappalardo S. 265-268 Parlato V. 50, 96 Pascarella C. 260, 326 Pavese C. 203 Peloso F. 307 400 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Perlini T. 91 Perriera M. 173 Petrucciani A. 268-270, 274, 290 Pierro A. 164 Pilecek J. 278 Pindemonte I. 80 Pirandello L. 32, 216, 270 Piromalli A. 145, 158 Pitrè G. 217 Platone F. 64 Plutarco 66 Polizzi G. 89, 275, 373 Portelli S. 274 Porzio D. 240, 283, 284, 286, 292 Prezzolini G. 57 Prosa L. 173 Puglisi G. 235 Puleio B. 224, 334, 340, 377 Pupo I. 280, 291 Raboni G. 155 Ravera C. 97 Riccio E. 291 Ricolfi L. 99 Righi M.L. 32, 374 Reid E. 232, 237 Rilke R.M. 350 Robotti P. 288 Rodari G. 267 Rolland R. 23, 63 Romano T. 224 Romanò A. 142, 326 Rossi G. 310 401 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Rousseau J.-J. 27 Roversi R. 113, 142, 151, 223, 327 Ruffini (Cardinale) 218, 219, 291 Rushdie S. 272 Saija M. 235 Saladino G. 314 Salomone Marino S. 226 Salvadori M.L. 91 Salvemini G. 23, 24, 53 Sanguineti E. 14, 340 Santato G. 152, 183, 201 Santucci A. 18, 92 Sapelli G. 146 Sartre J.P. 73, 98, 245 Savatteri G. 223 Scalfari E. 229 Scalia G. 13, 15, 142, 143, 159 Schucht T. 60, 97, 152, 340 Schucht J. 46, 47, 60, 89 Scianna F. 214, 216, 218 Secomandi A. 280 Senghor L. 212 Segre C. 147, 149 Serge V. 47 Sgroi S.C. 283 Shakespeare W. 196, 205 Siciliano E. 113, 149, 201, 339 Silone I. 230 Sindona M. 170 Siti W. 146, 201 Sloterdijk P. 361 Sobrino J. 301 402 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Socrate M. 202 Soffici A. 57 Sorel G. 23, 63 Sottile R. 282 Spinazzola V. 148, 338 Spriano P. 91 Squillacioti P. 224, 230, 240, 273, 283, 292 Sraffa P. 374 Stalin J. 36, 47 Stendhal 207, 246 Strada V. 63 Straniero M.L. 193 Sylos Labini P. 85, 99, 225 Tasca A. 24, 37 Tenco L. 204 Terracini U. 15, 24, 37 Tomasi di Lampedusa 209, 220, 222, 269, 270 Togliatti P. 24, 36, 37, 40, 48, 92, 96, 123, 151, 288, 338, 381 Tommaseo 214 Traina G. 275, 276, 277 Tranfaglia N. 241 Treves C. 26 Trockij L. 36, 44, 47, 48, 63, 95 Tronti M. 36 Tusa V. 91 Uccello A. 231 Ulivi F. 182 Unamuno M. 13, 388 Ungaretti G. 109 Unterhofer H. 181 Urbani G. 95 403 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Vacca G. 22, 355, 375 Vallazza M. 181 Vecellio V. 290 Vella (Abate) 319 Verga G. 216, 218, 270 Vico G.B. 25 Vilardo S. 156 Vittorelli P. 312 Vittorini E. 277, 284 Vittorio Emanuele II 76, 77 Vizzini C. 236, 241 Volpe C. 236, 241 Wittgenstein L. 357, 374 Zago N. 225 Zigaina G. 110, 148 Zola E. 245 Zorutti P. 107
404 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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