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Comitato scientifico della Collana Piero Coda Gianfranco Dalmasso Pierpaolo Donati Fabrice Hadjadj Antonio López John Milbank Pierangelo Sequeri
Una prospettiva relazionale
Qui si offre una ricerca transdisciplinare che segue il metodo dell’expert meeting. Con “transdisciplinare” non intendiamo l’ambito comune a diverse discipline (l’inter di una ipotetica interdisciplinarietà) che potrebbe essere studiato con metodi e prospettive diverse tra loro; intendiamo invece la realtà al di là della sua formalizzazione nei diversi linguaggi, quella realtà alla quale ogni disciplina è chiamata ad aprirsi per entrare in sinergia con le altre, un’eccedenza che supera ed è al contempo ciò su cui le diverse prospettive si basano. L’esperienza di due anni di lavoro ci permette di affermare che questa realtà previa a qualsiasi tipo di formalizzazione è la relazione. Nel corso di questo lavoro, abbiamo comprovato che il “paradigma relazionale” proposto da Donati, serve da interfaccia ontologico, epistemologico e metodologico meglio di altri paradigmi, permettendo un dialogo fruttifero fra le discipline e consentendo di illuminare aspetti essenziali della realtà spesso trascurati. I risultati del lavoro che il lettore ha tra le mani sono senz’altro parziali e a volte vengono offerti più sottoforma di riflessioni e di domande che di soluzioni vere e proprie. Ciononostante, pensiamo che siano già delle buone indicazioni per una migliore comprensione della differenza uomo-donna in quanto relazione originaria, e per affrontare una serie di fenomeni socio-culturali in cui si osserva la perdita di questa differenza, e la sostituzione di tale relazione con altri tipi di relazione.
Ecologia integrale della relazione uomo-donna
La crisi dell’epoca contemporanea è segnata dall’incapacità delle diverse discipline di dialogare tra di loro, incapacità che le rende non significative per la vita concreta dell’uomo di oggi. Il ROR nasce dalla convinzione dei suoi membri che il superamento di questa crisi non possa consistere in un ritorno ad uno stato premoderno, ma richieda un lavoro ontologico per ampliare la metafisica alla dimensione relazionale dell’esistente. A ciò si può arrivare da fronti diversi: attraverso l’analisi del pensiero patristico fino all’antropologia; dalla presa di coscienza del ruolo fondamentale dell’ermeneutica, al rapporto con le scienze sociali e, in particolare, con il prezioso stimolo offerto dalla sociologia relazionale di Pierpaolo Donati. Ciò vale in special modo per quanto riguarda lo sviluppo di un’epistemologia relazionale, cioè di un’epistemologia in grado di trattare come oggetti propri le relazioni, che nella prospettiva aristotelica, come pure in quella cartesiana, rimanevano in ombra.
P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (a cura di)
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Una prospettiva relazionale
dal Discorso per l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2016-2017 di Mons. Javier Echevarría, Gran Cancelliere della Pontificia Università della Santa Croce.
S t u d i e s Se r i e s
4 € 24,00
P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (a cura di)
Ecologia integrale della relazione uomo-donna
Si ringrazia
© foto Elio Ciol, Il grido di Pasqua
Studies Series
Commentando l’affermazione di Paolo VI, che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Benedetto XVI scrive: «serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un “approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 53). Dalla Populorum Progressio fino a Papa Francesco, passando attraverso le parole della Caritas in Veritate, si può evidenziare nel Magistero un filo conduttore, che stimola gli uomini di scienza e di cultura ad entrare in relazione tra loro per pensare insieme la dimensione sociale dell’essere umano e della sua perfezione, e quindi del suo cammino verso la felicità.
EDUSC
Ecologia integrale della relazione uomo-donna Una prospettiva relazionale P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (a cura di)
EDUSC
Ricerche di ontologia relazionale
Quarto volume
Prima edizione 2018
Grafica e impaginazione: Gianluca Pignalberi (in LATEX 2ε ) Copertina di Sonia Vazzano
© 2018 – ESC s.r.l. Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637 [email protected] www.edizionisantacroce.it
ISBN 978-88-8333-721-5
Indice
Prefazione
Approccio fenomenologico (psicologia sociale e antropologia) 1
2
3
4
5
31
La differenza uomo-donna tra identità e relazione. Il punto di vista della psicologia sociale Raffaella Iafrate
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La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale: condizione sessuata versus sesso, genere, e stereotipi Antonio Malo
47
Differenza uomo-donna, differenze di genere e cambiamenti sociali: elementi per una riflessione Isabella Crespi
91
La relazione uomo-donna tra fatiche e opportunità Eleonora Maino
103
3
Indice
5
Ecologia integrale della relazione uomo-donna. L’incapacità relazionale Milena Provenzi
Approccio ontologico (sociologia e teologia) 6
La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale Pierpaolo Donati
113
121
123
7
Non c’è due senza tre: relazione e differenza tra uomo e donna alla luce del Mistero di Dio uno e trino Giulio Maspero 167
8
La relazione uomo-donna tra natura e cultura Sergio Belardinelli
205
Approccio etico-politico (teologia, filosofia morale e politica, sociologia) 213 9
Essere si declina al plurale. Identità e generazione Elena Colombetti
215
10 La riflessività nella relazione uomo-donna Giovanna Rossi
257
11 L’altro come non-proprio. Considerazioni filosofiche sul paradigma relazionale Sante Maletta
285
12 I beni relazionali della coppia Oana Gotia
297
Indice dei nomi
313
4
Prefazione
La presentazione di un lavoro di ricerca transdisciplinare richiede qualche parola in merito alle condizioni che l’hanno reso possibile. E ciò per due ragioni: in primo luogo perché, sebbene sia ormai una moda parlare di studi interdisciplinari, non è frequente che lo siano veramente. Infatti le difficoltà nel raggiungimento dell’interdisciplinarietà dipendono non tanto dalla mancanza di capacità scientifica e organizzativa da parte dei ricercatori, quanto piuttosto dalla mancanza di un metodo adeguato. In secondo luogo, quando qui si parla di ricerca transdisciplinare non si sta semplicemente usando un sinonimo di interdisciplinare, ma si tratta piuttosto di qualcosa di diverso. Infatti, con il termine ‘transdisciplinare’ non si vuole indicare l’ambito comune a diverse discipline (l’inter dell’interdisciplinarietà), che perciò può essere studiato con metodi e prospettive differenti, bensì si vuole indicare la realtà al di là della sua formalizzazione in diversi linguaggi e alla quale ogni disciplina è chiamata ad aprirsi per entrare in sinergia con le altre discipline. In tal modo, nonostante il fatto che ogni disciplina abbia un proprio linguaggio, dei propri principi e un proprio metodo e che, nelle condizioni culturali odierne, manchi un logos comune, è possibile osservare insieme e riconoscere la realtà su cui le diverse prospettive si basano. L’esperienza di due anni di lavoro ci permette di affermare che questa realtà previa a qualsiasi tipo di formalizzazione è la relazione. D’altro 5
Prefazione
canto, nel corso del lavoro che è stato portato avanti, si è anche comprovato che il ‘paradigma relazionale’ proposto da Donati, serve da interfaccia ontologico, epistemologico e metodologico meglio di altri paradigmi, permettendo un dialogo fruttifero fra le discipline, il che consente di illuminare aspetti essenziali della realtà spesso trascurati. Oltre al metodo di lavoro basato sul ‘paradigma relazionale’, abbiamo anche accertato che l’expert meeting è una formula particolarmente adatta alla comunicazione e allo scambio fra ricercatori delle diverse discipline che usano questo paradigma. Infatti, rispetto al tradizionale congresso, l’expert meeting offre la possibilità di realizzare un vero dialogo dove i diversi partecipanti imparano realmente a confrontarsi sui loro rispettivi punti di vista e a riflettere insieme in profondità sul reale, piuttosto che sulle sue formalizzazioni. Con il primo expert meeting abbiamo messo le basi di questo lavoro di ricerca, individuando una serie di elementi essenziali, come il problema della soggettività ereditato dalla modernità, la necessità di imparare ad usare una logica e una riflessività relazionale sia per evitare le opposizioni binarie sia per capire i beni relazionali, ecc. Inoltre, siamo riusciti anche ad avere una prima comprensione ontologica della relazione come energeia, cioè come atto, perché, in quanto ‘essere’, la relazione è atto, ma un atto che ha una forma sui generis, diversa dall’atto individuale, perché consiste di una realtà che va oltre l’apporto dell’individuo. Questo secondo expert meeting ha cercato di fare un passo in avanti nella direzione della transdisciplinarietà, in quanto abbiamo applicato il paradigma relazionale allo studio della differenza uomo-donna. Al di là delle considerazioni teoriche generali, ogni relatore e ogni discussant ha preso in considerazione uno o più casi concreti, esempi, applicazioni o in generale elementi di ricerca che sono così diventati oggetto del comune sguardo delle diverse discipline. Quindi, assieme alle relazioni di carattere più generale, abbiamo affrontato temi concreti che riguardano la costituzione relazionale della persona umana, della famiglia e dell’educazione. Inoltre, se nel primo expert meeting, le discipline coinvolte erano solo tre (sociologia, filosofia e teologia), in questo secondo 6
abbiamo fatto spazio ad altre discipline di carattere più pratico, come la psicologia, l’etica e la pedagogia. I risultati del lavoro che il lettore ha nelle sue mani sono senz’altro parziali e a volte sono più riflessioni e domande che soluzioni vere e proprie. Ciò nonostante, pensiamo che essi offrano già delle indicazioni sia per una migliore comprensione della differenza uomo-donna in quanto relazione originaria, sia per affrontare una serie di fenomeni socio-culturali in cui si osserva la perdita di questa differenza e, quindi, la sostituzione di tale relazione con altri tipi di relazione. A partire da questi risultati, il libro è strutturato in tre parti. Nella prima si studiano i fenomeni psicologici e antropologici della differenza uomo-donna che fanno parte del panorama culturale postmoderno. Nella seconda si analizza la differenza uomo-donna dal punto di vista dell’ontologia e sociologia relazionale. Nella terza parte si offrono delle soluzioni dal punto di vista morale, sociologico, e antropologico. Il punto di partenza dell’expert meeting sono alcuni fenomeni relazionali della postmodernità. La psicologia sociale ne è da questo punto di vista un eccellente osservatorio. Partendo dagli ultimi studi in ambito della psicologia evolutiva, Iafrate mostra come i legami presenti già nella vita del neonato, soprattutto con la madre, lo rendono da subito persona con una storia emotiva e relazionale, la quale si sviluppa mediante le esperienze di appartenenza a gruppi specifici: famiglia, amici, gruppi di lavoro, ecc. Queste relazioni, però, sono oggi molto spesso origine di identità fratturate. La domanda che si fa Iafrate è per quale motivo si producano queste fratture. Nella relazione individua tre note: in primo luogo, riguardo alle interazioni in atto, la relazione rimanda ad un legame precedente che costituisce il suo contesto significativo; in secondo luogo, un aspetto di questo contesto sono i tempi lunghi, ossia la storia personale e sociale che lega un uomo e una donna, due amici, i genitori e i figli, un educatore e un allievo; in terzo luogo, è il significato che la differenza ha riguardo 7
Prefazione
all’altro, poiché essa può occasionare tanto incontri empatici quanto conflitti. La differenza gioca un ruolo importante nella relazione perché, oltre ad essere un limite, è anche incarnata. Infatti, quando nella relazione con l’altro si tenta di prescindere dal corpo, i rischi che ne derivano sono enormi, come dimostrano i pazienti in cura per problemi di dipendenza da internet. Riferendosi a queste difficoltà, uno di essi spiegava: «Dove il corpo non c’è, dove non c’è il corpo che ti ferma, tu puoi andare avanti all’infinito a fare cose insensate». Anche se il corpo è presente nella relazione, non lo è sempre nello stesso modo. Con le sue ricerche, Iafrate ha distinto il “corpo per sé” dal “corpo per l’altro”. La prospettiva individualistico-narcisistica del “corpo per sé”, lo presenta come realtà da cancellare, negare, superare oppure come corpo narcisisticamente e ossessivamente curato e al centro di attenzione. Il “corpo per l’altro”, invece, è inteso relazionalmente e, perciò, rende visibile il riferimento ad “altro” fuori dal sé, e al senso del limite che inevitabilmente accompagna l’incontro con l’altro. Ma proprio in questo limite incarnato dell’altro si colloca la più grande potenzialità, la più straordinaria risorsa della persona: la generazione. Questa è da intendersi non solo dal punto di vista fisico del figlio, ma come generazione stessa della differenza uomo-donna in tutte le loro componenti umane, psichiche, spirituali e culturali, cioè come generazione della coppia e della genitorialità. Due sono i pericoli che Iafrate scopre perché la coppia raggiunga la sua identità: o il fissarsi solo sulla differenza dell’altro, fino a considerarla estraneità, o il sottolineare solo la somiglianza, fino alla fusionalità, che annulla la diversità e non vede l’alterità del coniuge se non proiettando su di lui i propri bisogni e le proprie aspettative. La costruzione di una identità di coppia deve, dunque, passare dal confronto-conflitto di differenze, per approdare – nelle situazioni più “riuscite” – al riconoscimento reciproco dell’identità di ciascun membro. Per quanto riguarda la genitorialità, le nuove generazioni hanno bisogno di una “cura responsabile”, ossia di aspetti di affetto/accudimento (aspetto affettivo) e, al tempo stesso, di norma/responsabilità (aspetto 8
etico). A questo proposito, Iafrate spiega come l’esperienza clinica insegna che molti episodi di devianza o di dipendenza riscontrati negli adolescenti o nei giovani sono legati all’impossibilità sperimentata da questi di incontrarsi da bambini con dei divieti da parte dei genitori. Poiché il padre è sempre il limite del figlio in quanto è ciò che lo definisce, la relazione del figlio con il limite è filiale: il male, i difetti, gli errori e anche la stessa morte hanno un carattere di limite in cui è presente il padre. Per ogni essere umano c’è, dunque, bisogno di un paterno e di un materno o meglio proprio di “quel padre” e di “quella madre”. Ciò implica uno spostamento dell’attenzione dal piano materiale-fenomenologico (può succedere che un figlio si trovi a crescere senza un genitore) ad un piano simbolico-antropologico e soprattutto impone un capovolgimento della prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio. Ecco, dunque, perché la nostra società non è più generativa, perché essa non comunica ai suoi membri l’accettazione del limite. A parere di Iafrate, la tentazione onnipotente di un corpo senza limiti, compreso il limite della sua de-finizione sessuale, forse ci parla di questa paura inaffrontabile che è poi fondamentalmente una mancanza di speranza; in altre parole è come se l’uomo contemporaneo cercasse di superare il limite della morte fantasticando un’onnipotenza impossibile. Perciò, la vera sfida culturale di oggi sta nel recuperare la più intrinseca funzione della vita umana, ossia la sua generatività. Educare alla generatività è quindi un compito fondamentale non solo per il bene dei giovani, ma dell’intera società. Nella discussione, Crespi considera che la distinzione stabilita da Iafrate sulla differenza maschile e femminile è oggi messa in discussione da più parti. D’altro canto, ritiene che non bisogna distinguere troppo fra differenza maschile e femminile quando si parla di questioni che hanno una rilevanza sociale. A questo scopo, ella prende in considerazione il tema della tutela della maternità, che è semanticamente e simbolicamente diverso dall’utilizzo del termine tutela della genitorialità. La legislazione attuale, insieme a quella passata e quella futura, possono in tale senso, 9
Prefazione
politicamente, orientare verso un modo di pensare che ha delle ripercussioni anche sul modo di intendere la questione dal punto di vista solo femminile oppure da un punto di vista che riguarda entrambi i genitori. La domanda di fondo diventa allora: la conciliazione famiglia-lavoro è un tema che riguarda le donne e i bambini oppure i genitori? D’altra parte, sempre secondo Crespi, anche se il tema della parentela che sta alla base dei legami familiari si fonda su alcuni assi (generi e generazioni), in tutte le sue altre forme è poi definita socialmente. Ad esempio la cura dei neonati, l’attaccamento materno, dipendono dalla cultura e dalle norme sociali. In alcuni popoli i bambini possono essere allattati e cresciuti non solo dalle loro madri, ma da balie o da altre figure. Da parte sua, Maino, l’altra discussant, considera che nell’affrontare la differenza uomo-donna, oltre agli studi scientifici, si dovrebbe tener conto anche del sentire comune, il quale ci interroga sulla capacità di definirsi a partire dalle relazioni con gli altri, sul fatto che esista o meno un modo differente – maschile o femminile – di essere in relazione e di dar origine ai beni relazionali. In modo provocatorio racconta la storia di una sua paziente, Maria, che, dopo anni di matrimonio e dopo aver avuto due figli, si innamora di un’altra donna. E allora si chiede: come “comprendere” questa situazione? Come gestire le differenze? Come definire il proprio essere donna a partire dagli altri? Come sposa o madre, o come amante di un’altra donna? D’altro canto, anche se è importante porre l’accento sulle differenze tra uomo e donna, Maino pensa che sia altrettanto importante porre l’attenzione su alcune “uguaglianze” (uguale importanza, fallibilità, ecc.) che vanno poste come pilastri della relazione e sono in grado di sostenere il processo di armonizzazione delle differenze. Perciò, in assenza di una reciproca attribuzione di importanza, in assenza del riconoscimento della propria fallibilità e del proprio limite, è difficile trovare la possibilità di negoziare all’interno delle relazioni, garantire presenza, vicinanza, sentirsi amati e amare, perdonare gli errori, condividere i dolori, potersi fidare dell’altro e accettare che, grazie all’altro diverso da noi, possiamo realizzare ciò che vogliamo essere. 10
Infine, Provenzi, la terza discussant, a partire dalla sua pratica clinica conferma l’importanza di una buona relazione con la madre perché il figlio o la figlia accetti i propri limiti e, in questo modo, possa essere in grado d’individuarsi. Quando, invece, i limiti non vengono riconosciuti, il figlio continua ad avere un desiderio di onnipotenza che, più tardi, può trasformarsi in feticismo, ossia la ricerca di determinati oggetti perché in essi si crede di trovare la sicurezza mancante. L’esistenza di una base antropologica che soggiace agli elementi messi in rilievo dalla psicologia sociale (alterità come differenza incarnata, limite, conflitto, relazione generativa e il suo ruolo essenziale nell’identità dell’uomo e della donna, soprattutto come padre e madre) è studiata da Malo dalla prospettiva dell’antropologia filosofica. Secondo lui, i processi morfogenetici di ominazione e di umanizzazione della sessualità trasformano ciò che inizialmente corrisponde a una serie di istinti collegati attorno alla riproduzione della specie, nel fenomeno della cura dell’altro e dell’amore dell’altro di differente sesso, i quali si trovano alle origini della coppia e della famiglia. A partire dal fenomeno della cura soprattutto nei confronti del figlio, nato in situazione di massima dipendenza e contemporaneamente di massima capacità – anche a livello cerebrale – di relazioni personali, i diversi elementi della sessualità umana, corpo sessuato con significato simbolico, desiderio del desiderio dell’altro, amore, matrimonio e famiglia, si strutturano in ciò che Malo chiama condizione sessuata, per distinguerla sia dalla sessualità animale sia dalle teorie naturalistiche e di genere, ma anche da quelle del femminismo della differenza. Infatti, sempre secondo Malo, tutte queste teorie segnalano degli aspetti importanti della sessualità ma nell’assolutizzarli, perdono di vista il fatto che essa è una struttura complessa. Ad esempio, il naturalismo trasforma le differenze corporali fra uomo e donna in una serie di differenze psichiche e sociali, che danno luogo ad una costellazione di divieti e di stereotipi. Qualcosa di simile può affermarsi del genere, del queer e del femminismo della differenza. Il primo sottolinea l’importanza nella sessualità umana dell’identità psichica e della scelta, ma dimentica il valore simbolico del corpo e il carattere generativo della relazione 11
Prefazione
sessuale; il queer riconosce l’importanza del linguaggio, dei modelli da imitare e dell’azione, ma dimentica che il significato simbolico e generativo del corpo trascende il carattere arbitrario del linguaggio. Infine, il femminismo della differenza mette in risalto la potenza generativa della differenza e il ruolo fondamentale della maternità, ma tralascia il ruolo della sessualità e della figura del padre nell’identità dei figli. A che cosa è dovuta questa difficoltà nel capire la sessualità umana? Secondo Malo è dovuta al fatto che si sta perdendo di vista che la condizione sessuata, così come il linguaggio, inizialmente è solo una potenzialità che ha bisogno di relazioni personali, di educazione, di esperienze, e che è quindi necessario imparare a integrarla per poter amare. Così come non esiste una lingua che sia naturale ma solo la capacità di parlare, non esiste nella sessualità umana nulla che sia puramente naturale. Infatti, senza modelli maschili e femminili, paterni e materni, senza la loro imitazione non può darsi un’identificazione con il proprio sesso corporeo e, di conseguenza, desiderare e amare l’altro di differente sesso. Quindi, ciò che la teoria di genere chiama stereotipi, sono spesso elementi necessari per lo sviluppo della propria condizione sessuale, come i modelli lo sono per l’identificazione e la differenziazione dei figli riguardo ai genitori. Altre volte i cosiddetti stereotipi, come i colori, i giochi, i gesti, e il linguaggio, sono convenzioni culturali utili a mantenere la differenza sessuale. L’errore non è solo quello di considerare naturali queste convenzioni, ma anche di considerarle completamente arbitrarie, per il solo fatto che si tratta di convenzioni. L’arbitrio, infatti, riguarda solo il contenuto, non la forma, la quale serve al mantenimento della differenza sessuale: i vestiti, ad esempio, si trovano in continuità con il valore simbolico dei corpi che coprono mostrandoli ed ornandoli. La condizione sessuata contiene, quindi, come elemento essenziale, la differenza sessuale che la genera e che, perciò, è il suo fine. Ovvero, la condizione sessuata è relazionale nella sua origine, nel suo sviluppo e nella sua finalità di donazione all’altro. Quindi la condizione sessuata ha la relazione come essenza. Evidentemente, il concetto di generazione 12
non è solo quello fisico del figlio, bensì uno più ampio che ha nella paternità e maternità il suo analogato principale. In virtù della condizione sessuata, ogni uomo e ogni donna può diventare, almeno spiritualmente, genitore. Ecco perché la condizione sessuata quando è stata integrata porta con sé la generazione, cioè l’apertura al terzo. Secondo Malo, la generazione è un caso particolare di energeia, che si trova già nella coppia, perché, sebbene gli sposi trascendano la relazione in quanto la mettono in atto, si trovano al suo interno dando luogo appunto al terzo, ossia alla coniugalità. Questa energeia della coppia ha, quindi, un carattere attivo perché fa nascere una nuova realtà, dotata delle sue proprie leggi. Forse quella più importante è la gratuità e il dono di sé. A partire dal dono è possibile capire meglio la condizione sessuata, come cioè una struttura relazionale che permette al bambino, a partire dalla dipendenza massima dai genitori, di integrarne i diversi elementi (sessualità corporea, psichica e sociale) nel dono di sé all’altro. Insomma, uomo e donna si differenziano mediante le loro relazioni, invece di essere semplicemente differenti. Nella discussione, Crespi segnala che non è poi così chiaro quale sia il legame della sessualità con il desiderio, la dimensione del piacere o Eros con la procreazione/generatività, e neanche quale sia il rapporto virtuoso tra desiderio, sessualità e generatività. A suo parere ciò è dovuto al fatto che la differenza sessuale viene spesso studiata a partire dalle relazioni adulte, senza tener conto di come e quando iniziano le relazioni sessuali/affettive/ di genere nella vita dei soggetti. Lei pensa, quindi, che sarebbe necessario fare anche un discorso sulla socializzazione al genere. Da questa prospettiva le sembrano importanti due indagini svolte da lei stessa che mettono in luce in che modo tanti adolescenti si incontrino e si confrontino, alla ricerca di una definizione di sé in cui l’appartenenza di genere appare ad un tempo una risorsa importante per la crescita, e una possibilità di identificazione, ma anche di sperimentazione di nuove modalità di essere e di relazionarsi all’altro. Nel nostro contesto culturale – aggiunge – la 13
Prefazione
socializzazione di genere, che inizia ormai sempre più precocemente, ci chiede di riuscire a leggere le nuove/rinnovate/differenti regole del gioco attraverso le quali si costituisce la relazione uomo-donna intesa ontologicamente come un terzo differente dai soggetti che ne fanno parte. Una relazione, quindi, che genera qualcosa, un tertium, e che lo mantiene, lo cambia e lo riadatta nel tentativo di esistere per un tempo socialmente definito e voluto anche dai due soggetti implicati. A parere di Crespi, la questione centrale dal punto di vista antropologico è in che modo si può recuperare il legame tra sessualità, differenza uomo-donna e generazione, soprattutto in relazione al ciclo di vita, all’esperienza della coppia, alle pressioni sociali che tendono a disgiungere questi tre aspetti. Anche se Maino si trova in linea di massima d’accordo con Iafrate e Malo sulla stretta connessione tra corpo, sessualità e relazione, ritiene che purtroppo oggi si rischia spesso di perderla sia a livello sociale, sia quando si entra in contatto con situazioni proprie di alcuni gruppi di persone o situazioni ancor più individuali. Ad esempio, a livello sociale, spesso l’attenzione riguardo la sessualità è posta sulla dimensione corporea mentre vengono trascurati gli aspetti relazionali e affettivi. Perciò si chiede come comprendere queste situazioni nell’ottica di una ecologia integrale della relazione uomo-donna. Inoltre, se è vero, come suggerisce Malo, che “la differenza sessuale è la matrice del nostro essere in relazione”, cosa dire di quelle situazioni in cui il corpo viene visto come asessuato? Maino si riferisce, ad esempio, alle situazioni in cui è presente una rilevante disabilità. Secondo lei, quando il corpo è malato, viene quasi automatico pensarlo come asessuato; così accade nel caso delle persone con una significativa disabilità che sovente vengono pensate come non sessuate o, almeno, come se la loro sessualità fosse irrilevante, non appartenente alla loro identità. E ancora – si chiede – che dire nell’ottica di una ecologia integrale della relazione uomo-donna, di quelle situazioni dove si è ben lontani dall’umanizzare la sessualità attraverso la cura dell’altro e dove non c’è spazio e pensiero per la generatività?
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Dal canto suo, Provenzi conferma con la sua pratica clinica la necessità della differenza perché ci siano vere relazioni, anche dal punto di vista sessuale. A questo riguardo è molto interessante la descrizione di sé di una paziente affetta di anoressia: "Era riuscita a diventare parte del terzo sesso. [. . .] In un certo senso aveva raggiunto l’indipendenza assoluta, per cui non aveva bisogno di alcun rapporto estraneo e poteva dar vita a un rapporto amoroso con se stessa". La mancanza del proprio limite, propria del narcisista, porta con sé l’indifferenza e l’autoreferenzialità e, di conseguenza, l’assenza di relazione con l’altro. L’analisi di Donati di taglio squisitamente sociologico (di sociologia relazionale) prende spunto da alcuni fenomeni precedentemente esaminati in cui si osserva la disconnessione fra le differenze fisiche dell’uomo e della donna e le loro identità psico-culturali. A suo parere, la tentazione è di considerare questi fenomeni di disconnessione come la ‘causa prima’ dei cambiamenti relazionali, ad esempio nell’emergenza di nuovi tipi di maternità e di paternità, di nuovi modelli di famiglia, e così via. In realtà, secondo la diagnosi di Donati, «la legittimazione delle nuove relazioni va di pari passo con (ma spesso di fatto precede) la costruzione delle nuove identità. Cosicché vengono modificati tutti i ruoli sociali, che non sono più qualificabili come maschili o femminili». Quindi, questi cambiamenti relazionali non possono spiegarsi con una causalità efficiente, secondo cui la decostruzione degli elementi che compongono una relazione producono necessariamente una nuova relazione. Al posto di questo tipo di causalità, bisogna usare – secondo Donati – un’altra categoria, quella dei processi morfogenetici, i quali, sebbene possano essere molti e differenti, si muovono in una determinata direzione: nel caso dei cambiamenti nella differenza sessuale, si muovono verso una società che abbandona l’umano, una società cioè post-umana, trans-umana, etopoietica, iper-umana, in cui nessuna identità può essere più fissata e resa stabile nel tempo. Sono proprio questi processi morfogenetici a negare, quindi, l’esistenza di una differenza
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Prefazione
sessuale originaria, come si osserva in tante persone che oggi amano mischiare caratteri maschili e femminili. A monte di questi processi morfogenetici si trova la cosiddetta questione umanistica, la quale non significa soltanto che si faccia molta fatica a definire l’Uomo (il genere umano), ma soprattutto che si sente il bisogno di liberarsi dal punto di vista umanistico, retaggio della prima modernità, perché incapace di rispondere alle sfide della nostra società. Nel contesto di ciò che Donati chiama dopo-moderno (e non post-moderno) è necessario, quindi, un nuovo umanesimo; nel caso della differenza uomo-donna, questo umanesimo è da cercare non in una serie di elementi più o meno strutturati che permettono di distinguere il maschile dal femminile, bensì nelle qualità e proprietà causali delle loro relazioni, le quali riguardano tutte le dimensioni di realtà. Infatti, esse si riferiscono al corpo, sia dal punto di vista biologico, sia dal punto vista psicologico e culturale (l’immagine del corpo che i due sessi hanno è anche relazionale), così come alle posizioni, i ruoli e le identità sociali. E, soprattutto, riguardano l’altro sesso; infatti, l’uomo si definisce in relazione alla donna e viceversa; dire ciò significa che esiste una struttura di riferimento reciproco che li connette. D’altro canto, nel desiderio che la società contemporanea ha di trascendere l’umano, Donati vede il rifiuto di considerare che la trascendenza si dia nell’atto individuale. Rifiuto che egli condivide, poiché la persona si trascende solo nel prendersi cura delle sue relazioni, il che è possibile attraverso l’esercizio di ciò che Donati chiama riflessività relazionale. La riflessività relazionale ci fa comprendere perché e in che modo la vita umana sia relazione, ad esempio la vita di coppia, ossia l’effetto emergente di una relazione reciproca. Questo effetto emergente fa sì che ogni relazione fra due persone sia triadica, ossia implichi un Terzo (il terzo appunto della relazione). Per capire il tipo di relazione, si deve quindi esaminare il tipo di effetto emergente. Ad esempio, quando le due persone sono un uomo e una donna, il Terzo non è lo stesso che nel caso in cui le persone siano due uomini o due donne, perché l’effetto emergente è necessariamente diverso. Il Terzo della relazione di coppia 16
è la generazione, la quale – come è stato indicato anche da altri relatori – non è solo quella fisica dei figli, ma più in generale qualunque effetto della relazione interumana, come il riconoscimento reciproco, l’empatia, la fiducia, l’apprezzamento delle differenze sensibili quando sono o possono diventare sinergiche. L’essere uomo e donna riflette la dinamicità di questa relazione generativa in ogni specifico contesto sociale. Il Terzo della relazione è, quindi, un bene non dipendente da un’azione, bensì da una relazione e, per questo motivo, Donati gli dà il nome di bene relazionale. Inoltre, poiché le persone hanno bisogno di questo tipo di beni per umanizzarsi, la relazione uomo-donna umanizza le persone e nel contempo è umanizzata. Secondo Donati, la sfida che la dopo-modernità ci pone davanti è quella di imparare a gestire la complessità delle nostre relazioni, sapendo riconoscere e prendendoci cura dell’unicità di ogni relazione contestualmente situata. Così ogni identità sessuata in atto è il cuore di un neo-umanesimo che deve abbandonare gli stereotipi del passato, del presente e del futuro. Nella sua discussione, Belardinelli concorda con Donati sul fatto che non è pensabile che la causa di tutte le differenze psicologiche e sociali tra uomo e donna sia riconducibile meccanicamente a una differenza biologica. Ma, secondo Belardinelli, occorre evitare sia una frattura incolmabile tra i sessi, sia la loro omogeneizzazione, fino al limite del “matrimonio con se stessi” a cui Donati fa riferimento nella sua relazione. Per fare ciò, Belardinelli suggerisce di ripensare in chiave relazionale il binomio natura-cultura che oggi non è adeguatamente compreso. A suo parere, siamo passati da un naturalismo dal quale si supponeva che potessero essere dedotte le norme morali e sociali, a un culturalismo che della natura letteralmente non sa più che farsene. In questo senso, una delle questioni da approfondire sarebbe la descrizione dei beni relazionali, perché – secondo Belardinelli – non è chiaro che cosa renda significativa e gratificante una relazione e positivo o negativo un suo effetto. Quando parliamo di beni relazionali 17
Prefazione
siamo di fronte infatti a una normatività sui generis, che certamente non è compatibile con la neutralità e il relativismo etico oggi imperanti, ma neanche con gran parte delle etiche che vi si contrappongono. Il carattere “normativo” della relazione, infatti, non va confuso con le virtù o con i principi morali dei singoli soggetti in essa coinvolti, né viene calato dall’alto sulle relazioni stesse, bensì cercato al loro interno, senza determinismi e nel rispetto della loro autonomia. Questa sarebbe un’importante ricerca da fare. Per approfondire il carattere generativo della relazione uomo-donna, Maspero fa una lettura teologica della differenza sessuale. Ciò è possibile perché l’articolazione di relazione e differenza rimanda alla formulazione del Dio uno e trino. Per fare questo rimando si devono, però, evitare due scogli: in primo luogo, considerare la sessualità umana come legata solo al corpo; in secondo luogo, proiettare su Dio una dimensione antropologica, violando così l’apofatismo, vale a dire l’eccedenza del Mistero divino riguardo alla nostra capacità razionale. Secondo Maspero, la dottrina agostiniana potrebbe costituire il nucleo di un’ontologia relazionale teologica, in quanto afferma la possibilità di rinvenire una relazione tra l’essenza divina con la sua immanenza e la persona (uomo o donna), grazie all’analoga struttura delle sue facoltà interiori. Ciò nonostante, Sant’Agostino sembra escludere la possibilità di capire la differenza sessuale in relazione all’immagine divina impressa nell’uomo, perché quest’immagine corrisponde alla persona ma non al suo corpo e, quindi, neppure alla sua sessualità. Sembrerebbe, dunque, che mentre in Dio le differenze sono relazionali, nella persona umana la differenza sessuale non abbia un simile carattere relazionale. Se Agostino non permette di andare al di là della differenza personale, la teologia di Gregorio di Nissa, invece, lo rende possibile. Secondo Maspero, ciò è dovuto al fatto che il nisseno riesce a cogliere il valore della differenza sessuale come immagine di Dio. Infatti, secondo questo Padre della Chiesa, se l’uomo è immagine di Dio e Dio è uno e trino, 18
allora l’intelligibilità dell’uomo, compresa la sua dimensione corporale, andrà ricercata nella relazione con la Trinità. In altri termini, il senso del mondo, della storia e del corpo dell’uomo si situeranno al livello della persona uomo-donna e non solo a quello della natura umana senza differenza. Così, per il nisseno, il corpo umano va capito a partire dalla relazione fondante dell’immagine che unisce il dentro dell’uomo al dentro di Dio. Evidentemente, l’immagine divina non è costituita dal corpo, perché Dio è Spirito, ma lo conforma, tanto da esprimersi in esso. E come Dio è ed è in tre Persone relazionalmente distinte, così il corpo umano è ed è in relazione costitutiva con altre persone che sono altri corpi. Infatti, per avere un logos, il corpo rinvia sempre all’alterità dell’interlocutore e ad un mondo extra-mentale. Allora, la differenza sessuale tra uomo e donna può essere riconosciuta come immagine della differenza personale intratrinitaria. Infatti, l’identità dell’uomo non può essere pensata senza quella della donna e viceversa. L’essere l’uno o l’altra non significa solo un aspetto accidentale, perché l’essere persone si dà in due modi di esistenza concreti, che implicano un ordinamento reciproco. E ciò è dovuto proprio alla nostra perfezione in quanto creati ad immagine del Dio uno e trino, la cui immanenza è caratterizzata dall’identità relazionale. Poiché la persona è immagine di Dio anche in questo ordinamento reciproco della differenza sessuale, essa è generativa. Secondo Maspero, il riferimento alla generazione è fondamentale perché indica come la rivelazione trinitaria conduce a leggere la distinzione uomo-donna alla luce della relazione tra padre e madre. Un uomo e una donna attraverso il loro rapporto giungono ad essere sempre più se stessi desiderando generare, cioè desiderando ridonare il dono che loro stessi sono e che percepiscono particolarmente nella relazione. Ed ecco perché, la differenza sessuale diventa, mediante la sua relazione, terzo. Infatti, paradossalmente questo terzo è già presente nello stesso momento della costituzione della coppia, in quanto la decisione di accogliere l’uomo o la donna nella propria vita implica il riconoscimento di sé e dell’altro come di un dono, che quindi rinvia a una sorgente di 19
Prefazione
bene che teologicamente è identificata con il Dio uno e trino che è tale proprio perché è Padre, Figlio e Amore. Alla fine del percorso proposto da Maspero si può così dire che la profondità della distinzione tra uomo e donna si rinviene a livello di identità relazionale, in modo tale da acquisire pieno rilievo proprio alla luce della rivelazione del Dio uno e trino. Quando, infatti, si assume uno sguardo che contempla il creato alla luce dell’immanenza trinitaria del Creatore si può riconoscere l’effetto emergente costituito dalla relazione stessa tra uomo e donna, che viene così sottratta all’idealizzazione greca o alla dialettica moderna. Come segnala Belardinelli nella discussione, la lettura di Maspero del rapporto uomo-donna alla luce del mistero trinitario rappresenta un arricchimento importante per la prospettiva sociologica relazionale, specialmente per quanto riguarda la risignificazione, trinitaria e relazionale, della natura e della corporeità, dietro alla quale egli vede anche una decisiva risignificazione di uno dei problemi più urgenti del nostro tempo: il rapporto tra natura e cultura. Infatti, grazie al fatto che la persona umana in tutta la sua integrità è immagine di Dio, la corporeità e la natura non esprimono più qualcosa di inferiore, ma la concreta determinatezza della persona umana immagine di Dio. Il Dio uno e trino non può essere ovviamente limitato, ma la sua dimensione personale, quindi relazionale, può esprimersi ormai anche nella limitatezza della materia e della corporeità. Secondo Belardinelli, questa risignificazione trinitaria e relazionale della differenza uomo-donna è preziosa per una cultura, quale è la nostra, sempre più incapace di dare il giusto significato alla differenza sessuale, interpretandola ora come differenza di “sostanza”, ora come differenza indifferente. Emblematica – a suo parere – è l’odierna cultura del gender, in cui si giunge alla negazione della differenza, come se essere uomo ed essere donna fossero riducibili semplicemente al “sentirsi” uomo o sentirsi donna.
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Il punto di partenza di Colombetti è la categoria della pluralità non solo all’interno dell’identità personale ma soprattutto della relazionalità, perché necessaria per comprendere il reale, in particolare il fenomeno della vulnerabilità e della generatività, che sono categorie centrali della filosofia morale. Proprio perché la persona umana è un essere sessuato, Colombetti considera di particolare interesse alcune sollecitazioni apportate all’antropologia dal pensiero delle donne a partire dalla metà del XX secolo, poiché sono state loro a mettere in luce un aspetto deficitario della riflessione filosofica sull’essere umano, la prospettiva femminile. Prima, però, c’è bisogno di fare due premesse ontologiche. La prima è la proporzionalità diretta fra la perfezione dell’atto di essere e la relazionalità: quanto più un essere è perfetto, tanto più è immanente e capace di relazione; la seconda è anche essa una proporzionalità diretta, in questo caso fra relazionalità e cambiamento: quanto più un essere è capace di relazione, tanto più ne verrà modificato. Insomma, la propria identità è ricevuta dalla relazione con l’altro da sé e costruita in quella relazione. Ciò nonostante – secondo Colombetti – la questione delle relazioni negative e persino perverse solleva un’obiezione: non ogni relazione va mantenuta e alcune sono lesive del bene proprio o altrui. Perciò, al di là della relazione originante della filiazione, tutte le altre non istituiscono l’identità del soggetto, ma possono mutarla a seconda del loro grado di profondità. Occorrerà, quindi, valutare le relazioni che si instaurano a partire dai beni umani e dalla loro realizzabilità pratica, dai beni e dai mali relazionali che producono. Osservando il nostro comune statuto di esseri generati, vale a dire di figli, Colombetti indica che per la persona essere significa in primo luogo essere-con. Ciò sgretola sin dal principio l’idea moderna del soggetto autonomo, trasparente a se stesso, indipendente dall’altro da sé e quindi, in fondo, an-archico, privo di principio. Quest’idea ha costituito il modello maschile di persona, il quale è stato – per Colombetti – l’unica prospettiva dell’umano stesso. Ciò nonostante – pensa Colombetti –, la via di soluzione ad alcune esigenze messe in luce dai Women’s Studies non è la destrutturazione 21
Prefazione
del soggetto o il soggetto nomade, ma un soggetto relazionale. Infatti, come mostra Colombetti, sia quando si interpreta la differenza come complementarietà delle attribuzioni ai due sessi sia quando la distinzione sessuale diviene indifferente, si presenta il rischio (poi di fatto storicamente verificatosi) che le caratteristiche di quell’essere umano corporeo e quindi concretamente sessuato siano implicitamente assunte come definitorie dell’universale. Ciò che, a suo parere, non viene considerato nella critica al logos unificante è l’esistenza di un altro tipo di logos, quello che Maspero indica come logos-ut-relatio che amplia, senza contrapporsi ad esso, il logos-ut-ratio delle relazioni necessarie. A questo proposito, reputa significativo che con l’avvento storico del pensiero cristiano, oltre all’irruzione della pluralità nell’unità, faccia presto la sua comparsa la tematizzazione della maternità, testimoniata dalla ricca iconografia della Madre e del Bambino. Secondo Colombetti, la specificità della donna, indipendentemente dal suo essere o non essere di fatto madre, può introdurci ancora più in profondità in quel mistero che è l’identità relazionale umana. In particolare, l’intimità corporea con la madre svela come l’essere-con sia letteralmente incarnato. Prendendo spunto dal femminismo della differenza, Colombetti sostiene che all’interno della stessa differenza ci sia un rimando simbolico necessario all’altro, alla madre. Perciò per capire la relazione uomo-donna si dovrebbe partire da una differenza sessuale in cui il soggetto non è immediatamente colto come “altro da”. In questo senso i due sessi non sono complementari se non in modo sui generis, perché l’uomo e la donna non sono la frantumazione di un tutto, due esseri in sé manchevoli. È la ricchezza dell’essere personale, non la manchevolezza, a permettere la relazione con l’altro. Ecco perché il riferimento all’essere pregni dell’altro proprio di ogni generatività appartiene sia all’uomo sia alla donna. Quest’ultima però ne è più facilmente consapevole perché, nella specificità della generazione nel corpo, solo lei è pervasa dall’altro e custodisce in sé la novità che deriva da entrambi. La donna rende questo processo visibile. Ogni donna è un soggetto che da tutti i punti di vista (ontologico, psicologico, simbolico, sociale) può essere due. La conformità fisica che rende possibile 22
la gravidanza porta con sé la paradossale possibilità di essere due corpi in uno solo, un sé-con-altro-da-sé, ossia un sé che è con e include l’altro da sé. In questo senso essere si declina al plurale, non solo perché ci sono gli esseri, ma perché, proprio per essere, ognuno ha in sé la pluralità della relazione con l’altro. Rossi fa una lettura della relazione uomo-donna nella sua morfogenesi attuale (postmoderna) rispetto a due ambiti di riferimento: la famiglia e il lavoro. A suo parere, l’esito della morfogenesi nella formazione dell’identità maschile e femminile nella relazione genitoriale e nel campo lavorativo, è fortemente legato alla capacità di avviare processi riflessivi e al tipo di riflessività in atto. Poiché in questa morfogenesi le ricerche dei Women’s e dei Men’s Studies hanno avuto un ruolo importante, bisogna partire – secondo Rossi – dal tipo di riflessività che emerge da tali approcci. L’analisi dei Women’s Studies mette in luce una forte autoreferenzialità priva di relazione con l’altro, permeata – almeno, nei suoi primi sviluppi – dall’idea di squilibrio di potere e di sottomissione e dall’enfasi sulla differenziazione biologica, per poi arrivare ad una sopravvalutazione del versante costruttivista che tenta di annullare ogni distinzione eliminando il sostrato biologico dell’essere umano. Pertanto, tali studi ci indicano una possibile attuazione di una riflessività autonoma e/o strumentale. Differentemente dal pensiero femminista, quello dei Men’s Studies sembra essere tematizzato in relazione al femminile, ma occorre chiedersi di quale relazione stiamo parlando. Secondo Rossi, poiché questi studi assumono un’interpretazione del genere come costruzione sociale, prevale anche qui una forma di relazione indifferenziata e autoreferenziale, che assume la connotazione di una pura e semplice interazione con l’altro. Per evitare di pensare il gender in questo modo, Rossi propone di considerarlo in una vera e propria relazione con l’altro. Si tratta, dunque, di una semantica d’articolazione relazionale, ovvero d’integrazione-differenziazione, o, se si preferisce, d’appartenenza-distinzione. Per quanto riguarda i processi morfogenetici che hanno interessato il lavoro e la famiglia, essi contribuiscono – sempre secondo Rossi – a 23
Prefazione
ridefinire sia la relazione tra i due contesti di vita (in termini di conciliazione o conflitto) sia la relazione uomo e donna entro ciascun ambito; inoltre i processi di relazione tra la famiglia ed il lavoro si ripercuotono sulle forme della genitorialità, e viceversa. Infatti, l’esito del processo morfogenetico avviato può essere differente: di tipo conflittuale, quando le richieste dei due ambiti sono inconciliabili ed incompatibili finendo necessariamente in tensioni e privazioni, strumentale e compensativo, quando uno dei due ambiti viene utilizzato per ottenere dei risultati o benefici nell’altro, oppure relazionale e conciliativo. A parere di Rossi, la sociologia relazionale contribuisce a ridefinire tale rapporto in termini conciliativi. La conciliazione, però, non riguarda solo le madri, ma anche i padri ed è quindi una questione fondamentalmente familiare, essa inoltre riguarda una pluralità di attori in relazione tra loro – famiglie, enti pubblici, imprese e terzo settore. Un esempio di relazione virtuosa tra famiglia e lavoro è dato proprio dalle buone pratiche di welfare aziendale o dalle buone politiche di conciliazione. Inoltre, questi processi morfogenetici influiscono decisamente sulle forme della genitorialità dando luogo nel contesto contemporaneo a forme generative, quali ad esempio la genitorialità sociale, ma anche a forme narcisistiche e degenerative, come la genitorialità interrotta o la decisione di non avere figli pur potendoli avere, o l’omogenitorialità. In tutti questi casi, a parere di Rossi, prevale una riflessività autonoma e strumentale, che da una parte trasforma la genitorialità in un diritto individuale da agire o da esigere (piuttosto che una progettualità ed un orizzonte di senso), e dall’altra sgretola il senso del noi come unità di coppia (we-relation). Il figlio costituisce così il “terzo” dell’accordo, che non ha però voce in capitolo e resta il protagonista muto della vicenda. Anche qui emerge una forma di riflessività strumentale che snatura la relazione genitoriale stessa. L’esito problematico di alcune forme di relazione e di riflessività mette in luce, secondo Rossi, un intrinseco bisogno di relazione (si pensi ad esempio al ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa o alla maternità surrogata). Questa tensione originaria verso la relazione viene però snaturata attraverso una riflessività che vede l’individuo e i 24
suoi desideri come unico criterio di scelta, chiusa in sé stessa e pertanto non propriamente generativa. Di fronte ai processi morfogenetici che hanno interessato alcune fondamentali dimensioni dell’esistenza umana, in particolare il processo di formazione dell’identità (maschile e femminile), la relazione tra famiglia e lavoro, la relazione genitoriale, Rossi propone di ripensare la relazione come ciò che unisce differenziando (un relazionamento – non neutralizzante – delle differenze), poiché quando si abbandona questa prospettiva viene meno anche l’identità uomo-donna. La prospettiva con cui Gotia affronta i beni della relazione uomodonna è di carattere teologico e morale. Il punto di partenza è la difficoltà nel fare in modo che oggi ci siano vere e proprie relazioni e, di conseguenza, beni relazionali. Ciò è dovuto – secondo Gotia – alla cultura postmoderna, che ha come caratteristiche due tratti essenziali intimamente connessi: l’incapacità di promettere e il rifiuto della dipendenza. Per quanto riguarda il primo (l’incapacità di promettere), siamo immersi in una cultura della precarietà per cui nel migliore dei casi ciò che si promette è un impegno in una relazione “finché dura”. Così la promessa di un amore reciproco che affronti il tempo per sempre è considerata non solo un concetto antiquato, ma anche un traguardo futile giacché ritenuto impossibile da raggiungere. Per quanto riguarda il secondo (il rifiuto della dipendenza), a parere di Gotia, il più grande desiderio di giovani e adulti è quello di essere indipendenti, poiché la dipendenza dagli altri è “un male” dal quale bisogna sbarazzarsi perché ci toglie libertà. Essi non si accorgono, però, che la dipendenza fa parte dalla nostra condizione di esseri generati, curati ed educati da altri. Infatti, ogni persona che raggiunge l’età della maturità testimonia il fatto che qualcuno si è preso cura di lui, anche se non sono stati i genitori a farlo. Per superare questi due ostacoli si deve pensare la genesi della relazione, così come fa Gotia con le relazioni originarie: figliolanza, fratellanza, 25
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sponsalità, genitorialità, le quali conformano anche il modo in cui esse si sviluppano negli anni. A suo parere, l’effetto emergente della coppia, che lei chiama creatività, si manifesta prima di tutto nella sua capacità di essere simbolica, di trascendere cioè il significato concreto dell’agire e dell’interazione degli sposi, eccedendola ma al contempo non offrendosi senza di essa, pena la ricaduta nell’idealismo. Detto in positivo, esiste una qualità, un’eccellenza e dunque una verità del legame d’amore uomo-donna, che è la relazione di coppia. La relazione di coppia ha, quindi, come beni relazionali sia lo spazio di appartenenza esclusiva all’altro ossia la sua intimità, sia le azioni quotidiane di cui essa si nutre, sia la comunione che trascende le azioni. A sua volta, sempre secondo Gotia, la comunione è generativa, il che si concretizza nel dono dei figli, affidati agli sposi perché questi imparino ad amare gli altri aiutandoli ad essere liberi e curare il focolare familiare. La generazione e i beni relazionali sono però vulnerabili, per cui bisogna custodirli. Gotia parla di tre tipi di vulnerabilità: ontologica, legata alla contingenza della vita, e morale. La vulnerabilità ontologica è propria degli esseri umani, in quanto esseri corporei; si tratta della vulnerabilità fisica (come la malattia, l’invecchiamento e la morte), sperimentata doppiamente perché, oltre alla vulnerabilità propria, siamo esposti anche alla perdita della salute o della vita dell’altro. La vulnerabilità della contingenza della vita è legata alla complessità della realtà che spesso sfugge al nostro controllo (eventi legati al benessere o meno dei figli o del coniuge, alla perdita del lavoro, ecc.), e che rischia sovente di indebolire il rapporto di coppia. Certamente, non si tratta di un legame che rimane completamente in balia della fortuna, ma la coppia si trova continuamente davanti alla sfida dei cambiamenti della vita. Infine, la vulnerabilità morale, che è quella dispersione e frammentazione interna della persona per mancanza di unificazione interiore tra i principi attivi della razionalità e dell’affettività. Le relazioni devono curarsi sia per evitare che la loro vulnerabilità le renda malate o impedisca la generazione dei loro beni relazionali sia per alimentarli in maniera creativa dinamizzando la relazione e facendole tendere verso un orizzonte di pienezza. 26
Secondo Maletta, il paradigma relazionale diventa interessante anche dalla prospettiva della filosofia sociale contemporanea, vale a dire dal punto di vista di un’indagine sulle interrelazioni tra le forme della soggettività e i modi di vita sociali in una prospettiva descrittiva e critica. A parere di Maletta, questa prospettiva rimanda anche ad un criterio morale più o meno esplicito e quindi ad un ideale di compimento umano. Perciò, egli tenta di capire quali sono i principi filosofici che fondano i cosiddetti beni relazionali. Prima di tutto, sempre secondo Maletta, i beni relazionali vanno considerati all’interno del clima culturale tardo-moderno, a partire da una concezione dell’essere umano che insiste sulla sua strutturale finitezza, intesa come alterità, negatività, non-proprietà. In questo senso ha un grande interesse l’antropologia arendtiana, la quale è costruita non come una dottrina della natura umana ma della condizione umana. Parlare in questi termini significa affermare che si danno fattori decisivi e ineliminabili che rendono la vita umana e, quindi, sono dei veri e propri esistenziali in senso heideggeriano. Questi esistenziali sono la natalità e la pluralità. La natalità è espressione di un principio di “naturalità” ineliminabile dall’esistenza, una naturalità che è indice di una radicale non-proprietà. E se la natalità è principio di singolarizzazione, la pluralità è principio di fenomenalizzazione: se non ci fossero degli altri esseri simili ma diversi da me non ci sarebbe nessuno al quale manifestare la mia natura attraverso l’azione dialogica. A parere di Maletta, è proprio nell’incrocio della natalità con la pluralità che si collocano i beni relazionali, come mostra l’esempio di quelle persone che durante i regimi totalitari sono state in grado di non rinunciare alla propria libertà e responsabilità salvaguardando così la propria individualità. Infatti, in un contesto totalitario il bene relazionale si presenta innanzitutto nella forma della non-partecipazione al male. La soggettività di queste persone è generata e, perciò, intimamente relazionale, ed il luogo della generazione è il rapporto con l’altro. Ma chi è o cos’è questo altro? In Arendt questo è innanzitutto l’alter ego nel quale l’io si imbatte nel momento in cui sviluppa facoltà quali l’immaginazione, il ricordo, la riflessione. Ma è anche l’altro inteso come 27
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realtà che produce in me un affetto, nel quale io prima di essere attivo sono passivo: senza questa alterità io non avrei un posto nel mondo, un punto di vista a partire dal quale allargare la mia mente e pervenire a un giudizio meno parziale. Il tratto comune a tutte queste forme di alterità è l’esperienza di un’originaria passività, di un ineliminabile spossessamento e quindi del negativo – in una parola l’esperienza del non-proprio. Secondo Maletta, quanto più l’essere umano sviluppa la scissione interiore nell’esercizio di una coscienza di sé capace di generare la coscienza e la personalità morale, tanto più risulterà capace di relazionarsi a un mondo sociale caratterizzato dalla differenza e dalla pluralità, e viceversa. Un ruolo simile a questi esistenziali lo giocano pure i principi che stanno alla base della nascita della consapevolezza e della coscienza morale: la coerenza con se stessi, il pensare (a partire) da sé, l’allargamento della mente. Questi hanno un carattere normativo nei confronti dello sviluppo di una matura personalità morale. Per capire l’origine dei beni relazionali, agli esistenziali e principi arendtiani, Maletta aggiunge quelli derivanti dall’etica dei sensi elaborata da Waldenfels, che sottolinea il ruolo fondamentale giocato dalla facoltà dell’attenzione. Essa oscilla tra due estremi: da un lato, la risposta priva di affezione di chi è dominato da idee fisse e stereotipi ideologici (è il caso di Eichmann); dall’altro, l’affezione priva di risposta di chi è disperso nell’esperienza. L’attenzione costituisce l’ethos fondamentale, vale a dire la postura spirituale del soggetto nel rapporto con sé e con gli altri – un fondamento fragile di cui prendersi cura e in cui l’utopia di un soggetto auto-costituentesi appare in tutta la sua in-credibilità. Insomma, la filosofia dell’esistenza di stampo fenomenologico permette di pensare – secondo Maletta – alla struttura relazionale della vita umana nei termini di un rapporto con il non-proprio. Il guadagno teoretico di tale mossa sta nell’identificare questo rapporto nel cuore stesso della dinamica soggettivante che appare in tale prospettiva anche come una dinamica socializzante.
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Se si dovessero indicare i guadagni di questo expert meeting sulla differenza uomo-donna, forse il primo di tutti sarebbe di tipo metodologico; infatti, dopo aver messo alla prova il paradigma relazionale come criterio epistemologico del dialogo transdisciplinare, esso è stato verificato dal nostro studio: la differenza uomo-donna è una differenza in relazione, per cui uomo-donna si differenziano relazionalmente, invece di essere solo differenti. Il secondo si riferisce ai differenti modi di capire la differenza, come limite-risorsa, come incontro-confronto. Il paradigma relazionale, quindi, permette di capire le differenze non come opposizioni binarie, bensì come differenze capaci di generare relazioni, che possono essere positive o negative. Il terzo riguarda la stessa idea di relazione uomo-donna come energeia ossia atto generativo, il cui effetto emergente è il Terzo o bene relazionale, nelle relazioni sociali e familiari, prima di tutto della coppia e, poi, del figlio. La relazione ha un suo dinamismo generativo/degenerativo, che dipende soprattutto dalla riflessività relazionale dell’uomo-donna e della cura dei beni relazionali. Il quarto guadagno si trova in una serie di questioni che sono venute fuori durante le discussioni e sulle quali varrebbe la pena continuare a riflettere, come la differenza natura-cultura che va pensata mediante il paradigma relazionale, il carattere normativo dei beni relazioni che supera sia il relativismo etico sia l’etica delle virtù individuali, la generatività come emergenza del terzo o la necessità di dare vita ad un nuovo umanesimo che tenga conto del limite e contemporaneamente del desiderio di trascenderlo. Nonostante questi argomenti non siano stati affrontati direttamente, il lettore troverà nelle pagine di questo libro a volte delle riflessioni, a volte dei semplici cenni, che costituiscono valide indicazioni per un proprio approfondimento personale.
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Approccio fenomenologico (psicologia sociale e antropologia)
La differenza uomo-donna tra identità e relazione. Il punto di vista della psicologia sociale Raffaella Iafrate (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
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Il punto di partenza: l’identità relazionale del soggetto
Uno dei temi portanti della riflessione psicologica è quello relativo alla domanda sull’identità del soggetto. Su questo tema, la posizione condivisa da molta parte della psicologia (in particolare la psicologia dello sviluppo e la psicologia sociale) ritiene che l’uomo sia originariamente relazione: la sua origine scaturisce da un incontro, da una relazione tra un padre e una madre e la sua crescita dipende dalla sua capacità di stabilire altre relazioni adeguate con le persone che costituiscono il suo ambiente familiare e sociale. In particolare, gli psicologi dello sviluppo sottolineano che il bambino già da quando è nel ventre materno è un soggetto capace di comunicazione e relazione. I più recenti studi sul rapporto tra la madre e il figlio nella sua vita fetale, ripresi e sviluppati nell’ambito della neonatologia e della patologia neonatale – in particolare per ripensare l’organizzazione dei reparti dei grandi prematuri – mostrano il profondo legame addirittura già tra la madre e il feto, e la profonda complementarietà dialogica tra madre e figlio nelle prime settimane di vita. La “condivisione” di esperienze sensoriali e di emozioni tra il feto e la madre – pensiamo anche solo al ritmo costituito dal battito del cuore della madre e al suono della sua voce – entrerà probabilmente a far parte della memoria implicita,1 cioè di quella memoria che non è più accessibile come contenuto, ma che rimane come tendenza a porsi in un 1
Joseph Sandler, Anne-Marie Sandler, Gli oggetti interni. Una rivisitazione (Milano: Franco Angeli, 2002).
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La differenza uomo-donna tra identità e relazione
determinato modo nelle relazioni. Da questi studi emerge uno sguardo alla persona nel segno del riconoscimento dei legami presenti nella vita del neonato, che appare da subito come persona competente e con una storia emotiva e relazionale, non solo biologica e individuale. Se gli studi di psicologia dello sviluppo evidenziano dunque l’origine relazionale della persona, la psicologia sociale si spinge ancora oltre arrivando ad affermare che l’individuo non può nemmeno definirsi se non in relazione agli altri: l’identità, infatti, nasce e si struttura nelle diverse forme di relazione sociale, che vanno dalle relazioni intime (in particolare familiari) all’appartenenza a gruppi più o meno ampi. È noto il cosiddetto modello tripartito del Sé2 secondo cui ogni persona, accanto al Sé individuale, che si struttura attorno a quegli aspetti che la differenziano dagli altri individui, possiede un Sé relazionale, che si riferisce a quegli aspetti che si costruiscono nelle relazioni significative e che definiscono anche il ruolo delle persone nelle relazioni stesse, e un Sé collettivo, che fa riferimento all’appartenenza a gruppi sociali più ampi. Mentre il Sé individuale confluisce in quella che in psicologia sociale è definita identità personale, il Sé relazionale e collettivo rappresentano due dimensioni della cosiddetta identità sociale degli individui. D’altra parte, anche quando semplicemente si tratta di dare una definizione di sé, rispondendo alla domanda “chi sono io?”, ci accorgiamo che tale definizione (figlio/figlia, moglie/marito, madre/padre, fratello, amico, professionista. . .) è fondata su aspetti che non si limitano al livello individuale, ma che sono riconducibili a relazioni e legami con l’altro. Il nostro vivere nel mondo passa attraverso esperienze di appartenenza diretta a gruppi specifici: famiglia, classi scolastiche, compagnie di amici, gruppi di lavoro, che definiscono la nostra identità. La dimensione relazionale è dunque connaturata con l’umano e anche l’individuo più isolato e solitario porta i segni di un’appartenenza sociale, che è prima di tutto familiare ed è già presente nel nostro cognome e nome, che altri hanno scelto per noi. Gli esseri umani sono dunque “esseri relazionali”. Potremmo 2
Marilynn B. Brewer, Wendi Gardner, “Who Is This ‘We’? Levels of Collective Identity and Self Representations”, Journal of Personality and Social Psychology, 71 (1) (1996): 83-93.
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Raffaella Iafrate
dire che l’uomo è originariamente relazione e non può essere compreso né spiegato in una prospettiva riduttivamente individualistica.3 Ciò spiega anche perché dal punto di vista psicologico le persone “stanno bene” nelle relazioni e “stanno male” quando in qualche modo è minacciata la dimensione relazionale. Ma comprendiamo meglio cosa intendiamo per dimensione relazionale. Innanzitutto relazione è ben più di interazione. Le relazioni rimandano ad altro rispetto a ciò che si osserva, ad un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo. Le numerose interazioni e scambi che costellano la vita quotidiana delle persone che si amano, si possono comprendere appieno solo se si considera che i soggetti sono profondamente legati a monte e hanno una storia comune. Caratteristica della relazione, a differenza dell’interazione contestualizzata nel qui ed ora, sono infatti i tempi lunghi, è la storia personale e sociale che lega un uomo e una donna, due amici, un genitore e un figlio, un educatore e un discepolo. La relazionalità non può essere esaurita nell’istante dell’interazione di scambi immediati: essa supera il qui e ora e si proietta in una dimensione storica e progettuale. 2
Relazione presuppone differenza
Affermare che la persona è originariamente e costitutivamente “relazione” significa però introdurre un concetto fondamentale, quanto oggi avversato, ossia quello di “differenza”. La relazione non si dà se non attraverso la differenza. La relazione infatti implica “l’altro”, pertanto implica qualcuno differente da sé. Se non c’è differenza non ci può essere relazione. Nell’essere umano assistiamo pertanto ad una sorta di paradosso: la sua identità passa attraverso il riconoscimento della differenza tra l’“io” e il “tu”. “Io sono ciò che non sei tu, tu sei ciò che non sono io”, “io posso definire me stesso solo attraverso il tu”. 3
Raffaella Iafrate, Anna Bertoni, Gli affetti. Dare senso ai legami familiari e sociali (Brescia: La Scuola, 2010).
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Ciò significa dunque riconoscere il limite intrinseco dell’essere umano: quel “non” presente nelle due espressioni sopra riportate evoca immediatamente il senso di tale limite-mancanza “ciò che non sei tu” “ciò che non sono io”. Ecco perché il rapporto tra dimensione individuale e sociale dell’identità della persona è un rapporto non privo di conflitti. L’altro è ciò che mi de-finisce, e quindi, al tempo stesso, è il mio limite. Questo, in un’ottica individualista che concepisce l’umano come “individuo autodeterminato e autodeterminante”, libero e svincolato da qualsivoglia costrizione, è inaccettabile. Fondamentale dunque, per affrontare temi che sollecitano riflessioni su concetti quali quelli di identità, differenza, relazione, è chiarire da dove si parte; occorre innanzitutto compiere un’opzione antropologica che contropropone ad una visione individualistica dell’umano, una concezione di persona come “essere in relazione, frutto di legami e generatrice di legami”. 3
Differenza incarnata e generativa
Facciamo allora un altro passo: questa differenza costitutiva dell’umano che definisce l’io in rapporto a un tu, non è astratta o solo teorica, ma incarnata. La persona umana è corpo e, come ci insegna la biologia, già dall’embrione corpo sessuato: lo dimostra il fatto che non esiste esperienza relazionale che non abbia una profonda e larga implicazione corporea e non ci interpelli come persone con proprie caratteristiche genetiche e sessuali. Che il corpo sia una parte ineludibile del nostro io e della nostra individualità è un dato evidente ed innegabile. Basti pensare a come lo sviluppo della coscienza parta dall’esistenza corporea e come la nostra identità si sviluppi attraverso le trasformazioni che il nostro corpo subisce (pensiamo ai processi di costruzione di identità in adolescenza), o a come il corpo possa esprimere il nostro benessere ed il nostro malessere al di là delle parole (si vedano tutti gli studi sui disturbi 36
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psicosomatici, o sui disturbi dell’alimentazione come l’anoressiae la bulimia). Prescindere dal corpo è pertanto impossibile e quando si tenta di farlo i rischi che ne derivano sono enormi. Scrive un paziente in cura per problemi di dipendenza da internet: «Dove il corpo non c’è, dove non c’è il corpo che ti ferma, tu puoi andare avanti all’infinito a fare cose insensate, dallo sviluppo di ossessioni ed elucubrazioni solo cerebrali alla perdita del senso di realtà con il rifugio in ambienti virtuali, fino alle esperienze più aberranti di tradimenti via chat, o costruzioni di relazioni perverse e distruttive coltivate in rete. . .». Si tratta allora di capire come il corpo esprime l’identità della persona, ossia se a dominare la scena è un “corpo per sé” o un “corpo per l’altro”. Oggi assistiamo ad un uso del corpo facilmente riconducibile ad una prospettiva individualistico-narcisistica (corpo da distruggere, negare, superare vs corpo narcisisticamente e ossessivamente curato e al centro di attenzione). La chiave di lettura per parlare del corpo opposta a quella individualistico-narcisistica è invece quella relazionale. Il corpo rende visibile la differenza (“ciò che non sei tu”) il riferimento ad “altro” fuori dal sé, al senso del limite che inevitabilmente accompagna l’incontro con l’altro: il corpo in relazione ci mette di fronte al “limite”, ci segna un “confine” con il quale continuamente fare i conti. Il narcisismo fagocita l’altro o lo espelle, mentre la relazione fa spazio all’altro riconoscendo il proprio limite: ancora una volta si tratta di operare un’opzione culturale a favore di una prospettiva relazionale o individualistica. Il paradosso di questa prospettiva relazionale è che proprio su questo limite intrinsecamente umano si colloca la più grande potenzialità, la più straordinaria risorsa della persona: solo in questa prospettiva è infatti possibile interpretare il corpo come strumento capace, proprio grazie al suo limite, di incontrare l’altro “diverso” da sé e di generare un terzo. Il mondo va avanti grazie a questo incontro di limiti! Il corpo ci parla della relazione nella sua origine (la somiglianza fisica ci parla per esempio del legame tra generazioni) e nel suo scopo (il corpo nella sua differenza sessuale può procreare). 37
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A fronte di una realtà culturale dove spesso ci si pensa “autogenerati” e forse proprio per questo spesso spaventati dalla differenza – se non addirittura violenti nei confronti di essa –; a fronte di una cultura attraversata dalla fantasia onnipotente di superamento del limite (tra cui quello del genere di appartenenza) e poco interessata a fornire un senso e ad indicare obiettivi alle esperienze di vita degli individui, la concezione di “corpo in relazione” si propone come luogo dell’incontro tra le differenze orientato ad un obiettivo che si può tradurre nell’espressione “generatività biologica e sociale”. La differenza biologica è infatti generativa. Ma in una concezione unitaria della persona, dove corpo e mente non sono in antitesi, o indipendenti, non si può non sottolineare che alla differenza generativa del maschile e del femminile si accompagna una generatività della differenza di tutte le componenti umane, psichica, spirituale e culturale. La vera sfida culturale di oggi sta dunque nel recuperare il senso, l’obiettivo della vita umana, la sua più intrinseca funzione, ossia quella generativa. Educare alla generatività è quindi un compito fondamentale non solo per il bene dei giovani, ma dell’intera società. Ricordiamo che, come afferma Erikson, il contrario della generatività è la stagnazione.4 Va detto peraltro che – come acutamente ha osservato Eugenia Scabini5 – vi è una relazione reciproca tra generatività e paura della morte (il limite, la creaturalità): è la consapevolezza della fine che spinge ad essere generativi, e tutte le forme di generatività progressivamente favoriscono l’accettazione della morte facendo maturare l’amore per la vita. Drammatico dunque quando una società non è più generativa, perché comunica una mancanza di accettazione del limite. La tentazione onnipotente di un corpo senza limiti, nemmeno quello della sua de-finizione sessuale, forse ci parla di questa paura inaffrontabile, che è poi fondamentalmente una mancanza di speranza; in altre parole 4 5
Erik H. Erikson, The life cycle completed: A review (New York: Norton, 1982) (tr. it. I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma: Armando, 1984). Eugenia Scabini, Giovanna Rossi (a cura di), Le parole della famiglia (Milano: Vita e Pensiero, 2006).
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è come se l’uomo contemporaneo cercasse di superare il limite della morte fantasticando un’onnipotenza impossibile. Individuare nella generatività – realizzabile nell’incontro tra le diversità incarnate di uomini e donne – la piena realizzazione dell’identità della persona e lo scopo per cui siamo al mondo, attribuisce dunque ai nostri limiti un respiro di speranza. 4 La differenza generativa di uomo e donna nelle relazioni familiari Le riflessioni della psicologia sociale, specie quelle dedicate alla coppia e alla famiglia, mostrano concretamente la preziosità della differenza uomo-donna nella costruzione dell’identità della persona che nella famiglia ha il suo luogo primario di realizzazione. Coppia e cura della differenza La coppia innanzitutto si presenta nella letteratura scientifica come il luogo per eccellenza dell’incontro tra le differenze fondative dell’umano, quelle tra generi, generazioni e stirpi.6 Le ricerche sulla coppia nelle quali si analizzano le differenze di genere, mostrano l’importanza di una reciprocità uomo-donna e di alcune peculiarità che caratterizzano i due generi dal punto di vista psicologico7 e che definiscono l’identità proprio grazie al confronto tra differenze.8 La letteratura mostra come uomini e donne differiscano nella concezione di sé, nel modo di sviluppare la propria moralità e nella modalità di concepire i rapporti umani. 6 7
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Scabini, Iafrate, Psicologia dei legami familiari (Bologna: Il Mulino, 2003). Pilar Vigil, ginecologa ed antropologa della Pontificia Accademia per la Vita, ha proposto interessanti riflessioni sulle differenze tra maschile e femminile anche dal punto di vista neurofisiologico. Iafrate, Bertoni, Come musica (Milano: Edizioni San Paolo, 2015).
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Le donne, ad esempio, non solo si definiscono nel contesto dei rapporti umani, ma si giudicano in base alla propria capacità di prendersi cura delle cose e delle persone; la bellezza e l’importanza dell’intimità e dell’accudimento risulta un’esperienza essenziale dell’identità femminile. L’identità maschile, al contrario, si definisce in base a criteri quali la ricerca di autonomia, la separatezza, la capacità di prendere decisioni, la riuscita individuale, caratteristiche che portano a far coincidere la maturità dell’individuo con la capacità di essere autonomo ed indipendente. Inoltre, mentre per gli uomini il pericolo nasce da situazioni di intimità, cioè da situazioni in cui temono di essere intrappolati, traditi, oppure di rimanere prigionieri, le donne concepiscono il pericolo come qualcosa di impersonale e, sostanzialmente, temono l’isolamento. Un altro significativo aspetto di differenza è l’attenzione alla concretezza tipica delle donne che le porta a ragionare contestualmente, a risolvere i problemi considerando tutti gli elementi della situazione, piuttosto che seguendo un ragionamento formale e categorico come quello maschile. Le ricerche sulla coppia mostrano che tenere insieme queste differenze non è automatico, è una tensione costitutiva del rapporto di coppia. Mantenere la comunione (cum-unione) senza annullare la differenza, percepirsi diversi e autonomi, ma legati è un compito e una sfida. Identità personali dei singoli e identità di coppia9 si costruiscono in questo movimento dialettico nel quale si avvertono due pericoli: o il vedere solo la differenza, fino a considerarla estraneità, o il sottolineare solo la somiglianza, fino alla fusionalità, annullando la diversità e non vedendo l’alterità del coniuge, ma proiettando sull’altro i propri bisogni e le proprie aspettative: si parla a questo proposito di struttura “drammatica” della coppia10 che, attraverso un processo dinamico, porta ad integrare, non senza conflitti, le differenze in un’unità. Il compito fondamentale a cui la coppia è chiamata è proprio quello di sapere gestire questa conflittualità 9
Iafrate, Camillo Regalia, “Come colonne di un tempio. L’identità di coppia”, in Regalia, Elena Marta (a cura di), Identità in relazione. Le sfide odierne dell’essere adulto, (Milano: The McGraw-Hill Companies, 2010): 35-51. 10 Scabini, Vittorio Cigoli, Il familiare (Milano: Edizioni Cortina, 2000).
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derivante dalla differenza tra uomo e donna, dall’incontro-scontro tra storie familiari diverse, dai mutamenti a cui il patto viene sottoposto dal trascorrere del tempo, dai cambiamenti dell’assetto relazionale che la famiglia subisce durante le diverse transizioni che l’attraversano. D’altra parte non ci sarebbe bisogno di un patto di coppia (la cui radice etimologica rimanda a pax-pacis) se non ci fosse nulla da “pacificare” e se nella relazione coniugale l’accordo fosse “automatico” e “spontaneo”. Questo atteggiamento si pone in contrasto con “il mito del naturalismo” che erroneamente porta le persone a credere che ogni coppia debba stare insieme “naturalmente”, senza sforzi, in una utopistica armonia priva di incrinature, pena la sua rottura. Questa pericolosa rappresentazione rende la coppia fragile e vulnerabile alla delusione. Le difficoltà si presentano allora come sintomo della fragilità della relazione: «se ci sono difficoltà allora tra di noi qualcosa non va» e si dimentica che esse possono essere invece un’occasione per sperimentare l’eccedenza e la generatività del legame. La dimensione conflittuale dell’esperienza di coppia, nel suo significato etimologico di cum-fligere ossia di “combattere insieme”, non può essere negata, ma merita di essere trattata e valorizzata anche nelle sue componenti costruttive e nello slancio innovativo di cui è pregna. Integrare gli aspetti conflittuali nella relazione, infrangere il “mito del naturalismo” dell’amore coniugale, superare la visione idealizzata della relazione tra partner (l’altro deve essere a tutti i costi colui che soddisfa ogni bisogno in ogni momento della vita), per approdare ad una consapevolezza realistica e serena del diritto di ogni persona (anche del proprio partner!) di avere dei limiti, di poter cambiare, si pone allora come una delle sfide più intriganti del percorso di una coppia che decida di investire sul futuro del proprio legame.11 La costruzione di una identità di coppia non può che passare dal confrontoconflitto di differenze, che approda – nelle situazioni più “riuscite” – al riconoscimento reciproco dell’identità di ciascun membro: «amo te perché sei tu, esattamente per quello che sei». 11
Iafrate, Maria Luisa Gennari, “Cura della relazione coniugale”, in Scabini, Rossi (a cura di), Le parole della famiglia: 105-116.
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Coppia e genitorialità: cura responsabile L’importanza della differenza è particolarmente rilevante quando dalla riflessione sulla coppia si passa a quella sulla famiglia, ossia si introduce la dimensione intergenerazionale (essere genitori/essere figli). Per crescere e costruire la propria identità di persone, le nuove generazioni hanno infatti bisogno di una “cura responsabile”, ossia di aspetti di affetto/accudimento (aspetto affettivo) e, al tempo stesso, di norma/responsabilità (aspetto etico). Ciò ha a che fare con gli aspetti fondativi dell’umano che ha sempre origine dall’incontro tra un materno e un paterno. Il dono materno, il matris munus (da cui “matrimonio”) è simbolo del versante affettivo dell’educazione e consiste sostanzialmente nel dare vita, nell’accettazione e valorizzazione incondizionata del figlio, nel suo accudimento, nel proteggere e dare nutrimento affettivo perché il figlio acquisisca fiducia in sé e negli altri, stima di sé, vitalità e capacità di relazione. Tale dono costituisce una sorta di “serbatoio psichico” di fiducia e di speranza a cui attingere lungo tutta l’esistenza per contrastare l’angoscia della perdita e della morte. Il dono paterno, il patris munus (da cui “patrimonio”) è simbolo del versante etico-normativo dell’educazione; ricordiamo che la norma rappresenta la ratio di ciò che è bene e ciò che è male, pone di fronte al limite, aiuta a riconoscere la realtà esterna con cui si deve fare i conti. Il dono paterno si esprime nel conferire e legittimare appartenenza alla storia familiare (non a caso il cognome proviene dal padre) e nel dare aspetti normativi di “responsabilità” (regole, norme, spinte emancipative, limiti) per fornire ordine e senso alla vita e alla crescita. Il dono paterno aiuta anche la lettura del significato virtuoso del limite, che non è solo privazione, ma anche condizione alla nascita del desiderio per il suo superamento. È solo l’esperienza del limite che consente infatti la nascita di un desiderio e in questo i genitori hanno una grande responsabilità: consentire alle giovani generazioni di accedere all’esperienza del desiderio. A questo proposito l’esperienza clinica insegna come molti episodi di devianza o di dipendenza riscontrati negli adolescenti 42
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o nei giovani adulti siano legati all’impossibilità sperimentata da questi ragazzi di incontrarsi con dei divieti da parte dei genitori. Dunque solo offrendo dei limiti, dei “no”, si può innescare una relazione virtuosa tra limite e desiderio, tra finitezza personale e ricerca dell’altro, favorendo la piena umanizzazione del figlio: uscire dall’onnipotenza infantile e costruire un’identità adulta significa infatti incontrarsi (o scontrarsi) con “l’altro da sé”, esperienza fondamentale che evidenzia il limite (tu sei quello che io non sono) e al tempo stesso la potenzialità dell’umano (solo insieme a te posso andare oltre me stesso). L’educazione alla capacità di relazione – ossia alla piena realizzazione della persona nella sua identità di essere relazionale – è l’obiettivo comune a cui tendono sia il dono materno che il dono paterno: una relazione verso la quale rivolgersi con lo sguardo aperto e fiducioso – promosso dal dono materno –, ma anche con la consapevolezza del limite e della differenza propri e dell’altro – promossa dal dono paterno. Il dono materno e quello paterno abbisognano l’uno dell’altro e si promuovono a vicenda lungo tutto il percorso di crescita del figlio. In particolare, è stata da sempre ampiamente sottolineata l’importanza di instaurare dalla primissima infanzia un buon legame di attaccamento con la madre, così come, soprattutto negli studi più recenti, è stata enfatizzata la centralità della funzione paterna man mano che figlio cresce, a motivo della necessità di regole e di orientamento verso l’autonomia che, specie dall’adolescenza in poi, divengono fondamentali. D’altra parte, già dalla nascita del figlio al padre è chiesto – attraverso la facilitazione del processo di separazione-individuazione dalla madre – di consentire nel bambino la rinuncia al senso di onnipotenza tipico delle prime fasi della vita, quando egli si sente un tutt’uno con la madre ed è soddisfatto da lei in tutti i suoi bisogni vitali. È dunque fondamentale che nella relazione madre-figlio/a ci sia il riferimento ad un terzo. È il padre che istituisce la differenza/differenziazione dall’originaria simbiosi con la madre (come ha sempre affermato la psicoanalisi) e che, riconoscendo il figlio e dandogli il nome, “taglia”, “separa”, “de-finisce” il figlio sottraendolo dallo stato di onnipotenza ed introducendo il senso del limite e contemporaneamente 43
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il senso e la direzione della sua crescita, favorendo così la sua piena umanizzazione. Se il parto è dunque affidato interamente alle donne (per questo mater semper certa est), la nascita è rappresentata dal riconoscimento del padre, dalla nominazione (in nomine patris), dall’ingresso del nuovo nato nella famiglia come persona unica e irripetibile proprio perché “distinta”, “separata” e per questo “nominata”. È il padre ad infondere ad un atto biologico come la nascita un carattere propriamente “umano”. La donna dunque mette al mondo, ma non genera da sola. Perché il processo della nascita sia compiuto occorre spostarsi da un piano puramente biologico ad uno simbolico-sociale, che proprio il riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di introdurre. Non va dimenticato inoltre che tutta la letteratura psicologica mette da sempre in evidenza come i padri giochino un ruolo fondamentale anche nelle fasi successive alla nascita, lungo il percorso di crescita dei figli, nella loro educazione e nella trasmissione di competenze e valori. Se è vero – come è vero – che per crescere un individuo ha bisogno di fare esperienza della differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e imparare dall’altro, la presenza della funzione maschile/paterna nel processo educativo appare decisiva. A fronte di una posizione materna che, come mostrano molte ricerche, è spesso idealizzante e a volte “cieca” nei confronti delle carenze del figlio, la funzione paterna consente al figlio di fare i conti con le proprie risorse, ma con realismo e accettazione del limite e al tempo stesso con la garanzia di una protezione e di un sostegno costanti.12 Numerosi studi, inoltre, hanno mostrato in più occasioni come, in situazioni familiari peculiari caratterizzate dall’assenza o dalla carenza della figura paterna, si possano riscontrare non poche difficoltà, anche a lungo termine, per i figli. In questi casi si ribadisce l’importanza di garantire sempre ai figli un accesso, almeno simbolico, al proprio padre, favorendo comunque il mantenimento del legame, del suo significato o 12
Iafrate, Bertoni, Figli dati al mondo. Educare oggi in famiglia (Roma: Editrice Ave, 2013).
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del suo ricordo, anche qualora esso sia stato interrotto o spezzato da separazioni, lutti o fratture familiari. Il legame con il padre è il legame con la propria origine, la propria storia, le proprie radici: il fondamento dell’identità di ogni persona non può prescindere da questo dato di fatto inconfutabile, che non può essere negato se non a costo di gravi squilibri e rischi di sofferenza psichica e spirituale. Abbiamo dunque un bisogno vitale del padre: ne ha bisogno ciascuno di noi nella sua esperienza personale e familiare, ma ne ha bisogno l’intera società per recuperare il valore della norma, del limite, ma anche della sfida coraggiosa di scommettere sul futuro, che solo chi sa proiettarsi oltre il proprio narcisistico e autoreferenziale confine del sé può affrontare. In sintesi, lungo il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un “codice affettivo materno” e di un “codice etico paterno”, è fondamentale per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale:13 pertanto madre e padre giocano ruoli e funzioni diverse e complementari nella crescita dei figli, pur modificandosi nel tempo a seconda della loro età.14 L’educazione di un figlio richiede dunque che siano esercitate entrambe le funzioni, perché esse rispondono a bisogni umani e universali. Il tema della “necessità” per ogni essere umano di un paterno e di un materno, o meglio, proprio di “quel padre” e di “quella madre” implica uno spostamento di attenzione dal piano materiale-fenomenologico (può succedere che un figlio si trovi a crescere senza un genitore) ad un piano simbolico-antropologico e, soprattutto, impone un capovolgimento della prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio. Se c’è infatti un dato indiscutibile su cui non si può obiettare, è che per nascere, “quel figlio” ha bisogno di “quel padre” e di “quella madre”. La differenza di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica: il figlio è sempre generato da due e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi fami13 14
Scabini, Cigoli, Il familiare (Milano: Edizioni Cortina, 2000). Iafrate, Rosa Rosnati, Riconoscersi genitori. I percorsi di Promozione e Arricchimento del Legame Genitoriale (Trento: Edizioni Erikson, 2007).
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liari, da due storie intergenerazionali e sociali e di tutto ciò ha costante bisogno nella sua crescita.15 Pertanto il figlio nel tempo, per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato. Non c’è identità senza un’origine. In altre parole non riusciamo a rispondere esaurientemente alla domanda “chi sono io?” senza far riferimento alla nostra origine, ossia al padre e alla madre che ci hanno generato. Dunque poter fare riferimento sul piano della realtà a due genitori, ovvero a quel padre e a quella madre nella loro essenziale unicità e, attraverso di loro, alle due stirpi familiari è una condizione necessaria per dare un fondamento reale e non immaginario alla propria identità. Ne è prova l’angoscia di chi, per i motivi più diversi, non ha accesso alle proprie origini e non sa o, non di rado, è impedito od ostacolato nella conoscenza, come ad esempio nei casi di adozione. In sintesi, possiamo dire che la necessità di riconoscersi in “due differenti”, in un padre e in una madre, è un’istanza originaria dell’umano e, al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, il diritto inalienabile di chi è figlio, ciò che non può essere censurato e che pretende di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica – quando non è possibile quella reale – alla propria origine, il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre costituirà i “mattoni” della propria identità personale e lo definirà come persona pienamente umana.
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Iafrate, Giancarlo Tamanza, “Essere padri e madri oggi”, in Centro d’Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia (a cura di), Familiarmente: la qualità dei legami familiari (Milano: Vita e Pensiero, 2012): 41-48.
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La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale: condizione sessuata versus sesso, genere, e stereotipi Antonio Malo (Pontificia Università della Santa Croce)
Una delle tendenze più chiare della cultura occidentale è la dissolvenza progressiva della differenza sessuale. Infatti, basta guardare le mode nel vestire, il linguaggio e i gesti dei giovani dell’uno e dell’altro sesso per rendersi conto della portata e dell’estensione di questo fenomeno. Pur essendo i divi del cinema, della canzone e dello sport i modelli principali di questo cambiamento, ci sono anche delle opere di finzione, soprattutto alcuni romanzi e film, che hanno rivestito un ruolo importante nella diffusione a scala globale di questo trend culturale. Pensiamo, ad esempio, ai Pirati dei Caraibi, il cui protagonista, il famoso capitano Sparrow è un personaggio di grande ambiguità non solo per quanto riguarda il modo di vestire, di truccarsi, per le movenze e i gesti corporali, ma soprattutto per quanto riguarda il suo desiderio senza alcun oggetto preciso, al di fuori della topica caccia al tesoro dei pirati. In questo senso, la bussola magica di Sparrow, cui manca qualsiasi riferimento spaziale oggettivo, è un eccellente simbolo del desiderio indifferenziato del protagonista. Che cosa c’è dietro l’indifferentismo sessuale? Senz’altro, come ha ripetutamente indicato Papa Francesco, la paura dell’altro,1 poiché la differenza sessuale è la prima manifestazione dell’alterità dell’altro. Forse, però, questo rifiuto della differenza, anche se oggi si manifesta con più irruenza, non è un fenomeno completamente nuovo. Infatti, penso che lungo la Storia si possa rintracciare un tentativo quasi continuo di 1
«La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione» (Papa Francesco, Udienza generale, 15 aprile 2015).
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La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale
ridurre la dualità maschile e femminile all’unità perfetta, quella corrispondente al maschile; certamente non nell’ambito della sessualità e dell’amore umano, bensì in quello della società. Per cui, la donna non sarebbe un modo dell’umano altrettanto originario e degno di essere imitato. Forse è proprio in questa inclinazione monistica che si trova la radice sia della perdita progressiva della differenza sessuale, le cui manifestazioni bizzarre oggi sono sotto gli sguardi di tutti, sia di alcuni tipi di femminismo, in cui la donna esige per lei – in modo speculare – di essere la forma originaria dell’umano. Ciò spiegherebbe perché il maschile, anche se in forme deteriori e contaminate, continui a mantenere il fascino di un modello da imitare, soprattutto in una società tecno-capitalistica come la nostra, che rifugge dalla responsabilità nei confronti dell’altro, dai legami familiari e dalle relazioni durature. Le domande cui tenterò di rispondere sono, dunque, queste: la differenza sessuale è reale oppure – come sostengono tante femministe – è solo una costruzione sociale? La differenza sessuale è legata solo alla riproduzione, come negli animali, oppure ha anche un valore umano? In caso affermativo, in che cosa consiste tale valore? Lo scopo di questo saggio sarà, perciò, duplice: da una parte, cercar di esaminare le risposte che a queste domande offrono alcune delle attuali concezioni sulla sessualità umana; dall’altra, proporre una nuova visione della sessualità, basata sul paradigma relazionale, che tenga conto sia degli aspetti positivi di queste concezioni sia dei loro limiti. Ma, per farlo, prima si deve partire dall’origine e dal significato antropologico della differenza sessuale. 1
Alle origini della differenza sessuale
Poco tempo fa il paleontologo John Long, della Flinders University di Adelaide (Australia) ha compiuto una scoperta inaspettata. Curiosando in una scatola di fossili custodita nell’Università estone di Tallinn, ha trovato dei Microbrachius dicki, i primi pesci dotati di dimorfismo 48
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sessuale che 385 milioni di anni fa nuotavano nei laghi della Scozia, dell’Estonia e della Cina.2 L’invenzione del sesso sembra, dunque, molto antica. Che cosa aggiunge il sesso alla vita dei viventi? Anche se gli studiosi non concordano interamente, sembra che la riproduzione sessuale rafforzi l’individualità fisica e psichica dei viventi. Infatti, a differenza di quanto accade negli altri modi di riproduzione (gemmazione, frammentazione, partenogenesi, ecc.), in cui la variabilità degli individui dipende solo dalle mutazioni genetiche, nella riproduzione sessuale essa deriva soprattutto dalla ricombinazione dei patrimoni genetici del maschio e della femmina. Perciò, nella riproduzione sessuata si produce una maggiore diversità nelle caratteristiche genetiche dei discendenti. Così il vivente sessuato si differenzia non solo da tutti gli altri esseri per la sua unità interna e per la sua appartenenza ad una determinata specie (come accade anche con le piante e gli animali asessuati), ma soprattutto da tutti gli individui della stessa specie e di sesso opposto, poiché un maschio si differenzia da tutte le femmine e viceversa. Quindi, di fronte alla differenza specifica che possiedono i viventi non sessuati, il vivente sessuato ha in sé una seconda differenza: la differenza sessuale, che è intra-specifica. Le differenze, però, non solo danno luogo a una maggiore individualità perché separano il vivente dal resto, ma anche perché gli permettono di comunicare in un modo più intimo e determinato. Perciò, le nostre differenze rispetto agli altri esseri non solo rappresentano un rischio per la propria sopravvivenza – come quella del leone rispetto alla gazzella –, ma sono anche una risorsa per la nostra stessa vita. Anzi, c’è una proporzionalità diretta fra identità individuale e differenza, in virtù della quale più variegata è l’identità individuale più ricca è la sua capacità di comunicare secondo le sue differenze, fino – come nel caso della differenza fra uomo e donna – a comunicarsi personalmente, come amanti. 2
Cfr. John A. Long et al., “Copulation in antiarchplacoderms and the origin of gnathostome internal fertilization”, Nature, 517 (8 January 2015): 196-199 doi:10.1038/nature13825.
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La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale
La riproduzione sessuale è dunque una comunicazione non solo più specifica, poiché solo gli animali della stessa specie possono riprodursi (il mulo, ossia l’ibrido di due specie equine – asino e cavallo –, è perciò sterile), ma anche più individuale, poiché ogni animale con riproduzione sessuale, tranne nel caso di anomalie, si riproduce solo mediante un individuo dell’altro sesso.3 Perciò, la relazione sessuale del maschio e della femmina, a differenza della comunicazione dell’individuo con il resto dell’ambiente, non ha come scopo l’assimilazione dell’altro individuo (anche se ci sono animali, come la mantide religiosa in cui la relazione sessuale finisce con l’uccisione e posteriore deglutizione del maschio da parte della femmina), bensì il mantenimento della specie mediante la generazione di un altro individuo. D’altro canto, con l’emergere di una maggiore differenziazione sessuale si dà all’interno della specie una riproduzione più specializzata, non solo dal punto di vista delle funzioni nell’atto sessuale, ma anche nella suddivisione dei compiti tra maschio e femmina riguardanti la prole: la femmina partorisce i cuccioli – e nei mammiferi li allatta – li protegge, mentre il maschio protegge e feconda le sue femmine. Tuttavia questa differenziazione nel comportamento non va neppure oltre il fine della specie. Perciò, nell’animale, si dà una relazione necessaria fra specie, differenza sessuale, riproduzione specializzata e comportamento sessuale di ogni individuo, il che ci fa capire ancora meglio che la sessualità animale è un istinto rigido legato necessariamente alla genetica e ai cicli biologici (fisiologici e ormonali), che non riguarda l’individuo in quanto tale, ossia dal punto di vista della sua esistenza singolare, ma unica3
Come è noto, una tale identità sessuale fra gli animali ammette anche delle eccezioni. In genere il sesso fenotipico, ovvero ormonale, corrisponde a quello genotipico, ovvero genetico. Vi sono specie, però, in cui il sesso fenotipico non dipende da quello genotipico, ma dall’ambiente: ad esempio, nella Bonellia viridis, gli embrioni che si impiantano sull’organismo materno divengono maschi, quelli che si impiantano sul fondo marino divengono femmine. In altre specie, il sesso fenotipico varia con l’età, così l’individuo può comportarsi prima da femmina e poi da maschio. Anche nell’uomo un’alterazione del normale livello degli ormoni mascolinizzanti o femminilizzanti (per malattia, malformazione o somministrazione dall’esterno) può determinare caratteri sessuali fenotipici che differiscono dal sesso genotipico.
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mente in quanto maschio o femmina fertili di una determinata specie, senza che, perciò, ci sia esclusione alcuna per motivi di parentela, di età o di bellezza. Perciò, nonostante il maggiore grado d’individualità e di comunicazione genetica e comportamentale, la sessualità degli animali non ha un significato per l’identità dell’individuo né familiarmente né esistenzialmente, ma solo specificamente. Quindi, nel mondo animale, la differenza sessuale è solo una strategia della vita per riprodursi in un modo più vario, sviluppato e ordinato secondo un dimorfismo corporeo e comportamentale. Il che significa che la riproduzione sessuale animale rappresenta solo un fenomeno vitale specifico. Accade la stessa cosa con la differenza sessuale umana? È, cioè, la differenza sessuale legata solo alla vita della specie? Per rispondere a queste domande si deve analizzare la sessualità umana nella totalità dei suoi processi specifici e personali, cioè quelli che fanno riferimento all’origine del corpo sessuato umano od ominazione e quelli che fanno riferimento alla personalizzazione della sessualità o umanizzazione. 2 La differenza sessuale nella relazione umanizzante fra uomo e donna: moderare l’aggressività e la promiscuità sessuale La distinzione fra ominazione e umanizzazione della sessualità umana non deve intendersi, però, come opposizione, ma piuttosto come due tappe di uno stesso e unico processo. Da qui il fatto che il sesso corporeo, oltre ad essere specifico e individuale come negli animali (genetico, ormonale, cerebrale, gonadico), è anche relazionale, cioè il processo socio-culturale porta la sessualità corporea alla sua umanizzazione. Infatti, oltre ad avere determinate caratteristiche biologiche comuni ad altre specie animali, la differenza sessuale umana ha un’origine squisitamente antropologica, in quanto dipende dai processi di ominazione e umanizzazione della sessualità animale. Infatti, come altre caratteristiche corporee (bipedismo, liberazione delle mani, produzione e uso di strumenti, ecc.) la sessualità umana è il risultato di un lungo pro51
La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale
cesso evolutivo attraverso cui il corpo degli ominidi diventa un corpo personale. Lo studio paleontologico dei fossili ritrovati rileva già una soluzione di continuità fra le scimmie, gli ominidi e la comparsa dell’homo sapiens, soprattutto per quanto riguarda la capacità di percorrere lunghe distanze, la condivisione degli alimenti e la prima distinzione del lavoro fra cacciatori e raccoglitori.4 Anche nella sessualità umana si scoprono alcune caratteristiche proprie, come la liberazione dell’istinto sessuale dai cicli naturali o la cosiddetta nascita “prematura” dei piccoli, i quali richiedono perciò maggiori cure da parte di tutti e due i genitori.5 Un altro cambiamento fisiologico che rende il legame di coppia più attraente è il fatto che «fra gli umani, l’estro venereo è nascosto (cioè le donne non mostrano il loro stato di fertilità). Collegato a ciò, c’è anche l’esistenza di una più ampia recettività al sesso. Dal punto di vista della teoria dei giochi, ciò spiegherebbe l’importanza per uomini e donne di restare con lo stesso partner, poiché ciò massimizza le opportunità di generare».6 Comunque, forse l’aspetto più decisivo è la diminuzione del dimorfismo sessuale negli umani riguardo, ad esempio, alle scimmie, in cui il maschio dominante possiede un harem che deve proteggere di fronte agli altri maschi del gruppo. Ciò impedisce che si intreccino legami fra il maschio e i figli, poiché questi diventano i suoi concorrenti. Nel caso degli umani c’è invece una tendenza a creare un legame affettivo con i propri figli e a proteggerli quantomeno da piccoli. Questa coscienza di paternità è anche alla base della scomparsa di relazioni 4 5
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Cfr. Stephen Shennan, James Steele, The Archaeology of Human Ancestry: Power, Sex and Tradition (London-New York: Routledge, 2005), 159. La nascita prematura del figlio – secondo Gehlen – esige delle cure perché questi possa svilupparsi. Nascita prematura, sviluppo della razionalità e cure da parte dei genitori costituiscono un sistema. In modo tale che può affermarsi che c’è una proporzionalità diretta fra questi tre membri: più grande è l’indeterminazione del neonato, più grande è la possibilità di sviluppo, a patto che esso sia in grado di entrare in rapporto con altri esseri razionali. Cfr. Arnold Gehlen, “La tecnica vista dall’antropologia”, in Prospettive antropologiche (Il Mulino, Bologna 1987), 127. Jérôme Rousseau, Rethinking Social Evolution: The Perspective from Middle-Range Societies (Montréal-London: McGill-Queen’s University Press 2007), 45.
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sessuali fra il padre e le figlie, il che non accade fra le scimmie dove le figlie, come il resto delle femmine, fanno parte dell’harem. In definitiva, l’ominazione della sessualità ci parla di un’importante modifica della struttura comportamentale tipica degli animali, in particolare di quelli più evoluti come le scimmie, che porta il maschio ad agire aggressivamente nei confronti degli altri maschi, poiché sono attuali o potenziali concorrenti, e sessualmente nei confronti delle femmine.7 Nei maschi umani, invece, l’aggressività scompare parzialmente permettendo loro di condividere i compiti della caccia, della protezione del gruppo, della guerra, ecc. Mentre la loro sessualità si rivolge solo ad alcune donne. Si creano così due ambiti in cui i maschi adulti umani agiscono: quello del gruppo di cacciatori maschi e quello della relazione con le donne e, attraverso di loro, con i propri figli. D’altro canto, la donna si occupa della casa e dell’allevamento dei figli. La famiglia appare così come l’istituzione che ha lo scopo di mantenere collegati il mondo maschile e quello femminile in modo che essi contribuiscano alla crescita delle persone. Questi cambiamenti dal punto di vista istintivo, come la diminuzione dell’aggressività e della promiscuità, però, non impongono un determinato comportamento agli uomini e alle donne, ma sono unicamente possibilità che devono essere realizzate culturalmente, ad esempio, mediante il divieto dell’incesto o dell’uccisione o la cacciata dei figli maschi da parte del padre o del padre da parte dei figli,8 o mediante l’istituzione 7
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«Among chimpanzees and baboons this status system controlled the rather aggressive relations between adult males, sexual relations between male and female, and social relations between the old and the young. A family like relationship esists only between the mother and her young, and between siblings. Incest between mothers and growing sons was not permitted; there was no corresponding incest barrier between fathers and daughters, because the father role did not exist. Even hominid societies converted to the basis of social labor did not yet know a family structure» [Jürgen Habermas, Communication and the evolution of society (Cambridge 1995: Polity Press), 135]. Da questo punto di vista sono interessanti i miti, come quello di Crono che mangia i suoi figli (Esiodo, Teogonia, 453-535) o di Edipo, fatto uccidere da Laio, suo padre, per paura che lo uccida (Sofocle, Edipo re, IV, 1110-1185). Essi ci parlano di un
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del matrimonio e le cure coniugali e genitoriali. Perciò, la sessualità umana non dipende né solo né fondamentalmente dall’ominazione, ma soprattutto dalla sua umanizzazione, cioè dalla nascita di una particolare relazione di cura fra maschi e femmine, genitori e figli, di cui solo gli esseri umani sono capaci, poiché unicamente loro hanno la capacità di diventare ec-centrici,9 ossia di adottare il punto di vista dell’altro per interpretare i suoi bisogni, sentimenti, pensieri e voleri in modo di aiutarlo a crescere e diventare se stesso. Questa relazione di cura, sebbene sia inizialmente legata all’altro sesso e ai figli, si estende poi ad ogni tipo di persona, alle cose che si possiedono e si usano, e agli altri viventi.10 Insomma, nell’umanizzare la sessualità, la cura diventa il principale collante delle relazioni personali. Perciò, non sono tanto alcune caratteristiche corporee o mancanze istintive a differenziare la sessualità umana da quella delle scimmie e degli ominidi, quanto la trasformazione della sessualità da istinto biologico al servizio della diffusione della specie, a cura dell’altro nel senso più proprio, in quanto cioè appartiene all’altro modo – maschio o femmina – di essere umano, con cui si vuole costruire una relazione stabile generativa. È vero che, oltre alla cura, nelle relazioni basate sulla differenza sessuale è ancora presente l’influsso dei rapporti animaleschi di violenza, processo d’umanizzazione della sessualità nella Storia, i cui frutti non sono però acquisiti una volta per tutte, ma devono essere riacquistati da ogni generazione, il che a volte non accade. Attualmente, ad esempio, in alcuni paesi europei, come la Francia o la Spagna, l’umanizzazione della sessualità sembra trovarsi in piena dissoluzione a giudicare dalle leggi che depenalizzano l’incesto, che non è più reato; in altri paesi, come la Germania, c’è una pressione fortissima per depenalizzarlo, almeno fra fratelli e sorelle che sono consenzienti. 9 Cfr. Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch (Frankfurt: Suhrkamp, 1981), 361-363. 10 «È questa relazione che distingue l’umano quando chi agisce lo fa come tale. Prendersi cura non solo dell’altro come persona, ma anche delle cose e degli altri esseri viventi, è solo dell’Uomo, quando si comporta come tale» [Pierpaolo Donati, “Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica”, in Prendersi cura dell’uomo nella società tecnologica (Roma, Università Campus Bio-Medico: Edizioni Universitarie della Associazione RUI, 2000), 58].
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promiscuità, dominio e sottomissione che hanno lasciato una traccia incancellabile nella Storia delle relazioni fra uomini e donne in tutte le culture. Forse una delle caratteristiche principali di questo influsso si trova in una visione unitaria della specie umana attorno alla figura maschile, come modello perfetto in tutti gli ordini, e che, perciò, deve dominare. Contro quest’ingiustizia palese si è levata la voce dei diversi movimenti femministi, senza però raggiungere una posizione chiara riguardo allo scopo delle loro lotte né al modo in cui il femminile debba essere riconosciuto nella società e nella politica. In definitiva, resta ancora senza risposta questa domanda centrale: come distinguere nella relazione fra uomini e donne ciò che fa parte della cura e, quindi, dell’umanizzazione della sessualità, da ciò che è frutto della violenza e del dominio socio-culturale di un sesso sull’altro? La differenza sessuale contiene, dunque, oltre agli aspetti che abbiamo in comune con gli animali, la storia dell’ominazione e dell’umanizzazione della sessualità, ma anche il modo di concepirla lungo la Storia.11 È possibile mettere insieme tutti questi elementi? Di fronte a questa domanda, nel dibattito attuale sulla sessualità umana possiamo individuare quattro risposte. 3 Essenzialismo, costruttivismo, performatività e femminismo della differenza a.
Essenzialismo o naturalismo
Nell’ambito della sessualità si considera essenzialistica o naturalistica la visione secondo cui la differenza uomo/donna è naturale e, perciò, ha valore assoluto. Non può essere modificata senza cambiare la stessa natura umana. Per il naturalismo, la differenza sessuale dipende dalla sessualità corporea (sesso genetico, morfologico e genitale). Perciò, essa ha un si11
Per una visione d’insieme mi permetto di consigliare al lettore la lettura del mio saggio Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, 2 ed. (Roma: EUSC, 2016), specialmente il primo capitolo.
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gnificato riproduttivo, mediante la differenziazione dei sessi e la loro comunicazione: genetica, corporea, familiare e genealogica. La differenziazione dei sessi si dà in tutti gli ordini della vita – dalla sessualità corporale e psichica a istituzioni come la famiglia, dalla società civile a quella religiosa – in virtù della quale all’uomo, in quanto sesso forte, corrisponde una posizione di preminenza. Sebbene ammetta sottolineature e sfumature secondo culture, contesti sociali ed epoche storiche, la concezione naturalistica presenta sempre queste tre caratteristiche come essenza della differenza femminile: la specializzazione all’ambito della vita privata e familiare, la dipendenza totale dalla generazione e dall’educazione dei figli, e la sua dedicazione quasi esclusiva al lavoro domestico. Insomma, la donna appartiene a un sesso inferiore, che non gode di autonomia, ma dipende completamente dall’uomo, prima nella famiglia di origine, poi in quella del marito. Certamente, come si vedrà, ciò non corrisponde a una differenza reale bensì a un pregiudizio culturale, anche se purtroppo è stato molto spesso accettato storicamente come verità. Nella concezione naturalistica della sessualità umana, i rapporti uomo-donna vengono modellati a partire dal dominio del maschio sulla femmina e dalle loro relazioni basate sulla riproduzione e cura dei piccoli. In fondo, l’essenzialismo cerca di ridurre la pluralità umana all’unità della specie e questa alla figura del maschio, per cui le differenze, in particolare quella femminile, vengono intese come allontanamento dalla perfezione. Ciò porta a capire le differenze fra l’uomo e la donna come una serie di opposizioni binarie (attività/passività, forza/debolezza, ragione/affettività) da ricondurre all’unità mediante la sottomissione della donna all’uomo, cioè del negativo e imperfetto al positivo e perfetto. Penso però che, sebbene le differenze fra uomo e donna siano reali, le differenze sopra accennate non le rispecchino, giacché l’essenza umana non si riduce a particolarità specifiche, come il carattere genetico (fisico e psichico), e neppure corrispondono a una polarità in cui il femminile sarebbe il negativo del maschile. E ciò per due motivi: da una parte, perché l’essenza umana contiene in sé la possibilità e anche l’obbligo di essere modellata o, meglio, umanizzata; dall’altra, perché ognuno 56
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dei due modi in cui esistiamo (maschile o femminile) è ugualmente originario e perfetto. Ad ogni modo, il naturalismo indica un aspetto essenziale della differenza sessuale: il corpo. Certamente, come vedremo, esso non è pura natura né conduce a comportamenti determinati, poiché, oltre ad avere un valore simbolico, richiede di essere interpretato, soprattutto per quanto riguarda la tendenza sessuata ed il desiderio. b.
Costruttivismo
Il costruttivismo si oppone radicalmente all’essenzialismo, poiché sostiene che la sessualità umana non corrisponde a un’essenza immutabile, bensì a qualcosa di mutevole e modificabile, che dipende dal potere del linguaggio, dai desideri, dai modelli. Così, il costruttivismo corregge l’unilateralismo naturalistico di quanti concepiscono la sessualità come qualcosa di puramente dato e specifico, senza tener conto della sua umanizzazione attraverso i processi di socializzazione. In questo senso, il costruttivismo fa capire il carattere complesso della sessualità umana, in particolare il ruolo svolto dalla società, in virtù del quale la sessualità non è solo una proprietà degli individui della specie homo sapiens, ma anche una realtà sociale. Il problema del costruttivismo non consiste, dunque, nell’indicare che esistono queste differenze riguardo alla sessualità animale, ma piuttosto nel rifiutare qualsiasi somiglianza con essa, che non sia puramente biologica. Proprio per questo motivo, in quanto comune a tutti i maschi e le femmine della specie umana, il sesso biologico non serve a determinare – secondo il costruttivismo – la sessualità di ognuno di noi. Perciò i costruttivisti distinguono fra “genere” e “sesso”. Il termine “genere” (in inglese gender) farebbe riferimento alla costruzione della propria identità sessuale mediante una scelta che tiene conto dei condizionamenti sociali, dei desideri, dei sentimenti, delle aspirazioni, ossia dell’orientamento sessuale; mentre il sesso (in inglese sex) farebbe riferimento solo alla connotazione di attributi corporei. Ne deriva che qualsiasi 57
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differenza sessuale prima della scelta e del comportamento sarebbe un mero aspetto biologico suscettibile sempre di essere modificato e trasformato in gender. Ecco perché, sempre secondo questi autori, l’uomo e la donna, che hanno un’uguale dignità, non dovrebbero mai essere condizionati nella scelta del proprio genere né dal corpo né da pressioni socio-culturali – come la compulsory hetereosexualiaty o eterosessualità compulsiva –, stereotipi e pregiudizi sessuali, come l’omofobia,12 che si basano su una corrispondenza normativa fra il corpo e il desiderio. Insomma, secondo questi autori, l’elemento determinante della sessualità non è più il corpo, la generazione e la famiglia, bensì la politica e la vita pubblica, poiché si deve superare la mancanza di uguaglianza fra uomo e donna, e anche quella fra i diversi generi. Se le cose stanno così, sembrerebbe che la sola scelta che si possa fare sia fra costruttivismo o essenzialismo, fra un genere che assorbe il sesso corporeo trasformandolo in qualcosa di linguistico o un sesso che si mantiene immutabile al di là di qualsiasi processo culturale? c.
Performatività
Butler, principale esponente di una concezione performativa della sessualità, non considera valida nessuna di queste due opzioni, perché entrambe guardano il corpo sessuato come qualcosa di dato, al margine della sua interpretazione culturale. Mentre la visione della sessualità nell’essenzialismo sarebbe molto rozza poiché considera il corpo un dato immodificabile, quella del costruttivismo appare più fine, ma ugualmente sba12
Il controllo despotico e la capacità di modificare la propria corporeità fanno parte di ciò che le femministe di genere considerano la dignità della persona. La considerazione di una soggettività sovrana – la stessa per tutti gli individui della specie – affonda le sue radici nel razionalismo cartesiano e viene sviluppata politicamente dai due grandi ideologi dell’individualismo: Hobbes e Locke. L’influsso di questa corrente razionalistica-liberale sui cosiddetti diritti riproduttivi è stata accuratamente analizzata da Vega [cfr. Ana María Vega Gutiérrez, “Los «Derechos Reproductivos» en la sociedad postmoderna: una defensa o una amenaza contra el derecho a la vida?”, in Derechos reproductivos y técnicas de reproducción asistida (Granada: Editorial Comares, 1998), 9].
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gliata: inizialmente il corpo sarebbe qualcosa di prelinguistico, ma poi, una volta inglobato nel genere, finisce per essere qualcosa di puramente discorsivo. Di conseguenza, per il costruttivismo, anche se il genere non ha inizialmente nulla a che vedere con il sesso corporeo, alla fine diviene la sola realtà, per cui il corpo diventa un fantasma. Perciò, a parere di Butler, si deve sostenere che non esista né una sessualità che sia puramente corporale né un corpo che possa essere classificato come appartenente pienamente a un determinato genere. Insomma, sempre secondo quest’autrice, essenzialismo e costruttivismo si rifiutano di accettare un nucleo che non è né puramente naturale né puramente culturale, il corpo. La strategia critica di Butler consiste allora nel collegare inscindibilmente il corpo e il discorso, senza però ridurre le due realtà ad una sola. Ciò è reso possibile dal potere performativo del linguaggio. Infatti, secondo lei, quando il dottore o la levatrice dicono dell’appena nato – è un bambino o è una bambina! – non solo descrivono i connotati del corpo, ma lo fanno anche appartenere a un determinato genere. In questo modo incomincia il processo di genderizzazione. Perciò, il genere non può mai diventare una categoria da determinare una volta per tutte, ma deve sempre essere aperta al corpo e al discorso. Con le sue stesse parole: «il genere non è alla cultura come il sesso è alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo e culturale per cui “la natura sessuata” o “un sesso naturale” è prodotto e stabilito come “pre-discorsivo”, previo cioè alla cultura, ossia una superficie politicamente neutrale sulla quale agisce la cultura».13 Ecco perché, secondo Butler, è lo stesso discorso sul corpo come maschile e femminile a farci pensare che il sesso corporale sia previo al discorso. Ma se così fosse, ci sarebbe un controsenso: in quanto si parlerebbe del sesso corporale, cioè di qualcosa di non linguistico, mediante il linguaggio. È chiaro che, per Butler, il discorso è il solo orizzonte del reale, per cui non lo si può oltrepassare. Anzi, il suo potere è tale che non solo sessualizza il corpo, ma prescrive anche le pratiche regolatrici che danno 13
Judith Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity (New-York: Routledge 1990), 7.
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coerenza e stabilità alla sessualità, producendo così la differenza fra il desiderio di un corpo maschile per una donna e di un corpo femminile per un uomo. In questo modo si escludono tutte quelle «identità in cui non vi è alcuna correlazione tra il sesso, il genere e il desiderio. Le identità incoerenti appaiono allora come fallimenti del processo di sviluppo».14 Ma è proprio il fatto dell’esistenza di una serie di identità contrarie alle prescrizioni ciò che fa ritenere a Butler che le norme di genere possano essere sovvertite e rovesciate, dall’interno stesso di questo discorso. Infatti, poiché la sessualità umana richiede una performazione continua e non naturale o costruita una volta per tutte, c’è bisogno di ripetere sempre le stesse pratiche regolative. Ed è proprio nella coazione alla ripetizione della norma eterosessuale che compare la possibilità di errore e, con essa, la sovversione della stessa norma. Il femminismo queer trova nella tesi performativa di Butler l’armamentario concettuale che gli permette di diventare un po’ più intelligibile. Poiché, a differenza del femminismo del genere, il femminismo queer si trova nella difficile tessitura di dover argomentare il rifiuto di ogni identità sessuale. La performazione della sessualità mediante l’imitazione, il mimo, l’iperbole e la parodia teatrale del genere serve – secondo Butler – a mettere in rilievo il fatto che nella sessualità non c’è nulla di originario e, dunque, non ci sono corpi né generi individuati come identici.15 Se si accetta la tesi di Butler sul potere performativo del discorso,16 allora la sua conclusione è coerente: non esiste né una pura descrizione 14
Elvira Burgos Díaz, Qué cuenta como una vida. La pregunta por la libertad en Judith Butler (Madrid: Antonio Machado Libros, 2008), 147. 15 «This is a “girl”, however, who is compelled to “cite” the norm in order to qualify and remain a viable subject. Femininity is thus not the product of a choice, but the forcible citation of a norm, one whose complex historicity is indissociable from relations of discipline, regulation, punishment. Indeed, there is no “one” who takes on a gender norm. On the contrary, this citation of the gender norm is necessary in order to qualify as a “one”, to become viable as a “one”, where subject-formation is dependent on the prior operation of legitimating gender norms» [Butler, Bodies That Matter. On the Discursive Limits of “Sex” (New-York-London: Routledge, 1993, 232]. 16 Butler, come Foucault, rifiuta che la soggettività preceda e fondi le sue relazioni con l’alterità (mondo e altri). La soggettività possiede le sue relazioni come proprietà
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della sessualità né un corpo sessuato, ma solo una materia che si sessualizza discorsivamente e un discorso che prescrive e realizza quanto dice sul corpo.17 In questo senso, la teoria di Butler permette di criticare la distinzione binaria fra natura/cultura, corpo sessuato/linguaggio, poiché essi sono inscindibili; d’altro canto fa capire che la complessità della sessualità umana non dipende solo dai processi di socializzazione, ma è ancora più profonda, poiché deriva da una trasformazione del concetto stesso di natura umana (certamente, Butler rifiuta questa categoria come inesistente), che è sempre qualcosa di linguistico, ossia qualcosa di culturale. Ciò non significa però – contro Butler – che la differenza sessuale umana sia solo il risultato della ripetizione continua di pratiche discorsive sul corpo. Poiché, da una parte, il corpo ha sempre un simbolismo che non è riducibile al linguaggio e, dall’altra, il linguaggio sulla sessualità ha una verità, che si basa sull’origine delle relazioni umane e sulla loro umanizzazione. Forse il principale limite della visione butlereana della sessualità è il suo individualismo che esclude da essa la sponsalità, la generazione e la genealogia. d.
Femminismo della differenza
Il femminismo della differenza rifiuta radicalmente sia il costruttivismo sia il femminismo queer, ma anche il naturalismo. Infatti, esso afferma che la differenza uomo e donna non è qualcosa di secondario o costruito bensì di originario, e, di conseguenza, che la differenza sessuale è il disponibile (può separarsi da esse, perché non la costituiscono). La soggettività consiste nello scegliere chi si vuole essere mediante l’agire o il sentire (identità come arbitrio), non nella scoperta di chi si è, cioè dell’identità come compito. 17 «Indeed, to “refer” naively or directly to such an extra-discursive object will always require the prior delimitation of the extra-discursive. And insofar as the extradiscursive is delimited, it is formed by the very discourse from which it seeks to free itself. This delimitation, which often is enacted as an untheorized presupposition in any act of description, marks a boundary that includes and excludes, that decides, as it were, what will and will not be the stuff of the object to which we then refer. This marking off will have some normative force and, indeed, some violence, for it can construct only through erasing; it can bound a thing only through enforcing a certain criterion, a principle of selectivity» (Butler, Bodies That Matter, 11).
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fondamento di tutte le altre differenze umane. Orbene, la differenza uomo/donna può essere accettata come originaria solo se si parte dal presupposto che il sesso non è né una caratteristica sociale o culturale né una caratteristica etnica e neppure una caratteristica appartenente a una qualche comunità umana – come la lingua, la religione o il territorio –, ma piuttosto un tratto differenziale della specie umana, in virtù del quale l’umano non esiste al di fuori di questo doppio modo di essere. In questo senso, il femminismo della differenza si oppone anche al relativismo postmoderno, tornando all’idea della differenza come universale umano, senza, però, cadere, nell’essenzialismo perché sostiene anche il carattere storico e culturale della sessualità umana, che – per le femministe della differenza – è sempre di natura politica. A parere di alcune femministe della differenza, l’idea secondo cui le relazioni fra uomo e donna sono sempre di natura politica – nel senso ampio del termine – permetterebbe di pensare il superamento delle due principali concezioni della sessualità: quella che la fonda interamente sulla natura e quella che la spiega essenzialmente a partire dalla cultura. Così, secondo Agacinski, la differenza uomo/donna, oltre ad essere sessuale, include un gran numero di determinazioni di cui fanno parte sia quelle naturali sia quelle storiche,18 per cui esiste l’obbligo di negoziare un rapporto fra i sessi che è allo stesso tempo necessario e convenzionale. Ed è proprio il mescolarsi di necessità, solidarietà e divergenza di interessi a dare alla relazione tra i sessi la sua dimensione politica. I rapporti politici tra uomo e donna obbligano perciò a mettere in pratica una politica dei sessi. Una politica che, a parole di Agacinski, deve essere post-femminista, perché deve «abbandonare tanto i modelli maschili quanto quelli puramente femminili, considerati unilateralmente, iscrivendo nella società la presenza e lo sguardo delle donne».19 Per questa ragione, anche se alcune femministe della differenza accettano la questione dell’identità del genere e anche del riconoscimento 18
Sylviane Agacinski, Politique des sexes, précédé de Mise au point sur la mixité (Paris: Seuil, 200), 155. 19 Ibidem, 120.
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pubblico dei rapporti sentimentali fra persone dello stesso sesso, rifiutano però i nuovi modelli di famiglia e soprattutto la generazione e adozione di bambini da parte da coppie omosessuali. E ciò per due motivi: primo, perché l’origine del figlio/della figlia dovrebbe fondarsi sulla struttura parentale mista o mixité, l’unica in cui si dà la differenza originaria; secondo, perché ogni figlio/figlia ricava la sua singolarità, anche dal punto di vista biologico, a partire dall’unione della differenza sessuale dei genitori. Perciò, come sostiene Agacinski, citando Françoise Héritier, un’altra femminista di questo gruppo, la differenza nella generazione/procreazione, anche se è stata oggetto di molte interpretazioni sbagliate, mette tuttavia l’accento sulla fertilità delle donne come fondamento della differenza tra i sessi. Dunque, nella generazione di ogni essere umano, la doppia origine naturale – maschile e femminile – pone la struttura genitoriale mista a fondamento della filiazione. Basta, però, il ricorso alla generazione e alla differenza originaria uomo e donna per poter superare le obiezioni di Butler sulla differenza sessuale, in quanto essa dipenderebbe da un determinato tipo di discorso sulla sessualità? Detto in altro modo: come si fa a sapere se la differenza corrisponde a qualcosa di originario e non piuttosto a delle pratiche regolative del discorso eterosessuale? Credo che il modo in cui Agacinski affronta l’omosessualità sia molto illuminante a questo riguardo. Infatti, mentre accetta, da una parte, l’omosessualità perché essa permetterebbe di modificare il falso principio aristotelico dell’interdipendenza fra i sessi; dall’altra, rifiuta qualsiasi tentativo di modifica della struttura familiare, perché la famiglia dovrebbe essere fondata su alcune regole di parentela e di filiazione, la più universale delle quali è che un bambino nasca da un padre e una madre, da un uomo e una donna, anche quando i progressi medici permettano di fare i bambini, separando il desiderio parentale dalle condizioni biologiche di nascita.20 In fondo, lei pensa che possa esistere una relazione sessuale fra uomo e uomo e donna e donna perché la differenza originaria non dice nulla 20
Ibidem.
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delle singole persone in quanto tali, ma solo dei due sessi in quanto origine necessaria del figlio e, di conseguenza, della famiglia. Dunque, la differenza sessuale è per lei “iscritta” nel sociale solo in riferimento al figlio, non agli sposi, ai fidanzati, al ragazzo e alla ragazza, al bambino e alla bambina. Perciò, anche se le femministe della differenza sono consapevoli dell’errore di un femminismo della pura uguaglianza,21 trattano la dualità fra uomo e donna come se fosse un’alterità irriducibile, di tipo fondamentalmente politico. Ne deriva il fatto che esse concepiscano la maternità fisica e la relazione speciale della madre con il figlio/la figlia come l’essenza della femminilità. Insomma, sebbene il femminismo abbia tanti aspetti positivi, soprattutto quello di promuovere i diritti sociali e politici delle donne, penso che non si possa risolvere la questione della differenza fra l’uomo e la donna né, come le femministe radicali, facendo appello a una donna emancipata da qualsiasi legame anche nei confronti del proprio corpo, né, come le femministe della differenza, facendo appello a una donna che si distingue radicalmente dall’uomo in virtù della sua maternità fisica e simbolica. Insomma, mi sembra che per pensare la relazione fra i sessi non serva né il monismo libertario né il dualismo fra il reale – la donna – e il simbolico – l’uomo –, ma si debba pensare la dualità di persone sessualmente differenti che sono però in una relazione originaria di reciprocità poiché questa relazione originaria, e non solo la maternità, è l’origine delle persone e delle loro relazioni. Tutto ciò ci parla della sessualità umana come di una struttura antropologica molto complessa, che per svilupparsi dipende non solo dal sesso genetico, ormonale, cerebrale e gonadico, ma soprattutto dalle relazioni con altre persone, in modo particolare con altri uomini e con altre donne. Ossia la sessualità umana è più una condizione sessuata, ovvero un modo originario di esistere-con come uomini o donne, che 21
Pensare la dualità sessuale, la logica del misto richiede di rimanere nella differenza. Né l’uomo né la donna sono tutto l’umano, non c’è un centro, nessuna deriva, né subordinazione. Prendendo in prestito una logica della differenza senza gerarchie, si rompe non solo con i modelli maschili, ma autorizza il femminile la cui consegna ha caratterizzato il femminismo troppo a lungo (cfr. Agacinski, Politique des sexes, 155).
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un istinto legato solo alla riproduzione della specie umana o ad una scelta puramente arbitraria. 4
La condizione sessuata e la differenza
Prima di studiare la condizione sessuata nella sua struttura e nel suo dinamismo relazionale, è conveniente analizzare due dei racconti più belli sull’origine della sessualità umana: il mito dell’androgino di Platone e il racconto della Genesi, poiché essi possono farci scoprire alcuni aspetti essenziali della sessualità sia quando li si accetta sia quando li si rifiuta. Secondo il mito platonico, i primi esseri umani sono androgini, ossia contemporaneamente uomini e donne; essi sono, perciò, autonomi, onnipotenti e perfetti, costituendo un motivo d’invidia per gli stessi dèi che guardano la loro perfezione come una minaccia al loro potere. Per punire la superbia degli androgini, Zeus decide di separarli in due metà: una maschile e un’altra femminile; in questo modo, gli esseri umani diventano bisognosi e deboli, incapaci di vivere da soli. Più tardi, nel vedere che essi muoiono di dolore per non riuscire a trovare l’altra metà, Zeus – mosso da compassione – fa nascere in loro l’eros, la spinta che li porta al ricongiungimento.22 Così il desiderio di ognuna delle parti verso l’altra ha un doppio valore: da una parte è il marchio di una mancanza, dall’altra è il mezzo per tendere mediante la loro unione verso la perfezione perduta, anche se non sarà mai raggiunta. Ne deriva che, secondo questo mito, la differenza sessuale non è originaria. È interessante mettere in relazione l’androgino platonico con il Da-sein heideggeriano, poiché ci fa capire un aspetto del mito che, altrimenti, potrebbe passare inosservato: il Da-sein – come anche l’androgino – è asessuato (Geschlechtlosigkeit) o neutro (Neütrer), poiché manca di differenza. Ciò significa che, secondo Heidegger, la differenza sessuale non corrisponde a nessuna categoria ontologica o necessaria, ma solo ad una determinazione ontica o contingente. Perciò, come nel mito 22
Platone, Simposio, 189a-193e.
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platonico, l’asessualità del Da-sein non è vista come una mancanza, bensì come positività originaria (ursprüngliche Positivität) che manifesta il potere dell’essenza (Mächtigkeit des Wesens), sorgente di ogni possibilità.23 Anzi, nei confronti del Da-sein, la differenza sessuale è una dispersione della potenza originaria di esserci. E anche se Heidegger si sforza di affermare che dispersione (Zerstreuung) non ha qui un significato negativo, bisogna riconoscere – come, per altro, fa Derrida – che in questo termine c’è almeno la contaminazione di un senso parzialmente negativo dovuto alle sue connotazioni etico-religiose.24 Insomma, per Heidegger, la differenza sessuale non presuppone un genere animale e una specie homo sapiens, ma un Da-sein che, in quanto gettato nel mondo, si disperde nel Mitsein o essere-con.25 Poiché in Heidegger la differenza sessuale non è originaria, si deve risalire fino alla neutralità del Da-sein.26 Infatti, se la differenza fra uomo e donna non è originaria, 23
«Nella sua neutralità, il Dasein non è già qualcuno – non importa chi esso sia –, ma piuttosto l’originaria positività [ursprüngliche Positivität] e il potere dell’essenza [Mächtigkeit des Wesens]» [Martin Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz (Sommersemester 1928), (ed.) Klaus Held, (Frankfurt am Main: Verlag Vittorio Klostermann,1990), 136-37]. 24 «I am tempted to interpret this as follows: by kind of strange and quite necessary displacement, it is sexual division itself wich leads to negativity, and the effacement to which thought must subject it to allow an original positivity to become manifest» [Jacques Derrida, “Geschlecht: sexual difference, ontological difference”, Research in Phenomenology, 13-1 (1983): 72]. 25 Di qui che la differenza sessuale non appartenga né alla categoria ontologica del Da-sein né a quella biologica del genere o a quella antropologica di un gruppo di esseri viventi, bensì sia derivata da quella dell’analitica esistenziale del Mitsein (Heidegger, Sein und Zeit, § 26). 26 Non sorprende perciò un’interpretazione del Neüter heideggeriano d’accordo con il femminismo queer. «What, then, is the meaning of this future sex “to come?” The neutralization of the Dasein’s ontic sexual powers in favor a pre-dual, more originary sexuality enables us to re-inscribe sexual difference from its metaphysical determination that limits it to the two sexes as determined by physis or by the physical body to its source in the primordial potency of Dasein in dispersion and insofar as it has a body (embodiment). This liberation from the limits of metaphysical determination (at least for Heidegger the way Derrida sees it) is a gesture that opens up sexual difference towards the possibility of multiple sexualities and a future
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l’originarietà è proprietà esclusiva del neutro, cioè della potenzialità senza determinazioni. Si vede così, come l’androgino porti non solo alla negazione di una differenza originaria, ma anche a qualcosa di più radicale: il neutro come categoria ontica che si disperde attraverso la relazione con altri. Negare l’esistenza di una differenza originaria implica, dunque, considerare il neutro come condizione di partenza dell’esistenza umana. Nel racconto della Bibbia, invece, la differenza fra i sessi è così originaria come il loro essere in una relazione reciproca (l’uomo è uomo nei confronti della donna e viceversa) o come il desiderio di uno nei confronti dell’altro. Infatti, si tratta di una differenza fra uguali, perché, da una parte ognuno di questi modi umani di esistere ha la stessa dignità, è cioè amato da Dio per se stesso e non per la specie come negli animali, e dall’altra perché – a differenza dell’androgino – ognuno ha bisogno dell’altro per conoscersi e amare come uomo o donna. Insomma, l’essere umano non è mai unico, ma plurale, perché è maschio e femmina. Certamente, non possono comunicarsi nell’essere perché ognuno è creatura: ha l’essere, ma non lo è. Ciò nonostante, essi possono riconoscersi come fatti l’uno per l’altra mediante il linguaggio («ossa dalle mie ossa, carne dalla mia carne»),27 perché esso è contemporaneamente materiale e simbolico. Tuttavia, prima ancora del linguaggio, il corpo umano stesso comunica la sua differenza, poiché mostra già il riferimento ad un altro che lo può riconoscere, desiderare e amare. Infatti, il corpo di Adamo si riferisce a quello femminile, prima ancora di scoprire la donna nella persona di Eva e, quindi, prima ancora di conoscersi come uomo e di potersi esprimere come tale. E viceversa, il corpo di Eva fa riferimento a un corpo maschile prima ancora di conoscere Adamo, e di scoprirsi così come donna. Perciò il corpo sessuato, nonostante non sia irripetibile, in quanto corrisponde alla mascolinità o femminilità specifica, manifesta l’irripetibilità della persona, che permette così di comunicarsi amorosamente ad un altra. sex(es) to come» (Michael Roland Flor Hernandez, “The Silence of the Sexless Dasein: Jacques Derrida and the Sex «To Come»”, Filocracia, 1-1 (2014): 98-114; 110]. 27 Gn, 2, 23.
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Il corpo personale appare così come un enigma: da una parte, esso permette di differenziare il corpo di ogni uomo e ogni donna da tutti gli altri corpi maschili e femminili, indicando così l’irripetibilità della persona e la sua solitudine originaria; d’altra parte, permette di abbandonare parzialmente questa solitudine comunicandosi con il corpo dell’altro cui originariamente si riferisce, ossia permette di uscire da sé per desiderare, amare ed entrare in comunione con l’altro modo – maschile o femminile – di essere persona. Penso che questo carattere enigmatico del corpo umano sia dovuto al fatto che in esso si manifesta sempre una persona che è essenzialmente in relazione. La necessità dell’altro di condizione sessuata differente, che si accenna nella morfologia del corpo, si esprime già nella tendenza verso l’altro (o tendenza trascendente) e, soprattutto, nel desiderare di essere desiderato dall’altro come uomo e donna. Ecco perché la condizione sessuata non è qualcosa di esclusivamente biologico e, meno ancora, di sessuale, ma coinvolge tutte le dimensioni della persona a cominciare dal corpo. Perciò, di fronte alla differenza sessuale degli animali, la condizione sessuata contiene in sé una doppia differenza: sessuale e personale, che però fanno parte di una stessa identità. Infatti, di fronte all’animale la cui identità è solo idem (lo stesso animale in quanto individuo della specie), l’essere umano ha un’identità che è, soprattutto, personale o ipse, perché capace di identificarsi e differenziarsi personalmente dagli altri attraverso le relazioni a partire dalla sua differenza sessuale.28 28
Ricoeur adotta questi termini idem e ipse per riferirsi a due concetti d’identità: quella sostanziale o idem e quella narrativa o ipse [cfr. Paul Ricoeur, Soi-même comme un autre (Paris: Editions du Seuil, 1990), in particolare il capitolo 5]. Come egli stesso spiega in un’intervista, «questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita alla morte, come una specie di firma biologica. Abbiamo qui un esempio di “identità idem”: identità di struttura, di funzione, di risultato. L’identità “ipse” invece non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc. Faccio subito l’esempio più notevole dell’identità “ipse”; l’identità di me stesso quando mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l’esempio più notevole, perché non abbiamo a che fare, nel caso
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4.1
La condizione sessuata e la differenza sessuale
Oltre ad essere corporea, la differenza sessuale umana è, da una parte simbolica e tendenziale; dall’altra, immanente e trascendente ad ogni uomo ed ogni donna in quanto modi reciproci di essere persona. Infatti, la differenza sessuale implica una reciprocità immanente, sia in ogni uomo ed in ogni donna, poiché – come abbiamo visto – si è uomo in relazione alla donna e viceversa, sia nei simboli della mascolinità e della femminilità (i simboli maschili fanno riferimento a quelli femminili e viceversa), sia nella tendenza sessuata (la tendenza maschile si riferisce a quella femminile e viceversa). Se non ci fosse questa reciprocità immanente, avrebbe ragione Butler: non solo il desiderio eterosessuale sarebbe uno stereotipo compulsivo, ma anche la stessa differenza fra uomo e donna. L’individuo sarebbe allora, come in Platone e Heidegger, originariamente neutro. Poiché invece esiste questa reciprocità immanente, la differenza corporea-simbolica-tendenziale non è uno stereotipo, ma una realtà originaria. In che cosa consiste questa differenza reciproca immanente? Forse prima di dare una risposta, possiamo già dire ciò che non è. Infatti, tale differenza non è costituita da determinate caratteristiche che possono darsi prevalentemente in uno dei due sessi, come la forza fisica o la dolcezza, la visione d’insieme o la cura dei particolari, poiché anche se le une o le altre possono prevalere in uno dei sessi e possono essere complementari, non sono qualcosa di reciproco. E, dunque, non sono qualcosa di essenziale, poiché solo ciò che è reciproco costituisce essenzialmente la differenza sessuale. Quando si scambia l’accidentale con l’essenziale nascono gli stereotipi in un senso o nell’altro, che portati all’estremo diventano caricaturali. Una di queste esagerazioni è il machidel soggetto che promette, con una identità sostanziale; al contrario mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di umore. Questa è un’identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia cambiato nel tempo» (Ricoeur, “Descrivere, raccontare, prescrivere”, Paris, 20 dicembre 1991”, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=308, data della consultazione: 14 dicembre 2015).
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smo che, basandosi sulla disuguaglianza fisica, considera la donna una schiava al servizio dell’uomo; il machismo distingue in modo rigido ciò che un uomo e una donna possono sentire, desiderare, pensare, parlare o fare, creando così una costellazione di norme sociali e di divieti non scritti che regolano la loro intera esistenza. Un’altra serie di stereotipi di segno contrario viene dall’ideologia femminista radicale, secondo cui la donna non dovrebbe mai fare la casalinga, sposarsi o avere figli, perché tutto ciò la rende dipendente dall’uomo. Il femminismo radicale diventa così una negazione caricaturale del machismo. Gli stereotipi non solo presentano i pregiudizi come differenze reali, ma nel farlo rendono difficili o addirittura impossibili le relazioni fra gli uomini e le donne. Non, perché, come sostiene Butler, gli stereotipi siano iperboli della norma eterosessuale, poiché abbiamo visto che ci sono anche stereotipi costruttivisti o queer,29 ma perché non rispecchiano la diversità reale fra i sessi. E ciò per due ragioni: da una parte, perché essi confondono la differenza sessuale con una serie di aspetti caratteriologici, sociologici e culturali; dall’altra, perché – come si vedrà – non tengono conto del fatto che negli esseri umani la differenza sessuale si dà fra persone irripetibili e non fra individui sostituibili. Qual è allora l’aspetto essenziale della differenza sessuale? Credo che esso sia tanto l’esistenza di una doppia prospettiva reciproca – maschile e femminile – nel modo di relazionarsi con il mondo e con l’altro, quanto l’inclinazione o la tendenza degli uni nei confronti delle altre. La prospettiva e la tendenza sessuata, anche se hanno la loro origine nel corpo, non sono però come l’istinto sessuale dell’animale, determinati 29
«The hyperbolic conformity to the command can reveal the hyperbolic status of the norm itself indeed, can become the cultural sign by which that cultural imperative might become legible. Insofar as heterosexual gender norms produce inapproximable ideals, heterosexuality can be said to operate through the regulated production of hyperbolic versions of “man” and “woman”. These are for the most part compulsory performances, ones which none of us choose, but which each of us is forced to negotiate. I write “forced to negotiate” because the compulsory character of these norms does not always make them efficacious. Such norms are continually haunted by their own inefficacy; hence, the anxiously repeated effort to install and augment their jurisdiction» (Butler, Bodies That Matter, 237).
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necessariamente dal bisogno specifico della riproduzione e dall’ambiente. Esse sono inizialmente sessuate senza essere sessuali. Perché diventino sessuali c’è bisogno dell’identificazione e della differenziazione personali. Per cui il comportamento sessuale umano, tranne in casi patologici, non è necessario, bensì libero, dipendente cioè dalla persona, dalle sue relazioni, dal suo amore, dal suo progetto esistenziale. Comunque, la personalizzazione della propria sessualità non si dà inizialmente senza l’aiuto degli altri, poiché ciò richiede sia di capire il significato personale della sessualità sia di imparare a personalizzarla. Il ruolo che l’altro ha nella personalizzazione della tendenza sessuata è tanto importante quanto la sessualità genetica, ormonale e cerebrale o quella affettiva, perché il significato della sessualità umana si scopre attraverso la relazione corporale e simbolica con le altre persone, che appartengono sempre a una delle due condizioni sessuate. La tendenza sessuata umana non porta, quindi, inizialmente verso atti concreti, come negli animali, bensì verso l’identificazione con la persona del medesimo sesso e la differenziazione dall’altro, poiché riconoscendo l’identità e l’alterità dell’altro nei confronti di se stessi si riconosce e sviluppa la propria identità. In breve, la tendenza sessuata permette l’identificazione psicologica del bambino o la bambina con il suo corpo sessuato perché essi incomincino a rendersi conto di sentire ed agire come maschio o femmina prima ancora di sperimentare qualsiasi tipo di desiderio sessuale. Anzi, è proprio nella relazione corporea e simbolica con l’altro che la tendenza può diventare desiderio sessuale. Infatti, il desiderio umano è radicalmente differente dall’istinto animale, perché quest’ultimo dipende da un bisogno specifico che nasce solo da fattori genetici, ormonali e ambientali, mentre quello umano dipende dalle relazioni affettive (sessuate) con gli altri, soprattutto con i genitori o con quelli che fanno le loro veci. Questo è l’aspetto più enigmatico del desiderio: per poter desiderare è necessario identificarsi con il desiderio di un altro, che funge così da modello. Ecco perché la persona si scopre desiderando sessualmente l’altro senza poter conoscere come si è originato il suo desiderio. Ciò non significa che il desiderio dipenda da fattori genetici 71
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non modificabili, come pensano alcuni, ma piuttosto che esso si forma attraverso le relazioni affettive con gli altri prima ancora di avere coscienza di sé.30 La distinzione fra tendenza sessuata e desiderio sessuale ha, perciò, una grande portata euristica non solo nel campo del cosiddetto orientamento sessuale, che sarebbe meglio chiamare desiderio sessuale, ma anche nella scoperta di una possibilità per amare personalmente che – come nel linguaggio – può realizzarsi solo mediante relazioni interpersonali, simboliche e culturali adeguate. Infatti, così come possiamo affermare che non esiste una lingua naturale, ma solo la capacità naturale di parlare (le lingue sono contingenti perché sono solo delle possibilità), possiamo sostenere che non esiste una sessualità istintiva, ma piuttosto una prospettiva e una tendenza sessuata con cui poter amare, condividere cioè con un altro la propria condizione sessuata. Proprio perciò la sessualità umana non fa riferimento solo ad aspetti fisiologici, emozionali e comportamentali, ma anche a nuovi fenomeni relazionali, come il desiderio, l’innamoramento, il matrimonio e la famiglia. Anzi, questi nuovi fenomeni indicano le differenti tappe attraverso le quali la tendenza sessuata deve normalmente passare per 30
I risultati delle ricerche scientifiche non sembrano confermare le tesi di quanti, omosessuali o meno, sostengono l’origine genetica dell’omosessualità. Gli studi più recenti, realizzati dopo la mappatura del genoma umano, non hanno scoperto il cosiddetto gene dell’omosessualità. Piuttosto, hanno individuato che nel 20% dei gemelli dizigoti e nel 50% di quelli monozigoti alcune modifiche in certi geni possono essere in relazione con una propensione ad avere un orientamento omosessuale. In uno studio sull’omosessualità maschile, Michael Bailey della Northwestern University, Illinois, sostiene di aver trovato alcuni geni del cromosoma X che possono influire sull’orientamento sessuale, essi pero non sono completamente determinativi, per cui si deve tener conto di altri fattori, come l’ambiente, le esperienze avute e i cambiamenti nella personalità [cfr. Michael Bayley, Richard Pillard, “A genetic study of male sexual orientation”, Archives of General Psychiatry, 48 (1991): 1089-96]. Negli studi posteriori di Bailey le percentuali si sono abbassate ancora di più [cfr. Bayley, Michael Dunne, Nicolas Martin, “Genetic and environmental influences on sexual orientation and its correlates in an Australian twin sample”, Journal of Personality and Social Psychology, 78-3 (2000): 524-36; “The Silence of the Sexless Dasein: Jacques Derrida and the Sex «To Come»”, Filocracia, 1-1 (2014): 98-114; 110].
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essere personalizzata. Ma poiché queste tappe sono solo delle possibilità, la tendenza non sempre raggiunge il suo traguardo: può restare più o meno indefinita o il desiderio chiudersi narcisisticamente su di sé o l’innamoramento non dar luogo all’amore. È però possibile che dalla tendenza si passi al desiderio, all’innamoramento e al dono di sé senza particolari difficoltà, il che significa, da una parte, che la personalizzazione della sessualità è un processo che non ha un successo assicurato e, dall’altra, che queste tappe hanno uno scopo preciso: la generazione delle persone e delle loro relazioni. Inoltre, per personalizzare la differenza sessuale, si ha bisogno anche dei codici simbolici, come i colori, i giocattoli, i gesti e i vestiti. E nell’esprimere la differenza, questi stessi simboli acquistano un valore differenziatore, per cui la loro trasgressione è vista come indifferenziazione, come il drag queen, l’uomo che si veste da donna. Certamente, i codici simbolici sono – come nel linguaggio – convenzionali e, perciò, suscettibili di essere modificati (come l’uso di pantaloni da parte solo degli uomini), sempre, però, che con il cambiamento non si perda la differenza reciproca; infatti, le donne continuano a esprimere la loro femminilità mediante la forma, i colori e gli adorni dei loro pantaloni. In secondo luogo, la differenza sessuale è trascendente. Infatti, la differenza porta all’apertura spontanea e/o volontaria alla persona dell’altra condizione sessuata. Questa trascendenza guida il codice simbolico delle relazioni fra uomo e donna, come figlio-figlia, fratello-sorella, marito-moglie, padre-madre. Ciò significa che esiste un modo differente – maschile o femminile – di essere in relazione, di sapersi in relazione e di dar origine alle relazioni. Come nel caso dei simboli, tutte le altre differenze possono essere modificate, sempre che nel farlo non facciano perdere le differenze proprie di queste relazioni (come la differenza figlio/figlia) né la possibilità di stabilire relazioni secondo la differenza sessuale, come nella coppia. In che cosa consiste questo modo reciproco di essere in relazione? Nel modo differente di vivere la cura: l’uomo, ad esempio, protegge e dà sicurezza alla donna, perché essa possa dedicarsi al suo essere sposa e madre, e al figlio o alla figlia perché possano iniziare ed addentrarsi nella 73
La relazione umanizzante a partire dalla differenza sessuale
complessità della vita. Il carattere esterno della cura maschile si deve al distacco che ogni uomo ha dal corpo materno, non solo fisicamente, ma anche simbolicamente, in quanto egli non può identificarsi con il corpo di madre. La donna, invece, può identificarsi fisicamente e simbolicamente con il corpo di madre. Perciò la donna offre agli altri, ad esempio, ai figli e allo sposo, accoglienza affettiva e sicurezza. Attraverso il proprio corpo – come origine della vita – e della casa – come il suo prolungamento –, la donna fornisce all’altro (allo sposo, al figlio o alla figlia) l’attaccamento affettivo necessario affinché essi, nel sentirsi sicuri, possano sviluppare l’autostima radicale, radice della loro autonomia. Forse ha ragione Muraro quando parla della relazione madre-figlio o figlia come prima relazione individualizzante.31 Poiché alla filiazione data segue, spesso, la filiazione vissuta, cioè la madre accettata e amata dal figlio. Ma, come si è visto, questa relazione non è chiusa, bensì aperta tramite la figura del padre. Infatti, il figlio o la figlia entrano in una relazione che è parte essenziale della stessa maternità e paternità simboliche, le quali a loro volta costituiscono un aspetto essenziale dell’identità di ogni persona, che è sempre figlio/figlia. È vero che «la psicologia femminile contiene un fattore che nell’uomo manca: il mondo psicologico della maternità»,32 ossia l’accoglienza di un altro dentro di sé. Perciò la donna, e non solo la madre, percepisce se stessa come spazio per accogliere, cioè come abitazione o casa.33 Ciò nonostante, questa differenza non fa riferimento unicamente al figlio, fisico o spirituale, ma anche all’uomo e, soprattutto, al marito; altrimenti, il figlio corre il rischio di rimanere irretito in una simbiosi con la madre. Anche la paternità, a sua volta, ha bisogno di aprirsi ad una relazione ternaria. Infatti, la paternità non è solo il risultato dell’atto generativo, ma anche e, soprattutto, un modo continuo di comportarsi 31
Certamente, come si è visto, la relazione materna fa riferimento anche al padre e, di conseguenza, non è mai puramente materna. 32 Mariolina Ceriotti Migliarese, Erotica e materna. Viaggio nell’universo femminile (Milano: Ares, 2015), 46. 33 Cfr. Helen Deutsch, La psicologia della donna, II (Torino: Bollati Boringhieri, 1991), 23.
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nei confronti della sposa-madre e del loro figlio. Quindi, la relazionalità propria della differenza sessuata è ternaria e non duale.34 Ecco, dunque, il paradosso della trascendenza della differenza sessuale: mediante essa ognuno è segnato dalla dipendenza dagli altri, soprattutto a partire dalle relazioni di tipo filiale e parentale. Questa dipendenza relazionale si richiede, però, perché ognuno possa ottenere il necessario grado di libertà per potersi dare ad un’altra persona con cui costituire una famiglia.35 Quindi, la differenza sessuale del figlio, originata dall’unione dei genitori, è aperta al dono di sé come uomo o donna, al servizio della cura degli altri, soprattutto dei più piccoli, deboli e bisognosi. Perciò, quando si cerca di non dipendere da un altro o da un’altra, evitando qualsiasi obbligo nei suoi confronti, si può rifiutare la relazione (o, perlomeno, i legami duraturi) e addirittura la stessa differenza sessuale, come accade nella rivendicazione sociale di un genere neutro. Ma poiché la differenza sessuale non solo è necessaria per la maturità psichica, ma anche e, soprattutto, per le buone relazioni con gli altri, quando essa manca si sconvolge la stabilità e la sicurezza delle persone con cui si hanno legami, specialmente dei figli piccoli, che sono i più dipendenti. Perciò, la mancanza o perdita di differenza sessuale negli adulti genera un profondo disorientamento nei bambini, che saranno gli uomini e le donne di domani. Così il ciclo relazionale, invece, di generare buoni legami, produce relazioni malate. D’altro canto, questa relazionalità spiega anche una serie di fenomeni spontanei della sessualità umana, come la necessaria identificazione e 34
«La figura materna rientra in quello che ho chiamato “simbolico non metaforico”: per fare una madre ci vuole una donna in carne e ossa e una gestazione, fisicamente non diversa da quella degli altri mammiferi, e ci vuole un ordine simbolico che valorizza la relazione materna con le sue caratteristiche» [Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (Milano: Editrice La Scuola, 2016), 62]. 35 Come indica Donati, la difficoltà di accettare questo paradosso (l’istituzionalizzazione dell’amore aumenta la libertà della coppia per darsi) porta molti ad affermare che «la relazione di convivenza, [. . .], può essere tale e quale al matrimonio, anzi, per alcuni, anche migliore, perché più libera e sentita soggettivamente come più autentica» [“La complessità del cammino che porta la coppia alla ‘relazione del noi’ come «amore per sempre»”, Anthropotes, 32-1 (2016), 16].
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differenziazione riguardo ai modelli genitoriali, fraterni e coniugali, che altrimenti potrebbero essere interpretati in modo puramente sociale o performativo, come fanno rispettivamente i costruttivisti e Butler. È vero che la sessualità umana ha bisogno di norme e di modelli, ma non perché essa sia solo discorsiva o si trovi dominata da una coazione eterosessuale, bensì perché il nostro desiderio – come anche il nostro amore – non ha un oggetto determinato, ma si rivolge sempre al desiderio e all’amore di un altro, con il quale tendiamo ad identificarci affettivamente. Nell’imitazione del desiderio, accade qualcosa di simile al linguaggio: come la lingua dell’altro diventa propria per quanto riguarda la capacità di articolare fonemi, ovverosia suoni con significato, la scelta delle parole, la sintassi, le espressioni, i giri, ecc. quando essa ci permette di poter esprimere ciò che pensiamo, sentiamo e vogliamo dire, così il desiderio dell’altro diventa proprio quando esso non si copia per una semplice inclinazione mimetica o per una coazione sociale, ma per un tentativo più o meno conscio di rendere personale la propria sessualità, di scoprire cioè qual è il modo di essere uomo e donna che più si confà ad ognuno. Imitando il desiderio dell’altro con cui ci identifichiamo scopriamo il nostro desiderio più profondo: quello di essere noi stessi. Ciò spiega perché un bambino si differenzi meno da una bambina di quanto un ragazzo si differenzia da una ragazza e meno ancora di quanto lo sposo si differenzia dalla sposa e un padre da una madre, poiché per essere sposo o sposa, padre o madre si richiede una maggiore personalizzazione del proprio modo di essere uomo o donna e, di conseguenza, di desiderare con un desiderio più proprio. 4.2
La condizione sessuata e la differenza personale
Ma se la differenza sessuale si personalizza mediante le relazioni con gli altri, significa che essa non è la differenza più profonda, poiché non serve ad individualizzarci completamente. C’è bisogno, dunque, di un’altra differenza che individualizzi il modo maschile o femminile rendendoli personali. La distinzione fra l’individuo specifico (maschio o femmina) e la personalizzazione di questa differenza sessuale è pertinen76
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te, perché la personalizzazione implica ancora una maggiore separazione dagli altri individui della specie umana: non solo da tutte le donne o da tutti gli uomini, ma da ogni altro, uomo o donna che essa sia, giacché ciascun essere umano è irripetibile. Ebbene, la differenza che permette di individualizzarci in un modo ancora più profondo è la relazione basata sull’amore (la cura dell’altro, anche se non equivale all’amore, ne fa parte), che consente ad ognuno di poter diventare più se stesso, in quanto uomo o donna. Questa differenziazione è, perciò, propria unicamente della persona, poiché solo lei è capace di individualizzarsi mediante l’amore con cui agisce e, fino ad un certo punto, anche con cui si comunica nelle sue relazioni come uomo o come donna. Perciò, sebbene la personalizzazione della differenza sessuale non sia originariamente ontologica (la differenza ontologica si basa sull’essere personale, che separa l’homo sapiens dal resto degli animali e ominidi), essa si colloca sulla scia di quella ontologica; infatti, l’amore perfeziona ogni uomo e ogni donna in quanto esseri personali. E ciò non perché l’amore non tenga conto della sessualità, ma piuttosto perché esso permette d’integrarla, rendendola irripetibile. Fra tutte le relazioni, quella sponsale, proprio per il fatto di essere originata dal dono di sé come marito e moglie, costituisce il fondamento della stessa differenza sessuale e, di conseguenza, di ogni relazione umana.36 Perciò, nell’amore sponsale si attualizza la doppia dimensione trascendente ed immanente della differenza sessuale; infatti, anche se il dono di sé è trascendente, esso tende alla immanenza di una reciprocità basata sulla fiducia nell’altro, in virtù della quale l’altro è in me come io sono nell’altro e, tutt’e due, nella relazione. Ciò esige anche l’uso di una riflessività relazionale, che consenta di prendere distanza dalla relazione, 36
«Infatti, la relazione non viene all’esistenza come atto creativo (volontà, intenzione, affermazione) di dipendenza, ma viene all’esistenza come offerta di un dono (il quale, certo, implica asimmetria e dipendenza, ma è innanzitutto un dono). È il dono che crea la relazione perché è il dono, non l’atto di potenza che è operatore di sociabilità e socievolezza; la relazione si instaura e continua nella misura in cui il dono è accettato e diventa un reciproco eccedersi dei soggetti» [Donati, La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino 2010), 38].
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in modo da poter giudicarla adeguatamente, guidarla e, spesso, anche correggerla.37 Infatti, la sponsalità richiede una speciale riflessività sia per accettare la totalità della struttura relazionale – dipendenza-autodominiodonazione (senza rimanere fissi ad uno di questi elementi a danno degli altri) – sia per agire secondo le diverse relazioni cui può dare origine. Ad esempio, poiché la filiazione si basa sulla dipendenza dai genitori non solo dal punto di vista della generazione fisica, ma anche di quella educativa, esige da loro la riflessività genitoriale per permettere ai figli e alle figlie di diventare capaci di amare rispettivamente come uomini o donne. Insomma, ogni relazione familiare o sociale dell’uomo e della donna ha bisogno di riflessività, la quale può intendersi come una conversazione con se stesso – nel caso dei genitori, anche di dialogo di uno con l’altra – in cerca di essere in modo adeguato nella relazione.38 37
Seguendo il pensiero di Donati, ritengo che questo paradigma si trovi in un nuovo tipo di riflessività, che egli chiama riflessività relazionale e anche riflessività sociale: «Tale quadro (esposto nel secondo capitolo) permette di compiere le tre operazioni anzidette. Inoltre permette di introdurre una nuova nozione, quella di riflessività relazionale, che non significa – come qualcuno la intende – solo una particolare empatia e attenzione all’altro termine della relazione (nei rapporti interpersonali, specie quelli di cura, come genitore-figlio, insegnante-alunno, medico-paziente), ma consiste nel fatto che i soggetti si orientano alla realtà che emerge dalle loro interazioni prendendo in considerazione come tale realtà (in virtù dei suoi propri) è capace di ricadere sui soggetti stessi (agenti/attori) dal momento che essa eccede i loro poteri personali e aggregati. Indica dunque la riflessività che i soggetti riferiscono alla relazione sociale come tale per il fatto che essa “ritorna” su loro stessi influenzandone l’agire individuale e reciproco» (Donati, Sociologia della riflessività, 31). Come ho indicato in un’altra sede questo tipo di riflessività non solo ha un significato sociologico, ma anche antropologico, in quanto nonostante sia il soggetto (il marito o la moglie) ad avere l’intenzione di essere ricevuto come tale, quest’intenzione non si riferisce al soggetto, bensì alla relazione con l’altro. Perciò, si può parlare di una riflessività relazionale [Antonio Malo, “Soggettività, riflessività e paradigma relazionale”, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione. Un dialogo fra teologia, filosofia e scienze sociali (Roma: EDUSC, ROR-Studies Series, 2016), 153]. 38 «The activities involved range over a broad terrain which, in plain language, can extend from daydreaming, fantasising and internal vituperation; through rehearsing for some forthcoming encounter, reliving past events, planning for future eventual-
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Una caratteristica essenziale della riflessività relazionale è tener conto dell’apertura della relazione al terzo, poiché la differenza maschile e femminile non dà mai luogo a una relazione duale, bensì ternaria, che è origine del bene relazionale. Perciò, quando come nel femminismo radicale la riflessività è puramente discorsiva, la struttura della relazione e, soprattutto, il terzo sono rifiutati o visti in modo negativo, secondo la dialettica del servo/padrone o secondo la performatività “creativa” del genere. Invece, quando come nel femminismo della differenza si accetta una relazione duale, ma non ternaria, si separa la differenza sessuale dall’identità della persona, e la relazione materna-filiale dalla paternità, in modo che l’uomo sembra essere differente solo riguardo alla donna madre – non alla donna qua talis – e viceversa, perciò si accetta come un bene la relazione omosessuale.39 D’altro canto, fa parte della riflessività relazionale il fatto che il padre e la madre tengano conto della differenza sessuale dei figli, perché esso/essa ha bisogno di cure differenti secondo la propria condizione sessuata. Ad esempio, la bambina ha bisogno che il padre la faccia sentire apprezzata come figlia, cioè amata per ciò che è, in modo da potersi sentire più tardi degna di essere amata da un uomo come sposa. Se il padre non offre questo sguardo di approvazione, lo cercherà in altri uomini, che fungeranno così da “padre”, perché il suo vero padre è indifferente o assente. Il bambino, invece, ha bisogno di essere confermato nella sua identità come uomo, cioè capace come suo padre di far innamorare una donna e di amarla. Quindi, le cure differenti date ities, clarifying where one stands or what one understands, producing a running commentary on what is taking place, talking oneself through (or into) a practical activity; to more pointed actions such as issuing internal warnings and making promises to oneself, reaching concrete decisions or coming to a conclusion about a particular problem» [Margaret Archer, Making our Way through the World. Human Reflexivity and Social Mobility (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 2]. 39 « [. . .] en dénonçant une aliénation physique des mères, en restant aveugle à ce que l’enfantement pouvait révéler d’une expérience originale de l’altérité chez les femmes, Simone de Beauvoir témoigne de sa propre méconnaissance de la maternité, et même de son dégoût pour tout ce qui concerne cette expérience » (Agacinski, Politique des sexes, 94).
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dai genitori al bambino o alla bambina, che secondo le femministe sono degli stereotipi, in realtà altro non sono che un semplice modo di aiutare i figli a superare una certa angoscia esistenziale:40 la bambina vuole sapere se essa è degna di essere amata come donna; il bambino aspetta la conferma della sua identità maschile da una persona già confermata come è suo padre. Insomma, domande come: che cosa significa essere uomo o donna? Quali sono i comportamenti socialmente attesi da loro? Quali sono le aspettative che un sesso nutre nei confronti dell’altro? Fanno riferimento sia alla differenza sessuale, sia ai codici simbolici, sia alla riflessività relazionale, che corrispondono a ciò che l’uomo e la donna sono in una determinata cultura e, soprattutto, nelle loro relazioni mutue e con il terzo. L’insieme di queste differenze e relazioni costituiscono la base dell’identità affettiva, sociale ed educativa di ognuno come figlio o come figlia e, di conseguenza, esso è il nucleo da sviluppare mediante le relazioni future. Ad esempio, per diventare se stessa, la figlia non solo dovrà essere apprezzata dal padre, ma dovrà anche identificarsi simbolicamente con il corpo di madre e la cura dell’altro a partire dal corpo. D’altro canto, anche se i modelli genitoriali sono necessari per poter elaborare la propria identità, bisogna evitare gli estremi: confondere la differenza sessuale con dei modelli stilizzati e ideali, impossibili da essere incarnati, oppure pensare che questi modelli, come anche i codici simbolici, sono sempre stereotipi. 5
Condizione sessuata e comunicazione personale
A partire dalla sua essenza relazionale, la differenza sessuale può essere concepita come potenzialità per una comunicazione massimamente personale, che permette l’uscita da se stessi per potersi dare a un altro come uomo o donna. Poiché si tratta di una potenzialità naturale – o, 40
Thérèse Hargot, Une jeunesse sexuellement libéréé (ou presque) (Paris: Albin Michel, 2016), 170; tr. it.: Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), Giovanni Marcotullio, (Venezia: Sonzogno, 2017), 133-136.
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meglio, donata –, c’è bisogno di attualizzarla. Come la lingua, l’attualizzazione della differenza sessuale è contemporaneamente naturale e culturale. Infatti, come non esiste una lingua naturale, ma solo la capacità di parlare che ha come scopo la comunicazione di ciò che è vero, non esiste una sessualità naturale, ma solo una capacità di comunicazione intima di sé che ha come scopo la comunione e la trasmissione della vita. Certamente, come è possibile dire delle bugie mediante l’uso della lingua, così pure si può usare la sessualità fingendo di amare. Nel caso della sessualità, però, la falsità è più grave perché riguarda l’intimità della persona e le relazioni personali naturalmente indirizzate al bene relazionale per antonomasia, i figli. Comunque, come sostiene il linguista Roman Jacobson e molti secoli prima di lui Dante, nonostante le lingue che usiamo siano convenzionali, esiste una lingua naturale, quella della nutrice, che è previa a qualsiasi altra lingua, convenzionale e normativa. Questa lingua non è però universale, ma particolare e molteplice perché corrisponde alla relazione fra la madre, il padre e il/la figlio/a.41 Così si può affermare che, nell’ambito della condizione sessuata, la relazione originaria fra i genitori e i figli è l’equivalente di questa lingua naturale. Dunque, come nella lingua, così nella sessualità sono necessarie le relazioni, l’imitazione, i modelli, l’educazione, l’apprendistato, il miglioramento e la correzione nella comunicazione di sé all’altro. Detto in una parola, nella sessualità è necessaria l’integrazione dell’elemento corporeo, simbolico, comportamentale, relazionale e generativo secondo la grammatica della reciprocità. Quando, invece, come osserva Giddens, si crea una «sessualità plastica, recisa dalla sua integrazione secolare con la riproduzione, la parentela e le generazioni»,42 si opera una decostruzione dagli esiti devastanti.
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Secondo Muraro, essa farebbe parte del simbolico materno poiché è una lingua endogena e relazionale, mentre quella della grammatica, apparterrebbe al simbolico paterno fatto da norme e storia (Muraro, L’anima del corpo, 80-82). 42 Anthony Giddens, The Transformation of Intimacy (Stanford: Stanford University Press, 1992), 27.
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La distruzione dell’integrazione di questi elementi costitutivi della sessualità è, dunque, un fenomeno comunicativo e sociale dai risvolti veramente radicali, in grado di modificare il modo in cui uomini e donne vivono la loro relazione reciproca. Infatti, con la scomparsa dell’unione dei diversi aspetti della sessualità, ciò che risulta essere a rischio è il suo stesso carattere umanizzante. Da ambito d’incontro fra persone e di scambio dei loro doni più intimi, la sessualità diventa luogo di affetto, piacere, utilità e, tante volte, anche di violenza. Uomo e donna si guardano con sospetto e, in certe occasioni, con odio, perché stanno perdendo la loro differenza reciproca, ciò che permetteva ad ognuno di ritrovarsi a casa nell’esistenza dell’altro. La donna non si riconosce più donna nel suo rapporto con l’uomo, ma solo serva od oggetto di piacere. La schiavitù della donna implica anche la dipendenza dell’uomo dalla donna in senso strumentale e oggettivo, secondo la dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo. C’è bisogno, dunque, di ricuperare la buona relazione fra i sessi. 5.1
Comunicazione e beni relazionali
In che cosa consiste questa relazione? In una questione politica o in una questione ancora più basilare? Mi sembra che sia la teoria di genere, che il femminismo dell’uguaglianza e della differenza concepiscano la relazione fra uomini e donne fondamentalmente come una questione politica. Infatti, anche se i motivi di ciò sono differenti e i modi di esprimerlo diversi, il femminismo in tutte le sue forme – dall’uguaglianza dei diritti o dei supposti diritti soggettivi fino a quello post-moderno – viene sempre pensato a partire dai modelli politici. Ad esempio, per il femminismo di genere la comunicazione fra le persone è disturbata dalla dipendenza servile delle donne e dalla egemonia del discorso eterosessuale. Ne deriva la necessità di modificare gli assetti del potere per permettere nuovi modelli di matrimonio, famiglia e filiazione che siano completamente ugualitari.43 43
«To understand “women” as a permanent site of contest, or as a feminist site of
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Anche per il femminismo della differenza le relazioni attuali fra uomini e donne dipendono da una costruzione politica dominata dall’esclusione del femminile, perché è altro riguardo al maschile. Così, Agacinski parla di una politica della mixité, ossia del carattere misto dell’umanità. E propone un nuovo tipo di partecipazione della donna nella vita sociale: una sua presenza nell’ambito pubblico che mostri il suo sguardo differente nei confronti del mondo e delle persone. A questo fine, lei invoca la parità fra uomo e donna, al posto dell’uguaglianza. Anche se certamente c’è un aspetto politico e, come sostiene Agacinski, lo Stato dovrebbe facilitare che la donna dia il suo contributo femminile alla società, credo che la mancanza di buone relazioni fra uomini e donne non debba cercarsi solo in ambito politico, ma soprattutto nel modo personale di essere in relazione come figlio o figlia, come fratello o sorella, come sposo o sposa e come padre e madre, come professionisti e professioniste, come cittadini e cittadine. Quindi, gli scontri sociali fra uomini e donne non si risolveranno solo mediante un’uguaglianza di diritti o l’introduzione del femminile nella vita sociale, ma ci sarà sempre bisogno di imparare a relazionarsi come uomini e donne a cominciare dall’ambito familiare dove, come si è visto, l’apertura al terzo e agli altri beni relazionali impedisce che i rapporti fra uomini e donne degenerino. Infatti, la relazione simmetrica (individui autonomi, che sono soggetti di diritti e doveri), che caratterizza la praxis politica, non serve a spiegare la peculiarità della differenza uomo-donna, la cui unione dà luogo alla famiglia. Oltre ad essere origine delle persone, la famiglia introduce gli uomini e le donne in una relazione umana ancora più basilare di agonistic struggle, is to presume that there can be no closure on the category and that, for politically significant reasons, there ought never to be. That the category can never be descriptive is the very condition of its political efficacy. In this sense, what is lamented as disunity and factionalization from the perspective informed by the descriptivist ideal is affirmed by the anti-descriptivist perspective as the open and democratizing potential of the category. Here the numerous refusals on the part of “women” to accept the descriptions offered in the name of “women” not only attest to the specific violences that a partial concept enforces, but to the constitutive impossibility of an impartial or comprehensive concept or category» (Butler, Bodies That Matter, 221).
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quella politica, quella del dono, che si trova alla base di ogni giustizia simmetrica. Nella famiglia s’impara ad amare l’altro per se stesso, indipendentemente dalle sue qualità e prestazioni, e ad accettare lui e il suo amore come un dono. Amare l’altro per se stesso ed essere amato per il medesimo motivo significa che la base della relazione con l’altro non è il piacere, l’utilità, l’affetto che trovo in lei/lui e neppure i suoi diritti, ma il dono che l’altro è. Perciò penso che la relazione della differenza uomo-donna in tutta la sua portata si scopra nella famiglia, la quale si fonda sull’asimmetria sia quella dei rapporti inter-generazionali, generativi, e intra-generazionali, sia quella dei rapporti impostati sulla gratuità e sul ringraziamento. Qui si scopre, a mio parere, il carattere più umanizzante della differenza sessuale. La famiglia contiene così i due beni relazionali originari: la sponsalità e l’apertura al figlio. A differenza della praxis politica, la relazione fra gli sposi non è un atto dei soggetti, anche se per originarsi e perfezionarsi richiede atti, soprattutto quelli riguardanti l’amore e la cura mutua. Si tratta di due atti che condividono la stessa intenzionalità in modo reciproco (voler essere marito di questa donna e moglie di questo uomo). Insomma, anche se l’atto della volontà degli sposi è necessario per dare l’avvio alla relazione coniugale, non spiega né la presenza dell’altro nella propria identità (marito o moglie), né la riflessività relazionale degli sposi (il noi della coppia) né soprattutto la stessa relazione coniugale. Quindi, la relazione coniugale non può capirsi solo a partire dalla differenza maschile e femminile data con la nascita, come sembra indicare il naturalismo, né a partire da una riflessività culturale, come sembra indicare la teoria di genere. È necessario, dunque, un nuovo paradigma: una reciprocità generativa. 5.2
La reciprocità generativa come nuovo tipo di energeia
Nel parlare di reciprocità generativa, per evitare equivoci bisogna tener conto di due aspetti. In primo luogo, del valore ontologico della relazione, che non può essere ridotta agli atti di due soggetti. Infatti, 84
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considerando che nel dono di sé quando viene accolto, i soggetti trascendono non solo la propria specie, ma anche le loro stesse azioni e la loro intenzionalità individuale, si può concepire la relazione coniugale come un nuovo tipo di energeia o atto vitale che è costituito non di persone (del loro essere o del loro agire), ma dalle persone e, perciò, è in grado di trascenderle in quanto persone singolari, dando luogo alla coppia. Infatti, l’energeia relazionale contiene in sé le persone che la fanno esistere e le loro azioni, senza essere, tuttavia, persona o azione, e questo è l’enigma della relazione. Il marchio della trascendenza di quest’energeia è l’apertura al terzo o, se si preferisce, il suo carattere generativo di beni relazionali, come la sponsalità, i figli, la famiglia. In secondo luogo, la riflessività relazionale è il modo in cui marito e moglie si prendono cura non solo di sé e dell’altro, ma anche della sua relazione coniugale dei suoi figli e della sua famiglia. Qui il possessivo sua/suoi che potrebbe sembrare sbagliato dal punto di vista grammaticale, esprime non il possesso fisico o simbolico, bensì il carattere relazionale, poiché questi beni relazionali non dipendono dagli sposi al plurale, ma da essi al singolare, cioè in quanto sono immanenti nella stessa e unica relazione. Nella relazione coniugale scopriamo così qualcosa di misterioso: la persona umana, oltre ad essere in grado di darsi ad un altro che può riceverla nella sua sponsalità, il che implica il grado più profondo di auto-possesso, è capace di avere come intenzione del suo volere la relazione per sempre con un’altra persona, come suo marito o sua moglie, e ciò, lungi dal portare all’alienazione dalla propria libertà, fa nascere una realtà assolutamente nuova e perfezionante delle persone, il bene relazionale della coppia.44 Perciò, la differenza fra gli sposi è costituita sia dalla differenza fra il loro modo di essere uomo e donna, marito e moglie, sia dalla relazione coniugale e dalle preoccupazioni come sposi e genitori. Anzi, è la rela44
Come spiega Donati, la differenza fra la coppia e il matrimonio si trova nella loro stessa struttura, mentre la coppia è puramente aggregativa anche se può dare luogo alla famiglia, il matrimonio dà luogo a una relazione generativa, quella che io chiamo coniugalità (cfr. Donati, “La complessità del cammino che porta la coppia alla “relazione del noi” come «amore per sempre»”, 13-56).
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zione coniugale a dare un senso nuovo o a mettere in crisi l’insieme delle loro cure, preoccupazioni e dei loro interessi. Di conseguenza, anche la loro riflessività relazionale è alimentata o inibita dalle qualità della relazione coniugale in cui l’uomo e la donna interagiscono: ognuno di loro tiene conto dell’altro, delle sue intenzioni, delle sue azioni e, soprattutto, della stessa relazione che si è stabilita con lui o lei. Ne deriva che questo tipo di relazione originaria della differenza uomodonna sia impossibile quando si esclude il legame coniugale, come accade spesso nelle coppie di fatto, o quando si scambia il dono per un puro contratto di prestazioni, come nei matrimoni a tempo determinato o in base al piacere o all’utilità che l’unione riporta, o quando manca la necessaria differenza sessuale per ricevere l’altro come moglie o marito, come nelle relazioni omosessuali e lesbiche, perché verrebbe meno l’eccedenza della coppia, cioè il terzo.45 Ciò significa che fra i beni della sponsalità e della generatività c’è un legame inscindibile. Infatti, nell’energeia della sponsalità si osserva già la trascendenza della relazione nei confronti degli sposi incarnata nella persona del figlio, la quale, però, contiene anche la massima immanenza degli sposi, trasformati così in padre o madre, che costituiscono nuovi elementi delle loro identità personali. In questo senso, la filiazione, più ancora della coniugalità, è il paradigma dell’immanenza/trascendenza propria della relazione. Infatti, il figlio/la figlia si riconosce come tale mediante la relazione con i suoi genitori, i quali, nonostante la loro trascendenza 45
Contrariamente a quanto molti pensano, una società pluralista e liberale non può vivere di rapporti esclusivamente contrattuali. I contratti sono certo il segno di una conquistata autonomia e libertà; lo stesso si può dire delle leggi, la legittimità delle quali non scende più dall’alto, come avveniva nel passato, ma scaturisce dalla libera discussione e dall’accordo degli interessati. Tuttavia, non si può dimenticare che, affinché la discussione e gli accordi contrattuali possano aver luogo, c’è bisogno che la società sia pervasa da uno spirito particolare – fatto di fiducia, senso del bene comune, tolleranza, responsabilità – che non può essere prodotto per via contrattuale, ma soltanto attraverso quel lento processo di socializzazione che inizia proprio nella famiglia e poi continua nella scuola e in tutte le altre istituzioni e relazioni sociali (cfr. Donati (a cura di), Famiglia e capitale sociale nella società italiana (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2003).
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personale, si trovano in lui come stessa origine della sua vita. L’immanenza dei genitori nel figlio indica una relazione necessaria a tutti e tre per le loro identità (nel caso del figlio anche per la sua origine), mentre la trascendenza delle persone designa l’eccedenza del dono nei confronti dei coniugi. Perciò nella generazione-filiazione-fraternità umana sono presenti contemporaneamente sia l’interesse (la relazione è necessaria per la crescita delle proprie identità) sia il dono (la relazione è gratuita, non necessaria) o, in altri termini, sono presenti la necessità e l’eccedenza. Ne deriva che il concetto di generatività, oltre ad essere molto complesso e articolato, sia intimamente legato alla differenza uomo-donna e alla loro relazione.46 Essere padre o madre non è dunque un diritto, bensì un dovere che nasce da un dono iniziale. Il dono tende a una reciprocità, che certamente è asimmetrica: il figlio onora i suoi genitori quando diventa un buon padre. Qui si osserva da una prospettiva dinamica-generativa la natura relazionale della sessualità umana. Insomma, oltre ad essere origine fisica delle persone, la differenza uomo-donna è soprattutto origine delle identità delle persone e della qualità delle loro relazioni. Osserviamo così una certa circolarità: la differenza sessuale si sviluppa attraverso i buoni legami familiari, ed è questa stessa identità, quando giunge a un certo grado di maturità, ad essere sorgente di nuovi legami familiari.47 Proprio perciò, si può affermare che «della dimensione famigliare nessuno può fare a meno, né può barattarla con legami più provvisori e forse non si ricorderà mai abbastanza che tutti i rapporti verticali in famiglia sono 46
Wojtyla, ad esempio, indica la relazione fra persona e famiglia: «è la famiglia – e deve esserlo – quel peculiare ordinamento di forze in cui ogni uomo è importante e necessario per il fatto che è e in virtù del chi è; [è] l’ordinamento il più intimamente “umano” edificato sul valore della persona e orientato sotto ogni aspetto verso questo valore» [Karol Wojtyla, Metafisica della persona, (Milano: Bompiani, 2003), 1464]. 47 La dissoluzione dei legami attraverso la cosiddetta famiglia allargata e, soprattutto, le “famiglie” omossesuali, monoparentali, ecc., influisce negativamente sull’identità personale. «Le persone diventano individui anonimi, lasciati da soli a definire se stessi invece di ricevere un ruolo e un posto nella vita» [Robert Sokolowski, “The Threat of Same-Sex Marriage. People Who Separate Sexuality from Procreation Live in Illusion”, America, June 7-14 (2004): 13-14].
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inscindibili, il più fragile appare proprio quello di coppia, che paradossalmente è il garante della qualità intrinseca degli altri rapporti famigliari».48 6
Conclusione
Nella differenza sessuale scopriamo una dualità essenziale che non può essere ridotta all’unità: la persona umana esiste-con, come uomo o donna. Infatti, la donna si relaziona con l’altro, fisicamente a partire dal proprio corpo: essa esiste come un essere-in (maternità fisica e casa fisica) o simbolicamente (maternità spirituale e accoglienza dell’altro); l’uomo fisicamente a partire dall’esterno: esso esiste come un essere-da (paternità che separa il figlio dalla madre attirandolo a sé, e apprezza la femminilità della figlia) o simbolica (paternità spirituale o accettazione della realtà, anche quando si oppone al desiderio). La differenza essenziale fra uomini e donne fa, perciò, sempre riferimento a una relazione ternaria: figlio-figlia (genitori), fratello-sorella (gli stessi genitori), padre-madre (figli), zio-zia (nipoti), nonno-nonna (nipoti). Ecco perché la sessualità umana, che nasce e dipende dallo sviluppo filogenetico e umanizzante dell’homo sapiens, si riferisce a due modi di esistenza: maschile e femminile, uguali in quanto umani, ma distinti fisicamente, psichicamente e spiritualmente in ciò che riguarda il loro modo di entrare in relazione con il mondo e, soprattutto, con l’altro/a. Ciò significa che la differenza uomo-donna non dipende solo dai processi di ominazione e umanizzazione della sessualità, ma anche dal modo in cui gli uomini e le donne si relazionano, si desiderano, si amano nelle diverse epoche e culture; infatti, se è vero che la differenza sessuale dipende da ciò che si è ricevuto in modo gratuito e inatteso, ad incominciare dal proprio corpo, dalla cura amorosa dei genitori o di quelli che fanno le loro veci, e dalla storia delle relazioni fra uomini e donne lungo la storia, essa dipende anche da quelle relazioni che ognuno ha con le persone dell’altro sesso, ossia dai doni che mutuamente si dan48
Paola Binetti, La famiglia fra tradizione e innovazione (Roma: Magi, 2009), 114.
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no e si ricevono, specialmente il dono di sé come marito o moglie.49 Tutto ciò va al di là dei processi evolutivi e di una Storia molte volte tormentata delle relazioni fra uomini e donne, ma anche al di là della pura intenzionalità soggettiva, poiché ognuno è chiamato ad aprirsi alla gratuità e novità della relazione con l’altro sesso e ai beni relazionali cui può dare origine. In breve, uomo e donna si diferenziano fra di loro relazionandosi, invece di essere solo differenti.
49
Nelle sue catechesi, Giovanni Paolo II sottolinea il carattere di scelta – e non semplicemente di potenza naturale necessaria – che ha la comunione coniugale. «Il corpo, che attraverso la propria mascolinità e femminilità, fin dall’inizio aiuta ambedue (“un aiuto che gli sia simile”) a ritrovarsi in comunione di persone, diviene, in modo particolare, l’elemento costitutivo della loro unione quando diventano marito e moglie. Ciò si attua, però, attraverso una reciproca scelta» [Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano (Roma: Città Nuova, 1985), 64].
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Differenza uomo-donna, differenze di genere e cambiamenti sociali: elementi per una riflessione Isabella Crespi (Università di Macerata)
Partendo dal punto di vista della disciplina sociologica e dal suo interesse per i temi legati a famiglia, educazione e processi culturali, in questo saggio,1 verranno utilizzati esempi tratti dalla realtà quotidiana e dalle principali questioni socialmente rilevanti per porre domande, fare osservazioni e commenti, nella consapevolezza che non quella è la realtà ultima, ma che da quella si parte per un’analisi della società e dei suoi cambiamenti. Spesso gli aspetti apparentemente più ovvi della vita, quelli a cui pensiamo di meno e che meno mettiamo in discussione, rappresentano in realtà gli aspetti cruciali della nostra esistenza di esseri umani: la differenza sessuale (o di genere) è uno di questi. Essa permea la nostra vita e rappresenta il dato distintivo iniziale su cui ciascuno costruisce la propria vita in qualità di uomo o di donna. Se prendiamo in esame gli aspetti più scontati della vita quotidiana, quali ad esempio le relazioni familiari e il mondo del lavoro, comprendiamo immediatamente che non ve n’è alcuno che non sia connotato secondo questa distinzione specifica nell’esperienza concreta. A livello sociale si utilizzano caratteristiche dicotomiche, basate sul sesso, sugli stati psicologici e sui modi di essere interpersonali per 1
Questo saggio raccoglie alcune riflessioni dell’autrice in relazione all’expert meeting del novembre 2016 sul tema “Ecologia integrale della relazione uomo-donna: la prospettiva relazionale”. In particolare tali riflessioni fanno riferimento alla discussione dei due contributi del prof. Malo e della prof. Iafrate che sono contenuti in questo volume.
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Differenza uomo-donna, differenze di genere e aspetti sociali
illustrare le differenze polarizzate esistenti tra gli individui. La maggior parte delle persone intende la differenza sessuale nei termini di due distinte categorie: il maschile e il femminile. Se le relazioni sessuate e di genere valorizzano le attribuzioni di senso e contenuto proprie e specifiche all’appartenenza di sesso e alle relazioni tra i sessi, ciò può essere compreso attraverso i significati che i termini come maschile e femminile assumono di volta in volta all’interno delle pratiche sociali, sia come elementi imprescindibili e costitutivi delle relazioni sociali, sia come componenti fondamentali della società. La differenza sessuale si manifesta in tutte le pratiche sociali e può anche essere usata per spiegare i meccanismi dell’organizzazione sociale. Una tendenza molto forte della società contemporanea, ed in particolare degli stili di vita legati ai consumi e alle scelte personali, suggerisce di cancellare le differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso. In questo processo di livellamento/neutralizzazione, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. Il rischio principale di una prospettiva così radicale nel ritenere la dimensione di genere come costruzione esclusivamente sociale, si colloca nel contesto della questione femminile, ma la sua motivazione più profonda va ricercata nel tentativo della persona umana di liberarsi dai propri condizionamenti biologici. Secondo questa prospettiva antropologica la natura umana non avrebbe in se stessa caratteristiche che si imporrebbero in maniera assoluta: ogni persona potrebbe o dovrebbe modellarsi a suo piacimento, dal momento che sarebbe libera da ogni predeterminazione legata alla sua costituzione corporea essenziale.2
2
Isabella Crespi, “Sesso, genere e identità: il contributo dei gender studies”, Sociologia e politiche sociali, 8 (3) (2006): 51-88.
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Isabella Crespi
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Differenza sessuale e di genere: differenza tra caratteristiche originarie e fondative e ruoli di genere
Se in passato gli studi di genere3 hanno spesso evidenziato la caratterizzazione del maschile e del femminile in questo o quell’altro ambito specifico, Donati sottolinea come «ogni ambito relazionale deve comunque dare le sue risposte alle differenze di genere, assumendo anche un imperativo in un certo senso etico: bisogna conoscere le due strade. Le due soluzioni le due modalità maschili e femminili e confrontarle, perché lì, nel confronto relazionale, si trova il confine e la specificità di un genere e dell’altro».4 Nella teoria relazionale Donati spiega che «quando parliamo di genere non ci riferiamo alla differenza biologica fra maschi e femmine in sé e per sé. Ci riferiamo invece al fatto che, sul dato biologico, la società costruisce tutta una serie di distinzioni che sono di ordine culturale, hanno profonde connessioni con le strutture sociali e si riflettono nella psiche e nei comportamenti individuali».5 Nella società postmoderna, «il nesso fra identità biologica e identità culturale, mediato dalla personalità e dall’organizzazione sociale, si fa allora sempre più contingente: prima dal lato culturale, poi anche da quello biologico. È a quel punto, che oramai siamo soliti chiamare post-modernità, che la relazione di genere va in fluttuazione e con essa le singole identità di genere: diventa più difficile dire cosa sia 3
4 5
Sarebbe necessario fare una digressione sulla differenza tra i concetti di sesso, orientamento sessuale e ruoli di genere, ma rimando al contributo da me scritto nel 2006 e poi affinato in relazione alla teoria relazionale nel 2016 [Crespi, “Sesso, genere e identità: il contributo dei gender studies”, 51-88 e Identità sessuale/di genere, in Paolo Terenzi, Lucia Boccacin, Riccardo Prandini (a cura di), Lessico della sociologia relazionale (Bologna: Il Mulino, 2016): 129-132]. Si segnala inoltre il contributo di Donati su maschile e femminile nella società di oggi Pierpaolo Donati, “L’identità maschile e femminile: distinzioni e relazioni per una società a misura della persona umana”, Anthropotes, XXI (1) (2005): 71-103. Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia (Roma-Bari: Laterza, 1998), 177. Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia. Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, 2006), 83-84.
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Differenza uomo-donna, differenze di genere e aspetti sociali
maschile e cosa sia femminile, tanto a livello psicologico quanto a livello sociale e culturale».6 Quindi «il dato biologico della differenza maschio/femmina viene distanziato e come slegato da quello culturale (secondo la differenza uomo/donna) e non si mantiene una relazione significativa tra le dimensioni biologiche e culturali di una persona, i due aspetti vanno in fluttuazione con la conseguenza che non possono più essere ricondotti ad una simbolizzazione di genere proprio».7 La nuova frontiera sta nel produrre un’analisi dei problemi e proposte per risolverli che non si limitino a reclamare questa o quella specificità di genere per sé, ma li valorizzino entrambi, proprio per non perdere la relazione di genere. Donati sottolinea come «il processo di differenziazione fra i due generi sotto la figura dell’uguaglianza/disuguaglianza (o della differenza-indifferenziazione)8 porta a delle fondamentali incomprensioni, mentre assumere la distinzione maschile/femminile sotto la figura della somiglianza/dissomiglianza risulta assai più fecondo e rispettoso della pari dignità di uomo e donna. . . nell’ottica di una cultura relazionale delle interdipendenze fra i generi».9 Il codice nuovo proposto da Donati, somiglianza/dissomiglianza ricorda il tema più volte citato in questo seminario dell’immagine e somiglianza di Dio e l’uomo. Maschi e femmine sono simili, ma anche dissimili e da questo si può partire per una riflessione che sia culturale e politica sulla relazione tra uomo e donna. Nel contributo di Malo viene ad un certo punto espressa l’idea che «la concettualizzazione di genere non è così rilevante rispetto a quella sessuale e non sempre è necessariamente politica» anche attraverso lo studio degli approcci femministi da lui ben presentati all’interno del contributo. Anche Iafrate sottolinea come le differenze fondative tra generi, generazioni e stirpi sono socialmente rilevante e i due contributi con6
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Pierpaolo Donati (a cura di), Uomo e donna nella famiglia: differenze, ruoli, responsabilità, Quinto Rapporto Cisf sulla famiglia in Italia (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997), 33. Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia. Nuova edizione, 175. Corsivo mio. Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia, 124.
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cordano sul tema che uomo e donna sono sostanzialmente uguali, ma differenti. L’uguaglianza può essere intesa come adesione ad un’unica forma (uniformità), riducendo le diversità a qualità non significative, oppure può essere trattata attraverso la valenza della somiglianza, che combina e compendia uguaglianza e diversità in forma complesse. Da questo punto di vista possiamo dire che la modernità europea ha fatto decisamente prevalere l’uguaglianza come uniformità anziché l’uguaglianza come articolazione della somiglianza. In questo senso è anche una questione politica; perché socialmente implica modelli che favoriscono o meno un certo tipo di relazione fra uomini e donne, fra dimensione biologica e culturale, tra individuo, relazioni familiari e società, etc. Anche nei contributi di Iafrate e Malo si sottolinea come le ricerche sulla coppia che dicono delle peculiarità dei due generi anche psicologicamente (femminile = prendersi cura, intimità e accudimento / maschile = ricerca autonomia, separatezza, capacità di prendere decisioni). Questo oggi viene messo in discussione da più parti. Lo stesso Malo specifica nel suo contributo che la differenza sessuale e aspetti caratteriologici non sono strettamente dipendenti tra loro, ma possono essere originati da percorsi differenti. Se prendiamo in considerazione il tema della tutela della maternità questo è semanticamente e simbolicamente diverso dall’utilizzo del termine tutela della genitorialità. La legislazione attuale, passata e futura possono in tal senso, politicamente, dare un indirizzo piuttosto che un altro che ha delle ripercussioni anche sul modo di intendere la questione al femminile oppure come riguardante entrambi i genitori. La domanda di fondo diventa: la conciliazione famiglia lavoro, ad esempio, è un tema che riguarda le donne e i bambini oppure i genitori? Le misure di conciliazione, inserite in un contesto sociale e culturale diversificato si configurano, quindi, secondo differenti modalità; o come politiche di gender o di pari opportunità, oppure come politiche individualistiche, mirate ad uno solo dei soggetti (bambini, donne, donne sole, anziani) e non alla famiglia, o infine, come politiche di workfare, 95
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in cui la deriva lavoristica della risoluzione del problema è il punto di vista predominante.10 Anche il tema della parentela che sta alla base dei legami familiari si fonda su alcuni assi (generi e generazioni), ma in tutte le sue altre forme è poi socialmente definita. Ad esempio la cura dei neonati, l’attaccamento materno, dipendono dalla cultura e dalle norme sociali. In alcuni popoli i bambini possono essere allattati e cresciuti non solo dalle loro madri, ma da balie, altre figure etc. Da questi esempi possiamo comprendere come la differenza uomodonna e la loro relazione siano assolutamente una questione sociale e culturale. 2
Il ritorno del tema della sessualità e del corpo nella relazione uomo-donna: tra desiderio, procreazione e generatività
Nella letteratura sociologica italiana, dopo una serie di studi fortunati in Italia negli anni Novanta e pochi recenti lavori di Barbagli et al.11 e di Borgna12 per citarne alcuni. Pochissimi sono gli studi sul tema specifico della sessualità se confrontati con la numerosità degli studi sul genere e sul tema dell’identità. Sarebbe interessante approfondire come mai questa rinnovata importanza della sessualità negli anni più recenti. Ovvero: come mai da un certo punto in poi si ripropone nuovamente il tema della sessualità e della corporeità? Perché ci sono stati sempre più fenomeni che hanno portato alla ribalta il tema? Si pensi alla rilevanza del tema delle unioni omosessuali, delle 10
Isabella Crespi, Identità di genere, relazioni e contesti. Esperienze maschili e femminili a confronto (Milano: Unicopli, 2007), Id. (a cura di), Identità e trasformazioni sociali nella dopomodernità: tra personale e sociale, tra maschile e femminile (Macerata: EUM Edizioni Università di Macerata, 2008), Id., Processi di socializzazione e identità di genere. Teorie e modelli a confronto (Milano: Franco Angeli, 2008). 11 Marzio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna, Franco Garelli, La sessualità degli italiani (Bologna: Il Mulino, 2010). 12 Paola Borgna, Sociologia del corpo (Roma-Bari: Laterza, 2014).
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richieste di procreazione assistita e delle tecniche di modificazione anche sessuale del corpo. Ad una mancanza di studi specifici, si contrappone invece una sovraesposizione mediatica e sociale del tema del corpo e della sessualità Da un lato osserviamo l’esplosione e onnipresenza della sessualità e della relazione uomo/donna come elemento dell’industria mediatica. Generazioni di adolescenti e giovani hanno appreso da internet e dalla TV della dimensione sessuale e di coppia attraverso programmi come Uomini e donne di Maria De Filippi, la fiction Beautiful, la trasmissione Sedici anni e incinta di MTV, solo per citare dei casi famosi e strettamente legati al tema della relazione uomo-donna anche da un punto di vista corporato e sessuale. Il tema è stato spesso espulso dai contesti familiari ed educativi più tradizionali (famiglia e scuola) ed è rientrato mediaticamente senza filtri interpretativi come quelli del passato. Oggi si discute spesso di ciò che gli adolescenti sperimentano con internet e di come i digital media possano cambiare il loro modo di relazionarsi. Programmi televisivi e giornali non di rado danno spazio alle incursioni di esperti di vario genere che parlano della rete e dei presunti effetti (negativi o positivi) che essa può avere sui più giovani. Spesso però ci si dimentica di partire proprio dalle ragazze e dai ragazzi, da ciò che hanno da dire, dalle loro esperienze, dalla realtà che li circonda e che cambia il modo di muoversi all’interno di piattaforme digitali divenute ormai parte integrante della vita quotidiana. La rete e internet ci offrono esempi di blog di adolescenti che si socializzano alla vita sessuale sulla base delle proprie esperienze senza nessuna figura educativa che “media” la dimensione della conoscenza e dell’esperienza sessuale. Su questi aspetti il lavoro di Scarcelli13 si concentra sul modo in cui i ragazzi utilizzano le risorse che il web mette loro a disposizione per avere accesso a informazioni e pratiche connesse alla sessualità e al13
Cosimo M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet (Milano: Franco Angeli, 2015).
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l’affettività. L’analisi proposta cerca di chiarire il ruolo delle tecnologie digitali nei processi di esplorazione dell’intimità e di costruzione dell’esperienza e della realtà sociale per mostrare quella parte della vita dei più giovani spesso banalizzata e ignorata da sguardi inclini a dare soluzioni educative superficiali. Quanto questo tema della sessualità si lega al desiderio? Alla dimensione del piacere = Eros, come tensione originaria alla vita? O sono solo legati al tema della procreazione/generatività? Quale rapporto virtuoso tra desiderio e sessualità e generatività? A partire dal contributo di Malo in cui si sottolinea come «la tecnica non potrà mai cancellare l’origine sessuale delle specie animali superiori da noi conosciute» si può sviluppare un ulteriore elemento di riflessione. Certamente è vero, ma la tecnica oggi tuttavia può favorire una distanziazione maggiore tra sessualità e riproduzione (varie tecniche possibili, ma un domani perché no, il mercato dei bambini, abbiamo già in una certa forma il mercato dell’utero in affitto, quello della compravendita di ovuli e di sperma attraverso i donatori. Come recuperare una valorizzazione di questi aspetti e perché nella nostra società questo è l’orientamento prevalente? Dove e come si è persa l’importanza della relazione umanizzante legata alla generatività e alla procreazione? Paradossalmente nei Paesi dove sono più diffuse tecniche di fecondazione di vario tipo vi sono anche molti più figli naturali e quindi le cose non si escludono a vicenda. Dove si colloca il corto circuito per Paesi come Italia e Spagna a forte orientamento cattolico, che presentano tassi di natalità tra i più bassi d’Europa? La questione, a mio parere, è in che modo si può recuperare il legame tra sessualità, relazione uomo-donna e generatività, soprattutto in relazione al ciclo di vita, all’esperienza della coppia, alle pressioni sociali che tendono a disgiungere i tre aspetti. Se da un lato la si disgiunge, dall’altro si tende a medicalizzare/biologizzare l’esperienza della sessualità e della generatività legandola solo all’aspetto procreativo. La domanda che emerge è la seguente: quale modello risulta pienamente umanizzante nella relazione uomo-donna? 98
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L’effetto nel tempo è stato quello di una separazione spesso totale tra sessualità, piacere, desiderio e generatività e relazione di coppia/familiare, quasi una loro apparente, non detta, inconciliabilità. Molto poco si trova all’interno dei documenti ecclesiali (encicliche o documenti di pastorale familiare e giovanile) una valutazione complessiva e propositiva della dimensione del desiderio sessuale nella coppia, o meglio tra i coniugi, se non in ottica prevalentemente procreativa. Significativo, a tal proposito, che l’esortazione apostolica di papa Francesco si intitoli Amoris Laetitia, a sostegno anche solo basilare dell’importanza della gioia dell’amore nelle relazioni familiari, amore che ha anche una dimensione sessuale umanizzante. La parola “sessualità, sessuale” compare ben settanta volte nel testo e questo implica un cambiamento anche nel modo di voler/poter parlare della dimensione sessuale nella relazione coniugale/familiare all’interno della dimensione ecclesiale. 3 La relazione uomo-donna e le differenze di genere: processi di socializzazione e generazioni La differenza sessuale viene spesso legata al tema della famiglia ed alle relazioni adulte, ma come e quando iniziano le relazioni sessuali/affettive/di genere nella vita dei soggetti? Uomo e donna sono pensati nelle relazioni adulte, ma tutto un discorso sulla socializzazione al genere viene omesso. Cosa ne è della sessualità all’interno della coppia, dell’esperienza giovanile? Come legare amore, desiderio, sessualità e piacere alla dimensione generativa (non solo procreativa) delle relazioni? In che senso la sessualità, come espressione della differenza sessuale, è dunque generativa anche per la relazione di coppia? Indagare il processo di costruzione dell’identità di gender maschile e femminile in una prospettiva sociologica, alla luce delle significative trasformazioni sociali che hanno fortemente inciso sull’interiorizzazione dei modelli e degli stili tradizionali della maschilità e della femminilità, è dunque l’ambizioso compito di questo nostro tempo storico. Lo studio 99
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dell’identità di gender è messo in relazione allo sviluppo dell’individuo esaminando le esperienze significative, i contesti socializzativi, le somiglianze e le differenze con il modello tradizionale delle generazioni precedenti e con quello emergente delle generazioni successive.14 A partire da due ricerche da me svolte su questo tema15 è evidente come il tema della costruzione di una identità di genere a partire dai processi di socializzazione sia un elemento poco trattato, se non a volte sottovalutato. Se il punto di partenza è che l’identità di genere e la sua costruzione all’interno delle relazioni socializzative sono intese come un processo relazionale che sviluppa una dimensione identitaria maschile o femminile, trasmessa attraverso le generazioni, l’indagine mette in luce come il processo di indifferenziazione tra i generi si riduca notevolmente e come tante adolescenze si incontrino e si confrontino, alla ricerca di una definizione di sé in cui l’appartenenza di genere appare ad un tempo una risorsa importante per la crescita, e una possibilità di identificazione, ma anche di sperimentazione di nuove modalità di essere e di relazionarsi all’altro. Le ricerche mettono in luce come il processo di costruzione dell’identità sia un fenomeno estremamente articolato e complesso al suo interno in cui l’acquisizione dell’identità di genere appare al tempo stesso una risorsa importante per riconoscersi e identificarsi, ma anche una possibilità di sperimentare se stessi e di confrontarsi con l’altro in relazione alle esperienze e ai percorsi che un soggetto decide di compiere. A tal proposito è importante citare una recente ricerca presentata nel marzo 2016 in Università Cattolica e coordinata dalla prof.ssa Confalonieri16 . I dati presentati ci dicono che in Italia il primo rapporto sessuale avviene mediamente a 15/16 anni, la prima relazione stabile a 17 (dover 14
Isabella Crespi, Il pendolo intergenerazionale. La socializzazione al genere in famiglia (Milano: Unicopli, 2003) e Identità di genere, relazioni e contesti. Esperienze maschili e femminili a confronto (Milano: Unicopli, 2007). 15 Ibidem. 16 Per una presentazione dei principali risultati http://www.cattolicanews.it/sessualitala-parola-agli-adolescenti.
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per stabile si intende una relazione che va dai quattro mesi ai due anni nella definizione degli adolescenti stessi). L’origine dell’amore è spesso anche una tensione sessuale al desiderio dell’altro (uomo o donna) e la procreazione, la generatività si basano oggi su un modello di relazione tra uomo e donna che è cambiato molto nel tempo e che dunque separa, almeno temporalmente, di molto il legame tra questi aspetti. Gli adolescenti e i giovani (uomini e donne), soprattutto, sono maggiormente alla ricerca di una nuova identità, legata a un percorso più personale e autonomo anche se spesso, tale processo, può sembrare incerto e privo di punti di riferimento. In parte tutto ciò è effettivamente reale, ma la complessità e multidimensionalità dell’oggetto in questione (l’identità di gender) suscita continuamente nuovi interrogativi. La riflessione da fare è da leggersi in un’ottica aperta alla relazione alle diverse generazioni e al cambiamento. Non possiamo accorgerci della loro sessualità solo quando gli individui entrano nella cosiddetta età adulta. È un processo che inizia molto prima, sempre più presto nel nostro contesto e che ci chiede di riuscire a leggere le nuove/rinnovate/differenti regole del gioco attraverso le quali si costituisce la relazione uomodonna intesa ontologicamente come un terzo differente dai soggetti che ne fanno parte. Una relazione che genera qualcosa, un tertium, e che lo mantiene, lo cambia e lo riadatta nel tentativo di esistere per un tempo socialmente definito e voluto anche dai due soggetti implicati.
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La relazione uomo-donna tra fatiche e opportunità Eleonora Maino (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
In questa mia riflessione cercherò di riprendere alcuni dei punti trattati dai relatori nei loro articolati saggi con i quali – in linea di massima e in linea teorica – concordo, per quanto poi nella realtà della vita quotidiana mi trovi continuamente a interrogarmi in merito a vicende che si allontanano, spesso anche molto, da quello che potrebbe essere – citando Donati1 – «un ideale, seppur veritativo, della relazione uomo-donna». Per questo mi riferirò, per quanto possibile, anche a vicende di vita raccolte nell’ambito del mio lavoro come psicoterapeuta che si occupa nello specifico di relazioni e di persone in relazione nei loro contesti di vita, in primis quello familiare. Il primo punto su cui vorrei soffermarmi riguarda il corpo che incarna la differenza tra i sessi e la rende generativa. Nei loro saggi entrambi i relatori sottolineano la stretta connessione tra corpo, differenza sessuale, relazione e generatività. Malo sottolinea, ad esempio, che «nella specie umana la differenza sessuale non è legata solo alla vita della specie: la differenza sessuale è la matrice del nostro essere in relazione. Il sesso corporeo oltre ad essere specifico e individuale come negli animali (genetico, ormonale, cerebrale, gonadico) è anche relazionale e questo porta la sessualità corporea alla sua umanizzazione». D’altro canto, come scrive Iafrate, «la persona umana è corpo e, come ci insegna la biologia, già dall’embrione corpo sessuato. [. . .] Prescindere dal corpo è impossibile 1
Pierpaolo Donati, “La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale”, in questo volume.
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La relazione uomo-donna tra fatiche e opportunità
[. . .]. Il corpo rende visibile la differenza [. . .], il riferimento ad “altro” fuori da sé, al senso del limite che inevitabilmente accompagna l’incontro con l’altro [. . .]». Il corpo, grazie al suo limite, diventa «strumento capace di incontrare l’altro “diverso” da sé e di generare un terzo». A mio avviso, questa auspicabile stretta connessione tra corpo, differenza sessuale, relazione e generatività, molte volte sembra perdersi sia a livello sociale, sia quando si entra in contatto con situazioni più specifiche proprie di alcune persone. Come “cum-prendere” dunque queste situazioni nell’ottica di una ecologia integrale della relazione uomo-donna? Ad esempio, a livello sociale, spesso l’attenzione riguardo alla sessualità è posta sulla dimensione corporea mentre vengono trascurati gli aspetti relazionali e affettivi. Come scrive Piana, «l’atteggiamento nei confronti della sessualità è oggi contrassegnato da uno stato di profonda ambivalenza che si riflette inevitabilmente sui comportamenti quotidiani, ingenerando insicurezza e lacerazione interiore: la repressione del sesso, che ha dominato a lungo la cultura dell’Occidente e che è tuttora ben lungi dell’essere sconfessata, si scontra ai giorni nostri con l’affermarsi della tendenza a forme di liberalizzazione selvaggia, che hanno esiti non meno gravi. La percezione della sessualità appare così caratterizzata da uno stato di permanente oscillazione tra due poli opposti: quello della tabuizzazione, che alimenta frustrazioni e sensi di colpa e quello della mitizzazione dei suoi aspetti esteriori in primo luogo di quello fisico con il rischio della destituzione dei suoi più profondi significati umani»2 . Inoltre, se è vero, come suggerisce Malo, che «la differenza sessuale è la matrice del nostro essere in relazione», cosa dire di quelle situazioni in cui il corpo viene visto come asessuato? Mi riferisco ad esempio alle situazioni in cui è presente una disabilità. Mi sono occupata per molti anni di ragazzi con una disabilità, operatori che lavorano con questi ultimi e genitori con figli disabili e spesso ho 2
Giannino Piana, “Etica, handicap e sessualità”, in Fabio Veglia (a cura di), Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza (Milano: Franco Angeli, 2003): 152-156 e nello specifico 153.
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parlato con loro di tematiche inerenti il corpo, la sessualità, la relazione; spesso – in modo provocatorio e per fare emergere stereotipi e idee veicolate dall’ambiente sociale e culturale di appartenenza – chiedevo a genitori e operatori di dividere un foglio in tre colonne e di segnare in ciascuna di esse cosa fosse permesso e appropriato dal loro punto di vista in ambito sessuale da parte di un uomo, una donna e un disabile. Molto raramente ho trovato persone che obiettassero questa distinzione, poche volte ho trovato persone che mi dicessero che i disabili non sono una categoria a sé, ma pur nel loro corpo deformato o malato, sono uomini o donne. Spesso, invece, quando il corpo è malato, viene quasi automatico pensare al corpo come asessuato; così accade nel caso delle persone con una disabilità che sovente vengono pensate come non sessuate3 , o come se la loro sessualità fosse irrilevante, non appartenente alla loro identità. E ancora, che dire, nell’ottica di una ecologia integrale della relazione uomo-donna, di quelle situazioni dove si è ben lontani dall’umanizzare la sessualità attraverso la cura dell’altro e dove non c’è spazio e pensiero per la generatività? Ho in mente ad esempio situazioni di alcune persone, spesso adolescenti e giovani, affamate di relazioni, di bene, di desiderio, di amore che pur di mantenere la speranza di “essere di qualcuno” agiscono la sessualità come prezzo da pagare per mantenere l’illusione di una vicinanza affettiva. È il caso ad esempio di Paola, una ragazza di 18 anni che si concede all’altro, non donandosi in una relazione autentica di crescita, di cura di sé, dell’altro e del legame, ma come prezzo da pagare per non restare sola nonostante le conseguenze, tra le quali un’interruzione di gravidanza o l’assunzione della pillola del giorno dopo. Ha ragione, a mio avviso, Malo quando scrive che la sessualità è una «struttura antropologica molto complessa che per svilupparsi dipende non solo dal sesso genetico, ormonale, cerebrale e gonadico, ma soprattutto dalle relazioni con le altre persone, in modo particolare con altri uomini e con altre donne»; la realtà ci porta continuamente prova di questo, sebbene, sovente, non nella direzione ipotizzata. 3
Giancarlo Posati, “Tra esperienza e progetto: diritto alla sessualità come diritto alla qualità della vita”, in Veglia (a cura di), Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza, 44-54.
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Il secondo punto toccato dai relatori su cui vorrei soffermarmi riguarda la relazione come luogo d’incontro delle differenze e di apertura al terzo. Come ben scrive Iafrate «Relazione presuppone differenza [. . .]. Se non c’è differenza non ci può essere relazione [. . .]. L’altro è ciò che mi de-finisce, e quindi, al tempo stesso, è il mio limite. . .». In quest’ottica la coppia si presenta come «luogo per eccellenza dell’incontro tra le differenze fondative dell’umano, quelle tra generi, generazioni e stirpi». La vita poi ci interroga e ci riserva sorprese in merito a questa funzionale dialettica tra generi, generazioni e stirpi, come nel caso di Maria, una giovane donna di 38 anni, mamma di un bambino di 4 anni. Maria da 24 anni ha una relazione di coppia, da prima come fidanzata e poi come moglie, con Edoardo. I due, conosciutisi giovanissimi, sono cresciuti insieme, hanno sperimentato nella loro relazione le reciproche differenze nel corpo, nella sessualità e nel modo di porsi come uomo e come donna, si sono sostenuti, hanno imparato l’uno dall’altra e sono diventati famiglia aprendo il loro legame al terzo. L’incontro con una donna, Marta, dalla quale Maria si è trovata a sentirsi attratta emotivamente, romanticamente e sessualmente ha cambiato le loro vite. Maria ha trovato in Marta un “altro” uguale a sé, in cui rispecchiarsi, con cui condividere un analogo modo di sentire, da cui sentirsi appagata come non si era mai sentita. Maria vive ora un profondo stato di lacerazione interiore, non sa più chi è, non sa più se definirsi a partire da un altro diverso da sé o da un’altra uguale a sé, non sa più se proseguire nella sua vita di moglie e mamma, sino ad ora portata avanti con fatica, ma anche con soddisfazione, o se dare seguito a questo nuovo coinvolgimento. Come “comprendere” questa situazione? Come gestire le differenze? Come definire il proprio essere donna a partire dagli altri? Una rondine non fa primavera, è vero, si aggiunga allora a questa vicenda di vita, un sondaggio effettuato nel 2015 da YouGov, un’importante società britannica di rilevazioni statistiche, secondo cui sempre più giovani rivendicano un’identità sessuale “fluida”. I dati di questo sondaggio, configurabile come uno dei più grandi sul tema negli ultimi anni, sono stati tratti da 1632 partecipanti. Questi ultimi dovevano posizionarsi sulla scala Kinsey che descrive la sessualità umana come 106
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un continuum tra due estremi: "esclusivamente eterosessuale" (al grado 0) e "esclusivamente omosessuale" (al grado 6). Considerati nel loro complesso, i dati hanno evidenziato che il 4% dei partecipanti si definiva “esclusivamente omosessuale”, il 72% riteneva di essere “esclusivamente eterosessuale” e il 19% si poneva in uno stadio intermedio che Kinsey definiva come bisessualità. Considerando tuttavia l’età dei partecipanti, il dato che più di tutti richiama l’idea di una “sessualità liquida”, è quello che riguarda la fascia d’età dei giovani tra i 18 e i 24 anni: in questo gruppo infatti, solo il 46% dei soggetti si definiva “esclusivamente eterosessuale” e il 6% “esclusivamente omosessuale”; viceversa, il 43% dei partecipanti si collocava in uno stadio intermedio tra i due poli e una piccola percentuale non sapeva definirsi. Il risultato più sorprendente, che richiama l’idea di una “sessualità liquida”, è quello che riguarda la fascia d’età dei giovani tra i 18 e i 24 anni: in questo gruppo infatti, solo il 46% dei soggetti si definiva “completamente eterosessuale” e il 6% “completamente omosessuale”; viceversa, il 43% dei partecipanti si collocava in uno stadio intermedio tra i due poli e una piccola percentuale non sapeva definirsi. Cifre più attenuate, ma simili, sono state registrate anche nei soggetti tra i 26 e i 39 anni. Secondo YouGov «questi numeri non indicano una bisessualità attiva e messa in atto nella vita reale», quanto piuttosto «un approccio più aperto alla sessualità» tra i giovani. Infatti la percentuale di persone con un’identità “fluida” aumenta con il diminuire dell’età: è solo il 7% tra gli over 60, il 16% tra i 40 e i 59 anni, il 29% nella fascia 25-39 e, appunto, il 43% in quella 18-24. Oltre a questi risultati, un altro elemento degno di nota emerso da questo sondaggio è che le persone di tutte le generazioni sembravano accettare l’idea che l’orientamento sessuale esistesse lungo un continuum piuttosto che configurarsi come una scelta binaria: nel complesso sosteneva questa idea il 60% degli eterosessuali, mentre il 28% degli eterosessuali e il 73% degli omosessuali riteneva che la scelta fosse binaria: o si è eterosessuali o non lo si è. 107
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Tali dati, a parere mio, pur rientrando nella categoria più vicina al sentire comune che al dato scientifico in senso stretto, ci interrogano su quello che è il tema della relazione uomo-donna in una prospettiva relazionale, sulla capacità di definirsi a partire dalle relazioni con gli altri e, come hanno ben sottolineato i due relatori, sul fatto che esista un modo differente – maschile o femminile – di essere in relazione e di dar origine ai beni relazionali. E arriviamo al terzo punto che vorrei sottolineare: come considerare differenze e somiglianze tra uomo e donna in un modello relazionale pienamente umanizzante? È innegabile che esistano delle differenze nel modo di porsi all’interno delle relazioni da parte di uomini e donne. Come scrive Iafrate «La letteratura mostra come uomini e donne differiscano nella concezione di sé, nel modo di sviluppare la propria moralità e nella modalità di concepire i rapporti umani». Le donne cercano l’intimità, l’uomo spesso la rifugge; le donne si giudicano in base alla loro capacità di prendersi cura delle cose e delle persone; l’uomo si definisce in base a criteri quali la ricerca di autonomia, la separatezza, la riuscita individuale. Non è semplice tenere insieme queste differenze e armonizzarle; non a caso, come sostengono alcuni autori4 il conflitto è la major arena5 per indagare la relazione coniugale: è infatti nel conflitto che emergono con più evidenza le percezioni dei coniugi, il tipo di comunicazione coniugale e i pattern relazionali di coppia. Credo pertanto sia importante porre l’accento sulle differenze tra uomo e donna, ma penso sia altrettanto importante porre l’attenzione su alcune “uguaglianze” che, a mio avviso, vanno poste come pilastri della relazione e sostengono il processo di armonizzazione delle differenze. 4
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Linda K. Acitelli, Elizabeth Douvan, Joseph Veroff, “Perceptions of conflict in the first year of marriage: How important are similarity and understanding”, Journal of Social and Personal Relationship, 10 (1) (1993): 5-19. Eugenia Scabini, Vittorio Cigoli, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2000).
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Tali uguaglianze sono da ricondurre (1) all’uguale attribuzione d’importanza a sé e all’altro, principio che si trova alla base della regola d’oro «ama il prossimo tuo come te stesso» e fonda la parità e la reciprocità nella relazione; (2) al fatto che siamo tutti fallibili, feribili da chi amiamo e passibili di ferire a nostra volta chi amiamo6 . Come sottolinea L’Abate nella sua Teoria della Competenza Relazionale, in assenza di una reciproca attribuzione di importanza, in assenza del riconoscimento della propria fallibilità e del proprio limite, è difficile trovare la possibilità di negoziare all’interno delle relazioni, garantire presenza, vicinanza, sentirsi amati e amare, perdonare gli errori, condividere i dolori, potersi fidare dell’altro e accettare che, grazie all’altro diverso da noi, possiamo realizzare ciò che vogliamo essere. Infine l’ultimo punto che vorrei trattare riguarda il riferirsi da parte di entrambi i relatori alle relazioni di coniugalità e genitorialità. In particolare Malo scrive «l’unione della peculiarità della differenza uomo/donna dà luogo a una serie di beni relazionali originari, il più importante è la famiglia; quest’ultima fa scoprire così due beni relazionali originari: la sponsalità e l’apertura al figlio». Un po’ provocatoriamente, analizzando l’odierno panorama sociale, mi viene da chiedere: nel concreto, quale famiglia? Già nel 2004 L’Abate7 pubblicava un articolo dal titolo “La lenta scomparsa della famiglia: chi prenderà il suo posto?”. In questo articolo l’autore, sosteneva che la famiglia tradizionale formata da due genitori e due figli o fosse già scomparsa, come negli Stati Uniti, o stesse scomparendo inesorabilmente, non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei. Infatti riportando i dati del 2002 tratti dall’Anagrafe Statunitense l’autore notava che: solo il 25% dei domicili americani apparteneva a famiglie 6
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Luciano L’Abate, Mario Cusinato, Eleonora Maino, Walter Colesso, Claudia Scilletta, Relational Comptence Theory. Research and Mental Health Applications (New York: Springer, 2010). Luciano L’Abate “La lenta scomparsa della famiglia: chi prenderà il suo posto?”, Saggi: Child Development and Disabilities, 30 (2004): 23-35.
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La relazione uomo-donna tra fatiche e opportunità
intatte; il resto dei domicili includeva una buona percentuale di single o divorziati; coppie dello stesso sesso; famiglie con nonni che allevano i propri nipotini senza genitori; famiglie con un unico genitore; famiglie ricomposte. L’Abate concludeva che, a suo avviso, il sistema famiglia sarebbe stato sempre più rimpiazzato da relazioni intime, definite come vicine, impegnate, prolungate; laddove per “vicinanza” intendeva lo stare insieme non solo fisicamente, finanziariamente, praticamente, ma soprattutto emotivamente; per “impegnato” intendeva che i membri fossero d’accordo nel voler mantenere e sostenere la relazione affrontando insieme la buona e la cattiva sorte e per “prolungato” intendeva il continuare della relazione fino all’impossibilità di sostenerla, per qualunque ragione, compreso il sopraggiungere della morte. Il trend non sembra essere cambiato dal 2004: il dato del 2010 è che negli Stati Uniti solo il 48,4% dei bambini al di sotto dei 18 anni vive in famiglie nucleari8 . In Italia se nel 2000 le coppie con figli (includendo coppie sposate e conviventi) erano il 45%, nel 2014 sono passate al 34%; viceversa se nel 2000 le persone sole erano il 23%, nel 2014 sono diventate il 30% (dati ISTAT). Ha ragione Malo quando sostiene, citando Binetti, che “della dimensione familiare nessuno può fare a meno, né può barattarla con legami più provvisori e forse non si ricorderà mai abbastanza che tutti i rapporti verticali in famiglia sono inscindibili; il più fragile appare proprio quello di coppia, che paradossalmente è il garante della qualità intrinseca degli altri rapporti familiari”. In proposito, i dati ci dicono che negli ultimi 20 anni il numero dei matrimoni è continuamente in calo, mentre le separazioni sono aumentate di oltre il 70% e i divorzi sono quasi raddoppiati. Non c’è dubbio che la famiglia rivesta una straordinaria importanza per gli individui e che sia il luogo di maggior apprendimento, sviluppo e definizione di sé stessi in relazione agli altri; purtroppo, a mio avviso, investiamo – nel senso più ampio del termine – troppo poco a favore della famiglia e delle relazioni al suo interno. Su questa linea concludo 8
Debra L. Blackwell, Family Structure and Children’s Health in the United States: Findings From the National Health Interview Survey, 2001-2007 (Washington: National Center for Health Statistics, Vital and Health Statistics, 10 (246) 2010).
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Eleonora Maino
con quanto Rogers9 scriveva già nel 1974: «A me pare che viviamo in un’epoca importante e incerta e l’istituzione del matrimonio è sicuramente in uno stato incerto. Se dal 20 al 75% dei veicoli Ford o General Motors si guastassero completamente nel primo periodo della loro vita di automobili, si prenderebbero misure drastiche. Non abbiamo sistemi così bene organizzati per il trattamento delle nostre istituzioni sociali, sicché la gente brancola, più o meno alla cieca, alla ricerca di alternative al matrimonio (che ha successo certamente in meno del 50% dei casi)».
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Carl R. Rogers, Partners. Il matrimonio e le sue alternative (Roma: Astrolabio Ubaldini, 1974): 15.
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Ecologia integrale della relazione uomo-donna L’incapacità relazionale Milena Provenzi (Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze ASST di MonzaUO Psichiatria Direzione Universitaria)
La dualità è una costante nell’uomo, basti pensare al concepimento, atto dove due energie differenti ma complementari, quali quella della donna e quella dell’uomo, si incontrano e compenetrano dando vita ad una creatura che come continuum avrà in sé i due principi del maschile e del femminile. Sebbene ognuno sviluppi maggiormente una delle due parti, siamo esseri completi nella misura in cui riusciamo a farle cresce entrambe; nella filosofia orientale, il lato destro corrisponde al maschile e il sinistro corrisponde al femminile, ossia la parte che ci offre protezione, che ci aiuta a manifestare i nostri bisogni, e quella che ci fa riconoscere e accettare le nostre esigenze, che fa in modo che ci prendiamo cura di noi. Quindi, la vita umana nasce e si sviluppa in un tessuto relazionale, in cui si intrecciano le varie parti di noi, dell’altro e dell’ambiente. Stiamo però assistendo ad una progressiva riduzione delle diversità, in particolare in ambito sessuale, come ampiamente spiegato nell’intervento di Malo; le relazioni, dunque, divengono sempre più difficili o persino impossibili. Questo innegabile cambiamento è letto da Bauman come il tentativo dell’uomo di adattarsi alla ’modernità liquida’, ove anche le relazioni si devono adattare ai bisogni immediati e mutevoli dell’uomo postmoderno, dotato di ’identità liquida’. Infatti, possiamo servirci di un termine tecnologico come connessione per caratterizzare le ’relazioni liquide’: vincoli scarsamente duraturi, fragili e che rispondono
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alle regole del profitto.1 Non c’è tempo e non esiste luogo ove andare oltre alla mera interazione, che non assurge, come esposto da Iafrate, alla stabilità e alla costruzione di un legame relazionale. Il feto, attraverso suoni, movimenti e sostanze, può ricevere le espressioni d’amore e protezione della madre; attraverso tali canali vengono veicolate anche le interazioni con il modo sociale, che iniziano quindi già dalla vita intrauterina. La madre sovraintende all’ambiente del nascituro, portandogli il mondo e portandolo al mondo attraverso la sua mediazione, cercando di farlo sentire in armonia con la natura che lo circonda. D’altra parte negli organismi biologici, quanto più a lungo procede il processo di maturazione, tanto maggiore sarà l’influenza dell’ambiente sull’organismo stesso. Gli esseri umani sono quelli che in natura godono del periodo di maturazione più lungo; processo che inizia all’interno della famiglia, che per tornare al paradigma cosmologico è rappresentabile, secondo Adler, sotto forma di costellazione. Egli infatti descrive la famiglia come il primo nucleo sociale: una costellazione in cui il padre e la madre rappresentano il sole e la luna, mentre i figli sarebbero tante stelle, che ruotano intorno; ciascun figlio peraltro sarebbe influenzato dall’ambiente familiare a seconda della posizione occupata nella costellazione. Al di là della storia, la famiglia ha funzionato da argine atto a convogliare i desideri embrionali delle giovani generazioni in un alveo socialmente accettabile, compatibile con le leggi vigenti. Oggi però il consumismo è la legge in vigore. Quindi, da subito si apprende che il bene materiale è un surrogato dei sentimenti (autostima, sicurezza, amore); da qui è breve il passo che riduce il sesso a merce di scambio disponibile sul mercato. Sesso non già relazioni, essendo il primo suscettibile delle regole del commercio e permettendoci di evitare la complessità dei rapporti tra esseri umani, paurosamente imprevedibili nella loro vitalità. Il feticismo si è gradualmente infiltrato nei sentimenti e nell’esistenza umana là dove il bene materiale viene sostituito alla reciprocità 1
Zygmud Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Roma: Editori Laterza, 2012).
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Milena Provenzi
delle relazioni, in termini di gratuità e spontaneità dell’amore e dell’accettazione. Nel quotidiano ci troviamo a decidere se indirizzare il nostro amore alle cose o alle persone, essendo diventato questo un dilemma di questa forma di società mercificata ritenuta società moderna.2 L’abolizione e la de-umanizzazione del desiderio, vissuto come non governabile e pericoloso, attiene al concetto di perversione. Il termine di fétichisme fu utilizzato per la prima volta dal filosofo e linguista francese Charles de Brosses nel 1760 e secondo gli analisti francesi deriverebbe da fetice, ovvero “fittizio, artificiale”. Generalmente si fa invece riferimento al termine portoghese feitiço,3 “artificiale”, a sua volta derivato del latino facticius, “fabbricato, costruito”, e dunque anche “falso, finto”. Il termine4 sarebbe stato coniato per indicare «la venerazione o l’apprezzamento incondizionato di oggetti apparentemente inutili, che gli esploratori portoghesi avevano rinvenuto in varie religioni africane». Definizione che ci rimanda al 1847 ovvero al “feticismo delle merci” di Marx.5 «Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso instupidire la vita umana, riducendola ad una forza materiale».6 Prima ancora di raggiungere gli oggetti che vorremo acquistare, grazie allo sfruttamento del rapporto tra bene superfluo e artificiosità del desiderio, le moderne tecniche di vendita ci inducono a comprare tutt’altro, continuamente esposti a tentazioni visive; proprio come Monsieur Lheureoux risvegliava le aspettative di felicità di Emma Bovary. Questo artificio è descritto da Tanner come il «cercare di trasformare la vaghezza e confusione di desiderio erotico-emozionale in una bramosia 2 3 4 5 6
Louise J. Kaplan, Perversioni femminili. Le tentazioni di Emma Bovary (Milano: Raffaello Cortina Editore, 1992). Allan Bass, “On the History of a Mistransition and the Psychoanalytic Movement”, saggio inedito presentato alla Società Psicoanalitica di New York nel febbraio 1984. Ivi, 27. Cfr. Robert C. Tucker (a cura di), The Marx-Engels Reader (New York: Norton, 1972), 215-225. Karl Marx, “Discorso per l’anniversario del People’s Paper” (1856), in Opere complete, vol. XIV (Roma: Editori Riuniti, 1982), 656.
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specifica per un’infinità di merci superflue».7 Affannosamente ella cercava di sanare il debito con il commerciante, ma inevitabilmente questi le proponeva altri oggetti, cose che la facessero sentire «tranquilla, priva di tristezze nel cuore come di rughe sulla fronte».8 Tutte le emozioni possono essere evitate attraverso il bene di consumo. Diversivi che distolgano dai dilemmi umani e morali, nonché dai sentimenti di paura, tristezza, collera, dolore, terrore, rabbia, ambizione sociale; questi oggetti possono essere definiti beni feticcio. Quindi, come Madame Bovary, quando non si riesce a sostenere l’angoscia o a prevenirne l’assalto, placato solo per breve tempo dagli oggetti di cui ci attorniamo, preferiamo languire nell’attesa di un nuovo trastullo. «Emma» citando Tanner «presto non saprà più distinguere tra bisogni, appetiti, desideri e bramosie, e cercherà sempre più di compensare la sua insoddisfazione emotiva saziandosi di marchandises».9 L’illusione è inclusa nel prezzo dell’inganno e ci consente di rendere la vita “civilizzata” maggiormente tollerabile; illusione che deve essere quindi distinta dal feticcio. L’oggetto transizionale, come l’illusione, ci permette di alleviare il timore del relazionarci con l’esterno, permettendoci di aprire i nostri orizzonti, e può essere abbandonato quando si acquisisce una adeguata sicurezza. Il feticcio ci cristallizza nel suo divenire irrinunciabile, impedendo la creazione di una reale sicurezza. Attraverso l’esperienza transizionale, secondo Winnicot,10 il bambino può uscire dall’onnipotenza soggettiva, ove tutto è sotto il suo controllo e tutto avviene a seconda dei suoi desideri; quindi, è in grado di abbandonare la visione edonistica del mondo. È questa la tappa fondamentale per la strutturazione di un Sé autentico; ovvero quando le frustrazioni dosate della mamma “sufficientemente buona” permettono il ridimensionamento dell’onnipotenza, mediato dall’oggetto transizionale che, 7
Tony Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e trasgressione (Genova: Marietti, 1990), 302. 8 Gustave Flaubert, Madame Bovary (Milano: Garzanti, 1965), 32. 9 Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e trasgressione, 302. 10 Donald W. Winnicot, Dalla pediatria alla psicoanalisi (Firenze: G. Martinelli Editore, 1975).
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fungendo da ponte tra realtà interna ed esterna, diventa il primo oggetto “non-me”; ne consegue la possibilità di distacco ed autonomia, processo definito dalla Mahler “individuazione-separazione”. Il feticcio, catalizzando e congelando i vissuti minacciosi o eccessivamente idealizzati e temuti, all’opposto alimenta quella onnipotenza infantile che rende fragile la strutturazione di una personalità, soprattutto nei termini di accettazione del limite. Sebbene gli effetti dell’inganno feticistico si facciano ora più evidenti, questo prende le mosse dal 1880. Dopo l’avvio dell’era industriale si è realizzata l’aspirazione della società del consumo con il grande magazzino. Evento sostanzialmente preconizzato da Marx. Nel giugno del 1989 in Cina i lavoratori e gli studenti manifestavano pacificamente a Piazza Tinanmen, per chiedere una società democratica; saranno poi dispersi a colpi d’arma da fuoco e con l’intervento dei carri armati. In America, nella stessa settimana, il New York Times salutava, come simbolo della democrazia Americana, l’arrivo del megamall: «una nuova droga per i futuri consumomani». Il primo cittadino di Bloomington non dovette ricorrere alla forza per arginare dei timidi segnali di protesta, convincendo la popolazione che l’insediamento commerciale avrebbe costituito un miglioramento. Samuel Kaplan, sociologo del Bryn Mawr College, sostenne in merito: «Il mall risponde al bisogno antropologico di essere circondati da altri esseri umani».11 Nell’ottica per cui la vicinanza fisica e non la prossimità affettiva siano da ricercare nell’altro. I laudatores temporis acti, i sostenitori dei bei tempi andati, ci saranno sempre, ma la tecnologia non possiede un’anima, e solo l’uomo può vivificarla e farne uno strumento di vita; da sola non è neppure, come affermano i catastrofologi, uno strumento di morte perché, come tutte le cose, è indifferente, non sa nulla, come l’universo contrapposto all’uomo da Pascal: l’univers qui ne sait rien. L’uomo, dunque, grazie alla tecnologia ha oggi un potere sulle cose del mondo che prima era prerogativa esclusiva della natura o delle divinità, che nell’immaginario 11
Isabel Wilkerson, “Magamall: A New Fix for Future Shopping Addicts”, New York Times, 9 giugno 1989: A14.
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mitologico o nella fede delle religioni governavano il mondo. Condivide, però, questo potere di distruzione con le forze che, anche se in parte conosciute, sfuggono ancora al suo controllo. Tutti gli input che riguardano i generi di consumo hanno la prerogativa di essere al tempo stesso suggestivi ma non stabilmente penetranti, proprio per rispondere alla logica della produzione che si rinnova e ha bisogno di un consumo continuo. L’abbondanza non riguarda solo il benessere in cui viviamo, e quindi la quantità e la qualità degli oggetti di cui disponiamo, ma anche la dovizia di immagini e di notizie da cui siamo stimolati. L’oggetto e tutte le immagini ad esso associate sono confezionati per non essere conservati a lungo e i recettori di questi stimoli, noi tutti, appunto, rispondiamo con l’atteggiamento di chi mantiene sull’oggetto investimenti affettivo-cognitivi labili, ma al tempo stesso sufficientemente forti da consentirne l’acquisto e l’uso. L’interesse per l’oggetto è mantenuto sempre desto e può essere, entro limiti di tempo anche molto brevi, molto intenso, tanto da creare quasi uno stato di necessità obbligata; ma tutto rimane esterno, ci riveste senza marcare l’interiorità. Si realizza quindi un paradosso della alienazione dagli oggetti: una istanza di forte idealizzazione, grazie alla forte carica suggestiva con cui vengono presentati, e, nello stesso tempo, una istanza di dequalificazione per la loro istantanea obsolescenza. Si rischia quindi di instaurare con l’oggetto, nell’accezione più ampia del termine, ossia con tutto ciò che non è il Sé individuale, un rapporto caratterizzato dalla presenza contemporanea di meccanismi di idealizzazione e squalifica. Ciò si declina anche nella difficoltà a stabilizzare una identità ben definita, essendo favorite le fluttuazioni rapide di interessi e investimenti. Un compito molto più difficile per gli adulti consiste nel presentare ai ragazzi una selezione di valori fondati sulla tradizione, su un passato non solamente familiare ma anche storico e sociale, che possano essere capiti, assimilati e ridefiniti se necessario, con un nuovo linguaggio ma conservando lo stesso significato e il senso profondo. Italo Svevo con una frase profetica affermava che il «futuro ha un cuore antico».12 12
Italo Carta, L’età inquieta (Roma: Frassinelli, 1991).
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La famiglia, quindi, non riesce a trasmettere il senso profondamente diverso tra il desiderio adulto e quello infantile onnipotente, privando quindi le giovani generazioni della possibilità di elaborare e cercare di risolvere i sentimenti di invidia, di gelosia, di mortificazione e di rabbia. Sentimenti che vengono esperiti soprattutto quando, come avviene per ognuno di noi, ci si scontra con il limite connaturato alla nostra stessa esistenza. In questa atmosfera narcisistica il senso del limite è vissuto come un dramma: il terrore di avere una sola vita da vivere, invecchiare e morire, angosce infantili (abbandono, separazione, castrazione, annullamento) e la disperazione di dover appartenere ad un sesso solo. La limitazione è considerata intollerabile, a volte nemmeno contemplabile; nulla può interferire con la gratificazione narcisistica, o come descrive meglio Sade: «Il piacere non chiede né scambio, né dono, né reciprocità e neppure generosità gratuita. La sua tirannia è quella dell’avarizia, che sceglie di distruggere ciò che non può assimilare».13 Oppure, utilizzando la descrizione di una paziente affetta da anoressia, che esplica il solipsismo e l’autoreferenzialità del moderno narciso: «Era riuscita a diventare parte del terzo sesso. [. . .] In un certo senso aveva raggiunto l’indipendenza assoluta, per cui non aveva bisogno di alcun rapporto estraneo e poteva dar vita a un rapporto amoroso con se stessa».14 Il limite invece, aiutando a demarcare i contorni della nostra personalità, permette l’emergere della differenza, requisito essenziale per il riconoscimento dell’uguaglianza di due termini in opposizione, senza negazione della differenza.15 Solo da questo presupposto può realizzarsi una relazione autentica, che si sviluppa nel dialogo e in grado di divenire, impermanente come l’esistenza umana.
13
Simone de Beauvoir, “Faut-il brûler Sade”, Les Temps Modernes, dicembre 1951gennaio 1952, 1026. 14 Hilde Bruch, Patologia del comportamento alimentare. Obesità anoressia mentale e personalità (Milano: Feltrinelli, 1977), 132-133. 15 Erik H. Erikson, Infanzia e società, vol. 4 (Roma: Armando Editore, 1973).
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Approccio ontologico (sociologia e teologia)
La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale Pierpaolo Donati (Università di Bologna)
1
Uomo/Donna, Donna/Uomo: che cosa c’è di nuovo?
1.1. Il mio intento non è quello di esporre un ideale – seppure veritativo – della relazione uomo-donna. Sarebbe troppo facile scrivere un saggio pieno di dotte citazioni, vista la quantità di letteratura in merito. In particolare, tutti sappiamo che il pensiero umano, nel corso della storia, a partire dai commenti sul racconto biblico del Genesi, ha riempito intere biblioteche su questo tema. Come sociologo, ho un altro compito. Debbo indagare la realtà da un altro punto di vista, quello dei fatti sociali. Non posso partire da presupposti teologici o da principi filosofici, ancorché giustificati da fondamenti razionali, ma debbo fare in un certo senso il cammino inverso, cioè debbo indagare la realtà esistente di cui abbiamo esperienza per apprendere da essa, e, in un certo senso, “verificare” l’ontologia (sociale) della relazione uomo-donna. In altre parole, mi confronto con l’affermazione di Emmanuel Lévinas1 , secondo cui «io non vorrei definire nulla attraverso Dio, giacché io conosco l’umano. È Dio che posso definire attraverso le relazioni umane, non l’inverso». Questa epistemologia ha molto di vero, anche per la sociologia, ma non può essere assolutizzata, ossia è vera solo in parte, perché il processo conoscitivo bottom-up (dalle relazioni umane a quelle divine) non può essere pienamente compiuto se non avendo in mente un framework concettuale che fa riferimento ad una matrice teologica 1
Emmanuel Lévinas, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito (Roma: Città Nuova, 1984). La citazione è presa da: Maria Martello, L’arte del mediatore dei conflitti (Milano: Giuffré 2008): 97.
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La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale
relazionale della società2 quale bussola per l’orientamento. Come poi dirò, occorre elaborare una nuova e più complessa nozione di relazione, applicata alle relazioni umane, dato che la filosofia di Lévinas fallisce proprio su questo punto, a causa di una concezione del tutto insufficiente che egli ha della relazione. La qual cosa è dovuta al fatto che la matrice teologica ebraica di tradizione rabbinica non è propriamente relazionale. Certamente, nel campo della teologia biblica, non mancano gli autori secondo i quali la relazionalità sarebbe il centro dell’intero messaggio dell’Antico Testamento.3 Una serie di filosofi di cultura ebraica, tra cui E. Lévinas e M. Buber, sembrano confermare e sviluppare questa tesi. In particolare è emblematica l’affermazione di Buber, riferita appunto all’A.T., secondo cui “in principio c’è la relazione”.4 Ma, a questo riguardo, io ritengo che vi sia un equivoco di fondo. La loro concezione della relazione è quella di un atto che un soggetto rivolge ad un altro (o ad altri) prendendosene cura. La relazione di cui si parla non è una realtà in sé, non è generativa di un Terzo, non è l’effetto emergente di una azione reciproca come la mia sociologia relazionale la intende (a partire dal concetto di relazione come Wechselwirkung proposto da Georg Simmel5 ). Tant’è che sia Lévinas sia Buber negano che la relazione sociale abbia una realtà in sé, in quanto tale. È ben vero che nell’Antico Testamento (A.T.), Dio (Jahvé, Yahweh, Elohim) si relaziona all’uomo con una alleanza (un patto è una relazione) e ama prendersi cura delle relazioni umane (per esempio nel Genesi quando crea Eva per darla ad Adamo affinché abbia una compagna; o quando si afferma che le delizie di Dio sono stare con gli uomini, ecc.). Ma questa cura delle relazioni non viene espressa come manifestazione di una relazionalità interna a Dio stesso, cioè alla sua stessa sostanza (la matrice teologica), 2 3 4 5
Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010). Per esempio Gerhard von Rad, Old Testament Theology, Vol. 1 (Louisville: Westminster John Knox Press, 2001). Andrew Metcalfe and Anne Game, “‘In the Beginning is Relation’: Martin Buber’s Alternative to Binary Oppositions”, SOPHIA 51 (3) (2012): 351-363. Si veda Davide Ruggieri, La sociologia relazionale di Georg Simmel. La relazione come forma sociale vitale (Milano-Udine: Mimesis, 2016).
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Pierpaolo Donati
bensì come l’atto di un Uno. Nell’A.T., l’alleanza viene continuamente riaffermata da Dio come Sua volontà, non è l’effetto emergente di un’azione reciproca con l’uomo. Per questo sostengo che la matrice teologica ebraica non è esplicitamente e propriamente relazionale, e mostro quali ne siano le conseguenze sul pensiero di Lévinas (come di altri autori che qui non posso considerare per ragioni di spazio). Non a caso Lévinas raccomanda di guardare alle relazioni umane per indurre le relazioni intra-divine (cioè dentro il codice simbolico di Dio), proprio perché su queste ultime l’A.T. non dice nulla di esplicito. Il Figlio è figlio dell’Uno. In Lévinas, come in Buber, la relazione sociale fra due entità non genera un ‘Terzo’ (quello che io chiamo ‘bene relazionale’). Per rendere esplicita la relazionalità di Dio in sé stesso e come matrice di tutta la creazione occorre la rivelazione del Nuovo Testamento. Il fatto è che molti teologi moderni ‘rileggono’ l’Antico Testamento sulla base di una sensibilità ‘relazionale’ che, in realtà, è il prodotto della teologia e della cultura cristiana, la quale esalta la generatività della relazione (a partire dal modello trinitario Padre-Figlio-Spirito Santo). Per arrivare ad una comprensione ontologicamente più profonda della relazione uomo-donna, dobbiamo evitare vari scogli. I principali sono rappresentati dalle sociologie ideologiche o riduzionistiche, che sono tali vuoi perché riflettono un pensiero astratto – per esempio il neo-funzionalismo di Luhmann, che traccia una separazione netta fra l’identità maschile e quella femminile sulla base di un operatore logico –,6 vuoi perché cadono nell’empirismo comportamentistico, come fa la teoria dei sexual scripts, secondo la quale uomini e donne recitano solo un copione teatrale, sono delle maschere,7 come ha scritto Shakespeare nella commedia pastorale As you like it: tutto il mondo è un teatro, e
6
7
Niklas Luhmann, “Frauen und Männer und George Spencer Brown”, Zeitschrift für Soziologie 17 (1) (1988): 47-71 (tr. it. Donne/Uomini, Paris-Lecce, Pergola Monsavium: iusEAed, 1992). Michael Wiederman, “Sexual Script Theory: Past, Present, and Future”, in John DeLamater e Rebecca F. Piante (eds.), Handbook of the Sociology of Sexualities (New York: Springer, 2015): 6-19.
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tutti gli uomini e donne sono semplicemente degli attori («all the world is a stage, and all the men and women merely players»). Il comune denominatore delle teorie che intendo criticare è il costruttivismo filosofico e sociale, che è un modo di pensare basato su una ontologia sociale piatta (flat ontology). Un esempio è dato dalla cosiddetta teoria del gender che separa nettamente la natura fisica dell’uomo e della donna dalla loro identità sociale, considerando quest’ultima come una mera espressione culturale, del tutto variabile nello spazio e nel tempo. Al contrario, io adotterò un approccio di realismo relazionale, critico e analitico. In poche parole, il mio intento è: (i) innanzitutto quello di capire come cambia di fatto la relazione uomo-donna, in base ai processi strutturali e culturali in atto, in concomitanza con la modificazione delle identità maschili e femminili e delle loro relazioni, e poi (ii) quello di analizzare se, in che senso e modi questi processi umanizzano oppure disumanizzano le persone in quanto donne e in quanto uomini. In un approccio sociologico realistico, infatti, non si parte dal mondo delle idee, ma dall’apprendimento della realtà esperita alla luce di un pensiero sistematico che osserva e valuta, ben sapendo che, come afferma Adorno, «i fatti non sono, nella società, la realtà ultima».8 Per vedere la realtà ultima occorre una sociologia aperta al carattere trascendente dei fenomeni sociali. 1.2. Parto da un assunto fondamentale: uomo e donna, dal punto di vista sociologico, sono realtà e concetti relazionali.9 Il problema è comprendere che cosa significhi “relazionali”. Certo significa che l’uomo è tale in relazione alla donna, e la donna è tale in relazione all’uomo. Ma cosa vuol dire questo in pratica, in tutte le dimensioni della vita sociale, nella prospettiva di una ecologia umana integrale? 8 9
Theodor Adorno, “Sulla logica delle scienze sociali”, in Dialettica e positivismo in sociologia (Torino: Einaudi, 1972): 132. Per la giustificazione di questo assunto, che è una presupposizione generale empiricamente fondata, debbo per forza di cose rimandare il lettore alla mia sociologia relazionale.
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È importante comprendere che, così posto il problema, l’oggetto centrale del discorso non riguarda l’essere in sé dell’uomo e della donna (come sostanze individuali), ossia il profilo bio-psico-culturale specifico dell’uno e dell’altra, ma il senso dell’affermazione secondo cui l’uomo si definisce in relazione alla donna e viceversa. La distinzione è nella relazione, e la riprova sta nel fatto che essa viene ricostituita anche nella coppia omosessuale. La relazione riguarda tutte le dimensioni di realtà. Concerne il riferimento al corpo, sia dal punto di vista biologico, sia dal punto vista psicologico e culturale (l’immagine del corpo che i due sessi hanno è relazionale), così come le posizioni, i ruoli e le identità sociali. Dire che l’uno si definisce in relazione all’altra e viceversa significa affermare una struttura di riferimento reciproco che li connette (come poi dirò). In altra sede10 ho già trattato il tema di che cosa siano rispettivamente il complesso simbolico maschile e quello femminile, in che modo possiamo definirli, e come essi – nel loro nucleo costitutivo – persistano quali universali culturali, che tuttavia sono soggetti ad una dinamica evolutiva, pur essa relazionale. Il nucleo simbolico del complesso maschile è quello della rottura dei legami simbiotici, della penetrazione e della generazione fuori di sé, mentre il nucleo simbolico centrale del complesso femminile è quello della costituzione del legame, dell’accoglienza e della generazione dentro di sé. In apparenza, il complesso femminile è “relazionale”, di contro a quello “lineare” maschile. Ma questa lettura ermeneutica va interpretata correttamente, entro una visione relazionale più complessa di quella del passato. Infatti, dobbiamo affrontare l’enigma di una relazione che allo stesso tempo connette (lega) e differenzia (divide). In questa sede mi propongo di trattare i due complessi simbolici come modalità di attribuzione di senso alle identità e ruoli sessuati che i processi di globalizzazione vanno ogni giorno di più aprendo ad un mercato di possibilità prive di vincoli (è la società della morfogenesi 10
Cfr. Donati, “L’identità maschile e femminile”, in Famiglia. Il genoma che fa vivere la società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2013): 103-136.
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“a briglia sciolta”, unbound morphogenesis).11 Queste possibilità di ridefinire le identità e i ruoli sessuati sono messe a disposizione delle persone senza che le strutture del sistema sociale facciano delle scelte a priori (il sistema parla di “uguali opportunità”) anche se è piuttosto vero che, in determinati contesti e momenti, esistono pressioni ben precise in una direzione invece che in un’altra (l’ideologia dell’uguaglianza di opportunità, come cercherò di chiarire, nasconde in realtà il sostegno a modifiche strutturali delle relazioni di potere, autorità, diritti e doveri a favore di un sesso piuttosto che di un altro, segnatamente della donna, il che comunque provoca effetti inattesi di backlash da parte degli uomini). La sociologia empirica ci dice che l’attribuzione dei ruoli a uomini e donne è guidata da pressioni sociali per “associare” un ruolo ad un sesso piuttosto che all’altro (ossia il carattere sessuato di un ruolo sociale viene “costruito” socialmente).12 Per comprendere le ragioni di tale costruzione abbiamo bisogno di attivare una riflessività contro-intuitiva. Per la sociologia relazionale ciò significa guardare alla causalità inerente alle relazioni sociali come tali, piuttosto che alle caratteristiche individuali delle persone o a pressioni collettive. Per tale motivo, in questo contributo metto a tema la questione della relazione sociale in quanto tale fra uomo e donna, giacché è nella relazione che si decidono le selezioni culturali che riguardano i significati dell’essere uomo o donna.13 Sotto tale punto di vista, lo scenario storico è, grossomodo, quello seguente. 11
Pierpaolo Donati, “Morphogenic Society and the Structure of Social Relations”, in M.S. Archer (ed.), Late Modernity. Trajectories towards Morphogenic Society (Dordrecht: Springer, 2014): 143-172. 12 Andrew Sayer, “System, Lifeworld and Gender: Associational Versus Counterfactual Thinking”, Sociology, 34 (4) (2000): 707-725. 13 Va chiarito che, quando qui uso il termine “sociale”, io lo intendo come sinonimo di “relazionale”, cioè di sociale-umano, pur essendo consapevole che esiste un sociale non (specifico dell’) umano, riferibile ad altri organismi viventi. Quando io parlo di “sociale”, intendo ciò che emerge da azioni umane reciproche (rel-azioni), che sono intenzionali, e questo è specie-specifico dell’umano. Certamente, nella tarda modernità l’umano non è più il metro di tutto il sociale. Occorre perciò distinguere fra il sociale umano e il sociale non-umano, e non confonderli.
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1.3. Tralascio, per ragioni di brevità, l’analisi delle relazioni uomodonna dall’antichità fino all’epoca moderna. La varietà delle culture e degli stili di vita delle popolazioni che hanno abitato il pianeta lungo i millenni è incalcolabile, e ogni generalizzazione sarebbe indebita. Mi concentro sulla storia più recente dell’Occidente, cioè sul passaggio dalla prima modernità alla società contemporanea. Nella prima modernità, il sistema culturale e strutturale della società borghese definiva la relazione uomo-donna come complementare nei ruoli sociali e asimmetrica nel potere. L’uomo impersonava certe qualità – dette maschili, quali l’iniziativa imprenditoriale, la forza, la spinta al successo – che lo predisponevano a ricoprire ruoli strumentali e di potere superiore sulle donne, a partire dal ruolo di capofamiglia (breadwinner della famiglia). La donna, viceversa, impersonava qualità opposte e complementari – dette femminili, quali la tenerezza, l’affettuosità, la cura dell’altro – che la predisponevano, sempre secondo questa narrazione, a ricoprire ruoli espressivi e di potere inferiore, ausiliari rispetto a quelli dell’uomo. Scostamenti da questo assetto erano considerati “deviazioni”, cioè comportamenti devianti. Dal Codice Napoleonico, alla psicoanalisi di Sigmund Freud, fino al modello sociologico di Talcott Parsons negli anni Cinquanta, questa è stata la visione della relazione uomo-donna propria della prima modernità fino alla meta del Novecento. I processi di modernizzazione hanno radicalmente modificato questo assetto. La morfogenesi strutturale e culturale oggi in atto nei paesi cosiddetti occidentali rende impossibile riprodurre una concezione culturale che assegna un ruolo strumentale e di potere superiore all’uomo e un ruolo espressivo e di potere inferiore alla donna. In base ai principi di libertà ed uguaglianza, la cultura dominante in Occidente opera nel senso di egualizzare (uniformare, spianare, livellare, appianare, smussare, pareggiare) i ruoli socio-culturali, economici e politici, e i relativi diritti fra i due sessi. Con la svolta del secolo XXI, questi processi morfogenetici sono andati sempre più in profondità e hanno investito la stessa natura umana, quella che si specifica nell’essere “naturalmente” uomini o donne. Questa svolta non riguarda più solamente i diritti di uguaglianza inerenti 129
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alla dignità morale e giuridica delle persone, siano esse uomini o donne, ma chiede nuovi diritti di libertà verso un assetto “post-umano”, quale negazione della stessa differenza sessuale originaria, sia in sé stessa, sia nei suoi correlati empirici. Questo punto di arrivo è sostenuto da due tendenze concomitanti: (a) la prima è quella di rendere le differenze corporee fra i sessi indifferenti ai fini della vita sociale, e (b) la seconda, in parallelo, è quella di rimuovere tutti i pattern che stabiliscono una certa relazione fra la diversa struttura biologica maschile e femminile e le aspettative circa i ruoli e comportamenti sociali di uomini e donne. La relazione uomo-donna viene ora definita dal sistema societario come una relazione autonomistica e simmetrica, cioè basata su due autonomie individualizzate (eteronome l’una per l’altra) e di uguale potere. Le identità maschili e femminili, essendo costituite da aspettative non più complementari, ma di totale indipendenza, non possono più essere gerarchizzate. Il fatto di mettere in fluttuazione (a) il significato simbolico delle differenze sessuali (cioè il complesso simbolico maschile e femminile) e (b) le relazioni connettive fra bios e ruoli sociali ha come esito l’adozione della teoria del gender. Secondo questa teoria, le identità socio-culturali sono una pura costruzione storica passibile di qualunque cambiamento proprio in virtù della abolizione di una relazione – avente una propria struttura significativa – fra identità biologica e identità sociale di ciascun sesso. La rimozione di tale relazione viene effettuata, da un lato, assimilando la biologia umana a quella animale e vegetale, e, dall’altro, annullando i confini fra il sociale umano e il sociale non-umano (mediante la riduzione di entrambi a pura informazione). Alcuni neuropsicologi hanno rincarato la dose, affermando che la ricerca scientifica non mette in luce differenze rilevanti fra la struttura mentale maschile e quella femminile. Da ciò si trae l’idea che la relazione fra la natura bio-psichica maschile e quella femminile, quale che essa sia, possa ora essere giocata in qualsiasi modo nei comportamenti sociali. Insisto su questa annotazione: ciò che costituisce il preminente interesse della società iper-modernizzata non è tanto affermare che 130
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non vi sono differenze fra uomini e donne, – in fondo tutti gli individui, quale che ne sia il sesso, sono differenti – ma che queste differenze, non essendo “fisse” (ovvero ontologiche), possono essere considerate del tutto contingenti. Pertanto le relazioni uomo-donna diventano configurabili secondo una varietà di modi possibili, varietà che viene continuamente aumentata secondo il principio secondo cui una varietà può essere meglio gestita aumentando la varietà stessa. Le identità sessuate diventano costruibili a piacere. Questo è l’assioma del costruttivismo ontologico, epistemologico e pratico oggi dominante in Occidente. A questa ontologia “piatta” (flat ontology) del costruttivismo, io oppongo l’ontologia sociale del realismo critico, il quale distingue fra il vero (real), l’attualizzato (actual), e l’empirico (empirical). Si tratta di esplorare le relazioni fra questi diversi modi (livelli, ordini) di esistenza, assumendo che tali relazioni siano internamente necessarie ed esternamente contingenti. Sono internamente necessarie perché occorre fare i conti con la naturalità dell’essere uomo o donna, anche se tale naturalità non è garantita a priori.14 1.4. Se le relazioni possono cambiare, allora possono cambiare anche le identità che erano in precedenza “fissate” da relazioni stabili. Di qui la legittimazione delle identità più diverse. Libero da ipoteche naturali (ascrittive), il costruttivismo – nelle sue versioni relazioniste – mette in interazione sinergica la costruzione delle identità sessuali delle persone e le loro relazioni, ossia riduce la natura delle identità sessuate alle relazioni sociali, negando che la sostanza naturale della persona umana e le sue relazioni siano co-principi dell’essere uomo o donna. In breve, 14
Come afferma Jessop: «The actualization of naturally necessary powers is not guaranteed. Indeed, we can go further and argue that the tendencies of social systems, structures, and other social relations are always “doubly tendential”. For these tendencies exist only to the extent that the social relations that generate them are themselves reproduced; if these social relations are modified or eliminated, then their naturally necessary (or intrinsic) properties will be modified or eliminated too» [Bob Jessop, “The Gender Selectivities of the State. A Critical Realist Analysis”, Journal of Critical Realism 3(2) (2004): 207-237; 207].
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il “fatto” della persona (il suo essere uomo o donna) viene risolto senza residui nelle relazioni che l’individuo ha con il mondo. I caratteri di ciò che è categorizzato come maschile o femminile, per il momento, mantengono una differenza simbolica, ma possono ora essere combinati nei modi più diversi in una stessa persona e in una stessa relazione in momenti diversi. Di qui nascono le identità Lgbt e le altre numerose varianti. Vengono legittimate le relazioni più disparate, cioè aggregazioni in cui il maschile e il femminile sono elementi giocabili a piacere entro relazioni che mescolano continuamente i loro caratteri generando identità mutevoli che permettono l’attraversamento dei confini identitari a seconda delle contingenze (il Self multiplo e variabile). Si diffondono le famiglie cosiddette “arcobaleno” (con genitori omosessuali), le coppie cosiddette “poliamorose” (dove i partner della coppia, per comune accordo, hanno individualmente anche rapporti sessuali esterni), e così via. Lo sguardo sociologico sottolinea che queste rappresentazioni si riferiscono a una percentuale di popolazione molto piccola. Tuttavia, ciò su cui il costruttivismo fa leva, al fine di enfatizzare le trasformazioni, riguarda la forza delle tendenze storiche di lungo periodo, che sarebbero tali da modificare molti dei presupposti considerati “naturali” nelle relazioni uomini-donne. Il fatto è che ci troviamo di fronte ad un processo morfogenetico (si veda la successiva figura 1) in cui, attraverso cicli temporali successivi, viene accresciuta la variabilità delle identità sessuali in sinergia con la legittimazione di sempre nuove relazioni fra i sessi. La legittimazione delle nuove relazioni va di pari passo con (ma spesso di fatto precede) la costruzione delle nuove identità. Cosicché vengono modificati tutti i ruoli sociali, che non sono più qualificabili come maschili o femminili. L’aspetto più eclatante di questi cambiamenti epocali sembra riguardare la relazione che connette (o disconnette) la corporeità, rispettivamente maschile e femminile, in rapporto alle identità sociali dei sessi e ai relativi comportamenti e stili di vita in senso lato. Infatti, quando la relazione fra corpo e identità sessuale è messa in fluttuazione, o addirittura è rimossa o resa caotica, diventa pressoché impossibile distinguere fra l’uomo e la donna. Ne vediamo oggi tanti esemplari in persone che ama132
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no mescolare caratteri dell’uno e dell’altra. Di qui l’evidenza empirica per cui la società cambia radicalmente tutte le sue forme di vita. È importante comprendere che la disconnessione fra caratteri fisici e identità psico-culturale non è una “causa prima” di questi cambiamenti, ma è piuttosto l’effetto di processi strutturali e culturali di ben più vasta portata che si muovono nella direzione di una società post-umana, trans-umana, “etopoietica”, iper-umana, in cui nessuna identità può essere più fissata e resa stabile nel tempo. Questa svolta epocale richiede un nuovo paradigma scientifico per essere compresa e affrontata. Tale paradigma deve essere necessariamente relazionale, perché relazionale è la rivoluzione culturale, strutturale, spaziale, temporale, semantica ed etica in atto. Si richiede una nuova concettualizzazione, e perfino un nuovo linguaggio, che rispetti le identità naturali e al contempo sia aperta a modificazioni sensate dei ruoli sociali di donne e uomini senza legittimare vecchie e nuove discriminazioni. 2
In che cosa consiste la sfida dell’umanizzazione?
Che cosa può allora significare il fatto di dire che la relazione uomodonna può e deve essere una relazione “umanizzante”? È evidente che il concetto stesso di “umanizzazione” diventa problematico, e rischia di perdere senso. Non a caso schiere di pensatori osservano, alcuni con entusiasmo, altri con lamenti, la fine del concetto di persona umana, giustificando tale asserzione con il dire che diventa impossibile tracciare dei confini fra l’umano e il non-umano. In campo antropologico si parla di de-antropologizzare le scienze sociali, dato che non è più possibile restringere il campo degli attori sociali ai soli esseri umani, ma sarebbe necessario includervi anche tutte quelle altre entità (le piante, gli animali, i defunti e qualunque oggetto tecnico e artificiale) a cui può essere attribuita la posizione di attore nelle interazioni e relazioni sociali.15 15
Gesa Lindemann, “The Analysis of the Borders of the Social World: A Challenge for Sociological Theory”, Journal for the Theory of Social Behaviour 35 (1) (2005): 69-98.
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Questa visione si rifà all’idea che i fatti sociali della vita siano costruiti come le manipolazioni che si realizzano in un laboratorio16 . Su tale base è stata formulata la cosiddetta “Actor Network Theory” di Bruno Latour,17 che presume di avere una portata metafisica,18 la quale afferma che l’attore sociale non è più la persona umana, bensì una rete di varie entità (actants) che fanno il sociale. Chi difende la specificità dell’umano viene tacciato di essere retrogrado, antropocentrico, repressivo, e alla fine nemico della vera felicità che può venirci dal post-umano. Dobbiamo abbandonare l’umano o possiamo ridefinirlo? L’umanizzazione è diventata il grande problema del secolo XXI. Molti la chiamano la “questione antropologica”, espressione che, a mio avviso, non significa soltanto che abbiamo difficoltà a definire l’Uomo (il genere umano), ma che dovremmo liberarci del punto di vista umanistico, perché debole e perdente, ossia dovremmo de-antropologizzare il pensiero, la cultura, la stessa struttura sociale. Curiosamente c’è chi critica questa deriva culturale, ma propone un punto di vista che la favorisce. Penso a Martin Heidegger e ai suoi seguaci. Se, come Heidegger afferma, ciò che chiamiamo “umanizzazione” uccide la metafisica,19 e se desideriamo salvare la metafisica (in quanto àncora di salvezza di principi e valori fondanti), allora che senso ha perseguire l’umanizzazione? Mentre Heidegger e i suoi seguaci si disperano per la perdita dell’essere, e non sanno come ritrovarlo, gli altri gioiscono per l’avvento di una nuova libertà e di tanti nuovi diritti. Volendo dare qualche credito ad Heidegger, potremmo osservare che la metafisica si vendica uccidendo le pretese di umanizzazione. Ma con ciò porteremmo acqua al mulino di chi sostiene che, proprio per questo, dovremmo abbandonare il punto di vista dell’umanesimo. Luhmann 16
Bruno Latour and Steve Woolgar, Laboratory Life: The Social Construction of Scientific Facts (Beverly Hills: Sage, 1979). 17 Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network-Theory (Oxford: Oxford University Press, 2005). 18 Graham Harman, Prince of Networks: Bruno Latour and Metaphysics (Melbourne: re.press, 2009). 19 Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (Milano: Adelphi, 1995).
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lo ha proposto a chiare lettere, avvertendo nello stesso tempo che, però, ciò significa andare incontro ad un mondo in cui non è per nulla detto che si possano evitare le regressioni culturali e nuove barbarie. Nondimeno, anch’egli sostiene che è ormai inevitabile svincolare la teoria sociale da un concetto di società di impronta umanistica. «L’uomo – ha scritto – non è più il metro con il quale misurare la società. È questa idea dell’umanesimo che non può più perpetuarsi».20 L’ambiguità della teoria luhmanniana sta nel fatto che, da un lato, legittima le nuove libertà (afferma che «tutto ciò che è possibile diventa lecito»), mentre dall’altro mostra che cosa ci si deve attendere da una società che non può più essere organizzata in modo umano (e quindi si fa anti-umanistica).21 Ci si deve aspettare tutto e il contrario di tutto, inclusa la barbarie, come del resto dimostrano oggi le centinaia di guerre sparse in tutto il mondo, le stragi del terrorismo a livello internazionale, e, sul nostro tema, le crescenti patologie dovute alla perdita di una chiara identità sessuale, a giochi strategici di gender che provocano confusioni e disorientamenti nell’identità sessuale dai quali poi derivano depressioni, fallimenti, violenze nelle relazioni umane. Non senza una punta di cinismo, Luhmann sembra dire alla gente: avete reclamato uguaglianza e libertà senza restrizioni? Avete voluto attraversare tutti i confini, trattare la natura come se fosse plasmabile a piacere, destrutturare tutte le relazioni aprendole al mondo del possibile? Ebbene, ora ci siete, avete avuto quello che cercavate e adesso questo è il vostro destino. Condivido con lui l’idea che non serva farsi condizionare dalla paura che può derivare dal fatto di abbandonare il concetto umanistico tradizionale di società, quello che affonda nelle radici culturali della “vecchia Europa”. Diversamente da Luhmann, però, io ritengo che occorra ridefinire l’umanesimo in un contesto dopo(after)-moderno globalizzato. 20
Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (Bologna: Il Mulino,1990): 354. 21 Un esempio concreto di società anti-umanistica è fornito da coloro che sostengono che, per salvare il pianeta dalla sua distruzione ad opera dell’uomo, occorre ridurre drasticamente la popolazione e imporre limiti allo sviluppo.
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Una posizione puramente difensiva è perdente fin dall’inizio. Dobbiamo ragionare in un quadro diverso dall’idea che, abbandonando l’umanesimo della “vecchia Europa”, il solo sbocco sia quello di una totale disumanizzazione. Dunque: che senso ha parlare oggi di umanizzazione? Innanzitutto: ha ancora un senso usare questo termine? Se no, perché? Se sì, che cosa significa? Secondo il paradigma sociologico relazionale la risposta va cercata non già a partire dal singolo individuo umano, appellandosi alle sue qualità (che sono plasmabili), né tantomeno puntare sulla costruzione di un qualche “sistema” sociale o culturale, più o meno ideale, ma va cercata nelle qualità e proprietà causali proprie delle relazioni sociali, nel nostro caso delle relazioni uomo-donna. Un uomo può pensare che la donna sia un essere debole, fragile e poco dotato, ma poi bisogna vedere come di fatto la tratta nella relazione che ha con lei. Può darsi che la tratti male o invece che, proprio in ragione di ciò che ne pensa, la tratti con cura, e dunque è la relazione che parla della presenza di umanità o meno. Una donna può pensare che l’uomo sia solo un animale in cerca di sesso, ma poi bisogna vedere come lo tratta. Può essere che lo disprezzi e lo respinga oppure invece che sviluppi una relazione di affetto. È nella relazione che le persone si umanizzano o meno. Sono le relazioni che decidono del compimento o svilimento dell’umanità che c’è in ogni persona, in quanto donna o in quanto uomo.22 Il desiderio della società contemporanea di trascendere l’umano va compreso, a mio avviso, come riconoscimento che la persona umana non si trascende nell’atto individuale, ma nel prendersi cura delle sue relazioni. Non sono le qualità maschili o femminili dell’individuo che decidono della umanità della relazione, ma è la cura delle qualità e dei poteri causali propri della stessa relazione. 22
Donati, “Il legame sociale dopo la modernità: limitazione o risorsa generativa dell’umano?”, in Vera Zamagni (a cura di), L’urgenza di un nuovo umanesimo (Roma: Edizioni Orthotes, 2015): 43-84.
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Il problema del sociologo è quello di verificare sul piano empirico questa affermazione che, così posta, è solo un’ipotesi di ricerca. In questa sede, dati i limiti di spazio, lo farò in modo assai sintetico. 3 Gli stereotipi del gender: qale teoria delle distinzioni fra le identità sessuali? 3.1. Un giornalista racconta di aver posto una domanda a Papa Francesco in un colloquio personale:23 «Santità, qual è la funzione delle donne nella vostra Casa? Non parlo soltanto delle suore che vivono in conventi, operano negli ospedali, coltivano la terra e soprattutto pregano; parlo delle donne in generale, dei loro sentimenti, dei loro pensieri e del loro istinto femminile ed anche, se mi permette, dei loro diritti. Per voi, presbiteri, vescovi, sono nulla? Sono una specie subordinata in compiti di moglie, madre, figlia obbediente alle decisioni dei genitori?». La risposta di Papa Francesco, stando al racconto, è stata la seguente: «Le rispondo in un solo modo che rispecchia però la pura verità: la Chiesa è femminile». Il giornalista fa presente che non capisce, e allora il Papa scandendo le sillabe ripete: «La Chiesa è femminile. Maria è la nostra madre che intercede per noi; ma non è solo questo. La Chiesa detesta la guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta. Non sono valori femminili?». Queste affermazioni, riportate dal giornalista, non sono state smentite, e del resto frasi simili si ritrovano in vari documenti e discorsi di Papa Francesco. In questa sede, non mi interessa entrare nel merito di queste affermazioni, ma vorrei invece mettere in luce il modo in cui il giornalista le ha presentate, come se corrispondessero ad un “manifesto femminista” del Papa, quando invece Francesco ha in tanti e svariati modi assunto una posizione critica verso chi nega la relazione naturale, complementare e reciproca fra i due sessi, respingendo la (cosiddetta) teoria del gender.24 23 24
Eugenio Scalfari, La Repubblica, 15 maggio 2016, 1. Nell’udienza all’Istituto Giovanni Paolo II del 27 ottobre 2016, ha per esempio
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Come sociologo, vorrei soffermarmi un attimo a considerare come il giornalismo può influenzare l’opinione pubblica allorché trasmette un certo messaggio, per esempio la frase «La Chiesa è femminile» oppure «La Chiesa è donna». Quando un messaggio come questo viene immesso nei processi culturali, esso addita dei significati che sollevano delle aspettative generalizzate e incidono sulle norme etiche più diffuse, tanto che, di fatto, la gente è portata a chiedersi: se la Chiesa è femminile, in quanto giustamente si oppone alla guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta, tutto ciò vuole allora dire che il maschile non ha quei valori, ma anzi ha quelli opposti, ossia significa che gli uomini amano la guerra, non amano i figli, non li educano al bene, non curano i deboli, non amano il prossimo e sono inclini alla violenza? Non c’è il rischio di consolidare degli stereotipi? Certamente Papa Francesco non intendeva con le sue parole affermare o consolidare degli stereotipi. Egli voleva mettere in luce quei valori positivi – quel complesso simbolico femminile che si riassume nella figura di Maria madre di Gesù – che la Chiesa esalta vedendoli incarnati nella donna, quando è donna, senza con questo creare affermato: «Il riconoscimento della dignità dell’uomo e della donna comporta una giusta valorizzazione del loro rapporto reciproco. Come possiamo conoscere a fondo l’umanità concreta di cui siamo fatti senza apprenderla attraverso questa differenza? E ciò avviene quando l’uomo e la donna si parlano e si interrogano, si vogliono bene e agiscono insieme, con reciproco rispetto e benevolenza. È impossibile negare l’apporto della cultura moderna alla riscoperta della dignità della differenza sessuale. Per questo, è anche molto sconcertante constatare che ora questa cultura appaia come bloccata da una tendenza a cancellare la differenza invece che a risolvere i problemi che la mortificano. La famiglia è il grembo insostituibile della iniziazione all’alleanza creaturale dell’uomo e della donna. Questo vincolo, sostenuto dalla grazia di Dio Creatore e Salvatore, è destinato a realizzarsi nei molti modi del loro rapporto, che si riflettono nei diversi legami comunitari e sociali. La profonda correlazione tra le figure famigliari e le forme sociali di questa alleanza – nella religione e nell’etica, nel lavoro, nell’economia e nella politica, nella cura della vita e nel rapporto tra le generazioni – è ormai un’evidenza globale. In effetti, quando le cose vanno bene fra uomo e donna, anche il mondo e la storia vanno bene. In caso contrario, il mondo diventa inospitale e la storia si ferma».
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una dicotomia con i valori opposti, che una certa cultura popolare potrebbe attribuire all’uomo. Ma le dinamiche culturali che i giornali diffondono sono un’altra cosa. Il giornalismo seleziona e orienta il lettore in una certa direzione semplificando le opinioni con delle dicotomie primitive. In questo caso, il giornalista aveva il chiaro intento di offrire al pubblico una versione “femminista” del pensiero del Papa. Dal punto di vista sociologico, esaltare la donna e i cosiddetti valori femminili in un mondo incapace di elaborare una cultura relazionale ha la funzione, se non esplicita, certamente latente, di esorcizzare le tensioni, i conflitti, le guerre, i traffici di esseri umani attribuiti al complesso simbolico maschile. Si ricorre così a quel complesso simbolico della Grande Madre che è stato e permane tuttora come il sottofondo arcaico di tutte culture precristiane, in tutti i continenti, seppure con nomi e forme diverse. Ma questa operazione comporta il rischio di perpetuare degli stereotipi. Per uscire dal rischio di ricorrere a certi stereotipi del maschile e del femminile, è necessaria una riflessione culturale approfondita. Ma come fare? Come possiamo evitare le continue oscillazioni fra la dominanza di valori (supposti) “maschilisti” e la dominanza di (supposti) valori “femministi”? Qui c’è uno scoglio molto serio. Se si afferma che i valori positivi appena detti appartengono al femminile, che ne è del maschile? Prendiamo il mondo cristiano. Forse che Gesù, chiaramente maschio, non abbia avuto nella sua esistenza terrena quei valori cosiddetti “femminili” e non abbia, come Risorto, valori che vanno al di là della differenza sessuale? Forse che lo Spirito Santo e il Padre, i cui appellativi suonano maschili, non partecipano di quei valori? Si potrà certo rispondere, come vari teologi hanno fatto, che Dio è padre e madre insieme, e che Gesù non faceva differenze di sesso quanto ai valori umani. Ma il problema rimane, ed è serio sul piano culturale: se quei valori che attribuiamo al femminile esistono anche negli uomini, perché allora attribuirli specificatamente alla donna? Solo perché li vediamo maggiormente incarnati nella donna per via della sua costituzione fisica e in specifico della maternità? L’ar139
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gomento biologico è molto debole, e di fatto in buona misura smentito sul piano storico e dei fatti empirici. Il problema, così posto, mi sembra davvero molto serio perché decide di una intera Weltanschauung. Non possiamo attribuire ad un supposto carattere, o addirittura ad un genoma biologico, quello femminile, certi valori, come se fossero propri di quel “genere”, senza con ciò creare una dicotomia. La logica della distinzione è inesorabile. Il fatto di distinguere è istintivamente percepito dalla mente come atto di netta separazione, fino alla discriminazione, senza che fra i due lati della distinzione possano esservi punti comuni o almeno di contatto.25 Luhmann lo ha rilevato e legittimato a chiare lettere.26 Secondo lui, l’operazione di distinzione è tale per cui, quando indichiamo un lato della distinzione, rendiamo automaticamente indeterminato l’altro lato, che contiene semplicemente tutto ciò che è opposto al lato indicato, e ne è la negazione. Se indico l’uomo, la donna è semplicemente tutto ciò che l’uomo non è, è un “altro” indeterminato che si definisce per la mancanza di ciò che caratterizza l’uomo. E, viceversa, se indico la donna qualificandola in un certo modo, l’uomo è semplicemente il suo opposto. Nel distinguere si opera una asimmetria di carattere gerarchico. La forza dell’argomento di Luhmann è che chi osserva può certamente rovesciare l’osservazione. Per esempio, se un osservatore dapprima indica l’uomo (polo positivo, e la donna come polo negativo), può poi 25
Così sostiene Georg Spencer-Brown nell’opera Laws of Form (London: Allen & Unwin, 1969), da cui deriva la sociologia di Luhmann, «The simplest form or structure we can imagine is a distinction. A distinction can be defined as the process (or its result) of discriminating between a class of phenomena and the complement of that class (i.e. all the phenomena which do not fit into the class). As such, a distinction structures the universe of all experienced phenomena in two parts. Such a part which is distinguished from its complement or background can be called an indication». Ne ho svolto una critica in Donati [Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune (Roma-Bari: Laterza, 2008), 77-90], sostenendo che la distinzione è, in via più generale, una relazione, che naturalmente, sotto certe condizioni, può anche diventare una dicotomia. 26 Luhmann, “Frauen und Männer und George Spencer Brown”, cit.
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rovesciare l’osservazione assumendo il punto di vista della donna (polo positivo, di contro all’uomo polo negativo), o viceversa. Con ciò resta sempre l’opposizione, che è una gerarchia di un lato sull’altro. Guardare la distinzione da un lato o dall’altro non evita la dicotomia, perché si afferma comunque una logica binaria. Per sfuggire a siffatta logica dicotomica occorre che sia disponibile un codice simbolico relazionale, e che esso venga adoperato con una adeguata riflessività relazionale. Io ho definito la nozione di riflessività, per distinguerla dalla nozione di riflessività di M. S. Archer, che è prettamente individuale, nel seguente modo: essa «non significa – come qualcuno la intende – solo una particolare empatia e attenzione all’altro termine della relazione (nei rapporti interpersonali, specie quelli di cura, come genitore-figlio, insegnante-alunno, medico-paziente), ma consiste nel fatto che i soggetti si orientano alla realtà che emerge dalle loro interazioni prendendo in considerazione come tale realtà (in virtù dei suoi poteri propri) è capace di ricadere sui soggetti stessi (agenti/attori) dal momento che essa eccede i loro poteri personali e aggregati. Indica dunque la riflessività che i soggetti riferiscono alla relazione sociale come tale per il fatto che essa “ritorna” su loro stessi influenzandone l’agire individuale e reciproco».27 3.2. Come allora dobbiamo intendere e gestire la distinzione fra uomo e donna? Sappiamo quanto il problema sia aperto in campo cattolico. Se i valori proclamati dalla Chiesa sono quelli femminili, che ne è dei valori maschili? Gli uomini sono veramente buoni solo se e quando partecipano dei valori femminili? Se gli uomini condividono i valori femminili, allora perché chiamarli femminili? Solo perché le donne hanno propensioni derivanti dalla loro maternità che gli uomini non hanno? Ma non possiamo basare i valori culturali su un dato biologico. Che cosa dovremmo allora dire della paternità? Esistono dei valori maschili? Se no, perché? E se sì, le donne non hanno alcuna partecipazione ai valori maschili? 27
Donati, Sociologia della riflessività (Bologna: Il Mulino, 2011): 31.
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Insomma: uomini e donne sono portatori di valori, caratteri, ruoli sociali (non biologici) specifici oppure no? Se li condividono, almeno potenzialmente, in toto non c’è più distinzione fra valori femminili e maschili, se invece ne condividono alcuni e non altri dove tracciamo le distinzioni, e come? Le risposte a queste domande possono ben girare intorno al problema, e dire che donne e uomini partecipano degli stessi valori “in qualche modo e misura”, così come dei caratteri e dei ruoli sociali. Ma questa risposta non risolve per nulla il problema. Anche quando, nelle ricerche sociologiche o psicologiche, viene rilevato che il sesso è discriminante in certi comportamenti o posizioni sociali, ecc., si può sempre facilmente obiettare che questo è un dato attuale, in gran parte retaggio del passato, e che necessariamente cambierà nel tempo. Allora ritorna il problema. Ci troviamo di fronte ad una sfida radicale alla simbologia cristiana, e ovviamente non solo a quella. La simbologia non può giocare con le parole quando si tratta di interpretare, valutare, orientare in concreto l’agire umano. Non si può essere patriarcali quando la società dà preminenza all’uomo ed essere matriarcali quando la società dà preminenza alla donna. È chiaro che il pendolo oggi oscilla dalla parte della cultura femminista. Come se, per umanizzare la società, la si debba femminilizzare. Lo sostengono, ad esempio, le teorie che riservano la cultura della “cura” (care) alle donne. La città diventa “città delle donne”. E allora che cosa succede all’uomo? Non ci sono più valori maschili? O, se ci sono, sono negativi o quanto meno ambigui e ambivalenti? Ne La città delle donne di Federico Fellini troviamo delle tesi su cui riflettere. Il racconto felliniano, pur nella sua primaria dimensione oniricofiabesca, propone un bilancio dei precedenti lustri di lotta per la liberazione della donna per sostenere che tali lotte hanno completamente stravolto l’immagine e i ruoli femminili nella società contemporanea. In buona sostanza, il film propone la tesi, dal punto di vista maschile, di una donna liberata, ma incapace di costruire un rapporto costruttivo con l’uomo, il quale, in stupita difesa, riceve continuamente attacchi dovuti non alle proprie colpe personali, ma alla propria appartenenza genetica maschile, quasi come una sorta di “pulizia etnica” del maschio. 142
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Gli uomini debbono solo chiedere scusa per aver prevaricato per secoli, se non per millenni, sulla donna. Sul piano sociologico delle ricerche empiriche, è indubitabile che nella società attuale questo sia un vissuto molto diffuso e in larga parte dominante, anche nella legislazione. Gli obiettivi dell’uguaglianza di genere, che vanno molto al di là delle pari opportunità fra uomini e donne, diventano imprescindibili, al punto che qualunque comportamento diverso o contrario viene pubblicamente sanzionato. La cultura si regge su una meta-norma, quella del politically correct, che vieta di fare distinzioni, essendo queste, come dicevo, percepite come discriminazioni. Storicamente, dal dibattito sulla uguaglianza/differenza fra uomini e donne, si è passati al dibattito sex/gender che ha spostato interamente l’attenzione dal tracciare la differenza identitaria fra uomo e donna all’idea che esista fra loro una uguaglianza in natura, la quale uguaglianza sarebbe “coartata” dalla società, cioè dai processi socio-culturali, che del resto è la vecchia tesi di J. J. Rousseau. Questa idea porta con sé molti equivoci, che sono stati messi in luce da un’abbondante letteratura.28 Se, nel sistema di valori che deve essere condiviso da tutti per garantire l’ordine sociale, uomini e donne sono assunti come uguali salvo differenze biologiche che non hanno alcuna rilevanza sociale e culturale, e peraltro possono essere rese medicalmente reversibili, allora viene a crollare tutto l’edificio delle distinzioni/differenze, il che comporta l’azzeramento di ogni cultura della reciprocità, della sinergia, della complementarità. Cioè, sempre e di nuovo, si afferma l’individualismo tipico della cultura occidentale che si immunizza dalle relazioni sociali. La simbologia cattolica tradizionale centrata sul codice simbolico materno, a discapito del suo apparente successo popolare, si trova in grande difficoltà, perché la sua esaltazione del femminile trova sempre meno riscontro nelle pratiche quotidiane. Certo, si potrebbe sostenere che la dottrina sociale cattolica è chiara quando tratta i due comples28
Si veda la trattazione della teoria del gender, nei suoi complessi svolgimenti storici, fatta da Laura Palazzani, Sex/gender: gli equivoci dell’uguaglianza (Torino: Giappichelli, 2011, in particolare, 39-47).
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si simbolici maschile e femminile come complementari e reciproci.29 Ma l’indubbia verità ontologica di questa dottrina si trova a navigare nell’oceano di una società secolarizzata in cui i fatti concreti la contraddicono ogni giorno di più, perché nei fatti prevale il codice simbolico guidato dal binomio “libertà & uguaglianza” fra i sessi, su cui fiorisce l’individualismo di una sessualità spersonalizzata. Ci si deve domandare quali potranno essere le conseguenze del fatto che la rappresentazione culturale proposta dalla dottrina cattolica contrasti sempre di più con le prassi quotidiane per una parte sempre più consistente di popolazione. 3.3. Il fatto è che siamo di fronte ad una morfogenesi delle identità e delle relazioni che non è stata ancora compresa. Vediamo solo tanti fenomeni poco spiegabili, contraddittori, che vanno in direzioni diverse, senza che se ne possa vedere una logica che li guida. La mia spiegazione è che la distinzione uomo-donna continua ad essere trattata con un codice simbolico dualistico. Tale codice produce solo conflitti (anche se le gerarchie sono rovesciate: è vero che Eva fu tratta da Adamo, ma Adamo non voleva forse la stessa cosa di Eva?). L’affermazione dell’ideologia dell’uguaglianza fra i sessi non rimedia agli esiti conflittuali della relazione, ma produce solo la sensazione di una certa neutralizzazione delle identità maschili e femminili. Luhmann parlerebbe di una “circolarità” fra femminile e maschile, una sorta di fusione (central conflation) fra le loro differenze, che non aiuta in nessun modo a dare delle indicazioni operative. Il fatto è, egli sostiene, che quando uno dei due poli si relaziona all’altro, non vede la relazione, non può vederla, perché la relazione è invisibile e ingestibile di per sé: «io sono autonoma/o e tu sei autonomo/a, nessuno dei due “vede” la relazione». Il che porta alla conclusione per cui, sempre secondo Luhmann, l’amore diventa solo «una comune problematizzazione del mondo». In questo codice simbolico, amarsi vuol dire riconoscere che il mio problema è anche il tuo, e il tuo problema è anche il mio. Punto. 29
Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano (Roma: Città Nuova, 1985).
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Non resta, secondo lui, che accettare la logica dell’autoreferenza di ogni sesso (o gender) e gestirla con l’eurialistica:30 cioè guardare alla distinzione uomo-donna come ad una dualità che ha tante e diverse dimensioni e sfaccettature collocandosi sempre da punti di vista diversi e reversibili in modo da non cristallizzare (stereotipizzare) l’immagine dell’uno e dell’altra, e così evitare i conflitti. Ciò si può fare assumendo che tanto l’osservatore quanto gli stessi attori sociali evitino di guardare in faccia la relazione, che viene vista come un paradosso (un enigma) che acceca (uccide) chi la osserva. In apparenza, Luhmann coglie molti fenomeni reali nella società odierna. Di fatto, se da un lato la cultura laica ufficiale proclama l’uguaglianza giuridica, morale e sociale fra uomini e donne, dall’altro, in tanti fenomeni di consumo e stili di vita, i due complessi simbolici maschili e femminili rimangono distanti, e in certi casi accentuano le loro opposizioni. Di volta in volta l’uno cerca di affermare la propria superiorità sull’altro. Sesso e potere. Questa è ancora una volta la storia. Pensiamo alle vicende delle separazioni e dei divorzi, dell’affidamento dei figli. Se non v’è dubbio che le spinte verso una maggiore indipendenza della donna prevalgono sulla persistenza di un certo potere maschile, d’altra parte gruppi di uomini (pensiamo ai padri separati che reclamano di vedere i figli) si organizzano per rivendicare i loro diritti. Luhmann ha chiarito che non basta vedere le cose dal lato opposto, perché semplicemente si rovescia la gerarchia (l’asimmetrizzazione). Ma io mi chiedo: la soluzione della eurialistica, che evita di guardare in faccia l’enigma cambiando continuamente il punto di vista, è la strada da percorrere? L’idea ufficiale della assoluta parità uomo-donna si scontra ogni giorno con la persistenza di vecchi conflitti e l’emergere di nuovi. Come mai? La liberazione femminile avviene sotto l’ombrello dell’uguaglianza non solo morale e giuridica, ma anche sociologica e su tutti i piani di realtà, inclusa quella virtuale, fra uomini e donne. Di qui, poi, tutte le conseguenze sul maschile e femminile, e sulle loro relazioni nella 30
Luhmann, “Sthenography”, Stanford Literature Review 7 (1990b): 133-137.
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società iper-modernizzante. La logica conclusione è che l’unisex e poi l’unigender (nel senso della indifferenza a qualunque gender) diventano oggi la tendenza culturale dominante: fine delle differenze, via libera alle in-differenze. Solo alcune culture premoderne, come quella islamica, si oppongono a questo trend. La conclusione storica del confronto fra i sessi, nonostante i molti conflitti che rimangono in tanti aspetti nascosti e latenti, andrebbe dunque verso una sempre più radicale neutralizzazione delle differenze fra uomo e donna, così che non si riuscirebbe più a distinguere i cosiddetti valori femminili dai – praticamente assenti – cosiddetti valori maschili, supposto che si riesca a dire quali siano questi ultimi. Tant’è che un certo femminismo lamenta il fatto che la donna venga mascolinizzata (si vedano i prototipi della donna-manager, donna-poliziotto, donnacapo politico, donna-soldato, ecc.) e reclama di nuovo la sua differenza. In ogni caso, le indagini sociologiche ci assicurano che il maschile e il femminile fluttuano in un mondo di simboli in cui si mescolano, si confondono, si ri-differenziano, si combinano e ricombinano nei più diversi modi. Questa è la morfogenesi attuale. Si comprende allora perché si diffonda l’opinione secondo cui «l’omosessualità è solo un orientamento sessuale, diverso da quello eterosessuale ma del tutto equivalente. È solo una delle tante differenze che caratterizzano ognuno di noi e che non può e non deve impedire a una persona di essere considerata uguale ad un’altra in termini di dignità, di opportunità e di diritti. Da oggi sarà più difficile non vergognarsi quando anche solo l’idea di insultare una persona omosessuale dovesse sfiorare la mente di chi pensa che esista un unico modo di essere o di amare [. . .]. Se siamo stati creati uguali, anche l’amore con cui ci leghiamo l’uno all’altro deve essere uguale».31 L’amore non ha differenze, non può essere distinto nelle sue forme e contenuti, le relazioni di amore sono del tutto equivalenti fra loro. «Love has no labels» è stato lo slogan dei Gay Pride nel 2016. La cosiddetta ‘relazione pura’ teorizzata da Gid31
Michela Marzano, “Il nuovo confine dell’amore”, La Repubblica, 12 maggio 2016, 31 (enfasi mia).
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dens,32 che egli ritiene emergere soprattutto nelle coppie omosessuali, viene da lui proposta come modello del futuro per tutte le coppie, quale che sia l’identità sessuale dei partner. In sostanza, insistere sulla differenza fra maschile e femminile diventa obsoleto. Se mai si possa ancora parlare di due complessi simbolici diversi, questi sono comunque attraversabili e reversibili. Viene così generato un universo simbolico che offre indefinite opportunità di essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, mentre crea infinite combinazioni differenziali, costruendo e decostruendo i due complessi simbolici secondo le circostanze e le convenienze. In questo clima, la stessa affermazione secondo cui «la Chiesa è femminile, è donna» perde di senso, a meno che non la si legga alla luce della cosiddetta “emancipazione femminile”, come la si è chiamata fino a qualche decennio fa, e oggi declinata come “liberazione” della donna. Una tale lettura vedrebbe la Chiesa in ritardo rispetto al mondo reale. Contro questa visione sta la fenomenologia della relazionalità, che indica nella relazione una unicità irripetibile, se si sa coglierne il senso più profondo.33 In realtà, l’esortazione apostolica Amoris Laetitia, pur ribadendo la dottrina tradizionale, riconosce i processi di morfogenesi socioculturale in atto nelle relazioni di coppia e cerca un modo per affrontarli dando più spazio alla soggettività degli attori e alla particolarità delle situazioni nell’applicazione delle norme vigenti. «È vero – afferma la Amoris Laetitia (304) – che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione». 32
Anthony Giddens, The Transformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies (Cambridge: Polity Press, 1992). 33 Rebecca Coleman, “A method of intuition: becoming, relationality, ethics”, History of the Human Sciences 21 (4) (2008): 104-123.
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I valori, dunque, vengono prima della norma, ma nella loro realizzazione non si deve andare contro la norma. Come è possibile? Una tale svolta, per essere effettiva, sottende la necessità di un codice simbolico relazionale.34 Questo codice simbolico abbandona la logica binaria (di Luhmann) e i sofismi dell’eurialistica per affermare che la distinzione uomo/donna non è uno slash, ma è una relazione, cioè l’effetto emergente di una azione reciproca. Tale effetto opera nella realtà, non è una idea immaginaria. In quanto emergente può anche essere un conflitto, o un male relazionale, che andrà gestito alla luce di quei valori che possono rimediare al male relazionale e generare una relazione positiva, un bene relazionale. Conflitti e asimmetrie fra uomo e donna sono sempre presenti, ma la ricerca del bene relazionale le può rendere strutturalmente reversibili in senso positivo. In sostanza, i processi di morfogenesi ci costringono a fare un salto di qualità nel modo di concepire e gestire la distinzione fra uomo e donna. Dobbiamo capire se e quando la distinzione vada tolta, oppure, al contrario, vada scritta con lo slash (uomo/donna), volendo significare una differenza ontologica strutturale incolmabile, oppure ancora vada scritta con un trattino (hyphen) (uomo-donna), volendo significare il fatto che i due termini sono distinti, ma anche connessi fra loro da un qualcosa (entità latente) che li lega e li co-implica mentre li differenzia. 4 La distinzione uomo-donna giace in un Terzo, che è la loro relazione 4.1. Mi sembra che occorra mettere un po’ di chiarezza su quanto accade nei fenomeni culturali. Il pensiero deve cercare risposte chiare, capaci di orientare delle prassi che siano insieme veritative e adeguate ai tempi. Ma come fare? Partirei dalle constatazioni empiriche che le scienze umane e sociali fanno relativamente alle conseguenze provocate dalla doppia scissione, 34
Questo codice simbolico è esposto in Donati, Oltre il multiculturalismo e poi sviluppato in Donati, La matrice teologica della società.
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(i) da un lato fra corporeità e identità personale (percezione, senso e raffigurazione del Self ), e (ii) dall’altro fra identità personale e identità sociale. Scissione qui significa che la riflessività interiore delle persone si fa sempre di più impedita o fratturata, e che la riflessività relazionale manca o è del tutto deficitaria. Queste osservazioni empiriche confermano l’affermazione di Papa Francesco secondo cui «i simboli forti del corpo detengono le chiavi dell’anima: non possiamo trattare i legami della carne con leggerezza, senza aprire qualche durevole ferita nello spirito (1 Cor 6,15-20)».35 Hadjadj sembra dire la stessa cosa, sebbene in modo più tranchant, quando afferma che «la trascendenza si trova già nelle nostre mutande», come uomini e come donne.36 Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, è bene sottolineare che ricorrere solamente alle differenze corporee non è certo sufficiente per affrontare la distinzione fra i sessi, perché la natura relazionale delle distinzioni uomo-donna viene colta solo sotto un aspetto parziale, quello biologico, da cui si suppone che conseguano le altre differenze, psicologiche e sociali, il che non è. Occorre una risposta molto più profonda e articolata di fronte a due posizioni: quelle di chi sostiene l’esistenza di una “frattura” fra i due sessi, e chi, per contro, sostiene che andiamo invece verso una loro omogeneizzazione, sotto forma di neutralizzazione delle differenze. Queste due posizioni sono in apparenza opposte, ma in realtà convergono nei fenomeni empirici, e la ragione di questa convergenza sta nel fatto che entrambe hanno un deficit di visione relazionale. a) La prima posizione è rappresentata da tutti coloro che parlano di una distanza impossibile da colmare, una frattura, fino alla “lotta” fra i sessi (le citazioni sarebbero lunghe). L’argomentazione si basa sulla considerazione che i due sessi sono delle alterità nelle quali si rispecchia un dato ontologico della condizione umana, e cioè il fatto che gli esseri umani, a differenza degli altri esseri viventi, hanno bisogno 35 36
Citazione da Papa Francesco, Udienza generale, mercoledì 27 maggio 2015, 2. Fabrice Hadjadj, Ma che cos’è una famiglia? (Milano: Ares, 2015): 80.
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della relazione con gli altri, in particolare fra i sessi, mentre tale bisogno si presenta come un “impossibile” da realizzare nella sua pienezza e positività, perché questa differenza si presenta come una vera e propria lacerazione.37 Come è possibile superare questa lacerazione? Come è possibile creare un legame stabile e significativo fra due opposti che si attraggono e si respingono allo stesso tempo? La risposta secondo cui è solo con la charitas e l’agape che possiamo rendere vivibile il paradosso dei legami umani è ovviamente un ideale, a cui andrebbe aggiunto, nei rapporti fra i sessi, un certo posto per l’eros. Ma dobbiamo comprendere come ciò possa avvenire in una maniera che non sia una soluzione mitica, idealistica o volontaristica. Qualcosa potremmo apprendere da Romano Guardini, con il quale potremmo dire di trovarci di fronte ad una “opposizione polare” fra uomo e donna, che devono essere visti come termini carichi di un rapporto di attrazione-repulsione dal quale si sprigiona una tensione positiva, non una discriminazione o separazione, che è fonte di energia e ricchezza.38 Ma lo schema dell’opposizione polare ha una connotazione che si adatta più alle scienze naturali che a quelle sociali. I legami umani hanno una sostanza, una struttura, che è differente da tutti quelli che possiamo vedere in altri esseri viventi per il fatto che sono “significanti”, cioè richiedono una significazione che è sottoposta alla interpretazione soggettiva. Diversamente da animali e piante, il legame umano è activity dependent e context dependent, ossia non è determinato da automatismi. Rimane il problema di come spiegare il fatto che la relazione possa unire due soggetti nello stesso tempo che mantiene e promuove le loro differenze. Dobbiamo fare uno sforzo per accedere ad una prospettiva relazionale più complessa, perché dobbiamo includere nella relazionalità umana ben maggiori contingenze. b) La seconda posizione è quella di chi sostiene che la modernità occidentale abbia coltivato e continui a coltivare la passione per il 37
Cfr. Mario Binasco, La differenza umana. L’interesse teologico della psicoanalisi (Siena: Cantagalli, 2013). 38 Romano Guardini, Der Gegensatz (Mainz: Matthias-Grunewald, 1925).
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neutro39 come forma di differenziazione senza distinzioni (indistinta per via della equivalenza dei differenti), fra culture, modi di vita, scelte etiche sempre più differenti e allo stesso tempo considerate sempre più “uguali”,40 come recita la formula del multiculturalismo globale «tutti differenti, tutti uguali».41 Viene alla mente la previsione di Carl Schmitt, secondo cui la modernità, dominata dalla illusione illuminista e dalla razionalità tecno-scientifica basata sul calcolo, avrebbe portato ad un epoca di spoliticizzazioni e neutralizzazioni di tutte le differenze (lui parla di “istanze in conflitto”).42 Sul piano empirico, le ricerche sociologiche dicono che le persone sono o desiderano essere sempre differenti, e tuttavia lo fanno senza riconoscere e valorizzare le differenze (“essere umano indifferenziato”), non già perché le differenze non esistano, ma perché sono scelte in maniera arbitraria, contingente, e sono sempre attraversabili e reversibili, cioè de-costruibili (alla maniera di Jacques Derrida). Questi ambigui processi in cui la ricerca delle differenze si accompagna alla incapacità di gestirle sono portati all’esasperazione dalle nuove ICT. Come afferma Luciano Floridi43 , la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e la loro penetrazione nella società incidono profondamente sulla condizione umana nella misura in cui modificano il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo in generale. L’incessante espandersi delle ICT scuote dalle fondamenta i tradizionali quadri di riferimento concettuali attraverso le seguenti trasformazioni: a) l’erosione dei confini tra il reale e il virtuale, b) l’erosione dei confini tra uomo, macchina, e natura, c) il rovesciamento della situazione nella sfera dell’informazione: dalla scarsità alla 39
Vaclav Behloradsky, “La modernité comme passion du neutre”, Le Messager éuropéen, Paris P.O.L. 2 (1988): 19-80. 40 Iris Marion Young, Justice and the Politics of Difference (Princeton: Princeton University Press, 1990) (tr. it. Le politiche della differenza, Milano: Feltrinelli, 1996). 41 Seyla Benhabib, The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era (Princeton: Princeton University Press, 2002). 42 Carl Schmitt, Le categorie del politico (Bologna: Il Mulino, 1972). 43 Luciano Floridi (ed.), The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era (New York: Springer, 2015).
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sovrabbondanza, d) la transizione dal primato del soggetto al primato dell’interazione. Tutto ciò sconvolge la mente umana nella misura in cui essa, dovendo “cogliere” il mondo per mezzo di concetti, vede questi ultimi cambiare continuamente ad opera delle nuove tecnologie. Poiché la percezione sensoriale viene necessariamente mediata da concetti, che sono interfacce attraverso le quali la realtà è vissuta e interpretata, la comprensione della realtà circostante muta continuamente perché cambiano gli strumenti per apprenderla. In breve, l’armamentario concettuale di cui disponiamo oggi non è adeguato ad affrontare le nuove sfide che accompagnano lo sviluppo delle ITC. Le conseguenze sulla morfogenesi della relazione uomo-donna sono devastanti. Il processo può essere descritto come segue (figura 1). Qualunque sia la struttura della relazione uomo-donna in una certa situazione e contesto sociale al tempo T1, essa va incontro ad una fase temporale di interazioni (nell’intervallo fra il tempo T2 e il tempo T3) che seguono la logica della competizione nelle opportunità che si aprono nel nuovo ambiente comunicativo. La struttura iniziale non può essere mantenuta (la morfostasi diventa praticamente impossibile), e deve necessariamente evolvere verso una struttura elaborata (al tempo T4). Ma la struttura elaborata, in condizioni di morfogenesi unbound, si presenta come “una forma senza forma”, giacché la in-formazione (la forma data dalla informazione) cambia incessantemente. Questi cicli morfogenetici si susseguono in maniera sempre più rapida e accelerata. Il punto è che, in questi processi ciclici, opera una sinergia fra il cambiamento della struttura sociale dei ruoli (maschili e femminili) e i mutamenti delle immagini e rappresentazioni culturali (delle identità maschili e femminili): è questo meccanismo che genera il continuo cambiamento delle forme relazionali fra uomini e donne. Per esempio, se la legislazione equipara i ruoli sociali maschili e femminili, anche le identità dell’essere uomo o donna cambiano, e rafforzano i cambiamenti nei ruoli; e viceversa, se le immagini trasmesse dai media mostrano identità che cambiano, questo legittima i cambiamenti nei ruoli sociali, e rafforza gli interventi strutturali in tal senso. 152
Pierpaolo Donati T1 struttura socio-culturale data in un contesto (che favorisce un certo tipo di relazioni fra uomini e donne: per es. la complementarità fra i sessi) T2 Interazioni fra Ego e Alter che avvengono in una rete sociale in cui vanno modificandosi i ruoli e le rappresentazioni dei sessi (fase T2-T3) T3 T4 struttura emergente A (modificata rispetto a quella iniziale: per esempio, maggiore uguaglianza fra i sessi) T5 Interazioni fra Ego e Alter (sulla base della nuova struttura, la relazione si individualizza ancora di più nell’intervallo T5-T6) T6 T7 struttura emergente B (le relazioni cambiano ulteriormente in direzione di una maggiore interattività individualizzata)
Tempo
(seguono altri cicli)
Figura 1: I cicli di cambiamento della relazione uomo-donna nell’attuale morfogenesi socio-culturale Le relazioni sociali sono soggette al tempo, esse non possono rimanere ferme e costanti, ma progrediscono o regrediscono.44 I fattori che le muovono sono, da un lato i cambiamenti della struttura sociale (ruoli e posizioni), e dall’altro il tipo di riflessività che i soggetti esercitano sui loro ruoli, posizioni e sulle loro identità nelle reti sociali. Il risultato di questi processi morfogenetici è presto detto. Nella autorappresentazione postmodernista, le persone, come “puri individui”, hanno il diritto di definire le loro identità (sessuali, di coppia e familiari) 44
John M. Gottman, “Temporal Form: Toward a New Language for Describing Relationships”, Journal of Marriage and Family 44 (4) (1982): 943-962.
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e le loro relazioni a piacimento: l’identità sessuale, come l’identità di coppia e di famiglia, “è” quella che si immaginano e che pensano di costruire. Qualunque definizione comune delle identità, posizioni, ruoli maschili e femminili scompare. Non c’è più nessuna distinzione, e nemmeno alcun confine, fra le identità e i ruoli maschili e femminili. L’utopia post/trans-umanista vede solo creature in un “mondo post-genere” o senza genere.45 Ciò non significa, però, che tutto sia omogeneizzato, ma significa piuttosto che vengono affermate condizioni e relazioni uniche, che non hanno niente in comune fra di loro. Siamo ben lontani dagli anni Ottanta-Novanta, quando si parlava di gender solo per riferimento alla differenza fra uomo e donna, maschio e femmina.46 La teoria del gender si apre alla indeterminazione. E allora ci si chiede: questa svolta è sociologicamente e umanamente tenibile? Lo schema sopra riportato coglie molte dinamiche in atto, ma deve essere integrato includendo l’analisi degli esiti di ogni ciclo morfogenetico e dei modi in cui i soggetti riflettono su ciò che accade in ogni momento e fase dei processi stessi. Le indagini sulla qualità dei modi di vita che emergono e su che cosa essi producono non danno risultati positivi. Certamente si formano nuove reti e nuovi aggregati sociali, ma diminuisce la capacità riflessiva delle persone, i processi mimetici vengono esasperati, la mancanza di una cultura della distinzione rende opache le differenze fra i beni e i mali relazionali, non si vedono le differenze tra la famiglia e gli altri gruppi primari.47 Se si va fino in fondo agli effetti dei processi sopra ricordati, si trova l’individualismo più esasperato, e con esso un crescente isolamento degli individui e nuove patologie relazionali. 45
Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Milano: Feltrinelli, 1995). 46 Si vedano i capitoli “La famiglia come relazione di gender: morfogenesi e nuove strategie” (25-91) e “The gendering of. . .: dare un genere alla famiglia, alle sue identità, alle sue relazioni” (379-411), in Donati (a cura di), Uomo e donna nella famiglia: differenze, ruoli, responsabilità (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997). 47 Eppure queste differenze esistono: cfr. Linda Henley Walters, “Are Families Different from Other Groups?”, Journal of Marriage and Family 44 (4) (1982): 841-850.
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Qualche tempo fa, un giornale locale riferiva il fatto che, nel Municipio di Haarlem (Olanda), una donna single (età 30 anni) si è sposata con se stessa, alla presenza della famiglia di origine, parenti e amici. Ha promesso fedeltà a se stessa, di amarsi, onorarsi e aiutarsi per tutta la vita. Parenti e amici hanno gettato fiori e festeggiato. Probabilmente, anzi sicuramente, è stata una pagliacciata. Ma mi è venuto in mente quanto mi disse W. J. Goode, un famoso studioso di famiglia, quando nel 1981 lo intervistai a San Francisco e gli chiesi che cosa ne pensasse dei matrimoni gay che si celebravano in quei giorni in modo puramente simbolico sul Golden gate bridge, e lui mi rispose che erano solo una pagliacciata. Dopo circa trent’anni adesso quei matrimoni sono una realtà legalizzata. Il giornalista britannico Douglas Murray un giorno ha detto: «dove l’Olanda va, gli altri paesi europei seguono». Dunque, quella pagliacciata della donna single di Haarlem anticipa la sorte del matrimonio in Europa? 4.2. Di fronte a queste tendenze, io credo che la sociologia possa e debba fare delle obiezioni per mettere in luce che le attuali tendenze all’individualizzazione e soggettivizzazione delle identità, come dei ruoli sociali, in particolare maschili e femminili, sono di fatto una pura illusione. Le analisi sul campo sono lacunose o silenti nel rilevare i bisogni reali delle persone, fuori delle manipolazioni mass mediatiche. Mancano di comprendere le esigenze della gente di essere-in-relazione, non in un modo qualunque, ma significante e gratificante, non indagano l’intrinseca struttura delle relazioni sociali e i loro effetti, positivi o negativi. Le persone necessitano delle relazioni come dell’aria per respirare, ma la gran parte di esse non vedono e non tematizzano le loro relazioni, ne ricevono gli influssi senza capire il perché e il come ciò avvenga. La relazione uomo-donna è una relazione sui generis, ma condivide con le altre relazioni interumane un dilemma: è fatta solo dai due soggetti che sono in gioco o c’è qualcos’altro senza cui non si può giocare? La risposta di Luhmann, mutuata dalla logica di Spencer Brown, è: «solo in due si può giocare questo gioco» (Only Two Can Play This 155
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Game).48 Questa idea esclude il Terzo, e pertanto è destinata a produrre una confusione (conflazione centrale) fra i due. Il gioco fra un uomo e una donna non riguarda solo i due individui. È un incontro che, in quanto incontro, introduce un terzo nel gioco. Accettare di entrare in relazione o rifiutarsi è la prima mossa di un gioco. Se il gioco prosegue, affinché le persone possano giocare, occorre che il gioco sia chiarito e gestito come un contesto relazionale che ha la sua propria realtà, le sue esigenze, e le sue specifiche regole. Il problema sta nel definire il gioco della relazione. Come ho scritto tempo fa, la relazione, non l’ambivalenza o il dualismo, è «il gioco dei/sui giochi».49 In realtà, ogni relazione fra due persone è triadica, nel senso che implica il Terzo della relazione.50 Nel caso in cui le due persone sono un uomo e una donna, il Terzo non è lo stesso che nel caso in cui le persone sono due uomini o due donne, perché l’effetto emergente è necessariamente diverso. La distinzione fra uomo e donna è questo Terzo, un Terzo sui generis, che non ha equivalenti funzionali (non c’è macchina o tecnologia che possa sostituire un legame umano, e la relazione omosessuale non è un equivalente funzionale della relazione eterosessuale). È da questo Terzo che dipende la umanizzazione dei due. Rifiutare il legame sociale che l’incontro può portare con sé significa produrre individualismo (una individualizzazione per negazione), mentre la umanizzazione consiste nel cogliere, anche intuitivamente, l’unicità di quella relazione che nasce dall’incontro e qualificarla con la personalizzazione.
48
James Keys (pseudonimo di G. Spencer Brown), Laws of Form (London: Allen & Unwin, 1969). 49 Donati, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991): 85. 50 Applicato alla relazione uomo-donna, il Terzo prende corpo nel figlio. Per dirla in modo apparentemente paradossale, ma empiricamente fondato, il figlio non è il figlio di due individui, ma della loro relazione: cfr. Donati, Generare un figlio: che cosa rende umana la generatività? (Siena: Cantagalli, 2017).
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5 L’umanizzazione sta in una certa relazione generativa, cioè nel Terzo Mi sia consentito proporre qui una breve riflessione su un pensiero ontologico. Scrive Heidegger:51 «In Sein und Zeit è con intenzione e per prudenza che si dice: il y a l’être: “si dà” l’essere. L’espressione il y a non traduce esattamente il “si dà” (es gibt) perché “ciò” (es) che qui “si dà” (gibt) è l’essere stesso. Il “si dà” (gibt) indica l’essenza dell’essere che dà, concedendola, la sua verità. Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso». Andando forse molto oltre le intenzioni di questo Autore, propongo di fare una lettura relazionale di questa affermazione che ci consente di vedere le sue luci e le sue ombre. Dire che “l’essere si dà”, significa affermare che l’essere è di per sé “donativo”, che ha le qualità e proprietà della donalità,52 e in tal senso l’essere è intrinsecamente relazionale perché cerca la relazione, ha bisogno della relazione. Se l’essere, come dice Heidegger, è «il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso», non si parla forse, in questa definizione, dell’essere come relazionalità? Penso di sì, ma qui Heidegger si ferma. L’essere è per lui ciò che semplicemente “è”, come se l’essere (la sua verità) non potesse diventare «altro da ciò che è [già] dato». Se c’è inconciliabilità fra metafisica e umanizzazione, evidentemente qualcosa non funziona. Sfortunatamente, nel caso di Heidegger, sia l’una che l’altra sono difettose, perché entrambe non sono relazionali. Invece, parlando di cose umane, se l’essere è atto (atto di essere, ovvero energeia), e questo atto è relazione, proprio in forza di questa sua intrinseca relazionalità, l’essere non è statico (non è morfostatico), non è immutabile, ma è dinamico e morfogenetico, ossia può pro-gredire o re-gredire nel tempo. L’essere che è nei fenomeni sociali, proprio perché relazionale, ammette la propria trasformazione. Per continuare ad esistere come idem e ipse pone una condizione: che sia rispettata la propria intrinseca relazionalità (è lì dove giace la sua “natura”), altrimenti passa 51 52
Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, 87. Annamaria Fantauzzi, Antropologia della donazione (Brescia: La Scuola, 2011).
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ad altro-da-sé, non ha più il suo essere. Il n’y a pas l’être perché viene meno la sua propria modalità relazionale, anche se ciò per cui e a cui tende cambia al mutare delle situazioni. La relazione, come afferma Antonio Malo, è energeia, perché, in quanto “essere”, la relazione è un atto, ma è un atto che ha una forma sui generis, diversa dall’atto individuale (di cui si parla, per esempio, in Persona e atto di Karol Wojtyla): è atto che si genera (genera se stesso) nel generare. In questo senso vanno riformulate l’idea heideggeriana dell’es gibt e quella levinasiana dell’il y a,53 che a mio avviso non hanno un carattere propriamente relazionale, nonostante molti autori li considerino tali, mentre per 53
Come ha scritto Antonino Magnanimo (voce Emmanuel Lévinas: http://www. filosofico.net/levinas.htm), per chiarire dove nasce l’esistente, Lévinas analizza la nozione di “il y a” che è l’essere in generale. L’esistente esce dall’esistenza, il sensato prende vita spezzando la neutralità dell’essere. «L’essere e la realtà sono puro non senso, chi ha senso e dà senso è l’esistente, l’uomo»; in quest’ottica si può scorgere sullo sfondo il pensiero di Heidegger che vedeva l’uomo come l’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere. Una corretta impostazione di questo problema, richiede una esplicitazione preliminare di quell’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere, e questo ente è da Heidegger indicato col termine di Esserci (Dasein). L’uomo, considerato nel suo modo di essere, è Da-Sein, esser-ci; e il “ci” (da) sta ad indicare il fatto che l’uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti. L’Esserci, cioè l’uomo, non è soltanto quell’ente che pone la domanda sul senso dell’essere, ma è anche quell’ente che non si lascia ridurre ad una nozione statica e generica di essere. Le cose sono diverse l’una dall’altra, ma tutti sono oggetti posti davanti a me: l’uomo non può ridursi ad un oggetto puro e semplice del mondo; l’Esserci non è mai una semplice presenza come le cose, giacché esso è proprio quell’ente per cui le cose sono presenti. Il modo di essere dell’Esserci è l’esistenza, l’“essenza” dell’Esserci consiste nella sua esistenza, e l’essenza dell’esistenza è data dalla possibilità da attuare e, di conseguenza, l’uomo può scegliersi perdendosi o conquistandosi. Ciò detto, l’uomo che si trova a dover decidere della propria vita, conosce la disperazione della solitudine o dell’isolamento nell’angoscia. Secondo Lévinas, il fatto di essere è quanto di più privato ci sia, l’esistenza è la sola cosa che non posso comunicare perché la posso raccontare, ma non condividere. La solitudine appare come lo stesso evento di essere: «siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l’altro, ma non sono l’altro. Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l’esistere»).
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me lo sono solo in apparenza.54 Né Heidegger né Lévinas vedono la relazione in quanto sociale. Poiché la relazione è il darsi dandosi. In ciò si illumina l’affermazione, che ho esposto altrove (Donati 2003), per la quale il dono è il motore della relazione, quando genera un bene relazionale. Si vede qui il limite della filosofia di Lévinas (1980, 1985) a proposito della differenza sessuale. Per lui, la virilità è il simbolo del soggetto che non vuole farsi alterare dall’Altro, mentre la femminilità è liberazione da questo senso di proprietà e di chiusura. Per lui, è la donna che rappresenta l’alterità. La prima figura di relazione con gli altri, è l’eros, nel quale si esalta un’alterità tra esseri che non si limita ad una semplice alterità erotica. Il femminile è l’origine del concetto stesso di alterità che non scompare nella relazione amorosa, perché l’uomo e la donna costituiscono per lui una dualità insormontabile, due esseri la cui complementarità non implica una relazione necessaria. «La differenza di sesso – egli afferma – non è la dualità di due termini complementari. Infatti, due termini complementari suppongono un tutto preesistente. Ora, dire che la dualità sessuale suppone un tutto, significa porre già prima l’amore come fusione e, dunque, come annullamento dell’ego». Per lui il patetico dell’amore consiste in una insormontabile dualità degli esseri, ossia l’amore è una relazione con ciò che sempre si sottrae, un faccia a faccia, un aut-aut. In una visione relazionale, invece, l’uomo è tale “in relazione” (alla donna), la donna è tale “in relazione” (all’uomo). Ciò significa che il loro essere rispettivamente uomo o donna, e non solo maschio o femmina, dipende dal carattere generativo della loro relazione perché solo la relazione produce quell’effetto emergente (il Terzo) da cui essi, come uomini e donne, traggono il senso del loro agire. Quando dico “carattere generativo”, non intendo riferirmi esclusivamente alla generazione fisica dei figli, attraverso rapporti intimi, ma mi riferisco più in generale a qualunque prodotto della relazione interumana, come il riconoscimento reciproco, l’empatia, la fiducia, l’apprezzamento delle differenze sensibili 54
Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis edizioni, 2015): 26-27.
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quando sono o possono diventare sinergiche. L’essere uomo e donna riflette la dinamicità di questa relazione generativa in ogni specifico contesto sociale. Nel 1949 Simone de Beauvoir ha lanciato l’antesignano di tutti gli slogan femministi: «Donne non si nasce, lo si diventa», definendo la donna quale «prodotto intermedio tra il maschio e il castrato».55 Lei intendeva combattere la subalternità della donna, il suo sfruttamento, la manipolazione che se ne faceva, e ancora se ne fa, in tante sfere sociali. Propongo di prendere sul serio quello slogan, che può anche essere declinato al maschile: «uomini non si nasce, lo si diventa». Ma che cosa vuol dire? Forse perché la donna è costretta a fare i lavori domestici e l’uomo deve fare carriera nel lavoro? Non mi pare, siamo ormai lontani da quei problemi. Anche quando abbiamo rovesciato i ruoli sociali, con l’uomo che fa il casalingo e la donna che ha un lavoro professionale, non abbiamo certo per questo motivo umanizzato né l’uno né l’altra. Non è questo il problema. Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui uomini e donne non si nasce, ma si diventa, ciò può voler dire che l’umanizzazione dell’essere uomo o donna si realizza nel potere generativo che queste due identità hanno nelle loro relazioni quando esse danno vita ad un Terzo. Potere generativo in senso lato, non solo dei figli, ma anche di una cultura, di stili di vita, di qualità della vita umana in ogni sfera sociale. Il Terzo è un bene relazionale. Se fosse un male relazionale, la relazione uomo-donna non verrebbe umanizzata. L’umanizzazione delle persone dipende dal fatto che siano umane le loro relazioni, perché non è detto che, in quanto la relazione viene attuata da persone che scambiano comunicazioni fra loro, sia umana anche la loro relazione. La de/dis-umanizzazione delle persone è infatti moneta corrente nella vita quotidiana. Emerge quando una persona si relaziona all’altra senza riconoscerne le qualità umane o addirittura le nega la natura umana.56 Ciò si verifica in vari modi. Per esempio: 55 56
Simone de Beauvoir, Il secondo sesso [1949] (Milano: Il Saggiatore, 2002). Cfr. Nick Haslam, “Dehumanization: An Integrative Review”, Personality and Social Psychology Review 10 (3) (2006): 252-264.
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quando una persona stigmatizza l’altra (se una persona è bollata con uno stigma non è considerata del tutto umana); quando una persona nega all’altra le qualità umane (per esempio le attribuisce modi di essere e comportamenti da animale); o ancora le nega l’umanità cioè la stessa natura umana (per esempio perché la considera una cosa – res –, o la tratta come un automa inanimato). In tutti questi casi, e altri ancora, la de/dis-umanizzazione consiste nel rifiuto o stravolgimento della relazione. Siccome noi non vediamo cosa c’è nella mente delle persone, questi comportamenti de-umanizzanti si vedono nelle relazioni agite dalle persone. Ovviamente l’umanizzazione della relazione ha contenuti e forme differenti a seconda delle diverse sfere sociali. Ma, affinché sia umana, in qualsiasi circostanza e ambiente sociale occorre che le persone si orientino a produrre un bene relazionale nel quale e dal quale sentirsi realizzati secondo la propria natura e la capacità di essere se stessi. L’umanizzazione della relazione uomo-donna significa poter essere se stessi in un dialogo che produce un bene relazionale con l’Altro in ogni sfera sociale, sia nella sfera privata – e in particolare nella intimità, che è pur essa sociale – sia nella sfera pubblica, ma soprattutto in quella sfera “terza” che è il privato sociale, cioè il privato orientato a produrre beni sociali e non a perseguire scopi o interessi puramente individuali. In tutti i casi, il problema di questa relazione è la sua complessità, che consiste in una combinazione di distinzione e connessione (l’enigma della relazione),57 che va gestita in modo peculiare in ogni ambito sociale. Vediamo brevemente i diversi ambiti.
57
Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis edizioni, 2015). L’enigma sta nel massimo di interazione Ego-Alter che trasmuta nel minino di strutturazione istituzionalizzata della relazione. È il berillo intellettuale di Niccolò Cusano.
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a) Nella vita di coppia, è l’eros che si accompagna all’agape, di cui parlano Wojtyla58 e Ratzinger,59 non l’erotismo di Alberoni.60 Ma, sociologicamente parlando, tra l’eros individuale (micro) e l’agape comunitaria (macro), c’è un Terzo (meso) che deve essere considerato attentamente per l’umanizzazione della persona: è la philìa, che non è un sotto prodotto, ma ciò che connette-distinguendo le persone dell’uomo e della donna. L’intimità è il luogo per eccellenza dell’incontro in cui poter essere se stessi, mentre in pubblico on ne peut jamais être soi-même perché in qualche modo la relazione “vela” (ricopre con un velo) il sé per l’altro e viceversa, dando alle interazioni un po’ il carattere dei giochi di ruolo. Nell’intimità invece questi giochi costituiscono un problema: se sono veramente dei giochi fatti con simpatia e ironia, sono positivi e aiutano la coppia ad elaborare le sue fantasie; ma se i giochi diventano delle strategie con fini strumentali o di potere, allora conducono prima o poi al fallimento della relazione. L’intimità richiede una relazione capace di unire e distinguere al contempo, senza cedere al mito della fusione. La cosiddetta “relazione pura” teorizzata da Anthony Giddens, che è cercata per la reciproca soddisfazione e utilità, non porta alla intimità, ma solo al piacere individuale.61 Tantomeno può produrre intimità il fare il ricorso al punto di vista impersonale del cosiddetto “Altro generalizzato”, ovvero della “terza persona” proposto da alcuni.62 Si vede così perché l’intimità necessiti di una certa relazionalità, profonda e riflessiva. 58
Karol Wojtyla, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale [1960] (Genova-Milano: Marietti, 2007). 59 Eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro e devono continuamente tendere a una armoniosa unità tra di loro. L’uomo, in quanto essere psico-fisico, dell’amore non può vivere soltanto il momento dell’agape; ha bisogno dell’eros, perché «non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 7). 60 Così come lo descrive Francesco Alberoni, L’erotismo (Milano: Garzanti, 1986). 61 Lynn Jamieson, “Intimacy Transformed? A Critical Look at the ‘pure relationship’”, Sociology 33(3) (1999): 477-494. 62 Roberto Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino: Einaudi, 2007).
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b) Nella famiglia, il dono non è femminile più di quanto non sia anche maschile, perché non è un “valore”, ma è la disposizione voluta e intenzionale per generare un bene relazionale che non può emergere senza una particolare relazione intersoggettiva e strutturale fra l’uomo e la donna, come corpi e come complessi simbolici e comunicativi. Come giustamente osserva Vincenzo Masini,63 le relazioni evolute sono quelle che perseguono l’obiettivo di purificazione degli archetipi e di invenzione di nuovi modelli di intersoggettività; tale purificazione può però avvenire, sostiene Masini, solo mediante la comprensione della “sostanza relazionale” della intersoggettività. Io chiamo questa “sostanza” la struttura della relazione sociale che è l’effetto emergente del combinato disposto fra riferimento simbolico (refero) e legame (bond) sociale.64 c) Nella sfera pubblica la relazione uomo-donna deve rispondere a specifiche esigenze relazionali che sono state indagate da una immensa letteratura. Come è stato mostrato da Goffman,65 qui si affermano dei “rituali dell’interazione”, che sono tutti modi per gestire una certa distanza con l’altro, ampliandola o restringendola, perché nelle relazioni in pubblico la persona umana si presenta come un attore che mette in scena un “personaggio”, il più delle volte nella speranza di acquistare la stima, la fiducia, la collaborazione dell’altro, ma in altri casi con l’intenzione di circuirlo, di trarne determinate cose o con altre intenzioni ancora. d) Nella Chiesa, come comunità spirituale dei credenti, la relazione uomo-donna è umanizzata e umanizzante se e nella misura in cui uomini e donne producono dei beni relazionali, non perché prevalgano dei valori maschili o femminili, o perché si realizzi una qualche complementarità fra valori e ruoli femminili e maschili. Ciascuno deve essere se stesso e trovare l’ambiente che lo sostiene nella capacità di essere una persona autentica di fronte all’altro, uomo o donna che sia. 63
Vincenzo Masini, Relazioni evolute. Volume primo (Lucca: Edizioni Prepos, 2015). Donati, Sociologia della relazione (Bologna: il Mulino, 2015b): 113-130. 65 Erving Goffman, Relazioni in pubblico (Milano: Bompiani, 1981). 64
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6
A mo’ di conclusioni
L’umanizzazione dell’essere uomo o donna consiste nel vivere la loro relazione, intersoggettiva e strutturale, in modo dinamico come relazione generativa di beni relazionali. In definitiva, l’umanizzazione della relazione consiste nel prendersi cura del Terzo, cioè della relazione stessa come un – almeno potenziale – bene relazionale. Il maschile e il femminile consistono nel loro carattere relazionale, in un duplice modo. Innanzitutto consistono nella relazione che il Self di ogni individuo ha con il proprio corpo (identità personale e riflessività personale), e poi nella relazione che questa relazione instaura con gli altri corpi e simboli tramite la relazione che gli altri hanno con il loro corpo e simboli (identità relazionale e riflessività relazionale). Le due modalità sono necessariamente intrecciate fra loro se la relazione deve essere umanizzata e umanizzante. Nello stesso tempo, è proprio questa realtà relazionale quella che rende il mondo dei rapporti, incontri e scontri, fra uomini e donne così disperante, ma anche così ricco di passione e di promesse. L’umanizzazione della relazione uomo-donna va compresa attraverso una visione relazionale della loro distinzione, che sintetizzo come segue. a) La differenza biologica fra i sessi, che è ontologica, non deve far pensare che anche i ruoli sociali e i valori culturali siano ontologicamente diversi; ciò può creare solo degli stereotipi. L’umanizzazione della relazione uomo-donna consisterà nel personalizzare l’uno e l’altra tenendo conto della loro diversa struttura fisica, ma senza derivarne differenze ontologiche su altri piani. b) Ogni persona si determinerà cercando il proprio equilibrio riflessivo fra la sua corporeità, i ruoli sociali che ricopre, e i valori culturali che vorrà vivere. Tutti i mondi della vita (gli ordini di realtà del naturale, sociale, pratico, spirituale e ideale) si pluralizzano sempre di più e ciò mette a seria prova le capacità riflessive delle persone, che sono chiamate ad esercitare le loro capacità di selezione (discernimento), deliberazione e dedicazione. È ovvio che le persone si stratificano in base alle diverse capacità e opportunità, per questo è importante 164
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favorire condizioni contestuali nelle quali vi siano l’uguaglianza delle opportunità di partenza e insieme sostegni alla solidarietà fra i sessi. c) Le persone, uomini e donne, dovranno sempre più definire la loro relazione come un “Terzo” e gestirla come tale. Ciò significa che la relazione non va pensata solo come prodotto delle loro qualità individuali, ma come un fenomeno emergente che ha un’esistenza propria. Dipende da loro se si configura come un bene o un male relazionale, ma il fatto che sia un bene o un male non dipende da loro. In linea generale, ci sono due modi di guardare qualcuno o qualcosa. Uno è quello di pensarlo/a di fronte a noi: in tal caso, quel qualcuno o qualcosa ci parla di sé, e nulla più. Il nostro sguardo vede un “s/oggetto”, lo percepisce e lo valuta nell’immagine che ce ne facciamo, e nei sentimenti che suscita in noi, per esempio mi piace o non mi piace. L’altro modo è quello di pensarlo/a in relazione a noi: allora, pensato nella relazione, quel qualcuno o qualcosa ci dice molto di più e di diverso, ci dice non solo cose di sé, ma anche cose che stanno dentro di noi, cose che erano nascoste, silenti, latenti in noi stessi, e che alla fine vediamo perché è la relazione stessa che le suscita; la relazione ci parla di noi stessi, non solo dell’altro. Il primo, lo sguardo frontale, è oggettivante, il secondo, lo sguardo relazionale, è riflessivo. A sua volta, la relazionalità ha due facce: può rimanere dentro noi stessi o può farsi (capace di) alterità. Può limitarsi alla nostra conversazione interiore (quando guardiamo l’altro e ne parliamo dentro noi stessi), e allora è una (auto)riflessività personale, individuale (come la vede Archer). Oppure la nostra riflessività si protende sulla relazione stessa, la conversazione interiore non è rivolta all’Io, ma si rivolge alla relazione che abbiamo con quel qualcuno o qualcosa. In tal caso diventa riflessività relazionale (Donati). È questa seconda forma di riflessività che ci fa comprendere perché e come la vita sia relazione, ad esempio tra uomo e donna. Lo sguardo frontale non genera beni relazionali. I beni relazionali richiedono lo sguardo proprio della riflessività relazionale. 165
La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale
In breve, l’umanizzazione è un processo che riguarda le persone, ma passa necessariamente attraverso le relazioni che esse attualizzano. Sono le relazioni che umanizzano o meno, in un modo o nell’altro, certo in quanto sono agite in un certo modo o in un altro dai soggetti in gioco. Gestire questa complessità sapendo vedere e prendersi cura della unicità di ogni relazione contestualmente situata, e pertanto di ogni identità sessuata in atto, è il cuore di un neo-umanesimo che deve abbandonare gli stereotipi del passato, del presente e del futuro.
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Non c’è due senza tre: relazione e differenza tra uomo e donna alla luce del Mistero di Dio uno e trino Giulio Maspero (Pontificia Università della Santa Croce)
1
Introduzione e premessa
La prospettiva del presente intervento non è semplicemente quella dell’antropologia teologica, come ci si potrebbe aspettare dal titolo. La scelta, invece, è stata quella di collocarsi a monte di tale approccio, per inquadrare il rapporto uomo-donna nella matrice trinitaria introdotta dalla rivelazione cristiana. In tal modo il contributo vuole essere in primo luogo un saggio di ontologia trinitaria,1 cioè un’analisi che mira a rileggere la relazione dell’uomo e della donna alla luce che prorompe dell’identificazione dell’Ipsum Esse Subsistens con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’articolazione di relazione e differenza cui rimanda la formulazione del Mistero del Dio uno e trino sarà, infatti, applicata alla distinzione uomo-donna. Si tratta, ovviamente, di un passaggio estremamente delicato, da affrontare con rigore e senza approssimazioni affrettate, che portino a proiettare una dimensione antropologica in Dio, violando il primo principio dell’epistemologia teologica: l’apofatismo. Tale termine indica, infatti, la constatazione che Dio è sempre eccedente rispetto alla nostra capacità di descrivere e formulare il Suo Mistero.2 Nello stesso 1 2
Per un’introduzione all’ontologia trinitaria, si veda: Piero Coda, “L’Ontologia Trinitaria: Che Cos’è?”, Sophia 2 (2012): 159-170. Nel Concilio Lateranense IV del 1215 si formula tale principio nel seguente modo: «Inter creatorem et creatura non potest tanta similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DH, 806).
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Non c’è due senza tre
tempo, però, il tentativo è ineludibile, sia per gli stimoli del Magistero, sia per il dialogo con la sociologia relazionale, in quanto la distinzione uomo-donna è elemento essenziale della costituzione della famiglia, cellula della società. Questo approccio pare a chi scrive il più efficace per portare oltre la crisi della distinzione stessa cui ha condotto la postmodernità.3 Sul fronte sociologico l’approccio di Pierpaolo Donati alla matrice teologica della società, con la constatazione della connessione tra la rivelazione trinitaria e la possibilità di concepire un’identità relazionale, è il punto di riferimento naturale della proposta qui avanzata.4 In linea con tale prospettiva, e come premessa a quanto segue, pare essenziale chiarire immediatamente che nella presente proposta si farà riferimento costante ad una connessione implicita tra la ricerca metafisica dell’uomo e la prospettiva religiosa. Quello che si vorrebbe evidenziare è che ogni uomo deve necessariamente rispondere alla domanda convergente che sottostà sia all’ambito filosofico sia a quello religioso: cosa vale veramente la pena? Cosa è più vero nella vita? Su cosa conviene investire nella propria esistenza? Anche se una persona non si occupa esplicitamente di metafisica, o se nemmeno desidera affrontare la questione religiosa, la sua vita costituisce in sé una risposta a tali interrogativi, i quali erano alla base anche della ricerca filosofica classica. Platone e Aristotele non cercavano il primo principio per un mero esercizio intellettuale, ma perché volevano vivere davvero. La filosofia è sempre stata ricerca di salvezza e, per questo, ha sempre avuto una componente essenzialmente religiosa, anche se implicita.5 3
4 5
Ha scritto Pierpaolo Donati: «Certo, una società è fatta così come è fatta la famiglia: se la famiglia si spezza, anche la società si spezza; se la famiglia diventa liquida, anche la società diventa liquida. Non possiamo lamentarci della frammentazione della società, delle ingiustizie sociali, della povertà, della mancanza di rispetto della dignità umana, se tutto questo proviene dal fatto che la legislazione e le politiche sociali non promuovono la famiglia, ma invece sostengono stili di vita che producono precisamente quei mali sociali» (Pierpaolo Donati, La famiglia. Il genoma che fa vivere la società [Soveria Mannelli: Rubbettino, 2013]: 9). Cfr. Id., La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010). Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (Torino: Einaudi, 2005).
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Giulio Maspero
Quando il primo principio – ciò che veramente è in pienezza – viene individuato nell’idea del bene, la contemplazione del bene e del bello è indicata quale via alla pienezza della vita, come avviene con Platone. Se il primo principio viene identificato con il pensiero, allora la via alla felicità passa dalla dimensione intellettiva, secondo quanto suggerisce Aristotele. E ogni uomo, volente o nolente, risponde a tali domande, in un modo che configura radicalmente il suo sguardo sul mondo. Se la scelta esistenziale cade sul potere come realtà più fondamentale, allora i mezzi e i metodi che portando ad esso saranno l’oggetto principale dell’attenzione. Analogamente con il denaro, il sesso, il successo accademico, la scienza o la famiglia. Tutto sarà illuminato dalla risposta (metafisica) alla domanda (religiosa) su cosa vale veramente la pena, cosa è in pienezza nell’universo della propria esperienza. Quello che qui si cercherà di proporre è cosa significa per il cristiano contemplare il rapporto uomo-donna alla luce dell’assunzione che il primo principio di ogni cosa è la Trinità. 2 2.1
Pars (apparentemente) destruens Ratzinger
Tale percorso appare, però, fin da subito arduo, in quanto l’esperienza fondante di Israele nel suo incontro con Dio è la radicale trascendenza che Lo caratterizza. Nella Scrittura è teologicamente molto chiaro che il vero Dio non ha origine da una teogonia, ma è eterno e superiore alla creazione, in quanto unico principio di ogni cosa. La differenza rispetto alle divinità pagane dei popoli vicini ad Israele è radicale: le divinità femminili, legate proprio alla generazione, vengono negate in modo assoluto. La potnia e ogni presenza di figura materna relativa alla terra è assolutamente esclusa. Così, da una prospettiva di storia delle religioni, Joseph Ratzinger scrive: «Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia 169
Non c’è due senza tre
anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. “Madre” nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio».6 La ragione, secondo lo stesso autore, è proprio l’insufficienza del linguaggio umano, legato anche alla poligamia, per esprimere la natura trascendente di Dio. Così i culti della fertilità, con il loro abituale riferimento alla prostituzione sacra, sono soppiantati della connessione tra monoteismo e matrimonio-alleanza. L’analisi del teologo tedesco è qui propriamente ontologica. Dio, chiaramente, non è né uomo né donna, ma è il Creatore di entrambi. Proprio la trascendenza implicata dalla creazione è la ragione più profonda della negazione della possibilità di applicare la terminologia femminile e materna a Dio. Questa, infatti, è intrinsecamente connessa al politeismo conducendo di necessità a un offuscamento della distinzione e differenza fondante tra il Creatore e la creatura. Per il pensiero giudeo-cristiano, infatti, il mondo non è emanato «dal grembo materno dell’essere».7 Al contrario la paternità poteva essere utilizzata per esprimere la pura trascendenza divina. Qui entra in gioco la prospettiva metafisica, poiché la madre, in quanto origine della vita, significa per l’uomo sempre identità originaria. Il padre, invece, per la sua posizione relazionale rappresenta, fin dalle esperienze prenatali, il mondo esterno, l’oltre del reale. Quindi, a livello simbolico, la dinamica generativa della natura umana induce una connessione tra la madre e l’identità, da una parte, insieme a quella tra il padre e la differenza, dall’altra. Il padre in molte culture antiche tagliava il cordone ombelicale, così come era lui a separare il figlio dalla madre introducendolo all’iniziazione che faceva di lui un uomo adulto, nel caso del maschio, o concedendo la mano della figlia, nel caso della donna. La prospettiva di Ratzinger nel testo citato è contemporaneamente ontologica, liturgica e biblica. Per questo conclude: «nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, 6 7
Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret I (Milano: Rizzoli, 2007): 170. Ibidem.
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sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto».8 Differenza e identità sono dunque i riferimenti ontologici fondamentali che Ratzinger riconosce essere alla base della domanda sul rapporto tra la maternità e Dio. Da qui emerge chiaramente il primato della paternità come prospettiva necessaria per approssimarsi alla relazione tra l’uomo e il mistero divino. Tutto ciò sembra allontanare ulteriormente la possibilità di rinvenire una qualche connessione teologicamente valida tra la distinzione uomo-donna e la Trinità. 2.2
Agostino
Agostino, fonte privilegiata di Ratzinger, rinforza tale percezione. Nel capitolo XII del De Trinitate egli tratta esplicitamente la possibilità di connettere la famiglia al Dio uno e trino, giungendo a una conclusione nettamente negativa. Fulcro del suo ragionamento è l’affermazione che non ogni trinità che si può rinvenire a livello antropologico è di per sé immagine di Dio, in quanto quest’ultima si può dare propriamente solo nell’ambito puramente spirituale della natura umana.9 La posizione dell’Ipponate non lascia spazio alcuno, ponendosi anche in contrapposizione esplicita con diversi autori a lui precedenti:10 «Per questo non mi sembra possibile sostenere l’opinione di coloro che ritengono di poter rinvenire la trinità dell’immagine divina in tre persone al livello della natura umana, come si dà nel matrimonio dell’uomo e della donna (masculi et feminae) e nella loro prole. Così l’uomo (vir) rappresenterebbe la Persona del Padre e quello che da lui procede per nascita la Persona del Figlio. Dicono anche che la donna in quanto terza persona è come lo Spirito, che procede dall’uomo (viro), senza essere suo figlio o figlia, sebbene la prole nasca da lei attraverso il concepimento».11 8
Ivi, 171. Cfr. Agostino, De Trinitate, XII, 4.4. 10 Cfr. Ireneo, Adversus haereses. 1, 30, 1; Mario Vittorino, Adversus Arium 1, 57, 7 - 58, 14. 11 Agostino, De Trinitate, XII, 5.5. 9
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Nel commentare Gn 1, 26-27, Agostino interpreta l’aggettivo possessivo in prima persona plurale che accompagna l’endiade “immagine e somiglianza” come riferimento a tutta la Trinità applicato al singolo uomo, in modo tale da escludere la possibilità di porre in parallelo Adamo con il solo Padre.12 Invece è lo spirito umano a portare impressa l’immagine della Trinità divina, attraverso l’analogia psicologica che connette la mente, l’intelletto e la volontà di ciascuno al Padre, al Figlio e allo Spirito. Così le relazioni mutue delle Persone divine richiamano la dinamica immanente dell’uomo: le processioni delle facoltà spirituali sono lette, dunque, alla luce delle processioni divine. Dalla prospettiva agostiniana, se l’immagine della Trinità fosse nella triade dell’uomo, della donna e del figlio allora essa non sarebbe autenticamente costituita prima del concepimento e della nascita del primogenito di Adamo ed Eva.13 Anche 1 Cor 11, 7 entra in gioco in questo momento, poiché il divieto di velarsi il capo rivolto all’uomo in quanto immagine di Dio pone una distinzione rispetto al comando contrario che riguarderebbe la donna, definita nel testo paolino «gloria dell’uomo».14 L’argomento esegetico è utilizzato da Agostino per mostrare l’impossibilità di collegare la singola persona umana nella propria specificità sessuale alla singola Persona divina. Immediatamente, infatti, egli chiarisce che anche la donna è immagine di Dio, ma per la dimensione spirituale della sua anima che l’accomuna all’uomo e non in quanto donna.15 Il principio conclusivo non può essere più netto e chiaro: «ubi sexus nullus est, ibi factus est homo ad imaginem Dei (Gn 9, 6), ubi sexus nullus est, hoc est in spiritu mentis (Ef 4, 23) suae».16 Quindi in sintesi estrema si può dire che la dottrina agostiniana esclude che una trinità di persone umane possa essere immagine della Trinità, anche nel caso in cui le loro relazioni reciproche siano fondate su processioni e rapporti di origine similmente a quanto avviene per le tre 12
Cfr. ivi, 6.6. Cfr. ivi, 6.8. 14 Cfr. ivi, 7.9. 15 Cfr. ivi, 7.10-12. 16 Ivi, 7.12. 13
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Giulio Maspero
Persone divine. Per quanto possa apparire poco moderno o antisociale, la presenza del tema nel De Trinitate rivela, tuttavia, l’importanza della questione. L’elemento dogmatico fondamentale è il salto ontologico assoluto che si deve dare per passare dall’uomo a Dio. Il Creatore e la creatura sono separati da un abisso ontologico che impedisce ogni possibile proiezione dal basso verso l’alto. L’attenzione esegetica stessa, dimostrata da Agostino, mira a leggere l’uomo alla luce della Trinità, senza cadere mai nel viceversa. Così, anche nell’ambito analogico da lui accettato, cioè al livello dell’immagine trina impressa nell’anima razionale della singola persona, tale parallelismo continua a non dir nulla su Dio assolutamente eccedente, ma offre uno squarcio rivelativo fondamentale sull’uomo e il suo valore. Quindi, la dottrina esposta, da una parte, afferma la possibilità di rinvenire una relazione tra l’essenza divina con la sua immanenza e il singolo uomo, per l’analoga struttura delle sue facoltà interiori, dall’altra, esclude la possibilità che la differenza sessuale possa avere a che vedere con l’immagine divina impressa nell’uomo. L’ontologia trinitaria e lo sviluppo della posizione agostiniana che si propone di seguito non vuole tracciare connessioni indebite o introdurre nessi necessitanti tra l’ontologia creata e quella eterna, ma solo esplorare la ricchezza racchiusa nella verità rivelata che il vero Ipsum Esse Subsistens è il Dio uno e trino insieme al riflesso di ciò nella creazione, la traccia trinitaria nel mondo e nell’uomo. Il movimento è, dunque, sempre dall’alto verso il basso, non dal basso verso l’alto: una volta che siamo stati introdotti dalla rivelazione, attraverso l’incontro con Cristo, al Mistero di Suo Padre, della Sua Filiazione e del Suo Spirito, possiamo rileggere tutto in questa luce. 3 3.1
Pars (essenzialmente) construens Gregorio di Nissa
Per Agostino, dunque, l’immagine trinitaria è impressa a livello di natura razionale dell’uomo e la differenza sessuale è assolutamente 173
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esclusa da ogni connessione con essa. Come ha osservato Piero Coda, ciò rappresenta anche un limite dell’approccio del grande Ipponate, che così elimina ogni dimensione sociale dall’immagine trinitaria nell’uomo.17 Eppure il salto ontologico difeso da tale posizione si rivela elemento essenziale anche per una ricomprensione dell’immagine in chiave sociale.18 Gregorio di Nissa, alla fine del secolo IV, aveva dedicato un’opera alla questione del rapporto tra la Trinità e un qualsiasi gruppo composto da tre uomini, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.19 Evidentemente si trattava di una critica ricorrente che sarà poi ripresa anche dalla polemica islamica. La posizione del Nisseno sulla differenza sessuale è complessa e tema discusso dagli esperti in letteratura. Da una parte egli deve reagire alle tendenze encratite del tempo che, in vista di un ascetismo esasperato, negavano il matrimonio e, quindi, il valore della differenza sessuale.20 Tuttavia, la dimensione escatologica, essenziale nel suo pensiero, sembra in alcuni punti mettere in ombra la distinzione uomo-donna, indicando che il piano originario di Dio prevedeva una generazione simile a quella degli angeli. La riproduzione sessuale analoga a quella degli animali sarebbe, invece, legata alla previsione da parte di Dio della caduta dei progenitori.21 Piuttosto che essere soggetta a influssi neoplatonici, la 17
Cfr. Piero Coda, Dalla Trinità: l’avvento di Dio tra storia e profezia (Roma: Città Nuova, 2011): 469. 18 Su questo punto di veda Kathryn Tanner, Social Trinitarism and its Critics in Giulio Maspero, Robert J. Wozniak (eds.), Rethinking Trinitarian Theology: Disputed Questions and Contemporary Issues in Trinitarian Theology (London-New York: T&T Clark, 2012): 368-386. 19 L’opera è l’Ad Ablabium, per un commento si veda Maspero, La Trinità e l’uomo (Roma: Città Nuova, 2004). 20 Cfr. Lucas F. Mateo-Seco, voce Matrimonio, in Mateo-Seco, Maspero, Gregorio di Nissa. Dizionario (Roma: Città Nuova, 2007): 379-381. 21 Cfr. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, XVI e XVII: PG 44, 188-192. Si veda Peter C. Bouteneff, “Essential or Existential: The Problem of the Body in the Anthropology of St. Gregory of Nyssa”, in Hubertus R. Drobner, Albert Viciano (eds.), Gregory of Nyssa: Homilies on the Beatitudes (The Eighth International Colloquium on Gregory of Nyssa) Congress Held in Paderborn 14-18 September 1998 (Boston: Brill, 2000).
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posizione nissena mira a superare la connessione necessaria dell’unione sponsale e della procreazione con la ferita, per come esse si danno nella condizione attuale dell’uomo.22 Si tratta dunque della distinzione tra sessualità e genitalità, sviluppata a partire da quanto si dice nel Vangelo, ad esempio, laddove Gesù risponde all’obiezione dei Sadduccei sulla sposa dei sette fratelli dicendo che «Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo».23 Per questo, diversi autori, più recentemente, sostengono una lettura alternativa del pensiero nisseno, in base alla quale la differenza sessuale permarrebbe invece anche nell’eschaton.24 Senza entrare qui in discussioni tecniche, ciò che si vuole mostrare di seguito è come la distinzione netta tra il Creatore e la creatura, fondamento di tutta l’architettura teologica di Gregorio e base delle affermazioni agostiniane già viste, permetta, in realtà, una rilettura teologica delle determinazioni relazionali dell’uomo, alle quali appartengono sia la molteplicità personale sia la differenza sessuale. Infatti, il gap infinito tra Dio e il mondo è il fondamento ontologico della possibilità di ripensare tale differenza come relazione, in quanto il mondo stesso è creatura, cioè ha avuto origine da Dio. Questi ha tratto ogni cosa dal nulla per puro amore, quindi attraverso un atto di volontà che nasce dalla Sua stessa intimità e la dischiude. Ciò indica che la sorgente in qualche modo ha lasciato traccia nei suoi effetti. Questo non avverrebbe nel traboccare necessario cui facevano riferimento le teorie gnostiche e neoplatoniche.25 Nella teologia cappadoce, infatti, la struttura ontologica dice molto di più, in quanto tutta la risposta alla critica ariana, cioè a quegli eretici che consideravano il Figlio una so22
Nella teologia cappadoce l’approccio alla bontà del creato e, quindi, del matrimonio è chiaramente presente. Si veda ad esempio l’affermazione di Gregorio di Nazianzo: «Non ci sarebbero celibi se non ci fosse matrimonio» (Gregorio di Nazianzo, Oratio in Mattheum 19, 1-12, PG 36, 293). 23 Mt 22, 29. Cfr. anche Mc 12, 25 e Lc 20, 34-36. 24 Cfr. John Behr, “The Rational Animal: A Rereading of Gregory of Nyssa’s De Hominis Opificio”, Journal of Eastern Christian Studies 7 (1999): 219-247. 25 Si veda Gregorio di Nazianzo, Oratio 29, 2 (SC 250, p. 180) e il parallelo in Plotino, Enneades V, 1, 6.
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stanza diversa dal Padre e a Lui inferiore, si gioca sulla ricomprensione dell’azione divina nel mondo alla luce dell’unità e della distinzione del Padre, del Figlio e dello Spirito. In termini tecnici ciò si indica come connessione tra immanenza ed economia: la prima è la dimensione interna dell’essenza divina nella quale si distinguono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, dimensione conoscibile solo attraverso la rivelazione; la seconda indica, invece, l’agire divino al di fuori di sé. Ciascuna Persona è lo stesso unico Dio, Creatore, dal quale ha origine ogni cosa. E ciascuna Persona lascia la propria traccia unica nell’unica azione, in modo tale che, per chi già ha conosciuto i tre attraverso l’incontro con Cristo, è possibile riconoscere le caratteristiche personali di ciascuno anche nella storia e nel mondo.26 L’agire divino è segnato dalla dimensione personale che in esso si esprime proprio perché è libero e non meramente necessario: in tal modo l’azione rivela le Persone sia nella loro unità di essenza, sia nella loro distinzione fondata sulle relazioni di origine. Attraverso la grazia del battesimo, una volta introdotti nella vita trinitaria in Cristo, si diventa capaci di contemplare trinitariamente se stessi e il mondo. La materia è così trasfigurata. E proprio la relazione gioca un ruolo fondamentale in tale ricomprensione. Si pensi a come Gregorio legge la narrazione della duplice creazione nel primo libro della Bibbia e lo si confronti con la posizione precedente di Agostino: «Quando il testo della Scrittura dice che Dio fece l’uomo, con l’indeterminatezza della designazione, indica tutto il genere umano. Infatti, ora la creatura non si chiama Adamo, come la narrazione dice nel seguito. Ma, il nome [dato] all’uomo creato non è quello particolare, bensì quello dell’insieme (οὐχ ὁ τὶς, ἀλλ΄ ὁ ϰαϑόλου). Dunque, dalla denominazione universale della natura (τῇ ϰαϑολιϰῇ τῆς φύσεως ϰλήσει) siamo indotti a ritenere che tutta l’umanità è stata compresa nella prima creazione dalla prescienza e dalla potenza divina (τῇ ϑείᾳ προγνώσει τε ϰαὶ δυνάµει). Infatti, non si deve pensare nulla di indefinito (ἀόριστον) per Dio in ciò che ha avuto da Lui origine. Ma ciascuno degli esseri ha un certo limite e una certa misura, definiti dalla sapienza 26
Cfr. Maspero, Uno perché trino (Siena: Cantagalli, 2011): 73-75.
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di Colui che ha creato. Come, dunque, il singolo uomo è circoscritto da una certa quantità corporea e misura della sua concreta individualità (τῆς ὑποστάσεως) è per lui la dimensione, che corrisponde esattamente all’apparenza esterna del corpo; così penso che tutto il pleroma dell’umanità fu racchiuso come in un solo corpo dalla potenza presciente del Dio dell’universo e che questo insegna il testo [della Scrittura] dicendo e che Dio creò l’uomo e che lo fece ad immagine di Dio».27 Il testo è estremamente ricco dal punto di vista ontologico, perché risemantizza il limite a partire dalla relazione con la sorgente infinita: per il mondo greco l’essere persona era legato all’essere circoscrivibili, delimitabili.28 Perciò Dio non poteva essere in alcuno modo personale. Il confronto tra la nuova visione ontologica che emerge dalla rivelazione cristiana e la metafisica greca si può presentare a partire da cinque coppie di aggettivi: finito – infinito determinato – indeterminato intellettuale – materiale universale – singolare astratto – concreto Nell’architettura metafisica classica la prima colonna è dialetticamente opposta alla seconda. Infatti, sia Dio sia il mondo sono finiti e appartengono ad un unico ordine ontologico, composto da una scala di gradi dell’essere connessi necessariamente e ordinati in perfezione discendente a partire dal primo principio. In tale prospettiva l’infinito è identificato con l’indeterminato e, quindi, con ciò che non può essere perfetto, in quanto privo di un principio di intelligibilità, come avviene per la materia puramente potenziale cui fa riferimento Aristotele. Per questo l’universale deve essere astratto e solo la dimensione puramente intellettuale può essere pienamente intellegibile. Si pensi alle idee platoniche o alle forme intellegibili aristoteliche. 27 28
Gregorio di Nissa, De hominis opificio, PG 44, 185BC. Cfr. Jean Daniélou, “La notion de personne chez les Pères grecs”, Bulletin des Amis du Card. Danièlou 19 (1983): 3-10.
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La dottrina della creazione e la rivelazione trinitaria introducono, invece, una struttura ontologica differente, nella quale Dio uno e trino è infinito, ma non indeterminato, intellettuale (o meglio spirituale) e non astratto, in modo tale da poter anche essere concreto e singolare nelle tre Persone divine. D’altra parte il creato è finito e materiale, ma perfetto (a meno delle conseguenze del peccato originale) per la relazione costitutiva che lo unisce al Creatore. Da qui emerge che il darsi del Dio uno e trino nella storia, il farsi carne del Figlio, non è contraddittorio rispetto alla sua essenza, in quanto la determinazione singolare e concreta espressa dal corpo non è dialetticamente opposta alla sua perfezione. Così, alla luce della concezione trinitaria la dottrina della creazione presenta l’essere persona come perfezione perfino nella dimensione materiale. Dall’ipostasi si passa al corpo e da quest’ultimo si giunge alla storia, che in tal modo cambia segno. Per questo secondo il Nisseno la natura umana ha un’intrinseca dimensione sociale e storica.29 Ma non solo, l’essere immagine di Dio riguarda anche questa natura che è stata risignificata a livello relazionale. Quello che è in gioco qui è un elemento essenziale del pensiero cristiano basato proprio sulla distinzione ontologica assoluta tra Dio e il mondo. Infatti, se Dio è trascendente rispetto all’ontologia dell’uomo, allora sarà anche eccedente rispetto alla sua capacità conoscitiva. Ciò implica che l’identificazione greca tra l’essere nella sua dimensione più autentica e l’intellegibile deve saltare. La creatura non può conoscere da sola il Creatore. Questi conosce ogni cosa, tutto è a Lui noto nel Suo Logos che è una cosa sola con Lui, eterno e assolutamente trascendente. Ma l’uomo non può conoscere la profondità trinitaria e personale di Dio con le sole sue forze e, per questo, non può cogliere da solo in tutta la sua pienezza la verità del mondo. Infatti, l’origine del creato, e quindi anche quella del corpo, va cercata dentro Dio stesso, nella sua dimensione trinitaria immanente, e non può più essere dedotta necessariamente dal pensiero 29
Cfr. Maspero, “Ontologia trinitaria e sociologia relazionale: due mondi a confronto”, PATH 10 (2011): 19-36.
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dell’uomo a partire dall’osservazione esterna. Se l’uomo è immagine di Dio e Dio è uno e trino, allora l’intelligibilità dell’uomo, compresa la sua dimensione corporale, andrà ricercata nella relazione con la Trinità. In altri termini, il senso del mondo, della storia e del corpo dell’uomo si situa al livello della persona e non solo a quello della natura. Dalla necessità ci si sposta nell’ambito della libertà. La forza della distinzione ontologica è tale e il rinnovamento epistemologico così radicale che Gregorio di Nissa può permettersi, sulla scia di un approccio molto attento e positivo rispetto alla dimensione materiale condiviso con Basilio e Gregorio di Nazianzo, di rileggere relazionalmente il corpo umano. Così, nel De hominis opificio, il Nisseno muove da una considerazione fenomenologica ante litteram: «L’uomo ha una posizione eretta, è ritto verso il cielo e guarda in alto. Tali caratteristiche indicano signoria e la sua dignità regale. Il fatto che tra gli esseri solo l’uomo è così, mentre i corpi di tutti gli altri sono rivolti verso il basso, mostra chiaramente la differenza di dignità tra coloro che sono sottoposti al suo dominio e il potere che li assoggetta».30 Ciò viene connesso immediatamente alla possibilità di liberare gli arti superiori dalla funzione svolta dai piedi, in quanto la posizione eretta richiede solo due appoggi e non quattro. Ma questo è il passaggio essenziale che, secondo Gregorio, ha permesso lo sviluppo del linguaggio. Non solo perché le mani sono così in grado di rappresentare le parole attraverso lettere,31 ma ancora più radicalmente perché hanno liberato la bocca dalla necessità di dover frantumare il cibo, in modo tale che le fauci e la lingua hanno potuto assumere una configurazione che permette l’articolazione della parola: «Dunque, poiché l’uomo è un animale caratterizzato dal logos (λογιϰόν), era appropriato che la struttura del suo corpo fosse conformata per l’uso del logos».32 La traduzione intenzionalmente lascia il termine logos non tradotto, in quanto al significato ovvio di parola si sovrappone implicitamente e inscindibilmente uno spettro semantico che va dal discorso al pensiero. 30
Gregorio di Nissa, De hominis opificio, 8, PG 44, 144AB. Cfr. ivi, 144BC. 32 Ivi, 148B. 31
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La lettura di Gregorio sembra davvero ardita perché, da una prospettiva quasi evolutiva, evidenzia come in assenza di mani il viso dell’uomo sarebbe rimasto simile al muso degli animali. Labbra dure, lingua forte e fauci aguzze sarebbero stati necessari per la raccolta e consumazione del nutrimento. Invece, la posizione eretta si è tradotta nella possibilità di utilizzare gli arti superiori per tutti questi altri compiti, permettendo alla bocca di sviluppare la capacità di modulare il suono: «Dunque, le mani si dimostrano proprie della natura dotata di logos e così il Creatore mediante di esse ha concepito [per l’uomo] la possibilità del logos».33 La scelta nella non-traduzione di logos vuole anche impedire una proiezione anacronistica della concezione linguistica del pensiero che è stata sviluppata dalla modernità. Il punto è delicato e cruciale insieme, perché tocca proprio la distinzione netta tra Dio e il mondo, vista nella sezione precedente. Logos è termine che indica la seconda Persona della Trinità e che nello stesso tempo assume una teoria di significati che si estendono da causa fino a numero, da parola a discorso, da pensiero a ragione, distinzione, quest’ultima, che la modernità non riesce più a cogliere. Invece per Gregorio di Nissa la questione in gioco è cruciale, in quanto riguarda l’architettonica della sua ontologia: se Dio è uno e trino, quindi è caratterizzato da un’immanenza a noi inaccessibile senza la rivelazione, immanenza nella quale il Logos è univocamente identificato con il Figlio del Padre nella perfezione del loro rapporto costituito dalla generazione eterna, è possibile riconoscere nel logos umano e nella sua analoga immanenza una parte essenziale dell’immagine divina impressa nell’uomo.34 E ciò è “logico” in quanto il Logos divino è colto trinitariamente come pura relazione al Padre in modo tale da indurre una ricomprensione analogica del logos umano, per la quale la dimensione relazionale e la conseguente radicale apertura diventano elementi essenziali.35 33
Ivi, 149A. Cfr. ivi, 149BC. 35 Si veda Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013). Per una introduzione, si rimanda al mio intervento nell’Expert Meeting del 2015: Univers(al)ità: ontologia trinitaria e ricerca interdisciplinare, in 34
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In altri termini, la ricomprensione della densità ontologica della relazione ha permesso al Nisseno di rileggere il corpo ad un livello più profondo di intellegibilità che era precluso allo sguardo greco. L’atto dell’intus-legere anche la dimensione materiale è fondato proprio nella relazione fondante che unisce il dentro dell’uomo al dentro di Dio. Di per sé non ci sarebbe nulla di nuovo rispetto a quanto visto nell’analogia psicologica di Agostino il quale identificava la parte razionale con la sede dell’immagine. Ma l’ulteriore elemento fondamentale qui presente è la connessione con il corpo, con la materialità. L’immagine divina non è costituita dal corpo, ma lo conforma, lo modula, tanto da esprimersi in esso. Secondo il Nisseno, l’uomo è l’unità di anima e di corpo, fino all’estremo che ogni lavoro, anche il più materiale, può essere cammino di unione con Dio.36 La dimensione fisica e storica non è più accessoria, ma essenziale per arrivare a Dio grazie all’incarnazione del Logos. Così gli angeli stessi non possono accedere alla conoscenza della Trinità se non attraverso il Corpo di Cristo che è la Chiesa.37 3.2
Monoteismo del corpo
Tutto ciò è connesso a quello che Leonardo Lugaresi ha definito il monoteismo del corpo come opposto al politeismo delle idee: si possono pensare molte cose diverse, ma poi ciascuno di noi nella sua realtà fisica è solo in un modo determinato.38 Nella mente posso pensare di essere alto o basso, ma il mio corpo avrà un’unica altezza specifica. Così l’uomo pagano proiettava nei miti le diverse concezioni della divinità, mentre Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione. Un dialogo tra teologia, filosofia e scienze sociali (Roma: ROR Studies Series, Edusc, 2016): 73-111; specialmente 75-79. 36 Cfr. Gregorio di Nissa, Ad Apollinarem, 48. 37 Cfr. Id., In Canticum, 8: GNO VI, 253,8-257,5. 38 Cfr. Leonardo Lugaresi, Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica del politeismo contemporaneo, in Angela Maria Mazzanti (a cura di), Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità (Bologna: ESD, 2009): 282-347, qui 314-315, n. 65.
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il monoteismo ebraico-cristiano parla di un’unicità che si realizza nella singolarità storica dell’alleanza e degli incontri dell’Altissimo con uomini concreti nella storia della salvezza. La dimensione storico-corporale è qui al servizio della rivelazione teologica dell’unicità di Dio. Questa è la base anche della necessità di abbandonare la poligamia connessa da un punto di vista religioso proprio al politeismo. Per l’ebreo, invece, vige la connessione «un solo Dio = una carne sola».39 Il punto essenziale è che in una architettura ontologica costituita da un solo ordine finito che comprende Dio e il mondo, come avviene ad esempio nella concezione aristotelica, l’essere più autentico e il pensiero coincidono. L’intelligibilità è a priori e intrinseca, rendendo la materia e la storia, con la loro determinazione e limitatezza, elementi dialettici rispetto alla pienezza dell’essere stesso sottoposto all’identità tra intellegibile, universale e astratto. Per Gregorio, invece, proprio il gap ontologico che impedisce ad Agostino di accostare la distinzione sessuale a Dio, in quanto l’ordine creaturale è da una prospettiva metafisica assolutamente separato dalla Trinità, permette di rileggere relazionalmente la dimensione corporale dell’uomo in quanto essa esprime il livello ontologico dell’esistenza che, nella prospettiva trinitaria, deve essere accostato all’essenza. Dio è ed è in tre Persone relazionalmente distinte, così il corpo umano è ed è in relazione costitutiva con altre persone che sono altri corpi, in quanto il logos rinvia sempre all’alterità dell’interlocutore e ad un mondo extra-mentale. Una realtà identificata con il pensiero può essere quaedammodo omnia, invece la dimensione materiale è determinata, finita, concreta (quindi non astratta). Così il corpo, con la sua singolarità, non poteva essere, per i greci, trasparenza del divino. Per questo l’incarnazione è assolutamente inconcepibile nella prospettiva pagana, ma scandalo e follia. Ciò che, invece, permette al Nisseno di rileggere il corpo dalla prospettiva del logos e, quindi, dell’immagine divina, è la relazione tra il Creatore e la creatura. Una relazione, infatti, contemporaneamente distingue e unisce, distingue senza separare e unisce senza confondere, secondo il 39
Cfr. Gn 2, 24.
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canone cristologico introdotto dal dogma di Calcedonia per esprimere il rapporto tra la natura umana e quella divina nel Cristo. Riconoscere il gap porta a prendere coscienza di ciò che separa Dio e l’uomo, ma nello stesso tempo una piena lettura trinitaria dell’ontologia implica la ricerca anche di quello che unisce l’Uno all’altro, sempre verticalmente, dal Creatore alla creatura, nella libertà più assoluta dell’amore che crea e dona. Il passo compiuto da Gregorio nell’estendere al corpo l’immagine trinitaria dell’uomo è fondato proprio a livello dell’ontologia del Dio uno e trino. Infatti, in Lui si riconosce l’unità di natura e di essenza, ma con la rivelazione cristiana contemporaneamente e inscindibilmente si prende coscienza di un nuovo piano dell’essere costituito dalla dimensione personale e relazionale. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una cosa sola, l’infinita ed eterna unica sostanza divina, ma sono anche distinti l’uno dall’altro, perché il Figlio è generato dal Padre, in modo tale da esserne l’immagine perfetta, che proprio per questo si distingue da Lui. Così lo Spirito procede distinguendosi dalle altre due Persone divine. La ragione della distinzione è la stessa dell’unione, ciò che rinvia alla molteplicità personale è lo stesso che fonda l’unità numerica della sostanza. Le relazioni di origine in questo modo distinguono e segnano le particolarità delle tre Persone divine. Ciascuna ha caratteristiche proprie che la individuano rispetto alle altre: sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito sono un unico Creatore, ma ciascuno lo è in un modo personale, in quanto l’atto creativo ha la sua origine nella prima Persona, è realizzato mediante la seconda e portato a compimento nella terza. Le immagini si moltiplicano nelle letture patristiche, come per la Luce: tutte e tre le Persone divine si identificano con essa, e con la Bellezza, la Bontà, l’Onnipotenza e ogni altro attributo, ma il Padre è come il sole, origine della luce stessa, il Figlio come il raggio e lo Spirito come lo splendore o il calore. Tutte queste espressioni sono mirate a coordinare la predicazione dell’universale rappresentato dall’attributo divino con il particolare costituito dalla dimensione personale. In questo senso la lettura teologica del corpo umano avanzata da Gregorio di Nissa compie un passo straor183
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dinario nella storia del pensiero, poiché mostra come la determinazione del corpo, il suo essere concreto e limitato, non sia più antitetico rispetto al divino, in quanto il nostro Dio è uno e trino. Ovviamente Egli non è limitato, ma la sua dimensione personale può essere espressa dalla limitatezza della materia. È questo passaggio di ontologia trinitaria che permette di riconoscere Cristo come l’universale concreto, secondo una bella espressione di Balthasar.40 Il corpo, la materia, la vita concreta di ogni uomo, non sono più estranei a Dio, perché Dio è sostanza e relazione insieme. E proprio la relazione introduce una dimensione personale in Dio che si aggiunge a quella universale. Appunto tale dimensione è quella che si può esprimere nel corpo, nel volto, nella voce. Rispetto alla metafisica classica, all’essenza si affianca l’esistenza. E questa rimanda al corpo nella sua determinazione e nella resistenza che pone all’idealizzazione e all’astrazione alle quali, anche per il peccato originale, sempre l’uomo tende. In sintesi, i diversi passaggi concettuali che portano dalla concezione metafisica classica alla prospettiva ontologico-trinitaria di Gregorio di Nissa possono essere schematizzati nel seguente modo: I) per la filosofia greca a) Dio e il mondo costituiscono un’unica realtà finita; b) la loro essenza è di per sé intelligibile, sia che si tratti dell’idea come in Platone o della forma secondo Aristotele, poiché il primo principio è universale e astratto; c) per questo, la realtà è trasparente al pensiero dell’uomo il quale da sé può conoscere Dio e il senso ultimo del mondo; d) ma allora la distinzione tra i diversi livelli di questa unica realtà non può essere realizzata se non degradando gli elementi inferiori rispetto ai superiori; 40
Cfr. Hans Urs von Balthasar, Teologia della storia: abbozzo (Brescia: Morcelliana, 1969) e Il tutto nel frammento: aspetti di teologia della storia (Milano: Jaca Book, 1990).
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e) quindi il corpo e la materia devono essere letti dialetticamente rispetto a Dio, in quanto concreti e non astraibili. II) Se Dio è uno e trino, invece, a) Dio e il mondo sono radicalmente separati perché il primo è infinito ed eterno mentre il secondo finito e contingente; b) per questo l’essenza stessa del mondo, il suo senso più profondo, li conosce solo Dio in quanto ne è il Creatore; c) ma allora si può conoscere davvero solo nella relazione con il Dio uno e trino, nel Cristo, che è il Logos incarnato; d) dunque non si ha più bisogno di opporre dialetticamente perché la relazione permette di mostrare nello stesso tempo ciò che unisce e ciò che distingue; e) così il corpo può essere riletto come espressione della dimensione personale e relazionale. Di fatti, nella prospettiva greca che conosce esclusivamente la dimensione accidentale della relazione, la possibilità di esprimere l’individuazione è connessa solo all’essenza. In questo senso dire che qualcosa è una realtà determinata implica negare che sia un’altra realtà da essa diversa in quanto sostanza. In Dio, però, tale possibilità di individuazione non basta, perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un’unica sostanza, eppure si distinguono tra di loro. I Padri della Chiesa hanno sviluppato a poco a poco il principio di individuazione relazionale, in base al quale una Persona divina si distingue dall’altra per la relazione di origine. Così il Padre non è il Figlio perché il primo non procede da nessuno mentre il secondo procede da Lui nella generazione eterna. Così lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figlio non perché sia di sostanza diversa, ma perché è la Vita, la Gloria, la Potenza, o il Dono d’amore che le prime due Persone divine eternamente si scambiano. L’identità di Ciascuno è fondata negli altri due. Ma questo nuovo modo di declinare l’identità attraverso la relazione permette di rileggere la dimensione storico-corporale, includendo anche la differenza tra uomo e donna. 185
Non c’è due senza tre
4 4.1
Pars (relazionalmente) construens Risemantizzazione relazionale
Come detto, Gregorio di Nissa non si spinge fino ad una risignificazione della differenza sessuale in chiave relazionale, ma pone le basi di quanto il Magistero ha proposto nel secolo XX. La rilettura del corpo attraverso la prospettiva relazionale permette di superare l’aporia fondamentale dell’antropologia greca, per la quale corpo e anima erano sostanze diverse, in modo tale da dover scegliere tra sacrificare il primo come elemento essenziale dell’umano o accettare una concezione divisiva dell’uomo stesso. Si noti a questo proposito che ciò che noi chiamiamo spirito è scoperta essenzialmente cristiana, in quanto il mondo greco conosceva la distinzione soma-nous, ma considerava il pneuma realtà corporale, seppur sottile e rarefatta.41 I Padri dovranno chiarire per questo che l’affermazione giovannea «Dio è pneuma»42 non implica la presenza di una dimensione corporale, secondo quanto gli stoici insegnavano.43 La rivelazione cristiana potrà così rileggere la tripartizione antropologica in termini relazionali, identificando l’uomo con la relazione di questi tre elementi, che solo insieme costituiscono un’unica sostanza. La dimensione propriamente spirituale passerà a indicare anche l’aspetto della volontà, che si affianca a quella puramente intellettuale del nous. Così per Gregorio di Nissa tutto l’uomo è impregnato di spirito, per l’unità che contraddistingue il suo essere. Anche se il corpo è elemento ontologicamente inferiore rispetto allo pneuma, non c’è nulla nel primo che non sia impregnato del secondo, in modo tale che l’umano è concepito come ponte tra la realtà spirituale e quella materiale, non perché tertium rispetto ad essi, ma in quanto contemporaneamente (quindi relazionalmente) e l’uno e l’altro. La non contraddittorietà di tale af41
Si veda, per questo, Gérard Verbeke, L’évolution de la doctrine du pneuma (Louvain: Desclée De Brouwer, 1945). 42 Gv 4,24. 43 Cfr. Origene, Commentarii in evangelium Joannis, XIII, 23, 139, 1-140, 12.
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fermazione è fondata proprio sulla possibilità di rileggere la sostanza alla luce di una dimensione ad essa immanente nella quale si possono situare le relazioni. La luce trinitaria illumina così l’antropologia.44 La persona è aperta all’universo, può entrare in comunione con tutto. E questo si fonda sulla dimensione intellettiva che conosce in un certo senso ogni cosa: io posso avere in mente un cavallo, un monte, un fiore e persino Dio. Ma per entrare in comunione con la realtà extramentale non basta l’intelletto da solo, ci vuole anche la volontà, quella volontà che si esprime nella dimensione propriamente spirituale e non solo intellettuale. La volontà, infatti, implica un rapporto diretto con l’esistenza e non solo con l’essenza: un uomo, ad esempio, può conoscere intellettualmente il male o il bene senza diventare cattivo o buono, ma nel momento in cui desidera realtà cattive o buone diventa anch’egli tale. Il corpo è stato creato per essere totalmente abitato dallo spirito, perfino nelle dimensioni più materiali, più determinate. Attraverso di esso si esprime la persona che è aperta all’universo, che è rivolta all’altro. Il desiderio di unione con il mondo non si realizza a priori, ma solo a posteriori mediante relazioni concrete con altri concreti. Gli spiriti umani entrano in comunione attraverso i corpi, sempre nell’esistenza, in quanto solo gli esistenti concreti amano. Non c’è altra strada, come non c’è altra strada per conoscere la Trinità che non sia il Cristo e la Sua storia, la Sua esistenza. Le persone umane non sono idee o forme intellegibili ipostatizzate. Il logos finito del mondo greco poteva passare solo dall’intelletto perché era rinchiuso in un ordine metafisico finito che mortificava e occultava l’infinitezza del desiderio dell’uomo, negazione di cui la tragedia è risultato. Il logos cristiano è, invece, radicalmente aperto perché immagine e traccia del Logos trinitario, cui rimanda. Così il pensiero dell’uomo è aperto all’infinito perché è spirituale, cioè è pensiero desiderante, pensiero rivolto alle stelle, al cielo. E tale apertura riceve risposta 44
Cfr. Kevin Corrigan, Evagrius and Gregory: Mind, Soul and Body in the 4th Century (London: Routledge, 2016).
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perché la volontà permette l’unione reale che si dà attraverso i corpi, attraverso la storia concreta, attraverso le relazione. Si giunge quindi al paradosso che il logos umano è capace dell’infinito proprio attraverso il corpo ed è inscindibile dal corpo nella sua identità più autentica proprio perché è immagine della Trinità. Quindi, se Agostino ha ragione nel negare la possibilità di parlare di differenza sessuale per Dio in base alla Sua radicale trascendenza rispetto al creato, nello stesso tempo la prospettiva nissena permette di vedere come l’elemento di differenza colto dall’Ipponate non sia l’ultima parola. Infatti, in ogni relazione oltre a ciò che distingue si ha anche ciò che unisce: se la dimensione corporale richiama una distinzione essenziale rispetto a Dio, nello stesso tempo la prospettiva dell’immanenza trinitaria permette di riconoscere come il corpo stesso possa riflettere la profondità relazionale dell’uomo, e quindi l’immagine divina in esso iscritta. Allora, la differenza sessuale tra uomo e donna può essere riconosciuta, alla luce delle indicazioni magisteriali e grazie ad uno sviluppo dell’ontologia trinitaria dei Padri, come immagine della differenza personale intratrinitaria proprio per l’identità relazionale che si riscontra sia per il Creatore sia per la creatura. La difficoltà di questo passaggio consiste nella necessità di mantenere il velo apofatico, il quale impedisce di affermare corrispondenze necessarie tra le Persone divine e quelle umane. Ciò implica che la distanza analogica è sempre superiore alla prossimità, come si evince dalla constatazione che in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito si identificano ciascuno con l’unica sostanza infinita ed eterna, mentre ogni uomo solo partecipa della natura umana. Così la relazione tra uomo e donna non è semplicemente immagine di quella tra il Padre e il Figlio, ma è espressione creata della perfezione relazionale dell’immanenza trinitaria, dove l’identità di ciascuna Persona è data non da una singolarità sostanziale, ma dalle relazioni di origine rispetto alle altre. Non si può, così, collegare l’uomo al Padre e la donna al Figlio o allo Spirito Santo, ma ciascun uomo e ciascuna donna, anche individualmente, sono segnati dall’immagine trinitaria nella loro identità relazionale. Infatti, l’identità del primo non può essere pensata senza quella della seconda 188
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e viceversa. L’essere l’uno o l’altra non significa solo un aspetto accidentale, perché l’essere uomini si dà in due modi di esistenza concreti, che implicano un ordinamento reciproco. E ciò è dovuto proprio alla nostra perfezione in quanto creati ad immagine del Dio uno e trino, la cui immanenza è caratterizzata dall’identità relazionale. Questo è un punto cruciale che la modernità per la crisi della sua matrice trinitaria non riesce più a vedere. Infatti, la secolarizzazione ha a poco a poco riportato verso una prospettiva greca, fondata solo sul polo identità-dialettica, senza più la possibilità di ricorrere all’identità relazionale. Si ricade, allora, nella dicotomia per la quale uomo e donna o sono sostanze diverse o hanno una differenza meramente accidentale di fatti insignificante. Con il desiderio positivo di affermare la pari dignità si termina per ridurre l’espressione “uomo e donna” a una mera endiadi, una ripetizione priva di significato. Invece, l’ontologia relazionale permette di riconoscere come l’uomo e la donna hanno radicalmente la stessa dignità perché condividono la stessa natura umana e non hanno differenza alcuna a livello di essenza. Ma nello stesso tempo l’uomo non è la donna e la donna non è l’uomo, poiché la loro identità relazionale è portatrice di un’ulteriore dimensione fondamentale che costituisce un’autentica ricchezza, senza la quale il mondo soffre. 4.2
Tre, due, uno
Alla luce di ciò si può cogliere la portata di alcune affermazioni degli ultimi Papi che da San Giovanni Paolo II a Francesco ricordano come la differenza sessuale appartenga all’immagine trinitaria iscritta nell’uomo dal Creatore. Bastino solo i più recenti insegnamenti nell’Amoris Laetitia: «La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr. Gn 1, 28; 9, 7; 17, 2-5.16; 28, 3; 35, 11; 48, 3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr. 4, 17-22.25-26; 5; 10; 11, 10-32; 25, 1-4.12189
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17.19-26; 36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: “Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo” (San Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles, 28 gennaio 1979, 2: AAS 71 [1979], 184). La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina (Ibidem)».45 Le indicazioni magisteriali non possono essere più chiare: la dimensione familiare della vita umana è parte dell’immagine divina impressa dal Creatore nella creatura. Qui diventa essenziale leggere teologicamente la connessione tra la famiglia stessa e la reciprocità dei sessi, che anche corporalmente si situa al centro della relazione uomo-donna. Per questo è fondamentale il riferimento alla generazione che Papa Francesco mette in evidenza. Anche la tradizione patristica fin da subito aveva individuato in essa un elemento costitutivo dell’immagine. Clemente di Alessandria, a cavallo tra il II e il III secolo, scriveva: «L’uomo diventa un’immagine di Dio nella misura in cui coopera con Dio alla creazione dell’uomo».46 Il riferimento alla generazione è fondamentale perché indica come la rivelazione trinitaria conduce a leggere la distinzione uomo-donna alla luce della relazione tra padre e madre, la cui valenza metafisica è stata evidenziata da Ratzinger nel testo citato nella prima parte. La presente proposta mira, dunque, a leggere trinitariamente la differenza tra uomo e donna a partire dalla coppia padre-madre che, oltre all’identità relazionale binaria, rinvia anche al “terzo” costituito dalla sorgente 45 46
Papa Francesco, Amoris Laetitia, n. 11. Clemente di Alessandria, Pedagogo II, 10, 83, 2.
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di quella vita che entrambi trasmettono. La questione fondamentale qui in gioco è ontologicamente il passaggio dal due al tre. In italiano, e probabilmente lo stesso avviene in altre lingue, un proverbio diffuso recita che “non c’è due senza tre”, da cui il titolo del presente contributo. Esso intuisce la connessione tra la coppia e la relazione, nel senso che un’autentica coppia tende a generare, portando al tre. Un uomo e una donna attraverso il loro rapporto giungono ad essere sempre più se stessi desiderando generare, cioè desiderando ridonare il dono che loro stessi sono e che nella relazione percepiscono. Dal due finito, che corre sempre il pericolo della ricaduta nel monismo di una falsa identità speculare, come per l’ermafrodito platonico47 o nel mito di Narciso ed Eco,48 si passa al tre della trascendenza, in quanto l’uomo e la donna accedono alle loro identità più autentiche e piene nel terzo, nell’altro che rinvia alla sorgente della vita, all’assolutamente Altro di Dio. Infatti, paradossalmente questo terzo è già presente nello stesso momento della costituzione della coppia, in quanto la decisione di accogliere l’uomo o la donna nella propria vita implica il riconoscimento di sé e dell’altro come di un dono, che quindi rinvia a una sorgente di bene che teologicamente è identificata con il Dio uno e trino che è tale proprio perché è Padre, Figlio e Amore. Anche a livello filosofico si può parlare di un terzo come origine dei due attraverso la loro filiazione e il rinvio ad un oltre generazionale, in questo caso intrastorico e non assoluto. Tale terzietà sorgiva fonda la terzietà della relazione come effetto emergente.49 Il punto è stato evidenziato magistralmente ancora da Joseph Ratzinger, il quale mostra come la generatività della coppia abbia luogo innanzitutto a livello della relazione che emerge ontologicamente tra l’uomo e la donna: «L’amante scopre la bontà dell’essere in questa persona, è felice della sua esistenza, dice sì a questa esistenza e la conferma. 47
Cfr. Platone, Simposio, 190cd. Si veda anche Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, IV 4.6.5. 48 Ovidio, Metamorfosi, III, 339-50. 49 Si veda, da una prospettiva teologica: Alessandro Clemenzia, Sul luogo della terzietà reciprocante, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione, 191-219.
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Prima ancora di ogni pensiero su se stesso, prima di ogni desiderio sta il semplice essere felici quanto all’esistenza dell’amato, il sì per questo tu. Solo in un secondo momento (non in senso temporale, ma reale) l’amante scopre in questo modo (perché l’esistenza del tu è buona) che anche la sua propria esistenza è diventata più bella, più preziosa, più felice. Mediante il sì verso l’altro, verso il tu, io ricevo me stesso nuovamente e posso ora in modo nuovo dire sì anche al mio io, a partire dal tu. [. . .] Questo tu è un atto creatore, una nuova creazione. Per poter vivere l’uomo ha bisogno di questo sì. La nascita biologica non basta. L’uomo può accogliere il suo io solo nella forza dell’accettazione del suo essere, che viene da un altro, dal tu. Questo sì dell’amante gli attribuisce la sua esistenza in un modo nuovo e definitivo. Egli vi riceve una specie di rinascita, senza la quale la sua nascita resterebbe incompleta e lo lascerebbe in contraddizione con se stesso».50 La relazione è proprio l’ubi di tale capacità creativa in senso analogo. In questo modo ogni io aspira a diventare pienamente se stesso mediante la scelta libera che un tu realizza nei suoi confronti confermando dall’esterno l’atto generativo che ha costituito quell’io stesso. L’asse verticale genitore-figlio viene percepito in termini di necessità e non è colto in tutta la sua ricchezza senza la relazione orizzontale con un tu che scelga quell’io nell’insieme di tutte le possibili persone di sesso diverso nel mondo. Qui la lettura ontologica della relazione risulta particolarmente feconda perché mostra come il raccordo di identità e differenza sia legato proprio al passaggio dal due al tre. Infatti il rapporto con i genitori costituisce un triangolo nel quale l’identità è ricevuta, ma rispetto al quale occorre poi differenziarsi per poter essere se stessi in pienezza. A ciò fa riferimento il comando divino di lasciare il padre e la madre.51 Il rapporto tra uomo e donna realizza questa dimensione, che si riflette sul rapporto con i genitori stessi, facendone emergere la profondità del dono. In questo senso il rapporto verticale giunge a compimento grazie a quello orizzontale e a sua volta nel rapporto 50 51
Ratzinger, Guardare Cristo (Milano: Jaca Book, 1989): 72. Cfr. Gn 2, 24.
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orizzontale è presente quello verticale. La propria identità di uomo e di donna è, infatti, segnata profondamente, nel bene e nel male, dall’esperienza di paternità e di maternità che si è vissuta come figli. La crescita della relazione tra l’uomo e la donna implicherà una ricomprensione di tale esperienza, che sarà sempre più ricca nella misura in cui sarà integrata nella relazione. Questa, infatti, è costituita ontologicamente da identità e differenza, quindi da ciò che unisce e ciò che distingue. Nella misura in cui tale integrazione cresce e la relazione uomo-donna si “trinitarizza”, cioè si fa sempre più libera e profonda, diventa naturale la generazione, che in primo luogo si gioca a livello di beni relazionali, fino alla realizzazione massima nella nascita del figlio. Ha scritto Karol Wojtyla, in un suo profondissimo, e purtroppo poco noto, pezzo teatrale: «Riflettete tutti: quanto occorre scegliere per generare! Non ci avete pensato. Per generare occorre molto più scegliere che non per creare».52 Questa inversione tra la creazione e la generazione racchiude tutta la forza dell’ontologia trinitaria, che non si ferma al gap metafisico tra Dio e il mondo (creazione), ma si spinge ad esplorare il contenuto relazionale espresso nell’atto generativo del dono di sé. Il ridonare se stessi nell’altro implica, infatti, il riconoscimento di un valore proprio che va al di là del mondo stesso e, quindi, un giudizio sul mondo stesso, sulla storia e sul proprio corpo, sulla propria identità. Si noti che quanto detto sul rapporto uomo-donna e la sua connessione con la paternità e la maternità non riguarda solo le coppie sposate, ma si estende ad ogni persona umana indipendentemente dalla situazione matrimoniale o celibataria. Infatti, se la vita dell’uomo è segnata nella sua origine dalla paternità e dalla maternità, il rapporto con il mondo composto di uomini e di donne passerà per queste “trinità” connesse le une alle altre, insieme alla scelta del senso della propria vita da cui si è mossa l’analisi del presente contributo. Ciascuno, anche se non crede o non è interessato alla metafisica, compie un’opzione di valore che lo spinge a investire la propria esistenza in un modo generativo e meno. 52
Karol Wojtyla, Raggi di paternità, in Id., Opere letterarie (Città del Vaticano: LEV, 1993): 522.
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L’analisi proposta suggerisce che il rapporto uomo-donna è sempre presente in tale determinazione nella quale si gioca la propria vita in quanto decisione sul suo valore e sulla sua fecondità. A partire dalle stesse parole di Gesù nel Vangelo secondo Matteo, dove lo scandalo degli apostoli per l’affermazione dell’indissolubilità del matrimonio riceve risposta attraverso il rimando a coloro che scelgono di essere eunuchi per il Regno dei Cieli,53 si può dire che il celibe per amore, o per una scelta di servizio, rimanda relazionalmente alla sorgente dell’amore stesso e della vita. In tal modo egli svolge il prezioso compito di “terzo” che aiuta i due sposi a dischiudersi a quella dimensione ulteriore che è proprio la sorgente della loro relazione.54 E ciò vale non solo nel caso soprannaturale, ma anche in quello esclusivamente naturale, per il quale il rinvio del “terzo” punta verso l’eccedenza del reale. Così, da tale prospettiva, sempre la persona umana si appoggia su tre “trinità” relazionali il cui rapporto implica un passaggio continuo – ma senza confusione – tra paternità, maternità, filiazione, sponsalità e fraternità: al primo triangolo padre-madre-figlio, segue quello genitoriuomo-donna, che si traduce in quello tra uomo-donna-figlio. Ancora Karol Wojtyla lo ha descritto magistralmente nella stessa opera citata, facendo dire alla donna: «In questo consiste l’irradiazione della paternità. Non è affatto una metafora, ma una realtà. Il mondo non può consistere 53 54
Cfr. Mt 19, 3-12. Da tale prospettiva il celibato sacerdotale acquista una rilevanza particolare, in quanto il maschio rinvia alla paternità divina proprio per la connessione tra differenza e trascendenza. Inoltre, e a un livello ancora più profondo, se la relazione non fosse della stessa densità ontologica dell’essenza allora sarebbe davvero difficile sostenere in termini non meramente prescrittivi anche il sacerdozio esclusivamente maschile: se la distinzione tra uomo e donna, infatti, fosse solo accidentale, l’esclusione delle donne dal ministero rischierebbe di essere intesa come arbitrio o, peggio, di essere fraintesa come affermazione di una inferiorità sostanziale. L’identità relazionale, invece, permette di mantenere la struttura simbolica, ontologicamente fondata nella relazione stessa, senza subordinare nessuno dei sessi: come il Padre è distinto dalle altre due Persone senza che queste siano a Lui inferiori, e come il Padre stesso è Padre solo in e attraverso le altre due Persone, così il sacerdote vir è tale solo attraverso la donna. Basti pensare al rapporto tra Gesù, Sommo Sacerdote, e Maria, Regina del Cielo e della terra.
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soltanto in una metafora, il mondo interiore ancor meno del mondo esteriore. Ritorniamo al padre attraverso il figlio. Il figlio poi a sua volta ci restituisce nel padre lo sposo. Non dividete l’amore. Esso è uno».55 L’appello a non dividere l’amore può essere inteso come rilettura relazionale dello stesso, in quanto ogni padre e ogni madre in primo luogo sono figlio e figlia. Per essere sposi hanno dovuto lasciare il proprio padre e la propria madre, prendendo le distanze fisiche da essi, ma ciò li porta a rielaborare nella propria interiorità la paternità e la maternità ricevute, per integrarle relazionalmente nel rapporto sponsale, che si apre così generativamente in una novità ontologica che è radicata, in primo luogo, nella relazione emergente dei due. Così ogni sposo è nello stesso tempo figlio e padre della sposa. A sua volta quest’ultima è nello stesso tempo madre e figlia dello sposo. A seconda dei momenti e delle situazioni uno dei due dovrà accogliere e curare l’altro oppure essere accolto e curato. La stessa dimensione sessuale dell’unione tra gli sposi viene illuminata dalla luce trinitaria, in quanto espressione del desiderio di comunione totale di vita, che si traduce, per quanto possibile, nella compenetrazione dei corpi, in quell’essere uno nell’altro che è l’archetipo anche del comune darsi la mano e dell’abbraccio, ma che nell’atto proprio del matrimonio è realizzato in grado eminente. Ontologicamente tale prospettiva richiede la presenza della rete relazionale seguente, come fondamento della interiorizzazione e integrazione a livello psichico (e prima ancora ontologico) dei rapporti stessi: Nella figura di sinistra si mostra la posizione esistenziale della coppia del padre (P) e della madre (M) rispetto ai loro genitori (PP e MP per il primo e PM e MM per la seconda) e rispetto al figlio (F). La figura di destra riesprime la stessa struttura in termini di relazioni, evidenziando maggiormente la ricchezza della rete. Infatti, la relazione emergente PPMP si ipostatizza nel P, analogamente a quella PM-MM rispetto a M. A questo punto la relazione P-M è in primo luogo frutto del rapporto con la sorgente, rappresentato dal triangolo bianco, che sembra non esserci, 55
Wojtyla, Raggi di paternità, 522.
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MP PM
PP
MM
M
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F
MP PM
PP
MM
M
P
F
rispetto a quelli più scuri, ma che è essenziale in quanto è dato da loro, ma è più di loro. In questo senso il triangolo grigio che dà origine a F, ipostatizzazione della relazione P-M, può essere letto alla luce del triangolo bianco come dono ridonato. La semplice analisi relazionale proposta mira solo a suggerire che l’essere stesso del mondo può essere contemplato a partire da tale rete contemporaneamente verticale e orizzontale. La forza del testo di Karol Wojtyla è proprio quella di ricondurre la connessione relazionale della dinamica triplicemente triangolare appena esposta alla sua origine trinitaria. Come il fiume dalla sorgente, di “trinità” in “trinità”, il mondo si regge sulla Paternità della prima Persona divina, radicandosi nella Trinità stessa. Parafrasando Rémi Brague si potrebbe dire che l’essere (relazionale) dell’uomo e della donna è ancré dans la Trinité.56 Teologicamente, infatti, Padre non è nome comune di persona, ma nome proprio di Persona, in quanto solo l’atto di generazione intradivino è assoluto, eterno e perfetto. Così non si dà altra possibilità di generare che non abbia in Lui il suo archetipo e la sua origine. Ma l’identità della prima Persona è fondata proprio in tale atto generativo e quindi è inseparabile dall’identità del Figlio che attraverso tale atto si riceve eternamente e perfettamente dal Padre ridonandosi a Lui, in quanto Sua Immagine perfetta. Così, tale eterno 56
Cfr. Rémi Brague, Ancore nel cielo: l’infrastruttura metafisica (Milano: Vita e pensiero, 2012).
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e perfetto donare e ridonare la Vita divina non è altri che lo Spirito Santo, Dono che unisce le due prime Persone e ne costituisce l’identità in quanto loro vincolo d’Amore. Teologicamente il riferimento trinitario al Padre come relazione sorgente di relazioni è il punto di raccordo con la prospettiva fenomenologica della sociologia relazionale di Donati, il quale scrive: «partecipando della famiglia, gli esseri umani partecipano di un fatto (essere-evento, dunque struttura latente) che li trascende».57 Così le tre forme di identità fondamentali58 possono essere ricomprese alla luce dell’ontologia sorgiva che teologicamente connette la relazione come effetto emergente con il Padre nella Trinità. Infatti, sia A = A sia A = −(−A) possono essere considerati casi concreti di A=R(A,−A), dove R è ridotta alle sue componenti elementari dell’identità come copia e della differenza come dialettica. Entrambe costituiscono una decomposizione della relazione nei suoi elementi costitutivi che dicono unità e distinzione insieme. Di per sé questi casi sono estrapolazioni, in quanto la realtà è sempre relazionale, se è vero che l’Ipsum Esse Subsistens è trinitario. L’esistenza porta ontologicamente con sé un’autentica profondità relazionale che, in quanto tale, rinvia al terzo, cioè riconduce l’identità dei due ad un terzo che non è riducibile a loro. L’identità greca e la dialettica moderna, allora, non possono darsi che a livello di pensiero, in modo tale da poter sussistere solo in un contesto ontologico che identifica l’essere con l’intellegibile, rin-chiudendo il logos in sé, come avviene appunto nel mondo antico e dall’epoca di Cartesio in poi. Ogni approccio autentico al reale, invece, si rivela efficace nella misura in cui riconosce la dimensione relazionale, per la quale l’identità data dalla relazione rinvia (relazionalmente appunto) ad un’eccedenza che è fonte (in senso ontologico e non meramente metaforico) dell’emergere della relazione stessa. Applicando ciò al rapporto tra uomo e donna, si può dire che ciascuno dei due è se stesso attraverso l’altro non in senso speculare, né in chiave 57 58
Donati, Genoma, 65. Cfr. Id., La matrice teologica, 211-216.
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dialettica, ma in quanto riferimento ad una sorgente buona di entrambi, che dona l’essere nei due modi di esistenza distinti perché l’origine stessa dell’Essere è trinitaria, cioè sussiste ontologicamente nelle tre Persone divine. In tal modo appare con forza come la differenza sessuale non è né accidentale né segno di limitatezza, ma rivela la perfezione più profonda dell’uomo nella relazione con la sorgente della vita. A livello esegetico, pare questa la ragione più profonda del fatto che nel Cantico dei Cantici lo sposo chiama sempre la sposa prima sorella.59 Quindi, dalla prospettiva dell’ontologia trinitaria “non c’è il due senza il tre” non significa semplicemente che quando si hanno due oggetti se ne desidera e cerca un terzo, come avviene mangiando delle ciliege, ma più radicalmente la prospettiva relazionale suggerisce che senza il tre non c’è nemmeno il due. E questo, in ultima analisi, rinvia all’uno, anzi all’Uno che non è semplicemente la sostanza, come la metafisica classica già pensava, ma è il Padre, la prima Persona della Trinità. Infatti, teologicamente, dire Padre e dire Trinità è lo stesso, in quanto le identità delle tre Persone divine sono relazionali. Così si può dire che il due sta ontologicamente tra l’uno e il tre. Forse questo è anche alla base di una delle più profonde intuizioni mistiche di San Josemaría Escrivá de Balaguer, il quale era solito risalire alla Trinità del Cielo passando attraverso la trinità della terra, cioè la Sacra Famiglia:60 «È giusto che nella meraviglia immensa di bellezza e di sapienza di Dio ci siano cose che sulla terra non comprendiamo. Se le comprendessimo, Dio sarebbe un essere finito, non infinito, ci starebbe nella nostra testa. Come sarebbe povero Dio! Perciò tu va da Giuseppe, Maria e Gesù e sai che Gesù è Dio, e che Dio è trino nelle Persone: Padre, Figlio e Spirito santo. E adori la Trinità e l’Unità, ami lo Spirito Santo amando Gesù Cristo».61
59
Cfr. Ct 4, 9-12 e 5, 1. San Josemaría Escrivá, meditazione Consumados en la unidad, citata in Salvador Bernal, Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer (Milano: Ares, 1985): 360. 61 Id., risposta ad una domanda in Argentina, 14 giugno 1974: Catequesis en América, I, 449 (AGP, Biblioteca, P04). 60
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Il testo può costituire come una sintesi del percorso proposto e mostra, in un certo senso, l’origine stessa e il primo elemento della catena relazionale rinvenuta attraverso la presente analisi ontologico-trinitaria come struttura più profonda della creazione. Si vuole qui mettere in evidenza la profondità teologica delle parole di San Josemaría, che parte dall’apofatismo, cioè dall’affermazione dell’eccedenza del Dio uno e trino rispetto alle nostre capacità conoscitive, per rinviare alla dimensione relazionale come unica via di accesso a Lui. La sguardo contemplativo si sofferma su quello che è come il punto di innesto dell’economia nell’immanenza, attraverso il quale la Trinità del Cielo riversa il suo Amore e la sua Vita nel mondo nelle esistenze e relazioni concrete della trinità della terra. Il corpo e la storia vengono in tal modo trasfigurati dalla luce relazionale che la Trinità Beatissima sprigiona attraverso Gesù, Maria e Giuseppe. 5
Conclusione e proposta
La conclusione del presente lavoro aspira ad includere anche una dimensione propositiva a livello operativo. Infatti, la struttura ontologica tracciata, che dalla comunione tra la Trinità del Cielo si irraggia nella struttura “trinitaria” della relazione generativa dell’uomo e della donna, suggerisce l’importanza della cura delle reti di famiglie. Se l’Essere stesso, infatti, è “Famiglia” e si dà all’uomo attraverso una concreta famiglia, la pienezza dell’essere e, quindi, il benessere delle famiglie sarà legato proprio alla ricchezza relazionale che la struttura sia orizzontale sia verticale illustrata può assicurare. E in un momento di crisi, quando più è facile che la singola famiglia sia ferita, la rete sia naturale sia soprannaturale diventa ancor più essenziale, in quanto “luogo” reale dove l’identità relazionale dell’uomo, della donna e del figlio viene custodita e costantemente rigenerata. Il mondo greco e la modernità non possono “vedere” tale realtà, perché sono intrappolati in un pensiero finito che conosce solo l’individuazione sostanziale, cioè fondata esclusivamente sulla correlazione tra identità e dialettica, perché senza relazione ontologica si può differenziare l’i199
Non c’è due senza tre
dentità solo con la dialettica. In tale contesto la relazione uomo-donna viene ridotta necessariamente al livello meramente accidentale. In questo sia l’identità greca sia la dialettica moderna convergono. Invece, se la relazione uomo-donna stessa è fondata nell’ontologia trinitaria, allora sarà alla luce della paternità e della maternità che essa acquisterà pieno senso, in quanto la prima dice differenza, mentre la seconda dice identità, in modo tale che il rapporto uomo e donna potrà essere riletto come autentica relazione, cioè come contemporaneo darsi di identità e differenza, rispetto alla riduzione a una delle due operata dall’approccio greco o moderno. In tal modo anche la pars destruens proposta attraverso Ratzinger e Agostino acquista un profondo significato, proprio perché preserva la differenza tra il Creatore e la creatura. Infatti per la relazione è necessario avere strumenti ontologici che permettano di dire nello stesso tempo l’identità e la differenza, l’identità che fonda la forza unitiva della relazione e la trascendenza che sta alla base della forza distintiva della stessa. In Dio questo si dà in forma infinita, sorgiva, dinamica, eterna e onnipotente. La reciprocità assoluta e l’identità sostanziale perfetta che caratterizza l’immanenza divina è, ovviamente su un altro piano rispetto all’identità relazionale che caratterizza il livello creaturale, in modo tale che il dono verticale che costituisce l’uomo e il suo amore è chiaramente asimmetrico. Tra la Trinità e il mondo c’è, ovviamente, autentica differenza ontologica, e non solo distinzione. Dio e l’uomo sono su piani ontologici diversi, tanto che il secondo potrebbe non esserci. Ma proprio per questo la creazione è dono autentico e la distanza ontologica permette di rileggere l’incarnazione come vera divinizzazione dell’uomo, con la sua dimensione corporale e storica. Così chi desidera pensare a partire dall’incarnazione deve riconoscere il gap ontologico tra Dio e il mondo proprio perché l’essere ha assunto una forma concreta e determinata. Il concreto e l’universale si sono dati insieme. Ciò ha la sconvolgente conseguenza che la materia dice qualcosa di Dio che la mente e l’anima da sole non possono dire. L’unicità del nostro Dio è espressa dall’essere che ha corpo. Così Gregorio può rileggere il 200
Giulio Maspero
rapporto tra corpo e Logos perché ha riletto relazionalmente il logos, anche se non riesce ancora ad estendere tale sguardo alla distinzione sessuale. Il Magistero più recente giunge, invece, fino a questo punto, sviluppando la stessa logica trinitaria dei Padri. Alla fine del percorso proposto si può, così, dire che la profondità della distinzione tra uomo e donna si rinviene a livello di identità relazionale, in modo tale da acquisire pieno rilievo proprio alla luce della rivelazione del Dio uno e trino. Quando, infatti, si assume uno sguardo che contempla il creato alla luce dell’immanenza trinitaria del Creatore si può riconoscere l’effetto emergente costituito dalla relazione stessa tra uomo e donna, che è così sottratta all’idealizzazione greca o alla dialettica moderna. Quest’ultima nell’esasperazione postmoderna sta conducendo all’annientamento della famiglia e, di conseguenza, a una radicale crisi ontologica. Dopo l’uccisione nietzschiana del padre, che ha segnato l’acme della modernità, si scatena nella postmodernità la lotta anche contro la madre, in modo tale da negare ogni possibilità alla grammatica dell’identità e della differenza. Senza cedere a nessuna tentazione millenarista, sembra proprio di assistere allo scontro tra il drago e la Donna narrata nel dodicesimo capitolo dell’Apocalisse.62 Di per sé esso non riguarda solo gli ultimi tempi, ma segna ogni epoca della storia della salvezza. Eppure non si può fare a meno di notare come ora il conflitto sia più manifesto.63 Per questo la direzione indicata dal Magistero, il quale ripetutamente invita a rileggere il rapporto uomo-donna alla luce della rivelazione trinitaria, pare essere questione di vita o di morte. Non si tratta di un mero esercizio accademico, in quanto il futuro dipende dalla generazione, che ha luogo proprio nella relazione tra il padre e la madre. Il futuro è generato dalla e nella relazione, così come la pace dipende radicalmente dalla possibilità di articolare nella parola, nel pensiero e nell’azione, 62 63
Si pensi all’ideologia del gender e alla pratica dell’utero in affitto. L’ultima opera di René Girard identifica l’apocalissi con una crisi mimetica globalizzata dovuta alla cancellazione di ogni differenza, crisi che richiederà il ritorno del Cristo per salvare l’uomo: cfr. René Girard, Portando Clausewitz all’estremo: conversazione con Benoît Chantre (Milano: Adelphi, 2008).
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Non c’è due senza tre
l’identità e la differenza. E proprio all’interno della relazione tra uomo e donna il figlio impara, anche in modo doloroso, la necessità di tale articolazione. In questo senso la concezione del rapporto tra uomo e donna e, in particolare, la sua relazione con la paternità e la maternità, può essere ricondotta alla Trinità stessa. E l’opzione assunta riguardo a ciò costituisce, che lo si voglia o meno, una presa di posizione sul Primo Principio e, dunque, una decisione metafisica e religiosa, come spiegato nella premessa. È urgente, quindi, lo sviluppo dell’ontologia trinitaria che si traduca in una teologia del corpo e in una teologia della storia. Infatti, ciò che rende il corpo tale rispetto alla mera materia indifferenziata è proprio il suo contenuto relazionale, così come la storia è tempo segnato dalle relazioni che determinano contemporaneamente la distinzione degli eventi e l’unità dell’insieme. Il corpo e la storia stessa parlano di una relazionalità orizzontale che in quanto effetto emergente rinvia ad una origine verticale, riportando, quindi, teologicamente verso la sorgente trinitaria di ogni cosa. Nel testo di Amoris Laetitia 11 si faceva riferimento all’amore sponsale come “scultura” vivente di Dio. Alla luce di tutto questo un’immagine che, forse, illustra meglio delle molte parole usate quanto si cerca di esprimere è l’opera di Rodin intitolata La Mano di Dio:64 in essa Adamo ed Eva vengono all’esistenza nel palmo della mano del Creatore e sono generati insieme in questo “grembo” che non è altro che quel “seno del Padre” di cui parla Giovanni alla fine del Prologo al suo Vangelo. Questa è la casa (oikia) nella quale si può sviluppare un logos che possa essere veramente relazionale, cioè aperto alla Sorgente, nella quale il Padre eternamente genera il Logos nell’Amore che è lo Spirito Santo. Ecologia (oikologia) è termine teologicamente profondo65 in quanto rinvia ad un pensiero (logos) che sappia fare casa (oikia), cioè che sappia riconoscere 64 65
L’opera risale probabilmente al 1896. Si veda, per il parallelo, con l’oikonomia: Maspero, Ontologia trinitaria e speranza: dimensione eco-nomologica della crisi attuale, in Enrico Garlaschelli, Giovanni Salmeri, Paolo Trianni (a cura di), Ma di’ soltanto una parola. . . Economia, ecologia, speranza per i nostri giorni (Milano: EDUCatt, 2013): 143-152.
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Giulio Maspero
e curare le relazioni generative. La prima e più necessaria ecologia è, dunque, proprio il pensare la relazione, la “logica” della relazione. E tutta la storia dell’uomo è sospesa tra due relazioni di un uomo e una donna, delle quali la prima si lascia trascinare lontano dalla sorgente trinitaria cadendo nella dialettica e perdendo la “casa” più autentica della persona umana, cioè quel luogo dove è stata creata, quel palmo della mano del Padre. La seconda, invece, costituita da Cristo e Maria riporta tutto il mondo al Padre stesso, riunendo ogni cosa alla Sorgente dell’Essere. Così ogni rapporto uomo-donna è radicato trinitariamente in quello tra Cristo e Maria, Maria che è donna per sempre e Gesù, vero Dio e vero uomo, e per questo per sempre uomo.
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La relazione uomo-donna tra natura e cultura Sergio Belardinelli (Università di Bologna)
Non ho nessuna competenza per discutere la relazione di Giulio Maspero al livello che le è proprio, ossia quello teologico, tuttavia mi pare che la sua lettura del rapporto uomo-donna alla luce del mistero trinitario rappresenti un arricchimento importante per la prospettiva sociologica relazionale di Pierpaolo Donati, specialmente per quanto riguarda la risignificazione, trinitaria e relazionale, della natura e della corporeità, dietro alla quale vedo anche una decisiva risignificazione di uno dei problemi più urgenti del nostro tempo: il rapporto tra natura e cultura. Premesso che Dio, come dice Maspero all’inizio del suo testo, «è sempre eccedente rispetto alla nostra capacità di descrivere e formulare il suo mistero»; premessa la radicale trascendenza di Dio, quindi la radicale differenza ontologica tra Dio e mondo, è proprio nel mistero trinitario di Dio che si mostra al meglio il carattere relazionale della natura in generale, dell’uomo, come pure del rapporto uomo/donna. A guidare le riflessioni di Maspero su questo punto sono soprattutto Agostino e Gregorio da Nissa. Il primo è importante per aver chiaramente collocato la somiglianza dell’uomo con Dio a livello dello spirito e delle sue facoltà (la mente, l’intelletto e la volontà), piuttosto che al livello della triade padre-madre-figlio. In questo senso Adamo è “immagine e somiglianza” della Trinità intera, non del solo Padre. Il che significa che la singola persona umana, nella sua specifica sessualità, non può essere collegata a una singola persona divina. «Per Agostino – scrive Maspero – l’immagine trinitaria è impressa a livello di natura razionale dell’uomo e la differenza sessuale è assolutamente esclusa da ogni connessione con essa». 205
La relazione uomo-donna tra natura e cultura
Diversa invece è la posizione di Gregorio da Nissa, il quale, muovendo anch’egli dalla netta distinzione tra creatore e creatura, giunge tuttavia a una lettura teologico-relazionale delle determinazioni della persona umana, alle quali appartengono sia le facoltà spirituali, sia il corpo e la differenza sessuale. Tutto il creato e l’uomo nella sua interezza storica e naturale, quindi anche sessuale, trovano insomma nel Dio trinitario la loro origine, e sebbene l’immagine divina non sia costituita dal corpo, tuttavia lo modula e in esso, nelle sue attività, si esprime. Come dice Maspero, «proprio il gap ontologico che impedisce ad Agostino di accostare la distinzione sessuale a Dio, in quanto l’ordine creaturale è metafisicamente assolutamente separato dalla Trinità, permette (a Gregorio) di rileggere relazionalmente la dimensione corporale dell’uomo in quanto essa esprime il livello ontologico dell’esistenza che, nella prospettiva trinitaria, deve essere accostato all’essenza». Sta qui, in fondo, il senso di quella risignificazione trinitaria del corpo e della natura di cui dicevo sopra, grazie alla quale corporeità e natura non esprimono più qualcosa di inferiore, ma la concreta determinatezza della persona umana immagine di Dio. L’avere un corpo, essere per questo concreti e limitati, non appare più antitetico al divino. Il Dio uno e trino non può essere ovviamente limitato, ma la sua dimensione personale, quindi relazionale, può esprimersi ormai anche nella limitatezza della materia e della corporeità. Proprio perché Dio è sostanza e relazione, la nostra natura corporale non è più estranea a Dio. In questo modo, come scrive Maspero, «il senso del mondo, della storia e del corpo dell’uomo si situa al livello della persona e non solo a quello della natura. Dalla necessità ci si sposta nell’ambito della libertà». Quanto alla relazione tra uomo e donna, questa prospettiva trinitaria nissena, al pari di quella agostiniana, non consente che si associ l’uomo al Padre e la donna al Figlio o allo Spirito Santo, ma rende possibili due passaggi di fondamentale importanza per l’approccio relazionale: in primo luogo sia l’uomo che la donna, «anche individualmente, sono segnati dall’immagine trinitaria nella loro identità relazionale»; in secondo luogo, l’essere uomo o l’essere donna «non significa solo un aspetto accidentale, perché l’essere uomini si dà in due modi di esi206
Sergio Belardinelli
stenza concreti, che implicano un ordinamento reciproco». Inutile dire quanto questa risignificazione trinitaria e relazionale della differenza uomo-donna sia preziosa per una cultura, quale è la nostra, sempre più incapace, e non da oggi, di dare il giusto significato alla suddetta differenza, interpretandola ora come differenza di “sostanza”, ora come differenza indifferente. Emblematica in proposito l’odierna cultura del gender, la quale riduce la differenza uomo-donna a fatto puramente accidentale, dipendente addirittura dalle scelte dell’interessato e, come tale, gestibile a piacimento. Dall’identità di “essenza” si giunge alla negazione della differenza, come se essere uomo ed essere donna fossero riducibili semplicemente al “sentirsi” uomo o sentirsi donna. D’altra parte, come ha ben sottolineato Charles Taylor, l’uguaglianza moderna, essendo declinata come uguale diritto di ciascuno alla propria differenza, non riguarda più ciò che tutti gli uomini, quindi anche le donne, hanno in comune per il fatto di appartenere al genere umano, ma semplicemente il diritto di ciascuno di scegliere la propria identità individuale, sociale o sessuale. Neutralizzando tutte le differenze, la stessa differenza diventa indifferente. Se ci pensiamo bene, nella riflessione odierna sulla differenza uomodonna si scaricano un po’ tutte le idiosincrasie di un problema assai più vasto: quello del rapporto tra natura e cultura. Se ieri le caratteristiche del maschile e del femminile venivano pensate come derivanti dalla natura, fondate sulla natura, legate per lo più al sesso, oggi esse vengono legate esclusivamente alle scelte degli individui. Ognuno ha diritto di essere ciò che vuole essere. La natura viene concepita come un materiale di cui disporre a piacimento, non come qualcosa con cui armonizzarsi. Siamo passati insomma da una concezione della natura talmente potente e “naturalistica” da rappresentare persino la fonte normativa di ciò che dovevano fare gli uomini e ciò che dovevano fare le donne, a una natura talmente impotente da non significare più nulla nemmeno a livello di differenza sessuale. Di passaggio, vorrei far notare come persino certo femminismo radicale tragga la sua forza soprattutto dalle discriminazioni, giustificate 207
La relazione uomo-donna tra natura e cultura
in nome della natura, di cui le donne sono rimaste vittima nel passato. Era per natura che esse dovevano stare in casa; per natura il loro unico status sociale doveva essere quello di madre. Ma, come scrive Pierpaolo Donati, «La differenza biologica fra i sessi, che è ontologica, non deve far pensare che anche i ruoli sociali e i valori culturali siano ontologicamente diversi; ciò può creare solo degli stereotipi. L’umanizzazione della relazione uomo-donna consisterà nel personalizzare l’uno e l’altra tenendo conto della loro diversa struttura fisica, ma senza derivarne differenze ontologiche su altri piani». Mi pare una considerazione d’importanza fondamentale, specialmente se consideriamo l’uso discriminatorio e poliziesco che nel passato abbiamo fatto della normalità naturale, e che ci impedisce oggi anche solo minimamente di evocarla, come se la differenza tra maschio e femmina non sia una differenza capace di fare differenza anche per la relazione uomo-donna. «In sostanza – come scrive Donati – i processi di morfogenesi ci costringono a fare un salto di qualità nel modo di concepire e gestire la distinzione fra uomo e donna. Dobbiamo capire se e quando va tolta, oppure, al contrario, va scritta con lo slash (uomo/donna), volendo significare una differenza ontologica strutturale incolmabile, oppure ancora va scritta con un trattino (hyphen) (uomo-donna), volendo significare il fatto che i due termini sono distinti, ma anche combinati fra loro da un qualcosa (entità latente) che li lega e li co-implica mentre li differenzia». Donati dice giustamente che oggi le scienze sociali partono da un duplice assunto: a) la scissione tra corporeità e identità personale (si pensi al lavoro sui corpi, quasi che siano diventati oggetto di disponibilità assoluta); b) la scissione tra identità personale e identità sociale. Certamente non è pensabile che la causa di tutte le differenze psicologiche e sociali tra uomo e donna sia riconducibile meccanicamente a una differenza biologica. D’altra parte occorre evitare sia una frattura incolmabile tra i sessi, sia la loro omogeneizzazione, fino al limite del “matrimonio con se stessi” a cui Donati fa riferimento. Ma per far questo occorre una consapevolezza relazionale anche rispetto al più generale rapporto natura-cultura che oggi non mi sembra adeguatamente diffusa. 208
Sergio Belardinelli
Siamo passati da un naturalismo dal quale si supponeva che potessero essere dedotte addirittura le norme morali e sociali, a un culturalismo che della natura letteralmente non sa più che farsene. Tutti noi, chi più chi meno, siamo convinti che l’approccio relazionale potrebbe salvarci da queste derive. Lavorare sulle relazioni, renderle il più possibile riflessive è sicuramente la strategia migliore che abbiamo per salvare sia l’autonomia delle singole persone, sia la realtà sui generis del sociale, sia la possibilità che le parole “padre” e “madre” abbiano ancora un senso. Bellissimo a questo proposito il commento di Maspero alla posizione di Ratzinger, secondo il quale Dio è padre, non madre. La madre, infatti, «in quanto origine della vita, significa per l’uomo sempre identità originaria. Il padre, invece, per la sua posizione relazionale rappresenta, fin dalle esperienze prenatali, il mondo esterno, l’oltre del reale. Quindi, a livello simbolico, la dinamica generativa della natura umana induce una connessione tra la madre e l’identità, da una parte, insieme a quella tra il padre e la differenza, dall’altra». A confronto con quanto si legge oggi su paternità e maternità, sostituite ormai con locuzioni tanto ridicole quanto fasulle, tipo “genitore uno” e “genitore due”, certe parole rappresentano una straordinaria boccata d’aria fresca, un modo molto “laico” di salvare ciò che la vita presenta ancora di umano. Così come rappresentano una boccata d’aria fresca rispetto a certo tradizionalismo familiare, letteralmente arroccato su una ripartizione dei ruoli del padre e della madre così rigida da risultare ugualmente fasulla. Giunti a questo punto, però mi sia consentito fare un po’ l’avvocato del diavolo. «Di fronte a queste tendenze – scrive Donati – io credo che la sociologia possa e debba fare delle obiezioni per mettere in luce che le attuali tendenze all’individualizzazione e soggettivizzazione delle identità, come dei ruoli sociali, in particolare maschili e femminili, sono di fatto una pura illusione. Le analisi sul campo sono lacunose o silenti nel rilevare i bisogni reali delle persone, fuori delle manipolazioni mass mediatiche». Fin qui nulla da eccepire; sono pienamente d’accordo con le parole di Donati. Ho invece qualche dubbio in ordine a ciò che si dice nel prosie209
La relazione uomo-donna tra natura e cultura
guo del testo: Tali analisi sul campo – continua Donati – «mancano di comprendere le esigenze della gente di essere-in-relazione, non in un modo qualunque, ma significante e gratificante, non indagano l’intrinseca struttura delle relazioni sociali e i loro effetti, positivi o negativi. Le persone necessitano delle relazioni come dell’aria per respirare, ma la gran parte di esse non le vedono e non le tematizzano, ne ricevono gli influssi senza capire il perché e il come ciò avvenga». Lo domando un po’ bruscamente: che cosa è che rende significante e gratificante una relazione, positivo o negativo un suo effetto? Sono d’accordo con Donati che il senso ultimo della relazione sia la sua “sovrafunzionalità”; sono anche d’accordo sul fatto che «È lì dove dobbiamo cercare l’umanizzazione oltre la modernità. Il problema sta nelle qualità e nei poteri causali della relazione di cui parliamo». E tuttavia mi pare si possa dire che anche una relazione omosessuale è sovrafunzionale. Dal mio punto di vista, quando ci sono di mezzo gli uomini, tutte le relazioni hanno in sé qualcosa di sovrafunzionale, anche quelle più strettamente strumentali. Oltretutto questa mia convinzione mi pare egregiamente confermata proprio da quanto ci ha detto Giulio Maspero in ordine alla nostra stessa corporeità «conformata per l’uso del logos». Ma il punto è che stiamo parlando di relazioni significative e gratificanti, positive e negative. Che cos’è che le rende tali? Sono d’accordo con Donati, quando dice che «La distinzione fra uomo e donna è un Terzo sui generis, che non ha equivalenti funzionali (nemmeno fra due persone dello stesso sesso), ed è da questo Terzo che dipende la loro umanizzazione. Rifiutare il legame sociale che l’incontro può portare con sé significa uscire dall’umano e produce individualismo (una individualizzazione per negazione), mentre la personalizzazione consiste nel cogliere, anche intuitivamente, l’unicità di quella relazione che nasce dall’incontro». Ho l’impressione però che coglierla “intuitivamente” non sia sufficiente; in fondo anche una relazione tra omosessuali ha il suo “Terzo”, per il quale vale quanto Donati dice per le relazioni eterosessuali. Lo stesso vale per la pagina, peraltro molto bella, dove si dice: «L’uomo è tale “in relazione” (alla donna), la donna è tale “in relazione” (all’uomo). 210
Sergio Belardinelli
Ciò significa che il loro essere rispettivamente uomo o donna, e non solo maschio o femmina, dipende dal carattere generativo della loro relazione perché solo la relazione produce quell’effetto emergente (il Terzo) da cui essi, come uomini e donne, traggono il senso del loro agire. Quando dico “carattere generativo”, non intendo riferirmi esclusivamente alla generazione fisica dei figli, attraverso rapporti intimi, ma mi riferisco più in generale a qualunque prodotto della relazione interumana, come il riconoscimento reciproco, l’empatia, la fiducia, l’apprezzamento delle differenze sensibili quando sono o possono diventare sinergiche. L’essere uomo e donna riflette la dinamicità di questa relazione generativa in ogni specifico contesto sociale». «Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui uomini e donne non si nasce, ma si diventa, ciò può voler dire che l’umanizzazione dell’essere uomo o donna si realizza nel potere generativo che queste due identità hanno nelle loro relazioni quando esse danno vita ad un Terzo. Potere generativo in senso lato, non solo dei figli, ma anche di una cultura, di stili di vita, di qualità della vita umana in ogni sfera sociale. Il Terzo è un bene relazionale. Se fosse un male relazionale, la relazione uomo-donna non verrebbe umanizzata». Che cos’è che fa sì che una relazione sia un bene anziché un male? Per me è molto importante l’insistenza di Donati sulla qualità umana delle relazioni sociali. Siamo di fronte infatti a una normatività sui generis, che certamente non è compatibile con la neutralità e il relativismo etico oggi imperanti, ma neanche con gran parte delle etiche che vi si contrappongono. Il carattere “normativo” della relazione non va confuso con le virtù morali o con i principi morali dei singoli soggetti in essa coinvolti, né viene calato dall’alto sulle relazioni stesse, bensì cercato al loro interno, senza determinismi e nel rispetto della loro autonomia: un’istanza di umanizzazione, così l’avevo definita, che si realizza nella relazione stessa, nella misura in cui i soggetti coinvolti se ne prendono cura. E questo mi sembra uno dei contributi più interessanti del paradigma relazionale. Sul piano strettamente morale, abbiamo un approccio che, guardando soprattutto al “bene” concreto della relazione, evita non soltanto il 211
La relazione uomo-donna tra natura e cultura
relativismo etico imperante, ma anche il dogmatismo di chi ritiene che un qualche “Bene” con la maiuscola possa essere imposto contro la volontà dei diretti interessati. L’imperativo categorico dell’approccio relazionale sembra essere uno soltanto: guarda la relazione e prenditene cura, prenditi cura dell’umano che in essa vive, dei beni relazionali che essa produce, e sappi rifiutare eventuali mali relazionali. La domanda che però continuo a pormi e a porre a tutti coloro che in qualche modo si riconoscono nel paradigma relazionale è la seguente: può l’approccio relazionale dire una parola sulla differenza bene-male? Io credo di sì. La strada che occorre battere è sicuramente quella dei “beni relazionali” che la relazione produce. Ma siccome questi beni vengono prodotti anche all’interno di relazioni, diciamo così, controverse, evidentemente, almeno secondo me, è necessario un supplemento di riflessione.
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Approccio etico-politico (teologia, filosofia morale e politica, sociologia)
Essere si declina al plurale. Identità e generazione Elena Colombetti (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Introduzione: l’itinerario della riflessione La pluralità costituisce una categoria imprescindibile per comprendere il reale e, in particolare, riveste un’importanza centrale nella filosofia della morale. Hannah Arendt riflettendo sul collasso morale che ha investito la Germania e l’Europa con la Seconda Guerra Mondiale, richiama l’etica socratica come estremo baluardo nei momenti di crisi. Il riferimento è al paradosso per cui «è meglio subire il male che compierlo»: essendo, come sostiene Socrate, due-in-uno, compiendo il male si sarebbe costretti a vivere con un mal-fattore. Si parla dell’io, tuttavia «questo due-in-uno, osservato dal promontorio della pluralità umana, è come l’ultima traccia di una compagnia [. . .], una traccia che diventa tanto importante solo perché scopriamo la pluralità dove meno ce lo saremmo aspettati».1 La sfida, però, è quella di assumere la pluralità nella più complessa categoria della relazione. Le stesse problematiche etiche per essere comprese richiedono di individuare i diversi beni in gioco in una situazione, beni che però, in gran parte, spesso si sottraggono allo sguardo se la prospettiva assunta è solo quella dell’individuo. Ne è un esempio, tra gli altri, la considerazione della vulnerabilità. Vulnerabile è infatti un concetto che porta inscritto in sé il riferimento alla relazione, posto che ciò (e in particolare chi) è vulnerabile lo è perché può ricevere da altro o altri un vulnus. Andando ancora più in profondità, 1
Hannah Arendt, Some Questions of Moral Philosophy, in Arendt, Responsibility and Judgment (New York: Schocken, 2005) (tr. it. Alcune questioni di filosofia morale, Torino: Einaudi, 2006): 67.
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Essere si declina al plurale. Identità e generazione
troviamo poi che la stessa riflessione sull’identità dell’essere umano non può prescindere dalla relazione, a partire dall’evento originante del suo apparire nell’essere. Proprio questo riferimento alla nascita, e ancora prima alla generazione, mette al centro la corporeità. L’essere umano è corporeo. La persona umana è corporea.2 In che modo possiamo trovare la pluralità e la relazione in questa sua ontologia carnale? A volte, sembra che il pensiero filosofico si dimentichi proprio di questa centralità: del fatto che siamo esseri corporei. Non solo, siamo esseri corporei sessuati. L’itinerario di riflessione che qui sinteticamente propongo tiene al centro proprio questa dimensione somatica. Il tentativo è quello di indagare l’umano, uomo e donna, osservando la relazionalità e la corporeità dal punto di vista dell’ontologia. Proprio perché si tratta di un essere che è sessuato, considero di particolare interesse prendere in considerazione alcune sollecitazioni apportate all’antropologia dal pensiero delle donne a partire dalla metà del XX secolo, dato che sono state loro a mettere in luce un aspetto deficitario della riflessione filosofica sull’essere umano, in passato osservato unicamente dalla prospettiva maschile e avendo nel solo maschile il modello dell’umano stesso. In questo cercherò di mostrare come la via di soluzione ad alcune esigenze messe in luce dai women’s studies non sia quello della destrutturazione del soggetto o del soggetto nomade, ma proprio quello di un soggetto relazionale. A partire da qui potremo osservare come il fatto che l’essere umano sia uomo e donna torni ad illuminare la questione dell’identità. Ma se la corporeità costituisce parte integrante dell’identità personale umana, la specificità della donna, indipendentemente dal suo essere o non essere di fatto madre, può introdurci ancora più in profondità in quel mistero che è l’identità relazionale umana. 2
Per una più articolata trattazione sul ruolo della corporeità nell’identità personale mi permetto di rimandare ad un altro mio lavoro: Elena Colombetti, Incognita uomo. Corpo, tecnica e identità (Milano: Vita e Pensiero, 2006), in particolare al capitolo “Oltre ogni dualismo. L’unità somatonoetica dell’essere umano”.
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Elena Colombetti
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Una premessa: relazione e identità
Per dire veramente chi sia qualcuno, occorrerebbe poter narrare tutta la sua storia. Una persona (che in quanto tale è appunto un chi e non solo un cosa), è anche quello che gli è accaduto e il modo in cui si è posto in relazione a ciò che gli è accaduto, è le azioni che ha compiuto, benché nessuna lo esaurisca, è le relazioni che intessono questa storia, a partire dal suo nome. Il nome, infatti, è ricevuto da altri e dice di una appartenenza famigliare, di una genealogia. I concreti rapporti che costituiscono la sua vita dicono, anche qui senza esaurirne l’estensione, qualcosa di chi quella persona sia. Le relazioni – con le cose, i luoghi, ma soprattutto con le persone – entrano nella definizione dell’identità, a prescindere dal fatto che siano riflessivamente comprese come tali. Quanto più si sale nella scala degli esseri, quanto più profondo è l’atto di essere, tanto più possono darsi relazioni che implicano il coinvolgimento di tale profondità. Solo da questa prospettiva si può comprendere come, con intensità differente, si possa dire che le relazioni entrino in senso forte nella costituzione dell’identità. Nel concetto di profondità dell’essere, inoltre, va inclusa anche la capacità di una certa dialogicità con se stessi (che di fatto è a sua volta descrivibile nei termini di una relazione) che, nel suo darsi, crea uno spazio di intimità che permette di tenere (en-timeo) l’altro da sé in sé. Ma propriamente che cosa è la relazione? In un impianto aristotelico la troviamo tra le categorie, come semplice riferimento ad altro da sé, accidentale rispetto alla sostanza. Effettivamente la sostanza entra incidentalmente in relazione con altro senza che questo muti il suo essere ciò che è. Troviamo quindi relazioni logiche, spaziali, temporali ecc. che possono mutare nel tempo. È vero che non esiste una sostanza senza qualità e senza relazioni (possiamo distinguere questa da quelle senza separarle), ma gli accidenti possono, proprio in quanto tali, cambiare senza con questo mutare la sostanza che, classicamente, è designabile come ciò che ha l’essere in sé. Tuttavia, a ben vedere la sostanza stessa è data da una certa relazione (e non altre) tra elementi diversi. Possiamo dire che c’è un ordine (potremmo addirittura chiamarlo logos) che 217
Essere si declina al plurale. Identità e generazione
costituisce un individuo, che rende tali elementi così relazionati questa sostanza e non altro. A questa considerazione dobbiamo aggiungere che la comprensione di che cosa sia uno specifico individuo rimane sempre parziale proprio perché non riusciamo, per un nostro limite gnoseologico, a comprenderlo rispetto al tutto di cui è partecipe. Questo non inficia la veridicità della nostra conoscenza, dice semplicemente della sua parzialità. Anche quando ci muoviamo a livello di definizione accade lo stesso: quando, ad esempio, diciamo che una formica è «un insetto imenottero di piccole dimensioni, con corpo snello, capo grosso, addome peduncolato che vive in comunità organizzate, costituite da individui differenziati» non stiamo dicendo il falso, ma semplicemente stiamo dando solo alcune informazioni su questo tipo di enti (le formiche, appunto, al plurale). La comprensione delle formiche è più completa se consideriamo anche il loro ruolo nella catena alimentare e nel mantenimento dell’ecosistema, o addirittura passiamo al piano ontologico-metafisico e consideriamo la contingenza del loro essere e quindi la partecipazione all’essere di un essere necessario che dia ragione del loro esserci; andando oltre si potrà anche vedere se questo essere, con cui le formiche sono dunque in relazione, sia immanente o trascendente. A partire da queste considerazioni, ritengo che la relazione abbia un ruolo diverso rispetto a quello degli accidenti: è originaria come la sostanza, tanto da dover essere inclusa nella attestazione dell’individuo nella sua singolarità. Aguilar3 propone di usare il termine relazionalità per indicare questa dimensione, ossia un trascendentale, e non quello categoriale di relazione che avrebbe invece a che fare con la mutevolezza delle relazioni concrete. Il suggerimento è estremamente interessante, ma di fatto sembra segnato dal limite di non riuscire a dare pienamente conto del dinamismo dell’essere e della sostanza. Se infatti 3
Cfr. Alfonso Aguilar, La nozione di relazionale come chiave per spiegare l’esistenza cristiana secondo l’Introduzione al cristianesimo, in Krzystof Charamsa, Nunzion Capizzi (a cura di), La voce della fede cristiana. “Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI 40 anni dopo (Roma: Edizioni Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, 2009): 185-216.
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consideriamo le relazioni reali, che aggiungono qualcosa agli enti in relazione, vediamo che col loro darsi tali enti cambiano. Il cambiamento è tanto più forte quanto più si sale nella scala di complessità degli esseri. Tali modificazioni incidono in modo diverso sulla sostanza (in questo occorre fare attenzione: stiamo parlando di sostanza e non di essenza. La sostanza è questo individuo con tutte le note individuanti che lo rendono se stesso e non altro). Quanto più l’ente è capace di includere nel proprio essere la realtà di relazione, tanto più ne verrà modificato. Ecco perché nella scala degli esseri la relazione con l’altro da sé incide differentemente nella definizione di ciò che l’individuo è, ossia nella sua identità, pur senza trasformarlo in altro da sé. Più l’ente si esaurisce nella materia organizzata che lo costituisce, meno è capace di interiorità, più estrinsecamente la relazione con l’altro da sé incide nel suo essere. Qualcuno potrebbe obiettare che, in questo modo, o ci si perde la sostanza o si sta parlando di modificazioni accidentali che, in quanto tali, non mutano l’identità. Tuttavia se l’identità non è un concetto logico, ma indica l’essere se stesso di un concreto individuo, occorre anche tenere conto della dinamicità dell’essere: poiché non è statico, ma dinamico, l’identità non può che esserlo a sua volta, includendo anche la dimensione dell’essere divenuti.4 4
La formula di Pierpaolo Donati «A = rel (A, nonA)», che sta a fondamento della sua teoria relazionale della società, mi sembra cogliere ed esprimere proprio questo punto (si veda ad esempio Donati, La società come relazione. I fenomeni sociali e la loro conoscenza sociologica, in Donati (a cura di), Sociologia. Una introduzione allo studio della società (Padova: Cedam, 2006): 1-61; Introduzione alla sociologia relazionale (Milano: Franco Angeli 2002 (6ed) ). Considerando la relazione come un co-principio rispetto alla sostanza, tale formulazione può infatti esprimere non solo l’ontologia della realtà sociale, ma l’ontologia in quanto tale e, in particolare, l’ontologia dell’umano in cui possiamo scorgere sia la capacità di trascendenza sia la profondità di una immanenza, di una interiorità. Da una diversa prospettiva, un altro apporto di particolare interesse per la comprensione della dinamicità dell’identità è la distinzione ricoeuriana tra ipse e idem come due significazioni dell’identità stessa. Tra i registri di significazione a cui rimanda l’idem si situa, ed è prevalente, quello della continuità e permanenza nel tempo; l’ipse esprime invece l’identità che non è immutabile e che implica costitutivamente un intimo riferimento, a diversi
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Possiamo formulare tutto questo anche dicendo che in parte la propria identità è ricevuta dalla relazione con l’altro da sé e costruita in quella relazione: l’idea di un sé chiuso in se stesso e che si rapporta solo accidentalmente con l’altro non sembra rispondere fenomenologicamente alla realtà. Da qui la constatazione di come la povertà di relazioni dica di una povertà di essere. Possiamo addirittura scorgere una necessità di riferirsi all’altro per definire se stessi: siamo le nostre relazioni, non perché ci si dissolva in esse, ma perché senza di esse, semplicemente, non esistiamo. Ecco allora che la domanda che la realtà pone al nostro agire è una domanda che, proprio perché reale, ci interpella nel nostro essere anche queste e non altre relazioni e si struttura essa stessa all’interno di tali relazioni. Tutto ciò ha forti ricadute sul piano etico-morale. La responsabilità emerge proprio nella relazione con l’altro. L’essere autore delle proprie azioni (dove l’esserlo non richiede affatto una utopica incondizionatezza del soggetto) fa sì che queste siano imputabili, che il soggetto ne debba rispondere nei confronti di se stessi e nei confronti degli altri: in questo senso libertà e responsabilità hanno la stessa estensione. Ma c’è un’altra dimensione della responsabilità, quella nei confronti dell’altro per il fatto stesso del suo essere in relazione con noi. L’altro non è un concetto, ma un essere reale e che si presenta, interpellandoci, proprio all’interno di questa relazione. Tenendo presente che dobbiamo parlare in modo analogico, dati i gradi dell’essere e delle relazioni di cui prima parlavamo, possiamo dire ancora di più: l’altro dice di noi e ci interpella da tale prospettiva. L’antica domanda di Caino «sono forse il guardiano (fulax) di mio fratello (adelfh, dalla stessa matrice)?» racchiude la risposta: lo è proprio perché è suo fratello, perché nell’indicare l’altro indica parte di se stesso. La relazione con l’altro, in altre parole, è originaria e spesso, nel suo darsi concreto, precede ogni atto di volontà. Partire dalle relazioni non significa però presupporre una loro omogenea positività. Come osserva Cristina Botti, «prendere in seria conlivelli, all’alterità. Si veda Paul Ricoeur, Soi-même comme un autre (Parigi: Éditions du Seuil, 1990) (tr.it. Sé come un altro, Milano: Jaca Book, 2015).
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siderazione le relazioni non vuol dire negare la presenza di conflitti e dilemmi, ma vuol dire leggerli in altro modo, dargli un’altra forma, per esempio non pensare di risolverli semplicemente premiando gli interessi di una delle due parti, assumendole come contrapposte e divisibili». Declinando questo discorso nella particolare relazione tra una donna e il nascituro, Botti continua dicendo che «considerare per esempio la madre e il feto in relazione, non vuol dire che ci sia un’armonia perfetta tra i due, ma che il conflitto possibile tra i due non si possa risolvere premiando gli interessi dell’uno o dell’altra come se il legame tra i due non fosse rilevante»5 . La questione delle relazioni negative e persino perverse solleva però un’obiezione: non ogni relazione va mantenuta e alcune sono lesive del bene proprio o altrui, quindi non possono essere fonte di responsabilità. Mi sembra che la pista di soluzione si situi nel fatto che la relazione non può contraddire (de iure, perché lo può de facto) l’identità del proprio essere divenuti fino a quel momento e agire in modo lesivo dei beni che le sono propri. Detto in altre parole: oltre alla relazione originante, quella della filiazione, tutte le altre non istituiscono l’identità del soggetto, ma possono mutarla a seconda del loro grado di profondità. Poiché non ogni mutamento è però un bene, occorrerà valutare le relazioni che si instaurano a partire dai beni umani e dalla loro realizzabilità pratica, dai beni e dai mali relazionali che producono. Tuttavia non esiste alcuna responsabilità fuori dalla relazione con l’altro da sé e la stessa responsabilità nei propri confronti deve tenere conto che ciò che si è, la propria identità, include le relazioni. Prendere sul serio questa dimensione relazionale significa allora assumere che la nostra identità trovi in parte, quasi paradossalmente, il suo baricentro fuori da noi stessi. Se fosse centrata nel soggetto, tutte le relazioni potrebbero essere misurate, accettate o rifiutate in funzione del soggetto solipsisticamente considerato, qualunque sia il criterio assunto in questo dinamismo di selezione. Ma il soggetto è, proprio per essere se stesso, relazionale: entrando nella definizione di ciò che 5
Cristina Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza (Milano: Il Saggiatore, 2007): 100.
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siamo, tali relazioni impediscono una chiusura ultima del soggetto in sé e richiedono di misurare le azioni a partire da queste relazioni.6 2
Persona, corpo e relazione
Tra le novità storicamente introdotte dal cristianesimo nella storia del pensiero occidentale si situa anche la particolare riflessione sul concetto di persona. L’esigenza, totalmente nuova, di esprimere la pluralità senza perdere l’unità di Dio ha obbligato il pensiero a fornirsi di nuovi strumenti concettuali. Senz’altro si tratta di un tema che sin dall’inizio si è sottratto all’isolamento della sola riflessione speculativa, perché in gioco era la concezione stessa della verità della Redenzione e quindi, per usare qui un’espressione heideggeriana, ne andava dell’uomo stesso. Tuttavia, anche dal punto di vista squisitamente filosofico la questione è tutt’altro che marginale perché per la metafisica classica se si può arrivare a parlare di un Fondamento dell’essere – che chiamiamo Dio – questi non può essere molteplice. Non è un caso che, come nota Pavan, le preoccupazioni per il monoteismo venivano non solo dagli ambienti giudaici, ma anche dai circoli pagani colti.7 Il due in uno socratico che abbiamo prima richiamato si situa in parallelo all’attenzione aristotelica per la polis e la vita politica, ma non sembra avere direttamente alcuna significatività ontologica. Sul versante dell’ontologia, di fatto, tutto il pensiero greco è preoccupato esattamente del contrario, ossia di trovare l’unità nella molteplicità, di ricondurre all’Uno. L’irrompere della pluralità nell’unità che si trova 6
7
La questione, certamente, non va eccessivamente semplificata, perché se da un lato la relazione personale fa parte dell’umano, dall’altro può essere fattualmente rifiutata, costituendo un impoverimento dell’apertura del soggetto al mondo e, quindi, un impoverimento del soggetto e del mondo. Tuttavia si tratta di un rifiuto sempre parziale, perché la sua sistematica negazione pone in qualche modo la relazione stessa. Detto in altre parole il rifiuto della relazione costituisce comunque un preciso assetto disposizionale nei confronti degli altri. Cfr. Antonio Pavan, Andrea Milano (a cura di), Persona e personalismi (Napoli: Edizioni Dehoniane, 1987).
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nel Dio cristiano ha costituito non solo una sfida per il pensiero, ma anche una rivoluzione. Tutto questo ci interessa nella comprensione dell’uomo perché è all’interno di tale riflessione che prende corpo la nozione di persona, concetto che segna una svolta nel processo di auto-interpretazione dell’essere umano. Forzando in estrema sintesi un complesso e articolato cammino teorico, possiamo vedere come il termine persona parta da e poi torni a l’essere umano profondamente mutato. Il significato greco di prosopon da un lato come “maschera” (in ambito teatrale) e dall’altro come “colui che è concretamente presente”, che “cade sotto gli occhi” viene progressivamente inserito, specialmente nella tradizione latina, nella riflessione trinitaria. Successivamente “persona” torna a designare anche l’essere umano attraverso la mediazione del Figlio incarnato. La creatura umana, a immagine e somiglianza di Dio, è persona8 . Indipendentemente dall’assenso di fede, il pensiero filosofico rimane indelebilmente segnato da questa svolta nella comprensione che l’uomo ha di sé: la sua identità non è più designabile solo come quella di un animale razionale, o di un animale politico; la persona umana non è semplicemente una parte del mondo animale (genere) specificato dalla sua razionalità, non può più essere adeguatamente compreso come una parte del tutto naturale. L’uomo si coglie con più intensa chiarezza come sporgente rispetto all’ontologia degli altri viventi. Questo enorme guadagno speculativo si è però fattualmente scontrato con un limite: nella formulazione del concetto di persona posta al centro dello sforzo teorico per esprimere il mistero dell’Uno che è Tre, il pensiero, anche nella ridesignazione antropologica del termine, sembra aver reso periferica la peculiarità umana dell’essere persona, ossia la corporeità. La stessa formulazione boeziana (rationalis naturae individua substantia), che tanta fortuna ha avuto nei secoli, non ne fa menzione e risulta in questo senso deficitaria. Tommaso, che la 8
Oltre che nel corposo testo di Pavan e Milano, già citato, si può trovare una sintetica, ma attenta ricostruzione della storia del concetto di persona in Marco Paolinelli, La persona umana tra bioetica e biodiritto, in Adriano Pessina, Mario Picozzi (a cura di), Percorsi di Bioetica (Milano: Vita e Pensiero, 2002): 79-94.
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adotta anche difendendola da possibili fraintendimenti, quando parla della persona umana caratterizzata dalla corporeità aggiunge il preciso riferimento a questa carne e queste ossa.9 L’attenzione che poi lo stesso Tommaso dedica al corpo si declina teologicamente a partire dalla prospettiva dei suoi rapporti con l’anima,10 lasciando inesplorate o solo accennate altre dimensioni. A questo va aggiunto che il riferimento alla relazione, che tanta parte ha in ambito teologico, negli articoli della Summa costituisce una categoria poco utilizzata per esplorare il senso dell’umano. 2.1
La relazione nel corpo
Il fatto che la persona in quanto umana sia corporea costituisce un punto prospettico che può offrire notevoli dati. Lasciando per il momento sullo sfondo la considerazione che l’identità corporea implichi una relazionalità tra persone di sesso diverso, a cui dedicherò alcune riflessioni più avanti, possiamo cominciare ad osservare che la relazione si inscrive in primo luogo nello stesso evento dell’essere generati e che 9
«Invece il composto formato di questa materia e di questa forma ha natura di ipostasi e di persona. Infatti l’anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura dell’uomo, mentre questa anima, questa carne e queste ossa appartengono alla struttura [propria] di questo uomo. Perciò l’ipostasi e la persona aggiungono all’essenza i princìpi individuali» (Summa Theologiae I, Q.29, a.2). E ancora: «La persona in generale infatti, come si è detto, significa una sostanza individuale di natura razionale. L’individuo poi è ciò che è indistinto in se stesso e distinto dagli altri. La persona dunque, in qualsiasi natura, significa ciò che è distinto in quella natura: come nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono i princìpi individuanti l’uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana» (Summa Theologiae I, Q.29, a.4). Su questo tema si veda Pessina, Venire al mondo. Riflessione filosofica sull’uomo come figlio e come persona, in Catia Carboni, Gaetano Oliva, Adriano Pessina, Il mio amore fragile. Breve storia di Francesco (Arona: Xy.it, 2011): 63-93. 10 «Ora, al teologo spetta di occuparsi della natura dell’uomo dal punto di vista dell’anima, non del corpo, salvo i rapporti che il corpo ha con l’anima» (Summa Theologiae I Q.75).
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coincide con l’apparizione di ciascuno all’esistenza. Non si tratta solo dell’ovvio riferimento al fatto che tutto ciò che non ha in sé la causa del proprio essere deve essere causato, e che quindi all’origine di qualsiasi cosa si trova una relazione causale. Questo è vero, ma possiamo e dobbiamo aggiungere un’altra considerazione. Nell’ordine del divenire, quella che classicamente chiamiamo causa fiendi è necessaria perché si dia il causato, non perché continui ad esistere. La relazione, dunque, si pone al principio, ma non accompagna necessariamente la persistenza nell’essere. Nel vivente, però, tale relazione con ciò che lo ha fatto sorgere in qualche modo permane nel tempo. La sua struttura corporea, infatti, porta inscritta in modo permanente la relazionalità con ciò che lo ha generato. È chiaro che qualunque vivente continua a sussistere anche dopo la scomparsa di ciò (o di chi se si tratta di un essere umano) lo ha generato. Tuttavia nella generazione la causa agente e la causa materiale coincidono, rendendo di fatto indelebile la relazione tra generante e generato. Non vi rimane in senso puramente simbolico (come per esempio negli artefatti), ma nella struttura stessa del suo essere. E ancora di più: là dove la generazione richiede il concorso di due sessi, nella struttura del generato si trova traccia anche della interazione o della relazione tra le cause.11 In un essere libero, questa relazionalità va poi riconosciuta e assunta. Poiché la reciproca disposizione struttura un modo di essere nel mondo, da quella relazione segue una disposizione di beni che proprio nella concreta situazione relazionale si mostrano secondo una gerarchia. Dalla concreta relazione e dalla reciproca azione che in essa nasce sorgono quindi anche doveri che richiedono di essere ottemperati e che differiscono da quelli di relazioni di altro genere. In questa dimensione del riconoscimento e dell’assunzione riflessiva della relazione stessa, si situa la soglia di passaggio dalla conoscenza speculativa al dominio della ragione nel suo uso pratico. In tal senso vale la pena notare come già a questo primo livello di descrizione della relazionalità si possa 11
Parlo di interazione là dove le cause apportano la materia in momenti successivi, di relazione dove la causazione avviene attraverso una azione reciproca delle due cause.
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intravedere lo stravolgimento antropologico dettato dalle tecniche di generazione extracorporea, dove le cause agenti si trasformano in sole cause materiali e dove la relazione tra i genitori – non in atto generanti – diviene interazione diacronica. Alle cause materiali si aggiungono poi altre cause agenti, che però non sono a loro volta cause materiali (i medici, i biologi ecc). Nel causato (generato) troviamo comunque traccia strutturale delle cause “materiali” e il suo statuto rimane, come per ogni altro essere umano, quello di un figlio a cui fa da corrispettivo una oggettiva relazione di genitorialità, a prescindere dalla consapevolezza che possono averne i protagonisti. La questione si complica ulteriormente nel caso della gestazione vicaria. La moltiplicazione e l’ambiguità delle relazioni parentali a partire da un disconoscimento della portata della corporeità è, di fatto, deflagrante. Proprio perché l’apparire della persona umana nel mondo è in primo luogo un apparire corporeo, si può cogliere come la relazione originante, non appena si rende manifesta nell’originato, sia in sé sempre anche sociale. Il corpo è vissuto dall’interno (Leib), ma al tempo stesso manifesta all’altro il soggetto. La stessa costituzione fisica con delle caratteristiche e non altre, con una storia di ereditarietà e non altre, dice di una relazione. Poiché si tratta di un corpo personale, questa relazione richiede una attestazione identitaria, un chi. Proprio perché l’essere umano non è un prodotto (solo un che cosa), ma deriva da persone in relazione tra loro. In ogni caso, l’ineludibilità della relazione con l’altro desitua la questione dal solo livello morale per collocarla, come dicevamo, in quello ontologico. Una relazione che permea già le fibre dello stesso statuto corporeo, ponendosi dunque non come dialetticamente contrappositiva, ma addirittura come istitutiva, benché non esaustiva, dell’identità. Proprio perché chiama in causa l’ontologia, però, la pregnanza della relazione nell’identità varia col variare dell’essere che è in relazione e del modo in cui si pone in essa. Detto altrimenti: come l’essere è analogo, così lo è la relazionalità che entra nella sua costituzione. Benché la relazione inscritta nella corporeità sia rinvenibile oggettivamente in tutti i viventi, nell’essere umano assume una maggior densità e profondità. Ecco allora che, sempre tenendo come punto privilegiato di 226
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osservazione la corporeità, possiamo scorgere ulteriori elementi propri dell’identità umana. Osservando il nostro comune statuto di esseri generati, vale a dire il nostro comune statuto di figli, possiamo vedere come per l’uomo in primo luogo essere significhi essere-con. Pur essendo capace di progettualità e di trascendenza, nel suo darsi l’essere umano non è frutto del proprio progetto: anche il per sé di sartriana memoria non è comunque mai da sé. Proprio a partire dal suo essere generato da altri ciascuno si trova posto all’interno di dinamiche relazionali che non lo hanno per protagonista. Posto non solo nel senso di essere situato, ma anche posto nel senso di essere fatto apparire. Non c’è alcuna intenzionalità e trascendenza possibile senza questa originaria passività che situa all’interno di una storia che primariamente appartiene ad altri, e nella cui rete di relazioni si apre questo nuovo cominciamento. In particolare, l’intimità corporea con la madre, indispensabile relazione nel processo della formazione di chi in modo inedito si affaccia alla storia, svela come l’essere-con sia letteralmente incarnato. Un darsi in-carne, nella carne dell’altro, che sgretola sin dal principio l’idea moderna del soggetto autonomo, trasparente a se stesso, indipendente dall’altro da sé e quindi, in fondo, an-archico, privo di principio. Questa idea dell’uomo forte e indipendente costituisce, quasi come in una legge di contrappasso, una utopia fragile che si sgretola di fronte alla fattualità delle reciproche dipendenze che costituiscono il vivere12 . Hannah Arendt ha fatto della natalità la categoria principe per parlare del cominciamento, un posizionarsi nel mondo che apre alla novità e s’inscrive immediatamente nella pluralità. L’esordio del nascere segna una discontinuità che sottrae la storia umana all’ineluttabilità del ciclo naturale. L’uomo non è un essere per la morte, come asserisce Heidegger, 12
Come osserva Kittay: «siamo prigionieri del mito di un soggetto indipendente, disincarnato – non nato, che non si è sviluppato, non malato, non disabile e che non diventerà mai vecchio – che domina i nostri pensieri riguardo alla giustizia e alle questioni politiche». Eva Feder Kittay, “Dependency, Difference and the Global Ethic of Longterm Care”, The Journal of Political Philosophy, 13 (4) (2005): 443-469, cit. 445 (traduzione mia).
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ma un essere nato per incominciare.13 Questo cominciamento è da subito nello spazio della pluralità (e quindi della politica) poiché si appare sempre ad altri. Il politico, infatti, è arendtianamente inteso come il luogo in cui, attraverso il discorso e l’azione, reciprocamente si appare. Tuttavia, come nota un’attenta studiosa quale è Adriana Cavarero, il suo sguardo concentrato sul solo neonato si perde la concretezza delle relazioni, permettendosi così di rubricare tutti nella generica categoria di “altri”. La madre, nella sua specificità, scompare. Ma se manteniamo lo sguardo sull’essere corporeo di questo essere personale, ci accorgiamo che la categoria della nascita staccata da quella del far nascere costituisce un’astrazione non priva di conseguenze. Come osserva Cavarero, «se si elimina la sua figura [della madre], la scena finisce per perdere i suoi tratti specifici, ossia proprio i tratti che fanno del primo apparire un originario dipendere invece che un teatro di interdipendenza e di mutua apparizione».14 Proprio a partire dalla corporeità cogliamo, insomma, come la relazione di dipendenza sia costitutiva dell’umano, precedendo e fondando tutte le altre dipendenze. Non solo, unicamente il riconoscimento e accoglimento di questa strutturale dipendenza rende possibile ogni autonomia. Lo stesso linguaggio, luogo della comprensione del reale, della comunicazione e dell’espressione di una costante novità, richiede una comunità di parlanti per essere appreso, uno strutturarsi di atti locutori al cui interno il soggetto si situa imparando a parlare, sviluppando quella capacità che, pur appartenendogli, non può essere attualizzata in autonomia. Il linguaggio richiede la pluralità e la relazione: si dà nella relazione di una concreta comunità di parlanti che precede l’individuo e da cui l’individuo, prendendovi parte, lo riceve. Ed è peculiare come anche in questo dinamismo il corpo non costituisca semplicemente lo strumento estrinseco dell’atto del parlare, ma in qualche modo ne fondi la possibilità. Per usare parole di Ricoeur, «la carne precede onto13
Sulla categoria arendtiana della natalità si veda Alessandra Papa, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt (Milano: Vita e Pensiero, 2011). 14 Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2013): 161-162.
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logicamente ogni distinzione fra il volontario e l’involontario. Si può certamente caratterizzarla mediante lo “io posso”; ma, precisamente, “io posso” non deriva da “io voglio”, ma offre a questo una radice».15 Questa attenzione al binomio non contrappositivo tra linguaggio e corporeità permette di affacciarci ad una dimensione della relazionalità umana che rischia di restare in ombra – non solo obliata, ma addirittura riflessivamente mai conosciuta – quando si osserva la persona umana relegando la specificazione di umana ad una posizione subalterna. La modernità ha immaginato con Cartesio l’idea di un soggetto forte, auto-fondantesi, auto-cosciente, auto-costruito e auto-centrato. Quello presentato dal cogito ergo sum è un soggetto generato dal suo stesso pensiero, incurante del fatto che, al contrario, ciò che lo ha generato sono i corpi dei suoi genitori, in particolare quello di una donna, e che il pensiero lo presuppone. Quello stesso pensiero che può strutturare un ordine simbolico che dimentica la propria identità corporea e la dipendenza, non può che emergere in un corpo e in una dipendenza. In un corpo di donna e in una dipendenza da donna. 3
Il pensiero delle donne: l’attacco al logos universale
A prescindere dal dibattito che ha suscitato, il celebre volume Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir esprime un punto comune a gran parte della riflessione femminista, pur nelle sue diverse anime: si tratta della constatazione che l’elaborazione concettuale sull’essere umano si sia sempre mossa a partire dal maschile, considerato paradigmatico. Ne deriva una duplice conseguenza già a livello speculativo: si parla di uomo in universale – perdendo la particolarità dell’unicità di ciascuno – e in quell’universale non viene contemplata la donna. Questa è invece interpretata a partire dall’uomo e quindi, come osserva la de Beauvoir, è colta come l’altro: ciò che la caratterizza non si trova in lei con titolarità positiva, ma nella differenza dialettica. La donna è un non-uomo, e il secondo termine indica la norma da cui il primo si discosta. Se ci si 15
Ricoeur, Sé come un altro, 439.
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situa in questa prospettiva, anche un discorso sul femminile che tenti di strutturarsi come riconoscimento è destinato a fallire. Persino Levinas, in uno scritto sulla differenza tra i sessi in cui è impegnato a parlare dell’alterità appunto in termini positivi, finisce col dire che questa si compie nel femminile, il quale costituisce un termine di pari livello, ma di senso opposto alla coscienza. De Beauvoir non esita a sottolineare come la prospettiva maschile di Levinas porti a definire la donna come l’altro (e non viceversa) e che, presentandola come «termine di pari livello, ma di senso opposto alla coscienza»», si dimentichi che anche lei sia una coscienza.16 La riflessione a partire unicamente dal maschile costruisce una antropologia intrinsecamente deficitaria, strutturando un ordine simbolico incapace di cogliere ed esprimere non solo la donna, ma la constatazione elementare che né l’uomo né la donna esauriscono il genere umano. La conseguenza pratica è spesso stata una comprensione della differenza tra i sessi in chiave gerarchica e subordinante. Da qui il rifiuto del femminismo per quello che è stato definito l’ordine fallologocentrico, ossia per quel discorso che pone l’uomo al centro e a partire da questo permea la tradizione e l’ordine politico. Dopo la stagione del femminismo radicale, più sbilanciato sull’azione e rivendicazione politica, a partire dagli anni Ottanta molte pensatrici hanno cominciato a strutturare una più profonda riflessione concettuale della logica androcentrica. Qui vorrei richiamare e discutere brevemente, in modo funzionale al nostro discorso, un particolare nodo teorico: la critica al logos universalizzante. Il logos unificante e il sistema binario Un elemento trasversale del pensiero femminista è indubbiamente costituito dalla critica di una metafisica occidentale concentrata sull’Uno, tesa a cercare una espressione universale e unificante. In quest’ottica, e 16
Cfr. Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe (Parigi: Gallimard, 1949) (tr. it. Il Secondo Sesso, Milano: Il Saggiatore, 2008): 717-718.
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in particolare tra le pensatrici di area statunitense, la concezione solida della sostanza e del soggetto divengono il bersaglio di un attacco incrociato. Non solo, come abbiamo visto, viene rifiutata la falsa immagine del soggetto autonomo e trasparente a se stesso della modernità, ma con lui è posta sotto attacco la solidità della sostanza, accusata di essere il residuo del tentativo di ipostatizzare un’idea astratta. L’attacco a questo logos, identificato come androcentrico, non si struttura però nei termini di un rifiuto della ragione (cosa che risulterebbe palesemente contraddittoria), ma in quelli di una duplice opposizione: al discorso caratterizzato da un ordine simbolico di autorappresentazione maschile presentato come paradigmatico per la comprensione dell’umano, al concetto di natura considerata come il risultato normalizzante della supremazia di chi ha il potere e che, stabilendo la norma, istituisce la normalità e per converso la devianza.17 Ciò che viene in vario modo sostenuto è che un discorso che cerchi di unificare le differenze si perde l’unicità e rende ogni differenza, appunto, indifferente: un logos che privilegi l’universale a scapito del particolare, perde la complessità e la ricchezza della realtà individuale. Da un logos che sia espressione rigida e necessaria dell’uno, consegue poi un pensiero che procede dialetticamente per negazioni e che finisce con lo strutturarsi secondo un codice binario. Tale codice, nelle sue declinazioni, trova il perno in una opposizione primaria: universale versus particolare, dove il primo polo sarebbe quello razionale e attribuito al maschile e il secondo quello corporeo ed emotivo appartenente al femminile. Se il logos verte sull’universale, l’attenzione più spiccatamente femminile al particolare se ne situa al di fuori. Su questo si 17
A parere di chi scrive, in questa critica femminista si sommano in realtà due processi differenti. In primo luogo si trova la constatazione fattuale della confusione, storicamente data e di fatto sempre possibile, tra ciò che è culturalmente familiare e ciò che è naturale. Tale rilievo, però, da solo teoreticamente non conduce al rifiuto del concetto di natura, ma piuttosto ad una rinnovata attenzione a distinguere ciò che possiamo dire della realtà dalla sua mediazione culturale. La negazione senza appello della validità del concetto deriva piuttosto da un lato dalla assimilazione in blocco del cosiddetto ordine “fallologocentrico” all’intera storia del pensiero metafisico, dall’altro dall’influsso del post-strutturalismo francese.
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fondano poi tutte le altre contrapposizioni: politico versus domestico; razionalità versus sentimenti; cultura versus corpo. Lo stesso tentativo di interpretare le differenze delle attribuzioni ai due sessi indicandole come complementari, per alcune pensatrici si inscrive inconsapevolmente nella medesima logica binaria: l’idea della complementarietà renderebbe l’uomo e la donna parti di un intero e, quindi, incompleti in se stessi. Si tratterebbe della riproposizione dell’ordine simbolico androcentrico, benché in forma pacificata.18 Mi interessa richiamare qui questo punto sia perché, nel suo nucleo, mi sembra mettere in luce una esigenza legittima, sia perché a mio avviso è proprio nel logos relazionale che si può trovare la soluzione. Il punto vero è che un discorso che astragga dalla singolarità e dall’unicità per poi ipostatizzare il concetto raggiunto rischia effettivamente di dire poco della realtà e di generare una dialettica negativa. Si tratta di uno sguardo non totalmente falso e per certi versi anche funzionale, in quanto catalogando la realtà e leggendola secondo un ordine causale generale e necessario la si rende prevedibile ed utilizzabile. Al tempo stesso questo discorso non dice tutto sulla realtà e, in particolar modo, non è in grado di rendere ragione di quella realtà apportatrice di novità che sono le persone. Torniamo proprio a quanto richiamavamo in apertura riguardo al concetto di persona. Dire che un uomo o una donna sono persone è vero e ci fornisce anche un certo grado di informazioni. Tuttavia la persona umana è corporea e, in quanto tale, è sempre sessuata. Dimenticare il corpo in favore di una definizione neutra, solo sbilanciata sulla considerazione della trascendenza, della capacità di linguaggio, della razionalità, significa semplicemente o non parlare delle persone umane, o rendere il corpo periferico rispetto alla profondità ontologica dell’essere una persona. Inoltre, se il corpo non è importante, la distinzione sessuale diviene indifferente o, tuttalpiù, funzionale solo alla specie. Poiché però, di fatto, chi opera tale concettualizzazione è pur sempre un essere umano, e quindi corporeo, si presenta il rischio (poi 18
È questa ad esempio la posizione di Adriana Cavarero. Cfr. Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Cavarero, Franco Restaino, Le filosofie femministe (Milano: Bruno Mondadori, 2002): 79-115.
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di fatto storicamente verificatosi) che le caratteristiche di quell’essere umano corporeo e quindi concretamente sessuato siano implicitamente assunte come definitorie dell’universale. In questo modo effettivamente ci ritroviamo imbrigliati nel movimento dialettico di un’eterna contrapposizione tra tesi e antitesi che non si può risolvere se non con la subordinazione dell’una all’altra, come la figura hegeliana della lotta servo-padrone illustra. Ciò che non viene considerato nella critica al logos unificante, però, è l’esistenza di un altro tipo di logos, quello che negli studi di Maspero sull’ontologia trinitaria troviamo indicato come logos-ut-relatio,19 che ampia senza contrapporsi il logos-ut-ratio delle relazioni necessarie. I concetti, di cui non si può fare a meno, de-finiscono, indicano i confini di ciò di cui si parla e lo rendono esprimibile. Tuttavia la realtà personale non è mai propriamente de-finibile perché richiede di coniugare l’universale con l’irripetibile dell’unicità. Da un lato possiamo designare quella concreta persona come un essere umano, indicare se è di sesso maschile o femminile, dire che lavoro svolge (è una docente, un giornalista, un operaio ecc.), se è coniugata, ecc. Questa descrizione ci fornisce alcune importanti informazioni su colui o colei di cui 19
Cfr. Giulio Maspero, Essere e relazione, L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013). Il discorso di Maspero si muove chiaramente in ambito teologico e si riferisce primariamente all’ontologia del Dio cristiano. Tuttavia mi sembra che il riferimento ad un logos ut relatio sia esplicativo anche della realtà creaturale, e pertanto umana, pur trovando la sua più piena realizzazione in Dio. Certamente per procedere in questa direzione occorre conservare l’analogia, posto che solo in Dio la relazione è in sé stessa sussistente. All’interno di un impianto metafisico aperto alla trascendenza, l’essere degli enti finiti è comunque sempre un essere per partecipazione. Procedendo nel solco della rivoluzione di pensiero che ha introdotto la pluralità nell’unità (a cui accennavamo sopra richiamando la storia del concetto di persona), si può effettivamente trarre l’idea che, se l’Essere Primo è relazione, questa relazione immanente al principio in qualche modo si rifletta in ciò che, essendo, di quell’essere è partecipe. In ogni caso, muovendosi nei confini metodologici della filosofia è possibile indagare il ruolo della relazione nell’identità umana anche senza partire direttamente dalla nozione cristiana di Trinità, come si cerca di fare nelle pagine che seguono.
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stiamo parlando. Dire che è un essere umano indica che si tratta di un membro di questa specie e non di un altro vivente, fatto che porta con sé un implicito riferimento al suo essere razionale, libero, capace di linguaggio e di trascendenza. Dire la sua professione porta con sé il rimando a un certo orizzonte di atti abituali e a un certo tipo di relazioni con gli altri e con il mondo. Affermare che qualcuno è coniugato dice di un tipo di relazione oggettivamente descrivibile: quel soggetto, e quindi la sua vita, è unita (con-iunto) a quella di un’altra persona con cui condivide la stessa sorte (con-sorte) e con cui può potenzialmente generare altri esseri umani. Tuttavia: lui o lei sono solo un individuo della specie umana? O solo un individuo degli esseri umani di sesso maschile o femminile? E quanti docenti, giornalisti, operai esistono? Quante coppie sposate? Certo, sono informazioni che ci dicono qualcosa dell’identità, ma devono comunque sempre essere colte come un tratto di narrazione incompiuta. La persona non è qualcosa e, nelle definizioni, si trova stretta. L’unico modo per conoscere chi sia l’altro è lasciare che questi si riveli nella sua unicità con la parola e con l’azione. Svolgere una certa professione implica delle relazioni, ma la specifica identità di coloro che ne fanno parte e il modo in cui il soggetto di cui parliamo vi si pone modulano la relazione stessa, da un lato, e cambiano il modo in cui quel soggetto è dall’altro. Per scoprire tutto questo occorre mettersi in relazione con lui perché solo così un chi si può rivelare. Detto altrimenti: le stesse concrete relazioni che entrano a costituire la sua identità possono essere comprese solo a partire da una prospettiva a sua volta relazionale. Se semplicemente nominate, si risolvono in concetti, ma perdono la loro unicità che deriva dall’essere una realtà che connette persone uniche. L’esistere è sempre singolare, pur se sempre immerso nel plurale. L’essere umano è un essere unico e si deve trovare il modo di poter dare parola a quella stessa unicità. Se non si esce dal logosut-ratio, il pensiero filosofico sembra disinteressarsene o non avere gli strumenti per interessarsene. In una prospettiva relazionale, invece, il codice binario di inclusione-esclusione viene meno perché la relazione indica sempre almeno una triade: i soggetti in relazione e il loro legame. La persona è sempre sé e le sue relazioni. 234
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Kristeva scrive che «troppo presa dalle frontiere del corpo e forse anche della specie, una donna si sente sempre in esilio [. . .] nei confronti del potere di generalizzazione del linguaggio. Questo [. . .] fa sì che una donna sia sempre singolare, e che essa manifesti anzi il singolare del singolare».20 Si tratta di una osservazione che ci offre una pista di come a partire dalla donna sia possibile accedere ad una antropologia retta da un logos che oltrepassi la dimesione della misura e della necessità, traducibili in leggi e concetti universali, per includere il singolare e l’irripetibile. Mi sembra interessante notare, a questo proposito, come lo stesso pensiero della differenza che si è conquistato l’egemonia nell’orizzonte del femminismo italiano, veicoli la sua difesa proprio attraverso delle prassi plurali (politiche). Il punto di avvio è il sé: partire da sé e dalla propria esperienza all’interno di pratiche di autocoscienza e autonarrazione che acquistano valore politico. In un contesto relazionale, ciascuna donna si espone alle altre raccontando la propria vita. Il sé che viene alla luce è allora da subito singolare perché emerge intessuto del vissuto, ed è anche da subito inserito nella pratica relazionale da cui solo poi emerge la teoria. La riflessione speculativa non è quindi astratta, non parte da ciò che c’è di comune tra le persone umane, ma dalla particolarità, strutturando in tal modo un linguaggio contestuale e relazionale. Mi sembra un punto di interessante convergenza che vale la pena esplorare. Tuttavia mi pare altrettanto importante cogliere una profonda differenza: la pratica relazionale non è ancora il logos relazionale. Se ci si ferma alla singolarità della narrazione, il logos che ne deriva torna ad essere opposto a quello universale, non esce dalla contrapposizione. Il dialogo e la narrazione riconoscente dell’unicità richiede infatti una integrazione per potersi presentare come guida dell’azione là dove le singole identità entrano in una zona di reciproco conflitto. Occorre invece partire proprio dalla relazione e dal suo ruolo costitutivo nell’identità del soggetto. Può offrire una pista tornare a considerare tale “singolarità in relazione” dal punto di vista del corpo, filo rosso di tutta questa riflessione. Il 20
Julia Kristeva, “Hérétique de l’amour”, Tel Quel 74 (1977): 30-49 (tr. it. Eretica dell’amore, a cura di Edda Melon, Torino: la Rosa, 1979): 35.
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corpo riconduce alla singolarità, e proprio la singolarità situa il soggetto nelle concrete relazioni personali che lo costituiscono e che sfuggono al discorso universalizzante delle relazioni necessarie. A questo proposito reputo significativo che con l’avvento storico del pensiero cristiano, oltre all’irruzione della pluralità nell’unità faccia presto la sua comparsa la tematizzazione della maternità, testimoniata dalla ricca iconografia della Madre e del Bambino. L’Incarnazione (che è corpo) prende corpo (si struttura) in un corpo (di una donna) e in una relazione materna e filiale. Nella cultura greca al centro c’è l’eroe, il pensatore, il politico, ma non la donna e men che meno la madre. La donna con la sua bellezza seduttrice è fonte di guerre e contese (Elena) o attende fedelmente il ritorno dello sposo (Penelope), ma le avventure da narrare non sono le loro: sono quelle di Paride, o di Ulisse. Attraverso le loro figure si rappresentano piuttosto dei concetti: troviamo la donna legata all’idea impersonale della fertilità della terra (pensiamo a Demetra e a Persefone), alla sfrenatezza priva di senno (le Baccanti, sacerdotesse di Dioniso), alla cura del singolare che non può coniugarsi con l’universale della Polis retta dalla legge (Antigone). Il suo essere situata come custode della vita e di ciò che è domestico, al margine dell’agire politico – affidato all’uomo – e quindi al margine della rappresentabilità, è sottolineato per contrasto nell’orrore della figura di Medea che, travolta dalla passionalità e dal desiderio di vendetta, uccide i suoi figli. La contrapposizione tra la donna e il logos è poi superbamente espressa nelle Eumenidi di Eschilo con le parole di Atena: «è mio compito la scelta del giudizio conclusivo. Il mio voto: ecco, l’aggiungo alla parte di Oreste. Non c’è madre che m’abbia dato la vita. Il mio favore va sempre alla parte maschile – purché non si tratti di nozze – dal fondo del cuore. Io sono figlia soltanto del padre. Perciò non calcolo troppo la fine di una che ha ucciso lo sposo, scolta delle mura domestiche».21 Quando una figura femminile (benché divina) ha il ruolo di giudice e quindi di ragione, non è nata da madre ma, significativamente, dalla testa di Zeus. 21
Eschilo, Eumenidi, vv. 736-740.
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Ecco invece che con il cristianesimo troviamo un annuncio sconvolgente che ribalta gli equilibri: il Logos si fa carne e nasce da una donna. Se da un lato questa immagine può essere letta come la riproposizione dello stereotipo che colloca l’uomo nel dominio della ragione e la donna in quello del corpo, a ben vedere troviamo piuttosto che il Logos stesso risulta di fatto dipendente dalla donna. L’iconografia materna trova allora uno spazio tutto nuovo che va dalla figura della Vergine col Bambino alla Pietà in cui la Madonna sorregge il corpo del Figlio morto. La relazione singolare di questa donna con questo figlio (così come di questo figlio e di questa donna) esce dai confini del privato e del non rappresentabile. 4
Uomo e donna
L’immediato dato del nostro essere sessuati apre il capitolo della relazione tra uomini e donne. A partire dalla constatazione di un’antropologia e di un assetto sociale e politico che, nel linguaggio del pensiero femminista, abbiamo già indicato come “fallologocentrico”, possiamo identificare tre generali macroposizioni, avendo l’accortezza di ricordare che il variegato pensiero femminista e i women’s studies sono difficilmente riconducibili a griglie di rigida catalogazione. Quasi coincidendo con la prima stagione del movimento, troviamo la rivendicazione di una uguaglianza tra l’uomo e la donna a prescindere dalle differenze di sesso, puntando sulla lotta per la conquista di una serie di diritti civili. Tra le sue due anime iniziali, liberale e socialista, ci sono punti comuni e divergenze, ma semplificando all’estremo possiamo indicare nell’uguaglianza formale l’obiettivo tanto delle manifestazioni pubbliche quanto della riflessione teorica. Il punto debole di questa posizione si situa nell’elementare dato di fatto che uomini e donne non sono identici e che l’idea di un essere umano in cui la differenza sessuale non conti opera un’astrazione dalla realtà. Mi riferisco non tanto al sussistere di possibili discriminazioni di fatto, ma al dato ontologico che l’essere umano non è neutro, ma sessuato: considerarlo a prescindere da questa dimensione significa fargli violenza. Un soggetto perfettamente 237
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e unicamente razionale nonché disincarnato non esiste. Dalla rivendicazione dell’assimilazione egualitaria risulta fattualmente un’uguaglianza che si risolve nella assimilazione della donna al modello maschile, da sempre antropologicamente considerato paradigmatico. Non è difficile constatare come questo generi una nuova contrapposizione, poiché la simulazione funzionale di essere ciò che non si è struttura una dinamica relazionale dialettica. Da un lato, anziché presentarsi contenutisticamente in positivo, la donna finisce col doversi porre ancora una volta a partire da una negazione: “non è” meno dell’uomo; dall’altro il fatto della sua singolarità deve essere intimamente silenziato. Una posizione diametralmente opposta è quella assunta dalle sostenitrici di una improponibilità della riconoscibilità del soggetto al di fuori del suo costante e singolarissimo mutare. Sono autrici accomunate dall’esigenza definita come “post-moderna” di fare spazio al mutamento e alla pluralità attraverso una destrutturazione dell’essere e della sostanza. Una pensatrice come Rosi Braidotti, ad esempio, sostiene che la differenza sessuale richieda di transitare in modo nomade tra tre livelli:22 quello della differenza tra i due sessi, criticando la falsa universalità del sistema simbolico maschile;23 quello della stessa categoria di donna, che non può resistere di fronte alla pluralità delle variabili che la attraversano (quali l’orientamento sessuale, l’etnia o la classe sociale); quello delle differenze che si intrecciano nella stessa singola donna (tra il conscio e l’inconscio, ma anche tra tendenze, posizioni e relazioni che intesse nel tempo, diacronicamente e sincronicamente). L’idea è quella di «trasportare i flussi nomadici, la libera circolazione nel cuore stesso della soggettività, rendendola multipla e non unitaria».24 Con tratti diversi, ma con una analoga preoccupazione di destrutturare qua22
Rosi Braidotti, Nomadic Subjects. Embodiment and Sexual difference in Contemporary Feminist Theory, (Cambridge: Columbia University Press, 1994) (tr.it. Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma: Donzelli,1995). 23 A questo proposito Braidotti si pone tra le voci critiche della posizione emancipazionista della donna ritenendo che di fatto comporti, come sopra vedevamo, l’assunzione di un universalismo antropologico fintamente neutro. 24 Braidotti, Nuovi soggetti nomadi (Roma: Luca Sossella Editore, 2002): 9.
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lunque riferimento privilegiato ad un soggetto additabile come norma, si colloca il lavoro di Judith Butler25 che, attraverso un uso eversivo del linguaggio, mira a non rispettare alcun codice o discorso che comporti una attribuzione di identità. Il genere, il sesso e la sessualità sono da lei considerati usi performativi del linguaggio che, rafforzati dalla loro reiterazione, istituiscono ruoli e attribuiscono identità. Ritenendo dunque ogni identità come il frutto di una costruzione culturale, Butler trova la soluzione nell’adozione di condotte costantemente mutevoli che scompaginino i ruoli. In questo senso la questione stessa del rapporto tra uomini e donne viene a cadere.26 Pur senza entrare nella disamina puntuale di queste tesi, mi limito ad avanzare un’osservazione generale di merito. Una volta eliminata la possibilità di indagare l’identità, infatti, viene meno la possibilità stessa della relazione. Per entrare in relazione con qualcuno (la cui identità si modula anche attraverso questa relazione) occorre poter in qualche modo avventurarsi nel percorso di scoperta di chi egli sia. Se ciò che dell’altro appare e ciò che l’altro rivela di sé è sempre da interpretare o come il frutto della costruzione sociale, o come il momentaneo apparire di qualcuno che un attimo dopo è già altro, la relazione interpersonale viene meno. Ci possono solo essere transazioni puntuali di servizi, prestazioni o informazioni di livello tecnico, ma mai un legame che, pur se di intensità variabile, permetta la condivisione dell’intimità. Ecco allora che ciò che apparentemente disarma il potenziale bellico delle relazioni le rende in realtà semplicemente impossibili. Non solo l’inimicizia, ma anche l’amicizia risulta impraticabile, perché si dissolve l’altro o l’altra di cui essere amici. Se 25
Si veda ad esempio Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (New York-London: Routledge, 1990) (tr. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari: Laterza, 2013); Bodies that matter: On the Discursive Limits of Sex (New York-London: Routledge, 1993) (tr. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Milano: Feltrinelli, 1997). 26 Butler ritiene che la strategia distintiva tra sesso e genere operata da molte femministe sia non solo inefficace, ma anche dannosa, perché ripropone il concetto di donna senza accorgersi delle strutture di potere che ne hanno determinato il formarsi. Su un’analoga scia si pone anche il lavoro di Teresa de Lauretis. Cfr. ad esempio Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici (Milano: Feltrinelli, 1999).
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non si vuole rinunciare alla comunicazione di sé e alla condivisione del mondo con l’altro, questa costruzione teorica nella prassi non può che essere messa tra parentesi. Un’articolazione ulteriore è rinvenibile in quello che è stato chiamato il pensiero della differenza, a cui abbiamo già accennato (almeno per il suo versante al di qua delle Alpi) a proposito delle pratiche di autocoscienza e autonarrazione. Vi è riconducibile anche il pensiero della già citata Rosi Braidotti, ma, per lo più, all’interno del panorama italiano questa scuola si è in qualche modo liberata del problema del soggetto concentrandosi su due poli: quello della politica del simbolico e quello del recupero della figura della madre. Proprio la madre (su questo Luisa Muraro è certamente la figura di spicco) è vista come la fonte sia della corporeità sia della trasmissione simbolica. È la relazione fra donne, e in particolare la relazione con la madre, ad avere un ruolo performativo della soggettività femminile. Nell’orizzonte maschile la donna o risulta irrapresentabile, o costituisce lo specchio dell’uomo, assumendo alternativamente l’immagine che lui vi proietta (madre, moglie, amante). Secondo Muraro occorre recuperare la genealogia femminile e riconnettersi alla madre, poiché l’origine dell’ordine simbolico maschile affonda le radici proprio nella sua rimozione. Si tratta invece di riconoscere il debito dovuto alla madre, non a quella reale, ma all’ordine simbolico della madre. In altre parole, l’obiettivo è quello di recuperare la genealogia femminile, la consapevolezza dell’essere nati da donna. Per questo amare la madre fa ordine simbolico.27 L’espressione “pensiero della differenza” vuole rispecchiare l’affermazione non teorica, ma attraverso pratiche, della differenza della donna. Propriamente, come sottolinea la stessa Muraro in più di una occasione, questo pensiero è nato nel momento in cui le donne si sono staccate dagli uomini per costruire una società femminile, abbandonando l’idea precedente di unirsi agli uomini come ad eguali. La novità consiste nel recupero dell’antica idea che le donne sono diverse, ma dandogli statuto simbolico nuovo, non inserendosi nel contestato logos maschile e a partire dallo sguardo di 27
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (Roma: Editori Riuniti, 1991).
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questo. Da tale prospettiva si comprende allora come la differenza sessuale non stia tra le donne e gli uomini, ma sia in,28 interna a ciascuna e a ciascuno. Proprio da questo suggerimento vorrei partire ora per tratteggiare quale relazione possa intercorrere tra l’uomo e la donna partendo dalla differenza sessuale, ma una differenza riguadagnata senza partire da un soggetto immediatamente colto come “altro da”. Conoscersi nella relazione Se come abbiamo più volte ribadito il nostro essere esseri corporei sessuati fa parte della nostra identità, allora la differenza sessuale ha valore non solo sociale, ma primariamente ontologico. La relazione con l’altro da sé, e con l’altro del genere opposto al proprio, svela qualcosa proprio di questa identità. Per conoscere qualcuno che non siamo noi occorre entrare in relazione con lui o con lei, e certamente tanto più la relazione sarà profonda tanto più accesso avremo alla sua identità. Tuttavia è anche vero che conoscersi nella relazione svela qualcosa di noi a noi stessi, permette di conoscere con un nuovo livello di riflessività non solo l’altro o l’altra, ma la propria persona. Né l’uomo né la donna, da soli, sono l’essere umano, nessuno dei due esaurisce i tratti che gli sono propri. Per dire chi sia l’essere umano occorre considerare che questi si dà nella dualità del suo essere sessuato, del suo essere uomo e donna. A questo proposito Luce Irigaray osserva come l’essere non sia uno, ma due, e che proprio questa dualità renda esplicito come nessuno dei due generi esaurisca l’essere,29 come ci sia una parte del mondo che resti accessibile solo attraverso l’altro. Tale differenza che si radica nel corpo e parte, senza in esso esaurirsi, dal 28
Questo tema è sinteticamente ed efficacemente espresso nella lectio tenuta da Luisa Muraro il 29 marzo 2015. Nelle sue linee principali l’intervento è stato pubblicato nella sezione 27ora del Corriere della Sera nell’edizione on line, rinvenibile all’indirizzo http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/ (consultata il 3.3.2017). 29 Luce Irigaray, Essere due (Torino: Bollati Boringhieri, 1994).
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corpo, per la pensatrice belga costituisce la forza della nostra società, poiché è la differenza da cui hanno origine tutte le altre differenze. La fedeltà a se stessi e al proprio genere feconda il mondo, lo porta alla luce, permette di dare e di attingere. L’impossibilità di esaurire il genere umano nel proprio essere donna o uomo è una ricchezza. Abbiamo visto come per lungo tempo il pensiero, nelle sue diverse declinazioni, abbia osservato i sessi come negazione dell’altro, e più propriamente la donna come un suo essere un non-uomo. Nella concettualizzazione della realtà, però, la negazione lasciata a sé sola non è mai feconda, perché ciò che non è, appunto, si caratterizza come assenza di essere. Dire che l’uomo e la donna da soli non esauriscono l’ontologia dell’umano non comporta definirli per negazione; se dicessimo che la donna non è il tutto dell’umano perché non è anche un uomo (e viceversa per l’uomo) non avrebbe senso. Piuttosto questa peculiarità identitaria comporta l’apertura all’altro e all’altra. Se ciascuno di noi è un essere umano, ma non lo esaurisce nel suo essere, solo l’apertura all’altro può svelare aspetti di sé, del proprio essere un essere umano, che da soli rimangono inaccessibili. Sono aspetti della propria identità, ma che al tempo stesso per essere colti nella loro ricchezza vanno mantenuti nella loro alterità, nell’essere caratteristica dell’altro e dell’altra. E questo va mantenuto insieme ai tratti di sé che si manifestano solo nella relazione con il simile che non è identico e che appaiono a partire da uno sguardo che li coglie nella loro differenza. Si comprende qui tutto il limite dell’immagine androgina proposta da Platone. Conformemente alla narrazione del Simposio, senza l’altra metà l’uomo e la donna sarebbero manchevoli, con un’identità frantumata, persa, infranta all’origine. L’unità con l’altro, sempre puntuale e mai perpetuabile, mira ad una fusione, a ricostituire quell’uno che è andato perduto. In questi termini il conato all’unione tende a sopprimere l’alterità per ricostituire, appunto, l’uno. Questo tentativo produce una duplice frustrazione. Ciascuno dei due soggetti viene nullificato, deve perdere se stesso e quindi non è voluto per se stesso: la sua preziosità è funzionale, la sua unicità è cercata per essere negata. Né l’uomo né la donna sono riconosciuti e valorizzati in sé e, fattualmente, la relazione 242
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si torce facilmente in una dialettica di potere, dove il più forte si impossessa dell’altro. Tale tensione all’uno è poi ulteriormente frustrata nell’impossibilità di essere mantenuta: uomo e donna non sono uno, ma due. L’unità androgina non permane. Anche se uno dei due dominasse l’altro o l’altra perpetuando la relazione di nullificazione, si perderebbe l’apporto specifico della pienezza orgogliosa e fiorente della soggettività umana che è donna e della soggettività umana che è uomo. L’apertura a quell’essere un essere umano che è propria dell’altro e dell’altra è ricchezza e porta ad un oltre. C’è una trascendenza tra l’uomo e la donna, tra la donna e l’uomo. Ciascuno è altro o altra da sé senza essere totalmente altro o altra. Ciascuno va mantenuto nella sua alterità, si arricchisce e ci arricchisce in questa apertura alla propria unicità. Un arricchimento che richiede il permanere della relazione e nella relazione. Proprio partendo da qui cogliamo una fecondità che trascende quella fisica. Che cosa porta a scoprire la profondità di sé? In parte lo sguardo dell’altro che, come uno specchio inconsapevole, rende manifesto qualcosa di quel punto che rimane invisibile all’osservatore, proprio perché ne costituisce il posizionamento e l’interiorità insondabile. Come l’occhio non può guardare se stesso così la persona non è totalmente accessibile al proprio sguardo. Non lo è neanche a quello altrui, ma sono due sguardi, due accessi, mai totalmente dati e su cui non è possibile soffermarsi se non sulla soglia. Io non sono il mio sguardo, né lo sguardo altrui. Entrambi rivelano. Tale rivelazione non è esclusiva del rapporto con il sesso che non è il nostro: la narrabilità della propria storia e l’accesso alla propria identità è affidata al dialogo e al racconto anche tra persone dello stesso genere, fatto massimamente presente nelle amicizie tra donne30 . Tuttavia proprio la diversità di genere – quella diversità che abbiamo detto essere la fonte di ogni altra diversità – dà accesso a tratti dell’umano che viceversa resterebbero celati, non colti nella loro peculiarità e, quindi, non coltivabili. 30
Si veda a questo proposito Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (Milano: Feltrinelli, 1997).
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C’è una profondità che si svela nel tempo e che si apprende e si amplia solo in uno spazio di relazione. Fecondità del vivere. Fecondità che per essere tale richiede l’altro da sé. In questo senso i due sessi non sono complementari se non in modo sui generis. Come la sua stessa radice suggerisce, complementare indica una parte che, insieme ad un’altra (o altre), costituisce un intero. Ma l’uomo e la donna non sono la frantumazione di un tutto, due esseri in sé manchevoli. È la ricchezza dell’essere personale, non la manchevolezza, a permettere la relazione con l’altro. L’uomo e la donna sono piuttosto unicità aperte che, per diventare ciò che possono essere, hanno bisogno dell’altro. Questa apertura è resa manifesta anche (non solo) dalla generazione fisica: chi nasce da questa reciproca fecondità si svela a sua volta come un altro che, nella sua unicità, intesserà una relazione diversa che svelerà nuove profondità. In questo orizzonte, dove nessuno costituisce la posizione paradigmatica dell’umano, trova spazio la comprensione di sé come essere per l’altro. Tale espressione è a volte contestata perché intesa come subordinante, o al massimo come una mediazione eventualmente necessaria, ma da superare per tonare a sé. Pur comprendendo la preoccupazione, mi sembra che il problema così sia mal posto in partenza. Di fatto non si tratta mai, propriamente, di un tornare a sé. Se infatti il punto di partenza e di arrivo coincidessero, il viaggio sarebbe vano. Si tratta piuttosto di avere accesso a sé, alla ricchezza nuova di sé (come la medesima sorgente da cui si trae sempre nuova acqua) attraverso il dare la vita all’altro e per l’altro. Ciò che è chiuso in sé è infatti privo di vita, a tutti i livelli ontologici. A sua volta l’essere aperto all’altro da sé può essere frantumante e dispersivo, depauperante se, semplicemente, inteso come un vivere fuori di sé e in altro da sé.31 Essere per l’altro significa invece essere se stessi e promuovere, a partire da ciò che si è 31
Non mi riferisco con questo alla questione metafisica dell’essere mantenuti nell’essere da Dio (e quindi in Dio, partecipando del suo essere) dove il vivere in altro da sé muta radicalmente. Come osserva Kierkegaard, «soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mente si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. L’onnipotenza di Dio è perciò identica alla sua bontà» (S. Kierkegaard, Diario 1846, VII A 181).
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e quindi si può, l’essere dell’altro in quanto altro, colto non in astratto, ma nella relazione con sé, ossia in quello spazio in cui appare, appunto, nella sua singolarità. «Sono tutta, forse, ma non il tutto» osserva ancora Luce Irigaray, «e se mi ricevo da te, mi ricevo come me. [. . .] Essere fedele a te richiede essere fedele a me. Esistere significa forse offrirti una possibilità di divenire te?».32 L’apertura e la fedeltà all’essere dell’altro non richiedono l’annullamento di sé. Per entrare nella relazione ed essere in essa fecondi, per sé e per l’altro, c’è bisogno di avere una identità. Questa cambia nella relazione (si arricchisce o, se è una cattiva relazione, si impoverisce), ma non è costituita dalla sola relazione. A questo si aggiunga che, per restituire l’altro a se stesso, non ci si può annullare. È più facile cogliere come essere-per non costituisca un asservimento, una strumentalità, se recuperiamo l’originario posizionamento dell’esserecon. Lo abbiamo precedentemente visto richiamando il nostro comune statuto di esseri generati. La persona umana è un essere-per perché è originariamente un essere-con. Non può essere pienamente se stessa senza questo con che le è costitutivo. Ecco perché la relazione va curata: qui si colloca il senso del per. Una relazione è generante perché coniuga questa duplice dimensione: si rimane-con (nella relazione) e in essa si promuove l’altro nella cui relazione si ha accesso a sé. Su questa linea vorrei fare ancora due rilievi. Il primo è che la relazione con l’altro richiede la parola. Il mondo che si costituisce fra l’uomo e la donna richiede che il corpo sia sempre colto come corpo personale, soglia di accesso a un altro e altra che rimane sempre trascendente a sé. A quel corpo occorre dare e lasciare la parola (così come i silenzi che rendono possibile e significante la parola stessa). Il logos relazionale che permette di coniugare lo spazio dell’interiorità e della libertà con la possibilità della comunicazione e della generatività richiede che si rimanga, appunto, nel logos. Occorre sempre narrare all’altro chi siamo e permettere all’altro di narrarci chi siamo. In questo mi sembra si possa trovare una particolare assonanza tra la riflessione filosofica sul ruolo del corpo nell’identità personale e l’attenzione psicoanalitica sul desiderio, o me32
Irigaray, Essere due, 24. Corsivo mio.
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Essere si declina al plurale. Identità e generazione
glio sulla trasformazione dell’impulso in desiderio che, per avvenire, ha bisogno dello spazio della parola data e attesa.33 Quando si trasforma il bisogno (e l’impulso a soddisfarlo) in desiderio, questo è allora rivolto non a una cosa ma a qualcuno. Qui si trova il motivo per cui il desiderio non trova soddisfazione nel possesso di qualcosa, fosse anche il corpo dell’altro o dell’altra, ma rimane aperto alla profondità insondabile della sua unicità. Nella relazione tra l’uomo e la donna la parola è capace di far emergere l’interiorità dell’altro e dell’altra e di com-prenderla – pur riconoscendo sempre la sua inesauribile trascendenza – apprendendo anche il reciproco ordine simbolico e il diverso nesso con l’altro che, nell’immediatezza, il corpo riveste per entrambi.34 Efficace a questo proposito l’osservazione di Irigaray: «al di là dell’istinto, rinunciando al gesto predatore, avviene lo scambio. [. . .] Condividere la parola non significa credere: l’incarnazione sventa la fede cieca, vuole che ciascuno/a sia presente e parli. Spetta a noi essere fedeli a quest’incrocio: corpo e verbo. Da una tale fedeltà allontana il diventare universale della parola, mentre parlarci la attua rifiutando ogni condividere che non sia anche parola. Né corpo né linguaggio semplicemente, ma incarnazione fra noi: il verbo essendo carne e la carne verbo»35 . La seconda osservazione verte sulla generatività dell’incontro. C’è una generazione spirituale, che include il simbolico, e una generazione fisica, dove la prima trascende la seconda. In ogni caso, senza diversità non c’è fecondità. Proprio perché la relazione entra nell’identità, quella che include l’attestazione e l’accoglienza dell’altro e dell’altra nella sua diversità, genera e ri-genera in primo luogo chi sta nella relazione. In questo senso, antropologicamente, la stessa genitorialità si scopre e scopre chi ne è protagonista. Si scopre che la relazione con l’altro da sé ha creato qualcosa di radicalmente nuovo, che non è frutto del proprio 33
Su questo tema si veda ad esempio Massimo Recalcati, Ritratto del desiderio (Milano: Raffaello Cortina, 2012). 34 Una sintetica ed efficace descrizione di questo nesso si può trovare nel testo di Mariolina Ceriotti Migliarese, Erotica e Materna (Milano: Edizioni Ares, 2015), capitolo V Il linguaggio del sesso, 103-124. 35 Irigaray, Essere due, 21.
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progetto, che appare e si presenta nella sua alterità, irriducibile a sé eppure che è ciò che è anche a partire da sé. Scopre perché l’apparire del terzo svela quel di più che deriva dalla relazione (il suo potere causale) e manifesta come questo ridondi nei soggetti modificandoli. Per questo c’è una fecondità dei corpi e una fecondità dello spirito, dove la prima è immagine della seconda, anche se la prima risulta più tangibile e concreta di quest’ultima. La generatività richiede sempre l’altro: non è immagine di sé, ripetitiva. È qualcosa di nuovo, che è più della somma dei due. Ci si sorprende pregni dell’altro senza essere in lui o lei assorbiti e ci si stupisce di una novità che appare e che non è prodotta dai singoli, che chiede di essere scoperta, tutelata e fatta crescere. In nessun caso l’altro che sta con sé nella relazione può mai essere assorbito a sé, annullato nella sua alterità. Proprio questa alterità richiede di riconoscere la sua novità costante, così come nella generazione di un figlio questi è a sua volta una novità che ha origine senza essere destinata alla sua origine, ma a nuova fecondità. Il riferimento all’essere pregni dell’altro proprio di ogni generatività appartiene sia all’uomo sia alla donna. Quest’ultima però ne è più facilmente consapevole perché, nella specificità della generazione nel corpo, solo lei è pervasa dall’altro e custodisce in sé la novità che deriva da entrambi. La donna rende questo processo visibile. Su questo vale la pena soffermarsi: attraverso di lei possiamo cogliere qualcosa dell’umano che sfugge allo sguardo che parta dal maschile. 5
La donna: un essere che può essere due
La prospettiva antropologica di un soggetto relazionale può offrire una luce per comprendere la peculiarità femminile di essere colei che può far nascere. A sua volta, partire dalla donna e dalla sua specifica generatività può apportare qualcosa alla comprensione della struttura umana della relazione. Se per secoli il pensiero antropologico è partito dall’uomo (soggetto del pensare) e sull’uomo (come oggetto pensato) mancando di fatto dell’elemento dalla e della donna, forse ricominciare con una antropologia che prenda da lei le mosse può apportare elementi importanti. Naturalmente occorre vigilare per non cadere nel meccani247
Essere si declina al plurale. Identità e generazione
smo simmetrico e opposto dell’esclusione e della parzialità. L’obiettivo è infatti la comprensione del nostro comune essere esseri umani, persone umane. Non si tratta pertanto di abbracciare un pensiero rivendicativo, ma di osare uno sguardo che si spinga sull’ontologia. Per questo il punto di partenza non è immediatamente la morale, né la politica, ma la teoresi sull’umano. Una teoresi che però, proprio per questo motivo, è incarnata. La donna può essere madre, così come d’altronde l’uomo può essere padre. Molte delle esponenti del femminismo e dei women’s studies si sono battute per rompere l’identificazione tra il concetto di donna e quello di madre. I due termini non solo non sono fattualmente coestensivi (ci sono donne che non sono madri), ma la tesi forte è che non lo siano neanche simbolicamente, poiché la realizzazione della donna non passa né esclusivamente né necessariamente attraverso la maternità. In alcuni casi, per la verità divenuta oggetto di critica anche nel panorama femminista, tale rottura ha avuto origine e al tempo stesso ha condotto ad un disprezzo della maternità, considerata lesiva dell’identità femminile; altre volte, invece, ha portato ad una unilaterale enfatizzazione della progettualità che ha assegnato il valore della maternità alla sola intenzionalità progettante della donna. Entrambe le posizioni appaiono deficitarie. La prima perché finisce col veicolare un giudizio negativo del corpo femminile così come sul modo in cui ogni essere umano viene al mondo: l’umanità sarebbe in questo modo indelebilmente e ineludibilmente segnata dalla violenza e dalla ingiustizia. La seconda perché perde di vista lo statuto relazionale della maternità stessa, dimenticandosi che non si tratta di una progettualità solipsistica in quanto, nel suo stesso darsi, ha a che fare con l’altro da sé. Altre posizioni additano invece non nella maternità in quanto tale, ma nella sua idealizzazione il dispositivo simbolico che ha contribuito all’emarginazione sociale e politica della donna.36 36
Adrienne Reich sostiene ad esempio che sia l’istituto della maternità a soggiogare le donne, non l’effettiva esperienza soggettiva di ciascuna madre. Al tempo stesso sottolinea la necessità di non omettere il fatto che ogni essere umano è sempre nato da donna. L’istituto della maternità veicolerebbe l’idea che questa implichi un altruismo assoluto, un sacrificio onnicomprensivo e una costante oblatività
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C’è però un altro modo di distinguere tra l’essere donna e l’essere madre, capace di tenere insieme la ricchezza generativa propria di ogni vivente (nel caso dell’essere umano nel duplice livello spirituale e fisico) con il rispetto della realtà della donna che, effettivamente, non si esaurisce nel suo essere madre e può non essere fisicamente madre. Come abbiamo già visto, l’alterità ci è costitutiva e dall’incontro con l’altro nasce una novità non prevedibile né progettabile. Tale novità può essere generativa o de-generativa: può portare con sé un incremento o un decremento di bene. È generativa quando viene modulata nella reciproca attestazione e apertura alla unicità dei soggetti in relazione. Tale apertura comporta sempre un rischio, perché implica l’esposizione ai limiti fattuali dell’altro concreto e all’imprevedibilità della sua libertà. L’esposizione in generale è inevitabile – come dice Hannah Arendt gli uomini e non l’uomo abitano la terra –, ma l’esposizione intenzionale richiede di decentrare lo sguardo, di accettare di non essere l’unica fonte di significati del mondo. È solo qui che la novità può essere accolta e manifestarsi. Una apertura alla novità dell’altro che porta con sé anche la possibilità di una vera genitorialità spirituale nei suoi confronti. In questo orizzonte, la maternità e la paternità che partono dal corpo mostrano in modo più marcatamente evidente, ma non esclusivo, come l’oblatività arricchisca gli stessi soggetti dando loro accesso ai beni propri della nuova relazione. Al tempo stesso, nessuno dei due è solo padre o madre: quella relazione entra nella costituzione dell’identità, ma l’identità è più di quella sola relazione. Se riprendiamo infatti l’idea che l’identità sia data da noi e dalla relazione con l’altro da noi, ci accorgiamo che questa non sopprime l’et: la relazione con l’altro richiede un soggetto che non sia totalmente assorbito dalla relazione, pur essendo anche un suo frutto. a senso unico. Questo quadro passerebbe poi ad identificare la donna in quanto tale, ponendosi come suo destino e come sua realizzazione. Secondo Reich tale destino, passivamente ricevuto, trasforma la maternità nel frutto di un istinto e non della libertà: la donna viene identificata con la maternità, che diventa il suo senso, privandola però contemporaneamente della possibilità di dare senso a quella esperienza. Cfr. Adrienne Rich, Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institution (New York: W W Norton & Co Inc, 1995) (tr. it. Nato di donna. Che cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Milano: Garzanti, 1983(3) ).
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La sfida è proprio quella di saper rispettare e armonizzare la pluralità di indicazioni identitarie che provengono dalle diverse sfere di relazioni.37 Nel caso della genitorialità, mentre nell’uomo questa dinamica risulta più evidente, per la donna è stata spesso oggetto di oblio. Si potrebbe pensare che tale dimenticanza possa ridondare in un rafforzamento e arricchimento della maternità, ma non è così. Nessun vivente può dare senza mai ricevere, tanto corporalmente quanto spiritualmente; l’agape va sempre accompagnata anche dall’eros. Per questo motivo, la morte simbolica della donna in favore della sola madre provoca una ipertrofia di quest’ultima che rischia di negare allo stesso figlio lo statuto che gli è proprio: ricercando in quella relazione il riconoscimento unico della propria identità, ci si dimentica che quella del figlio è una libertà che deve prendere altre vie, che non è destinata alla sua origine. Donna e madre. Una serena distinzione dei due livelli di identità, e quindi di relazionalità, consente invece un loro reciproco nutrimento. Andando oltre a questo discorso sulla (ir)rappresentabilità della donna nei soli termini della madre, possiamo comunque trovare come la concreta ontologia carnale della persona umana donna possa aprire nuove finestre su che cosa significhi essere un essere umano. Vorrei provare a ragionarci richiamando la figura biblica della prima coppia, un racconto che costituisce una fonte di rivelazione per il credente e, in ogni caso, un posizionamento simbolico nell’auto-interpretazione dell’essere umano per il non credente. Nei due racconti biblici sulla creazione, il più recente parla immediatamente di maschio e femmina,38 mentre quello più antico, della tradizione Jahvista, narra che inizialmente l’uomo è solo e che questo non è buono.39 Dire che non è buono significa proprio che manca qualcosa che dovrebbe esserci. Ciò che deve esserci è appunto la donna che Dio crea traendola da una costola di lui. Adamo aveva una intimità inenarrabile con Dio, additabile solo con una immagine: passeggiava con Lui nel giardino e 37
Questo significa anche che, a volte, alcune relazioni vadano rifiutate perché incompatibili con delle relazioni già presenti e che si vuole mantenere. 38 Gn 1, 27. 39 Gn 2, 18.
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dava il nome alle cose, godendo del mondo e godendo dell’Altro. Un reciproco gioire (l’uomo gode dell’Altro e Dio gode dell’altro). L’uomo non svanisce di fronte al tutto di Dio, eppure è solo: persino il rapporto con Dio è personale, ma non individuale. Adamo ha bisogno di un’alterità riconoscibile come tale e che al tempo stesso gli sia più simile: Dio crea l’essere umano uomo e donna, cosa molto buona.40 Occorre però soffermarsi su questo dato: ad Adamo non viene affiancato un altro uomo, ma la donna. La solitudine è sanata nella relazione con il simile che non è il medesimo, in una relazione che è sessuata, ma non solo sessuale. Ad un primo livello troviamo una conferma di quanto abbiamo visto in precedenza: qualunque sia la concreta storia personale degli uomini e delle donne, c’è comunque bisogno di Adamo e di Eva. È necessaria la presenza dell’altro e dell’altra per creare un mondo umano che sia tra gli uomini e le donne. È richiesta perché l’uomo e la donna possano aprirsi al mondo, uscire da sé e crescere. Neanche la relazione con Dio è possibile nella solitudine assoluta: con l’altro e nella relazione con l’altro entrambi scoprono una nuova verità di sé e una verità che richiede lo sguardo diverso per essere svelata, una verità dell’umano che né lui né lei da soli posseggono. Osservando la prima coppia possiamo però aggiungere anche una seconda osservazione: Adamo ed Eva sono stati creati, ma non generati. L’essere-con costitutivo dell’umano nella prima coppia è immediatamente affidato alla presenza dei due: in loro non c’è la nascita, eppure c’è la pluralità. Una pluralità sessuata e non simmetrica. Leggendo proprio tale dissimmetria all’interno della relazione e della sua potenzialità generativa troviamo un’evidenza da più parti largamente messa a tema: l’uomo genera fuori di sé e la donna in sé. Una diversità che si riflette poi anche nel modo di porsi nel mondo. Richiamo nuovamente la riflessione di Irigaray: «l’uomo genera fuori di sé e ama fuori di sé, anche quando fabbrica e coltiva fuori di sé per esistere, per essere. Questo modo di fare gli è proprio. La donna diviene o lascia divenire in sé: se stessa o l’altro. Lascia divenire in sé: la donna, il bambino, 40
Gn 1, 31.
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l’uomo. Se non fa (come) l’uomo, se non esce da sé riducendo se stessa a niente, la donna diviene se stessa in se stessa».41 In lei troviamo una capacità di generare in sé l’altro da sé. Se letta nell’orizzonte di quanto abbiamo visto finora, tale realtà rende la donna custode e aralda per entrambi dell’intimità dell’essere in relazione. Una custode che non nasconde, ma che costantemente col suo stesso esserci è chiamata a ricordare. Come abbiamo già avuto modo di richiamare, la nascita è stata assunta come segno della pluralità e del nuovo cominciamento (Arendt) e ogni nascita implica il riferimento ad una madre che ci rimanda ad una relazionalità costitutiva: se è vero che non tutti siamo genitori, è pur sempre vero che tutti condividiamo lo statuto di figli. Proviamo però a guardare la questione ribaltando la prospettiva e osservandola non dal lato dei figli, né genericamente da quello dei genitori, ma più specificatamente dalla prospettiva della donna. Non ogni uomo è padre. Non ogni donna è madre. Però ogni donna è un soggetto che da tutti i punti di vista (ontologico, piscologico, simbolico, sociale) può essere due. La conformità fisica che rende possibile la gravidanza porta con sé la paradossale possibilità di essere due corpi in un solo corpo, un sé-conaltro-da-sé, ossia un sé che è con e include l’altro da sé. Per l’uomo è totalmente differente: il suo potenziale essere padre non implica la possibilità di essere due in uno. Per questo motivo risulta interessante una riconsiderazione della maternità a partire dalla questione ontologica della capacità femminile dell’essere madre. Proprio perché l’esperienza corporea è di primaria importanza, non è privo di significato l’essere nati. Non solo l’avere avuto inizio, ma l’essere stati generati, “gestati”42 e partoriti. C’è stato un periodo unico e irripetibile in cui, uomini e donne, non siamo stati se non in una relazione di ineguagliabile intimità con qualcuno che è altro da noi. Se questo accomuna tutti i nati da donna, solo la donna è però capace di 41 42
Irigaray, Essere due, 87. Mi permetto questa forzatura del linguaggio per esprimere il fatto che la gestazione (dal lat. gestationém, azione di portare), non è una cosa, ma l’atto corporeo, prolungato nel tempo, di una donna.
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essere al contempo uno e due.43 Nella gestazione ci sono due identità de-finibili, ma che al tempo stesso costituiscono nel corpo della donna un’unità. Se il generato è a sua volta di genere femminile, avrà poi la stessa capacità. Non tutte le donne saranno fisicamente madri, ma in quanto tale ogni donna è un soggetto corporeo che può far nascere, e le sue esperienze sono appunto quelle di un soggetto che può essere due, che può contemporaneamente avere in sé il proprio genere e il genere diverso. Tutto questo può poi dar luogo ad un universo simbolico che veicola l’autocomprensione di sé, una rete di significati che cambia nel tempo, che genera relazioni e che da queste relazioni è generata. Si tratta in questo caso di un secondo livello rispetto alla relazione di fatto originante e che può approfondire il senso umano di quella o contraddirlo dando luogo a fratture. Generare e intessere in sé il simile e il dissimile. Tale capacità44 non è comunque autofondata perché implica l’apertura all’apporto di un altro, senza la quale la stessa capacità non esisterebbe come tale. Ecco allora che proprio questa potenzialità rende manifesta un’altra verità umana. L’apertura e l’apporto all’altro richiesto dalla generatività richiede, infatti, una interiorità che la accolga. Lo sbilanciamento nell’azione 43
Un interessante lavoro a questo proposito è quello di Christine Battersby che proprio a partire dal corpo della donna “che può far nascere” cerca di ridefinire la soggettività e di costruire una metafisica materiale. In dialogo critico con la metafisica aristotelica e con Kant, ma anche con il post-strutturalismo lacaniano, Battersby accoglie il pensiero di Kierkegaard e di Bergson incanalandolo nell’idea di una identità fluida, capace di sostituire l’essere con l’essere diventato. Il risultato è appunto quello di una metafisica immanente e del divenire, situata nella concreta carnalità in cui ciascuno nasce e che poi si modula e si risolve nei molteplici ruoli assunti nel tempo e mai definitivi. Nonostante la critica al decostruzionismo al post-modernismo femminista, la sua soluzione non sembra però discostarsi essenzialmente dal soggetto nomade proposto in quel contesto. Cfr. Christine Battersby, The phenomenal woman. Feminist Metaphysics and the Pattern of Identity (Cambridge: Polity Press, 1998). 44 È importante tornare a rilevare che ci stiamo riferendo alla capacità generativa della donna nella sua dimensione di costitutiva struttura e disposizione, non immediatamente né necessariamente alla realizzazione fisica della genitorialità.
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esterna, che non implica una modificazione di sé immediatamente45 esperibile, può dare per lungo tempo la falsa impressione di irrelata potenza e completa autonomia. L’astrazione teoretica di questa esteriorizzazione rischia di ipostatizzare un modello umano che non tiene conto dei legami che al tempo stesso lo limitano e lo reggono. La riflessività richiesta dall’assunzione consapevole della relazionalità può essere accantonata. L’ontologia corporea femminile, invece, pone come dato di partenza una realtà intrinsecamente conformata all’accoglienza dell’altro. Solo facendo in sé spazio all’altro emerge la novità della generazione, a tutti i livelli dello spirituale e del corporeo propri dell’umano. Si tratta di un’esigenza comune all’uomo e alla donna, ma in lei è inscritto nella sua stessa corporeità. La donna, allora, pone o ri-pone al centro la considerazione che nell’uomo si trova una esteriorità che deve progressivamente imparare a diventare intima e nella donna una intimità che progressivamente deve sapersi manifestare. La donna è dunque in sé immediatamente relazionale. Lo è anche l’uomo, ma in lei la relazionalità permea la sua intimità in modo più profondo, proprio perché costitutivamente aperta a generare “dentro” di sé. C’è un nesso tra il fatto che mano a mano che si sale nella scala dell’essere la generatività sia più interiore e quello per cui le relazioni entrano maggiormente in profondità nella costituzione dell’identità. A partire da sé, la donna può ricordarlo all’umano, rammentare che anche il pensiero progettante deve fare i conti con questa apertura e inclusione dell’altro. Anche nella sua fisicità – a prescindere dal fatto che la metta consapevolmente a tema in questa prospettiva – la donna deve infatti considerare questa apertura che (im)pone ritmi, forza, (in)disponibilità del corpo. In modo quasi paradigmatico, lo è nella relazione fisica con l’uomo: non è mai un’azione che termina solo fuori di sé. Se lo si guarda da un logos chiuso, questo fatto costituisce solo un limite per la libertà, ma se lo si osserva nell’orizzonte di un logos relazionale, dà notizia di
45
Qui “immediatamente” non ha un senso temporale, ma quello di un esperire che non è mediato da altro.
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una ricchezza, afferma che la realtà non si esaurisce nel proprio sguardo né nel proprio progetto. La violenza del logos chiuso alle relazioni è attestata anche dallo sfruttamento del corpo femminile, su cui si agisce come su una natura retta da necessità e utilizzabile come uno strumento tra gli altri.46 Tale incomprensione porta anche alla con-fusione delle relazioni che non sono più riconosciute e riconoscibili nella loro realtà. Si vedono solo cose non persone con una intimità e in relazione tra loro. La differenza tra i sessi rivendicata, ma avulsa dal suo senso relazionale si espone alla logica dei rapporti di forza. Non è un caso, allora, che è proprio quella parte del genere umano che più manifestamente porta inscritta la relazione ad essere più vittima della violenza, sotto diverse forme47 . Intrascendibilità del nostro essere-in-relazione. Siamo e stiamo in essa, benché possiamo non pensarla, non porla riflessivamente a tema. Proprio questa mancanza di riflessione, però, significa un diminuito accesso alla realtà. Il sé e l’altro stanno in una relazione costitutiva che implica dipendenza e reciprocità, idea opposta, lo abbiamo visto, a quella di una sostanza autonoma e irrelata. Proprio perché il corpo della donna è in grado di generare in sé altri corpi, questa è più capace di comprendere e di rendere presente come ciascuno debba essere pensato sempre in relazione all’altro da sé. Ritroviamo allora qui una attestazione empirica di quanto inizialmente considerato in termini generali: il dinamismo dell’essere implica il dinamismo dell’identità, a sua volta aperta alle modifiche che le provengono dalle e nelle relazioni. Naturalmente non si tratta di una identità fluida, che si risolve nel suo divenire, perché la relazione non si pone mai come il principio assoluto, ma come il co-principio insieme alla sostanza. C’è sempre un essere 46
In ambito bioetico, ad esempio, questo è particolarmente visibile. Oggi tale sfruttamento, insieme ad un potente misconoscimento delle relazioni, è particolarmente realizzato nella pratica della maternità surrogata. 47 Violenza che, tra l’altro, è una forma di relazione: va cambiata la relazione per terminare la violenza.
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che è con. Il radicamento della relazione nell’essere, e il suo darsi in quel peculiare essere che è la persona umana, mantiene allora aperto l’apparente paradosso di un soggetto invariante e che al tempo stesso muta. Un mutare non solo accidentale, anche se la direzione di questo divenire ha il carattere dell’accidentalità, perché può sempre essere altrimenti. Approcciare l’identità nei termini della relazionalità, allora, permette di conciliare l’unicità irripetibile di ciascuno con l’universalità del discorso, senza cadere in una dialettica binaria ed escludente che trova il suo perno nell’opposizione tra universale e particolare. In questo senso essere si declina al plurale, non solo perché ci sono gli esseri, ma perché, proprio per essere, ognuno ha in sé la pluralità della relazione con l’altro.
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La riflessività nella relazione uomo-donna Giovanna Rossi (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii (Dante, Par. IX, 80-81)
1
Ripensare la relazione uomo donna riflessivamente
Nell’attuale quadro socio-culturale, contrassegnato da una notevole effervescenza, la riflessione sul tema della relazione tra uomo e donna, oggi fortemente messo alla prova dalle teorie del gender, assume connotazioni di complessità. Il percorso di acquisizione dell’identità personale (sessuata) e sociale (ruoli di genere),1 sempre più frammentato, si prospetta come rischioso, in quanto intreccio nel quale devono combinarsi le sfide poste da un contesto carente di punti di riferimento per l’assunzione di un ruolo di gender e le risorse disponibili per far fronte ad esse, vale a dire, oltre alla base biologica dell’individuo, il patrimonio valoriale e culturale e le trame relazionali nelle quali si è formata e si forma l’esperienza maschile e femminile. Il concetto di morfogenesi2 consente di cogliere il cambiamento nella relazione uomo-donna mettendone in evidenza le variabili strutturali 1
2
Isabella Crespi, “Identità sessuale/di genere”, in Lucia Boccacin, Riccardo Prandini, Paolo Terenzi (a cura di), Lessico di Sociologia relazionale (Bologna: Il Mulino, 2016): 129-132. Margaret S. Archer, Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach (Cambridge: Cambridge University Press, 1995); Pierpaolo Donati, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991).
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La riflessività nella relazione uomo-donna
e culturali. Nell’interpretazione relazionale di tale processo si enfatizza soprattutto l’idea che struttura e cultura sono relazioni stabilizzate in fasi precedenti (cioè possiedono, anzi sono esse stesse proprietà emergenti relazionali), che possono essere rigenerate o modificate attraverso relazioni in atto. Per comprendere l’esito di tale processo occorre chiarire quale tipo di riflessività viene messa in campo. Diversi Autori3 hanno approfondito tale concetto: Beck4 e Giddens,5 ad esempio, considerano la riflessività come esigenza (ma non conseguenza automatica) della società del rischio, che ha portato e porta alla graduale scomparsa dell’azione routinaria (habitus) e delle strutture radicate e a «crescenti pressioni sugli individui perché diventino più riflessivi».6 Anche il pensiero femminista si è confrontato con la questione della riflessività umana in relazione al processo di costruzione identitaria.7 In tema di riflessività appare particolarmente significativa la teorizzazione di Archer: l’autrice afferma innanzitutto che pre-requisito fondamentale dell’identità personale (ciò che noi siamo) è il senso del sé 3
4
5 6 7
Cfr. Pierre Bourdieu, Outline of a Theory of Practice (Cambridge: Cambridge University Press, 1997); Pierre Bourdieu, Loïc J. D. Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology (Cambridge: Polity Press, 1992). Ulrich Beck, Anthony Giddens, Lash Scott, Reflexive Modernization: Politics, Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order (Cambridge: Polity Press, 1994) (tr. it. Modernizzazione riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità, Trieste: Asterios, 1999). Anthony Giddens, Modernity and Self-Identity: Self and Society in the Late Modern Age (Cambridge: Polity Press, 1991). Margaret S. Archer, “Riflessività (Reflexivity)”, 216. Cfr. in questo senso la riflessione di Lisa Adkins, “Reflexivity Freedom or Habit of Gender?”, Theory, Culture & Society 20 (6) (2003): 21-42. L’autrice, esaminando la costruzione dell’identità di genere come percorso riflessivo, sottopone innanzitutto a critica la prospettiva di Bourdieu secondo la quale riflessività critica e trasformazioni (anche rispetto al genere) sono possibili solo in presenza di un inadeguato adattamento tra soggettività e aspetti strutturali; giunge quindi a chiedersi, senza peraltro formulare una risposta esauriente, quanto, rispetto all’identità di genere nella tarda modernità, sia frutto di riflessività e quanto invece sia riconducibile a fattori strutturali, presenti nell’inconscio dell’individuo e “incorporati” nel suo essere gendered, o, in altri termini, sia habitus o azione routinaria.
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e l’identità personale (così come l’identità sessuale/di genere) dipende da «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura»;8 tali «premure fondamentali» (ultimate concerns) costituiscono «ciò che ci rende morali».9 Esse nascono da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore» (internal conversation).10 Attraverso questa attività incessante, per ogni individuo si consolida un modus vivendi in cui le premure entrano in uno specifico ordine di priorità.11 Peraltro, il presupporre il senso del sé a garanzia della continuità dell’esperienza umana non impedisce ad Archer di comprendere che le stesse «premure fondamentali», frutto della personale conversazione interiore, possano nascere solo dall’interazione tra il sé (soggettività) e la realtà sociale (oggettività): l’autocoscienza deriva dalle pratiche quotidiane e l’essere radicati nel mondo e nelle relazioni sociali è parte imprescindibile del nostro essere umani. In questo senso, Archer, secondo un approccio realista, per il quale le specifiche proprietà emergenti e i poteri della riflessività riguardano contemporaneamente struttura, cultura e agency, afferma che la conversazione interiore riflessiva media tra «la formazione strutturale oggettiva e la formazione culturale» dei contesti vissuti dagli agenti.12 L’autrice, dopo aver sottolineato la coincidenza del processo morfogenetico culturale e strutturale che ha caratterizzato la fine del XX secolo, richiedendo 8
Margaret S. Archer, “Il realismo e il problema dell’agency”, Sociologia e Politiche Sociali 7 (3) (2004): 31-49 [ed. or. “Realism and The Problem of Agency”, Journal of critical realism 5 (1) (2002): 11-20; 47]. 9 Ivi, 32. 10 Ivi, 43. 11 In estrema sintesi, secondo Archer la riflessività umana è attività interiore coscienziale del soggetto circa la vita buona, sulla base della quale ogni individuo agisce. La teoria sociale di Archer, pur rappresentando un superamento delle precedenti visioni, «lascia ancora molto da esplorare circa il carattere relazionale dei processi [. . .]». Cfr. Pierpaolo Donati, “La conversazione interiore: un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione,” in Margaret S. Archer (ed. italiana a cura di Pierpaolo Donati), La conversazione interiore Come nasce l’agire sociale (Trento: Erickson, 2006a): 9-42, 37 [ed. or. Margaret S. Archer, Structure, agency and the internal conversation (Cambridge: Cambridge University Press, 2003)]. 12 Archer, “Riflessività (Reflexivity)”, 220.
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un’accresciuta riflessività individuale, osserva che «i modi di dialogo interiore delle persone possono essere molto diversi tra loro», in relazione al contesto nel quale si trovano i soggetti e le premure ultime che li caratterizzano: in particolare, le ricerche empiriche hanno messo in luce quattro diverse tipologie dominanti di riflessività (comunicativa, autonoma, fratturata e meta-riflessiva) che coinvolgono tutti gli individui, pur nell’impatto eterogeneo della discontinuità contestuale.13 Riprendendo la teorizzazione di Archer, Donati approfondisce nella prospettiva relazionale le differenti tipologie della riflessività declinandole secondo lo schema Agil: «1. La riflessività comunicativa è quella che dà priorità alla componente relazionale come tale (comunicazione, qui, vuol dire “messa in comune”, comunus); non è guidata dal calcolo, non è interessata a raggiungere gli scopi in maniera più efficace od efficiente, è legata al simbolismo (sia morfostatico sia morfogenetico). 2. La riflessività autonoma, invece, è quella che si focalizza sulle ragioni di scopo; i criteri in base ai quali viene condotta la riflessione e l’azione si collocano nelle dimensioni della maggior efficacia possibile per raggiungere gli scopi situati a cui è attribuito un valore prevalentemente di utilità, anche se vi sono annessi dei motivi affettivi e dei significati simbolici. 3. La riflessività strumentale è quella che si concentra sui mezzi (tecnologie, procedure ecc.) senza attivare un’appropriata conversazione interiore sugli scopi situati, le norme e i valori profondi che sono in gioco. 4. La meta-riflessività è, invece, essenzialmente “valoriale”, nel senso che i criteri per la riflessione sono simbolici nel senso più pregnante del termine; le ragioni per l’azione sono date da “valori in sé”, che vengono espressi da simboli i quali si riferiscono a dei fini degni di 13
Ivi, 221.
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essere perseguiti in sé e per sé, dunque non negoziabili e sempre trascendenti rispetto alle possibili concretizzazioni pratiche».14 A-G = Area degli interessi e dei diritti come bisogni di riconoscimento di interessi
G Riflessività autonoma autodiretta centrata su scopi situati (Goal oriented reflexivity) I Riflessività comunicativa sulla relazione (Relational reflexivity)
A Riflessività strumentale sulle risorse (Instrumental reflexivity) L Metariflessività o riflessività del valore (Value reflexivity)
L-I = Area dell’identità e dei diritti come bisogni di riconoscimento di ciò che è degno in sé
Figura 1: (Fonte: Donati)15 L’esito della morfogenesi nella formazione dell’identità maschile e femminile, in famiglia, nella relazione con il lavoro e nella relazione genitoriale, è fortemente legato alla capacità di avviare processi riflessivi e al tipo di riflessività in atto. Pertanto, nel discutere il tema oggetto di questo contributo (la relazione uomo-donna) utilizzeremo le tipologie di riflessività come lente concettuale attraverso cui analizzare alcune rilevanti teorie circa l’identità maschile e femminile e alcune trasformazioni che hanno riguardato la famiglia (in particolare la genitorialità) e il lavoro. 14
Pierpaolo Donati, “Quale ‘modernizzazione riflessiva’? Il ruolo della riflessività nel cambiamento sociale”, in Riflessività, modernizzazione e società civile, Sociologia e Politiche Sociali 13 (1) (Milano: Franco Angeli, 2010: 9-44, 35-36; Riccardo Prandini, “Riflessività relazionale”, in Lucia Boccacin, Riccardo Prandini, Paolo Terenzi (a cura di), Lessico di Sociologia relazionale (Bologna: Il Mulino, 2016): 247-252. 15 Pierpaolo Donati, “Quale ‘modernizzazione riflessiva’?”, 35.
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Gender e differenze
Il tema della relazione tra i generi è stato teorizzato da diversi autori/autrici di differenti discipline, i quali hanno altresì analizzato il rapporto tra mascolinità e femminilità e le connessioni tra differenze di genere, identità e società. 2.1
Women’s studies
Una prima interpretazione delle differenze sessuali e di genere ha posto al centro della propria riflessione il dato biologico, come elemento essenziale per la definizione del soggetto “donna” e come base per la trasformazione della condizione sociale femminile. In particolare, coloro che condividono questo approccio16 – definibile come culturalismo essenzialista – sottolineano l’importanza della funzione riproduttiva per la sopravvivenza della società, che rende la donna protagonista nella sua valenza materna e indicano nella diversità biologica l’elemento determinante e valorizzante la sua identità. In altri termini, la femminilità è ricondotta alle qualità biofisiche creatrici della vita, contro la “svalutazione” delle caratteristiche femminili propria della cultura egemonica maschile. Si tratta di un punto di vista riduzionista, per l’attenzione esclusiva al dato biologico dell’individuo che lo caratterizza. Un secondo approccio, rifacendosi alle teorie femministe di matrice marxista, ha reificato l’identità di genere e la diversità biologica, sottolineando come proprio quest’ultima sia da sempre alla base delle disuguaglianze sociali; l’essenza della soggettività perciò va individuata non solo nel dato fisico, ma nell’attività umana concreta. Più precisamente, l’identità di genere è strettamente correlata alla divisione sessuata del lavoro, 16
Alcune di queste autrici fanno parte della corrente del femminismo definita culturalista o essenzialista: questo filone di pensiero, nato verso la fine degli anni Settanta, rivendica alle femministe il diritto esclusivo di descrivere e valutare le donne. Tra queste possiamo ricordare Daly e De Beauvoir: Mary Daly, Gyn/Ecology The Metaethics of Radical Feminism (Boston: Beacon, 1978); Simone De Beauvoir, Le deuxième sexe (Paris: Gallimard, 1949).
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sulla base della quale vengono definiti ruoli maschili e femminili distinti, nell’ambito sia della famiglia, sia del contesto sociale.17 Si tratta, come si può intuire, di ruoli contrassegnati da diseguaglianze, che potranno essere superate solo nel contesto di una nuova organizzazione sociale e, quindi, familiare, nel senso del superamento della famiglia monogamica. Un terzo approccio al tema delle differenze di genere ha trovato la propria origine nell’esigenza e nel desiderio di interrogarsi sul legame tra gender e struttura psichica dell’individuo, per poter “collocare” la sessualità all’interno delle differenze di genere, sollecitando le femministe ad approfondire le basi della psicanalisi. È comunque opportuno sottolineare che, mentre quest’ultima giunge a definire modelli universali di sviluppo psichico, i gender studies contestualizzano il fattore individuale, prendendolo in esame nel più vasto ambito sociale. In generale, si può affermare che la prospettiva psicanalitica sulla dimensione di genere trova il suo interesse originario nella funzione materna e nella propensione femminile alla cura e alle relazioni. Emblematiche, a questo proposito, seppur nelle loro diverse implicazioni, appaiono le tesi di Chodorow,18 Mitchell19 e Gilligan.20 Gli studi di genere sin qui presi in esame hanno evidenziato la potenziale discriminazione presente nella generatività sulla base della 17
Tra le esponenti di questo approccio si ricordano Irigary, Cavarero e Riley: Luce Irigary, This Sex Which Is Not One (New York: Cornell University Press, 1985); Adriana Cavarero, “Equality and Sexual Difference: Amnesia in Political Thought”, in Gisela Bock and Susan James (eds.), Beyond Equality and Difference, Citizenship, Feminist Politics and Female Subjectivity (London and New York: Routledge, 1992): 32-47; Denise Riley, “Am I That Name?”. Feminism and the Category of ‘Women’ in History (Basingstoke: MacMillan, 1988). 18 Nancy J. Chodorow, The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender (Berkeley: Berkeley University Press, 1978) (tr. it. La funzione materna: psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, Milano: La Tartaruga, 1991); Chodorow, Femininities, Masculinities, Sexualities. Freud and Beyond (Lexington: University Press of Kentucky, 1994) (tr. it. Femminile, maschile, sessuale, Milano: La Tartaruga, 1995). 19 Juliet Mitchell, Psychoanalysis and Feminism (London: Allen Lane, 1974). 20 Carol Gilligan, In a Different Voice (Cambridge: Harvard University Press, 1982) (tr. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano: Feltrinelli, 1987).
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differenziazione biologica della donna, mostrando con ciò di continuare a considerare l’identità femminile come data, in quanto assimilabile alla sua corporeità. Di contro, alcuni autori hanno invece proposto di concepire il genere come costruzione sociale, indipendente dalla dimensione biologica. In questo senso sono individuabili due filoni paralleli, che possono essere indicati rispettivamente come ipotesi costruzionista e pensiero decostruzionista. L’ipotesi costruzionista si fonda sull’idea che «l’unico processo responsabile dell’esistenza dei due generi è la costruzione sociale: non c’è un prius biologico di cui rendere conto»».21 Secondo i sostenitori di questo approccio, le distinzioni tra maschile e femminile, presenti in ogni società e riferite alla corporeità, vengono plasmate dalla realtà sociale alla quale appartengono. Da questa concezione del genere prende le mosse il pensiero di Scott,22 Nicholson,23 De Lauretis24 e Rubin.25 Il secondo concetto cardine della visione in oggetto è quello di differenza, derivato dalla necessità del pensiero maschile di prendere atto dell’esistenza del mondo femminile, dando così origine ad una realtà polarizzata. Questo punto di vista, che ha ispirato la definizione di genere contenuta nella Convenzione del Consiglio d’Europa, sulla prevenzione e il contrasto 21
Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile (Bologna: Il Mulino, 1996): 16. 22 Joan W. Scott, “Gender: A Useful Category of Historical Analysis”, American Historical Review 91 (5) (1986): 1053-1075. 23 Linda J. Nicholson, “Per una interpretazione di genere,” in Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile, 42-65. 24 Teresa De Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema (Bloomington: Indiana University Press, 1984); De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (Milano: Feltrinelli, 1996). 25 Gayle Rubin, “The Traffic in Women, Notes on the Political Economy of Sex”, in Rayna R. Reiter (ed.) Towards an Anthropology of Women (New York Monthly Review Press, 1975): 157-210, 165. In questo saggio la Rubin ha introdotto per la prima volta il concetto di sex/gender system, intendendo così indicare «un insieme di norme, mediante le quali il materiale, bruto istinto biologico del sesso e della procreazione è organizzato e soddisfatto [. . .]». L’autrice afferma poi che «il sesso come noi lo conosciamo, l’identità di genere [. . .] è un prodotto della società».
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alla violenza, pur nell’intento di combattere discriminazioni nei confronti delle donne, implica delicate e controverse questioni relative alla definizione dell’orientamento e dell’identità di genere. Per quanto concerne il pensiero decostruzionista, esso sostiene, nell’intento di raggiungere un’adeguata soluzione dei problemi sottesi alle differenze di genere, la necessità di destrutturare i processi simbolici, culturali o linguistici che definiscono il maschile e il femminile. Esponenti principali di questa corrente, sviluppatasi tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, sono Derrida,26 Foucault27 e Kristeva,28 che, rispettivamente mediante la psicoanalisi, la grammatica e la storia dei discorsi attaccano e “decostruiscono”29 il concetto di un soggetto dotato di un’identità essenziale. Contro ogni determinismo biologico, essi sostengono che gli individui, dal momento che sono condizionati (“costruiti”) dal discorso sociale e dalla pratica culturale, possono essere decostruiti. Secondo questo orientamento, il termine genere rimanda al “rivestimento” che la società assegna ai due sessi diversi e che deve essere “decostruito” per liberare le donne da ciò che è loro attribuito socialmente.30 Come è possibile decostruire il genere? La teorica più rilevante a tal proposito è Judith Butler:31 il genere a suo parere è «messa 26
Jacques Derrida, De la Grammatologie (Paris: Editions de Minuit, 1967). Michel Foucault, The History of Sexuality. An Introduction (Harmondsworth: Penguin, 1978); Michel Foucault, Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings 1972-77 (New York: Pantheon Books, 1981). 28 Julia Kristeva, “Women can never be defined”, in Elaine Marks (ed.) New French Feminism (New York: Schocken, 1981): 12-27. 29 Da cui il termine decostruzionismo, spesso indicato anche come “poststrutturalismo”. 30 La gender theory si è oggi evoluta in ideologia di genere e in queer theory (la “prospettiva Q”), che prospetta il diritto di “scegliersi” l’identità e l’orientamento sessuale, a prescindere dalla dualità maschio-femmina, uomo-donna su cui si basa il concetto di sesso. La Q sta per queer, parola anglosassone transitata dall’iniziale accezione offensiva di omosessuale a quella di “individuo strano”, in opposizione a straight, inteso come individuo normale. La lettera Q è anche da alcuni intesa come riferita a “questioning” (che pone in questione e contesta). 31 Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (New YorkLondon: Routledge, 1990) (tr. it. Scambi di genere, Milano: Sansoni, 2004); Judith 27
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in scena»,32 «artificio fluttuante»,33 finzione culturale; ciò significa che non va concepito «come nome, cosa sostanziale o marcatore culturale statico».34 Non è un termine cui corrisponde un referente reale, chiaro e distinto; quindi non ha consistenza. «Se non è sostantivo, allora come descriverlo?». Per Butler esso è una «invenzione», una «fantasia istituita e iscritta sulla superficie dei corpi»35 attraverso un processo di costante modellamento – di atti, gesti, pratiche, rappresentazioni, desideri. Non è perciò dell’ordine dell’essere, ma del fare. Esso si fa attraverso una ripetizione di atti («un’incessante attività»)36 ; atti che possono essere giocati in senso convenzionale (quando si vuole stare dentro il sistema di genere) o eversivo (quando ci si tira fuori). Prende così forma la più celebre tesi di Butler: «il genere è un performativo».37 Quale forma di riflessività emerge in tali approcci? L’interpretazione che possiamo dare di tali teorie mette in luce una forte autoreferenzialità priva di relazionamento con l’altro, fortemente permeata – nei suoi primi sviluppi – dall’idea di squilibrio di potere e di sottomissione e dall’enfasi sulla differenziazione biologica, per poi arrivare ad una sopravvalutazione del versante costruzionista che tenta di annullare ogni distinzione eliminando il sostrato biologico dell’essere umano. Pertanto tali teorie ci indicano una possibile attuazione di una riflessività autonoma e/o strumentale. Le prospettive interpretative sin qui delineate, attente agli aspetti più problematici della condizione delle donne, hanno indotto i gender stuButler, Undoing Gender (New York-London: Routledge, 2004) (tr. it. La disfatta del genere, Roma: Meltemi, 2006). 32 Judith Butler, Scambi di genere, 99. 33 Ivi, 10. 34 Ivi, 160. 35 Ivi, 191. 36 Ivi, 26. 37 Susy Zanardo, “Gender: sfide, risorse, criticità”, Archivio teologico torinese 1 (2016): 75-90, 82.
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dies ad occuparsi solo del genere femminile, ignorando quello maschile o prendendolo in considerazione in termini di dominio e oppositivi. A partire dagli anni Ottanta, sulla base della considerazione del rischio che la sottovalutazione o la visione “rivendicazionista” delle differenze possa portare all’annullamento delle differenze stesse, emerge tuttavia lentamente la consapevolezza del fatto che il genere, oltre che un codice binario, è anche un codice che implica reciprocità. Significativo appare, in questo senso, il pensiero di Stanford Friedman38 e di Flax,39 che sottolinea le criticità in cui possono incorrere i modelli binari e i punti di vista che escludano la relazione. Questo approccio, espresso dalla corrente più avveduta del neo-femminismo post-radicale, sembra cominciare a tematizzare la necessità di superare la dialettica della distinzione uguaglianza-diseguaglianza tra i sessi, all’origine di distorsioni e patologie evidenti nell’attuale realtà sociale (omologazione nel rapporto tra maschile e femminile, circolarità entro ciascun gender). Tuttavia, questo neo-femminismo, se, da un lato, ha iniziato a sottolineare la necessità di “pensare il gender nelle relazioni”, dall’altro dimentica di pensare il gender come relazione40 e, quindi, come dimensione identitaria che uomini e donne possono costruire solo nella relazione con l’altro. Una parte della cultura femminista ha perciò sentito l’esigenza di cominciare a pensare il gender con e attraverso le relazioni, secondo un codice simbolico relazionale, che fa riferimento all’interdipendenza relazionale tra i due generi ed è improntato alla reciproca personalizzazione; ciò implica una reale dualità, né realistica, né residuale, ma similare tra uomo e donna. Nell’ambito di tale codice duale e reciprocitario, le diversità si 38
Susan Stanford Friedman, “Beyond White and Other: Relationality and Narratives of Race in Feminist Discourse”, Signs, 21 (1) (1995): 1-49. 39 Jane Flax, “The Family in Contemporary Feminist Thought a Critical Review”, The Family in Political Thought (1982): 223-253; Jane Flax, “Postmodernism and Gender Relation in Feminist Theory,” in Nicholson (ed.), Feminism/Postmodernism (London and New York: Routledge, 1990): 38-62. 40 Pierpaolo Donati, “La famiglia come relazione di gender: morfogenesi e nuove strategie”, in Pierpaolo Donati (a cura di), Uomo e donna nella famiglia: differenze, ruoli, responsabilità, Quinto Rapporto Cisf sulla famiglia in Italia (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 1997): 25-91.
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pongono come positive e articolano relazioni tra maschile e femminile che arricchiscono l’umano. A questo proposito Mary Ann Glendon ha osservato che è andato sempre più chiaramente delineandosi «un femminismo basato su un’adeguata comprensione della dimensione sociale della persona umana, un femminismo che forse non si chiamerà più femminismo».41 In tale prospettiva, l’identità è definita attraverso e con la relazione, ma non per negazione dialettica, bensì per relazionamento ad un’alterità.42 Si tratta dunque di una semantica d’articolazione relazionale, ovvero d’integrazione-differenziazione, o, se si preferisce, d’appartenenzadistinzione. L’identità di una persona sta nel distinguersi nel riferimento agli altri (diversi da sé), cioè nel vedere la differenza, ma anche nel fatto che «[. . .] la differenza si stabilisce attraverso un riferimento reciproco che, al di là della negazione logica, richiede riconoscimento e scambio».43 La relazionalità implicata in questa visione «[. . .] mentre considera i gender uguali per gli aspetti fondamentali relativi alla dignità umana [. . .]»44 ne valorizza «[. . .] i diversi vissuti interiori, le diverse configurazioni di personalità, mettendo a disposizione norme sociali e regole d’interazione che rendano possibili le espressioni proprie».45 41
Mary Ann Glendon, “Le donne dinanzi a scelte fondamentali: nodi, sfide e prospettive nella cultura contemporanea”, Laici oggi 40 (1997): 29-43, 40. 42 È interessante osservare che questa visione (identità relazionale) è in sintonia con il magistero di Giovanni Paolo II che, all’inizio degli anni Ottanta già insisteva sul fatto che l’uguale dignità delle donne giustifica pienamente il loro accesso ai compiti pubblici: Giovanni Paolo II, “Esortazione apostolica Familiaris consortio sui compiti della famiglia cristiana”, 22 novembre 1981, AAS 73 (7) (1981): 81-191. 43 Pierpaolo Donati, “La società come relazione. I fenomeni sociali e la loro conoscenza sociologica”, in Pierpaolo Donati (a cura di), Sociologia. Un’introduzione allo studio della società (Padova: CEDAM, 2006b): 1-61, 23. 44 Pierpaolo Donati, “La famiglia come relazione di gender”, 41. 45 Ibidem; Giovanna Rossi, “Verso un nuovo femminismo della dignità”, in Gilfredo Marengo, Javier Maria Prades Lopez, Gabriel Richi Alberti (a cura di), Sufficit Gratia Tua – Miscellanea in onore del Card. Angelo Scola per il suo 70º compleanno (Venezia: Marcianum Press, 2012): 609-620.
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2.2
Men’s studies
All’interno del vasto complesso di studi inerenti il genere e a seguito delle riflessioni che hanno interessato l’universo femminile, lo studio della maschilità si è sviluppato solo in tempi più recenti, con l’obiettivo di rileggere in ottica critica i concetti di potere, virilità e patriarcato che da sempre hanno contrapposto la figura maschile a quella femminile, a favore di uno studio più consapevole della complessità che soggiace alle relazioni tra uomini e donne. Secondo Tosh la prima rivendicazione dell’importanza della relazione tra femminile e maschile è da imputare a Natalie Zemon Davis, storica statunitense che ripercorrendo la storia delle donne nel 1975 sottolineò l’importanza di studiare la storia sia delle femmine sia dei maschi.46 I cosiddetti men’s studies rappresentano un corpus di studi sul genere maschile, nati nei paesi di lingua inglese tra la fine del 1980 e l’inizio del 1990, con l’obiettivo di tematizzare in modo critico la questione dell’identità maschile.47 Le tematiche affrontate sono molteplici – rapporto con il lavoro, con l’educazione, ricerche sulla sessualità, il corpo, 46
John Tosh, “What Should Historians do with Masculinity? Reflections on NineteenthCentury Britain”, History Workshop Journal 38 (1) (1994): 179-202 (tr. it. “Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici”, in Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile, 67-94). 47 Michael S. Kimmel (eds.), Changing Men. New directions in Research on Men and Masculinity (London: Sage Publications, 1987); Michael S. Kimmel, Manhood in America. A cultural History (New York: The Free Press, 1996); Michael S. Kimmel, The gendered society (New York – Oxford: Oxford University Press, 2000); Harry Brod, The Making of Masculinities. The New Men’s Studies (Boston: Allen and Unwin, 1987); Harry Brod, Michael Kaufman (eds.), Theorizing Masculinities (London: Sage Publications, 1994); Michael Roper, John Tosh (eds.), Manful Assertions. Masculinities in Britain since 1800 (London: Routledge, 1991); Raewyn. W. Connell, Gender and Power (Cambridge: Policy Press, 1987); Raewyn. W. Connell, Gender (Cambridge: Policy Press, 2002); Raewyn. W. Connell, “Masculinities, Change and Conflict in Global Society: Thinking about the Future of Men’s Studies”, Journal of Men’s Studies 11 (3) (2003): 249-266; Raewyn. W. Connell, Masculinities (Cambridge: Policy Press, 2005); Jeff Hearn, Keith Pringle, European perspectives on men and masculinities, national and transnational approaches (New York: Palgrave Macmillan, 2006).
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lo sport e la carriera atletica, ecc. . . – tuttavia il punto debole di tali studi può essere rintracciato proprio nel concetto stesso di maschilità che non è definito in modo chiaro ed univoco.48 Pur nella varietà delle tematiche affrontate, all’interno dei men’s studies si è soliti distinguere tre approcci:49 • la posizione essenzialista:50 enfatizza le caratteristiche intrinseche ed invarianti su cui si formano i comportamenti e le inclinazioni di uomini e donne. Lo studio di Theweleit, considerato il pioniere dei men’s studies, mette in luce i tratti di forza e virilità come caratteristiche essenziali della maschilità ed ulteriormente rinforzati attraverso la trasmissione di stereotipi sociali. La forza ed il potere sono determinati da fattori biologici, che definiscono l’identità maschile. Benché venga riconosciuta una certa influenza del contesto sociale, sostanzialmente l’identità maschile si forma su una base principalmente biologica,51 che viene poi amplificata dal contesto sociale d’appartenenza.
48
Connell, Gender; Connell, “Masculinities, Change and Conflict in Global Society”; Connell, Masculinities; Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile; Sandro Bellassai, Maria Malatesta (a cura di), Genere e mascolinità: uno sguardo storico (Roma: Bulzoni, 2000). 49 Simonetta Piccone Stella, “Gli studi sulla mascolinità. Scoperte e problemi di un campo di ricerca”, Rassegna Italiana di Sociologia 41 (1) (2000): 81-108; Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile; Isabella Crespi, “Alla (ri)scoperta dell’identità maschile: studi e ricerche”, in Isabella Crespi (a cura di), Identità e trasformazioni nella dopo modernità: tra personale e sociale, maschile e femminile (Macerata: EUM Edizioni Università di Macerata, 2008): 103-142. 50 Klaus Theweleit, Male fantasies (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1987); Edward O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi (Bologna: Zanichelli, 1979). 51 John Tosh, Manliness and Masculinities in Nineteenth-Century Britain: Essays on Gender, Family and Empire (New York: Pearson Education, 2005); John Tosh, “Current issues in the history of masculinity,” in Angiolina Arru (a cura di) La costruzione dell’identità maschile nell’età moderna e contemporanea (Biblink, 2001): 63-78.
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La corrente della sociobiologia52 contribuisce a rafforzare il peso dei fattori biologici, sostenendo che l’identità maschile si costituisce sotto l’influsso di spinte ormonali che sono determinate geneticamente in ogni uomo. Un esempio tipico a favore di questa tesi è la maggiore forza fisica di cui gli uomini sono dotati, rispetto alle donne. • La posizione pluralista:53 sostiene che il genere maschile non esiste in una unica modalità, ma può assumere diverse forme e diverse modalità di espressione. Emblematico all’interno di questo approccio è, tuttavia, il pensiero di Connell in base al quale si possono identificare quattro differenti tipologie di maschilità: la maschilità egemonica, la maschilità subordinata, la maschilità marginale, e la maschilità di protesta. La prima (egemonica) rappresenta il comportamento normativo entro una determinata società e si costituisce secondo le dinamiche culturali in base a cui un gruppo detiene una posizione di leadership. Nel mondo occidentale in genere questo tipo di maschilità è caratterizzata dal rispetto delle norme e dei valori vigenti, pratica eterosessuale, avere una partner e una famiglia e svolgere un’attività lavorativa. Viene definita come “egemonica” non nel senso di predominante sul femminile, ma in quanto più visibile e convenzionale tra la popolazione maschile. Le persone in posizione egemonica non sono necessariamente le più potenti, ma possono essere anche personaggi televisivi, oppure atleti sportivi, che incarnano tutte le caratteristiche della posizione egemonica ed hanno abbastanza carisma da essere riconosciute; diversamente persone che detengono una posizione istituzionale di potere potrebbero essere ben lontane dal possedere tali caratteristiche. Le altre tipologie di maschilità si definiscono in base ai rapporti – di alleanza, subordinazione e contestazione – che instaurano con il modello dominante (egemonico), pur rappresentando però delle identità in minoranza o di secondo ordine. La maschilità subordinata è propria 52 53
Wilson, Sociobiologia. Connell, Gender and Power; Connell, Masculinities; David John Tacey, Remaking Men. The Revolution in Masculinity (Melbourne: University Press, 1997).
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di gruppi con una identità sessuale atipica (omosessuali o bisessuali), la maschilità marginale che mette in luce tratti di maschilità presenti in minoranze etniche, religiose o culturali (ovvero non egemonici), la maschilità di protesta appartiene ai gruppi devianti e pericolosi. Questa posizione in particolare bene evidenzia come i generi non siano «delle gabbie senza uscita che confinano donne e uomini per sempre»,54 piuttosto l’espressione della propria identità è varia e consente l’emergere di nuove forme, non soltanto entro differenti epoche e differenti periodi storici, ma anche entro il medesimo contesto sociale di riferimento. Connell in particolare ha sottolineato la pervasività del concetto: egli sostiene che senza accorgercene noi basiamo gran parte delle nostre riflessioni e azioni sulla distinzione tra femminile e maschile, il genere pervade ogni contesto sociale, micro o macro, tanto che le istituzioni stesse (lo stato, le associazioni, i mercati), le relazioni internazionali e i sistemi economici e politici sono da lui definiti «un’arena di riproduzione» delle politiche di gender.55 Conclude che esiste un ordine basato sul genere a livello mondiale e che per tale ragione l’economia e la politica globale siano sostanzialmente sistemi altamente iniqui. Al di là di questa considerazione tuttavia la posizione di Connell nella riflessione sul genere è essenziale per comprendere le dinamiche relazionali tra uomini e donne non solo a livello micro sociale, ma anche a livello macro. Il concetto di maschilità è insito nell’organizzazione sociale e per comprenderlo a pieno occorre analizzare il contesto storico, relazionale e sociale. Sul piano empirico questo significa concretamente entrare nel merito di alcuni aspetti particolari della vita sociale, ad esempio la famiglia, ed interrogarsi su come agiscono uomini e donne, maschi e femmine, padri e madri, lavoratori e lavoratrici. 54
Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile, 88. 55 Connell, Masculinities.
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In altre parole il messaggio che Connell vuole darci è che l’essere maschio non è una idea astratta, ma è rintracciabile nella storia del contesto sociale e nelle relazioni, il genere non è qualcosa di fisso e immutabile, ma è costituito nelle interazioni, la maschilità quindi affonda le sue radici nel sociale. • La posizione post strutturalista:56 sostiene il valore della singolarità e delle differenze. L’identità maschile è di per sé un concetto multidimensionale, aperto alla novità e in continua evoluzione, per questo il concetto di maschilità non può essere rinchiuso in definizioni troppo circoscritte. La capacità della persona di vivere esperienze variegate, di compiere diverse scelte e quindi anche di trasformarsi fa da cornice alla definizione dell’identità: la maschilità si acquisisce attraverso l’unicità delle vicissitudini personali e la possibilità di esprimere in diversi modi la propria esistenza. L’acquisizione della maschilità si configura dunque come un processo di scoperta e di sperimentazione continua.57 Quale relazione uomo-donna emerge da tali studi? Differentemente dal primo pensiero femminista il maschile sembra essere tematizzato in relazione con il femminile, ma occorre chiedersi di quale relazione stiamo parlando? Assumendo una interpretazione del genere come costruzione sociale, prevale anche qui una forma di relazione indifferenziata e autoreferenziale, che assume la connotazione di una interazione con l’altro. Quale riflessività? Prevale una riflessività autonoma e strumentale. La riflessione sulla maschilità che si diffonde attraverso i men’s studies mette in luce, a ben vedere, il processo di individualizzazione che si è e si sta via via affermando: la riflessione sul maschile prende avvio attraverso un dialogo con la riflessione femminista, dando luogo alla 56
Tacey, Remaking Men; Victor J. Seidler, Man Enough: Embodying Masculinity (Thousand Oaks: Sage Publications, 1997); Lynne Segal, Slow Motion: Changing Masculinities, Changing Men (New York: Rutgers University Press, 1990). 57 Seidler, Man Enough; Segal, Slow Motion.
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morfogenesi di differenti forme di maschilità (pluralizzazione) sino ad esitare in un processo di costruzione di qualsiasi gender possibile. 3 La morfogenesi contemporanea nella relazione famiglialavoro e nella relazione genitoriale La riflessione sull’identità maschile e femminile ha un nesso fondamentale con i processi morfogenetici che coinvolgono la famiglia e il lavoro, i due ambiti fondamentali della realizzazione dell’identità adulta. Il lavoro è stato interessato da grandi trasformazioni dovute sia al massiccio ingresso femminile sia a importanti cambiamenti nell’organizzazione stessa del lavoro;58 parallelamente ed in stretta relazione con le trasformazioni del versante professionale, anche la famiglia ha attraversato un processo rilevante di cambiamento di ordine sia culturale che strutturale.59 Pertanto anche la relazione tra le sfere (professionale e familiare) si è progressivamente modificata, dalla morfostasi parsonsiana (separazione degli ambiti e sfere di vita), si è avviato un processo morfogenetico il cui esito può essere differente: di tipo conflittuale (le richieste dei due ambiti sono inconciliabili ed incompatibili esitando necessariamente in tensioni e privazioni), strumentale e compensativo (uno dei due ambiti viene utilizzato per ottenere dei risultati o benefici nell’altro) oppure relazionale e conciliativo. L’apporto della sociologia relazionale contribuisce a ridefinire tale rapporto in termini conciliativi. 58
Si pensi ad esempio all’aumento delle libere professioniste, le donne inoltre svolgono in percentuale maggiore degli uomini anche lavori serali e notturni, il part-time ha contribuito notevolmente alla crescita dell’occupazione femminile. Sul versante strettamente professionale inoltre le richieste di flessibilità e mobilità contribuiscono a modificare profondamente i processi di lavoro. 59 È aumentato il numero di famiglie e diminuito il numero di componenti a tal punto che ormai quelle formate da 1 o 2 persone rappresentano, nel loro insieme, la maggioranza. È in atto dunque un processo di semplificazione strutturale: sono aumentate le persone sole (hanno raggiunto ormai circa i 7 milioni), le coppie senza figli e le famiglie monogenitore, mentre sono diminuite le coppie con figli.
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Se l’ottica conflittuale e strumentale di fatto mettono in luce una separazione netta tra le due sfere e quindi una mancanza di riflessività adeguata ai processi morfogenetici attuali, la lettura della relazione tra famiglia e lavoro in ottica conciliativa consente l’emergere di riflessività a differenti livelli: innanzitutto la conciliazione non riguarda solo le madri, ma anche i padri ed è quindi una questione fondamentalmente familiare, essa inoltre riguarda una pluralità di attori in relazione tra loro – famiglie, enti pubblici, imprese e terzo settore – (un esempio di relazione virtuosa tra famiglia e lavoro è data proprio le buone pratiche di welfare aziendale o le buone politiche di conciliazione che si basano su una relazionalità tra le due sfere e coinvolgono differenti attori sociali). Il conflitto tra ambito familiare e lavorativo si origina infatti da un processo di differenziazione funzionale, che opera attraverso meccanismi specifici: i sistemi si specializzano caratterizzandosi fortemente al proprio interno, mediante l’abbandono di certe funzioni e, nei confronti dell’esterno, tramite la loro netta separazione; i sottosistemi così differenziati (famiglia e lavoro) operano secondo un codice simbolico autoreferenziale/infra-sistemico, ciò determina, nella realtà, una chiusura affettiva della famiglia ed una difficoltà della stessa a rigenerarsi in quanto tale e una chiusura strumentale del lavoro. La differenziazione relazionale, al contrario, ipotizza ed identifica nuove forme d’interscambio tra le sfere o sotto-sistemi esistenti (famiglia e lavoro) che si specializzano mediante una relazione reciproca. «La relazione famiglia-lavoro diventa un merit good e un bene relazionale che va trattato a sé»60 e l’identità stessa assunta da tale relazione determina, non solo la modalità di interscambio presente tra questi due ambiti, ma anche l’identità di ciascuno. La prospettiva relazionale determina dunque una ridefinizione della questione della conciliazione puntando l’attenzione sulla relazione tra famiglia e lavoro e non sul singolo ambito. 60
Pierpaolo Donati (a cura di), Famiglia e Lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Nono Rapporto CISF sulla famiglia in Italia (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2005): 70.
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Inoltre, sul piano della coppia (intra-familiare) la morfogenesi attuale dà luogo a diverse forme di genitorialità, che rappresenta la forma identitaria generativa61 per eccellenza della relazione uomo-donna. Quale riflessività è insita nelle moderne forme della genitorialità? Prendendo in considerazione le forme della genitorialità contemporanea62 osserviamo la riflessività emergente: • Genitorialità differita fa riferimento al procrastinare della scelta generativa soprattutto nelle giovani coppie. In molti casi il differimento della procreazione è strettamente correlato a un matrimonio rimandato nel tempo, al quale segue un ulteriore periodo di dilazione della decisione di avere un figlio. In questo caso, la genitorialità differita rappresenta una forma di temporaneo childfree, mettendo in atto riflessività autonoma autodiretta, volta appunto a posticipare il progetto genitoriale. • Genitorialità assistita, ovvero attraverso il ricorso alle biotecnologie: tale scelta implica per la coppia che vi fa ricorso la risposta all’interrogativo sul significato del desiderio di un figlio “proprio” e, in definitiva, sulla generatività dell’evento. La possibilità di decidere se, quanti e quando avere dei figli ha favorito e tende a favorire l’atteggiamento secondo cui un bambino deve nascere solo se desiderato e ogni figlio desiderato deve nascere. Inoltre l’introduzione di queste procedure ha comportato un mutamento nella dimensione antropologica e sociale della genitorialità: mutamento profondo e problematico in considerazione del fatto che l’attuazione di alcune di queste procedure – e precisamente di quelle eterologhe, che richiedono l’intervento di un terzo estraneo alla coppia donatore 61
La generatività rappresenta un concetto estremamente esemplificativo delle relazioni familiari, in quanto fa riferimento alla semantica generativa come proprium della dimensione familiare e sociale, dando particolare spessore e rilevanza alla relazione, ovvero alla sua capacità di generare qualcosa di nuovo (che non si esaurisce nel figlio, ovvero nella generazione successiva), che eccede le singole individualità, progettando un futuro comune, un’azione comune. 62 Giovanna Rossi, Donatella Bramanti (a cura di), La famiglia come intreccio di relazioni. La prospettiva sociologica (Milano: Vita e Pensiero, 2012).
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di gameti – sottende la scissione tra genitorialità biologica e genitorialità sociale. Si tratta infatti di situazioni che tendono creare una accentuata confusività tra i ruoli familiari e le generazioni. In questo contesto prevale nettamente una riflessività strumentale nella relazione uomo-donna, con un intreccio confusivo di interazioni che non hanno più i criteri distintivi del padre e della madre, e del legame generazionale. Siamo di fronte ad una morfogenesi che dà luogo ad ambivalenza e indica un processo di progressiva estraneazione dell’uomo dalla donna e del sé col sé. • Omogenitorialità, ovvero la presenza di due genitori dello stesso sesso: questo tema assume connotazioni anche più rilevanti a fronte dell’impatto dovuto alle nuove tecnologie riproduttive. Nei contributi di ricerca, volti soprattutto a sottolineare gli esiti di “normalità” nello sviluppo dei figli, con campioni non rappresentativi e con figli di età troppo piccola per porsi concretamente una domanda sull’identità, vengono spesso utilizzate le dizioni “genitori omosessuali” o “coppie omosessuali con figli” in modo generico, dizioni che in realtà coprono un universo variegato di situazioni: occorre infatti distinguere tra coppie lesbiche e coppie gay, tra genitori omosessuali in coppia o single, tra coppie che hanno un figlio frutto di una relazione eterosessuale precedente e coppie che hanno un figlio per inseminazione, utero in affitto o adozione. Si rischia cioè di operare una semplificazione erronea quando si interpretano i risultati delle ricerche come riferiti genericamente a figli di coppie omosessuali quando i singoli campioni in realtà fanno riferimento a condizioni molto diverse. L’omogenitorialità chiama in gioco il tema della differenza di genere, della differenza di generazioni e di stirpi, e il tema fondamentalmente delle origini. In particolare la domanda cruciale è: qual è l’eredità con la quale il figlio delle coppie “omo” deve fare i conti? Egli, per situarsi come soggetto con una sua identità, dovrà trattare il congiungimento con la differenza sessuale da cui è venuto, differenza che la coppia adulta omogenitoriale non ha affrontato o ha affrontato scindendo il biologico (seme, utero) dal simbolico. Egli dovrà cioè integrare ciò che gli 277
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arriva scisso, dovrà dare parola, se mai lo potrà fare, all’ignoto-oscuro che grava sulla sua origine. Inoltre, e questo è altrettanto decisivo, dovrà orientarsi nella complicazione delle genealogie per trovare il suo posto nella storia delle generazioni che rappresentano il filo rosso che consente riconoscimento. L’essere umano sa chi è non solo se è riconosciuto dagli altri significativi, ma se entra in un ordine che consenta riconoscimento.63 Un ampio spazio di dibattito si apre anche attorno alla complessa questione della maternità surrogata in cui oltre ad eliminare la relazione genitoriale viene anche spezzata e sostituita la relazione tra il figlio e la madre. La maternità surrogata assume almeno due forme: commerciale se prevede un contratto e quindi un pagamento in denaro, altruistica se realizzata per solidarietà, ovvero come atto volontario, che richiede la gratuità, anche economica.64 Di fatto le nuove tecnologie riproduttive in questo contesto sovvertono uno dei fondamentali riferimenti dell’esistenza umana: ovvero la certezza della maternità e l’incertezza della paternità65 creando un disordine simbolico ingovernabile. Il paradosso poi è che il desiderio del figlio nasce da una condizione di isolamento relazionale in cui siamo immersi, per far fronte a tale condizione si attiva, o per lo meno si ricerca ostinatamente, una relazione caratterizzata però da codici mercantili/contrattualistici: in sostanza non ci si può sottrarre dalla relazione, ma nel tentativo di manipolarla a tutti i costi si finisce per snaturarla. Il figlio che posto occupa in tutto questo? Esso costituisce il “terzo” dell’accordo, che non ha però voce in capitolo e resta il protagonista muto della vicenda. Emerge anche qui una forma di riflessività strumentale che snatura la relazione genitoriale stessa. 63
Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, “Sacro e tragico familiare: il caso delle omogenitorialità”, Quaderni degli Argonauti 27 (2014): 17-32; Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, “Sul paradosso dell’omogenitorialità”, Vita e Pensiero 3 (2013): 101-112. 64 Marina Terragni, Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli (Milano: Vanda e-publishing, 2016). 65 Franca Pizzini, Lia Lombardi (a cura di), Madre provetta. Costi, benefici e limiti della procreazione artificiale (Milano: Franco Angeli, 1994).
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• Genitorialità sociale, realizzata attraverso l’adozione (nazionale o interazionale), mette in campo una forma di metariflessività e di prosocialità in quanto è inevitabile la relazione con il terzo-il sociale. L’adozione sociale permette infatti di far luce sulle motivazioni sottese al desiderio di maternità/paternità delle coppie, in quanto il ricorso all’adozione può essere motivato da un lato da sterilità, legata anche alla posticipazione delle nascite, dall’altro può essere mosso da un orientamento prosociale e solidaristico, che nel caso dell’adozione internazionale, si indirizza verso i Paesi più poveri del mondo. • Genitorialità condivisa riguarda le situazioni di separazione/divorzio, in cui si prospetta la questione dell’esercizio condiviso della genitorialità che riguarda sia aspetti simbolici (le regole e i principi educativi), sia incisivi aspetti pratici e organizzativi (chi fa cosa, chi paga. . .). Perché vi sia effettiva condivisione occorre mettere in atto un processo di forte riflessività per costituire il nuovo patto genitoriale, ridefinire i confini coniugali e familiari (I) e per condividere la responsabilità genitoriale ed elaborare la fine del legame e contenere il conflitto (L); prevale qui una riflessività comunicativa focalizzata sulla relazione e la messa in comune, assieme ad una metariflessività rintracciabile nel valore della co-genitorialità. • Genitorialità interrotta, ovvero la rinuncia alla dimensione genitoriale attraverso l’aborto, rimanda ad una debolezza di risorse di risorse umane (relazione uomo-donna) ed economiche (riflessività strumentale), attraverso una scelta a non procedere con il progetto genitoriale (indicante una riflessività autonoma). Il fenomeno dell’aborto non è certamente di facile interpretazione perché al suo interno si mescolano situazioni personali e familiari che si collocano, per certi versi, agli estremi della scala sociale. Infatti, se da una parte l’interruzione volontaria di gravidanza è utilizzata in situazioni in cui prevale un disagio soprattutto nella sfera affettivorelazionale, più complessa da decodificare, dall’altra sono ancora consistenti le situazioni in cui le componenti materiali, relative ad una condizione di vita accettabile sono prevalenti. Dal punto di vista 279
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delle relazioni familiari è possibile osservare che il ricorso all’aborto identifica una sorta di famiglia “interrotta”, in cui il mandato generazionale perde temporaneamente o definitivamente la sua forza e la relazione di coppia appare estremamente debole o problematica; il rischio si colloca quindi sia sull’asse intergenerazionale, sia su quello orizzontale della relazione di coppia. • Non genitorialità: le percentuali di donne che in età fertile non hanno figli sono in costante aumento, tuttavia occorre scomporre tale dato empirico e distinguere tra la decisione temporanea e contingente di non avere figli (ovvero la genitorialità differita) e quella permanente. Infatti gli orientamenti simbolici e di senso che sottendono queste scelte sono molto diversi. Il termine childfree fa riferimento ad un preciso orientamento culturale, identificabile nella scelta deliberata di vivere senza figli (pur potendoli avere). Qui è sottesa una forma di riflessività che tuttavia preclude lo sviluppo pieno della relazione familiare stessa intesa come reciprocità tra i sessi e le generazioni. All’interno di tale complesso fenomeno occorre distinguere tra il childfree dei singles e delle coppie: – il childfree dei singles è uno stile di vita decisamente non familiare. Per Kaufmann66 rappresenta lo stile di vita del futuro, che compie fino in fondo la “traiettoria” dell’autonomia moderna votata alla realizzazione di sé e alle relazioni scelte. – Il childfree delle coppie è l’evoluzione individualista della morfogenesi familiare. La centralità della relazione tra i partner non ha come obiettivo la generatività e giunge alla negazione della spinta generativa propria del genoma familiare. In questo caso, la relazione che si stabilisce si può chiamare famiglia solo per analogia. Le coppie childfree realizzano fino in fondo la vocazione moderna all’assolvimento (in senso etimologico) dai legami, cioè la caratteristica della società contemporanea all’immuniz66
Jean Claude Kaufmann, La femme seule et le prince charmant (Paris: Poket, 1999) (tr. it. C’era una volta il principe azzurro: le donne che vivono da sole ma non smettono di sognare, Milano: Mondadori, 2000).
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zazione dai legami.67 Sociologicamente le due vie al childfree appena indicate sembrano presentare entrambe il rischio non remoto, se generalizzate, di condurre ad un inevitabile suicidio della società. Conclusioni La società contemporanea ed i processi morfogenetici che hanno interessato alcune fondamentali dimensioni dell’esistenza umana, in particolare il processo di formazione dell’identità (maschile e femminile), la relazione tra famiglia e lavoro, la relazione genitoriale, danno luogo sia a processi di rigenerazione delle relazioni attraverso la riflessività sia a forme relazionali problematiche e fratturate. La riflessione proposta in questo contributo ha preso in considerazione innanzitutto la complessa e rilevante questione dell’identità femminile e maschile, attraverso il contributo dei Women’s e dei Men’s Studies, mettendo in luce la deriva verso cui tendono le teorie costruzioniste tematizzando il prevalere del dato culturale su quello biologico. In questo contesto, il concetto di gender è divenuto uno strumento per modificare il senso della differenza sessuale e dell’identità stessa (maschile e femminile) ponendo la differenza come superabile in quanto non è considerata un dato strutturale dell’umano. Non soltanto in queste teorie prevale una riflessività tipo strumentale, ma anche e soprattutto viene meno il codice propriamente relazionale dell’identità a favore di uno autoreferenziale e ampiamente possibilista e dove ogni possibilità deve tradursi in dato di realtà. Considerando l’esito dei processi morfogenetici sui due ambiti fondamentali per lo sviluppo dell’identità maschile e femminile (famiglia e lavoro), si è successivamente preso in considerazione il relazionamento tra sfera familiare e lavoro il cui esito in termini conciliativi, piuttosto che strumentale o conflittuale, è auspicabile in quanto sorgivo di scambi arricchenti e facilitanti per entrambi gli ambiti (la famiglia è risorsa 67
Pierpaolo Donati, “La società come relazione”.
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per il lavoro e il lavoro è risorsa per la famiglia). Soltanto all’interno di una “buona” conciliazione tra famiglia e lavoro, il soggetto umano sarà in grado di attivare una riflessività comunicativa relazionale o una metariflessività. Infine, dobbiamo considerare la nascita di un figlio come l’effetto emergente della relazione tra i genitori, non definibile a priori come sommatoria delle proprietà o delle caratteristiche genitoriali; è di più, è altro da sé che deriva necessariamente da due identità distinte e differenti. I processi morfogenetici impattano decisamente sulle forme della genitorialità – come abbiamo visto ed ampiamente descritto – dando luogo nel contesto contemporaneo a forme generative (quali ad esempio la genitorialità sociale), ma anche a forme narcisistiche e degenerative (si pensi ad esempio alla genitorialità interrotta o alla decisione di non avere figli pur potendoli avere, e all’omogenitorialità). In questi casi prevale una riflessività autonoma e strumentale, che da una parte trasformano la genitorialità in un diritto individuale da agire o da esigere (piuttosto che una progettualità ed un orizzonte di senso) e dall’altra sgretolano il senso del noi come unità di coppia (we-relation). L’esito problematico di alcune forme di relazionamento e di riflessività mette in luce, a bene vedere, un intrinseco bisogno di relazione (si pensi ad esempio al ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa o alla maternità surrogata), che rimanda ad una qualità fondamentalmente umana: l’io è naturalmente portato a mettersi in relazione con l’altro da sé. Questa tensione originaria e umana verso la relazione viene però snaturata attraverso una riflessività che vede l’individuo e i suoi desideri come unico criterio di scelta, chiusa su sé stessa e pertanto non generativa. Come è possibile districarsi in tale contesto? Occorre ripensare la relazione uomo-donna come unità a partire dalle differenze: ciò che viene spesso dimenticato è che la relazione implica sempre un altro da sé, l’identificazione dell’io avviene soltanto nel riconoscimento di una differenza. La relazione, pertanto, è ciò che unisce differenziando (relazionamento – non neutralizzante – delle differenze): se si abbandona questa prospet282
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tiva di conseguenza, viene meno anche l’unità uomo-donna. L’umanità è costituita come dualità originaria, pertanto il punto di partenza è proprio l’unità: identità e differenza si danno all’interno dell’unità della persona. Infatti uomo e donna sono distinti originariamente, ma intrinsecamente relazionati perché solo la loro duplice modalità di essere raffigura pienamente l’umano: questo è il concetto di unità dei due, ovvero “unidualità”. Da ciò ne consegue che la differenza è una categoria stessa della persona, e la differenza implica necessariamente una apertura all’altro, all’altro da sé in ottica di riconoscimento e reciprocità. Dire reciprocità non significa dire indifferenza, non significa che uomo e donna non sono destinati a fondersi per ricomporre l’unità originaria, ma piuttosto che a partire da una differenza biologica uomo e donna devono porsi in una relazione di reciprocità asimmetrica che non mina l’unità della persona umana, ma anzi la ricostituisce.68
68
Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995.
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L’altro come non-proprio. Considerazioni filosofiche sul paradigma relazionale Sante Maletta (Università degli Studi di Bergamo)
In un recente contributo dedicato al paradigma relazionale Sergio Belardinelli si interroga in merito alla sua rilevanza culturale e sociale. Tra le varie risposte che lo studioso propone ce n’è una che ha un indubbio spessore filosofico: il paradigma relazionale «serve a vedere la normatività insita nella relazione», la quale permette di «costruire una teoria della società che sia adeguata, ossia capace di descrivere come le cose stanno, ma sia anche critica, ossia capace di denunciare le patologie sociali, senza cadere in cattiva ideologia».1 Se questo è vero, allora il paradigma relazionale diviene interessante anche dalla prospettiva della filosofia sociale contemporanea, vale a dire dal punto di vista di un’indagine sulle interrelazioni tra le forme della soggettività e i modi di vita sociali in una prospettiva descrittiva e critica, la quale di conseguenza rimanda a un criterio morale più o meno esplicito e quindi a un ideale di compimento umano. Un simile approccio mi sembra giustificato anche alla luce di ciò che Pierpaolo Donati afferma in merito alla pluralità delle forme sociali, la quale non implicherebbe una loro equivalenza nel configurare le relazioni in modo adeguato a motivo della normatività delle relazioni sociali che trascende le virtù personali di coloro che vi sono coinvolti.2 1
2
Sergio Belardinelli, “Dalla persona alla società e viceversa: a che serve il paradigma relazionale?”, in Pierpaolo Donati, Antonio Malo, Giulio Maspero (a cura di), La vita come relazione. Un dialogo fra teologia, filosofia e scienze sociali (Roma: Edusc, 2016): 253. Donati, “L’enigma della relazione e la matrice teologica della società”, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione, 23-72. In questo saggio Donati
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Esistenzialismo e filosofia dell’esistenza La prospettiva che sostiene l’esistenza di una normatività interna alle relazioni sociali va considerata all’interno del clima culturale tardomoderno, caratterizzato com’è dalla diffusione oramai capillare di un’etica basata sull’ideale dell’autocostituzione sperimentale dell’individuo. Semplificando senza banalizzare, si può dire che il senso comune odierno ha tra i propri presupposti più o meno consapevoli la tesi fondamentale dell’esistenzialismo di stampo sartriano che nell’essere umano l’esistenza precede e determina l’essenza.3 Sarebbe però ingannevole affermare che tale esistenzialismo irreligioso (in quanto non riconosce per l’essere umano alcuna forma di radicale dipendenza) rappresenti la magna pars della filosofia contemporanea. Se è vero – come ha mostrato Alasdair MacIntyre – che esso è simpatetico con l’antropologia prevalente nella filosofia di stampo analitico, è giusto e doveroso rimarcare che una parte rilevante della riflessione filosofica contemporanea lavora a partire da una concezione dell’essere umano che insiste sulla sua strutturale finitezza, intesa come alterità, negatività, non-proprietà. Un esempio paradigmatico di tale posizione teorica è quello di Hannah Arendt, la quale ha saputo sottoporre una filosofia dell’esistenza di taglio fenomenologico come quella heideggeriana alla prova del giudizio sulla realtà coeva.4 L’interesse dell’antropologia arendtiana agli occhi della cultura contemporanea sta nel fatto di essere costruita come una dottrina non della natura umana, ma della condizione umana.
3
4
chiarisce che «le forme sociali sono adeguate quando rispettano e sviluppano la natura propria di ogni relazione vissuta in maniera riflessiva» (ivi, 49). Questo diviene evidente nell’attuale dibattito in merito allo human enhancement. A tale proposito vedi Luca Grion (a cura di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica (Bologna: Il Mulino, 2012). È significativo che, nella sua ricostruzione delle origini della filosofia dell’esistenza proposta in un saggio giovanile risalente al 1946, Arendt individui queste nella filosofia positiva di Schelling, la quale implica che la ragione riconosca di non essere essa stessa il principio assoluto e ammetta che il proprio pensare proviene da un essere che lo rende possibile. Vedi Hannah Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (Milano: Jaca Book, 1998).
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Parlare in questi termini significa affermare che si danno fattori decisivi e ineliminabili che rendono la vita umana e che quindi sono dei veri e propri esistenziali in senso heideggeriano, individuando per l’essere umano non solo i suoi limiti, ma anche le sue condizioni di possibilità.5 Tra le condizioni dell’esistenza umana evidenziate da Arendt hanno per noi un grande rilievo la natalità e la pluralità. La natalità è espressione di un principio di “naturalità” ineliminabile dall’esistenza, una naturalità che è indice di una radicale non-proprietà. C’è un’origine che ci precede, un dono del quale ci parla il nostro stesso corpo alla luce di un’interrogazione fenomenologica.6 L’essere umano è una creatura, dipende da qualcosa che precede e trascende la condizione umana, ed è proprio tale dipendenza creaturale che impedisce di ridurre l’essenza a mero prodotto dell’esistenza.7 Tale irriducibilità – la quale bandisce la possibilità di una piena proprietà del soggetto su se stesso – funge da principio dell’azione; l’essere umano infatti agisce (cioè esiste) per manifestare agli altri essere umani e a se stesso la propria essenza e tale dinamica copre tutta l’estensione della vita umana sino alla sua fine e oltre, visto che è nella parola altrui che il significato di un’esistenza può apparire in una unitarietà seppur provvisoria. È solo in tale dialettica tensionale tra essenza ed esistenza che l’individuo acquisisce lo spessore di un essere personale. Con l’azione l’individuo non solo produce cambiamenti esteriori, generando corsi di eventi tendenzialmente imprevedibili in cui si manifesta la spontaneità e quindi la libertà umana, ma modifica se stesso a partire dalle possibilità date contribuendo così alla costituzione della sua propria identità; in questo senso (e solo in questo) esso si dà la nascita. In entrambi i casi l’individuo entra in relazione con altri individui secondo dinamiche che hanno una logica interna da esplicitare. Se la natalità è principio di singolarizzazione, la pluralità è 5 6 7
Vedi il contributo di Elena Colombetti in codesto volume. Vedi Stephan Kampowski, Ricordati della nascita. L’uomo in ricerca di un fondamento (Siena: Cantagalli, 2013): 19. Vedi Miguel Vatter, “Natality and Biopolitics in Hannah Arendt”, Revista de ciencía politica, 26 (2) (2006): 137-159.
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principio di fenomenalizzazione: se non ci fossero degli altri esseri simili, ma diversi da me, non ci sarebbe nessuno al quale manifestare la mia natura attraverso l’azione dialogica. Ora, come è evidente la natalità emerge come un esistenziale “ibrido”: essa dipende dal fatto naturale della nascita, però si emancipa dalla necessità naturale attraverso l’azione che essa stessa fonda. La libertà umana non è quindi incondizionata – come vorrebbero l’umanesimo ateo e il post-umanesimo –, ma è finita in quanto dipende da un fatto naturale, la nascita. Il problema della soggettivazione Tali considerazioni di stampo arendtiano risultano assai interessanti nella prospettiva della storia contemporanea e illuminano il presente. L’intenzione profonda che anima i movimenti e i regimi totalitari e che si rivela negli effetti prodotti è identificabile proprio come negazione della libertà e della pluralità dalla condizione umana. È questo che Arendt intende quando parla di male radicale la cui opera è evidente soprattutto nei lager, considerati dalla studiosa tedesca e da altri interpreti del fenomeno totalitario non come eccessi o incidenti di percorso, ma come veri e propri esperimenti sociali, modelli paradigmatici della società futura. La riduzione programmatica dei prigionieri a esseri ossessionati dal terrore, dalla fame, dal freddo e dalla stanchezza intende eliminare ogni traccia di spontaneità dai loro atti, ridotti a essere mere risposte a stimoli. In tal modo la loro individualità tende a scomparire e la sostituzione dei nomi personali con dei numeri di matricola non è altro che il segno di tale riduzione. Ciò che è decisivo ai nostri fini (l’individuazione di una normatività intrinseca delle relazioni) è che tale esperimento sociale non sia riuscito completamente, che nelle varie esperienze totalitarie dello scorso secolo ci sono state persone in grado di non rinunciare completamente alla propria libertà e responsabilità salvaguardando così la propria individualità. La storiografia più recente ci mette davanti tanto a esempi di oppositori politici o dissidenti morali quanto a coloro che hanno espres288
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so la propria resistenza nell’aiuto delle vittime.8 La filosofia morale arendtiana vera e propria prende spunto da questi esempi paradigmatici per indagare in merito ai presupposti di una tale condotta, i quali vengono da lei individuati in una forma particolare di soggettivazione, quella della non-partecipazione. In altri termini si può individuare negli scritti arendtiani successivi alla teorizzazione della banalità del male una sorta di fenomenologia del bene che ha un valore allo stesso tempo descrittivo e normativo della quale qui è possibile solo fornire un profilo schematico.9 In un contesto totalitario il bene si presenta innanzitutto nella forma della non-partecipazione al male. Questa presuppone nel soggetto un’autonomia del pensiero rispetto a ogni forma di ideologia, definita da Arendt come logica di un’idea, come sviluppo sistematico e deduttivo di conseguenze a partire da un principio primo. Ciò significa che, se il principio è quello razzista del nazismo, tutto il passato e il futuro viene spiegato alla luce della lotta tra razze superiori e inferiori e l’azione presente viene informata da un giudizio che si limita a dedurre le conclusioni dal principio primo. I non-partecipanti sono innanzitutto coloro che hanno mantenuto in sé la capacità di pensare in senso autentico, vale a dire di immaginare, ricordare, riflettere. Solo tale pensiero profondo ha impedito il loro allineamento con l’ideologia dominante e quindi ha reso possibile una posizione morale, seppur negativa: io questo non lo posso fare! (altrimenti dovrei contraddirmi o disprezzare me stesso). In realtà Arendt sottolinea che in un contesto totalitario, caratterizzato dall’ideale della mobilitazione totale della popolazione e dell’omologazione ideologica, tale posizione negativa acquisisce immediatamente una visibilità pubblica e quindi un significato politico. Ai nostri fini occorre soffermarsi sull’aspetto soggettivante di tale dinamica, la quale è essenzialmente intellettuale. Il pensare profondo 8
9
Lo studio delle varie tipologie di resistenza al male politico e la memoria di coloro che l’hanno messa in pratica è il cuore dell’attività della Foresta dei giusti nel mondo, al cui ricchissimo sito web rimando: https://it.gariwo.net. Ho affrontato questo tema in Il soggetto dif-ferente. Peripezie della responsabilità (Milano, Mimesis: 2016): 45-58.
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L’altro come non-proprio. Considerazioni filosofiche sul paradigma relazionale
caratteristico del non-partecipante (l’immaginazione, il ricordo, la riflessione) implica la produzione di una differenza tra sé e sé che non nega l’identità, ma che la dinamicizza. È la nascita della coscienza di sé, della consapevolezza (consciousness, Bewußtsein). Il punto di riferimento principale arendtiano è qui il Socrate del Gorgia (482 b-c) e il due-in-uno che lo caratterizza: piuttosto che essere in guerra con se stessi è meglio subire l’ingiustizia. La mossa teorica problematica che Arendt compie è quella di considerare la coscienza morale (conscience, Gewissen) come un prodotto della consapevolezza e quindi dell’io pensante. Perché il “due-in-uno” possa però evolvere in una personalità matura dal punto di vista morale, oltre a quello della consistenza con sé occorre mettere in evidenza la presenza di altri due presupposti, uno che sta a monte e uno che sta a valle. Nel primo caso si tratta del Selbstdenken, il “pensare (a partire) da sé”, il quale ha come caratteristica fondamentale di essere legato a un punto di vista che ne costituisce allo stesso tempo il limite e la condizione di possibilità. Si tratta di una parzialità appassionata nella quale è decisivo quel colpo sulla struttura percettivo-cogitativa del soggetto (mind, Geist) che inerisce alla sua natura passionale. Pensare (a partire) da sé quindi non significa ritirarsi dal mondo, ma pensare a partire da un rapporto concreto e vivace con la realtà. Nel secondo caso si tratta di sviluppare in modo rigoroso ciò che nel Selbstdenken è già implicito, vale a dire il confronto più o meno polemico con altri punti di vista. Tale dialogo anticipato o effettivo produce quell’allargamento della mente analizzato magistralmente dal Kant della Critica del giudizio a proposito del giudizio estetico, vera e propria matrice del senso comune inteso come senso comunitario (nel linguaggio di Kant: gemeinschaftlicher Sinn). L’altro come non-proprio In definitiva per Arendt è tale soggettività per sua essenza dialogica e plurale che funge da fondamento della moralità. Dialogicità e pluralità quindi sono tipiche non solo della polis, ma anche della psyche, le quali presentano perciò una struttura analoga. Qui troviamo un modello di 290
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soggettività allo stesso tempo robusto, in quanto dotato di un proprio punto di vista, ed elastico, una forma di personalità coesa e aperta, ciò che Paul Ricoeur definirebbe un’ipseità. Tale soggettività è generata e intimamente relazionale e il luogo della generazione è il rapporto con l’altro. Ma chi è o cos’è questo altro? In Arendt questo è innanzitutto l’alter ego nel quale l’io si imbatte nel momento in cui sviluppa facoltà quali l’immaginazione, il ricordo, la riflessione. Ma è anche l’altro inteso come realtà che produce in me un affetto, nel quale io prima di essere attivo sono passivo: senza questa alterità io non avrei un posto nel mondo, un punto di vista a partire dal quale allargare la mia mente e pervenire a un giudizio meno parziale. La filosofia contemporanea di ispirazione fenomenologica ci rende consapevoli anche di altre forme di alterità, come quella che si esprime nella corporeità (nel mio corpo, o meglio: nel corpo che io sono) e nel linguaggio, che parla a me prima di essere parlato da me. Il tratto comune a tutte queste forme di alterità è l’esperienza di un’originaria passività, di un ineliminabile spossessamento e quindi del negativo – in una parola l’esperienza del non-proprio. Considerare l’alterità in termini di non-proprietà rende possibile ripensare la nozione di responsabilità, la quale viene in genere vissuta o nei termini di una capacità di considerazione preventiva delle conseguenze di un’azione oppure come adeguazione al dovere di prendersi cura di chi è in stato di bisogno. In entrambi i casi la responsabilità appare come qualcosa a disposizione del soggetto e la moralità come regola o norma estrinseca rispetto alla costituzione soggettiva, qualcosa che richiama l’attenzione di un soggetto già autonomamente costituito e al quale deve fornire delle ragioni per agire. Nel momento in cui invece la moralità appare come qualcosa di generato a partire dal rapporto con il non-proprio, essa è collocata al cuore del processo di soggettivazione come qualcosa rispetto a cui il soggetto non può essere indifferente e che può al peggio disconoscere in una prassi di illusoria auto-appropriazione che conduce all’inautenticità. Emerge quindi una struttura più originaria: all’affezione come rapporto con un non-proprio il soggetto è chiamato a rispondere e in tale dinamica si costituisce la 291
L’altro come non-proprio. Considerazioni filosofiche sul paradigma relazionale
sua autentica responsabilità. Più originaria della responsabilità è la responsività. Tale struttura originaria è il tema fondamentale della ricerca fenomenologica di Bernhard Waldenfels, il quale mette in guardia dal pensare all’affezione e alla risposta come due momenti cronologicamente successivi. Tra affezione e risposta vige una reciprocità abitata da uno iato il quale, se da un lato impedisce ogni forma di sintesi, dall’altro permette alla risposta di essere creativa. È qui all’opera un differimento temporale originario a motivo del quale l’affezione arriva sempre troppo presto e la risposta sempre troppo tardi: «Soltanto nel rispondere a ciò da cui siamo colpiti entra in scena ciò che ci colpisce come tale».10 La fenomenologia waldenfelsiana apre la prospettiva di un’etica dei sensi in cui ciò che è decisivo, prima ancora del giudizio e della decisione, è il modo in cui si percepisce ciò che accade. Da tale punto di vista la virtù fondamentale è quella dell’attenzione, in quanto questa decide che qualcosa compaia nell’esperienza, che sia questo piuttosto che quello e che sia così e non altrimenti. L’attenzione si colloca sul crinale tra affezione e risposta. La centralità del ruolo giocato dall’attenzione non deve tuttavia fare dimenticare che si tratta di una virtù fragile, poiché trova il proprio fondamento in altro da sé, vale a dire nella volontà. Lo iato tra affezione e risposta va considerato come una scissione interna al soggetto nel suo essere tanto sé paziente quanto sé rispondente. È una scissione produttiva della stessa soggettività, visto che ognuno diviene ciò che è attraverso il suo rispondere. In questa prospettiva la soggettivazione non può essere pensata nei termini dell’auto-costituzione tardo-moderna in quanto il soggetto non controlla affatto la logica dell’affezione e della risposta. Oltre l’immunità del soggetto tardo-moderno La fenomenologia arendtiana del bene e l’etica responsiva waldenfelsiana gettano una luce sulle dinamiche patologiche sociali che la 10
Bernhard Waldenfels, Bruchlinien der Erfahrung (Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 2002): 59.
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storiografia contemporanea ci presenta. La diffusa acquiescenza al male – rilevabile a livello di massa nei regimi totalitari, ma presente anche nelle società liquide contemporanee seppur in forme diverse – è in ultima istanza comprensibile come effetto di un incompiuto processo di soggettivazione, di un’imperfetta differenziazione interna che non genera né la scissione arendtiana tra sé e sé né tanto meno la scissione tra affezione e risposta individuata da Waldenfels. E senza scissione non si costituisce la personalità morale. Quando descrive Adolf Eichmann – l’ufficiale SS responsabile dell’organizzazione della deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio processato e condannato a morte a Gerusalemme tra il 1961 e il 1962 – Arendt nota che egli è privo di immaginazione e quindi incapace di affezione, di condivisione del punto di vista altrui, di empatia. La sua flebile memoria fa il paio con la sua apparente incapacità di riflessione e quindi con l’assenza di rimorso e di scrupoli morali. Per Arendt Eichmann non è un criminale astuto che cerca di passare per stupido per evitare la pena capitale, ma è veramente tale. La figura di Eichmann è comprensibile nei termini di una sorta di immunizzazione dal non-proprio: la sua mente e il suo spirito sono protetti dal contatto con l’alterità che si manifesta nel rapporto con la realtà e con gli altri esseri umani e con l’alterità che può svilupparsi in sé grazie al pensare in senso profondo. L’ideologia gioca un ruolo centrale in tale processo di immunizzazione in quanto fornisce una griglia interpretativa tendenzialmente totalizzante rispetto a ogni evento per cui non si dà mai nulla di inaspettato e di sorprendente: «Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere».11 Per contrasto i non-partecipanti sono coloro che non sono immunizzati dal non-proprio e ciò grazie al fatto che il loro processo di soggettivazione ha generato un’alterità e una differenza in loro stessi. Come abbiamo visto, il “due-in-uno” arendtiano può evolversi in una personalità morale matura solo se pensa a partire da sé in una parzialità appassionata che è indice di un rapporto col mondo coinvolgente tutte le sue facoltà. È proprio tale coinvolgimento 11
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (Milano: Edizioni di Comunità, 1967): 642.
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integrale che permette l’irruzione dell’evento inaspettato, dell’altro e del non-proprio. E tale irruzione può comportare uno sconvolgimento della mente e dello spirito, una metanoia, una sorta di riorientamento gestaltico all’interno del quale cambia la percezione, il pensiero e la valutazione e di conseguenza anche la prassi. In definitiva la filosofia dell’esistenza di stampo fenomenologico permette di pensare alla struttura relazionale della vita umana nei termini di un rapporto col non-proprio. Il guadagno teoretico di tale mossa sta nell’identificare tale rapporto nel cuore stesso della dinamica soggettivante che appare in tale prospettiva anche come una dinamica socializzante. Quanto più l’essere umano sviluppa la scissione interiore nell’esercizio di una coscienza di sé capace di generare la coscienza e la personalità morale tanto più risulterà capace di relazionarsi a un mondo sociale caratterizzato dalla differenza e dalla pluralità; e viceversa: «Il fenomeno della coscienza umana ci dice insomma che la differenza e l’alterità – che sono tratti caratteristici del mondo delle apparenze per come esso si dà all’uomo, nella misura in cui egli abita in mezzo a una pluralità di cose – sono al contempo i requisiti stessi dell’esistenza di un io umano».12 La differenza e l’alterità sono rese possibili – come abbiamo visto – dalla natalità e dalla pluralità; e queste, in quanto condizioni dell’esistenza, giocano allo stesso tempo un ruolo generativo e normativo dell’humanum. Una modificazione di tali esistenziali implicherebbe la fine dell’esistenza umana per come la conosciamo, soprattutto per quanto riguarda i caratteri che di solito associamo alla libertà: spontaneità, innovazione imprevista, responsabilità personale. Un ruolo simile lo giocano pure i principi che stanno alla base della nascita della consapevolezza e della coscienza morale: la coerenza con se stessi, il pensare (a partire) da sé, l’allargamento della mente. Questi hanno un carattere normativo nei confronti dello sviluppo di una matura personalità morale. 12
Hannah Arendt, La vita della mente (Bologna: Il Mulino, 1987): 159. Sarebbe interessante verificare tale intuizione arendtiana alla luce dell’approccio sociologico sviluppato da Margareth Archer ne La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale (Gardolo: Erikson, 2006).
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Il passo innanzi che ci permette di fare Waldenfels consiste nell’esplicitazione dei presupposti teoretici e antropologici di un’etica che, come quella arendtiana, non intende rinunciare alla categoria di responsabilità morale personale – presupposti che nelle società tardo-moderne divengono sempre più problematici. L’etica dei sensi elaborata dal fenomenologo tedesco sulla base della struttura fondamentale dell’affezione e della risposta infatti evidenza nell’esperienza morale il ruolo fondamentale giocato dalla facoltà dell’attenzione, la quale è sempre incorporata in strutture abituali costituite da pratiche, tecniche e media che contribuiscono in modo decisivo alla costituzione del senso e che determinano, in senso positivo o negativo, l’attenzione stessa. Di conseguenza questa oscilla tra due estremi: la risposta priva di affezione di chi è dominato da idee fisse e stereotipi ideologici (è il caso di Eichmann) da un lato e l’affezione priva di risposta di chi è disperso nell’esperienza dall’altro. L’attenzione costituisce l’ethos fondamentale, vale a dire la postura spirituale del soggetto nel rapporto con sé e con gli altri – un fondamento fragile di cui prendersi cura in cui l’utopia di un soggetto auto-costituentesi appare in tutta la sua in-credibilità.
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I beni relazionali della coppia Oana Gotia (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e famiglia)
Introduzione Come può oggi la relazione di coppia non essere solamente sopravvissuta dall’uomo e dalla donna, ma vissuta fino in fondo, attuando quella promessa di pienezza che il loro incontro apre? Quali sono i beni relazionali della coppia che aiutano a realizzarla? Oggi la promessa di un amore reciproco che affronti il tempo per sempre è considerata non solo un concetto antiquato, ma anche un traguardo futile giacché ritenuto impossibile da raggiungere: partendo dalla provvisorietà dei sentimenti e dalla fragile coesione delle coppie odierne, nel migliore dei casi ciò che si promette è un impegno in una relazione “finché dura”. L’uomo post-moderno si percepisce incapace di offrire la propria promessa all’altro, poiché si tratta di un individuo continuamente bombardato da una cultura basata sull’idea di doversi adoperare freneticamente per essere indipendente dagli altri, poiché la dipendenza dagli altri è “un male” del quale sbarazzarsi. È questo il trend che emerge anche dal recentissimo documentario di Erik Gandini La teoria svedese dell’amore (The Swedish Theory of love, settembre 2016) che descrive le conseguenze del manifesto intitolato La famiglia del futuro1 della sezione femminile del Partito social-democratico del 1972, nel quale veniva prefigurata la famiglia del futuro in un si1
Manifesto intitolato The family of the future (Familjen i framtiden) presentato dalla sezione femminile del Partito Social-democratico svedese (Sveriges Socialdemokratiska Kvinnoförbund, allora guidato dal primo ministro Olof Palme) al Convegno del Partito del 1972.
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I beni relazionali della coppia
stema socio-assistenziale perfettamente organizzato il cui fine è dare a ciascuno una vita totalmente autonoma. Ad esempio, nel documentario si descrive lo stile di vita degli anziani “indipendenti”, ma che muoiono da soli nelle loro case, senza che nessuno se ne renda conto per diversi giorni (perché i parenti e i vicini non si interessano e/o non ci sono). Si mostra anche la “soluzione” che le donne-single “indipendenti” trovano per realizzare il loro “progetto di maternità”: ricorrono alle banche di sperma che forniscono non solo la “materia” donata da maschi anonimi, ma anche il kit per l’inseminazione “domestica”; tutto questo, dopo essersi accertata che il profilo fisico online del donatore di sperma sia simile al proprio, per non dover spiegare più tardi al figlio (fisicamente diverso dalla madre) chi sia il padre. È questo il modello dell’individuo “indipendente” post-moderno: una totale autonomia cercata fino al punto di isolarsi dagli altri e dai legami che possano impiegare il proprio tempo e le proprie energie. Il soggetto contemporaneo, nel suo isolamento, non è dunque nemmeno in grado di promettere, perché è paralizzato dall’analisi della fragilità e dall’incostanza delle proprie forze ed è abbandonato ad una solitudine troppo profonda per affrontare la paura dell’incertezza del futuro. Di contro, Hannah Arendt afferma che è proprio da questa incertezza e da questa oscurità dell’avvenire che veniamo liberati nel nostro atto di promettere.2 1
L’origine della relazione
Qual è allora il soggetto capace di promessa? È colui che prima di poter promettere, ha ricevuto a sua volta una promessa, poiché nessuno può 2
Hannah Arendt, “Unpredictability and the power of promise”, in Id., The human condition (Chicago: The University of Chicago Press, 1958): 244: «The unpredictability which the act of making promises at least partially dispels is of a twofold nature: it arises simultaneously out of the “darkness of the human heart”, that is, the basic unreliability of men who never can guarantee today who they will be tomorrow, and out of the impossibility of foretelling the consequences of an act within a community of equals where everybody has the same capacity to act».
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promettere partendo dal nulla.3 Ognuno di noi impara normalmente a pronunciare la propria promessa quando è stato accolto nel cuore di una famiglia, inserito dunque in una rete di vincoli di appartenenza reciproca dove non si soffoca, ma dove l’identità fiorisce a causa dell’essere figlio e fratello o sorella, dell’essere strutturalmente relazionale.4 In questa vera e primordiale accoglienza famigliare, la persona inizia ad afferrare ciò che l’individualismo non potrà mai cogliere: che il tempo non è una minaccia al fiorire della propria identità, ma è un ingrediente imprescindibile per crescere nell’amore, così come il legame con gli altri è, anch’esso, spazio fecondo per la propria libertà. Certamente è significativo oggi il numero di famiglie dove tale promessa non è stata offerta ai figli in maniera serena e stabile da parte dei genitori per vari motivi. Tuttavia, MacIntyre affermava al riguardo che ogni persona che raggiunge l’età della maturità testimonia il fatto che qualcuno si è preso cura di lui, anche se non sono stati i genitori a farlo.5 Pertanto, anche all’interno delle famiglie dove, purtroppo, tale promessa non si offre, il bambino ha bisogno di vivere in prima persona un legame di appartenenza a una figura paterna e materna – quand’anche non fossero i genitori a svolgere tale ruolo –, per poter poi creare lui stesso nel futuro vincoli di appartenenza. Un altro aspetto importante, affinché il bambino e il giovane diventi capace di promessa, è essere aiutato a cominciare un processo di riconciliazione e guarigione delle ferite eventualmente subite nei legami di origine, prima di costruire una relazione sponsale. Infatti, non spetta alla relazione sponsale in sé adempiere a tale compito, poiché in tal caso si correrebbe il rischio di trasformare il matrimonio in un rifugio terapeutico, privando i due della maturità necessaria per costruire un rapporto quanto più possibile bilanciato. Pertanto, si può evincere da queste considerazioni, quanto la promessa sponsale di cura e di fedeltà dei genitori tra di loro, insieme alla loro promessa di cura e di amore nei confronti dei figli, costituiscano il 3 4 5
José Granados García, La teologia del tempo (Bologna: EDB, 2014): 183. Martha Nussbaum, The Fragility of Goodness (Cambridge: Cambridge University Press, 19861 ): 344-345. Alasdair MacIntyre, Dependent rational animals (Chicago: Open Court, 2001): 138.
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I beni relazionali della coppia
fondamento per la capacità di ognuno di noi di dire “sì” ad un’altra persona nel futuro – un “sì” che è dall’inizio filiale.6 In tal modo, la maniera in cui avviene la genesi delle relazioni originarie in noi – figliolanza, fratellanza, sponsalità, genitorialità – conforma fortemente anche il modo in cui esse si sviluppano negli anni. Per questa ragione, quando la famiglia si trova in crisi, è la visione del futuro di ogni persona che nasce ad essere ferita, perché è nel presente della famiglia che si forgia nel figlio il futuro delle sue relazioni interpersonali. Nel contempo, rafforzare la famiglia oggi significa edificare il futuro dell’amore umano. Da queste prime considerazioni della genesi della relazione, si evince il fatto che le relazioni interpersonali, soprattutto quella di coppia, sono costitutivamente vulnerabili. 2
Quale vulnerabilità della relazione?
Martha Nussbaum, enumerando le fonti di vulnerabilità delle relazioni di amore-philia (tra le quali annovera anche quella di coppia), mostra che esse non sono omogenee: prima di tutto esiste una vulnerabilità ontologica propria agli esseri umani radicata nel loro essere corporei; si tratta della vulnerabilità fisica (come la malattia, l’invecchiamento e la morte), sperimentata doppiamente perché siamo esposti anche alla perdita della salute o della vita dell’altro.7 Esiste anche la vulnerabilità legata alla contingenza della vita, alla complessità della realtà che spesso sfugge al nostro controllo (eventi legati al benessere o meno dei figli o del coniuge, alla perdita del lavoro, ecc.) e che rischia sovente di indebolire il rapporto di coppia.8 Certamente, non si tratta di un legame che rimane completamente in balia della fortuna, ma la coppia si trova continuamente davanti alla sfida dei cambiamenti della vita.9 6 7 8 9
Granados, La teologia del tempo, 183. Nussbaum, The Fragility of goodness, 360-361. Ivi, 343-344. Ivi, 345.
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Per questa ragione, la sfida più grande è quella di imparare a costruire una relazione che eviti un altro tipo di vulnerabilità che invece la sovverta: quella morale. Si tratta di quella dispersione e frammentazione interna alla persona, di quella mancanza di unificazione interiore tra i principi attivi della razionalità e dell’affettività. Detto in positivo, esiste una qualità, un’eccellenza e dunque una verità del legame d’amore uomodonna, come vedremo più avanti, che non possono andare perdute se non si vuole perdere anche la pienezza cercata nella relazione stessa. Sulla scia di Aristotele, la Nussbaum identifica la felicità/eudaimonia umana non già con un benessere emotivo,10 ma come frutto di un certo tipo di agire all’interno di una relazione che fa fiorire le due persone nella coppia, poiché non esiste una felicità “low-cost” che possa fare a meno dell’agire buono, sperando di raggiungere lo stesso l’eudaimonia. L’alternativa non è priva di costo, poiché sarà inevitabile cadere nella dissipazione e nella frantumazione morale che distruggerà proprio la mèta della vita tanto anelata. Pertanto, combattere la vulnerabilità morale dell’agire della coppia non dovrebbe essere un atteggiamento motivato dalla corrispondenza ad un moralismo sterile, ma dalla convinzione che ciò che è in gioco è la felicità stessa degli amanti. I beni relazionali della coppia saranno dunque il frutto di quelle loro co-azioni, per dirla con Blondel,11 che li uniscono in un amore che diventa nel tempo vero e forte. Quali sono le caratteristiche di questi “beni della relazione”? 10
Ivi, 369: «But since the goal of the Aristotelian is not so much happiness in the sense of contentment as it is fullness of life and richness of value, it is no solution to omit a value for happiness’s sake, to reduce your demands on the world in order to get more pleasing answers from the world. The Aristotelian will simply take on the world and see what can be done with it». 11 Maurice Blondel, L’action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique (Paris: Presses Universitaires de France-Quadrige, 1893): 244: «Et quand je veux avoir à faire avec d’autres moi-même, est-ce que la coaction ne disparaît point pour faire place à l’originalité indépendante d’une raison et d’une liberté? Etranges conditions à concilier: je veux que mon partenaire soit aussi distinct de moi que je suis de lui; et je veux que son autonomie suive ma loi. Il me faut avec lui une union pleine, sûre et parfaite, sans que l’unité, sans que la dualité soient sacrifiées l’une à l’autre».
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I beni relazionali della coppia
3 3.1
La relazione uomo-donna ha una verità L’amore inizia in un dono
L’origine della relazione di coppia illumina una profonda prima verità: ogni amore inizia non tanto con una decisione, quanto in un momento recettivo. Questo incontro epifanico, originario, tra l’uomo e la donna è carico di significato, perché rivela l’identità profonda dell’altro: egli non è mai un dovuto, ma una presenza sorprendente di dono non-calcolato che sconvolge la vita del soggetto. Ogni amore interpersonale ha costitutivamente al suo principio questa dinamica di arricchimento e di novità: la relazione sponsale, quella tra i genitori e i figli, i legami di fratellanza o di amicizia e anche l’amore per Dio. Per questa ragione, l’Aquinate pone prima come fondamento del trattato sull’amore-dilectio la sua elaborazione sull’amore-passio e sul movimento affettivo che genera (immutatio, co-aptatio, complacentia) per creare quella unio affectus originaria12 che darà l’imprinting all’intera relazione. Prima di diventare un amare dinamico, l’amore nasce in un dono. Shakespeare esprime in maniera geniale la singolarità dell’amore che Romeo scopre in Giulietta. Romeo, prima di incontrare Giulietta, era piuttosto avvinto dal sentimento stesso di trovarsi infatuato della sua “fiamma” Rosalina e la fioritura quasi comica dei versi che compone per lei13 mostrano la superficialità di questa esperienza sentimentale. L’incontro con Giulietta, invece, mostra una radicale novità: Romeo si rende conto che prima di lei non aveva veramente saputo cosa fosse l’amore: «Did my heart love till now? Forswear it, sight! / For I ne’er saw true beauty till this night».14 Il vero amore sconvolge e apre gli occhi al soggetto, alla vera bellezza della promessa di una relazione che sta per sbocciare. 12
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 26-28. William Shakespeare, Romeo and Juliet, I, 1: «She is too fair, too wise, wisely too fair, to merit bliss by making me despair. She hath forsworn to love, and in that vow, Do I live dead that live to tell it now». 14 Ivi, I.5.52-53. 13
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Ogni coppia ha bisogno di far memoria di questo momento rivelatore che sta al fondamento della loro relazione. L’avvenimento dirompente dell’amore nel quale l’altro si rivela come dono, sarà fonte di riflessione e di rinnovamento per gli sposi nei momenti-cardine o nei momenti di crisi, aiutandoli a tornare all’essenziale e alla matrice: all’inizio, c’è proprio il momento del mutamento (immutatio) vale a dire dello sconvolgimento di una visione di vita che ora inizia ad essere illuminata dal “noi” che si promette. All’inizio della coppia non vi è affatto l’idea di un “mio” progetto di vita nel quale “tu devi entrare” come la “tessera di un mio puzzle” che mancava, senza sbilanciare in nessun modo la comodità letargica del soggetto post-moderno. L’amore-passio (che non è l’amour-passion romantico, ma l’amore colto in chiave tomista), l’amore che inizia nella recezione affettiva del dono, rivela che il cambiamento di ottica da quella dell’individuo self-sufficient a quella di coppia è un passo fondante, il quale, se sperimentato e accolto da entrambi, potrà essere la base per una relazione che porti frutto. Prima dell’agency della coppia, c’è la reciproca presenza affettiva15 che genera e ri-genera la relazione nuova da costruire, nella quale ciascuno scopre una sua nuova identità: essere un dono per l’altro. 3.2
L’amore genera il desiderio estatico e reciproco di comunione
Il desiderio nel cuore dell’uomo non è semplicemente caratterizzato da una astratta insaziabilità o causato da un vuoto generico e infinito. Il desiderio, come si è visto, nasce da una presenza d’amore ricevuto: l’amore precede il desiderio, direbbe san Tommaso.16 Il desiderio che nasce nell’esperienza rivelatrice dell’amore ha già una identità e contenuto preciso: cerca la comunione promessa nell’amore ricevuto. L’amore autentico dunque non è mai una esperienza stagnante, ma generativa: nasce co15
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.28, a.2, sc: «amor facit amatum esse in amante, et e converso»; ad.1: «amatum continetur in amante, inquantum est impressum in affectu eius per quandam complacentiam». 16 Ivi, I-II, q.25, a.2, co: «[. . .] amor praecedit desiderium, et desiderium praecedit delectationem».
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sì un nuovo movimento verso un bene comune nuovo che corrisponde profondamente ad entrambi (“bonum conveniens”)17 e dunque anche un desiderio (desiderium) comune per questo bene che è la comunione. In tal modo, la pienezza umana (l’eudaimonia) cessa di essere una mèta astratta e vaga e diventa un traguardo connaturale per gli amanti, affascinandoli e attraendoli18 profondamente nelle azioni concrete che la costituiscono. L’amato “invade” benevolmente19 l’interiorità del soggetto, dinamizzandolo e generando un desiderio estatico (“extasis”)20 di raggiungere l’amato21 e di condividere la vita con lui. Senza questa reciprocità22 di esperienza dell’innamoramento (da distinguere dalla infatuazione), non si può edificare la relazione di coppia, giacché un amore “a senso unico”, in realtà, non ha senso, non ha la forza di unire due destini – al contempo, distinti e uniti – verso la pienezza: non è ancora virtus unitiva. La relazione dunque si prefigge, per dirla 17
Ivi, I-II, q.32, a.1, co: «ad delectationem duo requiruntur: scilicet consecutio boni convenientis, et cognitio, huiusmodi adeptionis. Utrumque autem horum in quadam operatione consistit: nam actualis cognitio operatio quaedam est; similiter bonum conveniens adipiscimur aliqua operatione. Ipsa etiam operatio propria est quodam bonum conveniens. Unde oportet quod omnis delectatio aliquam operationem consequatur». 18 James McEvoy, “Amitié, attirance et amour chez S. Thomas d’Aquin”, Revue philosophique de Louvain 91 (1993): 383-408. 19 José Ortega y Gasset, Estudios sobre el amor (Barcelona: EDAF, 1994): 34-35. 20 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.28, a.3, co: «aliquis extasim pati, quando appetitus alicuius in alterum fertur, exiens quammodo extra seipsum». Al riguardo, si veda Peter A. Kwasniewski, “Extasis and union with the Beloved”, The Thomist 61 (1997): 587-603. 21 Antonio Malo, Antropologia dell’affettività (Roma: Armando Editore, 1999): 153. 22 Nussbaum, The Fragility of Goodness, 354: «Not every case in which a person likes or even intensely loves something or someone is, Aristotle insists, a genuine case of philia. [. . .] We find in this passage two requirements for philia. The first is mutuality: philia is a relation, not a one-way street; its benefits are inseparable from sharing and the return of benefit and affection. The second is independence: the object of philia must be seen as a being with a separate good, not as simply a possession or extension of the philos; and the real philos will wish the other well for the sake of that separate good. [. . .] Philoi, by contrast, should be separate and independent; they ought to be, and to see one another as, separate centers of choice and action».
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con Donati, come una realtà “terza” tra Ego e Alter 23 da costruire ed alimentare da entrambi nel tempo. Far memoria della reciprocità iniziale dell’esperienza ricettiva dell’amore sarà anche fonte di rinnovamento nella coppia negli anni e richiederà un nuovo approfondimento di tale co-esperienza affettiva. 3.3
L’amore genera la libertà, se “unisce nella differenza”
Un’altra caratteristica della relazione salutare di coppia, sia per Nussbaum che per Donati, è la custodia dell’alterità dell’altro.24 La relazione unisce i due agenti non solo conservando la rispettiva identità unica, ma sviluppandola a causa della relazione di coppia: l’amore ama la differenza e la singolarità dell’altro e si adopera per farla sbocciare. Pertanto, il paradosso è che proprio in virtù del legame sponsale che i due trovano lo spazio prediletto per essere e far fiorire l’identità ricca di ciascuno: «questo paradosso dell’amore si scioglie solo se si pensa che l’amore è una relazione che ha il potere di liberare attraverso il vincolo».25 Non esiste dunque alcun conflitto tra vincolo e libertà nell’amore autentico se ciò che si cerca è costruire insieme un legame nell’amarsi a vicenda per se stessi e per rafforzare la reciproca comunione promessa nell’innamoramento. La relazione unisce veramente le persone (unio realis)26 se i due si uniscono nella loro differenza che assumono e affermano nelle azioni che sono chiamati a plasmare insieme. In che modo?
23
Pierpaolo Donati, “L’amore come cura dei beni relazionali”, in Juan José PerezSoba, Marija Magdic (a cura di), L’amore, principio di vita sociale. “Caritas aedificat” (1Cor 8,1) (Siena: Cantagalli, 2011): 139-185, 152. 24 Nussbaum, The Fragility of Goodness, 355. 25 Donati, “L’amore come cura dei beni relazionali”, 153. 26 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.28, a.1, ad.1: «Quaedam vero unio est effectus amoris. Et haec est unio realis, quam amans quaerit de re amata».
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3.4
L’amare è una scelta
Questa sana densità della relazione, questo contenuto imprescindibile del reciproco volersi bene,27 è decisivo per evitare di trasformare la relazione in uno spazio chiuso dove non si respira più l’aria della libertà, ma dove la si soffoca alla ricerca auto-referenziale e frenetica del sentire. L’amore interpella chi lo ha incontrato nel profondo del suo essere e lo invita a scegliere (“dilectio”)28 di cercare un’unione sempre più grande con la fonte di questo incontro, che è l’altro.29 L’amore romantico30 ha perso la linfa dell’amore pieno eliminando la fonte della sua vitalità specifica costituita dal vincolo con la persona dell’amato nella sua alterità, trasformandolo in un legame fusionale in cui le identità inevitabilmente si perdono, per far posto alla mera ricerca di stimoli. Al giorno d’oggi, l’esempio più drammatico di questo impoverimento del concetto d’amore è il fenomeno del poliamore,31 in cui si pensa di “rinfrescare l’aria”32 respirata nella coppia “aprendola” ad un terzo elemento o più (senza poter spiegare, peraltro, perché la gelosia aumenta ad ogni relazione extra-coniugale). Così facendo, invece, la si seppellisce in profondità nel consumo illusoriamente gratificante di 27
Ivi, I-II, q.26, a.4, co; Aristotele, Rethorica, l.2, c.4, 1380 b 35-36. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.26, a.3, co: «Addit enim dilectio supra amorem, electionem praecedentem, ut ipsum nomen sonat. Unde dilectio non est in concupiscibili, sed in voluntate tantum, et est in sola rationali natura». 29 José Noriega, “Affettività e integrazione”, Anthropotes 20 (2004): 163-176, 166. 30 Kenneth S. Pope, “Defining and studying Romantic love”, in Id. (a cura di), On Love and Loving, Psychological perspectives on the Nature and Experience of Romantic Love (San Francisco-Washigton-London: Jossey-Bass Publishers, 1980): 1-26. Al riguardo, Perez-Soba, “L’epopea moderna dell’amore romantico,” in Giuseppe Angelini (a cura di), Maschio e femmina li creò (Milano: Glossa, 2008): 233-261. 31 Si veda lo studio di uno dei primi ideologi di questo movimento: Jacques Attali, Amours. Histoires des relations entre les hommes et les femmes (Paris: Fayard, 2007). 32 L’espressione appartiene alla prima coppia americana, Julia e Jim Janousek (Minneapolis), che parla del loro legame poliamoroso: si veda l’articolo di Kirsten Anderson, “‘Polyamory”: the next civil rights movement?”, https://www.lifesitenews.com/news/polyamory-the-next-civil-rights-movement (ultima visita 28.02.2017).
28
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stimoli, che comporta un immenso svuotamento di significato personale diventando così spersonalizzante. Di contro, nella relazione di amore autentico, non si cancella il volto della persona amata, perché è fortemente radicata nell’affermazione di ciò che più è profondo, unico e intimo all’altro,33 essendo ciò che ha fatto scaturire l’amore-dono. Esiste un equilibrio delicato, fragile, ma prezioso da mantenere tra il riconoscimento dell’affinità (co-aptatio) che nasce tra i due rendendo l’altro un alter ipse34 e l’adoperarsi per la promozione dell’altro in quanto altro:35 non si tratta di una contraddizione, ma di una tensione salutare dell’amore che ci protegge dalle tendenze di uniformizzazione delle differenze in un tentativo sempre presente di controllo. Questa alterità promossa nell’amore è cercata connaturalmente, non moralisticamente, perché il momento affettivo dell’amore-passio ha destato quel desiderio di pienezza comune dinamica. Così, nascono le virtù relazionali, impregnando un agire amoroso da costruire nel seno della contingenza: ciò che si cerca hic et nunc è scoprire e creare quelle azioni – e solo determinati tipi di atti convengono alla pienezza – che ci permettono di amare insieme e nella verità.
33
Nussbaum, The Fragility of Goodness, 356: «The central and best case of love between persons is that of love based upon character and conception of the good. Here each partner loves the other for what that other most deeply is in him or herself (kath hauto), for those dispositions and those patterns of thought and feeling that are so intrinsic to his being himself that a change in them would raise questions of identity and persistence». 34 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.28, a.1, ad.2: «quaedam vero unio est essentialiter ipse amor. Et haec est unio secundum coaptationem affectus. Quae quidem assimilatur unioni substantiali, inquantum amans se habet ad amatum, in amore quidem amicitiae, ut ad seipsum; in amore autem concupiscentiae, ut ad aliquid sui». 35 Nussbaum, The Fragility of Goodness, 368.
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3.5
La gioia creativa, frutto dell’amare nella verità
L’amore ha dunque una verità esigente,36 ma è l’unica che porterà frutto in abbondanza nonché quella gioia profonda (“gaudium”)37 che riempie il cuore umano. Tutti i pseudo-piaceri che scaturiscono da un agire in cui questa verità non è custodita, inebriano per un istante il cuore, ma lo lasciano ancora più vuoto di prima. Da questa verità esigente nasce anche la vera creatività nell’amore, perché la contingenza della vita richiede la messa in gioco della nostra intelligenza per amare nel quotidiano in maniera nuova ed eccellente.38 Anche se la vita di ogni giorno può sembrare banale dal di fuori, dall’interno della coppia il quotidiano è una sfida: costruire gradualmente una dimora forte dell’amore. La fedeltà del quotidiano è dunque diversa da una semplice costanza, come ci ricorda Gabriel Marcel. Mentre la costanza implica un’immutabilità e una perseveranza nel proposito stabilito – ed è un atteggiamento che rimane piuttosto nel registro della coerenza con se stessi e dunque della contrattualità auto-referenziale –, la fedeltà comporta un aspetto decisamente interpersonale, perché si è fedeli ad una persona e questo, pertanto, implica una presenza.39 Di conseguenza, la fedeltà non consiste solo nell’attivare un “antivirus” contro le relazioni extra-coniugali, ma implica la creatività nel quotidiano frutto della collaborazione delle virtù relazionali che unificano l’affettività e la razionalità all’interno dei due, generando così una connaturalità nuova: in questo modo si 36
Perez-Soba, “Amor es nombre de la persona” (I.q.37, a.1). Estudio de la intepersonalidad en el amor en Santo Tomàs de Aquino (Roma: Lateran University Press, 2001): 68. 37 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.31, a.3, co: «Sed nomen gaudii non habet locum nisi in delectatione quae consequitur rationem, unde gaudium non attribuimus brutis animalibus, sed solum nomen delectationis. Omne autem quod concupiscimus secundum naturam, possumus etiam cum delectatione rationis concupiscere, sed non et converso. Unde de omnibus de quibus est delectatio, potest etiam esse gaudium in habentibus rationem». 38 Nussbaum, The Fragility of Goodness, 359. 39 Gabriel Marcel, “La fidélité créatrice”, Revue internationale de Philosophie 5 (1939): 90-116, 96.
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impara ad essere presenti uno all’altro nelle scelte d’amore, a donare non solo qualcosa, ma se stessi, nelle azioni rivolte all’altro, forgiando così la comunione. 4
La sovrabbondanza della relazione
La creatività della coppia si manifesta palesemente, prima di tutto nella sua capacità di essere simbolica, di trascendere il significato concreto dell’agire e di fare spazio ad una fecondità nascosta dell’azione specifica, eccedendola, ma al contempo non offrendosi senza di essa, pena la ricaduta nell’idealismo. Lo spazio di appartenenza esclusiva all’altro nell’intimità è dunque nutrito dalle azioni quotidiane, ma si configura in una comunione più grande del significato delle azioni stesse. La fecondità dell’amore di coppia è tangibilmente concretizzata anche nel dono dei figli, affidati alla coppia per imparare ad amare nella libertà e nella cura del focolare familiare. Nessuna istituzione potrà sostituire questa micro-comunità originaria dove i figli sono amati nella loro particolarità ed interezza grazie alla capacità dell’amore genitoriale di conoscere l’unicità della persona,40 dove dunque si accoglie la persona del figlio non tanto per le sue prestazioni accademiche o per le sue doti naturali,41 ma per se stesso nel seno di un amore incondizionato. Questa fecondità di natura spirituale dell’agire sponsale apre anche all’orizzonte della trascendenza, della Presenza che vivifica il cuore umano, senza alienarlo da se stesso. Diversa è, invece, la prospettiva della Nussbaum su questo punto: nella sua critica al concetto di amore trascendente di Platone, essa spesso afferma di seguire la scia aristotelica e non quella platonica, per evitare di perdere la specificità e finitezza dell’amore umano e per evitare di trasformarla in quella di un essere che non è più umano, ma del divino non-bisognoso (a needless god).42 40
Nussbaum, The Fragility of Goodness, 362. Franco Nembrini, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare (Milano: Edizioni Ares, 2011): 58. 42 Nussbaum, The Fragility of Goodness, 357. 41
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Questo timore emerge anche nell’idea che spesso alberga nelle menti di tante persone, portate a pensare che la grazia divina blocchi o paralizzi la spontaneità della vita coniugale nel suo aspetto emotivo e sessuale. Ritengo, invece, che la prospettiva cristiana della grazia nell’amore umano superi questa ottica antagonistica, proprio perché l’Incarnazione rivela una logica diversa: il Dio che ha preso su di sé la carne umana, il Vero Uomo, è lo stesso che ha creato l’uomo e la donna, instillando nel loro cuore un desiderio di amore pieno, senza che nemmeno il peccato possa cancellare questo anelito profondo. L’Incarnazione non può negare la creazione, ma la custodisce gelosamente e la porta a compimento. Così, l’amore umano non si perde, ma diventa più umano quando irrigato dall’amore di Dio, perché non si può salvare da solo.43 È per questa ragione che la carità coniugale non sacrifica le virtù umane,44 ma ha bisogno della loro mediazione per permeare le azioni umane concrete, le azioni comunionali degli sposi. In questo modo, non è solo il mondo interpersonale della famiglia che viene trasfigurato dall’amore vivificato dalla grazia, ma è la società stessa che ne riceve la sua linfa vivificante. Emerge con forza che la relazione sponsale inizia in un dono ed è essa stessa un dono sempre fecondo.
43
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.62, a.1, co: «beatitudo proportionem humanae naturae excedit, principia naturalia hominis, ex quibus procedit ad bene agendum secundum suam proportionem, non sufficiunt ad ordinandum hominem in beatitudinem praedictam. Unde oportet quod superaddantur homini divinitus aliqua principia, per quae ita ordinetur ad beatitudinem supernaturalem, sicut per principia naturalia ordinatur ad finem connaturalem, non tamen absque adiutorio divino. Et huiusmodi principia virtutes dicuntur theologicae, tum quia habent Deum pro obiecto, inquantum per eas recte ordinamur in Deum; tum quia a solo Deo nobis infunduntur; tum quia sola divina revelatione, in sacra Scriptura, huiusmodi virtutes traduntur». Si veda anche Livio Melina, José Noriega, Juan J. Perez- Soba, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale Cristiana (Siena: Cantagalli, 2008): 331-338. 44 Anthony J. Falanga, Charity the form of the Virtues according to Saint Thomas (Washington: The Catholic University of America Press, 1948): 40.
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5
Conclusione
I beni relazionali della coppia si costruiscono con la fantasia dell’amore che scaturisce dal dono del loro incontro, generando così un legame nel quale entrambi respirano la libertà di appartenere l’uno all’altro. Si rivelano come il frutto di un agire fragile e dinamico: sono scelte quotidiane di volersi bene, in maniera sempre nuova e attenta, intelligente e affettuosa, personale e feconda. I beni relazionali sono azioni che si radicano nelle virtù relazionali, le virtù dell’amore. Così sostenuti e alimentati, i beni relazionali emergono in maniera creativa e veritiera dinamizzando i due amanti e facendoli tendere e agire verso un orizzonte di pienezza promessa, ma che spetta a loro edificare: quella realtà sommamente attraente che li affascina nelle scelte singolari e mai banali, se vissute così, ogni giorno, sono la comunione feconda d’amore.
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Indice dei nomi
Acitelli, L.K., 108 Adkins, L., 258 Adler, A., 114 Adorno, T., 126 Agacinski, S., 62-64, 79, 83 Agostino, 18, 171-173, 176, 181, 182, 188, 200, 205, 206 Aguilar, A., 218 Anderson, K., 306 Archer, M., 79, 128, 141, 165, 257-260, 294 Arendt, H., 27, 28, 215, 227, 228, 249, 252, 286-295, 298 Aristotele, 168, 169, 177, 184, 301, 306 Bailey, M., 72 Barbagli, M., 96 Basilio, 179 Bass, A., 115 Battersby, C., 253
Bauman, Z., 113, 114 Beck, U., 258 Behloradsky, V., 151 Behr, J., 175 Belardinelli, S., 17, 20, 285 Benhabib, S., 151 Bergson,H., 253 Bertoni, A., 35, 39, 44 Binasco, M., 150 Binetti, P., 88, 110 Blackwell, D.L., 110 Blondel, M., 301 Borgna, P., 96 Botti, C., 220, 221 Bourdieu, P., 258 Brague, R., 196 Braidotti, R., 238, 240 Bramanti, D., 276 Brewer, M.B., 34 Brod, H., 269 Bruch, H., 119 313
Indice dei nomi
Buber, M., 124, 125 Burgos Díaz, E., 60 Butler, J., 58-61, 63, 69, 70, 76, 83, 239, 265, 266 Carta, I., 118 Cavarero, A., 228, 232, 243, 263 Ceriotti Migliarese, M., 74, 246 Chodorow, N.J., 263 Cigoli, V., 40, 45, 108, 278 Clemente di Alessandria, 190 Clemenzia, A., 191 Coda, P., 167, 174 Coleman, R., 147 Colombetti, E., 21, 22, 216, 287 Connell, R.W., 269-273 Corrigan, K., 187 Crespi, I., 9, 10, 13, 14, 92, 93, 96, 100, 257, 270 Cusinato, M., 109 Dalla Zuanna, G., 96 Daly, M., 262 Daniélou, J., 177 de Beauvoir, S., 79, 119, 160, 229, 230, 262 de Brosses, C., 115 de Lauretis, T., 239, 264 DeLamater, J., 125 Derrida, J., 66, 67, 72, 151, 265 Deutsch, H., 74 Donati, P., 6, 15-17, 54, 75, 77, 78, 85, 86, 93, 94, 103, 124, 127, 128, 136, 140, 314
141, 148, 154, 156, 159, 161, 163, 165, 168, 181, 191, 197, 205, 208-211, 219, 257, 259-261, 267, 268, 275, 281, 285, 305 Douvan, E., 108 Dunne, M., 72 Erikson, E.H., 38, 45, 119, 294 Eschilo, 236 Esiodo, 53 Esposito, R., 162 Falanga, A.J., 310 Fantauzzi, A., 157 Flaubert, G., 116 Flax, J., 267 Floridi, L., 151 Foucault, M., 60, 265 Game, A., 124, 156 Gardner, W., 34 Garelli, F., 96 Garlaschelli, E., 202 Gehlen, A., 52 Gennari, M.L., 41 Giddens, A., 81, 146, 147, 162, 258 Gilligan, C., 263 Girard, R., 201 Glendon, M.A., 268 Goode, W.J., 155 Gotia, O., 25, 26 Gottman, J.M., 153
Granados García, J., 299, 300 Gregorio di Nazianzo, 175, 179 Gregorio di Nissa, 18, 173, 174, 177, 179-181, 183, 184, 186 Grion, L., 286 Guardini, R., 150 Habermas, J., 53 Hadjadj, F., 149 Hadot, P., 168 Haraway, D., 154 Hargot, T., 80 Harman, G., 134 Haslam, N., 160 Heidegger, M., 65, 66, 69, 134, 157-159, 222, 227, 286, 287 Héritier, F., 63 Hernandez, F., 67 Iafrate, R., 7-9, 14, 35, 39-41, 44-46, 91, 94, 95, 103, 106, 108, 114 Ireneo, 171 Irigaray, L., 241, 245, 246, 251, 252 Jamieson, L., 162 Jessop, B., 131 Kampowski, S., 287 Kaplan, L.J., 115 Kaplan, S., 117
Kaufmann, J.C., 280 Keys, J., 156 Kierkegaard, S., 244, 253 Kimmel, M.S., 269 Kittay, E. F., 227 Kristeva, J., 235, 265 Latour, B., 134 Lévinas, E., 123-125, 158, 159 Lindemann, G., 133 Lombardi, L., 278 Long, J.A., 48, 49 Lugaresi, L., 181 Luhmann, N., 125, 134, 135, 140, 144, 145, 148, 155 MacIntyre, A., 286, 299 Maino, E., 10, 14, 109 Maletta, S., 27, 28 Malo, A., 11-14, 78, 91, 94, 95, 98, 103-105, 109, 110, 113, 158, 181, 191, 285, 304 Marcel, G., 308 Marcotullio, G., 80 Martello, M., 123 Martin, N., 72 Marx, K., 115, 117, 262 Marzano, M., 146 Masini, V., 163 Maspero, G., 18-20, 22, 78, 174, 176, 178, 180, 181, 191, 202, 205, 206, 209, 210, 233, 285 315
Indice dei nomi
Mateo-Seco, L.F., 174 Mazzanti, A.M., 181 McEvoy, J., 304 Metcalfe, A., 124 Milano, A., 222, 223 Mitchell, J., 263 Muraro, L., 74, 75, 81, 240, 241 Murray, D., 155
Origene, 186 Ovidio, 191
Ratzinger, J. (Benedetto XVI), 162, 169-171, 190-192, 200, 209, 218 Recalcati, M., 246 Regalia, C., 40 Reich, A., 248, 249 Ricoeur, P., 68, 69, 220, 228, 229, 291 Rogers, C.R., 111 Roland, M., 67 Rosnati, R., 45 Rossi, G., 23-25, 38, 41, 268, 276 Rousseau, J., 52, 143 Rubin, G., 264 Ruggieri, D., 124
Palazzani, L., 143 Paolinelli, M., 223 Papa Francesco, 47, 99, 137, 138, 149, 189, 190 Pavan, A., 222, 223 Pessina, A., 223, 224 Piana, G., 104 Piante, R. F., 125 Piccone Stella, S., 264, 269, 270, 272 Picozzi, M., 223 Pillard, R., 72 Pizzini, F., 278 Platone, 65, 69, 168, 169, 184, 191, 242, 309 Pope, K.S., 306 Posati, G., 105 Provenzi, M., 11, 15
San Josemaría Escrivá, 198 Sandler, J., 33 Saraceno, C., 264, 269, 270, 272 Sayer, A., 128 Scabini, E., 38-41, 45, 108, 278 Scalfari, E., 137 Scarcelli, C.M., 97 Schmitt, C., 151 Scilletta, C., 109 Scott, L., 258, 264 Seidler, V.J., 273 Shakespeare, W., 125, 302 Shennan, S., 52 Simmel, G., 124 Sofocle, 53 Sokolowski, R., 87 Spencer-Brown, G., 140, 155, 156
Nembrini, F., 309 Nussbaum, M., 299-301, 304, 305, 307-309
316
Oana Gotia
Steele, J., 52
von Rad, G., 124
Tacey, D.J., 271, 273 Tamanza, G., 46 Tanner, T., 115, 116, 174 Terragni, V., 278 Theweleit, K., 270 Tommaso d’Aquino, 302-308, 310 Tosh, J., 269, 270 Trianni, P., 202 Tucker, R.C., 115
Waldenfels, B., 28, 292, 293, 295 Wiederman, M., 125 Wilson, E.O., 270, 271 Winnicot, D. W., 116 Wojtyla, C. (Giovanni Paolo II), 87, 89, 144, 158, 162, 189, 190, 193-196, 268, 283 Woolgar, S., 134 Wozniak, J., 174
Vatter, M., 287 Vega Gutiérrez, A.M., 58 Veglia, F., 104, 105 Verbeke, G., 186 Vigil, P., 39
Young, I.M., 151 Zamagni, V., 136 Zanardo, S., 266 Zemon Davis, N., 269
317