E chi può salvarsi? Cristiani e pagani di fronte a Cristo, unico Salvatore. Una rilettura del Nuovo Testamento per una teologia della pluralità religiosa 9788867882045

Il presente volume è un esempio dell’attenzione costante che la riflessione teologica riserva alle religioni nel loro ra

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E chi può salvarsi? Cristiani e pagani di fronte a Cristo, unico Salvatore. Una rilettura del Nuovo Testamento per una teologia della pluralità religiosa
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Marcelo Bravo Pereira, LC

E chi può salvarsi? cristiani e pagani di fronte a Cristo, unico Salvatore Una rilettura del Nuovo Testamento per una teologia della pluralità religiosa

Presentazione di Mons. Mariano Crociata

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IF PRESS

Copyright © 2020 by IF Press srl IF Press srl - Roma, Italy [email protected] - www.if-press.com ISBN 978-88-6788-204-5

Presentazione

La riflessione teologica contemporanea sul rapporto tra cristianesimo e religioni ha conosciuto uno sviluppo considerevole negli ultimi decenni del secolo scorso, soprattutto negli anni novanta, dopo aver preso avvio con alcuni precursori ancora prima del concilio Vaticano II e trovato un punto determinante di appoggio nell’insegnamento dello stesso concilio. Negli ultimi anni essa non ha presentato il medesimo carattere di preminenza nella ricerca e nella pubblicistica, tuttavia si è consolidata nella sua qualità di attenzione teologica assidua nel quadro del pensiero cristiano, sia in termini di vera e propria teologia delle religioni sia, soprattutto, come espressione di un interesse teorico e pratico alla comprensione e alla promozione del dialogo interreligioso, non ultimo in concomitanza con il fenomeno globale della mobilità umana che sta producendo una mescolanza inedita di popoli, etnie, culture e religioni. Il riconoscimento della sua rilevanza si conferma imprescindibile per una coscienza credente avvertita delle sfide che dall’epoca vengono rivolte alla fede e alla sua intelligenza. Il presente volume è un esempio dell’attenzione costante che la riflessione teologica riserva alle religioni nel loro rapporto con il cristianesimo. La sua prospettiva è chiara e definita, volta a ripercorrere la letteratura neotestamentaria nell’ottica dell’alterità religiosa. La prospettiva teologica adottata, come espressamente dichiarato e svolto nella prima parte, è quella del magistero conciliare e post-conciliare, dal quale emerge un atteggiamento di crescente attenzione e positività di giudizio nei confronti delle religioni, che, senza modificare l’impianto dottrinale, lo appro3

E chi può salvarsi?

fondisce e lo articola in maniera sempre più specifica. All’esposizione vera e propria del dettato neotestamentario nell’ottica delle religioni sono dedicate la seconda e la terza parte, mentre l’ultima riprende in maniera ordinata i temi emersi dall’esame del testo biblico in vista di una sua visione d’insieme. In un panorama che non dispone di molte trattazioni tematiche su Nuovo Testamento e religioni, questo libro rappresenta un contributo significativo, destinato ad apportare indicazioni preziose e arricchimento a un dibattito promettente. In sintonia con il magistero di papa Francesco e con il Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune” firmato da Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib il 4 febbraio 2019, una prospettiva motivatamente insistita riguarda la carità, particolarmente verso i poveri e i deboli, considerata non solo come condizione essenziale di una appartenenza sostanziale alla Chiesa, inseparabile dall’appartenenza formale, ma anche come luogo in cui si istituisce un legame oggettivo con la parola di Gesù e segno dell’azione misteriosa della grazia ben oltre i confini religiosi istituzionali. L’incontro con l’altro religioso è ben più di una operazione di tipo intellettuale, poiché porta con sé un approfondimento della propria comprensione e della stessa identità. Tra gli spunti, in tal senso, suscettibili di interessanti sviluppi, può essere considerata l’idea che l’essere piccolo gregge e il rimanere minoranza abbiano una compatibilità costitutiva con la sequela di Gesù, il quale offre salvezza, ma anche un compimento e una perfezione che vuole raggiungere tutti; si profila così un compito specifico per la testimonianza cristiana nel novero delle religioni, nel rimandare a un di più che nulla toglie al bene già presente in esse. Va preso atto, poi, del paradosso determinato dalla considerazione dell’opera della grazia fuori dai confini cristiani e dalla simultanea constatazione che la stessa grazia dentro quei confini viene in vari modi 4

Presentazione

talora resa inefficace e respinta, in un intreccio sempre misterioso tra grazia, verità e libertà. Sono alcune delle suggestioni di questo testo che meritano di essere riprese dentro una riflessione che esige di integrare temi come quelli accennati e, soprattutto, ritrovare sempre di nuovo un fondamento biblico adeguato alla comprensione teologica del pluralismo religioso. ☩ Mariano Crociata Vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno

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Introduzione generale

La teologia cattolica delle religioni – teologia del pluralismo religioso – si trova oggi in una situazione alquanto paradossale. Dal Concilio Vaticano II si è trasformata radicalmente la nostra visione sulle religioni non cristiane. Esse non sono più considerate come paganesimo, idolatria o solo come “ricerca a tentoni”, ma portano con sé elementi di verità e di grazia che manifestano quella luce divina che illumina ogni uomo che viene nel mondo. Questo nuovo approccio positivo nei confronti delle religioni ha spinto non pochi teologi a considerarle come autentiche vie di salvezza, parallele o complementari al messaggio cristiano, e fanno pressione sul Magistero affinché opti per un pluralismo religioso de iure, abbandonando definitivamente la considerazione di Gesù Cristo come unico e universale salvatore, soprattutto relativizzando l’evento dell’incarnazione e del mistero pasquale, causa efficiente della salvezza di ogni uomo. Recentemente, il 4 febbraio 2019, Papa Francesco ha firmato, insieme al capo dell’Università di Al-Azhar, l’Imam Ahmad alTayyeb, una dichiarazione sulla fratellanza universale, dove si legge che “il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”. Questa “volontà divina riguardo al pluralismo religioso” ha riaperto il dibattito pluralista. In molti hanno celebrato questa apertura decisa nei confronti delle religioni. Altri invece hanno manifestato una serie di timori riguardo al valore e al senso della missio ad gentes che parte appunto dalla convinzione che l’uomo trova solo in Cristo e nella Chiesa l’unica via per la salvezza che è stata stabilita da Dio: extra Ecclesiam nulla salus. Dopo un po’ le acque si sono calmate: il Papa ha 7

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rassicurato che la diversità di religione era dovuta a una volontà permissiva da parte di Dio. Quindi la dottrina non cambiava. Di fronte a questa situazione paradossale, è conveniente tornare sulle pagine del vangelo, e del Nuovo Testamento nel suo insieme, e rileggerli proprio da questa nuova prospettiva, più positiva – e forse perciò più oggettiva e sicuramente meno pregiudiziale – nei confronti delle religioni, così come ci viene presentato nell’attuale contesto teologico. Esso infatti non è solo caratterizzato dalla minaccia del relativismo irenista che snatura la fede, ma anche da una nuova e più profonda considerazione riguardo al senso religioso, che si esprime attraverso le varie religioni storiche; senso che – come ci ha insegnato Giovanni Paolo II – manifesta l’azione dello Spirito Santo negli individui e nel seno delle religioni e delle culture (cf. Redemptoris Missio, 28). J. Dupuis è, forse, tra i teologi del pluralismo religioso, quello che ha preso più sul serio questo bisogno di rilettura positiva della Sacra Scrittura “con una rinnovata comprensione, tenendo conto dei contesti diversi – sia quello del passato biblico che quello del tempo presente – così da poter proporre una rinnovata teologia biblica delle religioni”1. Le varie tribolazioni vissute da questo egregio teologo, nonché la sua scomparsa nel 2004, non gli permisero di portare avanti il suo progetto. Purtroppo, i teologi del pluralismo religioso non hanno seguito questa strada, dando poco spazio ad un’analisi approfondita delle fonti della rivelazione e scegliendo metodologie di approccio più prossime ai Religious Studies che alla metodologia prettamente teologica. ***

Gesù durante il suo ministero pubblico concentrò la sua attenzione sul popolo d’Israele2. Ritorneremo costantemente su J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Queriniana, Brescia 20073, 48. 2 Cf. J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 20155, 66-67. 1

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Introduzione generale

questo dato di fatto. La scarsità di incontri con stranieri lungo il suo ministero pubblico manifesta il volere esplicito di Gesù di restare all’interno dei confini del popolo dell’Alleanza. La sua predicazione è rivolta esclusivamente ad esso, la Bibbia ebraica è poi l’unica fonte da dove prende ispirazione. Non ci sono tracce di altre tradizioni religiose. I temi della sua predicazione, gli esempi e le parabole, lo stesso suo linguaggio manifesta la sua appartenenza ebraica. Gesù è un ebreo che parla ad ebrei. Il rabbi della Galilea rimase ebreo fino all’ultimo respiro. A questa ebraicità del Signore, va aggiunto il profondo senso di appartenenza dei discepoli alle proprie origini culturali e religiose. La comunità apostolica si sentiva profondamente legata al destino del suo popolo dal quale prese le distanze solo a partire dalla persecuzione che ebbe Paolo come principale esecutore. Questa fedeltà alle proprie radici si traduceva spesso in valutazioni negative delle altre religioni, infatti non veniva attribuita alcuna validità “ai ‘sistemi’ religiosi diversi dall’ebraismo e dal cristianesimo”, come giustamente annota J. Dupuis3: Pur ammettendo la complessità della situazione oggettiva, bisogna riconoscere onestamente che, nel passato, sono stati spesso presi unilateralmente in considerazione i dati biblici suscettibili di fondare una valutazione negativa, o addirittura le affermazioni più sprezzanti sulle tradizioni religiose non bibliche4.

Con il nostro studio intendiamo ripercorrere le pagine del Nuovo Testamento, tentando di purificare – qualora fosse necessario – questa visione negativa e pregiudiziale degli autori sacri, per scorgere i tratti di un disegno salvifico di Dio che arrivi ai pagani nonostante la loro non colpevole impossibilità di accogliere l’annuncio missionario. Giovanni Paolo II insegnò che “anche per coloro che senza loro colpa non conoscono Cristo e 3 4

J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni…, 45. J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni…, 47.

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non si riconoscono cristiani, il piano divino ha predisposto una via di salvezza”5. Orbene, se ciò è vero, allora qualcosa di questo disegno di salvezza deve trovare la sua sorgente nei vangeli e negli altri scritti del Nuovo Testamento. Per arrivare però a tale sorgente bisogna rimuovere i veli che i pregiudizi culturali hanno messo lungo i secoli. La Sacra Scrittura – la Bibbia ebraica –, da dove prende spunto l’insegnamento di Gesù, è una testimonianza resa a una storia di salvezza che manifesta il disegno salvifico di Dio riguardo all’umanità, che si concretizza in un popolo che diventa il destinatario di un’alleanza sponsale. I vangeli e gli altri scritti neotestamentari leggono la vicenda del Maestro sulla falsariga dell’Antico Testamento e comunicano la propria esperienza sotto la spinta dello Spirito Santo a dei cristiani già battezzati, per confermarli nella fede e per istruirli riguardo alla vicenda di Gesù o sulla nuova vita nel suo nome. Più tardi i cristiani sentiranno il bisogno di indirizzarsi direttamente ai pagani, con delle apologie e suppliche per rendere ragione della propria fede. Non è il caso della letteratura neotestamentaria. Lo stesso san Paolo, che esercitò il proprio ministero tra i pagani, scriverà le sue lettere a dei gentili convertiti che, in non pochi casi, si sentivano già da prima attratti dalla spiritualità che scaturiva dalla Bibbia. Erano, per lo più, dei timorati di Dio che qualcosa conoscevano del Dio d’Israele e partecipavano in parte alla sua esperienza spirituale. Essi erano a contatto con le comunità giudaiche della diaspora che, a dire di J. Daniélou, erano animate da un forte spirito missionario, “reclutavano dei proseliti, attiravano dei pagani, i quali, senza entrare nella comunità ebraica attraverso la circoncisione, adoravano il Dio d’Israele e adottavano i costumi ebraici”6.

Giovanni Paolo II, Udienza generale, mercoledì 31 maggio 1995, n. 2. J. Daniélou, La Chiesa degli apostoli, Arkeios, Roma 1991, 24.

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Introduzione generale

Metodologia del lavoro Per l’elaborazione di queste riflessioni, abbiamo voluto, in primo luogo, ascoltare il testo – auditus fidei – evitando di applicare i filtri della teologia posteriore, senza cercare l’erudizione esegetica, se non quando era assolutamente necessario. Siamo partiti piuttosto solo da poche domande: qual era la situazione dei non cristiani nel Nuovo Testamento e quali erano – e sono tutt’ora – le condizioni per la salvezza di ogni uomo così come è descritto nei testi cristiani fondanti? Questo approccio al Nuovo Testamento potrebbe essere visto come l’ennesimo tentativo naif e poco scientifico di accostarsi al testo sacro. Molti danno per scontato che i passi del Nuovo Testamento, essendo il risultato di costanti ripensamenti e interpretazioni di tradizioni che si riconducono ad un’esperienza primitiva solo frammentariamente disponibile per noi, non possono essere presi come il messaggio di Dio valido per tutta l’umanità7. Comunque sia, in questo studio abbiamo tentato di evitare ogni pregiudizio – cosa impossibile, del resto – sia di tipo storicista, sia fondamentalista; l’unica precomprensione che ha guidato nostra la nostra lettura del Nuovo Testamento è stata la considerazione dello sterminato numero d’interventi del Magistero recente che si accosta alle religioni con un occhio positivo, cercando più ciò che ci unisce che ciò che ci divide; situazione questa assolutamente insolita in tutta la storia della Chiesa. Soprattutto ci siamo lasciati interpellare dalle affermazioni che riguardano il disegno di Dio circa quei pagani che senza loro colpa ignorano il vangelo. Solo in un secondo momento abbiamo voluto confrontare la nostra interpretazione con altri autori, per lo più esegeti. Questi autori confermano o si discostano dalle nostre conclusioni8. Paradossalmente, oltre al volume di J. Jeremias, Je Cf. J. Hick, The Metaphor of God Incarnate, Westminster/John Knox Press Louisville, Kentucky, 1993, 15-26. 8 Questo vale principalmente per J. Dupuis, l’unico tra i teologi del pluralismo religioso a dedicare ampli spazi alle fonti della rivelazione. A differen7

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sus, Promise to the Nations9, non si trova molta letteratura che prenda in considerazione il tema dei pagani nel Nuovo Testamento nel suo insieme. Il libro di G. Odasso, Bibbia e religioni: prospettive bibliche per la teologia delle religioni10, si dedica ad analizzare i passi dell’Antico Testamento, ma riguardo al Nuovo Testamento, la sua attenzione si ferma solo ai due testi significativi: il secondo capitolo della lettera ai romani e il discorso di Paolo all’areopago. J. Dupuis, nei suoi vari studi, dedica all’analisi del Nuovo Testamento alcune pagine11. Premettiamo subito che il nostro studio è di carattere teologico, analizza i testi cristiani ed è indirizzato in primis a cristiani desiderosi di approfondire l’argomento. Non prendiamo in considerazione la prospettiva di altre religioni né pretendiamo di essere accolti da chi non condivide la nostra fede. A loro il nostro massimo rispetto e amore fraterno. Noi aspiriamo semplicemente a mettere in evidenza la visione neotestamentaria della salvezza. Sarà compito di altri il servirsi o meno di queste riflessioni in ordine a portare avanti un dialogo interreligioso, nel rispetto della dignità e della verità di cui il cristianesimo si fa portavoce. za di tanti altri, lui è rimasto fedele alla sua condizione di teologo cattolico che si accosta al problema, seguendo lo schema auditus-intellectus fidei. 9 SCM Press, London 1958. 10 Urbaniana University Press, Roma 2002. 11 Cf. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, già citato prima, e soprattutto in Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Queriniana, Brescia 20073, intitola un capitolo “Gesù, la chiesa apostolica e le religioni” (45-95); poi torna sull’analisi del vangelo alle pagine 271-279. Forse lui è il teologo del pluralismo religioso che più spazio dà ai testi del Nuovo Testamento. Confronteremo dove sia necessario, le nostre conclusioni con quelle di J. Dupuis. Oltre a lui abbiamo alcuni contributi di minor estensione: J. A. Sayés, Cristianismo e religiones. La salvación fuera de la Iglesia, San Pablo, Madrid 2001. M. Di Tora, Teologia delle religioni. Linee storiche e sistematiche, Dario Flaccovio, Palermo 2014, 101-112, insiste soprattutto nei testi che riaffermano Cristo come unico salvatore. Significativo il contributo di E. J. Schnabel, «Israel, the people of God, and the nations», Journal of the Evangelical Theological Society, 45/1 (March 2002), 35-57. Ciò che ci interessa comincia a partire dalla pagina 42. Altre interpretazioni come quelle di Panikkar – la sua cristofania – non saranno considerati in questo studio.

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Prima parte: Lo status quaestionis

Il Magistero recente sulla salvezza nelle altre religioni Theologia facit saltus…

Dalla seconda scolastica e fino agli albori del Concilio Vaticano II, ci è sembrato che la teologia fosse rimasta ferma a un modello unico di pensare. Il pensiero scolastico fu considerato da molti come “lo statuto veramente scientifico del pensiero cristiano” (H. Labourdette) e per tanto definitivo e normativo per tutti. Questa sclerotizzazione metodologica ha portato alla convinzione che in teologia non ci fosse altro se non ripetere, accogliendo ciò che ci è stato tramandato, soprattutto dal magistero – la cosiddetta teologia del Denzinger –, modificando forse solo qualche termine caduto un po’ in disuso. Se possiamo parafrasare un’espressione di Leibniz, dal dopo Trento abbiamo vissuto un po’ con la consapevolezza che theologia non facit saltus. Invece non è così. La teologia fa molti salti! E per quanto riguarda il tema del rapporto tra cristianesimo e religioni il salto è stato forse perfino più lungo della gamba, nel senso che al cambiamento nella considerazione delle religioni non cristiane non ha fatto seguito una teologia delle religioni che riesca a soddisfare fino in fondo sia la novità delle ricchezze contenute e riconosciute nelle religioni sia l’integrazione di questa novità in una visione autenticamente cattolica e rispettosa della rivelazione soprannaturale. Nel travaglio teologico è necessario distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accidentale e, se fosse necessario, bisogna sa13

E chi può salvarsi?

crificare le formulazioni storicamente caduche per salvaguardare l’essenza del messaggio. È sempre valido l’assioma tomista actus fidei non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem. È la realtà – non l’idea, non la dottrina, non la formula e, soprattutto, non il metodo – ad interpellare i teologi di tutti i tempi. Questa res è duplice: riguarda, in primo luogo, la realtà della rivelazione divina, che arriva al suo culmine nel mistero pasquale. In secondo luogo, la realtà del ricettore umano, cioè di chi, nel divenire della storia, accoglie la rivelazione, trasmessa alle varie generazioni, con un linguaggio che porta con sé la relatività di ogni contesto storico e linguistico. Per questo motivo la teologia deve costantemente rivedere le proprie affermazioni, non per relativizzare la realtà rivelata, ma per riadeguare, per quanto possibile, la distanza esistente tra l’enunciabile e la res. Se questo vale per ogni proposizione teologica, vale in modo particolare per il rapporto tra cristianesimo e religioni in ordine alla salvezza. Ciò che resta inalterabile è la consapevolezza dell’unicità e dell’universalità della salvezza in Cristo12, grazie al suo mistero pasquale. Ciò che, nell’ultimo secolo, è radicalmente cambiato, non è tanto il valore redentore del mistero pasquale, bensì la considerazione delle religioni, degli elementi di santità e di verità che si trovano in esse, e dell’influsso che le religioni possono avere in ordine alla salvezza per coloro che non sono entrati a contatto con la Chiesa o che perseverano sinceramente nelle proprie tradizioni religiose. In questo campo, la teologia per prima, e il magistero ecclesiastico dopo, hanno sperimentato un radicale cambiamento di prospettiva, un autentico salto di qualità. Essi sono passati da una “Deve essere, quindi, fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio” (Dominus Iesus, n. 14). 12

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Prima parte: Lo status quaestionis

considerazione sostanzialmente negativa riguardo alle religioni – visione negativa che parte dalle fonti stesse della rivelazione – e che, in ambito teologico, comincia timidamente a cambiare, nel passaggio dal XIX al XX secolo, all’apertura alle nuove scienze della religione che hanno portato ad un cambiamento di prospettiva apologetica: dalla verità del cristianesimo come religione rivelata, alle condizioni soggettive del credente che si apre esistenzialmente al divino. Riguardo alla salvezza al di fuori della Chiesa, come afferma A. Kalavakatt, “a metà del XIX secolo, fra i teologi cattolici, era piuttosto diffusa l’idea che solo gli eretici, gli scismatici o i miscredenti fossero esclusi dalla salvezza, essendo al di fuori della Chiesa”13, e in rapporto con i non cristiani valeva l’insegnamento sintetizzato da Pio IX nella sua enciclica Quanto conficiamur moerore, del 1863: A Noi ed a Voi è noto che coloro che versano in una invincibile ignoranza circa la nostra santissima religione, ma che osservano con cura la legge naturale ed i suoi precetti, da Dio scolpiti nei cuori di tutti; che sono disposti ad obbedire a Dio e che conducono una vita onesta e retta, possono, con l’aiuto della luce e della grazia divina, conseguire la vita eterna. Dio infatti vede perfettamente, scruta, conosce gli spiriti, le anime, i pensieri, le abitudini di tutti e nella sua suprema bontà, nella sua infinita clemenza non permette che qualcuno soffra i castighi eterni senza essere colpevole di qualche volontario peccato.

Prima del Concilio Vaticano II Il Magistero pontificio per tutta la prima metà del secolo XX mantenne la visione negativa ereditata dalla tradizione precedente e guardò con sospetto il cambiamento di prospettiva operato A. Kalavakatt, Vie misteriose di Dio. Il Magistero della Chiesa sulla salvezza dei non cristiani, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2018, 24. 13

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nell’ambito delle scienze della religione, che nelle sue espressioni più radicali portò al modernismo teologico. Esso infatti, applicando il metodo delle scienze della religione alla fede cristiana, rischiò di svuotare il senso stesso della rivelazione. Perciò si comprende come Pio XI – che tanto favorì le missioni – avesse una posizione sostanzialmente negativa riguardo ai raduni e agli incontri interreligiosi14. Infatti, nella sua Mortalium animos (1928)15, il Papa constata che esiste effettivamente nell’umanità un vivo desiderio di fraternità. Nonostante i conflitti tra i popoli ci sono molti che “bramano vedere sempre più unite tra di loro le varie nazioni, a ciò portate da questa fratellanza universale”. Se Pio XI vede positivamente questa brama per l’unità, non vede altrettanto positivamente la trasposizione di questo desiderio al campo religioso con iniziative che potrebbero portare a svalutare la verità cristiana. Persuasi – scrive Pio XI – che rarissimamente si trovano uomini privi di qualsiasi sentimento religioso, [alcuni] sembrano trarne motivo a sperare che i popoli, per quanto dissenzienti gli uni dagli altri in materia di religione, pure siano per convenire senza difficoltà nella professione di alcune dottrine, come su un comune fondamento di vita spirituale.

Per questo motivo il Papa non approva quelle iniziative dove “sono invitati promiscuamente tutti a discutere: infedeli di ogni gradazione, cristiani e persino coloro che miseramente apostata Abbiamo documenti “anti-dialogo” del Magistero molto prima del XX secolo. A noi interessa vedere il cambiamento di paradigma operato solo a partire del Vaticano II. 15 In AAS, 20 (1928), 5-16, cf. http://w2.vatican.va/content/pius-xi/ it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19280106_mortalium-animos.html [17\03\2019]. Per capire la situazione che motivò l’enciclica, cf. M. Barbolla, «La genesi della Mortalium animos attraverso lo spoglio degli archivi vaticani», Rivista di storia della Chiesa in Italia, 66, 2 (luglio-dicembre 2012), 495-538. 14

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Prima parte: Lo status quaestionis

rono da Cristo o che con ostinata pertinacia negano la divinità della sua persona e della sua missione”. Notiamo la durezza non soltanto in re, ma anche in forma. Il tono è aggressivo e la disapprovazione definitiva. Per il Papa non c’è alcuna possibilità di dialogo. Questi raduni “promiscui” ebbero un precedente nel World Parliament of Religions, a Chicago, dal 11 al 27 settembre 1893. Esso fu organizzato dalla Chiesa presbiteriana e dalla Chiesa Cattolica degli Stati Uniti con l’approvazione di Leone XIII. Sembra che a questa apertura iniziale fosse seguita una chiusura abbastanza netta. Infatti, Papa Pio XI non può approvare questi tentativi “fondati sulla falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni”. Sarebbe errato e rischioso pensare che tutte le religioni, benché in modo diverso, “manifestano e significano egualmente quel sentimento a tutti congenito per il quale ci sentiamo portati a Dio e all’ossequente riconoscimento del suo dominio”. Chi promuovesse queste dottrine rischierebbe di svuotare la “vera religione” e finirebbe per cadere nel naturalismo o nell’ateismo. Si noti che il cambiamento di prospettiva non è andato nella direzione dei timori di Papa Pio XI: il magistero recente non ha mai affermato che tutte le religioni siano buone o lodevoli, ma che in esse si possono trovare elementi di verità e di grazia. Inoltre, i raduni dei Papi dopo il Concilio con esponenti di altre religioni non hanno mai tentato di promuovere l’equiparazione di tutte le esperienze religiose, ma il riconoscimento del valore del senso religioso e dell’apertura alla trascendenza in un mondo ogni volta più materialista e chiuso al divino. ***

Come possiamo vedere, nel primo quarto di secolo la posizione della Chiesa era ancora abbastanza negativa. Per questo motivo il Concilio Vaticano II ha rappresentato un vero e proprio 17

E chi può salvarsi?

colpo di timone, una soluzione di continuità con il magistero precedente, segnando un’apertura radicale verso l’universo religioso non cristiano, senza però contraddire l’essenza del messaggio cristiano. Prima di affrontare il Vaticano II, possiamo vedere in Pio XII una timida ma decisa transizione da una visione negativa a una posizione più positiva nel modo di riferirsi ai pagani, se non ancora nel contenuto. Si mantiene la forza nella res, ma si ammorbidisce la forma. Infatti, già nel suo programma pontificio – Summi Pontificatus del 1939 – il Papa si rivolge, non più agli eretici, scismatici, pagani di ogni gradazione, né a coloro che hanno miseramente apostatato, ma piuttosto a coloro che, “sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi”. “Tutto ciò che li unisce a noi”. Da allora si comincerà ad insistere su ciò che unisce e non tanto su ciò che ci divide, ma per fare ciò è assolutamente necessario cominciare a dialogare. Pio XII, con questa espressione –ciò che li unisce a noi – si sta riferendo ai non cattolici e ai non cristiani. Infatti, ciò che accumuna tutti cristiani è “l’amore alla persona di Cristo” e ciò che ci unisce ai membri di altre religioni è la “credenza in Dio”. Questo sarà da allora il punto di partenza valido per l’incontro con i non cattolici e, soprattutto, con i credenti di altre religioni. Oltre al passo di Summi Pontificatus già citato, abbiamo altri due testi di Pio XII che manifestano questa timida ma progressiva apertura alle altre religioni: uno tratto dalla Mystici Corporis – che avrà eco al Vaticano II – e l’altro da Evangelii Praecones. In Mystici Corporis Pio XII prende spunto dalla sua Summi Pontificatus e fa un invito a “coloro che non appartengono al visibile organismo della Chiesa”, cioè ai non cattolici e ai non cristiani, di “assecondare spontaneamente gli interni impulsi della 18

Prima parte: Lo status quaestionis

grazia”, che spingerebbero verso la pienezza di redenzione che si trova nel Corpo mistico di Cristo. Nella loro situazione di non appartenenza piena alla Chiesa “non possono certo sentirsi sicuri della propria salvezza” perché privati delle grazie e degli aiuti celesti che si trovano nella Chiesa Cattolica. Nonostante questa situazione di rischio, il Papa usa un’espressione che, come abbiamo già detto, troverà un’eco nel Vaticano II. I non cristiani sono “ordinati al mistico Corpo del Redentore”, cioè alla Chiesa, “da un certo inconsapevole desiderio e anelito”. In essa ogni religione trova la sua pienezza. Pio XII potrebbe essere considerato l’iniziatore della teoria del compimento, approfondita dai teologi Daniélou, de Lubac e von Balthasar. Se nell’insieme si chiede di pregare e di elevare suppliche affinché tutti arrivino ad entrare nell’unico ovile di Gesù Cristo – e questo in virtù della preghiera e delle parole di Gesù stesso, ut omnes unum sint –, il riconoscimento di quell’inconsapevole desiderio e anelito che li ordina alla Chiesa avrà un seguito nel magistero posteriore. L’altro passo importante di Pio XII si trova nella sua enciclica missionaria, Evangelii Praecones (1951), a 25 anni della Rerum Ecclesiae di Pio XI. A noi interessa in modo particolare il numero 12 dell’enciclica dove si legge: È stata norma sapientissima, costantemente seguita dalla Chiesa, dalle origini ai nostri giorni, che l’evangelo non dovesse distruggere né soffocare ciò che vi fosse di buono, di onesto e di bello nell’indole e nei costumi dei vari popoli che lo avevano abbracciato.

Pio XII, con “ciò che vi fosse di buono, di onesto e di bello” si riferisce principalmente alle tradizioni religiose che mettono in contatto l’uomo con la trascendenza e non solo alla dottrina o alle svariate concezioni di Dio delle religioni. Egli afferma che “le stesse feste pagane, trasformate nel significato e nel rito, [la Chie19

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sa] piegò a celebrare le memorie dei martiri e i divini misteri”. Questa prassi missionaria, che, come vedremo, parte dallo stesso Paolo, dovrà essere giustificata teologicamente. Possiamo formulare questo problema nei seguenti termini: quale valore teologico dare a ciò che la Chiesa ha sempre considerato come praeparatio evangelica? La svolta del Concilio Vaticano II Il Concilio Vaticano II affrontò svariati temi a 360 gradi: dalla considerazione della Chiesa come Sacramento di salvezza alla lettura teologica e pastorale dei segni dei tempi, dalla teologia della consacrazione religiosa al rinnovamento liturgico, dalle fonti della rivelazione all’apostolato dei laici. Nonostante sia stato un concilio nettamente pastorale, è forse il più teologico e il più ricco di spunti per i teologi di professione. A noi interessano due argomenti sviluppati nei vari documenti conciliari: in primo luogo, l’allargamento della prospettiva della salvezza dei pagani e, in secondo luogo, una visione sostanzialmente positiva delle tradizioni religiose non cristiane. Prima di addentrarci nei testi, è necessario mettere in evidenza che il Concilio non ha voluto entrare nella considerazione teologica delle religioni non cristiane. Come abbiamo appena accennato, il Vaticano II era un concilio prettamente pastorale. Il suo tentativo fu quello di mettere le basi per un dialogo rispettoso e costruttivo con il mondo, con la cultura e con le religioni. Come insegna J. Dupuis, il concilio ha valore per noi perché esso “sarebbe stato il primo nella storia conciliare della Chiesa a parlare positivamente delle altre religioni, pur con cautela”16. Tra tutti i documenti conciliari, la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, Nostra aetate, è

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J. Dupuis, Cristianesimo e religioni…, 123.

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Prima parte: Lo status quaestionis

il documento principale, il perno attorno al quale si elaborerà il cambiamento di prospettiva riguardo alle altre religioni. Il motivo del decreto Nostra aetate è la considerazione del contesto storico nel quale “cresce l’interdipendenza tra i vari popoli”. Come si vede, esso corrisponde alla percezione che Pio XI aveva descritto qualche decennio prima. Davanti a questa situazione, la Chiesa è invitata ad esaminare “tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. Possiamo giustamente ritenere che il Concilio ci invita ad uscire da un occidentalocentrismo o eurocentrismo per considerare la pluralità di culture che interpellano la Chiesa, dal di dentro e dal di fuori. Il punto di partenza risiede nell’unità di origine e di destino di tutta l’umanità. Orbene, origine e fine di tutto il genere umano è Dio. Questa unità non è solo “naturale”. Gaudium et Spes, al numero 22, ricorda che Cristo è morto per tutti e che la vocazione dell’uomo è una sola: la comunione eterna e soprannaturale con Dio. Non esiste allora un uomo venientem in hoc mundum per il quale Cristo non abbia dato la vita, con il quale non intraprenda un dialogo di salvezza e che non abbia un destino soprannaturale. Ogni uomo è interlocutore del Verbo incarnato e ogni uomo è chiamato alla cristificazione. Il mistero del soprannaturale, al quale l’umanità è chiamata in virtù del suo legame con Cristo, ci spinge a investigare in quale modo ogni uomo, nonostante la sua lontananza fisica dalla Chiesa, possa entrare in rapporto con il mistero pasquale, del quale la Chiesa è lo strumento storico. Nostra aetate spiega poi, in modo un po’ generico, ciò che gli uomini attendono dalle religioni: essi infatti cercano delle risposte ai problemi fondamentali dell’esistenza. Lungo i secoli queste domande hanno ricevuto svariate risposte da parte delle religioni. La domanda fondamentale universale è sempre il problema della salvezza e dell’aldilà.

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E chi può salvarsi?

È significativo considerare l’evoluzione terminologica tra Evangelii praecones e Nostra aetate. Infatti, nell’enciclica di Pio XII troviamo l’espressione: “ciò che c’è di buono, di onesto e di bello nell’indole e nei costumi dei vari popoli”17, mentre in Nostra aetate leggiamo che “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni” ma lo considera con rispetto in quanto vede in esso – in ciò che c’è di vero e di santo – “un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”. Prima della pubblicazione del decreto Nostra aetate, Paolo VI aveva usato l’espressione ciò che “vi è di buono e vero” al n. 111 dell’Ecclesiam suam per riferirsi “agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente”, che per questo sono meritevoli appunto per ciò che vi è di buono e di vero nel loro culto di Dio. Nelle religioni – in particolare quelle che adorano un unico Dio – non c’è solo bontà e bellezza, bontà e verità, ma anche santità e verità. Come si deve interpretare questa evoluzione nella percezione delle religioni? Se bontà, bellezza e verità possono affermarsi della dimensione naturale della religione, la santità invece sembra appartenere piuttosto alla dimensione soprannaturale. Sarà forse che il concilio riconosce un’azione soprannaturale, forse solo iniziale, della grazia santificante nelle religioni? I cristiani, da parte loro, sono invitati dai Padri conciliari a rendere testimonianza della propria fede e della propria vita cristiana e a riconoscere, conservare e far progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano nei seguaci di altre religioni. Il dialogo è assolutamente necessario per adempiere questo compito. Sappiamo però che non è possibile riconoscere se la Chiesa non opta decisamente per un dialogo aperto e positivo, senza pregiudizi verso le religioni. Inoltre, conservare i valori spirituali va oltre la semplice traduzione folklorica di feste e simboli, esso implica Notiamo che Evangelii praecones usa il termine religione solo per riferirsi alla religione cristiana o ai religiosi appartenenti ai vari istituti religiosi. 17

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Prima parte: Lo status quaestionis

per contro un lavoro di assimilazione che va necessariamente in due direzioni: dal cristianesimo verso le altre religioni e dalle altre religioni verso il cristianesimo. Infine, far progredire non può essere visto in senso univoco. Non è che il cristianesimo fa progredire le altre religioni fino a scoprire in Cristo il loro compimento. Le altre religioni avranno sicuramente una missione di far progredire il cristianesimo stesso nella comprensione di ciò che è humanum et divinum, grazie alla prospettiva che altre culture religiose possono dare all’occidente cristiano. Non dimentichiamo che la fede cristiana partecipa a ciò che è stato chiamato il principio di Calcedonia: la Chiesa è, come il suo fondatore, un mistero teandrico, partecipa della doppia natura, divina e umana. È divina appunto per il suo fondatore e per il mistero di grazia di cui è rivestita. È però anche umana e maestra di umanità, e prima di diventare maestra deve essere discepola che ascolta tutte le culture e tutte le religioni perché tutte quante hanno qualcosa da insegnare e da offrire alla Chiesa di Cristo, proprio in virtù di quanto in esse vi è di buono, di bello, di onesto, di vero e di santo. Riguardo, poi, ai musulmani Nostra aetate insegna che la Chiesa li guarda “con stima”, in virtù della loro fede nell’unico Dio, “vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra”. È significativo che tanto nel Vaticano II quanto nel magistero posteriore si affermerà che insieme ai musulmani noi cristiani ed ebrei riconosciamo un unico Dio, ma non si dice mai che adoriamo lo stesso Dio. Ciò che ci unisce è l’unico Dio – quel Dio che strinse alleanza con Abramo –, ma non il modo di riconoscerlo o di accoglierlo. Lo stesso Benedetto XVI si avvale della testimonianza di Gregorio VII per venire incontro al dialogo con i musulmani: Papa Gregorio VII parlò della speciale carità che cristiani e musulmani si devono reciprocamente, poiché «noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, ogni gior-

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E chi può salvarsi?

no lo lodiamo e veneriamo come Creatore dei secoli e governatore di questo mondo» (PL 148, 451)18

Per quanto riguarda il magistero di Paolo VI abbiamo già fatto allusione alla sua enciclica programmatica Ecclesiam suam. Nei vari “cerchi per il dialogo”, che il Papa propone, il secondo riguarda il dialogo con quelli che credono in Dio. L’atteggiamento positivo verso i credenti nel Dio dell’Antico Testamento – “degni del nostro affettuoso rispetto” – che “adorano il Dio unico e sommo”, verso i monoteisti e musulmani, e infine verso “i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche”, non deve portare in alcun modo al relativismo. Paolo VI rifiuta sia l’atteggiamento di accoglienza indiscriminata sia l’indifferentismo che colloca tutte le religioni sullo stesso piano. Anzi, come scrive il Papa, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana, e nutrire speranza che tale sia riconosciuta da tutti i cercatori e adoratori di Dio.

Questa consapevolezza di appartenere alla vera ed unica religione non contraddice in alcun modo un’altra consapevolezza che si sta facendo avanti nella Chiesa, e cioè il “rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane” (Ecclesiam suam, 112). Questi valori possono essere condivisi dai cristiani nei vari campi che riguardano ciò che possiamo chiamare un umanesimo religioso: libertà religiosa, fratellanza umana, cultura, beneficenza, ordine civile. Dieci anni dopo l’Ecclesiam suam, nel 1975 Paolo VI scrisse l’esortazione apostolica missionaria Evangelii Nuntiandi. Nel n. 53 dell’esortazione, il Papa insegna che il primo annuncio della Buona Novella “si rivolge anche a immense porzioni di umanità che praticano religioni non cristiane, che la Chiesa rispetta e Benedetto XVI, «Al presidente per gli Affari Religiosi della Turchia, 128 novembre 2006». La Traccia. L’insegnamento di Benedetto XVI, n. 11 (2006), 1207. 18

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Prima parte: Lo status quaestionis

stima perché sono l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani”. Essendo la Chiesa maestra di umanità non può non considerare queste espressioni vive dell’anima. Esse infatti sono eredi di “millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore”. Il loro patrimonio spirituale ha insegnato a generazioni di uomini a pregare. Esse tengono, “per così dire, le loro braccia tese verso il cielo”, incapaci di stabilire un rapporto autentico e vivente con Dio, che si raggiunge solo con “la nostra religione”. In sintesi, per Paolo VI, se la religione determina il rapporto con Dio, solo la religione cattolica “stabilisce in pienezza tale rapporto”. Solo la Chiesa cattolica “riesce ad operare l’innesto della nostra vita umana con quella divina”. Le altre religioni sono per Papa Montini “sforzi, conati, tentativi, braccia levate verso il Cielo che cercano di arrivare, ma non corrispondono al gesto che Dio ha fatto per venire incontro all’uomo”. Sia in Paolo VI sia nel Concilio Vaticano II troviamo un tentativo di apertura a ciò che vi è di vero e santo, ma senza riuscire a spiegare come le altre religioni veicolano quella verità e santità che ormai la Chiesa riconosce in esse. ***

Di Lumen Gentium, ci interessa il n. 16, dove si parla di coloro che, non avendo ricevuto ancora il vangelo, sono in vario modo ordinati al popolo di Dio. Già san Tommaso d’Aquino aveva parlato di questo ordinamento, servendosi della dottrina dell’atto e della potenza. Secondo l’Aquinate, tutti gli uomini sono in potenza membri del Corpo mistico di Cristo, ma non tutti arriveranno ad esserlo in atto; e tra coloro che si trovano in potenza, c’è la categoria “di coloro che gli sono uniti soltanto in una potenza non ancora ridotta all’atto, ma che passerà all’atto

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E chi può salvarsi?

secondo la predestinazione divina”19. Tra questi si trovano gli infedeli che appartengono in potenza alla Chiesa. Per san Tommaso, questa potenziale appartenenza alla Chiesa ha due fondamenti: “il primo e principale è la virtù di Cristo, che è sufficiente alla salvezza di tutto il genere umano; il secondo è il libero arbitrio”20. Se la virtù di Cristo è sufficiente per salvezza, quale sarà allora la situazione di coloro che, senza loro colpa – quindi senza l’intervento del libero arbitrio –, non riusciranno mai ad incorporarsi al Corpo mistico di Cristo? Anche Lumen Gentium 16 vede le religioni secondo una gerarchia di ordinamento alla Chiesa. In primo luogo, si trovano gli ebrei che, in virtù della fedeltà di Dio, che non revoca le sue benedizioni, partecipano ancora all’amore e all’elezione divina. Nel secondo livello di ordinamento si trovano coloro “che riconoscono il Creatore” che hanno, quindi, la fede descritta da Eb 11,6: credono in un Dio creatore e rimuneratore dei giusti nel giorno finale. Nel terzo livello si trovano gli homines religiosi che cercano Dio come a tentoni. Dio infatti non è lontano da loro. Loro possono ottenere la salvezza in virtù della volontà salvifica universale di Dio (cf. 1Tim 2,4) che dà a tutti la grazia per compiere “con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza”. Infine, si collocano coloro che non riescono a riconoscere Dio, ma si sforzano di condurre una vita retta. Questa ricerca del bene è sempre sostenuta dalla grazia divina, e quindi porta con sé il seme della salvezza finale. Il magistero di Giovanni Paolo II Chi ha sviluppato ulteriormente la visione positiva della Chiesa riguardo alle religioni è stato Giovanni Paolo II. Gli interventi 19 20

Summa Theologiae, III. q.8, a.3, c. Summa Theologiae, III. q.8, a.3, ad 1um.

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del Papa sono innumerevoli, molti di loro in concomitanza con i suoi viaggi apostolici. Essi divennero veri laboratori di dialogo interreligioso, fatto da gesti simbolici e sincero apprezzamento, se non di amicizia sincera. A testimonianza di tutto ciò abbiamo il volume compilatorio a cura di Francesco Gioia, Dialogo interreligioso: più della metà delle pagine del volume, che parte dal Concilio Vaticano II, è dedicato al magistero del Papa missionario. Dal ricco magistero di Giovanni Paolo II noi prendiamo solo alcuni testi: la sua enciclica Redemptoris missio e tre catechesi che mostrano la visione del Papa ha riguardo alle altre religioni. Redemptoris missio La finalità dell’enciclica è doppia. La prima è risvegliare il senso missionario nella Chiesa, sia perché è un diritto dei popoli poter ascoltare ciò che Gesù ha rivelato riguardo alla salvezza e quindi è il primo servizio che la Chiesa rende all’umanità, sia perché la perdita dello slancio missionario manifesta una crisi di fede tra le comunità cristiane. La seconda finalità è rispondere a degli errori teologici riguardo all’unicità e universalità di Cristo e della Chiesa, e riguardo a degli insegnamenti equivoci sul rapporto tra la Chiesa e il regno di Dio. A noi interessa l’enciclica solo dalla prospettiva della visione positiva che ha nei confronti delle altre religioni. Il punto di partenza è la constatazione che le chiese particolari si aprono all’incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre chiese cristiane e religioni (cf. Redemptoris missio, 2). Questo incontro ormai non accade più solo nei cosiddetti territori di missione, ma anche nelle grandi città occidentali dove è possibile essere quotidianamente a contatto con persone di tutte le religioni. Il problema che si presenta ai cristiani è capire come arriva l’influsso redentore di Cristo a coloro che non partecipano formalmente alla Chiesa. Questo è pure il tema centrale della nostra 27

E chi può salvarsi?

ricerca. L’enciclica afferma allora che per coloro che non conoscono la fede cristiana o “sono stati educati in altre tradizioni religiose”, la salvezza di Cristo è accessibile “in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale” (Redemptoris missio, 10). Si noti che il testo riecheggia quello sull’ordinamento alla Chiesa, che troviamo già in Pio XII, ma con una formulazione decisamente più positiva. Infatti, Giovanni Paolo II afferma positivamente che la salvezza è accessibile a loro tramite una grazia speciale da parte di Dio. Non può essere altrimenti, dal momento che ogni uomo è chiamato al soprannaturale e quindi Dio lo illumina affinché questa finalità passi “dalla potenza all’atto”. Questa illuminazione è una grazia. Essa va quindi oltre la mera iniziativa umana. La convinzione di Giovanni Paolo II è che alla base di questa grazia e di questa illuminazione ci sia lo Spirito Santo. Redemptoris Missio n. 28 diventa per noi un testo chiave nella visione riguardo all’azione di questo Spirito nelle religioni. Come agisce lo Spirito Santo in ordine alla salvezza di ogni uomo? Lo Spirito – ci insegna il Papa – si manifesta “in maniera particolare nella Chiesa e nei suoi membri”, ma la sua azione è universale. Esso offre all’uomo – sia cristiano che pagano – “luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione”, che è, come abbiamo ribadito con il Concilio, una vocazione divina e soprannaturale. Per questo motivo, lo Spirito rende possibile l’incontro di ogni uomo col mistero pasquale. Lo Spirito – conclude il numero 28 –, è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere. La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. 

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Prima parte: Lo status quaestionis

La presenza e l’attività dello Spirito toccano anche le religioni. È sempre lo Spirito che, come il contadino generoso, sparge dovunque i semi del Verbo, che poi germoglieranno nei riti e nelle culture di coloro che si aprono alla trascendenza, e “li prepara a maturare in Cristo”. Lo scopo finale dell’azione dello Spirito è mettere ogni uomo a contatto con il mistero di Cristo. Per questo motivo non è più possibile ritenere che le religioni appartengano solo al livello dello sforzo umano di ascesa verso il divino, camminando come a tentoni. Esiste un influsso positivo dello Spirito nelle religioni, azione che non può essere in nessun modo slegata dal mistero del Verbo incarnato. Ricordiamo che la stessa enciclica esclude una separazione delle economie dello Spirito e del Verbo. Per questo motivo il rapporto del cristiano con gli appartenenti alle altre religioni deve essere di rispetto e ammirazione. Ammirazione verso l’uomo che ricerca Dio e rispetto soprattutto per l’azione dello Spirito nell’uomo (cf. Redemptoris missio, 29). Ciò che fa lo Spirito Santo – conclude il Papa – “nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica” e resta sempre in rapporto con il mistero pasquale (cf. ibid). Al n. 55 della Redemptoris missio, Giovanni Paolo II scrive: Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo “lacune, insufficienze ed errori”.

Si sente in questo testo l’eco di Gaudium et Spes, 22. La chiamata di Dio in Cristo è universale. Perciò l’unico Dio si rende presente “in tanti modi” all’umanità. Il Papa non dice che le religioni siano quei modi, ma afferma che esse sono espressione 29

E chi può salvarsi?

precipua di questo disegno di salvezza universale. Ancora una volta, ciò che c’è di buono, di onesto, di bello, di vero e di santo è riconducibile ad una volontà salvifica positiva di Dio che vuole attirare tutti gli uomini verso la pienezza in Cristo. Riguardo al dialogo interreligioso, il Papa ribadisce che esso non risponde ad una tattica, ma ha la sua origine nel rispetto per quanto lo Spirito Santo ha operato al di là dei confini visibili della Chiesa (cf. Redemptoris missio, 56). Ciò implica aprirsi a quei germi e raggi “che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell’umanità”. Il rispetto porta all’ascolto e, quindi, alla scoperta dei semi presenti nelle altre tradizioni religiose. Questa è l’essenza del cambiamento di paradigma nei confronti delle religioni: ciò che nel momento presente guida lo sguardo della Chiesa non è la ricerca inquisitoriale degli errori dei pagani – smascherare i loro errori, la loro idolatria e i loro inganni diabolici –, ma la scoperta e la contemplazione di uno Spirito che non si lascia incatenare dai muri e dagli schieramenti religiosi. Lo Spirito Santo agisce nella Chiesa e anche fuori, nelle religioni. Anzi, nel cuore più genuino della ricerca religiosa vi è lo Spirito. Quest’ultima affermazione sarà ripresa più avanti. In definitiva, le altre religioni non saranno più una realtà da combattere o da abbattere, ma uno stimolo e un invito positivo al discernimento e all’approfondimento del mistero della salvezza donato ad ogni uomo: Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l’integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti (Redemptoris missio, 56)21. “I credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell'esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna” (Redemptoris missio, 57). 21

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Prima parte: Lo status quaestionis

Possiamo affermare senza indugio che, grazie al magistero di Giovanni Paolo II, abbiamo scoperto non tanto l’esistenza di interi popoli che vivevano alle spalle di Cristo, ma anche, e soprattutto, quanto la Chiesa stessa abbia vissuto alle spalle di questo disegno di salvezza che si manifesta misteriosamente nelle religioni. Catechesi del 31 maggio 1995 Senza cedere a facili soluzioni relativistiche, che in definitiva annullano il problema, Giovanni Paolo II afferma in questa catechesi che “anche per coloro che senza loro colpa non conoscono Cristo e non si riconoscono cristiani, il piano divino ha predisposto una via di salvezza”. L’espressione è ancora più decisa di Redemptoris missio, 10: “la salvezza è accessibile in virtù di una grazia”. Esiste quindi una via predisposta, che non può essere considerata solo “volontà permissiva”. Risulta infatti difficile pensare che la grandissima maggioranza degli uomini resti estraneo alla volontà salvifica universale e si accordi loro una salvezza in extremis, attraverso una vaga nozione di coscienza morale. Cristo, che si rende presente nella sua Chiesa, è pur sempre il punto di convergenza della volontà salvifica universale. Questo porta il Papa ad aggiungere che questa via non può essere al di fuori di Cristo né senza rapporto con la Chiesa. Cristo e il suo mistero pasquale, del quale la Chiesa vive e si nutre, è l’unica via di salvezza per ogni uomo. Questo è il punto fermo di tutta la riflessione riguardo alle religioni. Per Giovanni Paolo II, le religioni possono però “esercitare un influsso positivo sul destino di chi ne fa parte e ne segue le indicazioni con sincerità di spirito”. La salvezza è opera esclusiva dello Spirito Santo che rende presente il mistero pasquale e rende possibile l’incontro con Cristo salvatore.

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E chi può salvarsi?

In sintesi, il Papa riconosce che esiste una via predisposta per chi ignora il valore salvifico del mistero pasquale, questa via poi non è indipendente dal mistero pasquale, tramite il quale abbiamo accesso al Padre. Infine, le religioni possono senz’altro esercitare un influsso positivo in ordine alla salvezza. Il Papa non afferma che tutto nelle religioni, o che tutte le religioni esercitino questo influsso. Comunque sia, ciò che vi è di vero e di santo nelle religioni viene dallo Spirito e porta verso Cristo. Catechesi del 9 settembre 1998 In questa catechesi Giovanni Paolo II parte da Nostra aetate n. 2. La Chiesa riconosce che nelle religioni ci sono elementi di verità e santità, e perciò le guarda con “sincero rispetto” perché esse “riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”. È quindi necessario riconoscere i “semi del verbo” nelle religioni. Ricordiamo però che la dottrina dei λόγοι σπερματικοί, presente nei Padri, è riferita in primo luogo al pensiero e alla filosofia greca, mentre gli stessi Padri hanno avuto una posizione piuttosto negativa nei confronti delle religioni pagane. Parlare della presenza dei semina anche nelle religioni, e non più in rapporto con la pura filosofia, è una manifestazione del cambiamento di prospettiva da parte del magistero. È un segno dei tempi. Questi “semi di verità” sono presenti e operanti “nelle diverse tradizioni religiose”. La loro origine è effetto dell’azione dello Spirito Santo che agisce fuori dai confini visibili della Chiesa. Inoltre, ogni ricerca della verità nell’uomo è “in ultima analisi, suscitata dallo Spirito Santo”. Le religioni si collocano proprio in questa “apertura primordiale dell’uomo nei confronti di Dio” che gli viene incontro grazie al suo Spirito.

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Prima parte: Lo status quaestionis

Riguardo ai fondatori delle religioni, Giovanni Paolo II ha nei loro confronti una prospettiva marcatamente positiva. Essi hanno agito sotto la spinta dello Spirito Santo: non di rado, alla loro origine [delle religioni] troviamo dei fondatori che hanno realizzato, con l’aiuto dello Spirito di Dio, una più profonda esperienza religiosa. Trasmessa agli altri, tale esperienza ha preso forma nelle dottrine, nei riti e nei precetti delle varie religioni.

Giovanni Paolo II fa sua la dottrina di Dialogo e Annuncio, documento piuttosto dimenticato forse perché troppo vicino alle posizioni di J. Dupuis, che fu uno dei redattori dello stesso. Infatti, il Papa afferma che è attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza, che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all›invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro Salvatore.

Perciò riguardo alle religioni l’atteggiamento dei cristiani deve essere “improntato a sincero rispetto, a profonda simpatia” e a “cordiale collaborazione”. Ciò non significa per il cristiano rinunciare alla propria fede in Cristo unico mediatore e salvatore. La simpatia e il rispetto sono dovuti ai semi del Verbo e ai “gemiti dello Spirito” che si riscontrano nelle religioni. In sintesi, alla domanda come è possibile la salvezza per coloro che ignorano il vangelo, il Papa risponde che essa è possibile22: -

Primo, grazie a una serie di disposizioni interne del soggetto, e cioè, l’adesione intima e sincera alla Verità, il dono generoso di sé al prossimo e la ricerca dell’Assoluto suscitata dallo Spirito Santo.

Cf. M. Bravo Pereira, Cristianesimo e Religioni. Contesto, metodo e riflessione teologica, IF press, Roma 2018, 115-116. 22

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E chi può salvarsi?

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Secondo, grazie a un raggio di luce che proviene dalla Sapienza divina essi sono spinti a conformarsi, nella propria vita e costumi, alla legge morale e all’autentico spirito religioso.

Extra Ecclesiam nulla salus? Il cambiamento di prospettiva riguardo alle religioni ha implicato necessariamente una riformulazione dell’assioma ecclesiologico fondamentale che si rifà a san Cipriano e che ebbe la sua interpretazione più ecclesiocentrica e restrittiva nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII e nel Concilio di Firenze23. Nella catechesi di Giovanni Paolo II del 31 maggio 1995 troviamo l’eco di questo cambiamento di paradigma. Abbiamo avvertito che per il Papa esiste una via di salvezza per coloro che senza colpa ignorano il vangelo. Questa via non è al di fuori del mistero pasquale che si rende presente nella Chiesa. Quindi Cristo e la Chiesa continuano ad essere necessari per la salvezza di ogni uomo. L’Extra Ecclesiam mantiene dunque la sua validità. Ciò che cambia è l’estensione e il significato del termine extra e anche la considerazione della situazione esistenziale di coloro che si trovano extra Ecclesiam, cioè degli appartenenti alle religioni non cristiane. Giovanni Paolo II comincia la sua catechesi restituendo all’assioma ecclesiologico fondamentale il suo significato originario: “L’assioma significa – insegna il Papa – che per quanti non ignorano che la Chiesa è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria c’è l’obbligo di entrare e di perseverare in essa al fine di ottenere la salvezza”. San Cipriano si riferiva infatti a coloro che appartenendo alla Chiesa, la rinnegavano, abbracciando l’eresia. Il riferimento immediato di Giovanni Paolo II è Lumen Gentium 14, numero che è indirizzato Per una storia dell’assioma, cf. B. Sesboüé, Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza. Storia di una formula e problemi di interpretazione, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009. Purtroppo, il testo si ferma al Concilio Vaticano II e non entra nel magistero di Giovanni Paolo II. 23

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Prima parte: Lo status quaestionis

appunto ai “fedeli cattolici”, e non ai cristiani non cattolici né agli appartenenti ad altre religioni, dei quali si parlerà nei numeri 15 e 16. Per chi non ha ricevuto l’annuncio del Vangelo, la salvezza è accessibile attraverso vie misteriose che anche se non lo introducono esternamente nella Chiesa, sono in relazione con essa. Questa “misteriosa relazione” è tale in due sensi: primo per chi la riceve perché, o non conosce la Chiesa, o la respinge esternamente non vedendo la connessione esistenziale tra la Chiesa e la salvezza; e in secondo luogo, scrive il Papa, è misteriosa “in se stessa perché legata al mistero salvifico della grazia, che comporta un riferimento essenziale alla Chiesa fondata dal Salvatore”. Il Papa conclude dando all’assioma ecclesiologico fondamentale un valore relativo al mistero di Cristo che, benché non annulli la necessità della Chiesa, esprime il suo autentico legame di subordinazione al mistero del Verbo incarnato: La grazia salvifica, per operare, richiede un’adesione, una cooperazione, un sì alla divina donazione: e tale adesione è, almeno implicitamente, orientata verso Cristo e la Chiesa. Perciò si può dire anche sine Ecclesia nulla salus – “senza la Chiesa non c’è salvezza” –: l’adesione alla Chiesa-Corpo mistico di Cristo, per quanto implicita è appunto misteriosa, costituisce una condizione essenziale per la salvezza.

A questo punto Papa Giovanni Paolo II può dividere in due il vecchio assioma ecclesiologico fondamentale: Extra Christum nulla salus e sine Ecclesia nulla salus. Cristo è assolutamente necessario, nel senso che non c’è un altro nome nel quale possiamo essere salvati, e grazie al suo sacrificio redentore, la salvezza è offerta gratuitamente ad ogni uomo, mentre la Chiesa, che è Cristo mistico dilatato nella storia, è lo strumento misterioso ma reale della presenza del mistero pasquale nel mondo. Non 35

E chi può salvarsi?

esiste salvezza al di fuori di Cristo, e ogni dono di salvezza è in connessione misteriosa con la Chiesa, corpo mistico di Cristo.

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Seconda Parte: E chi può salvarsi?

Sguardo generale ai sinottici e agli scritti giovannei Παρὰ ἀνθρώποις τοῦτο ἀδύνατόν ἐστιν, παρὰ δὲ θεῷ πάντα δυνατά

Gli scritti del Nuovo Testamento non sono unanimi nel modo di presentare il problema della salvezza dei gentili. Perfino all’interno di uno stesso scritto possiamo trovare soluzioni complementari e addirittura contrastanti. Sappiamo che la salvezza promessa nella Bibbia arriva in primo luogo al popolo d’Israele – con il quale Dio stabilì un’alleanza che si scandisce poi lungo una storia di redenzione –, essa è legata però alla risposta del popolo che lungo la storia deve rinunciare agli idoli e deve interiorizzare la legge mosaica. La salvezza è senz’altro un dono gratuito di Dio, ma è condizionata pure dalla risposta dell’uomo nel compimento dei comandamenti, e in particolare nell’osservanza del comandamento dell’amore. Paradossalmente, nel Nuovo Testamento, l’esempio più significativo di questo amore verso il prossimo è un samaritano, cioè uno straniero, non pienamente appartenente all’universo dell’alleanza1. Come afferma J. Jeremias, in Lc 17,18, il samaritano è chiamato straniero (ἀλλογενής) e in Gv 8,48, samaritano è un termine di disprezzo. Per i giudei i samaritani erano una razza bastarda (cf. Jesus’ Promise to the Nations…, 43). 1

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E chi può salvarsi?

La salvezza nel Nuovo Testamento è pure legata in modo determinante alla fede in Gesù Cristo, che si attua nella confessione della divinità del Figlio di Dio, salvatore del mondo. “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1), chiede il Signore, declinando verso di sé una fede dovuta solo a Dio. Paradossalmente, però, coloro che manifestano una fede salvifica più profonda ed efficace agli occhi di Gesù sono un centurione romano e una donna cananea: due stranieri pagani che, per quanto sembra, non sono stati ulteriormente incorporati ad una Chiesa composta da soli ebrei. La condizione determinante per la salvezza dunque non è la mera appartenenza. D’altronde il cristianesimo ha sempre insistito nel bisogno di conversione sincera, senza la quale il battesimo resta inefficace. Si possono fare dei miracoli nel nome di Gesù ed essere dei suoi seguaci – avere il nome del Signore sulle labbra – e ciononostante restare definitivamente esclusi dalla conoscenza intima di Cristo, se non si opera la misericordia verso il bisognoso. Riconosciamo, senz’altro, che il battesimo è necessario per la salvezza – chi crederà e si battezzerà sarà salvo, e chi non crederà sarà dannato –, ma ciò che sarà determinante nel giorno del giudizio, non sarà la fede professata con le labbra, né la rinascita battesimale, ma il compimento umile e disinteressato delle opere di misericordia e l’osservanza fedele del doppio comandamento dell’amore. Gli operatori di bene – i benedetti del Padre – incontreranno il Re giudice universale nei poveri e negli emarginati nonostante non siano stati in grado di riconoscerlo. Saranno loro, gli operatori di pace, a ricevere la beatitudine eterna. In questo capitolo, non volendo fare un’analisi troppo prolissa dei testi, intendiamo far parlare i vangeli, senza prendere in considerazione – lo faremo in un secondo momento – l’interpretazione che di essi è stata fatta dalla teologia lungo i secoli, e in particolare dalla teologia delle religioni. Premettiamo subito che il nostro accostamento ai pagani del Nuovo Testamento sarà 38

Seconda Parte: E chi può salvarsi?

concreto, considerando i personaggi non nel significato astratto – come modelli di altrettante virtù o comportamenti –, bensì nella loro concretezza storica e nella loro situazione. D’altronde, come annota anche J. Dupuis, la memoria di Gesù presente nei testi del Nuovo Testamento fa riferimento “direttamente e formalmente” a situazioni concrete in cui si trovano le persone2. Come abbiamo già accennato, non è nostra intenzione fare un’esegesi prolissa dei testi, né tantomeno stabilire l’attendibilità storica dei personaggi o di andare alla ricerca delle ipsissima verba Iesu con il fine di evidenziare la distinzione tra l’insegnamento di Gesù e quello della Chiesa primitiva. Il teologo prende l’insieme come Parola di Dio rivolta all’uomo, che deve essere costantemente riletta alla luce dei segni dei tempi, sotto la spinta dello Spirito, e in questo caso, alla luce della visione positiva della Chiesa nei confronti dei non cristiani. I Vangeli sinottici Abbiamo già osservato che i vangeli, fino alla risurrezione, presentano uno scarso interesse per gli stranieri e la loro salvezza. Gesù concentra la sua azione esclusivamente attorno al popolo eletto, va alla ricerca delle pecore smarrite d’Israele. I suoi discepoli sono tutti ebrei e lo stesso Maestro chiede loro di non entrare nelle città dei samaritani né dei pagani (cf. Mt 10,5-6). Questa prassi è talmente radicata nei discepoli che ci vorrà l’azione dello stesso Spirito Santo su Cornelio e la sua famiglia per convincere Pietro del destino universale del messaggio di Gesù3. Mc 3,7-8 parla di molti che venivano dalla Giudea e da Gerusalemme, oltre che dalla Galilea, ma ci sono alcuni che vengono anche dall’Idumea, dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone. Non è probabile, però, che questi fossero dei pagani, 2 3

Cf. J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni…, 49. Cf. J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 24-25.

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appunto per il divieto degli ebrei di essere a contatto con gente pagana4. In ogni caso, la loro presenza è appena percettibile e non hanno incidenza nel messaggio di Cristo che resta indirizzato alla casa d’Israele. Per questo motivo, i pochi stranieri pagani che appaiono nei vangeli, così come i passi riferiti a loro, sono di particolare importanza per noi. Proprio perché né Gesù né i discepoli hanno promosso o facilitato la conversione dei pagani, la loro presenza nel racconto evangelico, e ciò che è detto a loro riguardo, acquisisce un valore rilevante per il nostro studio. Non è stato Gesù, né i suoi discepoli ad attirare i pagani verso di loro5. Nei casi che studieremo più avanti si avverte che l’iniziativa salvifica parte sempre dai pagani, non da Gesù6. Cosa li ha spinti allora ad avvicinarsi a Gesù? Questo avvicinamento fu puramente occasionale, a causa della fama di taumaturgo del Maestro, o rispondeva piuttosto a un disegno salvifico che solo dopo la risurrezione riusciremo a percepire? Quale fede li ha condotti verso di lui e quale grazia li ha spinti a riconoscere nel Maestro di Galilea qualcosa di più di un maestro giudeo? Gesù stesso affermò che nessuno viene a lui se il Padre non lo attrae (cf. Gv 6,44), e questa attrazione quindi può essere ricondotta solo ad una spinta dello Spirito Santo stesso che, come scrive Giovanni Paolo II, è alla base del senso religioso che porta tutti gli uomini verso Dio (cf. Redemptoris missio, 28). La loro iniziativa verso la J. Ernst ritiene che l’accenno a questi nomi rifletta la situazione postpasquale e rispecchi le prime fondazioni di comunità della missione apostolica. Cf. Il vangelo secondo Marco, vol. I, Morcelliana, Brescia 1991, 172. Cf. R. Pesch, Il vangelo di Marco, Paideia, Brescia 1980, 326: “non si nominano i luoghi dell’azione di Gesù, bensì piuttosto i territori nei quali risiedono cristiani al tempo della composizione del sommario”. 5 P. Dupuis è fin troppo generoso nell’affermare che le escursioni nella regione siro-fenicia sono state occasioni per incontrare dei pagani e fare per loro dei miracoli (Cf. J. Dupuis, Verso una teologia…, 67). Gesù per contro ha fatto un unico miracolo, alla donna cananea, e solo dopo la sua insistenza. 6 Cf. J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 31. 4

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salvezza non si può spiegare solo a partire dalla curiosità o dalla necessità del momento. Neanche è sufficiente fare accenno al desiderium naturale presente in ogni essere umano. Essi cercavano sicuramente un guaritore, ma trovarono un Redentore perché il loro cuore andava oltre la circostanza concreta. C’è dunque un’azione misteriosa e sovrannaturale della grazia che va oltre i limiti che Gesù stesso ha imposto al suo annuncio del Regno. Ciò che è paradossale per noi è il fatto che questi pagani, dopo l’incontro salvifico con Gesù sono rimasti tali, non sono entrati a far parte della comunità dei discepoli e non sono stati neanche battezzati… almeno non immediatamente dopo l’incontro con Gesù. Il “dopo incontro” non era rilevante per gli evangelisti. Entrano nella scena evangelica con la loro profonda fede, superiore a quella d’Israele, e poi scompaiono dal racconto senza lasciar traccia. Se il messaggio è universale, e soprattutto, se è vero che Cristo morì per tutti, sembra che non sia ugualmente vero che tutti debbano entrare a far parte della Chiesa, tramite il battesimo. Almeno non sembra essere così urgente per Gesù farli entrare nel regno dalla porta sacramentale. Alla proclamazione della necessità del battesimo per la salvezza non segue necessariamente un proselitismo invadente – e perfino violento – come quello che si avrà nei secoli successivi, in cui ci si è arroccati su di un’interpretazione decontestualizzata del compelle intrare7. Sant’Agostino, nel Contra Gaudentium, si servì di questo passo per giustificare l’uso della forza con il fine di costringere gli eretici donatisti a tornare all’ortodossia. Poi moderò la sua posizione accettando la pena solo come correttivo e non come punizione. La posizione di san Tommaso è più articolata: “Ci sono degli increduli, come i Giudei e i pagani, i quali non hanno mai abbracciato la fede. E questi non si devono costringere a credere in nessuna maniera: perché credere è un atto volontario. Tuttavia, i fedeli hanno il dovere di costringerli, se ne hanno la facoltà, a non ostacolare la fede con bestemmie, cattivi suggerimenti, oppure con aperte persecuzioni. Ecco perché coloro che credono in Cristo spesso fanno guerra agli infedeli, non per costringerli a credere (perché anche quando riuscissero a vincerli e a farli prigionieri, li lascerebbero liberi di credere, se vogliono): ma per costringerli a non ostacolare la 7

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L’elogio della fede pagana, ovvero la fede del centurione e della cananea Nei sinottici ci sono due personaggi che vengono elogiati da Gesù per la loro fede. Si tratta del Centurione, del quale Gesù afferma di non aver trovato una fede così grande in Israele, e la donna Cananea o Sirofenicia8. Vediamoli separatamente. Il centurione credente Abbiamo due versioni dell’incontro del centurione con Gesù, ciascuna con delle sfumature proprie. In Mt 8,5-13 è lo stesso centurione ad accostarsi a Gesù per chiedere la guarigione del suo servo. Nel vangelo di Luca invece (7,1-10) sono i farisei del luogo a presentarsi come mediatori del centurione. Luca annota un particolare non indifferente: il centurione ama il popolo e ha costruito la sinagoga, quindi merita di essere aiutato. Si è comportato con giustizia e con misericordia verso un popolo sottomesso e umiliato. Il suo comportamento desta meraviglia perché normalmente gli ufficiali invasori non giungono mai ad amare il popolo sul quale pesa il giogo del potere romano. Gesù non lo fa attendere e si mette in cammino con lui – o con i farisei, stando al racconto lucano –, il centurione però lo ferma manifestando la sua indegnità ad accoglierlo in casa sua. Il romano sa che secondo la legge, un giudeo non può entrare, senza contaminarsi, nella casa di un pagano. Non dovrebbe neanche rivolgergli la parola. Questa tradizione ebraica è avvilente fede di Cristo. Ci sono invece altri increduli, i quali un tempo hanno accettato la fede e l'hanno professata: e sono gli eretici, e gli apostati di ogni genere. Costoro devono essere costretti anche fisicamente ad adempiere quanto promisero, e a ritenere ciò che una volta accettarono” (Summa Theologiae, II, II, q. 10, a. 8). Si vede che san Tommaso considera solo quelli che apostatarono volontariamente e non quelli che sono venuti dopo e sono cresciuti nelle comunità religiose non cattoliche. 8 J. Ernst fa vedere il parallelismo esistente tra i due racconti, soprattutto nella versione di Matteo (il centurione) e Marco (la sirofenicia); cf. Il vangelo secondo Marco, vol. I…, 252.

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nei confronti dei gentili e manifesta una comprensione alquanto sbagliata del concetto di elezione biblica, sembra però che il centurione abbia fatto pace con queste tradizioni ebraiche e che abbia riconosciuto nel popolo d’Israele una dignità religiosa a causa, appunto, della fede nell’unico Dio creatore e redentore. Il centurione manifesta con la sua richiesta, e soprattutto con la sua resistenza a costringere Gesù ad entrare nella sua casa, di aver ormai calpestato il proprio orgoglio di ufficiale romano e di aver riconosciuto in Gesù il salvatore che era: Salvatore dei figli d’Israele, dal quale anche i gentili avrebbero potuto trarre profitto. “Signore, io non sono degno che tu venga sotto il mio tetto; ma soltanto di’ una parola e il mio servo sarà guarito”. Il centurione lo chiama κύριος, riconoscendogli una dignità superiore a quella di un semplice rabbi. Gesù “è uno che ha potenza, è un Kýrios dotato di autorità”9, che con il suo io lo guarirò manifesta di agire appunto per propria autorità. Lo straniero, poi, non solo è convinto che Gesù può fare il miracolo della guarigione del servo, ma riconosce anche che lo può compiere con la sola potenza della sua parola. È probabile che il centurione avesse conosciuto qualcosa della religione ebraica, sicuramente apparteneva ai “timorati di Dio”, e in questa condizione partecipava parzialmente alla fede d’Israele, senza però far parte dei proseliti. Ma sul conto di Gesù non poteva sapere più di tanto, almeno da una prospettiva accademica o intellettuale, in ogni caso non conosceva più della folla che seguiva il Maestro. Ciò che è stato determinante non fu allora la conoscenza teorica, e neanche la disperata necessità di salvare lo schiavo, ma una fede umile, salvifica, soprannaturale: una fede che si indirizza direttamente alla persona di Gesù, prima ancora di qualunque catechesi su di lui. È una fede che il centurione professa appunto nella circostanza del bisogno, la cui 9

J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. I…, 254.

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origine però, trascende l’umano perché di origine divina, e perciò superiore a quella degli israeliti: una fede soprannaturale. Ed ecco che Gesù, conquistato da questa sua fede, fa l’elogio del centurione: “Presso nessuno in Israele ho trovato tanta fede”. Ciò include anche i propri discepoli, che dovranno fare un lungo percorso di crescita nella fede. Il centurione sembra aver “bruciato” tutte le tappe per giungere direttamente al nocciolo della fede cristiana, che è il riconoscimento di Gesù come salvatore universale, come κύριος venuto con il potere di liberare ogni uomo dalla schiavitù del peccato. Poi Gesù conclude con una profezia che riguarda l’estensione della Chiesa tra i pagani: Vi dico che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre esteriori.

I figli del regno sono, in primo luogo, gli ebrei, chiamati a partecipare al regno. Questa primazia in ordine al regno non è dovuta alla razza né a nessun merito umano, bensì al piano misericordioso di Dio manifestato nella storia. Con l’avvento di Cristo però e, soprattutto, con il suo sacrificio pasquale, l’accesso al regno non sarà più legato all’antica alleanza, ma ad un profondo atteggiamento di adorazione del Padre in spirito e verità (cf. Gv 4,24), che è dono assolutamente gratuito dello Spirito. Pure i cristiani potrebbero essere cacciati fuori se, nonostante il battesimo ricevuto, risulteranno carenti della fede che salva, quella che opera per la carità (cf. Gal 5,6) e diventa misericordia verso i più piccoli e sofferenti. Già, ma ciò riguarda il futuro. Il centurione non è solo il segno di una salvezza futura che raggiunge ogni uomo, “il Giudeo prima e poi il Greco” (Rm 2,10). Il centurione è una persona concreta, reale, con una storia unica e irrepetibile di ricerca di Dio e della 44

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salvezza10. Per lui la salvezza è un fatto storico presente. Ha ragione J. Dupuis quando afferma che, per gli stranieri, la fede non è accessibile solo da lontano: “essa è realmente operante in mezzo a loro”11. I miracoli compiuti in favore degli stranieri hanno lo stesso valore rivelativo di quelli compiuti presso i giudei: essi sono rivelazione dell’avvento del regno nella persona di Cristo. Certamente il centurione è anche un modello, ma non di un’idea astratta, o di una categoria teologica. Lui è il primo di tanti uomini che hanno incontrato Gesù in modo puntuale, senza forse capire fino in fondo chi fosse colui che ha cambiato loro la vita. Per tanto è lecito allora porci alcune domande: nel momento in cui il Gesù prepasquale si trova con il centurione, di quale fede parla? Essa è superiore a quella d’Israele. Lo dice Gesù stesso. Qual è lo stato di grazia di quell’uomo non appartenente alla casa d’Israele, al quale non è indirizzato l’annuncio del regno che Gesù proclama e del quale i discepoli non si devono occupare? Per il nostro centurione evangelico la salvezza è una realtà puramente futura, simbolica, o è già operante, nonostante non diventi – e forse non diventerà – formalmente discepolo del Redentore? Ciò che possiamo ribadire per il momento è che la fede del centurione è fede in Gesù, ha Gesù come oggetto, è fede nel rabbi Galileo, nel κύριος, che domina sugli elementi e perciò può guarire da una malattia mortale il suo servo molto amato12. Poi il centurione scompare nel nulla. Non diventa discepolo e non sappiamo se più tardi sia entrato nella giovane comunità Non ci interessa qui fare la “decostruzione” del passo evangelico, proprio dell’esegesi scientifica. Il redattore finale avrebbe potuto senz’altro creare la storia servendosi di un materiale precedente, ma sta pensando sempre a persone concrete, con storie coerenti. 11 J. Dupuis, Verso una teologia del pluralismo…, 68. 12 “Per l’ascoltatore credente, l’appellativo Kýrios conferisce all’immagine di Gesù una colorazione cristologica; emerge qui quella venerazione del Signore prefigurata appunto nell’umile atteggiamento del pagano di Cafarnao” (J. Ernst, Il vangelo secondo Luca, vol. I…, 329). 10

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oppure sia rimasto pagano, ma credente in Gesù. Se le comunità della Palestina erano tutte formate da ebrei circoncisi, non è probabile che partecipasse alle loro liturgie, né alla frazione del pane. I discepoli non avrebbero condiviso con lui la mensa del Signore. Non si sarebbero recati a casa sua per paura di contaminarsi. Molto probabilmente il centurione avrebbe continuato ad amare quel popolo dal quale è sorto Gesù, che guarì il suo servo e riempì il suo cuore di fede e di speranza nella salvezza. Qual era allora la situazione spirituale del centurione? Ricordiamo che non siamo davanti ad un mero modello esemplare, ma davanti ad una persona reale13. Ovviamente la storia di un uomo è infinitamente più profonda di quanto si possa tradurre in un testo scritto. Il vangelo poi ci offre solo pochissimi tratti. Comunque sia possiamo scorgere qualche elemento. In primo luogo, il centurione era sicuramente un timorato del Dio d’Israele, amante del popolo e generoso nel costruire la sinagoga. L’amore per il suo servo ci fa pensare ad una persona attenta al prossimo e misericordiosa verso coloro che erano a lui subalterni. Il suo avvicinamento a Gesù è pieno di umiltà. Lui sa di non aver diritto alla grazia della guarigione che può ottenere solo con una supplica. La sua umiltà è inversamente proporzionale al riconoscimento dell’autorità di Gesù14. Lui si sente uno di tanti altri poveri che si sono avvicinati al Signore: il cieco sulla via, la donna cananea, l’emorroissa, la vedova di Naim, ecc. Possiamo dire senza indugio che il centurione, già prima di incontrare il Maestro, aveva, per dono soprannaturale15, le condizioni per accogliere la salvezza, anche se non apparteneva al popolo e non era discepolo di Gesù in senso stretto; soprattutto, senza neanche capire tutta la portata Per la descrizione dei tratti di questo soldato, cf. J. Ernst, Il vangelo secondo Luca, vol. I, Morcelliana, Brescia 19902, 327-328. 14 Cf. J. Ernst, Il vangelo di Marco, vol. I…, 254. 15 Non può essere diversamente se accogliamo come dottrina cattolica l’insegnamento del Concilio di Trento riguardo all’initium gratiae come dono gratuito di Dio, non meritato. 13

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del gesto che stava compiendo. Possiamo perfino ipotizzare, alla luce di Mt, 25,40, che il centurione incontrò Gesù stesso, Re e Giudice universale, nel povero suo servo malato e nei poveri d’Israele che aveva imparato ad amare operosamente. Ancora di più, lui stesso divenne povero bisognoso della misericordia di Cristo, Buon Samaritano della nostra vita. Questa doppia via – essere misericordiosi perché consapevoli del bisogno di misericordia – diviene nel cristianesimo una via regia: ciò che avete fatto al povero lo avete fatto a me, e alla donna peccatrice Gesù dice che lei ama molto perché le è stato perdonato molto. Legge di reciprocità che ha come fondamento la misericordia del Padre che manda, per amore, suo Figlio amato nel mondo. La donna cananea L’altro episodio è quello della supplica della donna cananea (Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). Gesù si ritira con i suoi discepoli nelle regioni di Tiro e di Sidone, territori pagani dove non intende né insegnare né fare discepoli. Anzi, stando al racconto di Marco, non voleva che nessuno sapesse che era lì. Matteo dice che la donna gridava e supplicava fino a stancare i discepoli. Il suo bisogno era struggente. I titoli che usa la donna per attirare l’attenzione di Gesù sono κύριος e figlio di Davide. Con esso riconosce l’autorità del Maestro e al contempo la sua appartenenza israelitica e la sua missione esclusiva presso il suo popolo. La donna cananea sa di non meritare di essere ascoltata, a causa della distinzione tra giudei e gentili, ma al contempo sa che Gesù, in anticipo sulla sua ora, può aiutarla nonostante questa distinzione culturale. M. Konradt segnala che la donna manifesta una fede che riconosce in Gesù non solo il messia d’Israele, ma “uno che in quanto Messia d’Israele è anche il salvatore delle nazioni”16. Molto attinente per il nostro argomento è la riflessione di A. Sand: M. Konradt, Israel, Church, and the Gentiles in the Gospel of Matthew, Baylor University Press, Wako 2014, 64. 16

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La designazione di Gesù scelta dalla donna (“figlio di Davide”) stabilisce in anticipo la delimitazione del suo servizio a Israele (vv. 24.26) e l’assenso della donna a questa delimitazione. L’appellativo ‘Signore’ esprime però la salda convinzione che questa delimitazione non è definitiva. Nell’associazione dei due titoli si accenna già al fine della pericope: il rivolgersi a Israele non esclude la missione verso i pagani: perché la fede non è un privilegio nazionale17.

Per quanto riguarda il contesto, J. Meier fa notare che l’episodio raccontato da Marco si colloca come conseguenza del discorso precedente di Gesù nel dibattito su ciò che è puro o impuro (cf. Mc 7,1-23). “Gesù ha appena dichiarato che tutti i cibi sono puri e ora fa qualcosa di concreto per abbattere la barriera religiosa tra i giudei e pagani”18. L’atteggiamento di Gesù è freddo e scostante e la sua risposta è coerente con quanto lui ha fatto e detto fino a quel momento: il messia è stato mandato alle pecore disperse della casa d’Israele. Essi sono i primi a doversi saziare del pane, che non deve essere gettato ai cagnolini. Il diminutivo non intende ammorbidire la durezza dell’espressione, bensì corrisponde al modo colloquiale di parlare. Infatti, i pagani, rappresentati dalla cananea, erano considerati dai giudei come dei cani che, al massimo, possono attendere le briciole che cadono dalla mensa dei figli, finché non si sono saziati. Con la sua risposta, la donna riconosce che di fronte alla salvezza che Gesù apporta, lei è straniera e non meritevole. Può solo supplicare, e la sua supplica è insistente e piena di fiducia, come quella della vedova che chiede giustizia finché non la otterrà e della quale ha parlato Gesù stesso. Questa volta però, la cananea non si trova più dal giudice ingiusto, ma dal Maestro misericordioso. 17

J. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. I, Morcelliana, Brescia 2000,

460. 18

J. Meier, Un ebreo marginale, vol. II, Queriniana, Brescia 20032, 788.

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Nella sua risposta – scrive R. Pesch – la donna si appella alla bontà e alla misericordia di Dio, dimostrando così fiducia e fede. Con il suo accenno essa fornisce a Gesù (nell’ambito della narrazione) e ai missionari cristiani (nell’ambito tematico) la chiave per giustificare il loro agire19.

Gesù, meravigliato della risposta della donna esclama: “O donna, grande è la tua fede. Ti sia fatto come tu vuoi”, e la donna, rientrando a casa troverà la figlia guarita e liberata dal demonio. J. Ernst commenta: Grande, anzi poderosa è la fede della donna, che solo adesso viene considerata degna di ricevere una parola. Qui si incontra una fede che può tutto, persino spostare le montagne. La constatazione della guarigione, che dà l’impressione di essere stata come aggiunta, è propriamente ancora solo manifestazione di ciò che è autentico: della fede20.

J. Jeremias arriva a dire che la donna, con la sua fede, riesce a riconoscere in Gesù il datore del Pane della vita21. È la fede il centro del racconto della cananea, come anche di quello del centurione. È una fede che va direttamente alla persona di Gesù, senza alcuna mediazione cultuale o di appartenenza. È una fede soprannaturale e salvifica, nonostante né la cananea né il centurione abbiano una conoscenza teorica di chi sia il redentore che è venuto loro incontro. È soprannaturale sia perché ha all’origine un’azione della grazia, sia perché è indirizzata a Gesù come salvatore e non solo come “guaritore”. È salvifica perché altrimenti lascerebbe la persona come prima, sarebbe solo una guarigione fisica. Invece, la guarigione fisica è un segno sacramentale della trasformazione interiore. Ha questa fede chi, come questa donna

R. Pesch, Il vangelo secondo Marco, vol. I…, 605. J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. I…, 461. 21 J. Jeremias, Jesus’ promise to the Nations…, 30. 19 20

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bisognosa di misericordia, si comporta con misericordia verso gli altri bisognosi. M. Konradt conclude: La donna cananea anticipa così l’universalità della salvezza, che Gesù stesso proclamerà per la prima volta dopo la sua risurrezione ed esaltazione a Signore universale. La donna, nella sua argomentazione, unisce questa universalità con lo status quo salvifico-storico della distinzione tra ebrei e gentili ancora assoluta. In altre parole, la sua fede anticipa il fine ultimo della missione di Gesù22.

Misericordia ricevuta, misericordia donata. Ecco la dinamica che apre alla fede e all’incontro misterioso con Gesù. Perciò il Maestro condannerà così severamente chi, essendo stato misericordiato, si rifiuterà di misericordiare (cf. Mt 18,32). Poi, di questa donna non si dice nient’altro. Dopo questo incontro con il Signore, la donna cananea scompare nell’oblio, senza storia e senza nome, lasciando solo il ricordo della sua umile e poderosa fede e del suo amore totale. Anche qui è lecito porsi alcune domande: di quale fede parla Gesù quando si rivolge alla donna cananea? Cosa la spinse a vedere in Gesù qualcosa di più di un semplice guaritore? E soprattutto quale era la situazione esistenziale della donna spinta a gettarsi ai pedi di Gesù per ottenere la salvezza di sua figlia? Ricordiamo che, prima di essere un modello esemplare di fede, la donna cananea è una donna reale, storicamente situata e, perciò – appunto in quanto essere umano – interlocutore del dialogo salvifico con Dio Padre, tramite lo Spirito. Che possiamo scorgere della situazione spirituale di questa donna cananea? In primo luogo, sembra che siamo davanti ad una donna povera e umile. Comunque sia, è in sofferenza per la malattia di sua figlia. In secondo luogo, è perseverante nel chiedere la grazia, pur sapendo di non meritarla. In terzo luogo, è 22

M. Konradt, Israel, Church, and the Gentiles…, 64.

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umile nel riconoscersi un “cagnolino” che mendica le briciole che cadono dalla mensa dei padroni. Umiltà profonda, preoccupazione solerte per sua figlia che soffre, preghiera insistente e fede nell’azione di Gesù… Tratti che ritroviamo ogniqualvolta si parla dei giusti tra i pagani che entrano in contatto con Cristo o con gli apostoli: azione dello Spirito che agisce dovunque e che prepara, rende possibile, accompagna e fa fruttificare l’incontro con Cristo, sia personalmente, sia sotto il velo dei poveri e degli umili. Apostolo pagano tra i pagani: l’indemoniato gadareno Marco (5,1-20) e Luca (8,26-39) ci parlano di un indemoniato trovato da Gesù nei pressi di Gerasa o Gadara, territorio pagano, dall’altra parte del mare. Non sappiamo cosa vada a fare Gesù in territorio non giudaico ed è insolito che compia miracoli in città pagane23. Il fatto è che mentre stava con i suoi discepoli venne loro incontro quest’uomo indemoniato – o due ossessi, secondo il racconto di Matteo – che lo scongiurava di non tormentarlo. Questo ossesso si trova in una situazione profondamente miserabile: è un pagano che abita in territorio pagano, considerato impuro, si rifugia tra le tombe, luogo di impurità, accerchiato dai demoni ed è lui stesso posseduto da uno spirito impuro24. Gesù è venuto a liberare l’uomo dalla miseria del peccato e della morte. La possessione è una forma di miseria, delle più umilianti e avvilenti. La descrizione di Marco mette l’enfasi sulla forza di questo demonio che distrugge ciò che nel malcapitato resta di umano (autolesioni, catene, aggirarsi tra i sepolcri)25. Per questo motivo, Gesù libera l’indemoniato con un atto sorprendente di Cf. J. Meier, Un ebreo marginale, vol. II…, 764. Cf. R. Pesch, Il vangelo di Marco, vol. I, Paideia, Brescia 1980, 452. 25 R. Pesch vede nella descrizione della forza malefica che possiede il malcapitato una “presentazione polemica e simbolica della potenza caotica e annientatrice del paganesimo” (Il vangelo di Marco, vol. I…, 454). 23 24

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potenza – infinitamente superiore a quella del demonio Legione –, senza che ci fosse una richiesta esplicita da parte dell’uomo di Gerasa. La sua ἐξουσία nei confronti degli spiriti immondi (cf. Lc 4,36) è l’altra faccia della sua misericordia nei confronti dei sofferenti. I demoni escono dall’uomo ed entrano in una mandria di porci. Si parla di tremila porci indemoniati che finiscono per gettarsi dall’abisso al mare, mentre il gadareno resta ai piedi di Gesù, liberato dal potere malefico. La reazione degli abitanti della regione è singolare. Essi sono talmente spaventati che chiedono a Gesù di allontanarsi dal loro territorio. Essi sono stati colti dal terrore religioso, ma non dalla fede in Gesù. Mentre l’indemoniato, ormai guarito, è ai piedi del Maestro (cf. Lc 8,35), oppure seduto (cf. Mc 5,15), vestito e sano di mente. Il suo accostamento a Gesù va oltre la pura superstizione: ha fede in Gesù. Poi, il pagano geraseno, in atteggiamento di totale abbandono e disponibilità, chiede umilmente a Gesù, che nel frattempo sta salendo sulla barca di Pietro, di poter associarsi a lui come discepolo. “Colui che è stato guarito sente l’urgenza di entrare in comunione con «Gesù»”26. Infatti, salire sulla barca di Pietro equivale a far parte dei suoi discepoli. La sua liberazione è simile a quella della Maddalena, dalla quale uscirono sette demoni e che, una volta liberata, si mette al servizio del Maestro. Inoltre, il suo abbandono a lui e la sua richiesta di seguirlo sono diametralmente opposti alla tristezza del giovane ricco che si allontana da Gesù. Quest’ultimo, davanti alla chiamata d’amore del Maestro, se ne va triste perché attaccato ai suoi beni. Il gadareno, invece, pieno di gratitudine per la liberazione ottenuta, sente di volerlo seguire “dovunque vada”, lasciando la propria patria. Sorprendentemente, ma coerentemente con il suo principio di esclusività, Gesù non lo accetta tra i discepoli. Piuttosto lo manda in missione, apostolo pagano tra i pagani: “torna a casa 26

J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. I…, 247.

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tua e racconta quello che Dio ti ha fatto”, e Marco aggiunge: “e come ha avuto pietà di te”. Infine, lo stesso Marco conclude il suo racconto: “Quello se ne andò e incominciò a proclamare nella Decapoli quanto Gesù gli aveva fatto, e tutti ne restavano meravigliati”. Come farà poi la donna samaritana, l’indemoniato di Gerasa, sarà testimonianza vivente del potere redentore del Cristo in mezzo a dei pagani che, comunque, dovranno attendere la grande missione post pasquale degli apostoli per entrare nell’universo della fede battesimale. Finito il racconto, non sappiamo più quale fine abbia fatto questo straniero salvato. Marco lo vede predicare per la Decapoli, come abbiamo letto dal suo racconto. Possiamo giustamente sospettare che, dopo la risurrezione di Gesù e la venuta dello Spirito Santo a Pentecoste, quando i discepoli si dissemineranno per tutta la Palestina e oltre il confine del popolo eletto, troveranno il ricordo di un indemoniato guarito da Gesù e non accolto tra i discepoli perché pagano. Se noi conserviamo il racconto di questo pagano credente e salvato è proprio perché le comunità di pagani battezzati ebbero cura di mantenerne il ricordo. Altri pagani “fedeli” Ci sono altri pagani che compaiono e scompaiono dalla scena evangelica. I primi in assoluto sono i Magi venuti dall’Oriente (Mt 2,1-16). Essi riconoscono la nascita del re perché hanno visto la sua stella in Oriente. La loro fede era quella descritta da Paolo: tramite le opere divine visibili, essi percepivano le proprietà invisibili di Dio (cf. Rm 1,20). Si sono messi in cammino mossi dal desiderio di adorare quel re d’Israele che doveva nascere. La loro premura e il loro entusiasmo contrastano con il calcolo e le cautele di Erode. Nel vangelo, e poi negli Atti, i pagani sembrano più entusiasti degli ebrei e la loro fede è più profonda perfino di quella dei discepoli stessi. Possiamo senza indugio attestare la 53

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profondità della fede che muove questi uomini che provano una grandissima gioia al vedere la stella, e soprattutto all’entrare nella casa e trovare il bambino con sua madre. Essi offrono i loro doni e la loro adorazione e poi se ne vanno. I Magi, oltre alla loro verosimile esistenza storica, sono simbolo di una salvezza che oltrepassa i confini d’Israele e della preparazione dei gentili all’evento dell’incarnazione. “I Magi rappresentano i popoli pagani che rendono omaggio di proskýnesis cioè di riconoscimento riverente, mentre Israele fin dall’inizio manifesta il suo rifiuto”27. Questi personaggi però resteranno al di fuori della Chiesa visibile, nonostante abbiano incontrato il Redentore del mondo. M. Konradt mette l’episodio dei Magi in rapporto con Mt 25, 34.4928. Quando i Magi cercano il re d’Israele per adorarlo, Matteo riconosce che Gesù appena nato non è solo il re d’Israele, ma anche il re dei non giudei. Anche per i pagani la speranza di salvezza si trova in Gesù. Infatti, alla fine dei tempi sarà lui a giudicare παντα τα εθνη. Il re d’Israele è contemporaneamente il re del mondo. Un altro personaggio che compare in Luca e in Marco è il cosiddetto esorcista straniero (Mc 9,38-41; Lc 9,49-50). Si tratta di un tale che scaccia i demoni nel nome di Gesù e che non appartiene al gruppo dei dodici. Più che uno straniero bisognerebbe parlare di un estraneo, non appartenente al gruppo dei dodici: era sicuramente uno di tanti esorcisti ebrei che esistevano a quel tempo29. La risposta benevola e tollerante del Maestro può essere messa a confronto con il rimprovero di Gesù a tutti coloro che possono avere il nome di Gesù sulle labbra, ma non fanno la volontà di Dio. Nel tuo nome abbiamo scacciato i demoni, afferma A. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. I…, 64. Cf. M. Konradt, Israel, Church, and the Gentiles in the Gospel of Matthew, Baylor University Press, Wako 2014, 272-273. 29 Cf. R. Pesch, Il vangelo di Marco, vol. II, Paideia, Brescia 1982, 172. 27 28

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no, e il Signore risponde: non vi conosco! Il passo dell’estraneo esorcista mostra che la fede in Gesù è qualcosa di più di un’appartenenza puramente esteriore e di una fede puramente nominale. “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me” (Mc 9,39). Il nome di Gesù sembra non essere possesso esclusivo dei discepoli e può essere a disposizione di chi lo pronunci con autentica fede, pur non appartenendo alla cerchia apostolica. Scrive a questo proposito H. Schürmann: “Bisogna contare sul fatto che la grazia di Cristo è efficace anche al di fuori della cerchia dei discepoli, e ci si deve rallegrare di ciò, «purché, in ogni modo, venga annunciato Cristo» (Fil 1,18)”30 Ovviamente non possiamo interpretare il detto di Gesù come un’autorizzazione a esercitare un ministero “cristiano” senza legame con la Chiesa, rappresentata dagli apostoli. Neanche ci è consentito un uso superstizioso del nome di Gesù come capitava anche tra gli stessi esorcisti ebrei contemporanei di Gesù. Non appartenente al popolo d’Israele è il lebbroso samaritano (Lc 17, 11-19), l’unico dei dieci guariti di Gesù. Il Maestro mette in evidenza che uno straniero possa manifestare una gratitudine e un’umiltà maggiore di quella degli appartenenti all’alleanza ebraica. Un cuore grato e umile è segno dell’avvento del regno anche tra i pagani. Come conclude J. Ernst, “lo «straniero» disprezzato [dagli ebrei] invece è nuovamente esempio di un comportamento religioso autentico”31. E J. Meier annota: Una cosa è essere guariti da Gesù; un’altra è vedere in questa guarigione un pegno dell’azione salvifica di Dio operante in Gesù, reagire nella fede a tale pegno con lode e gratitudine, e di conseguenza ricevere dallo stesso Gesù l’assicurazione di essere salvati32. H. Schürmann, Il vangelo di Luca, vol. I, Paideia, Brescia 1983, 901. J. Ernst, Il vangelo secondo Luca, vol. II…, 684. 32 J. Meier, Un ebreo marginale, vol. II…, 851-852. 30 31

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Gli altri nove ricevettero la guarigione fisica, solo il samaritano ricevette il dono della fede, e ciò grazie ad un atteggiamento interiore che è suo – perché è lui a reagire con gratitudine –, ma nasce da una fonte più profonda: l’azione dello Spirito Santo. Un altro pagano lo troviamo ai piedi della croce di Cristo: è il centurione che confessa la figliolanza divina di Gesù sulla croce. Matteo parla del centurione e degli altri che facevano la guardia (cf. Mt 27,54), Marco, invece, parla solo di un centurione che si trovava di fronte a Cristo (cf. Mc 15,39). Luca afferma che il centurione, dopo aver assistito alla morte di Cristo, diede gloria a Dio, dicendo: “Veramente questo uomo era giusto” (Lc 23,47). Le sfumature dei tre racconti sono significative. Matteo parla di grande timore di fronte al terremoto e “a quello che succedeva”. Marco invece, insiste sul modo come Gesù ha reso lo spirito. Luca è più generico – “visto ciò che era accaduto” –, ma annota che il centurione “dava gloria a Dio”. Importante da segnalare è il valore teologale del fatto che il testimone della crocifissione di Cristo lo confessa Figlio di Dio proprio nel momento della sua morte33. Il titolo che il centurione dà a Gesù è “Figlio di Dio”. L’avverbio “veramente” dà alla confessione un valore solenne. Marco è la prima volta che usa il titolo per riferirlo a Gesù34, proprio nelle labbra di un pagano. Esso porta con sé tutta la carica teologica del mistero redentore e il centurione proclama proprio ai piedi della croce: nel momento di massima umiliazione del servo sofferente e, al contempo, della sua esaltazione come messia e Figlio del Padre. Significativo quanto annota A. Sand: Nella confessione di fede del capo dei soldati si conferma in ultima istanza ancora una volta l’identità di Gesù, anche se in forma che ne segna il punto supremo. Ma con ciò Matteo pone i pagani nella comunione con i discepoli, i quali in 14,33 (cf. 33

Cf. R. Pesch, Il vangelo di Marco, vol. II, Paideia, Brescia 1982, 728-

729. 34

Cf. A. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. II…, 865.

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16,16) hanno espresso la professione di fede in Cristo con le medesime parole35.

I sinottici, tra esclusivismo giudaico e universalismo salvifico Abbiamo ripetuto diverse volte che Gesù mantiene l’esclusività della sua missione tra gli ebrei. Egli chiede ai suoi discepoli di non andare né dai pagani né dai samaritani (cf. Mt 10,5). Inoltre, consiglia ai suoi di non sprecare parole come fanno i gentili… (cf. Mt 6,7) e di fronte al fratello che commette una colpa e non si ravvede di fronte alla comunità, “sia per te come il pagano o il pubblicano” (Mt 18,17). Tutta la missione di Gesù è circoscritta al popolo e alla religione ebraica. Egli infatti è venuto non ad abrogare ma a compiere la legge. Quando entra nelle città dei pagani o esce fuori dai confini del territorio giudaico non è per motivi missionari, ma per istruire privatamente i suoi discepoli. Ciononostante, il vangelo presenta, come abbiamo visto, anche un’apertura verso i gentili che diventerà esplicita dopo con la discesa dello Spirito Santo, ma che dapprima si manifesta nel suo insegnamento, sia quando vuole illustrare una virtù sia soprattutto quando parla del futuro e della fine del mondo. Contemplando il tempio e il suo bisogno di purificazione, il Maestro esclama, citando al profeta Isaia: “la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni” (Mc 11,17). Quando Gesù vuole mostrare un esempio di prossimità si serve della parabola del buon samaritano, cioè di quell’uomo che, nonostante la sua lontananza religiosa e culturale dall’alleanza, diventa nei confronti del malcapitato più prossimo del sacerdote e del levita, personaggi rilevanti del culto e della spiritualità ebraica. Soprattutto Gesù insiste sul valore salvifico del gesto di chi viene incontro al sofferente. Esso 35

A. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. II…, 865.

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vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici, e avvicina chiunque al regno di Dio (cf. Mc 12,13-34). In Mt 24,14, nel contesto apocalittico della fine del mondo, Gesù insegna che quando questo vangelo del regno sarà predicato in tutta la terra abitata, quale testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine. L’annuncio è indirizzato in primo luogo agli ebrei, ma il destinatario ultimo del messaggio è l’umanità intera, anche se non tutti accoglieranno allo stesso modo il vangelo. Infatti, poco più avanti, in Mt 24,31, gli eletti saranno radunati dai quattro venti, da un estremo all’altro della terra. Gli eletti – i benedetti del Padre – non saranno scelti tra coloro che dicono Signore Signore, ma tra coloro che senza saperlo diventeranno prossimi delle miserie del mondo. E per quanto riguarda la fine del mondo, essa non avverrà prima dell’annuncio del vangelo “tra tutte le genti” (Mc 13,10). Da notare però che in Matteo l’insistenza è sulla predicazione e sull’annuncio e non tanto sulla conversione. Matteo, a dire di J. Gnilka, non sembra condividere l’idea che tutta l’umanità diventerà cristiana36. L’esclusivismo dell’annuncio prepasquale scompare dopo la risurrezione di Cristo. A questo riguardo i tre sinottici sono concordi. In Mt 28,18-19 Gesù comanda ai suoi discepoli di andare a tutte le genti per ammaestrarle e per battezzarle “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato”. L’insegnamento fondamentale di Cristo riguarda il doppio comandamento dell’amore. Lc 24,47 parla della necessità del mistero pasquale – era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria –, e poi collega questo mistero all’annuncio presso i pagani: “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati”. Si “Certo, Mt. non deve aver condiviso l’ingenua idea che, alla fine, tutti i popoli sarebbero diventati cristiani; egli però parte dal presupposto che tutti i popoli, nell’intera ecumene, devono essere messi a conoscenza del vangelo del regno” (J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, vol. II…, 543). 36

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tratta di un annuncio di grazia – in Cristo si è ristabilito il rapporto con Dio, distrutto dal peccato –, un annuncio di quell’uno che ha salvato i molti, al quale tutti gli uomini sono invitati a partecipare. Solo Mc 16,15-16 parla della condanna per chi non crederà: “andate per tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e si farà battezzare sarà salvo, chi non crederà sarà condannato”37. La questione da stabilire è se la mancanza di fede porta alla condanna oppure se essa non sia altro che una conseguenza delle opere malvagie con le quali l’uomo manifesta il suo allontanamento da Dio. L’insieme del Nuovo Testamento indica la seconda soluzione: chi non crederà sarà perché ha chiuso preventivamente il proprio cuore all’azione interiore universale dello Spirito, chiudendosi davanti ai poveri e ai bisognosi, e proprio perciò auto-escludendosi dalla salvezza e dall’incontro con il Cristo, al di fuori del quale non c’è salvezza possibile. Non è necessario a questo proposito un rifiuto formale e consapevole, sarebbe sufficiente la mancanza di misericordia verso chi è più bisognoso. J. Dupuis prova a risolvere la disgiuntiva di Marco osservando che nel secondo membro della frase manca il riferimento al battesimo: “Non viene detto che senza il battesimo non vi è salvezza, ma che non vi è senza la fede”38. L’insieme del Nuovo Testamento potrebbe sostenere questa ipotesi, sia perché ciò che Gesù chiede è che si creda in lui, sia perché trattandosi di una frase disgiuntiva composta di due membri, avrebbe richiesto la ripetizione del Riguardo alla dannazione conseguente al rifiuto della fede: “la minaccia apodittica della dannazione per il caso di chi non crede diviene comprensibile se si tiene conto della situazione di decisione in cui la missione pone gli uomini. […] La conversione è un’offerta, che ha una sua ora. Non bisogna lasciarsela sfuggire” (J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. II…, 793). Quest’ora non è determinata dal missionario, ma da Dio che ha pazienza nei confronti della libertà dell’uomo. 38 J. Dupuis, Cristianesimo e religioni…, 93. 37

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termine battezzarsi. Comunque, J. Dupuis non offre alcuna fonte che corrobori la sua interpretazione. Le condizioni per la salvezza nei Sinottici Gesù è venuto nel mondo per la salvezza degli uomini. Il suo nome indica la sua funzione redentrice: Gesù, Jahveh salva, “egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21), e sarà anche chiamato Emmanuel, che significa “Dio con noi” (cf. Mt 1,23). Luca vede in Gesù il re promesso il cui regno non avrà fine (cf. Lc 1,33). Gli angeli poi annunciano che nella città di Betlemme era nato il Messia Salvatore (cf. Lc 2,11). Il vecchio Simeone profetizza che in Gesù si realizzerà la promessa salvatrice di Dio al suo popolo: “luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele” (Lc 2,32). Quindi la salvezza avviene in Gesù e nell’avvento del suo regno. Il regno che Gesù viene a stabilire non consiste solo nell’annuncio di una serie di generici valori condivisi che renderebbero l’uomo più buono e pacifico39. Il regno ha a che vedere con la salvezza dalla condizione di miseria strutturale nella quale si trova ogni uomo e nell’invito a partecipare della natura divina. La salvezza, il regno, il banchetto escatologico, ecc., hanno un valore prettamente teologico e non solo sociologico o meramente culturale. La salvezza, dunque, è dono di Dio in Cristo, grazie all’avvento del suo regno che coincide con la sua persona. Ciononostante, alla domanda concreta “chi può salvarsi?”, la risposta dei sinottici – e di tutto il Nuovo Testamento – è piuttosto complessa e articolata. Prendiamo, in primo luogo, la domanda che abbiamo appena fatto; essa compare a proposito dell’episodio del giovane ricco Riguardo al significato di “regno” in Mc e il suo rapporto con il “vangelo”, R. Riva, «Il Vangelo di Marco: un annuncio di salvezza nel mondo pagano», Studia missionalia, 42 (1993), 17-40. 39

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(Mt 19,16-30; Mc 10,17-31; Lc 18,18-30). Il giovane, pieno di entusiasmo e attratto dall’insegnamento del Maestro, si avvicina a Gesù e gli chiede: “cosa devo fare per avere la vita eterna?” A domanda concreta, Gesù risponde concretamente: “se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. I comandamenti sono il cuore dei rapporti dell’uomo con Dio, con gli altri e con se stessi. Essi non sono soltanto una sintesi della legge ebraica, ma ne sono l’essenza. Tuttavia, quando Gesù parla dei comandamenti, non si sta riferendo alle innumerevoli prescrizioni della legge, più le aggiunte della tradizione farisea, autentico fardello che schiaccia l’anima anziché elevarla. I comandamenti per Gesù, come avremo modo di osservare più avanti, sono dieci concretizzazioni del doppio e inseparabile comandamento dell’amore a Dio e al prossimo. Chi può salvarsi allora? La risposta di Gesù è: si salva chi osserva i comandamenti, cioè chi apre il suo cuore all’amore di Dio e del prossimo. Al giovane, però, non soddisfa la risposta perché pensa di averli osservati tutti, sin dalla fanciullezza. È più che probabile che il giovane fosse stato sincero nel confessare di aver compiuto i comandamenti. Ciò si avverte dall’atteggiamento di Gesù che lo guarda con amore40, a differenza della durezza dello stesso Maestro di fronte ai farisei, i quali ritenevano presuntuosamente di osservare fedelmente ogni precetto della legge. Il ragazzo ha ragione nell’affermare di aver osservato tutti i comandamenti. Non è presuntuoso, è piuttosto ingenuo. Allora Gesù stesso riformula la domanda. Egli non dice più “se vuoi avere la vita eterna”, ma “se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo: poi vieni e seguimi”. Matteo usa solo due volte il riferimento alla perfezione: una, a proposito dell’amore verso tutti, e ci invita ad “essere “Gesù non solo riconosce ciò che l’uomo ha fatto, gli si affeziona in maniera particolare, cioè gli manifesta umana simpatia e inclinazione perché è uno che cerca” (J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. II…, 476). 40

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perfetti come il Padre vostro è perfetto” (Mt 5,48). L’altro accenno si trova in questo passo. Né Luca né Marco aggiungono il “se vuoi essere perfetto” di Matteo, ma dal contesto si può intravedere che Gesù ha in mente due livelli diversi e complementari in ordine alla salvezza e alla vita eterna: una via per la salvezza e un’altra via per la perfezione. Marco annota, come abbiamo appena accennato, che Gesù “lo amò”, e perciò quel “qualcosa ti manca” non era stato detto più in ordine alla mera salvezza – che, come si avverte dal contesto, poteva essere positivamente raggiunta dalla fedeltà ai comandamenti –, ma si trattava di un invito positivo ad un’intimità qualitativamente superiore, un invito a diventare discepolo di Gesù: a lasciare tutto e seguirlo, per ottenere da lui il cento per uno. A questo punto il giovane se ne va triste. In tutti quanti i sinottici la causa della tristezza del giovane è appunto l’essere ricco. Anche qui però si può osservare la differenza con i farisei: quel primo entusiasmo sincero per il Maestro diventa tristezza a causa di un attaccamento ai propri beni forse neanche riconosciuto consapevolmente. Era schiavo dei suoi beni, ma non aveva avuto la possibilità di rendersene conto fin quando non incontrò il Maestro che lo mise di fronte alla sua realtà. I farisei, per contro, si ritenevano perfetti e osservanti, e quindi, non bisognosi della salvezza di Cristo. Il giovane ricco si scoprì schiavo e non riuscì a fare il passo successivo: riconoscere la libertà che Gesù offriva a chi perdeva tutto per lui. Quanto è difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli. Si sente l’accento di delusione nelle parole di Gesù nel vedere che quel di più evangelico – di cui parlerà sant’Ignazio nei suoi esercizi spirituali – veniva negato dall’attaccamento alle cose di questo mondo. Dei tre gradi di umiltà ignaziani, il giovane ricco non seppe passare dal primo al terzo. Così Gesù coglie il momento per ammonire i propri discepoli generalizzando il caso singolo ed elevandolo a una questione di 62

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principio41: infatti, l’ingresso nel regno può essere compromesso dall’attaccamento a Mammona. Non importa quanto ricco possa essere l’uomo, il problema reale è l’attaccamento. Da parte loro, i discepoli sorpresi e spaventati chiedono “allora chi può salvarsi?” Loro riconoscono di essere tutti attaccati ai propri beni. La domanda passa dal caso particolare all’impossibilità radicale dell’uomo in ordine alla salvezza. Ogni uomo subisce l’attaccamento alle cose di questo mondo, ogni uomo è, in definitiva schiavo. Infatti, Gesù afferma quanto sia difficile salvarsi, anzi, impossibile… È impossibile agli uomini ma per Dio tutto è possibile! La salvezza, che consiste, in parte, nella liberazione del cuore dalle cose e dalle sicurezze di questo mondo, è dono solo di Dio. Questo dono è il tesoro nascosto della fede in Cristo, per il quale vale la pena perdere tutto. Ma questo dono va oltre quanto si può fare tramite il vissuto dei comandamenti. L’insieme del testo ci lascia però un po’ nel dubbio: allora per salvarsi basta o no compiere i comandamenti? Essendo il vangelo scritto per dei cristiani già convertiti possiamo domandarci ancora se la salvezza, che proviene solo da Gesù sia legata alla sequela, allo stile di vita che Gesù scelse per i suoi discepoli, oppure all’osservanza dei comandamenti, così come Gesù li ha concepiti. Un altro passo ci può venire in aiuto per chiarire questo argomento: la parabola del Buon Samaritano. Essa ce la racconta solo Lc 10,25-37. Un dottore della legge chiede a Gesù la stessa cosa del giovane ricco: “Maestro, cosa devo fare per avere la vita eterna?” Alla stessa domanda, la stessa risposta. Questa volta però Gesù sintetizza i comandamenti nel più importante di essi: “amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e ama il prossimo come te stesso”. I comandamenti per Gesù non consistono principalmente in osservanze, bensì in amore. Amore di Dio e amore del prossimo, senza possibilità di scissione. “L’a41

Cf. J. Ernst, Il vangelo secondo Marco, vol. II…, 477.

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more radicale che Dio esige per sé – scrive H. Schürmann – si realizza in maniera specifica nell’amore del prossimo richiesto al v. 27b e illustrato nei vv. 29-35”42. Si ha la vita eterna se si ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi. Tutto il resto è conseguenza dell’amore. L’amore porta a vivere i comandamenti. Per contro, l’osservanza, anche scrupolosa, delle norme della legge, non porta necessariamente all’amore; anzi, può diventare un ostacolo, come si è visto nella vicenda dei farisei in rapporto con Gesù. Ma chi è il prossimo? Per gli ebrei il prossimo era in primo luogo il connazionale. Gesù in Mt 5,43 presenta la visione che aveva il suo popolo sulla prossimità: “amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Il prossimo per un ebreo, nell’insegnamento di Gesù, è colui che fa del bene aspettando di avere un ritorno, ma se noi amiamo solo coloro che ci amano non abbiamo alcun merito (cf. Mt 5,46). Chi è allora per il Maestro il prossimo che ci apre le porte della salvezza? Allora Gesù, per illustrare un modello di “prossimità” sceglie un samaritano, cioè uno che non apparteneva alla cerchia dell’alleanza, un semipagano con il quale non era lecito stabilire alcun rapporto. Con questo esempio, egli ci sta insegnando che non è l’appartenenza all’alleanza a determinare la salvezza, ma la compassione fattiva verso il prossimo bisognoso di aiuto. Entra nella vita eterna e partecipa alla salvezza che Gesù annuncia chi vive il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo. Questo amore deve essere reale e convinto, senza limiti. Il samaritano infatti non solo assiste il malcapitato, gli dedica anche tempo e si impegna intensamente, manifestando così la sua magnanimità e la sua misericordia. “Questo samaritano ama quest’uomo derubato e ferito davvero «come se stesso»”43. H. Schürmann, Il vangelo di Luca, parte seconda, vol. I, Paideia Editori, Brescia 1998, 208. 43 H. Schürmann, Il vangelo di Luca, parte seconda, vol. I, 224. 42

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Ciò che è significativo nel racconto è che quando Gesù parla di prossimità, e prende l’esempio del samaritano, ci fa venire in mente che egli sia appunto il prossimo da soccorrere. Infatti, i profeti insisteranno nell’accoglienza dello straniero, insieme alla vedova e all’orfano. Essi rientrano nella categoria dei bisognosi. In realtà nella parabola Gesù compie un radicale capovolgimento: il prossimo bisognoso è l’ebreo, e il benefattore è appunto lo straniero. Tutto questo è coerente con la fede del centurione che Gesù loda come la più grande in Israele. La fede che diventa prossimità misericordiosa è quella che dona la salvezza e non le appartenenze partigiane, e un samaritano, un centurione e una donna cananea – tutti stranieri o pagani – diventano per i discepoli altrettanti maestri di fede e di autentica carità. Fede e carità: ecco le due ali che innalzano verso la salvezza. Conferme di questo insegnamento le troviamo lungo tutto il Nuovo Testamento, ma già solo tra le pagine dei sinottici possiamo attestare questa “salvezza per l’osservanza dei comandamenti”, non nel senso che davano a tale osservanza i farisei, contro la quale si scaglierà san Paolo, ma secondo il vino nuovo dell’amore che crea un mondo nuovo dove tutti sono prossimi da amare e mai nemici da odiare. Lc 13,22-30, riporta un altro episodio con la stessa domanda. Un tale gli domandò: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Gesù non risponde alla domanda, piuttosto invita i presenti a sforzarsi per entrare per la porta stretta. L’elemento discriminante per raggiungere la salvezza non è però la “vicinanza fisica” al Signore, né l’aver profetato nel suo nome, né l’aver cacciato demoni nel suo nome e neanche l’aver fatto nel suo nome molti prodigi (cf. Mt 7,22). L’unica cosa è fare la volontà del Padre che è nei cieli. La sentenza di condanna non è in virtù della fede – fare prodigi in nome di Gesù richiede una certa fede –, ma in virtù delle opere che manifestano l’autenticità della fede. La fede senza le opere è morta. Le opere di misericordia mostrano la fede. 65

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Anzi, quelli che verranno dai quattro punti cardinali a sedersi nel banchetto del regno, saranno appunto quelli che senza aver detto Signore, Signore avranno vissuto la misericordia senza accorgersi del Signore nascosto nel povero. ***

Questa però è solo una faccia della moneta. Affermare che la salvezza consiste solo o principalmente nell’osservanza dei comandamenti è assolutamente insufficiente. Nessuno si salva per le proprie forze. Nei sinottici ci sono svariate affermazioni di Gesù che ribadiscono che la salvezza si trova nell’accoglienza del mistero di Cristo. Essa consiste nell’accogliere Gesù ed entrare nel regno che egli è venuto a stabilire. Già lo aveva testimoniato il Padre: “questo è il mio Figlio, l’amato, […] ascoltatelo” (Mt 17,5). Due parabole illuminano ancora ciò che stiamo dicendo. La prima è la coppia di parabole della zizzania nel campo (Mt 13,2443) e della rete gettata nel mare, e la seconda è il giudizio finale (Mt 25, 31-46). La parabola della zizzania si colloca nel contesto del capitolo 13 di Matteo: le parabole del regno. Essa riguarda il mistero della storia e della convivenza tra i figli del regno e i figli del male. Essi stanno insieme senza che sia possibile distinguerli bene. Questo punto è importante per noi: la distinzione non è tra discepoli di Gesù e pagani non cristiani, altrimenti sarebbe facile distinguere gli uni dagli altri – chi è battezzato e chi non lo è –, e neanche la confessione esterna della fede, proprio perché sappiamo già che non basta dire “Signore, Signore” per salvarsi. La precauzione del padrone risponde al desiderio di non perdere nessuno, non sia che sradicando la zizzania sia tagliato pure il grano. Infatti, tra gli apertamente malvagi e immisericordiosi e i santi che vivono la misericordia fino all’estremo, esiste una linea di divisione che non è per noi percepibile: è conosciuta solo a Dio, la cui pazienza lo fa 66

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aspettare fino all’ultimo momento. Perciò nessuno, né cristiano né pagano può essere sicuro della propria salvezza, e nessuno, né pagano né cristiano può disperare né ritenersi definitivamente dannato. Alla fine del mondo gli angeli raduneranno “tutti gli scandali e tutti gli operatori d’iniquità” per gettarli nella fornace ardente. I giusti allora risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Coloro che saranno gettati nella fornace ardente non saranno necessariamente i non battezzati, ma gli operatori di iniquità, sia pagani che cristiani. E i giusti che risplenderanno come il sole nel regno del Padre (cf. Mt 13,43) appartengono a tutte le nazioni, cristiani e gentili. Più avanti, come conclusione della parabola della rete gettata nel mare (cf. Mt 13,47-50), Gesù insegna che alla fine del mondo gli angeli separeranno i malvagi dai giusti. Ma chi sono i giusti? Essi sono i discepoli di Gesù, senz’altro, ma anche “i giusti tra le nazioni”. Più significativa ancora per il nostro tema è la parabola – che non è parabola – del giudizio finale: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua maestà, accompagnato da tutti i suoi angeli, allora si siederà sul suo trono di gloria e davanti a lui saranno condotte tutte le genti… (Mt 25,31-46).

Davanti a lui, giudice universale, passeranno tutte le genti, passate, presenti e future, pagani, ebrei e cristiani44, e tutte saranno giudicate riguardo allo stesso argomento: la misericordia con cui hanno vissuto45. La buona notizia è che tutti saranno giudicati senza distinzione e che anche i pagani potranno ascoltare dalle labbra del re la sentenza definitiva: “venite, benedetti dal Padre Cf. A. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. II…, 776; cf. J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, vol. II, Paideia, Brescia 1991, 452-453. 45 Riguardo all’elenco di opere di misericordia nell’Antico Testamento e altrove, cf. J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, vol. II…, 545-547. 44

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mio”46. Il capo d’accusa o di assoluzione del giudizio sarà uno solo: “tutto quello che avete fatto – o non fatto – a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. “Le opere d’amore verso chi è minacciato nel corpo e nella vita sono senza dubbio il fondamento («poiché») della partecipazione al regno”47. J. Jeremias mette in rilievo la sorpresa e lo stupore negli ascoltatori di Gesù. Essi aspettavano un messia che eseguisse la vendetta di Dio contro i gentili che opprimevano Israele. Invece Gesù ha fatto proprio il contrario, abbattendo il muro che separava Israele dai gentili. I benedetti dal Padre sono anche i pagani che aprono il proprio cuore alla misericordia: Queste parole [di Mt 25,34] includono non solo i gentili che hanno accolto Gesù e creduto in lui, ma anche coloro che si saranno pentiti all’ascolto del messaggio del profeta [Giona], coloro che verranno ad ascoltare la Sapienza di Dio [la regina di Saba], coloro che si sono mostrati misericordiosi di fronte al Messia nascosto e non riconosciuto, trovato sotto le spoglie del povero e del sofferente48.

È significativo che i giusti non sanno che ogni volta che compivano generosamente le opere di misericordia le facevano a Gesù. Allora perché le compivano? Ecco la misericordia che non ha altro motivo se non quello di aprirsi al bisogno dell’altro e venirgli incontro con il fine di alleviare la sua sofferenza. La misericordia generosamente donata manifesta un cuore umile e aperto alla grazia: proprio queste sono state le caratteristiche che Gesù trovò nel centurione, nella donna cananea, nel gadareno e nel samaritano lebbroso. La misericordia sincera è segno della presenza dello Spirito nel cuore dell’uomo. I poveri e i bisognosi sono dunque il punto d’incontro del re glorioso con ogni uomo, davanti al quale ci sono solo due possi Cf. J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 47. A. Sand, Il vangelo secondo Matteo, vol. II…, 777. 48 J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 47-48. 46 47

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bilità: o operare la misericordia per amore o abbandonare l’altro alla sua indigenza. Giacomo dirà che non basterà dire al povero: “scaldatevi e saziatevi da voi” (Gc 2,16), e che una fede senza opere di misericordia è morta, senza valore (cf. ibid). Il mistero del Verbo incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza è tutto incluso nel povero, nell’ignudo, nel carcerato, nell’assetato, e la risposta dell’uomo a quel mistero di misericordia eterna, passa necessariamente per il servizio umile e disinteressato. Lo insegnerà poi Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). ***

Ma Gesù, re e giudice universale, parlando ad ogni uomo, giusto o ingiusto, indica esplicitamente “questi miei fratelli”. Nel vangelo di Matteo il fratello è in primo luogo il fratello nella fede49. Possiamo allora proporre due livelli di interpretazione del testo. Tutti e due validi e complementari. Uno, il più comune, si riferisce ai poveri e ai bisognosi in generale. La misericordia va operata verso tutti, come ci insegna la parabola del Buon Samaritano, perché trascende le barriere di classe, cultura, sesso e religione. Cittadino del regno dei cieli è colui che passa, come Gesù stesso, “beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38). Gesù, però, parla esplicitamente di “questi miei fratelli”. E qui il secondo livello d’interpretazione. In Mt 10,42, il Signore promette una ricompensa a chi avrà dato “anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo”, mentre in Mc 9,41 si legge “perché siete di Cristo”. I discepoli non sono più chiamati servi da Gesù, bensì amici. Dopo la risurrezione Gesù si riferisce ai discepoli come miei fratelli (cf. Mt 28,10; Lc 22,32; Gv 20,17). Dopo la Pentecoste, i discepoli si riconoscono come fratelli. 49

Cf. J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, vol. II…, 547-549.

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Allora il re glorioso che giudica le nazioni secondo la loro misericordia non si sta riferendo solo al povero o bisognoso materiale o morale, ma in modo particolare agli umili discepoli di Gesù, cioè ai cristiani, soprattutto a quelli che soffrono pazientemente la persecuzione. Il giudizio cambia radicalmente di prospettiva: le genti potrebbero essere giudicate dalla misericordia che hanno avuto con i cristiani che nel mondo rendono presente il regno, soprattutto con gli umili cristiani poveri e perseguitati. Paolo potrà chiamarsi apostolo perché ebbe il dono di vedere Gesù risorto, vivente nei discepoli che lui stesso perseguitava. Operare la misericordia verso i cristiani perseguitati e umiliati del mondo potrebbe essere decisivo per un non cristiano in ordine alla salvezza: proteggere la loro vita o calpestare la loro dignità perché sono di Cristo, potrebbe determinare la loro posizione: o tra i beati oppure essere gettati fuori, nella fornace ardente… Ma ciò varrebbe ancora di più per un cristiano nei confronti di altri cristiani. La storia conosce tanti casi di persecuzione da parte di cristiani contro i propri fratelli nella fede, quante volte cristiani hanno umiliato e abbandonato altri fratelli più piccoli. J. Gnilka riconosce che questa interpretazione è stata usata da alcuni autori, ma la respinge in quanto “poco cristiana” perché considererebbe i cristiani come “i privilegiati di questa terra”50. L’espressione “fratelli più piccoli” avrebbe qui un significato esteso a tutti i poveri e i sofferenti, e non il significato specifico che si trova negli altri passi del Nuovo Testamento. Non sappiamo però in che senso i cristiani poveri e bisognosi, perseguitati e derisi dal mondo, perché di Cristo, possano essere “privilegiati” davanti a coloro che operano misericordia o meno nei loro confronti. I privilegiati sono i poveri di spirito, i pacifici, i perseguitati a causa della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Poi Gesù stesso aveva parlato del “privilegio” dei discepoli: piccolo gregge al quale “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” 50

Cf. J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, vol. II…, 548.

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(Mt 13,10). Non dimentichiamo che il giudizio finale riguarda tutti gli uomini: anche i cristiani potrebbero essere condannati per la mancanza di misericordia verso i propri fratelli più piccoli, con i quali condividono con loro la stessa fede. Anzi, per loro il giudizio sarebbe ancora più severo. I discepoli e i giusti I sinottici – come abbiamo anticipato – sembrano puntare a due categorie di salvati – o piuttosto su due aspetti complementari in ordine alla salvezza – due titoli di cittadinanza del regno dei cieli: i giusti, che vivono le opere di misericordia corporali e spirituali, e che osservano i comandamenti nella loro essenza, cioè nell’amore verso Dio e nella sincera carità verso il prossimo, senza riconoscere in lui il re escatologico; e poi abbiamo coloro che, volendo essere perfetti, o piuttosto, essendo chiamati esplicitamente da Gesù ad una perfezione più alta, hanno lasciato tutto e hanno seguito il Signore, divenendo suoi discepoli. Ci sembra che in questa direzione punti la lettura complessiva dei sinottici. Il cristiano sarebbe un privilegiato perché ha ricevuto il dono di conoscere e amare Gesù, Figlio di Dio e Κύριος della storia. Di ogni cristiano si dovrebbe dire ciò che è scritto nella seconda lettera di Pietro: “Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pe 1,8). Intanto ripetiamo ciò che abbiamo detto fin dall’inizio: i vangeli, come del resto gli altri scritti neotestamentari, sono indirizzati esclusivamente ai discepoli con la finalità di confermarli nella fede. Non sono dei trattati di missionologia, e non hanno come scopo primario suscitare la fede in chi non crede, bensì confermare nella fede chi è già credente. Essi mirano a fissare la memoria su ciò che i cristiani hanno creduto e a guidarli nello stile di vita cristiano, come nuove creature, nei rapporti con Dio, con il prossimo e con coloro che si trovano lontano dalla fede. 71

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Pensare a due categorie o livelli può risultare non molto politically correct in una società tendente a omologare tutto, e soprattutto per un contesto teologico che in nome del dialogo tende a edulcorare gli insegnamenti fondamentali della fede cristiana. Non dimentichiamo però che è la stessa Sacra Scrittura a rendere testimonianza di un mistero di scelta, manifestato alle volte in modo energico, perfino brutale, che esige una interpretazione. Gesù stesso avvertì del fatto che alla fine dei tempi “due si troveranno sullo stesso letto: l’uno sarà portato via e l’altro lasciato” (Lc 17, 34), e ciò in virtù di un mistero di elezione che non è riconducibile alla sola libertà umana che accoglie o rifiuta, ma che non comporta ingiustizia da parte di Dio. Infatti, nel Nuovo Testamento è anche presente una netta distinzione tra i discepoli di Gesù, le folle più o meno indifferenti e coloro che resistono al messaggio. Perciò Gesù insegna apertamente “i misteri del regno dei cieli”, mentre agli altri solo con parabole: “perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono” (Mt 13,12-15)51 Nei sinottici troviamo una costante polemica tra Gesù – e i suoi discepoli –, e gli scribi e i farisei. La folla di curiosi si trova in mezzo, meravigliata dei segni e delle parole del Maestro, ma anche fortemente dipendente dai suoi maestri nella fede e nell’osservanza ebraica. Essi riusciranno perfino a mettere il popolo contro Gesù nell’ora di strappare ai romani la sua condanna a morte. I pagani restano piuttosto estranei a queste dinamiche, tutt’al più guardano da lontano – o sono soltanto degli esecutori, Giovanni è ancora più esplicito (Gv 12,39–40): “Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca!” 51

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come nel caso di Pilato e i soldati –, solo alcuni riescono ad alimentarsi con le briciole che cadono dalla mensa d’Israele. ***

Nel discorso del monte, lungo tutto il capitolo cinque di Matteo, Gesù insegna ai suoi discepoli in che consiste l’autentico compimento della legge che lui viene a portare. È significativo come inizia il sermone delle beatitudini: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli” (Mt 5,1). Il discorso è rivolto in primo luogo ai suoi discepoli e solo secondariamente alle folle. Le beatitudini hanno senz’altro un valore universale. Sono espressione del nuovo stile di vita nel regno che Gesù viene a istaurare. Esse trasformano radicalmente l’ordine di cose di questo mondo, basato sulla prepotenza o l’ingiustizia. Il regno di Dio ha come fondamento la mitezza, la purezza, la misericordia e la pace. Per quanto riguarda i destinatari, le beatitudini, come abbiamo appena segnalato, sono rivolte direttamente ai suoi discepoli che saranno perseguitati e calunniati “a causa mia”, e grande sarà la loro ricompensa nel regno dei cieli. Esse, con buona pace di quanto detto da J. Dupuis, sono un messaggio per le comunità cristiane, perseguitate “perché sono di Cristo”. Il motivo principale della persecuzione, infatti, non è una “generica” opzione per la giustizia sociale, o per la solidarietà – quanto meno per una lotta rivoluzionaria a favore dei poveri –, ma in virtù della loro adesione a Gesù e al suo messaggio. Dopo le beatitudini, Gesù prosegue il suo insegnamento servendosi di una serie di immagini che sembrano indicare che i suoi discepoli saranno sempre una piccola realtà in mezzo al mondo. Essi sono sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-16). Il sale è una piccola porzione che conserva e purifica l’insieme. Soprattutto impedisce la corruzione. Il sale non è però l’insieme né s’identifica con esso. Non tutto è sale ma il sale modifica il tutto. Ovviamente il senso del testo punta sull’influsso dei cristiani nelle 73

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realtà profane. Comunque ci può far capire che ciò che conta non è incrementare il numero di battezzati in modo indiscriminato, o fare leva su delle motivazioni non cristiane, ma assicurarsi che, nella crescita della Chiesa, i discepoli non perdano il sapore della loro fede. Il più grande servizio che i cristiani rendono al mondo non è fare i battesimi di massa, bensì dare sapore con la loro testimonianza di fedeltà a Cristo e di autentico amore fraterno. Se i cristiani in mezzo al mondo perdono il loro aggancio al mistero del regno e non danno più testimonianza del vangelo, allora perdono la credibilità in mezzo alle genti. Riguardo poi alla luce che i cristiani irradiano al mondo, Gesù conclude il paragone dicendo: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Gesù non dice che le buone opere porteranno alla conversione, o al battesimo o alla confessione di fede cristiana e cattolica, ma a glorificare il Padre che è nei cieli. Questa glorificazione del Padre sarà per molti il riconoscere il suo volto nell’umanità glorificata di Gesù; per moltissimi altri, la glorificazione del Padre sarà forse “a tentoni”, nell’ascolto misterioso dello Spirito che parla nell’intimo del cuore. Per tutti quanti – cristiani e non –, l’opera di Dio determinante sarà l’apertura umile e riconoscente verso un Dio misericordioso, e la misericordia umile e generosa che avranno nei confronti dei poveri. Una cosa è certa per Gesù e per l’insieme del Nuovo Testamento: il vangelo – che è sale e lampada accesa – nella sua integrità non va nascosto, né ammorbidito né spento. Esso va predicato in tutta la sua portata e con convinzione. “Guai a me se non annuncio il vangelo!” (1Co 9,16), lo scopo iniziale non è però la conversione formale, almeno non appare così nei sinottici, bensì invitare gli uomini a glorificare il Padre. Poi ognuno nell’intimo della coscienza ascolterà il Padre che è nei cieli e riceverà da lui

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la ricompensa promessa se all’ascolto sarà seguita la risposta di fede. I cristiani sono pure la città sul monte che non può essere nascosta, ma proprio perché sul monte, la Chiesa di Gesù è stata innalzata per essere ammirata da coloro che non appartengono formalmente ad essa e per invitarli ad aprirsi alla trascendenza e ad avvicinarsi al mistero di cui la Chiesa è sacramento. Infine, in Mt 13, 11, nelle parabole del regno, Gesù spiega il motivo del suo enigmatico modo di insegnare: “a voi è dato di comprendere i misteri del regno dei cieli, a loro invece no” (Mt 13,11). Il contesto è negativo – le folle dei giudei resteranno ignoranti del mistero –, ma ciononostante si avverte, sin dalla predicazione di Gesù, l’esistenza di una differenza qualitativa tra i discepoli – e all’interno di essi i Dodici –, la folla ebraica e i gentili pagani. Il paradosso della letteratura giovannea Il Vangelo di Giovanni In san Giovanni i gentili sono quasi del tutto assenti. Il termine ἔθνη non compare. A differenza dei sinottici, il Gesù di Giovanni poi non esce mai dai confini della Palestina e i suoi soggiorni in Samaria sono solo perché di passaggio tra la Giudea e la Galilea52. Abbiamo due passi significativi: il dialogo di Gesù con la Samaritana – che stricte dictu non è una pagana –, con la conseguente accoglienza che i samaritani tributarono a Gesù, e poi la comparsa di due greci che si accostano ad Andrea e Filippo chiedendo di poter vedere Gesù. Parleremo più avanti della samaritana. Per quanto riguarda i greci che vogliono “vedere Gesù” (Gv 12,21), M. L. Coloe, «Gentiles in the Gospel of John: Narrative Possibilities – John 12.12-43» in D. Sim-J. S. McLaren, Attitudes to the Gentiles in Ancient Judaism and Early Christianity…, 209. 52

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il Maestro non risponde alla loro richiesta, piuttosto vede in essa l’arrivo imminente della sua ora che corrisponde alla glorificazione sulla croce, dove la redenzione si aprirà a tutti gli uomini53. Oltre a questi due passi – della samaritana e dei greci –, non ci sono più “pagani” attratti da Cristo in Giovanni. Come nei sinottici, anche qui l’annuncio evangelico è indirizzato direttamente ai discepoli – Gesù, nel suo ministero pubblico non parla mai direttamente ai pagani –, ma è più accentuata la prospettiva universale della redenzione di Gesù dove i pagani sono inclusi dentro la categoria del mondo che Gesù viene a salvare. La finalità del vangelo è quella di spingere alla fede in Cristo e avere in lui la vita. Il Verbo è salvatore universale in virtù della sua preesistenza nel seno di Dio e per la sua condizione di agnello – vittima espiatoria – che toglie i peccati del mondo. Gesù e il mondo Il grande paradosso nel vangelo di Giovanni gira attorno al rapporto tra la missione di Cristo e il mondo. Gesù viene nel mondo come redentore, il mondo però non lo accoglie. Quei pochi che lo hanno accolto hanno avuto il potere di essere figli di Dio (cf. Gv 1,10)54. L’universalità dell’azione del Verbo è manifesta sin dal primo versetto di Giovanni: “il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Ogni cosa esiste per lui ed è pure la luce che illumina ogni uomo. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8,12) e chi lo segue non cammina nelle tenebre. Questo Verbo era nel mondo, “vicino e accessibile agli uomini, in modo che essi potevano aderire a lui per la loro salvezza”55. Cf. J. Meier, Un ebreo marginale, vol. II…, 899. Il κόσμος in Giovanni ha varie sfumature di senso a seconda del contesto (cf. B. Prete, in Aa.Vv., Il messaggio della salvezza, vol. 8, Elle di ci, Asti 1978, 150). 55 R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol. I, Paideia, Brescia 1973, 323. 53 54

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Il Verbo manifesta e rivela il Dio ἀγνόστος perché lui è il suo μονογενής (cf. Gv 1,18). Non solo, è anche salvatore universale perché toglie il peccato del mondo (cf. Gv 1,29). Tutta l’economia di salvezza che portò all’incarnazione è motivata e portata avanti dallo sterminato amore di Dio per il mondo: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). R. Schnackenbourg lo commenta in questi termini: In una frase, formulata in maniera scultorea per tutti i tempi, di discorso kerygmatico riassume l’intero messaggio cristiano della redenzione. Per il piano salvifico, che si è realizzato nell’entrata del ‘Figlio dell’uomo’ nella gloria attraverso la croce, non c’è in fondo alcun altro motivo che l’incomprensibile amore di Dio per il ‘mondo’, cioè per il mondo degli uomini, che si era estraniato da lui, aveva perduto la vita divina ed aveva attirato su di sé la sua ira56.

Questo mondo però – al meno quella parte che resterà cieca davanti alla luce fino al giudizio finale – resiste ad accogliere la salvezza di Gesù e disprezza il grande amore del Padre. Gli uomini, davanti alla luce, “hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19). Questo odio del mondo arriva a 1Gv 3,13 dove il presbitero Giovanni afferma che il cristiano non deve meravigliarsi se esso lo odia. I cristiani saranno odiati da un mondo che ha già rifiutato l’amore di Dio. In conclusione, il prologo di san Giovanni attesta che il Verbo “venne nella sua proprietà e suoi non lo accolsero” (Gv 1,11). R. Schnackenbourg, partendo dal doppio significato di καταλαμβάνειν – sorprendere (sopraffare) e afferrare (comprendere con la mente e la volontà) – scrive: “La parola [afferrare] rende bene l’idea che agli uomini è stata richiesta una propria decisione attiva (la fede) ma che essi non hanno ‘afferrato’, 56

R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol. I…, 567.

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quando la luce era raggiungibile per essi”. Ciò vale a dire che, anche se nel corpus giovanneo sembra esserci una netta separazione tra coloro che accoglieranno la parola e coloro che la rifiuteranno, esso non sarà dovuto ad un capriccio divino, bensì ad un atteggiamento interiore, segreto – forse perfino inconsapevole57 –, di accoglienza o di rifiuto del Verbo incarnato58. Infatti, Giovanni considera che questo mondo odia pure i discepoli di Gesù, perché prima ha odiato lo stesso Maestro (cf. Gv 15,18). Il Verbo che si è incarnato per la salvezza del mondo – di tutti gli uomini – si dovrà conformare ad istruire e redimere quel manipolo di discepoli che il Padre gli ha dato: coloro che hanno creduto in lui. Sembra che il capitolo 15 sia lo spartiacque riguardo alla considerazione del mondo59. Se all’inizio, Giovanni aveva affermato che la causa dell’incarnazione era lo sterminato amore di Dio per il mondo, affinché chi creda sia salvo, a partire da questo momento, Gesù parlerà dei suoi discepoli come di quelli che non appartengono al mondo, che sono stati riscattati dal mondo. Essi dovranno rendere testimonianza davanti ad un’umanità che non è più oggetto di elezione né di salvezza, proprio perché con le sue opere cattive rifiutò la luce che le veniva incontro in Gesù. Questo è così radicale che lo stesso Gesù affermerà che non prega più per il mondo, ma solo per coloro che gli ha dato il Padre (cf. Gv 17,9), e anche per coloro che crederanno in lui mediante la loro parola e testimonianza (cf. Gv 17,20). Infatti, la missione futura dei discepoli non è più di convertire il mondo, ma di radunare quelli che crederanno in lui mediante la loro parola (cf. Gv 17,20). L’insieme di coloro le cui opere erano malvagie e hanno rifiutato la luce, restano ostinati nel rifiuto di In Mt 25, coloro che nel giudizio finale non mostrarono misericordia non sapevano che la loro indifferenza verso i poveri affamati, assetati e ignudi, era indirizzata a Gesù stesso. 58 R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol...I, 310. 59 R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol...III, 185-188. 57

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Gesù. Essi troveranno nell’Apocalisse un’ultima opportunità, annunciata e proposta per ben quattro volte. Sembra quasi che Giovanni ci voglia presentare un Gesù scoraggiato di fronte al fallimento per la chiusura del mondo e che consideri i discepoli sempre di più come una comunità di eletti, perseguitati e incompresi in mezzo proprio a questo mondo ostile e finalmente votato al giudizio di Dio. I discepoli comunque dovranno rendere testimonianza davanti a questo mondo (cf. Gv 15,26), anche se ciò comporterà per loro fare la stessa fine del Maestro. Per quale motivo il mondo si è escluso dalla salvezza? Gesù offre due motivi, in stretta correlazione tra di loro. Il primo motivo è l’incredulità di fronte a Gesù, descritta dal Maestro con l’immagine della luce che viene ad esso e della scelta consapevole delle tenebre da parte del mondo. La vita eterna altro non è che credere in Gesù (cf. Gv 4,34-37). Il peccato del mondo è, appunto, non credere in Gesù (cf. Gv 9). Il secondo motivo, in correlazione con il primo, è preferire le tenebre alla luce, questo perché le opere degli uomini sono malvagie (cf. Gv 3, 19). È sempre la malvagità degli uomini a sbarrare la possibilità di accogliere Gesù, come luce che mette in evidenza la bontà o la cattiveria delle proprie opere. Chiusura di fronte alla luce e scelta delle tenebre. La condanna implica sempre un atteggiamento personale e intimo, conosciuto solo da Dio e, in parte, anche allo stesso soggetto. Il rifiuto della luce non è un atto puntuale, bensì un insieme complesso di decisioni, atti e atteggiamenti che si compiono lungo tutta la storia dell’individuo. La scelta delle tenebre è consumata dal malvagio con impercettibili atti, spinti dalla triplice concupiscenza, che non ha origine nel Padre, e che aggrappano inesorabilmente l’uomo alle potenze di questo mondo (cf. 1Gv 2,16).

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Chi può allora salvarsi? Giovanni non indugia: si condanna chi non è nato dall’acqua e dallo Spirito (cf. Gv 3,5). Si salva colui che crede che Figlio ha la vita eterna. “Chi disobbedisce al Figlio non vedrà la vita” (cf. Gv 4,36-37). La vita eterna è conoscere il solo vero Dio e “colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Si può, però, conoscere la salvezza di Dio senza riconoscerlo, almeno immediatamente in Gesù? È possibile aver accolto la luce nel cuore e cominciare a vedere nella speranza di riconoscere in Gesù la luce del mondo? Il passo giovanneo del cieco nato ci potrebbe fornire una risposta. Lo vedremo verso la fine di questo studio, anticipiamo solo che è possibile in Giovanni essere nella luce senza per un po’ riuscire a riconoscere questa luce nel volto di Gesù. L’incontro con la Samaritana Gesù doveva passare per la Samaria. La sua presenza al pozzo di Sicar era puramente accidentale – era affaticato dal viaggio – e accidentale fu anche l’incontro con la donna samaritana, anche se dietro quel “doveva” si potrebbe nascondere un’intenzionalità decisa dal Maestro. In ogni caso, Gesù, fedele al suo principio missionario, non era andato in terra di samaritani per annunciare il vangelo. Doveva solo passare. Un’altra volta infatti era passato di là ed era stato rifiutato da essi che non lo lasciarono entrare nel loro villaggio perché sapevano che andava verso Gerusalemme (cf. Lc 9,52-53). La richiesta di acqua, per quanto insolita – lui un uomo ebreo e lei una donna samaritana –, risponde alla situazione di stanchezza del Maestro60. Se leggiamo, però, la richiesta di acqua sulla falsariga di Mt 25, 35, allora potremo riconoscere nella donna samaritana quella misericordia che Gesù, nascosto dietro l’assetato, chiede alla donna e che, una volta compiuta da lei Cf. F. Mosetto, «Gesù in Samaria», in G. Ghiberti et alii, Opera giovannea, Elle di ci, Leumann 2003, 193-194. 60

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nonostante la resistenza iniziale a causa delle ostilità culturali e religiose61, renderà possibile l’incontro vitale e salvifico con il re e giudice universale. Al dono dell’acqua che calma la sete temporanea del viandante, corrisponderà il dono della vita eterna ad una donna samaritana, doppiamente emarginata, disonorata62 e bisognosa di salvezza. Da questo momento in poi si intraprende uno dei dialoghi più profondi e belli del vangelo. La samaritana non è ancora in grado di riconoscere Gesù e non sente il bisogno di essere abbeverata dalla fontana che zampilla fino alla vita eterna, ma la curiosità religiosa la spinge a chiedere a Gesù da dove prendesse l’acqua viva di cui parla. La donna non riesce ancora a salire dal livello puramente umano, nel quale si trova, al livello soprannaturale, nuovo e zampillante di Gesù. L’acqua di cui parla il Maestro non è quella che, una volta bevuta, lascia l’uomo sazio solo per un attimo. Egli sta facendo riferimento allo Spirito Santo che diventa sorgente d’acqua viva nel cuore dei discepoli. Grazie a Gesù, non ci sarà più bisogno di andare di qua e di là alla ricerca dell’acqua, basterà entrare nel proprio cuore per trovare lo Spirito che ci introduce nel mistero della comunione trinitaria. Possiamo capire qui il significato della “ricompensa” promessa a chi darà un solo bicchiere d’acqua fresca al discepolo di Cristo (cf. Mt 10,42; Mc 9,41). Quella ricompensa è lo Spirito che è in grado di convertire un gesto di bontà così semplice in una occasione d’incontro con Gesù, sotto le vesti del povero e del bisognoso. La donna poi, riconoscendo nello sconosciuto un profeta riapre il dibattito tra ebrei e samaritani. Qual è il luogo dell’au Riguardo alla situazione ostile tra i due popoli, cf. J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 42. 62 Una donna ebrea poteva risposarsi solo due o tre volte, e ciò poteva valere anche per i samaritani (cf. R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol... I…, 643). 61

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tentica adorazione di Dio. La risposta di Gesù ha quattro parti che si potrebbero organizzare in questo modo: -

La salvezza originariamente viene dai giudei. Esiste un piano salvifico di Dio che passa per l’alleanza con un popolo storicamente determinato. Questa prerogativa non viene dai meriti o dalle capacità di questo popolo – il più piccolo tra i popoli, di dura cervice –, ma dal dono di Dio. Il compito d’Israele in ordine alla manifestazione del vero Dio non sarà negato con l’avvento di Cristo, bensì superato dalla nuova alleanza.

-

I samaritani adorano ciò che non conoscono. “Il loro culto – ci spiega R. Schnackenbourg – era sorto piuttosto dall’orgoglio nazionale e politico”63, e ciononostante, i samaritani veramente adorano Dio, anche se per loro resta un αγνοστος θεος. Essi toccano veramente Dio con la loro adorazione, pur non riconoscendolo così come lui è veramente. I samaritani non devono allora ritornare al culto ebraico, abbandonando il culto sul monte Garizim, ma scoprire il vero culto spirituale che supera la distinzione tra ebrei e samaritani.

-

Appunto per questo, l’adorazione definitiva non sarà più legata né a Gerusalemme, né ad alcun altro monte dove si rende culto a Dio, perché i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità. Questo nuovo culto è legato al comandamento nuovo dell’amore reso possibile grazie allo Spirito che diviene fonte che zampilla per la vita eterna.

-

L’ora della vera adorazione è già arrivata con Gesù. Questa vera adorazione in Spirito e verità è resa possibile grazie alla comunione con Cristo64, nuovo e definitivo tempio che con la sua glorificazione non sarà mai distrutto. ***

Il racconto finisce con la conversione di un buon numero degli abitanti di Sicar. Gesù, che si era fermato solo per riposarsi e riprendere la strada verso la Galilea, si fermò con loro due giorni predicando il vangelo. È l’unico caso in tutti i vangeli in 63 64

R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol... I…, 646. Cf. R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol... I…, 650.

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cui Gesù predica direttamente ed esclusivamente ai non giudei. Il fatto che i samaritani lo invitino a restare con loro indica che la fede supera ogni ostacolo che potrebbe venire dall’origine esteriore del rivelatore65. La fede dei samaritani poi contrasta fortemente con l’incredulità dei suoi propri concittadini, dei quali, subito dopo, Giovanni annota che Gesù stesso lo aveva testimoniato in precedenza: “un profeta non gode alcun credito nella propria patria” (Gv 4,44). Riguardo alla confessione di fede dei samaritani – “questi è veramente il Salvatore del mondo” – riprendiamo la riflessione di R. Schnackenbourg66. Gesù come salvatore può avere una pluralità di significati. In primo luogo, “Gesù è ‘il Salvatore’ nel senso messianico della parola, come colui che corrisponde alla speranza salvifica non solo dei Giudei, ma anche dei samaritani”. In secondo luogo, Gesù è salvatore del mondo, in quanto egli “non appartiene ad un popolo soltanto, non convalida alcun culto speciale in favore della Samaria o della Giudea, ma dona la salvezza a tutto il mondo”. In terzo luogo, per il significato che avrà il termine nelle comunità cristiane che trasferisce il termine σωτηρ da Dio a Gesù. “La definizione completa di Gesù come ὁ σωτὴρ τοῦ κόσμου è soltanto di Giovanni (4,42; 1Gv 4,14) e corrisponde all’idea da lui sottolineata che Dio ha mandato il Figlio suo per la salvezza del ‘mondo’”. L’Apocalisse di san Giovanni Il libro dell’Apocalisse è indirizzato a delle comunità che soffrono la persecuzione. È un libro di consolazione nel quale si avverte chiaramente la distinzione tra coloro che sono stati scelti e coloro che “hanno trafitto” il Redentore, le cui opere sono delle tenebre e seguono l’anticristo. 65 66

R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol... I…, 672. R. Schnackenbourg, Il vangelo di Giovanni, vol... I…, 673-674.

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E chi può salvarsi?

L’Apocalisse presenta Cristo come colui che viene tra le nubi e tutti gli uomini lo contempleranno (cf. Ap 1,7). Esso corrisponde sia alla descrizione lucana del ritorno glorioso di Cristo (cf. At 1,11), quanto a quella di Matteo, del Figlio dell’uomo che viene su “una nube con grande potenza e gloria” (Mt 21,27), quindi visibile ad ogni uomo. Le sembianze di questo Figlio dell’uomo hanno le caratteristiche del giudice universale, che precede il mondo nella sua unione con Dio – perché seduto alla sua destra – e che lo ha vinto attraverso il mistero della sua croce. Egli è il Signore della storia dal momento che solo lui può aprire i sigilli67. Il messaggio contenuto nell’Apocalisse descrive simbolicamente il giudizio definitivo riguardo ogni essere umano. Quando leggiamo che “ogni creatura, in cielo, in terra, sotto terra e nel mare, e tutte le cose in essi contenute udii esclamare: ‘a Colui che siede sul trono e all’Agnello lode e onore, gloria e impero nei secoli dei secoli’” (Ap 5,13), possiamo pensare che, giunta la fine dei tempi, tutti quanti avranno avuto già la possibilità di ascoltare il vangelo e avranno preso partito pro o contro di esso68. Infatti, con il suo sangue, l’Agnello ha riscattato per Dio uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (cf. Ap 5,9). La chiamata universale è attestata con segni di potenza e spavento. In Ap 6,12-17, come risultato del grande terremoto prodotto dall’apertura del sesto sigillo, ogni uomo – i re della terra, i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, gli schiavi e i liberi – prova una profonda commozione di fronte al giudizio, descritto come il giorno dell’ira di Colui che siede sul trono e Riguardo al significato del libro, cf. C. Doglio, Apocalisse di Giovanni, Messaggero, Padova 2005,81-83. 68 Ovviamente con questa lettura non escludiamo il fatto che questa visione si riferisca non solo alla fine dei tempi, ma anche al tempo di Giovanni e al nostro tempo. Essa si riferisce infatti all’ultima età della storia inaugurata con la passione, morte e risurrezione di Cristo. 67

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dell’Agnello. In questo momento terribile e solenne non ci sarà ormai alcun uomo ignorante di fronte alla propria salvezza. Per quanto riguarda la posizione degli uomini nei confronti dell’Agnello, e in ordine al giudizio, spicca una categoria di anime, immolate “a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano reso” (Ap 6,9). Essi parlano di giustizia e di vendetta contro gli abitanti della terra che versarono il loro sangue. A loro, mentre ricevono la veste bianca, è richiesto di pazientare per un po’ di tempo. Riguardo a chi siano questi martiri, la critica si divide tra chi parla dei santi dell’Antico Testamento e chi pensa ai cristiani perseguitati e morti per la loro fede69. La pazienza è dovuta al fatto che ancora non si è impresso il sigillo sui salvati. Dopo i martiri in candide vesti, l’Apocalisse ci presenta prima i 144 mila che sono stati segnati con il sigillo del Dio vivente sulla fronte e poi “una gran folla, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua: stava ritta davanti al trono e davanti all’Agnello; indossavano anche loro vesti bianche e avevano palme nelle loro mani” (Ap 7,9). Ritorneremo su queste categorie di salvati. Dalla parte opposta, ci sono gli adoratori dei demoni che non si sono ravveduti dopo i segni terribili (cf. Ap 9,20), gli adoratori del dragone (cf. Ap 13,3), i bestemmiatori contro il nome di Dio (cf. Ap 16,9). L’Apocalisse insiste per ben quattro volte sul fatto che essi, vedendo ciò che stava succedendo, non si sono pentiti e che, nei tormenti, continuavano a bestemmiare il nome di Dio. Il giudizio di questi ultimi è “in base a quanto stava scritto nei libri, secondo le loro opere” (Ap 20,12). Questo secondo le opere viene ripetuto nel versetto seguente e in Ap 22,11-12: “con me ho la mercede che darò a ciascuno secondo le sue opere”. Risuona qui l’espressione del vangelo di Giovanni: hoc est opus Dei – “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui 69

Cf. C. Doglio, Apocalisse di Giovanni…, 99.

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E chi può salvarsi?

che egli ha mandato” (Gv 6,29). Il rifiuto esplicito di Cristo porta alla condanna, ma anche il disprezzo del fratello. Chi sono questi 144 mila e quella moltitudine immensa? Una prima interpretazione che è stata data è che i 144 mila sono i salvati del popolo eletto – il “resto d’Israele”70 – mentre la moltitudine immensa sarebbero i cristiani che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che sono stati scelti da tutti i popoli. Alla luce però di Ap 14, 1-5, dove ricompaiono i 144 mila, possiamo ritenere che questi sono piuttosto il nuovo Israele, i discepoli di Cristo. “Costoro sono quelli che seguono l’Agnello dovunque egli va. Essi sono stati riscattati dagli uomini quali primizia per Dio e per l’Agnello” (Ap 14,4). Della moltitudine immensa non si parlerà nuovamente. Il testo però continua con l’apparizione di un angelo che “volando nel mezzo del cielo, recava un vangelo eterno per annunciarlo agli abitanti della terra: ad ogni nazione, tribù, lingua e popolo. Diceva a gran voce: Temete Dio e dategli gloria, poiché giunta è l’ora del suo giudizio. Adorate Colui che ha fatto il cielo e la terra, il mare e le sorgenti d’acqua” (Ap 14,6-7).

I 144 mila sarebbero allora coloro che sono stati segnati col battesimo e seguono l’Agnello dovunque vada. La moltitudine immensa potrebbe essere quella parte tra “gli abitanti della terra” che alla fine accoglierà l’annuncio dell’angelo e che, indossando le candide vesti e portando la palma nella mano, trionferanno grazie alla loro risposta all’annuncio e al fatto che hanno temuto, glorificato e adorato Dio, creatore provvidente e giudice giusto. Essi saranno quindi tutti i salvati.

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Così lo interpreta C. Doglio, Apocalisse di Giovanni…, 101.

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Seconda Parte: E chi può salvarsi?

Possiamo applicare ad essi la nozione di fede che salva di Eb 11,6? Ciò che chiede l’angelo è di temere e di dar gloria a quel Dio creatore e provvidente che giudicherà tutti secondo le proprie opere. Ma ci arriveremo dopo che analizzeremo questo passo della lettera agli Ebrei. L’identificazione della moltitudine immensa con i giusti pagani delle nazioni potrebbe essere discussa e confutata. Ciononostante, essa potrebbe essere in sintonia con quella che dice Giovanni Paolo II in una sua catechesi del 29 novembre 200071. Il Papa afferma infatti che questa moltitudine è la schiera dei giusti che appartengono ai popoli che hanno ricevuto la purificazione tramite il sangue dell’Agnello: Tutti i giusti della terra – insegna il Papa – elevano la loro lode a Dio, giunti al traguardo della gloria, dopo aver percorso la strada erta e faticosa dell’esistenza terrena. Sono passati “attraverso la grande tribolazione” e hanno ottenuto la purificazione mediante il sangue dell’Agnello, “versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28).

Coloro che non hanno mai sentito parlare di Cristo potranno entrare a far parte di questa schiera immensa grazie al mistero del Verbo incarnato e del suo sacrificio redentore. Questa redenzione però si porta avanti nella storia, vissuta all’interno del contesto culturale e religioso nel quale vivono, grazie all’azione dello Spirito nel cuore di ogni uomo e alla risposta che ogni uomo darà, anch’essa nella storia. Infine bisogna fare un accenno a coloro che sono iscritti nei libri: la menzione dei due tipi di libro – scrive B. Corsari – è un modo di esprimere una verità fondamentale, cioè che l’uomo non può procurarsi la salvezza con le proprie forze, ma che deve essere scelto da Dio; è però necessario che alla di71

Cf. M. Bravo Pereira, Cristianesimo e religioni…, 117.

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E chi può salvarsi?

vina elezione corrispondano le sue opere, perché altrimenti viene cancellato dal libro della vita72.

B. Corsari, «Il trionfo di Cristo», in G. Ghiberti et alii, Opera giovannea, Elle di ci, Leumann 2003, 440. 72

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Τίς εἶ, κύριε; ὁ δέ· Ἐγώ εἰμι Ἰησοῦς ὃν σὺ διώκεις

Le lettere di san Paolo precedono cronologicamente la redazione definitiva dei vangeli. Alcune di esse rappresentano le testimonianze cristiane più antiche del Nuovo Testamento, e riguardano appunto le problematiche che l’apostolo delle genti dovette affrontare con le comunità degli etnocristiani. Gli Atti degli apostoli, essendo un documento in parte posteriore alle lettere, ci mettono a contatto con le prime comunità cristiane e con l’operato di Pietro e Paolo nella doppia missione, verso gli ebrei e verso i gentili1. Come nei casi precedenti, abbiamo a che fare con libri e lettere indirizzati a dei cristiani. Paolo con le sue epistole rispondeva a richieste concrete o situazioni determinate delle comunità alle quale si indirizzava. Anche quando parla di coloro che stanno fuori lo fa rivolgendosi sempre a quelli che stanno dentro. La stessa cosa si può dire degli Atti degli Apostoli. L’intenzione di Luca è sempre quella descritta in Lc 1,3: far vedere ai cristiani la solidità degli insegnamenti ricevuti. Quelli di fuori sono guardati dalla prospettiva di coloro che sono dentro. Ciò fa sì che l’atteggiamento dei primi cristiani nei confronti dei pagani, così come viene descritto nel Nuovo Testamento, sia complesso e ambivalente2. Per quanto riguarda il contesto storico e culturale, cf. J. Ries, I cristiani e le religioni, Queriniana, Brescia 1992, 15-23. 2 Cf. J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni…, 73. 1

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Gli Atti degli apostoli Il libro degli Atti degli apostoli può essere diviso in due parti, una nella quale si racconta prevalentemente la missione presso gli ebrei, e un’altra che si concentra nella missione di Paolo presso i gentili. Le due parti dell’opera possono essere sintetizzate nella spiegazione della missione da parte di Gesù prima di ascendere al cielo: “Lo Spirito Santo verrà su di voi e riceverete da lui la forza per essermi testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea, e la Samaria e fino all’estremità della terra” (At 1, 8). Infatti, la prima parte avrà come centro Gerusalemme e si estenderà fino alla prima persecuzione, che porterà i discepoli fuori dai confini della Giudea, verso la Samaria, Cesarea e fino a Roma. Come segnala A. Wikenhauser, anche se non si nominano i pagani, essi sono già inclusi nelle ultime istruzioni di Gesù, che i discepoli capiranno solo progressivamente3. I lontani che Dio chiamerà La prima parte degli Atti si apre con la Pentecoste (cf. At 2, 1-40). Essa è la prima conferma di quanto era stato detto da Gesù prima dell’ascensione. Il miracolo delle lingue si presenta come il ristabilimento dei rapporti tra gli uomini e della loro unità che era stata distrutta a causa del peccato di Babele e segna l’inizio dell’evangelizzazione di tutti i popoli4. Pietro vedrà un adempimento della profezia di Gioele: “chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo”. Gli ascoltatori sono per la maggior parte ebrei della diaspora, ma anche uomini venuti da varie nazioni, come l’eunuco della regina Candace. Infatti, tra di loro ci sono dei timorati di Dio e dei proseliti; a questi ultimi era consentito di recarsi al tempio e A. Wikenhauser, Atti degli apostoli, Morcelliana, Brescia 19794, 43-44. Cf. J. Daniélou, Le mystère de salut des nations, E. du Seuil, Paris 1946, 115-118. 3 4

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fermarsi al cortile dei gentili. Tutti quanti meravigliati, sentono parlare nelle proprie lingue “delle grandi opere di Dio” (At 2,11). Dopo questa dirompente manifestazione di universalità pentecostale, il discorso torna a concentrarsi nell’universo prettamente ebraico. Pietro, infatti, con il suo discorso di apertura si rivolge ai giudei e agli abitanti di Gerusalemme e non più agli stranieri, i quali vengono completamente trascurati. Il discorso poi è marcatamente a carattere semitico. Gli argomenti che prende sono tratti dalla Scrittura e applicati alla vita e al mistero pasquale. Pietro espone il kerigma primitivo: questo è quel Gesù che Dio ha risuscitato, e noi tutti ne siamo i testimoni. Egli è stato dunque esaltato dalla destra di Dio, ha ricevuto dal Padre il dono dello Spirito Santo secondo la promessa e ha effuso questo stesso Spirito, come voi ora vedete e ascoltate (At 2, 32-33).

Come abbiamo già detto, gli stranieri – e la stessa manifestazione di apertura universale – sono stati completamente ignorati nel discorso di Pietro. Lui si sta indirizzando solo alla “casa d’Israele” e poi, davanti alla commozione dei suoi connazionali conclude: “pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per ottenere il perdono dei vostri peccati: e riceverete il dono del Santo Spirito” (At 2,38). Solo alla fine, mentre rassicura gli ebrei che la promessa è, in primo luogo per loro e per i loro figli, estende la salvezza anche a “tutti coloro che sono lontani, che il Signore Dio nostro chiamerà” (At 2,39), frase che Pietro prende da Is 57,19, e che è riferita proprio ai gentili. Con questo si riafferma la portata universalistica della Pentecoste cristiana5. Sembra, però, che per Pietro, il passaggio dei pagani A. Sacchi riporta una leggenda ebraica secondo la quale al Sinai la legge è stata proposta alle nazioni ed esse la hanno rifiutata. La nuova Pentecoste radunerà tutti i popoli divisi dal peccato e disobbedienti alla legge di Dio. “Probabilmente – scrive Sacchi –, l’autore vuole suggerire anche che con questo evento si è ricostituita in germe l’unità del genere umano rotta a causa 5

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alla fede cristiana debba essere mediato dall’adesione alla legge ebraica e alla circoncisione6. La sua visione cambierà drasticamente quando, a casa di Cornelio, lo Spirito Santo scenderà pure sui pagani non circoncisi. Come frutto del suo insegnamento si associarono ai discepoli circa tremila persone. Per quello che leggiamo di seguito, questi convertiti sono tutti ebrei. Essi infatti saranno “assidui nel frequentare insieme il tempio” e godranno del “favore di tutto il popolo”. Il fatto che gli stranieri della Pentecoste non sono stati associati ai discepoli è confermato dalla meraviglia di fronte alla discesa dello Spirito Santo su Cornelio e nella sua famiglia prima ancora di essere stati battezzati (cf. At 10,44-45.11,18). Questa meraviglia non avrebbe avuto senso se già prima anche i pagani fossero stati riempiti dello Spirito Santo quella mattina di Pentecoste. L’universalismo della Pentecoste è solo annunciato, non ancora effettuato. Più avanti, in At 4, 1-22, ci si presenta la prima testimonianza di Pietro e Giovanni davanti al sinedrio. Questa occasione consente a Pietro di ripetere il kerigma fondamentale: “è nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, che voi avete crocifisso, ma che Dio ha risuscitato dai morti” (At 4,10). Poi afferma l’universalità della salvezza in Cristo. Il contesto è specificamente giudeo, ma le parole di Pietro sono inequivocabili: Egli è la pietra respinta da voi costruttori, che è divenuta la testata d’angolo. E non c’è in alcun altro la salvezza. Nessun altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini, per il quale siamo destinati a salvarci (At 4,11-12).

della confusione delle lingue conseguente alla costruzione della torre di Babele (Gn 11,1-9)” (A. Sacchi, Alle origini della missione. Atti degli apostoli, Milano 2014, 58). 6 A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 71.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Ha ragione J. Dupuis a circoscrivere l’espressione al contesto ebraico e limitare la valenza universale dell’espressione nessun altro nome. Lui, infatti, considera che questa proclamazione di Pietro è diventata il textus classicus di coloro che affermano l’esclusivismo della salvezza7. Ciononostante, benché l’inizio della diatriba riguardi chiaramente la salvezza tra gli ebrei, dove i cristiani non si sentono diversi dalle proprie radici ebraiche, i termini sotto il cielo e agli uomini indicano chiaramente un’esplicita estensione dell’influsso di Cristo, unico salvatore, a tutta l’umanità. Inoltre, lo stesso accenno al nome avrà un significato molto preciso: Gesù è il nome di Dio, il che indica la sua natura divina, e conseguentemente la sua condizione di mediatore unico tra Dio e l’uomo. Perciò la salvezza è concessa agli uomini solo tramite Cristo e il suo mistero pasquale. Qui sta, secondo Wikenhauser, l’essenza del messaggio cristiano: “Gesù l’ha già espressa chiaramente, e gli Apostoli l’hanno ribadita con energia”8. A. Sacchi scrive: Il concentrarsi della salvezza nel solo Gesù è un tratto tipico della predicazione cristiana che, alla fine del I secolo, mette ormai in primo piano la fede nella persona del Cristo esaltato e totalmente associato al Padre9.

L’interpretazione che dovremo dare a questo passo non può essere tale che conduca, né ad una visione riduttiva ed esclusivista della salvezza – la salvezza solo tramite la confessione di fede e il battesimo –, ma neanche può portare a uno svuotamento del mistero di Cristo, unico nome sotto il cielo dato agli uomini per la loro salvezza. Nella seconda comparsa al sinedrio, Pietro ripete il kerigma, ma stavolta omette la dimensione universale: “Dio lo ha innalzato Cf. J. Dupuis, Cristianesimo e religioni…, 86. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 90. 9 A. Sacchi, Alle origini della missione…, 79. 7 8

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come capo supremo e salvatore per concedere a Israele la conversione e la remissione dei peccati” (At 5,31). Si manifesta qui la lentezza della comunità nell’accettare l’apertura cristiana. In questa prima parte degli Atti degli apostoli, nonostante l’inizio universalistico con il dono delle lingue, si avverte appena una timida apertura ai gentili, ma il contesto resta sempre circoscritto al popolo d’Israele. Abbiamo comunque due testimonianze di universalità: l’invito alla salvezza a coloro che sono lontani (cf. At 2,39) e l’affermazione di Pietro riguardo Cristo, unico nome nel quale si trova la salvezza per l’uomo. Sappiamo che questa visione restrittiva della salvezza sarà presente nel giudeocristianesimo primitivo, e lascerà una traccia lungo tutto il libro degli Atti, e in particolare collocandosi in contrasto con la missione universalistica di Paolo. Per quanto riguarda la salvezza promessa ai lontani, proclamata da Pietro, essa si ricollega, nel piano generale dell’opera lucana, a Lc 2,30-32, cioè alla profezia di Simeone che afferma che quel bambino è la salvezza, preparata da Dio davanti a tutti i popoli come luce che illuminerà le genti e renderà gloria a Israele10. La scoperta della missio ad gentes La seconda parte degli Atti comincia con la comparsa di Paolo al capitolo ottavo e con l’inizio della prima grande persecuzione. I primi che sono stati beneficiati dalla dispersione della comunità gerosolimitana sono stati i samaritani (cf. At 8,4-8). La predicazione di Filippo nelle città della Samaria portò grande gioia perché ascoltavano il kerigma e vedevano i miracoli. Essi si mostrano molto più aperti dei giudei di Gerusalemme. Questa sarà una costante in tutti gli Atti: coloro che erano lontani manifestano un’accoglienza positiva che contrasta con la chiusura dei giudei, i Cf. J. Dupont, Nuovi studi sugli Atti degli apostoli, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 33-34. 10

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primi destinatari del vangelo del regno. I lontani diventano vicini, e gli invitati per primi, restano esclusi dal banchetto di nozze. Gli apostoli venuti da Gerusalemme pregano per i nuovi convertiti tra i samaritani, “affinché ricevessero lo Spirito Santo” (At 8,15). Per i discepoli sembra scontato che i samaritani ricevano l’effusione dello Spirito Santo. Non si meravigliano come si meraviglieranno per un evento simile tra i pagani. Ciò si deve in parte, al fatto che i samaritani non erano totalmente esclusi dal popolo, in quanto cugini dei giudei, adoratori di Jahveh e che praticavano la circoncisione. D’altronde è possibile che ci fossero già dei cristiani in Samaria, in tal caso si capirebbe l’assenza di meraviglia di fronte al dono dello Spirito11. Possiamo concludere che la prima apertura ai samaritani non era ancora considerata una vera missio ad gentes. In ogni caso, la testimonianza della conversione dei samaritani fu sicuramente conosciuta da Luca, sia direttamente da Filippo (cf. At 21,8), sia grazie alla presenza di una comunità prepasquale a Sicar che si ricondurrebbe a Gesù stesso. Prima di entrare nell’analisi della conversione e della missione di san Paolo, è necessario soffermarci un po’ su due pagani che, per primi, accolgono il vangelo e saranno battezzati. Il primo di essi è l’eunuco etiope, ministro della regina Candace (At 8,2640). Lui “era venuto a Gerusalemme per fare adorazione”. Era, dunque, un timorato di Dio che leggeva la Scrittura senza capirla. La sua condizione di eunuco evirato non gli consentiva di entrare a far parte dei proseliti del giudaismo, ma ciò non impedì la sua conversione alla nuova fede e il suo battesimo. A. Sacchi annota che il fatto di essere un eunuco chi riceve il battesimo sta ad indicare che “l’attesa escatologica si è ormai realizzata”12. Con Cristo, tutti sono ammessi al regno a prescindere della loro condizione. 11 12

Cf. J. Ries, I cristiani e le religioni…, 17. A. Sacchi, Alle origini della missione…, 108,

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E chi può salvarsi?

Allora Filippo prende spunto dal testo di Is 53 per presentare “la buona novella di Gesù”. Poi, giunti ad un luogo dove c’era dell’acqua, l’etiope chiese il battesimo. Questa è la prima volta nei testi neotestamentari che all’annuncio segue una richiesta di battesimo. L’unica cosa che è stata chiesta fu la fede in Gesù Cristo: “io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio”. In questa confessione è incluso tutto il mistero cristiano. Poi, Filippo fu rapito dallo Spirito, e l’eunuco prosegue per la sua strada, “pieno di gioia”. Non si dice che l’eunuco abbia ricevuto lo Spirito come negli altri casi, ma la gioia che lo invase è segno della presenza dello Spirito consolatore. Dopo questo evento non sappiamo più nulla dell’alto ufficiale di corte. Scompare dal racconto ma non dalla storia sacra. Filippo intanto continua la sua missione, da Azoto, dove lo lasciò lo Spirito, fino a Cesarea, la sua città d’origine. Il secondo pagano è un centurione, in servizio a Cesarea, di nome Cornelio. Secondo C. Ghidelli, la conversione di Cornelio è uno degli avvenimenti più importanti degli Atti degli Apostoli, appunto per la decisa apertura ai pagani13. Per A. Wikenhauser, esso può essere paragonato solo alla conversione di Paolo14. Infatti, Cornelio è il primo pagano che aderisce alla fede senza passare attraverso la circoncisione15. Di Cornelio si afferma che era “pio e timorato di Dio, come tutti quelli della sua casa; faceva molte elemosine al popolo e pregava Dio continuamente” (At 10,2). Il testo insiste per ben quattro volte sull’integrità di vita e sulla devozione del pagano (cf. At 10,2.4.22.31). Le sue preghiere e le sue elemosine “sono salite al cospetto di Dio e sono ricordate”. Questo ufficiale ci fa ricordare

Cf. C. Ghidelli, in Aa.Vv., Il messaggio della salvezza, vol. 6, Elle di ci, Torino-Leumann 1979, 491. 14 Cf. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 166. 15 Cf. A. Sacchi, Alle origini della missione…, 117. 13

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

il centurione fedele del vangelo, che amava il popolo e aveva costruito la sinagoga. A seguito di una visione, Cornelio fa venire Pietro a casa sua. Pietro, nel frattempo, riceve una visione che nella realtà altro non è che una preparazione per aprire le porte della Chiesa a tutti gli uomini: “ciò che Dio ha purificato – gli disse una voce –, tu non chiamarlo immondo”. Si noti che la voce insiste nel fatto della purificazione da parte di Dio. La legge ebraica faceva differenza tra oggetti – persone, animali, elementi – puri e altri impuri. Esso era fondamentale nella religione d’Israele. Adesso tutto è puro perché ciò che conta è vivere il doppio comandamento principale e fare le opere di misericordia sintetizzate in Mt 25,35-36. Come affermerà A. Wikenhauser, “la visione intendeva far capire a Pietro, servendosi di una specie di parabola, che, sul piano salvifico di Dio, Giudei e gentili si trovavano nelle stesse condizioni” 16, e che quindi si poteva essere salvati pur restando gentili. J. Dupont conclude: “Ecco ciò che conferisce alla «Pentecoste» di Cesarea la sua importanza decisiva nella storia della Chiesa apostolica”17. Questa insistenza nella purità è rinnovata più avanti quando Pietro spiega il passo che sta per compiere – entrare in casa dei gentili, e mangiare con loro –: “Voi sapete che non è lecito per un giudeo legarsi a uno straniero o aver contatto con lui. Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano o immondo” (At 10,27). Singolare risposta di uno che aveva ascoltato dalla voce del Signore l’insegnamento sulla purezza e impurezza che viene dal di dentro, mentre gli alimenti sono tutti puri: Ciò che esce dall’uomo, questo, sì, contamina l’uomo. Dall’interno, cioè, dal cuore degli uomini, procedono i cattivi pensieri, le fornicazioni, i furti, le uccisioni, gli adulteri, le cupidigie, la malvagità, l’inganno, la lascivia, l’invidia, la bestemmia, la 16 17

Cf. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 160. J. Dupont, Nuovi studi sugli Atti…, 94.

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E chi può salvarsi?

superbia e la stoltezza. Tutte queste cose malvagie procedono dall’interno e contaminano l’uomo (Mc 7,20-23).

A. Sacchi fa vedere il fatto che né Pietro né la comunità primitiva aveva ancora messo in discussione i divieti alimentari del giudaismo né la separazione dai gentili. “È probabile – conclude Sacchi – che non si tratti di incomprensione dei discepoli ma di una loro scoperta progressiva di quanto Gesù aveva insegnato solo implicitamente”18. Dopo che Cornelio ha raccontato la sua visione durante la preghiera, Pietro fa un discorso di grande valore missionario (At 10,34-43)19. In primo luogo, Pietro si rende conto che Dio “non fa differenza di persone”, proprio perché il suo Spirito è sceso sia tra i discepoli ebrei, sia tra i gentili ancora non battezzati. La separazione tra ebrei e gentili era dovuto proprio alla impurità dei non ebrei. La visione della tovaglia e le parole riguardo la non impurità degli alimenti, insieme alla discesa dello Spirito, porterà a rompere quel muro divisorio, del quale parlerà più avanti san Paolo. Nessun uomo o donna è profano o immondo al cospetto di Dio20. Pietro sta citando Dt 10,17. Al versetto 12, che precede la frase in questione, vi è scritto: Ora, o Israele, che cosa chiede a te il Signore tuo Dio se non di temere il Signore tuo Dio, di seguire tutte le sue vie, di amarlo, A. Sacchi, Alle origini della missione…, 118. C. Ghidelli mette in evidenza i riferimenti biblici del discorso in casa di Cornelio, singolare per il fatto di essere indirizzato a dei pagani, non istruiti nella Bibbia. Ciò è a motivo della trascendenza del momento, come abbiamo appena accennato: “per questo – conclude Ghidelli – san Pietro si appella alle S. Scritture dell’A.T. e sceglie proprio quelle che negano ogni privilegio di razza e di sangue, di cultura e di civiltà; quelle che presentano Iddio come il signore di tutti e massimamente imparziale verso tutti gli uomini; quelle, infine, che annunciano la pace, sintesi di tutti i beni messianici e della salvezza escatologica, a tutti gli uomini” (Il messaggio della salvezza, vol. 6…, 492). 20 Cf. J. Dupont, Nuovi studi sugli Atti…, 95-96. 18 19

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

di servire il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima.

Siamo di fronte al primo comandamento della legge di Dio. Egli non consente alcun tentativo di corruzione da parte dell’uomo: Dio “non fa preferenze di persone né prende regali”. Significativamente, il Deuteronomio passa dal primo al secondo comandamento, vedendoli come un’unità inscindibile. Dio infatti è colui “che fa giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito”. Dio provvede misericordiosamente agli affamati, agli ignudi, ai carcerati e ai forestieri (cf. Mt 25, 31-46). Da parte sua, Israele deve amare il forestiero per due motivi: perché egli stesso fu forestiero in terra di Egitto, ma soprattutto perché Dio stesso ama il forestiero e lo difende. La scelta d’Israele da parte di Dio non significò un abbandono degli altri uomini. Israele è segno di salvezza per tutta l’umanità, forestiera e bisognosa al cospetto di Dio. Inoltre, questa prassi di Dio – “non fare differenza di persone” – fa capire a Pietro che “in ogni nazione colui che lo teme e pratica al giustizia è accetto a lui”. L’uso del presente indica una situazione di fatto – attualmente ci sono uomini che temono Dio e praticano la giustizia – che funge da preparazione alla redenzione di Cristo. Pietro sembra riecheggiare la fede secondo Eb 11,6, e cioè che per piacere a Dio è “necessario credere che egli esiste ed è rimuneratore per quelli che lo cercano”. In coerenza con tutto ciò che abbiamo detto, anche negli Atti degli Apostoli, la salvezza ha una radice che non dipende dall’uomo, che è dono gratuito ottenuto esclusivamente dalla redenzione di Cristo, e che i cristiani hanno il compito di annunciare. Perciò, subito dopo Pietro affermerà che Dio “ha mandato la parola ai figli d’Israele, evangelizzando la pace per mezzo di Gesù Cristo”. La pace è sinonimo di riconciliazione con Dio che ci viene da Cristo, perché “egli è Signore di tutti”. 99

E chi può salvarsi?

Dopo questo preambolo segue l’annuncio kerigmatico (At 10,37-41) che riguarda la vita e l’insegnamento di Gesù di Nazareth, la sua passione, morte e risurrezione e poi le apparizioni ai discepoli che divengono testimoni di Cristo. L’annuncio conclude: “Egli ci ha ordinato di predicare al popolo e di testimoniare che egli è stato costituito da Dio giudice dei vivi e dei morti”. Cristo, re vittorioso grazie al suo mistero pasquale, è giudice universale. Giudicherà gli uomini in base alla coerenza delle opere di ciascuno con il doppio comandamento dell’amore. L’effetto del discorso fu l’effusione dello Spirito Santo su tutti coloro che ascoltarono la parola di Pietro. Esso è considerato come la Pentecoste dei pagani, la conferma delle parole del Signore, non più ai discepoli ebrei, ma a tutti gli uomini senza alcuna distinzione di credo o di cultura21. Questo è il vero tempo messianico annunciato da Gioele, ricordato da Pietro e che qui, a Cesarea marittima prende il suo significato ultimo. La venuta dello Spirito Santo sulla famiglia di Cornelio – scrive J. Dupont – appare così come il nuovo compimento d’una promessa del Signore, che s’era già realizzata in favore del gruppo apostolico il giorno della Pentecoste22.

L’accaduto desta meraviglia nei fedeli circoncisi perché anche “sui pagani si fosse avuta l’effusione del dono dello Spirito Santo”. Tutto quanto avviene prima del battesimo, quale segno carismatico della validità dell’annuncio evangelico ai pagani. A. Wikenhauser aggiunge che questa discesa dello Spirito fa capire a Pietro che i timorati di Dio “devono essere battezzati, senza bisogno di essere preventivamente aggregati, mediante la circoncisione, al popolo giudaico”23.

Cf. J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 65-66. J. Dupont, Nuovi studi sugli Atti…, 93. 23 A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 164. 21 22

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Di fronte a questo evento che trasformerà radicalmente il cristianesimo, facendolo passare da una Buona novella per i giudei, a una rivelazione di dimensioni universali, Pietro sente ancora l’obbligo di giustificare la propria condotta davanti ai suoi connazionali che “gli fecero dei rimproveri” (At 11,2). L’apostolo ripete la storia, insistendo sul fatto che era stato lo Spirito a guidarlo in ogni momento e a scendere su di loro. Solo allora i fratelli circoncisi si “acquietarono e glorificarono Dio”. L’episodio si conclude con questa affermazione: “Dunque, anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano per avere la vita!” (At 11,18). L’episodio di Cornelio presenta due elementi di grande trascendenza per la giovane comunità. Il primo è l’ingresso di Pietro in una casa pagana e il pasto presso i pagani. Il secondo, il battesimo di persone non circoncise24. Lo Spirito Santo effuso sui nuovi etnocristiani è nello stesso tempo segno e compimento di questa apertura all’orizzonte universale, appena accennato nei capitoli precedenti degli Atti. Dopo di ciò, ai cristiani – ebrei o greci – sarà consentito accostarsi ai pagani non convertiti, partecipare ai loro pasti e avere con loro una convivenza pacifica e amichevole. Tutto ciò si vedrà più avanti. Ciò che era accaduto a Pietro si ripeté anche ad Antiochia. Se all’inizio i discepoli che fuggivano dalla persecuzione predicavano ai soli giudei, alcuni – quasi per caso – predicarono pure ai Greci, “annunziando loro la buona novella del Signore Gesù” (At 11,20). Quando la notizia giunse a Gerusalemme, mandarono Barnaba, che, vedendo “l’effetto della grazia di Dio, si rallegrò, ed esortava tutti a rimanere con animo fermo fedeli al Signore” (At 11,23). Ed ecco che Barnaba condusse Saulo ad Antiochia per lavorare nel consolidamento della prima comunità mista, dove i discepoli riceveranno il nome di cristiani.

24

Cf. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 166.

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E chi può salvarsi?

Paolo, apostolo delle genti Saulo Paolo di Tarso entra nella storia del cristianesimo in At 7,58, come custode improvvisato dei mantelli degli uccisori di Stefano e poi in At 8,1, approvando la sua lapidazione. La sua conversione è legata al mistero della presenza mistica di Gesù risorto nei suoi discepoli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9,5). Paolo farà tesoro di questa lezione: Gesù si fa presente nella Chiesa e in ciascuno dei cristiani, soprattutto se perseguitati! Ciò che Paolo fece ai discepoli – incatenarli, malmenarli – lo fece a Gesù. Questa consapevolezza è di grande valore per il nostro tema: se è vero che la salvezza si trova nell’incontro personale con Cristo, esso potrebbe essere possibile anche inconsapevolmente “ogni volta che lo avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli”. In At 9,15, Dio manifesta quale sarà la missione del persecutore convertito. Saulo è, appunto, “uno strumento che io mi sono scelto per portare il mio nome davanti ai pagani, ai re e ai Figli d’Israele”. Ciononostante, fino ad At 13,46, Paolo indirizza la sua missione solo ai giudei. Infatti, subito dopo il battesimo lo vediamo predicando nelle sinagoghe e proclamando: “questi è il Figlio di Dio!” (At 9,20). La sua fama di zelante giudeo convertito confonde i suoi connazionali di Damasco, fino al punto di fargli rischiare la vita. Più tardi, dopo che lo Spirito Santo conferisce la missione a Paolo e Barnaba, essi si recheranno a Salamina e annunceranno “la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei” (At 13,5). Ad Antiochia di Pisidia annunciano il vangelo nella sinagoga (At 13,13-47), e Paolo farà un lungo discorso che avrà un buon riscontro tra i Giudei e tra i “proseliti adoratori di Dio” (At 13,43). Lo schema si ripeterà a Iconio (At 14,1) e a Tessalonica (At 17,1-2), a Berea (At 17,10), ad Atene (At 17,17), a Corinto (At 18,4), ad Efeso (At 18,19) e a Roma (At 28,17), dove non entrerà nella sinagoga, ma comunque farà chiamare i principali tra i Giudei. Solo a Filippi, Luca racconta che il sabato, anziché 102

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

andare in sinagoga, si recarono fuori della porta, dove incontrarono Lidia, della quale si annota che “onorava Dio” (At 16,14). Come abbiamo visto in precedenza, non è Paolo ad inaugurare la missio ad gentes. Filippo si era recato tra i samaritani e poi aveva evangelizzato e battezzato il funzionario etiope. Ad Antiochia, poi, all’avvento di Paolo, esisteva già una comunità mista di giudeocristiani e greci. Paolo predica nelle sinagoghe ai Giudei, ma ha sempre in mente i gentili, soprattutto coloro che erano attratti dalla visione religiosa ebraica, i timorati di Dio. La strategia kerigmatica di Paolo Vediamo quale era la prassi apostolica di Paolo. Questa ci interessa perché riguarda il punto di partenza ufficiale – se non l’inizio – della missio ad gentes. Fino al suo avvento la predicazione era indirizzata solo ai giudei, con qualche timida incursione tra i greci. Da questo momento, inizierà un movimento di espansione che non si arresterà mai più. Paolo parte sempre dalla predicazione presso i Giudei. Si reca nelle loro sinagoghe e si serve della Scrittura e dei modelli esegetici comprensibili ai suoi connazionali. Molti di essi accolgono con entusiasmo il suo messaggio, ma costantemente trova l’ostilità di alcuni tra i Giudei che gli saranno sempre antagonisti. Tra coloro che frequentano la sinagoga si trovano dei proseliti e dei timorati di Dio non appartenenti al popolo eletto. Un caso particolare è il discorso ad Antiochia di Pisidia. Paolo fa un lungo discorso di carattere tipicamente semitico, ricordando i capisaldi della storia del popolo fino all’avvento di Gesù, e assicurando che l’annuncio è rivolto in primo luogo agli israeliti, anche se l’espressione “fratelli, figli della stirpe di Abramo, e voi che temete Dio”, potrebbe essere interpretata come un’esortazione ai presenti, ebrei e timorati di Dio di origine gentile (cf. At 13,26). A Tessalonica, dopo la predicazione di Paolo, solo “alcuni” tra i Giudei si lasciano convincere, mentre “un buon numero 103

E chi può salvarsi?

di Greci timorati di Dio e non poche donne tra le più in vista” abbracciavano la nuova fede (cf. At 17,4). Comunque sia il Vangelo loro annunciato destò interesse tra i Giudei della diaspora – che non vissero sotto l’influsso dei sommi sacerdoti e dei farisei di Gerusalemme –, ma soprattutto tra i gentili che si sentirono finalmente accolti senza dover adottare le usanze ebraiche. Davanti alla costante ostilità di alcuni dei giudei, Paolo decide di rivolgersi direttamente ai gentili. Lo dice apertamente in At 13,46 – “era necessario annunciare a voi prima di tutti la parola di Dio. Ma poiché la respingete e non vi ritenete degni della vita eterna, ecco, ci rivolgiamo ai pagani” –; e tra i pagani, coloro che “erano preordinati alla vita eterna”, pieni di gioia, abbracciano la fede. A Iconio si dice che “un gran numero di Giudei e di Greci abbracciarono la fede”, e l’ostilità venne dai Giudei che “eccitarono i pagani ed esasperarono i loro animi contro i fratelli” (At 1,2). Infine, a Corinto, l’avversione dei Giudei è tale che portano Paolo a compiere un gesto significativo: “egli scosse la polvere dalle vesti dicendo loro: il vostro sangue cadrà sul vostro capo: io non ne ho colpa. Da questo momento andrò dai pagani” (At 18,6). Paolo attuò solo in parte la sua decisione perché continuerà a frequentare le comunità ebraiche e le loro sinagoghe. A Berea si ha una situazione singolare. Luca ci dice che i Giudei della città erano “più aperti di quelli di Tessalonica e accolsero la parola con ottime disposizioni” (At 17,11) e si confrontavano costantemente con le Scritture per vedere se erano come diceva Paolo. Ci furono molte conversioni anche tra i Greci. Qui l’ostilità venne non dai Giudei della città, ma da quelli di Tessalonica. Gli ebrei sentivano l’attrattiva del messaggio di Cristo, si sentivano però ogni volta più messi in discussione riguardo alla loro fedeltà nazionale. Ogni volta sembrava più chiaro agli occhi degli ebrei che incontravano Paolo che l’adesione al cristianesimo che

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lui annunciava portava inesorabilmente ad una relativizzazione del proprio universo religioso. Alcuni convertiti paradigmatici Gli Atti ripetono costantemente che molti tra i Greci aderirono alla fede. Ci sono però alcune conversioni individuali che sono paradigmatiche e utili per capire il modo di annunciare il vangelo da parte di Paolo. Le enumeriamo in ordine di comparsa. Il primo è il proconsole, Sergio Paolo (At 13,6-12). Paolo e Barnaba, dopo aver ricevuto la missione da parte dello Spirito Santo, si dirigono a Cipro. A Salamina predicano il vangelo nella sinagoga. Lì entrano in contatto con il proconsole Sergio Paolo che ha al suo seguito un mago e falso profeta, chiamato Bar-Iesus. Del proconsole gli Atti dicono che era “uomo saggio” desideroso di ascoltare la parola di Dio. Dopo l’accaduto al mago, punito per la sua malizia, Sergio Paolo “credette, colpito dall’insegnamento del Signore”. Il paralitico di Listra e la predicazione tra i licaoni (At 14,827). Dopo varie vicissitudini, Paolo si reca alla città di Listra e “là andava evangelizzando”, si suppone sia tra i giudei, sia tra i gentili. Gli Atti annotano che lo storpio di Listra ascoltava la predicazione di Paolo. L’apostolo riconosce “che aveva fede per essere salvato” e perciò compie il miracolo della sua guarigione. In questo caso, come in tanti altri, la fede salvifica precede la guarigione e il battesimo. La fede dello storpio resta ancora più evidenzata se la paragoniamo alla risposta degli altri cittadini di Listra che si lasciano guidare dalla superstizione, credendo di avere ricevuto la visita degli dèi “scesi in figura umana”. Paolo e Barnaba devono convincere i licaoni a riconoscere in loro solo degli uomini e a convertirsi “da queste vanità al Dio vivente”. Sembra che gli Atti ci attestino dei casi in cui si avverte l’esistenza di una fede salvifica che anticipa la grazia del battesimo e che porta verso Cristo, e d’altro canto di una fede credula e su105

E chi può salvarsi?

perstiziosa che Paolo qualifica come queste vanità. Vanità sarebbe l’atteggiamento di coloro che manifestano una credulità superficiale. Superstizioso sarebbe stato l’atteggiamento dei cittadini di Gadara che spaventati chiedono Gesù di allontanarsi dalla loro regione; superstiziosa e vanità sarebbe la profezia della schiava con lo spirito di divinazione, e ancora di più vanità sarebbe stata la risposta dei suoi padroni che guadagnavano soldi grazie a lei e che, vedendosi senza la fonte di guadagno, trascinarono Paolo e Sila davanti ai capi della città (cf. At 16,16-21). Dopo che Paolo riuscì a fermare i licaoni, iniziò una veloce lezione di religione naturale. Infatti, quel Dio al quale si devono convertire i pagani è “il Dio vivente, che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano”. Poi aggiunge: Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori.

Dio “non ha cessato di dar prova di sé”. I pagani non sono stati mai abbandonati alla propria sorte. Lui continua a manifestarsi tramite la sua benevolenza e tramite il suo amore provvidente. Il riferimento alla strada che ciascuno segue, sembra essere negativo. Seguire la propria strada potrebbe essere sinonimo di errare come pecore senza pastore (cf. Mc 6,34) e infine essere “ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1Pe 2,25). Potrebbe essere capito però in senso più positivo. Le nazioni seguono ciascuna la propria strada, guidati da quello Spirito Santo che agisce “nel cuore dell’uomo e in seno alle religioni”, concedendogli la letizia, che è frutto messianico della sua presenza. Queste vie storiche di manifestazione di Dio sono un segno di quell’incontro indispensabile per raggiungere la salvezza.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Dopo questi discorsi, i licaoni si tranquillizzarono e accolsero i discepoli fino a quando arrivarono dei giudei da Antiochia ed Iconio per aizzare le folle contro Paolo, che subì una lapidazione che quasi gli costò la vita. A Derbe, Paolo continua la sua opera di evangelizzazione, trovando grande accoglienza, nonostante l’ostilità dei giudei. Poi rientrando ad Antiochia, gli apostoli “riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede”. Lidia di Tiatira (At 16,11-15). Paolo, con Timoteo, si fermano a Filippi, nella Macedonia, sotto la spinta dello Spirito e in obbedienza ad una visione notturna di un macedone che lo supplicava: “vieni in Macedonia e aiutaci”. Filippi è una città prettamente pagana e una colonia romana. Per questo motivo, il sabato, anziché indirizzarsi ai giudei nella sinagoga, Paolo esce fuori dalla porta, lungo il fiume, e si ferma a parlare con le donne che là erano riunite25. Luca non ci informa del contenuto della predicazione di Paolo, ma non dovrebbe essere stato molto diverso da quello appena fatto a Listra o ad Atene. Di Lidia si dice che era una credente in Dio e che il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo e perciò fu battezzata. Poi, da brava donna, ignara delle prescrizioni ebraiche, costringe i discepoli a fermarsi da lei: “se mi avete giudicata fedele al Signore, venite e rimanete nella mia casa” (At 16,15). In quel luogo accade poi un fatto curioso e paradossale: una schiava possedeva uno spirito di divinazione che la portò a gridare dietro ai discepoli: “Questi uomini sono servi del Dio altissimo e vi annunciano la via della salvezza” (At 16,17). Era tale l’insistenza di questa schiava che portò Paolo a scacciare lo spirito da lei: “In nome di Gesù Cristo ti ordino di uscire da lei” (At 16,18). Questo A. Wikenhauser fa pensare che Lidia fosse un’ebrea (cf. Atti degli apostoli…, 243). 25

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fatto indispettì i padroni della schiava che finirono per accusare Paolo di essere ebreo e di predicare usanze non lecite ai romani. Paolo e i discepoli finirono in prigione. Ancora una volta si vede che non ogni fede né ogni profezia è soprannaturale. Esiste una netta differenza tra fede nel Gesù annunciato da Paolo e la superstizione pagana. Il custode della prigione (At 16,25-34). L’ultimo pagano che compare negli Atti è appunto il custode della prigione della città di Filippi. Lui obbedisce agli ordini dei magistrati e compie ciò che conviene al suo incarico. In prigione, Paolo e Sila pregano cantando inni a Dio, mentre gli altri prigionieri stavano ad ascoltare. Di fronte al prodigio dei ceppi che si aprono, il custode prova a suicidarsi, e scampare così a un castigo doloroso, ma viene fermato da Paolo. Il custode cade in ginocchio tremando davanti a Paolo e Sila e fa una domanda alla quale ogni religione tenta di dare risposta: “Signori, che cosa devo fare per essere salvato?” La risposta di Paolo e Sila va al cuore del problema: “credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”. Qui non si parte dal compimento dei comandamenti come in altri casi dove si è posta la stessa domanda. Essendo di fronte al custode di una prigione, ci verrebbe da pensare che non siamo davanti ad una persona che si caratterizzasse per la sua giustizia o per la sua misericordia. Il pagano però si è trovato in una situazione limite, salvato dalla morte solo dalla bontà e misericordia di due cristiani autentici attraverso i quali, quel povero uomo bisognoso di misericordia, incontra l’amore sterminato di Dio manifestato in Cristo e reso presente grazie alla comunità ecclesiale rappresentata da Paolo e Sila. Il comportamento ulteriore del custode del carcere manifesta la sincerità della conversione. Prende con sé i discepoli, li porta a casa sua, lava le loro piaghe e si fa battezzare insieme a tutta la sua famiglia. “Poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio” (At 108

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16,34). Paolo e Sila furono accolti perché discepoli di Cristo, e perciò il carceriere ricevette la ricompensa promessa dal Signore… “Lo avete fatto a me”. Il discorso di Paolo all’Areopago Paolo provò grande consolazione per l’accoglienza favorevole da parte dei cittadini di Berea, ma dovette scappare nuovamente a causa dei Giudei di Tessalonica. Lasciò i suoi compagni Sila e Timoteo in città e si diresse da solo ad Atene26. Qui la sua prima reazione fu di sdegno di fronte all’idolatria regnante nella città. Come era solito, Paolo si mise a discutere con i Giudei e con i timorati di Dio, chiunque capitava nel mercato. Invitato poi da alcuni filosofi che lo sentono parlare, Paolo si recò all’Areopago di Atene, centro del sapere greco. Luca sembra voler insistere sulla superficialità di pensiero regnante nella città della filosofia, e del dilagare di culti idolatrici che colpivano profondamente il cuore dell’ebreo radicale che era Paolo. Gli Atti non nascondono una certa strategia dialettica di Paolo nei confronti dei greci. Prima che egli si rivolga direttamente ai greci, si dice che “si infiammava di sdegno” di fronte agli idoli della città. Davanti agli ateniesi, però, cambia atteggiamento e si mette a valorizzare la loro religiosità: “sotto ogni punto di vista io vi trovo sommamente religiosi” (At 17,22). Paolo deve reprimere il suo zelo monoteista e cercare di trovare ciò che c’era “di buono e di onesto” nella religiosità greca, cosa che trova, infatti, cogliendo l’occasione da un altare, munito di un’iscrizione particolare. Infatti, Paolo identifica il suo messaggio con il Dio ignoto – ἀγνώστος θεός. Il Dio di Gesù Cristo sarebbe quel Dio ignoto che i greci “adorano senza conoscerlo” (At 17,23). A. Wikenhauser annota che Paolo evita di usare l’espressione “timorati di Dio” nei confronti dei pagani greci, perché questo 26

Cf. G. Odasso, Bibbia e religioni…, 335-355.

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termine è esclusivo di coloro che adorano il Dio unico. I greci invece sono chiamati δεισιδαιμονέστεροι, timorati dei démoni, o meglio ancora, devoti delle divinità27. Riguardo alla religione dei pagani, Paolo offre una sua definizione di religione come ricerca della divinità per raggiungerla, come a tentoni, e trovarla (At 17,27). È lecito domandarci se il discorso di Paolo che ci tramanda Luca corrisponda solo a una strategia apostolica o se, al contrario, debba essere compreso più in profondità. A questo punto possiamo trovare tre possibili risposte: –

Siamo solo di fronte a un escamotage dialettico, ad una captatio benevolentiae, per avere un punto di partenza, giacché essi non possiedono l’Antico Testamento. Il dialogo sarebbe solo finalizzato alla conversione. È chiaro dal contesto che il dio sconosciuto a cui fa riferimento l’iscrizione non corrisponde all’interpretazione che ne dà san Paolo28.



Siamo di fronte a un tentativo di traduzione del Dio “che abita una luce inaccessibile” e che “ha fatto il mondo e tutto ciò che è in esso” che Paolo riconosce nell’ ἀγνώστος θεός, ma che non corrisponde a ciò che i greci intendono con questa divinità. L’iscrizione sarebbe solo un punto di partenza. I greci, tra tante altre divinità, adorano pure un Dio che per loro risulta sconosciuto, ma esso solo accidentalmente può essere identificato con il Dio di Gesù Cristo. A. Sacchi è dell’idea che Paolo, estrapolando delle affermazioni filosofiche dal loro contesto, le usa in funzione di un nuovo contesto religioso e culturale, cioè quello della Bibbia. “In altre parole – egli conclude –, più che un tentativo di inculturazione, quello riferito da Luca sembra essere un modo elegante per far dire ai filosofi concetti di origine greca”29.

Cf. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 259. Paolo afferma che non è sua intenzione promuovere nuove divinità, cosa un tanto problematica per la città di Atene in quel periodo. Per questo motivo si comprende perché Paolo sia stato condotto al consiglio della città. 29 A. Sacchi, Alle origini della missione…, 164. 27 28

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Veramente Dio si è comunicato misteriosamente ai greci, in quanto esseri umani, in tal modo che chi venera devotamente l’ἀγνώστος θεός che ha scoperto nella sua coscienza, ha incontrato il Dio vero e potrebbe possedere la fede di Eb 11,6 in quanto crede in un unico Dio, creatore e giudice universale? Ciò corrisponderebbe a quanto scrive J. Daniélou: “ogni uomo, senza eccezione, è fatto per cercare Dio, vale a dire che questo fa parte della natura umana, intendendo l’espressione «natura umana» non nel suo significato filosofico, ma nel senso di ciò che è l’uomo nel Progetto di Dio”30.

La risposta a questo interrogativo verrà dalla lettura complessiva di tutto il Nuovo Testamento e dall’analisi della storia della missione, soprattutto del secolo XX. A. Sacchi riconosce che Paolo, assumendo il linguaggio dei greci, dimostra “una grande apertura e disponibilità nei loro confronti”31. Per J. Dupuis, infatti, “il messaggio sembra sicuramente essere quello che le religioni delle nazioni non sono prive d’un loro valore, ma trovano in Gesù Cristo il compimento delle loro aspirazioni”32. E. J. Schnabel considera che Paolo voleva semplicemente rassicurare gli ateniesi del fatto che non annunciava nuove divinità, ma che intendeva semplicemente proclamare la natura del Dio che loro stessi onoravano e riconoscevano con un altare con l’iscrizione “al Dio ignoto”33. Comunque sia, il discorso all’Areopago mise in evidenza il bisogno di ripensamento della propria fede cristiana in una cultura diversa da quella biblica dalla quale era sorta. Come descrive Paolo questo Dio che lui presenta? Essendo l’unico Dio d’Israele, manifestato in Cristo, la descrizione che Paolo fa è piena di riferimenti classici della filosofia e della poesia greca34. J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 104. A. Sacchi, Alle origini della missione…, 164. 32 J. Dupuis, Cristianesimo e religioni…, 79. 33 E. J. Schnabel, «Contextualising Paul in the Gospel before pagan Audiences in the Graeco-Roman World», in Religion and Theology 12,2 (2005), 178. 34 Cf. A. Wikenhauser fa un’analisi accurata delle espressioni con riman30 31

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Infatti, il Dio che Paolo annuncia è appunto un Dio ignoto. Tutto il messaggio di cui è portatore è il μυστήριον του θεου, sconosciuto agli uomini (cf. 1Co 2,1), ma che li riguarda direttamente, proprio perché parte di questo mistero è la disposizione di Dio di portare all’obbedienza della fede tutte le genti (cf. Rm 11,26). Torneremo più tardi su questi testi. L’annuncio di Paolo riguarda anche il “Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che in esso si trova” e che “è signore del cielo e della terra”. Egli non è quindi un Dio tra altri; è, in definitiva, l’unico che può ricevere il nome di Dio. A causa della sua natura e della sua condizione di creatore universale non ha bisogno di abitare in un tempio né di essere servito dagli uomini, perché è lui a dare “a tutti vita, respiro e ogni cosa”. L’universo è la sua dimora e la sua azione raggiunge perfino il respiro, l’anima di ogni realtà. Lui è il creatore dell’uomo e oltre a disseminarlo per tutta la faccia della terra, ha fissato “a ciascuno i tempi stabiliti e i confini della loro dimora”, e tutto questo “perché cercassero Dio e come a tastoni si sforzassero di trovarlo, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi”. Infatti, “in lui viviamo, ci muoviamo e siamo”. L’apostolo sta facendo appello all’esperienza interiore dell’uomo: il Dio ignoto è talmente intimo e presente allo spirito da diventare perfino invisibile al soggetto. L’uomo, davanti a questo Dio sconosciuto, deve riconoscere la propria condizione creaturale: È in virtù del fatto che si riconosce come creatura – insegna J. Daniélou –, che l’uomo realizza la sua relazione fondamentale con Dio, ed è in sé medesimo che lo cerca, al di là di se stesso35.

Per questo motivo, Paolo afferma di non voler proporre una “divinità straniera”, perché il suo Dio era già in mezzo a loro, nel loro cuore e nella loro coscienza. Non un Dio da collocare di, sia al pensiero greco, sia all’Antico Testamento (cf. Atti degli apostoli…, 259-276). 35 J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 106.

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“accanto” alle altre divinità, perché non ha bisogno di culto, né di statua, né di tempio, bensì un Dio vicino, intimo, vivente, che ogni uomo può scoprire e che, riconoscendolo presente, interpella la propria esistenza. L’ἀγνώστος θεός, una volta conosciuto, svela l’uomo all’uomo. E. J. Schnabel conclude: I membri del consiglio improvvisamente si resero conto che non stavano più indagando su Paolo e sulla divinità che proclamava, ma che stavano indagando loro stessi, inclusi i filosofi epicurei e stoici che erano presenti e che permettevano al popolo di adorare gli idoli nonostante il loro insegnamento che metteva in dubbio la realtà stessa degli idoli36.

Paolo manifesta di essere più fedele alla tradizione filosofica greca degli stessi filosofi, caduti e ricaduti nell’idolatria, nello scetticismo e nell’irrazionalità. Il suo Dio trova spazio e coerenza anche in un contesto non giudaico perché, come diranno poi i padri apologisti, Dio aveva già preparato il terreno spargendo anche presso i pagani i semi che, una volta arrivato il vangelo, potevano germinare e fecondare. Paolo finisce poi il corpo del suo discorso citando un poeta pagano, Arato: “di lui, infatti, noi siamo stirpe”. Se siamo della stirpe di Dio, lui non può essere quindi inferiore a noi, un essere di pietra o un idolo inerte. Non dobbiamo farci un dio a nostra immagine e somiglianza – come riterrà secoli dopo Feuerbach, o Senofane molto prima di lui –, bensì accogliere il vero Dio che ci ha creato a sua immagine. Tutto questo messaggio dovrebbe essere alla portata dei suoi interlocutori, eredi della riflessione filosofica. Paradossalmente, i greci contemporanei di Paolo restavano legati, per convinzione o per convenienza, alle tradizioni idolatriche della religione ufficiale. Paolo ha semplicemente ripreso ciò che tra cristiani e pagani greci era in comune. Si vede in Paolo una netta distinzione tra 36

E. J. Schnabel, «Contextualising Paul in the Gospel…», 178.

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una religiosità interiore, pure filosofica – considerata autentica e precorritrice del vangelo –, e l’idolatria, intesa come culto degli idoli37. Questa distinzione percorre implicitamente tutto il Nuovo Testamento. Il discorso di Paolo, però, non si ferma a ciò che ci unisce ai gentili. Senz’altro, la saggezza dei greci è valida e può avere il valore di un praeambulum fidei; tutto ciò, però, non è sufficiente. Paolo invita i presenti a superare i tempi dell’ignoranza, che riguarda soprattutto il modo di concepire il Dio unico. Paolo non afferma che i greci siano assolutamente a digiuno riguardo al mistero di Dio. C’era infatti il culto al Dio ignoto, si poteva riconoscere tra i greci la venerazione al Dio che ha fatto tutto e anche una fede essenziale nel senso di Eb 11,6. Per questo motivo Paolo conclude il suo messaggio invitando anche i greci a convertirsi: Dio fa sapere agli uomini che tutti, e dappertutto, si convertano, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale sta per giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, accreditandolo di fronte a tutti, col risuscitarlo da morte (At 17,30).

Paolo sta annunciando un tempo nuovo nel quale Dio, in Cristo, si rivolge direttamente agli uomini, senza passare attraverso il giudaismo. L’invito alla conversione non è dunque rivolto solo agli ebrei – come nel caso del discorso di Pietro la mattina della Pentecoste –, ma a tutti gli uomini, nati da Adamo38. Il nucleo centrale del messaggio è che, nonostante ci fossero tanti elementi in comune, validi per stabilire un rapporto con Dio, ciò che è assolutamente determinante è l’accoglienza della salvezza che ci viene offerta gratuitamente in Cristo tramite il suo mistero pasquale. Il cristianesimo si colloca nel punto di continuità e discontinuità, non solo con la tradizione ebraica, ma anche con 37 38

Cf. J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 108-109. Cf. J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 111.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

le vie di ricerca di Dio che gli uomini hanno seguito grazie alla coscienza e alla scoperta della provvidenza divina. Il messaggio evangelico si colloca – come insegna J. Dupuis, seguendo L. Legrand – su questi due assi di continuità-discontinuità. “L’asse della discontinuità pone l’accento sulla novità radicale di Cristo e della sua risurrezione”39. Da questa prospettiva le religioni sono qualcosa di negativo. L’asse della continuità si scopre proprio nel discorso all’areopago come visione di “un mondo greco in attesa del Dio ignoto e predisposto ad incontrarlo dai suoi poeti-teologi”. Dobbiamo ammettere che sin dall’inizio i greci non avevano avuto molta stima per quel σπερμολόγος giudeo che perorava come un oratore classico nell’areopago. In ogni caso, erano concordi forse con lui fino a quando parlò della risurrezione. La curiosità iniziale divenne noia e disprezzo. La risurrezione di Cristo semplicemente non entrava nelle loro categorie. Erano sciocchezze. I greci non erano in grado di rappresentarsi la risurrezione se non come restituzione di un cadavere alla vita, cosa che non corrisponde alla visione cristiana di risurrezione40. Non solo, il discorso di Paolo invitava i greci alla coerenza. Loro avevano ricevuto una rivelazione di Dio, grazie alla riflessione filosofica e alla poesia – due forme di accostarsi alla verità, tramite l’argomentazione logica e tramite il simbolo –, ma i greci avevano ridotto la ricerca della sapienza alla dialettica e perciò disprezzarono il messaggio cristiano, ritenendolo pura stoltezza (cf. 1Co 1,23). Infatti, sembra che la predicazione di Paolo all’areopago non destò molto successo. Se nei casi precedenti si parla di numerosi greci, qui si parla di “alcuni uomini” che abbracciano la fede, e in particolare Dionigi l’areopagita e Damaris. A. Sacchi vede nel discorso il paradigma della predicazione del vangelo nella cultura greca, “adottando quanto di essa poteva risultare valido e accettabile”. “Le chiese dei gentili appaiono, così, dotate di un 39 40

J. Dupuis, Verso una teologia cristiana…, 72-73. Cf. A. Wikenhauser, Atti degli apostoli…, 276.

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E chi può salvarsi?

linguaggio nuovo che permette loro di rispondere alla mentalità e alle attese di popolazioni che con il giudaismo avevano un rapporto piuttosto remoto”41. Possiamo concludere questo argomento con la sintesi di J. Daniélou che riassume l’insegnamento di Paolo sulla religione così come si desume dal discorso all’areopago: Innanzitutto, l’uomo è fatto per Dio, perché è creato da Dio, e la ricerca di Dio, che esiste in ogni anima d’uomo, è la dimostrazione di questa religione fondamentale. In secondo luogo, l’uomo, abbandonato a se stesso, si inganna sempre, più o meno, su ciò che è Dio, e le religioni pagane sono espressione di questo miscuglio di verità e di errore, perché sono contaminate dall’idolatria e corrispondono al tempo dell’ignoranza. In terzo luogo, è nel Cristo che Dio si manifesta nella sua realtà: il Cristo è il solo che sia destinato da Dio, e quindi è lui che tutti gli uomini debbono riconoscere come il rivelatore del vero Dio. Ed è lui che giudicherà tutti gli uomini, in base alla loro conversione, o mancata conversione, al vero Dio42.

Le lettere di san Paolo Gli Atti degli apostoli ci hanno mostrato come il vangelo si è diffuso, prima tra i Giudei, e poi tra i gentili. Abbiamo detto poi che la missio ad gentes non è stata inventata da Paolo. Essa fu un’esigenza del vangelo stesso – il cui fondamento è la missione di Gesù, inviato dal Padre – ed ebbe come occasione le varie persecuzioni dei cristiani che dovettero allontanarsi, non solo fisicamente, dal suo centro a Gerusalemme verso la diaspora. Le lettere di san Paolo ci permettono di vedere l’azione evangelizzatrice di Paolo dalla prospettiva della sua stessa concezione di salvezza concessa ai pagani. È evidente che anche lui, come 41 42

A. Sacchi, Alle origini della missione…, 164. J. Daniélou, La Chiesa degli Apostoli…, 112.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Pietro e gli altri discepoli, dovette fare un cammino di scoperta di questa missione. Questo cammino fu molto diverso da quello di Pietro, semplice pescatore divenuto capo della Chiesa. Paolo, al contrario, era un intellettuale nazionale-radicale ebreo convertito dalla luce folgorante di Cristo. Nell’epistolario paolino la Lettera ai Romani occupa il posto centrale per quanto riguarda una riflessione sulla salvezza dei non cristiani. Essa è preceduta temporalmente dalla Lettera ai Galati, dove Paolo presenta dei temi che saranno trattati più profondamente dopo. Possiamo quindi prendere gli spunti da queste due lettere per poi vedere i temi fondamentali prima e dopo la Lettera ai Romani. Prima di analizzare l’epistolario paolino ricordiamo tre cose: in primo luogo, Paolo indirizza le sue lettere a dei cristiani convertiti. Le suppliche per i cristiani e i documenti indirizzati ai pagani appartengono all’epoca successiva a quella di Paolo. In secondo luogo, Paolo, nelle sue epistole, ignora completamente la situazione esistenziale di un pagano che non abbia assolutamente la possibilità di ascoltare il messaggio evangelico. Lui è semplicemente convinto che l’annuncio è già arrivato ai confini del mondo (cf. Rm 10,18). Terzo, Paolo ha una visione sostanzialmente negativa delle religioni. La Lettera ai Romani La lettera ai Romani è considerata la più importante dell’epistolario paolino43. Per quanto si deduce dalla lettera stessa, il nucleo della comunità era composto da etnocristiani, con una discreta presenza di giudeocristiani. Per quanto riguarda il nostro tema, tutto il senso della lettera è racchiuso tra 1,5 e 16,26 che, in forma di grande inclusione redazionale, indica solennemente qual Cf. A. Sacchi, «Le lettere autentiche», in A. Sacchi et paoline e altre lettere, Elle di ci, Leumann (Torino), 1996, 171. 43

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alii,

Lettere

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è il ministero dell’apostolo di Tarso e il senso della lettera. Paolo infatti ha ricevuto da Gesù “la grazia e la missione apostolica per portare all’obbedienza della fede tutti i gentili a gloria del suo nome” (Ro 1,5). La lettera finisce con una dossologia indirizzata a Dio che, nel Figlio, manifesta il mistero taciuto dall’eternità e reso noto dall’apostolo, e cioè, “portare l’obbedienza della fede a tutte le nazioni” (Ro 16,26). La lettera ai Romani spiegherà come si dispiega nella storia questo mistero di salvezza universale. Solidarietà nell’unico Dio e nel bisogno di salvezza In primo luogo, dobbiamo capire qual è la natura di questo messaggio. Paolo afferma che il Vangelo è una forza, una δύναμις che opera in colui che crede, sia giudeo sia greco (cf. Rm 1,16). La Buona Novella non è quindi un messaggio teorico o una dottrina pratica. È una realtà che agisce prima della volontà dell’uomo (cf. Rm 5,8): è il mistero di quell’uno che salva i molti. Una volta stabilito che il Vangelo è la rivelazione del mistero di Cristo che salva tutti, Paolo manifesta la situazione dei Giudei e dei gentili davanti alla salvezza. In primo luogo, viene descritta la situazione dei gentili di fronte alla salvezza (primo capitolo). Essa è caratterizzata da due livelli, uno negativo e uno positivo. L’aspetto negativo è l’ira di Dio che si manifesta “sopra ogni empietà e malvagità di quegli uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia” (Rm 1,18). Ciò manifesta la visione sostanzialmente negativa che Paolo ha riguardo all’ordine religioso pagano. L’aspetto positivo invece riguarda la possibilità dei gentili di giungere alla conoscenza di Dio tramite le “proprietà invisibili” che Dio ha manifestato loro tramite la creazione (cf. Rm 1,20). Il giudizio negativo riguardo ai gentili è dovuto invece al fatto che essi, “avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie, ma i loro ragionamenti divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò” (Rm 1,21). Il peccato dei gentili viene definito come inescusabile in quanto atto di violenza 118

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

alla verità e come resistenza a un Dio che si era loro manifestato44. Questa situazione di rifiuto di Dio, oggettivo e storicamente definito, porta ad una ricaduta nell’immoralità. L’affermazione “Dio li ha lasciati in balìa dei desideri sfrenati dei loro cuori” (Rm 1,24), ripetuta per ben tre volte, sta ad indicare, non tanto un castigo divino, ma un abbandono alle proprie forze impotenti. Infatti, i gentili, senza l’aiuto di Dio, confondono la verità con la menzogna, adorano e prestano culto alle creature invece che al Creatore (cf. Rm 1,26). In sintesi, sono tre le conseguenze dell’abbandono di Dio. I gentili, senza Dio, restano in balìa dei desideri sfrenati dei loro cuori, di passioni ignominiose e di una mente insipiente. Il peccato e il male intaccano l’uomo nella sua integrità: mente, volontà e passioni. La descrizione della situazione morale e religiosa dei pagani viene chiusa con una sentenza: “Essi, conoscendo bene il decreto di Dio, per cui coloro che compiono tali azioni sono degni di morte, non solo le fanno, ma danno il loro consenso, approvando chi le compie” (Rm 1,32). I gentili hanno conosciuto il decreto di Dio, ma fanno il contrario e promuovono uno stile di vita che porta finalmente alla morte. Come si può apprezzare, il giudizio sui gentili è estremamente duro. La novità della dottrina paolina però non sta tanto nella visione negativa nei confronti dei pagani – abbastanza estesa tra gli ebrei –, ma nella consapevolezza che il peccato intacca anche l’universo ebreo45. Il giudizio riguarda tutti gli uomini, Giudei e Greci, che saranno giudicati secondo le loro opere46. Ha un valore universale, come universale sarà la redenzione operata da Cristo. Di fronte al peccato e alla morte la situazione dei Giudei 44

Cf. J. Sánchez Bosch, Escritos paulinos, Verbo divino, Navarra 1999,

293. Per la riflessione sulla lettera, soprattutto del secondo capitolo, cf. G. Odasso, Bibbia e religioni…, 317-334. 46 cf. G. Odasso, Bibbia e religioni…, 318. 45

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infatti non sembra essere molto diversa da quella dei gentili. A questo punto, non è più l’appartenenza al popolo eletto o la conoscenza della legge a rendere i Giudei giusti al cospetto di Dio. Dio, infatti, “ricompenserà ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a quelli che nella perseveranza di un agire onesto cercano gloria, onore, immortalità” (Rm 2,6). Paolo è molto chiaro ed energico nell’affermare la situazione di condanna di coloro che operano il male, come nell’affermare la promessa di salvezza per chi opera il bene, a prescindere dal suo rapporto con l’alleanza (cf. Rm 2,9-10). Dopo aver manifestato l’universalità del peccato e l’assoluta imparzialità divina, Paolo fa una lezione magistrale di legge naturale. Ciò che conta non è la conoscenza della legge ma il suo compimento. E proprio riguardo ai pagani, che non hanno conoscenza positiva della legge afferma: Tutte le volte che i pagani, che non hanno la legge, praticano le azioni prescritte dalla legge, seguendo il dettame della natura, essi, pur non avendo la legge, sono legge per se stessi. Essi mostrano che l’opera voluta dalla legge è scritta nei loro cuori dato che la loro coscienza rende loro testimonianza e i loro ragionamenti si accusano o difendono tra di loro, nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini secondo il mio vangelo, per mezzo di Gesù Cristo (Rm 2,13-16).

La novità della riflessione di Paolo, come annota J. Sánchez Bosch, non è solamente che i giudei si possono condannare, bensì che i pagani si possono salvare: Sembra che nella «pazienza» con la quale si «cerca» qualcosa che molti pagani avevano cercato («gloria e onore e immortalità») è implicita una sottomissione alla giustizia di Dio (cf. 10,3)47.

47

J. Sánchez Bosch, Escritos paulinos..., 293-294.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Anche se la legge è scritta nei cuori degli uomini, la legge data a Israele è il “paradigma della scienza e della verità” (Rm 2,20). Questo testo può essere messo a confronto con Gv 4,22: “la salvezza viene dai Giudei”. In questo senso, il Giudeo è avvantaggiato rispetto al pagano, in quanto possiede la legge, di cui la circoncisione è il segno, ma alla fine esso non è determinante, proprio perché il vero giudeo non sta nell’appartenenza esterna, né la vera circoncisione è quella che appare nella carne; ma il vero giudeo lo è al di dentro, e la vera circoncisione è quella del cuore, secondo lo Spirito, non secondo la lettera” (Rm 2,28-29).

Orbene, la legge iscritta nel cuore non è semplicemente una percezione interiore che rende morale l’azione. Ha ragione J. Dupuis quando afferma che “tale Legge iscritta nel cuore è costituita dall’amore stesso, l’agápe del Nuovo Testamento”48, quindi da non intendersi in senso puramente naturale o moralistico. Il secondo capitolo della lettera ai romani relativizza la legge, la circoncisione e l’appartenenza al popolo eletto. La salvezza non si trova in questi elementi, che hanno solo un valore di mezzi e di simboli. Essa si trova piuttosto nella circoncisione del cuore, nella bontà di chi è “giusto di fronte a Dio”. Con questo, ebrei e pagani si trovano sullo stesso livello davanti a Dio, che “non fa distinzione di persone” (Rm 2,11), perché Lui è anche “Dio dei pagani” (Rm 3,29). “Per i giudei – scrive J. Sánchez Bosch –, la circoncisione ha valore, se adempiono la Legge, invece ai pagani non circoncisi si attribuisce ciò che è proprio della Nuova Alleanza: la circoncisione del cuore e il dono dello Spirito”49. Nel terzo capitolo Paolo affermerà la solidarietà nel peccato e nella privazione della vita divina. “Giudei e Greci sono tutti sotto J. Dupuis, Cristianesimo e religioni…, 76; anche G. Odasso, Bibbia e religioni…, 321: “Quest’ «opera della legge», a sua volta si esprime e si realizza nelle «opere» che in ogni circostanza esprimono l’amore vicendevole”. 49 J. Sánchez Bosch, Escritos paulinos..., 294. 48

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il dominio del peccato” (Rm 3,9). “Tutti peccarono e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23), sentenza alquanto insolita per chi ha appena affermato che la salvezza si ottiene con una vita onesta. Sembra un’esagerazione che potrebbe essere riconducibile alla radicalità di un convertito, perseguitato da Giudei e da pagani. Potrebbe essere però un modo paradossale per affermare che, oltre al comportamento onesto, ci vuole qualcosa di più radicale, che va oltre la volontà umana: appunto la dimensione teologale della salvezza, antecedente ad ogni azione umana, di cui la vita onesta è una conseguenza e una manifestazione, ma non causa della salvezza. Se è vero, allora, che “per mezzo della legge si ha la conoscenza del peccato” (Rm 3,20), ciò vale di più per il mistero pasquale. Solo alla luce della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo si conosce la vera condizione caduta dell’uomo. Sono, sì, le opere e la vita onesta a dare la salvezza, solo perché siamo stati “giustificati gratuitamente per suo favore, mediante la redenzione che è in Gesù Cristo” (Rm 3,24). La situazione di privazione della grazia è un qualche cosa che supera la volontà umana. Per questo motivo non c’è oggetto di vanto per chi pensa di salvarsi sia per mezzo della legge sia per mezzo delle opere della fede (cf. Rm 3,27). Legge e fede prendono valore e senso dal mistero pasquale di Gesù Cristo. Questa verità, Paolo la ribadirà più avanti: Cristo morì per noi quando eravamo ancora peccatori. “Quando eravamo nemici noi fummo riconciliati con Dio in virtù della morte del Figlio suo” (Rm 5,8). L’Uno che salva i molti La fede di Abramo, insegna Paolo, non solo fu computata a lui come giustizia, ma anche a noi “che crediamo in Colui che risuscitò da morte Gesù nostro Signore, il quale fu consegnato per causa dei nostri peccati e fu risuscitato per compiere la nostra giustificazione” (Rm 4,24-25). Paolo prenderà spunto da questa 122

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

affermazione per elaborare la sua singolare teologia dell’uno che salva i molti, già presente lungo tutta la Sacra Scrittura. Infatti, la dimostrazione più grande dell’amore di Dio è appunto il fatto che “mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8). Poi san Paolo ripete l’idea: “quando eravamo nemici, noi fummo riconciliati con Dio in virtù della morte del Figlio suo” (Rm 5,10). Il peccato di Adamo compromise tutta l’umanità. Per questo motivo “non esiste giusto, neppure uno” (Rm 3,10). L’opera di redenzione allora è legata esclusivamente alla sovrabbondanza della “benevolenza di Dio” nel dono di benevolenza di un solo uomo, Gesù Cristo, verso la discendenza di Adamo (cf. Rm 5,15), quindi verso ogni essere umano. Così, se Adamo fu causa di condanna per tutta l’umanità, “così anche attraverso l’atto di giustizia di uno solo si avrà in tutti gli uomini la giustificazione di vita” (Rm 5,18). Ci sorge una domanda: questa giustificazione “per tutti” ha valore solo nell’accoglienza della fede? San Paolo sembra affermare che con il battesimo noi riceviamo quella giustificazione: “fummo sepolti con lui per il battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un comportamento di vita del tutto nuovo” (Rm 6,4). Allora è l’incorporazione a Cristo a donarci la salvezza. Senza di essa non sarebbe possibile l’applicazione della salvezza all’uomo. L’appartenenza a Cristo ovviamente non implica un disimpegno morale. Il discepolo di Gesù, essendo stato schiavo del peccato, deve offrire le proprie membra “in servizio della giustificazione per la santificazione” (Rm 6,19). Non solo chi è stato battezzato, ma “coloro che si lasciano guidare dallo Spirito sono figli di Dio” (Rm 8,14). Ciò che ci chiediamo è se questa giustificazione universale ha valore solo per i cristiani battezzati. Paolo ci dice che ci sono quelli che dall’eternità sono stati predeterminati alla salvezza. Sappia123

E chi può salvarsi?

mo che predestinazione non significa che Dio abbia creato esseri umani da destinare alla condanna. Riguarda piuttosto il disegno salvifico che si dispiega nel tempo e accondiscende alla risposta umana. Come dobbiamo intendere allora questa affermazione paolina? L’apostolo scrive: “Poiché coloro che da sempre egli ha fatto oggetto delle sue premure, li ha anche predeterminati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Si deve forse interpretare in modo restrittivo, come se non tutti dovessero partecipare di questa salvezza se non solo coloro che sono stati da sempre preordinati? Allora la salvezza non è per tutti. Infatti, secondo Paolo, “non tutti quelli che discendono da Israele sono Israele” (Rm 9,6) e, citando Isaia, l’apostolo assume che “solo un resto sarà salvato”. A noi non spetta rinfacciare a Dio questa condotta perché, primo, “l’iniziativa è di Dio che usa misericordia” con chi vuole; e, secondo, chi siamo noi per contraddire Dio? Lui come il vasaio ha “piena disponibilità sull’argilla”. Appartiene, quindi, al suo volere, chiamare noi “non solo dal popolo giudaico, ma anche dai pagani” (Rm 9,24). Esiste un mistero nascosto di salvezza che non sta a noi indagare. Dio vuole che tutti si salvino, ma quella volontà si attua in una storia che è anche aperta al mistero del rifiuto e della condanna. Il mysterium iniquitatis resta tale anche dopo la comparsa del mysterium pietatis. Esiste un’altra possibile spiegazione. La salvezza è per tutti, ma non tutti l’hanno accolta, e questi sono stati lasciati in balìa delle loro passioni. Qui entra il problema cruciale della confessione di fede. La salvezza, per Giudei e Greci, passa per la professione di fede che Paolo proclama. La frase non lascia spazio a dubbi: “se tu professerai con la tua bocca Gesù come signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato da morte, sarai salvo” (Rm 10,9). Questa affermazione chiara e assiomatica pone immediatamente il problema del soggetto che riceve il messaggio. La salvez124

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

za sta nell’invocazione del nome del Signore (Rm 10,13). Allora, se “la fede dipende dalla predicazione” (Rm 10,17) e se la predicazione dipende da “uno che annuncia” (Rm 10,14), qual è la situazione di chi non ha mai sentito parlare del vangelo? Questa domanda non ha senso per Paolo perché lui sembra essere convinto che tutti abbiano udito già il messaggio. Noi, dopo duemila anni sappiamo che non è così. L’apostolo delle genti crede invece che la voce “di coloro che portano il buon annuncio del bene” (Rm 10,15) “ha risuonato su tutta la terra, le loro parole sono giunte fino ai confini della terra abitata” (Rm 10,18). Il problema è che Paolo, che ha viaggiato per parte del bacino mediterraneo, dovrebbe essere consapevole del contrario. Lui si è limitato ad evangelizzare nelle città e in tutti gli Atti degli apostoli possiamo contarne non più di una trentina. J. Munck considera che il vangelo di Paolo, non essendo di fatto predicato a tutti gli uomini, comunque porta con sé un carattere di universalità50. Questa universalità porta san Paolo a espandere il suo raggio d’azione pur non pretendendo di convertire ogni uomo. Il suo desiderio di andare in Spagna quando ancora le comunità dell’Oriente erano piccole, manifesta quanto fosse consapevole l’apostolo dei gentili di voler raggiungere le estremità della terra. J. Munck fa vedere che l’intenzione di Paolo non fu mai riuscire a far ascoltare ad ogni individuo il vangelo e così fargli prendere una decisione pro o contro di esso. Nella sua concezione, erano le nazioni ad essere interpellate dal vangelo. Si tratta qui di un’accettazione rappresentativa del vangelo. A Oriente Paolo e gli apostoli avevano già seminato. Adesso bisognava andare dagli spagnoli, gallici e bretoni per far possibile ciò che aveva profetato il salmo 19,5: “per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio”51. Cf. J. Munck, «Israel and the Gentiles in the New Testament», Journal of Theological Studies, N.S., Vol. II, Pt. 1, April 1951, 8. 51 Cf. J. Munck, «Israel and the Gentiles…, 8. 50

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Tutto comunque rientra in un piano misterioso che parte dall’elezione d’Israele, ha il suo momento critico nell’indurimento parziale del popolo che resterà tale “fino a che la totalità dei gentili sia entrata (nel regno), e cosi tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,25-26). Dio è talmente grande che tira fuori il bene anche dal male e ha aperto la porta della salvezza a tutti gli uomini – il banchetto del regno – mentre il figlio maggiore è fuori indignato ad aspettare, confuso da una misericordia paterna fin troppo incomprensibile (cf. Lc 15,28). La vita cristiana di fronte agli uomini Il resto della lettera ai Romani è destinato a mettere in evidenza alcuni precetti di vita cristiana. La prima raccomandazione è quella di non uniformarsi al mondo presente (cf. Rm 12,2). Tra i vari consigli che l’apostolo offre, ce n’è uno che ci riguarda: “se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini” (Rm 12,18). In Paolo non c’è traccia di fanatismo religioso né di proselitismo nell’imporre la propria fede se non con l’esempio o la persuasione spirituale, soprattutto con l’amore. Di questo Paolo ci ha dato esempio, evitando conflitti e scegliendo di allontanarsi dalle città dove potevano nascere delle ostilità o degli atti di violenza. Poi Paolo consiglia la sottomissione alle autorità civili. Lo dirà pure a Timoteo e a Tito. Esse sono ovviamente pagane, ma Paolo sa che “non esiste autorità se non proviene da Dio; ora le autorità attuali sono state stabilite e originate da Dio. Di modo che, chi si ribella all’autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio” (Rm 13,1-3). In ogni caso, e più importante tra tutti è il comandamento dell’amore. “Chi infatti ama l’altro, compie la legge” (Rm 13,8), perché “la pienezza della legge è l’amore” (Rm 13,10). L’amore è il criterio ultimo in ordine alla salvezza.

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In ultima analisi il cristiano deve seguire l’esempio di Cristo. Paolo però sembra cambiare bruscamente il tema e riprende quello del rapporto tra giudei e greci in ordine alla salvezza: “Dichiaro infatti che Cristo è divenuto servitore dei circoncisi per la veracità di Dio, compiendo le promesse fatte ai padri; i pagani invece glorificano Dio per la misericordia, secondo quanto sta scritto” (Rm 15, 8-9) e poi cita quattro testi dell’Antico Testamento: “ti loderò in mezzo ai pagani”, “gioite, nazioni, insieme al suo popolo”, “lodate il Signore, o genti tutte, lo celebrino tutti i popoli”, “le genti spereranno in lui [nel germoglio della radice di Iesse]”. Che significa che i pagani glorificano Dio per la misericordia?52 Gli ebrei convertiti sono eredi di una promessa di Dio. Cristo, vittima di espiazione, manifesta la fedeltà di Dio che non viene mai meno alle sue promesse. I pagani invece non ricevettero alcuna promessa, ma la loro benedizione è inclusa nell’alleanza storica con Israele. Loro, in virtù della misericordia infinita di Dio, sono adesso invitati a partecipare con pari dignità ai beni eterni che ci ha guadagnato Cristo. Perciò i pagani glorificheranno Dio per la sua misericordia. La lode e la gloria a Dio finalmente verranno dai due cori – pagani e giudei – nella liturgia che si eleva a Dio da tutta l’umanità. Paolo è stato chiamato appunto per questo: per essere “ministro cultuale di Gesù Cristo nei riguardi dei pagani […] affinché l’offerta sacrificale rappresentata dai pagani divenga accetta, santificata com’è per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 15,16). Paolo finisce la sua lettera ribadendo che tutto quanto ha fatto – Cristo per mezzo suo – ha come unica finalità quella di guidare i pagani a sottomettersi “all’obbedienza in parole e in azioni, con la forza dei segni miracolosi e dei prodigi, con la potenza dello Spirito” (Rm 15,17-19). 52

Cf. G. Barbagaglio, Le lettere di Paolo, vol. II, Borla, Roma 19902, 508.

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La lettera ai Galati e le altre lettere di san Paolo, visione d’insieme La lettera ai Galati è anteriore a quella indirizzata ai Romani, ma già in essa troviamo gli elementi che saranno sviluppati più in dettaglio nell’altra. Qui presentiamo solo gli elementi che non troviamo nell’altra lettera. Paolo riafferma la sua missione ricevuta da Dio di annunciare “il Figlio suo” ai pagani (Gal 1,16). Questa missione è stata confermata dai “notabili” di Gerusalemme che riconobbero che Paolo doveva “annunciare il vangelo presso i pagani, essi invece presso i circoncisi” (Gal 2,9). F. Mussner fa notare che l’accenno ai pagani nella rivelazione ricevuta nel percorso di Damasco sta ad indicare l’insistenza di Paolo di aver ricevuto la missione presso i gentili direttamente da Cristo e non dai notabili di Gerusalemme, che solo hanno confermato. Infatti, “in Gal 1,16 Paolo mette la rivelazione del Figlio «in» lui in un rapporto finalistico con la sua missione trai i gentili (ινα)”53. L’apostolo dei gentili difende tenacemente la libertà dei pagani nei confronti della legge. Di fronte ai Giudei e davanti a Pietro esorta a non costringere i gentili a vivere secondo la legge di Mosè, perché non è la legge a salvare, “ma solo in forza della fede in Gesù Cristo” (Gal 2,15). Questa salvezza in virtù della fede era già annunciata dalla Scrittura nella promessa che Dio fece ad Abramo: Saranno benedette in te tutte le nazioni (Gal 3,8). “l’opera svolta da Cristo – scrive A. Sacchi – è stata così piena ed efficace, da escludere che qualsiasi altra realtà possa svolgere un ruolo anche lontanamente equiparabile al suo”54. Perciò la salvezza non può venire più, né dalle opere della legge (la religione ebraica), né da alcun’altra mediazione religiosa: se la giustificazione venisse

F. Mussner, La lettera ai Galati, Paideia, Brescia1987, 160-161. A. Sacchi, «Le lettere autentiche», in A. Sacchi et alii, Lettere paoline e altre lettere, Elle di ci, Leumann (Torino), 1996, 168. 53 54

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

dalla legge – o da altri mezzi –, Paolo non esita a concludere che Cristo è morto invano (Gal 2,21)55. La legge, nella lettera ai Galati, ha concluso il suo compito con l’avvento di Cristo. A. Sacchi insiste nel fatto che essa è perfino negativa perché data “per moltiplicare le trasgressioni”; anzi, deriva da Dio solo indirettamente e quindi di valore relativo. A. Sacchi annota però che “è chiaro che Paolo ha in mente una legge che, staccata da un atteggiamento di fede autentica, è diventata semplicemente una serie di prescrizioni che l’uomo pretende di osservare con le sue sole forze per rendersi gradito a Dio”56. La libertà di Cristo consiste invece nel precetto dell’amore che è libertà nello Spirito. ***

Completiamo la visione paolina con uno sguardo d’insieme delle altre lettere. Il primo aspetto che risalta è la percezione sostanzialmente negativa nei confronti delle religioni e dei culti pagani. I loro sacrifici sono fatti ai demoni (cf. 1Co 10,20). Perciò l’apostolo esorta a stare alla larga dalle infiltrazioni pagane (cf. 2Co 6,14) e a non comportarsi come i gentili con i “loro folli pensieri” (Ef 4,17). Essi infatti sono estranei alla vita di Dio, sono ignoranti e il loro cuore è indurito, abbandonati a “stravizi”, “fino a commettere ogni genere d’immondizia” (ibid.). I cristiani venuti dalla gentilità non erano diversi dai loro connazionali. Essi si sono “convertiti dagli idoli” (1Ts 1,9), stranieri e ostili (Col 1,21) e da tenebre, grazie alla predicazione, sono divenuti “luce nel Signore” (Ef 5,8). Nella lettera agli Efesini Paolo offre una sintesi della situazione esistenziale dei cristiani venuti dalla gentilità: Questa riflessione ci sarà utile più avanti quando parleremo del valore relativo delle mediazioni storiche di natura religiosa. 56 A. Sacchi, «Le lettere autentiche»…, 169. 55

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E chi può salvarsi?

Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo (Ef 2,11-13).

In 1Ts 4,1-5 Paolo invita i cristiani a comportarsi in modo tale da piacere a Dio. L’apostolo mette l’accento sulla purità nei confronti del proprio corpo, “senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio”. Cosa intende dire Paolo con questo “καθάπερ καὶ τὰ ἔθνη τὰ μὴ εἰδότα τὸν θεόν”? Esso non potrebbe essere interpretato in senso assoluto – nessun pagano conosce Dio – bensì in senso relativo, vale a dire, Paolo ci insegna che non bisogna comportarsi come i pagani che, proprio perché non conoscono (o riconoscono) Dio, si abbandonano alle basse passioni e all’impurità. Non dimentichiamo che Paolo stesso ha riconosciuto ai pagani la possibilità di incontrare Dio nella propria coscienza. Dall’insieme dei testi che ci parlano dei pagani venuti alla fede, possiamo avvertire una certa iperbole dialettica di Paolo nei confronti dell’universo pagano – anche nei confronti del giudaismo Paolo è particolarmente severo, fino all’esagerazione. Del centurione Cornelio si legge che pregava e faceva costanti elemosine, di Lidia si dice che accoglieva Dio, la conversione del carceriere insieme a tutta la sua famiglia ci fa pensare a delle persone piuttosto lontane dagli eccessi dei “gentili che non conoscono Dio”. I cristiani venuti dalla gentilità – tranne sicuramente qualche eccezione – avevano già prima della conversione una moralità naturale imparata da ciò che c’era di “santo e di vero” nella propria religione. Non possiamo quindi pensare che i primi convertiti al cristianesimo fossero tutti degli immorali, idolatri, effeminati, 130

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

ecc. Sembra vero proprio il contrario. Questo linguaggio radicale risponde piuttosto a un fenomeno comprensibile di chi, trovando la luce di Cristo – “la sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (cf. Fil 3,8) –, ritiene tutto quanto ha fatto in precedenza come spazzatura o come idolatria. Sarà compito delle generazioni cristiane successive recuperare gli elementi di bontà e di verità presenti nella cultura e nelle religioni e trasformarli come il lievito nell’impasto. Questa visione parziale della religione, del resto, è presente lungo i secoli nella riflessione cristiana. La tentazione è sempre quella di comparare la santità cristiana – il fiore più eccelso della nuova vita in Cristo – con le bassezze idolatriche e con l’immoralità dei pagani. Il tempo e la storia comparata delle religioni ci hanno fatto capire che, benché sia vero che certe pratiche religiose sono accompagnate da errori e immoralità, sarebbe ingiusto ridurre le religioni pagane solo a ciò che è errore. Gli elementi di santità e verità, di bontà, onestà e bellezza sono presenti nelle religioni più di quanto noi possiamo ritenere, proprio perché lo Spirito Santo non resta ozioso nel cuore degli uomini né in seno alle culture. Nonostante la sua visione negativa, Paolo si prende cura di dare qualche consiglio pratico per gli etnocristiani. Essi infatti vivono ancora in un contesto pagano e partecipano alle gioie e alle attese degli uomini del loro tempo. Diventare cristiani non significa allontanamento dal mondo. Il cristianesimo non è una fuga mundi. Ciò comporta una serie di atteggiamenti nei confronti di coloro che stanno al di fuori delle comunità cristiane. L’atteggiamento fondamentale che l’apostolo chiede ai cristiani è la testimonianza semplice e sincera della vita nuova ricevuta con il battesimo. Il cristiano deve comportarsi “con onore di fronte a quelli di fuori” (1Tes 4,12), perciò Paolo rimprovera i cristiani di Corinto a causa dello scandalo che comporta il fatto

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E chi può salvarsi?

che ci siano liti tra fratelli e che essi facciano ricorso a dei pagani per risolvere i propri litigi (cf. 1Co 6,1-8). La testimonianza cristiana non si riduce, però, a non dare scandalo. L’atteggiamento fondamentale dei credenti è quello del rispetto. Paolo esorta a Tito ad essere sottomesso alle autorità dimostrando comprensione verso tutti gli uomini (cf. Ti 3,1) e, perfino, quando un cristiano è invitato a pranzo da un pagano, egli può accettare di accostarsi a tavola purché faccia tutto “per la gloria di Dio” (1Co 10,27). E se è vero che bisogna annunciare, “ammonendo ogni uomo” (Col 1,28), è pur sempre vero che è necessario comportarsi “saggiamente con gli estranei cogliendo le occasioni opportune” per evangelizzare (Col 4,5), lasciando poi il giudizio delle persone a Dio perché, come insegna Paolo ai Corinzi, “quelli di fuori li giudicherà Dio” (1Co 5,13). In ultima analisi, Paolo non rinuncia alla predicazione in vista della conversione a Cristo, ma la sua azione missionaria è condotta nel rispetto dell’altro. Negli Atti degli Apostoli si racconta l’episodio dell’incontro di Paolo con Agrippa, Berenice e Festo. L’apostolo, con semplicità e sincerità, racconta la sua conversione fino a quando Agrippa esclama: “ancora un poco e mi persuadi a farmi cristiano” (At 26,28). La risposta di Paolo manifesta la convinzione del tesoro che lui porta tra le mani, senza però costringere o minacciare con i castighi eterni i suoi ascoltatori e senza neanche perdersi d’animo di fronte alla lentezza che comporta il cammino di conversione: “O poco o molto, Dio volesse che non solo tu ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano diveniste come io sono, all’infuori di queste catene” (At 26,29). Il desiderio di Paolo è trasmettere ciò che ha trasformato la sua vita, ma rispettando la libertà e la dignità di ogni persona, e soprattutto lasciando alla provvidenza divina i tempi e le circostanze dell’incontro di ogni uomo con Cristo. La Chiesa ha senz’altro rispettato questo principio perché la fede è un atto volontario, ma dobbiamo

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

pure riconoscere errori e impazienze che hanno portato sovente al ricorso a mezzi meno evangelici di persuasione. L’esempio di nuova vita in Cristo riguarda anche la ricerca della comunione e dell’unità. Se nel passato i discepoli di Paolo si erano votati alle passioni, adesso devono svestirsi dell’uomo vecchio e rivestirsi del nuovo. In questa situazione non c’è più greco o giudeo, “circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,11), “non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Questo “muro di separazione” non esiste più; è stato abbattuto da Cristo per mezzo della sua croce. Questo è motivo di gioia per i pagani che possono godere della cittadinanza nel nuovo popolo e diventare anche loro pietre per l’edificazione del nuovo tempio spirituale, fondato sugli apostoli (cf. Ef 2,19-22). Infine, in 1Tim 2,1-7 – testo fondamentale per la teologia delle religioni –, Paolo invita a elevare preghiere in favore di tutti gli uomini, in particolare per i governanti – tutti quanti pagani al momento del ministero paolino –, non tanto affinché si convertano, bensì “affinché possiamo trascorrere una vita tranquilla e serena”. Il lievito nell’impasto fa il suo lavoro di trasformazione a patto che il processo sia sereno e tranquillo, senza fondamentalismi o impazienze non evangeliche. Questa preghiera “è cosa gradita a Dio che vuole che tutti gli uomini si salvino”. Per quanto riguarda la preghiera per tutti gli uomini, L. Oberlinner segnala che con essa “i cristiani devono essere consapevoli di essere responsabili «per tutti»”. E conclude: La dimensione universale dell’impegno cristiano alla preghiera non è presunzione arbitraria né superba arroganza, bensì si fonda piuttosto sulla fede nella divina volontà di salvezza universale e sulla confessione che questa volontà salvifica è divenuta realtà storica in Gesù che ha donato se stesso per tutti gli uomini57. 57

L. Oberlinner, Le lettere pastorali, vol. I, Paideia, Brescia 1999, 153.

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E chi può salvarsi?

La preghiera è gradita appunto perché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati. Paolo scarta qualunque nozione gnostica di salvezza, come se solo pochi eletti fossero destinati alla conoscenza della verità mentre gli altri abbandonati alla dannazione. La «conoscenza della verità» - insegna L. Oberlinner – dipende dalla volontà divina di salvezza ed è pertanto un traguardo che, in linea di principio, è aperto a tutti e da tutti raggiungibile”. Essa “si manifesta nella disponibilità a condurre una vita conforme a tale «verità», e a sperare nell’adempimento escatologico senza incertezze58.

Come interpretare però questa volontà salvifica universale con l’espressione dello stesso san Paolo che riconosce che “la fede non è di tutti” (2Tes 3,2)? È ovvio che la fede non è degli “uomini corrotti e malvagi” che conducono “una vita disordinata, non secondo l’insegnamento” ricevuto da Paolo (2Tes 3,6). La volontà salvifica universale di Dio si incontra/scontra con la volontà umana che accoglie/rifiuta l’insegnamento. L’essenza di questa dottrina resta inalterata e vale per tutti: la pratica del doppio comandamento dell’amore e il vissuto della misericordia accolta e donata. Questa volontà salvifica universale si manifesta però in Cristo e in modo assolutamente efficace nel suo sacrificio redentore – al di là e al di sopra della risposta umana –, ed è comunicata tramite la mediazione ecclesiale, tramite il ministero apostolico di Paolo presso i pagani, ricevuto da Cristo stesso e confermato da coloro che erano le colonne della Chiesa. Come deve essere condotta allora la predicazione tra i pagani? Innanzitutto, Paolo è consapevole che esiste un mistero riguardo ai pagani. La missione quindi non è stata un evento puramente accidentale. In Ef 3,2-7, l’apostolo descrive qual è il mistero che lui trasmette da parte di Cristo, rivelato per mezzo dello Spirito: 58

L. Oberlinner, Le lettere pastorali, vol. I…, 160.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

che i gentili sono ammessi alla stessa eredità, sono membri dello stesso corpo e partecipi della stessa promessa in Cristo Gesù mediante il vangelo, del quale sono divenuto ministro, secondo il dono della grazia che Dio mi ha dato in virtù della sua forza operante.

La stessa storia di Paolo, e perfino le catene che porta, rispondono al compimento di questo disegno divino. Egli infatti è divenuto “prigioniero di Cristo a favore dei gentili” (Ef 3,1). Questo mistero è un mistero di unità. Esso consiste nell’ “accentrare nel Cristo tutti gli esseri quelli celesti e quelli terrestri” (Ef 1,9), e si compirà quando giudei e gentili accoglieranno il mistero di Cristo. Questo mistero tra i gentili – “Cristo in noi” (Col 1,17) – “è predicato ad ogni creatura sotto il cielo” (Col 1,23) e già “sta dando frutto in tutto il mondo” (Col 1,6). Il mistero e la predicazione presso i pagani hanno come centro il Cristo e il suo mistero di redenzione che raggiunge ogni uomo. Infatti, l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno morì per tutti e quindi tutti morirono; e morì per tutti affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro” (2Co 5,14).

Il Cristo al quale fa riferimento Paolo è il Cristo glorioso che, con la sua passione e risurrezione, opera la redenzione di ogni uomo. Non è il Verbo al di là della sua incarnazione storica. Non è neanche il Gesù storico prepasquale. Ciò non vuol dire che la vicenda storica di Gesù non abbia più importanza; il senso è che il Gesù che salva non è un semplice uomo circoscritto storicamente che, al massimo potrebbe darci un buon esempio, ma non la redenzione radicale dal peccato e dalla morte. Perciò, subito dopo il passo appena citato, Paolo aggiunge: “Quindi ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne; ed anche se abbiamo

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E chi può salvarsi?

conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2Co 5,16). Quali sono allora le condizioni della salvezza? La salvezza è in stretto rapporto con il mistero di Cristo. Questa verità attraversa tutta la letteratura paolina e non è necessario aggiungere altro. Più complesso è il rapporto paolino tra la salvezza per la fede o per le opere. Infatti, se in 2Tim 1,9 Paolo afferma che noi siamo “salvati non in virtù delle opere, ma secondo il disegno in Cristo”, in 1Co 7,19, ci viene detto che ciò che conta è l’osservanza dei comandamenti, non la circoncisione né l’incirconcisione. Certo, sono due contesti diversi. Nel primo caso Paolo si riferisce alle opere della legge, cioè alle osservanze ebraiche, mentre nel secondo caso siamo di fronte ai comandamenti secondo il pensiero di Cristo, cioè, all’amore verso Dio e verso i fratelli e alla misericordia che bisogna osservare con il prossimo. Una cosa è certa per Paolo, e cioè che “gli ingiusti non erediteranno” (1Co 6,9). A coloro che si sono compiaciuti dell’ingiustizia, “Dio manda una forza di errore, perché credano alla menzogna, affinché siano condannati” (2Tes 2,11-12). Chi si condanna è l’ingiusto, non necessariamente, né esclusivamente, il pagano. Anzi, esiste il caso molto concreto del pagano che si “santifica per la moglie credente” (1Co 7,13). Questa situazione di matrimoni misti doveva essere ormai frequente tra i primi cristiani, sia per la conversione numerosa delle donne, sia perché la donna cristiana doveva accettare il marito imposto dai genitori, senza tenere conto della nuova fede della moglie. La fede della donna santifica il marito pagano a patto, però, che il marito pagano si comporti con la cristiana con rispetto e amore e abbia la fede secondo Eb 11,6. È sempre l’amore fatto misericordia e l’apertura alla provvidenza di Dio ad essere determinante in ordine alla salvezza.

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Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli

Le altre lettere del Nuovo Testamento Ci manca da segnalare altri testi del Nuovo Testamento che contengano insegnamenti utili per il nostro tema. Essi sono alcuni passi della lettera agli Ebrei, della lettera di Giacomo e le lettere di Pietro. Alcuni testi li abbiamo già citati, in particolare la definizione di fede della lettera agli Ebrei (cf. Eb 11,1.6), quella indispensabile per poter piacere a Dio e che consiste nell’accettazione vitale dell’esistenza di Dio, giudice ultimo del comportamento umano. Questa fede non è senza riferimento a Cristo. La lettera infatti si riferisce a Gesù come “autore e consumatore della nostra fede” (Eb 12,2). Nella sua epistola, Giacomo definisce ciò che chiama “religiosità pura”. Essa consiste nel “visitare gli orfani e le vedove e custodire se stesso immune dal contagio del mondo” (Gc 1,27). Infatti, anche per lui la legge regale del cristianesimo è “amerai il prossimo” (Gc 2,8). Questo amore è molto concreto, viene da Dio e arriva a toccare il prossimo, soprattutto se è povero e umile. Anzi, sono le opere d’amore misericordioso a manifestare la fede, perché senza le opere la fede stessa è morta (cf. Gc 2,17) e chi sa compiere il bene e non lo fa, si trova in peccato (cf. Gc 4,17). La stessa cosa si potrebbe dire sui peccati della lingua. Fare il bene è anche avere parole degne del cristiano verso ogni persona. Infatti, l’apostolo invita a mettere freno alla lingua, perché essendo una piccola cosa, può corrompere il tutto, “con essa lodiamo Dio” e “malediciamo gli uomini che sono stati fatti a somiglianza di Dio” (Gc 3,9). Per quanto riguarda la letteratura petrina, ancora una volta non viene fuori una visione molto positiva sulle religioni dalle quali i neocristiani hanno abiurato per unirsi alla Chiesa. Essi, in passato, si sarebbero “abbandonati a soddisfare le passioni dei pagani, vivendo in dissolutezze, desideri sfrenati, orge di vino, banchetti, eccessi nel bere e nel culto illegittimo degli idoli” (1Pt 4,3). I pagani, che vedono i connazionali abbracciare la via, si sor137

E chi può salvarsi?

prendono e sparlano di loro. Essi però dovranno rendere conto “a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti” (1Pt 3,4). Infine, le lettere di Pietro esortano i cristiani ad avere un comportamento degno in mezzo al mondo, in modo tale che i pagani, osservando i fratelli, glorifichino Dio nel giorno della sua visita (cf. 1Pt 2,12). Infatti, il cristiano deve rispettare tutti (cf. 1Pt 2,17), aspettando pazientemente perché Dio “non vuole che nessuno perisca” (2Pt 3,9). Questa sua volontà può essere giudicata da alcuni come “lentezza”. Essa è piuttosto manifestazione della magnanimità di Dio verso l’uomo. Ciò che spetta ai cristiani è di essere miti e rispettosi con tutti, ma anche “pronti sempre a dare una risposta a chi vi chiede il motivo della vostra speranza” (1Pt 3,15).

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Quarta parte: Chi può salvarsi?

Tutto ciò che è uscito dalle mani del Creatore è racchiuso in un mistero inconcepibile, cioè nelle viscere della Sua Misericordia.

Proviamo in questo capitolo a tirare alcune conclusioni da quanto abbiamo trovato nei capitoli precedenti. Non intendiamo qui fare uno studio sistematico completo. Ci interessa solo fornire alcuni spunti di riflessione per sviluppi posteriori. Intanto ribadiamo che il Nuovo Testamento non fornisce una risposta categorica al problema della salvezza di chi sta fuori perché non è la sua preoccupazione principale, essendo un messaggio rivolto a cristiani già battezzati e solo secondariamente destinato a tutto il mondo. Sarà compito della riflessione credente, sotto la guida dello Spirito Santo, approfondire quelle vie misteriose di Dio tramite le quali Egli si rende presente ad ogni uomo che viene al mondo. Il punto di partenza non potrà non essere comunque ciò che ha insegnato Gesù e hanno vissuto i discepoli. Bisognerà sicuramente leggere i testi alla luce del contesto locale e storico determinato. Nessuna proposta teologica potrà tuttavia negare o svuotare il valore di ciò che è contenuto nel Nuovo Testamento. L’assenza d’informazione riguardo alla salvezza di chi non ha mai sentito parlare di Gesù non ci deve scoraggiare perché il silenzio riguardo a queste categorie di persone è compensato dalla visione apertamente universalista ed estensiva del messaggio evangelico. Esso è come la pioggia che feconda la terra e fa ger139

E chi può salvarsi?

minare il frutto anche se non sappiamo come, e per ciò dobbiamo pazientare di fronte ai tempi di Dio che non sono i nostri tempi. Questa apertura universalista s’incontra con la consapevolezza di Gesù come redentore universale, che è insita nell’essenza della fede. Il mistero di Dio fatto carne in Gesù è destinato a incontrare ogni uomo nella sua situazione concreta, singolare e religiosamente determinata. Punto fermo di qualunque riflessione sulla salvezza sarà quindi la convinzione che non esiste alcun uomo che si trovi talmente lontano fisicamente dalla Chiesa che non possa comunque trovare il suo redentore unico – perché non ce n’è un altro – nell’intimo del cuore e non possa vivere il doppio comandamento dell’amore come risposta a quell’incontro. Ciò che è anche palese nel Nuovo Testamento è che quello che conta, in ordine alla salvezza, è in primis una condotta retta e coerente, guidata da una coscienza aperta all’azione dello Spirito e da un cuore che sa vivere nella sua essenza la virtù evangelica della misericordia: misericordia, prima di tutto, accolta con umiltà e spirito religioso, misericordia donata con generosità, perché questa è la religiosità pura, secondo Giacomo (cf. Gc, 1,27). In ordine alla salvezza, la misericordia verso il prossimo vale più dei sacrifici e olocausti (cf. Mc 12,13-34) e anche se conoscessimo tutti i misteri e avessimo tutta la conoscenza, senza la carità non saremmo nulla (cf. 1Co 13,2). Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati Dio non fa distinzioni di persone… Dio non guarda in faccia a nessuno… Tutti saranno giudicati secondo le opere: questa consapevolezza è abbastanza diffusa nel Nuovo Testamento. Dio non guarda in faccia nessuno perché su tutti, senza eccezione, ricade il suo giusto giudizio e perché è lui stesso che si prende cura di tutti, soprattutto se emarginati – vedove, orfani, forestieri. Questo

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Quarta parte: Chi può salvarsi?

giudizio altro non è che sua volontà salvifica universale. Odasso, a proposito di Rm 2, lo esprime in questo modo: Il tema del giudizio apocalittico pone tutti gli uomini su un piano di uguaglianza davanti a Dio, con l’assoluta esclusione di qualsiasi privilegio che possa derivare dall’appartenenza a un popolo, a una razza o a una particolare configurazione religiosa1.

L’esistenza stessa della Chiesa è finalizzata alla salvezza di tutti gli uomini. L’esclusività ecclesiocentrica è bandita. La comunità dei discepoli che prega per la salvezza di ogni uomo, che annuncia i mirabilia Dei compiuti in Gesù Cristo redentore, e soprattutto che rende testimonianza di essere veramente una comunità di salvati grazie alla carità e alla misericordia operosa e fattiva, è il mezzo e lo strumento, istituito da Cristo stesso, per mediare e rendere presente Cristo nella storia. Essi sono pure il segno di una salvezza raggiunta, che attende la sua consumazione finale. In quanto lievito nell’impasto, la Chiesa non può ripiegarsi su se stessa o pretendere di concedere la grazia solo a coloro che possiedono la tessera, come se fosse un club esclusivo di salvati. La Chiesa prega per la salvezza di tutti, stimola la missione e l’evangelizzazione e intercede affinché lo Spirito che la precede in questa missione fino ai confini della terra, non trovi ostacoli nei cuori degli uomini che sono affettivamente o geograficamente lontani. Dio vuole che tutti si salvino… Ciò vuol dire che Dio non si rallegra per la morte del peccatore, ma vuole che si ravveda, perché nessuno è destinato a perdersi, e tutti hanno un destino ultimo soprannaturale. Perciò Dio ha pazienza. La fine dei tempi arriverà quando il vangelo verrà comunicato ad ogni uomo, e ciò richiede del tempo per arrivare e per maturare. L’opera di evangelizzazione raggiungerà la sua estensione massima forse solo alla fine dei tempi. 1

G. Odasso, Bibbia e religioni…, 318.

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E chi può salvarsi?

Pazienza però non significa inazione. Dio aspetta in modo fattivo, agendo nell’intimo del cuore e tramite l’opera di misericordia ecclesiale. Questa sua volontà salvifica universale si manifesta poi a due livelli. In primo luogo, si porta avanti con l’arrivo del mistero di Cristo ad ogni uomo grazie alla predicazione apostolica e all’azione segreta dello Spirito. Fides ex auditu. Da questa prospettiva l’evangelizzazione richiede tempi lunghi affinché ogni uomo sia in condizioni di ascoltare il vangelo. Non basta aver sentito parlare di Cristo. Il suo messaggio deve trasformare l’uomo portandolo alla confessione di fede, per convinzione, non per cultura o per altri motivi. Secondo, nella situazione concreta dell’uomo che si apre alla vita. Anche qui ci vuole pazienza. L’esistenza di un uomo è troppo breve in paragone al lungo processo di semina, crescita e maturazione che richiede l’opera di evangelizzazione. Ad accorciare i tempi rendendoli adeguati all’esperienza individuale è lo Spirito Santo; è questo Spirito a rendere presente tutto il mistero trinitario e il mistero del Verbo incarnato, colmando quella distanza temporale tra missione, ascolto e conversione. Non dimentichiamo che le azioni ad extra della Trinità sono di tutta la Trinità. Quando si fa presente lo Spirito è tutto il mistero divino a rendersi presente. È un fatto: un numero sterminato di esseri umani sparsi per il mondo nasceranno e moriranno senza aver mai sentito parlare di Gesù, e ciononostante, anche essi troveranno come re e giudice universale quel Gesù che verrà loro incontro, forse non tramite la predicazione diretta del missionario, ma sicuramente grazie alla presenza nascosta di Cristo nel povero che chiede misericordia e nell’esperienza del bisogno di misericordia che avvicina a Dio. Perciò – anche se la fede esplicita non è di tutti (cf. 2Tes 3,2) – la salvezza è comunque accessibile a tutti, cristiani e non, in virtù del mistero del Verbo incarnato che s’identifica con il prossimo, e grazie alla fede nella provvidenza divina, secondo Eb 11,6. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati. Il passo della prima lettera a Timoteo è forse il più citato nel contesto della teologia del 142

Quarta parte: Chi può salvarsi?

pluralismo religioso. Questa convinzione paolina della volontà salvifica universale è coerente con l’insieme del Nuovo Testamento. Dio non vuole che nessuno si perda, perciò Dio ha pazienza. Nel momento definitivo ogni uomo “vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6) e potrà rispondere a questa volontà salvifica universale con la propria adesione o con il rifiuto definitivo della misericordia. Bisogna chiedersi però cosa si intende con “conoscenza della verità”. Essa non è solo una comprensione intellettuale, per cui il soggetto riconosce che la sua conoscenza corrisponde – adaequatio – alla realtà in sé. Verità vuol dire piuttosto l’accoglienza di un redentore che dà saldezza e fondamento alla propria vita. Anzi, Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio è l’unico fondamento sul quale si può costruire. Verità significa anche verità sull’uomo e verità riguardo il senso del suo passaggio fugace per questo mondo. L’uomo è stato creato per amare e per diventare dono misericordioso per l’altro. Infatti, alla fine dei tempi la conoscenza “chiara e distinta” del vangelo non sarà richiesta, essa sarà talmente palese che nessuno sarà scusabile. Il riconoscimento della “verità” di Cristo è preceduto dall’esperienza della salvezza e della santità. Dal Nuovo Testamento si ricava inoltre che la fede è necessaria per la salvezza. Ma qual è però questa fede che salva? Ci sono diversi livelli di fede. C’è la fede esplicita e soprannaturale che ha come oggetto Cristo e il mistero trinitario; essa è una fede consapevole e matura che porta a rendere testimonianza a Cristo fino all’effusione del sangue. Questa è la fede dei santi e dei martiri. C’è poi la fede dei cristiani normali che si aprono alla grazia, fede che deve raggiungere la maturità. C’è poi la fede secondo At 11,6 – fede che rende l’uomo gradito a Dio – e cioè, la fede che si avvicina a Dio come veramente esistente e provvidente, che ricompensa chi lo cerca. C’è anche la fede di chi cerca il suo redentore a tentoni, seguendo le ispirazioni dello Spirito Santo nella storia concreta e nel contesto religioso concreto nel quale vive… Ogni livello di fede 143

E chi può salvarsi?

– se è fede autentica e salvifica – porta verso la pienezza in Cristo, ma qualunque sia il livello di fede, a tutti è richiesto in modo assoluto che essa abbia come base umana l’umiltà e la riconoscenza, poi che scenda all’amore concreto, perché è impossibile amare Dio se non si ama il prossimo. Nel vangelo abbiamo la fede del centurione e la fede della donna cananea; c’è poi la fede dello storpio guarito da Paolo e la fede di Cornelio che fa chiamare Pietro e lo accoglie a casa sua... È questa la fede dei pagani che si aprono di fronte al mistero, senza conoscere bene la profondità di esso. Questa fede va al centro del messaggio che vede Gesù “il salvatore del mondo”. È, in definitiva, la fede di coloro che, pur senza averlo riconosciuto, sono venuti incontro al re e giudice universale dandogli da mangiare, da bere, oppure lo hanno assistito quando era malato, vestito quando era nudo o visitato quando era in carcere. Infine, ci possiamo chiedere in quanti alla fine si salvano e chi sono quelli che si salveranno. L’Apocalisse offre due piste: sarà una moltitudine immensa che nessuno potrà contare, e apparterranno ad ogni razza, lingua e popolo. Da parte loro, le parabole della zizzania e della pesca escatologica ci insegnano che non dobbiamo fare dei giudizi frettolosi in ordine a stabilire chi si salva e chi si condanna. Tutti gli uomini si troveranno di fronte al giudizio di Dio. Tutti saranno giudicati secondo le loro opere – ciò che avete fatto a questi miei fratelli più piccoli –, ma solo Dio scruta il cuore e quindi solo lui può stabilire chi sarà accolto nelle dimore eterne e chi invece andrà alla fornace ardente. Certo, il rifiuto consapevole della misericordia verso il bisognoso, o peggio ancora, la ricerca contumace del danno del fratello più piccolo, approfittandosi della sua debolezza, difficilmente potrà essere giustificata, neanche con il ricorso a una presunta coscienza invincibilmente erronea. I malvagi immisericordi di Mt 25 non sapevano che era il re a chiedere da mangiare o da bere, e ciononostante furono respinti. 144

Quarta parte: Chi può salvarsi?

Le opere di misericordia e il comandamento dell’amore Lungo tutto il Nuovo Testamento c’è l’unanimità riguardo al significato cristiano dei comandamenti. Nel Deuteronomio il dono della legge rese Israele un popolo saggio in mezzo alle nazioni, unico a causa della vicinanza con Dio stesso. La legge quindi era rivelazione di un Dio-in-mezzo-a-loro, finalizzata all’interiorizzazione della stessa nel cuore. Conoscere la legge di Dio significava conoscere Dio che si rivelava tramite la sua volontà salvifica. Perciò le opere della legge nuova manifestano la presenza dello Spirito nell’intimo del cristiano e lo aprono all’intimità con Dio. La legge nelle labbra di Gesù è nella sua essenza il dono di una possibilità; cioè, di poter amare soprannaturalmente il fratello, soprattutto quando è piccolo e bisognoso. Così, per san Paolo l’opera della legge altro non è che la realizzazione dell’amore vicendevole (cf. Rm 13,9-10). Essa è, appunto, scritta nel cuore. Come la legge mosaica fu scritta sulla pietra dal Dito di Dio, così anche la legge scritta nel cuore ha Dio stesso come autore. Perciò, come giustamente scrive G. Odasso, è necessario rivedere in questa luce il concetto di religione naturale. La conoscenza della legge scritta nel cuore in quanto “progettata per Cristo”, ha una “originaria finalizzazione soprannaturale”2. Ogni uomo quindi può vivere questa legge, senz’altro non per le proprie forze, ma in virtù dell’apertura a Dio che parla e agisce nella coscienza. La promessa di Dio – “porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31,33) – si rende efficace ogniqualvolta, mosso dalla misericordia, un fratello diventa prossimo e dà da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, veste l’ignudo, ecc. Il significato profondo del comandamento dell’amore non consiste però in una virtù da coltivare, ma in una vocazione da accogliere. Non è puramente morale: è un atteggiamento spirituale 2

G. Odasso, Bibbia e religioni…, 330.

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E chi può salvarsi?

e una virtù religiosa. L’iniziativa è sempre di Dio che suscita la misericordia ed è indirizzata a Dio, come riconoscimento della sua misericordia verso di noi. In questo senso la carità soprannaturale non può essere ridotta a mera filantropia – per quanto lodevole possa essere –, così come una misericordia senza carità soprannaturale potrebbe rischiare di illudere l’uomo spingendolo ad una filantropia autosufficiente e vanitosa… e sappiamo quanta vanità si potrebbe mascherare dietro a un gesto di misericordia! Perciò non sarebbe possibile la misericordia senza un legame con Dio né senza la fede, nel senso di Eb 11,6. Vogliamo affermare con questo che un ateo non può essere misericordioso? Lungi da noi fare giudizi sulle persone! Ciò che sì possiamo dire è che uno che vive in senso pieno la misericordia potrebbe risultare che non sia veramente ateo nel profondo del suo cuore, oppure potrebbe non esserlo per molto tempo o in modo definitivo. ***

Un elemento che desta meraviglia nel Nuovo Testamento è il fatto che Gesù si sia servito proprio di samaritani e di pagani per illustrare il significato e il valore della prossimità, che adempie il comandamento, e della fede, che strappa miracoli dalle mani del redentore. Con questi gesti, Gesù intende avvertire i suoi ascoltatori presenti e futuri, ebrei e cristiani che non è l’appartenenza all’alleanza ad essere determinante in ordine alla salvezza. Non ti salvi per la tua religione! L’appartenenza non compera né assicura la salvezza. Questa è una tentazione molto ricorrente nell’ambito delle religioni: separare gli uomini tra i noi che siamo salvati e i loro destinati alla condanna. Gesù si colloca sul polo opposto: Non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà di Dio entrerà nel regno. Il Maestro rompe definitivamente con questa visione gnostica e aristocratica della salvezza. Nel mondo, lungo la storia, grano e zizzania si trovano dappertutto. La storia del mondo è una storia di grazia e di peccato. Oltre a ciò, Gesù sta puntando sui due pilastri fondamentali della sua nuova religione: non può amare Dio chi non 146

Quarta parte: Chi può salvarsi?

ama il prossimo, perché la fede in lui non è qualcosa di puramente teorico o accademico. Non è neanche rituale. È piuttosto una fede esistenziale, è un abbandono a Dio che si rivela nella storia, un Dio che si fa prossimo e che vuole avere bisogno del prossimo. Da questa prospettiva si potrebbe rileggere la dottrina agostiniana dell’Ecclesia permixta. Alcuni stanno dentro la Chiesa col corpo ma non con il cuore perché spiritualmente non misericordiosi. Altri, i giusti tra le nazioni, i centurioni supplicanti, le cananee umili, le samaritane disonorate, i carcerieri semplici, i buoni samaritani, sembrano stare fuori ma, nell’incontro escatologico con il re giudice universale, scopriranno di essere stati dentro la Chiesa di Cristo, perché misericordiosi e misericordiati, cioè perché vennero incontro a Cristo affamato, assetato, nudo, carcerato… e perché si sono riconosciuti come oggetto di misericordia da parte di Dio, sconosciuto per loro, ma presente nell’intimo dei loro cuori. La misericordia quindi sarà lo spartiacque tra il grano e la zizzania. Ciò vale per il singolo, ma potrebbe valere anche per il discernimento delle stesse tradizioni religiose. Esse manifesteranno la loro ispirazione seminale se, obbedienti all’azione segreta dello Spirito, inviteranno i loro addetti ad essere misericordiosi con tutti, e a diventare buoni samaritani di ogni uomo abbandonato sulle strade del mondo. Infatti, il documento sulla fratellanza umana si apre appunto con la frase: “La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare”. In ogni religione è presente la cosiddetta regola d’oro – “fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” – anche se non in tutte le religioni occupa lo stesso posto3. Giovanni Paolo II, pur riconoscendo la presenza di questa regola d’oro in tutte le religioni, aggiunge che essa deve andare oltre. “Per quanto questa regola sia una guida preziosa, l’amore autentico per il prossimo va oltre. Si basa sulla convinzione che quando amiamo il nostro prossimo mostriamo amore verso Dio e quando gli facciamo del male offendiamo Dio. Ciò significa che la religione è nemica dell'esclusione e della discriminazione, dell’odio e della rivalità, della violenza e del conflitto. La religione non è e non deve diventare un pretesto per la violenza, in particolare quando l'identità religiosa coincide con l’identità 3

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E chi può salvarsi?

Lo spirito profondo di questo documento sulla fratellanza va diffuso e promosso. Esso è in perfetta armonia e fedeltà alla dottrina cristiana messa in luce a partire dal concilio Vaticano II e concorde con il Nuovo Testamento, testo fondante della nostra fede. Sin dall’inizio il documento sulla fratellanza umana chiede ai capi religiosi e a tutti gli uomini che credono in Dio di mettersi dalla parte dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati “che Dio ha comandato di soccorrere”. Le religioni devono essere promotrici della presenza del regno in mezzo al mondo. Gesù stesso, quando volle illustrare l’avvento del regno ai discepoli di Giovanni, disse: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia” (Lc 7,22). È la misericordia ad essere manifestazione della presenza del regno, non le parole, non le dottrine arcane, non il linguaggio degli angeli e degli arcangeli… Qualora non fosse così, non si potrebbe parlare di presenza dello Spirito Santo in esse. E se ciò vale per qualunque religione, vale a fortiori per il cristianesimo. Una comunità cristiana che non vive la misericordia è sale che non dà sapore: “A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente” (Mt 5,13). Perciò il “Documento sulla fratellanza umana” può essere definito una route map per tutte le religioni con il fine di esercitare insieme la misericordia che apre le porte della salvezza e fa presente sulla terra il regno di Dio… ciò che avete fatto a loro l’avete fatto a me. La salvezza impossibile agli uomini ma non a Dio Ma la misericordia verso il prossimo non è di per sé sufficiente per avere la salvezza. In altre parole: la misericordia verso il prossimo è autentica ed efficace perché poggia su una misericordia etnica e culturale. Religione e pace vanno insieme! La credenza e la pratica religiose non si possono separare dalla difesa dell’immagine di Dio in ogni essere umano” (Discorso di Giovanni Paolo II in occasione dell’incontro inter-religioso al Pontificio Istituto “Notre Dame” di Gerusalemme, 23 marzo 2000, n. 4).

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Quarta parte: Chi può salvarsi?

anteriore, fondamentale, soprannaturale e assolutamente gratuita da parte di Cristo, Figlio di Dio, nei confronti di ogni uomo. Infatti, la nozione cristiana di salvezza gira intorno a questi due assi inscindibili. Il primo è l’impossibilità per l’uomo di raggiungere la salvezza con le proprie forze, quindi chi si salva è solo per grazia di Cristo. Il secondo è il compimento dei comandamenti secondo l’insegnamento di Gesù stesso. Infatti, secondo il magistero costante della Chiesa, la salvezza – la giustificazione o l’initium gratiae – è dono gratuito di Dio che non si può meritare. Gesù è il più forte (cf. Lc 11, 22) che ha legato definitivamente la morte e il peccato affinché abbiamo la vita nel suo nome. Essere cristiano significa lasciarsi invadere da questo mistero di assoluta gratuità. Davanti ad esso ogni discepolo di Gesù si trova nella situazione della donna cananea, riconoscente per aver dato generosamente il pane dei figli a noi, poveri cagnolini affamati. All’iniziativa assoluta di Dio segue però la risposta umana, anch’essa spinta da una grazia che non annulla però la libertà. Questa consecutio non è logica, bensì di grazia. Perciò, il doppio comandamento dell’amore resta la chiave fondamentale che apre il cuore a una salvezza comunque non meritata. L’amore non può essere considerato solo come uno slancio naturale o puramente sentimentale, esso necessita e manifesta la grazia operante che sgorga dal mistero pasquale. In conclusione, la misericordia che porta a vivere il doppio comandamento è manifestazione di una salvezza arrivata, è anche causa meritoria della salvezza e segno dell’avvento del regno di Cristo nel mondo. ***

Possiamo però porre il problema in modo inverso: alla fine, chi sarà condannato, dal momento che sembra che sia possibile incontrare Cristo in qualunque religione grazie alla misericordia verso il povero? Per tanti, affermare la possibilità di trovare la salvezza al di fuori della Chiesa implicherebbe uno sminuire la 149

E chi può salvarsi?

necessità del battesimo e della confessione di fede cristiana per la salvezza. Se la nostra religione è quella vera – si dice –, necessariamente le altre dovrebbero essere false e quindi vie traverse che non conducono alla salvezza. Se c’è una religio vera, le altre devono essere per forza false. Il vangelo è molto chiaro per quanto riguarda la condanna. Perde la vita divina chi compie opere malvagie e chi, pur facendo miracoli nel nome del Signore, non adempie poi la volontà del Padre, volontà che si manifesta nelle opere di misericordia. Non è giustificato davanti a Dio chi pretende di giustificare se stesso ai propri occhi, come i farisei che si ritenevano giustificati dalle opere della legge. Rischia la condanna chi chiude il suo cuore all’annuncio del vangelo e diventa nemico della croce di Cristo; chi non riconoscerà il re glorioso sotto i poveri stracci dell’indigente; chi perseguiterà Gesù mettendo a morte i suoi umili discepoli; chi impedisce di predicare il vangelo alle genti affinché si salvino (cf. 1Tes 2,14-15); coloro che, consapevoli della verità cristiana, non vogliono riconoscere Dio né ubbidire al vangelo saranno puniti con una pena eterna (cf. 2Tes 1,7-9); gli ingiusti verso Dio e verso il prossimo e chi persevererà nell’immoralità scandalizzando i più piccoli… Nessuno di questi erediterà il regno di Dio (cf. 1Co 6,10). La condanna è la conseguenza ultima di un esplicito rifiuto del vangelo di Cristo. Questo rifiuto non si concretizza necessariamente nel non entrare nella Chiesa tramite il battesimo – si può essere battezzati ed essere in fondo nemici della croce di Cristo. Esso è piuttosto un atteggiamento che, sgorgando dalla profondità del cuore, può o non può manifestarsi verso l’esterno. La lettera agli Ebrei afferma che il castigo sarà per chi avrà calpestato il Figlio di Dio (cf. Eb 10,29). Il Figlio di Dio calpestato è rappresentato, sia in senso generale dai poveri e dagli emarginati, sia in senso specifico, dai poveri fratelli di Gesù. Calpesta il Figlio di Dio chi resta indifferente davanti alla nudità di suo fratello e non gli va incontro, come non lo fecero né il levita né il 150

Quarta parte: Chi può salvarsi?

sacerdote. Calpesta il Figlio di Dio, a fortiori, chi si è comportato con il fratello più piccolo di Gesù come i briganti della parabola del Buon Samaritano. Chi uccide, tortura, umilia i piccoli fratelli di Gesù, non potrà sentirsi sicuro della sua salvezza, anche se ha agito in obbedienza ad una legge religiosa. In fondo queste sono le due uniche vie, che conducono o alla salvezza o al fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli. Perciò Gesù ci invita a sforzarci di entrare per la porta stretta (cf. Lc 13,22-30). Chi entrerà nel regno? Gesù risponde che molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno4. Il Maestro non sta considerando la questione della conversione, ma quella della coerenza di vita. L’insegnamento è rivolto ai discepoli, non ai pagani. Essi compaiono alla fine del racconto. Gesù afferma che saranno molti che verranno da fuori per partecipare nel banchetto del regno, sia perché dai quattro punti cardinali Egli sceglierà i suoi, sia perché forse chi sta fisicamente lontano, in fondo, grazie alla coerenza di vita nella pratica della misericordia, avrà un posto riservato nelle dimore eterne, pur non riconoscendo in modo chiaro e distinto Gesù nei bisognosi e nei suoi fratelli più piccoli. L’uno che salva i molti Entriamo adesso nel cuore della concezione cristiana di salvezza. Gesù è l’unico salvatore del mondo. La sua condizione di redentore universale è confermata lungo tutto il Nuovo Testamento. Questa convinzione non risulta da situazioni contingenti riconducibili alla comunità postapostolica, come affermeranno alcuni teologi del pluralismo religioso. Essa è il frutto della contemplazione delle parole e delle opere di Gesù, alla luce della sua gloriosa risurrezione. Relativizzare questa convinzione implicherebbe una mutilazione del testo per motivi ingiustificabili e puramente ideologici. Tristissima situazione di chi pensa di entrare nel regno facendosi esplodere e uccidendo persone innocenti in nome di Dio. 4

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E chi può salvarsi?

Gesù è salvezza nostra e del mondo intero. Egli è storicamente ancorato all’elezione d’Israele, ma la sua salvezza è universale. Così lo hanno capito tutti i pagani che si sono avvicinati a lui e ai discepoli. Gesù è salvatore non solo di un popolo, ma di tutta l’umanità. La sua salvezza trascende ogni barriera di razza, cultura, sesso e religione. Possiamo adesso rispondere alla domanda sulla novità del cristianesimo: cosa apporta il cristianesimo in ordine alla salvezza? Non sarebbe sufficiente raggiungere la salvezza con una vita onesta e generosa? Abbiamo visto che alla luce delle parabole del regno, dove si vedono i discepoli di Cristo come una piccola cosa che trasforma il tutto, possiamo indicare qui la missione della Chiesa nel mondo che è quella di portare a tutti la salvezza che ci viene incontro nella storia nel Cristo risorto, partecipare ad una intimità privilegiata che è sempre un dono; non è che il cristiano, solo per il fatto di essere tale sia di per sé superiore e possa aspirare ai primi posti, questa sarebbe una concezione sbagliata che Gesù Cristo stesso condannò ripetutamente (cf. Mt 23,6; Mc 12,39; Lc 11,43. 14,7. 20,46). Non è un privilegio essere cristiano, è una grazia immeritata e una chiamata a mettersi al servizio dell’umanità. Per questo motivo egli deve identificarsi con Cristo per testimoniare e rendere presente, tramite i sacramenti – che sono l’atto di misericordia più grande che essa compie nei confronti di ogni uomo – l’avvento del regno di Dio che trasforma il mondo. Infatti, non c’è opera di misericordia ecclesiale più grande di quella di donare la vita divina tramite il battesimo, e anche dare da mangiare e da bere tramite l’eucaristia. La Chiesa, come Cristo, è segno e strumento della misericordia del Padre: annuncia la salvezza, istruisce tutti gli uomini con la verità del vangelo; da’, poi, da mangiare agli affamati, offre i bicchieri d’acqua fresca agli assetati, edifica un tetto dove tutti possano ripararsi; veste l’inerme con l’armatura della fede, ecc. Tutte queste sono altrettante opere di misericor152

Quarta parte: Chi può salvarsi?

dia che la Chiesa compie nel mondo e, con le quali, rende testimonianza a una salvezza già concessa a tutti gli uomini, la rende esplicita, ma non solo, grazie a questa legge di superamento e sovrabbondanza, Gesù diventa vita nel cuore dei discepoli e lo Spirito spinge verso le alte vette della santità. Perciò nel racconto del giovane ricco vi è il passaggio di livello dalla salvezza alla perfezione: il cristianesimo è ordinato alla salvezza, in quanto strumento del Verbo incarnato che rende presente la sua azione nel mondo, ma è anche strumento di salvezza in quanto rende presente questa azione divina a tutti gli uomini. I cristiani riproducono nella storia il mistero di quell’uno che salva i molti, che rendono attuale questa azione salvifica di Cristo nella storia. Per questo motivo, non è proprio nella nostra missione far entrare tutti indiscriminatamente nella Chiesa o, per contro, scoraggiarci e ripiegarci di fronte a un apparente fallimento missionario. Il cristianesimo è stato e sarà sempre un piccolo gregge, il sale del mondo, la luce che illumina con una carità che gli viene dal mistero di Cristo e che riproduce nel mondo quell’amore che portò Dio stesso a donare suo Figlio affinché nessuno si perda. Ciò che avete fatto ai miei fratelli più piccoli. Con buona pace di J. Gnilka, noi non riteniamo che sia un privilegio il dare all’espressione fratelli il significato proprio così come si trova nel vangelo. Fratello, sorella e madre di Gesù sono coloro che fanno la volontà del Padre suo che è nei cieli (cf. Mt 12,46), Luca aggiunge: “sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Questo piccolo gregge di umili discepoli di Gesù è chiamato ad essere nel mondo punto d’incontro tra il Cristo, risorto e asceso al cielo come sommo ed eterno Sacerdote, e un’umanità bisognosa di redenzione, ma ancora incapace di riconoscere Gesù nel suo mistero pasquale. I cristiani sono chiamati a ripetere in ogni angolo della terra i misteri della vita, passione, morte e risurrezione del Signore. “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10,16). Questo non è un 153

E chi può salvarsi?

privilegio né una dignità; è una missione da compiere, a volte molto onerosa, e le innumerevoli storie di martirio cruento – ma anche il martirio della carità – ne rendono testimonianza quotidiana. Si potrebbe avanzare però un’obiezione drammatica: lungo i secoli, i discepoli di Cristo sono stati tutto tranne che umili. L’incoerenza dei cristiani, la loro ricerca del potere, la loro prepotenza di fronte ai bisognosi e ai poveri è uno scandalo che contraddice il vangelo di Cristo. Gesù è stato costantemente messo in croce nella sofferenza dei piccoli, e sono stati gli stessi suoi discepoli a perseguitarlo, a condannarlo a morte e a crocifiggerlo. Gli stessi suoi discepoli si sono comportati tante volte come nemici della croce di Cristo. Scopo del nostro studio non è formulare giudizi storici. Sappiamo quanto sia facile cadere in false percezioni e anacronismi. Ciò che possiamo dire è che se un cristiano non si percepisce più come umile pecora del gregge di Cristo, se non è più buon samaritano chinato sul fratello ferito, per rimarginare le sue piaghe, ma sacerdote o levita che passa indifferente guardando dall’altra parte, se un discepolo di Cristo non riesce più a scoprire qual è l’opera di misericordia che attualmente compie – perché non ne compie nessuna –, allora dovrebbe fare un profondo esame di coscienza e temere sul serio per la propria salvezza eterna. Terrore e tremore per chi non sia in grado di riconoscere dove e come incontra quotidianamente il Cristo, re e giudice universale, nascosto nei piccoli fratelli affamati, assetati, nudi, carcerati... Il povero è per i cristiani un locus theologicus di valore eminente in ordine alla propria salvezza. La missione della Chiesa L’abbiamo già detto: la Chiesa è chiamata a rendere presente il regno nel mondo. Essa lo serve in primo luogo con la predicazione del vangelo e con le opere di misericordia. Questa predicazione deve abbracciare tutta la terra abitata e non può essere repressa o annacquata (cf. Mt 24,14). Per quanto riguarda poi 154

Quarta parte: Chi può salvarsi?

l’operato della Chiesa, abbiamo detto in precedenza che le opere di misericordia principali della Chiesa sono i sacramenti: la comunità dei discepoli dona la vita divina con il battesimo, dà da mangiare il cibo spirituale dell’eucaristia e dà da bere la bevanda di vita eterna, veste e accoglie gli ignudi spirituali rivestendoli di Cristo, ecc. Inoltre, essa stessa è in Cristo come un sacramento (cf. Lumen Gentium, n. 1) in quanto segno e strumento che rende presente Cristo in mezzo alla storia. L’essere cristiano però non è solo una via per la salvezza. Sarebbe errato sia affermare che qualunque via porta ugualmente alla salvezza sia ridurre il cristianesimo solo a una questione di salvezza. Lo stesso discorso su quale sia la via ordinaria e quali le vie straordinarie per la salvezza è ormai sorpassato. Il cristianesimo è la via di salvezza, senz’altro, ma è molto di più. Per questo, l’ultima parte di Lumen Gentium 16 è alquanto deludente: bisogna promuovere la missione, ma i motivi che il concilio adduce – l’errore nella visione di Dio, la disperazione – non sono sufficienti. Il cristianesimo ha la sua origine nello sterminato amore di Dio che invia suo Figlio, senz’altro affinché nessuno si perda, ma soprattutto affinché abbiano la vita in abbondanza. Perciò il cristianesimo segue la dinamica del di più ignaziano: la pienezza della legge della sovrabbondanza si trova in Cristo, legge manifestata e predetta lungo tutta la storia della salvezza. Questa chiamata non è più solo per la salvezza, bensì per la perfezione della carità. Così si capisce come Gesù, davanti al giovane ricco, abbia cambiato la domanda da “cosa devo fare per avere la salvezza” a “se vuoi essere perfetto”. Raggiungere la salvezza è il limite più basso della grazia di Cristo. L’amore cristiano va oltre questo limite. Il dono della cristificazione lo supera infinitamente. L’opera evangelizzatrice della Chiesa segue questa stessa dinamica. Essa non evangelizza perché altrimenti gli uomini andranno irrimediabilmente nell’abisso della condanna eterna. Evangelizza perché Cristo è quella sovrabbondanza d’amore del Padre che 155

E chi può salvarsi?

vuole comunicarsi intimamente con l’uomo e farlo entrare nella comunione d’amore eterno del suo mistero trinitario, liberandolo dal peccato, dalla morte e dalle catene che ci opprimono. La Chiesa evangelizza perché si riconosce come “l’amore del cuore di Cristo” – parafrasando il curato d’Ars – verso gli affamati, assetati e ignudi spirituali e materiali di questo mondo. Vale per ogni missionario e per ogni cristiano: l’amore è la ragion d’essere della missione. L’amore vede il bene ovunque e si meraviglia del fatto che Dio parli, tramite il suo Spirito, nel cuore delle culture e delle religioni. Perciò l’urgenza apostolica di san Paolo era frutto dell’amore e non conseguenza della paura. Il suo “guai a me se non annuncio il vangelo” (1Co 19,16) non si traduce in un proselitismo disperato o in un’impazienza molesta, e tanto meno in un compellere intrare che non rispetti la libertà. Egli si scontra con gli ebrei e con i falsi fratelli perché ostacolavano il vangelo o lo presentavano in modo errato, ma è caritatevole e comprensivo con i pagani. La sua premura era indirizzata a coloro che liberamente avevano accolto il vangelo. La testimonianza semplice delle comunità paoline, il loro essere un cuor solo e un’anima sola, la loro obbedienza ai governanti e il loro desiderio di essere dei cittadini esemplari, sono altrettante manifestazioni della tolleranza che Paolo aveva seminato nei suoi figli nei confronti di coloro che ancora non accoglievano il vangelo, senza essere però ostili alla comunità dei discepoli. Parafrasando Giovanni Paolo II, le comunità paoline dovevano intraprendere un dialogo religioso, prima ancora di cominciare un dialogo interreligioso. La παρρησσία evangelica era un gareggiare per stimarsi a vicenda (cf. Rm 12,10), prima tra i discepoli, e poi in mezzo al mondo pagano nel quale vivevano. Soprattutto dovevano rinsaldare l’unità e l’armonia fraterna, “affinché il mondo creda”. La testimonianza di misericordia – donata e ricevuta – è stata lungo i secoli, il segno evangelico di credibilità più profetico e più eloquente di fronte al mondo.

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Quarta parte: Chi può salvarsi?

Valore salvifico delle religioni Ci resta ancora un tema d’affrontare. Esso riguarda il valore salvifico delle religioni pagane. Alla domanda sul valore redentore delle religioni, il Nuovo Testamento nel suo insieme risponde negativamente. Lo avevamo già detto. Su qualunque religione potrebbe gravare la sentenza che Gesù stesso proclamò nei confronti degli uomini religiosi della sua epoca: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,8-9). Certo, Gesù stesso compì religiosamente le prescrizioni del giudaismo. Egli rispettava e onorava la religione giudaica con la sua profonda visione di Dio e con la serie di prescrizioni che cercavano di disporre l’uomo all’obbedienza della fede. Ciononostante, il Signore non ebbe paura di infrangere l’osservanza religiosa se la carità e la salvezza lo imponevano, oppure tutte quelle volte che le osservanze umane allontanavano l’uomo da Dio. Quando alla sinagoga Gesù trovò l’uomo dalla mano paralizzata, chiese ai farisei: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla?” (Mc 3,4)5. Le osservanze religiose possono essere legittime e buone, ma non sono assolute. Soprattutto non possono diventare un ostacolo per compiere il bene ed esercitare la misericordia. In precedenza, abbiamo accennato a come il giudizio sulle religioni sia fortemente severo, soprattutto se messo in confronto con la nuova vita donata in Gesù Cristo. “Offerta ai cristiani, la fede abolisce per decreto divino il valore di tutte le religioni (Rm 6,6; 2Co 5,17; Ef 4,22; Col 3,9)”6: i pagani sono lontani da Dio, preoccupati delle cose materiali, sacrificano ai demoni, il loro comportamento è sostanzialmente immorale e i loro pensieri sono folli perché seguono delle vanità. La descrizione della triste situazione L’idea è presa da R. Riva, «Il Vangelo di Marco: un annuncio di salvezza nel mondo pagano», Studia missionalia, 42 (1993), 33. 6 J. Dupuis, Verso una teologia del pluralismo…, 71. 5

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dell’indemoniato gadareno, ridotto dai demoni ad uno stato più vile di quello dei porci, intendeva mostrare le condizioni in cui si trovavano gli uomini idolatri delle religioni intorno ad Israele. Per questo motivo i cristiani che vennero dopo concepirono l’evangelizzazione in parte come un esorcismo. Ciononostante, nel Nuovo Testamento si avvertono anche atteggiamenti positivi nei confronti dei pagani7. Il centurione e la donna cananea diventano modelli di fede, un samaritano è esempio di carità operosa, un gadareno è inviato come apostolo tra la sua gente… I pagani sembrano più disposti ad accogliere il messaggio di Paolo degli stessi giudei, conoscitori della Bibbia e del Dio che questo libro rivelava. D’altra parte, i pagani che si avvicinarono a Gesù e ai discepoli erano in qualche modo già preparati da ciò che c’era di onesto, buono, vero e santo nella propria tradizione religiosa. Erano persone giuste e rette nei confronti degli altri, facevano elemosine, uno aveva costruito la sinagoga, amavano i propri schiavi, intercedevano per gli altri. Sembra che le descrizioni negative dei costumi dei discepoli prima della loro conversione sia stata descritta con colori piuttosto esagerati e cupi, atteggiamento del tutto comprensibile a causa dell’entusiasmo dei neoconvertiti. I primi ad abbracciare la fede non erano però ubriaconi, idolatri, effeminati o ingiusti. Al meno non tutti, né massivamente. Non erano neanche uomini senza religione. Vivevano l’essenza della loro religione senza cadere negli eccessi che le religioni stesse potrebbero condannare. Il loro avvicinamento alla fede non aveva il retroterra biblico, ma quello dei loro poeti e dei loro maestri assetati di verità. Avevano assimilato la pietas romana, quell’amore doveroso verso la divinità, i genitori, la misericordia verso la sofferenza altrui e la moralità nei costumi. Ovviamente, a questi onesti e religiosi pagani la pietas romana fu insufficiente e perciò si accostarono, prima al Dio d’Israele, e poi alla novità del cristianesimo. Possiamo concludere con 7

Cf. J. Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations…, 41-42.

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Quarta parte: Chi può salvarsi?

G. Gäde che “il messaggio cristiano si indirizza sempre e fin dal principio a uomini che sono già religiosi”8. In san Paolo si avverte il valore positivo del senso religioso. La sua visione riecheggia quella della religiosità come esperienza di creaturalità, e come sentimento di dipendenza dalla realtà sacra. Paolo riconosce che Dio parla nella coscienza di ogni uomo e, chi lo ascolta, diventa legge per se stesso. È Dio pure a farsi presente con la sua provvidenza e riempiendo il loro cuore di gioia. Tuttavia, non si può dire la stessa cosa delle religioni pagane in quanto istituzioni cultuali. Gesù stesso, quando insegna il modo di pregare, avverte i discepoli di non spendere troppe parole come fanno i pagani, che a forza di parlare pensano di essere ascoltati da Dio. Il monito finale è di “non fare come loro”. In At 8,14-25 si giudica con severità l’opera e gli inganni di Simon Mago. Il suo atteggiamento non fu di fede soprannaturale come quella di Sergio Paolo o come quella del paralitico di Listra. Simon il mago, ma anche gli abitanti di Listra, sono guidati, non da un autentico senso religioso, ma dalla superstizione simoniaca o idolatrica. Per questo stesso motivo Paolo farà tacere la serva indovina, nonostante abbia detto il vero riguardo ai discepoli, attirando l’ira dei suoi padroni che facevano mercimonio con lei. D’altra parte, J. Daniélou ha mostrato quanto san Paolo si sia servito di termini tratti dal paganesimo per illustrare i misteri cristiani. La nozione di coscienza l’avrebbe presa dagli stoici e la spiegazione del cristianesimo come mistero farebbe riferimento al culto pagano9. Il fatto che Paolo avesse preferito usare l’espressione κύριος ad altri titoli usati nel Nuovo Testamento fa pensare al tentativo di traduzione del mistero cristiano ai pagani10. Lui veramente divenne greco tra i greci ed ebreo tra gli ebrei (cf. 1Co 9,19-23). Infatti, in G. Gäde, Cristo nelle religioni, Borla, Roma 2004, 12. J. Daniélou, Le mystère du salut des nations…, 80. 10 Cf. Roy Bowen Ward, «The Pagan Background of the New Testament», ResQ 5 (1961), 217. 8 9

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san Paolo – ma è presente in tutto il Nuovo Testamento – si avverte una distinzione che poi troveremo in altri autori e un po’ nella tradizione dei Padri, cioè la distinzione tra il senso religioso e le credenze religiose. Oltre alle espressioni sbagliate di divinità si può nascondere, come un fiume sotterraneo, una sincera ricerca di Dio e perfino la possibilità di trovarlo tramite la coscienza; e questa azione di Dio nella propria coscienza non è semplicemente la coscienza morale di tipo filosofica, ma l’azione di Dio nel cuore dell’uomo. È la legge divina iscritta nel cuore: una sorta di rivelazione o di manifestazione di Dio all’uomo. Quindi, se da una parte c’è la possibilità per l’uomo di credere in Dio, credere nella sua potenza – ciò che sarebbe la fede nel senso di Eb 11,6 –, dall’altra vi è la visione riguardo ai culti pagani, idolatrici, sostanzialmente negativa. La visione del Nuovo Testamento distingue bene l’azione di Dio nel cuore e poi le deviazioni che sorgono e che devono essere purificate. Quindi l’apertura ai pagani non è una accettazione acritica della religione e basta. San Paolo e la critica alla religione San Paolo ci dà un criterio per giudicare qualunque religione: non serve a nulla parlare lingue di angeli, non serve a nulla avere tutti i carismi del mondo se non si ha la carità (cf. 1Co 13). Quindi, ciò che conta in ordine alla salvezza nelle religioni non è tanto l’appartenenza o meno a una religione, oppure la conoscenza dei misteri arcani riguardo alla trascendenza o rivelazioni particolari, e neanche la capacità di dominare il proprio corpo o i propri pensieri, ma il vissuto della carità fattiva e il riconoscimento umile della misericordia divina. Infatti, Orationis formas, al n. 19, insiste nel fatto che lo svuotamento richiesto per entrare in comunione con Dio non è quello dal flusso delle rappresentazioni, ma quello della rinuncia al proprio egoismo. È questo il criterio ultimo di valutazione. Questo lo possiamo collegare con le beatitudini e con il discorso sul regno. La Chiesa e le altre religioni apriranno le porte del paradiso ai propri addetti 160

Quarta parte: Chi può salvarsi?

nella misura in cui saranno dei veicoli che inviteranno tutti gli uomini a fare esperienza spirituale della misericordia. Questo è ciò che dobbiamo imparare da Gesù che accolse nel suo cuore tutti gli oppressi e gli affaticati e si è posto come esempio di umiltà e mitezza di cuore. Lui passò per questo mondo beneficando e compiendo la misericordia che il Padre gli aveva comandato di fare. ***

A Cesarea marittima, Pietro capisce l’universalismo di Gesù. Da quel momento l’accesso al mistero cristiano non sarà più mediato dall’appartenenza a Israele tramite la circoncisione e l’osservanza della legge. L’Antica alleanza non va negata, ma spiritualizzata e liberata dagli elementi circostanziali o puramente culturali. Ciò che per i cristiani avrà valore nella Bibbia sarà il suo riferimento alla promessa di Dio di abitare in mezzo al mondo. Per questo motivo, l’ebraismo come religione avrà solo un valore relativo per il nuovo Israele. I giudeocristiani non saranno mortificati per essere assidui al tempio e alle pratiche proprie. Esse però non saranno la causa determinante della salvezza, e con il tempo andranno a scomparire completamente. Ora, se ciò vale per l’ebraismo, vale anche per le altre religioni. La visione di san Paolo è che i pagani sono ammessi, accanto ai giudei, alla stessa eredità (cf. Ef 3,2-7). La visione della salvezza tramite le religioni è estranea al Nuovo Testamento. Le tradizioni religiose avranno valore solo nella misura in cui promuoveranno la santità e la misericordia. Dio – il suo mistero redentore, il regno, i semina Verbi, ecc. – si rende presente in ciò che c’è di vero e di santo nelle religioni. La stessa cosa vale per l’ebraismo e, in parte, vale perfino per il cristianesimo stesso in quanto partecipa a ciò che denominiamo “religione”. Allora possiamo concludere questo argomento riconoscendo il valore relativo delle religioni. Se nel secolo XX, come abbiamo detto all’inizio di questo studio, le religioni sono state rivalutate dal magistero ecclesiastico, bisognerebbe aggiungere che esse non sono di per sé vie che conducono alla salvezza. Non ci interessa 161

E chi può salvarsi?

adesso rispondere alla questione sul valore di mediazione delle religioni in ordine alla salvezza. Giovanni Paolo II aveva già affermato che l’unica mediazione di Cristo non esclude le mediazioni partecipate. Le religioni portano con sé un bagaglio di sapienza e di spiritualità che conducono alla loro sorgente nell’azione misteriosa dello Spirito. Ciò che c’è di vero e di santo, di onesto, buono e bello nelle religioni manifesta che Dio non si è dimenticato di un’umanità assetata di trascendenza. Tuttavia, se è vero che i loro fondatori furono spesso guidati dallo Spirito – è Giovanni Paolo II ad affermarlo – ciò non significa che l’insieme di credenze e pratiche deve essere considerato ugualmente ispirato dallo Spirito Santo. Come affermava spesso J. Daniélou, le religioni, essendo realtà storiche, partecipano anche esse alla storia di grazia e di peccato che è la vita dell’uomo su questo mondo. Anche il cristianesimo, come realtà impastata di storia, partecipa a questa ambiguità che è l’humanum. Così come esistono elementi di grazia e di verità nelle religioni, così anche bisogna riconoscere che non tutto nel cristianesimo è “vero né santo”. Un atteggiamento di umiltà, l’abbandono di retoriche trionfalistiche, la rinuncia a forme non evangeliche di proclamare il vangelo, ecc., sono compiti che la Chiesa deve svolgere in ogni momento della sua storia. Soprattutto non dovrà dimenticare che essa è chiamata a fare le opere di misericordia corporali e spirituali e che la predicazione del vangelo di Gesù Cristo è il primo servizio che la comunità dei fedeli deve compiere davanti al mondo, che ha il diritto di ascoltare la buona novella da testimoni coraggiosi ma umili, decisi ma rispettosi; soprattutto, da discepoli di quell’Uno che diede la vita per la salvezza di tutti. In conclusione, le religioni potranno esercitare un influsso positivo nei loro addetti nella misura in cui li porteranno ad approfondire il mistero dell’identificazione di Dio con il fratello bisognoso di misericordia, e inviteranno i fedeli di ogni confessione ad essere misericordiosi come il Padre celeste e a riconoscersi bisognosi della misericordia di Dio. 162

Conclusione: Chi sei, Signore, affinché possa credere in te?

A conclusione di questo lavoro s’impone una riflessione a proposito dell’incontro con Cristo come milieu dove la salvezza si rende possibile. Se il cristianesimo sorge, non come una risposta ad un interrogante, ma per l’incontro con una persona che cambia la vita, bisognerebbe scoprire quali sarebbero le circostanze di un incontro salvifico con Dio, e come incontra Cristo chi non ha mai sentito parlare di lui. Un elemento presente in tutti i passi di conversione che abbiamo studiato è appunto l’incontro con il Signore. Il centurione, la cananea, il samaritano guarito, l’indemoniato gadareno, la samaritana, ecc., ciascuno si trovava in una situazione storica concreta e singolare che gli permise di incontrarsi con il Gesù terreno. Questo incontro diretto fu privilegio di pochi. Perciò l’altro modo di trovare Gesù è stato tramite la mediazione della comunità ecclesiale. Paolo infatti si arrende a Gesù quando riconosce che egli s’identifica con i suoi discepoli perseguitati. Molti si convertono alla predicazione di Pietro, Paolo e degli altri discepoli. Là dove ci sono due o tre riuniti nel nome di Gesù lì è il Maestro in mezzo a loro. Incontrare la comunità orante è incontrare Gesù stesso. Quindi, bisognerebbe prendere sul serio il valore della mediazione esistenziale e storica della Chiesa come milieu dell’incontro con Cristo. Per questo motivo la missione continua ad avere valore e ad essere un compito urgente, proprio perché rende possibile stabilire dei punti di contatto con il mistero di Cristo, nel suo Corpo mistico. “Lo avete fatto 163

E chi può salvarsi?

a me” ha un valore universale. Storicamente non tutti gli uomini sono stati in grado di riconoscere la Chiesa come via di salvezza, ma tutti potrebbero essere in grado di intuire – tra l’altro è un’idea latente nelle religioni – la presenza di Dio nel povero e nell’indigente. A questo punto è importantissimo ribadire il valore dell’autentica testimonianza cristiana. Nei vangeli, poi, si avverte una distinzione tra il momento dell’incontro con Gesù salvatore e il riconoscimento come redentore operante nella propria vita. Non sono due momenti necessariamente concomitanti. In Mt 25 – testo divenuto chiave per noi – nessuno degli operatori di bene riconobbe Gesù mentre faceva misericordia nei suoi confronti. Per contro, coloro che diranno “Signore, Signore” riceveranno la secca risposta del Maestro: “io non vi ho mai conosciuto”. Invocare il nome del Signore, avere Gesù sulle labbra non implica averlo riconosciuto come redentore. Accadrà con loro ciò che capitò a tanti ebrei al tempo di Gesù furono a contatto con lui, ma pochi ricevettero il dono di toccarlo con la fede. Il passo di Gv 9 – il cieco nato – potrebbe darci una pista conclusiva. Gesù viene incontro alla sua situazione drammatica di miseria donandogli la vista. Ciononostante, il cieco non seppe chi fosse stato il suo benefattore; capì solamente che chi aveva operato tale prodigio non poteva essere un “peccatore” e così lo fece notare al sinedrio che lo interrogava pressantemente. Lui, nonostante la sua ignoranza, diede testimonianza di Gesù fino al punto di esasperare gli ebrei che lo cacciarono via. Una volta fuori – non sappiamo quanto tempo dopo – Gesù gli venne incontro. Il cieco, per la prima volta poté guardare dritto negli occhi il suo redentore. “Tu credi nel figlio dell’uomo?”, gli chiese Gesù. La risposta del cieco nato è molto illustrativa per la nostra indagine: “e chi è, Signore, affinché io possa credere in lui?”. Lui si era già incontrato con Cristo e aveva da lui ricevuto una grazia singolare – la possibilità di guardare la luce – che gli 164

Conclusione

permise di avere un nuovo sguardo sulla realtà. L’incontro con Cristo ebbe però due momenti: uno di salvezza gratuita e un altro di riconoscimento del salvatore nell’uomo Gesù. Gesù è il salvatore che viene a dare la vista a coloro che, nonostante siano dei ciechi, riescono ad intuire l’azione divina nella loro esistenza. Non tutti avranno il dono di guardare Gesù immediatamente. Esso entra nel mistero del dialogo personale di Dio con ogni uomo. Ci sono stati anche coloro che guardarono Gesù perché avevano il dono della vista materiale, ma non lo riconobbero come salvatore: essi sono i veri ciechi. Possiamo adesso applicare l’episodio alla possibilità dei pagani di entrare in contatto con Cristo. L’assioma cristiano fondamentale è che “la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio” (Dominus Iesus, 14), ma, come insegna Benedetto XVI, “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1). Quindi la salvezza sta nell’incontro con Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, morto e risorto per amore. Come è possibile allora questo incontro con Cristo? Abbiamo accennato a diverse possibili forme di incontro. L’incontro diretto, storico, con il Gesù terreno non è più possibile – ormai non lo conosciamo più così. Alcune storie di conversioni possono rendere testimonianza di un incontro diretto, mistico, con il Cristo glorioso; è la storia di Paolo – prima non lo riconobbe nei discepoli, poi Gesù stesso gli venne incontro sulla via di Damasco. Nei tempi recenti abbiamo la testimonianza di Eugenio Zolli, rabbino capo di Roma che mentre ufficiava nel tempio maggiore di Roma, Gesù gli apparve e gli disse: “questa è l’ultima volta che ci sarai qui; d’ora in poi seguirai me”. Ci sono stati alcune apparizioni di Gesù riconosciute dalla Chiesa: Il Sacro Cuore di 165

E chi può salvarsi?

Gesù a santa Margherita Maria Alacoque, il Gesù misericordioso a santa Faustina Kowalska. Questi sono casi eccezionali della presenza di Gesù risorto e glorioso. In tanti – la grande maggioranza dei fedeli – incontreranno Gesù grazie alla testimonianza semplice e gioiosa dei cristiani. Altri infine non avranno alcuna possibilità oggettiva di entrare in contatto con Gesù, morto e risorto, sacerdote della nuova ed eterna alleanza sigillata con il suo sangue. Essi però non sono estranei al dialogo intimo con il mistero divino. Nessuno è talmente lontano da non poter fare esperienza della trascendenza che abita e agisce nell’intimo del cuore. Quanti, nel segreto del loro cuore avranno sentito di essere stati guariti dalla cecità – superbia, avidità, concupiscenza, ecc. –, anche se ancora il loro redentore non si è rivelato direttamente, e vivono nella segreta speranza di vederlo faccia a faccia. Est salus extra Ecclesiam sed non sine Ecclesia. Fuori dai confini visibili della Chiesa c’è la salvezza. Chi, pur non appartenendo alla Chiesa tramite il battesimo, raggiunge la salvezza definitiva è perché, in un momento della sua esistenza, non al di fuori del tempo, né al di là delle sue circostanze religiose, ha incontrato il mistero del Verbo incarnato, grazie all’azione dello Spirito che soffia dove vuole. Il racconto di Mt 25, nonché i passi dell’Apocalisse ormai studiati, indicano che alla fine dei tempi tutti incontreranno il loro redentore glorioso. Per molti, speriamo una moltitudine immensa che nessuno sarà in grado di contare, questo incontro rassomiglierà a quello del cieco nato, ormai vedente: “chi sei, Signore, affinché io possa credere in te?” Tanti altri invece, speriamo il maggior numero possibile, esclameranno pieni di stupore e di gioia: “quando ti abbiamo visto bisognoso, e ti abbiamo assistito?” Saranno loro, a prescindere dalle proprie tradizioni religiose – oppure grazie a ciò che c’è di vero e di santo nelle religioni –, a partecipare del 166

Conclusione

banchetto del regno, insieme ai santi, ai martiri e agli umili della terra, tra i quali speriamo di esserci pure noi. Saranno loro ad ascoltare: “venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”. Saranno i giusti che andranno alla vita eterna.

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Bibliografia

Tutti i testi del magistero pontificio sono stati tratti dal sito ufficiale del Vaticano, http://w2.vatican.va. Benedetto XVI, «Al presidente per gli Affari Religiosi della Turchia, 128 novembre 2006». La Traccia. L’insegnamento di Benedetto XVI, n. 11 (2006), 1207. Libri e articoli che trattano il tema dei gentili nel Nuovo Testamento: M. Barbolla, «La genesi della Mortalium animos attraverso lo spoglio degli archivi vaticani», Rivista di storia della Chiesa in Italia, 66, 2 (luglio-dicembre 2012), 495-538. M. Di Tora, Teologia delle religioni. Linee storiche e sistematiche, Dario Flaccovio, Palermo 2014. M. Konradt, Israel, Church, and the Gentiles in the Gospel of Matthew, Baylor University Press, Wako 2014. J. Munck, «Israel and The Gentiles in the New Testament», Journal of Theological Studies, Vol. II, Pt. 1, April 1951, 3-16. G. Odasso, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, Urbaniana University Press, Roma 2002. E. J. Schnabel, «Israel, the people of God, and the nations», Journal of the Evangelical Theological Society, 45/1 (March 2002), 35-57. E. J. Schnabel, «Contextualising Paul in the Gospel before pagan Audiences in the Graeco-Roman World», in Religion and Theology 12,2 (2005), 178. D. C. Sim – J. S. McLaren (edd.), Attitudes to Gentiles in Ancient Judaism and Early Christianity, Bloomsbury 2013. 169

E chi può salvarsi?

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Bibliografia

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Sommario

Presentazione di mons. Mariano Crociata ........................ 3 Introduzione generale.......................................................... 7 Metodologia del lavoro ................................................... 11 Prima parte: Lo status quaestionis.............................................................. 13 Il Magistero recente sulla salvezza nelle altre religioni... 13 Prima del Concilio Vaticano II.................................... 15 La svolta del Concilio Vaticano II................................ 20 Il magistero di Giovanni Paolo II................................ 26 Seconda parte: E chi può salvarsi?............................................................... 37 I Vangeli sinottici ............................................................ 37 L’elogio della fede pagana, ovvero la fede del centurione e della cananea.............................................................. 42 Apostolo pagano tra i pagani: l’indemoniato gadareno ... 51 Altri pagani “fedeli”..................................................... 53 I sinottici, tra esclusivismo giudaico e universalismo salvifico........................................................................ 57 Le condizioni per la salvezza nei Sinottici.................... 60 Il paradosso della letteratura giovannea......................... 75 Il Vangelo di Giovanni................................................ 75 L’Apocalisse di san Giovanni....................................... 83 173

E chi può salvarsi?

Terza parte: San Paolo e gli Atti degli apostoli....................................... 89 Gli Atti degli apostoli...................................................... 90 I lontani che Dio chiamerà........................................... 90 La scoperta della missio ad gentes............................... 94 Paolo, apostolo delle genti........................................... 102 Il discorso di Paolo all’Areopago................................. 109 Le lettere di san Paolo..................................................... 116 La Lettera ai Romani................................................... 117 La lettera ai Galati e le altre lettere di san Paolo, visione d’insieme......................................................... 128 Le altre lettere del Nuovo Testamento........................... 137 Quarta parte: Chi può salvarsi?.................................................................. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati..................... Le opere di misericordia e il comandamento dell’amore. La salvezza impossibile agli uomini ma non a Dio......... L’uno che salva i molti..................................................... La missione della Chiesa................................................. Valore salvifico delle religioni.........................................

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Conclusione: Chi sei, Signore, affinché possa credere in te?...................

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Bibliografia...........................................................................

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2020 da I IF Press (Roma, Italia) Stampato in Italia - Printed in Italy