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Italian Pages 152 Year 2023
Antonio Fiori
Vita di un altro
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 20
Antonio Fiori
Vita di un altro
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 20 – aprile 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-390-7 ISBN – Ebook: 978-88-5529-397-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Success and ambition concept, surreal painting © Jorm S – stock.adobe.com
Quaderno del sogno
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Ho un vecchio quaderno su cui annoto da tempo le poesie dei poeti del sogno. Attingo per lo più dai loro libri, ma vengo ogni tanto a conoscenza di nuove scoperte d’archivio o addirittura, come da poco accaduto, di un nuovo insospettabile autore. Vi chiederete ora il motivo per cui sono qui a darvi conto di questo quaderno – alquanto insignificante, con la copertina azzurra sbiadita e i bordi ingialliti. Ebbene, il fatto è che sta succedendogli qualcosa di inspiegabile e che mi mette molta paura: sono già due le volte che, quando lo riapro, scopro d’averlo aggiornato senza conservarne il ricordo; riconosco mia la scrittura ma nulla so del testo riportato, né del perché o del quando ci sono andato a scrivere. Vincendo l’ipocondria, ho consultato subito un neurologo ma niente spiega questa misteriosa e particolarissima lacuna della memoria (che per il resto pare funzioni assai bene). È per tale motivo che non ho più aperto il Quaderno del sogno, ovvero fin quando l’editore mi ha chiesto di stendere questa introduzione in vista della stampa del libro: troppa la paura, l’ho dunque consegnato direttamente all’editor perché sia lui ad aprirlo e a decidere cosa pubblicare.
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Ormai le foto sono tutte belle Ormai le foto sono tutte belle ma allora, quella della mia sorellina con l’abitino di tulle sospesa nel passo di danza era l’unica bella tra le foto ingiallite di mamma. Il giorno che d’anni ne avremo cinquanta ancora sorrideremo, sorella, guardandola assieme alla mia, a carnevale vestito da angelo con ali che mi illudevo m’avrebbero fatto volare. Sorrideremo, dicevo, invece già piango tutte le assenze del tempo a venire e mi prende uno strano dolore che tengo e non devi sapere ti prego, non mi guardare – sorridi. 2014 Gherardo Finzio, Pane quotidiano, Nuovo Canone, 2020.
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L’infanzia all’improvviso scomparve L’infanzia all’improvviso scomparve quando imparò a baciare con la testa di un manichino. Mai avrebbe immaginato che nella lunga vecchiaia di tutti i baci che aveva dato sarebbe rimasto solo quello alla bocca di plastica. 2016 Gherardo Finzio, Pane quotidiano, cit.
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Un sogno L’amore per il nemico appostato per una bestia da soma per un condannato è amore più d’ogni altro. L’amore di madre ad esempio – diceva il prete spretato – val poco, è nella natura del parto nessuna lo ha scelto, a tutte gli è nato. E dell’amore carnale provato che dire – meno ancor meritato l’amante non sceglie, non vede non sente che l’altro, n’è ubriaco. Ma amare il nemico è vangelo supremo – ci dice nel sogno il prete esiliato – è l’unico amore che vale, che ti salverà dalla pena quando sarai giudicato. Marianna Concordia, Poesie complete, Via Emilia Edizioni, 1992.
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Spalle al muro Se tu fossi ancora con le spalle al muro in attesa d’essere divorata dal fuoco del bacio sarà la prova che non sogniamo e non siamo dentro una poesia. Sapremo che uno almeno di noi avrà varcato il confine che temo e poco mancherà al verdetto. Appoggiati allora a quel muro bruciavano i corpi innocenti – immortali per pochi istanti – con le anime ferme accanto. Nessun diaframma di tempo ci separa più adesso – verrà Lui col peso perfetto e con l’angelo paladino.
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Ecco legge la sentenza che ha scritto. Ho paura non voglio sentire. Eppure ti bacio lo stesso. 1988 Kevin Stafford, Poesie, tr. it. di Alessandro Ceni, Cultus, 2007.
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Chiamata in correità Ciò che temiamo più d’ogni agonia e della stessa condanna – perché ci lascia nudi e senza un’arma davanti al palazzo di giustizia. E anche se l’empietà non fu commessa ce ne sentiamo pregni – è dentro di noi occupa la coscienza e ci accusa lo stesso. Kevin Stafford, Poesie, cit.
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Verano Temporada de ropa blanca y calor atormentador meses que cansan campesinos y molineros eres tan misterioso verano de noches cortas que con amor prendes fuego a nuestros cuerpos jóvenes. Pero tu mejor regalo – verano largo y extremo – es encender nuestro ascetismo despertando el alma y el viento. Madrid, 1550 Estella Ruiz Blanco
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Estate Stagione di lini bianchi e tormentosa arsura mesi che affaticano contadini e mugnai sei così misteriosa estate di notti brevi che con l’amore dai fuoco ai nostri corpi giovani. Ma il tuo dono più bello – estate lunga ed estrema – è accendere la nostra ascesi svegliando l’anima e il vento. (mia traduzione) Questa poesia di Estella Ruiz Blanco era finora edita soltanto in Spagna (rivista «Siglo de Oro», n. 114, 2002) dopo il casuale ritrovamento del manoscritto a Madrid nel 2001, nelle soffitte di Palacio Gonzalez in Calle Mayor.
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L’anima del fiume Del fiume l’alveo decide la portata n’è l’anima che tutto lo contiene conosce le correnti di quell’acqua è attraversato come noi da pene e quando cede ingoia le sue rive dopo un estremo e inutile sperare corpi e detriti lascia alle derive – il fiume adesso è lago che ci assale. Carlo Gasperino, Cerimonia del nulla, Enneadi, 2011.
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Donerò queste parole all’amico che le alleva. Lui le allinea o le distacca le rilegge e le conserva nella tasca della giacca serviranno, le prescelte quando meno te l’aspetti – dopo anni a una domanda sussurrandole in risposta ma ormai più le riconosci son cresciute, son cambiate piume e pietre diventate. Irma Indovina (poesia rinvenuta annotata in un’agenda del 1947)
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Charles Bernard Lee (Newcastle, 1939-2016). Cardiochirurgo e poeta, pubblicato postumo recentemente in Inghilterra. Sembra che, dopo il sogno inspiegabile, abbia confidato agli amici: “Solo quando indosso la mascherina riesco a sorridere di nuovo”. Nel suo sogno un paziente, prima d’un intervento, si svegliava di soprassalto dall’anestesia e gli poneva delle domande in una lingua mai sentita. Questa è una poesia del 1967, da My Hearts, Davies, 2019.
I finally finished my surgery. Now that I stitched up the heart I can finally open mine. Ho finalmente concluso l’intervento. Ora che ho richiuso il cuore posso finalmente aprire il mio. (mia traduzione)
Ritratti
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Dopo un lungo cammino fatto d’anni e di passi parlerò d’ora in poi solo in terza persona (come l’evangelista fece in quel tempo invisibile). Fedeli alla parola data ci ritroveremo al richiamo d’aiuto – mano tesa in soccorso, voce pronta a difesa del giusto. Io per quanto mi spetta rinnovo la lontana promessa. Giovanni Nuscis
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Parlare con mani d’acqua con la voce scolpire o scrivere nell’aria un addio ma non riuscirci lontanamente solo lo sciabordio dell’onda sulla lingua “Non snaturare la voce imitando” Antonio Pibiri
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Avrei voluto sentirlo il vento stamattina andargli incontro a testa alta uscendo dalla baita senza temerlo, invece ecco la calma di una luce bianca un silenzio inatteso. Coi suoi tranelli, resiste la neve. Le vado incontro cantando. Scorgo lontano un camoscio che fatica. Giovanna Menegùs
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Al centro del villaggio le donne coi figli mentre gli uomini vociavano intorno. I fuochi erano accesi e lo sciamano per primo danzava, da solo poi tutti convulsi e il canto del coro. Intanto Akosua piangeva nella sua capanna non voleva sposare quell’uomo. Voleva fuggire quel giorno ma aveva la famiglia contro, i riti, le donne, gli amuleti. Avrei voluto salvarti, povera piccola sposa ma anch’io combatto il mio mondo dove pochi comandano e liberi siamo per posa. Daniela Raimondi
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Passano gli anni anche se resti ferma anche se non ci pensi e dormi anche se sei distratta da un mondo che non ha pace. Ieri, dopo l’arcobaleno sono rincasata serena e dalla foto in cornice mi ha guardato una bimba dimenticata. Sorpresa, solo allora ho rivisto la bambina che sono stata. Adriana Libretti
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Ogni giorno vorrei ricominciare dicendovi cose nuove – vorrei liberarvi cantare sottovoce le parole misteriose che il feto non sa dire Invece sono qui a pesare le mie a cercarne di più belle – vorrei liberarmi per rinascere con voi un giorno o una notte di stelle Annamaria Ferramosca
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Saliamo su una barca ogni giorno senza pedaggio al suo padrone e avanziamo nella nebbia del fiume verso incerte direzioni. Giunti alla riva, ogni notte la riponiamo sul greto a fatica dimenticando di ringraziare il Padrone per la barca di questa vita. Evaristo Seghetta Andreoli
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“Ci incontreremo ancora” Non è malinconia è qualcosa che non so dirvi ma ne vado fiera, mi aiuta a stare al mondo guardare il sole senza accecarmi. Dentro la bolla che io stessa creo la vita è vera, le parole sacre. Sono sempre alla stazione ad attendere che arriviate – ho un’alma che incontra ognuno e un corpo di poesie, pegno di gioventù. Alessandra Corbetta
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Mi batto da leonessa, feroce più del leone scendo agli inferi e libero chi è lì per errore – interpreto la Legge anche contro il suo Autore vincerò in Cassazione citando Kafka e Rilke. Dimostrerò che le streghe hanno diritto al trono e miriadi di assolti meritano il rogo. Gisella Blanco
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Nell’86 mio cugino, dentro la luce della cucina, riuscì ad appendere un poster dei Genesis che casa sua ormai ne era proprio tappezzata. Ricordo mia madre, rideva a testa china dicendo “Va bene, tanto sarà il primo e l’ultimo”. Oggi però la parete conserva ancora quell’alone e tra i fornelli spenti mi sembra di ascoltare Phil Collins che solo per me canta Land of Confusion (poi vado a letto, dove mi rivolto e le Marche le Marche le sento sempre tremare…). Piergiorgio Viti
Vita di un altro
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Tosto che fummo prossimi allo spirto questi s’accese tutto nello riso poscia chetossi e disse a me “se’ vivo!”. (A. F., Parodia dantesca)
Essere umani può anche significare rassegnarsi Ma essere più umani è persistere a darsi. (Giovanni Giudici)
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La mongolfiera apparve inattesa sul cielo dell’isola, lontanissima sfera bianca che cresceva lentamente. Ci guardammo meravigliati e tornammo a fissarla fintanto che non fu a una trentina di metri sopra le nostre teste. Ci spostammo appena in tempo, correndo a ritroso verso la pineta di Caprera. Il grande pallone non recava scritte ed era di uno strano colore perlaceo. Appena ancorata, a bordo fu spenta la fiamma residua e con agile balzo scese a terra un uomo. Restammo sbalorditi, l’avevamo riconosciuto subito, era Michelangelo Antonioni, che stava finendo di girare il suo Deserto rosso nell’Arcipelago maddalenino. Eravamo giovanissimi, appena diplomati, e quella era la nostra vacanza premio. La sera stessa fummo invitati in trattoria dal grande regista e capimmo che il vero premio, per noi, non era stato l’incontro col mare.
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Nell’atrio di un vecchio palazzo, nel mese in cui compiva ventun anni, mi confessò d’aver fatto uno dei pochi errori della sua vita, subendo la giusta punizione: ricevette infatti uno schiaffo indelebile per aver dato un bacio maldestro alla persona giusta. Non si parlarono più per qualche anno, pur non perdendosi mai di vista nella piccola città. Il lavoro li fece poi incontrare di nuovo e si dovettero vedere – o almeno sentire – quasi tutti i giorni, per anni. Mi disse che si trattò della stessa punizione sotto altre forme, scontare cioè a oltranza, per contrappasso, l’occasione mancata di una vita insieme.
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Nuotava piuttosto bene, anche se fratelli e cognati, più giovani e atletici, in mare lo superavano. Ci fu un periodo, ricordo, in cui del mare aveva un po’ di paura. Un giorno ebbe infatti una piccola disavventura al ritorno da una gita alle Isole, quando il tempo cambiò improvvisamente e il battello con cinquanta passeggeri cominciò a imbarcare acqua. Arrivarono in porto appena in tempo. L’estate successiva un amico dovette insistere per farlo salire, quel tardo pomeriggio, sul piccolo laser che aveva appena noleggiato. Era monoposto, e già l’irregolarità di salirci in due lo inquietava, c’era poi un ponentino che sembrava rinforzare… insomma, per farla breve, appena si accorse che la distanza dalla riva gli consentiva ancora un rientro a nuoto, si tuffò senza dir niente, lasciando di stucco l’amico velista.
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Nonostante avesse sperato di evitarlo, il servizio di leva gli ha poi lasciato solo bei ricordi. Uno dei più divertenti è lo scherzo della roulette russa, fatto al corpo di guardia con i commilitoni e il maresciallo. Aveva da qualche giorno in tasca una pistola giocattolo e stava rimuginando su come divertirsi. Finì che propose agli annoiati piantoni di fare insieme il gioco della roulette russa: caricato ogni volta un solo proiettile, la pistola passava di mano in mano per il drammatico colpo di sfida. Ebbene, con gran dose di fortuna, nessuno della truppa incorse nella fatidica esplosione, ma il maresciallo, che richiamato dal trambusto chiese di poter provare anche lui, subì il colpo letale.
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Suo padre aveva un cugino sacerdote, battagliero come pochi, che durante il Vaticano II si batté per l’abolizione del celibato (scrivendo anche un libro che ebbe risonanza nazionale). Persa la causa, a sessant’anni lasciò l’abito talare e si sposò, deludendo tanti “ortodossi”. Ma la vera notizia fu un’altra: l’ex sacerdote si sposò regolarmente in chiesa, grazie a una eccezionale dispensa di Paolo VI.
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Gli piaceva così tanto la geografia che da ragazzo si era inventato un piccolo Stato, vicino al Sud Africa – cartina, superficie, abitanti, capitale, città più importanti, produzioni principali – due lingue ufficiali, inglese e spagnolo. Ricorda ancora che la capitale si chiamava New Madrid e il porto principale New Cadice. Mi ha detto che qualche anno fa, sfogliando un vecchio atlante, giunto all’Africa l’occhio era andato sicuro a cercarlo, e – rimasto deluso – pensò di segnalare all’editore l’errore del cartografo.
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Un giorno, in un raptus confidenziale, gli chiesi della sua vita amorosa, se avesse voglia di farne un bilancio, se ne fosse contento. Ci pensò a lungo, poi disse: “All’inizio le cose sembravano non combaciare (le ragazze avevano più paura di noi allora ma sapevano bluffare meglio), ma dopo, dai diciannove/vent’anni, le cose iniziarono a combaciare sempre di più. Sono stato felice, anche troppo”. Non era gran che, mi aspettavo qualcosa di più, sentivo che si era riservato qualche segreto.
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Una decina d’anni fa mi raccontò tutto entusiasta di un ritiro spirituale di due giorni a Fonte Avellana, meraviglioso Eremo camaldolese in provincia di Pesaro-Urbino. Ne era appena rien trato, in volo diretto, da Ancona. Mi disse che quel monastero è citato da Dante nel Paradiso e che il priore si faceva chiamare per nome, Alessandro, cosa che lo colpì molto. Pasti frugali, meditazioni e conversazioni intorno al desco. Alla fine mi confessò che, dopo molti anni… si confessò.
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Un giorno di primavera guardavamo in silenzio il mare di Alghero, quando, all’improvviso, mi disse: “Ci sono sempre stati poeti che si denudano e poeti che si nascondono; poeti che s’interrogano e poeti che ci interrogano; poeti che si vergognano e poeti senza vergogna; ebbene, quelli grandi queste cose le fanno tutte e tutte insieme”.
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Mi sto chiedendo da tempo come mai, lui così ilare e con la vita piena di divertimento, stia ora declinando verso il silenzio, verso una specie di malinconia, ma né lui né i miei ragionamenti sono riusciti a darmi una spiegazione convincente. Forse, come una volta ho letto da qualche parte, ha “una chiamata da fare, qualcuno che attende, un nome da ricordare, qualcosa da rendere, quello che non puoi dire, una porta da aprire”.
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Mi raccontò che in una lontana sera d’agosto, prima di iniziare la passeggiata sul lungomare affollato, si mise d’accordo con amici e nipoti affinché lo fermassero a metà percorso chiedendogli un autografo. Voleva dimostrare che la gente s’accoda e ripete certi riti senza chiedersi nemmeno il perché. E lo dimostrò eccome: dopo pochi secondi, decine di sconosciuti si avvicinarono per chiedere anch’essi l’autografo e nessuno, giusto per non far brutte figure, osò chiedergli chi fosse.
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Ci stiamo vedendo poco ultimamente. La scorsa estate lo incontrai per caso e mi presentò Tiziana, un’amica padana conosciuta solo il giorno prima. Lei mi fece una gran bella impressione; era in vacanza dalle nostre parti e lui la stava accompagnando in un ultimo giro in costa prima della partenza. Appassionata naturalista, aveva interrotto gli studi universitari, non ricordo se Lettere o Filosofia, per la famiglia e il lavoro. Finii invitato alla loro gita. Dopo che la salutammo, davanti al suo albergo, nel sole ancora caldo delle otto, mi disse: “Non ti puoi nemmeno immaginare quanto ci assomigliamo, io e lei”. In quelle poche ore da soli, prima di incontrarmi, doveva aver scoperto qualche misteriosa coincidenza, qualche segreto, l’amore forse.
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Due citazioni che ama molto e che mi sono annotato. «I libelli presentati senza firma non devono avere spazio in nessuna accusa. Infatti è cosa sia di pessimo comportamento sia non degna della nostra epoca». (Traiano a Plinio il Giovane, Epistulae, X, 97).
«La redenzione universale si compie rendendo noti la colpa e il dolore, e quindi ristabilendo i rapporti. La dottrina del perdono e della redenzione universale fa si che nella concezione del giudizio non si debba mettere in conto una finale crudeltà di Dio». (Matthias Zeindler, Dio giudice, Claudiana, Torino 2008, p. 95).
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Nel febbraio del ’99, profittando del Carnevale, un misterioso vescovo visitò a sorpresa la nostra città, andò a salutare le suore del convento più importante, fece una capatina in pasticceria, estasiò la folla sul sagrato di una chiesa, visitò medici e infermi e, alla fine, fatto rifornimento di gasolio, partì verso l’invisibile futuro. Ogni volta che mi ritorna in mente questa vicenda, sono costretto a chiedermi se mi raccontò solo un sogno o se a Carnevale si mascherò davvero da arcivescovo.
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“Difficili confidenze”, rispondeva così quando gli chiedevo qualcosa sulla sua vita privata, ma non era che una premessa alla risposta imminente, sempre generosa, salvo che in tema d’amore. Quella sera era stanco, prima d’incontrarmi aveva fatto una lunga camminata a cui non era più abituato. Gli chiesi del suo rapporto col tempo, se per caso fosse mutato, se – come capitava a me da qualche anno – lo affliggesse la malinconia e l’impressione che le stagioni non volessero continuare a scorrere. Mi guardò a lungo con un sorriso amaro, e rispose: “Sì, sta capitando anche a me, ho proprio la sensazione che non abbia più voglia di scorrere, il tempo, che stia lì fermo a guardarmi mentre mi assalgono i ricordi, pronto a strattonarmi all’improvviso e trascinarmi via con sé; non nel passato, no, bensì nel futuro che ci attende, quello della morte. Ho sempre ammirato Francesco, santo a pieno titolo, che amava in egual modo e misura Vita e Morte, le due sorelle. Lui vedeva oltre, noi no, a noi è dato solo di sentirla confusamente, ogni tanto, quella parentela”.
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Seppi per caso da un parente che, giovanissimo, si cimentava in epitaffi (allora si partiva molto prima di oggi, e in tanti, zii, nonni, presidi, vicini di casa raramente arrivavano ai settant’anni). Non me ne aveva mai parlato. Resistetti a lungo, poi un bel giorno gliene chiesi conto. Li aveva tenuti così segreti e ben custoditi che li aveva persi tutti e pian piano dimenticati pure. Se n’è però ricordato uno: “Ha amato tanto e tanto amato è stato”, era quello che aveva scritto per sé.
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Un bel giorno il nostro fraterno rapporto iniziò a darmi pensiero. Ci incontravamo quasi sempre da soli, avevamo poche amicizie in comune, ma non potevamo fare a meno di sentirci o vederci, specie intorno ai quarant’anni, quasi tutti i giorni. Ricordo che lo pensavo spesso, magari lo chiamavo solo per chiedere il suo parere su qualcosa (anche sulle cose più futili, su un dopobarba per esempio). Quando me ne resi conto feci un’improvvisata autoanalisi e conclusi che ci doveva essere, da parte mia almeno, un sentimento omoerotico represso. Non ebbi però mai il coraggio di far venir fuori la cosa con lui. Misi anche in conto qualche seduta psicanalitica, ma rimase un’idea. Ho poi di recente scoperto che non sarebbero neanche iniziate, quelle sedute – la psicanalisi freudiana riteneva infatti inutili le terapie dopo i cinquant’anni e io, all’apice del rovello, avevo ormai quell’età.
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Anche lui, come me, ha letto tantissimo. Era stato suo padre, mi disse un giorno, a mettergli in mano i primi romanzi, a tredici anni. Lo faceva di nascosto della moglie, preoccupata sempre che non contenessero resoconti troppo audaci. Della prima infanzia ricorda vagamente solo due o tre libri per ragazzi – Le tigri di Mompracem, Ventimila leghe sotto i mari –, ma Il segreto di Luca e Vino e pane di Silone ruppero d’incanto la spensieratezza dell’avventura, portandolo dentro un altro mondo e un’altra scrittura.
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“E pensare che si fa di tutto per non pensarci”, mi disse. Si riferiva alla fine, che pure ha un inizio – aggiunse – così difficile da scoprire. Quella sera, nella sua casetta di campagna, ne discutemmo per ore. Il primo punto fermo fu che la nostra fine riguarda il futuro e va dunque indagata cercando segni premonitori o ricorrendo alle arti divinatorie. Solo in seguito, se delusi dai consulti o incapaci di interpretare i segni, si può pensare se e come prepararsi a un evento così imprevedibile nel quando, nel dove e nel modo. Concludemmo che sarebbe in ogni caso una fatica inutile, troppe le variabili e troppo il rischio di consigli insensati (come sarebbe un decalogo per lunghe degenze di fronte a una fine improvvisa o uno per fini improvvise di fronte a una lunga degenza, che sa già di ridicolo). La terza tappa della nostra discussione ebbe a tema l’aldilà e iniziò con una sfida di memoria sul primo canto dell’Inferno di Dante. Seguì un dialogo fittissimo che si concluse ancora una volta con una franca condivisione: di fronte all’ostinato e irrisolvibile mistero dell’aldilà, l’unico post mortem che si può indagare è l’aldiquà, ovvero studiare quel che accade in chi resta dopo la partenza di qualcuno. Ma ormai erano le due di notte, troppo tardi per tornare in città; ci sedemmo allora comodi sul divano, scher-
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zando un po’ sulla situazione e ci addormentammo sorridendo come due bambini che al risveglio ricorderanno ben poco della sera prima e troveranno la vita ancora lì, pronta a sorprenderli.
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Un amico poeta gli chiese una volta quali fossero le ragioni per cui certi versi che leggiamo ci restano memorabili. Rispose: “Credo che a sceglierli non siamo noi, ma i fantasmi che ci abitano quando li leggiamo. A vent’anni ho annotato questi versi, solo questi versi”: «La sete o l’acqua sei sulla mia strada? Dimmi, vergine altera, mia compagna». (Antonio Machado, 1903)
«Io trascino, trascino la vita, la mia vita sorda, dissennata: oggi esulto con animo sereno, domani invece canto e piango». (Aleksandr Blok, 1910)
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Un giorno mi sbalordì con questo episodio. Riguarda una persona che si serviva alla sua stessa edicola. Correva in edicola alle sei del mattino per il suo imperdibile settimanale, l’unico in uscita la domenica. Ogni domenica arrivava in auto e trovava Pino che doveva ancora tirar su la serranda, e dopo un po’, scambiati saluti e battute, erano al bar per “il caffè buono”. Ma quel giorno Pino se lo rivide di nuovo davanti verso le otto, sbrindellato, spettinato, col giaccone aperto nonostante il freddo. Era arrivato a piedi, col suo passo lento ci doveva aver messo mezzora per quel chilometro di distanza. Appena gli fu di fronte gli fece segno d’avvicinarsi per parlargli all’orecchio: “Lei non voleva – gli disse ansimando – sono stato costretto. Dopo ho rotto lo specchio, ho rotto tutti gli specchi di casa! Ti ricordi Borges? ‘Mi bracchi da sempre’ – diceva allo specchio – ‘mi cerchi e non mi salva essere cieco’. Ora ha cessato di perseguitarmi, ora non ci sono più testimoni di quanto ho fatto e di quanto farò. Borges invece non ha avuto il coraggio di eliminare lo specchio, il testimone – ‘Quando morrò, tu copierai un altro / e dopo un altro e un altro e un altro, e un altro’”.
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Secondo Pino, il poveretto aveva solo avuto un incubo, secondo lui invece quel cliente commise un delitto perfetto, con tanto di confessione e citazione letteraria.
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La memoria lo tradisce spesso ultimamente. Anche oggi, per esempio, è ricascato nell’errata attribuzione – a Catullo anziché a Marziale – dell’imperituro epigramma: «Facile e difficile, acerbo e soave insieme: / con te né senza te posso più vivere». Io ero certo si trattasse di Marziale, lui altrettanto certo di Catullo. Per dirimere il dubbio, con mia grande delusione, è però ricorso a Google. Troppo facile, gli ho detto: come avresti risolto il problema vent’anni fa? Bisogna sudarsele le cose, dopo le si ama di più e, soprattutto, non le si dimentica più. Mi ha rifilato un mezzo sorriso e ha poi detto qualcosa che non mi aspettavo: “La ragione, con tutta la sua sfrontatezza, sarà anche dalla tua parte, ma ricordati che il tempo, a una certa età, diventa prezioso, sempre più prezioso, e se puoi conservartene un po’ grazie alla tecnologia, hai tutto il diritto di farlo. Il tempo, diceva mio padre novantenne al suo libraio che gli incartava un libro, voi dovreste venderlo assieme al libro, almeno a noi anziani, altrimenti come potremmo essere certi di fare in tempo a leggerlo?”.
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Aveva scritto con grande zelo e passione un articolo nel quale rifletteva sull’esitazione umana, per distinguerne l’accezione negativa da una positiva, forse preminente, che vi leggeva. Aveva inviato il pezzo a una bella rivista filosofica edita nella sua città, quindi a un paio di amici scrittori, infine, fiducioso, a un docente di Estetica che conosceva da tempo. I silenzi che seguirono lo amareggiarono molto: era la sua scrittura che non convinceva? O le citazioni osate? O era la tesi di fondo, rivalutativa, a non trovare consensi? Sono ormai trascorsi due anni e ogni volta che l’incontro, a un certo punto, costi quel che costi, conduce il discorso sul problema dell’esitazione, mi ripete il suo pensiero e l’amarezza di quei silenzi. Ma ogni volta che gli ricordo, dopo avergli ribadito il mio consenso, che proprio a me ancora non ha fatto leggere l’articolo, resta costernato e mi promette l’invio del file per la sera stessa. Mi son fatto però l’idea, non avendo ancora ricevuto niente, che nulla in realtà abbia mai scritto o spedito, incarnando così egli stesso l’assillo dell’esitazione.
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Amava il Rossellini televisivo più del regista famoso: la sua India in dieci puntate, La presa del potere di Luigi XIV, Blaise Pascal, Agostino d’Ippona. Una decina di anni fa mi invitò a casa promettendomi una sorpresa. La sua parlata spumeggiante e avvolgente mi fece scordare il motivo segreto della visita, gli argomenti – come sempre – divennero presto un nugolo di ragazzi ingovernabili. Dopo oltre un’ora di conversazione, mentre rispondeva a una mia domanda sull’infanzia di Attilio Bertolucci, si interruppe improvvisamente ed estrasse dalla libreria quello che da lontano mi parve un libro e che subito si rivelò invece una vecchia cassetta vhs molto ben conservata: era La presa del potere di Luigi XIV, un film televisivo prodotto in Francia nel 1966, ma presentato a Venezia e distribuito in seguito anche nelle sale. Lo inserì nel lettore in disuso e a bassa voce mi disse: “So che non l’hai mai visto, accomodati”. Per una migliore visione spense la luce centrale della stanza e accese quella piccola dello scrittoio. Con l’ascesa al potere del giovane re e quella corte prigioniera di se stessa nella Reggia di Versailles, abbiamo dunque visto la Storia entrare in casa.
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Le nostre telefonate erano in genere brevissime: accordi per incontrarci, conferme o smentite, qualche scambio di informazioni. Tutti i nostri dialoghi sono avvenuti guardandoci negli occhi. Ci fu però una sua accorata telefonata, verso la fine degli anni Ottanta, che non posso dimenticare. Si stava interrogando sull’opportunità o meno di bruciare le lettere di gioventù, corrispondenza in gran parte amorosa ma non solo. Non mi disse – né allora né mai – chi fosse l’amata e nemmeno volle dirmi dell’altro interlocutore, quello delle missive che avevano (come ammetterà) contenuto politico. Tutta la lunga telefonata verteva sulla legittimità morale della loro distruzione. Era attanagliato dal senso di colpa che la loro eliminazione avrebbe potuto comportare. Parlava di uno strano e mai sentito “dovere di conservazione del passato sub specie documenta” che dovremmo tutti sentire riguardo a quanto abbiamo scritto di pugno, con passione di mente e di cuore. La telefonata si concluse senza aver preso decisioni, e io non ebbi più il coraggio di chiedergli notizie del destino di quelle lettere.
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“Promesse non mantenute, goliardate, la scelta tra cinema e pizza ogni sabato sera, prove del fuoco sempre rimandate, canzoni che amavamo ma non sapevamo cantare, la memoria precisa dei pochissimi baci – fu questo la nostra adolescenza”. La definizione frammentata dell’adolescenza risale agli anni dell’università, quando la nostra amicizia si andava consolidando. Lui allora la descriveva così, l’adolescenza. Compiuti vent’anni ci eravamo entrambi illusi di poterne parlare con cognizione di causa, di averla già alle spalle. Eravamo invece ancora dentro quel fiume e ci saremmo scoperti adulti solo molti anni dopo, in un giorno preciso: l’11 settembre 2001.
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Perdo sempre il conto di quanti fratelli avesse. Fratelli e sorelle: quattro, cinque, forse sei. Lui li nominava raramente e io capii presto che si vedevano poco, ancorché vivessero tutti nella stessa città. C’era però una sorella che nominava più volentieri, era l’ultima nata, più piccola di lui di dieci anni. Mi raccontò che, quando andava a ritirare dalla scuola elementare quella bambina con gli occhi azzurri e le treccine bionde, lo credevano il padre; nonostante avesse solo diciott’anni ne dimostrava almeno dieci di più, e la cosa allora, mi confidò, non gli dispiaceva affatto, circondato com’era da tante giovani mamme.
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Un giorno mi disse che, potendo ricominciare da capo la propria vita, avrebbe studiato le lingue e fatto il traduttore, mestiere in genere mal retribuito ma per lui eroico e invidiabile. Portava ad esempio un comune amico, che dati brillantemente la metà degli esami di Giurisprudenza, un bel giorno, illuminato sulla via di Damasco, aveva abbandonato quella facoltà per iscriversi a Lingue e Letterature straniere. Aveva ripreso a sorridere, era proprio quella la strada da prendere. Laureatosi a pieni voti, dopo un paio d’anni di insegnamento vinse un concorso come traduttore alla Comunità Europea, si trasferì a Bruxelles e visse una vita che non avrebbe mai immaginato di vivere: dopo tante ore di traduzioni simultanee, ci raccontò un giorno, poteva capitare che una mattina si svegliasse arabo, a una cena si scoprisse francese e un pomeriggio assolato, all’improvviso, si ritrovasse a declamare Lorca in perfetto castigliano.
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C’è un documento importante che di lui dice molto, certo qualcosa di più privato di quanto vi sto già raccontando: un diario che aveva deciso di interrompere definitivamente e che voleva preservare da se stesso (mi disse proprio così: “Lo devo preservare da me stesso”). Quando me lo diede, molti anni fa, me ne lesse un paio di pagine. Io accettai di tenerlo ma dichiarando subito che non lo avrei aperto mai, per discrezione e rispetto. Credo invece oggi di poterlo andare ad aprire, ché leggendo quelle pagine potrò – potremo – conoscerlo meglio.
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Dal suo diario, 3 settembre 1986: Austerity, 1973 – una delle prime parole inglesi a entrare nel vocabolario politico italiano. Poche domeniche senz’auto sembrava ci avessero fatto capire tante cose: colpe storiche dei grandi Stati coloniali, relazioni sociali da ripensare, necessità di un governo internazionale dei costi dell’energia, riscoperta della natura e del nostro corpo. Berlinguer specialmente ci vedeva una sorta di evento simbolico, una necessità che poteva diventare un persuasore morale dei cittadini. Ecco invece dove siamo arrivati oggi, a tredici anni di distanza: al mito degli Yuppies, alla Milano da bere di Tognoli e Pillitteri.
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Dal suo diario, Capodanno 1987: Anno nuovo vita nuova: cambia postura caro, raddrizzati. Impara almeno la posizione yoga più semplice e praticala ogni giorno. Educazione soprattutto mentale. Non c’è niente da dimostrare, basta con le scuse. È dal ’68 che abbiamo riscoperto yoga e astrologia: un ripiego del pacifismo su passioni più abbordabili o un segno di rinascita spirituale? Bando ai tentennamenti. Decidersi e iniziare. Eh, sì, ma non ho nessun libro sullo yoga, tantomeno illustrato. Devo andare a cercarne uno. P.S. 2 gennaio, ho appena comprato La via dello yoga. La conoscenza di sé alla luce degli astri, Edizioni Mediterranee, Roma 1986. Autrice italiana ma nata ad Asmara, Silvia Rosanna Rizzi. Speriamo bene.
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Dal suo diario, 20 maggio 1988: Elenco dei miti musicali: Yes, Genesis, King Crimson, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso. Li sento contemporaneamente lontani e vicini, che strano. Devo sapere se succede anche agli amici. Elenco dei miti letterari: Thomas Mann, Franz Kafka, Dino Buzzati, Albert Camus, Honoré de Balzac. L’allungherei volentieri, ma non vorrei annacquarlo. Mi viene da pensare che anche i classici della letteratura capita di sentirli vicini e al contempo lontani, carichi di passato ma sempre attuali, ancora giovani a secoli di distanza. Oggi ho riaperto la mia antologia del liceo: che meraviglia la triade Gianni, Balestreri e Pasquali in cinque volumi, copertina cartonata rossa con intestazioni dorate!
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Dal suo diario, 14 aprile 1991: Guida discutibile dell’auto, ma superba guida delle danze. E, tra le danze, quella del ventre, difficilissima ma seduttiva più del tango. Eros, quando entra in scena, vince sempre Thanatos. Anche se sa di soccombere nell’ultima battaglia, Eros ora è invincibile – capace di far capitolare anche gli dèi. È proprio vero, il mito può incarnarsi di nuovo dopo millenni, impossessarsi di una vita qualsiasi e viverla fino a bruciarla. Conclusa la Guerra del Golfo, prossima la primavera. Cos’altro manca? Dolce la danza e dolce il giogo.
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Dal suo diario, 24 dicembre 1996: Per Natale mi sono regalato un Meridiano Mondadori. Non uno di quelli monografici dedicati a un singolo autore, bensì un’antologia fresca di stampa: Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. Conosco (poco) pochissimi di questi poeti, motivo in più per immergermi nella loro lettura. Spero diventi avida lettura e gradita conoscenza. Il mese scorso ho acquistato in edicola, per la prima volta, un mensile internazionale di poesia edito a Milano, intitolato semplicemente «Poesia». Molto ben fatto e molto stimolante. Non ne conoscevo l’esistenza. Il mio edicolante mi ha detto che lo distribuiscono solo in certe edicole, dove viene prenotato per ridurre al minimo i resi. Lui non aveva prenotazioni e dunque non potevo averlo mai visto in edicola (ed è stato un caso che l’abbia visto esposto, mi ha detto, perché in genere arrivano solo le copie richieste). L’ho subito prenotato. L’editore è un certo Crocetti, Nicola Crocetti.
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Quel giorno lo trovai strano, affaticato e pensieroso. Eravamo ancora giovani e non l’avevo mai visto così, sembrava avere addosso il doppio degli anni. Ricordo nitidamente tutto di quell’ora insieme – la mia insistenza nel chiedergli del suo stato, lo splendido locale in cui ci sedemmo, il lento tramonto che ci accompagnava – e solo oggi mi rendo conto del perché sia rimasto tanto nitido il ricordo: il suo silenzio. Lui non rispose a nessuna domanda e io mai ho vantato, fino a oggi, quel mio credito di risposte.
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Amava la poesia ancor prima di saperlo. A un certo punto si convinse che in una buona poesia, dal magma della verità inesprimibile, dovesse affiorare ogni tanto anche qualcosa di romanzesco, di onirico o di profetico. Ma ben presto si accorse che la verità, la vera ferita, si riusciva a leggerla proprio nelle parole intruse, e da allora dubitò d’ogni fantasia, d’ogni immaginazione, d’ogni presunta coincidenza, sospettabili com’erano tutte d’essere verità mascherate.
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Quando si racconta l’amore si racconta sempre l’ultimo. È proprio vero – come capita ai poeti, per i quali l’ultima poesia, quella scritta il giorno prima, è sempre la più bella. E anche lui un bel giorno ha ceduto al desiderio di raccontarlo, il suo ultimo amore, completando finalmente il discorso sulla sua vita amorosa. È stato un amore grande – disse –, mai carnalmente consumato, un amore a lungo rimasto senza nome. Un amore fatto di sguardi, silenzioso e assoluto, sempre sull’orlo di essere svelato. “È durato anni, e ancora è calda la brace”, concluse.
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Se, come diceva Borges, il vero labirinto è il deserto, dove ingresso e uscita si confondono e si moltiplicano all’infinito; se il labirinto desertico è sfida letale, supremo silenzio, metafora dell’inizio e della fine, allora – mi disse – tutti ci troveremo un giorno nel nostro deserto, dove nessun miraggio, nessuna astuzia, nessun mitico filo potranno metterci in salvo, saremo soli con la nostra coscienza e ci accorgeremo d’una figlia che non sapevamo d’avere: la fede, quella vera.
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Milano, via Flavio Gioia, 2 ottobre 1980, la data di un esame importante: due psicologhe lo esaminarono insieme ad altri cinque coetanei in vista di un’assunzione. Non fu una cosa breve, durò 7 ore e 15 minuti, esattamente l’orario giornaliero di lavoro; loro assegnavano un tema o un comportamento e ognuno doveva recitare una parte (sviluppare un argomento, fare da moderatore a un dibattito, chiedere informazioni, parlare a turno della propria regione). “Dopo pochi minuti – mi disse – ero già a mio agio e intuivo esattamente ogni volta cosa le due donne volevano sentirsi dire”. Alla fine, prima di congedarsi, ciascuno veniva chiamato singolarmente in una stanzetta da una delle due signore. Con l’aria di violare il segreto confessionale, mi rivelò l’unica domanda che allora gli venne fatta: “Lei chi assumerebbe dei suoi colleghi candidati, se fosse al mio posto?”. E lui, che ormai leggeva nel loro pensiero, capì che doveva essere sincero nell’individuare chi meritava l’assunzione. E poiché due degli altri candidati non si erano dimostrati né attenti né preparati, rispose dicendo che quelli proprio non li avrebbe assunti. Un mese dopo era già al lavoro nella grande azienda dove poi seppe che quei due poveretti effettivamente non furono mai assunti. “Fu uno dei miei primi sensi di colpa”, mi ha confessato qualche tempo fa, concludendo il racconto di quella avventura milanese.
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L’arte senza autore è la nostra unica speranza. Me lo disse serissimo in quel Natale dell’89, eravamo a casa mia, come ogni anno fedeli al nostro brindisi. Ricordo ancora con precisione l’anatroccolo in vetro di Murano che accarezzò più volte mentre parlava. Oggi mi è ritornata in mente quella sua provocazione, oggi che si ipotizza realmente un’arte senza autori, prodotta da robot e stampanti tridimensionali, utilizzando algoritmi e misteriosi programmi informatici. Sarebbe invece vera provocazione un ente di scrittori e editori anonimi, che produca le opere senza svelare il nome dell’autore, lasciando a critici e lettori l’illusione d’indovinarlo. Ancor più provocatorio sarebbe vietare per legge di pubblicare col proprio nome. Elena Ferrante, il vecchio pseudonimo, non avrebbe più senso, ormai insignificante quando tutti i nomi degli scrittori fossero inventati. Basterebbe alla fin fine solo un numero, una sigla o un Qr-code per la giusta e riservata attribuzione dei diritti al vero, segretissimo autore.
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L’ultima volta che lo incontrai davvero risale a sei anni fa. Da allora, pur credendo di incontrare lui, mi è sembrato d’incontrare un altro – sciupato, distratto, triste anche nella risata improvvisa. Certo è sempre accalorato, con quella solita loquela ininterrotta, eppure non è più lo stesso; ma mi sono ormai abituato e non faccio più caso a questa lenta mutazione del suo carattere. Oggi però mi sorge un dubbio, non starò cambiando io a furia di annotare questi pensieri e riordinare le sue carte? Spero solo di non averlo tradito in queste testimonianze.
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Non aveva messo in conto l’ultimo ricovero: cuore e tessuti stavano cedendo lentamente, ma lui ne aveva sottovalutato le avvisaglie, pensava di poterci convivere senza interventi sanitari. Sono andato a trovarlo in clinica e si è subito emozionato vedendomi, aveva negli occhi segni di pensieri cupi, di sconforto. Sul comodino un bicchiere d’acqua e due libri che mi sorpresero: I 33 nomi di Dio, di Marguerite Yourcenar, e La montagna magica, di Thomas Mann, tradotto da Renata Colorni una decina d’anni fa, con l’abbandono dell’aggettivo «incantata» in favore di «magica». Abbiamo preso accordi subito: in quella mezz’ora concessa non avremmo parlato di salute o di famiglia, ma solo di letture in corso: gli dissi che stavo rileggendo Moravia, La vita interiore, e Soldati, Le lettere da Capri; lui, girando semplicemente gli occhi, mi indicò i due libri accanto al letto. Appena uscito, nell’atrio d’ingresso dell’ospedale incontrai M. che mi diede, piangendo, responsi e date fatali. Tornai a casa rischiando continuamente di cadere, guardavo il cielo già scuro e non ci volevo credere.
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Epilogo
Rovistava in casa mia. Con ogni sua poesia m’entrava in casa, frugava, si lamentava per qualcosa. Quasi sempre, alla fine, cucinava e mi serviva i suoi piatti cocenti. Nei romanzi le cose cambiavano di poco: avevo l’impressione che i fatti accadessero nell’appartamento attiguo o nella via sottostante, o che riguardassero qualche amico o parente. Un giorno mi decisi e gli scrissi una lettera alla casella di posta elettronica (era pubblica, insegnava all’università). Certo, per l’occasione, dovetti rinfrescare il mio francese, ma me la cavai benino, visto che dopo due giorni mi rispose così: Monsieur, vous ne pouvez pas imaginer à quel point j’ai apprécié votre lettre. Maintenant, je peux révéler mon secret : je ne suis pas l’auteur des livres que vous avez lus, car chacun de mes lecteurs est désormais l’auteur de mes textes.
145
Nota
La prima sezione, Quaderno del sogno, aggiorna idealmente l’antologia I Poeti del sogno (Inschibboleth, Roma 2020) con nuove poesie ritrovate di alcuni di quegli autori e con la scoperta di un nuovo “poeta del sogno”, l’inglese Charles Bernard Lee. Nella seconda, Ritratti, il lettore troverà dieci poesie da me attribuite ad altrettanti poeti e poete viventi, ovvero il tentativo affettuoso (e, nel caso, perdonabile) di un loro ritratto o di quello della loro poesia. Li ringrazio perciò uno per uno: Giovanni Nuscis, Antonio Pibiri, Giovanna Menegùs, Daniela Raimondi, Adriana Libretti, Annamaria Ferramosca, Evaristo Seghetta Andreoli, Alessandra Corbetta, Gisella Blanco, Piergiorgio Viti. Nella terza sezione, Vita di un altro, l’amico fraterno di cui si parla potrà forse sembrare immaginario, ma lascerà alla fine al lettore il forte sospetto della sua esistenza. Nell’Epilogo si intersecano, tra metalettura e metascrittura, almeno un paio di punti di vista e uno di questi (anche se non so bene quale) assomiglia a quello dell’amico Luciano Curreri. A.F.
Indice
Quaderno del sogno
p. 9
Ritratti
p. 33
Vita di un altro
p. 55
Epilogo
p. 143
Nota
p. 145
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz. 13. Fabrizio Cossalter, Frammenti dell’età di mezzo.
14. Cesare Maria Cornaggia, Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura. 15. Claudio Donà (a cura di), Note sui Sillabari. 16. Francesco Bargellini, L’impotenza. 17. René de Ceccatty, L’accompagnamento. 18. Belinda Cannone, Il sentimento d’impostura. 19. Fabio Ciriachi, Ai margini del campo. 20. Antonio Fiori, Vita di un altro.
Vita di un altro In questa vita si intersecano prosa e poesia. La prima sezione, Quaderno del sogno, aggiorna idealmente I Poeti del sogno. Piccola antologia (Inschibboleth, 2020) con nuove poesie ritrovate e la scoperta di un altro “poeta del sogno”, l’inglese Charles Bernard Lee. Nella seconda, Ritratti, il lettore troverà dieci poesie attribuite ad altrettanti poeti viventi, ovvero il tentativo affettuoso (e, nel caso, perdonabile) di un loro ritratto e di quello della loro poesia. Nella terza sezione, Vita di un altro, l’amico fraterno di cui si parla potrà forse sembrare immaginario ma lascerà alla fine al lettore il forte sospetto della sua esistenza. Chiude il libro un Epilogo inaspettato.
Antonio Fiori è nato a Sassari nel 1955. Nel 2004 è tra i sette poeti vincitori per la silloge inedita al Premio Montale Europa e nel 2019 ha ricevuto il riconoscimento “Per una vita in poesia” al Premio Lorenzo Montano. Ha pubblicato: Sotto mentite spoglie (Manni, 2002), La quotidiana dose (Lietocolle, 2006), Trattare la resa (Lietocolle, 2009), In merceria (Delfino, 2012), Nel verso ancora da scrivere (Manni, 2018), I Poeti del sogno. Piccola antologia (Inschibboleth, 2020). È redattore su le riviste on line Avamposto poesia e Atelier poesia. Collabora inoltre con Menabò, quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria, Terra d’ulivi editore.
Margini | 20 € 8,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855293976