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Italian Pages 112 [107] Year 2022
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Prima edizione: Gennaio 2022
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A Paola Pretsch, genialna przyjaciółka, amica geniale
Questo testo origina da un History telling – il primo di una lunga serie sviluppatasi poi nell’esperienza di “Storia e narrazione” (www.storiaenarrazione.it) – che prese forma nel 2004 grazie alla determinata collaborazione di cinque persone, allora studenti del corso di Storia contemporanea della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: Luca Falciola, Alessandro Ginnasi, Kinga Stefan, Giuditta Villa, Sandro Zampolli. Alcuni di loro sono rimasti cari amici. Nella realizzazione del format narrativo in pubblico che prevedeva l’impiego di materiali audio e video fu fondamentale l’apporto e la partecipazione diretta di Claudio Sinatti, VJ, videoartista e performance artist di successo che si prestò al nostro ‘gioco’ con l’entusiasmo che gli era proprio. Anche a Claudio penso come ad un amico, con riconoscenza e con rimpianto: la leucemia se lo è portato via nel 2014.
Indice
Prefazione
VII
Introduzione L’urgenza di narrare una storia
XV
9 parole
1
La Cenerentola d’Europa
3
La Parigi dell’Est
11
Truppe corazzate all’orizzonte
13
“Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
21
Combattere per la propria terra senza mai neppure vederla
29
Il ghetto
35
Duemila anni prima
49
L’insurrezione
55
Il delirio distruttivo finale
61
Non esistono le parole
77
Bibliografia essenziale
83
Ringraziamenti
85 V
Prefazione
Cari Lettori, C’è una città nel cuore dell’Europa in cui tutti gli anni l’1 agosto alle ore 17 in punto iniziano a suonare le sirene e si ferma tutto: tram, metropolitane, auto e soprattutto persone. Questo minuto di silenzio è voluto da tutti, e atteso per tutto l’anno, dagli anziani ai giovani, dai politici ai cittadini comuni. È una ricorrenza che fa parte del nostro DNA, che costituisce la nostra identità; una ricorrenza che ci unisce più di tutte le altre, perché ci ricorda uno degli avvenimenti più tragici nella storia del nostro Paese: la rivolta dell’intera città contro i nazisti, nel 1944. Noi questo minuto di silenzio, che invade viali, vicoli, case e piazze, lo dobbiamo ad ogni singolo eroe, piccolo o grande che sia, che senza esitazione ha deciso di dare la vita per noi e per la città. C’è una città nel cuore dell’Europa la cui bellezza era paragonata a quella di Parigi, ma che è svanita nel fumo dei bombardamenti e nelle macerie, 20 milioni di metri cubi di macerie. Per rimuoverle ci sono voluti due anni. C’è una città nel cuore dell’Europa che in soli 63 giorni di insurrezione ha perso 16 mila soldati insorti (su 45 mila), circa 200 mila di abitanti e circa il 90% del patrimonio nazionale, tra archivi e tesoro. Questa città rasa al suolo per la volontà di Hitler, della quale non doveva restare pietra su pietra, e neanche una VII
Varsavia 1944
traccia sulle cartine geografiche, questa città si chiama Varsavia. È la mia città. E non riesco a parlarne senza grande emozione. Hitler voleva distruggere Varsavia sin dall’inizio della guerra. Allo scoppio del conflitto, la città aveva una vita culturale e sociale molto vivace ed era in pieno sviluppo, con ottime prospettive per il futuro. Già nell’autunno del 1939 i tedeschi che si erano impadroniti della capitale della Polonia avevano vietato la ricostruzione degli edifici distrutti durante i primi bombardamenti, ma dopo lo scoppio della Rivolta di Varsavia hanno letteralmente condannato la città alla rovina. Nel settembre del ’39 Heinrich Himmler aveva impartito l’ordine di distruggere la capitale. Le sue parole sono state riportate durante il processo di Norimberga dal generale della SS Erich von dem Bach-Zelewski: Ogni abitante deve essere ucciso, non si possono prendere prigionieri. Varsavia deve essere rasa al suolo servendo da esempio di intimidazione per tutta l’Europa. Varsavia è oramai per i polacchi solo una leggenda. La si può ammirare in alcune foto che si sono salvate e nei quadri, come quelli dell’italiano Bernardo Bellotto, detto il Canaletto, che ha avuto un ruolo non indifferente per la sua ricostruzione. È una delle tante storie che potrete scoprire leggendo questo libro. Il prof. Paolo Colombo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano racconta la tragica sorte di questa città-leggenda tracciando i suoi momenti più dolorosi e fatidici. Lo fa in modo suggestivo, toccante, commovente. L’autore a volte fa fatica a parlarne, si sforza di trovare le parole giuste a rendere l’idea di quella realtà, per deVIII
Prefazione
scrivere la difficile esperienza dei varsaviani, testimoni di due atroci insurrezioni scoppiate a pochi mesi di distanza: quella dell’aprile del 1943 nel ghetto di Varsavia e quella di Varsavia dell’1 agosto 1944. L’autore per forza deve tentare di trovare le parole più appropriate perché in effetti non esiste un linguaggio adeguato per raccontare esperienze così difficili e inverosimili. Se ne è reso conto anche il nostro poeta Miron Białoszewski, che ha aspettato oltre 20 anni per pubblicare il suo sconvolgente diario – Memorie sull’insurrezione di Varsavia1 – uscito recentemente in Italia. Un tempo sicuramente dovuto anche al fatto che il ricordo di quei giorni fosse troppo forte e l’autore volesse prenderne distanza. Ma come nota il curatore dell’edizione italiana, Luca Bernardini, anche nel caso del poeta-testimone oculare la difficoltà di raccontare un’esperienza inimmaginabile consiste anche nella comunicazione: “Il problema è proprio l’inesistenza di un linguaggio capace di comunicare il significato di un’esperienza, la distruzione di un’intera città vista dall’interno, priva di precedenti nella storia recente del genere umano”2. Permettetemi di fare a questo punto una breve digressione. In una calda giornata di agosto di molti anni fa, in cerca di una casa sono andata a vedere un appartamento nel quartiere residenziale di Ochota, a pochi passi dalla 1
Białoszewski Miron, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi Edizioni 2021.
2
Bernardini L. in Białoszewski Miron, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi Edizioni 2021, p. 303. IX
Varsavia 1944
via Filtrowa 68, dove durante la guerra c’era la sede dello stato maggiore della Area Varsavia dell’Armata – Armia Krajowa3 e da dove il 31 luglio del 1944 il colonnello Antoni Chruściel, detto “Monter” ha dato il via alla rivolta. Era una bella giornata di sole che rendeva l’appartamento ancora più bello e luminoso. Per di più era in un palazzo antico, uno dei pochi che si erano salvati dai bombardamenti: la casa dei miei sogni, insomma. Eppure c’era lì qualcosa di indescrivibile e inquietante, un’atmosfera cupa, soffocante. Non riuscivo a descrivere quella strana sensazione che non mi permetteva di fare considerazioni ragionevoli su un eventuale acquisto. Più il tempo passava e più capivo che dovevo rinunciarci, il che era davvero irrazionale. Uscendo dal palazzo ho notato molte persone che si radunavano nel cortile con dei lumini in mano, in ricordo di tutti gli abitanti uccisi dai nazisti nell’agosto del 1944, senza alcun motivo. Si è salvato solo chi per puro caso non era in casa in quel momento. Ho capito così il motivo del mio turbamento. Uccidere ogni abitante della città: era questo il piano predisposto già all’inizio della guerra e compiuto in modo brutale dalle SS e unità ausiliarie, un piano di distruzione e dura vendetta per lo scoppio della Rivolta di Varsavia. Secondo le stime, solo tra il 5 e il 7 agosto del 1944 nel quartiere di Wola sono stati uccisi da 40 a 60 mila civili. Si è trattato probabilmente del più grande massacro compiuto in un colpo solo in Europa durante la Seconda 3
Armia Krajowa (AK) – esercito nazionale polacco, principale movimento di resistenza nella Polonia occupata dalla Germania nazista.
X
Prefazione
guerra mondiale, un massacro di civili, bambini, donne e uomini. Il massacro era guidato dal comandante delle squadriglie della SS Gruppenführer Heinz Reinefarth, chiamato successivamente “il carnefice di Wola”. I corpi delle vittime venivano bruciati e i superstiti dalla strage venivano deportati nei campi di concentramento. La stessa azione, quasi in contemporanea, veniva effettuata nel quartiere di Ochota. Qui, da metà agosto del ’44, in seguito al fallimento degli insorti, i varsaviani hanno dovuto affrontare la violentissima repressione del reggimento d’assalto SS RONA. La strage di Ochota, tra uccisione dei civili, stupri e azioni di saccheggio, è durata fino al 25 agosto del ’44. In totale, solo in questo quartiere durante l’insurrezione di Varsavia hanno perso la vita 10 mila persone. Si stima che nel corso della guerra a causa dell’eliminazione sistematica siano stati uccisi circa 63 mila abitanti provenienti da diversi quartieri della città. Su un totale di un milione e 300 mila abitanti Varsavia ne aveva persi 800 mila, ovvero 2 abitanti su 3. Quando ogni anno noi polacchi visitiamo i cimiteri e le migliaia di tombe degli insorti, semplici cittadini di Varsavia, tra cui molti ragazzi, ritorna la domanda sul perché e sul senso di questa tragica e controversa decisione. Ci assalgono molti dubbi: è stato un errore strategico, un atto di disperazione inutile che ha portato via molte vite? La risposta è che non ha senso interrogarsi sul senso della rivolta di Varsavia, nonostante le sue scarse possibilità di successo. Si deve ricordare che l’insurrezione era pensata come azione militare contro i tedeschi, ma politicamente era rivolta contro i sovietici. I XI
Varsavia 1944
polacchi volevano liberare la città prima che vi entrassero i sovietici, sperando così di evitare la loro occupazione, mentre i membri di Armia Krajowa, come ricorda un sopravvissuto, attendevano lo scoppio della rivolta da molto tempo, alcuni addirittura dal 1939, organizzandosi e addestrandosi in attesa di poter combattere contro i tedeschi. È certamente più facile giudicare i fatti a distanza, ma – come sottolineano i sopravvissuti, testimoni di quei tragici giorni – questi dibattiti sono privi di senso. E ad ogni occasione ribadiscono che non si poteva evitare l’insurrezione di Varsavia. La rivolta sarebbe scoppiata lo stesso perché i varsaviani di fronte a tutte le crudeltà subite dal 1939, tra cui esecuzioni di massa per le vie della città, esecuzioni degli ebrei, bombardamenti, deportazioni quotidiane nei campi di concentramento e sterminio, le cosiddette łapanki4, uccisione dei feriti negli ospedali, stupri e umiliazioni, erano stremati. Anche a costo della vita volevano provare almeno per un istante il soffio della libertà, senza peraltro aver rinunciato alla speranza di conquistarla. Eleonora Galica-Zaremba, che al momento dello scoppio dell’insurrezione aveva 16 anni ed era già soldato di Armia Krajowa, ricorda che l’atmosfera di quei giorni era molto solenne. La gente addirittura tornava a Varsavia. Tutti volevano che l’insurrezione iniziasse. Non avevano paura. Erano giovani e quando si è giovani non si pensa di poter morire – ricorda Galica-Zaremba. Erano entusiasti, avevano il patriottismo nel 4
Arresti a caso tra i passanti
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Prefazione
sangue e pensavano che la rivolta sarebbe durata al massimo 3 giorni. Dopo 5 lunghi anni, era bellissimo vedere le bandiere polacche per strada. Bisogna anche ricordare che si trattava della prima generazione libera dopo 123 anni di sottomissione. Una generazione che ben capiva il prezzo della libertà pagato da chi era venuto prima. Hanna Stadnik, detta “Hanka”, parla di tempi duri, ma anche gioiosi perché dopo 5 anni di occupazione tedesca e di umiliazioni era arrivato il momento di combattere. Queste testimonianze sono tantissime e tutte caratterizzate dallo stesso spirito e dalla stessa convinzione di aver fatto le scelte giuste, le uniche che si potevano fare allora. Concordo con il prof. Colombo quando dice che la storia che state per affrontare, la storia della mia città ai tempi della Seconda guerra mondiale, può racchiudersi in tre parole cruciali: odio, orgoglio e distruzione. Per completare il quadro aggiungerei anche abbandono da parte degli alleati con le truppe sovietiche che aspettavano dall’altra parte del fiume Vistola, sofferenza per le atrocità vissute, la perdita dei cari e per la distruzione totale della città, tenacia nei combattimenti, ma anche sdegno e volontà di libertà, e speranza, ultima a morire. Sono molto grata al prof. Colombo, che ha voluto ricordare questa storia, anzi le storie di queste due insurrezioni, con grande sensibilità e rispetto verso tutte le vittime: la rivolta nel ghetto di Varsavia dell’aprile del 1943, la più grande rivolta militare degli ebrei durante il Secondo conflitto mondiale, e l’insurrezione di Varsavia del 1944, che ha coinvolto non solo i militari di Armia XIII
Varsavia 1944
Krajowa, ma anche i varsaviani provati dai lunghi anni di occupazione tedesca. La lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia era una lotta disperata e condannata sin dall’inizio al fallimento, ma anche quella successiva aveva poche possibilità di riuscita ed è stata domata con una crudeltà inimmaginabile. Tutte e due costituivano indubbiamente un forte grido contro il male e sia nel primo sia nel secondo caso gli insorti preferivano morire con le armi in mano piuttosto che arrendersi. Invito tutti i lettori a conoscere meglio questa storia e magari anche approfondirla con una visita a Varsavia presso il Museo dell’Insurrezione di Varsavia e il Museo della storia degli ebrei polacchi – POLIN, costruito proprio nella zona dove sorgeva il ghetto durante l’occupazione tedesca. Desidero infine esprimere la mia gratitudine a Il Sole 24 Ore che ha voluto ricordare queste due storie che fanno parte della storia di una sola, grande città, provata, domata e rinata dalle ceneri come la Fenice, e lo ha fatto all’approssimarsi di una ricorrenza che non va mai dimenticata, il Giorno della Memoria. Adrianna Siennicka Console Generale della Repubblica di Polonia in Milano
XIV
Introduzione L’urgenza di narrare una storia
Una storia potente. Così si scrive spesso di certe pellicole cinematografiche nei trailer e nelle recensioni che ne annunciano l’imminente uscita. Ma qui, purtroppo, non stiamo parlando di un film. La vicenda della distruzione di Varsavia e del suo ghetto ebraico durante la Seconda guerra mondiale è una storia “potente” innanzitutto perché drammaticamente vera. È la storia di una città – e, in una certa fase, di una componente specifica della sua popolazione – che non si arrende alla apparente ineluttabilità di un destino scritto da altri e lotta con tutte le proprie forze per non soccombere. Di storie di resistenza – civile e non – durante ogni guerra se ne contano tante. Alcune diventano subito celebri, come da noi il sacrificio di Salvo D’Acquisto, o il coraggio degli “scugnizzi” nelle Quattro Giornate di Napoli. Altre vengono alla luce solo ad anni di distanza grazie al sapiente lavoro di storici, ricercatori, scrittori o registi e sceneggiatori cinematografici: si pensi alle vicende di Oskar Schindler e Giorgio Perlasca. E allora perché proprio Varsavia? Nel mio caso non posso che dare una risposta: perché non si può scoprire la storia della distruzione nazista della capitale polacca e poi tacerla. Mi è stato insegnato da narratori assai più abili di quanto io sia che esiste una pulsione non definibile in XV
Varsavia 1944
altro modo che “urgenza” di raccontare qualcosa che preme dentro di noi – dal cuore, dal cervello, dallo stomaco, una volta che vi è entrata – per uscire a raggiungere il maggior numero possibile di persone. Quando mi sono imbattuto nella storia contenuta in queste pagine e lei, quella storia, mi ha letteralmente attraversato perforando il mio raziocinio e le mie emozioni, l’urgenza di raccontarla ad altri si è impadronita di me. Ho preso a descriverla ad amici e conoscenti, a cena, durante i weekend, nelle passeggiate in compagnia, ogni volta arricchendola dei dettagli o delle sfumature che via via venivo a conoscere. Ma non bastava. È così che è nata l’idea di realizzare degli History telling, narrazioni storiche che andassero al di là delle lezioni universitarie previste settimanalmente nei miei corsi, che si rivolgessero a un pubblico di non addetti ai lavori e che utilizzassero ogni elemento in grado di aiutare gli ascoltatori a immedesimarsi il più possibile nelle vicende descritte. In particolare, quel che era accaduto a Varsavia tra 1939 e 1945 necessitava quantomeno di immagini per essere descritto, per il semplice fatto che non esistono parole adeguate. Ne venne un format che – quando realizzato in pubblico, solitamente (ma non solo) in teatro, anche su molti altri argomenti – ancora oggi si avvale di video, fotografie, romanzi, disegni, musiche, canzoni… per l’appunto di qualunque materiale documentario o di commento che possa alimentare una narrazione di ampio respiro, andando oltre la semplice e pur sempre rispettabilissima lezione cattedratica. L’History telling intitolato Varsavia 1944 – La distruzione di una città (il cui testo, con diverse integrazioni e XVI
Introduzione
qualche ritocco è pubblicato in questo libro con il preciso intento di mantenere per quanto possibile il tono diretto e relativamente colloquiale di un racconto orale che risulti di agevole e avvincente lettura) è nato nel 2004 grazie all’aiuto di un manipolo di agguerriti e motivatissimi studenti e ha rappresentato la prima di una lunga serie di esperienze svoltesi nel tempo all’interno di una laboratorio che – assieme alla mia cara amica e ottima collega Chiara Continisio – abbiamo chiamato “Storia e narrazione”: un laboratorio che in quasi vent’anni di attività ha fatto molta strada, incontrando un consenso di pubblico non di rado addirittura travolgente. Di storie, da allora, ne abbiamo raccontate davvero tante. Tra tutte le vicende che abbiamo provato a portare all’attenzione del nostro pubblico, quella di Varsavia è stata però – insieme a quella dedicata sette anni dopo a Hiroshima e Nagasaki – forse la più difficile da narrare. Sono infatti drammi che toccano il cuore e mettono a dura prova quel principio di obiettività che dovrebbe essere alla base della ricerca e del racconto storico. Stiamo parlando di una città che nel 1939 vantava circa 1,2 milioni di abitanti (di cui 380 mila di origine ebraica) e che alla fine del conflitto si ritroverà con il 60% della popolazione in meno e l’87% degli edifici completamente raso al suolo: nessuno dei grandi centri devastati durante la Seconda guerra mondiale raggiungerà questi tragici livelli di distruzione. Chi riuscirà a sopravvivere ai bombardamenti o a sfuggire ai rastrellamenti e agli scontri a fuoco per le strade della Città Vecchia finirà internato nei campi di concentramento, principalmente a Treblinka e Auschwitz-Birkenau, simboli per antonomasia della XVII
Varsavia 1944
lucida follia antisemita del Terzo Reich. Una follia che non sarà però ignorabile agli occhi del mondo intero a partire dal 27 gennaio del 1945, quando le truppe sovietiche del 1° Fronte Ucraino guidato dal maresciallo Ivan Stepanovič Konev entreranno in quella inquietante e disumana fabbrica di morte liberando i 7 mila superstiti rimasti miracolosamente in vita. In tale data – da ormai oltre vent’anni – l’Italia commemora la Giornata della Memoria, istituita per “ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Una scelta adottata nel novembre del 2005 anche dal resto della comunità internazionale, con l’approvazione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della risoluzione numero 60/7. C’è un Paese, tuttavia, che non celebra la Giornata della Memoria insieme al resto del mondo. E non si tratta di un Paese qualsiasi. In Israele il giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah) non cade il 27 gennaio ma il 27° giorno di Nissàn, settimo mese del calendario ebraico (marzo-aprile del calendario gregoriano). La prima data proposta per la ricorrenza – successivamente accantonata per evitare sovrapposizioni con il giorno d’inizio della Pesah, la Pasqua ebraica – era tuttavia stata un’altra: il 15 Nissàn, ovvero proprio il giorno dello scoppio della Rivolta del ghetto di Varsavia (19 aprile 1943). Un indizio incontrovertibile dell’importanza capitale che XVIII
Introduzione
quell’evento riveste ancora oggi nella memoria collettiva di un popolo e nella Storia dell’Ebraismo del XX secolo. Raccontare la storia del ghetto ebraico a Varsavia è tuttavia difficile non soltanto per una questione meramente emotiva. Come lo storico e saggista britannico Norman Davies spiega con grande efficacia nella prefazione al suo La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin (Rizzoli, 2004), le criticità nell’affrontare questo tema sono legate innanzitutto al delicato contesto geopolitico nel quale la Polonia – vaso di terracotta tra vasi di ferro, per riprendere la felice metafora manzoniana – finì per trovarsi invischiata in considerazione della propria posizione geografica. Presa nel mezzo delle opposte mire espansionistiche di tedeschi e russi, la Polonia sarà prima oggetto di spartizione a tavolino fra Hitler e Stalin con il patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939) e poi lasciata sostanzialmente in balìa di sé stessa fino all’estate del 1944 quando – con l’Operazione Bagration e le offensive di Leopoli-Sandomierz e Lublino-Brest – l’Armata Rossa gradualmente libererà il territorio polacco rendendo il peso negoziale di Stalin nelle trattative sui nuovi assetti post-bellici molto difficile da controbilanciare, tenuto peraltro conto del contenuto interesse mostrato da Roosevelt per la vicenda polacca. Un approccio – quello del presidente americano – che finiva inevitabilmente per neutralizzare ogni sforzo di mediazione portato avanti da Churchill, molto più determinato sulla questione per via della presenza a Londra del governo polacco in esilio e per il gran numero di volontari polacchi impegnati al fianco dell’esercito di sua Maestà. XIX
Varsavia 1944
Terminato il conflitto, la cartina geografica della Polonia venne infatti ridisegnata sulla base degli accordi intercorsi fra gli alleati a guerra ancora in corso – a Teheran (novembre-dicembre 1943) prima e a Yalta (febbraio 1945) poi – e successivamente confermati in occasione della Conferenza di Potsdam (luglio-agosto 1945): il confine orientale venne riportato sulla “Linea Curzon” del 1919 a tutto vantaggio dell’Urss e le perdite a Est vennero compensate a Ovest sottraendo alla Germania parte dei suoi territori (cd. “Linea Oder-Nei`e”). Finita sotto la sfera di influenza sovietica e separata dal resto d’Europa da quella “Cortina di Ferro” – secondo la celebre definizione di Churchill – che proprio nella città polacca di Stettino aveva uno dei suoi vertici, la Polonia diventerà un satellite di Mosca in buona sostanza fino al termine della Guerra Fredda. Varsavia – saldamente sotto il controllo del Cremlino – finirà addirittura per dare il nome al Patto con il quale nel maggio del 1955 il Blocco sovietico risponderà alla nascita dell’Alleanza Atlantica sull’altra sponda della Cortina (aprile 1949). Non è perciò difficile intuire come – a dispetto della cospicua mole di testi, diari e memoriali di vario genere – tali dinamiche di natura anzitutto ideologica abbiano impedito nel corso degli anni l’analisi obiettiva di una questione che di locale ha in realtà sempre avuto ben poco. Per oltre mezzo secolo, scrive ancora Norman Davies, la storia della insurrezione di Varsavia “è stata oggetto di severa censura da parte delle autorità del Dopoguerra che non volevano vedere pubblicizzati determinati fatti e rappresentò un argomento di grande imbarazzo per le potenze occidentali”. XX
Introduzione
E non si può nascondere che anche in tale processo di rimozione sta la forza – l’“urgenza pressante” – insita nella storia qui ricostruita. Non ci si prefigge naturalmente, nel pubblicarla, un’esaustività che ben più estesi e documentati lavori saprebbero meglio garantire: come si dice in avvio di racconto, si intende piuttosto restituirne alcune coordinate essenziali proponendo dei punti di osservazione – non indenni da posizioni personali, peraltro sempre onestamente dichiarate, di chi scrive – per meglio guardare a una vicenda che ha letteralmente dell’incredibile. Ma la realtà supera non di rado – spesso, purtroppo, anche tragicamente – la fantasia: questo insegna la Storia. Proprio perciò piace pensare – soprattutto nel rispetto dell’occasione nella quale si procede alla pubblicazione di questo libro – che anche altri insegnamenti se ne possano trarre. Per quanto risulti arduo credere davvero (davanti all’ostinata ripetizione degli orrori che il genere umano si dimostra capace di inanellare) alla conclamata massima secondo la quale l’Historia dovrebbe essere magistra vitae, si può tuttavia sperare che una vicenda come quella della distruzione di Varsavia possa suonare a chiamata di responsabilità per tutti noi che viviamo il nostro tempo, ricordandoci che non siamo vittime passive di ingranaggi che si muovono indipendentemente dal nostro volere e dalle nostre azioni e che esiste sempre più di una alternativa al richiamo cieco della violenza e della distruzione. L’ultimo sopravvissuto della insurrezione del ghetto di Varsavia è scomparso lo scorso 13 agosto. Aveva 97 anni e si chiamava Leon Kopelman. Sua madre era fiXXI
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nita nel campo di sterminio di Treblinka, da dove non sarebbe mai più tornata. Sfuggito ai nazisti, Leon riuscì dopo la guerra a ricostruirsi una vita in Israele, passando anche dall’Italia: un’altra storia personale che intreccia i destini delle due terre, polacca e italiana1. Ciò che aveva vissuto gli ispirò parole semplici e profonde: “Non nutro odio verso la Germania per quello che ha fatto a me e ai miei connazionali; piuttosto, provo pietà e compassione per ciò che quel pazzo lunatico ha fatto ai tedeschi. Hanno pagato a caro prezzo gli anni del fascismo, e poi hanno ricostruito con fatica il loro Paese distrutto. Vorrei solo che questi terribili anni di disprezzo per le persone e le loro vite non fossero mai cancellati dalla memoria umana”2. Dei suoi tre figli, che gli avevano dato nove nipoti e tre pronipoti, disse che erano la sua “più grande vittoria sul nazismo”. Difficile trovare qualcosa che si possa aggiungere. Milano, dicembre 2021
1
Cfr. https://www.timesofisrael.com/last-known-surviving-fighterof-warsaw-ghetto-uprising-dies-at-age-97/. Si veda anche: https://odeszli.pl/miejsca-pamieci/6174f97e1f46a70d6009df42,leon-kopelman?fbclid=IwAR2GxP9f63auTgod_ gfH1aVwwM1t92H8cgTJwBTwOeVftXFZxxGrTBTKhtc
2
http://www.sppw1944.org/index.html?http://www.sppw1944.org/ relacje/relacja36c_eng.html XXII
Dal libro di Giosuè, 6, 26: “Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino i buoi, gli arieti e gli asini… In quella circostanza Giosuè fece giurare: «Maledetto davanti al Signore l’uomo che si alzerà e ricostruirà questa città di Gerico!»”
9 parole
Questa non è una vera e propria lezione di Storia: è un’occasione per raccontare una storia. Non aspettatevi dunque per forza l’obiettività e il distacco dello storico. Non si può narrare ed essere freddi e obiettivi. Io nel raccontare sto più da una parte che dall’altra, non lo nascondo. Ciò nonostante, proprio perché sto per raccontare una storia e non per tenere una conferenza o una dissertazione in argomento, cercherò di additarvi non tanto e non solo delle incontrovertibili verità storiche quanto dei punti di vista che spero siano utili per pensare meglio, appunto, questa storia. E questa storia è un intreccio di storie: come sempre. È una storia che riguarda la Polonia e in particolare la sua attuale capitale, Varsavia. Ed è una storia da raccontare: l’ho pensato subito, appena mi ci sono imbattuto. È da raccontare non solo perché pochi la conoscono, ma anche perché è una storia epica: non c’è un altro aggettivo… È epica perché c’è dentro tutto e il suo contrario: un progetto di grandezza, l’opposizione di Davide a Golia, l’Oriente e l’Occidente, l’orgoglio e la volontà di distruzione, fin di autodistruzione, da una parte e dall’altra… Eppure, appunto, la nostra storia è relativamente poco 1
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nota, il che sorprende se si pensa alle dimensioni della tragedia che descrive. Ai tempi in cui ho cominciato a studiarla, proponevo ai miei studenti due manuali di storia contemporanea, a scelta. In gergo li chiamavano, dal colore della copertina, quello “rosso” e quello “bianco’” Su quello “rosso”, che pure è un ottimo manuale, di quel che raccontiamo oggi non c’era nulla, neanche una riga. Da quello “bianco”, a p. 450, cito: “… nel settembre del 1944, le organizzazioni patriottiche collegate al governo polacco in esilio a Londra promossero l’insurrezione a Varsavia con l’intento di stabilirvi un governo prima dell’arrivo dei russi. Questi però rallentarono la loro pressione militare lasciando così i ribelli in balìa dei tedeschi, che offrirono loro la salvezza in cambio di collaborazione antisovietica: ottenutone un rifiuto, misero Varsavia a ferro e fuoco”1.
Quattro righe e ½, su quel manuale. E il cuore sono nove parole: “ottenutone – un – rifiuto – misero – Varsavia – a – ferro – e – fuoco”. “Mettere a ferro e fuoco” è una frase fatta. Io lo sapevo che i tedeschi avevano messo Varsavia a ferro e fuoco, ma non mi ero mai chiesto cosa volesse dire esattamente. Forse bisogna tornare a dare alle cose i loro nomi esatti. E per trovare i nomi, le parole più esatte, bisogna spiegare come quel che è successo sia potuto accadere. E per farlo, come in tutte le storie, anche in questa occorre andare indietro nel tempo. 1
2
AA.VV., Storia contemporanea, Roma, Donzelli, 1997, p. 450.
La Cenerentola d’Europa
Analizzando la storia della Polonia ci si accorge di come attraverso i secoli sia sempre stata considerata una specie di Cenerentola d’Europa, spesso trattata alla stregua di un territorio privo d’identità, da sfruttare e ridisegnare a seconda delle rivalità internazionali e degli equilibri diplomatici da salvaguardare. A pensarci, niente di molto diverso dall’Italia pre-unitaria. Appaiono delle simmetrie eloquenti, in questo senso. Forse sta qui la radice prima di un sentimento condiviso di vicinanza, di somiglianza, per molti aspetti di fratellanza che tradizionalmente ci avvicina ai polacchi, senza che si avverta il bisogno di spiegarlo con ragioni profonde: un po’ come quel “stessa faza, stessa raza” ripreso magistralmente nel film premio Oscar 1991 di Gabriele Salvatores per echeggiare la percezione diffusa che ci assimila ad altri popoli mediterranei. Sarà la comune religione cattolica? I polacchi sono lì, chiusi da tutte le parti, una specie di penisola anch’essi, una penisola cattolica che si insinua in un mare protestante (il mondo tedesco, a ovest) e ortodosso (il mondo russo, a est)… Comunque: c’è qualcosa con i polacchi, per noi italiani, che non c’è con altri. Volete un segno ulteriore? Quello polacco e quello italiano sono i due soli inni nazionali che rinviano a vicenda all’altra nazione. La quarta strofa dell’inno di Mameli descrive un’assa3
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tanata aquila austriaca che si abbevera di sangue italiano e polacco: è la guerra d’indipendenza di entrambi i paesi. Alla Mazurek Dąbrowski, la Mazurca di Dabrowski (una densa aria tradizionale che diventa inno nazionale polacco nel 1926), è apposto un testo da Jozef Wybicki, che è un ufficiale della legione polacca di Napoleone di stanza a Reggio Emilia, nel 1797, durante la Campagna d’Italia: siamo, vale la pena di sottolinearlo, nel luogo e nell’anno in cui il nostro Tricolore verrà adottato per la prima volta come bandiera ufficiale della Repubblica Cispadana. In quel testo Wybicki immagina Bonaparte viaggiare dall’Italia verso la Polonia per portarle la libertà. Dall’Italia. Son giunchi che piegano Le spade vendute; Già l’Aquila d’Austria Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia E il sangue Polacco Bevé col Cosacco, Ma il cor le bruciò Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò
Marcia, marcia Dąbrowski dalla terra italiana alla Polonia Sotto il tuo comando ci uniremo come popolo! Attraverseremo la Vistola Attraverseremo la Varta Saremo Polacchi Bonaparte ci ha dato l’esempio Di come dobbiamo vincere Marcia, marcia Dąbrowski dalla terra italiana alla Polonia Sotto il tuo comando ci uniremo come popolo!
Insomma, per vie non troppo dissimili, gli inni si richiamano l’un l’altro: se i simboli hanno ancora un senso, vorrà ben dire qualcosa. Ma non è solo questione simbolica. Il contributo del popolo polacco alla causa indipendentista italiana nel XIX secolo risulta paradigmatico del legame che unisce i due Paesi. Come ricorda Krystyna Jaworska, docente di Lingue e Letteratura polacca dell’Università di Torino, l’Italia è il Paese 4
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per il quale i polacchi hanno combattuto maggiormente nel corso del XIX secolo e l’opinione pubblica del neonato Stato italiano è quella che ha dimostrato maggior solidarietà con l’insurrezione polacca del 18632. A pesare – oltre a plurisecolari nessi – sono anche e soprattutto le affinità e le aspirazioni indipendentiste comuni tra i due popoli nel corso dell’Ottocento. Dopo il fallimento dell’insurrezione polacca del 1830-1831 molti esuli polacchi si trasferirono nella nostra penisola contribuendo con il loro sacrificio di volontari ai moti siciliani del 1848 e alla difesa della Repubblica romana del 1949. Proprio in questa occasione, il 29 maggio 1849, nell’annunciare la formazione della Legione polacca, i triumviri della Repubblica Romana Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Giuseppe Armellini così si esprimono: “…per patimenti, energie di sacrifici e immortalità di speranze, la Polonia è sorella all’Italia e sacra fra tutte le nazioni”3.
Lo stesso Mazzini ribadirà il concetto pochi anni dopo, ai primi di giugno del 1853, di fronte alla Società democratica polacca di Londra: 2
Si veda l’opuscolo Per la nostra e la vostra libertà! I Polacchi nel Risorgimento italiano realizzato in occasione della omonima mostra storica organizzata dalla Comunità Polacca di Torino con il Consolato generale di Polonia a Milano durante le celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia (2011) e allestite nelle Grandi Officine Riparazioni del capoluogo piemontese tra il 21 ottobre e il 6 novembre del 2011, durante il semestre di presidenza polacca del Consiglio europeo.
3
Cfr. Giuseppe Mazzini, Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, Milano, Daelli, 1864, Vol. VII, pag. 52. 5
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“Adesso e sempre l’Italia e la Polonia sono sorelle, sorelle nelle sofferenze, nella meta e nella lotta che deve far giungere a questa meta”4.
Allo scoppio della Seconda guerra di Indipendenza, nell’aprile del 1859, molti esuli polacchi chiedono di essere ammessi nelle file dell’esercito sabaudo, per quanto poi il governo piemontese risolva di non arruolarli per evitare di inimicarsi Prussia e Russia. Ad accoglierli è invece Garibaldi, che veste decine di volontari polacchi con la camicia rossa dei suoi Mille. Anche l’eroe dei due mondi prende così a cuore la causa dell’indipendenza polacca, come dimostrano – tra l’altro – le parole inviate all’Agenzia nazionale del Governo polacco a Torino dalla sua Caprera nel febbraio del 1864: “La questione polacca è considerata da me come la questione della mia patria. Sono felice dell’inclinazione all’azione comune delle tre sorelle: Polonia, Ungheria, Italia, sorelle le quali appaiono come avanguardie dei popoli che si liberano”5.
Memore del sacrificio di migliaia di esuli polacchi per la causa italiana, il patriota garibaldino Francesco Nullo prende parte alla “Rivolta di Gennaio” (1863-1864) in-
4
Cfr. Giuseppe Mazzini, Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, Vol., Imola, Galeati Editore, 1928, Vol. LI, pag. 168.
5
Cfr. Reale Commissione (a cura di), Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, Vol. V, Scritti e discorsi politici e militari (18621867), Bologna, Cappelli, 1932, pag. 216. 6
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sieme a un drappello di Camicie rosse bergamasche: dei diciotto volontari partiti alla volta della terra polacca, otto saranno arrestati prima di raggiungere il confine con l’impero russo, tre moriranno nel corso dei combattimenti e sei verranno catturati e inviati ai lavori forzati. Il contributo dei soldati polacchi alle forze armate italiane proseguirà poi per parte propria nel corso delle due Guerre mondiali che marchieranno a fuoco la storia del XX secolo. In particolare sul sacrificio del 2° Corpo Polacco nella Battaglia di Cassino si dovrà tornare fra poco. Avendo presenti tutti questi elementi, si può a ragione concludere che – mal comune mezzo gaudio – la triste sorte della Cenerentola italiana e di quella polacca è alleviata dalla reciproca percezione di non essere sole nel subirla. E se si può supporre che della storia italiana dovremmo avere almeno le coordinate essenziali, di quella polacca… forse meno. Vediamone quindi almeno alcune. Già Caterina II, autoritaria zarina di Russia (1762-1796), mira ad allargare la propria influenza in Europa approfittando soprattutto della debolezza della Polonia: se ne spartisce il territorio con Austria e Prussia, in successive fasi. Nella prima (1772), la Russia ottiene la Bielorussia, la Prussia la Prussia polacca e l’Austria la Galizia. Nella seconda fase (è il 1793, gli eserciti rivoluzionari francesi sono già in piena controffensiva), Russia e Prussia, che non vogliono certo stare con le mani in mano mentre les enfants de la patrie minacciano di far man bassa per tutta l’Europa, ne approfittano per attaccare sempre la Polonia, che subisce ulteriori pesanti limitazioni territoriali. Di fronte a quest’ultima prevaricazione, il sentimento nazionale polacco sfocia nell’insurrezione popolare del 17 aprile 1794, 7
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diretta contro l’esercito dello zar di stanza a Varsavia: Caterina II invia rinforzi e soffoca nel sangue il tentativo di resistenza dei polacchi (e non sarà l’ultima volta). Nell’ultima fase, dopo questa insurrezione, vengono ridisegnati i nuovi confini della Polonia: la Russia annette la Curlandia e la Lituania; la Prussia acquisisce la Mazovia con Varsavia, che viene occupata nel 1796; l’Austria ottiene Cracovia e la Mazovia meridionale. La Polonia, da questo momento, non esiste più come entità politica autonoma. Ma i tre imperatori hanno fatto i conti senza l’oste francese, e l’occupazione prussiana di Varsavia (prussiana, cioè tedesca! la nostra storia inizia molto da lontano) termina il 22 luglio 1807 con l’entrata dell’esercito napoleonico in città. Bonaparte riprende alla Prussia una porzione essenziale dei suoi territori polacchi e li aggiunge al proprio impero. Questo per dire che è solo col finire dell’epopea napoleonica e col Congresso di Vienna (ottobre 1814 – giugno 1815) che la Polonia riconquista la propria autonomia territoriale. In quella sede viene istituito il Regno di Polonia la cui corona è attribuita allo zar di Russia (è separata dall’impero russo, d’accordo, ma non vi pare un modo ben strano di restituire l’autonomia a una nazione?), mentre le regioni periferiche dell’antico Stato polacco vengono assegnate all’Austria (Galizia) e alla Prussia (Posnania). L’antica capitale, Cracovia, diventa uno Stato repubblicano indipendente. Tutto potrebbe sembrare sistemato, ma nel 1830 torna a manifestarsi a Parigi un virus che il Congresso di Vienna sperava di aver debellato: la rivoluzione. È un virus che si diffonde rapidamente. 8
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Il 29 novembre di quello stesso anno un focolaio si accende anche in terra polacca. Allontanando il viceré zarista, i polacchi chiedono a Nicola I la riconferma della Costituzione del 1815 e l’allargamento del regno di Polonia ai confini del 1792. Tempi curiosi, quelli: anni in cui le rivoluzioni si fanno chiedendo il permesso all’oppressore che, non per nulla, rifiuta e il 25 gennaio 1831 i polacchi proclamano l’indipendenza. Come risposta all’insistenza polacca, il 7 settembre 1831 le truppe russe entrano a Varsavia e sedano la rivolta. Passano trent’anni e il 22 gennaio 1863 scoppia un’ulteriore insurrezione, anche questa volta brutalmente repressa da Russia e Prussia secondo il “principio di intervento” sancito dalle potenze della Restaurazione: sono i vantaggi di stare nelle zone di confine: si hanno addosso gli sbirri di entrambe le parti. Si arriva così allo scoppio della Prima guerra mondiale: la Polonia è formalmente russa, ma al suo interno si formano spontaneamente (e significativamente, a segnalare tutt’altro che consenso verso gli occupanti) legioni per combattere a fianco dei “nemici” austro-ungarici. Nell’estate del 1915 proprio gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) occupano tutta la Polonia russa e se ne spartiscono l’amministrazione: i tedeschi, dopo aver invaso Varsavia, nominano un governatore della città e gli austro-ungheresi ne nominano uno a Lublino. Si potrebbe supporre che i polacchi si sentano soddisfatti, visto che avevano organizzato corpi di volontari a favore dei nuovi dominatori. Ma nonostante queste premesse, si manifesta un crescente atteggiamento di resistenza anche verso i governi di Berlino e Vienna. L’obiettivo, infatti, è l’indi9
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pendenza, che arriva solo al momento dello sfacelo della monarchia austro-ungarica: nel novembre 1918 Varsavia viene liberata dal giogo straniero e diventa capitale di uno Stato polacco autonomo. Ma la Grande Guerra per i polacchi non è ancora conclusa, perché la Polonia è un vaso di coccio in mezzo a più di un vaso di ferro. E se per una fortunata circostanza è il vaso di ferro germanico a spaccarsi, subito quello russo sta minacciosamente rotolando proprio in quella direzione. Così, mentre tutto il resto d’Europa è già in pace da circa due anni … ci vuole uno scontro decisivo combattuto a Varsavia (sempre lì!) tra il 14 e il 18 agosto 1920 contro la Russia ormai diventata “sovietica” perché l’orizzonte sembri definitivamente rischiararsi. La vittoria è dea talvolta capricciosa e perciò sorprendente… capita qualche volta persino che la Grecia vinca gli Europei6. Va detto che nel caso in questione l’esercito di Lenin, uscito dal collasso dell’impero zarista e dalla Rivoluzione d'ottobre, non è che sia gran che… Comunque, per dare un’idea, quella battaglia sarà battezzata “Il miracolo sulla Vistola”, un miracolo grazie al quale la capricciosa vittoria arride alla Polonia, portando nel marzo 1921 alla pace di Riga con i sovietici. E qui inizia un breve periodo in cui la Polonia sarà uno Stato libero. 6
Questo History telling venne originariamente messo a punto, come detto, nel 2004. Il riferimento è qui alla imprevedibile e clamorosa vittoria della Nazionale di calcio greca – prima e finora unica nella storia – ai Campionati europei dell’estate di quell’anno. La Grecia sconfisse in finale la ben più blasonata Germania per 1-0. 10
La Parigi dell’Est
In questi anni Varsavia fa parte di quella cintura di città che fanno la grandezza e il mito della Mittel Europa. Dimenticare come europee queste città è stato uno dei prezzi a lungo pagati per quarant’anni di Guerra Fredda. Eppure Praga, Budapest, Bucarest, Varsavia, appunto, sono sfavillanti centri gravitazionali della cultura occidentale del XIX secolo: “Parigi dell’Est”, la chiamano, in quegli anni, Varsavia. O anche “città nottambula”: è la movida, è come per i miei studenti oggi andare a Barcellona: è bella, Barcellona, ma non è quello, in sé e per sé, che si aspettano. Si aspettano di divertirsi. E a Varsavia ci si diverte. Varsavia è cosmopolita. Ci sono caffè, circoli, ristoranti, cinema. Si suona, si balla, si fa cultura. Nel ventennio tra le due guerre ci troviamo 143 enti e associazioni scientifiche e 13 atenei. A Varsavia opera un Istituto della Propaganda Artistica che promuove l’attività di numerosi nuovi gruppi, che hanno nomi per noi curiosi come il “Blok” o il “Rytm”. Nomi che oggi ci dicono forse poco, ma che significano cultura vivace, frizzante, piena di bollicine. Piena di bollicine come lo champagne che in quegli stessi anni un signore austriaco, futuro ministro degli Esteri del Reich, Joachim von Ribbentrop, commercia in import-export con il Canada per sbarcare il lunario. E Joachim von Ribbentrop avrà un ruolo importante in questa storia. 11
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Le immagini di quegli anni ci parlano di cappellini all’ultima moda, di signore impellicciate che fanno shopping in negozi strabordanti di prodotti, di macchine che riempiono le strade, di bimbi che giocano in grandi parchi innevati. Di vita. Di vita. Appunto. Varsavia è il massimo centro di vita ebraica dell’Europa orientale. E questo, lo sappiamo, vuol dire anche essere il cuore di una cultura di straordinaria creatività. Il teatro e il cinema ebraici prosperano, i giornali e le pubblicazioni giudaiche proliferano. È una Belle Époque tardiva, una specie di estate regalata quando l’autunno è già arrivato; e quando altrove la Belle Époque si è ormai inabissata nella voragine della Prima guerra mondiale, qui regala ancora alcuni insperati anni di sole.
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Truppe corazzate all’orizzonte
Non sono anni di sole, quegli stessi, in Germania. Il futuro si ammassa grigio come truppe corazzate all’orizzonte. Nel frattempo ha preso infatti corpo il trattato di Versailles (9 novembre 1920) che con l’umiliante Diktat, come l’hanno chiamato i tedeschi, impone tra l’altro alla Germania sconfitta di abbandonare una zona della Prussia occidentale che fa parte del cosiddetto corridoio di Danzica, il quale permette alla Polonia d’avere accesso al mare e separa la Prussia orientale dal resto della Germania. La popolazione di questo territorio parla un dialetto polacco, ma il porto e la grande città di Danzica sono quasi interamente tedeschi. Il trattato stabilisce che Danzica e la regione vicina costituiscano una “città libera” che dovrà concludere una convenzione con la Polonia per garantire la propria inclusione nelle frontiere doganali polacche e per assicurare ai polacchi il libero accesso al porto. Insomma: è su questa Germania, ancora in ginocchio per le pesantissime indennità di guerra e gli strascichi della crisi del ’29, che si apre agli inizi degli anni ’30 un nuovo e drammatico scenario. Il 30 gennaio 1933 Hitler e il suo partito conquistano il potere. Le linee essenziali della politica estera nazionalsocialista mirano ad assicurare, se necessario anche 13
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con la violenza, il dominio geopolitico della Germania, a restituire alla Germania la sua forza militare (che aveva subìto forti limitazioni proprio in conseguenza al Diktat), a ricongiungere alla Germania gli altri territori abitati dai tedeschi e ad acquisire un vasto “spazio vitale” principalmente nell’Est dell’Europa al fine di procurare ai tedeschi materie prime, risorse e soprattutto terre da colonizzare. L’aggressiva politica estera del Reich comincia a concretizzarsi nel 1938 con l’annessione prima dell’Austria e poi della Cecoslovacchia. La Polonia si trova così confinante a ovest e a nord (Prussia Orientale) con lo Stato germanico, a sud con una Cecoslovacchia ora tedesca e ad est con l’Unione Sovietica. Ma la Polonia si sente abbastanza tranquilla perché ha stipulato un patto segreto di non aggressione con la Germania il 26 gennaio del 1934 (dopo averne concluso uno speculare con l’Unione Sovietica il 25 luglio di due anni prima), e allora cosa fa? Esercita pressioni per annettere al proprio territorio la Slesia, accusando i cechi di maltrattare la popolazione della regione. Lo fa attraverso il proprio ministro degli Esteri, Jozef Beck, che il 19 settembre del 1938 espone le pretese polacche e il 21 rivendica ufficialmente la Slesia. Beck tuttavia non è invitato agli Accordi di Monaco, dove si discute la spartizione della Cecoslovacchia. Di conseguenza è costretto a risolvere la questione attraverso accordi diretti e il 30 settembre indirizza un più che perentorio ultimatum alla Cecoslovacchia: le rivendicazioni territoriali polacche devono essere accettate entro il mezzogiorno successivo. Lo Stato cecoslovacco, ormai smembrato, cede e le truppe polacche varcano il confine il 2 ot14
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tobre: la Polonia ottiene un territorio circa di 1.000 km2 con una popolazione di 230.000 abitanti (l’importante è sempre non restare fuori dai banchetti, anche solo per raccattarne le briciole… fa niente se nei piatti del prossimo banchetto ci saremo noi…). I polacchi avrebbero anche l’ambizione di annettere l’Ucraina sub-carpatica (situata a sud-est del territorio polacco). Ma Hitler si oppone. E non è un caso, perché a quel punto tocca proprio ai polacchi. La Germania pone di nuovo e con sempre maggior forza il problema di Danzica: il 24 ottobre 1938 Berlino invia un primo ultimatum, in cui chiede di annettere al Reich la città libera e di realizzare un “corridoio” che goda della condizione di extra-territorialità per poter collegare la Prussia Orientale con la Germania. Queste pretese hanno anche lo scopo di tagliare l’accesso al mare alla Polonia per renderla economicamente e politicamente dipendente dal Terzo Reich. L’ultimatum è reiterato a dicembre e ancora nel maggio dell’anno successivo. A quel punto, la dichiarazione di non-aggressione tra la Germania e la Polonia, ormai priva di forza e di senso, è revocata dallo stesso Hitler. In questo periodo di tensioni con la Germania, la Polonia prova a riavvicinarsi all’Urss, ma scopre di essere lasciata a se stessa il 23 agosto 1939, data della firma del patto di non-aggressione tra Germania e Unione Sovietica (battezzato “Patto Molotov-Ribbentrop” dai nomi dei ministri incaricati: uno è l’ex commerciante di champagne, l’altro è quello che dà il nome alle bottiglie incendiarie: prodotti esplosivi tutti e due, a proprio modo; persino il patto che battezzano farà esplodere ben altro…). 15
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Insieme al patto si sigla tra le due potenze un protocollo segreto di spartizione delle zone di influenza sul territorio polacco. Il futuro della Polonia è deciso. I rapporti con la Germania nazista sono al calor bianco. Il 31 agosto, il governo polacco decide la mobilitazione militare. Un po’ tardi. Poche ore dopo, alle 4 e 45 del 1° settembre, inizia infatti l’invasione. Per attaccare serve una “provocazione” polacca e Hitler se la procura: il 31 agosto un gruppo di soldati tedeschi in uniforme polacca attacca una stazione radio di frontiera e uccide alcuni prigionieri della Gestapo messi lì a bella posta. Hitler, alle 10 di venerdì 1° settembre, in una mattina ancora estiva, soleggiata, annuncia così al Reichstag e alla nazione che l’esercito tedesco ha dovuto “rispondere al fuoco”. Il piano operativo ha come obiettivo la distruzione delle forze armate polacche nel più breve tempo possibile mediante un attacco massiccio e fulmineo mosso da più direzioni, avente Varsavia per obiettivo centrale. È la prova generale della Blitzkrieg. L’esercito invasore, composto da 56 divisioni (circa 235.000 soldati) incluse tutte le divisioni corazzate di cui dispone (11, con 288 panzer ciascuna), si muove lungo diverse direttrici. È l’esercito europeo più potente, moderno ed efficiente del tempo: l’aviazione mette in campo circa 5.000 apparecchi. Stukas, Messerschmitt, Heinkel: macchine per l’epoca ad altissima evoluzione tecnologica. E gli aerei giocheranno un ruolo decisivo in questa guerra. 16
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L’obiettivo è spaccare il fronte centrale dell’esercito polacco e procedere ad una doppia manovra a tenaglia sui due tronconi avversari. Ora: le manovre a tenaglia non sono una novità: erano famose già quelle di Annibale, tanto per dire. La questione è a che velocità le realizzi. La Wehrmacht è potentissima, certo, ma non ha dimenticato la grande lezione di Sedan, della guerra franco-prussiana. Sono passati quasi settant’anni, ma è una lezione ancora valida: fai le cose più velocemente degli avversari e avrai un vantaggio strategico ineguagliabile. 1.500 moderni aeroplani tedeschi appoggiano le azioni dell’esercito sul campo di battaglia e attaccano nelle retrovie le installazioni militari, le ferrovie e le vie di comunicazione. Le poche centinaia di aeroplani a disposizione dell’esercito polacco, colte di sorpresa, sono quasi tutte distrutte prima ancora di alzarsi in volo. In due giorni l’aviazione polacca è virtualmente annientata. Si apre uno scenario di guerra nel quale l’aviazione giocherà un ruolo decisivo, come mai prima. E i polacchi apprendono sulla loro pelle una regola della guerra aerea apparentemente ovvia, ma devastante se è la prima volta che ci vai a sbattere contro: che non fai in tempo a ricevere la dichiarazione di guerra e hai già il nemico dietro le linee. L’esercito polacco ci mette anche del suo, va detto: schiera tutte le forze di cui dispone (30 divisioni) lungo le frontiere senza mantenere un nucleo centrale di riserva: è, tra l’altro, la vecchia guerra “di posizione” che si scontra con la nuova guerra “di movimento”. Ma abbiamo a che fare con truppe inferiori numeri17
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camente (1 brigata di carri contro 11 divisioni, nessuna divisione motorizzata) e con un armamento inadeguato rispetto alla modernità ed efficacia di quelle tedesche. Così, quel che si racconterà non a caso in seguito è che, ad opporsi ai panzer nazisti, siano dodici brigate di cavalleria! Poi le cose non sono andate esattamente così, ma che questo sia ciò che rimane nella memoria collettiva la dice lunga. Una didascalia apposta ad una foto di cavalleggeri polacchi dell’epoca recita: “La cavalleria polacca, forse la migliore in Europa, è equipaggiata con spade, lance, mitragliatrici; è un’arma che è stata notevolmente potenziata e si impone alle forze corazzate, specie su terreni difficili, grazie alla sua maggiore mobilità”.
…non hanno capito niente, è evidente. Ma anche ammesso che ci credano, a queste panzanate sulla forza di un’arma superata come la cavalleria, quella cui si assiste è quella scena famosa del film Il Signore degli Anelli: chi non l’ha visto? La battaglia nei campi di Pelennor, la carica dei cavalieri Rohirrim a difesa di Gondor, contro i mostruosi elefanti del signore del Male, i Mûmakil: è evidente che non c’è storia, se stai osservando la scena sullo schermo, lì nella tua poltrona del cinema o sul divano di casa, te lo dici che non lo faranno… a chi verrebbe in mente di caricare i Mûmakil puntando la sciabola e dando di speroni? A chi? Ai polacchi. Ma non saremmo qui a raccontare una vicenda epica, 18
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se accadessero solo cose sensate e ragionevoli. I cavalleggeri caricano i carri armati e gli autoblindo nazisti: ed è una carneficina, e al tempo stesso una metafora agghiacciante di quanto sta per accadere. Perché qui non è tanto questione di onore delle armi, sacrificio sublime, eroismo fine a se stesso: perché i carristi tedeschi, guardando attraverso le feritoie dei loro panzer quei pazzi scatenati partire al galoppo devono esserselo detto che questa era gente diversa dagli altri, con tutto che ancora non sapevano di cosa erano capaci i russi in mezzo a una tempesta di neve a 30 gradi sotto zero, o gli inglesi sotto centinaia e centinaia di tonnellate di bombe… E tutta la storia che stiamo raccontando è già lì, in quella carica forsennata e senza speranza, anche idiota a volerla dire tutta, come tutti i sacrifici sublimi. Perché questo i cavalleggeri stanno dicendo ai loro ennesimi invasori lanciando ventre a terra le proprie bestie: “Piuttosto ci facciamo massacrare”. E quelli li massacrano. Senza un attimo di esitazione. Cosa viene simboleggiato nella ricostruzione mitizzata di questo scontro? Non solo una caparbietà di potenza che dilaga al di fuori dei confini ma, in un certo senso, anche due ostinazioni, ciascuna a proprio modo delirante, che vengono a contatto. Ma lo squilibrio di forza e di delirio, in quello scontro, è fuori di dubbio, e non c’è da stupirsi che le divisioni corazzate con la croce uncinata avanzino rapidamente. La Polonia, non potendo fronteggiare l’urto nemico da sola, fa appello a Francia e Inghilterra che non inter19
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vengono subito, ma due giorni dopo l’aggressione tedesca, e due giorni, in una guerra lampo, sono un secolo. Perché, appunto, è una guerra lampo. Dopo due settimane le truppe tedesche sono penetrate profondamente nel territorio della Polonia e l’esercito polacco, composto di quasi 2 milioni di uomini, cessa in pratica di esistere come forza organizzata. E a Varsavia, cosa succede? L’8 settembre sta calando ormai la sera quando i carri armati tedeschi irrompono sulla capitale. Comincia un assedio che durerà venti giorni. Per una settimana la città resisterà mentre nel resto del Paese la guerra è in pratica già terminata. E la pagherà. In quel periodo il fuoco dell’artiglieria devasta la città e ne distrugge già una parte considerevole. Il 20 settembre i tedeschi annunciano che la nuova battaglia della Vistola è stata “una delle più grandi battaglie di sterminio di tutti i tempi”. Durante le tre settimane di assedio, muoiono più di 15 mila abitanti, 50 mila sono i feriti e il 12% degli edifici viene distrutto. Le perdite militari polacche contano circa 6 mila morti e 16 mila feriti. Numeri pesantissimi, eppure risibili, a confronto di quanto accadrà in seguito.
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“Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
E così il vaso di ferro germanico è rotolato a oriente. Facendo i danni che ci si poteva aspettare. Ma quando uno è un vaso di coccio, sa quel che lo attende. Da oriente verso occidente sta per arrivare l’urto russo. L’Unione Sovietica lancia una violenta campagna stampa sul trattamento riservato dai polacchi alle minoranze bielorusse e ucraine in modo da giustificare il proprio prossimo intervento. Il 17 settembre, adducendo il disfacimento interno dello Stato polacco, che rende nulli tutti gli accordi tra la Polonia e l’Urss, il governo sovietico ordina alle truppe di oltrepassare la frontiera per proteggere le popolazioni ucraine e bielorusse da uno Stato polacco… che non c’è più! Il gioco di espedienti e mistificazioni messo in atto è anche in questo caso anche troppo evidente. Così, il 28 settembre von Ribbentrop si reca a Mosca e insieme al suo collega Molotov ufficializza la spartizione della Polonia, fissando i nuovi confini tedesco-sovietici. Durante l’occupazione nazista la Polonia verrà suddivisa in due parti. I territori occidentali – più ricchi – sono divisi in quattro Reichsgaue (Wartheland, Danzica-Prussia Occidentale, Prussia Orientale e Alta Slesia) annessi direttamente al Reich e affidati ad altrettanti Gauleiter (rispettivamente Arthur Karl Greiser, Albert Forster, 21
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Erich Koch e Fritz Bracht). Quelli più a est sono riuniti nel Governatorato generale, guidato dal plenipotenziario Hans Frank e suddiviso a propria volta in quattro distretti – Varsavia, Lublino, Radom e Cracovia – affidati a quattro governatori. Ludwig Fischer, assegnato come vedremo più avanti proprio a Varsavia, resterà in carica per l’intero periodo di occupazione. Per gli altri distretti, destinati a cambiare guida nel corso degli anni, le prime nomine saranno attribuite a Richard Wendler – cognato di Heinrich Himmler – per Lublino, Karl Lasch per Radom e Otto Wächter per Cracovia7. Il 5 ottobre 1939 le truppe del Terzo Reich sfilano in parata nel cuore della città alla presenza di Hitler, davanti alle macerie del Palazzo Reale, l’emblema architettonico della città. Ogni giorno, migliaia di varsaviani attraverseranno Hitler Platz, come l’hanno chiamata, il centro nevralgico della città, transitando davanti alle rovine annerite del Palazzo Reale. Come se i milanesi fossero costretti a passare tutti i giorni per piazza Duomo costeggiando un Duomo raso al suolo. Vedete voi. Hitler Platz: gli invasori si preoccupano subito di modificare la toponomastica. Sostituiscono i nomi polacchi delle vie e delle piazze con denominazioni tedesche: non un gesto casuale. È un’azione che ha un valore simbolico altissimo e che preannuncia il filo conduttore di cinque 7
Cfr. Bernard R. Kroener, Rolf-Dieter Muller, Hans Umbreit (a cura di), Germany and the Second World War, Vol. V, Organization and Mobilization of the German Sphere of Power. Pt.1 Wartime Administration, Economy and Manpower Resources 1939-41, Oxford, Oxford University Press, 2000, pag. 205). 22
“Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
lunghissimi anni di occupazione: cancellare ogni traccia della cultura polacca, fino al delirio di onnipotenza distruttiva finale. La Polonia subisce non solo la repressione e lo sfruttamento: il suo territorio deve essere liberato dai nativi per fare posto ai nuovi coloni tedeschi che, finita la guerra, “germanizzeranno” la terra polacca, perché, come aveva già scritto Hitler nel Mein Kampf, “si può germanizzare una terra, mai gli uomini”8. Un milione e mezzo di polacchi verranno internati a lavorare in Germania; ma lo stesso numero finirà deportato in Russia sotto Stalin, e quindi deve essere chiaro che questa sporca faccenda ha molte facce – almeno due! – anche se non possiamo guardarle tutte contemporaneamente. E in questa logica il Führer dirà ad Hans Frank (un tipo di bella stazza, tendente al grassottello anziché no, vuole una piscina in casa, suona il pianoforte, ama l’Italia e le belle arti, ha una moglie credente ma non per questo meno nazista, per un poco ha coltivato ambizioni di alta politica aspirando al ministero degli Esteri, ma von Ribbentrop… lo fa nominare Governatore della Polonia, promoveatur ut amoveatur!) che il compito che la Germania si aspetta da lui non è costruire bensì distruggere9. 8
Cfr. Adolf Hitler, La mia battaglia, Milano, Bompiani, 1942 (XVII Edizione), pag. 124: “Perfino nelle sfere del pangermanesimo si poteva allora sentir dire che, con l’aiuto del governo, il germanesimo d’Austria poteva riuscire benissimo a germanizzare i Paesi slavi austriaci. Questi non comprendevano che si può solamente germanizzare una terra, ma mai gli uomini”.
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Cfr. Maria Luisa Gennaro, Come caddero le metropoli nella Seconda guerra mondiale, Milano, De Vecchi, 1973, pag. 117. 23
Varsavia 1944
Quei pochi polacchi che sopravvivranno dovranno, nei piani di Hitler, vivere come servi della gleba, dipendenti in tutto e per tutto dai dominatori tedeschi, nella miseria e nell’ignoranza assoluta. Con questo obiettivo i tedeschi si occupano subito della cultura e dell’intellighenzia polacca. Nel novembre del 1939 vengono chiuse tutte le scuole tranne quelle elementari, vengono soppresse dai programmi di studio alcune materie (Lingua polacca, Storia, Geografia), sono chiusi i teatri e anche la radio che trasmetteva dal 1925. Monumenti storici e perfino interi palazzi sono distrutti per cancellare anche il ricordo visivo di un’identità nazionale. Significativamente, un piano di distruzione e trasformazione di Varsavia in una cittadina di provincia viene elaborato già nel 1940 sotto la direzione dell’ingegner Friedrich Pabst e presentato al governatore generale Hans Frank il 6 febbraio del 1941. Il progetto prevede una riduzione della superficie della città da 149 a 15 km2 e una popolazione di sole 130.000 persone. Ma qui sono due ostinazioni a scontrarsi. I polacchi non sono come tutti gli altri. La resistenza in Polonia, e a Varsavia in particolare, è da subito vivissima. Si istituiscono università clandestine (che coinvolgono fino a 3.000 studenti), sono attive infinite tipografie clandestine (solo a Varsavia si arriverà nel 1944 a ben 600 pubblicazioni10), lo spionaggio polacco fornisce una percentuale altissima delle informazioni raccolte dagli inglesi durante la guerra e 10
Beate Kosmala-George Verbeeck, Facing the Catastrophe. Jews and Non-Jews in Europe during World War II, Oxford, Berg, 2011, pag. 174. 24
“Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
contribuisce in maniera decisiva alla decifrazione del codice Enigma. E poi c’è la resistenza armata. Già dalla fine del settembre 1939 il governo polacco in esilio a Londra11 può contare sul proprio braccio armato – il Servizio polacco per la Vittoria (Służba Zwycięstwu Polski) – fondato dal generale Michał Tadeusz Karaszewicz-Tokarzewski già a poche ore dalla capitolazione di Varsavia. A metà novembre il primo ministro in esilio – il generale Władysław Sikorski, divenuto nel frattempo Comandante in capo delle forze armate polacche – sostituisce il Servizio polacco per la Vittoria con l’Unione per la Lotta Armata (Związek Walki Zbrojnej, o ZWZ) che il 14 febbraio del 1942 si affiancherà alla Unio-
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Con l’occupazione tedesca, il governo polacco si trasferisce in Romania nel tentativo di riparare, da lì, in Francia; ma i suoi componenti – inizialmente bene accolti nel vicino Stato che si sta mantenendo neutrale – vengono in seguito quasi tutti arrestati su ordine delle autorità romene, che stanno a quel punto alleandosi con la Germania hitleriana (cfr. George Sanford, Katyn and the Soviet Massacre of 1940. Truth, Justice and Memory, Abingdon-New York, Routledge, 2005, pagg. 21-29). Il presidente della Repubblica Ignacy Mościcki, ritirandosi, nomina quale suo successore il presidente del Senato Władisław Raczkiewicz, già arrivato a Parigi. Questi sceglierà come primo ministro il generale Władysław Sikorski, che il 30 settembre 1939 si insedierà nella capitale francese quale capo del “governo dell’esilio polacco” che si trasferirà poi, di fronte alla successiva avanzata dei nazisti in Francia, prima in Svizzera e poi a Londra. Il governo polacco in esilio – composto da popolari, socialisti e nazional-democratici – sarà così riconosciuto da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti ma non dall’Unione Sovietica, che sosterrà invece il Comitato di Liberazione nazionale di ispirazione comunista nato a Lublino nel luglio del 1944 (cfr. Marina Cattaruzza, La nazione in rosso: socialismo, comunismo e questione nazionale 1889-1953, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pag. 199). 25
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ne della Resistenza Polacca (Polski Związek Powstańczy) dando vita all’Esercito Nazionale (Armia Krajowa), ispirato ai modelli delle democrazie occidentali, in contrapposizione alla Guardia Popolare (Gwardia Ludowa, poi Armia Ludowa) appoggiata dai sovietici e controllata dal Partito polacco dei Lavoratori (PPR)12. Dal gennaio 1941 al giugno 1944, le forze della resistenza distruggeranno 6.930 locomotive, 19.058 vagoni, 38 ponti ferroviari, 28 aerei e 1.167 cisterne causando gravi danni alla produzione militare tedesca e al trasporto merci. Le azioni si concentreranno in particolare a Varsavia, dove sono note circa 700 grandi azioni di diversione e lotta armata (che, fatti due conti, equivale a circa 140 all’anno, cioè più di una ogni tre giorni!) culminanti nel riuscito attentato contro il comandante delle SS a Varsavia Franz Kutschera da parte dell’Armia Krajowa nel 1944. Franz Kutschera nasce il 22 febbraio del 1904 a Oberwaltersdorf, nella Bassa Austria, all’epoca incastonata nel cuore dell’impero austro-ungarico. Nazista della prima ora, continua a militare fedelmente tra le camicie brune anche dopo la messa al bando del partito da parte del cancelliere Dollfuss. Gauleiter della Carinzia a soli 35 anni a seguito dell’annessione dell’Austria da parte della Germania nel marzo 1938, allo scoppio della Seconda guerra mondiale Kutschera risponde entusiasta 12
Cfr. Krystyma Jaworoska, Warszawa 1944: i 63 giorni dell’insurrezione, Torino, Blu Edizioni, 2004, pag. 71 e Roberto Guerri, La resistenza in Europa: le radici di una coscienza comune, Milano, Skira, 2005, pag. 91. 26
“Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
al richiamo delle armi arruolandosi come volontario nel 139° Reggimento di fanteria leggera delle truppe alpine. Dopo l’esperienza in prima linea sul fronte francese e il servizio nelle file delle SS di stanza in Bielorussia, il giovane BrigadenFührer – astro nascente delle temibili Schutzstaffel – è promosso a capo delle SS e della polizia di Varsavia per sedare i bollenti spiriti della resistenza polacca: un compito portato avanti rigorosamente in incognito proprio affinché la resistenza varsaviana non possa inquadrarlo nel proprio mirino. Ma alla fine qualcuno si accorge di lui: nientemeno che il capo stesso dell’intelligence anti-Gestapo Aleksander Kunicki, uno che, non per nulla, ci sa fare. Un giorno di dicembre del 1943, durante uno dei suoi giri di routine attorno al quartier generale delle SS nella centralissima Aleja Szucha, sinistramente ribattezzata dai nazisti Strasse der Polizei, Kunicki vede scendere da una limousine Opel Admiral un generale che gli risulta sconosciuto. Scoperto che quell’alto ufficiale senza nome è colui che in soli quattro mesi è riuscito a seminare il terrore tra la popolazione, la resistenza polacca ne decreta la messa a morte attraverso un piano denominato – per l’appunto – “Operazione Kutschera”. Data fissata, 1° febbraio 1944. Avrebbe compiuto i suoi primi quarant’anni da lì a tre settimane, Franz Kutschera. Alle 9 del mattino del 1° febbraio 1944 ha appena lasciato casa sulla sua Opel Admiral quando un’auto con a bordo un gruppo di partigiani del battaglione Pegaz gli sbarra la strada. Precipitatisi fuori dal veicolo, gli assalitori aprono il fuoco attraverso il finestrino aperto della berlina nera. Kutschera, san27
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guinante, viene finito con un colpo di pistola alla testa. I partigiani fuggono. Tutto avviene in pochi secondi, un minuto e mezzo o poco più: un attentato lampo, che non può non riportare alla mente di noi italiani, in alcuni aspetti, quello messo a segno dalle Brigate Rosse trent’anni dopo in via Fani. In reazione alla morte di Kutschera, i nazisti uccideranno per rappresaglia 300 civili catturati durante un rastrellamento e imporranno alla cittadinanza un tributo di 100 milioni di zloty insieme a un rigido coprifuoco13. C’è da vendicare la sfrontata esecuzione nientedimeno che del capo delle gloriose SS cittadine: un affronto bruciante. Se tra un po’ vorremo capire il lato pragmatico dell’accanimento tedesco verso Varsavia, ricordiamocene.
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Cfr. Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città tra Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2004, pagg. 228-230, Jan Rosinski-Richard Hile, The Warsaw Underground: a Memoir of Resistance 1939-1945, Jefferson, McFarland & Company, 2013, pagg. 81-82. La scena dell’attentato è riprodotta in maniera efficace nella pellicola del 1959 del regista polacco Jertz Passendorfer Zamach, uscita nelle sale cinematografiche italiane nel 1960 con il titolo L’attentato.
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Combattere per la propria terra senza mai neppure vederla
E poi c’è l’esercito. Sì, l’esercito. Perché se pure le forze armate polacche sono state disintegrate dall’urto nazista, alcune loro particelle vanno a riaggregarsi, testardamente, al di là dei confini, decise a dire la loro in quella guerra che sembra finita, ma non è finita. Solo 80.000 soldati riescono a mettersi inizialmente in salvo in territorio neutrale. Ma poi fanno da nucleo di attrazione per infiniti altri atomi di quella Polonia esplosa: volontari che arrivano in ogni modo, da ovunque, per costituire quello che sarà l’esercito della Polonia libera, che combatterà al fianco degli alleati praticamente dappertutto, dall’Africa all’Italia, dalla battaglia d’Inghilterra al Fronte occidentale… Ma questa è una storia davvero complicata, come faccio a raccontarvela nel poco tempo che ho? Proviamo. Ogni storia, l’abbiamo detto all’inizio, è un intreccio di altre storie, e guarda qui che intreccio salta fuori. Andrea Pinketts era uno stravagante scrittore italiano, difficile da definire, diciamo qualcosa a metà fra un autore di noir e un giallista. Un suo libro si intitola Nonostante Clizia14 e se lo aprite a pagina 200 leggete questo: 14
Andrea G. Pinketts, Nonostante Clizia, Milano, Mondadori, 2003, p. 200. 29
Varsavia 1944
“La mattina siracusana era un inno alla vita. Anziché Fuggevole Turchese direi Immobile Pervinca. Con un tempo simile ritenevo che ci dovessimo sentire tutti più buoni per accordarci, intonarci al colore di quello spicchio di mondo. Pervinca, il migliore. … Comunque l’Hotel Gutuwsky era color pervinca con qualche bella chiazza autarchica, in quanto l’omogeneità cromatica era stata mangiata dal sole e dal mare. In Sicilia, del resto, si mangia da Dio…”
L’Hotel di cui si parla esiste realmente e il suo vero nome è Gutkowski. Gutkowksi. Un nome che non è Bottazzo, o Ficarra e Picone: Ca ci ̕ttrase, che cosa c’entra, Gutkowski con la Sicilia e con Siracusa? Così, se entrate nell’Hotel Gutkowski scoprite che è gestito da una signora, che si chiama Paola Pretsch: e il mistero si fa più fitto (per forza il Gutkowski è piaciuto al giallista Pinketts…): cosa c’entrano due nomi come Gutkowski e Pretsch con Siracusa? C’entrano perché Paola Pretsch è per ¾ polacca: la mamma, Diana Gutkowski (metà siciliana e metà polacca), sposa Zbignef Pretsch, polacco, per gli amici Zbicek. Così, se vi fermate all’Hotel Gutkowski (a parte il fatto che è forse il più bello di tutta Siracusa) può capitarvi di riuscire a farvi raccontare la sua storia. Zbicek è figlio di un ufficiale di carriera: vuole seguire le orme del padre. Appena diciottenne si iscrive alla scuola ufficiali: è il settembre del ’38. Non fa in tempo a terminarla, la scuola, perché nemmeno un anno dopo lo mobilitano e lo spediscono sulla frontiera tedesca. Il fronte cede subito: Zbicek si ritira verso Varsavia, ma 30
Combattere per la propria terra senza mai neppure vederla
viene fatto prigioniero. Riesce a fuggire e, a piedi, senza mappa o bussola, percorre circa 300 km verso sud-est, nella direzione opposta a quella da cui arrivano i tedeschi. Si nasconde presso parenti. Ma il 17 settembre, da oriente, entrano i russi e, dai territori che occupano, cominciano a deportare i polacchi verso i campi di concentramento siberiani. La famiglia di Zbicek è di militari, dunque è ad alto rischio. Capito da che parte tira il vento, nella primavera del ’40, Zbicek parte con quattro amici e marcia per tre giorni sulle montagne innevate per superare la frontiera con l’Ungheria, dove per ora si è riunito quel po’ di esercito polacco fuoriuscito, che si sta organizzando per andare a combattere in Francia. Zbicek riesce avventurosamente a cavarsela, e raggiunge Budapest, poi la frontiera jugoslava. I nazisti sono ormai ovunque in Europa, e i percorsi sono obbligati: l’Italia è ancora “non-belligerante” e potrebbe costituire un passaggio verso la Francia. Zbicek arriva a Zagabria, ma a quel punto giunge la notizia della disfatta francese. Cosa fare? Viene mandato a Spalato, dove una nave polacca fa la spola verso Beirut: Libano e Siria sono protettorati francesi. I polacchi sono “ospitati” dai reparti della Legione Straniera. Ma il governo di Vichy (che si costituisce nel Sud della Francia durante l’occupazione nazista) non può certo vedere di buon occhio questi ospiti; così Zbicek parte di nuovo e finisce in Palestina, poi in Egitto, ad Alessandria, dove, in sostanza, i polacchi si aggregano all’esercito inglese. Ha diciannove anni, Zbicek, ma vi rendete conto di cosa fa? E non riceve uno straccio di notizia da casa, ov31
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viamente. E fosse solo il fatto di rischiare la pelle viaggiando per un mondo impazzito… I polacchi partecipano all’avanti-indietro del fronte africano: un’offensiva da una parte, una contro-offensiva dall’altra, finché questo andamento pendolare si blocca su Tobruk, porto libico conquistato all’inizio del 1941 dagli inglesi e poi assediato dagli italo-tedeschi. Dentro a Tobruk resiste un corpo di australiani e indiani: ma non ce la fanno quasi più, necessitano ricambio. Nottetempo, via mare, ci mandano i polacchi, Zbicek compreso. “I topi di Tobruk”, li chiameranno. E come topi rintanati, non cederanno, finché saranno gli assedianti a mollare. Assedianti che si rifaranno solo mesi dopo, nel giugno del ’42. Così, a quel punto, si torna in Palestina, e da lì in Iraq, dove si sta organizzando un vero e proprio Corpo d’Armata Polacco. L’URSS ha cambiato alleati, dopo l’invasione tedesca, e seppur di malavoglia ha cominciato a rilasciare i prigionieri e i deportati polacchi, che affluiscono, spesso a piedi, attraverso l’area del Mar Caspio e l’Iran (2.000 miglia!) verso Bagdad. Poi, da Bagdad, via di nuovo, ancora in Palestina, poi in Libano. Ci si prepara allo sbarco alleato in Italia. È l’inverno del ’43-’44. Zbicek viene trasferito da Porto Said a Taranto. L’avanzata anglo-americana ha però uno stallo. La linea Gustav predisposta dai tedeschi fra Napoli e Roma tiene. Il punto nodale è Cassino, che controlla la via d’accesso alla capitale. Là, vanno a morire i polacchi. Zbicek arriva il 15 marzo in una sfolgorante primavera italiana. Come solo da noi: i campi, ricorda, erano 32
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una esplosione di papaveri. Sembra La guerra di Piero di De André: “Ma sono mille papaveri rossi…”. Per due giorni consecutivi i polacchi si fanno massacrare in continui attacchi suicidi che sembrano non portare a nulla. Non so se avete mai visto il cimitero polacco a Montecassino… una cosa da restare senza fiato: una distesa di croci infinita. Ma alla fine quella che viene alzata sulle rovine di ciò che era lo splendido monastero non sarà la Union Jack inglese né le Stars and Stripes americane: saranno i due rettangoli bianco e rosso di una bandiera polacca. Ne sono morti talmente tanti, di polacchi, che il Corpo d’Armata viene ritirato per riorganizzarlo. A Campobasso; da lì si sale con l’VIII Armata inglese lungo la costiera adriatica e si combatte ancora duramente per liberare Ancona. Sembra il contrario dell’inno di Wybicki, ricordate? Qui è la libertà portata all’Italia dai polacchi che combattono con l’invasore/liberatore… Là era Napoleone, qui è il generale Alexander… Ma i tedeschi hanno riorganizzato le difese sulla Linea Gotica e la liberazione non avanza tanto velocemente. Bisognerà sparare, uccidere, morire ancora, fino a riuscire a sgomberare Bologna… e qui la storia dell’Armata polacca in Italia finisce (anche se continua altrove, sul fronte occidentale, per esempio) e con essa quella di Zbicek come soldato… emblema di una volontà di combattere per la propria patria senza mai neanche toccarla la propria terra, senza mai neppure vederla… Oh, be’… certo dimenticavo… cosa c’entra tutto questo con Siracusa. 33
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Happy ending: Zbicek mangia la foglia. Capisce che quella sovietica non è libertà; resta in Italia a studiare e si laurea in Farmacia, ma anche nell’Italia della ricostruzione non è facile lavorare per chi non ha la cittadinanza, così vive un po’ di espedienti, e un giorno viene a sapere che si sta cercando un insegnante di polacco per una signorina di ottima famiglia siciliana, che in quel momento vive a Roma, e ha padre polacco e madre appunto siciliana: si chiama Diana Gutkowski e… be’, adesso Paola Pretsch ha restaurato una palazzina sul lungomare di Ortigia e ne ha fatto il più bell’albergo di Siracusa. E voi lo potete vedere, se passate da lì: è color pervinca. Per-vinca il migliore.
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Finora non abbiamo toccato un tema angoscioso e decisivo: la Polonia ospita la comunità ebraica più numerosa del mondo europeo. È stato scritto che “la Polonia, nella sua massima espansione geografica – che comprendeva anche la Lituania e una parte della odierna Bielorussia – fu considerata per molti secoli, in confronto a ciò che accadeva negli altri Paesi del Centro e dell’Est Europa, una sorta di «Paradisus Judaeorum»”,15 come lo storico romano Giovanni Battista Pacichelli l’aveva definita nelle sue Memorie de’ viaggi fatti per l’Europa cristiana edite dalla Stamperia Reale di Napoli nel 168516. Ma perché proprio la Polonia? 15
Cfr. Gian Mario Anselmi (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea. Da Gogol al postmoderno, Vol. III, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pag. 96. 16
Pacichelli riporta il seguente epigramma: “Clarum Regnum Polonorum est Caelum Nobiliorum, Infernus Rusticoru, Paradisus Judaeorum” (cfr. Sebastiano Ciampi, Bibliografia critica delle antiche reciproche corrispondenze politiche, ecclesiastiche, scientifiche, letterarie, artistiche della Italia colla Russia, colla Polonia ed altre parti settentrionali di Europa”, Tomo II, Firenze, Guglielmo Piatti Editore, 1839, pag. 192). In realtà la prima comparsa dell’espressione sarebbe da ricondurre a una pasquinata latina risalente al dicembre 1605 composta in occasione delle nozze reali tra Sigismondo III e la seconda moglie Costanza d’Asburgo (cfr. Stanislaw Kot, Polska rajem dla Żydów, piekłem dla chłopów, niebem dla szlachty, Varsavia, Kultura i Naka, 1937, pag. 2). 35
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La risposta sta nella lungimiranza dei regnanti polacchi che – per supplire alla mancanza di una borghesia locale – a partire dal XIV secolo favorirono un massiccio insediamento di ebrei nel Paese attraverso la concessione di numerosi privilegi generali come quello concesso da Sigismondo II Augusto Jagellone che conferiva la possibilità di esercitare autonoma giurisdizione nelle questioni relative alla legge ebraica tramite l’elezione di un rabbino capo e di propri magistrati. Date queste particolari condizioni di favore – assolutamente fuori del comune per l’Europa del tempo –, nel giro di un secolo dall’editto di Sigismondo gli ebrei polacchi crebbero al punto tale da arrivare a rappresentare il 3-5% della popolazione totale e il 20% di quella delle grandi città, affermandosi come la più grande comunità ebraica del Vecchio Continente17. Un trend che proseguirà, peraltro non senza trovare ostacoli, anche nei secoli successivi, a dispetto dell’emigrazione di molti ebrei verso le Americhe durante l’Ottocento. Nel 1939, prima dello scoppio della guerra, la Polonia ospitava circa 3,3-3,5 milioni di ebrei su 35,3 milioni di abitanti: un decimo. Nella sola Varsavia risiedevano quasi 400.000 ebrei su una popolazione complessiva di circa 1,3 milioni di abitanti18. Una sorta di “Paradisus”, in effet-
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Cfr. Michael Brenner, Breve storia degli ebrei, Roma, Donzelli, 2009, pag. 125. 18
Cfr. tra gli altri Jan Wladislaw Wos, Sylvia Rerum: sulla storia dell’Europa orientale e delle relazioni italo-polacche, Trento, Università degli Studi Editrice, 2001, pag. 19; Carol J. Greenhouse, Elizabeth Mertz, Kay B. Warren, Ethnography in Unstable Places. Everyday Lives in Context of Dramatic Political Change, Durham, Duke University Press, 2002, pag. 47; Lidia Beccaria Rolfi, Bruno Maida, Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini, Firenze, Giuntina, 1997, pag. 48.
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Il ghetto
ti, destinato però nel giro di pochi anni a trasformarsi nel peggiore degli inferni immaginabili. Perché, attenzione: stiamo spalancando qui la finestra su uno dei panorami più allucinati dell’era contemporanea: talmente atroce e allucinato da risultare accecante per chi abbia l’ardire di guardarlo davvero in faccia. E infatti, va detto, la descrizione di quel panorama – doverosa, stremata, terribile (per chi l’ha tentata e per chi l’ha ascoltata) – ha finito in un certo senso per annichilire tutto il resto, non potendo che balzare in primo piano, sfolgorante nel suo cupo orrore, e relegare sullo sfondo ogni altro, pur sconvolgente evento. Ma quello che qui cerchiamo di fare è proprio di guardare altrove, non per ignorare l’Olocausto, ma per vedere qualcosa che accade accanto e insieme ad esso. Ciò nondimeno, qualcosa – anche se certo non abbastanza – c’è da dire. A Varsavia gli arresti e le esecuzioni di ebrei si fanno numerosi fin dai primi giorni dell’occupazione: dapprima segreti, poi palesi, poi pubblici ed infine annunciati con manifesti affissi sui muri. Il 23 novembre del ’39 viene introdotto l’obbligo di portare il bracciale con la stella di David. Un anno dopo, è il 16 novembre del 1940, in un drammatico crescendo di repressione inizia ufficialmente nella parte centro-settentrionale della città la chiusura del ghetto. Secondo le fonti tedesche, 380.740 ebrei vi sono rinchiusi, ma saranno anche di più. Il ghetto – che i nazisti con un agghiacciante eufemismo chiamano “zona residenziale ebraica” – è circondato per tutto il suo perimetro da un muro. Ora: la Storia è ritmata dall’erezione di muri, che spesso poi percepiamo come capolavori dell’ingegno e dell’industriosità umana: il Vallo di Adriano, la Grande Muraglia 37
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cinese, le Mura di Babilonia… Ma un muro è prima di tutto la risposta più logica, istintiva e risoluta a un ancestrale bisogno della natura degli uomini, quello di porre un confine: di qui c’è qualcosa, di là c’è qualcosa di diverso. Così, un muro – un confine – dice essenzialmente due cose: che intendo definire ciò che è diverso da me (i barbari stanno al di là del Vallo) e che desidero proteggermi da ciò di cui ho paura (i mongoli vanno tenuti oltre la Muraglia…). E quasi sempre, quando sono di fronte a un muro, sono sul confine che somma entrambi questi sentimenti: metto un muro fra me e qualcosa che voglio negare, che non voglio pensare che esista, o che voglio pensare che non esista. È difficile pensare a tutto ciò quando immaginiamo i nazisti erigere le mura dei ghetti: eppure è in un certo senso salvifico farlo, perché a me piace pensare che i nazisti abbiano paura degli ebrei. Pensarlo non sposta una virgola di ciò che è accaduto ad Auschwitz o a Buchenwald o a Treblinka, non altera una sola cifra delle devastanti sequenze di numeri che perimetrano il cimitero dell’Olocausto, ma mi rovescia la prospettiva, mi rivolta come un calzino quella conclamata passività ebraica davanti alla persecuzione che si dissolve nell’infinità delle vicende individuali, mi rende l’immagine degli ebrei come collettività, come popolo. Mi piace pensarlo: i nazisti hanno paura degli ebrei, e c’è ragione di pensarlo, perché lo studio delle teorie razziste ce lo insegna: gli ebrei sarebbero l’unica razza che può assurgere al livello di antagonista di quella ariana. Sono gli unici ad aver mantenuto nei secoli la propria identità a dispetto di ogni migrazione, di ogni tentazione di meticciato. E, diciamolo, sono molto più bravi degli ariani, in questo: hanno difeso la propria cultura senza un attimo di cedimento e con un ac38
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canimento senza eguali, proteggono da sempre l’endogamia – e dunque la purezza genetica – lottando all’arma bianca, sempre in bilico sul limitare della discriminazione femminile. I tedeschi hanno paura degli ebrei: al fondo dei campi di concentramento e dei loro giganteschi forni crematori c’è l’incubo che i morti nei loro sepolcri possano ricomparire come spiriti e attirare nuovi olocausti, futuri pellegrinaggi: rifiutare la sepoltura al nemico vuol dire, come per gli antichi sciamani, annientarlo, farlo scomparire senza lasciar traccia, senza ricordo. È un atteggiamento da Caino, adottato significativamente non solo verso gli ebrei, ma anche verso le vittime della “Notte dei lunghi coltelli”, quando nel giugno 1934 le SS eliminano le camicie brune di Ernst Röhm: quando non se ne può proprio fare a meno, ai parenti non sono consegnate nulla più che le ceneri degli assassinati. Himmler, al congresso dei Gauleiter a Poznam, proprio nell’agosto del 1944, ricorderà, al proposito dei nemici eliminati in quella faida, che furono sepolti tanto in fretta da lasciar loro addosso la croce da cavaliere. L’indomani si diede ordine di disseppellire i cadaveri e bruciarli, spargendone poi le ceneri per i campi, affinché non ne restasse il minimo ricordo in una tomba o in qualunque altro luogo. Himmler ha talmente paura che vuole incatenare il morto perché non risorga. I tedeschi hanno paura degli ebrei e fanno bene, ad avere paura, perché alla fine la guerra la “vinceranno” proprio loro: pagheranno un prezzo che non esistono superlativi per definire, ma perdio, vinceranno. In una sorta di assurda nemesi, saranno loro i veri, definitivi trionfatori. E la Germania dovrà pagare gli interessi al tribunale della Storia e al senso di giustizia umano per il resto dei suoi giorni… 39
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Ma mentre decine di migliaia di mattoni si vanno a incastrare uno sull’altro a tagliare fuori 403 ettari dal resto della città, tutto questo non si vede: sono gli ebrei a vivere nel terrore, e gli occupanti nazisti a disporre di Varsavia con la prepotenza di chi apparentemente non ha nulla da temere perché sembra invincibile. 403 ettari. Si tratta di un’area di modeste dimensioni: pochi palazzi alti al massimo cinque piani. La densità abitativa è spaventosa: circa 100.000 persone per chilometro quadrato. Dal ghetto niente e nessuno entra o esce senza il permesso della polizia nazista. Ad organizzarlo viene chiamato Adam Czerniàkow: ha sessant’anni, ha studiato in Germania. Prima della guerra ha coltivato qualche ambizione politica, ma non di alto livello. Nell’ottobre del 1939 questo tranquillo borghese viene convocato presso la sede della Gestapo di Varsavia. Trascorre insonne la notte precedente tormentato da mille congetture: “Cosa vorranno da me i nazisti…?”. Gli viene ordinato di diventare presidente del “Consiglio ebraico” e di nominare un comitato di 24 persone, lo Judenrat, unica autorità riconosciuta dal governo d’occupazione germanico, che si trasforma in una macchina burocratica che deve occuparsi di ogni cosa: alimentazione, educazione, sicurezza e soprattutto lavoro. Ma già nel maggio 1940 l’allora comandante delle SS e della Polizia di Sicurezza del Governatorato Generale, Jurgen Stropp, aveva sostenuto che il numero degli ebrei concentrati nel ghetto rappresentava un problema serio. Erano troppi. La soluzione che sarà inizialmente adottata sarà quella di ucciderne per fame il maggior numero possibile. Soluzione 40
Il ghetto
perfettamente consona alle aspettative hitleriane. In proposito non ci sono dubbi. La ripartizione delle calorie spettanti ogni giorno agli abitanti di Varsavia è fissata per decreto e stabilisce che i cittadini sono divisi in tre gruppi etnico-razziali: tedeschi, polacchi ed ebrei. Ai tedeschi spettano ogni giorno 2.613 calorie, ai polacchi 669, agli ebrei del ghetto 184. Se consideriamo che il fabbisogno calorico medio per un essere umano adulto nelle confortevoli e ottimali condizioni medie di vita odierne è indicativamente di 2.500 calorie al giorno, risulta evidente la prima forma del progetto di sterminio. Poi c’è il tifo petecchiale: prospera nelle aberranti condizioni igieniche e nella promiscuità obbligata in cui vivono gli ebrei e, combinato alla fame e al freddo (in inverno si arriva anche a -20°, la temperatura media invernale oscilla fra i -10° e gli 0°), elimina nel corso del ’42 il 16% della popolazione. Col pretesto delle epidemie, viene proibita la ricezione di pacchi alimentari. Nel gennaio del 1942 sono registrati 5.123 decessi, nel maggio 3.363. Ma non basta. Il 22 luglio 1942 Adam Czerniàkow viene convocato di nuovo al comando della Gestapo. Altra notte insonne. “Cosa vorranno ancora da me i nazisti…?”. Altri ordini. Gli viene comunicato che a partire dall’indomani e per ogni giorno seguente deve fornire 6.000 persone da “evacuare” verso est. Czerniàkow riceve molteplici garanzie che non vi è alcuna deportazione in atto. Ma Adam Czerniàkow non è uno stupido. Il 23 luglio, seduto alla sua scrivania, scrive l’ultima pagina del suo diario: “Sono le tre del pomeriggio. In questo momento sono pronti a partire in 4.000. Alle 16 secondo gli ordini dovranno essere 6.000. Non c’è altra via d’uscita: devo morire”. 41
Varsavia 1944
Czerniàkow chiude il diario e spezza tra i denti una fiala di cianuro. Si uccide come faranno gli alti gerarchi nazisti al crollo del Reich. Può anche succedere che i membri delle razze inferiori muoiano come i semidei ariani: la morte ci rende uguali davanti a Dio, recitano le Scritture. Nei 52 giorni di deportazione, 253.871 abitanti del ghetto sono deportati verso i campi di sterminio. DEPORTAZIONI DAL GHETTO DAL 22 LUGLIO AL 21 SETTEMBRE 1943 Luglio
Deportati
Agosto
Deportati
Settembre
Deportati
22
6.250
1
6.220
3
4.609
23
7.300
2
6.276
4
1.669
24
7.400
3
6.458
6
3.634
25
7.530
4
6.568
7
6.840
26
6.400
5
6.623
8
13.596
27
6.320
6
10.085
9
6.616
28
5.020
7
10.672
10
5.199
29
5.480
8
7.304
11
(*) 5.000
30
6.430
9
6.292
12
4.806
31
6.756
10
2.158
21
2.196
15
3.633
16
4.095
17
4.160
18
3.926
19-24
(*) 20.000
25
3.002
26
(*) 3.000
totale
253.871
27
2.454
(*) stima
In un primo momento, in realtà, i gerarchi nazisti avevano pensato di utilizzare il territorio polacco per ammassarvi tutti gli ebrei del Reich, facendone una sorta di immenso ghetto, così da liberare la propria patria dalla 42
Il ghetto
“razza inferiore”. Ma le esigenze dell’industria bellica germanica si erano fatte via via più pressanti, richiedendo sempre maggiore manodopera. La prospettiva, così cambia: si rinchiudono gli ebrei e gli altri “subuomini” (zingari e disabili) in campi di concentramento dove dovranno lavorare per la macchina bellica del Reich fino a distruggersi. Il 20 gennaio 1942, nel corso di una conferenza di alti funzionari e comandanti delle forze dell’ordine, Reinhard Heydrich – secondo solo a Himmler nella gerarchia delle SS – fornisce la più feroce traduzione in pratica della teoria dei “due piccioni con una fava”: “Nello sviluppo della soluzione finale gli ebrei devono essere trasportati ad est per usarli come manodopera. In grandi squadre, distinti per sesso, gli ebrei abili al lavoro devono essere trasportati in quelle regioni e utilizzati per la costruzione di strade, lavoro che ne causerà certamente l’eliminazione per via naturale della maggioranza. Coloro che sopravviveranno fino alla fine, corrispondendo evidentemente alla parte di una maggiore forza di resistenza, andranno trattati di conseguenza, cioè eliminati, perché costoro rappresentando il risultato di una selezione naturale, costituirebbero il nucleo di un nuovo sviluppo dell’ebraismo”19. Chi non è da subito in grado di lavorare (anziani, ammalati, bambini, deperiti…), come sottolinea il governato19
La citazione è tratta da Furio Colombo-Vittorio Pavoncello, Hitler non è mai esistito. Un memorabile oblio, Torino, Celid, 2018, pagg. 6364. Per approfondimenti sulla Conferenza di Wannsee, si può vedere Peter Longerich, Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee, Torino, Einaudi, 2018. 43
Varsavia 1944
re della Polonia Hans Frank, deve essere considerato alla stregua di una “inutile bocca da sfamare”. E qui sorge un problema tragicamente “tecnico”. Inizialmente le fucilazioni di massa sono il principale strumento di eliminazione, ma ben presto si nota che vanno inevitabilmente a turbare l’equilibrio psichico di chi le esegue: sono inoltre economicamente svantaggiose a causa dell’alto numero di munizioni che portano a “sprecare”. Per questo motivo sia Himmler sia Heydrich si prodigano per trovare soluzioni più “economiche” e funzionali. Si decide, di conseguenza, di attivare a Chełmno (una cittadina a circa 250 chilometri a nord-ovest di Varsavia) un sistema di camere a gas mobili: si tratta di camion chiusi ermeticamente nei quali viene immesso il monossido di carbonio del tubo di scarico. Ma anche questo strumento si rivela dispendioso e complicato per eliminare centinaia di migliaia di persone. Nel 1941 già si provano ad impiegare iniezioni di fenolo, acqua ossigenata o benzina: la media degli uccisi è di cento al giorno. Ma tutto questo, agli inizi del 1943, è già drammaticamente superato: l’universo concentrazionario è ormai stato allestito, ed è pronto ad accogliere anche gli ebrei polacchi. L’operazione di svuotamento definitivo del ghetto inizia il 6 settembre. La polizia ebraica percorre le strade annunciando che gli ebrei rimasti devono presentarsi nel quadrilatero formato da via Mila, via Lubecki, via Smocza e via Niska. Ancora una volta gli ebrei ubbidiscono. Sfilano in mezzo ad un cordone di SS armate di fruste e di baionette e vengono avviati ai treni; 253.871 abitanti del ghetto sono deportati verso i campi di sterminio. Rimangono 35.000 lavoratori, i ‘fortunati’ che ottengono di essere insediati in una zona del ghetto che viene 44
Il ghetto
denominata ‘il calderone’, e circa 25.000 persone che si sottraggono nascondendosi ai rastrellamenti. Dopo lo svuotamento del ghetto, così, a Varsavia resteranno soltanto 60 mila ebrei. Bisogna immaginarsi di partire in 380 mila e poi ritrovarsi in 60.000. Anche il potere della auto-illusione, a un certo punto, viene meno. Io me li immagino, che si guardano in faccia, e sono costretti a dirselo, che ci sono più modi di morire. Non uno solo. Non solo per mano degli altri. Non solo andando passivamente verso un carro piombato tra due file di fruste e baionette. Non tra i Raus! delle SS, questa volta. Non tra i latrati incattiviti dei cani della Gestapo. Così, il 18 gennaio 1943 le truppe tedesche entrano un’ennesima volta nel ghetto, ma questa volta – ed è la prima volta! – il movimento di resistenza ebraico, lo ZOB, che da subito si era organizzato all’interno del ghetto, reagisce. L’impatto politico-psicologico è fortissimo, sia sui polacchi sia sui tedeschi: non si era mai visto che gli ebrei opponessero resistenza organizzata. Arrivano giorni di confusione e disorientamento tra i nazisti, poi aumentano le truppe di repressione: continuano i rastrellamenti, ma anche le azioni della resistenza ebraica, con la tecnica del mordi e fuggi. Himmler va su tutte le furie. Il 16 febbraio scrive una lettera al capo delle SS Wilhelm Krüger: “Ordino di distruggere il ghetto di Varsavia dopo aver trasferito da là il campo di concentramento… Un piano generale per la distruzione del ghetto dovrebbe venirmi sottoposto; in ogni caso, dobbiamo arrivare a una situazione in cui l’area residenziale, che accoglie45
Varsavia 1944
va 500.000 Untermenschen [sottouomini], … sparirà completamente e la città di Varsavia, col suo milione di abitanti, da sempre un centro di agitazione e di ribellione, dovrebbe ridursi di dimensioni”20.
I tedeschi intervengono con azioni e retate nel ghetto, e pensano ogni volta di esserne venuti a capo, ma non è mai così: i rifugi dei partigiani sono spesso praticamente introvabili se non su soffiata (bunker, cunicoli, fogne, rifugi… non per nulla la vicenda sarà raccontata nel 1957 in un memorabile film di Andrzej Waida intitolato proprio Kanal, fogne). Ci si accorge che in fondo Himmler l’ha vista giusta: bisogna far saltare, bruciare, distruggere, per esser sicuri di aver debellato le cellule di resistenza. Ma non è senza significato che gli insorti non elaborino alcun piano di ritirata. A differenza di quanto accade altrove, dove si pianifica la rivolta per fuggire dal ghetto, qui si vuole morire difendendo il ghetto metro per metro: difenderlo, che assurdità. Siamo sempre lì. Si può sguainare la sciabola, dare di speroni e andare incontro ai panzer. Domenica 19 aprile, giorno della Pasqua ebraica, si vuol fare un regalo al Führer: l’indomani è il suo 53° compleanno. Si farà piazza pulita. Ai chiarori dell’alba, i tedeschi entrano nella “zona residenziale ebraica” in assetto di guerra. Ha così inizio la sanguinosa distruzione del ghetto, la Grossaktion diret20
Cfr. Trials of War Criminals Before the Nuernberg Military Tribunals Under Control Council Law No. 10, Nuernberg, October 1946-April 1949, Washington, US Government Printing Office, 1950, pp. 621-622. 46
Il ghetto
ta da Jürgen Stroop, SS-und Polizeiführer del distretto di Varsavia. Le truppe avanzano in due colonne. La prima imbocca via Nalewki e marcia verso l’incrocio con via Glesia e via Franciszkanska. La seconda percorre via Zamenhof, supera l’incrocio con via Gesia e prosegue. Una parte gira a sinistra lungo via Wolynska e l’altra arriva all’incrocio con via Mila. La colonna che marcia lungo via Zamenhof ha alla testa la polizia ebraica. Mordecai Anielewicz, comandante della ZOB, dà l’ordine ai gruppi di combattimento di lasciar passare gli ebrei e di colpire i tedeschi. Sono passate da poco le 6 quando da uno dei palazzi viene lanciata una prima bomba a mano che esplode nel centro della colonna tedesca. Dalle finestre gli uomini della ZOB iniziano a sparare e a lanciare granate e bottiglie incendiarie. Benché la sorpresa sia totale, i tedeschi riescono a ritirarsi. Contemporaneamente, all’incrocio tra via Nalewki e via Gesia, le altre unità della ZOB aprono il fuoco seminando anche in questo caso il panico tra le truppe degli occupanti. Tuvia Borzykowski, che presidia questa area, ricorda così: “Alle 6 del mattino l’assedio del ghetto era stato già quasi completato. I primi reparti armati tedeschi stavano già marciando sul territorio del ghetto in direzione di via Nalewki, avvicinandosi al triangolo formato dalle vie Nalewki, Gesia e Franciszkanska. Non aspettammo che il nemico iniziasse la carneficina e dalle nostre postazioni scaricammo una pioggia di pallottole, granate e bombe a mano. Be’, i nostri prodotti casalinghi non ci delusero: esplosero come dovevano ed eseguirono bene il loro compito, lasciando sulla strada molti tedeschi morti o fe47
Varsavia 1944
riti. Fu il nostro primo scontro, le compagnie tedesche si frazionarono in gruppi minori. Strisciavano lungo i muri, non osando portar via i compagni feriti che giacevano qua e là nella strada. Passati i primi momenti di sgomento, la risposta tedesca non si sarebbe fatta attendere. Così allo scoperto erano esposti al nostro tiro; quanto a noi, avevamo il muro come rifugio e protezione”21.
Seguono venti giorni di lotta impari – con armi spesso di produzione casalinga in mano a un piccolo esercito polacco composto in larghissima misura da civili contrapposto a forze soverchianti – in cui i tedeschi devono però sfiancarsi nella conquista all’arma bianca o nella completa distruzione di ogni postazione avversaria. Ma ogni giorno che passa gioca a favore degli occupanti. I primi giorni di maggio segnano la disarticolazione finale della capacità di resistenza della ZOB. Ormai il cerchio si stringe intorno ai combattenti, che non possono più sottrarsi agli attacchi spostandosi di rifugio in rifugio. Il comando della ZOB con Anielewicz trova riparo in un bunker costruito da contrabbandieri e malviventi del ghetto in via Mila 18: una costruzione stupefacente, dotata di luce elettrica, di un pozzo, di una cucina, di ambienti per dormire e persino per leggere. Il capo dei contrabbandieri, Shmuel Ascher, offre riparo a tutti i combattenti scampati. All’interno ci sono così circa trecento persone, tra le quali un centinaio di membri sopravvissuti della ZOB. È qui che si svolge l’ultima battaglia di Anielewicz e dei suoi: ci vorranno due giorni, per stanarli. 21
Israel Gutman, Resistance: the Warsaw Ghetto Uprising, Boston, Houghton Mifflin Company, 1994, pag. 205.
48
Duemila anni prima
L’8 maggio il bunker viene definitivamente circondato dai nazisti. Si spara da ambo le parti. Il tentativo di irruzione fallisce: nell’imboccatura e nei corridoi del bunker si ingaggia una lotta dove la superiorità numerica non ha più alcun valore. Dopo due ore di combattimenti feroci i nazisti si ritirano. I genieri tedeschi iniziano a lanciare nelle aperture del tunnel candelotti fumogeni. Nel bunker non si riesce più a respirare. Ai polacchi viene ordinato di non cadere vivi nelle mani dei nazisti. Anielewicz spara alla fidanzata Mira per poi suicidarsi a propria volta. Lutek Rotblat uccide la sorella e la madre prima di spararsi. Nel buio e nell’oscurità provocata dai fumogeni uno dopo l’altro gli uomini e le donne della ZOB si tolgono la vita. Uccidersi per non finire nelle mani del nemico. Un gesto finale e drammatico ma che può anche conservare un tragico retrogusto di estrema nobiltà. Un gesto non inedito nella storia dell’Ebraismo. Come puoi sottrarti alla suggestione che i combattenti del ghetto di Varsavia si siano sentiti ispirati anche da ciò che era accaduto duemila anni prima, durante la prima guerra giudaica (66-70 d.C.), quando i ribelli zeloti asserragliati a Masada, ultimo avamposto della resistenza anti-romana in Palestina, avevano concluso la propria sventurata lotta per la libertà dandosi collettivamente la morte? 49
Varsavia 1944
Masada – antica fortezza di cui ancora esistono le emozionanti rovine – era stata voluta da Erode il Grande durante il proprio regno sul protettorato romano della Guidea alla fine del primo secolo avanti Cristo (37 a.C. – 4 a.C.). Posta su un ripido sperone di roccia a 400 metri di altitudine sul Mar Morto, nella Palestina sudorientale, la rocca era circondata da un chilometro e mezzo di mura alte 5 metri e larghe 3 e mezzo, intervallate da 38 torri di 22 metri. Unico punto di accesso alla fortezza, articolata su tre livelli, era il “Sentiero del serpente”, un tracciato a strapiombo sul precipizio talmente tortuoso – come racconta lo storico Giuseppe Flavio, autore de La guerra giudaica – da impedire a un soldato romano “di poggiare contemporaneamente entrambi i piedi”. Così concepita e realizzata, Masada era un luogo estremamente impervio, e perciò stesso inespugnabile. Almeno sulla carta. Nell’estate del 66 la fortezza erodiana venne conquistata da un migliaio di Sicarii in lotta contro l’esercito romano guidato da Gaio Cestio Gallo, rimpiazzato in seguito da Nerone con il futuro imperatore Vespasiano, inviato in Palestina proprio per sedare la rivolta nella provincia ribelle. I Sicarii (da sica, termine latino riferito a una particolare tipologia di pugnale utilizzato tipicamente dai gladiatori traci, ma anche impiegato di frequente per gli omicidi politici) erano la frangia più estrema dei già di per sé estremisti Zeloti, terroristi politici ante litteram, il cui più celebre esponente passato alla Storia è forse il Barabba immortalato dai Vangeli. Indipendentisti senza se e senza ma, gli Zeloti aspiravano a una Palestina completamente libera da occupanti di ogni sorta: non doveva esserci spazio per i Romani, nel regno di Giuda. 50
Duemila anni prima
Dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio a opera di Tito (70 d.C.), gli ultimi ribelli guidati dal condottiero Eleazar ben Yair (Lazzaro, figlio di Giairo) ripiegarono su Masada, tra i pochi avamposti ancora invitti della provincia. Tre anni dopo – espugnate tutte le residue sacche di resistenza sul territorio – la Legio X Fretensis guidata da Lucio Flavio Silva mosse contro la rocca per estirpare definitivamente le ultime radici della rivolta. Settemila militari ottimamente addestrati contro poche centinaia di ribelli: una sfida impari, che già anticipava un drammatico parallelo con la vicenda del 1943, destinata tuttavia a durare molti mesi, fin quando nel marzo del 73 gli assediati – ormai consapevoli della imminente disfatta – decisero di estrarre a sorte dieci tra loro col compito di passare a fil di spada tutti gli altri – uomini, donne e bambini – e poi togliersi la vita. Dei 967 occupanti della fortezza si racconta che riuscissero a salvarsi solo in sette: due donne e cinque bambini scampati al massacro nascondendosi nei cunicoli sotterranei destinati alla fornitura dell’acqua potabile. Quando i Romani entrarono finalmente nella fortezza, si aprì davanti ai loro occhi uno spettacolo terrificante: tra gli edifici in fiamme della antica rocca erodiana una distesa interminabile di corpi senza vita. In quel momento – racconta Giuseppe Flavio – “ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto”22. 22
Cfr. Flavio Giuseppe (a cura di Giovanni Vitucci), La guerra giudaica, Milano, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 1974, Vol. II, pagg. 481-509. 51
Varsavia 1944
Quel genere di ammirazione non sarà invece provato dai nazisti di Varsavia, come dimostra il ricordo insieme algido e fiero di Jürgen Stroop a guerra ormai finita: “L’8 maggio fu una giornata importante per me. Quel giorno riuscimmo ad espugnare il bunker di via Mila. Era il comando della ZOB, largo, profondo, ben fortificato, con molte entrate e vie di fuga verso le fogne con una rete di passaggi sotterranei scavati dagli ebrei. Le mie truppe erano del tutto prive dell’esperienza necessaria per un combattimento corpo a corpo. Dopo una dura, lunga lotta riuscimmo finalmente a conquistare il bunker catturandone una sessantina”.
Quasi tutti gli occupanti si sono suicidati, per non cadere in mano nazista. Pochi sono usciti dal ghetto attraverso le fogne. È la fine dell’insurrezione. La distruzione del ghetto è simbolicamente chiusa con l’esplosione della sinagoga ebraica. In un telegramma segreto trasmesso al suo diretto superiore Wilhelm Krüger, Stroop scrive: “Il quartiere ebraico della città di Varsavia non esiste più. La Grossaktion ha avuto termine alle ore 20,15 con l’esplosione della sinagoga [...] La cifra totale degli ebrei catturati e annientati con ogni certezza è di 56.065”23. 23
Il telegramma si può ora trovare tradotto in inglese sul sito “The Holocaust History Project”: https://phdn.org/archives/holocaust-history.org/works/stroop-report/htm/strp075.htm.
52
Duemila anni prima
56.065, su 60 mila. Stroop durante il processo ricorderà così quel momento: “Io e il mio stato maggiore stavamo ad una certa distanza. Avevo tra le mani il comando elettrico che avrebbe fatto detonare tutte le cariche simultaneamente. Urlai «Heil Hitler» e spinsi il bottone. Con un rumore di tuono ed una esplosione assordante si innalzò una colonna di fumo verso il cielo come un indimenticabile tributo al nostro trionfo contro gli ebrei. Il ghetto di Varsavia non esisteva più. La volontà di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler era stata fatta”24.
Cosa resta a quel punto del ghetto? Lo descrive bene Roman Polanski, nel suo film del 2002 Il pianista, con quella macchina da presa che segue il protagonista mentre – dall’esterno – si arrampica faticosamente sul muro, e poi… poi l’obiettivo scavalla al di là, e quello che vedi è niente, una distesa infinita di niente, di macerie violate. E il ghetto, fisicamente, non esiste più.
24
K. Moczarski, Conversations With an Executioner, Upper Saddle River, NJ: Prentice-Hall, 1981, p. 164. 53
L’insurrezione
E qui, la storia potrebbe anche finire, perché è talmente allucinante quanto è accaduto fino ad adesso che sembra di non poter aggiungere altro. E infatti qui, normalmente, il resoconto dei manuali di storia si arresta. Qui, nell’insieme, si ferma anche la memoria collettiva mondiale. Perché non si ricorda altro, dopo l’agonia del ghetto ebraico. Poche righe. 9 parole sui testi di studio. E invece qui la nostra storia inizia per davvero. Perché se a noi sembra di non poter aggiungere nulla, i nazisti non la pensano così. Non basta che un’intera fetta del centro storico della città non esista letteralmente più. Non basta ai tedeschi. Ma in un certo senso non basta neppure ai polacchi. Perché dopo una cosa del genere sei ferito, sei ferito a morte. Potrebbe anche bastarti. Potresti dire “basta...”, “basta, ho sofferto abbastanza. Ho dato. Il tribunale della Storia non avrà nulla da rimproverarmi se ora mi fermo, se mi lascio andare, se attendo che lei, la Storia, mi passi sopra, e vada come vada, non ce la faccio più”. L’hanno fatto in tanti, e l’occupazione tedesca è passata anche per loro. L’hanno fatto in tanti, e non sono stati meno eroici. Ma questi sono diversi dagli altri. Sono polacchi. È che, a me, gli eroi invulnerabili non sono mai stati simpatici. Bella forza far l’eroe se sei invulnerabile. Se il 55
Varsavia 1944
massimo della tua preoccupazione è proteggerti il tallone. Dirlo è ormai diventato piuttosto scontato, ma Achille non mi è mai piaciuto, e neanche i supereroi troppo “super”. Così non riesco a non schierarmi per gli insorti polacchi, che stanno per fare, in quel momento, nel 1944, una cosa senza senso, politicamente inopportuna, diplomaticamente senza scampo, militarmente suicida, strategicamente quasi incomprensibile. Ma la fanno lo stesso. Trascinandosi la ferita aperta del ghetto. Harakiri. I varsaviani, una popolazione di samurai: non è così, ma così, per un attimo, mi piace pensarla. E siccome non è esattamente così, vediamo come è andata. La resistenza polacca non comunista (l’Armia Krajowa di cui si è detto), in accordo con il governo polacco a Londra (si vuole giocare d’anticipo sull’occupazione sovietica, si vorrebbero mettere le condizioni per un futuro Stato polacco indipendente, ancora scalda il cuore il ricordo di quel po’ di Belle Époque che si è goduto), inizia l’insurrezione di Varsavia. Sono le cinque del pomeriggio del 1° agosto del 1944. Ma già il 5 agosto l’azione offensiva passa nelle mani delle riserve tedesche inviate da Himmler. Sono forze corazzate di pronto impiego: è una mossa imprevista dagli insorti ma che comincia a dirci qualcosa su quello che sta accadendo, perché è mai possibile che nell’estate del 1944, nello sfacelo generale ormai immanente, gli alti vertici militari di Berlino non trovino davvero un impiego migliore cui destinare le proprie truppe di riserva? È sensato che le “sprechino” proprio per reprimere un’insurrezione polacca? Cominciamo a chiedercelo. 56
L’insurrezione
E come vanno le cose? I tedeschi vantano una schiacciante supremazia di mezzi, cui gli insorti possono solo opporre la forza della disperazione, la conoscenza minuziosa della propria città, la volontà di difendere ogni metro. A loro favore gioca anche il contemporaneo impegno tedesco a contenere l’avanzata sovietica, ormai alle porte di Varsavia. Sia per l’eroismo e la determinazione dei varsaviani, sia per le scelte strategiche dei tedeschi, l’insurrezione viene domata solo dopo 63 giorni. 63 giorni, capite? Un’eternità. Himmler dà precise istruzioni di non fare prigionieri: “Bisogna incendiare e far saltare ogni gruppo di case”. Vengono formate squadre speciali addette alla demolizione sistematica di tutto ciò che resta in piedi. Già la fase di repressione dell’insurrezione coincide dunque con l’avvio della distruzione di Varsavia. Dopo 63 giorni, il comandante generale dell’Armia Krajowa, appurato che né le razioni alimentari né le munizioni sono più sufficienti, decide che l’insurrezione deve concludersi. La mattina del 2 ottobre gli insorti sottoscrivono l’atto di capitolazione. Il trattato di resa viene stipulato nel quartier generale nazista di Ożarów: il contraente plenipotenziario di parte tedesca è il ‘padrone di casa’, l’Obergruppenführer Erich von dem Bach-Zelewski; per la parte polacca firmano il colonnello Kazimierz Iranek-Osmecki e il tenente colonnello Zygmunt Dobrowolski. Si consegnano ai tedeschi 11.668 insorti; in mani tedesche rimangono 1.067 fucili, 467 pistole mitragliatrici, 633 pi57
Varsavia 1944
stole, 7 mitragliatrici pesanti, 49 mitragliatrici leggere, 54 moschetti anticarro e 33 lanciagranate. La popolazione viene costretta ad abbandonare la città. Tutti i cittadini superstiti, oltre 600 mila, vengono deportati dalle truppe tedesche nei campi di concentramento passando per il campo di transito allestito ad hoc il 6 agosto 1944 negli ex stabilimenti di riparazione del materiale rotabile di Pruszkow, villaggio a circa 20 chilometri a sud-ovest di Varsavia (Durchganglander 121): dei 55 mila internati in campi di concentramento già in agosto-settembre, 13 mila finiranno ad Auschwitz-Birkenau25. Le operazioni di evacuazione – iniziate il 3 ottobre all’indomani della firma della resa – termineranno il 7 ottobre26. Non si conosce e non si conoscerà mai con esattezza l’entità numerica delle perdite subite dall’esercito degli insorti e dalla popolazione di Varsavia. Confrontando le stime raccolte dagli storici sulla base delle fonti dirette e indirette, il numero di morti e dispersi si può tuttavia indicativamente quantificare in 15.200 per i polacchi e 16 mila per i tedeschi. I feriti saranno 22-25 mila tra i polacchi e 9 mila tra i nazisti. Drammatico è il dato sulle
25
Cfr. Alexandra Richie, Warsaw 1944: Hitler, Himmler and the Warsaw Uprising, New York, Farrar, Straus & Giroux, 2013, pag. 606; Joanna K.M. Hanson, The Civilian Population and the Warsaw Uprising of 1944, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pagg. 86-87; Samuel W. Mitcham Jr., The German Defeat in the East 1944-45, Mechanicsburg, Stackpole Books, 2007, pag. 112. 26
Cfr. Wlodzimierz Borodziej, The Warsaw Uprising of 1944, Madison, University of Wisconsin Press, 2006, pag. 139; Severin Gabriel, In the Ruins of Warsaw Streets, Jerusalem, Gefen, 2005, pag. 3. 58
L’insurrezione
vittime civili, che oscillerebbero tra le 200 e le 250 mila27. Un’ecatombe. Il fatto è che l’insurrezione può essere considerata una disfatta militare non solo perché le forze degli insorti vengono annientate ma anche perché le perdite subite non sono per nulla proporzionate ai risultati conseguiti. L’insurrezione non influisce minimamente sulla rottura della difesa tedesca sulla Vistola e non accelera, nemmeno di un’ora, la liberazione di Varsavia da parte dei sovietici. È inoltre una disfatta politica perché alla sconfitta segue una fase di disorientamento che costerà caro. È anche una disfatta materiale: l’affermazione che Varsavia sarebbe stata distrutta ugualmente, indipendentemente dall’insurrezione, non sembra del tutto giustificata (per quanto si debba ricordare il piano di trasformazione di Varsavia presentato a Hans Frank già nel 1941). In ogni caso l’insurrezione fornisce ai tedeschi il pretesto e lo stimolo decisivi per radere al suolo la capitale.
27
Cfr. fra gli altri, Cfr. Ian Baxter, The Warsaw Uprisings 1943-1944. Rare Photographs from Wartime Archives, Barnsley, Pen & Sword Books, 2021, pag. 117. 59
Il delirio distruttivo finale
Perché questo, lo sappiamo fin dall’inizio, è quel che succede. A Varsavia, nella piazza del Mercato, la piazza centrale della Città Vecchia, c’è il Museo Storico della città di Varsavia. È stato ristrutturato abbastanza recentemente ed è molto cambiato rispetto al luogo fin troppo semplice e modesto che era stato allestito nel Dopoguerra. Ma per quanto modernizzato e ampliato, rimane impressionante perché occorre valutarlo in termini comparativi: per quanto grande, cioè, quel museo è troppo piccolo se pensi che deve contenere tutta la storia di una città come Varsavia. Quando lo realizzi, capisci che tutto ciò che è messo a disposizione dei visitatori è comunque poco, terribilmente poco, perché tutto quel che c’è – che è rimasto – è lì. È che ai varsaviani non è rimasto praticamente niente. Niente. Con quel che è rimasto, ci hanno fatto un museo. Uno. Comunque. Alcune sale del museo sono dedicate all’insurrezione del 1944 e sono le più agghiaccianti. In una teca, quando l’ho visitato io ormai diversi anni fa, prima della ristrutturazione, c’era la prova documentale di un ordine sintetico e perentorio. Di Hitler. Un ordine che Ludwig Fischer (a capo del governatorato) traduce così in un telegramma datato 11 ottobre: 61
Varsavia 1944
“Si deve ‘pacificare’ Varsavia, cioè ancora durante la guerra deve essere rasa al suolo, a meno che non lo ostacolino motivi militari connessi con la costruzione di fortificazioni. Prima del ripiegamento si devono portare via da Varsavia tutte le materie prime, tutti i tessuti e tutti i mobili”28.
Un telegramma. Capite? Un telegramma. Non c’è niente che addensi questa tragedia in una sintesi tanto concentrata. Un telegramma, appunto, è per definizione la forma di comunicazione scritta (e quindi di cui può rimanere traccia) più succinta e meno suscettibile di contro-argomentazione che l’uomo abbia inventato. In questo caso, il testo è decisamente più esteso della norma, ma… VARSAVIA DEVE ESSERE RASA AL SUOLO – STOP Un telegramma. Un buco nero. Quel telegramma è un buco nero della Storia. È un tale addensato di tragedia che se ci guardi dentro non vedi niente; se ti avvicini troppo, secondo me ti assorbe e finisci in un’altra dimensione. Uno va nel Museo storico di Varsavia e finisce davanti a un buco nero: chi l’avrebbe detto. Insomma, arriva questo telegramma del Führer e uno potrebbe non crederci che lo faranno veramente: voglio dire, di mettersi a radere al suolo una città. Non fosse altro perché è l’inverno del 1944, e tu puoi essere fanatico finché vuoi, imbevuto di proclami vittoriosi fino ad annegarci 28
Cfr. Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal – Nuremberg 14 November 1945-1 October 1946, Vol. VIII, Proceedings 20 February 1946 – 7 March 1946, Norimberga, 1947, pagg. 116-117. 62
Il delirio distruttivo finale
dentro, ma ormai non puoi non averlo capito. Almeno in qualche recondito meandro del tuo cervello e se non del cervello almeno del tuo cuore dovresti averlo capito che non ce n’è, che ormai è finita. E qualcuno, d’altra parte l’ha capito, se appena pochi giorni prima, il 20 luglio, hanno messo una bomba sotto al tavolo di Hitler, che ha le divinità del Valhalla proprio dalla sua e non si è fatto niente… E comunque, se anche ci hai creduto in quei deliri sullo spazio vitale, sulla guerra lampo, sulla conquista del mondo, sulla superiorità della razza, se anche ci hai creduto, ci sono gli anglo-americani che marciano dalla Normandia verso la Germania, e dalla Sicilia sono già arrivati a Roma, che l’Africa è già persa da tempo, mentre i russi, da Varsavia, li si vede con il binocolo… e la Wehrmacht già da un po’ non è più l’armata invincibile che per due anni ha dato tremiti di paura al mondo e fremiti di orgoglio alle Fräulein. Si mangia poco e male nell’esercito di Hitler, si viene riforniti saltuariamente, quando arrivano le truppe di rincalzo sono ragazzini, hanno facce spaurite sotto ad elmetti troppo grandi per loro, le uniformi cascano da tutte le parti su quelle spalle da uccellini, i capelli a spazzola biondi non sono più il rigoglioso grano ariano che cresce sulle menti della razza eletta, come raccontava la propaganda, ma spaurita erba di scarpata ferroviaria destinata ad essere maciullata dai treni della guerra. Insomma, dovresti averlo capito che è finita. E comunque sia, chi te lo fa fare di ubbidire a un ordine così? Perché loro, le forze tedesche di stanza a Varsavia, obbediscono al loro Führer. E non solo: siccome sono tedeschi, mica gente qualunque, si mettono a distruggere tutto con una metodicità tutta teutonica, diremmo fin quasi svizze63
Varsavia 1944
ra, se non rischiassimo di toccare la sensibilità degli elvetici, che si può dir quel che si vuole, ma almeno le loro fissazioni di rigore le esplicano in campi e con modalità più pacifiche. E siccome non si sa mai, che non si dica poi che non abbiamo obbedito, che le cose non le abbiamo fatte bene, ci si preoccupa anche di filmare il tutto e di mandare documentazione a Berlino. E noi oggi possiamo rivedere quello che succede anche grazie agli operatori della Wehrmacht, che girano una specie di snuff movie mentre massacrano il cadavere di quella che era stata una delle città più belle e vivaci dei primi anni del secolo. E, se mi passate il termine, è una fortuna che succeda, perché non ci sono parole per descrivere quello che accade. Io da un mucchio di tempo, da quando ho deciso di provare a raccontare questa storia, le sto cercando e sono arrivato alla conclusione che non esistono: si può enfatizzare fino alla nausea, si può ricorrere a tutti i superlativi di una lingua, ma le parole non ci sono. Bisogna vederla, questa cosa, o provare a immaginarsela, e riguardarsela dentro alla nostra mente. È l’unico modo. Ma c’è ancora qualcosa che mi lascia allibito. Le cose infatti vanno così: con l’Armata Rossa ormai a 15 chilometri da Varsavia e gli alleati che avanzano da ovest, i genieri tedeschi distruggono la città metro su metro con scientifica ostinazione, a forza di dinamite. La fanteria avanza incendiando le macerie crollate su morti e feriti, con le vampate dei potenti lanciafiamme. Vengono utilizzate micidiali bombe al fosforo ed esplosivo a scoppio multiplo e sono adoperati con meticolosa precisione i Goliath, piccoli carri armati carichi di esplosivo coman64
Il delirio distruttivo finale
dati a distanza. Ma appunto è soprattutto con la dinamite che si lavora. Con la dinamite e con le taniche di benzina. Ora: voi riuscite a immaginare quanta dinamite e quanta benzina ci vuole per distruggere Varsavia? Io è questo che ancora non riesco a capire: è tanti anni che lavoro a questo racconto, e ancora non sono riuscito a capacitarmene. L’esercito tedesco sta tirando gli ultimi, gli manca tutto, ogni giorno deve tamponare una nuova falla e cosa fa? Si mette a distruggere Varsavia. ‘Spreca’ migliaia di candelotti di dinamite, fiumi di carburante per distruggere una città fantasma. Ma voi cosa fareste? No, lo dico sul serio: voi cosa fareste? Mettereste la benzina nelle autoblindo e nei carri armati, no? Usereste i Goliath in operazioni belliche, organizzereste dei corpi di commandos che traversino la Vistola e minino con la dinamite i percorsi obbligati dell’Armata Rossa… Nein. Loro si mettono a distruggere Varsavia. E alla fine, quando finalmente i russi passano la Vistola, e i tedeschi se ne devono andare, sono costretti a interrompere il lavoro: sono ancora lì con in mano la loro bella lista redatta da una équipe di studiosi nazisti che hanno proceduto a inventariare monumenti e opere d’arte da demolire con assoluta precedenza per cancellare ogni traccia della cultura polacca. E in effetti gli resta indietro del lavoro, che per fortuna non si possono portare a casa per completarlo nel weekend. Ad esempio nel parco Lazenki c’è un delizioso palazzo sull’acqua con lo stesso nome che è rimasto in piedi. I tedeschi lo spogliano di tutto, statue, quadri, affreschi, stucchi, decorazioni… ma non fanno in tempo a farlo saltare. Quando sono andato a visitarlo era esposta la documentazione fotografica delle condizioni in cui 65
Varsavia 1944
l’hanno trovato i russi: un groviera, tutto perforato dagli alloggiamenti predisposti per alloggiare la dinamite. Perché i russi alla fine arrivano: il fiume è gelato, e non c’è neanche da fare troppa fatica a traversarlo. Arrivano. O meglio. Erano arrivati da tempo. Ma si erano fermati sulla riva est della Vistola. Per settimane Varsavia brucia e loro non muovono un dito. Si siedono sulle rive del fiume e ascoltano le esplosioni, osservano le nubi di polvere che si alzano, guardano le fiamme. Dall’altra parte mezzo milione di insorti si sta facendo massacrare e loro non fanno un plissée. Churchill e Roosevelt premono su Stalin perché intervenga e lui risponde che non vuole avere nessuna parte nella faccenda dell’insurrezione. Brutta cosa nascere vaso di coccio. “Che se la vedano loro, crucchi e polacchi”. Ma qui la faccenda è effettivamente politicamente complessa, perché… mica tutta colpa dei russi. Dal canto suo, Roosevelt non può certo andare a dire come stanno davvero le cose a Varsavia. Non può raccontare all’opinione pubblica che va a braccetto con uno che lascia trucidare i varsaviani per mero calcolo politico. Men che meno in un momento delicato come la campagna elettorale per la sua quarta rielezione alla Casa Bianca con sei milioni di potenziali elettori di origine polacca da tenersi cari. Insomma, per dirla con Arthur Schlesinger: “La soluzione delle sfere di influenza avrebbe creato difficili problemi interni nella politica americana. Roosevelt era consapevole dei sei milioni o più di voti polacchi nelle elezioni del 1944; ed era ancor più consapevole dell’attacco più ampio e profondo che ci sarebbe stato se, dopo essere entrato in guerra per bloccare la conquista 66
Il delirio distruttivo finale
nazista dell’Europa, avesse permesso che la guerra finisse con la conquista comunista dell’Europa Orientale”29.
Si tratta del resto di un problema non dissimile da quello che in quelle stesse settimane ci si pone sull’altra sponda anglofona dell’Atlantico: essendo la Gran Bretagna entrata in guerra per difendere l’indipendenza della Polonia dal totalitarismo nazista, l’idea di lasciare nelle mani di Stalin le sorti del Paese liberato non deve essere apparso come l’epilogo più coerente di un impegno bellico ormai quinquennale. A Londra, per di più, risiede come detto anche il governo polacco in esilio guidato da Stanisław Mikołajczyk; governo riconosciuto da inglesi e americani ma non dai russi, che invece sostengono il governo “amico” costituito in territorio polacco dal Comitato di Liberazione Nazionale nato nel luglio 1944 a Lublino. Una situazione che renderà ancora più intricata la soluzione della questione polacca e contribuirà a gettare le basi per la Guerra Fredda30. Ma comunque sia, si capisce molto del perché i polacchi – e i varsaviani più di ogni altro – guarderanno i russi sempre come il fumo negli occhi e questo probabilmente non è irrilevante per capire la posizione sempre tendenzialmente centrifuga assunta dalla Polonia nella Cortina di Ferro. Storia lunga, anche questa.
29
Cfr. Arthur Meier Schlesinger Jr, I cicli della storia americana, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1991, pagg. 254-255.
30
Cfr. Scipione Guarracino, Storia degli ultimi sessant’anni. Dalla guerra mondiale al conflitto globale, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pagg. 11-13. 67
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Al posto della città, alla fine, si erge un cumulo di 20 milioni di metri cubi di macerie. Si sono rasi al suolo fin i muri bruciati. Di circa un migliaio di edifici di valore storico ed artistico se ne salvano tra i 30 e i 60, dipende ovviamente dai criteri che si impiegano, ma comunque, in sostanza, una percentuale a mala pena del 5%31. Nella bellissima piazza del Mercato di cui si diceva poco sopra rimangono in piedi due soli palazzi: e quando si dice “due palazzi” si parla di due scheletriche facciate, nulla più di una angosciante maschera mortuaria di ciò che era vivo. Ancora oggi i varsaviani ve li indicano, quei due palazzi. Vengono distrutte 25 chiese, viene incendiato il Politecnico e la quasi totalità degli stabili dell’università; vengono distrutte 64 scuole medie e 81 scuole elementari, vengono date alle fiamme 14 biblioteche, tra cui la biblioteca nazionale, e vengono bruciati la maggior parte degli archivi. L’Archivio Centrale perde 1.400.000 unità, corrispondenti all’80% di perdite, l’Archivio degli Atti Antichi 600.000 unità, pari all’85%, l’Archivio del Tesoro 809.000 unità (100%), l’Archivio dell’Illuminismo 40.000 unità (100%), l’Archivio degli Atti Nuovi 1.200.000 unità (95%) e infine l’Archivio Comunale 363.000 unità (100%). Nella Biblioteca Zamoyski i tedeschi danno alle fiamme circa 100 mila tra stampe, monete, mappe, incisioni 31
Cfr. Janusz Kazimierz Kadowny, Nothing but Honor: the Story of the Warsaw Uprising 1944, Hoover Institution Press, Stanford University, pag. 211. 68
Il delirio distruttivo finale
ed atlanti antichi. Brucia quanto si era conservato della Biblioteca del Re di Polonia Sigismondo Augusto, una delle maggiori raccolte di diplomi in pergamena, assieme alle più antiche cronache polacche scritte da Dlugosz, Galle e Wincenty, Kadlubek. Due giorni prima che la città venga liberata, la Biblioteca Pubblica viene data alle fiamme, così come i suoi ricchi magazzini. La quasi totalità dei monumenti – quello a Chopin, per dirne uno, o la colonna di Sigismondo, altro simbolo della città – viene distrutta. Si vuole cancellare il ricordo anche visivo di un’identità nazionale. Secondo Adolf Ciborowski32, al termine dell’occupazione tedesca i danni inferti dai nazisti alla città saranno così ripartiti: % % % % % % % % % % % % %
Ponti stradali e ferroviari sulla Vistola 100% Teatri e cinema 95% Industrie 90% Strutture sanitarie 90% Monumenti storici 90% Infrastrutture tramviarie 85% Case 72% Scuole e Università 70% Alberi in parchi e giardini 60% Elettricità 50% Condutture gas 46% Forniture acqua 30% Strade 30%
32
Cfr. Adolf Ciborowski, Warsaw: a City Destroyed and Rebuilt, Varsavia, Interpress Publishers, 1968. 69
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E mentre a Dresda, Coventry o Rotterdam la distruzione avviene principalmente per via aerea, a Varsavia i danni causati dai bombardamenti sono, proporzionalmente, assai contenuti: qui siamo in presenza di qualcosa di diverso, e, per certi terrificanti aspetti, di unico. Qui non siamo neanche a Hiroshima o a Nagasaki. Perché Dresda, Coventry, Rotterdam, Hiroshima, Nagasaki sono tutti esempi di bombardamenti aerei (tanto tedeschi quanto alleati) di città nemiche non occupate. Varsavia nel 1944 è invece già in mano a chi la raderà al suolo: città ribelle sì, ma comunque occupata. Dopo il primo terribile bombardamento del settembre 1939, agli albori della guerra, va detto che la Luftwaffe torna a bombardare la città durante la rivolta dell’estate 194433: ma, dovrebbe oramai risultare chiaro, non sta lì il punto. Alla fine della guerra l’87% degli edifici è totalmente distrutto. Se ancora una cifra può tornare utile, stiamo parlando di oltre 10.000 edifici. Sparisce la storia intera di Varsavia! È distrutto sotto le macerie, divorato dagli incendi o trafugato il secolare patrimonio spirituale, culturale ed economico della città. Ma non solo della città, anche questo è il punto. Pensate a qualcosa del genere che accadesse a Roma. Le perdite ammontano al 70% del patrimonio nazionale. E le perdite materiali non finiscono qui, perché in previsione della ritirata tedesca dalla Polonia, gli insorti 33
Cfr. Jeffry M. Diefendorf, Rebuilding Europe’s Bombed Cities, New York, St. Martin’s Press, 1990, pagg. 77-80.
70
Il delirio distruttivo finale
avevano raccolto dai lontani e vicini dintorni di Varsavia opere d’arte, oggetti storici e beni di grandissimo valore. Si era diffusa l’opinione che, conservato in una grande città, questo ricco patrimonio sarebbe stato meno esposto al rischio di distruzioni e saccheggi. Secondo le disposizioni tedesche, ai polacchi deportati è invece consentito tenere con sé unicamente piccoli oggetti personali, in quantità tale da non ostacolare il movimento. Tutto il resto viene lasciato e sarà distrutto. Queste perdite sono incalcolabili. Letteralmente. E così, quasi detto per inciso, muoiono all’incirca 800.000 varsaviani su 1.300.000, cioè 2 abitanti su 3. Nessun’altra delle grandi città devastate dalla guerra raggungerà simili, agghiaccianti, percentuali34. Perché questo accanimento? “La capitale, la testa, il cervello di questo antico popolo che da settecento anni ci blocca all’Est e ci sbarra il cammino sarà distrutta; il ricordo di questa città deve scomparire insieme a quello di tutta la Polonia”35.
34
Se mai risulta possibile un raffronto con gli altri più tristemente noti bombardamenti del Secondo conflitto mondiale, a Hiroshima periranno 160.000 persone (il 45% della popolazione), a Nagasaki 70.000 (circa il 33% della popolazione), e a Dresda 25.000 su 642.000: cfr. Brian Porter-Szucs, Poland in the Modern World: Beyond Martyrdom, Hoboken, Wiley-Blackwell, 2014, in particolare pag. 174.
35
Cfr. Tadeusz Piotrowski, Poland’s Holocaust. Ethnic Strife, Collaboration with Occupying Forces and Genocide in the Second Republic 1918-1947, Jefferson, McFarland & Company, 1998, pag. 22; AA.VV., Varsavia. Immagine e storia di una capitale, Ferrara, Gabriele Corbo Editore, 1987, p. 30. 71
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Forse la risposta sta proprio in queste parole pronunciate da Heirich Himmler di fronte ai comandanti di campo in Polonia già il 15 marzo del 1940. Parole di lucida follia di chi tragicamente prevede e architetta il destino di un’intera nazione. “Lucida follia”. Quando ho iniziato a raccontare questa storia credevo, e lo dicevo, che fosse uno spiraglio illuminante sulla “follia” nazista, una strada da seguire per comprendere la pazzia di un tempo storico in cui tutto quello che aveva fatto fin lì la grandezza di un popolo saltava di colpo, come un tappo in pressione, come un tappo degli champagne di Ribbentrop. In parte credo ancora che sia così, ma non è forse quella la questione fondamentale. Ci deve essere di più. Perché la follia non si spiega mai da sola. Così, nel tentativo che il cervello fa per trovare un luogo dove abbarbicarsi, come un mollusco inerme tra onde troppo grandi, io sono riuscito a trovare solo tre categorie che mi aiutano a capire qualcosa. In questa storia c’è odio… …e orgoglio. C’è odio di un popolo verso un altro, tra due popoli: comunque, dovunque e indipendentemente da quando esso nasca. E poi c’è orgoglio, che può voler dire molte cose: la caparbietà a non piegarsi a qualcosa che si ritiene ingiusto; ma anche la presunzione che rende testardi oltre ogni limite, in ogni senso. Più di ogni altra cosa, però, in questa storia c’è distruzione. La distruzione: un tema forse troppo trascurato e che meriterebbe invece di essere maggiormente approfondito nella sua relazione con il nazismo, così 72
Il delirio distruttivo finale
come è stato ad esempio fatto per il rapporto tra nazismo e terrore36. Ora, io non so – né sarebbe il luogo questo per provarci – come si faccia a chiarire un nesso del genere. Ma penso a Varsavia, e al genocidio ebraico, e prima ancora alla cremazione delle camicie brune con la loro croce da cavaliere appuntata all’uniforme, ai roghi dei libri messi in scena dai nazisti nei primi anni del loro potere e mi viene di pensare che distruggere sia una pazzesca finalità nazista: pazzesca perché è l’altra faccia della volontà di costruire e conquistare: conquisto per distruggere, edifico un impero mondiale per distruggerlo. “Dobbiamo chiudere i cuori della pietà ed assumere un contegno brutale”. “Il mio insegnamento è duro. Ciò che è debole deve essere spazzato via. Nelle mie fortezze dell’Ordine teutonico crescerà una nuova generazione, di fronte alla quale tremerà il mondo”37.
36 Non a caso già Hannah Arendt scriveva immediatamente dopo la fine del conflitto che “i nazisti hanno dimostrato che si può condurre in guerra un intero popolo con lo slogan «vittoria o distruzione»”: cfr. Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2009, p. 481. In argomento, con una prospettiva però molto ampia e generale, si può vedere di Johann Chapoutot, Controllare e distruggere. Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945), Torino, Einaudi, 2015. 37
Si veda rispettivamente Emil Philipp Schäfer, I giorni prima dell’Apocalisse. Com’è scoppiata la Seconda guerra mondiale (22 agosto – 3 settembre 1939), Milano, Res Gestae, 2021, pag. 47 e Hermann Rauschning, Hitler Speaks. A Series of Political Conversations with Adolf Hitler on his Real Aims, London, Eyre & Spottiswoode, 1939, pag. 247. 73
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Così dice Hitler: lo dice, capite? Lo dice chiaro e tondo. E io lo ammetto, non so bene cosa c’è esattamente da capire, dentro questo desiderio di distruzione, ma credo che lì stia la risposta a molte domande, più generali di quelle, pur sempre doverose e assillanti, sulle ragioni dell’Olocausto. La distruzione. Il 17 gennaio 1945 la vittoriosa ‘offensiva’ delle truppe sovietiche e dell’esercito popolare polacco libera Varsavia. Ma ormai c’è poco contro cui lanciare l’offensiva. L’Armata Rossa concede l’‘onore’ alle truppe polacche di entrare per prime a Varsavia. Ed è una città fantasma quella che i ‘liberatori’ liberano. Ma quando pensiamo a una ‘città fantasma’ pensiamo a quei villaggi del Far West abbandonati dopo che le miniere scovate dalla corsa all’oro si sono esaurite. Porte cigolanti nel vento, strade deserte, polvere e ragnatele. Non è questo. È uno spazio, se si trattasse di Milano, come dallo stadio di San Siro a piazzale Loreto coperto di macerie. Bisogna provare a pensarlo. Bisogna provare a vederlo, nella nostra mente. Se mi immagino di essere al centro di piazza Duomo e mi guardo attorno... da lì allo stadio, per un raggio che gira tutto intorno a me, una distesa di macerie alta da due a cinque metri. Niente altro. I russi passano attraverso questo immenso cadavere urbano, putrescente. Putrescente, non c’è altro aggettivo, perché il lezzo, il fetore, tra il bruciaticcio e il decomposto, che emana da quello sfascio immenso è ciò che resterà impresso nella memoria dei testimoni. Il fetore, e il silenzio. Il silenzio, l’unica cosa più agghiacciante delle temperature polari di quell’inverno. 74
Il delirio distruttivo finale
Le poche centinaia di persone che sono riuscite a sopravvivere nascoste in rifugi e cantine escono ad accogliere i liberatori: e sono fantasmi, in una città fantasma. E quella era Varsavia, la grande capitale della tardiva Belle Époque dell’Est.
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Il 1° febbraio del 1945 il Consiglio dei ministri del nuovo governo polacco ristabilisce Varsavia capitale. Ma non è la Varsavia libera che avrebbero voluto gli insorti. È una Varsavia “russa”: si è già capito che non ci sarà spazio per il ritorno di quella effimera esperienza di frizzante vivacità degli anni ’30. Gli accordi di Yalta fanno sentire subito i loro effetti. La Polonia scivolerà da un totalitarismo in un altro. Gioco atroce del destino. Inizia comunque la ricostruzione della città che in un anno ripristina 165 km delle principali vie, 15.000 locali d’abitazione, la fornitura di acqua, elettricità e gas. Ma qui non dobbiamo pensare a un happy ending, a una subitanea resurrezione: ci metteranno due anni solo per rimuovere le macerie. E la ricostruzione prosegue in una prima fase fino agli anni ’60, per concludersi davvero addirittura solo dopo la caduta del muro, negli anni ’90. Ma, anche in questo caso: i polacchi non sono come tutti gli altri. Potrebbero cedere alla tentazione dell’ammodernamento, delle nuove tecnologie e di più attuali suggestioni estetiche. Niente di tutto questo. A Varsavia si ricostruirà tutto come era. Esattamente come era. È un’impresa titanica. Soprattutto perché la si vuole realizzare nei minimi particolari: fin le scale, i cortili interni, i colori di questo o quel muro. Si usa quel che si è salvato dei piani d’inventario prebellici. Si ricorre 77
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a filmati e fotografie. Ma ci si imbatte in un problema banalissimo e gigantesco: che come tutti i problemi giganteschi perché banali, è apparentemente irresolubile. Siamo nel ’45: i documenti figurati sono quello che sono. Praticamente inesistenti sono i filmati e le fotografie a colori. Non si sa più di che colore era che cosa. Si raccolgono allora le testimonianze dei pochi sopravvissuti. Ma la memoria umana è quel che è, è bella per quello: lo sappiamo tutti, ci cambia i connotati delle cose. Quella porta era rossa, dice la portinaia. Era arancione, contesta l’inquilino del terzo piano che sa che la portinaia va contraddetta per definizione e non perde l’occasione. Arancione o rossa? E per di più, ci sono byte della nostra memoria che non sono verbalizzabili, non corrispondono a parole: anche per questo è bella, la nostra memoria. Come faccio a descrivere a parole un profumo che pure mi ricordo benissimo? Io me lo ricordo il profumo della prima donna che ho baciato… ma come faccio a raccontarvelo? Così con i colori: quella parete era gialla… ma gialla come? Giallo paglierino, giallo indiano, giallo limone, limone maturo o acerbo? Un caos. Dove trovare una fonte affidabile? Alla fine a qualcuno viene un’idea. Nel Settecento, il nipote del nostro Canaletto… sì, quello lì, quello delle vedute veneziane, quello che disegna tutte le ondine del Canal Grande, a una a una così come sono non una di meno non una di più, figuratevi i colori delle porte… Insomma, nel Settecento Bernardo Bellotto, buon pittore, detto pure lui “il Canaletto” esattamente come il suo più famoso zio, dipinge una serie di vedute di Varsavia, e così si vanno a prendere quelle, sicuri che, 78
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se buon sangue non mente, il nipote del Canaletto non avrà cambiato una virgola di ciò che vedeva. Quella che alla fine viene quindi fuori è la Varsavia del Settecento, quella del massimo splendore architettonico, quella che hanno visto gli occhi di un italiano. Si mette insieme una équipe di architetti, disegnatori, artigiani, ingegneri, maestranze e si inizia un lavoro al tempo stesso immenso e da certosini. Ogni frammento architettonico autentico trovato tra le rovine è incorporato, se possibile, nel restauro. Nel 1945 la piazza della città vecchia era ridotta alle facciate delle due case rimaste in piedi di cui si è detto; oggi è un’armonica unione di Rinascimento, Barocco e Gotico. È un luogo vivace e d’atmosfera pieno gente, di turisti, di caffè all’aperto e bancarelle. Tu ci cammini e se capita che non conosci tutta questa storia potresti non accorgerti di nulla. Ma se ci stai appena un poco di più di quel che accade ai serpentoni di turisti che ‘transitano’ per i posti che vanno a visitare e in realtà non li visitano per nulla, pian piano una certa sensazione di straniamento ti si fa spazio dentro. C’è qualcosa che non va, lo senti, ma non capisci cosa. Ci metti un po’ a capire che sei dentro a Disneyland: che sfiori un muro antico e l’hanno rifatto qualche decennio prima o che guardi il Palazzo Reale pensando che allo stesso modo l’ha guardato Napoleone nel 1807 e invece l’hanno riedificato nel Dopoguerra. Eppure… eppure deve essere stata una grande soddisfazione… di più, qualcosa come un lenitivo, se mai ce ne possono essere, per tutto quell’orrore ingurgitato e mai 79
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digerito, per chi l’ha ritirata su, o semplicemente per chi ci è ritornato. Voi ce l’avete distrutta e sapete cosa? Noi l’abbiamo rifatta, uguale. Esattamente com’era prima. C’è un modo migliore di dire tutta l’inutilità, l’assurdità di quanto era accaduto? Fantastico, se volete. Ma anche qui c’è una testardaggine senza pari, chiamatela caparbietà, ostinazione, senso di identità radicato, come vi pare… è una specie di rumore di fondo che non so che senso abbia in tutta questa vicenda, ma più passa il tempo e più mi pare che un senso ce l’abbia. Comunque. Non tutto a Varsavia è stato ricostruito in questo modo. Per sfortuna, molto di ciò che si è ricostruito è tributario del socialismo reale: e così, fuori dalla città vecchia troverete i soliti immensi quartieri di casermoni, di palazzi alveare, di desolazioni edificate in cemento armato. Ma questa è un’altra storia, e qui non ci interessa. Il 1° luglio del 1946 riapre al traffico marittimo il grande porto Poniatowski sulla Vistola; sempre nel 1946 gli abitanti di Varsavia arrivano già a mezzo milione. La superficie della città nel ’39 misurava poco più di 14 mila ettari; attualmente ne copre oltre 50 mila ed i suoi confini si allontanano sempre più, come cerchi d’onda, dalle antiche cinte daziarie, dal teatro della nostra storia. Oggi la città di Varsavia è iscritta nell’Elenco del Patrimonio Mondiale della Cultura dell’UNESCO. Vi ho raccontato qui una storia per la quale, l’ho già detto, non credo esistano parole: nel racconto che ne 80
Non esistono le parole
faccio spesso in pubblico, solo l’aiuto di Claudio Sinatti, di Luca Falciola, di Pietro Cuomo, amici che hanno portato immagini in dono alle mie parole, mi ha fatto decidere che si poteva narrarla ugualmente. Per questo penso che – pure per chi, questa storia, non la ascolta ma la legge – serva ancora un breve lasso di tempo, prendetevene quanto vi pare necessario, in cui siano le menti di ciascuno di voi a pronunciare le parole giuste, quelle che non possono stare sulle labbra di nessuno.
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Bibliografia essenziale
– AA.VV., Varsavia. Immagine e storia di una capitale, Ferrara, Gabriele Corbo Editore, 1987 – BIAŁOSZEWSKI Miron, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Milano, Adelphi, 2021 (ed. or. Pamjetnik z powstania waszawskiego, Miron Białoszewski, 2021) – BORODZIEJ Wlodzimierz, The Warsaw Uprising of 1944, Madison, University of Wisconsin Press, 2006 – BRUCE George, L’insurrezione di Varsavia: 1° agosto – 2 ottobre 1944, Milano, Ugo Mursia Editore, 2008 (ed. or. Warsaw Uprising, London, Harpercollins , 1972) – CIBOROWSKI Adolf, Warsaw: a City Destroyed and Rebuilt, Varsavia, Interpress Publishers, 1968 – DAVIES Norman, La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2004 (ed. or. Rising ’44, London, Macmillan, 2003) – GLOWINSKI Tomasz, KORES Daniel, MEDYKOWSKI Witold, Dalla Polonia in Israele. I soldati ebrei nell’armata di Anders, Towarzystwo Projectòw Educacyjnych, Warzawa-Rzym, 2021 – HANSON, Joanna K.M., The Civilian Population and the Warsaw Uprising of 1944, Cambridge, University Press, 2004 – JAWORSKA Krystyna (a cura di), Warszawa 1944: i 63 giorni dell’insurrezione, Torino, Blu Edizioni, 2004 – KADOWNY Janusz Kazimierz, Nothing but Honor: the 83
Varsavia 1944
Story of the Warsaw Uprising 1944, Hoover Institution Press, Stanford University – KIRCHMAYER Jerzy, L’insurrezione di Varsavia, Roma, Editori Riuniti, 1963 (ed. or. Powstanie Warszawskie, Warszawa, Książka i Wiedza, 1959) – RICHIE Alexandra, Warsaw 1944: Hitler, Himmler and the Warsaw Uprising, New York, Farrar, Straus & Giroux, 2013 – SHIRER William Lawrence, Storia del Terzo Reich, Torino, Einaudi, 2003 (ed. or. The Rise and Fall of the Third Reich, New York, Simon & Schuster, 1959)
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Ringraziamenti
Un primo, dovuto, ringraziamento va ad Angelo Ciardullo, preziosissimo collaboratore nella revisione e nell’adattamento per la presente pubblicazione del testo originale dell’History telling del 2004. Desidero poi ricordare l’attenzione e la sentita partecipazione che il Consolato Generale di Polonia a Milano ha sempre mostrato nei confronti di questo mio lavoro: in particolare la Console Generale Adrianna Siennicka, che ha svolto encomiabilmente la propria missione in Italia, è stata un punto di riferimento costante nel corso della sua evoluzione, da quando è stato portato inizialmente in pubblico in teatro a quando si è trasformato in podcast e in libro. È stato con sincera emozione e con profondo orgoglio che mi sono visto appuntare per mano sua, il 1° dicembre scorso, l’onorificenza governativa polacca “Pro Patria” per la quale mi aveva proposto alle autorità ministeriali tempo addietro. Di coloro che hanno contribuito alla realizzazione iniziale del progetto di narrazione sulla vicenda ricostruita in questo libro ho già detto in avvio: il pensiero corre sempre a loro con riconoscenza ed affetto. Un grazie va poi all’intero staff de Il Sole 24 Ore, cui devo per l’appunto la trasposizione del mio testo in podcast e in questa versione stampata.
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Francesca Romana Puggelli Emozioni al lavoro, 2021
Dario Ricci Tokyo Story 202ø1, 2021
Federico Taddia, Pierdomenico Baccalario Io sarò, 2021
Valentina Cucino, Alberto Di Martin, Luca Ferrucci, Andrea Piccaluga La buona impresa, 2021
Roberto Galullo, Angelo Mincuzzi Il tesoro di Maradona, 2021 Umberto Bottazzini Matematici di profilo, 2021 Antonio Galdo Gli sbandati, 2021 Vito Varvaro, Massimo Saracchi e Arrigo Berni People&Growth, 2021 Debora Rosciani, Mauro Meazza Investire perché, 2021 Enrico Cerni Dante per manager, 2021 Silvio Rivetti Fisco facile, 2021 Enzo Restagno Josquin Desprez, 2021
Eliana Di Caro Le Madri della Costituzione, 2021 Alessandra Schepisi, Pierpaolo Romio 24 storie di bici, 2021 Pierangelo Soldavini, Francesco Pagano, Natalia Borri [Primo] non comandare, 2021 Guido Caroselli Fiumi, 2021 Luigi Mascilli Migliorini Napoleone e le sue isole, 2021 Unichess Scacchi & Management, 2021 Simone Filippetti Un pianeta piccolo piccolo, 2021
Roberto Galullo, Angelo Mincuzzi I re Mida del calcio, 2021
Elisabetta Fiorito Amori e pandemie, 2021
Salvatore Ciconte, Marco Gregoretti Sportivi e felici, 2021
Alessandro Umberto Belluzzo Brexit istruzioni per l’uso, 2021
Il Sole 24 Ore
Salo Muller A stasera e fai il bravo, 2021
Mattia Losi La prossima pandemia, 2020
Carla Moreni Musica a specchio, 2020
Giampaolo Musumeci Io sono il cattivo, 2020
Piero Barbanti Emicrania, 2020
Silvia Paoli Eleganza. La guida dello stile maschile, 2020
Marco Carminati La galleria dei ritratti, 2020 Claudia Parzani, Francesca Isola Meravigliose, 2020
Autori vari #Lockdown, 2020 Giuseppe Lupo I giorni dell’emergenza, 2020
Davide Oldani Mangia come parli. Pop rhapsody, 2020
Eliana Di Caro Le vittoriose, 2020
Enrico Mariutti La decarbonizzazione felice, 2020
Giuseppe Lupo Le fabbriche che costruirono l’Italia, 2020
Niccolò Nisivoccia La rinascita del debitore, 2020 Marco lo Conte La pensione su misura, 2020 Debora Rosciani, Mauro Meazza Investire è facile, 2020 Autori vari Fisco. Le tasse del futuro, 2020 Autori vari Smart working, 2020 Sergio Fabbrini Prima l’Europa, 2020
Giulio Busi La pietra nera del ricordo, 2020 Pia Pera (a cura di Lara Ricci) Verdeggiando, 2019 Nicoletta Polla Mattiot (a cura di) Il lusso secondo me, 2019 Marco Carminati Raffaello pugnalato, 2019 Paolo Bricco Ritratti italiani, 2019
Davide Oldani Mangia come parli, 2020
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (a cura di) Viaggi d’arte, 2019
Nicoletta Carbone La scienza della gratitudine, 2020
Debora Rosciani, Mauro Meazza Risparmiare è facile, 2019
Il Sole 24 Ore
Donato Masciandaro, Alberto Orioli Draghi, falchi e colombe, 2019
Marco lo Conte Che ne ho fatto dei miei soldi, 2019
Stefano Elli Gli stangati, 2019
Beniamino Piccone L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti, 2019
Ennio Cascetta (a cura di) Perché Tav, 2019