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Italian Pages 152 [155] Year 2016
ANGELO AVIGNONE
URLARE LA LIBERTÀ PIER PAOLO PASOLINI
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Collana
Arte e spettacolo 5
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ANGELO AVIGNONE
Urlare la libertà Pier Paolo Pasolini
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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Stampato in Italia nel mese di settembre 2016 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinilibri.it E-mail: [email protected]
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“Credo che nessuno in una società sia libero e che quindi l’opera di ogni artista sia per forza un’opera di contestazione” Pier Paolo Pasolini
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Prefazione
Prefazione Una lunga fedeltà
Una lunga fedeltà lega Angelo Avignone all’opera di Pasolini. Nei decenni passati è intervenuto con vari “assaggi”, affascinato sempre da un intellettuale che volle disturbare, inquietare la nostra tranquillità e “strapazzare” il nostro modo di essere pavidi e appagati. Ora con questo saggio Urlare la libertà - Pier Paolo Pasolini, Avignone ritorna sull’argomento per una riflessione più matura del poeta friulano. L’autore con questo testo pone interrogativi, dilemmi e dubbi sempre nuovi sull’universo pasoliniano. Per un’amicizia che mi lega da sempre a lui, ho avuto il privilegio di assistere a questo lavoro in progress, alle sicurezze subito abbandonate ed alle problematicità amorosamente coltivate e sempre raccolte. Ne è venuto fuori un saggio di qualità che farà certo bella mostra nell’ormai imponente bibliografia pasoliniana. Avignone ha affrontato per efficace sintesi l’effettiva poliedricità degli scritti pasoliniani, mettendo in evidenza dell’intellettuale l’intrinseca coerenza e la sempre lucida e straordinaria autoconsapevolezza. L’opera di Pasolini si distingue per la sua ricchezza e organicità, espressa con una tensione civile che gli si è ritorta contro e che, per usare parole dell’autore, lo ha letteralmente “massacrato”. Avignone accompagna Pier Paolo Pasolini nel suo stra7
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ordinario viaggio poetico e con pertinenti riferimenti testuali ci fa cogliere in modo persuasivo la lungimiranza dell’intellettuale. “Pasolini – sottolinea efficacemente Avignone – predisse in anticipo l’impoverimento dello spazio umano e i processi di omologazione che di lì a poco la società dei consumi avrebbe generato. Intravide i disagi della globalizzazione soffocante, lesiva dell’autodeterminazione dei popoli. Intravide la deriva rovinosa di un paese inclinato verso il suo disfacimento umano e culturale”. Viene fuori a tutto tondo la figura di Pasolini quale testimone libero di un’epoca, che ha vissuto la diversità come autenticità. Per entrare nel vivo del discorso, l’excursus dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua è particolarmente stimolante e lo sperimentalismo linguistico viene visto come bisogno inesauribile di muoversi con spirito di libertà: libertà eretica e corsara. È proprio una libertà orientata anche verso il fascino del mistero che consente a Pasolini di muoversi con originalità nel mondo della religione, rimanendo però sulla soglia, per quella sorta di pruderie che non gli ha consentito di accedere con pienezza al trascendente. Nelle sue mani l’opera di Pasolini è qualcosa di sempre vivo e palpitante, che si “muove” in modo magmatico e si sottrae ad ogni incasellata visione. È proprio “l’impurità”, vera e propria cifra stilistica dell’opera pasoliniana, a “nascondere” ancora tante cose e a mettere beffardamente fuori gioco quei critici (e sono tanti!) che vorrebbero, una volta per tutte, “ingabbiare” l’esperienza vitale ed estetica di Pasolini entro argini definitivi e rassicuranti. L’impurità è invece lì per urtare, irritare e dimostrare che essa oggi è l’unica forma perseguibile di “purezza”. Nella seconda parte del saggio veniamo introdotti nel 8
Prefazione
ghetto delle borgate, nel mondo del sottoproletariato che Pasolini vede, osserva e descrive in modo unico e inimitabile. Qui, più che mai, “l’impurità” è totalità e quindi necessità. Solo Pasolini ha saputo rappresentare quel mondo, prima nei romanzi e poi nei film, in tutta la sua tragica e sconvolgente autenticità. Col cinema, poi, Pasolini nel suo inesausto sperimentare trova il genere che gli consente la totalità. Il film parla a tutti i sensi e tutti i sensi sono chiamati a partecipare al dolore e alla sofferenza profonda dei personaggi rappresentati. Avignone, per lunga consuetudine con l’opera di Pasolini, arricchisce il suo viaggio con riferimenti puntuali ai vari lavori e non manca di offrirci, al riguardo, amare constatazioni pasoliniane di grandissima validità, specie oggi. Un solo esempio: la tolleranza che giustamente, se ben guardiamo, non è una virtù. Scrive Pasolini: “La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale […]. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata”. Nella parte finale, Avignone dedica adeguata attenzione a Petrolio, un libro certo incompiuto ma che lascia il lettore, ad ogni nuovo “piccolo assaggio”, sempre inquieto e pensieroso. Per l’autore Petrolio serve per cogliere il senso globale dell’esperienza pasoliniana, ove letteratura e vita si intersecano in modo talora inesplicabile. È un romanzo, se vogliamo, pieno di autentico dolore per il futuro. Il tema dell’omologazione è centrale anche qui! La piovra del conformismo borghese e della civiltà dei consumi ha stretto ognuno di noi in una morsa che tutto contamina e svilisce. È, Petrolio, un canto di dolore, di dolore del mondo. In Appendice, il saggio di Avignone riporta Siamo tutti 9
Pier Paolo Pasolini
in pericolo, un’intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini, fatta poche ore prima della tragica scomparsa. Ad un certo punto, Pasolini dice: “Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo”. Giunti al termine del viaggio, resta la certezza di aver letto un contributo di qualità su Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di acuta intelligenza che, urlando la libertà, pone ancora oggi interrogativi irrisolti. Enzo Ferraro
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Introduzione
Introduzione
Sono passati tanti anni dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975, e su di lui tanto è stato detto, scritto, studiato sino alla sovraesposizione, trattandosi di una personalità complessa e decisamente poliedrica. Le mie considerazioni, pertanto, sedimentate nel ricordo di insegnante e di lettore affascinato dalle sue opere, vogliono essere una testimonianza di quanto ancora viva resti in me la sua voce di intellettuale libero. Un omaggio alla memoria di uno dei più grandi intellettuali italiani del XX secolo che ha lasciato impronta di sé nei lettori e negli spettatori delle sue pellicole. Non è facile muoversi nell’universo pasoliniano senza cadere nella retorica e nella ripetizione di quanto già detto, tuttavia provo a fare un “viaggio” in questo mondo, tenendo presente che Pasolini fu uno dei rari esempi di persona «coerente proprio nella sua incoerenza, un essere umano che cambia nelle idee, nei pensieri, nei giudizi, nelle opinioni, ma rimane coerente nel profondo dell’anima»1. La coerenza non riguarda i comportamenti, ma i valori che li generano. Fu, in definitiva, un uomo libero, libero nel pensiero, al di fuori di schemi, di categorie e se del caso anche della logica, come ebbe a dire nel film La rabbia. Fu un intellettuale lungimirante. Predisse in anticipo l’impo-
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P. Delbono, Pier Paolo Pasolini. Urlare la verità, Edizioni Clichy, Firenze, 2014, p. 23.
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verimento dello spazio umano e i processi di omologazione che di lì a poco la società dei consumi avrebbe generato. Intravide i disagi della globalizzazione soffocante, lesiva dell’autodeterminazione dei popoli. Intuì la deriva rovinosa di un paese inclinato verso il suo disfacimento umano e culturale. Pasolini ha sposato la causa dei tribolati, schiacciati nello loro misere vite: «Sui miei stracci sporchi sulla mia nudità scheletrita su mia madre zingara su mio padre pecoraio scrivo il tuo nome. Sul mio primo fratello predone sul mio secondo fratello sciancato sul mio terzo fratello lustrascarpe sul mio quarto fratello mendicante scrivo il tuo nome. Sui miei compagni della malavita sui miei compagni disoccupati sui miei compagni manovali scrivo il tuo nome. Sui nomadi del deserto sui braccianti di Medina sui salariati di Oran sui piccoli impiegati di Algeri scrivo il tuo nome.
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Introduzione
Sulle misere genti di Algeria sulle popolazioni analfabete dell’Arabia su tutte le classi povere dell’Africa su tutti i popoli schiavi del mondo scrivo il tuo nome: Libertà»2.
Ha anche sposato la causa della libertà, che è anche semplicità, umiltà, sobrietà, affetto e persino gioia: «Se non si grida evviva la libertà umilmente non si grida evviva la libertà. Se non si grida evviva la libertà ridendo non si grida evviva la libertà. Se non si grida evviva la libertà con amore non si grida evviva la libertà. Voi, figli dei figli gridate con disprezzo, con rabbia, con odio evviva la libertà. Perciò non gridate evviva la libertà. Questo sappiate, figli dei figli»3.
I versi sono tratti dal docufilm La Rabbia di P.P. Pasolini e G. Guareschi (1963). Pasolini commenta, con la voce di G. Bassani, la lotta di liberazione dell’Algeria e indica i nuovi resistenti provenienti da culture arabo-africane. Per il testo integrale si veda P. Delbono, Pier Paolo Pasolini. Urlare la verità, cit., p. 23. 2
Altri versi tratti dal docufilm La Rabbia, cit. Qui Pasolini commenta, con la voce di R. Guttuso, i fatti inerenti l’invasione dell’Ungheria nel 1956.
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Capitolo I - Chi era Pasolini?
Capitolo I
Chi era Pasolini?
1. Testimone libero di un’epoca «Non appartenente a nessuno, libero d’una libertà che mi ha massacrato»1.
Così scriveva Pasolini, uomo libero schierato per le cause giuste, fuori dai sodalizi e lobby di potentati e consorterie. Fu un intellettuale scomodo, con il coraggio di andare controcorrente, persino di scandalizzare i moralisti e con la volontà di scuotere le coscienze di un’Italia troppo ripiegata sui media e sul tornaconto. Un’Italia i cui valori il fascismo non era riuscito a scalfire e che il consumismo aveva ossidato. “Provocatore” e combattente di battaglie senza vittorie, Pasolini lotta contro il “male” presente nel “sistema”, senza estirparlo. Spirito indipendente che con rabbia, dolore e sconforto si è im1 P.P. Pasolini, La Realtà, in Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Garzanti, Milano, 1993, vol. I, p. 638 (Da qui in avanti, Tutte le poesie).
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pegnato politicamente in una società che era stata fascista e nella quale permaneva ancora del fascismo; pagò sulla sua pelle le sue “diversità”, a partire da quella sessuale sino a quelle ideologiche. Fu un poeta polemico e coscienza critica di una società sonnacchiosa in balia di manipolatori senza scrupoli che, abusando del proprio potere, calpestavano i diritti degli altri snaturando l’idea di democrazia. Scrittore sferzante e osservatore attento non esitò ad esprimere giudizi urticanti e a insinuare dubbi su certezze pigramente acquisite e sedimentate, sorretto dalla passione «per sua natura analitica»2 e dall’ideologia «per sua natura sintetica»3. Pasolini vive la politica con lo spartito dell’arte poetica, capace di incidere sulle corde sensibili dello spirito umano, questo perché per il poeta friulano la poesia è politica. Non politica in senso di retorica, ma politica in quanto Poesia capace di trasformare la realtà sociale non nel senso organizzativo della parola ma nell’intimo. Alla domanda di Gideon Bachamann, fotografo, regista e giornalista americano-tedesco, sui timori di dover rispondere ad altri delle proprie scelte, così replicava: «La tentazione di chiudersi nella propria interiorità c’è sempre. È una costante della mia vita intellettuale, e credo di qualsiasi altro […] ma naturalmente, come contraltare, c’è sempre un certo “donchisciottismo”»4.
Cfr. P.P. Pasolini, Passione e Ideologia, Prefazione, Gli Elefanti Saggi, Garzanti, Milano, 1994, p. VII 2
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P.P. Pasolini, Polemica politica potere. Conversazioni con Gideon Bachman, a cura di R. Costantini, Chiarelettere, Milano, 2015, p. 31. 4
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Donchisciottismo che non era ingenua difesa dei propri ideali, ma volontà di battersi per non «porre una cella dentro la propria anima […] in questo mondo così sgradevole»5.
2. La “diversità” come autenticità «La diversità che mi fece stupendo e colorò di tinte disperate una vita non mia, mi fa ancora sordo ai comuni istinti, fuori dalla funzione che rende gli uomini servi e liberi. Morta anche la povera speranza di rientrarvi, sono solo, per essa, coscienza. E poiché il mondo non è più necessario a me, io non sono più necessario»6.
Pasolini visse la sua “diversità” sessuale in modo personale come «una delle tante forme di liberazione» e non si preoccupò di nasconderla pur vivendo in una società spiazzata sul tema. La difese, chiedendo però un’astensione dal giudizio e un’apertura mentale senza preconcetti legati a classificazioni morali rigide e preconfezionate. Pagò tale condizione con una morte, per tanti versi annunciata, in una lotta impari con i suoi assassini nel delirio di una notte di novembre del 1975. Scrive Pasolini:
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Ibidem.
P.P. Pasolini, Poesie inedite 1964, in Tutte le poesie, cit., II, p. 2029.
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«Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante: Sono cioè un ‘tollerato’. La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. Il fatto che si ‘tolleri’ qualcuno è lo stesso che si ‘condanni’. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. […] Le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea»7.
Nel suo guardare da omosessuale la vita degli altri, la cultura, la politica fu osteggiato dalle istituzioni e persino discriminato dal suo stesso partito, il Pci di Togliatti, che ne decretò l’espulsione nell’ottobre 1949, per “indegnità morale e politica”8. Alle accuse della Federazione di Udine Pasolini risponde: «malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola». (…) Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre»9. 7 P. P. Pasolini, Lettere luterane, Gennariello, in Saggi sulla Politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1999, p. 557-560, passim.
8 Pasolini fu accusato di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Cfr. G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999, p. 24. «L’Unità», organo del Partito Comunista Italiano, accompagna la notizia dell’espulsione dal Partito con un commento di Ferdinando Mautino della Federazione di Udine: «Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanti decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». 9 Lettera di Pasolini a Ferdinando Mautino, inviata da Casarsa, il 31 ottobre 1949, in P.P. Pasolini, Lettere (1940-1954), a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino, 1986, p. 368. Mautino, il cui nome da comandante partigiano era “Carlino”, fu la persona che decise
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Gli venne persino impedito l’insegnamento10, castigando e mortificando così la sua profonda vocazione pedagogica11. Della sua diversità egli dà così giustificazione: «un rapporto omosessuale non è il Male […] è un rapporto sessuale come un altro […], la mia omosessualità è entrata ormai da vari anni nella mia coscienza e nelle mie abitudini e non è più un altro dentro di me. Ho dovuto vincerne di scrupoli, di insofferenze e di onestà, ma infine, magari sanguinante e coperto di cicatrici, sono riuscito a sopravvivere salvando capra e cavoli, cioè l’eros e l’onestà»12.
La sua diversità lo rende intellettualmente ed artisticamente
come dirigente della Federazione comunista di Udine, l’espulsione di Pasolini dal Pci. 10
Alla scuola di Valvasone.
Cfr. E. Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa, Saggi tascabili, Bompiani, Milano, 1992, pp. 3-10. Pasolini superato il trauma dell’espulsione dal Pci, che aveva castigato la sua passione pedagogica, riprenderà l’insegnamento a Roma, in un istituto privato di Ciampino, non soltanto per una possibilità di sopravvivenza economica, ma anche perché era l’occasione per dare sfogo alla sua interiore necessità pedagogica.
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Cfr. P.P. Pasolini, Lettera a Franco Farolfi, in Lettere (1940-1954), cit., pp. 341-342. Quando i giornali, anche di sinistra, prendendo spunto da fatti di cronaca, esternano il loro razzismo e la loro omofobia, Pasolini interviene con puntiglio con un articolo, apparso su «Il Mondo» dell’11 aprile 1974 col titolo La carne in prigione, ma più esplicitamente intitolato da Pasolini Il carcere e la fraternità dell’amore omosessuale, poi in Scritti corsari (1975), ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit. p. 486. 12
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solo, ma Pasolini non temendo il linciaggio e neppure lo scherno più volgare, preferisce essere tollerato piuttosto che chiedere tolleranza perché: «la[…] diversità – o meglio la[…] colpa di essere diverso – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla»13.
Stigmatizzare la sua diversità da parte di certi intellettuali è stato un espediente per censurarne originalità ed autonomia: invidia celata per il suo talento, per la notorietà di poeta e di scrittore che procedeva di pari passo con quella di omosessuale e “corruttore” e lo collocava in una situazione nuova che nessun intellettuale aveva vissuto in modo così sconvolgente e con tale clamore pubblico dai tempi di Oscar Wilde. Non c’erano, per fortuna, solo intellettuali intolleranti, gli estimatori ne sublimano la poesia, che è autentica espressione di diversità, come i versi di Elsa Morante attestano: «Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché? Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridine. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Gennariello, Paragrafo terzo in Saggi sulla Politica e sulla società, cit. 557-560 passim,
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e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio»14.
Come Pasolini, anche Sandro Penna, anch’egli “diverso”, preferì essere tollerato, schivando la platea, a differenza di Pasolini che scelse di non “assentarsi” dalla Storia. Due poeti vicini, legati da una sincera amicizia, nata per merito di Elsa Morante, e da un sodalizio intellettuale – “Io ho un culto di te”15 gli scrive Pasolini, che del poeta perugino aveva apprezzato i versi di Un po’di febbre e di Una strana gioia di vivere – e tuttavia distanti per il differente modo di vivere e declinare la propria “diversità”. Pasolini volle mostrare se stesso nella sua essenziale e travagliata verità, scandalizzando il Palazzo e sferzando anche la Chiesa, nella misura in cui essa aveva, secondo lui, tradito il suo mandato, divenendo espressione di valori borghesi, spendibili nei mercati mondani: «Guai a chi non sa che è borghese questa fede cristiana, nel segno
La poesia “A P.P. Pasolini. In nessun posto”, scritta da Elsa Morante, è stata resa nota da Enrique Irazoqui, l’attore che ha interpretato Gesù Cristo nel film Il vangelo secondo Matteo. L’originale del testo si trova presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Il testo da noi qui riportato è attualmente raggiungibile anche all’indirizzo web http:// www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it. 14
15 Cfr. P.P. Pasolini, Sandro Penna: Un po’ di febbre in Scritti corsari, in Saggi sulla Politica e sulla società, cit., p. 421.
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di ogni privilegio, di ogni resa, di ogni servitù; che il peccato altro non è che reato di lesa certezza quotidiana, odiato per paura e aridità; che la chiesa è lo spietato cuore dello Stato»16.
Penna, diversamente da Pasolini, scelse la “disappartenenza all’umano”17 – alla Storia come diceva Pasolini – preferendo di non contestare, di non opporsi, né di raccontare i cambiamenti, le evoluzioni e i conflitti del mondo in cui viveva. La sua vera diversità fu quella di muoversi senza scendere a compromessi di qualsiasi genere e senza ipocrisie, autenticamente libero fuori dall’etica cristianoborghese dell’Italia fascista che esaltava le tradizioni, la forza, la virilità, la moralità cristiana: “Un santo anarchico, un precursore di ogni contestazione passiva e assoluta”18, come scrive Pasolini stesso. Non solo “la diversità”, però, accomuna i due poeti ma anche una profonda solitudine vissuta come indipendenza, esperienza necessaria connessa alla propria identità. Scrive Pasolini: «Cullo una solitudine mortale nel mortale mattino, che da sempre imbianca col suo lume i vivi campi»19.
Penna gli fa eco. Una calma inquietante l’assale quando l’estate segna il suo tramonto:
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P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit. I, p. 498.
C. Garboli Penna Papers, Gli Elefanti Saggi, Garzanti, Milano, 1984, p. 14. Ivi, p. 22.
P.P. Pasolini, Per cigli assolati, Diarii, IV, in Tutte le poesie, cit., II, p. 1269.
Capitolo I - Chi era Pasolini?
«“Cullo una solitudine mortale nel mortale mattino, che da sempre…” Il verso dell’amico si era imposto da qualche giorno. Il fiume, come un olio lucido e calmo nello stanco agosto»20.
E pensare che Pasolini non ha potuto leggere questo tenero ricordo! L’omosessualità è presente in tutta la produzione di Pasolini: quella giovanile, esplicitamente autobiografica, è riconducibile ad un immaginario omosessuale tipico di quegli anni, derivato in gran parte dalla lettura di Gide, Proust, Peyrefitte. Pensiamo al breve racconto Douce, la storia dell’innamoramento del protagonista – chiaramente autobiografico – per un ragazzo sedicenne, e ancora ai due brevi romanzi, postumi, Atti impuri e Amado mio, due testi complementari che rappresentano il primo la confessione dell’omosessualità associata a forti sensi di colpa, il secondo la rappresentazione dell’eros omosessuale vissuto come un amore possibile, finalmente senza sensi di colpa e senza conflitti morali e religiosi, in definitiva, un “canto d’amore” riconducibile alla vitalità giovanile in un mondo per molti aspetti precapitalistico21. Nella produzione successiva, quella della narrativa di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, negli interventi pubblici, negli articoli di giornale, l’omosessualità è rappresentata in maniera diversa e si allontana dall’autobiografismo dei primi anni, sostituito dall’“io che brucia”, ed espresso in altre forme. È solo nella poesia che si fa precisa la confessione di un’omosessualità spiegata con gli strumenti della psicoanalisi, come nella poesia Supplica a mia madre:
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S. Penna, Una strana gioia di vivere, XXIII, in Poesie, Garzanti, Milano, 1973.
Cfr. F. Gnerre, Pasolini: L’omosessualità come chiave di lettura della realtà, in «Liberazione», domenica 29 ottobre 2000
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«È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso»22.
o esibita provocatoriamente come in Versi da testamento: «Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri – e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento, tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani, essi sono molti – non sono che momenti della solitudine; più caldo e vivo è il corpo gentile che unge di seme e se ne va, più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
P.P. Pasolini, Supplica a mia madre, Da Poesia in forma di rosa, in Tutte le poesie cit., I, p. 622.
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è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso, non il sorriso innocente o la torbida prepotenza di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano, perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia che è sempre la stessa in tutte le stagioni. Un ragazzo ai suoi primi amori altro non è che la fecondità del mondo»23.
Ma Pasolini ha espresso sempre un punto di vista “omosessuale”, anche quando ha parlato della mutazione antropologica o quando ha rappresentato la tragedia di Edipo o il Decameron, per questo ha sempre scandalizzato e sconcertato. Probabilmente si pretendeva che, dovendosi esprimere su qualcosa di importanza rilevante culturalmente parlando, smettesse di essere omosessuale; ma lo scrittore, nonostante tutte le contraddizioni che lo hanno caratterizzato, non lo ha mai fatto, né forse gli era possibile farlo, tanto drammaticamente ha vissuto la sua condizione senza mai nasconderla.
23 P.P. Pasolini, Versi del testamento, in Trasumanar e organizzar, in Tutte le poesie cit., I, p. 941.
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Capitolo II - Dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua
Capitolo II
Dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua
1. Sperimentalismo linguistico: poesia in dialetto friulano «Nello “sperimentare” dunque, che riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, che coincide con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di una attualità non posseduta ideologicamente»1.
Per Pasolini, “sperimentare” implica la ricerca di un linguaggio, libertà di parola, libertà di scrittura e in quanto poeta egli avverte il dovere di derogare ai rigori della logica – così si dirà nel suo film La rabbia – per rivendicare l’indipendenza ideologica e la libertà intellettuale. Pasolini prestò particolare attenzione alla cosiddetta questione linguistica2. Era stato Pascoli, cui il poeta dedicherà la sua tesi di 1
P.P. Pasolini, Libertà stilistica, in Passione e ideologia, cit, p. 535.
Cfr. F. Cadel, La lingua dei desideri. Il dialetto secondo Pier Paolo Pasolini, Manni, Lecce, 2002, pp. 5-6. 2
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laurea, ad avviare Pasolini ad uno sperimentalismo linguistico. Egli individuava in Pascoli due istanze importanti: «l’ossessione che lo fissava regressivamente a un’infanzia insuperabile, e lo sperimentalismo, attraverso cui cercava con l’infrazione, il gergo, il dialetto, di uscire da se stesso, cioè di ritrovare la traccia di quella civiltà contadina e montanara (Castelvecchio o Casarsa si somigliano) su cui avevano lasciato testimonianze soltanto gli studiosi di folclore e delle tradizioni popolari»3. Pasolini si muoverà tra questi due registri, e attraverso un’originale elaborazione linguistica condurrà la sua personale battaglia contro quel male inesorabile che il mutamento culturale segnalava: omogeneità e conformità, che erano indizi evidenti di questo inevitabile processo. Contro questa valanga tracimante, Pasolini individuò degli esili argini nell’uso del dialetto, inizialmente quello friulano e poi quello romano. Attraverso il linguaggio del mondo contadino cercò di eludere la modernità e l’omologazione e immedesimarsi con questa realtà semplice e genuina. Il dialetto diviene strumento necessario per raccontare quel mondo ancora incontaminato dalle razzie del consumismo, dove le persone sono percepite come portatrici di vita autentica e di gioia vera. Il poeta assapora in questo mondo la bellezza e la suggestione della parola4. Dallo sperimentalismo linguistico sono nate opere di rara bellezza, come le Poesie a Casarsa. Scrivere in dialetto friulano consentiva al poeta di riportare alla mente i ricordi dell’infanzia a lui cari, legati alla cara madre e all’adorato fratello Guido, più giovane, morto da partigiano. Pasolini continuò a nutrire questo amore per il dialetto anche dopo il suo trasferimento a Roma, città dove si avvicinò a realtà 3 4
L. Baldacci, Novecento passato remoto, Rizzoli, Milano, 2000, p. 417. Ivi, p. 416.
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Capitolo II - Dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua
linguistiche differenti, come vari dialetti del Sud del Paese: il dialetto napoletano, che adoperò per il Decameron e l’abruzzese per il Vangelo secondo Matteo, ed altri ancora. Si avvalse perfino di dialetti africani e orientali. A Roma, Pasolini si calò nel linguaggio del sottoproletariato urbano, quello degli ultimi, degli “invisibili”, rappresentando la cruda realtà delle borgate, dove l’uso del dialetto è cifra della distanza dal perbenismo borghese che utilizza la lingua ufficiale. Il suo accostamento a questo pluralismo linguistico, ritenuto luogo non contaminato dall’omologazione della parola, gli permise di modulare con abilità differenti stili e registri espressivi. 1.2. Poesie a Casarsa Il segno dello sperimentalismo linguistico di Pasolini è evidente nell’uso del dialetto di “ca da l’aga” della riva destra del Tagliamento, presente nella prima esperienza letteraria, Poesie a Casarsa. Il volumetto pubblicato a sue spese nel 19425 e recensito da Gianfranco Contini6, consegna a Pasolini l’alloro di poeta. Il poeta usa il gergo che aveva appreso tra i vicoli del paese materno: un friulano che fino ad allora era solo parlato da coloro che Pasolini amava «candidamente con dolcezza e violenza». Un linguaggio lontano dallo sperimentalismo novecentesco, ma egualmente innovatore, nella cultura e nello spirito.
La prima stesura di questo libretto dedicato a Casarsa risale all’estate del 1941. I testi della raccolta poetica vengono scritti tra gli ultimi mesi del 1941 e i primi del 1942. 5
6 G. Contini, Al limite della poesia dialettale, in «Corriere del Ticino», a. IV, n. 9, 24 aprile 1943. «Caro Pasolini, ho ricevuto ieri il vostro Poesie a Casarsa, è piaciuto tanto che ho inviato subito una recensione a “Primato”, se la vogliono». La recensione, come previsto da Contini, viene rifiutata da “Primato” e apparirà sul quotidiano della Svizzera italiana «Corriere del Ticino» il 24 aprile 1943.
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Le ragioni della scelta le fornisce il poeta stesso: «C’è stato un periodo di questa nostra storia in cui 1’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, […] tuttavia dotava chi iniziasse il suo apprendistato, tra il ’30 e ’40, del senso di una estrema libertà stilistica. In questa apparente infinita disponibilità stilistica il dialetto si poneva come la più vera, se non l’unica, “realtà”: fisica e spirituale»7.
Nel dialetto friulano Pasolini scopriva riserve incontaminate di gusto, sapienza, liricità, mentre la lingua nazionale risultava invece impoverita, sfruttata e stanca. La parlata friulana, che il poeta considerava «una lingua poetica in concreto, pronta cioè per la poesia»8, gli appariva come lo strumento privilegiato per esprimere la sua adesione ai valori della civiltà contadina. La freschezza della lingua e l’ascolto dei suoni suscitavano in lui suggestioni di forte intensità emotiva, in contrasto con la lingua ufficiale taccheggiata da modelli culturali invasivi ed algidi. Scrive Pasolini:
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P.P. Pasolini, La libertà stilistica in Passioni e ideologia, cit., pp. 532-533.
Vedi l’intervista rilasciata da Pasolini in F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, Milano, 1965, p. 192.
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«Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola “rosada”. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada. […] La parola “rosada” pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m’interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada»9.
Con la parola “rosada” (rugiada) pronunciata da un giovane contadino, Pasolini firma l’inizio della prima nuova poesia che doveva essere anche un rifiuto della cultura nazionalista e fascista, che imponeva l’abbandono dei dialetti e dei particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. La raccolta si apre con il breve componimento Dedica, Fontana di aga dal me paìs, ispirato alle rogge che scorrono nel territorio di Casarsa, nel quale canta la freschezza e la purezza dell’acqua del suo paese: «Fontana di aga dal me paìs. A no è aga pì fres-cia che tal me paìs. Fonnta di rustic amòur».
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P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, pp. 62-63.
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«Fontana di acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che al mio paese. Fontana di rustico amore»10.
Nella poesia Il nini muàrt, Il fanciullo morto, piena di suggestioni di ispirazione romantico-sentimentali fortemente legate all’esperienza biografica dell’autore, il rapporto instaurato tra il poeta e la terra friulana è sensuale. È lo stesso rapporto che lega, genuinamente, la natura alle creature umane, che avvertono in questo rapporto suggestioni indescrivibili che appagano il cuore: «Sera imbarlumida, tal fossàl a cres l’aga, na fèmina plena a ciamina pal ciamp. Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur da la sera, quand li campani a súnin di muàrt». «Sera luminosa, nel fosso cresce l’acqua, una donna incinta cammina per il campo. Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto»11.
L’analogia tra l’immagine dell’acqua che cresce nel fosso e quella della donna incinta che cammina nel campo esprime, appunto, il senso della vita che nasce.
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P.P. Pasolini, Dedica, in Tutte le poesie, cit., I, p. 13.
P.P. Pasolini, Il nini muàrt, Ivi, p. 14.
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Nella seconda terzina della poesia appare Narciso, il giovinetto, simbolo anch’egli della vita che si spegne. Il vestito del colore della sera è anticipazione di questo momento conclusivo. Una vita che sta per nascere accanto ad una vita che sta per estinguersi riflette essa stessa il mistero della vita e della morte da sempre esplorato e mai risolto, perché supera la capacità dell’uomo di dare una ragione compiuta e segnala la suggestione del poeta verso l’insondabile dell’esistenza umana. Le suggestioni della natura nella vita che nasce in simbiosi con la natura sono evocate nella poesia “O me giovinetto”: «Jo i nas ta l’odòur che la ploja a suspira tai pras di erba viva... I nas tal spieli da la roja». «Io nasco nell’odore che la pioggia sospira dai prati di erba viva […]. Io nasco nello specchio della roggia»12.
Così anche nel componimento A Rosario, dove la gioia della vita giovane è la stessa della terra, del cielo: «Rit, tu, zòvin lizeir, sintin in tal to cuarp la ciera cialda es cura
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P.P. Pasolini O me giovinetto, Ivi, p. 17.
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e il fresc, clar seil». «Ridi, tu, giovane leggero, sentendo nel tuo corpo la terra calda e oscura e il fresco, chiaro cielo»13.
Il poeta canta anche il languore di eventi vissuti in modo ordinario, segnati da un indefinito senso di tristezza. Nella poesia Tournant al pais, Tornando al paese si possono cogliere i residui di quella vaga indeterminatezza pascoliana: «Ma nualtris si vif, a si vif quiès e muàrs coma n’aga ch’a passa scunussuda enfra i bars». «Ma noi si vive, si vive quieti e morti, come un’acqua che passa sconosciuta fra le siepi»14.
Accanto alla vita, in Ploja tai confìns, Pioggia sui confini si affianca la morte, sempre naturalmente vicina: «Il soreli scur di fun sot li branchis dai morars al ti brusa e sui cunfins tu i ti ciantis, soul, i muars».
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P.P. Pasolini, A Rosario, Ivi, p. 60.
P.P. Pasolini, Tournant al paìs, Ivi, p. 23.
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«Il sole scuro di fumo, sotto i rami del gelseto, ti brucia e tu, da solo sui confini, conti i morti»15.
Le opere percorrono la vita intera del poeta, dalle prime poesie friulane ai saggi teorici, dai romanzi ai film. Una vita inquieta, la sua, accompagnata da cadute e malinconie. La morte è espressione di fallimento, dell’impossibilità di vivere e diviene anche una pace ambita. Quella pace che anche Edipo, vittima innocente di un destino crudele, aveva trovato nella morte. L’accostamento a Edipo non è una suggestione letteraria, se pensiamo alla “sconfinata intimità” che intercorreva con la madre e, nel contempo, il biasimo nutrito verso il padre, escluso da questa relazione affettiva. La vita e la morte sembrano esseri innocenti e nello stesso tempo procurano nella giovinezza sensazioni dolcissime e violente. Con la maturità, la vita diventa inerte dolore, sconforto, lento scorrere di stagioni. Qualcosa, allora, deve esistere per illuminare, per un attimo almeno, l’aridità della vita e la ripetitività del quotidiano, qualcosa che non è dentro di noi e nella realtà sperimentata. È forse un Dio che resta invisibile, ma di cui si scorge, riflessa, la sua luce «immensa»: «I àusi zirà in alt i vui su li pichis secis dei lens, no jot il Signòur, ma il so lun ch’al brila sempri imèns». «Oso alzare gli occhi sulle cime secche degli alberi:
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P.P. Pasolini, Ploja tai confins, Ivi, p.15.
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non vedo il Signore, ma il suo lume che brilla sempre immenso»16.
È un Cristo che pure ha promesso qualcosa: «Pleàisi, zent cristiana, a scoltà un fil di vòus, fra dut chistu sidín, ch’al ven ju da la cròus». «Piegatevi, gente cristiana, a sentire un filo di voce, fra tutto questo silenzio, che scende dalla croce»17.
Il richiamo alla religione, al Cristianesimo, introduce nel rapporto poeta-Friuli una presenza diversa dall’amore privato. Il mondo semplice, primitivo del Friuli incomincia a esprimere una coscienza nuova di sé, della sua realtà, che non è più soltanto “naturale”. Pasolini guarda al concreto dolore dei poveri, dei tribolati, alle forme di vita innocente. Questo processo riflette lo sviluppo dell’avventura interiore del poeta che, ne El testament Coràn, Il testamento Coran, consegna alla coscienza dei ricchi: Lassi in reditàt la me imàdin ta la cosientha dai siòrs. «I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin dei me tamari sudòurs, Coi todescs no ài vut timour
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P.P. Pasolini Misteri, Ivi, p. 91.
P.P. Pasolini, La not di maj, Ivi, p. 64.
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de tradì la me dovenetha. Viva il coragiu, el dolòur e la nothentha dei puarèth!» «Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori coi tedeschi non ho avuto paura di lasciare la mia giovinezza. viva il coraggio il dolore e l’innocenza dei poveri!»18.
Ne I dis robàs, I giorni rubati, il problema della ricchezza, prima di essere un fatto sociale, è un fatto morale: lo sfruttamento cui sono sottoposti i poveri è privazione della libertà di vivere gioventù e bellezza: «Nos ch’i sin puòrs i vin puòc timp de zoventùt e de belessa: mond, te pòus stà sensa de nos. Sclafs da la nàssita i sin nos! Pavèjs ch’a no àn mai vut belessa muartis ta la galeta dal timp. I siòrs a no ni pàin il timp: i dis robàs a la belessa dai nuostris paris e da nos».
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P.P. Pasolini, El Testament Coràn, Ivi, p. 130.
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«Noi che siamo poveri abbiamo poco tempo di gioventù e di bellezza: mondo, tu puoi stare senza di noi. Schiavi della nascita siamo noi! Farfalle che non hanno mai avuto bellezza, morte nel bozzolo del tempo. I ricchi non ci pagano il tempo: i giorni rubati alla bellezza dai nostri padri e da noi»19.
Il problema sociale della povertà, dello sfruttamento, dell’emigrazione, cui i contadini friulani sono costretti, non trova sbocchi. Le domande sulle ragioni della solitudine e dell’attesa rimangono senza risposta: «Signòur, i sin bessòj, no ti ni clamis pì! No ti ni òlmis pì an par an, dì par dì! […] Vegnèit, trenos, purtàit lontàn la zoventùt a sercià par il mond chel che cà a èpierdùt, Puartaìt trenos, pal mond a no ridi mai pì chis-ciu legris fantàs paràs via dal paìs. Signòur, i sin bessòj, no ti ni clamis pì!» «Signore, siamo soli, non ci chiami più! Non ci guardi più anno per anno, giorno per giorno! […] Venite, treni, portate lontano la gioventù a cercare per il mondo ciò che qui è perduto. Portate, treni, per il mondo scacciati dal paese questi allegri ragazzi a non ridere mai più.
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P.P. Pasolini, I dis robàs, Ivi, p. 121.
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Signore, siamo soli, non ci chiami più!»20.
Cristo tace. Dio è troppo lontano, è lontano dalle miserie di questo povero lembo di terra. I giovani che emigrano soffocano il loro pianto; portati via dal treno smarriscono il loro sorriso. L’ingiustizia è questo violento spegnersi della gioventù, della gioia. Il Friuli resta la sua amata terra, che si svela come un tempo di sensazioni felici, segnate dal distacco, da solchi profondi di nostalgia e rimpianto: «Dis lusìns come l’aga lumìns frescs, ta l’umit co la sera a si dislaga ta li rojs ch’a profùmin… A è dut finìt, dut: un Friul ch’al vif scunussùt cu la me zoventùt di là dal timp, ta un timp sdrumàt dal vint.» «Giorni lucenti come l’acqua, freschi lumicini, nell’umido della sera che si scioglie sulle rogge profumate. Tutto è finito, tutto: un Friuli che vive sconosciuto con la mia gioventù al di là del tempo, in un tempo rovesciato dal vento»21.
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P.P. Pasolini, La miej zoventùt, Ivi, p. 169. P.P. Pasolini, Lùnis II, Ivi, p. 102.
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2. Sperimentalismo formale: poesia in lingua Con una vasta sperimentazione di forme narrative, Pasolini esprime le sue frustrazioni, i suoi desideri, il suo dolore e la sua disperazione verso un Paese, il nostro, che versa in uno stato d’emergenza antropologica, storico-culturale e politica. Egli, dopo l’esperienza poetica dei primi anni ’40 – quella dei versi scritti nel dialetto friulano di Casarsa – sceglie di uscire dal mondo “preistorico” della natura per entrare nella società e nella storia. Il poeta aveva già partecipato alla vita politica, come segretario della sezione comunista di S. Giovanni di Casarsa, dove affiggeva manifesti murali con i suoi apologhi in friulano. Il marxismo, il comunismo e il pensiero di Gramsci entrano nel magma soggettivo del poeta, il quale avverte la loro forza propulsiva. Storia e mito, politica e moralità, sottoproletariato e capacità di lotta antiborghese e anticapitalistica sono categorie presenti nelle istanze sociali e religiose di quegli anni. Queste sollecitazioni inducono il poeta a spostare l’asse del suo interesse artistico verso una poesia civile, di forte impegno intellettuale e di presa di coscienza della realtà. Così avviene ne “Le Ceneri di Gramsci”, in “Trasumanar e organizzar”. Per Pasolini, comunque, non c’è sperimentazione poetica che possa prescindere dalla tradizione, dato che compito del poeta è rinnovare il linguaggio22, in un percorso «di continua e infinita trasformazione scandito da una linea immutabile»23. 22 A questo proposito, è di fondamentale la consultazione del volume di G. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1975.
P.P. Pasolini, Cultura italiana e cultura europea a Weimar, in «Il Setaccio», a. III, Gennaio 1943, n. 3, pp. 8-9, ora in Pasolini e ‘Il Setaccio’, a cura di M. Ricci, Bologna, Nuova Universale Cappelli, 1977, p. 69.
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E ancora: «Bisogna strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione […] Solo la rivoluzione può salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla […]»24.
Per comprendere lo sperimentalismo pasoliniano della produzione letteraria degli anni ’50, bisogna valutare la portata ideologica del pensiero dell’autore nella sua veste di intellettuale militante e guardare al vasto dibattito sviluppatosi in Italia, specialmente nel dopoguerra, sul rapporto tra “cultura” e “politica”. In questo contesto, Pasolini sceglie di modificare la tradizione poetica e linguistica rivolgendosi alla poesia in lingua, senza rinnegare la naturalezza del dialetto, che nei romanzi diviene difesa contro l’avanzata corruttrice dell’uniformità e dell’aridità del linguaggio omologato. Pasolini parla di zona franca: «in cui Neorealismo e postermetismo coesistono fondendo le loro aree linguistiche»25.
La soluzione non è semplice: non è agevole tradurre in espressione letteraria quella “zona franca”. Pasolini che aveva scelto il dialetto per rappresentare la realtà del mondo contadino, scenario di una fanciullezza autenticamente pura, ora si fa sostenitore di un linguaggio non poetico, depurato dalla nostalgia, aderente alla realtà; un linguaggio che piega la poesia alla prosa. La simpatia verso l’umanitarismo marxista porta Pasolini ad
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P.P. Pasolini, Una forza del Passato, in «Vie Nuove», n. 42, 1962.
P.P. Pasolini, La libertà stilistica, in Passione e Ideologia, cit., p. 530 passim.
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aderire alla teoria del rispecchiamento di Lukács: l’arte come specchio critico della realtà, capace di rappresentare le contraddizioni sociali. 2.1. Le ceneri di Gramsci Pasolini ha sempre messo in risalto la centralità del personaggio Gramsci nella sua formazione di politico e di letterato: «Non per nulla sul Croce amato e odiato, sul Gobetti, su qualsiasi altro, domina nella nostra vita politica lo spirito di Gramsci [...] tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero»26.
Le ceneri di Gramsci sono il segno innovativo dello sperimentalismo poetico di Pasolini e della sua presa di coscienza storica. La raccolta di poesie coincide con l’ampio dibattito sviluppatosi sulle pagine di Officina, – rivista fondata a Bologna nel 1955 da Pasolini, Leonetti e Roversi – nelle quali Pasolini afferma la necessità di una poetica realista, e di un rinnovamento formale della scrittura, da condurre all’insegna di una poesia “narrativa” dai toni prosastici. Da qui il rifiuto della neoavanguardia che cancella il rispecchiamento, disperdendolo in un vuoto “gioco linguistico” che al poeta appare un appannamento del reale e in definitiva come una sua sterilizzazione. Pasolini propone una poesia civile, una poesia che diventi occasione per riflettere sulla realtà, ed anche un’occasione per affrontare i nodi del rapporto tra lo scrittore e la storia. 26
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Ivi, p. 538.
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Ne Le ceneri di Gramsci, Pasolini esamina il contrasto tra i suoi slanci individuali e le sollecitazioni all’impegno politico, favorito, soprattutto, dalla lettura degli scritti del grande intellettuale sardo, punto di riferimento centrale della cultura di sinistra del dopoguerra. Il poeta spera di trovare nell’ideologia marxista la risposta per superare la solitudine e l’inerzia, ma non riesce a risolvere in modo unitario l’ambivalenza tra passione e ideologia. Allora la figura del pensatore sardo sepolto nel cimitero laico, “carcerato”, indifeso e solitario, diventa una idealizzazione dell’uomo funzionale al suo io. Egli sente il fascino eroico di un «giovane» speciale, tanto più eroico quanto più solo: «Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore era ancora vita, in quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore, quanto meno sventato e impuramente sano 43
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dei nostri padri – non padre, ma umile fratello – già con la tua magra mano delineavi l’ideale che illumina (ma non per noi: tu, morto, e noi morti ugualmente, con te, nell’umido giardino) questo silenzio»27.
Pasolini si pone di fronte a Gramsci quasi come di fronte «al simulacro di un fanciullo, di una esistenza mancata»28 e, pur servendosi di molti strumenti concettuali attinti dalla sua opera, avverte interiormente una celata forma di distanziamento o di estraneità dal pensatore sardo, speculare alla inquietudine verso una dottrina avvertita come distante, che non sembra più appartenergli: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel core, in luce, contro te nelle buie viscere; del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione – mi sono ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza: è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
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P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Poemetto I, in Tutte le poesie, cit., I, p. 223. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera, Neri Pozza, Vicenza, 1980, p. 168.
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a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia»29.
Ritorna sempre l’irrisolto dissidio tra ideologia e passione! Sul piano ideologico, Pasolini condivide la prassi rivoluzionaria marxista – che vede nel popolo il protagonista della storia – e nello stesso tempo, sul piano della “estetica passione” egli è attratto dalla bellezza e dalla vita nella sua forma spontanea espressa dagli uomini e dalle persone semplici, in particolare: «la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza»30.
Questo inno esprime la rivendicazione dei diritti del singolo, del “personale” contro la sordità del marxismo!31 Le Ceneri di Gramsci, dunque, sono l’espressione di un conflitto interiore che Pasolini non riesce a risolvere, perché non si può esorcizzare il destino dell’uomo singolo che fa esperienza e vive di passioni: «fratelli proprio nell’avere passioni di uomini che allegri, inconsci, interi vivono di esperienze
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P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Poemetto IV, in Tutte le poesie, cit. I, pp. 227-228. Idem.
A tal proposito, si veda F. Brini, Per conoscere Pasolini, Milano, Mondadori, 1981.
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ignote a me»32.
Pasolini coltiva la passione, se ne sente partecipe, ma allo stesso tempo ne è anche vittima, come risulta evidente nella domanda che rivolge a Gramsci: «Mi chiederai tu, morto disadorno, d’abbandonare questa disperata passione di essere nel mondo?»33.
Pasolini, persona attenta alle dinamiche del mondo reale, prende atto dell’inesorabile declino in atto: «Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?»34.
Questo mondo si sgretola perché l’omologazione culturale avanza ed elimina i segni del mondo popolare e contadino; il linguaggio la riflette e si impoverisce anch’esso di rimando. 2.2. Trasumanar e Organizzar Una parte della critica sostiene che questa raccolta di poesie (scritte tra il 1965 e il 1971) sia il segno della crisi di identità di
P.P. Pasolini, Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, in Tutte le poesie, cit. I, p. 245.
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P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Poemetto V, in Tutte le poesie, cit. I, p. 232. Ibidem, VI, p. 235.
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Pasolini. In realtà l’opera contiene una carica innovativa, che si declina in più versanti. Si muove anzitutto nell’ambito dell’impegno “civile” e segna, dal punto di vista stilistico, una rottura con le avanguardie e in particolare con il Gruppo 6335. Le ceneri di Gramsci si muovono entro l’ambito della tradizione, con un occhio puntato verso un rinnovamento artistico e civile; in Trasumanar si avverte la delusione politica e culturale del poeta, il quale abbandona i canoni tradizionali della poesia stravolgendoli con assoluta libertà strutturale e con calcolata noncuranza stilistica, anche se le istanze dettate dal suo spirito inquieto e “ribelle” rimangono immutate. In questa raccolta Pasolini anticipa lo spirito provocatorio e polemico che sarà presente successivamente, nelle Lettere luterane, negli Scritti corsari e nelle sue numerose pellicole: «Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni pratiche»36.
Il Gruppo 63, definito come “neoavanguardia” per differenziarlo dalle avanguardie storiche del Novecento, è un movimento letterario che si costituì a Palermo nell’ottobre del 1963 in seguito a un convegno tenuto a Solunto da alcuni giovani intellettuali, fortemente critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali tipici degli anni cinquanta. Del gruppo facevano parte poeti, scrittori, critici e studiosi animati dal desiderio di sperimentare nuove forme di espressione, rompendo con gli schemi tradizionali. Richiamandosi alle avanguardie degli inizi del secolo, il Gruppo 63 si rifaceva alle idee del marxismo e alla teoria dello strutturalismo. Senza darsi delle regole definite, diede origine a opere di assoluta libertà contenutistica, senza una precisa trama, talvolta improntate all’impegno sociale militante, ma che in ogni caso contestavano e respingevano i moduli tipici del romanzo neorealista e della poesia. Il Gruppo ebbe il merito di proporre e tentare un rinnovamento nel panorama della letteratura italiana, ma il suo distacco dal sentire comune e la complessità dei codici di comunicazione ne fecero un movimento elitario.
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36 P.P. Pasolini, Comunicato all’ANSA, in Trasumanar e organizzar, in Tutte le poesie, cit, I, p. 900.
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Questi versi segnano, dunque, l’abbandono dello schema stilistico precedente e nello stesso tempo segnalano un declino della lirica: «Perché esiste la poesia lirica? Perché solo io, e nessun altro per me, sa quali lunghe tradizioni ha il dolore nascente dalla tinta dell’aria che si oscura; la sera e le nuvole annunciano, insieme, notte e inverno»37.
Spingendo ulteriormente la ricerca poetica, Pasolini costruisce i suoi testi sotto forma di finte inchieste giornalistiche, di interviste immaginarie, di comunicati dove vero e falso s’intrecciano, finalizzati alla discussione delle questioni sociali. Metodo, questo, provocatorio, utile al poeta per verificare l’effetto della trasgressione sul lettore. La poesia riprende gli aspetti stilistici utilizzati agli esordi e diviene una sorta di mediazione del linguaggio grafico-simbolico, prossimo ai “Manifesti murali” del dopoguerra friulano, che evocavano le questioni e le figure politiche dell’epoca. Nelle pagine di Trasumanar e organizzar si rincorrono, in un frenetico incalzare, le contestazioni studentesche, la strage di Piazza Fontana, la guerriglia sudamericana, le inquietudini mai risolte della sinistra italiana, l’epopea di Kennedy e le speranze che l’accompagnavano. Le ideologie si diradano e il privato ritorna protagonista. Compaiono figure importanti per la vita del poeta, come Maria Callas e Ninetto Davoli. Maria è l’amore incompiuto, come lui è un’anima fragile. Ninetto pone a Pasolini la questione irrisolta della sua identità.
37 P.P. Pasolini, Appunto, in Poesie rifiutate 1968-1969, a cura di G. Manacorda, Castelvecchi, Roma, 2000, p. 39.
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Ne La città santa, titolo della sezione del libro, si trovano quasi tutte le poesie che il poeta scrive per la Callas verso la quale si dichiara «un figlio che non ha mai conosciuto, o voluto conoscere, il ruolo paterno, mentre lei cerca in Pasolini, trasformata nella madre più sanguinosa del mondo antico (Medea), un uomo adulto con cui ricostruire un rapporto»38. Scrive Pasolini: «La tua cultura è paterna e dunque credi che lo siano tutte»39.
Se Maria era soltanto un incontro di due anime fragili e inquiete, con Ninetto, al quale dedica i testi di una sezione dal titolo Piccoli poemi politici e personali, Pasolini deve ancora una volta fare i conti con l’idea di virilità: «Ho esposto […] Considerazioni esistenziali… Sono socialmente solo… […] La mia mancanza di virilità come comportamento serio che tanto conta sia per gli studenti che per il Partito Comunista»40.
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M. Bazzocchi, Poesia. Un affetto e la vita, http://www.doppiozero.com/
P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, La città santa, in Tutte le poesie, cit., I, p. 1021
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40 P.P. Pasolini, (a cura di G. Manacorda), Esposto, in Poesie rifiutate 1968-1969, cit., p. 47
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Per questa poesia – scartata dalla raccolta e inclusa tra le poesie Escluse che saranno poi pubblicate a cura di Giorgio Manacorda – Pasolini polemizzò rispondendo, con forza e “passione”, a Elio Pagliarani, poeta vicino al Gruppo 63, per la critica che gli era stata rivolta su Paese sera: “Ho esposto agli studenti ciò che andava esposto con vecchio amore al Partito comunista, ed essi mi hanno relegato tra gli Infrequentabili; ho poi esposto al Partito comunista ciò che andava esposto con inevitabile amore per gli studenti: e il Partito comunista mi ha relegato fra gli Infrequentabili”41.
Con Trasumanar e Organizzar Pasolini esprime la problematicità del rapporto con il reale. Tra l’ironico e il sarcastico, egli dichiara la sua resa all’ineluttabilità del male e all’essere, questo male, consustanziale alla società capitalistica. La società regredisce verso le sue peggiori espressioni. È dissacrata e profanata, la poesia è sostituita dalla vacuità dei messaggi e degli striscioni; “trasumanar”, conseguire una dimensione mistica, è illusorio.
41 L’articolo di Elio Pagliarani al quale allude in Esposto è una recensione a Pilade (Pilade: partigiani e potere dei fiori) uscita su «Paese Sera» del 30 agosto 1969, a cui Pasolini risponde con una “Lettera al direttore” del 4 settembre 1969
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Capitolo III - Eterodossia
Capitolo III
Eterodossia
1. Libertà eretica e corsara Il panorama dell’impegno artistico di Pasolini è ricco e variegato: le poesie si alternano ai romanzi, i saggi alla critica, le sceneggiature alla regia. In questi impegni, l’intellettuale si concentra su alcuni snodi tematici: il conformismo, l’omologazione, la verbosità petulante, l’appiattimento intellettuale, l’idiozia dei programmi televisivi. Pasolini discute, provoca, scandalizza, sempre alla ricerca di una verità che in qualche modo è insita nella ricerca medesima. Non si piega all’ortodossia culturale. Si dichiara eretico, senza tuttavia ergersi a maitre à penser. a maestro di morale o di storia o di azione. Fuori dagli schemi, fuori dal coro, fuori da tutto, è tollerato, ma non amato, è utilizzato ma non capito. Il rispetto apparente per un intellettuale scomodo ha consentito al sistema di curare il suo lifting, includerlo per legittimarsi. Al sistema oggi viene risparmiato anche questo sforzo. I profeti sono scomparsi. La deriva della vacuità e della presunzione può fare bellamente il suo corso. Il mostro si è gonfiato e le battaglie per sconfiggerlo sono inutili, anzi non vengono neppure iniziate. Nelle pagine degli Scritti Corsari e delle Lettere Luterane, Pasolini affronta i temi del suo tempo, che sono gli stessi di oggi: la menzogna, le idee al servizio degli interessi, la disonestà intellettuale, i privilegi, il giudizio approssimativo e superficiale. Le 51
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classi dirigenti che si sono alternate negli anni nulla hanno fatto perché fosse data soluzione a ciò che di irregolare presentava il Paese, destinato inesorabilmente ad un tramonto civile e politico. 1.1. Scritti corsari Negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane Pasolini si occupa di “diritti civili” che sono, prima di tutto, i “diritti degli altri”, di trasformazione dei costumi, di mutamenti e alterazioni dei parametri etici: «Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti», […] e «sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti non li pretendono, o addirittura ci rinunciano»1.
Negli Scritti corsari lo scrittore si occupa in particolare della “scomparsa delle lucciole”, del divorzio, dell’aborto, dei capelli lunghi dei giovani, delle stragi terroristiche. La scomparsa delle lucciole è una metafora della degenerazione del tessuto civile e politico della società italiana. Una società muore schiacciata dalle macerie culturali ed umane: «Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua [...] sono incominciate a scom-
1 Sono le parole del discorso che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre 1975. Furono lette da Vincenzo Cerami, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini era stato ucciso all’Idroscalo di Ostia. Per il testo integrale, si veda P.P. Pasolini, Intervento al Congresso del Partito radicale, in Saggi sulla politica e sulla società, cit. p. 706.
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parire le lucciole. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. [...] Quel “qualcosa” che è accaduto una decina d’anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole” [...]. Dopo la scomparsa delle lucciole. I “valori”, nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. [...] A sostituirli sono i “ valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale»2.
Il consumismo è motivo di preoccupazione. Sotto l’apparenza della libertà di scelta, prende forma una dittatura pericolosa e distruttiva, che aggredisce le coscienze e impone uno stile di vita predatorio, che svuota e sterilizza i valori. Il fascismo aveva tolto
P.P. Pasolini, L’articolo delle lucciole, in Scritti Corsari, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 405-411.
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la libertà formale, ma aveva risparmiato la coscienza e la libertà di giudizio; il consumismo divora la coscienza e un famelico desiderio di possesso la rimpiazza. Pasolini si schiera contro il divorzio a difesa dell’etica della sobrietà. Per il poeta il divorzio altera il significato della libertà, alimenta il disimpegno, rompe la relazione e l’individualismo prevale. Un individualismo autoreferenziale che trova il suo sbocco naturale nell’appagamento di se stesso. Si impone la cultura del benessere e dell’appagamento. Un nuovo capitalismo dirige il processo e continua a farlo. L’esito è la desertificazione dell’anima: «è stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita edonistico che ha determinato il trionfo del NO al referendum»3.
Più controcorrente e singolare è la sua posizione sull’aborto, contestata da femministe, radicali e extraparlamentari di sinistra schierati su una posizione filofemminista. Per Pasolini l’aborto non sembra tanto una conquista di autodeterminazione e liberazione sessuale, ma l’espressione di desiderio individualistico, fuori dalla relazione, piegato al consumismo: «tacitamente voluta [...] dal potere dei consumi», è diventata «una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica [...] di vita del consumatore»4.
Ne Il discorso dei capelli lunghi, Pasolini esprime un giudizio
3 4
Ivi, Ampliamento del ‘bozzetto’ sulla rivoluzione antropologica in Italia, p. 328. Ivi, Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, pp. 373-375.
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tranchant. Questo modo di esibirsi, a giudizio del poeta, non riveste alcun valore simbolico. È pura moda, fenomeno di costume, che omologa, senza distinguere giovani di destra e di sinistra. Il tarlo del conformismo erode le differenze: «non esprimeva più “cose” di Sinistra, ma esprimeva qualcosa di equivoco, Destra-Sinistra, che rendeva possibile la presenza dei provocatori. […] Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio dei segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le “cose” della televisione o delle “reclames dei prodotti»5.
I capelli lunghi altro non sono che l’espressione posticcia di una sottocultura di protesta, verniciata di sinistra, preda facile di quell’universo borghese che conferisce cittadinanza ad avversari nati dalle sue stesse viscere, incubati in una cultura senza radici. Assumono la maschera della protesta, per rimuovere la placenta dei privilegi dove rimangono, essi stessi, pigramente custoditi. A Pasolini non resta che denunciare la scomparsa di «figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffetti innocenti»6.
Altro significato, significato dirompente, assumono i capelli lunghi portati dai giovani praghesi, in silenzio, senza clamori o esibizioni, ma che parlano più delle parole, esprimono dissenso e desiderio di libertà:
5 6
Ivi, Il ‘discorso’ dei capelli lunghi, pp. 273-277. Ibidem.
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“Noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi»7.
1.2. Lettere luterane Nelle Lettere luterane, libro pubblicato postumo nel novembre del 1976, ma già progettato dall’autore che aveva scelto gli articoli da raccogliere e pubblicati sul «Corriere della Sera» e sul «Mondo», Pasolini dà una chiave di lettura politica, economica, culturale e antropologica dei fenomeni della società italiana. Nello scritto di apertura, I giovani infelici, egli analizza la “mutazione antropologica” dei giovani e le responsabilità dei padri che l’hanno agevolata, per essersi inchinati al nuovo e insidioso avversario: il consumismo che, una volta insediatosi nel cuore dell’uomo, è impossibile rimuovere perché vi prende dimora e lo consuma. L’errore dei padri è quello di non aver sfrattato la storia borghese, anzi di aver creduto che «la storia non sia e non possa essere che la storia borghese»8,
che si è radicata e ha assunto stabile configurazione. L’altra storia, la storia del popolo, non considerata appetibile, è rimasta senza sostenitori; si è quindi atrofizzata, ha perso le sue milizie, che hanno disertato o fatto lega comune con i figli della borghesia. Gli uni e gli altri hanno assunto la medesima fisionomia. Sono
7 8
Ibidem.
Ivi, I giovani infelici, p. 542.
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diventati un tutt’uno. Tutti omologati dal nuovo corso, paghi di una libertà anoressica. Dà ragione, Pasolini, di questa infelicità, quando afferma che «i figli che non si liberano dalle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità»9.
Nella parte della raccolta intitolata Gennariello, Pasolini disegna organicamente un progetto pedagogico che aveva già avviato sulle pagine del «Mondo», ma che sarebbe rimasto tuttavia in sospeso a causa della sua prematura morte. Pasolini immagina di rivolgersi a un ragazzo, Gennariello, cui descrive la società italiana e le sue trasformazioni. Gennariello è il pretesto per analizzare i riferimenti educativi della contemporaneità: i compagni, i genitori, la scuola definita «insieme organizzativo e culturale che ti ha completamente diseducato»10
9 10
Idem, p. 545.
Ivi, Gennariello, p. 465.
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e la televisione, «depositaria di ogni ‘volgarità’ e dell’odio per la realtà […] (dove) il sacro è completamente bandito»11.
Per lo scrittore, la televisione produce conformismo e omologazione. In quanto strumento di potere, è potere essa stessa. Pasolini, rivolgendosi ai dirigenti della TV, propone la lettura dei libri che, diversamente dalla banalità e superficialità che informano il mezzo televisivo, sono espressione di vera cultura. L’autore prende in esame e sfiora altri temi: la fine dell’artigianato; la degradazione delle città e della campagna; l’invito a Gennariello di non rinunciare a niente e di essere allegro. Lo scritto finale, Postilla in versi, riprende gli argomenti de I giovani infelici e di Gennariello: «Vogliamo sorridere come i ragazzini di Balsorano... Voi pensate ai nostri doveri ché ai nostri diritti, se vorremo, ci penseremo noi»12.
Nelle Lettere luterane, Pasolini avverte lo smarrimento e l’ineluttabilità della perdita di valori della società italiana. I detriti di pietra lasciati dalla guerra sono stati sostituiti dai detriti dello spirito, che hanno schiacciato l’anima: «l’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è anco-
11 Ivi, Contro la televisione, p. 130; cfr. A. Canadé, (a cura di), Pasolini, la televisione e il sacro, in Corpus Pasolini, Cosenza, Pellegrini Editore, 2008, p. 197.
12 P.P. Pasolini, Lettere luterane, Postilla in versi, III, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 721
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ra più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra macerie di “valori”»13.
Da qui la ricerca delle responsabilità, individuate in una classe politica inetta e corrotta, che ha occupato il Palazzo e merita di essere ritualmente, non metaforicamente, messa sotto accusa in un processo penale dentro un tribunale. Per Pasolini i politici dovrebbero essere «accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente [...]: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna [...], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani [...]. Responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne»14.
Pasolini batte pugni metaforici contro il potere, lo martella con ritmo implacabile, imputandone le responsabilità. Le accuse cadono nel vuoto. Gli accusati sono sordi e la reazione è muta. I convenuti non si presentano e il Processo non si può celebrare! Il linguaggio si fa asciutto e incalzante. Pasolini qui non in-
13 14
Ivi, Pannella e il dissenso, p. 610.
Ivi, Il Processo, pp. 639-646, pp. 668-673, passim.
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terpreta algidamente, ma descrive la desolazione, la distruzione provocata dallo sviluppo e dalla brutale crescita economica. La ricostruzione delle macerie morali non è possibile, perché l’avanzata del consumismo ha fatto terra bruciata attorno a sé. Ha spento lo slancio dello spirito, ha infranto le speranze e ha spinto l’uomo nella profondità della banalità, precipitandolo nel baratro della vacuità. L’universo preparato è “orrendo” ed è costellato da culture massacrate, identità spogliate, rapporti lacerati, condotte omologate e quindi irriconoscibili. Pasolini, intellettuale libero, si pone al di fuori dalla vulgata degli illusionisti della parola, giullari senza costume al soldo di mestatori, che confondono per nascondere, imbonitori di menzogne camuffate. Egli vede con lucidità il processo di manipolazione delle menti e delle coscienze, che il potere collaudava con successo, per entrare a regime qualche decennio dopo. Un potere che celebra l’economia del consumo e che provoca l’aridità dello spirito. Un’economia che, dilatandosi, detta l’agenda della politica piegandola ai suoi interessi. La società è incapace di reagire e di porsi domande sul suo destino. La televisione diviene strumento privilegiato di questa operazione diabolica e inarrestabile. Seguono orde fameliche, mai sazie, assetate di denaro. Lo Stato svende la sua funzione di guida, consegnandosi al mondo della finanza e della grande industria. Le Istituzioni pongono il livello delle decisioni sempre più in alto per renderle inaccessibili e diluirne la critica. Il processo democratico è falsato. La sorte degli uomini è decisa senza mandato popolare, il mercato è reso più libero, con regole cogenti per giustificare l’ineluttabilità della fame e della miseria.
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Capitolo IV - La visione “religiosa”
Capitolo IV
La visione “religiosa”
1. Pasolini “homo religiosus” La religiosità di Pasolini si manifesta in modo abbastanza evidente nella sua opera, che non è altro se non una costante ricerca di intimità col sacro e un’adesione lancinante alla figura di Cristo: «La mia religione era un profumo [...] Tra i libri sparsi, pochi fiori azzurrini, e l’erba, l’erba candida tra le saggine, io davo a Cristo tutta la mia ingenuità e il mio sangue»1.
Pasolini esprime una religiosità intessuta di nostalgia del tempo passato che rivive nella memoria della fanciullezza trascorsa a Casarsa, segnata da riti e celebrazioni: «Eppure Chiesa ero venuto a te. Pascal e i Canti del Popolo Greco tenevo stretti in mano, ardente»2.
1 2
P.P. Pasolini, La religione del mio tempo (1957-1959), in Tutte le poesie, cit., I, p. 495. Ibidem.
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Il poeta, in età matura, ha difficoltà a confermare nel suo vissuto queste esperienze. Quella religione contadina, che aveva animato per secoli la vita sociale delle persone più semplici ed umili, viene rimossa. Le spinte di un umanesimo orientato alla terra gli precludono la visione di un cielo fonte di verità: «[…] io non sono credente. La mia situazione è quella tipica di molti borghesi come me […] che hanno superato la “fede” infantile attraverso un’educazione prima di tipo laico e liberale, e poi, definitivamente, con l’ideologia marxista. Tuttavia, nel profondo, la fede infantile, i miti, i traumi infantili, specie in uno che faccia poi la professione dello scrittore, sono incancellabili: ed è per questo che si parla tanto spesso – e per forza genericamente – di “religiosità”»3.
Pasolini, pur rifiutando il trascendente, continua comunque a sentire il fascino dell’immanente, di quell’immanente religioso presente nell’animo umano, che alimenta il senso del sacro e del mistero. Il sacro e il mistero si rendono concreti negli esseri umani tormentati che lottano e si confrontano con l’arcano ineludibile del dolore e della morte e salgono le scale dell’avventura umana passo dopo passo. Attraverso la fatica dell’ascesa, sperimentano anche le sconfitte e avvertono sulla pelle il sudore del duro lavoro quotidiano. Sono questi i segni dell’umanesimo cristiano pasoliniano, della sua “religiosità”, che porta il nostro autore a stare accanto al sottoproletariato o potremmo dire meglio vicino a tutti gli Anawim4 di questo mondo.
P.P. Pasolini, Religione e religiosità, in Vie Nuove, n. 45, 5 novembre 1964, ora in I dialoghi, a cura di G. Falaschi, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 337. 3
4
La Fraternità degli Anawim, sorta da alcuni anni nell’ambito della Chiesa cattolica
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Egli avverte il fascino della religione, legata alla figura di Cristo, povero, dalla parte dei poveri, che dà dignità agli scartati dalla società e dal potere: «Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere»5.
Pasolini dichiara la simpatia verso la persona di Cristo, convinto che il suo insegnamento non è dottrina, ma parola che si fa carne6 e quindi parola esistenziale: riferimento per il riscatto degli emarginati. Pasolini, homo religiosus, punta alla terra per individuare un modello di giustizia sociale che Cristo richiama. In lui è presente quella visione pacificatoria e consolatoria della religione su cui Marx si era espresso con un taglio eminentemente sociologico. Di
per iniziativa di Giovanni Cereti, è costituita da piccoli gruppi di uomini e donne che cercano di aiutarsi a vivere ed a confrontarsi col messaggio evangelico, mantenendo intatta la propria libertà e la propria particolare adesione alla condizione storica in cui si trovano.
5 P.P. Pasolini, Elogio della barbarie, nostalgia del sacro, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1480.
6 Vedi Giovanni 1, 14. Per le citazioni bibliche, evangeliche e le Lettere varie si è tenuto presente il testo La Sacra Bibbia. UELCI. Versione ufficiale della Cei, San Paolo Edizioni, 2008. Da qui in avanti La Sacra Bibbia.
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Marx, divenuto riferimento culturale ed ideologico, Pasolini forse non riesce ad intravedere tutte le sfumature culturali. Il filosofo di Treviri, figlio del rabbino Levi, maestro della legge mosaica posta a difesa dei più deboli e bisognosi, non poteva rimanere immune dall’esperienza paterna. E il Capitale ne porta traccia, ricco com’è di riferimenti veterotestamentari. La sofferta “religiosità” è testimoniata dalle parole del poeta stesso: «gl’istinti (posso chiamarli così) religiosi che erano in me mi portarono al comunismo»7.
Rielaborata la visione di Cristo in chiave marxista, non rara nella realtà (basti vedere i movimenti legati alla teologia della liberazione soprattutto nell’America Latina), consegna al cristianesimo quella funzione liberatrice, smarrita ormai anche dai fronti più avanzati della politica in forza di quel processo di omologazione che piega tutto al fascino del consumo e della moda: «Ogni religione formale, nel senso che la sua istituzione è diventata ufficiale, non solo non è necessaria per migliorare il mondo, ma addirittura lo peggiora»8.
1.1. L’Usignolo della Chiesa Cattolica Tra i tanti nuclei tematici che si rincorrono ne L’Usignolo della Chiesa cattolica, ci sembra opportuno dare ancora spazio alla 7 P.P. Pasolini, Nota all’usignolo della Chiesa Cattolica, inedito, 5 febbraio 1951 in I linguaggi del Sessantotto (Atti del Convegno multidisciplinare. Libera Università degli Studi “San Pio V”, Roma 15-17 maggio 2008) a cura di G. Dotoli, M. Selvaggio, M. De Pasquale, Editrice APES, Roma, 2008, p. 279. 8
P.P. Pasolini, Quasi un testamento, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 856.
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centralità della figura del Cristo, trasfigurato sulla croce. Egli, crocifisso, è stato scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani9; ed ancora oggi è pietra di scandalo. Egli non è “traducibile” in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana. È una “pietra”: su questa “pietra” o si costruisce o ci si schianta.10 «Bisogna esporsi questo insegna il povero Cristo inchiodato?»11,
perché «la chiarezza del cuore è degna di ogni schermo di ogni peccato di ogni più nuda passione»12.
È evidente che l’evocazione dello scandalo e del corpo deriso e martoriato costituisca una sorta di anticipazione della sorte del poeta. Ne La crocifissione Pasolini parla di un Cristo in croce umiliato e offeso, esposto al pubblico scherno della folla: «perfino la madre sotto il petto, il ventre, i ginocchi, guarda il Suo corpo patire»13.
9 10
I Corinzi, 1, 23, in La Sacra Bibbia, cit. Matteo 21, 4, in La Sacra Bibbia, cit.
P.P. Pasolini, La crocifissione, in L’usignolo della Chiesa cattolica, in Tutte le poesie, cit. I, pp. 376-77.
11
12 13
Ibidem. Ibidem.
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Dramma speculare al suo stesso dramma che lo vedrà vittima. Cristo in croce è paradigma del giusto crocifisso, delle persone umiliate e offese sottoposte agli abusi e alle angherie dei prepotenti. L’unico modo di opporsi all’ingiustizia è lottare e opporsi alla violenza. Pasolini patisce anche lui il peso della persecuzione del giudizio. Persecuzione politica in quanto comunista eretico e persecuzione personale per le sue inclinazioni14. Il poeta, come Cristo, è anch’egli un capro espiatorio, una vittima designata e testimone all’infinito, fino al martirio: «Noi staremo offerti sulla croce, alla gogna, tra le pupille limpide di gioia feroce, scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi, miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco, per testimoniare lo scandalo»15.
Pasolini è un testimone del suo tempo, attraverso l’esposizione integrale della sua persona, così com’è. In questa sua esposizione tribolata, voce solitaria e inascoltata, si coglie la drammaticità e la sofferenza di chi chiede aiuto, senza riceverne risposta: «sacrificare ogni giorno il dono rinunciare ogni giorno al perdono
14 Luperini, Cataldi, Marchiani (a cura di), La scrittura e l’interpretazione. Dall’Ermetismo al Postmoderno (dal 1925 ai giorni nostri), II, Palumbo, Palermo, p. 1064.
15 P.P. Pasolini, La crocifissione in L’usignolo della Chiesa cattolica, in Tutte le poesie, cit., I, pp. 376-77.
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sporgersi ingenui sull’abisso […]»16.
Il poeta non crede che Cristo sia figlio di Dio, ma crede che «in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico “poesia”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo»17.
Qui sembra cogliersi un riverbero di quella sorta di arianesimo, mai sopito, di chi crede in un Cristo tutto terreno, che un Concilio si era incaricato di correggere18. 2. Il temporalismo della Chiesa La Chiesa, secondo l’opinione di Pasolini, tradisce la sua natura profetica, capace di leggere la storia del nostro tempo e infondere speranza. Si è inaridita, trasformandosi in un’algida istituzione; è divenuta anch’essa potere omologato, distante dalle persone, soprattutto dai poveri e dai sofferenti cui prestare sollecitudine e particolare cura. Ha strumentalizzato, a fini di potere e controllo delle masse, la rassegnazione evangelica. Una Chiesa che propone una religione senza coinvolgimento, tradotta in valori spendibili nei mercati mondani e nei salotti:
16
Ibidem.
Dalla Lettera di Pier Paolo Pasolini al produttore Alfredo Bini (giugno 1963). Citato in E. Bianchi, Pier Paolo Pasolini, Una passione, in «Il Foglio», n° 274, 2000. 17
Si tratta del Concilio di Nicea, del 325 d.C. Uno degli argomenti affrontati durante questo fondamentale Concilio (convocato e presieduto dall’imperatore Costantino I), era la contestazione delle tesi del vescovo Ario, il quale negava la divinità di Cristo in quanto figlio di Dio, pur riconoscendo la grandezza e unicità della sua persona. 18
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«Nessuna delle passioni vere dell’uomo si rivelò nelle parole e nelle azioni della Chiesa»19.
Si tratta del baluardo della sfrontatezza borghese: «Guai a chi non sa che è borghese questa fede cristiana, nel segno di ogni privilegio, di ogni resa di ogni servitù: che il peccato altro non è che reato di lesa certezza quotidiana, odiato per paura e aridità; che la Chiesa è lo spietato cuore dello Stato»20.
Pasolini fa un resoconto delle deviazioni della Chiesa nel corso della sua storia: papi criminali, compromessi col potere, soprusi, violenze, repressioni, ed oggi una Chiesa sottomessa ai desideri mondani che pretende una religione senza impegno o per palati raffinati e mantiene il popolo in una rassegnazione che invece è passività e ignoranza. Egli immagina invece una Chiesa, fonte di speranza, lontana dalla corruzione dei palazzi e dei fasti del potere, coscienza critica, come Gesù lo è stato: «guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà»21.
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P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit., I, p. 497. Ivi, p. 498.
Matteo 23, 23 in La sacra Bibbia, cit.
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Una Chiesa, quindi, che «dovrebbe passare all’opposizione contro un potere che l’ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un ‘nuovo’ bisogno di fede) che proprio per quello che essa è l’hanno abbandonata22.
Auspica una Chiesa che sia riferimento per tutti coloro che aspirano alla sobrietà dei costumi, alla giustizia, alla difesa della dignità umana: «La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l’affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio)» […]. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta»23.
Pasolini lancia una semplice provocazione: «E poi [...] è proprio detto che la Chiesa debba coincidere col Vaticano? Se – facendo una donazione della
P.P. Pasolini, I dilemmi di un Papa oggi, Lo storico discorsetto di Castel Gandolfo, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 353.
22
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Ibidem, pp. 353-354.
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grande scenografia (folcloristica) dell’attuale sede vaticana [...] il Papa andasse a sistemarsi [...], coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla – la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?»24.
Anche qui si delinea il suo slancio profetico, intuendo la necessità di una Chiesa povera accanto ai poveri, una Chiesa dedita al servizio, che vinca le tentazioni secolari e le seduzioni della ricchezza25, proprio come sollecita Papa Francesco, che appena salito sul soglio pontificio è andato a celebrare messa nel carcere minorile di Casal del Marmo e si è prodigato, con gesti ripetuti di forte significato simbolico, a dare un’immagine della Chiesa che sta dalla parte dei poveri e dei derelitti di questo mondo. Lo slancio della Chiesa paolina, divenuto fiacco, occorre rivitalizzarlo, e questo desiderio porta Pasolini ad abbozzare la sceneggiatura di un film dedicato all’Apostolo delle genti, Progetto e Abbozzo di sceneggiatura (uscito postumo), che ripropone in chiave moderna quel potere oppressivo e dispotico che uccide i suoi oppositori nell’anima e nel corpo e che anche Paolo sperimentò.
P.P. Pasolini, 6 Ottobre 1974. Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al potere, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 361. 24
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Cfr. Omelia Santa Marta, 17 maggio 2016.
Capitolo V - Nel “ghetto” delle borgate
Capitolo V
Nel “ghetto” delle borgate
1. Testimone del sottoproletariato Di fronte all’Italia della miseria contadina, delle lotte dei braccianti contro i padroni, Pasolini, tra Marx e Gramsci, concretizza la sua prima coscienza politica: «L’ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stato una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (“I giorni del lodo De Gasperi” doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 19ó2 con il titolo “ll sogno di una cosa”) io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci»1. «Fu così che io seppi ch’erano braccianti e che dunque c’erano padroni. Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx»2. P.P. Pasolini, Al lettore nuovo in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 25172518. Cfr. P.P. Pasolini, Romàns, a cura di N. Naldini, Guanda, 1994 e P.P. Pasolini Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Guanda, Milano, 1993. Pasolini, tra autobiografia e analisi, descrive il mondo che gli dà la sua prima coscienza politica. Il romanzo più rappresentativo di questa fase è Il sogno di una cosa. 1
P.P. Pasolini, Poeta delle ceneri, in Bestemmia, Poesie disperse II, in Tutte le poesie, II, cit., p. 2062.
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Il marxismo, nella prassi e nella condotta dei dirigenti che dovrebbero adottare le decisioni politiche conseguenti, rivela presto la sua inadeguatezza a fornire soluzione ai problemi del popolo. Un’ideologia, che vede nel proletariato una massa indistinta, non riesce a leggere il cuore e le sofferenze di coloro che di questo popolo fanno parte. Il marxismo, che vive di materialismo e di massificazione, appare agli occhi di Pasolini un’ideologia arida e impersonale. Una politica che si nutre solo di teorie, che non intercetta la realtà personale, è vuota e astratta; e non può evitare di esser violenta quando un popolo, formato di singoli, intende affermare la sua libertà, che è sempre un’esperienza personale, contro un totalitarismo bieco e senz’anima. Ecco perché Pasolini stigmatizza l’aggressione al popolo ungherese nel 1956 da parte delle truppe sovietiche, che invece il partito comunista italiano aveva apprezzato «nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli, ma prima di tutto quelli che già si sono posti sulla via del socialismo»3. Pasolini lancia quindi il suo anatema verso i dirigenti del Pci, che avevano tradito il popolo, tradito proprio dai «compagni di strada»: «Avete, accecati dal fare, servito il popolo non nel suo cuore ma nella sua bandiera: dimentichi che deve in ogni istituzione sanguinare, perché non torni mito, continuo il dolore della creazione»4.
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P. Togliatti, Per difendere la libertà e la pace, in «L’Unità», 6 novembre 1956.
P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Una polemica in versi, in Tutte le poesie, cit., I, p. 268. 4
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Quindi confessa a Jean Duflot: «se sono marxista, questo marxismo è stato sempre estremamente critico nei confronti dei comunisti ufficiali, e specie nei confronti del Pci; ho sempre fatto parte di una minoranza situata al di fuori del partito, sin dalla mia prima opera poetica, Le ceneri di Gramsci. Non ci sono mai stati grandi mutamenti nella mia polemica con loro. Eppure, fino a quel momento, ero stato un compagno di strada relativamente ortodosso»5.
L’intellettuale, incalza Pasolini, ha il precipuo dovere di creare una nuova cultura, una cultura che deve «trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza». Intanto la Storia della modernità andava mietendo le sue vittime, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, gli elettrodomestici, l’automobile, le lotterie, i rotocalchi, aveva indotto bisogni artificiali, aveva privato gli uomini della gioia del vivere. Il popolo era stato uniformato, imborghesito. Un’unica e debordante cultura di massa aveva preso il sopravvento a discapito di quelle tradizioni, che sono linfa e vita per un popolo. In definitiva, veniva distrutta la specificità di una cultura, ciò che c’è di particolare e unico che la contraddistingue e la rende amata: «Altre mode, altri idoli, la massa, non popolo, la massa decisa a farsi corrompere al mondo ora si affaccia, e lo trasforma, a ogni schermo a ogni video
5 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot (1969-1975), a cura di Jean Duflot, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1477.
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si abbevera, orda pura che irrompe con pura avidità, informe desiderio di partecipare alla festa. E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole»6.
Pasolini prende coscienza del fenomeno della trasformazione, guardando soprattutto alle borgate romane. Le nostalgie giovanili, maturate nella propria terra d’origine, devono fare adesso i conti con le disillusioni e con una realtà che infrange desideri e speranze.
In un’intervista rilasciata per il quotidiano «Il Messaggero» a Luigi Sommaruga il 9 giugno 1973, Pasolini, a proposito delle trasformazioni delle culture particolari in un pensiero unico che uniforma e appiattisce, così commenta:
6
P.P. Pasolini, Il Glicine in La religione del mio tempo, in Tutte le poesie,cit., I, p. 591.
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«gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso d’inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d’aderire alla loro filosofia»7.
Due mondi contrapposti, due stili di vita inconciliabili si fronteggiavano nel campo dei rapporti sociali: «di qua sono io, povero, che conosco il vero mondo, il mondo dei malandrini, dei dritti, della malavita, dell’amore, di là sei tu, ricco, poveretto, che del mondo non sai nulla, che sei un farlocco, buono per essere derubato, se capita. Accetto il dato di fatto che tu sia il mio padrone, ma come padrone ti ignoro, se vuoi ti considero un re, e ti servo, ma in realtà tu non esisti»8.
Coloro che avevano vissuto la condizione di emarginati con convinzione e con consapevolezza, radicati nella periferia, cominciano a smarrire la loro identità ed avvertono l’insorgere in loro di un «complesso d’inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel mo-
Intervista rilasciata da Pasolini a Luigi Sommaruga, in «Il Messaggero», Roma, 9 giugno 1973. Stralci del testo sono raggiungibili anche all’indirizzo web https://squaderno.wordpress.com/2015/10/29/pasolini-il-desiderio-di-ricchezza-del-sottoproletariato-romano/ 7
8 Cfr. P.P. Pasolini, Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano, https://squaderno.wordpress.com, a cura di Stefano Lanzano
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dello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un’aria da “classe superiore”»9.
Nel ghetto delle borgate non si può entrare da spettatore, ma con tutto se stessi, condividendo l’esperienza del dramma e del dolore, come accade in Ragazzi di Vita e Una vita violenta, dove Pasolini esplora questo mondo nella sua cruda realtà, vivendolo e condividendolo, senza sconti e attenuanti. 2. Il sottoproletario nella narrativa L’attività intellettuale di Pasolini si arricchisce di una conoscenza più prodonda della realtà agricola del Friuli, passaggio questo fecondo per la successiva attività letteraria. Gli avvenimenti del Lodo De Gasperi (1948-49) relativo ai rapporti di lavoro tra proprietari terrieri e contadini e il fenomeno dell’emigrazione spingono lo scrittore al suo primo esperimento narrativo, pagine che l’autore pubblicherà nel 1962, con il titolo Il sogno di una cosa. La decisione di scrivere un romanzo ‘impegnato’ e con molti tratti neorealisti è un importante punto di passaggio nell’attività di Pasolini. Agli inizi degli Anni Cinquanta egli è costretto a cambiare l’organizzazione della propria vita a seguito di uno scandalo provocato dalla sua omosessualità10: è sospeso dall’insegnamento ed 9
Intervista rilasciata da Pasolini a Luigi Sommaruga, in «Il Messaggero», cit.
«PP si è trovato, la sera del 30 settembre, a Ramuscello, durante una sagra, con tre ragazzi che già conosceva e senza alcuna proposta venale si è allontanato nei campi con loro e lì ci sono stati dei rapporti erotici molto semplici: c’è stata una masturbazione»: Vedi N. Naldini, Pasolini, una vita, cit., p. 135. Qualcuno dei ragazzi confessa il 10
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espulso dal Partito Comunista. Per sottrarsi alla sofferenza patita nella sua terra, Pasolini si rifugia con la madre nella lontana Roma. Nella capitale non gli manca certamente la possibilità di nuove sollecitazioni letterarie; così incomincia a frequentare gli ambienti culturali romani diventando amico di molti scrittori, tra cui Bertolucci, Bassani, Gadda. Lì, la sua attenzione precedentemente diretta verso le specificità dell’ambiente contadino friulano, si indirizza alla realtà delle borgate, dove ritrova, in qualche misura, la stessa purezza friulana. Pasolini elabora, in questo contesto, una linea letteraria del tutto nuova rispetto a quella precedente, dove coesistono dialetto romanesco e italiano, e nascono così opere i cui protagonisti sono l’espressione di assolute marginalità: i prodotti di questa nuova esperienza letteraria sono Il Ferrobedò, Ragazzi di vita e Una vita violenta. 2.1. Il sogno di una cosa Un anticipo della descrizione del mondo delle borgate, marginale e reietto, è fornito ne Il sogno di una cosa, racconto concepito tra il 1948 e il 1949, pubblicato nel 1962. Qui, lo scrittore rappresenta la realtà e le lotte degli esclusi per conseguire una migliore condizione di vita. La composizione di questo testo, pubblicato quattordici anni dopo il suo concepimento, manifesta verosimilmente il desiderio di rimanere ancorato all’atmosfera della sua terra, di quel Friuli arcaico, contadino e sacrale, anch’esso purtroppo travolto dalla modernità. Questo lavoro diviene un bilancio che chiude le riflessioni lirico-meditative de Le Ceneri di suo “atto impuro” al parroco che pur di colpire il comunista Pasolini non indietreggia nemmeno davanti alla sacralità della confessione. In ogni caso qualcuno, informato, scrive una lettera anonima al brigadiere del luogo che interroga i ragazzi e stende una denuncia nei confronti di Pasolini.
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Gramsci e de La Religione del mio tempo. Esprime la coscienza della fine del “sogno” vissuto nel Friuli lontano, smarrito e stravolto. Narra la storia di contadini, che vivono le semplici gioie e i dolori negli eventi della loro esistenza, nelle feste di paese, nel lavoro nelle miniere, nella condizione di emigrante. Emigranti sono Nini Infant, Eligio Pereison e Milio Bortolus, comunisti per slancio da “fazzoletto rosso”: tre ragazzi, «parte della migliore gioventù della riva destra», conosciutisi alla sagra del paese, costretti, per difficoltà economiche e mancanza di lavoro, a espatriare. Nini ed Eligio entreranno da clandestini in Iugoslavia, ma questa esperienza si risolve in fallimento e devono rientrare in Italia passando dall’entusiasmo al disincanto: «Quando lo faremo noi il comunismo, lo faremo meglio»11.
Milio andrà in Svizzera, «un paese dove c’è lavoro e i contadini sono più ricchi dei nostri, ma sono avari, mangiano peggio e non si divertono mai»12,
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P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano, 1962, p. 61.
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Ivi, p. 212.
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ma anche lui dovrà ritornare dopo aver preso coscienza che gli elvetici non hanno tanti riguardi né per loro stessi né per gli altri. Il ritorno è per tutti drammatico e lo è particolarmente per Eligio, che muore consumato da un male contratto in miniera, dove ha lavorato duramente per superare la condizione di povertà. Rivede i vecchi amici un’ultima volta e fa in tempo a pronunciare due parole: «Una cosa! Una cosa!».
Tutti approdano ad amari risvegli nel confronto con la realtà e il riscatto si rivela una chimera irraggiungibile. Pasolini, come Guareschi, non rinuncia a mostrare situazioni dove convivono Stalin e il Crocifisso e dove Cecicila, quasi «una Lucia pasoliniana», ragazza cattolica innamorata di un comunista, Nini, va dal prete per confessarsi perché crede, col suo amore, di commettere un peccato; il prete non si scandalizza e con un sorriso le risponde che Nini «aveva tempo davanti per cambiare e che l’importante era che fosse un bravo ragazzo e non se era comunista»13.
La narrazione, che si muove sulle tracce del clima del Neorealismo di quegli anni, rivela l’attenzione e l’amore di Pasolini verso le persone semplici e verso la gente di borgata in particolare. Mostra lo smarrimento dello scrittore, che vede svanire il sogno del socialismo, della giustizia, dell’uguaglianza, del lavoro per tutti senza sfruttamento. Con il risveglio svanisce il sogno e anche l’incanto elegiaco del Friuli e della sua “meglio gioventù”. 13
Ibidem.
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2.2. Ragazzi di vita Dopo Il sogno di una cosa, la svolta romana imprime un segno profondo al processo artistico dell’autore. Nella città eterna lo scrittore avverte una coincidenza tra la propria emarginazione intellettuale e l’emarginazione sociale dei sottoproletari delle borgate romane, “messi all’indice” da quell’Italia borghese del dopoguerra della quale Pasolini sarebbe stato poco più tardi accanito contestatore. La fuga da Casarsa, tuttavia, lo metteva di fronte a una realtà assolutamente nuova, più difficile, anche se stimolante e in un certo senso liberatoria, rispetto ai limiti imposti dal mondo contadino. Il sottoproletariato urbano rappresentava un tessuto sociale tragico e scanzonato insieme. La prima opera scaturita da questa esperienza, Ragazzi di vita, ha una nascita travagliata, aggredita dalle diverse censure e a fare scandalo non erano le parolacce e i puntini, ma l’idea stessa di elevare a protagonista con il suo lessico e la sua cultura, il popolo delle borgate. Il romanzo, che segna l’esordio ufficiale del poeta nella narrativa, richiama la tecnica della dissolvenza: una sequenza di scorci di vita si animano e si chiudono davanti alla vista del lettore. Pasolini, rifiutato dalla società benpensante, sente forte la vicinanza con gli emarginati e le sue qualità intellettuali e culturali gli consentono di comprenderne i problemi, elaborarli e farli propri. In questo lavoro egli è interessato alle potenzialità del lin80
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guaggio tutto particolare del mondo delle borgate romane, come approfondimento di questa realtà sociale e del suo universo linguistico. Su questi due binari si muovono le pagine narrative che danno, con sensibilità e senso della realtà, dignità letteraria a questo mondo dell’estrema periferia romana, popolata da persone che vivono ai margini della società e assomigliano per alcuni versi ai vinti del Verga. Una realtà sociale, che Pasolini qualifica come una ‘casta’ condannata a rimanere nell’isolamento: “[…] un borghese non immagina nemmeno la chiusura e la sufficienza a se stessa di questa casta”14.
Una “casta”, che si è formata dopo le distruzioni dei bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale e alimentata dalle grandi ondate migratorie dell’immediato dopoguerra. Pasolini la racconterà, con amore e con dolore. Una “casta” chiusa nel “ghetto”, fuori dalla Storia perché dalla Storia è stata esclusa. Quando viene pubblicato il romanzo, in Italia era vivo il dibattito sul Neorealismo e in quel periodo Pasolini avvertiva l’esigenza di una sperimentazione linguistica di contrasto al ‘bello scrivere’ e all’eloquenza retorica dannunziana che avevano contraddistinto l’epoca fascista. Sarà lui stesso a spiegare le ragioni di questa scelta capace di chiarire il rapporto con il linguaggio dei poveri, proletari e sottoproletari: «è stata la necessità (fra l’atro la mia stessa povertà sia pure di borghese disoccupato) a farmi fare l’esperienza immediata, umana, come si dice vitale, del mondo che ho poi descritto e sto scrivendo. Non c’è stata scelta
14 P.P. Pasolini, Appunti per un poema popolare, in W. Pedullà (a cura di), La letteratura del benessere, Roma, Bulzoni, 1973, p. 550.
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da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ciascuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la borgata romana»15.
Per “testimoniare” le condizioni del sottoproletariato romano, lo scrittore utilizza un linguaggio misto di italiano e romanesco: «Da una parte il cielo era tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla terra, venisse a cadere qualche misero soffio di vento»16. «L’Americani erano boni! [...] A me me facevano un po’ rabbia, però me facevano comodo! Ma li Polacchi mortacci loro, erano marvagi, ma proprio marvagi sa’. Stavamo a camminà, lì vicino a ’e grotte, sentimo strillà, semo iti là vicino, erano du zoccole che staveno a litigà co sti Polacchi, che volevano li sordi»17.
Un gergo peculiare del ceto sociale, che riesca ad esprimere tutto il malessere dei personaggi esclusi dalla Roma “civile”. Un po’
15 16
P.P. Pasolini, Ragazzi di vita, Appendice, Einaudi, Torino, 1972, p. 255. Ivi, p. 86.
Ivi, p. 32. Pasolini spiega lo stile del romanzo davanti al dottor Floriano Maramotti, presidente della IV sezione del Tribunale di Milano durante il processo per scandalo subito appena il libro fu pubblicato: «La mia prosa letteraria non poteva essere quella classica ma doveva essere mescolata con il dialetto. Nei dialoghi riportati ragiona con la mentalità dei ragazzi che sono i protagonisti del romanzo. Anche nei discorsi indiretti, pur essendo io a parlare, riporto, in modo indiretto, le battute dei ragazzi. Intendevo proprio presentare, con perfetto verismo una delle zone più desolate di Roma». Cfr. V. Cerami, Nell’italietta degli anni ’50 esplose ‘ragazzo di vita’ in www.repubblica.it/ speciale/2002/novecento/idee/56.html. 17
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Gadda18 e un po’ Verga anche se la molla che spinge Pasolini all’uso del dialetto è opposta a quella di Gadda. Si tratta della volontà di annullarsi nella materia narrata. A differenza di Verga, invece, Pasolini non inventa una lingua artificiale che abbia un preciso intento di comunicazione universale, superando l’impasse del dialetto puro; egli opta per una trascrizione assolutamente fedele del gergo borgataro: un linguaggio che, seppur formalmente documentaristico, definisce l’essere di un individuo, ne ammira e descrive la vitalità, mortificata e deterpata dalla storia. Sperimentazione stilistica, documentazione del degrado delle borgate e impegno ideologico ben si amalgamano tra letteratura e realismo. Pasolini riesce, con l’utilizzo del dialetto e della lingua letteraria19, a mettere in risalto l’insanabile divisione tra “storia” e “natura”, tra “ragione” e “viscere”. Pasolini, «attratto da una vita proletaria […] è per me religione la sua allegria»20,
racconta un “popolo senza età e senza tempo, esistenza pura, animalità pura”. Un popolo e una realtà che hanno come scenario i fatti della storia: il fascismo, il dopoguerra, le borgate poverissime, il capitalismo che fa da cornice.
Pasolini si rendeva conto del contributo linguistico gaddiano. Cfr. la sua analisi del linguaggio del Pasticciaccio in Passione e ideologia, cit. pp. 350 e sgg. 18
Lo strumento stilistico di cui Pasolini si è servito è il “discorso libero indiretto” che gli permette di fare echeggiare sia la propria voce sia quella dei suoi protagonisti: usa per la propria voce l’italiano, cioè la lingua letteraria, e per quella dei ragazzi di vita il dialetto o il gergo. Per il concetto di discorso indiretto libero, cfr. L. Spitzer, L’originalità della narrazione ne “I Malavoglia” in «Belfagor» n. 1, 1965, pp. 37-53. 19
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P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci IV, in Tutte le poesie, cit., I, p. 228.
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I “ragazzi di vita” rappresentano un mondo naturale e ingenuo, nonostante le trasgressioni. In quel mondo ogni azione che risponde a requisiti pre-logici e pre-morali è dettata dalla lotta per la sopravvivenza. Emarginati, come i contadini friulani, anche i “ragazzi di vita” rivelano di possedere le pulsioni essenziali. Riccetto – tenuto ai margini da una società molto più crudele e corrotta di lui – divide la sua vita tra furti, sesso mercenario e molestie a povere prostitute. Si fa guidare dall’istinto, non perché privo di morale21, ma per riuscire a barcamenarsi nelle difficoltà di un’esistenza grama. Assiste impotente alla morte di Genesio, affogato nell’Aniene, e interiorizza questa esperienza in maniera conflittuale: «‘Tajamo, è mejo’ disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui.[…].’Io je vojo bene ar Riccetto, sa!’ pensava»22.
L’istinto di conservazione ha avuto la meglio sulla generosità, sulla spericolatezza, sul fanatismo del “ragazzo di vita”. È maturità o vigliaccheria il comportamento di Riccetto dinanzi alla tragedia? Pasolini lascia al lettore la risposta descrivendoci un Riccetto che preferisce evitare eroismi assurdi. La narrazione non scorre secondo gli schemi tradizionali. L’intreccio si presenta con una struttura narrativa a episodi, senza una cronologia degli eventi; modalità narrativa che Pasolini sperimenterà anche nel lungometraggio La Rabbia. Nel racconto delle vite dei personaggi vi è disumanità, mescolata all’allegria, alla generosità, al sarcasmo, alla prepotenza, alla paura. Nelle pagine di questo lavoro emergono squarci di intenso lirismo, che rimandano al Pasolini della grande poesia. La poesia
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G. Borgna, Pasolini integrale, Roma, Castelvecchi, 2015, p. 125. P.P. Pasolini Ragazzi di vita, cit., pp. 17-20
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degli scorci di paesaggio, dei volti di bambini, degli spazi violati dalla brutalità della miseria. Pasolini, senza spezzare il filo del racconto realistico, esprime la sua inarrestabile vena di poeta. 2.3. Una Vita violenta Un tentativo di superare le contraddizioni tra la passione e la ragione sembra affidato al secondo romanzo, Una vita violenta. Qui Pasolini sviluppa una poetica naturalista: la borgata è fatta oggetto di descrizione fedele. Lo scrittore torna sui giovani di borgata, ne vede le gesta, la disperazione, la fatica del vivere e insieme la loro vitalità. Ricorre a un impianto narrativo tradizionale, con una trama organizzata in dieci capitoli, dove c’è una storia e un personaggio centrale: Tommaso Puzzilli, ragazzo di borgata disposto a tutto in cui coesistono istinto, violenza e disperazione. Tommasino – che aveva trascorso due anni in carcere per una coltellata data a un tale che l’aveva insultato e aggredito – prende coscienza della necessità del suo impegno politico e aderisce, con i suoi amici, al fascismo. Un’adesione “naturale”, com’è naturale la violenza dei giovani di borgata e non ideologica23.
Per comprendere questa emotiva propensione fascistica di Tommaso bisogna ricordare che negli anni Cinquanta le borgate romane erano un terreno fertile di proselitismo per l’Msi. Cfr. E. Golino, Pasolini, il sogno di una cosa, cit. p. 60.
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Egli ben presto diviene un ragazzo di vita in crisi, perché la storia ora entra nelle borgate romane, con l’irruzione violenta delle camionette della polizia, i cani, le botte, gli arresti. Poi una nuova esperienza, l’esperienza di una “casa”, di una “casa civile”: «Poi, con un nodo alla gola, per la commozione, che quasi piangeva, Tommaso entrò dentro, ingrugnato, un poco per non far vedere quello che provava. Era sempre vissuto, dacché se ne ricordava, dentro una catapecchia di legno marcio, coperta di bandoni e di tela incerata, tra l’immondizia, la fanga, le cagate: e adesso, invece, finalmente, abitava nientemeno che in una palazzina, e di lusso, con le pareti belle intonacate, e le scale con delle ringhiere rifinite al bacio»24.
Il nuovo quartiere gli impone una vita diversa: gente nuova, gente borghese, di un’altra “razza”. Il sottoproletario cambia veste e punta all’ascesa sociale: la casa nuova, la fidanzata, gli impegni “civili” e borghesi spingono Tommaso a cercare un’integrazione in quel sistema dal quale prima era stato escluso. Così, pratica un po’ la parrocchia e chiede di “segnarsi nella democrazia”, dando ascolto alle sirene seduttrici del sistema e dell’integrazione, che svuotano la sua coscienza proletaria. A questo punto il romanzo poteva anche concludersi, ma Pasolini si era proposto un programma più ampio. Tommasino si ammala di tubercolosi e viene ricoverato al Forlanini, è lì che si compie l’evoluzione e forse la sua prima riflessione sulla vita passata. L’ospedale offre al ragazzo di borgata l’occasione del cambiamento e la possibilità di scelte più responsabili. Qui durante una rivolta
24 P.P. Pasolini, Una vita violenta, a cura di M. Morazzoni e A. Parisi, Collana “I libri verdi”, Archimede Edizione, Milano, 1993, p. 222.
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dei sanatoriali, appoggiata dai ricoverati, il ragazzo fa la sua scelta: aderisce alla lotta, si schiera con i “compagni” sui quali prima aveva esercitato la sua ironia e il suo sarcasmo. È un’adesione istintiva, segno che la sua natura non si è ancora corrotta. Questo impegno dà all’ex “ragazzo di vita” la possibilità di scoprire dentro di sé una ricchezza inesplorata. Appena uscito dal sanatorio chiede di «segnarsi al Pci”. Ottenuta la tessera del partito, si stacca definitivamente da quelli che erano stati i suoi abituali amici fino a disprezzarli quando non offrono il loro aiuto agli abitanti di un gruppo di baracche alluvionate, che invece Tommasino decide di impegnarsi a salvare: «La donna gridava aiuto, stirando il collo da una finestrella della baracca. “Mo’ arivo, a signò! Stateve bbona!” gridò Tommaso, dal pantano. [...] “A signo’, ma mica so’ un facchino, io’!” le gridò Tommaso di brutto, mentre lei diceva così e non si muoveva. “‹Namo! ‹Namo, signò, che qui la faccenda s’aggrava’!”. [...] “Venite qua, appoggiateve vicino a me, acchiappateve ar collo!” le faceva Tommaso, tirandola. “Ma nun ce la pòi fa” gridava la donna, con una voce da ragazzina, facendo la pignarella, “ma nun vedi che c’è, li mortacci sua?”. “Ce provamo, aaa cosa!” [...] Tommaso si slegava la corda dai fianchi, sbragato sul fango, tutto lasciato, ma gobbo, con la fronte bassa, perché non si voleva far vedere in faccia com’era ridotto, senza un filo di fiato per bestemmiare»25.
La lunga esposizione alla pioggia gli causa una ricaduta della tubercolosi e quindi la morte. E qui si avverte tutto il senso miste25
Ivi, pp. 394-396 passim.
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rioso di questo passaggio. La morte lo eleva ad una dimensione “alta”, riscattandolo dall’abiezione della sua esistenza di reietto. Il romanzo è un’opera coerente alla passione, ai miti e anche all’ideologia pasoliniana. Quello che c’è di diverso in questo romanzo rispetto a Ragazzi di vita è l’allargamento delle corde narrative, una pietà molto più contenuta, grazie all’ironia della quale Pasolini si serve come strumento di distacco del narratore dai suoi personaggi. Segna, in un certo senso, il passaggio dalla “preistoria” di Ragazzi di vita alla “storia”, una storia dalla tematica personalistica. Di certo nel libro c’è poco approfondimento psicologico delle crisi che conducono il protagonista a cambiare la collocazione politica. Tommasino è impulsivo, istintivo per cui prende e accetta tutto ciò che gli viene offerto, senza ripensamenti o crisi. L’uso del dialetto romanesco popolare non è soltanto un impegno, quasi filologico, di riproduzione della parlata della vita di borgata, è qualcosa di nuovo e di più profondo. È una necessità realistica di adeguare il dialogato all’azione dei personaggi e del romanzo: avventure, furti, coltellate, parolacce, amore e sventure costituiscono una fusione unica con il linguaggio in uno svolgimento drammatico che si risolve nella morte eroica di Tommaso, personaggio principale, cui tutte le altre vicende del romanzo sono subordinate. C’è in Pasolini un vivo desiderio d’immedesimazione nella realtà descritta, nel popolo, nel sottoproletariato “accattone”, avvicinato e amato nella sua innocente purezza primitiva. In queste aree socio-culturali, lo scrittore coglie i valori positivi e le spinte al cambiamento, risparmiate dalla volgarità e dall’omologazione conformista. L’atteggiamento di Pasolini è lo specchio fedele di un intellettuale borghese in crisi, combattuto fra spinte irrazionali e la volontà di un rapporto costruttivo e organico con la società e la storia.
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3. Il sottoproletario nel cinema Nei primi anni Sessanta, Pasolini decide di cambiare il proprio linguaggio narrativo e di dedicarsi alla cinematografia come regista. Al cinema, Pasolini si avvicinò con curiosità e desiderio di confronto con un mezzo espressivo sconosciuto, al quale si rivolgeva con ingenuità ed entusiasmo, ma anche con il rigore dello studioso, la mentalità e il metodo di chi è abituato alla riflessione teorica e alla rilevazione filosofica. Commenta così la sua vocazione al mondo della celluloide: «se mi sono deciso a fare dei film è perché ho voluto farli esattamente come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi. Io dovevo per forza essere autore dei miei film, non potevo essere coautore, o un regista, nel senso professionale di colui che mette in scena qualcosa, dovevo essere autore, in qualsiasi momento della mia opera»26.
Questa vocazione era radicata nel suo immaginario fin dalla giovinezza a Casarsa, come testimonia un’intervista registrata a Stoccolma il 30 ottobre 1975 nella quale alla domanda “Come ha deciso di fare cinema?” lo scrittore risponde: «La cosa ha radici lontane. Quando ero ragazzo, avevo 18 o 19 anni, per un momento ho pensato di fare il regista. Poi è venuta la guerra e questo ha tagliato per lunghi anni ogni possibilità e ogni speranza. E poi ci
26 P.P. Pasolini, Una visione del mondo epico-religiosa, in «Bianco e Nero», n. 6, giugno 1964, citato in M. D’Avack, Cinema e letteratura, Canesi, Roma, 1964, p. 111.
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sono state delle circostanze: dopo che ho pubblicato il mio primo romanzo “Ragazzi di vita”, che ha avuto successo in Italia, sono stato chiamato per fare delle sceneggiature. Quando ho girato “Accattone” era la prima volta che toccavo una macchina da presa»27.
Una vocazione, dunque, naturale, « sorta nel cuore degli anni Cinquanta che si è sviluppata ed è in via di costante trasformazione, è nata dalla poetica di Gramsci e dalla sua idea di grande letteratura nazionalpopolare»28.
Una vocazione che era anche scelta stilistica: riaffermare la 27 Tratto dalla conversazione di Pasolini con un gruppo di critici cinematografici svedesi, avvenuta il 30/10/1975. Il testo integrale di tale dialogo è raggiungibile anche al seguente indirizzo web http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2011/12/16/news/ cosi-pasolini-previde-l-italia-di-b-1.38582 28
P.P. Pasolini, Polemica Politica Potere, cit., p. 38.
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continuità di un’attività artistica che passa dal cinema alla letteratura e viceversa senza soluzione di continuità. Il cinema si presentava al poeta come un’occasione privilegiata di popolarità e libertà. Di popolarità, innanzitutto, perché gli spalancava gli orizzonti più vasti di un pubblico di massa che la concezione gramsciana dell’opera nazionalpopolare gli precludeva: «Questo [l’idea nazionalpopolare di Gramsci] ha fatto sì che superassi le posizioni del neorealismo, troppo strettamente liriche e documentarie, in favore di un tentativo di maggiore epicità, che non è l’epicità brechtiana, è un tipo di epicità più latina, classicheggiante. Fondandomi su questa idea nazionalpopolare di Gramsci, ho dato al realismo una svolta personale che definirei mitica o epica»29.
Occasione di libertà, anche, perché il cinema gli offriva un ventaglio di possibilità stilistiche sensibilmente più articolato di quello disponibile al letterato. Infatti, Pasolini ritrova «nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria»30.
Nel cinema riscopre gli incanti della terra, della luce e dell’acqua e il segreto fascino del sesso, della morte e della religiosità del Friuli, “Provenza dello spirito”. Attraverso il cinema può rivivere con l’entusiasmo dell’adulto un’adolescenza di lirismo e di passione e trovare in esso uno strumento a lui congeniale per fare “ars poetica”. Scrive Pasolini:
29 30
Ibidem.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 176.
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«tutti questi films li ho girati ‹come poeta’», […] «uso questa parola in senso strettamente tecnico»31.
Dunque un «cinema di poesia»32 – così definito da Pasolini nel lungo intervento pronunciato nel corso della prima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro – cioè un cinema come strumento espressivo non dissimile da quello offerto dalla poesia e dal romanzo, senza pensare a tutte le possibilità di interpretazione che la pellicola offre. 3.1 Accattone, «tragedia senza speranza» Pasolini elabora per il cinema gli stessi nuclei tematici della sua narrativa. Utilizza il cinema per far emergere le contraddizioni esistenti all’interno dell’etica borghese. Con Accattone trasferisce nel cinema la materia della sua ispirazione letteraria: la vita del sottoproletariato urbano. Quando Pasolini decide di girare Accattone, in Italia il cinema attraversava la stagione del Neorealismo: Fellini con La dolce vita e Otto e mezzo è al vertice della sua opera, Antonioni con l’Avventura, La notte e l’Eclisse è già un maestro e Visconti firma Rocco e i suoi fratelli. Pasolini, pur collocato tra gli autori neorealisti del tempo, i quali privilegiavano l’analisi sociologica e la denuncia politica, a differenza degli altri, pone in termini chiari la sua distinzione rispetto ai caratteri del cinema neorealista, pur riconoscendone gli influssi: 31
P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, cit., p. 2511.
Per la riflessione di Pasolini sulla possibilità di una poesia cinematografica e la sua teoria cfr. Empirismo eretico, cit., pp. 171-191. Per Pasolini il corrispondente cinematografico del discorso libero indiretto è una tecnica particolare da lui denominata “soggettiva libera indiretta”. 32
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«la mancanza di sollecitazioni aneddotiche immediate della realtà, il modo con il quale giro i miei film, con cui concepisco l’inquadratura, le sequenze e l’insieme dell’opera, che è opera chiusa e non opera aperta, che è un insieme epico e non un insieme di aneddoti e di sollecitazioni liriche della realtà [...]»33.
Pasolini supera le proposte del Neorealismo con le sue invenzioni liriche e con la creazione di immagini cinematografiche che «perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria»34,
approdando a ciò che è essenziale e autentico della realtà: i valori “indefinibili”. Dirà lo scrittore:
33
P.P. Pasolini, in «Bianco e Nero», giugno 1964, p. 18.
P.P. Pasolini, La musica del film, in A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni, Roma, 1979, p. 114.
34
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«Sono arrivato effettivamente ad “Accattone” con una grande preparazione intima, una grande carica di passione cinematografica e di modo di sentire idealmente l’immagine cinematografica, ma con una totale impreparazione tecnica, che però era compensata dal mio modo di vedere le cose»35.
Con questo suo “modo di vedere le cose”, in effetti, Pasolini trasferisce sullo schermo il tema della sua narrativa, i personaggi e gli ambienti delle periferie romane, con immagini di forte comunicazione visiva che si avvicinano in maniera più diretta a quel mondo dove ha fatto ingresso, con la prospettiva da lui voluta. La storia del film: «[...] ha la durata di una estate, che è quella del governo Tambroni. Tutto, nella mia nazione, in quei mesi, pareva riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di superstizione, di servilismo e di inutile vitalità. È in questo momento che io mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro nell’anima di un sottoproletariato della periferia romana (insisto a dire che non si tratta di una eccezione ma di un caso tipico di almeno metà Italia): e vi ho riconosciuto gli antichi mali (e tutto l’antico, innocente bene della pura vita). Non potevo che constatare: la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso, cattolicesimo di pagano»36. L. De Giusti (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, Pordenone, Cinemazero, 1979, p. 16. 35
36
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N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989, p. 233 segg.
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Quando comincia a girare Accattone, Pasolini, che avverte l’affievolirsi della sua voce poetica e intravede una difficoltà nella sua identità di scrittore, non volendo ripetersi con nuovi romanzi, trova nel cinema un modo espressivo per proseguire ricerche e sperimentazioni stilistiche: in definitiva un nuovo linguaggio. E in questa prospettiva non soltanto segue una continuità di ispirazione con la produzione letteraria che guarda al sottoproletariato delle borgate romane, ma va oltre l’attività di scrittore perché la comunicazione cinematografica gli offre, “grazie alla sua analogia sul piano semiologico”, un contatto più diretto con l’esistenza, “fisico, carnale, addirittura sensuale”. Ricordiamo che Moravia, recensendo Accattone, dirà che il trasferimento operato da Pasolini dal mondo dei suoi romanzi allo schermo è riuscito così perfetto «da ingenerare il sospetto che i romanzi fossero un’inconsapevole preparazione al cinema»37. Con il cinema, dunque, per Pasolini il sottoproletariato assume un altro volto e in questo senso non sembra azzardato definire Accattone come l’epos del sottoproletariato. Il film serve a sfidare le coscienze e contemporaneamente a ricordare a tutti coloro che avessero perso la memoria, travolti dal miracolo economico, l’esistenza di «più di venti milioni di sottoproletari». Accattone è una «tragedia senza speranza». Ammonisce Pasolini: «mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude»38.
37
A. Moravia, Immagini al posto d’onore, in «L’Espresso», 1 ottobre 1961
P.P. Pasolini, Accattone e Tommasino, in I Dialoghi, a cura di G. Falaschi, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 48.
38
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Il sottoproletariato è la «tragedia di emarginati in preda alla miseria, al sesso e alla superstizione, ma anche aurora di un’umanità vergine in cui affiorano intatte le energie telluriche, gli istinti di aggressione e d’innocenza originale e gli interrogativi esistenziali di fondo»39.
Vittorio, detto “Accattone”, è l’eroe in cui il mito del sottoproletariato si eleva a rappresentazione epica. Vive in una borgata romana sfruttando una prostituta, Maddalena. Quando la ragazza finisce in carcere, Accattone si trova senza soldi e cerca di tornare dalla moglie che vive insieme al figlioletto in casa del padre e del fratello, ma viene respinto e malmenato. Tenta allora di sostituire Maddalena con una ragazza nuova, Stella, ma lei è incredibilmente ingenua e non è fatta per stare sul marciapiede. Accattone se ne innamora e decide di trovarsi un lavoro per mantenere entrambi, ma basta un giorno di fatica per stancarlo; così decide di rubare della merce da un autocarro, insieme a dei complici. Il colpo va male poiché Maddalena, gelosa, l’aveva denunciato per sfruttamento e la polizia lo teneva d’occhio. Mentre i poliziotti cercano di arrestarlo, Accattone si divincola, sale su una motocicletta e fugge ma la sua corsa sarà breve. Accattone, personaggio caro allo scrittore, è diverso dagli altri sottoproletari che popolano la borgata, diverso anche da suo fratello Savino che già lavora ed è quasi integrato nella società. Egli si eleva sugli altri per le sue sofferenze fisiche e interiori, si sente un perseguitato dal destino, è travagliato da presagi di morte oltre che dal “fuoco interiore di un anarchismo battagliero”. Vittima della società borghese tenta l’esperienza del riscatto, ma il tentativo di 39
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L. Bini, Pier Paolo Pasolini poeta del sottoproletariato, in «Letture», n. 1, 1975.
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redenzione finisce in tragedia per cui egli trova la salvezza solo nella morte. Una liberazione che viene accolta con la preghiera: «Fatemela piu in là...poco»,
che appare la via d’uscita da una condizione disperata. A nulla gli è servita la presenza di Stella, l’amore nato dentro una realtà di indigenza, fatta di immondizie e mucchi di bottiglie sporche, dove la ragazza si trovava. Pasolini, abituato a scrutare i volti dei personaggi dal di dentro per comprenderne l’angoscia e la disperata vitalità, l’ingenuità e la purezza, qui vuole soprattutto raccontarci l’anima e il corpo del sottoproletario. Accattone è un’anima e un corpo che si trascinano sotto il cielo della borgata. Una borgata, non dissimile da quella dei romanzi, dove il degrado del sottoproletariato è avvertito dal regista come qualcosa di “sacro”. E il sacro è reso attraverso la musica di Bach che sublima il mondo violento della vita di borgata40. Accattone è anche un film sociale, di denuncia della vita ai “margini”, sul precipizio della dissoluzione: «mondo in dissoluzione, un mondo di detriti, di cassette diroccate, di sopravvissuti. Un mondo sul quale già incombe la fine, come simbolicamente indicato dai funerali che attraversano la borgata»41.
In ciò avvertiamo un deciso e rigoroso giudizio morale sugli avvenimenti sociali e politici di quel periodo:
Cfr. L. Capitolo, Pier Paolo Pasolini, Un giorno nei secoli tornerà aprile, Nova Delphi, Roma, 2015, pp. 154-157. 40
41
G. Borgna, Pasolini integrale, cit., p. 64.
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«riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di superstizione, di servilismo, e di inutile vanità[…], un’età repressiva»42.
Nel film Pasolini non esamina le cause storiche e sociali dell’emarginazione. Viene sacrificata la dimensione politica per dare risalto all’aspetto personale, esistenziale di una figura di combattente segnato da un sentimento irrazionale della vita. Vittorio è lo stesso “eroe” del mondo delle borgata, cantato nei versi de La religione del mio tempo43: «Al raffinato e al sottoproletario spetta la stessa ordinazione gerarchica dei sentimenti: entrambi fuori della storia, in un mondo che non ha altri varchi che verso il sesso e il cuore, altra profondità che nei sensi»44.
3.2. Mamma Roma, «la frenesia del riscatto» Se Accattone è un film in cui Pasolini scandaglia l’interiorità, Mamma Roma, la sua seconda pellicola, si sofferma a osservare e giudicare la realtà del suo tempo. Pasolini si pone di fronte al tema della crescita economica e della sua influenza devastante sulla vita delle persone. La protagonista del film presenta analogie con la figura di Tommaso Puzzilli di Una vita violenta, desideroso di riscatto sociale e politico. Mamma Roma – Pasolini non espresse un giudizio del tutto sod-
42 P.P. Pasolini, Una visione del mondo epico-religiosa, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975. 43 44
98
Cfr. L. Bini, Pier Paolo Pasolini poeta del sottoproletariato, cit., pp. 9-10. P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit., p. 464.
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disfacente su Anna Magnani, interprete del film – è una matura prostituta, che avverte il bisogno di riscatto e di emancipazione sociale, desiderosa di una condizione migliore per lei e per il figlio adolescente, Ettore. Il trasferimento nella nuova casa di Cecafumo, alla periferia di Roma, è metafora di questo iniziale cambiamento. Dice Mamma Roma a Ettore/Accattone: «Ecchela laggiù casa nostra, cu’ a finestra lassù n’do ce batte er sole, n’do ce stanno que’ mutande stese, lassù all’urtimo piano. Guarda che qua ce stamo solo n’artro po’ de giorni, vedrai in che casa te porta tu madre. Vedrai quant’è bella, proprio ‘na casa de gente perbene, de signori. Tutto ‘n quartiere de n’artro rango»45.
Per la citazione vedi www.apav.it Mamma Roma; cfr. E. Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, Collana Quaderni di Filmcritica, Bulzoni, Roma, 1977.
45
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Mamma Roma è una madre coraggiosa che soffre per la sorte del figlio al quale si dedica interamente, anima e corpo. Gli dà consigli affinché possa avere una vita diversa dalla sua, si dà da fare per trovargli un lavoro. Non vuole che il ragazzo abbia la sua stessa sorte e sogna per lui un lavoro rispettabile, un futuro tranquillo. Anche lei cerca di ricostruirsi una vita “normale” accanto al figlio, ma il destino è in agguato e “ripulirsi” è impossibile. Una sorta di fato capriccioso non permette che i sogni abbiano il corso sperato. «Il passato che non passa» ritorna nella figura del suo antico protettore Carmine, che la costringe a prostituirsi nuovamente, impedendole di liberarsi della sua vita dissoluta; suo malgrado non riuscirà neppure a salvare il figlio dal decadimento sociale e dalla corruzione morale. Ettore, quando viene a conoscenza della “ricaduta” della madre, per una sorte di reazione disperata, ruba una radiolina a un degente di un ospedale, viene catturato e condotto in carcere dove, legato a un letto di contenzione, in preda a un delirio febbrile, muore. Pasolini non concede speranza a Mamma Roma, che aveva immaginato di cambiare la sua vita e quella del figlio, trasferendosi dalla rurale e isolata Guidonia a Roma in una casa della periferia moderna, in uno di quei palazzoni bianchi, che in realtà somigliano alle case tristi della Borgata Gordiani. Per cambiare vita e salire nella scala della considerazione sociale, per diventare qualcuno, non basta cambiare ambiente o trasferirsi da una casa diroccata a un appartamento di città. Mamma Roma lo capisce molto bene e in una delle sue “passeggiate notturne” riflette sul suo passato, su sua madre e suo padre che erano persone di malaffare, come a loro volta erano stati i loro padri e le loro madri. Anche suo figlio, con una madre simile e senza un padre, non poteva aspirare a una sorte migliore; è destinato, quindi, a soccombere nella periferia romana, dove la miseria, l’imbroglio e il furto regnano sovrani. E consapevole del suo fallimento dice al prete: 100
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«Di quello che uno è la colpa è sua [...] Prete, nun ho voluto ricominciare da zero, ma che te credi che nun l’ho capito? [...] Spiegamelo te allora perché io nun so’ nessuna e te sei er re dei re»46.
Nelle parole di Mamma Roma appare evidente il disagio del suo passato di prostituta, della responsabilità a carico dell’ambiente in cui è vissuta e la consapevolezza del proprio fallimento. La visita al prete è una verifica della sua condotta e delle sue responsabilità e di queste responsabilità Mamma Roma dirà fra sé, mentre percorre il viale delle prostitute: «Certo la responsabilità probabilmente è mia, quel prete aveva ragione, però se io fossi nata in un mondo diverso, se mio padre fosse stato diverso, mia madre diversa, il mio ambiente diverso, probabilmente sarei stata diversa anch’io’. Cioè comincia ad allargare questo senso della responsabilità della propria persona, individua quello che aveva colto il prete, al proprio ambiente»47.
Mamma Roma prende coscienza della ineluttabilità del proprio destino. I palazzi, apparsi come speranza di riscatto, non risolvono il dramma dell’isolamento sociale e della incomunicabilità tra mondi ineluttabilmente lontani. Il destino di Mamma Roma è segnato dall’inevitabile sconfitta. Pasolini in questa produzione è prigioniero delle categorie ide-
46
Ibidem.
P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, vol. II, Milano, Mondadori, 2001, pp. 2820-2821. Cfr. E. Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, cit. 47
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ologiche, dove Marx (con il suo storicismo) e Cartesio (con il suo determinismo) sono complici. Il corso della vita dei suoi personaggi ha una sorte segnata. Nessuna speranza di cambiamento è loro consentita, mutamenti di rotta per loro sono impraticabili e se provati sono destinati al naufragio. Il cambiamento auspicato è un mero cambiamento di status. La condotta morale è oscurata dalla loro condizione. Il comportamento è obbligato, l’esercizio della libertà è represso. Forse Pasolini è riuscito a rappresentare la realtà del suo tempo con acutezza e precisione, consegnandoci, profeticamente per noi oggi, l’immagine di una società cambiata in peggio. La realtà descritta è senza speranza, prossima al baratro della disperazione. Realismo e pessimismo sono alleati. Il loro fraseggio non regala né consolazione né opportunità. La società che Pasolini ci consegna è l’anticamera della necrosi civile e morale. 3.3. La Ricotta, una svolta Il trittico dei film romani termina con La Ricotta48, che segna l’apice nell’evoluzione di Pasolini cineasta. Scrive Alberto Moravia che l’opera «ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue [Pasolini] poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema in immagini cinematografiche»49. Se Accattone esprime un dramma tutto umano, ne La Ricotta avvertiamo il contrasto tra il ripiegamento sdegnato dell’in-
Il film è un episodio inserito in RoGoPaG. - Laviamoci il cervello (1962). L’acronimo che dà il nome al film è legato alle iniziali dei registi delle 4 parti di cui si compone la pellicola: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.
48
49
A. Moravia, L’uomo medio sotto il bisturi, in «L’Espresso», 3 marzo 1963.
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tellettuale di sinistra, segnato dal materialismo e un’apertura ad una religiosità ripiegata sull’immanente. Pasolini, pur con questo vissuto contrastato, raggiunge il risultato di regalarci un quadro di grande intensità umana, nella figura di Stracci, il personaggio principale della pellicola.
Il regista, per raccontarci il dramma umano di Stracci, ricorre al racconto della Passione e alla Croce, che ne è l’espressione più alta. Croce che è cifra e sintesi di tutte le tribolazioni, le miserie e le invocazioni dei derelitti di questo mondo. Questa Croce fa da contrappunto ad una religione cui si accede dalla porta larga e spaziosa50, una religione vissuta senza entusiasmo e senza coinvolgimento, in sostanza una religione diluita, appassita, vendibile nei salotti e, al massimo, nei circoli culturali. Pasolini sa che si tratta di un’opera delicata: «Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sen-
50
Cfr. Matteo 7, 13, in La Sacra Bibbia CEI, cit.
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tiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti»51.
La Ricotta, ancora una volta, presenta una storia riconducibile agli strati più umili ed emarginati della società, ai sottoproletari, a coloro che sono privi di cibo, agli affamati. L’indigestione di ricotta – episodio che compare nella parte finale del film – è l’esito di questa vita grama e indigente, risolta in questo cibo predato per il timore di non avere più una seconda occasione. Stracci è la raffigurazione del sacrificio dei derelitti, che vestono la carne di Cristo. Stracci, sua icona, genera timore perché ci interroga ed è quindi parametro di giudizio. Stracci denuncia la morale dell’uomo moderno e della classe benpensante, che orienta e regola la vita degli uomini, stabilisce i limiti della giustizia e dell’ingiustizia. Soffermarsi a riflettere genera paura, perché Stracci è specchio dei nostri egoismi e delle nostre miserie umane. Egli cade proprio come Cristo sulla strada verso il Golgota «sotto il peso delle ingiustizie dell’iniquità umana e di tutti i dannati della terra»52: immutabile storia degli esclusi! La vita di Stracci vale meno di quella di un cane, questo è vero a tal punto che il cane della protagonista del film mangia il cestino che Stracci era riuscito a rimediare. Dice Stracci rivolgendosi al cane:
51 52
L. Bini, Pier Paolo Pasolini, I Registi, in «Letture» 2/1978, p. 26.
L. Bini, Pier Paolo Pasolini poeta del sottoproletariato, cit., pp. 9-10.
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«Te pare bello quello che hai fatto? E si asciuga avvilito, le lacrime Perché sei er cane de ‘na miliardaria te credi d’esse mejo de me?»53.
Stracci legato in croce, schernito, privato dell’ultimo morso di cibo, ma ancor di più, privato della dignità, crolla alla fine sfinito e umiliato; non protesta, ritenendo che quello sia il proprio destino, destino immodificabile, assegnato dalla sorte54. Muore in croce, colpevole di aver avuto fame55, mentre «suona la musica sacra del momento religioso del pasto, la musica del Dies Irae che annuncia, incompresa dal volgo ignorante, che il sottoproletariato è già il nuovo Cristo e che è prossimo il giorno del giudizio»56. Stracci come Cristo, anche lui colpevole di aver avuto fame di amore, è stato punito con l’abbandono, la solitudine prima e con la croce poi. La scena ci riporta alle parole del Vangelo: «Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere».57 Ma Stracci esorcizza la fame cantando: «Me ne vojo annà verso Terracina A fa colazione in terra piana. Vojo magmamme ‘na vacina E ‘na pecora co’ tutta la lana»58.
Questo canto è un’accusa verso chi si gira dall’altra parte, 53 P. P. Pasolini, La ricotta in Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 2001, p. 334. 54 55 56 57 58
G. Borgna, Pasolini integrale, cit., p. 68.
A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio Editore, Padova, 1977, p. 4. R. Calabretto, Pasolini e la musica, Cinemazero, Pordenone, 1999, p. 359. Matteo, 25,42, in La Sacra Bibbia CEI, cit.
P.P. Pasolini, La ricotta in Per il cinema, cit., p. 333.
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come il sacerdote e il levita che guardando il samaritano moribondo passano oltre59: è un’accusa verso chi non guarda le necessità di chi soffre, di chi manca persino del necessario. Le conseguenze non sono rassicuranti per chi ha scelto il disimpegno: «via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli»60. Stracci è vittima innocente, condannato per essere ai margini della società. Egli è un agnello mite, come Cristo, anch’egli immolato, paradigma dei miti la cui sorte in questo mondo è segnata dal sacrificio; sono però fortificati dalla speranza e dalla promessa: «Beati i miti, perché erediteranno la terra»61. Pasolini a circa metà della narrazione inserisce un passaggio di grande effetto: l’intervista con Orson Welles, che è voce e proiezione di sé stesso: W- «Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?» P - «Il mio intimo profondo arcaico cattolicesimo». W - «E che cosa ne pensa della società italiana?» P - «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». W - «E che ne pensa della morte?» P - «Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione». W - «Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?» P - «Egli danza»62.
59 60 61 62
Luca 10, 29-37, in La Sacra Bibbia CEI, cit. Matteo, 25, 41, Ivi. Matteo, 5-5, Ivi.
P.P. Pasolini, La ricotta in Per il cinema, cit,. p. 343.
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Pasolini, tramite questo espediente, porta il suo attacco alla borghesia italiana del tempo, miope e gretta, e ne stigmatizza la profonda inconsistenza culturale. Senza strumentazione conoscitiva, in questo mare di anoressia culturale, è andata persa anche la capacità di comprensione della lingua poetica. 3.4. Il Vangelo secondo Matteo, la carica antiborghese Pasolini, pur richiamando la figura di Cristo in alcuni suoi lavori, o nei film, come appunto La Ricotta, non aveva mai fatto una riflessione centrata esclusivamente sulla figura di Gesù di Nazareth. Decide quindi di raccontare il Cristo del Vangelo di Matteo. Per rendere attuale ed efficace il suo messaggio, gira le riprese in Basilicata, terra povera, della quale il tempo non ha scalfito i tratti di genuinità e semplicità, una terra rimasta incontaminata, 107
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renitente alle sirene del consumismo, forse più per necessità che per volontà. Pasolini spiega così le ragioni di questo suo lavoro: «Perché io abbia cominciato un simile lavoro, poi, sarebbe un discorso ben più lungo, è facile immaginarlo. Dirò solo un fatto [...]: appena finita la prima lettura del Vangelo secondo Matteo (un giorno di questo ottobre, ad Assisi, con intorno attutita, estranea, e, in fondo ostile, la festa per l’arrivo del Papa), ho sentito subito il bisogno di ’fare qualcosa’: una energia terribile, quasi fisica, quasi manuale. Era 1’’aumento di vitalità’ [...] che si concreta generalmente in uno sforzo di comprensione critica dell’opera, in una sua esegesi: in un lavoro, insomma, che la illustri e trasformi il primo impeto pregrammaticale d’entusiasmo o commozione in un contributo logico, storico»63.
Perché Pasolini, che non si dichiara credente, realizza un film sulla vita di Gesù, aderente al sacro testo, con un linguaggio essenziale ed asciutto, senza alcun intento ideologico o politico, lasciando alle parole di Cristo la funzione di interpellare le coscienze e porre le grandi questioni esistenziali? Forse Pasolini, con questa opera, ha voluto rispondere in modo nuovo e originale all’avanzata razionalistica e ideologica, incapace già da allora a fornire risposte di senso all’esistenza dell’uomo. Dice Pasolini: «Tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni cinquanta, non solo in me ma in tutta la letteratura,
63
P.P. Pasolini, Una carica di vitalità, in «Il Giorno», 6 marzo 1963.
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è in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incertezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c’è aria di crisi dappertutto e evidentemente c’era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del ’42. [...] Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l’ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m’accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto con109
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creto di fare il Vangelo»64.
L’artista ha certo inteso dare una sferzata anche alla stessa Chiesa, fredda e distaccata: «Mi basta prendere in mano il Vangelo per poter condannare, senza possibilità di dubbi e senza eccezioni, quell’istituzione fredda, arida, corrotta, ignorante che è, oggi, la Chiesa cattolica»65.
Il regista già da tempo, come abbiamo visto, nutriva un naturale interesse verso la figura di Cristo e del suo annuncio indirizzato in via preferenziale ai poveri e ai diseredati. Questo interesse è stato stimolato dalla forte simpatia nutrita verso Papa Giovanni XXIII, persona semplice, capace di suscitare grande entusiasmo e partecipazione emotiva. Di Papa Giovanni, Pasolini apprezzava la capacità di dialogo, la sua empatia. Il “Papa buono” riusciva a presentare al mondo una Chiesa dal volto umano e misericordioso. Siamo lontani dalla figura di Pio XII a proposito del quale il poeta friulano aveva scritto: «Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili. Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato peccatore più grande di te»66. M. Massa, Saggio sul cinema italiano del dopoguerra, Editore lulu.com (21 gennaio 2012), p. 163. Cfr. E. Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, cit. 64
La citazione è tratta da Lo scandalo di Pasolini a cura di F. Di Giammatteo, in «Bianco e Nero», Anno XXXVII, Gennaio/Aprile 1976, p. 15. 65
66
P.P. Pasolini, A un Papa, in La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit. I, p. 536
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Capitolo V - Nel “ghetto” delle borgate
Pasolini dedica il suo Vangelo «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII» morto l’anno prima dell’uscita del film. Il «miglior film su Gesù di tutta la storia del cinema», ha scritto l’Osservatore Romano, giornale della Santa Sede. Il Vangelo secondo Matteo, oltre che da questa forte adesione al messaggio di Cristo, trae origine dall’esperienza del regista nella terra friulana passata a contatto con i contadini, forti della loro religiosità spontanea: «Tra i libri sparsi, pochi fiori azzurrini, e l’erba, l’erba candida tra le saggine, io davo a Cristo tutta la mia ingenuità e il mio sangue»67.
La figura di Cristo si presenta alla consapevolezza dell’artista in modo intenso e coinvolgente. Pasolini voleva un Cristo vicino all’uomo, dolce e mite, che accompagna e consola l’umanità ferita, una figura umana eppure agli antipodi rispetto a quel concetto di umanità che oggi si offre allo sguardo: «grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore»68.
Un Cristo “rivoluzionario”?
67
P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit., I, p. 496.
Così scriveva nel 1963 Pasolini parlando della figura di Gesù: vedi P. Pasolini, Il Vangelo di Matteo, una carica di vitalità, in «Il Giorno», 6 marzo 1963, riportato in G. Gambetti, Il Vangelo secondo Matteo. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1964. p. 14 e segg. 68
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Pier Paolo Pasolini
«Non mi interessava dimostrare che Cristo è un rivoluzionario. Sarebbe stato ovvio e banale. Che un marxista si metta a fare un film sul Vangelo per dire che Cristo è stato un uomo rivoluzionario è un’idea di una banalità che avrei rifiutato immediatamente. Sarebbe stato l’approccio del marxismo arcaico, che a me non interessa, tanto più che la realtà di quei fatti, la realtà di quell’uomo chiamato Cristo, che è andato in giro a predicare non è la realtà definitiva»69.
Cristo è rivoluzionario perché è venuto a «portare la pace, non la spada». A quel Cristo guarda Pasolini, sostenuto dal desiderio di redimere un’umanità irrazionale e riscattarla da una religione formale, senza anima e vita, lontana dagli uomini e dalle loro necessità. Alcune massime evangeliche apparivano a Pasolini particolarmente efficaci e irrituali: “fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi”, “non accumulate tesori su questa terra”, “nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro”. «Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente ‘porgi al nemico l’altra guancia’ era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l’hanno crocifisso»70.
Alla presentazione del Vangelo, alla 25ª Mostra del Cinema di Venezia, il 4 settembre 1964, il film fu accolto con benevolenza dalla critica cattolica, ma contestato duramente da quella
69
P.P. Pasolini, Polemica Politica Potere, cit., p. 24.
Parole di Pasolini nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964, http:// www.lastradaweb.it/ 70
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di sinistra. Sferzanti furono le reazioni della destra estrema. Alle critiche Pasolini rispondeva affermando che il cattolicesimo e il comunismo avversavano entrambi il materialismo borghese, il vero e principale avversario di Cristo. Dichiarava, inoltre, che un comunista non credente come lui poteva individuare nell’ateismo una certa religiosità in quanto sono presenti: «momenti di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volontà conoscitiva, di fede, che sono elementi, sia pur disgregati, di religione»71.
Con Il vangelo secondo Matteo, Pasolini ha voluto fornire il senso della poesia presente nelle parole di Gesù: «È quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo»72.
Pasolini intuisce l’esistenza del divino, ma i suoi pregiudizi gli
71 P. P. Pasolini, Le belle bandiere, a cura di G. C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 251.
72 P.P. Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di R. Colla, Vicenza, La Locusta, 1985, p. 69.
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Pier Paolo Pasolini
vietano di scandagliarlo fino in fondo e, quando cerca di accedere al mistero, le sue categorie lo respingono indietro. Con questo film, Pasolini ha saputo raccontare una storia di duemila anni fa, una storia eterna di un uomo che insegna a tutti noi quanto grande sia la forza dell’amore. 4. “Studenti figli di papà, io sto con i poliziotti” Pasolini aveva sempre guardato con attenzione ai fenomeni sociali del suo tempo, aveva espresso giudizi fuori dal conformismo, nelle sue diverse cromature culturali e ideologiche. Invariabilmente, questi giudizi mettevano in forte imbarazzo anche la sinistra, che viaggiava trincerata dentro rigide categorie connotate ideologicamente. Nel 1968, Pasolini assunse una posizione critica verso la contestazione studentesca, che rifiutava gli aspetti autoritari e classisti della scuola. Celebre, a tal proposito, è il componimento in versi scritto per «Nuovi Argomenti» e che «L’Espresso» pubblicò in anteprima: Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri. 114
Capitolo V - Nel “ghetto” delle borgate
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care73.
L’episodio cui si fa riferimento è quello della “battaglia di Valle Giulia”, avvenuta l’1 marzo del 1968, quando nelle prime ore del mattino il Fronte Universitario di Azione Nazionale (Fuan), Avanguardia Nazionale, comunisti di varia ispirazione, ma anche catto-
73 P.P. Pasolini, Il Pci ai giovani, in «L’Espresso», n. 24, 16 giugno 1968. Ora in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit. p. 158.
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Pier Paolo Pasolini
lici, repubblicani, socialisti, liberali, tutti uniti in un unico fronte, si scontrarono con la polizia per liberare la facoltà di Architettura dell’Università di Roma. Pasolini prese le difese dei poliziotti “figli di poveri”, una classe sociale dimenticata. La pubblicazione della poesia provocò, all’epoca, una decisa condanna degli studenti, degli intellettuali (ad esempio, Franco Fortini) e dei politici. Pasolini fu accusato di non aver compreso questa nuova forma di proletariato, che ricomprendeva – secondo la lezione di Lenin – tutti coloro che, con spirito rivoluzionario, lottano contro lo stato capitalista: dunque, anche i figli della borghesia.
Pasolini ritornò più volte su quei versi, affermando di averli scritti impiegando il registro dell’ironia, indispensabile per la loro comprensione: «Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire una “captatio malevolentiae”: le virgolette 116
Capitolo V - Nel “ghetto” delle borgate
sono perciò quelle della provocazione»74.
Quest’ammissione nulla toglie al significato di quella poesia, che serviva a spiegare la natura strumentale di quella rivolta, fatta non per rovesciare il sistema, ma per sostituirsi ad esso ed occuparne il posto. Per Pasolini, non si trattava di rivolta proletaria, ma di rivolta dettata esclusivamente da ambizione. L’episodio di Valle Giulia non era una rivolta tra fazioni opposte, ma un’operazione strumentale ordita dalla classe borghese, che aveva creato antagonisti apparenti i propri figli, per poter legittimare meglio la propria posizione attraverso l’immagine di una società tollerante, democratica e capace di concedere spazio alla critica e alla ribellione, dentro una certa soglia di tollerabilità. L’intenzione finale era consegnarci una società appagata e inebetita dal consumo, pilotata per arricchire gruppi economici sempre più potenti. La borghesia riusciva ad arrivare così al suo apogeo: «la borghesia sta trionfando; attraverso il neocapitalismo la borghesia sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia»75. Nella “Apologia” che fa seguito ai “brutti versi” “Il Pci ai giovani”, Pasolini scrive: «Ora, io, personalmente (la mia privata esclusione, ben più atroce di quella che tocca mettiamo a un negro o a un ebreo, da ragazzo) e pubblicamente (il fasciTavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 16 giugno 1968. Al dibattito, diretto da Nello Ajello, parteciparono, oltre a Pasolini, Vittorio Foa all’epoca segretario della Cgil, Claudio Petruccioli segretario nazionale della Fgci e due delegati del Movimento studentesco. A riprova dei concetti espressi, occorre ricordare che fu proprio Pasolini che instaurò, in quegli anni, contatti fecondi con due movimenti che allora richiamavano l’attenzione dei giovani, Lotta continua e la Federazione giovanile del Partito comunista italiano. Ora in P.P. Pasolini, “Il Pci ai giovani”. Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una “Apologia” in, Saggi sulla Letteratura e sull’Arte, I, cit. pp. 1448-1449 74
75
P. Sansonetti, La profezia di Pasolini, in «L’Unità», 5 giugno 2003.
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smo e la guerra, con cui ho aperto gli occhi alla vita: quante impiccagioni, quante uncinazioni!) sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico. Non posso sperare nulla né da essa, in quanto totalità, né da essa in quanto creatrice di anticorpi contro se stessa»76.
Questo schema, che Pasolini aveva intravisto per tempo, viene raffinato. L’operazione di imbonimento era stata avviata tempo prima. Già Pasolini con la raccolta La religione del mio tempo aveva stigmatizzato il processo inesorabile di seduzione e di corruzione delle coscienze prodotto dalla piovra consumistica, abilmente assistita dal mezzo televisivo. Leggiamo nella poesia Il Glicine: «Il mondo mi sfugge, ancora, non so dominarlo più, mi sfugge, ah, un’altra volta è un altro... Altre mode, altri idoli, la massa, non il popolo, la massa decisa a farsi corrompere al mondo ora si affaccia, e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video si abbevera, orda pura che irrompe con pura avidità, informe desiderio di partecipare alla festa. E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. Muta il senso delle parole: chi finora ha parlato, con speranza, resta indietro, invecchiato»77. P P. Pasolini, Il Pci ai giovani. Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una “Apologia”, cit.; Vedi anche «Nuovi Argomenti», n. 10, aprile-giugno 1968. 76
77
P.P. Pasolini, Il Glicine, in La religione del mio tempo, in Tutte le poesie, cit. I, p. 591.
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Capitolo VI - Petrolio, una testimonianza
Capitolo VI
Petrolio, una testimonianza
1. Preambolo di un testamento «Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»1.
Il libro, purtroppo, rimase incompiuto per le note vicende. Delle 2000 pagine previste ne sono rimaste soltanto 522. Un corpus di appunti manoscritti e dattiloscritti, frammenti parzialmente numerati; tracce, aggiunte e correzioni spesso in contrasto tra di loro, titoli e capitoli. L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1992, in una edizione curata per Einaudi da Maria Careri e Graziella Chiarcossi, con la supervisione di Aurelio Roncaglia, autore di una nota filologica fondamentale per la comprensione del testo. La pubblicazione cerca di essere fedele alle intenzioni dello stesso autore, riportate nell’“Appunto 3C”: «non ho intenzione di scrivere un romanzo storico ma 1 Pasolini con queste parole dava notizia del progetto di scrittura del romanzo Petrolio, durante un’intervista pubblicata su «Stampa Sera» il 10 gennaio 1975.
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Pier Paolo Pasolini
soltanto di fare una forma e sono inevitabilmente costretto a istituire regole di tale forma»2.
Alcuni intellettuali hanno aspramente criticato l’iniziativa editoriale di Einaudi per la sua struttura irregolare e polimorfa; altri invece l’hanno condivisa, come Enzo Siciliano, che sostiene l’importanza di far conoscere questa testimonianza, anche se frammentaria, del lavoro di Pasolini. Lo scrittore così parlava del suo romanzo, in una lettera a Alberto Moravia: «Caro Alberto, ti mando questo manoscritto perché tu mi dia un consiglio. E’ un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare decisamente narrativi e in tal caso sono passi narrativamente così
P.P. Pasolini, Petrolio, (a cura di M. Careri e G. Chiarcossi), Torino, Einaudi, 1992, p. 19. 2
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Capitolo VI - Petrolio, una testimonianza
scoperti che ricordano piuttosto la lingua dei trattamenti o delle sceneggiature che quella dei romanzi classici: si tratta cioè di passi narrativi veri e propri fatti a posta per rievocare il romanzo». Nel romanzo di solito il narratore scompare, per lasciare posto a una figura convenzionale che è l’unica che possa avere un vero rapporto con il lettore.. Vero appunto perché convenzionale. Tanto è vero che fuori dal mondo della scrittura – o se vuoi della pagina e della struttura come si presenta a uno della partita – il vero protagonista della lettura di un romanzo è appunto il lettore»3.
Petrolio offre una testimonianza al lettore per condividerla: «Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello che egli aspettava»4.
Petrolio serve a capire il senso globale dell’esperienza pasoliniana, dove letteratura e vita si intersecano. Senza dubbio è un testo problematico, sperimentale, dove l’immaginazione, il sogno e le congetture si mescolano con i fatti, dove confluiscono autobiografia, delirio e comprensione dei meccanismi che regolano la società; è anche romanzo ideologico, come lo stesso autore sostiene:
3 4
Ivi, p. 544. Ivi, p. 545.
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«in questo mio racconto – su ciò devo essere brutalmente esplicito – la psicologia è sostituita di peso dall’ideologia»5.
La narrazione ha un taglio politico: esprime sdegno e indignazione verso una società che vede declinare il suo standing morale a causa della sua agiatezza; una società, la cui crisi che si riflette nella vita di Carlo, il protagonista del romanzo, che diviene una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde. Carlo infatti registra questa doppia personalità: Carlo Polis, il buono, e Carlo Tetis, il cattivo, l’arrampicatore, facile ai compromessi: «Il primo dei due disputanti aveva un aspetto angelico, e Carlo sapeva interiormente che il suo nome era Polis; il secondo, invece, aveva un povero aspetto infernale, di miserabile e il suo nome era Tetis»6.
Pasolini scava nel mondo torbido dell’Italia dell’ENI di Mattei, della mafia, della grande industria, delle trame del potere per denunciarne la corruttela, che poi, tanti anni dopo, con Tangentopoli, sarebbe emersa con tragica evidenza. Ma già, poco prima della morte, aveva scritto sul “Corriere della sera” un articolo intitolato Il romanzo delle stragi: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi
5 6
Ivi, p. 119. Ivi, p. 13.
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Capitolo VI - Petrolio, una testimonianza
di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del vertice che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpe, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ignoti autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i 123
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fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi»7.
Pasolini veggente? No, era semplicemente dotato di una raffinata abilità a leggere gli eventi! Nel libro appaiono personaggi arricchitisi in modo illecito, pescando nel pozzo senza fondo del denaro pubblico; frequentatori di salotti politico-intellettuali, mestatori disinvolti, che tramano per interessi privati, uomini politici e personaggi-chiave della scena italiana degli anni Sessanta, anch’essi espressione di miseria morale. Ancora una volta si tratta di una denuncia politico-sociale nello stile pasoliniano degli Scritti Corsari; per lui i potenti sono carnefici, i deboli vittime.
7
P.P. Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1974.
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Capitolo VI - Petrolio, una testimonianza
In una intervista con Lorenzo Mondo, Pasolini, parlando del suo progetto di un nuovo romanzo, nella fattispecie Petrolio, afferma: «Il racconto è la fedele rappresentazione della sviscerata crisi della Repubblica e della società, con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo»8.
Per Pasolini, la borghesia soffre di pregiudizi, è solo apparentemente tollerante, perché la tolleranza serve a giustificare istituzionalmente il sistema; pone il suo fondamento sul depauperamento delle coscienze; celebra i cambiamenti della nazione protesa verso una nuova forma di capitalismo. L’unico rimedio possibile è dato dalla «rivoluzione [che] può salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo o “monumentale”, come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia»9.
8 La citazione è tratta dal testo di Mauro Ponzi, Pasolini e Fassbinder: la forza del passato, Edizioni Nuova Cultura Roma, 2013, p.129
P.P. Pasolini, Rivoluzione e Tradizione in S. Murri (a cura di), Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro, Milano, 1994, p. 9.
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In Petrolio è presente un tema che l’autore ripete con insistenza, quello dell’omologazione alla cultura del consumo. Pasolini, che aveva visto nelle classi povere e nei ragazzi della periferia romana degli anni Cinquanta un’alternativa rispetto al dilagante edonismo della borghesia, superficiale e classista, ora prende atto della “borghesizzazione” e della massificazione della cultura, che comporta la perdita di valore della diversità. La piovra del conformismo borghese ha intrappolato nelle sue spire anche i “ragazzi di vita, omologati a tutti gli altri: «Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società «sviluppata» aveva infilato loro in saccoccia. […] I giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, stupida e feroce, stringeva il cuore. […] Quella massa di gente sciamava per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico, anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri»10.
Un altro tema oggetto di particolare curiosità scandalistica è stato il sesso. Le accuse mosse a Pasolini sono di indulgenza verso la pornografia. In Petrolio, il sesso è allegoria della banalità dell’esistenza con la sua carica di nefandezze e brutalità: 10
P.P. Pasolini, Petrolio, cit., pp. 501-503.
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Capitolo VI - Petrolio, una testimonianza
«l’esaltazione lirica dei rapporti e degli scambi corporei è la scoperta della cupa negatività e della violenza che si annida nel triste ripetersi degli atti»11.
I ragazzi nel pratone della Casilina non son reali: la scena ha le connotazioni di un fotogramma di un film. Petrolio non è soltanto critica al sistema capitalistico, ma è anche una confessione, un dialogo intimo dell’autore con se stesso e con il lettore. «Sono pagine felici, di una felicità che ha suono di lutto – dice Enzo Siciliano – ma va ricordato che il romanzo è una grande metafora della metamorfosi sociale italiana attraverso le oscillazioni sessuali del personaggio principale»12. Nella sua recensione a Petrolio, così parla il critico Giulio Ferroni: «Questo è un libro difficile, aspro ed ingrato: un laboratorio senza confini, in cui è facile perdersi. Ma proprio per questo Petrolio è un libro essenziale per capire il senso globale dell’esperienza di Pasolini, per afferrare il retroterra di ossessioni, di sofferenze, di immaginazioni su cui si andava svolgendo quella provocazione “corsara” e “luterana” in cui oggi si riconosce l’aspetto più vitale e sconvolgente della sua febbrile attività»13. Per chi ha amato Pasolini, è un dovere leggere il romanzo, per chi invece l’ha ignorato o non l’ha apprezzato, potrebbe essere questa l’occasione per conoscere uno scrittore davvero grande nel panorama della letteratura contemporanea, il quale ha cantato in maniera lacerante il dolore che è, in definitiva, il dolore del mondo.
11 12 13
G. Ferroni, Macchina petrolio, in «L’Unità-Libri», 7 dicembre 1992. E. Siciliano, Vita di Pasolini, Narratori Giunti, Firenze, 1995, p. 55. G. Ferroni, Macchina petrolio, cit.
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Capitolo VI - Conclusioni
Conclusioni
Si sa che, a volte, le conclusioni possono essere molto simili alle prefazioni, probabilmente perché si vuole legittimare quel che è stato detto o giustificare il metodo lavorativo; noi non vogliamo dare chiavi di lettura oppure apologie su quello che abbiamo scritto. L’obiettivo di questa conclusione è quello di sottolineare il ruolo che Pasolini persona, scrittore, poeta e regista ha avuto in un contesto travagliato e spesso confuso, che ha visto il modificarsi dell’idea di letteratura in parallelo con l’evolversi della società e delle ideologie. I suoi romanzi, le poesie, i saggi e le sue pellicole hanno rappresentato le contraddizioni della sua vita e quelle che laceravano l’Italia del tempo. Scrittore, poeta e regista Pasolini è stato capace di esprimere la storia, i sentimenti, i temi umani con forza etica, con slancio politico e talento polemico. Fu un intellettuale non catalogabile e per questo scomodo, disorganico che seguiva il filo di un suo pensiero e si muoveva fuori dai recinti, all’epoca esistenti, oggi rimossi per lasciare il posto a un pensiero sonnocchioso e inconsistente. Osservatore attento dei fenomeni sociali e politici della sua epoca, formulò opinioni e giudizi anticonformistici capaci di insinuare dubbi irritanti nei riguardi delle certezze più condivise, assumendo il ruolo di «provocatore» e di «perturbatore» della pubblica quiete. Perciò non esitò a sfidare continuamente gli «abitanti» del Palazzo e ad irritare, a un certo punto, anche la Chiesa diventata, a suo modo, «un’istituzione che è tradimento 129
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dell’umano e bastione della nefandezza borghese». Immaginava, invece, una Chiesa attiva schierata con chi soffre, una Chiesa che sta dalla parte degli orfani, delle vedove, degli oppressi. Si è pronunciato con impareggiabile sensibilità – attirando su di sé l’ostilità, e talvolta il disprezzo, di intellettuali, politici, giornalisti e gente comune – su temi scottanti come lo stragismo, il consumismo, la televisione, i rapporti tra borghesia e potere politico lanciando le sue sfide con il piglio profetico di chi legge gli eventi in profondità e ne intuisce gli esiti ultimativi ancora non manifesti e le direzioni di movimento. I suoi interventi, i suoi «sfoghi» o le risposte ai lettori sul settimanale «Tempo», nella rubrica «Il Caos», non erano soltanto dure requisitorie, ma anche una straordinaria indagine giornalistica nell’affrontare temi della politica, della cultura e del costume contemporanei. Così su «Il Corriere della Sera» e su «Il Mondo» la sua polemica divenne più insistente e più amara e i suoi articoli contro le convenzioni ufficiali, contro ciò che è violenza e limite, provocarono polemiche che scossero l’intelligenza del paese. Pasolini resta il poeta del recupero della lingua – il dialetto nelle diverse declinazioni – che seppe portare alla luce le radici comunicative di un popolo all’interno di una situazione regionale e nazionale. Resta lo scrittore e il regista Pasolini con la sua peculiare visionarietà artistica. In vita non fu molto amato, perché era un personaggio scomodo, ma oggi si moltiplicano i riconoscimenti, si esaltano i meriti artistici di un intellettuale coerente, coraggioso che non ha esitato a gridare la sua collera e la sua disperazione, che è poi la collera e la disperazione di coloro che sono oppressi, soffrono e devono lottare per la trasformazione della società. Dopo la sua barbara uccisione Pasolini è diventato un’icona, una banca alla quale accedere per riscuotere un interesse di schieramento, dimenticando la sua libertà ed autonomia di pensiero. A questo intellettuale scomodo e intransigente – «esposto a vivere 130
Capitolo VI - Conclusioni
in prima persona le vicende politiche e intellettuali italiane»1 né demagogia né retorica devono essere riservate, ma gratitudine e rispetto per l’apporto intellettuale. Resta ancora viva in noi la sua voce di intellettuale libero: «E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere, ma nel vivere: bisogna resistere nello scandalo e nella rabbia, più che mai, ingenui come bestie al macello, torbidi come vittime, appunto: bisogna dire più alto che mai il disprezzo verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità, sputare sopra la sua irrealtà che essa ha eletto a realtà, non cedere in un atto e in una parola nell’ odio totale contro di esse, le sue polizie, le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali»2.
1 E. Siciliano, Pasolini: c’è una verità nascosta negli archivi, in «Tuttolibri», 21 ottobre 1978.
P.P. Pasolini, Poeta delle Ceneri in Bestemmia, Poesie disperse II , Tutte le poesie, II, cit. p. 2066.
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Siamo tutti in pericolo
Riportiamo l’intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini, pubblicata sull’inserto Tuttolibri del quotidiano “La Stampa”, edizione dell’8 novembre 1975, perché in quelle parole ritroviamo l’accorata disamina che Pasolini fa di quell’Italia diventata un Paese omologato, conformista, saturo di violenza, non compreso dagli intellettuali. «Questa intervista ha avuto luogo sabato 1 novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti, alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: perché siamo tutti in pericolo». C - Pasolini, tu hai dato, nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò “la situazione”, e tu sai che intendo parlare della scena contro cui in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La “situazione”, con tutti i mali che tu 133
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dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della “situazione”. Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo … P - Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo, un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande, l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo” non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, “la situazione”, e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo […]. C - Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani? P - Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggio134
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gati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono. C - Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani. P - Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità. C - E qual è la verità? P - Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire “evidenza”. Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una 135
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educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è “stare con i deboli”. Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere. C - Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai, in genere, molto successo popolare, cioè sei “consumato” avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta? P - A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma. C - Come dire che hai nostalgia di quel mondo. P - No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di 136
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questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere “di che segno sei”. Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la “situazione”. È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del “cantando sotto la pioggia”. Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati. C - E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici. P - Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta 137
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salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato “la vita violenta”. Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali. C - Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione “più avanzata”… P - Che mi fa rabbrividire. C - Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio? P - Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia, ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare 138
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il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi. C - Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare? P - Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo. C - Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio? È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. «Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina». Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.
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Desidero ringraziare il Prof. Enzo Ferraro e il Dott. Felice Lopresto che mi hanno sostenuto nella stesura del libro con suggerimenti, osservazioni e critiche: a loro va la mia gratitudine.
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Indice
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Prefazione - Una lunga fedeltà di Enzo Ferraro............ pag. 7 Introduzione..................................................................... » 11 Capitolo I Chi era Pasolini?............................................................. » 15 1. Testimone libero di un’epoca................................. » 15 2. La “diversità” come autenticità.............................. » 17 Capitolo II Dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua.................. 1. Sperimentalismo linguistico: poesia in dialetto friulano ..................................................... 1.2. Poesie a Casarsa.............................................. 2. Sperimentalismo formale: poesia in lingua............ 2.1. Le ceneri di Gramsci ..................................... 2.2. Trasumanar e Organizzar...............................
» » » » »
Capitolo III Eterodossia....................................................................... 1. Libertà eretica e corsara......................................... 1.1. Scritti corsari ................................................. 1.2. Lettere luterane ..............................................
» 51 » 51 » 52 » 56
Capitolo IV La visione “religiosa”..................................................... 1. Pasolini “homo religiosus”..................................... 1.1. L’Usignolo della Chiesa Cattolica ................. 2. Il temporalismo della Chiesa..................................
» 61 » 61 » 64 » 67
» 27 27 29 40 42 46
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Capitolo V Nel “ghetto” delle borgate.............................................. pag. 71 1. Testimone del sottoproletariato.............................. » 71 2. Il sottoproletario nella narrativa............................. » 76 2.1. Il sogno di una cosa........................................ » 77 2.2. Ragazzi di vita ............................................... » 80 2.3. Una Vita violenta............................................ » 85 3. Il sottoproletario nel cinema .................................. » 89 3.1 Accattone, «tragedia senza speranza»............. » 92 3.2. Mamma Roma, la frenesia del riscatto .......... » 98 3.3. La Ricotta, una svolta..................................... » 102 3.4. Il Vangelo secondo Matteo, la carica antiborghese..................................... » 107 4. “Studenti figli di papà, io sto con i poliziotti”....... » 114 Capitolo VI Petrolio, una testimonianza............................................. » 119 1. Preambolo di un testamento................................... » 119 Conclusioni...................................................................... » 129 Appendice - Siamo tutti in pericolo.................................. » 133 Bibliografia ..................................................................... » 141
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Bibliografia
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Stampato da Grafica Pollino - Castrovillari (Cs)
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Scoppia un nuovo problema nel mondo si chiama colore. Si chiama colore la nuova estensione del mondo dobbiamo annettere l’idea di migliaia di figli neri o marroni infanti con l’occhio nero e la nuca ricciuta. Altre voci, altri sguardi, altre danze. Tutto dovrà diventare familiare, ingrandire la terra. Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali che vogliono, con innocente ferocia, entrare nella nostra realtà. Sono i giorni della gioia, i giorni della vittoria. (PIER PAOLO PASOLINI)
Pier Paolo Pasolini, «poeta dello scandalo», è stato un uomo e un intellettuale libero, che seguiva il filo di un suo pensiero e si muoveva fuori dai recinti, all’epoca esistenti e oggi rimossi per lasciare il posto ad un pensiero sonnacchioso e inconsistente. Questa sua libertà l’ha urlata in versi bellissimi, rappresentativi e fortemente suggestivi: Sui miei compagni disoccupati / Su tutti i popoli schiavi del mondo / scrivo il tuo nome: / Libertà; Se non si grida evviva la libertà con amore / non si grida evviva la libertà, e in pagine critiche e polemiche graffianti e urticanti su temi scottanti come lo stragismo, il consumismo, la televisione, i rapporti tra borghesia e potere politico e persino sulla crisi della Chiesa. L’urlo di libertà ha attirato sul poeta l’ostilità, e talvolta il disprezzo, di intellettuali, politici, giornalisti e gente comune, ma Pasolini non si preoccupò delle critiche e restò «coerente proprio nella sua incoerenza. La coerenza non riguarda i comportamenti, ma i valori che li generano. Pasolini, intellettuale scomodo perché libero, ha avuto il coraggio di andare controcorrente, persino di scandalizzare i moralisti, per scuotere le coscienze di un’Italia troppo soggiogata dai media e dal malaffare. In definitiva, un “provocatore” e combattente di battaglie, spesso, senza vittorie.
ISBN 978-88-6822-459-2
9 788868 224592
€ 12,99
Angelo Avignone già docente di lingua e letteratura italiana e latina nei Licei per oltre quarant’anni, è stato “Cultore della Materia” per l’insegnamento di Storia Moderna nell’Università della Calabria dal 2002 al 2008. In questa veste ha pubblicato diversi saggi, tra gli altri Modernizzazione e formazione della opinione pubblica: Il ruolo della stampa (in Miscellanea di Studi storici, XII – 2002-2003, a cura del Dipartimento di Storia dell’Unical - Rubbettino, Soveria Mannelli 2005) per il quale ha ottenuto il primo posto al “Premio Letterario Galeazzo di Tarsia” nel 2004. Dell’autore si ricordano gli scritti su autori della letteratura contemporanea, tra i quali Moravia, Fallaci, Pasolini, Pavese, Penna, Montale, Carlo Levi, Alvaro e pubblicati in Verità e Metafore, (Collana Calabria letteraria, Rubbettino Soveria Mannelli 1999), e in parte nell’Annuario del Liceo Scientifico “Scorza”, (Calabria Letteraria, Soveria Mannelli 1992-2004) e nella rivista Bucinator (Barbieri, Cosenza 2002). Ha pubblicato diversi testi ad uso scolastico, l’ultimo dei quali è Navighiamo nel presente, Letture per comprendere la contemporaneità (Pellegrini Editore, Cosenza 2011).