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Italian Pages 182 [192] Year 2014
ETEROTOPIE N. 237 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna
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COMITATO SCIENTIFICO
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
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GILDO DE STEFANO
UNA STORIA SOCIALE DEL JAZZ
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Dai canti della schiavitù al jazz liquido Prefazione di
Zygmunt Bauman
MIMESIS Eterotopie
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© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Eterotopie, n. 237 Isbn: 9788857520018 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
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INDICE
PREFAZIONE di Zygmunt Bauman
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INTRODUZIONE
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I.
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PROLOGO ANALITICO 1.1 I processi essenziali della musica jazz nei sistemi d’interazione sociale
II. TEORIA CLASSICA 2.1 I prodromi del jazz nella società schiavistica: hollers 2.2 L’european-mind nel Nuovo Mondo: modelli socio-musicali, teorie razziali e ideologie coloniali. Poligenismo-naturalistico e Monogenismo-biblico 2.3 La società musicale: teoria socio-antropologica 2.4 La tradizione social-popolare: spirituals e blues 2.5 L’eredità culturale africana: folclore, linguaggio, e canto nero 2.6 Il comportamento come modello sociale: prodotto musicale e feedback 2.7 Epistemologia sociologica della schiavitù: schiavi domestici e schiavi campestri 2.8 Il sistema comunicativo della spiritualità nera 2.9 Le radici antropologiche del jazz 2.10 La società del ragtime e l’ossessione jopliniana 2.11 Fisiognomica e sincretismo in Treemonisha
19 25 25
31 60 61 65 72 76 92 95 103 115
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III PROSPETTIVE CONTEMPORANEE 3.1 Dalla critica adorniana al sociologismo della new thing 3.2 L’inflessione sociale del suono 3.3 Teoria sociologica del ritmo: concettualismo dello swing 3.4 Dall’improvvisazione istintiva alla schizofrenia parkeriana 3.5 L’improvvisazione evolutiva: quale futuro? 3.6 Un jazz fluido per la società liquida 3.7 II pubblico e il consumo di musica jazz
119
139 144 148 153
BIBLIOGRAFIA
165
DISCOGRAFIA
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INDICE DEI NOMI
177
119 133 135
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A mio figlio Emilio, che deve fare il gran tuffo nell’ignoto e scoprire da solo chi ha torto, chi ha ragione, e chi è lui veramente
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La musica è un accadimento della cultura e perciò anche l’occuparsi di essa è in primo luogo scienza umana, scienza dell’uomo stesso. In fondo è evidente che la musica è un problema umano e che non vive soltanto nel cielo delle pure idee musicali; perfino nelle forme più astratte è espressione dell’uomo intero e perciò è riflesso di tutti i fattori extramusicali che possono averla influenzata: dagli elementi economici e sociali a quelli culturali. Alphons Silbermann, Empirische Kunstsoziologie, 1973 Se il jazz è un’arte limitata, ha prodotto compositori come Ellington e compositori-improvvisatori come Louis Armstrong, Charlie Parker e Miles Davis, le cui opere posseggono certamente un significato creativo maggiore di quello di centinaia (alla lettera) di compositori d’“arte” che vengono eseguiti con alterne fortune nelle sale da concerto. Wilfrid Mellers, Music in a New Found Land, 1964
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ZYGMUNT BAUMAN
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PREFAZIONE
Ulteriore aspetto tipico dell’universo consumistico è l’eccesso di informazioni, massiccio e altrettanto inutile. Nel web, l’accesso all’enorme mole dell’offerta musicale (e filmica ecc.) che supera la capacità di filtraggio degli specialisti e degli utenti, si risolve in uno sperpero della qualità percepita. Nasce un conflitto tra obbligo di scelta e l’incapacità della consapevolezza. Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, 2008
Quando De Stefano mi ha proposto di redigere qualche riga per introdurre questo suo saggio sociologico sulla musica jazz, adducendo che – nonostante l’argomento apparentemente leggero – altri illustri studiosi in passato, quali il mio compianto amico Eric J. Hobsbawm, si erano interessati ad esso, ho chiarito all’autore che – a differenza di me – l’amico Hobsbawm aveva speso migliaia di ore ascoltando dischi di jazz e migliaia di notti trascorse nei jazz-club, acquisendo incomparabilmente una cospicua cultura jazzistica forse superiore alla maggior parte di musicologi e critici musicali che sono in giro. Certamente Hobsbawm amava, sentiva, e capiva di jazz in modo più intenso di tutti (o quasi) questi messi assieme. Ahimé, se paragonato a lui raggiungerei a stento la sua caviglia. Insomma, avevo riferito a De Stefano che non ero all’altezza del compito e, scegliendo la mia introduzione per il suo libro, gli avrei fatto più danni che benefici. Tuttavia, constatando la pervicace e coinvolgente passione musicale di questo sociologo italiano, nonché le sue opere saggistiche di stampo musicologico, ho cercato di rintracciare nei miei scritti, qualcosa che potesse essere utile alla sua causa. In Vite di corsa1 mi sono occupato, peraltro, anche delle profonde trasformazioni che in questa nuova società – che ho definito liquida – subisce la percezione umana dello scorrere temporale: nella società dei consumi il tempo non è né ciclico né lineare, come normalmente era nelle altre società della storia moderna e premoderna. Intendo dire che esso invece è puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate, ciascuna 1
Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna, 2009.
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Una storia sociale del jazz
ridotta a un punto che sempre più si avvicina all’idealizzazione geometrica dell’assenza di dimensione. In musica questo tipo di tempo era già stato sperimentato un centinaio d’anni prima da Anton Webern, forse perché i musicisti avvertono certe trasformazioni che coinvolgono la società tutta molto prima degli altri. Il fondamento dei processi musicali va quindi ricercato nel corpo umano: si tratta di qualcosa che risiede nel corpo e attende di essere espresso e sviluppato. La musica è legata ai sentimenti e provoca una attività celebrale inconscia quindi può diventare parte integrante dello sviluppo mentale. Gli uomini sono molto più capaci di quanto la società permetta loro di essere. Sicuramente anche i jazzisti improvvisatori si sono accorti che ora questo tempo ferito e frammentato sia diventato il Tempo e la quotidianità di tutta una società, scuotendoli non poco. A proposito del libro di De Stefano, che parla di musica, mi sembra opportuno soffermarmi qualche minuto sul concetto di felicità. Siamo stati portati a credere che la felicità è nel consumo: ottenere un lavoro, (se siete fortunati), mantenerlo nel tempo per guadagnare soldi, per poi spenderlo e quindi possedere sempre più cose che non ci rendono veramente felici. Dobbiamo creare un nuovo stile di vita, tutti i giorni nuovi meccanismi che ci permettano di riscoprire la felicità al di fuori dei modi tradizionali che il capitalismo ci ha imposto. E dobbiamo farlo ora. La società ha bisogno di aiuto reciproco, la solidarietà, il cooperativismo. La vera felicità si trova nell’amicizia, l’amore, la famiglia, vivendo in comunità, conoscendo i vostri vicini. La felicità soprattutto è nella musica, qualunque essa sia, nell’arte. Si tratta di avere sempre più oggetti, più comodità, ma provare il brivido dell’emozione. E cosa meglio di un jazzista che esterna le proprie emozioni attraverso l’improvvisazione? Ciò per dire che la soluzione è nei nostri cuori. È necessario creare nuove istituzioni sociali, di piccole dimensioni, locali, che possano poi partecipare ad un cambiamento globale. Poiché siamo tutti collegati: tutti dipendiamo l’uno dall’altro, tutti noi viviamo su un unico pianeta. Noi abbiamo il dovere di prendere il controllo delle nostre vite. Anche per un semplice assolo di sassofono si tratta di un buon punto di partenza per cambiare il mondo. Il mondo e gli uomini possono cambiare se ci si trasforma in artisti. L’arte della vita è creare e ricreare sé e il mondo che ci circonda attraverso passaggi di sofferenza, di dolore, di ricerca, di rinuncia e di soddisfazioni. Sono fermamente convinto, e lo dico alle nuove generazioni, che si debba andare oltre il vivere solamente per sé. A ogni artista della vita si chiede di accettare, proprio come i jazzisti, tutta la responsabilità del risultato della sua opera, raccogliendone i meriti e le colpe. Essere artisti creativi è difficile. Così ‘l’urlo silenzio’ delle nuove generazioni si esprime anche attraver-
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Z. Bauman - Prefazione
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so l’improvvisazione, ma anche le incisioni, le bruciature, le escoriazioni e le lacerazioni del proprio corpo che le persone della società liquida si autoinfliggono come forma di regolazione delle proprie tensioni. Mi viene da pensare proprio a quei grandi jazzisti del passato che attraverso la droga si illudevano di trovare la loro fonte di ispirazione. La mente, come la pelle, diventa la superficie d’iscrizione del malessere. Si cambia il proprio corpo perché non si può cambiare l’ambiente in cui si vive. Le ferite corporali non sono un indice di follia ma una particolare forma di lotta contro il male di vivere, che segnala l’inadeguatezza della parola e del pensiero. L’alterazione del corpo è una ridefinizione di sé in una situazione dolorosa, un andare al di là del socialmente consentito per sentire qualcosa di forte. Si soffre una società che ha creato meccanismi di esclusione, ed ecco per molti jazzisti di chiara fama, come Charlie Parker o Chet Baker, il rifugio nella droga vista come catarsi e liberazione. È la mancanza di punti di riferimento solidi e affidabili e di guide degne di fiducia. De Stefano chiude il suo saggio analizzando il pubblico (soprattutto giovanile) ed il consumo della musica jazz. Su questo aspetto devo affermare che la ‘società liquida’ ha abbandonato il culto dei martiri ed eroi, e lo ha sostituito con l’ammirazione per le “celebrità”, che è molto meno impegnativo. Le caratteristiche principali della celebrità sono la continua visibilità sui media, l’onnipresenza dell’immagine, la frequenza con cui viene pronunciato il nome della persona. Anche il jazzista rientra in questa categoria di persone note per la loro notorietà. Se si prova ammirazione per un eroe o per un martire, religioso o civile, ciò significa che si segue il suo pensiero, si professa la sua fede, si rientra in un gruppo di persone accomunate da un ideale. Essere fan di una celebrità provoca l’illusione di far parte di un gruppo sociale di persone accomunate da un’ammirazione per quel personaggio, sicuramente ciò non richiede alcun impegno, ci si può distaccare in qualunque momento, e rivolgere la propria ammirazione verso altri. E, naturalmente, si può essere al contempo fan di più celebrità: certamente non ci sarà nessuno a criticarvi.
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INTRODUZIONE
L’aspetto più interessante di questa nuova moda è che, fin dal principio, non fu considerata semplicemente come un’altra espressione, magari criticabile, della musica leggera, bensì come un simbolo, un movimento, insomma, qualcosa di molto importante. I moralisti, naturalmente, le dichiararono subito guerra, come al solito con quella sublime incapacità di chiarire perfino a loro stessi se erano ostili al jazz solo perché legato alla vita dei bassifondi, e a quella delle classi inferiori. Eric J. Hobsbawm, The Jazz Scene, 1961
Alcuni termini del linguaggio corrente spiegano realtà sociali diffuse, da tempo oggetto di trattazioni scientifiche e sistematiche, che proprio per la loro visibilità e dimensione di massa, oltre che per il grande interesse interdisciplinare, offrono un grande contributo alla comprensione delle esperienze della società nel suo complesso. Jazz è uno di questi termini che, usato in molteplici contesti, offre un quadro comune di riferimento e di riflessione per una serie di aspetti della vita sociale. Allude in prima istanza a una dicotomia temporale tra il “vecchio” e il “nuovo”, tra il presente e il passato, tra la staticità e la mobilità; e l’esperienza delle apparenze che presuppone “situazioni” in cui manifestarsi; e funzione e contenuto estetico. Propriamente con il termine jazz si intende un’espressione musicale improvvisata dell’individualità di un uomo. Ci sono spesso ‘coloriture’ su questa individualità, come ad esempio una scansione regolare delle sezioni ritmiche e un’ampia variazione del timbro strumentale, derivato soprattutto da quelle che sono conosciute come fonti afro-americane, ma non sono sempre necessarie. Rispetto alla concezione più ampia di ‘arte’, il termine “jazz” nell’accezione di consuetudine costante e permanente che impegna il comportamento, la condotta, il modo di essere di una comunità, di un gruppo sociale, rimanda al concetto di sistema, di struttura, ossia a un insieme di più elementi correlati fra loro. Presi da soli, tali elementi sono privi di valore, mentre assumono un significato nel momento in cui essi sono legati da un insieme di norme, di regole collettive. In questo senso il jazz è essenzialmente un fenomeno di ordine assiologico, cioè fa riferimento a una scala di valori
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Una storia sociale del jazz
ideali, a cui i membri di un determinato contesto storico-sociale e culturale tendono per assimilarsi quanto più è possibile. Ora, quando la “passione” per il nuovo, per il recente, per la ricercatezza, il linguaggio, e quant’altro, e il rinnovamento delle forme diventano un valore, ossia quando la mutevolezza e la varietà dei generi classificabili come musica d’improvvisazione non costituiscono più un’eccezione ma diventano una regola stabile, una consuetudine e una norma collettiva -cioè un costume- allora si può parlare di arte. Da questo punto di vista il jazz è sempre un fenomeno di arte sociale. Pertanto si può dire che esiste il jazz e –quindi un tipo di arte- da quando l’amore per il nuovo diventa un principio costante, un’abitudine, un’esigenza culturale. Tutto ciò non fornisce nessuna considerazione ‘valutativa’ di questa musica intesa come ‘arte’ che possa procedere con la contrapposizione esclusiva di arte e non-arte, senza unirvi delle distinzioni tra tentativo e riuscita, tra il valore delle diverse riuscite, tra la riuscita perfetta e quella che fallisce in qualche punto particolare oppure in diversi punti, anche rilevanti, ma tuttavia non è senz’altro priva di valore, e ciò non solo per una concreta volontà di creazione artistica bensì per la volontà artistica di intere epoche. Nel linguaggio la parola “jazz” è usata, con diverse sfumature di significato, in una serie di locuzioni: “musica d’improvvisazione”, “musica creativa”, “musica non convenzionale”, fino a scantonare erroneamente in “world music”. Ma soprattutto è un termine che può essere paragonato, metaforicamente, a un caleidoscopio: come in questo è possibile percorrere una molteplicità di tragitti visivi, come la parola consente diversi percorsi semantici, che danno luogo ad altrettante immagini simmetriche, ossia estensioni di significato. Possiamo parlare di jazz anche in riferimento alle diverse tendenze e generi che nel tempo hanno influenzato il cambiamento di musicisti e stili dall’apparenza relativi a funzioni rituali, religiose, politiche, sociali. Tuttavia peculiare di ciò che chiamiamo “jazz” è l’effettiva e potenziale dimensione di massa del sistema, carattere di cui tutte le premesse erano chiare già alla metà del Novecento ma che ha avuto modo di realizzarsi compiutamente solo all’alba del Terzo Millennio. È lecito definire il jazz come “nuovo media”, benché nel gergo specialistico questa espressione indichi solo i media “digitali”. D’altra parte questa musica è stata pervasa e “reinventata” dalle nuove tecnologie e dagli altri nuovi media nella società che Bauman definisce liquida: prova ne sia, per esempio, l’ascolto domestico e quotidiano, come se fossero elementi del proprio humus le innumerevoli contaminazioni, i nuovi strumenti di comunicazione come il walkman, i palmari, gli smartphone, i computer portatili; per non parlare dell’oggetto divenuto più consueto e tipico del nomadismo metropolitano, il lettore digitale di musica: praticamente il walkman digitale di questa éra,
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Introduzione
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che consente di ascoltare file audio (generalmente MP3): in altre parole l’Ipod, fino ad arrivare all’ultima rivoluzione tecnologica del tablet. Il jazz, quindi, grazie al progresso dell’elettronica associata all’informatica è anch’esso oggi un mezzo di comunicazione di massa che si riproduce e si diffonde secondo sue proprie modalità e che, al tempo stesso, entra in relazione con altri sistemi massmediatici, primi fra tutti il giornalismo specializzato, la fotografia, il cinema, il marketing, la pubblicità. Al pari di alcuni di questi sistemi, questa musica si caratterizza anche come forma d’arte riproducibile, arte “mondana” secolarizzata, in questo senso praticabile con pari dignità, seppur con diverso valore estetico, sia nella concert-hall di grande prestigio sia comodamente seduti sul divano di casa. Per dirla alla Bauman, anche il jazz, come la società, ha subito una trasformazione da una fase solida ad una liquida, proprio a causa di quelle evoluzioni sociali che il grande sociologo polacco ha spesso riportato nei suoi libri. E per questa sua caratteristica legata alla vita quotidiana, c’è chi preferisce parlare di stili e di trend, lasciando che il termine “jazz” serva a indicare soltanto una delle arti dell’immenso universo di quell’Arte definita Musica. Una doverosa annotazione a margine è quella di informare il lettore che uno studio del genere l’ho già affrontato, per la prima volta, trent’anni fa1, un periodo considerevolmente lungo per un fenomeno musicale che attraverso il filtro di nuove generazioni avvicendatesi ha sicuramente subìto un’aspettata se non notevole metamorfosi. Ma per comprendere al meglio il punto d’arrivo di tale mutazione è necessario un approfondito e analitico rewind, fino a risalire alle origini dello stesso ‘big bang’ jazzistico, le cosiddette origini socio-antropologiche di questo genere musicale che, a tutt’oggi, è in piena e continua evoluzione. E questo perché il jazz è un mondo fatto non solo di musica bensì anche di persone. Ho cercato di capire la società che si muove intorno al jazz, un universo di personaggi mossi da suoni portatori di rivoluzione. E per realizzare ciò, da sociologo mi avvalgo di determinati strumenti, primo fra tutti, l’etnomusicologia e l’etnografia distribuzionalista, al fine di ricostruire epistemologicamente e metodologicamente la storia culturale del popolo afroamericano. Giova evidenziare al lettore che un’etnografia è il resoconto di un’esperienza unica. Essa riguarda il dialogo fra sensibilità che prende corpo quando si incontra e si descrive un popolo e un luogo. Dunque, questo libro non descrive solo la sofferenza degli schiavi, la difficoltà in cui operavano i musicisti di colore, i loro padroni, i politici e 1
Trecento anni di jazz: 1619-1919 - le origini della musica afroamericana tra sociologia ed antropologia, SugarCo, Milano 1986.
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Una storia sociale del jazz
i manager che tentarono di controllare la musica che veniva rappresentata; le rivoluzioni, le guerre secessioniste, i flussi migratori e le profonde trasformazioni sociali che rimodellarono lo scenario in cui si sono evolute le prime espressioni musicali dei neri d’America. In questa ricerca non solo invoco una scienza sociale che si costituisca come metodo, come vera e propria sociologia della musica e dell’indagine antropologica del comportamento del jazzista, invece delle traboccanti storie dei diversi stili e forme in forma cronologica, bensì attraverso la mia esperienza di viaggiatore nella terra degli afroamericani, con il mio modo di osservare i protagonisti nel loro ambiente sociale. A tal fine mi pongo come obiettivo primario fissare la problematica delle peculiarità di questa musica come competenza universale di chi è stato posto in catene, o di come funzionano le matrici organizzative dello swing (black groove) in rapporto alle componenti sociali, culturali, e finanche biologiche. Alla prima decade di questo Terzo Millennio, in cui i colossi della politica e le superpotenze hanno cambiato connotazione, in cui per la prima volta nella Storia degli Stati Uniti d’America c’è un presidente colored, chiarire il rapporto tra il jazz e la società esterna rimane un’impresa terribilmente ardua. La semiotica musicale appare nebulosa, mutevole e, ancora una volta, palesemente personale. Tuttavia anche se le miriadi di note che formano l’imponente impalcatura dell’edificio denominato jazz non potranno mai spiegarci appieno il fenomeno, spesso sminuito dallo storico e dal semiologo, la sociologia e l’antropologia sono in grado di rivelarci qualcosa sulla reale vicenda. A tal riguardo, il mio sottotitolo va inteso alla lettera. Sicuramente. Sono intimamente convinto che ogni sforzo creativo sia la sintesi dei processi reattivi di un individuo a tutto quel che di buono gli altri gli hanno dato; cosi, questi brevi ringraziamenti sono solo una piccola parte della gratitudine che devo a tutti coloro che mi hanno aiutato ad apprezzare e capire la musica, prima fra tutti mia madre, che mi ha impartito i primi rudimenti pianistici.
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I. PROLOGO ANALITICO
Il jazz non lo puoi spiegare a qualcuno senza perderne l’esperienza. Deve essere vissuto, perché non sente le parole. Le parole sono i fanciulli della ragione, e quindi, non possono spiegarlo. Queste non possono tradurre il feeling perché non ne sono parte. Ecco perché mi secca quando la gente cerca di analizzare il jazz come un teorema intellettuale. Non lo è. È feeling. Bill Evans, Intervista a Down Beat del 1965
1.1 I processi essenziali della musica jazz nei sistemi d’interazione sociale È assiomaticamente condivisibile l’affermazione di Silbermann1 quando dice che l’uomo, nel suo essere sociomusicale, rimane sempre per la sociologia della musica punto di partenza e centro delle sue considerazioni. Anche William James parlava della nostra ‘suscettibilità alla musica’ e se è vero che la musica influenza tutti noi –ci può calmare, animare, dare conforto, emozionare, o contribuire a organizzarci e sincronizzarci nel lavoro o nel gioco-, è vero anche che può rivelarsi particolarmente efficace e avere un immenso potenziale terapeutico in pazienti con patologie neurologiche assai diverse. Queste persone possono rispondere in modo intenso e specifico a determinati generi di musica (e a volte quasi ad essi soltanto). Da quando è possibile riconoscere l’ordine tipico del jazz come sistema, con le sue metamorfosi e con le sue svolte, esso ha conquistato tutte le sfere della vita sociale, influenzando comportamenti, gusti, idee, arti, mobili, vestiti, oggetti, linguaggio. In altri termini, da quando è apparso in America agli inizi del colonialismo in Africa e America del 1600 fin poi all’assolutismo illuminato del 1700 –sempreché si voglia far coincidere questa storia col traffico degli schiavi africani- non ha un contenuto specifico: è un dispositivo sociale definito da una temporalità relativamente breve e da cambiamenti veloci, che coinvolgono ambiti diversi della vita collettiva. 1
Empirische Kunstsoziologie. Eine Einführung mit kommentierter Bibliographie, Stuttgart, Enke Verlag, 1973.
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Una storia sociale del jazz
Così com’è connotato questo lavoro è necessario ribadire che una storia sociale certamente non può rappresentare “la” sociologia della musica jazz ossia non ne copre l’intera estensione, né vuole competere in nessun senso con l’ammirevole quanto vetusto The Jazz Scene2 di Eric J. Hobsbawm, tuttavia non è il caso di confinarla in un’area pseudoempirica né tantomeno non possa rivestire una fisionomia epistemologica avanzata, oltrepassando certi limiti impostele. In quanto poi al piano che la confinerebbe solo in una posizione introduttiva della ricerca dei dati, ciò poggerebbe su una esasperante discriminazione delle competenze. Non credo che si possa emarginare in toto l’indagine idiografica dal reperire una sorta di legittimità, figlia questa di precipue informazioni. La mera ricognizione di dati che tale tesi postula effettivamente risulta inesistente, come pure apparirebbe pretenzioso auspicare una progettualità a 360 gradi assoggettata ad un fievole compito. Ecco che per quanto analiticamente miserrima essa risultasse non potrà esserci una storia sociale che in qualche modo non proponga più di una normale raccolta di informazioni peculiari. In questo contesto diciamo che la musica jazz non può mai essere una cosa a sé stante: tutto il genere proviene dal popolo nero, nel senso che non può essere trasmesso o avere un significato al di fuori dei rapporti sociali. Le distinzioni fra la complessità di superficie di differenti stili e tecniche musicali non ci dicono niente di utile sulle intenzioni e le effettive potenzialità espressive del jazz o sull’organizzazione intellettuale che la sua creazione richiede. Questa musica è troppo profondamente legata ai sentimenti e alle esperienze dell’uomo in quanto essere sociale, e le sue strutture sono troppo spesso il frutto di sorprendenti esplosioni di inconscia attività cerebrale, perché essa possa essere soggetta a condizioni arbitrarie, come quelle della sofferenza, della fatica da lavoro. II fondamento di molti, se non di tutti, i processi essenziali della musica va ricercato nel corpo umano e nei sistemi d’interazione sociale dei corpi umani. Perciò tutta la musica –e non solamente il jazz- è, sia strutturalmente che funzionalmente, musica popolare. I produttori di musica colta non sono per natura più sensibili o più capaci dei musicisti popolari: le strutture della loro musica sono semplicemente la conseguenza, rispetto ad analoghi processi nella musica dei neri, di sistemi d’interazione sociale quantitativamente più rilevanti, di una più articolata divisione del lavoro e dell’accumularsi di una tradizione tecnologica. Certamente, la scrittura e l’invenzione della notazione musicale sono fattori importanti per la creazione di strutture musicali più complesse; ma 2
Tradotto in Italia nel 1982 per Editori Riuniti, con il titolo Storia sociale del jazz.
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Prologo analitico
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esprimono solo differenze di grado e non le differenze qualitative che sembrano implicite nella distinzione fra musica ‘d’arte’ e musica ‘popolare’. Ho limitato i miei esempi alla musica jazz, di cui possiedo una esperienza personale e dati empirici per sostenere le mie affermazioni. Ma le mie teorie, pur se relative alla musica di una particolare cultura, sembrano potersi applicare ad altri sistemi musicali studiati dagli etnomusicologi, e in particolare alle musiche orientali. Sono certo che un approccio antropologico verso tutti i sistemi musicali sarebbe molto più efficace, ai fini di una loro comprensione, di un’analisi delle strutture sonore prese come entità a sé stanti. Se certe ipotesi sulle origini sociali e biologiche della musica jazz fossero anche solo parzialmente esatte, potrebbero avere notevoli ripercussioni sul modo di valutare la musicalità e la comprensione dei sistemi di notazione musicale dei grandi jazzisti come John Coltrane e Miles Davis. Innanzitutto, potrebbero far nascere qualche nuova idea sul modo di concepire la musica e nei comportamenti e, più in generale, nelle società che (cosi come i neri nel contesto della loro economia post-schiavista e postsegregazionista) si avviavano a disporre di una quantità sempre maggiore di autonomia grazie al consolidarsi della loro autoaffermazione. Un’indagine storica del termine apre ampi spazi chiarificatori. Anzitutto “jazz” non è una parola antica. Dal vocabolario semplice, condensato, talvolta persino troppo ellittico del musicista jazz, si impara una quantità di cose sulla musica che egli esegue. Si viene a sapere che jazz è un nome, che non è musica popolare americana (come spesso si è ritenuto), e che il suonatore di jazz si occupa soprattutto dell’implicita semantica ritmica della parola e assai poco del resto. Se solo si azzarda la tesi, secondo alcuni, che il termine deriverebbe dalla scomposizione fonetica del nome abbreviato di un musicista jazz, certo Charles (Charles, Chas, Jass, Jazz), alcun musicista dimostrerebbe il minimo interesse. Se a ciò si aggiungesse che risulta cospicuamente attendibile questa tesi che vuole tale parola derivata dal francese jaser (ciarlare), si potrebbe manifestare nell’artista una certa curiosità che porterebbe a chiedersi dove andrebbe a finire il ritmo. Solitamente per il musicista di jazz il termine «swing» non è più un nome, anche se inizialmente è apparso tale nel titolo di un disco di Duke Ellington del 1931, It Don’t Mean a Thing If It Ain’t Got That Swing, che gli conferisce una specie di ufficialità. Il lettore imparerà presto che «swing» è una coniugazione verbale, un modo di esprimere il ritmo, proprio come il titolo di un altro motivo di Ellington, Bouncing Bouyancy, che appare ancora come descrizione del ritmo; praticamente come lo sono i vari termini jump e leaps e la definizione del jazz con musica che fila, e come dopo gli anni Trenta, l’attributo di solista all’esecutore a all’esecuzione, altro non
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Una storia sociale del jazz
era che l’equivalente di gone, crazy, craziest, the end, e cool dei giorni a venire. Sono tutte descrizioni del ritmo. Riflettendo sulle parole di chi suona jazz, è possibile cogliere il sottile, libero e quasi mistico concetto dello spirito, della sensibilità jazzistica, alla stregua di come intende lo stesso artista. Egli ha un suo modo particolare di inserirsi al centro della sua musica, e così facendo crea un suo linguaggio musicale. Inoltre egli trasforma il linguaggio musicale in un dialetto verbale esclusivamente originale. Nella sua terminologia, musicale e verbale, egli pensa e sente; prova ed esegue; orchestra ed improvvisa; e trova un ritmo. Quest’ultimo diventa indispensabile al jazzista. Quando il musicista esegue un motivo famigliare, banale e troppo sfruttato, e ne altera lo schema ritmico a vantaggio di un ritmo costante anche se monotono, variandone gli accenti melodici e giungendo persino a mutarne le tonalità, egli opera liberamente, agilmente, e con tutta la spontaneità che può introdurre nella sua musica. È proprio questa spontaneità ad accompagnarlo al jazz; e in questi limiti dovrà restare o andarsene, oppure potrà unirsi a una di quelle orchestre le cui orrende caricature jazzistiche sono troppo spesso più popolari del jazz reale. II jazzman ha potuto ideare, organizzare e sviluppare la sua arte grazie ad una propria concezione formale di certi determinati valori. C’è stato un jazz hot, poi diventato cool. II jazz ha battuto molte strade e assunto molte forme; ha saputo prendere e dare. Ha effettuato un cambiamento, una metamorfosi radicale; convenzioni avute in eredità sono state gradualmente riconfermate, riorganizzate, e infine riplasmate in una nuova forma espressiva. Può darsi che i musicisti jazz altro non abbiano fatto che riscoprire un fattore essenziale nella musica, l’improvvisazione dell’esecutore. Senza minimamente rendersene conto il «jazzman» è tornato, in qualche modo, alle origini della musica, liberando ancora una volta le sorgenti creative che alimentavano l’antica musica greca, la monodia, il barocco musicale e i suoi immediati successori e predecessori. Si sa che i compositori del XVII e XVIII secolo apparivano come degli improvvisatori, e che quando passavano le loro partiture ad altri musicisti affidavano l’interpretazione delle parti alla discrezione degli esecutori, proprio come fanno oggi gli arrangiatori di musica per orchestra jazz. Ma il musicista di jazz ha conferito alla sua musica qualcosa di più che non semplici procedure, concetti compositivi e improvvisazione. Si sono sviluppate delle tecniche che hanno accresciuto le risorse e portato le discipline di certi strumenti, ben oltre la funzione che hanno in altri generi di musica. Gli strumenti solisti e le varie combinazioni e gruppi strumentali si sono arricchiti di colori che sono completamente diversi da quelli di qualsi-
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Prologo analitico
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asi altra musica. Nuove strutture sono emerse da una concezione di tonalità e intensità che, se non risulta originale, appare tuttavia nuovissima nella sua applicazione. L’improvvisatore di jazz occupa una posizione diversa, di maggiore responsabilità e merito, rispetto a quella dei suoi equivalenti in un’arte più remota e nella musica popolare. II fondamento ritmico della musica è stato reinterpretato, e il suo «polso» interno si è fatto più primitivo di quanto non fosse mai stato nella musica occidentale e insieme più raffinato nella sua varietà. Ecco, dunque, come si potrebbe definire il jazz: una musica nuova con un determinato carattere ritmico e melodico, che costantemente implica improvvisazione -di tipo inferiore-, quando si adattano accenti e frasi di un motivo corrente; di tipo superiore, quando si fa della musica improvvisandola sul momento. Quando si improvvisa, una melodia, i toni che da questa dipendono, possono venir alterati. I valori ritmici delle note possono essere allungati o accorciati secondo uno schema regolare, sincopato o no, oppure può anche mancare un tracciato costante di variazioni ritmiche, purché un ritmo determinato rimanga implicito o esplicito. La battuta è normalmente di quattro-quarti e serve di base ritmica all’improvvisazione dei solisti o dei gruppi che suonano otto oppure dodici misure, o qualche loro multiplo o dividendo. Tali sono i mezzi. I fini sono quelli di tutta l’arte, l’espressione dell’universale e del particolare, dello specifico e dell’indiretto, dell’indefinibile. Nella sua breve vita il jazz si è espresso generalmente in forme ridotte e spesso effimere e banali, ma ha anche saputo volgersi verso illuminazioni durevoli e conclusioni significanti. Non di rado i musicisti jazz hanno cercato e ottenuto un effetto sfacciatamente afrodisiaco; ma hanno anche, a loro modo, adorato con la loro musica, il dio unico e i molti dei, senza nome. Alla stregua dei poeti e dei pittori, sono di tutte le fedi, le loro dottrine risultano diverse; ma sono uniti dalla convinzione di aver trovato una forma creativa per sé, per il loro tempo, per la loro terra. Nel trattato di contrappunto e fuga del Gradus ad Parnassum, di Johann Joseph Fux (Vienna, 1725), al secondo libro scritto in forma di dialogo, è peculiare e significante l’ammonizione del maestro di musica Aloisio al pupillo Fux, quando gli chiede se già da fanciullo egli provava una forte inclinazione per quell’arte. E il pupillo risponde affermativamente con enfasi. Addirittura il giovane Joseph ammette che ancor prima di acquistare la ragione, fu sopraffatto dalla violenza di questo strano entusiasmo e rivolse tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti alla musica; concludendo che un ardente desiderio di comprenderla lo possedeva, spingendolo quasi contro il proprio volere a farsi coinvolgere completamente da quella sublime arte e, ammettendo, in modo definitivo e convincente che quella sarebbe stata la
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sua inclinazione. Nulla lo avrebbe scoraggiato e, infine, sperava che “con l’aiuto della salute giungerò a dominarle”. Parecchi musicisti jazz conoscono il trattato di Fux, come fecero Haydn e Beethoven, sia pure con applicazione meno immediata. Essi hanno, comunque, condiviso lo «strano entusiasmo» del pupillo; questo rappresentava, essi affermano, la loro esperienza, il loro «ardente desiderio». Seguendo l’inclinazione, i musicisti jazz non sono stati molto sorretti dalla salute; alcuni fra essi si sono anche troppo compiaciuti della loro vita dissoluta e hanno dovuto subirne le conseguenze. Tutto questo si riflette nella loro musica, e qualche volta la rende caotica e grottesca. Più spesso, invece, essa raggiunge grande pienezza e ricchezza espressiva. Lentamente e sicuramente il jazz va maturando e con esso, per esso, grazie ad esso, maturano i suoi interpreti.
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II. TEORIA CLASSICA
Di regola le economie basate sulla schiavitù manifestano tendenze irrazionali che ne impediscono lo sviluppo economico e ne mettono in pericolo la stabilità sociale. Innanzitutto il padrone non può apportare correzioni all’entità della sua forza-lavoro in conformità alle oscillazioni dell’attività economica. Non è facile conseguire un’adeguata efficienza mediante opportuni interventi sulla forza-lavoro se ragioni di tipo sentimentale, la consuetudine o le pressioni esercitate dalla collettività tendono a impedire la separazione delle famiglie. L’acquisto di schiavi comporta un esborso di capitale molto più ingente e rischioso di quanto non accada nel caso dell’assunzione di lavoratori liberi. Il fatto che la società sia dominata da una classe di piantatori accresce il pericolo che il mercato finisca con il subire influenze di natura politica. Le fonti di manodopera a buon mercato di solito si esauriscono con notevole rapidità, e al di là di un certo livello critico i costi diventano eccessivamente gravosi. Max Weber, La politica come professione, 1919
2.1 I prodromi del jazz nella società schiavistica: hollers II più efficace contributo creativo alla musica popolare degli Stati Uniti fu data dalla musica nera. Un cospicuo repertorio venne dall’Africa, testimonianza delle culture distrutte dal commercio degli schiavi. Questa eredità musicale africana, assorbendo le parole e la musica degli inni trovati sul suolo americano, produsse il meraviglioso corpo dei ‘richiami’ e degli hollers sorti come arma di lotta contro la schiavutù. Essi erano un mezzo per affermare la solidarietà tra i neri; servivano per trasmettere messaggi e ordini dell’organizzazione clandestina, e rappresentavano canti di guerra e inni religiosi di un popolo per cui la religione aveva un significato soltanto nella misura in cui sosteneva la sua lotta contro lo status di schiavo. Questa musica nacque proprio nei giorni della schiavitù nelle piantagioni, come canti che accompagnavano il lavoro dei campi, o danze satiriche come il cakewalk nei confronti dei proprietari di schiavi.
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I richiami (calls) furono usati anticamente nei campi di cotone e grano, nei boschi, sui fiumi, dovunque gli uomini e le donne lavoravano. Ci furono richiami per comunicare messaggi di tutti i tipi: per chiamare la gente fuori dai campi, per stimolarla, per attrarre l’attenzione di una ragazza lontana, per segnalare cani da caccia, o -più semplicemente- per far notare la propria presenza. Ce n’erano anche altri, più appropriatamente definiti cries (grida), che rappresentavano semplicemente uno stato d’animo, una vocalizzazione di qualche emozione. Un nero che lavorava sotto il sole caldo avrebbe potuto urlare per impulso, dirigendo quel suo appello, ai campi intorno a lui, o forse a lui stesso, come atto di rabbia. Quelle vocalizzazioni potevano essere tanto esuberanti quanto malinconiche o consistere in un lungo hoh-ho, strascicato e abbellito da un’intricata ornamentazione impossibile da annotare tecnicamente sul rigo musicale; o, ancora, poteva essere una frase del tipo: «Ho caldo e fame» o semplicemente un’esortazione: «Dài, raccogliete il cotone!». Una buona descrizione di queste «urla dell’animo» la fornisce l’antropologo Harold Courlander: Mentre passeggiavo nell’aperta campagna della Nigeria settentrionale udii un urlo da un colle distante, talmente musicale che pensai a qualcuno che stesse intonando una canzone. Ma il suono si smorzò in una nota assottigliata, e poi ci fu il silenzio. Dopo un po’ ritornò di nuovo il verso dolce, melodico, sostenuto un po’ più a lungo di prima, e poi morì così dolcemente da sembrare un’eco sublime. Chiesi ad un amico che era con me che cosa fosse e questi mi indicò un altro colle, forse lontano mille miglia dal primo. Poco dopo ci fu un altro grido musicale, più debole. Cos’è? chiesi di nuovo. Niente, rispose il mio informatore africano, i ragazzi sono amici, si dicono buonanotte.1
Comunque, la descrizione più suggestiva e decisamente migliore è quella fornita nel 1856 da un corrispondente del «Daily Time» di New York, tale Frederick Law Olmstead, che udì e scrisse «l’urlo negro» o «grido della Carolina», e che semplicemente non era altro che un cry (canto di riposo). La scena si svolse evidentemente nella Carolina del sud, di notte, lungo i binari ferroviari: A mezzanotte fui risvegliato da una risata sonora, mi affacciai e vidi che la squadra degli schiavi presi a prestito dalla ferrovia aveva acceso un fuoco e stava gustando un buon pasto in allegria. Improvvisamente uno emise un suono che non avevo mai udito prima, un grido lungo, alto, musicale, che saliva e scendeva, per poi sfociare e rompersi in falsetto, mentre la sua voce echeggiava nei boschi in una tersa e gelida aria notturna, come uno squillo di tromba [...] 1
Negro Folk Music, Columbia University Press, New York 1963.
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Teoria classica
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Dopo pochi minuti, riuscii a sentire il resto del gruppo, che ritornava al lavoro dirigendosi verso le balle di cotone, intonando: ‘Venite, fratelli, venite! Andiamo! Venite adesso! Eeoho-eeoho-weeioho-i!’ E gli altri raccolsero l’invito come prima: in pochi minuti avevano tutti le spalle cariche di cotone.2
La musica della società schiavistica, eseguita collettivamente, era frequentemente polifonica. Molti cantori e suonatori l’eseguivano insieme e, sebbene partissero dalla stessa melodia tradizionale, ognuno cercava di improvvisare a modo suo secondo le peculiarità della propria voce e del proprio strumento. Nasceva così una musica dalle linee complicate e intrecciate, per quanto improvvisata e molto diversa dai tipi scientificamente costruiti della musica medioevale. Già in queste società apparvero i primi tentativi di annotare la musica, sebbene nessuno dei sistemi impiegati da queste culture primitive fosse in grado di rendere il tempo e il tono con la precisione richiesta dalle composizioni musicali. Talvolta questa notazione primitiva era fatta con la pittura della mano e delle dita del direttore del coro. La musica, in queste società, appariva anche elaborata ritmicamente in modo da riflettere il movimento complesso delle danze rituali, impiegando non soltanto una quantità diversa di tamburi e tamburelli ma anche campane e strumenti a corda che producevano una musica sia melodica che percussiva. Le grida (cries) e i richiami (calls) della società nera negli spazi all’aperto erano noti con diverse terminologie in diversi luoghi, a seconda del tipo di lavoro che si svolgeva. Talvolta erano chiamati corn-field hollers, cotton-field hollers, o solamente hollers. In Alabama veniva usato il termine whooping che spesso appariva anche nelle canzoni (Don’t you hear me whooping, oh baby!) Secondo Willis James3 alcune regioni definivano questi cries delle «declamazioni ad alta voce». L’urlo (cry) non doveva avere un tema, o adattarsi in un tipo di struttura formale, o –ancora- conformarsi ai concetti canonici della scienza musicale. Spesso si trattava di musica libera in cui ogni suono, verso, e frase era sfruttato individualmente in qualsiasi modalità. Poteva essere breve e acuto, con un finale brusco, altre volte come il grido nigeriano di Courlander precedentemente descritto, che poteva oscillare, assottigliarsi, e dolcemente rendersi evanescente. Poteva consistere in una singola situazione musicale o in una serie di situazioni, come pure riflettere qualsiasi stato d’animo: nostalgia, solitudine, mal d’amore, felicità, esuberanza. La chia2 3
James, Willis Laurence, The Romance of the Negro Folk Cry in America, in “Phylon”, first quarter, Atlanta University, 1955. A Journey in the Seabord Slave States, New York 1856, cit. da Paul Oliver in The Story of the Blues, New York 1969.
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ve, spesso, stava nelle parole come pure nella musica. Un grido udito in Alabama, faceva pressappoco così:
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Ay-oh-hoh! I’m goin’ up the river Oh, couldn’t slay here! For I’m goin’ home! So bad, I’m so far from home! Ay-oh-hoh! Salirò il fiume Non potevo stare qui! Così andrò a casa! Sto così male, lontano da casa!4
È interessante come Annie Grace Horn Dobson, un’anziana donna dell’Alabama orientale, il cui padre fu schiavo in quell’area, sia riuscita a ricordare e a cantare alcuni field calls che aveva udito da bambina.5 Distinti dai cries, questi richiami avevano come scopo la comunicazione fra gli schiavi. Si trattava di semplici messaggi fruiti su tutto il campo di lavoro. Secondo numerosi studiosi i richiami di questo tipo avevano grande importanza per gli schiavi che erano confinati dal loro lavoro in particolari campi, incapaci di socializzare con amici in altre piantagioni. Talvolta proprio per conoscersi tra di loro si emanava nei campi un grido senza parole del tipo woh-hoo-oo-woh-hoo! E da una certa distanza, nell’identico schema musicale, arrivava la risposta: yeh-ee-ee, yeh-ee-ee! Lo stesso call lo usava il padre per chiamare dai campi i suoi figli; ma anche i giovani che cercavano compagnia o amori potevano far echeggiare quello stesso richiamo. Nella società schiavistica i richiami ebbero una speciale importanza che man mano scomparve con le catene. C’erano modi attraverso cui gli schiavi potevano tenersi in contatto l’uno con l’altro, in altri casi anche gli ordini del sorvegliante (driver) -che coordinava il lavoro- venivano formulati in tale modo. Indubbiamente questi richiami venivano effettuati in vari dialetti africani, e ciò irritava notevolmente i sorveglianti bianchi6 che non riuscivano a decifrarli. Se si considerano gli aspetti tonali dei linguaggi dell’Africa centrale e occidentale, si nota che molti richiami e cries erano meno privi di parole di quanto sembrassero. Solo con l’avvento dei moderni strumenti sociologici ed etnomusicologici ci si è reso conto come il segnale del drumming africano si basava fondamentalmente sulla simula4 5 6
Dal disco di Enoch Brown registrato nel 1950, Livingston, Alabama. Negro Folk Music of Alabama secular by Harold Courlander, album Ethnic Folkways Library FE 4417, New York 1956, Library of Congress #57-80. Da non confondere con i drivers, che erano destinati dal padrone a lavorare sotto la sua supervisione o di un sorvegliante bianco e a controllare il ritmo di lavoro nei campi, tuttavia rimanevano comunque schiavi.
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zione delle inflessioni del discorso attraverso altre inflessioni più sonore e cadenzate. II modo africano di segnalare con la voce e con il corno si basava, talvolta, sullo stesso principio. In alcuni esempi i segnali a voce non erano modellati direttamente su inflessioni verbali bensì sul suono di strumenti che imitavano la voce umana. Molti dei primi richiami degli schiavi negli States possono aver utilizzato questi espedienti comunicativi. In tale situazione, eguali messaggi privi di parole risultavano del tutto incomprensibili agli estranei. Tuttavia molti cries e richiami dell’ultima ora non apparivano del tutto senza parole e, sebbene nati in forma libera, erano assimilabili a ciò che generalmente si considera «canto». Esempi del genere sono rintracciabili in un album registrato dalla già citata Dobson, in cui questi richiami hanno una particolare bellezza melodica. Un richiamo in uno spazio all’aperto chiedeva al suo destinatario dove fosse stato. L’interlocutore rispondeva, «nella giungla», una metafora questa che potrebbe intendere fuga dalla prigione in direzione dei boschi, o qualche altro tipo di esperienza infelice. Nei campi di cotone e in quelli di grano, nella società post-schiavistica come nelle vecchie piantagioni, il trasportatore d’acqua era costantemente richiesto. II richiamo per quel ragazzo (o ragazza) in uno o un’altra delle sue molte varianti, era alquanto familiare, ed era stato inframmezzato di musica scenica nonché usato dai concertisti. Alcuni richiami simili a «Waterboy, dove sei nascosto?» erano stati condensati come vere canzoni, e possono essere ascoltati su registrazioni fonografiche in qualche biblioteca istituzionale statunitense. II seguente richiamo dell’acqua fu registrato in Alabama sempre dalla Dobson nel 1950 nel vol. IV. Huddie Ledbetter, noto entertainer, aveva nel suo repertorio dei water-calls che cantava con accompagnamento di chitarra: Bring me a little water, Silvie, Bring me a little now Every little once in a while. Don’t you hear me callin ‘? Don’t you hear now? Every little once a while. Portami un po’ d’acqua, Silvia, Portamene un po’ ora Un po’ ogni tanto. Non mi senti chiamare? Non mi senti ora? Un po’ d’acqua ogni tanto.7
I richiami, le urla (cries), gli whoops e gli hollers della società afroamericana finivano dove le citta fiorivano; ma queste ultime avevano dei richiami 7
Smithsonian Folkways, Disc Record No. 3001-A, Smithsonian Institution, Washington 1997.
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propri. Nel secolo scorso a Charleston, Savannah, New Orleans, Shreveport, e in quasi ogni altra metropoli del sud, si potevano ancora ascoltare i richiami dei venditori ambulanti di ogni genere e degli spazzacamini. Dovunque, nel nord, nei quartieri di colore di Chicago, Detroit, New York e Cleveland, i venditori ambulanti pubblicizzavano la loro merce allo stesso modo. Talvolta cantati con ornamenti elaborati, altre volte eseguiti in modo più semplice, molti erano così distintamente individuali che alcuni di essi spesso potevano essere riconosciuti anche prima di apparire. Uno dei più noti rimane quello dei pescivendoli di Charleston, che si ripeteva da secoli nelle strade della vecchia città della Carolina del sud, cui una vasta letteratura ha dedicato particolare attenzione: Porgy walk Porgy talk Porgy eat with knif'an fawk Porgy-e-e-e-e. Porgy cammina Porgy parla Porgy mangia con col tello e forchetta Porgy-e-e-e-e.8
Porgy è il nome di un piccolo pesce venduto a Charleston e la sua personificazione, con la burlesca ambivalenza del suo realizzarsi: Porgy che mangia, ma sarà mangiato, costituisce un tratto comune della tradizione americana fino a Mark Twain e oltre, dove il bestiario appare carattere distintivo e ricorrente. Naturalmente i richiami sul lavoro non rappresentavano l’esclusivo patrimonio della comunità afroamericana. Nelle aree rurali bianche degli Stati Uniti, i richiami al bestiame (cattle calls) erano comuni, come lo erano in Europa. Le urla sul lavoro (work cries) e durante la caccia (hunting cries) erano già in uso da tribù nelle Filippine, nell’Africa e nel sud-est asiatico. Le città americane ed europee fin dai tempi più remoti hanno udito i richiami degli arrotini, dei riparatori d’ombrelli, dei venditori ambulanti, e degli ‘stracciaroli’. Finanche l’antica Corea conosceva il richiamo dell’armaiolo e del sarto. I richiami urbani rimangono una vecchia tradizione in molte culture, e ciò che la gente di colore ha portato in essi sono certe peculiarità della loro musica e delle loro immagini. Alcuni musicologi e studiosi di folk hanno formulato l’idea che urla e richiami rappresentano una fonte, perfino una fonte primaria del blues e del jazz. Questa tesi potrebbe essere considerata come parte del romanticismo che è legato all’argomento delle origini del jazz. Bisogna dire che ancor prima che si sentisse echeggiare il primo richiamo o urlo colored nel Nuovo Mondo, la gente di colore possedeva una musica altamente svi8
Claudio Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti, Cappelli Editore, Bologna 1963.
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luppata e sofisticata. I neri erano minuziosamente informati in questo campo, e avevano ben chiaro il concetto dell’utilizzo che potevano fare della loro voce. Non c’era alcun bisogno di iniziare da capo con un grido rudimentale, privo di forma. Peraltro sebbene fosse evidente che alcuni degli elementi avvertiti nel grido si riscontravano anche nel blues e in altre canzoni nere, quegli stessi elementi risultavano semplicemente parte di un repertorio generale di effetti musicali da cui tutta la musica afroamericana trae ispirazione. Gli ornamenti e gli elementi ritmici a melodia libera avvertiti nei richiami da campo (field calls) potevano anche udirsi nelle preghiere, nei lamenti, negli spirituals, nel blues e nelle work-songs soliste. Mentre il compositore conscio della canzone o l’interprete della stessa potevano prendere a prestito temi del richiamo per incorporarli in un brano blues, il cantante tradizionale possedeva già questa risorsa, con la differenza che questi -nell’usarla- non traesse ispirazione da un genere per applicarlo ad un altro. Richiami ed urla, in definitiva, non erano semplicemente estratti della comune risorsa della tradizione musicale ma qualcosa di più se si tiene conto dell’originale importanza delle civiltà africane del linguaggio: parola, ritmo o simbolo. Avrebbe detto Du Bois: “È la musica di un popolo infelice, dei figli del disinganno. Ci parla di morte e di sofferenza, e il desiderio inespresso di un mondo migliore vi traspare qua e là durante incerti vagabondaggi per sentieri misteriosi”9.
2.2 L’european-mind nel Nuovo Mondo: modelli socio-musicali, teorie razziali e ideologie coloniali. Poligenismo-naturalistico e Monogenismobiblico La musica non può esistere per sé e in sé. Ci saranno sempre esseri umani che si comporteranno in un determinato modo al fine di produrla. In breve, la musica non può essere definita soltanto come fenomeno sonoro, poiché presuppone il comportamento di uno o più individui. Alan P. Merriam, The Anthropology of Music, 1964
Nella misura in cui un’opera musicale appare realistica (praticamente quando riflette fedelmente la vita umana e sviluppa la sua tecnica per rap9
W. E. B. Du Bois, John Brown, Metro Books, Northbrook, Illinois 1972.
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presentarla nel modo più completo possibile) essa rappresenta una parte imperitura della cultura del suo creatore, della sua razza. Essa appartiene però ad un’epoca determinata e, nonostante tutta la sua potenza, non può soddisfare pienamente i bisogni culturali delle epoche successive, poiché ha creato e imposto nuovi problemi e sviluppato nuove idee. Per questa ragione diventa necessario creare nuovi lavori e far nascere dibattiti su nuovi problemi di tecnica e di forma che si innestino sull’eredità del passato. Non tutti i lavori hanno la stessa possibilità di sopravvivere. La storia della musica afro-americana contiene infatti grandi esempi di realismo e innumerevoli di formalismo, di ferree costrizioni, e di un impegno ottuso dei modi tradizionali per impedire agli uomini di comprendere e dominare il proprio mondo. Ciò che si affronta in questo libro vuol essere uno studio dell'evoluzione del significato della musica afroamericana. Esso non è una storia della musica, ma deve necessariamente affrontare il soggetto da un punta di vista storico e antropologico, dando qualche idea del modo in cui ha progredito tra nuove esperienze, nuovi problemi, nuove idee e nuove mentalità. Sono esistite ricche culture musicali dei popoli asiatici e africani, come dei popoli dell'India e dell’America. Il capitalismo che sorse in Europa e nelle Americhe negli ultimi cinquecento anni accumulò le sue ricchezze con la spoliazione e lo sfruttamento coloniale dell'Asia, dell'Africa e del continente americano. Questo sfruttamento seminò la distruzione tra i popoli indigeni e le loro culture e questa distruzione dette vita alla società schiavistica in quelle popolazioni e il disprezzo della loro civiltà. Il popolo nero e la cultura che esso portò dall'Africa diede un contributo essenziale alla musica che si sviluppò in America. Su queste basi la creazione delle nuove grandi opere rese possibili dalla vittoria del capitalismo sulla società feudale in Europa, rappresentò un progresso fondamentale che innalzò il contenuto della musica ad un nuovo livello, arricchì e rinnovò le sue forme e le assegnò una parte di primo piano nella battaglia delle idee. Non vi è dubbio che questa eredità classica ha costituito nel futuro una fonte continua di insegnamento per la musica, proprio come è indubbio che le popolazioni e la musica dell'Africa e delle Americhe si svilupparono in modo potente e autonomo. A tal riguardo c'è un'antropologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e etnologico. Ai musicologi fornisce una conoscenza di base necessaria alla produzione di tutti i suoni musicali attraverso la quale il suono e il processo sonoro possano essere pienamente compresi. Quanto agli antropologi, il contributo dell'etnomusicologia ha costituito un ulteriore passo avanti nella comprensione sia dei prodotti che dei
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processi della vita, poiché la musica non è altro che un elemento che si aggiunge alla complessità del comportamento umano. Laddove non esistono uomini che pensano, agiscono e creano, il suono musicale non può esistere; comprendiamo la musica nera negli Stati Uniti molto meglio che non l'intera organizzazione della sua produzione. Forniamo, quindi, un supporto tecnico allo studio di questa musica in quanto comportamento umano: chiarire il tipo di processo che deriva da fattori antropologici e musicologici insieme, migliorare infine la nostra conoscenza di entrambe le discipline, sotto la comune prospettiva di studi comportamentali e sociali. Nel presentare una teoria e una metodologia dello studio della musica afro-americana in quanto comportamento umano bisogna risalire ad un concetto fondamentale quale quello dell'european-mind nel Nuovo Mondo e delle sue conseguenze sociali e concettualizzate. Senza dubbio c’è un’analogia tra i problemi del comportamento creativo umano e la coscienza sociale che ogni cultura manifesta. Ed è proprio da qui che parte il nostro studio antropologico ovvero dal preadamitismo alla conseguente teoria razziale. Se l’obiettivo principale del preadamitismo, nella sua veste biblica, è indubbiamente interno alla polemica politico-culturale europea –tale che la ricerca delle sue cause storiche coinciderebbe, rispetto all’Inghilterra almeno, con la ricerca delle cause storiche del deismo- altrettanto indubbio è che già nella sua veste biblica il preadamitismo assume un significato ben specifico nel campo delle ideologie coloniali. Per provarlo, non occorre fare illazioni. Basta scorrere le pagine di un libello pubblicato a Londra nel 1680 da un fervente anglicano, Morgan Godwin, appena rientrato da un viaggio in Virginia e nelle Barbados. II titolo dell’operetta, The Negro’s and Indians Advocate10, non deve trarre in inganno: si tratta, piu che di una difesa dei neri e degli indiani, di una violenta invettiva contro i coloni inglesi -e i piantatori in particolare- che si opponevano al battesimo dei loro schiavi di colore. Proprio in questo ambito Godwin ci informa che i piantatori, per giustificare la loro opposizione all’intervento missionario, si servivano principalmente della dottrina preadamitica. Una dottrina, aggiunge Godwin, che «essi credono invincibile», ma che in realtà appare «in alcune cose falsa, in altre vacua e sciocca», come ha mostrato in maniera esauriente quella «persona non meno dot10
Morgan Godwin, The Negro’s and Indians Advocate, Suing for their Admission into the Church: Or a Persuasive to the Instructing and Baptizing of the Negro’s and Indians in Our Plantations. Shewing, that as the Compliance therewith Can Prejudice No Mans Just Interest; So the Wilful Neglecting and Oppositing of It, Is no Less than a Manifest Apostacy from the Christian Faith, Londra 1680.
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ta che giudiziosa» che fu il giudice Hale11, e come egli stesso si accinse a ribadire con nuovi argomenti12. Ma ciò che fa si che «un’opinione cosi avventata possa essere alloggiata nel cervello di alcuni di noi», avvertiva Godwin, era soltanto «l’incitamento e l’istigazione della principale divinità dei nostri piantatori, il Profitto»13. La teoria preadamitica serviva infatti ai proprietari di schiavi per sostenere la brutalità sui loro neri e con essa giustificare la relativa riduzione in schiavitu, escluderli da ogni diritto e rivendicazione, e anche dalla stessa religione. Ma, osservava Godwin, com’è possibile considerare i neri alla stregua di bestie brute, escluderli dall’umanità, se essi posseggono la capacità di ridere e discorrere, facoltà peculiari dell’uomo, e se la loro capacità di commerciare dimostra un latente raziocinio? D’altronde se non fossero uomini dovrebbero essere «mostri», e ciò, oltre a non essere conforme a quella massima dell’osservazione comune relativa alla non-generazione dei mostri, non sarebbe neppure consono alla definizione di «mostro» comunemente accettata, come di creatura caratterizzata non soltanto da deformità fisica ma anche da mancanza di ragione. Le osservazioni di Godwin servivano a definire non soltanto l’uso coloniale del preadamitismo ma anche i limiti teorici che questa dottrina manifestava, già alla fine del Seicento, in confronto con la realtà coloniale. Sostenere che i neri e gli indiani non fossero figli di Adamo non appariva 11 12
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Matthew Hale, The Primitive origination of mankind, considered and examined according to the right of nature [...] , Londra 1677. “II primo autore di questa opinione”, riporta Godwin, fu un “erudito dottore”, che egli d’altronde confessa di aver letto da molto tempo. L’imprecisione del riferimento legittima il sospetto che la conoscenza che aveva Godwin del preadamitismo non fosse di prima mano, ma filtrata dagli ambienti coloniali. Anche la confutazione di Godwin ha infatti un taglio “coloniale”, guidata com’è non da ragioni scritturali ma da constatazioni empiriche effettuate nel Nuovo Mondo. All’argomento – che si ritrova in La Peyrere (White Adam, Franklin, New York 1964) – che se Caino faceva l’agricoltore dovevano già esistere ai suoi tempi degli artigiani che gli preparassero gli strumenti, Godwin rispondeva: «Se questo erudito avesse viaggiato nella parte più meridionale dell’Africa, e nella maggior parte dell’America (se non in tutta), avrebbe forse imparato in loco un commento più ortodosso a questo testo “biblico”. Giacché ivi avrebbe potuto scorgere i nativi (che probabilmente ancora ritenevano il modo di fare di quei tempi più antichi) piantare ciascuno la propria porzione di mais dopo aver fatto posto al seme, passando nel terreno con uno strumento non più raffinato di un semplice bastone, o addirittura con le dita» (op. cit.). E, analogamente, l’ipotesi di una città ai tempi di Caino e quindi di architetti preadamitici, è smentita secondo Godwin dall’osservazione che in Virginia neppure oggi vi sono vere città, e gli indigeni si accontentano di capanne che costruiscono essi stessi (op. cit.). op. cit.
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ancora sufficiente: occorreva altresì definire empiricamente la natura di quelle creature non adamitiche. Che la tematica dei «mostri» non fosse adeguata l’aveva già messa in luce, a suo tempo, La Mothe Le Vayer14; e le ricerche sulle creature intermedie, iniziate in clima libertino, avevano già indicato la necessità di superare questa categoria ancora agostiniana. Ma tale tematica naturalistica era stata accantonata da La Peyrere. Per opera sua la critica biblica superava ampiamente la ricerca scientifica. Ciò poteva anche non apparire importante finché il preadamitismo rimaneva prevalentemente uno strumento della polemica antireligiosa europea: ma la necessità di una definizione anche naturalistica delle creature non adamitiche non poteva non farsi sentire quando quelle creature divenivano oggetto diretto della pratica coloniale. E in risposta a questa esigenza che, negli stessi anni in cui Godwin denunciò l’insostenibilità della teoria dei «mostri», venne consolidandosi una teoria alternativa, capace di sostenere il punto di vista poligenetico non solo con argomenti scritturali ma anche con argomenti naturalistici: la teoria delle razze umane. La prima formulazione di una teoria razziale sembrò collocarsi nel 1676. E non a caso proveniva da un autore, Sir William Petty, molto vicino alle posizioni deiste, e precocemente impegnato nel ricercare soluzioni scientifiche alle esigenze di profitto della borghesia. Non a caso, ancora, la teorizzazione di Petty prendeva spunto proprio da quell’opera di Matthew Hale – pubblicata lo stesso anno – che, nonostante le intenzioni dell’autore, avesse potentemente contribuito – come dimostrato – alla diffusione del preadamitismo in Inghilterra. Come Burnet, Petty partiva da Hale per giungere a conclusioni ben più radicali di quelle che il cauto giudice avrebbe auspicato. Lo scritto in questione era un frammento dedicato a «la scala delle creature»15, abbozzo di un’opera che Petty non avrebbe mai portato a termine. Si trattava dell’idea stessa di «scala delle creature», di organizzazione del creato secondo un ordine di perfezione crescente, che Petty attribuiva all’inizio del suo scritto a Hale, e che dichiarava di voler sviluppare. Ma
14 15
La Mothe Le Vayer F., Oeuvres, Slatkine Reprints, Ginevra 1970. Scale of Creatures, un libro di Petty che rappresenta la prima fonte nota in occidente che al tempo stesso demolisce l’idea cristiana di unità dell’uomo e connette i tratti biologici con una gerarchia razziale fondata sul colore della pelle. “Dell’uomo stesso sembrano esservi specie diverse. Per non dir nulla dei Giganti e dei Pigmei o di quella sorta di omuncoli che hanno un linguaggio rudimentale [...] Per questo genere di uomini, non mi azzardo a pronunciarmi, ma quel che è certamente possibile è che vi possono essere razze e generazioni siffatte [...]”. (Citato da M. Hodgen, Early Antropology in sixteenth and seventeenth Centuries, Filadelfia 1964, pp. 421-422). [cit. I Parte]
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gli sviluppi che egli conferiva a questa idea lo conducevano molto lontano dall’impianto monogenetico entro cui l’aveva rigidamente mantenuta Hale. Non solo esisteva per Petty una gerarchia degli esseri inferiori all’uomo e un’altra degli esseri superiori (creature angeliche), ma esisteva anche una graduazione, una gerarchia all’interno della stessa umanità16. Anche di uomini -teorizzava Petty a questo proposito- sembra ne esistessero parecchie specie. Quando si sentiva parlare di giganti e di nani, di uomini altissimi e di uomini piccolissimi, non si poteva fare a meno di pensare, in analogia con quanto si diceva dei cani, che era molto probabile che esistessero razze e generazioni di ciascuno di essi, cioé che potessero esserci razze e generazioni di ciascun genere di uomo di cui noi avremmo conosciuto gli individui. Questa ipotesi era confermata in maniera ancor più pregnante dal fatto che apparivano altre differenze più considerevoli, come tra il nero della Guinea e l’abitante dell’Europa centrale, e tra i neri stessi, tra quelli della Guinea e coloro che vivevano vicino al Capo di Buona Speranza, i quali erano i più simili alle bestie di tutte le specie di uomini conosciute dai viaggiatori occidentali. E infatti, specificava Petty: Gli europei sono differenti dai suddetti africani non soltanto nel colore, che differisce tanto quanto il bianco dal nero, non soltanto nella capigliatura, che differisce quanto una linea retta da un cerchio; ma differiscono anche nella forma del naso, delle labbra e degli zigomi, come pure nella conformazione della faccia e del cranio.17
Neanche le differenze si limitavano al campo fisico. Essi erano difformi – aggiungeva Petty – anche per quanto riguardava il loro naturale modo di 16
17
La supposizione di questa duplice scala permetteva a Petty di concludere che «se l’uomo era a tal punto migliorato nei vari secoli passati e nelle età del mondo, quanto avrebbe potuto progredire in altri seimila anni, o in un altro numero di generazioni, cioé quanto lontano avrebbe potuto avanzare dal livello inferiore (dove si trovava attualmente) verso la sommità della grande scala?» (op. cit.). Conclusione che illuminava sinteticamente il significato di teoria del progresso, che assumeva in Petty la concezione della «scala delle creature», l’inserimento entro cui la teoria razziale veniva a costituire una garanzia del permanere, attraverso i secoli, della naturale gerarchia delle diverse stirpi umane quale si presentava agli occhi dell’osservatore seicentesco. Va da sé che il concetto di «scala delle creature» espresso da Petty aveva attirato l’attenzione di Arthur O. Lovejoy (La Grande Catena dell’Essere, Feltrinelli Editore, Milano 1966) ma la stessa impostazione della «storia delle idee» aveva impedito allo studioso americano di cogliere lo specifico significato storico della dottrina, al di là della sua evidente matrice platonica. op. cit.
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fare e le qualità intrinseche del loro spirito. E infatti, egli riportava, così come gli uomini differivano nelle loro qualità fisiche, altrettanto si differenziavano nelle capacità mnemoniche, nelle intelligenze, nei giudizi, e anche nei loro sensi esterni. La scala delle creature umane si configurava dunque, per Petty, come una vera e propria gerarchia spirituale e morale delle razze umane. Ma la presenza di «razze» e di «generazioni» umane naturalmente differenziate ab origine, come si conciliava con la concezione biblico-cristiana che attribuiva l’origine dell’intera umanità a una sola coppia, quella adamitica? Petty si guardava bene dall’affrontare esplicitamente tale problematica. Quest’ultimo si accontentava di porre in forma di domanda -in un altro frammento rimasto manoscritto- la questione se ciascuna delle specie umane fu creata nello stesso tempo, o all’incirca, e quando e dove ciascuna di esse fu creata. Ma pur riferendosi esplicitamente, con questa domanda, ad un’impostazione poligenetica, Petty non soltanto non riteneva di dover aderire alla teoria preadamitica, ma si sentiva autorizzato, sulla base di calcoli statistici -e non, si noti, per un semplice omaggio all’autorità biblica- a confutarla. Dopo aver calcolato che al mondo «vi sono soltanto dai trecento ai quattrocento milioni di anime attualmente viventi»18 Petty osservava che, supposto che da Adamo ed Eva la popolazione si fosse raddoppiata ogni duecento anni, la nascita della prima coppia potrebbe collocarsi, conformemente alla cronologia di Scaligero, 5630 anni innanzi: e ciò «è un valido argomento contro gli schernitori della Scrittura e i preadamiti, e risponde loro in maniera inconfutabile»19 mentre «è conforme a ciò che Mosè riferì su questo argomento».20 Questo prendere le distanze dal preadamitismo non rappresentava soltanto un indice di maggiore prudenza in campo religioso, visto che la prudenza avrebbe dovuto suggerire parimenti a Petty l’astensione da una teoria evidentemente poligenetica come la sua. Nel distacco di Petty da La Peyrere vi è in realtà qualcosa di più significativo. Ancorando il suo poligenismo all’ipotesi dell’estrema vetustà dei popoli, La Peyrere aveva presentato le generazioni non adamitiche come stirpi più antiche e, quindi, più civili di quella biblica. Ciò rispondeva non soltanto al prevalente intento antiscritturale ma anche, come s’è detto, alla prospettiva del commercio olandese dalla cui angola18 19 20
op. cit. Questo calcolo è esposto da Petty in una lettera del 20 agosto 1681 indirizzata a Robert Southwell, pubblicata in The Economic Writings of Sir William Petty, ed. Charles Henry Hull, Cambridge 1899, vol. II. Questa è la conclusione di un analogo ragionamento contenuto in un altro inedito di Petty, A Dialogue between A and B in The Petty Papers, cit. vol. 1.
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zione La Peyrere si poneva. Non a caso, dai popoli preadamitici, La Peyrere aveva escluso tacitamente i neri, difficilmente proponibili come popolo antico e civile in base alla pubblicistica dell’epoca, dato che lo stesso commercio olandese considerava loro una vera e propria merce di scambio piuttosto che un reale o potenziale partner commerciale. Ma tale prospettiva, questa dimensione del preadamitismo, doveva gradatamente manifestare la sua inadeguatezza man mano che la teoria stessa sviluppava le sue potenzialità di ideologia coloniale, e man mano che andava estendendo la sua funzione ideologica dal rapporto puramente commerciale in cui si esauriva la politica coloniale olandese al rapporto di sfruttamento produttivo della manodopera di colore sui quali sempre più si reggeva la prosperità delle colonie inglesi e -in minor grado- francesi21. Lo stesso Godwin, mentre ci informava dell’uso del preadamitismo in funzione schiavistica da parte dei coloni inglesi, confutava acutamente la teoria di La Peyrere considerandola inadeguata a svolgere conseguentemente questo ruolo ideologico. La giustificazione della schiavitù richiedeva, come dimostrato, di relegare i neri nella sfera dei bruti, di negare loro l’uso della ragione, di escluderli dai diritti materiali e spirituali di cui godevano i loro padroni. Ma, osserva Godwin, il preadamitismo non risponde alla questione relativa all’umanità dei nostri negri, né alla questione della loro origine o discendenza. E infatti poiché secondo i principi del suo primo autore (La Peyrere) la creazione che essi pretendono antecedente a Adamo fu creazione di un uomo non meno reale di quest’ultimo, tale deve essere anche la sua posterità.22
Se porre i popoli extra-europei sullo stesso piano degli europei appariva consono ad una prospettiva commerciale, non lo era invece ad una prospettiva schiavistica. Per questo occorreva una teoria che mantenesse l’impian21
22
Si noti come già in Inghilterra il preadamitismo andasse perdendo i suoi caratteri di antichità, nella misura in cui si configurava non come una non-derivazione dei popoli extraeuropei da Adamo bensì come una loro non-derivazione da Noè. In tal senso, tra il preadamitismo “inglese” e il preadamitismo “olandese” di La Peyrere tendeva a riproporsi la medesima discrepanza che, in campo ortodosso, si andava configurando tra la soluzione del problema americano prevalente in Inghilterra (origine recente-barbarie) e quella prevalente in Olanda (origine antica-civiltà). Se poi la posizione dei sostenitori inglesi del preadamitismo non era, su questo punto, sempre costante né sempre coerente, si traduceva nel fatto che il tema dell’antichità da un lato meglio si prestava alla polemica anti-scritturale e dall’altro era pur sempre rispondente alla prospettiva commerciale (e alla polemica anti-spagnola) a cui anche l’Inghilterra era in notevole misura interessata. Godwin, op. cit
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to poligenetico ma lo liberasse dall’involucro preadamitico e dall’alone di antichità che esso proiettava sull’umanità coloniale; che fosse in grado di spiegare l’origine non soltanto dei popoli dediti al commercio (cinesi e americani) ma anche, e infine principalmente, dei popoli «schiavi» (africani); che consentisse, con una classificazione gerarchica, di mantenere questi ultimi ad un livello inferiore di umanità, attribuendo loro quella collocazione intermedia tra l’uomo e la bestia che già aveva ricoperto la figura medioevale (e ormai empiricamente insostenibile) del «mostro»23. Petty -che senza un’ombra di dubbio considerava il Nuovo Mondo una semplice
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Vale la pena di segnalare a tal proposito -trattandosi di un dato che sembra sfuggito all’attenzione degli studiosi- la comparsa a Londra, nel 1732, di un opuscolo anonimo intitolato Co-Adamitæ: or, Men besides Adam (British Museum), il cui scopo sembrava precisamente quello di conferire al poligenismo una veste scritturale più adeguata alle esigenze del colonialismo inglese. Dopo aver creato il mondo, affermava l’autore, «Dio...chiamò Adamo a governarlo; (ma) non da solo, ma accompagnato da un seguito (di creature) del suo stesso genere». Se si parte infatti dall’assioma che Deus et natura nihil frustra faciunt, diventava inconcepibile che un mondo tanto grande fosse stato creato per una sola coppia, che lo avrebbe lasciato per lungo tempo in gran parte disabitato: se Adamo fu creato per attendere in particolare i voleri di Dio, altri uomini furono creati per popolare “le più remote parti della terra”. La stessa Bibbia -aggiunge l’anonimo, ispirandosi evidentemente a La Peyrere- confermava l’esistenza di altri uomini oltre Adamo: non solo Mosè taceva sul fatto che Adamo ed Eva fossero I’unica coppia, ma l’intera storia di Caino presupponeva più volte l’esistenza di co-adamiti. Ma se la Bibbia prediligeva la storia di Adamo e della sua discendenza, è perché «Adamo dalla bonta di Dio è ordinato suo vicereggente qui sulla terra»: e come «gli uccelli dell’aria ebbero l’aquila reale (e) le bestie il principesco leone», così «secondo quest’ordine naturale Adamo dovrebbe avere da comandare alcuni della sua propria specie». È proprio questo elemento gerarchico, questa giustificazione del dominio sugli uomini non adamitici da parte di Adamo (considerato capostipite non dei soli ebrei ma in generale degli europei) che caratterizzava e distingueva i Co-Adamitæ dai Præ-Adamitæ. Ed era difficile non scorgere in questa correzione settecentesca del pre-adamitismo un riflesso di rapporti coloniali che non fossero più prevalentemente, per i coloni inglesi, quelli formalmente paritetici del commercio, quelli di esplicita subordinazione dello schiavo (nero) al padrone. I Co-Adamitæ costituivano pertanto, nel nostro discorso, un’utile pietra di paragone per misurare, da un lato, il carattere commerciale del sistema di La Peyrere; e, dall’altro, per confermare che il passaggio dal preadamitismo alla teoria della razza comportava una rinuncia al presupposto della maggiore antichità delle popolazioni extra-europee tanto più decisa ed esplicita quanto più l’interesse ideologico si spostava prevalentemente sul rapporto schiavistico. Tuttavia poiché schiavitù e commercio non risultavano necessariamente antitetici, a volte si osserva -come vedremo- il persistere della tematica dell’antichità a proposito dei popoli dediti al commercio, e il venir meno di essa a proposito dei popoli «schiavi».
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terra da occupare24 e i neri uno strumento di lavoro e una merce tra le altre- sembra essere stato il primo a recepire queste istanze e a rispondere ad esse con un’elaborazione teorica la cui validità sarebbe stata confermata, qualche decennio più tardi, da quell’esplosione settecentesca della teoria razziale che aveva in Voltaire il suo più celebre protagonista.25 Basta un rapido sguardo a Voltaire, anzi, per rendersi conto di quanto sia matura la formulazione di Petty. Anche Voltaire scorgerà nelle differenze somatiche una negazione lampante dell’unità del genere umano, e fin dal 1734 formulerà l’ipotesi che per gli uomini valga lo stesso principio che per le piante: ossia, che i peri, i pini, le querce, gli albicocchi non derivano dalla stessa pianta e che i bianchi barbuti, i neri con la lana, i gialli con il crine e gli uomini senza barba non discendono dal medesimo uomo.26
Ma anche per Voltaire le differenze non saranno soltanto fisiche, ma intellettuali e morali: «Nel Nuovo Mondo – egli scriverà nell’Essai sur les moeurs –, l’intelletto umano non è altrettanto sviluppato che nel Vecchio»27; e quanto ai neri, «se la loro intelligenza non è di un’altra specie rispetto al nostro intelletto, è pero di molto inferiore»28. Dunque riconoscere la pluralità delle razze umane significherà anche per Voltaire, come già per Petty, stabilire immediatamente una scala gerarchica delle etnie -volta a sancire la superiorità europea- che assumeva da subito la struttura sclerotica di una classificazione naturale: se era vero infatti che in ciascuna specie di uomini compare, come nelle piante, un principio che la differenzia dalle altre, doveva essere vero anche che la natura avesse subordinato a questo principio quei caratteri delle nazioni che vediamo mutare così raramente.
24 25
26 27 28
Cfr. Petty, The Economic Writing, op. cit. Sulle teorie poligenetico-razziali settecentesche si vedano: M. Bataillon, L’unité du genre humain du P. Acosta au P. Clavigero, in ‘Mélanges à la mémoire’ de J. Sarrailh, I Paris 1966; Marvin Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Bologna 1971; Michele Duchet, Anthropologie et Histoire au siecle des lumiere, Parigi 1971; Carminella Biondi, Mon frere, tu es mon esclave! Teorie schiaviste e dibattiti antropologici razziali nel Settecento francese, Pisa 1973. Manca tuttavia, a nostro avviso, uno studio completo sull’argomento, che ponga in luce particolarmente il significato della teoria della razza come ideologia coloniale. Voltaire, Trattato di metafisica, cap. I, «Differenti specie di uomini», in Scritti filosofici, Bari 1962, vol. 1. Voltaire, Essai sur le moeurs, cap. CXLVI, ed. R. Pomeau, Parigi 1963. op. cit.
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Ma se occorrerà attendere Voltaire per trovare espressa e divulgata una concezione razziale di compiutezza e organicità pari a quella che Petty affidava fin dal 1676 ai suoi manoscritti, molto prima, e pressoché contemporaneamente al nobile inglese, risultavano tentativi di definizione naturalistica del poligenismo che innegabilmente concorrevano all’elaborazione del concetto di razza. II termine stesso compariva fin dal titolo di un breve saggio pubblicato il 24 aprile 1684 sul primo autorevole giornale scientifico pubblicato in Europa, il «Journal des Sçavans»: «Nuova divisione della terra secondo le differenti specie o razze di uomini che la abitano»29. Si trattava di una nota anonima ma comunemente attribuita a François Bernier30, un autore -ancora una volta- estremamente significativo, legato -com’era- da un lato, all’ambiente libertino (e alla filosofia di Gassendi in particolare) e, dall’altro, al mondo coloniale, direttamente conosciuto in base ad una eccezionale esperienza di viaggiatore. Proprio durante i suoi lunghi e frequenti viaggi che Bernier dichiarò di aver constatato che «nella forma esteriore del corpo e principalmente del viso, gli uomini sono quasi tutti differenti gli uni dagli altri a seconda dei differenti angoli della terra in cui abitano», e di essere giunto alla conclusione che «vi sono soprattutto quattro o cinque specie o razze di uomini la cui differenza è così notevole che può servire da giusto fondamento per una nuova divisione della Terra»31. La prima razza appariva quella europea, che comprendeva, nella classificazione di Bernier, anche gli egiziani e gli indiani, il cui colore bruno «non è che accidentale, e deriva dal fatto che si espongono al sole»32. La seconda razza risultava quella degli africani. Nel loro caso -assicurava Bernier- il colore appariva essenziale, e la causa non era il calore del sole. Infatti, «se si trasportano un nero e una nera dell’Africa in un paese freddo, i loro bambini non cessano di essere neri così come tutti i loro discendenti fino a che non si uniscano con delle donne bianche»33. La causa della pigmentazione dei neri andava dunque ricercata nella struttura particolare del loro corpo, o nel seme, o nel sangue. Tanto più che le differenze non si limitavano al colore bensì riguardavano anche i capelli, che nei neri «non sono propriamente capelli, ma piuttosto una specie di lana che somiglia 29 30
31 32 33
Nouvelle division de la Terre, par les differentes Especes ou Races d’hommes qui l’habitent, in «Journal des Sçavans», Lundi 24 Avril 1684. Questo scritto fu per la prima volta segnalato come antesignano della teoria razziale da Bendyshe, The History of Anthropology; in seguito Haddon, History of Anthropology; nonché il t. VII dell’Enciclopedie Française diretta da Lucien Febvre, L’Espece Humaine (a cura di Paul Rivet), Parigi 1936. Nouvelle divisione de la Terre [...] , op. cit. op. cit. op. cit.
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al pelo di qualcuno dei nostri cani a pelo lungo»34. La terza razza umana risultava quella dei cinesi e dei tartari, che «sono effettivamente bianchi», ma hanno «dei piccoli occhi da porco [...] e tre peli per barba». I lapponi componevano la quarta specie: si trattava di «brutti animali» il cui portamento sembrava avere qualcosa dell’orso. Infine si posizionavano gli americani, che avrebbero potuto costituire la quinta razza: ma Bernier osservava che essi non sembravano presentare «una differenza abbastanza grande per farne una specie particolare e differente dalla nostra». L’articolo di Bernier si concludeva con una dissertazione sulla bellezza femminile, che il viaggiatore assicurava di aver constatato in ogni angolo della terra ma con una distribuzione tale da far ritenere che questa non derivasse «soltanto dall’acqua, dal nutrimento, dal terreno e dall’aria ma anche dal seme che è particolare in certe razze o specie». Una conclusione del tutto futile che sembrava voler attenuare, secondo lo stile libertino, la portata dirompente della prima parte del saggio35. Questa, 34 35
op. cit. II carattere serio della proposta di Bernier non sfuggì, naturalmente, ai suoi contemporanei. Lo dimostrava una presa di posizione di Leibniz, che nel 1696 scriveva a Sparvenfeld (con evidente riferimento a Bernier): «Ricordo di aver letto da qualche parte -ma non saprei ritrovare il luogo- che un tal viaggiatore aveva diviso gli uomini in certe tribù, razze o classi. Egli attribuiva una razza particolare ai Lapponi e Samoiedi, un’altra ai Cafri o Ottentotti»; e aggiungeva, interpolando di suo: «Anche in America c’è una differenza strabiliante tra i Galibi o Caribi, che hanno molto valore, e anche spirito, e quelli del Paraguay, che sembrano essere dei bambini, o degli scolari per tutta la vita». Ma poi concludeva: «Ciò non impedisce che gli uomini che abitano questo globo siano tutti di una stessa razza, che è stata alterata dai differenti climi, come noi constatiamo che le bestie e le piante cambiano di natura e divengono, o degenerano» (Gothofredus Guillelmus Leibnitius, Opera Omnia, 1. V, Genevae 1768). Anche nei Nouveaux essais sur l’entendement humain (cap. VI) Leibniz ritornava sul problema, con evidente riferimento a Bernier, precisando che se era vero che «parlando fisicamente» si potevano trovare tra gli uomini «delle differenze che potrebbero passare per specifiche», ciò non corrispondeva più al vero «quando si conosce l’interiorità essenziale dell’uomo, cioè la ragione, che [...] si trova in tutti gli uomini», onde «non abbiamo alcun motivo di credere che vi sia tra gli uomini, secondo la verità interiore, una differenza specifica essenziale» (Philosophische Schriften, 1. VI, Berlino 1962). E piu avanti, nella stessa opera (cap. VII), suggeriva come corretto ragionamento medico il seguente sillogismo: «Un negro ha l’anima razionale: chiunque ha l’anima razionale è uomo, dunque il negro è uomo». Senza scendere nel merito, nell’analisi delle ragioni dell’opposizione di Leibniz alla teoria razziale, ci basta osservare che i sostenitori di questa teoria negavano generalmente (anche se Bernier non lo diceva esplicitamente, a differenza di Petty) proprio ciò che Leibniz sembrava presupporre, e cioè che i neri avessero la ragione, o l’avessero nella stessa misura dei bianchi. Vi era qualche indizio che avrebbe potuto far insospettire che Leibniz, di ciò, fosse consapevole, e che avesse scelto come
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d’altra parte, appariva di per sé già notevolmente edulcorata. Bernier riusciva a presentare la teoria della razza quasi come un’innocente curiosità erudita: la superficialità stessa della sua trattazione sembrava calcolata per renderla accettabile anche al pensiero ortodosso, se non altro per distrazione, ciò che la polemica sul preadamitismo aveva dimostrato assolutamente inaccettabile. E invero Bernier, evitando con cura ogni discorso sull’origine dei popoli, riusciva a parlare di razze senza fare un’esplicita dichiarazione poligenetica. E in tal modo non solo evitava il risollevare la pietra dello scandalo preadamitico ma occultava anche abilmente i legami che al preadamitismo connettevano strettamente la teoria razziale. Proprio questi legami erano invece particolarmente evidenti in un testo a posteriori, anch’esso di matrice deistico-libertina e di larga diffusione, qual era l’anonimo Espion Turc.36 Qui l’autore si impegnava a provare che i «neri»
36
esponente della teoria razziale Bernier anziché Petty proprio perché il primo si era limitato a giustificarla soltanto sulla base delle differenze fisiche. Questo sospetto era basato sul passo dei Nouveaux Essais immediatamente precedente a quello citato in cui Leibniz annotava: «[...] on peut fort bien dire que les dogues d’Angleterre et les chiens de Boulogne sont de differentes especes [...] (per poi aggiungere che non era così per il semplice fatto che avessero «in comune una costante natura interiore specifica»). E Petty aveva scritto che esistevano tra gli uomini differenze specifiche «as between the Irish Wolf Dogg and the Bullonian Tumbler» (op. cit.). Anche la successiva battuta di Leibniz -«ma non c’è alcuna apparenza che uno spagnolo e un elefante siano della stessa razza, e che abbiano una tale natura specifica comune»- poteva essere rivolta contro un’affermazione di Petty, che aveva collocato l’elefante nel gradino della scala delle creature immediatamente precedente all’uomo poiché stimava che «la mente di un elefante si avvicini di più (di tutte) alla mente di un uomo» (op. cit). Quest’ultima impressione sembrava avvalorata dalla battuta che, a sua volta, Voltaire rivolgerà contro Leibniz nel Traite de Metaphysique, battuta che aveva tutto il sapore di un vero e proprio ritorno a Petty. II personaggio di Voltaire, Micromega, che provenendo da altri pianeti iniziava la sua ricerca dell’uomo dall’Africa, dopo avere incontrato «delle scimmie, degli elefanti, dei negri» e aver notato che «sembrano tutti in possesso d’un qualche barlume di una ragione imperfetta», così argomentava: «Gli uni e gli altri parlano un linguaggio che non capisco; e tutti i loro atti sembrano riferirsi egualmente a un certo fine. Se giudicassi le cose dal primo effetto che fanno su me, mi sentirei portato a pensare che, tra tutti quegli esseri, quello ragionevole sia l’elefante» (Trattato di Metafisica, 1734, cap. I). II testo in questione si trova nel t. VI de L’Espion dans les Cours des Princes chretiens (Suite de L’Espion turc), Amsterdam 1696. La prima ediz. dell’opera, in un solo volume, fu pubblicata a Parigi nel 1684, ed è attribuita a Giovanni Paolo Marana, mentre incerti sono i nomi dei successori (i tomi V e VI sono attribuiti a C. Cotolendi). II passo citato (insieme ad altri di Lahontan e di Tyssot de Patot di cui ci occuperemo tra poco) è riportato da Sergio Landucci, I filosofi e i selvaggi, 1580-1780, Laterza Editore, Bari 1972.
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e i «bianchi» «non possono essere derivati da Adamo, ma che sono due specie differenti».37 E per provarlo si avvaleva in primo luogo del parere di «un famoso medico di Parigi» circa le cause del colore dei neri, se questo proveniva «dalla varietà del calore e delle influenze del sole o dalle diverse qualità dei climi che abitano, oppure da certe proprietà di per sé specifiche che si trovano nella costituzione dei loro corpi». Quest’ultima, assicurava l’Espion Turc, era la convinzione del medico parigino, il quale la basava essenzialmente «sull’esperienza che aveva visto fare in occasione della dissezione di un negro», durante la quale «era stato trovato tra la pelle interna e la pelle esterna del corpo una specie di Vascular Plexus [...] pieno di un liquido nero come inchiostro». Questa scoperta38, consentendo di attribuire la pigmentazione degli africani ad 37 38
op. cit. La «scoperta» -ovviamente, oggi, riconosciuta inesatta- risale a Malpighi, il quale però si era limitato ad osservare «di passaggio» (transeunter), sulla base di esperimenti eseguiti su lingue di bue e zampe di gallo, che una «causa non incongrua» del colore degli Etiopi andava ricercata “nel corpo mucoso”, dato che la pelle esterna e la pelle interna che lo racchiudono sono bianche (cfr. De externo tactus organa exercitatio epistolica ad Jacobum Ruffum, in Marcellus Malpighius et Carolus Fracassatus, Epistolae Anatomicae, Amterdolami (1669). Confermata da un esame anatomico condotto da Ruysch direttamente sul cadavere di un nero (cfr. Jacques Roger, Les Sciences de la vie dans la pensée française du XVIIIe siècle - La génération des animaux de Descartes à l’Encyclopédie) la «scoperta» di Malpighi doveva diventare -come avremo modo di constatare- uno degli argomenti «scientifici» ricorrenti tra i sostenitori della tesi poligenetica. Sarebbe però fuori luogo considerare questa «scoperta» come causa determinante del poligenismo: non necessariamente infatti coloro che accettavano la teoria malpighiana -e non erano tutti- traevano da essa conclusioni poligenetiche, anche se è indubbio che in base ad essa diventava possibile -ma non necessario- considerare il colore dei neri non già una qualità acquisita bensì un carattere originario. Una prova di ciò era riscontrabile nell’opera del medico olandese Johann-Niklaus Pechlin, De habitu et colore Aethiopum, qui vulgo nigritae, Kiloni 1677, che per la prima volta inserì la «scoperta» di Malpighi nello specifico contesto del dibattito sul colore e sull’origine dei neri. Se il reticulum mucosum, affermava Pechlin, costituiva la «causa materiale e prossima» del colore dei neri (cfr. cap. VII), difficile rimaneva tuttavia determinare “le cause antecedenti e remote”. Pechlin rifiutava bensì l’idea che il colore dei neri potesse derivare da una maledizione biblica o dall’influsso del clima -rifiutava cioè quelli che, come vedremo, erano i tradizionali argomenti del monogenismo- ma non per questo si sentiva autorizzato ad assumere una posizione poligenetica. E di fronte alla difficoltà di spiegare chi aveva fatto nero il figlio di Noè capostipite degli Etiopi, il medico olandese ricorreva ancora ad una spiegazione tradizionale, l’influsso dell’immaginazione materna sul feto, pur rendendosi conto della sua inadeguatezza, e cercando di rimediarvi facendo infine riferimento all’influenza «del clima,
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una caratteristica del loro corpo, aveva condotto il medico parigino a concludere che «i bianchi e i neri erano due specie differenti che non erano derivate dai primi mortali», e che «se Adamo fosse stato bianco, anche i suoi figli lo sarebbero stati, e se fosse stato nero, i suoi discendenti sarebbero stati dello stesso colore: per cui o i bianchi o i neri non sono la posterità di Adamo». Ma questa conclusione inoppugnabile del medico parigino, riportava L’Espion Turc, non faceva che confermare un’opinione che l’autore aveva già maturato «da lungo tempo», molto prima di vederla confermata dalla scienza. E cioè che «i negri e i bianchi traevano il loro colore da una fonte più remota e più antica della maledizione che Noè pronunciò nei confronti di Cam e della sua discendenza, come si crede comunemente». E che anzi «essi (sia i neri che i bianchi, quindi) non sono della razza di Adamo». Inoltre dichiarava ancora l’autore de L’Espion Turc, «non è da oggi che io penso che il genere umano ha un’origine diversa da quella di cui è fatta menzione nel libro che si attribuisce a Mosè»39. Questa convinzione, in effetti, veniva più volte ribadita nei tomi precedenti de L’Espion Turc: e gli argomenti che la sorreggevano apparivano quelli tipici del preadamitismo nel suo aspetto più specificamente cronologico. L’antichità delle cronologie egizie e assire40, e più ancora di quelle cinesi41
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degli alimenti e degli stessi modi di vita» per cercare di comprendere come dall’«unica famiglia» antediluviana avessero potuto derivare «così tante varietà di genti» (cfr. cap. XIX). Suite de l’Espion [...], cit., t. VI. La cronologia egiziana, affermava l’anonimo, «porta il regno dei re egiziani più di mille anni al di là di tutte le altre antiche epoche della creazione, fatta eccezione per quella degli assiri o dei cinesi o degli indiani che vanno ancora più lontano nell’antichità». Una prova di questa antichità è costituita dalle piramidi, se è vero, come sembra, che «questi incomparabili edifici furono costruiti molto tempo prima del diluvio» (op. cit., t. IV). Sulla cronologia cinese l’Espion Turc si soffermava più volte, ma sempre in termini generali, come si fosse trattato di cose risapute. «Ogni popolazione – riportava, per esempio – vuole passare per la più antica. A questo proposito vi fu in altri tempi una disputa fra gli egiziani e gli sciti ma la questione fu decisa in favore dei secondi. È certo che la cronologia dei cinesi e degli indiani è di molto più antica di tutti gli altri popoli della terra. Sembra che essi siano più antichi che il tempo stesso, per lo meno la loro antichità va al di là dell’epoca ordinaria della creazione del mondo» (op. cit., t. III). E più oltre: « [...] gli ebrei credono che gli archivi della loro popolazione siano divini, per quanto le contraddizioni non vi manchino, e siano pieni di ragionamenti e principi contraddittori. Ma ciò che vi è di più importante e che né i loro, né quelli di alcun altro popolo, neppure quelli degli assiri e degli egiziani, si avvicinano alla cronologia dei cinesi e degli indiani. Di fronte a una così grande varietà di relazioni, a quale bisogna attenersi? Che il mondo non abbia che cinque o seimila anni, o che sia indefinitamente più antico [... ]?» (ibidem)
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e indiane42 consentiva all’autore tardolibertino di sostenere (abbandonando ormai le parvenze cristiane del preadamitismo) che «i cristiani e gli ebrei hanno corrotto la verità con molti errori», mentre «coloro che sono illuminati da Dio (les Eclaires de Dieu) hanno sempre insegnato che la terra era abitata molto tempo prima che Adamo apparisse, e tutti i saggi d’occidente credono che vi sia stato al mondo un susseguirsi di generazioni per un numero indeterminato di secoli»43. Più ancora, gli consentivano di dichiarare altrove, spinozianamente: «dico francamente che come Dio è eterno, così io credo che non si potrebbe determinare un tempo in cui il mondo non sia esistito: giacché la materia deriva dall’Essenza divina naturalmente, così come la luce emana dal sole». Ma con il mondo, anche le specie viventi risultavano, per il nostro autore, eterne: «giacché per quanto tutti gli individui cambino, cessino e spariscano nel tempo che è loro assegnato, le specie stesse non cambiano, non cessano e non spariscono mai»44. Partendo dai temi tradizionali del preadamitismo, l’autore de L’Espion Turc giungeva così ad una radicale naturalizzazione dei suoi presupposti. Questo impianto naturalistico consentiva all’anonimo libertino non soltanto di recepire le istanze poligenetiche derivanti dall’esperienza 42
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La cronologia indiana, la più antica, suggeriva all’anonimo altre supposizioni provocatorie. I libri dei bramini, egli assicurava, «contengono una storia del mondo che ha secondo loro più di trenta milioni di anni, e dividono il tempo della sua durata in quattro età, di cui dicono che tre, e una buona parte della quarta, sono già trascorse». La Bibbia, per parte sua, afferma che l’uomo fu creato sei giorni dopo la creazione del mondo, e secondo le interpretazioni degli studiosi –e della stessa Scrittura- «per Dio un giorno sono mille anni e mille anni sono un giorno». Accostando le due tradizioni, L’Espion Turc scopriva che “non sarebbe difficile spiegare la storia di Mosè attraverso i libri dei bramini, e conciliare i sei giorni dell’uno con le quattro età degli altri, dal momento che un giorno, in rapporto alla divinità, può essere un milione di anni così come mille. E sarebbe più ragionevole e meno contraddittorio credere che dopo la nascita della materia prima passarono molti secoli prima che fosse trasformata in tale varietà di forme a cui oggi assistiamo; e che i cinque che Mosè conta prima della creazione di Adamo potrebbero anche essere milioni di anni, durante i quali il divino architetto trasse per gradi dal vortice della materia il sale, la luna, le stelle, le piante e gli animali» (op. cit., t. III). op. cit., t. III: «Non si debbono seguire né gli storici ebrei né i cristiani», precisava altrove, perché «tagliano a quanto pare troppo corta l’età del mondo e [...] lo fanno infinitamente meno antico di quanto non risulti dagli scritti degli autori più antichi e meno sospetti. II fondamento di questo errore è senza dubbio un effetto in parte dell’ambizione degli ebrei, che hanno voluto gloriarsi della più grande antichità e passare per più antichi degli altri popoli, e in parte anche della perdita dei documenti e archivi che le altre popolazioni avevano prima del diluvio di Noè [...]» (Suite de l’Espion ... , t. VI) op. cit. t. IV
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del «medico di Parigi» sul colore dei neri ma di generalizzarle ulteriormente, estendendole a tutti i popoli della terra. Ed è così che il passo da cui siamo partiti, sul colore dei neri, si conclude con una dichiarazione che ricorda da vicino la concezione bruniana dell’animazione universale: “Per quanto ne posso giudicare, l’origine dei mortali è tanto differente quanto sono le differenti popolazioni che parlano diverse lingue madri, che obbediscono a diverse forme di governo e che praticano diverse massime e diversi principi. Perché non dovrebbe essere possibile che l’oriente produca una sorta di uomini, l’occidente un’altra, dal momento che il settentrione e il mezzogiorno forniscono la stessa varietà? Chi conosce la forza delle costellazioni e dei cieli, o la virtù nascosta che emana dalla terra?” Indubbiamente nel testo de L’Espion Turc la tematica preadamitica era ancora di gran lunga prevalente, come prevalente era l’interesse per la polemica anticristiana. Ma al di là del preadamitismo cronologico -che Petty aveva già da tempo rifiutato- emergeva in questo testo l’esigenza di una spiegazione naturalistica, e non soltanto scritturale, del poligenismo, che lo collocava ormai nel versante della tematica razziale. La presenza di un testo, come l’Espion Turc, nel quale era dato cogliere, come in un bozzolo non del tutto sviluppato, una fase del passaggio dalla teoria preadamitica alla teoria razziale, consentiva anzi a questo punto di delineare con maggior rigore lo spartiacque tra queste due teorie. Non era difficile accorgersi -e già lo abbiamo sottolineato a proposito di Petty- che ciò che caratterizzava in maniera specifica la teoria razziale era la presenza, nel suo ambito, di una risposta al quesito sull’origine dei neri, quesito non soltanto non risolto ma neppure affrontato dalla tradizione preadamitica. Proprio l’affacciarsi, sul fronte poligenetico, del problema nero sembrava anzi costringere il preadamitismo ad abbandonare le sue vesti scritturali per trasformarsi in una teoria empiriconaturalistica e giungere infine all’elaborazione del concetto di razza. Non a caso un altro testo sintomatico di questo passaggio, come quello dell’anonimo deista L. P.45, pur dilungandosi ancora principalmente sul problema americano, si concludeva trovando nel problema nero una riprova della necessità di una soluzione poligenetico-naturalista46. La questione dell’origine 45 46
L. P., Master of Arts, Two Essays, sent in a Letter from Oxford, to a Nobleman in London. The First, concerning some Errors about the Creation, General Flood, and the Peopling of the World [...] , Londra 1695. Come s’è già accennato il problema dell’origine dei neri non solo confermava l’impossibilità di una derivazione di tutti gli uomini da Adamo ma consentiva a L. P. di sottolineare il valore «empirico» dell’ipotesi poligenetica. Se infatti la pigmentazione dei neri non poteva essere attribuita né al clima né alla maledizione di Cam (secondo quelle che, come vedremo meglio, erano le argomentazioni tipiche
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dei neri era destinata ad affiancarsi alla tradizionale questione americana e a diventare, con essa, elemento caratteristico e determinante di quella corrente poligenetico-naturalista che da autori tardo-libertini come Lahontan47 e Tys-
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del monogenismo); se non poteva essere considerato un mero accidente, dato che, indipendentemente dal clima, dalla dieta o dalla cultura «un nero sarà sempre un nero»; se infine la scienza stessa aveva constatato, studiando i neri che “i tessuti della loro pelle e il sangue differiscono da quelli dei bianchi”, allora occorrerà ammettere –concludeva L. P.- che “il loro colore e la loro lana sono innati, o (qualità) seminali fin dalla loro prima origine, e sembrano essere caratteri specifici” (Two Essays [...], cit.). Una conclusione che poteva accordarsi, com’è evidente, solo con un’ipotesi poligenetica. Le due questioni -quella «americana» e quella «nera»- erano magistralmente unificate in una prospettiva poligenetica nel celebre testo proto-settecentesco del Barone di Lahontan, dove tuttavia l’opinione veniva sornionamente attribuita a un non meglio precisato «medico portoghese», a proposito del quale Lahontan scriveva: «Egli sosteneva che i popoli dei continenti dell’America, dell’Asia e dell’Africa erano derivati da tre padri differenti. Ed ecco come lo provava. Gli americani differiscono dagli asiatici perché non hanno né pelo né barba; i tratti del loro viso, il loro colore e i loro costumi sono differenti; e inoltre, non avendo né tuo né mio, vivono in comune senza proprietà di beni, al contrario degli asiatici. Egli aggiungeva a ciò che l’America era troppo lontana dalle altre parti del mondo per immaginare che qualcuno avesse potuto passare in quel nuovo continente prima che si fosse scoperto l’uso del magnete; che gli africani essendo neri e camusi, con il labbro mostruoso, il viso piatto, la testa di peluria. il carattere, i costumi e il temperamento differenti dagli americani, egli credeva impossibile che queste due specie di popoli traessero la loro origine da Adamo, al quale quel medico attribuiva su per giù le caratteristiche e l’aspetto di un turco o di un persiano» (New voyages to North America, Franklin, New York 1970). Di fronte a queste convincenti argomentazioni, Lahontan faceva finta di voler difendere le ragioni del monogenismo: «Quand’anche la fede non mi convincesse -egli esclamava rivolto contro il «medico portoghese»- che tutti gli uomini sono generalmente derivati da quel primo padre, il suo ragionamento non sarebbe abbastanza forte per provarmi il contrario». Ma le ragioni del monogenismo risultano, nella parodia di Lahontan, particolarmente deboli: la possibilità di spiegare le differenze tra neri, americani ed europei con l’influsso climatico veniva esclusa con argomenti di fatto (tipo la domanda: perché allora i brasiliani non sono neri?) dal «medico portoghese», la cui tesi risultava così ulteriomente confermata (cfr. op. cit.). «Ecco, Signore –concludeva spiritosamente Lahontan- il ragionamento di quel dottore, che fila abbastanza bene nella parte conclusiva. Tuttavia il suo principio risultava molto falso e alquanto assurdo, giacché non è permesso di dubitare, senza essere sprovvisti di fede, di buon senso, e di giudizio, che Adamo è il solo padre di tutti gli uomini» (op.cit.). Anche altrove Lahontan ritornava sull’argomento e manifestava –ma sempre dietro un velo ironico- la sua propensione per il poligenismo: come quando, dopo avere osservato che i canadesi «conoscono la loro storia e la loro origine alla stregua dei greci e dei caldei che hanno conosciuto la loro», concludeva:
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sot de Patot48 sfocia infine in Voltaire49. Che esistesse una connessione tra questo processo di trasformazione del poligenismo, che mediante la teoria razziale giungesse ad inglobare nel suo seno il problema nero, e l’esigenza dei coloni inglesi, di un’ideologia schiavistica di stampo poligenetico che rimediasse alle evidenti carenze, in tal senso, del preadamitismo tradizionale -che esistesse questa connessione, e che la teoria della razza emergesse dalla teoria preadamitica per la necessità di integrare un’ideologia commerciale con un’ideologia schiavistica- risultava, a questo punto, sufficientemente evidente. Per cogliere il significato schiavistico della teoria razziale non era necessario attendere l’esplicita dichiarazione di Voltaire, secondo il quale proprio in virtù della gerarchia naturale tra le diverse razze «i negri sono gli schiavi degli altri uomini»50. La struttura gerarchica, come s’è visto, diventava parte integrante della teoria razziale fin dalla prima formulazione di Petty, e già allora serviva a sancire quella concezione della disuguaglianza naturale degli uomini, tipica peculiarità di ogni ideologia schiavistica51. Aristote-
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«Contentiamoci dunque, Signore, di credere che essi sono discesi. come voi e me, da quel buon uomo Adamo; ignaras hominum suspendunt numina mentes» (New voyages [ ...] op. cit.). Nel testo di S. Tyssot de Patot, a conclusioni poligenetiche si giungeva invece partendo soltanto dal problema nero. Dopo avere descritto la dissezione del cadavere di un nero e la scoperta di una «membrana» sottocutanea che doveva essere “la vera causa della pigmentazione scura di questa specie di uomini” (dopo avere descritto cioè l’esperienza di Ruysch), l’autore affermava che «ciò diede lo spunto a molti ragionamenti sull’origine degli etiopi che, vista questa notevole differenza, sembrava non dover essere quella degli altri uomini», e aggiungeva: «seguendo questo principio, io volli insistere sulle conseguenze, che giungevano fino all’intero sconvolgimento del sistema dell’autore sacro di cui parlavamo (Mosè). Ma mi tapparono la bocca, dicendo che ci sono molte cose che Dio vuole che ammiriamo ma che ci impedisce di approfondire» (cfr. Voyages et aventures de’ Jacques Masse. Bordeaux 1710). È appena il caso di ricordare che anche per Voltaire le principali prove dell’origine poligenetica delle razze umane erano da un lato, il reticulum mucosum dei neri (cfr. Essai sur les moeurs, op.cit.) e, dall’altro, il problema del popolamento americano, che Voltaire risolvò drasticamente, dicendo per es. che «se non ci si stupisce che vi siano mosche in America, è stupido che vi siano uomini» (op. cit.). e comunque ironizzando sui tentativi di darne una spiegazione monogenetica. Essai sur le moeurs, cit ., cap. CXLV. Così come “il concetto della eguaglianza umana» presupponeva una società nella quale la forma di merce fosse la forma generale del prodotto di lavoro, quindi anche il rapporto sociale dominante”, allo stesso modo -affermava Marx con esplicita allusione ad Aristotele- una società (come quella greca) che si reggeva
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le, in questo senso -ma solo in questo senso- risultava il vero padre della teoria razziale tardo-seicentesca e settecentesca. E le teorie aristoteliche cinquecentesche sull’inferiorità naturale degli indios, o i dibattiti sulla loro «bestialità», ne erano in larga misura -ma coi limiti a suo tempo indicatii piu diretti precedenti moderni, così come la schiavitù degli indios e il precedente storico della schiavitù dei neri. In tal senso non appariva priva di ragione -nonostante l’inesattezza del riferimento storico52- che Godwin vedesse nell’opinione preadamitica abbracciata dai coloni inglesi un nuovo parto «mostruoso» di quello stesso «interesse» che aveva generato, quasi due secoli prima, «la questione spagnola [...] relativa alla brutalità degli americani [...] sostenuta positivamente in una delle università della Spagna»53. Affermare che la teoria razziale nasceva come ideologia della schiavitù dei neri nelle piantagioni americane non risultava, tuttavia, ancora sufficiente a determinarne in maniera specifica il significato storico. Bastava uno sguardo, anche rapido, alle tradizionali soluzioni monogenetiche del problema nero per comprendere che non poteva essere una giustificazione alla schiavitù a indurre i poligenisti a contrapporsi ad esse. Tutte le risposte
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«sul lavoro servile» aveva «come base naturale la diseguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro» (cfr. Marx, Il Capitale). Godwin attingeva evidentemente la sua notizia alla tradizione anti-spagnola di cui, a suo tempo, si era evidenziata l’inesattezza. Morgan Godwin, The Negro’s and Indian’s Advocate (Londra, 1680). Una significativa analogia con un testo tipico del cripto-poligenismo cinquecentesco come lo spagnolo Memorial de Yucay -e al tempo stesso una conferma della valenza schiavistica del poligenismo sei-settecentesco- era riscontrabile nel testo di un famoso mercante di schiavi olandese, William Bosman, il quale -parlando della religione dei neri- scriveva: «Per ciò che concerne il genere umano, essi credono che Dio abbia creato all’inizio sia uomini Neri che Bianchi per popolare insieme il mondo, volendo con ciò provare che la loro origine è altrettanto antica quanto la nostra. E per farsi ancor più onore, dicono che Dio dopo aver creato queste due specie di uomini, propose loro due doni, cioè o di possedere l’oro, o di saper leggere e scrivere; e poiché Dio lasciò scegliere ai Neri, essi scelsero l’oro e lasciarono ai Bianchi la conoscenza delle lettere. Dio glielo accordò, ma essendosi irritato per la bramosia ch’essi dimostravano per l’oro, decise nello stesso tempo che i Bianchi avrebbero dominato eternamente su di loro, e che essi sarebbero stati obbligati a servir loro da schiavi» (Voyage de Guinee, Utrecht 1705, Lettre X). Risultava inutile sottolineare l’origine evidentemente europea di questa pseudotradizione indigena poligenetica e schiavistica; più significativo appariva forse ricordare l’uso che ne farà Voltaire quando, a proposito dei neri, scriverà: «Sono originari di questa parte dell’Africa come gli elefanti e le scimmie [...] si credono nati in Guinea per essere venduti ai bianchi e per servirli» (Essai sur le moeurs. cap. CXLI. cit., t. II).
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bibliche alla domanda sull’origine dei neri avevano infatti un inequivocabile sapore schiavistico: sulla derivazione degli africani da Cam, da Canaan o da Caino spiccava, in campo ortodosso, un accordo pressoché unanime54. Né poteva stupire questo accordo nei confronti di soluzioni bibliche la cui applicazione agli americani venne invece particolarmente contrastata. Se, nel caso degli americani, fu l’opposizione alla loro riduzione in schiavitù ad inibire l’adozione di simili genealogie bibliche, a favorirla fu, nel caso dei neri, proprio il comune accordo sulla loro schiavitù, accordo condiviso – e in qualche modo promosso – dagli stessi «difensori» degli indios55. L’assenza di un contrasto sul piano delle ideologie coloniali spiegava, nel caso dei neri, la mancanza di un dibattito sulle loro origini paragonabile a quello che, nel Cinque-Seicento, si svolse intorno all’analogo problema americano. Se un dibattito ci fu, esso fu limitato alla ricerca di strategie difensive che ponessero le soluzioni bibliche anzidette al riparo da possibili inconvenienti «empirici» che potevano offrire il destro alla speculazione anticristiana dei libertini. II principale inconveniente «scientifico» a cui andava incontro la tradizionale genealogia biblica attribuita agli africani derivava, in maniera quasi immediata, dall’inevitabile confronto -imposto dalla stessa pratica schiavistica- tra questi ultimi e gli abitanti dell’America: confronto che, gettando in crisi la tradizionale spiegazione «empirica» del colore dei neri -la motivazione climatica- metteva pericolosamente in forse la stessa genealogia camitica. Già de Gómara osservava che gli americani, pur trovandosi nella zona torrida come i neri, non risultavano neri, e che quindi il colore dei neri, come quello degli americani, «è dovuto alla natura, e
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Thomas F. Gosset, Race: The History of an Idea in America, Oxford University Press, New York 1997; e David Brion Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, S.E.I., Torino 1971; indicazioni sulle teorie cinque-settecentesche relative all’origine dei neri si trovano inoltre in: Roger Mercier, L’Afrique noire dans la litterature française du XVIIº siécle, Faculté de Lettres, Dakar 1962; Carminella Biondi, Mon frere, tu es mon esclave!, Editrice Libreria Goliardica, Trieste 1973. Era noto che il suggerimento di utilizzare gli schiavi neri per risparmiare i deboli indios venne precocemente avanzato dallo stesso Las Casas (cfr. gia Alexander von Humboldt, Examen critique de l’Historie de la Geographie du Nouveau Continent, t. II, Parigi 1837): più che il successivo «pentimento» del «difensore degli indios», appariva significativo il fatto che Las Casas, di fronte alla oggettiva necessità di manodopera per le colonie, avesse potuto ritenere «giusta» la schiavitù dei neri sulla base di una consuetudine culturale che rifletteva la pratica schiavistica già da tempo messa in atto dai portoghesi (cfr. Marcel Bataillon et Andre Saint-Lu, Las Casas et la defense des indiens, Parigi 1971).
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non alla nudità, come pensavano molti»; e ne concludeva che, «per quanto tutti siamo nati da Adamo ed Eva», pure era da supporre che Dio fin dall’origine, «per mostrare la sua onnipotenza e sapienza», avesse creato gli uomini «in così diverse varietà di colori»56. Una conclusione che solo la spregiudicatezza del suo autore poteva presentare come conforme al postulato monogenico biblico: ma che in realtà già conteneva, nella prospettiva di condizioni diverse per i diversi uomini, i germi di una soluzione poligenetica57. A chi aveva interesse a sostenere quest’ultima, a chi intendeva combattere l’ideologia cristiana sfruttando le contraddizioni che in seno ad essa andavano emergendo, sarebbe bastato ormai mettere da parte l’appello alla comune discendenza adamitica che de Gómara, del resto con poca convinzione e scarsa coerenza, si era sentito ancora in dovere di ribadire. Pochi decenni più tardi, Giordano Bruno avrebbe usato gli «Etiopi», con la loro radicale diversità, quale manifesta conferma dell’impossibilità di una derivazione di tutta l’umanità da un unico prototipo; e dopo di lui, Lucilio Vanini avrebbe scorto nel colore stesso dei neri la più lampante prova della loro derivazione dalle scimmie. La minaccia poligenetica doveva provocare anche in questo campo -come parallelamente nell’ambito del «problema americano»- una reazione in difesa del principio monogenetico. A questo scopo occorreva trovare un’esplicazione del colore dei neri che superasse le contraddizioni della teoria climatica ma che evitasse al tempo stesso i rischi di una spiegazione genetico-innatistica. Era possibile, da un lato, abbandonare del tutto la teoria climatica e ricercare all’interno della Bibbia stessa una risposta al quesito sul colore dei neri; il quale poteva essere addebitato alla maledizione divina abbattutasi sulla progenie di Cam58, oppure 56
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Lopez de Gómara, Historia de las Indias, Bibl. Aut. Esp. (tomo LXII) Madrid 1946. L’osservazione di Lopez de Gomara -ma non le sue spregiudicate conclusioni- era ripresa e autorevolmente divulgata nel Theatrum Orbis Terrarum di Ortelius (1570), il quale si accontentava di trovare «meraviglioso» il fenomeno e di porre la questione: «Qual è dunque la causa di questo colore nero e bianco?». Sei anni più tardi Bodin, nella République (Bodin, Jean, I sei libri dello Stato, 3 voll., Torino, UTET, 1988-1997), cercava di salvare la teoria climatica dall’osservazione di de Gómara affermando che del diverso colore dei neri e degli indiani “la causa può essere il fatto di aver cambiato da un paese all’altro» (Geoffroy Atkinson, Les nouveaux horizons de la Renaissance Française, Parigi 1935, ristampato a Ginevra nel 2010 da Editions Slatkine). Sull’equivoca posizione di de Gómara, a cavallo tra monogenismo e poligenismo, vedi Atkinson, op. cit. Bataillon aveva pubblicato a tal proposito l’opinione del domenicano eresiarca Francisco de la Cruz, il quale dichiarò nel 1575 di fronte all’Inquisizione «che i
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-per rispondere anche in qualche modo sul piano «empirico»- all’influsso dell’immaginazione materna sul feto del loro capostipite biblico59. Ma, d’altra parte, era possibile anche -indipendentemente dalla Bibbia- modificare e perfezionare la stessa teoria climatica, e riferire il diverso colore dei neri e degli americani a condizioni climatiche che anche a pari latitudine si presentavano nettamente differenziate per altitudine, umidità, ventilazione, ecc.60 Entrambe queste soluzioni, tuttavia, non erano sufficienti a tacitare la critica libertina, così come -per altro verso- non appariva sufficiente a tacitare la soluzione del problema americano proposta da José de Acosta e dai suoi epigoni. Pur con molto ritardo, e con un rilievo all’inizio fievole, la questione nera tendeva ad affiancarsi a quella americana sul fronte della lotta per il poligenismo. Risultava sintomatico che proprio Thomas Browne -colui che in Inghilterra aveva aperto le ostilità contro la
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neri sono giustamente schiavi per giusta sentenza di Dio contro i peccati dei loro padri, e che in segno di ciò Dio diede loro quel colore, e che la causa per cui sono neri non è la spiegazione che ne danno i filosofi [...] (cioè la spiegazione climatica» (Bataillon, Le ‘Clerigo Casas’ ci-devant colon reformateur de la colonisation, in «Bullettin Hispanique», LIV 1952. Ma già nel 1561 Postel aveva sostenuto che il colore degli Etiopi derivava dalla maledizione abbattutasi su Chus, per essere stato concepito da Cam nell’arca, contro la volontà di Noè (Cosmographicae discipli, Basileæ, 1561); e nel 1580 Genebrard utilizzerà l’opinione di Postel per rigettare la teoria climatica e le sue contraddizioni, e ribadire che l’«origine della negritudine proviene non dalla regione, per il calore del sole (come finora si è creduto), ma dalla stirpe e dal sangue di Chus» (Chronographiae libri quattuor, Basileæ 1561). All’inizio del Seicento Agostino Tornielli respingeva l’ipotesi climatica sulla base dell’osservazione di Ortelio relativa al confronto neri-americani ma respingeva anche l’ipotesi biblica, poiché Chus –a suo parere- nacque molto prima che Canaan fosse maledetto da Noè, onde la negritudine dei discendenti di Chus non avrebbe potuto essere segno di quella maledizione (Annales Sacri, editi per la prima volta a Milano nel 1610 per i tipi di Ponti e Picalia, nuovamente pubblicati l’anno successivo a Francoforte, nel 1620 ad Anversa per Plantin-Moretus, nel 1622 a Colonia e nuovamente a Francoforte e ad Anversa nel 1640 e nel 1649). Lo specifico colore della stirpe di Chus deriverebbe invece, secondo Tornielli, «o da una violenta e prolungata immaginazione materna di qualche cosa di molto nero, suscitata occasionalmente proprio nel momento del concepimento [...] o da un repentino e intensissimo desiderio di una cosa nerissima da parte della madre, che non poté soddisfarlo quando portava in grembo lo stesso Chus [...] » (op. cit.). Tipica a tal proposito era la posizione di Bacone: “se i peruviani non sono neri come gli etiopi, ciò è dovuto al fatto che in America vi sono più venti, notti più lunghe, estati più corte, e meno umidità” (Sylva Sylvarum, sive historia naturalis, centuria IV, §§ 398-99, in Opera omnia, Francofurti ad Moenum 1665).
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soluzione acostiana- fosse stato il primo a sottoporre a critica sistematica tanto la teoria climatica sul colore dei neri61 quanto la teoria biblica62, per giungere non solo a proporre nuove possibili spiegazioni naturali del fenomeno63 ma anche a prospettare la difficoltà di risolvere il problema delle origini dei neri entro un ambito monogenetico. Quale che fosse la causa originaria della pigmentazione dei neri, riportava Browne, quel che appariva certo è che si trattava di un carattere che «dipende da principi durevoli e che può continuare per sempre»64: un carattere che si propagava «per generazione [...] come una parte spermatica trasmessa da padre in figlio»65. Proprio perché si trattava di un carattere ereditario, risultava difficile stabilire «come e quando la stirpe di Adamo ricevette per primo questo colore»; tutto ciò che si poteva ipotizzare era che «l’uomo divenne nero nello stesso modo che alcune volpi, scoiattoli, leoni, assunsero ad un certo punto il loro colore»66. Ma il problema rimaneva, e anzi a volerci insistere si allargava. Altri quesiti della stessa natura si affiancarono a quella sul colore dei neri: perché il cammello della Battria ha due gobbe, e quello dell’Arabia una sola? Perché in alcuni paesi i buoi sono gibbuti? 61
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Thomas Browne, Pseudodoxia Epidermica: or, Enquiries Into very many Received tenents And Commonly presumed Truths, Londra 1672, book VI, chap. X, «Of the Blackness of Negroes». Contro la spiegazione climatica del colore dei neri Browne rivolgeva queste quattro obiezioni: 1) perché gli stessi neri hanno diverse tonalità di colore? 2) perché non cambiano di colore secondo il sole anche gli altri animali? 3) perché i neri trasportati in altri climi non diventano bianchi? 4) perché gli americani non sono neri? Op. cit., book VI, chap. XI, «Of the same». Secondo Browne l’ipotesi camitica non poteva essere accettata perché: 1) denigrava, oltre i neri, gran parte del mondo, compresi l’Egitto e l’Italia, tradizionalmente considerate terre camitiche; 2) la maledizione doveva riguardare non tutti i discendenti di Cam ma solo quelli di Canaan; 3) risultava comunque incerto da quale dei figli di Cam i neri potessero derivare, dato che la terra di Chus sembrava essere -piuttosto che l’Etiopia- l’Arabia; 4) l’oggetto specifico della maledizione di Canaan era la schiavitù, non il colore; 5) non si comprendeva perché il nero doveva essere segno di maledizione. Se era certo che il sole non rappresentava la causa del colore dei neri, la vera causa rimaneva tuttavia «un enigma»: «determinarla positivamente- dichiarava Browne - sorpassa la mia presunzione». Era possibile cercare di stabilire che cosa avrebbe potuto procurare il colore in questione. Tra le cause Browne elencava: 1) l’uso prolungato di acque dotate di particolari qualità; 2) «il potere e l’efficacia dell’immaginazione»; 3) una forma di «nera itterizia» divenuta a poco a poco ereditaria (op. cit.). op. cit. op. cit. op.cit.
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Donde derivano le molte differenze nella forma, nel colore, nel pelo e nel carattere dei cani? Tutte cose, queste ed altre, «che devono sembrare strane a chi crede che vi furono nell’arca soltanto due esemplari per ogni sorta di animali immondi, ed è costretto a ricondurre tale varietà a prototipi sconosciuti»67. Certo, aggiungeva ancora Browne, il problema dell’origine dei neri sarebbe stato risolto se la Bibbia ci avesse fornito informazioni precise in proposito. Ma poiché «la penna ispirata di Mosè non ha rivelato la confusione delle lingue, e positivamente dichiarato la loro divisione a Babele, le nostre dispute intorno ai loro inizi saranno senza fine»68. Proprio perché mancava «una dovuta relazione sulle origini e la preistoria» dei neri, questi «cadono in una grande oscurità, tale che le età future difficilmente potranno giungere a una soluzione». II problema nero diventava così per Browne, come quello americano, un problema che nell’ambito della concezione monogenetica non trovava e non poteva trovare adeguata soluzione.69 Critico del monogenismo, Browne non era ancora, però, teorico del poligenismo. II suo rigoroso programma scettico gli impediva -come già nel caso del problema americano- di giungere ad una soluzione positiva del problema nero. Ma pure, se una soluzione positiva era consentita dopo la sua critica, questa non poteva essere orientata in senso naturalistico e poligenetico. Questa soluzione appariva -in altri termini-, con tutta probabilità, la teoria della razza elaborata un trentennio più tardi da Petty. Alla teoria della razza si giungeva pertanto utilizzando -insieme alla tematica preadamitica- le argomentazioni messe a punto dalla critica libertina contro la soluzione biblico-monogenetica del problema nero. Ma come la critica libertina aveva colpito l’ipotesi camitica non per il suo significato schiavistico ma per la sua portata biblica, così la teoria razziale poteva assumere il ruolo di erede storico della critica libertina e poteva continuare a svilupparne la battaglia anticristiana, pur assumen67
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Si noti l’esempio delle varietà canine, che già abbiamo visto ripreso da Petty in un contesto apertamente poligenetico, e confutato in senso monogenetico da Leibniz (op. cit.); traccia, quasi, di una continuità e di uno sviluppo del medesimo discorso. op. cit. Era lo stesso Sir Thomas Browne a sottolineare l’analogia tra i due problemi (e a richiamare implicitamente le pagine americane del Religio medici,1643 ) quando scriveva: «Allo stesso modo se si esclude l’intervento di angeli, che dispersero le creature in tutte le parti (del mondo) dopo il diluvio, così come prima le radunarono nell’arca di Noè, non sarà una questione facile da risolvere (stabilire) come molti generi di animali furono originariamente dispersi nelle isole, e in particolare nell’America» (op. cit.).
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do anche la veste inconfondibile di un’ideologia schiavistica. Alla fine del Seicento sul piano delle ideologie coloniali si fronteggiavano dunque due teorie -l’una di stampo poligenetico/naturalistico, l’altra di stampo monogenetico/biblico- accomunate tuttavia da un evidente intento giustificativo nei confronti della schiavitù nera. Quali le ragioni di questa contrapposizione? Bastava uno sguardo alle caratteristiche storiche della tratta e della schiavitù degli africani alla fine del Seicento per trovare una risposta plausibile a questa domanda. L’incrementata richiesta di schiavi neri provocata, nella seconda metà del secolo, dal rapido sviluppo delle piantagioni americane di zucchero e di tabacco, aveva trovato risposta -all’epoca della restaurazione degli Stuart- nell’organizzazione di una tratta in grande stile gestita, con criteri monopolistici, da una compagnia a privilegio statale. Ma questo regime di monopolio doveva ben presto suscitare l’opposizione coalizzata dei commercianti privati e dei proprietari di piantagioni, entrambi interessati -in questo campo- all’affermazione del principio del libero commercio; e questa opposizione doveva sfociare, dieci anni dopo la rivoluzione, nel riconoscimento del diritto di ogni inglese al libero commercio degli schiavi neri70. Era indubbio che quando Godwin denunciava nel 1680 le propensioni poligenetiche dei piantatori inglesi, rifletteva, dal punto di vista della corona e della chiesa anglicana, la tensione suddetta. Ciò che i proprietari di schiavi cercavano nel poligenismo preadamitico -e troveranno compiutamente nella teoria della razza- non era soltanto una giustificazione alla schiavitù (che avrebbero potuto facilmente rintracciare nelle tradizionali genealogie bibliche) ma una sottrazione della schiavitù stessa al controllo statale ed ecclesiastico. Non si trattava, cioè, di stabilire se i neri dovessero o non dovessero essere schiavi ma se fossero privi di «anima», se dovessero o non dovessero essere esclusi dall’«umanità» e quindi dai diritti religiosi e civili.71 In altre parole, se avessero potuto –o meno- essere riconosciuti per ciò che erano, una merce e uno strumento di lavoro, e in tal senso essere considerati appannaggio privato dei loro possessori. Nella teoria poligenetico-razziale mercanti e proprietari di schiavi cercavano insomma la possibilità di confermare, anche nel caso di quella merce particolare costituita dal ‘negro’, la validità di quel diritto naturale e inviolabile alla proprietà che più in generale la borghesia europea andava rivendicando quale presupposto essenziale della sua emancipazione. 70 71
Eric Williams, Capitalismo e schiavitù, Laterza Editore, Bari 1971. Godwin, op. cit.
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La caratteristica specifica della teoria della razza al suo primo apparire sulla scena culturale europea -ciò che la distingueva non solo dalla teoria preadamitica ma anche dai conati poligenetici cinquecenteschi di stampo aristotelico- non era dunque il suo contenuto schiavistico72 bensì la sua forma borghese. Questa teoria, nata dalla stessa congiuntura storica che conduceva, in Inghilterra, alla rivoluzione vittoriosa della borghesia, nasceva anche in connessione con gli stessi principi di libertà e di eguaglianza che di quella rivoluzione e di quella classe rappresentavano il manifesto. Era infatti proprio il carattere formale dei principi borghesi a lasciare spazio per la contemporanea affermazione della teoria della razza. Locke stesso chiariva che il principio «tutti gli uomini sono per natura eguali» non comportava «ogni sorta di eguaglianza»73: l’ineguaglianza naturale tra gli uomini, per quanto riguar72
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Tanto più che, se la teoria della razza aveva un effetto schiavistico nei confronti dei neri, non lo aveva nei confronti degli americani. In generale si poteva affermare, anzi, -anche se il discorso avesse necessitato di ben altra determinatezza storicache il poligenismo razziale, all’inizio del Settecento, sanciva piuttosto la libertà dell’«uomo rosso», continuando per questo aspetto la vocazione «commerciale» del preadamitismo: basti pensare a Lahontan, il cui poligenismo si accordava con un’immagine del «selvaggio» «libero» ed «eguale» che, mentre incarnava già letterariamente e polemicamente le aspirazioni della borghesia (conformemente alla «moda» filosofica settecentesca), esprimeva d’altro canto -in campo coloniale- quella pratica del libero commercio con gli indigeni messa in atto, contro il protezionismo mercantilistico, dai coureurs du bois del Canada francese, di cui Lahontan era portavoce e sostenitore. D’altra parte se la« libertà» rimarrà un attributo pressoché costante dell’uomo americano per tutto il Settecento (tanto che se ne avrà un riflesso nella classificazione naturalistica – ma formalmente monogenetica – di Linneo, in cui l’homo americanus era caratterizzato come «ostinato, allegro, libero» di contro all’homo afer «malizioso, pigro, negligente» (Carolus Linnaeus, Systema Naturae per Regna tria naturæ secundum classes, ordines, genera, species, characteribus, differentiis, synonimis, locis, Editio duodecima reformata, t. I. Holmiae 1766); questo attributo si accompagnerà ad una progressiva accentuazione, da parte della «scienza» europea, della sua inferiorità biologica, parallelamente alla sua crescente subordinazione alle esigenze di mercato dell’industria europea, nonché all’espansione territoriale delle colonie agricole specialmente inglesi. La teoria della razza sarà in grado appunto di sancire «empiricamente» l’inferiorità biologica dell’americano, senza peraltro escluderne la libertà naturale. Proprio perché si prestava a svolgere ruoli ideologici differenziati nei confronti dei neri e degli americani (nonché degli asiatici) la teoria settecentesca della razza andava dunque definita, più che un’ideologia schiavistica, un’ideologia della divisione internazionale del lavoro imposta dalla borghesia: un’ideologia in grado, cioè, di far passare come «naturali», e perciò immutabili, le diverse forme di subordinazione e di sfruttamento -dal commercio alla schiavitùimposte alle popolazioni coloniali dalla borghesia europea. J. Locke, Due trattati sul governo, Einaudi Editore, Torino 1960.
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dasse forza fisica, talento e virtù, permaneva al punto che «vi sono certi bruti che sembrano avere altrettanta conoscenza e ragione quanto certuni che sono chiamati uomini»74. Nulla di strano che da questa riconosciuta discrepanza tra diritto e fatto -tipica del pensiero borghese- potesse emergere la possibilità, da parte di quella stessa classe che andava proclamando la libertà e l’eguaglianza universali, di escludere poi dalla fruizione di questi diritti la grande maggioranza delle popolazioni coloniali, servendosi di una teoria, come quella razziale, che altro non faceva se non riconoscere l’ineguaglianza naturale» di queste ultime e sancirne, in linea di fatto, la subordinazione e lo sfruttamento disumano. Nulla di strano, in un’epoca in cui la schiavitù dei neri nel Nuovo Mondo rappresentava pur sempre un presupposto indispensabile perché la borghesia potesse imporre, in Europa, la «libertà» del lavoro salariato75. Se per «razzismo» si intendeva qualcosa di più specifico che non un generico pregiudizio nei confronti del «diverso» -se si intendeva una dottrina determinata quale quella che veniva emergendo soltanto alla fine del Seicento, con caratteristiche proprie che la distinguevano nettamente dalle teorie monogenetiche a cui si opponeva (pure certamente non meno «razzistiche» nel significato generico del termine)- occorreva dunque riferirne l’origine a cause altrettanto specifiche e storicamente determinate, quali appunto quelle derivanti dalle contraddittorie esigenze di emancipazione e di sfruttamento dell’emergente borghesia europea. Non era sufficiente a spiegare il fenomeno nella sua specificità storica ricercarne le radici in entità evanescenti quali lo «spirito del protestantesimo»76, oppure limitarsi a evocare l’immancabile «incomprensione culturale» di una cultura «etnocentrica», e liberarsi dall’obbligo di una più approfondita ricerca con un generico rimando alla matrice psicologica di un «raz-
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J. Locke, Saggio sulla intelligenza umana, vol. II, Laterza Editore, Bari 1951. Si ricordi per tutte la celebre affermazione di Marx: «[...] la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase nel Nuovo Mondo» (II Capitale). Non poteva mancare, tra gli epigoni di Weber, il tentativo di ricercare le cause del razzismo nella dottrina luterana della separazione tra «religione e politica», o nel disinteresse di Calvino per lo spirito missionario: non spiegherebbe, questo, il diffondersi del razzismo proprio nell’America protestante? (cfr. il dibattito in proposito riferito da Gosset, Race, op. cit.). L’ipotesi si confutava da sola, e richiamava alla mente il ragionamento del «medico da due soldi» parodiato da La Peyrere: ma era sintomatico dell’ostinato rifiuto di certa storiografia a volgere gli occhi sulla pur così eloquente realtà storico-materiale.
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zismo eterno»77. Né doveva imbarazzare il fatto di scoprire proprio in quel pensiero illuministico-borghese che si pretendeva distruttore di ogni pregiudizio la fonte di quello che nell’éra moderna appariva il pregiudizio per eccellenza, il «pregiudizio razziale»78. Anche la teoria razziale andava annoverata tra quegli «idilliaci» strumenti di cui aveva fatto uso la borghesia per affermarsi storicamente; anch’essa andava posta sul conto di quel «progresso umano» che non cessava di assomigliare, nell’epoca borghese, «a quell’orribile idolo pagano, che voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi»79. Quella stessa borghesia che a volte sembrava capace di ardite aperture psicologiche nei confronti dell’indiano d’America (tanto più ardite, quanto più questi andava scomparendo dal Nuovo Mondo), costruiva poi nei confronti del nero la più formidabile barriera concettuale, la teoria dell’inferiorità razziale. In essa sembravano concentrarsi tutti i «pregiudizi etnocentrici»: eppure, anch’essa non era priva di una sua dignità «scientifica» almeno nel senso che, dovendo fare i conti con problemi biologici, naturali, geografici, costituiva un più raffinato complesso concettuale rispetto alle vecchie teorie sulla maledizione biblica. Soltanto, sarebbe stato fuori luogo cercare in questa aumentata razionalità una 77 78
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Per questo atteggiamento -che in anni più recenti assunse una diffusione pari alla moda per il «relativismo culturale»- cfr. da ultimo Biondi, Mon frere, tu es mon esclave!, cit. Questa resistenza a riconoscere in zone tutt’altro che marginali del pensiero illuministico-borghese la prima matrice culturale della teoria della razza potrebbe essere documentata con parecchi esempi. Si tratta, per lo più, di peccati di omissione, anche perdonabili negli studi sull’Illuminismo ma che diventavano macroscopici quando l’oggetto di studio era la teoria razziale. Colpiva per esempio leggere in uno specifico Ètude critique sur la formation de la doctrine des races au XVIII· siécle et son expansion au XIX· siécle, dovuto a Theophile Simar, che «i teorici della diversità radicale delle razze non potrebbero scoprire alla fine del secolo XVIII un partigiano convinto del poligenismo originario» perché «l’ora del ‘poligenismo radicale’ non era ancora suonata» (Academie Royale de Belgique, Classe des Lettres et des Sciences morales et politiques, Memories, Collection, in 8°; Deuxieme serie, t. XVI. fasc. 4); e, più recentemente, in una pubblicazione dell’UNESCO dedicata a «La question raciale devant la Science moderne», trovare il nome di Voltaire annoverato «tra molti altri, decisi sostenitori dell’identità fondamentale della natura umana e conseguentemente dell’eguaglianza tra tutti gli uomini» (Juan Comas, I miti razziali, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1953). Con queste parole si concludeva un articolo pubblicato da Marx sul «New York Daily Tribune», dell’8 agosto 1853, dedicato a «I risultati futuri della dominazione britannica in India» (cfr. Marx-Engels, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, Milano 1970).
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minore carica ideologica, presumere che «più razionale» significasse immediatamente più umano, piu comprensivo, più giusto; che il progresso, nell’epoca borghese, coincidesse con una diminuzione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Era esattamente il contrario; ma proprio in questa negazione andava vista la funzione rivoluzionaria -anche a livello ideologico- di quella macchina sanguinosa che fu il sistema coloniale. «Esso fu il “dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolare via tutti insieme e proc1amò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell ‘umanità»80.
2.3 La società musicale: teoria socio-antropologica Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove l’orecchio preparato può, fin dalle prime battute del motivo, indovinare la continuazione, e sentirsi felice quando arriva Max Horkheimer, L’industria culturale, 1947
Riteniamo sia un po' tardi ora per giustificare il riferimento alle tradizioni africane quando si discute di folclore musicale nero in America. Se molti spirituals neri si svilupparono da spirituals bianchi o viceversa appare di poca importanza quando si considera il patrimonio folcloristico musicale nero-americano nella sua complessità. Nonostante le innumerevoli incursioni saggistiche e letterarie il campo rimane vasto e risulta difficile esplorarlo o approfondirvisi ulteriormente senza riconoscerne l’eredità africana. Ciò non significa stabilire l’assioma che la musica nera degli States sia africana ma che molte peculiarità degli stili musicali dell’Africa persistono ancora oggi. Diverse di queste tipicità di razza sono concetti melodici o ritmici: alcuni si trovano nelle relazioni tra voci e tra voci e strumenti; altri sono negli stessi strumenti e nel loro uso. Altri ancora si trovano nei concetti di suono strumentale e vocale, in conflitti incidentali con scale tradizionali western, in azioni motorie associate con il canto e la danza, nonché in atteggiamenti verso la musica e il far musica. Che le sonorità nere negli Stati Uniti siano prevalentemente americane appare anche evidente. 80
Marx, II Capitale
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Poteva prevalere solo in America, dove elementi di culture specifiche si fondevano, cosa che non accadeva altrove. I semieuropei e africani si innestarono per produrre risultati soddisfacenti nelle isole spagnole dei Caraibi, nelle isole inglesi e in quelle francesi. Cosa ben diversa accadde in Brasile e Venezuela dove il processo di fertilizzazione degli stili musicali continuò ma elementi della tradizione europea e ovest-africana sopravvissero, talvolta anche in forma pura. Nei tempi in cui l’analisi della musica di colore in America dipendeva dal paragone con motivi europei e africani alquanto noti, era facile –con tutta probabilità- accettare il fatto che tratti europei, in primo luogo inglesi, irlandesi e scozzesi, avessero quasi annullato l’ultima vestigia della tradizione musicale africana. Adesso si è consapevoli che questa conclusione appare inadeguata. Tra l’altro, i campioni africani erano talmente radi che il nostro sistema convenzionale di annotazione musicale non era abbastanza adatto per riprendere esattamente le varie caratteristiche della musica africana, quelle famose peculiarità del folclore musicale nero. Si dubita, perfino, di esempi afro-americani che, analizzati in «vitro», potessero rappresentare un vero e proprio spaccato di quella razza.
2.4 La tradizione social-popolare: spirituals e blues Dunque l’elemento africano sopravvive soltanto nella tradizione popolare: e se sembra ormai dimostrato che l’origine dei folktales non è specificatamente africana, come invece si era spesso creduto in passato, tutti concorrono nel ritrovare questa origine per quanto riguarda la musica nera, e in particolare lo spiritual e il blues. La musica è stata l’unico vettore originato dalla cultura africana che non poteva essere sradicato, era la dimostrazione dell’esistenza dell’uomo afro-americano e della cultura afro-americana, e nell’evoluzione formale della musica nera si può vedere non solo l’evoluzione del nero come elemento culturale e sociale della cultura americana ma anche l’evoluzione di quella stessa cultura.81
Alla ricerca, dunque, in questa prima fase del nostro lavoro, di una tradizione culturale che ci dia conto degli sviluppi del canto nero, non possiamo esimerci dal riassumere i dati fondamentali che riguardano due forme musicali le quali avranno tanta importanza nella costruzione e nell’ispirazione della letteratura nera.
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LeRoi Jones, II popolo del blues, Einaudi, Torino 1968.
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Lo spiritual nasce dall’incontro della cultura africana con quella occidentale: pur perdendo, col tempo, l’uso dei linguaggi nativi, gli schiavi tradotti in America conservarono a lungo la propria visione della vita, le loro pratiche religiose, i canti, la poesia, le danze: entro la cornice delle loro idee e dei loro principi, essi assorbirono anche la nuova società in cui erano costretti a vivere. Particolare importanza ha avuto e ha -in molte culture africane- il rito d’iniziazione, un periodo di tempo, -cioé- in cui il membro di una tribù viene considerato «morto» e deve superare un certo numero di prove al fine di «rinascere» a nuova vita, con un nuovo nome e un posto nella società: Nulla come le parole degli spirituals mostra così chiaramente che gli afroamericani consideravano la schiavitù proprio come un tale periodo di iniziazione. Vi sono continui riferimenti alla morte quale condizione per la rinascita alla vera vita. L’idea cristiana della morte e della resurrezione, e l’idea africana della morte e della rinascita non sono poi così lontane l’una dall’altra; tanto che la seconda poteva essere espressa attraverso la prima e, di converso, stralci di escatologia cristiana venivano a far parte delle concezioni religiose africane.82
Lo spiritual invoca, in maniera magica conformemente alla tradizione africana, un futuro migliore: la religione degli spiritual non è una religione di contemplazione o di adorazione come quella cristiana ma è evocativa. L’evocazione e l’invocazione sono operazioni di magia, e la magia si serve di tecniche ben precise, nel caso specifico di strumenti come i tamburi, e della danza. E proprio perché agli schiavi fu proibito l’uso del tamburo ed interdetta la pratica della danza, lo spiritual si sviluppò, passando attraverso lo stadio del ring-shout (danza in tondo cantata ma senza tamburi), come una forma nuova. Gli schiavi trovarono l’opportunità di invocare un dio nella nuova lingua chiamandolo per nome, senza tamburi (Lord, Lord!, Jesus, Jesus!). Impararono a conoscere storie della Bibbia, introdussero immagini e figure di questi racconti nel complesso delle proprie espressioni religiose, e africanizzarono le forme del culto in questi servizi. Nel corso di questo processo di adattamento, venne perduta la «polimetria» tipicamente africana ma fu conservato il «poliritmo» (un solo metro, di cui vengono però elaborate diverse versioni ritmiche segnate da gruppi di differenti strumenti); e preservati furono anche lo schema lirico di statement-response, la cosiddetta «eterefonia di varianti», cadenze fisse, cambi di toni, variazioni. L’uso della parola risponde inoltre alla necessità «imperativa» che è tipicamente africana. Gli spiritual non descrivono il mondo com’è ma chiedono liberazione dal dolore. Sostanzialmente, perciò, essi 82
Jahneinz Jahn, Neo-African Literature, Grove Press, New York 1968.
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hanno un tema unico ma universale. Speranza in un mondo migliore dopo la morte, e protesta, convivono nello spiritual ma in un modo organico non meccanico: salvazione e liberazione non sono proiettate in un futuro escatologico ma prendono forma nel presente attraverso l’estasi. I blues sono canti secolari, individuali e non corali, che descrivono esperienze personali ma tipiche della comunità; musica e parole sono improvvisate ma in obbedienza a regole molto strette. Lo schema africano di statement-response funziona anche qui: la seconda parte deve essere, secondo quella che lo Jahn chiama logica del blues, una vera risposta allo statement che costituisce la prima, come espansione, giustificazione, spiegazione, o antitesi di esso. II blues rappresenta insomma una forma sofisticata, autocosciente, di poesia popolare: impiantato sull’ironia, che spesso prende in giro il cantante medesimo con esagerazioni e understatements, esso continua la tradizione africana dei praise-songs e dei mocking-songs; sempre legato al retroterra sociale che lo produce, esso non può presentare descrizioni naturali e il sentimento che vi si esprime appare controllato, anche nel dolore, dall’ironia e dal wit. Bisogna tuttavia guardarsi dal considerare il blues una forma statica: alla struttura classica di dodici battute divise in tre fasi sullo schema A-A-B esso arrivò col tempo, e vi furono in seguito trasformazioni dovute al mutare delle condizioni ambientali, come il passaggio dalle campagne alle città, e all’inventiva dei solisti: blues e jazz, autonomi l’uno dall’altro sebbene intimamente legati, dettero vita più tardi a creazioni di incredibile vitalità come quelle del grande Satchmo. Dal tempo dei primi interessi su questo argomento, la nostra conoscenza del tessuto musicale americano e africano risulta incrementata considerevolmente. Basti pensare alla vasta riserva di musica folk registrata, o folclore tradizionale dell’Africa, dei Caraibi, e della comunità nera dell’hinterland americano. Gli etnomusicologi in questo senso hanno fatto molto; ma anche l’antropologia -col suo encomiabile studio- ha giocato un ruolo importante, tanto da creare una nuova struttura di riferimento per chi voglia approfondirsi. È noto che esiste un’ampia classificazione di stili nella musica dell’Africa occidentale, con differenze all’interno delle specifiche culture come pure tra le stesse regioni. È ormai assiomatico, infatti, che alcuni tratti della musica afro-americana che una volta si pensava fossero esclusivamente europei, sono esistiti anche in Africa. Inoltre certi elementi ancora ignoti della musica nera degli States, sono stati riconosciuti e, quindi, messi in rapporto allo specifico modo di vivere africano. Quando si considera che altri elementi della vita e del pensiero del continente nero sono sopravvissuti in America fino a epoche recenti -e alcuni fino ad orala sorpresa di trovare un numero modesto di tratti musicali africani appare
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minima e risulta più facile capire perché la musica folk afro-americana sia diversa dal folk bianco americano. In sostanza, eventuali resistenze mostrate verso i retaggi africani hanno avuto un carattere sociale piuttosto che intellettuale. Ci sono stati membri della comunità nera che consideravano l’esistenza di questi retaggi un vero e proprio deprezzamento del loro ceto sociale; e il rifacimento ad essi serviva solo a rallentare il raggiungimento culturale dello status di afro-americano. Viceversa, c’erano bianchi che sostenevano tenacemente che quando l’africano giunse nel Nuovo Mondo, questi era nettamente sprovvisto di valori e tradizioni significativi e, quindi, eventuali cognizioni culturali che il nero deteneva erano plagiate dalla società bianca circostante. Comunque elementi tradizionali di derivazione africana, inclusi atteggiamenti e valori, che sono visibili oggi negli Stati Uniti -perfino in forme labili o dissimulate- contraddicono entrambe queste posizioni. Gli schiavi del Nuovo Mondo provenivano da molte regioni dell’Africa occidentale e del centro-ovest ed erano reclutati da alcune culture i cui fini sono stati solo in epoca moderna valutati. Gli Yoruba, il popolo Fon di Dahomey, gli Ashanti e varie altre tribù dell’Africa ovest avevano sviluppato schemi religiosi, complessi sistemi di legge ed uguaglianza -orgoglio di storia e tradizione-, un alto ordine di arte, musica e danza, una vasta letteratura orale che comprende proverbi, epica, codici morali ed etici in gran parte paragonabili a quelli dell’Asia e dell’Europa, nonché complessi schemi di organizzazione sociale. Fini socio-culturali, questi, pienamente raggiunti da un secolo a questa parte. L’arte della scultura africana emerse prepotentemente nel secolo scorso con una potenza dirompente: influenzò profondamente pittori e scultori, e i collezionisti d’arte hanno posto un alto prezzo sui loro intagli in legno, quelli in avorio e in ottone. Inoltre, la vera natura dell’esito musicale africano è stata intesa come un grido lontano dal «canto monotono», e il battito del tam-tam risulta descritto dai primi visitatori del Continente Nero. È difficile immaginare che un vasto numero di esiliati africani, raccolti insieme in un nuovo ambiente abbia dimenticato tutto ciò che sapeva e sia diventato un vacuum, in cui gli attributi di un’altra cultura potevano essere versati a volontà. Nel normale corso socio-organizzativo, l’africano e i suoi discendenti assorbirono e appresero quanto più potevano dalla cultura dominante in cui si trovavano a vivere. Quegli elementi di cultura dominante erano essenziali alla sopravvivenza dello stesso nero nonché congeniali al suo apprendimento passato, quindi furono assimilati rapidamente nel momento in cui essi aderivano a quegli aspetti della vita africana, per cui i neri non vi trovavano nessun surrogato soddisfacente. A questo punto bisogna dire che la tenacia che l’uomo ha
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mostrato nel conservare i vecchi valori è, senza dubbio, una costante risorsa di meraviglia.
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2.5 L’eredità culturale africana: folclore, linguaggio, e canto nero Se riflettessimo un attimo sul dato di fatto che gli schiavi africani furono deportati negli Stati Uniti legalmente fino all’inizio del XIX secolo – e clandestinamente fino alla Guerra Civile – capiremmo che gli elementi africani sono stati iniettati in questa struttura attraverso alcune persone che hanno vissuto fino a qualche decennio fa. La natura di alcuni di quegli elementi è stata resa chiara da studi antropologici intrapresi più di mezzo secolo fa, a cui è stato attribuito maggior valore di quelli effettuati in altre comunità nere di tutte le Americhe, studi che fornirono una nuova base di paragone. Per fare un esempio, basti citare il fenomeno di acculturazione nelle isole delle Indie occidentali, in Brasile, Venezuela e Suriname il quale ebbe un comune denominatore: l’eredità culturale africana. Certe peculiarità africane recondite, dissimulate o filtrate negli Stati Uniti, sono diventate più evidenti quando si è scoperto che esistevano anche in Giamaica, Haiti o Trinidad in forma meno velata. Serve ad illuminarci su questo punto il riconoscimento degli stimoli di queste comunità nere contigue. Oltre mezzo secolo fa, Melville Herskovits83 fornì delle valide introspezioni sulle caratteristiche di sopravvivenza del Nuovo Mondo africano. Alcune di queste caratteristiche erano fenomeni isolati, altri erano aspetti di una fenomenologia più ampia, i quali erano tenuti insieme da un concetto centrale, come poteva essere la fede religiosa. Altri ancora erano casi talmente comuni che non andavano neanche notati. II portare i fagotti sulla testa, il modo in cui un bambino era talvolta tenuto a cavalcioni sui fianchi della madre, la testa della donna avvolta in un fazzoletto: riflettendo su queste caratteristiche tipiche del vecchio sud, non si poteva non richiamare alla mente i modelli africani. Le acconciature delle ragazze, l’intreccio in piccoli disegni, e in piccole trecce -cosi comuni fino a qualche trentennio fa nel sud- sono tracce tangibili dell’Africa e delle Indie occidentali. Ad Haiti, con lo sfondo essenzialmente africano, questi disegni con i capelli sono chiamati «giardini». Nelle isole della Georgia, il riso veniva -e viene ancora- selezionato in cesti o vassoi alla maniera africana; e in vari luoghi degli Stati meridionali degli States, il grano veniva polverizzato in mortai di legno del tipo africano. Anche il modo in cui il mortaio era usato nelle 83
Melville J. Herskovits, The Myth of the Negro Past, Harpers, New York 1941.
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isole, con due o tre donne che lavoravano insieme con lunghi pestelli, risultava chiaramente un elemento africano. Un codice sofisticato di ciò che si è abituati a definire «comportamento cortese» era stato studiato da Herskovits84 e aveva un significato particolare in relazione alla tradizione africana. II rispetto convenzionale per gli anziani, l’avversione a deridere una vecchia persona, il voltare la testa per dimostrare devozione, il coprirsi la bocca quando si sorride, tutto ciò era spiegato come manifestazione di atteggiamenti africani. Cosi sono le interiezioni di Ah-hah, Do, Jesus, e altre simili esclamazioni fatte da una congregazione nel corso di un sermone; e di È così! È la verità!, e Si, uomo, fatti da qualcuno che ascolta un’affermazione profana o una narrazione. Queste esclamazioni danno più forza alle parole dello speaker o rappresentano un plauso per esse, e vanno ad assimilarsi dovunque agli usi delle comunità nere del Nuovo Mondo come pure in Africa. Anche l’importanza di ordini fraterni, di società segrete era stata citata da Herskovits e da altri studiosi, e aveva avuto uno speciale significato per le comunità nere degli Stati Uniti. Con la rottura delle più antiche forme di collettività sociale nella struttura ambientale americana, queste organizzazioni sono riuscite a giocare un particolare ruolo nell’assicurare una sepoltura delle persone decedute: una considerazione suprema nella vita ovest-africana. Ancora una volta Herskovits ci parla dell’utilizzazione del canto nel Dahomey: I canti erano e sono le testimonianze più importanti della storia dei popoli incolti. Questa funzione del canto emerge con chiarezza nel corso dei riti associati alle offerte a coloro che sono presi in schiavitù. Inizialmente l’informatore non riusciva a ricordare la sequenza dei nomi importanti. Infine accompagnandosi col picchiettìo delle dita cominciò a cantare. Alla fine del canto dichiarò che i nomi gli erano tornati alla memoria e che inoltre questo era un metodo ideale per ricordare i fatti storici. Coloro che visitavano il regno, al tempo della sua autonomia, dichiararono che il compito del cantante era quello di «tenere i documenti.85
Approfonditi studi del dialetto Gullah delle isole della Georgia avevano scoperto che una significativa parte del vocabolario di quella gente aveva un’origine africana, piuttosto che essere -come avevano affermato alcuni osservatori- una deformazione della lingua inglese, o semplicemente la so-
84 85
op. cit. op. cit.
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pravvivenza di un dialetto anglosassone. Per il primo punto Guy B. Johnson scrisse che: [...] il fascino dei racconti sul folclore degli isolani americani è inseparabilmente legato a motivi staccati del loro discorso e con la singolarità del loro idioma [...] La prima impressione del nuovo arrivato nell’ascoltare la conversazione dei vecchi sembra paragonabile all’ascolto di una lingua straniera. Ci sono neri piu vecchi nelle isole che parlano in un modo tale che uno straniero dovrebbe restare per diverso tempo ad ascoltarlo prima d’essere in grado di comprenderlo e conversare con loro con sua grande soddisfazione [...] Ma questo strano dialetto risulta poco più dell’inglese di due secoli fa, debitamente modificato per incontrare i bisogni degli schiavi [...] Da questo piacevole discorso e dal baby-talk usato dai padroni nel rivolgersi a loro, i neri svilupparono quel dialetto, qualche volta conosciuto come Gullah, che resta il lineamento caratteristico della cultura nera delle coste del sud Carolina e della Georgia.86
Comunque uno studio del dialetto Gullah fatto da Lorenzo Dow Turner87 riportava nel vocabolario di questa regione approssimativamente quattromila parole che risultavano di derivazione ovest-africana, in aggiunta a molte peculiarità dialettali nella sintassi, nelle inflessioni e nelle intonazioni. Nella Georgia egli registrava alcune canzoni con testi africani e altre con parole miste di inglese e africano. lnoltre Turner trovava che molte frasi africane venivano trasformate perfettamente in inglese, mentre c’erano interi periodi africani senza il cambiamento del significato e della pronuncia. Volendo fare un paragone, Turner ancorava le sue scoperte ad alcune precedenti valutazioni che bandivano le sopravvivenze nel vocabolario africano come trascurabili. Scoprì che un considerevole numero di parole, le quali erano state scritte come se fossero inglesi a sofisticazioni bizzarre di quella lingua, apparivano per essere Vai, Mènde e Wolof.88 Comunque, non solo parole di facile consumo ma anche molti nomi propri hanno un’origine ovestafricana. Nomi come Coffee (Ashanti: Kofi), Bilah, Kwako e altri ancora -sempre di derivazione africana- si possono incontrare quasi dovunque tra la Costa Orientale e il Mississippi. Inoltre molti nomi propri in inglese come Tuesday, Thursday, Foredaye Earthy continuano una pratica africana di chiamare i bambini in occasione di giorni speciali a fenomeni associati con circostanza di nascita e altre considerazioni tra86 87 88
Guy B. Johnson, «St. Helena Songs and Stories», in T. J. Woofter Jr., Black Yeomanry, Life on St. Helena Island, New York, Octagon Books, 1978. Wade-Lewis, Margaret, Lorenzo Dow Turner: Father of Gullah Studies, University of South Carolina Press, 2007. Tre tipi di tribù stanziate nell’estremo sud della Sierra Leone.
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dizionali. Turner scoprì che tutti i mesi dell’anno e i giorni della settimana venivano utilizzati come nomi, in aggiunta a Wind, Hail, Storm, Freeze, Morning, Cotton, Peanut, Hardtime, Easter e Harves.89 II vocabolario e i modelli grammaticali africani sono sopravvissuti dovunque nelle Americhe, come indicano vari studi sull’inglese sofisticato del Nuovo Mondo (a Suriname) e quello creolo (Indie occidentali). Perfino aspetti tonali del discorso africano possono provare di aver lasciato il loro segno nel linguaggio colored del Nuovo Mondo. La tradizionale qualità musicale del dialetto nero può ben essere in relazione all’uso africano del tono per scopi semantici. I racconti sul folclore afro-americano, che formarono una grossa fetta della letteratura orale, comprendono storie di animali, racconti di uomini, storie di magia, romanzi moralistici e, alcuni di essi, si ispirano considerevolmente all’eroico e all’epico. Una grande parte proviene dalla tradizione europea orale, altri dalla Bibbia, e molti ancora derivano dalla vita quotidiana fin dai tempi della schiavitù e dopo di essa; ma dalla prospettiva di diversi scrittori molte di queste storie hanno prototipi nell’Africa occidentale e in quella centrale. L’affinità africana risulta palese maggiormente nei racconti sugli animali, dapprima propagandati nel segmento bianco della popolazione da Joel Chandler Harris nel suo Uncle Remus; ma appare anche in storie di altro tipo. Si sono trovati racconti in cui un re e un’altra notabile persona sostituiscono la divinità dell’Ovest-Africa o gli eroi culturali. Anansi, il dio briccone degli Ashanti (in origine un ragno) -come pure suo figlio Intikuma- veniva chiamato per nome in un grande ciclo di racconti narrati negli States e in altri ambienti del Nuovo Mondo nero. Anche la vita religiosa veniva segnata dalla ritenzione di concetti e da atteggiamenti persistenti che furono originariamente sviluppati nelle culture dell’Africa occidentale. Tra le ritenzioni più cospicue ci sono la considerazione dei neri per i riti battesimali, la conquista estatica come un’espressione ortodossa di fede, e l’insolita importanza della musica e del ritmo, eccetto dove ha superato lo stile per conformarsi in pratiche bianche. Tutti questi elementi apparivano essenzialmente una parte del rituale religioso ovest-africano, ormai attecchito completamente sia in forma pura che dissimulata, in una grande area dell’America nera, e notevolmente ad Haiti, Giamaica, Trinidad, Guiana, Carriacou, Cuba, Venezuela e Brasile. La conquista estatica, proveniente dallo spunto fondamentale nell’esperienza religiosa africana, rimane una caratteristica comune del culto veneratorio, 89
Vento, Salute, Tempesta, Gelo, Giorno, Cotone, Arachide, Bruttotempo, Pasqua, Raccolto. Questa era la tipica dimostrazione come il nome del nascituro fosse legato alla circostanza naturale che lo aveva visto nascere.
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pagano o cristiano, in tutte le aree nere dell’emisfero occidentale. I riti battesimali, per esempio, pervadono quasi ogni aspetto della pratica religiosa haitiana. II significato di questo aspetto veneratorio è stato descritto in numerosi studi antropologici. Se si ritornasse a considerare la trasformazione del secolo, si scoprirebbe che i neri nell’area della Louisiana avevano consuetudine con i nomi di numerose divinità dell’Africa ovest, quali Limba, Agoussou, Dani (Dan), Liba (Legba o Limba) e altri; tutti questi nomi erano in sincretismo con i santi cristiani (come ad Haiti, Giamaica e Trinidad). Numerosi riti inerenti il culto dei morti hanno dimostrato di conservare certe caratteristiche della pratica africana che sono generalmente non presenti nella tradizione euroamericana. Non più di un secolo fa il drumming e la danza di stampo africani in chiesa, nelle veglie e ai funerali, erano gia conosciuti almeno nelle isole della Georgia e probabilmente dovunque nel continente. Retaggi della danza religiosa si trovano oggi nello shout,90 in cui il muoversi e il battere le mani sono un’eco delle scene comuni di alcune generazioni or sono. Avendo riconosciuto la presenza di tratti africani specifici nella vita dei neri del Nuovo Mondo in senso generale, e negli Stati Uniti in particolare, siamo in una posizione in qualche modo ottimale per esaminare e valutare caratteristiche africane e non europee nella musica dell’America colored. Che vi siano influenze africane questo è indubbio, e se la stessa musica afro-americana riflette quelle influenze appare difficile respingere l’evidenza. Se dovessimo trovare nel corso della musica folk americana un tratto che si fosse trovato -per esempio- nel canto tibetano, non potremmo superficialmente attribuirlo all’origine tibetana di fronte alle conoscenze della storia americana. Non ci fu nessuna immigrazione tibetana in questa regione. Pochi immigrati, se pure ci furono, ebbero dei contatti con i tibetani. Sarebbe, dunque, estremamente difficile trovare perfino un leggero rapporto tra la cultura tibetana e quella americana. Quell’ipotetico tratto musicale «tibetano», quindi, dovrebbe essere -in senso comune- attribuito ad un’altra risorsa o ad un’invenzione del tutto arbitraria. Ma considerando che gli africani vennero nel Nuovo Mondo in gran numero ed ebbero una tradizione di musica e danza profondamente radicata -sia profana che religiosa- conservando molti dettagli della loro cultura, sarebbe un miracolo se nessuna vestigia della loro tradizione musicale fosse rimasta. Lo studio dei canti popolari negli Stati Uniti compiuto da S. I. Hayakawa è sintomatico. Nel suo libro sulle frustrazioni Wendell Johnson for90
Per chi voglia approfondire lo studio dello shout (passo strascicato) si veda G. De Stefano, II canto nero, Gammalibri, Milano 1982.
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mulava un concetto relativo al cosiddetto IFD, che Hayakawa definisce «disordine semantico nella idealizzazione (cioè, nella formulazione di richieste di impossibile realizzazione) che porta alla frustrazione (risultato del mancato esaudimento delle richieste), la quale a sua volta produce la demoralizzazione (o disperazione, disorganizzazione)»91. In questo studio si sostiene che i canti popolari acutizzano l’IFD, e ciò porta alla impraticabilità degli ideali e alla successiva demoralizzazione. A differenza dei canti popolari i blues, scriveva Hayakawa in un articolo del 1955, esprimono «una considerevole carica ideale e una forza di volontà che è assente negli altri canti popolari»92; questi canti non tendono a falsificare il reale. Ed ecco la conclusione: Le nostre rappresentazioni simboliche ci danno un’idea falsa e fuorviante della realtà e così siamo preparati male alla vita. Come scrive Wendell Johnson la frustrazione e la demoralizzazione sono precedute dalle aspettative create da rappresentazioni non realistiche. Con ciò non si vuole sostenere, naturalmente, che l’idealizzazione è -in sé- negativa; essa è necessaria e l’individuo non può sottrarsi ai processi di astrazione e simbolizzazione: senza l’idealizzazione l’uomo somiglierebbe alle bestie. C’è tuttavia una enorme differenza tra gli effetti “semantogenetici” degli ideali possibili e impossibili. Gli ideali sull’amore, così come vengono presentati nei canti popolari, sono -di normaideali impossibili!93
Hayakawa aveva sviluppato l’analisi di una situazione psicologica e dei risultati che da questa potevano derivare. Herskovits, da parte sua, in un suo scritto particolarmente illuminante proponeva di «indicare alcuni aspetti psicologici [...] del comportamento culturale dei neri; tali comportamenti potevano essere compresi meglio applicando principi e concetti propri dell’interpretazione psicoanalitica»94. Herskovits riprendeva i concetti di repressione e di compensazione, ci indicava alcuni meccanismi operanti nella cultura dei neri, africani e del Nuovo Mondo, e sottolineava che «le nevrosi sono indotte dalla repressione, e bisogna riconoscere il valore enorme di quelle terapie che aiutano a portare allo scoperto i pensieri repressi»95. L’autore si basava sull’analisi di alcuni canti e danze:
91 92 93 94 95
W. Johnson, People in quandaries, Harpers, New York, 1946. S. I. Hayakawa, Popular songs vs the facts of life, in “ETC: A Review of General Semantics” 12:2 (Winter 1955). Ibidem. Herskovits, op. cit. Ibidem.
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A Dahomey la danza che si esegue in piazza è considerata funzionale alla liberazione dei desideri repressi. In determinati periodi dell’anno la gente di Dahomey ha la possibilità di eseguire questa danza; la gente arriva da ogni quartiere della città, piena di voglia di ascoltare i canti e di ridere al ridicolo cui vengono esposti coloro che si sono macchiati di colpe. In genere non vengono fatti nomi al fine di evitare le risse, tuttavia si fa ricorso a circonlocuzioni da cui risulta sia la colpa che il colpevole. Ecco un esempio: Donna, il tuo cuore è fatto male. È stato fatto in fretta, in fretta. Io, che ho visto un viso scarno, dico che la tua anima è stata fatta senza alcuna cura. L’argilla con cui sei stata creata fu modellata in fretta, in fretta. Non hai alcuna bellezza. II tuo viso non sembra un viso, i tuoi piedi non sembrano piedi.96
Herskovits analizzava, in un suo articolo, anche il lobi singi dei neri della regione costiera della Guinea Olandese, e in modo particolare di quelli che vivevano a Paramaribo: [...] i negri dell’Africa e del Nuovo Mondo conoscono bene l’importanza della purificazione e della liberazione psichica; e, quindi, se anche noi vogliamo spiegarci questi avvenimenti sociali dobbiamo prescindere da spiegazioni poco realistiche, magari basate sulle spiegazioni sovrannaturali spesso addotte dai nativi. Ogni spiegazione di questi fatti dovrà basarsi su una analisi dei meccanismi inconsci.97
Gli elementi europei che avevano contribuito alla formazione della musica afro-americana risultavano tanti. Motivi folk inglesi, scozzesi e irlandesi, cori di marinai, inni e spirituals bianchi, avevano formato un profondo impatto. Nella Louisiana si avvertirono vari tipi di influenza francese. Canzoni folk francesi, musica e danza folk, musica da saloon, dovevano essere state piene d’ubiquità, dapprima tra la popolazione bianca e poi fra i neri liberati dalle catene e quelli ancora schiavi. Fin dalla guerra civile, queste canzoni furono alla portata di tutti. La musica folk del Cajun (Acadian), originaria della Francia rurale, arrivò in Louisiana con i rifugiati provenienti dalla Nuova Scozia nel XVIII secolo. Sebbene lo stile del 96 97
Ibidem. Ibidem.
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canto Cajun fosse facilmente identificabile e rimasto essenzialmente una delle proprietà indissolubili della comunità Cajun stanziata nella Louisiana o nei pressi dei suoi corsi d’acqua, le popolazioni contigue ne erano state molto condizionate98. Ulteriori influenze francesi provenivano dall’area dei Caraibi, con uno stile africano ibrido. Ci fu un continuo andirivieni dei colonizzatori francesi e delle loro famiglie tra la Louisiana e le Indie Francesi Occidentali, e gli schiavi furono trasferiti dalle isole al continente a seconda delle richieste. Il risultato fu una cultura creola con peculiarità caratteriali più o meno unificate che abbracciava la Louisiana e i Caraibi francesi. Gli schiavi delle piantagioni dell’India occidentale e della Louisiana parlavano un linguaggio comune (creolo) e condividevano la tradizione della musica e della danza avendo un folclore comune. Fino a qualche ventennio fa in Louisiana si cantavano ancora delle canzoni che sarebbero state più facilmente comprese ed apprezzate ad Haiti e in Martinica piuttosto che in Francia o in Alabama. Tuttavia determinati studi musicologici devono ancora accertare il livello dell’influenza spagnola sulla musica folk dello Stato della Louisiana. Anche se gli africani o gli schiavi della stirpe africana ebbero numerosi contatti con gli indiani in varie parti del paese (c’erano molti proprietari indiani), non c’era alcuna sostanziale evidenza che gli elementi musicali indiani furono poi assorbiti dalle principali correnti di sviluppo della musica afro-americana. Appariva abbastanza curioso che uno dei tanti studi di un notevole etnomusicologo, George Herzog99, indicava che uno sparuto gruppo di indiani Cherokee importò elementi di stile musicale africano dagli schiavi neri.
2.6 Il comportamento come modello sociale: prodotto musicale e feedback Comunque anche quando le influenze storiche di base erano state analizzate, la storia non appariva completa. Vari fenomeni musicali regionali tali come lo stile hillbilly delle montagne del sud-est, gli stili western dei cowboy e la musica definita new style, sempre mutevole delle città, fecero da filtro o, quanto meno, influenzarono la musica afro-americana. Tracce di questa corrente culturale erano rintracciabili nel repertorio di molti jazz-singers. Infatti prima con l’avvento del fonografo e poi della radio 98 99
Esempi di musica folk del Cajun si ascoltino nell’album Cajun Songs from Louisiana, Ethnic Folkways Fe 4438. George Herzog, African Influences In North American Indian Music, relazione presentata al Congresso Internazionale di Musicologia di New York nel 1939 e pubblicata nel 1944.
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nel XX secolo, un numero quasi imponderabile di influenze d’ogni genere condizionò tutta la musica folk americana: nera e bianca allo stesso tempo. La radio e le incisioni fonografiche introdussero nello sviluppo della produzione musicale nera un nuovo elemento che potrebbe essere definito feedback. In antropologia musicale, il feedback è parte del processo di apprendimento sia del musicista che del non-musicista. A tal riguardo siamo spinti a prendere in considerazione questioni come il simbolismo, la presenza o l’assenza di valore estetico, l’interazione tra le arti, la ricostruzione della storia culturale attraverso lo studio della musica e le modificazioni culturali. Possiamo giungere in questo modo ad una conoscenza complessiva del fenomeno in questione. Occorre ribadire un’enunciato molto importante: ascoltando un determinato canto ci accorgiamo che esso è costituito da una certa quantità di suoni, ordinati secondo un determinato criterio. Alcuni individui producono questo canto, altri lo ascoltano; tutti insieme possono accettare o rifiutare il prodotto, a seconda delle loro idee sulla musica; si determina così una certa influenza sui comportamenti, e quindi sulla musica stessa. Cornelius Osgood, analizzando la cultura materiale, era giunto a conclusioni analoghe anche se meno esatte. II suo scopo era quello di operare a tre livelli di «idee»: I. Sugli oggetti reali che nascevano sia dal comportamento umano che dalle idee sul comportamento richiesto per la produzione di tali oggetti; II. Sul comportamento umano che non si concretizzava nella produzione di oggetti materiali; III. Sulle idee che non prevedevano comportamento umano (ad eccezione del discorso che potessero essere prodotti da tale comportamento). La prima categoria corrispondeva a ciò che veniva definito generalmente cultura materiale e che includeva tutti i dati che si riferivano direttamente a cose visibili e tangibili quali gli strumenti, gli abiti e le dimore costruiti da una o più persone. La seconda categoria corrispondeva a ciò che era definita generalmente cultura sociale e includeva tutti i dati sul comportamento umano che non prevedeva direttamente la manifattura di oggetti [...]; La terza categoria riguardava solo le idee [...] Ad essa si riferiva l’universo delle idee religiose [...] la filosofia e la speculazione. La difficoltà principale di comprendere questi concetti comportava la definizione del comportamento come produttore esclusivo del contenuto ideativo del discorso. Era, tuttavia, possibile considerare le idee (e l’io) soltanto dalla prospettiva del comportamento non concettuale del pariante.100 100 C. Osgood, Ingalik material culture, Yale University Publications in ‘Anthropology’, New Haven 1940.
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La prima categoria di Osgood comprendeva ciò che era stato chiamato prodotto musicale, la terza ciò che era stato chiamato concettualizzazione. La seconda, comunque, non corrispondeva esattamente a ciò che generalmente si definisce comportamento, per quanto si avvicini. Dal momento che Osgood non voleva presentare un modello dinamico, nel suo schema mancava il fattore del feedback basato sull’apprendimento. C’era una relazione, infine, tra questo modello e alcuni punti di vista moderni dell’antropologia in quanto il livello concettuale corrispondeva a ciò che potremmo chiamare l’aspetto culturale o ideativo dell’organizzazione umana; il livello comportamentale corrispondeva a quello sociale; il prodotto a quello materiale; il feedback al sistema della personalità e alla teoria dell’apprendimento. Vorremmo sottolineare che le parti del modello presentato erano concepite come entità distinte e separabili solo a livello teorico. II prodotto musicale non è separabile dal comportamento che lo produce; il comportamento, a sua volta, può essere distinto dai concetti ad esso sottostanti ma soltanto in teoria; tutti insieme sono legati tramite il feedback dal prodotto al concetto. Sono presentate separatamente solo perché si vuol mettere l’accento sulle singole parti ma se non comprendiamo una delle tre categorie non possiamo comprendere le altre; e se non riusciamo ad avere coscienza delle singole parti avremo smarrito il senso dell’insieme. Una tipologia tradizionale di canzoni folk viene raccolta da un artista e cantata in un nuovo stile. Se la registrazione fosse diventata popolare, una nuova generazione di cantanti avrebbe iniziato a utilizzare alcuni degli attributi personalizzati di quell’artista. Così la nuova versione, o elementi d’essa, sarebbe divenuta -una volta di più- puro folklore musicale. Quando si è consapevoli che il folk del nostro tempo si basa sui dischi e sulla radio, e che questi ultimi stanno a loro volta usando la stessa musica folk come risorsa di base, è possibile comprendere in un modo vago i cambiamenti e le combinazioni degli scambi di lavoro nel processo del feedback. Un risultato di questa attività era che si potevano ascoltare melodie-cowboy che erano reminiscenze del blues nero; motivi blues che sapevano di canzoni del Golden West: motivi hillbilly e combinazioni strumentali che parlavano attraverso versioni folcloriche di John Henry e John The Revellator con jugs, jew’s harps e washtubs101, arrangiamenti jazz di vecchie canzoni religiose; le Calypso skittle bands di New Orleans e Mobile; e i gospel songs di Moon Over Indiana in essi. Naturalmente questa sorta di cose non appariva essenzialmente nuova. L’acculturazione musicale tra i marinai e gli stivatori neri, tra le chiese nere e quelle bianche 101 Strumenti tipici del folclore afro-americano.
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e tra i ferrovieri neri e bianchi continuava nel tempo. Ma il passo e l’accelerazione della fertilizzazione ad incrocio in anni recenti non erano mai stati eguagliati. Comunque il problema di talenti musicali innati sicuramente sarebbe sorto in qualsiasi discussione sulla musica afro-americana. Appariva un clichè, non sempre dissipato, che il senso musicale dei neri risultasse istintivo, o -almeno- biologicamente ereditario dei suoi antenati africani. Questo senso istintivo della musicalità rappresenta la capacità naturale che tutti gli uomini condividono ad un livello più o meno grande di rispondervi con il creare musica. Un individuo può biologicamente ereditare una capacità del genere ma non c’è alcuna traccia evidente che qualsiasi grande gruppo etnico possiede un talento innato per la musica più grande di quello di qualsiasi altro gruppo. Non c’è nessun monopolio razziale o nazionale sull’arte di far musica. Che ci sia un’eredità nera risulta innegabile ma questa eredità non è biologica bensì culturale. I neri che sono maturati senza ricevere influenze dalla black culture possono non aver acutizzato l’arte del contrappunto e della tonalità blues nonché quella di una spiccata abilità ad emettere un grido di Hudson Bay Eskimo. Un nero abituato in Francia sin dalla più tenera età a cantare nel coro della chiesa non darà nessun cenno peculiare che i suoi antenati avessero qualche altra tradizione. Ancor oggi, una fetta della popolazione di colore della Louisiana canta nello stile francese o Cajun. Questo per dimostrare che i neri nati e cresciuti in una struttura sociale, la quale concede alcune gratificazioni o respinge i valori melodici tradizionali della razza, possono esternare solo le abitudini musicali più comuni. Non a caso, contrariamente ai clichè, alcuni esponenti del black world sono del tutto inabili a tenere il tempo, la danza o a cantare qualcosa che non siano note aspre e -tutto sommato- non differiscono da altre persone di qualsiasi origine razziale. La causa non è dovuta certo alla composizione cromosomica o al sangue, bensì alla tradizione sociale, in breve, alla cultura che altro non è se non il tessuto epidermico di una razza. In una società dove tutti cantano, dove si trova musica in quasi ogni importante istituzione religiosa o secolare e in cui la partecipazione di gruppo e una tradizione profondamente radicata, l’individuo assorbe e diventa in qualche modo capace di agire nell’idioma musicale della sua cultura. Un qualsiasi individuo che non fosse nero, allevato in una comunità nera, avrebbe almeno la coscienza media e i sentimenti per assimilare quel tipo di musica. Infatti nei meetings delle società segrete afro-cubane, le attività apparivano notevolmente africane. Le danze e i rituali di stile africano erano accompagnati dalle canzoni e dal drumming africano. Naturalmente, la maggioranza dei soci risultava di colore ma vi partecipavano anche molti
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cubani bianchi, i quali erano stati ammessi al raduno. I loro movimenti e le posizioni di danza non apparivano affatto distinguibili da quelli dei neri né tantomeno lo era il loro modo di cantare. Le voci avevano persino acquisito il timbro peculiare che si identificava con la voce nera. Vivendo quella determinata estetica razziale, i cubani bianchi non trovavano alcuna difficoltà ad accettare tali valori e farli propri. In conclusione, non tutti i neri fanno jazz o boogie, non cantano spirituals e blues, e si muovono a ritmo; però, laddove i valori culturali razziali sono sopravvissuti come risultato di fattori sociali, le tradizioni musicali nere restano forti e dinamiche. Solo in questo modo viene ricomposto il costante legame della musica nera con il verbo, l’espressione e la lingua afro-americana.
2.7 Epistemologia sociologica della schiavitù: schiavi domestici e schiavi campestri L’economia schiavista poggia su due settori distinti anche se complementari: un’economia agricola basata sulla produzione di cibo per il sostentamento del gruppo di appartenenza e un’economia di profitto per la produzione di beni di mercato e il reperimento di nuovi schiavi–merce. Dunque la schiavitù come sistema è bloccata in una dinamica sociale dominata dalla violenza e dalla netta scissione tra il momento della produzione economica e il suo naturale complemento, la riproduzione biologica e sociale Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù, 2004
Natale Ammaturo, emerito docente, afferma che “a un attento osservatore non sfugge che da ogni parte la nostra società, nell’unità dei sistemi di cui si compone, vede minacciati gli equilibri sui quali si è sviluppata; i sistemi giuridici, politico, legislativo, educativo, economico, previdenziale, e tanti altri, senza escludere quello religioso, sono attraversati da una forte opposizione che minaccia i loro equilibri interni e ne condiziona il rapporto con l’esterno; tutto questo non trova spiegazioni né soluzioni attraverso le tradizionali forme di distinzione del lecito dall’illecito, del giusto dall’ingiusto, del bene dal male e probabilmente ha bisogno di strumenti concettuali più adeguati per farvi riscontro”102. Qualche secolo fa, 102 Elementi di Epistemologia Sociologica, Franco Angeli Editore, Roma 2004.
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gli abolizionisti e i proprietari con i loro rispettivi sostenitori discordavano molto nel valutare il trattamento che la massa degli schiavi riceveva. Si farebbe scienza dell’ovvio dimostrare che la schiavitù fosse risultata orribile, sia che essa fosse ‘benigna’ e ‘benefica’ per gli schiavi. La maggioranza di questi, infatti, appariva nel quadro romantico del letterato, che rappresentava lo schiavo come un lavoratore ben nutrito e tratteggiava la figura della diletta mammy che prendeva a cuore l’andamento della casa del piantatore e faceva da madre ai suoi figli; e appariva al tempo stesso nel quadro opposto degli schiavi brutalizzati, descritti, ad esempio, da Harriet Beecher Stowe nella Capanna dello zio Tom. Gli schiavi erano nutriti e alloggiati peggio di quanto lo fossero i lavoratori nel nord degli Stati Uniti ma non molto peggio dei lavoratori delle regioni più arretrate dell’Europa. Essi, poi, erano trattati peggio nelle grandi piantagioni, in cui erano sottoposti ai sorveglianti e a una direzione lontana, che non nelle piantagioni più piccole a conduzione personale. L’uso della frusta non appariva raro nelle piantagioni grandi, come pure era troppo frequente l’abitudine di separare le famiglie degli schiavi, e quella invalsa fra i proprietari di prendersi donne di colore per concubine. Al riguardo, ecco quanto riportava Frederick Douglass: Ho già detto implicitamente che il signor Edward Covey era un pover’uomo. Stava di fatto appena allora incominciando a porre le basi della sua fortuna, o almeno di ciò che in uno Stato schiavista si considerava una fortuna. Poiché colà la prima condizione del benessere e della rispettabilità era costituita dal possedere merce umana, ogni muscolo del pover’uomo si tese a questo scopo, talvolta con pochi riguardi quanto ai mezzi, e per ottenerlo, benché fosse pio, si dimostrò persona bassa e senza scrupoli come i peggiori dei suoi vicini. All’inizio fu capace soltanto di comperare -come egli diceva- una schiava e dal momento che la cosa risultava incredibilmente scandalosa, egli si vantava di averla comperata semplicemente come fattrice. Ma questa spietata asserzione non è ancora il peggio. La giovane donna (si chiamava Carolina) fu realmente costretta da Covey ad abbandonarsi al compito pel quale l’aveva comperata, e il risultato fu una coppia di gemelli alla fine dell’anno. A questo incremento della razza umana Covey e la moglie guardavano con gioia. Nessuno si sognava di rimproverare la donna o di trovare da ridire sull’uomo a noleggio, Bill Smith, padre dei gemelli, dal momento che lo stesso signor Covey li aveva chiusi insieme a chiave ogni notte producendo il risultato.103
103 Life and times of Frederick Douglass, Written by Himself, Conn. Park Publishing Co., Hartford 1882.
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Comunque l’accusa più giustificata alla schiavitù consisteva nel fatto che gli schiavi erano in balia dei padroni e non beneficiavano di alcuna protezione legale. Ed era probabile che le conseguenze più disastrose di quella “istituzione speciale” dipendessero dai proprietari che non avevano preparato gli schiavi alla libertà in quanto essi stessi incapaci di instaurare relazioni umane tra i bianchi e i neri liberati. Melville J. Herskovits e E. Franklin Frazier concordavano nel ritenere che le sopravvivenze di vita africana apparivano minori nel territorio attualmente costituito dagli Stati Uniti che non nelle altri parti del Nuovo Mondo. Ciò era dovuto soprattutto al fatto che tali sopravvivenze dipendevano in massima parte dalle dimensioni delle piantagioni. Infatti in quelle vastissime delle Indie occidentali e del Brasile, per esempio, vi erano più schiavi africani che in quelle dell’America inglese. Nel 1860 i tre quarti delle fattorie del sud avevano meno di quindici schiavi. Ebbene in queste piccole piantagioni i neri riscontravano maggiori contatti con i bianchi di quanti ne avessero nelle più grandi. Vi sono tuttavia divergenze di opinione sull’estensione fra i neri americani del fenomeno relativo alla sopravvivenza dei sistemi africani nella vita familiare e nelle organizzazioni comunitarie. Il destino dello schiavo e del padrone risultava storicamente interdipendente e parte di un unico processo sociale: ognuno alla sua maniera tentava di rendersi interdipendente dall’altro, senza tuttavia che nessuno dei due ci riuscisse completamente. Il primo problema, nello scrivere la storia sociale, era costituito da questa forma di antagonismo organico: si aveva la tendenza a considerare i padroni nei termini ad essi peculiari, senza prendere in considerazione la loro dipendenza dagli schiavi, e si propendeva tuttavia anche a considerare gli schiavi in base ai padroni, senza cioè valutare appieno il grado di liberazione dal dominio padronale che gli schiavi in effetti raggiunsero. Per quanto riguarda la vita nei quartieri degli schiavi continuava ad apparire predominante l’opinione che gli schiavi non avessero alcuna vita familiare, nonostante numerose prove del contrario: infatti, storici e sociologi, tanto bianchi che neri, erano colpevoli di essersi limitati a fare delle deduzioni da una documentazione legale (ad esempio, basti citare il fatto che i matrimoni fra schiavi non ricevevano alcun riconoscimento legale negli Stati Uniti), facendo poche ricerche effettive. Non si intende discutere in questa sede il problema della famiglia nella società schiavistica, né in quella degli schiavi domestici o del sorvegliante bensì bisogna accennarne solo per introdurre un argomento più ampio. È probabile che si sia commesso un errore fondamentale nel modo in cui si è presa in considerazione l’esistenza degli schiavi, e che questo errore
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sia stato ripetuto da bianchi e neri, razzisti e antirazzisti. La tradizionale interpretazione filoschiavistica e quella degli apologeti della supremazia bianca come U. B. Phillips avevano presentato i neri come oggetto della benevolenza e del timore dei bianchi, come gente cioè che aveva bisogno contemporaneamente di protezione e di controllo, focalizzando la propria attenzione sui modi in cui gli schiavi colored rispondevano alle direttive della classe padronale: la propaganda abolizionista e la posteriore opinione liberale avevano invece posto l’accento sul fatto che il regime schiavistico appariva talmente brutale e disumanizzante che i neri dovevano essere considerati in primo luogo come vittime. Ambedue le posizioni, tuttavia, consideravano i neri quasi completamente come degli oggetti, mai come la controparte di un rapporto bilaterale. Bisogna inoltre ammettere che se l’interpretazione abolizionista e liberale aveva evidenziato la resistenza che gli schiavi opponevano ai padroni rifiutando di lavorare, rompendo gli attrezzi o ribellandosi, di ciò avevano tenuto conto anche i filoschiavisti, seppure in un contesto interpretativo differente: ciò che importa, tuttavia, era il fatto che nessuna delle due correnti di pensiero avesse ipotizzato che questo tipo di manifestazioni potessero riflettere non tanto una deliberata volontà di sabotaggio o una supposta inferiorità razziale quanto, piuttosto, una serie di atteggiamenti relativi al tempo, al lavoro e al riposo che il popolo nero aveva sviluppato in parte in Africa e in parte nei quartieri degli schiavi; una serie di atteggiamenti, cioè, che costituivano un caso specifico nell’ambito di un più generale modello di comportamento relativo a delle culture preindustriali. I popoli preindustriali, infatti, avevano specifiche esperienze di lavoro duro e disciplinato, che però non attenevano in alcun modo né alla fabbrica né alla piantagione, essendo parte integrante di una cultura radicalmente diversa. Tuttavia anche storici profondamente sensibili a questo tipo di problematiche, come ad esempio, Kenneth Stampp104, che soffermava la propria attenzione sulle attività degli schiavi in quanto soggetti, avevano semplicemente tentato di dimostrare che gli schiavi esprimevano delle risorse parzialmente autonome difendendosi dai colpi come dalle blandizie dei padroni: però, a parte alcuni brani brevi ma illuminanti contenuti nelle opere di W. E. B. Du Bois, di Cyril Lionel Robert James105 e forse di qualche altro, nessuno aveva ancora tentato di descrivere i 104 The Era of Reconstruction: 1865-1877, Knopf, New York 1965. 105 C. R. L. James, The atlantic slave trade and slavery: some interpretations of their significance in the development of the United States and the western world, vol. I, 1970. Gli scritti di Du Bois sono ricchi di ipotesi e suggerimenti, vedere Black reconstruction in America (1935) e Souls of black folk, A.C. McClurg & Co., Chicago 1903.
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tentativi messi in atto dagli schiavi per ottenere una vita autonoma all’interno dei limiti ristretti concessi loro nella piantagione. Commentando brevemente alcuni aspetti della vita familiare, degli schiavi domestici e dei sorveglianti, bisognerebbe ricordare le ricche prospettive aperte a una ricerca che si interessasse più di cosa avessero fatto gli schiavi per se stessi e come lo avessero realizzato, che non di cosa fosse stato fatto agli schiavi. In una esposizione più ampia diventa necessario discutere la religione degli schiavi, il loro modo di divertirsi, le canzoni, le danze e molte altre cose; ma anche in questa sede si impongono alcune osservazioni sulla religione degli schiavi. Vi è una cospicua letteratura a proposito dell’istruzione religiosa impartita agli schiavi, cioè del tentativo di inculcare in loro il protestantesimo: in alcuni casi questa istruzione è stata valutata positivamente, in altri, invece, come una specie di lavaggio del cervello; tuttavia, Vincent Harding, seguendo le interessanti indicazioni di Du Bois, propose un’interpretazione diversa, avanzando l’ipotesi che gli schiavi recepissero il cristianesimo in modo originale, traducendolo, cioè, in un’arma di resistenza attiva.106 Infatti in quasi ogni ribellione degli schiavi ricorreva in un modo o in un altro la figura del predicatore messianico: Harding sollecitava, dunque, a considerare gli schiavi nella veste di partecipanti attivi alla propria esperienza religiosa e non soltanto come oggetti influenzati da un gruppo di ideologi schiavisti. Questa argomentazione poteva in effetti essere spinta fino a ipotizzare che nei quartieri degli schiavi avesse fatto la sua comparsa, anche se soltanto embrionalmente, una religione specificatamente nera che avesse avuto un ruolo (la cui portata e contenuto restano ancora da stabilire) nel modellare l’organizzazione quotidiana della vita degli schiavi. In altre parole indipendentemente dal problema della religione come elemento di aperta resistenza antischiavistica, si poneva con urgenza quello dello sviluppo di una religione degli schiavi che permise loro di sopravvivere in quanto esseri autonomi, con una cultura propria, nell’universo padronale bianco. Una delle ragioni per cui sappiamo così poco su questo argomento (come anche della vita quotidiana di tutte le classi subalterne) è che si presenta in modo poco drammatico: gli storici, bianchi e neri, conservatori, democratici e progressisti, tendevano infatti a soffermarsi sui momenti eroici, per esaltarli o per condannarli, considerando insignificante la dimensione quotidiana. Tuttavia se uno schiavo riusciva a preservare la propria integrità psicologica spezzando il giogo padronale, era lecito avanzare l’ipotesi 106 V. Harding, Religion and resistance among ante-bellum negroes, 1800-1860, in A. Meier e E. Rudwick, The Making of black America, New York 1969, vol. I.
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che potesse aver ottenuto lo stesso risultato avvicinandosi in maniera originale al proprio dio oppure amando una donna che condividesse la stessa oppressione o, perfino, cercando di diventare il lavoratore modello della piantagione. Di solito chi aspirava a diventare un buon schiavo veniva considerato uno zio Tom, e probabilmente a ragion veduta; gli esseri umani tuttavia non sono sempre così semplici: se uno schiavo aspirava a ottenere un titolo di merito all’interno del sistema, e se la sua implicita fiducia nella risposta generosa del padrone veniva tradita (cosa che in effetti accadeva spesso in sistemi simili), appariva probabile che si trasformasse in un ribelle e forse anche nella peggior specie di ribelle, in primo luogo perché le sue illusioni erano state frustrate e, in secondo luogo, grazie all’abilità e all’autocontrollo che aveva acquisito nel ruolo dello zio Tom. È bene ricordare che la storia della schiavitù abbonda di documenti relativi a schiavi modello che, a un certo punto, avevano ucciso il sorvegliante, erano fuggiti, avevano dato la casa alle fiamme (naturalmente quella padronale) o aderivano uniti ad un’insurrezione. Rimane da prendere in considerazione l’elemento decisamente non cristiano insito nella religione diffusa nei quartieri degli schiavi: dai racconti dei piantatori si desume che ogni piantagione aveva il suo evocatore di spiriti e il suo stregone voodoo; agli occhi dei piantatori tutto ciò non era altro che un residuo di superstizioni africane ed appare in effetti possibile che nei primi decenni dell’Ottocento quelli che continuavano a sopravvivere nei quartieri degli schiavi non fossero altro che residui di superstizioni locali piuttosto che l’espressione delle religioni estremamente complesse originariamente importate dall’Africa; le fonti, tuttavia, mettono in luce l’emergere di una forma locale di sincretismo religioso, unico nel suo genere, fra concezioni religiose europee e africane adattate alle condizioni specifiche della vita degli schiavi da persone ricche d’immaginazione e di creatività, e questo nel tentativo di arrivare ad avere una propria vita spirituale collegandosi alla potente cultura dei padroni ma preservando un notevole livello di separazione e di autonomia. Quando avremo approfondito maggiormente la storia della schiavitù, sapremo anche individuare con maggiore acutezza la dinamica evolutiva della cultura di un popolo oppresso: sentiamo spesso ripetere l’espressione «schiavi indifesi» ma bisognerebbe precisare che ciò si attagliava a una situazione e non -o quasi mai- a un popolo: se un popolo, infatti, può trovarsi in condizioni di particolare vulnerabilità, o in posizione difensiva, alla lunga, tuttavia, individua inevitabilmente un proprio modo di sopravvivere e di reagire. L’errore, dunque, consiste nel continuare a ricercare forme di ribellione esplicita: lo sciopero, la rivolta, l’assassinio, l’incendio doloso, il sabotaggio, non rendendoci conto che spesso, in condizioni e in momenti particolari, la
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saggezza di un popolo e la sua esperienza di lotta suggeriscono una condotta diversa, che accentui cioè la fase aggregativa sia a livello individuale che collettivo. Da questo punto di vista, il più ignorante schiavo dei campi che prestava orecchio all’invocatore di spiriti implicitamente rifiutava il padrone, andando alla ricerca di un’esistenza autonoma: in base a questa prospettiva, assumeva ovviamente poca importanza il fatto che l’invocatore potesse risultare un ciarlatano oppure -al contrario- un autentico leader religioso. Si prenda ora la famiglia: i codici schiavisti non attribuivano alcuna validità giuridica ai matrimoni fra schiavi e ai loro legami familiari. In questo senso, la schiavitù negli Stati Uniti appariva di gran lunga peggiore di quella ispano-americana o luso-brasiliana, poiché in quelle culture cattoliche la Chiesa esigeva e tentava di garantire il diritto degli schiavi al matrimonio e la santità della famiglia: di conseguenza, intere generazioni di storici americani avevano dedotto che, al contrario di quanto avveniva nelle piantagioni latino-americane e cubane, gli schiavi negli Stati Uniti non avevano alcuna vita familiare. Simili valutazioni non reggono alla verifica. La tratta degli schiavi negli USA fu chiusa presto: non più tardi del 1808, ad eccezione di quella clandestina, poco rilevante, e addirittura -per moltissimi Stati- decenni prima; l’ascesa dell’impero del cotone e la cospicua dilatazione della schiavitù furono successivi alla chiusura della tratta: la schiavitù, nelle dimensioni in base a cui si è abituati a pensarla oggi, appare infatti il prodotto successivo alla fine delle importazioni africane. La manodopera servile liberata dopo la guerra per l’indipendenza del sud era, in larghissima parte, manodopera nata e cresciuta negli States: ci sono ottime statistiche relative al tasso d’incremento della popolazione schiava, un tasso paragonabile a quello della popolazione bianca (senza contare il fattore immigrazione), che ne confermano l’unicità rispetto alle altre classi servili del Nuovo Mondo. Dovunque una fine precoce della tratta degli schiavi, seguita dal boom della schiavitù nelle piantagioni di cotone e nelle piantagioni in genere, determinava il sorgere di un’intensa politica demografica nei confronti delle masse di schiavi di colore; d’altra parte, tuttavia, la tratta rimase in vigore a Cuba e in Brasile fino alla seconda metà del XIX secolo, determinando un clima economico sfavorevoIe all’accrescimento demografico della popolazione servile e al consolidamento della sua struttura familiare. Inoltre mentre a Cuba e in Brasile fino all’epoca relativamente tarda s’importavano dall’Africa molti più uomini che donne, nel vecchio sud si stabilì piuttosto presto una certa parità sessuale. Se dunque a Cuba e in Brasile la religione e la legge agivano a favore delle famiglie di schiavi, e negli Stati Uniti contro di loro, la pressione economica si muoveva in direzione opposta, creando per quanto dimostrano le
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statistiche, ed esclusivamente negli USA, un fenomeno di autoriproduzione della forza-lavoro schiava. A questo punto si potrebbe obiettare che il risultato poteva semplicemente riflettere una crescita selettiva piuttosto che la stabilità familiare: ma la riproduzione selettiva era stata tentata, inutilmente, sia nei Caraibi che in altre zone e non si ha alcuna testimonianza relativa ad una sua introduzione su larga scala nel sud. Ma l’elemento più importante di questo quadro risultavano le convenzioni sociali dominanti le quali non venivano facilmente infrante, perché gli schiavi -in prima persona- avevano acquisito coscienza della propria posizione: se, infatti, un padrone voleva mandare avanti la sua piantagione, doveva rispettare i limiti di sopportazione degli schiavi; ad esempio, se decideva di non attenersi all’abitudine prevalente di considerare la domenica giorno di riposo, o di non concedere le vacanze di Natale, i suoi schiavi -sentendosi defraudati- gliel’avrebbero certamente fatta pagare in un modo o nell’altro. Gli schiavi erano -senza dubbio- in una posizione di debolezza ma non di assoluta impotenza, e con l’astuzia, con lo scoppio di brutalità e in altri modi ancora riuscivano a insegnare al padrone dov’era la linea di confine oltrepassata la quale nessuno, nella piantagione, avrebbe fatto il raccolto. Questo dunque era il modo in cui gli schiavi cointeressavano il padrone alla propria famiglia, traendone vantaggio: la tipica piantagione del sud appariva infatti strutturata su base familiare, e un uomo e una donna vivevano insieme con i loro figli; all’interno di un’ampia sfera d’azione, ogni uomo era di fatto il padrone in casa sua. I bianchi facevano violenza in molti altri modi alla famiglia nera, ad esempio separandola con la vendita dei suoi membri, soprattutto nell’alto sud, dove le pressioni economiche risultavano molto forti; i bianchi nelle piantagioni potevano violentare le donne di colore, e lo facevano spesso: niente poteva diminuire l’entità di queste ingiustizie. Sarà interessante a questo proposito riportare la breve, penosa narrazione fatta da una ex schiava, così come è trascritta dai Lomax in una delle loro preziose raccolte di canti popolari.107 Abbiamo preferito mantenere il testo originale, significativo per la freschezza e la toccante efficacia delle sue forme dialettali: I been drug about and put through the shackles, till I done forgot some my children’s name. My husband died and left me with nine children, and none 107 John Avery Lomax & Alan Lomax, Our Singing Country, a Second Volume of American Ballads and Folk Songs, New York, The Macmillan Company, 1949, dove il presente brano è messo come prefazione al testo dello spiritual Choose You a Seat’n’ Set Down.
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of’em could pull the others out the fire iffen they fell in. I had mo’n that, but some come here dead and some didn’t. Dey ain’t a graveyard in this here settlement where I ain’t got children buried, and I got children dead in Birmingham and Bessemer. I mos’ blind now and I can’t hear good and I ain’t never read no verse in no Bible in my life, ‘cause I can’t read. I sets ‘cross the road here from the church and can’t go ‘cause I’m cripple and blin’, but I hear ‘em singing. Sono stata trascinata in giro e messa in catene, finché ho dimenticato i nomi di alcuni dei miei bambini. Mio marito è morto e mi ha lasciato con nove figli, e nessuno di loro sarebbe stato capace di togliere gli altri dal fuoco se ci fossero caduti dentro. Ne avevo degli altri, ma alcuni arrivarono qui morti e altri non arrivarono affatto. Non c’è cimitero in questa colonia dove non siano sepolti dei bambini miei e me ne sono morti a Birmingham e a Bessemer. Ora sono quasi cieca e non ci sento bene e non ho mai letto nessun versetto della Bibbia in vita mia, perché non so leggere. Sto seduta nella strada, di fronte alla chiesa, e non ci posso andare perche sono zoppa e cieca, ma li sento cantare.
La frequenza dello smercio di carne umana era difficile da commisurare: molti schiavi erano turbolenti e venivano venduti molto spesso: ciò inflazionava l’aritmerica dell’infame commercio, offuscando l’incidenza del fattore trasferimenti individuali. Benché i crimini commessi contro di loro fossero confermati da un’ampia documentazione e niente li poteva mitigare, era anche vero che la maggior parte degli schiavi condusse una vita familiare alquanto tranquilla, nonostante le esigenze di mercato. Non è il caso di addentrarsi nell’angosciosa questione della violenza esercitata sulle donne di colore, ma è certo che la sua entità fu sufficiente a giustificare la rabbia di quelli che condannarono il regime schiavistico esclusivamente su questo terreno. La documentazione, tuttavia, non comprovava che un gran numero di donne fossero effettivamente violentate: in altre parole, questo argomento appariva estremamente importante ai fini di un giudizio sull’etica del regime, ma ridimensionato per una valutazione della vita morale degli schiavi. Ciò che le fonti dimostrano (sia la documentazione diaristica ed epistolare di parte padronale, sia i racconti degli schiavi fuggiaschi e degli ex schiavi) è che comunemente lo schiavo viveva in famiglia, sviluppava forti legami familiari e considerava la famiglia nucleare come il vero modello sociale. I padroni, che spesso si trovavano nella situazione di dover giustificare altri o se stessi per aver spezzato una famiglia vendendone i componenti, a volte lo facevano sostenendo che i neri non stabilivano legami affettivi profondi e durevoli, che mancavano del senso della famiglia, che erano naturalmente promiscui e cosi via; gli stessi abolizionisti e gli schiavi, da parte loro, confermavano queste opinioni prevalenti, attribuendo agli orrori della schiavitù l’impossibilità di mantenere in vita alcun legame familiare; e poiché sia i
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padroni che gli abolizionisti e gli ex schiavi dicevano tutti la stessa cosa, si finì col credergli: ma ciò sicuramente non rispondeva al vero. In primo luogo queste stesse fonti facevano affermazioni contraddittorie, raramente prese in considerazione: i padroni soffrivano della rottura delle famiglie, manifestando spesso rimorso e sgomento, e in molti casi facevano di tutto per tenere unite le famiglie, anche a caro prezzo, poiché sapevano bene quanto fosse penoso imporre queste separazioni; non si sa bene se fossero mossi da considerazioni di ordine materiale, quali il mantenimento del morale nella piantagione, o da nobili sentimenti; fatto sta che dimostrarono più volte di essere coscienti della profondità dei legami familiari esistenti negli schiavi. I padroni facevano di tutto per incoraggiare gli schiavi a vivere insieme in nuclei fissi, sapendo che un uomo era più facile da controllare se aveva una moglie e dei figli di cui preoccuparsi. Gli schiavi, d’altra parte, si comportavano naturalmente in vari modi: molti di loro erano in effetti promiscui, anche se l’accusa di promiscuità non nasceva tanto da una mescolanza effettiva quanto dalla poligamia che ne derivava. Sicuramente cambiavano partner più di quanto potessero tollerare dei bianchi vittoriani (sotto questo aspetto, potrebbero essere considerati i precursori della morale sessuale dei borghesi bianchi degli anni Sessanta). Va sottolineato tale aspetto (l’interesse del padrone alla stabilità della famiglia dello schiavo e la volontà di quest’ultimo di difendere la propria posizione in casa, anche se impoverita) poiché ci fu un periodo in cui si credeva che i neri uscirono dallo stato di schiavitù con pochissimo, se non addirittura alcun senso della famiglia; se fosse stato veramente cosi, come ci si spiegherebbe che durante la prima fase della ricostruzione gli ex schiavi vagabondavano a migliaia per il sud in cerca della moglie o dei figli? Non si sa esattamente quanti schiavi avessero una famiglia stabile o volessero e fossero effettivamente in grado di mantenerla durante la schiavitù, ma il loro numero appariva sicuramente elevato, qualunque fosse la percentuale; ne risulta che il principio di organizzazione sociale che i neri portarono con sé dalla schiavitù alla libertà era quello della famiglia nucleare. Se era vero che la famiglia nera si è disintegrata nei ghetti (e di questo manca ancora una prova definitiva) ciò si è determinato a seguito dell’oppressione economica e sociale imposta ai neri durante quest’ultimo mezzo secolo. L’esperienza della schiavitù, con tutta la tragicità delle lacerazioni che aveva comportato, tendeva verso una vita familiare stabile, una volta raggiunta l’emancipazione, e gli studi più avanzati dimostrano in modo conclusivo che l’esperienza nera della ricostruzione e del periodo successivo ad essa ribadisce l’accettazione della famiglia nucleare come principio di organizzazione sociale fondamentale. Si prenda ora in considerazione il ruolo maschile all’interno della famiglia nera e il mito del matriarcato. Quasi tutti gli studiosi della schiavitù concor-
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dano nel descrivere lo schiavo come «l’ospite di casa», senza alcun ruolo oltre quello puramente sessuale: i racconti degli schiavi e la documentazione sia diaristica che epistolare di parte padronale affermavano, invece, qualcosa di diverso. In linea di principio non si poteva negare che la posizione dello schiavo fosse precaria e frustrante: se sua moglie doveva essere frustata, egli non poteva che stare a guardare; non esercitava pieno controllo sui propri figli; non era certamente lui a mantenere la famiglia; insomma, per dirla in una parola, venivano imposte severe restrizioni a quelle che, erroneamente, si definiscono manifestazioni di virilità. Tuttavia sia i padroni che gli ex schiavi parlavano di alcune piantagioni in cui certe donne non potevano essere punite né spesso né facilmente, poiché per farlo si sarebbe dovuto prima uccidere il loro uomo; benché queste situazioni fossero senz’altro eccezionali, indicano tuttavia che l’uomo riteneva suo dovere proteggere la sua donna, e se poi egli non fosse riuscito a compiere il suo dovere a causa di ostacoli esterni, la sua donna, solidale e comprensiva, lo avrebbe consolato insistendo sulla futilità di un simile gesto. È inverosimile sapere che cosa si dicessero un uomo e una donna, di notte sdraiati vicini, dopo uno di questi barbari oltraggi, ma esistono nei racconti degli schiavi spunti sufficienti a farci intuire che ambedue sapessero precisamente quello che un uomo poteva e quello che «doveva» fare, specialmente quando c’erano di mezzo dei figli. Molti studiosi affermano che le donne di colore trattavano i loro uomini con disprezzo per non aver fatto ciò che le circostanze avrebbero reso impossibile, deducendolo tuttavia da semplici supposizioni e non certo da fatti dimostrati. Inoltre l’uomo aveva varie occupazioni: catturava e cacciava gli animali per arricchire il pasto domestico e in questo senso, limitato e simbolico, era lui a procacciare il cibo alla famiglia; organizzava, insieme alla moglie, la divisione del lavoro nell’orto; manteneva la disciplina tra i figli, o divideva quella funzione con la moglie, come si fa generalmente in simili circostanze, e rappresentava il depositario dell’autorità nella capanna. I rapporti all’interno della famiglia non risultavano sempre idilliaci: in molti casi l’uomo imponeva la sua autorità in modo coatto su moglie e figli; i padroni proibivano agli schiavi di picchiare moglie e figli con la minaccia della frusta ma nonostante ciò gli schiavi lo facevano, e spesso: non si hanno, comunque, dimostrazioni del fatto che le donne, dopo essere state picchiate, corressero prontamente dai padroni per far frustare i loro uomini. Le testimonianze su questi fatti sono frammentarie ma suggeriscono che gli uomini tentavano di affermare la propria autorità come meglio potevano, che le donne si aspettavano di dover delegare alcune funzioni ai loro uomini e che tutti e due tentavano di escludere il padrone dalle loro vite; non bisogna tuttavia dimenticare che le condizioni di vita erano sfavorevoli e che molti uomini finirono forse
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per soccombervi, abbandonando, in un modo o nell’altro, il tradizionale ruolo maschile. È necessario, comunque, anche riflettere sui modi che gli schiavi -uomini e donne- concordavano per preservare la coscienza della propria dignità e della propria autonomia, sistemando le cose fra loro e affermando, in questo modo, la propria personalità. Si è spesso lodato il comportamento delle donne di colore, e giustamente, per la forza e la determinazione con cui mantenevano l’unità delle loro famiglie durante la schiavitù, quando si paventava un’esautorazione del loro uomo: bisognava lodarlo ulteriormente per la capacità di fare fronte comune nell’appoggiare l’uomo che amavano in modo tanto profondo e complesso, da aiutarlo a resistere alle pressioni cui erano sottoposti e per le quali avrebbero perso la propria umanità e la propria virilità. Senza la solidarietà delle proprie donne non molti uomini sarebbero sopravvissuti, ma grazie ad essa (e le testimonianze relative all’appoggio che gli schiavi ricevevano dalle loro donne abbondano) molti vi riuscirono. Se la nostra incapacità di considerare la piantagione dalla prospettiva degli schiavi ci ha indotto a sostituire delle astrazioni alla ricerca sulla famiglia di colore, tuttavia essa ci ha gravato di idee confuse e inconsistenti riguardo alla figura dello schiavo domestico. Secondo lo stereotipo, gli schiavi domestici erano gli “zii Tom” del sistema, una casta privilegiata e separata, piena di disprezzo per la manodopera dei campi, gelosa del favore o almeno dell’interesse di cui godeva presso il padrone o la padrona bianchi e -generalmente parlando- delatrice, traditrice, insomma neri con la testa da bianchi. Naturalmente anche questo, come tutti gli stereotipi, ha il suo fondo di verità e c’erano -senza dubbio- molti schiavi domestici che vi corrispondevano: bisogna tuttavia prendere in considerazione un dettaglio non tanto marginale, e cioè che la metà degli schiavi del sud rurale viveva in fattorie di venti schiavi o anche meno, un altro 25% su piantagioni la cui manodopera schiava oscillava fra le venti e le cinquanta unità, e soltanto il 25% degli schiavi in piantagioni con cinquanta e più schiavi. Di questi ultimi la stragrande maggioranza viveva in unità inferiori al centinaio, cioè meno di venti famiglie di schiavi; il tipico schiavo domestico, dunque, serviva o in una piccola fattoria, o tutt’al più in una piantagione di dimensioni modeste: soltanto un numero limitato di schiavi viveva e lavorava in piantagioni le cui dimensioni permettevano la formazione di un gruppo separato di schiavi domestici sufficientemente numeroso da costituire una casta a sé. Nell’immaginario collettivo la figura dello schiavo domestico ben vestito, altezzoso, pieno di sé, che disprezza i suoi pari dei campi, identificandosi coi bianchi, rifletteva l’esistenza di un gruppo relativamente ristretto che viveva in centri urbani come Charleston, New Orleans e Richmond: questi schiavi
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di case cittadine, insieme all’esiguo numero di schiavi domestici privilegiati delle enormi piantagioni, potevano -e in effetti lo facevano- formare una casta separata con tutti gli attributi di cui la letteratura li ha investiti, ed è palese che i grandi piantatori e le loro famiglie, cui era da attribuire la maggior parte della documentazione bianca cui si è prevalentemente attinto, descrivevano -con ogni probabilità- proprio questa tipologia di schiavi. Tuttavia anche costoro andrebbero studiati più accuratamente poiché furono senza dubbio individui molto più complessi di quanto ci si era indotti a ritenere: il punto fondamentale risultava che il tipico schiavo domestico viveva in una situazione completamente diversa da questa: lui, o più probabilmente lei, lavorava insieme a uno, due o tre altri in una proprietà le cui modeste dimensioni non permettevano, di fatto, la formazione di una casta. Infatti, se il tipico schiavo domestico fosse apparso soltanto uno ‘zio Tom’ o un bambino viziato dai bianchi, non si riuscirebbe a spiegare la sua frequente comparsa negli elenchi degli schiavi fuggiaschi. La documentazione più abbondante rimane quella relativa agli anni della guerra civile. Un’immagine diffusa appare, ancora una volta e che ha ispirato più di un regista cinematografico, quella del servitore fedele che impedisce agli yankees l’accesso alla casa padronale, che protegge la signorina o nasconde l’argenteria di famiglia: in effetti, questi personaggi sono esistiti e non erano nemmeno rari ma non sono stati neppure lontanamente tanto numerosi quanto gli schiavi domestici unitisi a quelli dei campi per raggiungere le linee yankee, appena se ne presentava l’occasione. I padroni che lamentavano la defezione dei loro schiavi preferiti, erano -a questo proposito- la fonte più attendibile: riuscivano a comprendere la fuga della manodopera dei campi, che consideravano stupida e facilmente influenzabile, sebbene incapaci di accettare la stessa defezione, che raccontavano a volte con rammarico e a volte con rabbia e odio, dei loro schiavi domestici. Convinti fino alla boria di conoscere bene questi neri, di amarli e di essere ricambiati con lo stesso amore, considerandoli parte della famiglia, e improvvisamente accorgersi, loro malgrado, di essersi ingannati e di aver vissuto con familiarità con gente completamente sconosciuta. Gli schiavi domestici, dunque, appena se ne presentava l’occasione, si comportavano nello stesso modo di quelli dei campi, ribellandosi e rendendosi indipendenti tanto quanto erano stati docili e fedeli. In realtà queste manifestazioni di indipendenza non erano affatto nuove: se è vero che gli schiavi domestici venivano spesso considerati traditori della causa nera durante le rivolte degli schiavi, è altrettanto vero che la loro partecipazione a quelle ribellioni non era rara come si potrebbe essere indotti a credere. Un capo rivoluzionario di colore riferì a Denmark Vesey e ai suoi
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compagni di non fidarsi degli schiavi domestici, troppo legati ai bianchi, ma si dovrebbe anche tener presente che alcuni tra i più tenaci e devoti capi fidati del governatore del Sud Carolina, che promossero i moti rivoluzionari del 1822 a Charleston, erano proprio schiavi domestici. Certamente il ruolo degli schiavi domestici appariva sempre più ambiguo e spesso infido: ma se molti di loro tradirono i compagni, molti altri ancora raccoglievano informazioni nella casa padronale per riportarle poi nelle capanne degli schiavi. Si sa come gli schiavi dei campi fossero bene informati dei movimenti delle truppe dell’Unione durante la Guerra Civile e si sa pure che questi schiavi raggiunsero le linee yankee con una strana sincronizzazione di movimento e direzione: probabilmente furono proprio quegli schiavi domestici così spesso denigrati a fornire loro, nella maggioranza dei casi, le informazioni necessarie. La decisione di proteggere i bianchi durante le insurrezioni o catastrofi di altro genere non bastava a qualificare uno schiavo, di casa o dei campi, come uno zio Tom. Il rapporto schiavo-padrone, particolarmente dentro le mura della casa padronale, risultava costantemente ambivalente: molti degli schiavi che protessero dal pericolo i loro padroni e le loro padrone, affermando così la propria umanità, risultarono tutt’altro che docili creature dei bianchi. Poiché, dunque, la maggior parte degli schiavi domestici lavorava in piantagioni troppo piccole per permettere loro di condurre una vita separata dagli altri, la loro vita sociale si svolgeva normalmente nei quartieri degli schiavi e non con i bianchi; nella casa padronale, del resto, la proporzione tra uomini e donne era raramente equivalente poiché predominavano le donne, e comunque il gruppo era troppo ristretto per consentire la formazione naturale di coppie. Molte schiave domestiche si univano dunque agli schiavi dei campi o, più probabilmente, agli artigiani e ai lavoratori più specializzati: per la maggior parte degli schiavi, date queste condizioni, la linea di separazione fra schiavi domestici e manodopera agricola non risultava affatto delineata. Tranne che nelle piantagioni molto estese, inoltre, anche gli schiavi domestici dovevano lavorare nei campi durante il raccolto o in situazioni di emergenza: costoro sperimentavano periodicamente le fatiche campestri e avevano dunque poche occasioni di pavoneggiarsi. Due aspetti generali relativi al problema degli schiavi domestici meritano qualche osservazione: in primo luogo, l’ambiguità della loro situazione e la conseguente ambivalenza del rapporto coi bianchi; in secondo luogo, la funzione dello schiavo domestico in rapporto alla formazione di una cultura specificamente afro-americana. La peculiarità su cui bisogna soffermarsi, nell’analisi dello schiavo domestico, è il problema dell’ambivalenza. Un certo numero di persone -bianchi e neri, schiavi e padroni
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uniti dalla convivenza dentro le mura della casa padronale- doveva inevitabilmente finire per provare sentimenti di odio o attaccamento reciproco: vivere sotto lo stesso tetto, infatti, significava condividere i problemi e le sofferenze reciproche, confidarsi dei segreti, tenersi compagnia, essere di fatto costretti ad un mutuo soccorso; significava anche sperimentare, in maniera tragicamente opposta, la violenza dell’autorità e della schiavitù, e cioè la violenza della tirannia meschina imposta da una donna sull’altra, la violenza di esigere che qualcuno fosse ai propri ordini indipendentemente dai propri sentimenti o desideri, di sfogare le proprie frustrazioni e delusioni sul primo innocente che capitava a tiro, colpevole per il fatto stesso che un servo era sempre inferiore alle aspettative. Nel tempo gli schiavi domestici hanno goduto di una pessima reputazione a causa della loro tendenza all’assimilazione culturale, da cui si è dedotto erroneamente una supposta docilità; tuttavia benché il primo giudizio potesse essere valido, il secondo non lo era affatto. LeRoi Jones, ad esempio, nel suo brillante saggio Il popolo del blues108, sostiene la tesi convincente che mentre gli schiavi dei campi hanno creato i rudimenti di una cultura afro-americana, quelli domestici hanno ampiamente assimilato la cultura dei bianchi. Jones si è occupato soprattutto della musica ma avrebbe potuto facilmente estendere quest’analisi al linguaggio e ad altri settori ancora. Ci sono sostanzialmente due modi di considerare questo aspetto: da un lato gli schiavi domestici consolidarono la cultura bianca nei quartieri degli schiavi, ponendosi, dunque, come agenti del processo di americanizzazione nella comunità nera; dall’altro servirono, volenti o nolenti, come agenti della repressione di una locale cultura nazionale afro-americana. In realtà, questi due punti di vista risultano facce diverse di una stessa medaglia, differenti solamente quanto ad un implicito giudizio di valore; tuttavia si dovrebbe tener presente che questo ruolo non ridusse lo schiavo domestico ad un semplice zio Tom bensì venne svolto fino in fondo da schiavi che rimanevano tendenzialmente ribelli e indipendenti. Nonostante la loro funzione di assimilazione, anche questi schiavi contribuirono, in non piccola misura, a mantenere in vita la tradizione di resistenza e di sopravvivenza all’oppressione posizionata alla base del movimento di liberazione nero. Se oggi si ha la tendenza ad accettare acriticamente il disprezzo che alcuni critici esprimono nei confronti dello schiavo domestico, si farebbe bene a riflettere sulle parole del grande pianista nero Cecil Taylor: questi parlava negli anni Sessanta, un secolo dopo la schiavitù, e parlava di suo padre usando parole che potrebbero essere estese a tutti gli schiavi dome108 Einaudi Editore, Torino 1972.
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stici. Rivolgendosi a A. B. Spellman, come quest’ultimo riporta nel suo volume Four lives in the bebop business,109 Taylor affermava: La musica era per me un modo di restare attaccato alla cultura nera, dato che non ce n’era molta da quelle parti. Mio padre conservava moltissimi ricordi del folklore nero: raccontava com’erano gli schiavi nel 1860, le grida e i richiami nei campi, i miti del popolo nero [...] Lavorava a Long Island per un senatore dello Stato ed era schiavo domestico e capocuoco in un ospedale psichiatrico per ricchi di proprietà del senatore; inoltre, fu mio padre ad allevare i figli del senatore molto più del senatore stesso [...] Io mi arrabbiavo con mio padre perché si lasciava trattare in quel modo da quella gente, e non mi piaceva che facesse lo schiavo di casa. Non capivo proprio mio padre; voi siete della mia generazione e sapete bene che differenza c’è fra noi e i nostri genitori; bisogna ammettere che dovevano essere uomini forti per riuscire ad incassare tutto quello che gli veniva imposto, ma naturalmente noi non la pensiamo così. Oggi io sento di non aver mai veramente compreso mio padre, che era, in realtà, un tipo meraviglioso. Mi diceva sempre di fare l’indifferente e di non prendermela: aveva un modo tutto suo di lasciare che gli altri dessero sfogo alle proprie emozioni, mentre lui si controllava completamente. La gente mi diceva: ‘Cecil, tu non sarai mai un signore come tuo padre’. È vero, mio padre era un signore [...] Vorrei aver trascritto molto di più di ciò che egli sapeva del folklore nero, perché anche questo è andato perduto: egli è morto nel 1961.
Ognuno ha un proprio concetto di eroismo ma riflettiamo per un momento sul tipo di eroismo cui allude Cecil Taylor nella descrizione che fa di suo padre: ci sono periodi nella storia di ogni popolo (e a volte questi periodi storici possono anche durare dei secoli) in cui esso non può fare altro che riuscire a restare unito, mantenendo la propria dignità individuale e la propria identità collettiva; la schiavitù fu appunto uno di questi periodi nella storia del popolo nero, la cui condotta lasciò una complessa eredità mista di elementi negativi, da esorcizzare e da ripudiare, e di momenti altamente significativi di autodisciplina collettiva. Se si dovesse porre anche ai privilegiati schiavi domestici, o ai sorveglianti, la domanda: «Dov’eri tu mentre il tuo popolo gemeva sotto la frusta?», questi potrebbero -se volessero- rispondere parafrasando l’abate Sieyes, però orgogliosamente e senza il suo cinismo: «Eravamo con il nostro popolo e insieme siamo sopravvissuti».
109 Limelight Editions, New York 2004.
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2.8 Il sistema comunicativo della spiritualità nera
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[…] L’intramontabile “shout” è sempre a portata di orecchio con la sua mescolanza di religiosità e polka e il battito delle mani. Ma ci sono anche incontri di preghiera più tranquilli, con invocazioni pie e salmi lenti, ‘recitati’ a memoria dal leader, due versi per volta, in una specie di canto gemente […] Presso un altro fuoco, soldati in pantaloni rossi danzano il “right-and-left” ed il “now-leadde-lady-ober” sulla musica di un violino suonato piuttosto bene […]. Thomas W. Higginson, Army Life in a Black Regiment and Other Writings, 1862
Dice Amiri Baraka110 che “l’estasi dell’Essere è l’Essere/vita. Il jazz è, quindi, musica della venuta, musica che crea. A venire è la presenza spirituale della totalità dell’esistenza che il singolo si è concentrato a inalare”. Al fine di poter comprendere gli effetti della spiritualità nella società afroamericana, spiritualità utilizzata come strumento di comunicazione dell’arte nera verso l’esterno bisogna riferirsi ad un modello. Nel nostro caso esso è rappresentato dai canti religiosi che comprendono un’ampia classificazione di stili, idiomi e sostanza. Si manifestano come canzoni posate, misurate, che riflettono fortemente gli inni bianchi di un tempo. Tali modelli possono essere di varia natura e fanno sempre riferimento a un determinato contesto socioculturale: per scuotere gli zatterieri, preghiere cantate a carattere polifonico, i motivi vivaci che non hanno niente a che vedere con le marce, gli shouts che richiedono effetti di percussione battendo le mani e i piedi, canti in cui gli strumenti musicali popolari come tamburini, chitarre e armoniche forniscono dinamiche strumentali, modelli per essere ascoltati serenamente e altri che invece invogliono al movimento, i gemiti e i lamenti estatici, le canzoni religiose che sono quasi indistinguibili dal blues, gli stridenti gospel songs che chiedono ai peccatori di redimersi, e i modelli canzonettistici che riportano scene dalla Bibbia in termini toccanti, immediati, colloquiali, e spesso drammatici. Così ampio appare, in realtà, il sistema comunicativo della spiritualità nera che il tradizionale riferimento spiritual è inadeguato a descriverlo. Infatti i componenti di questo fitto sistema preferiscono al termine spiritual quello di anthem (canto). La loro varietà appare considerevole ma la maggior parte di essi sono racchiusi 110 Dalla prefazione de Il popolo del blues, in “L’estetica blues e l’estetica nera”, Shake Edizioni, 2007.
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dentro i limiti di quel concetto che noi conosciamo come idioma religioso e letterario colored. Quindi, da questo momento in poi, il sistema comunicativo della spiritualità nera sarà esaminato come tradizione orale. Considerando i canti religiosi della società afroamericana così come sono eseguiti in molte chiese -particolarmente nel Sud- non si può fare a meno di essere impressionati da un elemento che è meglio descritto come conservatore. Qualsiasi comunità (emittente empirico) può essere dotata di un grande repertorio di canzoni religiose (testi di consumo) a cui attingere e farle circolare nell’intera società di colore (destinatario empirico). Le selezioni sono fatte secondo le circostanze ovvero i canti vengono eseguiti e adattati a seconda dell’occasione. Nonostante la spontaneità, l’innovazione non rappresenta un fenomeno quotidiano. Tranne nelle chiese che favoriscono il moderno canto sul tipo del gospel, i vecchi canti sono rievocati e usati nei modi tradizionali, malgrado ci possano essere variazioni entro i limiti esterni posti dalla tradizione. Un dato brano può essere cantato a «metro regolare» o a «metro lungo», e può essere eseguito da un piccolo coro in un modo stilizzato, forse con l’accompagnamento del piano; o può essere cantato liberamente dall’intera congregazione. Questi canti rappresentavano il medium non solo per esternare le proprie emozioni spirituali bensì attraverso l’azione reciproca delle voci, le domande e le risposte del pastore, del sacerdote e dei fedeli, ad esprimere un’emozione collettiva. Queste tecniche vocali di gruppo hanno permesso al popolo afroamericano di sviluppare una forma che combina insieme comunicazione individuale ed estrinsecazione collettiva, una configurazione che può contrapporsi a quella del pop bianco, in cui il cantante dirige il proprio messaggio verso ogni singolo ascoltatore, secondo un ideale che vuole rendere la comunicazione di massa simile a un dialogo. Quando la musica jazz entrò a far parte della società della musica pop, quest’ultima si impegnò per sottometterne le qualità vocali alle regole dello star system. Le case discografiche cercarono di controllare la comunicazione, d’incartocciare la passione, di liquidare l’onestà. La voce di un jazzista rappresentava una merce migliore del suo strumento, come pure il soul dell’esecutore veniva venduto come fosse un gioco di prestigio, una piccola trovata, un suono riproducibile a piacimento: ogni esecuzione o incisione diventava intercambiabile, appariva simile ad un’altra. Il dialogo sociale diretto tra jazzista e ascoltatore, praticamente un momento in cui il sound dell’interprete acquista un proprio significato attraverso questa esperienza comune, diventa la distanza tra artista e consumatore, mentre crescono le tensioni tra le intenzioni del jazzista, il bisogno di sicurezza e di riconferma da parte del pubblico e la valutazione dei bisogni del consumatore da parte dello show-biz.
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Un bravo solista (leader) o un predicatore può fornire una canzone a carattere speciale, dinamico. Queste canzoni possono gradualmente muoversi da una comunità ad un’altra, e una singola chiesa può avere all’interno del suo repertorio un numero di varianti di un vecchio tema. Però non si trova nulla di affine alla libertà di improvvisazione e di invenzione che è caratteristica della musica laica. Solo parzialmente si percepisce la ricchezza della tradizione orale specializzata e confinata nei «mestieri da nero». Poiché lo schiavo rappresentava in sé un costo, era interesse del proprietario badare al suo benessere materiale. L’incremento dei tassi di morbilità e mortalità che sembrava aver seguito la Guerra Civile convalidava la tesi che il primo effetto economico della libertà fu un più basso livello di vita per i neri. Importante per gli sviluppi del nuovo sistema di lavoro in cui gli schiavi emancipati vennero incasellati, rimane il fatto che l’emancipazione non si accompagnò a nessuna trasformazione mentale da parte bianca. La riforma fu imposta al sud dall’alto e quest’ultimo non voleva che il nero avesse successo come uomo libero. Molti bianchi del sud erano pronti a sacrificare libertà e vantaggi materiali pur di negarli ai neri. II temporaneo vagabondaggio della gente di colore seguito alla Guerra Civile confermò la convinzione della gente del Profondo Sud che la maggior parte dei neri non lavorava se non era tenuta sotto la più dura delle discipline.111 Comoda scappatoia per sfuggire al difficile compito di introdurre nuovi metodi di trattamento delIa manodopera. II sud dei piantatori era rovinato dalla guerra: rovinato, si diceva, per colpa dei neri. Date le circostanze, era facile immaginare che il sud avrebbe cercato di costruire un sistema di organizzazione del lavoro il più possibile aderente alla schiavitù. Col passare degli anni, l’antico sistema delle piantagioni si ristabilì. Dopo alcuni tentativi di introduzione del sistema salariale, la mezzadria divenne lo schema in cui la gente di colore e, in seguito, i bianchi poveri furono violentemente compressi e depauperati psicologicamente.
111 In confronto ai bianchi del sud, soprattutto ai bianchi delle classi alte e alle donne bianche di tutte le classi, i neri non furono probabilmente mai caratterizzati da eccezionale pigrizia. Fu solo in rapporto al lavoro continuo dei tempi della schiavitù, e in seguito alla forzata disoccupazione di tempi successivi, che i neri apparvero improvvisamente come degli «svogliati». Semmai i neri furono eccezionalmente restii a lavorare, fu solo negli anni dopo la fine della guerra civile; cosa, in un periodo di generale disorganizzazione, più che umana. L’istituzione della schiavitù aveva, in gran parte, svalutato il lavoro comune agli occhi sia dei neri che dei bianchi, ed era psicologicamente inevitabile che la schiavitù, specie nel periodo iniziale della libertà, proiettasse dietro di sé le sue ombre.
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2.9 Le radici antropologiche
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Non sappiamo esattamente cosa sia la competenza musicale né come la si possa acquisire, ma un fatto certo è che le capacità musicali sono innate in tutto il genere umano e che la musica nasce da esperienze umane definite culturalmente, attraverso processi di interazione che costituiscono la creatività musicale. La creatività, affinabile tecnicamente tramite l’esercizio e l’educazione, rappresenta quindi l’organizzazione cognitiva ed è una funzione della personalità, accessibile a tutti e conseguentemente anche funzione della società. John Blacking, Come è musicale l’uomo? 1973
Attraverso certe tradizioni orali e leggendarie, il ritmo che è alla base del jazz, unito ad una rozza melodia, giunse in America dall’Africa occidentale con la deportazione degli schiavi. La tradizione vuole che il neroamericano abbia creato il jazz sovrapponendo al folto numero di canti e ritmi della natia giungla, il materiale europeo che trovò nella terra della sua forzata adozione. È tesi ormai consolidata quella di una schiera di volenterosi antropologi e studiosi di scienze sociali per rendere verosimile questa storia. Una storia che a prima vista impressionava, costellata com’era di note a piè di pagina infiorata di citazioni di professori tedeschi e corredata abbondantemente da tutti i luoghi comuni della pseudo-erudizione. Essa rafforzava l’opinione dell’uomo medio, il quale considerava il nero un primitivo, una creatura della jungla, la cui espressione fondamentale non poteva che essere selvaggia; tutto ciò soddisfava e rafforzava pienamente certo provincialismo di direttori e lettori di riviste, dove questo concetto del jazz godeva di un vasto credito. Ma dal punto di vista degli stessi musicisti jazz, questa tesi non corrispondeva affatto alla reale storia della musica che è stata suonata come jazz, da suonatori jazz, fin dagli ultimi anni del XIX secolo. Quali che fossero i meriti di questo mito, esso non corrispondeva in nessun modo alla verità. Sembra ovvio che chi sosteneva ancora questa versione si lasciasse fuorviare dai propri gusti musicali. Nel caso di alcuni studiosi, la passione per la musica di Jelly Roll Morton, Baby Dodds, Jimmy Yancey, George Lewis, e per i cantanti e musicisti loro contemporanei, determinava chiaramente l’interpretazione della storia sociale del jazz. Fino a che punto, è lecito chiedersi, queste tesi sono puramente informative, ovvero inficiate dal gusto personale degli autori? Nel caso di antropologi come Melvil-
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le J. Herskovits, l’autorevole e infaticabile portavoce di questa corrente di ricercatori, l’interesse per il jazz era determinato da un interesse professionale per la cultura nera. Inoltre il gusto della ricerca dell’insolito, che appare come un’inevitabile conseguenza di ogni specializzazione -in questo caso la conoscenza specializzata della musica africana- li ha portati a discutibili manipolazioni, ad accostamenti curiosi che nulla hanno a che vedere con la musica studiata. Per comprendere queste deviazioni è indispensabile rendersi conto dell’importanza che riveste l’antropologo culturale nella nostra vita accademica. Associando le propensioni e le risorse alle concrete scoperte dello psichiatra e alle discutibili speculazioni dello psicanalista dilettante, l’antropologo ha scagliato i suoi dardi contro il proprio mondo e contro i resti delle antiche credenze. Uno dei risultati è il concetto di una musica africana ibrida nell’inconscio dei neroamericani. «Occorre sottolineare, -scriveva Rudi Blesh112 negli anni Quaranta- il fatto che Dodds non possedeva alcuna conoscenza diretta della musica africana. Al contrario, egli si sentiva un batterista di jazz moderno, e derivano direttamente dall’inconscio le sue qualità». Buona parte della materia trattata da Herskovits nel suo libro, The Myth of the Negro Past, offre un’eloquente testimonianza del tenace vigore e della mirabile poliedricità della cultura africana, di stretta derivazione cosciente o del subconscio, di cui il nero, erede diretto, e tutti gli altri, indirettamente, possono andare fieri. È assiomatico che la matrice africana dei primi musicisti di jazz ebbe una certa rilevanza. Ma occorre ricordare che essi apparivano piuttosto lontani dal Continente Nero. La musica da essi creata a New Orleans, dove il jazz nacque, era costituita da una complessa mescolanza di canti popolari, pochi dei quali conservavano un’eco debolissima dell’Africa. Nel diario Viaggio al Congo dl André Gide si legge una descrizione entusiasmante e certamente fedele della musica africana com’è intesa dall’orecchio di un europeo; in questo caso un orecchio straordinariamente sensibile, esercitato sino a raggiungere un grado di altissimo dilettantismo nella conoscenza musicale. I fautori delle origini africane del jazz lo evidenziano come una prova; in senso inverso cercheremo di analizzarlo in questo libro. Il docente parigino riporta una danza eseguita da una tribù nei pressi di Fort Archambault (oggi Sarh) nel Ciad, i Massa. Nel suo reportage si palesa una certa ammirazione per gli indigeni di questo paese che egli definisce robusti, agili e snelli; e osservando i loro movimenti, trova che non hanno nulla in comune con il lento e triste volteggiare in cui certi coloniali vogliono scorgere un’emulazione del coito sessuale, e che -secondo loro- si 112 Shining Trumpets, Alfred A. Knopf Press, New York 1946.
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conclude sempre in un’orgia. Tuttavia da come riporta Gide tale danza ha come epilogo una sorta di trance animatamente intensa. Non è certo questo il tipo di ballo che si accompagna al jazz; la frenesia che nasce ballando il jazz appare molto più vicina all’orgia sessuale che non la trance africana. Del pari, la musica descritta dallo studioso francese ha una vaga analogia con il jazz, ma non è assolutamente la stessa cosa; ha soltanto una rassomiglianza generica con molti differenti tipi di musica primitiva, sia europea che americana. Così anche l’intensità che conduce ad una specie di trance è presente in molte altre danze popolari non meno frenetiche -di origine occidentale- la tarantella napoletana, il flamenco spagnolo, le czarde ungheresi, oltre agli innumerevoli balli campestri russi e le danze cosacche. Gli africani non hanno il monopolio dell’estasi religiosa o della gioia profana espressa in forma ritmica. Non che si voglia con questo negare la vitalità e la bellezza della loro cultura, ma qui si intende di assegnarle solo il suo giusto posto nel Gotha della cultura occidentale. Apparentemente questo sembra accordarsi con il jazz, così come viene in genere descritto, e con ciò che si prova nell’ascoltarlo. Ma non c’è niente nel jazz, neppure nei suoi aspetti più primitivi, che possa far pensare ad un motivo urlato da un centinaio di voci; qualunque siano le sfumature e le intensità e le libertà di intonazione, non c’è mai una cacofonia tanto caotica come quella descritta da Gide, in cui non una delle numerose persone da questi citate canta una nota esatta. Così, i sassolini legati alle corde del pianoforte fanno pensare al piano honky-tonk; ma il piano honky-tonk era una conseguenza del misero arredamento dei postriboli e delle bettole, né fu inventato per confonderne e soffocarne i contorni. Un’analisi comparativa delle musiche africane e americane non offre chiari parallelismi. Per cominciare, il jazz è una musica fondata su misure, la cui struttura poggia su battute fisse, rispondenti a schemi ritmici tanto inconfondibili e subito riconoscibili quanto il battito di un metronomo. Il suono del tamburo africano, per quanto attentamente lo si ascolti, non rivela affatto una musica a struttura ritmica; ci sono cambiamenti di tempo e punti e contrappunti di ritmo che rendono impossibile una notazione precisa. In riferimento alle qualità e alle misure melodiche della musica africana, anche queste sono costruite su una concezione ritmica e tonale completamente estranea alla tradizione diatonica occidentale. Parlare delle blue-notes ossia la terza e la settima diminuite, che appaiono spostate rispetto alla loro naturale posizione entro una chiave fissa, o dei cambiamenti di tono dei cantanti o musicisti jazz, o dei loro precipitosi glissando, come di un’evoluzione americana della musica africana è affermare una enorme sciocchezza. La struttura fondamentale dell’accordo, della melodia, del ritmo propri dei blues, e del jazz che deriva dai blues, appartiene chiaramente alla musica
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popolare occidentale. C’è assai più jazz in un violino gitano dell’Europa centrale che non in un gruppo di suonatori di tamburo africani. Tuttavia non si può e non si deve per questo sottovalutare l’effettivo contributo dato al jazz dai neri africani. Pur senza esplorare i misteriosi territori dell’inconscio, possiamo renderci conto delle importanti regole di disciplina ritmica che i neri del sud, appartenenti alla prima o alla terza o alla quinta generazione americana, introdussero nella musica con cui vennero a contatto. È necessario tuttavia capire che questa musica fu la base di quella che essi crearono. Si deve tener conto della musica dei coloni inglesi e scozzesi sulla costa atlantica nel XVII e XVIII secolo, di quella degli irlandesi e dei tedeschi nel XIX, e dei francesi che precedettero i neri nel territorio della Louisiana. Tutta questa musica, in parte accademica e composta seguendo deliberatamente gli schemi tradizionali dei balli aristocratici, in parte destinata ad esprimere l’accettazione di una condizione di classe oppure a manifestare una protesta, rappresentava il risultato di una sovrapposizione di culture diverse. Un esame dettagliato delle origini rivela ad ogni passo l’estensione, l’importanza e la grandezza dei progenitori del jazz. Sarebbe deplorevole trascurare l’inno protestante come non si può ignorare la danza moresca, e l’influenza dello spiritual su dozzine di vaudeville in giro per gli Stati Uniti. Esso non è meno determinante del cerimoniale africano di Congo Square a New Orleans. Questi fatti, che non possono sfuggire all’ascoltatore attento, testimoniano che New Orleans rappresentò la vera culla di una storia che si è rivelata coerente, pur nella sua confusione, e squisitamente americana nelle origini e nell’evoluzione. Il punto di partenza di questa storia coincide con la tratta degli schiavi africani. Per stabilire una data iniziale si può forse risalire al 1442, anno in cui il navigatore portoghese Antam Gonsalvez portò a Lisbona dieci africani per salvare le loro anime. Il traffico fu ripreso mezzo secolo dopo da Colombo, che trasbordò cinquecento indiani dall’America centrale in Spagna, proponendo di venderli sui mercati di Siviglia. Navigatori, viaggiatori, ammiragli, pirati favorirono questo commercio, rendendolo un elemento essenziale della vita sociale e industriale europea durante tre secoli e mezzo. Sia la regina Elisabetta che il suo rivale, Filippo II, non esitarono ad approfittarne; con questo mezzo il Sacro Romano Imperatore, Carlo V, e Carlo II d’Inghilterra accrebbero le loro ricchezze. Sir Francis Drake e John Paul Jones, i vascelli inglesi, francesi, spagnoli, portoghesi, svedesi, danesi e olandesi trasportarono carichi stipati di neri, uomini, donne e bambini, per venderli come schiavi. Nel 1807 Inghilterra e Stati Uniti ne vietarono il commercio legale. I danesi l’avevano posto fuori legge nel 1802; gli svedesi li imitarono nel 1813, gli olandesi nel 1814, la Francia di Napoleone nel 1815, la Spagna nel 1820. Ma il traffico autorizzato dei neri venne sostituito da quello
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clandestino: i mari occidentali continuarono ad essere la tomba di centinaia di schiavi che morivano lungo la rotta per le Americhe; alte cifre si pagavano ancora per braccia capaci: migliaia di dollari sui mercati di New Orleans, centinaia a Cuba, che i contrabbandieri avevano sovrapopolato di schiavi, da 25 a 50 dollari in rum, polvere da sparo o tessuti, sulla costa della Guinea. I deportati trasbordarono con loro le melodie africane e ritrovarono i tamtam familiari nei recipienti di latta. I Puritani giunsero con le loro versioni purgate dei madrigali italiani, olandesi e inglesi. Durante la Guerra Civile in Inghilterra, i Puritani avevano distrutto gli organi per cancellare dalle chiese ogni impronta dei papi e per impedire al tempo stesso che nelle taverne tali strumenti venissero utilizzati a scopi profani. Ma i concerti rimasero popolari sotto l’egida dello stesso Oliver Cromwell e il canto (dei salmi) era praticato con una foga che rasentava l’indecenza. Nelle città della Nuova Inghilterra dove vivevano i Puritani, gli organi furono di nuovo banditi dalle chiese; li definivano «cornamuse del demonio». A Plymouth, le congregazioni non avevano strumenti musicali fatta eccezione per il diapason a fiato del diacono, e i salmi si cantavano a memoria. Il chiassoso contributo dato dai bambini alla salmodia veniva zittito a colpi di verga di betulla: ma né le leggi, né il divieto religioso, né la punizione corporale riuscirono a soffocare lo spirito creativo musicale. Ma altri attacchi contro così ascetiche funzioni religiose si stavano preparando: trombe e tamburi penetrarono nelle chiese in sostituzione delle campane, e lo scacciapensieri divenne uno strumento popolare perfino in chiesa. Nelle città di Boston e Salem nel XVIII secolo, e in centri e colonie analoghe, il minuetto era la musica abituale delle riunioni danzanti e dei balli di gala. Si danzavano cotillon su motivi contadini inglesi. Più in basso nella scala sociale, il violino accompagnava improvvisando le danze nelle cerimonie nuziali e nelle taverne. C’erano gighe irlandesi e reels (tresconi) scozzesi, e un’allegria che spesso durava tutta la notte. A New York, sulla Bowery, c’erano file di case di divertimento d’ogni genere e una certa tranquillità di coscienza musicale, dopo che il Calvinismo si fu riconciliato con le cose di questo mondo. A Filadelfia, i gaudenti trovavano conforto nei sobborghi, dove le restrizioni dei Quacqueri non apparivano troppo rigorose. A Charleston, gli Ugonotti mantenevano le rigide disposizioni puritane per la domenica, ma balli e canti rimasero parte integrante della vita quotidiana di città e campagna, delle sale private e delle taverne pubbliche; e lo stesso accadeva nel Maryland, nella Virginia e in Georgia. L’utilizzo dell’organo nelle chiese fu ripristinato nel 1700 a Port Royal nella Virginia, e di lì a poco a quel tempo anche nella chiesa svedese della ‘Gloria Dei’ a Filadelfia; nel 1713 un organo venne installato nella Cappella Anglicana del Re a Boston. A metà del XVIII secolo si formarono degli ottimi cori a
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New York113 e presso la colonia morava a Bethlehem, in Pennsylvania114. Anche Charleston, dal 1762, ebbe una Società di Santa Cecilia, che formò un’orchestra e organizzò dei concerti al chiuso e all’aperto; e gli abitanti della Carolina assistettero alla prima opera eseguita nelle colonie115. A Filadelfia, Francis Hopkinson, che firmò la dichiarazione d’Indipendenza e rappresentò il New Jersey al Congresso Continentale, e che in qualità di presidente del Navy Board presumibilmente progettò la bandiera nazionale, fu il primo americano compositore che si conosca. La sua canzone, peraltro deliziosa, My Days Have Been so Wondrous Free, fu un grande successo del 1759. E due anni dopo, James Lyon di Newark raccolse delle arie di salmi per la chiesa presbiteriana, di cui era ministro, e ne aggiunse alcune di sua composizione. Questa raccolta, intitolata Urania, dalla Venere celeste, musa dell’astronomia, consacrò Lyon secondo compositore americano. In tutte e tredici le colonie, il canto a più voci e le esecuzioni al clavicembalo diventavano sempre più popolari. Una componente profana e patriottica affiorava nella nuova musica. II Yankee Doodle, in origine un canto della guerra franco-indiana, rappresenta con tutta probabilità una canzonatura britannica della sciatteria del soldato americano, subì innumerevoli modifiche dopo che i rivoluzionari se ne furono appropriati. Nel 1778, Francis Hopkinson scrisse The Battle of the Kegs, una canzone satirica che prendeva spunto da un incidente occorso a Filadelfia durante la rivoluzione; e si ebbero innumerevoli brani riguardanti le più importanti battaglie116 e gli eroi rivoluzionari. Dopo la guerra, i canti patriottici riflettevano la nuova coscienza nazionale. Hail, Columbia!, del figlio di Francis Hopkinson, Joseph, fu scritta nel 1798 per gemellare le due fazioni politiche sotto il primo governo presidenziale117. The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale, composto durante la guerra del 1812 da Francis Scott Key, mentre questi era prigioniero di una fregata britannica la notte del bombardamento del Forte McHenry di Baltimora, fu ispirato dalla resistenza della guarnigione americana e dalla vista della bandiera ancora sventolante all’alba. America (My Country, Tis of Thee) venne scritta nel 1831 da Samuel Francis Smith sulla falsariga di un motivo da lui scovato in un libro di musica tedesca: egli ignorava che gli inglesi l’avevano già adottato per il God Save the King. Mentre molte canzoni ‘colte’ hanno caratteristiche simili e soggetti pressappoco uguali, e soprattutto il canto popolare che, 113 114 115 116 117
Trinity. College of Music. Flora, or Hob-in-the-Well del poeta laureato inglese Colley Cibber. Il Boston Tea Party. Firm united let us be, Rallying around our Liberty.
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per definizione, si tramanda perché fa subito presa sul popolo. Le ballate inglesi furono rapidamente naturalizzate nella Virginia e negli Stati vicini. Attraverso le montagne meridionali, conservando una robusta ispirazione ritmica, una vibrante varietà emotiva, e una briosa dizione elisabettiana, le ballate si modificarono e divennero i blues, gli spiritual, gli hillbilly songs. Le ballate Barbara Allen e Chevy Chase furono in vario modo assorbite e adattate, modificate, purgate o rese licenziose, com’è naturale che accada con i motivi fondamentali di una tradizione popolare. Allo stesso modo, Oh, Dear, What Can the Matter Be? si trasferì nelle colonie e rimase in terra americana finché trovò la sua definitiva sistemazione nel jazz. Un chiaro esempio del traffico d’esportazione e importazione cui la musica era soggetta è rappresentato dal brano Malbrouk s’ en va-t-en guerre. La leggenda di questo eroe francese da canzonetta per bambini risale al Medioevo, si può ritrovare nelle ‘chansons de geste’, le romanze in versi celebranti le gesta di Carlomagno e dei suoi paladini, composte fra l’XI e il XIII secolo e cantate nei conventi, nei castelli e sui mercati. In Inghilterra, l’aria di Malbrouk, che ha pure origini medievali, fu abbinata a liriche famigliari come For He’s a Jolly Good Fellow e We Won’t Go Home Until Morning, che a loro volta conquistarono il favore degli americani. Negli Stati Uniti una delle più note fra le tante versioni rimane quella diffusa dalle voci dei membri del Rotary e del Kiwanis, The Bear Went Over the Mountain; ed è ovvio affermare che la stessa aria è passata attraverso una o più generazioni di jazz. Nei primi anni dell’Ottocento le città americane erano pervase da canzoni soprattutto straniere. Thomas Augustine Arne, autore della ‘mascherata’ Alfred da cui proviene la melodia Rule, Britannia, scrisse molte canzoni, alcune opere e oratori118. In America, come in Inghilterra, nei decenni immediatamente seguenti la sua morte, avvenuta nel 1778, le sue canzoni furono popolarissime, tanto le più sbiadite ballate come i soavi adattamenti delle liriche di Shakespeare119. Una delle molte canzoni scozzesi che divennero popolari fu Auld Lang Syne, insieme a The Bluebells of Scotland, su cui patirono centinaia di principianti di piano e di violino. Dall’Irlanda giunse The Last Rose of Summer, di Thomas Moore, che dopo il 1813 perse in importanza ma non in popolarità; e la stessa cosa avvenne per le composizioni del medesimo autore, The Minstrel Boy e The Harp That Once Thro’ Tara’s Halls, un altro ‘pezzo’ per principianti legato a poco graditi ricordi. 118 Il suo celebre inno patriottico gli attirò la frecciata di Richard Wagner, il quale disse che tutto il carattere inglese può venir espresso in otto note. 119 Under the greenwood tree, Blow, blow, thoua winter wind, ecc.
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Stille Nacht, scritta nel 1818 da Franz Gruber e Joseph Mohr per la notte di Natale, nel villaggio austriaco di Arnsdorf, divenne una grande favorita stagionale. Per le parole dell’americano John Howard Payne e la musica dell’inglese Sir Henry Bishop, Home, Sweet Home ebbe un immediato successo e, al pari di molte altre canzoni popolari di questo periodo, fu inserita nelle opere, tra le quali il Barbiere di Siviglia, in cui veniva cantata nella scena della lezione. L’Invito alla danza, di Carl Maria von Weber, fu una delle melodie preferite dopo il 1820 e sopravvisse così a lungo nella fantasia popolare da servire come tema a una canzone di Benny Goodman del 1935, Let’s Dance. The Old Oaken Bucket, scritta da un poeta americano e adattata a un motivo scozzese, e John Peel, importata dall’Inghillterra, passarono dal salotto di famiglia ai complessi corali, dove rimasero a lungo. Sui colli e sui monti, nella fattoria e lungo il fiume, avveniva un’altra trasformazione, un’inconscia naturalizzazione dell’eredità musicale europea che condusse infine al blues e al jazz. E mentre sulle pendici degli Apppalachi meridionali si cantava: Blow your horn and call your dog, Blow your horn and call your dog, We’ll go to the back woods and catch a ground hog. Rang tang fiddle de day120.
nelle ‘highland’ del sud si cantava Frankie and Albert121: questa canzone doveva diventare Frankie and Johnnie, e più tardi una fra le più convincenti variazioni di Duke Ellington sui blues. Nel Mississippi cantavano una canzone dei tempi difficili: Come listen a while, I’ll sing you a song Concerning the times - it will not be long When everybody is striving to buy And cheating each other, I cannot tell why And it’s hard, hard times’122.
Come si è constatato c’erano storie di Dio e storie di uomini, storie di innamorati che erano uniti e, più spesso, di quelli che non lo erano. I temi 120 “Soffia nel tuo corno e chiama il tuo cane/ Soffia nel tuo corno e chiama il tuo cane/ Andremo nelle foreste a cacciare la marmotta/ Suona, trilla violino” 121 “Essa uccise il suo uomo, che non la trattava bene” 122 “Ascoltami un momento, ti canterò una canzone/ Dei tempi - non sarà lunga/ In cui ognuno cerca di comprare/ E imbrogliare l’altro, non so perché/ E sono tempi duri, duri”
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erano semplici, la musica sgorgava copiosa per ogni dove, pronta a lasciarsi imitare, assorbire, e trasformare da un nuovo poeta, un nuovo cantante, il nero- americano.
2.10 La società del ragtime e l’ossessione jopliniana
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E suonavano il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede. Alessandro Baricco, Novecento, 1994
È lapalissiano che i geni creativi sono raramente riconosciuti nel loro tempo (sono generalmente richiesti almeno cinquant’anni per la piena approvazione) e Scott Joplin non rappresentò un’eccezione. Visse completamente nella tradizione del vero ‘artista sofferente’ producendo un continuo flusso di pensiero musicale rivoluzionario, che derivava da una profonda frustrazione. Joplin crebbe in un periodo paradossale del tardo XIX secolo, quando la sua gente stava conquistando l’eguaglianza trovandosi ad essere contestualmente oggetto di una recrudescente repressione da parte della società bianca. La storia del grande ‘ragtimer’ ha inizio in quel 1860 che vide gli esponenti politici e le legislature statali del profondo sud ammonire l’intera America che, in caso di vittoria repubblicana nelle imminenti elezioni presidenziali, il sud avrebbe operato di fatto la secessione. E infatti il sud mise prontamente in atto la minaccia dopo l’elezione di Lincoln, avvenuta nel novembre dello stesso anno sulla base di una impostazione che negava l’autorità, sia del Congresso che di qualsiasi legislatura territoriale, di legittimare la schiavitù in qualsiasi territorio. La legislatura della Carolina del sud convocò all’unanimità una convenzione statale, che si riunì il 17 dicembre per approvare tre giorni dopo un’ordinanza di secessione all’unanimità. Nella sua ‘Dichiarazione delle cause’, del 24 dicembre 1860, la Carolina del sud faceva riferimento a se stessa come a una «nazione», e passava brevemente in rassegna i fatti che l’avevano portata alla secessione. La Dichiarazione non lasciava alcun margine di speranza per un eventuale ricongiungimento all’Unione, né tantomeno poneva condizioni per un eventuale ripensamento. Il ritmo degli eventi fu talmente rapido che già undici stati meridionali si erano ‘separati’ adottando la Costituzione confederata prima che Lincoln pronunciasse il suo primo discorso inaugurale avvenuto il 4 marzo 1861. In quel discorso il presidente ribadì la convinzione che la secessione fosse
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illegittima e riaffermò l’intenzione di conservare la proprietà federale e di mantenere i collegamenti postali con gli stati meridionali. Tuttavia, con spirito conciliante, egli fece appello agli antichi vincoli di amicizia, promettendo che la forza non sarebbe stata usata e assicurando il sud che non si sarebbe intromesso in quei territori a regime schiavistico, anzi appoggiò un emendamento alla Costituzione in cui si affermasse specificamente che il governo federale non avrebbe interferito nella questione della schiavitù negli stati. Ma risultò tutto vano: il sud non era nello stato d’animo incline ad ascoltare parole di conciliazione e si passò alle armi. Dopo tre anni di maturazione a St. Louis nel 1893 Scott Joplin si unì a centinaia di altri musicisti erranti che si riunivano a Chicago per la World’s Columbian Exposition. Nonostante non fossero legati alla manifestazione, questi ‘travelin’ musicians’ davano spettacolo nei sobborghi della fiera. È riportato dalla stampa dell’epoca che Joplin avesse riunito una piccola banda per l’occasione, composta da cornetta (suonata da lui), clarinetto, tuba e un corno baritono. C’è scarsa documentazione sul ruolo che Joplin ebbe realmente nella fiera ma per molti studiosi quell’esperienza rappresentò per lui una vera e propria base di lancio. Il programma della Mostra comprendeva l’esibizione di diversi artisti di colore come Madame Sissieretta Jones (la vocalist d’opera che era conosciuta come Black Patti); il violinista Joseph Douglas (che si esibiva al Colored American Day, una caratteristica specialità della fiera); qui, probabilmente per la prima volta, si riunirono molti compositori e musicisti neri che continuarono a lavorare per legittimare a tutti gli effetti la musica folk afroamericana. La Mostra lanciò molti messaggi: per prima cosa segnò l’apertura di un intero mondo nuovo, tecnologicamente avanzato, un mondo con un potenziale stupefacente. Per seconda cosa, sembrò promettere alla gente di colore diverse agevolazioni sociali. Joplin ritornò dalla fiera abbastanza soddisfatto, tanto da lavorare seriamente alla pubblicazione della sua musica, e fu proprio nel 1895 che iniziò a mettere nero su bianco. Alla fine dell’éra vittoriana le canzoni melodiche erano frequentemente richieste, e questo tipo di composizione consacrò Joplin come il più adatto a raggiungerne l’immediata pubblicazione. Tre anni dopo, a Chicago, usci infatti Mississippi Rag per la banda di W. H. Krell. In quegli anni il ragtime pianistico usciva dalla preistoria e cominciava la sua epoca poco più che ventennale. I primi pezzi pubblicati da Joplin risultarono piuttosto sdolcinati come voleva la tradizione snob, ma durante questo periodo egli accumulò un’infinità di esperienze costruendosi un’ottima reputazione sia come compositore che come esecutore. Si stabilì a Sedalia, nel Missouri,
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una città più giovane ma non meno vivace di St. Louis, e fu qui che iniziò una brillante carriera come compositore di ragtime. Sedalia, che era la tappa finale per molti mandriani, rappresentava la tipica città di frontiera, prospera, e aveva molte attrattive per il giovane Scott. Per prima cosa, il George Smith College frequentata dalla gioventù di colore, che gli fornì l’opportunità di approfondire i suoi studi musicali. Intorno alla Main Street si estendeva una prospera città di 15.000 abitanti, sistemati in mezzo ai fertili campi del Missouri centrale. Fondata nel 1860, quella piccola cittadina di frontiera era stata un avamposto militare dell’Unione e alla fine della guerra avrebbe ripreso il suo periodo di crescita pionieristica. L’opportunità di lavoro portò un gran numero di neri nella città. Oltre a lavorare sulla ferrovia, questi nuovi arrivati trovavano lavoro negli uffici commerciali, negli alberghi, nei ristoranti, nelle barberie e nei saloon. Alcuni gestivano ristoranti, altri delle barberie, altri ancora dei negozi e bar, e molti giornali di proprietà di neri prosperavano. Sedalia aveva riservato un trattamento alla popolazione di colore di gran lunga gentile e più illuminata rispetto ai tempi che correvano. L’istruzione era particolarmente curata e i pregiudizi razziali risultavano inferiori alla media: encomiabile per una città di frontiera. Che Sedalia risultasse un importante crocevia del ragtime pianistico si dovette principalmente a queste condizioni favorevoli. Certamente non era il grado di rispettabilità della città a sostenere gli esordi del ragtime classico; anzi fu proprio nella East Main Street, con i suoi honky-tonk club e bordelli, che emise i primi vagiti la musica sincopata. Tale si trovò ad essere la posizione dei neri in quella società di frontiera, fautori della nuova vena ricca di musica, da contagiare inevitabilmente l’America bianca. Esisteva in Sedalia e in tutto il paese un gran numero di pianisti di colore rispetto alla minima parte costituita da bianchi, molti dei quali altamente qualificati, capaci, e tutti vicini alle fonti della musica folk. Spostandosi da una città all’altra, seguendo le fiere, le gare, le escursioni, questi uomini formavano una vera accademia popolare. Dopo che i locali notturni chiudevano, essi si incontravano per suonare fino al mattino, scambiandosi sia le idee che i brani: secondo un significato di queste jam-session, i rag venivano cuciti insieme partendo dai pezzetti di melodia e armonia a cui tutti contribuivano. Nella massa figuravano artisti di grande capacità che creavano canzoni particolareggiate, tuttavia il senso della proprietà non rappresentava una priorità: la competizione commerciale non era ancora entrata in questo paradiso. Di tanto in tanto, un pianista che aveva bisogno di pochi dollari vendeva una canzone a discapito degli altri che, naturalmente, potevano avere contribuito alla composizione del pezzo. Ciò perché l’opinione
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Una storia sociale del jazz
comune attribuiva la paternità del brano solamente con un regolare atto di vendita e i relativi diritti d’autore. Col tempo tutto ciò doveva subire una metamorfosi, ma durante gli anni di formazione ciascun pianista aveva solo due scopi: primo, fare della musica; secondo, raggiungere uno stile musicale per quanto possibile originale. In queste condizioni il ragtime si sviluppò in modo naturale e rapido. Sembra che Joplin tenesse alcuni dei suoi rag in forma di manoscritto sin dal 1897 ma non riuscì a venderli a nessun editore fino a quando il ragtime non divenne popolare. La famosissima Maple Leaf Rag fu respinta nel 1899 da Perry & Sons di Sedalia, ma anche da CarI Hoffman di Kansas City, che invece pubblicò l’Original Rags nel marzo di quell’anno, lanciandolo nell’agone del genere. Quell’anno Joplin incontrò John Stark, proprietario di un piccolo negozio musicale a Sedalia che rimase folgorato dalle composizioni di Scott a tal punto che gli pubblicò immediatamente Maple Leaf Rag, un’incomparabile fusione di folklore nero e musica colta, consacrando Joplin definitivamente “re del ragtime classico”. Dall’incontro di quest’ultimo e John Stark a Sedalia nel 1899 fino alla fine del rag-period, la storia del nuovo genere classico si svolge intorno a questi due uomini. Senza di loro poca documentazione sarebbe arrivata oggi in forma di partitura. Il ragtime ‘colored’ era essenzialmente un esempio di improvvisazione razziale. Con tutta la sua effervescenza, con tutti i suoi profondi legami con le essenze dell’ispirazione nera, esso era tuttavia il sound di diecimila artisti itineranti che vivevano alla giornata e necessariamente esprimevano il canto di una razza. Il genio di Joplin era duplice: la tirannica spinta creativa e la visione. Soltanto con la prima virtù, nonostante sia stato il più creativo fra tutti i musicisti di ragtime, i suoi pezzi migliori o più perfettamente costruiti, non scritti su partiture, sarebbero oggi -insieme a tutti gli altri- il compendio di un’epoca passata. Ma la sua visione era quella di uno scultore che forgia una veduta transitoria nella indistruttibilità della pietra. Era a un tempo colui che fa e colui che preserva. Attraverso il lavoro di questo ‘girovago’ l’immenso grido di un’intera generazione nera poteva continuare a risuonare così a lungo, fino a quando la musica sarebbe sopravvissuta. John Stark era l’uomo indispensabile per la realizzazione dell’orizzonte visionario di Scott Joplin. Uomo bianco, capace di operare nel mondo dell’uomo bianco, egli conosceva la realtà e realizzò i sogni dell’uomo nero. Qui si verificò il comune fertile lavoro dell’afroamericano e dell’americano bianco, la pratica fratellanza che americani bianchi illuminati e la maggior
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parte di neri hanno sempre sognato per tutte queste lunghe generazioni. Stark afferrava la visione di Joplin e dal giorno di quell’estate a Sedalia, la vita di un mercante di piccola città divenne quella di un profeta, di un campione, di un fanatico. Attraverso le barriere immaginarie della razza egli si mosse per diventare 1’alter ego di un genio nero così vicino come la corrispondenza speculare delle loro iniziali: S.J. - J.S. E questa comunanza di sforzo doveva funzionare effettivamente per tutta la loro vita: arricchita dalla visione, ella doveva trionfare al di là della passata discordia, persino dopo un’alienazione finale123.
Il vigore nel pianismo di Joplin alloggiava in una particolare agilità e in un perfetto legato, che accompagnavano uno stilema di tempo moderato perfettamente adattato –dal punto di vista squisitamente musicale- ai suoi rag. A St. Louis nacque una nuova espressione cosmopolita tale da far risaltare uno staccato tecnicamente veloce, brillante e appariscente. Tra le figure di spicco presenti a St. Louis, Louis Chauvin era pressoché l’unico a eseguire il legato-cantilena con una cadenza virtuosa. Nel 1906 Joplin fu colpito da uno dei suoi attacchi di profonda depressione che ebbe disastrosi effetti sul suo estro musicale. Malgrado si sforzasse di trattarli come composizioni classiche, i rag non appagavano più le sue aspirazioni. L’anno dopo sembrò a malapena rivitalizzato e sufficientemente in forma per iniziare una nuova vita. Tuttavia perfino nell’ambiente domestico che lo sosteneva Joplin appariva sempre più tormentato dalle sue disgrazie personali. Gli anni che vanno dal 1907 al 1909 videro la pubblicazione di circa quindici lavori di brillante creatività, ma di difficile esecuzione da parte dell’autore. Da allora la sua malattia (sifilide) peggiorò e sulla soglia dei quarant’anni la salute del compositore stava rapidamente deteriorandosi. Sull’afflizione di Joplin vissuta in quel difficile momento della sua vita, ricorderà poi Eubie Blake: Mi presentarono a Scott e gli parlai per circa un’ora e mezza, poi non lo vidi più. Vi ricordate We Want Cantor, We Want Cantor? Bene, quando ascoltai per la prima volta quel motivo era all’incirca il 1908 a Washington. La gente reclamava a gran voce il nome di Joplin, ed egli continuava a ripetere la sua difficoltà a suonare. Riusciva a stento a parlare, ed era visibilmente debole. Tra gli astanti c’erano diversi musicisti a porgli omaggio, come Hughie Wolford, Jimmie Meredith, Philadelphia Jack ‘The Bear’. C’era anche Sammy Ewell, che suonava il basso a cinque dita: era bravissimo. Gli stavano proprio accanto e Scott sapeva che non poteva più paragonarsi a loro. Ma in un impeto d’orgoglio artistico volle provare lo stesso, e così si mise al piano. Purtroppo risultò pietoso. Quasi piangevo, e loro -specialmente Hughie- lo deridevano. Forse era
123 Gildo De Stefano, Ragtime, jazz & dintorni, SugarCo Edizioni, Milano 2007.
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il caso di rammentargli che se non fosse stato per Scott, il ragtime non sarebbe esistito in quel luogo e durante le mie esibizioni ho sempre ricordato la sua grande forza.124
Treemonisha è da considerarsi l’opera folk-lirica di Joplin nata come passione e trasformata nel tempo in una frustrazione, ciò dal 1907 fino alla morte del suo compositore. L’opera era sicuramente ambiziosa e fu terminata nel 1911 con qualche revisione successivamente. Certamente da Treemonisha parte una considerazione che raccoglie un po’ l’intero ciclo esistenziale di Scott Joplin, che è quella di un paradosso. Le sue composizioni più popolari e influenti -i rag per pianoforte, per intenderci- traevano il loro carattere ritmico e la loro energia dall’universo afroamericano. Nonostante ciò Joplin ebbe l’ambizione di integrare elementi stilistici di quest’ultimo con le tipiche forme europee classiche, cullandosi nella perenne illusione che la sua musica –il ragtime- si potesse affiancare rispettosamente ai classici della Vecchia Europa. Questi anni trascorsero in un vano tentativo di ottenere un sostentamento finanziario per la rappresentazione dell’opera. Stark, dal suo punto di vista, rifiutò nettamente di pubblicare il lavoro. Bisogna tener conto, tuttavia, anche le difficoltà musicali dell’epoca, presumibilmente collegate anche ai pregiudizi razziali: gli editori non erano disposti e rischiare per uno spartito che sarebbe rimasto negli scaffali perché nessun teatro avrebbe messo in scena l’opera di un nero. Il rifiuto di Stark nonché la sua condizione contrattuale di acquistare i successivi rag di Joplin ma senza pagarne i relativi diritti d’autore, furono la causa del divorzio artistico dei due, che avvenne nel 1909. L’artista si rinchiuse nella composizione e le sue esibizioni in pubblico diventarono sempre più rare. Dal 1910 limitò la pubblicazione della sua produzione: Stoptime Rag fu stampato nel 1910; la partitura completa di Treemonisha vide la luce nel 1911 a spese dell’autore; Scott Joplin’s New Rag apparve nell’anno successivo, e alla fine del 1914 l’ossessionante Magnetic Rag125 venne protetta con i diritti d’autore dalla Scott Joplin Music Company. L’alienante ossessione del compositore per Treemonisha gli distrusse la vita. Nel 1915 riuscì a stento a organizzare una rappresentazione dell’opera, 124 Gildo De Stefano, Ragtime, jazz & dintorni, op. cit. 125 In Magnetic Rag vi sono elementi di complessità relativa che sono tanto strutturali quanto incidentali, poiché Joplin modifica le melodie alla terza e alla quarta per cui acquistano alcune caratteristiche di uno sviluppo di sonata. Joplin si affida, quindi, a un elemento dualistico, anzi incerto, nel tentativo di abbandonare la tensione del blues.
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priva di orchestra e di costumi, che venne accolta tiepidamente dal pubblico di Harlem. Quest’ultima delusione lo demoralizzò ulteriormente. I suoi periodi di lucidità erano sempre più rari e nel 1916 sua moglie fu costretta a ricoverarlo al Manhattan State Hospital nell’isola di Ward. Verso la fine di quello stesso anno Joplin riuscì a registrare diversi brani per dei rolls. Tutti furono corretti tranne uno: il motivo di Maple Leaf Rag inciso per la UniRecord Piano Rolls Company. L’esecuzione fornisce un’introspezione triste e al tempo affascinante della mente torturata del musicista alcuni mesi prima della sua dipartita. Il suono è irregolare e sussultante, pieno di errori che oseremmo definire ‘bizzarri’. Il suo svolgimento dà l’orribile impressione che l’intera cosa, in qualche modo, si stia frantumando completamente prima di giungere alla fine. Indiscutibilmente Maple Leaf Rag rimane la chiave di lettura dell’intero opus jopliniano. Suonarlo predispone l’ascolatore ad un irresistibile sentimento d’ilarità e di gioia. Si contrappone squisitamente ad una situazione confortante poiché si tratta di un ragtime dolce quasi assimilabile al lento lullaby. Si pensi al lullaby di Gershwin, forse solo in questo modo ci si può compenetrare nel tempo musicale di Joplin. In molti suoi lavori questi raccomandava di non eseguirli velocemente, un’ammonizione che creò non poca agitazione e scompiglio fra molti musicisti. Contestualmente alla pubblicazione dei rag ‘classici’ jopliniani a spese di John Stark, rapportando implicitamente tali brani con il repertorio pianistico classico di stampo europeo, l’artista di Texarkana affermava che nella sua produzione non v’era più traccia di improvvisazione e che, quindi, la sua musica andava eseguita con rigorosa e moderata scansione del tempo. Tuttavia è necessario chiarire che non c’è nessuna perentoria indicazione che ci riferisca il momento in cui Joplin cominciò realmente a pensare la sua musica come classica, ma dalle sue opere si può presumere che questa tendenza esisteva sin dal 1900. Il termine classico, comunque, non fu applicato al ragtime fino a qualche tempo più tardi ovvero quando –come si è già riportato all’inizio di questo paragrafo- si associò alla raccolta edita da John Stark. Inoltre c’è da dire che durante i vent’anni di attività questi pubblicò i rag strumentali di diversi compositori che egli definì classici. Lo stesso editore ci mette in guardia dicendo: Non confondete questi brani con i coon-songs o con le imitazioni dei compositori commerciali. Questi pezzi hanno la prerogativa di essere unici e soli, dominano sulla confusione dei rifiuti dei bianchi, come Pikes Peak su un cumulo di terra. È segno di abilità e di cultura eseguirli e sono benvenuti nei ricevimenti e nei salottini di buon gusto. Avete cercato le loro ultime tappe dei successi estivi? No, essi rimangono sempre in auge. La concorrenza, nonostante sorga ogni stagione, non è paragonabile con questi classici che la mette a
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dormire immediatamente. Suonate questi pezzi! Non troppo velocemente. Non senza cuore. Nei loro impareggiabili tempi c’è un contenuto sentimentale che solo l’artista, che è anche un musicista, può rivelare.126
Era evidente che conferendo a ogni nota il suo valore giusto e osservando scrupolosamente le legature si riusciva a ottenere l’effetto auspicato da Joplin e amplificato da Stark nelle sue affermazioni. Spesso il ragtime jopliniano veniva rovinato da un’esecuzione disattenta o imperfetta, e spesso dei bravi pianisti perdevano completamente l’effetto, con delle esecuzioni troppo veloci. Tuttavia si può affermare che molti altri rag raccolti da Stark non raggiungevano gli alti livelli posti dai lavori di Joplin e –tutto sommato-, l’idea sembrava essere questa. Scrivere ragtime non era scrivere per un pubblico commerciale bensì per l’epoca, per raggiungere un tipo di perfezione universale. E nonostante ci si attenesse a risorse folk per l’ispirazione, quella tipologia sincopata rappresentò musica d’arte scritta per l’amore per la stessa arte, originale, come espressione di un compositoreartista. Al riguardo sono sorte molte polemiche su quali rag sono ‘classici’ e quali non lo sono, ma sembrerebbe che alla fin fine se lo spirito dell’autore risultò di scrivere tale musica nel vero senso dell’arte, quei rag possono essere definiti ‘classici’. Inoltre, virtualmente, tutti i compositori per così dire ‘classici’ si sono ispirati direttamente o indirettamente a Scott Joplin. Studiando il periodo in cui questo ‘genere nel genere’ fiorì è possibile distinguere metamorfosi nel contenuto e nella forma a seconda dei compositori che, capeggiati dallo stesso Joplin, esplorarono le sue possibilità. E sebbene per questa ragione sia impossibile trovare caratteristiche definitive che distinguano i rag classici da quelli strumentali epocali, possiamo isolare certi fattori comuni. Quando apparve per la prima volta il ragtime strumentale, esso fu considerato come una collezione di motivi folk legati insieme per formare un lavoro più lungo. La prima pubblicazione di Joplin, Original Rags, illustra il concetto. Sul titolo della pagina si legge: “Original Rags scelti da Scott Joplin e arrangiati da Charles N. Daniels”. La parola scelti può ingannare ma indica una serie di brevi pezzi, tutti di squisita fattura jopliniana. Original Rags è un lavoro buono, coeso, ma manca di correlazione con il successivo pezzo pubblicato dal suo autore, Maple Leaf Rag. Quest’ultimo dovrebbe essere considerato come un brano singolo della musica, e il suo modello può –a giusta ragione- rappresentare il prototipo del rag classico. Esso contiene quattro temi di sedici battute
126 Gildo De Stefano, Storia del Ragtime: origini, evoluzione, tecnica: 1880-1980, Saggi Marsilio Editore, Venezia 1984.
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nella forma: a-a-b-b-a-c-c-d-d. (Il tema iniziale, a, è ripetuto una volta di più dopo il secondo tema, b, e il segno di chiave cambia al sottodominante al trio, sezione c). Sicuramente non si tratta della forma definitiva. Nell’analizzare i lavori di Joplin, è possibile intravedere una costante deviazione da qualsiasi modello formale. In uno dei suoi rag perfino il numero delle misure, in un tema, fu esteso a ventiquattro piuttosto che alle solite sedici. Difatti, guardando all’opus pianistico jopliniano, circa cinquantacinque rag in tutto, appaiono almeno in ventiquattro forme diverse. E una simile varietà di strutture può essere ritrovata nei lavori di altri maggiori compositori di ragtime. Il fattore chiave è che tali musicisti non si preoccupavano tanto della forma quanto dell’espressione artistica. Ciò rende in qualche modo arzigogolata la comprensione dell’essenza del ragtime, ma Joplin ci viene in aiuto fornendo alcune indicazioni. Nell’introduzione alla sua School of Ragtime, pubblicata nel 1908, il compositore affermava che lo scopo del lavoro era “di assistere i musicisti dilettanti, dando ai suoi rag quell’effetto fatidico e inebriante, scopo principale del compositore”127. Tale qualità bizzarra richiesta dall’autore sembra essere il nocciolo del ragtime classico, e impregna i rag a molti livelli: a livello di struttura, di melodia, di armonia, e di ritmo. È questo illusorio fattore che conferisce al ragtime sia un contenuto intellettuale articolato sia un’enorme intensità emotiva. E ciò può essere osservato nello stato d’animo globale della musica. C’è una superficiale esuberanza sovrapposta a un substrato di rigidità e tristezza. Se non fosse per questa tensione nella musica, lo stato d’animo si mostrerebbe leggero e unidimensionale. Certamente un buon ragtime potrebbe apparire umoristico ma raramente felice. È la stessa differenza che intercorre fra Charlie Chaplin e un anonimo: quanto denso pressappochismo farsesco! Il metodo più ovvio di costruire questa tensione è attraverso l’uso di contrasti ritmici di sincopati. La conformità della mano sinistra, col suo rigido modello di ‘rimbombo’ (che alterna in doppio tempo una nota bassa con un accordo) contro l’indipendenza ben ritmata, mostra la struttura ritmica di base del ragtime. Ma è solo il punto di partenza per la costruzione della scansione ritmica. Anche i rag si fermano e iniziano irregolarmente; e segue un fitto flusso di note, attraverso una frase sorprendentemente semplice e non sincopata. In questo modo, l’ascoltatore rimane costantemente lontano dall’equilibrio. La maggior parte dei rag sono costruiti sulla struttura d’accordo tonico/ dominante/sottodominante, da un punto di vista meramente tecnico prevalen127 Gildo De Stefano, Storia del Ragtime, op. cit.
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te nella musica di marcia e nella musica folk nera del XIX secolo, tuttavia esistono delle divergenze che conferiscono a diversi rags una struttura in qualche modo misteriosa. Ci sono alcune probabili ragioni a supporto, che sono in relazione con le radici neroamericane della musica128. Per prima cosa risulta una tendenza all’ambivalenza alla terza, quarta e settima (e qualche volta quinta) nota della scala europea. Ciò deriva dalla differenza tra la scala africana a cinque note, basata anch’essa su armonie naturali; e la scala europea a sette note, che è tarata per agevolare i cambi di chiave. La più ragguardevole diversità nel concetto alloggia nell’accordo in terza, che è l’intervallo che determina un suono in chiave maggiore o minore che giunge alle nostre orecchie (un accordo in terza alzata e maggiore ci suona vivace e felice. Un accordo in terza abbassato e minore appare triste). Entrambi sono un compromesso all’accordo in terza pura: la maggiore è leggermente più alta e la minore considerevolmente più bassa. L’africano sente solo la terza pura che è ciò che noi intendiamo per il jazz, come le blue notes. Nel ragtime, l’ambivalenza di base della musica afroamericana verso tale accordo in terza è messa in evidenza in altri modi: l’accordo in terza è evitato quando è possibile, gli accordi in terza maggiore o minore sono suonati insieme, strettamente collegati, oppure il sentire maggiore/minore è rapidamente alternato. Una seconda caratteristica armonica è il costante cambiamento tra la prima armonia e i passaggi a una nota o due. Questa pratica, come quella d’usare spostamenti ritmici, fornisce una successione costante di sorprese. I compositori di ragtime classico erano favorevoli anche a introdurre inaspettati cambiamenti di chiave e complicati mutamenti di accordo nella loro musica. Per apprezzare pienamente tutto ciò, si può paragonare il ragtime alla musica più contemporanea. Nella principale corrente di musica jazz e popolare, la recente spinta si è mostrata spesso verso un’attenuazione degli accordi. Ciò significa che l’accento tonico (per esempio, do maggiore, che contiene le note do, mi, sol) potrebbe essere eseguito come un accordo in sesta maggiore ( do6: do, mi, sol e la); similmente un accordo in settima (tale come do7: do, mi, sol e sib) potrebbe essere suonato come una nona (con un re) o come una tredicesima (con un la). Il risultato è che molte delle note negli accordi sono duplicate in accordi susseguenti. Per esempio, nel cambiare da un accordo maggiore tonico do al sottodominante accordo maggiore in fa (fa, la, do), solo una nota risulta uguale in ogni triade (il do); ma se la sesta, o la, viene aggiunta all’accordo do, avviene 128 Vedi A. Charters, Nero Folks Elements in Classic Ragtime, in «Ethnomusicology», 5, n. 3, settembre 1961.
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una duplicazione di due note, sia do che la. Il cambio di accordo, in questo modo, suona meno violento all’orecchio. Nella maggior parte del ragtime, comunque, gli accordi sono tenuti chiari, e i cambi prodotti appaiono, quindi, più ardui. C’è anche una tendenza a porre insoliti eccedenti o diminuite (per es.: do diminuita: do, mib, solb, la), e altri accordi che sarebbero –comunemente- semplici ‘accordi di passaggio’. Abbiamo visto, dunque, un’intera gamma di mezzi musicali impiegati dai compositori di ragtime per produrre una grande tensione emotiva e artistica. Ma si è dimostrato pure come il corpus di tali composizioni rispecchia gli elementi della musica sia bianca che nera di fine Ottocento. Gli impulsi ritmici più peculiari derivano dal sound afroamericano mentre i disegni formali e lo strumento sul quale la musica veniva suonata, provengono dalla cultura bianca. St.Louis e Chicago, con la Fiera Mondiale, sicuramente magnetizzarono tutti quei musicisti che sperimentavano nuovi stili. Ma Joplin dimostrò di essere il compositore dalle idee chiare, per qualche verso decisivo, colui la cui immaginazione musicale conferì al ragtime la sua espressione più eccellente. E con Maple Leaf Rag Joplin consacrò definitivamente il ragtime a icona. Mai un brano aveva raggiunto tale popolarità in tutta l’America, ad arrivare perfino alla Casa Bianca: la figlia di Roosevelt ne era ghiotta, e lo richiedeva ad ogni ricevimento ufficiale. Certamente la produzione jopliniana, rispetto a quella di altri musicisti, rimane la più strettamente artistica e autobiografica. È musica scritta con passione e riflette la vita interiore dell’autore, sia nei titoli che nella concezione. Una produzione che, apparentemente potrebbe benissimo dividersi in tre periodi: un primo caratterizzato da versi melodici, semplici, scorrevoli, di grande bellezza e di ispirazione folk, tali come Weeping Willow, Easy Winners e The Entertainer; un secondo periodo, che definiremmo d’oro e che ha inizio nel 1904 con Cascades, quando i brani cominciarono a diventare popolari e le concezioni più estese, con una nuova grandiosa qualità: Fig Leaf ne rappresenta il capolavoro; ed un terzo, palesemente sperimentale, caratterizzato da composizioni dalle armonie più ampie e ricche di maggiori elementi di un romanticismo classico: Euphonic Sounds e la sua opera Treemonisha sono in linea con questa epoca, la cui peculiarità è raffigurata proprio dalla scarsa produttività frutto della sua ossessione per l’opera129. Tuttavia è sempre azzardato fare delle nette distinzioni. Esiste certamente una chiara connessione con le risorse folk nei primi brani e anche una 129 A.S. Caplin, Scott Joplin Ragtime, vol. 2 (Canaan, New York, dalle liner notes dell’album), BLP-1008Q.
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tendenza verso la sperimentazione in quelli più recenti, Euphonic Sounds e Magnetic Rag, ma la produzione agli antipodi –per così dire- risulta terribilmente difficile da classificare. Paragon Rag, del 1909 appare simile a Weeping Willow del 1903. E il trio di Eugenia del 1905 sembra tanto sperimentale quanto lo Scott Joplin’s New Rag del 1912. Weeping Willow –per esempio- è ricco di un inquieto contrappunto e appartiene al periodo per così dire lezioso di Joplin. Dedicato al ‘Pawnee Club’ il brano è sostenuto da una passionale invenzione melodica e il compositore –che è anche musicista- si affida all’immagine di un salice piangente: una specie di rusticità pacifica che le avversità artistiche e familiari sembrano negargli. Naturalmente un’analisi certosina di queste composizioni non è praticabile data l’assenza di manoscritti; non si sa quando fu scritta la musica ma si è a conoscenza solamente della sua pubblicazione che -in molti casi- ha poca attinenza con la data di composizione. Tutto ciò rende ancor più complicato lo studio dei musicologi accademici che non possono accuratamente tracciare il “grafico creativo” di Joplin. Inoltre a ingarbugliare la valutazione c’è lo stato mentale del musicista, fortemente instabile. Ovviamente un uomo che perde terreno sotto i propri piedi verso la fine della carriera non può aver fatto molta strada. C’è da dire che l’ultimo periodo di Joplin appare una strana collezione di contraddizioni. Una buona parte della sua vasta produzione si orienta verso un fine concertismo più di altri celebri brani jazzistici post-jopliniani; come pure un’altra parte sembra riecheggiare lo stile del ‘900. Ambiziosi passaggi vanno di pari passo con brevi canti meccanici privi di significato. Non è difficile trovare in quelle composizioni i primi sintomi della sua confusione mentale, che culminò nella seconda decade del Novecento. Sembra che molti musicologi non riescano a scrutare a fondo nella natura di questo processo creativo. Il lancio di Joplin nella sperimentazione (vedi Euphonic Sounds130) sicuramente sarebbe avvenuto in relazione ai suoi bisogni personali e alle proprie frustrazioni. Il “quoziente misterioso” cresceva con la necessità per tale espressione. Un periodo di sperimentazione potrebbe essere stato agli inizi del ‘900, quando divorziò da sua moglie ma anche successivamente, quando le privazioni divennero più dure da sopportare. Certamente c’è stato un periodo felice, non senza significa130 Proprio in Euphonic Sounds si nota la sperimentazione jopliniana che consta di nuove tecniche musicali. Infatti, il brano presenta alcune modificazioni stranamente elettriche nella seconda melodia, che vagano dalla tonica si bemolle a si minore, a mi bemolle, e poi da sol minore, e infine tornando alla tonica maggiore; nella prima melodia si lascia anche andare a sincopi nelle quali il tempo è semplicemente sottinteso.
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to. Tuttavia leggere gli ultimi rag di Joplin come una bizzarra collezione di contraddizioni, forse non sembra giusto. Inoltre la semplicità non è necessariamente senza significato. Per esempio, Magnetic Rag riporta alla memoria lo stile del Novecento in cui viveva Joplin, ma serve anche a osservare più in profondità. È una misura terrificante del familiare e dell’agonizzante sconosciuto; risulta infatti il rag più introspettivo in cui si palesano queste contraddizioni. E per quanto la musica sia appesantita dall’incubo schizoide dell’autore, ciò non si mostra affatto come una prostrazione. Magnetic Rag rappresenta l’ultima delle composizioni pubblicate direttamente da Joplin. Alla stregua dei brani classici la partitura di Joplin porta in italiano l’indicazione “Allegretto ma non troppo”, e i frequenti avvicendamenti di registro e tonalità infondono al brano un’accezione variegata e movintata ispirata ad atmosfere yiddish e blues in auge in quegli anni nella Grande Mela.
2.11 Fisiognomica e sincretismo in Treemonisha Mentre l’analisi compositiva ha saputo mostrare le venature più sottili della fattura dei brani di Joplin, mentre la musicologia ha riferito le circostanze biografiche relative al compositore e alla sua opera lirica, il metodo per individuare nella sua musica le peculiarità caratteriali è rimasto deplorevolmente in ritardo e deve sostanzialmente limitarsi a improvvisare. Se si volesse recuperare questo ritardo e togliere la conoscenza della musica dal suo isolamento assurdo, bisognerebbe mettere a punto una fisiognomica dei tipi d’espressione musicali. Nel caso di Treemonisha non si tratta di un’opera in senso strettamente convenzionale; sembrerebbe qualcosa di molto interessante: per Joplin rappresentava il traslato dell’opera. Si potrebbe considerare come l’enorme sforzo creativo di sintetizzare tutto il pensiero musicale e ideologico jopliniano. Nonostante contenga elementi sincopati, Treemonisha non appare ragtime puro bensì si rifà alle sue risorse originariamente folkloristiche e, quindi, risulta essere un’opera folk da cui l’autore trasse la sua ispirazione per l’intero ciclo esistenziale. Una tale impresa era condannata a fallire dall’origine, tuttavia il fallimento –relativamente ad un lavoro di così ampia portata- non può essere liquidato con tanta facilità. Treemonisha rimane una magnifica sperimentazione, e in talune parti raggiunge il sublime. Purtroppo Joplin la scrisse nel peggior momento della sua vita, e non riuscendo a perfezionarne la forma gli fu negato il giusto riconoscimento del pubblico.
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Se è vero com’è vero che le culture prive delle tracce dei loro desideri e bisogni reali ottengono precisamente ciò che meritano, non c’è da meravigliarsi che l’America di inizio Novecento non fosse preparata a recepire Treemonisha. Dopo decadi di approssimazione, di volgarità, di regressione sociale senza pari, di Gilded Age e del crollo della ricostruzione radicale nel tardo XIX secolo, l’America era a stento preparata per uno stile lirico genuino, delicato, quasi trasparente. Non era interessata ai progressi estetici e sociali della gente di colore né tantomeno appariva curiosa di conoscere Scott Joplin, una volta che il suo fenomenale successo Maple Leaf Rag svanì rapidamente dalle loro menti. Questo ‘incubo’ lirico rappresentava realmente quel passo in avanti del ragtime classico, che altro non era se non la combinazione dell’imponente patrimonio folkloristico nero nell’interno strutturale di una marcia europea. Naturalmente il carattere sincretistico di Treemonisha appariva decisamente superiore ad un’opera europea: era semplicemente una ‘sua’ creatura. Joplin non era un nero che tentava di comporre alla stregua dei grandi compositori [bianchi] europei; era un nero dedito a creare un pezzo d’arte ricavandolo da tutte le sue esperienze, di cui era composta l’opera. In questo modo Treemonisha -come del resto lo stesso ragtime- appariva una nuova forma artistica che venne probabilmente utilizzata solo in un particolare stile, quello del 1920, come accadde per la collaborazione fra Kurt Weill e Bertolt Brecht per The Threepenny Opera. La struttura sonora di cui è composta Treemonisha è l’elemento più forte dell’opera. Gran parte di essa potrebbe essere definita iperdrammatica; sono presenti molti ritmi con suoni lunghi, minacciosi, che sembrano denunciare la frustrazione di Joplin, ma c’è anche una buona base melodica di grande valore. L’opera si compone di una ouverture e di tre atti. La musica attinge a piene mani dal lessico del ragtime che, come ho già detto in precedenza, non rappresenta l’unica componente stilistica. Si alternano, infatti, nei ventisette brani dell’opera, la struttura politematica della ouverture, lo pseudo-spiritual di We Will Rest Awhile, la musica da ballo di We’re Going Around, la forma antifonale delle parti vocali, nonché la melodia di gusto operettistico di Aunt Dinash Ras Blowed the Rom, che tratteggia uno dei momenti più potenti ed efficaci di tutto il melodramma, unitamente a quel Doin’ the Real Slow Drag che nella sua epicità corale chiude su toni effervescenti l’ultimo atto. La debolezza dell’opera di Joplin è nel libretto; in esso si mostra nella sua interezza il punto cruciale del trauma psichico della frustrazione del compositore. Joplin vedeva nella cultura la grande speranza per la riscossa della sua razza; su questo aveva costruito l’intera carriera e la sua ope-
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ra ma ciò non bastava a combattere il razzismo imperante. Treemonisha, un’eroina emancipata, conduce il suo confratello lungo il sentiero dell’illuminismo, lontano dalla superstizione e dall’ignoranza. Essi non devono che abbeverarsi alla fonte della cultura affinché tutto sarà giusto. Per Joplin non è essenziale che questo punto appaia realistico o addirittura ingenuo e semplicistico; il lavoro deve essere visto come una semplice affermazione di credo sincero. In questo si sublimava l’autore che, pur vivendo in un tempo in cui l’adulazione servile dell’arte europea rappresentava la regola, nondimeno riusciva a esprimersi come un afroamericano e un genio creativo. Treemonisha non può certo essere definito un alto capolavoro di musica classica, ma per il suo contenuto sociale rappresenta indubbiamente un peculiare stoicismo da cui traspare l’inadeguatezza esistente tra l’opera estetica e la sua ricezione.
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III. PROSPETTIVE CONTEMPORANEE
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3.1 Dalla critica adorniana al sociologismo della new thing Il jazz è incatenato alla musica commerciale e quello del suo fan è un ascolto statico. Disprezza la vita musicale ufficiale in quanto slavata e illusoria, ma non sa spingersi oltre questa constatazione e si rifugia in epoche del passato che ritiene al sicuro dalla predominante mercificazione, dalla reificazione. Ma con la sua rigidità è tributario di quella stessa reificazione cui si oppone. Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, 1962
A metà del secolo scorso gli intellettuali irrequieti dell’Internazionale Lettrista vedevano la cultura e il commercio dell’Occidente come i critici della Scuola di Francoforte in esilio, Theodor Adorno e Max Horkheimer, l’avevano vista alla fine del secondo conflitto mondiale: un unico sistema di soffocamento e dominio, uniforme nella sua interezza e in ogni sua singola parte. Come avversario buono dello stalinismo dell’Est, il capitalismo portava a termine una duplice riflessione, che riduceva a nullità tutto quanto era altro da sé. Con il mondo governato da quello che Harold Rosenberg chiamava “la trance del potere”, l’arte diventava l’ultimo baluardo delIa creatività e della critica, la nota suonata con l’eco delle Termopili o con la carica della cavalleria: “Cosa possono fare cinquanta” scrisse Clement Greenberg nel 1947 dei pittori astratti newyorkesi “contro centoquaranta milioni?” Oggi un simile urlo suonerebbe isterico, se non suonava già isterico allora; il resto degli Stati Uniti non era contro i cinquanta di Greenberg, li ignorava, e aveva le sue buone ragioni. I membri dell’Internazionale Lettrista avevano le loro. Avevano trovato la loro affinità nell’arte, nell’amore di ciò che l’arte prometteva e nell’odio per ciò che vanificava queste promesse, per le zone separate e privilegiate che la società riservava a bellissimi sogni impotenti, ma anche la bellezza, pensavano, era stata una menzogna
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per trent’anni, prima che loro nascessero. A un certo momento tra il 1915 e il 1925 l’arte si mise in guerra contro i propri limiti, in lotta per sfuggire ai propri dubbi, al proprio museo, al proprio luna park, al proprio zoo; da allora non ci fu arte, ma solo “imitazioni di rovine” in un agghiacciante ma profittevole carnevale, dove ogni clichè aveva i suoi discepoli, ogni regressione i suoi ammiratori, ogni remake i suoi fans. II sogno dell’Internazionale Lettrista di un mondo reinventato veniva dall’arte, ma il gruppo era sicuro che fare arte sarebbe stata una perdita di tempo; appropriarsi di un’immagine o di una linea, come marchio unico ed eterno sul muro di una storia scritta in anticipo, sarebbe stato perpetuare la frode alla storia che il gruppo intendeva fare. Sarebbe stato comprare i miti del genio benedetto e dell’ispirazione divina e prestare le proprie mani a un sistema di gerarchie individuali e di controllo sociale; con Dio morto e l’arte che prendeva il suo posto, si sarebbe dovuto mantenere un’illusione religiosa, adeguatamente intrappolata nel più magico dei consumi. Si sarebbe dovuto chiudere il paradiso in una cornice invece che puntare a esso nel cielo come un prete: e qual era la differenza? Fare arte sarebbe stato tradire i desideri comuni e sepolti che l’arte aveva rappresentato, sarebbe stato fare arte per détournement, scrivere nuovi fumetti per i giornali, insistere simultaneamente su una “svalutazione” dell’arte e il suo “reinvestimento” in un nuovo tipo di discorso sociale, una comunicazione che contenesse anche un’autocritica, una tecnica che non avrebbe potuto mistificare perché la sua forma stessa sarebbe stata una mistificazione -fino alla derive- per arrendersi alle promesse della città, e trovarle poi inadeguate -per vagare nella città, permettendo ai suoi segni di sviarti, di detourner i tuoi passi, e poi ancora sviare tu stesso quei segni, costringendoli a dare percorsi mai esistiti prima- non ci sarebbe stata mai fine. Sarebbe stato iniziare a vivere in senso veramente moderno, una vita fatta di asfalto e immagini, parole e tempo: una vita che chiunque avrebbe potuto capire e usare. “La filosofia di base” ha scritto Christopher Gray in Leaving the 20th Century1 “era una filosofia di sperimentazione e gioco”, ma con tutta la cultura e poi con la città stessa come campo da gioco. Perche no? “Prima cerca cibo e abiti, e poi avrai il regno di Dio” diceva Hegel; era ora che arrivasse il regno, era già passato il momento. “Basti dire che dal nostro punto di vista le premesse di una rivoluzione, sia a livello culturale sia a livello strettamente politico, sono non solo mature, ma hanno cominciato a marcire” scrivevano Debord e Gil J. Wolman per l’Internazionale Lettrista nel 1956. Per l’lnternazionale ciò che Hannah Arendt chiamava la questione 1
Rebel Press, Londra 1998.
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sociale -la fame, i bisogni del corpo che reprimono la voglia di conquistare la libertà, una forza che lascia ogni rivoluzione che promette il regno di Dio sconfitta o travestita, affamata e nuda- era stata almeno potenzialmente risolto. Secondo la lettura che l’Internazionale Lettrista dava delle tecnologie e dell’abbondanza postbelliche, così come le presentava la pubblicità, da quel momento in poi chiunque avesse sofferto di privazioni sarebbe stato vittima non del bisogno ma delIa trance del potere, trance da cui si poteva uscire. La povertà moderna era una povertà di passione, radicata nella previsione di una società mondiale abbastanza ricca da gestire sia lo spazio sia il tempo: così il gruppo liquidava il capitalismo come un presente vuoto e senza senso, e il socialismo come un futuro in grado di cambiare solo il passato, e parlava invece di costruire “castelli di avventura”. Camminando per le strade finché erano troppo ubriachi per sapere a che angolo svoltare i membri dell’Internazionale Lettrista cercavano nel delirio un messaggio di seduzione: così nel 1953 Ivan Chtcheglow, diciannovenne, scrisse un formulario per una nuova urbanistica, che incitava i suoi compagni a creare la loro prima città, “la capitale intellettuale del mondo”, una specie di Las Vegas fourierista, una Disneyland surrealista, un luna park dove la gente avrebbe potuto davvero vivere. Tornando ad uno dei critici della Scuola di Francoforte, con la sua Teoria estetica2 Adorno attribuisce all’arte un ruolo di contestazione della società esistente; l’arte contemporanea, sottraendosi ai canoni classici della bellezza, raffigurerebbe in pieno le disarmonie e l’infelicità della società, favorendo il sorgere della speranza in un’armonia del mondo. Tra le arti, quella meno caratterizzata da contenuti rappresentativi è la musica, la quale appare dunque, agli occhi di Adorno, come la più idonea ad esprimere, nella sua indeterminatezza, quel che è altro rispetto alla situazione presente. Molta musica è però ridotta a pura merce e oggetto di consumo; essa, come parecchie forme di cultura popolare, compreso il jazz -avversato da Adorno- contribuisce al rafforzamento degli atteggiamenti conformistici e assolve ad una mansione meramente ideologica di evasione ed emancipazione illusoria della realtà. Nell’industria culturale e nella riproducibilità delle opere d’arte, come nel cinema e nella fotografia, Adorno non ravvisa alcun potenziale rivoluzionario: L’entusiasmo si è trasferito sulla sobrietà, le emozioni si legano ad una tecnica ostile ad ogni significato. Ci si sente al riparo entro un sistema che è tanto ben definito da non ammettere errori al suo interno e la nostalgia repressa di ciò
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Einaudi Editore, Torino 2009.
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che potrebbe esserci al di fuori si esprime in un odio intollerante ed in un atteggiamento che unisce la saputaggine dell’iniziato alla pretesa di esser liberi da ogni illusione. La trivialità trionfante, l’esser prigionieri della superficie come certezza senza dubbi, trasfigurano la difesa codarda da ogni riflessione su sé medesimi. Tutte queste vecchie forme di reazione hanno recentemente perduto la loro innocenza: si propongono come filosofia e così diventano interamente maligne.
Certe componenti del minimalismo esitenziale, quali lo shopping, il traffico e la pubblicità in quanto insulti storico-mondiali, erano integrate nella vita quotidiana come seduzioni: in un certo senso il jazz era più facilmente riconoscibile come una nuova versione della vecchia critica della cultura di massa della Scuola di Francoforte, il raffinato orrore degli esuli tedeschi che controbattevano alla facile volgarità del loro esilio americano durante la guerra; una nuova versione della convinzione di Adorno, espressa in Minima Moralia, che come intellettuale ebreo tedesco in fuga dai nazisti verso il paese della libertà egli aveva scambiato la certezza dello sterminio per la promessa di una morte spirituale. Ma ora le premesse della vecchia critica esplodevano da un punto che nessuno nella Scuola di Francoforte, né Adorno né Herbert Marcuse, né Walter Benjamin, aveva mai riconosciuto: il cuore del culto jazz della cultura di massa. Ancora piu strano: la vecchia critica della cultura di massa era ora ostentata come tale, o quanto meno come versatile aspirante tale. Se la musica jazz rappresentava una società élitaria, il fine di ogni società élitaria è di dominare il mondo, proprio come lo scopo di ogni jazzista è di far sì che tutti l’ascoltino. Probabilmente non esiste una definizione di jazz così elastica da poter comprendere Theodor Adorno. Come amante delIa musica egli odiava il jazz, probabilmente vomitò quando ascoltò per la prima volta George Gershwin e Duke Ellington, e senza dubbio avrebbe considerato Keith Jarrett un ritorno alla Kristallnacht se non avesse avuto la fortuna di morire nel 1969. Ma si può trovare il jazz in ogni riga di Minima Moralia: i miasmi del suo disprezzo per ciò che era divenuta la civiltà occidentale alla fine della seconda guerra mondiale, erano, nel 1977, alla base di centinaia di brani e di slogan. Se nei lavori di Jarrett e simili l’emozione è ridotta al divario tra uno sguardo vuoto e un sorriso sardonico, nel libro di Adorno l’emozione è compressa nello spazio tra maledizione e rimpianto, e in quel campo, la minima mossa verso la compassione o la creazione può assumere una carica di novità assoluta; insieme a ogni tipo di frode e imbroglio, la negazione investe ogni minimo gesto di potere. Un grande storico, Pierre Vidal-Naquet, scrisse che con i negazionisti non si deve parlare ma aggiunse che è necessario studiare, tuttavia, quanto costoro vanno da de-
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cenni diffondendo, cioè una pletora di menzogne, di omissioni e distorsioni più o meno inavvertitamente recepite dal senso comune: lo stesso VidalNaquet ne concluse che “nella società dello spettacolo e dell’immagine un tentativo di sterminio su carta si sostituisce allo sterminio reale” e infatti, alludendo a un tragica parodia, egli definì i negazionisti degli Eichmann di carta. Anche Zygmunt Bauman, sull’autoassoluzione della memoria storica tentata dai negazionisti, ha affermato che è un segno di cecità pericolosa e potenzialmente suicida, Quando la vita viene rifondata in questi termini, quando si postula la dominazione, quando un semplice gesto, un nuovo modo di camminare, può significare liberazione, un risultato appare un’opportunità quasi illimitata per l’arte popolare. Quello che mancava alla negazione di Adorno era l’allegria: una dimensione che non mancò mai alla visione jazzistica del suo mondo. Camminando per le strade, come atteggiamenti e mode, le profezie di Adorno erano soffuse di felicità, un fremito che le rendeva semplici e chiare. La critica della Scuola di Francoforte era diventata una caldaia arrugginta nel 1977, non tanto perché era stata confutata dalla storia o da idee migliori quanto perché era stata trasformata in un riff irritante per essere stato in cima a troppe classifiche radical-studentesche o di studenti d’arte negli anni Settanta: le elucubrazioni stilistiche nell’assolo di Ornette Coleman, nel suo celeberrimo Times Square, rappresentavano l’impatto del riff, il nuovo sound. Ora si poteva dargli un nome e appropriarsene. Pezzi di una teoria concepita prima che si fosse nati uscivano dal pavimento e ci colpivano in faccia come se si fosse caduti a testa in giù nel cemento. Il volto diventava una totalità, nello specchio la rappresentazione dell’unica totalità che si conosceva per davvero e lo shock del riconoscimento cambiava il volto della gente: ora si camminava per la strada con la bocca irrigidita che ai passanti sembrava una sentenza di morte e alla gente sembrava un sorriso. Perché il loro volto era la loro totalità, e lo shock l’aveva cambiato, lo shock cambiava il percorso. Una volta fuori dal locale e sul selciato, ogni grigio edificio pubblico diventava vivo con messaggi segreti di aggressione, dominio e violenza. Certamente nella sua critica al jazz Adorno ha sentenziato senza compiere prima i dovuti approfondimenti. Tuttavia sarebbe una ingenuità ancor più grave ignorarne la riflessione e far cadere nel dimenticatoio la validità di una riflessione come quella appena citata. L’arte deve essere in grado di mettere in questione l’ordine vigente per Adorno, deve essere capace di criticare il reale attraverso la forza eversiva della sua forma; ebbene, tutto questo non è proprio del jazz, dato che i tempi, i ritmi, le soluzioni stilistiche sono solo varianti attorno ad uno stesso modello originario. Così
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facendo, il jazz non diviene reale voce di dissonanza del mondo, ma conferma dell’ordine al quale apparentemente sembra opporsi, rispondendo all’identità con altre identità.
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[…] le cosiddette improvvisazioni si riducono a perifrasi delle formule fondamentali e lo schema riappare ad ogni tratto sotto il loro velo. Anche le improvvisazioni sono in gran parte regolamentate e si ripetono sempre. Tutto quel che può succedere nel jazz si aggira entro limiti così stretti come i tagli particolari dei vestiti.3
Anche il più incallito ascoltatore di jazz, essendo mosso da intenti praticomusicali, sostanzialmente si è limitato a descrivere una situazione meramente tecnica da cui nascevano difficoltà nel comprendere questo tipo di musica. Spesso si è trascurato invece l’aspetto sociologico. Senza dubbio questo non era separabile da quello intrinseco alla musica, come si vuole sottolineare in questo libro, contrapponendoci a taluni virulenti indirizzi che venivano affiorando nella sociologia. I problemi specificamente musicali non si sono potuti eludere, a meno che la sociologia della musica non intendesse restringersi alla mediazione di reazioni soggettive senza tener conto dell’oggetto. E non di meno, l’aspetto sociale avrebbe potuto possedere un momento di autonomia. Da un lato, la società -americana o europea che fosse- aveva costituito il quadro per il jazz e l’improvvisazione. Chi avesse paventato un suo accoglimento senza pensare in pari tempo alla struttura complessiva nella quale tale musica venisse a collocarsi in uno con la possibilità o l’impossibilità del suo accoglimento, avrebbe pensato -e nel senso peggiore- in termini astratti. Dall’altro lato lo stato della società si connetteva profondamente con le difficoltà d’ascolto che sembravano di mera natura musicale. Ci limiteremo a ricordare un fattore ostativo di carattere generale all’accettazione del nuovo sound, vale a dire ciò che in un altro contesto si sarebbe potuto definire “cultura monca socializzata”, la quale sarebbe corrisposto all’amministrazione dello spirito e alla sua trasformazione in beni culturali. Tale “cultura monca” contrastava sin dall’inizio con la possibilità di comprendere un’arte che non intendeva piegarsi a quei meccanismi e anzi vi resisteva in modo risoluto. Se ci occupassimo solo dei problemi tecnici dell’ascolto, presupporremmo tacitamente quantomeno la potenzialità di un rapporto tra gli ascoltatori e la musica jazz, e la volontà di stabilirlo. Ciò che appariva ovvio per l’analisi tecnologica risultava invece problematico all’estremo per quanto riguardava il rapporto sociale tra il pubblico e il jazz decisamente d’avanguardia. Come dire, una sorta di scrupolosità estetica. E appare alquanto probabile che ciò 3
Adorno, op. cit.
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potrebbe essere una reazione a qualcosa: finché le cose rimanessero tali, quasi un’omertà, e invece si è considerato il jazz, quanto più lo si prendeva sul serio, alla stregua di un gioco, mentre gli interessati professionisti dell’industria musicale legavano ad esso, apologeticamente, una vera e propria circostanza economica, spesso anche sordida, del suo ciclo produttivo. Ad ogni modo la scrupolosità estetica e la disposizione a divertirsi, che non era certo una novità, non avevano nulla in comune. II voler divertirsi per l’appunto rivelava aprioristicamente una facilità di accontentarsi, ancor prima che si configurasse il conflitto vero e proprio tra l’ascolto e il precipuo fenomeno del nuovo sound. L’ascoltatore risentito o astioso, si poteva ulteriormente distinguere in due sottospecie: l’amante della musica preromantica ed il jazzofilo. Il primo identifica nell’operato di musicisti come Beethoven o Mozart l’apice della composizione musicale di tutti i tempi; perciò si rinchiude nel loro culto esclusivo. Il secondo è persuaso invece della superiorità del jazz rispetto a qualsiasi altro tipo di musica e, per questo, reagisce sdegnosamente a qualsiasi obiezione al suo credo musicale. Il fondamento della propria posizione è solitamente motivato su una tradizionale superiorità del jazz rispetto alla musica “commerciale” e su una sua maggiore immediatezza rispetto alla musica classica. Tuttavia, rileva Adorno, egli non si rende conto del fatto che anche “il jazz è incatenato alla musica commerciale” e che “il suo è un ascolto statico. Disprezza la vita musicale ufficiale in quanto slavata e illusoria, ma non sa spingersi oltre questa constatazione e si rifugia in epoche del passato che ritiene al sicuro dalla predominante mercificazione, dalla reificazione. Ma con la sua rigidità è tributario di quella stessa reificazione cui si oppone”.4 A questo punto della discussione bisognerebbe chiedersi a quale tipologia di jazz si riferiva Adorno? Nello studio che si sta analizzando non vi sono precisi riferimenti in tal senso (altro ostacolo da superare). Tuttavia se il filosofo non esita a definire il jazz come “una musica che, con una struttura melodica armonica metrica e formale elementarissima combina lo svolgimento musicale a partire da sincopi in qualche modo irritanti che non scalfiscono però mai l’ottusa uniformità del ritmo fondamentale, né i tempi sempre identici, i quarti”5 si può individuare il suo bersaglio polemico nei gruppi e nelle orchestre della Tin Pan Alley, che spopolavano in America nei primi anni Trenta. Orchestre come quella di Gershwin per esempio, essen4 5
Adorno, op. cit. Moda senza tempo. Sul jazz in ‘Prismi. Saggi sulla critica della cultura’, Einaudi, Torino, 1972.
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do nate originariamente per far ballare la gente, dovevano per forza di cose suonare brani sincopati. Al massimo il loro repertorio poteva variare con la proposta di qualche ballad. Ma ad ogni modo, sebbene siano queste le sue origini, il jazz diventò ben presto molto più che una semplice musica da ballo. I jazzisti svilupparono una visione “artistica” dello loro musica quando l’enfasi di quel sound passò dall’esecuzione live allo studio di registrazione, dall’improvvisazione collettiva ad un testo letterario di taglio individualistico, da una massa candida di adolescenti ad un pubblico di ascoltatori in grado di apprezzare la musica che stava ascoltando. Questo fermento si sviluppò lontano dai luoghi e dalle situazioni che avevano dato un significato al jazz e ai suoi derivati. I musicisti jazz “progredivano,” e nel loro progresso strizzavano l’occhio sempre più agli elementi non-neri presenti nella loro musica. Spesso i tentativi di spiegare il divario tra il jazz e la sua comprensione sono apparsi talvolta insufficienti. Ci chiediamo perché per molti ascoltatori è stato così difficile capire questa nuova musica? Spesso la causa di questa incomprensione si è attribuita ad una sorta di estraneità. Bisogna tener conto anche che dalla seconda metà dell’Ottocento la sempre più costante autonomia della musica ha sempre più allontanato questo genere dagli uomini: una cesura -questa- che nell’ambito poetico si potrebbe comparare all’equidistanza tra Heine e Baudelaire. Tale cesura ha percorso anche il jazz; per i più il be-bop prima e la new-thing dopo ne hanno costituito il momento saliente. La ragione, che nel frattempo era divenuta un luogo comune, per spiegare questa situazione di cose si avvaleva della sua mera constatazione. Se si privasse questo argomento dei fronzoli culturalistici, non rimarrebbe altro che gli uomini risultavano estranei al nuovo sound perché gli erano estranei. Era una maniera sterile di porre la questione, e perciò vorremmo tentare -almeno per cenni- di approfondirla un poco. Liquidando la faccenda in poche parole, è indubbio che spesso -e in certi strati sociali in qualche modo ristretti- è apparso coerente il rapporto tra jazzofili e jazz, praticamente tra ascoltatori e musica che ascoltavano. Questo però, nei casi più salienti, da Armstrong in poi, non era affatto così ovvio poiché era solo un aspetto del problema, ed è necessario aggiungere che dal lato dei jazzisti si assisteva parimenti, e da sempre, a prese di posizione nei confronti della società, del suo sviluppo e delle sue esigenze. Anche nella storia della Musica non c’è mai stata una siffatta beata adeguatezza alle sue massime espressioni, e questo dovrebbe far riflettere quanti credono di pensare in termini sociologici allorché condannavano la musica jazz o additando la sua asocialità. Possiamo dire tranquillamente che la palese coerenza tra jazzofilo e musica jazz è rimasto un fenomeno circoscritto all’éra della tonalità, e precisamente nella sua forma prevalentemente diatonica.
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Prendiamo l’apparente ostilità di Adorno6, la sua giusta critica alle idee primitive di coloro che credevano che gli uomini ascoltassero veramente la musica secondo categorie come ‘classica’ o ‘leggera’ (populär), e che dunque identificavano il simbolo verbale adoperato con l’oggetto. A tal proposito è giusto cogliere l’occasione per sottolineare che spesso si attribuisce alle espressioni ‘sociologia teoretica’ e ‘sociologia empirica della musica’ un significato reale; peraltro il nostro modo di intendere il concetto di musica nella stratificazione sociale si basa sulla consapevolezza che sotto il profilo squisitamente teoretico-conoscitivo risulta falsa la rigida frattura sociologica. L’unità dialettica di teoria ed empiria, sociologicamente parlando -ma anche per gli altri ambiti scientifici-, appare condizione essenziale della sua esistenza come scienza. Parlando poi dei tipici atteggiamenti dei jazzofili Adorno afferma che: i sostenitori del jazz si articolano in due gruppi distinti. Ci sono gli esperti e poi quelli che si ritengono tali (più spesso sono soltanto dei fanatici che con una terminologia già “collaudata” calano fendenti e distinguono pretenziosamente diversi stili di jazz senza essere capaci di rendere conto in concetti precisi e tecnico-musicali di quanto, a loro dire, li entusiasma). In grazia d’una simile confusione che oggi alligna dappertutto, per lo più si credono all’avanguardia. Uno dei sintomi del crollo della cultura, e non tra gli ultimi, è questo: la distinzione, per discutibile che sia, fra arte “alta”, autonoma e “leggera”, commerciale, non viene esaminata criticamente, ma in compenso non è neanche più percepita.7
Nessun dubbio che molte cose sono state recuperate. Non senza fatica sono diventate intelligibili anche opere dell’epopea free seguita al venir meno della comprensione intuitiva del precedente be-bop, ma questa apertura non va sopravvalutata. Spicca una differenza sostanziale tra il tollerare un’opera semplicemente perché è vetusta e il metabolizzarla davvero. L’esecuzione del primo Pithecanthropus Erectus di Charlie Mingus oggi non farebbe più scandalo. Nel frattempo il pubblico è diventato avvezzo a tutt’altro, e in quell’opera mingusiana si trovano pur sempre numerose parti ed elementi che attenuano lo shock. È tuttavia da supporre che quest’opera, di straordinaria difficoltà per la sua sezione liberamente improvvisata in uno stile non correlato alla melodia della canzone o alla struttura formale degli accordi, sia oggi metabolizzata in toto e ascoltata “intrinsecamente” altrettanto poco che nella società delle grandi battaglie razziali di Martin
6 7
Soziologie und empirische Forschung, in E. Topitsch, Logik der Sozialwissenschaften, Köln-Berlin, 1965. Soziologie und empirische Forschung, op. cit.
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Una storia sociale del jazz
Luther King e, soprattutto, di Malcolm X, e del Black Power, quando fu scritta. Sarebbe il caso, anche fruttuoso, studiare davvero a fondo il modo in cui furono accolte dai membri di quella società in pieno fermento rivoluzionario le opere mature dello stesso John Coltrane. Emergerebbe probabilmente che in Trane erano compresi per un verso certi epifenomeni, e a volte proprio quelli che contraddicevano il suo ideale, e per un altro verso il groove ideologico che presiedeva al complesso dell’opera; e che molto meno invece era compresa la struttura delle sue musiche. Un valido parallelismo va fatto con il ragtime ‘colored’, che apparve essenzialmente un esempio di improvvisazione razziale. Alla stregua del suo successore, che sarà poi il jazz, il mero significato del ragtime viene mutuato -da un lato- dalle musiche dotte occidentali quale potrebbe essere l’arte della fuga bachiana, dall’altra mostra una reinvenzione di ritmi incrociati che palesa le fondamenta delle sonorità di Madre Africa. Il fenomeno che in seguito emerse negli anni Settanta, grazie al successo cinematografico de La Stangata -e aggiungeremmo anche i successivi revival avvenuti nel trentennio a posteriori- avevano prodotto un nuovo modo di concepire il ragtime, diverso se non addirittura in opposizione a qualsiasi altra considerazione precedente. La tesi che si vuol far passare è che non si era trattato di un semplice ‘amarcord della musica sincopata’ bensì di una vera e propria rivalutazione dell’intero oggetto musicale a 360 gradi. L’ascolto raffinato di tipo mitteleuropeo era orientato ad avvertire questi ritmi di stampo africano come sincopatura, trasferimenti di cadenza della voce principale, accentuazione ritmica cadenzata immediatamente prima o dopo il regolato. Tuttavia alla luce delle nostre conoscenze degli elementi musicali africani si può constatare l’evoluzione della ritmica riempitiva osservando lo stesso pentagramma jopliniano ma immaginandolo con un’altra modalità. In Tesi sulla rivoluzione culturale, scritto per il primo numero di “Internazionale Situationniste”, Guy-Ernest Debord8 afferma: “La vittoria sarà di coloro che sapranno creare disordine senza amarlo”. Anche se il rock’n’roll degli anni Settanta era privo di disordine, Malcolm McLaren capì che restava comunque l’unica forma di cultura che interessasse i giovani, e a trent’anni, nel 1975, si rifece a una definizione dei giovani degli anni Sessanta: la gioventù è un atteggiamento, non un’età. Per i giovani veniva tutto dal rock’n’roll (moda, gergo, abitudini sessuali, droga, atteggiamenti), o era organizzato dal rock, o ne era avallato. I giovani, che in quanto fantasmi legali non avevano nulla e in quanto persone volevano tutto, sentivano la contraddizione tra ciò che la vita 8
Debord Guy, Sanguinetti Gianfranco, I Situazionisti e la loro storia, ManifestoLibri, Roma 2006
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prometteva e ciò che in realtà offriva: la rivolta giovanile era una chiave della rivolta sociale, e così il primo bersaglio della rivolta sociale poteva essere il rock’n’roll. Si potevano fare connessioni. Se si fosse potuto dimostrare che il rock’n’roll, autorizzato ideologicamente nella metà degli anni Settanta a essere l’eccezione predominante nella conduzione monotona della vita sociale, era diventato semplicemente il dente più lucido nella ruota dell’ordine stabilito, allora una demistificazione del rock’n’roll avrebbe potuto portare a una demistificazione della vita sociale. Il fratello minore del rock’n’roll, il jazz per intenderci, si trovava in una fase propulsiva già dagli anni Sessanta, anni che avevano testimoniato un risveglio d’interesse coinvolgendo anche il ragtime classico proprio come era stato descritto da Rudi Blesh in They All Played Ragtime, sebbene si trattasse di un fenomeno in scala ridotta. Sicuramente in piena éra di contestazione giovanile il ragtime si trovava ancora in una zona d’ombra e in qualche modo risultava esoterico e mal definito. L’’intellighentia’ americana, orientata sia al jazz che alla musica classica, nel migliore dei casi vedeva il ragtime come una forma primitiva di jazz laddove la media borghesia non aveva avuto alcun contatto reale con esso. La ragione era a portata di mano: il ragtime non rientrava in alcuna classificazione e, quindi, non ancora trasformato in prodotto finito e commerciabile. In definitiva, non aveva una propria identità. Per pubblicizzarlo, la musica ufficiale dapprima doveva catalogarlo, poi fargli attribuire un rango dalla critica e poi inserirlo nelle hit-parade nazionali e internazionali. In quegli anni ci si muoveva in un’éra di analisi del pubblico e in una formula radio. Il ragtime non si adattava ancora in nessuna delle categorie tradizionali. Non era rock, middle of the road, easy-listening, country western, classico, jazz o soul. Tutto ciò fino agli anni Settanta ovvero quando i soloni della musica classica scoprirono il patrimonio di Scott Joplin. Ancor più forza nel pianismo dei ragtimers9 alloggiava nella particolare agilità dei pianisti stride. Lo stile stride-piano, (che venne anche chiamato talvolta Harlem piano) che Fats Waller e James P. Johnson crearono poco dopo il 1920, si basava sul modo di rendere consistenti le armonie e di estendere la forza emotiva del ragtime attraverso un idioma altamente formale, anche se piuttosto fragile ma che tuttavia riprendeva qualcosa dell’espressività che si trova normalmente nei blues. Lo stridestyle emerse dalla Costa orientale e risultava molto più potente del normale piano rag-
9
Per un maggiore approfondimento vedasi Gildo De Stefano, Ragtime, jazz & dintorni, Prefazione di Amiri Baraka, Sugarco Editore, Milano 2007.
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time. Si mostrava notevolmente esibizionistico, raffinato, difficile, molto provocatorio e, soprattutto, rivoluzionario. Le composizioni più popolari e influenti di Joplin -i rag per pianoforte, per intenderci- traevano il loro carattere ritmico e la loro energia dall’universo afro-americano. Nonostante ciò ebbe l’ambizione di integrare elementi stilistici di quest’ultimo con le tipiche forme europee classiche, cullandosi nella perdurevole illusione che la sua musica –il ragtime- si potesse affiancare rispettosamente ai classici della Vecchia Europa. Per quanto possa sembrare paradossale nella scuderia di Stark colui che appariva un po’ più brillante di Joplin, condendo la sua musica con un po’ di jazz, sicuramente risultò James Scott, anch’egli ragtimer classico. Basti pensare che, nonostante il loro iniziale intento chiaramente pianistico, i brani di questo musicista del Missouri sono stati per lungo tempo il repertorio preferito delle bande tradizionali di jazz. Essi sono armonicamente copiosi e il tessuto melodico è colmo di complicati intervalli per entrambe le mani. Egli amava molto rinnovare la tecnica impreziosendola di nuovi espedienti come introdurre motivi e riecheggiarli in un’ottava velocemente. I motivi venivano eseguiti in un sol tempo, solitamente vivaci, e la loro esecuzione richiede energia e abilità da parte del pianista. La produzione di Scott vanta molti ammiratori ma pochi provetti interpreti, tuttavia, malgrado la laboriosità tecnica non passa certo inosservato il piglio rivoluzionario dell’autore. James Scott incarna l’artista-padrone della forma piuttosto che l’artistacreativo. Il suo stile, pregno di un inconfondibile mood, risultava costantemente coerente dall’inizio della carriera fino al 1920. La sola cosa che mutava attraverso questo lungo arco di tempo era la complessità: infatti, per quanto intensi e difficili da interpretare i suoi brani rispettavano comunque il trend del momento, come lo furono quelli di Joplin. La diversità dai rag di quest’ultimo era nei tratti drammatici, di rado presenti. Laddove Joplin poneva un intero tema in chiave minore, palesemente malinconico e d’ispirazione blues come accade in certi passaggi del Magnetic Rag, James Scott cambiava e andava avanti tra maggiore e minore, creando tensione tra le due tonalità nello stesso tema ma senza manifestare –in entrambi– alcun accento melanconico. La sostanziale differenza stilistica tra questi due grandi musicisti di ragtime è rintracciabile nell’affresco orchestrale dell’opera Treemonisha, soprattutto a proposito di pathos. Tali musiche sono ormai organizzate in modo da non essere percepite con la medesima precisione in ciascuna del loro impianto compositivo come poteva essere –per esempio- il ragtime di Stravinsky, bensì per così dire da una certa distanza. Una percezione così vaga rappresentava il suo presupposto, anzi si può affermare che fosse insita nella com-
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posizione; la notazione musicale e il fenomeno sonoro percepito non convergono affatto. A tal proposito giova ricordare una considerazione sociologica che Benjamin10 fece in termini analoghi su Baudelaire: da quando fu operato quel salto nella seconda metà del diciannovesimo secolo e specialmente se si trattava di musica moderna, la musica si rivolge ormai ad ascoltatori che non vi badano più con la stessa attenzione del passato e che, si potrebbe aggiungere, per conseguenza non la comprendono con la stessa adeguatezza. Le modificazioni storiche intervenute nell’atto della comprensione sono pertanto attribuibili al procedimento stesso della composizione. Nella coscienza musicale primaria e nell’inconscio collettivo certe tonalità della musica jazz, benché fossero a loro volta un prodotto della storia, sembravano essere divenute qualcosa di simile a una seconda natura. Si potrebbe così spiegare la loro tenace persistenza nella coscienza di una società jazzofila rispetto alla comprensione di strutture che, dal canto loro, si erano sviluppate come linguaggio musicale, in tutta conseguenza e necessità, dall’evoluzione immanente alla stessa tonalità. Per comprendere al meglio le difficoltà sollevate dalla comprensione -per esempio- della new thing sorta senza compromessi o concessioni al sistema, praticamente un nuovo tipo rivoluzionario di musica nera che voleva volutamente provocare forti reazioni negli ascoltatori per scuoterne la coscienza, era opportuno ribaltare la questione ossia domandarsi da dove provenisse la tenacia di quelle tonalità jazz in quanto linguaggio musicale. In primis andava considerato che tali schemi di tonalità erano stati ampiamente il risultato di un processo evolutivo involontario e non pilotato. E qui entra in ballo la peculiarità essenziale, basica, della musica jazz: l’improvvisazione. La larga parte d’improvvisazione accordata al solista (i «chorus») e l’usanza per cui un gruppo deve esso stesso mettere a punto uno svolgimento originale suI tema prescelto, fanno si che nel jazz poco importi di sapere che cosa si suoni, bensi chi suoni. E altro ancora rende secondario il titolo dell’opera di fronte al nome dei musicisti: lo spirito stesso secondo il quale si svolge ogni autentica interpretazione del jazz. II jazz infatti si differenzia essenzialmente dalla musica classica per un trattamento particolare del suono ed una messa in valore specifica del ritmo. Ciò equivale a dire che non vi è un jazz per l’occhio, e che esso non è riducibile ad una somma di procedimenti scritti (benché i suoi procedimenti non siano affatto trascurabili). Nasce e muore con l’esecuzione. Ne consegue che la migliore composizione di Duke Ellington non è jazz se eseguita secondo le regole insegnate al Conservatorio. Ma dell’improvvisazione, come elemento catalizzatore del jazz, ne discuteremo più avanti. 10
W. Benjamin, Lettere 1913-1914, Einaudi, Torino 1968.
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Una storia sociale del jazz
Gli apologeti del jazz hanno dimenticato troppo facilmente che quella tipologia di atonalità rappresentava un sistema di suoni meramente consolidato e pertanto hanno dimenticato che esso si concretizzava precipuamente nel concetto di spinta oggettiva. Se la tonalità nella musica jazz fu la mediazione tra un linguaggio musicale immediato che gli artisti -se così si può affermare‘parlavano’ più o meno spontaneamente e le regole che si erano cristallizzate all’interno di questo linguaggio, l’equilibrio tra linguaggio e regola era stato ora infranto dalla new thing all’incirca da che apparvero le prime opere dell’atonalità coerente, in una frammentazione e irregolarità del ritmo e della metrica, in un’atonalità che poteva arrivare fino al rumorismo. L’abbandono nella nuova corrente jazzistica del consenso generale appariva in sé stesso un momento essenziale del materiale nuovo, benché questo fosse scaturito a sua volta dalla legge dinamica del jazz tradizionale. Per non essere corriva al linguaggio precostituito il nuovo sound avrebbe voluto con la sua scelta sbarazzarsi dei momenti linguistici in generale e costruire le connessioni con le sole forze della tensione, intesa come intensità e liricità, che talvolta assumeva caratteri orgiastici e liberatori. Motivi eclatanti al fondo di questa evoluzione: il linguaggio digressivo, idiomatico e precostituito, l’improvvisazione totale nell’ambito di un decoro formale totale e senza sbavature, entrarono in conflitto con la differenziazione individuale della musica, nella quale si manifestava il processo di differenziazione borghese. II momento collettivo all’interno del linguaggio tonale si era venuto sempre più evolvendo verso una situazione in cui le cose apparivano comparabili le une alle altre, ossia si erano trasformate in livellamento e convenzione. La dimostrazione più semplice di ciò era che gli accordi fondamentali del sistema tonale della corrente free potessero figurare in punti innumerevoli, per così dire come forma d’equivalenza, come il sempre identico per il sempre diverso, senza che si dovessero modificare in sé stessi. Questa equivalenza all’interno del linguaggio musicale propendeva sempre più verso la mercificazione come suo veicolo, a meno che addirittura -come altri studiosi11 temevano-, non avesse operato sin dall’inizio, nella comparabilità e interscambiabilità degli elementi tonali, il medesimo principio che aveva sotteso la concezione mercantilistica dell’epoca borghese. Ad ogni modo, il carattere di merce aveva via via permeato tutto il linguaggio della musica, contaminando finanche il jazz e le sue evoluzioni sociali. Ciò divenne intollerabile, e quello che una volta era linguaggio in musica divenne rumore insensato a causa dell’incremento delle contraddizioni e dei contrasti nella società americana, e la voglia di ribellione del popolo dei neri. Certo romanticismo jazzistico della prima ora l’aveva 11
Adorno, op. cit.
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avvertito senza darsene per inteso. Le usuali invettive contro l’individualismo e il soggettivismo romantico non fecero in genere che preparare una stentorea ideologia a copertura di quell’essenza irrigidita e meccanica contro la quale gli artisti si erano ribellati finché l’idea di libertà fosse ancora vitale per loro. Quel che sembrava individualistico nella protesta elevata in nome della libertà d’espressione contro il dominio della tonalità appariva una protesta sociale contro il mercimonio del linguaggio musicale, contro il suo svilimento a ideologia.
3.2 L’inflessione sociale del suono Documento acquistato da () il 2023/04/10.
I pianisti classici non hanno uno sfogo per tutta quella musica che hanno dentro. E allora cercano di mettere qualcosa di personale dentro Mozart, o Beethoven, uno sforzo terribile. Io suono Bach o Händel alla lettera, la ‘mia visione’ non esiste. Ma quando improvviso sono completamente libero. I più grandi pianisti del mondo tengono la loro immaginazione al guinzaglio perché hanno sempre davanti quello spartito. Allora io dico: liberateli. Il mio amico Vladimir Ashkenazy mi ha raccontato che suo padre suonava il piano nei cinema ai tempi del muto: improvvisava sempre. ‘Io non sarei capace’, mi ha detto. Dovrebbe ritirarsi per mesi ed entrare in una forma mentis completamente diversa. Ecco perché i grandi pianisti rischiano la schizofrenia. Lo stress produce un modo di suonare meccanico, la fedeltà è una trappola: io cerco di non essere fedele nemmeno a me stesso, il cervello è ingannatore, le dita gli dicono cose che, da solo, non immaginerebbe mai. Keith Jarrett, intervista al Corriere della Sera, maggio 2009
Quando si discetta di improvvisazione bisogna tenere ben presente il trattamento particolare del suono. II primo criterio che permette di definire uno stile musicale colored è un certo lavoro del fonema, estraneo alla tecnica tradizionale dei bianchi. Impadronitosi degli strumenti musicali, il nero cercò di trasporre su di essi gli effetti di voce dei bluesmen. Così invece di emettere il suono in modo schietto e all’altezza normale, l’esecutore di jazz poteva far variare l’intonazione e la risonanza del suono nel corso di emissione, innalzandolo e abbassandolo talvolta persino di un semitono12. Secondo gli strumenti, queste inflessioni ebbero delle sottospecie nel glissando, per il quale la nota si 12
The Mood To Be Wooed, di Duke Ellington: assolo di Johnny Hodges
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trascina su parecchi gradi della scala13, e nel portamento, in cui la nota, spinta e abbandonata, descrive una parabola «ad arco»14. Con un procedimento opposto a quello dell’emissione con inflessioni, gli artisti del jazz usarono pure l’attacco brusco, operando violentemente sulla sensibilità dell’ascoltatore con l’insorgere potente del suono15. Infine, mentre l’uso del vibrato accentuato, di grande ampiezza e cospicua frequenza, conferiva alla sonorità un accrescimento di calore e di volume16, si ottenne l’imitazione dei suoni vocali soffocati o frantumati sia con l’applicazione della sordina al padiglione dello strumento17, sia con una vibrazione forzata della gola e delle corde vocali determinanti il growl strumentale18. La pratica dell’inflessione, dell’attacco secco, del vibrato, il ricorso a sonorità dirty (aspre, stridenti) rivelarono, a coloro che hanno la possibilità di sottrarsi ad abitudini culturali troppo costrittive, un nuovo universo sonoro, in alta misura ricco e commovente. Questo trattamento del suono, com’è stato poc’anzi descritto, non è peraltro rimasto identico a sé stesso nel corso degli anni. Ha avuto la sua storia nel jazz, come I’hanno avuta la melodia, l’armonia e il ritmo. L’attacco, in primo tempo brutale, gradatamente perse drasticità con l’orientarsi dei musicisti verso un fraseggio più legato. I sassofonisti della scuola di Bennie Carter, molto prima del secondo conflitto mondiale, possedevano un attacco fine, delicato, foriero di un’evoluzione di cui la tromba di Miles Davis sembra essere rimasto l’ultimo anello. Ciononostante -e in ogni caso- l’attacco rimane nel jazz notevolmente dinamogeno per il volume della nota emessa e per la sua densità sonora, cioè per la ricchezza di armonici (fattori dipendenti da un modo particolare di insuffiare su cui bisognerebbe approfondirsi). Ci chiediamo ancora se nel tempo si è constatato una certa disaffezione dei jazzisti per l’inflessione e per il glissando. Certamente il vibrato, come riattacco in forza, ha segnato tuttavia un certo regresso. II vibrato, rude all’origine19, si è col tempo affinato20. Scompare totalmente in alcuni solisti, come Lester Young, nel tempo veloce. Alcuni musicisti moderni alternavano note vibrate a note non vibrate -per es. Dizzy Gillespie e Charlie Parker-, vibravano alla fine del fraseggio. Come pure 13 14 15 16 17 18 19 20
Snow Ball, di Louis Armstrong: la coda. If You See Me Comin’: assolo di chitarra di Teddy Bunn. Le trombe di I Got Rhythm, disco Swing. Relaxin’ At The Touro, di Muggsy Spanier: l’introduzione della tromba. Black And Tan, di Duke Ellington: gli assoli di tromba e trombone otturati, il suono mutato in «wa-wa». Blues [tradizionale] del Jazz at the Philarmonic: seconda parte: assolo di sassofono di lllinois Jacquet. Come per es. quello di King Oliver. Si ascolti quello di Louis Armstrong in Tight Like This e attenuato, come quello di Leon “Chu” Berry in Shufflin’ At The Hollywood.
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Lee Konitz, e molto leggermente in movimento lento, come usava fare pure Miles Davis. Nondimeno le sonorità risultavano radicalmente diverse da quelle della musica classica. La tecnica dell’insufflazione, usata dai jazzisti di quel periodo, per cui l’emissione non era regolata dalla gola ma dalla semplice contrazione toracica -l’aria essendo espirata dal profondo e in gran quantità- contribuiva, come l’aveva ben rilevato il compositore Jean Ledrut, a dare al suono un volume sconosciuto alle scuole dei bianchi. Il timbro così singolarmente soave della tromba di Miles Davis, quello denso e chiuso del tenore di Young, quello feltrato del tenore di Getz, la loro sonorità «interiore», rimangono forse più distanti ancora dall’ideale dei nostri conservatori di quanto non lo fossero il timbro e la sonorità dei loro predecessori. In definitiva, se ogni generazione del jazz ha operato a suo modo sulla materia sonora, lo scopo perseguito è rimasto identico. Invece di ricercare la purezza del suono come esigeva il metodo classico, i solisti di jazz, da King Oliver ai musicisti d’avanguardia, si sforzavano di renderlo espressivo, opponendo così ad una sonorità limpida, affettivamente neutra, una sonorità che racchiudeva in sé un senso d’umanità.
3.3 Teoria sociologica del ritmo: concettualismo dello swing Ho imparato tanto sulla batteria da Max Roach, quando suonavamo insieme con Bird e vivevamo insieme mentre giravamo il Paese. Era sempre lì a farmi vedere delle cose. Mi ha insegnato che il batterista ha il compito di proteggere il ritmo, di mantenere un beat interno, di proteggere il groove. Proteggere il groove significa avere un ritmo dentro a un ritmo. Come “bang, bang, sha-bang, sha-bang”. Lo “sha” che sta tra i “bang” è il ritmo dentro il ritmo, e quella piccola cosa è il groove in più. Quando il batterista non riesce a farlo, allora non c’è più il groove, e non c’è niente di peggio al mondo di un batterista senza groove. Una roba del genere è come la morte, cazzo. Miles Davis, L’autobiografia, 1989
Il ritmo jazz differisce da quello che si incontra nella musica classica poiché si articola secondo lo swing. Tensione, distensione, esasperazione, rilassamento, sono caratteristiche che ascrivono allo swing una viva partecipazione al dolore, al piacere del desiderio e all’angoscia. La serie di antinomie che l’analisi descrittiva pone innanzi, può soltanto suggerire, non esprimere una sensazione reale che sfida il commento. Diremo, sotto
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forma metaforica, che i tempi della misura sembrano agire dall’avvenire al presente e l’uno in rapporto all’altro come irresistibili poli d’attrazione. Ogni esecuzione secondo il ritmo pare sottostare ad una potente linea di forza temporale, all’appello imperioso dell’immediato futuro sorgente dell’impressione d’intensa vitalità prodotta dall’ascolto della musica nera. Il jazz genuino è anzitutto la ricerca specifica dello swing. È questa che fa urlare di compiacimento e rullare le masse nere nei concerti e conferisce ai ballerini di colore la propulsione ritmica che ha ragione della pesantezza. Argomentando di jazz appare improbabile trascurare l’importanza che ha in sé l’esistenza dello swing. I giudizi espressi sulla musica jazz da chi è insensibile allo swing sono preventivamente svalutati. Una tale percezione lacunosa dispone alla comprensione dell’argomento non più di quanto i quattro sensi offrano ad un cieco la visione totale di un vedente. La migliore intelaiatura armonica, il più soave disegno melodico non bastano al jazz. E forse su questo piano il jazz si accontenta di una certa semplicità o trascuratezza, rimanendo lo swing l’essenziale. La principale influenza della musica jazz sul genere pop è rappresentata dal fattore ritmico. Sotto questo aspetto il jazz divenne una forma di comunicazione di massa sotto forma di musica da ballo. Il riscatto del jazzista-artista si concretizza nell’opporsi a tale visione funzionalista, al rigore formale e al rigido schematismo di una compagine orchestrale o di scansioni beat da discoteca. Tuttavia è anche tramite la musica da ballo che il jazz ha assunto un significato agli occhi dei suoi fruitori bianchi, un significato che si ricollega all’importanza del ballo in sé. La peculiarità più palese del ballo risulta essere la sessualità: il ballo istituzionalizzato, una forma d’interazione fisica maschio/femmina particolarmente vincolata, satura di tensioni e di aspettative erotiche: uno dei cardini dell’utilizzo colored del ritmo è l’evidente espressione di queste tensioni. Mentre gli schemi occidentali del ballo controllano l’erotismo con ritmi formalizzati e con motivi innocui, la musica jazz celebra il sesso con un beat repentinamente fisico e un sound intenso, gravido di emozioni, comunicando la potenziale anarchia di un feeling sessuale. La società moralista ha sempre considerato le forme del ballo che si rifanno alla musica jazz una minaccia ai codici di rispettabilità del comportamento. Il jazz, in breve, ha sempre rappresentato un mezzo che permetteva d’esprimere pubblicamente stati d’animo che, di norma, rimanevano privati. I luoghi in cui veniva eseguito acquistavano, di conseguenza, un’atmosfera possibilista ed eccitante che offriva alla comunità giovanile simboli di ribellione in opposizione alla cultura dominante. Nei paese anglofoni, infatti, la musica jazz ha incarnato il background musicale per almeno tre generazioni della comunità hippie di protesta.
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Questa animazione originale del ritmo di colore non è raggiungibile di proposito. Lo swing rimane un atteggiamento della sensibilità particolare degli afroamericani e di alcuni bianchi predisposti e, per altro verso, il postulato dell’ambiente e della disposizione momentanea del musicista. Sembrano tuttavia presiedere alla sua formazione diverse condizioni oggettive, non sufficienti ma necessarie. Quanto dire, per la sezione di accompagnamento: l’adozione del movimento 4/4, la condotta inflessibile e regolare del tempo, l’articolazione rigorosa dei tempi della misura (una precisa uguaglianza di durata), e -infine- l’uso di opportune accentuazioni. La presenza di una sezione di accompagnamento che si esprime in tal modo, a lato del melodista che tende lui stesso a idealizzare lo swing, è indispensabile. Anche per lui, del resto, rappresenta una necessità l’esecuzione senza rigidità, l’assenza di qualsiasi tendenza a rallentare o ad accelerarne il tempo, la messa a punta perfetta delle note. Per la costruzione dei due assoli, il melodista più precisamente farà appello alla divisione binaria, ternaria o quaternaria del movimento, secondo i diversi tempi, all’impiego di ritmi «bilanciati» (alternazioni di ottavi puntati e sedicesimi) e sincopati, e -non ultimo- ad accentuazioni libere, sottolineanti delle note privilegiate. Tali accentuazioni utilizzate dai jazzisti nella seconda metà del secolo scorso, risultavano debordanti dal tempo, utilizzate a mo’ di pilastri ritmici, ricadendo generalmente sui tempi. II fraseggio dei jazzisti non ha altro scopo che lo swing, e appare indubbio che mezzo e scopo siano concetti inseparabili. Anche qui, un jazzofilo dall’orecchio abituato soltanto alla musica classica non accetterebbe che con riserva una relativa monotonia di costruzione, evincendo tuttavia delle qualità dinamiche. Peraltro si sa che la musica jazz non ha il buon auspicio di piacere a tutti. Essa rimane estranea a quello strato sociale che non può liberarsi dalla tirannia dell’educazione europea. Le giovani generazioni, che ne sono venute presto a contatto attraverso l’opera di un esiguo numero di spiriti aperti, l’hanno accolta con maggior favore. Questi spiriti larghi rappresentarono per lungo tempo delle eccezioni. II loro godimento, ormai largamente condiviso, ne conferma la convinzione: il jazz, pur restando essenzialmente nero, poteva essere universalmente accettato. Nella musica nera, i segni dei bisogni e delle forze reali che si agitano nella società, le allusioni alla verità nascosta dietro le sdolcinate immagini della cultura di massa, non si limitano alla sessualità. La musica afro-americana non appare soltanto una musica del corpo, possiede anche una forma poetico-Ietteraria. I seguaci del jazz hanno sempre confrontato i “fatti della vita” dei testi blues con la formula “idealizzazione/frustrazione/demoralizzazione” propria della canzonetta. Peraltro anche i fans del rock si sono avvicinati al realismo sociale presente nelle parole della musica nera.
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Tuttavia è doveroso ammettere che l’incomprensione, che in passato ancora si poteva attribuire a un’educazione fossilizzante, può aver radicato anche nell’inclinazione personale. Nel Terzo Millennio molti individui che non hanno ancora vent’anni non si avvicineranno mai al jazz. II vero jazz rimane tuttora un settore ristretto della vita musicale dei paesi occidentali. Esso richiama l’interesse, ma non saprebbe imporlo. La sensibilità ad esso non si manifesta in ugual misura in ognuno, e certamente l’imponderabile prossimo vi gioca la sua parte in larga misura. Ciononostante la musica jazz ha conquistato un’élite ed un pubblico abbastanza numeroso. Appare nella nostra cultura come un fenomeno di cui non si può più sottovalutare l’importanza. Si è detto a più riprese che sarebbe stato un fenomeno transitorio, ma il suo tempo, alquanto considerevole, sembra a tutt’oggi non essere affatto esaurito. Si è anche detto che godesse di poche risorse, e invece si è suddiviso in scuole e correnti diverse, non cessando di evolversi. Talvolta gli si è rimproverato il suo ritmo monocorde, ma tutto sommato è da questo che proviene il suo fascino. In certe sue trame si è riscontrato una sorta di innegabile trionfo della sensualità, giudicato in modo bigotto poiché gli occidentali sono spesso giunti a ritenere avvilenti le sue virtù dionisiache. Gli si è anche negata ogni possibilità di elevazione per l’incapacità di rendersi conto della maestria con cui la tromba di Armstrong plana su Tight Like This. In realtà, più del cubismo, il jazz si è indirizzato a ciò che in noi aveva sete di vitalità e, meglio del surrealismo, ha rappresentato un vicolo cieco, a sollecitare, secondo un’espressione di J. P. Sartre, la parte più libera di noi stessi. Dando voce al dramma del popolo nero, ha interpretato le inquietudini e gli slanci di un mondo sconvoIto. Musicalmente parlando, ha descritto e continua a descrivere una storia appassionante, che lo studio dei suoi più grandi creatori, riteniamo, porrà in luce. In virtù, dunque, di quanto riportato in questo paragrafo non ci troviamo d’accordo con la tesi di Simon Frith21 quando afferma che “nell’ideologia rock la musica jazz è sì un’espressione di vitalità e di eccitamento (è in altre parole, “una musica per ballare”) ma manca delle qualità necessarie per un’espressione di sentimenti individuali”; mentre concordiamo appieno con il sociologo Ian Hoare quando dice che “il jazz è un genere di musica che riesce ad evitare una delle più comuni debolezze della musica pop: l’apatia e l’indifferenza, la ricerca di solitudini private ai problemi collettivi”, malgrado lo stesso Frith sovverta tale posizione.
21
Sociologia del rock, Feltrinelli Editore, Milano 1982.
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3.4 Dall’improvvisazione istintiva alla schizofrenia parkeriana
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La storia del jazz è stata in larghissima misura scritta da dilettanti, molti dei quali privi di una educazione musicale formale: e chi altro avrebbe dovuto scriverla, visto che questa musica ha dovuto e deve ancora lottare per trovare una qualche accettazione tra le arti. John F. Szwed, Jazz 101, 2000
L’improvvisazione nella musica jazz non ha forme prefissate, risulta paradossalmente informale, nel senso che non si adegua a parametri, modi o stilemi, ma si palesa in atomi o fasce sonore, in soprassalti e cascate, con enorme astrazione o prorompente energia passionale, come creativo collage di citazioni etno-folk o come memoria inconscia di sfere inattingibili dell’io artistico. Ma come si improvvisa? E soprattutto, cosa rende l’improvvisazione jazz diversa da tutte le altre? Esiste una didattica dell’improvvisazione? Queste sono le domande che si sente porre un jazzista. Le sue risposte appaiono spesso vaghe e succinte (“Beh, io mi limito a soffiare”), e il più delle volte è davvero tutto quello che sa. Potrebbe anche dire che suona attorno alla melodia, o che parte dalla sequenza di accordi e cerca di costruirvi sopra una nuova melodia, ma in realtà lui suona e basta. Generalmente l’improvvisazione nel jazz è basata su un battito regolare, e il concetto di ritmo, in senso jazzistico, proviene dai sottili accenti e dalle sincopi effettuati sul battito di base. C’è una analogia tra questo fenomeno e l’atto del camminare. Se ci si chiede: “Come faccio a camminare?”, la risposta potrebbe essere: “Beh, non faccio altro che mettere un piede davanti all’altro, spostando il peso su quello davanti e così via all’infinito”. Lo stesso accade quando un musicista improvvisa: non fa altro che premere sulle valvole o sulle chiavi e soffiare. Ma se ci capitasse di camminare senza prestare la minima attenzione (meccanismo di solito inconscio) alla “struttura di supporto” (il marciapiede) e agli eventuali imprevisti (i gradini, il traffico, altri pedoni), allora inciamperemmo e magari cadremmo a faccia in giù. Allo stesso modo, nell’improvvisazione, se non si tiene presente la struttura di supporto –l’ armonia, la melodia, il ritmo e il mood di ciascun brano- si finisce per inciampare in una nota sbagliata, e se ne suoniamo troppe si cade metaforicamente a faccia in giù. Quando si cammina, ci sono anche rischi potenziali, come un pezzo di marciapiede incrinato che dobbiamo incrociare ogni giomo e rischi inaspettati, come un’improvvisa deviazione del traffico o un animale irrequieto al guinzaglio. In una comunità sociale anche tutti questi partico-
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lari hanno le loro analogie con l’improvvisazione: il rischio potenziale di uno strano accordo o un cambio di tempo, un inatteso accento della batteria sul battito sbagliato. 0 una bizzarra armonizzazione del pianista. In teoria chi improvvisa dovrebbe essere così sicuro di se stesso da non inciampare mai, il che -per tornare un’ultima volta alla nostra analogia- è molto raro. Tuttavia un jazzista sa a volte essere piu eloquente a proposito delle sue improvvisazioni e può rivelare degli indizi sul suo metodo, sebbene questi solo di rado siano del tutto esaurienti. Prendiamo per esempio Charlie Parker. Questi fu essenzialmente un improvvisatore jazz, la sua improvvisazione, essendo tanto complessa, implicava maggiori elementi ‘compositivi’ di quanti non avesse quella di Louis Armstrong. Stese accurati abbozzi di idee melodiche dettati da accordi preordinati, e suonando su quegli elementi di base si servì non soltanto della sua fantasia, ma anche della sua memoria musicale straordinariamente rapida e tenace. A questo riguardo le osservazioni di Earl «Fatha» Hines, nella cui band Charlie aveva suonato per un certo periodo, appaiono degne di nota: Charlie soleva tenere il suo sax contralto in teatro fra uno show e l’altro, standosene seduto in un angolo con un quaderno: ecco tutto quel che faceva; lui e Dizzie esaminavano rapidamente gli appunti di quel quaderno per prepararsi. Un giorno guardavano quello della tromba e un altro giorno quello del sax contralto, a turno. Credo che Charlie abbia tratto proprio di li il suo stile particolare, cioè da quegli appunti che si scambiavano. Li avrebbero poi inseriti nei motivi che nascevano. Tutte le volte che un accordo li colpiva, ricordandogli qualcuno dei passi di uno di quegli appunti, lo inserivano nei loro motivi. Credo che fu proprio questa la ragione per cui crearono lo stile che crearono [...] E poi tutti i musicisti volevano cercare di scoprire come superare quel sax, ascoltando Charles. Ma, vedete, molti di loro presero un mucchio di abbagli perché non si resero conto che quella che lui suonava era musica. Pensavano che gli avesse dato di volta il cervello, qualsiasi cosa facessero credevano di emulare Charlie [...] Ma Charlie sapeva cosa suonava, e quando tirava fuori quelle quinte bemollizzate o quel che volete, si trattava di cose scritte in quegli appunti, e Charlie suonava quel che realmente ricordava di quegli appunti.22
È interessante notare inoltre che Parker, conscio che la sua improvvisazione implicava una composizione intuitiva, appariva irritato dal fatto di doversi guadagnare da vivere suonando in cabaret e in sale da ballo. Voleva disperatamente che la sua arte fosse apprezzata da gente in grado di
22
Reisner, George, (a cura di), Bird, the Legend of Charlie Parker, Citadel Press, New York 1962.
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capire alcune sue qualità e non da quella per la quale in genere si prodigava. Edgard Varèse riporta in modo emotivo come Parker
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frequentasse costantemente casa sua. Era come un bambino, con l’astuzia tipica di un bambino. Era venuto da me dicendomi: ‘Mi prenda con sé come prenderebbe un bambino, e mi insegni la musica. So soltanto scrivere per una voce sola. Vorrei avere una certa struttura. Voglio scrivere partiture orchestrali. Le darò qualsiasi somma. Guadagno un sacco di soldi. Farò il domestico per lei, sono un bravo cuoco’. Stavo partendo per l’Europa e gli risposi di chiamarmi dopo Pasqua, al mio ritorno. Charlie morì prima di Pasqua. Mi diceva di essere stanco dell’ambiente nel quale il suo lavoro lo relegava. ‘Sono cosi immerso lì dentro che non posso più venirne fuori’, mi disse23.
Una struttura, diciamo, ortodossa sarebbe però stata del tutto inutile per Bird, ma il suo istinto aveva ragione nell’intuire che vi era più senso compositivo nelle improvvisazioni che faceva sui frammenti dei motivi buttati giù in taxi, andando a una seduta di incisione, che nei motivi stessi; il fatto poi che avesse capito che Varèse, fra tanti compositori geniali, avrebbe avuto qualcosa da insegnargli, sul genere di struttura a lui pertinente, confermava inoltre la sua genialità. La tragica divisione fra due mondi fu, come doveva essere, una proiezione della sua schizofrenia, di quella che il bollettino del Bellevue Hospital descrisse clinicamente come “intelligenza media alta, personalità ostile ed evasiva con manifestazioni di visioni rozze e sessuali associate con ostilità, e un palese consolidato pensiero paranoico e di tendenze suicide”. Fu un lupo solitario a tutti gli effetti, in ogni senso, e creò un manufatto tangibile dalla sua nevrosi; eppure il fulcro della sua frustrazione fu la scarsa considerazione della Beat Generation, per la quale aveva cantato e che poteva comprendere soltanto in parte la sua folle genialità. Quella musica lo liberò dall’isolamento che l’alcool, il sesso e l’eroina non potevano offrirgli durevolmente; forse la droga ebbe il sopravvento poiché la bellezza della musica appariva troppo sconvolgente per essere alla fine accettata. Tutti cercarono di suonare come Bird, il quale con Armstrong rimane forse l’unico strumentista jazz per il quale la parola genio sembri appropriata. Nessuno vi riuscì in quanto pochi poterono avvicinarsi alla sua perfezione tecnica, e chi poté mancava però della sua qualità blakiana di onestà spaventevole. Era abbastanza facile trovarsi d’accordo con lui quando diceva che “la musica è l’esperienza propria [...] se non la vivete, non verrà fuori dal vostro strumento”; ma era invece più arduo seguirlo quando, pur ammettendo in pieno le implicazioni 23
Reisner, George, op. cit.
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di questa osservazione, andava oltre aggiungendo che non vi poteva essere “alcuna linea di frontiera per l’arte”24. La tragica ironia terminale della sua carrriera, simile a una parabola, avvenne durante il suo servizio funebre. Il reverendo David Licorish, in piena orazione funebre, disse che Parker era venuto al mondo “per far felice la gente (!) e che se fosse vivo oggi direbbe ai suoi colleghi che è ora di decidersi a farlo, perché la vita non è un sogno vacuo”25. L’organista suonò The Lost Chord di Arthur Sullivan, e il reverendo Licorish lesse “quelle vecchie parole sulla ricerca dell’accordo che fecero l’effetto dell’Ultimo Amen”. Charlie Parker non trovò mai nessun accordo perduto. Accettò invece le conseguenze dell’accordo tradizionale; e la sua onestà melodica penetrò nelle false apparenze in cui la società aveva cercato di adattarsi a vivere a causa di un mondo dominato dalla macchina, annientando con la sua rabbia il reverendo Licorish e tutta la gente del suo genere, e assolvendoli con il suo gesto d’amore. “Certo, -egli disse una volta-, la civiltà è una faccenda maledettamente buona; perché qualcuno non la prova?”26. Nonostante tutta l’influenza sugli altri l’arte parkeriana risulta repulsivamente solitaria come quella di Varèse, da Bird ammirato più di ogni altro musicista moderno. Eppure sebbene nessuno strumentista avesse raggiunto l’intensità tragica di Parker, vi sono ottimi esecutori fra coloro che in vari modi hanno cercato di emularlo. Abbiamo ascoltato Sonny Rollins in duo con Monk; al sax tenore, non al sax contralto, Rollins possiede una tecnica di poco inferiore a quella di Parker e, specialmente quando suona con Max Roach, raggiunge un livello febbrile alla Parker. In Ee-ab interpreta un blues veloce costruito su una figura di tre note ripetute. II suono appare aspro, disseccato e inaridito come fiati-a-motore microtonici che emettono gorgheggi uniformemente violenti. La nevrosi ossessiva risulta abbastanza autentica, anche se priva della passione lirica che Parker sapeva distillare dalla frenesia. Alcuni fra i migliori pezzi di Rollins tendono all’ironia, come si evince nel suo arrangiamento un po’ rude di The way you look tonight. Questo genere di effetto non era tuttavia limitato ai suoi adattamenti di pezzi pop. In B Swift trasforma gli arabeschi frenetici di Parker in un isterismo comico, coadiuvato da un ‘drumming’ particolarmente estatico e ‘melodico’ di Max Roach. Di quando in quando, come in Blue 7, Rollins raggiunge una intensità parkeriana più con una effettiva variazione melodica che 24 25 26
Reisner, George, op. cit. Reisner, George, op. cit. Reisner, George, op. cit.
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Prospettive contemporanee
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con l’improvvisazione su cambiamenti di accordo. Questo brano impressionante esplora, con consistenza evolutiva, le permutazioni melodiche di due soli intervalli fondamentali, il tritono e la terza maggiore (che talora si potrebbe con più accuratezza notare come quarta diminuita). Ma Parker ed il suo emulo Rollins sono solo due microcosmi dell’universo improvvisazione. Ciò che si impone questo libro è fornire un’esaustiva definizione di “improvvisazione”. Le voci enciclopediche sono di ben scarso aiuto, visto che riportano ripetutamente: “improvvisare-uguale-comporre o esibirsi senza preparazione”. Ma naturalmente, senza voler essere pedanti, insistiamo nel dire che la preparazione c’è sempre, se non altro perché l’eventuale improvvisatore deve allenarsi sul suo strumento finché non risulta tecnicamente competente. Non è indispensabile che sia in grado di suonare tutto col suo strumento, ma bisogna che abbia l’esatta conoscenza delle sue capacità. Miles Davis, quando agli esordi suonava con Charlie Parker, aveva un’estensione limitata e non appariva molto veloce, ma sapeva creare buoni assoli suonando entro i limiti della sua tecnica, senza mai cercare di suonare qualcosa forzatamente ad ogni accordo alla maniera di Parker, ma cercando di adattare lo strumento alle sue possibilità. La preparazione si evince anche dal fatto che il solista, molto probabilmente, abbia suonato il pezzo in precedenza, o abbia avuto a che fare con qualcosa di simile, per cui, in un certo senso, appare già preparato ad affrontare i problemi che via via gli si presenteranno. Nel corso del suo apprendimento, un solista sarà costretto ad affrontare accordi difficili a repentini cambiamenti di tempo e se gli si prospetterà una difficoltà imprevista, cercherà di non dimenticare l’esperienza e il modo in cui l’ha risolta in precedenza, per non ripetere l’errore in futuro. Può darsi che il musicista in questione abbia suonato così spesso su una stessa base di accordi che le sue dita lo guideranno all’interno di una serie di schemi fissi. In tal caso l’assolo stesso risulterà inconsciamente già preparato, sebbene un vera artista stia sempre in guardia contro il rischio di ripetersi. Se è pigro, o se si accontenta di poco, può escogitare una soluzione ottimale a cui far ricorso ogni volta che si presenti una certa situazione musicale. Ellington soleva dire: “Ma certo, tutta l’improvvisazione è pensata in precedenza, anche se qualche volta solo una frazione di secondo prima [...]”27. L’ascolto di brani improvvisati può servire a dare un’idea di cosa voglia dire improvvisare, ma soltanto in misura limitata. Ascoltando attentamente Charlie Parker, per esempio, si può affermare che suonava attorno all’estensione degli accordi, ma non sempre; che Thelonius Monk riempiva quasi 27
La musica è la mia signora. L’autobiografia, Minumum Fax, Roma 2007.
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l’intero assolo di un frammento di melodia ripetuto in modo sempre nuova (ma cosa dire delle volte in cui non lo faceva?); che Coleman Hawkins appare molto più semplice di Parker; Coltrane cospicuamente più complesso di Davis; ma cosa stanno facendo? Non stanno semplicemente suonando delle note qualsiasi: si palesa una differenza quando Parker smette una melodia e ne attacca un’altra, persino in due versioni della stessa appare una sostanziale differenza. E non si tratta nemmeno di suonare semplicemente variazioni sulla melodia. Anche se molti musicisti usano elementi del tema nell’improvvisazione altri lo considerano solo uno spunto per le sequenze di accordi o, in gran parte del jazz contemporaneo, la fonte del mood. Quest’ultimo concetto fa sorgere il problema di definire l’improvvisazione in modo più preciso, visto che allontana il jazz dalla sua tradizionale definizione di musica sempre associata ad accordi ben precisi e a un battito regolare. Chi improvvisa nel jazz fa derivare le sue idee dagli elementi base (melodia, armonia e ritmo) all’interno della forma data, più il mood. Alcuni solisti privilegiano un elemento anziché un altro; altri addirittura ne escludono uno o più, ma sono questi elementi l’essenza del discorso jazzistico, ed è il modo in cui il solista li usa, la presa che tutto questo ha sull’ascoltatore, che fa di lui un solista più o meno valido.
3.5 L’improvvisazione evolutiva: quale futuro? […] le cosiddette improvvisazioni si riducono a perifrasi delle formule fondamentali e lo schema riappare ad ogni tratto sotto il loro velo. Anche le improvvisazioni sono in gran parte regolamentate e si ripetono sempre. Tutto quel che può succedere nel jazz si aggira entro limiti così stretti come i tagli particolari dei vestiti. Theodor W. Adorno, Moda senza tempo, 1955
Il grande Satchmo proveniva da una tradizione di improvvisazione collettiva in cui ogni strumento aveva un ruolo ben preciso: la tromba aveva quello di fornire la melodia, gli altri quello di improvvisare attorno agli accordi. Dal momento in cui il jazz si allontanava dall’improvvisazione collettiva per approdare all’assolo, la norma diventava una sintesi delle due soluzioni. Nell’éra dello swing i solisti erano piu concentrati sugli accordi. La melodia veniva ripresa occasionalmente, ma il solista costruiva le sue improvvisazioni usando le note degli accordi per creare le melodie. Il bebop si spinse oltre, in quanto le melodie erano perlopiù usate solo
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come “trampolini di lancio”. La sequenza di accordi regnava suprema e sembrava che nessuno desse gran peso alla melodia finché c’erano buoni accordi su cui suonare. Le armonie venivano estese sia aggiungendo accordi alla sequenza sia dal solista che, durante l’improvvisazione, usava le parti più alte degli accordi. In antitesi a questo, c’erano le improvvisazioni melodiche di Thelonious Monk e Sonny Rollins. Monk rimane assai vicino all’approccio jazzistico di tema e variazioni, convinto che qualsiasi melodia debba risaltare fortemente negli assoli. Rollins appare più sottile: si inventa il proprio motivo melodico e poi gli gira intorno in modo ossessivo, osservandolo da tutte le possibili angolazioni. In pieno cool jazz le armonie avevano raggiunto il loro massimo grado di macchinosità e la reazione a questo non tardò a farsi sentire. Da un lato Ornette Coleman ignorava l’armonia come tale, concentrandosi sulla melodia e sul ritmo, producendo uno stile pieno di echi del blues classico, con quei suoni vocalizzati ma con una complessità di ritmi stesi contro la pulsazione di base. Dall’altro, Miles Davis tendeva a semplificare le strutture accordali, concentrando l’improvvisazione su una scala anziché su una progressione di accordi. Davis profetizzava la nascita di un movimento, nel jazz, lontano dalla convenzionale sequenza di accordi. Si privilegerà di nuovo la variazione melodica anziché quella armonica. Ci saranno meno accordi, ma infinite possibilità di utilizzarli. Due delle possibilità saranno clamorosamente evidenti nell’approccio alle scale di Davis e di Coltrane. Davis semplificò i problemi, lasciando magari che una nota durasse per diverse battute; Coltrane, riflettendo sul fatto che le scale possono differire anche solo di poche note, decise di tentare di farle comparire tutte in ogni accordo e produsse quel tipo di approccio che venne giustamente definito sheets of sound, “cortine di suono”. Il mood appare un valore aggiunto in questo tripudio stilistico, un valore che si estrinseca nel motivo originale e nell’evoluzione che gli ha conferito l’esecutore. In seguito, tuttavia, il mood ha rappresentato l’elemento predominante che a volte ha addirittura cancellato melodia, armonia e ritmo preesistenti. I musicisti improvvisavano insieme in modo totalmente spontaneo, senza una struttura precostituita, facendo nascere le loro idee da quelle degli altri e viceversa. A volte un motivo con o senza armonie veniva usato per creare il mood, ma una volta che era stato suonato, i solisti non facevano nessuna attenzione alla sua struttura o alle armonie, e preferivano rifarsi a una scala, di solito derivata dalla melodia, o suonare in completa libertà. Tutti questi stili di improvvisazione coesistono nel jazz e forse l’unica cosa che li distingue da altri generi di improvvisazione appare l’approccio personale del musicista. Se si paragona un’improvvisazione della
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musica colta ad una jazz, si riscontra che nella prima chi improvvisa appare generalmente subordinato al compositore, lavora entro limiti ben definiti e la sua gamma di suoni risulta molto più chiara, più impersonale di quella di un jazzman. I suoni di un pezzo aleatorio eseguito da un gruppo newyorkese saranno gli stessi di quelli di un gruppo che suona lo stesso brano a Piccadilly Circus, sebbene il risultato possa essere differente. I suoni di un brano di free jazz, e i risultati, saranno completamente diversi in ognuno dei due gruppi. I jazzisti hanno una gamma più ampia di suoni personali dei loro colleghi “classici”. Ma, per complicare le cose, già da diverso tempo i musicisti lavorano sia nell’avanguardia jazzistica che in quella colta. Sebbene il rock non abbia un’unica forma musicale centrale a causa di uno spiccato eclettismo la sua improvvisazione risente fortemente dell’influsso jazzistico, ma è meno sottile nel contenuto e nel ritmo di base. Anche la personalità può esprimersi meglio nell’improvvisazione jazz. Un paragone con l’improvvisazione nella musica indiana rivela molte affinità: entrambe le forme di improvvisazione si basano su una pulsazione ritmica, entrambe usano una struttura di scala e mood. E naturalmente anche nella musica indiana l’improvvisazione è del tutto personale: c’è sufficiente libertà perché un musicista valido possa imprimere la sua impronta su un brano. L’unica differenza è che i jazzisti attingono ad un’eredità musicale afro-americana -in particolare i suoi suoni vocalizzati e le blue notes- mentre gli indiani risalgono ad una tradizione musicale fatta di microtoni e quant’altro. Pare dunque che ci sia una differenza minima tra le due e forse non appare troppo azzardato voler includere la musica indiana all’interno della nostra definizione di jazz, come ha già ampiamente dimostrato nei suoi studi Gunther Schuller. Ravi Shankar e Ali Akbar Khan potrebbero essere così definiti due grandi jazzmen: improvvisano in modo molto personale su una base ritmica, e solo l’accento risulta diverso. Appare ormai chiaro che c’è una sola catena che unisce i differenti stili di improvvisazione nel jazz. E non è, come molti possono immaginare, la pulsazione o la progressione di accordi il trait d’union: l’improvvisazione nel jazz può fare benissimo a meno di entrambi. L’elemento in comune è invece che sono tutte espressioni dell’individualità del musicista e che, semplicemente, questa è, o dovrebbe essere l’essenza del jazz. La definizione può essere resa più precisa affermando che l’improvvisazione si basa sostanzialmente su un battito regolare, che spesso utilizza una progressione di accordi, che quasi sempre adotta suoni vocalizzati e altamemte personali, ed è sempre un tipo di espressione individuale. L’improvvisazione è spontanea ma ogni nota dovrebbe sembrare inevitabile e giusta, e dovrebbe sempre lasciar trapelare un senso di sorpresa. Come disse il critico
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Charles Fox, “l’inaspettato si trasforma all’improvviso nell’inevitabile”28. Tuttavia la globalizzazione di questo Terzo Millennio ha portato con sé un’involuzione nella fase creativa del jazz: ciò che in questo capitolo chiamo improvvisazione evolutiva, credo si sia arrestata alla fine degli anni Settanta, condividendo appieno la tesi più volte iterata da Marcello Piras29. L’ultima ondata generazionale di artisti creativi rimane a tutti gli effetti quella degli anni Cinquanta. Emblematici rappresentanti come Butch Morris, recentemente scomparso, le cui modalità improvvisative potevano scuotere i jazzisti dalle loro vecchie abitudini e che lentamente aveva elaborato un originale concetto di conducted improvisation, una sorta di «improvvisazione guidata». Praticamente chi dirige può ri-orchestrare la musica (scritta o improvvisata) durante le fasi dell’esecuzione, metodo che sarà sepolto con lui. Morris minimizzava affermando: Adottando un vocabolario di segni e di gesti, molti dei quali sono in uso nella direzione d’orchestra occidentale, il direttore può avviare o alterare il ritmo, la melodia o l’armonia all’interno della struttura fissata; e può anche produrre un mutamento immediato nell’articolazione, nel fraseggio e nella metrica. È un metodo, in fondo, che si riallaccia agli antichi head arrangements del jazz, gli arrangiamenti mandati a memoria che si arricchivano continuamente di apporti personali. Il vocabolario viene reso noto ai musicisti durante le prove. È questo il momento fondamentale. Fra loro, oltre agli strumenti a fiato tipici del jazz, ci possono essere violini, violoncelli, contrabbassi e altri ancora, gli uni vicini agli altri.30
Lo stesso Roscoe Mitchell, la cui acuta improvvisazione associata alla sua rara capacità di sviluppare la musica in direzioni diverse e sempre nuove, ne hanno fatto uno dei musicisti principali del free jazz della sua generazione. Un jazzista che incarna appieno il rapporto tra il suono e il silenzio indagato in maniera consapevole. Discorso a parte merita il nostro Paese, in cui nell’éra globalizzata il linguaggio jazzistico non appare in alcun modo evoluto, rimanendo ancorato fin troppo spesso a rituali modelli scolastici. Comunque ogni reazione al jazz -come a qualsiasi forma d’arte- deve essere soggettiva. Non ci sono criteri di valutazione rigidi: quello che conta è l’onestà del musicista. Egli enuncia il suo messaggio individuale e spera che gli altri siano in grado di recepirlo. Pare che la capacità di improvvisare 28 29 30
Killing Me Softly: My Life in Music, Scarecrow Press, Lanham 2007. Blog Involontario, intervista a Marcello Piras sullo stato del jazz. Intervista rilasciata all’autore a margine della rassegna Ai confini tra Sardegna e Jazz, a Sant’Anna Arresi, nel 2006.
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della maggior parte dei jazzisti sia il risultato della sintesi di vari elementi: un interesse di base alimentato dall’ascolto di dischi e concerti dal vivo, e un’abilità innata sviluppata esercitandosi continuamente per conseguire una buona padronanza tecnica e suonando con la gente giusta al momento giusto. Un insegname può dare il suo contributo suggerendo che cosa ascoltare e che uso fare del materiale ascoltato (in altre situazioni), e indicando gli esercizi più adatti per sviluppare certe doti necessarie. Questa tecnica pratica, se perfezionata con l’allenamento, può essere di grande aiuto per i giovani musicisti che compiono i primi passi nel mondo dell’improvvisazione. Anche se, l’immaginazione rimane forse la più grande dote che un jazzista possa avere.
3.6 Un jazz fluido per la società liquida In Occidente la ‘vita dell’artista’ ha svariate connotazioni sociali e storiche. In Europa l’artista, o il bohémien, viene tollerato e perfino guardato come una persona di capacità pregevoli anche se misteriose; in America non esiste questa ammirazione, e neppure tanta tolleranza. L’artista e il suo compagno di strada, il bohémien, sono di solito considerati degli inutili ciarlatani. Leroi Jones (Amiri Baraka), Il popolo del blues, 1963
Come tutta la musica anche il jazz ha subìto la sua buona metamorfosi ossia non è stato indenne al concetto di ‘impalpabilità’ del suono. In altre parole il passaggio dalla sua ‘fisicità’, intesa come la visualizzazione dell’artista alla ‘liquidità’ della musica di quest’ultimo, ha ulteriormente allargato quella dicotomia tra musicitsa e fruitore. Lo spiega in modo sublime il grande pensatore polacco, Zygmunt Bauman, nel suo libro La solitudine dell’uomo globale, in cui il filosofo di Leeds postula che tra le voci più vistosamente assenti dall’elenco delle offerte c’è la prospettiva di un uso collettivo di mezzi collettivi per affrontare e risolvere i problemi individuali. Il jazzofilo ascolta Miles Davis sul suo Mp3 da solo con i suoi problemi, e quando la musica finisce egli è ancora immerso nella sua solitudine. La “realtà musicale”, nella forma che le viene data dalla nuova società liquida, è come esattamente ciò che gli ascoltatori si aspettano che sia. Quel suono ‘purissimo’ conferma lo spirito del tempo, ricicla la rappresentazione dominante sul proscenio. Ma ciò non è tanto un esercizio di spettacolo realistico quanto un tentativo di rendere realistico l’immaginario. Il jazz liquido diventa una copia della realtà, ma una copia così convin-
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cente che la realtà deve emulare se vuole essere riconosciuta per quella che è. In questo immaginario liquido reso realtà, l’ascoltatore di jazz è lasciato libero; veramente, assolutamente libero, cioè libero di fruire del suo jazz attraverso le nuove tecnologie come meglio crede e di non dipendere più da un’industria musicale che invoca la sua fisicità. Il Terzo Millennio rivela una spiccata tendenza a separare il mondo del jazz (artista e musica) dallo show-business: il mondo del jazz, capace di stabilire la portata delle scelte pratiche, fluisce; in virtù della sua liquidità sempre meno vincolata, essa è praticamente globale, o meglio, extraterritoriale. La musica jazz, da un punto di vista strettamente tecnico, sta portando a compimento il lungo percorso che l’ha vista protagonista della cultura e della società mondiale dell’ultimo secolo e mezzo. Dai primi fonografi di Edison della seconda metà del ‘800 al successo della “musica liquida” di questi anni. In mezzo tanta tecnologia in continua evoluzione. Tecnologia che ha portato il jazz ad utilizzare diverse forme e diversi media per essere registrato, trasportato, immagazzinato, ascoltato. E a proposito di ‘buon ascolto’ della musica jazz è interessante quanto sbalorditiva, sicuramente di concezione avveniristica, l’invenzione dell’arch. Aniello Salvatore Napolitano in tema di “diffusori acustici timbrici’, una vera rivoluzione tecnologica che, una volta adottata a livello industriale, muterebbe favorevolmente l’attuale modo di ascoltare la musica. Egli afferma che: La musica liquida garantisce un eccellente trasferimento delle registrazioni al nostro impianto hi-fi (per i più fortunati: hi-end). La qualità degli amplificatori è anch’essa garantita già a partire da prezzi popolari. Tuttavia, la sonorizzazione domestica ha tre ostacoli: l’acustica ambientale, i limiti del nostro sistema uditivo, i difetti degli altoparlanti. Quest’ultimi hanno il decisivo compito di trasdurre il segnale elettrico in quello acustico: sono un po’ il medium tra gli elettroni e gli atomi dell’aria, com’è noto. In aggiunta all’handicap prestazionale congenito, gli altoparlanti sono impiegati in schemi che apportano danni al ‘timbro’ che è il fattore determinante della qualità del suono. È il timbro che ci fa discernere gli strumenti o le voci, e un buon diffusore dovrebbe essere soprattutto fedele al ‘timbro’. In tal senso, in campo audio si inizia a parlare di ‘diffusori acustici timbrici’, superando il classico schema di controllo della risposta in frequenza e della potenza acustica31.
Dunque si è passati da un jazz solidamente analogico ad un jazz digitale liquido, tuttavia la scomparsa del vinile ha influito non sempre positivamente sui linguaggi del jazz, e ciò rappresenta un segnale da non sotto31
“Diffusori acustici timbrici: costruire un SSB”, in COSTRUIRE HI-FI, n° 170, giugno 2013.
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valutare ossia che la stagione di certo virtuosismo nell’improvvisazione potrebbe essere del tutto terminata. Nell’éra della globalizzazione, che appiattisce e uniforma il pensiero e il linguaggio, la solitudine e il disagio individuale sono sempre più diffusi. Si fanno strada il bisogno di aggregazione volontaria e il riconoscimento reciproco su fondamenti comuni, per quanto problematizzati dalla necessità di un’integrazione culturale e razziale. Non può più esistere la comunità di appartenenza, ma esistono le comunità, alle quali apparteniamo contemporaneamente, per tutta la vita o solo per qualche giorno. L’attenzione nei confronti di questi argomenti si sta risvegliando forse per rispondere all’urgenza di un generale spaesamento e alla tensione che ognuno di noi vive fra il desiderio di conquistarsi uno spazio individuale e quello di fare parte di un gruppo. A innescare tale desiderio è la promessa di una sensazione piacevole e mai provata prima; l’offerta di musica immateriale (appunto, liquida) capace di trasmettere sensazioni intense precede di norma la comparsa del desiderio, che dunque si presenta fin dall’inizio orientato all’ascolto. Le sensazioni che il pubblico del jazz cerca congiuntamente possono solo essere esperite da ciascuno di esso individualmente; il piacere di ascoltare -per es.- l’improvvisazione di John Coltrane è profondamente privato, anche se vissuto in compagnia di altri, simili o identici, cercatori di piacere musicale. Il massimo che il pubblico del jazz possa offrire è la conferma della desiderabilità del desiderare e la rassicurante convinzione che l’oggetto del desiderio, in questo caso la sua musica, sia stato scelto correttamente. Per comprendere fino in fondo le tesi fin qui sostenute bisogna tenere ben presenti le ragioni della società “liquida”, concetto -questo- figlio di uno molto più ampio -ormai abusato- che è la globalizzazione e di un altro, ancor più moderno e attuale, glocalizzazione, coniato dallo stesso Bauman. In questa tipologia di società tutto viene messo in discussione: valori, sentimenti, antropologie, modi di produzione, comunità e, naturalmente, l’arte o la musica in generale. Insomma di fronte alla globalizzazione e alla società liquida (che è l’altra faccia della globalizzazione) è tutto l’uomo ad essere messo in discussione. In questo panorama, in cui un caso paventato sarebbe solamente marginale, alle omologazioni culturali della globalizzazione la società contemporanea è attraversata da fenomeni di ricerca di senso e di aggregazioni comunitarie; queste ultime spesso assumono forme deleterie di esclusione del diverso, e rappresentano forme estreme di localismo. Per Bauman sono elementi imprescindibili dell’avventura umana nella società. Nel nostro contesto la “comunità jazzistica” è il luogo delle “radici nere”, della “rassicurazione del buon ascolto”, la “societas” è il luogo della va-
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stità (della dispersione direbbe Hegel), il mondo dell’improvvisazione. E le dinamiche sono diverse per ciascuno degli ambiti ma complementari e paralleli: ciascun jazzista o ascoltatore di musica jazz vive in una “comunità” e in una “società”. Direbbe ancora una volta Bauman, non esiste la “comunità” ma le “comunità” alle quali siamo partecipi in più dimensioni32. Cosa è oggi la “comunità jazzistica”? In una sorta di procedimento dialettico si potrebbe partire da ciò che non è comunità. La comunità jazzistica non è la società in cui si muovono gli attori del jazz (musicisti, discografici, ascoltatori) e non è nemmeno la “rete” (i social network quali myspace e quant’altro). Nel social network siamo liberi, siamo “padroni” delle nostre scelte e siamo insicuri. Chi appartiene alla comunità del jazz rimane impigliato: la comunità si impone su chi ama e pratica la musica jazz, mentre la rete è qualcosa che pensiamo essere noi a creare, noi abbiamo il controllo, ecco la differenza sostanziale. Ci sarebbe da illustrare altre differenze ma ci allontaneremmo troppo dall’argomento specifico che si prefigge questo libro. La comunità jazzistica ha dovuto prendere atto del processo di modernità in una società diventata liquida, un modello panottico -con tutte le strutture sociali ad esso collegate- definitivamente entrato in crisi che, liquefacendosi, ha aperto una nuova fase della storia umana che da molti è stata interpretata come fine della storia o come fine della modernità, ma che si potrebbe definire preliminarmente come post-panottico. Tuttavia essa esibisce ancora il tratto caratteristico della modernità, ossia la sempre inarrestabile spinta alla modernizzazione. Questa fase di liquidità attraversa aspetti importanti della nostra vita sociale come ad esempio il lavoro di musicista, la comunità jazzistica, l’artista jazz, il rapporto tra lo spazio ed il tempo, ed infine, ma non ultimo in ordine di importanza, l’idea di libertà e quella ad essa collegata di emancipazione. Lo scopo di questo capitolo è mostrare come siano divenuti più liquidi e dunque inafferrabili la musica jazz e l’improvvisazione che, fino a poco tempo fa, rappresentavano il cardine portante della loro comunità e del loro vivere in comune, ben segnalato da Wynton Marsalis: “Il jazz è anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua ‘filosofia’ ci sono l’unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro”33. La contraddizione tutta fluido moderna tra le aspettative del jazzista e quelle dell’ascoltatore è ben esemplificata dalla differenza tra individuo 32 33
Communitas. Uguali e diversi nella società liquida, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2013. Come il jazz può cambiarti la vita, Feltrinelli Editore, Milano 2011.
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de jure (diritti-doveri) e l’ascoltatore de facto (capacità di comprendere). L’importanza cruciale del crescente divario tra le due caratteristiche sta lentamente distruggendo l’essenza della musica intesa come arte, il luogo principe della composizione, intesa come creazione costante dell’interiorità e della creatività del jazzista. Tale divario si è incrementato ulteriormente quando il jazz, come tutte le altre musiche, è diventato liquido. Ascoltando il jazz utilizzando un lettore MP3, un computer (anche collegandolo ad un Hi-Fi) o un qualsiasi dispositivo di ultima generazione, l’ascoltatore ha a sua disposizione un’enorme quantità di musica contenuta in un solo oggetto, e tutta questa musica sa di averla, ma non la vede e non interagisce col suo esecutore o autore, in questo modo si è allontanato ancor di più dalla comprensione delle emozioni. Ha incrementato, per così dire, il suo stato di solitudine in un mondo musicale sempre più globalizzato e, nel suo caso geograficamente specifico, glocalizzato. In tempi moderni, dove il tempo viene sempre più a mancare e le nostre abitazioni si fanno sempre più strette, con il jazz liquido l’ascoltatore sceglierà i suoi artisti preferiti mentre sarà su un treno, quando lavorerà o mentre farà sport utilizzando un semplice lettore MP3, oppure quando navigherà in internet, o mentre sarà in auto visto che sempre più spesso le autoradio sono dotate di slot per memory card o presa USB per il collegamento di un pendrive. Nella società liquida non avrà più bisogno di riempire le pareti di casa per avere tutti i dischi o CD a portata di mano, anche se a nostro modesto parere avrebbe ancora un certo fascino. Chiunque ha una catena di ascolto che comprende anche un dispositivo con una vasta libreria digitale lo avrà sperimentato di persona: il jazz “liquido” rimane quello ascoltato più spesso. Il gesto di dover andare a cercare un CD specifico, di estrarlo dalla confezione e di inserirlo nel lettore, si frappone all’immediatezza dell’ascolto garantita dalla libreria archiviata su PC, Ipod, hard disk multimediale, NAS o quant’altro. Parafrasando Bauman si potrebbe affermare che nella modernità liquida, il consumo di jazz liquido diventa la priorità di ogni ascoltatore, e principalmente il consumo/ acquisto di identità personali attraverso l’identificazione con il jazzista. Questo genere di mercato delle identità ben si combina con i processi di flessibilità propri della comunità jazzistica liquida ma il genere di consumismo che riguarda la società di oggi è ben diverso dal fenomeno del consumismo dell’epoca solido moderna; in questa, infatti, il consumo era inserito nella dialettica del bisogno/mancanza, mentre nella comunità in cui circola jazz liquido, il consumo è rivolto unicamente verso l’appagamento dei desideri dell’artista e dell’ascoltatore. La natura autoreferenziale del desiderio, che ha per oggetto se stesso, chiarisce bene come il fenomeno
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consumo divenga così una compulsiva ricerca di soddisfazione che non si esaurisce mai, e dunque infinita. Innanzitutto è una questione di praticità. La diffusione di Internet, delle reti domestiche e di dispositivi di ogni tipo che permettono la riproduzione di qualsiasi media in qualsiasi ambito e con estrema semplicità, ha cambiato il modo in cui si ascolta la musica. Le nostre canzoni preferite diventano immediatamente disponibili, tutte insieme, senza più bisogno di cambiare disco. Potrebbe apparire un discorso banale, ma non lo è affatto. Poi ci sono tutti quei modi di ascoltare musica che non potrebbero esistere in un mondo di soli supporti. Creare playlist infinite attingendo da una vasta libreria ad esempio. Una volta le chiamavamo compilation, le compilavamo su musicassetta e in epoca più recente su CD, e avevano due grossi svantaggi: i supporti avevano una capacità finita e il processo di registrazione era inevitabilmente macchinoso. Altro esempio è naturalmente costituito dai molteplici servizi di streaming che stanno nascendo in rete e che offrono servizi di raccomandazione per scoprire nuova musica: utilizzando i metadati contenuti nei file digitali e raccogliendo le statistiche d’ascolto di migliaia di utenti è possibile suggerire musica affine ai propri gusti musicali.
3.7 II pubblico e il consumo di musica jazz Il jazz, come la musica classica nel XX secolo, cominciò a coesistere e a competere con il proprio passato. È trascorso quasi un quarto di secolo dall’ultima grande scoperta stilistica. Il jazz, come praticamente tutta la musica in America, ha raggiunto un livello stilistico, riplasmando elementi anteriori, e ora segna il passo fino alla prossima, e inevitabile, rivoluzione stilistica. Charles Hamm, Music in the New World, 1983
Nella società/comunità jazzistica il consumo di musica è indipendente dalle logiche della produzione (composizione artistica, industria musicale e show-biz), ma anche dalle scelte e dalle preferenze individuali dei singoli fruitori-consumatori. Possiede, infatti, una propria autonomia interna e anche i legami esistenti tra i prodotti jazzistici seguono una logica di tipo intrinseco. La musica jazz, intesa come oggetto del consumo, ha perduto o diminuito la valenza di merce e di funzione di status symbol,
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che possedeva nella società industriale dello spettacolo, per assumere un ‘valore di consumo’ e per aprirsi a un’infinità di valenze simboliche. Il consumo di jazz è diventato modo di esprimere l’affetto, la nostalgia, la cultura, l’amore. Partire da questo concetto del consumo ha consentito successivamente il superamento dell’idea tradizionale per cui il jazz, alla stregua di ogni altro bene, è qualcosa a sé stante, che il singolo ascoltatore/ consumatore opta sulla base di suoi bisogni, preferenze e motivazioni, e sarà dunque quest’ultimo a creare il giusto collegamento con altri beni. La musica jazz rappresenta quindi un “prodotto”: risponde a un’intenzione progettuale di comunicazione attraverso la quale avviene la negoziazione del significato da parte dell’ascoltatore. Al consumo di musica jazz, invece, va attribuito un ruolo comunicativo ossia la modalità in cui i jazzofili dichiarano, caratterizzano, confermano la loro presenza nella comunità jazzistica e la loro appartenenza sociale. In questo modo il consumo di jazz diviene un linguaggio e come tale, anche se ha bisogno dei fruitori per essere agito, si estrinseca sostanzialmente la sua autonomia strutturale, che gli consente universalità e comprensibilità sociale. Partiamo da un assunto: nessuno può negare che la musica popolare contenga elementi di jazz; così come appare inverosimile non rilevare le somiglianze tra i modi di espressione e di ricezione propri della nuova musica pop e quelli delle prime forme del jazz. Per quanto riguarda il primo jazz, vale la definizione datane da Pauline Rivelli: “Solo la musica classica ha un’esistenza indipendente, sostenuta da personalità benestanti, da istituzioni accademiche, da fondazioni governative è la musica dell’establishment per eccellenza. Gli altri tre generi -jazz, pop, folk- sono figli di nessuno: non riconosciuti ufficialmente, a volte in lotta per la pura sopravvivenza, si rivolgono al più grande pubblico del mondo”34. All’inizio il jazz si suonava nelle strade e i musicisti facevano la fame per la loro musica. Campavano come i cantanti blues, che girovagavano per il paese vivendo le loro canzoni e cantando la propria vita. Da allora a oggi, però, quello stesso jazz si è integrato diventando, non meno della musica classica, musica dell’establishment. Per molte città europee, americane e asiatiche i grandi eventi jazzistici rientrano normalmente nella pianificazione culturale dei loro amministratori politici. Questo atteggiamento non è nuovo. Tuttavia già nel 1921 alcuni impresari americani istituirono una autocensura per tutelarsi dalle oscenità del jazz e del 34
Rivelli Pauline & Levin Robert, Giants of Black Music, Da Capo Paperback, New York 1979.
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blues. L’articolo 26 dello statuto radiofonico americano del 1927 recita: “Nessuna persona soggetta alla giurisdizione degli Stati Uniti può diffondere attraverso la radio un linguaggio osceno, indecente o volgare”. Così ben presto il jazz genuino del “messaggio dei mangiatori di fuoco” -per usare un’espressione di Milton Mezzrow-, veniva sostituito dalle forme commercialmente sfruttabili del “jazz sinfonico” e delle orchestre di jazz da ballo di Paul Whiteman (il quale guadagnò nel solo 1922 più di un milione di dollari con 28 orchestre che si esibivano contemporaneamente come Whiteman Bands). Questo consumo di jazz, propagato in passato da numerose big band americane e orchestre di jazz da ballo europee, non aveva niente in comune con il jazz venerato dai maggiori musicisti pop, con l’outsider Django Reinhardt, con i ribelli del free jazz, per tanto tempo misconosciuti, con i numerosi rappresentanti del blues, si chiamino John Lee Hooker o Lightning Hopkins. I1 blues non è mai stato un grande affare, anzi, le sue varie forme dovettero essere riscoperte dai moderni; ora possono essere finalmente portate in tournée, ammirate come pezzi da museo. Con quello che viene oggi spacciato per jazz esse hanno in comune tutt’al più qualche elemento cronologico. Un chiaro segno del declino del jazz e delle sue possibilità spontanee e creative furono i concerti di Jazz at the Philharmonic verso la fine degli anni Cinquanta. Eseguiti in solenni sale da concerto, avevano un pubblico generalmente piuttosto attempato, in frac e cravatta. Il musicista passava in secondo piano; doveva limitarsi a fornire la sua merce in precedenza propagandata, ricevere cortesi applausi e per il resto suonare abbastanza spesso con persone che gli erano state affiancate dagli organizzatori ma con le quali egli non aveva nessun vero legame. Appare interessante il commento che riportò la rivista musicale britannica Sounds: E qui ha inizio la nuova éra, qui comincia una nuova storia [...] del jazz, scritta non più dai critici e dagli organizzatori, ma dagli stessi musicisti. É un’éra in cui non sarà possibile che gruppi di jazzisti da tavolino si formino a proprio arbitrio, cosa che alla fine serve soltanto a loro e non invece ai musicisti.
La musica e i musicisti non sono piu prodotti di consumo, merce. Per essi vale la tesi di Ralph Gleason e che riferito solo a loro e al blues sarebbe sacrosanto, ma che egli -e qui cade in errore- estende genericamente a tutta la musica jazz: “questa musica possiede l’insolenza del jazz, la sua aggressività e conferisce quel senso di spontaneità che da sempre è colle-
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gato con il jazz”35. Un tipico granchio dei critici musicali era il tentativo di rinvigorire il vecchio jazz con la nuova variante, tanto di moda, del soul. Molti esperti di jazz europei avevano intonato l’inno al soul, benché in pochi anni l’ondata soul si fosse poi rivelata un prodotto commerciale, nato morto, eccezion fatta per qualche fenomeno isolato come Aretha Franklin e Otis Redding. Le teorie di questi critici si sono rivelate sbagliate non tanto perché confutate dall’insuccesso pratico, quanto per il fatto che esse spacciavano per musica jazz, una musica nuova, un tipo di sound popolare assai mediocre. Certamente la trovata del soul era collegabile al mainstream-jazz, che appariva il particolare bersaglio di questa polemica; infatti onesti idoli canori come Georgie Fame e Dusty Springfield cantavano con le big band di Count Basie e Buddy Rich. Se si volessero vedere elementi comuni, il paragone dovrebbe essere cercato nelle forme originali che in parte sono state assorbite dal jazz, in parte continuano a esistere accanto al jazz e vengono con esso identificate, forse per la somiglianza di elementi di base. Se il caso volesse, dunque, che Georgie Fame si fosse esibito con Count Basie o Scott Walker con la Buddy Rich Big Band, ciò non avrebbe provato la comunanza fra jazz e pop; dimostrerebbe invece che in entrambi i casi l’uno e l’altro sono dei consumatori di musica. Nello show-biz ciò che conta è che a sentire il nuovo abbinamento venga un pubblico numeroso di ascoltatori, amici del cantante, e amici della big band. II fatto che ciò accada rivelerebbe una composizione sociologica analoga dei due gruppi di pubblico inizialmente ritenuti dissimili. Nel 1967 la rivista “Downbeat” pubblicò un profilo del pubblico del jazz basato su un’inchiesta. Ne risultavano, tra gli altri, i seguenti dati. II 36,4 % dei jazz-fans contemplati dall’inchiesta aveva seguito il jazz per un numero di anni che variava dai 6 ai 15; il 34,4 % si era interessato per più di 15 anni al jazz. Ciò significava che il jazz-fan aveva una prolungata esperienza musicale ed era, come si può dedurre da questi dati, in media relativamente anziano. Le preferenze del pubblico medio corrispondevano a questa prima constatazione: il 43,6 % preferiva l’hard bop; il 47,2 % lo swing e le big band; il 64 % era per il mainstream-modern; solo il 9,8 % s’interessava di altre correnti: west coast, musica orientale, boogie-woogie, folk, blues, soul, bop, ragtime; di questi, solo il 2,8 % preferiva – e “Downbeat” se ne rallegrava – il rock’n’roll. In breve, questo significava: il jazz rappresentava musica per persone anziane che rifiutavano il rock. II rock non era solo musica da dischi ma musica da concerti live, per un vasto pubbIico. Ma 35
Jam Session an Anthology of Jazz, G. P. Putnam’s Sons, New York, 1958.
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solo il 44 % del pubblico jazzistico preferiva i concerti: mentre il 96 % si limitava all’ascolto di dischi (questo sondaggio era frutto di elaborazioni di dati incrociati). Per Pete Townshend, leader dei Who, la composizione del pubblico denotava una differenza fondamentale tra il jazz popolare e la musica pop:
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Il pubblico dei concerti di jazz è più ridotto, è diventato snob e razzista. È un pubblico impettito. È vetusto per capire il nuovo sviluppo. Ha dei pregiudizi, è dogmatico, una cosa molto spiacevole. La musica pop invece è tutto, tutti. Il suo pubblico è rappresentato dal fior fiore di chi ascolta la musica oggi. Non ha niente a che fare con gli snob del classico che ascoltano Leonard Bernstein mentre dirige e non sanno che cavolo sta succedendo [...]36.
Queste accuse impulsive contengono una verità. II pubblico del jazz si è sempre considerato infatti un’élite. I concerti di jazz sono frequentati anche dalla gente “bene”, mentre i concerti pop sono aperti alla massa, operai e giovani, anche ai ceti socialmente meno influenti. È un pubblico democratico. Peraltro sull’onda di come i concerti pop si svolgevano all’aperto, nelle piazze e strade di mezzo mondo, da San Francisco a Hyde Park di Londra, accessibili e gratuiti per tutti, anche il jazz è uscito allo scoperto. È interessante quanto riduttivo il commento che dette John Lennon parlando proprio di questo fatto, per esperienza diretta: “Siamo sempre stati contro il jazz. Secondo me è una musica di merda per studenti. II jazz non serve a niente, non produce niente, è sempre la stessa roba”37. In quella che sarebbe poi diventata la Mecca del beat, il Cavern Club di Liverpool, per esempio, in principio si suonava soltanto jazz. Era raro che venissero ingaggiati gruppi rock’n’roll. Quelle volte che i Beatles all’inizio della loro carriera riuscirono a ottenere una scrittura per il Cavern Club, ricevettero dei bigliettini in cui li si invitava a non suonare musica rock. Essi annunciavano un numero di jazz per poi eseguire ugualmente un pezzo di beat e così per qualche tempo non ebbero più ingaggi al Cavern. Agli albori della nuova musica pop esisteva dunque una vera e propria ostilità tra jazz puro e beat. II beat ricevette le ispirazioni più valide dai testi di folksongs, dal rock’n’roll e dal proprio ambiente. Solo più tardi, verso la fine del 1966, ebbero una maggiore influenza il blues e anche ciò che i jazzisti classici bandivano dal loro regno come ‘strimpellate moderne’,
36 37
Who I am, Ed. Harper Collins, London 2012. Live! Un’autobiografia dal vivo, Minimum Fax, Roma 2000.
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cioè il free-jazz. A tal proposito è illuminante la spiegazione che dette Eric Clapton, in una intervista con Frank Kofsky38, sui suoi rapporti con il jazz:
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Kofsky: Quale jazz ascolta? Chi sono i suoi jazzisti favoriti? Clapton: Quelli d’avanguardia, direi. Kofsky: Me l’aspettavo, infatti suona la chitarra in modo molto simile a quello di Pharaoh Sanders. Clapton: Oh, ne sono felice. Ha detto una grossa cosa.
Non furono certamente gli esperimenti concertistici della ideologia del Third Stream, Gunther Schuller, a influenzare i giovani musicisti pop, bensì i trasformatori radicali del jazz, a lungo misconosciuti e messi al bando dalla critica e dallo show-biz ufficiale del jazz. Ciò che essi trovavano in questo nuovo sound, quasi sempre non lo chiamavano più jazz, né freejazz, ma semplicemente new music. Ecco l’obiezione decisiva per troncare la controversia tra jazz e pop. Perché ostinarsi, a qualunque costo, a incasellare tutto per benino, a forzare ogni cosa in categorie stilistiche obsolete? Rimaneva il sospetto che questo pubblico lottasse in maniera piuttosto comoda per l’ascolto quotidiano; classificare superficialmente risultava più semplice che imparare a comprendere una nuova dimensione. Alla domanda, se a suo avviso la musica pop fosse influenzata dal jazz, Bob Mosley -dei Moby Grape- rispondeva: Se interpreto i miei sentimenti più intimi con lo strumento e con la voce, qualcuno magari lo chiamerà jazz, ma è solo lui che lo chiamerà così, non io. Qualcuno lo chiamerà country, ma solo lui. Io lo chiamo semplicemente un’interpretazione delle mie sensazioni mediante la musica in questo preciso brano musicale.39
Don Stevenson, pure dei Moby Grape, aggiunge: “Secondo me la tendenza va alla musica. Il denominatore comune è musica“. Una musica alla quale inizialmente si era giunti per altre vie, non attraverso il jazz ufficiale. Forme autentiche come il blues e lo spiritual, il gospel o anche il semplice skiffle o il modesto folksong, hanno dato un’impronta alla musica nuova molto di più che i grandi concerti del jazz commerciale. Soprattutto però ha avuto un significato profondo un tipo di musica rozza, niente affatto adatta alle sale da concerto: il rock’n’roll.
38 39
“The Cream: An interview with Eric Clapton” in Rivelli Pauline & Levin Robert, Rock Giants, The World Publishing Company, New York 1967. Bob Mosley’s Official Website.
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Si è visto, quindi, in questa prospettiva, come le forme di fruizione della musica jazz vengono inscindibilmente legate a un gruppo sociale, i “giovani”. Il prodotto discografico assunse, assieme ad un certo trend modistico e alimentare, il ruolo di prodotto simbolo dell’emergere di una cultura generazionale distinta da quella adulta, dotata fra l’altro di un proprio autonomo potere d’acquisto. Uno dei più contraddittori nomi che questa forma espressiva ha assunto, nonché un palese indice del suo pubblico di riferimento, è stato lo swing, disimpegnato e tipicamente consumato in fase adolescenziale, prima di approdare a metamorfosi jazzistiche più ostiche quali il cool, free, l’hard bop: forme più innovative per un pubblico consumistico dal palato sopraffino, con piglio trasgressivo, e pienamente protagonista delIe trasformazioni sociali che esso assunse a partire dagli anni Cinquanta. Infine, pure la definizione di “musica d’élite” è stata spesso associata al gruppo sociale che la produceva e consumava. L’equivalenza “new-thing/uguale/rivoluzione” aveva profondamente influenzato la relativa ricerca sociale. Il cambiamento radicale che aveva acquistato concretezza con Ornette Coleman, grazie alla creazione di nuove libertà armoniche e strutturali e che, oltrepassando i limiti del jazz convenzionale, assunsero la connotazione di una rivoluzione estetica ossia l’eversione del free jazz rimodulò completamente gli studi sociologici per la nuova éra che si affaciava alla nuova alba. Apparvero nuovi dispositivi di costruzione della categoria sociale dei giovani, ciò per il meccanismo di fabbricazione del nuovo ibrido fenomeno musicale, con conseguente metamorfosi del pubblico sociale ed economico che, sulle sonorità del nuovo sound, aveva veicolato la mentalità del pubblico fruitore. Alla radice di questi suoni in libertà si erano insinuati moventi di carattere politico, con una forte carica di opposizione alle discriminazioni razziali e sociali e con l’adozione di mezzi espressivi volutamente urtanti, provocatori e naturalistici. A un simile risultato, che aveva inserito il jazz nel dramma dell’arte contemporanea, si era giunti attraverso gli assoli lunghissimi e sempre più liberi degli esponenti dell’hard bop, di Rollins, Dolphy, Coltrane e altri, e attraverso le forzature tonali di Ornette Coleman, erede di ‘Bird’ Parker. Bisogna aspettare gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta per approdare ai primi studi sistematici sull’argomento, anni in cui l’interesse accademico e scientifico per il soggetto iniziava a manifestarsi in maniera più continuativa. Lo storico Eric Hobsbawm, nel suo lavoro The Jazz Scene, aveva compendiato questo modo di affrontare la questione. Lo studioso inglese aveva dedicato infatti all’argomento un cospicuo approfondimento, chiedendosi se corrispondesse a realtà il fatto che questa musica rappresen-
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tasse la musica dei giovani, e perché questi ultimi andassero ritenuti una categoria speciale: Il pubblico del jazz è fatto in stragrande maggioranza di giovani e di maschi. Fra i bianchi, il jazz è una musica che si rivolge essenzialmente ai ragazzi e ai giovanotti di età, mettiamo, tra i quindici e i venticinque anni. L’offensiva commerciale del dopoguerra tra i bambini delle scuole può avere abbassato questo limite di età, ma non credo poi molto. II jazz strumentale non è una musica per giovanissimi, ma per giovani maturi, e i ragazzini su cui ha fatto presa si divertono molto di più, c’e da supporre, con la semplice musica vocale del tipo rhythm-and-blues o tipo cow-boy. Questa osservazione non ha bisogno di statistiche. Nei circoli di jazz e nei concerti dal vivo i giovani maschi sono invariabilmente l’elemento preponderante, e pochissime sono le ragazze che vi partecipano se non accompagnate da fidanzati o amici. La vera e propria comunità degli appassionati è formata nella quasi totalità di maschi. Anche se fra le ragazze ci sono delle appassionate -ben riconoscibili perché si tratta di elementi che sono ai margini delle attività artistiche culturali e mondaneuna indagine più approfondita rivelerà sempre che esse sono state iniziate da qualche amico musicista o jazzofilo. Questo succede abbastanza spesso perché il jazzista è insieme un appassionato cacciatore di proseliti e un appassionato amatore di donne. Di tutte le arti dell’Inghilterra sulla meta del XX secolo, il jazz è finora quella che ha la tradizione e l’etica eterosessuali più forti, nonostante la tolleranza dei jazzisti per le deviazioni e le idiosincrasie nella vita privata della gente40.
Hobsbawm faceva notare che, nella letteratura sociologica, il jazzofilo si era formato pian piano dal calderone della musica pop, perché anche l’hot jazz era nato dalla concorrenza con la comune musica da ballo semi-jazz, e si era imposto come qualcosa degno di speciale attenzione. Ci sono però anche altri motivi per la nascita di un pubblico jazzistico: una passione sfrenata e l’esuberanza del jazz si adeguano perfettamente alla fase adolescenziale di un uomo; per i giovani risulta molto più facile che per gli adulti sorvolare sui limiti formali ed emotivi e qualche volta anche sulla mediocrità, di molto jazz, perché riescono a supplire alle carenze con la loro vitalità, la loro impulsività, la loro dedizione. Agli occhi dell’aficionado qualunque pietra gialla può apparire come una pepita d’oro, e molto jazz -sicuramente non il migliore- non è altro che una pietra musicale luccicante in maniera da confondere il pubblico con il suo brillare. Tuttavia il grafico dell’entusiasmo per il jazz nella vita dell’uomo mostra un brusco abbassamento a partire dai venticinque anni in poi.
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Pantheon; Enl Sub edition, London 1993.
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Prendiamo gli inizi degli anni Settanta, i jazzisti che hanno avuto più successo, i dominatori dei grandi festival, sono stati quelli che offrivano un qualcosa in più al jazz, cioè cercavano contaminazioni con la musica classica o popolare. C’era una sorta di difficoltà ad accettare il jazz come tale, una vera e propria difficoltà di ascolto. Per comprendere la ragione bisogna rifarsi a quel senso di inferiorità che aveva prodotto l’acculturazione. É ormai noto che gli anni a posteriori del ‘68 erano quelli in cui l’industria culturale si era presa l’incombenza di gestire l’anti-intellettualismo delle masse giovanili. La cultura dei giovani era troppo redditizia e doveva essere difesa, per i giovani e anche contro i giovani. E, da come appariva dalla stampa specializzata, risultava una cultura fatta solo ed esclusivamente di miti: Woodstock il più grande raduno, Jimi Hendrix il migliore, John McLaughlin il più veloce, e poi West Coast, qualche poeta beat mal digerito, magari falce e spinello e via di questo passo. II jazz, la musica classica, erano tra gli elementi che potevano interrompere questo idillio, e quindi bisognava circoscriverli. Per limitarci al jazz, appare chiaro che esso era visto un po’ come un pianeta inesplorabile, qualcosa che “non ci apparteneva”, era di un’altra cultura, un’altra epoca. E sfuggivano le peculiarità musicali del discorso jazzistico: un assolo di Horace Silver si riusciva a seguirlo, uno di Parker poteva apparire monocorde; sapendo che John McLaughlin aveva appreso da Miles Davis alcune formule, in un brano di Miles si apprezzavano soprattutto quei momenti che potevano far pensare a McLaughlin, appunto perché l’orecchio non era abbastanza aperto per cogliere l’intero discorso, e si ascoltavano gli arrangiamenti del jazz più tradizionale con lo stesso fastidio con cui si tolleravano le colonne sonore jazzate di certi programmi televisivi. La massa giovanile diventava quindi 1’espressione di uno stile di consumo. Alla fine degli anni Cinquanta gli adolescenti costituivano il 25% del mercato consumistico di svago quale moto, dischi, gadget, libri e vestiti, ma rappresentavano una quota trascurabile nel consumo costante di lunga durata. In breve, investivano i loro risparmi per l’acquisto di beni culturali, per le distrazioni, per il tempo libero in generaIe. In questo contesto la musica jazz rappresentava, quindi, un bene fruito principalmente da giovani di estrazione operaia, apparentemente votati intrinsecamente alla trasgressione. Analizzare il binomio adolescente-trasgressione implica numerose convenzioni sociologiche: una visione fenomenologica dell’abbinamento, il predominio consumistico nella definizione dell’identità sociale e di gruppo, un approccio statico e non dinamico e una perseveranza sulla componente maschile. Alcuni studiosi come Simon Frith41 avevano 41
The Sociology of Rock, Constable and Company Ltd., London 1978.
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già messo in discussione questo atteggiamento, rilevando le differenze sostanziali nell’uso della musica. É il cosiddetto approccio della “sottocultura”, uno dei concetti più fortunati nella letteratura sociologica della musica pop: l’idea che la musica soddisfi bisogni che si differenziano a partire dai retroterra culturali, correlati all’appartenenza di classe sociale. Nell’approccio sottoculturale, il jazz diventava una metafora che estrinseca valori di gruppi di classi subalteme che, attraverso di essa, si distinguevano dal resto della società. L’improvvisazione jazzistica diventa un’espressione simbolica dell’alienazione e della trasgressione attraverso l’individuazione di uno stile individuale e unico, certamente diverso dagli altri. La sottocultura si impone come lo stile di un gruppo, che attraverso di esso si differenzia dalla cultura dominante. Su questa idea di stile e sulla sua relazione con la musica -nel nostro caso il jazz- si focalizzano le ricerche di Dick Hebdige42: volendo calzare le tesi di quest’ultimo alla musica jazz, secondo il teorico inglese questa musica rappresenta uno stile di vita, una risposta all’alienazione di classe. Tra stile di vita e jazz vige una legge di circolarità espressiva basata sull’omologia tra scelte sociali e i messaggi dell’improvvisazione modale o dei testi dolenti del blues o gli inneggiamenti dei gospel. Questa circolarità è palese analizzando in vitro la letteratura della cultura di gruppo, intesa come insieme di pratiche significanti. Il bluesman, il bopper, e quant’altro, ad un certo momento del loro ritorno alla quotidianità minimalista mettevano in secondo piano l’istinto musicale e venivano risucchiati in un sub-esistenzialismo fatto di difficoltà economiche, di droghe, di sofferenza, tutto celato sotto lo strato del mondo cosiddetto ‘normale’ e in contrasto con esso. Una sorta di identità segreta -per dirla ancora una volta con Hebdige- istintivamente costruita, che rappresentava un’affinità emotiva con tutto il popolo afroamericano, un’affinità che era trasposta in stile. Sostanzialmente i valori peculiari della comunità jazzistica appaiono, oggi come allora, come il riflesso di quelli espressi da un preciso sottogenere musicale: consumare certo jazz in certi luoghi è un modo di affermare la propria identità. L’ascoltatore della musica jazz, di un certa peculiarità specifica come può essere l’improvvisazione modale, si differenzia così dal resto della società e dal resto dei comuni ascoltatori di musica. Una pratica del genere, sotto un profilo squisitamente socio-filosofico, potrebbe mettere in luce la funzione ideologica del jazz come metodo di contrasto della “cultura dominante”. Se esiste un limite a tale accostamento consisterebbe nella contraddizione che spesso alloggia nello stesso jazz in quanto tale. 42
Subculture. The Meaning of Style. Londra, Routledge, 1981.
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La profferta subculturale utilizza, ipso facto, la musica jazz come pretesto senza realmente chiarire la posizione e il significato che essa assume. Ciò che si tenta di offrire al lettore è cercare di tratteggiare un’analisi dei significati del consumo musicale, anche partendo dall’assunto del suo aspetto, non solo sonoro ma anche visuale e iconografico. Ciononostante la disamina delle ‘pratiche significanti’ rivela i suoi più grandi limiti proprio nella sua incapacità di definire i tratti di omologia tra cultura e improvvisazione istintiva. Fermo restando questo limite, ci chiediamo: se ascoltassimo un jazz classico di Max Roach, We Insist! - Freedom Now Suite, questo approccio sottoculturale come ci aiuterebbe a comprendere il messaggio? I molti elementi di quello che caratterizzerà il nascente genere musicale, le forti tematiche razziali, l’assoluta libertà di esecuzione della suite, e certi passaggi musicali particolarmente ostici all’ascolto, che lo hanno reso un’opera fondamentale per lo sviluppo del genere free jazz? Quanto diventa importante, e chiara, l’omologia? Ovvero, ci interroghiamo, in che modo questa musica esprime e riflette i valori di un gruppo specifico? Si possono trovare degli indicatori (le fonti del suono, il senso dell’improvvisazione, i testi, e quant’altro) ma l’approfondimento si concentrerà più sui presunti riflessi di questi indicatori nel consumo da parte dell’ascoltatore che sull’analisi del loro significato. In definitiva, 1’affinità tra il modo di interpretare se stessi all’interno della comunità e musica jazz viene giustificata dall’idea che il primo sia un riflesso di quest’ultima; ma il jazz -tuttavia- non risulta consonamente analizzato poiché rischierebbe di contraddire l’assunto enunciato. La costante dell’analisi sociologica sulla musica jazz appartenente a questo filone risulta che quest’ultima viene intesa e studiata non sempre, come accade per il pop ed il rock, come prodotto che riflette soprattutto la cultura giovanile, bensì l’intera società intesa come comunità jazzistica, nei suoi riti e miti e, naturalmente, come fattore culturale di socializzazione.
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Una storia sociale del jazz
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Una storia sociale del jazz
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Bibliografia
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DISCOGRAFIA
Per comprendere appieno l’impatto che la musica jazz ha avuto nella società e nelle generazioni che si sono avvicendate, la sola teoria -per quanto esaustiva possa presentarsi- non basta. A tal proposito diventa necessario -se non addirittura basilare- il supporto dell’ascolto, ciò per cogliere le peculiari emozioni nella loro totalità. Ciò che ho riportato qui di seguito vuol essere una “consulenza” discografica che accompagni il lettore (che è anche ascoltatore) a venirgli in aiuto qualora la teoria dovesse apparire ostica o di difficile comprensione, e in questo caso entra in scena una sorta di ‘ascolto guidato’. Per fare ciò ho dovuto -mio malgrado- non poter seguire un semplicistico ordine alfabetico dei musicisti bensì formulare una tabella ‘temporale’ delle varie età del jazz che ho argomentato nel libro. I titoli sono quelli più significativi, almeno per un giudizio alquanto condiviso dalla critica ufficiale, tra cui appariranno palesi e numerose ‘illustri’ assenze, tuttavia ho cercato di offrire quei nomi che hanno rappresentato (e rappresentano tuttora) i punti di riferimento essenziali della musica jazz, coloro che -nel bene e nel male- hanno destato l’attenzione di insigni studiosi delle più disparate discipline scientifiche, dall’etnomusicologia alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia. Mahalia Jackson, Gospels, Spirituals & Hymns, 1991 (Columbia-Legacy, 1998) – Power And The Glory, (Columbia, 1960) Dinah Washington, Dinah Jams, (Emarcy, 1954) – What A Difference A Day Makes, (Polygram, 1984) Scott Joplin, The Entertainer - Classic Ragtime from rare Piano Rolls, (Biograph, 1016) – Treemonisha, (New World Records, 2011) Louis Armstrong, The Complete Hot Five and Hot Seven Recordings, (JSP 1925-29) – And His All Stars, (GNP, 1994)
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Una storia sociale del jazz
Dizzy Gillespie, The Complete RCA-Victor Recordings (Bluebird, 1037-1949) – Greatest Jazz Concert Ever (Prestige-Carrere 1953) Miles Davis, Birth of the cool - Capitol (1949) – Kind of Blue (1959) – Columbia-Sony – Bitches Brew (1969) – Columbia-Sony Max Roach, We Insist! Freedom Now Suite (Candid, 1960) – Jazz in 3/4 Time, (Universal Distribution, 2005)
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Clifford Brown, The Beginning and the End ( Columbia, 1952-56) – Best of Clifford Brown (1998) Blue Note Wynton Marsalis, Black Codes (From The Underground), (Columbia, 1985) – Citi Movement (Columbia, 1988) Earl Hines, Piano Man 1928-1955 (Giants of Jazz 1996) – Spontaneous Explorations (Red Baron/Contact 1964) Art Tatum, Classic Piano Solos (1934-1939) GRP – The Tatum Group Masterpieces, Vol. l (1954) Pablo Bud Powell, The Complete Blue Note And Roost Recordings, (Blue Note, 1947) – The Amazing Bud Powell 1949-51 (Blue Note) Bill Evans, New Jazz Conceptions- (Original Jazz 1956) – Waltz For Debby, (Riverside, 1962) Keith Jarrett, Espectations- (Columbia-Sony 1971) – The Köhln Concert (ECM, 1975) Coleman Hawkins, Coleman Hawkins 1939-1940 (Classic, 1939-1940) – Wrapped Tight (Impulse, 1965) Johnny Hodges & Duke Ellington, Side by Side (Verve 1958-59) – with Billy Strayhorn and the Orchestra (Verve, 1961) Lester Young, The Complete Aladdin Sessions (Blue Note, 1942-47) – Lester Swings (Verve 1945-51) Stan Getz & João Gilberto, Getz/Gilberto (Verve 1964) – Focus (Verve 1961) Sonny Rollins, Saxophone Colossus (Prestige 1956) – A Night at the Village Vanguard, (Blue Note 1957)
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Discografia
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John Coltrane, Blue Train (Prestige 1957) – My Favorite Things (Atlantic 1960) – A Love Supreme (Impulse 1964) Charlie Parker, The Complete Dial Sessions (Stash, 1946-47) – Greatest Jazz Concert Ever (1953) Prestige-Carrereve Thelonious Monk, Genius Of Modern Music Vol. 1 & 2 (Blue Note, 1952) Lee Konitz, Subconscious-Lee (Prestige 1949-50) – Lee Konitz Nonet (1977) Chiaroscuro
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Ornette Coleman, Free Jazz (A Collective Improvisation) (Atlantic, 1961) – Complete Science Fiction Sessions (1971)- Sony Cannonball Adderley, Somethin’ Else (Blue Note 1958) – Mercy, Mercy, Mercy! Live at ‘The Club’ Capitol 1966) Sarah Vaughan, Sarah Vaughan With Clifford Brown, (Emarcy/Verve, 1954) – Swingin’ Easy, (Emarcy, 1954-57) Stan Kenton, New Concepts Of Artistry In Rhythm (Blue Note, 1952) Eric Dolphy, Out to Lunch (Blue Note 1964) Anthony Braxton, Dortmund (Quartet) (1976) (HatART, 1976) – Eight (+3) Tristano Compositions, 1989: For Warne Marsh (HatART 1989) Charlie Mingus, Mingus Ah Um (CBS, 1960) – Pithecanthropus Erectus, (Rhino Records 1998)
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INDICE DEI NOMI
A Dialogue between A and B in The Petty Papers 37n A Journey in the Seabord Slave States 27n Adorno, Theodor 119, 121, 122, 123, 124n, 125, 127, 132n, 144 Alfred 101 Aloisio 23 America (My Country, Tis of Thee) 100 Ammaturo, Natale 76 Antropologia della schiavitù 76 Anthropologie et Histoire au siécle des lumiére 40n Arendt, Hannah 120 Aristotele 49 Armstrong, Louis 126, 134, 140, 141, 144 Army Life in a Black Regiment and Other Writings 92 Arne, Thomas Augustine 101 Atkinson, Geoffroy 52 Ashkenazy, Vladimir 133 Auld Lang Syne 101 Aunt Dinash Ras Blowed the Rom 116 B Swift 142 Bach, Johann S. 133 Bacone 53n Baker, Chet 12 Baraka, Amiri, (LeRoi Jones) 61n, 90, 92, 129n, 148 Baricco, Alessandro 103 Barbara Allen 101 Basie, Count 156 Bataillon, Marcel 40n, 51n, 53n Baudelaire, Charles 126, 131 Bauman, Zygmunt 11, 16, 17, 123, 148, 151, 152 Beatles 157
Beethoven, Ludwig van 24, 125, 133 Bendyshe, Thomas 41n Benjamin, Walter 122, 131 Bernier, François 41, 42, 43 Bernstein, Leonard 157 Berry, Leon “Chu” 134n Biondi, Carminella 40n, 51n, 59n Bird, the Legend of Charlie Parker 140n Bishop, Sir Henry 102 Black And Tan 134n Black Patti (vedi Sissieretta Jones) 104 Black reconstruction in America 79n Black Yeomanry, Life on St. Helena Island 67n Blake, Eubie 107 Blacking, John 95 Blesh, Rudi 96, 128 Blow, blow, thou winter wind 101n Blue 7 142 Bodin, Jean 52 Bosman, William 50n Bouncing Bouyancy 21 Brecht, Bertolt 116 Brown, Enoch 28n Browne, Thomas 53, 54, 55 Bruno, Giordano 52 Buddy Rich Big Band 156 Bunn, Teddy 134n Cajun Songs from Louisiana 72n Calvino, Italo 58n Capitalismo e schiavitù 56n Caplin, A.S 113n Carter, Bennie 134 Cascades 113 Chaplin, Charlie 111 Charters, Ann112n Chauvin, Louis 107 Chevy Chase 101
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178 Choose You a Seat’n’ Set Down 83n Chronographiae libri quattuor 53n Chtcheglow, Ivan 121 Cibber, Colley 100n Clapton, Eric 158 Co-Adamitæ: or, Men besides Adam 39n Coleman, Ornette 123, 145, 159 Colombo, Cristoforo 98 Coltrane, John 21, 128, 145, 150, 159 Comas, Juan 59n Come il jazz può cambiarti la vita 151n Come è musicale l’uomo? 95 Communitas. Uguali e diversi nella società liquida 151n Cosmographicae discipli 53n Corriere della Sera 133 Cotolendi, Charles 43n Courlander, Harold 26, 27 Cromwell, Oliver 99 Daily Time 26 Daniels, Charles H. 110 Davis, David Brion 51n Davis, Miles 21, 134, 135, 143, 144, 145, 148, 161 de Acosta, José 53 de Gómara, Francisco López 51, 52 Debord, Guy-Ernest 120, 128 de la Cruz, Francisco 52n De Stefano, Gildo 69n, 107n, 108n, 110n, 111n, 129n Dobson, Annie Grace Horn 28, 29 Dodds, Baby 95, 96 Doin’ the Real Slow Drag 116 Dolphy, Eric 159 Douglas, Joseph 104 Douglass, Frederick 77 Downbeat 19, 156 Drake, Sir Francis 98 Du Bois, William Edward Burghardt 31, 79, 80 Duchet, Michele 40n Due trattati sul governo 57n Early Antropology in sixteenth and seventeenth Centuries 35n Easy Winners 113 Ee-ab 142 Eine Einführung mit kommentierter Bib-
Una storia sociale del jazz liographie 19n Elementi di Epistemologia Sociologica 76n Ellington, Duke 21, 122, 131, 133, 134n, 143 Empirische Kunstsoziologie 19n Engels, Friedrich 59n Espion Turc 43, 44, 45, 46, 47 Essai sur le moeurs 40, 49n Eugenia 114 Euphonic Sounds 113, 114 Evans, Bill 19 Ewell, Sammy 107 Examen critique de l’Historie de la Geographie du Nouveau Continent 51n Fame, Georgie 156 Fig Leaf 113 Flora, or Hob-in-the-Well 100n For He’s a Jolly Good Fellow 101 Four lives in the be bop business 91 Fox, Charles 147 Frankie and Albert 102 Frankie and Johnnie 102 Franklin, Aretha 156 Frazier, E. Franklin 78 Frith, Simon 138, 161 Fux, Johann Joseph 23, 24 Gassendi, Pierre 41 Gershwin, George 109, 122, 125 Getz, Stan 135 Giants of Black Music 154n Gide, André 96, 97 Gillespie, Dizzy 134, 140 Gleason, Ralph 155 God Save the King 100 Godwin, Morgan 33, 34, 38, 50, 56 Gonsalvez, Antam 98 Goodman, Benny 102 Gorlier, Claudio 30n Gosset, Thomas F. 51n, 58n Gradus ad Parnassum 23 Gray, Christopher 120 Greenberg, Clement 119 Gruber, Franz 102 Haddon, Alfred C 41n Hail, Columbia! 100
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Indice dei nomi Hale, Matthew 34, 35, 36 Hamm, Charles 153 Händel , Georg Friedrich 133 Harding, Vincent 80 Harris, Joel Chandler 68 Harris, Marvin 40n Hawkins, Coleman 144 Hayakawa, S. I. 69, 70 Haydn, Franz Joseph 24 Hebdige, Dick 162 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 120, 151 Heine, Heinrich 126 Hendrix, Jimi 161 Herskovits, Melville J. 65, 66, 70, 71, 78, 96 Herzog, George 72 Higginson, Thomas W. 92 Hines, Earl «Fatha» 140 Historia de las Indias 52 Hoare, Ian 138 Hobsbawm, Eric J. 11, 15, 20, 159, 160 Hodgen, Margaret 35n Hodges, Johnny 133n Home, Sweet Home 102 Hooker, John Lee 155 Hopkins, Lightning 155 Hopkinson, Francis 100 Hopkinson, Joseph 100 Horkheimer, Max 60, 119 I filosofi e i selvaggi, 1580-1780 43n I Got Rhythm 134n I miti razziali 59n I sei libri dello Stato 52 I Situazionisti e la loro storia 128 If You See Me Comin’ 134n II canto nero 69n II popolo del blues 61n, 90, 92n, 148 Il Barbiere di Siviglia 102 Il Capitale 58n, 60 Il problema della schiavitù nella cultura occidentale 51n India Cina Russia 59n Ingalik material culture 73n Introduzione alla sociologia della musica 119 Invito alla danza 102 Internazionale Lettrista 119, 120 Ipod 152
179 It Don’t Mean a Thing If It Ain’t Got That Swing 21 Jacquet, lllinois 134n Jahn, Jahneinz 62n Jam Session an Anthology of Jazz 156n James, Cyril Lionel Robert 79 James, William 19 James, Willis 27 Jarrett, Keith 122, 133 Jazz 101 139 Jazz at the Philarmonic 134n, 155 John Brown 31n John Henry 74 John Peel 102 John The Revellator 74 Johnson, Guy B. 67 Johnson, James P. 129 Johnson, Wendell 69, 70 Jones, John Paul 98 Jones, Sissieretta (Black Patti) 104 Joplin, Scott 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 113, 114, 115, 116, 130 Journal des Sçavans 41 Key, Francis Scott 100 Khan, Ali Akbar 146 Killing Me Softly: My Life in Music 147n King, Martin Luther 128 Kofsky, Frank 158 Konitz, Lee 135 Krell, W. H. 104 L’Afrique noire dans la litterature française du XVIIº siécle 51n L’Espece Humaine 41n L’evoluzione del pensiero antropologico 40n L’industria culturale 50 L’unité du genre humain du P. Acosta au P. Clavigero 40n La capanna dello zio Tom 77 La Grande Catena dell’Essere 35n La musica è la mia signora. L’autobiografia di Duke Ellington 143n La Peyrere, Isaac 34n, 35, 37, 38, 39n, 58n
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180 Las Casas et la defense des indiens 51n La solitudine dell’uomo globale 148 La Stangata 128 Lahontan (Barone di) 48, 57n Landucci, Sergio 43n La politica come professione 25 Le Vayer, La Mothe 35 Leaving the 20th Century 120 Ledbetter, Huddie 29 Ledrut, Jean 135 Leibniz, Gothofredus Guillelmus 42n, 43n Lennon, John 157 Les nouveaux horizons de la Renaissance Française 52n Les Sciences de la vie dans la pensée française du XVIIIe siècle - La génération des animaux de Descartes à l’Encyclopédie 44n Let’s Dance 102 Levin, Robert 154, 158n Lewis, George 95 Licorish, David 142 Life and times of Frederick Douglass 77n Linnaeus, Carolus 57n Lincoln, Abramo 103 Live! Un’autobiografia dal vivo (Lennon) 157n Locke, John 57, 58 Logik der Sozialwissenschaften 127n Lomax John Avery & Alan 83 Lorenzo Dow Turner: Father of Gullah Studies 67n Lovejoy, Arthur O. 36n Lyon, James 100 Maffi, Bruno 59n Magnetic Rag 108, 114, 115, 130 Malbrouk s’ en va-t-en guerre 101 Malcolm X 128 Malpighi, Marcello 44n Maple Leaf Rag 106, 109, 110, 113, 116 Marana, Giovanni Paolo 43n Marcuse, Herbert 122 Marsalis, Wynton 151 Marx, Karl 58n McLaughlin, John 161 McLaren, Malcolm 128
Una storia sociale del jazz Meier A. 80n Meillasoux, Claude 76 Mellers, Wilfrid 9 Mercier, Roger 51n Meredith, Jimmie 107 Merriam, Alan 31 Mezzrow, Milton 155 Mingus, Charlie 127 Minima Moralia 122 Mississippi Rag 104 Mitchell, Roscoe 147 Moby Grape 158 Moda senza tempo 144 Mohr, Joseph 102 Mon frere, tu es mon esclave! Teorie schiaviste e dibattiti antropologici razziali nel Settecento francese 40n, 51n, 59n Monk, Thelonious 142, 143, 145 Moore, Thomas 101 Morris, Butch 147 Morton, Jelly Roll 95 Mosley, Bob 158 Mozart, Wolfgang Amadeus 125, 133 Mp3 17, 148, 152, My Days Have Been so Wondrous Free 100 Music in the New World 153 Napolitano, Aniello Salvatore 149 Negro Folk Music of Alabama secular by Harold Courlander 26n, 28n Neo-African Literature 62n New voyages to North America 48n Nouveaux essais sur l’entendement humain 42n, 43n Novecento 103 Oh, Dear, What Can the Matter Be? 101 Oliver, King 134n, 135 Oliver, Paul 27n Olmstead, Frederick Law 26 Original Rags 110 Osgood, Cornelius 73, 74 Our Singing Country, a Second Volume of American Ballads and Folk Songs 83n
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Indice dei nomi Paragon Rag 114 Parker, Charlie 12, 134, 140, 141, 142, 143, 144, 159, 161 Payne, John Howard 102 Pechlin, Johann Nicolaus 44n People in quandaries 70n Petty, William 35, 36, 37, 39, 40, 41, 42n, 43n, 47, 55 Philadelphia Jack ‘The Bear’ 107 Phillips, Ulrich Bonnell 79 Philosophische Schriften 42n Piras, Marcello 147 Pithecanthropus Erectus 127 Popular songs vs the facts of life 70n Pseudodoxia Epidermica: or, Enquiries Into very many Received tenents And Commonly presumed Truths 54n Race: The History of an Idea in America 51n, 58n Ragtime, jazz & dintorni 107n, 108n, 129n Redding, Otis 156 Reinhardt, Django 155 Reisner, George 140n, 141n, 142n Relaxin’ At The Touro 134n Religio medici 55n Rich, Buddy 156 Rivelli, Pauline 154, 158n Roach, Max 135, 142, 163 Rock Giants 158n Roger, Jacques 44n Rollins, Sonny 142, 143, 145, 159 Rosenberg, Harold 119 Rudwick E 80n Rule, Britannia 101 Saggio sulla intelligenza umana 58n Sanguinetti, Gianfranco 128n Sartre, Jean Paul 138 Scale of Creatures 35n Scaligero 37 School of Ragtime 111 Schuller, Gunther 146, 158 Scott, James 130 Scott Joplin Ragtime, vol. 2 113 Scott Joplin’s New Rag 108, 114 Shakespeare, William 101 Shankar, Ravi 146
181 Shining Trumpets 96n Shufflin’ At The Hollywood 134n Sieyès, Emmanuel Joseph 91 Silbermann, Alphons 9 Silver, Horace 161 Simar, Theophile 59n Smith, Samuel Francis 100 Smithsonian Folkways 29n Snow Ball 134n Sociologia del rock 138n Souls of black folk 79n Southwell, Robert 37n Spanier, Muggsy 134n Spellman, A. B. 91 Springfield, Dusty 156 Stampp, Kenneth 79 Stark, John 106, 108, 109, 110, 130 Stevenson, Don 158 Stille Nacht 102 Stoptime Rag 108 Storia dei negri degli Stati Uniti 30n Storia del Ragtime: origini, evoluzione, tecnica 110n, 111n Storia sociale del jazz 20n Stowe, Harriet Beecher 77 Stravinsky, Igor 130 Subculture. The Meaning of Style 162n Sullivan, Arthur 142 Systema Naturae per Regna tria naturæ secundum classes, ordines, genera, species, characteribus, differentiis, synonimis, locis 57n Szwed, John F. 139 Taylor, Cecil 90, 91 Teoria estetica 121 Tesi sulla rivoluzione culturale 128 The Anthropology of Music 31 The atlantic slave trade and slavery: some interpretations of their significance in the development of the United States and the western world 79n The Battle of the Kegs 100 The Bear Went Over the Mountain 101 The Bluebells of Scotland 101 The Economic Writings of Sir William Petty 37n, 40n The Entertainer 113
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182 The Era of Reconstruction: 1865-1877 79n The Harp That Once Thro’ Tara’s Halls 101 The History of Anthropology 41n The Jazz Scene 15, 20, 159 The Last Rose of Summer 101 The Lost Chord 142 The Making of black America 80n The Minstrel Boy 101 The Mood To Be Wooed 133n The Myth of the Negro Past 65n, 96 The Negro’s and Indians Advocate 33, 50n The Old Oaken Bucket 102 The Primitive origination of mankind, considered and examined according to the right of nature 34n The Sociology of Rock 161n The Star-Spangled Banner100 The Story of the Blues 27n The Threepenny Opera 116n The way you look tonight 142 They All Played Ragtime 129 Theatrum Orbis Terrarum di Ortelius 52n Tight Like This 134n, 138 Times Square 123 Topitsch, Ernst 127n Tornielli, Agostino 53n Townshend, Pete 157 Trattato di metafisica 40n, 43n Trecento anni di jazz 17n Treemonisha 108, 115, 116, 117, 130 Turner, Lorenzo Dow 67, 68 Twain, Mark 30 Tyssot de Patot, Simon 48, 49 Una storia della teoria della cultura 40n Uncle Remus 68
Una storia sociale del jazz Under the greenwood tree 101n Varèse, Edgard 141 Vesey, Denmark 88 Viaggio al Congo 96 Vidal-Naquet, Pierre 122, 123 Vite di corsa 11n Voltaire40, 41, 43n, 49, 50n von Weber, Carl Maria 102 von Humboldt, Alexander 51n Voyage de Guinee 50n Voyages et aventures de’ Jacques Masse 49n Wade-Lewis, Margaret 67n Wagner, Richard 101n Walker, Scott 156 Waller, Fats 129 We Insist! - Freedom Now Suite 163 We Want Cantor, We Want Cantor 107 We Will Rest Awhile 116 We Won’t Go Home Until Morning 101 We’re Going Around 116 Webern, Max 25, 58n Weeping Willow 113, 114 Weill, Kurt 116 White Adam 34n Whiteman, Paul 155 Who 157 Who I am 157n Williams, Eric 56n Wolford, Hughie 107 Wolman, Gil J. 120 Woofter Jr., T. J. 67n Yancey, Jimmy 95 Yankee Doodle 100 Young, Lester 134, 135
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ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro
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2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.
Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale
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32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42.
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43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65.
Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica
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66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana
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Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica 124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte
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125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo
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159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro
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193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi 196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone 205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione 206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media 207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale, tra neuroscienze e filosofia politica 208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico 209. Roberto Festa e Gustavo Cevolani, Giochi di società. Teoria dei giochi e metodo delle scienze sociali 210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti. Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità 211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento 212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness, a cura di Giuseppe Moretti 213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle marche e nei media 214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo 215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un soggetto. Tra comune e singolare 216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici di nido 217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre 218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Marco Deriu e Gabriele Galbiati 219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici 220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà 221. Antonio Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance 222. Didier Alessio Contadini, Il compimento dell’umano. Saggio sul pensiero di Walter Benjamin 223. Didier Alessio Contadini, Scioccanti verità. La critica della modernità in Poe e Baudelaire 224. Delio Salottolo, Una vita radicalmente altra
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225. Roberto Miraglia, Intenzionalità, regole, funzioni. I fondamenti delle scienze sociali in Searle 226. Pietro Piro, Nuovo Ordine Carnevale. Conferenze, saggi, recensioni, esercizi di memoria 227. Cosetta Saba, Archivio, cinema, arte 228. Paolo Sensini, Divide et Impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente 229. Antonella Penati (a cura di), È il design una narrazione? Design e narrazioni 230. Antonella Penati (a cura di), Il design costruisce mondi. Design e narrazioni 231. Antonella Penati (a cura di), Il design vive di oggetti-discorso. Design e narrazioni 232. Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio. I protagonisti raccontano la scena artistica in Italia dei primi anni 2000 233. Emanuela Mancino, Farsi tramite. Tracce e intrighi delle relazioni eductive, con scritti di Emanuele Fusi, Benedetta Gambacorti, Federica Jorio, Stefano Landonio, Davide Rizzitelli e Chiara Nicole Zuffrano 234. Paolo Biscottini, Giovanni Ferrario, La radura dell’arte. Conversazioni sull’immagine 235. Andrea Pitto, Jung e Reich. Freud e i suoi discepoli. L’eresia, il misticismo, l’energia, il nazismo 236. Angelo Romeo, Socialmente Pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, Prefazione di Franco Ferrarotti
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Finito di stampare gennaio 2014 da Digital Team - Fano (PU)
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