Una stagione all'inferno-Poesie-Illuminazioni 9788844045975, 8844045974

Dopo aver rovesciato la sua furia su ogni cosa, ora, in "Una stagione all'inferno", Rimbaud si scaglia co

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Italian Pages 256 [255] Year 2016

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Colophon
Alessandro Quattrone presenta in 10 parole chiave l’opera di Arthur Rimbaud
1 - Adoloescenza
2 - Ribellione
3 - Vagabondaggio
4 - Libertà
5 - Profezia
6 - Veggenza
7 - Irrealtà
8 - Lingua
9 - Fallimento
10 - Addio
Poesie
Le strenne degli orfani
Sensazione
Sole e carne
Ofelia
Il ballo degli impiccati
Il castigo di Tartufo
Il fabbro
«Morti del Novantadue e del Novantatré»
Alla musica
Venere Anadiomene
Prima sera
Le repliche di Nina
Gli sbigottiti
Romanzo
Il male
Furie di Cesari
Sognato per l’inverno
Dorme un uomo nella valle
All’Osteria Verde alle cinque di sera
La maliziosa
La splendida vittoria di Saarbrücken riportata al grido di viva l’Imperatore!
La credenza
I miei vagabondaggi (Fantasia)
I seduti
Testa di fauno
I doganieri
Preghiera della sera
Canto di guerra parigino
Le mie piccole innamorate
Il buonuomo si accovaccia
I poeti di sette anni
I poveri alla messa
Il cuore derubato
L’orgia parigina ovvero Parigi si ripopola
Le mani di Jeanne-Marie
Le suore di carità
Vocali
«La stella piange rosa nel cuor delle tue orecchie»
«Il Giusto stava dritto sui suoi fianchi robusti»
Quel che si dice al poeta riguardo ai fiori
Le prime Comunioni
Le cercatrici di pidocchi
Il battello ebbro
Lacrima
Il fiume di Cassis
Commedia della sete
1. Gli avi
2. Lo spirito
3. Gli amici
4. Il povero sogno
5. Conclusione
Buon pensiero mattutino
Feste della pazienza
Bandiere di maggio
Canzone della torre più alta
L’eternità
L’età dell’oro
La giovane coppia di sposi
Bruxelles
«È forse almèa?... Alle prime ore azzurre»
Feste della fame
«Che importa a noi, mio cuore, di quei laghi di sangue»
«Senti come bramisce»
Michele e Cristina
Vergogna
I corvi
Memoria
«Oh stagioni, oh castelli!»
«Tra le foglie urlava il lupo»
Una stagione all'inferno
«Una volta, se non ricordo male»
Cattivo sangue
Notte infernale
Deliri I. Vergine folle
Deliri II. Alchimia del verbo
«Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine»
«D’estate, alle quattro del mattino»
Canzone della torre più alta
Fame
«Tra le foglie urlava il lupo»
«È ritrovata, infine!»
«Oh stagioni, oh castelli!»
L’impossibile
Il lampo
Mattino
Addio
Illuminazioni
Dopo il diluvio
Infanzia
Fiaba
Parata
Antico
Being beauteous
«Oh, il volto cinereo, lo scudo di crine»
Vite
Partenza
Regalità
A una ragione
Mattinata d’ebbrezza
Frasi
Operai
I ponti
Città
Carreggiate
Città
Vagabondi
Città
Veglie
Mistico
Alba
Fiori
Notturno volgare
Marina
Festa d’inverno
Angoscia
Metropolitana
Barbaro
Liquidazione
Fairy
Guerra
Giovinezza
I. Domenica
II. Sonetto
III. Vent'anni
IV. «Tu sei ancora alla tentazione di Antonio»
Promontorio
Scene
Sera storica
Bottom
H
Movimento
Devozione
Democrazia
Genio
Arthur Rimbau de il suo tempo
Indice
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Una stagione all'inferno-Poesie-Illuminazioni
 9788844045975, 8844045974

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Arthur Rimbaud

UNA STAGIONE ALL’INFERNO POESIE ILLUMINAzIONI Introduzione e traduzione di Alessandro Quattrone

Collana a cura di: Paolo Fabrizio Iacuzzi Progetto grafico e impaginazione: Enrico Albisetti Titoli originari: Une saison en enfer – Poésies – Illuminations Introduzione e traduzione: Alessandro Quattrone

www.giunti.it © 2016 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia Prima edizione digitale: marzo 2016

ISBN: 9788844047368

Alessandro Quattrone presenta in 10 parole chiave l’opera di Arthur Rimbaud 1 ADOLESCENzA 2 RIBELLIONE 3 VAGABONDAGGIO 4 LIBERTÀ 5 PROFEzIA 6 VEGGENzA 7 IRREALTÀ 8 LINGUA 9 FALLIMENTO 10 ADDIO

1 ADOLESCENzA Quando Arthur Rimbaud, nel 1869, comincia a scrivere poesie di un certo valore formale, benché ancora legate ai modelli studiati a scuola, ha solo quindici anni. È un adolescente studioso e rispettoso delle regole, di vivissima intelligenza, timido e chiuso. Ha un volto angelico, ma racchiude in sé una carica distruttiva insospettabile che presto esploderà, rivelando al mondo un genio precoce e anticonformista. Il giovanissimo Arthur è un provinciale senza contatti con la società letteraria, ma fin da bambino ha avuto una capacità prodigiosa di assimilare i contenuti dei libri, facendoli diventare parte della propria ricca immaginazione. Al ginnasio di Charleville mostra una considerevole tecnica compositiva (anche in latino) e una urgenza di emulazione e di espressione che sono soltanto l’annuncio di una stagione creativa – tutta giovanile – destinata a consumarsi nell’arco di circa quattro anni, portando nel mondo letterario uno scompiglio che lascerà traumi, ma anche e soprattutto tracce durevoli, per non dire perenni. Di norma, per gli adolescenti, le oscillazioni emotive, gli estremismi concettuali, le discrepanze tra interiorità Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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e mondo esterno – tra parte oscura e parte illuminata della vita – costituiscono motivo di impaccio o di inconcludenza. Per Rimbaud, invece, rappresentano una pluralità di occasioni da sfruttare poeticamente. La prima giovinezza, si sa, è tempo di turbamenti e impazienza, di sogni e angosce, di entusiasmi e proteste. Ed è pure stagione di crescita, dunque di squilibri e aggiustamenti, di insoddisfazione e ricerca. Di rado è un periodo produttivo, e se lo è, in genere manifesta – in modo confuso e velleitario – tendenze che un giorno, quando ci sarà maggiore coscienza di mezzi e di energie, diventeranno attività creativa vera e propria. Ed è proprio questo il punto, questa l’anomalia: Rimbaud è un ragazzo che conserva tutti i caratteri universali dell’adolescenza, ma sul piano del pensiero e dell’arte poetica è dotato di risorse già mature, che nel giro di nemmeno due anni lo porteranno – passando per una serie di liriche più o meno interessanti – alla scrittura di poesie come Vocali e Il battello ebbro, cioè di testi fondamentali per la nascita della poesia moderna. È vero: si tratta di un percorso graduale. Ma la gradualità in Rimbaud non è paragonabile a quella di altri processi evolutivi, specialmente di tipo artistico. A quindici anni egli scrive Le strenne degli orfani, la sua prima poesia in francese degna di nota, rimanendo ancora nell’ambito di un sentimentalismo di maniera. Ma già qualche mese dopo compone Sensazione, dove dà prova di ammirevole freschezza espressiva: «Nelle sere blu estive andrò, punto dal grano, / da un sentiero all’altro, camminando sull’erba: / ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi. / E lascerò che il vento mi bagni il capo nudo». Intanto il ragazzo si guarda attorno, e trova il suo 8

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ambiente troppo stretto e nauseante. Allora la primitiva timidezza si trasforma in inquietudine e, ben presto, in furore iconoclasta.

2 RIBELLIONE Quella di Rimbaud è l’inquietudine comune a ogni altro adolescente, e tuttavia non si fa groviglio o arrovellamento, bensì freccia acuminata. Il suo atto di rivolta, prima poetico e poi esistenziale, trova nella parola l’arma per colpire i bersagli prescelti. Chi sono questi nemici da eliminare attraverso la poesia? Innanzitutto le figure disgustose e meschine che popolano la sua cittadina, e poi quelle esemplari di una tradizione culturale e religiosa che odora di stantio, non consentendo di respirare a pieni polmoni l’aria pura di una vita naturale in cui si possano esprimere le proprie energie secondo estro, necessità e desiderio. Il giovanissimo Arthur è stanco di ogni cosa: del suo ristretto ambiente di provincia, della Francia, dell’educazione cattolica, di tutta la civiltà occidentale, stanco di ciò che è considerato solido e che a lui invece appare irrilevante, se non minaccioso. Per lui il quotidiano e il sublime sono ugualmente detestabili, lo spazio terreno e quello celeste ugualmente inabitabili, poiché impediscono all’anima (come al corpo) di vivere in pienezza e autenticità. Bisogna combattere, allora, o fuggire, perché non si può vivere prigionieri del nemico. Così l’adolescente di talento dapprincipio impiega le energie di cui dispone per dare la caccia a chi incarna un Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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tipo di esistenza mediocre, stupido, e persino soffocante per gli altri. Non è ancora il genio, non è ancora il «veggente» capace di andare oltre, di esplorare l’ignoto. Ci manca poco – per lui i mesi valgono come anni – ma intanto il suo spirito di osservazione è tutto rivolto alla grigia realtà circostante, che ritrae con potenza sintetica e gusto del dettaglio, con violenza deformante e asprezza sarcastica. Le sue sono liriche piene di un astio velenoso. Siamo ancora nella fase della ripulsa: il giovanissimo poeta dissacra e accusa, sospinto da una furia a un tempo angelica e diabolica. Tra le sue vittime ci sono borghesi soddisfatti, ecclesiastici ripugnanti o ipocriti, impiegati cupi e indolenti. Nella poesia Alla musica, per esempio, con esattezza di particolari rivelatori, Rimbaud descrive l’abituale passeggiata della gente di Charleville ai giardini, mentre la banda suona: «Possidenti occhialuti rimarcano le stecche: / tronfi, i grassi burocrati trainano grasse dame / accanto a cui camminano, cornac servizievoli, / quelle le cui gale somigliano a réclame». Nella poesia I seduti, invece, abbiamo la rappresentazione grottesca e sferzante di un’annosa pigrizia: «Questi vecchi son sempre stati una sola cosa / con le sedie, sentendo il sole lucidargli / la pelle o, gli occhi ai vetri dove la neve squaglia, / tremando col tremore doloroso del rospo». Rimbaud, nelle prime poesie, ne ha per tutte le figure istituzionali, re e imperatori compresi. Ma la sua è una rivolta non solo letteraria. È anche azione, o almeno progetto di azione: comportamenti irregolari, fughe da casa e, forse, partecipazione alla Comune di Parigi del 1871. Sull’onda dell’entusiasmo per quella rivolta, scrive qualche poesia celebrativa, tra cui spicca Le mani di JeanneMarie, dedicata alla donna di una stagione nuova, vitale e 10

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rivoluzionaria. Insomma la ribellione, che nasce per motivi etici, trova nella poesia uno spazio di protesta, dove lo sdegno feroce si incontra con l’arte. Ma non c’è pubblico per quest’arte. Le poesie rimangono quasi tutte inedite, perciò non possono esercitare una funzione satirica, e alla fin fine rappresentano solo degli sfoghi più o meno originali. E allora, come continuare a sopportare l’insopportabile, se i nemici sono colpiti solo sulla carta? Non c’è altra prospettiva che la fuga.

3 VAGABONDAGGIO Rimbaud scappa da casa per la prima volta il 29 agosto del 1870, a quasi sedici anni. È l’inizio di una lunga serie di spostamenti avventurosi (spesso compiuti a piedi per centinaia di chilometri) che lo porteranno a Parigi, poi in altre città europee (tra cui Bruxelles e Londra) e infine, dopo l’addio definitivo alla letteratura e alla civiltà, in Africa e in Asia. Non sempre le sue iniziative sono eroiche, anzi, a volte sono il segno di un cedimento o di una sconfitta. Spesso inoltre, di propria volontà o forzatamente, il poeta fa ritorno a casa, dove però si sente spento: «Muoio, mi decompongo nella insulsaggine, nella malignità, nella monotonia. Che volete? Mi ostino ad adorare la libertà libera» (Lettera a Georges Izambard del 2 novembre 1870). I frequenti viaggi di Rimbaud, solitari o in compagnia di Verlaine, testimoniano una ardente sete di qualcosa che possa dare senso e compiutezza alle sue astratte aspirazioni all’assoluto o all’armonia. A volte lo scopo principale è quello di allontanarsi da un luogo (la casa, il paese natale), altre Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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quello di avvicinarsi a un altrove, ma il suo è pur sempre, in essenza, vagabondaggio. Un partire per partire, come voleva Baudelaire. Non c’è una meta definitiva, non c’è un obiettivo da raggiungere, non c’è un luogo dove il poeta possa dire di stare bene e di voler rimanere per sempre. Solo un Eden potrebbe placare la sua inquietudine. Alcune tra le prime liriche di Rimbaud sono pervase da un senso di felicità che deriva certo dall’essere scampato all’asfittica atmosfera della casa e del paese di origine, ma anche e soprattutto dalla possibilità di entrare in comunione con la natura, di sentirne la bellezza e il conforto. Un’esperienza romantica, senza tempo e senza obblighi, vissuta in una condizione di povertà che – sola – permette di avvertire sapori, profumi, suoni e colori con l’immediatezza e la facilità negate a chi si consuma assolvendo ripetitivi compiti burocratici o accanendosi nella lotta per il potere, oppure adagiandosi sul soffice e rassicurante pensiero della propria agiatezza. Poesie come la già citata Sensazione o I miei vagabondaggi trasmettono il senso di gioia pura e spensierata che deriva dal girovagare: «Le mie stelle frusciavano dolcemente nel cielo. / Le ascoltavo, seduto sul bordo delle strade, / nelle miti serate di settembre, e sentivo / la rugiada sul viso come un vino gagliardo». Altrettanto coinvolgente è All’osteria verde, in cui si disegna una pausa del vagabondaggio in un interno modesto ma capace di rendere felice il viaggiatore più di un albergo di lusso. Ai primi vagabondaggi solitari, che hanno ancora un carattere liberatorio e purificatore, tra il 1871 e il 1873 si aggiungeranno quelli con il compagno-mentore-amante Verlaine, che non di rado provocheranno in Rimbaud collera, scherno e amara compassione. Ma per il giovane poeta 12

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le evasioni, le fughe, i viaggi, non sono soltanto fisici. Da poco prima di conoscere Verlaine, infatti, ha cominciato un nuovo modo di viaggiare: quello dell’immaginazione senza freni.

4 LIBERTÀ La vera e totale libertà, che in fondo per Rimbaud costituisce il fine della ribellione e del vagabondaggio, non sembra possibile sperimentarla nella società contemporanea. Il mondo è corrotto, la storia è ammuffita, le relazioni umane – anche quelle più desiderate – sono quasi sempre affannose o deludenti. Bisogna «trovare il luogo e la formula», altrimenti si sarà perduti nell’inferno della vita. Bisogna riuscire ad arrivare all’ignoto. Una dimensione del tutto inedita. La realtà non basta più. In una celebre lettera all’amico Paul Demeny, nota come Lettera del veggente (15 maggio 1871), Rimbaud delinea teoricamente le sue intenzioni, che diventano materia poetica nel poemetto Il battello ebbro (settembre 1871), un inno alla libertà intesa come svincolamento e perdita di controllo. In una parola: ebbrezza. Libertà che però solo fantasia e poesia, unite, possono garantire. Il poeta si identifica in un «battello» che narra il proprio viaggio verso un luogo raggiungibile solo se ci si perde. Improvvisamente abbandonato alla corrente del fiume – senza timone, senza pilota, senza trainanti – il battello va chissà dove: «Scendevo lungo Fiumi impassibili, quando / non mi sentii più tirato dai trainanti... // Non m’importava nulla di avere un equipaggio». Il prezzo della libertà Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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assoluta è il distacco da ogni certezza: l’avventura, per dirla in termini romantici. Il battello attraversa così regioni fantastiche, paesaggi esotici ruotanti vorticosamente come in una danza selvaggia, resi per mezzo di immagini in gran parte ricavate da ricordi d’infanzia: romanzi, atlanti, illustrazioni, stampe. Immagini scombinate e ricombinate, secondo un procedimento creativo che si ripeterà nelle Illuminazioni, senza però il sostegno della struttura metrica, che qui invece è ancora presente, unico contenitore al caos. Nel corso del tragitto può succedere di tutto, senza un’apparente concatenazione logica o cronologica. Il battello corre con l’eccitazione folle di chi va alla deriva. È travolto – più che rinforzato – dalle esperienze. Ma all’esaltazione iniziale subentra la stanchezza malinconica della conclusione. Alla fine del viaggio non c’è un luogo meraviglioso e perfetto in cui riposare felici. È la fine dell’ebbrezza liberatrice. Il sogno si ripiega su se stesso. Comincia il rimpianto. L’oceano si tramuta in una pozzanghera, nella quale un bambino (ricordo d’infanzia?) fa galleggiare una barchetta. È l’amara confessione di un’impossibilità, o forse il presagio di una vita che, continuando a palpitare inquieta, nell’avventura fantastica e verbale troverà dilatazione, ma non appagamento: «Non posso più, bagnato da quei vostri languori, / o flutti, andare dietro chi trasporta il cotone, / né fendere l’orgoglio di pavesi e bandiere / né viaggiare osservato dalle orribili chiatte». Non ci si può rassegnare alla piattezza del reale, e d’altra parte sembra impossibile raggiungere uno stato di piena e pura libertà in un altrove che si rivela vuoto. È una delle tante questioni con cui Rimbaud deciderà di fare i conti in Una stagione all’inferno (1873). 14

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5 PROFEzIA Dove e come ritrovare l’armonia perduta? Nell’opera di Rimbaud, sia in quella iniziale che nella più matura, ci sono continui riferimenti a uno stato di purezza, collocato in un passato mitico o religioso. La poesia Sole e carne ne è un esempio, ma sono tanti i riferimenti impliciti ed espliciti che si potrebbero citare. L’età pagana è stata piena di quel vigore, tanto caro al poeta, derivante dal vivere in modo naturale. L’età cristiana, invece, ha visto nella purezza naturale il peccato, il vizio, capovolgendo le cose. E quindi il presente è debole e guasto. Non permette di sentire l’armonia dietro i suoi orribili rumori e di scorgere l’anima dentro il suo corpo corrotto. Che fare? Si può redimere il tempo storico attraverso l’azione politica rivoluzionaria? Difficile. Il tentativo della Comune di Parigi è stato stroncato dall’autorità. Forse allora è meglio dedicarsi alla realtà tout court, non a una realtà storico-sociale ben definita. E così, mescolando concetti di stampo poetico ad altri di tipo mistico-religioso, Rimbaud comincia a immaginare e a vagheggiare un mondo nuovo di cui vuole essere il profeta, cioè colui che annuncia, colui che – ispirato – ispirerà gli altri, colui che saprà trovare le parole per conoscere e poi rivelare l’armonia o anima universale che cambierà la vita degli uomini. L’ardore giovanile gli fa sognare, come scrive ne Il battello ebbro, un «futuro vigore». In lui c’è entusiasmo, fiducia, prima di arrivare alla lucida constatazione del fallimento. Il Genio, titolo di un componimento delle Illuminazioni, rappresenta l’incarnazione sintetica delle aspettative messianiche di Rimbaud. Dalla sua luce egli si aspetta «l’abolizioLe 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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ne di tutte le sofferenze sonore e instabili nella musica più intensa». Anche la prosa A una ragione ha un’impostazione profetico-messianica: «Un colpo del tuo dito sul tamburo scarica ogni suono e fa cominciare la nuova armonia. Un passo tuo è la leva degli uomini nuovi e l’inizio del loro cammino». Rimbaud parla della necessità di raggiungere l’«ignoto» come un profeta che sa di essere uno strumento usato da qualcuno superiore (un dio, uno spirito). L’io destinato a compiere questa missione dovrà perciò liberarsi di se stesso, svuotarsi, per lasciare spazio a qualcosa di più grande: «Se l’ottone si sveglia tromba, certo non è colpa sua», scrive nella già menzionata Lettera del veggente. L’importante è la musica: lo strumento serve solo a diffonderla. E poi: «Io è un altro». Bisogna abbandonare l’egotismo e l’egocentrismo romantici, per creare la poesia «oggettiva». Ma non si può essere profeti se non si è poeti, poeti di una stirpe nuova. E per appartenere a questa stirpe occorrerà rinunciare ai mezzi di conoscenza tradizionali. Solo così si raggiungerà la grande visione delle verità ultime, comprendendo il senso della vita.

6 VEGGENzA Con il suo «folle volo» di dantesca memoria Rimbaud non cambia il mondo, ma sicuramente un risultato lo raggiunge: la poesia, dopo di lui, non sarà più la stessa. Ancora nella Lettera del veggente egli afferma, con la perentorietà dei suoi diciassette anni, che il poeta deve essere un profondo conoscitore della propria anima, e farsi appunto «veggente». 16

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L’autentica conoscenza, quella che ha davvero valore per la vita dell’uomo, al di là di ogni illusione razionalistica, è frutto di un «lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi». È il trionfo dell’irregolarità, della trasgressione. Il poeta si apre all’esperienza del limite estremo, perché quest’ultimo lo spinge a scavare nell’anima, a sondarne la profondità. Egli diventa «il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto – e il supremo Sapiente! – poiché raggiunge l’ignoto!». E «se anche, sconvolto, finirà col perdere l’intelligenza delle proprie visioni», comunque «le avrà viste», e qualcun altro dopo di lui potrà venire a continuare l’impresa. Un’impresa non esente da pericoli. D’altronde ogni esploratore li corre, talvolta anche mortali, per essere uno che apre la strada, un antesignano. Chi arriverà dopo saprà fare tesoro delle sue indicazioni. È questo il modo in cui l’umanità progredisce. «La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti»: il poeta ne sente la responsabilità. Sa di essere un’avanguardia che deve scompigliare le fila avversarie. Secondo Rimbaud, dunque, è grazie al disordine che si raggiunge l’ordine. Ma si tratta di un disordine autorizzato – se non addirittura programmato – dalla ragione, che riconosce i propri limiti e affida all’irrazionale, alla visionarietà alogica, il compito di svelare il mistero, di trovare l’armonia nascosta in esso. Rimbaud, che nella sua tendenza alla ribellione ha sempre capovolto tutto, anche qui sconcerta con i suoi paradossi. Le prose poetiche contenute nelle Illuminazioni si fondano su questo principio: alla verità si arriva attraverso il caos, alla chiarezza attraverso l’oscurità. La futura, suprema conoscenza sarà quindi il frutto di una ritrovata Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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pienezza delle facoltà umane, tutte coinvolte nell’esplorazione. In Mattinata d’ebbrezza abbiamo una testimonianza esemplare del «disordine di tutti i sensi» e della conoscenza dell’ignoto, raggiunta attraverso un avventuroso viaggio interiore, una sorta di allucinazione («ebbrezza»). Il veggente, in definitiva, è il poeta che fantastica, ma non oziosamente, non inutilmente. Non è un sognatore romantico, malinconico e vittimista. È un novello Prometeo, un «ladro di fuoco». E gli serve la fantasia per compiere l’impresa, perché solo grazie ad essa il poeta può sussistere, può nutrirsi e trovare le forze per accedere a un’altra realtà, più profonda, invisibile, ma non meno vera di quella oggettiva: il luogo metafisico, o forse metapsichico, in cui l’essere può dispiegarsi in tutta la sua autenticità.

7 IRREALTÀ Con il Rimbaud più rivoluzionario, quello delle Illuminazioni, la creazione si identifica nella destrutturazione. Scombinare, ribaltare, rimescolare i pezzi, disegnare altri universi: è questa la vera missione del poeta. Mentre demolisce la realtà vera e propria, Rimbaud elabora una realtà irreale, una dimensione nuova, composta tutta di elementi – storici, geografici, autobiografici – in sé riconoscibili, che però vengono decontestualizzati per essere associati, sovrapposti o rimescolati in un turbinio travolgente. Una volta ridotta a linee spezzate, a colori impropri, a figure dissociate, la concretezza diventa astrazione. La realtà non c’è più, e quindi scompare anche la sua più o meno fedele riproduzione. Il lettore si sente confuso, eppure ha 18

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come l’impressione di essere vicino a una grande scoperta. Non ci sono più punti di riferimento, ma lo smarrimento è illuminato. «Non appena l’idea del Diluvio si fu acquietata, una lepre si fermò fra i trifogli e le mosse campanule, e recitò la sua preghiera all’arcobaleno attraverso la tela del ragno» (Dopo il diluvio): è l’inizio dell’opera, subito sconcertante. Si intuisce che si potrà vedere di tutto, prosa dopo prosa, «miniatura» dopo «miniatura» (sarebbe questo, all’inglese, il significato da dare alla parola illumination, secondo Verlaine, ma sicuramente non si può considerare estraneo quello di «rivelazione improvvisa»). Orrore e bellezza, forma e deformità possono occupare lo stesso spazio. E il tempo può essere insieme statico e dinamico: «Alto davanti alla neve, ecco un Essere di Bellezza. Sibili di morte e cerchi di musica sorda fanno salire, allargarsi e tremare come uno spettro questo corpo adorato; ferite nere e scarlatte esplodono nelle carni superbe» (Being beauteous). Lo spirito del poeta non si innalza verso l’azzurra distesa del cielo. Il suo misticismo, infatti, è capovolto, è un inabissamento nella coscienza: immersione da subacqueo, scavo da speleologo. La profondità irrazionale si manifesta – prima di Freud e di Jung – come in un sogno, con simboli e allusioni, con figure eccitanti o inquietanti, con repentine fantasmagorie. E con dettagli tanto precisi quanto misteriosi, che solo il poeta potrebbe spiegare: «Sono l’unico ad avere la chiave di questa parata selvaggia.» (Parata).

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8 LINGUA «Trovare una lingua». C’è bisogno di un linguaggio inaudito per tenere insieme gli elementi più estranei fra di loro, per fare della dissonanza l’elemento determinante di una musica originale, per sostenere il peso di una fantasia così potente, come il poeta ribadisce nella Lettera del veggente: «Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori». Rimbaud sa scrivere secondo ogni canone. Ma a un certo punto sente l’insufficienza delle strutture tradizionali della poesia. Se vuole essere libero nello spirito, deve esserlo anche nel linguaggio, e allora non può che abolire la metrica, la misura predefinita. Così arriva alla prosa delle Illuminazioni (e di Una stagione all’inferno) come se sbarcasse in un’isola dove può esprimersi adeguando il ritmo della frase a quello del pensiero, e la sequenza delle parole alla visione interiore, non alla logica né ad altri schemi. Tuttavia, prima di approdare a quest’isola passa per l’esperienza dei cosiddetti Ultimi versi, poesie scritte a partire dal maggio del 1872 (come Lacrima, Il fiume di Cassis e Commedia della sete) alla ricerca di una misura variabile dei versi, spesso più breve, più disinvolta, qualche volta non del tutto regolare e in genere meno prevedibile. Sono componimenti quasi impenetrabili, tuttavia dotati di valori che li rendono suggestivi, cioè capaci di provocare e alimentare emozioni, ricordi e fantasie al di là di una possibile interpretazione razionale. La parola comincia a distaccarsi dagli oggetti per imporre la sua presenza di regina senza un regno. Aggredita, conquistata e trasformata dalla poesia, la realtà diventa parte dell’anima, cessando di esserne l’inter20

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locutrice esterna. Siamo insomma tra Verlaine e Mallarmé, tra la musica e la parola pura. Poi, appunto, arriva la composizione delle Illuminazioni (scritte probabilmente tra il 1873 e il 1874 e pubblicate all’insaputa del poeta solo molti anni dopo), che dilatano al massimo le possibilità del linguaggio, pur rispettandone i limiti. Non c’è più la misura del verso. C’è una prosa smodata. Tutto è fantasmagoria, spettacolo magico. Immagini si rincorrono e si sovrappongono, temi e motivi diversi si intrecciano. I pensieri si susseguono nella loro incoerenza. Il senso è nell’enigma, la luce è solo una scintilla nell’oscurità. Le analogie sono del tutto arbitrarie. I significati rimangono spesso inaccessibili a dispetto delle descrizioni apparentemente esatte, perché l’io adesso parla una lingua tutta sua, la lingua dell’anima, o del magma vulcanico. Eppure il caos non è nel linguaggio, è nei contenuti, nei loro accostamenti, nella loro frequente ambiguità. La sintassi è quasi sempre semplice, addirittura elementare, come in Alba: «Sulla facciata dei palazzi ancora non si muoveva nulla. L’acqua era morta. Le zone d’ombra non abbandonavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e tiepidi, e le gemme guardarono, e le ali si levarono silenziosamente». La costruzione della frase è ancora indispensabile, ultimo residuo di razionalità nel delirio, anzi – come dice il poeta stesso – nell’alchimia verbale attraverso cui egli vorrebbe «cambiare la vita».

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9 FALLIMENTO La «formula» segreta della libertà si trova nella poesia? Attraverso l’«alchimia del verbo» si può davvero ricavare l’oro della vita, la felicità di essere quel che si è senza doverne rendere conto a nessuno? Se le Illuminazioni costituiscono il supremo e il più audace tentativo di vittoria, è in Una stagione all’inferno che il poeta fa un bilancio della propria esplosiva esperienza. L’opera, distribuita da lui stesso solo a qualche amico, è l’unico libro pubblicato di propria iniziativa, un libro che inventa una nuova poesia mentre ne rinnega il valore. Pochi prima di Rimbaud sono riusciti a fare i conti con se stessi in maniera altrettanto lucida e spietata. Sant’Agostino, forse, o Petrarca: ma entrambi avevano trovato Dio, la certezza definitiva. Rimbaud invece si confessa senza punti di appoggio. Eroe del fallimento. Aneliti, entusiasmi, ideali: tutto finito. Si è trattato solo di illusioni. Il poeta lo pensa con una nuova fierezza, con sdegno verso se stesso e verso chi ha creduto in lui, come il povero Verlaine, «la Vergine folle» che adorante ha seguito «lo Sposo infernale» nei suoi deliri. Nel loro «strano rapporto» si sono mescolati sesso e intelletto, stravizi e letteratura, sofferenze e dolcezza. I due hanno condotto una dura vita da bohème: «ed erravamo, nutriti del vino delle caverne e del biscotto della strada, e io non vedevo l’ora di trovare il luogo e la formula.» (Vagabondi). Finché, in un momento di crisi, Verlaine non ha sparato due colpi di pistola verso l’amico, ferendolo a un polso e finendo poi in carcere. Rimbaud, infarcito di immaginazione e linguaggio cristiani, non è riuscito ad appagare la sua «sete» con contenuti 22

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legati alla fede tradizionale. E così ha cercato la redenzione in una sorta di paganesimo vendicativo, scagliandosi contro un cristianesimo deludente. La vita non è cambiata, e il mondo neppure. «La vera vita è assente, noi non siamo al mondo».

10 ADDIO Il poeta non è riuscito a crearsi un cielo in cui volare, e con tutte le sue peregrinazioni – ancora all’interno del mondo civile – non ha mai raggiunto il paradiso sognato, il paradiso perduto. La sua visionarietà si è tradotta in conoscenze e creazioni inutili, come spiega in Addio: «Ho tentato d’inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri sovrannaturali. Ebbene, devo seppellire immaginazione e ricordi!». La fantasia e la poesia non sono state sufficienti per sollevarlo definitivamente al di sopra delle miserie umane. Dopo aver rovesciato la sua furia su ogni cosa, ora, in Una stagione all’inferno, Rimbaud si scaglia contro se stesso con una lingua secca, nervosa, tagliente. Non è pentito, è solo più consapevole. E per di più stanco e sfiduciato. Non gli è bastato uscire dall’inferno della società borghese per cercare i «piaceri della dannazione» in un luogo più promettente, il regno maledetto della trasgressione: «Finii per considerare sacro il disordine del mio spirito». Questo regno – un altro inferno a suo modo – alla fine si è rivelato privo di tesori. L’alcol, la droga, il sesso, l’erranza e l’ozio quotidiano lo hanno condotto al di là di un confine oltre il quale si è aperta l’immensità del vuoto. Uno scacco, per chi cercava la pienezza, come dice ancora in Addio: «Io! io Le 10 paroLe chiave di aLessandro Quattrone

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che mi sono chiamato mago o angelo, dispensato da ogni morale, sono costretto a tornare a terra, a cercare un dovere, e a stringere la rugosa realtà. Bifolco!». Così Rimbaud, dopo aver tentato di purificare il mondo immergendolo in un lavacro velenoso, alla fine deve riconoscere la propria amara sorte di angelo sfigurato, ancora bisognoso di evasione. Perché non potrebbe mai, da anticonformista geniale, trasformarsi in un normale e tranquillo borghese, mescolarsi alla folla di quelli che ha sempre odiato e deriso. No. Lui ha perso, ma ha vinto la realtà, non gli altri. «Ritorna il sangue pagano! Si avvicina lo Spirito: perché Cristo non mi aiuta, donando alla mia anima nobiltà e libertà?» (Cattivo sangue): se il paradiso non è nella civiltà né nella religione, se non è nemmeno nella loro negazione, e se infine la poesia si è rivelata impotente, allora non rimane che fuggire per sempre, in un mondo ancora selvaggio, «pagano», quel mondo a cui Rimbaud, dichiarandosi degno discendente degli antenati barbari, ha sempre sentito di appartenere: in Africa. Una terra non immaginaria, ma spesso immaginata: «La mia giornata è compiuta; lascio l’Europa. L’aria del mare mi brucerà i polmoni; i climi sperduti mi abbronzeranno. Nuotare, camminare sull’erba, andare a caccia, soprattutto fumare; bere liquori forti come metallo fuso, – proprio come facevano i cari antenati attorno ai fuochi», scrive sempre in Cattivo sangue. Prima dell’abbandono definitivo, però, passeranno alcuni anni. Nel frattempo ci saranno ancora molti viaggi soprattutto in Europa, e ancora ritorni a casa per difficoltà e disgrazie varie. Rimbaud comporrà altre Illuminazioni, nonostante la decisione espressa in Una stagione all’inferno, opera che in ogni caso può essere letta come il documento 24

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finale della sua rinuncia alla poesia e alla civiltà. Le stesse qualità che, a suo giudizio, durante la sua vita in Europa non hanno prodotto niente, se non dissipazione di energie e vana letteratura (nemmeno pubblicata, peraltro, se non per volontà di Verlaine diversi anni dopo la sua partenza), in Africa verranno usate concretamente. Coraggio, senso della sfida, avventure, viaggi non saranno più da intendersi in chiave spirituale, come ricerca di un «ignoto» rivelatore e salvifico. Rimbaud diventerà un pratico uomo d’affari, un mercante, un esploratore, e svolgerà le sue attività nella natura tanto amata, cioè in un mondo fisico, non metafisico. E non scriverà più niente di poetico. Solo lettere alla famiglia e resoconti di viaggio. «Tornerò, con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente: per il mio aspetto sarò giudicato di razza forte» (Cattivo sangue). Ma si preparava per lui un destino tragicamente beffardo: sarebbe tornato, debole e gravemente malato a un ginocchio, per morire a trentasette anni a Marsiglia, dopo l’amputazione di una gamba, assistito amorevolmente dalla sorella Isabelle.

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Le strenne degli orfani I La stanza è piena d’ombra; si sente vagamente il bisbiglìo dolce e triste di due bimbi. Si affacciano, ancora storditi per i sogni, sotto la bianca tenda che trema e si solleva... Hanno freddo gli uccelli, fuori, e stanno vicini: le ali s’intorpidiscono sotto il cielo grigiastro. E il nuovo anno, giunto col seguito di brume, strascicando le pieghe della veste nevosa sorride mentre piange, e canta, e intanto ha i brividi. II Ora i piccoli bimbi, sotto la tenda mossa, parlano a bassa voce, come si fa nel buio. Ascoltano pensosi: è un mormorio lontano... Trasaliscono udendo la chiara voce d’oro del timbro mattutino, che batte e batte ancora le sue ore metalliche nella sfera di vetro... Poi, la stanza è gelida... Sul pavimento giacciono, qua e là attorno ai letti, neri abiti di lutto. L’aspro vento invernale si lamenta sull’uscio, s’insinua nella casa con il suo soffio lugubre! Si sente, in tutto questo, che manca qualche cosa... Non c’è dunque una madre per questi piccolini, che li guardi esultando col suo fresco sorriso? Dunque ha dimenticato, sola e pensosa a sera, di ravvivare un fuoco strappato alle ceneri, poesie

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di coprire i bambini con la lana e il piumino prima di allontanarsi gridando: «Perdonatemi»? Non ha previsto, dunque, il freddo del mattino, non ha ben chiuso l’uscio al vento dell’inverno?... Il sogno della madre è il tiepido tappeto, è il nido ovattato dove i bambini stretti, simili ad uccellini cullati dalle fronde, dormono un dolce sonno pieno di bianchi sogni!... Ma questo... è come un nido senza calore o piume, dove i bambini tremano impauriti, e non dormono; nido che il vento amaro deve aver raggelato. III Il cuore ve lo dice: son senza mamma i piccoli. Non c’è la mamma a casa! E il padre è assai lontano. Così, una vecchia serva si è occupata di loro. I bimbi sono soli nella casa gelata: orfani di quattr’anni, ecco che nella mente un ricordo felice si desta piano piano, simile ad un rosario che si sgrana pregando. Ah, che bella mattina, il giorno delle strenne! Ciascuno nella notte le aveva immaginate in qualche strano sogno con tanti bei giocattoli, confetti in carta d’oro, gioielli scintillanti, che turbinano e danzano una danza sonora, per scomparire sotto la tenda, e riapparire! Si svegliavano presto, le labbra ingolosite, si alzavano felici stropicciandosi gli occhi. Poi insieme in fretta, coi capelli arruffati e gli occhi scintillanti, come alle grandi feste, 30

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sfiorando il pavimento con i piedini nudi, andavano a bussare piano dai genitori... Entravano!... Gli auguri... in camicia da notte... e i ripetuti baci, e la gioia permessa! IV Era bello ripetere sempre quelle parole! Com’è diversa adesso la casa di una volta... Crepitava un gran fuoco, chiaro, nel caminetto, tutta la vecchia camera ne era illuminata, e i riflessi rossastri delle fiamme all’intorno volteggiavano allegri sopra i mobili lucidi... Il grande armadio era senza chiave!... L’armadio! Ne guardavano spesso la porta bruna e nera... Senza chiave!... Era strano!... Di continuo pensavano ai misteri nascosti tra i suoi fianchi di legno, credevano di udire, dietro la serratura, un lontano rumore – mormorio vago e lieto... Com’è vuota la camera dei genitori, oggi! Non si vede il riflesso rosso sotto la porta; niente più genitori, né chiave, né camino: e quindi non più baci, non più dolci sorprese! Oh, come sarà triste per loro il Capodanno! – Mentre dai loro occhioni blu scende silenziosa una lacrima amara, assorti e pensierosi mormorano: «Ma quando ritornerà la mamma?». …………………………………………………

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V Ora i due fratellini tristemente sonnecchiano: si direbbe, al vederli, che piangano dormendo, tanto hanno gonfi gli occhi e affannoso il respiro! Come sono sensibili i bambini più piccoli! Ma viene e asciuga gli occhi l’angelo delle culle e dentro il grave sonno mette un sogno bellissimo, un sogno così bello che le labbra, socchiuse in un sorriso, sembrano mormorare qualcosa. Sognano che, piegati sopra il piccolo braccio, con dolce gesto sporgono la fronte appena svegli, e i loro vaghi sguardi si posano là intorno: credono di dormire in un paradiso rosa... Nel caminetto il fuoco canta lieto ed illumina... Fuori dalla finestra splende un bel cielo azzurro. La natura si sveglia e s’inebria di luce... La terra, seminuda, felice di rivivere, ha brividi di gioia sotto i baci del sole... E nella vecchia casa c’è un calore rossastro, e gli indumenti neri non son più sparsi a terra, e l’uscio è silenzioso, non soffia più il vento... Sembra che sia passata una fata di là! I bambini, felici, hanno gridato insieme... Presso il letto materno, sotto un bel raggio rosa, là, sul grande tappeto, risplende qualche cosa... Ci sono medaglioni argentei, neri e bianchi, madreperla e giavazzo dai riflessi brillanti, e nere cornicette, e corone di vetro con tre parole incise in oro: «A NOSTRA MADRE!». …………………………………………………

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Sensazione Nelle sere blu estive andrò, punto dal grano, da un sentiero all’altro, camminando sull’erba: ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi. E lascerò che il vento mi bagni il capo nudo. Non dirò una parola, non penserò a niente: ma l’amore infinito invaderà il mio spirito, mentre girovagando me ne andrò via, lontano nella Natura, lieto come con una donna. Marzo 1870

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Sole e carne I Il Sole, focolare di tenerezza e vita, riversa amore ardente sulla terra in estasi, e, quando si è distesi nella valle, si sente che la terra è nubile e trabocca di sangue, che il suo grembo infinito, sollevato da un’anima, è – come Dio – d’amore, di carne come donna, e che racchiude, piena di linfe e di raggi, il grande brulichio di tutti gli embrioni! Tutto si accresce e sale! – O Venere, o dea! Rimpiango i tempi della giovinezza antica, i satiri lascivi, i fauni selvatici, dèi che davano morsi d’amore alle cortecce e baci alla Ninfa bionda tra le ninfee! Rimpiango i tempi in cui la linfa della terra, l’acqua del fiume, il sangue rosa dei verdi alberi mettevano un mondo nelle vene di Pan! Erano tempi in cui il suolo palpitava verde sotto i suoi piedi di capra, e le sue labbra, baciando dolcemente la limpida siringa, sotto il cielo suonavano il grande inno d’amore. Ritto sulla pianura, udiva tutto intorno la Natura vivente rispondere al suo appello. Gli alberi silenziosi cullavano gli uccelli, e la terra cullava gli uomini, e l’oceano e gli animali amavano, amavano in Dio! 34

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Ah, io rimpiango i tempi della grande Cibele: percorreva – dicevano – le splendide città, grandiosamente bella sul suo carro di bronzo; i suoi seni versavano negli spazi immensi il purissimo flusso della vita infinita. L’Uomo succhiava lieto i seni benedetti, come un bimbo, giocando sopra le sue ginocchia. – Perché era forte l’Uomo, allora, e puro, e tenero! Miseria! Adesso dice: «Io conosco le cose», e va, con gli occhi chiusi, tappandosi le orecchie. Eppure non ci sono più dèi, e l’Uomo è Re, l’Uomo è Dio! Ma l’Amore, ecco la grande Fede! Oh, se l’uomo attingesse ancora ai tuoi seni, Cibele, grande madre degli dèi e degli uomini! Se non avesse perso Astarte l’immortale che una volta, emergendo dall’immenso chiarore dei flutti azzurri, fiore di carne profumato dalle onde, mostrò il suo ombelico rosa fra bianche schiume e, dea dai grandi occhi neri e vittoriosi, fece cantare l’usignolo fra gli alberi dei boschi, e l’amore nel cuore! II Io credo in te, io credo in te, madre divina, Afrodite marina! Oh, il cammino è duro da quando l’altro Dio ci asservisce alla croce! Carne, Marmo e Fiore: Venere, in te io credo! – Sì, l’Uomo è triste e brutto, è triste sotto il cielo. Veste le nude membra perché non è più casto, perché ha insozzato il suo fiero busto divino poesie

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ed il suo corpo olimpico si è rattrappito adesso, come un idolo al fuoco, con sporche servitù. Anche dopo la morte, vuol vivere nei pallidi scheletri, ed insultare la beltà originaria! E l’idolo a cui désti tanta verginità, in cui divinizzasti l’argilla che noi siamo, perché l’Uomo potesse trovare luce all’anima e ascendere pian piano, in un immenso amore, dal carcere terreno a celesti splendori, la Donna, non sa neanche essere cortigiana! – Ma che bello scherzetto! Ed il mondo sogghigna al nome dolce e sacro della gloriosa Venere! III Se tornassero i tempi, i tempi di una volta! Perché l’Uomo è finito! Ha svolto i suoi compiti! Nel gran giorno, ormai stanco di abbattere i suoi idoli, senza avere più dèi, risorgerà infine, ed essendo celeste contemplerà i cieli! L’Ideale, il pensiero invincibile, eterno, tutto; ed il dio che vive nell’argilla carnale salirà, salirà, gli arderà nella mente! E quando lo vedrai sondare l’orizzonte, sprezzando i vecchi gioghi, senza alcuna paura, arriverai a dargli la santa Redenzione! – Splendida e radiosa, dal grembo dell’oceano tu sorgerai, spandendo per tutto l’Universo un infinito Amore in un riso infinito! Il Mondo vibrerà come un’immensa lira, fremendo tutto per il tuo immenso bacio!

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Il Mondo brama amore: e sarai tu a saziarlo. ………………………………………………… L’Uomo ha risollevato il capo fiero e libero! E l’improvviso raggio della prima bellezza fa palpitare il dio nell’altare del corpo! Lieto del bene attuale, smunto del mal sofferto, l’Uomo vuole sondare tutto, e tutto conoscere! Il Pensiero, cavallo così a lungo frenato, si slancia dalla fronte: conoscerà i Perché!... Che esso balzi libero, e l’Uomo avrà la Fede! – Perché l’azzurro muto e lo spazio insondabile? Perché gli astri dorati fitti come la sabbia? Se si salisse in alto, che cosa si vedrebbe? Forse un Pastore guida questo gregge infinito di mondi che si muovono nell’orribile spazio? E lassù tutti i mondi, abbracciati dall’etere, forse vibrano al suono di qualche voce eterna? – E l’Uomo, può vedere? Può affermare: «Io credo»? La voce del pensiero è più di un sogno, forse? Se l’uomo così presto nasce, e la vita è breve, da dove viene? Affonda nell’abisso oceanico dei Germi, degli Embrioni, dei Feti, là in fondo all’immenso Crogiuolo da cui Madre Natura lo resusciterà, creatura vivente, per crescere nel grano e amare nella rosa?... Non possiamo sapere! – Noi siamo soffocati da un manto d’ignoranza e di anguste chimere! Scimmie umane cadute dalle vulve materne, la pallida ragione ci occulta l’infinito! Noi vogliamo guardare: il Dubbio ci punisce! poesie

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Il dubbio, uccello cupo, ci batte con le ali... – E l’orizzonte fugge in una fuga eterna!... ………………………………………………… Il gran cielo si è aperto! I misteri son morti davanti all’Uomo, ritto, con le sue forti braccia conserte nell’immensa gloria della natura! Lui canta... e il bosco canta, ed il fiume, ecco, mormora un canto che, felice, sale verso la luce!... – Questa è la Redenzione! è l’amore! è l’amore!... IV Splendore della carne! Splendore ideale! Primavera d’amore, aurora trionfale in cui, piegando ai loro piedi gli Dèi e gli Eroi, Callipigia la bianca ed il piccolo Eros sfioreranno, coperti da una neve di rose, le donne e i fiori schiusi sotto i loro bei piedi! – Grande Arianna che piangi sulla spiaggia, vedendo allontanarsi in mare la vela di Teseo candida sotto i raggi del sole, o dolce vergine fanciulla desolata vittima di una notte, taci! Sul carro d’oro bello di neri grappoli, Lisio, portato in giro per i campi di Frigia dalle tigri lascive, dalle fulve pantere, arrossa i muschi oscuri lungo gli azzurri fiumi. – Giove taurino culla sulle sue spalle il corpo nudo d’Europa, come una bambina, ed ella stringe col braccio candido il collo nerboruto del dio che abbrividisce nell’onda e volge lento su lei uno sguardo vago: la guancia in fiore pallida 38

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ella abbandona sulla fronte di Giove, chiude gli occhi, muore in un bacio divino, e il mormorante flutto schiumato d’oro fiorisce la sua chioma. Fra l’oleandro rosa e il loto chiacchierino il gran Cigno sognante scivola innamorato, abbracciando la Leda con la sua bianca ala. – E mentre passa Cipride, bella in modo mai visto, che inarcando le splendide curve delle sue reni ostenta con fierezza i larghi seni d’oro e, orlato di nero muschio, il candido ventre, Eracle il Domatore, che forte e glorioso copre il suo grande corpo d’una pelle leonina, s’avanza all’orizzonte con fronte dolce e orribile! Appena illuminata dalla luna d’estate, ritta, nuda, sognante nel suo pallore d’oro macchiato da un pesante flutto di azzurre chiome, nell’oscura radura dove il muschio s’instella, la Driade contempla il cielo silenzioso... La candida Selene, timorosa, sui piedi del bell’Endimione fa ondeggiare il suo velo, e in un pallido raggio gli getta un lungo bacio... – Laggiù geme la Fonte in una lunga estasi... È la Ninfa che sogna, il gomito sul vaso, il bel giovane bianco che la sua onda ha avvolto. – Nella notte è trascorsa una brezza d’amore e dentro i boschi sacri, tra i grandi alberi orrendi, maestosamente eretti, i Marmi tutti scuri, gli Dèi, sulla cui fronte il Fringuello fa il nido, prestano ascolto all’Uomo e al Mondo infinito. Maggio 1870 poesie

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Ofelia I Sull’acqua calma e scura, dove le stelle dormono, ondeggia Ofelia, bianca, simile a un grande giglio, lentissima ondeggia, stesa nei lunghi veli... Grida di caccia si odono, là, nei boschi lontani. Da più di mille anni la triste Ofelia passa, come un bianco fantasma, sul lungo fiume scuro. Da più di mille anni la sua dolce follia mormora una romanza alla brezza serale. Le bacia i seni il vento, dispiegando in corolla gli ampi veli che le onde cullano mollemente. Ed i salici tremano, tristi sulla sua spalla; sulla fronte sognante si chinano le canne. Attorno le sospirano, sgualcite, le ninfee; ella ridesta a volte, nell’ontano che dorme, un nido da cui fugge rapido un frullo d’ali. Un misterioso canto scende dagli astri d’oro. II O pallida Ofelia, bella come la neve! Tu moristi nel fiume, ancora così giovane! I venti di Norvegia, giunti dai grandi monti, ti avevano parlato dell’aspra libertà,

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e un soffio, scompigliando i tuoi folti capelli, portava strane voci all’anima incantata: il tuo cuore ascoltava la Natura, il suo canto nei lamenti degli alberi, nei sospiri notturni. Il delirio dei mari, come un immenso rantolo, straziava il tuo seno troppo dolce e umano. Un mattino d’aprile, un cavaliere pallido, povero pazzo, ai tuoi ginocchi sedé tacito. Libertà! Cielo! Amore! Che sogno, poveretta! Pazza, a lui ti scioglievi come la neve al fuoco: le tue grandi visioni ti lasciavano muta. Tremendo, l’Infinito gelò i tuoi occhi azzurri. III Ed il Poeta dice che tu vieni a cercare, nelle notti stellate, i fiori che cogliesti, e di aver visto, stesa in quei suoi lunghi veli, fluttuare Ofelia, bianca, simile a un grande giglio.

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Il ballo degli impiccati Alla forca nera, monco amabile, danzano, danzano i paladini, i magri paladini del diavolo, gli scheletri dei saladini. Messere Belzebù tira per la cravatta i neri burattini che fanno smorfie al cielo, colpendoli alla fronte con forti ciabattate li fa danzare a lungo con canti natalizi! Urtati, i burattini intrecciano le braccia: simili a neri organi, forati, i loro petti che un tempo a sé stringevano le gentili fanciulle si toccano più volte con laida passione. Evviva i danzatori allegri senza pancia! Potete far capriole: son così grandi i palchi! Yu–uh! Non si capisca se sia battaglia o danza! Belzebù con gran furia raschia sui suoi violini! Duri talloni, voi non calzate mai sandali! Quasi tutti hanno tolto la camicia di pelle: il resto non dà scandalo, non c’è da vergognarsene. Sopra i crani la neve si fa bianco cappello: a quei teschi incrinati fa da pennacchio un corvo, un brandello di carne pende dai menti magri. Guardando in quella mischia di ombre, sembrerebbero rigidi eroi in lotta con armi di cartone.

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Soffia il vento – evviva! – al ballo degli scheletri! La nera forca mugghia come organo di ferro! Ed i lupi rispondono dalle foreste viola: all’orizzonte, il cielo è d’un rosso infernale... Avanti, su, scuotete quei funebri spacconi che sgranano, sornioni, coi ditoni spezzati un rosario d’amore sulle vertebre smorte: non è un monastero, questo, cari defunti! Ed ecco che, nel mezzo della macabra danza, uno scheletro pazzo balza nel cielo rosso portato dallo slancio, come s’erge un cavallo: e, sentendosi ancora la corda tesa al collo, raggrinza le sue dita sul femore che scricchiola con stridori assai simili a ghigni, e poi rimbalza nel mezzo della danza, al canto delle ossa, e sembra un saltimbanco che torna alla baracca. Alla forca nera, monco amabile, danzano, danzano i paladini, i magri paladini del diavolo, gli scheletri dei saladini.

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Il castigo di Tartufo Attizzando, attizzando il suo cuore amoroso sotto la casta veste nera, beato, le mani guantate, un giorno andava, terribilmente dolce, giallo, sbavando fede dalla bocca sdentata, un giorno camminava («Oremus»), e un Malvagio lo prese rudemente per il suo santo orecchio e lo coprì di insulti, strappandogli la casta veste nera da quella sua pelle tutta madida. Che castigo!... I suoi abiti d’un tratto sbottonati! Mentre il lungo rosario dei peccati rimessi gli si sgranava in cuore, San Tartufo sbiancava! Cominciò a confessarsi, pregava, rantolava! L’uomo si accontentò di sottrargli il collare... Puah! Tartufo era nudo dal capo fino ai piedi!

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Il fabbro Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto 1792

Il braccio su un martello gigantesco, terribile d’eccitazione e forza, la fronte vasta, un riso a tutta bocca, simile a una tromba di bronzo, ghermendo con lo sguardo selvaggio quel grassone, parlava un giorno il Fabbro a Luigi Sedicesimo, e il Popolo intanto gli si accalcava intorno, strofinando i suoi stracci contro i pannelli d’oro. In piedi sul suo ventre, il buon re era pallido, pallido come un vinto trascinato alla forca. Come un cane obbediente, stava lì e sopportava quel furfante d’un fabbro dalle spalle possenti, che gli diceva cose tanto antiche e curiose che eran come pugni sulla fronte, così! «Lo sai bene, Signore, cantavamo lallˆ, pungolavamo i buoi verso i solchi degli altri: il Canonico al sole sgranava padrenostri sui rosari lucenti fatti di pezzi d’oro. Cavalcava il Signore, mentre suonava il corno, e gli uni con la corda, gli altri con lo scudiscio ci sferzavano. – Attoniti, i nostri occhi simili a quelli di una vacca non piangevano più. Andavamo, andavamo, e dopo avere arato, dopo avere lasciato su quella nera terra un po’ del nostro sangue... ci arrivava la mancia: la notte ci bruciavano le baracche, sicché i nostri figli, dentro, eran dolci ben cotti.

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Ma non son qui a lagnarmi. Ti dico in confidenza queste mie stupidaggini. Se vuoi, mi puoi rispondere. Dimmi, non è una gioia veder entrare, a giugno, gli enormi carri colmi di fieno nei granai? E sentire il profumo di quel che va crescendo, degli orti quando piove, dell’erba rosseggiante? Vedere messi e messi, spighe piene di grano, e pensare che un giorno diventeranno pane? Certo andremmo più forti alla fornace ardente a cantare gioiosi martellando l’incudine, se fossimo sicuri di poter prender parte (anche noi siamo uomini!) a ciò che dona Dio. – Ma, insomma, questa è sempre la stessa vecchia storia! Ma io, adesso, so! Non posso più pensare che, con queste mie mani, con la fronte e il martello, un uomo con la daga sul mantello mi venga a dire ‘Giovanotto, semina la mia terra!’, che vengano di nuovo, se ci sarà la guerra, a prendersi mio figlio, così, in casa mia! – Io sarei solo un uomo, e tu, invece, un re, e mi diresti ‘Voglio!...’ – Lo vedi bene, è stupido. Tu credi che io ammiri la tua baracca splendida, gli ufficiali dorati, i tuoi mille furfanti, bastardi che ti stanno dietro come pavoni: ti han riempito la casa di figlie nostre e fogli per spedirci in prigione, e noi dovremmo dire ‘Bene così, i poveri in ginocchio’, e indorare il tuo bel Louvre offrendo i nostri quattro soldi, mentre tu ti ubriachi facendo grandi feste! – E quei Signori a ridere, calpestandoci a terra!

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Queste schifezze accadono da troppo tempo ormai! Il Popolo non è più una puttana. Adesso, tre passi, e insieme abbiamo distrutto la Bastiglia. Quella bestia sudava sangue da ogni pietra. Ed era disgustosa la Bastiglia, là, in piedi con i suoi muri marci che tutto ci narravano tenendoci ben chiusi dentro la loro ombra. – O cittadino, ascolta! Era il passato buio che crollava di colpo, rantolando, quel giorno che prendemmo la torre! Nei cuori sentivamo qualche cosa di simile all’amore. Al petto noi avevamo stretto forte i nostri figli. E poi, come cavalli dalle froge fumanti, partimmo, fieri e forti, e il cuore ci batteva... Marciavamo nel sole, così, a fronte alta, a Parigi! E la gente ci attorniava, noi poveri cenciosi! Finalmente ci sentivamo uomini! Smunti eravamo, Sire, ma ebbri di terribili speranze. E quando fummo sotto i neri torrioni, agitando le trombe e le foglie di quercia, le picche fra le mani, non provavamo odio, – ci sentivamo forti, volevamo esser miti! ………………………………………………… ………………………………………………… E da quel giorno in poi, siamo come impazziti! Gli operai sono scesi in massa nelle strade, e quei reietti vanno, folla sempre più grossa di spettri minacciosi, alle porte dei ricchi, ed io corro con loro a far fuori le spie: vago per la città, nero, martello in spalla, feroce, e ad ogni angolo spazzo via un briccone. poesie

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Se mi ridessi in faccia, ucciderei anche te! – E poi, ci puoi contare, tu ne farai le spese coi tuoi uomini neri, che accettano le nostre richieste, e se le scaricano l’un l’altro, sussurrandosi (ma quanto sono furbi!) ‘Son proprio degli sciocchi!’, che cucinano leggi, incollano vasetti pieni di bei decreti rosa e droghe aromatiche, che godono a inventare con cura nuove imposte, per poi tapparsi il naso se gli passiamo accanto, – cari rappresentanti, che ci trovano sporchi! – senza temere niente, tranne le baionette... Le loro tabacchiere contafrottole... al diavolo! Be’, ne abbiamo abbastanza di quei cervelli piatti, schifosi mascalzoni. Ah, sono questi i cibi che ci servi, borghese, se siamo inferociti e abbiamo già spezzato gli scettri e i pastorali?...» ………………………………………………… Lo afferra per un braccio, strappa via i velluti delle tende, e gli mostra, sotto, i grandi cortili dove brulica, brulica la folla sollevandosi, la folla spaventosa, un’onda fragorosa, che urla come un cane, che urla come il mare, coi robusti bastoni e le picche di ferro, coi tamburi e le grida da fiera e da taverna, mucchio scuro di cenci con berretti vermigli: l’Uomo, dalla finestra aperta, mostra tutto al re sudato e pallido che non si regge in piedi scosso da quella vista! «È la plebaglia, Sire. Sbava sui muri, sale, pullula: – e poiché non mangiano, mio Sire, son tutti mendicanti! 48

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Io sono un fabbro: sotto, con gli altri, c’è mia moglie. Pazza! Pensa che il pane sia qui, alle Tuileries! – I panettieri sbuffano d’averci in mezzo ai piedi. Ho tre bambini. Sono una canaglia. – So di vecchie madri: piangono sotto le loro cuffie, gli hanno portato via il figlio o la figlia: plebaglia, anch’esse. – Un uomo era chiuso in prigione, un altro era forzato: entrambi cittadini onesti. Liberàti, li trattano da cani, li insultano. E così essi sono feriti, profondamente offesi. È tremendo. È per questo che, sentendosi a pezzi, sentendosi dannati, sono laggiù adesso, a urlarvi sotto il naso! Plebaglia. – Fra di loro ci son ragazze infami, perché (voi lo sapete, le donne sono deboli, ci stanno facilmente...), Signori della Corte, voi, come niente, avete sporcato loro l’anima! Le vostre belle, oggi, eccole là: canaglie. ………………………………………………… Tutti gli Sventurati cui il sole implacabile ha bruciato le spalle, che vanno, sempre vanno, e sentono la fronte scoppiargli in quei lavori... Giù il cappello, borghesi! Oh, quelli sono gli Uomini! Siamo Operai, Sire! Operai! Noi crediamo nei grandi tempi nuovi, in cui tutti vorranno sapere, e l’Uomo tutto il giorno creerà, cercando grandi effetti, cercando grandi cause, e domerà le cose, tranquillo vincitore, e salirà sul Tutto come sopra un cavallo! O splendidi bagliori delle fucine! Avanti, avanti, su, sforziamoci! Ciò che è ignoto può essere poesie

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tremendo: noi sapremo! Martello in mano, quello che sappiamo, vagliàmolo; e poi, Fratelli, avanti! Talvolta noi facciamo un sogno emozionante: vivere in modo semplice e, insieme, con ardore, senza mai dire nulla di male, lavorando sotto il sorriso augusto della donna che amiamo con un nobile amore: lavoreremmo fieri, ascoltando il dovere come un suono di tromba; e saremmo felici, e nessuno, nessuno ci farebbe piegare più la schiena, nessuno! Sul focolare avremmo tutti quanti un fucile... ………………………………………………… Ma l’aria è tutta intrisa di odore di battaglia! Che ti dicevo, dunque? Io sono una canaglia. Rimangono le spie e gli accaparratori. Siamo liberi, noi! Proviamo dei terrori che ci rendono grandi, sì, grandi! Poco fa parlavo di un tranquillo dovere, di una casa... Ma guarda il cielo, adesso! – Per noi è troppo stretto, creperemmo di caldo, costretti ginocchioni! Ma guarda il cielo, adesso! – Io torno tra la folla, nella grande canaglia che, tremenda, trascina i tuoi vecchi cannoni sulle strade fangose: – quando saremo morti, le avremo ripulite! – E se, contro le grida della nostra vendetta, i vecchi re eleganti spingono con le zampe le loro truppe in abito di gala sulla Francia, ebbene, che ne dici? – Merda a tutti quei cani!» …………………………………………………

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– Si rimise il martello sulla spalla. La folla, si sentiva inebriata, lì, vicino a quell’uomo. Dentro il grande cortile, dentro gli appartamenti, dove Parigi ansava sommersa dalle grida, un brivido percorse l’infinita plebaglia. Sebbene il grasso re sudasse, il Fabbro, orribile, con la sua mano grande e fiera di esser sudicia, gli gettò in faccia il suo berretto rosso!

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«Morti del Novantadue e del Novantatré» «... Francesi del Settanta, bonapartisti, repubblicani, ricordatevi dei vostri padri nel ’92, ecc.; ………………………………………………………» – PAUL DE CASSAGNAC – Il Paese. –

Morti del Novantadue e del Novantatré che, impallidendo al forte bacio della libertà, calmi, coi vostri zoccoli schiacciaste il grave giogo della fronte e dell’anima di ogni uomo al mondo; uomini grandi e in estasi in mezzo alla tempesta, col cuore che balzava d’amore sotto i cenci, soldati che la Morte seminò – amante nobile – in tutti i vecchi solchi per poi rigenerarli, che lavaste col sangue la grandezza insozzata, voi morti di Valmy, di Fleurus e d’Italia, o milioni di Cristi dagli occhi dolci e scuri, vi lasciammo dormire assieme alla Repubblica, noi curvi sotto i re come sotto una frusta. – Ma ora i Cassagnac ci parlano di voi. Mazas, 3 settembre 1870

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Alla musica Piazza della stazione, a Charleville

Sulla piazza divisa in piccole aiuole, un giardino in cui tutto è a posto, alberi e fiori, soffocati dall’afa passeggiano i borghesi, bolsi, il giovedì sera, pieni di stolta invidia. – L’orchestra militare, nel mezzo del giardino, dondola i suoi chepì al tempo di un bel valzer. – Intorno, in prima fila, si mostra il bellimbusto, ed il notaio è appeso ai pendagli cifrati. Possidenti occhialuti rimarcano le stecche: tronfi, i grassi burocrati trainano grasse dame accanto a cui camminano, cornac servizievoli, quelle le cui gale somigliano a rŽclame. Sulle panchine verdi, droghieri ormai in pensione tormentano la ghiaia con il bastone a pomo; discutono i trattati con grande serietà… Tabacchiera d’argento... Poi riprende il dibattito. Slargando sulla panca i suoi fianchi rotondi, un borghese dai lucidi bottoni, con la pancia fiamminga, va gustando la pipa, il cui tabacco pende a fili – Sapete? Roba di contrabbando... – Lungo i prati fioriti ghignano i ragazzacci; e, sospinti all’amore dal canto dei tromboni, i bei soldati, ingenui, con un fiore alle labbra, carezzano i bambini per piacere alle serve... poesie

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– Io, trasandato come uno studente, seguo sotto i verdi castagni le ragazze briose; loro lo sanno bene, e volgono – ridendo – verso me i loro occhi pieni di indiscrezione. Non dico una parola: fisso la bianca pelle dei loro colli ornati di ciocche capricciose. Seguo, sotto la blusa e i delicati fronzoli, quelle schiene divine fino alle dolci spalle. Ecco gli stivaletti, infine, ecco le calze. – Ricostruisco i corpi arso da dolce febbre. Mi trovano un po’ buffo, si dicono qualcosa... – Ed io sento i baci fremermi sulle labbra.

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Venere Anadiomene Come da un verde feretro di latta, ecco, una testa di donna dai capelli bruni ed impomatati emerge lenta e stupida da una vecchia vasca: è piena di difetti non camuffati bene. Ha il collo grasso e grigio, e le scapole larghe e alate; ed ha le spalle sporgenti e rientranti; i fianchi rotondetti sembra prendano il volo; sotto la pelle il grasso appare in strati piatti. La schiena è un po’ rossastra, e il tutto fa un odore stranamente terribile; soprattutto si notano certi particolari da osservar con la lente. Ha due parole incise sui fianchi: Clara Venus. Tutto quel corpo si agita e tende l’ampia groppa schifosamente bella per un’ulcera all’ano.

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Prima sera – Lei era un po’ svestita quella sera. Alberi enormi, davvero indiscreti, tendevano le fronde contro i vetri con malizia, vicino, vicinissimo. Seminuda sulla mia grande sedia stava seduta con le mani giunte. Sul pavimento intanto i suoi sottili piedini fremevano di piacere. – Io guardavo vagare un breve raggio, colore della cera, nella stanza e sfarfallare poi nel suo sorriso e sul suo seno – mosca su un rosaio. – Baciai e ribaciai le sue caviglie: lei ebbe un dolce riso un po’ brutale che si sgranava in tanti chiari trilli, un grazioso riso cristallino. I suoi piedini allora si nascosero sotto la camicia: «Adesso smettila!» – Aveva già permesso un primo passo e ridendo fingeva di punire! – Baciai teneramente quei suoi occhi palpitanti sotto le mie labbra. – Lei civettuola allontanò la testa dicendo: «Oh, così va ancora meglio!

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Signor mio, devo dirti due parole...» – Il resto glielo riversai sul seno, tutto in un bacio che la fece ridere d’un benevolo riso incoraggiante... – Lei era un po’ svestita quella sera. Alberi enormi, davvero indiscreti, tendevano le fronde contro i vetri con malizia, vicino, vicinissimo.

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Le repliche di Nina …………………………… LUI. – Abbracciàti, il tuo petto sul mio petto, andremo insieme, vero?, avidamente respirando l’aria nella freschezza azzurra del mattino radioso, tutti immersi in un vino di luce... Quando il bosco rabbrividendo sanguina, silenzioso d’amore, da ogni ramo le sue verdi gocce, i suoi chiari germogli, nelle cose dischiuse puoi sentire un fremere di carne. Nell’erba medica tu affonderai la tua bianca vestaglia, il blu che cerchia i tuoi grandi occhi neri si muterà in rosa. Tu, innamorata della campagna, spargerai dappertutto, come leggera schiuma di champagne, le tue folli risate, ridendo a me che, brutale d’ebbrezza, ti prenderò, così, la bella treccia e mi disseterò alla tua carne in fiore 58

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dal sapore di fragola e lampone. E riderai al vento scherzoso che ti ruberà i baci come un abile ladro, e al rosaio selvatico che amabile ti molesta toccandoti. Ma soprattutto riderai al tuo amante, sì, testa matta, a lui! …………………………… (Diciassett’anni! Tu sarai felice! Oh, vastità dei prati, oh, la campagna amorosa, immensa! Dài, vieni più vicino!...) Abbracciàti, il tuo petto sul mio petto, mescolando le voci, senza fretta andremo fino al borro e poi nei grandi boschi!... Allora tu, come una bimba morta, con l’anima in deliquio e con gli occhi languidi, socchiusi, mi dirai di portarti... Ed io ti porterò, col batticuore, attraverso i sentieri, e intanto gli uccellini fischieranno un grazioso motivo...

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Ti parlerò nella bocca, e andrò, stringendo a me il tuo corpo come se addormentassi una bambina, ebbro del sangue azzurro che scorre sotto la tua pelle bianca con sfumature rosa, e ti dirò francamente le cose che tu conosci già. I nostri boschi sapranno di linfa e il sole coprirà d’un oro fine il loro grande sogno tutto verde e vermiglio. …………………………… La sera andremo per la strada bianca che, come un gregge al pascolo, gironzola all’intorno attraversando gli splendidi frutteti dall’erba azzurra e dai meli contorti! Per una lega intera si diffonde nell’aria il loro intenso profumo così buono! Quando comincerà a fare buio torneremo al villaggio; nella sera sentiremo l’odore del latte appena munto,

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sentiremo l’odore delle stalle cosparse di letame, piene d’un lento ritmo di respiro e di schiene possenti biancheggianti sotto qualche luce; ed in fondo, laggiù, una vacca fieramente ad ogni passo farà cadere sterco... – Ecco, ecco gli occhiali della nonna ed il suo lungo naso nel messale; il boccale della birra, tutto cerchiato in piombo, schiumeggiante tra le grandi pipe che fumano spavalde; ecco le spaventose labbra tumide che azzannano il prosciutto, fumante ancora, dai loro forchettoni con gran voracità; ecco il fuoco che rischiara giacigli e vecchie cassapanche, e il lucido e rotondo sederino di un bimbo grassottello, che fruga, inginocchiato, nelle tazze; il suo bianco faccino è sfiorato da un muso che borbotta con un tono gentile,

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e va leccando il visino paffuto del caro piccolino... …………………………… (Nera, arcigna, seduta sulla sedia, profilo spaventoso, una vecchia davanti al focolare sta filando la lana.) Quante cose vedremo, amore mio, nei miseri tuguri, quando le fiamme illuminano, chiare, le finestre grigiastre!... – Poi, piccolo e annidato tra i lillà neri e freschi, si vede sorridere laggiù, in fondo, un vetro, un vetro un po’ nascosto... Tu verrai, verrai, io ti amo! E sarà bello, sai? Tu verrai, non è vero? E dopo noi... LEI. – Ma come... E il mio ufficio?

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Gli sbigottiti Al Signor Jean Aicard

Mentre cade la neve, tra la nebbia, al grande sfiatatoio che si accende, con i culetti in cerchio, cinque poveri bambini, ginocchioni, contemplano il fornaio che fa il pane, pane biondo e pesante. Vedono il possente, bianco braccio girare la pasta grigia e infornarla nel buco illuminato. Ascoltano il buon pane che si cuoce. Il fornaio, col suo grasso sorriso, bofonchia una canzone. Non si muovono, stanno rannicchiati, al soffio dello sfiatatoio rosso tiepido come un seno... Quando, al rintocco della mezzanotte, viene sfornato un pane sfavillante nella sua forma gialla, quando, sotto le travi affumicate, cantano quelle croste profumate insieme con i grilli,

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mentre quel caldo buco alita vita, l’anima dei bambini va in estasi sotto i miseri cenci, e i poveri Gesù pieni di brina si rianimano, tornano alla vita, e rimangono lì, con i musetti rosei incollati alle griglie, borbottando qualcosa tra quei buchi, storditi, e recitando le loro preghiere, piegati tutti verso quelle luci del cielo riaperto, così forte che i calzoni si strappano e le camicie tremolano al freddo della brezza invernale. 20 settembre 1870

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Romanzo I Non si può esser seri a diciassette anni. Un bel giorno sei stufo di birre e limonate, dei chiassosi caffè dalle luci splendenti, e te ne vai in giro, a passeggio fra i tigli. Che buon profumo fanno i tigli in giugno, a sera! Talvolta l’aria è tanto dolce che chiudi gli occhi! La brezza porta suoni (il paese è vicino) e profumi di vigna, e profumi di birra... II Ecco che si può scorgere in alto un piccolissimo straccio d’azzurro scuro, nel contorno di un ramo, con un piccolo punto che brilla: è una stella cattiva che si scioglie, bianca, con dolci brividi. Diciassett’anni! Notte di giugno! Ci s’inebria. La linfa è uno champagne che ti sale alla testa... Si vaneggia. Si sente un bacio palpitare sulle labbra, qualcosa come un animaletto. III Il cuore folle compie imprese avventurose. Quando là, nel chiarore di un pallido lampione,

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passa una signorina dall’aria seducente all’ombra del colletto terribile del padre... E siccome ti trova immensamente ingenuo, trotterella vezzosa con i suoi stivaletti girandosi a guardarti leggiadra e civettuola. Sulle tue labbra, allora, le melodie svaniscono. IV Sei innamorato cotto. Fino al mese d’agosto. Sei innamorato, e i tuoi versi la fanno ridere. Sei di cattivo gusto, gli amici si allontanano. Poi la tua bella, un giorno, si è degnata di scriverti!... Quel giorno... tu ritorni ai caffè risplendenti, chiedi da bere birra, oppure limonata... Non si può esser seri a diciassette anni, col profumo dei verdi tigli lungo la strada. 29 settembre 1870

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Il male Mentre gli sputi rossi della mitraglia fischiano tutto il giorno nel cielo, nell’azzurro infinito, mentre scarlatti o verdi, presso il re che li irride, cadono i battaglioni in massa sotto il fuoco; mentre una spaventosa follia macella e ammucchia centomila soldati, ne fa un fumante cumulo (Poveri morti! È estate, e giacciono sull’erba, in te, lieta Natura, santa madre degli uomini!), c’è un Dio che ride, là, fra i damascati drappi degli altari, fra calici d’oro e incensi odorosi, si addormenta pian piano, cullato dagli osanna, e si risveglia quando alcune madri, unite nell’angoscia, piangendo sotto la cuffia nera, gli offrono un bel soldo chiuso nel fazzoletto.

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Furie di Cesari Cammina un uomo pallido lungo i prati fioriti, è vestito di nero, ha un sigaro tra i denti. L’uomo pallido pensa ai prati della reggia, e ogni tanto gli occhi spenti hanno sguardi ardenti. L’Imperatore è ebbro dei suoi vent’anni d’orge! Si era detto: «Ho deciso: sopra la Libertà io soffierò, ma piano, come su una candela!» La Libertà rinasce! Lui si sente stroncato! L’hanno preso. – Oh, che nome sulle sue labbra mute trasalisce? E quale rimpianto lo perseguita? Non si saprà. Ha l’occhio morto, l’Imperatore. Egli ripensa, forse, al Compare occhialuto... E come nelle sere a palazzo, a Saint-Cloud, guarda il fumo del sigaro levarsi – azzurra nuvola.

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Sognato per l’inverno A... Lei

L’inverno noi andremo in un vagone rosa con i cuscini azzurri. Staremo bene, cara. Folli baci si annidano in quella morbidezza. Abbasserai le palpebre, per non veder dal vetro le ombre fare smorfie, mostri serali arcigni, una nera plebaglia di demoni e di lupi. A un tratto, sulla guancia sentirai come un graffio... Un bacio leggerissimo ti correrà sul collo come un ragno impazzito... Tu mi dirai «Cercalo!», piegando un po’ la testa, – Ci occorrerà del tempo per trovare la bestia che va di qua e di là. In treno, 7 ottobre 1870

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Dorme un uomo nella valle È un breve spazio verde dove canta un ruscello che appende follemente ai fili d’erba cenci d’argento, dove il sole – dalla fiera montagna – riluce: è una valletta spumeggiante di raggi. Un giovane soldato – la bocca aperta, il capo nudo, la nuca fresca tra gli azzurri nasturzi – dorme. Sotto la nube, sta disteso nell’erba, smunto nel letto verde inondato di luce. Coi piedi nei gladioli, dorme. E sorride come sorriderebbe un bimbo malato, mentre dorme. Cullalo tu, Natura, riscaldalo: ha freddo. Le narici non fremono al soffio dei profumi. Egli dorme nel sole, ha una mano sul petto tranquillo. E ha due fori rossi sul fianco destro. Ottobre 1870

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All’Osteria Verde alle cinque di sera In otto giorni avevo straziato i miei stivali sui sassi delle strade. Entravo a Charleroi. – All’Osteria Verde: chiesi qualche tartina col burro, e del prosciutto appena intiepidito. Beato, allungai le gambe sotto il tavolo verde, poi contemplai gli ingenui disegni della tappezzeria. E che bellezza, quando la ragazza dagli occhi vivi e dai seni enormi (certo non ha paura di un bacio, quella là!) mi portò sorridente le tartine imburrate ed il prosciutto tiepido su un piatto colorato, prosciutto rosa e bianco che profumava d’aglio, e mi riempì il boccale immenso, la cui schiuma s’indorava d’un ultimo, pigro raggio di sole. Ottobre 1870

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La maliziosa Nella sala da pranzo scura c’era un odore di vernice e di frutta. Senza far complimenti, presi non so che piatto, una pietanza belga, e poi mi stravaccai nella mia sedia immensa. Mangiavo, ed ascoltavo la lieta, quieta pendola, quand’ecco la cucina si aprì con uno sbuffo: entrò la cameriera (non so dire perché), fazzoletto scomposto, capelli maliziosi. Col ditino tremante si lisciava la guancia, un velluto di pesca bianca e rosa, e faceva smorfie con quelle labbra un poco da bambina. Mise in ordine i piatti per farmi stare comodo. Poi, certo per ricevere un bacio, sussurrò: «Senti qui la mia guancia. Sentila, com’è fredda.» Charleroi, ottobre 1870

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La splendida vittoria di Saarbrücken riportata al grido di viva l’Imperatore! Stampa belga a colori brillanti, che si vende a Charleroi, 35 centesimi.

L’Imperatore, al centro, in un’apoteosi gialla e blu, se ne va rigido sul cavallo splendente. È felicissimo – vede la vita in rosa – feroce come zeus, dolce come un papà. Sotto, tranquilli, si alzano i bravi soldatini che facevan la siesta presso i tamburi d’oro ed i cannoni rossi. Pitou indossa la giacca, guarda il Capo e s’inebria di nomi altisonanti. A destra, Dumanet, appoggiato al fucile, sente che la sua nuca a spazzola ha un fremito: «Viva l’Imperatore!» – Il suo vicino tace... Spunta un berretto, come un sole nero... – Al centro, Boquillon blu e rosso, sempliciotto, si leva sul suo ventre e – mostrando il didietro – : «Di che?...». Ottobre 1870

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La credenza È una larga credenza scolpita. La vecchissima e scura quercia ha preso l’aria buona dei vecchi. La credenza è aperta: versa nella sua ombra, come un fiotto di vino, invitanti profumi. È un guazzabuglio, tutta piena di vecchie cose: biancheria ingiallita e odorosa, stracci di robe da bambino e da donna, merletti vizzi, scialli di nonna con figure di grifi. Vi si trovano ciocche di candidi o di biondi capelli, medaglioni, ritratti. E fiori secchi: si mischia il loro odore al profumo di frutta. O credenza di un tempo, conosci tante storie! Vorresti raccontarci quello che sai, e cigoli quando si aprono lenti i tuoi sportelli neri. Ottobre 1870

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I miei vagabondaggi (Fantasia) Vagavo, con i pugni nelle tasche sfondate e il pastrano ridotto ormai ad un’idea. Vagavo sotto il cielo, Musa, ero un tuo fedele. Oh, che splendidi amori ho sognato a quel tempo! I miei calzoni (gli unici!) eran tutti strappati. Pollicino sognante, nell’andare sgranavo rime. L’Orsa Maggiore era il mio solo albergo. Le mie stelle frusciavano dolcemente nel cielo. Le ascoltavo, seduto sul bordo delle strade, nelle miti serate di settembre, e sentivo la rugiada sul viso come un vino gagliardo, e, verseggiando in mezzo alle ombre fantastiche, come fossero lire, io tiravo gli elastici delle scarpe ferite, col piede accanto al cuore.

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I seduti Butterati, con cerchi verdastri attorno agli occhi, neri di natte, dita raggrinzite sui femori, sincipite cosparso di placche rancorose come le fioriture marce dei vecchi muri, hanno ben innestato, con amori epilettici, le bizzarre ossature agli scheletri neri delle loro grandissime sedie; e i loro piedi s’intrecciano ai rachitici pioli mattina e sera! Questi vecchi son sempre stati una sola cosa con le sedie, sentendo il sole lucidargli la pelle o, gli occhi ai vetri dove la neve squaglia, tremando col tremore doloroso del rospo. Le Sedie hanno riguardo per loro: ingrommata, la paglia cede ai lati dei fianchi; si riaccende l’anima dell’antico sole in quei vari intrecci di spighe dove un tempo fermentava il frumento. E i Seduti, pianisti verdi, ginocchia ai denti, tamburellano sotto la sedia con le dita; si ode lo sciabordìo di tristi barcarole e le loro capocce sentimentali ondeggiano. – Oh, non li disturbate! È una vera sciagura... Si alzano brontolando come gatti puniti, aprendo lentamente le scapole, irritati, e i pantaloni sbuffano sopra i fianchi rigonfi.

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Li si sente cozzare con le teste pelate coi muri scuri, mentre van trascinando i piedi. I bottoni degli abiti sono pupille fulve che attirano lo sguardo dal fondo dei corridoi! Hanno pure una mano che invisibile uccide: al ritorno, lo sguardo filtra il nero veleno che vela l’occhio afflitto della cagna battuta, e voi sudate, in trappola in un atroce imbuto. Si risiedono, i polsi affogati nei sudici polsini, e quindi pensano a chi li ha scomodati e, dall’alba alla sera, grappoli di tonsille si agitano a morte sotto i piccoli menti. E quando il sonno austero gli abbassa le visiere, con la testa sul braccio sognano sedie incinte, e poi veri amorini di sedie fanciulline che, piccoline, attorniano altere scrivanie. Fiori d’inchiostro sputano pollini come virgole: ed intanto li cullano, seduti sopra i calici, come lungo i giaggioli un volo di libellule – E il loro membro s’irrita, toccato dalle spighe.

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Testa di fauno Dentro il fogliame, verde scrigno a chiazze dorate, dentro il fogliame incerto, rigoglioso di fiori splendidi dove dorme segretamente un bacio, appare all’improvviso nel ricamo squisito un fauno stupefatto, con i suoi occhi vivi, e morde i fiori rossi con i candidi denti. Bruna e sanguinolenta come un vino invecchiato, la bocca sotto i rami scoppia a ridere forte. E dopo che è fuggito – simile a uno scoiattolo – la sua risata vibra ancora in ogni foglia, e si vede, impaurito da un piccolo fringuello, calmarsi a poco a poco l’aureo Bacio del Bosco.

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I doganieri Coloro che bestemmiano o dicono «Non rompere!», soldati, marinai, rottami dell’impero, pensionati, son nulla di fronte ai doganieri che fendono l’azzurra frontiera a colpi d’ascia. La pipa in bocca, in mano la lama, spensierati, gravi, quando nei boschi l’ombra – simile a un muso di vacca – va sbavando, coi mastini al guinzaglio di notte se ne vanno a fare giochi orribili! Segnalano alle leggi moderne le faunesse. E bruscamente agguantano i Faust e i Fra Diavolo. «Questo no, vecchi miei! Posate quei fagotti!» Se sua serenità si avvicina ad un giovane, la Guardia – scrupolosa – gli ispeziona il corpo... Dannati i Delinquenti che la sua mano sfiora!

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Preghiera della sera Vivo seduto, simile ad un angelo in mano a un barbiere, impugnando un pesante bicchiere, l’ipogastrio e il collo inarcati, e una pipa tra i denti, sotto un cielo ricco di tenui veli. Come i caldi escrementi di un vecchio colombaio, dentro me mille sogni bruciano dolcemente; ogni tanto il mio triste cuore è come un alburno macchiato dalle linfe d’oro giovane e scuro. Dopo avere represso i miei sogni con cura, mi giro – ho tracannato trenta o quaranta birre – mi concentro a sgravarmi del mio aspro bisogno: mite come il Signore del cedro e dell’issopo, io piscio verso il cielo bruno, alto e lontano, e i grandi girasoli mi danno il loro assenso.

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Canto di guerra parigino È primavera, certo, visto che dal cuore delle verdi proprietà i grandi voli di Thiers e Picard luminosi si librano nell’aria. Oh Maggio! Che pezzenti deliranti! Sèvres, Meudon, e voi, Bagneux e Asnières, udite come questi, i benvenuti, seminano cose primaverili! Hanno i chepì, le sciabole e i tam-tam, non la vecchia scatola di candele, e le iole che non hanno mai, mai... solcano il lago dall’acqua arrossata! E noi gozzovigliamo più che mai quando piombano sui nostri rifugi certe zucche di colore giallastro in chiarori di albe singolari! Thiers e Picard sono come degli Eros che strappano alla terra i girasoli; dipingono Corot con il petrolio: sentite i loro tropi come ronzano... Essi sono parenti del Gran Trucco!... Sdraiato fra i giaggioli, Favre sbatte le ciglia per far scorrere le lacrime, e intanto aspira il pepe con il naso.

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Il selciato della Città è rovente malgrado i vostri getti di petrolio, e noi decisamente abbiamo l’obbligo di scuotervi nei vostri saldi ruoli... Ed i Rurali che stanno in panciolle, accovacciati tranquilli e sereni, sentiranno spezzarsi i ramoscelli, tra poco, in mezzo ai sibili vermigli.

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Le mie piccole innamorate Un idrolato lacrimale lava i cieli verde cavolo: sotto l’albero gemmato che sbava, i vostri caucciù. Bianche di lune un po’ particolari dalle natiche tonde, fate urtare le vostre ginocchiere, o mie care bruttone! Un tempo, eh, noi due ci siamo amati, o mia bruttona azzurra! Mangiavamo spesso uova alla coque e semi di scagliola. Un giorno mi consacrasti poeta, o mia bruttona bionda: vieni un po’ qui che ti voglio frustare, vieni qui sul mio grembo. Ho vomitato la tua brillantina, o mia bruttona nera. Tu potresti tagliarmi il mandolino col filo della fronte. Oh, puah! la mia saliva disseccata, o mia bruttona rossa, continua ad infettare le trincee del tuo seno rotondo!

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Mie piccole fanciulle innamorate, vi odio, ah se vi odio! Mollate a quelle vostre tette orrende dolorosi schiaffoni! Calpestate le mie vecchie terrine piene di sentimento. Su, dunque! Siate le mie ballerine un minuto soltanto!... Si slogano le vostre care scapole, o mie dolci fanciulle! Una stella sui fianchi zoppicanti, fate le piroette! Eppure è proprio a ‘sti pezzi di carne che ho scritto poesie! Vorrei spezzarvi le anche, per avervi amate tempo addietro! Insulso mucchio di stelle fallite, tornate al vostro posto! Voi creperete in Dio, sotto il peso delle ignobili cure! Bianche di lune un po’ particolari dalle natiche tonde, fate urtare le vostre ginocchiere, o mie care bruttone!

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Il buonuomo si accovaccia Molto tardi, allorché si sente il voltastomaco, fra Milotus, guardando l’abbaino da cui il sole, chiaro come un lucido paiolo, gli irraggia un’emicrania e gli abbaglia la vista, sposta fra le lenzuola la sua pancia da prete. Non sta un momento fermo sotto la coltre grigia, e scende, coi ginocchi contro il ventre agitato, stravolto come un vecchio che mangi la sua presa; perché deve, tenendo in mano il suo pitale, tirare su ampiamente la camicia sui fianchi. Ora s’è accovacciato, freddoloso, le dita dei piedi son contratte, trema al sole che stampa un giallo di brioche sopra i vetri di carta; e il naso del buonuomo, dove brilla la lacca, tira su sotto i raggi, carnale polipaio. ………………………………………………… Il buonuomo si rosola al fuoco, con le braccia incrociate e i labbroni che pendono. Gli scivolano le gambe verso il fuoco, le brache si bruciacchiano e si spegne la pipa. Qualche cosa si muove sul suo ventre sereno come un mucchio di trippa! Gli dorme intorno un caos di mobili abbrutiti fra stracci di sporcizia e sopra ventri sudici; sgabelli, come strani rospi, son rannicchiati nell’ombra; le credenze han bocche da cantore, schiuse da un sonno pieno di orribili appetiti. poesie

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C’è un caldo nauseante nella stanza. Si soffoca. Il buonuomo ha il cervello imbottito di stracci. Sente i peli spuntargli nella pelle sudata e talvolta singhiozza con buffa serietà facendo sussultare lo sgabello che zoppica... ………………………………………………… E la sera, al chiarore della luna, che fa sbavature di luce ai contorni del culo, un’ombra ben distinta s’accovaccia, su un fondo di neve rosa proprio come una malvarosa... Bizzarro, un naso insegue, lassù nel cielo, Venere.

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I poeti di sette anni Al signor Paul Demeny

E la Madre, chiudendo il libro del dovere, se ne andava contenta, fiera, senza vedere negli occhi blu e sotto la fronte eminente l’anima di suo figlio piena di ripugnanza. Trasudava obbedienza da mane a sera; molto intelligente; eppure nere manie ed alcuni tratti in lui rivelavano un’acre ipocrisia. Al buio, tra le muffe della tappezzeria, passando in corridoio faceva le boccacce, con i due pugni all’inguine, e dentro gli occhi chiusi vedeva dei puntini. Una porta si apriva la sera: alla lampada lo si vedeva, in alto, ansante sulle scale sotto un golfo di luce che veniva dal tetto. D’estate soprattutto, vinto ed istupidito, si ostinava a rinchiudersi nelle fresche latrine: se ne stava là dentro a pensare, tranquillo, slargando le narici. E quando, ripulito dagli odori del giorno, l’orto dietro la casa, d’inverno, si illunava, seduto sotto un muro, sepolto nella marna, comprimendosi gli occhi per avere visioni, ascoltava le putride spalliere brulicare. Che pena! Per amici aveva solamente quei bambini che, gracili, a fronte nuda, gli occhi sbiaditi sulle guance, nascondendo le magre dita giallastre e nere di melma sotto abiti poesie

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consunti, puzzolenti di diarrea, parlavano in modo molto dolce, come fanno gli idioti! Se, avendolo sorpreso in turpi compassioni, la madre s’impauriva, l’immensa tenerezza del bimbo si slanciava sopra quello stupore. Era bello. Lei aveva lo sguardo blu – che mente! A sette anni faceva romanzi sulla vita del gran deserto dove la Libertà risplende estatica. Foreste, soli, rive, savane! Sui giornali illustrati, rosso, guardava ridere spagnole ed italiane. Quando veniva – l’occhio nero, folle, vestita con abiti all’indiana – la figlia di otto anni dei vicini operai, e gli saltava addosso (la piccola brutale!), stando sotto di lei le mordeva le natiche: perché lei non portava le mutandine, mai. Ammaccato dai calci e dai pugni di lei, sentiva ancora il gusto della sua pelle in camera. Temeva le domeniche squallide di dicembre, quando, tutto lisciato, su un tavolo di mogano leggeva una Bibbia dal taglio verde-cavolo. Ogni notte, nel letto, era oppresso dagl’incubi. Non amava Dio, invece gli erano cari gli uomini che, scuri e scamiciati nelle fulve serate, tornavano al sobborgo, dove dei banditori, con rulli di tamburo, fanno rumoreggiare e ridere la folla tutto intorno agli editti. Sognava spazi pieni d’amore, dove onde luminose, profumi, pubescenze dorate si muovono con calma e si levano in volo. 88

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Amava soprattutto le cose tenebrose, quando nella sua camera spoglia, azzurra, pervasa da un’acre umidità, con le persiane chiuse, leggeva il suo romanzo sempre rimeditato pieno di cieli d’ocra, di foreste sommerse, fiori di carne schiusi in boschi siderali, vertigini, rovine, sconfitte e pietà! – Mentre ricominciavano i rumori giù in strada, tutto solo, disteso su dei pezzi di tela grezza, lui presentiva con violenza la vela! 26 maggio 1871

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I poveri alla messa Ammassati fra i banchi, nel fondo della chiesa tiepida e puzzolente del loro fiato, gli occhi fissi sul coro splendido d’oro e su quei cantori che, in venti, a squarciagola cantano gl’inni sacri, sentendo nella cera un profumo di pane, contenti e umiliati come cani battuti, i Poveri al buon Dio, il padrone e il sovrano, offrono i loro oremus ridicoli e testardi. Le donne con piacere lucidano quei banchi, dopo i sei giorni neri in cui Dio le affligge. Cullano tra le braccia, avvolti in strane pelli, delle specie di bimbi che piangon da morire. Coi seni sporchi in vista, quelle mangiaminestre dallo sguardo devoto che non pregano mai, guardano esibirsi già con tanta malizia un gruppo di bambine dai cappelli sformati. Fuori, il freddo, la fame, e il marito ubriaco. Qui è bello. Ancora un’ora, poi mali di ogni genere. – Intanto lì vicino geme, stride, bisbiglia una bella congrega di vecchie pappagorge: ci sono gli spauriti, e anche gli epilettici che ieri si evitava di guardare agli incroci; ed i ciechi – guidati dai cani nei cortili – che frugano famelici coi nasi nei messali.

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Sbava ognuno una fede stupida da accattoni, recitando un lamento senza fine a Gesù, che sogna, in alto, giallo per la vetrata livida, lontano dai malvagi scheletrici o panciuti, lontano dai fetori di carne e stoffe marce, da quei buffoni tetri, in ginocchio e scostanti. – Fiorisce la preghiera di espressioni più fini e il misticismo assume maggiore intensità, quando, dalle navate in ombra, con sorrisi verdastri, le Signore dei quartieri eleganti, in abiti di seta, col fegato in disordine, fan baciare le gialle dita all’acquasantiera. 1871

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Il cuore derubato Il mio cuore triste sbava a poppa, coperto di un tabacco assai scadente: lo imbrattano schizzandogli la zuppa, il mio cuore triste sbava a poppa. Sotto i frizzi di scherno della truppa che è tutta uno sghignazzo fragoroso, il mio cuore triste sbava a poppa, coperto di un tabacco assai scadente! Itifallici e militareschi, i loro frizzi l’hanno depravato! Si vedono al timone certi affreschi itifallici e militareschi. O flutti, flutti abracadabranteschi, prendete il cuore mio e ripulitelo! Itifallici e militareschi, i loro frizzi l’hanno depravato! Quando avranno terminato le cicche, che faremo, o mio cuore derubato? Ci saranno singhiozzi e rutti bacchici, quando avranno terminato le cicche. Di certo mi verrà da vomitare se il mio cuore ha subìto umiliazioni. Quando avranno terminato le cicche, che faremo, o mio cuore derubato? Giugno 1871

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L’orgia parigina ovvero Parigi si ripopola Eccola là, vigliacchi! Andate alle stazioni! Il sole ha asciugato, coi suoi polmoni ardenti, i viali che una sera i Barbari occuparono. Ecco la Città santa, che sorge in occidente! Avanti! Preverremo i riflussi d’incendio. Ed ecco i Lungosenna, ecco i viali, là, ecco le case contro il cielo azzurro luminoso che un giorno rossi scoppi riempirono di stelle. Nascondete i palazzi morti in nicchie di legno! L’antica luce attonita rinfresca i vostri sguardi. Ecco la mandria rossa di coloro che ancheggiano. Siate folli: sconvolti, sarete molto buffi! Mucchio di cagne in foia che mangian cataplasmi, le case di piacere vi implorano! Volate! Mangiate! Ecco la notte spasmodica di gioia che scende nelle strade! O tristi bevitori, bevete! Quando intensa, folle, verrà la luce, frugando accanto a voi nel lusso sfavillante, non sbaverete forse – immobili, in silenzio – nei bicchieri, lo sguardo perso in bianchi orizzonti? Brindate alla Regina dalle chiappe cadenti! Ascoltate l’effetto dei vostri sciocchi rutti

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laceranti! Ascoltate saltare nelle notti calde i vecchi, gli idioti, i lacché, i burattini. O cuori sozzi, sconci, o bocche spaventose, via, funzionate meglio, voi bocche puzzolenti! Vino per questi ignobili torpori, a questi tavoli! Nei vostri ventri l’onta si è sciolta, o Vincitori! Aprite le narici alle superbe nausee! Inzuppate le corde del collo di veleno! Con le mani incrociate sulle teste infantili il Poeta vi dice: «Vigliacchi, siate folli! Poiché frugate a fondo nel ventre della Donna, temete che ella abbia un’altra convulsione, che gridi, asfissiando sul suo petto la vostra vergognosa nidiata in una stretta orribile! Sifilitici, pazzi, buffoni, re, ventriloqui, che cosa può importare, a Parigi la troia, delle anime, dei corpi, dei cenci e dei veleni? Vi scrollerà di dosso, ringhiosi imputriditi! Quando sarete a terra, gementi, sbudellati, stroncati, e sconsolati vorrete i vostri soldi, la rossa cortigiana dai seni battaglieri lungi da voi stupiti torcerà gli ardui pugni! I tuoi piedi han danzato nell’ira intensamente, Parigi! Hai ricevuto fin troppe pugnalate, sei caduta, ma avevi nelle chiare pupille un po’ della bontà della fulva rinascita.

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O città dolorosa, o città quasi morta, con la testa ed i seni rivolti all’avvenire che apre al tuo pallore le sue porte infinite, città che il cupo Ieri potrebbe benedire corpo magnetizzato di nuovo dai tormenti, dunque ancora ti abbeveri alla vita terribile! Senti un flusso di vermi lividi nelle vene, e sul tuo chiaro amore passare dita gelide! Ma non è un male. I vermi non fermeranno in te il vento del progresso, più di quanto le Strigi non spegnessero l’occhio delle Cariatidi, dove lacrime d’oro astrale cadevano dal cielo». Per quanto sia terribile vederti così oppressa, e non si sia mai fatta d’una città una piaga più purulenta in seno alla verde Natura, il Poeta ti dice: «La tua bellezza è splendida!». La tempesta ti ha resa suprema poesia; l’immenso movimento delle forze ti aiuta, ribolle la tua opera, la morte rumoreggia. Città eletta! Accumula stridii nella tua tromba. Coglierà i singulti degli infami, il Poeta, e l’odio dei forzati, gli urli dei maledetti; i suoi raggi d’amore frusteranno le donne. Balzeranno i suoi versi: Ecco! ecco! banditi! – Società, tutto è in ordine: le orge piangono ancora i loro antichi rantoli nei vecchi lupanari

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ed i gas in delirio, contro i muri arrossati, fiammeggiano sinistri verso il livido cielo! Maggio 1871

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Le mani di Jeanne-Marie Jeanne-Marie ha mani molto forti, mani scure abbronzate dall’estate, mani pallide come mani morte. Sono le mani di Juana, forse? Hanno preso forse creme brune sulle paludi della voluttà? Si son bagnate forse nelle lune, negli stagni della serenità? Si sono abbeverate ai cieli barbari, quiete sulle incantevoli ginocchia? E hanno arrotolato forse sigari o fatto contrabbando di diamanti? Sui piedi ardenti delle Madonne forse hanno fatto appassire fiori d’oro? È il sangue nero della belladonna che nelle loro palme scoppia e dorme. Sono mani che han cacciato i ditteri, il cui ronzio si sparge nell’azzurro aurorale, tutto intorno ai nettàri? O mani che decantano veleni? Oh, quale sogno le ha sorprese intente a quei loro esercizi di ginnastica? Un sogno inaudito delle Asie, di Kenghavar o forse anche di Sion?

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Non han venduto arance, queste mani, non son scurite ai piedi degli dèi: non han lavato, queste mani, i panni di pesanti neonati senza vista. Queste non sono mani di cugina né di operaie dalle grandi fronti arse, in boschi che sanno d’officina, da un sole tutto ebbro di catrame. Sono mani che piegano le schiene, ma che comunque non fanno mai male, e sono più fatali delle macchine, più forti di un cavallo tutto intero! Sempre agitate come le fornaci, scrollandosi di dosso tutti i fremiti, la loro carne canta Marsigliesi e non indugia mai in Kyrie Eleison! Vi potrebbero stringere la gola, donne indegne, e maciullarvi le mani, nobildonne, le vostre mani infami ricoperte di creme e di pomate. Lo splendore di quelle mani amanti può far girare la testa alle pecore! E su quelle falangi saporose il sole fulgido posa un rubino! Una macchia plebea le rende brune, brune, sì, come un seno d’altri tempi. 98

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I fieri rivoltosi hanno baciato tutti quanti sul dorso queste Mani. Son diventate pallide, stupende, al gran sole carico d’amore, strette al bronzo delle mitragliatrici a Parigi durante la rivolta! Ma qualche volta, Mani consacrate, nei vostri pugni, Mani su cui tremano le nostre labbra sempre inebriate, c’è una lucida catena che stride! E c’è uno strano sussulto in noi, in fondo al cuore, quando, certe volte, vi vogliono sbiancare, Mani d’angelo, e vi fanno sanguinare le dita!

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Le suore di carità Il giovane dagli occhi luccicanti, abbronzato, dal bel corpo ventenne che dovrebbe andar nudo, che – la fronte cerchiata di rame – un Genio ignoto avrebbe adorato sotto la luna in Persia, impetuoso, e capace di dolcezze virginee e cupe, fiero delle sue prime ostinazioni, simile ai mari giovani, pianti di notti estive, che vanno rigirandosi su letti di diamanti; il giovane, vedendo le bruttezze del mondo, trasalisce nel cuore fortemente irritato, soffre per la ferita dolorosa ed eterna, e vorrebbe la sua suora di carità. Ma tu, o Donna, mucchio di viscere, tu dolce pietà, tu non sei mai Suora di carità, né sguardo nero o ventre che cela un’ombra rossa, né dita lievi o seni perfetti nella forma. Cieca non risvegliata, dalle pupille immense, tutto il nostro abbracciarti non è che una domanda: sei tu che a noi ti aggrappi, tu che hai le mammelle, siamo noi a cullarti, bella e grave Passione. I tuoi odi, i torpori continui, i cedimenti e le brutalità sofferte in precedenza, tutto ci rendi, o Notte, ma senza cattiveria, come eccesso di sangue versato ad ogni mese.

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Quando la Donna, un attimo portata, lo spaventa, Amore, canto d’azione ed appello di vita, vengano a dilaniarlo, con la loro solenne ossessione, la Musa verde e la Legge ardente. Senza fine assetato di splendore e di calma, lasciato dalle due Sorelle implacabili, geme dolce alla scienza dalle alme braccia, e offre alla natura in fiore la fronte sanguinante. Ma la nera alchimia e i santi studi odia il ferito, orgoglioso, lui oscuro e sapiente; si sente calpestato da atroci solitudini. Allora, sempre bello, non temendo la bara, che creda ai grandi fini, Sogni o Vagabondaggi immensi, attraverso le buie Verità; che ti chiami nell’anima e nelle membra inferme, o Morte misteriosa, suora di carità. Giugno 1871

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Vocali A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, dirò un giorno le vostre origini latenti: A, nerezza villosa delle mosche lucenti che ronzano intorno a fetori crudeli, golfi d’ombra. E, candori di vapori e di tende, lance di ghiaccio, brividi d’umbella, bianchi re. I, porpore, e sputo di sangue, belle labbra ridenti nella collera, nelle pentite ebbrezze. U, cicli, vibrazioni sacre di verdi oceani, pace di greggi al pascolo, e pace delle rughe che l’alchimia imprime sulle fronti studiose. O, la Tromba suprema, piena di strani suoni, silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi. – O, l’Omega, e quel raggio violetto dei suoi occhi!

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«La stella piange rosa nel cuor delle tue orecchie» La stella piange rosa nel cuor delle tue orecchie, scorre un bianco infinito dalla nuca alle reni, il mare imperla rosso i tuoi seni vermigli, l’Uomo sanguina nero al tuo fianco sovrano.

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«Il Giusto stava dritto sui suoi fianchi robusti» Il Giusto stava dritto sui suoi fianchi robusti; un raggio gli dorava le spalle; in quel momento cominciai a sudare: «Vuoi vedere risplendere i bolidi, e ascoltare, ritto, il ronzio dei flussi di stelle lattescenti, di sciami d’asteroidi? La tua fronte è spiata dalle farse notturne, o Giusto! Devi avere un tetto. Prega, allora, la bocca nel lenzuolo dolcemente espiato; e se qualche sbandato viene e bussa al tuo ostiario, digli: ‘Fratello, vattene, non sono che uno storpio!’». E il Giusto stava in piedi, nel terrore azzurrino dell’erba dopo che il sole si oscurò: «Allora, venderesti quelle tue ginocchiere, vegliardo? Pellegrino santo! Bardo d’Armor! Lagnoso degli Ulivi! Mano avvolta di pietà! Barba della famiglia, pugno della città, credente mite: o cuore caduto dentro i calici, virtù e maestà, amore e cecità! Giusto! bestiale e laido più di un cane randagio! Io son colui che soffre e che si è ribellato! La famosa speranza del tuo perdono, o sciocco, piegato in due mi fa piangere, e mi fa ridere! Io sono maledetto! Ubriaco, pazzo, livido, quello che vuoi! Ma vai, vai, vattene a dormire, Giusto! Non voglio niente dal tuo cervello torpido. 104

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Sei tu il Giusto, insomma? Il Giusto! Ne ho abbastanza! Certo, la tua dolcezza, la tua calma ragione fiutano nella notte come grossi cetacei; certo, ti fai proscrivere, sgrani lamentazioni su delle spaventose maniglie fracassate! Sei tu l’occhio di Dio? Vile! Anche se passassi con i tuoi freddi piedi sacri sulla mia nuca, saresti sempre vile! Pidocchi hai sulla fronte! Voi, Santi e Giusti, Socrati, Gesù... che schifo! Onore al sommo Maledetto dalle notti ferite!» Questo avevo gridato sulla terra, e la notte calma e bianca invadeva il cielo mentre ardevo. Risollevai la testa: lo spettro era fuggito portandosi le mie parole atroci e ironiche... Vieni, vento notturno, dal Maledetto! Parlagli, mentre sotto i pilastri azzurri, prolungando muto comete e nodi dell’universo, enorme sommovimento senza mai catastrofi, l’ordine eternamente veglia, navigando nei cieli, e lascia piovere astri dalla sua draga in fiamme! Che se ne vada, lui, la gola incravattata di vergogna, e che sempre rumini la mia noia dolce come lo zucchero sopra i denti cariati! – Come la cagna dopo un assalto dei maschi, che si lecca la piaga del fianco sbudellato. Predichi la sua sporca carità e il progresso... – Non sopporto questi occhi di cinesi panciuti poesie

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che poi cantano: naÐna, come bimbi alla morte vicini, dolci idioti che all’improvviso cantano: Giusti, nei vostri ventri d’argilla cacheremo!

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Quel che si dice al poeta riguardo ai fiori Al signor Théodore de Banville

I Sempre, così, verso l’azzurro nero dove tremola il mare dei topazi, funzioneranno nelle tue serate i Gigli, sì... questi clisteri d’estasi! Ai nostri tempi di palma di sagù, in cui le piante lavorano per noi, il Giglio berrà gli azzurri disgusti nelle tue Prose così religiose! Il Giglio del signore di Kerdrel, il sonetto milleottocentotrenta, il Giglio che si dà al Menestrello assieme all’amaranto ed al garofano! Gigli! Gigli! Qualcuno li ha mai visti? Ma nel tuo Verso, simile alle maniche delle Peccatrici dal dolce passo, fremono sempre questi bianchi fiori! Quando tu ti fai il bagno, Caro, sempre la tua camicia sulle bionde ascelle si gonfia nella brezza del mattino sugli immondi nontiscordardimé!

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Al tuo dazio l’amore fa passare solo i lillà – belle fandonie sono! – oppure le viole del bosco, sputi zuccherati di Ninfe molto scure!... II O Poeti, anche se voi aveste le Rose, quelle Rose gonfie, rosse sopra gli steli dell’alloro, turgide di mille ottave; e anche se BANVILLE ne facesse nevicare tante, sanguinolente, a vortici, colpendo l’occhio impazzito di qualche straniero dalle letture mal benevolenti, dai vostri prati e dai vostri boschi o miei tranquilli, placidi fotografi, la Flora vera sarebbe assai diversa, quasi come dai tappi di caraffe! Sempre, sempre i vegetali francesi, tisici, ridicoli, arcigni, su cui il ventre dei cani bassotti naviga in santa pace nei crepuscoli; sempre, dopo i terribili disegni di Loti azzurri oppure di Elianti, stampe rosa, soggetti religiosi per giovanissime comunicande!

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L’ode Açokà quadra bene con la strofa a finestra di donnina allegra; pesanti farfalloni sfavillanti defecano sulle margheritine. Vecchia verzura! Vecchie decorazioni! Pasticcini croccanti vegetali! Fiori bizzarri dei vecchi Salons! – Ai maggiolini, a loro, non ai cròtali, questi frignanti bambocci vegetali a cui Grandville avrebbe messo dande e che maligne stelle con visiera allattarono un giorno di colori! Le vostre sbavature di zampogna di certo fanno preziosi glucosi! Lillà e Rose, Gigli ed Açokà son uova fritte in vecchi cappellacci!... III O bianco Cacciatore, che vai in giro senza calze sul Pascolo di Pan, non potresti tu, o meglio, non dovresti conoscere anche un poco la botanica? Tu faresti succedere, io temo, ai Grilli rossi, chissà, le Cantaridi, l’oro dei Rios all’azzurro del Reno, in breve, la Florida alla Norvegia.

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Ma, Caro, l’Arte non consiste più ora (è la verità!) nel consentire che lo stupefacente Eucalipto abbia dei costrittori di un esametro; come se i Mogani servissero, anche nelle nostre Guyane, solamente ai balzi – lunghi o brevi – delle scimmie e al pesante delirio delle liane! Insomma, un Fiore, Rosmarino o Giglio, vivo o morto, può valere forse un escremento di uccello marino? può valere una goccia di candela? – Infine, ho detto quello che volevo! Tu, seduto laggiù in una capanna di bambù con le imposte ben serrate e le tende di tela tutte scure, tu raffazzoneresti fioriture degne di nostri fiumi stravaganti!... O Poeta, queste sono ragioni ridicole non meno che arroganti! IV Non dire di primaverili pampas, rese nere da rivolte terribili, ma di piante di tabacco e cotone! Parlaci degli esotici raccolti!

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Di’, fronte bianca abbronzata da Febo, di che rendita gode, quanti dollari guadagna Pedro Velasquez, Havana; sporca di sterco il mare di Sorrento dove i Cigni arrivano a migliaia; i tuoi versi facciano propaganda per abbattere le fitte mangrovie dove frugano le idre e le accette. La tua quartina si tuffa nei boschi sanguinolenti, e ritorna a proporre agli Uomini diversi argomenti di zuccheri, di pettorali e gomme! Facci sapere Tu se il color oro della neve dei Picchi, verso i Tropici, sia da attribuire a insetti ovipari oppure a microscopici licheni! Vogliamo che tu trovi, Cacciatore, qualche robbia vermiglia e profumata che la Natura abbia fatto sbocciare – in pantaloni! – per il nostro esercito! Trova, ai confini del Bosco che dorme, dei fiori che somiglino a musi che sbavano pomate d’oro sopra le scure capigliature dei Bufali! Trova sui prati folli, ove sul Blu trema l’argento delle pubescenze,

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calici pieni d’Uova ardenti che si cuociono tra le diverse essenze! Trova Cardi coperti di peluria cui dieci muli dagli occhi di brace filano i nodi incessantemente! Trova Fiori che siano delle sedie! Trova nel cuore dei filoni neri dei fiori come pietre – formidabili! – che verso i loro duri ovari biondi abbiano delle amigdale gemmose! Servici, Buffone (tu puoi farlo), sopra un piatto d’argento dorato, un buon ragù di Gigli sciropposi che intacchi i nostri cucchiai d’alfenide. V Qualcuno parlerà del grande Amore, abile ladro d’Indulgenze oscure: ma né Ernest Renan né il gatto Murr hanno mai visto i Tirsi immensi e azzurri! Con i profumi suscita isterie, tu, nei nostri languidi torpori, e poi esaltaci verso candori ancor più candidi delle Marie... Sarai colono, medium, commerciante! La tua Rima sgorgherà rosa o bianca, 112

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sarà simile ad un raggio di sodio, simile ad un caucciù che si dilata! Dai tuoi neri Poemi, o Giocoliere, bianche, verdine e vermiglie diottriche, possano fuggire strani fiori insieme a tante elettriche farfalle! Eccolo! È il secolo infernale! I pali del telegrafo orneranno le tue stupende, magnifiche scapole, o lira dalla musica di ferro! Ma soprattutto fa’ un componimento sulla malattia delle patate! E per scrivere meglio le tue Rime, le tue Poesie piene di mistero, che dovranno esser lette da Tréguier a Paramaribo, vai a comprarti i Volumi – illustrati! – di Figuier nel negozio del signor Hachette. ALCIDE BAVA A. R. 14 luglio 1871

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Le prime Comunioni I Sono davvero stupide le chiese di campagna dove quattro marmocchi, sporcando le colonne, ascoltano il grottesco uomo in nero, con scarpe in fermento, che storpia i sacri cicalecci. Ma, attraverso il fogliame, il sole fa risplendere i vetri irregolari dai colori consunti. La pietra ha l’odore della terra materna. Nella campagna in fregola, solenne, tutta un fremito, vedrete accumulati quei ciottoli terrosi, presso pesanti messi, lungo i sentieri d’ocra, con rami rinsecchiti dalle prugnole azzurre, gelsi neri contorti e rosai diarroici. Ogni cent’anni, questi granai li verniciano con acqua azzurra e latte cagliato, e son più belli: se certi misticismi grotteschi si palesano vicino alla Madonna o al Patrono impagliato, le mosche che odorano di locanda e di stalla si riempiono di cera sul pavimento al sole. Il fanciullo appartiene soprattutto alla casa, luogo di cure ingenue, di lavori abbrutenti; essi escono, scordandosi che la pelle formicola dove il Prete piantò le sue dita possenti. Si paga al Prete un tetto ombrato da una pergola perché lasci che al sole quelle fronti si abbronzino.

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Il primo abito nero, il giorno della torta, sotto il Napoleone o sotto il Tamburino, e qualche miniatura dove Giuseppi e Marte tiran fuori la lingua con eccessivo zelo, e in seguito due carte nel giorno della scienza: questi dolci ricordi lui serba del gran Giorno. Le ragazze van sempre in chiesa, ben contente di sentirsi chiamare sgualdrine dai ragazzi, che fanno un po’ di scena dopo la Messa o i vespri. Destinati agli sfarzi di qualche guarnigione, si beffano, ai caffè, dei casati importanti, vestiti a nuovo, urlando canzonacce paurose. Sceglie il Curato, intanto, per i fanciulli, sacre immagini; nell’orto, dopo i salmi serali, quando l’aria si riempie dei suoni di una danza lontana, lui – a dispetto dei divieti divini – sente i piedi e i polpacci battere il tempo in estasi. – E finalmente viene la Notte, ed in silenzio, come un pirata nero, sbarca nel cielo d’oro. II Il Prete ha segnalato, fra tutti i catecumeni, che vengon dai sobborghi o dai quartieri ricchi, la fanciulla dagli occhi tristi e la fronte gialla, sconosciuta. I suoi sembrano dei miti portinai. «Nel grande Giorno, Dio, fra tutti i Catecumeni, farà su questa fronte nevicare acquasanta.»

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III La vigilia del Giorno, la fanciulla si ammala. Meglio che nella chiesa dai rumori funerei, giunge improvviso il brivido – il letto non è scialbo – brivido sovrumano, sconvolgente: «Io muoio...». Come un furto d’amore alle sciocche sorelle, ella conta, riversa, con le mani sul cuore, gli Angeli ed i Gesù e le nitide Vergini, e lentamente l’anima beve il suo vincitore. Adonai!... – E dentro quei suffissi latini cieli glauchi bagnano le Fronti così rosse e, macchiati del sangue puro dei sacri petti, grandi panni nevosi si posano sui soli! – Per la verginità di oggi e di domani, lei morde la frescura della tua Remissione, ma più dei gigli acquatici, più delle marmellate, il tuo perdono è gelido, o Regina di Sion! IV Poi la Vergine è solo la Vergine del libro. Qualche volta gli slanci mistici s’interrompono. E tornano le squallide immagini, banali, vecchie incisioni, atroci miniature – che noia! Certe curiosità vagamente impudiche spaventano il sogno prima casto ed azzurro, ora invece attirato dalla celeste tunica, dai panni che nascondono le nudità del Cristo. 116

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Ma ella vuole, vuole – disperata, la fronte nel cuscino scavato dal suo sordo gridare – prolungare quei lampi di ardente tenerezza, e sbava... – L’ombra riempie la casa ed i cortili. La fanciulla è stremata. Si agita, inarcando le reni, e quindi apre le cortine del letto, per portare un po’ il fresco della camera sotto le lenzuola, sul ventre e sul petto infuocato... V Mezzanotte. Al risveglio, la finestra era bianca. Davanti al sonno azzurro delle tende illunate, le apparvero i candori delle sante domeniche. Sognato un sogno rosso, sanguinava dal naso, e, sentendosi casta, del tutto senza forze, per gustare in Dio quel ritorno d’amore, desiderò la notte, in cui il cuore si esalta e si umilia intuendo l’occhio dolce del cielo, la notte che immerge, tenue Vergine-Madre, le emozioni infantili nei suoi grigi silenzi; bramò la notte intensa, in cui il cuore ferito, in solitudine, senza un grido, si ribella. La sua stella la vide, piccola Sposa e Vittima, con la candela in mano scendere – bianco spettro – nel cortile in cui era steso un panno, e far sorgere dai tetti lì vicino fantasmi tutti neri.

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VI Ella passò la notte santa nella latrina. Dai buchi del soffitto scendeva l’aria bianca sulla candela, e qualche folle vite purpurea che cadeva al di qua di un cortile vicino. La finestrella un cuore di luce proiettava nel cortile, ove il cielo basso placcava i vetri d’oro rosso; il selciato puzzava di liscivia, sotto le ombre dei muri pieni di sonni scuri. ……………………………………………… VII Chi dirà quei languori, quell’immonda pietà, l’odio che proverà, o luridi dementi che deformate il mondo col vostro ufficio sacro, quando infine la lebbra smangerà il dolce corpo? ………………………………………………… VIII E quando, trattenuti i nodi d’isteria, vedrà, nella tristezza della felicità, il suo amante sognare mille bianche Marie, all’alba della notte d’amore, con dolore: «Sai, ti ho fatto morire. Mi son presa il tuo cuore, la tua bocca, ogni cosa che abbiamo e che avete;

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ed io sono malata. Voglio che mi si stenda fra i morti dissetati dalle acque notturne! Da ragazzina, il Cristo mi ha sporcato il respiro; egli mi ha ricolmata di nausea, fino al collo! Baciavi i miei capelli folti come la lana, io ti lasciavo fare... A voi così va bene, uomini, non pensate che la più innamorata, nella coscienza in preda a ignobili terrori, è la più sofferente, la più prostituita, e che ogni nostro slancio verso di voi è un errore! La prima Comunione per me è ormai lontana. I tuoi baci non posso averli mai sentiti: il mio cuore e il mio corpo stretto forte dal tuo formicolano del bacio putrido di Gesù!». IX L’anima marcia e l’anima desolata, quel giorno sentiranno prorompere le tue maledizioni. – Si saranno distesi sul tuo Odio inviolato, sfuggiti, per la morte, alle giuste passioni. O Cristo, Cristo, eterno ladro di energie, Dio che per due millenni votasti al tuo pallore, schiacciate al suolo per l’onta e le cefalee, o riverse, le fronti delle donne infelici. Luglio 1871

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Le cercatrici di pidocchi La fronte del ragazzo, devastata da rosse tormente, implora il bianco sciame dei vaghi sogni... Vengono al capezzale due graziose sorelle: hanno fragili dita dalle unghie argentine. Lo aiutano a sedersi davanti alla finestra aperta, dove l’aria blu bagna i fiori sparsi. Fascinose e terribili, muovon le dita fini tra i pesanti capelli umidi di rugiada. Lui ascolta cantare gli aliti delicati che odorano di mieli vegetali e rosati, interrotti talvolta da un sibilo, saliva ripresa sulle labbra o gran voglia di baci. Sente le loro ciglia battere nel silenzio profumato; e le dita elettriche e dolci fan crepitare, tra le sue grigie indolenze, sotto le unghie regali, la morte dei pidocchi. Ed ecco che, pian piano, s’inebria di Pigrizia, sospiro di un’armonica che potrebbe impazzire. Secondo l’andamento delle carezze, sente crescere e dileguarsi una voglia di pianto.

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Il battello ebbro Scendevo lungo Fiumi impassibili, quando non mi sentii più tirato dai trainanti: dei pellerossa urlanti li stavano colpendo dopo averli inchiodati nudi ai pali dipinti. Non m’importava nulla di avere un equipaggio; trasportavo cotone inglese o grano belga. A un tratto, coi trainanti, si estinse anche il baccano, e io liberamente discesi lungo i Fiumi. Nel forte sciabordare delle bianche maree, l’altro inverno, più sordo dei cervelli infantili, io corsi! E le penisole galleggianti sull’acqua non subirono mai scompiglio più trionfale. Benedisse i risvegli in mare la tempesta. Più leggero di un tappo, danzai per dieci notti sui flutti che trascinano le vittime in eterno, e senza mai rimpiangere l’occhio idiota dei fari! Più dolce che la polpa delle mele ai bambini, nel mio scafo d’abete penetrò un’acqua verde che mi lavò da vomiti e da macchie di vino azzurro, disperdendo il timone e il rampino. Da allora io m’immersi nel Poema del Mare, lattescente ed infuso di stelle, divorando le acque verdi e azzurre, dove, smorto ed estatico, talvolta un annegato meditabondo scende,

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dove, tingendo a un tratto le azzurrità, deliri e ritmi lenti sotto la luce rutilante, più vasti delle lire e più forti dell’alcol, fermentano i rossori amari dell’amore! Io so i cieli squarciati dai lampi, e so i turbini, le correnti e i riflussi: e conosco la sera, l’Alba esaltata, simile a un volo di colombe. E vidi quel che l’uomo si è illuso di vedere! Io vidi il sole basso, maculato di mistici orrori, illuminare lunghi grumi violacei, come attori di drammi antichissimi, i flutti tremolare con brividi di persiane lontano! Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate, bacio che lentamente sale agli occhi dei mari, e la circolazione delle linfe inaudite, e, giallo e blu, il risveglio dei fosfori canori! Seguii per mesi interi, simili a mandrie isteriche, i marosi all’assalto degli scogli, ignorando che i piedi luminosi delle Marie potessero forzare i musi degli Oceani ansimanti. Urtai contro incredibili Floride: fiori e occhi di pantere con pelli umane si mischiavano! E arcobaleni tesi come redini al collo di glauche greggi sotto l’orizzonte marino! E vidi fermentare paludi sterminate, nasse dove marcisce tra i giunchi un Leviatano! 122

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Frane d’acqua improvvise nel mezzo di bonacce, e vaste lontananze crollanti negli abissi! Ghiacciai, soli d’argento, onde perlacee, cieli ardenti! Incagli orrendi in fondo a golfi oscuri, dove serpenti immensi, mangiati dalle cimici, con neri odori cadono dagli alberi contorti! Ai bimbi avrei voluto mostrare fra le onde azzurre certe orate, pesci d’oro che cantano. – Quando salpavo, schiume di fiori mi cullavano e ogni tanto ineffabili venti mi davan le ali. A volte il mare, martire stanco di poli e zone, che con il suo singhiozzo mi addolciva il rullio, alzava fiori d’ombra dalle ventose gialle ed io restavo, come una donna in ginocchio... quasi isola, scuotendo sui miei bordi lo sterco e le risse di uccelli – dagli occhi d’oro – striduli. Io vogavo, e attraverso i miei legami fragili gli annegati, a ritroso, scendevano a dormire! Io, battello perduto tra le chiome delle anse, scagliato dal ciclone nell’aria senza uccelli, la cui carcassa ebbra d’acqua né i guardacoste né i velieri anseatici avrebbero trovato, io libero, fumante, cinto di brume viola, io che foravo il cielo vermiglio come un muro che porta, confettura per i buoni poeti, i licheni del sole e i mocci dell’azzurro,

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io in corsa, macchiato di lunule elettriche, folle scafo scortato da ippocampi neri, quando luglio faceva crollare a randellate i cieli oltremarini dai vortici infuocati, io che tremavo, udendo gemere a molte leghe gli ippopotami in foia e i densi Maelstrom, eterno filatore di immobilità blu, io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi! Io vidi arcipelaghi siderali, e isole dai cieli deliranti aperti al vogatore: – O futuro Vigore, milione di ali d’oro, dormi forse esiliato nelle notti infinite? Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti. Ogni luna è terribile, e ogni sole è amaro. L’acre amore mi ha empìto di torpori ubriacanti. Che scoppi la mia chiglia, e io affondi in mare! Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera nera e fredda, ove un bimbo inginocchiato e triste, nel tramonto odoroso, lascia andare una fragile barchetta, lieve come una farfalla in maggio. Non posso più, bagnato da quei vostri languori, o flutti, andare dietro chi trasporta il cotone, né fendere l’orgoglio di pavesi e bandiere né viaggiare osservato dalle orribili chiatte.

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Lacrima Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine, bevevo accovacciato non so in quale brughiera circondata da teneri boschetti di nocciòli, nella foschia di un tiepido e verde pomeriggio. Che mai potevo bere in quella giovane Oise, olmi taciti, cielo scuro, erba senza fiori. Che usciva dalla fiasca di colocasia? Qualche liquore d’oro insipido che fa pure sudare. Così, io sarei stato brutta insegna d’albergo. Poi il cielo fu mutato fino a sera da un forte temporale. E apparvero paesi neri, laghi, pali, colonne sotto la notte blu, stazioni. Si perdeva su vergini sabbie l’acqua dei boschi, per il vento cadevano ghiaccioli sugli stagni... E dire che io, simile a un pescatore d’oro o di conchiglie, non mi preoccupai di bere! Maggio 1872

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Il fiume di Cassis Il fiume di Cassis scorre ignorato, strane valli attraversa: cento corvi lo seguono, e hanno voci che sono voci d’angeli: coi grandi movimenti degli abeti quando infuriano i venti. Tutto scorre con misteri ripugnanti di campagne d’un tempo, di torri visitate ed ampi parchi: s’odono in queste rive spente passioni di cavalieri erranti: ma la brezza è salùbre! Guardi il viandante attraverso le grate: proseguirà più ardito. Truppe dei boschi inviate dal Signore, oh, corvi deliziosi! Fate fuggire il furbo contadino che trinca col moncone. Maggio 1872

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Commedia della sete 1. Gli avi Noi siamo i tuoi Antenati gli Avi! Luna e piante ci coprono d’un gelido sudore. Ah, i nostri vini secchi erano forti! Che occorre all’uomo, steso senza impostura al sole? Bere. IO. – Trovare la morte nei fiumi barbari.

Noi siamo i tuoi Antenati dei campi. L’acqua sta in fondo ai giunchi: guarda, intorno al castello tutto fradicio, la corrente del fosso. Scendiamo nelle nostre cantine; e, dopo, il sidro e il latte. IO. – Andare dove bevono le vacche.

Noi siamo i tuoi Antenati, su, avanti, prendi i nostri liquori negli armadi. Il Tè, il Caffè, così rari, gorgogliano nei bricchi. Ora guarda le immagini, i fiori. Noi torniamo dal cimitero.

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IO. – Ah, prosciugare le urne, tutte quante!

2. Lo spirito Voi, eterne Ondine, spartite l’acqua fine. O Venere, sorella dell’azzurro, agita il flutto puro. E voi, ebrei erranti di Norvegia, voi ditemi la neve. Antichi esuli cari, parlatemi del mare. IO. – Basta con le bevande pure, fiori

d’acqua per i bicchieri, né miti né figure possono dissetarmi. Autore di canzoni, tua figlioccia è la mia folle sete, è un’interiore Idra senza fauci che consuma ed affligge. 3. Gli amici Vieni, i Vini corrono alle spiagge, e anche i flutti, a milioni! Guarda il Bitter selvaggio come rotola dalle cime dei monti!

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Raggiungiamo, da saggi pellegrini, l’Assenzio con i suoi pilastri verdi. IO. – Basta, adesso, con questi paesaggi.

Ditemi: che cos’è l’ebbrezza, Amici? Tanto vale, e forse è anche meglio, marcire nello stagno, immersi in un’orrenda melma scura presso i boschi ondeggianti. 4. Il povero sogno Verrà, chissà, una Sera in cui berrò tranquillo in qualche Città vecchia, e morrò più contento: sono tanto paziente! Se il mio male si acquieta se mai avrò un po’ d’oro, io sceglierò il Paese delle Vigne o il Nord?... – Ah! ma sognare è indegno c’è solo da rimetterci! E se anche torno ad essere l’antico viaggiatore, mai più l’albergo verde potrà essermi aperto.

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5. Conclusione I colombi che tremano nel prato, la selvaggina in corsa nella notte, le bestie acquatiche, quelle domestiche, le ultime farfalle: han tutti sete! Sciogliersi là, con quella nube libera, con l’aiuto di tutto ciò che è fresco spirare tra le umide violette di cui le aurore riempiono i boschi? Maggio 1872

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Buon pensiero mattutino D’estate, alle quattro del mattino, dura ancora il sonno d’amore. Nei boschetti l’Alba fa evaporare l’odore della festa serale. Ma là, nell’immenso cantiere, laggiù, verso il sole delle Esperidi, i carpentieri sono già al lavoro in maniche di camicia. Calmi, nei loro deserti di muschio, allestiscono i preziosi pannelli dove la ricca città riderà sotto falsi cieli. Oh, per questi incantevoli operai, sudditi di un re di Babilonia, lascia un momento, o Venere, gli amanti che hanno l’anima a corona. Regina dei Pastori, porta ai lavoratori l’acquavite: si riposino tranquilli, si ristorino prima di tuffarsi in mare a mezzogiorno. Maggio 1872

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Feste della pazienza Bandiere di maggio Tra i chiari rami dei tigli frondosi si spegne un debole grido di caccia. Ma canti spiritosi volteggiano fra i ribes. Che rida il sangue nelle nostre vene, ecco che s’intrecciano le viti. Il cielo è bello, bello come un angelo, onda e azzurro sono una sola cosa. Io esco. E se un raggio mi colpisce soccomberò sul muschio. Pazientare, annoiarsi, è troppo semplice. Non voglio più soffrire! Che l’estate drammatica mi leghi al suo carro di fortuna. O Natura possa per te morire, ah, meno solo e inutile! I pastori – che strano – invece muoiono più o meno per il mondo. Voglio che le stagioni mi consumino. Natura, a te mi arrendo con la mia fame e tutta la mia sete. E tu, se non ti spiace, nutri e abbevera. Non m’illude più niente; chi ride al sole ride ai genitori, 132

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ma io non voglio ridere più a niente. E che libera sia questa sventura. Maggio 1872

Canzone della torre pi• alta

Oziosa giovinezza a tutto assoggettata, io per delicatezza ho perso la mia vita. Ah, venga il tempo in cui i cuori s’innamorano. Mi sono detto: vattene, e non farti vedere: e senza la promessa di gioie più profonde. Niente ti arresti mai, nobile isolamento. Ho tanto pazientato che per sempre dimentico. Paure e sofferenze sono volate in cielo. E la sete malsana mi annerisce le vene. Così la prateria consegnata all’oblio, ingrandita, e fiorita poesie

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di loglio e d’incenso, al violento ronzio di cento mosche sudice. Ah, mille vedovanze dell’anima che è povera da aver solo l’immagine della Vergine santa! Si prega la Madonna, la Vergine Maria? Oziosa giovinezza a tutto assoggettata, io per delicatezza ho perso la mia vita. Ah, venga il tempo in cui i cuori s’innamorano! Maggio 1872

L’eternità È ritrovata, infine. Cosa? L’eternità. È il mare andato via con la luce del sole. Anima sentinella, mormoriamo il consenso del buio così nullo e del giorno infuocato. 134

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Dagli umani suffragi, dagli slanci comuni, là ti liberi e poi prendi il volo a seconda… Poiché solo da voi, braci di raso, esala l’Obbligo, senza che si dica: finalmente. Là nessuna speranza, nemmeno alcun orietur. Scienza e sopportazione, il supplizio è sicuro. È ritrovata, infine! Cosa? L’eternità. È il mare andato via con la luce del sole. Maggio 1872

L’età dell’oro Qualcuna delle voci davvero sempre angelica – è di me che si tratta – aspramente si spiega: queste mille domande che van ramificandosi, poesie

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in fondo, cosa portano? Solo ebbrezza e follia. Accetta questo gioco così facile e lieto: non è che onda, flora, ed è la tua famiglia! Poi essa canta. Oh, così facile e lieta, visibile a occhio nudo... – Io canto assieme a lei, – accetta questo aspetto così facile e lieto: non è che onda, flora, ed è la tua famiglia! E poi ecco una voce – e quanto, quanto angelica! – è di me che si tratta, aspramente si spiega; canta immediatamente, lei, sorella degli aliti, con un tono tedesco ma appassionata e piena: il mondo è vizioso, se questo ti stupisce! Vivi e getta nel fuoco l’oscura malasorte.

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Oh, grazioso castello! Ah, la tua vita è chiara! A quale Età appartieni, Natura principesca del fratello maggiore! ecc... Ed io, anch’io canto: molteplici sorelle! voci per niente pubbliche! avvolgetemi tutto d’una gloria pudica... ecc... Giugno 1872

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La giovane coppia di sposi La camera è aperta al cielo blu; non c’è un angolo vuoto: madie e casse! Fuori, il muro è pieno d’aristolochie, dove vibrano i denti dei folletti. Sono davvero intrighi di genietti questo spreco e questo vano disordine. È la fata africana che fornisce le reticelle agli angoli e la mora. Entrano in tante, madrine scontente, lembi di luce, dentro le credenze, e ci rimangono! La coppia esce, c’è poca serietà, e non si fa niente. Il vento, mentre lo sposino è fuori, se ne approfitta, qui, per tutto il tempo. Anche i malèfici spiriti acquatici entrano nella sfera dell’alcova. La notte, amica, oh! luna di miele, ne coglierà il sorriso e coprirà il cielo di mille strisce di rame. Se la vedranno poi col topo perfido. – Se non arriva un fuoco fatuo, smorto, come una fucilata, dopo i vespri. – O spettri bianchi e santi di Betlemme, stregate invece il blu della finestra! 27 giugno 1872 138

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Bruxelles Luglio.

Boulevard du Regent

Aiuole di amaranti fino al gran palazzo di Giove così bello. – Io lo so, sei tu che in questi luoghi spargi il tuo Azzurro quasi sahariano! Poi, come rosa ed abete del sole e liana qui hanno chiusi i loro giochi, o gabbia della vedovella!... Quali stormi d’uccelli, o ià iò, ià iò, ià!... – Passioni antiche, case silenziose! Chiosco della Pazza per amore. E dopo i rami dei rosai, il balcone ombroso e molto basso di Giulietta. – La Giulietta, ricorda l’Enrichetta, stazione ferroviaria assai graziosa, su un monte, come in fondo a un orto dove mille diavoli blu danzano in aria! Panca ove canta all’eden tempestoso, sulla chitarra, la bianca Irlandese. Poi, chiacchiericcio di bimbi e di gabbie dalla sala da pranzo guianese. Mi fai pensare, finestra del duca, al veleno di lumaca e di bosso poesie

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che dorme al sole, qui sotto. E insomma è troppo bello! troppo! Stiamo zitti. – Viale senza negozi né passanti, muto, tutto commedia, tutto dramma, riunione di scene senza fine, io ti conosco e ti ammiro in silenzio.

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«È forse almèa?... Alle prime ore azzurre» È forse almèa?... Alle prime ore azzurre lei si dissolverà come i fiori defunti davanti a questa splendida distesa, ove si sente respirare la città piena di efflorescenze! È troppo bello! troppo! ma necessario – per la Pescatrice e il canto del Corsaro, e anche perché le ultime maschere credettero ancora alle feste notturne sul mare puro. Luglio 1872

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Feste della fame Anna, Anna, fame mia, sul tuo asino fuggi via. Se di qualcosa ho fame è soltanto di terra, di pietre. Dinn! Dinn! Mangiamo aria, roccia, carbone e ferro. Girate, mie fami, brucate il prato dei suoni! Sorbite il lieto veleno dei convolvoli; mangiate sassi infranti da un povero, vecchie pietre di chiesa, ghiaia, figlia dei diluvi, pani adagiati in grigie valli! Le mie fami sono i tozzi d’aria nera; l’azzurro pieno di suoni; – è lo stomaco che mi tira; è la sventura. Si è ricoperta di foglie la terra! Vado in cerca di frutti quasi marci. Nel seno del solco raccolgo la dolcetta e la violetta.

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Anna, Anna, fame mia, sul tuo asino fuggi via. Agosto 1872

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«Che importa a noi, mio cuore, di quei laghi di sangue» Che importa a noi, mio cuore, di quei laghi di sangue e di brace, dei morti a migliaia, dei gridi di rabbia, dei sussulti dell’inferno che abbatte ogni ordine; e del Vento che infuria sui rottami, e di ogni vendetta? Niente!... – Ma sì, ancora la vogliamo, completa! Principi, industriali, senati, a morte! Legge, potenza, storia: abbasso! Ci è dovuto. Il sangue! sangue! la fiamma d’oro! Mio spirito, alla guerra! Alla vendetta! Semina il terrore. Volgiamoci nel morso. Ah, passate Repubbliche del mondo! E voi, Imperatori, reggimenti, coloni, popoli – basta adesso! Chi può smuovere i turbini delle fiamme furiose, se non noi e coloro che crediamo fratelli? Miei romanzeschi amici, a noi: sarà piacevole! Noi non lavoreremo mai, flutti di fuoco! Europa, Asia, America, sparite! Questa nostra marcia vendicatrice ha occupato tutto, le città e le campagne! – Noi saremo schiacciati! Scoppieranno i vulcani! E l’Oceano colpito... Oh, amici miei! – Mio cuore, è certo, son fratelli: o neri sconosciuti, se andassimo! Andiamo!

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O sventura! Io fremo, su me la vecchia terra, su me sempre pi• vostro! La vecchia terra fonde,

non è niente! io sono qui! sono sempre qui!

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«Senti come bramisce» Senti come bramisce vicino alle acacie in aprile la frasca viride del pisello! Nel suo vapore netta, verso Febe! tu vedi agitarsi la testa dei santi di una volta... Lungi dai chiari mucchi dei capi, dai bei tetti, quei cari Antichi vogliono questo filtro sornione... Ora, non è feriale, non è nemmeno astrale la bruma che emana questo effetto notturno. E tuttavia rimangono – Sicilia e Germania, in questa nebbia triste e – giustamente – pallida!

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Michele e Cristina Accidenti, se il sole va via da queste rive! Fuggi, chiaro diluvio! Ecco le strade buie. Sui salici, nella vecchia corte d’onore, a un tratto il temporale sparge le sue grosse gocce. O cento agnelli, biondi soldati dell’idillio, dagli acquedotti, dalle spente brughiere, fuggite! Prateria, deserti, orizzonti, pianure son lavate dal rosso temporale! Cane nero, pastore bruno dal mantello gonfio di vento, fuggite il momento dei lampi superiori. Biondo gregge, quando qui nuoteranno zolfo e ombra, cerca un riparo migliore. Ma io, Signore! ecco il mio spirito vola dietro i cieli dipinti di rosso, sotto nubi celesti che rapide sorvolano cento Sologne lunghe come una ferrovia. Ecco mille lupi, mille semi selvatici, che questo sacro pomeriggio di tempesta trasporta, non senza amare i convolvoli, sopra la vecchia Europa, che sarà percorsa da cento orde! Dopo, il chiaro di luna! Ovunque, per la landa, ardenti e con le fronti al cielo nero, i guerrieri cavalcano lentamente sui pallidi destrieri! I ciottoli risuonano sotto la fiera schiera!

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– E vedrò il bosco giallo e la limpida valle, la Sposa dagli occhi azzurri, l’uomo dalla fronte rossa, o Gallia, e il bianco Agnello pasquale ai loro amati piedi, Michele e Cristina, – e Cristo! – fine dell’Idillio.

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Vergogna Finché la lama non avrà tagliato questo cervello, questo pacchetto bianco, verde e grasso dal vapore sempre antico. (Ah! Lui dovrebbe tagliarsi naso, labbra ed orecchie, e il ventre! e abbandonare le gambe! o meraviglia!) Ma no; davvero, credo che finché sulla sua testa la lama, sul suo fianco le pietre, sulle sue viscere il fuoco, non avranno ancora agito, il ragazzo seccante, la bestia così stupida, non dovrà cessare un solo istante di fare il furbo e di esser traditore, come un gatto delle Montagne Rocciose, di appestare ogni sfera! Ma alla sua morte, o Dio, si alzi qualche preghiera!

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I corvi Signore, quando è fredda la brughiera e nei borghi distrutti più non s’odono i prolungati rintocchi dell’angelus, fa’ che sulla natura senza fiori si abbattano, piombando dal gran cielo, i corvi... i cari, deliziosi corvi. Armata strana dai severi gridi, il vento freddo attacca i vostri nidi! Voi, lungo i fiumi diventati gialli, sui sentieri delle vecchie Viae Crucis, sui fossati e sulle buche sparse, disperdetevi, e dopo radunatevi! D’inverno volteggiate, ve ne prego, a migliaia sulle terre di Francia, dove dormono i morti di avant’ieri, in modo che i passanti si ricordino! Sii tu a richiamarci al dovere, o nostro funebre uccello nero! Però, santi del cielo, sulla quercia, pennone perso nella sera magica, lasciate le capinere di maggio per chi è incatenato in fondo al bosco, nell’erba da cui non si può fuggire, dalla sconfitta che non ha futuro.

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Memoria I L’acqua chiara come il sale di lacrime infantili, l’assalto al sole del biancore dei corpi femminili; la seta, ammassata e di giglio puro, delle orifiamme sotto le mura un tempo difese da una pulzella; i trastulli degli angeli. – No... la corrente d’oro avanzando muove le sue braccia, nere, e pesanti, e soprattutto fresche d’erba. Essa, con il cielo blu come cielo d’alcova, oscura, invoca l’ombra della collina e dell’arco per cortine. II Sui vetri umidi limpide si spargono le bolle! L’acqua arreda d’un oro smorto e senza fondo le falde pronte. Le vesti verdi e stinte delle ragazzine sono salici da cui volano improvvisi uccelli liberi. Più pura di un marengo, palpebra gialla e calda, la ninfea – la tua fede coniugale, o Sposa! – nel mezzogiorno rapido invidia, dal suo specchio spento, la Sfera rosa e amata al cielo grigio d’afa.

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III La Signora sta troppo ritta nella prateria vicina dove nevicano i fili del lavoro; con l’ombrellino in mano, calpesta l’umbella che per lei è troppo fiera; nel verde fiorito, alcuni bimbi leggono il loro libro di cuoio rosso! Ahimè, Lui, come mille angeli bianchi che si separano per strada, va via lontano, al di là della montagna! Lei, gelida, e nera, corre dopo che l’uomo è partito. IV Rimpianto delle braccia forti e giovani d’erba pura! Le lune d’aprile sono d’oro nel cuore del sacro letto! Gioia di cantieri abbandonati sulle rive, in preda alle sere agostane che facevano germinare la loro putredine! Pianga adesso, lei, sotto i bastioni! Il respiro dei pioppi là in alto è per la sola brezza. Poi, la distesa d’acqua, senza riflessi, senza fonte, grigia: un vecchio draga il fondo nella sua barca immobile, si affatica. V zimbello di quest’occhio d’acqua spenta, io non posso cogliere – o canotto immobile! oh braccia troppo corte! – né l’uno né l’altro fiore: né quello giallo, là, che m’importuna né quello blu amico dell’acqua color cenere. 152

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Ah! la polvere dei salici scossa da un’ala! Le rose dei canneti da tempo divorate! Il mio canotto, sempre fermo; la sua catena trascinata in fondo a quest’occhio d’acqua senza rive, verso quale fango?

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«Oh stagioni, oh castelli!» Oh stagioni, oh castelli! Quale anima è perfetta? Oh stagioni, oh castelli, feci il magico studio della felicità – tutti lo fanno. Evviva lei, ogni volta che si ode il canto del suo gallo celtico. Non avrò desideri: della mia vita è lei ad occuparsi. Questa malia mi ha preso anima e corpo e ha disperso ogni sforzo. Chi capirà i miei detti? Essa li fa fuggire e volar via! Oh stagioni, oh castelli! [E, se la sventura mi trascina, è la prova del suo disfavore. Il suo disdegno, ahimè, mi deve offrire alla morte più rapida! – Oh Stagioni, oh Castelli!]

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«Tra le foglie urlava il lupo» Tra le foglie urlava il lupo sputando le belle piume del suo pasto di galline: come lui io mi consumo. E l’insalata ed i frutti attendono la raccolta; però il ragno della siepe mangia soltanto violette. Che io dorma! Che io bolla sulle are di Salomone. Corre il brodo sulla ruggine, e si mescola col Cedron.

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UNA STAGIONE ALL’INFERNO

* * * * Una volta, se non ricordo male, la mia vita era un banchetto in cui si apriva ogni cuore, scorreva ogni vino. Una sera io ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata. Ho impugnato le armi contro la giustizia. Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio! A voi è stato affidato il mio tesoro. Io riuscii ad allontanare dal mio spirito ogni umana speranza. Come una bestia feroce, con un balzo sordo sono saltato addosso ad ogni gioia per strangolarla. Ho chiamato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato le calamità, per soffocarmi con la sabbia, con il sangue. Mia divinità è stata la disgrazia. Mi sono steso nella melma. Mi sono asciugato al vento del delitto. E ho giocato brutti scherzi alla follia. E la primavera mi ha portato il riso orribile dell’idiota. Ora, essendomi trovato poco tempo fa sul punto di fare l’ultima stecca, ho pensato di cercare la chiave dell’antico banchetto, dove potrei forse recuperare l’appetito. Questa chiave è la carità. – Questa ispirazione prova che ho sognato! una stagione aLL’inferno

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«Resterai iena, ecc...,» prorompe il demonio che mi incoronò di papaveri così belli. «Raggiungi la morte con tutte le tue voglie, e il tuo egoismo, e i peccati capitali.» Ah! basta così: – Ma, caro Satana, ti supplico, abbi un’occhio meno irritato! E mentre aspetti qualche piccola vigliaccheria in ritardo, tu che ami nello scrittore la mancanza di facoltà descrittive o istruttive, accetta questi pochi orrendi foglietti, che per te stacco dal mio taccuino di dannato.

Cattivo sangue Dei miei antenati Galli ho gli occhi azzurro chiaro, il cervello ristretto e la mancanza di destrezza nella lotta. Credo proprio che il mio abbigliamento sia barbaro come il loro. Ma non ungo di burro i miei capelli. I Galli erano gli scorticatori di animali e i bruciatori di erba più incapaci del loro tempo. Da loro ho preso: l’idolatria e la passione per il sacrilegio; – oh! tutti i vizi, collera, lussuria, – magnifica, la lussuria; – soprattutto menzogna e indolenza. Mi fanno orrore tutti i lavori. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano che scrive vale come la mano che usa l’aratro. – Che secolo di mani! – Non avrò mai una mano, io. Poi, la domesticità porta troppo lontano. L’onestà dell’accattonaggio mi rattrista. I criminali disgustano come i castrati: per quanto mi riguarda, io sono intatto, e non me ne importa niente. Ma! chi mi ha fatto la lingua così perfida, da guidare e proteggere fino ad ora la mia indolenza? Non mi sono servito nemmeno del mio corpo per vivere, e più ozioso di un rospo 160

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ho vissuto dappertutto. Non c’è famiglia d’Europa che io non conosca. – Famiglie come la mia, voglio dire, che devono tutto alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. – Ho conosciuto ogni figlio di buona famiglia! _____

Se avessi precedenti in un punto qualsiasi della storia di Francia! E invece, niente. Sono stato sempre di una razza inferiore, su questo non ho dubbi. Non riesco a comprendere la rivolta. La mia razza si sollevò soltanto per saccheggiare, come i lupi con la bestia non uccisa da loro. Ricordo la storia della Francia, figlia primogenita della Chiesa. Avrei fatto, contadino, il viaggio in Terra Santa; ho in testa strade nelle pianure sveve, vedute di Bisanzio, bastioni di Solima; la devozione per Maria, la commozione per il crocifisso si ridestano in me tra mille fantasmagorie profane. – Sono lebbroso e sto seduto su ortiche e cocci di vaso, ai piedi di un muro corroso dal sole. – Più tardi, soldataccio, avrei bivaccato sotto le notti germaniche. Ah! ancora: danzo il sabba in una rossa radura, con vecchie e con bambini. Non ricordo altro che questa terra e il cristianesimo. Non smetterei mai di rivedermi in questo passato. Ma sempre solo; senza famiglia; anzi, che lingua parlavo? Io non mi riconosco mai nei consigli di Cristo; né in quelli dei Signori, – rappresentanti di Cristo. Cos’ero mai nel secolo scorso? Io mi ritrovo soltanto nell’oggi. Niente più vagabondi, niente più vaghe guerre. La una stagione aLL’inferno

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razza inferiore ha coperto tutto – il popolo, come si dice, la ragione; la nazione e la scienza. Oh! la scienza! Hanno ripreso tutto. Per il corpo e per l’anima, – il viatico, – ci sono la medicina e la filosofia, – i rimedi delle donnette e le canzoni popolari adattate. E i divertimenti dei principi e i giochi da essi vietati! Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!... La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo va avanti! Perché non dovrebbe girare? È la visione dei numeri. Noi andiamo verso lo Spirito. Quel che dico è più che certo, è oracolo. Io comprendo, e non sapendo spiegarmi senza ricorrere a parole pagane, preferirei tacere. _____

Ritorna il sangue pagano! Si avvicina lo Spirito: perché Cristo non mi aiuta, donando alla mia anima nobiltà e libertà? Ahimè! Il Vangelo è passato! Il Vangelo! Il Vangelo. Aspetto Dio con ingordigia. È dall’eternità che io sono di razza inferiore. Ed eccomi sulla spiaggia armoricana. Che s’illuminino le città nella sera. La mia giornata è compiuta; lascio l’Europa. L’aria del mare mi brucerà i polmoni; i climi sperduti mi abbronzeranno. Nuotare, camminare sull’erba, andare a caccia, soprattutto fumare; bere liquori forti come metallo fuso, – proprio come facevano i cari antenati attorno ai fuochi. Tornerò, con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente: per il mio aspetto sarò giudicato di razza forte. Avrò dell’oro: sarò ozioso e brutale. Le donne hanno cura di questi ammalati feroci che tornano dai paesi caldi. Sarò coinvolto nelle questioni politiche. Salvo. 162

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Ora sono maledetto, la patria mi fa orrore. La cosa migliore è un sonno ubriaco sulla spiaggia. _____

Non si parte. – Riprendiamo le strade di qui, col peso del vizio addosso, il vizio che ha affondato le sue radici di sofferenza nel mio fianco, fin dall’età della ragione – che sale al cielo, mi colpisce, mi sconvolge, mi trascina. L’ultima innocenza e l’ultima timidezza. È detto. Non riversare sul mondo i miei disgusti e i miei tradimenti. Andiamo! Il cammino, il fardello, il deserto, la noia e la collera. A chi offrire i miei servigi? Quale animale adorare? Quale sacra immagine attaccare? Che cuori spezzerò? Che menzogna devo sostenere? – Che sangue calpestare? Guardarsi dalla giustizia, piuttosto. – La vita dura, l’abbrutimento semplice, – sollevare, col pugno secco, il coperchio della bara, sedersi, soffocarsi. Così, niente vecchiaia, niente pericoli: il terrore non è francese. Ah! sono così abbandonato a me stesso da offrire a una divina immagine, una qualunque, slanci verso la perfezione. O mia abnegazione, o mia meravigliosa carità! Quaggiù, tuttavia! De profundis Domine, quanto sono stupido! _____

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Già da bambino ammiravo il forzato incorreggibile dietro cui si chiude sempre la porta della prigione; visitavo le locande e le camere ammobiliate che egli avrebbe consacrato con il suo soggiorno; vedevo col suo sguardo il cielo azzurro e il lavoro fiorito della campagna; fiutavo il suo destino nelle città. Aveva più forza di un santo, più buon senso di un viaggiatore – e se stesso, solo se stesso a testimone della propria gloria e della propria ragione. Certe notti d’inverno, sulle strade, io ero senza riparo, senza vestiti, senza cibo, e una voce stringeva il mio cuore gelato: «Debolezza o forza: eccoti, è questa la forza. Tu non sai dove vai né perché vai, entra dappertutto, rispondi a tutto. Non ti si potrà uccidere più che se fossi già un cadavere». Al mattino avevo gli occhi così smarriti e un aspetto così smorto, che quelli che ho incontrato forse non mi hanno nemmeno visto. Nelle città il fango mi appariva improvvisamente rosso e nero, come uno specchio quando la lampada si muove nella stanza vicina, come un tesoro nella foresta! Buona fortuna, gridavo, e vedevo un mare di fiamme e di fumo nel cielo; e, a sinistra, a destra, tutte le ricchezze fiammeggianti come un miliardo di fulmini. Ma l’orgia e la compagnia delle donne mi erano vietate. Nemmeno un compagno. Mi vedevo davanti ad una folla esasperata, di fronte a un plotone d’esecuzione, intento a piangere per il dolore ch’essi non avessero potuto comprendere, e a perdonare! – Come Giovanna d’Arco! – «Sacerdoti, professori, padroni, voi mi consegnate alla giustizia, e vi sbagliate. Io non ho mai fatto parte di questo popolo; non sono mai stato cristiano; sono della razza che cantava durante il supplizio; non capisco le leggi; non ho senso morale, sono un bruto: vi sbagliate...». 164

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Sì, i miei occhi sono chiusi alla vostra luce. Sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Voi siete falsi negri, voi maniaci, feroci, avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, sei negro; generale, sei negro; imperatore, vecchia scabbia, tu sei negro: hai bevuto un liquore di contrabbando, distillato nella fabbrica di Satana. – Questo popolo è ispirato dalla febbre e dal cancro. Vecchi e ammalati sono tanto rispettabili da chiedere di essere bolliti. – Niente di più astuto che lasciare questo continente, in cui la follia vaga per procurare ostaggi a quei miserabili. Io entro nel vero regno dei figli di Cam. Conosco ancora la natura? Mi conosco? – Niente più parole, basta. Nel mio ventre seppellisco i morti. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non scorgo nemmeno l’ora in cui, allo sbarco dei bianchi, io precipiterò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza! _____

Sbarcano i bianchi. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, vestirsi, lavorare. Ho ricevuto al cuore il colpo della grazia. Ah! non l’avevo previsto! Non ho mai fatto del male. Per me i giorni saranno leggeri, mi sarà risparmiato il pentimento. Non avrò sentito i tormenti dell’anima quasi morta al bene, in cui risale la luce severa come i ceri funebri. Il destino del figlio di buona famiglia, bara prematura ricoperta di limpide lacrime. La dissolutezza è stupida, il vizio è stupido, non c’è dubbio; bisogna buttar via il marciume. Ma l’orologio non sarà riuscito a suonare solamente l’ora del puro dolore! Sarò forse rapito come un bambino, per giocare in paradiso senza più pensare all’infelicità! una stagione aLL’inferno

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Presto! Ci sono altre vite? – Nella ricchezza dormire è impossibile. La ricchezza è sempre stata un bene pubblico. Solo l’amore divino concede le chiavi della scienza. Io vedo che la natura è tutta uno spettacolo di bontà. Addio chimere, ideali, errori! Il canto ragionevole degli angeli si leva dalla nave che salva: è l’amore divino. – Due amori! Posso morire d’amore terreno, morire di devozione. Ho lasciato anime che con la mia partenza soffriranno sempre più! Voi mi scegliete tra i naufraghi; non sono miei amici quelli che rimangono? Salvateli! È nata in me la ragione. Il mondo è buono. Benedirò la vita. Amerò i miei fratelli. Non sono più le promesse di un bambino. Né la speranza di sottrarsi alla vecchiaia e alla morte. Dio è la mia forza, e io lodo Dio. _____

Non amo più il tedio. Le rabbie, le dissolutezze, la follia, di cui conosco ogni slancio e disastro, – tutto il mio fardello è deposto. Stimiamo senza vertigini l’estensione della mia innocenza. Io non riuscirei più a chiedere il conforto di una bastonata. Non mi credo imbarcato per una festa nuziale con Gesù Cristo per suocero. Non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come raggiungerla? Le frivolezze non mi riguardano più. E non ho più bisogno di devozione o di amore divino. Non rimpiango il secolo dei cuori sensibili. Ognuno ha la sua ragione, il suo disprezzo, la sua carità: io prenoto un posto in cima a quest’angelica scala di buon senso. 166

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Quanto alla felicità stabilita, domestica o meno... no, non posso. Sono troppo turbolento, troppo debole. La vita fiorisce col lavoro, è una vecchia verità: per me, la mia vita non è abbastanza pesante, prende il volo e fluttua lontano, al di sopra dell’azione, questo caro cardine del mondo. Come divento zitella, non avendo il coraggio di amare la morte! Se Dio mi concedesse la quiete celeste, aerea, la preghiera, – come i santi di un tempo. – I santi! Persone forti! Gli anacoreti, artisti come non ne servono più! Che farsa senza fine! La mia innocenza mi farebbe piangere. La vita è la farsa che tutti dobbiamo recitare. _____

Basta! Ecco la punizione. – Avanti, andiamo! Ah! i polmoni bruciano, le tempie rimbombano! La notte rotola nei miei occhi, con questo sole! Il cuore... le membra... Dov’è che si va? a combattere? Io non ce la faccio! Gli altri avanzano. Gli attrezzi, le armi... il tempo!... Fuoco! Fuoco su di me! Su! o mi arrendo. – Vigliacchi! – Mi ammazzo! Mi getto tra gli zoccoli dei cavalli! Ah!... – Ci farò l’abitudine. Sarebbe la vita francese, il sentiero dell’onore!

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Notte infernale Ho mandato giù una bella sorsata di veleno. – Sia tre volte benedetto il consiglio che ho ricevuto! – Le viscere mi bruciano. La violenza del veleno mi torce le membra, mi deforma, mi abbatte. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. È l’inferno, la pena eterna! Guardate come si alzano le fiamme! Brucio come si deve. Va’, demonio! Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Come potrei descrivere la visione? L’aria dell’inferno non sopporta gli inni! Erano milioni di creature incantevoli, un delizioso concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che ne so? Le nobili ambizioni! Ed è ancora la vita! – Se la dannazione è eterna! Un uomo che vuole mutilarsi è di sicuro dannato, vero? Io mi credo all’inferno, quindi ci sono. È l’adempimento del catechismo. Sono schiavo del mio battesimo. Genitori, voi avete fatto la mia e la vostra infelicità! Povero innocente! – L’inferno non può far niente ai pagani! – È ancora la vita! Più tardi, i piaceri della dannazione saranno più profondi. Un delitto, presto, che io precipiti nel nulla, in forza della legge umana. Taci, su, taci!... È la vergogna, il rimprovero, qui: Satana che dice che il fuoco è ignobile, che la mia collera è spaventosamente stupida. – Basta!... Errori che mi vengono suggeriti, magie, falsi profumi, musiche puerili. – E pensare che possiedo la verità, che vedo la giustizia: il mio giudizio è sano e fermo, sono pronto per la perfezione... Orgoglio. – Si dissecca la pelle della mia testa. Pietà! Ho paura, Signore. Ho sete, tanta sete! Ah! l’infanzia, l’erba, la pioggia, il lago sulle pietre, il chiaro di luna quando il campanile suonava 168

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mezzanotte... c’è il diavolo sul campanile a quest’ora. Maria! Vergine santa!... – Orrore della mia stupidità. Laggiù, quelle non sono forse anime oneste, che mi vogliono bene?... Venite... Ho un cuscino sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. E poi, nessuno pensa mai agli altri. Non avvicinatevi. Faccio puzza di bruciato, questo è certo. Sono innumerevoli le allucinazioni. È proprio ciò che ho sempre avuto: nessuna fede nella storia, l’oblio dei princìpi. Non parlerò di questo: poeti e visionari sarebbero gelosi. Sono mille volte il più ricco, perciò bisogna essere avari come il mare. Ah! questa poi! L’orologio della vita si è appena fermato. Non sono più al mondo. – La teologia non scherza, l’inferno è certo in basso – e il cielo in alto. – Estasi, incubo, sonno in un nido di fiamme. Quante malizie a stare attenti in campagna... Satana, Ferdinando, corre con i semi selvatici... Gesù cammina sui rovi purpurei senza piegarli... Gesù camminava sulle acque agitate. La lanterna ce lo mostrò in piedi, bianco, con le trecce brune, sul fianco di un’onda di smeraldo... Tra poco svelerò tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, futuro, passato, cosmogonia, nulla. Sono esperto in fantasmagorie. Ascoltate!... Ho tutti i talenti! – Non c’è nessuno, qui, eppure c’è qualcuno: non vorrei sprecare la mia ricchezza. – Volete canti negri, danze di urì? Volete ch’io sparisca, che mi tuffi alla ricerca dell’anello? Volete? Preparerò dell’oro, delle medicine. Abbiate dunque fiducia in me, la fede dà sollievo, guida, guarisce. Venite tutti, – anche i bambini – io vi consolerò, si effonderà per voi il suo cuore, – quel meraviglioso cuore! – Poveri uomini, lavoratori! Non voglio preghiere; mi basterà la vostra fiducia per essere felice. una stagione aLL’inferno

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E pensiamo a me. Tutto questo non mi fa rimpiangere molto il mondo. Sono fortunato a non soffrire più. Nella mia vita non ho fatto che dolci follie, e questo è deplorevole. Bah! Facciamo tutte le smorfie immaginabili. Siamo decisamente fuori dal mondo. Non si ode alcun suono. Non ho più il tatto. Ah, il mio castello, la mia Sassonia, il mio bosco di salici! Le sere, le mattine, le notti, i giorni... Sono stanco! Dovrei avere un mio inferno per la collera, uno per l’orgoglio, – e l’inferno della carezza; un concerto di inferni. Muoio di stanchezza. È la tomba, finirò in pasto ai vermi, orrore degli orrori! Satana, buffone, tu vuoi dissolvermi con i tuoi incantesimi. Sono io a chiederlo, a esigerlo! Un colpo di forcone, una goccia di fuoco. Ah, risalire alla vita! Gettare lo sguardo sulle nostre deformità. E quel veleno, quel bacio mille volte maledetto! La mia debolezza, la crudeltà del mondo! Mio Dio, pietà, nascondimi, mi comporto troppo male! – Sono nascosto e non lo sono. È il fuoco che si solleva con il suo dannato.

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Deliri I Vergine folle _____ Lo sposo infernale

Ascoltiamo la confessione di un compagno d’inferno: «O divino Sposo, mio Signore, non respingere la confessione della più triste delle tue serve. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita! Perdono, divino Signore, perdono! Ah, perdono! Quante lacrime! E quante lacrime ancora più tardi, spero! Più tardi conoscerò lo Sposo divino! Io sono nata sottomessa a Lui! – L’altro può anche picchiarmi, adesso! In questo momento io sono in fondo al mondo! O amiche mie!... No, non amiche mie... Mai deliri né torture simili... Che sciocchezza! Ah! io soffro, grido. Soffro davvero. Tuttavia ogni cosa è permessa a me che sono carica del disprezzo dei cuori più spregevoli. Insomma, facciamo questa confidenza, salvo ripeterla altre venti volte, – tanto squallida, tanto insignificante! Sono schiava dello Sposo infernale, di colui che ha portato alla perdizione le vergini folli. È proprio quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che ho perduto la saggezza, che sono dannata e morta al mondo, – io non sarò uccisa! Come descrivervelo? Non so più nemmeno parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po’ di refrigerio, Signore, per carità, ti prego! una stagione aLL’inferno

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Sono vedova... – Ero vedova... – Ma sì, un tempo sono stata molto seria, e non sono nata per diventare scheletro!... – Lui era poco più che un bambino... Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Per seguirlo ho dimenticato ogni dovere umano. Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Io vado dove va lui, è necessario. E spesso lui si arrabbia con me, con me, povera anima. Demonio! – È un demonio, sapete, non • un uomo. Lui dice: ‘Io non amo le donne. L’amore, si sa, dev’essere reinventato. Loro non possono ormai volere altro che una solida posizione. E una volta raggiunta la posizione, cuore e bellezza vengono messi da parte: resta solo un freddo disdegno, nutrimento dei matrimoni al giorno d’oggi. Oppure vedo donne con i segni della felicità, donne che io, io avrei potuto rendere delle buone compagne, divorate d’un tratto da bruti sensibili quanto i roghi...’ Io lo ascolto mentre fa dell’infamia una gloria, della crudeltà un incanto. ‘Sono di una razza lontana: i miei progenitori erano Scandinavi, gente che si trafiggeva il costato, beveva il proprio sangue. – Mi farò dei tagli su tutto il corpo; mi farò dei tatuaggi, fino a diventare orrendo come un Mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Diventerò completamente pazzo di rabbia. Se non vuoi vedermi strisciare e contorcermi sul tappeto, non mostrarmi mai dei gioielli. La mia ricchezza, la vorrei macchiata di sangue dappertutto. Non lavorerò mai...’ Molte notti il suo demone mi afferrava, e allora ci rotolavamo, lottavo con lui! – Di notte, spesso, ubriaco, si apposta nelle strade o dentro casa per spaventarmi a morte. – ‘Mi taglieranno veramente il collo; sarà disgustoso.’ Oh! quei giorni in cui vuole andarsene in giro con l’aria del delitto! A volte parla, in una sorta di gergo addolcito, della morte che spinge al pentimento, degli sventurati che di certo esisto172

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no, dei lavori duri, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva guardando quelli che ci stavano attorno, bestiame della miseria. Risollevava gli ubriachi nelle strade buie. Aveva la pietà di una madre malvagia nei confronti dei figlioletti. – Se ne andava in giro con la grazia con cui una bambina va al catechismo. – Fingeva di intendersene di tutto, commercio, arte, medicina. – Io lo seguivo, per forza! Vedevo tutta la scenografia di cui, mentalmente, si circondava; vestiti, drappi, mobili: gli attribuivo delle armi, un’altra fisionomia. Vedevo tutto ciò che lo riguardava come avrebbe voluto crearlo per sé. Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, io lo seguivo, io, in azioni strane e intricate, buone o cattive, lontano: ero sicura che non sarei mai entrata nel suo mondo. Quanto tempo ho vegliato di notte, accanto al suo caro corpo addormentato, chiedendomi perché volesse tanto evadere dalla realtà. Nessuno mai ebbe un simile desiderio. Riconoscevo, – senza temere per lui, – che poteva costituire un serio pericolo per la società. – Conosce forse i segreti per cambiare la vita? No, non fa che cercarli, mi rispondevo. Insomma, la sua carità è stregata, e io ne sono prigioniera. Nessun’altra anima avrebbe abbastanza forza, – la forza della disperazione! – per sopportarla, per essere protetta e amata da lui. D’altronde non riuscivo a immaginarlo con un’altra anima: si vede il proprio Angelo, mai l’Angelo di un altro, – credo. Nella sua anima io stavo come in un palazzo che sia stato svuotato per non vedere qualcuno così poco nobile come te: tutto qui. Ahimè! Non potevo proprio fare a meno di lui. Ma lui, che poteva volere dalla mia vita squallida e vile? Non mi rendeva migliore, se non mi faceva morire! Tristemente contrariata, gli dissi qualche volta: ‘Ti capisco’. Lui sollevava le spalle. una stagione aLL’inferno

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Così, poiché il mio tormento si rinnovava senza posa e io mi trovavo più smarrita ai miei occhi, – come agli occhi di tutti quelli che avrebbero voluto fissarmi, se non fossi stata condannata per sempre all’oblio totale! – ero sempre più affamato della sua bontà. Con i suoi baci e i suoi abbracci amichevoli, era davvero un cielo, un cielo scuro, quello in cui mi addentravo e in cui avrei voluto essere lasciata, povera, sorda, muta, cieca. Mi ci stavo già abituando. Vedevo noi come due bravi bambini liberi di passeggiare nel Paradiso della tristezza. Andavamo d’accordo. Profondamente commossi, lavoravamo assieme. Ma, dopo una carezza penetrante, diceva: ‘Come ti sembrerà strana questa esperienza, quando io non ci sarò più! Quando non avrai più il mio braccio attorno al collo, né il mio cuore su cui riposare, né queste labbra sulle tue palpebre. Perché un giorno dovrò andarmene lontano. E poi, bisogna che ne aiuti altre: è mio dovere. Per quanto ciò non sia affatto allettante..., anima cara...’ Tutto a un tratto mi immaginavo in preda alle vertigini, dopo la sua partenza, e sprofondata nell’ombra più orribile: la morte. Gli facevo promettere che non mi avrebbe lasciata. Questa promessa d’amante, lui l’ha fatta venti volte. Era frivolo come me quando gli dicevo: ‘Ti capisco’. Ah! non sono mai stata gelosa di lui. Non mi lascerà, credo. Che ne sarebbe di lui? Non ha nessuna conoscenza, non lavorerà mai. Vuole vivere da sonnambulo. La sua carità e la sua bontà, da sole, potrebbero assicurargli qualche diritto nel mondo reale? A volte io non ricordo più lo stato penoso in cui sono caduta: lui mi renderà forte, viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sui selciati di città sconosciute, senza preoccupazioni, senza affanni. Oppure al mio risveglio le leggi e i costumi saranno cambiati, – grazie al suo potere magico, – il mondo, pur restando immutato, mi lascerà ai 174

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miei desideri, alle mie gioie, alle mie indolenze. Oh! Mi darai una vita d’avventure, quella che esiste nei libri dei bambini, per ricompensarmi giacché ho tanto sofferto? Lui non può. Non conosco il suo ideale. Mi ha detto di avere rimpianti, speranze: cose che non mi riguardano. Parla con Dio? Forse è a Dio che dovrei rivolgermi. Sono nell’abisso più profondo, e non so più pregare. Se mi raccontasse le sue tristezze, le capirei più del suo scherno? Mi attacca, passa ore intere a farmi vergognare di tutto ciò che mi ha colpito al mondo, e s’indigna se piango. ‘Guarda quel giovane elegante che sta entrando nella bella e calma casa: si chiama Duval, Dufour, Armand, Maurice, che so io? Una donna si è votata ad amare quel malvagio idiota: è morta, in questo momento è di certo una santa in cielo. Tu mi farai morire come lui ha fatto morire quella donna. È questa la sorte per noi, cuori caritatevoli...’. Ahimè! c’erano giorni in cui ogni uomo che agisse gli appariva come lo zimbello di deliri grotteschi: rideva a lungo, in modo orribile. – Poi, riprendeva le sue maniere di giovane madre, di cara sorella. Se fosse meno selvaggio, saremmo salvi! Ma anche la sua dolcezza è mortale. Io sono la sua schiava. – Ah, quanto sono pazza! Un giorno forse scomparirà in modo prodigioso; ma bisogna che io sappia, se deve ascendere a un qualche cielo, bisogna che io veda un po’ l’assunzione del mio piccolo amico!» Ma che strano rapporto!

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Deliri II Alchimia del verbo _____ A me. La storia di una delle mie follie. Da tanto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e consideravo irrisorie le celebrità della pittura e della poesia moderna. Amavo i dipinti idioti, le lunette sulle porte, scenografie, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura passata di moda, il latino ecclesiastico, i libri erotici senza ortografia, i romanzi delle nostre nonne, i racconti di fate, i libriccini per l’infanzia, i vecchi melodrammi, gli sciocchi ritornelli, i ritmi molto semplici. Sognavo crociate, esplorazioni di cui non si hanno notizie, repubbliche senza storia, guerre di religione soffocate, rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventai i colori delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolai la forma e il movimento di ogni consonante e, con ritmi istintivi, mi illusi di creare un linguaggio poetico accessibile, prima o poi, a tutti i sensi. Tenevo da parte la traduzione. Dapprincipio fu uno studio. Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini. _____

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Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine, che bevevo in ginocchio, là, in quella brughiera circondata da teneri boschetti di nocciòli, nella foschia di un tiepido e verde pomeriggio? Che mai potevo bere in quella giovane Oise, – olmi taciti, cielo scuro, erba senza fiori! – bere da fiasche gialle, lontano dalla cara mia capanna? Un liquore d’oro che fa sudare. Ero come una losca insegna di locanda. – Un temporale giunse, spazzò il cielo. L’acqua dei boschi si perdeva su sabbie pure, a sera, il vento di Dio gettava ghiaccioli sugli stagni. Vedevo l’oro – in lacrime – e non potei berlo. _____

D’estate, alle quattro del mattino, dura ancora il sonno d’amore. Sotto i boschetti evapora l’odore della festa serale. Nel loro grande cantiere, laggiù, al sole delle Esperidi lavorano già i Carpentieri, in maniche di camicia. Calmi, nei loro Deserti di muschio, allestiscono i preziosi pannelli una stagione aLL’inferno

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su cui la città dipingerà falsi cieli. Per questi incantevoli Operai, sudditi di un re di Babilonia, lascia un istante, o Venere, gli Amanti che hanno l’anima a corona. Regina dei Pastori, porta ai lavoratori l’acquavite, si riposino tranquilli, si ristorino prima di tuffarsi in mare a mezzogiorno. _____

La mia alchimia del verbo conteneva una buona parte di vecchiume poetico. Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto chiaramente una moschea al posto di un’officina, angeli che insegnavano in una scuola di tamburo, calessi per le strade del cielo, un salotto in fondo a un lago; i mostri, i misteri; il titolo di un vaudeville faceva sorgere davanti a me immagini terrificanti. Poi provai a spiegare i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole! Finii per considerare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda ad una grave febbre: invidiavo la felicità degli animali, – i bruchi che rappresentano l’innocenza del limbo, le talpe, il sonno della verginità! Il mio carattere si inaspriva. Dicevo addio al mondo con delle specie di romanze: 178

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Canzone della torre più alta Venga, sì, venga il tempo di cui ci s’innamora. Ho tanto pazientato che per sempre dimentico. Paure e sofferenze sono volate in cielo. E la sete malsana mi annerisce le vene. Venga, sì, venga il tempo di cui ci s’innamora. Così la prateria consegnata all’oblio, ingrandita, e fiorita di loglio e d’incenso, al violento ronzio delle sudice mosche. Venga, sì, venga il tempo di cui ci s’innamora. Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe scolorite, le bevande riscaldate. Mi trascinavo per stradine puzzolenti e, le palpebre abbassate, mi offrivo al sole, dio di fuoco. «Generale, se c’è ancora un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra secca. Sulle vetrine degli splendidi negozi! sui salotti! Fai mangiare alla città la sua polvere. Ossida i tubi di scarico. Riempi i boudoirs di polvere di rubino cocente...» una stagione aLL’inferno

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Oh, il moscerino ubriaco nel pisciatoio della locanda, innamorato della borrana, e dissolto da un raggio! Fame Se di qualcosa ho fame è soltanto di terra, di pietre. Mi nutro sempre d’aria, roccia, carbone e ferro. Girate, mie fami, brucate il prato dei suoni. Sorbite l’allegro veleno dei convolvoli. Mangiate sassi infranti, vecchie pietre di chiese; ghiaia di antichi diluvi, pani sparsi in grigie valli. _____

Tra le foglie urlava il lupo sputando le belle piume del suo pasto di galline: come lui io mi consumo. E l’insalata ed i frutti attendono la raccolta; però il ragno della siepe mangia soltanto violette.

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Che io dorma! che io bolla sulle are di Salomone. Corre il brodo sulla ruggine, e si mescola col Cedron. Finalmente, o felicità, o ragione, allontanai dal cielo l’azzurro, che è nero, e vissi, scintilla d’oro della luce naturale. Per la gioia assumevo un’espressione quanto mai buffa e smarrita: È ritrovata, infine! Cosa? L’eternità. È il mare mescolato con il sole. O mia anima eterna, osserva ora il tuo voto nonostante la notte sola e il giorno di fuoco. Tu ti liberi dunque dagli umani suffragi, dagli slanci comuni! Prendi il volo a seconda... – Mai nessuna speranza. Nemmeno alcun orietur. Scienza e sopportazione, il supplizio è sicuro. Nessun domani ormai, braci di satin,

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vostro ardore è il dovere. È ritrovata, infine! – Cosa? – L’Eternità. È il mare mescolato con il sole. _____ Divenni un favoloso melodramma; vidi che tutti gli esseri sono destinati alla felicità: agire non è vivere, ma un modo di sprecare energie, uno snervamento. La morale è la debolezza del cervello. Mi sembrava che ogni essere avesse diritto a molte altre vite. Quell’uomo non sa ciò che fa: è un angelo. Questa famiglia è una covata di cani. Davanti a parecchie persone parlai ad alta voce con un momento di una delle loro altre vite. – Così, ho amato un porco. Non ho dimenticato nessuno dei sofismi della pazzia, – della pazzia che viene rinchiusa – : potrei ripeterli tutti, ne possiedo il sistema. La mia salute fu in pericolo. Sopraggiungeva il terrore. Cadevo nel sonno, dormivo giorni e giorni e, dopo il risveglio, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per la morte, e attraverso una strada piena di insidie la mia debolezza mi portava ai confini del mondo e della Cimmeria, patria dell’ombra e dei turbini. Dovetti viaggiare, svagare gli incantesimi ammassati sul mio cervello. Sul mare, che amavo come se avesse dovuto purificarmi, vedevo alzarsi la croce consolatrice. L’arcobaleno mi aveva dannato. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio tarlo: la mia vita sarebbe stata sempre troppo vasta per essere votata alla forza e alla bellezza. 182

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La Felicità! Il suo dente, dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo, – ad matutinum, al Christus venit, – nelle città più buie. Oh stagioni, oh castelli! Quale anima è perfetta? Feci il magico studio della felicità, tutti lo fanno. Salute a lei, ogni volta che si sente cantare il gallo celtico. Non avrò desideri: della mia vita è lei ad occuparsi. Questa malia mi ha preso anima e corpo e ha disperso ogni sforzo. Oh stagioni, oh castelli! Ahimè! l’istante della sua scomparsa sarà l’ultimo istante. Oh stagioni, oh castelli! _____ Tutto questo è accaduto. Oggi so salutare la bellezza.

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L’impossibile Ah, la vita della mia infanzia, la strada maestra con qualsiasi tempo, ero sobrio in modo soprannaturale, più disinteressato del migliore dei mendicanti, fiero di non avere né un paese né amici. Ma che sciocchezza! E me ne rendo conto solo adesso! – Ho fatto bene a disprezzare quei brav’uomini che non si lascerebbero sfuggire mai una carezza, parassiti della pulizia e della salute delle nostre donne, oggi che esse vanno così poco d’accordo con noi. Ho avuto ragione ogni volta che mi sono indignato: dal momento che evado! Evado! Mi spiego. Ancora ieri, sospiravo: «Cielo! Siamo un bel numero di dannati quaggiù! Ed io, io sono già da tanto tempo nel loro branco! Conosco ciascuno di loro. Ci riconosciamo sempre; ci disgustiamo. Non sappiamo cosa sia la carità. Ma siamo educati; i nostri rapporti con gli altri sono molto corretti». È sorprendente? La gente! I mercanti, gli ingenui! – Non siamo privi di onore. – Ma gli eletti, come ci accoglierebbero? Ora, ci sono persone arcigne e allegre, dei falsi eletti, poiché ci occorre audacia o umiltà per avvicinarli. Sono gli unici eletti. E non si tratta certo di tipi che dànno la benedizione! Avendo ritrovato due soldi di ragione, – passerà in fretta! – mi accorgo che i miei disagi derivano dal non aver capito abbastanza presto che siamo in Occidente. Le paludi occidentali! Non che io consideri alterata la luce, estenuata la forma, sconvolto il movimento... Bene! Ecco che il mio spirito vuole assolutamente farsi carico di tutte le crudeli evoluzioni 184

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che lo spirito ha subito a partire dalla fine dell’Oriente... Fa sul serio, il mio spirito! ... I miei due soldi di ragione sono finiti! – Lo spirito è autorità, e vuole che io stia in Occidente. Bisognerebbe metterlo a tacere per concludere come volevo. Mandavo al diavolo le palme dei martiri, gli splendori dell’arte, l’orgoglio degli inventori, l’ardore dei predoni; ritornavo all’Oriente, alla prima ed eterna saggezza. – A quanto pare non è che un sogno di grossolana pigrizia! Eppure non pensavo al piacere di sfuggire alle sofferenze moderne. Non miravo alla saggezza bastarda del Corano. – Ma non è una vera tortura il fatto che dal cristianesimo, questa dichiarazione della scienza, l’uomo si prenda in giro, provi a se stesso le cose evidenti, si gonfi del piacere di ripetere le prove, e non viva che in tal modo? Tortura sottile, sciocca; fonte delle mie divagazioni spirituali. La natura, forse, potrebbe annoiarsi! Monsieur Prudhomme è nato insieme al Cristo. Forse è perché coltiviamo la nebbia. Mangiamo la febbre con i nostri acquosi legumi. E l’ubriachezza! e il tabacco! e l’ignoranza! e le dedizioni! – È abbastanza lontano tutto ciò dal pensiero della saggezza d’Oriente, la nostra patria originaria? Perché mai ci deve essere un mondo moderno, se s’inventano simili veleni? Gli ecclesiastici diranno: Siamo d’accordo. Ma tu vuoi parlare dell’Eden. Nella storia dei popoli orientali non c’è niente per te. – È vero; mi riferivo proprio all’Eden! E tuttavia la purezza delle razze antiche non basta al mio sogno! Dicono i filosofi: Il mondo non ha età. L’umanità si sposta, semplicemente. Sei in Occidente, ma libero d’abitare nel tuo Oriente, antico quanto vuoi, – e viverci bene. Non essere un vinto. Filosofi, voi fate parte del vostro Occidente. una stagione aLL’inferno

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Attento, mio spirito. Niente decisioni di salvezza brutale. Allénati! – Ah! la scienza non avanza abbastanza in fretta per noi! – Ma mi accorgo che il mio spirito dorme. Se restasse sempre ben sveglio a partire da ora, raggiungeremmo presto la verità, che forse ci circonda coi suoi angeli in lacrime!... Se fosse stato sveglio fino ad ora, io non avrei ceduto a istinti deleteri, a un tempo immemorabile!... – Se fosse sempre stato ben sveglio, navigherei in piena saggezza!... O purezza, purezza! È questo istante di risveglio che mi ha dato la visione della purezza! – Attraverso lo spirito si arriva a Dio! Che sventura straziante!

Il lampo Il lavoro umano! È l’esplosione che ogni tanto rischiara il mio abisso. «Niente è vanità; viva la scienza, e avanti!» grida il moderno Ecclesiaste, vale a dire Tutti. E tuttavia i cadaveri dei malvagi e dei fannulloni cadono sul cuore degli altri... Ah! presto, affrettiamoci un po’. Laggiù, oltre la notte, quelle ricompense future, eterne... ce le lasceremo sfuggire?... – Che posso farci? Conosco il lavoro; e la scienza è troppo lenta. La preghiera galoppa, la luce tuona... lo vedo bene. È troppo semplice, e fa troppo caldo. Faranno senza di me. Ho il mio dovere, e ne sarò fiero come molti altri, mettendolo da parte. La mia vita è consumata. Avanti! Fingiamo, oziamo, oh che pena! Ed esisteremo divertendoci, sognando amori stra186

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ordinari e universi fantastici, lamentandoci e scagliandoci contro le apparenze del mondo, saltimbanco, mendicante, artista, bandito, – prete! L’odore dell’incenso mi è ritornato così intenso sul mio letto d’ospedale; guardiano di sacri aromi, confessore, martire... Riconosco in ciò la mia sporca educazione infantile. E poi, che diavolo!... Andare avanti per i miei vent’anni, se gli altri vanno avanti per vent’anni... No! No! Mi ribello adesso contro la morte! Il lavoro sembra troppo leggero al mio orgoglio: il mio tradimento al mondo sarebbe una tortura troppo breve. All’ultimo momento attaccherei a destra e sinistra... Allora, – oh! – cara povera anima, l’eternità sarebbe certo perduta per noi!

Mattino Non ho avuto forse un tempo una bella giovinezza, eroica, favolosa, da scrivere – fin troppa fortuna – su fogli d’oro? Per quale delitto, per quale errore ho meritato la mia attuale debolezza? Voi che pretendete che gli animali singhiozzino per il dolore, che i malati disperino, che i morti abbiano incubi, provate voi a raccontare la mia caduta e il mio sonno. Io, io non posso spiegarmi più che il mendicante con i suoi continui Pater e Ave Maria. Io non so più parlare! Tuttavia, oggi, credo di aver finito il rapporto del mio inferno. Era proprio l’inferno; quello antico, di cui il figlio dell’uomo aprì le porte. Dallo stesso deserto, nella stessa notte, sempre i miei stanchi occhi si risvegliano alla stella d’argento, sempre, una stagione aLL’inferno

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senza che si commuovano i Re della vita, i tre magi, il cuore, l’anima, lo spirito. Quando potremo andare, oltre le grandi spiagge e le montagne, a salutare l’avvento del nuovo lavoro, la novella saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare – per primi! – il Natale sulla terra? Il canto dei cieli, la marcia dei popoli! Schiavi, non malediciamo la vita.

Addio L’autunno, di già! – Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati a scoprire la luce divina, – lontano dalla gente che muore sulle stagioni. L’autunno. La nostra barca si eleva nelle nebbie immobili, si dirige verso il porto della miseria, l’enorme città dal cielo macchiato di fuoco e fango. Ah, gli stracci marci, il pane inzuppato di pioggia, l’ebbrezza, i mille amori che mi hanno crocifisso! Dunque non la smetterà mai questa lamia regina di milioni di anime e di cadaveri che saranno sottoposti al giudizio! Io mi rivedo con la pelle corrosa dal fango e dalla peste, i capelli e le ascelle pieni di vermi, e dentro il cuore vermi ancora più grossi, disteso fra sconosciuti senza età, senza sensibilità... Avrei potuto morirci... Orrenda evocazione! Aborrisco la miseria. E ho paura dell’inverno, perché è la stagione delle comodità! A volte vedo in cielo immense spiagge coperte di bianche nazioni in festa. Un grande vascello d’oro, sopra di me, sventola le sue bandiere multicolori al soffio delle brezze mattu188

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tine. Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Ho tentato d’inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri sovrannaturali. Ebbene, devo seppellire immaginazione e ricordi! Una bella gloria di artista e di narratore andata in fumo! Io! io che mi sono chiamato mago o angelo, dispensato da ogni morale, sono costretto a tornare a terra, a cercare un dovere, e a stringere la rugosa realtà. Bifolco! Mi sbaglio? La carità sarebbe sorella della morte, per me? Infine, chiederò perdono per essermi nutrito di menzogne. E via. Ma non c’è una mano amica! E dove cercare aiuto? _____

Sì, l’ora nuova è almeno molto severa. Poiché posso dire che ho in pugno la vittoria: lo stridore di denti, i sibili del fuoco, i sospiri appestati si calmano. Svanisce ogni ricordo immondo. I miei ultimi rimpianti se la svignano, – invidia per i mendicanti, i briganti, gli amici della morte, i ritardati d’ogni tipo. – Dannati, ah se mi vendicassi! Bisogna essere assolutamente moderni. Niente cantici: tenere il passo raggiunto. Dura notte! Il sangue secco fuma sul mio volto, e non ho niente dietro di me, fuorché quell’orribile arboscello!... La lotta spirituale è violenta come la battaglia fra gli uomini; ma la visione della giustizia è un piacere riservato solo a Dio. Intanto è la vigilia. Riceviamo ogni influsso di vigore e di tenerezza vera. Alle prime luci del giorno, armati di un’ardente pazienza, entreremo nelle splendide città. Perché mai ho parlato di una mano amica? È un bel vanuna stagione aLL’inferno

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taggio per me poter ridere dei vecchi amori bugiardi, e coprire di vergogna quelle coppie menzognere, – ho visto l’inferno delle donne, laggiù; – e mi sarà concesso di possedere la verità in un’anima e in un corpo. Aprile-agosto 1873

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ILLUMINAzIONI

Dopo il diluvio Non appena l’idea del Diluvio si fu acquietata, una lepre si fermò fra i trifogli e le mosse campanule, e recitò la sua preghiera all’arcobaleno attraverso la tela del ragno. Oh! le pietre preziose che si nascondevano, – i fiori che già guardavano. Nella grande strada sporca vennero sistemate le bancarelle, e le barche vennero spinte verso il mare disposto su vari piani lassù, come nelle incisioni. Colò il sangue, in casa di Barbablù, – nei macelli, – nei circhi, dove il sigillo di Dio fece illividire le finestre. Colarono sangue e latte. I castori edificarono. I bicchieri di caffè esalarono fumo nelle bettole. Nella grande casa a vetri ancora gocciolante, bambini in lutto guardarono immagini meravigliose. Sbatté una porta, – e sulla piazza del villaggio il bambino fece girare le braccia, compreso dalle banderuole e dai galli dei campanili di ogni luogo, sotto l’acquazzone scrosciante. La signora*** collocò un pianoforte sulle Alpi. Furono celebrate messa e prima comunione sui centomila altari della cattedrale. Partirono le carovane. E lo Splendide-Hôtel fu costruito nel caos di ghiacci e notte del polo. Da allora, la Luna udì i lamenti degli sciacalli nei deserti di timo, – e il brontolio delle egloghe con gli zoccoli nel frutteto. Poi, in mezzo al bosco violetto, germogliante, Eucari mi annunciò la primavera. Sgorga, stagno, – Schiuma, scivola sul ponte e sopra i boiLLuminazioni

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schi; – drappi neri, musiche d’organo, – lampi e tuono, salite e scorrete; – acque e tristezze, salite e ravvivate i Diluvi. Poiché dopo la loro scomparsa, – oh, le pietre preziose sotto terra, e i fiori aperti! – che noia! E la Regina, la Strega che accende la brace nel vaso di terra, non ci narrerà mai quello che lei sa, e che noi non conosciamo.

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Infanzia I Quell’idolo dagli occhi neri e dai capelli gialli, senza genitori né corte, più nobile della favola, messicano e fiammingo; il suo dominio, azzurro e verzura insolenti, arriva fino a spiagge chiamate, da onde senza vascelli, con nomi ferocemente greci, slavi, celtici. Al bordo della foresta – i fiori di sogno tintinnano, scoppiano, rischiarano, – la ragazza dalle labbra d’arancia, le ginocchia incrociate nel chiaro diluvio che scaturisce dai prati, nudità ombreggiata, attraversata e vestita dagli arcobaleni, dalla flora, dal mare. Signore che girano sulle terrazze vicine al mare; fanciulle e gigantesse, magnifiche donne nere nel muschio grigioverde, gioielli in piedi sul suolo grasso dei boschetti e dei giardini sgelati – madri giovani e sorelle maggiori dagli sguardi pieni di pellegrinaggi, sultane, principesse dall’andatura e dai costumi tirannici, piccole straniere e persone dolcemente infelici. Che noia, l’ora del «caro corpo» e del «caro cuore». II È lei, la piccola morta, dietro i roseti. – La giovane mamma defunta scende la scalinata. – Il calesse del cugino cigola sulla sabbia. – Il fratellino (si trova in India!) lì, davanti al tramonto, sul prato di garofani. – I vecchi seppelliti perfettamente dritti nel bastione pieno di violacciocche. Lo sciame di foglie d’oro attornia la casa del generale. Essi iLLuminazioni

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sono nel Mezzogiorno. – Si segue la strada rossa per arrivare alla locanda vuota. Il castello è in vendita; le persiane sono staccate. – Il parroco si deve essere portato via la chiave della chiesa. – Intorno al parco, le casupole dei guardiani sono deserte. Le palizzate sono così alte che si vedono solo le cime fruscianti. D’altronde, là dentro non c’è proprio nulla da vedere. I prati risalgono verso i villaggi dove non canta un gallo, non risuona un incudine. La chiusa è alzata. Oh i calvari e i mulini del deserto, le isole e i covoni! Fiori magici ronzavano. I pendii lo cullavano. Circolavano bestie d’un’eleganza favolosa. Le nubi si addensavano al largo, sul mare fatto di un’eternità di calde lacrime. III C’è un uccello nel bosco, il suo canto ti costringe a fermarti e ti fa arrossire. C’è un orologio che non suona. C’è un fossato con un nido di bestie bianche. C’è una cattedrale che scende e un lago che sale. C’è una carrozzina abbandonata nel bosco ceduo, o che scende giù per il sentiero correndo, ornata di nastri. C’è una compagnia di piccoli attori in costume, intravisti sulla strada attraverso il bordo del bosco. C’è infine, quando si ha fame e sete, qualcuno che ti manda via.

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IV Io sono il santo, in preghiera sulla terrazza, – mentre le bestie mansuete pascolano fino al mare di Palestina. Io sono il saggio dalla poltrona scura. I rami e la pioggia picchiano alla finestra della biblioteca. Io sono quello che cammina sulla strada maestra tra i boschi nani; il rumore delle chiuse copre il suono dei miei passi. Contemplo a lungo il malinconico bucato d’oro del tramonto. Io potrei essere il fanciullo abbandonato sul molo slanciato verso l’alto mare, il piccolo valletto che cammina sul viale la cui fronte tocca il cielo. I sentieri sono impervi. I monticelli si ricoprono di ginestre. L’aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le sorgenti! Proseguendo, non ci può essere che la fine del mondo. V Mi si dia finalmente in affitto quella tomba imbiancata a calce con linee di cemento in rilievo – molto lontano sotto terra. Appoggio i gomiti sul tavolo, la lampada rischiara molto vivamente quei giornali che io, come un idiota, rileggo, quei libri per nulla interessanti. – A un’enorme distanza, sopra il mio salotto sotterraneo, si edificano le case, si addensano le nebbie. Il fango è rosso o nero. Città mostruosa, notte infinita! Meno in alto ci sono le fognature. Ai lati, solo lo spessore del globo. Forse abissi d’azzurro, pozzi di fuoco. ForiLLuminazioni

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se è su questi piani che s’incontrano lune e comete, mari e leggende. Nei momenti di amarezza m’immagino sfere di zaffiro, di metallo. Sono signore del silenzio. Perché una parvenza di spiraglio dovrebbe illividire all’angolo della vòlta?

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Fiaba Un Principe era molto seccato di essersi sempre e solo applicato alla perfezione delle volgari generosità. Prevedeva straordinarie rivoluzioni dell’amore, e sospettava che le sue donne potessero dare qualcosa di meglio che quella loro compiacenza adornata di lusso e di cielo. Voleva vedere la verità, il momento del desiderio e della soddisfazione essenziali. Era un’aberrazione della pietà? Non importa, lui volle così. Aveva, se non altro, un potere umano piuttosto grande. Tutte le donne che l’avevano conosciuto furono assassinate. Che scompiglio nel giardino della bellezza! Trafitte dalla sciabola, esse lo benedissero. Lui non ne richiese altre. – Le donne riapparvero. Lui uccise tutti quelli che lo seguivano, dopo la caccia e le libagioni. – Tutti lo seguivano. Si divertì a scannare gli animali di lusso. Diede fuoco ai palazzi. Piombava addosso alle persone e le tagliava a pezzi. – La folla, i tetti dorati, i begli animali continuavano ad esistere. Forse ci si può estasiare nella distruzione, si può ringiovanire grazie alla crudeltà! Il popolo non mormorò. Nessuno si fece avanti con qualche suggerimento. Una sera egli galoppava fiero. Gli apparve un Genio, bello d’una bellezza indescrivibile, persino inconfessabile. La sua fisionomia e il suo atteggiamento promettevano un amore molteplice e complesso, una felicità inesprimibile, persino insopportabile! Il Principe e il Genio si annientarono probabilmente nella salute essenziale. Come avrebbero potuto non morirne? E infatti morirono insieme. Ma quel Principe spirò, nel suo palazzo, a un’età normale. Il Principe era il Genio. Il Genio era il Principe. Non c’è musica sapiente per il nostro desiderio. iLLuminazioni

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Parata Ecco dei furfanti molto robusti. Parecchi hanno sfruttato i vostri mondi. Liberi da bisogni, senza molta fretta di mettere in atto le loro brillanti facoltà e la loro esperienza delle vostre coscienze. Come sono maturi! Occhi inebetiti come la notte d’estate, rossi e neri, tricolori, d’acciaio picchiettato di stelle d’oro; facce deformi, livide, smorte, infuocate; raucedini allegre! Il passo crudele degli orpelli! – Ci sono alcuni giovani, – in che modo guarderebbero Cherubino? – provvisti di voci orribili e di qualche pericolosa risorsa. Li spediscono in città a fare esperienza, imbacuccati con un lusso rivoltante. Oh, il più violento Paradiso della smorfia furiosa! Non c’è paragone con i vostri Fachiri e le altre buffonerie sceniche. Con costumi improvvisati, col gusto dell’incubo, recitano compianti, tragedie di malandrini e di semidei spirituali come la storia o le religioni non sono mai state. Cinesi, Ottentotti, zingari, idioti, iene, Moloch, vecchie demenze, demoni sinistri, mescolano gli scherzi popolari, materni, con pose e tenerezze animalesche. Potrebbero interpretare nuove commedie e canzoni da «brave ragazze». Giocolieri eccezionali, trasformano il luogo e le persone e si servono di una finzione magnetica. Fiammeggiano gli occhi, canta il sangue, si allargano le ossa, scorrono lacrime e gocce rosse. Il loro scherno o il loro terrore dura un minuto, o anche mesi interi. Sono l’unico ad avere la chiave di questa parata selvaggia.

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Antico Grazioso figlio di Pan! Intorno alla tua fronte, tutta coronata di piccoli fiori e bacche, si muovono i tuoi occhi, sfere preziose. Le tue guance s’incavano, macchiate di feccia bruna. Scintillano le tue zanne. Il tuo petto somiglia a una cetra, tintinnii circolano nelle tue bionde braccia. Batte il tuo cuore in questo ventre dove dorme il duplice sesso. Su, passeggia di notte muovendo dolcemente questa coscia, poi la seconda coscia e la gamba sinistra.

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Being beauteous Alto davanti alla neve, ecco un Essere di Bellezza. Sibili di morte e cerchi di musica sorda fanno salire, allargarsi e tremare come uno spettro questo corpo adorato; ferite nere e scarlatte esplodono nelle carni superbe. I colori propri della vita si scuriscono, danzano e si scatenano intorno alla Visione, sul cantiere. E i brividi s’innalzano e rimbombano, e quando il sapore forsennato di questi effetti si somma con i sibili mortali e le rauche musiche che il mondo, lontano dietro di noi, scaglia sulla nostra madre di bellezza, – lei indietreggia, si alza. Oh! Un nuovo corpo innamorato riveste le nostre ossa.

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«Oh, il volto cinereo, lo scudo di crine» Oh, il volto cinereo, lo scudo di crine, le braccia di cristallo! Il cannone su cui devo avventarmi attraverso la mischia degli alberi e dell’aria leggera!

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Vite I Oh, gli enormi viali del paese santo, le terrazze del tempio! Che fine ha fatto il bramino che mi spiegò i Proverbi? Di allora, di laggiù, posso vedere ancora persino le vecchie! Ricordo le ore d’argento e di sole, dalle parti dei fiumi, la mano della mia compagna sulla spalla, le nostre carezze in piedi nelle pianure pepate. – Tuonando intorno ai miei pensieri, spicca il volo uno stormo di piccioni scarlatti. – Qui esiliato, ho avuto a disposizione una scena dove recitare i capolavori drammatici di tutte le letterature. Potrei indicarvi le ricchezze inaudite. Osservo la storia dei tesori da voi ritrovati. Vedo il seguito! La mia saggezza è disprezzata quanto il caos. Che cos’è il mio nulla, di fronte allo stupore che vi attende? II Io sono un inventore molto più meritevole di tutti i miei predecessori. Dirò di più: un musicista che ha trovato qualcosa come la chiave dell’amore. Ora, gentiluomo d’una campagna aspra sotto un cielo sobrio, tento di commuovermi al ricordo dell’infanzia mendica, dell’apprendistato o dell’arrivo con gli zoccoli, delle polemiche, delle cinque o sei vedovanze, e di alcune bisbocce, durante le quali la mia testa dura m’impedì di raggiungere il diapason dei miei compagni. Non rimpiango la mia vecchia porzione di allegria divina: l’aria sobria di quest’aspra campagna alimenta assai attivamente il mio atroce scetticismo. Ma siccome tale scetticismo non 204

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può essere ormai messo in atto, e io d’altronde sono dedito a un turbamento nuovo, – aspetto di diventare un pazzo molto cattivo. III In una soffitta, dove fui rinchiuso a dodici anni, ho conosciuto il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cantina ho imparato la storia. In certe feste notturne, in una città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei pittori antichi. In una vecchia galleria a Parigi mi hanno insegnato le scienze classiche. In una splendida dimora circondata dall’intero Oriente ho portato a compimento la mia immensa opera e ho trascorso il mio illustre ritiro. Ho rimescolato il mio sangue. Non ho più obblighi. Non occorre nemmeno pensarci più. Sono realmente d’oltretomba, e nessuna incombenza.

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Partenza Visto abbastanza. Si è trovata la visione sotto ogni cielo. Avuto abbastanza. Brusii di città, la sera, e al sole, e sempre. Conosciuto abbastanza. I ristagni della vita. – O Brusii e Visioni! Partenza nell’affetto e nel rumore nuovi!

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Regalità Un bel mattino, presso un popolo molto mite, un uomo e una donna stupendi gridavano sulla pubblica piazza: «Amici, voglio che lei sia regina!» «Voglio essere regina!». Lei rideva e tremava. Lui parlava con gli amici di una rivelazione, di una prova superata. Si stringevano l’uno all’altra in estasi. Effettivamente furono sovrani per tutta la mattinata, nella quale i tendaggi color carminio si sollevarono sulle case, e per tutto il pomeriggio, durante il quale camminarono dalle parti del giardino delle palme.

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A una ragione Un colpo del tuo dito sul tamburo scarica ogni suono e fa cominciare la nuova armonia. Un passo tuo è la leva degli uomini nuovi e l’inizio del loro cammino. Si gira la tua testa: il nuovo amore! La tua testa torna a girarsi: – il nuovo amore! «Cambia le nostre sorti, crivella i flagelli, il tempo innanzitutto», ti cantano questi bambini. «Solleva fin dove vuoi la sostanza delle nostre fortune e dei nostri voti», così ti si prega. Arrivata da sempre, te ne andrai dappertutto.

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Mattinata d’ebbrezza O mio Bene! O mia Bellezza! Fanfara atroce in cui non inciampo affatto! Cavalletto magico! Urrà per l’opera inaudita e per il corpo meraviglioso, per la prima volta! Tutto cominciò tra le risate dei bambini, e tutto finirà per loro. Questo veleno scorrerà nelle nostre vene anche quando, non essendoci più la fanfara, torneremo all’antica disarmonia. Oh, adesso noi, così degni di tali supplizi, raccogliamo con fervore questa sovrumana promessa fatta al nostro corpo e alla nostra anima creati: questa promessa, questa demenza! L’eleganza, la scienza, la violenza! Ci hanno promesso di seppellire nell’ombra l’albero del bene e del male, di portare via le tiranniche onestà, affinché noi possiamo vivere il nostro purissimo amore. Tutto cominciò con un po’ di disgusto e tutto finì, – non potendo impossessarci subito di questa eternità, – tutto finì con uno scompiglio di profumi. Risate dei fanciulli, discrezione degli schiavi, austerità delle vergini, orrore delle figure e degli oggetti di qui, siate consacrati dal ricordo di questa veglia. Cominciata in modo assai rozzo, ecco che finisce con angeli di fiamma e di ghiaccio. Breve veglia d’ebbrezza, santa! perlomeno per la maschera che ci hai donato. Noi crediamo in te, metodo! Noi non scordiamo che ieri tu hai glorificato tutte le nostre età. Abbiamo fede nel veleno. Sappiamo dare la nostra vita, intera, tutti i giorni. Questo è il tempo degli Assassini.

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Frasi Quando il mondo non sarà che un solo bosco nero per i nostri quattro occhi stupefatti, – una spiaggia per due bambini fedeli, – una casa musicale per la nostra chiara simpatia, – io vi troverò. Se quaggiù non ci sarà che un vecchio solitario, calmo e bello, circondato da un «lusso inaudito», – ecco, sarò subito alle vostre ginocchia. Se avrò realizzato tutti i vostri ricordi, – se sarò colei che sa legarvi strettamente, – io vi soffocherò. _____

Quando siamo molto forti, – chi indietreggia? molto allegri, – chi cade sotto il peso del ridicolo? Quando siamo molto cattivi, – che cosa ci meriteremmo? Adornatevi, danzate, ridete. Io non potrò mai gettare l’Amore dalla finestra. _____

– Compagna mia, mendicante, fanciulla prodigiosa! Non te ne importa nulla di queste disgraziate, e di queste manovre, e del mio imbarazzo. Attàccati a noi con la tua voce impossibile, la tua voce! L’unica lusinga di questa vile disperazione. _____

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Luglio. Mattinata nuvolosa. C’è un sapore di cenere nell’aria; – un odore di legna che trasuda nel camino, – i fiori macerati, – il disastro delle passeggiate, – l’umidità dei canali per i campi, – perché non i giocattoli e l’incenso a questo punto? _____

Ho teso delle corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e ora danzo. _____

L’alto stagno fuma in continuazione. Quale strega sta per apparire, ritta contro il bianco tramonto? Quale violetto fogliame sta per scendere? _____

Mentre i fondi pubblici si prosciugano in feste di fraternità, si ode suonare tra le nuvole una campana di fuoco rosa. _____

Ravvivando un piacevole sapore d’inchiostro di china, una nera polvere piove dolcemente sulla mia veglia. – Abbasso la fiamma della lampada, mi stendo sul letto, e, girato dalla parte dell’ombra, vi vedo, ragazze mie, mie regine! iLLuminazioni

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Operai Oh quella calda mattina di febbraio! Inopportuno, il Sud venne a risvegliare i nostri ricordi d’assurdi indigenti, la nostra giovane miseria. Henrika indossava una gonna di cotone a quadretti bianchi e bruni, di quelle che forse si usavano nel secolo scorso, una cuffia con nastri e un fazzoletto di seta. Era qualcosa di più triste di un lutto. Ce ne andavamo in giro per la periferia. Il tempo era nuvoloso, e quel vento del Sud sollevava i cattivi odori dei giardini devastati e dei prati disseccati. Tutto ciò non doveva stancare la mia donna quanto stancava me. Ella mi fece notare che in una pozzanghera, rimasta dall’inondazione del mese precedente su un sentiero abbastanza in alto, c’erano alcuni pesciolini davvero molto piccoli. La città, col suo fumo e i suoi rumori di telai, ci accompagnava molto lontano sui sentieri. Oh, l’altro mondo, l’abitazione benedetta dal cielo e dall’ombra del fogliame! Il Sud mi ricordava i miserabili incidenti della mia infanzia, le mie disperazioni estive, la terribile quantità di forza e di scienza che la sorte ha sempre tenuto lontano da me. No! non passeremo l’estate in questo paese avaro dove non potremo mai essere altro che degli orfani fidanzati. Questo braccio indurito non dovrà mai più portarsi dietro una cara immagine.

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I ponti Cieli grigi di cristallo. Un bizzarro disegno di ponti, alcuni diritti, altri ricurvi, altri ancora che scendono oppure obliqui ad angolo sui primi, e queste figure che si rinnovano negli altri circuiti illuminati del canale, ma tutti così lunghi e lievi che le rive, ricche di cupole, si abbassano e diventano più piccole. Alcuni di questi ponti sono ancora pieni di stamberghe. Altri sostengono pennoni, segnali, fragili parapetti. S’incrociano accordi minori, e subito scompaiono; salgono funi dagli argini. Si possono distinguere una giacca rossa, altri abiti forse, e strumenti musicali. Sono arie popolari, frammenti di concerti signorili, residui d’inni pubblici? L’acqua è grigia e blu, larga come un braccio di mare. Un raggio bianco, piombando dall’alto del cielo, annienta questa commedia.

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Città Sono un effimero, nemmeno poi tanto scontento, cittadino di una metropoli considerata moderna perché si è evitato di rispettare i gusti risaputi, tanto nell’arredamento e nelle facciate delle case, quanto nella pianta stessa della città. Qui non si può trovare traccia di testimonianze delle passate superstizioni. La morale e il linguaggio sono ridotti alla loro più semplice espressione, finalmente! Questi milioni di persone che non hanno bisogno di conoscersi portano avanti in modo così simile l’educazione, il lavoro e la vecchiaia, che il corso della loro vita deve essere molto meno lungo di quello che una folle statistica attribuisce ai popoli del continente. Così pure vedo, dalla mia finestra, nuovi spettri aggirarsi attraverso il denso ed eterno fumo di carbone, – la nostra ombra dei boschi, la nostra notte d’estate! – e novelle Erinni, davanti al villino che è la mia patria, che è tutto il mio cuore, poiché ogni cosa qui somiglia a tutto ciò, – la Morte senza pianto, nostra laboriosa figlia e serva, un Amore disperato e un grazioso Crimine che piagnucola nel fango della strada.

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Carreggiate A destra l’alba estiva risveglia le foglie e i vapori e i fruscii di quest’angolo del parco, e i pendii a sinistra contengono nella loro ombra violacea le mille rapide carreggiate della strada umida. Sfilata di fantasmagorie. Infatti: carri carichi di animali di legno dorato, di pennoni e di teli multicolori, al gran galoppo di venti cavalli pezzati da circo, e i bambini e gli uomini sulle loro bestie stupefacenti; – venti veicoli, abbozzati, imbandierati e fioriti come le carrozze antiche o quelle delle fiabe, pieni di fanciulli agghindati per una pastorale suburbana. – Anche delle bare sotto i loro baldacchini notturni, irte di pennacchi d’ebano, che corrono tirate da grandi giumente azzurre e nere al trotto.

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Città Sono città! È un popolo per il quale sono stati costruiti questi Alleghani e questi Libani di sogno! Villette di cristallo e legno si muovono su rotaie e pulegge invisibili. I vecchi crateri cinti di colossi e di palme di rame ruggiscono tra i fuochi in modo melodioso. Feste d’amore risuonano sui canali appesi dietro le villette. Il motivo di caccia dei carillon grida nelle gole. Corporazioni di cantori giganteschi accorrono con vestiti e orifiammi risplendenti come la luce delle vette. Sulle piattaforme in mezzo ai baratri gli Orlandi fanno risuonare la loro prodezza. Sulle passerelle dell’abisso e sui tetti delle locande l’ardore del cielo imbandiera i pennoni. Il crollo delle apoteosi raggiunge i campi delle alture dove serafiche centauresse si muovono agilmente qua e là tra le valanghe. Al di sopra del livello delle più alte creste, un mare agitato dalla nascita eterna di Venere, pieno di flotte di canto corale e del suono delle perle e delle conchiglie preziose, – il mare si scurisce talvolta con bagliori mortali. Sui declivi mugghiano mèssi di fiori grandi come le nostre armi e le nostre coppe. Cortei di Mab in vesti rossicce, opaline, risalgono i burroni. Lassù, tenendo le zampe nella cascata e nei rovi, i cervi poppano al seno di Diana. Le Baccanti delle periferie singhiozzano e la luna brucia e urla. Venere penetra nelle caverne dei fabbri e degli eremiti. Gruppi di campanili cantano le idee dei popoli. Una musica sconosciuta proviene da castelli costruiti in osso. Volteggiano tutte le leggende, gli alci si precipitano nei borghi. Crolla il paradiso delle tempeste. I selvaggi celebrano la festa della notte danzando incessantemente. Mi sono immerso per un’ora tra la folla in movimento di un viale di Bagdad, dove delle brigate hanno cantato la gioia del nuovo lavoro, al 216

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soffio di una brezza pesante, circolando senza poter evitare i favolosi fantasmi dei monti dove ci si è dovuti ritrovare. Quali buone braccia, quale bel momento mi renderanno quella regione da cui provengono i miei sonni e i miei movimenti più lievi?

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Vagabondi Povero fratello! Quante veglie terribili mi ha procurato! «Non mettevo molto fervore in quell’impresa. Mi ero preso gioco della sua malattia. Per colpa mia saremmo tornati in esilio, in schiavitù.» Credeva che io avessi una iella e un’innocenza molto bizzarre, e adduceva inquietanti ragioni. A quel satanico dottore io replicavo sogghignando, e poi me ne andavo alla finestra. Al di là della campagna, attraversata da strisce di musica rara, io creavo i fantasmi del futuro lusso notturno. Dopo questa distrazione vagamente igienica, mi stendevo su un pagliericcio. E quasi ogni notte, appena addormentato, il povero fratello si alzava, con la bocca imputridita e gli occhi cavati, – come lui stesso si vedeva in sogno! – e mi trascinava nella sala urlando il suo sogno di tristezza idiota. Infatti, in piena buona fede, avevo preso l’impegno di farlo tornare al suo primitivo stato di figlio del Sole – ed erravamo, nutriti del vino delle caverne e del biscotto della strada, e io non vedevo l’ora di trovare il luogo e la formula.

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Città L’acropoli ufficiale porta all’eccesso le più colossali concezioni della barbarie moderna. È impossibile descrivere la pallida luce proveniente da questo cielo costantemente grigio, lo splendore imperiale degli edifici, e la neve eterna del suolo. Con un gusto singolare dell’enormità, sono state riprodotte tutte le meraviglie classiche dell’architettura. Così assisto a mostre di pittura in locali grandi venti volte più di Hampton-Court. Che pittura! Un Nabucodonosor norvegese ha fatto costruire le scalinate dei ministeri; i subalterni che ho potuto vedere sono già più fieri che dei Brahma, e ho tremato alla vista dei guardiani dei colossi e dei funzionari edili. Raggruppando gli edifici attorno alle piazzette, ai cortili e alle terrazze chiuse, si sono soppiantati i cocchieri. I parchi raffigurano la natura primitiva rielaborata con arte superba. Il quartiere alto ha parti inesplicabili: un braccio di mare, senza navi, svolge la sua distesa di nevischio azzurro fra banchine piene di candelabri giganteschi. Un breve ponte conduce a una postierla immediatamente sottostante alla cupola della Sainte-Chapelle. Questa cupola è un’artistica armatura d’acciaio del diametro di circa quindicimila piedi. Da alcuni punti delle passerelle di rame, delle piattaforme, delle scalinate che circondano i mercati coperti e i pilastri, ho creduto di poter stimare la profondità della città! È il prodigio di cui non mi sono potuto rendere conto: quali sono i livelli degli altri quartieri sopra o sotto l’acropoli? Lo straniero del nostro tempo non può assolutamente riconoscerli. Il quartiere dei commerci è un circo di un solo stile, con gallerie ad arcate. Non si vedono botteghe, ma la neve del selciato è calpestata; alcuni nababbi, rari come quelli che escono a iLLuminazioni

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passeggio la domenica mattina a Londra, si dirigono verso una diligenza di diamanti. Qualche divano di velluto rosso: vengono servite bevande polari il cui prezzo varia da ottocento a ottomila rupie. All’idea di cercare teatri in questo circo, mi rispondo che le botteghe devono racchiudere drammi abbastanza foschi. Penso che ci sia una polizia. Ma la legge dev’essere talmente strana, che rinuncio a immaginare come possano essere gli avventurieri di qui. La periferia, elegante quanto una bella strada di Parigi, gode di un’aria più luminosa. L’elemento democratico conta qualche centinaio di anime. Nemmeno lì le case si susseguono; la periferia si perde bizzarramente nella campagna, la «Contea» che riempie l’occidente eterno delle foreste e delle piantagioni prodigiose dove gentiluomini selvaggi vanno a caccia delle loro cronache sotto la luce che è stata creata.

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Veglie I È il riposo illuminato, senza febbre né languore, sul letto o sul prato. È l’amico né ardente né debole. L’amico. È l’amata né tormentosa né tormentata. L’amata. L’aria e il mondo non cercati affatto. La vita. – Era dunque questo? – E il sogno si fa più fresco. II L’illuminazione ritorna all’albero della costruzione. Dalle due estremità della sala, scenari qualsiasi, elevazioni armoniche si congiungono. La parete di fronte a chi veglia è una successione psicologica di sezioni di fregi, di bande atmosferiche e di accidenti geologici. – Intenso e rapido sogno di gruppi sentimentali con esseri di ogni tipo in mezzo a tutte le parvenze. III Le lampade e i tappeti della veglia fanno il rumore delle onde, di notte, lungo lo scafo e intorno allo steerage. Il mare della veglia, come i seni di Amelia. Le tappezzerie, fino a metà altezza, boschetti di merletti color verde smeraldo, su cui si avventano le tortorelle della veglia. ................................................... La piastra del focolare nero, veri soli delle rive: ah! pozzi di magie; sola veduta d’aurora, stavolta. iLLuminazioni

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Mistico Sul pendio della scarpata gli angeli fanno ruotare le loro vesti di lana sulle erbe d’acciaio e di smeraldo. Prati di fiamme balzano fino alla cima del dosso. A sinistra il terriccio del crinale è calpestato da tutti gli omicidi e da tutte le battaglie, e tutti i rumori disastrosi disegnano velocemente la loro curva. Dietro il crinale di destra la linea degli orienti, dei progressi. E mentre la striscia in alto del quadro è formata dal rumore vorticoso e scattante delle conche marine e delle notti umane, la dolcezza fiorita delle stelle e del cielo e del resto scende dinanzi alla scarpata, come un paniere, – contro il nostro viso, e rende l’abisso profumato e azzurro là in basso.

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Alba Ho abbracciato l’alba d’estate. Sulla facciata dei palazzi ancora non si muoveva nulla. L’acqua era morta. Le zone d’ombra non abbandonavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e tiepidi, e le gemme guardarono, e le ali si levarono silenziosamente. La prima impresa fu, sul sentiero già ricco di freschi e pallidi bagliori, un fiore che mi rivelò il suo nome. Risi alla bionda cascata che si scarmigliò attraverso gli abeti: dalla cima argentata riconobbi la dea. Allora tolsi i veli ad uno ad uno. Nel viale, agitando le braccia. Nella pianura, dove l’ho annunciata al gallo. Nella grande città lei fuggiva tra i campanili e le cupole, e io, correndo come un mendicante sulle banchine di marmo, la inseguivo. Al sommo della strada, presso un bosco di allori, l’ho avvolta nei suoi veli raccolti, ed ho sentito un poco il suo immenso corpo. L’alba e il bambino caddero in fondo al bosco. Al risveglio era mezzogiorno.

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Fiori Da un gradino d’oro, – fra i cordoni di seta, le organze grigie, i velluti verdi e i dischi di cristallo che anneriscono come bronzo al sole, – vedo la digitale schiudersi su un tappeto di argentee filigrane, di occhi e di capelli. Monete d’oro giallo disseminate sull’agata, pilastri di mogano che sostengono una cupola di smeraldi, mazzi di raso bianco e sottili verghe di rubino circondano la rosa d’acqua. Simili a un dio dagli enormi occhi azzurri e dalle forme candide, il mare e il cielo attraggono alle terrazze di marmo la folla delle giovani e forti rose.

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Notturno volgare Un soffio apre brecce melodrammatiche nei tramezzi, – sconvolge la rotazione dei tetti corrosi, – disperde i limiti dei focolari, – eclissa le vetrate delle finestre. Lungo la vigna, dopo aver appoggiato il piede su una grondaia, – mi sono calato in questa carrozza la cui epoca si può facilmente evincere dai vetri convessi, dai pannelli bombati e dai divani modellati. Carro funebre del mio sonno, isolato, casa pastorale della mia stupidità, il veicolo gira sull’erba dello stradone cancellato: e in un’imperfezione del vetro di destra, in alto, girano pallide figure lunari, foglie, seni; – Un verde e un azzurro molto carichi invadono l’immagine. I cavalli vengono staccati nei pressi di una macchia di ghiaia. Qui si fischierà per la tempesta, e le Sodome – e le Solime, – e le belve feroci e gli eserciti, – (Postiglioni e animali di sogno riprenderanno sotto i fusti più soffocanti, per sprofondarmi fino agli occhi nella sorgente di seta) – E mandarci a rotolare, frustati attraverso le acque sciabordanti e le bevande sparse, sul latrato dei mastini... – Un soffio disperde i limiti del focolare.

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Marina I carri d’argento e di rame – le prue d’acciaio e d’argento – battono la schiuma, – sollevano i ceppi dei rovi. Le correnti della landa, e le immense carreggiate del riflusso, filano circolarmente verso est, verso i pilastri della foresta, – verso i fusti del molo, sul cui angolo si abbattono turbini di luce.

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Festa d’inverno La cascata precipita fragorosa dietro le capanne da opera comica. Girandole prolungano i verdi e i rossi del tramonto nei frutteti e nei viali vicini al Meandro. Ninfe d’Orazio pettinate alla Primo Impero, – Girotondi Siberiani, Cinesi di Boucher.

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Angoscia È possibile che Lei mi faccia perdonare le ambizioni continuamente schiacciate, – che una fine agiata compensi i periodi d’indigenza, – che un giorno di successo ci faccia addormentare sulla vergogna della nostra fatale incapacità? (O palme! diamante! – Amore, forza! – superiore ad ogni gioia, ad ogni gloria! – in tutti i modi, dappertutto, – demone, dio, – Giovinezza di questo essere: io!) Che gli incidenti di fantasmagoria scientifica e i movimenti di fratellanza sociale siano accolti con favore come restituzione progressiva della libertà primigenia?... Ma la Vampira che ci rende gentili ci ordina di spassarcela con quello che lei ci lascia, oppure di essere più bizzarri. Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria stancante e il mare; verso i supplizi, attraverso il silenzio delle acque e dell’aria micidiali; verso le ridenti torture, nella spaventosa burrasca del loro silenzio.

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Metropolitana Dallo stretto d’indaco ai mari di Ossian, sulla sabbia rosa e arancione che il cielo vinoso ha ripulito, poco fa sono saliti, incrociandosi, viali di cristallo abitati d’un tratto da giovani famiglie povere che si nutrono dai fruttivendoli. Niente di ricco. – La città! Dal deserto di bitume fuggono in disordine con i banchi di nebbia scaglionati in spaventose strisce nel cielo che si curva, indietreggia e scende, formato dal più sinistro fumo nero che possa produrre l’Oceano in lutto, gli elmi, le ruote, le barche, le groppe. – La battaglia! Alza la testa: quel ponte di legno, arcuato; gli ultimi orti di Samaria; quelle maschere dipinte sotto la lanterna sferzata dalla notte gelida; l’ondina ingenua dalla veste frusciante, laggiù lungo il fiume; quei crani luminosi tra le piante dei piselli – e le altre fantasmagorie – la campagna. Strade fiancheggiate da cancelli e muri, che a malapena contengono i loro boschetti, e i fiori atroci che verrebbe voglia di chiamare cuori e sorelle, Damasco dannante di lunghezza, – possedimenti di magiche aristocrazie ultra-renane, giapponesi, guaranesi, ancora adatte a ricevere la musica degli antichi – e ci sono locande che ormai non aprono più per sempre – e ci sono principesse e, se non sei troppo spossato, lo studio degli astri – il cielo. La mattina in cui con Lei vi dibatteste nello splendore della neve, quelle labbra verdi, i ghiacci, le bandiere nere e i raggi azzurri, e i profumi purpurei del sole dei poli, – la tua forza.

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Barbaro Tanto tempo dopo i giorni e le stagioni, e gli esseri e i paesi, La bandiera di carne sanguinolenta sulla seta dei mari e dei fiori artici; (non esistono). Ristabiliti dalle vecchie fanfare d’eroismo – che ancora ci attaccano il cuore e il cervello – lontano dagli antichi assassini – Oh! La bandiera di carne sanguinolenta sulla seta dei mari e dei fiori artici; (non esistono). Dolcezze! I bracieri che piovono sotto le raffiche di brina, – Dolcezze! – i fuochi nella pioggia del vento di diamanti gettata dal cuore terrestre eternamente carbonizzato per noi. – O mondo! – (Lontano dai vecchi rifugi e dalle vecchie fiamme che si odono, si sentono). I bracieri e le schiume. La musica, gorgo vorticoso e urto di ghiaccioli contro le stelle. O Dolcezze, o mondo, o musica! E là, le forme, i sudori, le chiome e gli occhi, fluttuanti. E le lacrime bianche, bollenti, – o dolcezze! – e la voce di donna giunta al fondo dei vulcani e delle grotte artiche. La bandiera...

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Liquidazione È in vendita tutto ciò che gli Ebrei non hanno venduto, ciò che né la nobiltà né il crimine hanno mai assaporato, ciò che l’amore maledetto e la probità infernale delle masse ignorano; ciò che non deve essere riconosciuto né dal tempo né dalla scienza; Le Voci ricostituite; il fraterno risveglio di tutte le energie corali e orchestrali e le loro applicazioni istantanee; l’occasione, unica, di lasciare liberi i nostri sensi! Sono in vendita i Corpi senza prezzo, al di fuori di ogni razza, di ogni mondo, di ogni sesso, di ogni discendenza! Le ricchezze che sgorgano ad ogni passo! Diamanti senza controllo in saldo! È in vendita l’anarchia per le masse; la soddisfazione irrefrenabile per i dilettanti superiori; la morte atroce per i fedeli e gli amanti! Sono in vendita le abitazioni e le migrazioni, sport, fantasmagorie e comodità perfette, e il rumore, il movimento e l’avvenire che essi producono! Sono in vendita le applicazioni di calcolo e i salti inauditi d’armonia. Le felici scoperte e i termini non immaginati, possesso immediato, Slancio insensato e infinito verso splendori invisibili, verso delizie insensibili, – e i suoi segreti sconvolgenti per ciascun vizio – e la sua gaiezza spaventosa per la folla. Sono in vendita i Corpi, le voci, l’immensa opulenza indiscutibile, tutto ciò che non si venderà mai. I venditori non hanno ancora esaurito la merce in saldo! I viaggiatori non devono consegnare la loro provvigione così presto!

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Fairy Per Elena tramarono insieme le linfe ornamentali nelle ombre vergini e le luci impassibili nel silenzio astrale. L’ardore dell’estate fu affidato a degli uccelli silenziosi e l’indolenza fu richiesta a una barca di lutti senza prezzo, in anse di amori finiti e profumi estenuati. – Dopo il momento dell’aria delle taglialegna al rumore del torrente sotto la rovina dei boschi, dello scampanio del bestiame all’eco delle valli, e dei gridi delle steppe. – Per l’infanzia di Elena rabbrividirono le pellicce e le ombre – e il seno dei poveri, e le leggende del cielo. E i suoi occhi e la sua danza, superiori persino ai preziosi bagliori, alle fredde influenze, al piacere dello scenario e dell’ora inimitabili.

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Guerra Quando ero bambino, certi cieli hanno affinato la mia ottica: tutti i caratteri sfumarono la mia fisionomia. I Fenomeni si agitarono. – Ora, l’inflessione eterna dei momenti e l’infinito della matematica mi perseguitano in questo mondo in cui subisco tutti i successi civili, rispettato dall’infanzia strana e dagli affetti immensi. – Penso ad una guerra, di diritto o di forza, di logica assolutamente imprevista. È semplice come una frase musicale.

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Giovinezza I Domenica Messi da parte i calcoli, l’inevitabile discesa dal cielo, la visita dei ricordi e la riunione dei ritmi invadono la dimora, la testa e il mondo dello spirito. – Un cavallo sfreccia nell’ippodromo suburbano, e lungo le coltivazioni e i rimboschimenti, spronato dalla peste carbonica. Una miserabile donna drammatica, in qualche parte del mondo, sospira per gli improbabili abbandoni. I desperados languiscono per la tempesta, l’ubriachezza e le ferite. Alcuni bambini soffocano maledizioni sulle sponde dei fiumi. Riprendiamo a studiare, al suono dell’opera divorante che si raccoglie e risale nelle masse. II Sonetto

Uomo di normale costituzione, la carne non era dunque un frutto appeso nell’orto (oh giornate bambine!), il corpo una ricchezza da dilapidare; oh amare, il pericolo o la forza di Psiche? La terra aveva versanti fertili di príncipi e di artisti, e la stirpe e la razza vi spingevano ai crimini e ai lutti: il mondo, vostra fortuna e vostro pericolo. Ma ora, compiuta questa impresa, tu, i tuoi calcoli, tu, le tue impazienze, non sono altro che la vostra danza e la vostra voce, non fissate e per niente forzate, nonostante una ragione d’un duplice avvenimento

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d’invenzione e di successo, nell’umanità fraterna e discreta per l’universo senza immagini; – la forza e il diritto rispecchiano la danza e la voce che solo adesso si apprezzano. III VentÕanni Le voci istruttive esiliate... L’ingenuità fisica amaramente acquietata... Adagio. Ah! l’egoismo infinito dell’adolescenza, l’ottimismo studioso: com’era ricco di fiori il mondo quell’estate! Le arie e le forme morenti... Un coro, per calmare l’impotenza e l’assenza! Un coro di vetri di melodie notturne... Infatti ben presto salteranno i nervi. IV Tu sei ancora alla tentazione di Antonio. Il divertimento dello zelo mozzato, i tic d’orgoglio puerile, la prostrazione e lo spavento. Ma ti applicherai a questo lavoro: tutte le possibilità armoniche e architettoniche si muoveranno attorno al tuo seggio. Esseri perfetti, imprevisti, si offriranno alle tue esperienze. La curiosità di antiche folle e di lussi oziosi affluirà sognante dalle tue parti. La tua memoria e i tuoi sensi non saranno altro che l’alimento del tuo impulso creativo. Quanto al mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto? In ogni caso, nulla delle attuali apparenze.

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Promontorio L’alba d’oro e la sera tutta brividi raggiungono il nostro brigantino al largo, di fronte a questa villa e alle sue dipendenze che formano un promontorio esteso quanto l’Epiro e il Peloponneso, oppure quanto la grande isola del Giappone, o quanto l’Arabia! Templi rischiarati dal ritorno delle processioni, immense vedute della difesa delle coste moderne; dune illustrate da caldi fiori e baccanali; grandi canali di Cartagine e banchine di una torbida Venezia; molli eruzioni d’Etna, e crepacci di fiori e di acque di ghiacciai; lavatoi circondati da pioppi di Germania; pendii di parchi singolari che fanno piegare cime d’Albero del Giappone; e le facciate circolari dei «Royal» o dei «Grand» di Scarborough o di Brooklyn; e le loro ferrovie fiancheggiano, scavano, dominano dall’alto le disposizioni in questo Hotel, scelte nella storia delle più eleganti e colossali costruzioni d’Italia, d’America e d’Asia, le cui finestre e terrazze adesso piene di illuminazioni, di bevande e di ricche brezze, sono aperte allo spirito dei viaggiatori e dei nobili – che permettono, nelle ore diurne, a tutte le tarantelle delle coste, – ed anche ai ritornelli delle valli illustri dell’arte, di decorare meravigliosamente le facciate del Palazzo-Promontorio.

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Scene La Commedia antica continua i suoi accordi e divide i suoi Idilli: Viali di teatrini smontabili per saltimbanchi. Un lungo molo di legno da un capo all’altro di un campo sassoso dove la folla barbarica va di qua e di là sotto gli alberi spogli. In corridoi di veli neri, seguendo i passi di chi cammina con lanterne e foglie. Uccelli di sacre rappresentazioni si abbattono su un pontone di muratura mosso dall’arcipelago coperto dalle imbarcazioni degli spettatori. Scene liriche accompagnate dal flauto e dal tamburo s’inclinano nei ridotti ricavati sotto i soffitti, intorno ai saloni dei club moderni o alle sale dell’antico Oriente. Lo spettacolo magico si svolge in cima ad un anfiteatro incoronato di boschi cedui, – oppure si agita e modula per i Beoti, all’ombra degli alberi d’alto fusto ondeggianti sul crinale delle colture. L’opera buffa si divide sulla nostra scena nella linea d’intersezione di dieci tramezzi eretti dalla galleria alle luci della ribalta.

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Sera storica In qualunque sera si trovi, ad esempio, il turista ingenuo, distante dai nostri orrori economici, la mano di un maestro anima il clavicembalo dei prati; si gioca a carte sul fondo dello stagno, specchio evocatore di regine e favorite; ci sono le sante, i veli, e i fili armonici, e i cromatismi leggendari, contro la luce del tramonto. Lui rabbrividisce al passaggio delle cacce e delle orde. La commedia sgocciola sul palcoscenico d’erba. E l’impaccio dei poveri e dei deboli su quegli stupidi piani! Schiava della sua visione, la Germania erige impalcature verso le lune; i deserti tartari si illuminano; le antiche rivolte brulicano nel centro del Celeste Impero; sulle scalinate e le poltrone di roccia, un piccolo mondo smorto e piatto, Africa e Occidenti, sta per edificarsi. Poi un balletto di notti e di mari conosciuti, una chimica di poco conto, e melodie impossibili. La stessa magia borghese in tutti i punti in cui la diligenza ci farà scendere! Il fisico meno preparato capisce che non si può più sottostare a quest’atmosfera personale, bruma di rimorsi corporei, la cui constatazione fa già male. No! Il momento della stufa, dei mari in burrasca, degli incendi sotterranei, del pianeta preso d’assalto, e dei conseguenti stermini, certezze indicate con così poca malizia nella Bibbia e dalle Norne e che all’essere serio sarà dato di sorvegliare. – Tuttavia non sarà per niente un effetto leggendario!

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Bottom Essendo la realtà troppo spinosa per il mio grande carattere, – mi trovai nondimeno a casa della Signora, trasformato in un grosso uccello grigioazzurro che si levava in volo verso le modanature del soffitto e trascinava l’ala nelle ombre della sera. Io fui, ai piedi del baldacchino che sosteneva i suoi adorati gioielli e i suoi capolavori fisici, un grosso orso dalle gengive violette e con il pelo reso bianco dal dolore, lo sguardo rivolto ai cristalli e agli argenti delle consolle. Tutto si fece ombra e acquario ardente. Al mattino, – era un’alba battagliera di giugno, – mi precipitai verso i campi, asino, strombazzando e brandendo il motivo della mia lamentela, finché le Sabine della periferia vennero a buttarsi sul mio petto.

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H Tutte le mostruosità violano i gesti atroci di Ortensia. La sua solitudine è la meccanica erotica, la sua stanchezza, la dinamica amorosa. Sotto la vigilanza di un’infanzia lei è stata, in diverse epoche, l’ardente igiene delle razze. La sua porta si apre alla miseria. Lì, la moralità degli esseri attuali si scorpora nella sua passione o nella sua azione – O brivido terribile degli amori novizi sul suolo insanguinato e nell’idrogeno brillante! Trovate Ortensia.

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Movimento Il movimento a zig-zag sul ciglio delle cascate del fiume, il gorgo al dritto di poppa, la ripidità del pendio, l’enorme flusso della corrente conducono attraverso le luci inaudite e la novità chimica i viaggiatori circondati dai turbini della valle e dai vortici dell’acqua. Sono i conquistatori del mondo, cercano una ricchezza chimica personale; lo sport e le comodità viaggiano con loro; portano con sé l’educazione delle razze, delle classi e degli animali, su questo vascello; riposo e vertigine alla luce torrenziale, nelle terribili serate di studio. Poiché dalla conversazione tra gli apparecchi, il sangue, i fiori, il fuoco, i gioielli, dai conti agitati su questa sponda fuggente, – si vede, rotante come una diga al di là della strada idraulica motrice, mostruoso, che si illumina senza posa, – il loro stock di studi; loro inseguiti nell’estasi armonica, e nell’eroismo della scoperta.

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Sotto gli accidenti atmosferici più sorprendenti, una coppia di giovani si isola sull’arca, – È forse antica selvatichezza che si può perdonare? – e canta e si apposta.

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Devozione A suor Louise Vanaen de Voringhem: – La sua cuffia azzurra girata verso il mare del Nord. – Per i naufraghi. A suor Léonie Aubois d’Ashby. Bau – l’erba d’estate ronzante e fetida. – Per la febbre delle madri e dei bambini. A Lulù, – demonio – che ha serbato un’inclinazione per gli oratori del tempo delle Amiche e della sua educazione incompleta. Per gli uomini! Alla signora ***. All’adolescente che fui. A questo santo vecchio, eremitaggio o missione. Allo spirito dei poveri. E ad un clero altissimo. Ed anche a tutti i culti, in un tale punto di culto memoriale e tra avvenimenti tali che occorre arrendersi, a seconda delle aspirazioni del momento o del nostro serio vizio. Stasera a Circeto dagli alti ghiacci, grassa come il pesce e colorita come i dieci mesi della notte rossa, – (il suo cuore ambra e spunk), per la mia sola preghiera muta come quelle regioni notturne e che precede prodezze più violente di questo caos polare. Ad ogni costo e con ogni aria, persino in viaggi metafisici. – Ma non più allora.

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Democrazia «Il vessillo si dirige verso il paesaggio immondo, e il nostro gergo soffoca il tamburo. Alimenteremo nei centri la più cinica prostituzione. Massacreremo le rivolte logiche. Nei paesi pepati e bagnati fradici! – al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali o militari. Arrivederci qui, non importa dove precisamente. Coscritti della buona volontà, avremo una filosofia feroce; ignoranti per la scienza, furbi per le comodità; la morte per il mondo che avanza. Questa è la vera marcia. Avanti, andiamo!»

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Arthur rimbAud

Genio Egli è l’affetto e il presente perché ha reso la casa aperta all’inverno schiumoso e al rumore dell’estate, lui che ha purificato le bevande e i cibi, lui che è il fascino dei luoghi fuggenti e la delizia sovrumana delle stazioni. Egli è l’affetto e l’avvenire, la forza e l’amore che noi, stando in piedi nelle rabbie e nelle noie, vediamo passare nel cielo di tempesta e nelle bandiere d’estasi. Egli è l’amore, misura perfetta e reinventata, ragione meravigliosa e imprevista, e l’eternità: adorata macchina delle qualità fatali. Tutti abbiamo avuto paura della sua concessione e della nostra: o godimento della nostra salute, slancio delle nostre facoltà, affetto egoista e passione per lui, lui che ci ama per la sua vita infinita... E noi lo ricordiamo e lui viaggia... E se l’Adorazione se ne va, risuona, risuona la sua promessa: «Indietro queste superstizioni, via questi corpi antichi, basta con queste coppie e queste età. Quest’epoca è finita, è colata a picco!». Egli non se ne andrà, non tornerà a scendere da un cielo, non compirà la redenzione delle collere delle donne e delle allegrezze degli uomini e di tutto questo peccato: tutto è compiuto, infatti, visto che lui c’è, ed è amato. Oh, i suoi respiri, le sue teste, le sue corse; la terribile celerità della perfezione delle forme e dell’azione. Oh, fecondità dello spirito e immensità dell’universo! Il suo corpo! La liberazione sognata, lo spezzarsi della grazia attraversata da nuova violenza! La sua vista, la sua vista! Tutte le antiche genuflessioni e i dolori alleviati per effetto della sua presenza. La sua luce! L’abolizione di tutte le sofferenze sonore e instabili nella musica più intensa. iLLuminazioni

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Il suo passo! Le migrazioni più grandiose delle antiche invasioni. Oh, lui e noi! L’orgoglio più benevolo delle carità perdute. Oh, mondo! E il canto chiaro delle nuove sciagure! Egli ci ha conosciuti tutti, e tutti ci ha amati. Questa notte d’inverno, da un promontorio all’altro, dal polo tumultuoso al castello, dalla folla alla spiaggia, di sguardo in sguardo, esauriti i sentimenti e le forze, dobbiamo essere capaci di invocarlo e vederlo, e scacciarlo, e sotto le maree e in alto, sui deserti di neve, seguire i suoi sguardi, il suo respiro, il suo corpo, la sua luce.

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Arthur rimbAud

Arthur Rimbaud e il suo tempo

LA VITA E LE OPERE

STORIA, ARTE, SCIENzA E LETTERATURA

1854

20 ottobre: Jean Nicolas Arthur nasce a Charleville, nelle Ardenne, secondogenito di cinque figli, da Vitalie Cuif e Frédéric Rimbaud, capitano dell’esercito.

16 ottobre: nasce a Dublino Oscar Wilde. La Francia estende la sua presenza coloniale nell’Africa occidentale a partire dal Senegal.

1862-1865

Studia all’Istituto Rossat: vince 1863: a Parigi nasce il Salon des tredici premi e si guadagna undici Refusés: Manet dà scandalo con Colazione sull’erba. note di merito.

1865-1869

Compie gli studi al collegio municipale di Charleville. 1869: la rivista «Moniteur de l’Enseignement Supérieur» pubblica uno dei suoi componimenti latini.

1866: escono Delitto e Castigo di Dostoevskij e Poesie saturnine di Verlaine. 1867: muore il poeta Charles Baudelaire.

1870

«La revue pour tous» pubblica la poesia Le strenne degli orfani. Scrive Sensazione, Ofelia e Credo in unam. Viene incarcerato a Mazas per non aver pagato un biglietto del treno.

19 luglio: Luigi Napoleone III dichiara guerra alla Prussia. Jules Verne pubblica Ventimila leghe sotto i mari. 5 settembre: arrestato Napoleone III, cade l’Impero francese.

1871

Aprile: a Parigi frequenta gli ambienti letterari e si lega a Paul Verlaine (1844-1896) 15 maggio: scrive all’amico Paul Demeny la famosa Lettera del veggente, nella quale espone la sua visione della poesia. Scrive la poesia Il battello ebbro.

1° gennaio: Charleville è occupata dalle truppe tedesche. 18 marzo – 28 maggio: governo democratico-socialista della Comune di Parigi. Émile zola pubblica La fortuna dei Rougon, il primo romanzo dei “Rougon-Macquart”.

1872-1873

1872: fugge in Belgio e a Londra con Verlaine, di cui è innamorato. Eccessi e sregolatezze. Scrive Vocali e molte poesie raccolte in Ultimi versi, è una nuova poetica. 1873, 10 luglio: a Bruxelles, Verlaine gli spara due colpi di pistola e lo ferisce a un polso. Finisce in ospedale, mentre Verlaine viene arrestato. Ottobre: l’editore Jacques Poot di Bruxelles pubblica Una stagione all’inferno.

1872: Verlaine pubblica Ariette dimenticate, vicine alla nuova poetica di Rimbaud. Muore il poeta romantico Théophile Gautier. Nietzsche pubblica La nascita della tragedia. 1873: Claude Monet dipinge il quadro I papaveri. Nasce in Russia il musicista Sergej Rachmaninov. 22 maggio: muore a Milano Alessandro Manzoni.

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poesie – una

stagione aLL’inferno

– iLLuminazioni

LA VITA E LE OPERE

STORIA, ARTE, SCIENzA E LETTERATURA

1875

Parte per Stoccarda, dove riceve la visita di Verlaine, uscito di prigione. Qui gli consegna le Illuminazioni. Prosegue il “vagabondaggio”: in Italia soggiorna a Milano.

Quindici paesi europei adottano il sistema metrico decimale. 3 marzo: a Parigi è rappresentata la prima della Carmen di Bizet. Muore il pittore Jean-BaptisteCamille Corot.

1876

Si arruola nell’esercito olandese e salpa per Batavia (Giacarta, in Indonesia). Circa un mese dopo diserta e torna in Francia.

Proclamazione della Costituzione della Terza Repubblica. Stéphane Mallarmé pubblica Il pomeriggio di un fauno, opera fondamentale del simbolismo.

1878

17 novembre: scrive una lettera ai suoi familiari in cui racconta del suo viaggio a Genova. Muore il padre.

Thomas A. Edison brevetta la lampadina elettrica. Hector Malot pubblica il romanzo Senza famiglia.

1879

Torna in patria affetto da tifo. All’amico d’infanzia Delahaye conferma di aver chiuso definitivamente con la letteratura.

Luigi Capuana pubblica il primo romanzo verista, Giacinta. Louis Pasteur scopre la vaccinoprofilassi.

1880

Lascia la Francia per trascorrere un decennio fra Harar (Etiopia) e Aden (Yemen), occupato in vari commerci, anche di armi.

Muore lo scrittore Flaubert. Per la prima volta si celebra la festa della Bastiglia: la “marsigliese” diventa l’inno nazionale.

1883

Verlaine pubblica, a insaputa di Nasce lo scrittore Franz Kafka. Rimbaud, alcune poesie, fra cui Muore a Parigi il pittore Édouard Manet. Il battello ebbro.

1886-1888

Nelle edizioni di «La Vogue», Verlaine pubblica le prose con il titolo Illuminazioni. 1888: Verlaine lo include nell’antologia I poeti maledetti.

1886: Stevenson pubblica Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. 1888: Vincent Van Gogh si trasferisce ad Arles in Provenza.

1888-1891

1888: rinuncia al traffico di armi e apre un’agenzia commerciale. 1891: torna in Francia per farsi curare un cancro a una gamba. 10 novembre: muore a Marsiglia. Viene sepolto a Charleville. Verlaine pubblica Ultimi versi e, solo nel 1895, le Poesie complete.

1889: Menelik diventa imperatore dell’Etiopia. Il ministro della guerra Boulanger tenta un colpo di stato, fallito. 1891: esce Myricae di Pascoli. George Stoney teorizza l’esistenza degli elettroni.

arthur rimbaud e iL suo tempo

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Indice

Le 10 parole chiave di Alessandro Quattrone ................ 5 POESIE ....................................................................27 Le strenne degli orfani ...........................................29 Sensazione.............................................................33 Sole e carne ............................................................34 Ofelia....................................................................40 Il ballo degli impiccati ............................................42 Il castigo di Tartufo ................................................44 Il fabbro ................................................................45 «Morti del Novantadue e del Novantatré»................52 Alla musica ...........................................................53 Venere Anadiomene ..............................................55 Prima sera .............................................................56 Le repliche di Nina ................................................58 Gli sbigottiti ..........................................................63 Romanzo ..............................................................65 Il male ...................................................................67 Furie di Cesari .......................................................68 Sognato per l’inverno .............................................69 Dorme un uomo nella valle.....................................70 All’Osteria Verde alle cinque di sera .........................71 La maliziosa ..........................................................72

La splendida vittoria di Saarbrücken riportata al grido di viva l’Imperatore!....................................73 La credenza ...........................................................74 I miei vagabondaggi (Fantasia) ...............................75 I seduti ..................................................................76 Testa di fauno ........................................................78 I doganieri .............................................................79 Preghiera della sera ................................................80 Canto di guerra parigino ........................................81 Le mie piccole innamorate .....................................83 Il buonuomo si accovaccia ......................................85 I poeti di sette anni .................................................87 I poveri alla messa ..................................................90 Il cuore derubato ...................................................92 L’orgia parigina ovvero Parigi si ripopola ................93 Le mani di Jeanne-Marie .......................................97 Le suore di carità .................................................100 Vocali ..................................................................102 «La stella piange rosa nel cuor delle tue orecchie» ................................................103 «Il Giusto stava dritto sui suoi fianchi robusti» .......104 Quel che si dice al poeta riguardo ai fiori ...............107 Le prime Comunioni ...........................................114 Le cercatrici di pidocchi .......................................120 Il battello ebbro ...................................................121 Lacrima ..............................................................125 Il fiume di Cassis .................................................126 Commedia della sete ............................................127 1. Gli avi.........................................................127 2. Lo spirito .....................................................128 3. Gli amici .....................................................128 4. Il povero sogno .............................................129

5. Conclusione..................................................130 Buon pensiero mattutino ......................................131 Feste della pazienza..............................................132 Bandiere di maggio...........................................132 Canzone della torre più alta ..............................133 L’eternità ........................................................134 L’età dell’oro ...................................................135 La giovane coppia di sposi ....................................138 Bruxelles .............................................................139 «È forse almèa?... Alle prime ore azzurre» ..............141 Feste della fame ...................................................142 «Che importa a noi, mio cuore, di quei laghi di sangue»....................................................144 «Senti come bramisce» ..........................................146 Michele e Cristina ...............................................147 Vergogna .............................................................149 I corvi .................................................................150 Memoria .............................................................151 «Oh stagioni, oh castelli!»......................................154 «Tra le foglie urlava il lupo» ...................................155 UNA STAGIONE ALL’INFERNO .......................157 «Una volta, se non ricordo male» ...........................159 Cattivo sangue.....................................................160 Notte infernale ....................................................168 Deliri I.Vergine folle ............................................171 Deliri II. Alchimia del verbo ................................176 «Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine .......177 «D’estate, alle quattro del mattino» ....................177 Canzone della torre più alta ..............................179 Fame...............................................................180

«Tra le foglie urlava il lupo»...............................180 «È ritrovata, infine!» ........................................181 «Oh stagioni, oh castelli!»..................................183 L’impossibile ......................................................184 Il lampo ..............................................................186 Mattino...............................................................187 Addio .................................................................188 ILLUMINAzIONI ................................................191 Dopo il diluvio ....................................................193 Infanzia...............................................................195 Fiaba...................................................................199 Parata .................................................................200 Antico.................................................................201 Being beauteous ..................................................202 «Oh, il volto cinereo, lo scudo di crine» ..................203 Vite .....................................................................204 Partenza ..............................................................206 Regalità...............................................................207 A una ragione ......................................................208 Mattinata d’ebbrezza ...........................................209 Frasi ...................................................................210 Operai ................................................................212 I ponti .................................................................213 Città ...................................................................214 Carreggiate .........................................................215 Città ...................................................................216 Vagabondi ...........................................................218 Città ...................................................................219 Veglie ..................................................................221 Mistico ...............................................................222

Alba....................................................................223 Fiori ....................................................................224 Notturno volgare .................................................225 Marina ................................................................226 Festa d’inverno ....................................................227 Angoscia .............................................................228 Metropolitana .....................................................229 Barbaro ...............................................................230 Liquidazione .......................................................231 Fairy ...................................................................232 Guerra ................................................................233 Giovinezza ..........................................................234 I. Domenica .....................................................234 II. Sonetto ......................................................234 III. Vent’anni...................................................235 IV. «Tu sei ancora alla tentazione di Antonio»....235 Promontorio........................................................236 Scene ..................................................................237 Sera storica ..........................................................238 Bottom................................................................239 H ........................................................................240 Movimento .........................................................241 Devozione ...........................................................243 Democrazia .........................................................244 Genio..................................................................245 Arthur Rimbaud e il suo tempo.................................247