Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli 8873814948, 9788873814948

“Esiste la storia di coloro che sono stati vittime del fascismo, del nazismo o del comunismo; ed esiste quella di coloro

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Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli
 8873814948, 9788873814948

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PIERO BUSCARGLI

UNA NAZIONE IN COMA Dal

1793,

due secoli

Minerva Edizioni

PIERO BUSCARGLI

UNA NAZIONE IN COMA DAL 1793, DUE SECOLI

Minerva Edizioni

CLESSIDRA

Collana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

UNA NAZIONE IN COMA

DAL 1793, DUE SECOLI

Piero Buscaroli

Direzione editoriale: Roberto Mugavero

Impaginazione: Paolo Tassoni

L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli. Lo stesso resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto.

Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con

qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright.

© 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione 2013

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi.

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

ISBN 978-88-7381-697-3

Minerva edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO)

Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: [email protected]

Sommario

Memoria e memorie

Lettera a un "preside" Revisionista in Vandea: Charette, l’eroe proibito

Il Re di Vandea • “La grande armata cattolica” Le prime vittorie • Il mémorial de Vendée Meridiani e paralleli. La speranza che risplende in un attimo...

Chi ha ucciso l’i talia?

Poteva l’Italia restare neutrale? • Pietromarchi chiarisce... •... e Gerbore completa • Il blocco inglese • Quella “pugnalata alla schiena” • Dopo la guerra • Lina landa squallida • Usi e costumi intellettuali • Perché gli italiani sono antipatici • I vigliacconi del PCI • Il nostro e altri mondi • La “conquista dello spazio” • Così finisce l’Italia • La manna democristiana • Spettacolo indecente • Fascismo misterioso e incompiuto • La storia che scotta • Misera giovinezza di un misero Stato • Un Presidente “pericoloso” • L’America “vittoriosa" Il SOLO VINCITORE:

HO CHI M INH

Il suicidio dello Stato

1963: lo Stato a pezzi • Paolo VI, l’Italia e il comuniSmo • Le signore nello spazio • Lo Stato suicida • Sudiciume a Trento • E

adesso è arrivata la macellazione statale dei corpi umani • Un regime di emergenza • Se il Fiihrer esce dagli armadi... Ventennio mortale

1947-1967: Anniversario del Trattato di Pace • Le braghe calate sulla storia del marxismo • Guerra e pace fra tragedie e farse • «Contra Sapientes» • Che sfortuna morire a Dallas • Con Mao o senza... • Per un milione di dollari • La «Rivoluzione Culturale»: le origini. 1789-1794 • Lo sbaglio di Svetlana • Perché querelo Bocca Maestri, amici

Soffici • Leo Longanesi • Disgustato dall’antifascismo • Il primo revisionista • Toscanini e Longanesi • Le agonie di Cardarelli • Giovanni de Vergottini • Messina, l’unico • Ettore Paratore • Ancora Paratore, ovvero: come non diventai accademico dei Lincei • Mario Praz «Jacques Benoist-Méchin, uno scrittore tra Proust e Hitler • Stalingrado, un sortilegio • Due ritratti dalle Memorie di Jacques Benoist-Méchin: Proust, 1922 • Hitler, 1941 Il mio Vietnam

Il generale Walters • Il maresciallo Ky e Silvio di Saigon • «Hué Antiques» • Agonia e morte di M.me Escalation... •... e intanto arriva l’eroica Contessa • Portolano asiatico La punizione del vinto

E Churchill disse: distruggete l’Italia • Riaprire le sigillate carte, infangare gli assassini. Sangue di cosacchi. Viltà d’inglesi • Quando Amburgo bruciò come Gomorra • Gli anticomunisti

mandati al macello • Dresda, una Auschwitz scesa dal cielo • L’infamia nella valle della Drava Dalmazia uccisa e perduta

Zara, la rovina infame • Qui si svende • L’assassinio della Dalmazia • La grande Serbia. Il mito infranto • Olivi senza zecchini • Il partigiano caccia il leone • Il mostruoso mosaico • Qui c’era gente che pensava e sognava in latino Manuale per il coma eterno Indice dei nomi

A mia figlia Beatrice

MEMORIA E MEMORIE

Le memorie. Perché, per chi si scrivono. Per vanità, suggerì Giuseppe Prezzolini che a 94 anni se ne sentiva crescere delusi rimorsi; mi aveva mandato nel 1976 l’appena suo stampato carteggio con don Giuseppe De Luca: «L’autobiografia è l’ultimo dei generi letterari, sorge quando si finisce per pensare a se stessi, l’egoismo dei vecchi non è un vizio, è un’autodifesa come l’incoscienza dei bambini. Ora, tu lo vedi, mi piace parlare di me». La dedica di Prezzolini insisteva: «Carissimo amico, autore, ancoratore», la parola desueta mi rammentava il ruolo di rammentatore del suo passato che tante volte avevo tenuto con lui, «d’uno che fissa il vascello perché presenti una fiancata al vento e si possa cannonare meglio», e ora ribatteva il dovere che m’ero assunto, ventenne, di strappare dalla spoglia del latinista mio padre, che intanto era morto a Venezia il 15 Febbraio 1949, la condanna per “concorso morale in omicidio” che una corte d’assise di partigiani bolognesi aveva emesso nel 1946. Questa sozzura era stata, come allora si diceva, cassata, ossia buttata nel pattume, molti anni più tardi, con le sozzure compagne. Il suo grado di professore di “latino e greco” era già stato restituito al Babbo nel licei classici, anzi, nel virgiliano sommo, di Mantova.

Erano favole e progetti nati nel ministero amico, non vendicativo, ma privo di forze e di mezzi. La famiglia si sgretolava, un pezzo dopo l’altro; il Babbo, rinchiuso in uno dopo l’altro di carceri diversi. A Bologna, erano in dodici in una sola cella fatta per cinque; col Babbo erano pigiati tre generali dell’Esercito repubblicano e della GNR, un colonnello tedesco e poi questori, prefetti; l’ex direttore del “Carlino” Giorgio Pini, che presto rivelò d’essersi distaccato dai compagni vinti e incline ad un passaggio coi “vincitori” del PSI. La mamma, valentissima insegnante d’inglese, era “epurata”: guadagnava in decine di lezioni la vita per tutti noi, liberi e carcerati. La casa che lei e il Babbo avevano eretto nel 1936, ci era stata tolta per metà, la mamma costretta a lavare le stoviglie in una stanza qualunque, donne di servizio non ne avemmo più, non si poteva permettere che la sposa di un carcerato avesse aiuti dal popolo lavoratore. Rimase sola con la Paola, la mia sorella dolce e fragile, nel mezzo appartamento che la “Commissione degli alloggi” ci aveva lasciato.

*** La Roma “liberata” in cui lo zio Mario De Bernardi mi condusse alla fine del Maggio 1945 era uno spettacolo sguaiato e insieme affascinante, una fetta di cattivo partitismo variante, rissoso, trafficone. E lui tentava di cavare fuori da quel ch’era ridotta l’aviazione italiana qualche rottame, si esibiva nella sua bravura di progettista acrobata e collaudatore; riuscì a progettare e a far volare una coppia di monoplani da turismo,

sognava di rimettere nel cielo una nuova modesta Italia. Fu ucciso di gioia, molti anni più tardi, il giorno di presentare a una piccola folla la sua conquista: che rimase intatta, a terra il motore ben avviato mentre l’aviatore, dopo anni di fatica, chinava la testa ucciso dall’infarto su comandi ormai inutili. Mi portò in volo, negli anni che seguirono, con sua figlia Fiorenza, tuttora vivente, che aveva guadagnato i gradi di “comandante”.

*** I De Bernardi abitavano dove la via Panama, confinaria del quartiere ch’era detto di Villa Savoia, raccoglieva la più breve via Lima e si slanciava verso la via Salaria nella corsa al piccolo aeroporto ch’era detto ancora “del Littorio” e ora s’intitola a lui, il mio comandante. Dalla parte opposta, da via Veneto a via Piave, alla fine di via Sicilia (non so se sia dopo sessant’anni uguale) sorgeva la mole azzurrina del liceo Tasso che aveva dovuto prendersi anche i nomi e le funzioni di quel che s’era chiamato “Regina Elena” in viale Parioli, trasformato dai liberatori americani in un loro rumoroso deposito. La mia “prima Liceo” era un curioso e bizzarro agglomerato di quattro ragazze e una quarantina di maschi. Il più anziano era fuggito dalla Lombardia dov’era stato nella Guardia nazionale. Facevamo lunghe passeggiate a piedi, nostro ritrovo divenne il convento di San Giuseppe in via Nomentana, covo di fascisti latitanti e tedeschi, e, dall’altra parte della grande via, l’ampia

casa accogliente dell’ingegner Landi, e poi di suo figlio Pietro. Preside del “Regina Elena” era un professore di greco, siciliano tutto scatti, che si chiamava Beniamino Stumpo. Benché “epurata”, la mamma volle conoscere questo mio preside che la ricevè, mi pare, in una delle feste di Natale. Il preside Stumpo risultò lettore e estimatore del Babbo, ricordò subito II Libro di Didone e altri titoli, apprese con una costernazione, «prossima alle lagrime», disse poi la mamma, quel destino politico che aveva colpito il Babbo. Una visita ai registri della scuola, che il preside fece portare, la persuasero che nella casa degli zii non facevo proprio niente. In un raduno romano del 1996, dedicato alla spudorata persecuzione che questa repubblica infame tenne lungo quattro decenni col quasi centenario Erich Priebke, venne a conoscermi il professor Silvio Vita, figlio di una ragazza ch’era stata una delle mie quattro compagne della prima liceale di quella scuola, e mi raccontò le imprese, dall’autore dimenticate, di colui ch’era chiamato, nei dintorni di via Sicilia, “il terrore del Tasso”.

*** Né al preside Stumpo, né a mia madre avrei mai potuto raccontare che cos’era stata, che cosa rappresentava per me, non ancora quindicenne, la scoperta di Roma, ché tale conoscenza era diventata la mia sola occupazione quotidiana. Il binario del “4” a Piazza Ungheria era la mia stazione dei prodigi. Viale Parioli e via Panama erano sbaragliati da un tratto di “circolare”, ora rossa, ora nera, che con trenta centesimi e tanti

altri antichi e nuovi convogli saliva sui colli, lambiva i fiumi, accarezzava le guance degli antichi poeti, sfiorava le terme, rivelava prodigiose femmine e basiliche ascose. Baroni o Barone si chiamava l’insegnante di greco, Razzetto avevamo ribattezzato il velocissimo saltellante insegnante di italiano e latino; Chellini o Chellino, zoppo, coi baffoni neri e la faccia di un buon mangiafuoco, c’istruiva, quando ci riusciva, nelle matematiche; della “Bonifazi” che c’insegnava la storia dell’arte tutti mormoravano che fosse prediletta allieva di un prodigio di rivelazione chiamato Longhi; una grande scuola, insomma, che dell’animo mio s’era preso un angolo così piccolo, che l’estate del 1946 provocò nella mamma la decisione di privarmi di quel museo unico al mondo e riportarmi tra le pietre e i sassi dimoia orribile. La decisione di ricondurmi alle aggredite e sbocconcellate dimore trovò in quei giorni una curiosa concordia del Babbo allora dimorante nelle galere di San Giovanni in Monte, con la mamma, libera disperata e forse sperante in un impossibile appoggio di famiglia. «Gaetano Pieraccini è da molto tempo Sindaco di Firenze», scrisse il Babbo in una lettera alla mamma che, chissà da quanto tempo rimuginava la tentazione di chiedere un aiuto allo zio. Già, perché il nuovo Sindaco socialista di Firenze, Gaetano Pieraccini (n. 1864), poi senatore, aveva sposato 1’amatissima sorella di sua madre. Mandare me a conoscerlo in Palazzo Vecchio, in una sosta dei viaggi tra Roma e casa, non mi sembrò allora e non mi sembra neppure oggi un’idea geniale. Nulla ricordo di quanto tentai per accontentare la mamma, neppure la

salita sulla stretta scala che menava allo studio del medico e sindaco famoso («Ha una testa beethoveniana», ammiravano). Fui introdotto nello studio da due dignitari con le brache corte; «E così, tu saresti Pierino, il figliuolo dell’Anna», cominciò confidenziale, quasi motteggiando; si fece confermare che il Babbo «ora è in prigione»; rievocò soddisfatto i litigi che gli avevano imposto “i fascisti”: «Oh, se n’avete fatte, se n’avete fatte...» mi guardava di sotto le lenti, di tanto in tanto, e non s’accorse a tempo che il nuovo nipote (non ricordo se avessi ancora, quel giorno, i calzoncini corti) sfilava fuori dal seggiolone dove l’avevano issato e, inseguito, invano, dalle grida degli uscieri «0 che fa, o che fa, ritorni subito dal Sindaco» ecc., scendeva svelto la stretta scala, senza neppur smettere di correre in Piazza della Signoria. «È stato il tuo incontro con la democrazia», mi consolò mezz’ora dopo la voce d’un altro zio, Giorgio Falorsi, già governatore di Derna dopo la prima conquista; «Coraggio, Pierino, ti ci vorrà d’averne, ma tieni duro». Glielo promisi, tenni duro. Del grande Sindaco nessuno più parlò in casa nostra. Tenni duro mezzo secolo, fino a questa vecchiaia.

Lettera a un "preside”

Venne l’ora d’iscriversi alla scuola, la seconda del Liceo Classico “Benvenuto Rambaldi” che mio padre aveva fondato. Il fascistone orribile e rosso che la governava dichiarò che mai avrebbe accettato nel suo Liceo quel giovane fascista. E la mamma gli scrisse: «Egregio Signor Preside, sono ormai avvezza a lottare in ogni modo e spero di poter resistere finché la necessità lo richiede! Il vedermi in questa dura mia lotta ostacolata da chi per la sua posizione potrebbe aiutarmi, mi addolora e per questo non trovai parole da rispondere a tutto quello che Ella mi disse l’ultima volta che venni al Liceo: oggi, dopo aver meditato sulla conversazione che ebbi con Lei sabato scorso, Le confermo che non rinuncio a iscrivere mio figlio alla II classe del nostro Liceo; di quel Liceo che mio Marito sedici anni fa ottenne di costituire, nonostante le contrarietà dei tanti che lo ritenevano inutile a Imola. Ne godeva pensando che suo figlio non sarebbe stato esposto un giorno ai pericoli che correvano i ragazzi fino allora costretti al viaggio quotidiano a Bologna o a Faenza. Se Lei avrà le sue ragioni per rifiutare l’iscrizione di Piero, vorrà avere la cortesia di comunicarmele per scritto. Non sono mossa da un puntiglio stupido in questo mio proposito. Considerazioni di carattere morale ed economico e ragioni di affetto mi indurranno, credo, a tale iscrizione.

Lei mi ha fatto considerare il pericolo che esiste per il mio figliuolo e, fin qui, non avrei potuto altro che esserle grata: ma che cosa devo pensare quando Lei dice di esser pronto a tirar fuori dai cassetti della presidenza, al primo disturbo che il ragazzo possa recare, i documenti che comprovano i suoi sentimenti fascisti? Documenti che Lei conserva, dunque, come ricatto e minaccia? Io non posso, né voglio negare che quella fa la fede sincera del mio ragazzo: se lo negassi, offenderei lui e offenderei suo padre che da sedici mesi sconta, come Lei sa, la sua fede. Se in periodo repubblicano, io vidi i pericoli più chiaramente di lui, non posso con ciò negare la sua buonafede. Ma io Le domando se esistono solo i documenti che provano la fede di mio figlio, o se non crede che tutte le scuole di questa povera nostra Italia siano piene di documenti di fede fascista, dai componimenti dei ragazzi, ai discorsi dei loro insegnanti e presidi...» 21 Settembre 1946 Qualcuno che io mai conobbi di persona fece stampare in ciclostile come allora usava, centinaia di copie di questa lettera fiera di mia madre; cassetti della presidenza furono frugati e divelti. Le carte e le vecchie tessere littorie sparpagliate fino in fondo ai cessi accanto all’ingresso sulla strada. Tutto ciò fu compiuto in una notte sulla fine di Settembre; insulti e minacce al “vecchio traditore”invasero le sale, scritte sconce vergate sugli usci del suo ufficio. Il preside Manlio Mariani letteralmente scomparve dal Liceo, il suo posto fu preso dal vice-preside, il farmacista Bortolotti. «Così cominciamo a vendicarci», scrisse un mio nuovo amico: suo fratello divenne il parroco di Sant’Agata, dove fece costruire per

me un nuovo organo. Divenne poi il “difensore del vincolo” nel Tribunale ecclesiastico di Bologna e trent’anni più tardi cardinale.

REVISIONISTA IN VANDEA CHARETTE, L’EROE PROIBITO

Quelli che scelsero Aleksandr Solgenitsin per inaugurare il Memorial de Vendée sapevano che cosa facevano e perché. I ricordi dell’ultima guerra mondiale, dell’Indocina, le stragi del Cambogia, i fasti del comuniSmo universale impallidiscono come imitazioni davanti agli originali. Qua fu applicato per la prima volta il terrorismo contro una popolazione. Peggio che altrove, contro una gente della propria nazione. Nantes, 17 Giugno 1996. L’abbiamo scelta in cima all’Europa. La Place d’Armes, che cercavamo, adesso si chiama Viarmes, precisa la signorina al Castello. Saliamo a piedi in un quartiere ricostruito a casaccio dopo i bombardamenti inglesi e americani, che sull’amica Francia in attesa di liberazione non furono più pietosi che su Germania e Italia. Curiosa, inoppugnabile sorpresa. Place Viarmes è un’immensa baraonda bordata d’orribili edifici. Su un lato un albergacelo, sull’opposto cartelloni pubblicitari nascondono qualche altra bruttura. Quando si danno al brutto, i francesi, non li batte nessuno. Il vento veloce solleva un polverone che fa turbinare nuvole di foglietti, pianetine bianche d’un gelato a poco prezzo. Carretti, trespoli; avanzi, dicono, d’un mercato appena smontato.

Della fucilazione, il cui luogo cerchiamo, solo il nome di un ristorante, “Le Charette”, chiuso. Al bar vicino domandiamo se non vi sia memoria di quell’avvenimento di due secoli fa. Senza gentilezza indicano un angolo in fondo, nell’ombra dei platani. C’è, infatti, insolentemente circondata di paracarri, una vecchia grande croce di pietra giallastra, il sacro cuore vandeano al centro. Nel basamento una targa di ghisa ossidata, corrosa, quattro piccoli gigli agli angoli: «Ici a été fusillé / pour son Dieu et son Roi / le général vendéen Charette de la Contrie. 29 Mars 1796». I blu del generale Travot l’avevano catturato sei giorni prima nei boschi della Chabotterie, il castello d’un seguace nel cuore della Vandea. Di tre anni di battaglie e agguati, delle migliaia di contadini soldati che al suo richiamo si addensavano filtrando tra paludi e foreste per poi tornare a dissolversi verso le loro case, gli rimaneva una trentina di fedeli, comprese le donne e le ragazze che sempre lo seguirono nelle sue imprese. Il clero si era piegato al nuovo regime, preti e abati lo denunciavano. Il conte d’Artois, il futuro Carlo X, atteso fino allo spasimo sulle spiagge atlantiche, era l’ultima speranza. Non venne, la speranza si spense. Gli ultimi passi della sua guerra, Charette li mosse a piedi. Affidò il cavallo a un contadino che corse a denunciarlo ai soldati del generale Hoche. Riunì i suoi ultimi volontari e disse, con una dolcezza che non era più nelle sue abitudini: «Siamo traditi, venduti, vi resta la speranza di confondervi nella folla. Legato al giuramento al mio Re, io non posso lasciare il mio posto senza un suo ordine, la mia fede mi prescrive di aspettare il

destino. Rassegnato ai decreti della Provvidenza, mi difenderò da soldato e morirò da cristiano». Non disse che aveva scritto a Luigi XVIII: «Sire, la viltà di Vostro fratello ha rovinato tutto. Poteva sbarcare su queste coste e tutto perdere, o tutto salvare. Il suo ritorno in Inghilterra ha segnato la nostra sorte. Non ci resta che morire, inutilmente, al Vostro servizio.» Il Re e la Provvidenza di Charette erano rimasti nei cieli sublimi che risplendono sugli eroi. Fortunati i popoli che hanno i loro eroi quando non c’è più speranza. La mattina del 23 Marzo 1796 i centomila uomini dell’armata di Hoche, su quattro colonne, mossero per farla finita con quei trenta che facevano tremare la République. Una, che veniva da Chauché comandata dal generale Travot, s’imbatté nel piccolo gruppo del Generale vandeano, già ferito. Charette spara sull’aiutante generale Valentin, manca il colpo e i blu lo incalzano con fuoco serrato. Lo salva, ancora una volta, l’attendente tedesco Pfeiffer che, come in un travestimento da Don Giovanni, si mette in testa il cappello col pennacchio bianco che Charette si ostina a portare e così attira la fucileria repubblicana e cade subito ucciso. Charette sfugge per l’ultima volta e incappa in un’altra colonna; i suoi cadono, è di nuovo ferito. Tenta di passare un torrente che lo separa dalla foresta, si difende come un diavolo, un colpo di spada gli tronca due dita. La sua resistenza sovrumana cede, è a terra, stremato. Il domestico Bossard e due compagni lo prendono a braccia, Bossard è ucciso e subito dopo il giovane La Roche-Davo; il terzo si carica il suo generale sulle spalle ma presto crolla, taglia un

gran ramo di frassino, ce lo nasconde sotto, ma il generale nemico accorre di persona con tre blu, lo scorge: « C’est lui, c’est Charette!», e si getta sul corpo disteso. Accecato dal sangue d’una ferita che gli riempie gli occhi, il vinto tace. Uno dei cacciatori lo riconosce: «Tenez ferme, c’est notre homme!». Travot, che non crede alla sua fortuna, grida: «Dov’è Charette?». «Eccolo qua», risponde il ferito. La cattura di Charette, riferiscono copiose cronache, «mise la République in delirio». «Fatichiamo oggi», scrive Michel de Saint Pierre, «a figurarci che cosa rappresentasse quella cattura. La personalità e poi il mito, del Cavaliere, del capo inafferrabile di immense legioni fantasma, avevano commosso e incantato l’Europa. Aleksandr Suvarov, il comandante degli eserciti russi, gli scriveva come a collega e maestro. Napoleone, a Sant’Elena, ripenserà alle sue gesta. Rifiutò di andare in Vandea a dare man forte ai colleghi Haxo, Touron, Roche, i macellai del sadismo criminale. Restò all’Armata d’Italia e, una volta Console, potè dedicarsi a risanare le ferite orrende inferte a quel popolo. Il Concordato del 1802 fu salutato in Vandea come la «vittoria dei vinti». Il giorno di Pasqua le chiese della «patrie vendéenne» gridarono insieme, con la voce di bronzo delle campane, che il popolo sterminato aveva ancora. Era stato sul punto di soccombere alle «colonne infernali», come le battezzarono i loro comandanti: truppe mandate ad applicare «un programma di sterminio sistematico», così si legge ancora nel libro che Gracchus Babeuf scrisse per incarico di Fouché, nel tentativo di far dimenticare, coi crimini del «boia di Nantes» e dei suoi compari in uniforme, i crimini suoi propri, nel momento che la

reazione termidoriana incalzava verso la ghigliottina gli artefici del Terrore. Riuscendoci, purtroppo, come la sua carriera testimonia. Al padre del «comuniSmo utopistico» dobbiamo, per un curioso paradosso, quella descrizione della strage indiscriminata del popolo vandeano, repubblicani compresi, che s’intitolò «Du système de Dépopulation, ou la vie et les crimes de Carrier», 1791. Il «génocide vendéen», così lo definì Raynald Secher riaprendo il libro nel bicentenario della «rivoluzione diabolica», è il modello delle stragi comuniste nel ventesimo secolo, fino alla «pulizia etnica» perpetrata dai banditi di Tito, tra gli applausi dei complici nostrani, contro gl’italiani a partire dal 1943. Gli storici controrivoluzionari dei nostri tempi, giovani e giovanissimi come Jean-Joël Brégeon, hanno trovato in Babeuf la conferma di quanto altri avevano scoperto: che fu realmente intrapreso, in Vandea nel 1793, lo sterminio di una popolazione giudicata non assimilabile per conformazione razziale al regime ateo repubblicano. Gli storici liberali e radicali, massoni e comunisti, avevano intenzionalmente lasciato nell’ombra il libro di Babeuf, perché smentiva dal principio l’immagine redentrice della Révolution. Ne denunciava il meccanismo intimo, di cui il Terrore era il solo esito possibile, coi caratteri che si mantennero nel passaggio dal giacobinismo liberale e democratico ai furori anarchici e bolscevichi: «Col sistema di spopolamento e la conseguente diversa ripartizione delle ricchezze, tutto si spiega, le guerre della Vandea, la guerra esterna, le proscrizioni, le guillottinades, le foudroyades (folgorazioni, ossia fucilazioni in massa), le noyades

(annegamenti in massa), le confische, le requisizioni, le appropriazioni, le elargizioni a determinate categorie d’individui [...] il pensiero di Rosseau», chiariva Babeuf, «in interpretazioni perverse». La massima, «tutti abbiamo abbastanza, e nessuno troppo», divenne incitamento a «liquidare gli oziosi, gl’inutili, i parassiti». I robespierriani che a Parigi inventavano il «popolicidio», e Carrier, che l’applicava a Nantes, si erano persuasi che, «a conti fatti, la popolazione francese eccedeva le risorse del suolo» e siccome s’era deciso di ridurre il numero, conveniva cominciare con questi cristiani recidivi e realisti incorreggibili. Babeuf fu tra i primi che portassero nella politica moderna il ricordo di come i Conquistadores spagnoli imposero il Vangelo agl’indiani d’America. La républicanisation della Vandea seguì il modello anche nella scelta delle vittime, «uomini agresti, semplici, vicini alla natura, e per conseguenza adattissimi a cadere nel tranello della libertà». In America, pugnale in una mano e crocefisso nell’altra, s’intimava a poveri diavoli che mai avevano sentito parlare di un tale chiamato Gesù il galileo, «riconosci il tuo dio, o ti uccido ». E qui, oggi, «coccarda nazionale» in una mano e il ferro nell’altra, gente che non aveva alcuna idea della libertà era convertita con la breve formula: credi nei tre colori, o ti pugnalo. Soltanto gli scenari sono cambiati, il fondo dei due quadri è identico. L’avo patriarcale dei nostri comunisti poteva ben farci la figura del santone, perché i manovratori del terrore erano i «patrioti» liberali. Ma i clienti di quegl’istituti di rieducazione democratica che poi si chiamarono ufficialmente Glavnoe

Upravlenie Lagerej e familiarmente Gulag, non faticarono a riconoscere il profumo delle origini quando il glorioso bicentenario si mise in moto. Lo disse Aleksandr Solgenitsin, chiamato a inaugurare il Mémorial de Vendée eretto su due ettari di campagna con al centro, alta sulla collina, la chiesetta dei Lues de Boulogne, la città martire, nelle cui mura tutta una popolazione fu sterminata, parroco in testa. Ma, ecco l’imprevista sorpresa, la storia ufficiale, venerata e truccata in due secoli di tirannide ideologica, rimetteva in moto la disprezzata sorella, l’antistoria irrazionale, ribelle all’equazione hegeliana di «razionale» e «reale». L’antistoria irrisa e demonizzata dai nipotini di Hegel diventava reale operante contro storia. Contemplata nel suo culmine delinquenziale, spogliata dei panni solenni, la Revolution apparve in tutta la sua miseranda decrepitezza. Non più l’esaltavano i dogmatici del falso, non più riluceva en bloc secondo una pretesa idiota e famosa. Ripassati al bucato della contro-storia, gli «eroi della Revolution» rivelavano la stupidità scientifica dell’astronomo Bailly, la malafede volpina dell’abate Sieyès, la vanità incosciente di Mirabeau, la corruzione di Danton, il sadismo criminale di Robespierre. L’immagine dipinta dalla storiografia massonica si dissolve nel liquame marcio dei sofismi, delle vergogne, dei fiumi di sangue inutilmente dissipato. Risplende la verità che Alessandro Manzoni vecchio incise nelle pagine del Saggio comparativo, il grande libro che Rechiedei stampò nel 1889 a cura di Ruggero Bonghi, e la cultura massonica e progressista riuscì a cancellare: la Revolution fu illegale e criminale dal primo giorno, 10 Giugno 1789, e falsa è la

complice indulgente pretesa che tale divenisse, per brevi tratti di graduali eccessi dovuti a forze negative, tuttavia scusabili considerando la bontà dei resultati. Chi sono più i Robespierre e i Carrier e i loro complici militari grondanti palmette dorate, cordoni e galloni? Non più che ruote sdentate, pulegge rugginose di un potere infame che pervertì la Francia e poi, divorando meridiani e paralleli, tutta l’Europa. E invece risorgono Charette, il carrettiere Cathelineau, il guardacaccia Stofflet, i nobili ufficiali dell’Armata Reale, d’Elbée, Lescure, Bochamp, i due fratelli de la Rochejaquelein; il più giovane, Henri, aveva vent’anni quando agl’insorti che lo eleggevano a loro capo rispose con una frase chiamata a lunga carriera: «Io sono un ragazzo, ma col coraggio mi mostrerò degno di comandarvi. Se avanzo seguitemi. Se indietreggio uccidetemi. Se muoio vendicatemi». Mantennero parola, lui e loro. Risuonano i gridi dei martiri sconosciuti, diffamati, cancellati fin nelle tombe. Dai miasmi dell’offesa partigiana che li aveva ridotti avanzi irresponsabili e folcloristici di arretratezza barbarica e provinciale inettitudine a comprendere il nuovo, riemergono la buona fede, il coraggio, l’intelligenza: «Charette mi dà l’idea di un grande carattere... Lascia trasparire il genio», rifletteva Napoleone a Sant’Elena. E Las Cases stenografava. Il genio

Atterrato dalla sfortuna, il capo di nazioni e di eserciti si chinava sulla sventura del capo di una piccola nazione e dei suoi

improvvisati eserciti, fucilato a trentatré anni. Napoleone sapeva quanto gli storici negarono e nascosero. Che quella morte, mettendo fine alla rivolta di Vandea, aveva privato del suo ultimo baluardo il trono più antico di un’Europa che non sarebbe più stata cristiana come prima. Sapeva, come Carnot, come Hoche, che mai la Repubblica era stata messa in pericolo dall’invasione esterna come fu nel 1795 in Vandea dove l’invincibilità e inafferrabilità di Charette si erano propagate fino a Parigi in un presagio di catastrofe. Se, soltanto, il Re e il suo fratello fellone, avessero osato sbarcare. Quando gli annunciarono la cattura di Charette, il generale Grigny mandò a Hoche un messaggio che soltanto gl’ignari trovano stupefacente: «Charette in nostre mani... Complimenti, mio caro generale! Dopo questa notizia, siamo come ammattiti!». Tutto resta, ogni parola è testimoniata. La République era logorroica e grafomane, le sue carte imbottiscono gli archivi. Alla tribuna del Direttorio esultano Hoche e Travot: «Eccoci infine liberati del più crudele nemico della République!». In tutti i teatri di Parigi il governo annunciò l’evento come «une des victoires qui sauvent les nations». Una vittoria ch’era costata alla Vandea trecentocinquantamila (secondo altri, quattrocentomila) esseri umani. Il 24 Marzo 1796 Charette, prigioniero coperto di ferite, è issato su un cavallo, ai lati Travot, Valentin e Grigny. Alla testa di una numerosa colonna, partono per Angers. Il 25, sopporta fieramente «la curiosité insultante du peuple». In carcere lo affidano a un medico, per poterlo ammazzare con le parvenze di

un sano. «Soffro molto», dice il prigioniero. Gli medicano lo squarcio alla fronte, bendano il braccio ferito, la mano a brandelli, le dita mozzate. Il 26, vigilia di Pasqua, i generali lo invitano a pranzo per soddisfare la loro curiosità. Gli rendono i riguardi che credono di dovergli. Manca Hoche, alle prese con gli ultimi sciuani normanni di Louis de Frotte. Charette mangia con appetito, parla con naturalezza. Sulla veste lacera porta il crocefisso, la croce di San Luigi, i tre gigli d’oro. «Perché vi siete lasciato catturare vivo?». Risponde: «Io mi sono battuto per la mia religione, signori. Avrei commesso un crimine contro le leggi divine se mi fossi tolto la vita», e, dopo una pausa: «Ad ogni modo proverò che non temo la morte». Gli ufficiali blu cominciano a trovare questo nemico molto simpatico. Vorrebbero mandarlo a Parigi dove, con la nuova aria che tira, potrebbe salvare la vita, ma Duthil, comandante la piazza di Nantes, rivendica alla città il diritto «d’esser teatro all’esecuzione del capo brigante». Il 28, lo interroga: «Dove sono i vostri ufficiali?». «Si sono arresi». «E dove sono ora?». «Dovreste saperlo meglio di me». «Chi dava gli ordini?». «Io solo, signore». A Duthil viene l’idea «singulière et cruelle», d’una passeggiata per la città. Le idee dei boia, dei partigiani. I generali austriaci, dopo aver condannato Cesare Battisti, ne organizzarono una simile, per le vie di Trento, vile e torva, fin sotto casa sua. Tra l’esaltazione e il dileggio, le Roi de Vandée, come lo chiamarono, fu condotto per tutta la città «in un apparato più adatto a un assedio, che alla scorta di un prigioniero coperto di ferite», osservò nel 1823 Le Bouvier Desmortiers, il primo

biografo di Charette. Aprivano il corteo i cavalleggeri della Milice, seguivan cinquanta tamburoni e cinquanta musicisti alternando sinfonie militari e rullìi funebri per attrarre gente alle finestre; poi i granatieri e i cacciatori della Garde nationale e, impennacchiati e trionfanti, i Duthil, Travot e Grigny, tre altri generali caracollanti, che rispondevano ai «Vivat!» del popolaccio, già tutto coi vincitori. Seguiva Charette sfinito e sanguinante, a piedi, in mezzo ai gendarmi. Senza cappello, un fazzoletto alla creola sulla ferita alla fronte, sangue colava dalla spalla, al collo un foulard bianco invece dei preziosi ricami d’un tempo, la mano destra in un fazzoletto insanguinato. Una marcia di calvario. Un ufficiale, che gli tende la tabacchiera, vede le dita scarnite e mozzate. Un testimone osserva «l’air extraordinairement fier et imposante», la fronte alta, il colorito pallido, la barba, «gli occhi di fuoco, per quanto infossati». Due ore di odiosa mascherata. Un testimone repubblicano scrisse: «Barbari e selvaggi danzano intorno alla vittima. Tutt’altro che umiliarlo, pompa e sfoggio servirono soltanto a rivelare la sua grandezza d’animo, la sua pazienza, la sua fermezza». Il condannato dice a Duthil il suo rimorso per non aver saputo prenderlo e fucilarlo. Alla sorella e alla cugina, ammesse a visitarlo nel carcere, chiede di trattenere le lagrime, «Ho bisogno del mio coraggio». «Mi disse la signorina Charette», scrive Le Bouvier Desmortiers, «che non lo aveva mai sentito conversare con tanto spirito, così amabilmente...». Il morituro radunava e distribuiva le ultime forze. Come i veri grandi, pensava alla posterità. Volle scrivere a Boetz, il sarto fiammingo suo amico, che avrebbe cercato di pagargli i suoi debiti.

Il “flagello della patria”

Il 29 mattina, “il flagello della patria” subì il processo, assunse orgogliosamente le sue responsabilità, respinse quelle altrui, fu condannato a morte, l’esecuzione fissata per le quattro del pomeriggio. Accettò di confessarsi a un prete assermenté solo quando fu certo che, nonostante il giuramento alla République, la confessione era valida. Nuova marcia e mascherata alle quattro. Il condannato appare, in cima alla scalinata del Bluffay, fiero, padrone di sé, imponente nel totale silenzio. Risuona un insulto, Charette folgora con lo sguardo l’offensore, che scompare nella folla. Scende gli scalini conversando a voce bassa col prete che l’accompagna. Sull’abito spoglio spicca «l’ultima coquetterie», la ferita alla testa è racchiusa in un foulard indiano rosso, annodato alla creola, un’alta cravatta bianca gli serra il collo a nascondere la barba che non gli hanno permesso di radere; sulla giacca, alla spalla, si allarga una macchia di sangue. In rue de Gorge alza gli occhi al balcone di sua sorella, dove un prete amico, «refrattario» questo, lo saluta col fazzoletto bianco. Sulla Place des agriculteurs, poi d’Armi, poi Viarmes, lo attendono, esagerato carré, cinquemila soldati e una dozzina di generali repubblicani, più dorati e impennacchiati che mai. Al rullar dei tamburi Charette, impassibile, entra nel quadrato. Scambia qualche parola con Travot, che lo ricorderà «un grande capitano, pieno di coraggio e di lealtà». Cerca con gli occhi il plotone, percorre lo schieramento con lo sguardo come se passasse in rivista la guarnigione. L’abate assermenté gli prende

un braccio, lo esorta al coraggio: «Signor abate, ho sfidato la morte cento volte. Le vado incontro, l’ultima volta, senza sfidarla, senza temerla». Di nuovo rullano i tamburi, scende il silenzio, la folla tace, Charette recita a voce alta l’atto di contrizione. Abbraccia il confessore, lancia uno sguardo alla bara aperta, appoggiata al muro, le si pone accanto, diritto, in faccia al plotone dei Cacciatori che l’hanno catturato. L’ufficiale di servizio gl’indica la pietra su cui deve inginocchiarsi, ma lui rifiuta, e ancora rifiuta la benda che un soldato vorrebbe mettergli sugli occhi. Chiede soltanto che aspettino, a tirare, un cenno della sua testa. L’ufficiale trasmette il desiderio al comandante del plotone. «Dritto, la fronte alta», sfila lentamente il braccio sinistro dalla sciarpa, si raccoglie in ultima preghiera, fa con la testa un cenno d’invito, il plotone fa fuoco. Sei sole pallottole lo colpiscono, cinque nel corpo, una alla tempia sinistra. Osserva Le Bouvier Desmortiers che il corpo di un fucilato fa prima un movimento all’indietro, poi ricade in avanti e atterra sulla faccia. «Quello di Charette, che la morte ha colpito, resta in piedi davanti a lei, l’occhio ancor fisso sui soldati, la cui scarica ha comandato con lo sguardo. Il corpo cade con moto maestoso, si flette la gamba destra, poi l’anca... Più che cadere, Charette sembra assidersi nella notte eterna». Uno stuccatore di Nantes, il cittadino Casanne, ebbe ordine di prendere la maschera dell’ucciso, a persuadere gl’increduli che l’imprendibile era davvero il morto. Dove ripetere l’impresa quattro giorni dopo e rovistare sotto l’orribile mucchio dei cadaveri intanto accumulati nella fossa comune, perché era circolata la voce che

l’ufficiale aveva venduto il cadavere ai Vandeani. La macabra ricerca sotto lo strato dei morti, incalzata dalla minaccia di andare a raggiungerli, è un eloquente modello di stile, degno delle imitazioni successive, dal bolscevismo alla «resistenza». Le maschere di Charette, il foulard rosso, i ritratti, le armi, i documenti dell’ufficiale di marina che fu in giovinezza, del difensore delle Tuileries, del capo di guerriglia che diventò nel 1793 quando i contadini di Machecoul lo elessero, del generalissimo, al cui grado lo innalzarono i fratelli di Luigi XVI; le stampe che invasero l’Europa dopo la sua morte, la lettera del maresciallo Suvarov, «Eroe della Vandea, onore dei Cavalieri di Francia, l’universo è pieno del tuo nome, l’Europa ti contempla, io ti ammiro», i pensieri di Napoleone nell’edizione originale del Memoriale di Sant’Elena, le raccolte, le biografie, dalla prima, 1823, alle due fondamentali di Lenòtre (1924) e Saint Pierre (1977) attendono il visitatore nella esposizione allestita per il bicentenario nel padiglione accanto alla Chabotterie. Acquistato dagli «Amis du Mémorial de Vendée», il castello, con le sue sale, gli arredi, i solai, i giardini, le armi, i cannoni, il ristorante, la sala di proiezioni, l’archivio, la libreria, la vendita di ricordi, dalle carte da giuoco alle repliche di oggetti, è diventato museo e baluardo culturale della Controrivoluzione. Le strade di Vandea sono disseminate di cartelli indicatori con la sua effigie. «Sur les pas de Charette» si snoda un affascinante itinerario tra i luoghi delle sue battaglie, agguati, trionfi, sconfitte, le chiese, i castelli delle sue feste, le rovine di quelli distrutti per odio e vendetta, le cappelle che gli dedicarono, le

piccole case nascoste che gli furono quartieri, rifugi, alcove. L’estate vandeana crepita d’incontri, colloqui, esposizioni, concerti. Un’orchestra classica, la “Sinfonietta de Vendée”, si esibisce alla Chabotterie, nelle diverse città. Un viaggio senza mappa

Sotto questa croce, Place de Viarmes, comincio un viaggio senza mappa né programma, alla ventura del caso. Ma nel caso c’è un ordine, che nasce e cresce da sé. Mi son preso in valigia la biografìa del Lenòtre, stampata da Hachette nel 1924. L’acquistai a Firenze, dal Gonnelli, l’Aprile del ’58, e dormì in biblioteca per quasi quarant’anni. È la sorte di migliaia di libri ereditati, ricevuti, comperati in mezzo mondo. Mi decisi a leggerla nel bicentenario del martirio. Mentre la leggevo, il Teatro di Ferrara mi chiese un programma di sala per il Fidelio di Beethoven. Da tempo mi ero accorto di qualche cosa che i “musicologi” ignorano o nascondono, forse per fedeltà a Robespierre e nipoti suoi: che Beethoven scrisse Fidelio come un inno alla libertà è vero, ma i tiranni, qui, sono Robespierre e Carrier, il boia di Nantes che nel carcere di Tours tentò di uccidere il giovane aristocratico, il Florestano dell’opera. Cercavo il boia e trovai l’eroe. Dietro Carrier, che la lurida testa lasciò sulla ghigliottina alla fine del 1794, risorgeva Charette, fucilato dai complici di Carrier nel 1796.1 Scesi all’aereoporto di Nantes, fittata un’automobiletta, siamo filati lungo la Loira verso St. Nazaire. L’interminabile sequela

dei moli e docks che accompagnano il fiume fino al mare s’interrompe di tanto in tanto, lasciando lembi di rive intatte. Dopo il sobborgo di Couëron, oltre Le Port-Launay, mi parve di ravvisare, in una chiesetta e un borgo ai piedi delle colline, il luogo di una tremenda incisione di fine Settecento, raffigurante «Les Noyades de Nantes», gli annegamenti in massa coi quali Carrier si “sbarazzava” di preti e monache, uomini donne e bambini, nemici della Révolution. Sotto la croce nel luogo dove Charette cadde in piedi, sento che il tempo lordato dai politicanti radicali e massoni, socialisti e comunisti; il tempo manipolato dagli storici di mestiere, università, accademie, partiti; il tempo imprigionato e confiscato; il tempo truccato e falsificato, chiede di ricomporsi in stampi liberi, ariosi, diversi. C’è davvero un metodo, nel caso. Cerco Carrier e trovo Charette, il bottino del viaggio. Uno di quegli eroi che consolano gli uomini e i popoli nelle ore buie. Charette offre il filo, lo dipano con pazienza, dall’isola alla spiaggia, da una città all’altra. Trovo Chateaubriand a St. Malo, Renan a Brieuc, traghetto sull’isola di Yeu, di dove Charette aspettò il fratello del Re, che non venne. Ci trovo il forte dove il generale De Gaulle fece morire il maresciallo Pétain. E la sua povera tomba. E Pétain mi riconduce all’estate del 1940. Tremenda estate, francese e italiana, da Mers-el-Kebir a Taranto. Teppismo e pirateria d’inglesi. Ignavia e stoltezza d’italiani. Ondeggia e s’attorce il filo revisionista; va e ritorna, e non si spezza: su queste spiagge, diventa viaggio nella memoria. Che non si acquieta, s’interroga, interroga.

Il Re di Vandea

Isola Noirmoutier, 19 Giugno 1996. «Charette, mai sentito», mente il verduraio sulla piazzetta di Oudon, e si volta alle sue ceste. Seguiamo la strada statale lungo la Loira a oriente di Nantes, tra il fiume e l’autostrada per Parigi. Guida Mariagrazia. «Tu pensa, studia le carte e scrivi, e lascia guidare la mamma», hanno ingiunto i figli da sempre dubbiosi delle mie virtù al volante. Il verduraio è immerso nelle sue ceste, una ragazza ridacchia chissà perché, giriamo attorno a una brutta torre, superiamo un rigagnolo chiamato Havre. Davanti a una piccola ferme due uomini e una donna parlano animatamente. «Charette? Certo, signori, non è nato a Oudon, devono prendere quella strada, a La Mabonnière a sinistra, fino a Couffé, là è nato Charette... La casa c’è ancora. È jolie, ci vivono dei discendenti... No, è la moglie una Charette, il marito si chiama, si chiama...». Sei mani ci salutano. «Quelli sono dei nostri», dice mia moglie. Figlia di Franz Pagliani, nata in mezzo alla guerra civile, i nostri e i loro li distingue a naso. Perché questi agricoltori siano dei nostri e il verduraio dei loro, l’istinto lo scopre a volo, la logica tarda. E poi, il bello delle guerre civili è che non finiscono mai, come qua, dopo duecent’anni. Ha ragione Montherlant, che La

Guerre Civile chiama al proscenio in apertura del dramma, a dire «Io sono la Guerra Civile, sono la buona guerra...». Due o tre miglia di quiete campagne, una piega del terreno, il ponte, un ciuffo di querce, il campanile, Couffé. La ricerca è svelta, un furgone di fornaio esce dal cancello. Madame Guérard des Lauriers, nata Charette, cura le sue rose nel giardino. La casa di Charette? «È quella che vede, la piccola, il château fu aggiunto nell’ottocento». Continua con le rose, possiamo andare, guardare. La casa originaria, di nobili forme seicentesche, è minuscola, si chiama gentilhommière, in queste contrade l’architettura è scandita in gerarchie precise. Il palazzotto che le si appoggia sarebbe, più che château, un manoir. Nella Restaurazione, quando il ricordo di Charette fu onorato, Luigi XVIII, che non era sbarcato dove lui lo aspettava, ci fece dipingere un bel ritratto postumo. Gratitudini di re. Madame des Lauriers ci raggiunge con un pacchetto di pieghevoli, cartoline, l’invito permanente alla Chabotterie per lei e il marito: «Questi non ve li posso dare, vi do una fotografia della casa, ma vadano ai Lues, troveranno tante cose... Là sì che hanno i mezzi». Un vecchio amico dei tempi dell’Algerie française, amico di Pierre Andreu, l’allievo di Sorel, che ci ha raggiunto, spiega questo «Là sì», dove geme l’invidia per la regione attigua. Nella geografia amministrativa e elettorale, Nantes e Couffé sono fuori della Vandea, che comincia poco più in basso. In Vandea il sentimento controrivoluzionario, risvegliato nel 1989, ha trovato un politico energico, De Villiers, che gli ha aperto i forzieri della finanza pubblica, «un vero uomo di destra, non della destra fellona, alla De Gaulle, alla Chirac... Non era mai

accaduto, la Vandea si vergognava del suo nome. Vendéen era un insulto, come da voi fascista. A Parigi, i giovani che passavano i concorsi delle carriere pubbliche erano sfavoriti. Nei casi migliori, erano ottusi e testardi, tetragoni al progresso. Fu una persecuzione che, aperta o strisciante, durò dal ritorno della repubblica, più di cent’anni. Come vanno queste cose, prima si fucila, poi si epura, poi si diffama, e infine si scrive la storia. Qua è durata tre volte più che da voi. È vero, la droite ebbe momenti di splendore, potenti giornali, l’Action Française, ma furono trionfi letterari. Maurras si esaltava ai suoi articoli, produceva soltanto carta; di vera azione, nulla, mai nulla...». «La sola droite che si risvegliò fu con Pétain, che tolse questo nome, République, e lo cambiò in État français... Un bel taglio, purtroppo nell’ombra dell’occupazione tedesca. Di una Germania che non capì niente dell’enorme attesa, simpatia, buona volontà, che c’erano dietro la collaboration. Tutti hanno collaborato, naturalmente, erano convinti... Ecco, con la nuova politica regionale, e grazie all’imprudenza sfacciata con cui loro si sono buttati nel bicentenario, la Vandea torna in onore. I ragazzi non si vergognano più d’essere vandeani... Qui funziona ancora il telegrafo di duecento anni fa, basta far circolare l’ordine. Come tutti gli anni, hanno appena commemorato VAppel, l’incitamento alla ribellione che De Gaulle diffuse da Radio Londra. Non c’è andato nessuno nei paesi, solo i soldati e la polizia municipale, ci scappò perfino una rissa...». Gli domando come mai nulla si veda qui, come mai la croce di Nantes sia in quelle condizioni. «Ma perché è fuori della Vandea, il risveglio è più lento, il paradosso è che Charette, le Roi de Vendée, come lo chiamarono tra

esaltazione e dileggio, venne al mondo e ne partì fuori del suo regno». La Vendée militaire

I tre anni del Re di Vandea, tre precisi, descrivono una vicenda umana straordinaria. Sia per la singolarità degli eventi che fecero di Charette un capo di eserciti, sia per la trasformazione della sua personalità. Tutto comincia il 14 Marzo del 1793, quando un’orda di contadini in rivolta, armati di falci, di forche, di mazze ferrate, occupa il borgo di Garnache nel Pays de Retz, tra la Bretagne Nantaise e il Bas-Poitu, ai confini della Vandea vera e propria; massacra e disperde la guarnigione repubblicana e dilaga nel paese. Cercano i soldati per ucciderli (dicevano i blu, dalle uniformi, oggi diremmo i rossi) e, soprattutto, un capo che li comandi. «Nessun altro popolo della Francia si era mostrato, fino allora, più docile, più attaccato alla sua terra, generalmente ingrata. La natura e la mancanza di comunicazioni lo isolavano dal resto del Regno. Povero, contento di poco, sopportava allegramente la sua miseria», scrive Lenòtre, sbugiardando i mestieranti della storia che, sempre ricopiandosi, continuano ad accusare i preti e i nobili di avere istigato i Vandeani alla ribellione; naturalmente (altre ragioni non dimorano in quei crani) per salvare privilegi e prebende. All’assassinio del Re la Vandea fremette ma non si mosse. Fu col baccanale organizzato dai caporioni repubblicani nella cittadina di Machecoul per festeggiare la morte del Re, che si

sparse nelle campagne una voce: al district fabbricavano manette in gran quantità per legare a due a due quei contadini refrattari al nuovo e al bene, e trascinarli nelle caserme. Per completare la sua azione criminale la Convenzione regicida aveva ordinato una levée di 300 mila soldati. L’idea che i loro figli dovessero offrire le forze a questa rivoluzione spinse i Vandeani alla ribellione. Loro unità sociale fondamentale era la parrocchia. Senza intese, senza parole d’ordine, seicento parrocchie insorsero in un solo giorno. Ma il Capo, dove trovare un capo? Conquistati Machecoul e i paesi intorno, che cosa fare? Per dare un ordine a quel tumulto si formò nella cittadina un «Comité de pacification» presieduto da un intelligente avvocato, René-François Souchu. Senza farsi illusioni, Souchi dettò una dichiarazione solenne: «In faccia al cielo e alla terra, il Popolo del Pays de Retz, adunato nella città di Machecoul, non riconosce, né mai riconoscerà, per suo sovrano, altri che il Re di Francia». Ma, intanto, dove trovare un capo? I contadini di Chauvé, un villaggio a mezza strada tra Machecoul e la costa di Pornic, davanti a Noirmoutier, tirarono fuori dalla sua gentilhommière un signor Danguy; già capitano e cavaliere di San Luigi, più che sessantenne e quasi cieco. Invano cercò di convincerli che si teneva in piedi a fatica, lo issarono su un cavallo e lo spinsero avanti a loro, che li comandasse, sordi alle sue preghiere di lasciarlo tornare a casa al tramonto. Non ci tornò. Costretto a combattere, combattè, come seppe e potè, fin che lo presero e ghigliottinarono a Nantes, «chef de bande».

Un marchese de la Roche-Saint André fu visto cavalcare in veste da camera per mostrare ch’era costretto dai contadini che l’avevano sequestrato nel suo castello. Nessuno si faceva illusioni. Queste sorsero e salirono alte per merito delle vittorie di Charette, e presto precipitarono per la doppiezza degl’inglesi e la viltà dei Borboni. Souchu cerca disperatamente di ottenere alla sua gente il perdono della République, facendo appello ai suoi stessi principi: «Quand le gouvernement viole les droits du peuple...». La risposta della Convenzione fu che ognuno degl’insorti sarebbe stato punito con la morte. Alla ricerca di

un capo

La Vendée militaire era nata, la rivolta diventata controrivoluzione, ma ancora non aveva un capo. Fu Souchu che indicò ai rivoltosi un certo Cavalier François Athanase Charette de la Contrie, che nel 1790 si era dimesso da tenente di vascello della Marina e aveva sposato una vedova quindici anni più vecchia di lui. Ora faceva il signore di campagna in una tenuta a Fonteclose, due leghe da Machecoul. La stessa tradizione locale vuole che i Charette discendessero da una famiglia Carretto o del Carretto, italiana, immigrata nel medioevo. La stessa tradizione racconta che quando i contadini bussarono alla porta della dimora, più fattoria che castello, pur di non prendere il comando di una ribellione che credeva senza speranze, il Cavaliere si nascose sotto il letto. Lo tirarono fuori. Era stato con gli emigrati in Coblenza, aveva misurato la loro vanità vociferante e inconcludente. Tornò a Parigi di nascosto e

fu, coi «pochi fedeli all’antica divisa» e gl’indomiti svizzeri, alla difesa delle Tuileries dall’attacco della teppa il 10 Agosto 1792. Qui perse la fede nel suo Re. Se a Luigi XVI non fosse mancato il coraggio, se fosse montato a cavallo alla testa delle sue truppe, la plebaglia sarebbe stata sterminata. Charette apprese dal vivo quanto i mestieranti della storia non riescono a capire: che il tempo non ha direzioni fissate in anticipo, e le fatalità storiciste son fabbricate, a cose fatte, da un pigro determinismo retrospettivo. La più gran parte delle rivoluzioni vincono soltanto perché, al momento di fucilare un centinaio di abati e di avvocati, la mano trema. Charette vide tremare la mano del suo Re, prima ancora che gli tagliassero la testa; seppe che la Monarchia era ormai una fede senza speranza. E tuttavia, si arrese a quella turba ansiosa. Va bene, disse. Se proprio mi volete, verrò. Ma pretendo obbedienza assoluta, altrimenti vi punirò severamente. Gliela promisero, e lui mantenne parola. E qui comincia la metamorfosi di un elegantone, dedito ai piaceri di Venere e decisamente snob, che aveva sposato la sua anziana moglie solo per una elegante scommessa. Le aveva chiesto la mano di sua figlia, diciannove anni. Ma quando la madre rispose, ci sono prima io e sono vedova, la sposò. Per eleganza, controvoglia, come ora accettava di mettersi nella guerriglia. In pochi mesi diventò un tattico raffinato, maestro di logistica e sorpresa, capace di vibrare un colpo con una piccola banda, e di adunare, pochi giorni dopo, migliaia di guerrieri a molte leghe di distanza. Non era propriamente la guerra partigiana che si è detta. Era guerra in campo aperto, con assalti alle città condotti in una

serie di mobilitazioni fulminee; migliaia di contadini lasciavano le loro casupole e si adunavano dove il telegrafo dei boschi e delle paludi li convocava. Combattevano duramente, e poi tornavano a scomparire. «Bisogna insistere su questo punto», scrive Lenòtre: «un capo vandeano non sapeva mai in anticipo su quanti uomini poteva contare: finita una spedizione, i contadini rientravano ai villaggi, per ritornare al quartier generale quando il tocsin, la campana a martello, li avvertiva che c’era bisogno di loro. Chi voleva restava a casa, ma di solito obbedivano con zelo, e ciascuno si portava il pane per tre o quattro giorni». Il 10 Agosto Charette passò in rivista a Legé, la sua capitale provvisoria, da 3 a 4 mila uomini venuti da ogni parte del Marais e del Pays de Retz. La sua truppa cresceva per via, perché «i capricciosi volontari, per risparmiarsi le lunghe marce fino al quartier generale, aspettavano il grosso dell’armata agl’incroci delle strade nei boschi. Se, nell’attesa, passavano i blu, li massacravano e facevano man bassa di grano, cibarie, dei fucili che non avevano, della polvere, che fu la loro prima tortura». All’assalto di Nantes, in Giugno, andarono in diecimila. Fu la prima grande sconfitta di Charette, la città maligna resistè all’assalto, Cathelineau vi morì. Per quel tipo di guerra, «Vandea e Bretagna paiono fatte a posta. Il suolo diseguale offre infiniti rifugi; le strade, sepolte tra ciglioni assiepati, diventano fosse; trincee le muricce che contornano i campi e celano l’agguato: un labirinto di cammini trasversali e sentieri fuorvia le truppe, qua i boschi, là paludi e canali, occulti nella macchia; altrove immense lande coperte di

ginestre alte quanto un uomo. Una loro disfatta non vantaggia di nulla il nemico, perché non hanno che bastoni, di rado un fucile, mentre ogni vittoria fornisce gl’insorgenti di munizioni e armi. Rotti in più punti sguizzano e si raggomitolano alle bande dei Bretoni detti Sciuani, dal nome del taglialegna Jean Cottereau detto Chuan», scrisse, nell’ottocento, Cesare Cantù, prima che la leggenda fosse imbrattata dai sedicenti storici. Si fatica, oggi, a riconoscere in tale territorio il labirinto che fu, di paludi e foreste. L’agricoltura ottocentesca lo stravolse con le bonifiche e i tagli dei boschi. Allo stesso modo che stenti a riconoscere, tra Ferrara e Bologna, la selva ariostesca che Guercino e Domenichino dipinsero, e i briganti signoreggiarono per secoli. Capi coraggiosi, un esercito invincibile

Sorsero in quelle foreste capi coraggiosi, il guardacaccia Stofflet, il carrettiere Cathelineau, i nobili ufficiali del Re, i d’Elbée, Lescure, Bonchamps, i giovani La Rochejacquelein. Su tutti, Charette subito emerse, anche se nessuna autorità, e men che mai i fratelli di Luigi XVI, per cui quella gente combatteva e moriva, si preoccupò di stabilire forme e gerarchie, e così dare un ordine alla massa che poteva sbandarsi e lasciarsi trascinare fuori della sua terra, dove le «colonne infernali» del boia Turreau ne fecero stragi orrende, come a Le Mans, a Savenay, a Cholet. La più sorprendente delle metamorfosi fu quella che si operò in Charette. Non lasciò il suo gineceo di giovani e men giovani nobili castellane, spose di emigrati, fresche vedove di

ghigliottinati e fucilati, ragazze del popolo, contadinelle, fornaie. Le trasformò in un’orda di amazzoni fanatiche: cavalcavano accanto a lui negli assalti, lo seguivano correndo a piedi. Non sdegnò l’eleganza, la adattò al suo vestire militare sempre fantasioso, vistoso, ignaro d’ogni mimetizzazione, i pennacchi sul cappello che parevano fatti per attirare la fucileria repubblicana. I generali blu smisero presto di ridere di questo predecessore dei Giap nella strategia della mobilità integrale. «Non è cosa facile trovare Charette», spiegava Haxo alla Convenzione: «oggi è alla testa di diecimila uomini, e domani vaga con una ventina di soldati. Lo credete davanti a voi, e invece è alle spalle della vostra colonna. Ora minaccia quel posto, e presto è a dieci leghe di distanza. Abile a eludere un combattimento, sorprende le pattuglie e le massacra, cattura gli esploratori, fa man bassa dei convogli...». Un mese più tardi, il più valoroso dei generali repubblicani cade ucciso ai Clouzeaux. Eppure, non tutti i realisti lo accettano per capo. Si scavano solchi d’invidie, di gelosie. Marigny rompe le intese tattiche, altri lo condannano a morte, perfino il prode Stofflet rifiuta di collaborare. I Borboni lodano da lontano, mandano sciarpe e spade onorarie, lettere, diplomi. E non vengono. Un giorno, più di vent’anni dopo, a Sant’Elena, la conversazione ritornò su questa metamorfosi. Las Cases raccontò a Napoleone di avere ben conosciuto Charette nell’adolescenza: «Eravamo stati entrambi guardiamarina a Brest, abitavamo la stessa camera, mangiavamo alla stessa mensa. Le sue gesta di poi, la folgorante carriera, stupirono tutti noi suoi amici, che l’avevamo giudicato di mediocre ingegno e poca istruzione,

facile all’ira e soprattutto insolente, e presagimmo che non sarebbe mai uscito dal gregge»; poi ricordò un suo soprassalto di coraggio e di energia, una volta che, nel naufragio di un cutter disalberato, arrivò a uccidere un marinaio per costringere gli altri a eseguire i suoi ordini, salvando la nave. La prudentia hominum accumulata nel comando suggerì all’imperatore una di quelle spiegazioni che mai folgorano gli scribi di cattedra e di partito: «Eccola, la scintilla che rivela il futuro eroe della Vandea. Non bisogna credere alle apparenze, un vero carattere sboccia all’improvviso, nell’occasione giusta. Vi sono spiriti apatici e dormiglioni che quando si svegliano sono terribili... Ricordò che il governo della Repubblica lo aveva richiamato dall’armata delle Alpi per mandarlo a quella della Vandea; ma si sarebbe dimesso piuttosto che assumere un comando con cui poteva soltanto aggravare i mali, senza speranza di alcun personale vantaggio. Aggiunse che, appena Console, suo pensiero fu pacificare quell’infelice paese cercando di fargli dimenticare le passate sventure e sanare le sue piaghe...». Era un Capo, non un macellaio. Sono queste le verità che i contemporanei conobbero e gli storici e politici nascondono. Mentre il centenario del 1889 corrispose all’incontrastata vittoria della République appena minacciata dall’agitazione boulangista, il secondo centenario ha scelto di scavare, ha cercato i dissensi, le crepe: talmente larghe, ormai, che è bastato infilarci dentro le mani per far cadere polverone e calcinacci dall’intonaco ideologico marcito. Nessuno osa più intimare di «accettare la Révolution en bloc», come voleva Clemenceau, alfiere della storiografia massonica e marxista, primo artefice

del mezzo secolo di guerre civili che costarono all’Europa la distruzione. Nessuno più scusa il Terrore come inevitabile eccesso, nessuno tenta di giustificare la barbarie scatenata sugl’insorti dell’ovest. «Gli anni Settanta segnarono la fine della storiografìa rivoluzionaria. Penser la Révolution di François Furet riabilitava le analisi, dimenticate o proscritte, dei Toqueville, Taine, Augustin Cochin.» Furet aveva dapprima flirtato col comuniSmo, l’esperienza glielo rese nemico. «La riflessione tornava al Terrore nel momento che l’intelligenza di gauche, a lungo accecata dai miraggi che tutti conoscono, scopriva, tutti insieme, i Gulag, l’inferno cambogiano, i boat people, i disperati che fuggivano dal Vietnam liberato», scrive Philippe Conrad. Al duecentesimo compleanno la «rivoluzione diabolica» riceveva i suoi ultimi frutti. La Vandea tornava a dorare il blasone annerito, i suoi eroi risplendevano di una gloria negata, eppure intatta. Con gl’inglesi, mai!

Corriamo a ritroso, da Couffé a Oudon, sull’opposta riva della Loira, lasciamo di lato la sinistra Nantes, traversiamo il Pays de Retz sopra i margini settentrionali della Vandea fino a Pornic, la piccola città Sull’Atlantico, la cui conquista fu la prima vittoria di Charette il 27 Marzo 1793, come il fallito assalto a Nantes, il 29 Giugno, fu la prima grave sconfitta. Charette e Cathelineau tentarono di eliminare la perpetua minaccia che la grande città incombente rappresentava per la Vandea insorta. L’attacco, cui

dovevano partecipare più di diecimila uomini, fallì per le mancate intese tra i capi. Cathelineau, gravemente ferito, morì pochi giorni appresso. «La mancanza di unione fu fatale alla Vandea. Senza gli antagonismi che la laceravano, con centomila uomini in armi, avrebbe potuto tenere in scacco la Convenzione; l’avrebbe forse spaventata abbastanza per risparmiare alla Révolution il sanguinoso disonore del Terrore; si vorrebbe incolparne i capi dell’insurrezione, se non si riflettesse che il Re per il quale combattevano non era un potente monarca, ma un povero bambino di otto anni che i regicidi tenevano prigioniero in una oscura torre e ignorava di avere seguaci fedeli che portavano il suo nome su bandiere che sventolavano tanto lontano, sui campanili di villaggi di cui mai aveva udito il nome. Ci sarebbe voluto il Delfino per capo, tutte le rivalità si sarebbero inchinate alla sua debolezza, le ambizioni umiliate. Ecco perché Charette, in mancanza del ragazzo Re, cercò di attrarre sulla terra di Vandea uno dei fratelli di Luigi XVI, il Conte di Provenza o il Conte d’Artois; una sola tale presenza poteva unificare tutti gli sforzi e fare, di tante bande disarticolate, un’immensa armata entusiasta da scagliare di slancio sopra Saumur, poi Tours e Parigi, a castigare i regicidi e, tra le acclamazioni del mondo intero, liberare il piccolo Re prigioniero». Così Lenòtre chiarisce gli scopi di Charette: costringere la Convenzione a trattare, e ottenere la consegna del Re. «Negoziare e combattere», l’insegna che sarà di Ho Ci Minh due secoli dopo, Charette la mise in azione, tra le diffidenze e i sospetti degli altri capi, fino all’8 Giugno del 1795, quando il

ragazzo morì nell’oscura segreta alla prigione del Tempio. La tregua era stata firmata, Charette aveva discusso le procedure della consegna, nominato i suoi plenipotenziari. La notizia che il piccolo prigioniero era morto, conosciuta a Parigi il 10 Giugno, gli arrivò il 18, o il 20, altri dicono il 24. Quel giorno quattromila contadini erano ammassati a Belleville in attesa, tutti gli ufficiali erano accorsi all’appello. Le vedette segnalarono l’arrivo della cavalleria repubblicana, una trentina di cacciatori comandati da un capitano. Si tramanda ch’essi portassero la lettera con cui la Convenzione comunicava che non avrebbe mantenuto l’impegno preso. La congettura è probabile perché da quel momento Charette si sentì libero d’ogni intesa e riprese la guerra a oltranza. Fece arrestare i cavaileggeri blu e uccidere a sciabolate la guida che li aveva condotti fin là. Dichiarò ai suoi ufficiali: «La République ha mancato alle sue promesse, il Re Luigi XVII è morto, tutto fa supporre che l’abbiano avvelenato per non consegnarlo». Ordinò che una colonna di duemila uomini attaccasse il campo trincerato dei repubblicani agli Essarts. Lo occuparono l’indomani, di sorpresa, e Pageot, che comandava la spedizione, rientrò trionfante a Belleville il 26 Giugno con 300 prigionieri e un grande bottino. Lo stesso giorno Charette, libero dell’impegno che l’obbligava al silenzio, rivelò il tradimento di cui si credeva vittima: «È venuto il momento di squarciare il velo che da troppo tempo copre le vere cause segrete del trattato di pacificazione», e divulgò la commedia: «Ci mandarono delegati della Convenzione: Canclaux, generale delle armate repubblicane e Ruelle, rappresentante del popolo, si presentarono sotto le apparenze della buona fede, dell’umanità,

della sensibilità... Ci invitarono, ci dissero in tante conferenze segrete, i vostri voti saranno compiuti, i vostri desideri più cari sono anche i nostri... Lavoriamo d’accordo, al massimo in sei mesi saremo al colmo dei nostri desideri, Luigi XVII sarà sul trono... La Monarchia si ristabilirà sulle rovine dell’anarchia...». «Quali sono stati il nostro sbalordimento, la nostra indignazione, quando infine abbiamo appreso che il disgraziato figlio del nostro povero Re, il nostro Re, era stato avvelenato da questa empia e barbara setta... Abbiamo ripreso le armi e rinnovato il giuramento di non deporle se non quando un erede della Corona di Francia salirà sul trono dei suoi padri». Il 27 Giugno dalle navi inglesi sbarcava a Carnac, spiaggia all’apice della penisola di Quiberon in Bretagna, l’armata degli emigrati, cinquemila uomini, cui subito si unirono diecimila Sciuani bretoni col loro capo, Cadaudal. Gli stessi che, neppure un mese dopo, proteggeranno il reimbarco dei superstiti dell’impresa fallita. Gli altri, arresi alle truppe di Hoche, saranno fucilati in massa. Charette si rifiutò di unirsi all’impresa. Ufficiale di marina, sulle coste americane s’era trovato molte volte alle prese con gl’inglesi, «eterni nemici della Francia», scrisse al conte d’Artois, esortandolo a diffidare. Fu proprio la reciproca diffidenza fra gl’insorti, e di questi con gli emigrati e gl’inglesi, che affrettò la catastrofe, ora che la République, che respirava finalmente sulle frontiere, era riuscita a radunare una schiacciante superiorità numerica per stroncare la ribellione.

I due fratelli di Luigi XVI, il futuro Luigi XVIII e il futuro Carlo X, avrebbero forse potuto assicurare la vittoria a quelli che per loro morivano, facendo di Charette il solo generalissimo e ordinando a tutti i seguaci di porsi ai suoi ordini. Non lo fecero, si tennero a distanza, protetti dal mare. Da allora fu soltanto una serie di stragi. Non restava, a Charette e agli altri capi tra loro dissenzienti e dispersi, che «morire inutilmente» al loro servizio. Ancora nove mesi di lotta, e poi la fine.

“La grande armata cattolica” Le prime vittorie

Isola Noirmoutier, 21 Giugno 1996. Fino a mezzo Settecento, Noirmoutier fu un’isola senza riserve e senza sospetti. Posta in quell’ascella della costa atlantica dove la Vandea diventa Bretagna, poco popolata, il nome rievocava il ricordo di un convento di monaci neri; una piccola linda città, un piccolo porto. Fu verso il 1770 che una striscia di terra larga pochi metri ma continua, cominciò a sollevarsi sotto le acque che la separano dalla spiaggia di Beauvoir. Il bradisismo si venne accentuando e oggi, a tener d’occhio le maree, si può andare e tornare con la propria automobile percorrendo il guado chiamato Gois. Come capita adesso a noi che, senza nulla sapere delle tabelle orarie del mare, attraversiamo la laguna madida e puzzolente dove i turisti scaricati dai torpedoni zampettano alla ricerca di ostriche e molluschi. Nell’estate 1793, seguita all’insurrezione del Marzo, la «grande armata cattolica» degl’insorti di Vandea, da 25 mila a 30 mila uomini, di cui 5 o 6 mila armati di fucile, conquista in due mesi la riva sinistra della Loira, da Nantes ad Angers, e issa la bandiera bianca coi gigli d’oro sul castello di Saumur. I generali discutono se invadere la Bretagna e la Normandia oppure osare la marcia su Parigi. Charette non è chiamato al

consulto, «l’homme de toilette et de plaisirs» non piace a Stofflet, il duro e incolto caporale alsaziano, e poco anche a d’Elbée, l’ufficiale dell’armata reale, devoto fino al misticismo. Signore di un vasto territorio, alloggia in una casetta di Legé, la sua capitale. Sull’arco di pietra una piccola lapide scolpita invoca: «Deus spes nostra», con la data, 1663. Congedati i contadini, attorniato da un presidio di duecento uomini e dai suoi ufficiali, Charette si concede una vacanza di suo gusto. L’ultima bella estate, alla corte di Vandea si balla ogni sera all’aperto, nella piazza della chiesa, nei prati. Il generale apre le danze con le favorite della società guerrigliera, la bruna Madame de la Rochefoucauld, la bionda Madame de Bulkeley; le ragazze del paese ballano coi soldati. Quell’estate il «Conseil supérieur de l’armée royale» decreta a Charette il comando sul territorio tra la strada di Nantes e Luçon, la cittadina di cui Richelieu era stato vescovo, sopra La Rochelle. Non gli regalano se non quanto si è già preso. Non erano mutate le diffidenze che cagioneranno il disastro dell’armata realista. Mentre in questo campo continuano i dissensi e le gelosie senza che i principi emigrati si preoccupino di dirimerli, a Parigi il «Comité de Salut public» si trova sottomano, disoccupati, i difensori di Magonza che la fame aveva costretto a capitolare. Per non prendersi l’incomodo carico di ventimila prigionieri, i generali prussiani e austriaci li rimandano a casa dopo averli impegnati, sulla parola d’onore, a non combattere per un anno sulle frontiere. In quella guerra salottiera, di smancerie ancora barocche (Monsieurs les Anglais, tirez les premiers, ecc...), poco importa ai signori austriaci e

prussiani che cosa i macellai di Parigi faranno di ventimila soldati terribili, ansiosi di vendicare, dove che sia, lo smacco subito. Mentre i reduci di Magonza, riorganizzati da generali intrepidi quali i Kléber, Beaupuy, Vimeax, partivano per la Vandea, il loro comandante supremo marciava verso il patibolo. Era il maresciallo Adam-Philippe de Custine-Sarreck, nonno di quell’Astolphe de Gustine di cui ho pubblicato, or sono pochi anni, un’antologia dalle Lettere russe. Veterano della guerra d’indipendenza americana e comandante di una divisione dell’Armata del Reno, Gustine nella seconda metà del 1792 aveva scompaginato, con un colpo d’audacia, la coalizione austro­ prussiana conquistando Spira, Worms e Francoforte. A Parigi tremavano di veder comparire les allemands, e il Mare-sciallo portava la guerra nel territorio nemico, cogliendo una popolarità improvvisa, simile a quella che sarebbe toccata a Bonaparte. Ma le conquiste ottenute con spregiudicata imprudenza tattica furono altrettanto velocemente perdute, le temerarie irruzioni esposero l’Armata all’accerchiamento. Il suo Re, nella primavera del 1793, saliva al cielo; il Maresciallo saliva di grado e diveniva comandante l’Armata del Reno. Le prime sconfitte scagliarono i sospetti, e poi il boia sugli «ufficiali nobili, soprattutto dell’artiglieria e del genio» che, scrive Ippolito Taine, «erano rimasti ai loro posti, o per principii liberali, o per attaccamento al dovere, all’ombra incessante della ghigliottina che veniva a prelevarli sulle soglie dei campi di battaglia, e perfino negli uffici di Carnot». Il Maresciallo fu una delle ultime vittime delle denunce di Marat, la cui fine fece in

tempo a vedere sotto le pugnalate di Carlotta Corday, prima di lasciare l’altera testa nel cesto del boia dopo un processo d’inusitata lunghezza, ben tredici giorni. «Custine apparve davanti al tribunale scortato dai ricordi dei suoi trionfi e sostenuto dalla presenza di sua nuora», la madre di Astolphe, di cui Lamartine nella Histoire des Girondins, cesellò il ritratto: «La sua bellezza, la sua grazia, l’intelligenza, la seduzione e le lagrime intenerirono gli spiriti più severi». La giovane donna aveva sposato l’unico figlio del Maresciallo, anche lui già in prigione. Lasciava la cella del marito soltanto per consolare il suocero nella sua, e accompagnarlo al tribunale... Aveva assediato di suppliche i giurati, i membri dei Comitati. Quando il suocero fu condannato, la portarono via svenuta. «Le lagrime del vecchio maresciallo scendevano sui baffi grigi, la devozione commossa, l’abbraccio del confessore, la seducente nuora», descrisse il sinistro approssimativo Michelet. Non proprio tanto vecchio, il Maresciallo salì il patibolo a cinquantatré anni, seguito sei mesi dopo dal figlio Armand, marito di Delphine e padre di Astolphe, condannato col pretesto d’una missione presso il comandante prussiano duca di Brunswick, che aveva eseguito per ordine della Convenzione. Tali i costumi ministeriali e militari sotto il Terrore, modelli che saranno sempre presenti alla criminalità militare dell’età di Stalin. Donne con la sciabola

Tale il clima in cui gli affrancati di Magonza arrivarono a Nantes, passarono la Loira e avanzarono sul Pays de Retz. I presidi repubblicani ripresero fiato, Pornic, Machecoul, Vertu, Aizenay tornarono ai blu. Ogni giorno il cerchio si stringeva e a Legé, fuggendo davanti agl’incendiari, come furono battezzati i soldati di Kléber, si rifugiavano castellani, borghesi e contadini. I blu avanzavano su tutte le strade in un crepitare di agguati e massacri. Il 19 Settembre, che la Vandea celebra come giorno di grande vittoria, le forze di Charette, d’Elbée, Bonchamp, Lescure e Stofflet fecero a pezzi i maguntini in una battaglia feroce, cui parteciparono in gran numero le donne. Una Perrine Loiseau abbatte a sciabolate tre repubblicani, fino a che, alla sua volta, perde la testa. I maguntini ripiegano sotto la frenesia dell’attacco di Charette che, sciabola nel pugno, coperto di polvere, gli abiti trapassati da cinque palle, esorta i seguaci con appelli incessanti. L’amante di un alto ufficiale blu, «una femme superbe» che segue la battaglia seduta in carrozza, si uccide con un colpo di pistola sul punto d’essere catturata. Il pianoro è coperto di morti e di bottino, «un bagage immense»: ventitré cannoni, 19 casse, una piena di banconote, sei carri e otto ambulanze sono stipati di oggetti preziosi rubati alle chiese, ai castelli, alle dimore. «Niente prigionieri», ha comandato Charette e i suoi, che hanno imparato dai nemici, sterminano i repubblicani fino all’ultimo. Il loro generale, Beyssier, espierà la sconfitta sulla ghigliottina, come Custine. Fu l’eco di questa vittoria, unito all’istinto femminile che spingeva le donne a invocare, tra gl’insorti, sempre lui, che guidò un’invocazione da Noirmoutier. Ne fu strumento una di

quelle piccole grandi figure che la storia dimentica. Si chiamava Marie Lourdais, trentadue anni, bretone, proprietaria di una drogheria di villaggio. Da quando scoppiò l’insurrezione, Marie si trasformò in messaggera dei capi vandeani, camminò senza requie fin che durò la guerra attraverso le paludi lungo la costa, le oscure foreste dell’interno, i grovigli impenetrabili del Haut Bocage. Tenne dei Souvenirs di cui resta l’originale, un eccezionale documento di storia militare. Verso 1’8 Ottobre 1793 Marie Lourdais portò a Charette la lettera di una signora Mourain de l’Herbaudière, vedova del sindaco monarchico eletto dagl’insorti il 16 Marzo. Il 29 Aprile i blu di Beyssier ripresero l’isola e uccisero il sindaco coi realisti suoi seguaci. Per vendicarlo la vedova chiamò Charette che coi suoi luogotenenti Pageot, Desnaurois, i tre fratelli de la Robrie e il curato “refrattario” Remaud, divenuto suo “intendente”, decise di tentare. In tre giorni raccoglie 2.000 uomini, il 28 Settembre, attraverso Machecoul, la piccola armata giunge presso Bouin, sul mare, all’imbocco del Gois. Con la marea più bassa, il guado ci appare, oggi, più di mezzo metro sopra la superficie dell’acqua; allora restava un piede sotto, solchi e forre erano nascosti; la traversata, facile per un esperto, diventava un’impresa a dover traghettare duemila armati nei quaranta minuti prima che l’acqua ritornasse. Promesse; illusioni

Madame de l’Herbaudière aveva assicurato che gli artiglieri repubblicani non avrebbero tirato e che molti erano disposti a

collaborare, ma l’impresa risultò più complessa, e dovette essere ripetuta pochi giorni più tardi. Quando gli uomini di Charette, tremila stavolta, 1’11 Ottobre passarono il Gois e dilagarono nelle praterie della lunghissima isola, la guarnigione si disperse e fuggì. Quelle orde tumultuose di contadini che cantavano e urlavano, le vesti lorde di fango, gli aspetti di banditi, le barbe, le falci, la nomea di assaltatori invincibili, istigarono i difensori, asserragliati nello stupendo castello, ad arrendersi. Wieland, il comandante repubblicano, offre la sua spada a Charette, che gliela tocca e restituisce, invitandolo a passare al servizio di Luigi XVII. L’altro rifiuta, ma la cortesia militare che ha dimostrato gli costerà la testa. Charette detta la capitolazione: l’isola appartiene al Re come l’artiglieria del castello, le navi nel porto, il comandante e i suoi soldati sono «prigionieri di guerra», e il vincitore si compiace di vederli sfilare dal balcone di una leggiadra casa a due piani, che dal nome di un sindaco della Restaurazione si chiama oggi Hotel Jacobsen. Deposte le armi, i vinti si lasciano disciplinatamente rinchiudere nel castello, divenuto prigione. A sera, nell’elegante quartier generale, fu gran festa, con tutto un bel mondo d’invitati. A tavola coi suoi ufficiali e i notabili, Charette chiese che gli presentassero le moglie e le figlie dei repubblicani che se l’erano svignata. Le esortò a unirsi alla sua causa che rappresentava, disse, «la vera Francia»; i prìncipi stavano per raggiungerlo, ora che la via del mare era aperta. E intanto, aprì le danze. E tuttavia non si sentiva sicuro. Si accorgeva che incuteva soltanto paura, la ferocia della guerra lo

trasformava, il suo luogotenente Pageot aveva messo a morte duecento sospetti. L’isola, che Madame de l’Herbaudìere gli aveva assicurato unitissima e piena di seguaci, gli parve una trappola. «Temo che mi abbiate messo nei guai, le risorse che avevo sperato non ci sono, la massa della popolazione non è con noi». Riunì un presidio di 1.500 uomini, lo affidò all’amico Alexandre Pineau, di Legé, a un ufficiale di marina e altri, tra i quali il più giovane dei Robrie, e il 15 Ottobre ripartì per Legé. A Legé fu informato, il 23 Ottobre, della catastrofe toccata alla «grande armée» realista dell’Angiò, a Cholet. Spinta sulle rive della Loira, l’aveva attraversata portandosi appresso, fatale codazzo degl’insorti, cinquantamila donne vecchi e bambini, che, affranti di stenti e di paura, trascinavano in miserabili carrette quanto avevano salvato. Dei tre capi, Bonchamp era caduto, Lescure agonizzava e d’Elbée, il generalissimo, in fin di vita con quattordici ferite, si era rifugiato nel castello di un amico con la moglie e il cognato, in attesa di andare a chiedere asilo a lui. Nonostante i continui dissensi, Charette non negò a d’Elbée lo scudo della sua piccola armata. Ricevè con deferenza il ferito, che gli comparì davanti su una poltrona trasformata, con due bastoni, in portantina. Gli offrì l’isola, l’ultima sua conquista, che i d’Elbée accettarono con gratitudine. Lo scortarono nel Gois più di mille angioini, che dopo pochi giorni tornarono ai loro villaggi. Noirmoutier era divenuto asilo di famiglie scacciate, di perseguitati, dispersi, preti refrattari, malati. S’illudevano di aver scansato la bufera. Il 21 Ottobre il Comité di Parigi impartì

ai generali l’ordine perentorio di «prendere l’isola, o sprofondarla nel mare». La Piazza d’Armi di Noirmoutier non dev’essere molto mutata. Il castello da favola con le sue muraglie, le torri rotonde a punta, la chiesa, le belle case di due soli piani, l’Hotel Jacobsen coi balconcini: laggiù il Municipio e in fondo il porto canale, che taglia l’isola a metà, oggi pieno delle bianche barche oziose. Fu in faccia a quel canale che si consumò la vendetta della République nel Gennaio (o nevoso, per usare i nomi di quei forsennati) del 1794. La targa è piccola, annerita, illeggibile. Porta la data del 1933. La scopre Mariagrazia su una facciata scolorita e sconnessa che sa di oblio e di abbandono, tra le gelosie sprangate: «À la mémoire de l’Elbée / Generalissime des Armées vendéennes: et de ses compagnons De Boisy et Douhoux d’Hauterive /Fusillés sur la Place d’Armes de Noirmoutier / le 7 Janvier 1794. Souvenir vendéen». Su una panchina della piazzetta, vociante dell’odioso andirivieni turistico, rileggiamo col lettore una scena di martirio che fa da prologo alle imprese delle «colonnes infernales» che si mettevano in marcia in quei giorni, culmini del Terrore liberale in missione rieducatrice, mentre Carrier sterminava i nemici del bene a cento e duecento alla volta, e parendogli lenta la ghigliottina, faticosa la fucilazione, e difficile seppellire tanti cadaveri, prese ad affogarli nella Loira. I bambini dei Vandeani raccolti dalla pietà dei Nantesi sono sterminati, da quattro a cinquemila in pochi giorni. Intanto, a

Bordeaux, Marsiglia e Tolone, sparano coi cannoni caricati a mitraglia, millesettecento scannati nella sola Lione. Alle ultime proteste locali, il Comitato rispondeva: «La libertà è una vergine, a cui non si deve alzare il velo». Le scialuppe cannoniere repubblicane posero il blocco all’isola il 15 Dicembre, e intanto Haxo preparava un assalto su tre colonne. Hyacinthe de la Robrie oppose una resistenza violenta, ma breve, i Vandeani ripiegarono, le spiagge furono presto piene dei blu. La Robrie ricondusse le sue truppe nella città, dove il loro aspetto pietoso fece cadere la volontà di resistere. Il morale era talmente basso, che i capi realisti decisero di capitolare e mandarono due ufficiali a offrire la resa. Si davano prigionieri con l’intesa che «nessuno sarebbe stato inquisito per le sue opinioni o per fatti antecedenti». Haxo li riceve «in maniera franca e cordiale», ma avvertì: era solo un soldato, e aveva accanto sorveglianti che lo costringevano alla circospezione. Li fece condurre ai tre Répresentants du peuple, deputati liberali in funzione di commissari politici, come poi nell’Armata Rossa, e sue brutte copie italiane, francesi, jugoslave. La loro accoglienza fu diversa da quella del generale: «Non si fa grazia ai briganti, si cementa la République col loro sangue!». Quei guerrieri scorati che così facilmente avevano ceduto alle lusinghe di assurde speranze, non sapevano che Haxo aveva viveri per nutrire le sue truppe solo ventiquattr’ore, e avrebbe promesso qualsiasi cosa per far cessare la difesa. Vennero altri ufficiali vandeani, fecero appello all’umanità del generale, che si disse ansioso di risparmiare il sangue degli uni e degli altri, e

promise salva la vita a quanti si fossero arresi. I Convenzionali tacquero e Haxo, rivolto ai tre parlamentari realisti, li esortò a riunire le truppe nella Piazza e deporre le armi: «Assicurateli che sarà loro resa la giustizia dovuta!». I soldati del Re bambino e prigioniero buttarono le armi e si raggrupparono «pieni di fiducia nella parola dei blu», che subito li misero in fila e li fecero marciare fino a quello che è oggi l’Hotel Jacobsen: «6 o 700 disgraziati senz’armi», li contano come montoni e li chiudono nella chiesa. «Si lasciarono condurre senza la minima riluttanza». E subito cominciò la caccia a d’Elbée, rifugiato in una casa, le cui proprietarie erano fuggite. Lo trovarono un capitano Guillemet e un brigadiere Dalicel, di cui resta una lettera col racconto: «Agonizzava, il petto squarciato, vomitava sangue. Madame d’Elbée non lo lasciava un momento, aiutata da domestiche angioine. Il generale Guillemet e io domandammo che cosa pensasse. Rispose: sono un soldato come voi, ho abbracciato un partito, per mia sfortuna, perdente. Se non stessi per morire, vi avrei dato ben altro filo da torcere, se avessi avuto diecimila soldati come voi, vi avrei ammazzato altri ventimila uomini, e la Vandea non la prendereste. Io so che tutto quanto prenderete in quest’isola perirà, io per primo. Non cercate dunque di carpirmi segreti, dal mio cuore non ne uscirà nessuno. Fatemi morire quando vorrete». Disastro sulla piazza

I Rappresentanti del popolo arrivarono con Turreau, accompagnato d’altri figuri. Al capezzale del morente stavano la moglie, il cognato Douhoux d’Hauterive, l’amico Boisy, l’abate Durand. Turreau cominciò con una sfottitura del morente: «Eccolo qua il grande d’Elbée, il generalissimo dei Vandeani!», poi ordinò che lo lasciassero solo con lui, forse ancora sperando in utili confidenze. Non ne ebbe, ma d’Elbée parlò con asprezza di taluni suoi ufficiali e biasimò Charette, «la cui ignoranza, ambizione e ostinazione a far tutto per conto suo, avevano fatto fallire le operazioni più importanti». La causa storica del fallimento era già nella cronaca quotidiana. «Se tu fossi arbitro della nostra sorte, come noi siamo della tua, che cosa ci faresti», domanda infine Turreau: «Quello che voi ci farete», fu la risposta. Nella notte cominciò quella che Turreau chiamò «la caccia ai conigli». Dai boschi, dai nascondigli, dai sotterranei uscì un diluvio di preti, di mogli e vedove, di combattenti fuggiaschi. Altre seicento persone si aggiunsero, nella chiesa, ai seicento che già v’erano. Pochi riuscirono a fuggire, tra i quali Hyacinthe de la Robrie, che portò a Charette le notizie del disastro. Il 4 Gennaio, di prima mattina, un ufficiale blu «con grandi baffi», apre la porta della chiesa e annuncia ai prigionieri che torneranno liberi dopo alcune formalità come la consegna dei passaporti [...]. Per evitare confusione, verrete a trenta per volta [....]. Grida di entusiasmo accolsero ogni frase, i primi prescelti uscirono tra l’invidia degli altri. L’ufficiale riapparve due, tre volte, dopo lunghi intervalli; dalle finestre della chiesa alcuni scorsero un drappello di blu

che tornavano dalla spiaggia con spoglie insanguinate sulle punte delle baionette. Sulla folla scese il terrore. Li stavano ammazzando tutti. La «consegna dei passaporti» era una sbrigativa corte marziale dei Rappresentanti del popolo, Turreau e altri malfattori sconosciuti. Per quante ricerche si facessero poi, non si riuscì a scoprire tutti i nomi. Non meno “vergine” della libertà, anche la “legalità repubblicana” aveva i suoi pudori. Un ufficiale repubblicano scrisse con vergogna: «Quel terribile tribunale era composto d’individui vestiti di uniformi che non appartenevano a nessun reparto. Nessuno seppe di dove uscissero i pretesi giudici, arrivati al seguito del generale Dutruy, un avversario ginevrino che poi si spaccerà per un baron Dutruy...». «Fiero della conquista, che attribuiva a se stesso, scrisse a Carrier: Vittoria! Non ho particolari, sono sfinito, dormo a Noirmoutier. Tutto preso, tutto nostro! Gli scellerati sono sotto chiave, il rasoio finirà la festa». Carrier scrisse al Comité parigino: «Mando ordini imperativi ai generali Dutruy e Haxo di mettere a morte, in tutti i paesi insorti, tutti indistintamente gl’individui di entrambi i sessi che troveranno, e incendiare ogni cosa». «Gli ordini emanati dalla Révolution in materia di vite umane, più tardi imitati e ricalcati dai governi e forze armate repubblicane in terra di Spagna e più tardi ancora a guerra finita in Francia e in Italia scaturiscono da un’attitudine sadica e criminale da non confondere con la crudeltà. Crudeltà occasionali possono trovarsi in ordini emanati dal Generalissimo Franco o da poteri anticomunisti francesi e italiani nelle guerre civili. Ma l’attività sadicocriminale incoercibile è caratteristica

dei comunisti e anarchici cui va riconosciuta l’esclusiva dei festeggiamenti con le stragi dei vinti, favorite e protette dai vincitori a guerre finite.» (Solgenitsin). «Si arrossisce», scrisse Lenòtre nel 1924, «quando si apprende che, chiunque volesse scrivere, lungo un secolo, sulla Vandea, doveva fare i conti col mito, minaccioso e fisicamente incombente, della «verginità della République una e indivisibile», e mostrare unzione e rispetto ai suoi gallonati assassini: si arrossisce nell’incontrare in Haxo un leale e coraggioso soldato mescolato a tali ignominie». Ma tale era la perversione morale introdotta dalla République, che quando lo ammonirono: «La tua sconveniente pietà per i vinti prigionieri giustifica i gravi sospetti accumulati sul tuo contegno [...] devi decidere e scegliere tra il silenzio e il patibolo», Haxo tacque. «In due giorni l’affare fù sistemato, l’isola era un solo carnaio, dappertutto si fucilava. Morirono i prigionieri della chiesa. Circa trecento erano fuggiti dalle finestre, li ripresero quasi tutti». La «Commission militaire» non era un tribunale, ma un mattatoio. «Mai l’aggettivo militare fu così leggermente adoperato per contenuti sadicocriminali come fu per tutti i liberal-comunismi, dalla Convention a Pol-Pot». (Solgenitsin). Bisognava uccidere, e alla svelta, perché i Rappresentanti del popolo avevano fretta di tornare a far festa a Nantes, «la Capua della Vandea». Tale identità di strage e festa è una «sindrome cromosomica congenita della mentalità liberalanarcocomunista». Strage repubblicana

La data precisa dell’assassinio «legale» di d’Elbée rimase incerta. Il massacro dei gregari, «legale, secondo le leggi di Parigi», durò «due giorni interi, i capi morirono per ultimi». Nel 1822 il sindaco Jacobsen concluse, dall’esame minuzioso dei documenti rimasti, che fu 1’8 Gennaio. Chi sieda oggi nella piazza chiara, tra le gelaterie e i ristoranti coi frutti di mare, fatica a immaginarsi la truce scena di quel mattino di Gennaio, con il porto per sfondo. Tre pali erano stati alzati, paralleli alla banchina, con la truppa, esausta dopo due giorni ininterrotti di fucilazioni, allineata agli orli della piazza. Dietro i ranghi, pochi curiosi; alle finestre dove s’era affacciato Charette, i membri della «Commission militaire», sulla casa di fronte, i «Conventionnels». Mentre avanzano Boisy, l’amico di d’Elbée e il cognato d’Hauterive che non l’hanno mai lasciato, si avvicina, sulla Grande Rue, al rullo dei tamburi, il corteo del principale condannato: sfinito per le ferite, troppo debole per marciare, lo portano sopra una poltrona laccata e imbottita di velluto rosso. Lo depongono in faccia alle truppe, la schiena al mare. A Boisy e d’Hauterive, un palo a testa, d’Elbée sulla poltrona, un palo resta vuoto, la festa è rovinata. A uno dei politici liberali di Parigi viene l’idea: «Wieland! Wieland!», ma certo, fuciliamo il comandante repubblicano che in Ottobre si arrese a Charette in clima di reciproca cortesia. Tanto basta a meritargli la morte. Mentre lo trascinano, stringe tra le mani un suo memoriale, preparato chissà quando, vorrebbe leggerlo. Già legati, Boisy e d’Hauterive, e dalla sua poltrona d’Elbée, intercedono: «Non è dei nostri, fate morire un innocente!».

I tamburi coprono le voci, pratica comune alla musica della République da quando Santerre coprì le ultime parole di Luigi XVI che volava al cielo. Un ufficiale a cavallo legge le sentenze, si odono le urla di una donna, è la moglie di d’Elbée, «Voglio vederlo! Voglio morire con lui...!». L’accontenteranno, anche se non subito. I quattro cadaveri finiscono nella fossa scavata ai piedi del vecchio castello, sui mucchi accumulati nei giorni avanti. Sulla piazza deserta rimase la poltrona barocca fracassata dalla fucileria. Un marinaio la portò via, un abate l’acquisterà più tardi, i marchesi d’Elbée la comperarono e infine la donarono al museo che oggi i turisti visitano, senza nulla capire. Quattro giorni dopo la morte del marito, esaudirono il desiderio di Madame d’Elbée. La condannarono a morte con Madame Mourain de l’Erbaudière, la vedova che aveva chiamato Charette. Le legarono schiena contro schiena, così che la scarica le trapassò unite e le lasciarono nel loro sangue, contro il muro di questo giardino, rimasto intatto. Esumate nel 1808 dalla buca dove le avevano gettate, furono finalmente sepolte nel cimitero dell’isola.

Il memorial de vendêe

La Chabotterie, 23 Giugno 1996. Quando partiamo da Noirmoutier il Gois è sommerso. Ne indicano il percorso fino alla terraferma le piattaforme di legno piantate a distanze regolari per chi si lasci sorprendere dal ritorno dell’alta marea. Imbocchiamo il ponte sulla Fosse, dove si prendono gli aliscafi per l’isola di Yeu. Risaliamo la costa. Ai tempi della guerra di Vandea queste paludi, ora prosciugate, videro cento battaglie, agguati, stragi. Poste in epoche diverse quali stazioni d’una via crucis, si affollano croci, targhe, simboli, mentre avanziamo infittiscono. Le strade che conducono al duplice Mémorial de Vendée, ai Lucssur-Boulogne e alla Chabotterie, sono già memoriali esse stesse. Attraversiamo Bouin, villaggio ordinato, raggruppato intorno alla chiesa. «Nella scala di questo campanile», dice la targa di bronzo murata nel 1994, «85 persone, di cui 65 donne, furono scoperte da un soldato del generale Haxo e catturate il 6 Dicembre 1793. Nella maggior parte furono poi uccise». Nessuna memoria all’interno. Molto accorta nel far dimenticare le sue compromissioni coi nemici della République, la chiesa cattolica cercò di farsi sopportare dal secolo degli atei, dei massoni, dei liberi pensatori. La politica di adattamento continua. Mentre gli «Amis du Mémorial de Vendée» (di cui prendo la tessera N.

00331) accusano quegli autori di una violenza che non si può dimenticare, i parroci odierni, inseguendo le utopie del mondialismo woytilesco, esortano i fedeli ad adottare «bambini del terzo mondo», una moda frivola e cretina che porterà altri disordini morali e mentali. Sulla strada per Legé, la capitale di Charette, ci accoglie una immensa croce su un basamento di pietra. Una targa avverte che siamo nel «Champ des Fusillées», il bronzo ricorda: «Dopo la presa di Bouin dalle truppe del generale Haxo, 35 abitanti legati insieme furono qui fucilati il lunedì 20 Gennaio 1794». La croce di ferro nera, traforata secondo un disegno ottocentesco, si leva altissima sulle campagne deserte. In ogni borgo si rinnovano le accuse, i lamenti. Riempirei pagine e pagine di questi taccuini se andassi dappertutto e tutto trascrivessi. Di ogni misfatto si denunciano oggi gli autori, nomi e cognomi. Fino a ieri, in tempi non lontani, non era permesso. La polizia repubblicana vi chiedeva che cosa scriveste, e vi ingiungeva di partire. «Per troppo tempo rifiutammo di ascoltare i gridi degli uomini e donne sgozzati, bruciati vivi, squartati; dei contadini d’una terra laboriosa, che d’una intelligente rivoluzione avrebbero dovuto diventare i beneficiari, e furono invece a tal punto umiliati e oppressi, che finirono col ribellarsi. Le rivoluzioni distruggono i caratteri organici delle società umane; sovvertono il corso naturale delle esistenze; annientano i migliori di una popolazione, e scatenano i peggiori». Quelli che scelsero Aleksandr Solgenitsin per inaugurare il Mémorial de Vendée cinque anni or sono, sapevano che cosa facevano, e perché. Qua i ricordi dell’ultima guerra europea, le stragi

dell’Indocina, del Cambogia, i fasti del comuniSmo universale, impallidiscono come imitazioni, davanti agli originali. Qua fù applicato, per la prima volta in modo sistematico, il terrorismo contro una popolazione. Peggio che altrove, contro una gente della propria nazione. La Révolution non inventò, certo, la crudeltà, e neppure il terrorismo. Le guerre di religione ne avevano dato raccapriccianti prove nei secoli precedenti. Ma introdusse stabilmente il terrore come guida dell’azione e del «pensiero politico». Ne fece un ingrediente indispensabile, quale prima non era. Lo chiarisce, senza lasciarsi rammollire dalle pestilenziale complicità dei «moderati», Alessandro Manzoni, fin dall’esordio di quel capolavoro della letteratura politica che resta il Saggio comparativo dedicato alla Révolution nel primo centenario del Terrore, il 1889: «Nome che, applicato a un’intera popolazione, presenta da sé l’idea dell’oppressione che pesi anche su quelli che non siano colpiti direttamente, e levi agli animi il coraggio e fino il pensiero della resistenza». «Del resto, la ragione per cui un tal nome fu dato a quella sola fase, fu perché in essa la cosa era arrivata al colmo. Ma, come è chiaro per chiunque voglia dare un’occhiata ai fatti, il sopravvento di forze arbitrarie e violente era già principiato, quasi a un tratto, con la Rivoluzione, a rattenere col mezzo d’attentati sanguinosi e impuniti sulle persone, una quantità di pacifici cittadini dal manifestare, non che dal sostenere, i loro sentimenti». Manzoni e le intenzioni della “RévoLUTioN”

Per primo Manzoni svela quanto la storiografia revisionista sostiene oggi: non è vero che la Revolution esordisse con intenzioni benevole e legali e si pervertisse poi, anno dopo anno, come si è sforzata a inculcare la implacabile fabbrica della menzogna repubblicana. Manzoni è perentorio in tali sue affermazioni politiche (oggi, negli anni dopo il 2000, bisogna distinguere, come sa chi abbia dato un’occhiata a quelle religiose, sempre più apertamente definite ambigue, reticenti, enigmatiche) che aprono la strada al venturo Solgenitsin: la Revolution è illegale e criminale dal primo giorno, dalle sue prime mosse di ribellione surrettizia, di sofismi, di frodi intellettuali, verbali e giuridiche, dal 10 Giugno del 1789. Crescono, poi, l’intensità e la ferocia; la «pressura», dice Manzoni, raggiunge il culmine, lo supera, diminuisce; eppure le conseguenze restano: «E parimente, cessato il Terrore propriamente detto, continuò quella pressura, in minor grado e varie forme, ma per un più lungo spazio di tempo, a esercitare il suo malefico impero». Rileggo questa aspra invettiva d’esordio nell’esemplare che possiedo del grande libro (La rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo di Alessandro Manzoni, con proemio di Ruggero Bonghi. Milano, Enrico Rechiedei, 1889, in 8° grande, pp. XIII-362) che riuscii a comperare, il 26 Aprile 1994, a 130.000 lire, dalla libreria Ponti di Roma, dopo una decina di fallimenti in più che dieci anni. «Libro introvabile» scrisse a penna, con la sua firma, Massimo Bontempelli, il mio predecessore nella proprietà.

Perché «introvabile»? Perché era stato dannato all’eliminazione e al silenzio da una legge non scritta della bibliografia, della bibliotecnia e biblioteconomia, dell’editoria. Si diffuse, nell’ottocento, un’antireligione, cui neppure la chiesa tentò di opporsi, nella speranza di riuscire meno appariscente e sgradita, d’essere dimenticata e risparmiata. A tal punto la Révolution l’aveva pervertita e infradiciata. Ma era speranza infondata, come chiarisce Jacob Burckhardt nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen, (Meditazioni sulla storia mondiale) dove compendia: «Le idee della Rivoluzione francese continuano a diffondersi, con la massima energia, sia in campo politico, che sociale. Operano con l’ausilio dell’uguaglianza universale dei diritti, tendenze costituzionali radicali e socialiste: la stampa ne favorisce una immensa penetrazione nel pubblico. Le scienze politiche patrimonio comune, la statistica e l’economia diventano arsenali dove ciascuno prende le armi che gli servono. Ogni movimento è universale, la Chiesa sembra ridotta, invece, a residuo irrazionale. Si vuole la religione, ma senza la Chiesa». La globalizzazione c’è già intera e comanda il pensiero, a tal punto, che neppure i partiti e gl’individui detti «di destra» le si oppongono. Ecco perché Léon Daudet, «pubblicista reazionario, formulò, non appena finita la prima guerra mondiale (1922), un sentimento diffuso nel libro intitolato Le stupide XIX Siècle» come rievocò (nel “Roma”, 4 Dicembre 1976) Pietro Gerbore, lo storico e diplomatico che da molti anni avevo eletto tra i prediletti maestri. Giova ricordare il chiarimento che l’autore aggiunse al titolo: «Exposé des insanités meurtrières qui se sont abattues sur la France

depuis 130 ans, 1789-1919», dove la nube oscura delle insanie assassine si allarga sopra quel suicidio dell’Europa che fu la guerra e la sua conseguenza di Versailles. Come un tossico, il verbo della Révolution invade ogni fibra dei tessuti nazionali, perfino nelle nazioni che la contrastarono con le armi nel pugno. Il «malefico impero» si diffonde, penetra senza confini, perdura, avvelena gli strati che la sana ignoranza aveva preservato. Dal 12 Aprile scorso (1996) mi tengo nel portafogli un ritaglio di giornale. Di tanto in tanto lo rileggo. In una frazione dell’Aquila, chiamata Sassa, «alcuni parrocchiani hanno chiesto alla Curia l’allontanamento di padre Roux, un prete di origine francese che il 21 Gennaio, 203° anniversario della decapitazione di Luigi XVI, ha celebrato una messa di suffragio. Parrocchiani? Della parrocchia di Satana? A tale punto il «malefico impero» ha allungato i suoi tentacoli pervertitori, fino a inoculare nelle plebi devote di una regione periferica ignorantissima, la persuasione che decapitare un tale sovrano, di tale rivoluzione, fosse legittimo e doveroso. La perversione è totale, non rimediabile. Diritto, morale, religione, tutti uccisi. Manzoni capì per primo la vastità irreparabile della sciagura. Solgenitsin ratifica e conferma. Ecco perché la revisione, qualsiasi revisione s’intraprenda nella storia attuale, non può limitarsi al mezzo secolo delle due guerre mondiali, conseguenze ideologiche e geopolitiche di quella rivoluzione. Deve tornare indietro, rivangare l’intera zolla, rivoltarla en bloc, come Clemenceau, il testardo distruttore, pretendeva che fosse accettata e venerata. In questa prospettiva la Vandea, i suoi martiri e le sue memorie, gli sforzi dei suoi

uomini, l’abnegazione e il coraggio dei suoi fedeli, lo slancio dei nuovi adepti, appariranno milizia e officina di un riesame, il cui fine sarà il ristabilimento di una storiografia adulta, concorrenziale e alternativa, che sostenga e onori le ragioni dei vinti. Il “nostro charette”

Fu come rompere un fetido incantesimo. Le celebrazioni del 1989 hanno suscitato il volontarismo di un popolo violento represso e offeso, che si batte per una rivincita morale sopra i due secoli: come se la ferita fosse fresca e recente. Una nuova storiografia

Appena giungiamo davanti a una cappella neogotica, a Legé, si muovono le tendine della casetta di fronte, e compare sorridente, una signora: «Voi siete qui per il nostro Charette», comincia a raccontare. La chiesa odierna ricostruita nel 1915, sostituisce quella dove Charette assiste alle messe domenicali nell’estate 1793. Questa Cappella di Notre-Dame-de Pitié, la «Chapelle de Charette», fu costruita e a lui dedicata nel 1826, ma la sua statua fu abbattuta dai soldati nel carnevale della ritornante rivoluzione del 1830. Intorno a questa figura, la guerra continua. Le forze? Su per giù, siamo pari, noi e loro. Ma noi siamo attivi, e loro depressi, confusi, tacciono. La signora ci accompagna e ci consegna a un’altra signora. Ecco la casetta con l’arco di pietra e la lapidina scolpita, Deus spes nostra. Charette abitò questa casa, che apparteneva alla madre di Alexandre

Pineau, comandante la divisione di Legé, massacrato a Noirmoutier dove Charette lo lasciò tra gli ufficiali che comandavano il suo presidio. L’eroe eponimo fa da battistrada agli altri che con lui subirono il martirio. Nel risalto della sua figura i dissensi e le gelosie, la mancata coesione morale e il disordine militare che cagionarono il disastro si ricompongono con la rivendicazione delle idee, dei movimenti, delle limpide intenzioni. «Sur les pas de Charette» è l’insegna che riassume e compendia, nella facilità elementare di un tracciato turistico, il periplo e la direzione di una revisione storica in movimento. I cartelli ci dirigono ai Lucs-sur-Boulogne, la città martire. La cappella occupa la sommità della collina e si leva su un paesaggio assoggettato e disciplinato a servire la memoria di un martirio mai riconosciuto, mai espiato, mai vendicato. Le due parrocchie dei Lues contavano, nel 1789, circa duemila anime. I due curati, Barbedette e Voyneau, rifiutarono il giuramento alla Costituzione civile del clero, che la République pretendeva, e continuarono a esercitare il loro ministero nella clandestinità, con la complicità dei parrocchiani. Le “colonne infernali”

Il sangue cominciò a scorrere già 1’11 Marzo 1793, pochi giorni avanti la rivolta di Machecoul, quando i mezzadri di un nobile emigrato si opposero (massoneria e marxismo non gli avevano ancora iniettato l’odio di classe) alla vendita dei beni padronali. Una settimana più tardi fu una delle prime parrocchie a

insorgere, sarà tra le ultime a sottomettersi. Quando la Convenzione decise di annichilire la Vandea con le «colonnes infernales», Charette comparve ai Lues e il 28 Febbraio 1794 due di queste, comandate dai generali Cordellier e Martincourt, lanciate all’inseguimento del «Grand Brigand», massacrarono la maggior parte degli abitanti. Il 5 Marzo ritornarono e uccisero tutti i superstiti che avevano trovato rifugio della cappella del Petit-Luc sotto la protezione del curato Voyneau. L’altro curato, Barbedette, sfuggì alla strage e nel mese che seguì compilò l’accurato elenco degli uccisi, cinquecentosessantaquattro, di cui centosedici bambini di meno che sette anni. In nessun altro luogo di Vandea le colonne infernali giunsero altrettanto vicine a realizzare la dichiarata intenzione dello sterminio totale. L’elenco dei martiri, le cui ossa sono ammassate sotto le lastre del pavimento, si distende su lucide spaziose tavole di marmo, coi nomi stupendamente incisi e dorati. Distrutta nel 1794, la chiesetta fu ricostruita nel 1867 dopo che un nuovo curato, Jean Bart, ebbe ritrovato e pubblicato il martirologio di Barbedette. Splendide vetrate raccontano in scene forti e patetiche quella giornata di orrore. Ancora una volta seppero bene quel che facevano gli «Amis du Mémorial de Vendée» quando scelsero la rupe su cui si leva la chiesetta quale centro e traguardo di un «Chemin de la Mémoire» pensato come «luogo di evocazione e raccoglimento dedicato a tutti i martiri e alle vittime del Terrore». Le vie d’un vastissimo parcheggio ordinato nel piano confluiscono al Pavillon d’accueil che comprende una grande libreria con vendita degli antichi libri in ristampe anastatiche,

dei nuovi e nuovissimi, dei pamphlet polemici, sintesi, rievocazioni, album fotografici, incisioni, riproduzioni, manifesti, ritratti, fino ai souvenir della moda giovanile, anche i più stupidi: le magliette figurate, le battaglie coi soldatini, gli audiovisivi, le carte da giuoco su due mazzi, i buoni e i cattivi, i nostri e i loro. Ogni rigurgito di conciliazione è escluso, le boiate sulla storia «condivisa», come dicono le maledette bestie nostrane, non tentano questa guerra civile elevata a dignità inconciliabile in un anelito di eternità. La révolution inventa lenin

Una targa di bronzo dorato, semplice e spoglia di quegli ornamenti che la ridurrebbero alla lusinga turistica, un bronzo duro «perché tutti ricordino» rievoca il giorno che «Alexandre Solgenitsin e Philippe de Villiers, Président du Conseil Général de la Vendée», inaugurarono il «Chemin de la Mémoire», il 25 Settembre 1993. Quasi a riprendere di proposito l’intuizione che Alessandro Manzoni, il martire sopravvissuto dell’Arcipelago Gulag, denunciò tutta la Rivoluzione quale perversa e criminale, fracassando la mitologia menzognera di una temporanea deplorevole caduta. Le stragi, tutte le varietà del sadismo e della follia di cui si macchiarono le “colonne” repubblicane (a bambini e giovinette strapparono i cuori e le lingue, gli stupri furono compiuti con ogni sorta di strumenti, animati o inanimati, le mutilazioni, gli sventramenti, gli scuoiamenti, le crocifissioni delle più fantasiose immaginazioni, le impiccagioni

inimmaginabili delle vittime furono oggetti di pubblicazioni “riservate”, non accessibili al pubblico, ghiottonerie per gastronomi raffinati dell’orrore; gl’incendi di cascine e villaggi, le profanazioni di oggetti sacri, i furti, le appropriazioni, gl’insulti si affollano entro inventari che si potranno completare fino al fondo) non si possono più tacere, o scusare con le solite attenuanti della truppa stanca, innervosita dalla guerriglia. Non sono, né possono diluirsi agli “incidenti di percorso”, inevitabili in ogni rivoluzione. Precisò Solgenitsin, con accurata analisi, che facevano, invece, e fanno parte di ogni tipo di rivoluzione universale e sociale; che terrore e crimine non sono degenerazioni imprevedibili, ma elementi costituzionalmente congeniti in quel tipo di mutamento perverso della società umana: anche in Russia intere popolazioni resisterono strenuamente, come i Cosacchi del Don e degli Urali. E anche in Russia, come in Vandea, il potere comunista soffocò la resistenza nel sangue, in un vero genocidio. Fu la Révolution francese a inventare le teorie e i metodi che Lenin e seguaci perfezionarono e diffusero. Il terrorismo che oggi, vendicativo e ricattatorio, tiene in subbuglio le nazioni civili, è figlio, erede di quella Révolution, modello superato in estensione geografica e numero delle vittime, non in sadismo e ferocia. Meno che mai, nel furore ideologico e non ideale, e nella volontà consapevole e premeditata di sterminare una bene individuata comunità umana. «Furono pervertiti e perduti i sentimenti della buona fede, della solidarietà, dell’umanità, della pietà, della lealtà, dell’unità famigliare». Allo stesso modo un grande storico

dell’arte, attento ai moti delle anime non meno che all’evolversi delle forme, Hans Sedlmayr, ha dimostrato che nello smarrimento e nell’abiura delle menti, si produssero, negli stessi tempi, quella «perdita del centro» (Verlust der Mitte, è il titolo folgorante del libro che descrive la lebbra concettuale e estetica), quello smarrimento dei fini e della moralità dell’arte, quell’abbandono dei principi eterni, di dove nacque il marasma osceno della cosiddetta arte moderna. Quella che, ridipinta e leccata quale «immagine romantica della Rivoluzione», è frutto di uno storico sommario e cialtrone, Jules Michelet che, repubblicano e democratico, dedicò al popolo un culto confusionario e commovente... «Trascura le conoscenze per fidarsi del proprio intuito, di quello che crede un potere visionario. Il rumoreggiare della folla, gli assassinii, le bianche fanciulle dal collo troncato, le teste portate in giro infilate sulle picche, tutto quel sommovimento allucinante, avvolto in una bruma sanguinosa, brilla ai suoi occhi come la luce di un istante benigno e sacro» (Kléber Haedens). Di simili cervelli si nutrì una cultura di fogne, che tuttavia gradualmente s’impose, soffocò e mise a tacere le voci contrarie, si assise in un trono che credette «immortale» come i «principii» di cui era espressione. Scuola di massoni, mitologia democratica

Ora è finita. Per una volta torna ad avverarsi l’antica impresa, «il tempo svela la verità». Nessuno aveva osato sconsacrare e schernire la Révolution con tanta spietata chiarezza. La scuola

dei massoni, la mitologia democratica, l’università pecorile non risparmiarono suasione e sofismi, lusinghe e ricatti, premi e cointeressenze per avvolgere la République d’una aura di venerazione. Negarla, rifiutarla, era pericoloso. Tra gli scrittori moderni, i soli Charles Maurras e Léon Daudet in Francia, i soli Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini in Italia osarono aggredire il feticcio, già putrefatto, agli esordi del secolo XX. Un solo storico regolare, Pierre Gaxotte, condusse a fondo l’impresa di uno smontaggio organico e completo, pezzo per pezzo, risalendo alle cause falsificate, agli scenari retorici, alla demagogia bugiarda, all’oscena menzogna, alla farsa maestosa dello «stupido secolo decimonono». Arretrata e appartata, la Vandea ha offerto alla distruzione incominciata l’accelerazione emotiva, la spinta irrazionale delle forze resuscitate. Il suo risentimento ribolle di rivincita e rivendicazioni, si comunica alla Bretagna, alla Normandia, a tutti i figli delle «patries de l’Ouest». Piansero, in silenzio, i loro martiri. Si rassegnarono a un’acquiescenza che arrivarono a scambiare con un pezzo sacro di umiltà, da pagarsi alla vociferante “Patrie” in pericolo, che chiamava i suoi «enfants» per mandarli ai ricorrenti macelli sotto generali somari e cinici (basti per tutti, il macellaio democratico e massone Nivelle, più testardo e somaro ancora del Cadorna) in tre guerre, democratiche e socialiste, tutte sonoramente e con poco onore perdute; nonostante le interessate finzioni consolatorie delle altre due democrazie liberali: («Ma perché ve la prendete tanto per la Francia che, dopotutto, non esiste, non conta niente, e ha

sempre perso», domandò Stalin divertito. E Churchill rispose in tono compunto, «Per bontà»). Una République putrefatta

E tuttavia, nonostante i dubbi e le crepe, l’impegno retorico di mantenere vivo il fantoccio parigino, cui una destra bastarda offre interessati sostegni, minaccia di durare ancora a lungo. L’ultima stampella alla svergognata Revolution fu offerta a De Gaulle restituendo i favori ricevuti quando la “résistance” accettò la guida di facciata della Croce di Lorena. Passerà tempo prima che le due France si affrontino in campo aperto. Nemiche e divise, i loro interessi s’incontrano nella finzione ufficiale. Ministri e prefetti testardamente ignorano i tentativi di coinvolgerli nel movimento revisionista. Bisogna andare agl’invalidi per sentire i custodi gridare ai visitatori che si sporgono dalla balaustra che circonda e sovrasta la tomba di Napoleone: «E un giorno gli metteremo accanto il maresciallo Pétain». Alle oscenità edilizie della putrefatta République, che hanno sovvertito il profilo di Parigi, il Mémorial de Vendée offre il contrario esempio di un moderno monumentale sobrio, virile, classico. L’atrio oscuro, che fa da antiporta al Corridoio della Memoria, si apre con una vasta e profonda vetrina, al suo centro campeggiano i forcali, le picche e le falci, le armi dell’insurrezione. Ai lati si snoda la serie delle visioni, dei paesaggi antichi, delle planimetrie di battaglie, la folla degli oggetti, armi, documenti, fogli stampati, tessuti, arazzi, ordinati

in una museografia sempre efficace e, perfino nella violenza, elegante. Usciti all’aperto si sale verso la cappella del massacro, accompagnati da steli metalliche scure; ciascuna reca un motto, un pensiero: «Non è l’uccidere un innocente come innocente, che perde una società, ma l’ucciderlo come colpevole» accusa una frase di Chateaubriand: mal traducibile, eppure terribile, cela nei suoi abissi il legame tra i Carrier e i Poi Pot; tra gli sterminatori del «Champ des Fusillés» e i partigiani del secolo ventesimo. La filiazione della barbarie rossa dalla barbarie blu appare genealogia spontanea, così logica come emotiva. La “resistenza” ne è la lurida erede, il mito fondatore. Pochi minuti d’automobile separano il grave prologo dei Lues coi suoi silenzi meditazioni e invocazioni, dalla festa della Chabotterie, il castello che della Controrivoluzione è spettacolo. Chabot è un pesce, assai brutto, d’acqua dolce, con una grossa testa. In italiano porta un nome poco decente, scazzone. Chabotterie indicava un castello circondato di vasche e stagni pieni di questo pesce, come a Pratolino le gamberaie e altre amenità acquatiche. Non compromesso con famiglie e partiti, il nome superò indenne il fossato di due secoli. Qui, dove la guerra di Vandea si concluse il 23 Marzo del 1796 con la cattura del più popolare capo dell’insurrezione, si è stabilita oggi la roccaforte della Controrivoluzione alla conquista della sua dignità storica. Il castello, restaurato col suo mobili, gli arredi, i quadri, testimoniano l’arte di vivere della società Bas-Poitu, che dettava legge alla rue Vandea. E insieme affascina attraverso la fantastica storia dell’eroe, da aspirante di Marina al «Roi de

Vendée»: martire dell’onore ma vittima del suo disordine, come la R.S.I. L’esposizione che si snoda nelle vetrine del vasto padiglione trasformato in museo scenografia e archivio, testimonia le capacità e la volontà di un ceto culturale che nulla ha a che vedere coi tartufi delle inutili università, gli arrampicatori delle accademie, gl’impiegati delle intendenze statali. Stile arioso, le sale si aprono in un tema di sfida. «La Chabotterie si apre a seminari d’iniziazione alla storia della Vandea, e può servire di partenza per la scoperta del suo patrimonio». Respinta e addossata per due secoli alla barriera della vergogna e del compianto di sé, la vittima della «rivoluzione diabolica» prende, all’improvviso, la testa del convoglio. Succede come quasi trent’anni fa avvertì Gaetano Arcangeli, poeta reazionario convinto che la gauche non possedesse il monopolio della storia:

«La Storia, sì, procede; ma pure, qualche sosta, a tratti si concede... c’è poi chi non s’awede che con manovra lesta, senza che nulla s'oda, i vagoni di testa, ecco, passano in coda».

MERIDIANI E PARALLELI LA SPERANZA CHE RISPLENDE IN UN ATTIMO...

L’11 Novembre 1940, nel porto di Taranto, ventiquattro aerosiluranti Swordfish dimezzarono la flotta italiana da battaglia. Erano biplani, pezzi da museo con 150 km orari, di fronte ai quali i nostri Fiat C.R. 42 erano terribili macchine; ma il piano, studiato fin dal 1936, era preciso, e l’ammiraglio Cunningham non dove far altro che toglierlo dal cassetto quando si fu persuaso che la concorrente mediterranea, dopo aver lasciato passare inutilmente un’estate gremita di occasioni fantastiche, era matura per incassare un colpo decisivo. L’indomani Churchill si presentò ai Comuni con l’aria trionfante di quattro mesi avanti, quando aveva annunciato di aver messo fuori combattimento la flotta francese: «L’equilibrio del potere marittimo nel Mediterraneo è capovolto!». Il destino cambiava, ancora una volta, quadriga. La capitolazione francese, e poi l’entrata in squadra della divisione Littorio, avevano dato alla Regia Marina una superiorità, di cui nessuno seppe o (piuttosto) volle profittare. E ora le grandi navi, risparmiate non si sa bene per quali scopi, poggiavano sui fondali melmosi della baia tarantina.

Non avevo mai visto l’arco di quell’estate, da Luglio al Novembre, così chiaro come ora, 10 Novembre 1996, dagli spazi della rada di Brest, nell’angolo tra l’Atlantico e il Mare del Nord. Il concetto di «potere marittimo» è finito in archivio come tutte le leggi della guerra antica. Ma allora era un’equazione geopolitica in continuo mutamento, distesa tra le basi britanniche e francesi del Mare del Nord e le piazzeforti dell’Estremo Oriente, i cannoni e i bacini di Singapore. Due o tre corazzate in più o in meno su uno schieramento producevano distensioni e contrazioni, come in un organetto, la cui camera d’aria aveva per centro il Mediterraneo. Nel senso dei paralleli lo percorreva, da Gibilterra a Suez, la “via imperiale” inglese. Nel senso dei meridiani, lo sbarrava, da Tolone a Orano, la “via africana” francese. Vuota e silente è oggi la rada di Brest, dopo la victoire-burla della Francia di De Gaulle, non meno di Taranto, dopo la sconfitta-truffa dell’Italia. «Il vostro attacco in Mediterraneo doveva scattare automatico come un riflesso condizionato», dice il comandante Decazes: «Ero guardiamarina a Tolone. Dopo l’aggressione inglese a Mers-elKebir, ci mettemmo ad aspettare la vendetta dall’Italia. Sì, proprio dall’Italia. Badi che il prestigio dell’Italia era alto, allora. Un anno prima avevate dato una mano decisiva alla vittoria di Franco. I resti delle armate repubblicane si rifugiarono in Francia: li vedemmo ridotti a torme affamate. Che vittoria!

Tutti noi giovani ufficiali, dopo che il tradimento inglese ebbe distrutto la nostra flotta uccidendo in un giorno più nostri camerati che i tedeschi in dieci mesi, facevamo il tifo per l’Italia. Nessuno parlò di pugnalata alla schiena, sono invenzioni del poi. Traboccavamo di odio contro l’Inghilterra e speravamo che l’Italia vendicasse i nostri morti e le nostre navi. E invece, niente. L’estate passò vuota, stupida, inutile».

L’Italia era entrata in guerra, il 10 Giugno, in condizioni di schiacciante inferiorità navale. Ma l’armistizio francese la cancellò. La vittoria venne, di mese in mese, fino all’Agosto, a portata di mano. La rotta tra l’Italia e la Libia attraversava la «via imperiale» al centro del sistema, nelle acque di Malta, che poi divenne il perno della vittoria britannica. Ma quell’estate non era così. Fino a Settembre e Ottobre, la situazione dell’isola rimase disastrosa. Mancavano soldati, artiglierie, aeroplani, scorte alimentari. Non è vero che l’Inghilterra fosse preparata. Era assai peggio preparata dell’Italia. Tutte le risorse, trasferite in fretta nell’isola metropolitana contro un attacco tedesco, che poi non venne. La difesa aerea di Malta era costituita, in tutto e per tutto, di tre vecchi biplani Gloster Gladiator, ribattezzati Fede, Speranza e Carità. A Gibilterra, c’erano sette aeroplani, loro stretti parenti. La sola portaerei di Alessandria imbarcava altri diciassette ferrivecchi. Quale che fosse il conto giusto tra i tanti, più o meno stravaganti, che si son fatti, la Regia Aeronautica poteva contrapporre, quell’estate, nugoli alati alla striminzita e temutissima Royal Air Force.

Fino al Settembre avanzato, conquistare Malta fu impresa non solo possibile, ma facile. Pur che qualcuno avesse le idee chiare e volontà di realizzarle. Nessuno ne ebbe, e lasciammo sfuggire un’occasione millenaria. Noi tutti, non il fascismo. Lo Stato Maggiore della Marina, che in suoi rapporti del 1938 aveva invocato l’occupazione di Malta come condizione irrinunciabile a qualsiasi operazione, preferì dimenticare. I nostri comandi non seppero accorgersi di quel vantaggio iniziale. 0 non vollero. Nessuno dirà mai quanti ammiragli italiani condividessero, neH’animo loro, le speranze che l’ammiraglio Maugeri, la più laida figura che mai vestisse uniformi italiane, rivelò esultante quando le vide realizzate dalle navi italiane intrappolate a Malta, pochi giorni dopo 1’8 Settembre: «Per la prima volta la bandiera inglese e quella italiana sventolavano fianco a fianco. Un brivido di piacere mi percorse, anche se sapevo che ciò significava la nostra resa e disfatta». La mattina del 7 Settembre 1943, ad armistizio firmato ma non annunciato, lo stesso Maugeri assicurò al generale Maxwell Taylor, in missione segreta a Roma per concordare con un altro eroe, il generale Carboni, il lancio e sbarco dell’82a divisione aerotrasportata, che la Marina avrebbe obbedito, tutta, all’ordine di trasferirsi a Malta: «Mi dica della Marina, ammiraglio», incalzava Taylor, «si può aver fiducia che obbedirà agli ordini, quali che siano?». Rispose Maugeri: «Se ho ben capito, lei parla della resa [...] la Marina obbedirà senza fallo, in qualsiasi circostanza, può stare assolutamente sicuro».

Nel 1948, il contrammiraglio Ellis M. Zacharias, capo del Servizio informazioni navali degli Stati Uniti, nel libro Secret Missions. The Story of an Intelligence Officer, offrì conferme mai bene esplorate dopo: «Gli Alleati erano in contatto con alcuni elementi dissidenti tra i più alti gradi della Marina italiana, e per lor mezzo preparavano la resa della flotta... Solo alcuni uomini-chiave sulle navi italiane ne erano a conoscenza». Non per caso, l’articolo 16 del «Dettato della pace» ha espressamente vietato all’Italia di ricercare e perseguire gli «uominichiave» che portavano gli equipaggi al massacro e la nazione al disastro. In ogni caso ecco una sanguinosa lode dello Zacharias, «la Marina italiana è stata l’unica tra le varie forze armate che abbia condotto le trattative di resa nel modo e nei tempi da noi prescritti».

Il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Cavagnari, finse di non accorgersi che la scomparsa della flotta francese aveva cancellato le nere prospettive della sua memoria a Mussolini del 14 Aprile 1940. Informato dal maresciallo Badoglio, della «assoluta volontà del Duce di intervenire nella direzione e nel momento che sceglierà», aveva ammonito il capo del governo: «L’entrata in guerra dell’Italia, a conflitto europeo così avanzato, trova inglesi e francesi in situazione molto vantaggiosa, poiché hanno già effettuato i propri trasporti e trasferimenti nel Mediterraneo». È curioso che il prudente stratega non mutasse opinione dopo che la capitolazione francese lasciò l’Inghilterra sola, a tal punto preoccupata della

sopravvivenza metropolitana, da non poter distaccare in Mediterraneo per circa tre mesi, né una nave, né un aeroplano. Riletta a cinquantasei anni di distanza, la successiva frase del Cavagnari si colora d’un sardonico sinistro: «Viene così meno la possibilità di ottenere i primi successi ... profittando dalla crisi di apprestamenti dei nemici»: excusatio non petita alla decisione, già presa, di non coglierli, per quanto evidenti fossero le occasioni. L’Italia fu la sola nazione che entrasse in guerra, potendo scegliere il momento dell’intervento, senza neppur tentare un’azione di sorpresa. Peggio, senza neppur tentare di salvare la sua flotta mercantile in navigazione, che finì in buona parte sequestrata dal nemico. «La nostra guerra sul mare potrebbe ben presto tramutarsi in guerra difensiva», proseguiva l’Ammiraglio: «qualunque sia il carattere che la guerra potrà assumere nel Mediterraneo, ingente sarà, alla fine, il bilancio delle nostre perdite navali. Alle trattative di pace l’Italia potrebbe giungere non soltanto senza pegni territoriali, ma anche senza flotta e forse senza aeronautica». Churchill o Roosevelt avrebbero immediatamente tolto il comando a un simile tipo. Stalin e Hitler l’avrebbero tolto dal novero dei vivi. L’inesperto chiacchierone Mussolini non si accorse neppure che il documento era stato concepito e scritto nel solo intento di rendere lui responsabile del disastro che loro perpetravano. La melensa apologetica fiorita tra gli scrivani della Marina nel dopoguerra chiama «gravissime» e «profetiche» le parole di Cavagnari: che si rileggono oggi in perfetta coincidenza con quello che scrisse l’ammiraglio Maugeri in un suo libro pubblicato dopo la guerra a New York e mai tradotto in Italia,

From thè Ashes of Disgrâce (Dalle ceneri della disfatta): «L’ammiragliato britannico aveva numerosi amici tra i nostri ammiragli d’alto rango e nello stesso ministero. Penso che gl’inglesi potessero ricevere informazioni direttamente dalla fonte, senza sprecare denaro e fatiche in torme di agenti segreti a Genova o Napoli, Taranto o La Spezia». La Marina italiana, assicura Maugeri, non aveva piani per una guerra contro l’Inghilterra: «Tutti i nostri calcoli e il lavoro dello Stato Maggiore erano basati sul presupposto che in ogni futuro conflitto non avremmo mai combattuto contro la Marina britannica, e quando la guerra scoppiò non avevamo alcun piano di operazioni contro Malta». Li avevano buttati via: potenza della fede, e del denaro. L’estate del 1940, per quanto riguarda la Marina, è un pozzo nero che dovrà essere scavato. Da trentatré anni Franco Bandini ha offerto le tracce e direzioni dello scavo nel solo libro importante scritto sulla guerra italiana, Tecnica della sconfitta. Ma il destino della patria non interessa a nessuno, per la buona ragione che la patria non c’è più. La nostra guerra navale...

La prima battaglia navale avvenne il 9 Luglio. Gl’inglesi avevano aperto la lunga serie dei passaggi in Mediterraneo con una tecnica che diverrà usuale. Un convoglio usciva da Gibilterra accompagnato dalla «Forza H» fino alle acque di Malta, dove veniva a incontrarlo la squadra di Alessandria. La storia dello scontro è stata rifatta innumerevoli volte, con la conclusione,

eufemistica e stiracchiata che, tra le cannonate sulle nostre navi e le bombe d’aereo su quelle inglesi, si finisse alla pari. Nessuno ha esplorato il cuore nascosto della battaglia: l’ordine del comando della Marina che, da Roma, vietò alla Littorio e alla Vittorio Veneto che, «pur non essendo perfettamente addestrate, avrebbero portato nel combattimento il peso decisivo dei loro ottimi diciotto cannoni da 381 mm», di uscire da Taranto. Il giudizio dell’ammiraglio Jachino è un’accusa che non trovò corte marziale ad accoglierla, per la buona ragione che aver provocato la sconfitta della patria in guerra fu un titolo di merito nella ex­ patria del dopoguerra e di oggi. Ma leggiamo il seguito: «Se fossero uscite la sera dell’8, si sarebbero potute unire alla flotta di Campioni la mattina seguente, costituendo così una sgradita sorpresa per il nemico. L’ammiraglio Bergamini che comandava quella divisione e ne curava l’addestramento, fece infatti accendere le caldaie [...] e propose a Supermarina di uscire appena possibile e prendere parte alla battaglia prevista per l’indomani. La proposta non fu però accettata, perché a Roma si giudicò che quelle navi non erano in grado di affrontare il combattimento. Esse avevano effettivamente ancora molti operai a bordo [...] tuttavia se l’ammiraglio Bergamini riteneva che potessero prendere parte alla battaglia, non c’era ragione di dubitare del suo giudizio». Ma Bergamini era considerato il nemico numero uno dal partito di Sua Maestà Britannica che comandava nella Regia Marina. Bisognava arginarlo, impedire che facesse danni (alle navi di Sua Maestà). Bergamini era un traditore. Voleva vincere la guerra.

...E QUELLA DEGLI ALTRI

L’anno dopo, il 1941, quando tutta la flotta britannica si butterà alla caccia della Bismarck, l’ammiragliato farà uscire la nuovissima Prince of Wales, non addestrata, incompleta nei dispositivi di puntamento, e con gli operai a bordo. Le sue artiglierie dovranno superare gravi inconvenienti nel puntamento e nello sparo; tirerà salve di tre colpi anzi che di cinque. Il che non impedirà, alla corazzata non addestrata, di mettere sulla groppa della Bismarck il primo colpo di grosso calibro, cagionandole quella perdita di velocità che le riuscirà fatale. Ma ecco Aldo Cocchia, un altro accusatore inascoltato: «Carlo Bergamini era comandante della divisione formata dalle due “trentacinquemila ”, Littorio e Vittorio Veneto in fase di allestimento: nessuno meglio di Bergamini era in grado di assolvere al difficile compito di mettere a punto le due unità nuovissime, considerate il nerbo della flotta... Nella giornata di Punta Stilo avrebbe voluto andare incontro a Cunningham che veniva baldanzosamente avanti verso lo Jonio [...]. Soltanto un ordine molto drastico di Supermarina potè impedire a Bergamini di mettersi in mare con le due potenti corazzate, ormai in grado di navigare e sparare». Molto drastico. Sfido. C’era il rischio di vincere la battaglia. Quale sarebbe stato l’esito, se contro le corazzate inglesi, delle quali la Malaya e la Royal Sovereign, proverbialmente lente, rimasero arretrate e fuori della battaglia, oltre alle due Cavour, ci fossero state le migliori navi da battaglia del Mediterraneo? Supermarina le tenne in porto,

intenta a realizzare il capolavoro negativo della Regia Marina, le cui grandi navi si consegnarono prigioniere, dopo tre anni e tre mesi di guerra, senza mai aver messo un colpo di grosso calibro su una nave nemica. La sorte della Roma

Si consegnarono [l’eccezione, e il salto in avanti che comporta sono d’obbligo] tranne la Roma, sulla quale 1’8 Settembre Bergamini alzava la sua insegna di comandante della flotta. Per un sardonico paradosso, fu proprio la Roma che la bomba razzo lanciata dal Dornier 217 del comandante Jope mandò a picco con tutto l’equipaggio, l’Ammiraglio, e il suo segreto. Ingannato da De Courten, ministro e Capo di Stato Maggiore, fino al mezzogiorno dell’8 Settembre, Bergamini aveva convocato a rapporto i comandanti sulla Roma. L’ammiraglio Sansonetti gli disse, a telefono, che le navi dovevano alzare un pennello nero sull’albero maestro e dipingere tre cerchioni sulle prue, infami tatuaggi di resa. L’Ammiraglio, che aveva preparato navi e uomini a contrastare lo sbarco nemico a Salerno, apprese che avrebbe dovuto condurre la flotta dalla Spezia alle acque di Bona, e di lì a Malta. Disse al comandante Bedeschi che sarebbe andato «in un ancoraggio italiano, o in altro fuori ogni estranea ingerenza. Non consegnerò mai la flotta al nemico [...]». L’ombra della risoluzione estrema passò sul suo volto allorché aggiunse: «Sento che non ci vedremo più, bisognerà andare a picco». Salpò alle tre del mattino, con tutta la squadra, senza pennelli neri, senza cerchioni neri, e andò a picco con la sua

nave, la sola affondata dall’alleato tradito. Resterà sempre senza risposta l’interrogativo dove avrebbe condotto la flotta ai suoi ordini. L’ammiraglio arrestato... dai colleghi

A Taranto l’ammiraglio Galati voleva uscire alla caccia dei convogli nemici violando l’armistizio: «Mai consegnerò agl’inglesi le navi al mio comando [...]. Una flotta ancora efficiente, per quanto decimata, affronta l’ultimo scontro: le unità superstiti si autoaffondano e non si recano con le proprie macchine nei porti nemici». Tra i colleghi «prevalse l’opinione di obbedire», e Galati fu arrestato e chiuso in fortezza, mentre i suoi incrociatori salpavano per Malta al comando di un altro. La riserva su Bergamini e Galati s’impone, in qualunque momento, si tratti del destino di una flotta che così finiva la sua esistenza onorevole. «Se la memoria non mi tradisce, la storia navale non ricorda il caso di un ammiraglio britannico che abbia portato le sue navi in un porto nemico», disse Galati ai pari-grado, che lo arrestarono. La stessa idea del dovere ebbero Valerio Borghese e gli altri che si schierarono con la R.S.I.: e, tra gli ufficiali superiori rimasti al servizio del Re, il solo che trasse le necessarie conclusioni e si uccise, Carlo Fecia di Cossato. Gli ammiragli inglesi che mandarono a combattere la Prince of Wales incompleta erano degni del comando. Gli ammiragli italiani che vietarono a Bergamini, nelle simili condizioni, di fare ciò che esperienza e dovere gli dettavano, non erano degni,

né del comando, né di onorata memoria, ma soltanto della fucilazione. Contemplato così, a ritroso, nella luce dell’8 Settembre a Malta, il disastro di Taranto appare un eloquente preludio. Così si spiega che per tre giorni le due forze inglesi scorrazzassero indisturbate per il Mediterraneo. La forza di Alessandria usciva verso Levante per scortare convogli a Creta e Malta, mentre da Gibilterra arrivavano la corazzata e gl’incrociatori che Cunningham aveva chiesto di rinforzo. Nonostante una superiorità all’apice delle forze, con sei corazzate in linea, la Regia Marina non fece uscire le navi, che rimasero a Taranto pronte, coi fuochi accesi. L’ordine di combattimento non venne. I nostri ricognitori furono tutti abbattuti dai caccia Fulmar dell’/l/ustrious, mentre gl’incrociatori inglesi si permettevano una proficua incursione nel canale d’Otranto, affondando mercantili diretti in Albania con rinforzi per l’armata, da due settimane sciaguratamente scagliata contro la Grecia. Indisturbata, Vlllustrious si spinse a duecento chilometri da Taranto, dove la Regia Marina aspettava il suo destino: ferma, coi fuochi accesi. Il nemico si gettava allo sbaraglio per ridurre la nostra superiorità con un colpo di mano. La prudenza dei nostri comandi potrebbe sembrare una replica d’altra famosa prudenza navale, quella degli ammiragli austro-ungheresi nella guerra precedente. Una replica peggiorata dal tradimento. Il colpo di Taranto mostrò la superiorità del nemico; non nei mezzi, ma nei caratteri, negli animi, nell’onore militare, nella fedeltà alla patria.

Per giorni e giorni i nuovi ricognitori inglesi di Malta avevano sorvolato Taranto e preso fotografìe senza che nessuno pensasse di mutare disposizione alle navi. Le reti parasiluri erano insufficienti, 3.000 metri erano rimasti nei depositi. Si scrisse che, a quei tempi, il siluro aereo era ancora un’arma dai risultati incerti, e nessuno supponeva che gl’inglesi avessero messo a punto gli ordigni micidiali di quella notte. Ma nulla era stato approntato per prevenire un’offesa che ravvicinarsi dei fronti d’operazioni alle nostre coste rendeva temibile. Per non aver affrontato (ancora una volta, fosse ignavia o tradimento) la flotta nemica nel nostro mare, il Comando della Regia Marina perse metà della flotta da battaglia senza combattere, con danni di certo superiori a quelli che avrebbe subito in una battaglia. Restituimmo il colpo, grazie alla vittoriosa incursione ad Alessandria della Decima Mas di Valerio Borghese, uomo libero, fuori dal raggio pestifero dei superiori comandi. Ma intanto l’estate preziosa era passata, e la sola occasione per l’Italia di vincere la sua guerra mediterranea era perduta.

Ferma a 170 miglia dalle nostre coste, alle 21,30 dell’ll Novembre 1940, l’Illustrious lanciava ventiquattro aerosiluranti in due ondate. A Roma, in salone operativo, la tranquillità della serata fu rotta da una pioggia di notizie catastrofiche: bengala, attacco di bombardieri, attacco aerosilurante, lancio sulle navi in mezzo a fuoco infernale, tre siluri sulla Littorio, Duilio un siluro, Cavour un siluro, una bomba perfora il Trento senza esplodere, Libeccio perforato da altra bomba, un aerosilurante

fracassato su un cacciatorpediniere. Littorio tiene, Duilio anche, Cavour va a fondo con l’acqua sulla coperta. L’ammiraglio Bragadin, un amico della maison, vide l’ammiraglio Cavagnari «fosco in viso... un capitano di vascello ogni tanto si asciugava furtivamente gli occhi...». La squadra inglese rientrava, gloriosa e trionfante, ad Alessandria. Aveva realizzato il proposito del Primo Lord dell’Ammiragliato, «ridurre la flotta italiana», con la perdita di due apparecchi. Il giorno dopo Churchill entrò ai Comuni gridando: «Ho buone notizie per voi!».

CHI HA UCCISO L’ITALIA?

La dura schiettezza di Benedetto croce

La mattina del 10 Febbraio 1947 i delegati dei cinque alleati europei della Germania si presentarono al Palais du Luxembourg a Parigi, per ricevere quelli che, con antico eufemismo, si chiamarono i “trattati” di pace. Non avevano potuto “trattare” nulla. Accusati e chiamati a discolparsi, occasionalmente “sentiti”, venivano a ricevere la sentenza. Nella disgrazia ebbero un sollievo: i giudici erano divisi in due campi opposti, in cui anche i vinti dovevano schierarsi. Le condizioni della pace contenevano già i semi della guerra fredda. Nel mercato dei vincitori si udì la Russia perorare affinché, con la sua assistenza, si lasciasse all’Italia l’amministrazione della Libia. Ma a quell’espediente per aprirsi la via del Mediterraneo si opposero Londra e Parigi, che trovarono più commestibile una Libia indipendente, e quando Molotov reclamò Trieste per Tito, escogitarono il pasticcio del “Territorio libero”, ma non gliela dettero; gli avevano già dato Zara, Fiume, Pola. Era l’eterna conclusione, il vincitore impone al vinto la sua volontà. Quei paludamenti di moralità e giustizia furono i costumi di scena della commedia democratica, virtuosa novità retorica messa a mascherare rapine che in altri tempi si compivano con pari brutalità e maggiore schiettezza. Commedia

democratica era stata anche la scelta di Parigi: ipocrita compenso alla vanità dei francesi che mai avevano interloquito nelle vere decisioni, prese senza di loro. Per l’Italia finiva il sogno di alcune generazioni, installarsi tra le grandi potenze perpetuando il giuoco sopra le proprie forze che aveva permesso il Risorgimento e l’Unità. Le astuzie e le speranze di Mussolini, quando entrò in guerra il 10 Giugno 1940, non erano dissimili dai rischi di Cavour tra le guerre europee di mezzo Ottocento e dai miraggi che mossero il Re e Salandra nel Maggio 1915: la guerra breve, le sorti già decise, il vincitore certo, il minimo sforzo, il massimo vantaggio. Un giuoco d’azzardo, il solo lecito a una nazione così inconsistente e mal formata.

*** La “loro” pace

Ormai lontani i sacrifici di vite e cose, rialzate e malamente enfiate le città, ci accorgiamo che i danni dell’azzardo furono limitati. Tranne lo strappo giulio e dalmatico, che tuttavia all’intera nazione sta benissimo, e un paio di morsi francesi, dei quali l’intera nazione mai si accorse, l’Italia è oggi, quanto a frontiere, tal quale sarebbe rimasta senza la guerra. Non che i vincitori ne avessero pietà, ma la castigarono con la mentalità della “pace” precedente. Ci tolsero le colonie, il Dodecaneso, l’Albania. Ci limitarono l’esercito e la flotta. C’imposero maligne

servitù di cui avremmo potuto liberarci, in mezzo secolo, se solo l’avessimo voluto. Non si accorsero, inglesi e francesi, mentre toglievano le colonie a noi, che l’identico meccanismo le toglieva anche a loro; e con umiliazione maggiore, ché noi dovemmo deporre le nostre spoglie d’oltremare sul tavolo cui sedevano le maggiori potenze militari di tutti i tempi. Mentre loro dovettero abbandonarle, dopo delusioni tremende e guerre perse, agl’indiani e egiziani, agli algerini e mau-mau, ai ciprioti e vietnamiti. Il Dodecaneso sarebbe stato la nostra Cipro; la Libia, la nostra Algeria; l’Abissinia, il nostro Kenya, e via così. Ci risparmiarono tutti questi fastidi. Solo l’Albania resta un fantasma di cui dobbiamo temere, orrenda mendicante troppo vicina alla porta di casa, il ritorno. Nominalmente anticolonialisti, i veri vincitori, Stati Uniti e Unione Sovietica, imposero un colonialismo subdolo e moderno, assai più raffinato di quello ottocentesco, dell’Europa finita. L’Italia tornava a zero, ma ogni nazione europea era tornata a zero, anche quelle che credevano di aver vinto. Il colpo sferrato contro di noi cadde per la maggior parte nel vuoto che la nuova storia aveva creato. Le altre clausole del “trattato” sono reperti, oggi risibili, di ragioneria dispettosa. L’esercito, non più di 250.000 uomini; non ne hanno tanti Francia e Inghilterra. Non più di due corazzate alla flotta, che pur li aveva serviti con tanta buona volontà. E chi ha più corazzate? *♦♦

Se le macerie furono rimosse e il distrutto ricostruito, con in più i guasti e gli scempi del benessere e del furto, cento volte peggiori di quelli della “guerra fascista”, l’atmosfera morale, il tono collettivo e politico fanno paura. Perfino la rovina dei costumi e la criminalità d’ogni specie, conseguenze generalizzate d’un crollo universale, appaiono marginali rispetto al guasto d’indifferenza e cinismo in cui si trascina un popolo qua e là ancora vivo e alacre; ma privo di speranze, di ragioni per vivere e perpetuarsi, e dunque generare figli, crescerli e lavorare insieme. Chiusi da decenni gli sfregi e le ferite della guerra, dilagano la peste e la lebbra della pace democratica che perpetua e moltiplica i caratteri originari, mai cancellati: primo fra tutti, la furberia dei malfattori che si fingono pentiti per compiacere il vincitore, per poi proclamarsi suoi alleati e compagni, nella speranza di derubarlo di un pezzo di vittoria. Decorosi e decenti sconfitti ci esortò a saper essere Benedetto Croce in quel discorso all’Assemblea Costituente, il 24 Luglio 1947, “Contro l’approvazione del dettato della pace”, che rimane l’ultima pagina nobile della nostra storia parlamentare. E non trovò ascolto, né seguaci in una democrazia tutta occupata (ecco il secondo carattere originario) a infierire sulla metà del popolo, per aggiungere alle falsificate “vittorie” esterne anche il trionfo domestico sulla fazione perdente. Dopo mezzo secolo è lecito paragonarci con i nostri antichi alleati, che da sorti non più fortunate, e anzi tali da far temere, dopo la totale sconfitta, anche il totale annichilimento, risorsero col lavoro, la concordia, l’unità morale, e tornarono a essere

corteggiati e temuti, ammirati e anche odiati, ma fattori attivi e positivi della storia, che si è rimessa in cammino. Nella vita di un popolo, una sconfitta è un momento di arresto, un infortunio; di rado è la fine. Non fu la sconfitta la nostra malattia mortale. Mortale è stato il dopoguerra democratico di abdicazione e indifferenza, di crudeltà e immoralità: un sonno collettivo movimentato dall’andirivieni dei vermi. ***

Nel dibattito all’Assemblea Costituente sulla ratifica del “Trattato di pace”, Benedetto Croce pronunciò, il 24 Luglio 1947, uno scarno e fiero discorso, che resta una delle poche voci virili di quell’ora. È la più dimenticata delle sue pagine, obliate in blocco da una culturetta isterica e faccendiera, che ai fastidi e alle responsabilità della storia predilige la cura del ricavo quotidiano. Offrire al lettore d’oggi, che più non saprebbe dove procurarsele, queste pagine lontane e inattuali, è indispensabile a un’azione revisionista e risanatrice per dimostrare come, nonostante le pretese e le imposizioni dei vincitori, fosse ancor vivo, all’indomani dell’invasione e della sconfitta, nella classe dirigente antifascista di allora, un sentimento del dovere e dell’onore nazionale che andò, per colpa di questo regime, totalmente perduto in un cinquantennio. «Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e

nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale. Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.»

Bastano questi due aggettivi, “pacifico”, e “evidente”, a mostrare quanto il massimo filosofo e educatore dell’antifascismo fosse lontano dalla mentalità delle classi dirigenti che s’insediarono al potere. Esse proclamarono, invece del “dolore”, la gioia e la soddisfazione della guerra perduta che le aveva installate, per volontà dei vincitori, alla guida della nazione. Distinsero accuratamente e discriminarono, le sorti della nazione sconfitta, dalle proprie di “vincitori”. «Anche l’Italia ha vinto», proclamava uno dei più sconci libelli dei Comitati di Liberazione:

«Senonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e pretende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve

espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano coi vincitori gli altri popoli, anche quelli del continente nero. E qui mi duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria». A Croce era chiarissimo quanto poi si venne confondendo e intorbidando in un cinquantennio in cui la sottomissione assoluta al giudizio morale dei vincitori fu ritenuta parte dei doveri civici di un buon “democratico”; tranne i rispettatissimi diritti all’obiezione di quelli che avevano scelto in esclusiva la sottomissione a giudizi morali del vincitore d’Oriente che potessero differire dal giudizio morale del vincitore d’Occidente. Croce sapeva benissimo che la guerra era «legge eterna del mondo», e non c’è guerra del bene contro il male, come un cinquantennio di interessata idiozia ha inculcato nell’ultimo degli scribacchini dei giornali; ma soltanto guerra di nazioni contro nazioni, imperi contro imperi; che combattono «intesi unicamente alla vittoria».

«Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo), i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini

politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente d’ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere».

Scrostata la maschera della commedia democratica e della virtuosa ipocrisia messa a nascondere l’eterna vendetta, Croce rifiutava, fin dalla sua prima apparizione, la nuova morale politica che sarebbe diventata, nel mezzo secolo democratico, dominante e senza opposizione possibile. A tal punto dominante, da mettere a tacere, come criminale e illegittima, ogni voce che osasse opporsi e dissentire. Non soltanto il trionfo delle democrazie e dello stalinismo loro alleato non significava necessariamente vittoria del bene sul male, ma la sua tracotanza era il nuovo male:

«Non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppur Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei

popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta a loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici».

Avvertì subito, Benedetto Croce, quale insulto alla morale e, prima ancora, al senso comune, quella pretesa d’invadere le coscienze, le mentalità, i costumi dei popoli sconfitti, che il conte von Schrenck-Notzing chiamò, in un libro famoso, Il lavaggio del carattere. «Tale pretesa, che neppur Dio rivendicherebbe a sé» tuttavia prevalse e s’instaurò quale metro di giudizio storico determinando, ossia direttamente cagionando, l’immoralità di una classe dirigente che, educata e abituata al falso fino dai suoi primi passi politici, crebbe bugiarda e corrotta: come le sue sorti dimostrano. «L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli Ma come si può credere che ciò sia possibile se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio?»

Nella forma, ampia e diffusa, di una messa in guardia rivolta ai vincitori, sugli effetti distruttivi della loro azione ai danni degli stessi popoli che dicevano di voler “redimere”, Croce prefigura la perdita di «dignità e legittimo orgoglio».

«Non continuo nel compendiare gli innumeri danni e onte inflitte all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani; e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di aver acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienzaper lo sperato nuovo assetto europeo».

Sessantacinque anni dopo queste parole, lo spettacolo è sotto gli occhi di tutti. L’Italia, che adottò la volontà dei vincitori come solo evangelio politico, tiene in Europa il ruolo e il rispetto che Croce paventava. Mentre si avvia ad invocare, se non più l’impossibile ripensamento e pentimento dei vincitori, almeno un raddrizzamento di dignità e fierezza nei colleghi di quell’assemblea che tutta comprende la vecchia e nuova classe dirigente antifascista, la voce del vecchio filosofo diventa grido: «Noi italiani, non possiamo accettare questo documento perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta scienza, non possiamo, sotto questo secondo aspetto, dei rapporti tra i popoli, accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della patria né come europei, due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea...»

Eppure s’industria (è pur sempre colui che ha saputo, quasi un Sombart della filosofia italiana, mettere in luce i rapporti tra economia e etica, e dunque vantaggio pratico e diritta morale) a convincere che un atto di fierezza, un rifiuto, non costerà poi le vendette e le rovine che i più solerti servi dei vincitori, dal De

Gasperi allo Sforza, vanno minacciando. Lo applicheranno lo stesso, avverte Croce. Ma almeno, senza il nostro consenso, senza la nostra gratitudine, senza quella «cupidigia di servilismo» di che accusò la nuova classe dirigente Vittorio Emanuele Orlando: «Ma, se noi non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? - Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali nel giudizio di sopra esposto e ragionato del cosiddetto trattato so che siete tutti e del tutto concordi con me e unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica. Ora non dirò ciò che voi ben conoscete: che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio. Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta sempre presente, e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere, rispondere, dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenna, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire peggiorati per spirito di vendetta; ma non credo che si vorrà dare al mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non

si riesce a immaginarli peggiori e più duri. Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile a un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela».

L’abiezione, la corruttela. Nessuno aveva messo in così stretta relazione il disastro morale entro cui viviamo svergognati con la principale causa originaria dell’aver accettato e esaltato il falso come vero. Non opporsi all’esecuzione del trattato, secondarne l’applicazione, Croce lo sapeva bene, i De Gasperi e gli Sforza l’avrebbero fatto in ogni caso. Chiedeva che non l’approvassero, ossia che non costringessero il popolo italiano «a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta...» «Signori deputati, l’atto che oggi siamo chiamati a compiere, non è una deliberazione su qualche oggetto secondario e particolare, dove l’errore può essere sempre riparato e compensato, ma ha carattere solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente nella difficoltà e nell’opportunità del momento, ma portarvi sopra quell’occhio storico che abbraccia la grande distesa del passato e si volge riverente e trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi

tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nostri nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune madre a ricevere dimessamente un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in sé stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso. Lamentele, rinfacci, proteste, che prorompono dai petti di tutti, qui non sono sufficienti. Occorre un atto di volontà, un esplicito no. Ricordate che, dopo che la nostra flotta, ubbidendo all’ordine del Re e al dovere di servire la patria, si fu portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al loro fianco, in qualche loro giornale si lesse che tal cosa le loro flotte non avrebbero mai fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra». Pover’uomo, non si può fare a meno di concludere. Povero vecchio. Alla fine di un avvilente dibattito, la ratifica del Trattato di Lussemburgo fu approvata dalla Costituente, il 31 Luglio 1947, con 262 voti favorevoli contro 68 contrari e 80 astenuti. E ancora là siamo.

Poteva l’Italia restare neutrale? PlETROMARCHI CHIARISCE...

Nazioni e destini. Ci sono coincidenze e simmetrie, visibili nelle grandi distanze, che alle volte rendono la storia universale simile a una scienza esatta. L’ingegno volgare cerca le verità storiche nei labirinti dei segreti e sdegna le spiegazioni in chiaro dei documenti. A torto, perché sull’intervento del 10 Giugno 1940 la raccolta dei Documenti diplomatici italiani, Nona Serie, vol. IV, 9 Aprile - 10 Giugno 1940, Roma 1960, contiene gli opposti motivi dei due Capi, l’italiano e l’inglese, con lingue e significati che l’osservazione retrospettiva ricarica, a ritroso, di tutta la loro forza. Il “Personal message” di Churchill appena nominato Primo Ministro (16 Maggio, Doc. 445) a Mussolini ammette: «Possiamo certamente infliggerci dolorose ferite, malmenarci aspramente e oscurare il Mediterraneo con la nostra contesa [...] ma sono sicuro che qualunque cosa possa accadere sul Continente, l’Inghilterra arriverà fino in fondo, anche completamente sola, e io credo, con qualche buon motivo, che saremo aiutati in misura crescente dagli Stati Uniti d’America: anzi, da tutte le Americhe».

Se dovrà cedere, ben poco avrà da temere dall’intervento italiano. Meglio trovare anche Mussolini al tavolo della pace, che il solo Hitler. Se l’auspicato intervento americano la salverà, l’Inghilterra avrà distrutto i due avversari continentali insieme, e riprenderà il giuoco di prima. Come dopo Versaglia. L’Inghilterra, che ha, combatte solo per conservare quello che ha. Si rinnova la costante, diventata mania coi secoli, di combattere senza quartiere, fino alla distruzione dei competitori continentali. Ma tale è diventata l’ostinazione nella mania, che il Primo Ministro non s’è accorto di quanto il quadro è mutato, e l’invocata variante (il salvataggio americano) può mangiarsi ogni costante, per coriacea che sia. È vero che l’Inghilterra tenne duro, anche sola, come Churchill ammoniva il Duce. Ma soltanto per dare modo agli Stati Uniti e alla Russia di dividersi le spoglie territoriali del suo impero svanito, e le vestigia di prestigio e potenza, mai più risorte, neppure dopo il crollo dell’URSS. Fatte le debite differenze complessive di dignità, saldezza e classi dirigenti, il ruolo dellìnghilterra è pari, nelle cifre e nei fatti, a quello dell’Italia battuta. La “Lettera personale, senza protocollo”, di Mussolini (18 Maggio, Doc. 487), presenta, in luogo di costanti che la politica estera italiana, eternamente allo stato d’improvvisazione, non possiede, «lo stato di schiavitù vera e propria nel quale l’Italia si trova nel suo stesso mare», che Luca Pietromarchi, richiesto di un esame tecnico, gli ha appena confermato neH’Appunto di sette giorni prima: una analisi particolareggiata e umiliante. Questa sarebbe la sua costante, ma Mussolini se la tiene un mese sul tavolo, perché attende

quella variante che (dalla Crimea in poi, e ancora più indietro, dalla diplomazia sarda) è la mutevole costante della diplomazia dinastica: il momento opportuno per rubare un pezzo di vittoria al potente alleato, quando la sua vittoria sembri sicura. Come carta di riserva, l’Inghilterra cerca di intavolare una trattativa sul blocco. Ma arriva tardi, perché il 5 Giugno Mussolini si sente abbastanza sicuro della vittoria tedesca da gettare i dadi dell’Italia sul piatto dell’alleata, nonostante le sue tradite assicurazioni e promesse. Chi esamini la Seconda guerra mondiale con occhio critico non finisce di stupirsi che la Germania abbia potuto perderla. Deve ricorrere a spiegazioni politiche o psicologiche: la mancata distruzione del corpo di spedizione inglese a Dunkerque; il forsennato razzismo che privò il Reich del favore delle popolazioni russe; l’incredibile miscuglio di orgoglio, reticenza, complessi razziali che fece trascurare l’obiettivo primario di coordinare col Giappone gli scopi e la condotta della guerra. A tale estraneità mai arrivarono i rapporti tra la diplomazia anglosassone e quella sovietica. Ma facciamo bene attenzione. Se queste cose sono state, più o men chiaramente già dette, c’è qualcosa che è ancor tutto da studiare e scoprire. Il peso, il valore, la coesistenza di classi dirigenti e le nature delle due nazioni hanno determinato le diverse sorti nei due dopoguerra. Sconfitta, nei fatti e nel colossale inventario delle sue perdite e rinunce, dieci e dieci volte più che l’Italia, l’Inghilterra ha congedato l’apparente

vincitore e si è adattata, con umiliata dignità, al nuovo ruolo che la sua miserabile “vittoria” le destinava. Assai meno vinta dell’Inghilterra, colpita da perdite molto inferiori, ma dilaniata e immatura, l’Italia ha massacrato la sua classe dirigente di guerra sostituendola con una molto peggiore, col risultato di rinnegare e smentire l’intero repertorio delle sue speranze e aspirazioni. Negando, anzi, di averne, se non quella di servire gli altri. Da nessuno richiesta, ha rinunciato, sol per fare sfoggio di antifascista redenzione, a quel patrimonio unitario, faticosamente improvvisato da una minoranza di letterati e politici che, una volta calpestato, irriso e dissolto, non fu sostituito da nulla, provocando l’estinzione, insanabile e irreversibile, dell’intera nazione. «C’è un documento unico», mi disse Pietro Gerbore nell’Aprile 1973 quando lo pregai di prepararmi un articolo sull’entrata in guerra. «È la radiografia dell’intervento. Di rado, nella storia della diplomazia, una decisione come quella del 10 Giugno 1940 è illuminata da un retroterra altrettanto minuzioso e coerente». Non è sconosciuto, gl’intenditori lo chiamano, dal nome del suo autore, il Rapporto Pietromarchi. È l’Appunto, in data 11 Maggio 1940, intitolato II Capo dell’ufficio Guerra economica Pietromarchi, al Capo del Governo, Mussolini, N. 389 dei Documenti diplomatici italiani, Nona Serie, a cura di Mario Toscano, 1960, pp. 315-326. È la motivazione tecnica dell’intervento. Non sconosciuto né sepolto (io stesso lo conoscevo, quasi a memoria, da molti anni) resta ignorato e inascoltato. La povera storiografìa dominante lo scansa, perché il partito preso è negare che la Gran Bretagna costringesse l’Italia

alla guerra. I sedicenti storici, non dico i Toscano, i Tamaro, galantuomini che le dita di una mano sono abbondanti a contare, tentano, da decenni, di cancellare quel documento unico, perché sembra dar ragione a Mussolini: «Provi, e vedrà. Se si arrischia a menzionarlo, salta su il solito somaro fazioso a spiegare che Pietromarchi, brillante diplomatico arenato al Ministero, dovè confezionare un artefatto così e così, Mussolini lo voleva per giustificare le sue decisioni di fronte al Re, allo Stato Maggiore, al Gran Consiglio e, perché no, alle Camere. In Senato sedevano grandi funzionari, grandi industriali, grandi nomi, oppositori come Benedetto Croce, che poteva anche chiedere una discussione sulle intenzioni del Governo nel punto cui era giunta la guerra in Europa. Come prese la parola a guerra finita contro l’approvazione del “Dettato della pace”. Perché tacque? Doveva parlare, invece. Se non per altro, per impedire che il Parlamento fosse scavalcato un’altra volta (la prima era stata nel Maggio 1915, allo Scoglio di Quarto e dintorni). La verità è che tutti tacquero». «Se fossi in lei», aggiunse Gerbore, il migliore articolista su questi temi, «cercherei Pietromarchi, è in pensione, ma energico, attivo, memoria perfetta. Le assicuro che farà centro, perché questo seppellimento delle circostanze in cui nacque il suo Rapporto a Mussolini è un’anomalia e un sotterfugio deliberato, che offende anche lui. Lei riuscirà a rintuzzare i somari che dicevo, la canea che lo offende nell’onore professionale e in quello privato con la continua insinuazione, più latente che espressa, che per fare carriera si piegasse a

fornire al Capo del Governo le “giustificazioni” di cui aveva bisogno. Il che è proprio da escludere». Figlio di antica famiglia, cognato di Bernardo Attolico (che aveva sposato sua sorella Eleonora, la donna ammirata da Hitler sopra tutte) il leggendario ambasciatore a Berlino, «mai Pietromarchi, uomo di adamantina onestà, mai avrebbe messo la sua firma sotto un documento che non rispondesse interamente al suo sentimento del vero e non riflettesse, in quel momento, su quel tema terribile poi, la sua coscienza, la sua esperienza, lo scrupolo con cui intendeva il dovere verso lo Stato. Ma non conosco più nessuno nell’ambiente. Lei sa che me ne sono andato, da quell’ambiente, da quasi trent’anni. Detti le dimissioni, quando cadde la Monarchia... Debbo trovare il modo più efficace, l’occasione adatta a presentarla... Mi lasci qualche giorno...». ***

L’occasione venne da sola. Mi trovai Luca Pietromarchi sotto casa, a Madonna di Campiglio, quell’estate del 1973. A passo energico, fiero sotto le sopracciglia bianche foltissime, calzoni di velluto blu, camiciola celeste a quadretti, un bastoncello in mano, si dirigeva verso il bosco della Ragada, oltre casa mia. L’avevo visto altre volte le precedenti estati. Non osai fermarlo, quel giorno. Almanaccavo se andare all’albergo Oberosler, chiedere un colloquio. Quando, la mattina dopo, me lo ritrovai davanti, assai più di buon’ora, mi dissi “Guarda lì, hai la dichiarazione di guerra che ti passa accanto, dopo trentatré anni, e te ne stai, mammalucco, a meditare come avvicinarla”,

traversai la strada deserta, feci un cenno deferente, mi presentai, ebbi un’accoglienza festosa. «Venga, direttore, la conosco con piacere, la leggo sovente, so quale ora sta passando, mi dica...». Chiesi di potergli rivolgere qualche domanda delicata. «Ma prego», rispose, «facciamo la passeggiata insieme... Mi dica, perché delicata?». Risposi che avevo letto il suo libro sulla Turchia, e molti articoli sulla sua ambasciata a Mosca dove, succedendo, dopo la guerra, al celebre cognato, era diventato l’interlocutore prediletto, se non proprio il confidente, di Krusciov, «qualcosa come il Duca Avarna con Francesco Giuseppe...», «già, fino a che non gli toccò di recapitargli la dichiarazione di guerra, quel 24 di Maggio», rispose. Credette, sulle prime, che volessi spillargli reminiscenze su Krusciov. Era una falsa partenza e mi toccò interromperlo: «Mi perdoni, ambasciatore, non è di Krusciov che vorrei domandarle. C’è qualcosa che solo lei conosce...». Si arrestò, puntò il bastoncello sull’orlo del sentiero, e attese. «Vorrei parlare di quello che la storia diplomatica chiama col suo nome, il Rapporto al Capo del Governo dell’ll Maggio 1940». Diventò scuro, grave, ma non contrariato: «Curioso, nessuno me ne ha mai chiesto in tanti anni, e io ne ero molto meravigliato nei primi anni del dopoguerra; temevo, s’immagini, una folla di curiosi, credevo che quegli storici volessero davvero esplorare, sviscerare a fondo quel momento in cui fu deciso il nostro intervento, le sue ragioni... Poi, un poco alla volta, compresi che avevano già deciso, loro, la storia che doveva rimanere tale e quale l’avevano confezionata, la storia vista e raccontata con un occhio solo, guai a toccarla... Sa che cosa le

dico? Che la sua domanda mi fa un gran piacere, perché da molti anni penso che stiamo passando dall’età in cui un documento non è menzionato perché deve essere sepolto, all’età successiva, in cui nessuno lo ricorda più, perché nel frattempo è stato dimenticato e il suo ritorno non può più incidere, quale ne sia l’importanza, su una storia già fatta...». «Proprio così», commentai, «e la ragione della mia domanda è, precisamente, questa. Ma prima della domanda principale, vorrei proporgliene un’altra, preliminare. Come mai un diplomatico che è anche scrittore attivissimo, sia col proprio nome che con lo pseudonimo, Luca dei Sabelli che si trova su due volumi Nazioni e Minoranze etniche, del 1929; come mai un diplomatico così curioso e profondo su due versanti, il pubblico e l’ufficioso, non ha creduto di lasciare l’interpretazione autentica, il rendiconto personale, di quella che resterà la più profonda orma nella sua professione?». «Caro direttore», fu la risposta, «perché una spiegazione di natura politica che si scontri con un’opinione totalmente avversa, e già indurita, non soltanto è priva di efficacia nel presente, ma la perde anche per l’avvenire. Quando verrà il suo momento, apparirà un cavallo di ritorno, come dicono, o, ancora peggio, una minestra riscaldata...». A tal punto ero d’accordo, che avevo deciso, in simili casi, di non pubblicare nulla e limitarmi ad accumulare motivi e ricordi. (Allo stesso modo, decisi di tacere, l’anno dopo, il mio colloquio col ministro Taviani e le straordinarie rivelazioni che mi fece su certe bombe).

«Ma», ripresi, «ci sono verità destinate alla storia, che non sono testimoniate e registrate, si perdono, e, considerando la sua età, mi pareva urgente fissare almeno queste». «Infatti, ho quasi ottant’anni ormai», sorrise e scandì: «Se è per questo, sia benvenuto in mezzo agli abeti, c’è qui lei, per rimediare. Avanti, dunque...». ***

La domanda era dura e non c’era verso di addolcirla: «Quando lei, Capo deH’Ufficio Blocco del Ministero degli Esteri, sottopose al Capo del Governo quell’elenco di soprusi e vessazioni inglesi contro la navigazione italiana che concludeva non restare altro mezzo se non la guerra per salvaguardare lo status di grande potenza, che tale era allora quello dell’Italia, obbedì a una sollecitazione del Capo del Governo o del suo ministro? Oppure, lo scrisse convinto di soddisfare una necessità dell’ufficio o dell’ora, in una specie di coercizione putativa per fornire al Primo Ministro una copertura tecnica nei confronti della Dinastia, delle Camere, del Gran Consiglio?». Anche la risposta fu dura, quasi risentita: «Né lui me lo avrebbe chiesto, né io mi sarei prestato». Non era un tono che invogliasse a rincarare, e difatti tacqui. Fu lui che continuò: «Non so come si comportasse coi suoi del partito. Forse aveva contegni diversi. Ma in quanto Capo del Governo, aveva un rispetto per il funzionario, una sensibilità su poteri e doveri, un pudore su tutto quanto riguardava il lecito o l’illecito chiedere, di cui si sono perse le tracce... Mi sbalordì, su questi temi, più

volte. Conosceva lo Stato come un vecchio prefetto, e non so come avesse raggiunto tale sicurezza intorno a organismi e congegni. Ciò non significa, da parte mia, pura ammirazione. Anzi. Conoscere lo Stato vuol dire sapere mancanze, difetti, vuoti terribili. L’impreparazione alla guerra era di natura morale e di classe dirigente, prima che materiale. Disprezzava i nostri generali come li aveva disprezzati Giolitti, traendone, purtroppo, deduzioni opposte e superficiali. Credette di bastare lui, a tutto. 0 che bastasse la giusta scelta del momento. In quanto diplomatico, non posso ammirare che il Capo del Governo, da Stresa, o dall’Abissinia in poi, si fosse lasciato inchiodare in un angolo senza uscita, o la guerra, o la capitolazione. Ma per quanto riguarda quel Rapporto, lo scriva pure, e la prego, a futura memoria: era la pura verità». Trascrissi il colloquio, ricostruito sugli appunti. Lo divulgo qui, a futura memoria, per la prima volta.

... E GERBORE COMPLETA

Telefonai a Gerbore, lo stesso pomeriggio, gli raccontai il clima e i risultati dell’incontro, e n’ebbi «un cantico di ammirazione e di gratitudine», come lo chiamò. «Lei è troppo giovane, mio caro, carissimo Buscaroli, per misurare fino al fondo che ho raggiunto io nel mio antico mestiere, quale servigio lei ha reso alla storia d’Italia (povero, cristallino Gerbore, quale illusione, in questo troiaio di paese!), se mai torneremo a rivederle, l’una e l’altra... Dobbiamo vederci presto, scriveremo insieme l’articolo che lei mi ha chiesto per il 10 Giugno... Venga da me a Firenze». Due giorni più tardi mi arrivò una lettera: «Mio caro Buscaroli, Talleyrand disse che lo studio della teologia era eccellente preparazione alla diplomazia. Io comincio a pensare che lo studio della musica sia indispensabile per un direttore di giornale. Lei è un vero maestro concertatore... Su di me Lei ha un effetto magnetico...». ***

A Firenze, via Pandolfini 27, trovai un abbozzo quasi completo, il titolo lo discutemmo alcuni minuti: «Che l’Italia nel 1940 fosse impreparata alla guerra, non è discutibile. Mancava tutto, i muscoli, ossia il denaro. E le armi». Nel Diario, Ciano registrava,

il 16 Agosto 1939, le parole di Mussolini: «Questa volta è la guerra. E noi non possiamo farla perché le nostre condizioni non lo permettono». Quali fossero le condizioni dell’esercito, dice il generale Spigo in Premesse tecniche della disfatta, Roma, 1946: «La continua moltiplicazione delle unità senza che vi corrispondesse un proporzionato aumento di dotazioni e di personale, aveva portato a un’intelaiatura scheletrica sempre più povera di contenuto. Il materiale era scarso, antiquato, e l’armamento poco dissimile da quello della guerra 1914-18». Le guerre d’Etiopia e di Spagna avevano depauperato le Forze Armate. L’Italia non era in grado di fare la guerra. Mussolini non la voleva. Hitler gli aveva assicurato che non ne prevedeva fino almeno al 1943. Ma a mantenersi neutrali non basta la volontà di un paese e di un governo. La neutralità presuppone la possibilità di garantirsi l’esistenza pacifica in un mondo sconvolto. Esisteva tale possibilità per l’Italia, nella primavera 1940?

La risposta che generalmente si ode è: come la neutralità fu possibile per il Portogallo, la Spagna, la Svizzera e la Svezia, doveva esserlo anche per l’Italia. Chi così parla ignora o trascura la storia del blocco britannico. Pochi, fra coloro che parlano, ebbero un’esperienza diretta di ciò che fu l’Inghilterra tra le due guerre mondiali: del confusionismo e del disorientamento nella direzione politica (eufemisticamente detti “muddling through”) e del tono arrogante negli uomini di governo. Il premier Stanley Baldwin fu la personificazione del “muddling through”. Anthony Eden quella dell’arroganza. Dopo lo scoppio della guerra, nell’attuazione del blocco, quei due vizi si aggravarono.

Il BLOCCO INGLESE

Si ebbero due pesi e due misure. Desiderosa di mantenere due centri spionistici, l’Inghilterra fu generosa con la Svizzera e la Svezia. Alla Svizzera fu permesso di aprire un credito di 900 milioni di franchi alla Germania. La fabbrica di Oerlikon lavorò per l’artiglieria e l’aviazione germaniche senza che gli agenti inglesi muovessero obiezioni. Le banche elvetiche avevano depositi negli Stati Uniti per quattro miliardi di dollari, furono acquistate navi, e l’Inghilterra rilasciò tutti i “navy-certs” per l’importazione degli approvvigionamenti. I costumi dei cittadini, benché severamente controllati, rimasero sopra livelli adeguati. La Svezia non solo potè vendere liberamente il suo pregiatissimo ferro alla Germania, ma aprì la sua rete ferroviaria ai treni militari tedeschi circolanti tra la Norvegia e il Reich, senza che le autorità britanniche le negassero i “navy-certs” per gli approvvigionamenti; il Portogallo, secolare alleato, siccome aveva osato emanciparsi dalla tutela britannica, fu strangolato. Ebbe licenza d’importare dalle colonie il minimo indispensabile a non morire di fame: carbone e petrolio furono a tal punto ridotti, che tra Lisbona e Oporto circolarono tre sole coppie di treni la settimana; i possessori di automobili chiusero le

macchine in garage. Paese agricolo, con unica agglomerazione urbana, abituato a basso tenor di vita, il Portogallo strinse la cintura e con atavica pazienza aspettò. Non meno severo fu il trattamento della Spagna. Viceconsoli britannici a Irun e Port-Bou fermavano i vagoni diretti in Francia, ordinavano lo scarico, aprivano le casse. La mancanza di petrolio anche qui fermò la circolazione delle automobili. La popolazione delle grandi città conobbe la miseria. Tuttavia, la Spagna possedeva miniere di carbone e minerali pregiati. Le ferite non ancora rimarginate della guerra civile imposero a Franco la rassegnazione ai soprusi britannici. L’Italia fu un caso a parte. La vita dei grandi centri industriali dipendeva dal carbone fossile che s’importava dalla Germania, scambiato con sole, ossia pagato dai turisti. Il carbone discendeva il Reno su chiatte fino a Rotterdam dov’era imbarcato su navi che facevano il periplo fino a Gibilterra. Dopo il 1° Marzo 1940, il carbone tedesco diretto in Italia fu trattato come merce di contrabbando e sequestrato dagl’inglesi. La Germania non poteva certamente accollarsi la spedizione ferroviaria per un alleato non belligerante. E come pagare carbone inglese o americano? Il 1° Marzo Ciano scrisse nel Diario: «Il Duce ha messo a disposizione un miliardo d’oro della Banca d’Italia: col prossimo Rex partiranno lingotti per due milioni di dollari. Tolto questo miliardo, la riserva aurea si aggira sui 1.300 milioni, contro un deficit nella bilancia di pagamento previsto per l’anno in corso a 4.000 milioni». L’indomani Ciano scrisse: «Ricevo Sir Noel Charles. Colgo l’occasione per dirgli che il controllo sul carbone

appartiene a quella categoria di decisioni che spingono l’Italia nelle braccia della Germania». Il sequestro del carbone era un ricatto. Sin dal 3 Febbraio l’ambasciatore aveva scoperto il giuoco. Nel Diario di Ciano leggiamo: «L’ambasciatore inglese consegna un promemoria relativo ai negoziati commerciali. Le condizioni non sono cattive, ma una è considerata sine qua non. È la vendita alla Gran Bretagna di armi e munizioni». In quel promemoria si mostrava il fine perseguito dall’Inghilterra: se l’Italia non voleva combattere e voleva sopravvivere, non le bastava abbandonare la Germania, doveva accodarsi ai suoi nemici e lavorare per il loro esercito. Era una capitolazione. Poteva l’Italia accettare a tali condizioni? Essa aveva stipulato il Patto d’acciaio perché in tutta Parigi si era risaputo (si legge fìnanco in un diario letterario, quello di Paul Léutaud) che, dopo la costruzione della Linea Siegfried, lo Stato Maggiore francese aveva preparato un piano per aggirare l’ostacolo e invadere la Valle padana con la quale la Germania aveva una sola linea ferroviaria a un solo binario. La Germania non aveva sollevato obiezioni alla non belligeranza italiana: mai, però, avrebbe tollerato vendite di armi ai suoi nemici. Nel Diario di Ciano, al 9 Febbraio si legge: «Clodius (il plenipotenziario commerciale) dichiara che se armi italiane fossero vendute agli alleati, si produrrebbe una violenta reazione particolarmente negli ambienti militari germanici». E il 4 Marzo: «Marras (addetto militare a Berlino) è molto pessimista sullo stato d’animo tedesco ai nostri riguardi. Nessun obiettivo di guerra sarebbe tanto popolare in Germania, per le

vecchie e le nuove generazioni, quanto una calata in armi verso i cieli azzurri e i mari caldi». Cedere al ricatto britannico significava provocare l’occupazione tedesca dell’Italia. Esistevano eserciti britannici capaci di difenderla? Mentre a Roma si scoprivano i fini britannici, il “muddling through” imperversava a Gibilterra con risultati esasperanti e grotteschi. Come nel caso delle bare, trattenute indefinitivamente perché le autorità del blocco non trovavano “il tempo” per verificarne il contenuto. La Relazione Pietromarchi, alla quale nessuno mai si ricorda di dare un’occhiata, fornisce una elencazione minuziosa, spaventosa: chi la legga, capirà gli scopi inglesi meglio che in qualsiasi invettiva antibritannica. La pura verità. E, del resto, chi, come il sottoscritto, visse nelle adiacenze di Gibilterra e udì i resoconti dei capitani delle nostre navi, conferma l’esattezza di quel documento che prova la tenace volontà britannica di ridurre l’Italia all’esasperazione. Durante la non belligeranza l’animo di Mussolini aveva fluttuato e il Diario di Ciano registra i movimenti. Il 15 Agosto 1939: “Mussolini è entrato nell’ordine di idee che è impossibile marciare a occhi bendati con la Germania. Vuole preparare lo sganciamento, ma fare ciò in modo da non rompere brutalmente con Berlino. Trovare una soluzione che permetta, se le democrazie attaccano, di sganciarsi “onorevolmente” dai Tedeschi...”. In altri termini, se Inghilterra e Francia avessero fatto onore all’impegno preso con la Polonia e vigorosamente portato la

guerra in Renania, come dovevano, Mussolini che aveva lealmente avvertito l’alleato sulla “follia” di una guerra (cfr. il Diario di Ciano, 9 e 10 Agosto 1939) avrebbe ripiegato su una rigida neutralità. Ma Francia e Inghilterra incrociarono le braccia e lasciarono che la Polonia fosse massacrata. Altro che la “pugnalata” alla Francia! Trascorse un inverno d’ozio militare e in Maggio la Francia, che tanto aveva fatto suonare la spada per vent’anni, crollò senza combattere. Si vide allora l’Inghilterra animata da una sola preoccupazione: salvare il maggior numero di soldati inglesi con una fuga nient’afifatto eroica. Trascorsero quattro anni prima che truppe britanniche tornassero sul Continente. Ma vi tornarono al seguito di una iniziativa strategica che era ormai americana. Nella seconda quindicina del Maggio 1940 l’Italia si trovava sola in Europa, senza carbone e senza oro, di fronte alla sola superpotenza militare di quei tempi, mentre l’Inghilterra usava la potenza che le rimaneva per assediarla, affamarla e ricattarla. Noi conosciamo le conseguenze delle decisioni prese da Mussolini, ma possiamo soltanto immaginare quali sarebbero state le conseguenze della neutralità mantenuta ad ogni costo. Nella primavera 1940 l’Italia si trovò nelle condizioni di quei paesi di cui parla Machiavelli, che non possono fare la guerra, né avere la pace. Era la conseguenza di un processo aperto nel Maggio 1915, di cui i governi di Londra e Parigi portavano una responsabilità almeno eguale a quelli dei governi di Roma. Rompere gl’indugi quando il temibile alleato fu giudicato, da

tutti gli Stati Maggiori del mondo, il sicuro vincitore, non fu soltanto opportunità e voracità, fu una misura di sopravvivenza.

*** Ai due chiarimenti di Luca Pietromarchi e di Pietro Gerbore mi pare necessario aggiungere, in un quadro storico più ampio, tre pagine di un libro di Paul Gentizon, che gl’italiani hanno ignorato perché colpevole di avere difeso la loro Nazione, invece di avvilirla e umiliarla. Queste pagine dimenticate esplorano le tentazioni e i sentimenti che agirono e produssero l’entrata in guerra del 10 Giugno 1940. La condotta di quella guerra, il suo esito, sono altre storie falsificate, da scrivere da capo. Ripeto: da capo.

Quella “pugnalata alla schiena”

Il destino non offre ogni giorno ai popoli l’occasione per compiere un balzo in avanti sulla linea in ascesa. I popoli che in quel dato momento si sottraggono al rischio e quindi al profitto, segnano da se stessi la loro retrocessione nella gerarchia internazionale. Un paese vinto non si diminuisce per il fatto stesso della sconfitta; ma un paese che diserta si degrada. L’Italia si trova in condizioni particolari che le impongono la lotta. Naturalmente, può rinunciare al grado di grande Potenza; può rassegnarsi a diventare nulla più che il paradiso dei turisti internazionali [...] passerà nel campo dei suoi stessi nemici. Ma se la sua dignità non le permette tale abdicazione, allora rischierà tutto per tutto al fine di conquistare una indipendenza effettiva e totale. Volete chiamarla demenza, presunzione, audacia? Bisognerebbe allora accusare di tutto ciò il piccolo Piemonte del 1848, che sfida il colossale impero degli Asburgo; accusare Cavour, che decide di portare un corpo d’esercito in Crimea per conquistare il diritto di sedere poi al Congresso della pace, e in Crimea ci va avendo contro di sé una massa imponente di deputati tra i quali il suo stesso fratello Gustavo...

Nell’Agosto 1948, quando più acuta è la crisi europea e una nuova guerra sembra alle porte di Europa per la crescente attività bellicistica della Russia sovietica, Ivanoe Bonomi, ex Presidente del Consiglio e attualmente Presidente del Senato della Repubblica italiana, scriveva sul “Corriere della Sera”: «Non si illudano coloro che predicano potere l’Italia conservare la sua neutralità e rimanere inerme tra il cozzo dei vasi di ferro. La posizione dell’Italia in Europa e il suo peso politico e economico la trascinano nei vortici della vita europea. E quando quei vortici segnano la tragica tempesta, nessuna forza umana può preservarla dal fatale destino. Tutta la storia recente di questo mezzo secolo è la dimostrazione di questa legge storica che dobbiamo accettare e soffrire». In questa «storia di mezzo secolo» entra il 1940. E chi lo afferma non è un uomo di Mussolini, è, anzi, un avversario tra i più tenaci del Fascismo: è l’uomo al quale l’Italia ha affidato il governo subito dopo il tristo esperimento di Badoglio. Riassumendo: quando Mussolini getta l’Italia nella mischia, è convinto di ubbidire all’imperativo categorico del destino d’Italia; è convinto di perfezionare l’opera del Risorgimento attraverso l’ultima guerra di liberazione. Il 10 Giugno la Francia è sull’orlo del crollo, Parigi è minacciata da vicino; l’Inghilterra, ritiratasi sostanzialmente dal campo della lotta, si è ripiegata su se stessa per curare le sue profonde ferite; l’occasione, la prima e suprema occasione dal tempo di Roma antica, si offre all’Italia di consolidare permanentemente la propria posizione mediterranea. Mussolini si sente costretto ad afferrare tale

occasione, tanto più che il conflitto sarà rapido e vittorioso in partenza... All’inizio del Giugno 1940 la rapidità e l’ampiezza del crollo francese assumendo le proporzioni e la sostanza di una vera catastrofe, ponevano l’Italia di fronte all’alternativa: o intervenire in un conflitto ormai volgente al termine, oppure astenersene, correndo il rischio di non avere diritto di parola e di decisione (se non anche di ammissione) alla Conferenza della Pace. Avendo puntato sulla vittoria germanica, l’Italia intervenne con due obbiettivi: realizzare le sue aspirazioni mediterranee e impedire alla Germania di dominare e di manovrare da sola la conseguita vittoria. È innegabile che la posizione morale dell’Italia non era delle più favorevoli, in quanto il tardivo intervento aveva tutta l’aria di una fuga nelle braccia del vincitore. Non si è avuto, cioè, un intervento “in bellezza”; si è avuto, osiamo dire, un intervento di ripiego, ma non c’era modo di sfuggire. La ruota del destino gira; bisogna afferrarla quando passa, soprattutto quando non si è né forti, né ricchi, ma semplicemente poveri e industriosi. In tali condizioni, necessità fa legge. Agganciato dalla logica degli avvenimenti, Mussolini soffoca gli ultimi scrupoli e per meglio dominarli dice forse a se stesso che dopotutto le operazioni di guerra non sono ancora conchiuse e non è escluso che una nuova Marna rovesci o rettifichi la situazione in favore degli Alleati. D’altra parte, il suo realismo gli suggerisce che se si trovassero nella sua situazione, i suoi avversari non si farebbero scrupolo di agire come lui.

Se potesse antivedere il futuro, vedrebbe la Russia scagliarsi sul Giappone agonizzante [...]. Del resto, se l’Italia francamente non ha viscere fraterne per la Francia, la Francia la ripaga della stessa moneta. A Parigi, fin dal 1939, è stato studiato, in vista di operazioni militari aggressive, e già prima della guerra se ne parlava ostentatamente, di occupare Torino e Milano per tentar di attaccare la Germania risalendo al Brennero dalla valle del Po. Basta consultare su tali progetti il volume del generale Gamelin Al servizio della Patria, e quello di Jules Romains, I sette misteri del destino di Europa... Una dichiarazione di guerra da parte dell’Italia non poteva rappresentare una sorpresa e non c’era davvero da parlare di tradimento o voltafaccia, quando nessuna alleanza aveva unito le due Nazioni, e un’offerta di trattato chiara e regolare era stata bellamente respinta a suo tempo dal Fronte popolare. Il 10 Giugno Mussolini non si è macchiato di nessuna slealtà. Non si vorrà rimproverargli di avere atteso il momento più propizio per entrare in guerra: quale è l’uomo di Stato che dissennatamente scelga il momento più infausto? Tuttavia l’Italia non poteva prevedere la caduta verticale della Francia e quella catastrofe l’ha sorpresa, come tutti; ma l’intervento era già deciso e soltanto la coincidenza tra i due eventi ha conferito al gesto italiano l’apparenza di un agguato ingeneroso. Di questa apparenza, naturalmente, tutti gli avversari, non soltanto la Francia, si sono fatti un ricco pretesto per vilipendere l’Italia, rappresentandola con le mani rosse del sangue di un grande

ferito, che si sarebbe precipitata a pugnalare a morte senza molto rischiare. Con l’Italia il mondo internazionale non è mai stato generoso, né equo: l’occasione parve troppo gloriosa perché si trascurasse di servirsene senza limiti. E poiché la leggenda è più forte della verità, ormai lo slogan della “pugnalata nella schiena” ha preso posto nell’archivio delle verità inconfutabili. Quando si vorrà riesaminarla senza più il livore della polemica preconcetta, si dovrà riconoscere che tale tesi, semplicista fino alla puerilità, è viziata da due realtà effettive. Anzitutto, che proprio la Francia era pronta, con Gamelin, a pugnalare un’Italia non ancora entrata in guerra e che nulla lasciava supporre sarebbe entrata da quella parte. In secondo luogo, bisognerà ammettere che se la Francia era prostrata, l’Inghilterra era ancora la “regina dei mari”, le gravi ferite di Dunkerque avevano scalfita la sua resistenza interna, ma niente affatto incrinato la sua superba efficienza marittima poggiante in Mediterraneo, e quindi contro l’Italia, sui formidabili pilastri di Gibilterra, Suez e Malta...

Paul Gentizon, da Défense de l’Italie, 1949

DOPO LA GUERRA

Lo STERMINIO DEI CONTI MANZONI E DI ALTRI CENTOMILA INNOCENTI. LA TERRA DEI

CAMPI TRASUDÒ IL LORO SANGUE PER MOLTI ANNI

Di questo delitto si cominciò a parlare soltanto nel 1948, tre anni dopo che era accaduto. Sentendosi libero del terrore rosso che aveva sino allora dominato la Romagna, un mezzadro di settant’anni si recò al comando dei Carabinieri di Ravenna per «sgravarsi la coscienza». La sua deposizione «chiarì la scomparsa dei conti Manzoni, sino allora circondata dalle voci più disparate», comincia la spiegazione che Leo Longanesi chiese a Ciro Poggiali, che la pubblicò nel “Borghese” il 16 Luglio 1954. «Si diceva che un comitato di patrioti, nessuno sapeva quale, aveva deciso la loro condanna a morte: si diceva ancora che non erano morti, ma si erano nascosti nell’America del Sud per espiare in silenzio le loro “colpe fasciste”; si diceva che erano morti, ma che “l’avevano voluto loro, perché erano nemici del popolo e della patria”.

*** Nel triangolo tra Lavezzola, Alfonsine e Giovecca, dove scorre quel tratto del fiume Santerno che fu il fronte tedesco, tutti

sapevano che queste voci erano menzogne, ma tacevano per la paura di “finire male”. La sera del 7 Luglio 1945 il vecchio mezzadro, mentre cominciava a far buio, stava a sentire con altri contadini quel che diceva il conte Giacomo, chiamato affettuosamente Ninuccio, quello in famiglia che si occupava di agricoltura. A un tratto, apparvero cinque individui con giacca e cappello. Non erano del luogo: «C’è qui qualcuno della famiglia Manzoni?» domandò quel che pareva il capo. «Sono io» rispose il conte Giacomo. «Favorisca con noi», e si avviarono verso la villa che aveva le finestre spalancate: erano già accese le lampade. Due rimasero indietro, trassero le rivoltelle, le mostrarono bene ai contadini sbigottiti e dissero: «Voi altri filate via e acqua in bocca». Nessuno filò, perché la cosa, lì per lì, non parve tanto tragica, la curiosità vinse la paura. Si ritirarono, invece, nell’oscurità, e di là videro e ascoltarono. L’incontro avvenne al primo piano della stanza da desinare, non del tutto sparecchiata, piena di antichi mobili, di argenterie e maioliche di Faenza... Sul petto della contessa Beatrice splendeva, quella sera, un famoso medaglione d’oro e brillanti che racchiudeva la miniatura del marito. Per darsi un contegno decente avanti ai padroni di casa che lo imbarazzavano, il capo dei banditi disse che bisognava ripigliare il discorso di qualche giorno prima, e concluderlo. Qualche giorno prima avevano chiesto alla famiglia Manzoni di rinunziare, semplicemente, alla proprietà delle terre, e appagarsi, tutt’al più, d’un dieci per cento del reddito; il resto appartenendo, ormai, “al popolo”.

Gigino subito capì che le intenzioni dei visitatori erano ben altre dalle discussioni sui diritti terrieri. Era stato soldato e combattente. Uscì, passò nella biblioteca attigua e tornò armato di una ben visibile rivoltella. La contessa subito s’interpose e obbligò il figliolo a riporre l’arma: «in questa casa», disse, «ci potranno anche uccidere, ma non sarà mai qualcuno della mia famiglia a commettere violenze». «E allora», disse il ‘capo’ «andiamo a villa Dianta. Lì c’è il comitato che aspetta. Deciderà lui». A questo punto apparve sulla soglia la cameriera, Francesca Antonicelli, alta, robusta, energica, sulla cinquantina. Lesse lo sgomento sul volto dei padroni e si rivolse ai “visitatori”: «Io vi conosco», gridò a un tratto e la udirono anche quelli che stavano fuori in ascolto, «E so benissimo di che razza siete». Con queste parole decise la sua condanna a morte. Soltanto più tardi si seppe che i malandrini credevano che l’energica cameriera fosse assente; sapevano che se fosse sopravvissuta a quanto essi tramavano di fare, dopo aver visto e udito, avrebbe parlato ai quattro venti. Tutti uscirono, l’uno dietro l’altro. I contadini che avevano qualche stanza al piano terreno del castello vi si erano asserragliati. Per tre anni, poi dichiararono di non aver visto, né udito nulla. L’ultima a uscire fu la donna di servizio; aveva chiuso tutti i cassetti, tutte le porte, tutte le finestre. La videro dare la triplice mandata alla serratura della porta esterna, la grossa chiave impugnata come un’arma. Quando poi il suo cadavere fu scoperto sotto gli altri quattro, spaventosamente conservato, si vide che la mano destra stringeva la chiave e sul volto, dalle

occhiaie vuote, ma dai muscoli intatti, la stessa grinta di disprezzo e di minaccia che doveva avere avuto quando venne colpita.

*** Gli imputati ch’erano riusciti a scappare in Cecoslovacchia sentendosi al sicuro si vantavano del delitto commesso nella loro “qualità di partigiani”, lanciando perfino espressioni ammirate al contegno della “vecchia madre” che quando, con le quattro altre vittime arrivò su due automobili, a notte avanzata, nel luogo stabilito dai manigoldi, non tremò né maledisse, giungendo a consolare i figli e la cameriera negli attimi che gli assassini dedicavano alla preparazione della scarica. Dopo tre giorni, sull’aia immensa fu eretta la tribuna per un’orchestrina e tutti ballarono per festeggiare l’avvenuta “fuga” dei padroni dalla terra che avevano “usurpato”. Nessuno osò dire quel che tutti sapevano: che i padroni “fuggiti” erano stati massacrati proprio lì, e forse seppelliti prima d’essere morti. La verità mise ancora mesi prima di venire alla luce. Fu nel Giugno 1948 che tra Lugo e Alfonsine si videro carabinieri occupati in strane battute con sonde piantate nei campi, soprattutto in un’ansa del fiume Santerno dove più profonde erano le fosse scavate dai tedeschi per le postazioni di artiglieria. La terra apparve ai carabinieri come se ribollisse di sotto, per cadaveri posti nel fondo a marcire. Così: «poterono uscire dall’ombra babbi, mamme, anziani, tre o quattro altri

scomparsi, di cui brave persone, anche parroci, anche pubbliche autorità, esortavano gl’ignari, i ritornati da lunghe assenze, coloro che insistevano per sapere quale fosse stata la sorte di parenti, di amici: “Lasciate fare al silenzio, che tutto chiude, non insistete, è anche pericoloso. State zitti, non insistete, sono delitti amnistiati. Che giova riesumarli? Volete accendere ancora un fuoco che tra poco tempo sarà estinto?». Le cinque salme, i quattro Manzoni e la domestica, furono scoperte, e la macchina della giustizia si mise in moto scricchiolando tra le selve d’indulgenze, complicità mai cessate da allora e tuttora trionfanti. La vicenda giudiziaria del massacro si staglia ancora nella sentenza della Corte di Ancona che accorda le “attenuanti generiche” a tredici canaglie già riconosciute colpevoli di “omicidio aggravato e continuato e occultamento di cadaveri”. E la pena viene “commutata” in ventotto anni di reclusione per effetto dell’articolo 593 del codice di procedura penale. Sono ridotti a due soli. I condannati, detenuti da cinque anni, così tornano in libertà.

*** L’orgia indecente di penose menzogne, perverse leggi, perversa giurisprudenza (v. “Dalla parte dei vinti”, pag. 52) su cui si costruì la perversa repubblica che proprio ora si sta sfasciando, sembra essersi data un appuntamento col destino.

Una landa squallida I GUASTATORI D’ITALIA

Ci fu un tempo in cui l’Italia era territorio pieno di selve foltissime; pianure e montagne coperte d’un denso strato di verde davan un’aria balsamica, più ricca di umori e il Sole, non ancora tenace e tropicale come oggi lo conosciamo, si velava più che oggi di nuvole. Quando scomparvero quelle selve? Nel Cinque, nel Seicento v’erano ancora. Eccole vive, soltanto che contempliate i fondali tempestosi o le serene calme serali dei quadri di Guido Reni e del Dome ni chino. La strada che mena da Ferrara a Bologna si svolge oggi in una pianura uguale che noi moderni, ancora non guariti dei postumi romantici, chiamiamo «piatta e noiosa». Ma soltanto due secoli fa il presidente De Brosses parlava della pianura che si stende fra Ferrara e Bologna «aperta d’alberi all’eccesso, di guisa che non si scorge altro che un piano di foreste formate dalle cime degli alberi». Ecco le selve intricate dell’Orlando Furioso, i paesaggi dei pittori bolognesi e ferraresi, sontuosi d’alberi vigoreggianti, di calme aure silvestri, di molli scene serali fra cupole d’ombra.

L’apice delle distruzioni si raggiunse nell’ottocento, l’anarchia di comando le favorì. Le guerre frustrarono i tentativi di rimboschimento. L’Italia si avviò a divenire quella landa squallida che ci preparano. Si sente il definitivo annuncio d’una distruzione totale degli alberi superstiti delle nostre contrade. Chi vi salverà più, maestosi ippocastani dei grandi viali veneti, salici chiari e pioppi nel tenero paesaggio di vecchie ville in pietra bianca d’Istria brunita, di muraglie in rosa stinto, di viti allacciate? Su di voi pesa sentenza di morte: voi disturbate le libere corse dei vitelloni che debbono correre a centocinquanta chilometri l’ora. Domani daran noia le ville e spianeremo anche quelle, e spianteremo i frutteti ai margini delle strade. Inutile dire che meglio sarebbe l’insegnare ai vitelloni prudenza e pazienza anzi che distruggere quel che rimane della bellezza italiana. Vedete le città. Oppresse da periferie idiote e balcaniche, nate senza piani e senza riguardi, tutte uguali: uguali a Bagdad come a Cincinnati, senza riguardo per tradizioni e maniere architettoniche dei luoghi. Oppresse di fuori, non riescono a difendersi neppure di dentro. Le «esigenze di risanamento», le «imperiose necessità della vita moderna» sono le grida di lotta di una minoranza di avventurieri, di ladri, di furbacchioni che riescono sempre a spuntarla. Credono o dicon di essere moderni soltanto col far fare alle nostre città e alla campagna, indigestione di cemento, di bitume, di latta, di vetro. Materie vili e tetre che presto invecchiano e si macchiano di bave smoccolate e orrende. Ma il verde degli alberi, e i bei rossi, i rosa, i bruni, i giallo-ocra dei nostri mattoni

(ce n’è ancora in giro di quelli romani, sottili come foglie) i colori infiniti e temperati delle diverse terre e delle diverse cotture, le pietre bianche e sensibili alle diverse luci e umidità, i colori antichi e cari delle nostre città, non dovremo vederli più? E linee familiari, umane, di palazzi dove era bello vivere, oppresse e avvilite, quando non polverizzate da sagome enormi e tronfie che si ergono a schiacciarli? E i laghi distrutti, incanalati, i fiumi seccati e ridotti ammassi di pietrame, i paesi arrampicati sui poggi, anche quelli somiglianti ormai alle città orribili delle periferie, tutti avviliti dalla copia delle comodità cittadine: questa lontana e così naturale grazia della nostra terra, non ci accorgiamo che sarà tutta perduta nel giro di pochi anni? Borgate marinare, villaggi alpestri scimmiottano Kansas City, nel cervello di ogni geometra incaricato di tirar su una villetta in un poggio umbro o toscano si agitano i fantasmi della «casa della cascata». L’intera costa ligure è ormai perduta, soffocata fra un diluvio di cementi multicolori, di piastrelle. Una landa, una squallida landa diventa l’Italia. Una landa che nessuno vorrà più amare. Come si giunse a questo, ci domandiamo una infinità di volte. E altrettante volte ci siamo chiesti che cosa facessero le autorità preposte alla custodia della bellezza italiana, i sopraintendenti ai monumenti, alle belle arti. Ne davamo la colpa all’inerzia e allo spirito accomodante di costoro. Ecco che uno di loro, uomo colto e sensibile, Alfredo Barbacci2 ci ragguaglia sulla sua opera di funzionario sceso a combattere a viso aperto sulle colonne dei giornali. Ecco, diciamo la verità. Già in questa scelta del mezzo migliore di combattimento, è la confessione di una sfiducia. Il

funzionario sente, capisce che i mezzi in suo potere, che le difese che la legge gli offre sono troppo tenui e fragili. Il peso di un miliardo è troppo forte in Italia, perché gli si possa resistere. Spesso si tratta non di miliardi, ma di pochi milioni. La questione, prima di tutto, è di costume civile: sta nell’indifferenza degl’italiani alle cose dell’arte e del paesaggio. Se si eccettuano alcune comunità cittadine vigili (ma fino a un certo punto) come i fiorentini, nella difesa delle loro città, l’italiano medio, davanti a uno scempio architettonico, si comporta come il bolognese tipico che il Barbacci descrive mentre «guarda gli edifici monumentali, guarda i nuovi, che evidentemente non lo sono, e si allontana scuotendo il capo». Giudizio, a nostro meditato avviso, ancora ottimistico: diremmo piuttosto che l’italiano medio adora il cemento, idolatra vetri cristalli e bandoni dipinti, adora le piastrelle degne delle latrine che decorano le nuove sorgenti facciate. Così come detesta gli alberi e gli animali e ama alla follia i rumori che bada da mane a sera a produrre con fantasia inesauribile. Quello che di armonioso e sobrio, e raffinato e bello fu prodotto nelle nostre città e nel nostro paesaggio nel corso dei secoli fu compiuto da una minoranza civile che riuscì a non farsi sommergere dalla maggioranza indifferente e addirittura ostile. La disparità è divenuta ancora più catastrofica. Potremmo dire che ieri concorrevano insieme alla creazione della bellezza i signori (committenti delle nuove opere), il clero (che affidava agli architetti la costruzione delle nuove chiese) e gli architetti medesimi: nessuna di queste tre grandi categorie era temibile, poiché tutto allora poggiava sull’autorità di uno “stile”, di un

linguaggio comune che l’architettura ebbe fino al declinare dell’età neoclassica. Chi distruggeva, allora, le opere dei secoli precedenti per erigervi le sue, aveva pure scusanti: dava qualcosa in cambio. Restituiva sotto altra forma ciò che toglieva. Oggi, questo diritto, nessuno può arrogarselo, nel caos triviale e sgraziato che si vuol chiamare architettura contemporanea. Oggi, il diritto a distruggere deve essere tolto a chicchessia. Ma oggi, le tre forze che abbiamo nominato si sono volte contro la bellezza. Il posto del signore è preso dallo speculatore edilizio che non guarda in faccia a nessuno, dal “marpione"prevaricatore vittorioso, che sa “ungere le ruote”, trionfare di leggi e regolamenti, e magari farsi perdonare qualche marachella più grossa delle altre con “opere benefiche”. La retorica umanitaria, la più imbecille, si mescola a questi disastri. «Se mi lascerete gli ultimi piani del grattacielo intatti», insinua mellifluo lo speculatore, «vi costruirò gratis l’asilo nido per i vostri bimbi». E così, l’ultimo torvo pezzo del parallelepipedo che si erge osceno nel mezzo di Napoli o di Bologna, di Milano o di Venezia, si agghinderà delle dolci sembianze della bontà, della beneficenza e della solidarietà umana. Il signore, abbiam detto. Viene poi un clero furbastro, avido, ignorante, abilissimo nell’eludere le leggi, nel beffare il funzionario, perché sa di poter ottenere in alto loco protezioni e incoraggiamenti. È il clero che in questi giorni a Bologna, assiste soddisfatto alle ultime manovre che porteranno alla distruzione della chiesa di San Giorgio. Colpita dalle bombe americane, la chiesa venne gravemente danneggiata all’interno, ma conservò tuttavia intatta la facciata. L’Arcivescovado, dopo aver ottenuto

il riconoscimento dei danni di guerra, li trasferì su altra chiesa. Evidentemente, la vecchia chiesa di San Giorgio non serviva più. L’Arcivescovado l’abbandonava al suo destino. Anzi, la stessa Mensa Arcivescovile presentava nel 1959 un progetto per la trasformazione della chiesa in un edificio speculativo, con gallerie e negozi. La facciata, nel primo progetto, sarebbe stata mantenuta. Poi, in una successiva “variante”, si propose invece il bastardo espediente di trasferire la facciata a un’altra chiesa. Ora, San Giorgio ha il suo destino segnato. È stata venduta, e nessuno potrà più salvarla. E che dire della chiesa romana di Sant’Andrea a Piacenza, che un prete vende a un altro prete nel 1954, a scopi speculativi? Il prete acquirente comincia a smantellare il tetto, ma le proteste di alcuni cittadini inducono la Sopraintendenza ad informarne il Ministero, finché la demolizione viene proibita. Allora, il prete chiede un’indennità per il mancato guadagno oppure «ventiquattro milioni per cedere allo stato l’immobile che gliene costa quattro». Ottiene in dono sei milioni, ma nel 1958, di notte, il bravo prete comincia la demolizione della chiesa. Distrugge due colonne, che trascinano giù gli archi e parte del tetto con pericolo dei passanti. Il prefetto diffida il prete e fa vigilare la chiesa di giorno e di notte. Il comando dei Carabinieri denuncia il prete alla procura, ma senza effetto. Vigilato dalla forza pubblica della città, il monumento è però senza difese contro le pressioni “romane” del bravo prete che, alla fine, la spunta e nel Giugno 1960 ottiene dal Ministero della Pubblica Istruzione il permesso di demolire la odiata chiesa romanica.

E che dire ancora del prete di Reggio Emilia che aveva chiesto e ottenuto che «il Genio Civile, d’accordo con la Soprintendenza ai monumenti, effettuasse costosi restauri» alla sua chiesa. E che la distrusse, dopo aver incassato i contributi per riutilizzarne il terreno, sicché quando il tecnico statale giunse per collaudare i «restauri» non trovò più nulla? Il prete fu denunciato, ma, neanche a dirlo, andò assolto! «Per sua fortuna si trattava soltanto di una chiesa monumentale e di pochi milioni spesi dallo Stato», commenta amaramente Barbacci: «se invece si fosse trattato di una mezza dozzina di mandarini (ricordate il famoso furto di sei mandarini dell’anno scorso?) avrebbe conosciuto l’onta della prigione». Le storie incredibili si allineano l’una dopo l’altra. Si passa da Venezia, la cui causa anche noi sostenemmo su queste colonne, a Napoli e alla sua edilizia sgraziata, informe, che distrugge vie poetiche come via Medina, schiaccia Palazzo San Giacomo, avvilisce antiche chiese; da Napoli a Genova, a Milano, a Roma, a Bologna e a Padova. È come la serie di stazioni di una Via Crucis che Alfredo Barbacci ripercorre con l’anima e l’intelligenza dell’appassionato, ma anche con l’amarezza di chi è stato preposto dallo Stato alla vigilanza e alla tutela dei monumenti e del paesaggio italiano; e poi, dallo Stato è lasciato abbandonato e senz’armi sufficienti contro l’avidità e l’ignoranza. L’Italia lentamente scompare. L’Italia umana, che si poteva amare, e era varia e elegante, e diversa da città a città. Questa Italia se ne va per sempre. Ne sortirà un informe baraccamento, dappertutto uguale, livellato e noioso. L’Italia di lor signori, architetti modernisti e preti maneggioni, e speculatori e politicanti

“sociali”, aperti a sinistra e da tutte le parti, salvo che verso la sensibilità e l’intelligenza. E ci resteranno i libri come questo a testimoniare che come sempre, nei mali nazionali, qualcuno aveva visto giusto, aveva ammonito, si era battuto, inutilmente, come sempre in questo paese.

Usi E COSTUMI INTELLETTUALI

Grande scandalo perché in Germania la figura di Einstein è stata esclusa da una serie di francobolli. Questo rifiuto di onori postali appare mostruoso alla legione di adoratori che Einstein ha ancora nel mondo. È curioso come si formino certe reputazioni. Einstein fu uno scienziato, non so se anche un grande scienziato. Ne hanno fatto una specie di santo laico. Il suo nome e le sue sembianze sono oggetto di una adorazione sterminata, senza alcuna proporzione con la reale conoscenza dell’opera dell’uomo, del suo ruolo nella storia della scienza. Un altro di questi santoni è Pablo Casais. Altra reputazione imposta dalla pubblicità, dalla costante ripetizione di un nome, dall’abile commistione di bizze politiche, di vicende amorose e di reale valore artistico. Pierre Fournier suona il violoncello senza dubbio meglio di Casais, eppure nessuno lo conosce se non la ristretta cerchia degli intenditori di musica e dei frequentatori dei concerti. A certi personaggi tutto dovrebbe essere consentito, un omaggio che si neghi loro diventa una specie di offesa a qualche stramba morale universale. Nel caso concreto, non ha nessuna importanza che Einstein profugo politico e razziale, ma sempre tedesco, abbia suggerito a suo tempo di gettare una bomba atomica sulla Germania per indurla alla resa.

Anzi, l’atteggiamento dei militari e in particolare della Deutsche Soldatenzeitung che si sono opposti a che il babbo dell’atomica fosse francobollato in Germania, diventa manifestazione di orribile “revanchismo”, se non addirittura di “nazismo”. È invece giusto e naturale in uomini che abbiano ancora il senso del giusto e del torto. Ebreo per ebreo, han detto, è meglio Offenbach. E così hanno fatto. * ** Quando qualcuno si meraviglia dell’attuale setta degli “intellettuali”, dei loro usi e costumi, dell’avidità e dell’opportunismo di costoro, di tutti i difetti e le magagne insomma che resero odiosa e sospetta questa categoria, lo esorto a leggere un brano di Jakob Burckhardt che, cento anni fa, aveva già capito tutto scrivendo che: «essi sono fermamente decisi a contrattare in qualsiasi occasione e con qualsiasi potere costituito la loro esistenza, rassegnandosi in massa al punto di vista degli accomodamenti e dei compromessi a quanto vi è di più basso, pur restando grandemente suscettibili nel campo dei riconoscimenti esteriori e di ciò che essi chiamano onore».

* **

Si moltiplicano, sulle pagine dei giornali, i titoli che parlano di “sevizie” ai danni di donne, ragazze e perfino bambine. Curioso pudore, questo che ha cancellato dal nostro vocabolario la parola “violenze” per sostituirvi quello di “sevizie” che significa genericamente crudeltà, senza alcuna relazione con la

violenza carnale! Da noi ci si illude di coprire le cose cambiandone il nome. Tutta questa sequela quotidiana di “sevizie” ai danni di donne e fanciulle mi richiama alla memoria un popolo tetro e disperato, che viveva in un’isola lontana, fasciata per tutto l’anno dalle nebbie dell’inverno.

«Voi dovete saper ch’oltre l’Irlanda, Fra molte che vi son l’isola giace Nomata Ebuda, che per legge manda Rubando intorno il suo popol rapace; E quante donne può pigliar, vivanda Tutte destina a un animai vorace, Che viene ogni dì al lito, e sempre nova Donna o donzella onde si pasca, trova».

Gli abitanti di quell’isola sacrificano ogni giorno una donzella come per un obbligo imposto da una legge sanguinosa. Senza gioia e senza piacere, soltanto per crudele necessità, «Per farne a un mostro poi cibo nefando». L’avete riconosciuto, è l’Ariosto. Se lo leggete bene, vi sorprende quanta disincantata amarezza vi sia in quel suo modo, che par così aereo e felice, di vedere la vita. Par che getti lo sguardo oltre i secoli. Così, nell’orca, l’Ariosto potrebbe aver visto quel che oggi noi chiamiamo il Sesso, il riverito Sesso e tutti gli appetiti che gli fan capo. Certe storie appaiono all’improvviso chiare, come questa che narra gl’incubi e le malattie d’un tempo piene di voglie sanguinose e infelici.

*** La storia del parroco di Massa di Somma, vicino a Napoli, deve far pensare. Il prete trafficava in macchinette a gettone vietate, in quelle slot-machines che fanno un po’ l’effetto delle Montecarlo del proletariato. Si sa che furono proibite da tempo, proprio per le gravi conseguenze che il giuoco d’azzardo praticato a piccole dosi di un gettone alla volta, ma su larghissima scala, aveva su popolazioni arretrate, ignoranti e in più, povere. Il parroco, si dice, faceva l’illecito traffico: ma lo faceva a fin di bene. Ossia, commerciava in macchinette a gettone per mantenere non so quale opera benefica. A forza di concetti come questi, si giustificano piano piano le più disparate attività economiche e commerciali del clero. Nella maggior parte dei casi, sia per la scarsa conoscenza del mondo che per il miraggio di guadagni maggiori all’ombra della tonaca, i commerci sono illeciti. Ci si abitua così all’idea di un clero trafficone per amor di Dio. Poi, chi ha preso l’abitudine ai commerci si accorgerà che si posson fare anche senza scopi benefici, e ci ritroveremo con una pletora di preti come quelli che si vedevano nelle religioni orientali, a Roma, nel primo Cristianesimo, ad Alessandria, e dappertutto, dove una civiltà si sfasciava nel mito della mollezza e del benessere.

Perchè gli italiani sono antipatici

È probabile che l’eco dei fischi e delle urla di Santiago e i selvaggi assalti della plebaglia cilena contro i nostri giocatori di pallone, protetti alla meglio dagli allievi della locale aviazione, abbiano rotolato bruscamente dai letti dorati dell’illusione un gran numero di italiani. Il dogma della nostra simpatia nazionale ha resistito finora alle più sconsolanti prove: che noi si possa essere non del tutto simpatici, o addirittura antipatici, appare un controsenso. Noi, così cordiali, così alla buona; noi, così eleganti, così bravi conversatori: noi, insuperabili assi della seduzione e dell’amore; noi, proprietari di un Sole sempre splendente, avvezzi a ospitare da secoli la culla della civiltà e del diritto, a dare alloggio al Santo Padre e al centro della cristianità che a guisa di faro illumina, eccetera eccetera. Noi, proprietari di Leonardo, Michelangelo e Verdi, e giù giù fino a Puccini e Sophia Loren, noi dunque, potremmo essere antipatici ad alcuno? Tutto ciò concorda, conveniamone, coi resoconti della più qualificata stampa nazionale. C’è una specie di parola d’ordine fra i corrispondenti all’estero dei giornali quotidiani e dei settimanali specialisti in bella vita, per descrivere le ditirambiche reazioni che il nome Italia, o Italy, o Italien che sia,

susciterebbe negli animi altrui. Non parliamo di questo dopoguerra: le masse straripanti di turisti che premono ai valichi di confine ne sono solare testimonianza. Non dedica il Corrierone interi articoli a spiegare come le porte d’Italia siano troppo strette per le armate pacifiche che vi si accalcano, ansiose di cielo e di mare, di Raffaello Sanzio e di palpeggiamenti audaci? I viaggi, secondo una rancida retorica, sarebbero fatti apposta per indurre i popoli ad amarsi fra loro, e quindi tutti quelli che calano da noi dovrebbero (soltanto per effetto della conoscenza fatta) tramutarsi in appassionati spasimanti del bel paese e dell’ancor più bel popolo che vi soggiorna. ***

Strano che a nessuno di codesti apologisti della democrazia turistica e dell’europeismo con l’auto-stop sia mai sorto il dubbio che i popoli, viaggiando e conoscendosi, possano imparare a odiarsi e a prendersi in uggia! Così si potrebbe capire come la maggior parte dei turisti ancora in condizioni di far funzionare il cervello se ne tornino ai loro paesi esaltando le bellezze naturali dell’Italia e deprecando nel contempo che siano guastate da un popolo così rumoroso, fanfarone, leggero, vigliacco, vanitoso, per tacere del resto. Queste cose, i nostri corrispondenti non le raccontano. Si limitano magari a raccontarci qualche garbata critica alla nostra abitudine di distruggere i monumenti, di abbattere gli alberi, di rovinare le coste per sostituirle con spaventose piattaforme di cemento; o di

qualche risatina sulla nostra mania dei grattacieli, sul nostro culto del chiasso più catastrofico e inutile, sulla nostra presunzione di dover esser considerati i conquistatori di tutte le donne dell’universo. Nessuno si preoccupa di farci sapere le critiche. Molte sono ingiuste e ingiustificate, ma da molte altre potremmo imparare qualcosa. Invece, tutti zitti sull’argomento. Anzi, si rincara la dose, si racconta che il nome Italy sui prodotti commerciali è diventato sinonimo di moda, ricercatezza, varietà. Il che può essere anche vero, pur di non generalizzare. L’opera privata di poche persone serie che sanno fare il loro mestiere non si può riflettere per forza su tutti i cinquanta milioni di abitanti della penisola, così come è perfettamente inutile continuare a suonare la chitarra degli eredi di Leonardo e di Rossini. Quell’eredità è finita assai lontano, e in ogni caso non è restata da noi. Il nostro prestigio culturale e artistico è finito da un pezzo. Perfino quello musicale è finito, e sarebbe addirittura sotterrato, se non esistessero, “i Virtuosi di Roma”, o “i Musici”, o Zecchi e Mainardi o Benedetti-Michelangeli che tengon su la baracca per tutti quanti, meritevoli e non. ***

Abbiamo creduto di dover permettere questo accenno artistico, perché sia chiaro che di invidia per la nostra proclamata superiorità nelle arti della plastica e dei suoni non ce n’è più in giro, da molto tempo. Resterebbe il cinema, il nostro famoso cinema, col quale facciamo lezione di bontà e di

morale all’universo. Questo cinema davanti alle cui facce si spalancano tutte le porte. Sophia Loren è andata a Berlino, recita in un film di De Sica, un pastrocchio di Sartre e Brecht. Il gigione del neo-realismo pianta le tende a Berlino, in un grande albergo nel marcio ma comodo Occidente, mentre l’arte la si va a fare a Berlino est, dove l’atmosfera è pregna di fermenti brechtiani... Ci vogliono permessi speciali. Per Sophia Loren, no. Si presenta, costei, al posto di blocco. I miliziani di Pankow? Sa bene la bella Sophia come prenderli, quei rudi compagni. Un sorriso, un pizzico di malia e il giuoco è fatto. E non capisce, la poveretta, che quel sorriso e quel pizzico di malia esibito sulla frontiera insanguinata dalle raffiche di mitra che spezzano ogni giorno la corsa di un giovane, o di una giovane tedesca verso la libertà, fanno fremere di rabbia e di disgusto una popolazione di due milioni di anime per cui su quel muro di pietre e di fili spinati il sorriso è tramontato da un pezzo. L’anno passato proiettammo a Monaco di Baviera il capolavoro di Rossellini, Roma città aperta. Frenetici per la gioia, i nostri inviati andarono a godersi lo spettacolo di come reagivano i tedeschi di fronte a quei chilometri di pellicola che mettevano a nudo le loro nefandezze. Uno, della “Stampa”, riferì gongolando che uscivano a testa bassa. Poco dopo ci fu la faccenda dell’Alto Adige, e scoprimmo che i tedeschi non la pensavano come noi. Naturale, erano gelosi del sole, di Raffaello, loro che non hanno mai avuto un pittore, mai un musicista grande come Puccini. Naturale; e per soprammercato, erano ancora nazisti, le carogne, gli Eichmann.

Un giornale antifascista e addirittura socialdemocratico scrisse che noi italiani facevamo meglio a star zitti per quel che riguardava la guerra, e far dimenticare che eravamo scesi in lizza al loro fianco, e li avevamo abbandonati quando cominciava il peggio, dopo aver sperato di vincere alle loro spalle, coi loro sacrifìci, i loro denari e i loro materiali. Facevamo meglio a stare zitti, noi che ci eravamo messi coi vincitori al momento buono, e avevamo fatto anche la ridicola parte di quelli che pretendono di aver vinto una guerra, dopo averla persa. Già, come scriveva Malaparte, «l’otto Settembre è memorabil data»; perché? Perché è il giorno che «corremmo a vincer insieme coi nemici la guerra che avevamo già perso con gli amici», o suppergiù. Noi, con tutti i nostri distìnguo, i nostri discorsi, la nostra infame “resistenza”. I tedeschi, come non si tralascia di argomentare da noi, tutti colpevoli, tutti macchiati delle nefandezze hitleriane: noi, no. Noi, fummo stregati, non si sa come, dall’orco. Ma, a differenza dei tedeschi che se lo tennero fino alla fine, noi lo scaricammo in tempo, il nostro orco, ci buttammo dalla parte degli angeli, e pretendemmo di aver vinto. Una squallida, repellente rivista (si chiamava “Mercurio", mi pare) uscì subito dopo la guerra (eravamo ancora sotto il governo militare alleato, dinastia di Tombolo) proclamando «Anche l’Italia ha vinto». Ci scrissero tutte le valide penne che fino a due anni avanti avevano magnificato la nostra inevitabile vittoria, dall’altra parte, s’intende. E così credemmo di aver liquidato la faccenda, come si cancella un brutto sogno.

Non pensammo neppure per un momento che si possa esser giudicati e valutati come popolo, tutti insieme, per il male e il bene che si è fatto, ma soprattutto per come ci si è comportati. E così avvenne che la Germania fu odiata, ma non disprezzata, mentre noi fummo disprezzati unanimemente, da tutti: dai vincitori tardivamente acclamati, e dai vinti, anch’essi troppo tardi abbandonati. E in compenso non ci procurammo l’amore e la simpatia di nessuno. Se dovessimo cercare un atto di origine della universale antipatia che ci circonda, è inutile nasconderlo: potremmo andare tranquillamente, senza sbagliare, a cercarlo qua. *♦*

Il seguito è in armonia coll’esordio. Mentre tutta l’Europa boccheggiava, la Germania faceva la fame, la Grecia combatteva la guerra civile, l’Inghilterra stringeva la cinghia, la Spagna passava la quarantena più angosciosa che un intero popolo abbia subito in tempo di pace, noi ci presentammo subito al mondo come i ricconi, sperperatori del denaro altrui: bussammo instancabilmente a quattrini da tutte le parti, esibimmo la nostra miseria per impietosire il prossimo all’esterno, con la tattica consueta ai mendicanti: ma fummo prodighi, poi, veri nababbi, quando si trattò di spendere quei denari. Ancora oggi mandiamo in giro torme di straccioni che è una pena vederli. Chi è passato per le stazioni di Zurigo o di Basilea, di Stoccarda o di Monaco, di Francoforte o di Amburgo, sa il senso di pena e di disgusto che prende alla vista degli italiani mandati a spasso per

l’Europa sporchi, cenciosi, rumorosi, ignoranti. Povera gente, sbalestrata in paesi sconosciuti senza assistenza, senza che nessuno si sia preso la briga di insegnargli i rudimenti del vivere civile. E poi ci meravigliamo se in quel tale locale di Amburgo si vieta l’ingresso ai «greci, spagnoli e italiani», e lo stesso succede in quell’altro locale di Amsterdam o di Rotterdam? Noi ci risciacquiamo beati tutti i giorni nel “miracolo economico”, strombazziamo ai quattro venti la nostra nuovissima ricchezza, eppure lo spettacolo che offriamo di noi stessi fuori delle frontiere è davvero pietoso. Siamo “occidentali”, siamo la sede di quel tale faro di luce che illumina, eccetera eccetera. Abbiamo spiegato a tutto il mondo la “missione dell’Italia”, e tutte le chiacchiere connesse: però facciamo la corte a Krusciov, scodinzoliamo e strizziamo l’occhio per far capire che siamo sempre in vendita, che non siamo alieni dal prendere in considerazione prospettive più vantaggiose. Nessuno vuol conoscere il nostro parere, che non interessa a nessuno: eppure, non ristiamo un momento dalla tentazione di dar lezioni di politica estera, di insegnare ai quattro venti come si salva la pace, e ci picchiamo addirittura d’inventare una nostra politica autonoma, arrivando a proporci come mediatori fra i nostri alleati e i nostri potenziali nemici; come se, invece che parte di un blocco, fossimo una autorevole e autonoma potenza senza legami con nessuno dei due campi schierati. Senza dire che come alleati, cerchiamo in tutti i modi di rovinare gli affari dei nostri amici, e mandiamo il petroliere a dar fastidio agli americani, o a rubare il mercato ai francesi presso le vecchie colonie. Salvo poi farci la concorrenza sleale fra noi stessi come è

successo in India, dove un pletorico monopolio statale è andato a scombinare grosse forniture chimiche già commissionate ad altra industria italiana. Siamo il paese più cattolico del mondo, abbiamo il papa fra noi. Eppure, abbiamo anche il partito comunista più grosso della terra dopo quelli russo e cinese. Con tutto il salmodiare di litanie che ci rimbomba nel cranio non la smettiamo un istante di farci vedere come il popolo più sudicione, nei romanzi e nei film, nelle commedie e perfino nella moralità pubblica, che viva e prosperi in Europa. Andiamo a fare le partite di calcio in Sud America e ci portiamo una metà della squadra di sud-americani travestiti da italiani. Rifiutiamo, con poca cavalleria, poco spirito sportivo e poca intelligenza un arbitro spagnolo (perché parla la stessa lingua della squadra rivale), e ne vogliamo uno inglese. La lingua di Shakespeare è pane quotidiano, nelle sue più recondite sfumature, per i nostri calciatori e dirigenti calcistici. Poi, appena quello non si mostra tenero nei nostri riguardi, allora intoniamo prontamente la lamentazione dello sfortunato eroismo italiano, degli stranieri che ce l’hanno con noi perché ci invidiano, noi belli, puri, intelligenti, anzi “geniali”, ma sfortunati e perseguitati dal destino cinico e baro. Mentre i soli a barare al giuoco siamo noi; e ci illudiamo di essere tanto abili, che nessuno se ne accorga. Invece se ne accorgono tutti. E i fischi e le urla che raccattiamo in giro sono l’unico raccolto che si convenga alla nostra semina. Di fronte alla vastità della quale, le brevi note che precedono sono soltanto

esili appunti che potrebbero introdurre (e lo faremo) un ben più lungo discorso.

IVIGLIACCONI DEL PCI

«SONO PARTITI PER IL PROCESSO CANTANDO GLI INNI PARTIGIANI» (TITOLO DEL

QUOTIDIANO COMUNISTA “STASERA” DEL 18 LUGLIO 1962

Nelle intenzioni, doveva essere epopea. Quando si parte cantando per qualche posto, sono cetre e tube guerriere rispolverate nell’arsenale, che debbon sostenere il canto. E i trentasei che a piede libero movevano verso Roma ebbero i loro cantori. Vistosa rete di complicità, elogi di stampa, sollecitudini di persone importanti resero men arduo il cammino. Le prospettive, infine, non apparivano poi tanto nere, l’atmosfera, sapientemente preparata, avrebbe funzionato. E poi non si andava alla morte, in trentasei a piede libero giovani e forti, ma più dimessamente al palazzo di giustizia sulle rive del Tevere. Soffia il vento, urla la bufera, il direttissimo delle dieci e cinquantatrè si mette in moto. «Valigetta di fibra alla mano, hanno cercato posto su una carrozza di seconda», intona il cronista già lanciato verso la canzon di gesta. Né mancavano a tanto commiato le buone madri, le dolci spose, le tenere figlie. «Qualche mamma piangeva», geme il meschino. Ovviamente non si dubita che le mamme genovesi portassero qualche segno particolare impresso sul volto: «portavano tutte i segni della quotidiana battaglia per il pane»,

portavano. Le signore della smidollata borghesia portino le pellicce, le mamme di Genova portano i segni della lotta, avete capito? «Rughe grosse e evidentemente precoci marcavano i loro volti come un distintivo di classe». Il cronista ha la mano pesante; la qualità della prosa di sinistra non migliora nei tempi, contraddicendo alle leggi dell’evoluzione. Povere mamme, precocemente rugose, voi non usate immergervi nei bagni di schiuma candida, non spianate la vizzosa pelle con le mascherine al cetriolo care alla Messalina borghese. Né piangete frivole lagrimucce per la morte del bassotto Nini. Voi siete alla stazione, vi portano via il figlio, il vostro sangue, le viscere, tutto. Ve lo mandano a Roma, al processo... Soffia il vento, urla la bufera, anche le ragazze c’erano alla stazione. Purtroppo, le rughe non sono ancora comparse e il colore stenta a venir fuori. Ma tuttavia le ragazze «avevano gli occhi umidi», le care figliole, e «cercavano di cantare». Come resistere al patos? «Cercavano», le poverine. Non si esclude che a furia di provarci, qualcuna ci sia anche riuscita. Onore allo sforzo. Soffia il vento, urla la bufera... Ansimando fuggìa la vaporiera, che ci sta sempre bene, con le sue trentasei gioventù a rimorchio, verso Roma e il processo. Rapallo, le undici e quarantuno, poi Sestri e giù, verso Forte dei Marmi e Viareggio. Fiotti di canto uscivano dai finestrini, rabbrividirono bionde nordiche distese seminude nelle spiaggette deserte, tremarono i vili borghesi a quei ceffi e quel canto che invadeva il pigro silenzio assolato dell’ozio estivo.

Roma eterna li accolse alle diciotto e dieci. Mancano cronache, ma qualche madre disoccupata si sarà pur trovata, e uno stuolo di ragazze comandate dal partito avrà pur «cercato di cantare» nella metropoli ottusa e indifferente. Sui bassi fondali degli incidenti preliminari al dibattimento, tuttavia, l’epopea languì. Gli scogli della procedura penale la ridussero misera e esangue come un pesce morto. I trentasei eroi si buttarono a «Santa Nega», come si diceva una volta nel gergo giudiziario. Eran partiti rivendicando la gloria di aver «evitato agli italiani il regime gollista di Tambroni», e sta bene. Sapevano per autorevoli certificazioni di avere alle spalle l’intera gratitudine del popolo riconoscente. E tuttavia vennero fuori a dire che si trovavano tutti, tranne due, a passar di lì per caso. Poveri cocchi, venivano dal lavoro, loro, non sapevano di polizia e carabinieri. Si trovarono presi in mezzo. Uno era stato a trovare la mamma ammalata, e l’altro veniva giusto giusto da una visita al cugino idraulico che s’era rotto un dito. Uno veniva dall’Accademia di Belle Arti, l’altro era stato a fare il bagno. C’era un mutilato, riconosciuto in atto di percuotere gli agenti col suo uncino ortopedico. Ma il dabben uomo protesta: «Mai io avrei potuto essere quel mostro! Io sono un uomo onesto e sincero, amante della legge e della giustizia!» ***

I fieri eroi che avevano aggredito la polizia, perché sicuri dell’ordine che questa aveva di non sparare, erano ora dei mansueti agnelli, vittime sacrificali di colpe non commesse. Al

diavolo l’epopea, ve l’immaginate un Antonio Sciesa che se ne venisse fuori a dire: «Ma io passavo per caso...» ? Bene, gli eroi di Genova ci han fatto proprio questa figura, e il poema epico si è afflosciato nella più squallida delle farse. Ci pensassero gli avvocati. Ci pensasse il deputato de Giorgio Mastino del Rio che non rischia neppure quei mesi con la condizionale e può quindi fare l’eroe ancora più a buon mercato, protetto, ovviamente, come si dice, dalla «sacertà di questa toga intemerata» che ora gli contorna il volto porcino. «Il mio posto è accanto ai quarantatré di Genova», tuona l’avvocato ad uso e consumo dei cronisti rossi, disposti per l’occasione a trascrivere religiosamente anche le parole di un deputato democristiano. «Il mio amico Taviani mi parla spesso di Genova e delle sue lotte contro la tirannia...». Ma che strani discorsi, fanno questi democristiani. E noi che credevamo sapessero parlare soltanto di quattrini. A questo punto tutto sarebbe finito, e ce ne sarebbe abbastanza per toglierci ogni residuo rispetto sulle velleità barricadiere di questi eroi da veglione, che fanno i maramaldi con la certezza che la polizia non spara, e se la fanno sotto soltanto perché non hanno uguale certezza che il collegio giudicante li manderà tutti assolti con in più il diploma al merito. Potremmo limitarci a sgargnazzare senza un rispetto al mondo sul pianto delle madri rugose e sul tentativo canoro delle fanciulle, sul direttissimo delle dieci e cinquantatré e sul suo carico d’eroi con valigetta di fibra; sul povero cronista che chi sa che cosa si aspettava e sul tempismo dell’onorevole Mastino del Rio, presidente dell’ENAL, ansioso di far dimenticare i tempi in cui difendeva il Maresciallo

Oraziani. Ce ne sarebbe abbastanza, dicevamo. Ma a questo punto l’indegna parodia epica si trasforma. Come nelle tragedie fatte a regola d’arte, l’atmosfera cambia all’improvviso, il clima melenso e risibile riceve una sferzata dall’intervento del deus ex machina che cambia di colpo la scena. Entrano in aula due persone. E l’una s’appoggia all’altra, come il vecchio Edipo errabondo, giunto a Colono al braccio della figlia Antigone. Entra l’agente di polizia Davide Baviello accompagnato da un collega. Davide Baviello non può muoversi da solo, non ricorda, ha lo sguardo fisso e assente. Una sassata gli ha sconquassato il sistema nervoso. Forse, il giovane resterà sempre così. Quarantatre attivisti comunisti seduti sui banchi degli accusati non fiatano, ora. I difensori maledicono in cuor loro questa regia casuale quanto perfetta che rischia di rovinargli l’effetto degli acuti così ben preparati. Chi sa se qualcuno, lì dentro, capisce che con l’agente Davide Baviello ha fatto il suo ingresso lo Stato? A che t’appoggi, povero Stato senza forza né coraggio? Non ti giova la lustra della tua araldica troppo recente, la tua ruota dentata non ti fa avanzare meglio, il tuo olivo e la tua quercia, la tua stella e la tua chincaglieria sono soltanto simboli ironici. Sei qui, adesso, battuto e preso a sassi, smemorato e pietoso. Le tue armi, che tanto scintillano alle sfilate dei due Giugno, son buone soltanto per fare i presentatarm all’arcivescovo e al signor prefetto. Ma al momento buono diventano come le spade di latta delle comparse d’opera che luccicano sotto i riflettori ma non feriscono nessuno. Il tuo braccio, direbbe Machiavelli, è carico

d’armi, ma il tuo cuore è disarmato, perché non ha il coraggio di colpire i nemici. E la canaglia, coi suoi larghi sederi spiaccicati sui banchi, se la ride di te che hai mandato i tuoi uomini in piazza coi fucili ma senza le cartucce, con la caricatura della forza; senza la volontà, il coraggio, la determinazione di far rispettare la legge. Tutto il resto è soltanto conseguenza. Tutte le capitolazioni, tutte le vergogne che son venute dopo, sono soltanto conseguenze di quella viltà. Non si tratta d’un corso irresistibile della storia, non c’è un popolo su quei banchi, non ci sono coscienze, non c’è coraggio neppure lì. Sono due viltà che si fronteggiano, due viltà diverse ma concorrenti allo stesso fine, alla stessa catastrofe.

Il nostro e altri mondi

Quasi inosservato è passato un colloquio con sir John Cockcroft, pilastro numero uno della scienza fisica inglese, che Alberto Cavallari ha pubblicato sul “Corriere della Sera” negli ultimi giorni di Luglio. Eppure, la voce dello scienziato inglese vi appare un potente richiamo all’ordine a una scienza che sempre più intristisce al servizio di una tecnica dagli obiettivi chiassosi, dalle finalità esibizionistiche, degradante al punto di scendere dagli alti livelli del sapere alle competizioni di prestigio. Per chi ha sentito fin dal principio la vacuità di quella che si suol definire «la gara spaziale» in atto fra i due blocchi; e l’ancor più pericolosa identificazione degli scopi della «scienza» con risultati che nessun bene possono portare al genere umano, la conferma dei propri dubbi e timori, è conforto altissimo, e cagione di speranza. Dice Cockcroft che «non bisogna lasciarsi ossessionare dalla competizione ‘scientifica’ così come l’hanno impostata russi e americani. Loro hanno deciso di svenarsi per i satelliti. E va bene. Ma io tremo quando sento che ci sono degli europei che vogliono entrare nella gara. I satelliti sono uno sperpero di denaro. Si tratta di una questione di prestigio, per impressionare il mondo... Alcuni sono fanatici per l’avventura

spaziale. Io non sono d’accordo. Stiamo sulla terra, noi europei. Aumentiamo qui le nostre forze». Sembra di ritrovare una onestà perduta, un senso del dovere e delle proporzioni e, ancora, una intelligenza sviata, nelle parole dello scienziato. Che non sarà un passatista nostalgico di arcadie perdute, ma avrà pesato a dovere convinzioni e conclusioni. Eppure, non una parola è stata detta per scindere il dibattito sulla possibilità materiale e matematica di queste “avventure” da quello, taciuto da tutti, eppure quanto più opportuno e necessario, sulla loro convenienza, opportunità e utilità. Nulla, insomma, è stato fatto per trasferire la questione dal terreno tecnico e meccanico a quello scientifico e soprattutto morale. Ricordo il senso di diffidenza e antipatia che provai alla notizia della prima impresa del maggiore Gagarin; quella antipatia si irrobustì, nei mesi che seguirono, di fronte allo spettacolo strepitoso e vacuo degli esperimenti successivi; e soprattutto, di fronte all’ondata miracolistica, avveniristica, che si scatenò sulla stampa. L’avvenimento era di quelli che mettono a prova le intelligenze nella loro robustezza e solidità, nella loro capacità di reazione e di interpretazione. Sullo stesso giornale, uno ci cascò in pieno (e fu l’Emanuelli) con un ridicolo scritto che molti ricordano: e uno non ci cascò, e anzi, in un pacato scritto disse le sue perplessità e le sue avversioni (e fu Paolo Monelli). Nei mesi successivi si esasperò la gara, e tutto apparve chiaramente, a chi voleva vedere, in termini d’una competizione di prestigio. Prestigio futile che somiglia, nell’esasperato intento di sbalordire, a quelle gare di potenza fra le famiglie del nostro

medioevo municipale che consistevano nell’elevare una torre in muratura più alta di quella eretta dai rivali. Ora, concediamo gl’importanti effetti nel campo delle comunicazioni, dell’osservazione da alte quote e soprattutto le conseguenze relative alla perfezione balistica dei missili intercontinentali. Ma poi? Quale senso ha cianciare di “nuova èra”, della quale noi saremmo i primi felici testimoni? Quale èra? Va bene che la vicinanza ai fatti ci rende miopi; di certo gli europei viventi il Capodanno del 476 non si fecero i complimenti per essere felicemente entrati nel Medioevo. Ma noi, che della pretesa nuova èra vediamo i lineamenti e ne veniamo chiamati protagonisti, non possiamo rifiutarci a un giudizio. Miliardi e miliardi, somme favolose spese in questa gara di salti nello spazio celeste. Le energie più attive tese a questo scopo. Un imbottimento continuo di rivelazioni e di anticipazioni, attesa spasmodica di miracoli a non finire. Il giudizio non può non tener conto della domanda: quale giovamento, quale vittoria trarrà il genere umano da tutto questo? Per che cosa tutto questo?

LA “CONQUISTA DELLO SPAZIO”

Già l’espressione corrente, “conquista dello spazio” appare vanitosa e perfino ridicola. La luce che ci giunge da certe stelle si staccò dalla sua sorgente secoli prima di noi. (Se, poi, è vero) Astri che splendono sul nostro capo non esistono più. Si ragioni in termini di secoli, la velocità è quella della luce di fronte alla cui velocità quella dei più strepitosi razzi e di altre raffinate ferraglie è poco più che il dondolare della diligenza di buona memoria. Secoli, non anni, occorrerebbero all’uomo per la via delle stelle, quand’anche riuscisse (e non pare) a varcare le vere barriere che cingono il nostro pianeta, non ancora scalfite. Sbigottiscono le diverse dimensioni del tempo; poche decine d’anni nello spazio corrisponderebbero a centinaia di migliaia nella nostra terra. C’è un limite invalicabile: «Giungemmo: è il Fine. 0 Sacro Araldo, squilla!» direbbe l’Alessandro sbigottito del Poema Conviviale. Quali conquiste? Quali vittorie? Parlare di signoria degli spazi è insopportabile vanteria. Allo stesso modo, sarebbe signore degli Oceani un fanciullo che sciaguattasse nell’acqua bassa accanto alla riva del mare. E poi, per che cosa questo dominio? Non per conquistare nuove terre.

I nuovi mondi ci sarebbero altrettanto impenetrabili che le profondità marine della nostra terra. Dovremmo trarci perfino l’aria da respirare, e l’assenza di peso ci inibirebbe perfino le elementari fatiche della digestione, cui i nostri visceri galleggianti e senza peso si rifiuterebbero. In che cosa la nostra vita e il nostro destino di uomini hanno a che vedere coi voli verso gli spazi celesti? Diffìcile che nuove importanti cognizioni possano essere acquisite, che già non si conoscano attraverso osservazione telescopica e spettrografica o calcolo matematico. Al calcolo, tutto appare subordinato dall’origine. Dobbiamo abbandonare, per capire questo nuovo dominio, le vecchie idee di esplorazione, di scoperta che ancora ci guidano. L’esplorazione è sotto il segno della libertà, vi è connessa la scelta, la responsabilità dell’individuo. Il suo coraggio è somma delle qualità positive dell’uomo: sapienza e equilibrio, costanza e coraggio, carattere, fede, intelligenza, attitudine al comando. Qui, invece, è il coraggio passivo di chi si sottopone a un esperimento, rischia una scommessa mortale, si fa sparare nell’aria fidando nell’esattezza dei calcoli e nella resistenza della macchina. Neppure una nuova dimensione del coraggio: non ne occorre di meno per certe imprese alpinistiche senza ritorno. Stupisce, invece, l’assenza del pensiero; del pensiero morale che cede a un passivo subire di immagini e di meraviglie senza reazioni critiche. Neppure la Chiesa mostra allarme e timore davanti a questo nuovo miracolismo tecnico-pagano, orgoglioso e trionfante: quasi temesse l’accusa di arretratezza, oscurantismo, eccetera. Sbigottisce la fatuità degli argomenti, dei discorsi, che

al nascere della “nuova èra” si accompagnano: la massa delle bislacche anticipazioni: saranno mostri lassù? Saranno più buoni di noi? Meno buoni? Con tre teste? Con sei gambe? Infima letteratura di cui la massa si nutre, perfide speculazioni non innocenti, perché sviano e illudono. Le novità del “progresso” sono stimolo all’avanzata dell’idiozia? Sì, quando il “progresso” non è sostenuto da una chiara coscienza dei suoi fini, e soprattutto da una subordinazione alla legge del bene umano. Basta assistere a certe pellicole di terrore, come dire, spaziale: guardare l’espressione attonita, impaurita, degli spettatori (né sono soltanto rustici ignari), per capire il livello intellettuale di certa roba di “fantascienza”. D’accordo, l’idiozia è sempre esistita. Ma oggi si giova della vastità di mezzi di informazione e di turbamento mai visti, e procede di pari passo con le scienze tecniche, cui si accompagna come commento. Divagazioni astronomiche come quelle contenute nelle Considerazioni sulla pluralità dei mondi di Bernard Le Bovier de Fontenelle (l’Algarotti ne trasse spunto per il suo Newtonianismo per le dame, venuto a satireggiare manie assai simili a quelle odierne) per dimostrare che la Luna e gli altri pianeti sono terre abitate appaiono, al confronto, capolavori. Galileo aveva scritto nel Dialogo dei massimi sistemi, grave e di lingua splendido: «Che nella Luna o in altro pianeta si generino o erbe o animali o piante simili ai nostri, o vi si facciano piogge, venti, tuoni, come intorno alla Terra, io non so e non lo credo, e molto meno che ella sia abitata da uomini». Già a Galileo la superficie della Luna appariva uno sterminato deserto: «non affermo però che vi sieno movimenti e vita, e

molto meno che vi si generino piante, animali o altre cose simili alle nostre, ma se pur ve n’è, fossero diversissime, e remote da ogni nostra immaginazione: e muovomi a così credere, perché, primamente, stimo che la materia del globo lunare non sia di terra e acqua, e questo solo basta a tòr via le generazioni e alterazioni simili alle nostre; ma, posto anco che lassù fosse acqua e terra, ad ogni modo non vi nascerebbero piante e animali simili ai nostri...». L’immagine del deserto quale noi conosciamo è già precisa. Galileo aveva osservato che non vi sono piogge, «perché quando in qualche parte vi si congregassero nugole, come intorno alla Terra, ci verrebbero ad ascondere alcuna di quelle cose che noi col telescopio veggiamo nella Luna, e in somma in qualche particella ci varierebber la vista». Ora, sappiamo che non v’è neppure aria, le analisi spettroscopiche ne han dato conferma assoluta. Cos’è dunque questa corsa ai deserti del cosmo? Questo assalto ai prossimi pianeti senza aria né vita? No, nessuna “èra” può sorgerne: nulla che influisca in qualche modo sul nostro destino. Hicvita, hicfatasunt. E tutto quanto ci distrae dal nostro compito e dalla nostra condizione di uomini, indirizzando sacrifici e eroismi, lavoro e ricchezze verso spazi irraggiungibili a noi estranei, incomunicabili e nemici, non farà che aggravare la nostra condizione terrestre; che esasperare il decadere del raziocinio e dello spirito critico, la vera malattia del nostro secolo. Che avvilire i compiti della scienza, allontanandoci dai nostri doveri e dalle nostre responsabilità di uomini. E ciò mentre idee e dottrine coi loro risultati catastrofici dimostrano

quanto candida, ma quanto tremenda illusione fu quella del “progresso”, e che l’uomo non muta, non si evolve. Che è sempre lo stesso, medesimi i suoi appetiti, le sue bassezze, le sue stesse grandezze interiori. A resuscitare le quali, in ogni caso, non varranno le corse pazze sui razzi spaziali. Le quali rischiano, semmai, di disperdere le ultime forze, di suscitare vaneggiamenti e follie.

COSÌ FINISCE L’ITALIA

Viene davvero il momento in cui i fatti parlano “da soli” e si mettono a significare magari cose cui i loro autori non avevano neppure pensato: quei significati casuali e imprevisti finiscono col diventare la vera interpretazione, l’unico autentico senso degli avvenimenti. Mettendosi in viaggio per Loreto, il papa Giovanni non aveva sicuramente altre intenzioni che non fossero quelle del «buon pellegrino», come ha detto. Varcare la soglia della casa di Nazareth, scendere alla tomba di san Francesco e impetrare dalla Madonna e dal Santo aiuto e assistenza per il Concilio che si riunisce a giorni in San Pietro. Ma i commentatori aulici han voluto cercare paralleli e analogie. Il viaggio del 1962 è stato paragonato a quello del 1857; le condizioni del papato di oggi e quelle d’allora; il placido trionfo dell’odierno viaggio papale alla atmosfera d’incerta e sospesa angoscia che accompagnò la lunga peregrinazione di Pio nono, vacillante in salute, per i suoi Stati minacciati. Pericoloso terreno, quello dei paragoni. Pericoloso ma attraente. Vogliamo inoltrarci un momento? Pensiamo non solo all’altro viaggio; ma pure all’altro Concilio, quello di Pio nono, che s’interruppe inconcluso sulla sconvolgente novità dei

piemontesi a Roma, del papa spogliato dell’ultimo lembo de’ suoi territori, chiuso come un prigioniero nei suoi palazzi, non più sovrano e neppure libero nella sua Roma, profanata e invasa. A neppur cento anni di distanza da quel recluso volontario, «costituito sotto dominazione ostile», l’intera cattolicità che sta convenendo a Roma coi suoi vescovi e teologi, religiosi e abati, può mirare un sovrano trionfante e benedicente: il Capo dello Stato italiano s’è precipitato a Loreto per fargli onore all’arrivo, dopo avergli ceduto il suo treno. Il Presidente del Consiglio e gran parte del Governo, in gaia frotta, fan parte del “seguito”. Dicono che i Ministri abbian fatto le coltellate pur di potersi imbarcare sul «sacro convoglio» e mostrare le proprie facce agli stessi finestrini. Tralasciamo l’aneddotica minore, che non è mancata; non parliamo neppure dell’impressione di totale frana dei limiti fra un potere e l’altro, di questo Stato che si è all’improvviso liquefatto, che si è spappolato in un’orgia di ridicolo servilismo che non ha nulla a che fare con la cortesia e l’omaggio dovuto a un augusto ospite. Diciamo la verità: con quel Governo imbarcato sul treno a fare da seguito, dove altri avrebbe mandato un ministro o un sottosegretario, chi voleva capirlo ha capito che cosa significa avere al Quirinale un presidente democristiano e, a Palazzo Chigi, Amintore Fanfani al posto di un Giovanni Lanza. Potrebbe bene un maligno prete di quelli che vergavano bellicosi articoli nei tetri giornali che si chiamavano “L’Unione o La Perseveranza”: potrebbe bene affacciarsi e ghignare: «L’Italia, signori? L’Italia fu, è passata, è un ricordo. L’Italia per la Chiesa è stata un episodio, nient’altro che un episodio; un episodio

cominciato e concluso nel breve spazio fra due concili, fra il Vaticano primo e il Vaticano secondo». Peccato soltanto che alla cerimonia non avessero invitato il generale Cadorna numero tre, il senatore democratico cristiano, già compagno d’armi di comunisti e socialisti e ora sostenitore dell’apertura a sinistra. A volte, la conclusione dei grandi cicli storici vuol pure il lustro e il conforto dei grandi nomi.

***

Ma ecco che altra gente, meno augusta e illustre, si è messa in viaggio. «Il 7 Ottobre tutti a Roma», aveva scritto “l’Avanti!”; si commemorano, niente meno, i settant’anni di socialismo in Italia. Per la verità, rispetto alla fondazione del partito, che nacque a Reggio Emilia nel 1893, s’è anticipato di un anno; né il 7 Ottobre rievoca qualche altra data di particolare importanza, dal momento che la riunione di Genova si tenne nell’Agosto del 1892. No, non è tanto la serie di dubbie glorie del passato che Nenni ha voluto commemorare nella romana piazza del Popolo, quanto i gloriosi traguardi deH’imminente futuro, quando i socialisti siederanno, finalmente, sulle agognate poltrone ministeriali. La riunione in Piazza del Popolo a quattro giorni dalla apertura del Concilio ecumenico ha voluto significare una ipoteca insieme e un incoraggiamento: ha voluto provare la “disponibilità” dei socialisti per il nuovo corso della politica italiana. La Chiesa può contare su di loro, se davvero vuole imboccare le nuove vie della distensione, della collaborazione universale. I socialisti sono pronti a salutare una Chiesa che non

lancia più scomuniche né anatemi, che non minaccia lacerazioni di coscienza, che non bandisce crociate, che si tiene paga di adunare in Roma una specie di internazionale pacifista e cristiana; che non accetta più di identificarsi con l’occidente bianco, macchiato del peccato del “colonialismo”. Con una Chiesa come questa, i socialisti sono disposti perfino a salire al Governo, a garantire i migliori sentimenti dei loro alleati comunisti, mai rinnegati. È il fronte del sorriso e dell’amicizia. Togliatti è amico di Nenni e ha fiducia in lui; Nenni è amico di Fanfani, Fanfani amico e figlio devoto della Chiesa Romana. 0 qualcuno tradisce, o è cambiata la storia d’Italia. 0 accade l’una e l’altra cosa: che la storia d’Italia è mutata perché tutti l’hanno tradita, e tutti sono d’accordo su un punto solo, preliminare: che a nessuno importa qualcosa dello Stato italiano, dei suoi poteri, della sua storia, della sua dignità, della sua esistenza. Parlano tutti di popolo, di socialità, di riforme, delle masse, dei lavoratori, dei guadagni, dei consumi. Ma dello Stato italiano nessuno parla, perché a nessuno interessa. Né i cattolici temono che i socialisti possano impadronirsi delle sue leve, dei suoi organismi, aprirne le porte ad altri; né ai socialisti laici dispiace di dividerne il comando coi clericali. Ne sono passati di anni, da quel lontano 1908, quando Filippo Turati, ad una offerta di collaborazione dei democristiani di sinistra ai socialisti riformisti, rispondeva con una sdegnosa lettera a Romolo Murri, affermando recisamente i postulati anti-cristiani del movimento operaio. Allora, la Democrazia Cristiana era un povero senzatetto che non aveva nulla da offrire e si poteva anche

risponderle così: oggi ha il Governo nelle mani e una matta voglia di dividerne con qualcuno le responsabilità troppo grandi per lei. È pronta a tutto: a rinnegare le alleanze, a blandire i nemici, a cambiare parte: a rimangiarsi ogni sorta di promesse e di impegni, a fare le Regioni spezzando così ogni residua unità amministrativa e formale dello Stato; la regione del Friuli e Venezia Giulia sarà un tremendo pericolo alle frontiere? E che importa? Tito è il nostro migliore amico. Le foibe, dimenticate, dimenticata Pola, dimenticata la zona B e tutto il resto. Il Ministro Preti si farà garante e mallevadore della Jugoslavia quando vorrà entrare nel Mercato comune. Le nazionalizzazioni? Ma se le approva perfino 1'“Osservatore Romano"! Il latino? Non importa che, dopo tutto, sia la lingua della Chiesa; la Chiesa è disposta a passarci sopra, guardiamo al pratico. Sono pronti a nazionalizzare dell’altro, ad abolire magari anche l’italiano e la matematica se sarà necessario; a commerciare con Cuba e con la Cina; pronti a tutte le capitolazioni. Il loro incontro coi socialisti avviene sulle rovine di uno Stato in liquidazione. Gli antichi concorrenti nella conquista delle masse operaie e contadine si ritrovano a faccia a faccia, dopo settant’anni. Ieri erano il pericolo nero e il pericolo rosso, le due forze estranee che premevano fuori dello Stato liberale, le due minacce. Si combatterono e si accostarono a volta a volta, ma sempre con gli stessi fini ultimi: distruggere quello Stato, scardinarne le difese, entrarvi dentro. Vi entrarono insieme, trionfalmente, approfittando della sconfitta militare. Poi si divisero per

qualche anno. La Chiesa esigeva dai cattolici che partecipassero alla sua battaglia contro il comuniSmo. Nessuno sapeva che poteva essere, quella, l’ultima battaglia per Cristo contro Marx. Poi la Chiesa lentamente cambiò, e allora i concorrenti di ieri non tardarono ad accorgersi che la loro frattura era sterile e scomoda e meglio sarebbe stato mettersi d’accordo. Su quali basi, lo stiamo vedendo adesso. Ci pare ieri, e sono sette, otto anni, che Leo Longanesi mi diceva “come” sarebbe successo. «Non succederà niente di grosso, non verrà nessuna rivoluzione. Verrà un gran pastrocchio, coi cardinali, i generali russi, tutti a Capri...», diceva. I generali russi e i cardinali, a Capri, non si sono ancora visti. Ma il “pastrocchio” è già cominciato. Ci siamo in mezzo, tutti quanti, fino al collo. Noi, voi, e questa classe di mezzi uomini, di mezze figure, di mezzi caratteri, di mezze coscienze. Gente senza prestigio e senza coraggio, senza idee e senza volontà, senza dignità e senza cultura: che si barcamena, fiuta il vento ogni mattina, scansa gli impegni e i pericoli, non mantiene una parola al mondo; ma che è disposta a tutto quel che c’è di più basso pur di durare, pur di continuare a far quattrini, a pavoneggiarsi, a ciarlare, a governare un popolo sfatto, plebe vile; che si dice cristiano e non va neppure a messa; che fa il socialista ma non ha voglia neppure di fare la rivoluzione, tanto sa che quel che potrebbe prendersi glielo regalano prima per paura. Che è disposto ad accettare tutto, a subire tutto, a far festa a tutti purché lo lascino in pace a gonfiarsi di canzonette fino alla consumazione dei secoli.

È così che finisce l’Italia; senza nemici ma anche senza amici, senza volontà né coraggio, ma vile, ingorda, felice. Fu un tentativo e una speranza. Torna a essere una espressione geografica, senza scampo. Non ci saranno sconvolgimenti né tragedie; e tutto andrà avanti così, all’italiana, fra scrosci di applausi e commemorazioni sempre più rumorose di glorie sempre fasulle.

La manna democristiana

Breve lettera agli abitanti di un paese umbro

«Castelluccio di Norcia è un piccolo centro dell’Umbria, presso Spoleto. Succede tutti gli inverni che il paese, data la sua posizione, resti isolato per lunghi periodi a causa delle forti nevicate. L’isolamento, quindi, non è una novità per gli abitanti di Castelluccio. L’altro ieri, sono stati attratti all’improvviso dal rumore di un elicottero che, dopo aver sorvolato il paese, si abbassava, lasciando cadere un voluminoso involucro. Convinti che il Governo o qualche ente si fosse ricordato di loro, gli ottimisti paesani si sono affannati ad aprire l’involucro, sicuri di trovarvi viveri e medicinali di cui avevano necessità. Con loro somma sorpresa, hanno invece dovuto constatare che il pacco conteneva i moduli per la denuncia Vanoni. Nonostante il gelo e l’isolamento, il fisco non si era dimenticato di loro.» [DAI GIORNALI]

CARI CITTADINI DI CASTELLUCCIO, davvero divertente dev’essere stata la scena sulla piazza del vostro paese isolato dalla neve. Il rombo dell’apparecchio che si avventura tra i vostri monti sibillini, l’eccitazione della novità; il vociare dei bimbi, le finestre che si aprono, i cani che latrano

verso il cielo scuro, e il mostro benefico che squarcia le nubi e scende su di voi, rotando le sue pale e oscillando pigramente cordiale sul vostro pugno di case, ammantate di bianco come in una cartolina natalizia! Io ho cercato di figurarmela come ho potuto: ho cercato di vedere i fabbricati rustici di pietra, i comignoli che fumano, l’aria di festa che l’arrivo inaspettato diffondeva fra voi, rassegnati ormai da tanti inverni a sentir latrare i lupi affamati, attratti dall’odorino di carne di porco ben salata che penzola a stagionare dalle travi dei soffitti. Vi sarà parso di tornare nell’Umbria dei santi e dei miracoli, e di sicuro qualcuno fra i più devoti si sarà messo a ringraziare san Benedetto, vostro devotissimo compaesano, per aver inspirato un sì benefico zelo nelle autorità. Spingerò la mia fantasia anche oltre il dovuto, e proverò anche ad immaginarmi quel che deve aver pensato il vostro parroco, affacciandosi alla porta della canonica, e udendo che l’elicottero era venuto per le vie del cielo, adusate al traffico benefico degli angeli del Signore, fino ai suoi parrocchiani. Io, poco avvezzo a frequentazioni sacre, ci ho messo un po’ di tempo a farmi venire in mente il paragone. Ma Lei, Reverendo, son sicuro che ci ha pensato subito, per naturale associazione di idee, a quei capitoletti dall’undici in poi, del libro sedicesimo dell’Esodo, quando il Signore, parlando a Mosè, disse: «Ho udite le mormorazioni dei figli d’Israele; dì dunque loro: questa sera mangerete della carne e domattina sarete saziati di pane, e conoscerete che io sono il Signore Dio vostro». E detto fatto, prime arrivarono le quaglie che ricopersero gli accampamenti, mentre il giorno dopo piovve la manna. Dica la verità, Reverendo, che ci ha pensato, alla manna celeste,

vedendo quell’elicottero, non senza rivolgere un grato pensiero a Domineddio e al deputato de Micheli, nume indigete della terra umbra e così degno successore dei suoi santi miracolosi. ***

L’apertura del pacco dev’esser stata una scena di quelle che è un peccato perderle, a poterle contemplare con occhi estranei e disinteressati. Con fantasia più sveglia o più tarda della mia, di cui vi ho offerto breve e peregrino saggio, dev’essersela figurata mezza Italia. Quella metà, o quel quarto delle beffe amarognole che usavano un tempo. Questa Italia leggitrice di gazzette, o cittadini di Castelluccio, è bene che lo sappiate, ha riso di voi e della vostra sorte. Per parte mia, ho voluto approfondire le mie cognizioni, invero piuttosto scarse sul conto vostro, e mi son procurato le cifre elettorali del vostro Comune. Mi mancano, è vero, quelle che vi riguardano direttamente, come frazione di Castelluccio: ma suppongo che, grosso modo, la frazione si sarà comportata come il capoluogo, magari con la solita tendenza delle frazioni a concentrare i voti sui partiti più grossi, evitando le dispersioni in più estrosi rivoli che tentano come capricci i cittadini. Nel comune di Norcia, la Democrazia Cristiana ebbe, alle elezioni del 1958, precisamente 2754 voti: 592 ne ebbe il Partito comunista, 430 il socialista e 83 il socialdemocratico. I repubblicani e radicali ne toccarono pochini, 69, mentre le destre n’ebbero in tutto 737. Dunque, il vostro Comune è un fedelissimo. Se tutta Italia si comportasse nel vostro modo esemplare, la Democrazia Cristiana avrebbe qualcosa come il

settanta per cento dei voti, senza contare gli schiavetti minori, e il moroso incostante del partito di Nenni. Cari cittadini, vi confesso: quel briciolo di affetto che sulle prime avevo sentito per voi, ha battuto velocemente in ritirata. Se anche nell’assedio della neve il ministro Trabucchi vi cala dal cielo il cappio delle sue scartoffie, voi avete ben meritato il sacrificio sottoscrivendo col vostro zelo elettorale la vostra candidatura di vittime mansuete. La pioggia di cartelle fiscali dal cielo, ve la siete guadagnata. Siete voi, i fedelissimi, a offrire il buon esempio a questa nazione. Cancellate dunque il recente miracolo dell’elicottero dalle benemerenze di san Benedetto e ascrivetelo a voi stessi, alla vostra dabbenaggine di antesignani dell’Italia tuttademocristiana. San Benedetto, può poco ormai. Le sue caratteristiche lo mettono in fiero sospetto presso le sfere dirigenti. Oggi non lo rifarebbero santo di sicuro: e perché sdegnò il clero, che gli apparve troppo molle, di Roma, e troppo incline a godersi le gioie della bella vita; e perché sdegnò di farsi flagellante e anacoreta e di straniarsi, in mistica pigrizia, dal mondo in cui viveva; e perché fu un santo attivo e maschio, positivo e virile, che volle l’innalzamento dell’anima attraverso lo studio, l’arte, e il lavoro dei campi; tutte cose sgradite e fuori di moda per questo pecorume di adesso, che studiare ama poco, lavorare ancora meno, e quanto all’arte, non va più in là di Joe Sentieri o della signorina Foligatti. E perché (non ultimo motivo di sospetto) si ostinava a difendere e salvare le grandi opere degli autori classici della romanità, scritte in quella lingua

latina che perfino al cardinal Lercaro sembra oggi nefando strumento d’imperialismo e di sopraffazione. San Benedetto ormai non conta più, cari cittadini; tenetevi dunque l’onorevole Micheli e i miracoli dei suoi amici, come quello dell’elicottero che porta le schede Vanoni. E non abbiatevene a male, se ridiamo di voi: ve lo siete meritato. Avete ragione se v’arrabbiate di veder ridere sui casi vostri tanta gente che, da molti anni, si abbraccia fiduciosa alle macilenti zampe della Democrazia Cristiana, la più spregevole e sordida gnaffa che mai abbia battuto i bassifondi della storia patria. Il caso vostro, o cittadini, è un monito sinistro, una profezia. Meditino gli altri milioni di vostri fratelli se anche a loro, con o senza neve, non è accaduto e non continua ad accadere qualcosa di simile. Se anche loro non si son trovati e non si trovano a dover riconoscere che i propri malanni se li son procurati, e che questa gente buona soltanto a chiedere credito di voti e di quattrini, con le buone o con le cattive, con le prediche e i ricatti, con Trabucchi e con la Madonna, se la sono scaldata al seno per quindici anni. Perciò, costoro non han diritto di ridere alle spalle vostre. Su questo, siamo d’accordo. Con l’augurio che il prossimo elicottero vi porti anche una copia del “Borghese” di questa settimana, e che vi possa aiutare a rimetter giudizio per la prossima.

Spettacolo indecente OSIMO, L’ITALIA SVENDE

Lo spettacolo che l’Italia ha offerto, popolo e classe politica, con la rinuncia ai diritti sovrani sulla «Zona B» dell’abortito «Territorio Libero di Trieste», denuncia uno stato di agonia prossimo alla morte storica. Totale indifferenza dei cinquantacinque milioni, tolte le minoranze, solitarie come sentinelle nella notte. Spirito di spensierata vacanza nella classe parlamentare, infastidita dal doversi ancora “occupare” di questi cinquecento e ventinove chilometri quadrati, che la maggior parte di deputati e senatori consideravano già annessi, e per sempre, all’«amica Jugoslavia». Tanto spensierata vacanza, che più di duecento, tra costoro, non andarono neppure a votare su una questione di confini, sia pure per approvare la rinuncia, e non perché temessero di sporcarsi le mani, o d’esser biasimati un giorno, da un giudizio storico meno mascalzone degli attuali. Sarebbe troppo pretendere in certa gente simili suscettibilità: semplicemente, era venerdì sera e gli onorevoli erano disposti a rinunciare alla «Zona B», ma non al treno verso il paese, al week­ end, alla scampagnata domenicale. Neppure il Presidente del Consiglio trovò il tempo per andare a votare sulle frontiere

nazionali. Questo sonnacchioso simulacro di disgrazia, che ancora nel 1970, quand’era Ministro degli Esteri, definiva “legittimi interessi nazionali” i diritti italiani sulla «Zona B», e che ora s’è reso responsabile primo della loro alienazione, non s’è preso neppure l’incomodo di strisciare sul breve selciato che corre dal Palazzo Chigi a Montecitorio. A confronto dei nostri ministri e parlamentari, gli sfruttatori di prostitute ci fanno la figura dei cavalieri antichi. Difendono il tratto di marciapiede soggetto alla loro sovranità, con chiara visione dei loro interessi e un geloso (ancorché distorto) senso dell’onore. La perdita definitiva di Capodistria, Isola, Pirano, Parenzo, Portorose, Umago, Cittanova e Buie, cittadine e paesi dal limpido passato italiano e veneziano, non ha strappato alla nostra classe politica una sola espressione sincera di rimpianto. Il Sindaco di Trieste, occupato a lanciare anatemi contro le condanne spagnole, non ha saputo dire una parola, mentre il sipario definitivamente si abbatteva sulla periferia della sua città. ***

Questa unanimità della classe politica è un sintomo letale. Non parlo di socialisti e comunisti: rinnegati da sempre, un diverso atteggiamento ci avrebbe turbato. Parlo di tutti gli altri: la defezione virile di due solitari democristiani, dell’onorevole Sullo tra i socialdemocratici e di Durand De La Penne, non basta a riscattare questi partiti, la cui natura nociva, la cui profonda

degradazione morale non hanno ormai più bisogno di dimostrazione alcuna. C’è da stupirsi che altri non profittino dell’atonia storica in cui l’Italia è piombata. Che la Tunisia, invece di prendere a cannonate i nostri pescherecci, non risolva il problema annettendosi la Sicilia. E che i popoli dell’Alto Adige che, beati loro, possono farlo, non chiedano l’autodeterminazione e l’unione all’Austria. Ma poiché si va cianciando che la situazione di fatto era ormai immutabile e che la rinuncia, per quanto a taluni riesca “dolorosa”, era “inevitabile”, varrà la pena di riepilogare i termini della questione. Noi li esponemmo più volte da quando, nel 1970, l’onorevole Ferri, allora Segretario socialdemocratico, chiese di chiudere la partita, e di rinunciare definitivamente alla «Zona B», a favore della amata Jugoslavia. Noi definimmo allora «assurdo e misterioso» il contegno di costui, che proponeva di rinunciare spontaneamente, venticinque anni dopo la fine della guerra, a un territorio che neppure l’Italia delle am-lire e degli sciuscià era stata costretta a cedere. Già da allora, gli interventi a favore della Jugoslavia si moltiplicarono con così appassionata insistenza, da far sospettare che qualche sguattero ladro avesse ingoiato la sua polpetta di mancia. Nel 1973, ci si mise anche il “Corriere della Sera”, gazzetta slava da sempre, con un marchese venditore di vini, che di nuovo invocava la rinuncia, in nome di una «amicizia da rafforzare», che era poi quella di Tito. Non mancavano i rituali insulti agli esuli. Fedele alle tradizioni, anche oggi lo stesso giornale ha preparato l’atmosfera, con un articolo del 1° Ottobre, svalutando

quali «invettive e lamentazioni, rimpianti e fantasticherie», le voci di dissenso che potessero levarsi.

***

La lunga storia risale al “trattato di pace” del 1947, che con le colonie, il Dodecaneso e altre cose, tolse all’Italia l’enclave di Zara, le provincie istriane di Pola e Fiume, e parte di quelle di Gorizia e Trieste, attribuendole alla Jugoslavia. Belgrado rivendicava anche Trieste e le cittadine costiere; i cui caratteri italiani parvero tuttavia così innegabili, che neppure vincitori ansiosi di punirci se la sentirono di togliercele. Escogitarono la soluzione media di uno staterello, il “Territorio Libero di Trieste”, cui l’Italia avrebbe ceduto quelle che poi saranno chiamate «Zona A» e «Zona B». L’invenzione ricalcava l’espediente per cui a Versaglia le democrazie tolsero Danzica alla Germania, senza osare attribuirla alla Polonia. Fu forse il ricordo di Danzica che indusse i vincitori del 1945 a non pretendere l’attuazione del “Territorio Libero” che, dopo una tormentata gestazione settennale, abortì nel «memorandum» di Londra del 1954. Questo restituì Trieste e la «Zona A» all’Italia, senza poter impedire che nella «Zona B» restassero le truppe jugoslave, che la occupavano dal 1945. Col «memorandum» finirono dunque occupazione e amministrazione alleata su una parte del territorio. Continuarono, l’una e l’altra, per opera degli jugoslavi, sulla seconda parte.

È un falso, quanto sostiene la diplomazia di Belgrado, appoggiata dai farabutti di casa nostra, che il memorandum stabilisse una implicita divisione territoriale con l’attribuzione della «Zona A» all’Italia e della «Zona B» alla Jugoslavia. Oltre ai territori ceduti nel 1947, l’Italia non doveva alla Jugoslavia un metro di terra. Doveva cedere Trieste e il territorio delle due zone al cosiddetto “Territorio Libero”, dato e concesso che questo nascesse. Ma poiché non nacque mai, l’Italia non era più tenuta ad alcuna cessione. Col memorandum del 1954, la «Zona A» ritornava di pieno diritto alla sovranità italiana, mentre nella «Zona B» l’amministrazione provvisoria jugoslava diveniva usurpazione e abuso. L’Italia non ha mai avuto, negli ultimi vent’anni, e non ha adesso, né i mezzi, né la forza, né il prestigio per far cessare l’abuso e ripristinare nel fatto la sua sovranità, ridotta ad un residuo giuridico. Né alcuno ha mai pensato di fare la guerra per la «Zona B». Ma è bestiale l’idea che per questa sola ragione si possa chiudere una pretesa territoriale. Nessun governo, quale ne sia il carattere, può rinunciare, mai, a meno che non vi sia costretto con la forza, ad un metro quadrato del territorio, che è elemento essenziale di uno Stato e patrimonio fisico, reale, della Nazione. Vi sono certamente i deficienti che vanno ripetendo che le questioni territoriali non avrebbero più importanza nel mondo d’oggi. È vero il contrario. La fame di terra aumenta, le questioni territoriali s’inaspriranno.

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Dopo la sconfitta di Sedan, la diplomazia francese si dette la consegna: «non parlarne mai, ma pensarci sempre», a proposito dell’Alsazia e della Lorena, annesse al Reich. Ci pensarono cinquant’anni, finché riuscirono a ripigliarsele. La diplomazia italiana, quella di carriera, la pensava allo stesso modo sulla «Zona B». La vita dei popoli è lunga, costellata d’imprevisti e sorprese. Stati che appaiono saldissimi si dissolvono, alleanze si rovesciano, occasioni insperate si manifestano. Il mondo non cristallizza, ma cammina. Nessun governo ha il diritto di liquidare una partita territoriale con la pacca soddisfatta dei mercanti di porci. Dovere di una classe dirigente, di un governo, di un parlamento, che non siano in condizione di far valere una pretesa territoriale, è di trasmetterla, intatta, alle generazioni future. Nessuno può essere così presuntuoso e bestia da pretendere di impegnare la sua nazione, per i secoli, ad uno stato momentaneo di inferiorità e disagio. Il valore dei diritti residui dell’Italia sulla «Zona B» era svalutato e deriso, stranamente, soltanto dai nostri politici. Se non valevano nulla, perché la Jugoslavia si è battuta così tenacemente affinché noi rinunciassimo? La diplomazia jugoslava attribuiva alla residua sovranità italiana un valore assai maggiore di quanto credono i nostri praticoni ignoranti. La pretesa che in politica contino soltanto i fatti compiuti o, come dicono i sovietici, «le realtà esistenti», è una sentenza abituale di strateghi da caffè, costantemente contraddetta dagli strateghi veri e dall’esperienza storica. Nessuno ha il dovere di progettare guerre sanguinose, improbabili o impossibili. Ma nessuno può

rinunciare, per gusto personale o di partito, a pretese territoriali dello Stato. ***

«Non faremo la guerra per cinquecento metri di terreno», disse il Presidente Leone l’anno scorso, parlando con un gruppo di giornalisti jugoslavi. Noi deplorammo la frase goffa e infelice, quale un Capo di Stato non può assolutamente permettersi, e invocammo una smentita che venne, dall’ufficio stampa del Quirinale, soltanto per confermarci, senza nulla smentire, che la frase di derisoria trascuratezza era stata pronunciata. Già allora si capì quale piega avessero preso le cose. La guerricciola diplomatica sui paletti di confine ebbe origine soltanto dall’impazienza degli jugoslavi, che volevano chiudere presto il sacco, mentre il Ministero degli Esteri italiano, sopravvalutando le reazioni di questo popolo incanaglito, temeva di rivelare la verità. Roma protestò per i paletti di confine prematuramente posti, precisando tuttavia che il Governo italiano «si propone, come del resto ha sempre fatto, di rispettare la linea di demarcazione alla stessa stregua in cui rispetta le frontiere di uno Stato». Equivoca bestialità giuridica e politica, ma capace di rivelare che il destino della «Zona B» era segnato. Ecco come una classe dirigente di maneggioni e di traditori ha calpestato, senza ragione e senza contropartite, un diritto permanente del popolo italiano. Questo è tutt’ora incapace di intendere e di volere. Ma il sonno dei popoli non è eterno. A

volte, il risveglio è tanto più vicino, quanto più totale sembra l’inebetimento del suo spirito. E col risveglio, arriva la collera.

Fascismo misterioso e incompiuto

A CINQUANTANNI DAL 28 OTTOBRE 1922

Dopo cinquant’anni, la storiografia antifascista non ha ancora deciso se la marcia su Roma fu un colpo di Stato, o una finta politica. Peggio, si tratta ancora di stabilire se ci fu o non ci fu. Dalla tradizione rettorica nazionale esce un capolavoro: «La marcia su Roma c’era stata, e per meglio dire ce n’era stata quanto bastava per far credere a tutti che ci fosse, o che stesse per esserci» (Indro Montanelli, nel “Corriere della Sera” del 15 Ottobre 1972). Ci fu, tuttavia, quanto bastò a prendere il potere. Ma l’estro polemico indigeno è tuttora incerto tra il Berni e l’Alfieri: non sa se intonare i versacci della satira o le lamentazioni dell’invettiva: se ridere della “pagliacciata”, o gridare al crimine. L’astuzia dei manipolatori si svela, dove invitano a riflettere sulla “convenienza” di chiamarla “pagliacciata”; perché come potè, allora, mettere nel sacco la Nazione intera, persone serie comprese? Ma anche chiamarla un crimine presenta le sue inconvenienze: resta il fatto che il “crimine” s’ebbe al preludio gli applausi di Croce, nel teatro San Carlo: e dopo consumato, fu solennemente approvato dalla gran maggioranza d’una libera Camera, dove i fascisti disponevano soltanto di trentacinque voti.

Dopo cinquant’anni, il fascismo resta una realtà sfuggente. I tentativi di definirlo secondo gli schemi correnti restano inani come i baccagliarnenti barocchi sulla sostanza e l’accidente. Perfino la peste non era né l’uno né l’altro. Eppure c’era. Per definire il fascismo, occorrerebbe capirlo. Per capirlo, studiarlo. Ma studiarlo vorrebbe dire fare opera, non preconcetta, di storia. E invece si pretende che la storia sia già fatta: immutabile, intangibile. Orecchianti e accademici, su questo punto, sono d’accordo: «Un regime che la storia ha clamorosamente e inesorabilmente bocciato» (Montanelli); «Il giudizio storico complessivo sul fascismo non può essere certo né mutato né sostanzialmente rivisto» (De Felice). Ecco perché il cinquantenario resterà un’occasione perduta: facile sfogo di luoghi comuni opportunistici, allarmi interessati e insulti triviali.

*** Che cosa fu il fascismo? Come composizione sociale, sfugge alle tipologie diffuse. Sfuma ormai anche la vecchia e tenace pretesa di etichettarlo per sempre come movimento dei ceti medi, scudo della media e piccola borghesia. Il fascismo è e si mantiene, per i vent’anni della sua evoluzione, popolare e aristocratico, campagnolo e cittadino, borghese e proletario. Conquista la borghesia e fa sfilare la più impressionante adunata di braccianti agricoli che mai abbia visto la Valle Padana. Al fascismo sorgente accorrono principi di Casa reale e sindacalisti rivoluzionari, nobili di antiche schiatte e uomini nuovi usciti

dalla guerra, notabili meridionali e capitani d’industria del Settentrione. Ma il capo, l’uomo che opera la sintesi, che dà nome al movimento e lo porta al governo, è il solo Presidente del Consiglio che sia uscito dalle file del popolo: che abbia conosciuto, ragazzo, il bisogno e la povertà. Il solo che abbia bussato alle porte della città a piedi nudi, come il piccolo Valentino del Pascoli. Tutti gli altri sono usciti dalla nobiltà o dalla borghesia dei possidenti, dei professionisti, dei burocrati e dei militari. Nei cento e dodici anni dell’Italia unita, da Cavour ad oggi, Mussolini è il solo figlio del popolo che abbia esercitato la suprema carica di governo. Non meno sconcertanti sono, del fascismo, radici storiche e connotati culturali. È oggi moda affermare che il fascismo fu intessuto di rozzezza e ignoranza. È falso. Nessun regime del nostro secolo ha suscitato altrettanto fervore di speranze, di adesioni disinteressate, di apporti diversi. Erano tutti babbei e venduti, dunque d’Annunzio e Marconi, Pirandello e Marinetti, Pizzetti e Perosi, Mascagni e Bontempelli, Soffici e Malaparte, Carrà e Volpe, Morandi e Gentile, Maccari e Rodolico? Tutti uomini che al fascismo aderirono d’entusiasmo, offrendo un’adesione che, in molti casi, resterà ferma e coerente oltre la sconfitta, fino alla persecuzione e alla morte? Con poche eccezioni, le figure importanti della cultura italiana del primo Novecento potrebbero stare in questo elenco. Si acqueta nel fascismo la disputa secolare di guelfi e ghibellini, scompaiono mangiapreti e papalini. Convivono, ciascuno pretendendo di offrire la giusta interpretazione dei tempi, accademici e futuristi, veristi e neoclassici, letteratura aulica e picaresca. E

chi lo vuole cittadino e avanguardista, e chi paesano e patriarcale. Eppure, tutto ciò non è informe coacervo, inventario confuso, blaterante scomposto. Per dieci, quindici anni, la cultura italiana offre un’immagine prodigiosa di vitalità, di varietà e di unità. Nel 1929, dopo cinque anni di lavoro febbrile, esce il primo volume dell’Enciclopedia Italiana, simbolo meditato e ambizioso di una concordia operosa che fa appello a tutte le forze: agli appartati, agli agnostici, agli oppositori che hanno firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti. L’Enciclopedia si ristampa, ancor oggi, tal quale: tranne i volumi di aggiornamento, che si prendon cura di ribattere il contrario di alcune “voci”: cosi confermando la durevolezza dell’opera e l’incapacità a sostituirla. Così come il Trattato e il Concordato del 1929, intorno a cui si letica e recrimina, senza osare toccarli. Così come i codici, che tutt’al più si è riusciti a sbrindellare e rammendare, interpolare e correggere. E mentre s’inveisce ai «codici fascisti», non ci si accorge che con ciò si confessa di non esser riusciti a rifare, in ventisette anni, e secondo le nuove convinzioni, ciò che il fascismo compì, secondo le sue proprie, in sette anni per quello penale e in diciassette per quello civile.

*** Anche i connotati ideologici riescono oggi impenetrabili. Si registra con stupore la provenienza delle adesioni: dal marxismo e dal liberalismo classico, dai conservatori e dai rivoluzionari,

dai mazziniani e dai legittimisti, dagli anarchici e dai nazionalisti, dai cattolici e dai massoni. E chi vuole il fascismo continuatore e perfezionatore del Risorgimento, come Gentile. E chi pretende che del Risorgimento sia la opposizione, come Orano. E in realtà, il fascismo è l’una e l’altra cosa insieme. E chi lo proclama erede del liberalismo, e chi un socialismo degenerato. Mentre il fascismo non è né l’una, né l’altra cosa. Il fascismo è una risposta pratica, che l’istinto realistico degl’italiani dà agl’interrogativi su cui si è aperto il secolo ventesimo: alla rovina dello Stato liberale e al vaneggiare estremista del rancido marxismo. Appare, allo stesso tempo, antico e nuovo. La sua mancanza di dogmi ideologici imbarazza gli spiriti deboli, bisognosi di appoggiarsi alle stampelle delle tavole codificate: è motivo di scherno per i sofisti avvezzi al comodo catalogo delle categorie. Si riallaccia a un passato remoto, ma s’accorda alla filosofìa più moderna e pratica, il pragmatismo. Più ancora, anticipa da una lontananza, che sol oggi vediamo, l’epoca volgente delle ideologie disfatte e cadenti in frantumi. Il fascismo è la sola creazione originale che lo spirito italiano abbia prodotto, in politica, dopo i Comuni dell’età di mezzo e la stagione rinascimentale del Principato. Anche allora, lo spirito pratico degli italiani sovrappose queste sue invenzioni spontanee, fondate sui fatti, al vuoto sterile delle ideologie universali del mondo medioevale. Ma la risposta fascista ha un respiro, che neppur Mussolini ha previsto. Mussolini disse che il fascismo non era fatto per l’esportazione, perché ne voleva sottolineare il carattere italiano, rispetto al cosmopolitismo

radicale e all’internazionalismo socialista. E invece, il fascismo si diffonde nel mondo. Uno studioso americano d’oggi, Eugen Weber, dopo aver indagato sull’importanza del fascismo nel suo tempo, afferma che «questo tempo è ben lungi dall’essere passato». Perché il fascismo offre una sintesi insostituibile del «nazionale e del sociale»: perché «a dispetto dei suoi denigratori, il fascismo è basato su una dottrina perfettamente coerente di cooperazione nazionale: una dottrina che può servire sia per rinsaldare una società in fase di disintegrazione, sia per cementare una società i cui membri non abbiano ancora il senso dell’unità nazionale». Non è un sistema, non è una ricetta eterna: non è un regime che tenda alla fissità. Affiora sotto nomi diversi e vesti talora irriconoscibili, dove un popolo ne abbia bisogno. C’è più di fascismo che di marxismo o liberalismo, oggi, in Israele o in Egitto, o in Cina, o in decine di Paesi che, nascenti o risorgenti, cercano la loro vita. Il fascismo non è un’appendice del liberalismo, né un derivato del socialismo: e neppure una “sintesi” dei due. Elude le loro domande e, insieme, offre una sua autonoma risposta. Una risposta diversa. Il fascismo in Italia irrompe in un sistema disfatto con la forza di un’invasione. Ma è un’invasione dall’interno. È la creazione spontanea italiana, e è insieme, il solo tentativo di educazione collettiva del popolo italiano. E è ancora il tentativo di amalgamare i popoli della Penisola in uno sforzo comune, imponendo loro un comune compito. Taglia, rinnova, e infine è sconfitto. Ma è sconfitto da forze e potenze estranee, che non tanto mirano ad abbatterlo come sistema, come dicono, quanto a distruggere la Nazione che vi si è

plasmata. La tragedia del fascismo nascente è di doversi subito misurare con la minaccia del bolscevismo. La tragedia del fascismo maturo è di trovarsi coinvolto in un regolamento di conti su scala planetaria. Il fascismo non vuole la guerra, ma deve subirla. Il suo capo getta i dadi, in un giuoco d’azzardo: sbagliato, certamente, nelle conclusioni; ma è lo stesso giuoco d’azzardo dei predecessori, da Salandra a Cavour, che anch’essi puntarono, indovinando il vincitore, il modesto capitale dei loro eserciti nelle grandi contese degli altri.

*** Giudicare il fascismo dalla sconfìtta riesce sempre più difficile, via via che la sconfitta si allontana. Al traguardo di questi ventisette anni di dopoguerra, tutti i popoli europei giungono estenuati e malconci: vinti o vincitori, avessero gettato sul piatto giusto o su quello sbagliato i loro dadi di ferro: Inghilterra e Germania, Francia e Italia, tutti vittime d’un male più vasto e profondo, che contagia e ammorba l’Europa. Il fascismo visse vent’anni. Non risorgerà uguale ad allora, mai più. Ma i suoi successori e nemici, in questi ventisette anni, non hanno fatto nulla per dare una risposta più viva e più convincente, e più schietta, e più moderna, agl’interrogativi cui pure il fascismo offrì la sua. E non potè completarla, restando monco e interrotto. E così vive, in fondo alla coscienza di questo popolo perduto, l’angoscia del vuoto, che lo circonda.

La storia che scotta

Lettera a francesca

Mia cara Francesca, prima o poi, dovevamo arrivarci anche noi alla storia che scotta; non quella delle palafitte e delle crociate, che non fa più male a nessuno. Dico quella dei nostri tempi, in cui viviamo tutti, dove hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni. Ci siamo arrivati, in mezzo alla baraonda politica in cui un’epoca della vita italiana sta penosamente morendo, senza che si possa indovinare i lineamenti di quella che dovrà succederle. Di fronte a questa orgia di menzogne, le bugie del tuo “sussidiario” di quinta elementare potrebbero passar via inosservate, e, tutto sommato, poco pericolose. Non sai che tenerezza mi hai fatto, pochi giorni fa a Campiglio, quando misi le mani sulla Catena dei perché di Guido Petter, deciso a cancellare le enormità e le falsificazioni di questo signore. È stata la prima volta che tu hai avuto nozione di un contrasto tra una verità insegnata a scuola e quella della casa, della vita. La strenua difesa che tu hai fatto del tuo libro, anche di quel misero libraccio, mi ha commosso: in mezzo a questo carnevale di anarchia, tu sola, diritta nella fierezza dei tuoi undici anni, difendevi il principio di autorità. Sì, perché il libro era l’ultimo

anello di una catena che parte dal direttore, scende alla maestra, si dirama per libri e quaderni: il tuo mondo, la scuola. E io, tuo padre, ero l’altra autorità: la casa, la famiglia, che trovava, in quel punto, il suo limite invalicabile. Mi astenni dal recare offese alla Catena dei perché, per non metterti in imbarazzo, come tu temevi, di fronte alla tua maestra. Ma non posso tacere su quello che il tuo libro contiene. Non credere, Francesca, che io abbia paura di quel libraccio: non temo che le bugie di quell’opportunista si imprimano nella tua giovane mente e producano guasti irreparabili. Figurati: i ragazzi della mia generazione furono allevati in scuole fasciste, e vedi quanti ne restano, con le idee di allora. Anzi: il fatto che oggi siate costretti a succhiare l’antifascismo a scuola, mi dà sicurezza che, nella vita, non ve ne resterà traccia addosso. Non è per questo che ti scrivo, ma perché sono persuaso che sia necessario, ormai, ribattere ad ogni menzogna, in alto come in basso, e scovare i bugiardi dove si annidano, si tratti di una poltrona di governo, o di un sussidiario di quinta elementare. Ti scrivo su queste colonne, perché questa lettera potrà servire ad altri tuoi coetanei, e ad altri padri che, tornando a casa stanchi per una giornata di lavoro, non abbiano voglia di raddrizzar le gambe al libro di scuola dei loro figli. Perché vedi, Francesca, lavoratori siamo tutti: non esiste il «campo dei lavoratori» contrapposto a quello dei «padroni», come questo imbecille vorrebbe farti credere quando dice, parlando dei primi anni del nostro secolo, che Benito Mussolini «prima della guerra si era battuto in difesa dei lavoratori ma era passato poi al campo avversario». Sono i comunisti e i loro servi

(come questo misero signor Petter) che amano far credere che i soli lavoratori sono loro; anche quando non fanno nulla e non lavorano mai, come i capi comunisti, e i dirigenti delle organizzazioni sindacali, che diventano ricchi e si comprano ville e pellicce, senza far altro lavoro che esortare gli operai agli scioperi e al disordine sociale. Mussolini l’aveva capito. Prima della guerra era stato socialista, qualcosa come i comunisti d’oggi. E si era accorto che con quei metodi, che socialisti e comunisti chiamano della “lotta di classe", la condizione dei veri lavoratori, di tutti i lavoratori, era destinata a peggiorare. Poi venne la guerra, ad accelerare e anche cambiare le cose. La guerra non riguardava soltanto l’Italia. Fu combattuta tra le grandi Nazioni europee, per il predominio del continente. Nessuno poteva sapere, allora, che l’Europa si sarebbe dissanguata a vantaggio dei suoi futuri nemici, gli Americani e i Russi. Oggi è chiaro che quella guerra fu un errore immenso, il suicidio d’Europa. Ma poiché gli altri l’avevano cominciata e la combattevano, e poiché era chiaro che la carta geografica dell’Europa l’avrebbero ridisegnata i vincitori, la parte più attiva e più giovane degl’italiani volle prendervi parte. Cara Francesca, la storia è un giuoco complesso: un Paese può anche dire: «Io non ci sto, combattete voi»; ma poi deve rassegnarsi a far comandare gli altri. E l’Italia di allora non era ancora rassegnata a farsi dominare dagli altri. Voleva essere una grande Nazione, credeva di averne il diritto. Voleva dire la sua parola in questo mare Mediterraneo, che oggi è di tutti tranne che il nostro, dove

perfino i cinesi vengono a farci il bagno e dove un pagliaccio alla testa di un milione di libici analfabeti si permette di insultarci e di coprirci di sputi. L’Italia di allora voleva dire la sua parola. Credeva di avere una “missione”, come le insegnavano i suoi poeti, e voleva compierla. L’Italia era arrivata tardi all’unità, come tu hai studiato. Era arrivata molti secoli dopo grandi Nazioni europee, come la Francia, l’Inghilterra. Era ancora malamente cucita insieme, non aveva mai dovuto affrontare un grande cimento che la mettesse tutta insieme alla prova. C’erano, sì, le province di Trieste e di Trento, italiane da sempre, che aspettavano di ricongiungersi alla Patria. Ma il vero motivo che spinse gli Italiani più svegli e attivi a chiedere che l’Italia partecipasse alla guerra, era soprattutto il sentimento che fosse necessario impegnarsi, e riuscire. Dimostrare a se stessi, prima che agli altri, gli stranieri, che l’Italia unita esisteva e sapeva affrontare la sfida del destino. Davanti al nemico, era impossibile distinguere tra “lavoratori” e “padroni”: ci furono soltanto i soldati di una Nazione e di un popolo: combatterono e morirono insieme i ricchi e i poveri, i poeti e gli operai, i nobili delle antiche famiglie e gli oscuri figli delle campagne. Per questo i socialisti non avevano voluto la guerra. Volevano la lotta di classe all’interno, non la difesa della Patria sulle frontiere. Di fronte alla realtà della guerra, i socialisti si divisero: i più generosi vestirono l’uniforme e andarono a combattere nelle trincee, come Bissolati e Mussolini. Gli altri, restarono a casa, a tuonare nel Parlamento o, addirittura, a sabotare lo sforzo della Patria con gli scioperi, il

malcontento, la predicazione sovversiva. Speravano che l’Italia perdesse, perché contavano sulla confusione che sarebbe derivata dalla sconfitta per imporre, finalmente, la loro rivoluzione. Quando invece della sconfitta venne la vittoria, la derisero e cercarono di farla passare come inutile e dannosa. Certo, la vittoria non aveva risolto i nostri problemi interni. Aveva fatto salire l’Italia nel numero delle grandi Nazioni, ma i grandi problemi della società italiana erano tutti da risolvere: milioni di soldati, lasciata l’uniforme, dovevano ritornare ai lavori dei campi, delle fabbriche, di ogni campo sociale. Era il momento di aiutarli, con gratitudine e con affetto: doveva essere l’ora della concordia. Invece, i socialisti, una parte dei quali avrebbe poi dato vita al partito comunista, decisero che doveva essere l’ora dell’odio. Pensarono che fosse giunto il momento per scatenare la loro rivoluzione, a somiglianza di quella che era scoppiata in Russia due anni prima. Cominciarono a insultare quelli che avevano voluto e combattuto la guerra: andare in giro con una uniforme di ufficiale, portare decorazioni al valore, era diventato pericoloso in Italia, nonostante la vittoria. I conflitti sociali erano esasperati, l’incertezza e i bisogni delle masse furono adoperati come riserve di risentimento e di rancore. E il governo? Il governo, semplicemente, non esisteva, proprio come oggi. Non governava, non faceva rispettare la legge, non manteneva l’ordine, non difendeva la dignità e la libertà dei singoli. Da una parte, l’orgia dell’odio e del disordine: dall’altra, la fiacca e la debolezza di una classe dirigente moribonda.

Il tuo sussidiario dice che: «gli operai e i contadini accusavano i padroni di avere approfittato della guerra per accumulare ricchezze... L’Italia divenne quasi un campo di battaglia fra i molti che chiedevano giustizia, lavoro e pane e i pochi che si erano arricchiti con la guerra e non volevano rinunciare ai loro privilegi. A questo punto, si formò un gruppo di uomini, i fascisti, capeggiati da Benito Mussolini... Essi si schierarono contro i contadini e gli operai che chiedevano, dopo quattro anni di guerra, riconoscimenti particolari e una maggiore giustizia sociale... e così si giunse quasi alla guerra civile... e siccome sembrava che i fascisti dovessero riportare l’ordine nel Paese, essi ottennero aiuti anche da parte di Stati stranieri. E l’ordine fu, apparentemente, ottenuto. Ma a prezzo del carcere e dell’esilio di tutti coloro che tentavano di resistere...». A questo punto, Francesca, tu avresti il diritto di guardare a tutti noi: tuo padre, tua madre, i tuoi nonni, quello vivo e l’altro che non hai mai conosciuto, come ai complici diretti e materiali, o almeno agli eredi morali di una minoranza di schiavisti profittatori di guerra e arricchiti, che «per non rinunciare ai loro privilegi» erano schierati «contro i contadini e gli operai» e gettarono in carcere o in esilio i buoni Italiani. Capisci perché io ho il diritto di mettere alla gogna questo piccolo mascalzone che ci porta il suo veleno in casa, attraverso il suo libraccio, e offende tutti noi, tutta la nostra famiglia, vivi o morti che siamo. E che offende centinaia di migliaia di famiglie italiane, la enorme, immensa maggioranza dell’Italia di allora, che col fascismo e con Mussolini ci andarono di santo entusiasmo; che

non si erano arricchiti con la guerra e non perseguitarono nessuno. Non una parola è vera, Francesca, nelle frasi del libro che ho trascritto qui. Non c’erano molti che chiedevano giustizia contro pochi arricchiti. C’era tutta una Nazione che aveva sofferto e combattuto, che aveva perduto centinaia di migliaia di suoi figli, che voleva godere ora i benefici della sua vittoria: e c’erano pochi sfruttatori delle sue incertezze, delle sue miserie, dei suoi bisogni, decisi a profittarne per imporre la loro rivoluzione dell’odio. Oh, certamente, i profittatori c’erano stati: ci sono sempre stati. Ieri i profittatori di guerra, e oggi i profittatori e i ladri di pace. Ma non sono mai i profittatori quelli che fanno la storia. Certo, da principio, i predicatori della guerra civile riuscirono ad ubriacare le masse stanche e smarrite. Ma di fronte a loro sorse quel tale gruppo di fascisti, «capeggiati da Benito Mussolini».- erano soldati che avevano fatto la guerra e non sopportavano di vedere distrutti e infangati gli scopi dei loro sacrifici. Venivano da tanti partiti diversi, c’erano tra loro i monarchici e i repubblicani. Una cosa li univa: la volontà di finirla con la lotta di classe, di por fine al disordine, di costruire una diversa forma di unità nazionale. Nessuno li aiutò, d’oltre i nostri confini. Questo bugiardo non poteva inventare un’accusa più stupida. Dall’estero ci venne, semmai, l’ammirazione stupefatta di quanti non potevano credere che l’Italia avesse fatto così presto a risollevarsi dal pantano della guerra civile, del disordine, dell’anarchia, in cui avevano creduto che si sarebbe dibattuta

per anni. I giornali e i libri di quegli anni sono pieni di ammirazione per quello che fu considerato, in Inghilterra e in Francia, in America in Germania e in tutto il mondo, un miracolo di vitalità e di ripresa. Ecco la verità, Francesca. Questo disgraziato dice che «il fascismo compì alcune opere», anche con lo scopo di «ottenere quell’appoggio popolare che non aveva»: e a questo punto, tu hai il diritto d’immaginarti questo popolo come un bel branco di pecore, se per vent’anni si tiene sulle spalle una minoranza di arricchiti di guerra, nemici dei contadini e degli operai, e non protesta, non si ribella, non alza la voce. Ma, ti dice il signor Petter, chi tentava di resistere andava in carcere o in esilio. Pochi, Francesca, pochissimi: poche centinaia fra tutti, di fronte a milioni e milioni. Il consenso al fascismo fù totale e spontaneo, in tutti i ceti sociali, in tutti i campi del lavoro e dell’attività. Fu una stagione di concordia e di speranza. Certo, furono commessi errori, come sempre dove operano gli uomini. Ci furono anche episodi di intolleranza. Ma sull’altro piatto della bilancia, ci furono gli immensi benefici dell’ordine interno, dell’armonia sociale, del rispetto che l’Italia guadagnò, per la prima volta da quando era unita, in mezzo agli altri popoli. È vero, non c’erano i partiti: si cercò di organizzare gli Italiani con un criterio diverso. Nessuno ha mai detto che i partiti siano indispensabili. Anzi, oggi, a ventisette anni dalla loro resurrezione, tutti sono d’accordo nel constatare che il sistema dei partiti è finito e che bisogna trovare qualcosa di nuovo, di più moderno e più vitale. Ne abbiamo otto o nove, che si combattono ferocemente, senza riuscire ad intendersi.

Credimi Francesca. Il fascismo ebbe, lungo venti anni, nonostante quel che ti racconta il tuo sussidiario, un profondo, compatto appoggio popolare: di tutto il popolo. Lo perse soltanto quando la sconfitta militare bussò alle porte. E questo sarebbe un altro discorso. Ti basti sapere che per la seconda volta l’Europa andò a fuoco. Questa volta, ci trovammo dalla parte che aveva perduto. Dapprima, sembrò che avessimo perduto soltanto noi e i Tedeschi. Oggi è chiaro che tutta l’Europa è stata sconfitta, anche la Francia e l’Inghilterra che si trovarono dalla parte dei vincitori. Mi basta che tu sappia che il fascismo fu una creazione originale, italiana, che non riuscì a completare il suo ciclo vitale, la sua esperienza storica, perché cause esterne all’Italia lo distrussero: la sconfitta militare, la soverchiante potenza di nazioni più ricche e più forti di ogni nazione europea. Non furono i fascisti che ottennero «aiuti anche da parte di Stati stranieri», come dice il signor Petter: il signor Petter ha sbagliato, ha fatto confusione coi suoi amici antifascisti. Questi sì, che ottennero aiuti dallo straniero: tornarono tra noi al seguito dello straniero, si misero a comandare in Italia appoggiati dalle baionette straniere. Senza gli eserciti inglesi, americani e russi, non sarebbero mai arrivati al potere. Ecco la verità. E ecco perché questi stessi che dopo la Prima guerra mondiale cercarono di trasformare la nostra vittoria in una sconfitta, ora che avevamo perduto cercarono di far credere che avevamo vinto. Essi vedevano soltanto la loro sconfitta personale e di partito, quando l’Italia aveva vinto senza di loro: adesso, gioivano della sua sconfitta, perché loro potevano ritornare al potere.

Ecco tutto, Francesca. Soltanto che, oggi, questo loro potere è alla fine. Per abbattere il fascismo, ci volle tutta la potenza dei più forti eserciti del mondo. Questo regime, invece, si sfascia da solo, perché è marcio, corrotto e cade a pezzi da tutte le parti. Hanno distrutto ogni cosa, e ora sono in fondo, finiti. Qualcosa muore sotto i nostri occhi, Francesca; qualcosa dovrà nascere. Che cosa, ancora, non so. Ma siamo in tanti, decisi a lottare perché sia un’Italia migliore di quella in cui siamo vissuti da oltre vent’anni; perché tu e i ragazzi della tua età possiate vivere da adulti in un’Italia migliore di quella in cui siete nati. Perciò dobbiamo impegnarci, tutti insieme, a combattere l’inganno, la viltà, le menzogne: siano quelle grandi, enormi, dei politici, o siano le piccole truffe dei loro servi che scrivono i libri di scuola. Tuo Padre

Misera giovinezza di un misero stato

In un orfanotrofio pugliese dal gentile nome di “Santissima Maria d’Altomare”, un prete quarantottenne narcotizzava i ragazzi e abusava di loro nella notte, in un sozzo repertorio di sessualità satanica degno delle laide pagine in cui la fantasia criminale del marchese De Sade inventò gli spassi notturni dei quattro degenerati nel castello della Foresta Nera. La denuncia, la chiusura dell’istituto, lo sbandamento dei piccoli ospiti, tra famiglie inabili a mantenerli e altri istituti dove la via crucis può ricominciare, l’arresto del sodomita in sottana, hanno riproposto il vecchio discorso sull’infanzia abbandonata. Scandalizzati corsivi e indignati servizi sono apparsi per due giorni nella stampa, a denunciare ancora la turpe catena di questo sadismo, per lo più di mano clericale, che lo Stato tollera o ignora, e la legge neppure reprime quando potrebbe, come la sentenza quasi assolutoria per la megera Diletta Pagliuca dimostra. Si sono ricordati episodi notissimi e ricorrenti, dai “Celestini” di Prato al collegio modenese, dall’abbietta casa di Grottaferrata al convitto umbro, dove altri “religiosi” elargivano ai bimbi, per lunghe ore, il supplizio del “palo”. Si sono rievocate polverose inchieste insabbiate. Ancora una volta, si scopre che le “irregolarità” erano conosciute, ma il tribunale dei minorenni di

Bari, informato da almeno tre mesi, non pensò che fosse il caso di intervenire. Il prefetto, non aveva poteri. L’assessore regionale neppure, perché l’istituto è “privato” e, d’altronde, egli dispone di «una sola assistente sociale, per tutta la regione». Dove sono, allora, gli eserciti di uomini e donne che prendono stipendi dallo Stato e dagli enti pubblici, se poi, quando servirebbero, dalla custodia delle opere d’arte a quella dei bambini abbandonati, non se ne trova mai uno? Il discorso è più ampio. Non è lecito fermarsi al lamento sulla gioventù abbandonata, al mezzo milione di ospiti degl’istituti di assistenza: essi sono soltanto i candidati ufficiali, e già inquadrati, alla disperazione e al martirio. Non sono i soli. È tutta la gioventù italiana, che oggi può dirsi abbandonata. Le criminalità comune, sessuale e politica, possono arruolare i nostri figli in ogni luogo, e farne scempio, e mutarli in spacciatori di droga, lenoni, prostitute, invertiti, ladri, rapinatori, assassini e suicidi, senza che lo Stato eserciti su di loro alcuna protezione. Se talvolta punisce, rinchiude i colpevoli in luoghi orrendi, dove il guasto delle coscienze e dei corpi diventa totale. Non esiste scuola e vivaio del crimine così attivo e completo come il clima morale di questa repubblica, nata dalla resistenza, ma vissuta di menzogna e latrocinio. Non elenchiamo a caso. La cronaca di due o tre giorni qualsiasi basta a darci una visione allucinante della nostra gioventù. Per spaccio di banconote false, sono arrestati a Napoli quattro ragazzi, tra i tredici e i diciassette anni. A Roma, son presi spacciatori di droga di diciotto, diciannove e vent’anni. A Milano, i giornali riferiscono con didascalica tranquillità che

certa sparatoria nella notte di lunedì, avvenne «in un regolamento di conti per la spartizione di “parcheggi”di prostitute». Età di questi ruffiani guerrieri: venti e ventun anni: la prostituta al centro della lite, ne ha diciannove. Soltanto a Milano, le prostitute sotto i vent’anni sono più di duemila, i lenoni della stessa età un migliaio, gl’invertiti e i travestiti ancora di più. Qualsiasi funzionario di polizia vi parlerà del nuovo incubo costituito dalle bande di minorenni, anche liceali, che hanno appreso a rapinare banche e negozi nell’impunità degl’insospettabili, per ritornarsene a scuola, magari dopo un’ora di assenza. Per recensire l’ultimo film uscito dai ricordi truccati e dalle digestioni pesanti di Fellini, Natalia Ginzburg ha scritto che la sua generazione, «di quelli che sono cresciuti nel fascismo, è una generazione di malinconici... il fascismo era sordido, miserabile, atroce... Tutta l’Italia era allora simile a una provincia». Stiamo a vedere che cosa verrà fuori da questa Italia, nuova, cosmopolita, sprovincializzata, dal tono festoso e fiducioso delle generazioni nuove. Noi abbiamo l’amaro diritto di opporre a questi ricordi ritoccati e intrisi nel veleno dell’odio, la cui falsità può essere riscontrata da qualunque italiano sopra i cinquant’anni, l’eloquente panorama della nostra gioventù d’oggi, figlia di questo regime. Questa gioventù, allevata nella discriminazione faziosa, nel dileggio sui sacrifici e le speranze delle generazioni precedenti; questa gioventù, cui si sono iniettati ogni giorno il culto della mediocrità e della bassezza, l’apologià dell’opportunismo e del tradimento, l’esaltazione del menefreghismo e del carrierismo, l’adorazione forsennata del

proprio vantaggio, del denaro e del sesso come soli e supremi valori della vita, è la più disperata e la più spenta che la storia d’Italia ricordi. Quando mai, se non per eccezioni patologiche, bambine e ragazze sotto i vent’anni cedettero alla prepotente vocazione di farsi prostitute in massa? E quando mai si videro legioni di lenoni ventenni? Minoranze, direte. Ma aggiungete le minoranze corrotte dei convitti, traviate dei riformatori, i giovani delinquenti, a spasso, i drogati, i violenti politici, e avrete un quadro spaventoso. Abbiamo il diritto di chiedere: che cosa avete fatto, o scellerati, che cosa fate dei nostri figli? Nell’ultimo numero di “Gente”, leggiamo la denuncia disperata della madre di Fernando Volpi, un ragazzo di quattordici anni che si è ucciso, impiccandosi nella sua bella casa, vegliata da affetti saldi e sicuri: «Io voglio che lei dica chiaramente, che il 7 Ottobre ho affidato un bambino a una scuola, e questo bambino mi è stato strumentalizzato, mi è stato distrutto. E dopo quattro mesi, mi è morto». Quando mai l’apertura delle scuole si era fatta coincidere con la distruzione, sistematica e progressiva, di una coscienza e di una vita? Aggiunge il padre: «Questi ragazzi, a tredici, quattordici anni, che colpa vuole che abbiano? Sono reclutati da gente adulta, che ha anche mezzi economici, se può distribuire migliaia di fogli ciclostilati, migliaia di volantini». Cinque giorni dopo, si è impiccata Maria Giovanna Marinelli, una fanciulla, coetanea del

suicida, e sua “seguace”, come lui fanatizzata e travolta nel mondo oscuro dell’estrema sinistra. Altri, che rifiutano di farsi “strumentalizzare” e inquadrare rischiano pestaggi a volte mortali. L’altro ieri, a Milano, due ragazzi diciottenni sono stati colpiti con spranghe e catene, uno studente di vent’anni fu «picchiato a sangue da una ventina di sconosciuti, che lo avrebbero scambiato per un neofascista»: supposizione che giustifica qualsiasi licenza. A Montepulciano, basta che ci si imbatta, durante una lettura in classe, nella parola «circoncisione» perché l’insegnante (ripugna davvero usare questa parola) si precipiti alla lavagna a disegnare organi sessuali davanti ad una scolaresca di tredicenni allibiti. I libri che questo sporcaccione di Stato consigliava agli scolari avevano titoli come La lotta sessuale dei giovani, il diritto di aborto, La parte delle bambine, ecc. Un caso isolato? Non tanto. Prodotto del regime, costui preparava a sua volta le nuove leve per il futuro. All’Università Cattolica di Milano, le ragazze allestiscono una mostra sull’aborto e gli antifecondativi. Un manifesto impreca contro il peso della maternità, mostrando una donna incinta, con al piede la palla di ferro dei galeotti. Una studentessa annuncia che «le ragazze della Cattolica abortiscono molto di più di quelle della Statale, aggiungendo che questo è il sintomo della disperazione totale». Dicono niente queste storie, alla signora Ginzburg? Nelle università milanesi impera da sei anni un mascalzone squilibrato, che vi ha stabilito la dittatura di una feccia di violenti, contro cui nulla ha tentato lo Stato. Il figuro si è guadagnato perfino una bieca popolarità e la qualifica di

“leader”, da parte della stampa borghese ammirata. L’estrema sinistra spadroneggia nelle università del Nord, i cui edifici, ridotti a variopinti letamai, sono letteralmente confiscati dalla teppa che espelle ormai non più soltanto i “fascisti” o ritenuti tali, ma perfino i cattolici progressisti. La delinquenza di regime, tollerata e incoraggiata dallo Stato, non solo corrompe questi poveri nostri ragazzi negli’istituti per gli orfani, ma li insidia e pervertisce nelle scuole, cui con fiduciosa incoscienza continuiamo ad affidarli, o ce li lascia massacrare di botte nelle assemblee e per le strade, quando non li restituisce drogati, delinquenti o morti. Misera giovinezza, in un misero stato. La sorte di queste generazioni, deve preoccuparci ben più della vicenda dei ministri corrotti, dei giornalisti o dei figli d’illustri personaggi comperati dai petrolieri. Il dramma di queste generazioni infangate durerà molto più a lungo dei crimini e delle follie di una classe dirigente destinata, in ogni caso, a scomparire.

Un presidente “pericoloso”

Se, come pare, il Presidente Kennedy deciderà di rinviare il suo viaggio europeo per aspettare l’elezione del nuovo pontefice e un riassestamento della politica della Chiesa, allora avremo la conferma (a meno che il viaggio non sia fatto ugualmente, per non offrirla) di quanto si suggeriva da tempo: che lo scopo principale del giro europeo non sarebbe tanto di verificare la situazione dell’Alleanza Atlantica in conversazioni coi capi degli Stati che la compongono, o di fare una passeggiata dimostrativa sul Kurfurstendamm a Berlino, quanto di conoscere più da vicino l’alleato che egli giudica più importante per gli Stati Uniti e per se stesso: l’unico che deve andare a conoscere di persona, se vuole parlargli. Da qualche tempo, si sostiene che la strada per Mosca passa attraverso Roma, anche se ciò suona in curioso contrasto con un’espressione molto in voga una trentina d’anni fa. Nonostante le ambizioni del piccolo uomo, la Roma di cui si parla non ha nulla a che vedere con le velleità di grande mediatore mondiale dell’onorevole Amintore Fanfani. All’andirivieni di dignitari ecclesiastici cattolici e sovietici fra Roma e Mosca in occasione del Concilio si è aggiunto negli ultimi tempi uno scambio di ambascerie politiche non ufficiali in cui

Roma è apparsa al centro di un giuoco molto più importante di quanto sulle prime non fosse lecito supporre. Kennedy verrebbe in Europa alla ricerca di obiettivi molto precisi, e anche urgenti. Bisogna ricordare che ogni quattro anni la vita politica americana è sconvolta dalle elezioni presidenziali. Si può calcolare che un buon terzo di ogni mandato si svolge nel clima dell’imminenza elettorale. Ora che il terzo anno di presidenza è largamente intaccato, se è vero che John Fitzgerald Kennedy ha molti primati: quello della ricchezza, della giovinezza, quello d’essere il primo cattolico fra i presidenti americani, è altrettanto vero che rischia di battere un altro primato: essere, in sostanza, il Presidente americano che si presenta alla fine del suo mandato col sacco più vuoto di tutti. Ancora alcuni mesi fa, alla fine del 1962, quando le conseguenze dell’affare di Cuba non erano ancora chiare ai più, i suoi apologeti potevano inorgoglire vantando ai quattro venti le tre vittorie del giovane Presidente e della sua Think tank, la famosa «cassa delle idee» dei suoi consiglieri: la vittoria contro i magnati dell’acciaio, lo scontro col Governatore del Missisippi, Ross Barnet, sulla questione razziale, e la “vittoria” su Krusciov nello scontro freddo del Mar dei Caraibi. A pochi mesi di distanza, il fulgore delle tre vittorie appare piuttosto inzaccherato. Quella dell’acciaio, un fatto isolato che non può far dimenticare come Kennedy non sia riuscito a far approvare uno solo dei provvedimenti che tutti insieme costituiscono il programma della «Nuova frontiera».

La questione razziale divampa sempre più minacciosa: numerose notizie confermano che la lotta esce dai confini del Sud per allargarsi ad altri Stati. Appare sempre più chiara la manovra elettorale mirante ad invelenire la questione per profittarne (in diversi sensi) sul terreno elettorale. Sia che Kennedy intenda intimidire la massa degli elettori sul pericolo che un Presidente meno “moderato” e saggio di lui possa far precipitare la situazione prendendo troppo aperta posizione in favore di una o dell’altra parte: presentandosi così come il “male minore”. Sia, come sostengono alcuni, che voglia far approvare entro i diciotto mesi che gli restano, la concessione del diritto di voto ai negri del Sud (ciò sembra assurdo, anche se le profezie del fratello Bob, il Ministro della Giustizia, su un futuro e non lontano Presidente negro degli Stati Uniti sembrano voler preparare questo terreno); sia che intenda assicurarsi il voto delle minoranze razziali della Confederazione, dando per perduto il tradizionale e massiccio appoggio del Sud al Partito democratico, è certo che l’espediente di sfruttare a fini elettorali un “pericolo” interno è tipico della maniera cattolica di mantenersi al potere, con la quale gli americani, non senza qualche sorpresa, fanno ora la conoscenza. Ma sarà soprattutto sui temi della politica estera che l’opposizione repubblicana cercherà di battere Kennedy. La sua preoccupazione è, quindi, a imbastire un bilancio soddisfacente entro i dodici-tredici mesi che lo separano dalla campagna elettorale. L’anno passato, al tempo delle elezioni parziali di Novembre, riuscì a prevalere (sia pure di stretta misura) sui repubblicani che lo accusavano di insensibilità nazionale per il problema di Cuba, offrendo

all’opinione pubblica sempre più allarmata è il caso di dirlo, esasperata, degli Stati Uniti, l’illusione di una grande vittoria: che tale parve l’esito del suo braccio di ferro con Krusciov nel clamore dei primi giorni. Sembrò, sulle prime, che l’America avesse finalmente ottenuto dal suo giovane Presidente quello che s’era aspettata da lui: un gesto che la risollevasse dal peso di anni di umiliazioni, di brutte figure, di sconfitte aperte e occulte, di indietreggiamenti e insuccessi che gravano ormai come una coltre opaca di sfiducia sul cittadino americano semplice e patriottico. I russi avevano raggiunto una quasi parità atomica con gli Stati Uniti e li minacciavano coi missili intercontinentali; i lanci ripetuti degli Sputnik avevano annullato perfino il senso di una orgogliosa supremazia tecnica. La tragedia ungherese si era svolta sotto gli occhi impietriti dell’occidente inerte e impotente: il Vietnam era invaso; il Tibet assorbito dalla Cina, l’invasione di Formosa sembrava imminente. L’Egitto, salvato dall’intervento di Eisenhower contro Francia e Inghilterra, inclinava verso la Russia e ospitava le basi dei sottomarini sovietici: la Siria era divorata da Nasser con l’appoggio di Mosca. E infine Cuba, perfino Cuba, si permetteva di minacciare gli Stati Uniti con un regime che era stato covato come la classica serpe nel seno dalla democrazia americana. I miliardi di dollari malamente gettati via con generosa incoscienza rovesciavano sull’America un’ondata di dispettosa invidia e ingratitudine. Berlino sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Dopo questa paurosa serie di sconfitte, gli americani giuocarono la carta della giovinezza. Gli uomini che l’avevano

guidata fino allora erano vecchi politicanti che si appoggiavano a stampelle, o soccombevano lentamente sotto gli infarti cardiaci come Eisenhower, o i tumori come Foster Dulles. L’America fece appello a un complesso di stati d’animo: la giovinezza, la freschezza, il profumo di successo che irradiava dal nome dei Kennedy simbolo di una famiglia fortunata, circondata da agi e soddisfazioni. La rapida fortuna dei Kennedy giuocò il suo ruolo. Dal Patrick Kennedy che era sbarcato in America nel 1850, al suo figliuolo Patrick J. Kennedy che commerciò in liquori, aprì un bar e entrò nel Partito democratico; da questi a Joseph P. Kennedy che sposò la figlia di un altro emigrato irlandese diventato sindaco di Boston, Rosa Fitzgerald; da Joseph, che fece fortuna coll’industria cinematografica e le speculazioni immobiliari, sostenne Roosevelt dal 1932 ottenendone infine una nomina ad ambasciatore in Inghilterra, fino a John Fitzgerald Kennedy, che ripeteva nel secondo nome il ricordo del parente più fortunato in politica, la storia dei Kennedy ispirava fiducia. Crebbe in una famiglia felice, dice VEnciclopedia Britannica del giovane Presidente, fra tante maids e nurses e tanti fratelli e sorelle con cui giuocare. All’America piacque quella famiglia numerosa, con tutti i suoi fratelli e sorelle, le sue nurses, il suo aspetto ottimista così simile alla tipica famiglia americana dei grandi filmoni a suon di storie familiari ben temperate fra la bonarietà e gli affetti, i solidi investimenti e la sana morale religiosa. Le piacque quel giovanotto che fece atletica a Harward, dopo tanti paralitici e valetudinari. Non stette a sentire le chiacchiere dei maligni che raccontavano come i libri

del giovane senatore fossero stati scritti, in realtà, da negri (non in senso razziale, ma letterario, come quelli di Dumas pater) stipendiati da suo padre. Scelse, l’America, un’apparenza di giovinezza. Scelse i successi, la spregiudicatezza, la risolutezza della gioventù, le vittorie che indubbiamente quella gioventù le avrebbe regalato. E scelse male. Se conoscesse meglio la storia, il popolo americano saprebbe che è più facile trovare uomini risoluti fra i vecchi infermi che non fra i giovani baldanzosi. Gli Alessandri sono pochi, sulla faccia del mondo. Ora, anche gli ultimi bagliori di vittoria dell’aureola cubana di Kennedy sono svaniti. L’America si è accorta che Krusciov ha sì, smobilitato le basi di Cuba: ma quel che gli premeva, l’ha raggiunto. L’America deve “coesistere” anche con Castro, sopportarlo, tenerselo lì a due passi, bubbone di infezione comunista in tutta l’America meridionale e, (peggio ancora), centrale. Il regime socialista, a Cuba, c’è e ci resta. Krusciov è riuscito a impegnare Kennedy a non tentare mai più di sorprendere Cuba con la forza. Kennedy deve trattare anche con Castro, e manda a Cuba proprio quello stesso avvocato Dovanian di cui si servì come intermediario nel magro scambio di spie fra il vigliacchissimo suo Powers e il più consistente Abel. Ecco la verità: altro che la “vittoria” del Presidente! L’amministrazione democratica di Kennedy ha perduto Cuba, come quella democratica di Roosevelt aveva perduto la Cina e tutto il resto. Per non aver avuto il coraggio di osare quando era il momento, per non avere colto l’occasione di mostrare una responsabilità imperiale e mondiale quando questa occasione si presentò.

Oggi, il giovane Presidente non può più tornare indietro. Deve andare avanti sulla strada intrapresa: la strada della paura e delle trattative. Deve appoggiare il neutralismo come nel Laos, dove l’unico governo filo-occidentale che si era riusciti a mettere insieme è stato rovesciato con l’intervento americano; come nel Kenya, dove gli americani hanno appoggiato lo stesso partito (il «Kanu» di Yomo Kenyatta) che godeva del pubblico e dichiarato sostegno di russi e di cinesi. Come nel Congo, come nel Medio Oriente, come dappertutto. Per paura della guerra calda, ha dovuto rinunciare perfino a quella fredda, che era l’unico sistema per mantenere vive le speranze dell’Europa orientale oppressa: l’unico modo di fronteggiare apertamente il comuniSmo che dalla “coesistenza” spappolata e indifesa a cui ci stiamo avviando è l’unico a guadagnare qualcosa. Ha dovuto disgustare i suoi alleati europei nella vana illusione di acquistarne qualcuno fra i “non impegnati”. Ha dovuto “mollare” Adenauer in Germania, contrastare De Gaulle in Francia, sostenere Fanfani e Nenni in Italia; salvo poi a piangere lagrime stupefatte perché la “cauta sperimentazione” non era riuscita.

*** Che cosa vuole, allora? Non sembra difficile indicarlo. Poiché non può presentare un bilancio di “vittorie”, cerca di salvarsi con la “sicurezza”, deve dimostrare che la “coesistenza” serve, è utile, è possibile. Che, quanto meno, la politica prescelta servirà

a evitare la guerra. Conta sull’appello alla paura, all’istinto di sopravvivenza e di conservazione fisica del suo popolo. Kennedy ha bisogno di Krusciov, d’accordo. Ma anche Krusciov ha bisogno di Kennedy, e Kennedy lo sa. Krusciov sa di trovare in Kennedy il “molle” da cui non avrà troppo da temere. E forse Krusciov gli offrirà un’altra illusoria e magari clamorosa “vittoria”, prima delle elezioni. Krusciov non ha a che fare con problemi come l’opinione pubblica e le elezioni e si può permettere il lusso. La posta del giuoco è troppo alta. E allora, in questo clima, quale intermediario migliore del Vaticano? Di un Vaticano anch’esso sceso, per strana coincidenza storica, sul terreno della sopravvivenza a tutti i costi e della smobilitazione ideologica? Ecco la conclusione. Questo Presidente che forse verrà e forse non verrà fra noi è il Fanfani americano; un Fanfani più grosso, più furbo, con una enorme nazione dietro di sé. Se Krusciov lo aiuterà a dimostrare che il suo sistema serve a conservare la pace, Kennedy conta di farcela. Questo giovane Presidente è, in realtà, l’espressione di quello che Oswald Spengler chiamò «lo stanco desiderio della quiete a qualunque prezzo, eccettuato quello della propria vita», il «tardo pacifismo di una civiltà stanca», l’«idiozia vilissima della pace perenne». È, infine, un vero cattolico dei nostri tempi. Ricordiamoci il monito coraggiosissimo del clero protestante e evangelico della Germania orientale. In questi giorni, un vero atto di ribellione tenace al comuniSmo. E venuto mentre la Chiesa si mette d’accordo, smobilita Mindszenty da Budapest (sfrattato dal Presidente americano) e vagheggia concordati proficui oltre

cortina. Due concezioni del cristianesimo si fronteggiano. E John Fitzgerald Kennedy ne incarna, sia detto chiaramente, la meno pregevole. Suonano strane le parole di un breve apologo messo in circolazione dai magnati dell’acciaio al tempo della loro controversia con lo sposo di Jacqueline: «Roosevelt dimostrò che la Presidenza può essere un mestiere da esercitarsi vita naturai durante. Truman ha dimostrato che chiunque può fare il Presidente. Eisenhower, che non v’è in realtà bisogno di un Presidente. Kennedy, che può essere pericoloso avere un Presidente...». Ma nessuno misurava la grandezza di quel pericolo.

L’AMERICA “VITTORIOSA”

I VEDOVI DI JACKIE

“Jackie”, la chiamavano, con intimità di possesso. Il grido di dolore è esploso con la piena dei grandi sentimenti: «Diciamo la verità, ci sentiamo un po’ tutti traditi», ha scritto il giornalista Enzo Biagi, e la frase si è dilatata in un titolo del quotidiano torinese che non sdegna, quando serve, il tono sciropposo della presse de coeur. “Tutti”, ossia chi? I parenti? I fans? Gli elettori del partito democratico? Mah. La faccenda di costume, che ci riguarda più del matrimonio di Skorpiòs, sembra questa: cosa c’entriamo noi. Ho sotto gli occhi un mazzo di quotidiani stranieri e italiani. I nostri sono più eccitati, alle vicende di “Jackie” e “Ari”, non dico degli altri europei; questo si capisce, per via della famosa nostra meridionale vivacità; ma degli stessi americani, parlo di quelli seri. Più amari i pianti, più aspri i commenti: il tono trascorre dal dispetto al dileggio: si sente il rodimento dell’abbandono, il rovello del tradimento dove ci starebbe bene un divertito distacco. L’italiano non ha il dono dell’ironia, che sostituisce col sarcasmo: lo sapeva anche Leopardi, che poi faceva, poveretto, come gli altri.

Purtroppo, il sarcasmo ci condanna all’ineleganza. Noi dobbiamo intrufolarci, parteggiare, non tolleriamo di essere esclusi dalle sagre dei sentimenti, da una qualsiasi commedia dove abbiano un qualche ruolo la popolarità e la confidenza. Winston Churchill, che ci castigò delle nostre mattane imperiali, era per noi “Winnie”, molto più casareccio che Cavour e Garibaldi, che nessuno s’è mai sognato di chiamare Lollò e Pepy. Tutte le mezze calzette che incontrava nei suoi soggiorni italiani si sbracciavano a salutarlo con le dita a “V”, ispirandogli certamente (l’uomo aveva ben chiari i concetti di vittoria e di sconfitta) amene osservazioni sullo strano popolo che si divertiva a ricordare una “Vittoria” ch’era consistita in una scarica di legnate sulla sua schiena.

*** “Jackie” ce l’eravamo annessa, allo stesso modo. Indifferenti alle faccende serie, diventiamo smanciosi sulle sciocchezze, le trasformiamo in tragedie. Perché, adesso si capisce, non era uno scherzo. Il senso di possesso che, dicono gli psicologi, si manifesta nel chiamare questi super-personaggi pubblici col nome di battesimo, non era tra noi convenzione, ma impegnava dei sentimenti; era un amore vero. Avevamo costruito la perfezione di Jackie col rigore implacabile con cui i poeti dello stil nuovo fabbricavano i manichini sublimi delle loro amate ideali. Nel paese di “Jackie”, le critiche salivano con brontolìi di malumore, e da molti anni. La definirono una “starlet senza talento”, catalogarono con diligenza puntigliosa quanto refrattaria alle

manipolazioni dei “mass-media”, il suo disinteresse per la famiglia, l’avidità, l’egoismo, l’amore della pubblicità, la poca discrezione. Fin dal 1962 criticarono le sue pettinature, la sua pronuncia, il cattivo gusto delle sue toilettes, la sua maniera di vestire in chiesa, la passione per farsi fotografare in costume da bagno, le sue amicizie, del calibro di Porfirio Rubirosa e giù di lì; la sua sete di divertimenti, lo snobismo, e non si finirebbe più con la lista dei peccati veniali d’una donnina banale. Il “mito”, in America, reggeva in definitiva soltanto agli occhi del popolino. Da noi, no. I dubbi non arrivavano fin qua; se ne arrivavano, eran giudicati stravaganze malevole, s’infrangevano come schiamazzi di miscredenti contro la calma possanza di un dogma. Nessuno sembrò dubitare mai che il suo comportamento quale “fìrst lady” fosse censurabile e talvolta sguaiato, e che soltanto il tatto e la galanteria di John Kennedy riuscissero a riparare alle falle, riproponendolo nella luce più indulgente. Il suo contegno in morte del marito fu proposto come esempio all’ammirazione del mondo con una confusione impudente tra isterismo e coraggio, tra orgoglio e vanità, tra dignità e villania. In tutto il viaggio dell’Air Force One che riportava da Dallas a Washington i due presidenti, il morto e il vivo, la prova offerta dal “clan” dei Kennedy, con “Jackie” in testa, rasentò i limiti del teppismo. Fu presentata poco meno che come una nemesi storica. Voi credevate che il culto della personalità fosse un deplorevole vizio dell’altra sponda. Invece, c’è anche di qua, ma procede per maniere soffici: al posto della polizia segreta, c’è la persuasione occulta. Nella fabbrica della mitologia

contemporanea “Jackie” era un prodotto troppo prezioso, anello di una collana troppo importante perché si consentisse a mani rozze di rovinare la confezione sublime. Si suol criticare il modo con cui l’industria delle immagini, delle canzoni, fabbrica gli oggetti di culto per i bisogni delle moltitudini. Ma bisogna dire che nel caso della signora Kennedy la manovra era di qualità ancora peggiore. C’era anche il tornaconto politico. Si trattava di captare l’affascinata meraviglia delle masse, di trattenerla incollata al culto di un complesso sviluppo di mitologia politica sul cui sfondo s’intrecciavano motivi vastissimi, da certa campagna radicale contro il “razzismo” alle illusioni della “distensione”: si spaziava dalla sorte delle alleanze alle polemiche interne della Chiesa. “Jackie” non era il solo pilastro dell’edificio; ma era importante. Era una stella di prima grandezza nella costellazione proposta all’adorazione. In questo firmamento, splendeva di una luce appena appena più tenue di quella riverberata, poniamo, da Papa Giovanni. L’accostamento irriverente non è nostro, è nei fatti. I confini sfuggono alle definizioni precise, ma la connessione tra i numerosi ingredienti della mitologia era una realtà: e fino ai livelli più elementari, come avrà avuto modo di accorgersi chi, in una fiera paesana, abbia scorto l’incredibile quantità di piatti dozzinali, recanti John Kennedy e il Papa ritratti l’uno accanto all’altro. La perfezione di “Jackie” era necessaria all’opulenza del quadro, ogni smagliatura doveva essere cancellata da un’opera paziente di restauro. In tutti questi anni, il restauro è stato accurato, tenace. Solo inconveniente, la solerzia dei restauratori si scontrava con l’attività della donna che soltanto muovendosi,

danneggiava il bel manichino. Sicché ogni tentativo non faceva che rendere più fragoroso il crollo, quando sarebbe venuto, un giorno o l’altro. È venuto, ecco tutto. Ecco “Jackie” che vuole, da “Tellis”, “un bambino”: e lo vuole “subito”; non troppo, si spera. “Sono tanto felice”, bela come l’ultima delle stelline. Soltanto che i maligni non resistono a calcolare quella felicità, e perfino il “bambino”, in contanti. Un quarto del patrimonio di “Tellis”, secondo la legge greca, è già nella rete. Aggiungete un “bambino”, e i tre quarti residui da dividersi tra i figli, si spaccano non più in due, ma in tre: e il terzo del “bambino” va amministrato dalla mamma. Questo, per l’avidità. E poi il gusto: gli sposini che vanno a pregare nella chiesetta in cima all’isola, lo credereste, “per l’anima di John”. Oh, grandezza dei sentimenti puri. Lei vestita di rosa-beige, come il giorno di Dallas; con lo stesso sorriso, innaturale, pletoricamente luminoso come una lampadina accesa in pieno giorno, che è sempre quello, dai funerali ai matrimoni. Perché un matrimonio doveva pur venire. I potenziali vedovi tremavano, ma li sorreggeva la speranza che fosse un intellettuale malinconico o, magari, un asceta della democrazia. Ora, gridano al tradimento, dicono che “Jackie” ha sbagliato, è uscita di senno. Mentre “Jackie” non ha sbagliato affatto. Si era sbagliata, semmai, quando sposò Kennedy, scambiando la Casa Bianca, teatro di decisioni gravi e talora tragiche, per un palcoscenico mondano foderato di rosa-beige: ignorando prima, e poi odiando, i pesanti doveri nascosti dietro le quinte: le riunioni di partito, le feste di beneficenza, i clubs di patronesse, la

puntualità alle cerimonie, le sfibranti tournées elettorali, la gentile e paziente condiscendenza dovuta alla piccola gente. Ora, il palcoscenico è davvero tutto rosa-beige, e senza doveri: accanto a lei è il re naturale della società che “Jackie” aveva sempre sognato. Sul panfilo Christina, dove le camerierine in minigonna rosa fanno parte dell’equipaggio, i rubinetti sono d’oro e la cabina “Corfù” custodisce gl’indumenti e i profumi della Callas come trofei di caccia grossa; o nella villa donatale dal re del Marocco, così grato allo Stato americano che gli aveva passato, a titolo di “aiuti” cinquantasei milioni di dollari quello stesso anno; nei mille luoghi sacri ai piaceri della café-society, “Jackie” potrà essere, finalmente, se stessa. Che la vita cominci a quarant’anni, per “Jackie” non è un luogo comune consolatorio, ma un’affascinante scoperta. Il pianto dei suoi vedovi, se la raggiungerà, è dubbio che la commuova. Tutto sommato, essi piangono la morte di un manichino che si erano costruiti con le loro mani, al servizio di una certa mitologia politica. È abbastanza curioso che il manichino cada in pezzi nel momento stesso in cui il ciclo di quella mitologia e di quella politica sembra prossima a chiudersi.

IL SOLO VINCITORE: HO CHI MINH

Il 15 Luglio scorso il primo ministro britannico Wilson informò la Camera sul fallimento della missione “di pace” che il suo rappresentante, onorevole Harold Davies, aveva compiuto a Hanoi. Davies cercò invano di farsi ricevere dal Presidente della repubblica, Ho Chi Minh, o almeno dal primo ministro Pham van Dong; non riuscì che a farsi ascoltare da alcuni funzionari, che presero diligenti appunti e lo lasciarono ripartire dopo una settimana di inutile attesa: «I dirigenti del Nord Viet Nam», disse Wilson, «sono talmente sicuri della vittoria dei Viet Cong nel Sud, che giudicano ogni trattativa inutile, almeno per il momento». Noi non sappiamo se questa sicurezza duri ancora a Hanoi, ma allora doveva essere ben salda. Soltanto una simile certezza dovette indurre Ho Chi Minh a sopportare la crescente offensiva aerea americana. Non credeva neppure lui alle smargiassate dei giornali cinesi che ad ogni capoverso garantiscono la prossima immancabile catastrofe americana, e costituiscono il solo appoggio della Cina al barcollante alleato. Ma, questo sì, Ho credeva che il tempo avrebbe dato ragione a lui, in ogni caso: sia che gli americani decidessero di infognarsi in una guerriglia senza fine («combatteremo per venti anni», ha detto tante volte) sia che decidessero di andarsene. In questo caso, non giudicava

difficile ingoiare il mezzo Viet Nam del Sud rimasto stremato e diviso solo dopo la lunga guerra. Era soltanto un ritardo sui programmi del 1946, o del 1954. Ho Chi Minh non ha mai avuto paura dei ritardi. L’Asia ragiona in termini di secoli, mentre l’uomo occidentale, nevrastenico e frettoloso, l’occhio incollato al suo stupido orologio, non va oltre gli anni o i mesi. Il vecchio Ho Chi Minh non ha dubbi, il tempo gli darà ragione. Lo “zio Ho”, lo chiamano i suoi, come lo invocano quattrocentomila scolari, è più che mai convinto della bontà dei suoi metodi, che funzionarono così bene nel passato. Dopotutto, non ha fatto che vincere, da vent’anni in qua. E contro ogni nuova carta che veniva fuori a minacciare il suo gioco, ne sapeva escogitare sempre un’altra da contrapporle. Lavorò di leva e di cuneo, pazienza. Contro i “fascisti giapponesi” occupanti, aiutò gli americani; ma anche i giapponesi ebbero la loro utilità perché furono proprio loro che, sullo spirare dell’occupazione, nel Marzo 1945, abbatterono il regime coloniale francese collaborazionista per sostituirlo con un timido governo, loro vassallo, che tuttavia era il seme dell’autogoverno. Il Giappone sconfitto si lasciava alle spalle queste mine a scoppio ritardato in tutta l’Asia orientale. Per abbattere il fragile governo pro-nipponico furono di nuovo utili i francesi. E ancora più utili riuscirono questi, appena ritornati, per scongiurare un ben più minaccioso pericolo: le vittoriose truppe cinesi di Ciang Kai Schek stavano occupando il Tonchino. La Francia pagò le spese, e Ho Chi Minh n’ebbe il vantaggio. Per allontanare i cinesi di Ciang dall’Indocina, la Francia dovette rinunciare a tutte le sue concessioni di un tempo in territorio

cinese; ma poi, quando al posto di Ciang venne Mao, allora i cinesi tornarono alleati e il loro appoggio divenne utile contro i francesi. Per lunghi anni Ho combatte da solo, ma con la certezza che al momento buono i cinesi sarebbero intervenuti a dargli man forte: i cinesi e i russi sembravano allora alleati in una solidarietà che sembrava dover infrangere i secoli. Quando questa si ruppe, Ho Chi Minh seppe restare amico di entrambi: le carte restavano ugualmente buone sulla sua scrivania nell’antico palazzo dei governatori francesi. Quando fu chiaro che i cinesi non avrebbero mosso un dito per aiutarlo, alle soglie di quest’anno, allora sembrò che il vecchio Ho volesse giuocare contro i cinesi la carta russa, e Kossighin arrivò a Hanoi in numerosa e importante compagnia. Ma a questo punto scoppiarono le bombe di Pleiku, e l’America si gettò nella mischia. Sarebbe occorso un intervento militare russo altrettanto massiccio, capace di persuadere, semplicemente, gli americani, che il conflitto locale nel Viet Nam poteva trasformarsi nella terza guerra mondiale. È quel che Pechino si augura, impotente com’è a fare altro. Ma né Russia, né Stati Uniti sembrano disposti a distruggersi reciprocamente per fare piacere a Mao, e il vecchio Ho ha visto cadere a una a una le sue speranze. L’opposizione interna americana, sulla quale contava più che non si credesse in Occidente, non ha impedito a Johnson di impegnare sempre più risolutamente gli Stati Uniti nella guerra. La stagione dei monsoni se ne è ormai in gran parte andata senza che i Viet Cong abbiano colto alcun successo decisivo. Anzi, è venuto finalmente l’esplicito riconoscimento

che lo sforzo è fallito: il 6 Agosto, i Viet Cong hanno rivolto un pubblico appello “al popolo del Nord Viet Nam” affinché accorra in loro aiuto. Può essere il preludio all’ultima carta che il vecchio di Hanoi potrebbe giuocare: l’invasione dal Nord, con l’esercito di Giap e gli ausiliari male armati della “milizia”.

*** Il vecchio Ho non è un intransigente, né un fanatico. Ha sempre preferito la strada delle trattative, contro gli estremisti della sua parte: «Negoziare quando si può fare a meno di combattere significa dar prova di intelligenza. Perché sacrificare cinquantamila o centomila uomini quando possiamo arrivare all’indipendenza con le trattative?», gridò con la sua voce stridula e appassionata all’assemblea del popolo di Hanoi, convocato nella piazza del Teatro il 7 Marzo 1946, per fargli accettare i negoziati con la Francia. In quell’occasione, il generale Giap, suo allievo preferito, ricorse a un paragone storico: “Abbiamo scelto di trattare per creare le condizioni favorevoli alla lotta per l’indipendenza completa... La Russia firmò nel 1918 a Brest Litowsk per fermare l’invasione tedesca e rinforzare, durante la tregua, le sue forze armate e il regime politico. Non è forse divenuta forte, grazie a quel trattato?”. L’eterno negoziato

Ho Chi Minh ha sempre negoziato, aspettando il momento scelto da lui. Per la prima volta, il momento sembra tardare troppo. Se dovesse negoziare adesso, le trattative sarebbero

rovinose; aspetta una posizione appena migliore, che può venirgli soltanto da una sua decisione, di tutto rischio. Nessuna delle due carte che tiene sulla scrivania si possono utilmente contrapporre agli americani: le due tigri comuniste si limitano a brontolare e ruggire, quella americana ha sfoderato gli artigli e accettato la sfida. Per la prima volta, il giuoco di carte che riuscì sempre così bene al Sisifo del comuniSmo asiatico, si è incagliato. A settantacinque anni suonati, dietro le spalle la più prodigiosa carriera politica, Ho Chi Minh è tornato al punto di partenza: rischiare tutto, o perdere tutto. Ricominciare da capo, magari abbandonando ancora una volta Hanoi per rifugiarsi nelle montagne, come nel Dicembre 1946, quando i francesi rioccuparono la sua capitale. Si può ricominciare da capo, a settantacinque anni, inaugurare un nuovo ciclo? L’uomo ne sarebbe forse capace. Ha settantacinque anni, ma il personaggio Ho Chi Minh ne ha venti, come il suo nome.

*** Fino al 1941, tutto quanto riguarda il futuro presidente del Nord Viet Nam è frammentario, approssimativo, controverso. Le testimonianze sulla sua vita abbondano, ma le lacune sono vastissime, né lui stesso si è dato pena di colmarle. Un’ombra di mistero deve considerarla essenziale al proprio mito. Neppure il romanzo autobiografico Sangue del Viet Nam, 1945, mette a fuoco due immagini fondamentali, il focoso e arrogante Nguyèn Ai Quoc, rivoluzionario a Parigi, a Mosca e in Asia dopo la prima

guerra mondiale, e il delicato ironico Ho Chi Minh di trent’anni dopo. Sull’identità della persona sotto i due nomi, si è raggiunta la certezza. Anche se il generale Salan, che trattò con Ho Chi Minh nel 1946, accompagnandolo a Parigi, ricorda che il capo del Viet Minh negò allora di essere mai stato Hguyèn Ai Quoc. Un funzionario della polizia francese nel Tonchino raccontò a Jean Lacouture, uno specialista, che quando, nel 1945, aveva incontrato Ho Chi Minh ritornando ad Hanoi dopo la sconfitta giapponese, aveva guardato con una lunga occhiata il suo orecchio. «L’orecchio?», domandò Lacouture: «Sì, l’orecchio. Quando non possiamo prendere impronte digitali, identifichiamo le persone dall’orecchio... Non potevo ingannarmi. Era proprio l’orecchio di quel Nguyèn Ai Quoc che avevamo tante volte scrutato nelle fotografie...». Se ce ne fosse ancora bisogno, una pubblicazione agiografica di Hanoi sul presidente Ho Chi Minh dissipò ogni equivoco nel 1960: «Nel Gennaio 1919, Ho Chi Minh, residente allora in Francia e conosciuto sotto il nome di Nguyèn Ai Quoc, invia una petizione alla conferenza di Versailles...». Ecco le fondamenta di una difficoltà biografica: l’agitatore parigino è lo stesso che tornerà a trattare da pari a pari con la vecchia potenza coloniale. Scopo, sogno, speranze, sono sempre gli stessi, l’unità nazionale sotto il comuniSmo. «Da principio, fu il mio patriottismo e non l’ideologia comunista, a spingermi verso Lenin e la Terza Internazionale». Senza questa spiegazione autografa, nulla si

comprende dell’uomo, del suo destino, degli odierni avvenimenti asiatici. Dai primi scrutabili esordi, questa vita appare votata alla lotta contro la Francia in nome dell’indipendenza nazionale. Un forte intreccio di frustrazioni e di umiliazioni sta alla base di un istinto di rivolta che si manifesta ben presto. Ci fu anche un motivo familiare: il padre di Ho Chi Minh, Nguyèn Sihn Huy, mandarino nella regione di Ha Tinh, venne revocato dalle sue funzioni ai principi del secolo. Alcuni rapporti della polizia francese parlarono di “incontinenza”, altri di concussione. Le biografie ufficiali dicono che il padre di Ho fu cacciato dall’impiego perché aveva manifestato tendenze nazionaliste. È certo che il mandarino aveva sempre rifiutato di apprendere il francese e era in contatto coi circoli nazionalisti del Tonchino e dell’Annam nativo, oltre agli agitatori antifrancesi emigrati in Giappone.

*** Non può stupire che i figli crescessero nel rancore contro la Francia, per l’ingiustizia patita. Povertà, ansia di vendetta e complotti sono la cornice in cui si immaginano gli esordi della giovane vita. A complottare il ragazzo dovette cominciare presto, con gli amici del padre, con un fratello che fu condannato ai lavori forzati nel 1918: un altro, finirà vittima dell’alcool, e, forse, spia della polizia francese. Neppur quando nacque, il futuro Ho Chi Minh, è chiaro: il 15 Luglio 1892, secondo alcuni, il 19 Maggio 1890, come assicurano i più. Fu

chiamato Nguyên Tat Thanh, e con questo nome frequentò la scuola elementare della cittadina di Vinh poco sopra l’attuale confine dei due Viet Nam; poi si fece cacciare come “cattivo soggetto” dal collegio dell’antica città imperiale di Huè. Ma diciassette o diciannove anni che avesse, Thanh scelse, per combattere la potenza che opprimeva il suo paese, la strada opposta a quella del padre: volle conoscere l’Europa, la Francia, i suoi usi, la sua gente, la sua letteratura. Come boy, o cameriere di bordo, s’imbarcò sulla nave La Touche-Tréville che collegava il Tonchino con Marsiglia. Si chiamò Ba, breve nome adatto a un giovane cameriere e navigò due anni nei porti mediterranei: conobbe malgasci del Madagascar, s’infiammò sulle sorti degli arabi, dei congolesi, dei “fratelli di miseria”, di cui si ricorderà più tardi. Non era il posto migliore, quella nave che riportava a casa i coloniali in vacanza, per propiziarsi la Francia e infatti, dopo un viaggio a New York, la carriera marinara di Ho si concluse, ma non a Parigi, bensì a Londra. Spalò la neve nelle strade, fece lo sguattero all’hotel Carlton e infine, con una carriera fulminea, divenne aiutante del più celebre cuoco di quei tempi, Escoffier, che lo promosse pasticciere capo. E dopo una giornata fra pasticci di crema e glaces zuccherate, il giovanotto magro e delicato si chiudeva in camera sua e leggeva: Marx e Hugo, Nietzsche e Sorel. Uomini magri e affamati

Per alcuni anni, in Europa, uomini magri e affamati si trovarono a leggere gli stessi libri: marxisti e irrazionalisti, apostoli della violenza e predicatori della fraternità, razzisti e apocalittici, non basterebbe una pagina per elencare nomi e titoli. Se ci proviamo a immaginare i lettori, il panorama non cesserà di stupirci: possiamo vederli fra oscure pensioni e alberghi di poveri, retrobottega e osterie, dove menavano esistenze sordide e ignote, all’ombra di miseri mestieri rischiarati a folgoranti speranze, si chiamassero Lenin, Trotzky o Mussolini: si trattasse d’uno studente cinese di nome Chu En Lai, o d’un piccolo pasticciere annamita chiamato Thanh. Anche lui leggeva, come gli altri, le sue Réflexions sur la violence, quella che era cominciata come una rivoluzione sociale si traduceva in rivoluzione nazionale. Per il futuro Ho Chi Minh, più che per gli altri. Il “proletariato” era una “classe” perseguitata all’interno di un popolo: per Ho, il proletariato era un popolo intero; il suo. La rivoluzione, l’indipendenza

Poco sappiamo delle tappe attraverso cui si compì la sua maturazione politica, da rivoluzionario dilettante, al professionista, una intera vita votata alla rivoluzione. Dove colpirlo la somiglianza fra la condizione del popolo coloniale e quella del proletariato di fronte alla “classe dominante”. Somiglianza discutibile, ma al giovane dovettero sembrare la stessa cosa. La lotta di classe, nel suo e negli altri paesi coloniali, non aveva senso se non diventava lotta di liberazione anticoloniale.

Il moderno anticolonialismo prendeva per la prima volta coscienza di sé. Tornò a Parigi mentre le sorti della guerra sembravano volgere al peggio per gli alleati: Lenin aveva preso il potere in Russia, e i proiettili della “grosse Bertha” cadevano sulla capitale francese. «Se volete un vivo ricordo dei vostri cari, fate ritoccare le vostre fotografie da Nguyèn Ai Quoc, bel ritratto, elegante cornice, 45 franchi», si legge in un piccolo annuncio della Vie Ouvrière. Il pasticciere era diventato fotografo, e aveva cambiato ancora una volta nome. Volle un nome sonoro e pieno di destino, che facesse dimenticare l’oscuro monosillabo del cameriere. Nguyèn, è vero, è il cognome più comune del Viet Nam, ma è anche quello della più illustre dinastia imperiale. È comune come Rossi, ma suona come Savoia, o Absburgo. Ai, è una particella, ma Quoc significa, nientemeno, Patria. Nasce nguyèn della patria

“Nguyèn della Patria” era nato: sarebbe entrato con questa pesante insegna negli schedari di molte polizie, negli annali del Comintern, nella storia dell’Asia. Con quel nome cominciò a scrivere in piccoli giornali, mal scritti e peggio stampati, ma esplosivi. Il più noto di questi si chiamava il “Paria”, col sottotitolo: “Tribuna del proletariato coloniale”. La sua parte, fra le due correnti del marxismo, i socialisti e i comunisti, Quoc la scelse quando gli capitò sotto gli occhi una frase di Lenin: «L’operaio europeo deve lottare per il diritto di autodeterminazione. Deve rivendicare la libertà di separazione

politica per le colonie e per le nazioni oppresse dalla sua propria nazione». A Parigi non c’era più nulla da fare, e Quoc andò a Mosca. Tornerà a Parigi dopo ventitré anni, trasformato di oscuro agitatore in capo di Stato, da pari a pari, per «trattare la pace»; ossia, per imporre la “sua” pace alla Francia. Al suo arrivo a Mosca, la situazione è oscura: Lenin è appena morto, Stalin e Trotzsky sono ai ferri corti, ma Quoc non si lascia attrarre da una lotta intestina del comuniSmo europeo, che non lo interessa. Pensa ad altro: «Quanti sono ancora, purtroppo, i nostri compagni che pensano che una colonia altro non sia se non un paese pieno di sole in alto e di sabbia in basso, con un ciuffo di palme verdi e alcuni uomini di colore?» aveva scritto nelÏHumanité l’anno prima: e ora, alla Quinta Internazionale, si parla di emancipare le colonie, ma i comunisti europei dell’Algeria insorgono protestando: “Dare la sovranità ai cannibali? Dare il potere alle masse musulmane significherebbe soltanto ritornare al feudalesimo!”. Allora, gli occhi brucianti, la voce stridula, il giovane sconosciuto si alza e grida: «I compagni della metropoli non hanno ancora assimilato l’idea che il destino del proletariato mondiale è legato a quello delle classi oppresse delle colonie». Le colonie e il destino

Era la prima volta che un comunista asiatico si esprimeva con tanta chiarezza, il suo posto era l’Asia, ormai. Bisognava condurre lotta e predicazione laggiù. E ecco la carriera di Nguyèn Ai Quoc aprire un altro convulso periodo di piccoli

giornali, di lotte e complotti, fughe, di peregrinazioni da un esilio all’altro, da una prigione all’altra. Nel 1927, a Shanghai, Ciang Kai Schek, fino allora alleato dei comunisti, getta la maschera e in una notte tutti i comunisti sono massacrati, strozzati o gettati in prigione. Quoc si salva, col solito “miracolo” delle biografie d’eccezione. E da allora, è la peregrinazione paziente e oscura per tutta l’Asia, dovunque sia un fuocherello di rivoluzione da alimentare: dalla Cina alla Birmania, dal Siam a Hong Kong, in cento travestimenti, con cento nomi diversi. Nel Settembre, una “marcia della fame” organizzata a Vinh, presso il suo paese natale, ha finalmente successo; vengono arrestati in quell’occasione, un agitatore comunista chiamato Pham van Dong, e uno studente di nome Giap. Ma le tracce di Nguyèn Ai Quoc sono introvabili, finché la polizia francese riesce ad identificarlo in quel Quoc che risulta morto di tubercolosi nelle prigioni di Hong Kong. Il caso è chiuso, il fascicolo intitolato all’agitatore può passare all’archivio. Dov’è scomparso il futuro Ho Chi Minh? Come mai non si trovano sue tracce al congresso del partito comunista indocinese, a Macao nel 1935? E come mai, se era in Cina, non ebbe qualche parte di rilievo nella “grande marcia” condotta da Mao Tse-Tung? E come mai non profitta dell’amnistia che il governo di “fronte popolare” di Léon Blum, insediatosi in Francia, elargisce ai comunisti dell’Indocina? Nulla da fare, le tracce di Quoc si ritrovano soltanto nel 1941, in una cittadina cinese presso il confine del Viet Nam. Non si tratta più della “lotta di classe” all’europea, è la liberazione nazionale, col nome del comuniSmo.

Nasce il padre di tutti

I giapponesi hanno fatto la loro parte, la loro spallata al sistema coloniale europeo è definitiva. Singapore ha capitolato con vergogna, centomila inglesi in piazzaforte davanti a trentamila giapponesi in bicicletta. La Francia, lassù in Europa, giace battuta e invasa da Hitler. È il momento buono. Bisogna attrarre tutte le forze, utilizzare tutti i movimenti; i comunisti saranno soltanto lo stimolo, la guida interna e segreta, meno compariranno e meglio sarà; bisogna attirare la borghesia “compradora” e sofisticata del Sud, i proprietari, non è questione di classi... Per questa gente, il nome di Nguyèn Ai Quoc sarebbe sospetto: non era un fanatico comunista, l’agente dellìnternazionale, l’uomo di Stalin e del suo proconsole Borodin in Cina? Quoc scompare, e sorge al suo posto il moderato, il saggio, il gradualista Ho Chi Minh, dall’alta fronte, dai capelli bianchi e la lunga e rada barbetta grigia. Un padre per tutti, conversatore affabile e sorridente, un temporeggiatore paziente, ma anche un sentimentale capace di commuoversi: non v’è persona che l’abbia accostato che non l’abbia visto, a un certo punto, trar fuori il grande fazzoletto rosso e asciugarsi gli occhi; anche se taluno ha detto che il ciglio era assolutamente asciutto di lacrime inesistenti. È un uomo completamente nuovo quello che nell’ottobre del 1944 ripassa la frontiera della sua patria, da cui era partito trentadue anni prima. È un esule che non ha cessato un solo istante di pensare a quella lontana terra di acquitrini e di

foreste, si è cambiato, per lei, al punto che nessuno lo conosce: «Ho Chi Minh? Ma chi è?», si domandano a Hanoi, a Saigon, lui evita accuratamente ogni identificazione con le sue precedenti incarnazioni. «Sono un uomo che è vissuto alla macchia», risponde, «che è stato in prigione, che ha lottato». Il nuovo mito

Appare il nuovo mito. La nuova figura si impone presto, il mito cresce rapidamente. I giapponesi se ne vanno, e Ho sale alla ribalta. Nasce il primo governo della “Repubblica Democratica del Viet Nam” e Ho lo presiede: tratta coi francesi per una forma di autonomia, se non proprio di indipendenza. Va a Parigi, sorprende tutti con la sua moderazione, il suo fare conciliante, le sue buone maniere. Bacia e abbraccia i vecchi ministri socialisti suoi amici, discute serenamente coi generali. Ma quando le cose si mettono male, allora non esita a ripartire e rimettersi alla macchia. Fino a quando? Sette, otto anni, finché i francesi sono battuti e se ne vanno. La carta del comuniSmo per ottenere l’unità nazionale ha funzionato: funzionerà anche contro gli americani, Ho ne è sicuro. Ma intanto, il colosso comunista si è spaccato in due, e da nessuno dei due bottoni che Ho tiene sulla scrivania può venire la salvezza. Il giuoco si è davvero incagliato. “Abbiamo combattuto dieci anni contro i francesi, combatteremo altri vent’anni contro gli americani”. Forse, stavolta, l’attesa è diversa, come è diversa la forza che gli si sta abbattendo sulla testa. L’ha capito, il vecchio Ho, nel suo palazzo di Hanoi, dove

fuma Carnei e Morris aspettando il suo momento: lui, il più vecchio, il più sobrio, il più semplice dei capi di Stato, il peggio pagato, col suo stipendio di cinquantamila lire al mese? Ho aspetta ancora, ancora non è sicuro. Giocherà la carta disperata dell’invasione? 0 si rassegnerà a trattare, come vuole Johnson? Tratterà forse, quando sarà troppo tardi: o quando (ecco il problema) a trattare non sarà più lui, ma qualcuno dietro le sue spalle: o Mosca o Pechino, se, come sembra, l’affare dell’Asia orientale crescerà sempre, nei prossimi mesi, nei prossimi anni. 1965

IL SUICIDIO DELLO STATO 1963:

lo

Stato a pezzi

La notte del 3 Maggio scorso, si svolse nelle acque del Golfo di Napoli un movimentato inseguimento che ebbe per protagonisti i mezzi navali della nostra Guardia di Finanza e il potente battello Zephirit, di cento tonnellate, blindato nelle parti principali, munito di radar e, addirittura, di mitragliere. Nonostante le sue vistose caratteristiche, il povero Zephirit colava a picco. Non si è ben capito se si è incendiato da solo, o se l’incendio sia stato dovuto a qualche proiettile dei finanzieri. Sta di fatto che quella nave ammiraglia del contrabbando mediterraneo non tornerà mai più alle sue basi naturali di Tangeri e di Gibilterra. È una grave perdita per la flotta contrabbandiera, che pure allinea numerosi scafi moderni e veloci, del valore complessivo di molti miliardi: una cosa per niente romantica, che non ha più nulla a che vedere col contrabbando ottocentesco che esaltava i ragazzi avventurosi e commoveva le signorine: un misto, per intenderci, d’alta finanza e di alta delinquenza scientificamente mescolate e organizzate. Lo Zephirit aveva scaricato una buona parte del suo carico di sigarette sulle altre imbarcazioni venutegli incontro, quando

una motovedetta della Guardia di Finanza lo avvistava e gli intimava, con segnali luminosi, di fermarsi. Poiché il battello dei contrabbandieri anziché arrestarsi, aumentava la velocità, cominciò un vivace inseguimento culminato, secondo la versione fornita dai finanzieri, con l’esplosione di uno dei motori dello Zephirit, seguita, pochi istanti dopo, dall’affondamento. Otto uomini dell’equipaggio si salvavano, mentre annegava l’unico italiano a bordo, il napoletano Vincenzo Santillo, che doveva fare da tramite fra l’equipaggio e i contrabbandieri locali. I quali contrabbandieri sostengono invece che la vedetta della Finanza avrebbe sparato sulla nave contrabbandiera causando così l’incendio e l’affondamento.

♦♦♦ Ecco il fatto, o, piuttosto, l’antefatto, perché tutta questa storia serve a comprendere il significato di una fiera e suggestiva cerimonia svoltasi nelle acque stesse dell’epico episodio marinaro pochi giorni dopo. Il mattino di martedì 7 Maggio, infatti, un corteo di venti motoscafi prendeva il mare. Le imbarcazioni raggiungevano lo specchio d’acqua nel quale si era inabissato lo Zephirit trascinandosi nei gorghi il misero Santillo, e qui spegnevano i motori. Corone di fiori venivano gettate nelle acque gloriose dagli amici del Santillo mentre la severa figura di un sacerdote si levava da un motoscafo, e dava principio ad una toccante funzione religiosa. Finita questa, tutte le imbarcazioni della flottiglia si dirigevano in linea di fila verso il piccolo porto di

Mergellina dove sono ormeggiati i mezzi leggeri della Guardia di Finanza. E lì, davanti alle navicelle dello Stato nel loro porto, la flotta contrabbandiera sfilava, alla luce del sole mattutino, in una vera e propria parata che significava, nell’intenzione dei suoi organizzatori, sfida e protesta insieme. Così, nel più grande porto italiano, una potente banda di malviventi internazionali ha potuto montare una caricatura di cerimonia militare, con tanto di Messa al campo e di cappellano, culminata in una manifestazione provocatoria e oltraggiosa contro le forze armate dello Stato. E è fortuna che il Parlamento sia chiuso per qualche giorno ancora, altrimenti avremmo udito certamente levarsi le interrogazioni e le interpellanze contro i metodi barbarici della Guardia di Finanza, nonché gli appelli in nome del diritto dei contrabbandieri a svolgere la loro attività nell’ambito della Costituzione repubblicana. I contrabbandieri! Come mai ci si è dimenticati di loro in tutti questi anni? È una deplorevole lacuna, che va senz’altro colmata. Ci si è ricordati dei ladri, degli ergastolani, delle spie atomiche, dei sadici sessuali; si sono riempite pagine e pagine per esaltare gli eroi partigiani di Genova e di Reggio Emilia del Luglio 1960. Tutte le categorie della delinquenza nazionale hanno avuto il loro tributo di riconoscenza e di simpatia. Soltanto gli oscuri eroi della “stecca» di americane, i silenziosi navigatori notturni delle rade solitarie e dei porticcioli segreti erano i grandi dimenticati. Ora, c’è posto anche per loro. Santillo ne diverrà il martire. Gli faranno il monumento. Tutta la categoria potrà beneficiare della pensione di Stato, e c’è anche caso che la

Chiesa provveda ad escogitare qualche santo che per temperamento o per caratteristiche biografiche si presti alla funzione di patrono della categoria. Perciò, i militi della Guardia di Finanza sono avvertiti. Quel corteo muto e ammonitore di venti veloci imbarcazioni davanti al loro porto è soltanto la staffetta che precede gli alfieri della democrazia e dei diritti dell’uomo, dell’antifascismo e della carità cristiana riveduta e corretta a beneficio delle canaglie e degli assassini. Stiano attenti, i finanzieri. Se insisteranno nei loro metodi fascisti e repressivi, la morale universale li condannerà, e qualcuno si leverà a reclamare il loro disarmo, così come è stato invocato il disarmo dei Carabinieri e della Pubblica Sicurezza. Una volta, erano le grandi potenze marittime che organizzavano parate navali dimostrative, coi cannoni puntati, contro i porti delle nazioni turbolente che minacciavano i loro interessi. Giusto quarantanni fa, nel 1923, il Presidente del Consiglio italiano di quel tempo spediva la flotta davanti a Corfù per proteggere le vite degl’italiani minacciate dopo gli eccidi di Gianina. Riferendo su quell’episodio nel corso di un dibattito al Senato, quel Presidente del Consiglio affermava che la spedizione di Corfù era stata fatta per «rialzare il prestigio dell’Italia». Dopo quarantanni, il «prestigio dell’Italia», ossia dello Stato italiano, arriva a tollerare le sfilate navali della delinquenza cosmopolita sotto gli occhi del Prefetto, del Questore, del Comando marittimo e di tutte le possibili autorità civili e militari di una grande città come Napoli.

E, quel che è peggio, nessuno mostra di esserne avvilito o turbato. Tutt’al più, l’episodio susciterà risate maligne come davanti a una beffa bizzarra e ben riuscita. Invece è il sintomo, vistoso e recente, di una dissoluzione paurosa dello Stato, dei suoi poteri, dello stesso principio di legalità. Per anni e anni, un’opinione pubblica rimbecillita da un colossale rovesciamento di valori è stata indotta a parteggiare per i delinquenti, per i furbacchioni, per i “dritti”: a commuoversi sulle pene dell’assassino più che sulla sorte delle vittime: a interessarsi in modo morboso alla vita degli ergastoli e delle case di pena: a gioire ogni qual volta un collo di canaglia è riuscito a scampare al capestro come di una vittoria dell’umanità e del diritto. Insieme con questa congiura del sentimentalismo umanitario, ha lavorato, ben più consapevole dei fini da raggiungere, l’antifascismo organizzato con la sua continua glorificazione della violenza teppistica, dell’intimidazione sindacale, e addirittura dell’insurrezione di piazza culminata in precise vittorie politiche sullo Stato e contro lo Stato, per cancellare i cui effetti non basterà l’opera di una intera generazione. I casi recenti, e tuttora non risolti, del commissario di Polizia e del milite accusati di omicidio volontario per aver difeso lo Stato sulla piazza di Reggio Emilia. Il caso recentissimo, di Torino, dove due ladri hanno disarmato una guardia, bastonandola poi a sangue. Il rovesciamento, a Salerno, degli automezzi della Polizia, con successivo e immediato incendio, da parte di una mandria di “tifosi” imbestialiti, e l’ultima parata navale dei gangster del contrabbando contro la Guardia di Finanza, hanno i più diversi moventi, ma tutti sfociano nella

medesima dissoluzione dello Stato, del disarmo, psicologico prima ancora che materiale, dei suoi poteri e dei suoi naturali difensori. L’antifascismo vittorioso alza le bandiere nelle sfilate trionfali.

Paolo vi, l’italia e il comuniSmo

Saremmo ipocriti se, unendo la nostra voce al coro generale, dichiarassimo che l’elezione del Cardinale Montini al Pontificato ci ha rallegrato. Se è vero che un uomo, quando diventa Papa, richiede dai suoi simili un metro di valutazione diverso da quello usato fino al giorno prima, non è meno vero che le polemiche sostenute in passato dal “Borghese” contro il Cardinale Arcivescovo di Milano erano dettate da legittime preoccupazioni per quello che la sua azione poteva determinare in campo politico, e, in effetti, determinava. Come è nostro costume, abbiamo sempre guardato agli atti della Chiesa e dei suoi capi sotto il profilo strettamente politico, evitando di occuparci delle questioni religiose, che appartengono ad altro mondo, ad altri uomini, ad altri giornali. Perciò, non crediamo di aver commesso errore in passato, e soprattutto non sentiamo il bisogno di compiere un insincero atto di contrizione. Ciò premesso, vogliamo esaminare la situazione della Chiesa, e del mondo cattolico, quale si presenta oggi, dopo il Pontificato di Giovanni XXIII. In questi giorni si è detto e scritto molto sulla “linea giovannea”, e sull’impegno che Paolo VI avrebbe assunto di continuarla. Si è anche affermato che il primo messaggio del nuovo Pontefice rappresenterebbe, sotto questo profilo, la

conferma “in blocco” di tutto quanto è stato sin qui fatto, e la garanzia di una prosecuzione attuata entro i medesimi schemi. Tutto ciò è ingenuo e superficiale. In primo luogo perché, se volessimo analizzare quanto Giovanni Battista Montini ha detto e scritto negli ultimi due anni (compreso il messaggio di sabato scorso) troveremmo di che dar credito a tutte le tesi: nel linguaggio del nuovo Papa c’è l’autoritarismo di Pio XII, il pacifismo dell’«inutile strage» di Benedetto XV, il socialismo bianco alla Toniolo, e quel tanto di conservatorismo che non guasta, in un uomo proveniente da agiata famiglia borghese lombarda. Il primo a non credere nella importanza delle parole pronunziate in certe occasioni deve essere proprio lui, Paolo VI, che è giunto al Pontificato dopo un tirocinio di quarant’anni nella politica della Chiesa, e dopo avere assistito alle diverse evoluzioni delle alleanze vaticane: prima in senso filofascista, poi in senso filodemocratico, e ora in senso filosocialista. Mai come oggi, dunque, per la Chiesa e per i cattolici quelli che contano sono i fatti, al di là delle intenzioni, che possono essere buone, o pessime. E questi fatti ci dicono che la predicazione di pace di Giovanni XXIII, nonostante le buone intenzioni dello scomparso, si è risolta in una confusione colossale, che ha consentito ai comunisti di appropriarsi di simboli e concetti nei quali non credono, e ha lasciato i fedeli privi di una valida guida. Il cattolico, oggi, è completamente disarmato nei confronti del propagandista comunista: e se questo può lasciare tranquilli coloro che pensano soltanto alla salvezza dell’anima, chi invece si preoccupa anche della vita su questa terra, e della libertà, non può non allarmarsi.

La «predicazione giovannea», come piace chiamarla ai redattori dell’“Unità”, ha creato situazioni assurde; la gente semplice ha l’impressione che un Mindszenty sia d’impaccio alla Chiesa, e un Adjubei sia d’aiuto. In pratica, in tutto il mondo occidentale si comincia a pensare che il regime comunista non sia incompatibile con il libero esercizio della fede cattolica; e queste illusioni sono alimentate dal fatto che nei Paesi sovietici la Chiesa, o si sta adeguando attraverso i concordati di tipo polacco, o lascia andare avanti i “preti rossi”, come in Ungheria, o ritira i suoi uomini e li costringe al silenzio, come è accaduto con Szlipy. Se continuerà su questa strada, Paolo VI potrà trovarsi nella medesima, drammatica situazione, in cui si trovò il suo predecessore Paolo V allorché, nel 1606, i fatti lo costrinsero ad agire contro la Repubblica di Venezia, che non voleva riconoscere l’origine divina del diritto della Chiesa alla libertà e all’immunità. Scrive il Pastor che allora, in Venezia, «di pertinenza della Chiesa non rimaneva che l’interno dell’anima, tutto ciò che si esterna al di fuori di essa cadeva sotto il dominio dello Stato, anche il dir messa, il confessare e il predicare»: proprio come avviene oggi in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Russia, in Lituania, e in tutti i Paesi sovietici. Paolo V non ritenne di poter sopportare ancora gli oltraggi che i suoi predecessori avevano patito, e che avevano portato alla situazione descritta; ma, quando colpì con l’interdetto tutto il territorio della Repubblica veneta, il clero, ormai per buona parte conquistato dal potere politico, obbedì al Doge, anziché al Papa; il Doge diede anima alla resistenza alimentando lo scisma

con l’aiuto di fra’ Paolo Sarpi; e, alla fine, il Papato la spuntò, soltanto perché Francia e Spagna costrinsero Venezia a piegarsi. *♦*

Ora, Paolo VI conosce meglio di tutti noi questi pericoli, che sono conseguenza della “politica giovannea”, e non può non sapere che la Chiesa ha urgente necessità di ristabilire una distinzione fra vero e falso, fra bene e male, con tutte le conseguenze necessarie in campo politico. Al tempo stesso, però, è inutile nascondersi che il Vaticano, sempre bisognoso di appoggiarsi ad una grande potenza internazionale, oggi segue le direttive di coesistenza con il comuniSmo dell’America di Kennedy. Fino alla prima guerra mondiale, la Santa Sede si preoccupava soprattutto di conquistare, o riconquistare, gli ortodossi fedeli alla Chiesa di Russia. La Segreteria di Stato non concepiva altra direzione per il proprio espansionismo. Alla Conferenza di Genova, un delegato vaticano prese contatto con il comunista Cicerin; dopo di che, il 24 Luglio del 1922, undici missionari cattolici furono autorizzati a recarsi in Russia per distribuire soccorsi con la scritta: «Ai bambini russi, il Papa». Anche le rivelazioni segrete della Vergine di Fatima sembra che parlino soltanto della conversione del popolo russo. Oggi tutto è cambiato. I sovietici, nel corso della Seconda guerra mondiale, hanno stretto una solida alleanza con il clero ortodosso, che serve lo Stato comunista con il medesimo zelo con cui serviva, in passato, lo Zar. Nei Balcani, al momento dell’invasione da parte dell’Armata Rossa, e specialmente in

Romania, si ebbero parecchi casi di conversioni forzate dal cattolicesimo al culto ortodosso. In pari tempo, è sorto per la Chiesa di Roma il grande miraggio degli Stati Uniti. Pio XII fù il primo ad afferrare l’importanza della conquista di quel continente, e Paolo VI, che allora lavorava al suo fianco, deve senza dubbio ricordarlo. Possiamo essere certi che rammenta tutti i particolari, perché ormai è noto che la rapida vittoria in conclave è stata resa possibile dall’accordo concluso in precedenza con il cardinale Spellmann. La Chiesa Cattolica ha rinunziato a “liberare” i paesi dell’Europa sovietica, e in pratica li ha abbandonati al loro destino, trovando in questa decisione una coincidenza con le direttive di politica internazionale di Kennedy. Vaticano e Casa Bianca fondano il loro accordo su una visione che noi respingiamo, perché antieuropea, e quindi favorevole all’avanzata del comuniSmo nei nostri paesi. In pratica, questa visione dà già per scontata la divisione del mondo in due blocchi, e la Chiesa Cattolica, come dimostra l’accordo raggiunto con il sinodo di Mosca alla vigilia del Concilio “Vaticano II”, riserva a sé il settore americano, lasciando ai preti comunisti il rimanente.

*** Dati questi fatti, la Chiesa cattolica non può rimanere insensibile al fatto che il Presidente degli Stati Uniti sia un “papista”. Alla Santa Sede, in questo momento, si è interessati a

che il signor Kennedy venga rieletto nel 1964, almeno quanto lo sono gli intimi della Casa Bianca. E poiché Kennedy ha messo in gioco tutto il suo prestigio, tutte le sue possibilità di successo, puntando ogni cosa sulla carta della distensione, rinunziando a combattere il comuniSmo a Cuba e nell’Africa, tendendo la mano a Krusciov, la Chiesa non può fare altro che cercare di aiutarlo, con grande gioia di Krusciov. Giovanni XXIII lo aveva già fatto, e lo stava facendo, con iniziative da sbigottire i credenti più ingenui. Paolo VI probabilmente continuerà, anche perché il signor Kennedy sta per arrivare a Roma proprio per discutere con lui di tutto questo. Ci auguriamo tuttavia che il nuovo Pontefice non ripeta almeno uno degli errori politici del Suo predecessore: e cioè quello di sottovalutare la gravità dell’avanzata socialcomunista in Italia. Giovanni XXIII era molto sensibile a certe suggestioni oltramontane, e la Chiesa di Francia aveva riassunto il suo pensiero in proposito con la frase di Témoignage chrétien: «La apertura a sinistra è un fatto che riguarda l’Italia, non il Papa». È un errore. Infatti, se è vero che la Chiesa trae forza dall’appoggio di una grande potenza come gli Stati Uniti; se è vero ancora che l’Italia, ormai, è una potenza di terz’ordine; d’altra parte non è meno vero che, il giorno in cui l’Italia fosse divenuta marxista, il Papa sarebbe ridotto nelle stesse pietose condizioni, in cui si trovò Pio IX quando dovette fuggire a Gaeta, ospite dei Borboni. Anche se Togliatti ormai fa il clericale (il Borghese è l’ultimo giornale italiano che discuta liberamente la politica vaticana), il giorno in cui il potere finisse nelle mani del

PCI, Paolo VI non avrebbe altra possibilità che adattarsi al ruolo riservato al Metropolita di tutte le Russie. Diventerebbe un grande funzionario, incaricato di garantire la fedeltà dei credenti allo Stato, e avrebbe, in cambio, la libertà di dire messa, e di continuare a vivere nel Vaticano. Questo è il punto. L’Italia conta poco, ma il Papa non sarà più il Papa, se l’Italia e Roma diventeranno comuniste. Giovanni XXIII, nella Sua santa ingenuità, non se ne era reso conto e, come rivelò uno spretato in un articolo di esaltazione di monsignor Capovilla, considerava «tutti suoi figli». Socialisti e comunisti compresi. Noi attendiamo di vedere se Paolo VI vorrà ripercorrere, anche in questa direzione, la strada del suo predecessore.

LE SIGNORE NELLO SPAZIO

Adesso che i russi hanno sparato in aria la prima donna, speriamo soltanto che gli americani resistano alla tentazione di emularli. E che ci sia risparmiata, dopo la nobile gara dei topi e delle scimmie, e poi quella dei colonnelli cosmici, anche la rincorsa di ciarliere matrone, di pulzelle, di vedove e di fidanzate spaziali, magari organizzata per categorie. Cui potrebbe, suprema jattura, tener dietro una ondata di infanti cosmici opportunamente ammaestrati, fino alla categoria lattanti. Quale padre, quale madre dell’unione Sovietica negherebbero il prestito del loro tesoro a Nikita Serghievic, se questi glielo chiedesse per aprire ai fanciulli le vie dello spazio? Stavolta, con la donna, la qualità dello spettacolo è stata subito chiara. E altrettanto chiara la qualità del pubblico; si sono incontrati e capiti a prima vista. Mentre lei salutava i popoli del Medio e dell’Estremo Oriente e quelli dell’Africa, lui, il colonnello Bikovsky, si occupava per parte sua della Mongolia, del Viet-Nam, della Corea, del Laos e della Scandinavia. I due perniciosissimi chiacchieroni dello spazio avevano appena cominciato il loro dialogo, intercalato dalle monotone recitazioni del quaderno dell’attivista, che qua sulla terra cominciava l’inondazione dei giudizi e degli applausi.

*** Se fosse stata davvero Ludmila, sarebbe piaciuta forse di più, sulle prime. Ludmila, o Sonia, o Natascia, si dice, per il fascino slavo. Valentina deluse, alle prime notizie; e tutta la grande stampa nazionale sentì il dovere di scusarsi per avere preannunciato una Ludmila che poi marcava visita. Spiegò poi, la stampa nazionale, che Valentina non era meno russa di Ludmila e l’irresistibile talento esotico la familiarizzò immediatamente. Fu, per tutti noi, Valia. Ci parlarono in molti della sua «bocca sorridente», della sua «fronte carnosa». Il corrispondente di “Paese Sera” si sentì addirittura impegnato a dimostrare che è bella. «Particolarmente interessante», egli definì, perdendo completamente le staffe, una «immagine in costume da bagno: la ragazza vi appare solida, ben costruita, muscolosa, ma anche dotata da una certa armonica linea d’insieme». Arduo volo che ha impegnato, come si vede, tutte le energie del corrispondente da Mosca, Paolo Pardo. Intanto Valentina girava e girava, cantava canzonette, ascoltava Toma a Surriento e Mamma, salutava Krusciov e il popolo cinese, cumulando tutto quello che c’è di disgustoso in un’èra che è contemporaneamente quella della tecnica, del comuniSmo e delle canzonette. E sulla terra si scatenava il coro dei plauditori. «Debbo recarmi presto in Russia, e le assicuro che andrò da Krusciov e gli chiederò di essere addestrata per il volo spaziale», annunciava Sophia Loren non resistendo neppure in questa occasione all’abitudine di tirare acqua al mulino.

Maria Bellonci ha parlato di «liberazione della donna dallo stato millenario di soggezione», seguita immediatamente da Linuccia Saba, che non ha scritto né di Lucrezia Borgia, né di segreti gonzagheschi ma soltanto un motto pubblicitario per una fabbrica di succhi di frutta; e che, tuttavia vien ritenuta non meno meritevole di citazione. Linuccia Saba, dunque, parlava di «abbattimento di un limite di barriere secolari». Altre simili banalità uscivano dalle bocche di personaggi minori, quali le signore Erminia Romano, Lanza Spagnoletto e Gabriella Nicolai, oscure ai più e alla storia. I giornali comunisti gareggiavano nell’inventare titoli e definizioni («La Èva dello spazio», «La stella fra le stelle» ecc.) mentre un romanziere borghese come Dino Buzzati vergava frettolosi madrigali di cui forse, un giorno, si vergognerà. Se il tipo del pubblico e degli applausi bastano a qualificare uno spettacolo, non occorre perdere molto tempo. Ci troviamo davanti a una colossale trovata propagandistica; che se non aggiunge nulla, in sostanza, alle prove spaziali già fatte, ha il vantaggio di colpire le fantasie intorpidite. La donna nello spazio non aggiungeva nulla neppure alle capacità e all’eroismo e alla gloria del genere femminile, ma è stata salutata addirittura come l’eroina di una nuova èra. Qualcuno vi ha visto invece la prova che nell’URSS «c’è un regime che funziona», i comunisti hanno salutato l’avvenimento come una vittoria domestica del loro partito: i giornali borghesi e cattolici hanno partecipato, lieti e festosi, all’atmosfera da circo equestre che si era stabilita su tutto il globo per salutare Valentina, l’amazzone cosmica sparata in aria per le esigenze propagandistiche di una

dittatura. E alla quale può andare la nostra solidarietà e la nostra sportiva ammirazione, anche se i limiti dell’impresa ci sono ben chiari. Anche se rifiutiamo di associarci all’esaltazione indiscriminata, alla glorificazione del coraggio dell’azzardo, al coraggio dell’uomo-proiettile, un coraggio da cavia sperimentale, passiva e rassegnata al suo destino. Anche se seguitiamo a credere che la cosiddetta èra spaziale e le farneticazioni su una conquista degli spazi che sarebbe prossima siano in realtà una gigantesca esplosione di demenza, di quelle che son solite salutare le grandi civiltà in dissoluzione. Fra la metà del secolo scorso e il principio del nostro, ci furono alcuni scrittori, pochi, inascoltati, ma con l’occhio lungo, che se la presero con la tirannia della stampa giornaliera e periodica, formulando le più nere previsioni sul suo futuro contributo al rincretinimento del genere umano: si chiamavano Balzac, o Barbey d’Aurevilly, o Wilde. Oppure, erano sani e dichiarati reazionari come Léon Daudet, che in pieno orgiastico trionfo del Dio Progresso e della Dea Scienza si permise il lusso di irridere e sghignazzare sulla presunzione rumorosa del primo e sui fasti dell’altra. A rileggere oggi le loro pagine, vien quasi da trattarli d’ingenui, tanto le loro più sconsolanti anticipazioni sono state sopravanzate da un’idiozia opaca e compatta, invincibile ormai, perché dotata del più imponente schieramento di strumenti e di mezzi che mai un’esigua falange di uomini intelligenti abbia messo a disposizione della generalità dei cretini. Sono quelli che nel ridicolo linguaggio d’oggi si chiamano i “veicoli di cultura di massa”. Comodamente assisa su questi celebrati “veicoli”, la

massa umana ha preso l’abitudine di sentirsi perennemente al circo equestre. È stata un’operazione colossale, di cui si stenta ancora a percepire i confini. Il gareggiare simultaneo di enormi apparati come la stampa quotidiana e quella illustrata, le grandi agenzie, il cinematografo, la fotografia, la televisione e la radio ha trasformato in pochi anni uomini e popoli che, bene o male, avevano proprie individualità e abitudini, gusti e divertimenti sperimentati da secoli, fedi e convinzioni diverse, in una sterminata plebaglia informe e eccitata, puerile, assetata di novità mirabolanti e triviali, ai cui occhi affaticati dalle troppe immagini, alle cui orecchie frastornate dai troppi suoni e rumori occorre imbandire a getto continuo spettacoli dozzinali e esaltanti. Di fronte a questi rumori di grancassa, l’appello al raziocinio, alle facoltà critiche, all’intelligenza, riesce vano e inutile. L’umanità è regola, perché nessuno se la sente di contrastare i gusti delle masse. E infine, c’è il ricatto della scienza, che sarebbe superiore, con le sue conquiste, alle frontiere: universale, astratta e sovrana come il progresso, come l’umanità, come questi sonori e riveriti ragli che da un paio di centinaia d’anni rimbombano sulla terra. Oggi, la tecnica del circo è stata messa al servizio di un’ideologia che, logora nelle idee, contraddittoria nei risultati, e tuttavia decisissima a vincere la sua battaglia di conquista mondiale, ha trovato finalmente la chiave per aprire il cuore delle turbe. Con tutto il rispetto per la signorina Valentina Vladimirovna Tereskova, sottotenente dell’Armata Rossa e prima

astronauta del mondo, lo spettacolo che costei ci ha offerto non differisce molto, se non per la lunghezza del volo, dalle esibizioni delle ragazze dei circhi; con la differenza, semmai, a vantaggio di queste ultime, che gli artificieri incaricati di spararle in aria erano forse meno scientificamente preparati e perciò meno degni di fiducia dei tecnici (tedeschi, come si sospetta) che hanno sparato Valentina su per la volta celeste. Valentina e i suoi compagni maschi hanno scommesso sull’esattezza dei calcoli e la bontà dei congegni. Questi e quelli sono ormai messi a punto, e perciò le avventure sono a lieto fine. Ad altri andò male, se sono veri i dialoghi captati a suo tempo, di cosmonauti russi lanciati in aria e poi perdutisi negli spazi con le loro macchine distrutte, in assurde tragedie che soltanto il silenzio di una dittatura spietata è riuscito a nascondere. Ma il coraggio dell’azzardo e lo spettacolo da circo equestre si sono messi, questa volta, al servizio d’una propaganda astuta e spregiudicata. Si sono ammantati dell’eroica veste dei pionieri della scienza e del progresso: rivestono ora, addirittura, perfino le piume di struzzo dell’emancipazione femminile. L’«Operazione Valentina», insomma, è riuscita, complice l’unanime idiozia del mondo intero, anche di quello anticomunista. Nulla di nuovo essa ha segnato dall’unico punto di vista che interessa: quello della strategia intercontinentale, dei congegni di puntamento, della missilistica a lungo raggio. Nulla di nuovo, neppure, in quell’ipotetica “conquista degli spazi” illusoria e impossibile, estranea ai fini dell’uomo e capace soltanto di stravolgergli il cervello in un demente orgoglio. Nulla di nuovo in nessun senso. È stata soltanto una delle enormi

favole che si raccontano a un mondo infantile per fargli bere la medicina del comuniSmo. Favole, non occorre dirlo, che non hanno mai la fine lieta delle vecchie favole di un tempo.

LO STATO SUICIDA

Per un carabiniere rinviato a giudizio

Caro Tenente Vilardo, leggo che anche Lei, insieme col tenente Rotellini comandante i carabinieri di Egna e altri otto sottufficiali e militi dell’Arma, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver maltrattato e percosso, ai tempi degli attentati del 1961, alcuni dei gentiluomini sospettati (e quanto ben fondati fossero quei sospetti si vide!) di capeggiare l’organizzazione terroristica dell’Alto Adige. La notizia, se mi addolora, non mi stupisce. Lenta e sgangherata, la macchina dello Stato arriva, prima o poi, ma arriva implacabile, se si tratta di colpire le forze dell’ordine. Coi farabutti, con le canaglie comuniste, coi dinamitardi sudtirolesi, lo Stato invece si concede distrazioni e indulgenze. Quegli esemplari cittadini, per esempio, che a Genova nel 1960 rovesciarono e incendiarono alcuni automezzi della polizia, malmenarono e bastonarono agenti e carabinieri, giungendo a tuffarne alcuni nelle acque d’una fontana (tanto, sapevano, gli eroi, che c’era ordine di non sparare) sono andati pochi giorni fa gloriosamente assolti, o amnistiati o, se condannati, con pene talmente miti da incoraggiare alla ripetizione dell’esperienza;

da far concludere che, pur di avere le spalle coperte da opportune giustificazioni e amicizie, il mettere a soqquadro un’intera città, alzando barricate, incendiando camionette e bastonando poliziotti, siano azioni lodevoli e meritorie, da additare come esempi ai fanciulli. Mentre il commissario e il milite che si sentirono in dovere di difender lo Stato in piazza, a Reggio Emilia negli stessi giorni, subiranno il loro bravo processo con l’imputazione di omicidio preterintenzionale il primo e, il secondo, addirittura di omicidio volontario! Ruggente leone coi suoi difensori e tremante coniglio coi suoi nemici, lo Stato ha dunque messo le mani anche su di Lei. Anche Lei conoscerà dunque i fasti d’un processo penale, tenente Vilardo, anche se col ritardo di alcuni anni che è proprio della nostra invidiabile procedura penale, (in Inghilterra, il dottor Ward è già davanti ai giudici: da noi, ce la prendiamo più comoda). Non se l’aspettava, vero? Credeva, Lei, di poter campare tutta la vita mandandoci gli altri, sulle panche degl’imputati: gl’idealisti attentatori, i poveri ladri, gl’incompresi rapinatori vittime della società borghese, i patetici satiri che afferrano le bambine e le trascinano dietro i cespugli (vittime, anche i satiri, dei pregiudizi di un paese sessualmente arretrato); e tutti gli altri, vittime delle prepotenze Sue e dei Suoi colleghi. Credeva, dico. E invece, caro amico, eccola lì: «Chi la fa, l’aspetti», dice il solito proverbio cretino forgiato dalla saggezza popolare. Adesso tocca a Lei. E varrebbe davvero la pena di organizzare gite collettive, a spese dei sindacati, magari, per portare al Suo processo gli esponenti delle varie categorie che hanno avuto a

che fare con le prepotenze Sue e dei Suoi colleghi (ma forse, sarebbe l’ora di chiamarli complici): sarebbe una bella scena. Tutti dovrebbero poter assistere al Suo ludibrio e alla loro vendetta, godendosi le gioie di una vera democrazia come questa sedente. Ci saranno, si può giurarlo da ora, i comunisti: ci saranno gl’invitati dei giornaletti di Innsbruck; e ci saranno, (perché no?) magari già amnistiati, assolti, trionfalmente liberi, i signori Klotz, marito e moglie, i due Kager, il Fior Bertol, Carlo Tallmann e Enrico Resch che, se il mio taccuino di allora non m’imbroglia, furono i primi a farsi acciuffare da Lei e dai Suoi. Ricorda, tenente? Non vorrei nuocerle con questa lettera, aggiungendo ai Suoi guai giudiziari anche il sospetto d’aver avuto rapporti con una nota «canaglia reazionaria» quale io sono. Ma non saprei dove trovarla altrimenti: l’avranno trasferita, e il trasferimento sarà equivalso ad una punizione. Giurerei anche che la Sua promozione si farà aspettare un bel po’. L’antipatia che Lei deve ispirare ai politicanti che comandano adesso dev’essere direttamente proporzionale alla simpatia che io provai per Lei appena la vidi, nel caldo pomeriggio del 15 Giugno 1961, davanti alla casermetta di Appiano. Per questo, dico che saperla candidato ad un processo non mi stupisce per nulla. Mi meraviglierei, semmai, del contrario. Ricordo benissimo quel giorno. Avevo vagato in macchina per la strada del Brennero, fra Egna e Salorno, dove era morto nei primi attentati lo stradino Postai. Poi ero risalito fra i vigneti e i campi di meli intorno al lago di Caldaro, fino a Termeno, ad

Appiano: i placidi cittadini che ora sciamano verso il meritato riposo non sanno che razza di posti siano quelli di cui parlo: dove tutto e tutti, dal maestro al prete, tramano contro l’Italia e la offendono, e dove lo Stato s’incarna soltanto nella divisa del carabiniere. Che facce, in quei giorni, tenente. Era appena fallito l’attentato al deposito militare di munizioni di Riva di Sotto, nel territorio della Sua tenenza, quando arrivai ad Appiano. Chiesi del tenente e m’indicarono Lei: stava scendendo dalla sua automobile personale con cui rimediava (come tanti, come tutti gli ufficiali dei Carabinieri, in quella zona, nonostante la proibizione regolamentare) alla penuria di mezzi che lo Stato vi metteva a disposizione; Lei scese, tranquillo e tarchiato, in un abbigliamento che lì per lì mi fece uno strano effetto: vestito, mi pare, con un paio di calzoni estivi e una maglietta celeste. Una tenuta più da “fusto”, se vogliamo (e l’associazione del vestiario con la macchina completava l’impressione) che da tenente dei Carabinieri. Mi piacque la Sua energia tranquilla, il Suo modo di trattare i Suoi uomini, di ricevere me, forestiero e curioso in quel putiferio. Mi piacque, infine, nonostante le mie prevenzioni per i “fusti”, che lo Stato, ad Appiano, fosse rappresentato da un giovanotto robusto, con la maglietta celeste e la macchina veloce. Mi piacque la spigliatezza fuori ordinanza del Suo atteggiamento, che di tutto parlava meno che di rassegnazione, di tristezza o di povertà. Me ne andai da Appiano rallegrato e sollevato. Ebbi modo di rallegrarmi altre volte, nonostante la situazione non lieta, conoscendo altri ufficiali giovani, Suoi colleghi delle tenenze o dei battaglioni mobili di Roma, di Padova, che incontrai lassù.

Trovai gente sveglia, preparata, decisa. Trovai un giovane colto e elegante, portatore d’un antico nome toscano, cui domandai, sorpreso: «Ma insomma, tenente, chi glielo fa fare, a Lei, di stare nei Carabinieri con l’aria che tira? Potrebbe fare tante cose, il professionista, l’industriale, guadagnare un sacco di quattrini...». E quello, calmo e tranquillo, mi rispose: «Vede dottore, in casa mia, siamo stati sempre soldati; in altri tempi, sarei andato in cavalleria. Ma uscito da Modena, mi son detto che il nemico, stavolta, era all’interno e che il modo migliore di servire lo Stato era arruolarsi nei Carabinieri». L’ho rivisto poco tempo fa. Hanno “punito” anche Lui, mandandolo in una tenenza molto meno importante di quella dove la conobbi. Lo Stato, che Vi tradì allora lasciandovi soli, senza mezzi per comprare le informazioni, senza radiotelefoni per comunicare velocemente, senza automezzi per potervi muovere alla svelta, senza rinforzi con cui prevenire ciò che da tempo avevate previsto e segnalato a chi non Vi diede retta: lo Stato che non Vi aiutò prima, Vi punì poi per averlo servito, Vi espose all’ira e alle vendette dei suoi nemici (fossero gli atei comunisti di Reggio Emilia e Genova, o i supercattolici del Tirolo del Sud), e Vi tradisce una nuova volta mandandovi a giudizio con l’accusa di maltrattamenti, percosse e omicidi. Forse qualcuno di Voi potrebbe davvero concludere che è inutile resistere, e che tanto vale cercare per se stessi e le proprie famiglie migliori condizioni di vita e piantare questa baracca che si sgretola, lasciandola al suo destino. Non dico che Lei la pensi così: ma qualcuno fra Voi, o nella polizia (e non sono sempre i peggiori) comincia a pensarla davvero in questo modo.

Per questo Le ho scritto, tenente Vilardo, per pregarla di aver pazienza, di tener duro. Questa pappa, questa poltiglia, questo scolo di fogna che è l’Italia del centrosinistra, prima o poi, passerà. Dopo il disordine, finisce sempre per ritornare l’ordine. E è sempre opera di poca gente, di poche volontà, di pochi fermi caratteri che non si rassegnano. Saran trenta o quarantamila persone che se ne prendono ancora cura e cruccio in questo paese spappolato; ma più passano i giorni, più mi convinco che bastano. Vada tranquillo al Suo processo, tenente Vilardo. In quell’aula, oltre alle canaglie che verranno sghignazzando a godersi la scena, ci saremo anche noi; e non è ancora detto che debbano proprio esser sempre quegli altri a sghignazzare. In questo augurio che faccio a Lei, ai Suoi colleghi (e, se permette, anche a me stesso) Le porgo i più affettuosi auguri, e Le stringo la mano.

Sudiciume a Trento

Trento, Agosto

Con quest’ultimo spettacolo di demenza, la democrazia italiana ha davvero superato se stessa: chi è venuto a Trento, chi ha varcato le soglie della torrida aula dove i dieci Carabinieri sedevano sulla panca degli accusati, e terroristi che hanno messo a soqquadro una intera regione si prendevano il lusso di accusarli come “aguzzini”, recitando la parte dei martiri, può dire di aver sperimentato con una evidenza fisica rivoltante a quale punto di smarrimento e di abiezione sia giunto questo stato che si umilia, si mutila, si schernisce da sé, sotto gli occhi gongolanti dei suoi nemici, esterni e interni. Il processo era perduto in partenza. Nessuna amnistia, nessuna assoluzione, nessuna formula consacrata in una sentenza di tribunale potranno cancellare la lugubre impressione suscitata dallo spettacolo di uno stato che processa se stesso, che offende se stesso, che rinvia a giudizio i propri uomini perché l’hanno difeso con l’energia che le circostanze e le necessità richiedevano: uno stato che nega ascolto e credito ai suoi servitori sperimentati e fedeli, come i Carabinieri che nel giro di

pochi giorni riuscirono a identificare prima, a stroncare poi, le file di una organizzazione terroristica efficiente e addestratissima. C’è chi ha preferito credere a loro. C’è chi ha raccolto le loro accuse e le ha tramutate in una sentenza di rinvio a giudizio. C’è chi ha concesso la necessaria autorizzazione a procedere per questo giudizio. Non ci interessa neppure conoscere quali magistrati, quali funzionari, quali sottosegretari, quali ministri hanno consentito. Non ci interessa neppure sapere se erano, come al solito, in buona fede. Siamo stufi anche della buona fede: siamo stufi di tutto un clima fetido e vile, che nel processo di Trento si è eretto a spettacolo, ha trovato con la spontanea aderenza di una simbologia elementare, ma vivissima, i suoi protagonisti, i suoi attori, le sue parti. Stabilite certe premesse, recitato il vergognoso prologo del rinvio a giudizio, tutto è diventato di una ripugnante naturalezza. Tutto è apparso animato da una sua grottesca e miserabile logica. Logico, che lo stato abbia vietato ai dieci Carabinieri di indossare l’uniforme durante il processo: sarebbe stato più facile agli avvocati di parte civile tuonare contro di loro, reclamando (anche a costo di sostituirsi all’iniziativa del Pubblico Ministero che non sembrò neppure prendersela troppo per l’usurpazione delle sue prerogative) che si aggravassero i capi di imputazione e si allargasse quanto più possibile il processo con la ricerca di nuovi accusati. Logico, che l’Avvocatura dello stato, incaricata della difesa, si sia tranquillamente limitata, in sede istruttoria, a chiedere l’applicazione dell’amnistia come qualsiasi procuratore legale svogliato farebbe per il ladro di galline affidato alle sue

cure; logico, che di fronte al fazioso, vendicativo schieramento dei sette avvocati di parte civile, lo stato si sia limitato a contrapporne uno solo dei suoi, pieno di buona volontà, ma più versato nella procedura civile che in quella penale; logico, che il tenente Vilardo abbia dovuto nominarsi due avvocati di fiducia, se ha voluto garantirsi una difesa degna di questo nome; logico ancora, se vi pare, che questi due avvocati, Andrea Mitolo e Gianfranco Corradino, siano, nella politica civile, uomini di destra; e altrettanto logico, che al tavolo dietro il loro, gli avvocati di parte civile fossero tutti parlamentari o dirigenti o esponenti della Südtiroler Volkspartei, come il senatore Sand o gli avvocati Gartner e Nicolussi, oppure comunisti, come l’avvocato Gallo di Vicenza e l’avvocato Canestrini, consigliere regionale e comunale del PCI. Logico, infine, che l’unico prete immischiato nella vicenda sia stato un testimone a carico, anche se alla fine ha tentato di togliersi dai guai recitando la vecchia solfa del relata refero e coronando l’opera con la stupida, untuosa e davvero pretesca iniziativa di esortare quei fior di galantuomini dei terroristiaccusatori a “perdonare”, in nome della solita carità cristiana, ai loro “carnefici”. «Questo processo», ha detto uno degli avvocati difensori, «è il maligno prologo al processo che si svolgerà a Milano il 9 Dicembre», quando i centosettanta terroristi attualmente incarcerati, di cui gli otto accusatori di Trento sono l’avanguardia attiva, saranno giudicati per le loro gesta di due anni fa: gli avvocati di parte civile, che a Milano saranno difensori, hanno già tentato, qui a Trento, di ottenere la

«connessione» dei due processi, mirando a far sedere sullo stesso banco di accusati terroristi e Carabinieri: hanno tentato di mettere sullo stesso piano i rapporti, gl’interrogatori e le denunce delle forze dell’ordine e gl’insulti faziosi delle canaglie al plastico. A Milano li udremo sbraitare che le confessioni furono ottenute con le sevizie e con le torture. A Vienna, e a Innsbruck, qualcuno infine potrà dimostrare che la nuova ondata di attentati terroristici non è che una giusta reazione alle “crudeltà” della polizia italiana.

*** E ancora, il processo di Trento è il “maligno prologo” ad altri spettacoli che vedremo presto: il processo agli agenti di pubblica sicurezza, detenuti per aver usato le armi in difesa dello Stato a Reggio Emilia, per esempio. E non siamo che al principio: perché, aperto il varco, molti appaiono desiderosi di precipitarvisi dentro e di allargarlo. Non è senza significato che comunisti e austriacanti alto-atesini si siano trovati fianco a fianco. Hanno i loro buoni motivi per agire così. Gli austriacanti, si capisce: ma anche i comunisti non esiteranno a profittare della magnifica arma legale che, con questo precedente, lo Stato italiano ha messo loro in mano perché lo offendano e lo colpiscano nelle sue ultime e più valide difese. Coloro che reclamano da anni il disarmo delle forze di polizia sanno di poter ottenere con questi mezzi un disarmo psicologico e morale ben più efficace e definitivo di quello che potrebbe essere sancito con un decreto qualsiasi.

Ecco perché, in questa miserabile vicenda, tutto si spiega con una esemplare semplicità: tutto, fino alle più remote conseguenze. Si spiega, per esempio, quel che ciascuno può trovare nella Gazzetta Ufficiale del 12 Agosto scorso, dove il Vice commissario del Governo della Regione Trentino-Alto Adige «restituisce» per mezzo di un decreto, al signor Vinatzer Francesco che il 30 Maggio 1935 aveva chiesto di modificare il suo nome di famiglia all’italiana, in «Vinazza», il suo pregevole cognome originario di Vinatzer, deplorevolmente messo in soffitta per ventott’anni; glielo concede per lui, ormai ottantenne, ma soprattutto per il suo giovin rampollo nato l’anno scorso, e battezzato con l’augurale e doppio nome di Franz Josef. In uno stato come questo, è perfettamente naturale che nascano dei Cecco Beppe e che i loro padri desiderino per loro un sano cognome austriaco. Dante Alighieri leva ancora il braccio ammonitore, non lontano dal palazzo del Tribunale. Dall’altra parte della città, i turisti curiosi possono ancora ammirare l’aula dove Cesare Battisti e i suoi compagni furon dannati alle forche «con dimenticabile inopportunità, dalla cionondimeno onoranda canizie di Francesco Giuseppe», come scrisse in uno sfogo di malumore quel vecchio fusto di Ferdinando Martini.

L’Italia democratica s’incarica di far la parte della nemesi storica: coi Cecco Beppe, adesso: col ripristinato potere temporale, da qualche lustro. Con tutti gli atti di vergogna e di viltà che ci hanno umiliato e ci umiliano, giorno per giorno. Il

processo di Trento non ci apparirà soltanto il prologo a vicende vergognose future, ma anche il maligno epilogo di un ventennio di storia italiana. È ora di trarre le conclusioni. E di ricordare noi, uomini di questo foglio libero e i Carabinieri, e i loro difensori, e quegli italiani che hanno scritto a Trento, agli avvocati e agli accusati l’espressione della loro solidarietà; e tutti gli altri uomini decisi a non subire per l’eternità questa abiezione, che siamo soli. E che soltanto da noi, non ai poteri ai quali troppo stoltamente e ingenuamente abbiamo concesso la nostra fiducia può venire la nostra salvezza. P. S. - Mai Combattenti trentini dov’erano? E i Volontari, i Mutilati, l’istituto del Nastro Azzurro, gli Ufficiali in congedo? Erano tutti in ferie? Possibile non capire che se c’era un posto da affollare, coi nastrini e i distintivi sul bavero della giacca, era il recinto per il pubblico del Tribunale di Trento, che invece era pieno di amici e parenti dei terroristi? 0 bisogna concludere che nastrini, distintivi e labari di quelle onorate confraternite combattentistiche son cianfrusaglie buone soltanto per le sfilate del 24 Maggio e delle altre feste stabilite dal calendario delle celebrazioni? Il 24 Maggio, oggi, si celebrava qua. Vergognatevi, tutti.

E ADESSO è ARRIVATA LA MACELLAZIONE DEI CORPI UMANI

“Dona i tuoi organi”, l’avrete visto, nelle televisioni di governo, il bieco cartoncino che il corsivetto inglese fa apparire innocente come l’invito a un tè. Delle tante metafore inventate nei secoli per velare la morte, questa è la più bugiarda, perché induce alla morte. Alla morte propria, come Alberto F., 12 anni, di Villafranca di Verona, che si è sparato alla testa per donare i suoi organi, Andrea B. di Torino, e S.C. di Marsala, 15 anni, che si è impiccato. Poveri ragazzi. Innocenti sensi di colpa, un cattivo voto a scuola, la prima disillusione d’amore, li persuasero a redimere un ipotetico fallimento col grande gesto eroico e altruista. È sui meno difesi, sulle anime semplici, che la propaganda vigliacca coglie i suoi trionfi. Tanto da indurre la benemerita coraggiosa Lega Nazionale contro la Predazione di organi e la morte a cuore battente, che opera da Bergamo, a un appello ai Provveditori, affinché facciano cessare l’abuso mal dissimulato del potere scolastico, e i ragazzi siano lasciati nella pace della aspettativa di vita propria alla loro età. Per maggior crudeltà occorre aggiungere. Il sacrificio dei tre poveri ragazzi riuscì, ai fini che se ne ripromettevano, vano. Non sapevano che per eseguire l’invito ministeriale bisognava essere morti e vivi allo stesso tempo. La repubblica ha adottato e si appresta ad

imporre, col silenzio-assenso al prelievo - una legge che è stata votata al Senato nel silenzio e nell’ignoranza di tutti - un suo concetto di morte già smascherato come finzione dalla scienza medica internazionale: “la morte cerebrale”, in cui il cuore continua a battere; senza di che gli organi bramati, prenotati e già assegnati dalle centrali distributive, diventano carne corrotta e inservibile. L’azienda di macelleria e distribuzione di organi umani che la nuova legge prepara è azienda statale. Lo Stato, che già assicura tante funzioni con la perfezione, l’onestà e la competenza che già conoscete, si assume ora questa. La definisce una legge fatta “su misura”. Detta il tipo di “morte” auspicato, e designa, o crea di nuovo istituti da quello detto Superiore di Sanità al suo Consiglio, alle agenzie di prenotazione e smistamento, agli ospedali, alle “banche”, alle cliniche. Un circuito gigantesco, cui la ripugnanza di altri stati europei a entrare in concorrenza già garantisce vertiginose, impensabili vie di rifornimento, già bene identificate, nel mondo dei poveri. Quei tre ragazzi credevano che bastasse fornire cadaveri “normali”, in cui le due primarie funzioni vitali, respiratoria e cardiocircolatoria, fossero insieme cessate. Mentre l’azienda statale in via di costituzione pretende corpi qualificati e idonei di persone in coma, carni ancora rosee e tiepide, respirazione “ausiliaria”, cuore che batte, arti che si muovono. Che potranno tornare a muoversi, se qualcuno accanto a loro troverà l’intelligenza, la prontezza e l’energia necessarie per sottrarsi ai bisturi in agguato. Come accadde al diciottenne Martin Banach, di Düsseldorf. I cui genitori, udito per telefono da Napoli dove il ragazzo era in vacanza, il raccapricciante annuncio: «Qui

l’ospedale Cardarelli, suo figlio è gravemente ferito, non c’è più nulla da fare, ha la tessera di donatore?», intimarono che nessuno lo toccasse, noleggiarono un aeroplano e piombarono con una dottoressa amica e energica nell’ospedale dove gridando e sfondando muri di complici, primari, medici e suore, impegnarono «una lotta disperata contro il prelievo», e riportarono il loro Martin nella sua patria e città, dove uscito dal coma e dall’ospedale, è tornato alla prediletta pallacanestro. È la morte altrui. La morte dei propri cari. «Dona i tuoi organi», lessero, e con quale straziante buona volontà dibatterono tra loro i genitori di quel piccolino che fu fatto nascere a questo solo scopo. L’illusione altruista consolava quei genitori di una vittima, e vittime esse stesse, di una dimenticanza. Quando vidi il titolo del “Resto del Carlino” del 30 Gennaio «Gabriele dona il cuore», mi sentii travolgere; mi sentii stritolato da un’ipocrisia raccapricciante più di un delitto. E poi «il piccolo Gabriele è morto, ma il suo cuore non cesserà di battere, regalerà la vita a Maurizio, un bambino di Roma nato ieri ...». il falso infame rinverdisce l’antichissimo “mors tua vita mea”, ridorato a suo tempo nei blasoni dei Gesuiti; ridorato a nuovo si ripresenta: dolente e innocente, con la morte che ridona la vita. Favola turpe e oscena, perché nel buio delle sale di “rianimazione” che una sadica ironia promuove a laboratori di tortura e sfruttamento degli esseri umani in coma, si attuerà il sacrificio programmato di esseri che non si possono difendere, eppur ancora, talora, salvabili, agli interessi “scientifici” della sperimentazione “in vivo”, gloriosamente passata dal secolare martirio degli animali a quello degli umani; alle esperienze e

sviluppi della “chirurgia sostitutiva”, sull’estrema frontiera dove la scienza perde i pepli solenni e indossa le vesti tutte moderne del macabro business: l’espiantistica e trapiantistica pubblica, fantastico prolungamento della farmacologia e della medicina di Stato, di cui ogni giorno, letteralmente ogni giorno che passa, offre nuovi svergognati esempi. Dall’aula del Senato, la nuova Legge n°91 “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti”, approvata il 31 Marzo, esce sinistro un groviglio di orrori che conduce all’esproprio totale dei corpi, anche di quelli che si siano illusi di dichiarare la propria opposizione. L’equazione “silenzio-assenso” è criminale in sé, uccide i diritti dell’individuo e della libertà del pensiero. Il cosiddetto “silenzio-assenso informato” non informa affatto, ma continua a confondere il prelievo di tessuti (a cuore fermo) col prelievo di organi a cuore pulsante. Appena il cittadino perde coscienza, interviene lo Stato e lo espropria del suo corpo. Fin dalla nascita, i cittadini saranno schedati e divisi in favorevoli (i buoni) e contrari (i cattivi) e che le tabelle siano già pronte, ne ha dato prova con raccapricciante ironia il Presidente della Camera Violante, la cui proposta di escludere dal trapianto di organi coloro che si siano dichiarati non disposti a farseli prelevare, rivela sentimenti che dovrebbero escludere chi li manifesta da qualsiasi pubblica dignità. Ha mille volte ragione la benemerita Lega Nazionale contro la predazione, a prevedere concretamente una criminale schedatura e divisione dei cittadini tra i favorevoli e i contrari all’etica di Stato. Chi rifiuta la schedatura, per paura, cattiva informazione, o errato calcolo sulle sue possibilità di sopravvivenza, è già considerato

“donatore” dall’articolo 4. Le mamme dovranno proteggere i neonati dichiarando all’ASL insieme col nome, se intendono che, dandosene il caso, il loro piccolo sia da fare a pezzi o no. Fate bene attenzione italiani. L’esclusione dei familiari è il vero profondo obiettivo di questa legge infame; la legge cancella il diritto autonomo di opposizione della famiglia. Non sarà più possibile proteggere i propri cari da pratiche criminali che trasformano stanze di ospedale in luoghi di misteriose torture, con le aggravanti della confusione, della sporcizia, della incompetenza e della corruzione di cui questo Stato, privo di dignità e pudore, ci dà quotidiana, disgustosa prova. Neppure quanti dichiareranno volontà contraria al prelievo saranno con certezza risparmiati: autopsie finte o vere, illegali o legali potrebbero essere praticate nel chiuso delle sale operatorie. Qualche medico le teorizza a cuore battente e le pratica impunemente. Da quando pubblicai, il 31 Gennaio, un breve commento alla predazione del cuore del piccolo Gabriele, ho raccolto le lettere, gli appelli, i ritagli di giornali. Mi sono informato col materiale limpido e appassionato che mi forniva Nerina Negrello, presidente di quella Lega bergamasca che si batte per salvare questa nazione sciancata dalla nuova infamia.

Un regime di emergenza

Caro direttore, la lettera del 16 Dicembre, «Piazza Fontana. Ecco come dal nulla si fabbrica un terrorista», ha portato a casa mia un centinaio di messaggi di solidarietà in telefonate, fax, telegrammi, assicurate, espressi, lettere. Altri sono giunti al “Giornale” e solo in parte mi sono stati letti a telefono, o rimandati per posta. Li attendo. Ho sempre cercato di rispondere a richieste di chiarimenti, critiche educate, manifestazioni di simpatia. Con molti autori di queste lettere siamo diventati amici. Ci siamo incontrati, ci frequentiamo. Questa volta, a rispondere a tutti, non ci riesco. Prego tutti di accettare il ringraziamento da queste colonne. Da due lettere trascriverò frasi che mettono in evidenza il danno che colpisce chi sia offeso da quella che un giornalista coraggioso e onesto, Achille Lega, definì (“il Giorno”, 9-8-1989) «la gestione strumentale di grandi istruttorie per fatti di terrorismo», determinata dalla «grande influenza che il Pei ha esercitato e ancora esercita su settori della magistratura inquirente [...] gestione, diretta o indiretta, e non soltanto generico uso politico delle vicende giudiziarie».

L’articolo, di cui Lega mi mandò una copia dopo che un giudice mi ebbe manifestato, la scorsa primavera, sgraziate attenzioni (avevo appena ripreso a scrivere di politica, chiudendo un quasi ventennio di astensione) ha valore fondamentale proprio per la distinzione, tra il «generico uso politico» e la «gestione diretta», che Lega potè tracciare seguendo, «per il Giorno, senza censure o interventi del direttore Gaetano Afeltra [...] la gestione politica del Pei a sostegno di un’accusa poi sonoramente smentita dai fatti [...] l’indagine sulla strage di Brescia del Maggio 1974. Nel 1976, con Giorgio Santerini, avevamo elencato, nel libro Strage a Brescia, potere a Roma, le debolezze, le falsità e perfino le prevaricazioni dell’istruttoria. Ma una singolare e potente alleanza che saldava il Pei con gli inquirenti, magistrati e carabinieri, promosse e difese strenuamente la comoda tesi accusatoria che vedeva in Ermanno Buzzi, piccolo malfattore locale e confidente, l’organizzatore e l’esecutore del massacro [...]. In quegli anni di malinteso fronte antifascista non fu facile né comodo andare controcorrente, esporre tutto ciò che, fin da allora, contraddiceva l’accusa. Nel nostro mondo giornalistico fiorirono tentativi di intimidazione, anche sindacali, accompagnati da un pericoloso anatema: “Fate il gioco dei fascisti!”. A Brescia, intanto, un importante e coraggioso avvocato di parte civile che aveva osato dissentire, il comunista Pierdomenico Apicella, era costretto a lasciare il suo partito». Così fu costretto, reprobo e dannato, a lasciare il Pei il taxista Cornelio Rolandi, reo di avere riconosciuto (unico caso di

riconoscimento personale in tutti i processi per stragi!) Valpreda come il cliente che aveva portato, quel fatidico pomeriggio, alla Banca di Piazza Fontana. Mi piacerebbe che Lega ci aiutasse a far l’elenco di quei giornalisti dei «tentativi di intimidazione», e metterli in un mazzo coi dodici che mi hanno diffamato senza fondamento e senza prove; dico i direttori e gli articolisti di “Avvenire, Corriere della Sera, Europeo, Manifesto, Unità, la Voce”, e con gli altri che c’impegniamo a stanare e denunciare: all’autorità giudiziaria, agli ordini e organismi professionali, ai lettori. Per quanto mi riguarda, constato in questi “colleghi” uno zelo delatorio, il gusto maligno e farabuttesco di conferire significati sinistri e contenuti criminali a notizie prive di peso. Ci fu realmente un’agenzia di stampa del governo portoghese, chiamata Aginterpress, che aveva il lecitissimo scopo di sostenere le ragioni della guerra in Angola e Mozambico. Io non ebbi, con quest’agenzia, rapporto alcuno. Se un suo dirigente mi avesse invitato a colazione, leggo di Giano Accame, come me diffamato, avrei accettato tranquillamente. Che io approvassi la resistenza del Portogallo in Africa, lo sapevano anche le pietre. È possibile che qualcuno, in quell’agenzia, annotasse il mio nome come sostenitore. Mi occupavo allora, come il lettore Attinà ha ricordato nel Giornale del 4 Gennaio, prevalentemente di politica internazionale. Fin qui, non ho nulla da giustificare. E nulla da smentire. Smentite denunce e querele vengono quando, affermandosi che l’agenzia fosse coperchio di organizzazioni terroristiche, si aggiunge che io ne fossi corrispondente, referente, agente.

All’iniziale malafede sottentra, allora una vigliacca, sostanziale recidiva. Si comincia nel vago (citazione da «Strage nera», “Corriere”, 11 Dicembre 1994). Nei venti giorni seguiti alla pubblicazione dei loro articoli, attinti dalla medesima fogna, direttori e articolisti per bene, controllati nomi e situazioni, avrebbero potuto ricorrere all’antico strumento delle persone per bene in simili casi: una leale, spontanea, lettera di scuse. Ma essi, per bene, non sono, caro direttore. Chiotti e vigliacchi, confidano nel polverone, nel clima, nel numero; si nascondono dietro le assenze, i non-so e non-ricordo. Li perseguirò fin che avranno vita, con un accanimento e un odio che non lascerò mai spegnere, per il male che mi hanno fatto. Caro direttore, anche a lasciar da parte il sussiego di ceto, non ti par grottesca l’idea di un direttore di quotidiano, quale ero allora, che si fa “ingaggiare” (Corriere della Sera) e diventa “agente” (tal mi promuove, in un estremo sussulto di vitalità, l’organetto montanellaro ormai in coma) di un’oscura agenzia portoghese, con terrorismo o senza? "Repubblica”, più cauta, si abbevera alla stessa fogna, ma si astiene dal fare il mio nome. Onore alla perspicacia. E neppur tenterò di mettere in evidenza la grottesca pretesa per gli anni successivi, quando m’immersi in oceani di carte e musiche barocche per uscirne con due libri, uno di duecento e l’altro di milleduecento pagine, su Sébastian Bach. Ma l’ora preme, (caro Feltri), e la ciurma radunata, dal “Manifesto” alla “Voce”, da “Repubblica” a “Avvenire”, dal “Corriere” all’“Unità”, a quell’“Europeo” dove si fan crescere le barbe credendo così di salvare il fogliaccio dalla meritata

estinzione, fa capire che siamo alla vigilia d’una di quelle prove, supreme per la pubblica salute, in cui, come già nei sempre rimpianti Cln, gl’interessi del vero capitalismo, dei comunisti e dei cattolici, indossano i nobili panni dell’unità nazionale. Siamo alla vigilia di rinnovati casi di «gestione politica strumentale di grandi istruttorie per fatti di terrorismo», dove il Pci-Pds comanda, la magistratura rossa esegue, e la stampa rimbomba. Cinghia di trasmissione del meccanismo è il settimanale moribondo, che teneva in frigorifero da vent’anni le cartacce ramazzate a Lisbona nel 1974, poi riciclate nelle famose «veline false del Sid». L’ora preme, e i maestri cantori accordano le voci: «La verità definitiva su Piazza Fontana. Presto si saprà, presto sarà resa giustizia», annunciano sull’“Unità”, col tono oracolare e l’imbonimento solenne, mai mutati da quando tutti insieme leccavano tutti i leccabili sederi del Cremlino e dipendenze, da Stalin a Breznev, senza neppur smettere con Gorbaciov. Continuando in un tripudio di pubblica norcineria di segreti istruttori triturati e insaccati nelle salame da sugo rosse: «Ci sono 46 imputati, e per alcuni l’accusa è di strage». Una vera festa, considerando che la maggior parte di questi «imputati» non sono più processabili, in quanto definitivamente assolti nei precedenti processi. Per quanti non ricordassero, trascrivo il sunto della gran novità, dal “Corriere della Sera” dell’ll Dicembre 1994: «Una regia internazionale dietro la strage di Piazza Fontana. E non all’insegna del terrorismo nero, bensì di una precisa strategia politica determinata dai comandi della Nato [Strage nera, regia

Nato]: Vincenzo Vinciguerra, che si è assunto la responsabilità dell’ordigno di Peteano, ha indicato al giudice istruttore Guido Salvini il ruolo dell’ Aginterpress, una misteriosa agenzia di stampa...». Con lo zelo dei cattolici che temono di restare indietro ai rossi, “Avvenire” si sbraccia a garantire che Vinciguerra «è considerato dai magistrati testimone più che attendibile». Già, perché i magistrati se li scelgono e se li coccolano, salvo poi a mutare d’umore e querelarli, come fece il giudice Casson col suo Vinciguerra. Sono i Vinciguerra, i Buzzi, i sostegni di queste accuse; sono quei pentiti sui quali, per la bestiale incapacità di tutti gl’inquirenti, si regge ormai l’accusa penale. Sono i pentiti di cui parlava qualche giorno fa, nella disperata intervista al “Giornale", Giacomo Mancini: «Eccomi trafitto... In altri tempi avrei risposto, ribellandomi impulsivamente, avrei fatto chissà che cosa. Adesso sono vecchio, rifletto. Io dico a me stesso: non è soltanto un caso personale. Sono decenni che in Italia viviamo in regime di emergenza. Come si fa a non avanzare dubbi su queste legislazioni di emergenza, e specialmente sulle strutture speciali cui si affida taumaturgicamente il compito di sradicare il male? Bisogna uscirne. Sono decenni che lo dico. Corrompono, indeboliscono... La sera del rapimento Moro sul video del telegiornale passarono, scritti maiuscoli, i nomi dei colpevoli. Erano davvero loro. Sarebbe bastato un maresciallo dei carabinieri, a suo tempo, se si fosse voluto. In realtà, serviva far credere che il terrorismo fosse un fenomeno vastissimo. Mi opposi, e qualcuno mi fece passare per amico dei terroristi».

Caro Feltri, io non fui mai, in passato, un ammiratore dell’onorevole Mancini. Ma la sua individuazione dei fatti e delle cause è tutta vera. «Un fenomeno vastissimo». Ci risiamo. La nuova verità su Piazza Fontana spazia sui continenti, l’agenzia, «agli ordini dei servizi Usa e di altri Paesi della Nato» (la Turchia? La Danimarca? Chissà?), spadroneggiava da Algeri a Washington, da Roma a Parigi, a Francoforte; perfino «rappresentanti della Cina comunista a Berna» le rendevano, chissà perché, omaggio. E sarebbe ancor nulla, se un giornalista di “Repubblica”, che si chiama Fazzo, non avesse rivelato, domenica 11 Dicembre, che il perverso potere ancor dura. Come mai nessuno ci ha fatto caso? Eppure Fazzo ci assicura che tale potere si estende fino alle pianure di Sarmazia. Leggi con me, o direttore, la storia di «depistaggi iniziati ancor prima dello scoppio, con l’accurata preparazione della pista anarchica, e proseguiti - per quanto incredibile possa sembrare - fino ad oggi. Salvini se n’è dovuto accorgere poche settimane fa, quando un testimonechiave è stato “prelevato” per impedirgli di deporre e trasferito, volente o nolente, a San Pietroburgo». Riscuotiti, o direttore, dalla noia in cui ti ho piombato. Per quanto incredibile possa sembrare, tutto ciò è stato scritto e pubblicato, domenica 11 Dicembre, a pagina 13 della “Repubblica”. Siamo dunque padroni dell’immensa Russia? Non ce n’eravamo accorti, ma dev’essere proprio così. Altrimenti, come farebbero le forze del male (la Nato, i portoghesi, Buscaroli e i suoi amici) a prendere un tizio, impacchettarlo per bene,

spedirlo sulle rive della Neva, e costringerlo, «volente o nolente» a restare là? Direttore, direi che questo Fazzo è un pazzo, o giù di lì. Ma è così che costoro e i gestori delle fogne in cui si abbeverano, fabbricano le loro verità, quando il mai morto Pei le richiede. Menzogne, giudici e giornali, balle da ubriachi, polverone, confusione. La gente non ci capisce più niente, e rinuncia a giudicare. Ecco come le nuove verità trionfano. Non si può non sottoscrivere la storia delle origini che racconta Mancini: «Iniziò allora la via giudiziaria dei comunisti al potere. Il Pei si legittimò e occupò posizioni di potere con la “difesa dello Stato democratico”, allargando a dismisura l’area del terrorismo... Ricordate il Pci-baluardo e diga della democrazia contro la marea montante dell’oceano terrorista?», dice Mancini. Tutto torna, tale e quale. Altra emergenza, e nuove invocazioni al governo di unità nazionale, delle regole, al governo del presidente, l’onestuomo che esordì in magistratura e ci rimase il tempo strettamente indispensabile per far fucilare Enrico Vezzalini, e poi se ne andò a Montecitorio, continuando a intascare, per quasi mezzo secolo, lo stipendio di magistrato, già che siamo in argomento, senza più esercitarne le funzioni. Dice Mancini: «Ancora adesso, approfittando sempre dell’emergenza, il Pds persegue la presa del potere per via giudiziaria. Lo fa usando della commissione antimafia in modo arbitrario». Lo fa, aggiungo, adoperando i giudici rossi, che adoperano i pentiti e i giornali, e così montano inchieste eterne, che non debbono finire mai, e processi che non si celebreranno, così che ci siano nomi da lasciare infangati per sempre.

Ecco, direttore, il rischio che corre chi sia accusato di ignobili complicità in articoli che riportano presunti accertamenti giudiziari, e non verranno mai contraddetti in un dibattimento. La verità voluta dal Pei e dai suoi lacchè resta senza smentite. Mancini se la prende, con intera ragione, contro questi giudici che lo credevano capace di lottare «di giorno contro le greche dei servizi segreti e gli ermellini della Cassazione», per poi vestirsi da cacciatori, a sera, e andare «nei boschi a frequentare le cosche... ». Quanto a me, di giorno scrivevo articoli e libri, m’immergevo nelle sterminate biblioteche di Monaco e Lipsia, ne venivo fuori con montagne di fotocopie che strappavano sorrisi di commiserazione agl’impiegati (l’ho raccontato nel mio Bach mondadoriano); oppure suonavo l’organo di Anton Bruckner nella parrocchiale davanti alla casa di Ansfelden; e la sera, coi criminali dell’agenzia, progettavo gli attentati alle banche, come assicura un mascalzone di “Avvenire”, che mi chiama Pino e mi promuove eurodeputato. Ecco perché, direttore, ti supplico di non lasciar cadere l’argomento, e di ordinare una profonda, esauriente inchiesta su queste fabbriche della nebbia, del veleno, della menzogna, che attossicano la vita italiana. Non è soltanto una grottesca istoria di terrorista e organista, degna davvero dei Racconti di Hoffmann. È una spirale che rischia di avvolgere tutti. Il «regime di emergenza» che Mancini denuncia sta risorgendo. Non dobbiamo limitarci a rintuzzare gli agguati. Dobbiamo smontare le inchieste, pretendere che siano tolte ai magistrati faziosi, denunciarli agli altri magistrati. Dobbiamo condurre i lettori dentro le fabbriche della menzogna, e chiamare a testimonianza

le vittime di venticinque anni di persecuzioni, chiedere ausilio e testimonianze a quelli che furono loro patroni. Un giovane avvocato, Arturo Gussago, mi ha scritto da Brescia: «Nessuno più del sottoscritto può capire il suo “sconcerto, lo smarrimento, il capogiro, il sentimento di solitudine e impotenza” di quando ti trovi, all’improvviso accusato d’aver avuto parte in una strage... Lei ha ricevuto dello sterco da quattro pennivendoli, io mi sono fatto due anni di galera, di cui sei mesi di isolamento assoluto, per i soli motivi di essere di destra e di aver avuto come amico un ragazzo morto mentre maneggiava esplosivo... Avevo vent’anni e riuscii a sopportare le angherie dell’antifascismo giudiziario, ma, mi creda, non fu facile. Non fu facile per mia madre rompere quella solitudine da lei ricordata e gridare a tutti, conoscenti e non, che io non c’entravo e era tutta una schifosa montatura; non fu neppure facile per una famiglia della piccola borghesia sostenere cinque anni (tanto durarono istruttoria, processo di primo grado e processo di appello, entrambi conclusi con la mia più ampia assoluzione) di elevate spese legali... Debbo dar atto ai miei persecutori di aver determinato una svolta positiva nella mia vita: l’ingiustizia da me subita, e quella di tanti altri compagni di sventura, mi ha indotto a diventare avvocato, per poter dare il mio contributo alla causa di chi sta dalla parte più debole... Non solo la mia più affettuosa solidarietà le offro, ma anche la mia gratuita assistenza legale per tutte le iniziative giudiziarie che vorrà intentare nei confronti di quanti (giornalisti vip o magistrati) hanno gettato fango su di lei».

Ce ne vorrà, di aiuto, perché è fango duro a cancellare. Prendo la prova da due lettere ricevute. Del signor Gianni Pardo, da Catania: «Leggo la sua immensa lettera e le scrivo solo per manifestarle la mia solidarietà. Badi, non sono un sentimentale, non la dichiaro innocente di nulla. Non essendo un giudice e non conoscendo le carte, rischierei di parlare a vanvera...». Di Vittorio Buccheri, da Ostia Antica: «Debbo onestamente riconoscere di non sapere esattamente se lei c’entri o meno e fino a che punto nei fatti che le addebitano. Nello scriverle pertanto obbedisco più che altro ad un moto istintivo del mio cuore...». Per la verità, di fatti non me ne addebitano nessuno. Ma, per un paradosso che solo l’uomo di legge capisce, proprio qui s’annida il pericolo. Qui si spalanca il pozzo nero in cui quei tali giornalisti intingono le loro penne. Luride penne, i cui sgorbi son destinati a restare. «Calomniez, calomniez, il en restera toujours quelque chose!»: il famoso detto ha già ricevuto la sua conferma nelle due lettere che ho citato: solidali, ma con riserva. Tanto è difficile, per una mente comune, accettare l’idea che simili articoli, e simili accuse, siano fondati su niente.

Se il Führer esce dagli armadi

«L’ombra sua torna»: ma completare il verso di Dante riuscirebbe ingannevole, ché “dipartita” non s’era, propriamente, mai. Si celava in latebre donde oggi riaffiora. È la moda, sentenzia il superficiale. Lo stupido ricanta i ritornelli della nostalgia, immutati da mezzo secolo come i dogmi della colpa collettiva dei tedeschi. Cinquantaquattro anni dopo esser svanita nelle fiamme d’apocalisse, l’immagine del Führer riemerge fluttuante in quella zona che i tedeschi chiamano «l’industria della coscienza», stampa, cinematografo, archivi di fotografie: sono pellicole, serie di articoli nelle riviste, biografìe, compilazioni frettolose chiamate “dossiers”. Alcune sono tradotte, per lo più male, in lingue straniere. Più di un “ritorno”, che è pura assurdità, sono sintomi, moltiplicati da mezzi e momenti eterogenei, dell’agitarsi di quella figura nella coscienza della nazione. Rispetto alla riunificazione quasi decennale, non appaiono causa, né conseguenza. La loro interpretazione va ricercata in una contabilità del tutto diversa. Nostalgia? Assurdo. Rimorso d’averlo acclamato e seguito? Sarebbe cosa per pochi vegliardi. Fascino retrospettivo? 0, meglio, tentativo di capire, previa rimozione della damnatio memoriae imposta dai vincitori alla nazione vinta e

voluttuosamente accettata dai suoi nuovi capi, secondo quel “lavaggio del carattere” che il conte von Schrenck- Notzing smontò e descrisse? Chi fu Hitler? Fu un “mostro”, ossia uno di quei fuorilegge della politica e della morale che periodicamente violentano la vergine storia? Bonaparte fu ascritto a questa categoria. Chi conosce argomenti e toni della propaganda antinapoleonica non ha dubbi. La demonizzazione risultò allora alcuni decenni più breve solo perché i mezzi di persuasione non avevano raggiunto la forza del secolo ventesimo. A ritrarre i crimini del Terzo Reich furon chiamati maghi della fotografia e del cinema, Hitchcock per primo. Oppure, fu il prodotto ineluttabile di quelle forze elementari che foggiano il destino dei popoli, scatenate e potenziate dalla ribellione ai giganteschi torti subiti? I cronisti della stampa internazionale che si affollavano nel salone di Versailles quando il testo del “Trattato” fu presentato ai tedeschi che dovevano firmarlo, pena l’invasione e l’annichilimento, descrissero il contegno del conte BrockdorffRantzau, ministro degli Esteri dell’appena nata Repubblica tedesca, con parole come «gelida superbia», mentre il Conte, data un’occhiata al testo, fino allora sconosciuto, ne restò inebetito e come «esamine, sul punto di svenire per la disperazione».

*** La lingua tedesca possiede un verbo e un sostantivo soltanto suoi, il cui uso si è moltiplicato dopo la rovina e l’umiliazione del

Reich: bewaeltigen e Bewaeltung: verbo e sostantivo si lasciano correttamente tradurre soltanto in perifrasi. Entrambi sono amplificazioni della radice indogermanica ual, da cui discendono il latino valere e tutti i nostri valore, valuta, essere forte, avere valore. Die Vergangenheit bewaeltigen significa far forza al passato, digerirlo, archiviarlo, non esserne più ossessionati. Ecco il probabile nodo, con le difficoltà di scioglierlo, che simile ritorno porta alla superficie dell’anima tedesca. Le elezioni non c’entrano. C’entra ancora la domanda: Chi fu Hitler? Quei pochi che poterono guardarlo vivere, da vicino, misurarono la forza e la debolezza dell’uomo, anche se metterle in reciproco rapporto era cosa da pochi. L’una stava nel magnetismo che irradiava sulle folle, l’altra nell’incapacità ad avere nella vita altro interlocutore che se stesso. Si può dire che fosse l’antitesi di Bismarck. Questi provocò violente opposizioni nelle assemblee e cominciò a magnetizzare la nazione soltanto dopo il ritiro dal governo. Ma la sua conversazione politica si insinuava nella coscienza dell’interlocutore, la penetrava, l’avvolgeva nelle spire della sua dialettica. La rimodellava: nella sua conversazione erano ironia, bonomia, crudeltà, charme, brutalità, poesia, sovrana padronanza di tutta l’umana tastiera. Hitler uomo di stato fu incapace di condurre una vera conversazione politica. L’interlocutore aveva l’impressione che le proprie parole cadessero in un vuoto. Hitler non sembrava percepirle, e quando alla sua volta parlava, guardava sovente l’interprete, ossia se stesso, laddove Bismarck succhiava il cervello dell’interlocutore e ne traeva nutrimento per la propria politica.

«È così bravo, dicono con espressione sorprendente i suoi collaboratori. Gli presentano persone, stringe mani tese con sguardo assente, risponde qualche parola. E noi restiamo lì, stupiti, senza capire. Bisogna guardare i suoi occhi. In quel viso insignificante, loro soli contano. Sono occhi di un altro mondo, occhi strani di un azzurro profondo e nero, dove la pupilla si distingue appena. Come indovinare che cosa passa? Che cosa abbiamo in comune con quegli occhi? La prima impressione, la più prodigiosa, rimane: sono occhi tristi. Un’angoscia quasi insormontabile, un’ansia inaudita vi hanno dimora...». Le migliori descrizioni, tutte di stranieri, anche il superbo ritratto di Jacques de Benoist-Méchin, ridicono quest’istantanea di Robert Brasillach. In quel potere ipnotico sulle folle, in quella solitudine incapace di scrutare, vagliare, assimilare e politicamente utilizzare il pensiero e l’animo di un interlocutore furono la ragione e la causa della sua catastrofe. E ciò premesso: fu un “eroe” nel senso dato al termine da Carlyle? Oppure, un “uomo rappresentativo”, quale lo concepiva Emerson? Qui sta il problema che la coscienza germanica non riesce a bewaeltigen, sistemare e archiviare. In una pacata ma tremenda riflessione del 1948, Ludwig Dehio, uno storico liberale che aveva attraversato la dittatura, osservò che «nel Terzo Reich, una delle grandi nazioni europee ancor vigorosa e piena di vita, dovette lottare per la prima volta con lo spettro della morte. Non s’era mai visto nella storia europea». Soltanto dopo ottant’anni di polemiche gli storici e quel po’ di pubblica opinione che ancora s’interessa a queste inezie, si arrendono all’idea che, se di responsabilità è il caso di parlare nelle origini

della Prima guerra mondiale, i responsabili furono cinque, quante le potenze del giuoco, e le responsabilità non sono ancora state dosate e graduate. Passerà forse un altro secolo prima che i posteri capitolino dinanzi alla verità della Seconda guerra: che Gran Bretagna e Francia, dopo averne lasciati sfuggire quattro, colsero al volo l’ultimo pretesto contrattuale per riportare la Germania nei ceppi di Versailles, e che questo pretesto coincideva con l’ultima correzione legittima del Trattato.

*** È incontestabile che, col Terzo Reich, Hitler mescolò alla politica tedesca elementi personali che gravemente la alterarono. Il più fatale fu l’antisemitismo prettamente viennese, maturato negli anni Ottanta dell’ottocento per un intreccio di cause psicologiche e economiche locali, che Hitler assorbì prima della guerra nella sua “vie de boheme”, e si estese al Reich negli anni di miseria nazionale seguiti alla pace imposta e all’inflazione. Le cause economiche non esercitarono sull’individuo Hitler alcuna influenza. Eugen Dollmann ricordava con stupefazione il giorno che il Fiihrer si vantò con Mussolini di non essere mai stato socialista, neppure nella profonda miseria. Di quegli anni miserabili, l’opinione modellata dai vincitori ripete il cliché del pittore privo di fantasia che copia cartoline di piazze e monumenti, senza figure umane per asserita riluttanza del “mostro” a disegnare i suoi simili. Il Catalogo dei “Dipinti, acquarelli e disegni di architettura”, intitolato Adolf

Hitler als Maler und Zeichner, compilato dal collezionista americano Billy F. Price, pubblicato dall’editore svizzero Gallant nel 1983 e stampato “by Arnoldo Mondadori Editore, Verona”, riproduce (n.601 A, pag.225) il primo abbozzo di quello che sarebbe divenuto il Maggiolino Volkswagen: «Lo tenga lei», disse a Jakob Werlin, direttore della filiale di Monaco della DaimlerBenz, «ne parli con gente che se ne intende più di me. Ma non lo dimentichi...». Era l’estate del 1932. Tanto poco Werlin se ne dimenticò, che il disegnetto, efficacissimo, appare oggi l’incontestabile incunabolo della più fortunata forma espressa dal disegno dell’industria automobilistica. Chi è Hitler? Il primo o il secondo? Scomodo ma evidente, è tutti e due. Quanto al trapianto dell’antisemitismo viennese nel Reich germanico, che n’era stato fino allora immune, nessuno ha mai studiato, ma che dico, neppure accennato, tra le cause della sua diffusione, alla “dichiarazione Balfour” con cui, nel 1917, la Gran Bretagna promise agli ebrei il “national home” in Palestina, scavando il baratro di un minaccioso malentendu tra gli ebrei tedeschi, fino allora perfettamente integrati, e il Reich, cui cominciarono ad augurare la rovina, premessa al crollo del satellite Ottomano, alle cui spese il Home ebraico doveva realizzarsi. Anche l’antisemitismo elevato a dottrina aveva avuto un precedente in Europa: la revoca dell’Editto di Nantes, che sollevò un’immensa ondata emotiva, ma non fu causa della guerra, così come non era stato l’atto di Luigi XIV a provocare la formazione della Lega di Augusta.

La diatriba sulle stragi degli Ebrei ha scarsa parte nel processo della Bewaeltigung. È certo che non si è mai trovato un ordine, un verbale, un foglio, una firma che attestino responsabilità e perfino la semplice cognizione, da parte del Führer, della cosiddetta “soluzione finale”. Un capo di stato è certamente responsabile anche dei crimini che non ha conosciuto, se siano compiuti da funzionari e ufficiali dello Stato, ma il giudizio sulla persona è diverso. Quanti ho conosciuto e interpellato, che conobbero e frequentarono a lungo Hitler (Dollmann, Doenitz, Kesselring, Wolfif, Westphal) decisamente esclusero che il Führer avesse parte, e perfino nozione, dei piani le cui responsabilità attribuivano a Himmler e funzionari inferiori come Eichmann. Naturalmente tutti costoro avevano ogni interesse, siccome l’avevano in varie guise servito, a tenere indenne il signore della guerra da queste accuse. Ma occorre aggiungere che, tutt’altro del monolito che comunemente ci si figura, il Terzo Reich fu un labirinto di responsabilità e competenze contraddittorie, fazioni in lotta feroce, oscurità, paradossi.

*** Altro nodo che rilutta alla Bewaeltigung, la Seconda guerra mondiale. Le sue origini immediate stavano nelle frontiere orientali, quali i vincitori nella pace di Versailles imposero alla Germania. Le origini lontane, nel caos economico creato in Europa dalla crisi americana. Negli anni Trenta, come poi nei Cinquanta, la Germania poteva sopravvivere soltanto dando pieno sviluppo alla sua immensa capacità di lavoro, esportando i

suoi prodotti. Nel benessere crescente degli anni Cinquanta annegò il ricordo delle mutilazioni sofferte e delle rapine patite, di nuovo a titolo di riparazioni. Nella crescente miseria dei primi anni Trenta, il Reich avrebbe dovuto ribellarsi alle rapine e alle inique frontiere anche senza Hitler al potere. Se sulla Francia pesava la responsabilità delle schiaccianti riparazioni e delle immense mutilazioni territoriali, solo gli Stati Uniti furono autori della miseria tedesca per la folle espansione del credito e la criminale tariffa doganale che portò le firme del senatore Smoot e del deputato Harley. Le colpe francesi erano più elementari da classificare. Invece, il liberatore-rieducatore americano ha potuto insegnare al popolo tedesco, nel lavaggio di carattere e memoria seguito alla fine della guerra, storie molto diverse dalla verità. Autmori, autpati, il popolo tedesco nella sua identità collettiva e istituzionale dovette piegarsi a fingere di approvare quanto i suoi governanti accettarono, benché falso e imposto. Ora è giunto il momento che quanto resta di coscienza profonda a quel popolo sventurato chiede un riesame. L’uscita dal potere del partito democristiano per cinquanta anni asservito alla verità americana può essere, in piccola parte, anche conseguenza di questa fase della Bewaeltigung. La rimozione del viluppo di menzogne e leggende che costituiva la verità ufficiale ne sarà senz’altro accelerata. La riapparizione di Hitler sugli schermi, nei giornali, nei libri, nei dossiers, è forse il simbolo più appariscente affiorato di una lotta fino ad ora segreta e forse anche inconsapevole.

Milano, 19 Novembre 1998 Nota a Mario Cervi

Caro Cervi, siccome una polemica diretta mi pare inconcepibile, lascia che diriga a te due parole di risposta all’attacco che Giordano Bruno Guerri mi ha sferrato con l’articolo “Che il Fiihrer tomi”, ecc. del 15 Novembre. Dice il Guerri: «Buscaroli mi tolse l’amicizia e il saluto qualche anno fa proprio per una polemica di questo tipo». Nossignore. Non vi fu polemica alcuna, ma un attacco a freddo, all’improvviso, del Guerri che (s’era in campagna elettorale europea, 1994) mi sparò addosso una filza d’insulti con l’augurio che non mi eleggessero. Il che puntualmente si avverò (per mia fortuna, dico oggi, col senno del poi). Gl’insulti suoi non rispondevano a insulti miei a lui: ma a una scemenza sugli omosessuali che mi venne fuori in una di quelle interviste che sconosciute piattole t’infliggono telefonandoti a casa, per farci poi casino sui loro giornali. Il Guerri se n’ebbe tremendamente a male, chissà perché. Neppure è vero che gli tolsi l’amicizia, perché non c’era mai stata. Il Guerri è l’ultimo dei viventi cui potrei pensare come a un amico, questione di gusti: incoercibili. Neppure è vero che gli abbia “tolto” il saluto, perché non ci siamo più visti. Risparmio a te, ai lettori carne stesso, una polemica davvero inutile. Solo osservo che l’invenzione del genocidio si trova già in passi innumerevoli di quel grazioso libro che chiamano Bibbia; e che i primi a metterlo in pratica furono gli americani, sui pellerossa. Non adoperarono i gas, ma l’alcool, con risultati assai migliori: davvero finali, stupefacenti.

VENTENNIO MORTALE 1947-1967: ANNIVERSARIO DEL TRATTATO DI PACE

«Si tratta di liquidare due diverse partite: l’abbattimento di Mussolini e del fascismo, e la conclusione di un accordo con gli anglo-americani! La prima partita è attiva... la seconda è invece passiva: la conclusione di un accordo armistiziale con quelli che sono oggi i nostri nemici sarà opera difficile e creerà responsabilità penose per i suoi negoziatori. Dunque, poiché la partita attiva è ormai liquidata, non resta che la partita passiva, e sarebbe un errore politico per i nostri uomini accettarla...». Alcide De Gasperi impartiva questi astuti consigli a Ivanoe Bonomi, il 25 Luglio del 1943. La sorte volle che toccasse proprio a lui di andare a Londra e a Parigi per esser «sentito» dai vincitori e perorare, come seppe e potè, la causa dell’Italia vinta. Toccò a lui d’essere accolto all’aeroporto, senza neppure gli elementari riguardi dovuti alla sua carica, da un poliziotto inglese che lo trattò come un «immigrante» sospetto, e neppure gli risparmiò, con la crudeltà stolta di cui l’Inghilterra è maestra, la rituale domanda se intendesse cercarsi un lavoro in Gran Bretagna. A Parigi trovò gente che ormai lo conosceva e diceva di stimarlo; ma nessuno lo salutò, tranne Bidault, che vi fu costretto dall’ufficio di presidente, e dove presentarlo agli

altri. «Il primo ministro italiano parlò con tatto, ma con dignità e coraggio», scrisse James Byrnes, lo scialbo Segretario di Stato americano: «Quando lasciò la tribuna per tornare al posto assegnatogli nell’ultima fila, scese nella navata centrale della sala silenziosa, passando accanto a molte persone che lo conoscevano. Nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione; mi sembrò inutilmente crudele». Quell’inutile crudeltà servì, tuttavia a qualcosa, se tolse agli uomini della nuova dirigenza democratica ogni residua illusione sui sentimenti dei vincitori. Chi aveva creduto alle ipocrite distinzioni fra Italia e fascismo usate dalla propaganda di guerra quando si trattava di indurci a gettare le armi, ebbe motivo per amari ripensamenti; come Benedetto Croce, che aveva fatto delle ciance di radio Londra un articolo di fede e di lì a poco, discutendosi al Senato la ratifica del Trattato, uscì nel grido famoso: «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte». Sono passati vent’anni, da quella mattina del 10 Febbraio 1947 in cui il marchese Antonio Meli Lupi di Soragna emerse dalle nebbie della burocrazia nazionale e rimase sotto i riflettori della grande storia per dieci minuti, quanti ce ne vollero a firmare tutte le pagine di un trattato maligno e in gran

parte inutile. Lasciò su quelle pergamene il sigillo della sua famiglia, con l’albero e il lupo, perché lo Stato che si piegava alla volontà dei vincitori non aveva ancora un sigillo suo. Fu la pace dei piccoli, dei furfantelli minori. La Germania mancava, gigante atterrato, le sue spoglie eccitavano appetiti e timori troppo grandi per potersi sistemare su un solo tavolo. Erano con noi Finlandia e Ungheria, Romania e Bulgaria; tutti di noi più piccoli, ma già spartiti, come noi, nei due campi opposti in cui i vincitori si dividevano. Noi qua, e loro di là, e tutti già intenti ad imparar la lezione: ossia, a ragionare come i rispettivi vincitori, d’occidente e d’oriente. Dovemmo a questa divisione provvidenziale qualche stracca benevolenza. Nessuno dei vincitori maggiori era nostro diretto confinante; né la Francia, né la Jugoslavia furon ritenute degne di soddisfazioni estreme, fossero pure a nostre spese. Ci fu lasciata la Valle d’Aosta, si trovò la scappatoia per lasciarci Trieste. Non parve tanto grande l’odio, quanto il disprezzo. La menzione dei «servigi resi alla causa degli alleati», dopo il 1943, se non ci tolse l’umiliazione, ci camuffò da malfattori contriti. Nostra sola fortuna fu che ci punissero coi castighi di trent’anni prima. L’unico vero dispetto, alla luce dei fatti, fu lasciarci la Somalia, dove dovemmo sperperare miliardi a benefizio di una delle più inutili repubbliche dell’Afirica odierna. Non ci divisero in due o tre tronconi, non ci amputarono di immense estensioni territoriali. Lasciaron sfogare la Francia in due o tre stupidi morsi al nostro confine occidentale. La ferita ad oriente fu più dolorosa; ma se si pensa che fu tagliata da mani avvezze a maneggiare immensi spazi senza storia, c’è da

meravigliarsi che non sia stata più aspra. Non ne facemmo una tragedia nazionale. Anzi, il Paese unanime fece di tutto per non accorgersene. Non sapemmo neppure far posto fra noi a duecentomila profughi, mentre la Germania rasa al suolo ne accoglieva dieci milioni. Ce li togliemmo dai piedi e dallo sguardo, come capitava: nei campi di raccolta o, ancor meglio, verso il Canadà e l’Australia. L’Italia era ridotta a se stessa, con le sue sole forze, nei suoi confini rosicchiati. I danni e i disastri della “guerra fascista” ci appaiono modesti. Non per la pietà dei vincitori, ma per la loro cecità. Eravamo ridotti al punto di partenza, perché tutta l’Europa era ridotta al punto di partenza. Le sole sconfitte significative furono quelle del Terzo Reich in Europa, e del Giappone nel Pacifico. Inversamente, le sole vittorie di qualche importanza furono quelle degli Stati Uniti e della Russia Sovietica. Sconfitte e vittorie di questi quattro protagonisti dettero, sole, il tono degli eventi. Le vittorie dell’Inghilterra e della Francia, la disfatta italiana restarono fatti vuoti e inerti, vicende di comparse, destinate ad identificarsi, alla lunga, nel grigiore di sorti assai simili. Quanto a noi, v’è una puntualità di ritorni, nel nostro destino e nelle nostre illusioni, che tinge di comico anche le più tragiche scelte. Guardate oggi: dopo cinquant’anni da Caporetto si aprono i cassetti che contenevano i verbali segreti delle sedute della Camera; ne escono i rimpianti (in pieno 19171) sulle illusioni di Salandra e di Cadorna di una guerra breve e già decisa, di una vittoria rapida e sicura. Venticinque anni più tardi, nel 1940, c’eravamo daccapo con un’altra guerra breve e la vittoria sicura.

C’ingannammo, sulla durata, tutt’e due le volte. E peggio c’ingannammo, la seconda, anche sulla parte destinata a vincere. Tentammo allora di rimediare, mutando fronte a metà strada; ma era tardi. E così accadde che le nostre speranze rimanessero deluse per ben due volte nello stesso conflitto: la prima, quando Mussolini aveva sperato, con la “guerra parallela”, di rubare a Hitler un pezzo della sua vittoria, che poi non venne; la seconda, quando i successori di Mussolini cercarono, con la “cobelligeranza” e la “resistenza”, di rubare agli alleati un pezzo della loro vittoria su di noi, ma questi non si lasciarono derubare. Era troppo tardi per scommettere sul vincitore, il Settembre 1943.

♦♦♦ Resta la guerra dei comunisti. Dopo vent’anni, anche questa ci appare in una luce diversa. Nella insolente vanità con cui i trionfatori interni han continuato a pavoneggiarsi d’una vittoria non loro, difficilmente riconoscerete un tratto di storia universale: è piuttosto l’esito solito e scontato di antichissime nostre lotte civili: è l’Italia guelfa, municipale e democratica, clericale e comunista da sempre, che castiga le sue minoranze ghibelline, i suoi sognatori senza i piedi sulla terra, senza un solido appoggio nelle reali forze; eppure persuasi, per antica esperienza, che l’Italia savia e coi piedi per terra è l’Italia peggiore: è l’Italia di oggi, perché è quella di sempre. È l’Italia che cessa di partecipare alla grande storia, e beata poltrisce sulle glorie, le storie e le ambizioni dei suoi mille

municipi, delle sue cento contrade. È l’Italia indaffarata e laboriosa degl’individui, ma priva di sue aspirazioni e speranze, che si contenta di sonnecchiare all’ombra della Santa Sede, sempre più invadente e più avida di cose e prerogative materiali, via via che la luce del suo magistero spirituale si spegne. L’Italia che noi abbiamo oggi non è quella che fu prodotta dalla guerra fascista. È l’Italia di vent’anni di pace democratica. Il vero bilancio da fare è il bilancio di questo ventennio mortale e asfissiante. Guardatevi intorno. Non voglio ripetere, con generico e risaputo esercizio retorico, il panorama di questo Paese disfatto, bacato da un improvviso benessere, contro cui non ha saputo neppure elaborare i necessari antidoti. Non manca la libertà. Ma la libertà vi è priva di senso e di scopo, perché non vi si afferma alcuna grande idea, non vi si educa alcun carattere. In vent’anni, da questo popolo, non è sortita nessuna, si ricordi bene, nessuna figura superiore, in qualsiasi campo: non vi è nata alcuna idea, alcuna grande opera artistica, o scientifica, o letteraria. Non vi è stata una sola luce di conquista individuale o collettiva che ci abbia meritato l’orgoglio nostro e il rispetto altrui. Che gli scandali «non fanno più notizia» è ormai un luogo comune nelle redazioni. L’ammirazione per il “dritto” che ruba alla collettività non è neppure temperata dal giusto sdegno del derubato consapevole. «Gli italiani ridono della vita; ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione... Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio

italiano è il più cinico dei popolacci», scriveva Leopardi. Guardatevi intorno. Questa indifferenza cinica è il solo sentimento collettivo di cui un popolo di cinquanta milioni di anime sia capace. Piccoli appetiti individuali di godimento o di guadagno, sono gli unici incentivi all’azione. Che lo Stato non esista più, è un altro luogo comune: eppure, sulle sue rovine pascolano due milioni e trecentomila pubblici dipendenti; esercito famelico e per lo più inerte, che tuttavia tende ad accrescersi degli altri che vi si aggiungeranno in massa quando anche le regioni saranno istituite. Le giovani generazioni fanno, già a vent’anni, il calcolo delle pensioni che toccheranno dopo carriere determinate, fin dal principio, dalle probabilità di guadagno. L’Italia mutilata dalla sconfitta seppe almeno inginocchiarsi, vent’anni fa, a Roma, sull’altare della patria; a Milano suonarono le sirene in segno di lutto. Una fragile donna italiana, seppe impugnare un’arma e abbattere il simbolo vivente del vincitore che opprimeva la sua città. Ci fu un Benedetto Croce capace di invocare in Senato un gesto di ribellione e di volontà collettiva, quando affermò che non si doveva ratificare il trattato di pace: «Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra». Povero vecchio. Sapeva che la storia è una creazione costante, in cui nessun verdetto è definitivo, sol che i popoli che ne sono colpiti sappiano almeno volere qualcosa. Il nostro, no. La pace lo restituì alla vacanza di sempre, a un sonno secolare. E in quello si crogiola, nella sola speranza di non svegliarsi mai più.

Non crediate che ci mancassero i compiti. Un Mediterraneo reso vuoto di antiche forze, da cui Inghilterra e Francia dovevan sgomberare a furia, ma agitato da convulsioni nuove, poteva essere un campo d’azione pacifico, per un popolo che non avesse perduto il rispetto altrui, e quello di se stesso. Ma nessuno ci volle, perché nessuno ebbe fiducia in noi. E non perché avevamo fatto la guerra, ma per come l’avevamo finita. L’arte di sopravvivere eludendo con la furberia i disastri si paga. Riflettiamo oggi se non sarebbe stato meglio combattere fino in fondo, soccombendo, alla fine, alla forza altrui, invece che pentirci a metà e metterci a leccare le ginocchia dei vincitori. Avremmo sofferto di più alla partenza, ma non avremmo perduto il rispetto degli altri. A vent’anni dalla nostra pace, diamo uno sguardo ai nostri alleati di allora: quello europeo, deluso e ingannato, è tuttavia ben vivo; il rovello dell’unità patria gli ha impedito di corrompersi del tutto nel benessere; la sua tragedia lo tiene in piedi, gli dà scopo per esistere. Diviso, a sua volta divide i nemici. E la Russia non parla se non per esprimergli odio e timore che sono, insieme, segno di apprezzamento e di rispetto. Il Giappone è ritornato la prima potenza dell’Asia. È vero, amici. La guerra “fascista” riuscì appena a ferirci. È questo ventennio di pace che ci ha spento. Come popolo, come nazione. 1967

Le braghe calate sulla storia del marxismo

Nel secondo capitolo del Manifesto dei comunisti di Karl Marx e Federico Engels, si legge: «Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più con lo sviluppo della borghesia... Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l’azione unita, per lo meno dei paesi civili...». E ora leggete questa notizia: «In un punto della frontiera cinese le guardie russe in servizio di vigilanza venivano continuamente oltraggiate dai miliziani cinesi d’oltre confine. Questi ultimi avevano preso l’abitudine di lanciare insulti ai russi, e di voltare loro il sedere dopo essersi abbassati i pantaloni. I russi, dopo aver provato a sparare dei colpi a salve, constatato che questo sistema non faceva desistere i cinesi dalla irriverente abitudine, hanno pensato di ricorrere ad un aiuto impensato: ogni volta che i cinesi esponevano le terga, essi alzavano ritratti di Mao Tse-tung. La battaglia delle braghe calate è cessata immediatamente». Ritagliare il tutto, e spedire alla redazione di una rivista marxista impegnata, Nuovi Argomenti, per esempio, di Moravia, Carocci e Pasolini; con preghiera a quest’ultimo, particolarmente competente, di stendere un’esegesi appropriata

dell’episodio nel centenario di pubblicazione del Capitale, quest’anno faustamente ricorrente.

*** Lo Stato dei banditi

Riferiscono le cronache sarde che lo studente Giuseppe Manca, rilasciato vivo dai banditi dopo che il padre se l’è ricomprato per una somma rimasta ignota ma indicata fra i trenta e i cinquanta milioni, rifiuta di parlare con chicchessia della sua avventura, e di fornire, soprattutto, alle autorità di polizia qualsiasi indicazione sui suoi rapitori. «Non li ho mai potuti vedere in viso, mi hanno sempre tenuto bendato. Non ho neppure riconosciuto i posti dove sono stato prigioniero». Forse qualcuno osserverà che lo studente Manca ha poche probabilità di passare alla storia patria nell’albo aureo degli eroi; ma probabilmente eviterà anche di iscriversi nella storia del banditismo sardo fra le vittime morte ammazzate o, più misteriosamente, scomparse. Il signor Manca ha perfettamente ragione a rifiutare allo Stato una fiducia che non merita. D’altronde, la costituzione repubblicana non stabilisce che tutti i cittadini debbano essere obbligatoriamente eroi. Questo silenzio delle vittime non è “omertà”: è semplicemente sfiducia nelle capacità dello Stato a proteggerle da ulteriori vendette. Si suol dire che, in fondo, ogni terra e ogni regione hanno il loro tipo di criminalità. La questione sarda è completamente diversa. Le organizzazioni criminali «moderne» delle grandi

città sono contingenti, effìmere; si adunano per una singola azione e si sciolgono; non hanno la forza di mantenersi unite, e soprattutto di continuare la stessa pressione sulle loro vittime. La paura che incutono è immediata e transitoria; dura finché continua la minaccia dell’arma puntata. L’imperio della legge si ricostituisce immediatamente. Mentre il terrore del banditismo sardo è permanente, possiede una forza stabile e continua. Continua è l’organizzazione che lo amministra; continue sono la rete informativa, la capacità di offendere, la rudimentale ma efficiente giustizia penale che ne dipende. Chi obbedisce e non cerca di ribellarsi ha buone probabilità di salvare la pelle; chi profitta della liberazione per cercare di vendicarsi può contare con assoluta sicurezza su un supplemento di punizione, regalata con una scarica di mitraglia all’angolo del vicolo o attraverso il vano della finestra. Il banditismo sardo ha una sua sovranità su un certo territorio e una certa popolazione. Ha la struttura, l’efficienza, gli strumenti, seppure embrionali, di uno Stato. Il suo prestigio è superiore a quello dello Stato perché il timore che ispira è superiore alla fiducia che lo Stato riscuote. Perché la presenza della sua capacità di offendere è permanente, mentre la difesa dello Stato è saltuaria. Tutti i fervorini che vengono fatti e scritti da molti anni, su questo argomento, non possono nascondere la realtà: non si debella questo Stato, se non ricorrendo ai mezzi che gli Stati impiegano per lottare fra loro; la guerra e l’occupazione militare. La Sardegna, ovvero le zone della Sardegna che si trovano sotto stabile e continuo controllo dei banditi, debbono

essere invase, occupate militarmente e stabilmente da forze armate continentali, comandate da ufficiali continentali, i cui limiti e le cui prerogative siano stabilite da magistrati, all’occorrenza, continentali: piemontesi o romagnoli, veneti o marchigiani, e se la legge ordinaria non basta, si provveda con una legge speciale. È abbastanza ridicolo vedere gl’italiani «protestare» per i motivi più stupidi o più fuori della loro portata, come la guerra in Vietnam o i negri della Rhodesia, e tollerare senza un moto di sdegno, di vivere in uno Stato che si è fatto battere dai banditi di Orgosolo.

*** Resistenza ermetica

Qualche anno fa, mi capitò di leggere una rievocazione di Mario Soldati, nel “Giorno”, su una certa partita di calcio disputata molti anni prima, in cui la Juventus aveva legnato la Roma: una banale storia di calci e palle, direte. Invece, no. In quel fatto miracoloso che la palla aveva infilato la porta di sinistra invece che quella di destra, o viceversa, lo scrittore ci aveva visto un simbolo che lo aveva tutto ringalluzzito; sì, perché la Roma, anche quella calcistica, significava ai suoi occhi i colli fatali, il mare nostrum, le aquile, le mura e gli archi, e, in definitiva, Mussolini, mentre la squadra torinese incarnava la tenace silenziosa resistenza degli operai, Torino operosa tamugna, Gobetti e Gramsci e tutto il resto del guardaroba.

Adesso, arriva il professor Bruno Zevi, con certo suo commento, nelle pagine dell’“Espresso”, alla vincita, da parte del professor Giulio Carlo Argan, del premio «Cortina-Ulisse» per un’opera di divulgazione scientifica sull’architettura: «Non era ancora laureato (l’Argan) quando, nel 1930, appena ventunenne, pubblicò un saggio su Andrea Palladio confutandone l’interpretazione neoclassica, individuandone la sintassi ribelle ad ogni subordinazione prospettica, la tormentata ricerca di un cromatismo tonale... Che cosa implicava, nel ‘30, questa scoperta di Palladio anticlassico se non un vitale contributo teso a dissacrare i precetti accademici, cioè quell’impalcatura retorica, nazionalista e conformista in cui il fascismo guazzava nel suo bolso tripudio romaneggiante?» Avete capito che eroe? Mussolini si prendesse pure l’Abissinia, ma intanto c’era un Argan che, appena pubere, gli sfilava dalle tasche, nientemeno, Palladio e lo iscriveva alla resistenza. Peccato soltanto che nessuno se ne sia accorto. Certi epici atti, per essere rispettabili, debbono almeno essere conosciuti, o conoscibili, a coloro cui si oppongono. Qui abbiamo invece un eroismo silenzioso, ermetico. L’aggettivo è usato dallo stesso Zevi che continua a solfeggiare: «Per alcuni versi, specie per l’insistenza sui valori ‘pittorici’ e ‘atmosferici’ suonò [la critica dell’Argan, nota mia] astrusa e ermetica. Era una critica adeguata alla temperie della dittatura, di una cultura ammorbata che rendeva larve spettrali persino le pietre del passato, e cui urgeva rispondere con una controcultura ‘autre’». Rinuncio a commentare questa filza di idiozie; l’unico scopo che mi ha indotto a riprodurre questi brani di prosa sgangherata

e demente, era di non lasciar sfuggire un raro documento (raro anche tenendo conto dell’inflazione corrente in questa materia) della cialtroneria e della viltà degl’intellettuali della nostra epoca.

*** Church-Front

C’è, negli Stati Uniti, un’impresa per le indagini di opinione pubblica nell’ambiente cattolico. Si chiama The Catholic Polis, Ine. Questa Catholic Polis Ine. ha intervistato circa tremila sacerdoti cattolici americani, chiedendo loro pareri specifici e particolareggiati sulla guerra nel Vietnam. Alla domanda: «Credete che gli Stati Uniti dovrebbero aumentare lo sforzo militare per vincere la guerra nel Vietnam?», hanno risposto sì 2.706 preti; no, 371. Sul modo migliore di conservare la pace: «È meglio accrescere gli armamenti o cercare un’intesa con l’Unione Sovietica?», hanno risposto chiedendo più armamenti 2.740 preti; soltanto 338 han dichiarato di preferire l’opposto sistema. La terza domanda era: «Credete che noi dovremmo minare il porto di Haiphong?» 2.557 hanno risposto sì, e soltanto 485 hanno detto di no. Cerco d’immaginare l’effetto che queste cifre avran fatto in Vaticano, ma non ci riesco. Si saran consolati leggendo gli elogi della “Pravda”, o avranno anche acceso una Kent sulla tomba di Papa Giovanni?

*** Uno e trino, o doppio e ermafrodito?

«Èva pone l’uomo di fronte a se stesso, a una alterità che diventa dualità, molteplicità, movimento, divenire perenne: e quindi scelta e libertà. Sono questi i principi femminili della contingenza terrestre e del condizionamento umano, associati alla passività e al ricevere; mentre i principi virili sono quelli dell’assoluto, della fedeltà ai principi, dell’idealità, dell’astrazione, associati all’attività e al dare. ‘Sono questi due poli che costituiscono l’unità della creatura umana’, così come è riassunta in Cristo, il secondo Adamo. Se in Adamo non c’era ancora sessualità, in Cristo non c’è più. Cristo non è un maschio, è l’uomo: non l’uomo inconscio come Adamo, ma l’uomo totalmente consapevole, risorto ai valori più alti. E l’arco femminile che si dirama da Adamo si ricongiunge e si confonde con lui». (Dalla cronaca dell’intervento di Adriana Zarri, «scrittrice cattolica», a un dibattito sul sesso, nella Stampa del 19 Febbraio scorso).

Guerra e pace fra tragedie e farse

Col Vietnam siamo già a commemorare gli anniversari. Due anni fa, Kossighin andò a Hanoi, e la pace sembrò a portata di mano. Allora, si trattava semplicemente di escogitare una qualsiasi soluzione che permettesse agli Stati Uniti di uscire dal pantano in cui si erano cacciati, salvando la faccia. I russi avrebbero cercato la soluzione, pretendendo poi dagli Stati Uniti qualcosa di cospicuo in cambio. Mentre Kossighin era a Hanoi, avvennero gli attentati di Pleiku; ispirati che fossero dai cinesi o da Ho Chi Minh, provocarono la reazione americana, la guerra si allargò e prese la strada che conosciamo. Quando fu chiaro che il viaggio di Kossighin, ammesso che avesse davvero quello scopo, non era riuscito a nulla, si potè dare la colpa del fallimento ai cinesi, che avevano neutralizzato i buoni suggerimenti della Russia lontana. Il 1966 si aprì all’insegna della “grande speranza”. Mentre l’aviazione degli Stati Uniti si asteneva per trentasette giorni dai bombardamenti, assistemmo ad un nevrastenico moltiplicarsi di iniziative diplomatiche e private, su tutto il registro possibile fra il velleitario e il grottesco, in cui ebbero la loro parte generali e monsignori, diplomatici e turisti, giornalisti e governanti di mezzo mondo. La «grande speranza»

si concluse con la ripresa dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, e con l’aumento dell’impegno di guerra degli Stati Uniti. Chiedo perdono al lettore se ricordo un giudizio che espressi in queste pagine ai tempi della “grande speranza” del 1966: «La pace non viene per un principio immutabile, che sembra sconosciuto ai dilettanti della politica internazionale: una Nazione in lotta ha un margine ristrettissimo di scelte elementari davanti a sé: le soluzioni fantasiose, gli appelli sentimentali e le esortazioni cozzano, prima o poi, davanti a questa misconosciuta realtà. Ciascuno dei contendenti ha la sua pace, cui non rinuncia; e gli spettatori, che ne hanno una diversa a mezza strada, non riescono ad imporla. Anzi, non osano neppure esporne i termini».

*** Dopo un anno di guerra, gli spettatori interessati, siano essi stati sovrani, potestà spirituali, o semplici privati alla ricerca di vantaggi personali, non hanno cessato di agitarsi. Ma i protagonisti veri della guerra, quelli che la combattono e ne sopportano i lutti, le perdite e i sacrifici, non possono rinunciare ai loro scopi. E tanto meno possono, in quanto hanno sulle spalle un altro anno di guerra, di lutti e di sacrifici. In questo anno, il quadro è parzialmente mutato. Il Governo del Vietnam del Sud ha ottenuto la vittoria interna contro l’opposizione buddista. La pressione aerea sul Vietnam del Nord ha prodotto risultati, se non decisivi, notevoli, logorando le capacità di resistenza del piccolo e povero Stato; la lotta terrestre nel Sud, sempre più

aspra, ha ridotto le forze vietcong, sia nel numero che nella capacità combattiva. La Cina appare assorbita nei suoi travagli interni, e non è più in condizione di portare l’aiuto di prima. La situazione si è lentamente rovesciata a vantaggio degli americani. Non fidatevi del suono delle parole. Sembra che essi non chiedano nulla: appena “un segno di reciprocità”; davvero poco, non è vero? Appena un gesto. E invece, è tutto. Chiedono che il Vietnam del Nord cessi di infiltrare uomini e rifornimenti al Sud: ossia, la pura e semplice confessione che Ho Chi Minh ha rinunciato a vincere la partita; e non solo questo, ma addirittura che rinuncia a continuare il giuoco della guerra. D’altra parte, sembra che anche Ho Chi Minh abbia ribassato il suo prezzo: si accontenta della «cessazione incondizionata e permanente dei bombardamenti». È naturale che tutto il sentimentalismo della platea mondiale veda in questa richiesta di un povero vecchio un’implorazione per poter riflettere e decidere con dignità di forme e sollievo di spirito. Mentre il povero vecchio chiede soltanto di poter continuare la guerra. Ossia, chiede che gli si conceda di cominciare trattative, interrotte le quali, il suo svantaggio strategico possa essere colmato. Ha rinunciato alla vittoria immediata; ma non a quella finale. Non può rinunciare a cercare di raddrizzare la situazione per avere carte migliori in mano, se verrà il momento di trattare. E quando tratterà, ammesso che questo momento arrivi mai, tirerà i negoziati talmente in lungo, che riuscirà a guadagnare in quell’intervallo (i negoziati sulla

Corea durarono due anni) quel che avrà perduto in questi ultimi due anni. Come? È semplice. Una tregua paralizzerà le forze regolari, ufficiali, vistosamente visibili e controllabili, degli Stati Uniti; terrà fermi al suolo gli aeroplani da ricognizione o da bombardamento. Ma non impedirà lo sgusciare dei piccoli uomini in tunica nera lungo i sentieri della giungla; non potrà vietare il traffico delle minuscole imbarcazioni lungo la costa. Né vi sarà sapienza di ufficiale canadese, polacco o messicano, d’una qualsiasi commissione d’armistizio, capace di controllare se le unità ribelli nascoste nella giungla o fra le risaie riceveranno nuove armi, nuove munizioni, o aggiunte di effettivi. Se Ho Chi Minh sospende l’infiltrazione di uomini e rifornimenti al Sud, è perduto, e lo sa. Se non la sospende, gli americani se ne accorgono con la ricognizione aerea e ricominciano i bombardamenti. Tutte le sospensioni dei bombardamenti, lunghe o brevi, finora, non sono riuscite a quadrare questo circolo. Ho Chi Minh non può fare a meno di continuare l’infiltrazione e di avvantaggiarsi delle brevi tregue aeree a questo scopo. Gli americani non possono prolungare le tregue, se non al rischio di compromettere le loro posizioni. Noi non conosciamo le ragioni segrete, se ve ne furono, che provocarono l’ondata di ottimismo delle ultime settimane nelle capitali occidentali. L’ottimismo crebbe via via che crescevano i turbamenti interni della Cina. Per quanti hanno sempre sostenuto che il Vietnam del Nord non era altro che uno Stato fantoccio manovrato dai cinesi, l’assioma era ferreo: dal momento che si spalanca il baratro alle sue spalle, Ho Chi Minh

sarà costretto a trattare la pace: o meglio, sarà libero di trattare quella pace che le minacce cinesi gli impedivano; naturalmente, affiderà l’incarico di rappresentarlo all’altra potenza comunista che subentrerà alla Cina declinante: la Russia. È strano che nessuna di queste due proposizioni sia stata ancora messa in dubbio. La prima non tiene nel minimo conto una realtà precisa: l’appassionato e geloso nazionalismo dei vietnamiti, siano del Nord o del Sud: si tratti di Ho Chi Minh, uomo del Vietnam centrale che governa il Nord comunista o di Nguyen Cao Ky, uomo del Nord, che governa il Sud anticomunista. Il solo modo per costringere uno dei tronconi del Vietnam a trattare la pace è abbandonarlo, solo, di fronte all’altro troncone ancora sostenuto da una grande potenza. Johnson non può farlo più. Ormai, non lo vuole neppure. Forse, era disposto due anni fa, a cogliere un qualsiasi pretesto per andarsene. Non può farlo oggi, che gli Stati Uniti hanno perduto migliaia di morti e di feriti, centinaia di aerei, hanno speso miliardi di dollari, hanno fatto del Vietnam la chiave di volta del loro sistema nell’Estremo Oriente. Johnson avrà le elezioni quest’altr’anno. Le “colombe”, ossia i pacifisti a tutti i costi, li ha già perduti completamente. Non vorrà perdere anche i “falchi”, che chiedono una conclusione vittoriosa o, quanto meno, onorevole. Quanto ai cinesi, sono stati costretti ad allentare, non ancora a lasciare, la presa sul Vietnam. Ma anche se dovranno lasciarla del tutto, non per questo Ho Chi Minh vorrà la pace. La guerra del Vietnam serviva gli interessi cinesi, è vero. Ma si trattava di

una semplice coincidenza fra gli scopi espansionistici della Cina e quelli, nazionalisti, di Ho Chi Minh. Allora, potrebbero essere i russi a costringerlo ad abbandonare la partita, abbandonandolo al suo destino. Non possono farlo, perché, se inducessero il Vietnam del Nord ad accettare, semplicemente, la sua sconfitta, darebbero la pubblica dimostrazione che le accuse cinesi ai russi di «collusione con gli imperialisti» erano giuste, e che soltanto la Cina appoggia le guerre di «liberazione nazionale». Che lo vogliano, è un altro discorso, e contrasta con la pia fandonia, stupidamente bevuta dall’occidente, secondo cui la Russia sovietica sarebbe desiderosa di pace e di stabilità. Della sua, d’accordo. Ma non di quella degli altri. Ai russi, la guerra nel Vietnam fa comodo perché logora gli Stati Uniti; fa comodo perché mette gli americani nella triste luce di guerrafondai davanti a tutto il mondo, rincretinito e sentimentale. Fa comodo, infine, perché tiene gli Stati Uniti sotto la pressione di un costante ricatto. Essi non hanno intenzione di impegnarsi direttamente nella guerra; non lo faranno mai. Possono alimentarla; con grandi spese, d’accordo. Ma quelle degli americani sono, al confronto, enormi; e in più, gli americani perdono anche morti e feriti. Il collaudo delle nuove armi riesce utile all’Armata Rossa, esattamente come riuscì utile alla Wehrmacht la prova dei suoi armamenti in terra di Spagna. Aumentando l’aiuto militare al Vietnam del Nord, i russi potranno aumentare il prezzo delle loro richieste agli Stati Uniti.

Due sole circostanze possono indurre gli ingegneri del Cremlino a interrompere l’aiuto a Ho Chi Minh, costringendolo ad accettare una tregua: l’impossibilità assoluta d’inoltrare i rifornimenti sia per la via di terra attraverso la Cina, sia per mare, con un bombardamento aereo così prolungato e costante del porto di Haiphong che vieti lo scarico delle navi. Questa è la prima. E ecco la seconda: c’è un grosso regalo che il Cremlino non si stanca di chiedere, in tutti i toni, alla Casa Bianca: quella che i russi chiamano la «sicurezza europea». Ossia, l’impegno, da parte degli americani, a costringere i tedeschi alla firma del «trattato di non proliferazione nucleare». Rispondono gli americani: ma che cosa volete di più? Abbiamo messo nel cassetto la «multilaterale», abbiamo messo alla porta Erhard con le sue patetiche pretese. Eppure, non basta. I russi vogliono una Germania totalmente priva di energia atomica, in qualsiasi forma, industriale e militare. «La Repubblica Federale dovrà aderire a questo trattato, che lo voglia o no», ha detto testualmente Kossighin a Londra. Noi non sapremo mai, se Bonn firmerà il trattato, quali segreti ricatti Washington avrà esercitato per piegare la resistenza del Governo tedesco. Possiamo immaginarli, però. Il principale di questi sarà la minaccia di abbandonare Berlino ovest.

*** Ecco, in sintesi affrettata, il quadro della situazione. Restano velleità e propositi degli altri interlocutori. Misere storie, quali meschine e quali vergognose. C’è il Vaticano, che prosegue in

Vietnam la sua ostinata marcia verso Mosca. L’Arcivescovo Sergio Pignedoli, durante la sua recente visita a Saigon, ha esortato i capi dei due milioni di cattolici sud-vietnamiti, poco propensi alla “distensione” coi comunisti, a considerare in modo disinvolto e progressista l’eventualità di far pace coi Vietcong. E difatti, ci sono giornali cattolici a Saigon che attaccano apertamente «quei cattolici che sono pronti a sacrificare il Vietnam», pur di raggiungere proficui accordi in Europa orientale. C’è la Gran Bretagna. Soltanto in un mondo come questo, il governo inglese può sperare di essere preso sul serio. Non v’è, nell’intero mondo occidentale, un governo la cui posizione sia più squallida di quella britannica; neppure il nostro. La sua pericolante stabilità economica dipende dalla buona volontà degli Stati Uniti e dai bassi servizi che Londra rende al suo alleato americano; e tuttavia, la stabilità parlamentare del governo laburista poggia anche sugli estremisti di sinistra e, dunque, sui bassi servizi che Londra è disposta a pagare a Mosca. L’Inghilterra è un Paese che entro quest’anno finirà di smobilitare completamente le sue posizioni imperiali in Asia. È un Paese, come scriveva due settimane fa Raymond Cartier, «che si confessa impotente a dominare la ribellione di duecentottantamila inglesi e chiede alle Nazioni Unite, tribuna settaria e attizzatrice di odio, di punirli. Questo è il punto di bassezza cui si è ridotto quello che fu il maggiore impero di tutti i tempi». Resta il senatore Bobby Kennedy, piazzista screditato e incosciente delle traballanti fortune sue personali e della sua

ingombrante famiglia. Un presuntuoso imbecille che si è fatto mettere nel sacco da una falsa offerta di pace, che l’ambasciatore di Ho Chi Minh avrebbe affidato, proprio a lui, tramite il Ministero degli Esteri francese. Offerta che, come poi si è saputo, non era per nulla un’offerta, ma una spiritosa invenzione parigina che il capellone Bobby ha preso sul serio, volandosene a New York con la pace in tasca; per trovare un Johnson furente che gl’impose di smentirla, su due piedi, nell’anticamera stessa della Casa Bianca. Lasciando tuttavia, una residua curiosità su quella buffa storia; e agli esegeti più bizantini, tutto l’agio di concludere che il generale De Gaulle si era servito del melenso giovane per sabotare dei tentativi di pace che non gli garbavano; perché lui, De Gaulle, non era stato chiamato a far da paciere.

«Contra Sapientes»

Era ora che si facessero vivi. Tacevano da tanto, che ormai si dubitava della loro esistenza. Ci voleva la minaccia che qualcuno potesse ribellarsi all’ordine che le due super-potenze meditano d’imporre al mondo; ci voleva che l’umile Italia si mostrasse appena recalcitrante al suo ruolo di nazione di quart’ordine, perché i sapienti si rifacessero vivi con lettere e firme. Ci si sono messi in ottantasei, tra professori di fisica e d’altre materie, per scrivere al Ministro degli Esteri una calda raccomandazione affinché l’Italia firmi senza discutere il trattato di “non proliferazione”, così come gli americani l’hanno preparato, a eterna garanzia della potenza sovietica. L’appello si apre col fervorino di prammatica sulla straordinaria forza distruttiva delle armi nucleari. Degli enormi arsenali atomici degli Stati Uniti e della Russia, non si fa cenno. Quelli, disse il professor Arnaldi pochi giorni or sono in un’intervista, sono “dati di fatto” che non è lecito modificare, né discutere. Vanno presi come sono. È alle altre nazioni che bisogna impedire il possesso di armi nucleari, perché «porta naturalmente ad un’accentuazione, talora esasperata, della sovranità nazionale, che può divenire in tal maniera un veicolo pericoloso di aggressività e di tensione e

creare situazioni che pregiudicherebbero il cammino pacifico verso la meta del disarmo».

*** Curiosa storia. Nel Marzo 1939 l’energia atomica cominciò la sua carriera militare proprio per opera di uno scienziato italiano, Enrico Fermi, cui la terribile forza distruttiva delle nuove armi non fece alcuna paura, poiché si trattava, allora, di metterla al servizio degli Stati Uniti. Dopo che i primi esperimenti sul fenomeno della scissione lo ebbero convinto che era possibile organizzare una reazione nucleare “divergente”, Fermi non perse tempo; si mise al tavolino e scrisse anche lui, col collega G.B. Pegram, la sua brava letterina al governo degli Stati Uniti, per informarlo sulle grandi prospettive d’impiego militare della nuova forza che la scienza fisica stava liberando dai penetrali della natura. Fermi non era un israelita; nessuno gli minacciava persecuzioni in Italia. L’Università di Roma aveva secondato con spese enormi le sue ricerche, i cui frutti dovevano portare in dono alla potenza militare americana. L’Accademia d’Italia gli aveva aperto le porte fin dalla sua fondazione, premiandolo di un raro e ambitissimo riconoscimento, a ventisette anni. Fermi non fu un esule o un martire. Fu soltanto un traditore, nel senso più pieno e completo della parola, della sua patria in guerra. Quando l’Italia si trovò in guerra con gli Stati Uniti, Fermi non ebbe dubbi, né crisi di coscienza; semmai, raddoppiò i suoi sforzi, per il timore che la guerra finisse prima che la sua bomba fosse

pronta. E non crediate che Enrico Fermi, quando scelse la strada del tradimento, pensasse in alcun modo alla vittoria del bene sul male; o al trionfo sulle dittature, o alle altre scempiaggini della retorica corrente. Non ebbe neppure il sospetto di macchiarsi di tradimento. La patria dello scienziato moderno è là dove sono i mezzi più opulenti per le sue ricerche, le soddisfazioni più complete al suo orgoglio. Il movente di Enrico Fermi e dei suoi collaboratori, fossero profughi europei, israeliti e no, o americani fedeli, per pura coincidenza, al loro governo, va ricercato in un miscuglio di passione scientifica e orgoglio di casta. Nessuno ebbe preoccupazioni o timori: mentre lavoravano alla bomba atomica, non sapevano neppure contro chi sarebbe stata usata. Per quanto potevano conoscere dei futuri sviluppi della guerra e delle decisioni dei capi militari, la bomba atomica poteva essere esplosa sulle teste degl’italiani, come dei tedeschi, o dei giapponesi. Ma tutto ciò fu, per essi, indifferente. Non crediate alle angosce, ai pentimenti. Questi furono escogitati dopo, ma soltanto per la congenita paura delle responsabilità, che in quella casta va di pari passo con l’orgoglio.

*** Oggi non meraviglia se, quasi trent’anni dopo la lettera di Fermi al governo americano per indurlo a fabbricare la bomba atomica, gli allievi di Fermi ne scrivono una al governo italiano per indurlo ad una decisione contraria. L’avventura atomica non ha alcun fascino per loro. Ormai, sanno tutto. L’orgoglio di casta

si può servire ugualmente, e meglio, accodandosi al coro del pacifismo parolaio. Che importa se l’Italia e l’Europa intera rimarranno arretrate e asservite? Le due super-patrie, quella americana e quella russa, han già quanto basta loro. È verso l’una o l’altra di queste due patrie che si dirigono i vaghi e opportunistici affetti dei nostri scienziati: se poi quelle due sono addirittura d’accordo, allora è come un sogno di ecumenica unità finalmente conquistata. La loro indifferenza alle meschine e umili sorti della Nazione che li ha generati e che, bene o male, li paga, è sempre la stessa. Ma chi sono, in fondo, costoro? Non fatevi impressionare dall’altisonante nome di “scienziati”. Questa parola, col suo fascino quasi sacerdotale di ottocentesca memoria, potrà ancora fare il suo effetto sul popolino. Ma è passato il tempo in cui le leggi della scienza erano “eterne e immutabili” e, le sue verità, “matematicamente dimostrate”, si ponevano addirittura in sleale concorrenza con quelle della religione. «Sono convinto che idee come quelle della certezza assoluta, della precisione assoluta, della verità definitiva, sono fantasmi che debbono essere esclusi dalla scienza», proclamò qualche anno fa il premio Nobel per la fisica, Max Born. Non c’è più nessuna orgogliosa “visione del mondo” nei loro occhi: ma soltanto un brancolare incerto fra verità relative, sempre diverse e sempre soggette a smentita. Neppure sulla più micidiale delle loro scoperte, essi hanno alcuna signoria. Essa vive e cammina, ormai, per forza propria. Costituisce l’essenza di uno strapotere intollerabile, che due colossi rivali e complici cercano di imporre al resto del mondo.

Restino nei loro laboratori, i sapienti, e non si trasformino in zelatori postulanti di un’impostura che è soltanto politica. Nessuno crede più che quei loro bianchi camici siano paramenti sacerdotali; sono soltanto grembiali di servi.

Che sfortuna morire a dallas

Le grandi manovre della famiglia Kennedy contro Johnson continuano a tenere occupata l’America; la morte di Jack Ruby, il giustiziere di Oswald, ha già fornito nuovi spunti per queste manovre. Ora si parla, infatti, addirittura di «cancro inoculato» nel corpo di Ruby, e si lascia intendere che la confessione registrata dello stesso Ruby potrebbe essere un falso. Ma la serie di pettegolezzi, di chiacchiere, di vere e false rivelazioni delle ultime settimane non è sfuggita, nel suo insieme, a una legge che piaceva molto alle scuole della storiografia più avanzata e si esprimeva, con una espressione molto involuta e ermetica, la «eterogenesi dei fini». Con questa formula si intendeva affermare che, nella maggior parte, le iniziative storiche finiscono col produrre risultati completamente diversi rispetto alle intenzioni che le hanno generate. Esempio: la Seconda guerra mondiale scoppiò per la libertà della Polonia e la sua indipendenza territoriale, mentre ha lasciato i polacchi altrettanto schiavi di prima, con un sovvertimento totale del precedente assetto territoriale del paese: la Seconda guerra mondiale ha portato, semmai, all’indipendenza politica degli indiani, dei congolesi, dei bantù, ecc.

Così, la guerra contro Johnson, scatenata dalla famiglia Kennedy, finisce per farci sapere una quantità di cose piccanti non tanto su Johnson, quanto sui Kennedy stessi, illuminandoci sugli usi, i costumi, le convinzioni, che imperano ai vertici della più grande democrazia del mondo. Le lotte, le ripicche infantili, il miscuglio di orgoglio e stupidità, i cui echi hanno risuonato sugli Stati Uniti nelle ultime settimane non rappresentano più soltanto il completamento necessario allo sfondo di una famiglia, il cui ritratto era abbastanza noto, ma diventano parte del costume politico di un’intera nazione e della sua classe dirigente. Lyndon Johnson ha taciuto come una sfinge in tutti i giorni bollenti dell’artificiosa controversia provocata dalla pretesa dei Kennedy di bloccare la pubblicazione di un libro da loro stessi commissionato al giornalista Manchester. Eppure, tutti avevano capito che tanto rumore non poteva venire soltanto dal desiderio di Jacqueline, impedire la divulgazione di particolari di scarsa importanza quali il racconto di come la piccola Caroline apprese la morte del padre, o la cronaca del dialogo fra il Presidente e sua moglie durante l’ultima notte passata insieme in un albergo di Fort Worth, prima di andare a Dallas. Lo scopo dei Kennedy era far sapere che il nuovo Presidente si era macchiato, dopo l’assassinio del predecessore, di «contegno grossolano e volgare», senza contare i peggiori sospetti che avrebbero circolato da soli, sull’onda dello scandalo già scatenato. La legge sull’eterogenesi dei fini ha voluto invece che la figura più grossolana e più volgare l’abbia fatta Jacqueline Kennedy; e per lo scarso ritegno con cui si è abbandonata a

narrare particolari intimi di vita coniugale a un estraneo che, oltre a tutto, lavorava con un registratore a nastro ben visibile; e per la serie di fatterelli che, pur durando il silenzio del Presidente in carica, i suoi intimi si sono affrettati a far circolare, aprendo, nella polemica, la fase del «backflash johnsoniano». Anche nelle rievocazioni tendenziose scritte prendendo a pretesto la morte di Jack Ruby, l’intera famiglia Kennedy appare, fin dai primi momenti dopo l’uccisione del Presidente, tesa non tanto a piangere il congiunto, quanto a mettere a frutto l’accaduto per i futuri trionfi della dinastia. La segregazione dei due clan, quello del Presidente morto e quello del successore, cominciò, per volontà dei Kennedy, già sull’aereo presidenziale che riportava i due Presidenti, il morto e il vivo, alla base aerea militare di Andrews, a Washington. La tragica comitiva volante sull’America ancora ignara, con un codazzo di giudici federali, agenti dei servizi segreti, giornalisti curiosi e eccitati, si spaccò letteralmente in due. Johnson dovette usare per la prima volta la sua nuova autorità presidenziale per correggere l’ordine di decollo impartito al pilota dall’aiutante aeronautico di Kennedy, generale Mac Hugh, appena il feretro del Presidente assassinato fu a bordo, senza il minimo riguardo al fatto che, a bordo dello stesso aereo, c’era anche un nuovo Presidente che, per quanto frastornato e confuso, era ben vivo, e doveva prendere possesso della sua carica, specialmente per la possibilità (fatta subito presente dal Pentagono) che l’uccisione di Kennedy facesse parte di un più vasto complotto con implicazioni internazionali e più

vaste conseguenze. All’arrivo a Washington, le due fazioni erano già schierate. I Kennedy scesero, con la bara, dall’uscita posteriore dell’apparecchio, e quando Johnson cercò di unirsi al piccolo corteo che si apprestava a traversare la pista di atterraggio, si trovò dinanzi un gruppetto di galoppini e aiutanti della famiglia Kennedy; ebbe la sensazione precisa che il loro scopo fosse quello di impedirgli di accodarsi al gruppo e se ne andò, forse pensando che non era il momento giusto per leticare.

*** A quel punto, però, il clan degl’irlandesi aveva già abbozzato, nelle grandi linee, il piano di quella “leggenda Kennedy” che sarebbe stata divulgata con tanta fortuna nei mesi e negli anni successivi. Infatti si sa per certo che, nella serata stessa, lo stato maggiore famigliare e politico della famiglia si riunì alla Casa Bianca per un concistoro sul tema di come adoperare il funerale e la sepoltura «nel modo migliore per costruire l’immagine di Kennedy». La signora Jacqueline spedì subito lo storico domestico, Arthur Schlesinger, alla biblioteca del Congresso, perché si procurasse la descrizione particolareggiata degli addobbi allestiti nella East Room della Casa Bianca dopo che fu ucciso il Presidente Lincoln. Fu chiaro subito che nell’intenzione della famiglia Kennedy il paragone col sedicesimo Presidente degli Stati Uniti, ucciso novantotto anni prima, doveva risultare il punto di partenza di un accuratissimo e perfezionatissimo mito storiografico: dovevano apparire entrambi, Lincoln e

Kennedy, caduti sullo stesso fronte di battaglia, l’emancipazione dei diseredati e la redenzione dei miseri: in definitiva, sulla trincea dei “diritti civili”. Kennedy era stato ucciso durante un viaggio in mezzo al Sud rissoso, retrivo, e, a suo tempo, separatista; così come quel Giovanni Wilkes Booth che aveva ammazzato Lincoln, aveva gridato, al momento di sparare, che intendeva «vendicare il Sud». Ci fu soltanto una piccola contraddizione con la realtà dei fatti, che Jacqueline, abbastanza intelligente per rendersene conto, non mancò di rilevare con stizza davvero stramba: «Ci mancava soltanto questa», proruppe la vedova: «che non gli han dato neppure la soddisfazione di morire per i diritti civili: è stato soltanto un piccolo, stupido comunista». La frase la dice lunga sulle idee e i sentimenti della famiglia, passata, dalle convinzioni ultra-reazionarie del vecchio papà Kennedy, allo sfruttamento del mito sociale interno, considerato il più adatto a portar voti e consensi ai vari membri del clan. I comunisti sono, al massimo, «silly», poveri e piccoli sciocchi, nella considerazione dell’America radicale. Pertanto, la guerra contro di loro, non è “sentita”. Nessun giornalista radicale americano si sarebbe degnato di andare a vedere le sofferenze delle popolazioni di Napoli, o di Dresda, o di Tokyo, sotto le bombe al fosforo per commuovere l’opinione pubblica del suo paese: ma le sofferenze della popolazione di Hanoi sono un’altra cosa per gente che, se potesse, sgombrerebbe dall’oggi al domani dal Vietnam, per cominciare una guerra molto più gradita e sentita: quella contro il governo bianco di Jan Smith sulla Rhodesia, per esempio.

Anche il discorso sul povero stupido comunista doveva avere un luminoso avvenire, se ci si pensa bene: e l’ha avuto nell’infinità di riserve e di sospetti da cui è stato circondato il cosiddetto «Rapporto Warren»; sospetti fondati sempre sull’intento di scagionare un comunista, sia pure assassino per causa di un personale squilibrio psichico, per dare la colpa ad altre forze. A quelle che, con una frase idiomatica ormai passata di moda, si designavano nel loro complesso da noi come «la reazione in agguato». Tanto è vero che Jacqueline si sentì in dovere di usurpare le funzioni di governo del successore di suo marito, scrivendo una sua lettera a Nikita Krusciov, in cui chiamava il dittatore rosso poco meno che erede testamentario del defunto Presidente americano nella lotta per la pace nel mondo. L’accostamento con Lincoln divenne talmente ossessionante per la vedova, da indurla a fare incidere di nascosto, nei giorni in cui restò alla Casa Bianca dopo la morte del marito, sul caminetto della camera da letto che era stata occupata da Lincoln, un’iscrizione che tramandasse ai posteri come anche John F. Kennedy vi avesse dormito fra il 1961 e il 1963. Alla riunione notturna nella Casa Bianca avevano partecipato anche Sargent Shriver, cognato del Presidente, e Angier Biddle Duke, già capo del protocollo al Dipartimento di Stato, incaricati entrambi di studiare un «funerale di stile europeo». L’intera famiglia e gli amici e assistenti aulici si dedicarono ai particolari delle pompe funebri con zelo di competenti. La Social Secretary di Kennedy, signorina Letitia Baldridge, fu udita proclamare: «A montare lo spettacolo, ci penso io». In effetti, come ha osservato

un amico di Johnson, l’intera serie di avvenimenti successivi all’assassinio è stata tutta una calcolata, artificiosa e emotiva costruzione, volta non allo scopo di tributare un onesto rispetto quale scaturisce da genuino dolore alla memoria di John Kennedy, ma ad amplificare l’immagine della famiglia e del nome dei Kennedy. I Kennedy si sono comportati come se credessero non già di assistere ad onoranze rivolte dal popolo americano alla memoria del suo Presidente, ma all’insediamento dell’intera famiglia nel suo complesso in una perpetua posizione di potere nella società americana. Per i Kennedy, la Casa Bianca è ancora la “loro casa” e Jacqueline è una regina vedova in esilio, che aspetta il ritorno della dinastia sul suo trono. Questo atteggiamento dimostrò pretendendo di restare alla Casa Bianca quattordici giorni dopo la morte di suo marito. Eleonora Roosevelt, non certo meno petulante di lei, e afflitta da qualche decina d’anni di più, lasciò la residenza ufficiale il giorno successivo alla morte del marito. I Kennedy, come si è detto, sgomberarono in due settimane, ma ponendo alcune condizioni: la EastRoom doveva restare parata a lutto per trenta giorni, con drappi neri alle pareti, anche a costo di rinviare gli impegni ufficiali. La signora Kennedy continuò ad adoperare i servizi automobilistici e aerei della Presidenza «per settimane» ancora: chiese di usufruire di un giardino pensile allestito sul tetto dell’edificio, per i suoi figli, per altri trenta giorni. Ricordò a Johnson, in un voluminoso memorandum, la sua grande opera svolta per il nuovo arredamento della Casa Bianca, chiedendo che questo insigne capolavoro di decorazione fosse affidato alla cura di una commissione; e ciò con lo scopo di vietare alla nuova

First Lady, che prendeva il suo posto, ogni velleità di mutamenti interni. Espresse un «grande dolore» per non avere un ritratto del marito dipinto durante la sua presidenza, ottenendo che il nuovo governo le versasse 25.000 dollari (quindici milioni di lire) per pagare l’esecuzione di un ritratto postumo. Infine, chiese che il Capo Canaveral venisse ribattezzato Capo Kennedy; e anche questo ottenne, nonostante le proteste della città di Cape Canaveral. Miserie, ciafruglie storiche. Ma occorre tenerne conto: su queste, sugli echi e sulle reazioni che queste suscitano, si modella il riverito giudizio del popolo sovrano nelle grandi democrazie.

Con mao o senza...

Per un momento, è sembrato che tutto tornasse come ai vecchi tempi: una rivolta contro Mao Tse-tung, un cambio di governo in Cina e, infine, la rinnovata amicizia tra russi e cinesi. A questa prospettiva, perfino l’isterico odio occidentale contro Mao ebbe un attimo di sosta, un barlume di meditazione: si torna al monolito comunista? Al solo blocco compatto, dal Mar Baltico al Mar Giallo, dei tempi della guerra in Corea? La visione è durata un attimo solo, e ha potuto spaventare soltanto gli osservatori superficiali, i galoppini dell’accordo russo-americano per la spartizione del mondo. Poi si è cominciato a capire che non ci si trovava di fronte a un contrasto ideologico, o allo scontro di diversi principi in politica estera, ma a una lotta classica per il potere. Novità comuniste e irresistibili abitudini nazionali s’intrecciarono con effetti curiosi: le “purghe” e le “autocritiche” del masochismo comunista si allearono agli spasimi suicidi della Cina di sempre: dietro l’impersonale volto dell’esercito, ossia delle quattro armate regionali, si affacciarono ridacchiando gli antichi “signori della guerra”; i sette governatori delle sette province sembrarono rinverdire i fasti del feudalesimo antico: mogli trionfanti, erette a custodi della purezza ideologica, e mogli in

disgrazia, costrette a recitare l’atto di pentimento, rievocarono le madame intriganti, le imperatrici scaltre, le concubine padrone dei tempi che furono. Il vecchio Mao si stava disfacendo di colleghi e rivali: nient’altro che questo. Il sistema prescelto, scatenare la piazza contro i suoi avversari di governo, poteva sembrare insolito se si pensa che chi se ne valeva era, a sua volta, ben insediato in posizioni di comando. Ma ogni rivoluzione ha la sua mitologia e i suoi metodi. Il vecchio Mao è davvero un romantico che cerca di riportare indietro le lancette del suo orologio rivoluzionario, per rivivere gli affascinanti giorni della giovinezza? 0 teme l’infiacchirsi della rivoluzione in una ricerca di vita più tranquilla, tesa alla conquista del benessere materiale, come è accaduto nella Russia dopo la morte di Stalin? 0 ha cercato semplicemente di disfarsi di concorrenti pericolosi, facendo intanto credere al suo popolo che a costoro bisognava attribuire la colpa dei vari insuccessi, di politica estera e di economia interna? Le diverse opinioni sulle intenzioni del dittatore cinese non cambiano il quadro d’insieme: giunto il diciannovesimo anno della rivoluzione vittoriosa, il dittatore ha sentito che l’ora delle purghe era suonata. Anche Stalin l’aveva sentita giungere al diciannovesimo anno, il 1936; ma è una pura coincidenza di cabale marxiste. Stalin, semmai, voleva fermare la rivoluzione, per paura che questa lo trascinasse in una guerra esterna. Anche la procedura fu diversa. Stalin preferì la tecnica dei processi segreti, delle soppressioni fisiche immediate e violente: non è questione di predilezioni dogmatiche, ma di gusti personali e abitudini pietrificate: i sotterranei del Cremlino suggerivano ai

nuovi inquilini le stesse buone usanze dei loro predecessori. Mao non ha voluto, né potuto, imitare il maestro georgiano. Ha fatto tutto in piazza, sotto gli occhi di tutti. Forse, ha voluto tener conto della lezione appresa col crollo dell’idolo sovietico: nulla che si potesse raccontare dopo la sua morte: i colleghi rivali dovevan esser sbattuti giù di sella dal popolo stesso, lui apparire l’esecutore della volontà popolare. Ecco il significato di tutta la commedia: e ecco perché il dittatore, quando volle disfarsi degli amici e presunti eredi, chiamò in scena il popolo, invece di mandare la polizia a casa di quei signori. Aveva cominciato due anni e mezzo fa, con l’awertire i vecchi compagni, installati nei maggiori scranni del potere, che era giunto il momento di andare in riposo per cedere il posto ai giovani; naturalmente, non parlava di cedere il suo, perché lui è giovane e eterno. Gli altri dovevano andarsene; facessero il favore di dimettersi. Curiosamente, la tattica prescelta dal dittatore rosso della Cina per liberarsi dei suoi oppositori reali o immaginari, somiglia a quella di Papa Montini. Non gli fecero il favore; non si dimisero. E allora, arrivò l’ora delle “guardie rosse”: queste dovevano fornire all’epurazione il suggello della legittimità rivoluzionaria. Non era il satrapo che si disfaceva dei suoi rivali: era il popolo che innalzava lui, il «Sole rosso Mao» in alto nel cielo, e, nello stesso tempo, traeva giù di sella quanti non erano degni di brillare accanto a lui. L’ora delle «guardie rosse» arrivò il 18 Agosto dell’anno scorso: nella sterminata piazza Tien An Men, fra il palazzo dell’Assemblea popolare e il Museo della rivoluzione, Mao Tsetung comparve con accanto l’erede designato, Lin Piao, che

nell’encomiastica ufficiale cinese gode del titolo di «più prossimo compagno d’armi del Presidente Mao». La lotta che si è scatenata dopo, si è accesa su questa designazione. Se si riflette a quanto Mao Tse-tung deve aver meditato sugli eventi seguiti in Russia dopo la morte di Stalin, si comprende anche la resistenza degli esclusi dalla successione. La lotta per il potere al Cremlino è cominciata intorno al letto di morte del padrone, perché questi non aveva provveduto a insediare il delfino durante la sua vita. La guerra dei diadochi di Mao è cominciata lui vivente, proprio perché questi aveva provveduto, da vivo, ad assicurare la sua successione. Tutti gli episodi, violenti e bizzarri, degli ultimi mesi, rispondono a questa logica: il potere di Mao scaturisce direttamente dalla vittoriosa guida della rivoluzione. Il potere del successore doveva essere santificato da un supplemento di rivoluzione scatenato per fornire una nuova legittimazione rivoluzionaria. Riesce difficile vedere gli attuali sussulti interni della Cina altrimenti che come una lotta di persone per il potere. Anche risalendo ai pochi dati biografici di quelle figure della classe dirigente cinese che non siano per noi semplici ombre con l’etichetta di un nome, non si riesce a trovare precisi schieramenti ideologici o politici. Prendete il segretario del partito comunista, Teng Hsiao-ping: fu lui che, giunto a Mosca il 5 Luglio del 1963 per l’ultimo tentativo di “spiegazioni” ideologiche fra i due partiti comunisti, interruppe bruscamente le conversazioni dopo pochi giorni, mentre da Pechino rimbombavano le accuse e le minacce contro il patto per

l’interdizione degli esperimenti nucleari, definito «una cinica frode per imbrogliare i popoli del mondo». Se, dunque, gli avversari di Mao sono quelli che Mosca chiama, con virtuosa unzione, “la parte sana” del popolo cinese, la presenza in mezzo a loro di Teng Hsiao-ping, intransigente accusatore del “revisionismo” sovietico, sembra stonata e contraddittoria. Poi, si trova, accanto allo stesso Teng Hsiao, quel Tao Ciu in cui si ravvisava, fino a ieri, l’uomo di Mao nel partito, messo alle costole di Teng Hsiao per sorvegliarlo. Insomma, tutta l’analisi delle posizioni personali dei diversi capi cinesi protagonisti degli eventi degli ultimi giorni, porta ad escludere che ci siano schieramenti precisi di posizioni e orientamenti. Né bisogna aspettarsi sostanziali modifiche nella politica estera cinese. Chiunque possa risultare vittorioso, sia nella contingenza immediata, che nella lotta a più lunga scadenza per l’effettiva successione a Mao Tse-tung, la posizione della Cina come antagonista asiatica dell’unione Sovietica è ormai irreversibile. La rivoluzione francese, dilaniata dalla ferocia reciproca delle sue fazioni interne, ritrovò la sua unità in una guerra esterna. E chiunque prevalga alla fine della tragicommedia che si svolge sulle piazze della Cina, si tratti dello stesso Mao e del suo delfino, o di un Mao ridotto a comparsa giubilata nell’olimpo delle deità rivoluzionarie; si tratti addirittura (ma non sembra probabile) degli oppositori di Mao senza più l’attuale dittatore, sentirà la irresistibile tentazione di ricreare l’unità interna con l’aggravare la tensione internazionale.

In quale direzione? Ecco il vero problema. Anche qui non sembra lecito nutrire dubbi: verso l’Unione Sovietica. La novità, la grande e vera novità cinese di questi ultimi mesi è che le ambizioni nazionali, il rancore collettivo dei cinesi si rivolgono sempre più manifestamente contro la Russia. Il nemico numero uno non sono più gli americani, come si credeva generalmente (e ingenuamente) fino a poco tempo fa: la stessa guerra del Vietnam, vista con l’occhio dei cinesi, è un incidente momentaneo, un episodio periferico. «Chi occupa milioni di chilometri quadrati di suolo cinese, non sono gli americani, ma i russi», mi sono sentito dire più volte a Hong Kong e in altri luoghi dell’Estremo Oriente. Una guerra fra russi e cinesi è giudicata dai servizi di informazione giapponesi “non immediatamente probabile”, ma “possibile”. I sovietici hanno schierato quaranta divisioni in Asia, la maggior parte delle quali lungo il confine con la Cina e la Mongolia esterna. Cinque divisioni corazzate sono state trasferite dalla Germania Orientale alla Siberia Orientale. L’aumento di spese militari recentemente deciso dal Governo sovietico deve servire all’armamento di nuove divisioni aerotrasportate, in formazione presso il Sinkiang e la Manciuria. Le forze russe siberiane vengono equipaggiate con «quanto di meglio l’industria sovietica degli armamenti produce». Per parte loro, i cinesi hanno schierato sessantacinque divisioni lungo il confine sovietico, dove gl’incidenti di frontiera si sono continuamente moltiplicati negli ultimi anni. Il rapporto segreto di Breznev, pronunciato il 12 Dicembre scorso contro la Cina, rappresenta l’ultimo tentativo di mascherare la disputa

territoriale dei due imperi dietro i giri di frasi delle controversie ideologiche. Ultimo e sterile, perché porterà, tutt’al più, ad una sconfessione del comuniSmo cinese che non otterrà neppure l’approvazione unanime degli altri partiti comunisti, e resterà senza effetti pratici. L’Occidente non si è mai trovato in condizioni altrettanto vantaggiose nella sua lotta contro il comuniSmo: la tensione fra i due giganti comunisti cresce e si dilata fino ad assumere proporzioni incredibili ancora poco tempo fa. Fare la corte alla Russia, come sembrano aver deciso i responsabili della politica americana, in questo momento, significa prendere a calci una meravigliosa opportunità storica. Sacrificare ai russi i propri alleati europei è un colossale errore di prospettiva politica, che gli americani stanno aggravando ogni giorno. Via via che la tensione crescerà in Asia, la posizione dei russi risulterà indebolita in Europa: ma se saranno gli americani a rafforzarla e a sostenerla, i popoli europei saranno costretti a vedere negli Stati Uniti non più i loro difensori di un tempo, bensì i complici dei loro oppressori.

Per un milione di dollari

La vera storia del libro di William Manchester

Racconta Arthur Schlesinger jr., verso la chiusa del suo libro dedicato al governo di John Kennedy, che un capo tribù del Sudan, udita la notizia dell’assassinio di Dallas, osservò che «era terribile che il figlio di Kennedy fosse così piccolo: passerà molto tempo, prima che possa diventare lui il capo». Ma il vecchio negro Bisharine non sapeva che c’era già pronto l’Attorney General o Ministro della Giustizia, Robert Kennedy detto Bob; pronto a brigare per la successione, appena levato di mezzo l’usurpatore ora seduto su un trono che il capo dei Kennedy aveva destinato alla sua propria discendenza. Bob aveva appena cominciato a muovere i primi passi intorno alla Casa Bianca occupata dall’usurpatore, che cominciò a circolare una patetica leggenda: alla convenzione democratica di Los Angeles, nel 1960, John Kennedy ottiene la candidatura del suo partito e, senza perdere un istante, scarabocchia un bigliettino, o meglio, una bustina di fiammiferi, con questa frase: «When III be through, what about you?», ossia: «Che te ne pare di prendere il mio posto, quando io avrò finito i miei due turni di presidenza?», e lo passa al fratello. Bob, dunque, segnò nell’agenda il 1968 come il suo anno fatale. E se oggi vuol mantenere fede alla scadenza, non è tanto l’ambizione a

guidarlo, quanto un impegno preso col fratello morto. Le cronache non dicono se Bob abbia, alla sua volta, preparato bigliettini per il fratello Edward; non sono ancora necessari alla mitologia familiare; ma se occorreranno, salteranno fuori. Accadde, tuttavia, che un nuovo presidente entrasse in scena in quel modo che si sa; e quindi, secondo ogni apparenza, Bob dovette spostare la sua data fatale al 1972, quando anche Johnson fosse stato through. A meno che non accadesse qualcosa di talmente grave da indurre il partito democratico a infrangere la tradizione per cui un presidente uscente viene ripresentato agli elettori per la seconda volta. Questo qualcosa di tanto grave, Bob Kennedy non sembrava avere né i mezzi, né le intenzioni di farlo scoppiare. Accettò il «rapporto Warren», secondo cui il solo Lee Oswald aveva ucciso suo fratello. Nei riguardi di Johnson, svolse un’azione di subdolo ma cauto disturbo. Si collocò regolarmente alla sua sinistra, in ogni occasione; si trattasse di lotte razziali o di problemi internazionali, Bob assumeva la posizione più facile e rumorosa: la più demagogica, in definitiva, avendo però cura di non rompere apertamente con la presidenza, e di non far rinverdire contro di sé le passate accuse di eccessiva tenerezza per i comunisti. Il suo sistema preferito sembrò quello di chi tira il sasso e poi nasconde la mano, con virtuose proteste di amicizia e innocenza. I suoi amici e collaboratori (ne ha molti, tra volontari e stipendiati) furon ripartiti in due schiere: le forze di rottura, che hanno l’incarico di divulgare malignità e critiche sull’amministrazione Johnson, captando così il favore dei radicali e delle sinistre; e quelli il cui compito consiste nello smentire, correggere o attenuare,

secondo la necessità, le chiacchiere messe in circolazione dai primi, così da non compromettere i rapporti col governo fino all’aperta rottura, e di mantenere il favore dei moderati e dei notabili del partito. Così, quando il generale Gavin sostenne la bislacca tesi secondo cui le truppe americane in Vietnam avrebbero dovuto ritirarsi in quattro o cinque campi trincerati, abbandonando il resto del territorio, le forze di rottura del brain trust kennediano seconda edizione fecero sapere che «il senatore era d’accordo col generale Gavin», e le forze di copertura intervennero subito dopo con un’abbondante secrezione di umori patriottici, seguiti da un viaggio del senatore in persona fra i bravi ragazzi che combattono nel Vietnam. Così, mentre Lyndon Johnson volava a Manila per aprire sugl’interroriti satelliti dell’impero americano in Asia l’ombrello della sua protezione nucleare, il senatore Bob Kennedy si faceva intervistare all’università di Berkeley, mecca del pacifismo radicale, e dichiarava che, secondo lui, il generale Ky non aveva l’appoggio della popolazione vietnamita. La dichiarazione significava, insomma, che Johnson era andato a Manila a tener bordone a un fantoccio di dittatore neppur sostenuto dal suo popolo. Fecero eco i giornali: «Bob Kennedy silura la conferenza di Manila». E allora intervenne lo stato maggiore al completo: otto assistenti in carica, più un numero imprecisato di bibliotecari, schedatori, galoppini, giovani ricercatori di non si sa che cosa, per assicurare ai soliti giornalisti che il senatore non aveva inteso criticare la politica del presidente. Kennedy in persona dichiarò a un suo confidente che era «molto amareggiato da questo

pasticcio». Il confidente fece circolare l’amarezza del senatore con la velocità che il caso richiedeva. Commento di un giornale: «Formidabile, questo Kennedy. Anche i suoi pasticci sono minuziosamente calcolati». Vennero le elezioni del Novembre, e sia Johnson che Kennedy uscirono piuttosto malconci. Nessuno dei due era direttamente impegnato; la lotta era riservata ad amici e protetti. Ma lo stato maggiore dei Kennedy ebbe cura di insinuare che, dove un candidato democratico era stato battuto da un repubblicano, si trattava quasi sempre di un candidato johnsoniano, mentre il vincitore, per repubblicano che fosse, apparteneva tuttavia a quell’ala radicale dei repubblicani che più si avvicina al «pensiero del senatore». Il caso più vistoso fu quello di New York, dove il governatore repubblicano Nelson Rockfeller batté Frank O’Connor, democratico, ma inviso ai Kennedy. Il giovane lupo dai denti lunghi si astenne dai commenti malevoli. Dette prova formale di lealtà alla causa, sostenendo il candidato scelto dal partito contro le sue personali preferenze. Ma lo stato maggiore fece risuonare per tutto il territorio alti sospiri: se avessero lasciato scegliere a Bob... In definitiva, che cosa voglia Bob, di preciso, nessuno lo sa. La sua, si dice, è un’alternativa di generazione, non di programmi. E sia. Ma una cosa Bob vuole senza esitazioni, il potere. Cronisti obiettivi, che hanno seguito i suoi comizi, han riferito sul suo modo di arringare la folla, la sua tecnica di porre domande perentorie elementari, cui bisogni rispondere con cori di «No» o di «Sì»: tecnica forse rivoluzionaria per gli Stati Uniti, che non arriva poi tanto nuova alle orecchie europee: han detto della sua

grinta, del suo gestire, delle sue camicie, ma non hanno potuto riferire una sola idea. Ci han presentato il giovane senatore come un tormentato dai problemi sociali, che ama aggirarsi nei luoghi sacri alla missione dell’Esercito della Salvezza: all’ombra dei gazometri nelle periferie disperate, fra le baracche dei reietti, nel ghetto negro di Bedford Stuyvesant: luoghi certamente deliziosi per un miliardario che possa poi rifarsi delle disgustose impressioni e dei cattivi odori nella verde pace di Hickory Hill, organizzare piacevoli partite di pesca lungo il Fiume dei Salmoni, o dedicarsi aH’alpinismo, ma in modo molto chic,sul Monte Kennedy, dedicato in Canadà alla memoria del Grande Fratello.

♦♦♦ Il ritratto del Grande Fratello è sempre sparso in numerose copie su tutti i tragitti del senatore che, allo sfruttamento del mito politico di John, all’impiego del suo famoso “staff” di cervelli grandi e piccini, non trascura di aggiungere l’arma di una somiglianza fisica continuamente verificata e raggiustata, così potente sul sentimento materno dell’elettorato femminile americano. Eppure, alla fine del 1966 Bob Kennedy deve aver sentito che la sua grande causa non faceva importanti progressi. Alle schiere dei suoi fanatici si contrappongono ostilità e riserve tenaci. La popolarità di Johnson diminuisce, ma quella di Bob non cresce in proporzione. Bob si era forse rassegnato ad aspettare il 1972, quando anche Johnson avesse finito il suo turno. Per il 1968, si

sarebbe limitato a togliere la vicepresidenza allo scialbo Hubert Humphrey. Ormai, si assicurava negli Stati Uniti nelle ultime settimane, Johnson poteva sperare di spuntarla contro i repubblicani nel 1968 soltanto imbarcando il mito dei Kennedy sul suo carrozzone elettorale. I hate that fellow, io odio quel tipo, ha detto, parlando di Bob ai suoi fidi: « Se posso farne a meno, non lo voglio fra i piedi. Ma non esiterei un istante a offrirgli la vicepresidenza, il giorno che mi fosse davvero necessario». L’idea non doveva dispiacere ai notabili del partito: tutto tornava in un conto di dare e di avere. I voti di Johnson, presi dal Sud, avevano offerto a Jack il piccolo margine necessario a trionfare su Nixon: Bob poteva restituire il favore ricevuto dal Grande Fratello. Ma a questo punto, la trappola che Bob aveva preparato al presidente, è scattata da sola. È la trappola di Dallas, la cui esca è costituita da Jacqueline, la custode designata del mito: una vestale fabbricata nella famiglia Kennedy, il cui perpetuo dovere è recitare la parte di vedova inconsolabile; tanto inconsolabile, poveretta, che le han proibito perfino di mettere piede al ballo che Truman Capote ha offerto, al Plaza, alla café-society del mondo intero. Alla vecchia mammà Kennedy, benché in età canonica più adatta alla rocca e al fuso che alle danze, fu permesso: e permesso fu alle tre sorelle del Grande Fratello. Ma la vedova ebbe un secco divieto: deve campeggiare, nella fantasia della nazione, con la sottana insanguinata di Dallas. C’è un regista di fiuto superiore nella distribuzione dei ruoli della famiglia Kennedy; che ballino, che parlino, che recitino sulle scene, che volino a Firenze allagata, i Kennedy hanno tutti la loro pietra da

portare al cantiere. Jacqueline deve portare quella sottana. Dev’essere la vedova tragica, ora e sempre. Non conta se, per le sue personali evasioni, essa preferisce le sottane corte sopra il ginocchio. Anzi, meglio sfruttarla, per quel che può servire, prima che le sottane si accorcino ancora. Deve recitare fino in fondo la sua parte del dramma, che è stata decisa per sempre, laggiù, a Dallas, dove i bambini delle scuole applaudirono, teneri e felici, quando i loro maestri comunicarono che il presidente tanto odiato dai loro babbi era stato ucciso (anche questo lo dice Schlesinger). Dallas era l’arma segreta di Bob, la sola capace a produrre quel qualcosa di tanto grave che doveva convincere la convenzione democratica a negare a Johnson la candidatura presidenziale per il 1968. Lo stesso Schlesinger, nelle ultime pagine del suo libro, ha l’aria di preparare una trama che può condurre molto lontano. Tutte quelle storie di minacce velate e palesi, di schioppettate, di pallottole che, a sentire il suo racconto, fischiavano già nell’aria e nelle pagine di giornale prima che John Fitzgerald Kennedy posasse i piedi all’aeroporto del capoluogo texano, appaiono oggi le pedine, accuratamente disposte, per un nuovo giuoco. Un giuoco che esigeva, tuttavia, personaggi maggiori e più cospicui, che non le solite comparse del «trust dei cervelli». Ci voleva qualcuno di più grosso, da bruciare nella funzione di rottura, nello spargimento delle voci e delle calunnie, per poi lasciare al senatore Bob il compito magnanimo di rimettere le cose a posto. Nulla fu lasciato all’improwisazione. Il senatore ha avuto, dopotutto, piccolissima parte nella faccenda del libro di

William Manchester Morte di un Presidente: la parte strettamente indispensabile per poter comparire, al momento buono, a ritirare il placet all’ignaro scrittore e a chiudere la bocca irresponsabile alla cognata. Jacqueline fu lasciata a bella posta libera, liberissima (non è già strano questo?) di chiacchierare per dieci ore con Manchester, che registrava accuratamente ogni parola. Dicesse pure, la vedova: lanciasse pure le sue insinuazioni. E Jacqueline vuotò il sacco. Disse che Kennedy non aveva simpatia per Johnson, e non lo stimava: d’altronde, non lo stimava nessuno, tanto è vero che non si trovava, quel giorno, a Dallas, chi volesse prendere posto in macchina accanto a lui. Quando lei salì sull’aereo presidenziale con la bara che conteneva l’uomo che fino a poche ore prima era stato suo marito, e presidente degli Stati Uniti, trovò che i posti migliori erano già stati occupati dal nuovo inquilino dell’Air Force one e della Casa Bianca. Quello stesso nuovo inquilino che pochi giorni dopo cominciò a darsi da fare per insediarsi nella residenza ufficiale, senza neppure lasciarle il tempo per ricevere le visite di condoglianza e fare le valigie. Quell’inquilino che osò pretendere di rivolgersi al Congresso, con un suo proprio messaggio, quattro giorni dopo la morte del predecessore; tanto che ci volle Bob per portare i giorni da quattro a cinque. Quel nuovo inquilino che neppure Bob stimava, tanto è vero che i necessari rapporti fra il partito dei Kennedy e l’usurpatore dovettero essere affidati ad intermediari. Quel nuovo inquilino, tanto frettoloso di insediarsi al potere, che infine (non lo sapevate?) aveva fatto di tutto per persuadere Kennedy a recarsi a Dallas. Povero Jack, lui non

aveva nessuna voglia di andare a Dallas quel giorno. Ci andò per fare un piacere a lui, a Lyndon Johnson... Ombre, si dirà. Dopotutto, anche Bob Kennedy accettò per buono il “rapporto Warren” che oggi non accetta più nessuno. Ma sono le ombre in cui la figura di Bob cresce. Il libro di William Manchester doveva essere scritto; ma non avrebbe mai dovuto arrivare nelle librerie, secondo i calcoli di Bob. Noi non sappiamo quanti furono a conoscenza della sinistra manovra, i cui lineamenti sono, tuttavia, chiari. Il libro doveva circolare per sentito dire, esser riferito di bocca in bocca: soltanto così le voci inconsistenti, i sospetti impossibili da provare, sarebbero diventati accuse opprimenti, realtà politiche: doveva comparire in estratti qua e là, all’estero, diventare una scandalistica ghiottoneria. E Robert Kennedy, detto Bob, sarebbe arrivato, al momento buono, a farci la figura dell’arcangelo della verità, del virtuoso soffocatore di scandali che, nonostante l’antipatia personale per Johnson, si schierava al suo fianco, allorché uno scrittore, abusando, naturalmente, della fiducia dei Kennedy, fosse giunto addirittura a sfiorare le oblique soglie di un’accusa di assassinio. Così Bob avrebbe potuto beneficiare dello scandalo che doveva atterrare il rivale, e insieme, dell’aureola di giusto e probo salvatore del suo avversario, ormai innocuo. Una volta che il sasso aveva colto il bersaglio, non vi sarebbe più stato bisogno di nascondere la mano: quella mano si sarebbe prontamente levata in soccorso del vecchio e malazzato rivale, così ridotto, da presidente in carica a cadavere politico senza speranza. Se poi il libro, nonostante tutto, fosse riuscito a circolare ugualmente, in

ogni caso sarebbe rimasta al senatore la bella figura di aver tentato di tutto per impedirne la pubblicazione. E a Jacqueline, ormai inservibile, la fama dell’incosciente resa folle dal dolore. Ma qualcosa si è inceppato nel bel congegno. Forse, qualcosa di molto terra terra. Per esempio, l’appetito di Manchester che, fiutato l’imbroglio, deve aver visto sfumare la bella sommetta di un milione di dollari e più che, fra edizione di lusso, edizioni tascabili e pubblicazioni giornalistiche, si riprometteva dai suoi tre anni di lavoro e di registrazioni su nastro in casa Kennedy. Manchester non si è rassegnato alla parte che i Kennedy gli avevano riserbato: quella di autore di un libro nato morto. Ha infranto i patti, che dovevan prevedere la pubblicazione fra un anno, alla vigilia della lunga trafila che attraverso le elezioni «primarie» porta alla convenzione democratica; fra un anno, e non adesso. Ha messo le mani avanti, ha chiacchierato a destra e a manca, ha trovato l’appoggio di Look, coi suoi otto milioni di copie. Altrimenti, non si capirebbe perché l’incauta Jacqueline abbia definito «intempestiva e inopportuna» la pubblicazione del libro. Per un milione di dollari, Bob Kennedy rischia di veder compromessa la sua carriera; anzi, i due aspiranti democratici alla presidenza degli Stati Uniti, rischiano di eliminarsi a vicenda. L’uno, perché di lui si dice che ha fatto assassinare il predecessore: l’altro, perché fa circolare le accuse di assassinio, senza tuttavia avere le prove e il coraggio per sostenerle. Sullo sfondo, campeggia l’enigma di Dallas, dove la sola cosa chiara è che nessuno vi chiarirà nulla, mai più. In tre anni, le prove si sono distrutte, l’una sull’altra; tutte le piste si sono

cancellate e confuse. I testimoni e i protagonisti muoiono, l’uno dopo l’altro, in circostanze misteriose: come i giornalisti Jim Koethe e Bill Hunter, l’avvocato Tom Howard, la vedova Roberts, presso cui Oswald alloggiava, il taxista Whaley, il signor Lee Bowers, Edward Benadives, assassinato “per errore”. Tutto ciò accade, badate bene, nel sacrario della democrazia, nella casa di vetro, dove tutti vedono sempre chiaro: non, per carità, in un albergo Hanslbauer, sul Tegernsee, o nei meandri oscuri della Gestapo, o nei sotterranei del Cremlino.

LA «RIVOLUZIONE CULTURALE»: LE ORIGINI. 1789 - 1794

Il segnale

La presa della Bastiglia fu il segnale. Sovreccitati dall’insperata vittoria, si gettarono sui loro nemici. Il governatore della fortezza, Launay, fu tratto fuori; mentre usciva, ricevette una sciabolata alla spalla. In rue Saint-Antoine, gli strapparono i capelli. Poi, quando, tentando di scansare i colpi che gli piovevano addosso, dette un calcio a uno di quelli che lo tenevano, lo trafissero con le baionette. L’uomo che era stato colpito dal calcio fu invitato a tagliargli la testa, cosa che eseguì senza esitazione. La testa fu poi issata in cima a un forcale, e il corteo si mise in cammino verso il Palazzo Reale e il Ponte Nuovo, dove fecero inchinare il misero trofeo davanti alla statua di Enrico IV. Era la prima volta che il popolo si dilettava alla vista del sangue... Non era plebaglia, schiuma della società, come si crede sovente. Era gente ben vestita, borghesi in una parola, che trionfavano in questi cortei funebri e selvaggi... Procedura penale

Il marchese Hervé de Faudoas, M.me de Beaurepaire, sua sorella e M.lle de Faudoas, sua figlia di appena diciotto anni, morirono sul patibolo. Quest’ultima aveva scritto che la sua cagnetta aveva «messo al mondo tre piccoli repubblicani». Tanto bastò per condannarli a morte. Furono uccisi insieme il 17 Luglio 1794, senza che gli assassini risparmiassero né il pudore, né la virtù della giovinetta... Un patriota di Cherbourg, Jean-Nicolas Leroy, aveva sostituito il suo cognome con quello, meno compromettente, di Moulin. Lo mandarono ugualmente al tribunale, e di qui al patibolo, dove fu decapitato... Madame de Saint-Servan, paralitica, e la Marescialla de Noailles, che a 79 anni, non poteva alzarsi dalla poltrona, furono portate al tribunale e consegnate al carnefice. Il signor d’Ormesson era malato, come attestava un certificato medico. Fouquier -Tinville buttò via il certificato e mandò a prendere il signor d’Ormesson. Lo condussero agonizzante su una barella, e così fu mandato alla ghigliottina. Tale Calmer, presidente del comitato rivoluzionario di Clichy, fu messo a morte «perché aveva cercato di coprire di disprezzo le autorità costituite, mandando a chiedere al municipio se il suo asino era nella sede della Comune». A Lione, il 14 frimaio 1793, sessanta condannati furono uccisi a cannonate, e quelli che eran rimasti soltanto feriti, furono finiti a sciabolate dai soldati: il giorno dopo, per un’infornata di quaranta condannati, si adoperò la fanteria... La rivoluzione fra le tombe

A Saint-Denis, i registri delle deliberazioni comunali portano, alla data del 1° Maggio 1793: «Un membro ricorda che esistono ancora, nel coro dell’antistante abbazia, tracce di feudalesimo che sembrano far parte delle tombe dei re. Propone che siano visitate da intenditori per sapere se essi (sic) interessano da un punto di vista artistico»... Il 1° Agosto, la Convenzione rispondeva: «Il Comitato, e per esso il signor Barère, pensa che per celebrare il 10 Agosto, anniversario dell’abbattimento della monarchia, sia bene distruggere i mausolei fastosi di SaintDenis. Nella monarchia, perfino le tombe adulavano il re...». La tomba di Dagobert, la più vicina all’altare fu distrutta per prima. Il mirabile mausoleo di Enrico II fu fatto a pezzi, con cui si riempirono dieci carrettate. Quando ne ebbero abbastanza di mutilare le statue, aprirono i sarcofaghi... Venne anche il turno del maresciallo di Turenna (1611-1675). Aperta la tomba, si trovò una mummia più o meno somigliante al maresciallo: prima di trasferirlo in una cassa di legno, uno dei presenti chiese e ottenne di tagliargli un dito, come ricordo della cerimonia. Era Camillo Desmoulins! Per circa otto mesi, il cadavere di Turenna fu mostrato a pagamento. Il guardiano, però, non pago degli introiti di questa esibizione, tolse, ad uno ad uno, tutti i denti dell’eroe e li vendette a suo beneficio personale. Qualche tempo dopo, il corpo di Turenna fu trasferito al museo e sistemato fra lo scheletro di un rinoceronte e quello di un elefante. Il 15 Termidoro dell’anno IV (2 Agosto 1796) si fece osservare al Consiglio dei Cinquecento che il corpo del maresciallo era ancora là. Il Direttorio ne ordinò allora la traslazione al museo dei monumenti. Così, il corpo di Turenna, conservato dapprima

come curiosità di storia naturale, fu classificato come un monumento storico... La punizione di Enrico IV

Fu dietro istigazione di Robespierre che furono saccheggiate le tombe dei Borboni. Quella di Enrico IV (1589-1610) fu aperta per prima: appoggiarono il cadavere contro un pilastro, affinché tutti potessero vederlo. Ci fu un parapiglia per vederlo da vicino, poi per toccarlo. Una donna lo schiaffeggiò, coraggiosamente, alla faccia: un bambino gli tolse due denti, poi gli strappò i baffi. Un soldato gli tagliò un ciuffo di barba, gridando, con aria fanfarona: «Sono un soldato francese, io!...». La condanna dei libri....

Le pergamene degli archivi dei monasteri, i manoscritti illustrati dalle abili mani dei miniaturisti del medio evo, le bolle pontificie, i messali, tutti questi oggetti preziosi furono trasformati in... cartocci di polvere d’artiglieria. Nel 1853 si trovarono ancora pergamene trasformate in cartocci. Su quattromila cartocci di polvere che furono scuciti e esaminati al deposito di artiglieria di Parigi, si riconobbero tremila pezzi storici importanti, fra cui antichi manoscritti dei re di Francia, bolle papali, patenti reali, ecc. ...E DELLE RILEGATURE

Sarebbe un errore credere che i vandali fossero tutti plebei senza istruzione. Si vide un letterato di grido, il signor La Harpe, chiedere la soppressione delle armi reali dai libri della Biblioteca Nazionale. A chi gli obiettava che un simile lavoro sarebbe costato non meno di quattro milioni, La Harpe rispose allegramente: «Non vorremmo risparmiare quattro milioni, quando si tratta di un’operazione veramente repubblicana!». Il cervo di bronzo

Ad Anet, nel centro d’una fontana, c’era un cervo di bronzo, di bella fusione. Volevano distruggerlo, perché la caccia al cervo era un diritto feudale. Si potè salvarlo, provando che i cervi di bronzo non erano compresi nella legge sulla caccia... L’uguaglianza del paesaggio

Fouché, il futuro ministro della polizia di Napoleone, ordinò nella Nièvre la demolizione dei campanili delle chiese e delle torri dei castelli, perché offendevano l’uguaglianza delle campagne... La dignità umana

Le tappezzerie dei Gobelins avevano eccitato da tempo le diatribe di Marat contro quelle manifatture che non servivano, gridava l’Ami du Peuple, se non ad arricchire i bricconi. L’anno dopo, una speciale giuria, fra cui figurava il pittore Prud’hon, visitò i magazzini e cominciò l’epurazione dei modelli

antirepubblicani e monarchici. Fu allora che la Convenzione proibì di adoperare la figura umana nella decorazione dei tappeti, considerando che sarebbe stato rivoltante calpestare coi piedi l’effige dell’uomo in un regime in cui l’uomo era richiamato alla sua dignità... L’epurazione al Louvre

I conservatori dei musei si affrettarono a modificare la storia antica secondo i gusti rivoluzionari. Ecco come il conservatore del museo delle antichità, al Louvre, condusse la sua «espurgazione patriottica», secondo il nome ch’egli dette alla sua opera: «Due grandi quadri che rappresentano Luigi il Fannullone (Luigi XVI) e il suo predecessore, sembrano insultare la libertà francese: li ho fatti fuori. Un armadio che conteneva una fastidiosa folla di tiranni italiani: l’ho vuotato, e i signori papi han ceduto il posto alle medaglie repubblicane, e alle monete che han corso fra i popoli liberi. Un altro mobile conteneva anelli, fra cui cinque con l’effige di Enrico IV, Luigi XIII e suo fratello; li ho fusi, insieme con un Francesco I e un Filippo IL Un’altra vetrina conteneva una serie di ritratti su smalto: ho fatto giustizia di un Richelieu, di due Luigi XIV, di suo fratello, di sua moglie [si sopprimono alcuni epiteti cavallereschi], d’un Tourville, di due Luigi XV e di una regina d’Ungheria: tutti metalli che, sotto il pretesto dell’arte, offendevano il mio senso della decenza...» Nomi di strade

Il giorno dei funerali di Mirabeau, il marchese de Villette, si prese la libertà di sostituire al nome dei Teatini quello di Voltaire. Fu appena il principio. Il cittadino Grouvelle ricordò che «i santi han fatto non meno male dei prìncipi: sostituiamo ai nomi di questi imbecilli ipocriti della leggenda, quelli dei filosofi e degli amici deH’umanità». Il cittadino Chamouleau, creatore delle nuove denominazioni, espose il suo progetto: i comuni della Francia saranno divisi in quartieri, la cui piazza ne sarà il centro. Ogni piazza porterà il nome di una virtù principale; le strade intorno avranno i nomi di altre virtù... A Parigi, il Palazzo Nazionale si chiamerà il Tempio, o Centro del Repubblicanesimo: la piazza di NotreDame, sarà la Piazza dell’umanità Repubblicana: il Mercato, la Piazza della Frugalità Repubblicana, ecc. ...E DI CITTÀ

I santi e le sante avevano cessato di figurare nel calendario. Era giusto, dunque, epurarli dalla toponomastica. La città di Saint-Denis si chiamò Franciade. Saint-Cloud, semplicemente Cloud. In due dipartimenti, l’Alta Marna e i Deux Sèvres, esistevano due paesi intitolati a San Sinforiano: Saint-Symphorien-sur-Guye, e Saint-Symphorien-sur-Sèvre. Desantificati, si chiamarono soltanto Symphorien. Ma, siccome nella pronuncia francese la prima sillaba, «Symph», aveva una certa assonanza con «Saint», si preferì una nuova amputazione, e così i paesi si chiamarono Phorien-sur-Guye e Phorien-sur-Sèvre...

L’abolizione della nobiltà (19 Giugno 1790) portò alla soppressione di tutti i nomi che ricordavano il feudalesimo, come Castel, Chasteau, ecc. Il 22 Settembre 1792 furono soppressi i nomi di re, regina, delfino. In tutti i nomi di paesi, la parola “re” o “Luigi” fu sostituita col nome “Sincero”, perché è il contrario di traditore... La città senza nome

Nel 1793 e 1794, le città colpevoli di scarsa o tiepida adesione alle nuove idee ricevettero aggettivi infamanti. Barras propose che Marsiglia, «i cui delitti sono odiosi», venisse addirittura privata di qualsiasi nome. E dette allora ordine che la si chiamasse “Città senza nome” o, abbreviando, “Senzanome”. I GIUOCHI REAZIONARI

Si decise di sostituire, nelle carte da giuoco, le figure dei Re coi Quattro Saggi; quelle delle Regine, con le Virtù; i cavalieri coi Bravi. I quattro Saggi furono: Bruto (picche), Rousseau (fiori), Catone (quadri), Solone (cuori). Le Quattro Virtù: la Forza (picche), l’Unione (fiori), la Prudenza (quadri), la Giustizia (cuori), ecc. «Sarà permesso ai Francesi di giuocare agli scacchi?» La questione fu discussa per giornate intere, e si concluse, come ci si aspettava, per la negativa assoluta. Contro gli scacchi si pronunciò un eminente scienziato, il chimico Guyton-Morveau, che concluse la sua requisitoria così: «Ci si domanda se non è possibile repubblicanizzare questo giuoco, che esercita davvero

lo spirito, vietando nomi e forme cui abbiamo giurato odio eterno, conservando tuttavia le sue combinazioni...». Si decise di chiamarlo il «giuoco della piccola guerra», condannandosi all’oblio la parola «scacchi», per la sua etimologia monarchica (dal persiano Scià), ecc. Le guardie rosse a lovanio

«Liberté, Egalité, Fraternité. Si ordina alla municipalità di far portare la coccarda tricolore a tutti i cittadini e le cittadine della città, dai bambini che imparano a camminare ai vecchi. Chi sarà trovato senza coccarda sarà arrestato come sospetto e condotto a Maubeuge. Lovanio, 19 termidoro, 2°anno repubblicano. Il comandante, GROSVELIN». Per finirla coi signori

«Occorre una legge che stabilisca la nullità di tutti gli atti in cui saranno adoperate le qualifiche di Signore, Signora e Signorina. Inoltre, le qualifiche di Signore, Signora e Signorina saranno attribuite ai condannati a morte, ai ceppi, alla gogna, alla prigione... I guardiani e tutti gli altri che parleranno ai condannati saranno tenuti, sotto pena di quindici giorni di prigione, a far precedere i nomi dei condannati con gli appellativi di Signore e Signora...». Teatro repubblicano

La serie delle commedie anticlericali cominciò col Mari Directeur, ossia Lo sgombero al convento, dove si vedeva un marito vestire il saio per ascoltare la confessione di sua moglie. Frati e monache, liberati dai voti, cantavano canzonette oscene... Si rappresentavano commedie con questi titoli: L’abate al passo, la Penna dell’Angelo Gabriele, la Papessa, Gli Spretati, la Tomba degl’impostori, ecc. Le nuove feste

La festa del 10 Agosto 1793, in commemorazione della caduta della monarchia, fu battezzata Festa dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica: fu divisa in stazioni, come la Via Crucis. Prima stazione: piazza della Bastiglia. Sul luogo dell’antica cittadella, si leva la Fontana della Rigenerazione, raffigurata da una gigantesca Natura che, premendola nelle mammelle, fa sgorgare acqua pura. Ottantasei commissari, uno ogni dipartimento, si avanzano per bere quest’acqua salutare... La Marsigliese, intonata dalla folla, è il segnale d’avvio della processione... Nel corteo, al posto del Sacramento, c’è un’arca contenente le tavole dei Diritti dell’uomo. Seconda stazione: boulevard Poissonnière, dove è stato eretto un portico, sotto il quale aspettano le eroine del 5 e del 6 Ottobre 1789, a cavalcioni sui cannoni. Terza stazione: la piazza della Rivoluzione (la Concordia) dove la statua della Libertà sostituisce quella di Luigi XV, ecc. La dea ragione

La festa della Ragione, celebrata a Notre-Dame dalla Comune e dal Dipartimento, il decadi 20 brumaio anno II, aveva attirato una folla considerevole... Al centro della navata dell’ex Cattedrale, si levava una montagna, in cima alla quale un tempio rotondo, di stile greco, con la iscrizione: «Alla filosofia»: da ogni lato, i busti degli apostoli Voltaire, Rousseau, Franklin, Montesquieu... al suono della musica, due coorti di ragazze, con cinture tricolori, coronate di fiori, traversavano la montagna... poi una donna, vestita di bianco, mantello bianco e berretto rosso, immagine vivente della bellezza, usciva dal tempio; era la Libertà in persona, che veniva a ricevere l’omaggio dei repubblicani... Questa dea era la signorina Maillart, la più bella attrice del teatro dell’Opéra: «Noi non abbiam preso», cianciava Chaumette, «per rappresentare la Libertà, dei frivoli idoli inanimati, ma un capolavoro della Natura; questa immagine sacra ha infiammato tutti i cuori...».

Ho considerato utile ricordare alcuni supremi vanti di quella rivoluzione che i nostri contemporanei hanno dimenticato. Mai trascurare la superba grandezza della Francia!

LO SBAGLIO DI SVETLANA

Ci sono vicende che sembrano volerci imporre il ribaltamento del paragone corrente fra la brevità della vita e le lontananze sterminate della storia. Ecco Svetlana Stalin: epoche ormai remote, lontani primordi del nostro mondo si susseguono in moto rapido e instabile, con una labilità capricciosa e feroce, sul metro sicuro e pur breve di una esistenza che ha appena toccato i quarantadue anni; e la donna è ancora qui, testimone di tutto questo, non vecchia; è la vicenda che al suo nome si riconnette e nel suo nome si chiude che ci pare vecchia, e addirittura antica. Nacque alla vigilia degli anni spaventosi in cui suo padre, a prezzo di sacrifici orrendi, impose alla Russia il salto forzato di qualche decennio: «Dobbiamo raggiungere i paesi capitalisti, o perire. Siamo indietro di cinquanta, di cento anni, rispetto ai paesi più progrediti. Dobbiamo raggiungerli fra dieci anni, o saremo annientati». In queste imprese si riesce comunicando a tutti un furore messianico, suscitando il terrore. Stalin scelse la via più sicura, quella che dovette sentire più congeniale. Trasformò una rivoluzione mondiale in una gigantesca impresa nazionale. La vecchia classe dirigente rivoluzionaria fu stritolata. La fame decimò città e campagne, contadini riluttanti furono massacrati a milioni; ma il salto fu fatto. Dal furore e dal

sangue un popolo che non era mai stato più robusto di tanti inetti popoli meridionali; la Russia languida e nevrastenica, a tratti sentimentale, a tratti disumana, di Dostoewskij, usciva trasformata, resa idonea a resistere al più duro e cimentato fra i popoli della terra. L’infanzia di Svetlana ebbe per sfondo questi tempi di ferro. Aveva sette anni quando morì Nadia, sua madre. La trovarono morta una sera, nel Novembre 1932, l’anno culminante della fame e della carestia. La spiegazione ufficiale la disse vittima di un collasso; ma si era uccisa. Aveva dubitato del suo uomo, le era sembrato mostruoso continuare a vivere al suo fianco. Stalin le era apparso non più come il capo sicuro e venerato, ma come lo spietato responsabile della fame, dell’abiezione del suo popolo. Quando vide Nadia morta, dubitò di se stesso. Ebbe per un attimo la visione della spaventosa innaturalezza di quanto stava compiendo: se sua moglie non riusciva a tenersi al suo passo, come avrebbero potuto tutti gli altri? Offrì le dimissioni: «Forse sono diventato davvero un ostacolo all’unità del partito. Se è vero, compagni, sono pronto a scomparire», disse. Nessuno, nel Politburo, aggiunse una sillaba; e fu così che a scomparire furono gli altri. La macina riprese a girare. Nel 1936, venne il processo a Zinoviev, Kamenev, e quattordici altri vecchi bolscevichi, accusati di trotzkismo. «Ricordati che hai seduto con loro accanto a Wladimir Ilich», gli scrisse la compagnona di Lenin, invocando la grazia. Le rispose Vischinski, il pubblico accusatore, che infierì contro i sedici morituri intenti a coprirsi di fango nell’assurda speranza di salvarsi: «Vipere lubriche, cani arrabbiati...». Li fucilarono il giorno dopo la sentenza. E Stalin

scriveva a Svetlana: «Mi annoio tanto, sai, perché la mia padroncina non è qui con me». Mentre la padroncina cresceva, continuavano a cadere le teste. Aveva sedici anni, quando Hitler lanciò i suoi eserciti nelle pianure russe; a venti, era con suo padre a Yalta. Temette per la sua salute, quando il vecchio si sottoponeva a brindisi colossali per non sfigurare, neppur come bevitore, davanti a Churchill. E intanto Roosevelt, l’altro socio, raggiungeva quel culmine di arrendevolezza da cui dovevano nascere insieme la spartizione del mondo, e la decisione americana di rifiutarla, che generò la guerra fredda.

*** Aveva ventotto anni, Svetlana, quando la ruota della fortuna invertì la sua marcia. Stalin morì, e dopo tre anni, Krusciov pronunciò il famoso rapporto in cui il dittatore scomparso era definito un satrapo feroce e assassino, tanto vile quanto millantatore. Il vecchio Stalin rendeva così l’ultimo servigio all’URSS, addossandosi le colpe di tutti, anche quelle dei servi che, sopravvissutigli, volevan presentarsi al popolo russo e al mondo come una Russia diversa, rispettabile e perbene, tollerante all’interno e responsabile interlocutrice, nei rapporti esteri, per una stabile sistemazione del mondo: sulle premesse delle conquiste staliniane, naturalmente. Ripudiando la figura, la persona e il ricordo di Stalin, gettavano le premesse per salvaguardarne la vera, sostanziale eredità. I suoi successori, fossero incoerenti pagliacci come Krusciov, o vecchi terroristi sopravvissuti per virtù di astuzia servile, o

scialbi tecnocrati, poterono demolire il “mito” di Stalin proprio in nome dell’eredità che il vecchio aveva legato loro. Gettavano via un cadavere e un nome, ma conservavano il tesoro sicuro: il suo tesoro: il salto in avanti già fatto, la guerra vinta, l’espansione territoriale già acquisita. Essi non hanno aggiunto nulla alle vittorie di Stalin. Ma, tirando giù lui dall’Olimpo della gloria ufficiale, han reso possibile quel cambiamento, lento e sicuro, che ha portato l’America e l’occidente al graduale disarmo nei confronti dell’unione Sovietica. Di Stalin, ormai, non si parlava che per insultarlo; sbattezzarono le città intitolate al suo nome, lo cacciarono dalla tomba. Era ormai la portatrice d’un nome perseguitato la profuga che, profittando d’una stentata garanzia indiana, lasciava la patria con le ceneri del marito: l’ultimo marito, epigono d’una lunga serie di compagni di vita e di letto, fuggiti, ripudiati o morti. Era un’esule anacronistica e fastidiosa la donna che ricordava suo padre non soltanto nel nome, ma negli eccessi sessuali, e che ora si presentava all’ambasciatore americano chiedendo asilo politico. S’indugia appena col pensiero per figurarsi cosa avrebbero fatto di lei quindici anni fa; quando un piccolo funzionario sconosciuto, di nome Kravcenko, diventò una bandiera mondiale. Quando l’America apriva le braccia ad ogni profugo appena appena adatto ad esser trasformato in simbolo della lotta contro l’oppressione. Che cosa fù la “guerra fredda”, se non l’impegno di resistere alle decisioni di Yalta e di Potsdam, di contrastare l’espansione dell’impero staliniano, quale si era verificata dopo la fine della seconda guerra mondiale? I popoli dell’Europa

centrale, incoraggiati a liberarsi dalla tirannia sovietica, si ribellavano: a Berlino, a Poznan, a Budapest, tre anni dopo. La Germania occidentale era richiamata alle armi in nome della civiltà dell’occidente. Pur di riavere nel loro campo quelle divisioni che nell’inverno 1941 erano giunte alla periferia di Mosca, gli americani non risparmiarono promesse. Quelle che oggi sembrano tanto assurde. Ma che cosa non sembra assurdo, oggi, di quei tempi? La figlia di Stalin ci riesce stonata come un vecchio figurino di moda. Chi chiede più, oggi, “asilo politico”? Povera Svetlana. Le sue private disgrazie debbono essere state immense, le sue fonti d’informazione debolissime, per non aver capito quanto grottesca e indelicata fosse quella richiesta di «asilo» all’ambasciatore americano di Nuova Dehli, nel momento in cui la Casa Bianca si sente presa dai pruriti di amicizia che furono, venticinque anni fa, di Roosevelt. Anche la Central Intelligence Agençy ci fa una figura curiosa; davvero incomprensibile, se si pensa che si tratta del servizio segreto più potente del mondo. Possibile che sia così attardata, così lenta a capire, questa CIA, perfino il vento che tira negli Stati Uniti? Ma poi, si pensa che l’anno prossimo ci saranno le elezioni in America, e si sospetta che anche la figlia di Stalin possa servire ai nemici di Johnson nascosti fra le file dello spionaggio, per mettere in difficoltà il Presidente. Tutto è possibile in tempi di elezioni. E ecco il Governo americano rifiutare dai suoi servizi segreti quello che in altri tempi sarebbe stato un dono prezioso. Ecco la corsa aerea verso New York interrotta a Roma, e dirottata verso le malghe e i laghi della verde Svizzera, dove ogni dramma

diventa affare turistico, cura di nervi, segreto bancario, si tratti di guerre civili in incubazione o di guerre fredde, surgelate e avviate all’oblio. Ecco, infine, uno Stato come l’Italia, che un tempo pretese addirittura a sorti di grande potenza, e che poi tenne la sua parte nello schieramento anticomunista, ridotto al suo ruolo di colonia americana, stazione di transito e smistamento per le imprese di spionaggio tardive o fuori stagione, organizzate per isbaglio dai servizi segreti degli Stati Uniti. Ecco, in una parola, la fine della guerra fredda. L’America che ieri apriva le braccia ai profughi perché lottava contro l’impero politico da cui venivano, oggi respinge i profughi in quanto e perché ha deciso di accettare e riconoscere quell’impero. Neppure i grandi pettegolezzi storici la interessano più; potranno essere oggetto d’un lucroso contratto fra la Svetlana e qualche giornale, ma la politica degli Stati Uniti ha superato i tempi in cui poteva perdersi in simili pettegolezzi. Come è morto Stalin, se è stato avvelenato, e chi lo uccise, e come fu tolto di mezzo Beria, e tutto il resto non ha più senso: gli eredi di Stalin, siano stati complici reali o potenziali vittime, rivali o assassini, sono ormai rispettabili interlocutori della «distensione», di accordi missilistici, di patti nucleari; ci si aspetta da loro immensi favori, che magari non verranno, per il Vietnam; si offrono loro in olocausto i propri alleati. Quella che ieri appariva una barbarica divisione dell’Europa, tagliata con la spada di un feroce vincitore, è diventato un riverito e rispettabile status quo, fattore di equilibrio e di pace.

Svetlana è davvero un simbolo paradossale. La sua vicenda significa che la guerra fredda è finita. Ma insegna anche che è finita con la vittoria del vecchio padre. I successori han potuto sbarazzarsi di lui, morto, perché la sua eredità li ha messi in condizione di campare di rendita. E ora, gli antichi nemici della guerra fredda, gli americani, non hanno più bisogno di questa inutile figlia perché non hanno più intenzione di contestare le conquiste che Stalin lasciò alla Russia, e la sistemazione che egli dette al mondo. Davvero, in casi come questi, ci si augura che i morti possano seguire le terrene sorti, per trarne almeno le legittime soddisfazioni. Il povero Stalin finirebbe per soffocare perfino lo sdegno che lo prenderebbe all’idea che gli americani rifiutano di ospitare sua figlia. Lo sdegno gli morirebbe nelle risate all’idea che la «padroncina» viene rimandata indietro per non far dispiacere ai nuovi inquilini del Cremlino. Dopotutto, il vincitore resta ancora lui, per tutti. I «gattini ciechi», come chiamava gli uomini destinati a succedergli, han perso la Cina per strada; ma han guadagnato l’approvazione degli Stati Uniti. Sono riusciti a diventare quel che non sarebbe mai riuscito a lui: distinti, rispettabili, eleganti come milord. Lui lo trattano di brigante sporcaccione e indecente, e va bene. Ma l’impero è salvo, come lui lo aveva fatto. La grande America ha finalmente rinunciato a metterlo in discussione; anche i tedeschi han rinunciato, perfino il Papa di Roma, che offre da fumare a Podgorny. Vecchio Stalin, chi l’avrebbe mai detto. La guerra fredda è davvero finita. Ma l’hai vinta tu, nonostante gl’insulti e le chiacchiere di quel pagliaccio di Krusciov, che tu facevi

ballare a pedate. Nonostante che t’abbian tolto il nome di Stalingrado, e t’abbiano sfrattato dalla tomba. L’hai vinta tu, come la seconda guerra mondiale. Nonostante tutto.

Perchè querelo Bocca

Caro Direttore, ti ringrazio per la risposta a Giorgio Bocca, che mi chiama «rottame» (di Salò - al nascere della R.S.L avevo tredici anni, compiuti da un mese). Ti ringrazio anche per avermi risparmiato la spesa di quattromila e cinquecento lire, quanto costa “L’Espresso”, e non le vale, neppur mettendoci la necessità di conoscer quanto scrivono di noi per dargli querela. Io non leggo mai il Bocca, per igiene mentale, linguistica, etnica anche. Quando cerca di attaccar briga, gli dò querela. Il 27 Settembre dovrà comparire al Tribunale di Roma che lo ha rinviato a giudizio dopo che cercò di rivendere ai suoi clienti una versione falsificata di un mio articolo. Proprio come oggi. L’energumeno è invecchiato precocemente, e si ripete. Sempre nel solito intento di additarmi all’odio pubblico, alla paura del padrone e magari (propositi da spia non stonano in quella testa) farmi licenziare e ridurmi al pubblico accattonaggio. È la seconda volta che ci prova: ha una gran voglia d’esser preso sul serio, d’impiantare una polemica sul revisionismo storico, alla sua maniera, tra pollaio e porcilaia. Io non gli rispondo, gli dò querela. Ci sono persone che non si ricevono in casa, altre a cui non si risponde. Le differenze sociali si

modificano, ma durano. Lo vidi, l’altra sera, in una tv: dentiera fuori squadra, la zucca rossa, triviale come la voce e il mobilio entro cui sedeva, i barbigli rossi penduli sulle grinze rosse del collo e tutto avvolto in una camicia rossa; mica pensai a Garibaldi, o ai suoi partigiani, ma a uno dei commessi del “Consorzio Carni Conad”, che vestono così. Che sfacelo, pensai, presto schiatta, si sentirà, una sera, un floh fetido tra i vigneti delle Langhe. E quel «rottame». Era una mania di Togliatti, dar del rottame a tutti quelli che, fuori del marxismo, gli parevan dannati all’estinzione (e, se possibile, cercava di accelerarla). Questi comunisti: cambiano sigle e nomi anche peggio dell’onorevole Fini; s’indignano se li chiami comunisti, quali furono sono e saranno. Ma il loro Togliatti, il loro Stalin, li hanno sempre nei cromosomi e nelle zucche, con la nostalgia delle spiate, delle epurazioni, delle fucilazioni. E lo stile, Direttore. Il solo passo più lungo di tre righe che abbia letto di questo coso, è il finale, riportato su un giornale, delle sue memorie. Sazio e soddisfatto d’aver narrato se stesso, uscì, com’egli narra ancora, e tra pollaio e porcilaia, si concesse il piacere di «una bella pisciata». La celebra egli stesso, in quel luogo fatale. Ossia, direbbe Clausewitz, continuò l’opera con altri mezzi. Continui pure, se non sa fare altro. Ma non pretenda che gli risponda. Prima di andare in udienza, il TI Settembre, mi cercherò un indumento fuori moda, difficile a trovare, le galosce, come si chiamavano.

***

21 Marzo 1997 Scalfari e bocca condannati per diffamazione di Buscargli

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna di Giorgio Bocca e di Eugenio Scalfari, querelati dal nostro collaboratore Piero Buscaroli. Il primo per diffamazione aggravata in quanto, capovolgendo fraudolentemente la lettera e il significato di un articolo di Buscaroli intitolato «I pudori della Destra» apparso sul “Giornale” il 17 Agosto 1994, aveva adoperato contro Buscaroli l’epiteto «nazista». Il secondo, per non aver esercitato il dovuto controllo sul testo del Bocca, apparso sul “Venerdì" della “Repubblica” il successivo 2 Settembre. Sostenendo che tale aggettivo non fa parte del lecito repertorio polemico, perché è diventato un paralizzante sinonimo di violenza, oppressione e sterminio, l’avvocato Alessandro Pellegrini, patrono di Buscaroli, aveva ottenuto prima dal Tribunale e poi in appello la condanna dei due imputati a pene pecuniarie e al risarcimento dei danni.

MAESTRI, AMICI Soffici

Le corse da Soffici. S’incidevano nella memoria. Si raccontavano nei taccuini. A metterle insieme, se ne farebbero antologie. Quante generazioni hanno fatto il viaggio, da Firenze al Poggio a Caiano, in bicicletta, o con l’autobus che partiva da Santa Maria Novella, o con l’automobile. 0 col tram di Viareggio, quand’era a Forte dei Marmi. «Mi resta nella memoria un dolce ricordo della visita che feci a Poggio a Caiano, una gita in bicicletta d’inverno, col cappotto che mi faceva sudare, ma ero tanto preso dal libro su Rimbaud, che la mia spedizione si colorava di un non so che d’avventura esotica [... ]. Quell’umile casa rustica di Soffici, quei suoi quadri che avevano il colore e il sapore dei campi accanto a cui ero passato, eran per me Parigi, e la gloria degl’impressionisti [... ]. Era il rappresentante nostrano di many goodly States and kingdoms che io non avevo conosciuto». Il resoconto di Mario Praz del 1920, uscì nella Casa della Vita l’autunno del 1958, gli stessi giorni che m’accingevo alla mia prima gita verso il Poggio.

Che cos’andavo a fare, io, dopo quasi quarant’anni? L’esploratore di terre lontane, il console generale delle avanguardie parigine, erano ricordi consacrati, meriti non più discussi, a denti stretti riconosciuti anche dai denigratori. Non amava indugiarvi sopra. Quando volle rivedere i luoghi tornò a Parigi, nel 1959. Musei, caffè, cancellate, abbaini: «Il mondo nostro era un altro, e finì davvero con la prima grande guerra... per noi che ne respiriamo l’aura, non torna più nulla», cominciava il primo articolo dopo il ritorno, 9 Aprile 1960: «Nulla di quel passato mi dice quasi più nulla; e anche quel poco, a rievocarlo, ha come un colore e un gusto di cenere». Mi scrisse: «Venga, venga quando vuole, mi farà piacere. Tanto, ormai, non mi muoverò più». Io andavo dal secondo Soffici, diminuito e asseverato meno interessante, quasi per volontaria amputazione, dal «ritorno all’ordine» e ritrovata tradizione. Peggio, andavo dal terzo Soffici, quello che l’ordine e la tradizione aveva visto crollare in frantumi sanguinolenti, e era stato anche chiamato a pagare, col carcere, internamento e isolamento, la sua parte del conto. Stenterei a definire la natura dell’entusiasmo che mi spingeva. Son sicuro che non andavo a curiosare su una vecchia gloria, ma da un uomo che sentivo ben vivo. Di cui i libri usciti nel dopoguerra, ritmati nel grave arco dell’Autobiografia, e gli articoli che pubblicava nel “Corriere” di Missiroli, e i racconti degli amici, accrescevano l’attrattiva e l’interesse. Le nature generose hanno da dare sempre, una generazione cerca il contrario di quel che moveva le altre venute prima. Dei

molti eccellenti reami forestieri, io n’avevo abbastanza. Ne avevamo avuto la casa invasa. E quanto alle avanguardie, perduti ormai i luccicori esotici, eravamo talmente impestati dei loro figli e nipoti e eredi legittimi o putativi, che non c’era bisogno di andare a farne provviste al Poggio. Cercavo un angolo intatto di casa nostra. Cercavo se si potesse, se valesse ancora la pena di avere un soffio di fiducia, un trasporto d’affetto per questo paese. Il mondo era ruotato d’un giro completo, Soffici era ancora là. L’umile casa rustica, la casa decrepita, quadra e bassotta di Lemmonio Boreo, s’apriva ancora. Minimo il controllo, all’ingresso. Cambiati i tempi, cambiato lui, non era cambiata l’affettuosa dolcezza dell’accoglienza. Alla mia volta, Un dolce ricordo.

Soffici era «a giro», per la campagna. Potei contemplarlo al suo ingresso, imponente e fresco, col mazzo di fiori di campo stretti nella mano. «Par difficile che un uomo vecchio possa ispirare una tale idea di grazia», scrissi appena tornato dalla gita. A ottant’anni, Soffici possedeva quella grazia schietta e nativa che invano cercherai in chi non sia, di corpo e di spirito, un uomo forte. “Torni quando vuole”, ripeteva congedandoti. E non c’era verso di farlo star fermo in casa, che doveva accompagnarti alla vettura, al tram, all’autobus. E aspettava la partenza, diritto e fermo, fino a che poteva sventolare la mano nel saluto antico. Tornai, lusingato come tutti di quella prontezza d’accoglienza in un uomo che il suo tempo sapeva ancor bene come impiegarlo.

«Da Soffici a Forte dei Marmi» leggo in un vecchio taccuino, «cordiale, festoso, aggressivo. Durante la conversazione con uno dei figli del Frullani, il proprietario della pensione Alpemare, cui fan capo gli artisti e loro amici che non han casa qui, si viene sulla famosa semplicità di Soffici, quella sua limpidezza e chiarezza che traducono dalle parvenze astratte alle concrete sostanze e essenze quotidiane della vita. Ne parlano in molti, ultimo il critico d’un settimanale». «È semplice», dice il giovanotto, e magnifica la vita semplicistica dell’artista. Che a quel punto, tra il semplice, il semplicistico e altre semplicità, non si vuol far incoronare sempliciotto e sbotta, ironico con una punta di piccato: «Ma non creda che sia tanto semplice, sa. Perché tutta questa semplicità, ‘e voi dire l’aver digerito una quantità di cose che lei ‘un se l’immagina neppure». La frase mi parve allora lo sbuffo d’impazienza d’uno che si sentisse troppo rudemente volgarizzato. Ma ora che ricerco la natura profonda dell’uomo, mi appare il rifiuto e il ripudio d’una nozione diminutiva che, seppur nata e propagatasi con tono affettuoso, Soffici dovette sentirsi pesare addosso con fastidio. Un’idea dell’uomo, un’immagine diffusa, alle cui radici restava pur sempre l’etichetta incisa dal Serra, di Soffici come dono. Un’idea che a tutti piacque, e continua, per diverse ragioni, a piacere. Ma che a Soffici torna stretta, com’egli stesso se la sentiva, da una certa età in poi. E non è colpa di Renato Serra, che morì nel 1915 sul suo Podgora, e non potè seguire l’amico fino a quando nel suo interno sistema di pesi e misure, assai più complesso che non sembrasse, le virtù dell’istinto si

vennero bilanciando con una visione più pausata e larga, dominata da una volontà riflessa e matura nata dall’esperienza della guerra. Non bisogna credere che fosse così per tutti. Per tanti, la guerra fu una sospensione, un incidente di percorso, un fastidio. Per Soffici, fu una palingenesi, l’occasione di completare un rinnovamento interno che era già per via, ma che esigeva sfondi più degni contro cui stagliarsi. Lo stesso Serra, ch’ebbe ben poche settimane per maturare un’esperienza simile, confidava: «Dopo la guerra bisognerà ridire tutto: ma per un pezzo, io non scriverò niente. È un’esperienza che farò, per conto mio, senza dir niente a nessuno». Non meraviglia se Soffici, ch’ebbe quattro anni per decantarla, uscisse dalla guerra trasformato, e sentisse il bisogno di appendere ai rami dell’albero di sua vita i nuovi trofei duri e amari, tessuti dall’angoscia e dal dubbio in presenza della morte. Le conquiste meditate e faticate, accanto alle grazie ricevute del dono. Perché la bella espressione di Serra, di cui bisogna pur liberarsi se si vuole giungere al cuore profondo dell’uomo Soffici, ne coglieva una parte, la più appariscente e felice, ma pur sempre una parte sola. Giova leggere la frase intera: «Soffici non è né un’opera, né uno stile, ma un dono», per continuare: «Persino con delle parole in libertà compone una passeggiata limpida e ordinata come un disegno classico». È la lode del naturale equilibrio di un artista; ne scopre la misura di classico come una virtù innata, un istinto. Su questa corda dell’istinto, direi che poggiassero tutte le lodi successive, col dichiarato o sottinteso scapito delle facoltà critiche e speculative. Quasi che l’istinto del primo Soffici

anarchico non comprendesse già, così scrisse in un’ancora inedita lettera, l’aspirazione ad una autorità severa e legittima. Quasi che l’istinto di chi muoveva la sua giovinezza nel felice azzardo di avanguardie, ora studiate, ora incoscienti, della Parigi del primo decennio del secolo, non lo aiutasse già ad orientare le sue scelte con una calma e un fiuto ad altri sconosciuti. Facendogli preferire la gente che davvero contava, le tracce che sarebbero rimaste, rendendolo capace di distinguere orma da orma, nel momento stesso in cui si stampavano. Con chi si intrattiene, nella botteguccia di Charles Péguy ai «Cahiers de la Quinzaine»? Col santo poeta di Francia, già chiamato alla stessa fine di Serra. E col terribile impresario della rivoluzione mondiale, l’ingegnere di ponti e strade Georges Sorel. Si accosta all’arte di Cézanne, su cui scrive il primo articolo in italiano, scopre e frequenta Verlaine e Apollinaire, Remy de Gourmont e Rimbaud; ma fiuta il falso e l’imbroglio in Claudel, e per naturale eleganza lo scarta. Era sempre l’istinto che suggeriva anche al Soffici massacratore una misura e una carità che Papini, infilzatore irriflessivo, non conobbe mai: una ponderatezza, nel fondo potente che dava peso allo slancio, che Marinetti sentì come linea di confine e sfida. È il rispetto della storia, che sentiva lunga e lontana nelle sue origini ancora inesplorate. È il senso di tutto quello che sarebbe poi riemerso, da conservare e difendere. La carità amorosa perfino del vituperato Ottocento di casa: la filiale pietà della Toscana dove Fattori faticava a raggranellare le poche lire, e Telemaco Signorini moriva di fame.

È l’istinto che, dentro il vortice del futurismo, suggerisce naturalmente, a lui pittore, ciò che Roberto Longhi ha intuito grazie a una rabdomanzia: che il Futurismo sta al Cubismo come il Barocco al Rinascimento, perché non fa che porre in moto la massa, che il rinascimento ha addensato. Nell’anarchico inquieto, nell’esploratore impetuoso di terre sconosciute, nello sperimentatore insofferente delle regole scolastiche, c’era l’equilibrio innato, il centro grave del toscano e italiano, che fa da sostegno al tutto. In quel parigino e europeo, bellissimo di volto e di stampo, nulla denuncia lo sradicato, il révolté, l’artista miserabile, il genialoide dissipatore e famelico. Ogni tratto della figura, del passo, la fierezza gentile dello sguardo, esprime un’eleganza aristocratica. È la stirpe antica, locale, paesana, che guida e sorregge il viandante cosmopolita. Una stirpe, anch’essa, più intricata nei suoi rami, che non compaia. È facile osservare che alla primitiva natura di Soffici, all’architettura medesima del suo corpo, del suo cranio possente, si è attribuita indifferentemente la qualifica di etrusco, e quella, contraria, di romano. Soffici è uno dei dieci o venti italiani, che abbiano potuto far convivere la libertà individualistica e insofferente dell’etrusco con la disciplina interiore e il senso dell’ordine e della legge del romano. Nella Toscana fu questo un conflitto storico. Dallo sbarco dei favolosi Tirreni di Erodoto sulle sue spiagge alla supremazia conquistata dal vicino men raffinato e più turbolento che muoveva dal Sud, alla resurrezione dell’antica Etruria individualista, anarchica e municipale, sulle rovine di Roma, la coscienza toscana oscillò tra poli talmente lontani, che a pochissimi spiriti fu dato di riassumere gli opposti

traguardi. Soffici fu di questi. La ricchezza del suo carattere, la tolleranza naturale della sua libertà e il rigore devoto della sua disciplina, il riso fescennino della sua ironia e quella naturale serietà così domesticamente e quotidianamente solenne, erano le vibrazioni estreme di una corda umana capace di inusitate tensioni, atta a vibrare su frequenze talmente lontane, che strumenti men forti ne sarebbero squassati e infranti. E il retaggio meno appariscente del dono, è proprio la costante immobile e terragna, il fondo grave dell’istinto, quello che si rivela tardi: quando altri pesi faranno inclinare l’asse dall’altro lato. È quello che ispira il grande silenzio di Poggio a Caiano. Il silenzio da cui muove Lemmonio Boreo nella sua spedizione allegorica, che precorre la guerra e perfino il dopoguerra. E più il viandante fu curioso e svagato, e più profonda fu l’avventura, e tanto più impenitente è il reduce, tanto più ostinato, nel suo ritorno, a ricercare quel che conta davvero. Lemmonio Boreo era una prefigurazione personale dell’istinto. La guerra è il ribollimento e il ripensamento collettivo, il rogo entro cui entra e fonde ogni novità di prima. La pittura cubista, esplosione improvvisa, all’improvviso si dissolve. Preludeva al cannone, e il cannone la ammutolisce. Peggio ancora col futurismo, che invocava il sangue e la violenza. Ma il sangue vero, lo uccide. Il sangue, il povero sangue di tanti, se vuole avere un senso, deve invocare la verità, la terra e la storia della terra, la propria storia, la propria natura di uomini, di popolo. Il mondo torna a poggiare su poche basi semplici, elementari.

Il ritorno all’ordine, che per tanti diverrà stereotipa insegna e moda, Soffici lo anticipa per un moto dell’istinto. Dopo, tutto sarà più complicato, l’equilibrio esigerà costruzioni vaste e meditate, le contraddizioni, insite nella sua natura più acute che in altre, esigeranno maggiore sforzo per essere domate o risolte. In uno scritto tardo, a commento di ore penose passate in compagnia d’uno scroccone che riesce infine a portargli via un quadro da malamente rivendere, constatando di non saper mettere a tacere la pietà e la tolleranza che gli consigliano di concedere il dono desiderato, e tuttavia scontento di non aver scacciato l’importuno indiscreto come meritava, Soffici si lamenta: «Ci sono due uomini in me. E il dissidio fra i due falsifica tutta la mia vita3». Non la falsificava, ma di certo la rendeva più difficile, anche se poi la naturalezza del tratto, l’eleganza e la grazia velavano, nella decisione e nel gesto, l’asprezza dell’intimo conflitto. Il nuovo Soffici nasce quando dal fatto personale l’uomo passa alla contemplazione di una realtà storica, e perciò oggettiva e collettiva. Esisteva, tuttavia, latente, fin dai primi anni di Parigi. Tra tutti quelli che s’accanivano nelle dispute astratte di positivismo e pragmatismo, Ardengo sognava una sua Italia, grande di eccellenza artistica, di opere egregie e mature, di leggi giuste, di educazione di popolo. L’idea della grandezza dell’Italia non può separarsi dall’idea dell’uomo Soffici senza rischi di confusione e d’incomprensione totale. Per quanto la rivelazione della realtà italiana di questo dopoguerra possa farla apparire un’esaltazione temeraria, fu il

sentimento dominante dell’uomo Soffici, l’affetto tenace di tutta la vita, il ponte modulante attraverso cui il cosmopolita iconoclasta si muta nel reduce restauratore. Così come la guerra trasforma l’originario arbitrio, la strafottenza e leggerezza nel grave passo dell’ufficiale volontario, Caporetto compie la metamorfosi tra l’anarchico toscano e lo storico della battaglia, schierato accanto al comandante soccombente. L’opinione pubblica che si scatena contro Capello trova nel ribelle di ieri il difensore del generale vilipeso. Continua a difenderlo, nel giornale di Mussolini, anche dopo che la Commissione d’inchiesta lo ha allontanato dal comando. Chi non riesce a vedere l’uomo Soffici sullo sfondo dell’Italia che, dalla rivolta operaia di Torino fino a Caporetto, sembra andare visibilmente in pezzi, e non sa misurare la tempesta di angoscia che si abbatte su quell’animo, non potrà mai capire come si determini la seconda fase di quell’esistenza, leggere il segno che diverrà, fino all’ultimo giorno, il suo destino. Nel 1933 scrisse a un giovane critico una lettera, che riassume con una concisione e una completezza che nessun altro libro o articolo successivo rivelano, il suo periplo morale a contatto con la guerra. È uno scritto che, apparso una sola volta e tanti anni fa, può considerarsi a buon diritto come inedito:

«Vedo che lei, ritornando ogni tanto su certe mie opere antiche e recenti, non mette abbastanza in evidenza la naturale evoluzione del pensiero e della mia personalità; cosa che invece sarebbe necessario fare. Ma non ha forse notato l’apparente

contraddizione che esiste tra il mio modo di considerare la vita, l’arte, la filosofia, ecc., fino alla guerra, e il modo di considerare le stesse cose dalla guerra in poi? Dico apparente4 perché in realtà la contraddizione è superficiale e l’uomo che vive nel profondo è sempre lo stesso, a età differenti; ma è necessario che tale contraddizione sia considerata per poi spiegarne la superficialità sul concludere. Per renderle più facile il compito, permetta che le tracci fugacemente uno schema del mio curriculum spirituale. Nato all’intelligenza e all’arte in un periodo di volgare accademismo e provincialismo italiano, cominciai col sentirne l’oppressione e col rivoltarmigli contro polemicamente. Il contatto con la cultura, il pensiero e l’arte straniera avuto da me in compagnia dei miei amici fiorentini della “Voce”, mi fece acquistare un senso assai più vivo e attuale della cultura, del passato, del nostro passato di cui mi ero nutrito per l’innanzi. Tale senso mi portò ad esorbitare verso l’anarchismo intellettuale e l’estremismo estetico, sebbene tutto ciò non mi facesse mai derogare dal sostanziale spirito della classicità di cui l’espressione porta sempre le tracce agli occhi del critico acuto. Tutta l’opera che va dall’«Ignoto Toscano» al «Lemmonio Boreo» prepara questo sbandamento. Con l’“Arthur Rimbaud”, i “Chimismi lirici”, il “G. di bordo”, e la “Estetica futurista”, siamo in piena sovversione. L’“Arlecchino” e “La Giostra”, libri scritti in varie epoche, rappresentano un temperamento e una specie di equilibrio instabile. La mia produzione letteraria, pittorica e la mia critica

che vanno dal 1909 al ‘15 partecipano solidalmente di questo spirito in rivolta, ma sempre ancorato, quando più, quando meno visibilmente, ad un ordine superiore di classicità, sia pure latente. Con la guerra tutto cambia, o per meglio dire, tutto si chiarifica. La guerra (quasi quattro anni persi, di riposo professionale, e di contatto con l’umano in travaglio di storia) mi portò a riflettere, a sentire la responsabilità della mia missione, mi persuase della vanità dei giuochi e delle squisitezze intellettuali e estetiche; e specialmente mi dette il disgusto degli artifìci e delle ingegnose trovate, che mi si rivelarono allora accademia e arcadia di un altro genere. La mia rivista “Rete Mediterranea” cominciava con queste parole: «Sono uscito dalla guerra un altro uomo», e quell’inizio era una confessione della massima sincerità... Lei capisce, questi non sono che accenni; ma questa traccia può servirle per dare un ordine differente alla materia del suo scritto. Vedrà allora come tutto parrà chiaro. Le profezie, la mia adesione, anzi partecipazione alla creazione del fascismo, ecc. Tenga presente questo: io rappresento il sincero travaglio dello spirito italiano nel trapasso da secolo a secolo, presso a poco come per Mussolini, nato carducciano (come tutti noi della «Voce», ecc.) divenuto sovversivo e finito naturalmente capo del Fascismo e della nuova Italia, nell’ordine, nella classicità». La nuova Italia, nell’ordine, nella classicità. L’uomo che io andavo a trovare aveva visto tutto crollare nell’ultimo abisso. Aveva visto sgretolarsi, dal suo osservatorio del Poggio e poi sordidamente

avvelenarsi quella umanità che aveva sognato stretta tra la nazione e il capo, le illusioni con cui aveva ingigantito stature e capacità, dell’una e dell’altro. «Si dovrebbe cominciare a credere che l’Italia è indegna della vittoria. L’Italia balcanizzata, levantinizzata e rimbecillita dalla classe dirigente. («Fascista» e «mussoliniana»!)»5, annota nell’Agosto 1941 davanti alle miserande prove nella condotta della guerra. Nel Maggio 1943: «Mi rifugio nel lavoro, nella pittura il più che posso. La pittura è più fisica che la scrittura: ci si può esprimere senza parole; e ciò salva un poco dallo spasimo interiore». Il 26 Luglio, contempla la caduta del Regime: «Quell’infelice Capo, per tanti versi grande, a forza d’incomprensione del vero stato delle cose in corso, e di tolleranza per le peggiori malefatte di tanti falsi fascisti, suoi effettivi nemici, aveva finito da tempo col perdere l’antico prestigio e col rendere inviso e anche grottesco il suo regime. Tutti capivano l’assurdità di tutto quanto si faceva in suo nome; fuori che lui, si direbbe. Il suo è un caso misterioso; e che cosa accadrà di lui? Finirà, secondo una vecchia previsione fatta in mia presenza dal generale Capello, come Cola Di Rienzo?». C’era di che separare onestamente le proprie sorti dal regime abbattuto. La delusione lungamente assaporata sembra preludere a un esito che nessuno avrebbe potuto rimproverargli. E invece, Soffici non prende neppure in considerazione l’idea di sciogliersi da se stesso, da quel passato che scelse di piena adesione. Resta attaccato, lui, ad un suo fascismo ideale e utopistico, diverso da quello del regime fallito e sconfitto, che continua a vivere in lui, così come si intende magnificare

l’impavida resistenza, nei dissidenti sovietici, esuli o imprigionati, di un ideale comuniSmo delle origini, tetragono ai delitti degli uomini e ai fallimenti del sistema. E neppure riesce a sciogliersi da quel «concetto di patria che ognuno si forma a propria immagine e somiglianza, come quello di Dio.6 Se arriverò a non credere più nel mio popolo, nell’Italia, avrò finito di credere in me stesso e in tutto il resto. Non potrò più far nulla, sapendo che non ne vai la pena. Ogni opera vive nel tempo e cresce nell’humus della gente, della nazione che ne è la sostanza essenziale»7, scrive il 19 Agosto 1943. Lo strazio, che non si è mai levato da quest’anima a inveire e gridare per circostanze personali, la sommuove soltanto di fronte allo scempio collettivo. «Già da settimane non mi riesce più di far niente, né dipingere né scrivere. Non vedo più il mondo sotto specie poetica, né sento più gli esseri, le cose, poeticamente. Il pensiero della morte mi è graditissimo»8. Questo vibrare del proprio essere nazionale fino allo schianto, questo andare in frantumi della capacità stessa di vedere poeticamente il mondo a cagione di una catastrofe collettiva è di una potenza poetica primitiva. «Passo giornate tristi, inoperose. La mia vita, tutto il mio essere sono così strettamente aderenti, sono tanto consostanziali all’essere Italia, che l’attuale stato e posizione dell’Italia, la quale sembra sul punto di perire, mi annientano spiritualmente e quasi fisicamente. Cessando a poco a poco di credere nel bello e grande destino dell’Italia, cesso piano piano di credere anche

nel mio. Mi pare di andare morendo. Non posso più pensare o tentare alcunché di elevato»9. Non mi meraviglia, ora, che quell’andirivieni col Poggio e col Forte sfociasse nella pubblicazione congiunta dei «Diari» che sia Soffici che il suo amico Prezzolini, sull’altra riva dell’oceano, tenevano gli stessi giorni, e che per Soffici si conclude la notte dell’8 Settembre, quando all’annuncio dell’armistizio sente «una masnada di tangheri sfilare sotto le sue finestre, berciando: Fratelli d’Italia, L’Italia s’è desta, Dell’elmo di Scipio S’è cinta la testa...».10 L’uomo del Poggio era il solo che potesse ad uno che, come me, aveva scelto, con una deliberata anamnesi, di riconoscersi dalla parte dei vinti, offrire non l’amarezza cocciuta di una ostinazione senza ripensamenti, ma la ragionevole speranza di trasformazioni senza rinnegamenti. «L’uomo di fede e d’onore, che non conobbe la viltà», come lo celebra la lapide dettata da Piero Bargellini per la casa natale di Rignano sull’Arno, era un vecchio di candida e virile innocenza, quale si sprigionava dallo splendido e dirittissimo sguardo, riparato, a monte del naso possente, dai tre grandi solchi verticali della fronte, e dai due trasversali a guardia della bocca volitiva. E tuttavia, ne spirava, con grazia non fatua, l’idea di una tenace speranza. L’ultimo Soffici era, sì, l’uomo dell’invettiva e del sarcasmo. «Nei periodi di sbracata democrazia, quando è lecito dir tutto e in qualsiasi modo più brutale e sfacciato, l’ingegno, dopo essersi sfogato, s’incanaglia, poltrisce, e le lettere si volgarizzano e

decadono»11. Ma era l’uomo capace di squarciare la sua tenebra con visioni di cielo come questa: «Quando io ripenso all’Italia, quale è stata e è, vedo che tutto è fausto quel che le avviene. Tutto giova a promuoverne la grandezza che è del suo destino. Le giova la sua spesso tortuosa e sconclusionata politica; le giovano i deviamenti dal suo essere proprio, i suoi erramenti, i suoi dirizzoni: il socialismo, che dà dignità e il senso del diritto al suo popolo; l’anarchismo, che fa da correttivo alle leggi mal concepite e inapplicabili; l’anticlericalismo, che la libera dal bigottismo; la retorica, che richiama la mente alle anguste e poetiche concezioni del vero umanistico. Le giovano anche le sconfitte, le quali le restituiscono il senso della realtà e della propria misura contingente. E le giova persino l’occasionale privazione della libertà, che le fa rimpiangere, riacquistare il gusto e la bramosia della libertà, dandole alfine la forza di recuperarla, insieme al fermo proposito di non più farsela togliere»12.

Queste frasi, Soffici scriveva nell’ottobre del 1958, l’età della mia prima corsa al Poggio. Da stropicciarsi gli occhi, da credere di non aver letto bene. Forse l’anarchico aveva messo una pesante e definitiva pietra sull’ordine e la classicità, e si accingeva a un viaggio di ritorno tardivo e impossibile? Ma no, Soffici non era, non fu mai un facilone. Quella grazia naturale e innocente con che poteva passare attraverso esperienze tremende senza scottarsi, gli consentiva di enunciare senza contraddirsi speranze e credenze che d’ogni fede autentiche avevano il suggello originale dell’assurdità. «La serenità di

quest’uomo è cosa che non deve ingannare: è disciplina, è forza di volontà, forse anche ironia. Ma v’è in lui una malinconia profonda, che non dice», scrissi dopo una delle ultime visite. Quando mi telefonarono che era morto, in una giornata d’Agosto del 1964, mi bastò socchiudere gli occhi per vederlo ancora, diritto e possente, vestito di bianco e coi fiori in mano. Caro Soffici. Caro volto vivido e schietto. Cara natura piena di virile grazia. Cara, coraggiosa, diritta vita. Lo vedo salire «alla campagna, su per la consueta viottola». Mi piace ricorrere ancora una volta a una delle ultime pagine, che pochi ritagliarono e ricordano.

E la viottola sale verso il colmo dell’altura, oltre il quale azzurreggiano i monti lontani del Pistoiese, si inarca il colle più vicino argentato d’ulivi, biancheggiante di ville e casolari, svettano i cipressi e gli alberi dell’altra falda; e io salgo per essa immerso in tale luce esterna e interiore13.

Leo LONGANESI

Leo Longanesi nacque il 30 Agosto del 1905. «Longanesi vecchio? Un controsenso», sentenziò Mario Soldati al buffet della stazione di Bologna dove l’avevo accompagnato dopo i funerali di Lugo. Ci raggiunse Mariagrazia, sedicenne, che tre anni più tardi sarebbe diventata mia moglie. Soldati guardava la ragazzina, e diceva: «Era come un bambino. Quando seppe che avevo conosciuto Ingrid Bergman, si accese tutto, mi voleva convincere a portarmela a letto; come se dipendesse solo da me». La conversazione che seguì, perché Leo non poteva invecchiare, la trascrissi in uno di quei modelli di libri che i legatori preparano per le case editrici: Mille pagine bianche, Longanesi me l’aveva donato («Milano, 12 Giugno 1955», dice il foglio di guardia): «Lo riempia, e me lo riporti». Un quarto, ne ho riempito. Rileggo: «Non avrebbe potuto gustare quelli che chiamano i piaceri della vecchiaia: la meditazione, la contemplazione, il riposo delle idee. Mai lesse un libro con calma soddisfazione. Sfogliava, saltava, annusava, cercava. Anche i quadri. Scrutava, scartava. Quando lo prendeva l’entusiasmo, era un grido di naufrago...».

Nessuno fu più solo di lui, allegro disperato. Disperazione e solitudine se le portava dentro, lo torcevano come uno straccio: una disperazione che pochi conobbero, nascosta dentro il polverone degli aneddoti, dei paradossi, delle battute che sollevò e finì col nasconderlo. Non che fosse un falso Longanesi quel polverone; era la buccia, lo schermo, il Longanesi di fuori, degli altri: si concedeva loro per estro irresistibile («mi invitano perché gli faccia da giullare»), e poi si disprezzava per aver accettato la loro compagnia. L’Aprile scorso ci fecero, a Bagnacavallo, uno dei soliti convegni di chiacchiere: «Longanesi. Quell’italiano riabilitato», era il titolo del “Carlino”. Ezio Raimondi, Nello Aiello, Walter Veltroni, Sergio Zavoli. Mi parve di sentire un grido: «Aiuto! Mi riabilitano!». Da vivo, si era difeso bene, da sé. Ne approfittano ora che è morto. Lo so, capita con tutti, prima o poi le scene dal vivo si perdono, resta la leggenda. Restano le contraffazioni, le ciarle, i Raimondi, Zavoli, Aiello, i ruminanti dei convegni. Di tanto in tanto, nei giornaletti della destra, spunta un poverino che si crede il nuovo Longanesi, sol perché fa il bastian contrario, spara paradossini e scrive impressionista sbrindellato. Colpa del polverone. Longanesi era di un’eleganza parnassiana, per niente “moderna”; dal disegno della prosa, dalle scarpe alla prosa, dalle scarpe alle cravatte, tutte uguali, a pallini. Scrisse una lingua asciutta, classica, superbo innesto di umor personale su un passato vivente. Chi non sapeva scrivere, imparava dalle sue correzioni e imitazioni: “Assieme a”, e uno era radiato. “Egli, il quale, la quale”, e andava in castigo. “Comunque”, fulminato: “scriva ad ogni modo, in ogni caso”. E poi, comunque, e dovunque

erano riservati a Mussolini. Fin che fu vivo. Dopo, proibiti. Dire che fu bastian contrario è un’idiozia. Contrario era a tutto quel che non gli piaceva. Il gusto è fatto di mille disgusti, e i suoi disgusti erano più folti e irritati dei disgusti degli altri. C’è un Longanesi tra noi, ma ciascuno si tiene il suo. Francesco Messina e Indro Montanelli, Calimero Barilli e Bruno Romani, Bruno Licitra e Adriano Bolzoni, Antonio Pepe e Antonio Savignano. Mario Soldati e Corrado Pizzinelli. Io mi metto ultimo, e non solo per educazione, ma perché sono davvero l’ultimo reperto. E poi, attenti, dietro la siepe, vogliono “riabilitarlo”. Temo che la sintesi, il Longanesi del futuro sarà il loro. Così è sempre la storia, altro che maestra. Conservatore e rivoluzionario insieme. Per questo fu fascista. Il suo vero maestro, Vincenzo Cardarelli, gli trasmise un senso augusto e solenne del passato e della tradizione insieme al culto del Leopardi politico, che rimproverava alla società italiana di non essere mai riuscita a darsi un “tono razionale”; non era un brontolone misoneista, anche perché non perdeva il tempo a lagnarsi. Nel lavoro aveva una disciplina mentale e manuale straordinaria. Altrimenti non avrebbe potuto mettere insieme tutto quel che fece. Aveva idee ferme e forti; nonostante le apparenze, l’ultimo Longanesi era uguale al primo. Voleva un’Italia ordinata, un paese serio di treni in orario. Si disamorò del fascismo, ma dei professionisti dell’antifascismo ebbe schifo. Come editore, inventò il revisionismo. Dietro il polverone dei paradossi, i pezzetti e le battute, c’era il ritmo del grande scrittore. Leggi, o rileggi, Un morto fra noi.

Che è sempre Mussolini, anche dopo che gli ebbe chiuso Omnibus. Lo ammirava anche quando ne parlava male. Ansaldo raccontò, quattro giorni dopo la sua morte, che nel Giugno del 1943, lo pregò di un “favore personale”: che ammonisse “il suo amico Ciano... fagli sapere che se si mette contro Vomazzo, finirà fucilato”. Fu profeta. La fedeltà è piena di misteri. “Il mio nome è mistero”, diceva. Col latino longa e il greco nesos, s’era fabbricato un’isola lunga che lo divertiva. «Benché questa origine sia troppo ibrida per essere vera, io la segnalo egualmente per avvertire che nel personaggio Longanesi il gioco comincia fin dal cognome», scrisse Savinio. Nessuno gli disse, o mai si accorse, d’un pugno di case, sette chilometri fuori di Ravenna, verso Forlì, chiamate Longana. Quando ci cascai, sbagliando strada un giorno dell’estate 1988, seppi da dove venivano tutti i Longanesi. Mi posi a trascrivere una misteriosa lapidetta datata 1624 sulla chiesa, intitolata a Sant’Apollinare. E quell’atto e il taccuino, mi costrinsero a mutar strada e ritornare, la prima volta dal 1957, al cimitero di Lugo. Mi venne incontro il piede di Giovanni Ansaldo, preceduto dal bastone, mentre usciva dall’automobile americana di Gabella che aveva portato lui, Montanelli e qualche altro; con due ore di ritardo. S’erano fermati a mangiare a Modena. «Saranno arrivati embriachi», commentò Tedeschi che non era venuto per non vederli. Embriachi no, ma ripieni e allegri; dietro la finestra posteriore dell’automobile poggiava un grosso cartoccio di zamponi. Nell’attesa, avevano deposto la cassa nel loculo sotterraneo, che si scorgeva da una finestrella, e tutti si chinavano. La sorte

gli aveva destinato, quale vicino finale, il musico futurista Balilla Pratella, che non poteva soffrire. Il marmo oblungo è spartito nei due rami, «Leopoldo Marangoni e Marangoni Rinaldo», della famiglia di sua madre. Nella seconda riga irrompe, devastante, con lettere male incise, più grandi dei Marangoni, una famiglia Martoni. È il matriarcato romagnolo: Iride (1877-1958) porta nella tomba dei suoi il marito Martoni, come Angela (1883-1974) i Longanesi: Paolo (1874-1953) e il figlio, Leo (1905-1957). Iride s’affaccia («Zia Iride non mi guardare»), nella penultima scena di Una vita, immaginaria autobiografia per immagini, soave fantasma da spalti di nuvole nere, sopra una landa spoglia e un albero secco. Il balzo verso Occidente venne ai tempi della guerra in Libia: «“La provincia è sempre la provincia”, diceva mia madre, e io dovevo far gli studi a Bologna e abbandonare le botti della nostra industria vinicola; dovevo perdere l’accento grasso della bassa e imparare il francese. Furono giorni tristi per me». Dolcezza e malinconia. La Romagna di Longanesi è chiusa, seria. I romagnoli di professione gli facevano orrore, come il Passatore, i tribuni del vino, la “caveja” e gli arnesi del folclore alla Bertinoro. Detestava il dialetto. Come mio padre. «A Roma, a Milano, ho trascorso anni, ma a Bologna, come s’usa dire, ci ho lasciato il cuore. Posso dire di conoscere ogni porta, ogni finestra... l’umore della vecchia Bologna non l’aveva piegato nemmeno la dittatura; prosperava, anzi, con piglio più ardente». In quell’ardenza, Leo fu buona fascina. Il 20 Ottobre 1914, vide Mussolini. Non gli uscì dagli occhi: «Io ero ragazzo, lui

aveva trent’anni: magro, con i grandi occhi accesi, e il viso pallido, scarno», lo ricorda in Un morto fra noi. Dagli occhi, e dalla vita: «Noi studenti, figli di borghesi, eravamo vissuti in un clima di “ardente passione”, durante i lunghi quattro anni della guerra. [...]. Volevamo ancora combattere, ma la guerra, purtroppo, era finita: le sole fiamme ancora vive erano d’Annunzio e la lotta contro i socialisti, nemici della vittoria. E a questi vaghi ma ardenti sentimenti s’univa il naturale gusto per l’avventura caro alla gioventù ancora affascinata dalle letture dei libri di Salgari... Appena infiliamo i calzoni lunghi, corriamo a iscriverci al Fascio» (in piedi e seduti). Il fascismo. Quale fascismo, poi? Nel neonato “Italiano”, il primo giornale che gli riuscisse di far comprare, dopo una serie di tentativi come ne abbiamo fatti tutti, da ragazzi, c’è una sentenzina che fa pensare. Né bastian contrario, né anticonformista come ripetono, Longanesi cominciò con gli scarti, le impuntature, la capacità d’illusione dei vent’anni, la fatica di trovare un tono, quel che Leopardi chiamava «il tuono nazionale», per l’Italia che mai n’ebbe uno. «Leopardi parla di noi», «Leopardi la pensa come noi», intitolava le citazioni e i pensieri che andava a pescare in quell’unica epitome dello Zibaldone che Cardarelli aveva compilato e chiamato II Testamento letterario di Giacomo Leopardi. «Ardengo e Vincenzo» erano i patroni eletti di quello che, del tutto abusivamente, inalberava la non modesta insegna «Foglio quindicinale della Rivoluzione fascista». Dice, dunque, la sentenzina: «il fascismo è bello non per quello che ha in sé, ma per quello che promette». Lo stesso pensavano, a quei tempi, Ardengo e Vincenzo. Era il programma

del proprio essere fascisti, cui Soffici e Cardarelli e Longanesi tennero fede, fino a che il fascismo morì; non di consunzione propria o fallimento intimo, come altri partiti e regimi, ma incompiuto e inconcluso; spazzato via in una resa di conti planetaria.

*** S’innamorò del fascismo come di un sogno. E come un sogno lo visse, fin che potè. In cima al sogno, in questo fascismo bambino tutto impeti speranze e primavera, stava Mussolini; il maestro severo, ma anche il capopopolo delle nostre parti, il capo bisboccia, il compagno fidato, la cui indulgente complicità con la propria rissa ideale era implicita nell’insegna del Foglio della Rivoluzione. Sì, perché seppure l’irrequietezza, incidenti e circostanze lo ridussero alla critica negativa, e lo mostravano rissoso, lunatico, disordinato, Longanesi fu un uomo al positivo netto e duro. Di tempra sua aveva l’ansia di costruire, di fare, cambiare, migliorare; fu conservatore, ma in quanto costruttore. Non c’è stato, nell’Italia del Novecento, conservatore che possedesse idee altrettanto chiare su che cosa valesse la pena di conservare, in questo Paese, e che cosa buttare. Lina sete tutta sua del pubblico bene, del bello e dell’utile, il rovello d’una dignità e d’uno stile, la fede di poter migliorare gl’italiani attraverso un regime e un governo, dargli fusto e sostanza, ecco il suo modo di amare l’Italia. Quando lo perse, smise di amarla: «La patria con la P maiuscola si allontanò» come

nel «legnetto» di Una vita, la torre civica in capo, la P sotto il braccio, il manto e l’auree bende stracciati a mostrare il culo. A Bologna, tra le risse e i caffè, le bravate e le lezioni col mignolo alzato, la Patria si vedeva, il sogno durava. Si sarebbe avverato il giorno che Mussolini l’avesse chiamato a sé: «E adesso, Longanesi, facciamo l’Italia come dice Leopardi, e tu la vuoi». Che speranze, che cori... Rivedo Missiroli, il sorriso largo e lontano, le mani battute insieme come ad applaudire, e scosse, unite, dall’alto in basso, su e giù: «Ma tu non sai la pazienza di Mussolini, con loro, con tutti. Conservatori e futuristi, strapaesani e cosmopoliti, cattolici e pagani, monarchici e repubblicani, idealisti e positivisti, gli portavano l’acqua dai mulini più impensati... Diceva sì a tutti, e aveva ragione, perché il segreto vitale, la ricetta inimitabile del fascismo era d’essere, lecitamente e giustamente, tutto insieme. Non era mica opportunismo, sai... Longanesi gli piaceva, gli mollava aiuti attraverso Arnaldo... e lui, convinto, come tutti, che fosse soltanto suo, e tutto comprendesse e condividesse...». La guerra per il gusto e lo stile, mai smessa nella macina degli anni e nella rovina delle speranze, contro il «ragioniere capriccioso garibaldino trullalà», i gusti, la volgarità pretenziosa dei pescicani grandi e piccoli, era perduta in partenza. Il solo stile che nacque fu il suo: «Lino stile di giornalismo perentorio, prepotente, sopraffattore, che subito si fece valere in una cultura impreparata e disorientata», osservò Emilio Cecchi nell’articolo che proprio io gli chiesi per il numero speciale del “Borghese”, 10 Ottobre 1957.

Il sogno era finito. La vecchia Italia si risvegliava. L’Italia decrepita, dell’alito fetido, delle promesse non mantenute, del servilismo, dell’opportunismo, si era mangiata, a poco a poco, tutto il fascismo, speranze e Mussolini compresi, e ora li defecava. Era l’Italia il lato debole della baracca. Quand’avrà centotrent’anni, lo capirà perfino Montanelli. Leo cambiò stile e registro, e “l’italiano”, che pur si chiamava ancora “Periodico della rivoluzione fascista”, divenne una rivista che chiuse la serie con un numero raffinatamente monografico, «Medicina, sogni, illusioni», data «Novembre-Dicembre 1942». [El-Alamein, Stalingrado]

Disgustato dall’antifascismo

«Quello di Roma era un uomo deluso e disincantato che, pur rifiutando decisamente tutta la retorica di copertura del fascismo, non sapeva e non voleva rigettare il conservatorismo. Così si spiega come Longanesi abbia criticato il fascismo, sotto l’antifascismo, pur sempre muovendo dalle stesse posizioni conservatrici», almanaccava, nei vent’anni della morte, un marxisteggiante Moravia che «all’incapacità di essere non già un fascista deluso, ma un antifascista, magari illuso» attribuiva «quel che chiamerò il crepuscolarismo di Longanesi, il suo conservatorismo sfiduciato e violento». Riuscì, e tuttora riesce incomprensibile; ma quando cessò di sentirsi fascista, Longanesi non potè, o non volle, diventare antifascista, ecco tutto. La caduta di Mussolini e la resa di Badoglio lo gettarono, a trentasette anni, nella sua prima vera avventura, la fuga al Sud. Convinto che tutto si sarebbe risolto in una ventina di giorni e il fascismo non sarebbe tornato mai più, fiutò l’aria e pensò bene di cambiarla. Le sbagliò tutte e due, amaramente. Fuggì perché lo prese la paura. Delle sue disarmonie, la piccola statura era evidente; la paura fisica restava nascosta. «Sono piccolo ma quando guardo qualcuno so dove posso colpirlo, ho imparato a picchiare a 17 anni», si vantava. Non era vero.

Alzava la voce e si scagliava sol quand’era sicuro che «il gruppo» avrebbe impedito le vere vie di fatto. Ce l’eravamo confidato come un segreto penoso, tra me e Tedeschi, e n’avemmo conferma in una scenata terribile, da Toto alle carrozze, un ristorante romano, dove s’era riunita una tavolata del “Borghese”. «Ladro!», urlò Longanesi aH’improwiso, contro Giovanni Artieri, accusandolo di raccogliere sovvenzioni per la rivista, senza poi dargli i soldi: «Ladro, ti ho scoperto», e fu un affare serio perché l’altro, faccia bianca come il gesso, afferrò una bottiglia, la spaccò contro la credenza, e si scagliò alla guappa, voleva sfregiarlo. Fu “il gruppo”, come sempre, a salvarlo. Possedette in massimo grado, Longanesi, il coraggio morale: quello, per intenderci, che manca al Montanelli, ben provvisto, invece, di coraggio fisico. Questo mancava, a Longanesi, del tutto. Fu la paura che lo spinse nella fuga, finita poi a Napoli, che gli procurò un anno di miseria, brutte figure e umiliazioni. Se ne portò sempre la vergogna E la vergogna cercava di sormontare, quando capitava di parlarne, facendo il vocione paradossale e caricaturale della spacconata picaresca Accumulava situazioni sordide e azioni deplorevoli, raccontava di come si metteva in tasca, per poi rivenderli, i libri rari nella casa del «senatore Croce», lo chiamava sempre così. Li conosceva gli antifascisti, e li osservava «Quelli giunti dall’America o dall’Inghilterra, dopo anni d’esilio, per lo più volontario, sono ritornati con la stessa mentalità con cui partirono, e perfino con lo stesso cappello, pettegoli e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio rivoluzionario... ». Sei anni più tardi l’immagine diverrà un legnetto di Una vita.

Il fascismo aveva messo vent’anni a deluderlo, l’antifascismo lo disgustò in due mesi. A Napoli gli pagavano due lire per una rubrica satirica antifascista alla radio, e così gli toccò il rimprovero di Mussolini, proprio lui, che scriveva la Corrispondenza repubblicana, e mise alla gogna i «Canguri giganti», dai salti esagerati e svergognati. Con piazzale Loreto la vergogna divenne rimorso. Pagò l’una e l’altro, fin che ebbe da vivere. Chi non accetta queste evidenze si condanna a non capire nulla di Longanesi, e del suo dopoguerra, coerentissimo, finalmente, dopo tante rovine. «Aderii alla Repubblica di Salò», s’intitola una tavola, dolce e peccaminosa, dell’autobiografia in sogno. Macabro e breve, il nuovo sogno, tutto ruotava lì attorno. Ammirava in segreto Alessandro Pavolini. Gli sarebbe piaciuto esser fucilato a Dongo, sopravvivendo. Confidò a un’entraîneuse d’esser uno scampato di quella fucilazione. Un’altra ne trovò (chissà chi l’aveva istruita) che si spacciò per la figlia d’uno dei fucilati sul Lago. Quando diceva: «Quello lì, era nella Decima Mas, nelle Brigate Nere», prendeva un tono losco e soddisfatto, alla Salgari. Si circondò di «rottami di Salò», come direbbe un figuro che so io: Tedeschi, che gli dette ossatura politica al “Borghese”, Franco e il fattorino, e l’impaginatore in tipografia, che chiamavamo Dutto, ma era il falso nome di un ricercato delle Assise speciali. Bruno Licitra racconta di quando, assolto e liberato dal carcere il generale Carloni, i suoi alpini della «Monterosa» progettarono di costruire, in Garfagnana, un ossario per i camerati caduti: «Mi ascoltò con attenzione, poi prese un cartone e cominciò a disegnare il profilo dell’ossario. Era molto

bello. Lo colorò anche, e sull’ingresso disegnò un cartiglio: “Qui riposano i soldati di un’Italia perduta”». A stare con lui, Mussolini si sentiva veramente “fra noi”, come mai capitava. Raccontò Tedeschi una scena, «incredibile, al Santa Lucia a Milano; al termine di una discussione, Longanesi scatta in piedi e grida: “Evviva il ducione nostro”, mentre Missiroli lo guardava con le lacrime agli occhi». Io ricordo una scena, nell’ottobre del 1955, in uno di quei ristoranti con lo spogliarello dove andava a guardare le lunghe gambe delle ragazze. A una tavola vicina, presiedeva il senatore Falck: «Non li guardi, sono ricchi stronzi in trasferta licenziosa», mi disse, ma l’avevano già inquadrato: «Longanesi, venga con noi, stiamo parlando di Mussolini e vogliamo il suo parere...». Che subito venne: «Io, quando vedo una faccia come la sua, sono sempre dalla parte del povero morto!».

Il primo revisionista

Prima che lo conoscessi, si faceva raccontare dai suoi amici d’Imola, ch’erano anche miei, le aggressioni che subivo, solitario, per strada, e lui le raccontava a Milano. «C’è un giovanotto, a Imola, che prende tante di quelle botte!». Me lo disse Pififi Gomez, amico suo e compagno di scuola di mia madre. Facevo una rivistina, “Il Reazionario”, imitazione più violenta del “Borghese”, e quando Tedeschi ci presentò, disse: «Ma perché butta via i suoi pochi soldi per fare una cosa che nessuno legge? Venga con me». Guardava tutto, leggeva tutto. Non m’illusi mai d’essere una sua «scoperta» letteraria. Gli piacevo perché prendevo tante botte. Fu proprio Pizzinelli a smentirmi, tanti anni dopo: «Ma no, parlava di te con la stessa ammirazione con cui mi aveva parlato di Tedeschi, che aveva scoperto a Roma». Quando fondò la Lega dei Fratelli d’Italia mi nominò Segretario generale e mi spedì a Trieste, da Gino Baroncini, vecchio squadrista imolese e ora potente capo delle assicurazioni Generali, a chieder soldi e consigli. Segretario d’un partito con Longanesi presidente, fu il culmine della mia carriera politica. «Non ti montare la testa», disse Tedeschi, «preferisce farti Segretario generale dei Fratelli che assumerti col contratto di

praticante». Non me la montai, non pagava neppure gli articoli: «È lei che mi dovrebbe pagare, perché glieli pubblico, e glieli metto anche a posto». Mettere a posto erano le modifiche e correzioni, che potevano giungere a riscritture quasi totali, quel che i bidelli delle case editrici chiamano l’editing. Tedeschi mi mollava qualche centomila, illudendosi ch’io riuscissi a controllare il presidente in un’avventura che giudicava sballata. Tale si rivelò, quando ci accorgemmo che la risonanza del discorso milanese all’odeon ci scaricava addosso tutti i delusi, i dissenzienti, gli ambiziosi dei partiti e movimenti di destra, «la stessa roba delle vecchie federazioni» con vent’anni sulla groppa in più. Vissi due mesi letteralmente appeso a Longanesi, di città in città. A Verona un conte gli disse d’esser stato partigiano monarchico. Fu la rottura. «Senta io di partigiani non ne voglio tra i piedi, di nessuna specie. Ma preferisco quelli di Imola, che almeno sono comunisti... Venga, Buscaroli, andiamo a Imola». Andammo a Imola. L’avventura del partito era chiusa. Eppure, contemplata da quarant’anni, conserva una sua razionalità di ultimo tentativo, quia absurdum, di “fare qualcosa”. A “fare qualcosa” lo istigava, da lunghi anni, Montanelli. Che quando la Lega nacque, poi non c’era. Per quanto abbia preso aspetti di farsa e di pochade, il tentativo politico del crepuscolarismo longanesiano ebbe sue basi ragionevoli, che varrà la pena di ricercare un giorno. Intanto, Longanesi fu il solo, per quanti io n’abbia conosciuti, che, una volta rimesso un ordine nella sua esistenza, amicizie, relazioni d’affari, applicasse una sistematica e impietosa revisione a

comportamenti e sentimenti tra guerra e dopoguerra. Rotture, separazioni, ostilità non furono capricci e gelosie, ma meditati rifiuti. Il primo, totale, fu per l’antifascismo. Il fascismo era morto e non sperò di resuscitarlo. Fu amico dei neofascisti, ma non fu dei loro. Odiò l’antifascismo (ne prendano nota, per la «riabilitazione» progettata) con tutte le sue forze, con l’odio che consuma, Vodiovomito alla Rebatet. Ma tutto ciò con un timbro speciale. Dopo che cominciai la serie sul revisionismo mi accorsi che di continuo ricorrevo alla raccolta del “Borghese”, ai libri della «Longanesi & C.». Quel timbro sconosciuto li faceva parere fascisti agli antifascisti e consolava i fascisti che tuttavia, non vi si identificavano. Questo è il revisionismo, e Longanesi ne fu l’inventore in Italia. Quando, dopo le elezioni del 1948, sentì passato il pericolo che gli assassini prendessero direttamente il potere, la sua casa editrice, senza perdere di vista gli interessi letterari, antiquari, di costume, perseguì scopi politici nettissimi: primo, la restituzione ai vinti delle loro ragioni e della loro dignità. Contro la vendetta e Mussolini, Graziani e l’antifascismo di Carlo Silvestri fondarono la bibliografia revisionista, cui contribuiscono i suoi libri: Una vita, immagini più potenti d’ogni scritto, e Un morto fra noi. Navi e poltrone (1952) e Settembre nero (1956) di Antonino Trizzino posero le fondamenta d’un dibattito sulla guerra e il tradimento. Il mito di Roosevelt di John T. Flynn (1949) e Storia delle responsabilità di Charles A. Beard avviarono la demolizione della politica bellicista americana. Nel fumo di un sigaro di Alfred FabreLuce resta insuperato nella rivelazione di quale bieco dilettante fosse Churchill. Un tedesco risponde di Heinrich Hauser, e La colpa è

tutta tedesca?, di Hans Fritzsche, il solo prosciolto di Norimberga, incisero la vena tedesca. Montanelli offrì, con Morire in piedi, la retta interpretazione, prussiana e antidemocratica, della congiura del 20 Luglio. Le colpe dei grandi di Mikolajczyck, I servi della democrazia e L’uovo di Colombo di Maurice Bardèche (cognato dello scrittore Robert Brasillach, fucilato dalla “resistenza”) sono fondamenti del pensiero revisionista. Ancora decine di libri Longanesi dedicò alla difesa del patrimonio che la democrazia veniva distruggendo (il Latino), e alla critica dell’ideologia e mentalità oggi di moda con lo stolto contraddittorio binomio di liberaldemocratica. Da Toqueville e Gobineau a Beau de Loménie, Daniel Halévy, Pietro Gerbore, Panfilo Gentile, Werner Sombart, fino al Tramonto dell’occidente di Spengler, pubblicato l’anno della morte nella traduzione di Evola, che considerò il suo capolavoro di editore, col Costantino di Burckhardt, il Diario di Jiinger e gli Usi e costumi di Napoli di De Bourcard. Finita l’Italia, chiuse le speranze, sognò di fuggire. In America, come nei romanzi di fine secolo. Non era povero. Trovai un libretto con settanta milioni nel cassetto dell’immenso tavolo di via Bigli. Quel 27 Settembre 1957, di pomeriggio, Tedeschi mi chiamò: «Ha telefonato la Facchi che Longanesi è morto, d’infarto, in ufficio. Ho sentito voci di vendita, di chiusura. Hai cinque ore di vantaggio su me e Gianna, prendi cinque, dieci valigie e corri a via Bigli, mettici tutto quel che serve a salvare il Borghese, elenchi di abbonati, contabilità, archivio, corrispondenza, fotografìe, disegni per le copertine, almeno un anno, fai le cose per bene».

Trovò quel che serviva, la notte, all’albergo Manzoni, la nostra base. Il libretto coi settanta milioni, quasi lo faceva schiattare di rabbia e tristezza. Gli aveva mandato un «soccorso» di un milione una settimana prima. Quando io arrivai, Longanesi era già a casa sua, in via Mercalli. Non so chi aprisse la porta, erano tutti a Imola. Missiroli, allora direttore del “Corriere”, aveva telefonato al questore: «Un Longanesi non può finire alla morgue...». Per chiudere la cassa, dovettero spezzargli le braccia. Erano rimaste irrigidite, tese in avanti. Dice uno degli ultimi versi del suo Cardarelli: «Morte, non mi ghermire...». Il giorno dopo, la moglie andò incontro a Tedeschi urlando: «“Il Borghese” muore con Leo», e allora «Missiroli compì il gesto», raccontò Tedeschi: «Mi prese per un braccio e, tiratomi in disparte, disse: “Invece, dovete continuare... Lo dirò a quelli che contano, di aiutarvi”. E lo fece, Missiroli, il revisionista».

TOSCANINI E LONGANESI

Uno schiaffo in cerca d’autore

Longanesi non poteva soffrire i musicisti, quelli che noi chiamiamo interpreti e lui battezzava “i suonatori”. Non lo sapevo ancora, al principio di quell’estate 1955 che passai accanto a lui, vivendo, come “segretario generale” da lui nominato, la breve turbolenta avventura della «Lega dei Fratelli d’Italia», di cui s’era incoronato Presidente nazionale. Un giorno d’Agosto, che gli capitai nello studiolo di via Borghetto, ancor pieno d’entusiasmo per un concerto di Wilhelm Backhaus, mi fissò sotto le lenti, puntò sul tavolo le braccia robuste e scoperte dalle maniche arrotolate della camicia, e con la cadenza facinorosa e strascicata, le “s” croscianti che gli piacevano in quei momenti, «Ma mi faccia il piacere», attaccò: «Non crederà mica che siano dei grandi uomini, degli artisti. Sono tutti come la ditta Gondrand, che se porta un Raffaello da Roma a Milano non diventa mica Raffaello», e si mise a ridere, crescendo di tono in quell’umor ribaldo di quando rammentava imprese, sue e d’altri, che lo divertivano: «Se non lo sa, il famoso schiaffo a Toscanini gliel’ho dato io, gliel’ho dato... e poi, scrissi anche, nell’“Assalto”, che era finita un’estetica».

Mi rimase sempre la curiosità di quella fine di un’estetica, fin che l’avvocato Alberto Tabanelli, un giovanotto sopra gli ottanta, coetaneo e amico di Longanesi, nato a Massalombarda a un tiro di colubrina da Bagnacavallo, letto il programma di rievocazioni e lamenti per il prossimo 14 Maggio, sessantennio del celebre oltraggio, non mi ha mandato l’originale del numero dell’“Assalto” con la data 16 Maggio 1931.

*** L’articolo di fondo, Fine di un’estetica - Il caso Toscanità, comincia con una perentoria rivendicazione: «Giovedì sera siamo stati protagonisti di una affermazione non solo politica ma anche estetica del Fascismo bolognese». Rivendicazione, o appropriazione? Dipende dal valore che si dà a quel «siamo»: prima persona al plurale, come usava nel giornalismo una volta? 0 indica un gruppo dove, se anche un solo colpo è giunto al segno, hanno alzato le mani in molti? Teso alla celebrazione collettiva del gesto, l’articolo lascia in ombra il numero: «Il fatto accaduto al nostro direttore d’orchestra non ha il carattere di un fattaccio: è stato, piuttosto, la conclusione, il definitivo giudizio di una città seria al seguirsi ininterrotto di una condotta ormai ridicola. Il maestro Toscanini giuocava da tempo su tutti i teatri d’Italia la parte del puro esteta che vola al di sopra della politica e disprezza le misere leggi dei governi. In nome di una purezza musicale, di un estetismo ormai decadente, instaurato dai raccoglitori di briciole wagneriane, il nostro esecutore di concerti aveva deciso

di non suonare la Marcia Reale all’inizio di uno spettacolo al quale assistesse un membro del Governo o di Casa Reale. “Non voglio corrompere l’aria, l’atmosfera della sala con musiche profane, con inni politici”, diceva, “non voglio disturbare la religiosità, l’elevazione di una musica...”. Difeso da una così sciocca regola per zitelle anglosassoni, il nostro santone proclamava prima di ogni spettacolo la sua sublimazione e il suo astensionismo, se così si può dire, dai semplici doveri che nessun cittadino rifiuta di adempiere». Trascrivere tutto l’articolo, pur asciutto e breve, non posso. Riassumerlo è difficile. È più onesto collegare le frasi principali: «Bellini, Verdi, Rossini, artisti di ben più aperta fantasia del nostro esecutore di concerti, avrebbero riso di una religiosità così acuta e sublime [...]. Ma il nostro maestro, che non è Rossini, aveva già intuito, da uomo furbo e attento, che i canoni della religiosità musicale finivano col giovare alla sua fama; quanto più le sue bizzarrie prendevano forma e se ne diffondeva l’eco, tanto più crescevano nel pubblico l’ammirazione e la soggezione [...]. Si confezionò una faccia da ascetico per le signore dei palchi di prim’ordine, inventò la mezza luce, interruppe gli spettacoli perché in platea cadeva un decino e giurò davanti all’Arte di non suonare la Marcia Reale. L’Italia musicale non fece un fischio, restò a bocca aperta, a occhi socchiusi davanti al nuovo Ras delle orchestre [...]. A Bologna wagneriana e rossiniana, l’illustre apostolo laico ha trovato un pubblico che credeva in una religione più forte della sua, quella dello Stato. Mistico o non mistico, i fascisti bolognesi hanno chiesto al maestro Toscanini di rispettare quel che ogni altro cittadino del Regno

rispetta. Dirigere o lasciar dirigere la Marcia Reale prima del concerto non impediva al pubblico di applaudire l’illustre maestro». «Come la cronaca dei giornali racconta, il nostro professore ha risposto con un ripetuto e insolente diniego. Ne è seguito qualche ceffone, una fischiata, e la fine di un’estetica». Dopo la firma, «Longanesi», veniva un «P.S. Si attende, ora, di assistere alla solita sfilata delle proteste, degli ordini del giorno, dei lamenti umanitari e artistici [...]. Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti». *♦* Da quel giorno, inchieste e ricostruzioni non si contarono, cominciando con quella del prefetto, Guadagnini, che nel rapporto a Mussolini non potè fare alcun nome. La più recente, e inedita, del valente e ancor verdissimo Calimero Barilli, contiene una sorpresa. Conferma che Longanesi era “nel gruppo”. Ma lo schiaffo che giunse al segno fu tirato da un signore riservato e compito, alieno d’ogni violenza, che si chiamava Giovanni Bonaveri. Gino Baroncini, imolese, squadrista, amico di mio padre e di Longanesi, capo supremo delle Assicurazioni Generali, gli aveva affidato l’Agenzia di Bologna. Fu proprio per la sua composta distinzione di assicuratore che Arpinati, fallita nella mattinata l’ambascieria dell’illustre latinista Lipparini, mandò Bonaveri al Teatro con l’ultima proposta, che più conciliante non si poteva immaginare:

lasciasse, Toscanini, dirigere al primo violino la sola Marcia Reale, senza Giovinezza, all’apparire in sala di Costanzo (e non Galeazzo) Ciano, ministro delle Comunicazioni, venuto a rappresentare il Governo alla «Quinta Fiera-Esposizione del Littoriale». «Benché presentatosi a nome del sottosegretario Arpinati, Bonaveri non fu neppure ascoltato, perciò, ritenendosi personalmente offeso, mollò uno schiaffo al Maestro». Senza quel ceffone, del tutto privato e imprevisto, «nessuno degli altri fascisti avrebbe alzato un dito», conclude Barilli. Bonaveri non si vantò mai del suo gesto; neppure con me, nei molti anni che insieme sedemmo alle conviviali del Rotary bolognese. È proprio in quel riserbo che scorgo la prova dell’autenticità di quanto Barilli mi comunica. Il lontano schiaffo, il rumore che n’era seguito, dovevano dargli fastidio. Lo confidò solo a un intimo amico, Walter Boninsegni, che, due anni fa, lo comunicò, per iscritto, a Barilli. Un’altra sorpresa mi è stata confidata in questi giorni, ma non posso dire da chi. Dopo la guerra, tornato in Italia, Toscanini fu udito da uno scrittore, allora famoso, rievocare l’episodio dicendo tra sé: «Chissà, forse avevano ragione loro...». Trovo stupefacente che in una repubblica, di cui il giornale del Vaticano parla come di «una terra di nessuno nelle mani di criminali di ogni specie, pronti a tutto e forti di molteplici connivenze, dove città una volta tranquille come Bologna stanno diventando luoghi di inaudite efferatezze, e bande agguerrite seminano impunemente panico e morte»; dove uno solo dei cento e cento sequestri di persona dice di un clima morale e

civile ben più sciagurato e guasto di quello in cui scattò quel lontano ceffone, ci siano ben undici oratori disposti a commemorarlo, e si trovino i molti milioni necessari ad alloggiarli e compensarli. Milioni che, in ogni caso, non escono dalle casse del Teatro Comunale: il Soprintendente Escobar ci tiene a farlo sapere.

Le agonie di Cardarelli

Quando chiuse gli occhi, il 15 Giugno del 1959, in una camera del policlinico romano, si suggellarono insieme due agonie: la “piccola”, e la “grande”, come le Passioni degl’incisori antichi. La piccola agonia di Vincenzo Cardarelli era durata ventisei giorni, da quando lo raccolsero esanime, la testa china sotto il vecchio cappello, nella poltroncina del caffè di Via Veneto dove passava ogni stagione. La grande agonia s’era protratta dieci e più anni; quanti ne misero gli estri del poeta, l’acutezza dello scrittore e gli spiriti di un uomo tra i più irrequieti e ribelli della sua generazione, a staccarsi dal povero corpo precocemente avvizzito, di cui avevano pietà il Sole, quando splendeva, e i pochi amici capaci di varcare la muraglia scorbutica del solitario mendicante d’affetto: Amerigo Bartoli, e Raffaella Pellizzi, consorte di Camillo. L’ultima leggenda di Cardarelli non si scrive senza rasentare l’esecrabile pittoresco dei clochard, il color facile, il souvenir d’enfer del letterato di provincia che su quella sedia contemplava, da poi raccontare, la lacrimevole immagine del temuto tiranno e acclamato poeta, mutato in pubblica maceria. Lo portavano a braccia dal secondo piano della pensione di Via Veneto 147 a quell’angolo di marciapiede dove, il magro corpo

perennemente avvolto nel pesante cappotto a difesa del freddo odiato e temuto, guardava scorrere la vita degli altri, quanto a lui restava della vita. Lo dimenticarono, una volta, sotto un acquazzone. L’emorragia cerebrale lo colse a Tarquinia, anzi Corneto, così si nomava quando vi nacque il 1° Maggio 1887, dove aveva trovato rifugio al salir della guerra. «In casa d’altri, mangio il pane che sa di sale...». Spento, sul mare etrusco, il Sole del mito, livido l’opprimeva il luogo ormai estraneo: «Io non voglio morire a Corneto. Sono tornato vecchio, cadente, in un luogo abbandonato a diciannove anni, bellissimo nel ricordo, orribile e sinistro nella sua realtà. Sto per perdere tutti i denti: non ho dunque né denti, né pane...». Tornò nella sua Roma di sempre, ma si portava addosso l’arteriosclerosi cerebrale che lo consumava. Viveva di radi diritti d’autore, ché sempre aveva svenduto, à forfait, i manoscritti, per poche migliaia di lire; e d’uno stipendio di direttore, sempre più nominale, della Fiera Letteraria, che lo salvò dal bisogno; ma non potè redimerlo dall’eterna miseria delle camere mobiliate, dei costosi incontri amorosi fugaci e insondabili, dalla rovina d’una solitudine che, accumulata con metodica sprezzatura negli anni della sua avara fortuna, franava addosso al vecchio, più che mai indifeso in un mondo ormai incomprensibile. C’è un lungo passaggio in cui il rifiuto, l’astio, il distacco, mai bene esplorati, di Cardarelli, rispetto ai nuovi tempi apertisi col 1945, sfociano in una decadenza che di morale si trasforma in

clinica. La sentenzina di sapore guicciardiniano con cui Prezzolini spiegava la straordinaria sua lucida longevità dicendo che si era saputo ben scegliere genitori e antenati, trova nella sorte di Cardarelli la contraria dimostrazione. La sua catastrofe è uno sfacelo biologico sovrapposto a un mistero morale. Misterioso ci riuscì tutto in quella fine, e più di tutto, come l’erompere di viva fiamma da fredde ceneri, il lampo che da quell’ammasso tremulo e infagottato, di sotto il cimiero stazzonato della consunta lobbia, ci raggiunse ai primi d’Ottobre del 1957, mentre compilavamo il numero speciale del “Borghese” in morte di Leo Longanesi. Nel trentennio trascorso dal 1926, quando il «Sermone» di fine d’anno dell’“Italiano” inalberava a «patroni Ardengo e Vincenzo», l’antico sodalizio s’era dissolto. Longanesi aveva detto: «Viviamo di Cardarelli, che ci ha insegnato anche quello che personalmente non ha imparato»; e quanto ciò fosse vero, non cessa di accorgersi chi ricalchi passi lontani. Chi trova, nel numero 9, annata seconda (1920) della “Ronda”, dentro la violenta replica alla «recensioncina d’un tal Piero Gobetti», l’accenno ai «detestabili elzeviri zanichelliani», intende di dove sortissero gli sdegni e umori longanesiani che andarono poi a sistemarsi nella Lettera alla figlia del tipografo. Del maestro d’un tempo, Longanesi aveva ora fastidio, l’antico alunnato gli provocava stizza e vergogna, la rovina fisica letteraria e finanziaria accasciata sul celebre marciapiede gli riusciva insopportabile. Forse temeva ancora il giudizio del solo capace di frugare con la mente dentro le pieghe di quel transito al Sud, nell’Italia invasa, che, per quanto ora Leo lo ridipingesse

abilmente col multicolore paradossale di un’avventura picaresca, restava sempre una conclusione ben sordida per l’inventore del motto «Mussolini ha sempre ragione». Giovane apprendista, sospettai subito, in quell’avversione di Longanesi per Cardarelli, il timore di una fiammata di sarcasmo. La sola, forse, che egli temesse, tra i tanti che temevano le sue. Più che mai lo sentii vulnerabile neH’infastidita pietà di «quel povero Cardarelli», per non doversi imbattere nel quale rifiutò un lusinghiero invito a Via Veneto una certa sera del Gennaio 1957, che aveva inaugurato una sua mostra di disegni tempere e acquarelli all’obelisco, in Via Sistina.

Gli restavano da vivere, all’anziano patrono anzitempo consunto, e al cinquantenne allievo, il cui aggressivo artigianato celava altre solitudini e disperazioni, a qual più, a qual meno, poche stagioni. «Caro Leo, il tuo trapasso era l’estremo dispetto che hai voluto farci. Siamo qui a pentirci di essere ancora in vita... Sii beato, sii felice, nel regno che certo ti ha destinato la tua guerriera innocenza», fu il messaggio luminoso che il vecchio dettò a salutare la partenza del più giovane, folgorato dalla morte improvvisa. Di quella morte Cardarelli aveva orrore, l’aveva supplicata nell’ultima poesia della raccolta mondadoriana: Al pensier della morte repentina il sangue mi si gela. Morte, non mi ghermire, ma da lontano annunciati

e da amica mi prendi

come l’estrema delle mie abitudini.

Fu esaudito. Anche troppo. La terza agonia fu la più crudele. Tanto pesava, quando morì, quella decadenza, da impedire ormai la vista delle migliori stagioni. Scrisse Eugenio Montale, che non gli fu amico: «Una quarantina d’anni fa esisteva già un mito di Cardarelli, al quale gli uomini della mia generazione hanno reso omaggio pur senza indagare le ragioni che lo sostenevano. Era il mito del giudice dal “dito alzato”, dello scrittore impeccabile che nulla aveva concesso alle ragioni del basso romanticismo e dell’altrettanto “basso” crocianesimo, del custode rigido della tradizione, dello scopritore e insieme rivendicatore del vero Leopardi: quello delle Operette morali e dello Zibaldone». Il mito rimpiccioliva nell’astio e nell’imprecisione sfocata dalla distanza. Ma «le ragioni che lo sostenevano», oh se c’erano state, e il «dito levato» che per tanti anni, come Giuseppe De Robertis, era stato «il ricordo primo di Cardarelli», accompagnato al «modo come diceva le parole, scandendole», riassumeva insegnamenti e anatemi che una intera generazione letteraria, plaudendo o detestando, aveva tuttavia accettato come legittimi. «Per lunghi anni», rievocò Giovanni Comisso in uno scritto ormai ignoto, «il giudizio di Vincenzo Cardarelli è stato desiderato e temuto in Italia. La sua cattedra prima della guerra era nella terza saletta dell’Aragno e qualche tempo dopo la fine si spostò in via del Gambero, nella trattoria dello stesso nome.

Era il suo giudizio sempre estremamente spinto non solo nel sarcasmo, ma nel tono della voce che diventava canora accompagnata dal gesto dell’indice puntato contro il presente al quale si riferiva. La discussione coi compagni letterati della stessa età non aveva più occasione di accendersi dopo che aveva posto quei limiti che permisero l’apparizione della “Ronda”... I giovani letterati che erano venuti a Roma in cerca di gloria, tanto dal Mezzogiorno che dal Settentrione d’Italia, dopo la guerra entravano timorosi, cercando di passare inosservati pur di ascoltare Cardarelli il quale, più che discutere, recitava il suo abituale e terribile monologo. Al suo occhio non sfuggivano quei giovani che aspiravano a un suo riconoscimento e spesso li aggrediva con apostrofi taglienti che riuscivano indimenticabili per anni. Non erano solo letterati quelli che gli facevano cerchio, ma pittori, scultori, giornalisti e uomini politici. La lista sarebbe lunghissima se si dovesse fare il censimento di tutti coloro che si sono maturati alla sua scuola. E ben pochi oggi hanno il coraggio di ammetterlo; in tempi confusi nel giudicare, fu Cardarelli a stabilire, parlando, nelle lunghe notti romane di quegli anni, quanto in arte valeva valido e quanto no. Quel terrorismo verbale aforistico e intimidatorio, la cui invenzione Emilio Cecchi accreditò a Longanesi, era stato Cardarelli a insediarlo nell’arsenale della polemica letteraria, fino allora dominato da prolisse tisane retoriche. Ascoltare o fuggire. Sapeva bene quel che faceva un pittore geniale, rabdomante delle atmosfere quale Amerigo Bartoli, quando dipinse il suo Cardarelli, il dito levato, nella saletta di Aragno dove teneva cattedra, tra Emilio Cecchi, Mino Maccari e Ardengo

Soffici, con un Baldini-Melafumo che, come assopito di lato in rossiniano torpore, insinuava, se non dissenso, un sospetto di tedio. Su tanto magistero dilapidato a caffè sparse il suo rammarico anche Luigi Bartolini, in un affranto, umorale congedo. Ma tutti, allora, erano “da caffè”, gli strateghi, i letterati, i pittori, i cialtroni. Né mi par che abbia diritto d’insolentirli un’età che a quella tribuna, poverella di udienza e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti e pittori presso le scimmie male ammaestrate dalle televisioni, e il pettegolezzo delle tavole rotonde e dei convegni, dove alla miseria delle idee e dei caratteri è sempre scarso compenso il tintinnio dei gettoni di presenza. Ecco la terza agonia. Ormai dissolti gli umori aggressivi che Alfredo Gargiulo descriveva nel 1920: «l’apparente satanico orgoglio, il gesto che mandava indietro la capigliatura, la bocca amareggiata nel dire, il riso mai franco, cordiale e a fondo perduto...», il dito levato si puntò contro il morto, quale simbolo negativo. Come schiavi scappati, legioni di mediocri mobilitarono contro il castigamatti scomparso, perché fosse cancellato del tutto. Tanto tenace dura l’odio della confraternita, che quando ripubblicai II Testamento letterario di Giacomo Leopardi, l’antologia dello Zibaldone cui Cardarelli teneva più che a qualsiasi opera sua, mi riuscì di raggranellare una sola “recensione”. Se c’è un inattuale, nel senso di Nietzsche, è il poeta di Corneto. La sua guerra con la vita cominciò subito, appena ebbe aperti gli occhi. Nato da un legame frettoloso e disgraziato, visse l’infanzia

accanto al padre, un Romagnoli marchigiano che non gli dette il suo nome; ebbe quello della madre, Caldarelli, femmina disperata e leggera, che presto fuggì, rabbiosamente rimpianta, mai perdonata. A una passeggera violenza, o a una incuria di lei, più che alla poliomielite cui, si disse, dovette il braccio sinistro fiaccato per sempre, con cui uscì dall’infanzia. «Fai perbenino», gli disse il padre prima di morire. E lui, che di scuole aveva visto solo le elementari, si rassettò il nome, intanto. Si tolse quel ridicolo Nazareno che gli avevano dato, e, quanto al cognome, gli bastò mutare una consonante per dargli la voluta asprezza tagliente. È la prima prova, direi, della sua finezza d’orecchio in fatto di lingua. Coi nomi nuovi come solo appannaggio, scese a Roma, a diciannove anni. Era uno zingaro abbandonato che scopriva dentro di sé i ritmi classici, e d’intorno gli echi dissolti degli antichi imperi. Dal 1906, si scrisse, la sua vita fu sempre uguale. Ma l’anima cresceva. «Addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi, amanuense nello studio d’un bisbetico avvocato che non riuscì mai ad entrare in parlamento», finì, «dopo un congruo periodo di disoccupazione, giornalista». Bisogna dirlo? Finì all’“Avanti”. E quando lasciò quel giornale, cominciò la sua leggenda. «Ricordo, nel 1916, l’uscita per così dire storica dei Prologhi, una indimenticabile vicenda per chi, come noi, era partito dalla sfera dei Vociani. Piccolo e denso di poesie di una classe e timbro insoliti, e di pagine in prosa che aumentavano la qualità terrestre pietrosa e stagionata della poesia», scrisse il sempre prudente Raimondi, che, quale riflesso di quel crepitante spirito,

visse il solo momento ardito e a viso aperto della sua arida esistenza quando di Cardarelli fu scudiero nella rivista che «per alcuni anni, durante l’imperversare della bassa letteratura romanzistica e novelliera, barbussiana e pornografica, cercò in ogni modo di tenere alto il buon nome dell’arte italiana. Erano gli anni 1919, tanto per intendersi, 1920,1921»: quelli che Emilio Cecchi, in un saggio sul “Notturno”, rievocò come «miserabile stagione letteraria del nostro dopoguerra», con la «squallida combriccola che ballava le sue sarabande intorno ai pentoli e agli orinali rotti... ». La rivista si chiamò “La Ronda”: la pattuglia, la guardia, nella notte della lingua, e dello stile. Con quelle premesse, i successivi approdi erano segnati. Ho raccontato, nella nuova edizione del Testamento letterario di Giacomo Leopardi, la sconosciuta stagione in cui una piccola e turbolenta fetta di fascismo, sicura di occupare un posto speciale nel cuore di Mussolini, s’illuse di mettere stabilmente il vivo Capo in terra sotto un patrono in cielo, chiamato Leopardi. Fu la grande stagione di Cardarelli, scrittore civile dopo che poeta, in cui nacquero le prose che poi formarono quel breve libretto, davvero «classico e moderno», librato tra un passato che pareva rivivere nei suoi umori migliori e un futuro ricco di speranze, che s’intitolò Parliamo dell’Italia. «Dovunque egli ha sparso l’alta immagine che egli si faceva di se stesso, dovunque ha disseminato la sua persuasione che lo spirito risorgimentale avesse adulterato la cultura italiana, snaturandola del tutto. Formatosi quando un’ondata di prosa commerciale si abbatteva su un’Italia uscita stremata da una

guerra vittoriosa, Cardarelli non era uomo capace di dare una mano a rimuovere le macerie e di collaborare a una letteratura che avesse davvero il volto del nostro tempo», scrisse, in sua morte, Eugenio Montale. Senza simpatia, e tuttavia concedendo: «Da lui si potè dissentire forse su tutto; ma non si potè mai disconoscergli il culto di una immagine alta e quasi inaccessibile dell’Italia, di un’Italia privilegiata, sacra». Così poggiando, sopra la metafora dell’inattualità, il coperchio dell’incomprensibilità definitiva.

Giovanni de vergottini

Due volte maestro

Temo che siano rimasti pochi i turisti provenienti dall’Italia capaci di riconoscere in una degradata Porec l’altera Parenzo che, datasi a Venezia alla metà del Duecento, le restò fedele (“Ti con nu, nu con ti”) fino a Campoformio, per poi passare, con la sua provincia, dall’Austria all’Italia e infine alla repubblica di Slovenia. Quelli che, in una cappella della Eufrazijeve Bezilike, che è poi la Basilica Eufrasiana, la più superba fabbrica ravennate della sponda di fronte, leggeranno su una lastra tombale il nome de Vergottini penseranno piuttosto a una progenie di parrucchieri milanesi, che a uno storico delle istituzioni e del diritto. Nella famiglia nobile di Parenzo che quella pietra ricorda nacque, il 14 Agosto del 1900, Giovanni de Vergottini, che l’università di Bologna onora e commemora dedicando al suo nome la grande sala di Palazzo Malvezzi, la roccaforte giuridica del quadrilatero centrale. Studente liceale a Trieste, poi legionario fiumano, de Vergottini passò a Roma dove fu uno degli ultimi allievi di Francesco Schupfer e, ritiratosi questi, (ottantasettenne!) “a riposo” nel 1920, divenne il prediletto del successore, Francesco

Brandileone. Tra il 1924 e il 1925, pubblicò i due volumi del vasto studio Lineamenti storici della costituzione politica dell’Istria durante il Medioevo che gli valse, dopo tre anni d’incarico a Sassari, la cattedra di Cagliari. Fin da quella prima opera si rivelava il carattere assolutamente autonomo e originale della ricerca di de Vergottini che, rompendo negli steccati tradizionali di privatistica e pubblicistica, puntava al cuore, così sfuggente nel Medioevo, dove le istituzioni nominali s’intrecciano alla sovranità. Dove, nel giuoco di luci contrapposte dei “duo lumina”, l’impero e la Chiesa, si modellano le forme, talora confuse, talora velate, in cui s’incarna la storia. Seguendo una via soltanto sua, che doveva portarlo a risultati personalissimi, irrorò nella storiografia giuridica le nuove certezze economiche e politiche raggiunte da due dei più alti e indipendenti intelletti storici di quell’età, Gioacchino Volpe e Francesco Ercole. Fu il libro dell’Èrcole, Dal Comune al Principato, che lo spinse allo studio, rimasto definitivo, dell’istituto del Vicariato, imperiale o apostolico, che, concesso ai tiranni di fatto, divenne fondamento giuridico della Signoria. Chi non conosca gli scavi di de Vergottini dentro la “comitatinanza” e il Vicariato avrà sempre idee superficiali e letterarie sulla potestà territoriale dei Comuni e sull’essenza delle Signorie.

*** Dell’uomo e del maestro feci la scoperta un giorno d’inverno che entrai in un’aula attigua a quella dove, benché iscritto a Giurisprudenza, servivo, quale assistente volontario, Lorenzo

Giusso che insegnava Estetica. Ero uno dei tanti che finivano “a Legge” o perché privi d’una vocazione, o perché ne avessero troppe e diverse. La mia principale fu, alle soglie deH’Università, la revisione del processo di mio padre, che una “Corte d’Assise speciale” di sciacalli aveva condannato, nel 1946, a dodici anni di reclusione per “collaborazione morale”, con la fucilazione degli assassini del primo federale della RSI. Totale e “senza rinvio” giunse poi, nel 1960, la “revisione” ossia la cancellazione delle pene, la principale e le accessorie. Seppi che de Vergottini aveva seguito il processo nelle varie fasi, alla mia volta, l’avevo detto, fin dalle prime parole che da lui avevo udito, dalle idee, dall’aspetto, il solo maestro tra i tanti che m’erano soltanto ‘professori’. Diventai, con lui e per lui, ciò che mai ero stato, l’allievo modello, lo zelante dei primi banchi. A lui, oltre la figura che si convien dire ascetica e, dietro la pudica e seria rigidità che presto si rivelava soccorrevole e gentile, oltre la nobiltà dell’eloquio del timbro pacato e tagliente, mi avvinse quel tanto di storia personale che filtrava nei racconti dei corridoi, e trovava misurate conferme nel bidello Bombardini, aulico e ufficioso tra lo sventolar delle code sotto la giacca nera. Per l’aspetto severo, gli studenti lo chiamavano “von Vergotten”, ma presto seppi, della vicenda personale, lineamenti da accrescere alla mia devozione: l’Istria dov’era nato nobile di Parenzo, e alla quale, in armonia di sentimenti e dottrina, aveva dedicato i primi studi di storico del diritto; la sorte del fratello podestà di Parenzo, gettato in una foiba fin dai giorni del governo Badoglio, che aprì alle orde slave il confine

orientale; l’amara esistenza del profugo. Si seppe ancora ch’era andato, neppur ventenne, legionario a Fiume, e l’evidente contrasto tra quella sua figura, che più parca e riservata non poteva immaginarsi, e il ribollire di spostati e violenti della fiumana leggenda, accrebbe ai miei occhi il fascino dell’uomo, col farmi intuire occulti sfondi di roventi passioni. S’istituì così, tra il Maestro, cui la sconfitta nella guerra nazionale aveva tolto i cari, gli averi e ramatissima patria locale, e il discepolo, figlio d’una famiglia che amaramente pagava la sconfìtta nella “guerra civile”, una solidarietà di cenni, sguardi e parchi commenti, più che lunghi discorsi; nutrita dal culto che mi trasmetteva e sempre rinnovava per la lontana figura dell’imperatore in cui entrambi compendiavamo ogni possibile idea di Nazione, diritto e Stato. Presi poi altre strade, e come de Vergottini m’aveva strappato a Ireneo Fuser e all’organo, così Leo Longanesi mi strappò a de Vergottini e alla storia del diritto. Ho già scritto (5 Giugno 1987), come l’insegnamento di de Vergottini mi lasciasse orme incancellate, dopo tanti anni che avevo rinunciato alla via universitaria che mi aveva tracciato, e al posto mio percorse Paolo Colliva. Ritrovai il suo soccorso nella lettura di documenti essenziali per il Bach che avevo cominciato. Fu lui che mi fece scoprire, con la giusta interpretazione di un diploma e dei titoli che contiene, una prospettiva biografica che i «musicologi» non avevano trovato. Mi par di riudire, nell’orecchio interno della memoria, più lucida quanto più lontana, la voce del maestro, il cui corso del

1950 fu un solo monumento a Federico II nell’ottavo centenario della morte. Gli Studi sulla legislazione imperiale di Federico li in Italia, pubblicati nel 1952, costituiscono il più solido contributo della cultura accademica all’opera dell’uomo che ci appare l’ultima occasione nostra di nascere a sana vita di Stato nazionale. Già Carducci, cui converrebbe prestare, in quanto storico, maggiore attenzione, aveva osservato, nel saggio Del Risorgimento italiano (1895) che «l’Italia non ebbe su’ 1 finire del Medioevo chi la riducesse a forte unità: nazione federale, non potè resistere all’urto delle unità monarchiche, le quali d’ogni parte la circondavano»; così vanificando in anticipo, nel suo realismo, l’ostinato distinguo accademico, per cui lo sforzo di Federico, estendere al Settentrione particolarista e fazioso gli ordinamenti dati alla «haereditas pretiosa» del Regno materno, non avrebbe avuto per l’impulso «l’idea nazionale, ma l’imperium» (Pontieri). Allo stesso modo si può negare che gli unificatori britanni, francesi e castigliani si movessero istigati da una “idea nazionale” non ancor nata; ma non che i loro sforzi conducessero a quell’effetto. Su ciò de Vergottini non aveva dubbi: “In quel periodo decisivo della storia europea, comincia a dissolversi il mito della potestà universale e si formano e affermano le giovani dinamiche monarchie nazionali”. Ma all’Italia l’occasione fu tolta, la sconfitta di Federico sotto le mura di Parma nel 1248, preparata con instancabile assiduità dalla Chiesa, restando la prima delle nostre sciagure nazionali, preludio alla calata di Carlo d’Angiò e trionfo definitivo della faziosità nostrana.

Quando Machiavelli e Guicciardini levarono il loro grido sul guasto prodotto al «bel corpo» d’Italia dal dominio dei preti, l’occasione era da più di due secoli alle spalle, sepolta con Federico, «l’ultima possanza» che Costanza, imperatrice generò a quei di Soave, come Dante teneramente italianizza la Svevia, culla della stirpe. Il matrimonio di Costanza riunendo l’eredità normanna e la pretesa all’impero, fece dell’erede il nemico naturale dell’usurpatore vescovo di Roma. Fino a Federico, lo sforzo imperiale ha immaturità di preistoria: dopo lui è pietosa rovina, tra rimbombar di frasi e polvere di pergamene. Kantorowicz ha scolpito il profilo del primo Re d’una dinastia mai nata. Tutta la vita sognò di far dell’Italia e degl’italiani ciò che non furono e men sono, ricaduti nell’abiezione di mille anni, dopo una speranza durata appena settantacinque. Nei primi decenni del Duecento, mentre Firenze diveniva roccaforte del guelfismo profittatore e corruttore, Palermo e Napoli, le metropoli dello Svevo, eran designate culle della poesia e del diritto. Palermo, che noi contempliamo orripilati, vedeva sbocciare una lirica fresca e naturale che avrebbe conteso il primato a quella toscana. E Napoli, che la mala repubblica della «resistenza» ha incoronato capitale della camorra e d’ogni delitto, apriva la scuola per formare magistrati, amministratori, funzionari del primo stato di diritto in Europa. «Federico aveva veramente, nei suoi programmi politici, un sistema unitario di governo basato sull’accentramento burocratico dello Stato. Se non potè mai procedere all’unificazione giuridica tra Regnum Siciliae e

Imperium, aveva però, dal 1237 in poi, programmato una unificazione amministrativa tra Regno di Sicilia, preso come modello, e Regno d’Italia. L’Imperatore scomunicato e deposto non aveva rallentato la sua opera d’insonne costruttore. Scomunicato e deposto, maledetto e tradito, Federico non si considerò mai vinto, non rinunciò al suo sistema di illuminato, civilissimo (e chi ne dubita, legga tante nobili disposizioni umanitarie e legalitarie delle Costituzioni Melfitane) ma inflessibile assolutismo». (Studi, p. 264). Subito lo elessi, all’eloquio sicuro e tagliente, alle luminose prospettive, all’ascetismo appassionato del tratto, mio maestro, il solo che incontrassi in quelle mura. Su uno studio che si trascinava senza interesse, egli accese la stella, lontana eppure abbagliante, di Federico II, lo stupor mundi, alla cui legislazione imperiale dedicò un corso monografico divenuto poco dopo (1952) il suo capolavoro. Nella raffigurazione della sintesi romana e germanica dell’ultimo Staufen, in quella visione ideale e geniale di un impero dissolto, sublimava, come in una regione incontaminata, la tragedia che lo consumava: lìstria perduta, il fratello podestà ucciso, i parenti martoriati e gettati nelle foibe, gli averi e la casa abbandonati, l’incerta sorte di Trieste. Degli avvenimenti succedutisi al 1945, il maestro non aveva ragioni di rallegrarsi più che l’allievo, che la guerra civile aveva segnato nell’adolescenza. Fu un rapporto suggellato da solidarietà roventi, sottintese più che dichiarate. M’assegnò una sterminata “tesi” sul crepuscolo dellTmpero e il consolidarsi del potere dei Papi in Romagna, il cui esito fu l’invito a continuare gli studi accanto a lui.

Mi tracciò perfino le linee d’una futura carriera universitaria che, cominciando con un assistentato bolognese al suo fianco, doveva concludersi, dopo un ampio periplo assai affine al suo, comprese le tappe sarde e toscane, sulla sua stessa cattedra. Dove poi sedette Paolo Colliva, di me più anziano d’un anno e nato lo stesso giorno d’Agosto, cui era andato il favore del maestro dopo il mio “tradimento”, come lo chiamò Longanesi, mentre io intraprendevo la trasformazione del mio primo lavoro per gli “Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria”, cui l’aveva destinato. L’incontro con Longanesi pose fine a una carriera neppur cominciata di storico del diritto, e fece di me tutt’altre cose che un docente universitario. «All’università? Lei? Ma la buttano dalla finestra... Venga con me, venga al “Borghese”!» Continuai a vedere de Vergottini in luoghi e occasioni che tutti avevano a che fare con lìstria e la “Zona B”. Solo una volta mi rivelò intera la sua delusione, con quel suo modo asciutto e vibrante: «Se Lei non mi avesse, come si suol dire, lasciato...». Più tardi, dopo aver letto il saggio di Burckhardt sulla grandezza storica, ravvisai, nella fusione di sentimenti in cui il maestro insieme coniugava la piccola patria perduta con la grande, dannata. Il rimpianto per la figura indomita del demiurgo sconfitto, restituiva ai vinti la loro dignità. M’imbattei con tale figura nell’“elemento nobile della storia”. Me lo trovai, preside di facoltà, seduto accanto in un torpedone che l’Unione Nazionale di Bologna aveva organizzato il 3 di Novembre del 1953, verso Trieste, ancora nelle mani della polizia militare inglese. Mi riconobbe nella sala agitata, e mi

fece segno di occupare il posto accanto al suo. Fu una giornata di scontri, ne uscirono, mutilati da bombe a mano contrapposte, anche due miei amici, Cesare Pozzo e Fabio de Felice. Poi fui sempre alle sue lezioni nell’aula della facoltà di Bologna, dov’era approdato, dopo Siena e Pisa, nel 1948. Non so figurarmi che cosa sarebbe divenuta la mia vita se avessi seguito il primo maestro, invece che il secondo. Quando de Vergottini morì, alla fine dell’Agosto 1973, dirigevo il “Roma” di Napoli, alternando le crisi endemiche e ricorrenti di un giornale e di un’impresa armatoriale in agonia con l’agonia di Napoli, preda, quei giorni, del colera e del suo bacillo (“il vibrione”, si chiamava); lo sfondo internazionale crepitava delle vicende cilene, Salvator Allende era appena stato ucciso. Seduto com’ero su diversi barili di polvere, costretto a improvvisarmi la vita di giorno in giorno, nulla poteva apparirmi più lontano del mondo che de Vergottini m’aveva invano additato. Lontane macerie, i suoi insegnamenti erano ormai sfondo a strade abbozzate e non seguite, ipotesi perdute dell’esistenza.

*** Che fossero, invece, tracce ancor fresche, m’accorsi dieci anni più tardi quando, immerso nella galera da cui doveva uscire la monografia su Bach, trovai che il soccorso più originale e prezioso, che mai avevano ricevuto i miei predecessori in quella biografia ermetica e sempre male indagata, era il soccorso di Giovanni de Vergottini. Me lo trovai a fianco. L’ombra sua non si era mai dipartita da me, e mi assisteva. Provavo quel che Julius

von Schlosser dice rievocando il Sickel, da cui apprese, studente di storia dell’arte, “lo studio critico delle fonti”, la lettura dei documenti. Trascrivo da Schlosser, pensando a de Vergottini: «Un campo apparentemente così arido e lontano, come la diplomatica dei documenti imperiali, diveniva, in grazia sua, una grande costruzione solidamente ordinata, non priva di seduzione artistica; mi lasciò, col senso che sempre ho avuto per la costruzione formale, un’impronta che ancor oggi perdura; e il meno rigido studio delle fonti papali offrì, nel vero senso della parola, le più vaste prospettive in tutte le direzioni...». I documenti imperiali, erano quelli che de Vergottini mi fece incontrare nella classica ricerca del Ficker, Forschungen zur italienischen Reich und Rechtsgeschichte im Mittelalter. Le fonti papali, erano quelle che piluccavo dai tre volumi del Codex diplomaticus dominii temporale Sanctae Sedis, del Theiner. Ma che cosa mai c’entrano, sbufferà qualcuno, incredulo, documenti imperiali e pontefici del Medioevo, con un musico luterano dell’età barocca? C’entrano, e come. Quando il musicista luterano ottiene una nomina che invano aveva supplicato dal suo sovrano sassone, invano dedicandogli i due avancorpi d’una basilica come il Kyrie e il Gloria della Messa; e li ottiene, alcuni anni più tardi, non direttamente, benché sia suddito dello Stato, ma attraverso un barone von Keyserling che è l’ambasciatore dellTmpero Russo, potenza protettrice del Duca sassone e sola garante del suo titolo regio polacco, nessun bonzo della “musicologia” avrebbe potuto insegnarmi ciò che dedussi dal lontano insegnamento di de Vergottini, (giuridico come quello di Mommsen) traendo, con sicurezza non letteraria, né impressionistica, conclusioni che mi

rischiararono un assetto biografico inesplorato. Se m’illudo, non poi tanto a torto, di aver trovato in una dozzina di documenti su Johann Sébastian Bach ciò che, come me leggendoli, non vi trovarono i miei predecessori, lo dovetti a quello studio delle fonti che mi aveva aperto «le più vaste prospettive, in tutte le direzioni». Ecco. Io non saprei dedicare al Maestro un profilo specialistico per la delizia dei cultori della sua disciplina. Mi piace celebrarlo, come so e posso, in quanto splendido e vivente esempio di unità dello Spirito.

Messina, l’unico

«E nei confronti degli altri scultori... non dico i soliti tre, dico della scultura d’oggi nel suo insieme, come ti vedi?». Uscì pacata la risposta, in tono basso e fermo, senza ipocrite esitazioni: «L’unico, credimi. Non ho dubbi. Non ti dico il primo, dico l’unico». N’ebbi gioia profonda. Più che soltanto rara, la gioia ormai estinta di trovarmi davanti un vincitore vero in questa greggia di vanitosi, di scrocconi, d’inconclusi, di abortiti. Era il Giugno dell’anno scorso. Nel luminoso spalto di via Cesariano, orlato di lunghe basse scansie di libri eletti, con sopra le urne cinerarie etrusche, le figure giacenti e sollevate dalla vita in su in muti conversari oltre tutt’i secoli, il cavallo T’Ang nervoso e fremente, le teste romane, il discorso aveva preso, da solo, senza intenzioni, per sue recondite urgenze, la piega delle visioni dall’alto, dei rendiconti asciutti, scevri di vanità o rivalse. La lunghissima vita, che tanti umilia e depaupera, aveva offerto a Francesco Messina una tranquilla sicurezza di vittoria. Progettarono, lui e Beatrice mia figlia, un libretto, un’intervista quale oggi usa: «Le ragioni dell’arte» doveva intitolarsi. Doveva essere un dialoghetto, un opus ultimum all’antica. Ma la febbre

dello scultore lo riafferrava: «Come sei bella, ti voglio fare una statua, così...». Lo guardavo parlare, elegante e composto, il maglioncino di filo nero, i pantaloni di flanella grigia stiratissimi, le scarpe di fine fattura morbide e lustre, un’immagine naturalmente aristocratica. Il bastone retto dalle mani unite, l’una sull’altra; più che necessità, arnese obbligato dalla perfetta vecchiaia. Una commedia umana recitata con superba naturalezza. Michelangelo: l’unico, non paragonabile, non commensurabile, il dio dell’arte. Gli egiziani, la scultura romana: «Bada, è la più grande, nonostante tutte le sciocchezze di cui l’hanno denigrata gli storici invasati dei greci, da Winckelmann in giù. Quella è l’arte...». L’arte. «Che cosa sia, che cosa abbia da essere l’arte, sempre più appare da cinque o sei decenni, oscuro. Francesco Messina fu uno dei pochi a rassicurarci che, seppur di vita grama, ancora viveva». Parole gravi e solenni. Non le scrisse un affranto retore di inani nostalgie, ma Walter Koschatzky, il direttore dell’Albertina, la più illustre raccolta grafica esistente, che ai fogli di Messina aveva aperto le sale dieci anni or sono, quando il Kunsthi stori sche s Muséum popolò delle sue statue il Theseus Tempel, la leggiadra imitazione dorica deliziosamente spaesata tra gl’ippocastani del Volksgarten, che in età neoclassica avevano costruito per il gruppo di Canova ora al Museo. «Pensa, sono ospite di Canova...». Sedi più solenni Vienna non poteva concedere, e la scelta dei luoghi corrispondeva all’ammirazione senza riserva espressa da Koschatzky; da Erich Steingraber accorso da Monaco; da Hans Seldmayr, il Kulturkritiker di

Salisburgo: le tre massime voci della storiografia artistica germanica, che riscattavano decenni di reticenza malevola, di riserve partigiane, di sorrisi sufficienti, con cui la critica italiana aveva limitato, circoscritto e, quando potè, apertamente negato, l’opera di Messina. Senza mai intonare il lamento della vittima, Messina sopportò, con placido disprezzo, la condizione di tollerato in cui lo tennero la critica e la storiografìa domestiche. Guardo il libro degli ospiti della nostra casa neoclassica di Strada Maggiore. Un libro che aprimmo, subito dopo la casa, nei primi anni Sessanta. A due giorni di distanza dalla firma di Francesco Arcangeli, che abitava al piano sopra il nostro e talvolta si fermava scendendo le scale, trovo Ventrée di Messina: «Sono lieto della ventura di poter firmare sotto l’autografo del mio più feroce nemico che stimo e che quasi amo». Non valeva dannarsi, opporre, discutere. Era, quella, la lunga età che i critici avevano preso la guida del convoglio e pretendevano di dettare agli artisti il possibile e il lecito. Era la naturale conseguenza di un mezzo secolo di sinistro saturnale che oggi, a ciclo esaurito, contempliamo come il Novecento.

*** «Scegli roba avanzatissima, ti raccomando, la più mossa, la più dinamica, la più sconquassata, grottesca, schifosa», scriveva Boccioni a un amico, incaricandolo di cercare materiali per una mostra futurista nel 1914.

Fu una consegna sacra. L’idea che solo la «roba più sconquassata, grottesca, schifosa», potesse reggere al passo inesorabile, va da sé, della Storia, mise radici talmente tenaci, che per più di mezzo secolo le si opposero soltanto anime belle e solitarie, senza audienza né prestigio. Un’antologia di quel che la critica italiana, giornalistica e accademica, militante e renitente, seppe scrivere in un sessantennio riuscirebbe umiliante, ma chiarificatrice. Nessuno dei nostri storici ufficiali ebbe una parola di pietà per un’arte che illacrimata stava, semplicemente, morendo. Di tutte le passate ciarle sopravviveva l’aggettivo “classico”, da buttar come un osso, da elargire quale medaglia di consolazione a quegli artisti che, rifiutando di partecipare al saturnale, nei diversi passaggi dal futurista all’astratto, all’informale, eran bollati di nostalgici, accademici, impotenti: specie dannata a rapida estinzione in mezzo ai risolini di scherno, compassioni ipocrite, denegazioni feroci. Una visita di Picasso ai Musei Vaticani, nel 1949, lasciò aurea memoria «della sua [di Picasso] distratta attenzione a tutto, come se tutto già conoscesse [...]. Gli scappò detto che in fin dei conti Michelangelo non era dei nostri e, sotto sotto, poteva essere anche un po’ fascista [...]. Ricordo che Ennio Merlotti diceva la stessa cosa di Tiziano, né riusciva a comprendere il perché; infatti, se per l’autore della Sistina l’accusa di «fascismo» può essere in qualche modo comprensibile [...] Tiziano davvero non lo è. Alcuni artisti italiani - e Merlotti non faceva eccezione - sono sempre rimasti soggiogati dal fascino di Picasso, e persino dai suoi comportamenti. Il «Tiziano fascista» di Morlotti può forse spiegarsi come una variante del «Michelangelo fascista» di

Picasso e attesta comunque quanto fosse corrente, a quei tempi, l’uso di questo tipo di improprie e spavalde valutazioni pseudo­ politiche», scrisse appena un anno fa Maurizio Calvesi in “Storia dell’arte”, la rivista fondata da Giulio Carlo Argan, che ora dirige (116-117, Gennaio-Agosto 2007, p. 260). Mi sembra preludio autorevole a una più vasta e profonda palinodia, come si chiama, in aulico letterario, la ritrattazione o la smentita di precedenti affermazioni sconce di cui si prova vergogna non più tollerabile: ossia, tutto quanto la lingua comune e sempre più corrente indica con le parole revisione, e revisionismo.

*** Fu gran ventura per la critica domestica che proprio in articolo mortis, all’ultimo momento utile, [lo scritto apparve per una mostra del Dicembre 1993 ad Aosta], Federico Zeri rivoltasse le zolle putride senza tacere un sentimento diffuso d’imbarazzato pentimento: «Se la difficoltà a parlare dell’artista mi lascia confuso, debbo dire che non sono il solo a sentirmi in un impasse del genere; i commenti su Messina e sulla sua opera, scritti da penne anche tra le più preparate e acute, sono sempre condizionati da un che di vago e di sfocato, come ho constatato ora, leggendo o rileggendo la ricchissima letteratura che lo riguarda. Il fatto è, come mi disse una volta un grande storico dell’arte che di Messina fu entusiasta ammiratore ma che non scrisse mai un rigo sull’argomento, il fatto è che risulta quanto mai arduo definire il profilo dell’artista, storicizzarlo con precisione.

Ci fu un tempo, tra le due guerre, in cui (specie in Francia) era abituale aprire un discorso critico cominciando ab ovo con la domanda, che cosa è l’Arte. Se debbo rispondere a tale quesito, dirò che l’Arte è la possibilità di esprimere le proprie idee, comunicandole in gradi più o meno complessi e sottili a seconda della padronanza che l’artista ha dei mezzi tecnici: più l’artista possiede il proprio mestiere, e maggiori sono le possibilità di esprimersi. Ora, Francesco Messina possiede in sommo grado il patrimonio delle capacità del suo mestiere: ne è prova la eccezionale disinvoltura con la quale riesce a farsi ubbidire dai materiali, creta, marmo, bronzo o granito. Forse il segreto di tale padronanza va ricercato nel suo apprendistato, quando lavorava nella bottega d’uno scultore operoso per Stagliene. Cosa rara, dunque, nei nostri tempi, che spiega la quasi inesauribile ricchezza di soluzioni tecniche di cui dispone. Su questa base di mestiere e su tale ammirevole abbondanza di possibilità espressive, sempre sorvegliate e che mai scadono nella virtuosità fine a se stessa, s’innesta la seconda arteria vitale della personalità di Messina, e è la sua eccezionale cultura. Non alludo alla conoscenza della scultura del passato, sulla quale tornerò, ma parlo di cultura viva e attuale; non erudizione, ma frequentazione e partecipazione, conoscenza intima dei fatti e dei personaggi italiani e stranieri degli ultimi settant’anni. Pittori [...], scultori [...], poeti e letterati [...], critici [...]. Da tutti Messina ha appreso, tesaurizzato, da ciascuno ha estratto quel che c’era di meglio, immettendolo nel crogiuolo della sua enorme cultura personale.

Non saprei chi altri citare, tra gli artisti del nostro secolo, che abbia posseduto una tale conoscenza della storia e dell’arte, della letteratura e della poesia: ne è risultata la personalità poliedrica, dalle molte facce e dalle molte intonazioni, che è anche quella che ha sconcertato e confuso chi ne ha voluto parlare senza tener conto che ogni lato del prisma si integra con gli altri, si lega, nella medesima sostanza, in un’unica indivisibile unità mentale. E del resto, l’amalgama di maestria tecnica e di alta coltura non è un fatto nuovo nell’arte europea: è il terreno dal quale sono sorti, da molti secoli in qua, coloro che sono pervenuti ad esprimersi compiutamente, a qualsiasi corrente siano appartenuti e qualsiasi tipo di immagini abbiano creato. Messina è dunque un artista colto, vivificato da stimoli intellettuali tra i più diversi. Il suo è il caso, davvero raro, di uno scultore del quale, mutato il mezzo espressivo, si può ripetere quel che Ovidio diceva delle proprie facoltà poetiche, Et quod temptavam dicere versus erat, tutto quanto cercavo di dire diventava verso. In Messina, quale che sia il discorso, di qualsiasi intonazione, seria o scherzosa, tutto diviene fatto plastico, scultoreo, in una sorprendente varietà di accenti e registri. E così abbiamo il Messina ritrattista, di non comune acutezza psicologica, il Messina naturalista che si immerge nella realtà oggettiva con occhio estremamente acuto (penso ai cavalli), il Messina scherzoso (le Ballerine) e quello quasi caricaturale, e infine il Messina monumentale che perviene a toccare i vertici più alti, anche se confrontato con quanto ci resta dei secoli passati, nel monumento a Pio XII in San Pietro, eccezionale capolavoro d’impostazione e d’intuizione.

Che una simile personalità abbia sollevato difficoltà nella lettura critica [...] è ovvio; altrettanto ovvio è che nel secondo dopoguerra Messina sia stato oggetto di condanne, in verità più sussurrate che scritte, da parte di giovani artisti e loro sostenitori. Tralasciando coloro che sostengono non appartenere alla scultura chi non usa la fiamma ossidrica, il trapano elettrico o il polistirolo, Messina è stato respinto quale latore di un accademico passatismo, di spirito borghese banalmente verista, denunciando perfino talune sue collusioni col regime fascista; collusioni che poi consistono nell’alta stima in cui era tenuto, e non da pochi, prima del 1943: come se durante il Ventennio tutti gl’italiani fossero privi di gusto, di cultura e di senso critico. Ma verità è che Francesco Messina, come altri grandi di questo secolo, si è tenuto lontano dalle ideologie, dall’Ersatz cui si rivolgono coloro che non hanno idee. E restando legato alla tradizione figurativa europea, costituiva un bersaglio ideale per i nuovi chierici; per quanti hanno messo in piedi, in un regime democratico o presunto tale, la mascherata della neo­ avanguardia, uno dei fenomeni più indicativi del ruolo che taluni intellettuali vorrebbero attribuirsi in una società che è, da molti decenni, profondamente mutata [...]. La schiera si rivolgeva ora alla finta sinistra degl’intellettuali di equivoco orientamento, un piede nel potere e l’altro nell’opposizione, ubbidienti alle direttive di galleristi e latori di un linguaggio ermetico, oscuro, involuto, incomprensibile. Che per costoro l’arte di Francesco Messina sia stata una bestia nera è ovvio: le sue immagini plastiche, nitide e inequivocabili, accessibili a tutti, dense di stimoli e di allusioni, sono sempre state

all’opposto di chi si è sforzato di mantenere le produzioni artistiche in una sfera rarefatta, destinata a pochi eletti e ai loro esegeti fumosi. «Penso che il Francesco Messina dal 1945 in poi vada letto in un siffatto contesto, dal quale ben risultano il suo coraggio e la sua grandezza [...]. Per decenni siamo stati asfissiati dal deprimente spettacolo dell’Avanguardia perenne, promosso dai baroni del potere accademico e mercantile, dalle cariatidi delle case editrici, della radio, delle televisioni; per decenni siamo stati assordati dal ritornello della rivoluzione, della resistenza, delle masse da liberare, mentre il potere effettivo è rimasto nelle mani di predoni senza scrupoli, di sfruttatori e di assassini: proprio in quel periodo l’arte di Francesco Messina ci è stata di conforto e sostegno morale, di stimolo a rivedere e giudicare la nostra storia artistica e sociale con occhio privo di pregiudizi e sgombro di inquinamenti ideologici».

*** «Alto là, ladrone!», sento ringhiare e ronfare dai fondi in che si voltano i baroni, i predoni, le cariatidi, i galleristi, gli sfruttatori, gli assassini, «da gran pezzo hai superato i confini leciti a una citazione!». È vero, non ne ho mai fatta una così lunga, e dovrei scusarmi con l’ombra dell’autore saccheggiato, col pubblico. Le tre pagine che ho rubato a Federico Zeri non sono la poltiglia melensa ch’è diventata la critica d’arte. Sono il proclama del revisionismo artistico e culturale, sono il grido di ribellione e liberazione, l’anatema, infine, lanciato sopra un

mondo immondo e i suoi abitanti. Faccio mio il grido, e ne ho il diritto perché quanto da Federico Zeri è uscito dopo quarant’anni di sdegni taciuti, io l’ho sempre sentito, espresso, urlato. Questa vittoria postuma di Francesco Messina è anche la mia; sopra l’ira e il disgusto di Zeri sento echi solenni, nell’egual tono basso e fermo, della risposta che mi dette quel giorno: «L’unico, credimi. Non ho dubbi. Non ti dico il primo, dico l’unico». Queste tre pagine che ho rubato sono diffìcili da trovare, forse ormai inaccessibili, se non negli archivi di «Valle d’Aosta Cultura», o dei «Fratelli Fabbri»; cui consiglierei di trarne un opuscolo da far conoscere. Riprodurle, come ho fatto, mi è parso un dovere, verso l’amico meraviglioso, forte e tenace amico, generoso amico, tollerante, spiritoso, pietoso verso i cattivi e i cretini. Queste tre pagine sono il proclama del revisionismo artistico che trionfa sull’idiozia settaria. I giovani non sanno, gli anziani non ricordano quando, armata dell’equazione hegeliana di razionale e reale, la turba storicista inferocita proclamò lecita e santa la cancellazione degli sconfitti dalle correnti vive dell’arte. Tanto più lecita e santa, se gli sconfitti ancor si proclamassero fedeli ai dogmi rinnegati della bellezza, alla figura umana, a una legge naturale dell’arte fuor delle infatuazioni ideologiche e letterarie. Lungo sei decenni l’ideologia perversa fu doppiamente truce e vendicativa, estetica non meno che politica e criminale. Nel caso di Messina, al dileggio critico si aggiunse la politica persecuzione, ché dovette pagare la colpa d’esser stato

Accademico, il più giovane degli Accademici d’Italia, onore che pagò con l’epurazione e la privazione della cattedra di Brera. Gli piaceva rievocare la miseria di dopo la guerra, quando chiese un milione in prestito a Vittorio Cini, per cui aveva scolpito i ritratti di tutte le donne di famiglia, sentendosi offrire il milione agl’interessi del cinque per cento. «Ma caro, io non posso pagarteli, risposi, e partii per Buenos Aires con una nave piena di sculture, e tornai carico di milioni...». Rideva, beato di quella prima vittoria sulla povertà e le temute conseguenze, la distruzione dello slancio creativo, della fede in se stesso.

*** Quella prima vittoria fortificò l’impavida fedeltà al dovere, quale sempre sentì, di resistere, solo, al dileggio della forma, al rinnegamento della tradizione non soltanto ideale; ma tecnica, manuale, materiale nel senso più concreto della sopravvivenza di un’arte. «Tu non puoi credere», diceva, nei lunghi anni di una amicizia forte, lentamente accumulata, quale irreparabile guasto recheranno questi decenni di bestemmie: non ci sarà più, tra una generazione, nessuno che sappia come trattare il marmo, la stessa creta, che par docile e facile (e non è), il bronzo. Dopo tanti tubi da stufa e fiamme ossidriche nessuno saprà più portare a termine una vera fusione...». Con l’intuizione vitale d’ogni vero artista, riuscì a rovesciare il fronte e trasformare in vantaggi le circostanze negative accumulate dalla tirannide storicista. «La forma figurativa dei ritratti di Messina esibisce tutte le possibilità conosciute della storia della scultura»,

osservò Hans Sedlmayr, ben pesando il rischio di eclettismo che l’uscita dallo storicismo conteneva. Steingraber aggiunse: «L’opera di questo ottantenne siciliano include millenni di tradizione mediterranea: l’austera stilizzazione del ritratto regio egiziano, la leggiadria ellenistica, la sobrietà della ritrattistica romana, il verismo fiorentino del Quattrocento, l’eredità di Rodin, di Degas. Eppure, l’arte di Messina non si lascia schiacciare dall’umanesimo figurativo, né dalla subordinazione accademica». Sfondate le paratie storiciste, l’artista solitario si ritrovò ad aver abbattuto le più prossime faziose categorie del Novecento. Mentre il Novecento cadeva a pezzi intorno a lui, l’epigono indipendente ricreava, oltre le rovine, il linguaggio della libera contemplazione delle epoche; in una sintesi di sconfinata libertà, giovane e adulta, fresca e tuttavia carica di tutte le responsabilità della vera storia. La possibilità che si offre all’artista moderno, di appropriarsi tutto il passato, era totalmente sconosciuta alle età precedenti. E ora, libero di abdicazioni umilianti e soggezioni vergognose, risparmiato dal rullo compressore delle mode obbligate, padrone dell’esperienza delle epoche e degl’idiomi dettati dalle materie diverse, sprezzanti l’ebetudine di simulate ingenuità raccattate nelle più eterogenee barbarie, l’artista contempla, dopo la storia, le età passate, e la presente e viva, e il suon di lei. Con una intuizione degna di Burckhardt uno storico come Hans Sedlmayr, e più che soltanto storico, colui che ripensò e sottopose a roventi analisi la «perdita del centro», ossia il marasma mentale e morale entro cui annaspa e singhiozza da

due secoli l’idea dell’arte, paragonò a un’esplosione tellurica l’apparizione di Messina: «In un mondo come questo, una scultura genuina non può esistere, la sua esistenza in questo ambiente è improbabile. Ma nella storia l’improbabile accade sempre di nuovo. La scultura di Messina è l’autentica eccezione ad una regola ostile alla scultura. Qui riemerge di colpo la vera arte plastica, e con essa l’integrità del corpo e del volto umano. Ma non si tratta di un forzato ripristino dei Greci o del Rinascimento, o anche soltanto di Rodin o Maillol. Questa scultura nasce per forza propria. È una scultura che mette in moto energie che sembravano del tutto morte. Queste forze penetrano le superfici irrigidite e si coagulano in figurazioni nuove. Sono forme e figure che somigliano alle opere di grandi epoche della scultura, non perché abbiano recuperato una tradizione perduta (la tradizione non sopporta interruzioni), ma perché nascono dagli stessi fondi di quelle. In questi ultimi tempi è emersa dal Mare del Nord, presso lìslanda, l’isola di Surtsey, prodotta dall’eruzione di un vulcano invisibile: calda, vergine, pronta ad accogliere la vita. Così, inaspettatamente, l’opera di Messina è emersa dal freddo oceano dell’astrattismo moderno».

*** Che la stagione ultima di Messina non fosse ripiegamento o rinuncia, ma esaltante crescita, n’ebbi conferma, a pochi giorni da quel pomeriggio milanese, nell’esposizione all’aperto, sotto il porticato di San Marino, dove una schiera abbagliante di figure

femminili rialzò le immagini dissolte, rianimò le pose perdute, ricantò le note obliate, riaccese i sogni, le visioni, gl’incanti della minacciata, offesa, eppur di nuovo trionfante bellezza. Quell’arte apparve a me, come già a Erich Steingraber, non già un compromesso, ma un vigoroso stringersi e abbracciarsi delle opposte capacità della scultura. «Le statue di Messina sono, senza eccezioni, in tutto tondo, sviluppate e plastiche in ogni loro lato. Il canone delle figure, ispirato a rigorosa misura. Le figure nude lo dicono. L’atteggiamento del corpo, come deH’anima, è rilassato», sono gl’incipit cui Sedlmayr fa seguire luminose dimostrazioni. Tutte le sue sculture, senza eccezione, sono compiute fino ai minimi particolari: non vi rimane la minima indeterminazione della forma. Nulla è lasciato allo stato di abbozzo. Questa compiutezza è un rischio evitato dalla maggior parte degli scultori del nostro tempo, per paura che la forma finita possa svelare quelle debolezze che un’opera intenzionalmente incompiuta invece nasconde [...]. Ciò che più sorprende è la straordinaria forza dell’individualizzazione: ogni immagine condensa, unica nel suo genere, una persona inconfondibile, il cui carattere è suggellato in tutte le sue minime sfumature. Al confronto, i ritratti di Manzù appaiono variazioni di un solo volto, o di un limitatissimo numero di volti: l’individuo è come velato, o soltanto accennato, smorzato, ridotto a un’esistenza vegetativa; molto, di questi volti, resta aperto al pentimento, un tratto che li destina a una sfera distante, sacra o mitica, del tutto artificiosa. Mentre i volti umani di Messina sono terribilmente presenti ai nostri occhi.

Il differenziarsi delle forme plastiche, così ricco di variazioni, appare più che mai chiaro nel modo di lavorare i capelli, che è una delle chiavi migliori per comprendere la forma nelle opere di uno scultore. La consistenza del capello umano, anche di quello acconciato e pettinato, non presenta diversità individuali paragonabili a quelle con cui uno scultore ci rende forme di capelli quasi «fedeli alla natura». Su quell’assemblea di teste e figure intere, di danzatrici e dee, dominava, per statura e imponenza il Grande Nudo del 1967, il capolavoro della tarda stagione. «Possente nella sua forza raccolta, qui riemerge, di colpo, la vera arte plastica, l’integrità del corpo e del volto umano». Come mia moglie Mariagrazia divenne, quell’anno, il Grande Nudo, è una storia fresca e perfino comica. Un giorno, a casa nostra, Francesco buttò là, come per caso, che voleva «farne una statua, non un ritratto dico, una grande statua, un’Èva, grandezza naturale e più». Rimanemmo confusi, ci guardammo, negli occhi di Mariagrazia la gioia si mescolava al timore, i suoi genitori, mia madre. Come potevano accettare un’idea così rivoluzionaria? Per me il problema non esisteva, con tutti i quasi-nudi che si vedono nelle spiagge... Francesco ebbe un’idea adeguata alla situazione, pose la condizione che io, marito, assistessi. Scoppiai, poi gli altri due si unirono, in una risata. Decidemmo di tacere la decisione ai genitori, a tutti quanti, e ci demmo appuntamento due o tre settimane dopo, nel suo studio di Gardone. Dove, uscendo nella scala lucida di stupidi marmi, scivolai e mi feci uno strappo sotto il lobo dell’orecchio destro, con molto sangue. Così i tempi delle pose presero un tanfetto

d’alcol denaturato e una vaga aria di clinica, col marito disteso nella cameretta accanto allo studio. Rifiutammo la proposta di un bronzo più piccolo che, temevamo, avrebbe trovato padre e madre egualmente impreparati del grande. E eravamo proprio stupidi perché quando videro la piccola statua, pochi anni dopo, provarono soltanto ammirazione. Quale suo personale bottino, Mariagrazia ebbe da Francesco un disegno che ancora giudico dei suoi migliori. Il Grande Nudo venne fuso in più repliche, per la Fondazione Gulbenkian, allora a Lugano, e i musei di Mosca, di Tokyo, e non so quanti altri.

*** E le poesie. Non è un caso che, tra gli artisti del secolo, sia stato il più vero e elegante poeta: per nulla candido, bensì esperto dei ritmi, della prosodia, dei timbri, delle parole: acuto, spiritoso, efficace scrittore. È curioso che i critici letterari e critici d’arte concordi abbiano ignorato il poeta. Mario Praz avrebbe fatto ricorso ad uno dei suoi paragoni preferiti, quello della peste che, non essendo sostanza, né accidente, non esisteva. Ma la poesia di Messina esiste e vive in cinque preziosi libretti. Al periplo mortuario, al saturnale di demenze e sfaceli, anche qui ha opposto la guerriera fede nella bellezza che non muore. Nel mio larario privato la sua figura affianca quella di Soffici. Se Soffici fu il “dono” che disse Renato Serra, Messina fu il dono che Soffici fece a me.

M’invitò a Vittoria Apuana una volta che aspettava l’amico scultore: «è un giovane eccellente», diceva. Per quei ventun anni che da lui lo dividevano, gli pareva un giovanotto. E come un giovanotto lo rivedo, giocavano a bocce lui, Soffici e Carrà; il giovanotto dall’aria spavalda che si trova nel libro di Cocteau nel 1960, l’anno della nostra conoscenza. Alla mia volta, per i trent’anni che da Messina mi separavano, io ci facevo la figura del bambino: «Guardali, che sembrano le età dell’uomo», disse Enrico Sacchetti additandoci a Carrà un pomeriggio cominciato giocondamente, che poi finì con una lite furiosa, tra me e Sacchetti, su Ciaikoski, se fosse o non fosse un genio. Su quali mai coglionerie non si accapigliano gli uomini. A quei tempi curavo per «il Borghese» un’antologia settimanale di quel «linguaggio ermetico, oscuro, involuto, incomprensibile», che qui sopra diceva Federico Zeri. L’avevo intitolata, non ricordo nemmeno perché, «I pesci in barile». La sua lettura, ad alta voce, fatta da Carrà o da Messina, era diventata un punto fermo dei pomeriggi con le bocce. «0 perché non si va alla Biennale», disse Soffici. «Tu mi vieni a prendere, si passa a prendere lui e si va a Venezia», e buttò la uno dei giorni prossimi. Tanto mi parve incredibile che quei due grandi l’avessero fissato come un appuntamento, che me ne dimenticai e quando vennero in Strada Maggiore non c’ero. Trovai nella fessura della porta un cartello «TRADITORE», con le firme Ardengo Soffici e Francesco Messina, che fu seguito da una cartolina postale, quelle che allora usavano, con la replica. Messina mi telefonò che Ardengo se n’era avuto a male, e gli risposi con altra cartolina postale, c’era un disegnino con me

moccioso in pianto. «Potrebbe anche disegnare», disse Soffici, e Messina: «Sì, ma imita il Tamburi, mica te...». «Uhmmm». Quando andammo al Poggio per i funerali di Ardengo, Francesco disse, «Caro il mio Piero, uomini così non ne nascono più». Sentivo lo stesso pensando a Messina che si spegneva. Dopo quel luminoso incontro dell’estate 1994 con l’artista infervorato di progetti, attorniato dai fantasmi di nuove figure, le mani stanche e bellissime ancora anelanti alla stecca e al mazzuolo, non volli contemplare la decadenza che altri mi descrivevano al telefono. Il grande pagano, che si divertiva a fare anche il cristiano, avanzava verso il crepuscolo. Ne aveva, tanti anni prima, in Notte e Giorno, divinato il brivido: Nell’aria bruna vaga l’uomo ritornato antico funesto avanza l’autunno.

Ettore paratore

“QUEL FASCISTA DI LETTERE”

Con lo scialo di forza e finezza che innalzò un critico a statura d’artista, Ettore Paratore accosta il momento in cui, tra la lettura al Principe delle completate Georgiche e l’ultimo travaglio dell’Eneide, sboccia a intera potenza la poesia di Virgilio, all’ora che, fondato da Bismarck l’impero tedesco, un puntuale epico si precipita Sull’Anello del Nibelungo e incalza Richard Wagner a completare l’immenso poema in quattro cantiche immaginato col Nibelungen-Mythus als Entwurf zu einem Drama e il poemetto Siegfrieds Tod del 1848, fino all’ultimo accordo, in re bemolle maggiore, del Crepuscolo degli Dei, fissato sulla carta il 24 Novembre 1874. «Era l’anno in cui il Princeps celebrò il triplice trionfo dopo la conquista dell’Egitto e chiuse il tempio di Giano; era il momento tipico in cui una nazione assapora con gioia un recente trionfo e scorge il futuro arriso dalla più luminosa sicurezza, all’incirca nel senso con cui il principe di Biilow nelle sue Memorie raffigura la Germania guglielmina negli anni immediatamente successivi a Sedan», (introduzione all’Eneide della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1978, p. XIII).

Mi par che valga la pena, scrivendo in morte del maestro e amico, di precisare meglio quello «scialo di forza e finezza» che dicevo al principio; può sembrare un omaggio generico, e invece è ben precisato nella recensione di Andrew Wallace-Hadrill (“Burlington Magazine”, Gennaio 1990) al vasto e profondo libro di Eleanor Winson Leach, The Rhetoric of Space. Literary and Artistic Représentations of Landscape in Republican and Augustan Rome, Princeton, 1988, il cui «centrai concem riguarda il rapporto tra l’arte verbale e visiva [...]. Lungi dal prendere l’ut pictura poesis oraziano come un incoraggiamento alla somiglianza tra le arti, ne scava invece le differenti peculiarità [...]. Ci sono opere che si avvantaggiano della vicinanza, altre della distanza. Respingendo come legame superficiale l’influenza dei poeti romani sugli artisti”, l’autrice “ricerca l’analogia a un livello assai superiore, nella semantica della comunicazione artistica [...]. Il cuore dell’argomento è che quanto unisce il poeta romano all’artista sta nel carico che le proposte interpretazioni trasmettono all’uditorio. Una comunicazione incompleta, un’offerta di scene ellittiche o contraddittorie costringono lo spettatore a elaborare una propria lettura». Scavalcando le interpretazioni di Virgilio offerte in venti secoli, l’intuizione di Paratore comporta l’individuazione: nella seconda metà del secolo decimo nono la sola musica può offrire quel superiore strumento d’arte totale che in altre epoche avevano posseduto la poesia epica, la scultura, la pittura. Ne è conseguenza che la sola musica può accogliere, accanto alla celebrazione centrale, gli impeti, gli spasimi e le inquietudini formicolanti nei nervi e nelle vene di un’intera età. E ancora:

non tutta la musica; non una qualsiasi musica si formi nella mente del musicista dalla lettura di un testo poetico (proprio o altrui, qui non conta); ma soltanto quella in cui il musicista possa guidare il drammaturgo che è in lui in ogni stadio della scrittura del poema. Non è la consueta procedura dello scrittore che consegna al compositore un “libretto”, ma la riunione di un fascio di attitudini quali le arti plastiche videro con Gian Lorenzo Bernini e la musica mai, prima di Wagner; perché il musicista doveva essere anche drammaturgo, mimo, regista, cantante, direttore dell’orchestra, e tanto ancora. Né le singole attitudini entravano in funzione in fasi e momenti diversi, ma tutte agivano in lui contemporaneamente, sospinte, incalzate, fuse dall’ispirazione musicale originaria. «Qualcosa che ai contemporanei di Wagner rimase nascosto», avverte Ernest Newmann, e che Ettore Paratore, con le sue pinze che non fallano, sciorina tutto insieme sul gran banco dell’arte. «Ogni arte classica è, a guardarla dal di fuori, un inaudito colpo di fortuna, ossia l’incontro più intimo di una grande potenza poetica con un grande argomento, così che l’uno sia degno dell’altro; giacché la regola è che non s’incontrino», scrisse Theodor Haecker in uno splendido libretto oggi dimenticato, Virgilio padre dell’Ocàdente. «Mai il creatore di un capolavoro classico inventa il suo oggetto; è creatore e poeta in quel campo di possibilità che un oggetto reale a lui realmente dato lascia alla sua libertà». Il grande artista, nell’obbedire alla necessità che gli è imposta dal solo grande argomento della sua ora, vi coinvolge gli altri temi e motivi, collettivi e personali, così che tutti i fremiti del secolo si riversano e cristallizzano nei massimi

poemi, le sue speranze e i suoi mali essenziali. E che il “male dellìmpero” contagiasse spiriti dall’apparenza meno bollente d’un Wagner, basterebbe la confessione di Johannes Brahms a Max Kalbeck, essere il completamento dell’edizione di Bach e la fondazione dell’impero tedesco i culmini della sua esistenza. Dice Paratore dell’Anello: «Chi guardi a fondo l’immensa opera, si accorge che vi si addensa tutta la morbida decadentistica Weltanschauung dell’artista», che così “presenta alla spiritualità contemporanea il testamento ideale e sentimentale più consono ai suoi dissidi e ai suoi tormenti”. Per Virgilio, come poi per Wagner, la reinvenzione mitica della nazione, a celebrarne la consacrazione imperiale, giunge a suggellare e placare una vicenda personale solcata di affanni, di rinunce e di strazi. Più che a qualsiasi altro musicista si adatta a Wagner l’epiteto coniato da Leopardi per Virgilio, «sommo conoscitore de’ cuori e esperto delle passioni»: è un’arte deH’anima, che entrambi fa capaci a trascrivere in linguaggi universali l’intero labirinto psichico dell’età propria. La celebrazione imperiale non esclude, ma perfino esalta i fremiti della compassione, la pietà dei caduti consapevoli e delle vittime ignare, i dubbi e le esitazioni occulti nelle pieghe del sentimento, senza tacere le ansie e i presagi che sinistri s’annidano nelle sorti in attesa. A tale folto superbo quadro resta cieco e sordo «il furore demitizzante e dissacrante della critica odierna» che nell’Eneide riesce a vedere soltanto il «tributo adulatorio di un poeta al potere del princeps, e peggio, della Gens lulia come serbatoio ideologico dell’imperialismo romano. Non c’è stata mai critica

più idiota», grida Paratore. Ma grida invano, perché nel fondo chiotto e vile della cultura dominante sta il pregiudizio antivirgiliano come pur sempre l’astio anti imperiale che, a dispetto d’isolati come Marchesi, rivela la critica letteraria marxista e radicale ancor attardata nelle stizze infantili dei nati servi. Bisogna riconoscere, invece, che in ben diversa mobilità di guizzo opportunistico, la musicografia marxista è balzata suH’Andlo del Nibelungo con fruttuosa faciloneria, spingendo i pedali dell’originaria anarchia wagneriana e della denigrazione antiborghese. Poche settimane or sono (“Gazzetta di Parma”, 4 Agosto) Vittorio Ezio Alfieri osservava l’apparente paradosso di un paese che delira per le statue di Riace, e lascia passare il bimillenario della morte di Virgilio «nel silenzio e nell’indifferenza». La risposta è che la critica marxista, a differenza da Wagner non ha giudicato utile uno sforzo per appropriarsi Virgilio. 0, piuttosto, ha giudicato l’impresa oggettivamente disperata, quasi che il Mantovano risultasse provvisto di un alone immunizzante contro utilizzazioni illecite. Mago nel Medioevo, passi; strumento marxista, mai. «Tanto sono mutati i sentimenti, tanto è deperita la cultura, nello spazio di soli cinquant’anni», lamenta Alfieri, paragonando il clima dei due bimillenari. Ma se il mezzo secolo passato ci fa vedere, oggi, il 1930 come un’età dell’oro, tale non doveva poi sembrare a quei tempi, se mio padre, che alle celebrazioni di allora offrì il contributo di maggior peso (Corso Buscaroli, Il libro di Didone, Milano, 1930) scriveva che quell’anno «aveva fatto esser virgiliano solo una sacra, entusiastica fretta» (“Corriere

padano”, 19 Ottobre 1930). È storia infame, e storia vecchia. Nell’abbordare il finale della Letteratura artistica, Julius von Schlosser contemplava l’Italia di fine Settecento «a tal punto esausta delle sue grandi imprese, che, un tempo madre di tutti gli studi storici e teoretici, s’era ridotta a leggere ‘i libri alla moda’ tradotti d’altre lingue». E il sonno par che duri, se ancor oggi (1990) non si finirebbe di enumerare gli esempi della dipendenza, in molti campi quasi totale, della nostra cultura corrente dalle traduzioni (e quali traduzioni, nel più dei casi!) di opere straniere. Che il rapporto della nostra odierna storiografia con Roma antica riesca specialmente umiliante (tolti due o tre solitari monstra atque portenta come Lidia Storoni Mazzolani, “L’idea di città nel mondo romano”, 1967, “L’Impero senza fine”, 1972), risulta dalla “Premessa” con cui Paul Zanker, l’archeologo di Monaco apre, senz’alcuna intenzione denigratoria, il suo Augustus und die Macht der Bilder (Augusto e la forza delle immagini) del 1987: «Negli ultimi tempi l’interesse per Augusto e la sua epoca ha conosciuto uno sviluppo straordinario; soprattutto in Germania, negli Stati Uniti e in Inghilterra si svolgono regolarmente convegni di studi, mentre l’editoria contribuisce non solo con pubblicazioni specializzate, ma anche con libri sontuosamente illustrati, destinati a un pubblico più ampio. Si tratta solo di una tipica tendenza ‘postmoderna’, conforme all’interesse generale verso tutto ciò che è ‘classico’? 0 entra in giuoco anche il fascino di una società tranquilla e ordinata, del sovrano dal volto umano, capace di garantire

benessere e sicurezza per tutti, mecenate della poesia e dell’architettura e tutore, insieme, di una severa moralità?». La domanda lascia indifferente la sedicente cultura patria, che Roma e i suoi temi sembra aver consegnato per sempre all’indagine altrui. Ancora la inibisce un dirimente viluppo di teppistici dispetti e rancori da suburra, non molto mutati da quando il municipio di Rimini seppellì la statua di Cesare rievocante il passaggio del Rubicone e Bologna “liberata” tolse il nome di Roma a una sua strada, come a detronizzare una padrona invisa. Dalle finestre del Conservatorio dove insegno posso contemplare, esiliata in un cortiletto tra un fico, i gatti e vecchie automobili, una statua di Augusto, chissà di dove e quando tolta, una delle tante copie cavate, nel bimillenario del 1937, dalla “copia marmorea” che Zanker descrive, «di una statua in bronzo realizzata con ogni probabilità negli anni immediatamente successivi alla vittoria sui Parti, come risulta dallo stretto rapporto tra le figure del rilievo sulla corazza e i motivi del Carmen saeculare di Orazio [...] nei quali si fondono la nuova immagine della Vittoria e i messaggi della provvidenza e volontà divine». La rissa delle immagini è terminata con la fine delle guerre civili. Nel mondo simbolico entrano, assai più spontanee che imposte, disciplina e gerarchia. Poche volte nella storia le arti furono messe insieme al servizio del potere politico in modo così diretto come nell’età augustea. Le immagini dei poeti e degli artisti parlano di un mondo felice, in cui un grande sovrano governa in pace un impero universale.

È quel sentimento, di «laborioso passaggio dalla desolazione alla serena fiducia» che Paratore descrive. Non per caso la rievocazione di tale spontaneo e solenne sentimento di pace nell’ordine deve imporsi, presso Paratore ieri come oggi in Zanker, sopra i detriti di una semisecolare denigrazione annidata a fondo nella cultura italiana. Zanker riconosce agli anni Trenta la formazione di «un’immagine canonica e idealizzata dell’arte augustea. La sistemazione urbanistica della Roma fascista con i suoi restauri e i suoi lavori di scavo portò per la prima volta in luce, o almeno a conoscenza dei contemporanei, monumenti come il Mausoleo e il Foro di Augusto, il Teatro di Marcello, e l’Ara Pacis [...]. In una forma o nell’altra, la nostra visione dell’arte augustea è ancora condizionata dall’immagine fissata in quegli anni». «Dopo la seconda guerra mondiale», mentre l’archeologia tedesca ritornava alla fissazione winckelmanniana, che Zanker avversa, della superiorità dell’arte greca sulla romana, «in Italia l’illustre archeologo di formazione marxista Ranuccio Bianchi Bandinelli contestava il significato storico dell’arte augustea proprio a causa del suo classicismo, visto come l’espressione di un sistema politico reazionario, e l’interesse degli studiosi si sposta sul valore propagandistico dei messaggi figurativi, alla ricerca, peraltro infruttuosa, di occulte strategie di potere». E qui mi sembra che Zanker pecchi d’indulgenza verso «l’illustre archeologo di formazione marxista», di cui io conservo una scintillante fotografia Luce che lo mostra in perfetta uniforme nera con tanto di fez e ciuffo, mentre illustra le pietre del Foro

Romano, nientemeno, al Führer della grande Germania, concentrato e attentissimo.

*** In Italia si andava alla svelta e Ettore Paratore, «l’ultimo barone della grande stagione, sapiente e ieratico, autoritario e lunatico, severo e intransigente fino alla crudeltà», divenne «materia di leggenda, di racconto epico, di eroismo sui banchi», leggo in un profilo apparso non so più in quale quotidiano dopo che morì, novantatreenne, nell’anno 2000. «Le sue lezioni andavano conquistate a forza di spintoni e di muscoli, dato che da quando aveva messo l’obbligo di frequenza per la sua materia, appunto il latino, poteva capitare che arrivassero in due o tremila, e spesso erano necessari i carabinieri per dirigere il traffico e mantenere l’ordine in quella bolgia. Superò indenne anche il Sessantotto tenendo testa ai gruppetti più sfegatati. Il “fascista di Lettere”, come lo chiamavano, li incastrò con un memorabile colpo di teatro. Diede da tradurre in latino un po’ dei pensieri di Mao...». E qui lascio la necrologia, e torno alla cronaca che ne scrissi il 23 Maggio 1968. Li incastrò con l’ironia, sol d’intelligenza armata. Non pensava certamente di compiere un gesto coraggioso quando il lunedì 13 Maggio in un’aula dell’università di Roma cominciò a dettare, come testo della prova scritta di latino, una serie di massime di Mao Tse-Tung composte insieme in modo da formare una pacata esortazione alle virtù della ragionevolezza, all’arte della discussione, ai vantaggi

dell’educazione civile e politica, da preferirsi al tumulto esagitato, all’invettiva irragionevole. «Non sai quanto mi sono divertito a mettere insieme quei pensierini. A leggerli l’uno dopo l’altro e metterli in fila, e poi a leggerli tutti insieme, se ne levava un tono sentenzioso, moraleggiante, perfino vagamente classico, evocante più gli andamenti della precettistica antica, che l’ira convulsa e disgustosa dell’eloquio e invettiva cui quei poveretti erano avvezzi». Alla monotonia becera e insultante, all’invocazione petulante, alle interruzioni sguaiate con cui da mesi e anni, gl’insegnanti delle università italiane e europee si sentivano opporre di continuo il nome di Mao, ridotto a insegna d’infime rivolte e miserabili azioni, il “fascista di Lettere” pensò di opporre una serie di massime in cui il supremo maestro della «rivoluzione» cinese apparisse in una luce di capo di stato e, dunque, di educatore. Discutere invece che reprimere. Guardare le cose e penetrarne l’essenza prima di giudicare. Aspettare d’aver conosciuto un problema, prima di trarne un giudizio. Parlare educatamente, pagare quanto si è comperato. Restituire l’avuto in prestito. Pagare o sostituire quel che si è danneggiato. Non bastonare, non ingiuriare la gente. Non cagionare danni ai raccolti. Non prendersi libertà con le donne, e così via. All’Università di Roma queste cose si erano viste in turbolenta abbondanza nei mesi recenti. Libri, oggetti di pregio, attrezzi tecnici erano stati distrutti, rubati, svenduti. Eran scoppiati conflitti furiosi, vigliacchissime aggressioni. Biblioteche illustri saccheggiate e bruciacchiate. Immondi accoppiamenti si erano

svolti di notte nelle aule, con seminagioni di laidi avanzi, secondo i riti tribali della nuova giungla beata e rivoluzionaria. Il più delle volte il libriccino rosso delle “Citazioni di Mao” era stato sventolato quale sostegno “ideologico” al dispiegarsi d’istinti sordidi e criminali. “Il fascista di Lettere” si procurò il libriccino e, a differenza di quanti lo esibivano tra una sassaiola contro le guardie disarmate e i coiti popolari sui pavimenti delle biblioteche, si mise a leggerlo. Trovò, in quelle massime, l’esatto contrario di quanto gl’indegni discepoli andavano applicando: il pensiero di un educatore, magari troppo travestito in puritano e moralista. Naturale. Tutti i rivoluzionari, quando si prendano uno stato, diventano moralisti. Anche se hanno promesso al popolo l’abbruciamento delle cambiali, come Cesare. 0 hanno predicato il libero amore, come Lenin. Tutti i costruttori, o ricostruttori di un popolo, di un ordine civile, sono costretti, anche contraddicendo le precedenti predicazioni, a ricercare le fondamenta salde della moralità, dell’ottimismo. Il professor Paratore queste cose le sapeva, ma fu rallegrato di ritrovarle in uno dei testi sacri alla teppa della “rivoluzione studentesca” e della “contestazione globale”. E c’era, in più, il gusto di mostrare che il latino non è la lingua morta e inerte che dicono i «poveri cani senza scrittura», ma è tanto duttile e viva da rendere in bellezza gli aurei messaggi delle moderne rivoluzioni. Non s’incolpa sempre, e con buona ragione, la cultura universitaria d’essere imbalsamata e distante, chiusa nelle torri d’avorio, nei bozzoli e crisalidi d’un accademismo spento e

funereo? E ecco il professore arrivare nell’aula non già con la solita retroversione da Cicerone o col sacramentale testo di lingua pubblicato dall’abate Razzolini, ma coi pensieri di Mao. Mi rivelò, con una delle sue risate davvero omeriche, di aver pensato a quel primo paragrafo del frammento rimasto del Satyricon di Petronio, cui dedicò la sua fatica giovanile, che s’apre con un’invettiva contro le scuole di allora, dove gli scolari diventavano “stupidissimi, perché nulla vi ascoltano o vedono di ciò che avviene nella vita, ma soltanto storie di pirati in catene sulla riva del mare, o tiranni che vergano editti per comandare ai figli di tagliar la testa ai padri, responsi dati per allontanare una pestilenza, con l’ordine di sgozzare tre vergini o più”. Ogni età ebbe il suo accademismo, le sue proteste contro l’invecchiamento della cultura, e ebbe anche quelli che seppero reagire e proporre in cambio una dottrina fresca, vitale, nutrita degli spiriti dell’epoca. Ecco, nel professor Paratore c’era un ironico intento di cordiale umanità. C’erano, badate bene, tutti gl’ingredienti che si leggono nelle invocazioni alla modernità, all’attualità, alla spregiudicatezza, negl’inni, manierati e stantii, al dio dell’epoca, l’anticonformismo. Non si aspettava tanto rumore, il docente di latino nell’università di Roma. E neppur si sognava di compiere il solo gesto di coraggiosa dignità che il ceto accademico italiano abbia saputo esprimere da molti anni. Coraggio, senza martirio. Il suo collega Giovanni Getto, sbeffeggiato all’università di Torino, e interrotto col grido, in verità molto pertinente, «Basta col Tasso, parlaci di Ho Chi Min», non ha trovato modo migliore, per esprimere la sua angoscia, che buttarsi dalla finestra. Paratore, di sacrificare la sua

esistenza a quelle luride pecore, non ha pensato un momento. Ha brandito, anche lui, il libretto rosso, e l’ha restituito alle pecore sue proprie, come oggetto di studio e meditazione. Quanto accadde dopo è una sola vicenda di viltà e bassezza. Una cultura pervertita e infame, ridotta all’accattonaggio e alla prostituzione, si è esibita nelle sue diverse attitudini. Pur animati, nella grande maggioranza, dal desiderio di portare a termine l’esame e, come il Professore ripete nel suo inguaribile ottimismo, rispettosi e amichevoli, gli studenti non hanno saputo reagire e imporsi, benché fossero “grande maggioranza”, alle squadre dei teppisti estranei alla facoltà, e si sono lasciati buttar fuori dall’aula in nome della protesta contro la “provocazione professorale”. Il preside della facoltà, Lombardi, ha esibito il suo carattere, la ricotta socialista di opportunismo e compromesso. La stampa borghese, quella ch’io chiamo giornalume, ha scelto il tono pavido e compunto di chi riferisce una stranezza d’umore, una bizzarria della cronaca, senza prendere posizione. La stampa comunista s’è illustrata con un corsivo di “Paese Sera”, in cui un tale G. Rod. dice che «a parte le legittime reazioni degli studenti, che è quasi ovvio condividere, la burla del professor Paratore può essere considerata divertente per due motivi: primo, perché dimostra che nemmeno i docenti di latino riescono più a prendere sul serio lo studio della lingua di Cicerone; secondo, perché il vecchio accademico, per fabbricare il suo scherzetto, è stato costretto a leggersi non sappiamo se il libretto delle Guardie Rosse o la più ampia antologia degli scritti di Mao...».

Povera pecora rossa, vuole farci sapere che c’è anche una “ampia antologia”. E intanto non si accorge che a scegliere gli scritti del suo Mao si rischia di togliere rispetto perfino al latino. Ipse dixit.

*** Il 21 Gennaio 1979 gli scrissi una lettera: «Caro professor Paratore, il 15 Febbraio cadranno i trent’anni della morte di mio padre, latinista, come lei sa, innocente condannato, fascista morto subito dopo esser uscito dal carcere, escluso dalla scuola e dagli studi. Lo ricorderemo con una Messa latina e mottetti di Palestrina e Vittoria, quel giorno stesso. Ma io vo cercando un modo pertinente e risoluto di ricordo pubblico, e m’è venuta alla mente l’idea di un incontro, o convegno com’è la moda, dedicato alla difesa della cultura classica nella scuola italiana. Il dottor Renzo Quiri-Pinotti, presidente di quest’Associazione ItaloGermanica, parte del “Goethe Institut”, mi offre per due giorni le sue splendide sale di Strada Maggiore 29; Giovanni Volpe, il marchio della Fondazione dedicata a suo padre Gioacchino, e Vittorio Enzo Alfieri l’animoso attivismo suo e della Rita Calderini, CNADSI. Vorrebbe lei assumere la presidenza delle due giornate e dar loro i relatori e la forma più adatti? Sarebbero il sabato 5 e la domenica 6 Maggio. A conclusione, la sera della domenica il mio caro Vincenzo Fertile suonerà il Preludio Corale e Fuga di Franck e la Sonata Op. 110 di Beethoven.

Al Suo gradimento e assenso ogni cosa è subordinata. Lei è il pontefice massimo dei latinisti in Italia, ha sempre mostrato di rimpiangere la sorte del Babbo, non mi è sfuggita la parte affettuosa e rispettosa che gli ha dato nel commento al Quarto dell’Eneide...». Ebbi la risposta in tre giorni: «Carissimo, immagini se non accetto volentieri di partecipare a un convegno che si tiene in memoria di Suo padre [...]. Mi vanno benissimo i nomi di [...]. Per il momento non Le invio una lista d’inviti a mio nome, perché sono sicuro che i latinisti di casa nostra non gradirebbero le secundae partes di una riunione in cui il primo posto fosse assegnato a me». Non mi affibbi la determinazione dei temi. Penso sia meglio pregare ogni oratore/relatore di scegliersi il tema nell’ambito dell’argomento già indicato nella lettera precedente. Si tratterebbe di sottolineare quanto v’è di perennemente vitale nella cultura classica. Un’urgenza che è sempre presente nei libri di Suo padre. La ringrazio, anzi, di avere affidato proprio alla sua memoria la difesa di quanto più preme a noi ancora vivi. E ancora La ringrazio della sollecitudine che mostra per un nostro incontro. Anch’io sono contento e ansioso di rivederla. Si abbia intanto i più cordiali saluti insieme coi sensi della riconoscenza per la scelta della mia persona. Alfieri trovò «bellissima la tua idea di onorare la memoria di tuo padre con un convegno in difesa del latino e del greco [...]. Che uno come me, che fu contro il fascismo allora, andò due volte in carcere e fu destituito dall’insegnamento cornute De Vecchi, riconosca la nobiltà di tuo Padre non solo in quanto

latinista, ma in quanto uomo di fede fascista, non dovrebbe stupirti. La fedeltà, come insegnava il vecchio Royce nella Philosophy ofLoyalty, è un valore morale altissimo, e è bello che la tua pietas filiale lo rinfacci a questo mondo di barbari e di selvaggi». Non ancora cardinale, il mio monsignore personale, Aurelio Sabattani rispose: “Grazie di aver pensato a me nel 30° anniversario... Ben ricordo di aver partecipato, insieme a Giorgio, ai funerali al Piratello, in quella giornata che minacciò d’esser “calda”. E ti ricordo sempre mentre ti esercitavi sul nuovo organo che feci costruire per te a Sant’Agata...». In una lettera Andrea Emo Capodilista commentò “il terribile Salmo 137” compreso nell’elenco delle musiche, «Come potremmo noi cantare le canzoni dell’Eterno in terra straniera?”: siccome oggi noi tutti viviamo in terra straniera, esuli da noi stessi, udiamo e comprendiamo quel grido che si esalta quanto più il Destino è sordo...». Ricevemmo trecento lettere, telegrammi, i fax che cominciavano a usarsi, il Babbo fu ricordato da una diecina di giornali. Non rispose all’invito un sindaco di Bologna che si chiamava Zangheri. Gli scrissi una lettera il 10 Maggio: «A conclusione dell’incontro ‘Difendiamo la cultura classica nella scuola italiana’, promosso in memoria di mio padre, mi accorgo che né Lei, né la Signora che regge l’assessorato all’istruzione nella Sua giunta, si sono fatti vivi. Che a Lei della cultura classica non importi molto, non mi meraviglia. Ebbi l’ingenuità di credere che al sindaco di Bologna potesse interessare una riunione che vedeva raccolti nella città alcuni tra i più insigni cultori delle lingue classiche; ma Lei e la Signora assessora

manteneste uno stretto e molto marxista silenzio. I comunistelli alla sinistra del Suo partito strepitano sovente contro l’arroganza del vostro potere. Io preferisco pensare a un’arroganza dell’ignoranza, o maleducazione...».

*** Osservò, a lavori conclusi, lo stesso Paratore, gli pareva “il più ricco, ampio e curioso” che si fosse tentato finora. Lo trascrivo nella successione delle ore e dei titoli. Sabato 5 Maggio, ore 9,30, Ettore Paratore dell’università di Roma: “Destino attuale e futuro del Latino”; ore 10,30, Antonio Garzya dell’università di Napoli: “Lo studio del Greco nel Liceo Classico”; ore 11,30, Giuseppe Sermonti dell’università di Perugia: “Cultura classica e Scienza”. Domenica 6 Maggio, ore 9,30, Vittorio Enzo Alfieri dell’università di Pavia: “Perché il Greco e il Latino”; ore 10,30, Mario Attilio Levi dell’università di Torino: “Il senso della storia antica.” Sergio Ricossa dell’università di Torino, già impegnato altrove, mandò la relazione “Lingue antiche, lavoro moderno”, che fu letta nel pomeriggio, prima del concerto di Vincenzo Fertile. IL PROGRAMMA DELLE DUE GIORNATE,

Ancora paratore, ovvero:come non diventai accademico dei LINCEI

Una delle lettere che Clarissa Anfuso mi scrisse nel 1990 intorno a un incontro di scrittori e politici che progettavo sulla figura di suo padre, finiva: «Ho letto e pianto sulla tua lettera. Per un eventuale convegno imporrei una frase di François Mauriac: Je prendrai la politique, je la baptiserais littérature et elle le deviendra aussitôt. So che sei molto amico di Ettore Paratore; seguendo i giornali e soprattutto il Tempo, mi accorgo che è il più fervido e affettuoso di quanti scrivono intorno ai tuoi libri. Complimenti, è il più bravo di tutti. Credi che riusciresti a fargli leggere le Memorie di papà nel senso di questa frase?» Fu la figlia di Anfuso a darmi l’orgoglio di quella attenzione. Affettuosa e fervida, l’ho detta altrove; ma senza regali, che giudicava indebiti. Quando scrissi di non so più che cosa, che uno aveva dedicato “sibi ipso”, in una di quelle tali recensioni venne la bacchettata, “ipsi”. La tutela del principe dei latinisti non s’interruppe; s’infoltì, anzi, di tutti gl’incontri del Vittoriale, su d’Annunzio e le arti, e la musica, e la guerra, o quello di Pescara sul Trionfo della morte, di che s’accrebbe e complicò l’amicizia. Alla fine del 1982 una sua telefonata mi avvertì che stavo per ricevere una lettera di

Francesco Gabrieli che a nome dell’Accademia dei Lincei mi chiamava a far parte della commissione giudicatrice dei Premi Feltrinelli, riservati, nel 1983, alla musica. Mi dissi lusingato e onorato e Paratore aggiunse la sua contentezza per la riuscita liscia e indolore di una sua manovra che doveva essermi un primo passo verso l’Accademia. Nella risposta a Gabrieli chiesi di conoscere “quali tratti e requisiti” si volessero specialmente premiare, e a chi spettasse proporre i nomi dei musicisti da premiare. Non ci fu risposta scritta; con un’imbarazzata telefonata Paratore mi confidava che i premi erano due, uno già attribuito in pectore al factotum finanziario universale maestro Siciliani e l’altro conteso, nei petti dei commissari, tra Nono e Berio. Gli risposi, con tono di rimprovero, che non mi piacevano i traffici del Siciliani e meno ancora le “cose”, che non riuscivo a chiamare musiche, degli altri due. Sempre al telefono, Paratore rispose che preoccupazione sua e degli amici suoi era che il più ricco premio musicale italiano «non andasse al comunista Luigi Nono». «Che è comunista come Berio», gli osservai, soltanto più eversore e sgangherato nella distruzione che sempre proseguiva, della nostra musica. Ecco perché bisognava premiare lui. Fu dura impresa convincerlo del mio rifiuto, m’inseguì perfino in un ristorante popolare e rumoroso, lo “Zaghini” di Sant’Arcangelo di Romagna dove avevo detto a Mariagrazia che sarei sceso a cena una decina di giorni prima del 3 Maggio, data della prima riunione. “Ma perché ostinarti così? Ti rendi conto di che cosa ti giochi? (in quegli anni era maturato, come con Mario Praz, il passaggio al tu). Dovrai motivare questa scelta,

scrivere a Gabrieli che ti ha invitato, spiegare qualcosa...”. Promisi e il 27 Aprile mandai questa lettera: Caro Professor Gabrieli, a me sembra che dare un premio a Berio per non darlo a Nono, sia come preferire Pajetta a Berlinguer. Da quando Le telefonai l’altro giorno, ed ebbi la conferma che questa è l’intenzione, così come Isotta me l’aveva anticipata, non riesco a rassegnarmi di dover figurare domani nell’elenco di una commissione che ha dato un così importante premio per la musica a Luciano Berio. Né Berio, né Nono, secondo me, meritano un premio per la musica attribuito da Un’Accademia che onori la storia e la tradizione dell’arte italiana. Lo loro produzione non segue più, infatti, quei principi mensurali e tonali che sono caratteristica essenziale della musica europea e, prima di tutto, italiana, e di cui Arcangelo Gorelli, illustre ospite, un giorno, del Palazzo ch’è oggi dimora dell’Accademia, gettò le basi moderne. I miei lettori non capirebbero come possa conciliare quello che scrivo con la decisione di cui sarei, partecipando alla commissione, corresponsabile. E, quel che è peggio, non lo capirei io. Voglia perdonarmi, ma non credo che la decisione che state per prendere sia buona, e se non posso persuadere gli altri a cambiarla, non intendo esserne partecipe. Monteleone sul Rubicone, 27 Aprile 1983

Mario praz

Il principe in anticamera

Affondo le mani nella cartella dove conservo un carteggio con Mario Praz che cominciò nel Febbraio 1959, e ne estraggo la lettera del 30 Dicembre 1959: «Può immaginare con quanto piacere io abbia letto nel Borghese che ricevo oggi le parole sulla Casa della Vita, che non esito ad attribuire a Lei. A parte il fattore “tifo” per l’arredamento, e, come al solito, modestia a parte, sono certo che Lei ha ragione, e son anche certo che il fin de non recevoir della critica militante ha tutta l’aria di una tacita intesa. Non mi ricordo se l’ultima volta che La vidi era uscito l’Almanacco Bompiani, in cui il mio libro non è nominato affatto; Bocelli, a cui Falqui ne accennò, rispose che il libro non era di sua competenza perché non era ‘narrativa’; a sua volta, il critico che si occupò della saggistica non ne parlò, probabilmente pensando che il libro non vi rientrasse. Un ragionamento come quello di Don Ferrante sulla peste... Tuttavia la peste esisteva, come esiste La Casa della Vita».14 Avevo pubblicato un bilancio letterario dell’anno trascorso, non firmato, in cui, pur riconoscendo il valore del Gattopardo di Tornasi di Lampedusa, uscito postumo, indicavo, come «miglior

libro dell’annata, La Casa della Vita». Aggiunsi che era stato “ignorato dalla critica militante”, e dimenticato dalle giurie dei premi. Di dodici critici, invitati da una rivista a proporre la revisione degli errori di giudizio commessi nell’anno, il solo Pietro Citati lo ricordò. Al «può immaginare» della lettera, non detti maggior peso che a una formula di complimento, perché non sapevo quel che oggi è un caso letterario riconosciuto: il principe dei saggisti si disperava per l’ostilità della critica. Che personaggi tanto più limitati e ignoranti guardassero alla vastità dei suoi interessi, classica e tuttavia irregolare, sconfinata e per loro incomprensibile, con invidia o disprezzo, gelosia o irrisione, in ogni caso con antipatia, mi pareva un dato da accettare come compenso negativo di una addizione (superiorità + diversità) che non poteva non suscitare reazioni. Io, che non avevo ancora trent’anni, non potevo credere che un Praz, a sessantaquattro, soffrisse a quei tentativi di ricacciarlo nell’anticamera, posponendolo a tanti romanzieri dell’effimero e poetini del nulla. Mi pareva, conoscendo la ferocia della tribù letteraria, un fenomeno scontato, e perciò non potei misurare “il piacere”, com’egli chiamò la parziale consolazione, di un riconoscimento finalmente caloroso e pieno, seppur non venisse da uno dei bonzi imperanti, né su uno di quei fogli ufficiali su cui si modellano le opinioni del grosso pubblico. Lavoravo allora, per “il Borghese”, fondato da Leo Longanesi, anche Praz vi aveva scritto, senza preoccuparsi dell’accesa tinta reazionaria con punte neofasciste. Antidemocratico d’istinto, il

conflitto fascismo-antifascismo non lo riguardava. Non saprei trovargli una collocazione nei partiti italiani. In Francia sarebbe stato un gaullista, ma senza De Gaulle, i sogni, le iperboli, la “grandeur”; del realismo disadorno di un Pompidou, nutrito di eleganza, buon ordine, efficienza. Dopo la morte di Longanesi (1957) curavo quella zona che il fondatore e direttore aveva riservato a se stesso e comprendeva la critica storica e letteraria, l’arte, la musica, il costume; un lavoro che ben definisce la parola tedesca Kulturkritiker. Stampata nell’autunno 1958 e distribuita a fine d’anno, La Casa della Vita mi suscitò un’ammirazione che non avevo mai provato per una novità letteraria italiana. L’ampio entusiastico saluto che ne scrissi ebbe per me durevoli effetti, non solo perché ne nacque una corrispondenza che divenne amicizia, ma perché La Casa della Vita e il suo autore determinarono in me il precipitare di una vocazione di collezionista di stile Impero, che attendeva soltanto la chiamata. Non immaginai d’aver recato a lui grande conforto. Benché non fossi suo allievo all’università, lo divenni in antiquaria, da lui ricevendo costanti, tempestivi e pratici consigli di acquisti, corredati di prezzi e disegni, tutt’altro che professionali, eppure chiari e parlanti agli occhi dell’iniziato. Il rapporto gli piacque, perché due volte in pochi mesi lo paragonò a un altro, in cui era stato l’allievo: «Leggendo la Sua lettera, mi par d’essere il compianto Marmottan che s’estasiava di vedermi allora giovane novizio del neoclassicismo», mi scrisse il “30.5.59”, e, quattro mesi dopo: «Mi par d’essere diventato il vecchio Marmottan (del resto un cronista piuttosto pasoliniano

dell’Europeo mi chiamò ‘il vecchio professore’) quando mi diceva: “L’Empire... ça vous prend, ça vous prend!». Che La Casa della Vita potesse suscitare controversie di catalogazione, lo previde nella lettera scritta il 7 Febbraio 1959 per ringraziarmi della recensione: «La giornata è cominciata proprio bene (sono le 6,30 a.m.) per aver trovato uno che davvero ha capito il libro e me stesso. Che forse è meno facile di quel che non sembri, sebbene io, come Lei osserva, sia abbastanza nitido. L’editore, per esempio, lo ha preso per un libro d’arredamento e ci ha visto il suo affare, e è stata una fortuna, questa semi-comprensione o semi-incomprensione, che se gli avessi detto: ‘Ecco la mia vita’, probabilmente avrebbe declinato l’onore». Non potè prevedere la catena di delusioni che l’anno gli preparava, le cui tracce restano nel Carteggio con Cecchi, pubblicato tre anni fa15, con sorpresa di molti, ma non mia. il pontefice della critica dedicò alla Casa della Vita la metà di uno dei suoi articoli sul “Corriere della Sera” (7 Luglio 1959), l’altra metà consacrando a un romanzo di Mario Soldati che più nessuno ricorda. A quell’accoglienza a denti stretti, Praz rispose, i denti non meno stretti, coi «ringraziamenti per quello che dev’essere un estratto dell’articolo, da te annunziatomi per l’“Approdo”, che mi chiarirà probabilmente molti giudizi su cui in sostanza concordo, ma che spero di veder illustrati. Particolarmente ti son grato di quest’attestato di solidarietà in una giornata come questa, che si concluderà con il verdetto del Premio Strega».16

Si stenta a credere che un uomo definito, da spiriti superficiali, malevolo, bizzoso e perfino nefasto, fosse poi tanto disarmato nei rapporti con gli altri; tanto umile, tanto pronto a riaccendere speranze calpestate. Accoglie gretti giudizi con quel sommesso «in sostanza concordo», che fa male, e soltanto chiede che almeno gli siano chiariti. La coscienza del valore del libro e l’ostinazione con cui s’illude sull’amicizia dell’altro lo incoraggiano ad aspettarsi di meglio, e a cullarsi nella favola bella di un Cecchi capace di organizzare a suo beneficio la pubblicazione dell’articolo, a Milano, proprio lo stesso giorno che a Roma si assegnava, in una delle volgari baraonde mondane della dolce vita, il celebre premio, cui faceva da teatro il ninfeo della villa ch’era stata di Papa Giulio III Del Monte, uno dei più fastosi pederasti che mai salissero sul trono di Pietro. Non Praz vinse lo “Strega”, ma II Gattopardo: un vero, regolare romanzo, adatto ai gusti di una critica che non capì come, a parte le molteplici fascinazioni della sua scrittura, La Casa della Vita avesse assunto, al suo solo apparire, una posizione decisiva nel Novecento italiano, perché completava la rottura e rifusione dei vecchi generi che la letteratura tedesca aveva raggiunto fino dai Buddenbrook, e da noi era rimasta dove l’aveva lasciata Ardengo Soffici con Lemmonio Boreo, nel 1912. Autobiografia, saggio, romanzo, La Casa della Vita era l’unicum disparatum di un’epoca. Che non se ne accorgesse una critica preda di sbornie ideologiche, legata al più tetro verismo paesano, si può capire. Che non lo vedesse Cecchi, non si spiega se non si pensa a un’intenzione. Anglista e italianista, saggista e viaggiatore, critico e anzi storico dell’arte di solenni pretese, era

uno dei pochi che potessero discernere gli strati che s’affondavano sotto la prosa di Praz, da Walter Pater, Charles Lamb e Baudelaire, a Swinburne, Barbey d’Aurevilly e d’Annunzio, passando per «tutte le letterature del globo», delle quali lo chiamò «conoscitore».17 Ecco la parola micidiale, l’anticamera in cui lo respingevano quanti, disturbati dalle sue escursioni in terre a loro incognite, dalle strenue imprevedibili esplorazioni nei labirinti storici della bibliografia, dell’arte, del gusto e più ancora dai trofei che brandiva ritornandone, e dai libri preziosi che ne cavava e ch’essi non sapevano neppur compitare, sentenziavano sghignazzando di feticismi e manie. L’incoronavano antiquario e connoisseur proprio per scacciarlo dall’illustre dimora entro cui non abbastanza provvisto di duro sdegno, impetrava una piccola stanza. Che un Praz, nel 1955 o nel 1959, ancora soffrisse per le riserve sornione del “sor Emilio”, testimonia d’un candore tetragono all’esperienza. Reticenze, riserve, un tirar via per non impegnarsi, si osservano fin dal 1921, quando l’esordiente di venticinque anni chiede al già famoso giudice letterario trentasettenne un giudizio su traduzioni da poeti inglesi; ossia, dal principio d’una consuetudine che non fu amicizia, ma un rapporto dispari, in cui alla ricerca d’una parte si oppongono, dall’altra, il sotterfugio del negarsi e sfuggire. Ne sortirono periodiche puntualizzazioni del più giovane, illuso ma preciso, e penose escusazioni dell’anziano, nelle ombre di fìnti malintesi.

Supporre una gelosia nel temuto Sainte-Beuve toscano può sembrare troppo precoce credito verso l’apprendista, timido e goffo nel contegno, non meno che svantaggiato nell’aspetto fisico. Eppure, Cecchi avvertì presto che quel saggista dalle agnazioni simili alle sue abbracciava spazi più vasti e profondi, e seppur meno placida di respiro, meno “classica” della sua, la prosa dell’altro s’impennava di estri, s’illuminava di lampi e barbagli alla sua sconosciuti. I bagliori luciferini della prosa di Praz, le sue eretiche frequentazioni, avevano cominciato presto a inquietare professori avvezzi alle fide ciabatte della critica domestica. Trovandosi tra le mani la sua tesi di laurea, un saggio sulla lingua di d’Annunzio, il buon Guido Mazzoni fu preso dal panico e vi annotò sopra «Me ne rimetto ai dotti colleghi».18 Quel «non so che tra il detective e l’antiquario» che si sentiva dentro, gli dava «il gusto a rintracciare origini, a rimuovere patine», e lo istigava a contaminare il lecito filologico col collezionismo d’arte, e, magari la psicoanalisi, lo guidò nella fusione e rifusione di d’Annunzio, Swinburne, e tanti scritti ancora, da cui emerse il ribollente vortice decadentista che, col titolo La came, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, innalzò il suo autore, fin dalla prima edizione (1930) nelle alte sfere della critica internazionale, dove d’italiani n’eran giunti pochissimi, e Cecchi non era tra loro. Libri di viaggi si alternarono a lussuose passeggiate nelle selve barocche di Concettismo e Seicentismo, e sopra i tributi alla professione, gli Studi e svaghi inglesi, e la fondamentale Storia della letteratura inglese, si aggiunsero la poderosa silloge

stilistica di Gusto neoclassico (1940), i Viaggi in Occidente e Machiavelli in Inghilterra (1942) e infine Fiori freschi e Motivi e figure (1945), dove il saggio prazziano superava i modelli inglesi per come, sul taglio egualmente originale e creativo, innestava gli spirali di una vertiginosa erudizione, che, negli anni tardi, ruppe gli argini e divenne opprimente. Cecchi dovette rodersi di gelosia. D’altronde, fin da quando, nel 1931, le pagine del Viaggio in Grecia apparvero su un quotidiano milanese, “L’Ambrosiano”, Cecchi aveva potuto accorgersi che il giovane emulo l’aveva raggiunto nel virtuosismo della “prosa d’arte”, come allora si chiamava la sola evasione che al letterato non romanziere né novellista fosse concessa dall’artigianato professionale. E quanto più la prosa di Praz allargava l’ondata e rendeva più acuta e nervosa la sua tensione, e si affinava nelle trasparenze e ellissi, illuminazioni e giunture che il lavoro critico elevano a dignità liriche; quanto più sentiva premere nell’altro la richiesta d’esser riconosciuto per quel ch’era diventato, tanto più ostinatamente s’industriò il Cecchi a respingerlo nel suo poderetto di esperto d’inglese, autorizzato a periodiche licenze nelle sterpaglie dello strano e del bizzarro. “Romae Anglicorum studiorum professor”, lo voleva; proprio come diceva la motivazione della laurea honoris causa che gli conferì l’università di Cambridge nel 1957, che al collezionista e arredatore rendeva omaggio con parole (“ut domum suam Romae in Via lulia sitam ineuntis eius saeculi ornamentis et supellectile exquisitis decoraverit”) che indussero qualcuno a credere che con le sue mani avesse fabbricato il mobilio, e dipinto le pareti domestiche.

Quando scrisse di quelle opere collaterali che per Praz erano le principali, fu il Cecchi tanto vago e distratto e pieno di limitazioni, che soprattutto rivelava la scarsa simpatia. Una viscida recensione di Lettrice notturna offese Praz, che ancor peggio soffrì quando Cecchi lo saltò del tutto in Di giorno in giorno, uno dei volumi di cronache letterarie che compilava riunendo le recensioni. Tradito in quella che si ostinava a chiamare amicizia, Praz proruppe nell’amaro sfogo del 10 Maggio 1955. «Tu sai, o puoi immaginare, quanto io tenga alla tua opinione, e mentre non mi è mancata la tua approvazione, e te ne sono grato, quando mi sono occupato strettamente della materia che professo, mi è parso che tu non prendessi troppo sul serio i miei, diciamo così, parerga: nei quali, invece, io ho creduto di mettere più impegno che nelle cose di mestiere [...] la lettura del tuo articolo - attenta come merita ogni tuo scritto - mi faceva concludere che tu mi ritenevi scrittore facile e versatile, ma da scorrere più che da leggere: da un critico come te avrei atteso rilievi pertinenti, e magari riserve, ma anch’esse pertinenti: per es. me ne fece Falqui che nel suo scritto, certo non tutto favorevole, toccò alcuni punti in cui mi riconobbi.19 Il tuo articolo aveva un po’ la qualità del passepartout e in fondo non mi pareva cogliere alcun tratto che mi fosse personale o a cui tenessi. Non starò qui a citare frasi e commentarle, ma la mancata ristampa dell’articolo mi confermò nella mia opinione e mi causò non poca amarezza». Per uno di quei controsensi che rendono così particolare la comunità dei letterati, dopo essersi lagnato per la scarsa simpatia che l’articolo rivelava, ora si lagnava perché Cecchi non

l’aveva incluso nel libro. Forse pensava che una menzione insoddisfacente fosse sempre meglio dell’esclusione. Dove, oltre l’errore di valutazione, si manifesta la pasta tenera dell’uomo, torchiata in una spirale d’illusioni e disperazioni che richiama alla mente il fidente abbandono, sempre ingannato, di un Anton Bruckner nei confronti di Wagner. «Di giorno in giorno segue i principali scrittori, e anche molti minori destinati a non lasciar traccia, dell’ultimo ventennio», continua la lettera: «La mancata ristampa mi confermò dunque nell’opinione che per te il quadro non soffriva della mia assenza. ‘Che cosa si aspettava?’, avrai detto [...] Hai parlato bene e con apparente convinzione, nell’Europeo e nel Corriere, di persone, di cui a me riesce diffìcile scoprire, a dir poco, nulla di veramente notevole [...]. In ogni modo alla tavola imbandita della letteratura dell’ultimo ventennio [...] io non sono stato invitato. E tutto si ridurrà forse al disappunto di questo mancato invito. Un permale? Un complesso d’inferiorità? 0 soltanto un senso di giustizia offeso?».20 Quando, tre anni dopo la morte del curatore, apparve il nono volume, Il Novecento, della Storia della letteratura italiana,21 Praz non aveva più con chi lamentarsi. In una delle due paginette che gli aveva dedicato, sulle mille del volume, il defunto pontefice aveva rifritto la vecchia recensione con lo stiracchiato paragone tra La Casa della Vita e Le confessioni di un oppiomane del De Quincey, per constatare che «l’autobiografia del Praz, in gran parte, è in rapporto e funzione della sua qualità d’esperto, e delle sue avventure di collezionista di suppellettili Impero e altre curiosità ottocentesche». Ma mentre «nel caso del Quincey uno

dei principali temi del libro è altamente lirico e drammatico», in Praz «il motivo corrispondente è soltanto culturale, o più astrattamente di mera curiosità. È la smania dell’erudito e del collezionista: collezionista, si aggiunga, di una specie di prodotti artistici piuttosto modesta. Nel caso infatti dell’architettura e del mobilio neoclassico e di stile Impero, non si sa neanche, a rigore di termini, se più esattamente non si tratti soltanto di un gusto e d’una moda che di un vero e proprio stile». In queste goffe contumelie si può ammirare oggi solo la strettezza di mente, a non chiamarla ignoranza, del pontefice; poche righe dopo, un catastrofico errore di stampa, sfigurando anche il nome (“il Braz”) aggiunse al timbro vile della pagina il rintocco stonato del grottesco involontario. E tuttavia, con un abbandono assurdo al fantasma dell’amicizia mai esistita, la postfazione “Vent’anni dopo”, aggiunta alla nuova edizione della Casa della Vita, rievocava i tempi in cui il libro «concorse al premio Strega», e un articolo dove si parlava del «vecchio professore favorito dall’ambiente di Emilio Cecchi».22 Nella nuova recensione, tornai a dire che più che mai La Casa della Vita mi appariva il più importante libro italiano del dopoguerra e, nonostante le pretese «che il primo posto competa al Gattopardo, in nome di quella priorità del romanzo, che è una delle più curiose fissazioni letterarie da due secoli in qua» puntavo sulla sopravvivenza del capolavoro prazziano.23 Mi giunse una splendida lettera, dolce e velata di malinconica ironia: «Che il mio libro rimanga quando del Gattopardo non si parlerà più, è probabile per via della sua singolarità. Connolly dice, come avrai visto,24 che per fortuna i collezionisti non sanno

scrivere. Non si è mai dato il caso che uno sia stato riconosciuto scrittore in forza d’una descrizione della sua mania. È un curioso titolo alla memoria dei posteri, ma bisogna pur dire che è anche un fatto avvenuto». Il disperato guardiano del piccolo parnaso italico già da quattordici anni vagava tra le biblioteche dell’Èrebo; e tuttavia, ormai ottantenne principe riconosciuto, l’apprendista di un tempo si sentiva ancora ristretto in un’anticamera, da cui l’autorizzavano a evadere le bizzarrie di un caso singolare. Il malevolo sortilegio, sopravvivendo al suo autore, l’aveva vinta.

Uno scrittore tra Proust e Hitler

Benoist-Mèchin, compendio di un secolo

Fine del Marzo 1982. Rusconi mi aveva appena stampato La nuova immagine di Bach, le prime recensioni parlavano di «sorprese inaspettate», di «scandalo» e m’immergevo, per l’insoddisfazione del libretto appena uscito, nell’idea di continuarlo e innalzare, sopra le fondamenta dissotterrate, una salda figura intera, la vera biografia, l’umanità, il durissimo carattere, le linee dell’arte, le aspirazioni, le collere, le dolcezze, le sconfitte, le vittorie. Dovevo risolvere «tutti gl’interrogativi in sospeso», m’aveva subito intimato Lidia Storoni Mazzolani, la signora della nostra storiografìa. Cominciavo a prendere le misure dell’impalcatura, spessori, lunghezze, quando il telefono mi portò il dono inatteso: «lei Benoist-Méchin, à Paris. Bravo Piero Buscaroli, bravissimo. Votre livre La nuova immagine est une page tournée dans l’histoire de notre art... Car vous savez, moi, je suis musicien aussi...». Ottantun anni, una voce perfetta, scansione magistrale. Gli ricordai la prefazione che gli avevo chiesto, vent’anni prima, alla Cleopatra di Arthur Weigall, Cesare che non riconosce più Roma, e Roma che non riconosce più Cesare... ci presentò «Filippo Anfuso, vent’anni fa...», credo di sapere che noi non

abbiamo solo la passione musicale da condividere, ci sono molte altre cose... Risposi che avevo deciso, da pochi giorni, di allargare la nuova immagine a una grande biografia; «Connais bien, c’est l’heure de la vertige... Ma venite a Parigi, ne parliamo, vi riservo una giornata, purtroppo le mie condizioni m’impediscono di venirvi a prendere all’aeroporto... Me lo dicevo sempre mentre stendevo la biografia di Federico II di Hohenstaufen che preparavo da vent’anni, Ce livre me tuera, venez, mais vite, de mon âge, dans mes conditions, ne faut pas gaspiller son temps... Mercredi, jeudi... arrivez de bonne heure le matin...». Mi prese una ondata di commozione piacere e panico. Metti dieci anni di puerizia, quella breve dei talenti precoci. E poi trent’anni di una esistenza dove vocazioni e intenzioni, successi e delusioni si scacciano a vicenda, a gomitate, fino alle ceneri del fallimento, al silenzio. E poi, metti una condanna a morte, una commutazione ai lavori forzati “à perpétuité”, dieci anni di dura prigione, fino alla “libération conditionnelle”. E infine, metti altri trent’anni di una nuova esistenza totalmente diversa, altri oggetti, interessi, attività, sfere d’azione, meticolosamente ideata e cominciata nel carcere, da quando l’attesa della morte si è trasformata in altre attese. Ecco: senza scomporla e ordinarla in uno schema, difficilmente si entrerebbe nella vita del barone Jacques de Benoist-Méchin, una vita d’eccezione, ancor più eccezionale delle vitecapolavoro inventate nell’ottocento dall’egotismo insaziabile e appassionato che Chateaubriand e Byron scatenarono coscientemente per primi e Schopenhauer additò alla creazione individuale.

L’eccezione di Benoist-Méchin consiste nell’assenza del movente delle vite d’eccezione, l’ambizione ferocemente diretta al fine. Il giovane di gran famiglia che si crede ricchissimo e aspira a una carriera di musicista e la comincia conquistando l’amicizia di Marcel Proust ormai morente; si trasforma in agente d’un grande editore americano; poi in autorevole esperto d’arte militare e diventa lo storico «de l’Armée allemande». L’ufficiale smobilitato dopo la disfatta del 1940, l’implacabile memorialista critico e storico del disastro, il ministro per i rapporti col Reich nel governo di Pétain e infine, deluso “en retraite”, il custode involontario dell’ultimo segreto di Adolf Hitler. L’uomo della “collaboration” più ingenuamente entusiastica, la cui inutilità constata già nel 1942, e lascia l’attività politica senza poter sfuggire alla vendetta e alla punizione, non è mai mosso dalla vanità. Benoist-Méchin non ha mai progettato l’esistenza-capolavoro dei poeti della propria vita. Ne è, piuttosto, il forzato. Ha ubbidito a vocazioni molteplici che, succedendosi e attraversandosi, lo hanno spinto nella via senza uscita. La sua esistenza è straordinaria al modo che sono straordinari quei monumenti scolpiti dal giuoco naturale delle forze indomabili, i venti, le maree. Architetto n’è il Caso, il dio ignoto di quanti non hanno alcun dio. Non conosco altri esempi di una così lunga prigionia che si trasformi, per opera cosciente di chi la subisce, in scuola: a tal punto organizzata e minuziosa che, allo spirare della pena, via via ridotta con l’allontanarsi della guerra, il prigioniero è pronto a occupare un nuovo spazio vasto e preciso. Da quando la vita è salva e sa che un giorno sarà libero, si prepara e lavora a

quello che nei prossimi trentanni sarà il suo campo. Ancora una volta, il Caso: «Dopo che fui condannato a morte, la sera del 6 Giugno 1947, mi riportarono nella cella al piano terra di Fresnes, e mi fissarono ai piedi le catene che portai sessanta giorni in attesa della morte. Ne avevo viste tante, che non mi restava alcuna voglia di continuare a vivere. In quei giorni, un rappresentante dell’Esercito della Salvezza che distribuiva libri ai condannati entrò nella mia cella: “Sono desolato, non ho più niente da offrirle. Mi resta questo solo libro, ma temo che non le serva perché è scritto in inglese”. “Non si preoccupi, risposi, leggo benissimo l’inglese, me lo faccia vedere. Mi porse un libretto con la copertina rosa, Lord of Arabia, autore un certo H.C. Armstrong. Dopo che fu uscito dalla cella guardai meglio e scoprii la firma di Filippo Anfuso, l’ambasciatore di Mussolini a Berlino durante la Repubblica Sociale. Arrestato arbitrariamente dai francesi quando lo chiamarono a testimoniare sull’assassinio dei fratelli Rosselli, di cui non ebbe parte alcuna, lasciò nella cella il libretto che, raccolto dall’organizzazione pietosa, finì nelle mie mani. Fu un avviso del destino. Lo conservo come una reliquia, la prima pietra della mia nuova esistenza». Nella sua cella ha trovato una nuova ragione di vivere, «un nuovo orizzonte dove si accumulavano nuove tensioni e nuove tempeste. Il mondo arabo, a cui di fronte la nuova generazione francese avrebbe dovuto prendere posizione. Un mondo più vasto e ricco di problemi dell’antico antagonismo francotedesco che avevo creduto di risolvere con una collaborazione che si rivelò utopistica prima che la sconfitta del Reich la rendesse

impossibile. Decisi, se scampassi alla fucilazione, di dedicarmi a quel nuovo mondo. Il libretto lasciato da Anfùso m’indicava una strada». Il “Secrétaire d’Etat aux Affaires étrangères” del governo di Vichy si consacrò a quel Medio Oriente che aveva sfiorato nel 1941 quando, per favorire la rivolta dell’Irak contro gl’inglesi, aprì alla Luftwaffe gli aeroporti della Siria e nel 1942, nei pochi mesi della sua ambasciata in Turchia. «Cominciai a scrivere la biografia di Ibn Saud, il fondatore del Regno dì Arabia», leggo e trascrivo da una delle pagine che l’autore mi porge dattiloscritte e usciranno postume nel 1989. «Mi aiutarono il libretto rosa di Anfuso, la bontà di alcuni amici e la devozione di mia madre, ottantacinquenne». Grazie a lei e agli amici che gli riempirono la cella della necessaria documentazione, il barone galeotto lavorò con tale accanimento che, «senza la tortura del telefono e visite inopportune», come disse sorridendo, riuscì a finire l’opera più minuziosa mai dedicata a una sola battaglia, Soixantejours qui ébranlèrent l’Occident, tre grossi volumi dedicati al crollo della Francia, 10 Maggio-10 Luglio 1940.

*** Accanto alla monumentale liquidazione della rovina nazionale, nacquero anche i due primi libri sul mondo nuovo che cominciava a esplorare. «Mi parve urgente cancellare il disprezzo che i francesi nutrivano per gli arabi e sostituirlo con simpatia e comprensione. Il genio politico, la sostanza umana, e l’ardore di fede facevano dell’unificatore dell’Arabia un perfetto

esempio». In dieci anni di operosa solitudine la forza del lavoro aveva rovesciato la sua condizione. La cella fu officina di rinascita. Quando lo liberarono nel 1954, oltre ai Soixantejours e alla biografia di Ibn Saud, ne aveva pronta un’altra su Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna. Non usciva dal carcere il solito fantasma vinto, ma un uomo rifatto da capo a cinquantatrè anni, addestrato a dominare una storia diversa, saldamente piantato nel mondo che si trasformava e lui aveva contemplato dietro le sbarre e i mari. Un prodigio, mai accaduto prima. Pubblicate l’una dopo l’altra, 1954 e 1955, le due biografie, Mustapha Kemal ou la mort d’un Empire, e Ibn Séoul ou la naissance d’un Royaume, trovarono immediata accoglienza. «Nessuno nel nostro Paese avrebbe potuto offrirci un simile libro su nostro padre», disse Re Fuad. Si stabilì tra i competenti la fama di un islamista di tempra sconosciuta, i cui consigli, più che soltanto ascoltati, furono sempre più richiesti. «Ancora più incredibile», scrive Eric Roussel nella prefazione alle Memorie, incomplete e postume (À l’épreuve du temps, Julliard, 1989), «Benoist-Méchin ritrovò una posizione semiufficiale attraverso missioni discrete, condotte in accordo col Quay d’Orsay». Nel 1957, a 56 anni, volle conoscere i paesi che aveva studiato in cella e compì un periplo, «più di diecimila chilometri», dall’Egitto in tumultuosa trasformazione alla Giordania, all’Irak, alla Siria, all’Arabia Felice, agli Emirati assisi sul tesoro del mondo; «tra gli umili fellah e i sovrani fastosi, ospite di tre re, due presidenti di repubblica, tre principi ereditari, sei capi di governo, ventidue ministri, trentacinque emiri, una cinquantina

di ambasciatori, in città e deserti, oasi e foreste, ardenti sabbie e cime coperte di neve, vestigia delle più antiche civiltà e stupefacenti realizzazioni contemporanee, è questo che si chiama viaggiare!», prorompe l’ex condannato a morte contemplando la metamorfosi delle sue fortune dalle prime righe di Un Printemps arabe (Albin Michel, 1959), il primo suo libro che ho letto, che di quel viaggio fu succoso fortunato compendio. Si disse, dopo il ritorno al potere del generale De Gaulle, che lo storico dell’Armata tedesca e della rinascita araba fosse regolarmente ricevuto e consultato dal fondatore della Quinta Repubblica, sugli affari dell’oriente Medio. Benoist-Méchin lo smentisce, ma gli ambasciatori francesi tornavano a chiamarlo ministro come a Vichy, e molte missioni ufficiose gli furono affidate. Dopo la sciagurata spedizione di Suez (1956), richiamati gli ambasciatori, il gelo regnava tra il Cairo e Parigi, e Nasser [per favore, non scriva da chi consigliato] scelse l’antico collaborazionista per trasmettere a De Gaulle un segnale: porre fine alla strage d’Algeria con quella che De Gaulle chiamò, nella dichiarazione del 25 Ottobre 1958, “la paix des braves”. E allora si vide l’intransigente homme de droite separarsi dalla destra classica, proprio la destra dei “braves”, i legionari d’Africa che credevano ancora di combattere e morire, duce De Gaulle, per rAlgerie française. Ma i conti col passato non erano chiusi. Ai due volumi che aveva scritto Sull’Armata tedesca prima della guerra (avevano avuto una traduzione italiana, che talora si trova nei cataloghi dei libri usati) Benoiste-Méchin ne aggiunse altri quattro; fino al

1939. Del nuovo massacro narrò soltanto il prologo, Le Défi. Poi, «siccome il filo delle Parche si consumava veloce», si concentrò sulle vicine memorie, De la défaite au désastre, il regime di Pétain e la Collaboration. Due volumi che mi lasciò sfogliare dattiloscritti e apparvero postumi, 1984 e 1985. E infine all’autobiografia, À l’épreuve du temps (Due volumi in-8°,pp. 840) apparsa nel 1989, e, con speciale passione, alla biografia, accumulata nell’intera sua esistenza, di Federico II, «il più grande dei tedeschi, spero che Bach e Beethoven e Wagner non ci ascoltino, lo stupor mundi». Questo libro mi ucciderà, diceva, e il destino tenne fede; appena l’ebbe completato, una “congestione cerebrale” lo atterrò lasciandolo senza poter leggere né scrivere, solo con l’adorata musica fino alla morte, il 24 Febbraio 1983.

*** Nelle pagine dell’incompleta Épreuve si celava, sotto il titolo Autopsie d’une défaite, il racconto che nel Dicembre 1943 andò a fargli, a Parigi, il generale Rudolf Schmundt, primo aiutante di campo del Führer, che sarebbe morto l’anno dopo per le ferite riportate nell’attentato del 20 Luglio 1944. Schmundt gli rivelò che non due ma tre furono i colloqui che Hitler ebbe col generale Paulus durante l’assedio di Stalingrado. Del terzo e ultimo, non registrato dagli stenografi dello Stato Maggiore, «io solo sono stato testimone, non so se arriverò a raccontarlo nelle memorie che scriverò un giorno: sono un soldato, posso morire da un momento all’altro, sarebbe un peccato se io sparissi senza che ne restasse traccia...».

«Non aveva torto, vedrà», mormora guardando fuori dai vetri, «rivelare quanto mi disse, mi libera dell’impegno che presi con lui». Non resistè, tuttavia, a chiedere al Generale, per cui nutriva una decisa simpatia: «Come mai una tale prova di fiducia, proprio a me? Non ne vedo la ragione... Il Generale mi parlò allora della mia persona, dei miei lavori, in termini tanto lusinghieri, che avrei qualche scrupolo a ripeterli nel nostro colloquio». Lo stupore di Benoist-Méchin si comprende, e meglio ancora si comprende che, cercando a chi affidare, a futura memoria, la sua testimonianza, Schmundt scegliesse proprio lui. Ancora il Caso, ma un caso in cui si compendiano i caratteri eccezionali d’una eccezionale esistenza. Quelli stessi che obbligano il visitatore di quel giorno, “camerata des idées et de musique”, a trasmettere il segreto che Schmundt affidò a Benoist-Méchin, dopo aver finito di ritagliare l’intero spazio di questa straordinaria figura. Non poteva, il Generale, affidare a un altro tedesco il segreto di Stalingrado. Il ministro in ritiro per delusione gli apparve il più degno degli amici. Era stato il più ardente e ingenuo dei “collaborateurs” che il Reich ebbe tra i francesi, così mal ripagando le loro speranze. Sempre sentirono, i più distinti tedeschi mandati durante l’occupazione a conquistare i cuori francesi, da Otto Abetz a Ernst Jiinger, lo scrittore che la Wehrmacht rimise in uniforme a questo scopo, quanto diffìcile fosse conquistare l’intelligenza francese, nauseata degl’inglesi e indifferente agli americani. Ma poco poterono, seppur abili e volonterosi, quando si trovarono a Parigi, di fronte all’ottusità e all’egoismo con cui la gente di Berlino rispose a quelle speranze.

Accusato di «intelligenza col nemico», Drieu gridò, prima di uccidersi, «Peccato che il nemico non fosse intelligente». Jacques de Benoiste-Méchin trasse eguali conclusioni, uscì dal governo nel Settembre 1942, lasciò il gruppo di mediocri cortigiani opportunisti stretti intorno al Maréchal. Alla sua “collaboration” impetuosa e ardente, tesa nel sogno di un’Europa davvero nuova, Berlino rispose con la stessa ottusità che Napoleone aveva opposto alle speranze d’Europa. Deluso di Berlino non meno che di Vichy, aspettò la fine nella sua casa di Avenue de Clichy; non fuggì, non si nascose, pronto a pagare quel che gli pesava, «non come un tradimento mai commesso, ma come un errore di ottica e prospettiva, consumato nell’illusione». Poche possibilità gli apparivano, in una ferocia simile a quella che si vide da noi, di sfuggire alla morte.

*** Al processo non si battè per salvarsi la vita. Tentò di far capire ai giudici, alla Francia, che cosa era accaduto, e perché. Lo storico Benoist-Méchin tentò di spiegare il collaborazionista Benoist-Méchin. Fu uno dei rari collaborazionisti d’alto rango che difendesse l’onestà logica delle sue scelte. Tenne testa ai giudici, metro per metro. Ammise ch’era stato un errore credere di poter far trionfare un punto di vista trovandosi del tutto disarmato. Non pago di “salvare il mobilio”, aveva nutrito l’ambizione di tracciare una nuova politica per la Francia nella prospettiva di una Germania vittoriosa. In altre parole, elevò il rango intellettuale della sua collaborazione, aggravando nel

contenuto le sue responsabilità. Non avrebbe potuto essere più chiaro, e difatti un’Alta Corte dominata dai comunisti lo condannò a morte. De Gaulle, che pure aveva fatto acquistare, nel 1945, cinquecento esemplari dei due volumi già usciti dell’Histoire de l’Armée allemande perché gli ufficiali superiori imparassero a ragionare con la storia, l’avrebbe lasciato al prediletto plotone d’esecuzione; ma l’avevano scacciato dal potere di cui s’era impadronito dietro inglesi e americani, e al suo posto c’era Vincent Auriol, non solo mite ma anche ragionante, che gli commutò la pena nei “lavori forzati à perpétuité”. Una condanna eseguita esemplarmente col lavoro di dannato che ho detto. Dovrei rimettere ordine in queste carte e por loro in cima, anzi che nel fondo, i primi quarant’anni, che ho sorvolato nella furia, il ritmo dell’incontro e della rivelazione. Ma così è andata, e così la lascio. Jacques de Benoist-Méchin: nacque a Parigi il 1° Giugno 1901. Nacque coiffé, con la camicia, diremmo noi. Il bisnonno fu barone dell’impero e governatore, per Napoleone, della Renania (l’Allemagne, déjà...). Suo padre dilapidò immense fortune tra fastosi viaggi asiatici, avventure amorose e speculazioni sbagliate. Il bambino ne trasse un’ammirazione distante e dolorosa come quella della mamma, una provinciale di modesta estrazione, presto trascurata e dimenticata. Gli amici che lo conobbero bene sostengono che la pietà per la madre che adorava e la delusione del padre si unissero per determinare nel ragazzo una vocazione mai raccontata di omosessuale. Nei collegi eleganti di Svizzera e Inghilterra apprese l’inglese, il tedesco e la musica, la sua prima passione di adulto. Allievo in

composizione di Vincent d’Indy, esordì come direttore d’orchestra, presente il maestro, con l’Eroica di Beethoven. Chiamato alle armi nei primi anni Venti, interprete presso i comandi d’occupazione nella Ruhr e Alta Slesia, fu subito affascinato dalla cultura tedesca e disgustato dalla brutalità e illegalità dell’occupazione francese. In quei tempi si lega d’amicizia col filologo di Marburg, Ernst Robert Curtius, che lo incita a osare una lettera a Marcel Proust, se autorizza una traduzione della Recherche in tedesco. Fulminea la risposta, Proust accetta, e subito dopo gli manda altre tre lettere che testimoniano l’ultima sua passione, le leggi dell’ereditarietà, «quella specie di somiglianza che fa dei figli i simulacri dei genitori». Ancora il Caso vuole che Jacques coltivi, in modo ancora più complicato, la stessa mania, e risponde a tono. Alla simpatia epistolare segue l’incontro, appena tornato a Parigi, con lo scrittore prossimo a morte, a mezzo Giugno del 1922. Non soltanto Proust autorizza la traduzione, ma ascolta, in silenzio, i racconti del giovane sulla ferocia dei comandi francesi contro la gente tedesca. Si lascia interrogare sulla musica e i suoi misteri, più affascinanti di quelli religiosi. «La musica è il vero mistero». Ecco il filo che ormai li lega e la morte spezzerà il 18 Novembre. A ventiquattro anni pubblica la relazione dell’incontro, che gli dà immediata fama. Resterà il suo solo scritto di pura letteratura. L’enigma che Proust ha lasciato ai musicomani, la Sonate di Vinteuil, divampa trasformando il saggio in un permanente, tuttora attivo, mistero della musicografia. Il Vinteuil del Temps perdu non è questo o quel musicista, più o meno mescolato col romanziere, ma «l’immagine ideale che

Proust si è fatta di uno, la cui vocazione sia l’esprimersi a mezzo dei suoni e che, scoprendo le leggi segrete d’una forza sconosciuta, penetri l’inesplorato, verso il solo traguardo possibile, l’invisibile attracco che lo ricondurrà alla sua patria perduta»; così Philippe de Saint-Robert tenta di spiegare «l’estetismo di Proust, l’arte sostituita alla religione, l’illusione d’immortalità che l’arte offre, di acquistare uno spazio di vita eterna. Quel che distingue l’arte vera dalle contraffazioni, scrive Benoist-Méchin a proposito di Proust è, nel significato forte del termine, una resurrezione. La Bellezza coincide con questo miracolo, e procede, in Proust, attraverso quella che BenoistMéchin chiama l’allusione musicale: “Les comparaisons tratte dal linguaggio dei suoni si accumulano a un tal punto, nella Recherche du temps perdu, che diventa difficile dire dove comincia la musica [...]. La musica impregna così a fondo il suo stile, che bisogna andarla a cercare all’interno di ogni frase. E ciò ci rimanda sia all’antifonario gregoriano, che a questa o quella frase del Tristano o del Fidelio, una musica sempre grave, che strappa l’anima alla terra, che la eleva senza mai estirparla da una sensibilità che resta sempre carnale». In tale ambiguo bagno misteriosofico mi sono sempre apparsi i tentativi, rari eppure costanti, di ampliare i significati e i traguardi di quel saggio ancor oggi famoso. Per parte mia, non ho cercato di spingere l’interlocutore ch’ebbi per poche ore a disposizione, a fornirmene altri. Meglio lasciare Vinteuil al suo Proust, e il saggio di Benoist-Méchin al suo posto, unico e famoso. E alla categoria, alquanto inferiore, dei musicologi(25).

All’improvvisa morte del padre, il figlio e la moglie scoprono che li ha lasciati in rovina. Vendono la dimora fastosa e si ritirano in Avenue de Clichy, una casa più modesta alle soglie della campagna. Ma Jacques è sempre nella lista dei nati coiffés e quando cerca un lavoro, il capriccioso giornalista-editore William Randolph Hearst, che nella Guerra mondiale era stato francamente germanofilo, gli affida la sua agenzia di Parigi. Per quella viaggia in cerca di contratti, d’Annunzio lo riceve al Vittoriale, nel 1926, come un amico, e gli dona un pugnale con dedica sull’acciaio. Disegna per Hearst una bizzarra villa, “gotica” come l’editore la vuole. Poi si stanca dei suoi capricci, si fa giornalista in proprio e Louise Weiss lo fa direttore dell’Europa nouvelle: «Era musicista fino alle unghie, cultura fenomenale [...]. Debbo alla sua conoscenza del mondo germanico, alla sua intuizione, se ho presentito, anni prima degli altri, che Hitler ci avrebbe schiacciato». Fu negli anni Trenta che Benoist-Méchin imboccò, «come tante intelligenze della sua generazione, la strada che doveva essergli fatale», dice Eric Roussel. Segretario generale di un grande quotidiano, l’intransigeant, prova, senza nasconderla, l’attrazione del nazionalsocialismo. Cosciente della debolezza francese, preoccupato della potenza militare nascente oltre il Reno, si persuade che la Francia potrà fronteggiarla solo ripudiando la democrazia parlamentare per un regime autoritario pari all’avversario. Insieme con magistrali traduzioni di autori tedeschi e inglesi, tra cui Joyce, pubblica in quegli anni i due primi volumi della Histoire de l’Armée allemande, che suscitano

immediata sensazione. Più che una storia dell’Esercito tedesco, è un’interpretazione-divinazione di quanto sta per accadere. Il maresciallo Pétain lesse quei libri nel 1936 e quattro anni più tardi, innalzato dal disastro ai vertici della Francia sconfitta, farà cercare l’autore. Avrà bisogno, nel suo governo, di un uomo che conosca il vincitore, abbia la sua stima, ne sia amico e non servo, e possa tenergli testa.

*** Il destino del politico tradito dalla sua illusione suggellò la profezia del fortunato scrittore. E fu, ancora una volta, lo scrittore tenace, immaginoso e preveggente, a salvare il politico sconfitto e caduto in carcere. Per la sua tomba Jacques de Benoist-Méchin scrisse un’epigrafe di taglio stendhaliano: «Cigit un coeur / qui aima pardessus tout / les armées, les jardins, / la musique».

Stalingrado, un sortilegio

È una bizzarria del secolo che lo stesso personaggio, musicista, storico e politico, raccogliesse le estreme confessioni di Marcel Proust e custodisse, trasmesso dal solo testimone, il segreto di Stalingrado, il colloquio tra Hitler e Friedrich Paulus al Quartier Generale, nell’imminenza della resa. Una coincidenza da ricordarne un’altra: che Proust e Hitler amarono, sopra ogni altra opera d’arte, la Veduta di Delft, di Vermeer. Nelle memorie postume, À l’épreuve du temps (julliard, 1989) intitola Autopsie d’une défaite il racconto che il tenente-generale Rudolf Schmundt (n.1896) “Chefadjutant della Wehrmacht presso il Führer”, [morì, il 1° Ottobre 1944, delle ferite del 20 Luglio], andò a fargli a Parigi nel 1943. Darò un riassunto di quell’unica testimonianza sul sortilegio di Stalingrado. Da quindici mesi lo scrittore, lasciato il governo di Pétain, si era ritirato nell’Avenue de Clichy a riordinare libri in progetto (26) e ascoltare musica. Deluso dei vinti domestici e del vincitore che aveva salutato amico, si asteneva dal frequentare tedeschi. Tanto più lo stupì una telefonata di Schmundt che aveva incontrato al Berghof quando era andato da Hitler nel 1941. Il Generale chiedeva un colloquio personale e Benoist-Méchin propose, secondo il Galateo di simili casi, il salone del Ritz. Ma il

Generale preferiva “un luogo più discreto” e andò a casa sua. Appena entrato, abbordò senza preamboli l’oggetto della visita: «Ha sempre l’intenzione di continuare l’Histoire de l’Armée allemande ?» «Certamente, ma è un lavoro schiacciante, ho l’impressione che questa storia non finirà mai...». La risposta di Schmundt, “Benissimo, questa è la causa della mia visita”, suscitò nel francese il timore che l’aiutante di campo del Führer volesse intromettersi, quasi un controllo. Ma lo scopo era tutt’altro: «A prima vista, sembra strano che sia un francese a scrivere una simile opera. Ma, a guardar meglio è preferibile. Ci sono cose che un tedesco non saprebbe scrivere. Come aiutante di campo del Führer, ho assistito a scene straordinarie, senza le quali molti aspetti della guerra rimarranno incomprensibili, nessuno ne capirà mai nulla. Penso ai tre colloqui tra Hitler e il generale Paulus durante la battaglia di Stalingrado. Sarebbe un peccato che io sparissi senza che ne restino tracce». Benoist-Méchin osservò che le conversazioni del Führer erano sempre stenografate. «Non sempre, quando si trattava di tête-à-tête», corresse Schmundt. «Gl’incontri furono tre: due verbalizzati, non il terzo, di cui fui unico testimone. Ne parlerò un giorno, nelle mie memorie, ma chissà quando. Sono un soldato, posso morire da un giorno all’altro. Chiedo soltanto di non pubblicare quanto sto per dirle prima che la guerra sia finita, e di non citare la fonte”. La fine di Schmundt, l’anno appresso, e il corso degli eventi persuasero Benoist-Méchin, quarant’anni più tardi, a ritenersi “libero del secondo impegno”». - «Bene, l’ascolto, mi lasci prendere carta e matita».

- «Intorno al 22 Novembre 1942, dopo che le armate dei generali Wassiliewski, Vatutin, Jeremenko e Rokossowsky ebbero accerchiato la Sesta Armata, il generale Paulus saltò sul suo Fieseler Storch e volò al Quartier Generale. La sua esposizione si chiuse con queste parole: “Mein Fiihrer, se mi autorizza a ritirarmi immediatamente, m’impegno a spezzare l’accerchiamento salvando tutti gli uomini e i materiali. Tra pochi giorni sarà impossibile”. Hitler rifletté, fece chiamare Goering e Bodenschatz, scrutò le carte e domandò se la Luftwaffe poteva assicurare il rifornimento dell’Armata fino a quando fosse pronta l’offensiva di liberazione, affidata al maresciallo Manstein. Dopo una trattativa “quasi commerciale”, senza dar peso all’incredulità del generale Zeitzler Capo di Stato Maggiore dell’Esercito (l’Esercito, e non l’OKW, aveva esclusiva competenza sul fronte orientale, Nota mia), Goering assicurò 500 tonnellate giornaliere invece delle 700 richieste da Paulus. Hitler si volse a Paulus e scandì: “La Sesta Armata è un catenaccio. Se salta, i russi si precipiteranno su Rostov, i gruppi d’armate Manstein e Kleist saranno travolti, dovremo sgomberare il Donez e il Caucaso. Ma il Donez è il carbone, e il Caucaso il petrolio, non potremo continuare la guerra. Sarebbe un colpo mortale per il popolo tedesco. Aggrappato a Stalingrado, lei immobilizza sei armate sovietiche. Le ordino di restare sulle posizioni senza cedere un pollice. Ogni giornata guadagnata è una vittoria”». Il comandante della Sesta Armata risalì sulla Cicogna e tornò nella sacca. «Alla fine di Dicembre le maglie più deboli, l’ottava Armata italiana e la Terza e Quarta romene, sono sfondate. Il perimetro

della sacca è dimezzato, Paulus ritorna dal Führer: “La situazione precipita, se mi autorizza a ritirarmi subito, potrò ancora salvare gli uomini, renderemo inutilizzabili i materiali. La ritirata offrirà grandi vantaggi, accorcerà il fronte e i 280.000 uomini risparmiati le permetteranno di riprendere l’offensiva in altri settori...”. Hitler tornò a chiamare Goering, gli mostrò il perimetro ridotto e domandò se gli aerei della Luftwaffe potessero ancora atterrarvi e scaricare materiali. “Sarà difficile”, rispose il Maresciallo del Reich, beccandosi una furiosa replica: “Non le domando se è difficile, ma se è umanamente possibile”. Goering non resse a quella furia: “Mein Führer, la Luftwaffe farà un suo punto d’onore assolvere a questa missione». Era uno di quelli che, in età barocca, Philipp Spener, fondatore del Pietismo, chiamò “pia desideria”. Hitler lo prese per una promessa: “Ha sentito il Reichsmarschall? La Luftwaffe assicurerà il vostro rifornimento. Torni a Stalingrado, non ceda un metro. Battetevi fino in fondo, Manstein verrà a liberarvi”. Paulus tornò, dopo il 20 Gennaio l’inverno divenne terribile, temperatura a 35 sotto lo zero, le tempeste di neve non lasciavano venti metri di visibilità, gli Junker 52 vagavano senza trovare gli atterraggi. I soldati, cui quelle ali erano l’ultima speranza, sentivano i motori ruggire sopra le nuvole. Poi quel ruggito si spense e fu il silenzio. I russi conquistarono l’aeroporto di Pitomik con gli ultimi carichi. Recisi i legami, l’Armata non ebbe più viveri né munizioni, i medicamenti finivano, il freddo incrudiva le ferite, gli uomini morivano a migliaia congelati. Il 24 Gennaio Paulus trasmise: «Truppe senza munizioni né alimenti. Sei divisioni ridotte a monconi. Segni di disgregazione

sui fronti Sud, Nord, Ovest. 18.000 feriti senza cure, medicinali esauriti. Fronte scompigliato da numerose infiltrazioni nemiche. Punti d’appoggio e ripari solo dentro la città. Crollo imminente. Per risparmiare vite l’Armata chiede autorizzazione capitolare. Firmato: Paulus». L’indomani, il veto: «Proibisco capitolazione! L’Armata terrà le posizioni fino ultimo uomo e ultima cartuccia. La sua resistenza darà contributo imperituro alla costituzione di un fronte difensivo e salvezza dell’occidente. Firmato: Hitler». Senz’aspettare che ulteriore diminuzione dello spazio impedisse il decollo del suo aeroplanetto, Paulus tornò al Quartier Generale. «Di questo terzo incontro, che rimase rigorosamente segreto, fui il solo testimone», disse Schmundt: «Mein Führer, implorò Paulus, la prima volta che sono venuto qui, la informai che ritirandomi in tempo avrei salvato uomini e armi. Lei ha rifiutato. La seconda, le dissi che potevo salvare gli uomini. Sono allo stremo, Lei non può immaginare le loro sofferenze in questo inferno di ghiaccio e di fuoco. Sono ancora quasi 250.000. Prolungare la loro agonia non ha più alcun senso. Mi permetta una resa onorevole». «Il Führer lo fissò a lungo, poi ruggì: “Proibisco ogni resa, mi ha capito? Ogni soldato che si arrende è un traditore. Aggrappatevi alle posizioni, battetevi fino all’ultimo respiro, e poi morite sul posto!». Pallido, Paulus gridò: «Questa ecatombe non servirà a nulla. Lei condanna a morte 250.000 uomini che hanno fatto tutto il loro dovere. Per il soldato che io sono, è un atto che nulla giustifica. Non La capisco!» Livido alla sua volta, Hitler urlò: «Lei non mi capisce, nessuno può capirmi, perché

nessuno può mettersi al mio posto. Ogni generale vede soltanto il suo settore. Io vedo l’insieme, dal Capo Nord all’Africa, dalle Fiandre al Caucaso...». Paulus lo interruppe: «Io capisco soltanto che Lei condanna a morte 250.000 soldati senza colpa. Abbia almeno pietà delle famiglie, dei loro figli...». «È proprio perché penso ai loro figli, che ordino di morire sul posto!», gridò Hitler, e senza dargli il tempo di rispondere: «Non ho mai impartito un ordine che non fossi pronto a eseguire di persona. Semplice staffetta, nell’altra guerra, mi offrii sempre volontario per le missioni più pericolose. Lei non sa di quale bronzo sia fuso. Non capitolerò mai, non cadrò mai vivo nelle mani del nemici, quanto chiedo agli ufficiali e soldati della Sesta Armata lo farò io stesso se le circostanze lo richiederanno», e poi, a voce bassa e calma: «Mi ascolti, Paulus. La guerra è crudele. Si muore ogni giorno, a una svolta di strada, in fondo a una buca. Quei morti, io li compiango. Non si compiangeranno mai abbastanza i morti anonimi, tre mesi dopo nessuno li ricorda fuori delle famiglie. Mentre morire a Stalingrado vuol dire coprirsi di una gloria indistruttibile, se ne parlerà nei secoli. Perché? Perché Stalingrado è il punto più avanzato che il sangue germanico ha raggiunto avanzando verso Oriente. È una vetta della storia, un promontorio sacro. Tutti i figli dei caduti hanno diritto d’esser fieri dei loro padri. I figli dei morti a Stalingrado ne avranno diritto doppio perché le loro sofferenze sono state più grandi, e perché sono morti alla congiunzione dell’Europa con l’Asia. Il loro sacrificio mostrerà a quali impensabili altezze possano arrivare la durezza e il coraggio della nostra razza. Qualsiasi cosa accada, Stalingrado sarà una vittoria tedesca! E se

il dio della guerra ci obbligherà a abbandonare la terra, i duecentomila morti di Stalingrado resteranno piantati, in fondo alla steppa, come fari nella notte. I loro figli avranno una sola ambizione, raggiungerli. Andrò più lontano. Se saremo battuti e il Reich crollerà, sorgerà un altro Reich, cui il nome Stalingrado sarà un nome magico, gli uomini si ridiranno: i nostri avi sono stati laggiù, non possiamo essere da meno. Torneranno per testimoniare al mondo che i soldati del 1943 furono la loro avanguardia. Adesso capirà perché le dico: non capitolate, morite sul posto!». «Hitler tacque, sfinito», disse Schmundt sfinito alla sua volta. Io non sapevo se Schmundt potesse capire quel linguaggio di visionario... Pensava, lo vidi nel suo sguardo, che il Führer fosse impazzito. Ma aH’improwiso, mi vidi davanti un uomo trasformato: «Lei non può credere quale potenza di fascinazione il Führer può irraggiare. Nessuno resiste, io neppure... Paulus non aggiunse molto, risalì sull’aeroplano, verso l’inferno». «Hitler era sicuro di averlo convinto. E tanto più sicuro ne fu l’indomani, quando ricevè questo messaggio radio: “Al Führer! La Sesta Armata saluta il suo Führer nell’anniversario dell’ascesa al potere. Possa il nostro sacrificio essere esempio ai vivi e alle generazioni future e insegnare loro a non arrendersi mai, neppure alla disperazione, perché allora la Germania vincerà. Heil mio Führer! Paulus, Colonnello Generale. Il giorno dopo, 30 Gennaio, cadevano dieci anni dall’ingresso di Hitler alla Cancelleria. Partirono gli ordini ai resti delle divisioni: «Nessun documento, nessuna arma cada in mano al nemico. Tutto deve essere distrutto».

*** Si udirono gli ultimi messaggi, lanciati da posizioni isolate: «31 Gennaio, le 12,30, forze nemiche davanti alla porta. 19,40, molti soldati vaganti, pochi combattono, carri russi fanno irruzione, è la fine. 1° Febbraio, le 5,45.1 russi davanti al Bunker, facciamo saltare. Questa stazione non trasmetterà più...”. L’ultima voce, solitaria: “2 Febbraio, h.12,45. Nuvole a 5000 metri, visibilità 12 chilometri. Piccole nubi isolate. Nulla si muove più. Fine del servizio meteo. Salute a te, o Patria!». Il Generale s’interruppe, bevve un sorso d’acqua: «Bisogna ricordare che il giorno avanti Hitler aveva promosso Paulus feldmaresciallo. Sa perché? Perché nella nostra storia mai un maresciallo tedesco aveva capitolato sul campo. Era un modo di dirgli: Lei sa che cosa mi aspetto...» «Il 2 Febbraio Mosca trasmise: Paulus aveva capitolato. Più di 107.000 soldati si erano arresi ai russi, Maresciallo in testa. Che cosa era accaduto? Credo di averlo capito. Accadde che quando si ritrovò davanti ai suoi soldati, fantasmi tra le rovine, Paulus non resistè. Il sortilegio emanato dalle parole del Führer si era dileguato. Doveva ordinare a quegli uomini di morire. Un ordine criminale, si disse. Non l’avrebbe eseguito». Nessuno osava portare al Führer la notizia terribile. Se ne incaricò, infine, lo stesso Zeitzler. Hitler ne rimase atterrato: «Non capisco perché Paulus ha accettato di darsi prigioniero», gemette. «Aveva la scelta tra la morte e l’immortalità, e sulla soglia dell’immortalità ha mollato, ha scelto la prigionia. È

incomprensibile. La Sesta Armata non è morta. Zeitzler, trovi altre forze, la ricostituisca». Schmundt concluse: «Quel che costernava Hitler, più che la battaglia perduta, era la distruzione del mito: “Le unità della Sesta Armata svaniranno nella steppa e nella prigionia, non tornerà nessuno”, ripeteva di continuo. “E questo ha fatto Paulus, un uomo che aveva tutta la mia fiducia avevo pensato a lui come Capo di Stato Maggiore. Non ha capito che cosa mi aspettavo da lui... Non ha capito...”». Hitler aveva sempre diffidato della casta militare, così la chiamava. Diceva ch’era tiepida, senza immaginazione. Da allora, la diffidenza divenne morbosa”. Spossato, Schmundt rimase un lungo momento in silenzio. Poi, a voce bassa, come parlando a se stesso: «E adesso, che cosa accadrà? Nessuno può saperlo, le vie del Signore sono impenetrabili».

Due ritratti dalle Memorie di Jacques Benoist-Móchin

Proust, 1922 Entrai in una stanza tappezzata di moire amaranto dove regnava un’oscurità che sarebbe stata completa se in un angolo non avesse bruciato una piccola lampada da comodino velata da un abat-jour di taffetà rosa. Per aggiungere ancora qualcosa al mio disorientamento, l’aria era impregnata d’un odore di fumigazione che dava una terribile impressione di chiuso, odore di benzoino e melaleuca. Ci vollero alcuni secondi prima che gli occhi si adattassero a quella penombra. Allora scorsi l’autore di Un amour de Swann. Allungato su un canapé, le gambe coperte d’un plaid scozzese, indossava uno smoking, il cui scavo lasciava intravedere uno sparato inamidato. Benché rasato, le guance avevano un colore carbonioso, e la mano che mi tese era guantata di grigio. La mia delusione era immensa. Dov’era l’atmosfera primaverile di cui la fantasia aveva avvolto il più grande romanziere del nostro tempo? Dove i biancospini di Combray, i meli di Méséglise,la brezza marina che carezzava la spiaggia di Baalbek? Quale abisso, dal focoso cavaliere che mi ero preparato a vedere, a questo mago assiro con le palpebre cascanti, che mi rivolgeva una voce soffocata! Ma, d’un colpo, scoprii i suoi occhi. Due occhi di velluto scuro, profondi e penetranti, due occhi splendenti d’intelligenza,

soltanto paragonabili a quelli di certi animali, il cui potere visivo cresce col declino del giorno. Affascinato, compresi: l’ombra moribonda che mi fissava non era un malato come gli altri. Era tutto quanto rimaneva di un uomo che deliberatamente aveva sacrificato la vita alla sua opera, lasciandosi letteralmente divorare da quella... À l’épreuve du temps, vol. I, pp. 149-50.

Hitler, 1941

Una guardia scostò la tenda per farci passare e, come su una scena di teatro, scorsi il Führer in piedi, al centro dell’immensa sala di lavoro. L’ammiraglio Darlan, Ribbentrop, l’ambasciatore Abetz e l’interprete Schmidt stavano in semicerchio attorno a lui. La sola presenza di Hitler li rendeva insignificanti. Trovarsi davanti un essere irreale e più reale degli altri, aveva qualcosa di sconcertante. Diritto, immobile nella tunica feldgrau e pantaloni neri, senz’altre decorazioni che la croce di ferro di prima classe, le mani congiunte, lo sguardo assente, pareva a mille leghe dagl’interlocutori. Se ne irraggiava un miscuglio indefinibile di potenza e di solitudine. “Un uomo a parte”, nel senso più forte della parola. L’ambasciatore Abetz mi presentò. Era meno alto che non apparisse alla tribuna, i capelli di un castano più chiaro che non credessi. E gli occhi. Due occhi così affascinanti, che altro non vidi di lui, erano di un azzurro chiaro e trasparente, appena striati di grigio, di nero, di giallo. Sembravano senza sguardo e come privi di vita. Ma subito si era costretti a correggere questa impressione. Ciò che creava tale sentimento di vuoto era la loro fissità. Si sarebbe detto che le pupille, invece di scrutare il

mondo, fossero rivolte verso l’interno, a seguire uno spettacolo che si svolgeva nel fondo di lui stesso. Contrariamente alla maggior parte delle persone, il cui sguardo si posa su di voi, o addirittura vi attraversa, il suo pareva succhiarvi in lui e attrarvi lentamente nel suo mondo interiore. Se ne provava, a poco a poco, una specie di torpore mentale, cui si riusciva a sottrarsi solo con uno sforzo di volontà... À l’épreuve du temps, vol. II, pp. 122-123

IL MIO VIETNAM

IL GENERALE WALTERS

«La guerra di Spagna», scriveva Franco Cardini il 12 Settembre [1977]. Nel carnevale delle rievocazioni che sopperiscono allo sciopero della storia, «nessuno se ne ricorda. Mica roba da niente». Eppure, dice Cardini, «è notte e nebbia. Come spiegare il silenzio?». Il titolista scantona: «Uno scomodo anniversario». Scomodo perché? Perché, allora, i nemici dei comunisti vinsero, e oggi perdono. Ho in serbo un giudizio prezioso, intatto come la mosca nell’ambra. Quando lo annotai nel taccuino non potei adoperarlo. Era una di quelle informazioni che il gergo americano definisce off thè record, private, confidenziali. Chi infrange la regola, prima o poi la paga. Tuffo le mani in una delle grandi buste dove ficcavo alla rinfusa i materiali d’un viaggio, taccuini, conti d’albergo, lettere, accrediti alle società telegrafiche e aeree, militari, fotografie. La marea di carte m’invade le scrivanie. Vecchie trent’anni, eppure sveglie, invadenti, il venticello dalla finestra aperta le fa svolazzare come farfalle. Nel Sudest asiatico la carta è

frusciante, instabile, trasparente. Turbinano, quasi foglie d’una sibilla resuscitata dal suo mito. Una cascata di Vietnam. Il mio Vietnam. Leggo qua e là, non ricordo quasi nulla. Passai laggiù sei mesi, in sei estati. Dal 1965 al 1967 ogni anno. Il 1968 andai a Parigi poi Praga e dintorni. Tornai, ad anni alterni. All’orrenda fine non c’ero. Dico orrenda non perché mi dispiaccia la sconfitta americana, ma per come loro, i padroni del mondo, abbandonarono al martirio gli “amici” che in loro avevano creduto. Non vidi coi miei occhi l’ambasciatore arrampicarsi sull’ultimo elicottero dal tetto dell’ambasciata, alle 7:52 del 29 Aprile 1975, ventun anni dopo Dien Bien Phu. Con la bandiera ripiegata sotto il braccio. Ci sono le fotografie. L’elicottero fila verso le navi, migliaia d’occhi lo fissano da terra, tra pianti e maledizioni. I giardini dell’ambasciata, le strade d’intorno si erano riempiti d’una moltitudine disperata. Avevano creduto di potersi arrampicare alla fine, come l’ambasciatore. Di elicotteri, l’America ne aveva migliaia. A montagne ne aveva perduti. Quello, era proprio l’ultimo. C’è sempre, in ogni cosa umana, il momento in cui tutto diventa ultimo. Gli ultimi marines respinsero la moltitudine in pianto, coi calci dei fucili. Già i comunisti invadevano il centro. Nella moltitudine in pianto c’erano quelli che sarebbero stati uccisi il giorno stesso e quelli destinati allo stillicidio dei campi di sterminio, di rieducazione. Altri avrebbero salvato apparenze di vita a prezzo dell’anima e della dignità umana. Tremai, d’affetto e pietà, al pensiero di René Giung, gentiluomo e ufficiale, amico da sette anni; della sua

affascinante sposa francese, della loro Jasmine dal dolce sorriso, fragile e luminosa, un cristallo, che soffriva d’asma, avrà avuto dieci anni. Maledissi l’America infame, le augurai ogni sciagura. Non ebbi più alcuna notizia di loro, Silvio Pellas neppure. Erano stati alleati, ausiliari, collaboratori, complici, spie, gente grande e piccola, limpida e arruffona, coraggiosa e vigliacca nei due sensi. Tutti ugualmente adoperati, compromessi, illusi, e ora traditi, abbandonati alla strage, alle rappresaglie, alle punizioni. La RSI dell’Asia orientale. Il tassello off thè record che dicevo è del 1967. Il 20 Luglio mattina, dopo il volo notturno sulle montagne dell’Asia, allo scalo di Bangkok, sale sull’aereo Panamerican diretto a Saigon il tenente generale Vernon Walters, uno degli ufficiali americani più in vista, diverrà ambasciatore alle Nazioni Unite. Vecchia conoscenza, avevamo tramato insieme. Ci vedevamo alle cinque e mezza, alle sei della mattina, nei vialetti di Villa Borghese. Alto, di due metri, enorme faccione a spatola, credeva che fosse il solo modo di passare inosservato. Quando veniva a Roma, c’era sempre per aria una nuova idea della CIA per evitare all’Italia il regime comunista, ritenuto imminente. A meno del golpe. I golpe sbocciavano e sfiorivano. Chi credeva di avere sottomano una divisione di carabinieri, mettiamo Cesano Romano, si metteva in gara. Finché un giorno, un generale che si chiamava Rocca fu ammazzato, non seppi mai da chi e perché. La gara si raffreddò. All’ambasciata americana rimase però un addetto militare straordinario che si occupava solo deïl’affaire. E

siccome il colonnello era di origine abruzzese, l’ora di mettere insieme i governi coincideva col robusto pasto della compagnia in un ristorante abruzzese. Un generale mi propose, a golpe riuscito, un ministero di stampa e propaganda, o giù di lì. Tanto per dire qualcosa, feci una scena disgustata: «Ah no, di giornali e giornalisti ho schifo ormai. Se proprio debbo fare il ministro con voi, datemi gli Esteri». Me li dettero subito, e mi trattarono, nelle settimane o mesi che Vaffaire durò, col sussiego dovuto al rango. L’idea di fare il ministro come servo degli americani non arrivò a farmi schifo per la buona ragione che non presi mai sul serio l’idea grande, complessiva. Mi fu bene precisato che, perdute le regioni intermedie della Penisola, le comunicazioni Nord-Sud si sarebbero svolte per le vie del mare e dell’aria. Le persone della mia famiglia, moglie e bambini allora di pochi anni, sarebbero state imbarcate da un elicottero, a un certo punto da stabilire, presso un certo chilometro, sempre da stabilire, sul valico dell’Appennino. «That’s right», approvarono i due americani, per mia tranquillità. Me ne rimase sempre un’aura tragicomica, che continuò ad avvolgere, in tutti gli anni seguiti da allora, la strategia, grande o piccina, della superpotenza. E mi rimasero due taniche di gasolio per la Mercedes diesel che, ormai pastoni puzzolenti, mio figlio Corso cresciuto decise di abbandonare, una ventina d’anni dopo, in una buca d’Appennino non lontana dalla casa di Monteleone. Tutto quanto ora racconto era divenuto, tra ambienti e persone che ricordo, un serissimo gioco di società, un’edizione

moderna, alla carlona, dei Kriegsspiele, di cui si dilettavano i Re di Prussia. C’è, nello Schloss di Charlottenburg, il tavolo per il giuoco della guerra appartenuto a Federico Guglielmo terzo. Una splendida cassettiera Impero, in ogni cassetto il materiale di questa o quella battaglia, operazione, sauvetage: mappe, bandiere, battaglioni. Adesso i Gulpensspiele si giuocavano nei salotti, a passeggio, nei ristoranti, negli alberghi, nei convegni culturali. Ce n’era stato, uno, rimasto famoso, all’albergo «Parco dei Principi».

«Come va!», nei modi Walters era avvolgente, festoso, ciclonico. La sua stretta di mano, da stritolare. «Mi hanno nominato attaché militare a Parigi, e siccome là tutti mi vorranno spiegare perché perdiamo en Indochine, come dicono loro, vengo a vedere. A mie spese, non mi crederai...». Gli credo. L’immenso sperpero della macchina militare americana contiene queste oasi d’antiche virtù. Il suo entusiasmo è serio, grave, didattico. Sembra sforzato, d’ufficio, e poi scopri ch’è profondo, sincero. Mi vede scettico, dico, è il terzo anno che... e me ne arriva addosso una che non m’aspettavo: «Ma, caro amico, la battaglia dell’Ebro non venne mica subito...». La battaglia dell’Ebro. La mia coda di paglia nazionale sta per prendere fuoco, adesso arriva Guadalajara. L’immensa faccia del Generale non mostra traccia d’ironia: «Non ti vergognare della guerra di Spagna», intima grave mentre l’aeroplano comincia a correre: «Quello è il modello segreto di tutti noi, stretti nei ceppi d’una guerra limitata, con obiettivi difensivi, esclusa la conquista del territorio nemico. La Spagna, invece (rimango

colpito dalla precisione di questo tipo che parla dieci, dodici lingue), la Spagna, invece, da un mare all’altro il comuniSmo internazionale battuto sul campo, battaglia dopo battaglia, e non pensare a Guadalajara come gli stupidi masochisti del tuo paese, ogni esercito ha i suoi rovesci, il vostro fece un lavoro stupendo. Non i tedeschi, bada bene. Quelli sperimentarono alcune armi e tattiche, con cinismo e egoismo, dopo averci pensato per un pezzo. Voi no. Se Mussolini non mandava subito i trimotori, mai Franco avrebbe fatto passare le truppe fedeli dal Marocco al Continente. Non dico che fu vinta subito, ma lì si cominciò a vincere la guerra. Senza l’Italia, l’aviazione legionaria non sarebbe mai nata. E poi, la fanteria. Quale manovra, quella della divisione Frecce Nere, dall’Ebro a Santander, un capolavoro. Battaglia dopo battaglia, caro amico, fino alla debellatio finale all’antica, i vinti cacciati dal territorio. Un capolavoro, ti dico». Le Frecce Nere, Santander. Come l’ha studiata, tutto al suo posto. Rimango stordito. Già interprete di Eisenhower, il Generale era famoso per la quantità di lingue che parlava e scriveva, dal russo al portoghese. Un italiano non perfetto, ma chiaro, efficace. L’invettiva fù travolgente, accenti compresi. Come un rabdomante, aveva scoperto in me il complesso nazionale. La guerra di Spagna, da noi saltata o menzionata con disprezzo saccente, ostilità sottintesa, imbarazzi, reticenze, era il libro dove quell’ufficiale chiedeva ispirazione, la speranza del tuming point, il saliente dietro cui si distende il declivio delle vittorie. Un viluppo di complessi. Neppure a destra sanno sottrarsi a cert’aura di santità irraggiata dal gran trombone ubriacone

della campana che suona non si sa per chi, e divenne, lungo mezzo secolo, un’Iliade, come l’orrendo cavallo che frigna contro il cielo ne fu il Giudizio Universale e le poesie di Lorca il Canzoniere. Peccato che il santuario sia ora sciupacchiato dalla scoperta che il petrarchetto rosso fu doppiogiochista e spia. Quando sia colto, un ufficiale di mestiere è la migliore conversazione che si possa avere sulla storia. Gli accademici, incartati nella paura, nei calcoli, tra scuole e gelosie, mai arrivano a una visione sobria, concreta. La terra a oriente di Bangkok, zuppa d’acqua, scintilla là in basso viola bruna e verde cromo, uno specchio bagnato. Anch’io, gli dico, vengo per curiosità personale. Il quotidiano e il settimanale per cui lavoro, entrambi poveri, non sentivano alcun bisogno di un «inviato» quaggiù. Ma né Giovannini, né Tedeschi hanno resistito, quando gliel’ho chiesto. «Va bene, ma chi te lo fa fare?», mi domandò Giovannini. «La curiosità», risposi. Come i guardoni spiano le chiavate degli altri, io vengo a guardare la guerra degli altri. Mi fa gola la guerra, repugna e attrae, è la funzione vitale degli stati. Almeno in certe età. Forse il Vietnam segna la fine di una di queste età, l’illusione della guerra come sistemazione definitiva. Le dottrine di guerra dei contendenti indicano già la transizione: «Negoziare e combattere» di Ho Chi Minh è lo speculare asimmetrico delle «risposte graduate»: in gergo, escalation. Il muscolo diventa secondario rispetto ai nervi. La superiorità dei nervi consiste nell’indifferenza alla durata. La debolezza degli americani è

l’impazienza. Walters si consola, sulla difensiva. «Ti ho detto che l’Ebro non venne subito, e Ho Chi Minh, quando i suoi strepitavano, dopo il 1945, perché si era messo d’accordo coi francesi, li calmò con un “Preferisco grattarmi la rogna francese per vent’anni, che la merda cinese per mille”...». Queste guerre. Si chiamano, si rispondono. Nessuno le ha ancora chiamate per quello che sono, le guerre di successione moderne. Ne l’Avenir de l’Intelligence scrisse Maurras che successore di Luigi XVI è l’homme de lettres, il filosofo. Successori delle monarchie, le ideologie. Questa è una successione complicata. I giapponesi ricordano fin troppo bene che causa della loro guerra fu l’intimazione di Roosevelt a sgomberare l’Indocina che avevano occupata dopo la sconfitta della Francia nel 1940. Cacciati di qua dopo la sconfitta del 1945, ora ascoltano senza commuoversi le suppliche di tornare, in armi, al loro fianco. E si crogiolano a veder esplodere, l’una dopo l’altra, le bombe a scoppio ritardato, che, obbligati a ritirarsi, s’erano lasciati dietro coi governi indipendenti di quelli ch’erano stati i possessi europei nell’Asia orientale. Inutilmente Francia Gran Bretagna e Olanda si credettero, con la protezione americana, dalla parte vincente. A ciascuno la sua Asia scoppiò tra le mani. I Francesi avevano inventato questo ibrido avventuroso fino dal nome, che battezzarono Indochine, in cui cercarono di amalgamare identità e glorie antiche, corrotte, marcite: un regno indipendente, il Siam, poi ribattezzato col grottesco miscuglio di Tailandia, da Tai, libertà nel linguaggio locale, più terra in anglosassone; una colonia, la grassa e pingue Cocincina al

Sud; e i protettorati del Cambogia, che la prepotente ignoranza dei nostri giornalisti ha trasformato in femmina per via della a finale; del Laos, dell’Annam, già ambizioso impero; del rude Tonchino a Nord, dove la penisola si salda al continente cinese. Furono i giapponesi che riunirono Cocincina Annam e Tonchino ripescando nel pozzo della memoria l’antico nome di Vietnam, il lontano Sud. Lontano, naturalmente, rispetto al Ciung-Kuo, l’impero del Centro; tutte queste periferie erano state sue tributarie. Riabilitarono sogni di gloria apparsi e svaniti in un millennio, il regno cambogiano dei Khmer di cui restano colossali rovine ad Angkor e altri luoghi; il regno Champa nel Sud, il Vietnam della dinastia Nguyen che, dall’Annam, oggi il centro dimezzato a Ginevra, tentò, al principio del secolo XIX, di conquistare Cambogia e Laos. La Francia interruppe il tentativo e s’impadronì dell’Indochine intera. Dopo la disfatta di Sedan, andò a cercare in Asia consolazioni alla perdita di Alsazia e Lorena, e Bismarck cercò d’indirizzare l’ansia di rivincita verso l’Africa e l’Asia. Seicento pagine delle Lettres du Tonkin et de Madagascar, di colui che sarebbe divenuto il maresciallo Lyautey, traboccano di odio per la democrazia parlamentare che aveva cagionato il disastro. «Il mondo intero testimonia la prodigiosa espansione dell’Inghilterra, e, più ancora, della Germania...».

La Francia governò l’Indochine da Hanoi adoperando prìncipi ristupiditi e insaziabili funzionari nei palazzi, stile superberidicule, di Hué e Saigon, Vientiane e Pnom Pen. L’unità indocinese somigliava all’unità italiana inventata da Napoleone.

Imposta dallo straniero, rivelava tuttavia possibilità future. Schiacciato che fu il Giappone dalle bombe atomiche, la Francia «vittoriosa» di De Gaulle tornò a riprendersi ITndochine sgomberata dagli invasori e riuscì a perdere anche questa guerra, che fu combattuta, in luogo dei francesi stanchi, dai miseri tedeschi della Legione Straniera. Col partage sul 17° parallelo, deciso a Ginevra, il Vietnam fu diviso in due alla maniera di Yalta, i comunisti a Nord e al Sud la democrazia. Subentrò una torbida tregua. L’imperialismo ideologico americano, dopo aver corroso e sfaldato le ultime forze dell’antica Francia nei lunghi anni d’intrighi e inganni culminati con la catastrofe di Dien Bien Phu, 1954, manovrava per impedire le libere elezioni e la riunificazione del Vietnam, fissati a Ginevra per il 1956. I Francesi completarono il trasferimento della sovranità nominale al Laos al Cambogia e al Vietnam, dove il 17° parallelo divenne confine di due stati divenuti nemici da guerra fredda. E intanto gli americani completarono una conquista interna, subdola, strisciante, disseminata di colpi di stato e assassinii, nutrita di ogni specie di blandizie e corruzioni che ci volevano a persuadere le diverse, ma tenaci e coltissime oligarchie locali, che la democrazia da loro offerta sarebbe riuscita assai più attraente, redditizia e sicura del vecchio sistema europeo di colonie e protettorati. Tutto quell’immondo decennio del nuovo stile imperialista ebbe un compendio a fitta trama, affascinante, malizioso di Graham Greene (n. 1904), il maggior scrittore inglese di romanzi del secolo XX, ch’era stato a lungo funzionario del Foreign Office e aveva potuto, in diverse missioni nell’Africa Occidentale (1940-

1944), sperimentare sul vivo i metodi e la tempra morale della democrazia americana. Insieme con le Lettres di Lyautey, mi portai sempre in valigia A quiet American, tradotto da Mondadori Medusa (Il tranquillo americano) nel 1957, che fu per molti anni il mio Baedeker all’atmosfera, al clima, al carattere d’uomini e donne; alla mentalità, la chiamava Mussolini, radice più tenace delle noiose ideologie; queste si possono cambiare dalla sera alla mattina, e quella resta immutabile, ci vogliono secoli.

Gli americani si tennero il mezzo Vietnam degli accordi di Ginevra e quello solo s’impegnarono a difendere. Ecco quale fu la decisione rovinosa da cui discende la dottrina di guerra limitata che ha determinato la perdita d’ogni speranza di unità nazionale non comunista e il conseguente collasso psicologico dell’alleato locale, della sua parte attiva, determinata, coraggiosa. Ho Chi Minh e Giap, il suo capo militare, invece, continuarono a vedere i due tronconi di patria come una cosa sola. Intanto, riunire quelli, Cambogia e Laos più tardi, magari dopo una generazione. Diem, il solo competitore anticomunista che fosse degno di Ho Chi Minh, voleva, con non minore tenacia, rimettere insieme i due tronconi partendo dal Sud. Nel sottosuolo di questa guerra si cela un nodo biografico da tutti ignorato: che Diem e Ho Chi Minh si stimavano e, mi ha assicurato un intimo amico di Diem, si volevano bene. Diem mandava a salutare Ho che ricambiava, saluti, messaggi. Li portavano gl’indiani, polacchi e altra fauna parassitaria della commissione d’armistizio dell’ONU, nella spola aerea tra Saigon e Hanoi. Ho Chi Minh non era molto più comunista di quanto

Diem non fosse liberale. Le ideologie europee vanno sempre trasposte, se d’Asia si tratti, in tono nazionale. Ho giuocava l’unità sulla carta comunista, Diem credette che quella liberale fosse più forte. Quando alla Casa Bianca conobbero quei legami segreti, scoppiarono di gelosia. Il vassallo poteva partire per una rotta tutta sua. Il Domino era la mania dell’ora, un sistema di tanti pezzi, la caduta di uno solo comportava lo sfacelo di tutti gli altri. Se Diem decideva di cercare un destino nazionale nell’intesa con Ho, i capricci imperiali di John Kennedy tornavano nell’armadio. Bisognava stroncare la nuova moda al primo defilé. Non era facile screditare Diem, ma Diem aveva un cognato che era davvero un uomo corrotto. Si sostenne che il cognato di un uomo tanto corrotto non poteva non essere corrotto. Diem era, cosi, il capo guasto di una famiglia guasta. In più, era un dittatore. Di destra, ossia fascista. Tornò buona la vecchia ricetta rooseveltiana, avvolgere la realtà cruda e autentica dell’interesse americano nei rotoli di carta igienica della democrazia universale. Il cinismo, in questi casi, diventa sistematico. Un documento del 1965, che Mac Namara approvò, si spinse a precisare le percentuali degli «impulse» sentimentali: «sia ben chiaro, noi siamo nel Vietnam al settanta per cento per toglierlo dall’orbita cinese, e solo al dieci per cento per garantire vita migliore e libera alla popolazione». Sul residuo venti per cento restava il dubbio. «Tu ne sai qualcosa?», domandai a Walters che sopportava con dignità, lui così loquace, che tirassi il filo del racconto.

«Non ne so niente, questo venti per cento è un bel mistero. Se fossimo a vostra Napoli, ce lo giocheremmo al lotto». «In ogni caso», aggiunsi, «per chi sapesse capire, la storia era chiara già allora», e abbrancai, dalla moquette del pavimento dove l’avevo messa a Bangkok, la borsa con le cartelline Vietnam. «Lo so, lo so bene, tiriamo avanti, ci restano forse venti minuti»; la conferma apparsa in quei giorni nel «Sunday Times» di Londra era così chiara e croccante, che giudicai di non poterne fare a meno: «È la potenza, il pensiero della potenza americana nel mondo il solo movente che preoccupa questi uomini...». Col dispetto dell’impero perduto e il naso esperto dell’antico vizio... «In South Vietnam thè nepotistic and Roman Catholic regime of President Ngo Dinh Diem embarked on a large-scale persécution of Buddhists», comincia la virtuosa vulgata. «A horrifying sériés of ritualistic suicides by Buddhists monks followed in protest against thè government’s actions, and at least seven monks poured petrol over themselves and bourned themselves to death. The persécution was blamed on thè president’s brother Ngo Dinh Nhu and his fanatical wife: her comment was ‘all thè Buddhists hâve done for thè country is to barbecue a monk’. The demonstrators won, however, and Ngo Dinh Diem and his brother were overthrown and murdered in a coup d’état on Nov. 1 ». «Nel Sud Vietnam il regime nepotistico e Cattolico Romano del Presidente Ngo Dinh Diem si lanciò in una estesa persecuzione dei Buddisti. Come protesta contro le azioni del governo, seguì una orripilante serie di suicidi rituali di monaci buddisti,

almeno sette si versarono addosso petrolio e bruciarono fino a morte. La persecuzione fu imputata al fratello del presidente, Ngo Dinh Nhu e alla sua fanatica moglie: il suo commento fu ‘tutto quello che i buddisti han saputo fare per il paese, è stato arrostire un monaco’. I dimostranti tuttavia vinsero e Diem e suo fratello furono rovesciati e assassinati con un coup d’état il 1° Novembre». (Britannica, Book of thè Year 1964, pag. 349). Ventun giorni più tardi, il 22 Novembre 1963, John Kennedy fu assassinato a Dallas e Madame Nhu, la bellissima vedova del fratello di Diem, scagliò, oltre l’Oceano, la sua gioia per la vendetta inattesa con una frase equivalente all’antico detto italiano Dio non paga il sabato, la punizione divina prima o poi arriva. «Tu non hai idea», ripiglia Walters, «di quale catastrofe vivemmo noi in quei giorni. Più off thè record che mai»; Kennedy, col suo dilettantismo ipocrita, ci aveva lasciato nella più miserabile situazione che gli Stati Uniti avessero dovuto fronteggiare nell’intero secolo. Non c’erano altre uscite, lo dicono i documenti, se non una ritirata disastrosa dalla guerra, o il suo allargamento. Johnson conosceva la situazione un po’ meglio di Kennedy. Se non altro, era andato a Saigon, da vice­ presidente, in missione ufficiale. Sapeva che allargare la guerra era la sola soluzione. Ma non poteva. Aveva le elezioni dopo neppure un anno e voleva essere rieletto. Ma chi voleva essere eletto non doveva parlare di guerra. E non ne parlò. Bisognava allargare la guerra senza che gli americani se ne accorgessero. Mac Namara gli confezionò una strategia imposta da questa necessità di cucina. Johnson predicò la ricchezza per tutti, il

benessere e la felicità, l’emancipazione, la «grande società», aiuti a tutti, diminuzione delle tasse. Suonò la musica che piace alle orecchie moderne. Fu il suo antagonista repubblicano che si assunse l’ingrato compito di parlare l’aspro linguaggio della realtà. Barry Goldwater aveva raggiunto la medesima conclusione di Johnson, ma non lo nascose al suo popolo: bisognava estendere la guerra e intanto bombardare il Nord. Escluse di poter nascondere una simile decisione, e lo disse. Avrebbe potuto diventare l’unico presidente onesto del ventesimo secolo. Lo trattarono di cannibale impazzito, di assassino mondiale, peggio di Hitler, irresponsabile assetato di sangue umano. Lo seppellirono. La stampa americana ottenne in pochi giorni la sua rovina. E la rovina della guerra americana, che da allora fu una guerra zoppa. Fin dal 2 Giugno 1964 Mac Namara, ministro della guerra, aveva deciso di gettare le bombe atomiche sul Nord Vietnam. In perfetto stile rooseveltiano, Johnson aveva condotto la campagna elettorale contro Goldwater accusandolo di progettare le stesse azioni che lui aveva già intrapreso. Il 26 Agosto 1964 pronunciò il principale discorso elettorale: «Mi consigliano [tutti pensarono, con legittimo raccapriccio, a Goldwater che, per di più, è anche ebreo] di caricare di bombe i nostri aerei e farle gettare lassù, ma ciò produrrebbe una scalata della guerra e dovremmo impegnare un gran numero di ragazzi americani [...] penso che la guerra debbano combatterla i ragazzi dell’Asia». «Era la vietnamizzazione, come fu chiamata, ma restava una parola. Nessuno sapeva come tradurla in realtà. Fu il momento peggiore, le chiacchiere i progetti sballati, l’indecisione. Ma

adesso dobbiamo chiudere col passato e arrivare a questo momento. Mi hai regalato un’ora magnifica, caro amico. Da solo non sarei riuscito a recapitulate, o come dite voi, così bene. Tu non sei un giornalista come gli altri, tu ragioni e conosci le cose...». «Sono sempre il ministro degli esteri, come sai bene», risposi. «Il 1° Novembre 1964», riassume Walters, «un anno dopo la morte di Kennedy, i Vietcong bombardarono Bien Hoà coi mortai. Il 3 Novembre Johnson, pacifista e antibombardiere, fu trionfalmente rieletto. Il 5 Novembre gli assistenti di Mac Namara gli sottoposero tre progetti di bombardamenti a oltranza. Il 1° Dicembre fu approvata la strategia della guerra aerea». «A natale 1964 Maxwell Taylor, quello che doveva sbarcare una divisione alle foci del Tevere nel 1943 e ora era l’ambasciatore a Saigon, convocò i giovani generali che avevano appena rovesciato il governo civile succeduto a Diem. Tra questi, Thieu e un giovanissimo generale d’aviazione, già brillante ufficiale dell’Armée de l’air in Algeria, che si chiamava Nguyen Cao Ky: «Signori, capite l’inglese? Vi ho detto chiaramente, al pranzo del generale Westmoreland, che noi americani siamo stufi di colpi di stato. Evidentemente, ho sprecato le mie parole». «Sembrava Mac Arthur in Giappone», commentò il generale Khan. La vietnamizzazione cominciava con l’arroganza. Il 7 Febbraio vennero gli attentati di Pleiku, 1’8 e il 9, le rappresaglie, il 9 Marzo Johnson decise di usare il napalm contro il Nord. In Giugno fu deciso l’impiego di truppe terrestri. E ci trovammo in guerra.

Ora, ascoltami bene. Ti rivelo, se tu non scriverai una parola su quel che ti dico: ho la certezza che mi viene da assicurazioni segretissime, che Thieu e Ky hanno accettato la nostra dottrina di guerra e non ci chiederanno mai uno sbarco a Nord e altre azioni offensive. Prima dicevano che con uno sbarco al Nord la guerra si sarebbe conclusa in un mese. Ora hanno capito che la dottrina della guerra limitata non è mutabile. Io ci spero, ma se questa coppia dopo due anni si sfascia, allora, caro amico, va tutto a puttane, come dite voi». Rispondo che non ci credo, Ky è deluso, è già deciso a piantarla, tornare a combattere, o andare in esilio. «Come lo sai, da quale informazioni?», chiede Walters eccitato. «Lo so perché me l’ha detto lui», e gli faccio un sunto dell’anno passato, della lettera che gli scrissi, della moneta d’argento italiana che gli mandai come porte-bonheur de pilote, dell’invito che mi fece, tramite il Commandant Hoan, che lo seguissi a Hué dove due reggimenti s’erano ammutinati, sul suo Dakota personale. Hoan aggiunse che il Premier Ministre si teneva sempre in tasca la moneta che gli avevo mandato, le due lire d’argento del 1923 col grande fascio littorio, e leggeva, con la mia traduzione, la scritta a sbalzo sulla scure, «Meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora». «Anche io ho miei off thè record», conclusi e lui: «Ma non avrai scritto queste cose, spero... Bisogna che tu venga con me dall’ambasciatore, devi vedere Westmoreland...». Mi guarda fisso, non ha mai interrotto, come i pochi che sanno ascoltare. Sta in una posizione d’ascolto, volto, mani, sguardo tesi. Cercami a Saigon, mi dà un numero

che porta con sé, il telefonino con cui i miei compatrioti invadono l’etere delle ciarle. Dico che per raccontare con ordine dovrei fare un robusto passo indietro, come si diceva una volta: un passo di due anni interi, da quando sbarcai qua la prima volta, Giugno 1965... Un passo indietro

A un tratto, il Boeing si butta giù a capofitto, è la procedura d’atterraggio inventata per sfuggire alle cannonate e raffiche dalla campagna. I fiumi della Cocincina, lavagna verdastra vista dall’alto, serpeggiano in volute capricciose e larghe anse le cui curve estreme quasi si toccano e poi tornano ad allontanarsi di miglia e miglia. Gonfie e giallastre scorrono tra orli ricciuti di verde. E nuvole, una fantastica vegetazione di nuvole, montagne, abissi, cattedrali di nuvole; regneranno immote fino a Ottobre su questo frutto rotondo appeso sotto il ventre della Cina. «Chi scende a Saigon?», domanda la ragazza azzurrovestita porgendo i formulari della polizia locale. Gli altri passeggeri li respingono con educate simulazioni d’orrore, guardano noi che ci prepariamo a scendere. Appena fermo l’aeroplano, Walters infila la scaletta per primo e subito è afferrato tra saluti calorosi e frettolosi e sospinto dentro una limousine nera che fila via tra vento e polvere. Un’altra ragazza, piccola e graziosa, si fa avanti; verso di me suppongo, sono il solo sbarcato dopo Walters. Domanda qualcosa come Mr. Buscrol. Mais oui, rispondo, e la guardo sorridente nel costume nazionale, bianca tunica svolazzante su pantaloni di

seta, l’ao dai, il braccio destro al collo, la solita bomba, mezz’ora fa. «Monsieur Pelàs vous attend là bas, après les contrôles», controllo di polizia, controllo militare, e poi sanitario, mi affida a due soldati, fucile imbracciato in alto, che mi accompagnano tra reticolati e posti di blocco. La confusione degli attentati, doveva essere una bomba ben grossa. La limousine di Walters è ferma all’uscita, più oltre c’è la Studebaker di Silvio Pellas, anche io, infine, ho la mia limousine. E adesso, debbo fare quel passo indietro di due anni che dicevo. Prendo il taccuino D, che s’apre al mio primo sbarco, giovedì 17 Giugno 1965: «Proprio stamane ci sarà l’insediamento del nuovo governo capeggiato da un tale vicemaresciallo Nguyen Cao Ky. Lungo la via per la città, reticolati, sbarramenti, piazzole con dentro piccoli vietnamesi bruni e asciutti, e americani corpulenti, rossicci. Vanno e vengono elicotteri dondolanti, starnazzanti, grossi insetti curiosi, indecisi». Via via che ci s’inoltra nei viali della città europea, la guerra scompare, ti par d’essere capitato, lo so che parrà ridicolo, a Riccione. Stessa tenerezza banale, villini, giardinetti, staccionate, vialetti alberati. La Tu Do, che collega il porto alla cattedrale cattolica, sembra viale Ceccarini, il mio albergo porta ancora il vecchio nome della strada, che ora vuol dire via della Libertà, e i francesi intitolarono a un maresciallo Catinat, mica un genio della guerra, che nel Seicento batté il Duca Amedeo e gli occupò la Savoia, ma poi prese un sacco di legnate dal principe Eugenio. Solo qualche smargiassata architettonica d’un bianco abbagliante e dalle linee Parigi Ottocento, ti ricorda che

sei in una vecchia colonia francese. Quando n’ebbe le forze, l’Europa andò sparpagliando questi mostriciattoli, che lì per lì t’ingannano. Ma l’aria non mente. L’hai gustata sulla scaletta dell’aeroplano, ti entrava in gola con lingue di fuoco. Ora, torpida, umida, fermenta di bollore viziato, languido. In quest’aria, gli uomini rimpiccioliscono, solo le piante si ergono turgide, la natura si abbandona a orge di eccessi. Le foglie lustre degli alberi come verniciate a pennello, ciuffi forsennati di mangrovie, ibischi esagerati filtrano la luce quasi vetri colorati, la crosta dei tronchi si fende e si spacca, premuta da prepotenti obesità vegetali. E si spacca il cemento, che trasuda inafferrabili vene di umidità intima, cola e ribolle l’asfalto della via, accidentato e gibboso, che ogni oggetto si butti in istrada è subito assorbito, appalloccato in grumi inestricabili.

N’y a pas d’italiens, rispondono al Continental, patriarca dell’ostelleria. Pas d’italiens, partiti tutti. Questo Catinat è un vero cesso, al posto dei vetri, paraschegge d’acciaio, l’aria condizionata ruggisce impotente, due gechi appesi al muro sopra il letto, una piscina vuota e puzzolente. Chissà perché la Panamerican m’ha sbattuto qua. Poi rifletto, affascinato: Rue Catinat, Continental, le coordinate del Quiet American che ho in valigia, il romanzo della guerra francese finita nel 1954 a Dien Bien Phu. Raffinato e tremendo, gli americani che con la mano scoperta (consiglieri, come oggi) fingevano d’aiutare i francesi, e con le tante coperte, le loro e di altri, li spingevano nella fossa. E com’erano sicuri di riuscire, con la supposta della democrazia, a salvare quel che i francesi avevano perso col chinino del

colonialismo. Greene distingueva con raffinata malizia le talpe come l’americano tranquillo, da «quei rumorosi mascalzoni del Continental», ch’erano poi i consiglieri, i militari bravacci e spacconi senza subdoli segreti. Anche la camera del quiet american guardava «su Rue Catinat» fin dalla seconda riga del romanzo, ma si trovava al primo piano, nella parte eletta dell’albergo, del tutto separata da quelle dell’altra fracassone compagnia. Voglio vivere là, non in questo cesso, telefono al Continental, oui monsieur, non è vero che l’albergo sia pieno. L’aspettiamo, chiude il concierge con antico ossequio. Chiamo un taxi, arriva un coso rappezzato che mi conduce, con breve corsa sempre sulla Tu Do, al Continental. Qui il francese non usa più. «You want thè room of Mr. Greene?» Oui, insisto col francese, il concierge risponde, «Oui, c’est libre, ça coûte cinqcent piastres en plus. Voilà, accompagnez Monsieur au 651». Mentre finisco di sbrigare la faccenda al banco mi sento chiamare per nome, è Egisto Corradi. Suda dentro una camiciaccia gualcita e si fa vento sotto il tendone del bar nella piazza. Mi spoglia in fretta e furia della giacca, della cravatta che continuo a portare, hai fatto questo, hai quello, no?, allora non ti potrai mai muovere, si direbbe che aspettasse una recluta da educare, e mi pilota dagli uffici vietnamesi a fare il Chung Thu Tarn, il lasciapassare per il coprifuoco. Passiamo vialetti balneari romagnoli, sottoprefetture provenzali, la cattedrale d’un gotico da Rinascente, da promenade a mare. Dietro l’angolo della Tu Do che taglia in due la Saigon francese, c’è l’Asia che aspetta, col

suo ronzare inesauribile, il vociare indomabile, la marea umana che ribolle convulsa e rassegnata. L’Asia, alla sua volta, è spartita in due sottocittà incomunicanti, Giadihn la vietnamese e, quattro chilometri più in là, il mostro cinese, Cholon. Traversi un angolo d’Asia, varchi una porta a cristalli vegliata da due fanti di marina e ti trovi in un’America di cinematografo, corridoio lungo verniciato chiaro, le porte col riquadro e la targhetta, la colonnina col globo dell’acqua da bere, la pila di bicchierini di carta, il bidone per buttarceli. Giovanotti enormi in uniformi chiare, la placchetta col nome sulla tasca della camicia, ti trovi nelle mani un questionario, leggi che il Military Assistance Command degli Stati Uniti non assume responsabilità per quanto ti possa accadere durante il soggiorno, riempi gli spazi «Persona da avvertire in caso di incidente mortale», e ci scrivi il nome di colei che ti costrinse a mettere in valigia anche l’impermeabile e il golfino di lana. «Desidero che sia awertita/Desidero che non sia avvertita», cancellare quel che non interessa, dopotutto è meglio che l’awertano, firmi, saluti e te ne vai. Riceverai in cambio un’elegante tesserina con un bel gladio, ma sì, un gladio romano in campo rosso.

Il maresciallo ky e Silvio di saigon

Di corsa, di corsa, la nuova Giunta militare assume il governo lasciato dal dottor Quat. Di corsa, ma tra le venti ore di volo, le pillole per dormire, quelle per stare sveglio, il calore, mi muovo come un sonnambulo. Meglio andare a letto, questa giunta durerà sei giorni, chissà quante ne vedremo. Sei matto, strepita Corradi, gli altri ci vanno, cerchiamo un taxi. Ma non ho un taccuino, come hai fatto a dimenticarlo, è un bel problema, vedrai. Comincia il problema di spiegare al conducente che ci serve una cartoleria, papeterie, dico. Ne compero quattro. Attacco il primo: Truppe schierate, vestite di bianco, i durissimi moi della guardia del corpo, facce di cuoio, stirpe malese. I berretti rossi dei parà, azzurri degli aviatori. Sala a forma di anfiteatro, tra grandi tavoli a ferro di cavallo, il più alto sopra una predella. Lo sovrasta una grand’aquila stilizzata, disegno recente e inesperto, covata nel nido confuso dell’aquila americana. Calore paradossale, sala gremita di fotografi e ragazzini, tutti in camicia bianca fuori dei calzoni. «Non sono ragazzini», dice Corradi, «qui sembrano tutti ragazzini fino ai quarant’anni, poi diventano vecchi di colpo. Sono funzionari, impiegati, magistrati».

Lampadari a forma di pagoda, i preti cattolici dell’Annam e del Tonchino profughi dopo il 1954, pochissimi ufficiali americani, il comandante von Jena, addetto militare tedesco, croce di ferro suH’uniforme coloniale. Lungo il tavolo a destra di quello centrale, c’è una bella fila di poltrone vuote. «Sono per noi», dico. Corradi non ci crede. Rispondo con sussiego: «Dopotutto, siamo la stampa dell’occidente». Troviamo subito imitatori, le poltrone si riempiono, ma dura poco, quelli della polizia militare ci fanno alzare. Via, via, ci scostano con decisi urtoni, ma non abbastanza in fretta che non finisca quasi tra le braccia del vicemaresciallo Ky che entra in quel momento, odoroso di Jean-Marie Farina. E dietro di lui la lunga fila di uniformi, aperta dal generale Thieu, già ministro della Marina, che ora diventa Capo dello Stato. Il nuovo Capo del governo, Nguyen Cao Ky, sale alla tribuna. Spalline nere, cordelline verdi. È il 17 Giugno 1965. In un lampo crepitante pare che tutti i flashes dell’Asia scattino insieme. Imperturbabile e cortese, il vicemaresciallo trentaquattrenne siede accanto a Thieu. In seconda fila, un po’ meno magro e meno giovane, il generale Thy, comandante di corpo d’armata. Si guardano, si sorridono. «Si odiano», dice qualcuno in francese dietro di me. Il generale Viet, faccia di pietra, i generali Ty e Quang, in divise mimetiche, fazzoletti arancioni al collo, il generale Co, espressione impenetrabile; una sfilata di generali e colonnelli. In un calore spaventoso, Ky comincia a parlare. «Ça ne dure pas», dice il francese e si guarda intorno.

Un altro francese, fotografo, ha lasciato una gamba a Dien Bien Phu e ora si gode gli americani al loro turno d’opera. I veterani dell’Asia assicurano che Ky non ha la statura del capo di governo. Il venerabile Tri Quang, capo dei bonzi neutralisti, ha detto che è un pilota e il Vietnam non è un aeroplano. Ky gli ha risposto che non è neppure una pagoda. Di lui si sa soltanto la giovane età, la passata carriera in Algeria, l’anticomunismo intransigente, la passione per le belle donne. Coi compagni di squadriglia in tute di volo nere, sul petto un drago bianco dalla lingua rossa, va a bombardare la sua città natale che è Hanoi, ora la capitale di Ho Chi Minh; che, per doverosa simmetria, nacque da una famiglia meridionale presso Hué, l’antica capitale imperiale dell’Annam. Lo Special Air Group 83, piloti di scuola francese perfezionati dagli americani, su una dozzina di vecchi Skyraiders, si è acquistato un gran prestigio tra i potenti alleati e i nemici comunisti. Le uniformi nere, a mezza via tra corsari e squadristi, ricordano gli arditi della guerra mondiale, con quel tocco di estetismo decadente da vite perdute, lance spezzate che combattono fino alla fine. Li chiamano Than Phong, gli esperti dicono che è come Kamikaze. Dai miei quattordici anni che furono riemergono atmosfere di RSI. Le sciarpe di seta azzurre bianche rosse sulle combinazioni di volo mi ricordano fazzoletti della giovinezza, la banda azzurra che la bionda Ginevra donò al suo Ettore prima del torneo di Barletta.

Il foulard di Ky, violetto pallido quasi rosa, gliel’ha donato la nuova moglie, una lucente hostess dell’Air Vietnam, sposata

subito dopo aver restituito al generale De Gaulle, oltre all’ambasciatore e all’antica devozione per la Francia che strizza l’occhio a Hanoi per far dispetto all’America, anche la prima moglie, francese. Non c’è nostalgia dei francesi. Li chiamano grenouilles, ranocchie, per via delle erre arrotate. A sera, di ritorno dalle incursioni, Ky toglieva la tuta nera, staccava il cinturone di pallottole con due pistole a rotazione, indossava il dinner jacket bianco, una rosa all’occhiello, e andava nei night a ballare con la moglie. Ora basta. In una capitale marcia di vent’anni di guerre, esterna e domestica, di prostituzione, colpi di stato e mercato nero, vuol dare il buon esempio come un bravo maestro, e intanto s’è messo a fucilare gli speculatori cinesi di Cholon che «affamano il popolo», e è vero. Ma «il popolo» s’intenerisce alla sorte degli speculatori, e Ky ne fucila di più. «Ça ne dure pas», ripetevano gli esperti. Ma lui ha preso il governo del paese allo stremo, devastato e corroso, le linee di comunicazione, tranne pochi chilometri di autostrada, sotto il controllo dei partigiani comunisti. Ai tempi di Diem, i Vietcong dominavano forse un decimo del territorio. Gli americani lo lasciarono (o fecero) uccidere. Adesso che hanno visto, lo rimpiangono. Ma è tardi, come al solito. Il generale Samuel Williams ha chiamato Diem «l’uomo più scrupoloso e ligio al suo dovere»che avesse mai conosciuto. Ma intanto era morto.

Nei primi mesi del 1965, il Vietnam parve destinato a diventare la tomba del prestigio mondiale degli Stati Uniti. A Diem successe una sfilata variopinta, il generale Min, il generale

Khan, un governo civile e poi ancora Khan, il dottor Phan Huy Quat, e finalmente Ky, il playboy volante. Fu Khan che inventò un grado apposta per lui; per soddisfare la sua vanità, disse. Tutti questi trapassi erano preceduti e seguiti da cortei e sommosse di studenti, suicidi di bonzi che si davan fuoco nelle strade, mentre i partigiani penetravano dappertutto, dai villaggi della giungla ai ministeri di Saigon. Ky era incolpato d’ogni male. Accusato d’essere servo degli americani, divenne inviso anche a loro. A un giornalista inglese che gli chiedeva quale fosse il suo personaggio preferito, rispose: «Hitler, perché seppe moltiplicare le energie e battere il comuniSmo». Fecero finta di non aver udito. Dopotutto, in Asia, Hitler non è odiato quanto Truman, che adoperò un popolo asiatico come cavia delle sue atomiche. A Honolulu, due mesi fa, il piccolo maresciallo disse a Johnson: «Voi ci consigliate, ci aiutate, ci rifornite, combattete con noi, e vi siamo grati. Ma questo è il nostro paese, e il compito di governarlo è nostro». Johnson capì, e lo trattò da pari a pari. A questo punto, Ky colse il suo momento e silurò Ty, levandogli il comando del corpo d’armata settentrionale dove si trovano la superbase americana di Da Nang, e l’antica capitale imperiale, Hué. La rivolta che ne seguì, dei bonzi, ha confermato quel che si sospettava: che Ty era legato a quella specie di La Pira buddista che è il bonzo Tri Quan, fratello del bonzo Tri Dho, capo della chiesa buddista di Hanoi e fedele seguace di Ho Chi Minh. Playboy fin che volete. Ma questo playboy d’Asia mette a repentaglio la pelle sua, di sua moglie, di tutti i suoi fedeli, di un esercito che ha ufficiali e soldati coraggiosi, i cui sacrifici sono

puntualmente cancellati dalla rumorosa, disordinata, prepotente invadenza dei protettori americani; il cui ruolo viene ridotto con perverso disprezzo; la cui esperienza e conoscenza della propria storia, i cui suggerimenti, il più delle volte onesti e sensati, la cui bravura nella guerriglia sono ignorati e cancellati fin dai briefing dei dottorini della guerra educati a Harvard e dintorni, che hanno inventato la nuova guerra limitata e regolata a gradinate della escalation, e la spiegano, la esaltano, la contrappongono alle guerre cretine di tutti i secoli dei secoli. Che ridono come alle farneticazioni di un allievo deficiente quando gli ufficiali di Saigon, la maggior parte con anni di guerra d’Algeria alle spalle, dicono e ripetono e ammoniscono che la guerra dei dottorini è, senza salvezza, già perduta. «Di corsa, di corsa, sono le cinque e mezza, e abbiamo tre fucilazioni in piazza del mercato». E via, sopra uno degl’incredibili tassì di Saigon, bianchi e azzurri, sudici quant’è possibile, tenuti insieme con lo spago, il fil di ferro, la carta gommata. Via, nell’incredibile intrico di ricsciò a gambe umane, a pedale, a motorino, tra i bambini nudi e in pigiama che guazzano nei rigagnoli, le vecchie coi denti sporgenti, le labbra rosse del betel che masticano di continuo, tra la giaculatoria incessante di quelli che offrono naisgel (nice girl, bella ragazza) o il boy, se avete gusti particolari, e i banchetti dove vendono sigarette, occhiali, radioline, fotografie oscene, preservativi, uniformi americane e perfette imitazioni di tenute complete da cowboy, dai cappelli alle frange agli speroni. Così vestito, un

comunista romagnolo chiamato Nozzoli si pavoneggia da mane a sera, dice che gli americani sono banditi, peggio delle SS. Ma la fucilazione dov’è? C’è, circondato d’una staccionata bianca, un parapetto semicircolare di sacchi di sabbia a forma di una U allargata. Appoggiati alle transenne, soldati della polizia militare vietnamese oziano fumando. Quel parapetto è così basso, che par buono da fucilarci un bambino. Ma non vedi come sono piccoli tutti? Piuttosto, dirai che non c’è il palo. E qui non li fucilano senza legarli al palo, è un bidone, andiamo via. In quella arrivano, sono le cinque e cinquantacinque. Ne fucileranno uno solo, lo tirano giù da una camionetta, proprio un bambino. Camicia bianca, pantaloni caki, grida, sempre ripetendo una frase, Abbasso l’America, viva Ho Chi Minh. Ha ventiquattr’anni, l’hanno addestrato i partigiani in un corso speciale per attentatori, era a Saigon da pochi giorni, lo trovarono con dieci chili di plastico dentro un fazzoletto legato alla canna della bicicletta, ha confessato che doveva attentare a una mensa di ufficiali americani sul porto. L’attentato riuscì a un altro, con morti e feriti, due settimane dopo. Un poliziotto prende il palo dalla camionetta, lo pianta nella buchetta di cemento, un altro benda il ragazzo con un fazzoletto nero, dodici della polizia militare si schierano velocemente, metà in piedi, metà in ginocchio. La scarica parte alle sei e cinque, il ragazzo non grida più, la testa gli cade sul petto, il ciuffo nero pendulo, e scivola lungo il palo, legato per i gomiti. Tre o quattrocento, tenuti lontano dai poliziotti, sfollano. Quel povero corpo resta lì per terra, rannicchiato, due sentinelle riprendono a fumare. Quando il fotografo francese senza la

gamba si avvicina, il suo arnese imbracciato, lo mandano via gridando, minacciosi. Dall’aspetto si direbbe che dicano il morto è nostro, levati dai piedi. A cena non si parla d’altro. Il solito cretino, il giornalista comunista di Rimini, si mette a sentenziare solenne che questi hanno una fede, ecc., mentre gli altri invece. Nessuno dei cosiddetti colleghi trova il coraggio di contraddire, e lui incassa beato. Incassa, manco a dirlo, a nome della resistenza romagnola. Ha vinto la sua battaglia verbale, come al caffè-sport del suo paese. Non mi tengo e gli sbatto sul muso «Confessa, buffone, che a te, del poverello che abbiamo visto morire non te ne frega proprio niente, sei venuto per fare la vecchia scena, la fede ce l’hanno soltanto loro, ma tu pensi “noi”, naturalmente, e vuoi farti ammirare; e gli altri sono lestofanti e avventurieri al soldo del capitalismo, dell’americano invasore oggi, come il tedesco ieri, oh se la conosco la solfa...». Segue un parapiglia tutto italiano, urli e smanacciate molti, e botte niente. Arriva il proprietario, Jean Ottavi, francese di Corsica, si caccia in mezzo con tre o quattro dei suoi. Non andammo più a cena tutti insieme. Due sere più tardi, l’orribile scenata si ripete a bordo della “Viminale”, la grande motonave del Lloyd Triestino che si alterna, ogni quindici giorni, alla sua gemella, la “Esquilino”, sulla rotta da Trieste all’Australia. I cuochi della compagnia sono famosi, il comandante ha invitato giornalisti, personale dell’ambasciata, l’addetto militare colonnello Cataldo, il vicario apostolico, gl’italiani più in vista.

C’è un signore sulla quarantina, calvo alto e magrissimo, un poco curvo. Da suo padre ha ereditato una grande concessione di caucciù che ora è tutta in territorio partigiano, e allora ha impiantato un’impresa di trasporti che con la guerra è balzata in grande fortuna, il porto di Saigon è grande, ma sul fiume, il Mékong che scende serpeggiando per centinaia di chilometri prima di gettarsi nel mare, e ora è continuamente engorgé, quando non obstrué, dalle navi dei rifornimenti americani che salgono, affollano il porto, e discendono dopo affannose e difficili operazioni di scarico. Si chiama Silvio Pellas e in questi due anni è diventato un imprenditore ricercato, nel suo ufficio lavora un centinaio d’impiegati. Questo signor Pellas ha seguito il litigio con uno strano sorriso, che è diventato risata quando Nozzoli ha accusato di malafede i cacciatori americani perché attaccano i suoi prediletti Mig “alle spalle”. Non interviene nella baruffa, se la divora con evidente soddisfazione. Ringraziamo il comandante per l’ottimo pranzo italiano e lasciamo la nave in tre gruppi distinti e divisi, io e Pellas ci troviamo nel più piccolo, Corradi coi moderati stretti intorno al prelato, molti mi guardano come uno che ha portato la guerra civile in questa bella riunione di connazionali. Mentre scendiamo dal barcarizzo alla scala esterna, dice: «Non sa quale piacere mi ha fatto. Da vent’anni non sentivo una litigata così. Io sono stato nella RSI, mi chiamo Silvio Pellas, non eravamo mica fascisti in casa, il mio nome è sardo, o catalano, mio padre si sentiva italiano e si arrabbiò contro i francesi ai tempi delle sanzioni. Io ero bambino e ricordo una grande carta dell’Etiopia,

mio padre ci piantava con gli spilli delle minuscole bandierine tricolori. Avevo due fratelli, uno era catalano, un altro francese, e comunista. Io sentii il bisogno, le assicuro, un bisogno di tutti i giorni, di venire a far la guerra per la mia patria quando le cose cominciarono a andar male. I francesi, sotto l’occupazione giapponese, mi sfottevano, e intanto mio padre, console onorario d’Italia, s’ingegnava a proteggerli come poteva con raccomandazioni a nome del Re e del Duce ai comandi d’occupazione, il comandante supremo dei giapponesi era un eroe di guerra, il generale Yamashita... Non avevo obblighi militari perché soffrivo d’asma, colpa del caldo, non sa che fatica venire in Italia, traversai il Pacifico su una nave portoghese, poi l’Atlantico e il Mediterraneo su una spagnola; dalla Spagna, attraverso la Francia occupata, arrivai a La Spezia, dove avevamo casa, appena in tempo per vedere lo sfacelo dell’8 Settembre. La sola bandiera italiana che continuò a sventolare era quella sul comando della Decima Mas di Borghese, andai là... più tardi mi nominarono, dopo un breve esame, sottotenente, avevano bisogno di ufficiali. Alle Selve di Tarnova una raffica di mitraglia dei partigiani di Tito mi portò via una metà del torace, come a quel famoso visconte. Ci rimisi un polmone e un rene tutt’interi e altri brandelli. All’ospedale di Bassano mi ricucirono, come poterono, e alla fine di Aprile cominciai a scendere dal letto e a fare i primi passi. All’improvviso una mattina un’infermiera venne tutta agitata e confidò a me e a due miei compagni di camera che s’era sparsa una voce, stavano arrivando i rossi per uccidere tutti i superstiti. Come fecero. Fuggii, col solo pigiama addosso,

in quei giorni nessuno ci badava, mi trascinai fino a Padova, trovai un vecchio amico di mio padre che non conoscevo, mi ospitò in casa, mi nascose per due mesi, mi rivestì, mi diede del denaro. Ci misi sei mesi a far sapere al babbo ch’ero vivo, non so come da Saigon, ancora occupata, lui riuscì a farmi avere dei soldi attraverso Genova. Dopo un anno, rimesso malamente in piedi, ritornai a Saigon, rimisi insieme i pezzi dell’azienda di mio padre, che non ce la faceva più... Riuscii a venderne una parte, e improvvisai una piccola azienda di shipping, andò sempre meglio, un anno dopo l’altro, con l’entrata diretta degli americani nella guerra ho avuto la fortuna di un’idea che mi venne naturalmente dall’esperienza di questo Mékong che scende per migliaia di chilometri dalla Cina. I francesi lo chiamavano la Rivière, è molto ampio, in certi luoghi cinque, dieci volte il Po a Ostiglia. Ma il porto fluviale non ha gli spazi d’un porto di mare, le manovre di entrata e uscita, l’inversione di rotta per la discesa, le operazioni di scarico avevano creato, appena cominciarono i massicci rifornimenti americani, anche due o tre Liberty al giorno, un affollamento senza soluzione. L’idea mi venne e subito la proposi ai vietnamesi del comando fluviale, poi agli americani. Bisognava cominciare dalla foce, a Cap Saint Jacques, la punta della pera che scende e finisce nel rapido estuario dove il Mékong e gli ultimi affluenti si gettano nel Mar Cinese meridionale. Qui, pensai, bisogna aspettare le navi, mandare a bordo due o tre tecnici dei miei, bene addestrati, che nei due giorni e due notti di navigazione fluviale, con l’aiuto degli equipaggi, sistemano gli ordini dello scarico, che così mezz’ora dopo l’attracco, comincia. Americani e

vietnamesi ubbidirono sbalorditi, presi in affitto una villetta da un italiano proprio sulla spiaggia del Cap, in mezzo ai banani, la porterò laggiù uno dei prossimi giorni; si fila, di giorno, in macchina, mentre nella giungla, ai due lati della strada, sparano e sparano. Laggiù si divertono come matti in mezzo a un nugolo di ragazze calate da Saigon, scendono i marinai dalle navi, in quelle due o tre ore di sosta, perché dobbiamo disciplinare il traffico e metterle in colonna per salire sul fiume, e tutto (ride) diventa un chiavatoio da non credersi... Vedrà, vedrà, anzi, se permette, ho qualche anno più di lei, d’ora innanzi ci diamo del tu, d’accordo?» Questo colpo di genio portuale fece della sua Transmar l’impresa marittima più florida di Saigon, i suoi impiegati, tecnici, facchini, salirono da una decina al centinaio. Divenne, di benestante che era, un ricco: «Credimi, tutto il denaro che incassavo mi pareva una riparazione di guerra, adesso siete voi che vi divertite coi rossi...». Non credeva alla vittoria americana, pensava soltanto a come salvare gli amici affettuosi, tenaci, coraggiosi che poi conobbi; e a trasferire in Francia, finché gli riuscì, quel capitale che gli scorreva nelle mani e che, dopo l’invasione comunista, investì in un’agenzia di navigazione a Parigi, dove si trasferì prima del crollo, nel 1972. E là rimase attivo per quasi vent’anni, fino a che le vecchie ferite, di continuo riaperte, non lo tolsero alla moglie, diplomata in pianoforte per desiderio di suo padre, ma farmacista di vocazione, e al figlio, oggi medico in qualche parte della Francia meridionale, a Carcassonne, credo. Cattolico fervente e

disciplinato, coltissimo, di una tempra morale quale raramente ho trovato tra gl’italiani della penisola. Fu, per me, un tesoro d’intelligenza, pazienza, saggezza, bontà e amicizia, il migliore degli amici che mai ebbi. Visitammo insieme città, esplorammo luoghi d’arte, paesaggi. Tornò a Bassano, riuscì a trovare una delle infermiere che l’avevano salvato nel 1945, e insieme partecipammo, nella vicina Rossano veneto, a uno dei primi convegni revisionisti sulla “resistenza” e la strage che ne seguì. Dopo il mio intervento, lo costrinsi amabilmente a raccontare. Ti rendo omaggio, Silvio, da queste memorie lontane. All’improvviso, mentre mi accompagnava dal porto dov’era ormeggiata la «Viminale», per un chilometro scarso di strada, all’albergo, mi disse, perentorio: «Preparati subito a lasciare il Continental. Domattina vengo a prenderti e d’ora in avanti, fin che resti qua, la mia casa sarà la tua. Giovanna e il bambino sono in Italia come sempre l’estate, io sono solo, con cinque persone di servizio. Ti darò una chiave, il posto è piacevole, ho una villa grande». Abitai da Pellas in tutti i viaggi, gli anni che seguirono. La società dei suoi amici vietnamesi, le escursioni con lui nei fondi, alti e bassi, di Saigon e delle due città satelliti, la spola in elicottero tra Saigon e il Cap, le soste nella giungla, villaggi e accampamenti di rifugiati, divennero la mia rete privata d’informazioni e osservazioni, e mi liberarono della convivenza forzata coi “colleghi”, le cui memorie quasi mai erano «condivise» come oggi si dice, e degli obblighi di fare tutto insieme, che in simili casi impongono abitudini di collegiali.

A notte alta, tra gli scrosci d’una pioggia impetuosa ma immobile e tiepida, raggiungo per l’ultima volta la camera del Continental dove abitò Graham Greene. Chissà poi se è vero, disse Silvio. Quelle cinquecento piastre en plus che ti hanno sfilato, mi sanno tanto di un’industria turistica che dura da anni. L’albergo mi appare, mentre mi aggiro per l’ultima volta nei suoi stanzoni, in un’aria immalinconita e fuori moda di vecchia colonia dismessa, i grandi ventilatori ruotano solenni e inutili per la concorrenza dei condizionatori, ma noblesse oblige. Le stanze sono antri freschi, il bagno è un salone, come lo chiama il lessico alberghiero, salle de bains. La clientela è diventata stabile come la guerra. Sulle porte, le targhette delle agenzie di stampa, delle televisioni, giornali e settimanali americani hanno corrispondenti fissi, e così le imprese fornitrici del governo, di trasporti, gl’innumerevoli ausiliari civili, le spie variamente etichettate, maschi e femmine, e altre femmine di carriera. Abitano qui anche gli ufficiali indiani della Commissione dell’ONU che dovrebbe controllare l’armistizio che non c’è più, è ormai un relitto archeologico. Ma loro, duri e fermi, l’ONU non li richiama, parrebbe brutto, e loro non controllano proprio nulla, se non le bottiglie di liquori di cui fanno incetta, le proprie barbe arricciate e unte, e il paradiso degli spacci militari americani, cui anche loro sono ammessi, per la gioia del mercato nero. Nel grande loggiato del terzo piano, a notte fonda, è un sordo brontolare e lampeggiare sulla curvatura color indaco dell’orizzonte, sopra l’informe marea dei tetti, sopra l’orlo

gonfio di palme. Lunghi bagliori arancioni e violetti si riflettono di nuvola in nuvola. Non è un temporale, è una battaglia. A venti, trenta chilometri di qua i cannoni sparano con tonfi profondi, filtrati dal fragore continuo della città. Altre luci si accendono, più vive, continue. Sono bengala che scendono a perdersi dietro il margine dello sfondo. Nell’ultimo bagliore della discesa illuminano alcuni puntolini non più grandi dei moscerini che girano attorno alle lampade. Aerei, elicotteri, che la notte inghiottisce. In camera, il rombo del condizionatore esausto assorbe gli ultimi tonfi. Domani avremo il rendiconto, numero dei morti e feriti. La guerra degli americani s’illustra col tremendous progress delle notizie nel teatrino dell’USIS, alla conferenza stampa di tutti i giorni. Aria fresca, legni chiari, giornalisti per benino fanno domande a voce quasi impercettibile. Il teatrino, elegante e confortevole come quello di una grande ditta, di un college, fu costruito certamente per ospitare documentari sulla ricerca scientifica negli Stati Uniti, film di Disney sulla natura, le più recenti stupidate dell’Actors’s Studio. Il palcoscenico è occupato da una lavagna nera di scuola, frecce e segni tracciati col gesso indicano gli spostamenti dei Vietcong e le contromosse di americani e alleati. A un tavolo siedono alcuni ufficiali, davanti a una grande carta militare dell’Indocina parla, con l’aspetto del giovane professore, occhi un tantino spiritati dietro i grossi occhiali cerchiati di nero dell’intellettuale militante, lo speaker civile, il signor Harold Kaplan, faccia intelligente e aperta di critico letterario o cinematografico, assai poco militare. Gli parrà uno strano

destino il suo, dover spiegare una guerra dove avevano creduto che bastassero filmetti e aiuti economici per evitare le guerre. Ora sono qui, e si sforzano di capire che prima bisogna fare la guerra, e poi i filmetti sulla natura e VActors’s Studio. Non hanno capito ancora, però, che la guerra non può essere limitata solo per decisione propria. Bisogna essere in due a limitarla. Altrimenti, si prolunga soltanto e non si vincerà mai.

«Se ne hai abbastanza delle menate, te la faccio vedere io la guerra in campagna», mi propone Pellas: «andiamo al mare a fare un bagno»; a Vung-Tau, il Cap Saint-Jacques dei coloni francesi, centoventi chilometri. Di giorno la strada è passabilmente tranquilla, nella notte il Vietcong riprende il suo dominio. Superiamo la vasta base aerea di Bien Hoà, a destra la sconfinata distesa dei depositi di Long Binh, fiancheggiamo per due dei quattro lati di dieci chilometri ciascuno, distese di baracche e tende, incredibili sfilate di camion e automobili nuove, trattori, elicotteri. Ai margini di questa fiera dell’industria militare, le montagne di vittime, mucchi vertiginosi di copertoni logori, cumuli di automezzi sventrati, sforacchiati, guasti. Un giorno la vegetazione ricoprirà questi cimiteri di ferraglie e li trasformerà in enigmi per gli Schliemann dell’età postatomica. Corriamo su una strada che un tempo doveva inoltrarsi tra folti palmeti, piantagioni di caucciù, giungla impetuosa. Cosi si capisce dai mozziconi di tronchi che sporgono tra i cespugli di mangrovie. La relativa sicurezza del nostro viaggio discende dalla metodica distruzione di tutti gli alberi per una fascia d’un

duecento metri ai bordi della strada. Resteranno le foreste bruciate per quarant’anni. A una svolta, dove la vegetazione è ancora folta, tre elicotteri scendono a precipizio sopra una cupola di alberi, poi altri tre, spariscono dietro una cortina di verde, ricompaiono, volano via, e eccone altri che sopraggiungono e ripartono. Prego Silvio di fermare la macchina, lo fa di malavoglia: «Ma sei matto, lì combattono, non senti?». Saranno tre, quattrocento metri. Gli elicotteri portano truppe, tornano vuoti, vanno a caricarne altre. Ora la sparatoria si fa più rumorosa. Traccianti salgono in aria, le scie circondano gli elicotteri come ghirlande, la fila di macchine scorre senza intoppi. Chi combatte, e chi va al mare. Un po’ più avanti, sulla sinistra, una lunga fila di vietnamesi guazzano le gambette magre nell’acqua di una risaia con grossi involti sulle spalle. Vanno verso un monterozzo tozzo e squadrato, lì sorge un fortino, una torre di guardia come quella che racconta Graham Greene nella notte. Uguale alla descrizione, le guerre si succedono, la tecnica è sempre la stessa. Scaricano i sacchetti di sabbia, tornano a prenderne altri. È uno dei cento e cento fortini di questa strada, a guardia degl’innumerevoli ponti, le dighe, le chiuse, sempre buttati all’aria, sempre ricostruiti. Compaiono piccole alture rotonde, piene d’una vegetazione lanosa, come gli Euganei. Ragazzi e bambine, sull’orlo della strada, protendono ceste di mangustan, il delizioso frutto con la scorza violetta e gli spicchi di verginale dolcezza. Altre ceste son piene di pommes quenelles, pasta celestiale, squame come il carciofo, odore d’incenso. Altri ragazzi

sporgono le braccia cariche di enormi granchi d’acqua dolce ancora vivi, come i limoni sulle rive del Garda. Guazziamo nell’acqua torrida e torbida del Cap davanti alla folla di navi in attesa del loro turno per infilarsi nel Mékong e risalirlo. Sul lungomare le villette garbate dei tempi francesi scompaiono tra le stamberghe di cemento verniciato. L’Asia e l’America con in più la guerra, compongono un’orrenda mistura che inghiottisce e divora le ultime grazie dell’Europa che fu. La folla domenicale, svagata e vischiosa, non vuol saperne di guerra, si pigia attorno ai chioschi dei venditori di bibite ancora arricciolati di vezzi liberty. La macchia folta, i palmeti in riva al mare brulicano di cittadini che si godono la vita, affatto ignari della lunga petroliera, delle navi da guerra grigie che fumano nella bruma immota. Dentro due furgoni Volkswagen della Croce Rossa, lasciati semiaperti per un po’ d’aria, infermieri e crocerossine vietnamesi scopano senza ritegno. Altri si palpano, ridono nell’erba, una voce italiana bercia qualcosa come «Bamboleo de amor» da un transistor giapponese. Nel ritorno sostiamo presso un tempio buddista nella campagna. Ridacchiando, agitando le testone rapate, dimenandosi nelle tonache marroni, i giovani bonzi ci attorniano, ci afferrano per le braccia, interrogano eccitati, plesse, plesse? Ma sì, anche presse, che cosa volete? Vogliono essere fotografati, mugolano di piacere appena la macchina esce dalla custodia, si mettono in posa con querulo narcisismo. Manderemo le fotografie? Ma certamente, porgiamo il taccuino: «Je s’appelle Mihn Hue», scrive il più agitato che ricorda un po’ di francese, con grafia di contabile. Un impiegato di Pellas è alle prese con due

bambinetti che chiedono sigarette. Gliene dà una manciata quando si avvicina un vecchietto barbuto e severo. Somiglia a Ho Chi Minh, tutti i vecchietti somigliano a Ho Chi Minh, per via delle barbette rade, dei grossi lunghissimi peli bianchi fino alla cintola che paiono incollati uno per uno. Pellas sorride imbarazzato, pensa che il nonnino ci rimproveri perché diamo sigarette ai bambini. Macché, quello si fa tutto garrulo e pigola «Cigalette, cigalette», ne accende una e con cento mossettine si mette in posa accanto al tronco d’un albero. Anche lui vuole la fotografia. Filiamo verso Saigon. Il fortino di questa mattina è finito, già bocche di mitragliatori sporgono dalle feritoie tra i sacchi di terra. Gli ultimi ritardatari della milizia popolare vietnamese prendono posizione. Sono coraggiosissimi, altro che gli americani, dice Pellas, ma pochi, li ammazzano ad uno ad uno nei fortini isolati nella notte. Tal quale il racconto di Greene. La giornata è finita, per loro ricomincia la guerra. Con l’arrivo del buio, anche questa strada, come tutto il delta, cambia padrone.

«Huè Antiques»

[Taccuino G, 25 Giugno 1966.] Di mattina presto, il Commandant Hoan mi telefona a casa di Pellas. Vorrebbe vedermi a mezzogiorno. «Domani mattina, Lei accompagnerà Ky a Hué, dove andrà aH’improwiso a riprendere possesso della città. Ma debbo farle alcune raccomandazioni». Lo trovo che giocherella con un astuccio di pelle che avevo depositato alla sede del governo nove giorni fa. Contiene un mio piccolo omaggio per Ky; un esemplare «fior di conio» delle due lire d’argento del 1923, col fascio littorio e la scritta «Meglio vivere un giorno da leoni che cent’anni da pecora». Nella lettera unita, la frase è tradotta: «Veuillez agréer cette pièce de l’Italie d’autrefois, comme portebonheur de pilote». Pensavo che «Mieux vivre un jour comme un lion, que cent ans comme un brebis» dovesse piacere al giovane che ama il rischio, le uniformi vistose e le belle donne, sbalzato all’improvviso su una poltrona di primo ministro. «Non me lo rovini, la supplico», conclude Hoan: «non potrei non fargli avere la lettera e la moneta, ma la prego. L’anno scorso disse a un giornalista inglese che ammira Hitler, non nasconde nulla, chissà che cosa le fa dire lei».

Prometto che non gli farò dire nulla, e anche quel nulla me lo terrò tutto per me. 26 Giugno 1966. Le sette della mattina, aeroporto di Than Son Nut. Due vecchi Dakota con le eliche già in movimento. Sul primo salgo con due corrispondenti americani, un tedesco, un francese, due giapponesi e un nugolo di ragazzini, così continuano a sembrarmi, carichi di macchine fotografiche, i valorosi colleghi del Sud Est asiatico. Dal finestrino vedo arrivare Ky, uniforme nera e sciarpa rosa, in una frotta di generali e ufficiali in uniformi caki e mimetiche, carichi di decorazioni e pistole. Sale sul secondo Dakota, s’installa al posto di pilotaggio. Prima delusione: tra Hoan e la moneta, credevo d’essere invitato sull’aeroplano presidenziale. Decolliamo l’uno dopo l’altro, da Sud a Nord attraversiamo il territorio dei guerriglieri, gonfie foreste, campagne d’un verde così intenso, che di lontano dà nel violetto, fiumi marroni serpeggianti, rivoltati su se stessi, ci abbassiamo su stagni e risaie, riconosco la baia di Da Nang, seguiamo la costa fino a Phu Bai, la più settentrionale delle basi, a ridosso del 17° parallelo. Di qui partono i caccia per le missioni sul Nord, gli elicotteri che vanno nella giungla a cercare i piloti abbattuti. Appena messi i piedi sulla pista bollente, vedo Ky scendere dal suo apparecchio e balzare sul primo elicottero con le pale in moto. Parte a rotta di collo, poi un altro, un terzo carico di ufficiali americani, un quarto, un quinto. Partono infine i due con a bordo noi. Voliamo dondolandoci nell’aria a pochi metri d’altezza, in lunga fila, seguendo la vecchia linea ferroviaria dei

tempi francesi, ora inutile. Sorvoliamo casupole col piccolo stagno, il ciuffo dei banani, i contadini curvi nell’acqua della risaia, cappelli di paglia a forma di cono; i bambinelli che sciaguattano con uguali cappellucci in testa, si voltano in su; soldati vietnamesi, americani, distesi nella corta ombra dei carri armati e autocarri. Ci abbassiamo sopra decrepite tombe semicircolari di pietra grigia, sfioriamo gli alberi e ci si para davanti la sequela di torri merlate dell’antica cittadella imperiale. Gli angoli della fortezza arricciolati in su, le mura, i tetti, le decorazioni, l’antico oro dei metalli, le patine azzurre e verdi delle ceramiche, tutto marcito, grondante umidità e vecchiezza. Beate le civiltà che muoiono al secco, le rovine dal sorriso asciutto e calmo dei marmi di Paro. Qua, come a Angkor, tutto si dissolve e corrompe in un umidore vorace e miasmatico, su cui regneranno alberi gonfi, onnivori, tentacolari, mostri di radici che saltano fuori dalla terra. Ecco il forte centrale, la bandiera gialla a strisce rosse, la gran tribuna con tre poltrone di velluto verde, grottesche, orribili. 0 Lyautey, Lyautey, gran generale: e gran letterato, mi par di continuare le Lettres du Tonkin del 1896, che leggevo ieri per preparare lo spirito. Ecco le ragazzine vestite di veli, i reparti in armi. Ci posiamo a ridosso di un forte, Ky e il seguito entrano nella tribuna, una banda militare intona curiose marce, arrivano soldati vietnamesi e americani per ricevere decorazioni. Ky scende dalla tribuna col passo dinoccolato dell’elegantone, scatta sull’attenti, appunta tre, quattro cose, poi si stufa, fa dietro-front e torna a sedere; un altro generale continua l’opera, poi si stufa anche lui, cede il compito a un colonnello, e questo a

ufficiali ancora inferiori. Gli americani hanno aspettato, rigidi e impalati sotto il sole furente per una ventina di minuti, che l’ultimo soldato semplice del Vietnam ricevesse la sua medaglia. È il modo dei vietnamesi di far vedere che sono indipendenti, che se ne fottono: un pizzico di maleducazione, tutte le volte che ci scappa. La pazienza degli altri, bisogna dirlo, è infinita. Per tutto questo tempo, Ky ha sempre fumato le sue Salem al mentolo. Eppure, penso, era ufficiale d’aviazione francese dove queste cose non erano permesse, e fumare in servizio, meno che mai. Conclusione difficile. Ha deciso di abbandonare la disciplina «occidentale» in nome dell’originalità locale? 0 vuol sembrare americano attraverso l’abbandono di ogni formalità e disciplina? Risposta impossibile.

Filiamo dietro la macchina presidenziale lungo un foltissimo schieramento, rangers, marines, paras. Dietro le transenne, le truppe buddiste e loro amiche, che s’erano ammutinate, senz’armi, sorvegliate dalla polizia militare, in attesa del perdono. Arrivati a un’esposizione di armi cinesi e russe, cecoslovacche e tedesche orientali catturate ai Vietcong, mi trovo Ky a due passi, mi dico adesso o mai più e gli vado incontro: «Mon general, je suis le journaliste italien qui vous a envoyé un souvenir», e subito mi stringe tutt’e due le mani, che pensiero simpatico, che bella frase in quella moneta, come trovo il Vietnam dopo un anno. Gli faccio i complimenti per il successo politico, il governo stabile, la vittoria a Da Nang, e adesso questa di Hué, avete cominciato a vincere la guerra... «Chut!», m’interrompe, «che cosa dice, ma lei scherza, non sa, non

vinceremo mai, l’ho capito bene, quanto a me sono finito, fottuto (foutu), tornerò ai miei aeroplani, non resta altro che combattere...». Siamo arrivati alla sala del municipio, dove ha fatto riunire i funzionari civili e le autorità governative. Molta di questa gente ha militato coi buddisti ribelli fino a due settimane or sono. Incontro non facile per un capo di governo così eccentrico e discusso. «Non si allontani», mi dice Ky, «l’aspetto, o la faccio cercare, nei vari luoghi dove andiamo. Lei ritornerà a Saigon col mio aeroplano, faremo una lunga chiacchierata...». Non ho capito, ovviamente, nulla, del discorso. Sono rimasto, chissà perché, l’unico caucasian (così ci chiamano qua), nessuno poteva tradurmi una frase. Parlava l’aspetto: un giovane maestro con una scolaresca ombrosa. Sedeva a una tavola coperta d’un panno verde, dietro lui molte mappe appese al muro. Misurato, calmo, portava sovente la mano al cuore come a dire, ‘Credetemi, tornerei volentieri ai miei vecchi apparecchi’. Un magro mandarino in veste leggera di seta violetta adorna di ideogrammi dorati, la lunga e rada barba simile a quella di Ho Chi Minh (che è nato qui vicino, mentre Ky viene da Hanoi) ascoltava assorto e fumava. Mantiene parola, e sempre mi fa cercare, da un aiutante o un poliziotto. E quando il civile straniero resta inevitabilmente separato da sbarramenti, militari o di folla, sempre fa aspettare l’autista fin che il colonnello di polizia non mi ha ritrovato. Di corsa giungiamo all’immenso fiume immoto, la Riviera dei profumi, tutt’altro che profumata, e mentre il seguito viene imbarcato su automobili e torpedoni per un lungo giro fino al ponte lontano

che bisogna traversare per raggiungere l’albergo dove avremo il rancio, Ky fa dirigere verso la riva dove un motoscafo potente è in attesa. Montiamo senza scorta, afferra il volante, e via: un ragazzo che si diverte a guidare il motoscafo. «Mai guidato un treno?», domando. «No, le nostre ferrovie non camminano da un sacco di anni». Gli faccio un paio di fotografie, si volta, domanda quanti anni ho. «La sua stessa età», rispondo. «Ossia, che classe». Rispondo, 1930, e lui, «quel mois?». «Agosto», rispondo. «Et moi aussi», riprende divertito, «quel jour?». E qui i conti non tornano più, per due giorni. Io per un pelo, proprio, dentro il Leone, e lui, sempre per un pelo, sotto la Vergine. «Poil de vierge», rispondo con umorismo che sa di caserma.

L’approdo è lontano, stiamo qualche secondo in silenzio, poi rompe: «E lei crede che stiamo vincendo la guerra?». Rispondo che quello che ho visto, la quantità incredibile, paradossale, degli armamenti che hanno sbarcato qua rende impossibile agli americani perdere questa guerra, qualsiasi cosa facciano. «Vous vous trompez», taglia secco, «hanno già perso. Abbiamo perso perché gli americani hanno deciso: dalla loro dottrina di guerra è escluso e sarà sempre escluso lo sbarco a Nord. Sbarcare a Nord era la nostra sola speranza di vittoria. Noi, anzi loro, abbiamo i materiali, le navi, tutto quello che occorre per occupare il territorio nemico; occupata Hanoi, occupato il Tonchino, la guerra è finita. La guerriglia si estingue, non possono mica alimentarla direttamente dalla Cina, dalla Russia. A parte il fatto che, a questo punto, ogni interesse cadrebbe. La pista di Ho Chi Minh, quella ragnatela di sentieri che noi non possiamo

controllare, scendono lungo il Laos, e poi in Cambogia, fuori del nostro territorio, può essere alimentata solo dal Tonchino, guardi la carta. Occupare il Tonchino, con uno sbarco a Haiphong, per gli americani sarebbe un giuoco. Non ce la faranno mai nella giungla, ma lo sbarco a Haiphong è il loro mestiere. Eppure non lo faranno mai. Credono che la Russia o la Cina interverrebbero nella guerra. Non hanno capito niente. Ci sono perfino quelli che credono che interverrebbero insieme. Non c’è verso di farglielo capire. Non capiscono e, in fondo, rispettano non dico gli accordi, che su queste regioni non ne furono presi, rispettano lo spirito di Yalta. Loro venerano Yalta. Il Tonchino, dopo gli accordi di Ginevra, appartiene agli altri, e loro rispettano la proprietà dei comunisti. Vorrebbero solo che i comunisti diventassero così educati da ricambiare. Il loro scopo di guerra è soltanto questo. Adesso, poi, Mac Namara e compagni si sono innamorati di un’altra idea bellissima: si sono messi in testa che i russi li aiuteranno e, anzi, adopereranno la loro forza di persuasione per convincere i cinesi. Ha capito?» Non gli credetti, pensai che Ky desse sfogo a un’ondata di pessimismo, cercasse compensi a qualche delusione, umiliazione ricevuta. Impiegai pochi mesi ad accorgermi che aveva terribilmente ragione. L’anno dopo lasciò il governo, e cominciò l’agonia: otto anni di agonia, di battaglie vinte sul terreno e perdute nelle università americane, all’ONU, nei tavoli dei negoziati. Otto anni di idee bislacche, di espedienti, di polemiche e rivelazioni. Otto anni sprecati nel vano tentativo di risolvere un’equazione insolubile, vincere al Sud senza invadere

il Nord. Otto anni di stupidi sacrifici sulle are di Yalta. Neppure il ritorno di Nixon servì a correggere una situazione irrimediabilmente compromessa. Nixon cercò soltanto di limitare il disastro, e non ci riuscì. Il solo politico americano che avesse capito il problema del Vietnam, Barry Goldwater, il candidato repubblicano del 1964, fù sepolto sotto valanghe di accuse isteriche; lo chiamarono pazzo e guerrafondaio e tornarono a eleggere Johnson che completò l’impresa reticente, ipocrita, tutta rooseveltiana, di Kennedy, e li pilotò al disastro. Non feci il minimo uso dello sfogo di Ky. «Non glielo rovinerò proprio, non una parola di quello che mi ha detto verrà adoperata nei miei articoli», assicurai al comandante Hoan, quando andai a ringraziarlo e congedarmi. Chissà com’è finito, chissà se ha salvato la pelle. [Annotazione del 1997.] Lo rividi a una festa ufficiale, pochi anni dopo. Un vecchio deluso. Con la loro generosità, gli americani avevano fatto dell’asiatico alleato il proprietario di una stazione di servizio. Arriviamo all’approdo. Il problema è ridurre i giri del motore, lasciare che il battello scivoli per inerzia, riavviare un attimo per l’attracco alla banchina senza far sbattere la prua: «Tutti lì che mi guardano, se sbaglio questa manovra, diranno che sono un cattivo pilota, lei sa come vanno queste cose», simula compunzione e timore. Nella vastissima sala del ristorante, mi fa un cenno, mi chiama alla sua tavola, mi ficca tra i generali americani Walt e English, il console degli Stati Uniti si scioglie nel sudore, quello cinese (ossia Taiwan) è asciutto, due ragazzine, belline, una in abito occidentale, una nell’ao dai del

paese. Simboli banali, da piangere (oh, Lyautey!). Un’orchestrina suona, con stecche spaventose, decrepite canzoni europee, Besame mucho e perfino, con tromba solista, la Serenata di Toselli. Aria curiosa, di vecchia guarnigione, gli ufficiali locali hanno portato le mogli, le due ragazzine si rivelano cantanti e si fanno sentire. Inni sconosciuti si alzano sgangherati da fisarmoniche e sassofoni, americani e locali balzano in piedi urlando e battendo le mani, fiumi di birra scorrono per terra, arriva un’immensa torta e, ahimè (oh, Lyautey!), una sciabola con l’elsa dorata. Ky si aggiusta il fazzoletto rosa, prende la sciabola, e taglia. Una festa in maschera, mezzo militare e mezzo goliardica, a venti chilometri di qua c’è la linea di Ginevra, a poche miglia si combatte, è in corso un’operazione chiamata Hastings, i Vietcong sono nella zona di Tri Quang, un paese che si chiama come il monaco che fino a pochi giorni fa era il padrone di questa città. Strano mondo, incredibile guerra. La festa finisce, ci alziamo di scatto, mi metto nella scia del primo ministro che non mi dimentica e mi fa cenno di lontano. Di corsa alle macchine, dalle macchine agli elicotteri. Ky mi fa cenno di seguirlo, sale, prende il volantino. Mentre mi arrampico sul predellino di dietro con due o tre generali, mi si para un coso grosso, ufficiale di polizia, che non può ammettere di far salire uno straniero e borghese sullo stesso elicottero del generale primo ministro. Discutere, impossibile, il rumore di tanti motori copre ogni cosa, l’elicottero prende quota, se ne va. È ormai lontano, e io resto come un cretino: «Imbécile, crapaud, salaud», comincio a sparargli addosso il mio repertorio d’insulti di caserma, ma intanto sono a terra, in un polverone di sabbia

rossa, di sassolini, di pagliuzze, gola affogata, occhi irritati, e poco mi consola malmenare il mio cretino, che intanto comincia a capire la situazione e in quel caos scatenato si prova a esibire un tardivo pentimento. Quando il polverone comincia a dissolversi, prende un’aria cerimoniosa e si mette a offrire compensi alla mancata partenza col primo ministro. Monsieur, io sono capo della polizia qui, se le piacesse, la farei accompagnare in una maison molto riservata, molto elegante, il miglior bordello di Hué... «Mi faccia portare da un antiquario, piuttosto», rispondo asciutto e virtuoso. Una volata con una jeep della polizia, per canali e mostruose edilizie marce, cadenti, tra il locale abietto e il perverso europeo, il tutto legato dal cemento che si screpola: «le cancer européen», così Lyautey chiamava il cemento che cominciava ad apparire nell’edilizia dell’Annam, 1896! «Hué Antiques», la bottega è chiusa, bisogna cercare il signor Vuong-Van-Khuè in casa. Quando vede quell’apparato di poliziotti il poveretto si mette a tremare, crede che siamo venuti ad arrestarlo, fatica a riprendersi, «ma chi è, dunque, lei?». Ha ragione, e gli rispondo più rassicurante che posso: «Je suis un client, monsieur... ». «Un client? Je ne vois plus de clients depuis des années...Un client», si riprende sbalordito, nel tremito della solita barba rada, i lunghi peli grigi che gli arrivano alla cintola, proprio come Ho Chi Minh, tutti i vecchietti qua sono come lo zio Ho, ormai l’ho capita. Pigola rinfrancato, saltella, apre ante polverose, mi guida tra gli scaffali. «Ecco qua, signore, questa boule la tenevo per il Musée de l’Homme, vous savez, a Paris...». Fu così che il «bowl, porcelaneous stoneware with crackled greenish blue

glaze... probably Chin dynasty, twelfththirteenth century» (copio dal Handbook of Chinese Ceramic del «Metropolitan» di New York, didascalia di un bowl identico al mio) partì da Hué verso il portico a colonnine azzurre del secrétaire Jacob frères che Mario Praz mi fece comperare. «Inestimable, monsieur, sans prix», le parole dette con voce tremante per la paura appena passata, o la nostalgia del distacco che s’annuncia, mi risuonano tremolanti nella mente. Contemplo la coppa tra i suoi compagni di viaggio: «un vase époque KhangHsi, bleu foncé», i due verdi, «Chia Ch’ing et Ch’ien Lung», e «le sang de beuf, époque Ch’ien Lung, fin 17° siècle», dice la fattura, minuziosa e precisissima. Una gloriosa rapina, resa legale dai forse mille dollari pagati per tanto bendidio. Mi tengo un Vietnam privato sparso nella casa, i suoi oggetti fusi a meraviglia con l’impero dell’insieme, le lampade lisce, i quattro grandi elefanti di maiolica, i vasi cinesi, i vietnamesi che si trovavano ancora al mercato, come a Firenze le porcellane di Doccia nell’ottocento; la superba sputacchiera [l’eufemismo antiquariale la ribattezza vose carré, ma quella era la funzione] con la greca rosso pompeiano e i mazzetti. Ci sono ceramiche e porcellane locali stupende, eppure non pareggiano il prestigio della Chine. Così quelle di Firenze o Venezia restano sempre in sottordine a Parigi Meissen e Berlino. Gli etruschi fabbricavano i loro vasi, ma per gli usi nobili li importavano dall’Attica, e siccome erano più ricchi dei greci, se ne sono sempre trovati più qua che nei luoghi d’origine. Questi acquisti nelle ore morte delle guerre altrui (penso ai vetri e bronzetti romani che rastrellai dai rigattieri di Amman, l’antica

Philadelphia, durante una delle tante guerre cagionate da Israele) danno al forzato delle notizie un piccolo brivido degli antichi saccheggi. Contemplo il mio Vietnam privato con egoismo classico. Tra tanti rivolgimenti di fortune che, al confronto il Magnificat è uno scioglilingua, la mia spedizione alla riconquista di Hué conserva ancora il bottino di allora. Uno dei pochi conti in attivo nella mia esistenza.

*** A Phu Bai, dove il colonnello mi fa accompagnare con una jeep, c’è un Caribù, ancora coi portelli aperti, in partenza per Da Nang. Scavalco il giornalista tedesco che aveva sbagliato elicottero e non era arrivato a Hué, mentre tenta, con la sicumera volgare dei tedeschi quando si credono importanti, di corrompere un ufficiale vietnamese. Vorrebbe persuaderlo a portarlo a Saigon col suo aeroplano: «My paper pays», il mio giornale paga, sbraita il cretino, senza scuotere l’altro, che continua a fumare placido all’ombra della sua ala. Ma c’è di meglio, un D.C. 7 dell’Air Vietnam, in fondo al campo, si allinea per il decollo: «It goes to Saigon», mi dice un negro gentilissimo, che ha seguito le mie manovre scettico; d’improvviso mi fa un cenno, lo seguo, salto sulla jeep, mi porta sotto, si apre il portello, mi ci infilo dentro gridando «Bao-ci Bao-ci», stampa, stampa, il portello si richiude, laggiù sulla pista c’è il tedesco che corre a piedi, ma che stupido, dove corre penso, fino a che il polverone non lo avvolge, e lo rende invisibile.

In un’ora siamo a Saigon, Silvio Pellas mi aspettava a casa. «Andiamo fuori, così mi racconti, ti porto a Cholon, ci sei mai stato l’anno scorso?». Dalla sua villa, sono cinque o sei chilometri. «Vedrai che cos’è un’isola di Cina», e ferma la macchina. Entriamo in una porta aperta e oscura sotto un’insegna di locale pubblico. Il buio è interrotto da rade candele, numerose coppie ballano al suono d’una jazz-band 1930. Fox-trot, charleston, vecchi tanghi escono compassati da una frigida orchestrina. Abituandosi al buio gli occhi discernono solo coppie dello stesso sesso, uomini che ballano con uomini e ragazze tra loro. Sarà una scuola di ballo, concludo dall’aspetto rispettabile, i ballerini paion scolari, l’aria da oratorio. Nei vecchi balli delle campagne italiane c’era sempre un gruppo di ragazzine troppo grandi per mandarle a letto, troppo piccole per metterle con gli adulti, che ballavano tra loro. Pellas ride. Dai paragoni mi riscuote un cinese ben vestito che s’inchina nell’alone di una candela: «Monsieur, si vous voulez un chevalier...». Silvio ride ancora. «Chevalier?», domando, perplesso. «Oui, un garçon», insiste e addita un tavolo dove i «cavalieri», identici e annoiati, sono pronti a venire da noi, se un dito accennasse una scelta. Rifiuto con fermezza cortese, e giro gli occhi verso un altro tavolo, folto di ragazze dentro jeans strettissimi, l’ultimo grido da queste parti. «Ah, les demoiselles», gorgoglia il cinese, «mais elles sont pour les dames, Monsieur. Ici vous trouvez des chevaliers, pas de chevauchures», cavalieri, non cavalcature. In questi strati elevati il francese di Voltaire resiste al badiale schiamazzare americano.

Giadihn, la città cocincinese dove approdiamo dopo altri quattro chilometri, suggerisce uno svolazzare d’insetti, quella poltiglia isterica vorticante intorno ai lumi in campagna le sere d’estate. Quel moto inafferrabile, quel ritmo ondeggiante d’inesauribili vortici di moscerini e zanzare, effimere d’ali trasparenti che piroettano mille volte su se stesse e cozzano contro i paralumi. Cholon, al contrario, è il regno delle termiti, attaccate al suolo, non danzano, strisciano lente e metodiche. Hanno sempre una meta, anche se non la indovini. Non li interessi, non ti guardano; voltano il capo se posi lo sguardo su loro. I bambini piangono o gemono, non ridono mai. Ridono, invece, questi vietnamesi, nell’eterno pigiamino di cotone, mentre i cinesi stanno nudi dalla cintola in giù, piccoli ventri già gonfi d’idropisie. La più misera baracca difende la sua privacy con drappi sgargianti. Nella parete centrale, bene in mostra, sorride Ciang Kai Schek. Mao lo troverai, non meno sorridente, nella stessa parete, voltato verso l’interno. Per i vietnamesi, la privacy cinese non ha senso. Senza senso e senza oggetto è il coprifuoco a Saigon. Dove va a dormire questa famiglia che ha casa per istrada, accampata intorno a un carrettino? Si accoscia nei suoi stracci e non si muove. Spostare la propria stuoia fino al marciapiede di fronte, ecco la violazione del coprifuoco. Graziosi, nei soliti pigiamini, nugoli di bambini tumultuano dietro le cancellate, sui vani delle porte dischiuse, cercano di riguadagnare il marciapiede di tutta la loro vita, fin che l’urlo del soldato non li ricaccia nelle tane, dalle cui fessure grandi occhi neri sbarrati anelano alla strada.

Un vecchio grinzoso si curva, dentro un androne, su un corpo magro disteso in terra. L’uomo disteso mugola appena e muove ritmicamente le ginocchia ossute, il vecchio gl’infila tra le costole lunghi aghi d’acciaio. A intervalli regolari, sulle spalle, sul costato, brillano fiammelle accese dentro globi di vetro, la fiamma sulla pelle. Quando la fiamma si spegne, la mano grinzosa infila il suo ago; cura contro i reumatismi, chissà. Tre bambini biascicano attenti, l’uomo disteso muove ancora le ginocchia, l’altro si alza, toglie i lumini, lascia gli aghi, siede in terra e accende una sigaretta. Uno sciame di taxigirls nei bianchi ao-dai sguscia fuori da uno dei mille locali notturni, seguito da cinque americani dal passo dondolante. L’aria è viscida, non piove, grosse gocce d’acqua scivolano giù dalle foglie. Ti senti sfinire avanti i cortili afosi, ancora milioni d’insetti saltellano danze epilettiche intorno ai tubi biancazzurri del neon sussultante. I gechi, l’enorme bocca rugosa semiaperta, aspettano, torpidi e immobili, che il moscerino, la farfalla, un coleottero rosato dalle lunghe antenne rosse, esausto della sua danza, venga a posarsi su quell’angolo di muro. E allora li vedi fare una piccola mossa, lenta come di un bove che si china per bere, il sussulto di un attimo, e l’immobile deglutisce abbassando pudicamente le palpebre squamose.

Nei cortili l’umanità densa e lubrica si accalca spumeggiante, un mare ricacciato e risospinto dentro grotte di scogliera. Giovani padri taciturni stanno inginocchiati accanto a bimbi distesi, in attesa che, dietro la tenda, una moglie sbrighi qualcosa con l’uomo che è entrato dietro di lei. Ragazzine di

tredici, quattordici anni si stendono in letti zuppi di sudore col marine rosso di sole e ubriaco. Tra il giaciglio e il resto dell’abitazione c’è solo una tenda colorata. Contratti elementari nel patois osceno di due o tre lingue, perentorie pretese maschili, un confabulare rapido, mosillabico, delle ragazzine, poi il silenzio dell’azione. Dietro la tenda la vita della famiglia continua, il brontolio della vecchia grinzosa, il tramestio della madre, anche lei già grinzosa, che accudisce insieme agli ultimi figli suoi e ai primi prodotti delle figlie che stanno dietro la tenda. Ti chini su una donna macilenta di forse trentacinque anni, rannicchiata sul marciapiede tra marmocchi affamati. La bambina avrà tre anni, la madre capta un nostro interesse e racconta nel suo francese stento la sua storia, marito morto in guerra, i bambini, la fame. La conclusione è la solita, le mani vanno in tasca, ne traggono monete, biglietti più del solito. Ora le prende paura della sua fortuna, si guarda attorno, la piccola folla notturna ha visto e s’accresce, chiede la sua parte, protende cinque, dieci mani in un vociare supplichevole e tenace. Fa alzare la piccola, che si leva con una nobiltà istintiva, da intimidire. Capelli fini e puliti, il piccolo corpo slanciato, la testa reclinata con semplice grazia, il volto dice una disperazione precoce, rassegnata e calma. «Si vous voulez la prendre vous me donnez mille piastres», quattromila lire dalla borsa nera, otto, dodicimila al cambio ufficiale, «elle a sept ans, elle est vierge». E intanto la razza cambia, le nuove generazioni vengono su, da questo bagno di guadagni turpi e traffici immondi, più svelte, più sane. Ragazzine floride, più alte, aspetti salubri, visi svegli.

Per un moralista la conclusione è sconsolante, il vizio migliora la specie. Quale che ne sia la causa, il cibo nuovo e diverso, gli alcoolici, le bibite, queste ragazze crescono alte e snelle, genereranno figli diversi anche da loro. Chiunque vinca o perda questa guerra, ne verrà fuori un paese ricco, prospero come Formosa. Come le Filippine, questi curiosi intrecci biologici che le guerre di successione moderne preparano per le ultime periferie dell’occidente. Il piacere di Saigon ha pulsato due, tre anni, all’epoca dei «consiglieri» e prima dell’impegno in massa di quest’anno, in centinaia di localetti chiamati Miami, Crazy Club, Sporting, Capitol, Ramble, dove miserabili simulacri d’amore si trascinarono nel tanfo di birra e sudore, soia e profumi, whisky e cipolla, l’indecifrabile puzzo dell’Asia ritmato dalle monotone cantilene oscene, dieci parole ripetute nel continuo risolino animale. Anche la storia del piacere richiede un’apodosi, prima di chiuderla. Si continuano a raccontare coriacei ricordi e risapute tradizioni, in tempi lontani esistevano, in Cina e periferie sue, scuole speciali d’arti del piacere. Credo che non fossero superfluità raffinate, ma necessità elementari. Quasi che la raffinatezza del piacere non fosse qui, come si continua a supporre, sviluppo e perfezionamento d’un fondo naturale; ma un artificio costruito sopra un comune nulla di totale indifferenza. Scuole, abitudini, non meno indolori e insapori, epperò artificiali, della sistemazione dei fiori nei vasi, o delle grafie perfette sulla carta porosa che non tollera cancellature. Il denaro che scorre a fiumi dalle tasche dei soldati, impiegati, forestieri, crea assurdità sociali, sbalzi di fortune, sovvertimenti

inauditi. Ecco i drammi nascosti della vecchia borghesia «compradora» che s’immiserisce e scompare. Il professore d’università redarguisce la figlia che si prostituisce e si sente rinfacciare i guadagni, dieci, venti volte superiori ai suoi. Mi hanno indicato lui e lei a una festa dove fui invitato grazie a Silvio Pellas e René Giung. Ci sono gli sprezzanti mandarini che soffrono la fame. Sono gli ultimi che sanno vergare gl’ideogrammi volteggianti; gli ultimi che si ostinano a scrivere il cinese antico; gli ultimi legami di quest’oriente in una pazza libera uscita con l’oriente dei libri e delle favole. Questi e altri simili appunti apparsi nei due fogli per cui lavoravo mi portarono una letterina di Giuseppe Prezzolini: «Firenze, 18 Agosto 1966. Caro B., ... leggo sempre con ammirazione le tue cartelle dal Vietnam, l’idea che il vizio lo migliori è eccellente...».

Agonia e morte di M.me Escalation...

[20 Luglio 1967. Taccuino Hi] Terzo sbarco a Saigon, terzo anno. La guerra si è fermata. Gira su se stessa. Una sensazione d’immobilità che si coglie subito. L’armata americana si sente umiliata. La prima volta, credo. I miracoli di forza logistica, le esibizioni di ricchezza che sbalordivano gli stranieri, suscitano, ora, piuttosto sarcasmo. Passata l’invidiosa stupefazione che ci colse, due anni fa, all’improvvisazione di una base navale come Cam Rahn, sorta dal nulla nella baia dove la sfortunata flotta dell’ammiraglio Rozestvenski, dopo aver girato intorno all’Africa e all’Asia, si concesse una sosta nel 1905, prima di andare a Tsushima a farsi fare a pezzi dalla flotta di Togo. Ora la base continua a scaricare cascate inesauribili di carri armati e aerei, escavatori, elicotteri. E ammonisce sull’inutilità della forza materiale, quando lo spirito che le sta dietro è fiacco e vile. Sempre con le mani armate e il cuore disarmato che diceva Machiavelli.

«Ma caro amico, la battaglia dell’Ebro non venne mica subito», m’intimò, grave e pensoso, il generale Walters. Ecco, mi rimetto al segno, il passo indietro mi è servito a spiegare perché la battaglia non verrà. Pellas è in Francia, torno agli alberghi.

Questa volta ne cerco uno moderno, il «Caravelle». Mi presento al Juspao a rinnovare tessere e accrediti. Mi prende nausea dei salti da una base all’altra, i bagni turchi nel C.130, le sudate alle soste, steso sulle panche di legno tra negri che si grattano. Le gite in jeep tra colline e boscaglie bruciacchiate, villaggi sfondati, che il «maintenance officer» assicura, nella chiarità meridiana, sicuro dominio delle sue truppe; e la notte si popolano di ometti in pigiama nero coi micidiali mortai. L’estate del 1965 vidi i primi passi della escalation, la nuovissima macchina strategica della graduate responso. L’estate 1966 vivemmo i dubbi sulla sua attitudine a vincere la guerra. Oggi se ne parla come del morto in casa. L’anno scorso, alla vigilia di partire per il Giappone, scrissi nel taccuino, dopo la visita al teatrino dell’Usis: «La decisione di bombardare gli obiettivi militari delle due grandi città del Nord è il penultimo scalino della escalation», spiega paziente il signor Kaplan. «L’ultimo sarebbe?», l’inglese fa il tonto e l’altro, paziente: «Sarebbe il bombardamento indiscriminato delle città. Non lo faremo mai. Vogliamo soltanto arrestare l’invasione del Vietnam del Sud da parte del Vietnam del Nord. Non vogliamo causare orribili sofferenze alle popolazioni...». 0 gran bontà dei cavalieri antiqui, sospirava l’Ariosto. Peccato che le popolazioni di Amburgo e Napoli, Treviso e Dresda, Milano e Tokyo, Monaco e Berlino, per finire con Hiroshima e Nagasaki, non siano state credute degne di tanto riguardo. Quella guerra. Sembrava lontana. E invece, è acqua che non vuol passare. Dall’India alla Polinesia tutta l’Asia vede nell’America quella tale potenza che ha incenerito col fuoco atomico due città asiatiche. E chi portò i

comunisti in Vietnam, chi li armò contro i giapponesi, chi volle distrutto il Giappone perché la Cina diventasse la grande potenza dell’Asia? Che poi si risvegliasse comunista e nemica, non era previsto nel conto, ma anche i conti sbagliati si pagano. E chi portò i russi a Berlino e i jugoslavi a Pola e Trieste? Tutti amici, allora. E ora, dove sono gli amici? Dov’è la Russia? Dov’è la Cina? E dov’è la Francia, rifatta potenza a suon di bugie («per bontà», disse Roosevelt, vanitoso). E l’Inghilterra, dov’è l’Inghilterra, vittoriosa a suon di «sangue sudore e lacrime»? Dove siete, amici di ieri? Silenzio. Non resta che combattere. Senza neppur sapere con chiarezza chi, con chi, per chi. L’escalation è il morto in famiglia. «Lentamente ma sicuramente», garantisce il generale Westmoreland, «gli Stati Uniti stanno vincendo». Come al solito, dimentica i piccoli, tenaci, valorosi alleati. «Se le cose vanno tanto bene, perché chiede altre truppe?», domanda il francese. «Per accelerare la vittoria» risponde un press officer che non avevo ancora visto. Nessun governo americano accetterà una sconfitta o una transazione disonorevole con tredicimila morti e spese colossali. Siamo a 465.000 americani. Tolti aviazione, genio, servizi logistici, dovrebbero esserci 200-250 mila combattenti. E invece, non sono più di 80 mila. Questa armata è così pesante, viziata, dietro ogni uomo che combatte ce ne sono almeno cinque che non compariranno mai sul terreno. Aggiungi il meccanismo di rotazioni, permessi, licenze. Aggiungi che restano un anno solo e poi li ritirano appena si sono formati un’esperienza. Aggiungi che operazioni promettenti all’imbrunire s’interrompono al calar della notte perché prudenza vuole che si combatta, di

notte, solo se attaccati, e sai perché la guerra è ferma. Tra americani e vietnamesi, più i piccoli reparti coreani, filippini, australiani, neozelandesi, si arriva a 150.000 combattenti. Pochi per una guerra di logoramento contro un nemico che conta, tra partigiani Vietcong e regolari del Nord, 250.000 uomini, di cui almeno 150.000 combattenti: col vantaggio della sorpresa.

La grande idea americana di quest’anno è fare le elezioni. Chiamare alle urne il popolo disperso, irraggiungibile, indifferente: fargli eleggere una Camera dei deputati di cui non sente alcun bisogno, ignota alla storia della nazione. Gli americani credono che rinvestitura popolare rafforzerà la legittimità dei loro protetti. Un’orgia di chiacchiere si scatena a Saigon. Priva di senso comune nelle città piene di profughi, nei villaggi bruciati e abbandonati. Unico risultato finora ottenuto, l’allontanamento di Ky. Manovre di civili ambiziosi, gelosie di altri militari si coalizzano contro la sola personalità originale e energica emersa nei quattr’anni dall’assassinio di Diem. Gli americani non hanno mai digerito Ky. Non è un buon democratico, dicono. È un estremista, un fascista, sarebbe anche capace di mandare all’aria il negoziato quando i russi (gli americani non ne dubitano) riusciranno a imporlo a quelli di Hanoi. «Io vi insegnerò la democrazia anche se dovrò uccidervi per insegnarvela», dice il personaggio del romanzo. Il Vietnam è il campo di applicazione della regola pedagogica. «Se qualcuno mi avesse detto che avremmo fatto tante cose senza provocare interventi russi o cinesi, gli avrei dato del pazzo»: nella frase, che gli è sfuggita, il Segretario di Stato Rusk

rivela che si sono accorti di avere sopravalutato le intenzioni di Mosca e Pechino, in difesa di Hanoi. Eppure, il dogma, che lo sbarco nel Tonchino provocherebbe l’intervento della Russia, o della Cina o («ce ne sono talmente stupidi», mi disse Ky l’anno passato, «che credono perfino questo») di tutte e due le potenze rosse insieme, il dogma idiota e suicida non vacilla. «Non vinceremo mai, siamo fregati, fottuti, non resta che combattere, senza speranza». «Perché non vai a trovare Ky?» mi domanda René Giung, «basta una telefonata alla présidence». Rispondo di no, aveva ragione lui, le sue previsioni si stanno avverando. Gli mostro un quotidiano dell’altro giorno: «Non ho mai proposto l’invasione del Nord e non conosco alcun funzionario responsabile che l’abbia suggerita...». Chi dice queste cose? Spalanca i tuoi occhi, è il generale Maxwell Taylor. Possibile che sia ancora lui? Ma sì, è il brillante vicecomandante della 82 a divisione aerotrasportata che ventiquattr’anni fa venne a Roma in gran segreto, e lo portarono dal maresciallo Badoglio che lo ricevette in pigiama e gli spiegò, col gesto del coltello che passa sulla gola, che sola preoccupazione era la sua propria pelle. Di occupare gli aeroporti intorno a Roma non si parlò più, il generale Carboni respirò di sollievo. Stavolta, tocca a Taylor la parte di chi si caca sotto. E ci riesce alla perfezione. La guerra resta limitata, difensiva, votata all’insuccesso. Ky se ne andrà presto, lo ha detto ieri ai suoi più stretti collaboratori.

«Ci sarebbe la portaerei», dice il signor Heller, il nuovo maestrino del Juspao, dopo che ho scartato la replica del tour

delle basi con un perfido sorriso: «Ma che cosa vuole che m’interessino le basi, quando le notizie delle stragi che fate lì intorno e le fotografie, dei bambini nudi e bruciati ci arrivano già confezionate sui settimanali americani». La portaerei è il piatto forte del menu. Lo danno ai palati disgustati, agli scontenti. Ci vuole una dichiarazione, me la detta e subito corro, come uno scolaro ingordo, all’ufficio postale: «Garantiamo attività professionale del nostro corrispondente compreso rimborso spese sua eventuale, ferita aut morte». Nei due giorni che l’aspetto di ritorno cambio idea. Non ci vado. Sfidare gli dèi, qualche volta, è giusto, ma prenderli a calci nelle palle, è troppo. E poi che pitocchi, che cattivo gusto. I funerali di quella dozzina di giornalisti che son morti finora qua non saranno costati, tutt’insieme, quanto le ruote di uno solo dei seicento aeroplani che hanno perso. Il telegramma sarà arrivato al Juspao, se lo tengano nella cartella col mio nome, per l’eternità. Racconto la mia incazzatura a una giornalista australiana, senza immaginare che cosa ne farà la povera creatura affamata di notizie. «Non sarai mica tu questo qua», mi dice Egisto Corradi mostrandomi una notizia sul “South China Morning Post” di Hong Kong, dove si parla di un giornalista italiano che si è salvato dal terrificante incendio scoppiato sulla Forrestal perché «si era opposto agli impegni che gli americani volevano fargli sottoscrivere», ecc, ecc. Niente di vero, rispondo; solo mi dette fastidio quella clausola sciocca, pettegola, jettatoria, e per di più grottesca nel quadro dello spreco vomitevole di tutta questa guerra. Non credo che la notizia arriverà fino in Italia. In questo

caso, sarà divertente spiegarla. Non è affatto detto che dovessi trovarmi sul ponte della Forrestal quando scoppiò l’incendio che distrusse un terzo degli aeroplani imbarcati e mandò all’altro mondo un duecento persone. Non mi considero affatto un miracolato. Ma provo, questa sì, una vertigine vicissitudinale, come direbbe l’ingegno barocco di Daniello Bartoli. Se poi mi provo a tradurla «al morale» secondo il gusto del medesimo ingegno, scopro che una «pura formalità burocratica» può deviare la volontà e mutarla all’opposto. «Vedi», concludo con Corradi: «Mi attraeva l’esperienza della portaerei così come tu l’hai descritta, con quegli uomini vestiti di tanti colori diversi, secondo le specialità. Mi attraeva l’idea di gareggiare con te. Ma poi, quando pretesero l’impegno di pagarmi il funerale, mi sono venuti in mente due Lightning argentei, del 1945, quelli a due code, che scendevano dondolando a mitragliare, sembravano a passeggio, me li ricordo un giorno, primavera 1945, sulla via Emilia, tra Imola e il Piratello, non c’erano cannoni, carri armati, tedeschi, nulla; la via Emilia era vuota, tranne un ragazzo di quattordici anni e una signorina, tutti e due in bicicletta, il ragazzo fece in tempo a buttarsi nel fossato che c’era allora tra la strada e gli alberi del viale, con i piedi ancora nel fermapunte della bicicletta da corsa; la signorina non ce la fece, era una maestra e restò lì, nella pozza del suo sangue, e il primo che la vide fui io, appena uscito dal fossato. La toccai, era morta. Andate al diavolo a bere e scherzare. A far lega con voi sulla portaerei, non ci vengo. Tutto qua».

«Hai fatto benissimo», ride René, il babbo di Jasmine, uno dei rari prodotti perfetti di queste unioni su cui era nata una esigente borghesia coloniale: riuscita come le fusioni dei loro arredi, i mobili di lei, venuti da Lione, e quelli di lui, grande famiglia di mandarini. «Ti ho fatto mettere in nota per una gita a Hué, così potrai finalmente vedere la città, dopo l’infortunio che ti toccò l’anno scorso, quando ti lasciarono a piedi. Stanno preparando una spedizione di funzionari dell’unione Europea, banchieri americani e altri ospiti del governo; ti ho fatto mettere in nota non come giornalista, la specialità ormai è disprezzata, ma come “musicien”; e lì, sur le champ, in salotto, mi scrive un biglietto di presentazione per un importante amico di Hué che non ebbi occasione di adoperare, e sempre mi è rimasto, col mistero di quel che c’è scritto sul mio conto. Lo conservo in un mazzetto di fogli stravaganti, le carte d’imbarco dove il mio nome era diventato secondo i luoghi Buscarov, Buscroi, Boscarelli, e altre foglie perdute di sillabe. «Così voi siete musicista», dice un burocrate francese che viaggia seduto accanto a me: «non credo che troverete molto da fare a Hué, il vostro posto sarebbe piuttosto a Bangkok: il giovane re, Bumiphol, è molto musicista, ha studiato a Berlino, ha una piccola orchestra di corte con la quale dà concerti che dirige lui stesso, ‘musiche di Bach, Beethoven e Sua Maestà...’. Ci vada, sono molto accoglienti e la regina, si chiama Sirikit, è una delle più belle creature del Sudest asiatico». Hué, città simbolo. Hué città destino, dicono qua. Chi si ribella, chi combatte, chi pretende qualcosa, in Vietnam vuole sempre Hué. Resistono quelle polverose profezie, chi ha Berlino ha

l’Europa, chi ha questo ha quello, vecchie balle. Hué «largement épanouie dans la verdure, au milieu du cirque bleu des premières montagnes de l’Annam»: se mi metto a citare le Lettres du Tonkin di colui che divenne il maresciallo Lyautey, sono perduto: 1896, «le guardie reali rosse e verdi, cenciose, miserabili». Il re Than-Tai, «un piccolo Nerone che, raccontano al palazzo, l’anno scorso, a sedici anni, ha fatto aprire in due una donna dopo averla posseduta, e un’altra ha bruciato viva col petrolio, e una terza ancora...». Ora siede sotto un antico baldacchino, si alza dondolando le anche, fa versare lo champagne tra i fiori, prende per mano il Governatore che è alla sua destra, il Residente superiore a sinistra, poi tutti gli Europei in ordine d’importanza, poi i Reggenti. Soli restano, dietro il Re, gli eunuchi che portano la sputacchiera reale d’oro, il servizio da thè imbacuccato in astucci di seta rossa, i porta-sciabola e, dietro ciascuno di noi, gli sventolatoci dei ventagli di piume, che ritmano tutti insieme il loro colpo di vento, netto e secco. Grave come un piccolo idolo, il piccolo re indossa vesti luccicanti, i lampi dei suoi diamanti si stagliano su una tappezzeria Gobelin nel fondo... I due vecchi principi, che non pensano probabilmente a niente, ma, se pensano, possono ricordare il loro padre Mihn Mang, conquistatore del Cambogia, poi l’apparizione del primo inviato francese signor de Montigny, quarantanni fa, il primo trattato di cessione territoriale imposto dall’ammiraglio Bonnard, gli agguati, le rivolte, i saccheggi e, infine, «la realtà della servitù sotto il decoro immutabile, la dissoluzione di tutto sotto l’integrità superficiale dei vecchi riti, dei vecchi orpelli, della decrepita dinastia [...].

Nella loro discesa alla vita animale, se resta posto per qualche pensiero, non può essere che memoria perduta, rimpianto...». Chi volesse abbandonarsi al biasimo dell’Europa quando le sue nazioni s’impadronirono a gara di questi brandelli d’Asia, d’Africa, dovrebbe prima leggersi questo passato. Le venticinque pagine di Lyautey dalla Hué del 1895 sono un lontano prologo al 1967. L’occhiata di Lyautey arrivò al culmine della dissoluzione dell’impero fondato dal padre di Mihn Mang, l’imperatore Già Long, morto nel 1620. Una storia lunga, difficile da decifrare, indispensabile se si vuol tentare di capire. A Hué l’imperatore Già Long abbandonò il nome An-Nam (in cinese, “Sud pacificato”) e inventò il nuovo, Viet-Nam (“Lontano Sud”; lontano naturalmente, nei confronti dellTmpero del Centro, la Cina). Viet voleva dire sfida e indipendenza: siamo ormai lontani da voi. E tuttavia, ottenne da Pechino l’approvazione del nuovo nome: l’ultimo atto di ossequio feudale. Pechino assentì. Dopo aver messo i cinesi fuori della porta, col loro assenso e l’aiuto dei francesi, Già Long non dubitava di riuscire a metter fuori anche questi, un giorno o l’altro. I cinesi dominarono il Vietnam e ne furono espulsi nel 939. Otto dinastie riuscirono a tenerli lontani. Sotto l’ultima, i sovrani rimbecilliti Le, che portarono la capitale a Hanoi, il paese fu dilaniato dalla contesa tra i Trinh, i Signori del Nord, e i Nguyèn, i Signori del Sud. Dalla massa contadina emerse un giovane avventuriero, Nguyèn-Hué, un Nguyèn popolano che scacciò i re di Hanoi e si proclamò imperatore. I cinesi intervennero in difesa dei Lè, ma Nguyèn-Haé li sbaragliò in un’insurrezione scatenata di sorpresa nella festa sacra del Tet

del 1788, un’astuzia leggendaria, che gli scolari appresero ad ammirare dall’infanzia. L’unificatore del Vietnam morì nel 1792 senz’aver completato l’opera, cui tornarono a dedicarsi i Nguyèn aristocratici, i Signori del Sud. In cerca di aiuti, lo scacciato Nguyèn- Anh s’imbatté in una curiosa figura di missionario francese, il vescovo Pigneau de Béhaine, che gli suggerì di ricorrere al Re di Francia. Luigi XVI mandò ufficiali, armi e ingegneri e n’ebbe in cambio un’isola davanti al Delta del Mékong e la baia di Tourane, l’odierna Da Nang. Poi gli tagliarono la testa, e furono altri a continuare il lavoro. Con le armi francesi, Nguyèn-Anh vinse prima gli eredi di Nguyèn-Hué, poi i partigiani dei Trinh e dei Lè. Nel 1801 l’unificazione del Vietnam era fatta, Nguyèn-Anh si proclamò imperatore con l’antico nome Già Long, nel 1804 cominciò a costruire cittadella e reggia a Hué. Disegni di architetti militari francesi gli servirono per edificare la cittadella secondo le regole di Vauban, per il resto sopperì l’ingegno locale. La capitale era stata scelta per le virtù geomantiche del luogo, come l’antica Roma. I dotti assicurarono a Già Long che influssi magici e influenze astrali avevano a Hué il loro centro. La cittadella, che corse il rischio di sbriciolarsi nel furibondo Tet del Febbraio 1968, come centro di potere e insieme ritiro spiritico e filosofale. Al centro una tettoia del Palazzo Thai Hoa (della «completa pace») ospitava nove cannoni, ciascuno a difesa di una stagione e dei cinque elementi, Metallo, Legno, Acqua, Fuoco e Terra. Cinsero i giri di mura merlate, alzarono le rotonde tettoie coi

tetti di porcellana gialla e azzurra. Disegnarono giardini geometrici, laghetti silenti tra ghiaie e pinastri. Il lago più grande era dedicato a Tinh Tarn, la Serenità del Cuore. Lungo la Riviera dei Profumi sorsero altre pagode, aprirono recinti per gli Spiriti della Terra e i geni delle montagne che orlano, azzurro violette, come dice Lyautey, lo sfondo di Hué. Già Long lasciò il regno consolidato a Minh Mang, che aggiunse il Cambogia. Gli succedette Thieu Tri che, una mattina del 1847, ebbe la bella notizia che i francesi erano tornati e, pretesto l’uccisione d’uno dei soliti missionari, avevano bombardato Tourane. Gl’inglesi pasticciavano con l’oppio a Hong Kong e la Francia non poteva restare da meno. Veniva a farsi pagare la cambiale degli aiuti dati a Già Long cinquant’anni prima. Un pezzo dopo l’altro, l’impero di Già Long si disfaceva, la Cocincina andò nel 1863, poi venne l’ora del Tonchino, dove, in una serie di campagne sanguinose, si distinsero il colonnello Gallieni, e il maggiore Lyautey, che vide e descrisse l’agonia e la putrefazione del sistema. Tu Due, bisnipote di Già Long, invocò l’antico spauracchio nazionale, i cinesi. Ma costoro piombavano proprio allora nell’abisso e solo poche bande di «bandiere nere» accettarono l’invito e vennero a combattere e prolungare l’agonia. Da un trentennio di guerre uscì l’Indocina francese, con la dinastia degli Hué ridotta vassalla della République dei tagliatori di teste e massoni. Il popolo continuò a rispettare i suoi sovrani inutili, fannulloni coronati, perché scorgeva in quel degradato potere il ricordo dell’indipendenza. Nel 1916, l’imperatore

minorenne Tun Tan tentò di scuotere il giogo, invocando la protezione tedesca. L’ultimo imperatore fu Bao Dai, un colto e savio signore; abdicò educatamente, il 26 Agosto 1945, nelle mani degl’inviati di Ho Chi Minh che lo invitò a far parte del suo governo e lo nominò Consigliere Supremo. Lui rispose cortesemente di no e si trasferì a Parigi, di dove lo presero i francesi quando tutto crollava e lo rimisero sul trono degli avi nel 1949. Ma era tardi, e il gentile signore di Hué non aveva più niente da dire al suo popolo. A Hanoi e a Saigon erano già insediati i Signori del Nord e i Signori del Sud, ciascuno coi suoi protettori lontani: provvidi di protezioni, insegnamenti e ricatti. La divisione dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale ha sdoppiato i paesi non suscettibili di riunificazioni: due Germanie, due Coree, due Vietnam. Ma i Signori del Nord hanno completa autonomia e licenza di cercare l’unità del Paese intero. Se la sono presa, e i protettori non oseranno mai contestarla. Mentre i Signori del Sud hanno licenza solo per l’unità di un mezzo Paese. L’unità è per loro vietata. Per questa sola ragione la battaglia delle anime l’hanno già perduta. La sconfitta sul terreno sarà soltanto conseguenza. E i patroni-padroni non capiranno mai perché.

... E INTANTO ARRIVA L’EROICA CONTESSA

E mentre si stava stretti in tali ambascie, il colonnello Boschi, addetto militare, annunciò ch’era in arrivo Susanna Rattazzi, sorella di Giovanni Agnelli e sposa al discendente dello statista piemontese. Veniva come inviata della Croce Rossa, precisò il colonnello. «Ma che brava», esclamammo Corradi, Silvio Pellas e io, invitati a una colazione in suo onore, con alcuni alti gradi americani. Si accesero lodi alla donna coraggiosa e denigrazioni del provincialismo infingardo che tiene gl’italiani (e le italiane) tappati in casa, sordi (e sorde) alle curiosità interessi e dolori del vasto mondo, e ora, al grido di dolore del Vietnam sofferente. La contessa Rattazzi aveva ascoltato il grido, e accorreva. Riscattava, lei sola, l’ignavia del paese lontano e dormiente. Grazie a lei ci sentimmo ancora, per un momento, quei tali santi, navigatori e tante altre cose. Bisogna dire che avevamo inteso l’espressione «inviata della Croce Rossa», fosse colpa di nostra rozzezza o arretratezza d’informazioni, alla maniera antica: l’avevamo scambiata per una crocerossina. Immaginammo madame Rattazzi nata Agnelli curva sulle piaghe del martoriato paese, a carezzare testoline di bimbi, praticare iniezioni, recare conforto. Quanto la conoscemmo, le nostre goffe lodi parvero piacerle, le accolse

placida come un doveroso tributo. Mi parve un po’ troppo convinta d’essere davvero, come noi le andavamo dicendo, un esempio per un popolo pigro, chiuso ai problemi e dolori del mondo. Avrei scritto di lei, annunciai, in questo tono. Avrei desiderato, però, un briciolo di ritrosia, modestia, come si diceva. I suoi programmi mi parvero rapidi, due giorni qua, due giorni là, vedere, riferire. Era inviata della Croce Rossa, anzi, di una Lega di Società di Croce Rossa, precisò, non una crocerossina. Era una delegata semi-politica, in missione esplorativa. La mia decisione di scrivere un bell’articolo cominciò a incrinarsi. La sua conversazione era animata e varia, si sentiva un retroterra di ricchezza e mondanità, conoscenze importanti, una certa cultura generale. Aveva appena visto Moravia, in arrivo o partenza, sulle rotte del Giappone e della Cina. Riferì battute e dialoghi che mi parvero intesi a farci capire che, con Moravia, si davano del tu: «Alberto era con Dacia, naturalmente». Chissà come, mi venne alla mente quella delicata poesia di Dacia: «Ti orinerò nelle mani, vecchio amico...». Stava arrivando, per aiutarla, un inviato della Fiera Letteraria rinnovata. La vecchia Fiera di Cardarelli era finita in cantina, l’editore Rizzoli l’aveva affidata a un bel gruppo di sinistra, tutti suoi amici. Il ventilatore girava nella stanza da pranzo, la domestica vietnamese in calzoni di satin nero serviva il caffè. Sussurrai a Corradi: «Guarda che questa è una radical-chic incallita, tiene per i rossi, vedrai cosa combina». Più tardi lo ripetei agli altri e passai per cattivo. Inutilmente replicai che io ho un naso

speciale per fiutare certa gente, un «dottor naso», come diceva Longanesi, ma il fascino di Madame teneva, qualcuno la trovava addirittura bella. Poche sere dopo ci ritrovammo nel ristorante d’un vecchio filibustiere corso dove si mangiava la migliore pasta e fagioli di Saigon. Madame era stata in giro, aveva assaggiato il rischio, dormito in un bordello, visto gente rapita poi rilasciata, feriti e morti, era deliziosamente eccitata. Aveva viaggiato su aerei americani, su jeep americane. Il ricordo di alcuni piloti dell’Air America, una strana linea gestita dalla C.I.A. che m’aveva portato, con personaggi assai importanti, a vedere le rovine di Angkor-Vat, parve riscuotere la sua femminile approvazione. Erano alti, enormi come cow-boys. Poi l’indottrinamento si fece sentire: «Ho paura di restare coinvolta», commentò. Io non capivo e mi spiegò che lei rappresentava questa Lega di Croce Rossa, e non doveva parteggiare né per gli uni, né per gli altri. La Lega aveva offerto i suoi servigi tanto a Hanoi che a Saigon. Hanoi li aveva rifiutati, Saigon accettati. Era venuta dopo l’accettazione di Saigon, ma la presenza americana le pareva così diffusa e opprimente, che qualsiasi cosa la Lega facesse per la popolazione, avrebbe finito col giovare agli americani. «E questo la disturba molto?», domandai. Rispose vivacemente che lei non doveva farsi coinvolgere a nessun costo. La disturbava moltissimo. Era imbottita di politica, gonfia di prevenzioni filomarxiste intrecciate a vanità ridicole, come credere che in quel turbine qualcuno potesse far caso ai coinvolgimenti della contessa Rattazzi nata Agnelli, prò o contro gli americani. Osservai che, a parer mio, lei e la sua Lega, che

aveva per emblema la Croce Rossa, dovevano lenire sofferenze, aiutare altri esseri umani, sollevarli da dolori e miserie senza proporsi presuntuosi temi politici. Se il Nord aveva rifiutato e il Sud accettato, curassero i sofferenti del Sud, ecco tutto. La compagnia si sciolse con certa freddezza. Non fissammo altri appuntamenti, a Corradi che partiva per l’Italia raccomandai di non scrivere sulla Contessa. Promise, ma poi mantenne a metà, scrisse poco e con poca convinzione. Poi lessi il servizio “Bombe e Carità” che la Contessa confezionò per “l’Espresso”, una delle eleganze del filocomunismo coi miliardi in tasca. Un servizio disinvolto, rivelava l’astuzia d’una vecchia volpe del mestiere, più che l’umiltà d’una crocerossina. «Il buio nei locali era quasi completo», ecco l’atmosfera, «l’oscurità impedisce di vedere le condizioni in cui si trovano i pavimenti»; un sospetto di sudiciume s’impianta così. Ma perché non ricordava la luce sfolgorante, perfin fastidiosa, della sala di Jean Ottavi? Gli americani che uccidono, si sa che sono americani. Ma il soldato vietnamese che aveva ucciso il suo ufficiale era stato istigato da «qualcuno», non dai partigiani rossi. Dei bombardamenti americani, con tante vittime, si parla come di crimini efferati; ma che i Vietcong uccidano e rapiscano, è detto con la calma didascalica di chi esponga cose ovvie e naturali. La pudibondia radicale le impedì perfino di guardare in viso i piloti che la riportavano a Saigon. Occhi di assassini, si capisce. La chiusa del «pezzo» rivelava il mestiere di chi aveva passato anni a cucinare contrasti ad effetto: «Non posso dimenticare le famiglie americane che ho visto negli alberghi di Bangkok»; dice

una mamma al ragazzino: se non smetti di dar noia a tuo fratello, quando Daddy torna, glielo dico. E Daddy, immaginate che cosa fa Daddy intanto? Ma è chiaro, bombarda i bimbi innocenti del Nord. Ve lo immaginate, tornato a casa, a carezzare le testoline bionde dei suoi, come se nulla fosse successo? 0, che vecchie storie di cattiva fede. Soltanto vorrei sapere, e mi piacerebbe ritrovarmi a pranzo con la Contessa per domandarglielo: se il suo mestiere le imponeva di non lasciarsi coinvolgere, come mai dopo il viaggio per la Lega della Croce Rossa divenne l’inviata dell’Espresso? 0 l’orrore di farsi «coinvolgere» funziona a senso unico? Riguarda gli americani, ma non i giornali di sinistra simpatizzanti per i Vietcong? Io non simpatizzavo né per gli uni, né per gli altri, ma avrei apprezzato l’imparzialità, se non dei sentimenti, dei comportamenti. Ecco, vedete, ho finito anch’io, dopo più che quarant’anni, con lo scrivere il mio bravo pezzo sulla Contessa. Ormai è fatta, avrò portato anche io la mia pietra al cantiere, perché tutto sommato, la sola missione che interessava a Madame era quella che le suggeriva la sua vanità, e la vanità non è mai imparziale, tira col vento. L’anno dopo, Pellas mi raccontò i dolori del colonnello Cataldo: «Che figura, abbiamo già un ambasciatore che è l’amante della sorella di un capo Vietcong, e ora questa... una della Fiat capisce?».

Portolano asiatico

Hong-Kong, Macao

In due ore di volo si va da Saigon a Hong Kong, e ciò significa passare impreparati dalla desolazione all’opulenza, dalla guerra alla pace, dalla precarietà all’ostentazione della sicurezza. Indugi sulla parola, scrivendola, come ti domandassi se si tratta di sicurezza, o di una deliberata finzione, di una scommessa, o di incoscienza. Che cosa sono questi alberghi colossali, queste luminarie di insegne e botteghe, questa fungaia di banche e di imprese, quest’orgia di società commerciali, se non altrettante sfide alla precarietà dell’esistenza bianca nell’Asia, enfatica contraddizione all’ovvia impressione di vivere su un vulcano? Vieni da Saigon, e ti guardano con commiserazione, come se Saigon non fosse la stessa Asia di qua, e se anche qua sopra non si stendesse il medesimo gigante che a Saigon si avverte col rumore delle sparatorie notturne, ma che qui ti respira all’orecchio col suo fiato greve, e si agita già in casa, perché su quel grattacielo accanto all’Hilton e di fronte al governatorato inglese sventola la bandiera rossa. È la banca di stato cinese, il polmone di Mao Tse-tung. Il bianco di Hong Kong starà tranquillo finché Mao avrà questo solo organo per respirare. L’incrociatore britannico in rada non illude nessuno, neppure

l’Union Jack sugli edifici, né l’ufficiale in pantaloni corti e frustino. A Saigon, tutto è precario, c’è il coprifuoco e puoi pagare con la vita l’imprudenza di aver scelto un ristorante invece di un altro; l’aria è miserabile e la vita è triste, ma l’uomo bianco sbarca divisioni, spara e bombarda. Qui, tutto par sicuro, il denaro fluisce incessante nelle banche illuminate anche la notte, come veglia a una insonne ingordigia, ma nessuno sparerà, mai più. Par strano, ma la sicurezza di qua è più precaria dell’insicurezza di Saigon; nonostante l’ostentazione di tranquillità e l’aria di sufficienza con cui i giornali si occupano dei casi del Vietnam come d’un paese semiselvaggio la cui forsennata guerra è un accesso di follia, incomprensibile a questa indaffarata saggezza.

*** All’altro capo del golfo di Canton, sta Macao. Su questi due peduncoli, penisole e manciate d’isolette, relitti storici, è venuta a finire la gloria dell’Europa in Asia orientale. Il crepuscolo inglese è attivo e alacre, si vela d’illusoria prosperità, quello portoghese è contemplativo e patetico; due traguardi identici, alla fine, nonostante l’apparente contrasto fra la neutra gaiezza del denaro profuso e l’assorto rimuginare fra fantasmi di grandezze perdute. «L’esistenza di Macao come terra soggetta alla sovranità portoghese è stabilita da antichi trattati fra i Re del Portogallo e gli Imperatori cinesi», mi disse Salazar qualche anno fa: «ma se uscissimo dal terreno della legalità per fare

appello ad altri fattori, è certo che Macao finirebbe con l’essere assorbita dalla Cina, quale potesse essere il valore della nostra resistenza...». Gelida e desolata onestà; gl’inglesi non l’avranno mai, e l’incrociatore laggiù c’è per far credere il contrario. Ma la fine sarà la stessa. Resisteranno qui, finché serviranno a nutrire il ventre affamato che li sovrasta. Quanti milioni di dollari passano ogni anno per Hong Kong diretti a Pechino? Aumentano sempre, sono altrettante ragioni per lasciare in vita l’anacronistica «colonia della Corona britannica». Gl’inglesi lo sanno: nel 1951 cambiarono politica estera e abbandonarono gli alleati americani in Asia per salvare questo brillante della corona. Ma quando la Cina troverà altre tavole su cui placare la sua fame, anche Hong Kong sarà un boccone da ingoiare, coi suoi grattacieli, le fabbriche, le agenzie, le banche e le illusioni. Quel giorno, ingoierà anche Macao: oggi, non può far la brutta figura di prendersi questa e lasciare Hong Kong come sta.

Ci sono posti, al mondo, che trovate esattamente come li avete immaginati; Hong Kong è di questi, e sapevate già prima il contrasto della splendida situazione naturale del luogo, fra mari e montagne, con la banalità delle architetture. Bisogna arrivare a Hong Kong di notte: è una regola dell’arte di ben viaggiare, così come Mario Praz ha ammonito di non giungere a Londra di domenica, giorno in cui consiglierei invece di fare i primi approcci con Vienna. Il pittoresco di Hong Kong ha la maestà senza sorprese del luogo comune. La mistura superficiale di oriente e occidente sullo sfondo neutro di una vernice cosmopolita, l’esile struttura

di ordine europeo imposta sulla baraonda cinese, tutto è già conosciuto, risaputo prima di venire. Perfino le facce delle due donnette che remano, ossia agitano la pertica a poppa del decrepito sampan su cui faccio il mio giro notturno per la putrida metropoli acquatica di Aberdeen, la poltrona di vimini su cui siedo al centro del cigolante vascello, il cuscino di seta luccicante e sudicia con le frange che pendono fra i calzoni; e l’attitudine assorta che si finisce col prendere, fra lo studio di star fermi per non dare al corpo i pretesti per sudare e la sigaretta che si consuma in mano con il suo pinnacolo di fuoco pigro, l’inerzia di spettatore cinico delle miserie altrui; perfino il vestito di lino bianco che si porta addosso, è tutto un campionario consacrato al romanzesco di terz’ordine, alle avventure con l’oppio, lo spionaggio, la roulette, il delitto, la prostituzione cosmopolita, gl’intrighi di trafficanti apolidi e spietati, il languido erotismo che già puzza di sogni provinciali. Ti senti vivere in una cartolina illustrata, in uno di quei notturni esagerati, ritoccati da un fotografo in cerca di effetti. Ti senti, insomma, luogo comune in un luogo comune e niente come questa Cina somiglia alla Cina fasulla che hai sempre immaginato; finché ti ricordi che la stessa poltrona di vimini, e lo stesso cuscino di seta li vedevi nel giardino d’una vecchia zia in Romagna, tanti anni fa. E tu reciti una commedia anacronistica, coloniale senza più colonie, esattamente come questo formicaio d’acqua che ti fa da sfondo ha l’aria di illuderti che tutto sia come prima, simulando una rassegnazione che è ormai odio attivo e compatto, un servilismo rassegnato e

silenzioso che sta già tentando con le dita il grilletto del mitragliatore. A Macao si abbassa il livello della vita, mentre si innalza, e sale di tono l’immaginazione. Dal pieghevole turistico t’innalzi alla letteratura decadentista, un’aria sfibrata e morbida ti avvolge, annusi odori più leggeri e penetranti, i colori che colpiscono i tuoi occhi hanno pallori di malattia, trasalimenti e accostamenti folgoranti. Albagia e tristezza, peso di lontane opprimenti memorie e rassegnazione, aliti di gloria frusta e un vivere alla giornata di decaduti senza volontà, senza speranze né finzioni, e insieme un desiderio di abbandonarti, di giacere, di dormire: Du sang, de la volupté et de la mort di Maurice Barrés non è più un ricordo letterario, è un’insegna, un’impresa che ha per corpo un’intera penisola.

*** Questo fu il primo luogo dove l’uomo bianco piantò le sue bandiere nell’Asia orientale, sarà l’ultimo dove le ammainerà, non capita sovente. Colombo aveva toccato i suoi approdi nell’emisfero opposto appena trent’anni prima, quando le galere portoghesi si ancorarono quaggiù. E monumenti, steli, stemmi, colonne ti parlano ad ogni passo di quel passato: sono eroi a cavallo colti negli spasimi della morte in battaglia, con la «zagaglia barbara» confitta nel collo, navigatori di pietra col braccio levato, esortante a mete lontane, è Camoens barbuto dentro la sua grotta, coi versi delle Lusiades incisi in oro: un altro militare, a piedi, trae la spada dal fodero fra balconcini

mediterranei, draghi cinesi, villette napoletane e siciliane, templi buddisti, il Leal Senado neoclassico col timpano triangolare, le chiese barocche, i forti rinascimentali. In corti silenziose e invase di sole il tempo sembra non essere penetrato, come in certi vicoletti siciliani, quasi non valesse la pena d’insinuarsi lì dentro, fra quiete vicende di persiane verdi sempre chiuse e un acciottolato invaso dall’erba. È un’Europa antica e profonda, un’Europa addormentata da secoli quella che sorprendi e che subito dimentichi dopo che, svoltato l’angolo della larga Avenida, ti ritrovi nella Cina ronzante, sempre in moto sulle magre gambe piegate, col barbiere ambulante che lavora metodico la testa di un bambino seduto sullo sgabello, mentre un aiutante gli regge l’ombrello sul capo; e lì a fianco un miserabile ossuto, con le gambe di cartapecora rattrappite sulla seggiola di bambù, stende lunghe braccia gialle come zampe di un insetto, e con una ti sventola la mano sotto la faccia, nell’eterna richiesta, mentre l’altra addita una lunga vescica rosea come un frutto tropicale che gli pende sotto l’occhio sinistro. Un gruppetto di ragazzine in pantaloni scuri ridono alla messa in scena, entro antri umidi aperti sulla via; vecchie sdentate, altre ragazze, bambini sudici preparano stecchini di legno uguali, che il padre tornando bagnerà nel fosforo per farne dei fiammiferi. Maiali di un color rosa carico passano urlando dentro ceste cilindriche di vimini sospese su due spalle, e laggiù al macello il frastuono delle bestie presaghe si fa feroce; e è fra queste strida lunghe e disperate, davanti al porto brulicante di giunche, di sampan, fra la più spaventosa miseria asiatica; è

davanti a un braccio di mare più stretto di un mediocre fiume, su cui borbotta, a passo d’uomo, la motovedetta, ormai fatiscente per la vecchiezza, della Cina rossa, che ti sorprende il suono delle campane dell’Angelus, come in qualunque cittadina del Mediterraneo. Sono le chiesette sparpagliate fra i cortili, San Domenico, la Collegiata di San Giuseppe dalle movenze borrominiane, la cappella accanto al faro, là in alto. Imbocchi una scalinata costruita con alterigia iberica, al cui culmine si staglia il fiero profilo d’un’altra facciata barocca, di quel barocco impulsivo e violento che testimonia, dalle Ande americane al Mar della Cina, il passaggio della Compagnia di Gesù. Ma dietro i tre rettangoli delle porte, ritmati soltanto dagl’intervalli delle antiche cancellate di ferro battuto, dietro i tre finestroni vuoti, si stende il cielo livido. Di Sào Paulo resta la sola facciata dopo che un incendio consumò la chiesa disegnata nel Seicento da un prete portoghese e costruita da artigiani cattolici giapponesi. Avvicinandosi, la selva di colonne di marmo annerito si anima di figure e di immagini; negli anfratti inumiditi e invasi dall’erba si torcono le bestie dell’Apocalisse con le sette teste; sventolano code seghettate con merletti ritorti all’insù, puntuti, di draghi cinesi, il san Paolo dal braccio levato ha una barba di mandarino e occhi a mandorla, ideogrammi cinesi e scritte in lapidario romano si alternano fra gli intercolumni. Dietro i cancelli si stende un giardino fiorito cosparso di pietre tombali con gli stemmi dell’araldica lusitana: su una colonna, il busto barbuto di Vasco de Gama guarda verso la Cina.

Se Hong Kong appare una figlia di nessuno, frutto anonimo del commercio, dell’intrapresa cosmopolita, del denaro; e se Saigon la ricordi come un bastardo casuale frutto di amori affrettati, Macao è una mulatta affascinante e dolorosa, una mistura ambigua lungamente lavorata per secoli, una figlia di due mondi i cui tratti si alternano sul suo volto con giuochi di illusioni sfumate e complesse, è l’avanzo di un sogno orgoglioso e pietoso, la preordinazione di un enigma archeologico, di un rompicapo per eruditi futuri. Quando gl’inglesi andranno via da Hong Kong, non resterà nulla. La loro partenza sarà cancellata nel giro di una generazione; dei francesi, resterà qualche traccia sconnessa, qualche avanzo protervo. A Macao sarà difficile far sparire gli avanzi di una colonizzazione tenace e malinconica. Bisognerà lasciar lavorare la natura, che le radici enormi di alberi gonfi, di erbe esagerate, di arbusti instancabili ingoino fradice fondamenta, faccian scoppiare i muri e li sbriciolino, come ho visto in una palazzina settecentesca abbandonata, accanto all’elegante rosea villa del Governatore. La colonizzazione latina vera e propria, quella degli iberici e degl’italiani, è tenace, lavora a fondo le razze e i paesaggi. Questo funzionario portoghese con cui parlo ha occhi tagliati in modo che le tracce del sangue cinese gli escono fuori dalle vene e compaiono inconfondibili. È nato a Macao, è portoghese come il suo nome sonoro, la sua famiglia è portoghese da sempre e vive a Macao dai tempi dei tempi. Ma suo padre, che sorride in una

fotografia, ha occhi ancor più allungati e il cranio tondeggiante dei cinesi sulla mascella pronunciata e prognatica dei lusitani. La figlia del nostro amico, una ragazzina di dodici anni, non ha più il minimo segno dell’Asia nel volto: il matrimonio del nostro amico con una compatriota di origine svizzera ha ricacciato la Cina dalla stirpe, la famiglia è tornata europea; in altre famiglie, il processo segue l’ordine inverso, l’Asia e l’Europa si inseguono fra gli alberi genealogici. «E se l’Africa si piglia, si fa tutta una famiglia», dicevano le parole di una canzone ai tempi dei nostri primi tentativi africani. Il colonialismo latino amalgama, fonde, impasta sangue e religioni, moduli figurativi e gerghi; scava a fondo in un sogno di universalismo. L’unico grande paese asiatico che sia rimasto cattolico sono le Filippine, colonizzate dagli spagnoli. Hong Kong è «colonia della corona» inglese, mentre Macao è una «provincia» del Portogallo, come Lisbona e Beja. Non c’è, forse, ridotto a simulacro cadente, l’anelito unificatore dell’imperialismo romano? L’universalismo della chiesa non è un’invenzione originale del cattolicesimo; fu succhiato dalla romanità, insieme con la lingua, le tradizioni, il rituale dei pontefici, che erano anche i sovrani dellTmpero. Se Paolo di Tarso si leva fra draghi cinesi sulla facciata dei gesuiti, c’è anche Marco Polo che conversa fra le statue del tempio buddista di Kum Yam, la Dea della Pietà. La pietà di Macao, un altro relitto di vecchi tempi, sa di carità e non di giustizia sociale. Non c’è forse più prete, da noi, disposto ancora a riconoscerla per cristiana. Ma a Hong Kong gl’inglesi hanno scavato un profondo fossato lungo tutto il confine fra la

colonia e la Cina per impedire ai profughi di affollare il loro territorio; e qua sorgono ospedali e case di rieducazione per le «bocche inutili» scacciate dalle contigue province cinesi. Cinquecento sono bocche di ciechi, cui l’alveare di Mao Tse negava la ciotola di riso quotidiana. Nella diversità delle razze e delle latitudini, il comuniSmo ha alcune costanti sue proprie, di crudeltà ingenua e stolta insieme: Ulbricht invita i vecchi «improduttivi» ad emigrare verso Ovest, e soltanto per loro le porte della prigione si schiudono; qua, ai vecchi tanto decrepiti da non poter più reggere un attrezzo, si aggiungono i malati inguaribili, i pazzi, i ciechi. E l’ultimo avamposto declinante della latinità nell’Asia li accoglie, li sfama, li cura; è l’ultimo avamposto, anche, se si può dire, di un cattolicesimo fuori di moda, dove i padri Balducci non han posto ancora piede coi sofismi impegnati, dove regna la semplice fede nella «provvidenza» che converte il denaro esatto sulle corse dei cani, sul prossenetismo cosmopolita, sul traffico dell’oro e dell’oppio, in opere di pietà e di solidarietà umana. La casa dei ciechi sorge sul limitare del «Camdrome Clube de Macau», l’immensa arena dove nelle sere di sabato e di domenica accorrono i ricchi cinesi di Hong Kong a sperperare gli spiccioli della loro opulenza. Sotto la tribuna a gradinate si accalca una folla, migliaia di uomini tutti uguali, con la bianca camicia svolazzante fuori dei pantaloni. I soci più illustri, i Comissârios Honorarios, i membri della Commissao Executiva, gli abbonati di rango possiedono propri recinti sui bordi della pista erbosa. Per sei ore filate una folla eccitata sopporta il calore umido e torrido sudando e bevendo birre, aranciate, le perfide

limonate amare prodotte a Hong Kong. Gli ottanta, novanta botteghini rigurgitano di scommettitori. Le loro donne, le cinesi di Hong Kong nutrite all’occidentale, con le gambe affusolate e svelte, le natiche rotonde, compatte ma curiosamente tremolanti ad ogni mossa del corpo, siedono pazienti bevendo e cicalando in un falsetto uniforme. Il termometro segna trentotto, quaranta gradi, l’umidità è al novantanove e quattro per cento, si suda e si beve per sei ore: ma il tempo delle corse sarà, sì e no, dieci minuti. Ogni corsa non dura più di cinquanta secondi, il tempo necessario alla turba di sei cani per correre l’intera pista. I levrieri han nomi come Hydrofoil (Aliscafo) o Destroyer (Cacciatorpediniere), Social Welfare (che sarebbe come Assistenza Sociale), Téléphoné, Himalaya, Heavy Cruiser, o Incrociatore pesante: indossando gualdrappe di colori contrastanti, rosso su beige, viola su verde, col grande numero al centro. I «treinador» cinesi li tengono al guinzaglio passeggiando con gravità ridicola, avvolti in lunghi impermeabili bianchi lustri fino ai piedi, in testa quel casco coloniale che nessun bianco osa più portare, diventato il copricapo prediletto dei nativi di bassa estrazione. Quando il monte dei premi è stipato, il flusso di «patacas»» portoghesi, di sterline, di dollari di Hong Kong si arresta un attimo, e il Comissario dà il via. Compare una colomba di legno su un trespolo che corre veloce come un razzo su una rotaia lungo il margine della pista: i sei animali si avventano a testa bassa; la tragedia canina non dura neppure un minuto, Hydrofoil è in testa, cede terreno a Social Welfare, ma sull’ultimo rettilineo è

Heavy Cruiser che con falcate furiose che l’occhio non riesce neppure a percepire, supera gli altri e taglia il traguardo, seguitando a correre inebetito, mentre nessuno lo guarda più. L’enorme folla respira forte, è un tumulto di muti, il rumore di una controllata sollevazione. Migliaia di seggiole si spostano, migliaia di camicie bianche accorrono ai botteghini per le altre puntate, sul quadro nero immenso, in fondo, si accendono in lampade rosse e bianche i risultati, i dividendi, liste di numeri in rapida mutazione. Restano sedute le cinesi ricche a bere e fumare; se le guardi, accavallano le gambe, studiandosi di lasciar salire le gonne. I ciechi della casa di rieducazione si affacciano dietro le sbarre delle finestre e tendono l’orecchio. Cento, duecento risciò aspettano fuori per condurti al Casinò da giuoco, o fra l’intrico dei vicoli illuminati al neon, dove le scritte portoghesi si mescolano ai tabelloni verticali gremiti di rossi ideogrammi. La Cina rossa è sempre nel fondo, silenziosa e scura, oltre il fiume: solo un proiettore fruga le acque, alla ricerca di fuggiaschi giovani; che a questi è proibito lasciare il paradiso del socialismo. Come a Berlino, anche se in modi diversi, due mondi si fronteggiano, e ciascuno esibisce il peggio che ha: l’oppressione ottusa e la licenza viziosa, la fame e lo sperpero, lo sfruttamento di un impero spietato su ottocento milioni di schiavi, e la ricchezza accumulata da un pugno di imprenditori «liberi» sulla miseria di due milioni di «liberi» affamati; il divieto statale che proibisce, di là, ogni forma di erotismo, obbligando le ragazze a tute da operaio, e, di qua, l’anfanare di sederi ipernutriti, di gambe lunghe e inquiete, il traffico di libere gonne sollevate fino

alla coscia, di seni che imitano, nella loro mostra esagerata, gli ultimi moduli erotici arrivati coi giornali illustrati dall’occidente. Fra la “provincia” portoghese e il distretto cinese del Kwantung, c’è una porta aperta, la “Porta do Cerco”, attraverso cui si svolge un piccolo traffico locale. Pacchi di viveri mandati dai sudditi di Lisbona ai loro parenti nell’impero di Pechino, e un prospero commercio di casse da morto fabbricate a Macao: questo tipo di indispensabile mobile è introvabile in Cina, se di buona qualità e accurata fattura. Morire decentemente è non meno impossibile che vivere lassù. L’alfa e l’omega della vita passano sotto la porta neoclassica, la bandiera rosso-verde dei re lusitani, le scritte scrostate inneggianti alla Patria e all’onore. Nel senso opposto, passa l’oro, tanto oro di contrabbando, che mani frettolose e esperte smistano verso i mercati dell’Asia, dell’Europa, d’America. Il miliziano rosso, cinquanta metri più in là, fotografa quanti si affacciano a scrutare la sua baracca; come a Berlino, l’ossessione del teleobbiettivo e dei binocoli riempie il silenzio delle armi inoperose. Solo i portoghesi intimiditi non osano far fotografie: «quelli di là si arrabbiano», spiegano. I rapporti di forza pesano anche sulle macchine fotografiche. Torniamo indietro, l’animazione petulante e ansiosa del Casinò da giuoco non ci attira, meglio la guerra dei grilli. Un gruppo di tifosi ben vestiti sotto lampade accecanti, curvi su un tavolo. Al centro una bacinella coperta da una grossa lente di combattimento, l’arena: i grilli, aizzati alla battaglia, sono pesati sotto gli occhi dei proprietari e allevatori, su bilance da

farmacisti. Li schierano dentro il minuscolo anfiteatro, facendoli passare per due cubicoli, le cui porticine si richiudono dietro i gladiatori. Li hanno nutriti, per mesi, rimpinzati di riso e foglie di loto, eccitati con lo zenzero: li han preparati a trafiggere i fratelli forbendogli antenne e elitre con spazzole fitte come pennelli di pittori. La guerra dura mezz’ora e più, e alla fine, lo sconfitto si ritira; o si ripiega, morto, gli occhi trapassati dalle antenne del rivale, con piccole mosse meccaniche; o si raggomitola sulla zampa spezzata, aspettando che lo sottraggano all’ira del vincitore imbaldanzito che pare, lui, un drago, così ingrandito dalla lente, con scatti atletici e feroci. I più combattivi vengono scelti, generalmente, fra le erbe di un cimitero, e là li riportano i proprietari, dopo l’ottava Luna, in Ottobre, con una breve marcia trionfale per la città cinese. Le ultime, sadiche e raffinate crudeltà di un’Asia morta, gli ultimi languori di un’anacronistica Europa si mescolano e contraddicono a Macao. Lassù, la Fortaleza de Dona Maria II protende i suoi cannoni di bronzo, ormai bluastri per il calore e la pioggia, sul porto senza navi: soltanto giunche nere giacciono sul mare giallastro, soltanto vecchie lapidi corrose ricordano il rogo delle galere olandesi ricacciate in fiamme dopo un vano assedio. Il porto è interrato dal fango che il Fiume delle Perle trascina nella baia. Restano le statue degli ammiragli, gli stemmi dei re, le facciate dei gesuiti, restano le campane che suonano le ultime Ave Maria dell’Asia davanti al colosso informe che si stende oltre il breve braccio di mare, che brontola, che un giorno, lo sanno tutti, verrà.

LA PUNIZIONE DEL VINTO

Tutto il mondo è diviso al 38° parallelo: divisione assurda, illogica, che però non cessa di pesare sul suo avvenire. La cronaca dei fatti è nota, e non staremo a ripetere lo solite frasi sull’aggressione, come neppure riecheggerò le usuali scandalizzate espressioni sulla violazione della pace, che da parte occidentale si sono levate ad attribuire l’unica responsabilità dell’attuale stato di fatto all’atteggiamento comunista. La domanda che oggi si pone è questa: - Chi ha permesso che si determinassero le cause della attuale guerra? - Le deformazioni e le falsità di parte comunista sono note e accettate come tali. Ma non altrettanto palesi sono le deformazioni di parte democratica: parte che nella attuale malinconica configurazione del mondo ha una responsabilità almeno pari a quella comunista. La storia della Corea è breve, ingloriosa storia di servaggio e di frequenti mutamenti territoriali che ebbero fine soltanto con l’inizio del protettorato giapponese nel 1904 e, infine, nel 1910, con l’annessione all’impero del Sol Levante. Soltanto la sciagurata politica che da Versaglia aYalta ha ipotecato l’avvenire dei popoli in nome di una pretesa e ridicola moralità internazionale, su disegni di politicanti pazzi e

incompetenti, poteva pretendere di creare uno Stato da diciassette milioni di individui che non sono nemmeno un popolo. È la solita prassi, la mostruosa eredità di Versaglia che permise la creazione di Danzica “città libera”, che determinò il corridoio polacco, lo smembramento della Saar dalla Germania, che in tempi più recenti ci ha dato il Territorio Libero di Trieste e le forche di Norimberga, prassi secondo la quale il vinto deve essere punito, con l’attribuzione in blocco delle proprie e delle altrui responsabilità, inaugurando il nuovissimo principio giuridico della responsabilità collettiva, secondo cui un popolo, se perde la guerra, diviene immediatamente colpevole, e come tale deve pentirsi, “educarsi”, espiare. Dopo i crimini perpetrati in nome della libertà e del diritto delle genti dai vincitori occupati nella punizione del vinto, si è verificata la nuova frattura. E la nuova via conduceva da Norimberga al Sipario di Ferro. Non contenti di avere imposto al mondo la loro ingiustizia, hanno voluto assoggettarlo anche alla nuova barriera determinata dalla incomprensione reciproca, dalla mancanza di unità dei loro intenti e dei loro fini e dalla assoluta incomprensione dei loro capi nonostante le pacchiane fotografie in cui al Cairo, a Yalta e a Potsdam, il degno erede di Wilson, Roosevelt, non disdegnava di eternare il suo sorriso idiota accanto ai baffi dello Zar moscovita. Poi l’epoca dei sorrisi è passata e siamo giunti al Sipario di Ferro, siamo arrivati al 38° parallelo, alla barriera fittizia e assurda che per volontà dei vincitori percorre tutto il mondo, attraversando le terre, le case, le coscienze degli uomini. E

mentre da parte orientale si perseguiva metodicamente e inesorabilmente un programma di progressivo assoggettamento dei popoli, gli occidentali testardi e ignari si sono dati a una politica disordinata e caotica, espressione inconfondibile della loro mentalità ottusa e infantile. Noi ci rifiutiamo di credere che le colpe e le responsabilità siano da attribuirsi nella loro totalità a uno solo dei blocchi contrapposti. Sono ugualmente responsabili di fronte al mondo, e dei crimini commessi di comune accordo, e della catastrofica situazione derivante dalla loro contrapposizione. Non contenti di creare uno Stato nuovo e ridicolo nell’unico intento di punire il Giappone, non hanno trovato l’accordo e nell’atto stesso in cui lo creavano stabilivano le premesse della sua fine, lasciandogli l’eredità della guerra civile. Eterni untori che dove toccano guastano e contaminano. Falsi entrambi, perché non sanno assumersi chiaramente le proprie responsabilità di popoli e di uomini di stato, che dopo avere condannato dall’alto di una pretesa superiorità lo sforzo vitale di nazioni giovani che chiedevano di vivere, mascherano i loro più sfrenati imperialismi dietro la moralità internazionale o l’internazionale operaia. La Russia mandò allo sbaraglio gli Stati satelliti, facendo balenare davanti alle sue orde di selvaggi il miraggio del bottino. Meschino è il giuoco americano. Infatti, data la situazione paritaria dell’ordinamento internazionale gli Stati sono basati su rapporti di coordinazione fra loro, mancando una superiore potestà legislativa e giurisdizionale, provvista di suoi mezzi

coercitivi. Gli anglosassoni allora escogitavano la originale trovata di confezionare quei mostruosi e ridicoli aborti che vanno sotto il nome di S. d. N. e di O.N.U; di attribuire ad essi la competenza e le funzioni di unici e titolari depositari della morale cosmopolita e del diritto delle genti, e di farsene devoti paladini mascherando dietro tali organismi le loro sfrenate smanie imperialistiche e il caos delle loro menti idiote. Con furia di missionari evangelici si sono dati a imbottire di sermoni i popoli vinti e disperati, nella pretesa di erudirli in democrazia e civiltà. Abbiamo assistito in questi anni ai tentativi di alcuni saccomanni gallonati di insegnare la civiltà alla Patria di Goethe e di Beethoven! E oggi ancora cercano di correre ai ripari invocando l’aiuto e la solidarietà degli altri popoli per arginare il comuniSmo che avanza; dimenticando che le armi di cui erano forniti i rossi di Spagna, oltre che russe, erano inglesi e francesi, e che i carri armati che premendo sulla marca orientale e sulla Pomerania sfociarono su Berlino dilagando per tutta l’Europa erano di marca americana. Questa è la realtà del presente, unita alle prospettive del futuro, la migliore delle quali è quella di impugnare le armi per la distruzione del comuniSmo, onde ottenerne in cambio l’americanizzazione mondiale: di combattere per gli «eterni valori della civiltà occidentale»; di morire, anziché per un materialismo storico o dialettico, per l’altro materialismo ingordo e cieco del ventre e della paura. Di contribuire alla erezione di una umanità senza volto e senza onore. Mondo senza equilibrio e senza pace.

Erano proprio del tutto ingiusti i tentativi di coloro, oggi innominabili, che auspicavano un «nuovo ordine mondiale», combattendo con eroismo e con sfortuna sui due fronti, contro i due blocchi che oggi minacciano di sommergere l’umanità? E in questo mondo sconvolto che cerca una nuova via, non sono forse ancora vive e attuali quelle esigenze e quelle idee? Ci domandiamo questo con l’autorità di un avversario, Benedetto Croce che scriveva nel 1942: «Un istituto non muore per i suoi errori, ma solo quando non soddisfa più alcun bisogno, o a misura che scema la quantità o si abbassa la qualità dei bisogni che esso soddisfa». Questa è la validità attuale del nostro storicismo che commisura le condizioni del presente ai fatti del passato e che sa trarre, da un presente incerto e malsicuro, la forza di affermare l’assetto di un avvenire più sereno e duraturo.

E Churchill disse: distruggete l’Italia

Bombardamenti

indiscriminati per “piegare il morale” della popolazione

In un libro sulla campagna d’Italia (La guerra inutile, Longanesi) lo storico militare inglese Eric Morris fornisce cifre, il cui confronto parrà sbalorditivo. Tra la resa dell’8 Settembre e la fine della guerra, i civili italiani che persero la vita per rappresaglie tedesche furono diecimila: i morti nei bombardamenti inglesi e americani, sessantaquattromila. Il solo rapporto numerico basta a denunciare un’aberrazione nel giudizio e un’ingiusta distribuzione della memoria e della pietà: difficilmente saranno corrette nell’alluvione di rievocazioni dell’imminente cinquantenario. Si continuerà a vedere solo una faccia dei mali inferti al popolo italiano in quell’ultima parte della guerra in cui non ebbe più uno stato sovrano; e anche questa parte con un occhio solo, perché in mezzo secolo nessuno ha seriamente osato contestare, e dopo mezzo secolo non c’è un procuratore della Repubblica che osi contestare alla “resistenza” comunista, che progettò e impose la guerra civile, crimini fondamentali, di primo grado, come la strage (considerata, invece, legittimo e lodevole atto di guerra!) di trentadue militari in marcia per una strada di Roma (oltre a civili, e un ragazzo): strage di cui il massacro delle

Ardeatine fu, seppur barbarica, solo conseguenza, delitto di secondo grado. Di fronte all’assordante e perfino isterica condanna dei vinti, i crimini dei vincitori restano sospesi in un limbo, forse infernale, ma esente di condanne e di pene, oscuro per mancanza d’interesse e indagine, d’interpretazione e giudizio. Vae victis, riassume Livio, e Guicciardini: «Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna come per il contrario che si truova dove si perde, è imputato di infinite cose...». Non è vero che sia finito il dopoguerra. Finirà quando sarà resa giustizia, sia pure soltanto nella cognizione dei crimini, e nella memoria e rispetto delle vittime; fase di cui non ancora si vede il principio. «Nello stesso periodo in cui i russi liberarono i prigionieri di Auschwitz, trucidarono circa 3 milioni di profughi civili tedeschi, quasi solo donne, bambini e vecchi, nel modo più selvaggio, che non ha niente da invidiare ai nazisti, continuando anche a guerra finita». Il “Giornale" del 30 Gennaio, con questa lettera, di Ingeborg Albero Goedecke, di Busto Arsizio, approda alla mia scrivania mentre preparo un gruppo di articoli, in cui tenterò (con poca speranza, in verità) di rimuovere la crosta di omertà e indifferenza che ricopre il massimo crimine dei vincitori anglo-americani: l’olocausto dell’aria che uccise, senza considerare le rovine monumentali che ne sono il versante culturale e storico, un milione e mezzo di civili in Europa e quattro milioni in Giappone. «Chi parla più dei milioni di morti civili sotto le bombe degli alleati? Chi parla più dei morti che ha lasciato sul terreno il

regime di Stalin? Perché nessuna di queste vittime viene ufficialmente ricordata?». Al grido della lettrice rispondo: i capi vincitori non furono perseguiti, a guerra finita, neppure per crimini pubblici e evidenti, per il sol fatto che avevano vinto. Né i loro archivi, divenuti res nullius, furono saccheggiati e divulgati. Furono, anzi, classified, ossia celati e protetti. La consegna di due milioni di russi a Stalin fu un segreto benissimo coperto; rivelarne i particolari è costato al conte Tolstoi la totale povertà. Il timore dei vincitori, l’equiparazione obbligata della loro vittoria al trionfo del bene sul male, generano la persuasione che ogni loro azione fosse lecita. L’incenerimento sistematico di una nazione, città dopo città, appare ancora deplorevole eccesso di necessità tuttavia riconosciute, di punizioni tuttavia legittime. La protesta rimane flebile lamento, giustificabile nell’emotivo locale, trattato perfino (chi è avvezzo a certe materie se ne è accorto) nelle cronache locali dei giornali, e non tra le questioni storiche maggiori; non paragonabile ai veri crimini di che strilla il coro: le rappresaglie, il genocidio. Tanto a lungo perdura, tanto profondo rimane il «lavaggio del carattere» praticato dai vincitori sui vinti, come l’ha chiamato il conte Schrenk-Notzing. Nessuna autorità ha fatto, in Italia, il calcolo dei morti feriti e mutilati nei bombardamenti: un inventario dei monumenti periti nella guerra, delle opere d’arte incenerite, delle case distrutte. La perdita monumentale e artistica non è, in tale olocausto, di minor momento rispetto a quella di vite umane, come par suggerire una trascuraggine che è solo opportunismo servile e vigliacco. La cancellazione delle

opere dello spirito, del genio, del lavoro di un popolo, prolunga il crimine oltre la perdita della generazione in un certo tempo vivente. Rende l’olocausto ancora più odioso. Quasi che tutti i crimini perpetrati da stati sovrani con le loro risorse militari organizzative e scientifiche non abbiano radice nell’identico «allontanamento dell’idea umana, che viene intesa da ciascuno a suo modo», come scrisse Hans Sedlmayr esplorando la fase terminale di una civiltà in cui, tra i mostruosi opposti del “colossale" e del “vuoto", irrompono l’assenza dell’anima, il suo inselvatichimento e irrozzimento, e il collasso della cultura genera la perdita di rispetto per l’uomo, vivo o morto che sia. A un altro storico dell’arte, Alfredo Barbacci, si deve l’osservazione trattata nel suo lavoro di soprintendente tra i monumenti feriti, «esaminando gli edifìci di Bologna colpiti nella quarantina e più di bombardamenti: le maggiori chiese sono state i bersagli preferiti dagli aviatori angloamericani. La basilica di San Francesco, colpita da un aereo che due volte vi si gettò sopra in picchiata. Le bombe che devastarono l’Archiginnasio erano dirette alla basilica di San Petronio, che ne dista pochi metri. Le maggiori chiese, risaltando per la mole e per la torre campanaria, erano più facili bersagli. Su esse gli aviatori dirigevano le bombe, e non solo per soddisfare un’ambizione sportiva o un istinto vandalico, ma per deprimere il morale della popolazione, offendendo i maggiori monumenti. È il moral bombing, come fu battezzato nella cerchia di Winston Churchill. Fin dal primo bombardamento che colpì Bologna il 24 Luglio 1943, giorno avanti la caduta del fascismo, Barbacci constata

come tale evento, e poi l’armistizio che toglie l’Italia dal novero dei combattenti attivi, non rechino mitigazioni all’olocausto. Quanto alla decisione di bombardare intenzionalmente le popolazioni, questa fu presa, osserva uno studioso di economia e finanza, Fernando Ritter (Fascismo. Antifascismo, Milano 1992), la mattina del 10 Maggio 1940, giorno dell’offensiva tedesca in Francia, su proposta di Churchill, appena salito al potere. Nel IV tomo delle sue Memorie, rievocando le istruzioni impartite 1’8 Luglio 1940, al ministro delle Costruzioni aeronautiche, scrive: «Il blocco della fame (nella prima guerra mondiale) rimase inefficiente. Esiste però un altro mezzo per atterrare l’avversario: una guerra aerea di sterminio totale...». Barbacci la osserva in opera: «La scommessa tra gli aviatori inglesi per l’abbattimento delle Due Torri continuò tutta l’estate, indifferente agli avvenimenti politici», culminando nel bombardamento del 25 Settembre, con grappoli di bombe che non centrarono i venerandi bersagli, ma cagionarono tutt’intorno strage d’inermi, non meno innocenti delle vittime di Auschwitz e delle Ardeatine. Il Soprintendente è stupito: «Il fatto che nella zona non vi fossero obiettivi militari non aveva nessuna importanza per l’azione nemica». Tale stupore, figlio della buona fede, continuò, se ancora 13 anni or sono uno specialista, Giorgio Bonacina, rievocando il bombardamento di Milano del 25 Ottobre 1942, spiegava che, se non fu «diretto contro obiettivi militari o industriali» e perciò «indiscriminato», ciò si dovette all’avere, il capo del Bomber Command della Royal Air Force, Sir Arthur Harris, perduto la fiducia «di colpire con sicurezza solo obiettivi militari o

industriali», dunque passando di malavoglia alla «devastazione programmata delle aree urbane». Troppa grazia, in realtà, per Harrys thè Butcher, Harrys il macellaio, come lo chiamarono colleghi che avevano visto in lui l’anima gemella, benché alata e non pedestre, del comandante di Auschwitz. La dottrina del moral bombing ha storia assai lunga e tracce profonde, che risalgono al 1923, quando il maresciallo dell’aria sir Hugh Trenchard turbò i colleghi sostenendo che, nella guerra futura, l’offensiva della nuova arma aerea sarebbe stata più efficace attaccando, anziché obiettivi militari, il meno protetto bersaglio della popolazione civile. È diffìcile dire quale influenza avessero, su Trenchard e il maresciallo Smuts che lo appoggiava, gli scritti del generale italiano Giulio Douhet, per cui «la guerra fùtura sarebbe stata decisa dai bombardieri a grande autonomia che con massicci bombardieri al cuore del territorio nemico avrebbero ridotto in rovine le sue città, la sua gente alla disperazione, e il governo alla capitolazione». È caratteristico della leggerezza italiana in ogni campo, che le sciagurate teorie di Douhet, criminali nell’ispirazione, e poi fallaci quando furono applicate da altri, restassero tra noi senza esiti, tolti i rimbombanti articoli divulgativi e la prefazione del maresciallo Balbo ai suoi volumi. Gli stati maggiori programmavano teorie e armate con l’occhio alla scadenza della «tregua» che il maresciallo Foch, davanti al perverso dettato di Versailles, misurò in vent’anni. Che Douhet influisse sulla dottrina inglese del moral Bombing, il bombardamento strategico, esclude sir Basii Henry Liddel Hart, nel lungo capitolo della Storia militare della seconda guerra mondiale sulla «politica del bombardamento aereo», applicata «soprattutto per

compiacere ai russi» (così egli cerca di giustificare il crimine, che gli ripugna) culminata, alla fine della guerra, nella «offensiva contro le città tedesche. Verso la metà del Febbraio 1945 la lontana città di Dresda fu sottoposta, col deliberato intento di seminare la strage tra la popolazione civile e i profughi, a un micidiale attacco, proprio sui quartieri centrali e non stabilimenti e ferrovie». La dottrina del moral bombing era così giunta «a un grado di perfezione ben più alto» che in Douhet, i cui scritti, precisa Liddell Hart, apparvero tradotti in America solo nel 1942 e in Gran Bretagna nel 1943: col solo possibile scopo di ritorcere (non senza visibili ragioni, considerando il gran numero degl’italiani d’America) sulla misera Italia, che ora le subiva applicate addosso a lei, la responsabilità culturale e ideale delle distruzioni e stragi. Che si trattasse di distruggere l’Italia e non il fascismo, prova la famosa frase di Churchill ai Comuni dopo la caduta di Mussolini: «Conviene lasciare che gl’italiani cuociano nel loro brodo», intanto tartassandoli con energia; tanto è vero questo, che si oppose con ogni forza a proposte americane di ridurre i bombardamenti per favorire lo sboccio di tendenze italiane alla resa. Al contrario, i bombardamenti vanno intensificati, lo interpretò Anthony Eden, che tutto ciò chiamava «ammorbidimento» dell’Italia al trattamento che per lei si progettava. Su alcune città i bombardieri alleati ritornano in massa per più giorni e notti di seguito, devastando località già devastate. Nessuna zona della Penisola ha requie, non Palermo, Messina,

città e borgate della Sicilia, che pure stanno per cadere. La notte tra il 13 e il 14 Luglio, la pioggia di fuoco piomba su Torino, il 19 si squarciano le illusioni sulla immunità di Roma. «Voglio sopra Roma tutti i bombardieri medi e pesanti in grado di volare», aveva ordinato Eisenhower. N’ebbe seicento e sessantadue (oltre a 268 caccia di lunga autonomia); sganciarono 1.100 tonnellate di bombe, e condussero al macello 3.000 esseri umani (quasi dieci volte le Ardeatine) più 10.000 mutilati e feriti: e intanto, come sempre in tutti i bombardamenti di questo tipo, i caccia della scorta svolgevano un lavoro più personalizzato e minuto, scendendo a mitragliare quei poveri diavoli che si trovassero per strada, nei piazzali, fuori dai rifugi. Il 24 Luglio 1943 fu la volta di Bologna, il 25 fu semidistrutta Livorno, e poi (il regime fascista era frattanto caduto) toccò a Benevento, a Salerno, Cosenza, Catanzaro, Sulmona, Trento, Bolzano, di nuovo Bologna. Milano e Torino, ancora Roma e Pisa, ebbero migliaia di vittime e di case distrutte nell’Agosto, mentre la Corte e lo stato maggiore si «ammorbidivano» e la ferocia raddoppiava. «Quasicché gli anglo-americani temessero che un’Italia che si era scrollata di dosso il fascismo fosse nemica più di prima, eccoli scatenare un’offensiva aerea che superò per terribilità, per danni, e per violenza ogni altra precedente», scrisse Paolo Monelli in Roma 1943: «per tutto il mese d’Agosto, per tutta la prima settimana di Settembre, fino a cinque ore prima della proclamazione dell’armistizio», Napoli e Torino, Terni e Cagliari, Milano e Grosseto, Foggia e Pescara, Civitavecchia, Bari, Benevento, furono straziate con distruzioni immani e migliaia di

morti. «Il flagello distrusse in quel terribile mese più di quanto non guastarono assedi, incendi, sacchi e terremoti in mille anni» (Monelli). «C’era qualcosa di sadico, di forsennato, in questa politica», commentò Attilio Tamaro. Era la scomparsa dell’idea umana, lo spirito di Auschwitz adattato all’ipocrisia anglosassone; cui poche centinaia o migliaia di metri di distanza, e il non sparare direttamente sulla vittima (tranne il mitragliamento, riservato a virtuosi e specialisti) offriva la facile illusione di non personale, ma elusiva e collettiva, colpevolezza. Non una bomba cadde sulle navi da guerra ancorate a La Spezia; c’era il rischio di sciupare il bottino. «Mi sono domandato tante volte», scrisse l’ammiraglio Garofalo, imbarcato sulla Littorio, «come mai l’aviazione avversa ci risparmiasse». «Non una bomba è lanciata, dal 25 Giugno all’8 Settembre, contro il grosso della flotta, a La Spezia, né sulle navi ancorate a Taranto. A rigor di logica, avvicinandosi alla Sicilia per invaderla, gli alleati dovrebbero colpire la Marina da guerra italiana... Invece, non se ne curano affatto» (Trizzino). Quando certi archivi inglesi saranno ben esplorati si avrà la conferma di un mercato segreto in cui gli alti gradi della Marina italiana avevano venduto agl’inglesi le grandi navi, fissando addirittura le tariffe per i singoli tipi. Il mercato ebbe, tra i sensali, anche un illustre direttore d’orchestra. Ora gli angloamericani risparmiavano la flotta, sicuri che si sarebbe mossa soltanto per consegnarsi a loro. Il compito di offrire all’alleato la prova che la flotta italiana continuava a combattere fu lasciato ai sommergibili, siluranti e unità sottili. Da Quebec, Churchill e Roosvelt pretesero che i

sommergibili continuassero a operare, ossia, a dare spettacolo e farsi colare a picco; l’ultimo e ottantacinquesimo sommergibile, il “Velella” fù affondato la sera del 7 Settembre mentre andava all’attacco nel golfo di Salerno. La resa era firmata da quattro giorni, e divenne pubblica dopo 24 ore. Per nascondere quanto già deciso, o ammonire contro tentazioni contrarie, o per puro sadismo, lanciarono su Napoli, il 6 Settembre, l’attacco più feroce. La guerra era ormai una finzione d’altri due giorni, e una furia mai vista guastò per sempre il volto della città: sotto le macerie dell’ospedale dei Pellegrini, di chiese, palazzi, scuole, case, giacquero da venti a trenta volte i martiri delle Ardeatine. Seppure i miserabili dello stato maggiore s’illudessero in una proroga, Eisenhower si teneva ben fermo all’8 Settembre. Quella mattina, poche ore prima che annunciassero la resa, si divertirono a massacrare Frascati. Il maresciallo Kesselring aspettava gli «alleati» De Courten e Roatta. «Le prime bombe caddero mentre uscivo dal mio studio. L’incursione non ebbe gravi conseguenze militari, ma fu istruttiva, perché su una carta ritrovata in uno degli apparecchi nemici abbattuti erano esattamente indicati il mio comando, e quello di Richthofen». V’erano riprodotti i cerchietti che il generale Castellano aveva tracciato sulle carte topografiche, a Cassibile. Il comando di Kesselring non fu colpito, ma cinquemila civili rimasero sotto le macerie della cittadina. La resa non mutò l’olocausto aereo d’Italia, nonostante l’occupazione tedesca ne avesse fatto, secondo la dottrina «atlantica» e la propaganda degli «alleati», una nazione da

«liberare». Continuarono a colpirla, invece, con odio raddoppiato. La “liberazione” venne anticipata a raffiche di mitraglia su casolari nelle campagne, innocenti villaggi. In Ottobre bombardarono Bologna e Boves (già distrutta dai tedeschi «per rappresaglia»), fracassarono Ancona, aggredirono Firenze, Chieti, Terni, Cervo, Sulmona, Pistoia, Viterbo, Grosseto, Varazze, Albenga. In Novembre Teramo e S. Egidio, Giulianova e Pineto, Pescara, Pesaro, Torino, Genova, Ventimiglia, Lamporecchio, Recco, Varazze, Pontassieve, Sinalunga, Prato, Trecase, San Benedetto del Tronto, Foligno, Chiusi, Civitanova, Pietrasanta, Rimini, Cisterna. Ad Arezzo distrussero la casa del Petrarca, a Padova, il capolavoro di Andrea Mantegna, gli affreschi nella chiesa degli Eremitani. Intorno a Natale, si scatenarono su Pisa, Pistoia e le cittadine vicine, Prato, Firenze, Vicenza, sul Trevigiano. «Erano gli araldi della democrazia, questi atroci ministri d’inutile rovina?» si chiede Attilio Tamaro, osservando che i tedeschi fecero due soli bombardamenti: sul porto di Napoli, con disastrose conseguenze per l’armamento alleato; e sul porto di Bari, dove distrussero diciassette navi. Novembre e Dicembre videro il martirio di Zara, distrutta quale grazioso omaggio a Tito che volle cancellato quel nido d’italianità nell’Adriatico. Il 15 Febbraio 1944, duecento bombardieri pesanti sbriciolarono l’Abbazia di Montecassino, dove non vi era un solo tedesco, sol perché quella mole torreggiante, con le sue cento e cento finestre incuteva angoscia ai fanti americani e neozelandesi nella valle. Ebbero il giusto compenso alla

dissennata distruzione nelle enormi perdite che furono inflitte alle loro fanterie dai mitraglieri della prima Divisione paracadutisti, che si asserragliarono nelle rovine. Il 7 Aprile 1944, Venerdì santo, una settimana prima che i partigiani assassinassero Giovanni Gentile, gli aviatori americani assassinarono Treviso, con «1600 morti e più dell’ottanta per cento delle abitazioni distrutte o danneggiate», si legge in un esemplare libretto del 1952, ristampato l’anno scorso, nel cinquantenario della distruzione; uno dei pochi esempi di dignità e eleganza offerti da una città italiana in questo dopoguerra di bestiale e servile ignoranza. Proprio a Treviso, le sciagurate teorie del Douhet e del moral bombing furono smentite dalle centinaia di giovani che, indignati per quel massacro, accorsero sotto le bandiere della R.S.I. Fino all’ultimo la furia dell’olocausto dal cielo si accanì barbarica e inutile, perché continuare o finire la guerra non dipendeva dagli italiani, ma dai tedeschi. Il 20 Ottobre 1944 seppellirono settecento vittime sotto le macerie dei quartieri popolari di Milano, a Gorla ammazzarono duecento bambini e bambine con le loro maestre; massacrarono un villaggio presso Brescia, cacciabombardieri scesero sui laghi lombardi a mitragliare i vaporetti, sadismo selvaggio li indusse a mitragliare dentro Parma, il 18 Novembre, uomini donne e bambini che cercavano scampo, e a Piacenza, pochi giorni dopo, a spezzonare il centro, uccidendo 109 donne in un ospedale. Richiesti, come cento volte, dai partigiani, a fine Gennaio stormi di aerei distrussero Aulla in Lunigiana, con centinaia di morti. Estri individuali fecero scovare un treno verso Bollate, i cui

passeggeri, scesi in fretta, furono mitragliati, uno per uno, tra le casupole. Lo stesso giorno, una corriera tra Milano e Pavia stipata di quasi duecento infelici, fu presa «in mezzo», tra due cacciabombardieri, dei quali uno mitragliava il tetto e l’altro si dedicava, tra eleganti giravolte, ai fianchi: bella esibizione d’arte liberaldemocratica, ch’ebbe a risultato 73 morti e 100 feriti. Basta, elenchi e commenti superano le capacità mie e della mia pagina. Ma vorrei, davvero vorrei indurre tanti giovani volenterosi, e studiosi di storia di città illustri e men illustri, cittadine e borgate, a quest’opera di vera cultura e vera pietà, verso la patria maggiore e quella minore, locale: documentare, raccontare, diradare le tenebre dell’omertà e della sottomissione al vincitore. L'odio non deve morire.

Riaprire le sigillate carte, infangare gli assassini Sangue di

COSACCHI. VlLTà D’INGLESI

I CRIMINI DEI VINCITORI: RICORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DI STRASBURGO

Nella seconda metà di Gennaio 1995, a Strasburgo, la Corte europea per i diritti dell’uomo dovrà esaminare il ricorso del conte Nikolas Tolstoi contro la condanna a pagare un milione e mezzo di sterline, inflittagli dalla giustizia inglese il 1° Dicembre 1989, quale risarcimento preteso da un Lord Aldington che, col meno pomposo nome di Toby Low, fu, nel 1945, Capo di Stato maggiore del V Corpo d’armata britannico. Fino a che Tolstoi non scrisse su di lui nel 1988, Toby Low, divenuto pari del regno e presidente del Partito conservatore, era riuscito, celandosi nell’ombra del comandante il V Corpo d’armata, il tenente generale Charles Keightley, a nascondere le sue personali responsabilità nella più losca operazione condotta dalle forze armate britanniche nella Seconda guerra mondiale: la consegna forzata ai sovietici dei volontari cosacchi che, arruolati nella Wehrmacht e seguendola nella ritirata con le famiglie, si erano acquartierati, alla fine della guerra, tra la Carnia italiana e l’adiacente Carinzia.

Negli incontri “tecnici” della Conferenza di Yalta, gli occidentali si erano impegnati a “restituire” quei collaborazionisti che fossero cittadini sovietici nel 1939. Non, perciò, gli esuli fuggiti dalla Russia dopo la rivoluzione, che cittadini sovietici non erano mai stati. Non solo i russi furono consegnati ai loro mortali nemici. Anche settecentomila croati, i soldati dell’esercito, le loro donne e i bambini, vennero brutalmente trasformati in vittime degli aguzzini di Tito. L’orribile segreto, che tutti conoscevano nelle alte sfere militari britanniche, fu rivelato nel 1974 con la pubblicazione di un libro di Nicholas Bethel, The Last Secret Forcible Repatriation to Russia 1944-47 (Andre Deutsch ed.). Bethel era un giovane aristocratico che alternava interessi letterari e storici a una carriera politica nel partito conservatore. Nel governo Heath aveva ricoperto una carica simile alla nostra di sottosegretario. Traduttore di Solgenitsin, Bethel fu spinto da una frase di Arcipelago Gulag a squarciare il velo, che già si era sollevato alla scadenza della riserva venticinquennale con cui gli archivi inglesi e americani proteggono temporaneamente una vasta fascia di classified documents: «È sbalorditivo che in Occidente, dove nulla di politico resta a lungo segreto, e inevitabilmente giunge al pubblico, o sulla stampa o in qualche altro modo, questo atto di tradimento commesso dai governi inglese e americano possa essersi mantenuto all’oscuro. Questo è davvero l’ultimo segreto della seconda guerra mondiale, o, almeno uno degli ultimi».

Ultimo non era, ché ancor doveva seguire OtherLosses di James Baque: la rivelazione, uscita l’anno scorso (in italiano Gli altri Lager, Mursia) di come americani e francesi fecero morire di fame, di stenti e di malattie, dopo la fine della guerra, un milione di soldati tedeschi nei campi di concentramento sotto la loro autorità: privandoli delle difese della Croce Rossa internazionale con un sotterfugio verbale idea-to dalla perversa mente del generale Eisenhower, la trasformazione di quelli che erano, con ogni diritto, Prisoners of War (Pow) in Desarmed Enemy Forces (Def); altro segreto su cui ha scritto un memorabile articolo Massimo Zamorani. Bacque è un canadese, così come inglesi sono Bethel e David Irving, colui che osò sollevare un altro lurido velo sulla distruzione di Dresda, nel Febbraio 1945, inglorioso misfatto e non impresa militare: massacro calcolato, pianificato nei minimi particolari per distruggere quanto più possibile della splendida città d’arte, trascurando i pochi obiettivi militari; e uccidere il maggior numero possibile di esseri umani: un massacro che, per esser stato condotto concentrando a questo scopo le conoscenze, le competenze e le risorse tecniche di uno Stato, è in ogni senso peggiore di Auschwitz. Grande attenzione dovrà dedicare la storiografia dei prossimi decenni a questo capitolo della distruzione dall’alto dell’Europa, per metterne in luce il carattere non bellico, ma soltanto terroristico, di genocidio pianificato; e per rimuoverne la crosta delle attenuanti che vi ha sopra depositato una storiografia compiacente e anglofila per partito preso, riducendo il capitolo dei bombardamenti a peccato veniale, diminuito da un preteso

carattere di giusta ritorsione, e compensato dalla «liberazione» e dalla conseguente gratitudine dei vinti per esser stati rieducati all’onestà e alla libertà. Ha un interesse decisivo osservare che i fondamenti di questa storiografia di correzione morale, revisionista in quanto intesa a rivedere la rozza spartizione tra delinquenti e redentori, siano stati posti da scrittori appartenenti a nazioni di parte vincente. Fu il più nobile e indipendente degli scrittori politici francesi di questo secolo, Alfred Fabre-Luce, che aprì, subito dopo la fine della guerra, il capitolo dei “crimini di guerra alleati”.

Il primo di tali crimini emerse con sanguinosa evidenza già al processo di Norimberga, dove non restarono dubbi sulla responsabilità sovietica nell’assassinio del corpo degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyn. Dopo un goffo tentativo di addossare anche quella strage ai vinti, gli accusatori russi pretesero e ottennero che di Katyn non si parlasse più. «Non potevamo certamente ignorare la marea di violenze e stupri, assassinii e deportazioni di popolazioni che contrassegnarono l’anno 1945», scrisse più tardi lo stesso FabreLuce: «Ma, fino al 1975, quando apparve L’ultimo segreto di Nicholas Bethel, non ci eravamo imbattuti in questi milioni di Russi anticomunisti, consegnati all’Urss, nonostante gli scrupoli iniziali di Churchill, per una decisione di Anthony Eden. Questo bestiame umano inseguito, acchiappato al laccio, venduto a tradimento, questi uomini che si arrampicano gli uni sopra gli altri per sottrarsi all’imbarco forzato, queste donne che saltano nei precipizi stringendo i loro bambini, sono immagini che non

dimenticheremo facilmente». L’Inghilterra dovrà pagarlo nei secoli agli uomini liberi, non perdere occasioni per ricordarglielo. È importante che tale riscrittura della storia, dove tornano a bilanciarsi le responsabilità, e i sentimenti umani, buoni e malvagi, si distribuiscono tra le due parti in lotta, non nasca dai vinti; non sia espressione di sentimenti di rivincita, anche comprensibili, ma sorga dal disgusto di storici dei Paesi vincitori per gli aspetti disgustosi della loro vittoria. Da condanne morali che tagliano trasversalmente alleanze e nazioni, ideologie e perfino partiti.

Il conte Tolstoi che, sulla scia di Lord Bethel, si mise a indagare sulle responsabilità di ministri e comandanti inglesi in un delitto immenso: pari nel numero accertato delle vittime, alla metà della (mai provata) contabilità attribuita ai tedeschi, era giornalista del «Times». Il giornale, subito dopo la pubblicazione di Victims of Yalta e di The Minister and thè Massacres, (entrambi editi da Hodder & Stoughton), si schierò al suo fianco, chiedendo che « i responsabili di quel rimpatrio forzato vengano a giustificarsi alle sbarre della storia sul delitto che pesa sulla coscienza della Gran Bretagna». Tolstoi aveva dimostrato che il gabinetto di guerra in cui sedevano sia Churchill sia Attlee, approvò il «principio del rimpatrio» il 4 Settembre 1944, «dopo una brevissima discussione». Il «ministro» del secondo titolo è Harold MacMillan, allora ministro di Stato per il teatro di operazioni del Mediterraneo, che si trovò, nel Maggio 1945, quale presidente della

commissione di controllo in Italia, sui luoghi dove i Cosacchi prigionieri furono ammassati prima della consegna. Tolstoï rivelò ancora che, fin dal Giugno 1944, colui che poi divenne Sir Patrick Dean, brillante ambasciatore, scrisse: «Che possano essere fucilati o massacrati in massa, non ci riguarda. Perdere tempo a distinguere tra rifugiati civili e disertori e traditori dell’Armata rossa ci costringerebbe a una serie di interminabili litigi coi sovietici». Il «Times» si augurava che «il Foreign Office e tutte le personalità menzionate spiegassero finalmente aH’opinione pubblica inglese i veri moventi della diplomazia britannica in quel difficile momento storico». Queste storie raccapriccianti, i «viaggi di ritorno senza avvenire» di torme di sofferenti, spinte a calci e bastonate nelle navi e nei vagoni bestiame, i continui suicidi in massa, avevano avuto testimoni numerosissimi. Un ufficiale francese ricordò: «centinaia si gettarono sotto le ruote dei treni piuttosto che ritornare di là. La disperazione, l’istinto di conservazione, spinsero gli uni a mutilarsi, gli altri a battersi con le unghie e i coltelli contro i soldati inglesi, che reagirono brutalmente».

Ancora Tolstoï: «Questo aspetto disumano dell’operazione non fu mai rivelato né al pubblico, né al Parlamento, perché il deputato laburista Christopher Mayew ha affermato che egli stesso, ministro di Stato al Foreign Office all’epoca di Bevin, non ne seppe mai nulla. Si trattava di uno sforzo deliberato per celare al pubblico penose verità». Il «Times» chiese, quindi, dopo che le rivelazioni furono fatte, «una revisione onesta dell’interpretazione di certi fatti che, in quell’epoca, per motivi

di propaganda bellica o post-bellica, costituirono una distorsione completa della realtà e della storia». La risposta fu un violento e brutale rifiuto, cui contribuirono tutte le autorità ufficiali. Di fronte alle richieste di verità da parte di Tolstoi e dei suoi difensori, la cinica sentenza, così ammirata quando si tratti di inglesi, Right or wrong, my Country, opposero il muro di una bieca, rinnovata complicità. Il beneficio di avere obbedito agli ordini superiori, che fu negato ai militari tedeschi e giapponesi da Norimberga in poi, dovrebbe continuare a proteggere l’inganno inglese che fu alla base del rimpatrio forzato e del massacro dei Cosacchi. Il Ministero degli Esteri vietò la consultazione degli archivi a Tolstoi e ai suoi difensori, ma non a Toby Low, ora Lord Aldington, ultimo sopravvissuto tra gli autori di quello che la “Neue Zürcher Zeitung” definì «inglorioso capitolo della storia militare inglese». Il Ministro della Difesa e il Museo imperiale della guerra proibirono l’accesso alle testimonianze registrate sui rimpatri, una delle quali, la sola ottenuta con procedura speciale da Tolstoi, lascia udire uno degli ufficiali del V Corpo confessare che tutti loro sapevano come fosse intenzione di Toby Low consegnare «quella gente ai sovietici e jugoslavi». L’atteggiamento dei giudici durante il processo basterebbe a cancellare le idilliache illusioni sulla giustizia britannica. Il giudice e il Lord parte civile erano membri dello stesso club, le spese giudiziarie del Lord furono pagate da una società di assicurazioni a partecipazione pubblica. «Aleggia il sospetto che l’establishment abbia stretto ranghi in difesa di Aldington», ha scritto nel “Giornale” Luca Romano, in una corrispondenza da

Londra. La condanna, infine, a pagare un milione e mezzo di sterline (3 miliardi e 750 milioni di lire, piu le spese di giudizio) che ha trasformato il giornalista in un povero e debitore a vita, appare più il mostruoso reperto di una vendetta barbarica che il documento giudiziario di una nazione civile. La presente rievocazione è scritta per coloro che dovranno pronunciarsi sul quesito se la giustizia inglese non abbia violato, contro Tolstoi, la convenzione europea sui diritti dell’uomo. Si fonda su Arcipelago Gulag di Solgenitsin, su The Last Secret di Nicholas Bethel e sul capitolo “Dalla parte dei vinti” del mio libro La vista, l’udito, la memoria (Fogola, 1987), due libri citati di Nicholas Tolstoi; su notizie tratte dal libro del nipote di Pyotr Krasnov, Nesabywajemoje (L’indimenticabile), pubblicato in lingua russa a New York, oltre che su comunicazioni private (per quanto riguarda il rimpatrio e il massacro dei croati) di padre Giacomo Bigoni, storico dei Frati Minori Conventuali, mancato ai vivi da pochi mesi; nei suoi lunghi soggiorni nell’isola di Cherso dov’era intento a ricerche negli archivi del suo Ordine, ebbe resoconti e notizie che mi riferì dopo le mie prime pubblicazioni sull’argomento nel 1975, e divennero base di una quasi ventennale amicizia. Dedicai i miei primi lavori a Nicholas Tolstoi e a quanti uomini giusti si battono contro la falsificazione del giudizio storico. A due milioni di persone ascende il conto complessivo dei russi che, alla fine delle ostilità, si trovarono nelle mani degli «alleati» occidentali: uomini, donne, bambini, neonati e

nascituri; soldati sovietici catturati nelle immense «sacche» seguite alle battaglie d’accerchiamento dell’Estate 1941, e poi arruolati nella Wehrmacht per ragioni diversissime, dalle convinzioni anticomuniste all’insofferenza della prigionia, al reclutamento forzato: ausiliari civili dei due sessi, dal tecnico alla sguattera: fuggiaschi sballottati tra i due fronti, risucchiati nelle ritirate dal miraggio del cibo, di un tetto; decine di migliaia di familiari, ignari e innocenti: relitti di comunità nazionali disperse e perseguitate da Stalin disposti a collaborare anche col diavolo pur di abbattere il regime sovietico; idealisti religiosi, membri di emigrazioni politiche e ideologiche che, quando in eguali forme combatterono contro il nazionalsocialismo e il fascismo, furono lodate quali espressioni dello spirito di libertà. Erano emigrati fuggiti dalla Russia rivoluzionaria, i veterani degli eserciti bianchi, scampati alla disfatta controrivoluzionaria del 1920. Quando le armate germaniche varcarono il Niemen questa gente sentì suonare l’ora della riscossa, e accorse: dalla Francia, dall’Europa centrale, dall’Ungheria, anche dall’Italia. Tra essi spiccava la dinastia dei Krasnov, capeggiata dal famoso Pyotr, generale dell’Armata imperiale, Ataman dei Cosacchi del Don, e poi di nuovo generale dei Cosacchi della Wehrmacht. Krasnov aveva consacrato la sua esistenza di soldato e scrittore alla lotta del suo popolo contro il bolscevismo. Il suo libro, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa, fu tradotto, tra le due guerre, in tutte le lingue europee. Lo divorai, forse a otto anni, e rimase, dentro di me, una delle più precoci radici del mio anticomunismo.

L’editore Salani tornò a stamparlo, nel 1974, senza sentire il dovere, fosse sciatteria o sciacallesco cinismo, di dedicare una nota pietosa alla terribile fine dell’autore, di cui continuava a sfruttare il lavoro. Più che ottantenne, Pyotr Krasnov chiuse la sua avventurosa e generosa esistenza appeso per il mento a un gancio di ferro nella Lubianka, le mani legate col filo di ferro dietro la schiena. Agli ordini suoi e di altri condottieri come Naumenko, l’Ataman dei Cosacchi del Kuban, combatterono trentacinquemila cosacchi. Altri quindicimila erano inquadrati nel fortissimo 15° Corpo di cavalleria del generale conte Helmut von Pannwitz, un nobile baltico che conosceva perfettamente il russo, e a questo suo talento, oltre alla fellonia inglese, dovette il cappio di forca che un boia sovietico gli passò intorno al collo. Né secondo il diritto internazionale, né secondo l’etica militare, né secondo gli accordi di Yalta questi capi dovevano essere consegnati all’unione Sovietica. Chi ha condannato Tolstoi, per difendere Toby Low, dovrebbe ricordare l’arbitrio e l’infondatezza del delitto commesso. La condanna fu poi annullata. Solgenitsin conobbe i superstiti di due milioni d’infelici nei campi dell’Arcipelago: quelli che non erano stati fucilati o impiccati subito dopo il ritorno, sopravvissuti a un decennio di torture e lavori forzati; e ancora i figli di quelle martoriate famiglie che, nati in prigionia, dovettero continuarla nell’infanzia e nella giovinezza, riscattando con la «rieducazione» le origini impure. Ascoltò i loro racconti e comprese che, nello sterminio di questi due milioni di esseri umani, le colpe dei Roosevelt e Churchill, Eden e MacMillan,

erano identiche a quelle di Stalin. In quella moltitudine i colpevoli di un qualsiasi crimine furono insignificante minoranza. Eppure, nulla fu tentato per sottrarre gli innocenti al massacro: immediato, o differito nella consunzione. Furono dunque mandati alla morte anche coloro che, secondo ogni diritto e ogni morale, dovevano essere salvati. L’accusa di Solgenitsin colpì Bethel e lo spinse alla sua ricerca. Non che occorresse consultare archivi per conoscere la sorte di quei due milioni di vittime. L’avevano narrata i pochi ch’erano riusciti a fuggire: il nipote di Krasnov, e il generale Vyecheslav Naumenko che, in un libro pubblicato a New York nel 1970, Il grande tradimento, narrò come il suo popolo fosse ingannato e tradito. Numerose testimonianze furono rese, da ospiti dei Lager inglesi e americani in Europa dopo la guerra, che poterono assistere alle disgustose «operazioni» nelle quali i russi che si erano arresi ai democratici campioni della libertà, furono caricati, a furia di menzogne e percosse, promesse e violenze, sui camion, i treni e le navi, e portati al macello sovietico. Chi abbia letto Der Fragebogen di Ernst von Salomon (tradotto da Longanesi nel 1954 col titolo Io resto prussiano) non ha dimenticato i militi delle Waffen SS, prigionieri in un campo bavarese, che insultano i soldati americani reduci da uno di questi trasferimenti: «In piedi, accanto ai reticolati, non appena vedevano gli americani, smaniavano e gridavano: “Fate a noi quel che volete, ma quel che avete fatto ai russi è la più ignobile porcheria della storia umana!”».

Non occorreva aspettare l’apertura degli archivi per conoscere il numero approssimativo delle vittime, e la loro storia. Ma i documenti, oltre alle cronologie precise, i riferimenti esatti, i testi delle discussioni e decisioni, dei rapporti diplomatici e pareri, richieste d’istruzione dei comandi, risposte ministeriali, diari dei comandanti dei reparti con responsabilità delle «operazioni», e poi l’immenso cinico inganno, seguito dal «disgustoso compito» delle consegne, disegnano un quadro raccapricciante, nella sua minuziosa vastità, che non può restare fuori dai cancelli della storia. Churchill e Roosevelt, e soprattutto Eden, che vi ebbe la parte decisiva, seppero di cagionare la sicura morte di due milioni di esseri umani che, in loro potere, avrebbero potuto salvare. Non è lecito chiamare assassini Hitler e Stalin e poi fingere di non vedere questi infami delitti d’inglesi e americani aggravati dalla menzogna.

La qualità di conservatore non impedì a Bethel di lanciare contro il vecchio Lord Avon, tale il nome abbellito dalla nomina a pari, di Anthony Eden, la terribile accusa di esser stato «l’architetto del rimpatrio forzato» di queste centinaia di migliaia di disperati che supplicavano d’essere uccisi subito, piuttosto che consegnati all’unione Sovietica. Interpellato nel 1973, Eden si sottrasse, assicurando che non ricordava «i particolari di questo affare». Gli sottoposero i verbali delle sedute del governo in cui, proprio lui, nel Settembre 1944, prese le decisioni, dopo una breve discussione. Rifiutò di commentarli. Li commentò Bethel: «Quando scrisse che la Gran Bretagna non

aveva alcun diritto morale e legale di interferire su come Stalin avrebbe trattato gli uomini che avrebbero combattuto contro di lui, Eden non fece altro che chiedere al governo di rompere la tradizione inglese dell’asilo politico agli oppressi e ai perseguitati, e consegnare migliaia di persone a una punizione che, come riconobbe, sarebbe stata una condanna a morte, senza distinguere tra l’innocente e il colpevole [...] oppure ad anni di prigionia senza scampo. Fu proprio per situazioni come queste che i Paesi civili concepirono l’idea del diritto di asilo». Truman vecchio potè vedere quanto sia servito agli Stati Uniti, al di là di una vittoria già decisa, il duplice crimine di Hiroshima e Nagasaki. Nonostante stonati trombettieri della civiltà atomica levino ancora svergognati elogi del bombardamento americano, l’Asia non ha perdonato, e l’America porterà sempre il peso di quella ignominia. Churchill ebbe ogni agio di contemplare la fine dell’impero, conseguenza della sua politica. «Provava l’indifferenza mostruosa dei vecchi per l’avvenire degli altri - osserva FabreLuce -, ma la sua forte costituzione gli ha giuocato un forte tiro [...] Ancora ben vivo, dovè constatare che quel che è essenzialmente fondato sul caso, viene anche rapidamente portato via dal caso». Peggiore fu il tiro che la robusta costituzione giuocò a Eden che, pallido e disfatto, sconfitto in modo grottesco dal veto dell’alleato americano alla sua spedizione di Suez, uscì dalla storia a bordo d’una lugubre auto Humber ministeriale, sostenuto dalla moglie che gli metteva cuscini dietro la testa, inseguito dal solito codazzo schiamazzante di cronisti e fotografi.

Le coriacee carni del leone britannico servivano ormai di nutrimento all’orso russo e all’aquila americana.

Quando amburgo bruciò come gomorra

Prima di Dresda, la prova generale di annientamento delle città tedesche

Domani sera a Dresda il presidente della Repubblica federale di Germania, Roman Herzog, e il duca di Kent, in rappresentanza della regina Elisabetta d’Inghilterra, accenderanno una candela innanzi, alle rovine della Frauenkirche. Un segno di riconciliazione, a mezzo secolo dal bombardamento alleato (ma voluto dagli inglesi). Nella Kreuzkirche verrà celebrato un rito ecumenico, al quale è invitato Simon Barrington Word, vescovo di Coventry, rasa al suolo dai bombardieri di Hitler, e rappresentanti di San Pietroburgo, dove la guerra provocò un milione di vittime.

«Ci vorrebbe un cinismo straordinario per passare in rassegna il mostruoso sterminio provocato dai bombardieri inglesi e americani per decidere quale fosse il peggiore tra tutti. Quello che subì Amburgo è unico. Dresda perse molti più abitanti, in una sola notte, di quanti ne morissero ad Amburgo in dieci notti di fornace; ma i sopravvissuti di questa città avrebbero preferito con gioia morire a Dresda, per non dover subire la violenza rinnovata e implacabile di Gomorra». Così Martin Caidin, un autore americano che può considerarsi ufficioso, ebbe accesso alle informazioni riservate e potè

consultare la collezione di “Impact”, la rivista confidenziale che l’aviazione degli Stati Uniti pubblicò sui progressi della guerra aerea, introduce, nel libro La notte che distrussero Tokio (Mondadori 1969), il racconto del bombardamento (10 - 11 Marzo 1945) che considera il più terribile di tutti i tempi. Gomorra fu il nome convenzionale con cui i comandanti inglesi e americani battezzarono la distruzione di Amburgo. Non si può negare che possedessero un’ironia macabra, assai simile a quella che aveva suggerito agli aguzzini di Auschwitz di porre sul cancello la scritta «Il lavoro rende liberi». Tutti sanno, dalla Bibbia (Genesi, 19), che la fine di Sodoma, Gomorra e città federate fu decisa per diretta iniziativa dell’onnipotente, che «fece piovere zolfo e fuoco dal cielo, e le distrusse con tutti gli abitanti», così che Abramo «guardando la regione vide le faville levarsi dal suolo col fumo di una fornace». In nome di Dio, dunque, essi portarono il fuoco su Amburgo, non senza la severità puritana che si compiaceva a punire una città considerata libera e gaudente per antica fama.

*** Hitler era un mite nei confronti di Churchill, il vero assassino

Queste pagine non possono esporre le diverse strategie, se non per osservare che mentre Gran Bretagna e Stati Uniti avevano impostato la costruzione dei potenti quadrimotori da bombardamento strategico fino dai primi anni Trenta, e dunque già da allora si preparavano alla distruzione della Germania,

quale che dovesse essere la causa per scatenare la guerra, il Reich non possedette neppure una strategia del bombardamento, se non quale appoggio diretto alle operazioni terrestri. Per essere più precisi, Hitler e l’alto comando tedesco «non avevano elaborato alcun piano o compiuto alcun preparativo» per una guerra a fondo contro l’Inghilterra, perché Hitler «non aveva nessun desiderio di spingere il conflitto con la Gran Bretagna fino alle estreme conseguenze» (B.H. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Rizzoli 1970, pag. 121). Quel suo trovarsi in una guerra non voluta, per calcolo sbagliato di dilettante superficiale, getta una luce strana sul suo comando e l’acquiescenza dei suoi generali; ma al tempo stesso esclude che l’alto comando tedesco avesse programmi di guerra contro le popolazioni civili, quali sempre ebbero e svilupparono inglesi e americani. Il solo capo di stato maggiore della Luftwaffe, generale Walter Wever, che incoraggiasse la costruzione di un quadrimotore da bombardamento, pensava alle sterminate distanze della Russia, e l’aveva battezzato «bombardiere degli Urali». La sua morte, per incidente aereo, nel 1936, segnò anche la sepoltura dei due prototipi che aveva appena visto, chiamati Ju.89 e Do.19. Il comando della Luftwaffe considerava il bombardamento in assetto orizzontale poco preciso, e ciò conferma che la Luftwaffe non pensava allo sterminio delle popolazioni. Ciò non vuol dire che i suoi capi fossero più “buoni” di quelli alleati. Non ci sono buoni o cattivi nelle guerre. Ogni nazione, ogni esercito, ogni stato maggiore ha la sua mentalità, la sua moralità, le sue preferenze, anche in fatto di sterminio organizzato.

Non più di dieci in tutto furono i bombardamenti terroristici operati dai tedeschi, che non possedevano gli aerei adatti, ma bimotori leggeri, di scarsa velocità e autonomia. Non per nulla, l’aereo campione della Luftwaffe fu il monomotore Ju.87 Stuka, immensamente noto, ma lento, pesante, vulnerabilissimo, pregiato nella precisione del bombardamento in picchiata. Il programma di bombe volanti, alla fine della guerra, fu un tardivo e inefficace tentativo di supplire alla mancanza di un’aviazione da bombardamento con cui reagire alla progressiva distruzione della Germania.

In un’efficace sintesi, Fernando Ritter, studioso italiano di economia e finanza (Fascismo e antifascismo, Milano, 1992, pp. 117120), scrive: «Fino all’offensiva tedesca in Francia del 10 Maggio 1940, nessuno degli avversari ebbe a bombardare espressamente popolazioni civili. Ma nello stesso giorno saliva al potere Churchill e con lui veniva inaugurata e perseguita con accanimento dagli inglesi quella nuova strategia della distruzione metodica del territorio nemico», «di bombardare la Germania con tutte le sparute forze di cui la Gran Bretagna disponeva», che a Liddell Hart appare, per il momento e l’occasione in cui fu presa, un incredibile esempio di stupidità. (Op.cit. tutta pag 195). Che fosse, la Seconda guerra mondiale, una guerra guidata da un pugno di pazzi contrapposti, lo ha dimostrato Bernard Fày in un libro sovente incredibile e, in quanto compatibile col soggetto, anche spassoso. Nella stessa mattina del 10 Maggio 1940, la decisione fu presa e la notte seguente trentasei bombardieri inglesi attaccarono la

città di München-Gladbach, in Westfalia. In un libro del 1948, Advance to Barbarism, lo storico inglese F J.P. Veale scrisse che quel raid «pose fine a un’epoca durata due secoli e mezzo». Rendendosi conto della portata morale di questa responsabilità, la propaganda inglese ha tentato di giustificare l’infamia dei bombardamenti terroristici facendoli passare per rappresaglie. Ma la verità storica ha ormai obbligato a riconoscere che il primo bombardamento condotto dalla Luftwafife in Gran Bretagna contro obiettivi non militari (Londra, 7 Settembre 1940) ebbe luogo ben quattro mesi dopo la prima offensiva della Raf su obiettivi civili tedeschi. Dovevano passare ancora due mesi prima del bombardamento tedesco su Coventry (15 Novembre 1940), il maggior agglomerato delle industrie belliche, dove le vittime furono per lo più sorveglianti e guardiani di stabilimenti. Il fisico inglese Blackett, premio Nobel, scrisse: «I tedeschi avevano pieno diritto di dire che i loro attacchi contro Londra furono atti di rappresaglia, tanto più che dopo il nostro sesto attacco contro Berlino essi avvertirono che avrebbero reagito». Lo storico militare inglese J.F.C. Fuller giudica che Hitler «fu costretto a passare all’offensiva aerea contro i civili», e Liddell Hart, che «non si può accusare la Germania di aver scatenato la guerra contro le popolazioni civili [...]. Né i tedeschi, né i russi vollero il bombardamento delle città: le loro aviazioni non erano costruite per questi scopi, ch’essi dichiaravano non solo repugnanti, ma assolutamente inutili». (Tutto in Ritter, cit.). La guerra aerea di sterminio totale fu una fissazione inglese e americana, sintesi di una strategia non protesa alla conquista

del territorio nemico, ma al suo annientamento, il più possibile totale: solo così si intende l’espressione «cuocere nel loro brodo» che Churchill adoperò, a proposito degli italiani, nell’estate 1943.

*** Nel 1942, secondo il generale Adolf Galland, comandante dell’aviazione da caccia tedesca, la Raf condusse circa mille incursioni, di cui diciassette in forze, perdendo «un aereo ogni quaranta tonnellate sganciate». Percentuale che diminuì quando la forza d’attacco raddoppiò con l’arrivo degli americani. Il primo bombardamento dell’8a Usaaf del generale Ira Eaker fu lanciato contro Wilhelmshaven il 27 Gennaio 1943. La presenza degli americani, che attaccavano in pieno giorno e con masse fortissime di aerei a grande autonomia, non obbligati a seguire le rotte più brevi, e che perciò potevano disorientare vigilanze e avvistamenti, introdusse un nuovo periodo dopo il ciclo dei bombardamenti notturni inglesi, che avevano già cagionato grandi danni e perdite umane a Colonia, Aquisgrana, Essen, Dortmund, Duisberg, Bochum, Berlino, Amburgo, Kiel, Stoccarda e Monaco. Filtrando attraverso la stampa neutrale, le notizie su queste prime stragi raggiunsero l’Inghilterra. LT1 Marzo 1943, rispondendo a un’interrogazione del deputato laburista Montague, il sottosegretario Harold Balfour assicurò ai Comuni essere «industrie, trasporti e impianti militari» i soli obiettivi della Raf: il 30 Marzo successivo, il ministro Sir Archibald

Sinclair rispose al deputato Stokes che «seppure nella notte, esista il rischio di colpire anche zone adiacenti, gli obiettivi del bomber command sono esclusivamente militari». Dove è obbligatorio il riconoscimento che in una vera democrazia neppur lo stato di guerra impedisce la ricerca della verità: temperato dal contrario riconoscimento che tale ricerca è perfettamente inutile, quando le si opponga l’uso sistematico della menzogna. Alla metà di Luglio 1943 Galland ricorda «la situazione eccezionale, per cui il territorio del Reich non fu, per dieci giorni e dieci notti, visitato dal nemico. La sosta non prometteva nulla di buono». Le forze aeree alleate si preparavano alla prima prova di distruzione totale di una città. Nella notte tra il 24 e 25 Luglio, mentre il Gran Consiglio del fascismo a Roma liquidava il regime, ottocento quadrimotori pesanti della Raf volarono in formazione serrata su Amburgo. Gli apparati radar della difesa furono paralizzati e disorientati da un sistema inaugurato per quella incursione, Window per gli inglesi, Dweppol per i tedeschi, per cui le formazioni lanciavano grandi quantità di strisce di stagnola e carta metallizzata, la cui lunghezza era adattata alle frequenze dei radar tedeschi. Cadendo, questi filamenti creavano nubi impermeabili alle radiazioni, anche i radar della caccia notturna ne furono accecati, e quelli dell’artiglieria contraerea. Vedevano bene, invece, gli equipaggi: «I riflettori sciabolavano disperatamente in tutte le direzioni, senza perforare la coltre di fumo... uno spettacolo indimenticabile», riferì un pilota.

Non c’era vento, quella notte, ma il calore delle fiamme provocò turbini, i cui effetti furono accuratamente studiati per futuri perfezionamenti, che dovevano avere a Dresda, nel Febbraio di due anni dopo, il maggior successo. L’altra innovazione di quella notte fu il fosforo liquido, in bidoni, che la Raf di Churchill irrorò, da allora, con le bombe, sulle città tedesche. Colava per i selciati, si attaccava a persone e animali, impossibile a spegnere, divorava la pelle e poi, mostruosamente, la carne. Di più che mille persone bruciate vive dal fosforo, o annegate negli Alster; nell’Elba, nei canali dove s’erano gettate invano sperando di spegnere il fuoco, restavano, dopo la prima notte, ossa consunte. Mani e dita furono trovate conficcate negli ultimi spasmi dentro l’asfalto liquefatto delle strade. All’opera del fosforo, che in questa Auschwitz a domicilio rappresentava, il fuoco divino, si aggiunse verso l’alba la «tempesta di fuoco», i venti provocati dalle fiamme, vortici roventi sconosciuti fino allora che spazzavano le strade dove interi isolati si sbriciolavano, per il solo calore, senza esser stati colpiti. Più di dieci chilometri quadrati del centro furono rasi al suolo, ricoveri e cantine intatti contenevano soltanto cadaveri di cittadini uccisi dal calore e dall’asfissia. «Il popolo tedesco ha diritto a mille anni di rappresaglia», disse un osservatore svizzero. Al sorgere del Sole, che stentava a forare quel manto di vapori giallastri, arrivarono le Fortezze volanti americane. E fu il martirio continuato di incursioni diurne e notturne. Nelle notti del 27, 29 Luglio e 2 Agosto, il maresciallo Harris, il macellaio della Raf, mandò tremila e novantacinque quadrimotori, che

sganciarono diecimila tonnellate di bombe. Il 28 e 30 Luglio, la flotta aerea americana si unì agl’inglesi nel sistema “combinato” del round-the-clock-bombing. La povera Gomorra sull’Elba era ridotta come il biblico modello. Spegnere gl’incendi, soccorrere la popolazione risultò superiore alle forze. La città bruciava come fornace, le vittime si ammucchiarono, una giornata dopo l’altra. La bufera finì il 2 Agosto. Amburgo era uccisa. Il bilancio dell’incursione fu completato solo nel 1951. Furono sganciate ottantamila bombe dirompenti, al fosforo liquido, cinquemila bidoni di fosforo. Se i responsabili tedeschi furono imprigionati processati e impiccati per le atrocità che commisero, bisogna concludere che solo la bestiale ingiustizia del Vae Victis permise che restassero impuniti e anzi esaltati quali liberatori dell’Europa coloro che studiarono e perfezionarono accanitamente, lungo anni e anni, i roghi di esseri umani dentro nobili e antiche città, colme di opere d’arte, perite coi loro abitanti. Un rapporto segreto della polizia di Amburgo parla di «alberi di un metro di diametro spezzati e sradicati»; di «esseri umani travolti dal vortice di fuoco»; di cittadini che «le fiamme stanavano dai ricoveri, divenuti forni crematori. Più fortunati quelli che saltarono nei canali e vi rimasero finché non li uccise il calore soffocante». Per dieci giorni Amburgo giacque sotto la tempesta di fuoco, da cui incessanti si levavano le urla dei morenti ustionati. Duecentocinquantamila appartamenti, metà del totale della città, furono distrutti, un milione i senza tetto, fuggiti. A 50.000

furono calcolati i morti durante gli attacchi, a 125.000 i mutilati ustionati e feriti, di cui 50.000 morirono nei giorni successivi.

*** Harris il macellaio considerò sempre Gomorra come il suo capolavoro. Dopo la guerra, paragonando il suo buono artigianato con le reclamizzatissime novità scientifiche americane, commentò che Amburgo «fu un cataclisma peggiore delle esplosioni atomiche sul Giappone». La campagna, detta dopo allora “di Amburgo”, si estese, per tutta l’estate, in trentatré attacchi in grandi forze, su alcune città, più volte rinnovati, contro Bochum, Düsseldorf, Remscheid, Darmstadt, Strasburgo, Brema, Kassel, Francoforte, Mannheim, Stoccarda, Monaco, Norimberga, Aquisgrana, Hagen, Münster. Hannover, Essen e Colonia ebbero ottomila tonnellate di bombe e fosforo ciascuna, quasi quanto Amburgo. Il 18 Novembre, la Raf scatenò quella che fu chiamata la battaglia di Berlino, una serie di attacchi terroristici senza soste fino al Marzo 1944. Un attacco terribile si abbatté, il 3 Dicembre, su Lipsia. Complessivamente, nel 1943, il Bomber Command sganciò sulle città tedesche 136.000 tonnellate di bombe, un peso pari a una dozzina di navi. Qualcuno ammonì che quel massacro combinato a una rovina monumentale destinata a protrarsi nei secoli, potesse imprimersi come una macchia indelebile sull’onore dell’ Inghilterra. Il 9 Febbraio 1944, il dottor Bell, vescovo di Chichester, chiese alla camera dei Lords, che il governo chiarisse

se aveva ordinato bombardamenti sulla popolazione civile tedesca. Rispose il ministro Cranbourne: «Il nostro scopo è bloccare la produzione bellica del nemico e non spargere bombe sulla popolazione civile. La Raf non si dedicherebbe mai ad azioni terroristiche». La menzogna è di carattere inglese. Prevalentemente diurne furono le incursioni americane a preferire, nei primi tempi, i centri di produzione industriale e bellica. «La prima incursione su Schweinfurt, ricorda Galland, operò sul comando tedesco come un trauma psichico. Distruggendo l’industria dei cuscinetti a sfere, minacciarono di estinzione l’intero armamento del Reich». Ma presto gli americani si convertirono al punto di vista di Harris. Bombardare le popolazioni civili dava piu soddisfazione e minori rischi. L’attacco sulle fabbriche di Schweinfurt era costato all’8a Usaaf la perdita di sessanta dei trecentosettantasei quadrimotori partiti e il grave danneggiamento di altri cento. Su quattrocentoquarantasette Fortezze Volanti che attaccarono Ratisbona il 25 Agosto, settanta precipitarono sotto il fuoco della caccia germanica. Il 14 Ottobre, duecentoventisei quadrimotori americani tornarono su Schweinfurt: sessanta furono abbattuti, centoquaranta danneggiati, solo venticinque tornarono illesi. Le incursioni diurne furono sospese fino a che non entrarono in servizio i caccia di scorta a grande autonomia. L’ossessione di Harris era completare la distruzione di Berlino: «Ci costerà 400 o 500 aerei, ma alla Germania costerà la guerra». Ne perse, con gli americani, mille e quarantasette, e la Germania continuò a combattere. Il suo declino non venne dai bombardamenti delle città, ma dal graduale esaurimento della

Wehrmacht e dal ridursi del territorio. Quando i raggi d’azione dei bombardieri operanti dall’Inghilterra si congiunsero con quelli delle flotte aeree che partivano dagli aeroporti delle Puglie, non ci fu un pollice del Reich immune dall’offesa. La presenza dei caccia pesanti americani a grande autonomia cagionò il declino della Luftwaffe. Tutte le città tedesche erano ora prede libere e facili. Dal Febbraio 1944 furono distrutte e ridistrutte Augusta, Stoccarda, Ratisbona, Schweinfurt, la piccola elegante Gotha, Monaco, Braunschweig, Rostock, l’aristocratica Lubecca, la coltissima Lipsia; fracassarono la Thomaskirche, scoperchiarono la tomba di Sébastian Bach. Tra Luglio e Agosto 1944, il Bomber Command sganciò più di 120.000 tonnellate di bombe. Un certo dottor Barner Wallis ne progettò di potenza mai vista, la Tallboy, da cinquemilacinquecento chilogrammi, e la Grand Slam, da diecimila.

*** L’arretramento dei fronti permetteva ora di utilizzare anche bombardieri bimotori e caccia pesanti, e il maresciallo Tedder, vicecomandante della Raf, lanciò una sua offensiva detta «del comune denominatore» che consisteva nella sistematica distruzione di ogni via, di terra o d’acqua, strade, viadotti, chiuse, trafori, canali. Nacque l’idea di distruggere le dighe della Ruhr per provocare inondazioni, il dottor Wallis progettò una bomba speciale che doveva saltellare fino ad appoggiarsi sulla

diga, ma l’esperimento provocò la perdita di metà degli aerei impiegati, e le sole dighe colpite furono presto riparate.

Malgrado lo sbarco in Normandia, i grandi maestri bombardieri, Harris e Spatz, suo omologo americano, mantennero una preferenza per le città. Harris era ansioso di completare il sistematico macello di popolazione, e il massacro dei monumenti, cominciato da quando prese il comando nel 1942. A malincuore dove sopportare che si lanciasse una pesantissima offensiva sulle ferrovie francesi, per paralizzare le retrovie tedesche. Operazione che, senz’alcun riguardo per la maestà del generale De Gaulle, cagionò perdite materiali e umane vastissime. L’aspetto sadico dello sterminio del popolo tedesco è rappresentato dall’aumento di ferocia via via che la Germania declinava e le sue difese cessavano di reagire. Quasi temesse di non fare a tempo a tutto distruggere prima che la guerra chiudesse, il Bomber Command si volse alle città più antiche e leggiadre, finora intatte. Friburgo in Brisgovia fu massacrata nella notte del 27 Novembre da trecento quadrimotori Lancaster. Anche Friburgo in Svizzera ebbe la sua razione di bombe, elargita da equipaggi distratti. Negli ultimi mesi del 1944 furono annientate Duisburg, Essen, Colonia, Düsseldorf, Ulm, Stoccarda, Karlsruhe, Heilbron, Ludwigshaven, Saarbrücken, Norimberga, Monaco, Bonn, Coblenza, Brema, Wilhelmshaven, Braunschweig, Osnabrück, Münster, Giesse, Düren. Era un’autentica passione per l’eccidio, una libidine animale di odio contro l’arte (l’arte per l’arte, vorrei dire, e non soltanto l’arte quale inevitabile vittima di azioni contro gli

uomini) da meritare una ricerca psichiatrica. Quasi le cercassero nei manuali di architettura, vennero negli elenchi degli obiettivi intatti, le città capolavoro. Rothenburg sulla Tauber, Wiirzburg, con la reggia di Balthasar Neumann e i trionfali affreschi di Tiepolo, Dresda, la città di sogno, dipinta da Bernardo Bellotto. A chi venisse l’idea di fare di Dresda la principale vittima è questione rimasta a lungo oscura. Harris ci aveva messo l’occhio sopra, perché gliela rendeva specialmente appetibile il fatto che, come Chemnitz e Lipsia, fosse piena di profughi fuggiti dalla Germania Orientale invasa dall’Armata rossa. Churchill aveva fretta, stava preparandosi a partire per Malta prima, e poi per Yalta, e voleva fare un figurone con Stalin. Era convinto che una carneficina di gente così poco entusiasta d’essere liberata dal suo esercito, non potesse che fargli piacere. Convocò il segretario di Stato dell’Aria, Sir Archibald Sinclair, e gli domandò se non si sentisse «una voglia matta di rompere le ossa a tutti quei profughi». Per via gerarchica, dal capo di stato maggiore Sir Charles Portai, al suo vice Sir Norman Bottomley, l’ordine raggiunse Arthur Travers Harris, che trovò Dresda l’obiettivo ideale. Lui e il suo socio americano in macelleria, James Doolittle, avevano appena saputo che ai 630.000 abitanti di Dresda si erano aggiunti mezzo milione di rifugiati. Un menu sontuoso, una strage come neppure i più macabri autori della Bibbia si sarebbero mai sognata.

Gli anticomunisti mandati al macello

La consegna a Stalin dei russi della Wehrmacht presi prigionieri dagli ALLEATI

Il problema dei russi in uniforme tedesca cominciò per gli “alleati” pochi giorni prima dello sbarco in Normandia. I servizi d’informazione fecero sapere che molte migliaia di russi presidiavano le coste prescelte. Che cosa farne? Il 28 Maggio 1944 l’ambasciatore inglese suggerì al governo di Mosca di promettere un’amnistia agli arruolati per forza, escludendo i collaboratori volontari, le Waffen SS e altri «criminali». I reparti si sarebbero divisi, i comandi, sospettando di questi soldati, non avrebbero osato impiegarli, molti avrebbero disertato. La risposta di Molotov riflette l’imbarazzo davanti all’evidenza di un dissenso armato di tali proporzioni. Un imbarazzo che durava ancora ventidue anni più tardi, se Rosario Romeo, dopo aver partecipato a Mosca a uno di quegli «incontri tra storici italiani e sovietici» su cui tanto contava la propaganda comunista, scrisse, in questo giornale («L’ombra di Vlasov», 10 Giugno ’77), che «un fenomeno di collaborazionismo così esteso» poneva «un discorso assai delicato», e difatti era stato «portato avanti più nei corridoi del congresso che nel dibattito politico...».

Traditori? Risponde Solgenitsin: «Non si sarebbero mai arruolati nella Wehrmacht, se non fossero stati spinti alla disperazione, se non avessero provato un odio inestinguibile contro il regime sovietico». Russi coi tedeschi? Il loro numero era insignificante, rispose Molotov, il problema non esisteva, non c’era alcuna ragione di far le promesse che Londra suggeriva. Il regime aveva trovato la soluzione: intanto, negare che esistessero e, appena possibile, riprendersi i dissidenti e farli sparire. Nei primi giorni dell’invasione della Francia, i poveri diavoli caddero prigionieri a migliaia. Il 20 Luglio 1944, Eden informò l’ambasciatore russo che il numero cresceva. Tre giorni prima, il governo aveva deciso di consegnarli, appena Mosca li richiedesse. Invano il ministro dell’Economia di guerra, Lord Selborn, scrisse a Churchill e Eden contro «la decisione di rimandare questa gente in Russia, che significherà per loro la morte». Churchill concesse la solita esitazione alla sua fama di anima bella, poi si schierò con Eden, che ripeteva: «Non possiamo permetterci sentimentalismi». Il 23 Agosto l’ambasciatore sovietico chiese la consegna dei prigionieri, ma a domicilio; gl’inglesi dovevano metterci anche le navi su cui rimandarli. Il ministro della guerra, Grigg, scrisse a Eden: «Lei crede che non possiamo permetterci sentimentalismi, ma io trovo la prospettiva piuttosto rivoltante. Tanto più che, se manderemo i prigionieri russi alla morte, toccherà a me dare le istruzioni alle autorità militari».

I russi erano, a questo momento, 3750, e bisognava decidere. C’erano ausiliario, serve, cuoche, c’erano civili. E più appariva ovvia la necessità di distinguere, più Eden si ostinava su una sorte uguale per tutti. Nei campi di concentramento si dovettero separare dalla massa quei volontari irriducibilmente anticomunisti che non provavano ostilità contro Gran Bretagna e Stati Uniti, sulla cui protezione contavano, anzi, illudendosi, come molti in Germania, che la guerra sarebbe continuata contro l’Unione Sovietica. Si sarebbero uccisi, piuttosto che tornare in Russia. Comparvero le missioni sovietiche promettendo perdono e calorose accoglienze: «Bruceremo nel fuoco quelle uniformi tedesche che indossate», disse il generale Vasiliev in un campo dello Yorkshire: «Sì, con noi dentro, lo sappiamo», lo interruppero.

Erano, ormai, due schiere: quelli che l’illusione di salvarsi consigliava a ostentare una lealtà sovietica che meritasse loro il perdono; e gli altri, che ostentavano, invece, il terrore e l’odio che dovevano impietosire gl’inglesi e indurli a rinunciare al rimpatrio. Si scatenarono i sentimenti peggiori, la delazione, e l’inganno; ma anche i migliori, la coerenza, il coraggio, lo stoicismo. Quanto alla salvezza, tutti e due i sistemi fallirono. Il 30 Settembre 1944, Churchill e Eden fecero a Stalin la visita che restò famosa per il foglietto delle “percentuali”, proposte dall’inglese e giovialmente sottoscritte dal furbo georgiano, cui non pareva vero d’incassare il 90 per cento d’influenza in Romania e Bulgaria, e metà in tutto il resto, in cambio di un 90 per cento agl’inglesi in Grecia. A Mosca, comunicò Churchill

estasiato a Roosevelt, aveva trovato «una straordinaria atmosfera di buona volontà», e Harold Nicholson, un diplomatico e scrittore rinomato anche per altre ragioni, annotò: «Eden ha un vero affetto per Stalin», e «Stalin non ha mai mancato alla parola». Tra illusioni e follie, maturò la decisione, mai prevista fino a quel momento, di rimpatriare i prigionieri anche con la forza, e subito furono spediti a Murmansk i primi diecimila. Lasciarono i porti inglesi il 31 Ottobre. Un ufficiale inglese e un funzionario americano, che li avevano accompagnati, osservarono che non ci fu alcun benvenuto: gli sbarcati si incamminarono, carichi delle loro robe, sotto pesante scorta armata. I due comunicarono l’impressione ricevuta e gravi sospetti ai loro governi, ma il funzionario del Foreign Office che ricevette il rapporto rimase tranquillo: forse ignorava che la marcia al Lager più vicino era preludio ad anni di lavori forzati. I prigionieri in mani americane erano ora 28.000. Eisenhower domandò consiglio agli ufficiali sovietici di collegamento. Risposero che non era possibile, non c’erano russi coi tedeschi. Il 20 Dicembre, gli americani si allinearono agl’inglesi; consegnare tutti, lo volessero o no. Restava una breccia: gli americani consideravano tedeschi tutti i prigionieri catturati in uniforme tedesca, finché non si dichiarassero di nazione diversa. Avevano le loro buone ragioni, perché tedeschi e giapponesi avevano catturato numerosi americani, la cui cittadinanza appariva controversa. Intendevano che il «diritto deH’uniforme» fosse contraccambiato. Fino a quel momento, i russi potevano sperare di scamparla dichiarandosi tedeschi. Non lo capirono, e in

maggioranza si dichiararono russi, sperando in un trattamento migliore. Li ammassarono con un altro migliaio in partenza, e tutt’insieme cominciarono a smaniare e tentare suicidi. Era il preavviso di quel che si preparava. A Washington anche il Ministro della Guerra era contrario alla consegna: «Ci assumiamo rischi inutili consegnando i prigionieri tedeschi di origine russa. Saremo noi i responsabili del grande massacro che i sovietici commetteranno». Il Ministro della Giustizia pose un grave problema: quale fondamento legale avesse la consegna di individui riluttanti e contrari. Né lui, né il collega erano al corrente degli accordi già presi con gl’inglesi. La sorte dei disgraziati, ora saliti a centomila, fu suggellata a Yalta. «Erano tre anni che la propaganda inglese narrava le sofferenze e esaltava gli eroismi del popolo russo. Aveva nascosto il vero carattere del governo sovietico. Aveva fatto credere che i suoi scopi fossero simili ai nostri, così determinando, verso quel governo, un atteggiamento che rese possibili, e anche accettabili, alcuni grandi tradimenti», ha scritto, nella prefazione a Bethel, Hugh Trevor-Roper, uno storico accademico ch’ebbe incarichi di rilievo nei servizi segreti.

A Yalta, Stalin, abilissimo negoziatore, incassò l’intera Polonia, «incatenata, in ceppi e imballata», scrisse George Kennan. Quello della Polonia è il meglio conosciuto, ma un tradimento a testa toccò ad ognuna delle nazioni «liberate» dell’Europa Orientale: più i Croati, i Cetnici, i Cosacchi. Oggi si

può misurare l’eccesso, incosciente e criminale, dello zelo filosovietico inglese, che si spinse a rimpatriare gli emigrati «bianchi», la cui consegna era stata esclusa per l’elementare evidenza che mai erano stati cittadini sovietici. Trevor-Roper dovè ammettere: «Dei sei capi, la cui esecuzione fù pubblicamente annunciata, uno solo era passibile di rimpatrio. Gli altri dovevano indiscutibilmente restare prigionieri delle potenze occidentali e ricevere, infine, asilo politico (...). Per accontentare Stalin, gli “alleati” sacrificarono non solo i Cosacchi, ma anche i termini degli accordi di Yalta, e la distinzione tra tradimento e dissenso politico». Ernest Bevin, successore laburista di Eden, sentenziò: «Sarebbe difficile tracciare una linea tra rifugiati politici e traditori». Così calò il coperchio sulla tomba, comune agl’innocenti e ai supposti colpevoli». Stalin aveva detto: «Ci occuperemo di quelli che hanno combattuto per i tedeschi quando saranno ritornati in Russia». E bisogna supporre, aggiunge Bethel, «che Churchill e Eden sapessero che cosa intendeva Stalin quando parlava di “occuparsi di quella gente” che, in ogni caso, si erano già impegnati a regalargli». L’11 Febbraio 1945 fu firmato l’accordo: «Tutti i cittadini sovietici liberati dalle armate alleate verranno separati dai prigionieri tedeschi (...) concentrati in luoghi predisposti, dove saranno ammesse commissioni sovietiche per il rimpatrio». Nessuno accennò a rimpatri forzati e Stalin propose di non far parola della decisione nel comunicato sulla Conferenza. Al Foreign Office ne furono consolati: «Questo accordo deve restare

segreto», annotò un funzionario in margine. Poteva oscurare la luce radiosa in cui Yalta fù presentata all’occidente liberaldemocratico entusiasta; la precisazione «cittadini sovietici» significava che i veterani della guerra civile e della «vecchia emigrazione» erano esclusi. Mai la civiltà liberaldemocratica fu più chiara e sicura di sé. Ora bisognava interrogare, distinguere, ci avrebbero pensato le illuminate missioni sovietiche. «Spiacevole e penoso» parve al brigadier generale R. Firebrace accompagnare il collega Ratov a interrogare i prigionieri per identificare i cittadini sovietici del 1939, che dovevano rimpatriare. Uno puntò il dito contro Ratov, gridando: «Avete ucciso mio padre, avete ucciso mia madre, avete ucciso i miei fratelli, e io chiedo al generale inglese di uccidermi qui e subito, piuttosto che rimandarmi in Russia». Firebrace borbottò che quel disgraziato gli sembrava polacco e non russo, e lo ficcò in una lista di casi controversi, salvandolo, almeno per il momento. Fece rumore il caso di Ivan e Natalia. Ivan, trent’anni, figlio di perseguitati politici, era stato più volte in carcere prima della guerra. Catturato dai tedeschi nel 1942, finì in un battaglione di lavoro dell’armata Vlassov. Nel 1943 sposò Natalia, una ragazza di diciassette anni, che ora stava con lui nel campo, e a Gennaio dette alla luce un bambino. Per il Foreign Office, tutto era chiaro: padre e madre «saranno consegnati, trattati duramente e probabilmente giustiziati», annotò tranquillo il funzionario, «mentre il bambino, inglese per nascita, sarà allevato a cura dello Stato». I due, che lo storico indica con lo pseudonimo

Sidorow, ebbero una doppia fortuna: la tempestiva nascita, e un’irriducibile anziana signora quacchera, Ethel Christie, ch’era stata crocerossina in Russia nel 1920, e scocciò mezzo mondo, fin che ottenne che Ivan e Natalia restassero in Inghilterra, dove tuttora vivono.

L’isolato caso di favola umanitaria fa soltanto risaltare la sventura dei disgraziati che, ficcati a forza nelle navi, salparono, ora, per Odessa. I primi viaggi riuscirono «sgradevoli» per la tensione tra scorta e marinai inglesi, e gli ufficiali sovietici. I prigionieri s’impiccavano, si tagliavano le vene, si gettavano dalle navi a Gibilterra, ai Dardanelli. I turchi li ripescavano e li riconsegnavano. Alcuni furono fucilati all’arrivo, il 18 Aprile 1945: gli ufficiali inglesi non poterono vedere, ma udirono gli spari: si sentirono rispondere che «erano stati giustiziati perché lavoravano per la polizia inglese e erano venduti ai capitalisti». Neppure queste esperienze recarono pentimenti. Il 30 Maggio alcuni prigionieri si gettarono nel Bosforo, dalla «Empire Pride»; i turchi li riportarono, uno si tagliò le vene. A bordo imperversavano le delazioni, i sovietici interrogavano e selezionavano i prigionieri che, all’arrivo, furono costretti a camminare trascinandosi dietro i morenti, uno in coma, un altro appena amputato d’una gamba. L’ufficiale inglese vide quello che aveva tentato il suicidio mentre lo portavano via, e poi udì uno sparo. Il comandante della nave rifiutò di riprendere a bordo i sovietici nel viaggio di ritorno. E tuttavia, i trasporti verso il

macello continuarono. Le democrazie liberali avevano una parola da mantenere. Finita la guerra in Europa, non ci fu bisogno di navi, bastarono i camion e i treni a completare l’opera. Il 22 Maggio 1945 le commissioni sovietiche e americane per il rimpatrio s’incontrarono a Lipsia. I russi restituivano i prigionieri inglesi americani e francesi che avevano trovato al lavoro nelle fattorie in Germania Orientale. Gli “alleati” ricambiavano, consegnando non soltanto i russi liberati dai campi di prigionia, ma anche quelli che, arresisi in uniforme tedesca, ora imploravano di non essere rimandati in Urss. Fu allora che le democrazie liberali aggiunsero alle categorie contemplate a Yalta, quelle che nessun impegno le obbligava a consegnare. Cominciarono con una commedia per i giornalisti: vagoni ferroviari, decorati con scritte inneggianti alla «gloriosa madrepatria sovietica», e al «Padre della vittoria, il grande Stalin», vennero a caricare i primi gruppi, e scomparvero dietro la linea di demarcazione. «Nessuno appare riluttante al ritorno», scrissero i giornali americani. L’8 Giugno il generale Bradley espresse un parere più realistico: «Non credo che questa gente abbia molto da vivere».

Irriducibili restarono i Cosacchi che, in unità autonome dentro l’Esercito tedesco, si erano guadagnati alta reputazione sul campo. Nei documenti inglesi, la loro storia comincia il 17 Maggio 1945, quando il maresciallo Alexander telefonò a Londra chiedendo come comportarsi con cinquantamila Cosacchi e venticinquemila Croati che si trovavano nel territorio occupato

dalle sue truppe. Avvertiva che farli tornare nei Paesi d’origine era fatale per la loro esistenza. Churchill ebbe il consueto quarto d’ora d’anima bella, ma ci pensò a risolvere il problema Harold McMillan, editore versatile e futuro primo ministro, giunto dall’Italia. Il 29 Maggio Alexander ebbe l’ordine di consegnare i Croati alle missioni di Tito, e i Cosacchi a quelle di Stalin. Fu, per molti soldati inglesi, «il più disgustoso ordine dell’intera guerra». Gli Atamani dei Cosacchi, del Don, generale Pyotr Krasnov, e del Kuban, generale Naumenko, combatterono nell’Armata bianca e emigrarono nel 1920 in Europa occidentale con migliaia di seguaci. Quando la Wehrmacht entrò in Russia, questi uomini, che non accettarono lo Stato sovietico e non ne furono cittadini, organizzarono l’Esercito nazionale cosacco. Nell’equipaggiamento di base delle Wehrmacht, conservarono i colbacchi, le bandoliere, le lunghe spade ricurve, le eleganti sciabole incrostate di pietre preziose, che passavano di padre in figlio nelle famiglie nobili, nei clan. Quando la Wehrmacht dovette ritirarsi, la disperata nazione la seguì sui carri tradizionali, tirati dai cavalli, e fu sistemata in territorio italiano, tra Tolmezzo e il confine austriaco. La sacca, denominata Cossackia, arrivò a contenere, verso la primavera 1945, trentacinquemila cosacchi, metà soldati e metà civili. All’apparire dell’ottava armata, che saliva dall’Italia, ripiegarono verso Nord, attraversando il confine con l’Austria al passo di Monte Santacroce, mentre i loro capi trattavano con gli inglesi che, preoccupati di dover domare questa sconosciuta orda orientale, rimasero «piacevolmente sorpresi» apprendendo

ch’erano disposti ad arrendersi. Ancor maggiore fu la sorpresa, quando incontrarono i capi caucasici, «dieci dei quali erano principi», d’aspetto fiero e aristocratico. Più tardi, circolò voce che capo supremo era un altro, ossia, un’altra: una bella principessa che, scesa dalle montagne, rimproverò i principi di essersi arresi, usurpando un’autorità che spettava a lei sola.

Gli inglesi credevano d’essere piombati in una favola orientale. Seguirono intense trattative. I Cosacchi erano convinti che gli occidentali avrebbero continuato la guerra, contro l’Unione Sovietica. Non avevano la minima idea del destino che li attendeva. Lo stato di servizio anticomunista pareva loro un’ottima presentazione agli «alleati». Se, in quei giorni, perfino gli ufficiali superiori inglesi ignoravano ancora gli accordi di Yalta, si può capire che i Cosacchi non fossero informati sulle nuove realtà politiche e militari. Secondo le fonti inglesi, il 16 Maggio c’erano, nei dintorni di Lienz, ventiduemilanove uomini, quattromilaseicentonovantatrè donne e duemilaquattrocentotrentasei bambini, mentre altri quattromilaottocento si erano acquartierati a Oberdrauburg, nell’alta valle della Drava. A pochi chilometri di là, erano i Cosacchi del 15° Corpo di Cavalleria del generale Helmuth von Pannwitz. E intanto, si avvicinava l’altra nazione che aveva combattuto dalla parte sbagliata, settecentomila Croati, tra esercito e popolazione. I loro capi dissero al generale Scott che cercavano asilo in Occidente perché rifiutavano di vivere sotto il

comuniSmo. Lo supplicarono di riferire al governo inglese. Non potevano imbarcarli per qualche colonia in Africa, o in America? Quando capirono che non c’era speranza, accettarono di arrendersi ai commissari comunisti appena arrivati. Scott ricorda il generale croato, «una persona educata, molto corretto, tedesco nei modi». Ne ebbe pietà. Ma gli ordini delle liberaldemocrazie erano chiari: «I Croati erano nemici, i titini gli alleati». Del ritorno «in patria» s’incaricarono i partigiani della settima brigata jugoslava, che allestirono una serie di «marce della morte», ciascuna con migliaia d’infelici, legati coi fili spinati, e costretti a correre dietro gli aguzzini avanzanti su camion e cavalli. Il problema si risolse via via che a migliaia, sfigurati, dissanguati, mutilati, finirono sulle strade del martirio.

Liberi del problema croato, restava agli inglesi quello dei Cosacchi, che aspettavano calmi, ordinati. Più conoscevano questa gente fiera, e più gli inglesi li prendevano in simpatia. Ammiravano la dignità, il comportamento, la loro maestria a cavallo. Un certo maggiore «Rusty» Davies fu incaricato dei collegamenti. Poiché non sapeva che cosa significasse, l’incarico gli piacque. «Erano magnifica gente, di gran cuore e coraggio». Non sapeva ancora che «ognuno di loro, uomo, donna, bambino, doveva esser consegnato alle autorità sovietiche, lo volesse o no, con la forza, se necessario». Il tenente generale Charles Keightley comandante il Quinto Corpo d’armata, e, con speciale zelo, il suo Capo di Stato maggiore, Toby Low, ordinarono: «Nessuno deve scappare». Spiegarono anche che, seppure gli

ufficiali superiori cosacchi, vecchi emigrati dal 1920, fossero «in teoria» esclusi dalla consegna, la diplomazia inglese si era convinta che se gli avessero dato anche queste vittime, Stalin, commosso dalla delicatezza, avrebbe tenuto «una linea più moderata» nella conferenza sul futuro della Polonia, che doveva aprirsi il 17 Giugno. I Cosacchi non dovevano sospettare il loro destino. Potevano resistere, combattere, come minacciavano fino all’ultimo. Bisognava convincerli a cedere le armi. Li fecero credere che il loro campionario di armamenti tedeschi e russi, italiani e jugoslavi, antiquato e eterogeneo, era di ostacolo alla formazione della «legione cosacca» di cui parlavano gli inglesi, da impiegarsi chissà dove, forse in Giappone. Il 26 Maggio, a un rapporto di ufficiali superiori, il colonnello Malcom conobbe il suo compito e inorridì: «Era il rinnegamento di tutto quanto avevamo detto ai Cosacchi...». «Non riuscivo a crederci», ricorda il maggiore Davies, che chiese di essere sostituito. E, invece, doveva restare, gli spiegarono i superiori, proprio per la fiducia che i Cosacchi riponevano in lui: gli avrebbero creduto, e sarebbero caduti nella trappola senza far storie. E quando se ne fossero accorti, sarebbe stato tardi. Il disarmo fu fissato per le due del 27 Maggio. Gli ordini erano di aprire il fuoco, se necessario «come in guerra». Non ce ne fu bisogno. Una fotografia danneggiata ma eloquente, testimonia la tranquilla e ordinata naturalezza militare dell’operazione. Arrivavano coi loro carri, tirati dai loro cavalli, passavano davanti al mucchio delle armi russe e tedesche, italiane, romene e jugoslave che i loro camerati avevano già gettato. Un solo fante

inglese bastava a regolare il pacifico traffico. «Avremmo avuto le armi nuove che gli inglesi ci avevano promesso», ha ricordato un superstite: «Facemmo quel che ci chiedevano senza dubitare».

Dresda, una Auschwitz scesa dal cielo

L’olocausto dall’aria provocò milioni di vittime che nessuno ha mai CONTATO 0 RIMPIANTO. CENTOMILA MORTI IN UNA NOTTE SOLO PER SPARGERE TERRORE FRA LA POPOLAZIONE TEDESCA

La sera del 13 Febbraio 1945 Dresda era intatta. Via via che l’avanzata dell’Armata rossa metteva in fuga le popolazioni orientali del Reich, la capitale degli Elettori di Sassonia, la “Firenze del Nord”, vide raddoppiare i suoi 630.000 abitanti. I profughi erano anziani, donne, bambini, malati, feriti, forse centomila prigionieri di guerra, per lo più francesi, che vivevano nelle fattorie, addetti ai lavori agricoli. La guerra era alla fine, l’illusione di aver evitato la morte dal cielo li compensava dell’imminente invasione sovietica. Ma a loro pensavano due specialisti: Arthur Harris il macellaio per gl’inglesi, e Jimmy Doolittle per gli americani; al suo collega Cari A. Spaatz, la Wehrmacht aveva appena decretato la «piuma bianca», che nelle tradizioni militari inglesi significa viltà e disonestà, per il bombardamento di Berlino del 3 Febbraio. Doolittle se la conquistò con Dresda. Due incursioni notturne preparavano gl’inglesi, e una diurna gli americani: nell’insieme, una fornace mai vista, di esseri umani, palazzi, chiese, opere d’arte.

Per nascondere agli equipaggi che obiettivi dell’attacco erano solo civili, profughi e vecchie case di legno, gli raccontarono diverse bugie: Dresda era una città “fortificata”, centro di produzione di armamenti. Alle obiezioni di molti piloti contro la distruzione del centro, risposero che proprio questo ospitava, da alcuni giorni, il quartier generale della Wehrmacht; ad altri dissero il quartier generale della Gestapo, come agli equipaggi che andavano sul centro di Berlino avevano raccontato che la Sesta Armata corazzata delle Waffen SS l’attraversava trasferendosi all’est dal fronte occidentale. Appena vide, negl’ingrandimenti fotografici, che indice del puntamento era una innocua antica casa, un pilota capì che cosa lo mandavano a fare. Rifiutò e fu condannato dalla Corte marziale. In uno squarcio di sincerità del loro briefing, gli equipaggi del Gruppo 100 seppero il vero scopo: «Uccidere il più grande numero di profughi rifugiati nella città, per spargere il terrore dietro il fronte orientale tedesco». Si avviarono agli apparecchi in silenzioso sgomento. Il giorno dopo, quando si trattò di ripetere il lavoro su Chemnitz, l’ordine fu chiaro per tutti: «Stasera attaccherete i profughi che siano scampati all’attacco su Dresda». Il 1° Marzo 1985, liberandosi del peso che l’opprimeva da quarant’anni, il professor John J. Pirt, insegnante di microbiologia a Oxford, ch’era stato navigatore in quell’incursione, rivelò, in una lettera al “Times”, di essere rimasto atterrito dall’ordine di distruggere la meravigliosa città: «È un’offesa, che il coraggio di un aviatore debba essere sfruttato per inutili atrocità. La vergogna di quell’azione ricade

su Winston Churchill, secondo cui era quella la nostra risposta alla distruzione di Coventry». Ma dopo quattro anni e mezzo di continuo criminale terrore, il paragone era vergognoso. Coventry era un centro d’industrie di guerra, e i morti non vi avevano superato il mezzo migliaio. A Dresda i soli obiettivi di qualche interesse militare, i ponti sull’Elba, e l’aeroporto, non furono neppure attaccati. Uccidere i civili, uccidere i profughi, uccidere e incenerire esseri umani, ecco gli scopi dell’incursione. L’eccesso di Dresda suscitò reazioni inorridite nei Paesi neutrali e, nella stessa Gran Bretagna, un disgusto che non si è mai placato. L’intreccio di crudeltà e menzogna, lo scempio dell’onore militare britannico, suggerirono a David Irving di dedicare un libro (Apocalisse su Dresda, Mondadori, 1965 e 1992) al più gigantesco singolo crimine di tutta la storia delle guerre. Mai altrettanti esseri umani furono sterminati in un giorno solo. Mai per ragioni altrettanto futili. Mai in modo altrettanto feroce. Quando Irving si accinse alla sua ricerca, si stentava a trovare il responsabile del crimine. Delle altre “prodezze” dello stesso autore, si è scritto di recente: erano benissimo coperte, allora. Lo sa chi abbia letto le mie pagine sulla sorte di due milioni di russi. Lo scandalo e le accuse non attesero la fine della guerra a levarsi. Fonti svedesi e svizzere confermarono e aggravarono le violente accuse tedesche, con descrizioni terrificanti. Il 6 Marzo 1945, ai Comuni, il deputato laburista Richard Stokes rinnovò le accuse di due anni avanti, e quelle del vescovo di Chichester, l’anno prima: «Abbiamo distrutto una città affollata di profughi che tentavano di salvarsi dall’avanzata

dell’Armata rossa. Ma i russi non ci hanno seguito sul tappeto di bombe...», dove si prevedeva il vantaggio che ne avrebbero tratto dopo la guerra, accusando gli Stati liberaldemocratici dell’occidente di orrori, di cui l’aviazione sovietica non si era macchiata, limitandosi al bombardamento tattico. Il governo britannico avrebbe rimpianto amaramente, un giorno, «questo misfatto che rimarrà sempre come una macchia sul nostro scudo. E tale rimane. Quando ho udito il ministro parlare di “un crescendo di distruzioni”, ho pensato: ma quale magnifica espressione per un ministro della Gran Bretagna, in questo stadio della guerra!». Il ministro, Sir Archibald Sinclair, era uscito sdegnato dall’aula quando Stokes si era levato, lasciando al vicesottosegretario Brabnel la vergogna di una «nota di smentita» così concepita: «I Comandi alleati non hanno mai adottato una politica del terrore, lo confermo in questa sede. Non è nostro scopo sprecare munizioni sulla popolazione civile». Fu l’ultimo dibattito parlamentare del tempo di guerra sulle imprese del Bomber Command. «Il governo britannico era riuscito a coprire il segreto dal 1940 alla fine», commenta Irving. Perché il governo britannico sempre nascose la sua politica di sterminio al popolo inglese, come il governo del Reich aveva nascosto la sua al popolo tedesco. Sarebbe ingiusto contemplare Dresda come un deplorevole eccesso in una condotta complessivamente onorevole. Il sintetico giudizio di uno storico militare britannico (John Keegan, Uomini e battaglie della seconda guerra mondiale, Rizzoli, 1989) sull’intera politica dei bombardamenti è severo; su Harris, durissimo:

«Comandante di rozzi principi, non aveva dubbi intellettuali, né scrupoli morali». Lo scopo stesso della sua ferocia fù mancato, perché «il morale dei civili tedeschi, al contrario, non venne mai fiaccato dalle incursioni». [...] Un costante rimorso di coscienza nazionale, a guerra finita, portò a negare a Harris il titolo nobiliare concesso ai principali comandanti britannici, e addirittura a negare agli equipaggi del Bomber Command la medaglia della campagna. Con le spalle al muro, il popolo britannico aveva scelto di non ammettere di essere sceso al livello del nemico. [...] I bombardamenti strategici, oltre a rivelarsi strategia sbagliata, non costituiscono certamente un esempio di correttezza di comportamento. Su organizzazione e risultati, i loro più accaniti sostenitori decisero di stendere un velo». Eufemistico, ma sincero. Il dopoguerra non potrà mai chiudersi, se il velo non sarà sollevato su tutti i crimini di guerra, e ciò è appena cominciato. Il titolo di Sir fu dato a Harris nel 1953. L’ Inghilterra aveva deciso di ingoiare i suoi scrupoli. Nel 1960, Clement Attlee disse che Harris era un mediocre, e invece che attaccare città e popolazioni avrebbe fatto meglio a concentrarsi sugli obiettivi militari. Dal Sud Africa, dove aveva trovato un modesto impiego commerciale, l’ora Sir Arthur rispose che la strategia dei bombardamenti era stata decisa da un governo di cui anche Attlee faceva parte: «In ogni caso, la distruzione delle città tedesche per piegare il morale della popolazione fu decisa molto prima che io prendessi il Bomber Command». Sir Robert Saundby, che accettò di scrivere la prefazione di Irving, cercò di

allontanare i sospetti: «Per quanto vi fossi implicato da vicino, non fui in alcun modo responsabile dell’attacco contro Dresda [...] il mio superiore, Sir Arthur Harris, neppure. Nostro compito era eseguire gli ordini del ministero. E il ministero dell’Aria non fece che trasmettere le istruzioni ricevute dai più alti responsabili della guerra». Rolf Hochhuth, che condusse a Londra una sua inchiesta, osservò che «queste parole si possono trovare, pari pari, nella difesa di qualsiasi criminale di guerra tedesco». Mentre si è negato all’ultimo furiere della Wehrmacht il diritto di scolparsi con l’obbedienza agli ordini, per decenni i Marescialli della Raf si nascosero dietro il ministero, e il ministero dietro il Gabinetto e il Gabinetto dietro incogniti «altissimi responsabili», così salendo fino al primo ministro che, come ne fosse scottato, respingeva i fantasmi di Dresda sul ministero, e il ministero di nuovo sui militari. Gli americani sostennero che i russi avessero chiesto la distruzione. Idea assurda, perché i russi avevano ogni interesse ad occupare la città intatta e funzionante. Appassionatamente dediti allo sterminio terrestre, risposero di non aver mai praticato quello aereo, «crimine tipico dei capitalisti». Con l’aiuto americano, la Raf uccise, in quattordici ore, da cento a duecento mila civili innocenti. 135.000, ha calcolato Irving; «ma potrebbero essere anche 275.000», secondo la Croce rossa internazionale di Ginevra. Risultò impossibile un calcolo esatto per le decine di migliaia di vittime incenerite, e per la massa di profughi e stranieri non registrata. Si trovarono carte individuali e documenti di 80.000 vittime.

La bomba atomica di Hiroshima uccise settantunomila persone subito, e molte migliaia più tardi. Il bombardamento di Tokio del Marzo 1945 ebbe ottantamila vittime e centoventimila congetturabili. Dresda e Tokio gareggiano nel numero, Amburgo subì l’attacco più feroce. Il paragone con Auschwitz, proposto da Irving e ripreso dal sottoscritto nel ‘65, suscitò scandalo e dileggio. Il corrispondente da Londra del «Corriere della Sera» lo trovò «grottesco». Ma i marescialli della Raf erano di parere diverso, se provarono vergogna, in tutto il dopoguerra, per la strategia dei bombardamenti e in particolare per un eccidio che stentò a trovare il suo autore, ora finalmente identificato. Era Winston Churchill, solo lui. È la preparazione che rende il paragone, più che accettabile, necessario. Furono perfezionati attentamente i più atroci esiti della tempesta di fuoco di Amburgo, che il Bomber Command considerava il suo capolavoro. Un tappeto di bombe dirompenti trasformava una città già in fiamme in un solo braciere. I vortici sollevati dal cozzo di temperature diverse producevano una tale saturazione di gas tossici, che ricoveri e cantine si riempivano di cadaveri anche quando gli scoppi non li avevano toccati. Harris calcolò che la seconda ondata seguisse dopo tre ore, perché rovina e massacro riuscissero completi. In quell’intervallo sarebbero giunte ambulanze, soccorsi e pompieri dalle città vicine, e con Dresda si sarebbe annientata la restante difesa civile della Germania centrale. All’esordio, le bombe da quattro e diecimila chili, con la loro immensa onda d’urto, dovevano frantumare i vetri delle finestre e far saltare i fragili tetti a punta dell’età di Diirer e Lutero. Alle

case scoperchiate, 650.000 bombe e spezzoni incendiari e i bidoni di fosforo avrebbero appiccato il fuoco; cascate di scintille, infiltrandosi tra le finestre e i tetti, si sarebbero mutate in torrenti di fiamme. Con la sua coltre di bombe esplosive, la seconda ondata doveva trasformare l’incendio in rogo, annientare i soccorsi, riempire di gas venefici la città assassinata. I bombardieri americani avrebbero inferto il colpo di grazia e i caccia bombardieri che li scortavano sarebbero scesi a mitragliare quel che ancora vivesse ai margini del macello. Era il martedì grasso, e la città festeggiava, alla meglio, il Carnevale. L’Opera, sacra ai trionfi di Strauss, rappresentava il Rosenkavalier, nel Gran Circo Sarassani stava cominciando la parata finale, i bambini indossavano maschere e costumini colorati, coi quali addosso scesero a migliaia (da 25.000 a 50.000) nelle fosse comuni, o furono inceneriti nei cumuli all’aperto. I treni nella stazione, gremiti di gente, erano così lunghi, che si perdevano nella campagna. Alle 22,13, guidati dai bengala, 244 quadrimotori «Lancaster» si avventarono sulla preda. Città aperta di fatto, Dresda non era difesa da cannoni o proiettori. La caccia notturna non potè alzarsi, perché nel vicino aeroporto le piste dovevano accogliere, quella notte, gli aerei che lasciavano le basi a oriente, e il comandante dell’aeroporto, interrotte le linee con Berlino, non osò dare, ai piloti dei Messerschmitt Me.110, già pronti nelle cabine, l’ordine che aspettavano, mentre Dresda, a sette miglia, moriva: «Dresda annientata, e noi fermi a guardare. Com’è possibile?», scrisse un pilota nel diario: «Povera Patria».

Mentre le radio lanciavano disperati «Achtung! Achtung!», caddero le enormi bombe, vetri e tetti saltarono, poi fu l’incendio, come previsto e calcolato. I capi-bombardieri arringano per radio gli equipaggi. La tecnica Harris aveva dato, nella notte limpida e calma, risultati superiori alle speranze. Gl’incendi arroventavano l’aria che, alleggerendosi, provocava uragani di vento infuocato a duecento chilometri l’ora e mille gradi, suscitando altri incendi. Le esplosioni, la temperatura, la mancanza di ossigeno spinsero torme di dispersi nelle gelide acque dell’Elba, dei canali, dove trovarono i rivoli di fosforo che colavano dalle strade. I 529 quadrimotori della seconda ondata giunsero su Dresda all’una e mezzo, guidati dall’immenso braciere che si scorgeva da centocinquanta chilometri. Autostrade e accessi erano affollati di autocarri: soccorritori e pompieri correvano, da Chemnitz, da Lipsia, da Berlino, a farsi sterminare nella fatica senza speranza. «Lo spettacolo era fantastico», narrò un comandante, «da 20.000 piedi le strade apparivano incise a linee di fuoco». Affranti e disgustati, alcuni piloti sganciarono in aperta campagna.

Ma gli zelanti fecero quel che il macellaio si aspettava da loro, e annientarono colonne di soccorso, ambulanze, pompieri. Non poterono controllare minutamente la replica di Amburgo, i corpi fusi nelle strade, appiccicati all’asfalto. Li descrisse il signor Voigt, direttore del cimitero, «bruciati, carbonizzati, triturati, spezzettati, masse irriconoscibili, miseri mucchietti di cenere e ossa; oppure, intatti eppur contorti dallo spasimo; altri, invece,

come dormienti». Annemarie Wehmann, allora ventenne, vide «fumo denso dappertutto, il centro della città come un cratere d’un vulcano, le distese di corpi calcinati, rimpiccioliti fino alla metà, e poi le cataste alte più di tre metri, l’odore stagnò per settimane». Non è Auschwitz, tutto ciò? Molto peggio. Con in più, e in peggio, che tutto ciò accadeva in una delle più nobili città costruite dalla civiltà umana. Par forse materialista rimpiangere la stupenda Dresda, che fino a quel giorno aveva conservato il volto dorato che le aveva dipinto Bernardo Bellotto? Lo scempio di Dresda opera d’arte è un delitto che il passare del tempo non farà perdonare. Non deve essere perdonato. Quando i bombardieri “Lancaster” della seconda ondata si posarono sui loro atterraggi, decollarono mille e trecentocinquanta “Fortezze volanti” e “Liberators”: quattrocentocinquanta per dare il colpo di grazia a Dresda, gli altri per devastare Chemnitz e Magdeburgo. Le fiamme si vedevano, ora, «a 300 km dall’obiettivo». A mezzogiorno e un quarto, un nuovo uragano di bombe scese a casaccio dentro la nuvola nera che copriva le rovine di Dresda, e alle 12.23 i P.51 «Mustang» della scorta si precipitarono a mitragliare i veicoli che uscivano dalla città. Uno volava così basso, che urtò un vagone, esplodendo. Scovarono gli scampati sotto i ponti, distesi nell’erba sui greti del fiume. «Vecchi, donne, bambini furono massacrati da pochi metri d’altezza», raccontò il quindicenne Gerhard Kuhnemund. Una profuga, Hilde: «Una processione senza fine fuggiva dalla città. Stanche, terrorizzate, io e le mie amiche cercavamo di salvarci, ma gli aerei tornavano e tornavano su di noi, sempre più bassi. Alcuni uomini ci

gridarono ci sparpagliarci, e buttarci a terra, e quelli tornavano e tornavano, sempre sparando con le mitragliatrici». «Bersaglio dei caccia americani era la folla che traversava il giardino zoologico», raccontò il guardiano: «Li attaccarono ripetutamente a bassa quota, mitragliarono i pochi animali ancora vivi. Così trovò la morte la nostra ultima giraffa». Fuggirono gli animali dallo zoo e dal circo annichilito, si udivano le scimmie strillare, si videro cammelli impazziti aggirarsi tra signore morte in abito da sera, e cadaverini vestiti da Pierrot. Il generale Erich Hampe, capo delle truppe speciali del genio ferroviario, arrivato da Berlino, faticò a trovare una strada per la stazione: «Il solo essere vivente che incontrai fu un lama». Il carnaio della stazione centrale di Dresda- Altstadt, raccontò, superava tutto ciò che aveva visto e che immaginava di poter vedere. Dresda bruciò sette giorni e sette notti, riferì un prigioniero di guerra inglese, accorso, coi francesi e gl’italiani, a dividere il lavoro dei pompieri, fanti e genieri. Da cumuli di relazioni si leva un panorama d’inferno biblico. Quello ch’era stato voluto. «Non potrò mai dimenticare», si legge in una di queste «i resti di quelli che dovettero essere una mamma e il suo bambino. Accartocciati e carbonizzati, un blocco solo, fuso nell’asfalto». Dovettero distribuire grandi quantità d’alcol a soldati e volontari. Nella città antica, la ricerca dei cadaveri durò più di un mese. Le fosse comuni non bastavano e immense pire furono erette, al centro di quel ch’era stato il superbo Altmarkt, su travi e rotaie incrociate, dove migliaia di innocenti accatastati

bruciarono per settimane al centro della loro città vigliaccamente assassinata. Pieni delle montagne di ceneri, i camion andavano a scaricarle nelle fosse al cimitero, dove s’ammucchiavano sui cadaveri. Liberati dalle loro gabbie, gli avvoltoi calarono sugl’insepolti. Dopo un mese trovarono un leone che, acquattato in un cunicolo, usciva la notte, in cerca di preda. Infine venne l’Armata rossa a ereditare la rovina che gli alleati occidentali avevano allestito, e così le decine di migliaia di fedi matrimoniali e i preziosi trovati addosso ai morti, che la burocrazia germanica aveva, anche in quelle circostanze, inventariato, trovarono un padrone. Trecento impiegati che lavoravano a identificare le vittime furono licenziati, al direttore Voigt ne lasciarono tre, con l’ordine di trasferirsi in un ufficio più piccolo, coi suoi 80mila documenti e tessere annonarie. I tentativi di identificare altre vittime dovettero arrestarsi. In una baracca dell’Ab teilung Toten, dove erano ammassate altre montagne di documenti trovati sui cadaveri, l’Armata rossa trovò più conveniente sistemare una sua unità di venti suini vivi, per i suoi comodi alimentari. Le tessere furono bruciate, dissero, a causa del loro odore repugnante. Il 13 Febbraio 1946, proprio il giorno che Harris «il macellaio» aveva scelto per partire, dal porto di Southampton, per il Sudafrica, le campane che restavano a Dresda e nei dintorni si misero a suonare, e come un’ondata il suono si propagò, superò le linee di demarcazione, giunse, di città in città, di campagna in campagna, fino al Reno. La protesta dei vinti si esprimeva con l’ultima voce che a loro restava. Dopo 50 anni, la città

assassinata, tutte le città assassinate con le centinaia di migliaia di innocenti che vi morirono arsi e straziati, aspettano ancora che, oltre le ipocrite cerimonie e l’accensione di candele, il vincitore di allora riconosca che fu un assassinio. La bancarotta dei vincitori cominciava i suoi conti.

L’infamia nella valle della drava

Disperazione e suicidi in massa fra i prigionieri russi riconsegnati a Stalin

Concluso il disarmo dei Cosacchi, poteva cominciare la seconda fase: la separazione degli ufficiali dalle truppe e dalle famiglie, che doveva trasformare l’armata prigioniera in una torma sbandata. Davanti al più abbietto tradimento mai consumato da un esercito vincitore verso uno vinto, la correzione, che abbiamo invocato, della storia fin qui ricevuta, impone il confronto tra lo zelo servile delle democrazie liberali per compiacere Stalin, e il geloso sentimento della sovranità che sempre indusse i comandi italiani in Francia, nei Balcani, nell’Egeo, a proteggere, col pieno sostegno del governo di Roma, le comunità etniche perseguitate dai tedeschi. Se, nell’ultimo tratto della guerra, il governo della RSI dove subire la sopraffazione dei tedeschi ora occupanti, ciò avvenne perché dai quarantacinque giorni di Badoglio fino all’8 Settembre 1943, ogni sovranità italiana fu dissolta. Mussolini, che così ridotta ritrovava l’Italia dopo due soli mesi, dovette rassegnarsi a strappare isolati lacerti di autonomia all’alleato inferocito, ora padrone. Mai, tuttavia, la RSI consegnò spontaneamente ai tedeschi i suoi prigionieri.

I fastidiosi esaltatoti della civiltà liberaldemocratica anglosassone meglio spenderebbero il loro tempo traendo i necessari paragoni tra la dirittura morale di un governo che, pur ridotto all’impotenza, sempre contese al tracotante alleato le sue poche centinaia di prigionieri, e la voluttà sadica, la spensierata crudeltà, la deliberata fellonia con cui le potentissime democrazie avviarono, a quel che già sapevano certo massacro, due milioni di esseri umani (contando anche i Croati) che avrebbero potuto e dovuto salvare. «Gli ufficiali furono invitati a una conferenza per comunicazioni che doveva, senza sospetti, farli uscire dai campi». «È una deliberata menzogna», protestò Davies, replica, in formato ridotto, dell’anima bella Churchill. Il dubbio si sparse nei campi. Perché i generali inglesi non vengono qui, invece che portar fuori millecinquecento ufficiali per una conferenza? «Poche volte un’autorità inglese decise, così alla leggera, di tante vite umane», dice Tolstoi. «Niente casi individuali», erano gli ordini, tutti dovevano essere «rimpatriati», anche i Krasnov, gli emigrati anziani, le famiglie, i Cosacchi del generale Domanov a Lienz, quelli di von Pannwitz, del generale Andrej Schkuroi, i caucasici del generale Klych Girey. Si legge con vero orrore il tradimento perpetrato ai danni di von Pannwitz che, ancora nel pieno esercizio del comando, giunse in automobile sul ponte dove i comandanti inglesi l’avevano convocato, senza dirgli ch’era il confine con la zona russa. La sua vettura passò lentamente e, quando fu dall’altra parte, Pannwitz vide i russi in attesa. Esclamò uno stupefatto «Mein Gott!» e scomparve. Nessuna legge imponeva di

consegnarlo, non era richiesto per crimini di guerra; aveva comandato unità russe, ma restava un ufficiale tedesco. La sua vita doveva essere garantita dalla potenza che l’aveva catturato, ma quella potenza era in mano d’assassini. La consegna di von Pannwitz ai russi che lo “giustiziarono” fu un premeditato assassinio, un gesto di fellonia di fronte al quale ci si domanda se esista ancora un onore militare britannico. E così la sorte dei mille ufficiali e sottufficiali tedeschi del XV Corpo di Cavalleria. Ne tornarono poche decine. Uno sconosciuto ufficiale inglese avvertì il principe zu Salm, che così potè far fuggire i duecentocinquanta ufficiali e sottufficiali tedeschi ai suoi ordini.

Nei campi dei Cosacchi, i sospetti sulla conferenza si scontravano con antichi riguardi. «Abituati a credere alla parola di un ufficiale», scrisse Naumenko, «non potevamo sospettare che l’alto comando inglese macchinasse un tale crimine», completa il nipote di Krasnov. «Memori delle tradizioni dell’Armata imperiale, gli ufficiali russi non concepivano un tradimento così vile». La mattina del 28 Maggio, un giovane ufficiale, Bluterov, chiese a Davies: «Ho mia moglie e un bambino, e oggi debbo andare a questa conferenza. Vorrei che mi dicesse se torneremo, o no». Col solito «orrore» che poi gli passava, Davies rispose di sì. Altrimenti, Bluterov, avrebbe detto la verità ai suoi camerati. Pochissimi rifiutarono, e all’una del 28 Maggio gli equipaggi dei camion trovarono gli ufficiali pronti per la conferenza inesistente. Baciarono le mogli e i ragazzi, si dissero arrivederci e partirono. Erano 1.475. Uno dei pochi che

riuscirono a fuggire, il colonnello Frolov, guardò la colonna: «Un carro armato ogni due o tre camion. Perché quella guardia, e perché così forte?». Partito il convoglio, scattò la terza fase: preparare i soldati inglesi. Ci pensò il generale Mosson con un proclama: «Secondo gli accordi tra i governi alleati, i cittadini delle Nazioni alleate debbono ritornare nei loro Paesi. Tutti i Cosacchi e i Caucasici nell’area di questa brigata debbono ritornare in Russia [...] Per evitare disordini, gli ufficiali sono stati separati dalle truppe. Uomini, donne e bambini saranno trasportati quando ci saranno camion e treni». Soldati e sottufficiali potevano cedere all’umana pietà: «Sarà un compito molto difficile [...] Ci sono tante donne e bambini, molti di voi provano simpatia per questa gente. Ricordate che presero le armi a fianco dei tedeschi e combatterono contro di noi, in Italia e su altri fronti [...] I russi intendono mettere questa gente ai lavori nei campi e rieducarli come buoni cittadini sovietici». Tale sequela di menzogne doveva soffocare i disgusti delle coscienze. Anthony Eden non soffriva di queste debolezze. Fin dalla seduta di governo del 3 Settembre 1944 aveva detto tranquillo: «Molti di loro andranno alla morte». A Spittai, una settantina di chilometri a est di Lienz, li ficcarono in una caserma, come in una gabbia. Tutto intorno, la guardia armata, raddoppiata. Un ufficiale cosacco ne domandò il perché a uno inglese, che rispose di non averne idea. Un capitano, Lavers, era responsabile della custodia. Ogni resistenza doveva essere stroncata, con fuoco «per uccidere». I tentativi di suicidio dovevano essere impediti, ma se ciò comportasse «il

minimo pericolo per le nostre truppe, lasciare che si uccidano». Molti, che finora non avevano creduto alla loro sorte, constatarono che dalle baracche erano stati tolti tavoli, seggiole, letti, perché non servissero agli aspiranti suicidi.

Il vecchio Krasnov passò la notte a scrivere e ricopiare petizioni, in francese, con le ragioni dei Cosacchi che avevano preso le armi contro Stalin: per Re Giorgio VI, Churchill, l’arcivescovo di Canterbury, le Nazioni Unite, la Croce rossa internazionale. Non oltrepassarono i cestini dei rifiuti. Il nobile vegliardo chiese di esser considerato solo responsabile per il comportamento di tutti i suoi Cosacchi sui campi di battagli. Nel campo, sorvegliato da torri d’osservazione con mitragliatrici, cominciarono i suicidi. I camerati portarono fuori i corpi e li allinearono sopra coperte presso gl’ingressi del campo, così che gl’inglesi li vedessero. Tempo perso. Sorgeva il mattino del 29 Maggio 1945 nella verde valle della Drava circondata d’alte montagne, quando, alle 5.30, tre ufficiali cappellani cosacchi chiesero agl’inglesi di celebrare la Messa. Gli risposero che facessero pure, ma si sbrigassero in mezz’ora. A centinaia, generali e ufficiali s’inginocchiarono, molti in lacrime e pregarono il Signore con le canne delle mitragliatrici inglesi puntate addosso. Dagli ufficiali che Albione aveva condannato a morte, si alzò il coro: «Salva il nostro popolo, o Signore». Come uno spettatore soddisfatto, il colonnello Bryar assicura che «la cerimonia fu impressionante, il canto stupendo». Alle 6.30 arrivarono i camion: uno bloccò la porta. A Bryar, che gli ordinò di far salire i suoi ufficiali, il generale Domanov

rispose che non aveva più giurisdizione su loro. Allora un plotone inglese marciò sui gruppi cercando i capi. Gli ufficiali superiori sedevano sui pavimenti, le braccia incrociate alle gambe. Li tirarono fuori tra percosse e colpi di baionetta. Disarmati, in maggior parte sopra la sessantina, furono infine gettati sui camion. I vecchi emigrati, esclusi dalla consegna secondo gli accordi di Yalta, mostravano passaporti e carte, ma Keightley e Low, le più sinistre figure della sanguinosa tregenda, avevano vietato i «casi individuali», perché volevano procurare ai sovietici la gioia di metter le mani su capi così illustri. E fecero di peggio: «Ordinarono alle vittime di mantenere intatte le loro uniformi tedesche con le insegne e i gradi, così che i sovietici non faticassero a riconoscerli». Apparvero, infatti, particolarmente «deliziati» nel mettere le mani sui «principali diavoli del folklore sovietico di venticinque anni, Schkuroi, Krasnov... Tanto più deliziati, in quanto neppure Stalin si era spinto a chiedere la loro consegna. Erano graziosi doni delle democrazie liberali massoniche alle forme del compare. Nel campo di Lienz soldati e famiglie aspettavano il ritorno degli ufficiali. Qualcuno intuì che li avessero già consegnati ma Davies negò categoricamente. Solo la mattina del 30, quando erano già in viaggio verso Judenburg, annunciò che non sarebbero ritornati, ma ciò non significava che li avessero consegnati ai sovietici. Erano solo diventati prigionieri di guerra dell’Inghilterra. E se poi fossero stati consegnati gli ufficiali ciò non voleva dire che anche i soldati, le donne e i bambini, dovessero seguire la loro sorte.

La notte in attesa del «ritorno» passò tra l’insonnia e il tormento per i ventimila del campo, sottufficiali, soldati, civili, preti, donne, bambini. «Era vitale tenere nascosta la verità, il più a lungo possibile. Non c’erano guardie bastanti a trattenere quella massa, se si fosse ribellata. I Cosacchi elessero Ataman prò tempore, un savio sottufficiale, molti fuggirono nei boschi e sulle montagne. Si levarono suppliche, le invocazioni d’essere uccisi piuttosto che consegnati». Davies sperimentò l’ultimo ricatto: «Se restate calmi, non dividerò le famiglie. Altrimenti, separerò le donne dagli uomini, e i bambini dai genitori». Obbedirono per il solo piacere di morire insieme. E intanto stabilirono il programma del giorno fatale. Si sarebbero inginocchiati a pregare sul piazzale del campo, intorno all’altare dove tutti i preti insieme avrebbero celebrato il servizio solenne. Gl’inglesi non avrebbero usato violenze su un popolo in preghiera. Cucirono centinaia di bandiere nere e le appesero sulle tende. Tornarono i camion, le guardie vennero a prendere i bagagli degli ufficiali consegnati. Dalle mogli disperate accettarono lettere, ormai prive di destinatari. Il 30 Maggio suonò l’ora dei Caucasici, scelti per il primo assalto. Li spinsero sui camion nel solito modo. Erano 1.737. Il 31 Maggio fu il turno dei 7.000 Cosacchi di von Pannwitz. Separati dagli altri e totalmente ignari, si lasciarono portar via senza resistere. Nei campi intorno a Oberdrauburg, il macello cominciò il 1° Giugno, quando gli inglesi avvertirono: era giunta l’ora, si preparassero a partire. I Cosacchi rifiutarono e furono caricati alla baionetta. Si aprivano le giubbe sui petti, invocando che li

uccidessero. Alcuni che cercarono di fuggire furono assassinati a fucilate. «Fu terribile, dovemmo ficcarli nei treni a colpi di baionetta», raccontò un tale Shaw, che comandava la scorta. «Nel campo accanto, furono identiche scene, dieci minuti di macello con bastoni, calci di fucile, baionette. Qualcuno aprì il fuoco, tre cosacchi caddero uccisi. Donne incinte furono buttate “come sacchi” sui camion, le ultime resistenze furono spente dal fuoco dei lanciafiamme sulle tende». Lo «special horror», come fu chiamato, del campo di Lienz, fu costituito dalla presenza di quattromila donne e duemilacinquecento bambini: un atto di genocidio che significò la liquidazione della nazione cosacca emigrata. Quando finì la recita della danza macabra lungamente preparata, partirono treni che si lasciarono dietro una scia di donne morte o ferite dopo essersi lanciate dai finestrini. La stampa dei Paesi «alleati», molto rispettosa dei desideri governativi, non fece parola degl’imbarazzanti avvenimenti. Prima dell’apertura degli archivi, nel 1972, non c’erano documenti ufficiali. Bethel e Tolstoi li hanno pubblicati. Il rapporto del tenente colonnello Malcom comincia: «Alle 7.30 andai al campo con Davies. Molte migliaia di persone si stringevano in un compatto quadrato, d’ispirazione difensiva primitiva, quasi animali: donne e bambini al centro, gli uomini sui lati, un gruppo da quindici a venti preti coi paramenti sacri, immagini e stendardi religiosi». A un altro testimone, la piattaforma di legno gremita di preti, icone, e colorati stendardi, le bandiere nere distese su ogni sostegno disponibile, la folla, i canti, fecero l’effetto di «una scena di carnevale».

Dopo un preavviso di mezz’ora, Davies ordinò di caricare alla baionetta. L’orgia di violenza durò lunghe ore, tra preghiere, canti e mischie selvagge per strappare un gruppo dopo l’altro alla massa. Le cariche si susseguirono mentre la folla pregava e cantava. La scena terribile fu dipinta da un artista sopravvissuto, S.G. Korolkov, per il martirologio cosacco e l’albo d’oro delle liberaldemocrazie. I suicidi si moltiplicarono. Il flusso rapinoso degli eventi, la scomparsa degli ufficiali, le preghiere infuocate dei preti, il fiammeggiante terrore degli aguzzini sovietici in attesa, tante cause insieme «avevano rimosso in molta di questa gente l’istinto di conservazione». Nelle madri, che portavano con loro alla morte i bambini, agiva una logica della disperazione. Sapevano che sarebbero state uccise o chiuse in campi di concentramento, mentre destino dei piccoli era d’essere allevati e educati in orfanotrofi di Stato, alle ideologie di Marx, Lenin e Stalin, all’odio della religione e dei genitori. Preferirono salvarli da tale sorte, morendo con loro. «Il ricordo più terribile», per Davies, fu un Cosacco che prima uccise la moglie, i tre figli, e poi se stesso. Davies lo vide, la pistola in mano, dopo ch’ebbe allineato in ordine i suoi cari già uccisi, e non potè impedirgli di completare l’opera. A decine fuggivano nei boschi solo per impiccarsi agli alberi. Un altissimo ponte sulla Drava fu la salvezza per molti. Una giovane donna fu vista mentre si gettava nel fiume con due piccoli bambini in collo. Il grido del più grandicello, «Mamma,

ho paura», aveva raggiunto, nella sua Cherso, il padre Bigoni, che me lo ripete, tal quale si legge in Bethel. In quattr’ore, i bravi soldati di Sua Maestà gettarono sui camion «come sacchi», e poi sui treni, 1.252 esseri umani. In totale, dai campi della valle della Drava ne furono mandati all’Est, quel giorno, seimilacinquecento. Specialmente raccapriccianti sono le storie di un bimbo di cinque anni, e della figlia, diciassettenne, del sergente Pastryulin. Nei giorni seguenti vennero meno le forze e gli animi. Il 2 Giugno furono consegnati 1.858, il 3, furono 1.487. Quel giorno, domenica, il cappellano cattolico dellTrish London Regiment fece una predica terribile: «Questa gente sarà uccisa dai comunisti», disse: «Quanto vi hanno fare è una vergogna, per chiunque vi abbia partecipato», e lesse il Vangelo di San Marco, capitolo 6, verso 34: «Vide la moltitudine e n’ebbe compassione, perché erano pecore senza pastore».

Tra suicidi, cariche, fughe, disperazione, la disciplina delle truppe vacillava. Andavano dal cappellano a chiedere di assolverli di quella «sanguinosa vergogna». Un colonnello Bredin avvertì che il morale delle truppe non resisteva a quel lavoro di aguzzini. Ma il 7 Giugno Keightley comunicava soddisfatto che la consegna dei Cosacchi era completata. Ne aveva deportati trentacinquemila. I sovietici, fatti i loro conti, protestarono che ne mancavano quattromila, fuggiti sui monti. E allora si videro ufficiali sovietici con uniformi inglesi comandare pattuglie che gl’inglesi avevano messo a loro disposizione. Mille e

trecentocinquantasei fuggiaschi furono ripresi nelle valli dove i loro cavalli vagavano solitari. Dopo ch’ebbero consegnato gli ultimi prigionieri riacciuffati, gl’inglesi udirono raffiche di mitraglia in un campo sovietico. Il 3 Giugno i generali e gli ufficiali superiori furono portati a Mosca con gli aeroplani. I treni carichi della nazione tradita percorsero lentamente le pianure dell’Est, il 25 Giugno oltrepassarono Kiev, in Luglio le provincie siberiane. A centinaia morirono in viaggio, settemila nel primo anno di prigionia. Solgenitsin potè incontrare piccoli gruppi di superstiti.

Il presente racconto riguarda principalmente la consegna dei Cosacchi concentrati nella valle della Drava, perché tale è l’argomento dei libri di Bethel e Tolstoi, e ragione della condanna del nobiluomo russo. Ma dell’immenso misfatto compiuto, con consapevole determinazione, dalle liberaldemocrazie anglosassoni, l’episodio dei Cosacchi è solo un momento. Seguì, dal Giugno 1945 in poi, la consegna degli altri russi in mano agli americani, dal campo di Fort Dix nel New Jersey, dove i prigionieri si ammutinarono alla vigilia dell’imbarco, le guardie aprirono il fuoco, e ci furono morti e suicidi, fino agli ultimi giorni di Agosto; a Kempten, in Baviera, dove si ripeterono le tremende scene, le liturgie ortodosse, le violenze sui prigionieri, le donne, i bambini; al campo di Platting, presso Norimberga, dove Ernest von Salomon vide i carri armati americani circondare il campo nella notte, mentre i soldati, armati di mazze di gomma, «s’infiltrarono tra le baracche e si

appostarono accanto ai letti dei prigionieri. A un fischio, fecero cadere le mazze, urlando e strepitando, sui dormienti completamente ignudi, li cacciarono fuori incalzandoli con il disgustoso “Presto, presto”, lungo le baracche, e le strade del campo, dove dovettero salire sugli autocarri, e dietro ogni autocarro s’infilò un carro armato...» (Io resto prussiano, pag. 858). Le «operazioni» proseguirono da Dachau a Schônberg, fino all’Italia, dove altri russi si trovavano nei campi della Campania, a Pisa, a Riccione. Nonostante, il 20 Febbraio, si levasse la voce di Pio XII, il solo che osasse condannare «il rimpatrio di uomini contro la loro volontà, il rifiuto del diritto di asilo», i treni della morte con impresari inglesi continuarono a partire in «operazioni» battezzate, con fine ironia, Eastwind, Vento dell’Est. Salirono, i treni carichi, verso Nord. Quando passarono il Po, i prigionieri cominciarono a temere. La vista delle Alpi rese chiaro che andavano a Est. Apparvero i coltelli, cominciarono i suicidi. Ammanettati ai sedili, attraversarono il confine con l’Austria, dove i sovietici li aspettavano. L’ultimo treno partì da Riccione il 9 Maggio del 1947. La guerra era finita da due anni. Due anni di una agonia che ora si concludeva nella fine atroce. Nelle persone di massimi e diversi capi, le democrazie liberali anglosassoni non avevano trovato la dignità necessaria a salvare l’ultimo drappello della sterminata schiera di vittime. Anche i miseri ospiti dei campi italiani erano stati lusingati con ogni specie di menzogne. In ogni treno, gl’inglesi allestirono un vagone mortuario, in cui gettare i cadaveri dei suicidi. Che fare, altrimenti, di loro? Le democrazie liberali non volevano chiasso sui loro delitti. I sovietici furono

avvertiti: se volevano che le consegne continuassero, dovevano impegnarsi ad accettare i morti per vivi, e firmare le ricevute. Non era un impegno da spaventare le polizie di Stalin. S’impegnarono, forse ridendo degli scrupoli di quegli strani alleati. «Questi prigionieri furono consegnati in maniera perfida, tipica della diplomazia inglese tradizionale». Ora il lettore di Solgenitsin sa che cosa significhino appieno queste righe. Perfida e anche inutile, perché l’ultimo delitto non fruttò all’Inghilterra i benefici che la ragione di Stato riserva ai suoi devoti. Nel suo miserando declino, Lord Avon potè constatare come il compenso alla frode e al delitto fosse mancato.

Ai primi di Agosto del 1986, a Londra, in un’aiuola di Thurloe Place, di fronte al Victoria and Albert Muséum, attrasse la mia attenzione un gruppo di uomini anziani, che i folti baffi grigi indicavano per balcanici, e la bandiera, con lo stemma a scacchiera bianca e azzurra che ripiegavano, mi fece riconoscere per Croati. Stavano intorno a una stele di pietra terminante in una scultura in bronzo, una raggiera di teste umane affacciantisi da un solo blocco centrale. Una scritta, incisa circolarmente nel pavimento, precisava: «Questa scultura è stata benedetta dal vescovo di Fulham il 2 Agosto 1986, per sostituire un precedente cippo, benedetto dal vescovo di Londra il 6 Marzo 1982, che fu più tardi distrutto dai vandali, ai quali la verità riusciva intollerabile». La stele fu dedicata «alle vittime di Yalta», ossia «alla memoria degli innumerevoli innocenti, uomini, donne, bambini,

provenienti dall’unione Sovietica e dagli Stati dell’Europa Orientale, che vennero imprigionati e morirono nelle mani dei governi comunisti, dopo essere stati rimpatriati a conclusione della seconda guerra mondiale. Possano riposare in pace». Nel loro nome e ricordo, invochiamo dalla Corte di Strasburgo che voglia aprire le vie alla revisione della condanna del conte Tolstoï. La lunga pazzia inglese divenne, per i secoli, la bancarotta dei vincitori. Avevano vinto soltanto la vergogna perpetua.

DALMAZIA UCCISA E PERDUTA

Fino alla sera del 2 Novembre 1943 Zara fu una gemma intatta. La snella penisoletta dal delicato profilo lievemente arcuato, quasi un pollice lungo e magro, appena discosta dall’altre dita, racchiudeva il più armonioso compendio di fabbriche e pietre romane e italiche della costa dalmatica. Profusi in tutte le città della frastagliata marina, Sebenico e Traù, Spalato, Ragusa e Cattaro, e nelle isole di quella costellazione, gl’incanti della Penisola madre, là avevano trovato un punto d’incontro quale di rado risplende nelle purità spontanee dei frutti di natura. Il reticolo delle strade romane, gl’isolati quadrangolari, s’erano riempiti di calli, quasi un sestiere di Venezia non privo tuttavia d’altri italici echi. Le colonnette dell’abside di San Grisogono rievocano modelli lombardi, quelle che in ordini sovrapposti corrono sulla facciata del Duomo hanno sorelle a Lucca. Eppure, furono i Veneziani a ricostruire la chiesa, dopo che Innocenzo III ve li costrinse, col persuasivo vigore della scomunica, per punirli d’aver assaltato e saccheggiato la città nel 1202, in compagnia dei cavalieri diretti in Terrasanta per la Quarta Crociata. È una bella storia di turismo devoto perché, trovandosi sottomano tanti aspiranti eroi in cerca d’un passaggio marittimo, Enrico Dandolo glielo promise a gratis, purché

l’aiutassero, dal momento ch’erano già sul posto, a prendersi Zara. Come la precedente distrutta nell’assalto, anche la nuova chiesa fu intitolata a Sant’Anastasia, nome greco che può significare, sol spostando l’accento, sia rovina che rinascita. In modo definitivo Venezia ebbe Zara nel 1409, pagandola centomila ducati d’oro a Ladislao re di Napoli. Da allora fu la prediletta e fedelissima, sede del Provveditore generale e capitale della Dalmazia. Quando la Repubblica morì nel 1797, le bandiere di San Marco furono poste, quali sacre reliquie, sotto l’altar maggiore. Napoleone non ebbe dubbi sull’appartenenza di Zara, e l’annesse al Regno d’Italia. Tornata sotto l’Austria e Ungheria, vi rimase ancora cento e tre anni. I fanti che sbarcarono dalla torpediniera 55, il Novembre 1918, trovarono, inginocchiata sulla riva in religiosa attesa della Patria, una popolazione che da quattro giorni aveva scacciato i funzionari austriaci. Fanno solo ottant’anni, e una patria come questa si poteva aspettare in ginocchio. Dev’esser stata molto diversa. Già alla fine dell’ottocento, uno scrittore acuto come Giuseppe Modrich aveva avvertito: seppur fosse il culmine culturale e civile della Dalmazia, e coi suoi caffè, ristoranti e aristocratici ritrovi ne apparisse una piccola Parigi; seppur fosse la capitale politica della provincia, non poteva, Zara, costituirne il modello etnografico e morale. “È una superba testa che, per i suoi lineamenti fisionomici speciali, non si adatta alla natura del suo bellissimo corpo”. Apparve così indiscutibilmente, ma anche unicamente, italiana, che quando l’isteria slavofila dell’ignorantissimo Wilson li costrinse a rinnegare il Patto di Londra, i democratici tangheri versagliesi dovettero ritagliarla

dalla costa che avevano regalato al regno dei serbi croati e sloveni, per deporla nel cesto vuoto dei trofei italiani. Tra le due guerre Zara apparve, vista a ritroso, una fragile cittadella assediata. Ma tale non dovè apparire nell’animo della sua gente che, dalla copertina di Zara prima del diluvio, il numero di Marzo-Aprile 1990 della rivista che per la “Associazione Nostalgica degli Amici Zarattini” pubblica in Ancona l’indomito Rime Rismondo; ancora sorride, elegante e sicura di sé, sopra il baratro del lutto e dei decenni. Saranno una ventina gli zaratini di quella fotografia, colti davanti al Cafe Central, “el cor de Zara”. All’occhio che esplora la Calle Larga, incollato alla grossa lente che gli offre, in cambio di quell’adesione, l’effetto rianimatore di un panopticon, l’immagine appare quasi un dipinto pubblico del Quattrocento, compendio di una stirpe e di uno stile. E il testo di Ferruccio Predolin, “Usi costumi e scampoli di vita zaratina” offre un ritratto di vita privata, come si diceva, quale poche città italiane possono vantare tanto acuto e preciso, così commovente nella sua minuziosa tenerezza. Nel rissoso ribollire balcanico in che s’era dissolta, priva di sostegno nei numeri, la supremazia italiana delle città, aggredita poi, dopo il 1866, con l’appoggio dell’amministrazione austriaca, dalla cattolicissima nazione croata chiamata a vendicare la Monarchia per la perdita del Veneto e il Santo padre privato della sua Capitale, Zara rimase a galla. Sola. Accanto a diciottomila italiani, di un ceppo tutto speciale, le famiglie slave erano una ventina. Quell’integrità, quell’orgogliosa sua bellezza, ne facevano un’anomalia razziale e monumentale: provocazione intollerabile di una fragile spina

confitta in un fianco informe e obeso, che insperate fortune ancor più gonfiavano. L’agonia in terra cominciò con 1’8 Settembre di Badoglio l’infame. I tedeschi, che mai avrebbero osato, due giorni avanti, toccare una provincia del Regno d’Italia, subito la occuparono; fu sollievo, di fronte al duplice incubo slavo, l’immediato del falso alleato ustascia e il più lontano e ancor più nemico Tito, il criminale comunista vezzeggiato dalle democrazie virtuose. In diversi luoghi della “Rivista dalmatica” che dirige, e con speciale cura nel più recente, nutrito di approfondite ricerche negli archivi militari tedeschi di Friburgo in Brisgovia, Nicolò Luxardo De Franchi ha documentato l’anomalia, fino ad oggi ignota, per cui la Wehrmacht, opponendosi al partito nazional-socialista che, come già l’amministrazione austroungherese, sosteneva i croati contro gl’italiani, riuscì a difendere l’amministrazione della Repubblica Sociale Italiana fino al giorno della ritirata. L’agonia del cielo cominciò la sera del 2 Novembre 1943 col primo bombardamento di una serie perversa che doveva concludersi, quasi che nella “Balkan Air Force”, messa insieme da inglesi e americani per compiacere le rabbie aeronautiche del prediletto Tito, temessero di non aver distrutto abbastanza, all’immediata vigilia dell’occupazione comunista. Ancora una volta è “Zara”, la rivista anconetana di Rismondo (AgostoOttobre 1993, pp.194, 24 tavole), che offre la cronologia ragionata dei venti maggiori bombardamenti e un’antologia delle testimonianze di zaratini d’ogni età e condizione. «I bombardamenti del 2 e 28 Novembre, e del 16 e 30 Dicembre [1943] avevano praticamente raso al suolo Zara e i suoi

sobborghi, causando un migliaio di morti e innumerevoli feriti. Mia madre (48 anni), mia sorella (18) e io (16) partivamo per la Penisola, come si usava denominare il resto dell’Italia [...]. Papà sarebbe rimasto a Zara il tempo strettamente necessario per liquidare il relitto della grande fabbrica di maraschino», dopo che le bombe del 28 Novembre avevano acceso un incendio che divampò «giorni e giorni consumando alcol, zucchero e succo di marasca che correva a fiumi nelle canalette d’acqua piovana. I genieri tedeschi che sostituivano gli scomparsi vigili del fuoco [...] distesi a terra bevevano tanta grazia di Dio con i loro elmetti. Papà non lasciò più Zara». Dal 29 Gennaio al 25 Ottobre, scrisse 351 lettere, rievoca il figlio Nicolò, che al martirio della zia e dello zio e alla sparizione del padre, chissà dove e quando e come assassinato, ha dedicato memorie di esemplari precisione e tenacia, e un fiero volume, Dietro gli scogli di Zara, Gorizia, 1992; e “Rivista dalmata”, 64, pp.92-95, 1963; 64, pp.164-68, 1993; 65, pp.57-66,1994. «Non vi dico i saccheggi e le ruberie! Ormai Zara è veramente distrutta. Perché? Non si capisce, né si può comprendere» scriveva Pietro Luxardo «Lunedì 6.3.’44”. Un perché subito decifrato a Gargnano dove Luigi Bolla, capo di gabinetto di Serafino Mazzolini sottosegretario agli Esteri, aveva già scritto nel suo Diario il 17 Dicembre 1943: “Si vuole distruggere la popolazione che forma un’isola compatta d’italianità nella massa slava«. Quando nel Giugno 1965 lo conobbi a Hong-Kong dove passava il suo esilio di superstite della R.S.I., Bolla mi disse tutto il suo orrore, raddoppiato nei vent’anni ormai passati per quello che gli appariva uno dei più atroci crimini commessi dai

“liberatori” inglesi e americani per ingraziarsi l’amico Tito: «un crimine purtroppo ignoto, che ti esorto e ti prego di esecrare e far conoscere con ogni tua forza, è una preghiera che ti rivolgo con la mente e col cuore». Dieci giorni dopo la relazione di Pietro Luxardo, Giovanni Dolfin, segretario particolare, riferiva a Mussolini «l’impressione diffusa tra gli zaratini, che vogliano lo sterminio totale della popolazione e la distruzione della città fino alle fondamenta, per cancellare in modo definitivo l’italianità di Zara». Dal baratro della consumata sconfitta fanno eco due note dello Stato Maggiore di quel ch’era rimasto del Regio Esercito. Qualcuno conservava ancora una dolente ragione. Il 16 Giugno 1945: “I bombardamenti di Zara hanno completato la tragica opera di distruzione provocata da Tito, più per cancellare le orme secolari d’italianità, che per scopi bellici”. E il 10 Novembre: «Zara è distrutta per volere di Tito che sosteneva essere ogni casa trasformata in deposito di munizioni. Tra i partigiani di Tito correva voce, invece, che Zara venne distrutta per evitare future contese tra italiani e slavi». Or sono più di vent’anni, nel 1985, dopo aver contemplato, con l’aiuto di una vecchia fotografia comperata nel museo della casa di Dürer, quanto restava «della selva dei tetti, appuntiti come abeti della foresta, che fu Norimberga», trascrissi nel taccuino di quel viaggio una riflessione di Thomas Stearns Eliot, che poi passò in Paesaggio con rovine, l’antologia di saggi che poco dopo composi (Camunia, Milano, 1989, p.119): «Eliot fece scandalo quando espresse l’opinione, qualche anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che l’annientamento di città-

capolavori prodotti da ogni fibra del vivere collettivo europeo quali Norimberga e Monaco, Dresda e Francoforte, potesse pesare, un giorno, come un’onta sulla buona fama della nazione inglese. L’onta dura, e continuerà. La guerra era sul punto di chiudersi, le sorti già suggellate, quando i peggiori massacri furono compiuti. Come se temessero di non avere tempo sufficiente per condurre a termine la cancellazione di una nazione, di una civiltà continentale». Il confronto con Zara che quest’anno ho compiuto mi appare perfino più perverso. Al servizio “specifico” e immediato da rendersi ai banditi comunisti, cui avrebbero consegnato, l’anno dopo, due milioni d’innocenti; alla soddisfazione di massacrare nelle loro città incendiate popolazioni inermi, che fu comune a tutti i plotoni d’esecuzione volanti, ci vedi il gusto del distruggere, il cui piacere sadico fu un’atroce scoperta di Hans Sedlmayr. Nei suoi libri la distruzione dei paesaggi urbani che continuò dopo la fine della guerra e divenne vizio e piacere delle classi architettoniche, appare uno dei principali sintomi ereditari di quella “perdita del centro”(Verlust der Mitté) che si comunicò quasi una febbre ad ogni “centro” morale, istituzionale, architettonico della civiltà ricevuta, infame retaggio della rivoluzione francese, immorale e criminale dal primo giorno secondo Alessandro Manzoni. L’egregio scopo fu, con lo zelo assassino delle armate aeree inglesi e americane, raggiunto a Zara in moto totale. Zara non su soltanto uccisa. Fu cancellata. Al suo posto si stende una lurida erede barbarica che, come sempre gli usurpatori, si adorna dei monili razziati ai padroni vinti, torturati e uccisi.

1968

Zara, la rovina infame

Fui a Zara, la prima volta, nel 1968, al termine d’un viaggio in automobile per ottomila chilometri di comuniSmo, con Sergio Nanni, amico impareggiato troppo presto perduto; da Regensburg a Praga eccitata e folle alla vigilia d’invasione, e di qui, attraverso Moravia, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania, alle foci del Danubio e giù ancora, lungo le repellenti spiagge del Mar Nero, fino a Varna, e poi a ritroso, tagliando l’intera penisola balcanica, fino a Ragusa, di dove risalimmo la costa per Spalato, Traù, Sebenico, Zara, Fiume, l’interno dellìstria, le cittadine del golfo, fino a Trieste. Fu un viaggio nello strazio per chi si portava addosso la malattia adriatica ereditata dall’avo materno, Guido Falorsi, giovanissimo segretario e poi aiuto al Tommaseo nel Dizionario. Ritornammo con l’automobile che quasi toccava terra per il peso dei libri rari o preziosi comperati, a poche migliaia di lire, tuttavia domandandomi se portavo in salvo relitti di culture a me care, o contribuivo all’ulteriore imbarbarimento di quelle contrade. Dopo Ragusa, tirata a lucido per un suo festival quasi musicale, e Spalato trafficona, vera porta d’Oriente, rabbrividii ai silenzi di Traù, i cui canali («Bruges adriatica», la chiamarono)

riflettevano limpide facciate, silenziose, morte. E al vuoto di Zara, nelle cui rovine ricoperte di sterpaglie, o trasformate in piazze sterminate, nelle cui calli sconciate, peggio ancora che dalle distruzioni, dalle fabbriche immonde con cui l’hanno coperte, ebbi un capogiro, uno straniamento, una perdita di me stesso, quali potrei provare, poniamo, abitando un tugurio di Pechino. Zara adorata e perduta, addio, le dissi, col proposito di non più rivederla. «Quando nel 1959 sono ritornata a Zara, la mia impressione è stata terribile: venti secoli di civiltà spariti, la città completamente balcanizzata», ha scritto, in una lettera a questo giornale, una signora colta e gentile, con cui ebbi corrispondenza anni or sono, Nora Millich Marsan. Al ritorno nella scorsa estate, l’atmosfera si è rinnovata tale e quale, aggravata dalla mancanza di turisti, popolazione fittizia, si sa, che tuttavia riempiono e confondono. La perdurante rovina è opprimente, fanno male al cuore quelle finestre sfondate, e murate a tener quinte di sassi che dopo mezzo secolo si sbriciolano. Ma non meno opprimono le villette becere del balneare balcanico, i restauri volenterosi e scemi, le sedie da birreria a semicerchio nell’oratorio, le lampade, i colori degli intonaci, incredibili, come quelli di cui dipingono i vicoletti di Praga. (Così nei miei appunti. Ma ora mi domando. Non è forse così dappertutto, anche da noi?). «Quella Zara non esiste più da quando nel 1944 gli jugoslavi hanno voluto distruggerla, provocando ben 54 bombardamenti angloamericani che la raserò al suolo come nessun’altra città italiana», ha scritto il lettore Rime Rismondo il 27 Settembre, rispondendo a uno spensierato che esortava a far «buona

accoglienza» agli «zaratini», quando fossero finalmente arrivati. «Zadarini», fu la replica, gli zaratini non sono più là. Se non tutti scomparsi, di certo sono alquanto sparsi. Perché l’Italia, che oggi sembra non tenersi più dalla voglia di un bel gregge di fuggiaschi sloveni e croati a cui far mille moine, quando le arrivarono profughi italiani veri, sopravvissuti alla strage, li accolse con ostilità e dispetto, li cacciò in campi e baracche vergognosi e, quando potè, se li tolse dai piedi, spedendoli in Australia e Canadà.

*** Nel 1915, aprendo il capitolo “La slavizzazione austriaca e le persecuzioni dell’elemento italiano in Dalmazia” della sua vasta opera La monarchia degli Asburgo. Origini, grandezza, decadenza, il conte, poi deputato, Alessandro Dudan avvertiva: «Sarebbe un errore non lieve intendere per slavizzazione austriaca della Dalmazia una cacciata cumulativa degli italiani e la loro sostituzione con slavi, croati e serbi importati. Mutamenti etnici così radicali in una provincia intera - a meno che si voglia ricorrere alle distruzioni medioevali con il ferro e con il fuoco non stanno nelle forze nemmeno del governo più potente e non riescono nemmeno nel corso di molti secoli». E invece, metteteci due guerre e un governo di slavi con a capo un croato educato a Mosca e nutrito dagl’inglesi, dategli i benevoli protettori che ebbe, russi e francesi, inglesi e americani, e complici fino in Italia, di poco peso, ma significativi, Togliatti e tutti i suoi, e ciò che allo scrittore dalmata era parso

impossibile divenne una realtà geopolitica riverita e apprezzata dall’orbe civilizzato. I massacri in massa (chi abbia letto il terribile libro del Padre Flaminio Rocchi sa che a Zara si aggiunse un sistema molto marinaro di strage, l’annegamento di famiglie intere, genitori e figli legati insieme col filo di ferro) non tanto e non solo furono sintomi della «barbarie e brutalità balcanica», quale oggi i croati terrorizzati imputano ai serbi, ma mezzi di persuasione alla fuga in massa, che ripulivano il territorio e rendevano improponibili nel futuro i plebisciti, come allora si chiamavano. Al ruolo di prima vittima Zara era vocata dalla sua natura d’isola interamente italiana, abitata da italiani ingegnosi, coraggiosi, attivi. Già il Modrich, nel 1892, esortava a non confonderla col resto della Dalmazia, tanto le era superiore «in fatto di costumanze civili, occidentali... superba testa che, per i suoi lineamenti speciali, non si adatta alla natura del suo bellissimo corpo». Zara riuscì a conservare interamente italiano il suo Consiglio comunale fino alle soglie della prima guerra, mentre nel resto della provincia le violenze, i brogli e le sopraffazioni croate, incoraggiate dai funzionari austriaci, fecero cadere le maggioranze italiane cominciando, nel 1883, con Spalato, dove «i capi croati avevano nomi italiani» (si è visto, ai nostri tempi, in Alto Adige) e «addirittura non sapevano neppur parlare correttamente croato, come i Morpurgo, Caraman, Bulat». Caddero, l’uno dopo l’altro, i Consigli di Sebenico, Traù, Lesina, Cattaro. Ragusa conservò la parità coi serbi fino al 1900. Neresi, l’antica capitale veneziana della Brazza, Verbosca, Lissa caddero per ultime. A far cadere Zara ci vollero due guerre, la

distruzione e la strage. Cominciarono i tedeschi inferociti, dopo che l’armistizio di Badoglio gli ebbe consegnato Zara, come il resto d’Italia. 165 zaratini furono deportati, 11 fucilati. Quattromila morirono sotto i bombardamenti angloamericani cominciati nel Novembre del 1943, oltre duemila furono assassinati dagli slavi, tredicimila e cinquecento fuggirono in Italia. «Zara era un floridissimo centro, tutto italiano. Le famiglie slave erano dodici. Zara era una spina nel fianco dalmata, e per questo fu chiesto il suo sacrificio», commenta il Padre Rocchi in un libro che consiglio di guardare prima d’intonare i lamenti sui poveri croati vittime della barbarie balcanica.

*♦♦ Odo rivendicazioni, paragoni col muro di Berlino e le isole Kurili, confuse esortazioni a denunciare i Trattati di Parigi, del 1947, e di Osimo, del 1974. Il primo ci fu imposto quale conseguenza della sconfitta, e De Gasperi volle firmarlo nonostante fiere opposizioni, di cui il discorso di Benedetto Croce, Contro l’approvazione del dettato della pace, pronunciato all’Assemblea Costituente il 24 Luglio 1947, resta una delle poche pagine nobili nella storia parlamentare del dopoguerra. Il miserando Trattato di Osimo non ci fu imposto da nessuno, e proprio per questo fornì la prova della nostra morte storica, che tuttora perdura. Fu approvato da una Camera semivuota: era un venerdì e i deputati, disposti a rinunciare alla «zona B» del mai

nato Territorio Libero di Trieste, ma non al week-end, non andarono a votare. Neppure il presidente del Consiglio, Moro, trovò un quarto d’ora per una faccenda che riguardava cinquecento e ventinove chilometri quadrati di territorio giuridicamente ancora italiano, con le città di Capodistria, Isola, Pirano, Portorose, Umago, Cittanova e Buie. «Non faremo la guerra per cinquecento metri di terreno», aveva detto giocondamente il presidente Leone nell’Aprile dell’anno prima, e il paese fu d’accordo. Per il giusto peso della memoria, votarono contro, oltre ai missini, due, ho detto due, democristiani, un liberale, Durand de la Penne, e un socialdemocratico, Fiorentino Sullo, che si oppose all’allora segretario del suo partito, tale Ferri, che figura nelle cronache, per motivi che vorremmo un giorno chiarire, il più tenace tra quanti da anni e anni reclamavano che la ricca Italia del 1974 rinunciasse a quanto perfino il conte Sforza, nel 1947, era riuscito a non perdere. Dopo la sconfitta di Sedan e la perdita dell’Alsazia e Lorena, la diplomazia francese si dette una consegna, «Non parlarne mai, ma pensarci sempre», di cui due successive guerre mostrarono tutta la serietà. Perché, ripete il Montanelli, «per modificare i confini esterni ci vuole una guerra». Solo un’altra feroce guerra potrebbe rovesciare le sorti che costrinsero 350.000 italiani a lasciare le loro case e città dopo il 1945. Nessuna obiezione di principio. L’età della pace perpetua non è ancora nata. Hodie mihi, eros tibi. Ma ve l’immaginate, l’Italia che se la fa addosso davanti alla “minoranza” tedesca in Alto Adige, che abbandona Sicilia e Sardegna, Calabria e Campania,

nelle mani della delinquenza, che non sa venire a capo della mafia, che tollera l’Aspromonte come enclave sotto sovranità straniera; ve l’immaginate questa Italia, coi suoi politici, i suoi prefetti, i suoi giudici, i suoi militari, alle prese con professionisti della guerriglia, quali sloveni, croati, serbi? Né, francamente, i suoi figli sembrano migliori, in ogni senso, di quelli là. Né il paesaggio, le opere d’arte, i monumenti, i retaggi della civiltà e della storia, sono meglio tutelati da noi, che da loro. Mettiamo nel cassetto i ricordi e le rivendicazioni (ci pensi pure, chi vuole) per tempi migliori. Per quando, se mai accadrà, torneranno ad esistere una Nazione italiana, uno Stato italiano, che oggi non ci sono? Quando? Mettiamo fra mille e quattrocento anni, quanti ne corrono dalla caduta dellìmpero romano di Occidente alla nascita del Regno d’Italia.

Qui si svende

Nessuna opposizione alle rivendicazioni di Croazia e Slovenia

La slavizzazione minaccia ogni giorno di più la cultura italiana senza che i nostri governi intervengano per tutelarla Il futuro della minoranza italiana nei territori della defunta Repubblica jugoslava è il tema del convegno «La minoranza italiana nella exJugoslavia problemi e prospettive» promosso dal “Giornale”, che si apre oggi alle 15.30 al Park Hotel Suisse di Santa Margherita Ligure.

Mi accingevo a un commento, un riordino d’idee, dopo la folta giornata di studi intitolata «Istria e Dalmazia, un viaggio nella memoria», che a cura del «Coordinamento adriatico» e del «Libero Comune di Zara» si tenne nell’Aula Magna dell’università di Bologna venerdì 10 Marzo. E già mi pareva ardua impresa districare il viluppo di fili che numerosi interventi avevano attorto, e cercarvi una direttiva coerente. L’intera giornata ruotava intorno alla laurea, ad honorem e alla memoria, dello studente volontario Antonio Vukasina, di Zara, medaglia d’oro al valor militare, caduto il 7 Giugno 1943 difendendo il retroterra della città dai partigiani comunisti slavi, già protesi nell’avanzata che la resa dell’8 Settembre e la catastrofe del 1945 resero definitiva.

Nell’onore che lo Studio rendeva a un eroe italiano, nella cui scelta bolognese riviveva la predilezione del grande Irredentismo per l’università di Carducci, rievocata in uno splendido discorso di Arduino Agnelli, si chiudeva, spero, una grottesca distribuzione di lauree, in cui, per lunghi anni, lo Studio, corrivo donatore, più che guadagnar prestigio, ne dissipò in un costante sospetto di servilità e opportunismo pubblicitario. Chiusa l’ambigua sfilata del molliccio saccarosio di pace perpetua, ritrovarsi nel nome di Vukasina, attorniati dalle austere e liete drappelle dei Granatieri cui il giovane appartenne soldato, come Luigi Deserti che ora, dopo mezzo secolo, rievocava, da relatore, la figura del camerata e amico; e parlare di memorie e speranze italiane parve un’anticipazione di future primavere. Molto future invero, che non confortante, né promettente appare il raccolto del quinquennio passato dopo gl’invocati crolli: lo sfacelo della Jugoslavia, speculare alla disgregazione dei fautori e tutori; l’impero sovietico, sia esterno che interno, e il sistema di Yalta, in cui il perverso spirito di Versailles si rinnovò con la ratifica del bolscevismo sovietico, che a Versailles era mancata. È una evidente anomalia che lo sfacelo dello «Stato slavo del Sud, che fu capace di negare all’Italia la Dalmazia dopo la Prima guerra mondiale, e toglierle l’Istria dopo la Seconda» (AJ.P. Taylor, 1961), non abbia recato alcun beneficio allTtalia, contro cui l’esecranda creatura era stata concepita da numerosi padri e madri, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, la prima volta; e Unione Sovietica nella resurrezione, cui consenzienti o controvoglia a ritmi alterni assistettero o cooperarono gli altri.

Perduto ch’ebbe il gusto e il senso d’una politica estera indipendente, perduti la fierezza e perfino il buon senso utilitaristico della dignità statale, putrefatta dalla corruzione, fradicia di viltà, disfatta nell’anima da smemoratezza e ignoranza, l’orrenda Italia democratica assiste allo schianto della carcassa balcanica come se non la riguardasse; tentazione diabolica e fascista le parve l’idea di profittare di quel decesso d’una mortale nemica. Che anzi, in ogni modo, si adoperò ad aiutare, consolare, confortare, con una carità resa guardinga solo dall’avarizia. Si vide una gara, più che altro televisiva e verbale, grottesca in una nazione che non aveva saputo accogliere in fraternità i suoi veri fratelli esuli, a invitare drappelli di croati e sloveni, ricoprirli di coperte e medicinali, e chiamarli fratelli, quali mai furono, né vollero essere.

Quattr’anni fa, navigando con gli amici Fausto e Marion Marchi tra coste e isole di Dalmazia, scrissi sette corrispondenze che, a conti fatti, costituirono la riproposizione alla stampa nazionale della nostra frontiera orientale quale impegno morale, culturale e politico per il nostro futuro: «Un mostruoso mosaico si disgrega, una vasta poltiglia si rimette in movimento, una successione sanguinosa e lunga si prepara. Dominanti, nel giuoco, saranno ancora i due poli che Wilson escluse da Versailles: la Germania con la sua nuova ressa di satelliti, e la Russia, che dovrà ridisegnare ruoli e aspirazioni, a compensare la caduta dell’unione Sovietica. Quali saranno, nel giuoco, i ruoli e gl’interessi dell’Italia, se ancora ne esisterà una, nessuno può per ora vedere. Ma intanto, dovremo deporre gli slanci infantili

e sdegni risorgimentali, e smettere di parteggiare e spasimare per sloveni e croati che, nei giorni radiosi, usarono con gl’italiani dìstria e di Dalmazia la stessa civiltà che i serbi usano oggi con loro». Tali pensieri pubblicai il 18 Settembre del ‘91: senza illusioni, ma senza neppur prevedere che avremmo spregiato e perduto tutte le occasioni che una piccola storia, rimessasi a dipanare piccole matasse sulla nostra porta di casa, ci avrebbe offerto. Non potevo prevedere che l’abitudine alla soggezione servile, l’abdicazione ad ogni passata dignità e i nostri complessi d’inferiorità rispetto a popoli realmente inferiori per civiltà e numero, risorse economiche e culturali, organizzazione sociale, ci avrebbero condotto, nel 1995, a una condizione, nei confronti delle due repubblichette alla nostra frontiera, complessivamente peggiore di quella passata, nei rapporti con la Jugoslavia. La dilapidazione dei diritti residuali e delle occasioni fornite dagli eventi quotidiani divenne scempio quando accettammo senz’alcun esame le pretese dei due nuovi Stati d’esser considerati, senz’altro, ciò che pretendevano, Stati successori. Giuseppe de Vergottini, presidente di «Coordinamento adriatico», paventa che l’uso della lingua italiana, salvaguardato perfino nel Trattato del Lussemburgo, nel memorandum di Londra e in quel lurido scherzo di preti che fu chiamato Trattato di Osimo, venga presto reciso. La Corte costituzionale croata ha cancellato la parte dello statuto di autonomia della regione istriana che garantiva i diritti linguistici italiani. «Il bilinguismo», ammonisce de Vergottini, figlio d’un vero maestro,

è caposaldo da salvare, sia per gli italiani rimasti che per gli esuli, che tutti diverrebbero sradicati senza speranza, una volta privi della lingua madre». Ma, «nei fatti, il governo italiano ha accettato un progressivo abbandono della vigilanza a tutela della lingua»: senza che il «nuovo» governo di centro-destra abbia dato, nei suoi brevi e agiati mesi, segni di ripensamento. Il processo di slavizzazione dei nomi storici continua, nei mezzi d’informazione e nella cartografia italiana, incessante. Lo incoraggiano lo snobismo e l’ignoranza dei turisti. Non c’è cretino, in Italia, che non giudichi il raccontare d’esser stato a Dubrovnik più elegante che a Ragusa. È un paradosso solo apparente che Slovenia e Croazia riescano temibili a un’Italia che sembra, al loro cospetto, un gigante, e è soltanto una balena in putrefazione. Mentre l’Italia ha perduto volontà e dignità di nazione, le due selvatiche repubblichette, che vivono in epoche e temperature morali diverse, continuano a strappare, d’anno in anno, a fùria di prepotenze unilaterali e distrazioni nostre, più dolose che colpose, brandelli di sovranità e concessioni umilianti, preludi, alla lor volta, d’altre future umiliazioni. Il cerchio si chiude, torno all’attacco di questo articolo: «Mi accingevo...». Ma domenica, 12 Marzo mi franò addosso un «prisma» dov’era scritto tutto il contrario di quello che avevo sempre sostenuto in questo giornale, da che il crollo del sistema jugo-sovietico aveva riaperto prospettive e occasioni a nostre sia pur moderate e guardinghe aspirazioni orientali. Il prisma è uno strumento triangolare, di vetro o cristallo, che si usa negli esperimenti sulla luce e i colori. Maneggiato da un tale Robi

Ronza, a me e ai nostri lettori ignoto, proiettò una luce imbarazzante e francamente fastidiosa. Il 12 Marzo, la luce di quel prisma (tale il nome della rubrica) mi apparve a tal punto strana (ossia, estranea) che più volte rigirai le pagine a controllare se, per qualche improvvido scambio, non vi si fossero infilati fogli dell’“Unità”, o “Manifesto”, o “Avvenire”. La Slovenia, si diceva, è un piccolo Paese, e noi siamo 57 milioni; con la nazione slovena dobbiamo sentirci parenti, meglio coltivare «comune eredità e naturale tendenza all’integrazione economica e transfrontaliera» che insistere nella «rivendicazione dei torti reciprocamente subiti» e così via. Una volta, quando uno entrava in un giornale, si adeguava al tono con educazione e accortezza, per esservi accolto e stimato. Vecchi tempi. Ora prevale il «fatti in là, che vengo io, ve le do io le vostre fisime, roba nuova ci vuole», ecc. Spero che l’incidente sia chiuso, e la settimana prossima si possa riprendere un discorso adriatico.

L’assassinio della dalmazia

Adriatico ammutolito

Zara - È quasi imbarazzante entrare con una barchetta, tre persone e due cani, nel porticciolo turistico, filando davanti alla marittima gremita di aspiranti all’esodo. Son fuggiaschi del retroterra raggiunto dalla guerra, e benestanti di Zara, convinti che le minacce dei serbi della Krajna, di prendersi lo sbocco al mare nella loro città, si avvereranno. “Loro”, in verità, Zara può dirsi da neppur mezzo secolo, ché vi furono scaraventati a forza, da chissà quali abituri orientali, per riempire la penisoletta delicata e preziosa, fino al 1945 italiana al cento su cento. Nel Dicembre del 1943, la Royal Air Force la polverizzò, accontentando l’alleato Tito, che voleva cancellata la città, con le sue pietre, gli abitanti, e le memorie. Nel 1946, un mutamento di programmazione la salvò dalla prevista distruzione, con la dinamite, delle rovine superstiti. Così fecero i russi e i loro servi tedeschi a Berlino, con il Castello imperiale e altri avanzi sgraditi dell’edilizia passata. Pare che l’aliscafo per Ancona faccia ancora servizio. Ma gli orari delle partenze variano, secondo i giorni, dalle quattro di mattina alle cinque di sera, e potrebbero averli cambiati. Più che

ai piaceri dei turisti, dovevano servire alle escursioni d’una giornata di acquisti intensivi d’ogni pensabile merce, dagli alimentari ai ricercatissimi detersivi, dalle giacche a vento alle lampadine, dai medicinali ai ricambi meccanici. Ammucchiati tra bagagli e masserizie, ora scrutano le pagine del “Viesnik”, il quotidiano di Zagabria; l’aria rimbomba di radioline. Se non potranno salire sull’aliscafo, se li rimanderanno indietro, restano i traghetti per le isole che fiancheggiano la costa, coi villaggi turistici e gli alberghi deserti. Baderanno che abbiano la bandiera croata, banda rossa in alto e azzurra in basso, stemma a scacchi in mezzo al bianco, dove quella jugoslava, coi colori invertiti, ha invece l’odiata stella rossa. Come sia totale il deserto turistico, dice, paradossalmente, la ressa di scafi silenziosi che si affiancano nel porticciolo dove abbiamo ormeggiato: chiusi, incappucciati nei teloni cerati come i proprietari, tedeschi, italiani, austriaci, danesi, inglesi, li lasciarono per l’inverno. Sono una ventina, ben organizzati e poco costosi, i porti turistici di quello che si chiamava l’Adriatic Club Jugoslavia, e ora inalbera, fin sui pieghevoli dei prezzi (tutti in marchi, dalla pigione annuale della barca, al caffè nello snackbar “Orion”), il nuovo adesivo “Croatia”, con fondo a scacchiera. Di barche in movimento, tra arrivi e partenze, ce ne saranno cinque, o sei, sulle più che cento, i cui proprietari non si son fatti vivi. Ne beneficiamo noi, un po’ guardoni e un po’ incoscienti, decisi alle crociere di fine estate dalla sicura assenza del pigiapigia turistico. Quanto il calcolo egoista funzioni l’abbiamo

constatato dalla prima sera, rompendo il tetro sopore di uno dei pochi ristoranti rimasti aperti nel sobborgo di Nurvica. Sui nostri piatti di solitari e inattesi ospiti s’è rovesciata un’abbondanza di preziosi datteri di mare e scampi trionfali, che senza guerra era follia sperar. Celebriamo la dissoluzione della non amabile repubblica federativa con un festino innaffiato da “Grk” secco: “ardente”, lo chiama Ernst Jiinger in un breve Taccuino dalmatico del 1930, che sta nel mio bagaglio. «A Venezia, a Cesenatico, cinque piatti così costerebbero un milione», commenta ammirato Kostas, scultore bulgaro fattosi croato da una ventina d’anni. Lavora agli eterni restauri delle ferite monumentali, ostinatamente ancora aperte, mezzo secolo dopo l’olocausto aereo. Lavora, ciondolando come usa qua; in compenso non lo pagano. Sua moglie, analista all’ospedale, prende mezzo stipendio da alcuni mesi, e con quello vivono, con tre figli. Benché abbia “invalidato” dal Febbraio le leggi federali, e proclamato da fine Giugno la sua “sovranità”, da due mesi sia in stato di guerra reale con la Serbia, e virtuale con quella sua complice e garante che è la Jugoslavia, di cui nominalmente anch’essa fa parte, addirittura con un presidente federale da lei espresso, la Croazia non ha ancora osato il primo gesto della vera sovranità, battere, o, piuttosto, stampare, valuta propria. Le sono così vietate perfino le risorse dell’inflazione, l’intossicata abbondanza degli stati in sfacelo, di che sopravvivono Mosca e la sua omologa Belgrado. Si deciderà quando i suoi vocianti ma irresoluti capi avranno esaurito l’intricato scadenzario dei moniti e termini,

compromessi e moratorie, e constatato che di questa e quella «tregua» i serbi si sono serviti per impinguare i pegni che già tengono nelle mani, sono già un quarto del territorio croato, e diverranno presto un terzo. Il nostro egoismo non riesce, alla lunga, a vincere l’aria tetra del locale. A intervalli abbastanza regolari, compare questo o quello degli accigliati e baffuti camerieri, che comunica sottovoce al padrone, il quale vien subito premurosamente a tradurre per i gentili ospiti, che si sente sparare nelle vicinanze; in direzione di Nin, poi di Posedarje, di Obrovac, dappertutto. Forse i ribelli serbi si concedono puntate esplorative verso la costa, o piuttosto le armi, in mani troppo nervose, sparano da sole, alle ombre della notte. La Krajna è la vasta enclave serba a oriente della Dalmazia. È la punta meridionale di un corridoio a forma di falce, il cui manico sta a Belgrado, e la cui lama attraversa la Slavonia, aggira le ricurve frontiere della Bosnia-Erzegovina, e si protende fino ai retroterra di Zara, di Sebenico, di Spalato. Ma dentro questa vasta isola serba, che si allarga all’attigua repubblica bosniaca, c’è l’opposta enclave di Knin, che fu capitale dei croati intorno al mille, e i turchi strapparono a Venezia nel 1522, per poi muovere di lì, quindici anni dopo, nella successiva spallata contro la fortezza di Glissa, che cadde alla fine di un assedio che fece epoca a quei tempi, e fu ripresa nel 1648, con un’altrettanto memorabile campagna, da Leonardo Foscolo, l’indomito ri conquistatore della Dalmazia. Capriccio vagabondo, la storia si diletta talvolta a ritornare nei luoghi che rese celebri. Non si ripete, ma certe sue mosse

danno nel già veduto. L’attacco dei turchi dall’interno verso la costa si rinnova nella spinta dei ribelli serbi, appoggiati dall’Armija federale. Negli ultimi cinquant’anni, la baraonda dei residui storici si è ancora complicata coi miscugli e scambi forzati di popolazioni che dovevano accelerare l’impossibile amalgama, e col crescere spontaneo delle periferie industriali accanto alle città. Protette dal mare, rimasero immuni dalle migrazioni, spontanee e forzate, le isole che formano «il ponte tra Istria e Dalmazia», scriveva il nostro geografo, Giotto Dainelli in una raccolta di saggi che ha la fatale data del 1915: l’anno che, lusingati dal Patto di Londra, segreto ma non tanto, con la sua promessa, poi non mantenuta, della Dalmazia, i nostri governanti, incalzati dall’ardente piazza, corsero, come al solito, a vincere la guerra che, come al solito, credevano già vinta dai nostri nuovi e potenti alleati. «Stretta tra il mare e la montagna è la Dalmazia, e par quasi che tra il mare e la montagna premuta da forze potenti, essa sia tutta rotta in lembi, in frammenti staccati, attraverso ai quali il mare ha formato una infinità di piccoli e grandi canali. Una sottile fascia è rimasta come attaccata ai piedi dei monti; lunghe e sottili, le isole la costeggiano, dirette parallelamente alla linea di riva, quasi staccate violentemente dal continente... Tra Zara e Spalato la fascia dalmata si allarga sempre più, per poi restringersi, a poco a poco...». È verso questa breccia che premono gl’invasori, privi di propri sbocchi al mare, come prima del 1914. La Serbia vera e propria è lontana, e la repubblica di Bosnia-Erzegovina che sta nel mezzo

le è manifestamente ostile, se non sembra disposta a lasciarsi attraversare. Ma il suo pezzo di Krajna è pronto a sollevarsi come quello di Croazia; ecco la lama del ricatto che Belgrado impugna nei confronti della vicina, a maggioranza musulmana. Sanno, per dura esperienza, gli albanesi del Kosovo, il vero popolo martire di questa Jugoslavia che sta crepando, che cosa possa una minoranza serba ben decisa, sia pure il dieci per cento che domina da loro. Il giuoco delle minoranze e delle enclavi, l’una dentro l’altra, l’una a ridosso dell’altra, consente di combinare il lavoro del cuneo e quello della macina. Dove l’uno penetra, l’altra allarga. Quel che i guerriglieri locali, comunisti o monarchici, conquistano, l’armata federale, nominalmente imparziale, conserva, con l’aria di controllare i vari «cessate il fuoco». Non aver osato denunciare la falsa supposizione che l’Armata federale sia imparziale, anche a costo di rompere le trattative, potrà costare alla Croazia, ormai quasi spaccata in due, un altro bel pezzo di territorio. L’episodio dei due aerei che i Mig federali hanno costretto ad atterrare nell’aeroporto della capitale croata, che così si è rivelato, al culmine della crisi, una nuova enclave serba, senza che Zagabria, osasse impegnare battaglia, è stato un sinistro esordio della «tregua» appena conclusa. Ormai è chiaro che con tutto questo arruffato guerreggiare la Serbia arraffa territori che non restituirà, oppure scambierà con altri, contigui, o più vantaggiosi. Enormi scambi di popolazioni, si preparano esodi e stragi. Se ancora in Giugno i serbi decisi a lasciare la Croazia dove vivevano erano soltanto duecentomila

su seicentomila, il clima di odio coinvolgerà tutti gli altri, e Belgrado fa del suo meglio per attizzarlo. Dalle rovine della Jugoslavia federativa riemerge l’antico progetto della Grande Serbia. Questo fu assorbito dal suo stesso successo. La Jugoslavia così come inglesi, francesi e americani la generarono nel 1918, fu una Serbia immensa, cresciuta oltre ogni speranza. La direzione serba fu assicurata, nella prima edizione, dalla dinastia dei Karageorgevic; nella seconda dalla persona di Tito, che credette sufficiente contrappeso all’equilibrio la sua nazionalità croata. L’Unione Sovietica fornì al tempo stesso la minaccia esterna che trattenne le insofferenze interne dall’esplodere, e la salvezza artificiosa e bizzarra di un’economia marcia dalle radici. Tolto il tappo della paura russa, la schiuma avvelenata delle allergie reciproche, dell’intolleranza, della gelosia e dell’odio, si sparse intorno. Lentamente, ma irresistibilmente. Nulla è più falso di affermazioni come quella sull’odio, che tra serbi e croati sarebbe atavico, secolare. I due popoli, lavorati da esperienze storiche diverse, sudditi di imperi ostili e reciprocamente impenetrabili, si ignorarono nei secoli. L’odio e l’intolleranza nacquero da quando ideologi e letterati indigeni, e poi statisti stranieri in vena di inventare nazioni e stati, li obbligarono a convivere, e li scaraventarono gli uni sugli altri intimando: «E adesso, amatevi». Non si amarono, come i cechi e gli slovacchi, altri estranei secolari, rimessi insieme a forza. L’odio, che prima non c’era, nacque tra le due guerre e celebrò i suoi fasti nella Seconda guerra mondiale, fu uno dei frutti più velenosi prodotti dalla pace di Versailles.

La grande Serbia. Il mito infranto

Fine d’estate sull’Adriatico morente

Primosten - Sbocchiamo di prima mattina nel canale di Zara, c’infiliamo a vela nello stretto passaggio tra le isole Uglian e Pasman, doppiamo Zut e impieghiamo buona parte del pomeriggio a costeggiare la lunghissima Kornati, così ridotta la veneta Incoronata. Gettiamo l’ancora per la notte nell’insenatura di una delle tante Capri mediterranee; così si chiamava nei vecchi portolani questa Kaprije, la cui capitale, un centinaio di casupole, metà nuove e non finite, sparse a casaccio in un’insenatura incantevole, la spiaggia sciatta e sudicia, la gelateria “Don Pietro”, il “Duty Free Shop”, che qua credono un nome molto chic per negozi e supermercati, senz’alcun riscontro col significato originario, gli alberghetti, tutto, insomma, anche le locali sciantose, par pronto per la commedia turistica, che, tuttavia, non comincia. La guerra si è allontanata, se non ci fosse la radio, non ne sapremmo nulla. Le isole, ossute e cespugliose, appaiono disabitate. Solo se punti il binocolo sulle sommità, vedrai avanzi di torri veneziane, fortini di chissà quali guerre, rabberciati con muretti di sassi per tutte le successive, con in cima bandiere sventolanti, la solita scacchiera. Verso mezzogiorno, mentre

navighiamo alla volta di Primosten, un approdo a Sud di Sebenico dove il meccanico che ha riparato il motore deve raggiungerci in automobile da Zara per un supplemento di riparazioni, la fresca brezza è lacerata da due elicotteri che volano bassissimi e subito scompaiono dietro uno dei tanti isolotti di questo mare deserto. C’è là una base dell’Armata federale. Nella caligine della lontananza appaiono tre navicelle grige e uguali, piccoli scafi militari, ma la bruma ce ne nasconde le bandiere. Saranno della flotta serba, che non ha più approdi a nord di Cattare, mentre la Croazia, che è ancora proprietaria della costa, in compenso non ha flotta alcuna. Incrociamo uno dei tanti traghetti in servizio tra le isole. Il capitano deve essere di osservanza belgradese, a giudicare dal tricolore con la stella rossa che si tiene a poppa, e tuttavia ha creduto prudente, navigando in queste acque, alzare anche quello con la scacchiera croata, sul pennone dove stanno le bandiere «di cortesia». Verso l’una, siamo sotto Primosten (Capocesto nelle vecchie carte), che sembra un promontorio assai grazioso, con una cala rientrante in un boschetto di pini e cipressi, vagamente bockliniano. Da vicino, si rivela guasto da un’edilizia balorda e sciancata, la cui idiozia fa perfino rimpiangere le imprese dei nostri geometri, diplomati e laureati. Il culmine panoramico è occupato da un enorme cimitero, irto di lastroni di marmo nero e lucente; tombe di gran lusso, scopriremo poi, per i paesani emigrati in America, che qui ritornano, nelle loro casse, per farsi inumare davanti al mare di casa.

La litoranea, ornata di sterpi, immondizie, e rifiuti sparsi, sarebbe la passeggiata dei turisti, se ce ne fossero. Nelle estati normali, mi dicono, qui si avanza a spintoni. Percorriamo le vie della cittaduzza: la vecchia edilizia dalmata, dimore in sasso a secco, tetti in lastre di pietra chiara di una povertà severa, senza grazia e senza pretese, si sfascia nell’abbandono, la nuova la schiaccia e la umilia, bastarda, scema. La nomenclatura turistica sfoggia un italiano servile e sgangherato, il bar si chiama «Fortuna», vistosi cartelli offrono «spageti», milanesi e boloniesi. Ma ristoranti e trattorie sono chiusi, tranne uno nella piazzetta, che serve un prosciutto dalmatico, delizioso quando sia ben stagionato e, aggiungerei, un tantino rancido. Il deserto dei turisti è riempito da un folto, gommoso e scuro, di gente che, diresti, non sa neppure camminare, ma si trascina, rotola, incespica, nel berciare di una ragazzaglia assordante, e lo spetezzare di un’automobiletta azzurra con su scritto Milicija, che va e viene spargendo pestilenziali nuvolette di gas azzurrino, su cui s’affaccendano tre improbabili difensori armati di mitra, uno coi capelli legati a crocchia. Sulla Riva, intitolata, mi pare, all’antifascismo, si accalcano gente, valigie, fagotti. Sono profughi dall’interno, spiega Branko, il meccanico finalmente arrivato in automobile; un bellimbusto gioviale, tra il torero e l’attore di fotoromanzi, che poi ci trascina a conoscere certi suoi parenti, nel cui piccolo appartamento, dentro un sudicio boschetto, tra nugoli di tafani, si pigiano gli ospiti. Un tizio in canottiera con grossi baffi giallastri si rivela per dentista; sua moglie, una cognata, una vecchia, madre o suocera.

Un’insalata di etnie, come si dice adesso; lui è croato, moglie e suocera sono serbe, la cognata ha sposato un montenegrino, che però non c’è. Parlano tutti insieme, esprimono sentimenti incerti, confusione, stupefazione, soprattutto paura. Terrore, anzi. Son qui senza capire bene perché. Non li muovono sdegni, fierezze, quei sentimenti che la retorica vuole nei «popoli». Ma che popolo, sono disgraziati contro disgraziati, Knecht gegen Knecht, direbbe Ezra Pound. Sono scappati perché scappavano tutti, perché avevano paura di essere ammazzati. Da chi, non sanno. Forse dai serbi, forse dai croati, chi siano i nemici non sanno, loro hanno di tutto in famiglia. La televisione, massimo volume, trasmette, secondo la gran moda dal Golfo in poi, la guerra «in diretta». Ma che guerra, è un curioso miscuglio che si sminuzza dalle vere operazioni per il possesso di una città, di un territorio, alle faide regionali, paesane, rionali, alle vendette aziendali e famigliari. L’annunciatore sfoggia una tuta mimetica nuova di trinca, e quasi t’aspetti che abbranchi il mitragliatore e si metta a sparare sugli spettatori. Commenta scene marziali, impuberi fucilieri impugnano armi in pose epiche, case e campanili sfondati, sforacchiati, carri armati e automobili bruciano, autobus di traverso, Mig sfrecciano fischiando, politicanti in giacca e cravatta vanno e vengono, brindano, parlano, il ministro della difesa in tuta mimetica, anche lui. Poi la guerra s’interrompe, e viene uno spettacolino patriottico, un coro di signori e signore tutti in costume, fisarmoniche, strumenti vernacoli, canzoni strazianti, che quelle napoletane, al confronto, sono modelli di riserbo, appelli in inglese alla

comunità internazionale che salvi la libertà della Croazia. E, per finire, eccovi la crudeltà del nemico, un’antologia per cannibali, un campionario raccapricciante di corpi che furono umani, mutilati, sforacchiati, bruciacchiati, pesti. È davvero difficile, in così bassa macelleria, riprendere la toga e parlare di storia. Eppure, qualcosa che le somiglia si muove dietro quest’obitorio senza riscatto. Con buona pace di cristiani e progressisti d’ogni risma, la storia non procede in linea retta. Si concede soste, giravolte, ritorni. Il rivoluzionario si scandalizza se gli dici che revolvero vuol dire ritornare indietro, e ogni revolutio è un ritorno. Questa volta, la storia avanza (e quanto impetuosamente lo vedete, da due o tre anni a questa parte) in senso retrogrado, e par che si diverta a distruggere quel che credevamo avesse costruito per i secoli. Dopo aver distrutto Yalta, continua, e par che voglia scavare e strappare radici più lontane. Non è revisionismo, come continuano a etichettarlo i suoi inservienti. È molto di più, è un’inversione, un rapinoso moto contrario, che travolge Versailles, tutti i suoi tronconi avvelenati che ancora continuano ad esigere il rispetto delle frontiere, l’intangibilità fittizia di ciò che è in realtà putrefatto. Certo, la guerra non scoppierà, stavolta, per Serajevo o per Zagabria, l’asse ha fatto un giro. Ma guarda come si riproducono certi schieramenti. L’Austria e la Germania si ritrovano automaticamente dalla parte degli antichi lembi dell’impero austriaco e ungherese, l’America, l’Inghilterra e la Francia spasimano fino alle lacrime perché la loro creatura sia in

qualsiasi modo risparmiata, ma la caduta dell’unione Sovietica la condanna specularmente, per mimesi irresistibile. Come lassù si torna indietro, oltre Versailles, oltre Brest-Litovsk, alla ricerca di radici che si affondano prima della Grande Guerra, come si chiamava, anche qua il fantasma della Grande Serbia torna a consolare e eccitare gl’insaziabili di sempre a Belgrado. La Grande Serbia era un ideale andato in soffitta perché la Jugoslavia era molto di più; come l’Unione Sovietica era molto di più di qualsiasi impero che gli zarri di Moscovia potessero sognare da quando comparvero fuori dal loro tardivo medioevo. Ma ora, che i sonni dei Gorbaciov e degli Eltsin sono turbati dalle ombre autocrati che tornano minacciose a domandare che cos’abbiano fatto dellTmpero che avevano ereditato, la Grande Serbia ritorna a Belgrado come argine alla rovina della Jugoslavia cucita a Versailles e ricucita da Tito. È il nocciolo duro del frutto demagogico marcito e spappolato. Le sue radici si affondano, prima delle Guerre Balcaniche, prima perfino del Congresso di Berlino, che nel 1878 riconobbe uno Stato serbo indipendente e sovrano. Eroica e selvaggia, la Serbia contadina insorse, nel 1804, contro i quattro Dahis che dalla fortezza di Belgrado la governavano, e avevano fatto tagliare la testa, «per pacificare il paese», ai suoi capi. La lunga lotta contro i Turchi aveva fatto nascere la figura del hajduk, il bandito gentiluomo, protettore dei poveri e degl’inermi, e su questa si modellarono due stirpi simili e rivali, i Karadjordje, così detti da Djordje Petrovic, ossia Giorgio il Nero, e Milan Obrenovic che, in una serie di insurrezioni domate nel sangue, e rinnovate trattative con la

Porta declinante, riuscirono a strappare l’autonomia, e infine l’indipendenza. Nel 1867, il pascià di Belgrado consegnò al principe Mihajlo le chiavi della cittadella in cui si era chiuso. Tra il 1804 e il 1914, su nove monarchi, quattro furono assassinati e quattro cacciati dal trono. L’ultimo degli Obrenovic, Alessandro, fu assassinato nel suo letto, con la consorte, nel 1903. All’ingrosso, si può dire che gli Obrenovic fossero strumenti dell’influenza austriaca, e i Kardjordjevic di quella russa. Quest’ultima divenne dominante a Belgrado, dove intanto era sorto un Partito radicale, guidato da Nicola Pasic, un antico seguace di Bakunin che dall’anarchia e dal socialismo era passato a un nazionalismo estremista, austrofobo e russofìlo. Pietro Gerbore, indimenticato maestro di storia moderna, ha narrato, in un saggio oggi irreperibile, l’intricata vicenda che va dal congresso di Berlino alla Prima guerra mondiale, e ebbe per centro le ambizioni austriache verso la Bosnia-Erzegovina. «Dall’eccidio del 1903 in Serbia emersero due gruppi: l’uno, militare, includeva i regicidi Dragutin Dimitrijevic e Voja Tankosic, l’altro, politico, faceva capo a Pasic e era dominato dai Radicali. Costoro scossero la Serbia. Sostenevano che senza un vero e proprio accesso all’Adriatico sarebbe rimasta economicamente dipendente dall’Austria. Comprendevano i vantaggi derivanti dall’esistenza di correligionari ortodossi della Monarchia Asburgica e da un’alleanza con la Russia. Entrambi i gruppi bramavano il potere: per se stessi all’interno, per la Serbia all’esterno... L’annessione della Bosnia-Erzegovina li defraudò di un sogno,

d’una speranza: videro in ciò una nuova barriera eretta alla loro marcia verso l’Adriatico». Come l’irredentismo della Grande Serbia facesse nascere l’idea dell’unione di tutti gli slavi meridionali (o jugo-slavi); come l’Italia entrasse nel giuoco, scatenando quella guerra di Libia dalla quale uscirono le guerre balcaniche; come gli studenti serbi e croati, convenuti a Belgrado nel 1912, acclamassero «Re degli Jugoslavi», e questi ricambiassero gl’inattesi nuovi aspiranti sudditi col saluto di «Fratelli Croati»; come il colonnello Dimitrijevic rivelasse gli scopi dell’organizzazione segreta a membri scelti di una delegazione dalmata tra i quali Oscar Tartaglia, sindaco di Spalato. E come, un atto di terrorismo dopo l’altro, Dimitrijevic riuscisse a coinvolgere nelle spire dell’irredentismo serbo la politica dellTmpero Russo, sono i passi che si succedono a precipizio, fino all’ultimo atto di terrorismo che fece perdere la testa ai reggitori dell’Austria; sono altrettante tappe del processo per cui i protettori di Dragutin Dimitrjevic, a Pietroburgo, indussero lo Zar, che già vi era stato ben spinto dal presidente francese Raymond Poincaré in visita, al gesto che fu la causa, immediata e inevitabile, dello scoppio della guerra: quella che la New Cambridge Modem History chiama «la fatale mobilitazione russa». Quel che poi avvenne fu soltanto conseguenza.

Olivi senza zecchini

Al primo approdo nelle isole selvagge, l’occhio circoscrive e respinge, tanto si è preparato all’idillio, lordure e rifiuti che ricoprono il calcare tagliente della riva. Nel fondo dell’insenatura di Zut, tra quattro stamberghe ci attrae la dimessa lusinga di un «Grill Subani», divoriamo orribili zuppe e pesci sine nomine in entusiastica rinfusa. Ci avvolge la macchia di lauri lucenti, salvie a distesa, rosmarino grigio, temibili rovi con minuscole more. Subito si stabilisce un dialogo a distanza, un continuo raffronto con le brevi pagine scritte da Ernst Jiinger nel 1930, il solo testo letterario che valga la pena di tener d’occhio viaggiando in queste contrade: «L’ardente sterpaio, paesaggio di cespuglieti e prunai impenetrabile allo sguardo, interamente soffuso d’un mirabile profumo asciutto e aspro, che si intensifica, negli avvallamenti e nelle conche, fino a stordire». Ci arrampichiamo sull’acropoli, breve e ben costrutta, nei suoi giri di rocce squadrate; spontaneamente uniformi, ossia senza la mano dell’uomo, in tale ordine, che viene alla mente l’idea di Pausania, che le mura ciclopiche, e la porta dei Leoni a Micene fossero opera dei «Giganti».

*** Entro conche profonde, riparati dal vento, crescono fichi nani, coi frutti appesi e tutt’intorno, ridotti arbusti, lecci, lauri, olivi e poi, ginepri, mirti, corbezzoli. Assaggiato, il rosmarino riempie la bocca d’un dolce incenso, la salvia è piccante, il ginepro agro e profumato. Due muli e un bardotto femmina circolano in comitiva discreta sotto i pini. La femmina ha un pelo soffice e bigio, una striatura sul filo della schiena, un’altra, trasversale, lungo le costole. Non afflitti dalla soma, non guasti da crudeltà, hanno passi miti e gentili, l’occhio tumido, malinconico, fondo. Se si rompono le zampe, da non potersi salvare, gli spaccano la testa con una pietra, e così li finiscono. Una carcassa giace disfatta in una forra; aperta, nel suo tragico equino, la grande dentatura bianca evoca un ovvio ricordo figurativo, che scaccio con fastidio. Sul culmine della piccola fortezza naturale, i «fiumi di efifluvii» invisibili si fondono nel salso marino, le resine, i balsami, gli olii vaganti dei fiori.

*** Innumerevoli le isole appaiono spoglie alla distanza. Il gran numero e il sistema politico le hanno salvate dal divenire copie della Sardegna, coi porticcioli falso mediterranei. Se ti avvicini, vedi intricati labirinti di muri a secco, paralleli, regolari, non sempre nell’istesso senso. Si arrampicano sul monte dieci, quindici strisce parallele alla costa, e subito dopo principiano a

salire perpendicolari. Lavoro immane di generazione di Sisifi, non è tuttavia quello solito, dalla penisola amalfitana alle pendici del Reno e della Mosella, di sistemare in terrazze e riportare a monte la terra che le piogge trascinano in basso. In un’isola alta forse cento metri, distingui trenta di questi muri in senso longitudinale, e ancora un intrico d’altri in tutti i sensi, fin che capisci: sono frangivento, culle, custodie per proteggere gli alberi, stanze erette per gli olivi, ormai sterminati e declinati a cespugli contorti. Non più Venezia paga uno zecchino per ogni olivo piantato, nessuno trova più utile curare piante e raccolti. Disabitate, le isole soccombono a brevi occupazioni turistiche, di cui resta una lebbra di plastica, bottiglie, taniche, ciabatte, a orlare la desolata testimonianza di una fatica umana perduta. Su di una punta dove il mulinello dei venti doveva turbinare più intenso, i muretti appaiono come fondamenta, messe a nudo, di un fortilizio espugnato. Jiinger chiamava «sane» le case costruite con semplicità naturale. Non ci sono più case sane. Come da noi, anche qui la linea della tradizione è spezzata. Rimbombarono le invettive contro la tenacia conservatrice, l’immobilismo delle tradizioni. E invece, sorpresa della nostra età, è come fossero labili e mal radicate. L’Europa meridionale agonizza e muore per lo schianto delle tradizioni. Leopardi l’intuì quando scrisse, nello Zibaldone, che il tempo del Settentrione gli pareva venuto. C’è, nel villaggio, una sola casa “sana”. Bigia di pietra, col camino a torretta di progenie veneta. Poteva far di modello, e invece resta avvilita tra l’orgia dei poggioli, terrazzini, archi

d’ogni possibile sesto sguaiato e stravagante, i pilastrini dipinti in giallo e viola, le statue di cemento. Resistono, sui culmini, i nidi di sasso. Forti e fortini, senza più età, rinzaffati a ogni guerra. «Le rovinate torri di guardia della vecchia Repubblica Veneta» riescono ormai irriconoscibili dai «posti abbandonati dell’impero germanico d’Oriente, la cui catastrofe avvenne ai giorni nostri», e commoveva il laureato eroe delle Tempeste d’acciaio. E ancora, dai posti abbandonati di più nuove catastrofi, anch’essi monumenti pietosi dell’umana fatica di vigilare, aspettare, e invano scrutare un mare vuoto, da cui nessun invasore venne, che su altri lidi i dadi di ferro furono gettati.

♦♦♦ Sfioriamo una barca di pescatori, ritirano le reti vuote. Fausto grida se hanno pesci da vendere, e quelli, che cent’anni fa avrebbero risposto in veneto, gridano «too late», già venduto ad altri naviganti. Scartiamo tre o quattro approdi difficili, entriamo in una caletta perfettamente tonda di rocce traforate e aguzze, solcate da vene di quarzo rosso-bruno, orlata d’una folta chiostra di pini. Itur in antiquam silvam, avanziamo ignudi come i compagni di Enea tra tafani furenti, bitorzoluti e neri, che ci avvolgono minacciosi. Dove il bosco dirada, si alzano immensi mucchi di sassi, larghi e vasti come case, di età e scopi misteriosi. Scacciati dai tafani, torniamo agli scogli. Il martin pescatore, forte becco puntato come una lancia, tanto è concentrato nell’agguato, che non lo scuote il fracasso d’un elicottero

«federale» a volo radente verso l’isola Solta. Riappare la motobarca dei pescatori, offrono un supplemento di pesca, due naselli, una coda di rospo, una piccola aragosta. Sparano mille dinari; «è un affare, per loro e per noi», dice Fausto che compra, paga, e si dispone a ripartire. Dopo tre ore ci attrae un anfiteatro elegante che s’apre nella scogliera. Il sasso frastagliato concede scarsa terra all’onnipresente pino che ora striscia quale arbusto, a miniature di cipressi, tuje, lecci, con appese minuscole coccole rotonde e ghiande lucide e brune come ambra. Svettano esagerati gli steli cavi delle cipolle selvatiche coi globi rosei fioriti dall’odore intenso. Ginepri, rosmarini pungono le narici, ne affastelliamo un grosso trofeo che ci accompagnerà, appeso al borna, per giorni. I muri a secco tagliano ora due losanghe regolari d’una cinquantina di metri alla base, e forse duecento nell’erta. Qui il lavoro si rivela ben più imponente di quanto sospettassi. All’esterno, i muri perimetrali sono alti il doppio che dentro, dove la petraia è stata rimpellata, colmata di terra rossa scavata o portata di fuori, e questa poi ricoperta d’altri sassi, così che n’escano solo le piante di vite, non sia luogo per le erbacce invadenti, la terra non ricaschi giù, e le radici siano riparate dall’ardore della petraia. La terra è fresca e umida, lì sotto, nonostante l’esposizione e il secco, che dura da molto. Sulla sommità, due capanne, cilindri di sasso ricoperti da cesti intrecciati di tralci di vite. Accanto è una vasca, azzurrina per il solfato di rame che vi sciolgono, e alcuni passi più a basso una

cisterna che, aperta, si rivela piena a metà d’acqua freschissima, e poi che manca all’intorno ogni traccia di gronda o canale, appare un mistero tecnico, tal quale apparve a Jiinger, che dal significato di cisterna dedusse un simbolo latino, opposto a quello germanico, di sorgente. L’ordinata accumulazione e conservazione, e l’irruente indomabile prorompere, che è poi la distinzione di Thomas Mann nelle Betrachtungen, tra l’opera d’arte “formata”, alla latina, e quella “cresciuta” per spontanea forza, tedesca. Mi accerto che un guardiano o proprietario dell’eroica vigna non sia pronto a scacciare l’intruso, e saltellando da un filare all’altro, m’empio le braccia di grappoli strappati con fatica, che si rivelano un miscuglio, come un taglio preordinato, d’uve diverse, una Malvasia color giada pallido, un Sangiovese violascuro, e un rosato tenero e dolce, a me ignoto. Scendo con la baldanza d’un Sileno ladruncolo, e casco dentro una conca rosata. Come in uno spreco minerale, il valloncello è ricoperto del solito quarzo rosa, ma con un lusso di scaglie lucenti, che ora brillano in grumi polposi e rotondi; ora, minuti e biancastri, esibiscono le dure radici della striscia cristallina. Nell’arsura esplode una feracità vegetale e minerale che, sotto la banda scura del bagnasciuga, s’affonda negli anfratti dove palpitano i pomodori di mare, le attinie color vermiglione dalla codina frastagliata, i ricci viola indaco protendono al sole che li scalda a traverso l’acqua, aculei più tesi, pesci neri, le castagnole, dondolano ancheggiando, si lasciano raccogliere nel cavo della mano e poi sfuggono, e uno più piccolo, carminio lucente, con due vane cravatte rosse ai lati della testa,

s’immerge verso il fondo, chiaro d’una fitta trama d’alghe posidonie. Bolliti in acqua della cisterna, con dentro un gran grappolo d’uva, i pesci hanno soavità primordiali. Ci sentiamo compagni d’Ulisse in ritardo. Alla piccola aragosta preparo una salsa d’acqua, olio, rosmarino potente, e vino bianco.

Il partigiano caccia il leone

L’ODIO MONUMENTALE

Il vicepresidente serbo Branko Kostic accusa per radio «migliaia di croati, i quali non hanno minimamente a cuore le bellezze architettoniche di Ragusa», di voler far saltare alcuni monumenti, per poi incolpare ‘T Armata”. Altrettanto verosimile è l’accusa dei croati ai serbi, di non amare e non capire i tesori della città contesa, che bombardano. Infatti. Lo stesso scambio dei nomi denuncia un furto toponomastico e un sopruso, legalizzato nei decenni recenti. Nessuno si sarebbe sognato, un secolo fa, di chiamare la città col nome coniato dalla tribù croata dei Dubroni, così detti per i boschi (dubrava) da cui scesero. Supplicato di asilo, il Senato della Repubblica ragusea concesse agl’immigrati un sobborgo, che chiamarono Dubrovnik, il villaggio dei Dubroni. Il paguro spoglia il proprietario della sua dimora, ma non sa privarlo del nome. Dubrovnik, è come se Roma avesse preso per nuovo nome quello di un Quarticciolo, di albanesi o marocchini. Nell’isola di Lesina, Gelsa apre il piccolo porto leggiadro, incorniciato da una prima linea di palazzetti a due piani. Le finestre con le gelosie, gli obelischi sui muri di cinta, i portali bugnati, la proporzione delle linee, l’equilibrio dei volumi

parlano da soli. Invano lo scalpello, strumento principe della slavizzazione edilizia, ha cancellato insegne e simboli; Venezia circola nell’aria come un profumo. «Dominas custodiat introitum taum et exitum taam», augura, in bel lapidario romano, un portale datato MDLXI. La parola centrale del motto è interrotta, con chiastica precisione, dal simbolo, elegantemente scolpito dentro un occhio, della mano che scrive. «Latina e italiana fu la cultura dei meno incolti», avvertiva il Dudan nel suo libro. Uccidendo l’italiano in Dalmazia, l’Austria si è comportata come gl’inglesi a Malta. Ha ucciso la lingua superiore, veicolo di superiori pensieri, costringendo il pensiero dei nativi a strisciare, appiccicoso e oscuro, per vicoli mentali smozzicati, indecorosi. Si sfasciano, a Verbosca, le piccole dimore sulla marina, lungo le rive di quello che crederesti un fiumicello verso la foce, e è invece l’ultimo tratto del porto canale, come li scavavano i veneziani, per rinnovare le scene della loro città: le rive, le fondamenta, i ponticelli, come questo a tre archi, che par d’essere a Chioggia, a Comacchio. Crolla, sfondata nel soffitto, l’amabile osteria, dall’insegna sbiadita, bottiglia e rosso bicchiere, le porte finestre coi davanzali in forma di banco da mescere come si fecero in Italia da Pompei in poi. «I singoli giardini divisi da mura diroccate» che Jiinger lodava, versano cascate di pietre nelle selvette imbarbarite. Al crollo dell’estraneo antico risponde la crescita del nuovo in istile bastardo turistico, amatissimo. Tane finis erit cam Leo victus erit, piansero nelle chiese quando il Leone fu vinto. A Zara le bandiere di San Marco furono portate

in processione e deposte al cospetto del nuovo padrone come reliquie sull’altare maggiore. A Perasto, il purpureo gonfalone fu sepolto quasi un corpo santo, sotto l’altare: «Per ti in perpetuo sarave stae le nostre sostanze, el sangue, la vita nostra, e piutosto che vederte vinto e disonorà dai toi, el coraggio, nostro, la nostra fede, se averave sepelio sotto de ti. Ma za che altro no resta da far per ti, el nostro cor sia l’onoratissima to tomba, e el piu puro e el piu grande to elogio le nostre lagrime». Solo in Dalmazia ebbe Venezia morte decorosa e degno epicedio. Avrà forse un giorno il suo poeta la strage dei Leoni di Dalmazia. A Zara i tedeschi se ne andarono in silenzio il 29 Ottobre 1944 e i partigiani slavi, scrive il Padre Rocchi, «non trovando nemici si scatenarono in una caccia grottesca contro i Leoni veneziani. Si videro soldati armati di martelli e di sbarre, correre sulle rovine, arrampicarsi sulle scale, affacciarsi alle finestre e ai balconi, entrare nei palazzi gentilizi, scalare le porte monumentali. Caddero i Leoni di Porta Marina, di Porta Terraferma, della Torre della Gran Guardia. I loro spazi, svuotati nelle cornici preziose, ancora sbavano liquami colorati e colle, dalle stelle rosse e dagli altri ammennicoli, che allor vi ficcarono, del bazar bolscevico e slavo. A chi viene dal mare, Traù si presenta con la mole esagonale del suo torrione merlato. Bastò cambiargli una lettera, per rifarlo slavo; lo chiamarono Kamerlengo, in puro bastardo. T’illude il superbo Leone, sulla parete troppo alta e liscia per le loro audacie. È il solo rimasto. Il massacro dei Leoni di Traù, fu perpetrato in tempo di pace, alla fine del 1932. «Città scultura,

cristallo nella cui struttura urbana sono scritti come su un palinsesto tutti gli avvenimenti», come la chiamò un affranto professor Ivo Babic in una lettera a questo giornale, Traù reca nel suo palinsesto anche questa provocazione a freddo, questo gesto di odio monumentale, preludio d’altri massacri. «Nessuno di voi può immaginare la barbarie e la brutalità balcanica», supplica oggi il croato. Ma nel massacro di pietre del 1932 croati e serbi furono ben concordi. Tutti i Leoni furono abbattuti e asportati. Grattate e scavate, col metodo organizzato di lavori pubblici statali, le lapidi coi nomi italiani delle vie, le dediche, le memorie. Grattate e lasciate in sito. La città è senza nomi, muta come in un rovello, kafkiano, pirandelliano, quel che volete. Sedici sono le lapidi bianche e mute solo sulla facciata, del venezianissimo Comune, irto d’araldica. La Loggia di Curzola si apre dentro la Porta di Terraferma, il cui interno i curzolani rifecero nel 1650 quale meravigliosa nicchia, contesta di marmi romani, per la statua del provveditore Leonardo Foscolo (chissà dove è finita) che, battendo i turchi, li salvò dalla delizia d’essere infilzati, impalati e squartati. Al posto del Leone che sovrastava il banco dei giudici, sta ora, capolavoro della scultura croata, una targa di bronzo dove un membruto partigiano ignudo sgozza il Leone. Sfigurato a martellate, privo del volto, il Leone di Curzola giace in un canto, nel luogo stesso del suo sacrificio. «Le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite, le xe sempre stae per ti, o San Marco; e felicissimi sempre se avemo reputà, ti con nu, nu con ti; e sempre con ti sul mar nu semo stai

illustri e virtuosi; nissun con ti n’ha visto vinti e paurosi», dice il congedo di Perasto. «San Marco, San Marco, cosa importa se si muore», cantarono gli ultimi difensori di queste terre. «Sui leoni l’abbiam giurato, per la nostra libertà». In fondo, tutto torna. E la data «19411945» sulla targa consacra, con un simbolo appropriato, l’awenuto scambio di culture. Provvederanno altri a festeggiare il prossimo.

*** «Molto mi affliggo invero e mi sgomento degli slavi, che vi minacciano così da vicino; mi affliggo per quello che già con voi patisco; mi sgomento, perché già per la via dell’Istria hanno cominciato a penetrare in Italia», rispondeva Gregorio Magno, nel Luglio dell’anno 600, all’arcivescovo Massimo di Salona che gli mandava gravi notizie sull’invasione che si stava abbattendo sulla Dalmazia, romana da sei secoli di spirito, di cultura e di lingua, di cui Diocleziano aveva fatto la spina dorsale dell’impero. La consolazione che il Papa offriva all’angustiato arcivescovo era ancor più tristemente profetica: «Non vi affliggete troppo, nonostante tutto, giacché chi vivrà dopo di noi, vedrà tempi peggiori».

Il mostruoso mosaico

Fine d’estate tra passato e presente

Traù - Che la guerra si avvicini, lo dice la radio, ma intorno a noi è vuoto e silenzioso. Ormeggiamo solitari alla bianca riva, davanti alla Porta Marina dei Veneziani. Con un salto scendiamo nel gioiello di queste contrade: biondo, sereno, tra una folla di bandiere con la scacchiera bianca e rossa. Il vuoto diventa irreale nelle calli, i passi dei nostri piedi, appena calzati, rimandano echi fruscianti. Dietro le superbe facciate, l’isoletta monumentale nasconde sbratti e macerie, che non son lasciti di bombe inglesi o americane. Traù era ben “slavizzata” all’epoca, a furia di scalpelli, e non parve necessario annientarla. Sono le conseguenze della sciatteria, del disamore, della reciproca inconciliabilità tra dimore veneziane e vivere croato. Si legge come uno scherzo mancato che, nel Gennaio 1919, il dottor Ante Trumbic, delegato croato alla Conferenza di Versailles, voleva dare al nascituro Stato il nome di «Dalmatia», invece della sigla «S.c.s.» (Serbi, Croati, Sloveni), che gli pareva di cattivo augurio. Lo racconta colui che poi divenne Sir Harold Nicholson: un personaggio oggi ricordato più per la sua unione coniugale, omosessuale lui, omosessuale sua moglie Vita

Sackville-West, che il figliolo da lor generato narrò in Ritratto di un matrimonio: un libro che l’Inghilterra ha divorato «con passionalità selvaggia», mentre nessuno più ricorda quello del padre, Peacemaking (ossia, Far pace), la più straordinaria cronaca, dall’interno, di un tentativo fallito di pace eterna. Mentre lo Stato Ses cucinato a Versailles e ricotto, con aumenti, a Yalta, va per la seconda e definitiva volta in pezzi, giova rievocare l’atmosfera in cui fu generato: «Più che i nostri vecchi nemici, noi avevamo in mente i nuovi paesi che sorgevano dai loro esausti lombi. Le nostre emozioni ruotavano piuttosto intorno al mondo nuovo, che al vecchio. Il pensiero della nuova Serbia, della nuova Boemia, della nuova Polonia, faceva cantare ai nostri cuori inni sulle soglie del cielo...». Nel 1944, combattendosi la «Second German War», Sir Harold scrisse una nuova prefazione, dando la colpa dell’insuccesso all’iniquità degli uomini. Ora che la nuova Serbia, perso il boccone sloveno, dilania l’arrosto croato, la sedicente Macedonia spia l’occasione per tagliar la corda senza troppi danni, e Bosnia-Erzegovina e Kosovo aspettano di veder la sua sorte per filarsela alla loro volta, vai la pena di ricordare la felicità del Presidente Wilson per poter mettere al mondo un’Europa di suo gusto, proprio quando le due potenze che avrebbero potuto sollevare obiezioni erano in fondo all’abisso: la Germania, umiliata al punto di dover sottoscrivere la sua sola responsabilità della guerra, e la Russia guarita daH’imperialismo al punto di liberarsi spontaneamente delle antiche conquiste.

Dai primi attimi, regnò sulla Conferenza quel filoslavismo che parve a Giorgio Sorel «un curioso effetto della pazzia borghese moderna». Nicolson confessa «una passione (a passion) per lo Stato jugoslavo». Luigi Aldrovandi Marescotti scrisse che «Wilson, quando sentiva nominare il trattato di Londra (che prometteva la Dalmazia all’Italia) s’incupiva e una contrazione spasmodica gli percorreva parte del viso». Ray Stannard Baker, poi biografo di Wilson, osservò che «i nuovi stati erano, già prima di nascere, più aggressivi e imperialisti dei grandi che avevano combattuto la guerra». E tuttavia, le loro forsennate pretese apparivano, ai demagoghi delle democrazie, veniali intemperanze di promettenti frugoletti. Le illusioni di Nicolson ricevevano quotidianamente insulti dal «tetro Trumbic», dal «very imperialist» Voshniak, «uno sloveno che pretende l’Istria, Klagenfurt e Temesvar». Ma più lo divertiva «il dolore del barone Sonnino nello scoprire che americani, inglesi e francesi guardano questi slavi liberati come la pecorella smarrita, il cui ritorno rende tutti felici». Arrivati a Parigi, i delegati italiani dovettero rifiutare di sedersi allo stesso tavolo coi croati, sloveni, e con quei serbi, i cui avanzi, governo, soldati e quadrupedi, la Regia Marina aveva salvato attraverso l’Adriatico, dopo che le campagne lampo di Mackensen e Falkenhayn ne avevano fatto magistrale piazza pulita, e ora menavano il giuoco, spingendo i «fratelli» settentrionali a pretendere Trieste, e la frontiera all’Isonzo. Idealisti e panslavisti italiani si adoperarono per mettere al mondo un mostro, «uno Stato slavo del Sud che fu capace di negare all’Italia la Dalmazia dopo la prima guerra mondiale, e

toglierle l’Istria dopo la seconda», concluse A. J. P. Taylor nell’Europa delle grandi potenze, del 1961. La conversione slavofila della classe dirigente italiana fu bizzarra e improvvisa. Per tutta la durata della guerra, il governo aveva guardato con diffidenza all’idea di quel regno degli slavi meridionali sotto egemonia serba, già programma ultimo degli assassini di Serajevo e, in definitiva, spregevole pretesto per l’assassinio dell’Europa. Non si era ancora imposta la soluzione estremista, pura e semplice, distruzione della Duplice Monarchia. La rotta di Caporetto gettò la classe dirigente italiana in un turbamento rovinoso. «Fu un destino», scrisse uno storico austriaco, il generale Horstenau, «che, come la rivoluzione russa, anche l’imponente vittoria di Caporetto, con l’apparente sollievo che portò alle potenze centrali, riuscisse ad un effetto nettamente contrario, soprattutto nei confronti dell’AustriaUngheria». Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918, il rigoglioso traffico dei fuorusciti slavi, che dal 1916 avevano tribuna nella rivista “New Europe” e profeta nel professore Robert William Seton Watson, un precursore scozzese delle “teste d’uovo”, progettista, ostetrico e balia di Cecoslovacchia e Jugoslavia, trasferì la sua bottega sul Campidoglio. Nulla poterono le ansie di Sidney Sennino, ministro degli Esteri, per la prospettiva di sostituire alla declinante potenza austriaca un nuovo vicino violento, rozzo, gonfio di pretese, contro entusiasmi e demagogie che, come tre anni avanti, ebbero il sopravvento. Il «Congresso romano dei popoli oppressi» si aprì il 9 Aprile 1918 sotto la presidenza del senatore Ruffini, con delegazione

jugoslava (Trumbic e dodici deputati serbi), ceca (Benes e altri), polacca e romena, e una folta rappresentanza italiana, da Salvemini e Mussolini a Bissolati e Borgese, Amendola e Ojetti. Lo Stato Maggiore scorse nel movimento un ausilio utile a scardinare il mosaico di popoli ancora in armi sotto la Monarchia. Nel nostro errore, esiziale per una nazione già formata (non ci cascò la Francia, che pur rivendicava l’Alsazia e la Lorena) d’imbrancarci con quel gregge di schiavi scappati, riaffiorava l’eterna immaturità di un pensiero rancido che, rimescolando slanci sentimentali e retoriche in ritardo di un secolo, impedì all’Italia una visione di politica estera. Per quanto disgustoso riesca ricordarlo, la Jugoslavia nacque, in quanto idea statale apertamente espressa, in Campidoglio, come nostra «sorella» di oppressione e liberazione. E tale fu l’equivoco sulla parte degli slavi del sud nella decisione della guerra, che, mentre una storia pubblicata a Belgrado, 1946 (Oko Trsta, Intorno a Trieste) rivendica il ruolo dei disertori slavi nella vittoria italiana del Piave, in un libro di un tale P. D. Ostovic, stampato a New York nel 1952, si legge che «le dodici offensive dell’Isonzo, preparate dall’Italia con immensa superiorità numerica, furono spezzate dalla resistenza delle truppe jugoslave»; i reggimenti croati e sloveni che, sotto le vecchie bandiere, già difendevano la nuova madrepatria dalïinvasione italiana. A fine Ottobre del 1918, un deputato Rybar raccoglieva i giuramenti di quei reparti, il Consiglio nazionale sloveno proclamava Trieste e regione «parti della madre jugoslava»

(«The idiots claim Trieste!» registrò Nicolson, scosso nei suoi sogni) e i nostri marinai trovavano, nelle basi istriane e dalmate, che le navi contro cui avevano combattuto e vinto, si sottraevano alla resa proclamandosi appartenenti a un nuovo Stato, e alzando una bandiera, la «jugoslava» che, protestò Orlando, «non era stata riconosciuta da alcuna potenza». La neonata sorella aveva denti lunghi in rapida crescita. Il 22 Dicembre 1918, nel parlamento di Belgrado si inneggiava alla «nazione slava del sud, con naturali frontiere dall’Isonzo a Salonicco», comprese Gorizia e Trieste, l’Istria e Fiume. Dovemmo difendere quanto restava dell’Austria, come ben sa chi abbia scorso diari e relazioni della Conferenza. Al presidente Wilson gli jugoslavi presentarono una carta geografica falsificata, «nella quale la catena delle Caravanche, che ancor oggi divide la Jugoslavia dall’Austria, risultava spostata di parecchi chilometri a nord, per includervi Klagenfurt e l’intera Carinzia». Ma se, bene o male vittoriosa e costretta a rinunciare alla Dalmazia, l’Italia potè rintuzzare le pretese più folli, la neonata monarchia Ses si gonfiò mostruosamente di territori ungheresi, austriaci e romeni, e ottenne un pezzo di quella Macedonia che Austria e Germania avevano promesso alla Bulgaria. Questa riuscì ad acciuffarla nel 1941, al primo smembramento della Jugoslavia, per restituirla, dopo tre anni, a Tito. Le aspirazioni bulgare tornarono a dormire e riapparvero, sotto tutela sovietica, nella contesa tra Belgrado e Mosca. Si rifaranno vive presto, come molte altre.

La Jugoslavia fu il solo stato, oltre all’Urss, che uscisse dalla seconda guerra mondiale con vasti aumenti territoriali, che l’avvolsero di rivendicazioni e rancori, di cui Tito conobbe appena gli esordi. Delle sei repubbliche, la sola dove l’antica influenza russa resti attiva, è la Serbia. Legata dinasticamente e politicamente alla vecchia Russia, ne fu lo strumento nei Balcani. Dopo Brest-Litowsk, sostituì alla protezione russa l’aumento di potenza che le conferì la guida di un gruppo di nazioni slave gonfiate dal soddisfacimento indiscriminato di tutte le loro aspirazioni territoriali. Da prima che lo stato nascesse, le altre nazioni lottarono contro la supremazia serba. Nel 1917 il comitato croato di Trumbic, da Londra, denunciava le pretese egemoniche del governo serbo di Nikola Pasic, abbastanza comiche se si pensa che era rifugiato a Corfù, con le stesse espressioni che gl’inabili dirigenti della boccheggiante Croazia rivolgono oggi contro Belgrado. Per compensare la perdita delle repubbliche sorelle, la Grande Serbia arraffa i loro territori e costringe col terrore gli abitanti alla fuga. Sistema crudele, antico e redditizio. Un mostruoso mosaico si disgrega, una vasta poltiglia si mette in movimento, una successione sanguinosa e lunga si prepara. Dominanti, nel giuoco, saranno ancora i due poli esclusi da Wilson, la Germania con la sua nuova rosa di satelliti e la Russia, che dovrà ridisegnare ruoli e aspirazioni per compensare le perdite dell’unione Sovietica. Quali saranno, nel giuoco, i ruoli e gli interessi dell’Italia, se ancora ne esisterà una, nessuno può per ora vedere. Ma intanto,

dovremmo deporre slanci infantili e sdegni risorgimentali, e smetterla di parteggiare e spasimare per sloveni e croati che, nei giorni radiosi, usarono con gl’italiani d’Istria e di Dalmazia la stessa civiltà che i serbi usano oggi con loro.

Qui c’era gente che pensava e sognava in latino

Nella barbarie balcanica lordata dal lurido slavo

Boi - Siccome significa, in lingua turca, montagne, il nome Balcani si addice, non meno che al Continente, alla schiera delle isole strette, attorno alla costa, ciascuna con la sua alta schiena gibbosa, talune dai sistemi montuosi complessi, come la Brazza, «la più ricca, più montuosa, più popolata... La più alta vetta s’erge a 822 metri. Tra monti minori, si estendono valli e pianure ubertosissime, dove l’agricoltore rubò all’avara natura ogni palmo di terreno...». Furono, invece, le isole, orgogliosissime del loro nome di Dalmazia, che dei Balcani finì col significare lo speculare opposto, a cagione della civiltà e finezza di vita e costumi, ignote a tutto quanto si stende a oriente del Velebit e delle Dinariche. Furono, dico. Perché, scomparsa la presenza italiana, non maggioritaria ma superiore, e perciò unificante, è raro ormai incontrare qualcuno, cui tali storia e civiltà parlino ancora un linguaggio cosciente e vivente. L’uomo di cui racconto è un croato, e l’ho incontrato a Boi, sulla costa inferiore della Brazza, verso cui mettemmo la prora della barca dopo una notte nel porticciolo turistico di Milnà, cittadina di linee graziose, ora sporca e puzzolente. Assenti gli

stranieri per cui fu fatto, il caffè del porto è divenuto circolo del generone locale, vociante, in gara tra signori e signore, fino al primo mattino. Fuggimmo con sollievo, su quello che le vecchie carte chiamano lo «Stretto delle porte di Spalato», tra l’attigua Solta, l’Olintia dei greci, celebre per le api e il miele, e la Brazza, di cui bordeggiammo la scoscesa costa meridionale, verso Boi, dove mi spingeva, col miraggio di una «pala del Tintoretto», il libro da cui ho tolto le citazioni di prima, e m’era divenuto compagno favorito, Dalmazia Romana Veneta Moderna, scritto in forma di viaggio, che un dottor Giuseppe Modrich, colto medico di Zara, pubblicò presso il Roux di Torino nel 1892, dedicandolo «a Ruggero Bonghi, scrittore e statista insuperato». Vi si trova una sintetica definizione, magistrale nella sua ardua onestà: «Quando s’è detto che la Dalmazia è un paese slavo, abitato da serbi e croati, orlato da oasi italiane e su cui la civiltà e la lingua italiana impressero traccie gloriose, s’è resa giustizia alla storia e all’etnografia. Chi pretendesse di più da un pubblicista spassionato e sereno, commetterebbe atto di scortese violenza...».

*** E violenza già crepitava, in quella fine di secolo, tra i partiti della provincia: l’autonomo, ché più non osava chiamarsi italiano, e i due slavi: il croato, trionfante e maggioritario, sostenuto da Vienna, dove mandava già sette deputati su nove, sovente nobili austriaci o generali dell’armata imperiale; e dai preti,

predicanti nelle chiese contro gl’italiani che «tenevano il Santo Padre prigioniero» (in Vaticano), e dagli alti prelati, capitanati dal vescovo di Djakovar, il ricchissimo Giorgio Strossmayer, il cui nome l’ignaro turista trova ad ogni svolta di strada, e da quelli di Veglia, Vitesich, e perfino di Trieste, il Dobrila, instancabile sobillatore dei croati e sloveni d’Istria, che tutti si affaccendavano a cancellare ogni traccia italiana. Si vide perfino un pubblico rogo, in piazza, della Divina Commedia. Tale virulenza del cattolico clero in prò dei croati eccitò l’emulazione dei greci-ortodossi, che dettero vita a un partito serbo, specialmente attivo nel Sud del paese, «onde si teme che lo spirito di parte tra queste due frazioni della stessa razza possa degenerare in lotta religiosa». Le pedine erano già sul tavolo, un secolo fa. Il convento domenicano di Boi sorge al centro d’una penisoletta scoscesa. Saliti dal piccolo imbarcadero, ci accoglie un giardino rustico, ma ricco e ombroso. Sotto i rami di pini secolari, stanno distese nelle sedie a sdraio e leggono signorine grassocce, con quelle gambe bianche ch’erano, anche da noi, inconfondibili delle case di vacanze clericali. Suore vanno e vengono con scope e involti. Superiamo un brutto refettorio oblungo, e siamo nella corte, all’ombra del campanile. Al centro di un piccolo lapidario, in un portico a inferriate, poggia la stupenda urna cineraria in marmo, che la cuspide, in forma di tenda castrense, rivela sepoltura di un ufficiale romano. Poco innanzi, mentre indugiamo davanti alle vetrine del vicino museo, si affianca a noi, silenzioso, un signore alto, sui settanta, un poco ricurvo, sguardo mite e curioso, che prende a

indicarci, con voce sommessa, gl’incunaboli, le pergamene, i documenti. Il Tintoretto annunciato è modestissima cosa di scuola, eppur certamente della sua scuola, che l’ordine di pagamento ancora esiste, di «ducati 200 per la pala dell’altar maggiore». I registri dei conti, delle messe, delle funzioni, sono in italiano fino al primo terzo dell’ottocento. Napoleone, quando mise fine alla Repubblica di Venezia, non ebbe dubbi e incorporò Istria e Dalmazia nel Regno d’Italia. Poi la chiesa croata e i maestri del contado, istigati e guidati dalla burocrazia austriaca, si adoperarono a metter su una borghesia croatotedesca che sostituisse gl’italiani come classe dirigente. «La resistenza della lingua italiana fu tenacissima», dice il nuovo compagno. «Io sono della Brazza, Brac in croato. Anche la famiglia di Tommaseo veniva di qua». Il suo italiano ha una qualità letteraria che non si sente più in Italia. È forse professore di lettere? Sorride, dolce e mesto. «Insegno latino e greco, finché mi terranno, nel Liceo di Spalato. Noi parlavamo sempre italiano, in casa, per le cose importanti, cose di cultura. Il croato si parlava per gli affari pratici, di poco conto. Ora, tutto è finito, perduto. Traduco gli umanisti dalmati del Rinascimento...». Non dice «per consolarmi», ma se ne coglie il suono. Mi aggrappo al solo nome che conosco: «Già, il Lucio, che era di Traù. Abbiamo visto la sua casa ier l’altro...». «Il Lucio è uno», risponde, «ma erano tanti», e mormora altri nomi, ma così a bassa voce che non li sento. «Erano gente che realmente pensava, e anche sognava, in latino. Il latino era vivo, qua. Come in

passato i latini, impoveriti, persi i legami con le città e ridotti al contado, si facevano slavi, i morlacchi, così c’erano slavi che compiendo il percorso inverso, elevandosi ai ceti superiori cittadini, diventavano italiani; ancora nella mia infanzia, d’uno che s’era incivilito in città, si diceva polatinio se, si è fatto latino. Ecco perché Tommaseo parla delle «due lingue» degl’italiani, dalle quali ebbe «luce all’ingegno e ineffabili consolazioni deH’anima», e ne parla come di due lingue viventi insieme, quali non erano forse più per gl’italiani colti della sua epoca... Voglio credere che sempre saranno ai Dalmati care, e gli aiuteranno a più potentemente scrivere e più sapientemente stimare la propria... Certo, era un sogno romantico. L’Italia maestra alle genti slave, attraverso la sua figlia Dalmazia, ch’egli sentiva e chiamava nazione».

*** Il naufragio della civiltà italiana cominciò col 1866. Finché l’Austria, col possesso del Lombardo-Veneto, potè credersi, almeno in parte, uno Stato italiano, rispettò il carattere superiore della cultura italiana in Dalmazia. Ma con la perdita del Veneto, Vienna decretò la morte politica degli italiani, col sacrifìcio della borghesia e della civiltà cittadina al numero del contado slavo. In più, si aggiunse una conseguenza paradossale e non voluta. Fino al 1866, i ragazzi della borghesia colta, istruiti nelle scuole medie italiane delle città, passavano, senza uscire dal territorio dellTmpero, a Padova, dove si addottoravano in italiano, come il Tommaseo e centinaia d’altri. Dopo il 1866,

l’università dei dalmati fu ordinariamente Vienna; e intanto, evento inevitabile dei nuovi tempi, l’istruzione cessava d’essere monopolio cittadino. L’istruzione obbligatoria, l’apertura delle scuole elementari nel «montano», ossia le campagne slave fino allora illetterate, la conseguente slavizzazione delle scuole secondarie, sgretolarono, si può dire anno dopo anno, una supremazia che, nei quattro secoli di Venezia, era rimasta incontrastata. «Come vede, è storia vecchia. Le guerre e le terribili paci fecero il resto... Sì, caro amico, è tutto finito, non tornerà più», e fa un gesto con la mano aperta a traverso del viso, come chi scaccia visioni e ombre; si scusa, saluta, sparisce nel piccolo refettorio, naufrago, come me, come noi, di un mondo inabissato. Potrebb’essere sua la lettera apparsa in questo giornale giovedì 3 Ottobre, firmata dal professor Ivo Babic di Spalato, un altro che si sente sprofondare e invoca aiuto contro «la barbarie e la brutalità balcaniche». Si sente dalmata, anche lui, non balcanico. Balcanici sono sempre i nemici da est, gli altri. Gli hanno dato risposte furenti, quelli che sono dovuti fuggire quando i barbari balcanici erano croati. Poche volte quella rete di errori e di bizzarrie che chiamiamo la storia si è altrettanto perversamente ingarbugliata, poche volte apparve confermata la terribile sentenza di Hegel, esser la storia, «la lotta del giusto contro il giusto».

MANUALE PER IL COMA ETERNO

ClORAN: FUORI DEL TEMPO.

“Cadere dalla eternità nel tempo fu, finora, la regola. Ma si può cadere più in basso: cadere perfino fuori del tempo. Non è affatto escluso che questa esperienza diventi, un giorno, di individuale, un fatto che ci riguarderà tutti...”. Da quando nel 1960 la conobbi e mi entrò nella mente, controllo l’avanzata di questa profezia nell’esistenza che viviamo. Il suo autore, Emile Michel Cioran, viveva allora il cinquantesimo anno della sua esistenza. Heinz-Norbert Jocks lo aveva battezzato “uno dei più totali pessimisti del secolo”. Era nato in Romania nel 1911. Morì a Parigi dov’era esule e asceta nel 1995.

La cartella dove ammucchiavo i sintomi della sua elegantissima disperazione divenne, in mezzo secolo, uno zibaldone del futuro che ci soffocava e avrebbe finito col distruggerci. Non cercate più dove sia finita l’Italia. Quella che avete rimpianto e ancora sperato e aspettato, è morta. Non ritornerà.

La parola Fine non c’è perché il Coma sempre più profondo, durerà decenni - anzi, secoli.

1 Piero Buscaroli, Beethoven. Milano, Rizzoli, 2004, pp. 205-215 e 480-493. 2

Alfredo BArBAcci: il guasto della città antica e del paesaggio, Le Monnier, Firenze,

1962.

3 Da un Giornale di bordo del 10 Febbraio 1942, “Corriere della Sera” del 10 Luglio 1960.

4 Sottolineato da Soffici a penna. 5 Ardengo Soffici - Giuseppe Prezzolini, Diari 1939-1945, Le edizioni del «Borghese», Milano, 1962, pagg.113,188,190 nel volume da me curato, P. B. 6

Diari, cit. pag. 193.

7

Diari, cit., pag. 195.

8

Diari, cit., pag. 195.

9

Diari, cit., pag. 198.

10

Diari, cit., pag. 201.

11 Da un Giornale di bordo, nel “Corriere della Sera” il 6 Febbraio 1960. 12 Da un Giornale di bordo, con data 28 Ottobre ’58, nel “Corriere della Sera” il 4 Maggio 1959.

13 Da un Giornale di bordo, con data 19 Aprile, nel “Corriere della Sera” il 2

Ottobre 1961. 14 Nei Promessi Sposi, l’erudito Don Ferrante opina che, non essendo «né sostanza, né accidente», la peste non esista. 15

Carteggio Cecchi - Praz. Prefazione di Giovanni Macchia. Milano, Adelphi,

1985. 16

Carteggio, cit., p.149.

17

Carteggio, cit., prefazione, p. XIX.

18 Mario Praz, Esperienza dannunziana, in Motivi e figure, Torino, Einaudi,

1945, pp.105-110.

19 Non reticente, né ostile, Enrico Falqui seguì attentamente la crescita di

Praz scrittore. Basterebbe l’articolo nel “Tempo” di Roma, del 22 Ottobre 1972. 20 Carteggio, cit., pp. 144-5. 21 Storia della Letteratura Italiana. Direttori: Emilio Cecchi e Natalino Sapegno.

Volume Nono. Il Novecento. Milano, Garzanti, 1969. Su Praz, pp. 681-3. Sistemato il maggior saggista italiano con due pagine, il Cecchi ne concesse

dieci per ciascuno a Pavese e Gadda, quattro per ciascuno a Brancati, Elsa

Morante, Gianna Manzini e Bonaventura Tecchi. Ma dove lo squilibrio innato del malriuscito arnese diventa grottesco, è nella “Bibliografia

generale” dove per due righe concesse a Praz, ce ne sono quattro per un tale Descalzo, cinque per Arpino, sei per Silvio D’Arzo, sette per Bassani, nove per Delfini e Fenoglio, tredici per Piovene, ventidue per Vittorini, e

via crescendo fino alle mezze pagine a testa elargite a Carlo Cassola e Italo Calvino. Emilio Cecchi non vide compiuto il suo monumento, ma aveva preso le misure con previdenza, perché a lui «un testimone del suo e nostro tempo» (e chi non lo è, infine?) sono consacrate le pagine da 731 a 748, di cui una intera di bibliografia. Vane precauzioni, perché il tempo che svela

la verità, secondo una delle divise predilette da Praz, rimette a posto, prima

o poi, anche le bibliografie. 22 La Casa della Vita, nuova edizione, Milano, Adelphi, 1979, p. 431. 23 Casa della Vita, Vita delle cose, “Il Giornale”, Milano, 6 Febbraio 1980. 24 La Casa della Vita, nuova edizione, cit., p. 429.

25 «Alors, votre grand-Bach, domandò: quanti anni?» Risposi quattro o cinque,

e lui, «Dommage, non riuscirò a vederlo». Nonostante la vanità, non cercai di trattenerlo sul “grande Bach” che Mondadori ancora ristampa dopo 23 anni, per il fastidio degl’intrugli misteriosofici e, assai peggio, religiosi.

26 Inediti sono ancora numerosi dattiloscritti completi, per migliaia di pagine.

INDICE DEI NOMI

ACCAME Giano, 206

ADENAUER Konrad, 161 AFELTRA Gaetano, 205

AGNELLI RATTAZZI Susanna, 432, 434 ALFIERI Vittorio Enzo, 140, 337, 344, 346 AMALDI Edoardo, 237 ANFUSO Clarissa, 347 ANFUSO Filippo, 347, 361, 362

ANSALDO Giovanni, 291

ARCANGELI Francesco, 322 ARCANGELI Gaetano, 59

ARGAN Giulio Carlo, 228, 229, 323 ARPINATI Leandro, 304, 305

ATATÜRK Kemal, 362 ATTOLICO Bernardo, 83

BABEUF Gracchus, 13,14

BADOGLIO Pietro, 63, 94, 295, 315, 425, 501, 513, 519 BAILLY Jean Sylvain, 16

BALDWIN Stanley, 88 BANDINI Franco, 64

BAQUE James, 462 BARBACCI Alfredo, 103,105, 453, 454

BARDÈCHE Maurice, 300

BARILLI Calimero, 290, 304, 305 BARONCINI Gino, 298, 304

BARTJean, 52 BATTISTI Cesare, 17, 200

BAVIELLO Davide, 217 BEETHOVEN Ludwig van, 22, 23n, 344, 364, 367, 427, 449

BELLONCI Maria 189 BENOIST-MÉCHIN Jacques, 215, 359, 360, 363, 364-366, 368-371, 377 BERGAMINI Carlo, 65-68

BERIO Luciano, 347, 348 BETHEL Nicholas, 462-464, 466, 468, 469, 485, 486, 506-508

BIAGI Enzo, 163 BIANCHI-BANDINELLI Ranuccio, 339

BISSOLATI Leonida, 148, 550 BLUM Léon, 176

BOCCA Giorgio, 274, 275 BONAPARTE Napoleone, 37, 213 BONAVERI Giovanni, 304, 305

BONCHAMPS Charles, Melchior Artus, 30

BONGHI Ruggero, 17, 50, 555 BONOMI Ivanoe, 93, 220 BONTEMPELLI Massimo, 50,141

BORGHESE Junio Valerio, 67, 69 BORN Max, 239

BRASILLACH Robert, 215, 300 BREGEON Jean-Joël, 15

BUCCHERI Vittorio, 212

BURCKHARDT Jakob, 51,108, 300, 318, 329 BUSCAROLI Corso, 337

BUZZATI Dino, 189 CAIDIN Martin, 471

CALVESI Maurizio, 323 CANCLAUX Jean Baptiste, 34 CAPOTE Truman, 255

CARBONI Giacomo, 62, 425 CARDARELLI Vincenzo, 290, 293, 301, 306, 307, 308-312, 433

CARDINI Franco, 379 CARDUCCI Giosuè, 316, 522

CARNOT Lazare, 17, 38 CARRIER Jean-Baptiste, 15, 17, 22, 23, 42, 45, 58

CASSON Felice, 208 CAVAGNARI Domenico, 63, 64, 69 CAVALLARI Alberto, 118

CAVOUR Camillo Benso, 70, 93,138,141,144,163 CECCHI Emilio, 294, 310, 312, 351-358 CERVI Mario, 219

CHARETTE de la CONTRIE François-Alphonse, 12-14,17-37, 39-41, 44-48, 52-54 CHARLES Noël, 90 CHATEAUBRIAND, François-René de 23, 58, 360

CHIRAC Jacques, 25 CHU En Lai, 174

CHURCHILL Winston, 57, 60, 64, 69, 80, 81, 163, 269, 300, 451, 453-455, 457, 463, 464, 468-470, 472-474, 476, 480, 483, 484, 486, 488, 493, 496, 502, 504

CIANG Kai Schek, 169,176, 418

CIANO Galeazzo, 87, 90, 92, 291, 304

CINI Vittorio, 328

CITATI Pietro, 349 CLEMENCEAU Georges, 32, 52 CLODIUS Cari August, 90, 91 COCCHIA Aldo, 66

COCHIN Augustin, 32 COCKCROFTJohn, 120

COLLIVA Paolo, 315, 318 COMISSO Giovanni, 309 CONRAD Philippe, 32

CORDAY Carlotta, 38 CORDELLIER Jean François, 54

COTTEREAU Jean, 30

CROCE Benedetto, 72-78, 83,140, 221, 224, 296 CUNNINGHAM Andrew, 60, 66, 68

CURTIUS Ernst Robert, 367 DANTON Georges Jacques, 16

DAUDET Leon, 51, 57,190 DAVIES Nigel, 168, 490, 491, 502, 503, 505-507 DE BERNARDI Mario, 6

DE GUSTINE Adam-Philippe, 37 DE GUSTINE Adolphe, 37 DE FELICE Fabio, 141, 318 DE FELICE Renzo, 141

DE FROTTÉ Louis, 18 DE GASPERI Alcide, 77, 78, 220, 520 DE GAULLE Charles, 23, 25, 26, 57, 61,161, 236, 350, 363, 366, 385, 397,480 DE QUINCEY Thomas, 356 DE VILLIERS Philippe, 25, 55 DEHIO Ludwig, 215

DE LA ROBRIE Hyacinthe, 42, 44

D’ÉLBEE Maurice-Louis-Joseph, 17, 30, 36, 38, 41, 43, 44, 46, 47

DESMOULINS Camillo, 260 DESNAUROIS Charles Davy, 39

DIEM Ngo Dinh, 386-388, 390, 397, 424 DOENITZ Karl, 217 DOLLMANN Eugen, 216, 217

DOOLITTLE James, 481, 492

DUTRUY Jacques, 45 EDEN Anthony, 88, 456, 463, 468-470, 482-486, 503

EINSTEIN Albert, 107 EISENHOWER Dwight, 159,162, 383, 456, 458, 462, 484

EMANUELLI Oreste, 121 ERCOLE Francesco, 314 FABRE-LUCE Alfred, 300, 463, 470

FALORSI Giorgio, 9, 517 FANFANI Amintore, 126,125,157,161,162

FECIA di COSSATO Carlo, 67 FELTRI Vittorio, 207, 209, 347 FERMI Enrico, 237-239

FERRI Enrico, 135, 520 FLYNN John T., 300 FOUCHÉ Joseph, 14, 262

FOURNIER Pierre, 107 FRANCO Francisco, 45, 61, 382

FRITZSCHE Hans, 300 FURET François, 32

GABRIELI Francesco, 347, 348

GALATI Giovanni, 67 GALLAND Adolf, 474, 475, 478

GAVIN James Maurice, 252

GAXOTTE Pierre, 57

GENTILE Giovanni, 141,143, 459

GENTILE Panfilo, 300 GERBORE Pietro, 51, 82, 83, 87, 92, 300, 537

GIAP Vo Nguyen, 30,170,176, 386

GIOLITO Giovanni, 86 GIOVANNI XXIII, 183,184, 186, 187 GIUSSO Lorenzo, 314

GOETHE Johan Wolfgang, 449 GOLDWATER Barry, 389, 414 GOMEZ Piffi 298 GORBACIOV Sergei, 208, 536 ORAZIANI Rodolfo, 118, 299 GREENE Graham, 386, 393, 394, 404, 407, 408

GUILLEMET Alfred-Kasimir, 43 GUSSAGO Arturo, 211

HARRIS Arthur, 454, 476-481, 492, 494-497, 500

HAUSER Heinrich, 300

HAXO Nicolas, 14, 30, 42, 43, 45, 48

HIMMLER Heinrich, 217 HITLER Adolf, 64, 80, 83, 88, 113, 177, 213-218, 223, 269, 359, 360, 364, 369-376, 378, 389, 398, 409, 469, 471, 472, 474

HOAN Hoang Van, 391, 409, 414 HOCHE Lazare, 13,17,18, 34 HO CHI Minh, 168-174,176,177, 231-236, 342, 384, 386, 387, 396, 398, 399, 408, 412, 413, 416, 430 IRVING David, 462, 493, 494, 495, 496

JOHNSON Lyndon B., 170,178, 234, 236, 240-242, 244, 251-257, 271, 389, 390, 398, 414 JOPE Bernhard, 66

KANTOROWICZ Ernst, 316

KEEGANJohn, 494

KENNAN George, 485 KENNEDY Jacqueline, 165,166, 241, 256 KENNEDY John Fitzgerald, 157,158,160-162,164,165,185,186, 242, 244, 251, 255, 256, 387, 388-390, 414

KENNEDY Robert, 236, 251, 252-254, 256-258

KESSELRING, Albert 217, 458

KHAN Nguyen, 390, 397, 416 KLÉBER Jean-Baptiste, 37, 38

KOSSIGHIN Alexei, 169, 231, 235

KRASNOV Pyotr, 466-468, 488, 502, 504, 505 KRUSCIOV Nikita, 84, 114, 158-160, 162,186,189, 243, 269, 270, 273

KY Nguyen Cao, 234, 243, 252, 390-392, 395-398, 409-415, 424, 425 LAS CASES Emmanuel de, 17, 31

LE BOUVIER DESMORTIERS, 19, 21 LEGA Achille, 205, 206

LENÔTRE Georges, 21, 22, 22, 29, 33, 45 LEONE Giovanni, 136, 520

LEOPARDI Giacomo, 163, 224, 290, 293, 294, 309, 310, 312, 336, 541

LESCURE Louis-Marie de, 17, 30, 39, 41 LICITRA Bruno, 290, 297

LIDDEL HART Basii Henry, 455, 472-494 LONGANESI Leo, 97, 128, 289-304, 307, 308, 310, 315, 318, 350, 433,451,468 LONGHI Roberto, 8, 280

LOW Toby, 461, 465, 468, 490, 504

LYAUTEY Louis Albert, 385, 386, 410, 414, 415, 427, 428, 430

MALAPARTE Curzio, 113,142

MANCHESTER William, 241, 251, 256, 257 MANCINI Giacomo, 208-211 MANZONI Alessandro, 16, 47, 48, 50, 53, 516 MANZONI Giacomo, 97,100

MAO Tse-Tung, 169, 177, 226, 246, 247, 248, 249, 340-343, 418, 436, 442 MARIANI Manlio, 11

MARIGNY Charles, de 31 MARRAS Efìsio, 91

MARX Karl, 128, 173, 226, 507

MAUGERI Francesco, 62, 64

MAURRAS Charles, 25, 57, 384 MICHELET Jules, 38, 56

MIRABEAU Honoré Gabriel de, 16, 263 MISSIROLI Mario, 277, 294, 297, 301 MONELLI Paolo, 121, 456

MONTALE Eugenio, 309, 312

MONTANELLI Indro, 141, 290, 291, 294, 296, 299, 300, 521 MORAVIA Alberto, 226, 295, 433, 517 MURRI Romolo, 127 MUSSOLINI Benito, 63, 64, 70, 80-83, 87, 88, 91, 92, 94, 95,138, 141,143,147-150, 174, 216, 220, 223, 228, 229, 282, 284, 290-297, 299, 304, 308, 312, 361, 382, 386, 455, 501, 514, 550

NAUMENKO Vyacheslav, 467, 468, 488, 502 NEGRELLO Nerina, 204

NENNI Pietro, 126,127,132,161

NICOLSON Harold, 484, 548, 549

NIETZSCHE Friedrich, 173, 312 NONO Luigi, 347, 348

OJETTI Ugo, 551 ORLANDO Vittorio Emanuele, 77, 551

PAGEOT Auguste, 34, 39, 41 PAGLIANI Franz, 24 PANNWITZ Helmuth von, 467, 439, 502, 506

PAPINI Giovanni, 57, 280 PARATORE Ettore, 334-336, 339-343, 346-348

PARDO Gianni, 212 PASOLINI Pier Paolo, 226

PÉGUY Charles, 279

PELLAS Silvio, 380, 392, 401, 404, 406, 409, 417, 418, 421, 422, 432, 435 PERTILE Vincenzo, 344, 346 PÉTAIN Philippe, 23, 25, 58, 360, 364, 369, 370 PETTER Guido, 146, 147,151, 152

PHAM van Dong, 168,176 PIERACCINI Gaetano, 8 PIETROMARCHI Luca, 80-84, 91, 92

PINAEU Alexandre, 41, 53 PINI Giorgio, 5

POZZO Cesare, 318 PRAZ Mario, 276, 332, 348-357, 416, 438

PREZZOLINI Giuseppe, 5, 57, 285n, 286, 307, 421 PRICE Billy, F. 216

PROUST Marcel, 359, 360, 367, 368, 370, 377, 564 RENAN Ernest, 23 RITTER Fernando, 454, 473, 474 ROBESPIERRE Maximilien de, 16,17, 23, 261

ROCKFELLER Nelson, 253 ROMAINS Jules, 95

ROOSEVELT Franklin D., 64,160-162, 244, 269, 271, 300, 384, 423, 448, 468, 469, 484

ROUX Jacques, 51, 555 SACCHETTI Enrico, 332 SAINT PIERRE Charles-Irénée, 22 SALANDRA Antonio, 71,145, 222

SALVINI Guido, 208, 209 SANTERINI Giorgio, 205

SANTILLO Vincenzo, 179-181 SCALFARI Eugenio, 275 SCHLESINGER Jr. Arthur, 242, 251, 255 SCHMUNDT Rudolf, 364, 365, 370, 371, 373-376 SECHER Raynald, 15

SEDLMAYR Hans, 56, 329, 330, 453, 515 SELBORNJohn Palmer Lord of, 483 SERRA Renato, 278, 279, 332

SFORZA Carlo, 77, 78 SIEYÈS Emmanuel Joseph, 16

SIGNORINI Telemaco, 280 SILVESTRI Carlo, 299 SOFFICI Ardengo, 141,165, 276-282, 283n, 285-288, 293, 310, 332, 333, 353 SOLDATI Mario, 289, 290, 351 SOLGENITSIN Aleksandr, 16, 45, 46, 49, 50, 52, 55, 462, 466, 468, 482, 508, 510 SOMBART Werner, 77, 300

STORONI MAZZOLANI Lidia, 338, 359 SOUCHI René-François, 27 SPENGLER Oswald, 162, 300

STALIN Josip, 38, 57, 64,175, 177, 208, 247, 248, 268-273, 275, 452, 467-469, 480, 482, 484-486, 488, 490, 501, 502, 505, 507, 509 STALIN Svetlana, 268, 269, 271, 272 STEINGRABER Stephan, 322, 329, 330 STOFFLET Jean Nicolas, 17, 30, 31, 36, 39 STOKES Richard, 475, 494

STUMPO Beniamino, 7

SUVAROV Aleksandr, 14, 21 TABANELLI Alberto, 302

TAINE Hippolyte, 32,37 TAMBRONI Fernando, 117

TAYLOR Maxwell, 62, 390, 425, 523, 550

TENG Hsiao-Ping, 248, 249 TERESKOVA Valentina, 193 THIEU Nguyen Van, 390, 396, 430 TITO, 15, 70, 128, 136, 402, 458, 461, 488, 513, 514, 515, 527, 531, 537,552

TOGLIATTI Paimiro, 127, 187, 274, 275, 519 TOLSTOÏ Nicholas, 452, 461, 464-466, 468, 502, 506, 508, 510

TOMASI di LAMPEDUSA Giuseppe, 349 TOQUEVILLE Alexis de, 32, 300 TOSCANINI Arturo, 302-305

TRAVOT Jean Pierre, 12-14,18-20

TREVOR-ROPER Hugh, 485

TRIZZINO Antonio, 300, 457 TURATI Filippo, 127

TURENNE Henri, 260

TURREAU Louis Marie, 32, 46

VALENTIN Hans, 13,18 VELTRONI Walter, 289

VEZZALINI Enrico, 210 VITA Silvio, 7

VOLPE Gioacchino, 142, 314, 344 VOLPE Giovanni, 344 WALTERS Vernon, 379, 380, 382, 384, 387, 388, 390-392, 422

WERLIN Jakob, 216 WESTPHAL Siegfrid, 217

ZACHARIAS Ellis M„ 62, 63 ZANKER Paul, 338, 339 ZARRI Adriana, 230

ZAVOLI Sergio, 289, 290 ZEVI Bruno, 228, 229

Finito di stampare nel mese di settembre 2013 per i tipi della Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD) per conto di Minerva Edizioni