Tutte le poesie. Con un'appendice di testi inediti 8811669154


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Tutte le poesie. Con un'appendice di testi inediti
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1aLUELILITETA

Garzanti - Gli elefanti

Poesia

WITHDRAWN O From Toronto Public Library

gli elefanti poesia

Mario Luzi

Tutte le poesie Il giusto della vita Nell'opera del mondo

Per il battesimo dei nostri frammenti con un’appendice di testi inediti

Garzanti

Prima edizione: ottobre 1988

ISBN 88-11-66915-4 © Garzanti Editore s.p.a., 1974, 1988

Per Su fondamenti invisibili © Rizzoli Editore, 1971 Printed in Italy

I Il giusto della vita

Alla memoria di mia madre

LA BARCA

AORNE LI

Parca-Villaggio

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi dopo le devozioni della sera in queste case grige ove impassibile il tempo porta e scaccia volti d'uomini. Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi, furono matrimoni, morti, nascite,

il mesto rituale della vita. Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve. Io vecchia donna in questa vecchia casa,

cucio il passato col presente, intesso la tua infanzia con quella di tuo figlio che traversa la piazza con le rondini.

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Serenata di Piazza d'A zeglio

Il fantasioso viale

voga nella sua nuvola verde, e già la stella dall’ali più silenziose divide la sua luce fanciulla tra i sitibondi emisferi. Odi tu dubbia corrente della muscosa acqua serale l’antico scalmo

dei bronzi nel liscio grembo, la levigata prora del giorno

s’incaglia nelle foreste.

O fresca, scoscesa tortora che distendi i tuoi tersi domini

per la pianura mietuta di folte avene solari, cerca tu in quali opache profondità l’amore abbia perduto i suoi passi.

L’ora s’addorme su ogni foglia e dentro gli occhi delle più fragili donne, una vela umida di destino chiede a noi un porto profondo.

Oh sul cuore delle pause terrestri un carro di diafano argento 15

passa traendo

un immenso passeggero, seguita la sua strada sonora spargendoci di vacue nubi.

16

Toccata

Ecco aprile, la noia dei cieli d’acqua di polvere,

la quiete della stuoia alla finestra, un tocco di vento, una ferita;

questa aliena presenza della vita nel vano delle porte nei fiumi tenui di cenere

nel tuo passo echeggiato dalle volte.

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All’autunno

Tanto anela sciogliendosi dai monti la luce dietro il rivo dei tuoi passi, dolce autunno, che avvòltone pei sassi

del mare esci dai tristi continenti.

Trae dalle antiche selve un fiato umano il tempo tuo, verso le alte città guida carrozze silenziose e il piano accarezza di mieli e di semente. Ma chi tiene l’industre oro dei campi

e la purpurea bara dei raccolti? Profonda rompe l’ora sopra i folti fieni la torre nei cortili in ombra.

Ma chi canta canzoni, chi argomenta d’avvenire sul caldo della porta? Chi s’attarda la notte? Flette lenta l’Orsa sui muri e il fondo delle vasche.

Si sparpagliano ombre, sono donne

già all’antica finestra le fanciulle e umani i fiori nelle verdi culle di luce a° consueti davanzali

guardano sopra il bel mare del mondo la lamentosa chiarità d’autunno, spinge l’onda sui greti oro notturno,

piega l’alta viola. Nasce il vento. 63

Giovinette

Voi siete la tepida figura del nostro dolore, sulla terra dolce d’alimenti al vostro tenue rossore voi passate col sorriso che ci opprime.

Ritornano le prime ali ai confini del cielo, la sera

spande la triste calma dei giardini e muto il tempo si avvolge intorno alla vostra bellezza. Ma invano, perché la vostra carezza arde profonda ed ignota, e in voi senza limiti il cielo si riposa della sua eternità come una foglia. E nelle vostre calde mani odora tutta la fuggevole corona delle nostre passioni, mentre ognuna porta il dolore della giovinezza.

Terra

Ricompongo di rose il tuo passato io perché sui deserti amaramente

fruga il sole i cespugli e le colonne ora, e il calore effuso dai tuoi popoli

ricercano i gabbiani sopra il verde mare gonfio di venti e di meduse!

E una madre sui sassi pensierosa abbandona il suo fianco alle profonde comete, astri, si fermano le capre

umanamente al ciglio dei torrenti d’un tempo, la nuvola sui templi si disanima memore d’incenso. Tale la mia memoria. Ma a ponente

cala la gioventù lustra di eventi, io guardo: umido solca nel futuro

il vascello, perfetto sui macigni pende il falco e nei viottoli i giacinti

vivono d’una carità ch’io ignoro.

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Vino e ocra

Più lucente là esorbita la stella di passione, più amara sopra i fondachi di perla in una nuvola acquiescente la città dell’amata s’arrovella. E ciascuno di voi sentitamente solca il gelo d’un vento fatto inerme alberi voi onde fu caro il marmo

nella serenità delle leggende. Torna in cielo il sorriso, ma già eterna

la vedova di sé avvolge le tombe per le campagne spente, un corno suona le cacce sulle alture ove s'imperna la luna. E voi tenere, voi auguste essenze della vita! Nel tepore dei lattici notturni esita il vento cercandosi nel solco delle aduste

Orse d’un tempo. E là lungo invisibili pianure e lo sfarzo dei torrenti discorrono cavalli forsennati e presso l’onda annusano le nuvole.

69

Cimitero delle fanciulle

Eravate:

le taciturne selve aprono al piano e al sole il vasto seno: questo è il campo di fieno ove correste.

E dai profondi borghi alta la torre suona ancora le feste

onde animava ognuna alle finestre di gioia umana il volto inesistente. Ma le mani chimeriche e le ciglia deserte chi solleva più al suo nome nelle vie silenziose e l’aria come

quando la luna le celesti chiome odorava di rose fiorentine? Ma l’amore? e i balconi della sera? le braccia abbandonate dal sole alla profonda luce nera

negli orti ove dirada impallidendo ignota la contrada chi preme più, chi bacia? Dallo spazio lontano un vento vuoto

s'alza e parla coi tetti di voi morte. Ma io sono: ho natura e fede e il tempo mio umano intercede

per me dalle sostanze eterne amore ancora, e grave d’esistenze il giorno S'aggira qui d’intorno mentre tace

il mare delle vostre ombre al mio piede con un triste e mirifico soggiorno.

L’ora langue sui colli e il cielo fa di me il limitare dei suoi mondi, 70

de’ miei sguardi infecondi l’intenta umanità delle sue stelle:

si spengono le celle delle pievi montane e il sole e i campi, lunge l’erba infinita spazia sui vostri inceneriti lampi, fanciulle morte; passano su voi epoche e donne poi come su un’onda i successivi venti senza sponda di mare in mare e io tremo innanzi 2 voi di questa mia solenne irta esistenza.

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Allure

Ripasserai nei madidi cortili imporporando volti adolescenti e pei vicoli ardenti di soggiungere aurore alle tue mani? Vi fu un tempo che in te s’addoloravano le torpide riviere se la sera co’ suoi rosei fendenti scendeva sulle strade episcopali.

Il fuoco del tuo passo si spengeva sulle sabbie celesti, oltre le porte,

e l’Orsa s’ancorava alle tue vesti profonda dalle sue gelide svolte. Allor che la tua vita esigeva i suoi cieli, sapevi tu che vivere dimenticanza è solo come il labbro delle rose ai cancelli della Brenta

e l'ombra che fioriva sopra il volto erroneo dei fanciulli quando il caldo dall’ansa nuvolosa si divagava sulle chiatte morte? Pensami se la notte ai ventilabri ripalpita di essenze sconosciute

e ti parla di me presso le chiuse finestre che tu ami.

72

Annunciazione

La mano al suo tepore abbandonata, nelle lacrime spenti i desideri,

forse è questo una donna: un tempo esangue, nell'ombra la bontà opaca di ieri:

tra le voci dirotte dell’infanzia

nei giardini cui fu tetra la vampa i venti sterminati s’effigiavano nelle mani con una luce rancia; le nuvole alternavano la sorte

dai cristalli alle vergini funeste, nei paesi l'angoscia delle porte sotto la bianca scìa delle tempeste. Poi fu il tempo che il tuo volto sorrise lieve sui luminosi erebi d’ansia,

altrimenti sulle deserte ghise ora il cielo fingeva le sue ruote.

Poi di luna un inane fianco rosa tese al vento gremito del tuo nome la sua caducità bianca di chiome,

quella povera luce che ci opprime.

73

Miraglio

Voi librate sugli indachi perversi dei muschiosi angiporti, oasi d'amore,

voi città, draghi insorti dal profondo della mia vita ancipite e indolore!

Voi nelle rosse epifanie d’infanzia sul sollievo dei ponti e le accalmie nere dell’onda io vidi sul mio corpo

esitanti in un sogno di bandiere. Capigliature blu acclini alla notte le maschere velavano e le grida, uno sguardo, le lacrime interrotte,

dalle forre cercava il suo turchino. Io così vorrei essere dolce nell’oscuro me stesso, un viso attinto

all’ambiguo sorriso onde si celano le fanciulle finitime dell’ombra.

74

Già colgono i neri fiori dell’ Ade

Già colgono i neri fiori dell’ Ade i fiori ghiacciati viscidi di brina le tue mani lente che l'ombra persuade e il silenzio trascina.

Decade sui fiochi prati d’eliso sui prati appannati torpidi di bruma il colchico struggente più che il tuo sorriso che la febbre consuma.

Nel vento il tuo corpo raggia infingardo tra vetri squillanti stella solitaria e il tuo passo roco non è più che il ritardo delle rose nell'aria.

75

Tango

Poi sulla pista ardente lontanamente emerse

la donna spagnola, era un’ombra intangibile in un soffio di musiche viola il suo sorriso. Percepiva l’accento della notte col senso melodioso

del suo passo e quel ciclo di libertà inibita era l'evento

triste della sua vita senza scampo.

76

Danzatrice verde

Destini si propagano ove annotta l'inquietudine estrema dei velari, ella dalla profonda aria morta la sua mano ritrae come un pianeta.

Solo uno sguardo evade la sua forma. La vertigine esente di sorriso nelle sue braccia palpita e s'adorna d’un’eco bianca elusa dal suo viso. Poi del moto fingeva ogni clemenza nell’onda di smeraldo che si stempra nella memoria, origine e parvenza

della morte il paesaggio del suo passo. Carità delle gonne; rifluiva indi l’informe, indi la vita in ombre di viola dal vuoto costellato

di vigilie al mio sguardo senza meta.

77

Periodo

Le parole esiliate cercherò nel sole allora: un’ombra temporale

fu la tua mano avversa alle rugiade; la beltà consumava le Marie per le bianche contrade,

il tuo passo luceva silenzioso in un orto ancestrale e l’azzurro infuriava al davanzale remoto di tua madre:

un albero increscioso ventilava — pari la sua raggiera e il suo dolore — le tue vesti sul sasso delle strade navigate da un impeto incolore. Alvei le mura: in alto esitavano effigi inesplorate dove il lungo silenzio d’un addio rompe il vento alle gelide inferriate d’una casa adusata dalle stelle. E un giorno cercherai col cuore il fondo

delle città scalfite, il volo spento delle colombe tra i pilastri in sogno: e in un cielo clemente — poiché tu m’ami anche il tuo cielo è biondo — vuoterai d’ogni vita le tue palme. Ma l’eterno addurranno irrigidite le chimere che inalano la sera sopra i tetti sublimi interrogando. 78

A Sandro

Non più sotto le Iadi lacrimose

la mia voce sospesa nel silenzio della tua vita ascolterai in erbose città inoltrando il tuo passo d’arconte, poi che l’anno profuso in una fonte

d’angoscia quieto or ventila le ardesie e là sul cieco-sorriso di Saba transita con un volo d’api efesie.

Tu ricorda per me gli anniversari indolenti sugli argini segreti,

il vento e la chiaria degli oliveti nel cielo che si spenge tra i velari: una luce fuggendo dal segreto degli orti in una nuvola ventosa

dei fiorituri presentiva il rosa con un tremito a fil d’acqua e sul greto.

79

Evento

Con le ciglia pesanti accanto a te s'è posata una requie di giovani tormenti,

nel dolente equilibrio delle nuche lucenti morte effigi si perdono a guardare primavere appoggiate a muri tanto pallidi. Perdere e ritrovare il tuo sorriso nel mutevole averno della guancia puerile. La clemenza iridata delle sere d’aprile si riversa dagli occhi lungo il corpo d’Aretusa che insegue i verdi anni sul prato.

80

Patio

Forse è un’ombra del cuore l’orrore che disarma

e raggela sui vetri lo stupore delle grida chimeriche negli atrî. Arrossano le mele sulle fioche erbe di Parma

e il tuo sguardo in altrui sguardi succede. Il colore dei cedri sul marmo ti precede.

Ma il vento soffermato sulle oscure lanterne, sul tuo viso riflesso nei miraggi vitrei delle città dimenticate! Si fondono irraggiate dalle bianche lucerne

della sera le tue immagini strane mentre uguagli nitente le mutevoli diane.

Nulla più che un chiarore s’avvicina agli spalti,

alle corna spettrali dei palazzi, il vuoto s’avvicenda nelle cave specchiere, nella febbre viola dei basalti. La tua forma nell’aria si ripete

lungo un prisma ammaliato e una pallida rete.

81

Maturità

Che fu dietro quei vetri che straziano il silenzio e irraggiano nel vuoto lo stupore d’un viso che non sente più il suo rosa? Attoniti si perdono gli occhi in banchi d’azzurro e neppure il tuo pianto si ripete. Ondeggia il sicomoro stranamente fedele.

Gelo, non più che gelo le tristi epifanie per le strade stillanti di silenzio e d’ambra e i riverberi lontani delle pietre tra i bianchi lampi delle fontane. Ombra, non più che un’ombra è la mia vita

per le strade che ingombra il mio ricordo impassibile. Equoree primavere di conche abbandonate al vento il cui riflesso è solitario nel fondo col tuo viso scarduffato!

Schiava ai piedi di un'ombra, ombra d’un’ombra disperdi nel tremore dell’acqua il tuo sorriso.

Una nuvola oscilla e un incerto paradiso. Non più nostro il deserto che ci avvince e ci separa nella bocca inarcata dall’oblio,

non più il dominio audace di pallore

delle tue braccia al vento dall’alte balaustrate. Sguardi deserti, forme senza nome nella notte pesante pendula sul tuo cuore.

82

UN BRINDISI

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Compianto

Come un’ombra evocata

in anguste pareti di silenzio, come il vento insensibile che torce le viscere del fuoco tra le fiamme stridule nel camino, ma più dolce,

più remota — urge dunque la pietà tanto in disparte? E il volto che rovina nell’ombra del distacco, non più tuo ma diverso da te contro l’oblio

usa già tanta forza, tanto orgoglio. Son qui, non ti dimentico: guardavi

l’universo variare nella voce e negli occhi dell’uomo e, sospesa nel sole, sempre fissa

la lontana immagine trasparente: i paesi, le strade e le sorgenti,

gli alberi multiformi sulle alture. Ma il tuo piede sul suolo luminoso calcava già i cammini dell’Ade dov'è pallido di colchici e di stagni impercettibilmente; e la morte filtrava in te conchiusa dentro le chiare stanze,

prendeva le abitudini e la guisa dei giorni interminabili in un ordine limpido di gesti

e di parole umane. 119

Giardini

E di visi una nuvola errabonda fra gli alberi notturni senza pace negli intimi cammini ti seconda ancora, e ancora tace, terra, quando

il tuo lume languisce, nelle chiostre appena il vento mormora; e l’eterno respiro delle fonti

segue la muta schiera ove la portano i neri passi labili e travolti che non lasciano impronte.

Poi all'improvviso il vuoto apparirà

dagli occhi che convergono nell’Orsa quando di là da un velo di stanchezza ciascuno cercherà la propria stella in un canto del cielo, impallidito il ricordo cadrà trafitto all’orlo della vita trascorsa, no, non sopporteremo più lo strazio. Ma ancora come in sogno senza piangere

questa ridda d'immagini profonda nelle tenebre e tace.

120

Figura

L’immagine improvvisa della terra i vestigi e le impronte dove un velo

di polvere è caduto — sul tuo volto tutto fugacemente, per poco che lo sguardo erri distolto dall'anima, appare e si consuma. Ma quante volte nascermi all’incontro sotto gli alberi insonni, quante volte

perire, ti ho veduta e smarrita. . Dell’oscura vicenda esita ancora quel colore che grida là nel cielo.

121

Continuità

Forse quanto è possibile è accaduto,

ma da te si rigenera l’attesa, la piena d’avvenire trattenuta

dal cielo fino all’ultima preghiera mentre, sempre immaturo, con perenne vicenda si ricrea dalle sue ceneri il domani e ogni giorno precipita deluso come musica stanca di sgorgare

musica rifluisce alla sorgente. Così invano consunta dalla vita la misura del tempo è sempre colma

per me; ed Espero muta sì veloce in Lucifero! Con uguale ridente mistero il vento inesauribile ritorna

a spingere la luna quando ancora stride un cielo copioso fra i palazzi,

gelidi testimoni, sul mio capo.

122

A un fanciullo

Presso le porte Scee con Astianatte fra i cedri pensierosi t'ho incontrato immagine di me, immagine mia, e in quant’altre città, spinta dal tempo forse a significarmi;

subito rifuggita via nell'ombra più volte, più volte per più secoli. Lungo quant’altre mura ti ricordo coni chiari fanciulli nel silenzio

della sera pei chiassi e le piazzole; t'inchinavi a giuocare sostenuto forse dal mio destino, sotto il fuoco

scuro della mia stella.

123

Passi-rilievo

Come il sonno leggero sui papaveri

all’interno dei secoli figure, figure in cammino mentre piange di voi l’inconsapevole alle spalle e una nube s’addensa ai vostri piedi, io sempre più lontane da me vi vedrò incedere col volto stornato dalla morte circostante,

graniti dall’affanno della terra vedrò simili ai fuochi nella nebbia gli occhi vostri sparire nel ricordo. Le vesti ventilate al moto raro,

le ginocchia esitanti, se in un gesto strappato al suo leggiadro adempimento il tempo vi ghiacciò su questa riva, forse dietro di voi tutto il silenzio

e la musica eterna è già finita? Traccia del vostro cielo un filo d’oro desolato v’illumina sul fianco i canestri primaverili e i secchi e colora la morte di un’immota confidenza nel sole.

124

Nuance

Quasi una freccia fulmina le strade. D'un tratto il giorno culmina, la sera lunga venata di suoni sta pronta

di là da quella pausa ad occuparmi. Non altrimenti dietro incubi lievi c'eri tu silenziosa: una ferita, una ruga nel sole, poi apparivi dal vano d’una porta contro il cielo.

Da ogni aspetto irrompevi, da ogni forma che m’avesse una volta oscuramente offeso, da ogni via dove impaurito non avessi potuto mai inoltrarmi. Tu decisa in quest’atto, irreparabile e le nubi lentissime, le mura,

le rondini, l’immagine del mondo ricaduta inespressa su di me.

125

Prima estate

Quanto insensibilmente è già accaduto di me, s'è fatto certo nel silenzio!

E torno a domandare, a ignorare io pur sempre natura e discordanza. Laggiù nel fuoco fievole dell’aria lilla e pioggia nascente d’un alone vivo celano il segno della sera; e le nubi cosparse si richiudono sopra un corpo che dorme amaramente là nella profondissima campagna.

Corre insidioso fertile di tinte e di colori — al sangue tanto lieve — il segnale che annuncia la tempesta, il giorno d’oro tramutato in tenebra. Continuo a non sapere, a lusingarmi.

E di già l’acqua lacera il suo canto, geme un roco fruscìo, le salamandre nuotano verso il sonno nelle vasche dei perfidi giardini, scande il cielo variabile la gorga dei cucì.

126

A un compagno

E la musica ansiosa che bruiva nel biondo dell’estate ora densa di ruggine risale confusa col tuo nome alle colline mentre un cielo violato dal ricordo mesce nubi con la marea di biade instancabile, rotta alle pendici

dei borghi di Toscana. Voci rare feriscono il silenzio eterno, ancora accese

qui dove indugio, anima sulla riva del fiume inquieto ferma ad ascoltare. Il passante ravviva le croci di papaveri votivi alle svolte della strada.

Ed ora che per te

morire sempre più profondamente, per me essere è non dimenticare,

la forza di quel gesto ci conviene usata a ritrovarci,

a difenderci l’un dall’altro quando striscia un vento recondito di morte.

127

Epistolium

M’appare nel meriggio arborescente la tua casa che piange all’ombra dei giardini. Fin dalla soglia viene

incontro a me la tua assenza. Il silenzio e la febbre mi trascina. Una finestra aperta sulle piante ne beve il verde, illumina la stanza

un chiarore d’abisso vegetale. Cresce un muto delirio, agile e liscio un gatto scherza coi fiori.

128

Rughe

L’anima assente, ovunque mi rivolga è un rigore che assidera le forme nel vuoto dello sguardo, l’uomo, un muto consistere d’aspetti nell’eterna imminenza,

il perenne variare delle fonti. Un incerto sorriso dissimula il terrore

ed esala fra i denti neghittosi e morbidi l’oscuro sogno umano. Sospiri ciechi, aneliti, volti non più istigati fra i muri e fra le piante. Le labbra lente macerano antichi veleni

nell’effimero blu della campagna. Stanno i corpi pazienti,

cresce la sera arborea fra le nubi e l'universo è incolume fin quando da una buia ferita una creatura mutata in ombra prenda a singhiozzare.

129

Labilità

Propiziata da oscuri incanti e troppo dolore, mi venivi incontro, uscivi rapida dalla vista fra le piante nebbiose della sera.

Un lampo, quasi un’alba sempre attesa. Poi restava la luce della tristezza, io solo e la città

con le nubi ancorate agli acroteri, le orifiamme sopite dentro il cielo. E con l’intensa opacità d’un suono, d’una serpe di suoni fruscianti

e morti un io deciso s’estingueva in echi innumerevoli, in figure.

130

Viso, orrore

Fra i visi inorriditi che si volgono per non vedere, il tuo sporge più intenso, più alta rocca di lagrime confitta nel silenzio,

nel deserto di grida soffocate. Così il tempo propizio per piangere fugge via, fra identi si conchiudonoi sospiri e recisi dall'anima sguardi cercano pace ed all'estremo nascono parole.

Pazienza spenge e fa esigua la fronte, un debole sorriso quasi un’acqua latente scivola sulla bocca inaridita, schianta il volto gelato la pazzìa. Ma te! ecco ritrovo la tua essenza rifluita

nel profondo dei gesti familiari, delle calme abitudini sulle sponde solari: tutto ci resta ancora per soffrire.

131

Diana, risveglio

Il vento sparso luccica tra i fumi della pianura, il monte ride raro illuminandosi, escono barlumi

dall’acqua, quale messaggio più caro? È tempo di levarsi su, di vivere

puramente. Ecco vola negli specchi un sorriso, sui vetri aperti un brivido,

torna un suono a confondere gli orecchi. E tu ilare accortri e contraddici in un tratto la morte. Così quando S'apre una porta irrompono felici

i colori, esce il buio di rimando a dissolversi. Nascono liete immagini,

filtra nel sangue, cieco nel ritorno, lo spirito del sole, aure ci traggono

con sé: a esistere, a estinguerci in un giorno.

132

QUADERNO GOTICO

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L’alta, la cupa fiamma ricade su di te, figura non ancora conosciuta,

ah di già tanto a lungo sospirata dietro quel velo d’anni e di stagioni che un dio forse s’accinge a lacerare. L’incolume delizia, la penosa ansietà d’esistere ci brucia e incenerisce

ugualmente ambedue. Ma quando tace la musica fra i nostri visi ignoti si leva un vento carico d’offerte. Pari a due stelle opache nella lenta vigilia cui un pianeta ravviva intimamente il luminoso spirito notturno ora noi ci leviamo acuminati, febbrili d’un futuro senza fine.

Così spira ed aleggia nell'anima veemente un desiderio prossimo a sgomento, una speranza simile a paura,

ma lo sguardo si tende, entra nel sangue più fertile il respiro della terra. Assunto nella gelida misura delle statue, tutto ciò che appariva ormai perfetto si scioglie e si rianima, la luce

vibra, tremano i rivi fruttuosi

e ronzano augurali città. 135

L’immagine fedele non serba più colore e io mi levo, mi libro e mi tormento a far di me un Mazrio irraggiungibile da me stesso, nell’essere incessante

un fuoco che il suo ardore rigenera.

136

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Ah tu non resti inerte nel tuo cielo e la via si ripopola d’allarmi poiché la tua imminenza respira contenuta dal silenzio di lucide pareti e dai vetri che fissano l’inverno. Camminare è venirti incontro, vivere

è progredire a te, tutto è fuoco e sgomento. E quante volte prossimo a svelarti

ho tremato d’un viso repentino dietro i battenti d’un’antica porta ‘nella penombra, o a capo delle scale.

137

II

Di nuovo gli astri d’amore traversano

lucidi sulle nostre teste opache là dove noi sediamo inconsapevoli

su opposte rive. E appare naturale non averti veduta mai né udita

ed affiggerti in una luce antica. Desiderio o rimpianto? Desiderio e rimpianto, una sola febbre amara. Raggiava nel cristallo un vino astrale, un sole fuso che bevevi a sorsi

e fissavi la dura cecità del paesaggio.

138

IV

Oscillano le fronde, il cielo invoca

la luna. Un desiderio vivo spira dall’ombra costellata, l’aria giuoca sul prato. Quale presenza s’aggira?

Un respiro sensibile fra gli alberi è passato, una vaga essenza esplosa volge intorno ai capelli carezzevole, nel portico una musica riposa. Ah questa oscura gioia t'è dovuta, il segreto ti fa più viva, il vento desto nel rovo sei, sei tu venuta sull’erba in questo lucido fermento. Hai varcato la siepe d’avvenire, sei penetrata qui dove la lucciola

vola rapida a accendersi e a sparire, sfiora i bersò e lascia intatta la tenebra.

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Ora desta nel lucido fluire

del giorno aereo vivo sui pendii sorgi infine nel sole, persona vittoriosa, corpo incorrotto, tu che fosti un fuoco

troppo a lungo represso entro di me. Quante volte ti ho visto e ho dubitato, incerto s'eri tu o la primavera stanca d’insinuarsi fra le piante.

Ma quando dopo un sogno e dopo un incubo ti vidi nel mattino incandescente con la mano rappresa sulla fronte che piangevi il tuo pianto esistenziale, ah non c’era più inganno, eri tu stessa,

persa nel labirinto non potevi riuscirne e piangevi le tue lagrime destinate. Era, donde nascesse, un pieno affanno impassibile, muto, senza fremiti che muoveva in te la paura, in me la pietà e un desiderio puro di donarmi. Tale in me rimanesti lungamente; così caduto il giorno dietro i monti la visione nel sole perdura dentro l’anima.

Ed ecco, ora sentivo di soffrire: quanti limiti avevo valicati, le siepi che m’avevano difeso,

orgoglio e indifferenza d’esistere, nulla più sussisteva, sotto il cielo intatti si riaccesero i misteri. 140

VI

Vibra il cielo, il giacinto effuso cade fra le brune pareti, l’aria spira nelle vesti, una nube mi pervade, quale insidiosa presenza respira?

Una rara vertigine è passata

sulla fronte, ecco, un fuoco vivo piove fuso con l’ombra quieta e animata,

un’essenza invisibile si muove.

Ah sei tu che hai sfiorato lesta il cielo della sera. Così se una figura sparisce in una porta, spazia un gelo

di morte ed una lucida paura. Sei passata di là dove la rondine s'avventa nella via, un piede romito rompe il velo di luce sopra il lastrico,

chiama il buio, dilegua nell’udito.

141

VII

Era una viva attesa che raggiava in te paura e tremito ed in me sensibile delizia d’inoltrarmi fra gli alberi, di bere alle fontane.

Il barbaglio delle acque vaghe, il cielo,

le ombre quiete nell’aria animata, anche il vento moveva in me il sorriso. Era la stessa febbre che ci estrania

rapidamente dai morti e ci svia mentre restano soli fra le torce nell’immane fatica di scavarsi la strada fra le rocce d’ombra, stanchi e intenti a penetrare fino al fondo.

Ne vedesti il profilo aguzzo, accanto riposano le mani estenuate.

142

VINI

Lo sguardo d’una stella umida cade sul prato, la tempesta acre respira fra gli alberi animati, un soffio rade le vie, un inquieto profumo delira. Un corruccio fuggevole è passato

sull’erba, una chiarezza verde esplosa vibra nel vento breve e ondulato, l’aria veloce scivola e si posa. Sei tu, l’attesa non è stata vana. Sei venuta fin qui dove la pioggia affumica le piante e s’allontana,

un’eco quieta dorme nella loggia.

Ah ma l’angoscia in me non è finita! Mentre il cielo si fa tardo e non muta l’incubo ancora sei, sei tu perita

in un luogo dell’anima e perduta.

143

IX

Fremito, donde scaturisse, gorgo che risaliva in me muto, insistente

e alternava vertigine e pietà d’esistere, moveva spesso il pianto. Quando verso l’estremo della febbre l’incubo era svampato già in un sogno e in una fissa apparizione, a un tratto

eri tu, respiravi qui presente. Hai varcato la pioggia rara, il cielo

vivo, fragile sotto i freddi fulmini, ti sei abbattuta qui come la rondine... presto ti sei confusa col colore dell’anima. Così dopo una pura,

una primaverile lunga attesa appare sulla soglia una figura vivida che si spenge in una stanza.

144

Spesso nel sonno buio, senza immagini m'’assillava l'angoscia d'una chiusa intima oscura possibilità ed il destino ancora non deciso d’un sole che dovesse maturarmi.

Nel più vivo, nel più puro del sogno se cercavo di te mi si schiudeva l’interno d’un dolore sconosciuto,

un segreto paesaggio in cui svanivi, “tu, il nulla, l'ombra desta e suscitata.

Rinascevi più vana e più romita, sorpresa non ardivi più fuggire l’orrore di trovarti viva e vera

e piangevi il tuo pianto irreparabile, le lacrime che t’'erano dovute.

Ma quando in un’immobile letizia io ti vidi trafiggere il mattino

con due umide stelle fra le ciglia, ah il viaggio nell’Ade era compiuto, ero giunto, potevo abbandonarmi.

145

XI

Solo un labile soffio ha spento il fioco barbaglio, una tagliente luna miete

il vento illuminato, un puro fuoco

granisce nelle tenebre irrequiete. Ancora un lungo giorno muore altrove dalla tua fronte, ancora per i vani spazi la stella confidente muove a cercarti nel lucido domani.

Un'altra notte sorge e non solleva sul prato la tua ombra, un’altra vuota

notte ne’ rovi sibila e si leva a fingerti più viva € più remota. E il desiderio vola a coronare

di te una ricca stagione, la luce d’un augurio fuggevole scompare fra gli alberi, e a te ancora mi conduce.

146

XII

Ah quel tempo è un barbaglio di là dal gelo eterno, le ore impunemente elargite risalivano al cielo, l’uno nell’altro i giorni si specchiavano nei giorni, nel vento fedele gli alberi tramutavano felici;

la sera la più alta stella sigillava la tua gioia, la speranza sempre compiuta sempre rinasceva. Non mi venivi incontro, dimoravi nella tua grazia. Mai non mi volsi a te che la tua ombra non fosse lontana tratta da un mite caduceo tra i fiori sopiti,

tra le fiamme sottili dei lamponi e dei rovi.

147

XIII

Rare immagini deste nella mente, pochi misteri infine elucidati dall’amore, ridotti a verità, come te consentivano l’attesa. Dall’incubo alle lucide promesse ancora sconosciuta, non ancora

caduta nel cospetto dello spirito incalzavi il futuro con fuochi di vittoria

pari a quelle potenze inquiete il cui trionfo è un incombere eterno sopra il cuore. In regioni intentate anche dal sogno eri una muta fonte che sgorgava

immagini di giorni senza te chiari dove la cenere e la roccia costellava l’inverno mitigato

finché entrava nel campo una figura, era un segno di morte, eri tu stessa

e piangevi umiliata in un’esile persona. E quando sulla scorta d’un istante

di luce e di delizia ti sciogliesti nel vento raro fertile di fiori, ah un soffio sulla fronte era passato, era tardi, dovevo insinuarmi nel fitto delle tenebre. Restavano con te la consapevolezza o la pietà?

148

XIV

Dove non eri quanta pace: il cielo

fra gli alberi estuosi raccoglieva la bianca offerta delle strade, un volto riluceva nel buio delle fonti, la midolla di miele temperava l’angoscia dei passanti e la beltà brillava, spariva suddivisa tra le vie lampanti nel silenzio ventilato.

Né memoria, né immagine, né sogno. Il volto dell’assente era una spera

specchiata dalla prima opaca stella e neppure eri in lei, eri caduta fuori dell’esistenza;

il candore affliggeva i crocevia e non era la sera,

erala bianca verità indolente

in fondo al mio tumulto, impercepita.

149

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Quante ombrose dimore hai già sfiorato

Quante ombrose dimore hai già sfiorato, anima mia, senza trovare asilo: dal sogno rifluivi alla memoria, da memoria tornavi a essere un sogno, per via ti sorprendeva la bufera.

Senza felicità, senza speranza di quiete — ma guarda come il volto

puramente contiene il suo destino — a volte ti levavi rischiarata

dalla ragione, a volte ti eclissavi. Vivi, incredibilmente ti fu dato; esisti, come sia lo chiedo ancora

al passato, a quest’ora in cui più lieve la montagna di sé scolpisce il sole e la sera che il mare fugge e implora.

09

È allora

Più radi a un tempo i sogni € più usitati, più segrete le forme della luce, più quiete nella loro identità e profonde le cose. Ma invecchiando

e vegliando una nostra indicibile malattia s’acquista una dimensione nuova, la notte,

i pensieri s’alimentano d’un fuoco tranquillo come il tremito degli astri. È allora, anima mia, che in un dominio troppo simile alla morte, in un tempo, solo perché pensato, unito, attesa € rimpianto non sono più, ma tutto

coesistendo respira; e anela e vibra dentro di te rapita quasi in disparte, quasi solo testimoniando la vita, il moto, la celeste, muta febbre.

160

Bimbo, parco, gridi

Nell’ultimo sentore dei giardini già l'alloro è perito ma una festa rara esulta o s'incanta sulle cime,

cerchiato di vertigine l’insetto guizza nell’aria viva di riflessi multipli da città dimenticate, la strada intesse l’eremo infiammato, l’acqua assorbe la vitrea lucentezza,

rotta corre il purpureo labirinto la tua voce perduta: «vieni, vieni». Come accade che al tuo impaziente invito la ferita nell’essere, richiusa da lagrime e da lagrime, dal duro

diniego sempre aperto all’avventura risanguini, sia ancora il mio destino? Dal geranio alla rosa settembrina qui l’anno si ripete in anni illesi,

luce un freddo baleno dalle foglie, lo sguardo rode l’arido chiarore. Ma la tua voce chiama dai meandri,

piange il tuo passo sempre più romito. Solo a un’eco così sensibilmente la morte che ci parve già acquisita si rinnova nel vivo sofferente

qui dove il cielo fanno più gremito miriadi d’affocate inesistenze? All’ombra che trafigge il tuo richiamo e al vuoto che t'invade quale offerta,

che promessa di pace? quando appare perfetto il nulla, il cielo si richiude 161

intorno alle tue spalle, i passi suonano

di là, le mani vagano nel fumo —

urge ancora alcunché di non compiuto, la parola indicibile sussiste.

162

La sera non èpiù la tua canzone

La sera non è più la tua canzone, è questa roccia d'ombra traforata dai lumi e dalle voci senza fine,

la quiete d’una cosa già pensata. Ah questa luce viva e chiara viene solo da te, sei tu così vicina al vero d’una cosa conosciuta, r nome hai una parola ch’è passata sull’intimo del cuore e s'è perduta.

Caduto è più che un segno della vita, riposi, dal viaggio sei tornata dentro di te, sei scesa in questa pura sostanza così tua, così romita

nel silenzio dell’essere, compiuta.

L'aria tace ed il tempo dietro a te si leva come un’arida montagna dove vaga il tuo spirito e si perde, un vento raro scivola e ristagna.

163

Nulla di ciò che accade e non ha volto

Nulla di ciò che accade e non ha volto

e nulla che precipiti puro, immune da traccia,

percettibile solo alla pietà come te mi significa la morte. Il vento ricco oscilla corrugato sui vetri, finge estatiche presenze e un oriente bianco s’esala nei quadrivi di febbre lastricati. Dalla pioggia alle candide schiarite si levano allo sguardo variopinto

blocchi d’aria in festevoli distanze. Apparire e sparire è una chimera. È questa l’ora tua, è l’ora di quei re sismici il cui trono è il movimento, insensibili se non al freddo di morte che lasciano nel sangue all’improvviso. Loro sede fulminea è qualche specchio assorto nella sera, ivi s'incontrano, ivi si riconoscono in un battito. Sei certa ed ingannevole, è vano ch’io ti cerchi,

ti persegua di là dai fortilizi, dalle guglie riflesse negli asfalti, nei luoghi ove l’amore non può giungere né la dimenticanza di se stessi.

164

Lontano, più lontano della vita

Lontano, più lontano della vita

quanto le cose possano tradire e sorprendere la castità del pensiero hai visto, hai dubitato, hai conosciuto, quanto le cose possano ferire

e ingannare l’interna purità hai visto, hai misurato anche dal sogno. Il risveglio è la sera impetuosa, è questo indizio d’anime esulate, la rondine ne grida la freschezza. Ah non è tardi se la notte incombe,

hai prima avuto il tempo di vedere quanto le cose portino lontano,

quanto d’un tratto possano mancare, venir meno alla viva verità della mente. Le strade, se le corri in quest'ora, sono sparse

di quegli uomini, no, di quelle larve

inquiete che ripetono la vita già vissuta, vaghe nell’implacabile chiarezza

dei sentieri già visti e già percorsi,

e affrettano la morte per aprirsi nell’ombra, per fuggire al conosciuto. Ne vedesti venire nella notte una luce minuscola dal fondo

a cercare accoglienza nell’amore.

165

Da «Monologo»

Vita che non osai chiedere e fu,

mite, incredula d’essere sgorgata dal sasso impenetrabile del tempo,

sorpresa, poi sicura della terra, tu vita ininterrotta nelle fibre vibranti, tese al vento della notte... Era, donde scendesse, un salto d’acque silenziose, frenetiche, affluenti da una febbrile trasparenza d’astri

ove di giorno ero travolto in giorno, da me profondamente entro di me e l'angoscia d’esistere tra rocce perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto, giorno in cui mi maturo, ripetevo, e mormora la crescita del grano,

ronza il miele futuro. Senza pausa una ventilazione oscura errava tra gli alberi, sfiorava nubi e lande; correva, ove tendesse, vento astrale,

deserto tra le prime fredde foglie, portava una germinazione oscura negli alberi, turbava pietre e stelle. Con lo stesso sgomento d’una porta che s’apra sotto un peso ignoto, entrava nel cuore una vertigine d’eventi, 166

moveva il delirio e la pietà. Le immagini possibili di me, passi uditi nel sogno ed inseguiti, svanivano, con che tremenda forza

ti fu dato di cogliere, dicevo,

tra le vane la forma destinata! Quest’ora ti edifica e ti schianta.

L’uno ancora implacato, l’altro urgeva — con insulto di linfa chiusa i giorni vorticosi nascevano da me,

rapidi, colmi fino al segno, ansiosi, senza riparo n’ero trascinato. Fosti, quanto puoi chiedere, reale, la contesa col nulla era finita, spirava un tempo lucido e furente, senza fine perivi e rinascevi, “ne sentivi la forza e la paura. Una disperazione antica usciva

dagli alberi, passava sulle tempie. Vita, ne misuravi la pienezza, vita tu irreparabile, dovuta,

prima ancora che accolta già caduta fuori di me, nel fiume indifferente.

167

II

Di te punto d’amore o della terra? Stavi immobile al fondo d’una via tante volte lasciata e poi ripresa, fioriva un cespo d’ombra viva, tale che l'immaginazione non riposa.

Non eri tu con me, era l’oscuro

dell’esistenza rigido in un volto; che fosse il tuo potrei dimenticare ma non la sua amarezza; qui dal fondo e dell’essere e della differenza

più d’una sera ci ha tenuti insieme. Di te punto d’amore o della terra? Tu e la terra una sola cupa offerta. E una rara inquietudine nell’erba,

un verdeggiare nero alle frontiere del cielo, un frondeggiare arso nel buio.

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Né il tempo

Le tue mani afflitte si appigliano alla proda, tinerpichi, t'addentri nel paese,

segui la strada grigia dei defunti. Il tuo nome non so, forse è l’Acconsolata ol’ Apparita o un siti tra gli innumeri

di cui a lungo mi fu velato il senso, non il presagio se li udivo tributati a qualche tabernacolo o a una curva di quelle vie che sentono l'esilio.

È questa la nostra regione senza limiti, cogline i fiori tristi, le erbe opache, messe che oscilla intentata; riposa.

E quel grano non so che sia pallido nel campo abbandonato dove niente rimane da sperare.

Ora falcia le reste grige, il triste velo a perdita d’occhio delle spighe, inoltrati nel folto senza fine.

Qui è il dominio che dobbiamo saccheggiare, l'abbondanza da mietere, né il tempo sollecita e la brama non è più. È la nostra regione senza sole,

ecco il colore della pena sterminato di cui non t’era noto che un indizio dove un muro s’apriva o un’apparenza

nella luce, tra i fiori di quaresima...

e prende nome ciò che s'è perduto, sofferto e non inteso che per segni. 173

Riconosco la nostra patria desolata

della nascita nostra senza origine e della nostra morte senza fine. E questa, l’avevo chiamata il caso, l’avevo chiamata l’avventura o la sorte o la notte o con quei nomi

inquieti che mi dettava l’angoscia, non la pietà che penetra, che vede.

174

S'avvia tra 1 muri, è preda della luce

S’avvia tra i muri, è preda della luce... forse eri tu, ora è un’apparizione

o forse è tutto ciò che non ha pace o sede o movimento e non è vero né insostanziale, vanità che solo

puri specchi tradiscono fremendo. È una vaga figura, non ha requie... è nostra, la credevo una chimera se alcuna ne appariva per miracolo

sotto aride pendici inconsolata per vie cupe ove niente vive più, niente se non la speranza del tuono.

175

Né tregua

È ancora acceso il giorno là sul monte che ti fermi, ti liberi del peso, ti siedi inoperosa presso l’argine.

La quercia svampa là sul colle ultima tra il cupo sempreverde nell’ora che già sfrigola la fiamma dal fumido sarmento, e un’altra veglia fissa ai vetri che irradiano l’inverno. Alto è il giorno che vorremmo terminato, strani i luoghi che illumina, remote le effigi tante volte interrogate, allora impenetrabili, ora afflitte

di non vivere più nei tuoi pensieri. Del tempo lungo tratto è là che avanza come un blocco da scolpire

quando sfiorarlo è già fatica estrema. Ma è questa la terra che dobbiamo coltivare: quando si sia come noi siamo l’essere morti non ci dà riposo

né tregua, né dolcezza di stagione. Vedi le opere fredde del distacco,

e carpito langue il segreto € vuoto. Ma un vento a tratti ci esilia là dove nel campo desolato si fa strada il pensiero della vita.

Vuoi darmi un nome, chiamami l’angoscia, chiamami la pazienza ed il dolore 176

o l'abbandono o il tedio o l’afflizione

o altrimenti se esprimono parole

la certezza di quel che so. E ne avevo cercato altrove il senso, dovunque un volto ardeva visitato

dalla luce del vento, non da questa ch’è materia sensibile alla mano.

7

Forse dice l’addio

Ma ecco la piovosa notte originaria quando da nuvole basse un vento fine, accogline l’offerta, precorre la primavera... vagano voci rotte, cani mogi, segni che nessuno raccoglie, presagi che si spengono nel vuoto. E un sibilo non so che dica roco tra le tue mani disseccate dove il sangue non brucia, né dispera. Come facile, dice, fu la perdita, o forse dice la rinunzia,

forse dice l’addio: guarda il tempo dell’arancia sconsolato, quello breve del mandorlo,

giorni che porto all’oblio, grani che disperdo tramutando. Di me non c'è traccia negli anni

se non come raccontano un viaggio le impronte sulla sabbia d’un deserto.

178

Invocazione

E m’inoltro sospeso, entro nell'ombra, dubito, mi smarrisco nei sentieri.

E nel ceppo non so che avviene, rigido

nel vortice di foglie macerate e divise dai rami e dalla terra. Moto triste che il sole non illumina, né la luce, ma un lume sotterraneo

di materia romita che ci guarda, fissa come la luce del pensiero

quando il vento della memoria spira, sparge e aduna indicibili me stessi. Tale, credi, non ha sorgente il moto puro che mi trascina via, risale lontano ove si scinde la mia vita in ipotesi oscure, in sofferenze

vaghe, in vicissitudini remote.

Strane dove l’effimero ci porta si mettono radici, rami, foglie dove una lamentosa notte fruscia. È la nostra foresta inestricabile,

ascoltane le foglie vive, i brividi e la remota vibrazione, il timbro

d’arpa di cui percuotano le corde. È questa la foresta inestricabile 179

dove cadono i semi, dove allignano,

genti che cercano il sole, viluppi ciechi prima di attingere la luce, prima di giungere al vento repressi. Vieni tu portatrice di colori,

tentane con le mani caute i pruni, estirpa i rovi, medica le scorze, ma ferisciti, sanguina anche tu, soffri con noi, umiliati in un tronco.

Più di quanto potrebbe consolarci

cresce nel vento d’autunno una pallida primavera tanto a lungo negata, fioriture di lagrime, di grappoli, nidi d’inesprimibile, alveari,

miele se è il miele che nessuno accoglie, gemiti rari e parole se sono parole quelle che nessuno ascolta. Insospettato lo spazio fiorisce,

rompe dal germe puro dentro gli astri, splende tra i miti fuochi e i cieli aperti, pagina ancora innocente in cui sogni. E questo il tempo propizio, se vieni,

pesta le muffe tristi, i secchi sterpi, schiantane i nodi, lacera i grovigli, ma ferisciti, sanguina anche tu,

piangi con noi, oscurati nel folto.

Era l’ansia di giungere alla-cima, era tra grige fioriture un monte, erano le città nella tormenta, era nel cielo sterile uno schianto, era un’irritazione spenta,

poi fummo le metropoli insistenti, fummo da nere nuvole la pioggia, 180

il mare rifiorito dal profondo, tra le macerie un livido fermento. Periva il frutto dell’estate,

da opache marcescenze usciva il fiore,

dopo bui nubifragi era il celeste, dopo la lunga malattia l’ebbrezza,

dopo l’assedio l’inno sugli spalti. Movevano le greggi lente, poi il viaggio finiva, era la sosta, dopo l’attesa il bacio sulla porta, dopo l’assenza il passo nella stanza,

dopo il barbaglio il buio e la cisterna. Fondemmo di essenza in essenza, dove prima la stoppia fummo l’erba, dopo la strage la quiete funesta,

dove la fumida palude e il giunco strettamente congiunti il muro e l’ombra. Sempre di sostanza in sostanza dove la sorte ci precorse o il numero,

la legge o la necessità diffusa, fummo la fissità nel movimento, identità soggiunta a identità, tempo nel tempo vivendo. *

Scendi anche tu, rimani prigioniera

nella sfera angosciosa di Parmenide immota sotto gli occhi della moira, nel recinto di febbre dove il nascere è spento e del perire non è traccia!

L’immagine di cui soffro è del mare trepido che una forza lo costringe tutto intero ed immobile e febbrile sotto la sferza grigia che lo svaria in se stesso tra rive affascinate. 181

La voce di cui soffro è della pioggia monotona sicché ne perdo il senso non lo strazio sottile se l’ascolto esiliato in una porta quando insiste e rinforza e ripete che di tutte le cose reversibile è il cammino.

Guarda il numero alterno, la danza perenne delle morti e delle nascite,

da celesti città sabbia, da imperio a servitù, da inedia ad opulenza,

da grazia a venustà, da asprezza a calma. Ed i giorni rinascono dai giorni l’uno dall’altro, perdita ed inizio, cenere e seme, identità nel cielo. Solo a volte ne esorbita un pensiero come palla lanciata troppo in alto non ritorna, sparisce nella gronda. Vieni, interpreta l’anima sconfitta

tra questo essere e questo non esistere, vieni, libera il nostro grido, spazia,

ma ferisciti, sanguina anche tu.

Verrai, sarai lontana oltre il rimpianto...

Non un grano d’oscurità si perde, ma lungo idee contermini una luce procede verso la chiarezza come sul fondo delle nere vie lucenti s'aprono cave viola e miniere

d’azzurro sotto l’alta Procellaria; ma per segni invisibili la notte s'è aperta verso la speranza come sotto un avido cielo nero enfiato 182

vibrano il rosa, l’arancio, il turchino o se un altro colore iride perde che ferisce nel cuore i tincasanti al trotto dei cavalli intrisi d’acqua, la luna in fondo al calice bevuto.

183

Pur che...

Che nascita, che morte, che stagioni, ombra che sei, tritata a questa mola

pur che un vetro si turbi, una speranza di fiori brilli e trepidi sui vasi. Nascita e morte, verità veloce... Si è qui, come si deve, in una parte, in un punto del tempo, in una stanza, nella luce, nel divenire eterno. Altra sorte non so che non sia questa,

siedo rapito in questa fiamma fine, guardo la chiara lamina febbrile del giorno, mentre in cielo è già inverno.

184

Ma nella voce tua

Sotto nuvole e platani, se annotta

e la città si affolla alle sue porte, improvviso nel vento umido e ricco

scoppia il germe nei tuoi sensi del mare, fiore intenso reciso dallo spazio.

È la tua patria, è quella delle rondini

quando a schiere sotto l’iride bassa sfrecciano dal piovoso blu sorgivo,

beccano insetti cupi, stille ardenti, grano che volge in cielo senza fine. Se non fosse che tu dici Fiandra o Nicea o altro luogo di cui parla, terra vera o di sogno, il portolano, mi perderei arreso a quella forza

che replica la vita, per cui tutto brucia, si strugge e torna al suo principio. Ma nella voce tua s’aprono colli

pietosi e vie per dove ci s'immagina desti in un’invincibile presenza; di tutti i modi tristi di durare ci siamo noi raccolti in questo, certo

il più tremendo, che non spera quiete.

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Che ombra rannicchiata sui gradini del tempo leva il capo, si ridesta a questo vento

crudele, che nell’aria di quarzo soffia vita e rovina, e la necessità cupa e celeste? Quali ponti lanciati e verso dove sono le nostre esistenze e con più pena quando un impeto strano opprime i vetri e rade l’erba e un nuovo inizio turba le radici?

‘Ah il tempo quali arcani giorni genera, che viaggi, che ancore levate. I relitti si vestono di fiori e d’ansia, le chimere distendono le ali.

189

Marina

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Che acque affaticate contro la fioca riva,

che flutti grigi contro i pali. Ed isole più oltre e banchi ove un affanno incerto si separa dal giorno che va via. Che sparse piogge navighi, che luci. Quali? il pensiero se non finge ignora, se non ricorda nega: là fui vivo,

qui avvisato del tempo in altra guisa. Che memorie, che immagini abbiamo ereditate, che età non mai vissute, che esistenze

fuori della letizia e del dolore lottano alla marea presso gli approdi o al largo che fiorisce e dice addio.

Rientri tu, ripari a questa proda e nel cielo che salpa un pino stride d’uccelli che rimpatriano, mio cuore.

190

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni

Che speri, che ti riprometti, amica, se torni per così cupo viaggio

fin qua dove nel sole le burrasche hanno una voce altissima abbrunata, di gelsomino odorano e di frane?

Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa;

non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n’esci illesa. Tutto l’altro che deve essere è ancora, il fiume scorre, la campagna varia, grandina, spiove, qualche cane latra,

esce la luna, niente si riscuote, niente dal lungo sonno avventuroso.

191

Visitando con E. il suo paese

Quali regioni dormono dietro di te, che luoghi mi s’aprono improvvisi alle tue spalle,

poggiate aride, balze, coltivati e profili più oltre di montagne, e alle pendici città dai corpi intatti nelle teche mentre al tocco dell’aria le tuniche si sfanno. La valle si restringe, si restringe, è una serpe verdissima nel fondo, migra, spare. Che strada morta a tratti, che carraia

tra forre grige e cave viola alla distanza risale fino a me la tua preistoria. Qui sediamo irreali tra gioventù e vecchiaia. Ombre, ma non dovrebbero, m’inducono a pensare: là fosti colma, qui alcunché si perse,

altro nacque, di tutto ignoro il corso. No, non c'è tempo, no, non c’è rovina, pensieri che non erano più tuoi oggi rinvengono € tutto muta, è identico, tu sei in mezzo e raggeli.

192

Anno

Provvidi ora, ma quieti

si espongono graticci e vasi,

si appende l’uva. L’altro è ignoto, l’altro era ed è chiuso in questo cielo opaco dove un lume vinato si rapprende e il grido del fringuello è già di gelo. È qui, è in queste opere miti e chiare che trascorre e brucia

quel che non ho e che pure dovrò perdere. Tempo passato € prossimo si libra... Io, come sia, son qui venuto, avanzo » tempi inconoscibili, ardo, attendo; senza fine divengo quel che sono, trovo riposo in questa luce vuota.

193

Villaggio

Che condolersi d’anime e di spoglie qui dove senza più meta ti seduce ogni viottola saliente, l’aria, la densità nera d’un bosco o le spire di questa via imperiosa. Il vento ormai inasprisce le ferite, duole negli arti anche recisi, scuote

i giardini già prossimi a stamparsi nel vetro chiaro dell’inverno, e fugge.

Giù dagli alberi cade tempo, tempo tra le foglie soffiate, e tra i due muri trascorre una rapina rossa e livida. Proprio dove più infuria, nello spiazzo,

gli scolari depongono le borse, intrecciano una breve sassaiola,

poi dietro i loro tristi passi sbatte la porta e un altro giorno si richiude. Io sono qui lo stesso che fu altrove e in altro tempo, non importa quanto lontano, né quanto diverso.

E tu chi sei, un abbaglio, un’immagine o qualcuno che passa da questi luoghi preesistendo? Il tempo,

il tempo medica le piaghe, ché all’uomo, dici, è forza porre fine alle lacrime, è forza cominciare ogni giorno — questo è più acuto strazio —

e la vita può darsi nella cenere 194

e questa piaga atroce può volgere in salute o prossima o lontana di te o di tuo figlio che ora compita presso i vetri in altra stanza.

Il tempo adduce e porta via le forme, il tempo ci dà vita e ci distrugge mentre immobile vigila l'essenza.

La notte già tra i monti si prepara... A questo punto, a questa età indecisa è troppo poco attendere che alfine all'orizzonte ambiguo una figura, un portatore di notizie appaia. Tutto, se mai verrà, verrà dal fondo

di questa angoscia eterna senza nome goccia a goccia durata e fatta mia; questo solo, non spero altro soccorso.

E se del giorno un fievole ritardo vacilla sulle cime, presto è notte

e tenebre che scavano passando e forme buie ed uomini con lampade.

195

Nebbia

Sì, voci non più udite si risvegliano, squittii, versi d’uccelli a stormi, strida... e spari altrove nella nebbia, e fischi alterni dentro il bosco che si cela.

Chi era qui che appena percettibile bruciava nello spazio dei tuoi sensi,

volto effimero, larva breve, immagine in corsa, in fuga, presto non sai più se d’uomo o d’animale, chi era qui

che ora è altrove o non è più, mio cuore? Ah, come piove nella pioggia, scendi nel tempo tu medesimo, scompari.

Che notte di lontano si prepara nella nebbia, che vento vuoto e tumido stride fra i tuoi pensieri accesi, unisce ciò che divide l’esistenza, cala.

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A te più giovane

Le strade per cui parti dalla vita e vi torni, non una innumerevoli volte, i passi che portano lontano e quelli che risalgono il versante... che mi viene di là ora? Memorie,

ambagi, è nulla, è come quando

una città pensata nella veglia se dormi, s'addormenta sul tuo cuore con i suoi trivi, i suoi vicoli strani

.da porta a porta fino al fiume. Esisti, quale affanno rinnovi e ne fai parte al mio cuore che n’è già stanco! Guardo sorpreso tutto quel che vive e passa e non ha quiete come te, o il succedersi in casa delle serve e in Padova il variare dell’issopo.

199

Nella casa di N. compagna d'infanzia

Il vento è un aspro vento di quaresima, geme dentro le crepe, sotto gli usci,

sibila nelle stanze invase, e fugge; fuori lacera a brano a brano i nastri delle stelle filanti, se qualcuna

impigliata nei fili fiotta e vibra, l’incalza, la rapisce nella briga. To sono qui, persona in una stanza, uomo nel fondo di una casa, ascolto lo stridere che fa la fiamma, il cuore che accelera i suoi moti, siedo, attendo. Tu dove sei? sparita anche la traccia...

Se guardo qui la furia e se più oltre l’erba, la povertà grigia dei monti.

200

Versi dal monte

Dal greppo sulla strada grigia e torta

la pastorella augura buona via, il mulo tasta il suolo con lo zoccolo ed avanza, fuma la carbonaia. Il primo vento miete nella selva.

Che fai? ti spero salda al proprio ramo... appena ieri, appena ieri, mormoro. -Ora il pensiero a stento tiene uniti e stretti in cerchio attorno al mite fuoco

gli idoli nella sua dolce caverna.

201

Brughiera

Prima che questa pena migri altrove soffrila, è tua, si duole in te la nascita

incessante del tutto ingenerato, il moto nella quiete, il divenire

in quel che è, che resta sempre uguale. Soffri anche tu la vita nella vita,

la vita senza origine né termine, la quiete o il movimento replicato

del mare grigio quando si protende alle dune, ai pontili, agli abitati, lotta coi moli e torna nel suo vaso. D’infanzia in pubertà vecchiezza e morte,

d’errore in disinganno in verità, qui dentro, in questo carcere abbagliante,

si logora un affanno inesplicato prigioniero di se stesso ed immobile. Soffre il cuore, non può reggere a lungo... Il medico si curva sulla piaga, ride se noi diciamo morte, insiste che tutto deve convertirsi in vita

o in ciò che le somigli e che proceda, esprima o risa o lagrime o fastidio,

piccole scorrerie vili o viaggi.

202

Gemma

Che ti mormora il sangue negli orecchi e alle tempie quando è là di febbraio che nel bosco ancora risecchito corre voce d’una vita che ricomincia e oscura

geme negli animali insonni, s’agita nel mare ed oltre il mare nei paesi

ricchi e strani ove a tempo il fachiro nella bara di vetro tra vipere si sveglia? Nei mesi alterni, nella primavera scontrosa

un vento cupo chiama alla fatica per la notte piovigginosa i semi. e le radici esauste e le ceppaie. È il tempo che soffia nelle ceneri, ravviva

le faville sopite, dalle antiche ferite spiccia sangue. Tutt'intorno

gli alberi consueti mettono fiori strani. Rivedo le mie donne, i mici cari,

tra l’uno e l’altro il tempo, il vento, l’uggia.

203

Canto

Dove vai che nel vento arido corri

una di quelle vie senza stagioni dietro i cui muri luminosi un passo che rintroni aizzai cani

e sveglia l’eco? Visti dalla casa da cui ti guardo, dove il corpo vive, movimento e quietudine si sfanno. T'invoco per la notte

che viene e per il sonno; tu che soffri, tu sola puoi soccorrermi

in questo cieco transito dal tempo al tempo, in questo aspro viaggio da quel che sono a quello che sarò vivendo una vita nella vita, dormendo un sonno nel sonno. Tu, adorata, che soffri come me,

di cui mi dà vertigine pensare che il tempo, questo freddo tra gli astri e sulle tempie e altro, contiene la nascita, la malattia, la morte, la presenza nel mio cielo e la perdita.

204

Aprile-amore

Il pensiero della morte m’accompagna tra i due muri di questa via che sale

e pena lungoi suoi tornanti. Il freddo di primavera irrita i colori, stranisce l’erba, il glicine, fa aspra la selce; sotto cappe ed impermeabili

punge le mani secche, mette un brivido.

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo che in un turbine chiaro porta fiori misti a crudeli apparizioni, e ognuna mentre ti chiedi che cos'è sparisce rapida nella polvere e nel vento.

Il cammino è per luoghi noti se non che fatti irreali

prefigurano l’esilio e la morte. Tu che sei, io che sono divenuto che m’aggiro in così ventoso spazio, uomo dietro una traccia fine e debole! È incredibile ch'io ti cerchi in questo o in altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci.

Ma è ancora un'età, la mia,

che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste. L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando

chi soffre o langue spera, se anche spera, 205

che un soccorso s'annunci di lontano,

è in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità. La mia pena è durare oltre quest’attimo.

206

ONORE DEL VERO

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Uccelli

Il vento è un’aspra voce che ammonisce per noi stuolo che a volte trova pace

e asilo sopra questi rami secchi. E la schiera ripiglia il triste volo, migra nel cuore dei monti, viola scavato nel viola inesauribile, miniera senza fondo dello spazio. Il volo è lento, penetra a fatica nell’azzurro che s’apre oltre l'azzurro, nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni

mandano grida acute che precipitano e nessuna parete ripercuote. Che ci somiglia è il moto delle cime nell’ora — quasi non si può pensare

né dire — quando su steli invisibili tutt'intorno una primavera strana

fiorisce in nuvole rade che il vento pasce in un cielo o umido o bruciato

e la sorte della giornata è varia, la grandine, la pioggia, la schiarita.

210

Onde

Qui è la lotta con se stesso del mare che nelle cale livide si torce, si svelle dalla sua continuità, s’innalza, manda un fremito e ricade. Il mare, sai, mi associa al suo tormento, il mare viene, volge in fuga, viene,

coniuga tempo e spazio in questa voce

che soffre e prega rotta alle scogliere.

Amanti

Che mi riserva rivederti, amore,

quale viaggio t'hanno dato i venti? L’oscuro avvolge questi giorni chiari, circola forse in questa luce densa qui dove a macchie dondolanti o ferme filtra oro ed il vino matura.

Spicco dal cielo questo frutto splendido,

chiudo gli occhi su quel che porta seco, o lo stare sulle spine o il dirsi addio a cuore gonfio, questo tempo nel tempo senza fine.

212

Questa felicità

Questa felicità promessa o data m'è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell’unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro.

Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose

e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.

Il vivo, il morto

Lasciami il fiore aperto delle isole, la nascita nel mio cielo dell'Etna e questi uccelli migratori a stormi ciascuno verso la speranza, supplichi.

L’erba è greve nei cimiteri. Il vento dice: è triste se pure non è un gioco

ch’altri e non lui conservi l'apparenza dei vivi e guardi questi marmi fiochi.

213

Scusaci, il tempo di sostare è poco,

la corrente leggera e turbinosa che ti spinse ci porta via di nuovo.

Chi resta con me, preghi, nel fruscio che fa intorno la crescita dell'ombra e del freddo? Oro e cenere esalati fino a notte da questi alberi in fiamme.

E io che sono ferito e ti reco soccorso

con la poc’acqua delle nostre lacrime e con poche parole irragionevoli, più che parole gemiti, ma accoglile, ascolto in questa vita, in questo moto che è quiete, che non può portare altrove,

da murmure a boato questa voce che ora prega e che mi tien sospeso per un attimo sopra questo male.

214

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Incontro

Non è amore, ma mi tenta ancora questa strada rimasta sconosciuta

da me a te, da me agli altri. Incontro anni al piede degli alberi, anni e bacche cadute e dai crocicchi

una setta di foglie striscianti o alzate a volo. Desideri

e pene fanno ressa nella mischia

e io vi passo in mezzo e gelo. Il tempo, dici, compie la sua opera, lacera il vello dei viali, accende

il rogo. Vana sono divenuta, ombra che muta luogo nella fiamma della morte perpetua. E tu chi sei, una persona vera 0 uno spirito che torna in sogno a questa volta? Vedimi:

resto di tanti o pochi anni passati, sono mutata di fanciulla in madre e una madre anche vinta tiene fede,

sta salda o finge sulla terra

ché il figlio deve apprendere la vita e suggere dal campo, anche sfiorito.

Questa fatica non avrà mai fine.

Il vento che disvia di rovo in rovo la palla e imbroglia i giuochi del bambino, 217

le braci sparse; e tu che ora parlavi taci... è un istante della nostra vita.

Il sole ormai raccoglie le sue luci sulla soglia del cielo, a poco a poco n’esce ed ancora il vento non ha requie. Dove resiste ancora un po’ di luce rossa soffiata tra le cime, turbina qualche foglia, s'aggiunge alla sua schiera. Non altro; e l’ora dice che si deve

riprendere ciascuno il suo cammino in questa tratta d’anime e di spoglie. Mi precedi, non sai se veramente c'è una lanterna anche su questa notte.

218

Sulla riva

I pontili deserti scavalcano le ondate,

anche il lupo di mare si fa cupo. Che fai? Aggiungo olio alla lucerna, tengo desta la stanza in cui mi trovo all’oscuro di te e dei tuoi cari.

La brigata dispersa si raccoglie,

si conta dopo queste mareggiate. Tu dove sei? ti spero in qualche porto... L’uomo del faro esce con la barca,

scruta, perlustra, va verso l’aperto. Il tempo e il mare hanno di queste pause.

219

Se pure OSI

Vento d'autunno e di passione. E polvere, polvere che striscia sulla terra di queste vie più candide che ossa. Tempo, questo, che il cuore oppresso s'agita,

revoca in dubbio quel che fu reale, non fiaba, non apparizione vana.

Tue notizie che possono recarmi?

Ti conosco abbastanza per saperti inquieta, sono certo che osi appena,

se pure osi, chiederti che penso. . Penso a te, alla tua passione schiusa,

alla luce di gemma ch'è dell'Umbria di prima estate tra Foligno e Terni, mi chiedo, scusa la follia, se mai

una gioia sarà gioia per sempre o comunque sia colma la misura delle cose che devo amare e perdere.

220

Come deve

Che vuoi che vieni da così lontano

ed entri a volo cieco nella nebbia fin qua dove gli uccelli anche di nido da ramo a ramo perdono la traccia?

La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta

il fuoco; la giornata scorre piena o.uggiosa, arriva un forestiero, parte,

cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe ed abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni.

221

Versi d'ottobre

È qui dove vivendo si produce ombra, mistero

per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta

ne getta il seme alle sue spalle, è qui non altrove che deve farsi luce. È passata, ne resta appena traccia, l’età immodesta e leggera quando s’aspetta che altri, chiunque sia, diradi queste ombre.

Quel che verrà verrà da questa pena. Siedo presso il mio fuoco triste, attendo finché nasca la vampa piena o il guizzo

sul sarmento bagnato della fiamma. Tu che aspetti da fuori della casa,

della luce domestica, del giorno? oggi, oggi che il vento balza, corre nell’allegria dei monti e a quell’annuncio di vino e di freddi la furbizia dei vecchi scintilla tra le grinze?

Quel che verrà, verrà da questa pena. Altra sorte non spero mai, neppure

sotto il cielo di questo mese arcano che il colore dell’uva si diffonde

e l'autunno ci spinge a viva forza fino ai Cessati Spiriti o al Domine quo vadis?.

227

Nero

Ma ecco l’ora della notte, quando dal profondo dello spazio si sporge il volto della terra scarruffato, impervio, che dobbiamo consolare noi con le nostre veglie tristi e i lumi fiochi di un firmamento cittadino.

Il vento degli abissi neri e viola agita gli orti risecchiti, porta

il gemito per le vie dei gatti,

sbatte le imposte sconficcate, fuori delle pareti chi s’attenta vede il vento, la lanterna, gli ubriachi.

Dici, che m’ha portato questo giorno?

o nulla o poco più di quel che lascia apparire e sparire nei giorni bassi ostinati la cortina di pioggia aperta e chiusa,

alberi, brani di città, carriaggi,

persone, pioggia nella pioggia, fumo.

223

Come tu vuoi

La tramontana screpola le argille, stringe, assoda le terre di lavoro, irrita l’acqua nelle conche; lascia

zappe confitte, aratri inerti nel campo. Se qualcuno esce per legna, o si sposta a fatica o si sofferma rattrappito in cappucci e pellegrine, serra i denti. Che regna nella stanza è il silenzio del testimone muto della neve, della pioggia, del fumo, dell’immobilità del mutamento. Son qui che metto pine

sul fuoco, porgo orecchio al fremere dei vetri, non ho calma

né ansia. Tu che per lunga promessa

vieni ed occupi il posto lasciato dalla sofferenza non disperare o di me o di te, fruga nelle adiacenze della casa, cerca i battenti grigi della porta. A poco a poco la misura è colma,

a poco a poco, a poco a eci come tu vuoi, la solitudine trabocca,

vieni ed entra, attingi a mani basse. E un giorno dell'inverno di quest'anno, un giorno, un giorno della nostra vita.

224

In un punto

La primavera quando arriva

che il corpo ancora stranito regge al colpo, ma trema e si risente nelle sue radici

O prima, ancora prima, nelle notti di soprassalti e d’ansie quando mugola il cane, tra la ghiaccia e gli stellati dal dolore dell’anno prende forza e-ali un vento terragno e a quel richiamo l’animale profondo nella tana si sveglia, il pastore in esilio leva il capo alle cime, non ho pace, ti richiamo a me, anima mia, dai luoghi

noti e ignoti ove fosti calpestata, ti dico: spera, ti auguro: sii calma, in un punto del vento,

in un punto della bufera eterna per debolezza o per viltà ti tendo

insidie, ti preparo inganni, mentisco: alcuno prenderà governo di te, verranno guide... Il apri all'oscuro di tutto quando soffre, soffre senza virtù, senza misura...

225

Interno

Si filtra le domeniche di sole nelle valli nascoste, si sciama, se ne torna

paghi con fiori e tirsi da mettere nei vasi agli angoli o alla luce dei vetri sulla madia. Perdo il segno di questo libro aperto dei mesi, degli anni. Rido, vedo se levo il capo due finestre vive dove vibra l’attesa delle rondini e te che innalzi questi trofei lievi.

Un giorno, quale giorno? tra questa primavera e quest'inverno, un anno tra i tanti anni,

tu ed io e tra noi due nostro figlio, da stanza a stanza questo lume limpido.

226

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Il piacere

Il temporale rotola sull’Umbria, copre i suoi orridi felici, stende un velo

sui monti che digradano nei monti, si perde. Il tempo è qui com'è là, vuoto, stacca passo da passo in queste vie ripide, unisce gesto a gesto, mentre nelle piazze la maschera dà acqua

e la rondine falcia a pieno petto

alle origini della pioggia i venti. Mi son dimenticato in altri e in me,

ho durato nel mio mestiere oscuro, mai che un giorno non t’abbia dato asilo

e cacciato dai miei pensieri inquieti, come? né più né meno di una volta,

come ieri domani, giorno giorno.

Se è male appigliarsi a quel che non è nostro,

non è meno ch'io ti fugga e soffra come ai guadi limacciosi l’ermellino inseguito s'immola al suo candore. Ma il supplizio è senza fine quando si pensa della vita ch’è solo vile se non è crudele. Non l’avessi saputo me ne avverte

questa terra che cala

umile giù dalle sue cime, guarda splendere dalle sue terrazze cielo, 229

cielo € terra indivisi, giunge tempo a tempo, unisce i numi agresti ai santi se frughi questi nascondigli e vedi le grotte e le Maestà su per il monte.

230

Lungo il fiume

Chi esce vede segni inaspettati, toppe di neve sopra i monti. Il freddo di Pasqua è crudele con i fiori,

fa regredire i deboli, i malati e più d’uno dimessa la speranza rabbrividisce dentro sciarpe e baveri. Se t’incontro non è opera mia,

seguo il corso di questo fiume rapido dove s’insinua tra baracche e tumuli. Son luoghi ove il girovago, flautista o lanciatore di coltelli, avviva il fuoco, tende per un po’ le mani,

prende sonno; il vecchio scioglie il cane lungo l’argine e guarda la corrente e l’uomo in piedi sulla chiatta fruga il fondo con la pertica e procede ore e ore finché nelle casupole

sulla tavola posano le lampade. Il paesaggio è quello umano che per assenza d’amore

appare disunito e strano. Tu come t’aggiri solitaria. È più chiaro che mai, la sofferenza

penetra nella sofferenza altrui

di oppure è vana — solo vorrei non come fiume freddo, come fuoco che comunica... 231

Amore difficile a portare, difficile a ricevere. Se osa

si turba, sente il freddo della serpe ma se non osa volge inappagato, preme d’età in età, di vita in vita.

Il fiume corre, snoda le sue rapide, la famiglia raccolta per la cena brucia l’attesa, si divide il cibo. Tuona, a tratti pioviggina. Cresce erba.

232

Il pescatore

Viene gente per acqua. Gente muta

rasenta le murate delle navi alla fonda, si riscuotono all’urto dell’attracco.

Il soffio di prima estate vola basso, sfiora le tende, l’erba, eccita i capelli. E l’alba ed è anche l’ora che si tirano le reti,

ora che in un brivido d’attesa e d'incertezza luminosa guizza

di casa in casa, crea vuoti ed immagini che se guardi da presso si dissolvono rapidi sopra gli alberi e oltre i ponti. Tempo sospeso ad alcunché tra oscuro e manifesto quando pare certo che il vero non sia in noi, ma in un segreto o un miracolo prossimo a svelarsi,

tempo che illude gli uomini e se desta speranza è la speranza di un prodigio.

L’inquietudine fa remote, strane le ombre là sulla battigia e sulla rena umida che scruto tra queste antenne e questi alberi nani.

Perdonami, è parte dell’umano

cercare come fo in luoghi arcani

quel ch’è prossimo a noi umile e vero oppure in nessun luogo. Tendo il viso,

233

seguo con gli occhi ansiosi il pescatore mentre viene sul frangiflutti e reca dal mare quel che il mare lascia prendere,

pochi doni, del suo perpetuo affanno.

234

L'osteria

L’autunno affila le montagne, il vento fa sentire le vecchie pietre d’unto,

spande dal forno un fumo di fascine a fiotti tra le case e le topaie. Son dietro questi vetri d’osteria

uno che un nome effimero distingue appena, guardo. La mattina scorre,

invade a grado a grado l’antro. L’oste numera, scrive giovedì sul marmo,

la donna armeggia intorno al fuoco, sbircia verso la porta se entra l’avventore.

Seguo la luce che si sposta, il vento; aspetto chiunque verrà qui

di fretta o siederà su queste panche. Il bracconiere, altri non può essere

chi s’aggira per queste terre avare

dove la lepre ad un tratto lampeggia, o il venditore ambulante se alcuno,

raro, si spinge fin quassù alle fiere ed ai mercati dei villaggi intorno. Altri non è da attendere. Chi viene porta e chiede notizie, si ristora,

riparte in mezzo alla bufera, spare.

Che dura è un suono di stoviglie smosse: guardo verso la macchia e più lontano dove solo la pecora fa ombra, mi reggo tra passato ed avvenire o com'è giusto o come il cuore tollera. 235

Richiesta d'asilo d'un pellegrino a Viterbo

Che finestre, che camere parate a festa schiudi all’aria, al fresco, al sole mite. E case intorno la cui fronte piglia fuoco, i bambini, le rondini, le nottole.

I carri d’uva sostano ai portoni in fila indiana, si rincorrono corpi vivi ed ombre. La donna prende acqua alla fontana,

risale su per il proferlio, guarda

quella nave ancorata nel cielo ch'è Viterbo poi rientra, sparisce nell’interno della casa, della città, del tempo. Nuovo di queste vie, ma non straniero

ho sentito l’infermo sulla soglia pregare per la sorte di quest’arca con il suo andirivieni d’operai,

le sue case crepate, i suoi animali,

i suoi vegliardi acuti ed i suoi morti. Ho lasciato alle porte i miei cavalli, ho chiesto asilo e molto supplicato d’esser preso a farne parte. Vigila

ora tu, scruta i segni della notte.

236

Las animas*

Fuoco dovunque, fuoco mite di sterpi, fuoco sui muri dove fiotta un’ombra fievole che non ha forza di stamparsi, fuoco

più oltre che a gugliate sale e scende il colle per la sua tesa di cenere,

fuoco a fiocchi dai rami, dalle pergole.

Qui né prima né poi nel tempo giusto ora che tutt'intorno la vallata festosa e triste perde vita, perde fuoco, mi volgo, enumero i miei morti

e la teoria pare più lunga, freme di foglia in foglia fino al primo ceppo. Da’ loro pace, pace eterna, portali in salvo, via da questo mulinare di cenere e di fiamme che s’accalca

strozzato nelle gole, si disperde nelle viottole, vola incerto, spare; fa’ che la morte sia morte, non altro da morte, senza lotta, senza vita. Da’ loro pace, pace eterna, placali.

Laggiù dov'è più fitta la falcidia arano, spingono tini alle fonti,

parlottano nei quieti mutamenti da ora a ora. Il cucciolo s’allunga nell’orto presso l’angolo, s’appisola. * Così, mi dice Jorge Guillén, chiamano in Spagna il giorno dei morti. 257

Un fuoco così mite basta appena, se basta, a rischiarare finché duri questa vita di sottobosco. Un altro,

solo un altro potrebbe fare il resto e il più: consumare quelle spoglie, mutarle in luce chiara, incorruttibile. Requie dai morti per i vivi, requie

di vivi e morti in una fiamma. Attizzala:

la notte è qui, la notte si propaga,

tende tra i monti il suo vibrìo di ragna, presto l’occhio non serve più, rimane la conoscenza per ardore o il buio.

238

Nell'imminenza dei quarant'anni

Il pensiero m’insegue in questo borgo cupo ove corre un vento d’altipiano e il tuffo del rondone taglia il filo sottile in lontananza dei monti. Sono tra poco quarant'anni d’ansia, d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide com’è rapida a marzo la ventata

che sparge luce e pioggia, son gli indugi, lo strappo a mani tese dai miei cari,

dai miei luoghi, abitudini di anni rotte a un tratto che devo ora comprendere. L’albero di dolore scuote i rami... Si sollevano gli anni alle mie spalle a sciami. Non fu vano, è questa l’opera che si compie ciascuno e tutti insieme i vivi i morti, penetrare il mondo

opaco lungo vie chiare e cunicoli fitti d’incontri effimeri e di perdite o-d’amore in amore o in uno solo

di padre in figlio fino a che sia limpido. E detto questo posso incamminarmi

spedito tra l’eterna compresenza del tutto nella vita nella morte, sparire nella polvere o nel fuoco

se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

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Epifania

Notte, la notte d’ansia e di vertigine quando nel vento a fiotti interstellare, acre, il tempo finito sgrana i germi

del nuovo, dell’intatto, e a.te che vai persona semiviva tra due gorghi tra passato e avvenire giunge al cuore

la freccia dell’anno... e all'improvviso la fiamma della vita vacilla nella mente.

Chi spinge muli su per la montagna tra le schegge di pietra e le cataste si turba per un fremito che sente ch’è un fremito di morte e di speranza.

In una notte come questa, in una notte come questa l’anima,

mia compagna fedele inavvertita nelle ore medie

nei giorni interni grigi delle annate, levatasi fiutò la notte tumida

di semi che morivano, di grani che scoppiavano, ravvisò stupita

i fuochi in lontananza dei bivacchi più vividi che astri. Disse: è l’ora. Ci mettemmo in cammino a passo rapido,

per via ci unimmo a gente strana. Ed ecco il convoglio sulle dune dei Magi muovere al passo dei cammelli verso

la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole, di voci. 243

Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa. E tutto passò via tra molto popolo

e gran polvere. Gran polvere.

Chi andò, chi recò doni o riposa o se vigila non teme questo vento di mutazione: tende le mani ferme sulla fiamma, sorride dal sicuro d’una razza di longevi.

Non più tardi di ieri, ancora oggi.

244

A mia madre dalla sua casa

M’accoglie la tua vecchia, grigia casa steso supino sopra un letto angusto, forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto, conto le ore lentissime a passare, più lente per le nuvole che solcano

queste notti d’agosto in terre avare.

Uno che torna a notte alta dai campi scambia un cenno a fatica con i simili,

infila l’erta, il vicolo, scompare dietro la porta del tugurio. L’afa dello scirocco agita i riposi,

fa smaniare gli infermi edi reclusi. Non dormo, seguo il passo del nottambulo sia demente sia giovane tarato mentre risuona sopra pietre e ciottoli; lascio e prendo il mio carico servile

e scendo, scendo più che già non sia profondo in questo tempo, in questo popolo.

245

Nel mese di giugno

Nel mese di giugno la città quando sospesa e alta sopra il nostro sperdimento si desta alla frecciata delle luci

all’ora incerta tra vigilia e sonno che il corpo inciampa nel suo peso

ma si rialza sulla sua fatica nella pausa del tempo tra la rondine e l’assiolo tra la vita e la sua sopravvivenza,

Tu che spezzi la servitù e l'orgoglio — dicono — della sofferenza, vieni

se già non sei dovunque in veste di randagio, d’infermo, di bambino tribolato. Segui il timido, accosta il solitario,

ripeti: la virtà quando non giunge fino all’amore è cosa vana. È quell’ora della metà dell’anno che il senza tetto strascica i suoi cenci

sull’erba pesticciata, cerca asilo,

la lucciola lampeggia, il cane abbaia.

246

Cose estive

La portatrice d’acqua si bilancia il carico sul cercine e s’avvia passo passo per il pendio. La macchina calata al fondo valle ora muglia sulle rampe. Il brivido temuto

corre su per la palina. Che fai, che fai? resisti a questa lima? Il pensiero turbato lotta appena,

si stringe alla sua esile famiglia.

247

Il campo dei profughi

La donna sale su lenta ed ammaina cenci nell’aria infida tesi tra palo e palo. Il cane uggiola, dà corpo alle ombre.

Son segni di giornata tempestosa sul dedalo di terrapieni e fosse, sono uomini come torme in sosta

o merci ferme alla dogana, accolti sotto tende o in casupole, di stanza

o di passo — veduta fino a notte di migrazioni senza moto, senza pace, che il giusto eletto ad espiare ritto presso lo stipite contempla tra pioggia e pioggia, neve e neve. Il vento porta un tonfo d’acque sorde.

Che fai, che fai? ti perdi in questo arcano. L’uomo nuovo del posto esita incerto che via prendere, l’altro, pescatore d’anguille o renaiolo, passa oltre, buca deciso questa coltre d’umido scesa sul fiume tra baleni e fulmini.

248

E il lupo

Quando scricchiola il ghiaccio ed animali in ansia là sulla banchisa guardano i mari disfatti, la deriva di icebergs

e sussulti di squali trafitti dalla fiocina s’agitano, si spengono e il salmone avido di procreazione e moribondo nuota a ritroso nei torrenti in piena

e il lupo

con spasimo di tutta la sua vita di quella dei suoi padri e dei suoi cuccioli con questa ressa nel cuore

prende la via dei monti e si ritrova agile sulle vecchie zampe, pronto al richiamo dei venti originari che squillano l’amore il viaggio e la rapina, vita non mia, dolore

che porto dalla notte e dal caos,

ti risenti improvvisa nel profondo, ti torci nelle angustie, sotto il carico.

Vivere vivo come può chi serve

fedele poi che non ha scelta. Tutto, anche la cupa eternità animale che geme in noi può farsi santa. Basta poco, quel poco taglia come spada. 249

Mezzogiorno, primavera

La vita com’è da un giorno all’altro dell’anno pulsa sommessa nelle case, opprime

i più facili allo sconforto. Il vento

lungo le strade prese d’infilata

secca i muri, tormenta la mimosa.

Il venditore di fortuna tace,

l’uomo amputato delle gambe scioglie il cane dal suo traino, attende; ed una avvolta in uno scialle viene di tra la selva di lampioni e d’alberi.

Laggiù rodono pane in quella solitudine da un capo all’altro della strada. Pena

uguale alla pazienza, la stessa che guardai fin tanto ch’ebbi cuore, muta e triste — se non che altri più arditi tolgono spine alla corona. Il giorno

lungo e freddo di primavera illumina

e strapazza le fioriture effimere.

250

A Niki Z. e alla sua patria*

Che voce già sentita ridere e implorare tra isola e isola e che strido di rondine guizzata tra nube e nube viene e mette fine al letargo sulla riva dopo anni e anni di mare. Chi sei? non so, ma certo qualcuno come te m’apparve altrove in lembi di città visti e perduti dietro un velo di pioggia o sotto un cielo diviso tra una nuvola e un sorriso. E silenzio e clamore d’un popolo che lotta ti fa ala.

Se qui dove s’abbattono a ondate mare e tempo non è facile distinguere echi da voci — non m’inganno sui gemiti d’uccisi ingiustamente, riconosco

l’ora che il corvo stringe la sua ruota

e purché l’aria si muova l’impiccato tentenna. Come porti leggera questo peso. La sofferenza per il giusto allevia il cuore, dà forza ed ebrietà

e più nella tua patria, anche mia, dove

l’insidia della vipera fa aspra la via, sotto la pura e tersa lampada tutto è pieno di luce e di tenebra invisibile. * Il riferimento è alla lotta atroce che si combatte a Cipro.

251

È stagione di pioggia e di schiarite, di smarrimenti e incontri, il mare colpo a colpo ride e spasima.

252

Casa per casa

Il volo dei monti

grigio d’aprile, viola di settembre mi trascina.

È un paese che scorro con la mente

casa per casa, loculo per loculo: le sue tribolazioni e le sue feste furono d’anno in anno anche mie spine,

mio vino. È il tempo, è l’una dopo l’altra il distacco dalla mia pianta d’anime pronte al viaggio o riluttanti, ferme tra luce ed ombra un attimo, travolte

in cunicoli giù di padre in padre, d’era in era che torna vivo e sanguina.

Lo sciame d’api avvolge il bugno antico. Vite piegate sotto i mali o forti ciascuna con il suo tributo, offrire, comunicare ad altri il fuoco, scendere nell’umile trafila finché duri la ricerca a tentoni della porta in fondo a questo corridoio oscuro. Non altro. E quel che resta è opera d'uomo lasciata in tronco € proseguita. Segna, segna con mano fermai pieni e i vuoti,

i vivi i morti tu che scindi e separi. Guardo, ma non dispero, la rapina.

253

La notte lava la mente

La notte lava la mente.

Poco dopo si è qui come sai bene,

fila d’anime lungo la cornice, chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare traccia un segno di vita, figge un punto. Raramente qualche gabbiano appare.

254

Nota dell’ Autore

Questo volume raccoglie quasi tutto ciò che ho scritto in versi dal 1934 al 1957, cioè i sei libretti fin qui stampati e poche altre poesie che erano rimaste nel cassetto per non aver trovato giusta collocazione in nessuno di essi. Ho tolto alcune pagine, ho ridotto e ritoccato qualche testo delle prime tre plaguettes. Mi è stato impossibile ritrovare le condizioni per intervenire più profondamente e dall’interno su quelle lontane operette. LA BARCA infatti fu stampata da Guanda (Modena) nel 1935. Il testo che si legge qui è tuttavia, a parte qualche sfrondamento, quello dell’edizione Parenti (Firenze) del 1942. Im limzine è stata premessa una breve poesia (Parca-Villaggio), suggerita da un ritorno a quel mondo poco più che infantile nel 1951. L'edizione Parenti recava una avvertenza che riproduco:

«Accogliendo il desiderio più volte espresso da alcuni.miei affettuosi amici di vedere ristampato questo libretto divenuto ormai raro, avrei vo-

luto lasciarne inalterato il testo proprio per significare il distacco che il tempo e il mio lavoro hanno accentuato in me da esso. Tuttavia considerando la particolare disposizione dell’animo mio in quella stagione, alcune liriche o parti di esse mi sono apparse superflue e sbandate, talvolta manierate e viziose. Tutto ciò che ho tolto o cambiato a questa operetta dovrebbe nell’intenzione contribuire a una maggiore sincerità attuale di essa, secondo il posto che occupò allora nella mia vita. Ho inoltre aggiunto altre composizioni all'incirca di quel periodo che ripugnarono a quella mia provvisoria assolutezza di interessi patetici e altre scritte immediatamente dopo la pubblicazione del libro. «Da quanto ho detto si sarà già inteso che non voglio in nessuna maniera pronunciarmi circa il valore letterario che io attribuisco a questi versi: e veramente mi trovo ora nella condizione meno opportuna per farlo. $ono invece disposto ad affermare che essi non ebbero all’origine alcunché di sperimentale o di scolastico, ma segnarono in termini persino troppo scoperti l'emozione di un primo contatto consapevole con la vita. Che cosa significhi qui consapevole, si potrebbe spiegare soltanto con un lun1 Riproduce tale e quale la nota in chiusura de I/ gizsto della vita (Garzanti, Milano 1960).

255

go discorso che rimando ad altra occasione e, spero, a un tono di voce

più persuasivo. «Sono comunque fiero di aver cominciato a scrivere così, da ciò che real-

mente sentivo, da questa fisica perfetta. Che poi codeste figure si siano rapidamente consumate, non toglie che io le abbia sentite e che appunto dall’averle sentite dipenda quel poco che in seguito è avvenuto di me. «Delle poesie estranee all’originale di questo libretto, le due preposte ad esso sono anteriori, quelle posposte contemporanee o appena più tarde». AVVENTO NOTTURNO fu pubblicato da Vallecchi (Firenze) nel 1940 e comprende versi scritti tra il 1936 e il 1939, quasi tutti apparsi sulle riviste del tempo e soprattutto sul «Frontespizio» e su «Letteratura». Nessun cambiamento apprezzabile, solo due poesie tolte. UN BRINDISI apparve nel 1946 presso Sansoni (Firenze) e raccoglie i ver-

si scritti tra il 1940 e il 1944: è il libro che ha subìto più ritocchi, riduzioni, tagli. Una indicazione è forse necessaria all’intelligenza del componimento intitolato appunto Ur brindisi: è una prefigurazione, tra allucinata

e orgiastica, del dramma della guerra che mette a soqquadro il falso olimpo o giardino di Armida in cui molti credevano di vivere. QUADERNO GOTICO è l’album di un amore tanto più esaltante e spiritato quanto più l’animo ne aveva bisogno dopo l’aridità, la paura, l’angoscia, l’odio. Fu stampato prima sulla rivista «Inventario», poi presso Vallecchi nel 1947. Reca qui un’appendice di due poesie inedite.

POESIE SPARSE sono appunto versi scritti tra il 1945 e il 1947 inediti o sparpagliati, insieme con altri, su riviste: ricordo Società, Botteghe oscure, Poesia. PRIMIZIE DEL DESERTO, edite da Schwarz (Milano) nel 1952, appaiono qui immutate. Lo stesso si dica per ONORE DEL VERO, edito da Neri Pozza (Venezia) nel 1957.

256

II Nell’opera del mondo

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Dall'infedeltà del passato Non ebbe molto senso la visita. Lo stesso

la sua buona grazia ne sorrise. Né io fui sulle spine. Lasciai senza forza d’andarmene che il giorno sciorinasse il suo interminabile acquasole.

Non ci fu altro linguaggio, mi sembra. Mi sembra o fu così veramente? — penso

sulla via del ritorno mentre guardo la città o quel tanto di essa che riappare tra le dune: né distinguo vero o ingannevole,

solo quella profondità senza suono, suono, almeno, che io percepisca. *

Oh, sì, il tempo. La certezza discontinua

del passato. E poi lo sperdimento tra reale e irreale del senso, l’equivoco sortilegio delle sue testimonianze. E insieme la sua parte non in luce mai granita in eventi

non catturata da forme non segnata da immagini neppure inframentali o da ombre, tempo senza storia ma non senza potenza. La penso in vecchiaia e in solitudine

dopo anni di apogeo che fissa quel gorgo e nei suoi non pensieri mi confondo qui tra l’accecamento dei marmi sotto il volo, più che il volo la frana nell’aria celeste dei colombi

tra cupola e cupola del luogo che parve umbilicale del mondo. 417

La gemma dura insolubile dell’istante unico che vale. Si porta lei nel tempo quella luce e quella spina mentre cresce in potere e solitudine e s'addensa nell’aria la mole delle sue opere.

Sì, l'ordine chiaro, il buongoverno, l’ossequio, la fedeltà dei notabili, il tripudio, perfino, delle vaste assise asiatiche, ma, dentro, la sottile cattività nel passato dei sentimenti, la loro lima. E insieme tentazioni dal diverso, invidie, però subito vane, di sorti, possibili vicende, possibili temuti suoi tradimenti.

Questo mi viene in mente di lei qui sugli spalti. Ma è a lei o a un’eterna zarina onnipresente nella storia —

signora bruciata da un ricordo, rivoluzione invecchiata — che pensi, mi chiedo

un poco, sì, ma solo un po’ farneticando nell’ora che sotto un’infiorata di scolari la sua casa-mausoleo riceve la visita meridiana dei colombi. *

Volano i grandi provveditori della pace con la loro coda di esperti,

gravi, conoscitori a fondo della controversia, equi nel soppesare i diritti delle parti. Volano dunque i signori dell’onesta convivenza

assai larghi di sorrisi ad ogni scalo del raid — fasciati, sia pure, di riserbo non però dubbiosi sul buon esito del lavoro di rammendo, calmi,

non poco rassicuranti 418

per tutti, per i morti che la storia ha voluto, peccato, e per i {superstiti. i Lei che ebbe in mano, credeva, ogni governo ne soffre, sì, ne sorride ma senza cattiveria o scherno dalla sua impotenza, muta, ancora scossa dal trauma

della perdita del regno, o neanche più tanto. E potrei perfino non pensarla mentre è lì, non meno di me, nel silenzio che unico le arriva

dagli eventi passati o che si preparano o che mai non saranno. *

La zattera circassa sul far della notte

risale il fiume Koura con fuochi sotto gli spiedi con suoni e vini a bordo in memoria di Rustaveli

il poeta dell'Uomo dalla pelle di leopardo e suo, di lei regina di queste rupi ma dietro quel remoto appuntamento del potere e dell’arte due vite disfatte nella sostanza, disfatte dal ricordo non meno che dalla dimenticanza. *

(Di nuovo quel lamento? Ancora quel suono

— è vero, non più che un accenno — di ghironda. Attento. Ancora la scrittura letta all’inverso

scambiando la fine per l’incipit ponendo nel passato l'origine

che incuba nell’aspettazione dei tempi — penso pensando la sua come una storia risucchiata dal firmamento un po’ certezza, un poco inganno dei quantar.)

419

II

interminabilmente in contumacia

Piace ai compari responsabili della buona causa mutare un po’ di sede venire su dai banati

puntualmente alle assise e, sia ben chiaro, alle agapi massicci, non per questo meno perfetti acrobati

nei difficili esercizi d’equilibrio ad alta quota, attendere in fila sul molo

la visita guidata dell’incrociatore Aurora, non omettere altre devozioni, incluso,

chi sa mai, un discreto

pellegrinaggio all’altra Bethlem rossa Gori. Piace molto. O dispiace troppo a te la lettera e la forma, immancabile rimasuglio del fuoco

dove un attimo rifulse — farfuglia da sotto una crosta d’acqua e sale

la mai dispersa voce sottomarina con cui parla di là dalla scrittura l’apostolo — non lui, lo spirito che opera la consumazione del mondo, lo opera

per forza della sua origine continua. E mi fa indulgere, indulgere paziente su questo. *

Qualcuno nelle more del lungo viaggio tartaro confonde i tempi, vocifera di lei ben chiusa all’interno della sua casa sibillina, da alcuni data per morta e altro. 420

x

«Distogli la mente, scrollati la dura fascinazione dell’autocrate», starebbe a me di esortarlo

non fossi preso io stesso dal miraggio, soggiogato dall’enigma. «Dissolvi quell’incubo,

annega quell’idea fissa», mi sforzo invano di dirgli

agitandomi nell’intontita veglia non meno che in un sonno subdolo infuso con arte. E già insensibilmente anche io la penso,

muta, che dietro le sue muraglie canta il suo potere interminabile, la sua infinita impotenza e solitudine tra cielo e terra, da epoca a epoca versando quel filtro. *

Notizie intanto assicurano che tornano, che sono anzi alle porte i valenti uomini

garanti incomparabili del buon ordine e dello status quo molto ma molto antea. Tornano via mare, si direbbe, con un vento promiscuo un po’ di maestro un po’ levante se non è uno scherzo, se non è solo il memento

di qualche danza macabra quel broncio d’ammiraglio al rimorchio dell’almirante.

Chissà «ricopre in fretta i cadaveri la memoria della repubblica» è possibile che pensino se pensano e non seguono invece la deriva mezzi sbronzi o drogati da qualche intruglio preparato dalla storia per mano delle sue prefiche — gonzi, non sapendo delle sue astuzie,

prendendo per buone le sue farse finché li spazza via con un’ondata, con molto sangue oscuro però. {E amen.

421

In un punto della casa squillò il telefono. La chiamava per nome, la chiamava con insolenza.

«Qualcuno soffia nel cumulo dove sono ammontichiata

nei miei tre pugni di polvere» gemette la pur adulata dai notabili, la pur onnipresente rossa girl indecisa se rispondere. Zittirlo? — inutile. Non avere udito? — impossibile. Ed esitava tra se stessa e il mondo, tra paura e paura senza invocarmi finché volsi le spalle io pure e uscii nel buio imprecando. *

Non la zuffa eterna con l’ombra

comune ai generati sotto la nube, neppure l’agonia. Non questo, ma un modo — ed è il più temibile — che ha la morte d’insinuarsi non contrastata da nulla.

Non un modo cruento, se mai troppo indolore, suppongo. Sequenza più spesso ricorrente nella scucita pellicola i vasti e sonnolenti verminai di ebeti per mancanza, in Asia, di nutrimento, la pila scarica della mente del soldato di assalto,

il fiume enigmatico, la diaccia crudeltà degli sguardi, a intervalli un sorriso anonimo, gualcito dal peccato o forse da ottuso pentimento. L’alba dall’umidore di coma

crocida sui putrefatti ricoveri, di tutti i miracoli il meno credibile è il risveglio — 422

O sei tu in angustia, tu solo, e questa è la buccia necrotica, € qui scoppia il seme, non sai quale né quando — € per questo ti torturi — ma scoppia e germina

nella bassa febbricola ancora opaca dell’anno. *

L’identico, il multisecolare vivido della vicenda — guàrdati. Non eri tu? chi era se no dietro la maschera bruciando come ora tu nella frizione dei tempi,

soffrendo male il ritardo e l’immaturità degli eventi — insinua per la spirale del mio incerto sonno — e schiude sotto la linea forte dei capelli

la valva azzurra dello sguardo — un volto antico e giovane, un’effige ab acterno incrostata di salsedine.

Non eri tu? — riprende da un suo rotto sospiro infrastellare e dal tremito dei suoi monili elettrici la notte, la semina incessante alta sul mare a Patmos e qui nella stanza mille uno d'albergo a Mosca.

— Chiunque fosse, è ora, è ben altro. *

Come possono tutti dimenticano:

ed eccoli già con la mente in un minigiardino di suburbio intenti alla coltivazione delle dalie tra le rose autunnali e i delfion, quieti, fiutando sottocasa

l’odore di vainiglia della torta domenicale che aspetta, loro, gli strateghi carponi nella poltiglia, esperti delle insidie delle rive, incalliti alcuni, temo, nel massacro —

423

eccoli dunque nel silenzio dei mortai, l’orecchio al parlottio sospetto della corrente o sordo che rifiatano fumacchiando ciascuno la briccica d’oppio del suo mediocre domani, vuoti equamente in patria e lungo il delta del Mekong,

non più loro in nessun luogo del mondo se mai lo furono, se — vivi nondimeno, presenti nel cuore del perpetuo avvenimento anch’essi. Anch’essi, sono certo.

Il bambino nel grembo. Il bambino che si prepara a nascere e spreme le vene di letizia e di dolore diffuse in tutto il brulichio stellare di passato, presente, possibile — quel siero bruciante, quell’unico indivisibile alimento... E palpita

la sua solarità ancora in ombra non ancora salutata dai tre battiti d’ala della fenice eppure imminente,

eppure certa, mi dico, e lo antivedo che un angolo di notte ben gemmata gli scivola via dagli occhi umidi girati verso l’alba.

Il futuro, ne reca nel sigillo dei suoi pugni chiusi l’imprevedibile potenza — sorrido con frenesia e con ansia abbagliato da lui e più ancora dal mare trepidante dell’origine che lo trapunge e

{lo incalza. lo so, può esserne ricco e non toccarne, affondare in qualche terra desertica

o fra la semimorta moltitudine sotto il cielo-sudario di Dacca. Lo stesso con lui l’incompiuto miracolosamente avanza.

424

E,

La nascita ininterrotta, la crescita dolorosa, certo, e in più troppo difficile a credere — non è questo il trauma ma quando tra richiesta e risposta di un’epoca s'interpone un tempo irritato e freddo d’inazione frenetica che le pale in movimento dell’ansia

non agguantano il duro minerale del presente se mai solo polvere, solo briciole — e queste refrattarie alla macina della trasformazione operante. «Tienti fermo alla parola avuta»

m’ingiunge e si lascia alle spalle un mare bianco sferzato ancora lui eppure altro da prima l’uomo intravisto a Patmos

esperto, si direbbe, d’avarie fortificato dai naufragi e splende non so se dalla storia o nel suo Kerigma respirando a pieni polmoni il bruciaticcio mischiando con umiltà e pazienza in un azzurro ed universo infuso due essenze inconciliabili

la stasi e il movimento, porgendo alla dura riluttanza del cuore il suo profondissimo elisir nell’ombra non abbastanza rarefatta, ancora fumosa del cafarnao. *

Frattanto insiste, si sfibra

nella smania di diventare annuncio la gramola di suoni indecisi nel loro guscio prediurno e io: — che matura, che si prepara? — m’infiammo

a quell’ancora indecifrato messaggio, migratore 425

sbrancato vinto nella sua astuzia

e pronto al tuffo sulla lucentezza del miraggio. — Apriti, che cosa racchiudi di ancora palpitante

allo spiraglio della sua nascita — incalzo quel brusio tra tetto ed aria oscillando non meno dell’uccello sul filo iridescente del suo

{abbaglio. — Accoglilo com'è, non forzarlo ad un senso — sorrido di lì a poco antivedendo cosa mi risponderà il mattino

dalle sue finestre aperte quando sfolgora il tappeto solare delle calendule e l’occhiata lustra di daino delle ragazze nella radura del mercato, e

— s’incendia la trasparenza della vita — diresti. Invece è il suo enigma. *

Fuori un mattino stranamente limpido, le linee certe, la realtà spaccata

nel suo candore di gheriglio mentre lei addossata alla porta non mi lascia partire, non mi trattiene, solo ascolta filtrare dall’interno

la canzone maliarda sonata da suo figlio — chiara, senza lusinga o sortilegio negli occhi, intenta come me a quei tocchi rari di chitarra, al sole, all'ombra, al loro mutuo imprendibile avvertimento. *

Si sorvola lo specchio di mare interno. C'è piena visibilità, anzi radiosa.

Con la fronte agli oblò 426

si scorge in trasparenza il movimento dei pesci tra i banchi corallini. A un ventaglio di riflessi balena come liquida la cabina. Continua solitaria la potenza dei motori.

Tutto il resto è fermo, il silenzio è assoluto.

Non siamo poi tanto lontani dal Mekong. Forse la guerra dorme in una plica di memoria degli uomini qui a bordo, forse neanche.

Ci si sente stupendamente ilari,

sospesi fuori dallo spinoso grumo, assolti dalla solarità. La rotta è nuova,

il prossimo scalo poco conosciuto, senza pegno oscuro o pedaggio di passato

il tradito verso il futuro — né io che anni dopo la ripesco so niente di quella celeste gratuità. La scrivo, la scrivo soltanto. *

Il bambino entra e con lui la grazia. Pace? oppure no,

cessazione, cessazione e nient'altro? — ronza

il filo dubbioso della mente nella luce di giada d’un tratto più chiara del santuario — o ne pigola uno spettro di foresta riemersa dal defoliante, ne geme appena in tutto simile a un vagito un’acqua sfrangiata dai cadaveri, un’acqua-luce lontana già d’estuario. Non un segno, nessuna risposta, soltanto gli uccelli, l’acqua, e quella puerizia.

427

Potrebbe, oh sì potrebbe

non esserci ora sotterfugio, violenza aperta e dichiarata, strage...

Cade qui un mio singhiozzante risveglio chi sa se alla virata di un sogno o a una squilla interna della mente e lei era di nuovo l’imprendibile avvenimento

non registrato dalle carte né appuntato sulle minute omesso dai notari dell'accaduto, omesso continuamente. Lei la {vita.

(Letto, mandato a mente dal libro di bordo di un naufragio, quale? — non sa niente di niente, ha tutto dimenticato l’uomo o la maschera di sale tutt'uno con la roccia

dove siede, che tra i denti porosi sbava mare sul mare.)

428

II

.. e tracce

Il mai tutto dicibile,

il troppo vivo che sgomina — lei che versa dagli occhi brucianti quella luce e quella piena mentre nomina con molto amore Giovanni e in questo le si aprono le ali dal sentore di ozono dell’aquila — le si aprono non sa bene se nel ricordo o in un lontano premonimento...

Questo penso, questa immagine di lei perduta in qualche papiro, chissà, murato tra le rocce dei monti

qui dal presente delle sue scale corrose dagli escrementi sulla piazza-strapiombo non diserbata da anni — e in questo

fino in fondo a me stesso la ravviso e meglio, assai meglio la [comprendo.

Si perde a lungo l’occhio dei pellegrini a fissare tra il fuoco di maioliche e marmi dalla parte delle {basiliche e l'ombra non meno infiammata della luce sulla muraglia di {fronte un oscillamento di rondine abbagliata dal mezzogiorno e il risucchio, dopo, l’abisso d’immobilità dell’irreale cisterna.

E lei? — Il sorriso di lei che ora si pensa e non senza stupore si ravvisa in una storia sua che pure non le somiglia, 429

o le sembra, e intanto ne rifulgono per sempre incancellabili i segni — questo datole come enigma e come tormento m’arriva di tutta la sua scossa potenza qui, di fronte alla sua casa visibile, questo soltanto. *

Non vuolè arrendersi, mai si riconoscerà battuto

o soggetto al tempo un amore simile — le grido nel mio mutismo e prego che la trapassi

con la forza di un laser questo messaggio, le giunga in pieno, la buchi nel suo camice di tedio questa protesta — e chi sa se a riceverla ne brucia

per troppa carità oppure di umiliazione e di oltraggio. Ma non viene da lei il senso della risposta, né da lei né dall’altra che le è dietro e negli anni e negli evi le somiglia:

o forse non le è dato conoscerlo o le sfugge, le si disintegra. *

(Ricordo di lei o ricordo del suo ricordo? Ricordo troppo ricordato, forse,

svuotato di sostanza ma non di tormento —

esita prima di decidere, non osa rispondere la mente abbacinata dal dopo,

sentendo già il futuro i e il futuro del futuro di questo momento dentro di sé come {un'’unghia.)

Qui, in queste acque

il principe degli apostoli Paolo 430

colò a picco e riemerse — dice uno da una zattera

quando siamo a poche miglia dall’isola, uno con una voce non sua, un’eco — penso —

sfatta, mucida, che potremmo raggiungere discendendo in apnea

nell’entrotempo cristiano. O mai. *

Passata, non ancora venuta? — gli chiedo all'improvviso. Gli chiedo della su4 ora.

Lascia impazzire la folgore lui di quella domanda, scivola

nel verso e nell’inverso del tempo col silenzio dei pesci

delle grandi profondità. Lo vedo nel suo chiarore fosforico che infila l’umano e il subumano, si libera zigzagando dai banchi d’oscurità,

gli pulsa una forza di nascita e agonia lungo le vertebre via via che s’allontana dal principio o'sale — sì,

sale al futuro e all’origine? — ripeto colando giù nel sonno, dal sonno

più ansioso di prima tracimando.

431

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I fedeli della regina e della sua epoca con lo sguardo rapito percorrono la mole pietra a pietra, alcuni cercano con accenni di solecchio la più alta bifora. Sì, le linee, i volumi, le cuspidi, lo splendore solare della ardua regola, questi i segni. Ma, dietro, una vita, una trama sfatta e ripresa di desideri e ricordi, svelata? — nessuno può saperlo — forse celata

dai prodigi di luce e di potenza della sua opera. Svelata, celata, persa comunque, persa irrevocabilmente — punge

più di quanto vorrebbe l’aculeo della mente che specula € quasi in un sonno molto visitato osserva tra spigolo e spigolo di fuoco i cunei azzurri delle ombre a un taglio di luce diamantina tra quelle mute muraglie.

435

I desideri, i miraggi, la loro fissità stellare

negli anni: e, dopo, il trapasso a nuove bramosie, a nuove imprevedibili rispondenze. E, sì, la durata dei ricordi, ma, dopo, il declino dei ricordi, la subdola estinzione di essi mentre operano implacabili i sensi al rammagliarsi della rete, benché tutta diversa, d’incanti.

Il fitto, l’innumerabile di un’anima, di un’esistenza passato in una forma durevole,

versato in una gemma, o forse obliterato da quella, perso comunque, perso irrevocabilmente all'amore non meno che all’indifferenza — penso

in quel nulla pensare in pieno sole al cospetto della sua opera brucando con gli altri obbediente la pastura dell’«armonia {compiuta» e il tutto e il niente che emana tra i baleni del marmo.

436

Sboccia in voci, in sussurri,

si rompe in un gluglù sommesso di risa e di sogghigni, pedinandomi in vicoli e in viadotti sotto barbacani e torri la notte nella ex città di corte morta in tutto, morta nei suoi ricordi

- anche nell’infedeltà dell’arte. Né raccolgo presagi o avvisi dal passato in lei notte di scherni e di richiami, eppure chiusa, chiusa nel suo corano.

437

Alla fonte di un desiderio o all’esodo? — Sfavilla questa domanda o questo enigma. Non danno altri indizi le stelle di luglio. Né osa più a fondo la mente interrogarsi.

Vacilla nella sua dubbia fiamma, lei. O non è la vita, non è il suo ritmo?

438

Segmenti del grande patema E così sono in tre a testimoniare,

lo Spirito, l’acqua e il sangue e quei tre sono d’accordo... Giovanni, 1° lettera

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Gli uomini che riposano nel loro limite — come navi dentro la boccia loro nella loro melodia. Sì, ma tu dammi il tralcio dei ritmi, il festone frondoso delle cadenze. Tu cantami qualcosa pari alla vita —

scoppia

in alto l'antica melagrana di frenesia e di dolore — e uno

sotto il suo sanguigno farnetica, oppure una moltitudine — dioniso, non è male ravvisarlo, dioniso di sempre

che per eccesso di fuoco e intemperanza d’amore non ha retto all’urto, s'è sparso sulla pietra del mondo così

e che così grondante ci sorride da un volto troppo vivo,

terreo, gualcito da droga e malattia, eppure sorride.

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La rondine salita incontro alla pioggia le attira in alto lo sguardo, le regala una pausa in cui staccata ha tempo di riassumersi in un sorso di luce e ironia, libera, in pari con la coscienza

se è per questo, un po’ smagata nei suoi primi slanci, è vero,

che ordine però e onesta pulizia nei suoi pensieri, il conforto di un suo preciso compito non troppo male assolto, libri, musica, esperienze, la molta dignità di un interno affinamento, in più l'abbraccio solo un po’ meno saldo ancora abbastanza protettivo di suo marito — il Partito.

Né io so decidere se in questo mi chiede ammirazione o indulgenza oppure niente, solo che io l’apprenda così com'è, dopo il giro di boa rilasciata su una sdraia, quieta, al di sopra della città, su una sua altana, tra le sue guglie.

445

Ma ecco il pensiero della vita le si stanca, l’idea di sé le si disfa dentro, nube sottomarina sfioccata in movimento verso un’altra nebulosa malferma — chi sa se ancora lei — lei in un tempo diverso? — no, nessuno può saperlo, e lei meno che meno che fluttua sbattuta dalle correnti del fondo e si perde a brano a brano, tutta, strada facendo. Ma, prima, ancora un guizzo

di riluttanza — a che cosa, si domanda,

dov'è l’indelebile corallo, il passato, a quello voglio afferrarmi. Ma niente. Il folto, il troppo ramoso la confonde, la disunisce. E «finiscimi» sussurra allo squalo invisibile tant'è

silenzioso e trasparente che adesso la smembra, «rinascimi» grida

a una madre eterna onnipresente sott'acqua e in quella alza uno sguardo annegato

allo scoglio di mutismo dell’uomo fermo di fronte

che da quando — da secoli? — la osserva. La osserva — ahi, ahi, — o l’aspetta al guado? Non sa, del resto ancora un poco, ne è certa,

e poi le parrà strano, provato quasi da un’altra — da un’altra o da nessuno? — pensa, quel dubbio, quello {sgomento. 446

Tutto questo che forse nemmeno lei ricorda, l’oscuro, il momentaneo, l’obliterato della sua esistenza —

questo mi perdo a pensare, questi grumi di vita dissipati dal mondo eppure impressi a fuoco in una sua memoria latente

da cui non mi distinguo in nulla io scriba altro da quella non essendo, da quella e dalla sua sofferenza.

447

L’incognita è sul binario di corsa o è nell’uomo che sulla banchina deserta

aspetta perdutamente il convoglio? — non sa come e perché questo dubbio la tormenta.

Pensare ad altro? Improvvisamente non c'è altro. Annullarsi, seguire per esempio il mare che esplode e ritorna mare poco più in basso? Non serve, constata nella sua vana onniscienza

la non più tanto insonnolita star addossata al suo bagaglio nella sala d’aspetto: e fissa l’uno e l’altro, il binario e l’uomo cercando di conoscerlo, l'evento, dico, che lei sente maturo se non già oscuramente accaduto, cos'è mai, quale n’è il senso.

E io che pesco non so dove nella sua vita questo momento.

448

L’uomo escluso dal ricordo. La sua ricomparsa.

Lo vede lei non sa bene se al passato o in un anticipo dei tempi che da un punto di luce la osserva né svela se desidera parlarle o tacerle dal fondo di una sua distanza di millenni. Non le dura a lungo un sottile vacillamento. Lui l’avverte e intanto la pensa intenta negli anni a eliminarlo

cancellando a uno a uno i segni della sua presenza € per questo con tanto più amore la contempla lì nell’immobilità solare del luogo — o forse fraintendo.

449

Detto? non taciuto appena. Duro traversa le epoche il patema, duro e fermo, all’interno delle cose, più profondo degli avvenimenti. Rare le tracce nei libri, nulle, o quasi, le impronte,

e se mai troppo nascoste, nella materia dell’arte. Sconosciuto in ogni scuola, trasmesso dalla madre al figlio in un’occhiata

sfuggente, senza farne parola... Detto? taciuto? —

lei più inferma di sempre con estrema distanza ne sorride, ambigua, dal fondo corallino d’uno sguardo d’amore o estranianza sorridendo insieme di me che metto a fuoco il suo emblema — quel tanto che s’interrompe una frase e resta sospesa l’atmosfera

‘d’una visita a lei, o tra il fogliame dei pensieri si smarrisce il senso di essa.

450

(In che lingua, in che perso dialetto? quella vita, dico, quella sofferenza.

Confonde, non decifra la scrittura, non riconosce l’evento,

ha tutto parificato in uno sconcio farfugliamento del tempo e del vivente il custode smemorato del documento, l’uomo

rugoso come una rugosa valva, come lei svuotato dal mare del mutamento e basta.)

451

Il nero di miniera del temporale e poi nella schiarita in extremis a un tratto sulla pianura monocroma una fiammata, i papaveri — sotto

il cielo di giugno, ma quale, di un viaggio forse mai fatto o fatto da un altro che fui io o in futuro potrei essere — o, chi sa, in astrale. Fino a lei che dietro le lenti nella luce celeste del suo camice m’aspettava forse, o lascia che io lo pensi.

452

Celeste la bocca del dormiente. Celeste e tesa in alto a un miglio nero, a un’oscura eucarestia

mentre fuori fluisce uno spazio aperto

e con cieli sempre più marini, cavalli sempre più lanosi ci viene incontro l'Olanda — ‘e con lei niente di certo, mi sembra,

solo il senso vivificante dell’acqua e il senso mortale di essa uniti e in disaccordo captati insieme, la mente fissa a quel sonno. Ne avremmo parlato

tra di noi,

dopo, nel tempo. O mai.

453

Il fiume fermo nella sua pelle luminosa aggricciata dal controvento, un’ultima

ritrosia del fiume poco prima dei ponti — Chi sa come mi lascia il suo silenzio

all’interno balenio di quel ricordo d’una sosta d’altri tempi, e in esso sfolgora la città disfatta in acqua, ne brucia di felicità la mente quasi possano un attimo, uno solo, accaduto e inaccaduto rifondersi, finché insensibilmente non c’è altro,

quel fuoco, quell'acqua, quegli elementi.

454

Tre lunghi squilli e già gli arcieri sul campo,

la sera estiva ammutolita di colpo, la piazza anche, rappresa tra la mira e il bersaglio quando lei perduta tra gli astanti mi cerca da dietro il colore indefinito delle lenti e re così lontana sugli spalti mi cela la luce degli occhi troppo consci. Non le fo segnali né cenni, non disperdo iin lei quell’ansia se è ansia quella e non già doloroso isolamento. La guardo — forse in un’occulta prossimità — da molta distanza mentre scende in noi quel muto agone di quella città in festa, mentre tocca un punto oscuro e senza memoria del presente in {noi quell’unghia.

455

(In che lingua, in che perso dialetto? In che storia

omessa dai libri, introvabile negli inserti? Pazzo lo scriba? O immemorabile la-sofferenza?)

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Lungo il fiume, sulla cima degli alberi non ancora la primavera, appena

quell’opaca instabilità dell’aria, quella luce sbioccata, e già oltre la stretta dei ponti il quattro-con alla prima virata,

la rosa d’acqua scissa in lampeggiamenti

e nell’acqua in festa frammenti di città specchiata quando l’uomo lungo la riva in ombra mi tallona col suo dialetto,

mi scorta fino all’alloggio, mi sospinge, mette una porta, un vestibolo, una scala tra me e quell'acqua sempre vista, mai prima passata senza lume in volto né baleno in extremis dal profondo d’un remoto ravvisamento, intasca e fila.

483

Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze.

Non è uguale la musica, non può esserlo. Ma uguale a che, la stessa di quando — discetta perdutamente il senso

non trovando fondale a quel risucchio di mancamento o rimorso. Né so cosa m’intenerisce di lei,

se davvero la spina che le è infissa della mia vita

o quell’aria di congedo in lei da me, in me da lei. O il niente di {questo.

484

La terra senza dolcezza d’alberi, la terra arida

che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto e incresta in lontananza (inganno o verità,

miraggio o evidenza — insidia a lungo la mente una tortura di dilemma) sperdute torri, sperdute rocche è un luogo non posseduto dal senso, una plaga diversa che lascia transitare i pensieri però non li trattiene, non opera come ricordo, ma come ansia.

Inganno o verità, miraggio o evidenza — Smarriti ne seguivano i lineamenti con la testa rialzata sopra i quaderni trasmettendosi oscura una domanda e un indecifrato avvertimento i miei compagni di banco. Inganno o verità, miraggio o evidenza —

sarebbe poi negli anni tornata spesso la mente al suo non sciolto enigma. E nel sangue la febbre, nella febbre la fiamma d’un’aspettazione incolmabile — ne sai niente?

485

Cuoce nella sua storia — che può fare d'altro? Brucia nella sua solitaria metamorfosi. Eppure: — non la offuschi, non le alzi il cielo sulla nuca

le stelle viola del declino — insorge nel sole il mio farnetico

sviandole in preghiere di sciamano il tempo e il mutamento dalle vertebre,

pazzo, per abitudine all’ansia e per inveterato desiderio di penombra

accostando la lama del passato, scindendo ancora in due la perfetta arancia.

Lei guarda un istante dalla mia parte subito cancellata dal fogliame del parco.

486

Lo stesso viaggio verso lo stesso borgo. Verità o ricordo? Il pelago di dune che oltrepassata l’Arbia

si rompe in un calvario di guglie cinerine non ha nulla di certo, soltanto la sua fugata,

lascia il cuore in balia di quel mare aperto. Verità o ricordo? ricordo o verità? Verità troppo simile al ricordo che annulla il tempo ma ne moltiplica il tormento — squilla una trafittura di rimorso

che gela il sangue, raggruma il mondo.

489

Regina del passato o della sua dimenticanza? Attese alla lunga cerimonia, vi attese impeccabilmente. Non ebbe chiara — mi parve — la mia presenza tra gli ospiti. Mi osservava per altro di tanto in tanto. Vedeva me, vedeva l’uomo in cui stento io stesso a riconoscermi? Forse,

però niente di certo — penso già lontano molte miglia sui tornanti del rientro,

allungando in eternità quel tempo, quel dubbio, perdendomi in {esso.

490

È e non è la stessa di sempre.

Le guardo il radioso vegetale di quegli occhi senza tempo e «vissuto, sì, ma creduto, creduto fino in fondo?» mi dico né so bene cosa intendo, la storia intera forse, l’intero avvenimento.

E lei scrive da capo il suo indimostrabile teorema già scritto in pergamene e in carte, già scritto minuziosamente,

studiato con passione, esaminato con arte,

messo in dubbio dagli esperti, tenuto per inesistente non fosse la riprova delle lacrime. E ancora più probante il {sangue.

491

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Che vuoi dirmi ancora, ancora farmi conoscere? Chiuso nella sua pelle d’ombra molto, è vero, deve finire

ma altro sgranarsi in pieno sole e cuocere —

al fuoco del desiderio o della sua estinzione, a quale? o è uno solo, una sola brace... DI

492

— Non è data, forse, eppure sembra lì, possiamo toccarla a volte una felicità senz'’ombre, rettilinea,

che non passa per il dolore degli altri.

Ma è lo stesso nel punto di luce e d’altitudine dove salire è difficile e restare impossibile... o io non ne son degno —

Chi è che nel sogno prende il mio posto e canta questa perduta lingua ai piedi di un monte dilapidato dove sola felicità è non cercarne, e che canta? l'augurio, il desiderio

o una non rassegnata autosentenza? — quasi importasse saperlo e non tendere i sensi al crepitante risveglio nel vivo della rissa, in pieno secolo.

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L’esserci, il primo € più nudo dei misteri — gli chiedo delirando il come, gli chiedo il perché. Si sposta

verso il profilo

della sua incarnazione lui, scompare sotto flutti d’oscurità. Umilmente

se no, all’altro capo dello stesso enigma lui nel bulbo del sonno si prepara, lui sente già alta sulle dune la stella puntata sulla sua natività. E stupisce,

stupisce di questo — Pensieri che ho avvertito, vibranti

nell’aria, svegli tra la pietra intatta e quella già formata. O atelier.

497

Nota dell’ Autore

DAL FONDO DELLE CAMPAGNE. Riproduce la seconda edizione Einaudi (1969) poi invariata. Si pubblica all’inizio di questo volume per ristabilire la cronologia reale diversa da quella editoriale (vedi «Avvertenza», p.

262).

NEL MAGMA. Riproduce l’edizione garzantiana del 1966. Questa recava in chiusura la nota che qui si riporta:

Rispetto alle due edizioni scheiwilleriane del 1964, questa presenta una abbastanza lunga appendice. Si tratta di appunti che risalgono al tempo degli altri componimenti e sviluppati, al ritorno di certi estri, più tardi. Il che non credo comporti la minaccia o la speranza di un libro aperto 44 infinitum. SU FONDAMENTI INVISIBILI. Riproduce la prima edizione Rizzoli (1971)

poi invariata. Questa recava in chiusura le note che qui si riportano:

Il pensiero fluttuante della felicità Il pensiero della felicità non è un pensiero coerente se non per i dottrinari e gli asceti: all’uomo si presenta e si ripresenta in forma contraddittoria. Questa lunga poesia vorrebbe inseguire e catturare la natura che a me è sembrata cangiante di quel pensiero. Si può forse dividere in due parti: la prima, che comprende le sezioni 1, 2 e 3 con le sue alternanze di

epifanie e dissolvenze, di perplessità, contrasti e fughe; la seconda che

comprende le sezioni 5, 6, 7 con il suo scarto dall’ordine psicologico e razionale a quella che in Onore del vero avevo chiamato «conoscenza per ardore» e qui assume l’aspetto di piena reciprocità e immedesimazione con l’altro. Questa immagine della felicità è data come remota, proiettata da altre epoche, da altre civiltà da cui ci dividono l’acqua o il fuoco, il dubbio e la violenza; ma non perduta. La sezione 4 è il ponte dalla prima alla seconda parte. Altre specificazioni sarebbero possibili ma non necessa-

rie; inoltre mi obbligherebbero a entrare nel merito del testo, il che pro-

prio non voglio fare.

498

Nel corpo oscuro della metamorfosi Il senso della trasformazione è quasi un luogo comune. Si trova manifesto 0 latente in tutti i nostri sentimenti. E non parliamo dell’azione che sarebbe inconcepibile senza. Senonché noi oggi viviamo la trasformazione da svegli e l’avvertiamo in forma violenta e grandiosa come essenza della nostra epoca. Questa poesia osa farne il suo discontinuo argomento. Per fornire al lettore almeno un labile filo di Arianna, ecco: Nelle sezioni 1 e 2 immagini (e incubi) negative della «città» la cui crisi si materializza in Firenze sommersa e devastata dall’Arno (secondo brano della sezione 1). La voce di sirena della natura insinua la sua tentazione nel terzo brano della sezione 2. Uno sguardo alla mia stessa visuale alterna (sezione 3) introduce il sentimento diretto del vortice in cui tutto nel nostro tempo è trascinato insieme con noi, perfino ciò che pareva per definizione intemporale. Rimandi

increduli a passate felicità, appelli contrastati di una felicità possibile nel futuro (sezioni 4, 5, 6). Nella sezione 7 ancora il motivo dell’amore co-

me reciprocità vitale in cui si fondono il mutare e il permanere.

Il gorgo di salute e malattia Ciò che crediamo di sapere ma non diventa sapienza, del resto soverchiato continuamente dal significato molteplice delle immagini — questa mi è sembrata la situazione dell'occidente, decrepito forse ma non maturo, e

questo è il tema frastagliato del componimento. Per analogia con ciò che ho fatto in calce ai due precedenti (su istigazione delle riviste che li ospitarono) mi proverò anche qui a rintracciare dall’esterno il suo bandolo. Dopo un preludio commemorativo che si tradu-

ce in un doloroso confronto (sezione 1) si danno immagini di violenza e di conseguente estraneamento colte nella nostra città o polis (sezione 2).

La sezione 3 parla della stessa violenza nullificante riferita alla storia. Con la sezione 4 comincia un viaggio pieno di perplessità e di fascino verso altro regime vitale e mentale, focalizzato sulla rivelazione; esso

prosegue anche nelle sezioni 5, 6, 7 contrastato senza misericordia dal trauma ma anche dal respiro della storia di cui ci è evidentemente impossibile privarci. Riflessi sulla coscienza (sezione 7).

AL FUOCO DELLA CONTROVERSIA. Riproduce la prima edizione garzantiana del 1978. Queste le note che aveva in chiusura: Brani di un mortale duetto Il titolo, credo, dice tutto, e quasi mimicamente: tra uomo e donna, poeta e poesia Ecc.

499

Nel primo verso del Poscritto è ricordata la fine di Lorca (Granada), di Mandel’Stam (gulag siberiano), di Pasolini (Ostia).

Graffito dell'eterna zarina Lo sfondo è, tra Europa e Asia, un viaggio o più viaggi sovrapposti. In un suo intelligente scritto Gianni Poli riassume così: «Prendendo a soggetto, a motivo conduttore, le vicende di una “zarina” che può essere la “vita”, la “storia”, la “rivoluzione”, la “poesia”...». Più e meno di que-

sto, aggiungerò, (la fede se non altro), quando il vigore originario trapassa nel mito fascinatorio dell’autorità e poi nel deserto della cerimonia. E lo spirito si risveglia e soffre e vuole essere liberato dalla lettera... I, 5: Rustaveli è il poeta nazionale georgiano vissuto nel secolo XII, autore di un poema intitolato L'uomo dalla pelle di leopardo. Fu caro e devoto a Tamara, storica e mitica regina della Georgia. II, 1 Gori, ancora in Georgia, è il paese dove si trova la izba natale di Sta-

lin incastonata in un tempietto dorico. II, 3 «ammiraglio al rimorchio dell’almirante»: allora, Birindelli.

Carovana per l’arte Immagini il lettore a suo piacimento una nostra Tamara, una Eleonora,

una Isabella in cui si assommino tre solitudini: quella della donna, quella del potere e quella dell’arte (che elessero a loro linguaggio, con cui si identificarono). E la loro città.

Segmenti del grande patema Io? chi è io? — in varie forme e persone e loro sofferenze spesso reciproche... così comincia e non va forse molto lontano ma arriva in qualche

luogo d’Italia, d'Europa e di America dove anche io sono arrivato (Mzore ignominiosamente la repubblica). Qui: «Cacce all’uomo... » una capitale dell'Est europeo. «Che vuoi dirmi ancora... » Marilyn Monroe o meglio una sua foto.

Atelier di Venturino Venturino Venturi; quel grande artista, e con quel nome...

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III

PER IL BATTESIMO DEI NOSTRI FRAMMENTI

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Passato o futuro? — conosce il desiderio la sua unica natura, la sua doppia fonte, ma una più dell’altra incavata nella roccia

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e tu ora ripieno di una incolmabile mancanza

da essa vinto

farnetichi: potessi nel turpe labirinto ritrovare la strada di casa nostra — ma che casa era la nostra? non era la promessa abitazione, era come le altre

una tenda poco ferma piantata nel deserto durante l’esodo se non che con molto amore con molte lacrime.

Non può essere quello, figlio, il luogo del nuovo incontro, non è lì che consuma il desiderio la propria morte — 551

morte del desiderio per supremo esaudimento,

e lo sai da tempo. E conosci il «dove». È vero, non lo nomini, però non lo dimentichi. Non lo dimentichi.

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Madre, madre mia l’essere molto amati non medica la solitudine, la affina anzi, la escrucia in un limìo d’inanità e di rimorso — Posso,

sì, averlo udito perdutamente parlare così il discorso... i E intanto taceva il suo contrario

in ogni lingua ma io lo ricordavo, per me era presente: «Amare,

questo sì ti parifica al mondo, ti guarisce con dolore, ti convoglia nello stellato fiume e sono dove tu sei, si battono creato ed increato, allora, in un trepidare unico. Allora, in quel punto». Lo ricordavo.

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Fonte? — quel febbricitare celeste. O è sfacimento? Non dice cosa sfolgora in lei la notte di luglio... punta su tutto il perimetro dei monti

quelle mute fiamme. Stelle? o la loro lontananza?

la loro luce ingannevole, la loro dubbia presenza? O È, che unico vacilla, il fuoco interno, la mente?

55},

Di là o di qua dalla parola e dal suo silenzio? Fuori

o dentro la gittata dello strale? Difeso da uno schermo d’insignificanza molto, ancora, non s'è pronunciato o male, incompiutamente

ed altro

quasi a un disattento sole s'è invano dichiarato tutto, irrecuperabilmente, bruciato, perso...

dove? di là da quale oltrepassato punto di non ritorno, di non richiamo?

O non c’è quel punto? non c'è quel grano?

556

Accordato come?

Registrato su che nota? Intonato su quale /4 perduto quello strumento? Inesperto il musico? o impercettibile l'accento? finita l'armonia e la dissonanza, finito il numero, impossibile l’udienza?

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perso o vinto l’agone? Oppure è l’altro che matura e splende, l’amore pieno, il pieno annientamento in cosa? in che unica sostanza,

in che totale inessenza —

impossibile saperlo, non c’è testimone, non c’è canto? Lei pensa o sogna che qualcuno pensi

nel risucchio di pace del mulinello cruento...

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Poi malgré tout è fine febbraio o marzo: la primavera non c’è ancora, c'è, trepidante, quella numinosa nebula,

quel fuoco bianco nell’aria, quelle velature seta e argento, tutto ciò che desidera il senso ci sia in questa piega dell’anno, tutto, la prima barca, il primo verde dei salici, la prima ruota d’acqua alla virata dell’armo. C'è tutto, tutto. Tutto incredibilmente.

597

Finito cosa?

cos’altro intensamente annunciato

oppure già incipiente... Quell’aria lustra

quella luce fibrillante... a Ricorda la vigilia

non ricorda l’evento. Entrata bene,

penetrata a fondo

quella luminosa aguglia quello sguardo ancora duro della sera di febbraio o la sua reminiscenza — perduto il resto, perduto veramente o mai stato, assimilato dal niente?

598

Memoria di che, memoria di quando? Non sa il ricordo se com'era la rammenta o se com'era la svisa. Tuttavia ricorda. Ricorda lei, ricorda

la luce d’anteprimavera di quel ricordo.

599,

Non tra i bambini — con loro. Con loro e come loro —'

pacifici ai piedi della loro crescita, all'ombra della loro statura prossima:

questo lo straripante desiderio, questo, non un suo travestimento. E con questo tutto il non ancora, il prima della primavera, quella

luce piovigginosa, quella grigia fabbriceria di gemme nell’aria acquosa. Può tante volte essere stata alta questa febbre e salire, salire ancora.

600

Bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo. Il ricordo impera ugualmentesÈ lui che oltre la storia e oltre la finita reminiscenza lungo tutta la lunga mattinata estiva osserva la piazza prima in ombra inondata dalla trasparenza tramutarsi in un vaso di fulgore offuscato dall’accecamento con nient’altro tra ripa e ripa di pietra e marmo che la sua forza. Lui solo e da sotto le tegole una buba di colombi che quasi di troppa beatitudine la scolma. Ricordo senza limiti, ricordo senza corpi né ombre.

601

Esplose una galloria, un chicchirichì di colori, straripò il giorno con la sua insolenza celestiale con il suo «non conobbi mai quell’uomo né altri» detto chiaro da tutte le sue voci, intonato da tutte le sue tube —

mi vince ancora, m’inchioda alle sue nude antemurali

un'estate d’altri tempi, quale? scompare nella sua luce, si annulla nella sua durata, non è memorabile lei, solo il suo essere stata... stata talmente quasi dubitata, quasi...

602

Deserto — quale deserto? Questo, questa vacanza di umanità nell’uomo,

questo orribile interregno — o non è così, e sono io che muoio? — è una troppo lunga assenza di me da quale grande abbeveratoio? penso: e porta questo pensiero un vento di serir.

603

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Finché nel furore policromo del bruciante mulinello

mi guarda Siena da dentro la sua guerra, mi cerca dentro con gli occhi addannati dei suoi veliti percossa dai suoi tamburi trafitta dai suoi vessilli e non vede me non vede in me la mia infanzia che di lei fu piena né io lei che scossa dal suo nume

e legata al suo tormento non ravvisa il tempo:

non io lei, non lei me ma il nostro mutuo indicibile accecamento.

607

Dov'è la compagnia? L’avevo o credevo di averla.

Tutto ciò che esulta nel privilegio d’esser detto: lì stava con le sue messe radici la mia innumerabile famiglia — le dico o mi risponde da una parte di sé non ferma e neppure ben distinta come acqua sfatta, come neve non formata e nemmeno, nemmeno la comprendo.

Così termina il sogno, sognato in quale lingua?

608

Prima o dopo il canto? sua fine o sua preparazione oscura? questo groppo — dico — isem nera rupe lel silenzio degli uccelli. Può esserci vita

e non il suo messaggio? salvezza

e non il suo

ultratrepidante annuncio? in tutta la già incerta frontiera tra notte e giorno,

da un capo all’altro, in nessun punto...? O.sei tu sequestrato ancora dalla tua ombra ; e non ti arriva né suono né vibrazione di esso. Nessun segnale, nessun commento?

Chi occupa il tempo e il luogo, chi propina se stesso? Risibile la storia, incomprensibile la leggenda. Si lagna il film. Si lagna della sua brevità

o della sua insignificanza?

610

Non passò vento, non mutò nulla nell’aria o nessuno ne fu conscio. Eppure

si scisse in un tripudio, si sfece in una rissa di lucciole e faville il lume,

si torse in un vibrìo . di steli e di colonne da riva a riva, s'infranse tutto, tornò puro ed uno

quel poco prima intrepido acquilunio...

E lei che di questo chi sa come si rammenta, memoria senza tempo,

quel brivido e quel senso oscuro di appena captato avvenimento,

quel segno a fiore d’acqua, quella profondità latente — la storia umana, pensa, entrata e uscita dal firmamento.

611

Voce ancora umana che mi parli non so da dove per tutto il tuo discorso non vengono mai meno i monti, non i monti nel loro peso ma nel loro insondabile andirivieni dall’interno al mare,

dal mare alle più interne e insospettate conche, ai più nascosti e luminosi onfali. Non hanno pace, loro, nello sfilarsi ed intrecciarsi alto delle loro linee,

nel loro trasfondersi e dividersi — i Siamo dove,

di qua o di là da quei monti, fuori o dentro quella matassa? — penso mentre parli

e scorrono là in mezzo silenziosi

o gorgogliano interrati i fiumi della mia salute, desiderio o senso, fino a un improvviso pullulio

di stelle che vi si specchiano. Stelle dell’esodo? o stelle dell’eterna stanza?

O «anima» che dovunque ti nascondi

e dovunque ti manifesti.

612

Da dove era quel ritorno?

ritorno 0 troppo rinnovato incontro? — Calva, tosata allora allora del suo vello e accesa più che mai di tutta, tutta la solarità di esso — così la ritrovai dopo un’assenza di attimi o di anni da lei o da me stesso? così era nel suo chiaro

immutabile ondeggiamento di gibbosa greggia quella terra soda e in fuga immateriale come il suo ricordo e il ricordo sibillino di quel ricordo.

613

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acqua e fuoco, ora ed infanzia divenuta eloquio chiaro e cupo, mutevole e eterno,

grondandone come stalattiti e muschio denti e barba dei profeti

per età aride, in terre deserte

profusa a ogni battesimo. Con essa in altri tempi ho molto gozzovigliato però niente dissipando: niente. Così parla la parola, testimonia questo la testimonianza.

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dalla rupe appena dirocciando. Luce da quel solare scintillamento? O brividi d'oscurità? L'una e gli altri, certo,

ancora non comprendevo...

659

Il mai perfetto,

il mai giunto alla fine del suo vero compimento, creato ancora creante — e ora nell’azzurrognolo dei monti le viene un caos incontro,

monti e nubi le nascono da un incerto grembo,

si fondono, si scindono, da monti nubi negli indecisi fianchi

e si allungano verso il basso con il loro peso monti, monti dal fondovalle si divalvano e si alzano alle nubi nell'azzurro magma. Ma ecco, è là, discende fino a lei,

si perde e riappare tra le rupi un’acqua dirocciando... E ora,

dov'è ora l’acqua di quelle nubi e di quei monti? si cela, essa, si annebbia, le balena in fronte da quel gonfio pube, le scende dentro, la fruga, si stacca da un oscuro

bulbo una genitura più antica d’ogni tempo, acqua forse, o roccia

non ancora acqua né roccia o già esse primamente,

660

già con le loro nubi i monti.

«O, nascita di tutte le nascite! qualcosa di me era presente»

sì, e dopo improvvisa e indefinibile generata forse dalla distanza da se stessa esce una moltitudine, moltitudine da moltitudine, le viene addosso, la stringe, la prende in sé, la forma, la modella

ma esita, non sa quello che essere se ciò che fu sempre nei luoghi in ombra del mondo o altro che risplenda di luce propria, sole nel sole —

«Per questo scesi, per questo misi la mia vita nella vostra morte. Dunque —» impercettibilmente le rimbomba tra monte e monte.

661

Cerere mai avuta per madre o non abbastanza — muore continuamente lei se stessa

continuamente generando o un’altra che la duplica

uguale in abbondanza pari in prodigalità di frutti e di cenere di vita

e morte, equamente.

Eppure è con lei che da sempre mi cimento in desiderio e conoscenza, nascita dopo nascita del mondo

in me, di me nel mondo — lei nuova sempre, io perdutamente.

662

In fuga su quel cristallo, di passata su quel cielo che il viso ne rimanda —

così tagliano il vento e la febbre del crocicchio. Brucia, una, profonde offerta e desiderio, l'accortezza presente la consuma tutta compiutamente. Affonda l’altra nel tuo

un suo sguardo divagante, ti mette a parte d’un male antico che neppure lei conosce

€ porta come retaggio,

come retaggio tramanda. Due lampi — o una sola vampa?

663

«Lei che avvampa da sotto un’antica cenere e come fiamma svisa continuamente la sua immagine e moltiplica il numero delle sue innumerevoli simiglianze e che ora si svela ora si cela dietro quella incommensurabile potenza, sua, di bramosia e di dolore

e si scopre donna, si scopre giovane ma sempre

porta in sé un suo impenetrabile retaggio come luce o come pietra

che nessuna macina può frangere e si trita in gemme, solo, nelle sue lacrime...» Lei coglie

nel pensiero di lui quelle parole o la loro vibrazione come nenia o come inno,

ne sorride, certo, n’è fiera e triste e lascia che l’onda di ritorno dai mari del desiderio rimasti alle spalle le si riversi nel grembo. E ha per un attimo una fonda luminosa cecità

da dea il suo sguardo ultramarino, per un attimo la sua

mai raggiunta, millenaria anteriorità.

Dove stava la verità? — Non stava, era, cioè diveniva se stessa continuamente. Se stessa o la sua ultramutevole apparenza? cos'era quel supplizio,

che cosa quella numinosa festa della rappresentazione sua incessante? — questo ancora non lo sa la donna del carme,

sa soltanto che n’era parte. La rivedo com'è in quel vento

della parola sfiorata accecata Perché, perché,

dal serpente, dai suoi riflessi. uomo, mi tocchi? donna, lo consento?

Mi colpì dritto nel volto, colpì in me la mia infanzia quel suo retropensiero scritto con felicità e sgomento più che in lei nel cosmo.

665

Perdita della memoria

o perdita del canto? «L’acqua che tocchi dei fiumi...» ritornò

da dove? quella sentenza. Con non altro in mente

né parola né pensiero che quel flusso e quel movimento

le si sfece in nulla il rimpianto,

le passò tutto quel tempo — quanto?

un secolo? — può darsi, forse un attimo, un infinitesimo di tanto o non c'è misura umana all’umano tramutamento? — O storia senza storia, o trascorrere in sé dell’universale evento — pensò senza pensarlo, e rise di questo.

Una, la donna, o innumerabile? Non può il cuore deciderlo, la conoscenza non è salda. Fuori e dentro la vita si tendono l’una verso l’altra loro dalla loro eternità,

non giungono esse però a stringersi la mano,

si frappongono cascate

di forza non rappresa, sfaceli di età non conosciute le dividono l’una dall’altra e tutte da me

che guardo stupito quella maschera bruciare di una fragile e vibrante identità e mi perdo nel mare di luce che le è dietro,

in quello straripante lievito azzurro della muliebrità oppure in me medesimo?

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SU O ESEACE

Pausa, quella, o interregno?

ascolta l’uomo, non sa se nel passato oppure attualmente, gli arrivano smorzati i suoni ed i richiami, gli arrivano

le pulsazioni minime d’un cuore di città tardo-autunnale materna a un tratto, materna insperabilmente

ed eccolo da un punto

perduto nella impervia orografia del cuore risale in lui quel tremore antico

e quella povera umbilicale carità per ogni vita creata e per le nasciture sparito dove, dove ritrovato

in quali invisibili fenditure nella roccia della separazione — pensa dall’unità stellata, ora, del celestiale grembo. O mère.

671

Il sempreverde e contro il sempreverde

il già meno verde non ancora porporino... Si vede adolescente lei in quella rapina

traversare obliqua il diluvio delle foglie verso un punto esterno

della macchia pioppicina dove l’altra aspetta ferma nella sua

invincibile simiglianza che lei venga e con essa si ricongiunga. Ma non ricorda né incontro

né fuga, né impedimento. Niente, inabissato tutto nel continuo avvenimento.

672

Come stella o come meteora — la vita umana

distrutta e risorgente, la sua propria che ora la tormenta?

Come stella o come meteora? A un tratto

le scoppia nel buio della mente la purissima granata dei latenti desideri,

le s'apre una raggiera di colori, la sveglia, la proietta in lucenti itinerari Ca3h vorrebbe lei sfilarsi dalla sua consunta pelle negare

sé ai suoi passati anni sottrarre verità

a quella sua — sua? sua,

ahi troppo insopprimibile esperienza e uscirne,

intatto grumolo di forza e desiderio, uscirne nuova,

viva, palpitante nel firmamento.

Vorrebbe — o è accaduto già? 673

Non è questo il canto dei ruscelli di sapienza che io, pazza, bruciavo dal desiderio d’intendere —

quando? già, quando? si perde in quella domanda, il suo tempo, lo vede, non ha tempo. Chi manca, di chi è il tradimento? Non c’è quella profluvie? è falsa quella promessa?

o io sono in anticipo o in ritardo e non sono ancora nata alla vita, e non sono né morta né risorta — le ronza questo pensiero

nell’assenza di ogni altro, e nel silenzio del suo amore, o al bando.

674

Colme le valli. Colme

di luce e prana in tutto il loro solco

dal giogo fino alla superinfusa piana ed eccola mi scende incontro, degrada

da un azzurro rupestre di pensieri incendiati sulle cime la stessa? sì, la stessa

prima persa nella gora di un infernale esgorgo piangendo umiliazione ed onta di una non esplicata iniquità, uscita dopo, uscita in altitudine essa, fino a quella sua insondabile sommità — si ricongiunge con me,

mi traversa l’opacità, mi oltrepassa la trasparenza. O femme.

675

Vero o ingannevole questo — questa gioia, questo cominciamento?

come apprenderlo, come significarlo? chiara e oscura

mutuano l’una dall'altra luce e canto

le due sorgenti. O è un’acqua sola,

un flusso eterno e in noi la divisione, in noi la differenza?

676

Quel bang, quello sperduto suono da un punto x di una sperduta valle quel silenzio di ossame che lo segue, quel lontanissimo abbaiare di cani nella nascita del giorno — sono segni, questi, della vita che riprende

o gemiti d’un desolato suo ritorno? — altro non le riconosce il cuore che il suo indicibile spaesamento.

677

Le ere — si aggruppa con le lunghe zampe contro il petto, se ne sente strisciare sulle piume il freddo vento — ma non è un vento

quello, è l’aria mossa dalla rotazione delle sfere, lo sa lei o no, ne riceve un desiderio o forse l’infinita discendenza fino a lei di quel desiderio.

E di volo e di ubiquità nel passato e nel presente,

le brucia il sangue, le alza

e le sprofonda le ali dentro l’etere di una tutta vivente eternità...

O notre dame, in cosa quella ibis ti somiglia.

678

Bene mai avuto o bene dimenticato? o non esistito

ma dava felicità, esso, a desiderarlo? —

si perde la memoria a discernere in quella differenza, le lascia incerti segni la storia, la storia o il non accaduto evento?

Non le è dato leggere, non le è dato comprendere. Il tempo passato sul tempo ha tutto parificato.

679

Battito delle stelle o delle sue tempie? Lei portata dal sonno

attraverso il giardino di quei pomi e il silenzio di quei sistri — Le lascia

il sonno la fronte alla crociera di quei fuochi € spruzzata dalla benedizione delle fonti. O non è sonno

quello, non è altro messaggero di vita e morte, ma mondo? spigato in lei, strenuamente...

680

INSEGUIMENTI

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