259 103 30MB
Italian Pages 536 [543] Year 1976
GIULIO GIANNELLI
TRATTATO DI STORIA ROMANA L’ITALIA ANTICA E LA REPUBBLICA ROMANA
PATRON-BOLOGNA
(segue dalla terza pagina di copertina) pagg Vili 176
L.
2650
Riforme e rivoluzione in Italia alla fine del secolo XVIII Saggi pagg Vili 184
1 Razionale
e
Irrazionale
pagg 64 -
nella
4200 Storia,
L.
1800
La destra in Italia.(in preparazione)
MARINI L
Principe e 'Stati
baudo, pagg VI 260
nello stato sa
L.
5300
Studi storici sul Settecento, pagg 312
, L
5600
Libertà e tramonti di libertà nello stato sabaudo del Cinquecento, pagg Vili 194
L
4700
Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vien na e a Roma pagg 318
L
5500
Appunti sullo Stato (dalla Introduzione a
gli Studi storici sul Settecento, voi. Il, pagg, 28. L
Per una storia dello stato estense pagg
L
MELONI A
4200
I valori umani nella civiltà lungo
i millenni pagg 272
L.
Voi. I. La famiglia, pagg. 170 Voi II: Le lettere, pagg 216
1950
L. 9000 L. 12000
PINI Al, Testi storici medievali pagg 366, fìgg 12 ....... . L 5100 PRETE S., Cristianesimo e impero romano, Basi giuridiche delle persecuzioni, pagg. 208. . . L. 3000 PRODI P., Lo sviluppo delTassolutismo nello 2650
Stato Pontificio, pagg. 142.L.
Rivista storica dell'antichità, diretta da G. Susini e G. Tibiletti, già disponibili 5 annate. Abbonamento annuo.L. 12000
SCHIPA V., Napoleone e Foscolo pagg. XIII 296, 2 ili L. 1950 TOMEUCCI L , Genesi del conflitto tra la Si cilia e i Borboni 11734 1816), pagg 260 . L.
500
Libertà e Privilegio dalla Savoia al Monfer rato, da Amedeo Vili a Carlo Emanuele I, pagg Vili 364 ........ L. 6200
128
PERUZZI E , Origini di Roma
3750
Breve storia dell'accentramento ammi nistrativo nel regno delle due Sicilie 11816
1860), pagg 150 TORRE A pagg 276.
L'Europa
L. nell'età
3200
guglielmina
.L.
3750
La politica estera dell'Italia dal 1870 al 1896, pagg 360
L.
4150
La politica estera dell'Italia dal 1896 al
MIGLIO M., Storiografia pontificia del '400 pagg. 286.L. 4800 MOSCHETTI A M , L'irrazionale nella storia, pagg XII 418 . . L. 4800
1914, pagg 442.
L.
VERRI A , Studi roussoiani in Italia pagg 56 .L.
NICOLINI B , Il pensiero di Bernardino Ochi no, pagg 114 . L. 2350 —
Lettere di negozi del pieno Cinquecento
(scelte ed annotate), pagg. X-216 . . . . L.
4500
4250
VALDINOCI M , Il Mondo moderno tra medioevo e subnatura, pagg 270 L 3180
ZOU S
1200
La Cina e la cultura italiana dal 500
al '700, pagg 152
L.
3000
La Cina e l'età dell'Illuminismo in Italia pagg. XII-304.L.
NUNC COCNOSCO EX PARTE
THOMAS J. BATA LIBRARY TRENT UNIVERSITY
6000
V
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https://archive.org/details/trattatodistoriaOOOOgian
GIULIO GIANNELLI
TRATTATO DI
STORIA ROMANA L’ITALIA ANTICA E LA REPUBBLICA ROMANA
Quinta edizione
PATRON EDITORE BOLOGNA
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Copyright (C)l 976 by Casa Editrice Pàtron Stabilimento Editoriale Pàtron - 40127 Bologna - Quarto Inferiore
A Luigi Pareti con devozione di discepoli con affetto di amici
30i}GB4
PREFAZIONE Scrivendo, nel dicembre del 1941, la Prefazione al Trattato di Sto¬ ria greca, informavo i Colleghi e i cultori italiani di storia antica che a quello sarebbe seguito il Trattato parallelo di Storia romana, alla elaborazione del quale subito mi accinsi, dopo essermi assicu¬ rata la collaborazione di Santo Mazzarino. Sono trascorsi da allora cinque interi anni, durante i quali del primo Trattato si è pubblicata una seconda edizione aggiornata, già anch'essa prossima ad essere esaurita. Se questo è un indizio, come mi pare, che i Trattati vengono incontro a una reale necessità dei nostri studi universitari e del pubblico colto dei lettori, non mi dolgo di avere speso molto tempo e fatica a preparare il presente volume, al quale seguirà quello che Santo Mazzarino ha dedicato all'Impero romano. Sugli scopi e sul metodo di questa trattazione non ho nulla da aggiungere a quanto scrissi nella Prefazione al Trattato di Storia greca; ed il Mazzarino, da parte sua, nel redigere il secondo volume del Trattato, ha proceduto naturalmente in modo del tutto confor¬ me a quello da me tenuto in questo primo volume. Firenze, novembre 1953
Questa quarta edizione del Trattato contiene un'Appendice di ag¬ giornamento nella quale sono incluse tutte le notizie di bibliografia e di problematica comprese nelle Appendici delle precedenti edizioni. Firenze, dicembre 1969
G. GIANNELLI
Ho il piacere di porre a disposizione degli studiosi di Storia Romana la quinta edizione dell'opera del Prof. G. Giannelli che, sulla traccia della precedente edizione, viene ripubblicata dalla nostra Casa. Colgo questa occasione per annunciare anche la prossima uscita della nuova edizione del Trattato di Storia Greca che stiamo già stampando sul¬ la base degli aggiornamenti forniti dall'Autore. Bologna, febbraio 1976
L’Editore
*
SOMMARIO Prefazione
.
V
INTRODUZIONE I
- Problemi del « periodo delle origini »
.
3
§ 1 II periodo delle origini nella storiografia greca e latina, 3 § 2 La tradizione orale ed il suo valore storico, 4 - § 3 II « pe¬ riodo delle origini » nella critica storica più recente, 6 — § 4 Sto¬ ria « Romana » o storia « Italica » ?, 7.
II - Le fonti per la storia dell’età repubblicana.
9
§ 5 Fonti primarie e fonti secondarie, 9 - § 6 Fonti archeolo¬ giche, 10 - § 7 Fonti scritte primarie: a) documenti, 12 § 8 Fonti scritte primarie: b) orazioni, lettere, diari, scritti po¬ lemici e d’occasione, 17 — § 9 Fonti scritte secondarie: gli anna¬ listi, 20 - § 10 Fonti secondarie: gli storici latini, 22 - § 11 Fonti secondarie: gli storici greci, 24.
Ili - Cronologia
.26
§ 12 II calendario romano dell’età repubblicana, 26 - § 13 La riforma di Giulio Cesare, 30 - § 14 Le ère usate dai Romani, 31 - § 15 Gli studi di cronologia romana nell’antichità e nei tempi moderni, 34.
IV - Geografia dell’Italia antica.37 § 16 L’Italia degli antichi: sua positura geografica, 37 - § 17 Origine ed estensione del nome, 38 - § 18 Caratteristiche fisiche della regione italiana, 40 - § 19 Condizioni geografiche e svi¬ luppo storico, 41.
V - Bibliografia generale.42 I Gli studi di storia romana, 42 - II Repertori geografici, 43 - Ili Enciclopedie e collezioni, 45 - IV Fonti in generale, 46 - V Fonti archeologiche, 46 - VI Fonti numismatiche ed epi¬ grafiche, 47 - VII Fonti scritte primarie, 51 - Vili Fonti scritte secondarie, 52 - IX Opere generali di storia romana, 54 - X Antichità pubbliche e private, 55 - XI Vita sociale ed economica, 58 - XII Geografia e carte dell’Italia antica, 59 _ XIII Riviste e periodici di Storia romana, 61.
vm
PARTE PRIMA
LE CIVILTÀ ITALIANE DELLA PREISTORIA E DELLA PROTOSTORIA E LE ORIGINI DI ROMA I
- Civiltà preistoriche e protostoriche in Italia.65 § 20 La civiltà paleolitica in Italia, 65 - § 21 Civiltà neolitica ed eneolitica, 68 - § 22 Le diverse « facies » della civiltà del bronzo in Italia, 72 - § 23 La prima età del ferro in Italia, 78 § 24 Terramaricoli e villanoviani, 80 — § 25 La civiltà del ferro in Toscana e le culture periferiche coeve, 81.
II
- Etnografìa dell’Italia preistorica e protostorica
....
84
§ 26 Premesse metodiche del problema, 84 - § 27 I Latino-Sicu¬ li e gli Italici nella Penisola, 88 - § 28 Gli Etruschi in Toscana, 89 - § 29 Illiri e Greci in Italia, 93.
Ili - Gli Italici e i Latini al principio dell’età storica
....
94
§ 30 Le origini di Roma, 94 - § 31 Aspetto etnografico del¬ l’Italia fra il 700 e il 500 a. C., 97 - § 32 Roma nell’età regia, 101 — § 33 Ordinamenti politici e sociali della Roma dei re, 103.
IV - Potenza e civiltà degli Etruschi.108 § 34 I più antichi aspetti della civiltà etrusca nella Toscana meridionale, 108 - § 35 Le città etnische dal VII al VI secolo a.C., 110 - § 36 II sistema federale nella politica etrusca, 113 — § 37 L’espansione etrusca in Campania, 115 - § 38 Etruschi, Cartaginesi e Greci nel Tirreno meridionale, 116 - § 39 Gli Etru¬ schi nella Padania orientale, 119 — § 40 La civiltà «orientaliz¬ zante » etrusca nel periodo della massima espansione, 121.
V
- I Greci nell’Italia meridionale e in Sicilia.128 § 41 I coloni greci in Italia e in Sicilia, 128 - § 42 Vicende degli Italioti e dei Sicelioti dall’VTII al IV secolo a. C., 131 — - § 43 I Cartaginesi nel Mar Tirreno: i trattati con Roma, 137 — — 44 Civiltà degli Italioti e dei Sicelioti, 138 - § 45 La cultura siceliota ed italiota a contatto coi popoli dell’Italia centrale, 144.
VI - Bibliografìa e Problemi
.148
PARTE SECONDA
LA REPUBBLICA ROMANA E L’ITALIA I
- I più antichi ordinamenti repubblicani.169 § 46 La caduta della monarchia, 169 - § 47 Le prime magi¬ strature della repubblica, 170 - § 48 Caratteri delle magistrature romane, 171 - § 49 Comizi e sacerdozi, 173,
IX
.
175
Ili - Il primato di Roma nell’Italia centrale.
182
II
- La parificazione politica della plebe col patriziato
.
.
§ 50 Significato e forme della lotta plebea contro il patriziato, 175 — § 51 La prima conquista plebea, 177 - § 52 La parifi¬ cazione dei due ordini, 178 — § 53 La nuova oligarchia patri¬ zio-plebea, 180.
§ 54 L’egemonia di Roma nel Lazio, 182 - § 55 Roma e le città etnische meridionali, 183 - § 56 L’irruzione dei Celti nell’Italia centrale, 184 - § 57 La restaurazione della potenza romana, 187.
188
IV - Roma e gli Oschi § 58 Gli Oschi nell’Italia centrale e meridionale, 188 - § 59 Roma, Latini e Campani alla metà del IV secolo, 190 — § 60 Le guerre romano-sannitiche, 192.
V
195
- Roma e gli Italioti: Pirro in Occidente. § 61 Lucani, Bruzi e Italioti nella seconda metà del IV secolo, 195 - § 62 La guerra con Taranto: Pirro in Italia, 196 - § 63 Pirro in Sicilia: La capitolazione di Taranto, 197 - § 64 Siste¬ mazione definitiva dell’Italia meridionale, 198 — § 65 L’Italia nel governo di Roma, 199 - § 66 Struttura politica dello Stato romano alla metà del III secolo a. C., 200 — § 67 Riforme e struttura sociale della Repubblica romana intorno al 300 a.C., 204.
VI - Roma e l’Italia alla vigilia del conflitto con Cartagine .
.
206
§ 68 Panorama culturale dell’Italia all’inizio del III secolo a.C., 206 - § 69 Condizioni sociali e vita familiare del popolo romano nei primi secoli della Repubblica, 209 — § 70 Economia e finanze della Repubblica nel IV e nel III secolo, 212 - § 71 Caratteri della vita spirituale romana nel III secolo a. C., 214.
Bibliografia e Problemi
217
PARTE TERZA LA POLITICA MEDITERRANEA DI ROMA I
- Il primo conflitto con Cartagine.241 § 72 L’Impero cartaginese nel Mediterraneo occidentale, 241 § 73 Roma e Cartagine al principio del III secolo a. C., 243 — § 74 II «casus belli » e l’inizio delle ostilità, 245 — § 75 Gli apparecchi militari di Roma e di Cartagine, 246 — § 76 Le prime campagne in Sicilia, 247 — § 77 La guerra navale e lo sbarco in Africa, 248 - § 78 La guerra di esaurimento: Amilcare Barca, 250 - § 79 La battaglia delle Isole Egadi e la pace, 252.
II
- Le vigorose affermazioni della potenza romana in Oriente e in Occidente.253 § 80 II dopoguerra in Italia, 253 - § 81 I rapporti romano-pu¬ nici dopo il 241 a.C., 255 - § 82 La colonizzazione cartaginese
X
della Spagna e l’invasione gallica in Italia, 256 - § 83 La conqui¬ sta dell’Italia continentale e le guerre illiriche,258 — § 84 Annibaie al comando nella Spagna e la preparazione della guerra, 260.
Ili
- La seconda guerra punica.261 § 85 I piani di guerra di Annibaie e dei Romani, 261 - § 86 La « guerra annibalica », 264 - § 87 La seconda fase della guerra in Italia e in Spagna, 266 — § 88 Contro Siracusa e la Macedonia, 268 - § 89 P. Cornelio Scipione, 269 - § 90 L’ultima fase della guerra in Italia e in Africa, 271.
IV
- L’intervento romano nell’Oriente greco.273 § 91 Roma dopo la vittoria su Cartagine, 273 - § 92 Roma e l’« impero universale », 274 — § 93 La seconda guerra contro la Macedonia, 277 - § 94 Le armi romane in Asia, 279 - § 95 La fine del regno di Macedonia, 280.
V
- La distruzione di Cartagine e la fine dell'indipendenza greca.282 § 96 II nuovo sistema d’impero: la provincia di Macedonia, 182§ 97 Assoggettamento della Grecia, 283 - § 98 La fine di Car¬ tagine, 284.
VI
- Le provincie romane.285 § 99 Roma e l’Occidente, 285 — § 100 Le grandi isole del Tirreno e la Gallia Cisalpina, 286 — § 101 Le provincie spagnole, 287 - § 102 L’Oriente greco e la provincia di « Asia », 289.
VII - La civiltà italica nel III e nel II secolo a. C.290 § 103 La romanizzazione dell’Italia, 290 - § 104 La vita spi¬ rituale e religiosa a Roma nel II secolo a.C., 292 - § 105 Condi¬ zioni sociali ed economiche, 293 - § 106 Le lettere e le arti a Roma nel III e nel II secolo a.C., 296.
Bibliografìa e Problemi.299
PARTE QUARTA LA CRISI DELLA REPUBBLICA: I REGIMI PERSONALI I
- Gli ordinamenti della Repubblica nel II secolo a. C. .
.
.
339
....
348
§ 107 II sistema provinciale, 339 - § 108 Le magistrature, 341 - § 109 Predominio della nobiltà, 343 - § 110 M. Porcio Ca¬ tone e i processi contro gli Scipioni, 344 - § 111 Decadenza dei poteri del popolo e dell’autonomia dei « soci », 345.
II
- La crisi della Repubblica e l’opera dei Gracchi
§ 112 La trasformazione agraria: latifondismo e schiavismo, 348 - § 113 La questione dell’« ager publicus »: Tiberio Grac¬ co, 350 — § 114 Da Tiberio a Gaio Gracco: le leggi Sempronie, 352 — § 115 La reazione senatoriale e le guerre esterne alla fine del II secolo a.C., 358.
XI
III - La prima guerra civile e la dittatura di Siila.360 § 116 Gaio Mario, 360 - § 117 Livio Druso e il « bellum socia¬ le», 363 — § 118 Mitridate re del Ponto, 367 — § 119 Gaio Mario e Lucio Cornelio Siila rivali, 369 — § 120 La prima guer¬ ra mitridatica e la riscossa di Mario, 370 - § 121 II ritorno di Siila e la guerra civile, 371 — § 122 La dittatura e le riforme di Siila, 373.
IV
- Il principato di Pompeo.375 § 123 La guerra civile in Spagna: Sertorio e Pompeo, 376 - § 124 Licinio Crasso e il « bellum servile », 377 - § 125 L’ascesa di Pompeo, 378 — § 126 I comandi militari di Pompeo, 381 - § 127 La grande guerra mitridatica, 382 - § 128 La nuova sistema¬ zione dell’Oriente e il ritorno di Pompeo in Italia, 384.
Bibliografia e Problemi.385
PARTE QUINTA GIULIO CESARE E LA FONDAZIONE DELLA MONARCHIA UNIVERSALE I
- L’ascesa della potenza di Cesare. § 129 H consolato di Cicerone e la congiura di Catilina, 411 s 130 II ritorno di Pompeo e il « primo triumvirato », 415 - § 131 Il consolato di Cesare, 417 - § 132 II tribunato di Clodio, 419.
II
Dalla guerra gallica alla guerra civile.
420
s 133 La provincia di Cesare, 240 - § 134 La sottomissione della Gallia, 422 - § 135 Gli accordi di Lucca: Pompeo e il Se¬ nato dal 55 al 52, 425 - § 136 Le ultime campagne galliche, 428 - § 137 L’« ultimatum » a Cesare, 429 - § 138 La guerra civi¬ le e la morte di Pompeo, 433.
III
[1 trionfo di Cesare e la fondazione della monarchia
.
.
437
8 139 La campagna in Egitto e in Asia, 437 - § 14011 governo di Cesare, 438 - § 141 La seconda campagna d Africa, 439 8 142 La nuova politica di Cesare, 440 - § 143 La seconda campagna spagnola, 442 - § 144 La fondazione dell impero uni¬ versale, 443 - f 145 Uccisione di Cesare, 446.
IV
- L’Italia romana alla vigilia dell’Impero.
447
8 146 Unificazione di culture e di nazionalità, 447 - § 147 La religione romana nell’ultimo secolo della repubblica, 448 - à 148 Le lettere e le arti, 450.
Bibliografìa e Problemi Appendice .
.
Indice alfabetico .
452 463
• .
511
INTRODUZIONE
I PROBLEMI DEL "PERIODO DELLE ORIGINI" § 1 - Il periodo delle origini nella
storiografia
greca e latina -
Il problema al quale vogliamo anzitutto rivolgere la nostra attenzione, concerne il periodo della storia romana anteriore all’introduzione della scrittura in Roma e nel Lazio: una lunga serie di anni, durante i quali non fu possibile ai Romani, né agli abitanti delle altre città latine, fissare per iscritto, in un modo qualunque, il ricordo o il resoconto dei fatti che si susseguirono in quel tempo e degli uomini e delle città che ne furono i protagonisti. Non dunque di storia romana si dovrebbe parlare, ma di preistoria ('). Ma queste rigorose distinzioni e siffatte esigenze di metodo erano ignote alla quasi totalità degli storici antichi: Tucidide, con la sua « archeologia » (I, 1 sgg.), rappresenta veramente un’eccezione. È un fatto che i più antichi scrittori latini di storia, gii «annalisti», avevano trattato diffusamente nelle loro opere il‘«periodo delle origini », come noi siamo soliti chiamare quel tempo, indubbiamente assai lungo, nel quale maturarono, nella regione dell’estrema valle del Tevere, quelle condizioni ambientali ed etniche che furono culla all’infanzia di Roma, e quel tempo successivo in cui la città, allora nata, crebbe in quella statura e in quegli aspetti che sono il presupposto storico delle sue vicende poste¬ riori. Questo « periodo delle origini » si prolunga, per la scienza storica moderna, sino al definitivo delinearsi, nel corso del V secolo, degli istituti repubblicani; e siccome soltanto intorno al 500 a. C. si diffuse nelle città latine la conoscenza e l’uso della scrittura (essendone strumento l’alfabeto, derivato da quello greco delle colonie calcidesi della costa campana), così noi consideriamo il « periodo delle origini » quasi tutto « preistorico » e soltanto in minima parte appartenente alla « storia » di Roma. Così non la pensavano, per altro, gli annalisti romani, i quali narravano per filo e per segno la « storia » di Albalonga e di Roma per un lungo
1
Cfr. Trattato di Storia greca, p. 3.
4
TRATTATO DI STORIA ROMANA
succedersi di eventi, nei quasi sette secoli trascorsi dall’arrivo di Enea nel Lazio, pochi anni dopo la distruzione di Troia (1184/3 a. C., secondo la cronologia divenuta poi canonica), alla cacciata di Tarquinio il Superbo. Gli scritti degli annalisti non sono arrivati fino a noi; ma di essi si valsero i grandi storici latini e greci del tempo di Cesare e di Augusto - Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Diodoro Siculo - e quelli di qualche secolo posteriori, come Appiano, Dione Cassio, Plutarco, per costruire i loro diffusi e circostanziati racconti delle origini di Roma. La storia delle origini di Roma, che noi leggiamo negli autori sopra ricordati, ò dunque sostanzialmente quella stessa che noi leggeremmo negli annalisti latini, se i loro libri si fos¬ sero conservati. § 2 - La tradizione orale e il suo valore storico - Che valore sto¬
rico possiamo noi riconoscere al racconto
annalistico delle
origini di
Roma ? Come poterono gli annalisti scrivere la « storia » di un così lungo ciclo di anni, durante i quali nessun documento scritto potè serbare il più piccolo ricordo di tanti eventi e di tanti uomini: non una formula, non un nome, non una data ? E il nostro dubbio si estende anche al tempo di poco posteriore all’uso della scrittura da parte dei Romani: perché non c’è da pensare che dalle scarse registrazioni ufficiali e dai pochi documenti d’archivio che vennero redatti e conservati nel corso del quinto e del quar¬ to secolo, abbiano potuto gli annalisti attingere il racconto continuato e particolareggiato di tutti gli avvenimenti di quegli anni. Né, d altra parte, ci consta che essi abbiano potuto trovare materiale per le loro opere nella storiografia greca, anteriore di parecchi secoli ai primi tentativi dei Romani in questo genere di attività letteraria; giacché gli storiografi greci più antichi, fino ad Ecateo ed allo stesso Erodoto, ignorano i paesi e i popoli della penisola italiana a nord di Brindisi e di Napoli o ne fanno appena qualche rara e sporadica menzione. Il più antico ricordo di Roma arrivato fino a noi, si trova in Antioco di Sira¬ cusa, fiorito intorno al 420 a. C.; e soltanto gli storici e i mitografi greci della seconda metà del IV secolo cominciarono a mostrare interesse a Roma e al popolo dei Latini, ma soltanto per trattare la leggenda delle origini della oittà, che furono allora ricollegate con la distruzione di Troia e col nostoa di Enea. E anche quando i Romani, nella prima metà del III secolo, furono entrati in più stretti rapporti con i Greci Italioti e crebbe allora l’interesse degli storiografi greci per questo ormai grande popolo dell’Oc¬ cidente, questi si limitarono a ripetere la leggenda epica delle origini di Roma e a ricordare gli avvenimenti coevi alla penetrazione romana nell’estremo mezzogiorno d’Italia, e cioè, gli eventi più notevoli delle ul-
PROBLEMI
DEL « PERIODO
DELLE
ORIGINI »
6
ti me due guerre sannitiche e quelli della guerra con Taranto e con Pirro. È certo, dunque, che gli annalisti non poterono trarre dalla storiografia greca alcuna parte sostanziale della storia romana anteriore al 300 a. C., all’infuori della materia epica relativa alle origini troiane di Roma e al viaggio di Enea nel Lazio. Se ne conclude che il racconto annalistico del « periodo delle origini » si fondava esclusivamente - o quasi esclusivamente, per gli anni poste¬ riori al 500 a. C. - sulla tradizione orale e che ad esso potremo attribuire tanto credito quanto ci resulterà possa meritarne questa tradizione. I primi dubbi sul valore storico della tradizione orale raccolta negli scrit¬ ti degli antichi furono esposti per la prima volta dal danese Giacomo Perizonio, nelle Animadversiones historicae pubblicate ad Amsterdam nel 1685, e lo stesso problema fu, pochi anni dopo, oggetto di profonda ri¬ flessione da parte di G. Battista Vico nell’opera De antiquissima Italorum sapientia (1710) e nelle due successive edizioni di Scienza Nuova (1726, 1730). Ma il primo tentativo di analizzare criticamente la immensa mole della tradizione orale romana fu compiuto, al principio del secolo scorso, da Bertoldo Giorgio Niebhur (nella Rómische Oeschichte, pubblicata in due volumi nel 1811-12, e in Vortràge uber rómische Oeschichte, pubblicati postumi a Berlino nel 1846); egli volle dimostrare come la tradizione orale non sia, per la più gran parte, che un mito etiologico, nato un po’ per volta, in tempi più tardi, dal bisogno dei Romani di rendersi ragione di culti, monumenti, istituzioni ricevute dai loro progenitori e di cui essi ignora¬ vano la vera origine. II metodo critico adottato dal Niebhur fu applicato in seguito da molti altri studiosi dell’Ottocento, con effetti veramente distruttivi per la tra¬ dizione annalistica: effetti che si rivelano, per esempio, nella Rómische Oeschichte bis zu den licinischen Oesetzen di A. Schwegler (Tùbingen 18531858), nelle Untersuchungen uber rómische Verfassung und Geschichte di G. Rubino (Cassel 1839) e nella stessa Rómische Oeschichte di Teodoro Mommsen (1854-56), il grande maestro, che nel campo della storia e delle antichità romane segnò un’orma profonda come nessun altro prima di lui. La tradizione veniva respinta in blocco; e il Mommsen insegnava come si potesse ricostruire, almeno nelle grandi linee, il « periodo delle origini », •sostituendo al racconto tradizionale le poche notizie che si possono rica¬ vare da indizi estranei alla tradizione e considerati assai più sicuri, come i dati geografici, archeologici, linguistici, antropologici, onomastici e topo¬ nomastici, e quelli forniti dalla comparazione di usi, costumi, riti dei Ro¬ mani con quelli di altri popoli antichi che. noi conosciamo meglio, o di po¬ polazioni moderne che si giudica possano trovarsi in condizioni simili di
TRATTATO DI STORIA ROMANA
6
spirito e di civiltà a quelle dei Latini antichissimi (metodo antropologico o folcloristico). § 3 — Il “periodo delle origini” nella critica storica più recente — Mentre però si facevano altri passi sulla via di una critica così radi¬ cale e, in Italia,
Ettore Pais,
nella prima edizione della sua Storia
d'Italia e di Roma (Torino 1898-99) conduceva alle estreme conseguenze la denegazione dei dati tradizionali, gli scavi e le scoperte archeologiche nella regione del Foro, del Palatino e dei vicini colli romani sembravano confermare in modo sorprendente alcuni elementi essenziali della tradi¬ zione, fino allora rifiutati inesorabilmente dalla critica storica, e induce¬ vano a pensare che nella tradizione fossero indubbiamente contenuti, in mezzo ai miti, alle leggende, alle invenzioni della fantasia popolare e alle elaborazioni erudite, sostanziali nuclei di verità.
Finì così per prevalere il concetto che anche la tradizione orale potesse servire per costruire qualche parte della storia più antica di Roma, ante¬ riore a quella che fu scritta sulla scorta di documenti contemporanei; ma si discusse a lungo sul metodo più sicuro che insegnasse a riconoscere e ad estrarre, di mezzo a tanto ammasso di alterazioni e di falsificazioni, i nuclei storici, che indubbiamente rimangono travisati e nascosti in quella tradizione. Furono, di volta in volta, preferiti ed esperimentati diversi metodi di « analisi interna » della tradizione; o che si tentasse di sceve¬ rare il vero dal falso, applicando il « criterio della verisimiglianza », o che si cercasse di identificare nella tradizione le parti più genuine e fededegne, procedendo a riconoscere in essa le trame di quei canti epici che Catone attestava multis saeclis ante suam aetatem in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum virorum laudibus (in Cicerone, Brutus, 19, 75) o il tessuto di quelle laudationes funebres che si pronunziavano nei funerali dei membri delle famiglie patrizie e che in seguito si cominciarono a scri¬ vere sotto le immagini dei defunti {elogia)1. Ma i resultati di questa che ho chiamato « analisi interna » della tradi¬ zione, apparvero ben presto scarsi e sospetti. Metodo di gran lunga mi¬ gliore si andava frattanto rivelando quello di sottoporre la tradizione non ad un esame interno, in base a vani criteri di verosimiglianza o di proba¬ bilità, o ad assurde ricostruzioni razionalistiche di miti e di leggende; bensì al vaglio di elementi e di indizi estranei alla tradizione stessa e che ci sono forniti dalle scienze sussidiarie della storia, come l’archeologia, la glotto-
classieo » *N ^IIantichi Canm conviviali romani, in « Mondo
PROBLEMI DEL « PERIODO DELLE
7
ORIGINI »
logia, il folclore. Coll’aiuto di esse è sempre possibile discernere, nella far¬ raginosa mole della tradizione, quei nuclei di verità, che il moderno stu¬ dioso potrà adoperare come ottimo materiale per costruire la storia del « periodo delle origini ». Questo metodo fu applicato per la prima volta in Italia, su larga scala, da Gaetano De Sanctis (nei primi due volumi della Storia dei Romani, 1907) e ad esso si informò Edoardo Meyer pubblicando, dal 1898 al 1902, i primi cinque volumi della sua Geschichte des Altertums, ed anche un cri¬ tico radicale come Giulio Beloch nella Rómische Geschichte del 1926. Lo stesso Pais, nella seconda edizione della Storia di Roma e nelle opere di larga sintesi pubblicate in questi ultimi anni, è ritornato con mutato abito critico ai problemi relativi al « periodo delle origini », attribuendo al rac¬ conto annalistico maggior credito di quanto ordinariamente non gliene riconoscano i più convinti « tradizionalisti » \ § 4 — Storia “romana” o storia “italica”? — Non si va lontani dal vero affermando che tutta la moderna storiografia di Roma antica e andata soggetta, almeno fino a questi ultimi anni, a un grave errore d im¬ postazione: bastano a documentarlo i titoli delle opere — tutte di carat¬ tere fondamentale, alcune, anzi, vere pietre miliari nel corso di questa at¬ tività scientifica — che abbiamo sopra citato; dalla « Rómische
»
Geschichte
del Niebhur, dello Schwegler, del Mommsen alla Storia « dei Romani
»
del De Sanctis e alla « Rómische » Geschichte del Beloch. L errore consiste appunto nell’avere identificato ante litteram - molto ante htteram - la storia dell’Italia con la storia di Roma, o, peggio ancora, nell’avere la¬ sciato o respinto nella tenebra più profonda tutto il resto dell Italia antica, ponendo in fuoco e appuntando tutti gli obbiettivi della ricerca e della critica su Roma e sul suo popolo. Quasi come chi per fare la storia del¬ l’Italia medievale e moderna prendesse a trattare la storia della contea di Savoia e del Piemonte e si occupasse delle altre parti della penisola soltanto via via che queste vengono a riunirsi politicamente al Regno di Sardegna ! Non si deve però disconoscere che contro questo errore - le cui origini
i La storia della questione critica relativa al periodo delle origini è riassunta nel volumetto di C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a noi, Milano 1926. Si veda anche l’articolo di L. Pareti, Per lo stadio delle leggende e della pseudostoria greca e romana, in «Atene e Roma » IN. S., y Ps«g.; e lo studio di M. A. Levi, Roma negli studi storici italiani, Torino 1964. Una nuova impostazione del problema è stata data ora dallo stesso Pareti nell Storia di Roma, della quale sono apparsi i due primi volumi (Tonno, Utet, 195.2) durante la stampa di questo trattato. Vedi più oltre, al § Vi, pag oi.
8
TRATTATO DI STORIA ROMANA
stanno naturalmente nella storiografia latina - tentarono di reagire que¬ gli stessi studiosi che per primi si sollevarono contro la supina acquiescenza alla tradizione annalistica: lo dimostra il titolo dello scritto già citato di G. Battista Vico, De antiquissima « Italorum » sapientia. Al principio del secolo passato Giuseppe Micali (1769-1844), pubblicando la sua opera L’Italia avanti il dominio dei Romani (1810), seguita, a un ventennio di distanza (1832), dalla Storia degli antichi popoli italici, spin¬ geva anche troppo oltre la sua reazione contro Roma e la romanità, esal¬ tando i valori dei popoli italici non romani (Liguri, Etruschi, Umbri, Oschi) e considerando una sventura per essi la conquista romana, che ap¬ portò loro una civiltà già corrotta da « discipline forestiere » (greche). Se anche altri scrissero sulle orme del Micali (come, per esempio, An¬ giolo Mazzoldi, Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italico, 1840, e Atto Vannucci, Storia dell’Italia antica, 1863), le loro voci rimasero soffocate da quelle ben più possenti della scienza critica tedesca, la quale seguitava imperturbabile ad affiancare alla storia « greca » non una storia « italica » ma una storia « romana ». E tuttavia, già nella « Storia romana » del Mommsen si avverte la con¬ sapevolezza di questa esigenza, di non separare, cioè, la storia dei Romani da quella degli altri popoli italici: esigenza alla quale ha ottemperato uno dei più fedeli e dei più grandi scolari del Mommsen, Ettore Pais, trattando parallelamente, anche se separatamente, la storia di Roma e quella del¬ l’Italia antica. Né si può certo dire che a questo richiamo sia rimasto sordo Gaetano De Sanctis nei primi due volumi della sua Storia dei Romani (1907). Il grande filologo tedesco Ulrico von Wilamowitz, in una conferenza tenuta a Firenze nel maggio del 1925, affermava che a torto noi seguiamo ancora le orme degli annali di Livio e seguitiamo a sbagliare scrivendo storia romana anziché storia italica: Roma - insegnò allora il Wilamowitz - non fu in origine che un membro, e neppure molto importante, di un organismo assai più vasto; come ben vide a suo tempo il Micali, tutte le stirpi italiche ebbero una propria vita e una propria civiltà, che poi Roma distrusse e fuse con la propria; ma queste civiltà non scomparvero senza avere esercitato su quella romana « una forte efficacia, che non può dirsi pienamente scomparsa nel profondo della vita nazionale » 1 *. Nelle opere dei più recenti studiosi noi troviamo in realtà la storia e la civiltà arcaica di Roma trattate come una parte della storia e della civiltà dell’Italia antica. Fra i più convinti assertori di questo indirizzo è da ricor-
1 La co'd’erenza del Wilamowitz fu pubblicata nella «Riv. di Filologia class. N. S., IV (1926), p. 3 sgg. 6
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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dare Federico Altheim, così nelle sue opere di storia propriamente detta (Epochen der romischen Geschichle, Frankfurt a. M. 1934-35; Italien und Rom, Ansterdam - Leipzig 1941) come nella Rómische Religionsgeschichte, pubblicata a Berlino nel 1933
Arturo Rosenberg, nel suo studio Der
Staat der alteri Italiker, Berlino 1913; Santo Mazzarino, nel penetrante saggio Dalla monarchia allo Stato repubblicano, Catania, s. d. A questi stessi principi s’informa il presente Trattato 1 2.
II LE FONTI PER LA STORIA DELL'ETÀ REPUBBLICANA § 5 — Fonti primarie e fonti secondarie — È d’uopo richiamarci al¬ la suddivisione tra fonti primarie e fonti secondarie, che abbiamo creduto opportuno di adottare nel « Trattato di Storia greca » (p. 5 sg.), collegata all’altra ovvia classificazione delle fonti in monumentali e letterarie. È chiaro che alla categoria delle fonti primarie dobbiamo assegnare, oltre a tutte le fonti monumentali, alle epigrafi e alle monete 3, tutti quegli scritti che si possano riguardare « come un prodotto immediato, un riflesso, una con¬ seguenza, un’espressione o una manifestazione diretta del fatto storico da essi contemplato »; mentre spettano alla categoria delle fonti secondarie tutte le opere storiche propriamente dette, tutte quelle, cioè, nelle quali il fatto storico arriva a noi « di seconda mano », attraverso il ripensamento, l’interpretazione, la ricostruzione dello scrittore e del critico. Da quanto finora si è detto, possiamo concludere che il « periodo delle origini » può essere studiato soltanto nelle fonti primarie; quanto di esso ci giunge nelle fonti secondarie, cioè nel resoconto annalistico costruito sulla tradizione orale, sarà da considerarsi genuino in quella parte appunto che risulterà convalidata dalla conferma dei dati estranei alla tradizione, e cioè pro¬ prio dalle fonti primarie, così monumentali come, quando vi siano, let¬ terarie. Per l’età successiva, per il periodo, cioè, che va dal decemvirato legisla¬ tivo (451 a. C.) alla completa sottomissione dellTtalia peninsulare (270 1 Quest’opera dell’Altheim fu tradotta in inglese da H. Mattingly, Hretory of Roman Reliqion, London 1928, con molte notevoli aggiunte. Cfr. anche N.Tur¬ chi, La religione di Roma antica (« Storia di Roma » dell istituto di Studi romani, voi.’ XVIII), Bologna 1939. ...... . „ . ,0„. 2 Vedi anche M. A. Levi, Roma negli studi storici italiani, j orino 1934. 2 Cfr. Trattato di Storia greca, p. 4 sg.
TRATTATO DI STORIA ROMANA
10
a. C.) e per quello delle guerre puniche e delle grandi conquiste (270146 a. C.), le fonti secondarie, le opere storiche, divengono più abbondanti e finiscono per prendere il sopravvento sulle fonti primarie. Per la storia dell’ultimo secolo della repubblica, infine, mentre rimane sempre assai esiguo l’apporto delle fonti monumentali e « miste » (epi¬ grafi e monete), si fa sempre più ricco il materiale fornito dalle fonti let¬ terarie (primarie e secondarie); tanto che, per alcuni degli anni fra il 70 e il 43 a. C., lo svolgersi degli
avvenimenti nella Repubblica può es¬
sere seguito e documentato quasi giorno per giorno. § 6 - Fonti
archeologiche - La storia degli scavi e
delle ricerche
ai-cheologiche utili alla conoscenza di Roma antica e delle civiltà coeve è ormai più lunga di un secolo e mezzo e si può dire ch’essa prenda le mosse dagli scavi sistematici iniziati a Pompei alla fine del 1798, per impulso del generale francese Championnet, e ripresi poi nel 1806 dal re Giuseppe Bonaparte e, due anni dopo, da Gioacchino Murat, coll’intelligente e ap¬ passionato interessamento della moglie, la regina Carolina. Un primo assaggio era stato frattanto compiuto nel territorio di Ostia ad opera dell’inglese Fagan (1796): ma assai più fruttuosa riuscì, alcuni anni dopo, l’esplorazione degli avanzi greci dell’Italia meridionale e della Sicilia. La Magna Grecia fu percorsa, dal 1807 in poi, dall’architetto Gu¬ glielmo Wilkins, che descrisse ciò che aveva cercato e trovato nel suo viag¬ gio, nella grande e magnifica opera Antiquiiies of Magna Grascia. Subito dopo (1812) esplorò le rovine dei grandi templi greci di Sicilia, studiando specialmente i resti imponenti d’Agrigento e di Selinunte,
dove i suoi
scavi furono continuati dagli architetti inglesi Angel e Harris e, più tar¬ di, dal giovane architetto italiano Saverio Cavallari. In quegli anni stessi il francese duca de Luynes investigava i resti dell’antica Metaponto. I tre decenni tra il ’20 e il ’50 portarono al recupero dell’Etruria antica, in seguito ad una serie di ricerche e di scavi, di cui si fece promotore quel gruppo di scienziati tedeschi, cui piacque denominarsi « Gli iperborei ro¬ mani » (Gerhard, Stackelberg, Kestner, Panofka). Vennero scoperte per prime le tombe dipinte di Tarquinia, di Chiusi e di Vulci; il 9 dicembre dei 1928 fu decisa, a Roma, la fondazione dell’« Istituto di corrispondenza archeologica». Successe poco dopo (1836) la scoperta, presso Cerveteri (l’etrusca Caere), della « tomba
Regolini-Galassi », il
cui
contenuto
fu
raccolto nel Museo Etrusco, che proprio in quell’anno il pontefice Gre¬ gorio XVI aveva aporto in Vaticano (Museo Etrusco Gregoriano), per rac¬ cogliervi gli oggetti trovati in Etruria. L’Etruria venne ancora percorsa ed esplorata in ogni sua parte, tra il ’40 e il ’50, da Giorgio Dennis, da
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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Alessandro Francis, da Giampietro Campana, al quale si dovette la costi¬ tuzione di quella grandiosa « Collezione Campana », che andò purtroppo miseramente dispersa nel 1861. Altri scavi si conducevano frattanto in diverse regioni d’Italia e nella stessa Roma, nel Foro e sul Palatino (1861); nel 1856 fu ripresa l’esplora¬ zione di Ostia, mentre a Pompei l’invio di Giuseppe Fiorelli alla direzione degli scavi (1860) iniziava un nuovo fecondissimo periodo per lo studio sistematico della città e la ricostruzione degli edifici distrutti. Sono anche da ricordare i rinvenimenti del conte di Siracusa a Cuma, tra il 1852 e il 1856. L’indagine archeologica si andò ancor più intensificando dopo il 1870 e ancor più fecondi furono i resultati, anche dal punto di vista storico, grazie al costante perfezionarsi del metodo scientifico negli scavi sistema¬ tici. Mentre il Pigorini e i suoi numerosi allievi si dedicavano con straor¬ dinario fervore all’esplorazione degli strati preistorici della nostra penisola, il territorio di Roma e ogni altra parte d’Italia venivano ancora fatti og¬ getto di scavi e di ricerche diligenti, per trarne nuovo materiale d’infor¬ mazione per i successivi secoli dell’evo antico. La Magna Grecia, dopo es¬ sere stata ancora una volta percorsa da Francesco Lenormant (1880), fu ripetutamente scavata e studiata da E. Petersen, da O. Puchstein, dall ar¬ chitetto R. Koldewey (1892-94) e dall’archeologo italiano Paolo Orsi, che svolse in Calabria e in Sicilia la sua infaticabile opera di scavatore per più di quarantanni (dal 1888 in poi). Alle ricerche sulla topografia di Roma antica si dedicarono con grande successo, negli ultimi decenni dell Otto¬ cento, Rodolfo Lanciani, Enrico Jordan e Cristiano Hùlsen, mentre saliva in gran fama il nome di Giacomo Boni per i suoi scavi nell’area del Foro e del Palatino. Il fervore archeologico della fine del secolo passato non è certo diminuito in questa prima metà del Novecento. L’importante centro di Ostia ci è ormai perfettamente noto, in tutti i periodi della sua esistenza, mercé l’opera-tenace di Dante Vaglieri e di Guido Calza, il quale potè fissare al sec. IV a. C. la data della fondazione della colonia romana \ Agli scavi di Pompei si sono ora aggiunti, con risultati superbi, quelli di Ercolano, a cura di Antonio Sogliano e di Adolfo Maiuri; agli scavi in Puglia si sono dedicati Quinto Quagliati e Michele Gervasio, al quale ultimo si deve la preziosa identificazione del campo di battaglia di Canne; le ricerche e gli studi condotti nel territorio di Aquileia si trovano esposti in un libro di
i Vedi G. Calza, in « Nob. Scavi» 1923, p. 177 sgg.; e dello stesso autore il volume Ostia, Roma 1927,
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
A. Calderini
Alla ricognizione dei centri etruschi ha atteso una schiera
di valenti studiosi: sono state esplorate Bologna (da A. Zannoni e E. Brizio), Populonia e Marsiliana d’Albegna (da A. Minto), Vetulonia (da I. Fal¬ chi), Tarquinia (da G. Ghirardini, L. Pemier, G. Cultrera), Cerveteri (da R. Mengarelli), Veio (da G. A. Colini e G. Q. Giglioli). Al coordinamento di tanti studi e di tante ricerche hanno atteso prima Luigi Adriano Milani quindi Antonio Minto, f ondatore dell'Istituto di Studi Etruschi. Né vanno trascurati i contributi portati alla storia della Repubblica romana dagli scavi praticati nei territori delle varie provincie. Non molto si è ancora fatto a Cartagine, dove però sono state messe in luce le necro¬ poli puniche; Adolfo Schulten si è dedicato, nella Spagna, ad un lungo e fecondissimo lavoro, che gli ha permesso di riconoscere la topografia del¬ l’antica Numanzia e di riportare alla luce i resti notevoli degli accampa¬ menti dell’esercito romano che assediò la città; gli scavi francesi nell’isola di Deio ci richiamano, sotto certi punti di vista, a quelli di Ostia, rivelan¬ doci ie condizioni di vita e le forme di attività di una numerosa colonia di commercianti italici nel II e nel I secolo a. C. § 7 - l’onti scritte primarie: documenti - Una categoria a sé delle fonti scritte è rappresentata dalle epigrafi e dalle monete; infatti esse sono qualche cosa di mezzo tra il « monumento » e il « documento »: sono un oggetto che parla. Iscrizioni e monete sono fonti di straordinario va¬ lore; giacché in esse si riflette con la più grande immediatezza il fatto sto¬ rico al quale l’epigrafe o la moneta si riferisce. Tuttavia con le epigrafi e con le monete si può fare della storia solo in casi eccezionali, quando cioè esse ci siano conservate in numero grandissimo per determinati perio¬ di di tempo, sì da formare dei veri e propri archivi!. Questo non è certo il caso dell’età repubblicana di Roma. Non molto si scrisse a Roma sulla pietra o sul bronzo, nei primi secoli dopo l’introduzione della scrittura nel Lazio; e di quel poco la più gran parte è andata perduta per noi. Fra le epigrafi giunte fino a noi, tre gruppi per altro presentano interesse note¬ vole, così per il numero dei testi come per il loro valore storico; intendiamo riferirci al gruppo dei testi di legge dell’ultimo secolo della repubblica, alle iscrizioni greche del II e del I secolo a. C. pertinenti ai rapporti poli¬ tici ed economici fra Roma e le città greche, ed infine alle iscrizioni dia¬ lettali italiche, utili testimonianze della distribuzione e dei rapporti reci¬ proci fra le diverse genti della penisola.
1 A. Calderini, Aquilcia romana, Milano 1930. * Cfr. Trattato di Storia greca, p. 4 sg.
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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Quanto alle monete, che sono fonte di primaria importanza anche per la storia economica e per la storia dell’arte, per quello che esse rivelano col metallo e col modello del conio, con le loro dimensioni e col loro peso, anch’esse ci forniscono dati assai importanti sulla storia dell’età repub¬ blicana. Fino a poco dopo la metà del IV secolo ha corso Yaea grave fuso; intorno al 335, evidentemente in seguito all’inclusione della Campania nella Lega Latina (338), appaiono le prime monete d’argento romano¬ campane, destinate a facilitare gli scambi con le genti del mezzogiorno della penisola e della Sicilia, use da tempo ad adoperare le monete greche d’argento; ma 1 ’aes grave seguita a circolare nelle regioni meno progredite del nord e dell’est. Per alcuni decenni le zecche campane continuano a coniare le monete d’argento « commissionate » da Roma, con tipi e leg¬ gende romane; finché Roma stessa inizia la coniazione di una sua propria moneta d’argento, il denarius, destinato a dominare per secoli il mercato monetario del Mediterraneo. La coniazione del denario pare sia cominciata nel 269 a. C., sotto il consolato di Q. Ogulnio e di C. Fabio; ma una teoria recente vorrebbe ritardarne la data alla fine del III secolo. Secondo le indicazioni delle fonti, coll’inizio della coniazione del denario si dovrebbe far coincidere così l’istituzione della zecca sul Campidoglio, nel tempio di Giunone « Moneta » (è discussa l’origine di questo epiteto), come l’istituzione dell’ufficio dei Tresviri Monetale-s (Tresviri Aere - Ar¬ gento - Auro - Flando - Feriundo, abbreviato Tresviri A.A.A.F.F.): al¬ meno per quanto riguarda questi ultimi, l’indicazione delle fonti è molto malsicura e in realtà la carica ci apparisce regolare solo per l’ultimo secolo della repubblica. Le numerosissime coniazioni di denarii ci forniscono una vera messe d’indicazioni d’ogni genere: sia perché i monetieri romani, a differenza di quelli greci, scelsero come tipi dei loro coni le figurazioni più varie, ispirate agli avvenimenti della vita reale — battaglie, sacrifici, feste, trionfi, comizi, conquiste - e destinate ad esaltare le glorie degli avi del monetiere stesso o di lui medesimo, sia perché impressero sulle mo¬ nete il loro nome o la sigla di esso, sia infine perche adeguarono via via la moneta alle esigenze economiche del tempo, modificandone il peso e le altre caratteristiche esteriori. Ma la classe più importante delle fonti scritte primarie è indubbiamente quella dei documenti e degli atti. Solo una piccola parte di quelli veniva incisa su materiale duro (pietra o bronzo), costituendo così quella massa di epigrafi, che sono arrivate, in un certo numero, fino a noi; la maggior parte era scritta invece su pergamena o su papiro e conservata negli ar¬ chivi e s’intende che di questa grande mole di documenti noi non possia¬ mo più leggere nulla direttamente (i papiri documentari dell’Egitto elle-
TRAMATO DI STORIA ROMANA
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nistico hanno contenuto amministrativo di ordine interno e non conten¬ gono quasi mai riferimenti alla storia politica) e dobbiamo contentarci di quanto ci viene conservato negli scritti degli storici, degli oratori, dei giuristi, degli eruditi. Trovò già numerosi sostenitori la tesi che gli archivi romani siano andati completamente distrutti nell’incendio gallico del 390 a. C. e che perciò non debba ritenersi genuino nessun documento anteriore a tale data; ma questa tesi apparisce insostenibile, quando si rifletta che dalla distruzione andò certamente immune il Campidoglio, e probabilmente anche qualche altro tempio della città bassa \ e che i Romani, dopo la notizia della rotta dell’Allia, si affrettarono a mettere in salvo, o nel Cam¬ pidoglio stesso o nelle città vicine, tutto ciò che più a loro premeva. Seguendo la perspicua classificazione del Rosenberg, si possono formare sei classi di tutti gli atti e documenti ufficiali conservatici per mezzo delle iscrizioni o della tradizione letteraria a. 1) Atti dei magistrati. Soltanto al tempo della guerra annibalica si può considerare stabilita la norma che gli atti ufficiali dei singoli magistrati venissero regolarmente registrati, a cura di un segretario. Questi redigeva spesso anche il « diario » (commentarii) del magistrato in un rotolo
di
papiro o su tavole di cera tenute insieme da una catenella. 2) Lettere e decreti dei magistrati. Ce ne sono conservati molti, che gli interessati stessi fecero incidere su materiale durevole: appartengono quasi tutti all’età posteriore alle guerre puniche. 3) Aiti del Senato. È molto antica la norma di redigere il verbale delle sedute del Senato; ne era delegata la cura al magistrato che aveva convo¬ cato l’assemblea, con la sorveglianza e la garanzia di un gruppo di sena¬ tori, i cui nomi erano indicati nell’intestazione del documento. Questo veniva poi consegnato ai questori, che lo custodivano nell’archivio delio Stato. Questo archivio rappresentò perciò una delle fonti essenziali per gli antichi storiografi romani. S’intende che, in un primo tempo, quei verbali dovettero essere molto scarni e contenere soltanto il testo delle delibera¬ zioni dell’assemblea (senatusconsvlta)\ di un vero resoconto delle sedute non si può parlare fino al tempo di Cesare, il quale, fino dall’anno del suo consolato (59 a. C.), fece includere tali resoconti nel suo giornale ufficiale (Acta diurna). Di alcuni di questi atti è giunto fino a noi il testo epigrafico: il più antico è il senatusconsultum de Bacchanalibus, del 186 a. C.
1 Vedi L. G. Roberts, The Qcdlic fire and Roman Archives, in « Mem. Americ. Acad. in Rome» II (1918), p. 55 sgg.; T. Frank, Roman buildings of thè republtc; Papers and mon. of Am. Ac. in Rome, III (1919); e cfr. Livio, V, 49, 3; 50, 2. * A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur rómischen Oeschichte, Berlin
1921»
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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4) Leggi e deliberazioni del popolo. Alcuni riguardano come il più antico esempio di tali documenti l’epigrafe arcaica del Foro, che fu rinvenuta presso la cosiddetta «tomba di Romolo» (C.LL. P, 1, p. 367). Seguono le Leggi delle XII Tavole, codificazione del diritto romano del V secolo; non ci resta il testo originale, ma esso può essere ricostruito quasi integral¬ mente dai frammenti e dalle citazioni degli scrittori posteriori, special mente di Cicerone e dei grammatici, giuristi e così via. Anche parecchie delle leggi del periodo fra i Gracchi e Giulio Cesare ci sono conservate in epigrafi o in testi letterari. Anche l’archivio di questi documenti rappre¬ sentò una miniera di materiale prezioso per gli storici antichi, perché sap¬ piamo che il testo di tutte le deliberazioni approvate dai Comizi veniva protocollato e custodito a cura dei questori. 5) Trattati internazionali. In età repubblicana furono i Comizi del po¬ polo competenti a ratificare i trattati internazionali, mentre il Senato aveva avocato a sé la direzione delle trattative diplomatiche, che neces¬ sariamente preludevano alla redazione del trattato. I testi di questi trat¬ tati venivano conservati naturalmente con la massima cura e consultati continuamente dagli annalisti e dagli storici greci e latini, che spesso ne discussero la interpretazione e la data. Anche noi possiamo perciò leggere - o, direttamente, nelle epigrafi conservate, o nelle opere degli storici il testo di molti di quei trattati: ciò che ha reso possibile ad uno studioso tedesco lo studio sistematico della tecnica diplomatica e politica dei trat¬ tati romani 1. 6) Atti dei Collegi dei Sacerdoti. Come i magistrati, così anche i singoli Collegi di sacerdoti romani redigevano i loro comrnentarii, nei quali era serbato il ricordo di tutti i loro atti ufficiali. Particolare menzione esige qui l’attività che in tal senso esplicava il Collegio dei Pontefici. Fino dai tempi immediatamente posteriori alla in¬ troduzione della scrittura in Roma fu affidato ai Pontefici il compito di regolare il calendario, segnando nel loro diario (comrnentarii) l’elenco dei giorni di ciascun mese, nei quali era lecito (fas) trattare gli affari civili, e di quelli nei quali ciò non era permesso (■nefas), per motivi religiosi. Di qui la distinzione dei giorni in dies fasti e dies nefasti e il nome di Fasti dato al calendario. Il nucleo più antico dei calendari compilati dai Ponte¬ fici ricompare nei calendari di età più tarda, fino ai calendari del tempo dellTmpero, di parecchi dei quali possediamo frammenti epigrafici di note¬ vole ampiezza: questi rappresentano una fonte di primaria importanza per la storia della religione e del diritto dell’antica Roma. 1 E. Taubler, Imperiarti Romanum,
I, Lipsia 1913.
TRATTATO DI STORIA ROMANA
16
Contemporanea alla
compilazione del
calendario
dobbiamo ritenere
un’altra, forma di attività dei Pontefici: quella, cioè, di tener nòta dei nomi dei magistrati supremi annuali della repubblica, la serie dei quali era in¬ dispensabile conservare, in quanto ad essa sola era legata la numerazione, ossia la denominazione, degli anni, e quindi il ricordo di tutti gli avveni¬ menti pubblici, ed anche privati, di una certa importanza - intimazioni di guerra e trattati di pace, tregue, alleanze, contratti, obbligazioni private di ogni specie - e della loro cronologia relativa. Siccome i Pontefici presero a scrivere i nomi dei magistrati eponimi sulle tavole stesse del calendario, quegli elenchi di nomi vennero a formare in seguito come un’aggiunta al calendario e chiamati anch’essi Fasti (fasti consulares). Indipendentemente dal calendario, si compilarono più tardi altri elenchi di magistrati (libri magistratuum), alcuni dei quali si conservavano, al tempo degli annalisti, scritti in volumi di tela di lino (libri lintei), nel tempio di Giunone Moneta. Nell’anno 30 a. C., quando fu costruito nel Foro Romano l’Arco di Au¬ gusto, vennero incise sulle pareti interne dei passaggi laterali di esso, su tavole di marmo, due liste; l’una contenente i nomi di tutti i magistrati eponimi della repubblica - consoli, decemviri, tribuni consolari -, dei dittatori e dei censori; l’altra con i nomi di tutti i duci che avevano cele¬ brato un trionfo e con l’indicazione della data e della causa del trionfo Abbondantissimi frammenti di queste liste ci sono stati restituiti dagli scavi nel Foro: essi sono oggi custoditi nel Palazzo dei Conservatori sul Campi¬ doglio e sono detti perciò Fasti consolari Capitolini. Queste liste furono com¬ pilate, evidentemente per ordine di Augusto, col materiale fornito dagli archivi dei Pontefici, sull’appoggio di opere di storici e di eruditi; esse non hanno pertanto, in sé, maggior valore documentario di quello che possiamo attribuire alle liste stesse che ricaviamo dai libri degli annalisti. E infatti, confrontando fra loro le liste dei Fasti Capitolini con le liste degli annalisti che si riflettono negli storici dell’età augustea (Livio, Dionisio, Diodoro), le riscontriamo sostanzialmente identiche, salvo alcune differenze di computo, per cui il conteggio degli anni a.C. risulta, nelle liste capitoline, spostato di alcuni anni rispetto a quello delle redazioni annalistiche \ Ma un’altra notevole sorgente di notizie documentarie si alimentava della notevole attività del Collegio dei Pontefici in questo campo. Resulta, 1 È merito del Degrassi di aver dimostrato che l’edifìcio in cui vennero collo¬ cati i Fasti compilati per volontà di Augusto, non fu la Regia, come s’era sempre creduto fino a pochi anni fa. Lo studio fatto dall’A. sull’argomento è contenuto nella prefazione al Volume dei Fasti consulares et triumphales delle « Inscriptiones Italiae », integrato poi dallo stesso Degrassi (L'edificio dei Fasti Capitolini) e da uno studio del Gatti, La ricostruzione dell'Arco di Augusto al Foro Romano, in «Atti della Pontif. Accad. di Archeol. » XXI (1945-6), p. 67-122.
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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dunque, che fino da tempo molto antico i Pontefici cominciarono a segnare, in brevi note aggiunte ai singoli giorni del calendario, le notizie di mag¬ giore interesse riferentisi ad avvenimenti pubblici: le quali, aumentando via via di numero e di mole, non poterono più essere registrate unitamente al calendario, ma dovettero essere redatte a parte e finirono per formare un vero e proprio annuario ufficiale (commentarti pontificum). Un po’ pri¬ ma del II secolo a.C. invalse la consuetudine che il Pontefice Massimo espo¬ nesse ogni anno al pubblico, nella Regia, una tavola bianca (tàbula dealbata), sulla quale erano scritti in alto i nomi dei magistrati, e registrati, al di sotto, i fatti più notevoli accaduti durante l’anno. Queste tavole contene¬ vano, dunque, anno per anno, la cronaca di tutto ciò che era accaduto, ovvero, per essere più esatti, di ciò che il Pontefice Massimo aveva ritenuto opportuno far conoscere al popolo; si dissero perciò annales pontificum; e, se è giusto ritenere che gli annales siano stati una specie di estratto dei commentarli, ne concluderemo che i primi andarono a costituire l’archi¬ vio pubblico, i secondi l’archivio segreto dei Pontefici. Sappiamo che la redazione di quegli annali non soltanto fu continuata fin verso la fine del II secolo a. C., ma fu completata - e si discute ora su quel materiale documentario - anche per i primi secoli della repubblica e perfino per l’età dei re. Nel 130 a.C., essendo Pontefice Massimo P. Mucio Scevola, la redazione della cronaca venne interrotta e tutto il materiale esistente fu raccolto e pubblicato in 80 volumi di annali, che per la loro estensione si dissero Annales Maximi. § 8 - Fonti scritte primarie: orazioni, lettere, diari, scrifti polemi¬ ci e d’occasione - Come le più antiche orazioni pronunciate a Roma sono forse da riguardarsi le orazioni funebri, che si tenevano per in¬ tessere le lodi dei defunti e delle loro famiglie: il nome stesso con cui si usò chiamarle (laudationes funebres) ci dice da sé quale valore storico sia da attribuire ad esse: del resto esse non vennero quasi mai pubblicate in forma letteraria. Invece, dal tempo di Catone il Censore in poi, si ela¬ borarono con cura e si pubblicarono, riuniti in volume, non solo i discorsi tenuti dagli uomini politici ma anche quelli di contenuto forense, degli avvocati più famosi. Questi discorsi, talora anche quelli di carattere fo¬ rense, servirono spesso agli oratori come strumento di propaganda politica: sicché non di rado il testo di essi veniva pubblicato in forma diversa da quella in cui erano stati pronunciati e accadde di frequente che si pubbli¬ cassero orazioni in realtà non pronunciate. Le orazioni più antiche di cui possediamo frammenti, sono quelle di Catone: dei 150 discorsi che egli avrebbe pronunciato, si conservano fram2 - Giannelli, Trattalo di Storia romana - I
TRATTATO DI STORIA ROMANA
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menti di circa 80. Fu Cicerone a far rilevare l’importanza delle orazioni catoniane; ne fu fatta allora una nuova edizione, che fu usufruita durante l’impero dagli storici e dai retori. L’esempio di Catone influì sulle genera¬ zioni posteriori; sicché si moltiplicarono le edizioni di orazioni politiche e forensi. I discorsi di
Tiberio Gracco
furono largamente usufruiti da
Cornelio Nepote e da Plutarco; così delle sue orazioni come di quelle del fratello
Gaio
ci restano frammenti notevoli. Lo stesso si dica per le orazioni
di altri uomini politici dell’ultima età repubblicana, come C. C.
Tizio, Licinio Crasso.
Ma soltanto di
Cicerone
Fannio,
si sono conservate in¬
tegre la più gran parte delle orazioni da lui pronunciate fra l’81 e il 43 a.C. Cicerone stesso pubblicò, nell’anno 60, un « corpus » dei discorsi da lui pronunciati durante il suo consolato; in seguito si fecero molte altre pub¬ blicazioni di singoli suoi discorsi o di gruppi di essi: a noi sono giunte 64 orazioni ciceroniane (contando per una i cinque libri delle Verrine). Esse rappresentano una fonte storica di straordinario valore come spec¬ chio delle condizioni politiche e sociali della repubblica romana al suo tra¬ monto, della posizione dei singoli uomini politici e dei partiti di fronte alle questioni del giorno, come miniera di dati di fatto e di indicazioni cronologiche; vanno però usate con estrema cautela, tenendo presente il vivace, spesso acre spirito polemico che sempre le ha dettate. Di notevole importanza come fonte storica sono anche i numerosi commenti alle ora¬ zioni ciceroniane, scritte da filologi dell’età imperiale; il più noto di
Asconio Pediano,
pubblicato al tempo di Nerone: a noi
è
è
quello
arrivato il
commento asconiano di cinque orazioni (prò Cornelio, in Ioga candida, in Pisonem, prò Scauro, prò Milone). Di epoca più tarda sono gli scholia Bobiensia, utili per la ricchezza dei dati conservati, lo una parte delle Verrine) e il cosiddetto
Pseudo-Asconio
(per
Schollasta Gronovianus.
Nell’età di Catone compaiono pure le prime lettere della letteratura romana: in Grecia, invece, fin dal IV secolo era invalso il costume di riu¬ nire in volume epistolari di personaggi di notevole importanza. Tra i fram¬ menti di Cornelio Nepote ci sono arrivate due lettere di
Cornelia,
la ma¬
dre dei Gracchi, al figlio Gaio. Fonte inesauribile e preziosa per la storia dei tempi di Pompeo e di Giulio Cesare è l’epistolario ciceroniano: sono 864 lettere (riunite in 36 libri), scritte negli anni dal 68 al 43 a.C., delle quali 774 dello stesso
Cicerone.
Accresce il valore dell’epistolario cicero¬
niano il fatto che in esso ci sono conservate lettere di quasi tutti i perso¬ naggi più in vista di quel tempo e la certezza che una buona parte di quella corrispondenza non era da Cicerone destinata ad essere pubblicata. L’uso di scrivere diari o « memorie » cominciò in Grecia nel V secolo a.C. con Ione da Chio; l’esempio classico del secolo successivo è Y Anabasi di
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
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Senofonte. Esso trovò numerosi imitatori nell’età ellenistica, specialmente tra i monarchi (Pirro), i generali, i capi politici (Arato). Anche nella let¬ teratura romana si trovano parecchie « memorie » (commentarii), prima di quelle, famose, di Giulio Cesare; un primo esempio potrebbe esser con¬ siderata la lunga lettera indirizzata da
Scipione Africano
a Filippo V
di Macedonia, per descrivergli l’espugnazione di Cartagena (usufruita da Polibio, X, 9). Seguono i diari di M. P.
Rutilio Rufo
(de vita sua), di Q.
Emilio Scauro Lutazio Catulo,
(de vita sua), di console nel 102
e vincitore dei Cimbri insieme con Mario (liber de consulatu et de rebus gestis suis), di
Silla
(l. XXII rerum gestarum). Di tutta questa lette¬
ratura autobiografica, usufruita per altro da Plutarco, non ci restano che scarsissimi frammenti; e lo stesso si dica degli scritti autobiografici di Cicerone:
il de consulatu, scritto in greco, un racconto delle proprie
gesta contenuto in una lunga lettera a Pompeo, e una storia
segreta
della congiura catilinaria (de consiliis suis), pubblicata solo dopo la sua morte. Seguendo l’esempio di Siila,
Cesare
volle lasciare un particola¬
reggiato e smagliante racconto delle proprie gesta in Gallia (commentarii de bello Gallico), che egli si accinse a continuare, negli ultimi mesi della sua vita, con la narrazione dei fatti della guerra civile (commentarii de bello civili). Il valore storico del De bello Gallico può essere saggiato solo al lume della critica, né è possibile il confronto con altre fonti, poiché non esiste un racconto parallelo degli stessi avvenimenti: si deve riconoscere che, in genere, il responso della critica riesce favorevole all’autore. Quanto al De bello civili, il confronto di esso con l’epistolario di Cicerone dimo¬ stra che i fatti sono spesso rappresentati da Cesare con innegabile tenden¬ ziosità. Un uomo colto ed attivo del seguito di Cesare,
Aulo Irzio, sì
occupò, dopo la morte del Dittatore, di completare i suoi commentari, valendosi naturalmente degli atti e dei rapporti ufficiali custoditi negli archivi cesariani: fu pubblicato cosi un ottavo libro de bello Gallico, con la storia delle brevi operazioni del 51 e del 50, e quindi probabilmente un altro libro con gli avvenimenti delia guerra civile dal 47 al 44: la prima parte di esso è da riconoscere verosimilmente nel cosiddetto bellum Alexandrinum. -mentre il resto della narrazione irziana venne sostituito, in una edizione del « corpus Caesarianum » pubblicata al principio dell impero, dagli scritti di due ufficiali di Cesare, col titolo bellum Africànum e bellum Hispaniense, arrivati anch’essi fino a noi. La viva lotta di partiti che arse a Roma dopo il periodo graccano, pro¬ vocò una molteplice letteratura d’occasione, che assunse le forme più varie (opuscoli, satire, dialoghi, panegirici, liriche, finte lettere o finte orazioni) e a cui collaborarono uomini politici, letterati, « pamphletisti ». Di questa
TRATTATO DI STORIA ROMANA
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letteratura
polemica e
di propaganda
lasciarono
saggi
famosi T. Pom¬
ponio Attico, Terenzio Varrone, Curione,-Catullo, Irzio e, più di tutti, gli stessi Cesare e Cicerone.
§ 9 — Fonti scritte secondarie: gli annalisti — Alla
categoria delle
fonti secondarie spettano tutti gli scritti di contenuto e di caratte¬ re storiografico, in senso lato. Alla straordinaria ecatombe di tanta par¬ te delle letterature classiche, successa fra il III e il XII secolo, la sto¬ riografia latina ha pagato uno dei più dolorosi contributi: basta pensare ehe nulla di essa ci rimane, prima delle operette minori di Sallustio (la « Catilinaria » e la « Giugurtina », che sono piuttosto scritti politici e pole¬ mici che storici: le « Storie » sono anch’esse perdute) e delle poche bio¬ grafie di Cornelio Nepote. A noi è soltanto possibile ricostruire il contenuto e la suddivisione della materia delle opere perdute e riconoscerne l'indirizzo critico attraverso gli storici posteriori che le usufruirono e mediante i nu¬ merosi frammenti conservati negli scritti dei grammatici, dei giuristi e degli eruditi dell’età imperiale; siano specialmente ricordate le Noctes Atticae di
Aulo Gellio,
del II secolo, i Saturnalia di
intorno al 400, il « commento a Virgilio » di colo, la Compendiosa doctrina ad filium di Institutionum di latina di M.
Prisciano,
fattone da secolo da
Pompeio Festo
Paolo Diacono;
Naturalis di di
Ateneo
Plinio
Macrobio,
scritti
della fine del IV se¬
Nonio Marcello,
i 18 libri
del sec. VI, i libri superstiti del De lingua
Terenzio Varrone
ficata del suo contemporaneo
Servio,
(110-27 a.C.), l’opera De verborum signi¬
Verrio Flacco,
conservataci nell’estratto
nel II secolo, a sua volta riassunto nelTVIII a questi scritti sono da aggiungere la Historia
e alcune opere greche, specialmente i Deipnosophistae
(del III sec.), la Bibliotheca di Fozio (del sec. IX) e la parte
che ci rimane della grande Enciclopedia storica concepita e promossa da Costantino
VII
Porflrogenita
(’ExXoyal rapi 7rpsv dei Romani con
gli altri popoli). L’attività degli annalisti si aggancia cronologicamente all’ultimo pe¬ riodo dell’attività, registratrice dei Pontefici, VAnnalium confectio, come la chiama Cicerone (De orai. II, 12, 52). Nell’annalistica romana si distin¬ guono tre periodi. I primi scrittori romani che si dedicarono a questo ge¬ nere di lavoro, redassero le loro opere in greco, per assicurare ad esse mag¬ gior diffusione anche fuori del mondo italico-romano: così fecero Q. Pittore,
Fabio
contemporaneo della seconda guerra punica e inviato nel 216,
dopo la battaglia di Canne, a consultare l’oracolo di Delfi, da buon cono¬ scitore della lingua greca quale egli era; L.
Cincio Alimento,
combattente
nella guerra annibalica e prigioniero, di Annibaie, col quale ebbe anche
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LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ. REPUBBLICANA
un colloquio; A.
Postumio Albino
e C.
Acilio,
fioriti intorno al 150 a.C.
Questi più antichi annalisti appartengono tutti alla classe dirigente ro¬ mana, alla nobiltà senatoriale, e al loro spirito nobile e conservatore erano naturalmente informati i loro annali, che narravano la storia di Roma dalle origini al loro tempo. Mentre ancora si svolgeva questa annalistica in lingua greca, la storia di Roma veniva narrata epicamente in esametri latini dal poeta apulo Q.
Ennio,
in 18 libri di Annales (dei quali ci restano circa 600 versi),
preceduto in ciò dal poeta latino Cn.
Nevio,
che ancora prima degli an¬
nalisti aveva narrato in versi saturni, la prima guerra punica. Appartiene a questo periodo una caratteristica opera latina, le Origines di il Censore,
Catone
che ebbe l’incontestabile merito di capire per il primo come
la storia antica di Roma non potesse narrarsi disgiunta da quella degli altri popoli italici (cfr. al § 4). Non pare, purtroppo, che del prezioso materiale delle Origines fi siano valsi gli eruditi del secondo e del terzo periodo, o, come si sogliono desi¬ gnare, dell’età graccana e dell’età sillana; i quali scrissero i loro Annali in lingua latina. L’annalistica dell’età graccana vale indubbiamente molto di più di quella dell’età posteriore. Gli uomini che scrissero nella seconda metà del II se¬ colo (L.
Cassio Emina,
L.
Calpurnio Pisone Frugi,
Cn.
bio Massimo Serviliano, C. Sempronio Tuditano),
Gellio,
Q.
Fa¬
unirono alla espe¬
rienza personale politica la passione e il gusto dell erudizione, onde essi lasciarono una esposizione sobria ed onesta della storia di Roma, nutrita del
materiale degli archivi pontificali, senza per questo rinunciare alla
narrazione della tradizione orale, con tutto ciò che essa conteneva di leg¬ gende e di verità. Va ascritto per altro a loro merito l’aver tentato di di¬ stinguere gli elementi leggendari della tradizione da quelli storicamente accertati \ Agli scritti degli annalisti dell’età sillana si addice la definizione che Cicerone dette della storia: opus maxime oratorium. Infatti essi, imitando la storiografia retorica dei Greci e scrivendo per appagare il gran pub¬ blico dei lettori e per soddisfare il sentimento e l’orgoglio nazionale o gen¬ tilizio, non si fecero scrupolo di inventare vittorie e di nascondere scon¬ fitte, di descrivere battaglie immaginarie e di elencare dati statistici del tutto falsi. Appartengono a questa schiera
Claudio
Quadrigario,
che
forse aveva cominciato i suoi annali rifacendosi dal sacco di Roma per
1 Cfr
T.
Frank,
Roman historiography before Caesar, in * Americ. Historical
Rev. » XXXII (1927), p. 232 sgg.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
opera dei Galli; Licinio Magro, tribuno della plebe nel 73, che introdusse nella storiografia romana la tendenza popolare e che ci assicura espressamente di non essersi risparmiate ricerche d’archivio (avrebbe consultato i « libri lintei ») per controllare i dati delle sue fonti; Valerio Anziate, che estese la sua storia di Roma per non meno di 75 libri e al quale Livio attinse forse più che ad ogni altro, travasando cosi nella sua opera quelle alterazioni della verità storica che resultano evidenti dal confronto con Polibio e con Diodoro; L. Elio Tuberone, che pubblicò, più di venti anni dopo la morte di Siila, le sue Hìstoriae, in almeno 14 libri. § 10 - Fonti secondarie: gli storici latini - L’ultimo e il più gran¬ de degli annalisti può essere considerato Tito Livio; la cui opera (ab urbe condita libri) si distingue tuttavia profondamente da quelle degli scrittori che lo precedettero, per l’intonazione e lo scopo patriottico, otte¬ nuti piuttosto con una meditata composizione che con artifìci storici di cattivo gusto, e per lo stile e la lingua, che ne fanno un’indiscussa opera d’arte. D’altra parte Livio non vale, come storico, molto più che gli anna¬ listi; non tanto perché a lui sia mancata intelligenza critica, quanto perché egli non si è proposto di fare opera critica. Il suo senso critico l’ha dimo¬ strato classificando come leggendaria la tradizione sul periodo delle ori¬ gini, scegliendo di preferenza a suo autore Polibio, in quelle parti dove egli gli fornisce ìa materia desiderata; il suo scopo non critico l’ha dichiarato rinunciando a controllare i dati delle sue fonti sui documenti di archivio, facilmente accessibili, e preferendo seguire successivamente, per gruppi di capitoli, 1 uno o l’altro autore piuttosto che collazionare e confrontare la versione degli uni con quella degli altri. Dei 142 libri degli Annali di Livio ci restano tre deche e mezzo (cioè, i libri I-X e XXI-XLV): la materia degli altri ci arriva nei compendi ed elaborazioni di età tarda. Di questi il più importante è rappresentato dalle Periodine omnium librorum, sommari, cioè, di tutta 1 opera che, secondo una opinione assai diffusa tra i moderni, sarebbero stati compilati su di una Epitome compo¬ sta nel I secolo d.C.; essenzialmente su riassunti di Livio furono pure composti i Compendi di Floro, dell’età di Adriano, di Rufio Festo (Breviarium rerum gesiarum populi Bomani) e di Eutropio (Breviarium ab urbe condita), ambedue del IV secolo;, lo stesso si dica per il liber prodigiorum di Giulio Ossequiente, del III secolo; per le Historiae adversus puganos di Paolo Orosio, del 417 d.C., e per la Cronica di Cassiodoro, pubblicata nel 519. Dopo Tito Livio, scrissero ancora annaìisticamente la storia di Roma Fenestella e Granio Liciniano; il primo, del tempo di Tiberio, trattò
LS FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ REPUBBLICANA
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con particolare ampiezza il periodo di Siila e di Cesare, applicandosi con notevole senso critico e coscienziosità di ricerche alla sua opera, della quale purtroppo non ci restano che frammenti; anche degli Annali del secondo, condotti in gran parte sull’epitome liviana, abbiamo solo frammenti. Interi si conservano invece i Factotum et dictorum memorabilium libri IX di Valerio Massimo, pubblicati nel 31 d.C. e derivati anch’essi da Livio, attraverso, probabilmente, una precedente raccolta di Igino; e ci riman¬ gono pure i 3 libri di Stratagemaki, che Frontino compose al tempo di Traiano, traendone il materiale da Livio, Cesare e Sallustio. La storia uni¬ versale [Historiae Philippicae) di Pompeo Trogo, del I secolo a.G., ci ar¬ riva soltanto in un riassunto assai negligente di Giuntano Giustino, com¬ pilato intorno al 200 d.C. Gli storici che abbiamo sin qui ricordato, narravano tutta la storia di Roma, dalle origini o dai primi tempi dell’età repubblicana: ad essi si ag¬ giunsero gli autori di « monografìe storiche », che nei loro scritti tratta¬ rono diffusamente la storia di un limitato ciclo di anni. Primo esempio di siffatto genere di lavori si potrebbero considerare le già ricordate Origines di Catone, il quale, in una seconda monografia, trattò la storia de suoi tempi, cioè degli anni tra il 250 e U 150 a.C., conducendo l’esposizione con intento democratico e sopprimendo, a tal fine, tutte le « personalità », senza per questo rinunziare a mettere in evidenza 1 opera da lui stesso spie¬ gata, come console, nel 195 a.C. Autori di monografie storiche sull’età repubblicana furono ancora. Sem¬ pronio Asellione, autore di 14 libri di Rea gestae dalla distruzione di Car¬
tagine alla morte di Druso; Celio Antipatro, che narrò in 7 libri, pubbli¬ cati verso il 120 a.C., la seconda guerra punica (Bellum punicum), attin¬ gendo anche a fonti di ispirazione cartaginese (Sileno), e fu a sua volta fonte principale della terza deca di Tito Livio; C. Fannio, che trattò nei suoi Annales il periodo dei Gracchi, con tendenza popolare; L. Cornelio Sisenna, che espose in 12 libri di Historiae l’età di Siila, cominciando dal
90 a.C. e prendendo a modello la storia romanzata di Alessandro Magno scritta da Clitarco di Colofone, senza per questo rinunciare a documentare quanto narrava del suo personaggio (Siila); Asinio Politone, che incomin¬ ciò le sue Historiae dall’anno 60 a.C., conducendole almeno fino alla bat¬ taglia di Filippi. Tutte queste monografie sono andate perdute per noi, salvo i soliti scarsi frammenti; dei quali abbiamo invece maggior copia per le Historiae di Sallustio Crispo, che riprendevano l’esposizione sto¬ rica dall’anno ove l’aveva lasciata Sisenna (il 78 a.C.), conducendola, in 5 libri, fino al 67. Le altre due monografìe di Sallustio - il Bellum Caiiltnarium e il Bellum Iugurtinum - sarebbero piuttosto da classificare, come
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
s’è detto sopra, per il loro carattere polemico e tendenzioso, fra gli scritti di propaganda politica. Sorto in Grecia nell’età ellenistica, il genere biografico fu introdotto in Roma verso la fine della repubblica dall’erudito
Varrone,
che compose
700 imagines dei personaggi più famosi, greci e romani. Il suo esempio trovò un imitatore, nell’età del secondo triumvirato, in
Cornelio Nepote,
autore di una raccolta di biografie di uomini illustri non romani (in genere greci) e romani, queste ultime di maggior valore storico delle altre. Nulla ci rimane dell’opera di Varrone, piccola parte di quella di Cornelio, cioè un gruppo di biografie di generali greci e quattro biografie che presentano qualche interesse per la storia romana, cioè quelle di Amilcare, di Anni¬ baie, di Catone, di Tito Pomponio Attico. Su scritti biografici fu pure re¬ datto il compendio di storia universale pubblicato da C. colo
Velleio Pater-
sotto il principato di Tiberio. Anche lo scritto anonimo della tarda
età imperiale, De viris illustribus urbis Romae, ci conserva, in una quantità di schizzi biografici, un riassunto della storia dell’età repubblicana. Sap¬ piamo anche che
Igino,
direttore della biblioteca di Augusto, aveva pub¬
blicato due scritti biografici, l’uno di carattere popolare (de vita rebusque illusirium virorum, in 6 libri), l’altro condotto con intendimento scienti¬ fico (de viris Claris, in 2 libri). Così pure M. Tullio sto una biografia di Cicerone in almeno 4 libri.
Tirone
aveva compo¬
§ 11 ~ Fonti secondarie: gli storici greci - S’è già
osservato
(al
§ 2) che la storiografia greca anteriore al II secolo a.C. ha mostrato scarso interesse per Roma, applicandosi, se mai, a trattare (con racusa,
del V secolo, con
di Samo,
Filisto,
Antioco di Si¬
lo storico di Dionisio I, con
del tempo di Agatocle, e soprattutto con
Duride
Timeo di Tauromenio,
di poco posteriore) il mito della fondazione di Roma da parte dei discen¬ denti di Enea e quei cicli di avvenimenti nei quali la storia di Roma ve¬ niva in piu stretto rapporto con la storia dell Occidente greco, come la terza guerra sannitica, la guerra con Taranto e con Pirro, e così via. Le opere di questi storici greci contenevano invece dati abbondanti e notevoli per la storia dei popoli del mezzogiorno della penisola a diretto contatto con 1 ambiente italiota (Campani, Apuli, Sanniti, Iapigi, Lucani, Bruzi) e per la storia della Sicilia. Ma tutto questo materiale è andato perduto per noi, come sono perduti gli scritti di
Filino d'Agrigento,
prima guerra punica, e di Sosilo di Sparta e di avevano narrato la seconda guerra punica.
storico della
Sileno di Caleatte,
che
I tre storici nominati per ultimi furono tra le fonti principali di Poli¬ bio di Megalopoli, che, fornito di elevatissimo senso storico e di ottimo
LE FONTI PER LA STORIA DELL’ETÀ REPUBBLICANA
25
metodo critico, esperto di diplomazia e di politica, buon conoscitore del1 arte militare, trattò in 29 libri di ‘Iorroplat (ce ne restano i primi cinque libri completi e larghi excerpta degli altri) tutto il periodo delle guerre pu¬ niche e delle grandi conquiste, fino al 146 a.C. La storia di Polibio è il primo lavoro greco che possa considerarsi una vera e propria « storia universale », nella quale gli avvenimenti di tutto il mondo conosciuto siano trattati come collegati intimamente fra loro in una unità. Non mancano,
è
vero, «storie universali» di autori precedenti
(prima fra tutte quella di
Eforo),
ma in esse si ritrova soltanto una giu-
staposizione materiale, una connessione esteriore di avvenimenti, dei quali sfugge allo storico l’intimo legame che gli uni agli altri li avvince. Del resto questi lavori sono pur essi perduti per noi, del pari che quelli dei continuatori di Polibio:
Posidonio
di
Apamea,
che scrisse le sue 'Iaroplai nell’età
di Pompeo, conducendole dal 146 alla dittatura di Siila; il geografo done,
che in 47 libri di *U7TOp.vrj[xaTa 'ujTopixà continuò la narrazione di Po¬
libio fino ad Augusto: che
Stra¬
Diodoro
Siculo
Nicola di Damasco.
Storia universale
è
anche quella
pubblicò verso il 30 a.C. col titolo di
ur-
Topixrj, comprendendovi tutta la storia fino al 54 a.C., ma contentandosi anch’egli, come la maggior parte de’ suoi predecessori, del semplice collegamento sincronistico degli avvenimenti. Dei 40 libri dell’opera diodorea ci arrivano integri i libri I-V e XI-XX, nei quali ultimi sono contenuti gli anni dal 480 al 302 a.C.; degli altri libri ci restano estratti assai abbon¬ danti. Diodoro, nonostante la negligenza e la frettolosità di certe parti della sua narrazione, rappresenta tuttavia, anche per il valore degli autori di cui si è valso, la fonte più notevole per la tradizione sul periodo più antico della repubblica romana: ciò, anche, mercé lo schema cronologico in cui egli ha incorniciato tutta l’opera sua, schema fondato sul sincronismo delle Olimpiadi, degli arconti ateniesi e dei consoli romani. Fonte principale di Diodoro per l’età anteriore al II secolo fu certamente un annalista, che dai più è identificato con Fabio Pittore, integrato da un annalista più recente; per il periodo posteriore, Diodoro si attenne a Polibio e a Posidonio. Monografie storiche in lingua greca apparvero pure in un certo numero nell’ultimo secolo della repubblica; e l’interesse del gran pubblico per la storia dell’età repubblicana rimase vivo anche sotto l’Impero. È di questo tempo r'ApxatoXoyia ‘PcùfAaix^ (Antiquitates Romanae) di carnasso,
Dionisio di Ali-
fiorito sotto Augusto: egli intese di scrivere una cronaca di Roma
dalle origini allo scoppio della prima guerra punica, ma non riuscì che a rias¬ sumere, senza alcuna elaborazione critica, il racconto degli annalisti; dei 20 libri della sua opera ci rimangono i primi dieci ed estratti degli altri. Circa
un
secolo
e
mezzo più tardi
Appiano di Alessandria
raccolse in
TRATTATO DI STORIA ROMANA
26
un’opera di 24 libri, intitolata ‘Pwjxaixa, parecchie monografie, in ciascuna delle quali esponeva le guerre combattute dai Romani per la conquista delle varie regioni del Mediterraneo. Il modo di raccontare di Appiano è chiaro e ordinato, risale a buone fonti - come Polibio, Posidonio, Sallu¬ stio, Livio -, le quali però non sono elaborate dall’autore con critica per¬ sonale, ma usufruite superficialmente attraverso riassunti posteriori. Delle monografie appianee sei ci rimangono intere, le altre in parti o in estratti. Mei III secolo dell’impero
Cassio Dione Cocceiano,
un greco della Bitinia,
scrisse una 'PojgaiXTf] 'Iaxopla in 80 libri, estendendosi dalle origini di Roma fino all’anno 229 d.C. Il modello di Dione è ancora l’annalistica, benché egli sappia spesso innalzarsi al di sopra di essa, narrando gli avvenimenti da un punto di vista più realistico e generale. Per la parte più antica, le sue fonti annalistiche appaiono essere più affini a quelle di Dionisio che a quelle di Livio; per gli anni fra il 200 e il 146 a.C., alle fonti annalistiche si aggiunge Polibio; per il resto dell’età repubblicana Livio è l’autore più seguito. Di tutta l’opera di Cassio Dione ci restano soltanto i libri dal XXXVI al LX, comprendenti gli anni dal 68 a.C. al 46 d.C.; per la parte precedente, perduta, disponiamo di « excerpta » bizantini e del compen¬ dio di
Zonara.
Il genere biografico raggiunse nella letteratura greca la sua più perfetta espressione con
Plutarco,
fiorito nell’età di Traiano. I suoi Bioi TCocpàXXTjXoi
comprendono 46 biografie di personaggi greci e romani, accoppiate a due a due, con un vano quanto sterile sforzo di ritrovare e far risaltare gli elementi paralleli nei caratteri e nelle azioni di 23 personaggi greci e di altrettanti romani. Lo scopo di Plutarco è etico, non storico; ma le sue biografìe forniscono allo storico della repubblica un ottimo materiale, perché importanti e numerose sono le fonti delle quali si è valso il biografo greco. Vero è che Plutarco di rado risale alle fonti primarie; di solito egli attinge a biografie del secolo precedente, che avevano usufruito note perso¬ nali e lettere dei personaggi trattati, ed anche a grandi opere storiche, come quelle di Polibio e di Appiano.
Ili CRONOLOGIA § 12 - 18 calendario romano dell’età repubblicana - Se è vero che uno dei compiti essenziali dello storico è quello di determinare, con la maggiore abbondanza e precisione possibile di date, la cronologia degli avvenimenti narrati, è vero anche che tale compito è, per lo storico del-
CRONOLOGIA
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l’antichità, uno dei più difficili: più difficile, per altro, nel campo della sto¬ ria romana che in quello della storia greca. Non si può parlare del calendario romano senza riferirsi a quanto ab¬ biamo già osservato a proposito degli antichi calendari greci (cfr. Trattato di Stona greca, § 10); perché il calendario romano fu anch’esso, in origine, un calendario lunisolare. A differenza però dei calendari greci, che rima¬ sero sempre tali e sempre perciò affaticati dalla necessità di risolvere il problema - matematicamente insolubile - di far combinare il periodo della rivoluzione solare con quello della rivoluzione lunare, il calendario romano si svincolò assai per tempo da ogni legame col ciclo della luna, per costituirsi in calendario esclusivamente solare, pur conservando, per forza di tradizione - o, diciamo pure, per forza d’inerzia -, alcuni degli ele¬ menti della sua forma originaria, e inoltre, evitando di regola, per effetto di una superstizione assai diffusa fra gli antichi, il numero pari. Noi conosciamo abbastanza bene l’anno in uso nell’età repubblicana e riformato poi da Giulio Cesare. Era un anno di 355 giorni, ripartiti in 12 mesi, 4 (marzo, maggio, luglio, ottobre) di 31 giorni, 1 (il febbraio) di 28, gli altri di 29. Il secondo anno di ogni biennio veniva però portato, alter¬ nativamente, a 377 o a 378 giorni, mediante l’intercalazione di 22 o di 23 giorni, i quali si intercalavano fra il 23 e il 24 febbraio, troncando il feb¬ braio al ventitreesimo giorno e formando coi rimanenti cinque giorni del febbraio (dal 24 al 28) e i giorni aggiunti un mese intercalare (intercalaris o inter calar ius) di 27 o di 28 giorni. Si aveva dunque un ciclo di quat¬ tro anni e di complessivi giorni 1465 (355 + 377 -f 355 + 378). Un anno cosiffatto ci apparisce, a prima vista, un vero mostriciattolo: non è vincolato, come l’anno dei Greci, ai cicli lunari, perché ha mesi di 31 e di 28 giorni, che nulla hanno a che fare col periodo lunare di circa 29 giorni e mezzo; d’altra parte, rimane ben lontano, con la sua durata or¬ dinaria di 355 giorni, dal periodo della rivoluzione solare di circa 365 giorni e 1/4, mentre, con le intercalazioni biennali, supera quel periodo di 1 giorno preciso (1465 : 4 = 366 1/4). Come possiamo spiegare tutto ciò 1 Eviden¬ temente, ammettendo che anche a Roma — e, possiamo aggiungere senza tema di errare, fra le altre popolazioni italiche — 1 anno fu originariamente, come in Grecia, un anno lunisolare, costruito su 12 mesi lunari di 29 o di 30 giorni, e quindi un anno di 355 giorni, più lungo, cioè, di un giorno del corrispondente anno dei Greci (di 354 giorni), per evitare 1 infausto nu¬ mero pari. In Grecia (6 x 29) + (6 x 30) = 354; a Roma (5 x 29) + + (7 X 30) = 355. È impossibile che i Romani non siano stati molto per tempo consci di tale errore, nonostante l’affermazione in contrario di Censorino (de die
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
nat. 20, 6), basata su una testimonianza di Ennio, male interpretata dal cronografo: l’anno solare di 365 giorni e 1/4 era già noto in età remota in Egitto e in Mesopotamia, donde passò ai Greci e, naturalmente, ai coloni della Magna Grecia, che lo conoscevano, al più tardi, nel VI secolo. Sicché i Romani dovettero provvedere al più presto a correggere, con apposite « disintercalazioni », l’errore in eccesso che si commetteva periodicamente con le troppo abbondanti intercalazioni quadriennali; anzi, le testimonianze delle fonti ci inducono a credere che a tali disintercalazioni si sia pensato fin dal momento dell’introduzione di questo anno solare, in modo che le feste religiose cadessero sempre nella stessa epoca dell’anno (cfr. Valerio Anziate in Macrob., I, 13). Di questa disintercalazione ci dà notizia Macrobio nel luogo citato (I, 13, 13), informandoci che essa veniva praticata riunendo insieme sei cicli quadriennali in un periodo di 24 anni e lasciando inalterati i primi due ottenni di essi, nel terzo invece intercalando 66 gior¬ ni al posto dei 90 delle intercalazioni ordinarie (22 + 23 + 22 + 23 = 90); per ottenere tale scopo, al primo quadriennio di questo terzo ottennio si toglieva un giorno d’intercalazione, al secondo quadriennio, tutto il mese intercalare. Ecco dunque come si presentava il ciclo ventiquattrennale d’intercalazione e disintercalazione: I Ottennio : 355 + 377 + 355 + 378 ; 355 + 377 + 355 + 378 = 2930 II Ottennio : » » » » ; » » » » — 2930 III Ottennio : 355 + 377 + 355 + 377 ; 355 + 377 + 355 + 355 = 2906 La somma dei giorni del ciclo resultava così di 8766, e la durata media dell’anno di giorni 365 e 1/4. Resta che ci chiediamo quando tale ciclo sia stato introdotto, se ammet¬ tiamo che il periodo quadriennale d’intercalazione e quello ventiquattren¬ nale di disintercalazione abbiano
avuto origine
contemporaneamente:
ciò che del resto non ha grande interesse, se siamo persuasi che i Romani già alla fine del VI secolo conoscevano l’anno solare di 365 giorni e 1/4; poiché e evidente che fin d’allora essi dovettero costruire il loro calendario su questa base, qualunque fosse il ciclo di disintercalazione eventualmente adottato prima di quello in uso nella tarda età repubblicana. Si può rite¬ nere ormai dimostrato a sufficienza che la tradizione annalistica non cono¬ sce alcuna riforma organica del calendario dopo l’inizio dell’età repubbli¬ cana: certe allusioni degli annalisti a qualche attività svolta dai Decem¬ viri, da Gneo Flavio (edile nel 304) e da Manio Acilio (il console dell’anno 191) nei riguardi del calendario si riferiscono effettivamente solo all’avere essi chiesta 1 approvazione del popolo in merito all’intercalazione, opera¬ zione che invece fu lasciata in seguito all’arbitrio dei Pontefici. Tale con¬ clusione, che potrebbe apparire arrischiata - fondata, com’è, soltanto sul
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silenzio della tradizione - è d’altra parte confortata dalla notizia, data concordemente dalla tradizione stessa, che il primitivo calendario romano, istituito da Romolo, sarebbe stato riformato da Numa Pompilio, coi mesi di 31, 29 e 28 giorni, secondo la struttura, cioè, che esso ebbe sempre in età storica: il che vuol dire che la tradizione conosceva le origini antichis¬ sime del calendario in uso nell’età repubblicana. Concludendo: i Latini usarono, nel periodo delle origini, come in genere tutti i popoli antichi a quello stesso livello di civiltà, un calendario costruito esclusivamente sui mesi lunari, che anzi - secondo le affermazioni quasi concordi della tradizione - sarebbero stati in numero di dieci (calendario « romuleo »). Verso la fine dell’età regia o al principio della repubblica (lo Unger ha creduto di poter fissare, come punto di partenza del nuovo calendario, il 1° marzo del 497 a.C.) - fu introdotto un nuovo calendario lunisolare, costruito certamente sul modello dell’octaeteride greca (cfr. Trattato di St. gr., p. 15), ma differenziato da essa per l’aggiunta super¬ stiziosa di un giorno alla somma dell’anno ordinario (da 354 a 355) e per la combinazione del ciclo intercalare di 4 anni col ciclo di disintercalazione di 24, allo scopo di correggere l’eccesso di durata dell’anno ordinario. L’origine lunare del mese romano, oltre ad essere suggerita dall’analo¬ gia con i calendari degli altri popoli antichi, è dimostrata dalla divisione del mese in tre parti (dalle Kalendae alle Nonae, dalle Nonae alle Idus e dalle Idus alla fine), corrispondenti alle fasi lunari (dal novilunio al primo quarto, dal primo quarto al plenilunio e da questo al novilunio successivo). Pare anche accertato che l’antico anno « romuleo » ebbe il suo Capo¬ danno al primo di Marzo, come sarebbe dimostrato dal nome stesso dei mesi, da Quintile (Luglio) a Dicembre: il Gennaio e il Febbraio occupavano dunque l’undicesimo e il dodicesimo posto; ed è probabile che la riforma del calendario abbia mantenuto tale Capodanno come data iniziale del ciclo intercalare. Ma non c’è dubbio che molto per tempo cominciò ad im¬ porsi un altro Capodanno, quello del primo Gennaio, suggerito dall inizio del nuovo corso del sole dopo il solstizio d’inverno, indicato dalla più bre¬ ve durata del giorno (bruma, cioè brevissima [dies\). Questo Capodanno entrò sempre più nell’uso comune, mentre quello calendarico del primo di Marzo rimase presente alla mente solo di una limitata cerchia di dotti, avvenne allora che quello che era nell’anno calendarico l’undicesimo mese e che diveniva il primo nell’anno naturale, prese il nome di Ianuarius, collegandosi con la divinità protettrice di ogni principio \ Ma oltre al¬ l’anno calendarico e all’anno volgare - con Capodanno rispettivamente 1 Vedi G. Giannelli, Ianus, in « Riv. Fil. class, », N. S. II (1924), p. 210 sgg.
SO
TRATTATO DI STORIA ROMANA
al primo Marzo e il primo Gennaio - si usò riferirsi, a Roma, ad un terzo anno, all’anno ufficiale, il cui Capodanno coincideva coll’entrata in carioa dei magistrati eponimi, cioè dei consoli. La data dell’entrata in carica dei consoli, dopo avere oscillato dall’uno all’altro mese della primavera nei primi secoli della repubblica, venne fissata al 15 Marzo nel 222 a.C. e fu anticipata, infine, nel 153 a.C., al primo Gennaio. Da questo anno in poi, l’anno ufficiale venne a coincidere con l’anno naturale e, praticamente, non si usò più a Roma che un solo anno, col Capodanno al primo di Gennaio. § 13 - La
riforma
di Giulio Cesare - Le
fonti
antiche - Ovidio,
Censorino (20,6), Solino (1,43) - ci informano che il calendario fu quasi continuamente in disordine, per la negligenza o l’arbitrio delle intercala¬ zioni; Cicerone {de le-gib., II, 29) lamenta che il sistema di Numa sia stato guastato dalla posteriorum pontificum neglegenlia. Dei moderni, solo pochi ritengono di dover seguire il parere di questi autori: i più, attenendosi alla tesi dell Unger, sono dell’opinione che il calendario romano sia stato man¬ tenuto sempre in perfetto ordine (ed era in realtà assai facile compito, questo, per il Collegio dei Pontefici), aH’infuori di due brevi periodi di anni, nei quali, per esplicita dichiarazione delle fonti, il disordine del ca¬ lendario fu arbitrariamente provocato. Il primo di questi comprende gli anni dal 207 al 163 a.C. Nel 207, in¬ combendo sull'Italia la minaccia dell’esercito di Asdrubale, si volle, per fare onore ad Apollo e scongiurarne l’ira, fare di quell’anno un anno pura¬ mente solare; sopprimendo pertanto l’intercalazione (che per l’appunto cadeva in quell’anno) e aggiungendo ai 355 giorni ordinari altri dieci giorni, si costruì un puro anno solare di 365 giorni. Per evitare l’ira di Apollo, si seguitò, anche negli anni successivi, a saltare i mesi intercalari, lasciando però gli anni di 365 giorni. La conseguenza di un cosiffatto procedere fu un’anticipazione sempre
maggiore del Capodanno sull’epoca normale;
sicché il primo Marzo del 190 cadde in realtà il 4 novembre del 191 e il Capodanno ufficiale (15 marzo) dello stesso 190 arrivò anticipato al 18 novembre del 191. In quest’anno, su proposta del console M’. Acilio Glabrione, si iniziò una serie di intercalazioni straordinarie, mercé le quali il calendario potè esser rimesso al giusto passo, ma non prima del 163. Il secondo periodo di disordine ebbe principio nel 59 a.C., l’anno del consolato di Cesare, il quale era anche pontefice massimo. In tale qualità Cesare potè permettersi ogni sorta di arbitri, di cui danno notizia le fonti A ensorino, 20, Solin. I; Ammiano, XXVI, 1; Macrob. I, 14), senza che, per altro, noi possiamo individuare tutte le singole irregolarità commesse. Sta di fatto che, sopraggiunta poi anche la guerra civile, quando Cesare
OHOWOIvOOlA
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«i accia»#}, nel 46, alla riforma del calendario, dovè in primo luogo pro¬ cedere ad una intercalazione straordinaria di 90 giorni; che tanti «e ne erano omessi nel 13 anni precedenti. L’anno 46 fu pertanto un anno di transizione tra il calendario repubbli¬ cano e il nuovo calendario giuliano. Ooi 90 giorni aggiunti (il normale mese intercalare di 23 giorni, più 67 giorni divini in due mesi fra il novembre e il dicembre) quest’anno resultò di ben 445 giorni. Alla necessaria ed ur¬ gente riforma Cesare si accinse dopo essersi assicurato il concorso del mate¬ matico egiziano Sosigene (Plut., Cttct., 59; Plin., ruit hist., XVIII, 2o, 57) e coll’aiuto sapiente e volenteroso del suo scriba Marco Flavio; lo stesso Cesare del resto era tutt’altro che digiuno di nozioni astronomiche, come si rileva dai frammenti del suo scritto de astris. Il merito principale della riforma cesariana consiste nell’aver Liberato 1 anno solare da tutti gli ele¬ menti residui del calendario lunare o da tutte le più o meno superstiziose servitù tradizionali, che obbligavano a ricorrere alle intercalazioni e alle disintercalazioni periodiche, sostituendo un anno fisso di 365 giorni a quello mobile del ciclo quadriennale: i vantaggi pratici dell’innovazione furono tali da controbilanciare gli svantaggi scientifici. Perché è un fatto che l’anno fisso giuliano di 365 giorni, più perfetto del suo modello egiziano mercé l’intercalazione di un giorno ogni quattro anni (anno bisestile) por lava, in progresso di tempo, ad un errore non minore - rispetto alla durata della rivoluzione solare - di quello a cui andava incontro il calendario repubblicano, se regolarmente applicato . L’introduzione del calendario giuliano non eliminò del resto ogni altro sistema cronologico del mondo romano; rimasero in vigore i numerosi calendari greci, ed anche i Celti non vollero accettare il nuovo calendario, probabilmente a causa della sua integrale emancipazione riai cicli lunari. § 14 - Le ère usate dai Romani - A differenza dei Greci, i Romani adottarono un solo sistema cronologico, il quale non soltanto fu accolto dalla più gran parte degli scrittori latini e, in genere, del mondo romano, ma fu anche ordinariamente usato nella vita pratica. In base a tale siste¬ ma, i singoli anni si distinguevano col nome dei due consoli in canea e il computo del tempo si faceva contando gli anni dalla fondazione rii Roma. (« era della fondazione di Roma ») o, come si diceva, ab urbe condita. Que-
i I a durata dell’anno tropico è di giorni 365, ore 5, 48', 46”; il ciclo 241® repub_ blicarK» numerava, c^e si è vinto, 8766 giorni, e del pan 24 anni giuliani di 365 gS con 1’aggiunta di 6 giorni bisestili, diurno una sonnnaa compiva i 8766 y,r.rr.; invece 24 anni tropici comprendono 8765 giorni, ore là, 18 ,24 .Lem I S^lATu 0^0 soltanto, nei limiti del possibile, dal calendario gregon.no.
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
sto modo di datazione non divenne per altro d’uso comune che sotto l’im¬ pero. -A base di esso stavano pertanto due serie cronologiche: la lista dei magistrati eponimi annui repubblicani (consoli, decemviri e tribuni mili¬ tari con potestà consolare), la quale risaliva fino al principio della repub¬ blica, facendosi questo coincidere con la dedicazione del tempio di Giove Capitolino; la lista dei singoli re. Non è il caso di fermarci sul valore di quest’ultima, poiché è evidente che nessuna registrazione cronologica potè esistere prima che fosse introdotto in Roma l’uso della scrittura. Occupia¬ moci invece della prima e chiediamoci quale uso si possa fare degli elenchi di eponimi, cioè dei Fasti, compilati dai Pontefici e di quelli ricostruiti in gran parte col materiale fornito dallo stesso archivio, a tempo d’Augusto,, cioè dei Fasti Capitolini (cfr. al § 7, n. 6). I fasti consolari sono appunto arrivati a noi in due redazioni: l’una si ricava dalle fonti annalistiche, principalmente da Diodoro (dal 480 al 302 a.C.), da Tito Livio integrato dagli epitomatori e dalle « perioche », da Dionisio d’Alicarnasso (fino al 443 a.C.) e, in modo sporadico, da Poli¬ bio, Cicerone, Plinio, Cassio Dione (attraverso Zonara); l’altra, dalle co¬ siddette fonti cronografiche, cioè da autori che hanno redatto le liste con intenti esclusivamente cronologici. Tali fonti cronografiche sono tre: il cosiddetto Cronografo del 354, i Fasti di Idacio e il Chronic-on Pasckale, che danno la serie intera fino dal primo anno della repubblica. A queste si deve aggiungere una quarta fonte cronografica, redatta non letteraria¬ mente, come le precedenti, ma epigraficamente, in un testo giunto in gran parte fino a noi; e cioè i Fasti Capitolini, di cui abbiamo detto sopra, integrati dagli importanti frammenti dei Fasti Anziati, relativi agli anni 164-84 a.C. (cfr. al § VI). Tutte queste liste si presentano assolutamente identiche, almeno sotto l’aspetto cronologico, dal 281/0 in poi (corrispondente all’anno olimpico 124,4); per il periodo precedente si rilevano invece notevoli discrepanze tra i Fasti Capitolini e i fasti annalistici e, in questi, fra Diodoro e le altre fonti. Fra tali discrepanze sono notevoli specialmente le seguenti: la durata del decemvirato è di due anni in Diodoro, di tre in Livio e in Dionisio; in Livio è registrato, dopo l’incendio gallico, un periodo di cinque anni d’anarchia (soliiudo magistraiuum), che è ridotto ad un anno in Diodoro; nei Fasti Capitolini, a differenza di tutte lo altre fonti, sono intercalati negli ultimi trentacinque anni del quarto secolo i quattro « anni dittato¬ riali », nei quali avrebbe tenuto il potere per l’intero anno, restandone eponimo, il dittatore col suo maestro dei cavalieri (e ciò negli anni 333 324, 309, 301). Prendendo particolarmente in esame le due parti della lista, tra la guerra
CRONOLOGIA
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di Pirro (281/0) e l’incendio gallico e fra questo e la dedicazione del tem¬ pio capitolino, si riscontra che la durata del primo periodo è uniforme nelle tre fonti annalistiche (Livio, Diodoro e Dionisio), le quali, a malgrado di tutte le loro discrepanze nei particolari, assegnano ad esso 106 anni, dal 281/0 a.C. al 387/6 a.C.; e questa data deH’invasione gallica corrisponde perfettamente a quella indicata dai cronografi greci e da Polibio, i quali insistono sulla coincidenza di essa con l’anno della pace di Antalcida. Nei Fasti Capitolini, invece, a causa dell’introduzione dei quattro anni ditta¬ toriali, l’incendio gallico è retrodatato al
391/0, o, diciamo meglio, al
390 a.C. \ La durata del secondo periodo risulta uniformemente di 120 anni in tutte le fonti annalistiche, di 119 nei Fasti Capitolini; e pertanto l’inizio della repubblica è assegnato al 507/6 dalle prime, al 510/9 (o me¬ glio, al 509) dai secondi. Al di sopra delle varianti introdotte nella lista dagli annalisti o dai cro¬ nografi, per motivi più o meno giustificati ma sempre bene individuabili, sta il fatto che il nùmero dei collegi degli eponimi è in tutte le liste iden¬ tico o differisce, al più, di uno; è evidente dunque che tutte le redazioni risalgono ad una lista di eponimi che esisteva già nel III secolo a.C., e cioè prima dei più antichi annalisti. Di questa lista la critica moderna più autorevole si trova concorde nel riconoscere la sostanziale genuinità: e dopo quanto scrisse il De Sanctis (Storia dei Romani, I, p. 11 sgg.) in ap¬ poggio alla sua autenticità, più recentemente uno storico di tendenza non certo tradizionalista, Giulio Beloch, venne alla stessa conclusione (nella Ròmisché Geschichte, p. 1 sgg.), limitando le interpolazioni alla parte più antica della lista, a quella, cioè, anteriore al 486 a.C. Al periodo dei re sono assegnati concordemente da tutti gli annalisti 244 anni; sicché l’intervallo tra la fondazione della città e la catastrofe gallica è di 364 anni (362 nei Fasti Capitolini, che calcolano 243 anni per l’età regia e 119 per il periodo successivo fino all’incendio gallico). Così la fondazione di Roma è posta negli annali al 751/0, nelle fonti cronografiche in genere (Varrone) al 755/4 e cioè al 754, nei Fasti Capitolini al 752. 1 Bisogna tener presente che l’anno ufficiale, o civile, romano coincideva, dal 153 a.C. in poi, con l’anno naturale, con Capodanno al primo gennaio, mentre l’anno greco (l’attico o l’olimpico) correva da un’estate all’altra: e pertanto l’anno consolare corrispondeva, per la prima metà, a un anno olimpico, per la seconda metà all’anno olimpico successivo. Nello stabilire i sincronismi tra le due cronologie, si poteva dunque ragguagliare in due modi gli anni romani a quelli greci, allineando, cioè, l’anno consolare romano al primo o al secondo dei due anni olimpici corrispondenti. Diodoro si attiene al primo sistema di ragguaglio, che pare sia stato più usato in antico; in seguito si preferì però il secondo siste¬ ma e si ragguagliarono gli anni romani al secondo degli anni olimpici corrispon¬ denti, in modo che le date greche relative ad avvenimenti romani precedono di un anno le date romane. 8 - Gian selli, Trattalo di Storia romana - I
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TRATTATO
DI STORIA ROMANA
Noi preferiamo ora adottare come anno iniziale dell’era ab urbe condita il 753 a.C., accettando la durata di 244 anni per l’età regia, ma preferendo quella, capitolina, di 119 tra l’inizio della repubblica e l’incendio gallico. Diamo qui una tavola sinottica di alcune date fondamentali della cro¬ nologia romana nelle diyerse fonti. Anno olimpico in Polibio Fondazione di Roma.
Anno olimpico in Diodoro
Anno a.C. Anno a.C. in Livio Varr ornano
Anno a.C. nei Fasti Capitolini
a.C.
750
754
752
Dedicazione del Tempio Capi¬ tolino . 68,1=508/7 a.C.
68,2 = 507/6 a.C.
506
510
509
Invasione gal¬ lica . 98,2 = 387/6 a.C.
98,2=387/6 a.C.
386
390
390
Inizio della guerra con Pirro .......
124,4=281/0a.C.
280
280
280
7,2 = 751/0a.C.
7,2 = 751/0
§ 15 - Gli studi di cronologia romana nell’antichità e nei tempi moderni - Nell’età degli annalisti ci si applicò molto intorno ai com¬ puti destinati a fissare l’anno della fondazione di Roma. Un riflesso di tali computi si ha in Catone, che poneva la fondazione di Roma 432 anni dopo la caduta di Troia (1184 a.C.), cioè nell’anno olimpico 7,1 (= 752/1 a.C.) e in Dionisio di Alicarnasso che, partendo dalla data del¬ l’anno olimpico 68,1 per il primo anno della repubblica (= 508/7 a.C.), dava all’età regia una durata di 244 anni. Invece Fabio Pittore, attenendosi probabilmente alla stessa data per l’inizio della repubblica, aveva posto la fondazione della città all’olimpiade 8,1 (= 748/7 a.C.), calcolando a soli 240 anni la durata dell’epoca regia. Il 508/7 è pure l’anno indicato da Polibio (III, 22, 2) per la dedicazione del tempio capitolino; questo au¬ tore, poi, calcolava a 243 anni la durata dell’epoca regia, ponendo, come Diodoro, al 751/0 (= Olimp. 7,2) la fondazione di Roma. Del tutto diver¬ gente da questi sistemi è la data della fondazione indicata da Cincio Ali¬ mento (Olimp. 12,4 = 729/8 a.C.) e quella adottata da Timeo, il quale fa fondare contemporaneamente Roma e Cartagine nell’814 a.C. Una volta fissata la data della fondazione di Roma, si sentì naturalmente il bisogno di colmare il lungo intervallo tra la caduta di Troia (1184 a.C.) e l’arrivo di Enea in Italia, di poco posteriore, e l’impresa di .Romolo e
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CRONOLOGIA
Remo: si formò allora la lunga serie dei re di Alba Longa, da Ascanio figlio di Enea fino a Numitore ed Amulio. La lista dei re albani - un puro parto della fantasia, privo di qualsiasi valore cronologico e storico - era già fissata verso la fine della repubblica così come la trovarono nelle loro fonti Diodoro, Livio e Dionisio. Proprio in questo tempo gli studi romani di cronologia segnarono una svolta decisiva grazie alla operosità spiegata allora in questo campo dal¬ l'erudito
Varrone.
Giovanni Costa, nel suo volume sui Fasti consolari
romani (Milano 1910), distingue appunto gli studi antichi di cronologia romana in una « scienza prevarroniana » e in una « scienza varroniana »: a questi studi si erano infatti già applicati indubbiamente gli eruditi greci della scuola di Eratostene e di Apollodoro, ai quali si dovrà far risalire probabilmente la datazione all’Olimp. 7,2 (= 751/0 a.C.) della fondazione di Roma. Un riflesso diretto degli studi prevarroniani rimase nei Chronicorum libri di
Cornelio Nepote,
il quale, basandosi sul sistema cronolo¬
gico apollodoreo, inserì la lista dei re albani e di quelli romani al di là e al di qua della fondazione di Roma (751/0), stendendo poi la sua cronaca sulla tela della lista consolare com’egli la trovò negli Annales Maximi. e portandola, come pare, fino all’anno 58 a.C. Con Cornelio si chiude la « scienza prevarroniana », con nio
Attico
si apre
Tito Pompo¬
quella « varroniana »: questi fu autore
dell’opera
Annalis, apparsa fra il 51 e il 46 a.C., in cui fa la sua prima comparsa il nuovo sistema cronologico, il quale, coincidendo con quello più antico nel calcolare l’intervallo tra la fondazione di Roma e l’incendio gallico (364 anni: 244 -(- 120), se ne distanzia invece nel periodo fra questo evento e la guerra di Pirro, introducendovi, per ragioni che ci rimangono ignote, i quattro anni dittatoriali. Questo sistema fu accolto e perfezionato ulterior¬ mente da
Varrone,
ed esso presiedè indubbiamente alla compilazione dei
Fasti Capitolini: è noto del resto che Ottaviano, che ne fu il promotore, era amico di Attico ed estimatore della sua scienza *. Rimase allora fissata la data della fondazione di Roma all’anno olimpico 6,2, cioè al 755/4 a.C., ossia - per il sistema di ragguaglio allora in uso - al 754 (data varroniana). Abbiamo detto come ora si preferisca a questa la data -i corretta sui Fasti Capitolini - del 753 a.C. Ad una età molto più tarda appartengono le elaborazioni cronografiche già ricordate e che vanno sotto i nomi di Cronografo del 354, di Chronicon 1 A giudizio del Costa, sull’opera varroniana dovè influire anche il cronografo (Storia dei Rom., I, p. 83), sarebbe stato la fonte cronologica di Diodoro: in questa affermazione concorda il Beloch (Ròm. Gesch., p. 107 sg). Castore di Rodi, che, secondo il De Sanctis
TRATTATO
36
DI
STORIA ROMANA
paschale e di Fasti Hydatiani \ Il primo, che rimane per noi anonimo, ha redatto una lista consolare assai corretta dalle origini al 354 d.C., derivan¬ dola evidentemente da una fonte comune ai Fasti Capitolini; 1 opera del Cronografo è pubblicata per intero nei « Monumenta Germaniae Historica » I, p. 56 sgg., e la lista consolare è pubblicata anche nel C.I.L. I*. Similissime fra loro sono le liste delle altre due opere cronografiche, tanto che il Mommsen giudicò che il Chronicon dipendesse direttamente dai Fasti Hydatii. Ambedue queste versioni dei Fasti sono pubblicate nei « Monum. Germ. Hist. » IX, 1, p. 197 sgg., e le relative liste consolari in C.I.L. P 1, p. 98 sgg. Un’analisi esauriente di tutte le liste consolari of¬ ferte dalle fonti qui elencate si troverà nella già ricordata opera di G. sta,
Co¬
I Fasti consolari romani: voi. I, p. I, Studio delle fonti, Milano 1910.
La ricerca scientifica moderna su questo complesso argomento risale al¬ l’opera magistrale di
Ludw. Ideler,
Handbuch der mathern. und techmschen
Chronologie, Berlin 1825-26; insieme coi due capitali lavori di well,
Ed. Gres-
Origines Kalendariae Iialicae, Oxford 1854, e Origines Kalendariae
Hellenicae, Oxford 1862; segue lo scritto fondamentale di Th.
Mommsen,
Die rómische Chronologie bis auf Caesar, 2te Aufl., Berlino 1859. I problemi sui quali abbiamo sopra richiamato l’attenzione, hanno trovato, da allora, esauriente trattazione nelle opere seguenti:
Aug. Boeckh,
Ueber die ine-
rjàhrigen Sonnenkreise der Alien, vorzixglich den eudoxischen, Berlino 1863; Ph. E. Huschke, Dos
alte ròm. Jahr und seine Tage: eine chronolog. -rechts-
gesch. Uniersuchung, Breslavia 1869; K. J.
Belooh,
Der ròm. Kalenddr.
Berlino 1880; O. E.
Hartmann,
piuto); H.
Rómische Chronologie, Berlino 1883-84;
Matzat,
Ròm. Chronologie, Lipsia 1885; 0.
zapfel,
Pontifices, Berlino 1885; W. G.
F.
Unger,
Ginzel,
Soltau,
Seeck,
Ludw.
Hol-
Die Kalendertafel der
Rómische Chronologie, Friburgo 1889;
Zeitrechnung der Griechen und Ròmer (in « Miillers Handb. »,
I*. Monaco 1892); G.
De Sanctis,
Storia dei Rom., II, p. 519 sgg.; F. K.
Handbuch der maihemat. und techmschen Chronologie, Lipsia 1906-
1911; A. schek,
Der ròm. Kalender, Lipsia 1882 (incom¬
Leuze,
Rómische Jahreszàhlung, Tiibingen 1909; W.
Kubit-
Grundriss der antiken Zeitrechnung (sostituisce il trattato dell’Unger
in «Miillers Handb.»), Monaco 1927; E.
Cavaignac,
Chronologie, 2* ed..
Parigi 1936. Sugli ecclissi è da consultare: F. K.
Ginzel,
Spezielle Kanon der Sonnen
- und Mondfìnsiernisse fur das Landgebiet der klass. Altertumsunssenschoft, Berlino 1899; P. V.
Neugebauer,
erscheinungen, Lipsia 1925. 1 O Idatiani.
Hilfstafeln zur Berechnung von Himmels-
GEOGRAFIA DELL’ITALIA
37
ANTICA
Alcuni problemi relativi al calendario precesariano sono stati ripresi, in questi ultimi anni, in studi notevoli. H. J.
Rose,
in « Class. Journ. »
XL (1944—45), p. 65 sgg., ammette un anno iniziale di dieci mesi; la pre¬ senza di elementi etruschi (nomi dei mesi) nel calendario riformato gli sug¬ gerisce l’ipotesi che il calendario « numano » faccia parte di una vasta riforma religiosa intrapresa dai Tarquini e non condotta a termine, a causa dell’espulsione della dinastia. Contro la tesi del Rose ha scritto N. Witt,
De
Against thè belief in a ten^month Caìendar, in « Class. Journ. » XL
(1944-45), p. 295 sg. Gli elementi etruschi del calendario romano sono stati fatti oggetto di studio da H. M.
Hoenigswald,
On Etruscan and
Latin Month-Names, in « Americ. Journ. Philol. » LXII (1941), p. 199 sgg. Infine K.
Hanell,
Die traditionelle Anfangsjahr der róm. Republik (in
« Dragma M. P. Nilsson », Lund 1939, p. 256 segg.), sostiene che si cominciò a redigere i Fasti annuali nel momento stesso in cui fu riformato il calen¬ dario e fu fondato il culto capitolino; non potendosi ammettere alcun va¬ lore cronologico al « clavus annalis », soltanto così si può spiegare - se¬ condo lo Hoenigswald - come la dedicazione capitolina potesse servire ancora molti secoli dopo da punto di riferimento cronologico;
lo Hoe¬
nigswald però anticipa il momento di queste riforme all’ultimo periodo dell’età monarchica.
IV GEOGRAFIA DELL'ITALIA ANTICA § 16 - L’Italia degli antichi: sua positura geografica - H nome e la no¬
zione di « Italia » sono relativamente recenti, questa più recente di quello: dico recenti, in rapporto all’antichità dell’uomo sul suolo della nostra pe¬ nisola. Il nome d’Italia non ha infatti mai risonato avanti dei primi contatti dei coloni greci con gli indigeni della Lucania e del Bruzio; e, d’altra parte, l’idea di «Italia», non solo di un’Italia nazione o stato, ma anche di un’Ita¬ lia regione geografica, quale è a noi così familiare, non è esistita per il mon¬ do antico fino a che Roma non le dette consistenza e forma, dopo aver» operato runificazione politica ed etnica di tutto il paese a sud delle Alpi. Ma se è vero che gli abitanti della nostra penisola non ebbero per lun¬ ghissimo tempo coscienza alcuna dell’unità territoriale rappresentata dal paese che li albergava, non è men vero che l’Italia, dentro i confini segnati dalla linea di displuvio delle Alpi e dalie sue coste, costituisce ed ha sem¬ pre costituito una di quelle che si è convenuto di chiamare regioni naturali, in senso largo, o geografiche; una regione, cioè, nella quale convergono sif-
38
TRATTATO
DI STORIA ROMANA
fatti elementi di somiglianza e di unità - come un confine ben netto verso i territori limitrofi, la posizione geografica, il clima, certi aspetti generali della flora e della fauna, e così via - che anche gli abitanti di essa si tro¬ veranno, prima o poi, vincolati da uno stesso destino e accomunati da una medesima storia e finiranno fatalmente per formare una unità etnica. Protesa per lungo tratto nel Mediterraneo, sempre assai vicina, per l’andamento quasi parallelo delle due coste, alla penisola balcanica e affian¬ cata, da occidente e da mezzogiorno, dalla Sardegna, dalla Corsica e dalla Sicilia, che abbreviano le distanze e facilitano i contatti rispettivamente con le coste iberiche e con l’Africa, l’Italia ebbe da tale positura geografica e dalla sua configurazione resi facili i rapporti con la penisola balcanica e con le regioni del Mediterraneo occidentale e fu fatta aperta non solo agli scambi e ai commerci ma anche alle immigrazioni e alle colonizzazioni, e non meno dalla parte del mare che per le vie di terra; poiché anche le Alpi sono tutt’altro che una barriera insormontabile, ma offrono invece abbon¬ danti e facili valichi dall’Europa centrale verso la pianura padana. Tali le premesse geografiche della complessa e laboriosa evoluzione cul¬ turale e politica delle genti che abitarono la nostra penisola nei secoli della sua preistoria - che si contano a centinaia - e in quelli, neppure una trentina, della sua storia: premesse che possono portare una qualche sia pur tenuissima luce, a rischiarare il mistero del destino incomparabile asse¬ gnato a quello fra i popoli italici che seppe e potè, superato ogni ostacolo e dalla natura e dagli uomini frapposto, ridurre tutti gli altri a quell’unità, alla quale erano per ragioni geografiche predestinati, e raccogliere e fon¬ dere in se il prezioso retaggio di tante diverse e secolari esperienze. § 17 - Origine ed estensione del nome - Il nome più antico usato per designare la penisola appenninica, o almeno la maggior parte di essa, fu quello di Hesperia (‘Ecnrepia), che sopravvisse poi nell’uso poetico in¬ sieme con quelli di Enotria, Ausonia e simili. Questi ultimi derivano da nomi di popoli del gruppo latino-siculo, ben noti agli scrittori greci che si occuparono dei paesi dell’Occidente; eguale derivazione ha il nome Italia, che non si può disgiungere dal nome di Italoi, dato dai coloni greci ad una tribù della stessa stirpe (latino—sicula), stanziata nell’estremità meridionale dell’odierna Calabria. Incerta è invece l’origine di questo nome, che alcuni antichi facevano derivare da un mitico re Italo, di stirpe enotrica, mentre altri lo mettevano in rapporto col nome indigeno del vitello (vitulus)*. Onde
vkl^tT000 ed ElI'AN100 in Dion- ù’Alioarnasso, I, 35; Aristot., Polit.
_GEOGRAFIA DELL'ITALIA
ANTICA
39
pare che esso ci richiami a quella tribù italica adoratrice del vitello, il cui nome, caduto il F iniziale nei dialetti del Greci Italioti, fu da questi tra¬ smesso ai Romani nella forma di Italoi (Itali in latino); donde il nome di Italia al paese da essi abitato \ Limitatissima fu quindi in origine l’estensione del nome, che compren¬ deva soltanto, come attesta Strabono (VI, 1, 4), la parte della penisola ca¬ labrese a sud del Golfo di Sant’Eufemia (sinus Napetinus o Lameticus) e del Golfo di Squillace (sinus Scylacaeus). Nel periodo della colonizza¬ zione greca e del fiorire della Magna Grecia, il nome di Italia si estese dallo Stretto di Messina fino a Taranto 1 2, o almeno fino a Metaponto 3; nel corso del VI secolo a.C. si era già esteso fino a Posidonia, e alla fine di questo secolo si era allargato ormai a tutta la Campania; sicché dire « Italia » era allora come dire dire « Magna Grecia », esclusa natural¬ mente la Sicilia. Penetrata Roma, intorno al 300, nell’orbita dei popoli civili a diretto contatto col mondo greco, il nome di Italia si venne via via allargando dalla Campania alle regioni abitate, nell’Italia centrale, dalle stirpi osche ed umbre, che l’una dopo l’altra entravano nell’ambito del dominio romano: alla fine della seconda guerra punica si designava con questo nome tutta la penisola vera e propria, sino alla linea segnata dal fiume Fine, a sud dell’Arno, dalla stazione Ad Fines (fra Arretium e Florentia) e dal fiume Aesis (Esino) sull’Adriatico; a nord di questa linea cominciava il territorio provinciale di Pisa e di Rimini. Quando fu eretta a provincia la Gallia Cisalpina, il confine sull’Adria¬ tico fu spostato sul Rubicone, sul Tirreno raggiunse forse l’Arno ma, in ogni modo, non la Magra, perché Luca (Lucca) rimase compresa nella Galiia Cisalpina 4. Ma probabilmente già fin da questo tempo, cioè dalla prima metà del II secolo, Italia era, nell’uso comune, tutta la penisola, ad esclusione delle
1 Una tribù dei Vitelioì (in greco FiTaXot-’IraXoi) potrebbe avere avuto questo nome dalla ricchezza di bestiame bovino della regione, oppure dal fatto che il vi¬ tello fosse il totem di questa tribù; come altre tribù italiche hanno nomi di evidente derivazione totemistica. La lunghezza della iniziale i di italia, di fronte alla i breve di vitulus, può essere spiegata dal trapasso del nome attraverso i dialetti greci, op¬ pure con esigenze metriche. Per altro tale derivazione del nome di Italia non e da tutti accettata. Vedi ancora: K. Olzscha, Der name Italia u. etrush. Ital., in « St. Etr. » X (1936) p. 263; F. Altheim, Italia, in « St. e Mater. di St. d. Rei. » 1934, p. 135. Vedi anche S. P. Cortsen, Le sens du nom « Italia », in « Latomus » II (1938), p. 157. * Erodoto, I, 93; ILI, 136; cfr. Dion. d’Alic., I, 73. * Tucid. VII, 33, 4; cfr. Ant. in Strab., VI, 234. 4 Vedi L. Banti, Geografia dell'Italia antica, in « Guida allo studio della civiltà rom. », fase. I, Roma, edizioni della Bussola, 1947, p. 10.
40
TRATTATO DI STORIA ROMANA
isole s; mentre tale non fu, giuridicamente e politicamente, se non dopo che Giulio Cesare ebbe concessa la cittadinanza alla Gallia Cisalpina ed il nome di Italia ebbe raggiunto così quei confini che Augusto fissò poi definitivamente al fiume Varus (Varo), alle ultime pendici delle Alpi fino al fiume Duria (Dora Baltea), allo spartiacque alpino e al fiume Arsia (Arsa), in Istria. §
18
~ Caratteristiche
fisiche
della
regione
italiana
-
A queste
dobbiamo richiamarci, non per descriverle quali esse sono, ed erano nell’antichità, ma per renderci conto di come erano note agli antichi e come influivano sulle condizioni della loro vita e sulle forme della loro attività. L'essere l’Italia tutta protesa nel mare Mediterraneo non vuol dire che ogni parte di essa potesse egualmente avvantaggiarsi di questa favorevole positura: bisogna anche tener conto della configurazione delle coste e della maggiore o minore facilità di accesso ad esse dall'interno. Il carattere con¬ tinentale della Pianura Padana è, se non determinato, accentuato proprio da questo fatto, che laddove la regione costiera che la fascia è ricca di insenature e di approdi, idonea a tutte le forme di attività marinaresca (in Liguria), sono invece rari e difficili i transiti tra l’interno e il mare at¬ traverso la impervia barriera dei monti; viceversa dove l’accesso dalla pianura al mare è in ogni punto agevole (sulla costa veneta), là il litorale è basso, uniforme, importuoso, sbarrato dai cordoni lagunari che rendono difficile l’approdo. Ed anche il clima dell’Italia del nord è una conseguen¬ za di tale stato di cose: perché le montagne della Liguria impediscono l’af¬ flusso equilibratore delle masse d’aria tirreniche, mentre l’aria che facil¬ mente può giungere dall’angusto e poco profondo Adriatico non è ab¬ bastanza efficace per modificare sensibilmente il clima continentale padano. La parte peninsulare propriamente detta è tutta attraversata dalla ca¬ tena dell’Appennino, il cui asse segue assai più da vicino la costa orientale che non l’occidentale: fra Ancona e Brindisi la costiera orientale è poco articolata, povera di porti, sbarrata dai monti a pochissima distanza dal mare, poco adatta quindi alla navigazione e al commercio; la costa occiden¬ tale invece è frastagliata, abbondante di promontori e di porti, ricca di colline metallifere, progrediente con tenue pendio verso lo spartiacque appenninico, lontano dal mare, verso il quale conducono le apriche valli dei fiumi, in più tratti navigabili alle modeste imbarcazioni degli antichi. Le cose cambiano di nuovo nell’estremo mezzogiorno della penisola, dove l’Appennino scende verso i mari del sud (Golfo di Taranto e Mare 6 Polibio, H, 14;
IH,
64; Catone in Servio, ad Aen. X, 33.
GEOGRAFIA DELL’ITALIA
ANTICA
41
Ionio) con grandi altopiani digradanti verso la costa in pianure vaste e adatte all’agricoltura e alla pastorizia. Ci si presentano dunque almeno quattro distinte zone geografiche, senza tener conto delle isole grandi e piccole, anch’esse tuttavia appartenenti geograficamente all’Italia: l'Italia padana, con propri caratteri continen¬ tali, con territorio fertile e adatto all'agricoltura, con difficili e infruttuosi rapporti col mare, con comunicazioni invece facili con l’Italia centrale e l’Europa centrale, attraverso i valichi delle Alpi e degli Appennini; il ver¬ sante adriatico dell’Italia centrale, poco propizio a forme di attività ma¬ rinara e non molto idoneo neppure ad un proficuo sfruttamento agricolo, capace perciò di albergare una popolazione rada e destinata a progredire più lentamente di quelle vicine; il versante tirrenico, sotto ogni aspetto favorito dalla natura e destinato dalla sorte a divenire la plaga più ci¬ vile dell’Italia; gli altopiani e le pianure del mezzogiorno, adatti a dive¬ nire sedi di genti dedite alla pastorizia e all’agricoltura estensiva, poco propense a cambiare, anche sotto influenze esterne, le forme tradizionali della loro vita e della loro attività. Le difformità di configurazione, di suolo e di clima ci si presentano dun¬ que, anche nella penisola italiana, notevoli, se pur non tali quali le abbiamo osservate nella penisola greca; sicché l’opera di unificazione politica del paese doveva restarne per molto tempo ostacolata, anche se in minor misura che in Grecia. Si è osservato (Vogt) che « solo una forte volontà politica, capace di vincere i naturali impedimenti» ha potuto raggiungere tale unificazione. Ma qui bisogna tener presente che tale forte volontà po¬ litica ha saputo superare in seguito difficoltà ben più gravi nel campo etnico che non in quello geografico; giacché, a differenza della Grecia, l’Italia antica è rimasta per secoli nella storia un mosaico di razze e di popoli, e la raggiunta unità politica difficilmente avrebbe potuto resistere a lungo alle tendenze centrifughe dei fattori geografici, se non si fosse a questi sovrapposta la unificazione etnica della penisola, la quale, come ho più volte affermato, ha determinato il nascere della coscienza di un’Italia « regione geografica ». § 19 - Condizioni geografiche e sviluppo storico - L’influsso
che
l’ambiente geografico esercita sulle forme e sullo sviluppo della civiltà degli uomini che vi abitano, è valutato in diversa misura dalle varie tendenze della scienza storica moderna; e su questo argomento riman¬ do a quanto ho scritto nel Trattato di Storia greca (p. 25 sg.); ma in qualunque modo
si
voglia concludere su questo complesso problema,
non v’è dubbio che due fattori geografici si sono rivelati in ogni tempo
TRATTATO
42
DI STORIA
ROMANA
artefici potenti di civiltà: il clima temperato e la positura sulle coste di un mare mediterraneo. L’Italia, come la Grecia, si trova fra i paesi privilegiati per l’una e per l’altra ragione; essa gode anzi di una posizione anche più centrale nel no¬ stro Mediterraneo (il mare internum o mare nostrum dei Romani, che sol¬ tanto nel III secolo d.C. si trova chiamato anche mare Mediterraneum), in mezzo al quale si avanza profondamente, spingendosi, con la propag¬ gine della Sicilia, sino a poca distanza dall’Africa. E poiché nelle terre disposte intorno al Mediterraneo, tutte in zone temperata, la civiltà pro¬ gredì più rapidamente che altrove (specialmente nelle regioni della sponda settentrionale, a causa delle condizioni più favorevoli ivi offerte dal retro¬ terra), l’Italia si trovò di conseguenza a controllare, almeno con la sua par¬ te più meridionale e con la Sicilia, l’intenso movimento di scambi mate¬ riali e culturali che ben presto si andò determinando fra i popoli riviera¬ schi del Mediterraneo orientale, di più precoce civiltà, con i loro coloni e le genti più arretrate del lontano Occidente. Questa posizione centrale dell’Italia nel Mediterraneo, come il più opportuno ponte di passaggio,
l’offrirsi essa
come l’indispensabile punto
d’appoggio o di riposo a chiunque - mercante, emigrante o
colono -
dovesse spostarsi dall’Europa centrale verso le sponde meridionali del Me¬ diterraneo o, lungo l’asse longitudinale di questo mare, da est verso ovest, fu causa che l’Italia ci si presenti, all’alba della sua storia, come un cro¬ giuolo di genti e di favelle le più disparate, ben lontana da quell'assetto etnico omogeneo che già in età protostorica si era determinato nelle altre due grandi penisole mediterranee.
V BIBLIOGRAFIA GENERALE I - Gli stadi di storia romana — Il cammino percorso da questi studi dal Niebhur ad oggi è stato descritto nei §§ 2, 3 e 4 del testo. Qui si completano le in¬ dicazioni bibliografiche necessarie. Fra coloro che, prima del Niebhur, intuirono la necessità di sottoporre ad una severa indagine critica la tradizione orale, va ricordato anche Louis de Beaufort, che nel suo opuscolo Sur l'incertitude des cinq premierà siècles rie l'histoire romaine (Utrecht 1738) non si peritò di affermare che tutti i documenti anteriori alla cata¬ strofe gallica andarono distrutti nell’incendio della città. Della Romische Geschichte del Niebhur un terzo volume (dalle guerre sannitiche alla prima guerra punica) fu pubblicato postumo nel 1832. Su di esso è utile leg¬ gere lo studio di E. Kornemann in « Histor. Zeitschrift » CXLV (1932), p. 277 sgg. L’opera dello Schwegler (Ròm. Geschichte bis zu den likin. Gesetzen, T-TTT, Tiibin-
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
43
gen 1853—58) ebbe un continuatore in C. Clason, che la condusse fino alle guerre sannitiche (2 voli., 1873-77). La Rómische Oeschichte del Mommsen ebbe, dopo la prima del 1854-56, molte edizioni; l’ultima, la 12a, fu pubblicata nel 1919-20. La prima traduzione italiana fu quella del Sandrini (Torino 1857—65), alla quale segui l’altra di L. Di San Giusto (Roma 1903-05), ripubblicata a Torino nel 1925. L’opera è in tre volumi, che abbracciano la storia di Roma dalle origini alla bat¬ taglia di Tapso (46 a.C.); il quarto volume non fu mai pubblicato; nel 1884 fu edito invece il quinto, tradotto in italiano da E. De Ruggiero col titolo Le pròvincie romane da Cesare a Diocleziano (Torino-Roma 1885). L’analisi della tradi¬ zione è stata continuata dal Mommsen nelle Rómische Forschungen, I—II, Berlino 1664—79, e nelle Qesammelte Schriften, Berlino 1903—909. Fondamentale sul Momm¬ sen e sulla sua opera è lo scritto di K. Zangemeister, Th. Mommsen als Schrifsteller. Verzeichnis seiner bis jetzt erschienenen Bùcher und Abhandlungen, Heidel¬ berg 1887 (nuova edizione a cura di E. Jacobs, Berlino 1905); e quello di W. We¬ ber, Th. Mommsen, Stuttgart 1929; una bibliografia degli scritti biografici e bi¬ bliografici sull’opera del Mommsen è contenuta anche nella relativa voce di P. Fraccaro, in « Enciclop. Ital. » voi. XXIII (1934), p. 594 sgg. Di vivo inte¬ resse è leggere quanto è stato scritto recentemente intorno ad un codicillo del te¬ stamento di Th. Mommsen, pubblicato nel 1948: si veda P. Fraccaro in « Athenaeum » XXVI (1948), p. 285, e G. Pasquali, in « Riv. Stor. Ital.» LXI (1949), p. 337. Differenti ricostruzioni della storia di Roma ha dato Ettore Pais nelle vaste opere d’insieme che si sono succedute a vari intervalli. Fu prima pubblicata una Storia di Roma in due parti: p. I, voi. I, Storia della Sicilia e della Magna Grecia-, p. II, Storia di Roma, voi. I e II, Torino 1898-99. Seguì la Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, in 5 volumi, Roma 1913-20; la quale fu rie¬ laborata e continuata in Storia di Roma dalle origini aH’inizio delle guerre puniche; 5 voli., Roma 1926-28. Sulla figura e l’opera del Pais si veda il ricordo necrologico di E. Breccia, in « Riv. Stor. Ital. » 1939. Della Storia dei Romani di G. De Sanctis, i primi due volumi comparvero nel 1907, il III, dedicato all’età delle guerre puniche, nel 1916-17; la parte I del IV, nel 1923 (Torino). L’opera di G. Beloch porta il titolo di Rómische Oeschichte bis zum Beginn der Punischen Kriege, Berlino-Lipsia 1926. La Oeschichte des Altertums di Ed. Meyer ha avuto già più edizioni; le parti di essa che toccano la storia romana, sono contenute nei volumi dal II al V, pubblicati, nella prima edizione, dal 1892 al 1902 (Berlin-Stuttgart); la quinta edizione si è cominciata a pubblicare nel 1921. Sulla moderna storiografia si potrà consultare: E. Fueter, Storia della storiografia moderna, Napoli 1944; B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3a ed., Bari 1927; id.. Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, 2a ed., Bari 1930. II - Repertori bibliografici - La bibliografia relativa agli studi di storia romana si trova compresa in vari repertori e bollettini bibliografici, molti dei quali abbracciano però tutto il campo della storia antica e anche, spesso, quello dell’an¬ tichità e filologia classica intese nel loro significato più vasto. I più completi di tali repertori si sono pubblicati periodicamente a Berlino, dal 1873 in poi, nel periodico intitolato « Jahresbericht uber die Fortschritte des klass. Altertumswissenschaft », designato anche, più brevemente, « Bursian’s Jahresbe¬ richt », dal nome del suo fondatore. Periodicamente vi compaiono rassegne biblio¬ grafiche concernenti i singoli campi dell’antichità classica, distinti nelle tre sezioni dei classici greci, latini, storia antica e antichità classica. Due supplementi biblio¬ grafici del periodico sono la Bibliotheca philologica classica, che si pubblica fino dal 1874, ed un Biographisches Jahrbuch, dal 1878 in poi. Un supplemento al «Bur¬ sian’s Jahresb. », utile per la bibliografia delle fonti letterarie, è quello pubblicato da R. Klussmann, Bibliotheca scriptorum classicorum, die Literatur von 1878 bis
44
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
1896 eirxschliessich umfassend, voli. 4, 1909-13. Il « Bursian’s Jahresb. » si è pub¬ blicato fino a tutto il 1942; l’ultimo fascicolo della Biblioth. Philol. classica è però quello del 1938. In Inghilterra, a Bristol, si è pubblicato dal 1906 al 1948 un eccellente periodico bibliografico: « The Year’s Work in classical studies ». In Francia, la « Revue des questiona historiques » ha pubblicato con regolarità {recentemente, a cura di M. Besnier) la sua Chronique d'histoire ancienne, grecque et romaine, dove i lavori elencati sono raggruppati per periodi storici disposti cro¬ nologicamente. Un’altra rivista francese, la « Revue de Philologie, de Litérature et d’Histoire ancienne », pubblica fin dal 1877 (recentemente, a cura di J. Marouzeau, ed ora a cura di M.lle J. Ernst, sotto la direzione dello stesso Marouzeau), una bibliografia periodica degli articoli comparsi via via nelle diverse riviste e poi anche ima bibliografia delle recensioni di opere relative all’antichità classica: la prima serie porta il titolo Revues des Revues: bibliographie analytique des articles de périodiques relatifs à l'antiquité class. ; la seconda serie ha il titolo Revue des comples-rendus d'ouirages relatijs à l'antiquité class. Nel 1925 l’autore di queste ras¬ segne ne raccolse i resultati in un utilissimo volume, nel quale si trovano elencati tutti gli studi concernenti l’antichità classica pubblicati tra il 1914 e il 1925 (J. Maroitzkau, Dix années de bibliographie classique, Parigi 1927), sostituendo quindi alle surricordate rassegne una pubblicazione indipendente, l'Année philologique, che registra annualmente tutte le nuove pubblicazioni comparse nel campo della filologia e antichità classiche, compresi naturalmente gli articoli dei periodici (J. MarouzeAir, L'année philologique: bibliographie critique et analytique de Vantiquité greco-latine, Parigi 1928 sgg.). Per gli anni anteriori al 1914 si potrà vedere il Complément de bibliographie classique, a cura di S. Lambrino. Un ottimo aiuto bi¬ bliografico è pure quello fornito dal Supplément critique au Bulletin de l'Association Guillaume Bude, il cui primo volume è uscito nel 1928 (Parigi, Les Belles Lettres). Particolare menzione meritano le «rassegne» (Bulletins critiques) pubblicate pe¬ riodicamente dalla « Revue Historique », fondata nel 1876: recentemente vi ha visto la luce im Bulletin critique di Histoire romaine 1936-40, a cura di A. Piganiol (Tom. CXCI, 1941, p. 285 sgg.). Inoltre G. L. Lesage ha pubblicato nella « Rev. Histo¬ rique » T. CXCVII (1947), un Bulletin histor. de la production histor. en Italie de 1940 à 1945, e F. De Ruyt ha passato in rivista Les études anciennes en Italie, in « Bullet. de l’Institut histor. belge de Rome» XXIV (1947-48), pp 193 sgg. In America si pubblica, dal 1926, a cura dellTnternational Committee of Historical Sciences di Washington, un bollettino bibliografico dal titolo International Bibliography of Historical Sciences (Macon, Protat Frères). In Italia, la Giunta Centrale per gli studi storici pubblica una Bibliografia storica nazionale, che è arrivata all’annata VIII (1946). Uno Schedario centrale di bibliogra¬ fia romana si va compilando a cura dell’Istituto di Studi Romani. Di una Biblio¬ grafia dell'Italia antica, a cura di F. Gamurrini e C. Lazzeri. fu pubblicato soltanto un primo volume nel 1933. Di grande utilità riesce la collezione di volumi affidati a studiosi di vari paesi, destinati ad informare sullo stato attuale degli studi su Roma; la collezione è intitolata Gli Studi romani nel mondo (Bologna 1934 sgg.). Utili manuali di orientamento bibliografico e storiografico sono anche i Problemi storici e orientamenti storiografici, a cura di Ettore Rota, Como 1942, dove la parte riserbata alla civiltà ellenistica e romana è stata curata da A. Passerini; inoltre: R. Paribent, Storia antica; guida bibliografica, Milano, Soc. Edit. « Vita e Pensiero » 1942. Anche la rivista « Doxa » (Roma, S. A. Tumminelli Ed. « Studium Urbis ») va pubblicando periodiche rassegne: si veda G. Vitucci, Storia romana, I (1948), p. 132 sgg. Un Bollettino bibliografico di Storia romana (rassegna dall’anno 1923 al 1926) era stato pubblicato nella Rivista « Aevum » li (1928), p. 17 sgg., a cura di G. Giannelli. Utile anche V Avviamento e Guida allo studio della Storia
BIBLIOGRAFIA
45
GENERALE
e delle Antichità classiche di A. E. Breccia (Pisa 1950). Sono infine da elencarsi sotto questo titolo i Rapporta contenuti nel volume I degli Atti del IX Congrès international des sciences historiques, pubblicato dal Comité internat. dea Sciences hislor. (Parigi 1950), e precisamente: Hiatoire sociale: antiquité, a cura di F. W. Walbank (p. 261 sgg.); Histoire des institutions; antiquit., a cura di J. A. O. Larsen (p. 385 sgg.); Histoire des faits politiques-. monde hellénique et répubbl. romaine, a cura di A. Aymard (p. 516 sgg.). Ili - Enciclopedie e collezioni - Tre grandi dizionari dedicati all’antichità classica in genere sono a disposizione degli studiosi di storia romana. Merita di es¬ sere citata al primo posto la Real-Encyclopàdie der klassischen Altertumswissenschaft di Pauly-Wissowa (R. E.), cominciata a pubblicarsi a Stoccarda nel 1894 e ormai quasi ultimata: ogni articolo contiene tutte le indicazioni più aggiornate sulle fonti e sulla bibliografia speciale dell’argomento. Di mole minore e limitato al campo delle istituzioni è il Dictionnaire des Aritiquités grecques et romaines di Daremberg e Saglio, il cui ultimo volume fu pub¬ blicato-a Parigi nel 1919. Assai più compendioso, ma completo e preciso, è A classical dictionnary of greek and roman antiquities, biography, geography and mythologie, pubblicato da H. B. Walters, Cambridge 1916.
.... Gli studiosi italiani possono trovare un ottimo aiuto per una prima informazione anche nelle singole voci della Enciclopedia Italiana, la quale, benché abbia carattere generale ed informativo, offre articoli redatti da specialisti delle singole discipline, aggiornati ai resultati della ricerca scientifica e corredati della bibliografia essenziale. Eccellenti manuali di storia e di antichità romane si trovano compresi in alcune collezioni di volumi dedicate all’antichità classica o in altre di contenuto anche più vasto. Si consigliano alla consultazione degli studiosi specialmente i seguenti: a) Storia di Roma, in 30 volumi, pubblicata a cura dell’Istituto di Studi Romani, presso l’editore L. Cappelli di Bologna: al periodo delle origini e all’età repubblicana sono dedicati i primi 4 volumi, ed in altri sono trattati le antichità romane. L opera è tuttora in corso di pubblicazione. b) Storia politica e sociale d'Italia, pubblicata a Milano dalla casa editrice i. V ailardi: voi. I in due tomi, G. Patroni, La Preistoria, 1937; voi. II, G. Giannelli, La Repubblica Romana, 1937, 2‘ ristampa 1944. . c) Storia Universale, di C. Barbagallo, edita dalla Unione Tipografica Editrice di Torino (Utet): la storia della repubblica romana è contenuta nel volume li, 1 A 11_39 d) Histoire generale, pubblicata a Parigi sotto la direzione di Gustavo Glotz (ed. « Les presses universitaires de France »): la prima parte comprende la Histoire ancienne e in essa la terza sezione contiene la Histoire ramarne, della quale sono dedi¬ cati alle origini e alla repubblica i primi tre volumi, il terzo dei quali si conclude con la morte di Giulio Cesare. ... e) Peuples et civilisations - Histoire generale, pubblicata a Parigi da 1 editore Alcan, sotto la direzione di Halphen e Sagnac: la storia romana prima dell Impero e trat¬ tata nel voi. Ili da André Piganiol, col titolo La conquete romatne, 4
ed. del f) L'Évolution de l'Humanité - Synthèse collective, che si pubblica a Parigi t:Di della casa editrice « La Renaissance du Livre », sotto la direzione di Henry Berr: ci interessa il volume di L. Homo, L'Italie primitive et les debuta de l impe-
Caa'aignAHistoiré de VAntiquité: voi. I (Parigi 1919)
fino all’anno 480
aC lo II( 913), dal 480 al 330 a.C.; voi. Ili (1914), dal 330 al 107 a C. a‘h) HÌ»ldu Monde, pubblicata a Parigi sotto la direzione di E Cavaignac; ci interessa il volume V, 1, La paix ramarne, di E. Cavaignac (19-8).
46
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
i) Clio — Introduction aux éludes historiques: manuels d'histoire destinés àl'enseignement supérieur; si pubblica a Parigi sotto la direzione di S. Charléty, da la casa editrice « Les presses universitaires de Franco ». Alla storia romana è dedicato il volume di André Piganiol, Histoire de Rome, Parigi 1939 (3a ed. 1949). Buona opera di consultazione contenente, in fine di ogni capitolo, una storia delle princi* pali questioni e una vasta appendice bibliografica con una sufficiente trattazione delle fonti letterarie, epigrafiche ed archeologiche. l) L. Laurand, Manuel des étude-s greeques et latine, 3 voli., Parigi 1913 sgg.; voi. II, Rome; 2a ed. a cura di D’Alronvillk, 1946 sgg. m) I he Cambridge Ancient History, pubblicata a Cambridge sotto la direzione di 8. A. Cook, F. E. Adcock, M. P. Charlesworth e redatta in collaborazione da diversi autori: la storia romana fino alla fine della repubblica è contenuta nei volumi VII, Vili e IX. n) Methuen s history of thè greek and roman world: ci interessano i volumi I (dal 753 al 146 a.C.) di H. H. Scullard (1935) e II (dal 146 a. C. al 30 d. C.) di F. B. Marsh (1935). o) M. Postovtzeff, A history oj thè ancient world• voi. II, Rome, Oxford p) J. E. Sandys, A companion to Latin studies, 3tt ed., Cambridge
1927.
1921.
q) A. Gercke, E. Isorden, Linleitung in die Altertumswissenschajt. È un manuale di rapido orientamento, esteso a tutto il campo dell’antichità classica; la 3a edizione della Ròmische Geschichte (III, 2) è dovuta a J. Vogt e E. Kornemann: esiste di questa una traduzione italiana di A. Pellis (Napoli 1946), con un’ottima appendice sulle fonti e sulla bibliografia. r) Handbuch der klass. Altertumswissenschaft, pubblicato a Monaco sotto la di¬ rezione, prima, del suo fondatore Iwan von Muller, e successivamente, di R. von Poehlmann e di W. Otto. È la più grandiosa collezione di manuali dedicati a tutti i settori dell antichità e della filologia classica; la storia romana vi è trattata da B. Niese col titolo Qrundriss der rómischen Geschichte nebst Quellenkunde (5a ed. a cura di E. Hohl, 1923): esiste una traduzione italiana di Cablo Longo, condotta però sulla 4“ ed. (Manuale di storia romana, Milano 1910). s) W. Strehl e W. Soltau, Grundriss der alden Geschichte nebst Quellenkunde-, la Róm. Geschichte di W. Strehl forma il tomo II (2a ed., Breslavia 1914). t) Propylàen Weltgeschichte, diretta da W. Goetz: voi. II, Hellas und Rom. Die Entstehung des Chnstentums, di K. J. Beloch, G. De Sanctis, E. Hohl H von Soden (Berlino 1931).
,V 10 generale - L’importanza sempre maggiore assunta dallo stu¬ dio e dall interpretazione critica delle fonti e dalla metodica relativa ha creato or¬ mai una vera e propria « scienza delle fonti » (la « Quellenkunde » dei Tedeschi). Per un primo orientamento sulle fonti della storia romana si veda: C. Wachsmtjth Linleitung in das Studium der alten Geschichte, Lipsia 1895; A. Rosenberg, Einleitunq und Quellenkunde zur rómischen Geschichte, Berlino 1921; F. Greenidge e M Clay Lources jor Roman History, Oxford 1926.
1V
l°uli “rche0,0**c!1te (cfr- il § 6) - Non v’è suolo al mondo, all’infuori di quello della Grecia e delle isole adiacenti, che sia stato così intensamente e mi¬ nuziosamente scavato come quello della penisola e delle isole italiane. La storia i questi scavi e dei loro resultati si trova esposta nei volumi di G. Ghirardini, L archeologia nel primo cinquantennio della nuova Italia, Roma 1912, e di A. Mi’ chaelis Un secolo di scoperte archeologiche (trad. ital. E. Pressi), Bari 1912. Vedi ora^anche A. Maiuri, Problemi di archeologia italica, in « La parola del passato »
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
47
Le informazioni 9ui lavori e gli scavi in corso e sulle scoperte nel campo archeo¬ logico sono contenute, oltre che nei repertori generali elencati nel § II, in periodici di indirizzo specificamente archeologico, italiani e stranieri. In Italia abbiamo le « Notizie degli scavi di antichità » (N. S.) e il « Bollettino della Commissione ar¬ cheologica comunale di Roma » (B. 0. A. R.); per le scoperte interessanti il mondo romano antico in generale, il «Bollettino del Museo dell’Impero Romano», comin¬ ciato a pubblicarsi nel 1910; per l’illustrazione dei più importanti reperti archeo¬ logici, i « Monumenti antichi » pubblicati a cura dell’Accademia dei Lincei dal 1890 in poi (M. A. A. L.), e i « Monumenti d’arte antica » pubblicati dall’Accade¬ mia di Torino dal 1937. Sulle scoperte archeologiche più recenti in Italia si potrà ora consultare la rassegna di M. Ballottino, Archeologia e Storia dell'Arte classica, 1940-46, in « Doxa » II (1949), p. 9 sgg. Un ottimo sussidio sarà rappresentato dai fogli della Carta archeologica d’Italia, ora in corso di pubblicazione: vedi P. Frac¬ caro, La Carta archeai. d'Italia, in « Atti e mem. dell’Acc. Fior. La Colombaria » XVI (1947-50), p. 191. In Francia si pubblica annualmente, sotto la direzione di M. Aubert, un « Répertoire d’art et d’archéologie »; inoltre H. Stein e Charles Picard pubblicano periodicamente, nella « Revue des Études Latines » (R. E. L.), una Chronique, de la sculpture etrusco-latine. Una rassegna archeólogica è contenuta anche, perio¬ dicamente, nella « Revue des Études Grecques » (R. E. G.) e concerne principal¬ mente le scoperte nelle regioni orientali del dominio romano. Il già ricordato Ch. Picard scrive inoltre, per la « Gazette des Beaux Arts », un Courrier de l art antique, infine, per le scoperte in Gallia e in Africa, si vedano le rassegne pubblicate dal « Bulletin archéol. du Comité des Travaux historiques et scientifiques ». Per 1 illu¬ strazione dei reperti sono da vedere anche: « Monuments et Mémoires » (« Mom. Piot. »), che l’Academie des Inscriptions pubblica dal 1894. In Germania, la rassegna delle scoperte archeologiche è contenuta in un supple¬ mento dello « Jahrbuch des deutehen archdol. lnstituts », redatto da P. Geissler col titolo Archdologische Bibliographie, e nei rendiconti periodici (Archdolog. Anzeiger) pubblicati dalla stessa rivista (J. D. A. J.). Anche in Germania si pubblica, per l’illustrazione dei reperti, il periodico « Antike Denkmàler », che nel 1887 prese il posto dei « Monumenti antichi » pubblicati fino allora dall Istituto di Corrispon¬ denza Archeologica. In Inghilterra, ima cronaca archeologica è pubblicata periodicamente nel « Times literary supplement »; era redatta da E. Strong, fino a poco prima della morte dall’Autrice (1943).
VI - Fonti numismatiche ed epigrafiche (cfr. il § 7) - Intorno al contributo che lo storico dell’antichità può chiedere alla numismatica, sono da consultare alcune opere di contenuto informativo e metodologico; principalmente: J. Eckhel, Doctrina nummorum veterum (8 voli.), Vienna 1792; K. Reclino, Mùnzkunde, in Gerke Norden, Einleitung, II 4, 2, Lipsia 1930; Th. Reinach, L'histoire par les monnaies, Parigi 1902; B. Fick, Die Mùnzkunde in der Altertumswissenschaft, Stutt¬ gart 1922; F. von Schròtter, Wòrterbuch der Mùnzkunde, Berlino—Lipsia 1930, J. Babelon, La numismatique antique, Parigi 1944; P. Gardner, A histanj oj ari¬ ete nf coinage, Oxford 1928. A queste opere vanno aggiunti alcuni lavori fondamentali nel campo della metrologia; F. Hultsch, Oriechische und róm. Metrologie, 2a ed. Berlino 1882; A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1918- O Viedebannt, Antike Gewìchtsnormen und Mùnzfùsse, Berlino 1913. Per le monete romane dell’età repubblicana: Th. Mommsen, Geschicte des róm. Mùnzwesens, Berlino 1860; E. Babelon, Description histonque et chronologtque des monnaies de la République, Parigi 1885; H. MXttingly, Roman coins from thè ear-
48
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
liest tim-es to thè fall of thè Roman Empire, Londra 1927; G. A. Grùber, Coins o) thè Roman Republic in Brit. Mus., Londra 1910; W. Giesecke, Italia numismatica, eine Geschichte der italischen Geldsysteme bis zur Kaiserzeit, Lipsia 1928; sulla moneta aurea, M. von Bahrfeldt, Die róm. Goldpràgung wdhrend der Republick und unter Augusttis, Halle 1923; un’antologia di monete romane è quella di G. F. Hill, Historical Roman Coins, Londra 1909. Sull’inizio della coniazione del denarius (probabilmente il 187 a.C.) sono stati pubblicati in questi ultimi anni studi notevoli: H. Mattingly e E. G. Robinson, The earliest Coinage of Rome in modem Studies, in « Numism. Chronicl. », V ser., n. 69 (1938), p. 1; J. G. Milne, Roman Lilerary evidence on thè coinage, in « Joum. of Roman Stud. », XXVIII (1938), p. 70. Sull’origine della moneta romana d’argen¬ to si veda: H. Mattingly, The Romano-Campanian coinage, an old Problem from a new angle, in « Journ. of thè Warburg Instit. » I (1938), p. 197. A causa della grande dispersione del materiale numismatico, non si è riusciti finora a pubblicarne dei « corpora » che, come quelli epigrafici, raccolgano pressoché tutte le monete conosciute, disponibili finora per lo studioso di storia antica. Bi¬ sogna contentarsi per ora di raccolte parziali, naturalmente numerosissime: di esse, le più abbondanti, ottimo strumento di lavoro per lo storico, sono i cataloghi dei musei e dei medaglieri; primo fra tutti il Catalogne of Greek coins in thè British Museum (1893 sgg.), dove, in 37 volumi, sono descritte tutte le monete conservate nel Museo Britannico, disposte in ordine geografico. Un * corpus » di tipi monetari si può considerare l’opera di B. V. Head, Historia Numorum, 2aed., Oxford 1911. Tengono al corrente delle nuove scoperte numismatiche tutti i migliori periodici dedicati a tale scienza; fra questi, la « Rivista italiana di Numismatica », Milano 1888 sgg.; gli « Atti e Mem. dell’Istituto di Numism. », Roma 1913 sgg.; la « Revue Numismatique » (R. N.), la « Numismatiche Zeitschrift » (N. Z.), Vienna, la « Zeitsehrift fiir Numismatik » (Z. N.), Berlino, « The Numismat. Chronicle » (N. Chr.), « The American Journal of Numismatic » (Am. J. Num.). Vale anche per l’epigrafia latina ciò che già si è osservato a proposito dell’epi¬ grafìa greca 1; e cioè che, ad un certo momento del progresso degli studi, l’inter¬ pretazione delle epigrafi diviene ima vera scienza. Questo momento è segnato, per l’epigrafia latina, dagli studi di Gaetano Marini (1764-1815) e di Bartolomeo Borghesi (1781-1860), cui fece seguire la prima raccolta notevole di epigrafi latine, un vero « corpus » locale, le Inscriptiones regni Neapolìtani, di Teodoro Mommsen (1852). Questo lavoro magistrale del Mommsen fu il modello sul quale il Mommsen stesso concepì e disegnò il piano grandioso del Corpus Inscriptionum Latinorum (C.I.L.), della esecuzione del quale egli si assunse la direzione, per incarico dell’Ac¬ cademia di Berlino. A cominciare dal 1863 furono pubblicati 16 volumi, il primo dei quali contiene tutte le epigrafi anteriori alla morte di Giulio Cesare, oltre ai Fasti e ai Calendari. Nei successivi volumi le iscrizioni sono distribuite secondo un criterio geografico. Per la storia dell’età repubblicana è dunque essenziale il I vo¬ lume, pubblicato in due successive edizioni (1893-1931) e i voli. VI (Inscriptiones urbis Romae) e XIV (Inscriptiones Latii veteris), ora integrato dal Supplemento Ostiense (1930). Esistono altre raccolte di epigrafi limitate a campi piti ristretti; ci limitiamo a citare quelle che interessano il periodo repubblicano. Si ricordi, anzitutto, che nel 1935 l’Unione Accademica Nazionale d’Italia affidò a Giuseppe Cardinali l’inca¬ rico di dirigere la raccolta e l’edizione di un nuovo « corpus » delle epigrafi latine d Italia (Inscriptiones Italiae, Roma 1937 sgg.), destinato ad allargarsi ad una più vasta opera, Inscriptiones Orbis Roryxani. Dei volumi finora pubblicati (ciascuno
1 Cfr. Trattato di Storia greca, p. 30.
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
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in più fascicoli) ci interessa specialmente il voi. XIII, fase. I, Fasti coiisidares et triumphaies (1947), e fase. Ili, Elogia (1937), curati in modo magistrale da A. Degrassi. Una preziosa raccolta di epigrafi latine, così del periodo repubblicano come di quello imperiale, fu pubblicata in tre volumi da H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae (I.L. S.), Berlino 1892-1916; utile per gli studi di storia e di antichità è anche E. Diehl, Alti aleinische I nsckriften, 3* ed., Bonn 1930 (nella collez. dei « lvleine Texte »). Tre pubblicazioni sono dedicate alle iscrizioni metriche: Fr. Bucheler» Carmina latina epigraphica, 2 voli., Lipsia 1895-97; E. EngstrcìM, Cannino lai. epigr. post editata collectionem Buechelerianam in lucem prodita. Lipsia 1912; A. B. Purdie, Latin verse inscriptions, Londra 1935. Sulle scoperte e la pubblicazione di nuove epigrafi informano via via vari periodici e riviste. La rassegna più importante è ora quella pubblicata dalla « Revue archéologique » (R. A.) nel Supplemento intitolato Revue des publications epigr aphiques relative* à VAntiquité romaine. Rassegne dello stesso genere si trovano in quasi tutti i maggiori periodici archeologici, principalmente nelle « X. S. », nel « B. C. A. R. » e nella Rivista italiana « Epigraphica », che si pubblica a Milano dal 1939, a cura di A. Calderine I migliori e più recenti trattati di epigrafia latina sono quelli di R. Cagnat, Cours d'epigraphie latine-, 1885, 4a ed., Parigi 1914; J. E. Sandys, Latin Epigraphy, 2» ed., a cura di S. G. Campbell, Cambridge 1927; S. Ricci, Epigrafia latina, Milano (Manuali Hoepli). Utile è anche L. Perret, Les inscriptions romaines, bibliographie pratique, Parigi 1924. Una informatissima Rassegna di E pigrafia romana è stata ora pubblicata da A. Degrassi nella rivista « Doxa », II (1949), p. 47 sgg. Di preziosa consultazione è infine il Dizionario epigrafico di antichità romane di E. De Ruggiero e G. Cardinali, tuttora in corso di pubblicazione (Roma 1886 sgg.). Anche le iscrizioni greche forniscono naturalmente, dal III secolo a. C. in poi, prezioso materiale allo studioso di storia romana. Perla relativa bibliografia riman¬ diamo al Trattato di Storia greca, p. 30 sgg.; sarà bene ricordare che per gli studi di storia romana sono particolarmente utili le raccolte di W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionutn Graecarum, 3a ed. (Syll.3), 4 voli. Lipsia 1915-25, e dello stesso Au¬ tore, Orie-ntis Graeci Inscriptiones selectae- (O. G. I. S.), 2 voli., Lipsia 1903 -05, e quella di R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romana* pertinentes, Parigi 1903 sgg Citiamo ancora alcuni dei lavori più importanti relativi alle iscrizioni dialettal italiche. Di contenuto generale: R. S. Conway, The italic dialects, Cambridge 189/ C. D. Buck, A Grommar oj Oscan and Umbrian, 2a ed., Boston 1928; R. S. Conway S. E. Johnson, J. Whatmough, The praeitalic dialects of Italy, 3 voli., Londra 1933 J Whatmough, The joundations of Roman Italy, Londra 1937. Di contenuto parti colare: F. Bucheler, Umbrica, Bonn 1883; A. von Blumenthal, Die Iguvimschen Taleln, Stuttgart 1931; G. Devoto, Tabulae Iguvinae, Roma 1937; id., Storia della lingua di Roma, Roma 1940 (voi. XXIII della «Storia di Roma» dell’Istituto di Studi Romani). Vedi anche il manualetto italiano diO. Nazari, I dialetti italici, Milano. (Manuali Hoepli), 1900. Le più notevoli raccolte di documenti romani sono le seguenti: C. G. Dbuns, O Gradenwitz. Fontes iuris Romani, 7a ed., Tubingen 1909, Additamenta, 1912; GÌ Rotondi, Leges publicae popoli Romani, Milano 1912; Fontes iuris Romani anteiustinianei, I., Leges, ed. S. Riccobono, Firenze 1941; II. Auctores, ed. I,.Baviera. C Ferrini, I. Furlane 1940; III. Negotia, ed. V. Arangio Ruiz, 1943; F t. Gi¬ rard Textes du droil romain, Parigi 1923. Una raccolta di atti romani redatti in greco’è quella curata da P. Viereck, Sermo Graecus quo senatus populusque Romanus.. usi sant, Gottinga 1888; per la traduzione dei termini latini nei testi greci si veda, oltre alla citata opera del Viereck, D. Magie, De Romanorum iuris publici sacrique vocabulis sol-lemnibus in Graecum sermonem conversis, Lipsia 1905, e lo studio.di
4 - Gian selli, Trattato di Storia romana - I
50
M.
TRATTATO
DI
STORIA ROMANA
Holleaux, SxpaTTjYi? ÒTta-ro;, Étude sur la traduction en grec du titre consvlaire,
Parigi 1918. I frammenti di calendari conservati in epigrafi si trovano raccolti nel I volume del C.I.L., illustrati dal magistrale commento del Mommsen (la I ed. è del 1863, la II del 1893 e sgg.); è in preparazione la nuova edizione di essi nelle Inscriptiones Italiae, dove formeranno il fase. II del voi. XIII (a cura del Degrassi). Sull’impor¬ tanza di essi si veda G. Wissowa, in R.E. VI, 2015 sgg. e nel volume Religion u. KultUs der Rtìmer, 2 ed. (1912), p. 2 sgg., 34 sgg., 567 sgg.; F. Altheim, Rtìm. Religionsgeschichte, I (Berlino 1931), p. 26 sgg. Tra i più notevoli frammenti di calen¬ dari recentemente rinvenuti è da ricordare il calendario precesariano di Anzio, l’uni¬ co che possediamo anteriore alla riforma di Giulio Cesare, edito da G. Mancini, in « N. S. », 1921, p. 73. Su di esso si veda: G. Wissowa, in « Hermes » LVIII (1923), p. 369; A. Leuze, in « Bursians Jahresber. » CCXXVII (1930), p. 97. Nel C.I.L. voi. I*, p. 16 sgg., 86 sgg., si trova quanto dei Fasti capitolini si era rinvenuto fino all’anno 1892. Altri frammenti vennero scoperti in seguito; su questi si veda Mommsen, in « Hermes » XXVIII (1903), p. 116; Hulsen, in « Ròm. Mittheil. » XIX (1904), p. 117. Di grande importanza è il già ricordato calendario precesariano di Anzio, pubblicato nel 1921 dal Mancini; esso contiene infatti anche una lista (Fa¬ sti AnticUes), di consoli e di censori degli anni compresi tra il 170 e il 70 a.C., aH’incirca, ciò che dimostra che, anche prima della registrazione ordinata da Augusto, esistevano in Roma e fuori di Roma liste epigrafiche di magistrati. Un altro notevole fram¬ mento di Fasti è quello trovato infisso in una parete dell’androne del palazzo Origo di Roma da P. Mingazzini e da questi pubblicato in * N. S. » 1925, p. 376. Anche i Fasti trionfali sono pubblicati nel C.I.L., I*, p. 43 sgg., e quasi contem¬ poraneamente da G. Schòn, Dos capii. Verzeichnis der ròm. Triumphe, Vienna 1893. Una nuova recensione, con commento, ne ha data E. Pais, Fasti triumphales populi Romani, Roma 1920, e I Fasti trionfali del popolo romano, I, Torino 1930 (con traduzione). Nel 1925, fu scoperto ad Urbisaglia un frammento di una replica locale dei fasti trionfali; esso comprende gli anni fra il 176 e il 158 a.C. e fu edito dal Moretti, in «N. S. » 1925, p. 114 sgg. Si veda anche: G. Schon, Die Differenzen zwischen der kapitol. Magistrats-und Triumphliste, Vienna 1905. Possediamo ora un’edizione critica e completa dei Fasi» consulares et triumphales, per merito di A. Degrassi (forma il fase. I del voi. XIII delle Inscriptiones Italiae-. Roma 1947). Diamo qui la bibliografia essenziale relativa ai Fasti consolari e trionfali. Peri primi si veda: C. Ciohorius, De fastis consularibus antiquissimis, in * Leipziger Stu¬ di en » IX (1887), p. 171; G. Sch'ón, articolo Fasti in R. E. VI, 2015 sgg.;G. Sigwart, in « Klio » VI (1906), p. 209 sgg.; T. Giorgi, in «Rendic. Acc. Lincei» XX (1911), p. 316 sgg.; G. Costa, I Fasti consolari romani, Milano 1910; id.. L'originale dei fasti consolari, Roma 1910; W. Soltau, Die Anfànge der ròm. Geschichtsschreibung, Lipsia 1909, p. 264; E. Pais, Sui fasti consolari, in Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, ser. II, Roma 1916; D. Vaglieri, articolo Consules in Dizionario Epigrafico di Antichità Rom., voi. II, p. 869—1181 (sono dati qui gli elenchi dei con¬ soli disposti in ordine alfabetico in tre distinte sezioni cronologiche, rispettivamente per i periodi repubblicano, imperiale fino all’anno 398 e dal 399 al 632). Per i se¬ condi, oltre i citati scritti del Cichorius e del Pais, si veda: Th. Mommsen, Ròm. Forschungen II (Berlino 1879), p. 58 sgg.; id., Ròm. Staalsrecht, I* (Lipsia 1887), p. 488, II*, p. 755 sgg.; H. Matzat, Ròm. Chronologie, Berlino 1883, I, p. 335 sgg.; G. Schòn, in R.E. VI 2943 sgg.; G. De Sanctis, in Storia dei Romani, I (Torino 1907), p. 1 sgg.; K. J. Beloch, in Ròm. Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, p. 86 sgg- Per gli uni e per gli altri sono di utile consultazione le voci Fasti consolari e Fasti trionfali nel voi. XIV della Enciclop. Ital., a cura di G. Cardinali, e la ras¬ segna in «Doxa» Il (1949), p. 50 sgg.
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
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Le testimonianze più antiche sugli Annali dei Pontefici sono quelle dello scoliasta Danielino, ad Aen. I, 373, di Festo, p. 113,27 L., e di Cicerone, De orai., II 12, 52; sulle tabulae dealbaiae abbiamo la testimonianza di Catone in Gellio, Noct. Atti, II, 28, 6. Per una bibliografia esauriente su questo argomento si veda M. Schanz e C. tìosius, Geschichte der ròn\. Literaiur, I*, Monaco 1927, § 14; e inoltre: A. Rosenberg, Einleitung. . . , p. 113 sgg.; H. Peter, Historicorum Roman, reli¬ quia#, Lipsia 1924, I*, Proleg. § 1 sgg.; id., Historicorum Rom. frammenta, Lipsia 1883, p. 3 sgg.; Cichorius, in R.E., voi. I, s.v.; E. Kornemann, Der Priestercodex in der Regia, Tiibingen 1912. Per le questioni relative alla valutazione storica della cronaca dei Pontefici, si veda: E. Pais, Storia critica di Roma, I, 1 (Roma 1913), p. 52 sgg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, p. 16 sgg.; K. J. Beloch, Róm. Geschichte, Berlino 1926, p. 86 sgg. Una rivalutazione storica degli Annali Massimi è stata scritta recentemente da L. Pareti nel I voi. della sua Storia di Roma (Torino 1952), pag. 677 sgg. Il Pareti ritiene che i Pontefici abbiano cominciato fin dal V secolo a ridurre in cronaca le notizie che già andavano registrando nelle tabulae dealbatae e che, se anche questa prima stesura andò distrutta nell’incendio gallico e fu ricostruita dai Pontefici con tendenza partigiana (sacerdotale e patrizia anti-plebea), non è per questo men vero che, retrodatando al IV secolo la redazione più antica degli A.M., si sposta il limite di attendibilità generica dei fatti più antichi al 600 circa a.C. Sul contenuto e la forma dei Commentari dei Pontefici, si veda anche: G. Rohde, Die Kultsatzungenderróm. Pontifices, in Religionsgeschtl. Versucheu. Vorarbeiten, XXV, Berlino 1936; E. Norden, Au# róm. Priesterbiichern, in « Acta reg. societ. human, litter Lundensis » XXIX (1939).
VII - Fonti scritte primarie (cfr. il § 8) - Per la bibliografia sulle fonti comprese sotto questo titolo, bisogna consultare le opere più importanti di storia della letteratura romana; ne diamo un elenco aggiornato: M. Schanz, Geschichte der róm. Literaiur (forma il voi. VIII del Handbuch der Altertumsivissenschaft di I. von Muller e W. Otto), Monaco 1890 sgg.; la IV ed. è curata da C. Hosius; F. Leo, Geschichte der róm. Literaiur, voi. I, Berlino 1913, trad. ital. di B. Lavagnini e F. Rosanelli, Firenze 1926; J. Bayet, Littérature latine (con molti testi tradotti), 4‘ ed., Parigi 1947; H. J. Rose, A handbook of latin literature, New York 1926; A. Rostagni, La letteratura di Roma repubblicana ed augustea, Bologna 1939. Sulle orazioni funebri vedi F. Vollmer, Laudation. junebr. Roman, histor. et re¬ liquiario editio, in « Jahrbuch fur Philol. », Suppl. XVIII (1892). I frammenti degli oratori romani, così della repubblica che dell’età imperiale, furono editi per la prima volta da H. Meyer, Oratorum Rom. fragmenta, 2* ed., Zurigo 1842; una nuova edizione degli oratori dell’età repubblicana è stata curata ora da E. Malcovati, Orai. Roman. Fragmenta, 3 voli., Torino 1930. I frammenti dei discorsi di Catone in H. Jordan, M. Catoni# praeter librum de re rustica quae extant, Lipsia 1860, p. 33 sgg. La grande edizione delle orazioni di Cicerone, curata da Orelli - BaiterHalm (Zurigo 1854-56), è ora sostituita da quella oxoniense (A. C. Clark e W. Peterson: 1905 sgg.) e dalla teubneriana di A. Klotz ed altri (Lipsia 1914 sgg.). J. H. Humbert, Le# plaidoyers écrits et les plaidoiries réelles de Cicéron, Parigi 19-5, studia i rapporti fra i discorsi scritti e quelli realmente pronunciati da Cicerone. I discorsi di Cicerone in rapporto alle sue tendenze politiche sono studiati daR. Heinze, Ciceros politische Anfànge, in « Abhandl. Sachs. Ges. der Wiss. » 1909, e da H. Strassburger, Concordia ordinum. Francoforte 1931. Degli scolii a Cice¬ rone esiste l’edizione dello Stangl, Lipsia 1912. _ L’edizione delle lettere dì Cicerone fu curata da R. Y. Tyrrel e da L. C. PURSER per la collezione di Oxford (1901-905) e da.H. Sjògren per la collezione teubneriana
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
(Lipsia 1914 Sgg.). Preziosa per lo studioso di storia è l’edizione curata da R. Y. Tyrrell e L. C.Ptxrser, in 7 volumi (1J e 3“ ed. Dublino, 4a e 5a ed. Londra, 1897-
1918), nei quali le lettere sono disposte in ordine cronologico e accompagnate da un ricco commentario. Per una valutazione storica dell’epistolario ciceroniano si veda: O. E. Schmidt, Der Briefwechsel des Cicero von seinem Proconsulat in Cilicien bis zu Caesars Ermordung, Lipsia 1893; Ed. Meyer, Caesars Monarchie und das Principal des Pompeius, 2a ed., Stoccarda 1919. Una nuova teoria su questo pun¬ to ha esposto J. Carcopino nel suo scritto Lea secreta de la correspondance de Cicéron, 2 voli., Parigi 1947; teoria che ha sollevato una polemica (vedi Piganiol, in * Revue histor. » t. CCI, p. 224 sgg. e Carcopino, ibid., t. CCII, p. 59 sgg.), della quale sarà data notizia anche nell’Appendice Bibliografica alla Parte IV. Sulle memorie di Siila ha scritto I. Calabi in « Atti Acc. Lincei » cl. se. mor., ser. Vili, III, fase. V (1950). La prima edizione critica del «corpus» degli scritti cesariani fu curata daC.NiPperdey nel 1847 (4a ed., Lipsia 1881); la più recente è quella di A. Klotz, Lipsia 1920-27. Su Irzio si veda A. Klotz, Caesarstudien, Lipsia 1910, e Kalinka, ir» « Philologus » LXIX, p. 484 sgg. I pochi saggi conservatici degli scritti polemici e d’occasione appartengono quasi tutti ai tempi di Cesare: vedi H. Peter, Die geschichtliche Literatur der ròm. Kaiserzeit, I (Lipsia 1897), p. 103 sgg. Di essi sarà detto più diffusamente nell’Appendice bibliografica alla Parte V.
VII! - Fonti scritte secondarie (cfr. i §§ 9, 10, 11) - Per i frammenti degli annalisti e degli altri storici le cui opere sono perdute, bisogna ricorrere alla grande raccolta di H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I2, Lipsia 1914, e II, Lipsia 1906, pubblicata anche in edizione minore col titolo Historic. Rom. fragmenta, Lipsia 1883, comprendente anche i frammenti dei più antichi annalisti che scrissero in greco. Per i frammenti 'degli storici greci si dovrà ricorrere, oltre che alla classica raccolta di C. F. Mìtller, Fragmenta histor. Graecorum, Parigi 1844 sgg. (F.H.G.), alla nuova edizione, con commentario, di F. Jakoby, Die Fralmente der griechischen Historiker, Berlino 1923 sgg. (F.G.Hist.). Sull’annalistica in generale vedi T. Frank, Roman historiography before Caesar, in « Americ. Historical Review » XXXII (1927), p. 232 sgg.; M. Gelzer, Der Anfang rómischer Geschichtsschreibung, «Hermes» LXIX (1934), p. 34. Uno studio recentissimo sugli Annali di Ennio è quello di S. Timpanaro jr., Per una nuova edizione critica di Ennio, in « Studi ital. di Filol. class. », voi. XXI-XXIII. Su Claudio Quadrigario si veda la dissertazione dello Zimmer, Der A nnalist Claudim Quadrigarius, Monaco 1937, e lo scritto di A. Klotz, nel « Rheinisches Museum » del 1942. A proposito del frammento papiraceo di un annalista, si veda A. Piganiol, Le papyrus de Servius Tidlius, in Scritti in onore di Bartolomeo Nogara, Roma 1937: ivi è sostenuta la tesi che autore del frammento sia Elio Tuberone, i cui Annali sarebbero stati usufruiti da Cicerone nel secondo libro del De Rep. Fra le edizioni più recenti di Tito Livio, si potrà ricorrere alle seguenti: N. Madvig e J. L. Ussing, Copenhagen 1861 sgg. (4a ed., 1886 sgg.); A. Zingerle, Praga-Vienna 1883-1908; R. S. Conway e C. F. Walters, Oxford 1914 sgg.; dei libri XXI-XXX, A. Luchs, Bei-lino 1888 sgg.; dei libri XLI-XLV, C. Giarratano, Roma 1933^ Una pregevole edizione commentata di tutto il testo liviano è quella di W. Weissenborn, H. J. Mùller, O. Rossbach, Berlino, Weidmann, in edizioni costantemente rinnovate. Frammenti delle « periochae » dei libri 37-55 (anni 189-139 a.C.), rielaborate in forma di cronaca, sono venuti alla luce in un papiro scoperto nel 1903 ad Ossirinco: vedi in proposito E. Kornemann, Die neue Livius Epitome, in * I^lio b Beiheft II, 1904. Una edizione delle perioche coi framm. di Ossirinco e
BIBLIOGRAFIA GENERALE
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il liber prodigiorum di Ossequiente è stata curata da O. Rossbach, Lipsia 1910. Sulla composizione delle perioche si consulti A. Klotz, in R. E. XIII, col. 823 sgg. È di recente pubblicazione l’edizione di Livio curata da J. Bayet, Tite Live: Histoire romaine. Texte établi par J. B., traduit par G. Baillet, Parigi, Belles Lettres, 1940-42; notevoli gli argomenti trattati nell’Introduzione (specialmente «l’évolution des méthodes historiques » di T. L., e la «interpretation chronologique»). La bibliografia più recente di Tito Livio comprende i lavori seguenti: 0. Giarratano, Tito Livio, nella collezione « Res Romanae », Roma 1937; A. Klotz, Livius und seine Vorgdnger, Lipsia 1940-41; V. Dattilo, Tito Livio, una vitae un operaolla ricerca attraverso i secoli del « tutto T. L. », Napoli, Rispoli, 1941; P. Zancan, Tito Livio: saggio storico, Milano 1941; N. I. Herescu, Bibliographie de Tite Live, in «Riv. class, di Bucarest » XII-XIV (1941-42); C. Marchesi, Livio e la verità storica, Padova (Opusc.. Acc. Univ.), Cedam, 1942; P. Zancan, Floro e Livio, Pa¬ dova, Cedam, 1942; E. Dutoit, Les pelites causes dans l'Histoire romaine de T. L., in « Lettres d’Humanitó », V, p. 186 sgg. Una buona edizione delle monografie minori è quella di A. W. Ahlberg, Lipsia 1919; la migliore edizione dei frammenti delle Historiae di Sallustio è stata curata da B. Maurenbrecher, Lipsia 1891-93. Per gli storici greci autori di storia universale o di opere di vasta estensione prò* nologica, indichiamo qui le edizioni alle quali si può ricorrere da parte degli studiosi. Per Dionigi d’Alicarnasso, edizione di C. Jakoby, Lipsia 1885-1905; vedi poi Kiessling. De Dion. Halic. antiquis auctoribus, Bonn, diss. 1858, e 1 articolo dello Schwartz. in R. E. V, col. 934 sgg. Per Cassio Dione si veda 1 edizione di U. Ph. Boissevain, Berlino 1895 sgg. Di Appiano una prima edizione fu curata da L. Men-delssohn, Lipsia 1879-1881, la seconda da P. Viereck, Lipsia 1905. Su Posidonio si veda lo studio di K. Reinhardt, Poseidonios, Monaco 1921. Della epitome di Giustino si veda Pedizione di O. Seel, Lipsia 1935. L'edizione completa di Diodoro Siculo è quella di F. Vogel e Th. Fischer, Lipsia 1888 sgg.; la parte relativa alla storia romana più antica, con raggiunta del frammento tratto da un manoscritto vaticano (Ineditum Vaticanum), fu edita da A. B. Drachmann, Diodors rómische Annoles bis 302 a. Chr., Bonn. 1912 («Ideine Texte» n. 97). Vanno ricordate, qm le due notevoli dissertazioni di A. Klotz sulle fonti di Diodoro e di Dionigi d’Alicamasso: Dio dora ròm. Amuden, in « Rhein. Mus. » LXXXVI (1937), 206 sgg.; Zu den Quellen der Archaiologia des Dionysios von Hàlicarnassos, ibid., LXXXVIII (1938), 32 sgg.; dóve s’impugna l’autenticità dei libri lintei, che il Beloch sostiene invece a spada tratta (in Ròm. Geschichte), e si dimostra il largo uso di Tuberone da parte di Dionigi. v n ^ L’edizione critica di ciò che ci rimane di Cornelio Nepote e quella di C. ±ìalm, Lipsia 1871; edizione con commento di C. Nlpperdey e K. Witte, Berlino 1913. L’edizione oxoniense di Velleio Patercolo è a cura dell’ELLis (2tt ed. Oxtord 19-8), la teubneriana è del Halm (Lipsia 1909), ora rielaborata a cura di K. Stegmann von Pritzwald, l’edizione paraviana è curata da E. Malcovati. Il De vtns dlustnbus si legge nella edizione di F. Pichlmayr, Lipsia 1911. Le edizioni fondamentali di Plutarco sono quelle di C. Sintenis, Lipsia 1893 sgg., e di C. Lindskog e K. Ziegler, Lipsia 1914 sgg. Per un orientamento sugli autori di biografie e di autobiogra¬ fie si vedano: W. Uxkull-Gyllenband, Plutarch und die griech. Biographie, btuttgart 1929; G. Misch, Geschichte der Autobiographie, I, Dos Altertum, Lipsia 1907. Bibliografie complete delle edizioni e degli studi relativi ai singoli autori si tro¬ vano nelle voci relative della R. E. e nelle maggiori opere di Storia della Letteratura latina (citate al principio del § VII) e di Storia della Letteratura greca, come quella di W. von Christ, Geschichte der griech. Literatur, nell’ultima edizione curata da W. Schmid, e O. Stàhlin Monaco 1929 - 1948 (nel Handbuch del Muller), e quella, francese, di M. Croiset, Histoire de la littérature grecque, 3a ed., Parigi 1928.
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TRATTATO
DI STORIA ROMANA
Le maggiori collezioni di testi classici greci e latini sono le seguenti: a) Bibliotheca scriptorum Oraecorum et Romanorum, edita dalla casa Teubner di Lipsia, completa;
-
b) Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis (Oxford), non completa; c) Collection dea Univeraitéa de Franca, che si pubblica a Parigi a cura dell’«Association Guillaume Budé », con traduzione francese: incompleta; d) Corpus scriptorum Latinorum Paravianum, diretto prima da C. Pascal, poi da L. Castiglioni (Torino); e) The Loeb classiccd Library, diretta da T. E. Page, E. Capps, W. H. D. Rouse, con traduzione inglese (Londra-New York), incompleta; f) Collezione dei Classici greci con traduzione latina, pubblicata da F. Didot, a Parigi, con ottimi indici (sono pubblicati in questa collezione i già ricordati Fragmenta historic., a cura del Muller). La bibliografia particolare e i problemi relativi alle fonti proprie di determinati periodi storici si troveranno nelle appendici bibliografiche delle singole parti del presente Trattato.
IX - Opere generali di storia romana - Si dà qui notizia delle opere di storia romana di contenuto generale, che non sono state citate nei precedenti § § 2, 3, 4 e I e III. Alle già ricordate storie generali del secolo passato va aggiunta la Ròmische Geachichte di W. Ihne, Lipsia 1868-69, pubblicata in 2» ed. nel 1893-96. Delle storie generali pubblicate in Italia ricordiamo: G. Ferrerò, Grandezza e decadenza di Roma, 5 voli., Milano 1904-07, scritta con tendenza evidentemente materialista e con interpretazioni eccessivamente soggettive, notevole tuttavia nella parte relativa all’ultimo secolo della repubblica; G. Ferrerò e C. Barbagallo, Roma antica, 3 voli., Firenze 1922, con alcune note di bibliografia e problematica; G. Vidari, Le civiltà d'Italia nel loro sviluppo storico, I, Torino 1932; A. Ferra¬ bino, L'Italia romana, Milano 1934, sintesi notevole perle interpretazioni originali dello spirito animatore della politica di Roma; M. A. Levi, La politica imperiale romana, Torino 1936; G. Giannelli, La Repubblica romana, comprendente anche il periodo delle origini, Milano 1937; P. Ducati, L'Italia antica dalle prime civiltà alla morte di Cesare, Milano 1938 (fa parte della * Storia d’Italia » edita da Mon¬ dadori); P. Silva, Il Mediterraneo dalla unità di Roma all'impero italiano, Milano, « Ispi » 1939; A. Ferrabino, Nuova storia di Roma, 3 voli. Roma 1942 sgg., dove la storia della repubblica è contenuta nei primi due volumi, con molte illustrazioni di carattere documentario. A particolari aspetti della storia di Roma sono ispirati i due lavori di M. Canavesi, La politica estera di Roma antica, Milano, « Ispi » 1942, e di A. Ferrabino, Lo spirito della conquista romana, Padova 1946. La più recente pubblicazione del genere è ora quella di L. Pareti, Storia di Roma, Torino 1952, della quale sono usciti i due primi volumi (dalle origini al 170 a. C.) Per la Francia, riferendoci alla già citata Histoire gènérale pubblicata sotto la direzione del Glotz, aggiungeremo che la 3» parte di essa, dedicata alla Histoire romaine, comprende 4 voli., i primi due dei quali sono i seguenti: E. Pais e J. Bayet, Dea origines à l'achevement de. la conquéte (133 a. C.), Parigi 1935, 2a ed. 1940G. Bloch e J. Caroopino, La République rom. de 133 à 44: I. Dea Gracques à Sulla Parigi 1935; J. Caroopino, IX: Cesar, Parigi 1936. (2a ed 1950). Aggiungiamo l! Homo, Nouvelle histoire romaine, Parigi 1941. Fra le opere pubblicate in lingua inglese, dopo la Storia economica di Roma dalle origini alla fine della Repubblica, di Tenney Frank, traduzione italiana di B. Lavagnini, Firenze 1924, e A history of thè ancìent world, II. Rome, Oxford, 1927, ri¬ corderemo ancora: A. E. R. Boak, A history of Rome, to A. D. 565, 2a ed., New York
BIBLIOGRAFIA
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GENERALE
1929; M. Cary, A history of Rome, down to thè Reign of Co ottantine, Londra 1935, con capitoli assai notevoli sulle condizioni dell’Italia verso il 1000 a.C. e sulle fonti del periodo- delle origini; A. A. Trever, History of ancient civilisation, voi. II. The Roman world, New York 1939. La scienza tedesca ha seguitato a produrre, fino agli ultimi anni prima della guerra, notevoli opere di sintesi; citiamo le seguenti: F. Taeger, Dos Altertum: Geschichte und Gettali, 2 voli., Stuttgart 1939; P. Rohden e G. Ostrogovski, Menschen die Geschichte. machten, Vienna 1931 (2a ed. frane. Hommes d'État, Bru¬ xelles 1935); Th. Birt, Rómische Charakterkópfe. Ein Weltbild in Biographien, Lipsia 1922; id., Dos róm. Weltherrschaft: teine Herrscher, Feldherren und Staats■mdnner, Berlino 1941; J. Vogt, La Repubblica romana, traduzione italiana di V. Omodeo, Bari 1939 (l’edizione tedesca è pubblicata a Friburgo nel 1932 e forma il VI voi. della « Geschichte der fiihrenden Vòlker »; F. Altheim, Epochen der ròm. Geschichte, I. Fon den Anfdngen bis zum Beginn der Weltherrschaft, Frankfurt a. M. 1934; voi. II, 1936; E. Kornemann, Rómische Geschichte, I. Die Zeit der Republik (fino all’anno 60 a.C.), II. Die Kaiserzeit, Stuttgart 1938-39; 2a ed. 1941; U. Kahrstedt, Geschichte des griech. - rómischen Altertums, Miinchen 1948; Fr. Al¬ theim, Róm. Geschichte, B. I: Die Grundlagen, Frankf. a. M., 1950.
X — Antichità pubbliche e private — Delle varie sezioni in cui si suole sud¬ dividere il vasto campo della scienza delle antichità pubbliche, interessano allo storico specialmente le antichità giuridiche, le militari, le religiose. Diamo qui, a scopo d’orientamento generale, notizia delle opere essenziali di ciascuna di queste sezioni. Le antichità pubbliche romane avevano trovato, verso la metà del secolo scorso, una trattazione generale nel grande Handbuch der rómischen Altertùmer, pubblicato da J. Marquardt e Imm. Becker (Lipsia, 1843-1867); questo stesso manuale venne in seguito interamente rifatto a cura dello stesso Marquardt e del Mommsen e pubblicato, con lo stesso titolo, in 15 volumi, fra il 1871 e il 1888, in più edizioni. La costituzione e il diritto romano sono esposti sotto il titolo di Rórmsches Staatsrecht, a cura di Th. Mommsen (3a ed., Lipsia 1887-88) e di Rómische Staatsverwaltung, per opera del Marquardt (2a ed., Lipsia 1881-85). Del manuale esiste la traduzione francese, pubblicata sotto la direzione di G. Humbert, col titolo Manuel des antiquités romaines, in 20 volumi, a Parigi 1890-1907. Inoltre un riassunto di questo Manuale, preparato dallo stesso Mommsen, si trova inserito nel Sistemai. Handbuch der deutschen Rechlswissenschaft del Binding (I, 3; Lipsia 1893) e ne esiste la tradu¬ zione italiana di P. Bonfante (Milano, Vallardi). Il manuale stesso fu poi comple¬ tato con la Geschichte der Quellen des róm. Rechts di P. Kruger (voi. XVI) e col trattato fondamentale del Mommsen sul diritto penale romano, Rómisches Strafrecht, Lipsia 1899. . Altri manuali di antichità pubbliche romane sono i seguenti: L. Lange, Rómische Altertùmer, 2a ed.. Berlino 1876; E. Herzog, Geschichte und System der róm. Staatsverfassung, Lipsia 1884-87 (ambedue di tendenza prevalentemente storica, meno esclusivamente sistematici del manuale Marquardt—Mommsen); J. N. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des róm. Staates, Lipsia 1881—82; L. Homo, Les institutions politiques romaines (coll. « Evolution de 1 Humanité »), Parigi 192». Per una prima informazione sono ancora utili: P. Willems, Le droit public romain, Lovanio 1879, 7a ed. a cura di N. Willems, 1910; J. B. Mispoulet, Les institutions politiques des Romains, Parigi 1882-83; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institu¬ tions romaines, Parigi 1886.
,
Sulle istituzioni repubblicane in particolare: Fustkl de Coulanges, La cite
anti¬ que, Parigi 1864 (traduzione italiana di G. PERROTTA.eon prefazione di G. Pasquali,
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TRATTATO
DI STORIA ROMANA
Firenze 1924); E. Belot, Lee chevaliers romains, 2 voli., Parigi 1866; e B. Jenny, Der ròm. Ritteratand wàhrend der Republik, diss. Zurigo 1936; P. Willems, Le Senat de la Republique. romaine, Lovanio 1878-85; G. W. Botsford, The Roman Assem¬ blies from their origin to thè end of thè Republic, New York 1909; G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1931. Sui fasti delle singole magistrature, oltre a quanto è stato citato nel § VI: W. Liebenam. Fasti consulares imperii Romani von 30 v. Chr. bis 565 n. Chr. (« Ivleine Texte » 41/43), Bonn 1910; F. Bandel, Die rómischen Diktaturen, Breslavia 1910; E. Maxis, Die Prdtoren Roma von 367-167 v. Chr., Breslavia 1911; M. Hozl, Fasti praetorii 167-44 vor Chr., Lipsia 1876; G. Niccolini, I Fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934; J. Seidel, Fasti aedilieii von der Kinrichtung der plebeiischen Aedilitàt bis zum Tode Coesore, Breslavia 1908. Sui fasti dei sacerdoti: C. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus ròm. republikanischer Zeit, Berlino 1876; A. Klose, Ròmische Priesterjasten, Breslavia 1910. Per quanto si riferisce al diritto pubblico e privato, tornano sommamente yitili allo studioso di storia le raccolte e le antologie di testi; si prenda nota delle seguenti: P. F. Gerard, Textes de droit romain, 6» ed., a cura di F. Senn, Parigi 1937; A. Levet, E. Pebrot, A. Fliniaux, Textes et documenta pour servir à Venseignement dù droit romain, Parigi 1931; C. G. Bruns, Fontes iuris Romani antiqui, 7a ed., a cura di O. Gradenwitz, Tiibingen 1909; G. Rotondi, Leges publicae popoli Romani, Milano 1912; S. Riccobono, J. Baviera, C. Ferrini, V. Arangio-Ruiz, Fontes iuris Romani anteiustiniani, 2* ed., Firenze 1940 sgg. Fra i migliori manuali di diritto romano sono da ricordare: P. F. Girard, Manuelle élémemtairs de droit romain, Parigi 1895, 8a ed., 1929; G. Pacchioni, Coreo di diritto romano, 2a ed., Torino 1918; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 4a ed., Torino 1934; id.. Istituzioni di diritto romano, 10a ed., Torino 1946; P. De Francisci, Storia del diritto romano, Roma 1926—29; id., Sintesi storica del diritto romano, Roma 1948; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Roma 1928; E. Cuq, Manuel dee institutions juridiques des Romains, 2a ed., Parigi 1928; V. Arangio-Ruiz, Isti¬ tuzioni di diritto romano, 10a ed., Napoli 1947; id.. Storia del diritto romano, 6a ed., 1950; E. Albertario, Il diritto romano, Milano 1940; B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano 1946. Per una prima informazione offrono un’utile sintesi, con estesa bibliografia: G. Padelletti, Storia del diritto romano, Firenze 1878, 2a ed., 1886; E. Costa, Storia del diritto romano pubblico, Firenze 1920; M. Laubia, Corso di diritto romano, I. Diritto pubblico, Napoli 1946; A. Guarino, Storia del diritto romano. Catania 1945; P. Voci, Il diritto romano, J. Diritto pubblico-, II: Le fonti, Milano 1946; G. Scherillo, A. Dell’Oro, Manuale di storia del diritto romano, Milano 1949. Opere di contenuto generale per la valutazione e l’interpretazione storica del di¬ ritto romano sono: R. von Ihering, Geist des ròm. Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, Lipsia 1875-81 (trad. frane. Parigi 1886-88); F. Schultz, Prinzipien des ròm. Rechts, Monaco 1934; J. Declareuil, Rome et l'organisation du droit (coll. « L’Évolution de l’Humanité »), Parigi 1924. Una ricca bibliografia relativa al Diritto romano si trova raccolta in un volume delle « guide bibliografiche » dell’Università Cattolica a cura di B. Biondi (Milano 1944). Tutta la produzione più recente in materia è diligentemente elencata nella rassegna di Diritto romano e Papirologia giuridica di V. Arangio-Ruiz, in « Doxa * I (1948), p. 97 sgg. e 193 sgg. Sulle antichità militari in particolare, rimandiamo alla classica opera di H. Delbr'óck, Geschichte der Kriegskunst, voi. I: Dos Altertum, 3a ed., Berlino 1920 (rapida
sintesi storica delle istituzioni militari dell’antichità); si veda poi: J. Kromayer e G. Veith, Antike SclUachtfelder, 4 voli., Berlino 1903-931, ove sono studiate esau¬ rientemente tutte le principali campagne militari dei Greci e dei Romani, con pax-
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
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ticolare rilievo all’aspetto topografico di ciascuna di esse, illustrato nell’apposito Schlachtenatlas zur antiken Kriegegeechichte, Lipsia 1922 sgg.; J. Kromayer e G. Veith, Militàrweeen und Kriegsfùhrung der Qriechen und Rómer (voi. IV, 5, 2 del Miiller’s Handbuch), Monaco 1928; P. Couissln, Lee arme* romaines, Parigi 1926. Una rassegna recente degli scritti sulle antichità militari romane pubblicati negli anni 1934-38 si trova in * Bursian’s Jahresber. », 1941, B. 274, pp. 115-151, a cura di 0. Blumlein. Per la religione e il culto dei Romani in età repubblicana, sono essenziali: W. H. Roscher, Ausfuhrlichee Lexicon der griech. und ròm. Mythologie, 6 voli., Lipsia 1884-1937; G. Wissowa, Religion und Kultue der Rómer (voi. V, 4 del Mùller's Handbuch) 2a ed.. Monaco 1912; Warde Fowler, The religione expcrience of thè Roman people, Londra 1911; ld., Roman festivals, Londra 1899; C. Bailey, Phasee in thè religion of ancient Rome, Berkeley 1932; F. Altheim, Rómische Religionsgeschichte (coll. Gòschen, 3 voli., Berlino 1931-33). Sempre utile, benché da farsi con pru¬ denza, è la lettura dei cinque volumi di Cultee, Mythes et Religione di Salom. Reinach (Parigi, 1905-1923), il quale pone a base delle sue ricerche il metodo compa¬ rativo, usato con la più grande audacia. Carattere sobriamente informativo ha il volume di N. Turchi, La religione di Roma antica (nella coll. « Storia di Roma » dell’Istituto di Studi Romani), Bologna 1939, con una bene scelta bibliografia. Nel voi. Ili della parte 2a (Les religione de l'Europe ancienne) della collezione « Mana * (Parigi 1948) è contenuto, nelle pp.81233, il compendio di A. Grenier, La religion romaine, sintesi breve ma piana ed aggiornata così nei problemi come nella bibliografia. Nel voi. II (Grece et Rome, Parigi 1948) della Hist-oire generale dee Religione diretta da M. Jorce e R. Mortier, P. Fabre ha pubblicato La Religion romaine (pp. 303—386 del volume), sintesi ancora più breve e assai ineguale. Alcuni aspetti essenziali della religione romana si trovano studiati da C. Koch, Gottheit und Menech im Wander der rómiechen Staateform, nel II voi. (pp. 133-55) della collezione Due neue Bild der Antike, diretta da H. Berve (Lipsia 1942). Un volume assai interessante è quello di V. Basanoff, Lee dieux romaine, Parigi 1942. Una bibliografia particolareggiata degli studi più recenti nel campo della reli¬ gione romana è pubblicata, a cura di Angelo Brelich, in « Doxa » II (1949), p. 136 sgg. (Storia delle Religioni: Religione romana 1939-48). Di utile lettura è anche la parte riservata all’esame dei concetti religiosi in Roma antica nel volume di Rapports pubblicato dal Comité International des Sciences historiques, Parigi 1950 (Vedi: A. Passerini, Hietoire dee idéee, p. 132 sgg.). Studi di vario argomento, nel campo delle antichità pubbliche romane, si trovano nell’opera di E. Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, Roma 1915 sgg. Un volume chiaro e compendioso sulla civiltà antica è quello di F. Poland, E. Reisinger. R. Wagner, Die antike Kultur, 2a ed., Lipsia 1924 (trad. ital. di L.’Arditi. Firenze 1924). Molto utile anche, per una prima informazione, spe¬ cialmente bibliografica, è quello del Laurand. Manuel dee antiquitée grecques et latinee, 4a ed., in 3 voli., Parigi 1930. . . , Si veda anche: A. Grenier, Le genie romain dans la religion, la pensee et f art (coll. « Évolut. de PHuman. *), Parigi 1925; L. Homo, La civilisation romaine, Parigi 1930: T. Birt, Der Kulturleben der Griechen und Rómer in seiner Lntuncklung. Lipsia 1928; Th. Zielinski, Histoire de la civilisation antique, traduzione fran¬ cese, Parigi 1931. . Tutta la materia delle antichità romane si trova poi svolta, alle singole voci, nel Dictionnaire des antiquitée grecques et romaines, pubblicato da D arem ber G e Saglio in 9 volumi (Parigi 1877-1918), e nel Dizionario epigrafico di Antichiromane, fondato da E. De Ruggiero nel 1866 ed arrivato, fino ad ora, alla lettera « L ».
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TRATTATO
DI
BORIA
ROMANA
XI - Vis* sociale ed economica - A malgrado della scarsità di dati demografici per il mondo antico, si è tuttavia tentato da alcuni studiosi moderni di pre¬ sentare un quadro statistico delle popolazioni del mondo greco e romano: s’intende che i resultati di tali ricerche sono largamente approssimativi e in gran parte ipo¬ tetici. Fondamentali sull’argomento sono i lavori di K. J. Beloch, Die Bevòlkerung der griech.-rómischen Welt, Lipsia 1886, e di E. Cavaicinac, PopulcUion et capitai darvi le monde méditerranéen antique, Strasburgo 1923. Si veda pure, del Beloch, Die Bevòlkerung Itaiiens im Altertum, tradotto in italiano, unitamente all’opera ci¬ tata precedentemente, nella « Biblioteca di Storia economica » di V. Pareto (IV, 1909). Di grande importanza per la vita di Roma antica sono le opere di Tenne Y Frank, An economie history of Rome to thè end of thè Republic, Baltimore 1920, traduzione italiana, Firenze 1924; 2a ed., molto accresciuta, Baltimore 1927; An economie survey of ancient Rome, voi. I, Rome and Italy of thè Repubtic, Baltimore 1933. Si veda ancora, sul lavoro, le arti e mestieri, le professioni nell’età repubblicana: P. Louis, Le travail dans le monde romain, Parigi 1912; J. Toutain, L'économie antique (coll. « L’óvolution de l’Humanité »), Parigi 1927; Kuhn, De opificum Romanorum condizione, Halle 1910; J. P. Waltzing, Étude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains, depuis les origines jusqu'à la chute de l'Empire d Occident, Lovanio 1895—1900; V. Bandini, Appunti sulle corporazioni romane, Milano 1937; F. M. De Robertis, Il diritto associativo romano, dai collegi della Re¬ pubblica alle corporazioni del Basso Impero, Bari 1938; A. P. Torri, Le corporazioni romane, 2* ed., Roma 1941. Sulla schiavitù: E. Meyer, Die Sklaverei im Altertum, (« Kleine Schrifte ») I (1910), p. 169); H. Wallon, Histoire de Vesclavage dans l’an¬ tiquate, 2a ed., Parigi 1879; E. Cicootti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, Torino 1899. Sull’agricoltura, le industrie e i commerci: Max Weber, Die rómische Agrargesch.ichte in ihrer Bedeutung fùr das Staats-u. Privatrecht, Stoccarda 1891; K. J. Neumann, Die Grundherrschaft der ròm. Republik, die Bauernbefreiung und die Entwicklung der servianischen Verfassung. Strasburgo 1900; J. Kromayer, Die wirtschaftliche Etwicklung Itaiiens im 2. und 1. Jahrh. v. Chr., in « N. Jahrb. f. d. kl&ss. Alt.» (1914), p. 145 sg.; W. E. Heitland, Agricola, a study on agricultural life in thè graeco-roman world from thè point of view of labour, Cambridge 1921; G. Papasoqli, L'agricoltura degli Etruschi e dei Romani, Roma 1942; A. Oliva, La politica granaria di Roma antica dal 265 a. C. al 410 d. C., Piacenza 1930; A.’ W. Persson, Staat und Manifaktur im ròm. Reiche, Lund 1923; Ch. Dubois, Étude sur Vadministration et l’exploitation des carrières, Parigi 1909; O. Davies, Roman nvines Europe, Oxford 1935; M. P. Charlesworth, Prode routes and commerce, 2“«*'"> *>i villanoviani, con relativi problemi delle origini dell’una e dell’altra e dei reciproci rapporti Gli elementi archeologie, della questione debbono naturalmente vemr c^!derat! eom
BIBLIOGRAFIA
E
PROBLEMI
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giuntamente ai dati linguistici (esposti nel § 27 del testo): ci troviamo pertanto di fronte alle seguenti teorie. Sulla civiltà delle terramare sono state formulate due opposte tesi. La prima fa capo a G. Chierici, W. Helbig (op. cit.), L. Pigorini (in « Bull. It. Pai. » 1894, p. 77 sgg.) e identifica i terramaricoli con gli invasori arii (gli Italici indoeuropei), rima¬ nendo tuttavia incerta la sede originaria e la via d’accesso seguita dagli immigranti: ritengono i più che debba escludersi la Val d’Adige, dove la cultura terramaricola è arrivata evidentemente dalla pianura, e si debba pensare piuttosto ai passi delle Alpi Giulie o alla regione alpina dei laghi (Leqpold); quanto alla sede originaria, qualche paletnologo (Randall Mac Iver) guarda ancora all’oriente danubiano. La seconda tesi è quella di E. Brizio (La provenienza degli Etruschi, in « Atti deput. st. patr. per la prov. di Romagna », sez. 3®, III (1885), pp. 119 sgg.) e trova i suoi più recenti continuatori in U. Rollini e in G. Patroni (op. cit.): essa considera la civiltà terramaricola come una trasformazione, avvenuta in situ, della precedente civiltà neo-eneolitica e identifica gli Italici con gli inumatori rappresentanti di quella civiltà « appenninica », che ha il suo centro nelle regioni montuose dell’Italia centro¬ meridionale e lungo il versante adriatico, donde si diffonde progressivamente verso occidente. Questa tesi sembra ora preferibile anche a M. Pallottino (L'origine degli Etruschi, Roma 1947). Anche più complessa si presenta la questione dell’origine e della interpretazione etnica del « villanoviano », sulla quale esistono tre punti di vista fondamentali (secondo la classificazione del Pallottino, op. cit., p. 110 sgg.): o) I « villanoviani » sono i diretti discendenti dei crematori delle terramare, discesi a sud dell’Appennino, dove lasciarono le loro tracce nei sepolcreti di Pia¬ ne Ilo, di Timmari, eco., formando però un blocco compatto e fecondo soprattutto in Etruria. Questa è la teoria del Pigorini (terramaricoli - villanoviani = italici indoeuropei) e ha trovato in seguito sostenitori anche in coloro che individuarono nei terramaricoli—villanoviani gli Etruschi (vedi al § VI.) ' b) La cultura villanoviana non deriva per nulla da quella delle terramare ed è stata introdotta in Italia tra la fine dell’età del bronzo e la prima età del ferro da un’invasione etnica proveniente dalla regione danubiano-balcanica, o per via di terra o per via di mare attraverso l’Adriatico. Questi invasori sarebbero, secondo gli uni (Patroni), un-popolo indoeuropeo (Umbri ? Latini ?), secondo altri (Pottier, Ducati), gli antenati degli Etruschi. c) Il « villanoviano * è un prodotto locale resultante dagli influssi dei crematori della pianura padana commisti con le tradizioni più vetuste dell’Italia peninsulare, cioè con la civiltà appenninica (Hoemes, Patroni, Leopold). A queste tre teorie ne va aggiunta una quarta, la quale tiene conto della distin¬ zione linguistica che deve esser fatta tra i due gruppi di invasori arii, i LatinoSiculi, cioè, e gli Umbro—Oschi: in base a tale distinzione, F. von Duhn (op. cit.) ha suddiviso gli Indoeuropei in incineratori e inumanti, ritenendo questi ultimi discesi nella penisola circa un millennio dopo i primi (da identificarsi con i terramaricoliproto villanoviani). A questa tesi si è associato anche G. Devoto, Oli antichi Italici, Firenze 1931; 2a, ed., Firenze 1952, p. 34. Sul punto di vista linguistico del problema si veda anche: U. Rkllini, Il pro¬ blema degli Italici, in » N. Antol. », 1933, p. 71; G. Sergi, Da Alba Longa a Roma, Torino 1934; J. Whatmough, The foundation of Roman Italy, Londra 1936. Per la Sicilia: B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, I, I fattori etnici e sociali, Milano-Roma 1935. Una informazione completa degli elementi linguistici del problema si troverà nelle opere seguenti: R. S. Conway, The italic dialects, Cambridge 1897; J. What¬ mough, S. E. Johnson, R. S. Conway, Records of thè Prae-Italic dialects of Italy, 3 voli., Londra 1933; A. Meillet, Esquisse d'une histoire de la langue latine, 3» ed..
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TRATTATO DI
STORIA ROMANA
Parigi 1933; id., Introduction à l'hiatoire comparée des langues indo-europ., 7aed., Parigi 1934; A. Braun, Stratificazione dei linguaggi indoeuropei nell'Italia antica, in «Atti del R. Ist. Veneto di Scienze», XCIII (1933-4), p. 989 sgg.; G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940 (p. 37 sgg.). Per il lessico, A. Walde, Lateinisches Etymol. Wòrterbuch, 3a ed., a cura di J. B. Hoffmann, Heidelberg 1930; A. Ernout e A. Meillet, Dictionnaire étym. de la langue latine: histoire des mota, Parigi 1932. La presenza dei Siculi (2ixeXo(), non soltanto in Sicilia ma anche nell’estremo mezzogiorno della penisola, è testimoniata anche da Tucidide (VI, 2) e da Polibio (XII, 6, 2). Dubbia rimane la loro estensione verso la parte occidentale dell’isola, dove la tradizione storica greca conosceva il popolo degli Elimi e quello dei Sicani, al quale si attribuiva origine iberica (Antioco e Filisto) o che si considerava autoc¬ tono (Timeo). Nei dialetti dei popoli propriamente « italici » si distingue una varietà meri¬ dionale (sabellica o osca), nella quale rientrano i Sanniti e gran parte delle minori stirpi dell’Italia centrale, compresi i Sabini, e una varietà settentrionale (umbra). Alla prima varietà spettano vari documenti epigrafici del Sannio, della Campa¬ nia e- dell’Italia meridionale e centrale (come il cippo di Abella e la tavola enea di Bantia); ella seconda varietà spettano le iscrizioni dell’Umbria, come le tavo¬ le enee di Gubbio e la tavola di bronzo di Velletri. Intorno agli studi più recenti sui dialetti e le stirpi dell’Italia antica si veda P. Kretschmer e E. Vetter, in « Glotta », ^Gòttingen, XXVIII (1940), p. 255 sgg.; XXIX (1942), p. 205 sgg.; XXX (1943), p. 15 sgg., 84 sgg.; M. Parlottino, Popolazioni storiche dell'Italia antica (Guida allo studio della civiltà romana » fase. I), Roma 1947. Di grande utilità è il materiale raccolto e inventariato da F. von Duhn nel primo volume della sua opera Italische Oràberkunde, Heidelberg 1924; nel II voi., pubblicato postumo nel 1939 a cura di F. Messerschmidt, col titolo Italische Vdlkerkunde, è data gran parte alle discussioni relative ai problemi cronologici e alle origini etniche, con speciale riguardo ai popoli sui quali si è fatto sentire più intensa¬ mente 1 influsso illirico, come i Veneti, gli Iàpigi, i Piceni. Il Messerschmidt insi¬ ste anche sull importanza dei fattori « indigeni », cioè mediterranei, in confronto a quelli degli invasori « settentrionali », nel determinare l’aspetto delle culture sto¬ riche o protostoriche. Cfr. anche F. Altheim, Italien und Rom, Lipsia 1941.
XVt (cfr. il § 28) - Si sono enunciate nel testo le varie teorie che ora ten¬ gono il campo, intorno all’origine, alla provenienza, alla nazionalità degli Etruschi; sul nome dei quali ha pubblicato recentemente un saggio C. Schiassi, Il nome «Etruria», in « Antiquitas », I (1946), p. 66 sgg., sostenendo la tesi che così il toponimo « Etruria » come l’etnico « Etrusci » siano di formazione umbra, sorti in terreno etrusco o etruschizzante. Non è necessario insistere qui su una bibliografia particolareggiata di quanto si attiene agli Etruschi e aH’Etruria, dato che esistono sull’argomento opere recen¬ tissime e di facile consultazione: P. Ducati, Etruria antica, Torino-Milano 1927B. Nooara, Gli Etruschi e la loro civiltà, Milano 1933; P. Ducati, Le problème étrueque, Parigi 1938; M. Parlottino, Gli Etruschi, Roma 1939; P. Ducati, La formazione del popolo etrusco, Grosseto 1942; M. Parlottino, Etruscologia, Milano 1942; id.. L'origine degli Etruschi, Roma 1947; M. Renard, Initiation à VEtniscologie] Bruxelles 1943. Si veda anche la rassegna di A. Grenier, Les Etrusques et l'histoire primitive de VItalie, in « Rev. histor. » del 1936, oltre a quelle pubblicate negli « Studi Etruschi », e le Rassegne di Etruscologia di A. Neppi Modona, in « Historia ». Inoltre: G. Buonamici, Fonti di storia etnisca, tratte dagli autori classici, Firenze-Roma 1939; M. Parlottino, Epigrafia e lingua etnisca (rassegna), in « Doxa ». Ili (1950), p. 29 sgg.
BIBLIOGRAFIA E
PROBLEMI
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La elaborazione scientifica della questione etnisca si inizia con le opere classiche di K. O. Mìtller, Die Etrusker, 1828 (nuova edizione a cura del Deecke, Stuttgart 1877), e di Noel des Vergers, L'Etrurie et les Etrusques, Parigi 1862- 3. La teoria tradizionale della provenienza degli Etruschi dall’Oriente ha continuato a reclu¬ tare i suoi più convinti fautori tra gli archeologi; insieme col Brizio e col Ducati, fanno parte di questa schiera: H. Mìthlestein, Herkunft der Etrusker, I, Berlino 1929; F. Schachermeyr, Etruskische Fruhgeschiehte, Berlino 1929; W. Brandenstein, Die Herkunft der Etrusker, in « Alte Orient », XXXV (1937), fase. 3; G. Cultrera, in « Studi Etruschi», XI (1937), p. 57. L’ipotesi della provenienza degli Etruschi dal nord, avanzata dal Fréret, cominciò a venire esaminata in modo più concreto dopo la scoperta della civiltà terramaricola e villanoviana e lo Helbio (Sopra la provenienza degli Etruschi, in « Ann. dell’Instit. «, LVI (1884)) si pronun¬ ziò per la loro discendenza dai villanoviani e dai terramaricoli; questa tesi ha trovato, fra gli studiosi moderni, i suoi più convinti fautori soprattutto in G. De Sanotis (nella Storia dei Romani, voi. I) e in L. Pareti (Le origini etrusche, Firenze 192Q) ed è stata ancora accolta dallo scrivente in La repubblica romana, Milano 1937. Vedi ora Pareti, Storia di Roma, I p. 110 sgg. Mentre la tesi della provenienza orientale degli Etruschi si riallaccia alla tradi¬ zione greca, la teoria della loro provenienza dal nord con le antiche ondate di mi¬ gratori terramaricoli si richiama alla tradizione indigena degli Etruschi stessi, i quali si consideravano « autoctoni » nella regione da essi abitata in età storica. Quando noi parliamo di « autoctonia », ci riferiamo naturalmente, a differenza degli antichi, ad ima autoctonia relativa, più o meno antica, più o meno preistorica, più o meno identificabile con ima delle culture preistoriche testimoniate archeologicamente in un determinato territorio. La tesi «settentrionale» De Sanctis-Pareti è, in questo senso, anch’essa una tesi autoctonistica, in quanto identifica gli Etruschi coi mi¬ gratori terramaricoli-villanoviani discesi nella pianura del Po dai valichi delle Alpi centrali durante la civiltà del bronzo, ma li distingue dagli Italici indoeuropei, la cui venuta essa preferisce riconoscere nella discesa dei palafitticoli eneolitici. Ma c’è un’altra « autoctonia », che ha trovato e trova ora più numerosi fautori; ed è l’autoctonia degli Etruschi considerati come « Urvolk Italiens » (K. O. Mìtller), cioè come una delle popolazioni primitive dell’Italia: in tal senso si pronunziarono già U. von Wilamowitz e Ed. Meyer, il quale ultimo prospettò la possibilità che il nucleo fondamentale della popolazione storica etnisca fosse l’avanzo di uno strato etnico mediterraneo, come gli Elimi di Sicilia o i Baschi della Penisola Iberica. La teoria di un’alta autoctonia trova il suo appoggio principalmente nei dati linguistici: gli studi comparativi dell’antica toponomastica italiana e mediterranea hanno in¬ dividuato l’esistenza di un vasto strato linguistico preariò, riconoscendo, in Italia, evidenti affinità fra i caratteri del substrato, esteso a tutta la penisola, e i caratteri della lingua etnisca storica. In conseguenza di ciò, il significato della « non-indoeuropeità » o « mediterraneità » dell’etmsco non starebbe a significare ima immi¬ grazione etnica dall’oriente, ma indicherebbe la sopravvivenza locale, in area ri¬ stretta ed appartata, di un fondo etnico primitivo, originariamente assai più esteso: cosicché l’origine degli Etruschi andrebbe ricercata non in supposte immigrazioni protostoriche, ma piuttosto nello sviluppo delle primitive stirpi indigene, già stan¬ ziate in Italia nelle fasi più tarde dell’età della pietra (M. Pallottino). L’archeologo U. Antontelli (in « Studi Etr. », I (1927), p. 34 sgg.) riferì il fondo etnico della futura nazione etnisca all’ambiente della cultura eneolitica e attribuì invece agli Italici indoeuropei (secondo la interpretazione tradizionale dello Helbig e del Pigorini) la cultura dei crematoci terramaricoli—villanoviani, che si sovrap¬ posero ad esso tra la fine dell’età del bronzo e la prima età del ferro: gli Etruschi storici sarebbero il resultato di questa sovrapposizione degli invasori italici agli indigeni mediterranei
e della fusione di
questi con quelli.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
Questa teoria, più propriamente « autoctonistica », acutamente intraveduta da F. Ribezzo, fu accolta e sviluppata variamente da G. Devoto (Oli antichi Itàlici, p. 85 sgg., 2a ed. p. 54 sgg.; v. anche Protolatini e Tirreni, in «Studi Etr.», XVI (1942), p. 409 sgg.), da J. Sundwall, ( Villanovastudien, p. 112 sgg.), da C. Schuchhardt («Pràhistor. Zeitschr. », XVI [1935], p. 109 sgg.; Alteuropa, 3aed., p. 125 sgg.), daG. Q. Giglioli (L'arte etrusco, Milano 1935, p. XVII sgg.), da S. Mazzarino (Dalla monar¬ chia alla repubblica, p. 22 sgg.). Ma essa ha trovato ora la sua più compiuta ed esauriente elaborazione negli scritti recenti di M. Parlottino, e specialmente nel citato volume L'origine degli Etruschi, dove si cerca di dimostrare, con molti buoni argomenti, che la nazione e la civiltà etnisca non si possono intendere se non come il resultato di fattori etnici, politici, economici, culturali, che ebbero modo di con¬ vergere ed esplicarsi nell’Italia centrale al principio del I millennio a. C.; e sarebbe fuor di proposito parlare ;di « etruschi » prima che fosse giunto a compimento il prodotto del convergere e del confluire di tali fattori, come sarebbe improprio par¬ lare di nazione francese prima ch’essa fosse stata prodotta dal convergere dei fat¬ tori liguri, celti, romani e franchi. A questa teoria si allinea ora anche F. Altheim nel suo recente volume Der Ursprung der Etrusker, Baden-Baden 1950, nel quale si viene a riconoscere che non si può parlare di un originario popolo etrusco a sé stante, ma che il popolo etrusco storico è il resultato della convergenza di molte¬ plici fattori etnici e linguistici, conseguenza specialmente della fusione politica. Ricorderemo infine come sia tuttora in via di elaborazione una teoria che, pur riallacciandosi a quella della provenienza orientale degli Etruschi, tende a mettere in rapporto gli spostamenti e i vari stanziamenti di questo popolo con la ricerca e lo sfruttamento delle miniere di ferro: essi, i più antichi ed esperti conoscitori di questo metallo, della sua estrazione e della sua lavorazione, avrebbero intrapreso una quantità di migrazioni e di colonizzazioni « minerarie » nelle zone dalle quali arrivava notizia della scoperta del nuovo, prezioso elemento. È fra i più convinti sostenitori di questa teoria l’archeologo A. Minto (vedi Per ima carta archeologica sulle antiche coltivazioni minerarie del bacino del Mediterraneo, in « Studi Etr. » XX p. 303 sgg.). XVII (cfr. il § 29) - La lingua iapigia - o messapica - ci è nota da un nu¬ mero notevole di epigrafi, per lo più sacre, funerarie, votive o monetali, rinvenute specialmente nella penisola salentina e scritte in alfabeto greco; oltre che da parole riportate dagli scrittori antichi o da toponimi: ne ricaviamo l’evidenza dell’indoeuropeità di quella lingua, della sua netta differenza dagli idiomi italici e dei suoi rapporti con gli idiomi dell’Illiria e del Veneto; il che conferma la tradizione della provenienza degli Iàpigi dai Balcani attraverso l’Adriatico. Le iscrizioni messapiche sono state raccolte da F. Ribezzo, Corpus inscrìptionum messapicarum: vedi «Riv. indo-greco-ital. », VI (1922), p. 65, e cfr. F. Altheim, Messapus, in « Arch. fiir Religionswiss. », XXIX (1931), p. 22. Il problema della provenienza degli Iàpigi fu già affrontato da W. Helbig, Ueber die Herkunjt der Iapiger, in « Hermes » XI (1876), p. 257. Le iscrizioni venete sono ora studiate da J. Whatmough, New Venetic inscriptions from Este, in «Class. Philol. », XXIX (1934), p. 281. Sulle questioni illiriche in genere si veda C. Schttchhardt, Die Urillyrier und ihre Indogermanisierung, in « Abhandl. d. Preuss. Akad. der Wissensch. », 1937, n. 4.
XVIII (cfr. il § 30) — Un utile rassegna bibliografica sul Lazio antico è opera di A. W. van Buren, A bibliographical guide to Latium and southern Etruria, Roma 1933; si potrà consultare anche l’abbondante bibliografia, sistemata topografica¬ mente, nella Histoire de Rome del Piganiol, a p. 35 sg. Sul territorio del Lazio: R. Lanciani, Wanderings in thè Roman Campagna, Boston 1909; G. e F. Tomassetti, La Campagna Romana, 4 voli., Roma 1910-26; T. Ashby, The Roman Campagna in
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classìcal time, Londra 1927; G. Lugli, I santuari celebri del Lazio antico, Roma 1933. Sui « canali di drenaggio » Cunicoli), così frequenti nel Lazio e nell’Etruria meridionale, si veda P. Fraccaro, in « Bollett. della Soc. Geogr. Ital. », 1919, e in « Athen. » N. S., VI (1928), p. 278. Di grande utilità è la consultazione del¬ l’articolo Latium, in R. E. (J. Weiss), dello stesso articolo in Dizion. epigr. di ant. rom. (G. Vitucci), e delle voci Lazio (A. Almagià) e Latini (G. Cardinali) nella Enciclop, Ital., con abbondante bibliografia. Si veda anche la monografia di J. Carcopino, V ir gilè et les origines d'Ostie, Parigi 1919, e quella di L. E. W. Adams, A study in thè commerce of Latium from thè early iron age through thè sixth cent. B. C., Northhampton Mass., 1921. Singole località del Lazio sono studiate nei seguenti lavori: E. Panaitescu, Fi¬ de noe, in « Ephemeris Daco-Romana », II (1924), 416 -459; G. Florescu, Arida, ìbid.. Ili (1925); P. Fraccaro, La * tribus Veturia» ei Veturi Sabini, in «Athen.», IV (1926), 153-160 (che il territorio della tribù Veturia si estendesse a sud-ovest di Roma, in direzione di Ostia, è dimostrato anche dal frammento di un’orazione pronunciata da Catone nel 184/3 contro un L. Veturio). In modo tutto particolare dev’essere studiato il paese dei Falisci, di cui era capo¬ luogo l’oppido di Falerii: la civiltà e la lingua falisca sono infatti di tipo latino, ma vi sono associati elementi, spesso preponderanti, sabini ed etruschi. Vedi: W. Deecke, Die Falisker, Strasburgo 1888; L. A. Holland, The Fediscane in prehistoric iimes, in « Papera and monographs of thè Amer. Acad. in Rome », VI, 1925; G. Devoto, La lingua di Roma, p. 58; F. Ribezzo, Falisci e jalisco alla luce delle nuove iscrizioni di Civita Castellana, in « Riv. indo-gr.-itai. », XX (1936), fase. 3-4. Per le questioni relative alle origini di Roma sono particolarmente importanti i resultati degli scavi archeologici praticati nella zona: va ricordata, a questo pro¬ posito, l’attività spiegata, nel primo decennio del nostro secolo, da Giacomo Boni (vedi, specialmente per quanto riguarda le necropoli del Fòro, « Not. Scav. » 1903, 1905, 1906). Utili le rassegne di G. Pinza, Monumenti primitivi di Roma e del Lazio, in « Mon. Ant. Acc. Line. », XV (1905); Monumenti paleoetnologici raccolti nei Musei comunali, in «Bull, della Comm. Arch. di Roma», XL (1912), p. 15; Le vicende della zona esquilina fino al tempi di Augusto, ibid., XLII (1914), p. 117. Inoltre P. Romanelli, Le origini di Roma; i dati della ricerca archeologica, in « Capitolium » 1949, fase. V. I recenti scavi del Palatino sono illustrati nella pubblicazione di S. M. Puglisi, Oli abitatori primitivi del Palatino attraverso le testimonianze archeologiche e le nuove indagini stratigrafiche sul Qermalo, con capitoli aggiuntivi di P. Romanelli, A. Da vi¬ co, G. De angelis D’ossat, in « Mon. Ant. » XLI (1951), coll. 1-146 (è accertata la presenza di un abitato protostorico risalente alla fase della cultura del ferro con¬ temporanea delle più antiche tombe del Foro e la esistenza di un antichissimo borgo sul Palatino, preesistente alla inclusione della valle del Foro nell’area abitata; meno sicura è la conferma della esistenza sul Palatino di due distinti villaggi. I più antichi testi epigrafici latini, databili al III secolo a.C., si trovano riuniti nel¬ la pubblicazione di A. Ernout, Recueil de textes latine archaiques, 2a ed., Parigi. 1947; il più famoso di essi è il cosiddetto lapis niger, ima pietra in forma di piramide tronca, trovata ancora al suo posto, sul confine tra il « Comizio » ed il Foro, sulla quale è scolpita un’iscrizione contenente forse un regolamento relativo all’uso della necropoli esistente in quella zona: vi ricorrono più volte le parole di rex e di kalator. Si pensa che l’epigrafe risalga all’ultimo periodo dell’età regia, quando il Foro rimase incluso nella città e non fu più usato il cimitero. Sul « lapis niger » esiste un’abbondante bibliografìa; vedi, fra gli scritti più recenti: J. Stroux, Die Foruminschrift unter dem lapis niger, in « Klio », Beih. 14, 1932; V. Pisani, in « Rend. Acc. Lincei », Vili (1932), p. 735 sgg.; F. Ribezzo, in « Riv. indo-gr.ital »,
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XVII (1933), p. 735; P. G. Goidanich, in « Menti. Lincei », se. mor. stor., ser,. VII, III (1943), f. 7. Il Tenney Frank («Class. Phil. », XIV [1919], p. 87) ha osser¬ vato che la pietra del « lapis niger » proviene dal territorio veiente. A proposito della popolazione più antica della città, è da tener presente la teoria, assai diffusa, di un dualismo etnico della città primitiva, che sarebbe stata abitata da Latini e da Sabini. Tra i sostenitori di questa teoria ricordiamo U. Antonielli, Le origini di Roma alla luce delle scoperte archeologiche, in « Boll. Pai. It. » 1927, p. 166; A. Piganiol, Les origines de Rome, Parigi 1915; E. Tàubler, Terramare u. Rom, in « Sitzungsber. der Heid. Akad. d. Wiss. »* 1931-32; F. Ribezzo, Roma delle origiìù. Sabini e Sabelli, in « Riv. irtdo-gr.—it. », XIV (1930), p. 59; E. Ciaceri, Le origini di Roma, la monarchia e la prima fase dell'età repubblic., Milano 1937; J. Vogt, La repubblica romana, Bari 1939, p. 22. In realtà di questo dualismo etnico non v’è traccia nelle istituzioni e nella storia di Roma arcaica: tale teoria è stata unicamente suggerita dalla coesistenza nel Foro di una necropoli ad incinerazione con una necropoli di inumanti, ciò che ha fatto pensare che ai Latini (terramaricolivillanovani) incineratori si siano aggiunti i Sabini (italici del gruppo orientale, sabellico), inumanti per influsso illirico. Si è osservato, nel testo, quanto poco peso si debba dare al rito funebre come indizio etnico. Il Piganiol è andato anche più oltre nella Sua costruzione, riconoscendo i patrizi nell’elemento latino, i plebei nell’ele¬ mento sabino di Roma arcaica. Anche questa tesi non trova alcun sostegno nei dati di fatto a nostra cognizione; conosciamo famiglie patrizie con gentilizi sabini, ciò che attesta l’immigrazione in Roma di numerosi elementi sabini durante l’età regia e il più antico periodo della repubblica. Studi recenti sull’origine di Roma nella storia e nella leggenda: G. Cozzo, Il luogo primitivo di Roma, Roma 1936; A. W. Van Buren, Ancient Rome as revealed by recent discoveries, Londra 1936; P. Ducati, Come nacque Roma, Roma 1939; J. Bérard, L'histoire de Siris et la legende troyenne de Rome, in « Joum. des Sav. », avril-juin et juillei-sept. 1943; G. Lugli, Les débuts de la Romanité à la lumière des découvertes archéolog. modernes,in « Eranos », XLI (1943), p. 8 sgg.; P. Roma¬ nelli, Luoghi e monumenti della leggenda romulea, in « Quad. di Roma », II (1948), p. 381 sgg. (rassegna di studi recenti). La primitiva Roma quadrata fu un piccolo « oppidum » sul Palatino limitato da un recinto sacro (il pomerium), il cui tracciato si crede di poter riconoscere in un passo di Tacito, Ann. XII, 24. Perché « quadrata » ? Una nuova spiegazione di questo appellativo ha cercato di dare A. Szabo, Roma quadrata, in «Rhein. Mus.», LXXXVII (1938), p. 160 sg., spiegando «quadrata» non nel senso di quadratisch, ma di viergeteilt; sicché non vi sarebbe contraddizione conia notizia della forma cir¬ colare di Roma arcaica. La sistemazione territoriale dell’antico Lazio si trova studiata principalmente nel libro di J. Beloch, Der italische Bund under Rome Hegemonie, Lipsia 1880; nell’articolo Latium, in R. E. (M. Gelzer); e in uno studio di A. Rosenberg, Zur Qeschichte des Latinenbundes, in «Hermes», LIV (1919), p. 113 sg.
XIX (cfr. il § 31) - Per gli studi e le questioni relative ai popoli dell’Italia antica fino al sec. V a. C., rimandiamo ai §§ XV, XVI e XVII. Una sintesi panora¬ mica dell’argomento è quella di M. Pallottino, Popolazioni storiche dell'Italia an¬ tica, in « Guida allo studio della civiltà romana » di V. Ussani, fase. I, Romal946, p. 77 sgg. Ricorderemo ancora gli studi di F. Altheim sulle incisioni rupestri della Val Camonica (in « Die Welt als Geschichte », II (1936), p. 83, e in « Wòrter und Sachen », XIX (1938), p. 12); l’A. vi riscontra alcune affinità con la cultura di Novilara e le attribuisce agli Euganei. Inoltre: E. Curotto, Liguria antica, in «Atti Deput. Storia patria per la Ligur. », IV (1940). Sugli influssi illirici nell’Ita¬ lia centrale e la loro penetrazione attraverso il Piceno e gli Appennini, si vedano i
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contributi di G. Devoto, Illiri, Tirreni, Piceni, in « Studi Etr. », XI (1937), p. 263, e Illiri, Tirreni e Pannonia, ibid. 1938, p. 22; e di A. Mayer, Illyrisches, in « Zeitschrift fiir vergi. Sprachforschung aus dem Geb. der indogerra. Sprachen », LXVI (1939), p. 75. Una nutrita polemica si è svolta recentemente fra Clemente Merlo e Giovanni Patroni sulle questioni relative alle popolazioni dell’Italia antica, prima della roma¬ nizzazione della penisola: C. Merlo, Le popolazioni dell'Italia antica al tempo della conquista romana, in « Antiquitas », I (1946), 1, p. 5-10; Tracce di sostrato ligure nella regione che f u dei Leponzi: L'invasione dei Celti e le parlate odierne nell'Italia settentrionale, ibid. I, 2, pp. 74-80; Ancora intorno alle popolazioni dell'Italia antica al tempo della conquista rom., ibid., I, 3, pp. 1-7; G. Patroni, Intorno alle popolazioni dell'Italia preromana, ibid., I, 2, pp. 56-66. Il Merlo ha studiato le sopravvivenze delle parlate antiche nei dialetti odierni (cioè le alterazioni che i suoni latini su¬ birono nella bocca delle popolazioni dominate e incivilite da Roma, ricavandone la conclusione che la maggior parte dei Galli calati in Italia tra il \ e il I\ secolo non rimase nella Transpadana, ma prese stanza a sud del Po, restringendo in più angusti confini le genti liguri, e s’incuneò quindi fra gli Umbri e gli Etruschi, lungo l’alto Tevere, spingendosi fino a Cortona e Perugia; inoltre, che le caratteristiche del gruppo « italico » (osco-umbro) si riconoscono in tutti i dialetti italiani centromeridionali e se ne scorge la penetrazione, in progresso di tempo, nella stessa Roma; infine, che si può provare l’esistenza di substrati più o meno remoti, i quali dimo¬ strano che nella Irpinia, nelle Puglie, in Calabria, in Sicilia [?] gli Italici del Sannio sopraffecero e assorbirono genti affini a quelle che, in età preistorica, avevano preso stanza nella Sardegna e nella Corsica. Il Patroni, pur concordando in alcune delle conclusioni del Merlo, gli si oppone soprattutto per quanto concerne i * sostrati », o meglio, i * sul>—sostrati »: riconferma la sua teoria che non esiste un * ethnos » primitivo osco—umbro, ma solo ima civiltà locale derivata « in situ » da quella neolitica o « appenninica »; d’accordo col Sergi, riguarda gli Umbri dell’età del ferro come mediterranei incineranti, del pari che tutti gli Oschi; le tendenze fonetiche che avrebbero dato luogo alla formazione dell’osco—umbro, sarebbero « adriatiche », portate dal traffico dei barcaioli e dalla introduzione di donne dinariche come mogli. Sul problema etnico dei Sicani e degli Elimi è ritornato U. Kahrstedt, The Geschichte der Elymer, in « Wiirzburger Jahrbiich. fùr die Altertumswiss. », II (1947), pp. 16-32: il Kahrstedt si associa alla tesi dell’affinità etnica fra i due popoli, i quali si sarebbero poi differenziati, per l’influsso esercitato sugli Elimi, non dai coloni greci (come sosteneva il Pais), ma dai Cartaginesi; il Kahrstedt traccia quindi una breve storia degli Elimi, considerata in funzione della politica cartaginese nel¬ l’isola. XX (cfr. i §§ 32 e 33) - Come fonti specifiche per il periodo regio potremmo citare le leges regiae, raccolta di formule arcaiche note anche col nome di ius Papirianum, compilate però in età repubblicana: vedi J. Carcopino, Les prétendues loie royales, in « Mélanges d’arch. et d’hist. de l’éc. frani;, de Rome», LIV (1937), p. 344 sgg.; meglio ora U. Coli, Regnum, Roma 1951, p. Ili sgg. Si può anche ri¬ cordare che Esiodo (Theog. 1013) conosce un re latino abitante nel golfo formato dalle Isole Sacre, e che Stesicoro raccontava probabilmente, nella sua Iliou Persie, l’arrivo di Enea in Campania. Sulle pitture di Vulci e la tradizione etnisca su Mastama e Servio Tullio vedi: F. Monzer, Vibenna und Mastama, in * Rhein. Mus. », 1898, p. 607 sgg.; F. Messerschmidt, Nekropolen von Vulci, Berlino 1930. Per la leggenda di Romolo e Remo, è da tener conto della testimonianza offerta dal famoso gruppo della « lupa capito¬ lina »; vedi: E. Petersen, Lupa Capitolina, « Klio », Vili (1908), p. 440, e I (1909), p. 29; J. Carcopino, La louve du Capitole, Parigi 1925; E. Loewy, Quesiti
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intorno alla Lupa Capitolina, in « Sf. Etruschi », Vili (1934), p. 77. Cfr. E. StAong, La scultura romana da Augusto a Costantino, traduzione italiana, voi. I, Firenze 1923, p. 4 sgg. La più antica esposizione della tradizione relativa all’età dei re era quella di Fabio Pittore; noi la possediamo nelle versioni più tarde di Tito Livio, di Dioni¬ sio D’Alicarnasso e di Plutarco (nelle Vite di Romolo e di Numa) e nel II libro del De Republica di Cicerone. Studi essenziali sulla critica di questa tradizione sono; Th. Mommsen, Die Remuslegende, Qesammelte Schriften, IV (1881), 1; Die Tatiuslegende, ibid., IV, 22; S. Reinach, La legende de Tarpeia, in « Compt-rend. de l’Acad. des Inscr. », sept. 1907; Ch. Appleton, Trois épisodes de Vancienne histoìre de Rome: les Sabines, Lucrèce, Virginie, in « Rev. hist. de droit », 1924, p. 193. Nel testo è seguita in genere la critica di G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, p. 206 sgg. Un tentativo di riabilitare la tradizione sull’età regia, anche nei suoi particolari più problematici, è quello di E. Ciaceri, nella citata opera Le origir^i di Roma, Milano 1937. In un volume ora pubblicato (Regnum, estr. da * Studia et Documenta Historiae et Iuris », XVII), Roma 1951, U. Coli si sofferma a chiarire la nozione di « re¬ gnum », per desumerne il contenuto e il significato della monarchia romana, e sot¬ topone quindi ad una penetrante analisi tutta la tradizione relativa ad essa. Note¬ vole specialmente, dal punto di vista storico, è la posizione che il Coli prende, sulla questione della « monarchia etnisca » (p. 25 sgg.); egli ritiene che sia erroneo parlare di « conquista etnisca » di Roma, anche nel senso che un condottiero etru¬ sco si sia impadronito del trono della città; ma che, più semplicemente, si debba riconoscere che Roma, in questo periodo, ebbe dei re oriundi ex Etruscis, come ne aveva avuto in precedenza uno proveniente dalla sabina Curi o da Medullia. La tesi del Coli, se accolta, non ci porta del resto ad una ricostruzione dei fatti molto diversa da quella esposta nel testo: la elezione di un re appartenente ad una gens oriunda ex Etruscis sarà stata evidentemente la conseguenza della posizione di supre¬ mazia conquistata allora dagli Etruschi nel Lazio e del loro crescente influsso in tutte le città latine, e la presenza, per alcune generazioni, di monarchi di origine etnisca sul trono romano dovè evidentemente rendere più densa e frequente la penetrazione di elementi etnici e culturali nell’ambiente romano. Fra questi elementi il Coli addita il concetto stesso e le forme della arcaica greca, cioè della Città—Stato oligarchica: Servio Tullio ne sarebbe stato il legislatore, cui Roma dovè i primi ordinamenti democratici sotto la forma dell’organizzazione centuriata con¬ nessa con la tattica oplitica. Sulla scelta del Palatino come sede dei coloni albani venuti a stanziarsi sulla riva sinistra del Tevere, vedi L. Homo, Rome antique, Parigi 1921, p. 1 sgg.; id., L'Italie primitive, Parigi 1925, p. 93 sgg.; G. Giannelli, La repubblica romana, Milano 1937, p. 32 sgg. Quando e come la nuova città abbia assunto il nome di Roma, non è possibile determinare con sicurezza. Il De Sanctis, Op. cit., I, p. 190, preferiva richiamarsi all'etimologia proposta da W. Corssen (Ueber Aussprache, 2» ed., 1868), secondo la quale Roma (per Stroma, da rumori, jtrumon) significherebbe « la città del fiume »; altri si è richiamato alla voce ruma = mammella, nel significato del francese ma’ melon (v. B. Migliorini, Sull'origine del nome di Roma, in « Atti del I Congr. naz. di Studi rom. », II (1929), p. 427 sgg.). Ora si preferisce da alcuni ricondurre il nome di Roma al gentilizio etrusco « rumina »; a questa gente avrebbero apparte¬ nuto i monarchi etruschi della città (ma noi conosciamo come tali i Tarquini: sa¬ rebbero stati allora i « rumina » dei predecessori dei Tarquini ?). Un passo di Antistio Labeone (riprodotto da Festo, p. 458 Lindsay) conserva memoria di una festa, chiamatà Septimontium, che si celebrava in Roma ITI di¬ cembre di ogni anno sulle due vette del Palatino (Palazio e Gennaio), sull’adiacente
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Velia, sulle tre vette dell’Esquilino (Cispio, Oppio, Fagutale), sul Celio e nella Su¬ burra, aggiunta evidentemente più tardi ai sette « monti » primitivi. Si è ritenuto, e si ritiene ancora da molti (per es.: Beloch:, Róm. Geschichte, p. 202 sgg), che la solennità del Settimonzio stesse a ricordare uno stadio di ingrandimento della città di Roma, che starebbe in mezzo fra la Roma quadrata del Palatino e la cosiddetta « Città delle quattro regioni » del tempo degli ultimi re: questa tesi è stata confu¬ tata da G. De Sanctis, in « Riv. di Filol. », XXXI (1903), p. 113 sgg. (cfr. Storia dei Rom., I, p. 185), e il Graffunder (in R.E. I, A. col. 1018) ha chiamato la città settimonziale « eine Erfìndung deutscher Topographen ». Invece sarà da ve¬ dere nel Settimonzio non altro che una delle antiche Leghe latine, della quale facevano parte le due comunità albane stanziatesi sulle due vette del Palatino, an¬ cora prima che esse si fossero riunite in un unico oppidum, cioè nella Roma qua¬ drata. Per l’analisi della tradizione relativa ai sette re e la bibliografia sull’argomento vedi anche G. Giannelli, La repubblica romana, p. 42 sgg. Il più antico perimetro del territorio romano, a cui possiamo risalire, è quello indicato dal rito delle Ambarvalia, la cui processione percorreva, in età storica, un itinerario corrispondente evidentemente all’originaria frontiera dello Stato ro¬ mano: tale frontiera racchiudeva un territorio di circa 100 km*. Gli ingrandimenti successivi (dei quali ben pochi identificabili con qualche probabilità) portarono la superficie e i confini dello Stato a quelli indicati dal Beloch (Rmn. Geschichte, p. 170 sgg.) come i più probabili per i primi anni della repubblica. Il territorio dello Stato romano doveva coprire allora una superficie di circa 900 km*, superando no¬ tevolmente quelli di tutte le altre città latine. Sui successivi stadi d’ingrandimento della città, discussi in base ai resultati degli scavi archeologici, si veda: H. Jordan e Ch. Hulsen, Topographie der Stadi Rom im Altertum, Berlino 1878-1907; O. Richter, Topographie der Stadi Rom, 2a ed., Monaco 1911. Di utilissima consultazione sono: I. G. Scott, Early Roman traditions in thè light of archeology, in « Mem. Americ. Acad. in Rome », VII (1929); S. B. Platner e Th. Ashby, A topographie al dictionary of ancient Rome; Oxford 1929. Sugli scavi praticati nel territorio dell’antica città si potrà consultare R. Lan¬ ciami, Storia degli scotìi di Roma, Roma 1902 sgg.; A. W. van Buren, Ancient Rome 08 revealed by recent discoveries, Londra 1936. Molte discussioni ha sollevato il problema delle cosiddette « mura serviane»: esso è trattato specialmente nei due lavori di Gòsta Saflund, Le mura di Roma re¬ pubblicana: saggio di archeologia rom., Lund 1932, e di G. Lugli, Le mura di S. Tul¬ lio e le cosiddette mura serviane, in * Historia », VII (1933), p. 1 sgg.: il Saflund ritiene che il primitivo baluardo dell’età regia, cioè le mura serviane, consistesse di mia larga fossa fiancheggiata da un aggere alto circa 7 metri; invece il Lugli, pur ammettendo che le mura cosiddette serviane non possono essere che quelle costrui¬ te dopo il 390 a.C. — e precisamente nel 378, e restaurate probabilmente nel 352, come si ricava da Livio, VI 32, 1 e VI 20, 9 - non crede possibile ammettere che la città sia rimasta fino a quel tempo sprovvista di una cinta fortificata propria¬ mente detta e, dagli avanzi di mura giunti fino a noi, crede di poter concludere che l’Urbe era già, alla fine del VI secolo, munita di fortificazioni sui singoli colli, col¬ legate fra loro da tratti di mura, appositamente costruiti. Tutte le scoperte archeologiche spettanti al territorio dell antica città, fino alla fine del secolo passato, sono riportate sulle piante pubblicate da R. Lanciami, Forma urbis Romae, Milano 1893 sgg., e da C. Hulsen e Kiepert, Formae urbis Romae antiquae, Berlino 1896. ^ Sulle marche incise dagli scalpellini sui blocchi di pietra del TV secolo, vedi 1 en¬ ne y Frank, T'Ite letters of thè blocks of thè Servian wall, in « Amer. Journ. Phd. » 1924, p. 168. Sul tracciato del muro serviano tra l’Aventino e il Campidoglio, si
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veda: A. Piganiol, Origines du Forum Boarium, in « Mèi. d’arch. et d’hist. de l’École fr. de R. », XXIX (1909), p. 89; A. von Gerkan, Der Lauf der ròm. Stadtmauer vom Kapitol zum Aventin, in « Mitth. d. deutsch. Arch. Inst. », Ròm. Abt. », XLVI (1931), p. 153. Secondo i due autori ora citati, il porto primitivo di Roma sarebbe stato situato al Foro Boario: obiezioni a questa tesi nell’articolo del Gatti in « Boll. Comm. Arch. Com. di R. », LXII (1934), p. 123. Tutta la que¬ stione è riassunta largamente in Giannelli, Repubblica romana, pagina 68 sgg. Sull’ubicazione del ponte Sublicio ha studiato Margaret E. Hirst, The pone Sublicius and thè insula Tiberina, in «Papere of Br. Sch. at Rome», XIV (1938), pp. 137—151: il ponte Sublicio non sarebbe passato per l’isola Tiberina, a causa di un divieto di carattere religioso, per i culti ctonici ivi praticati. Una rassegna degli studi recenti (1939-49) sulla Topografia di Roma antica è quella pubblicata da F. Castagnoli in « Doxa », III (1950), p. 54 sg. Sull’origine e lo sviluppo dei più antichi ordinamenti sociali di Roma, si veda G. De Sanctis (Op. cit., I 224 sgg.) e G. Giannelli, La Repubblica romana, p. 51 sgg., che è seguita nel testo, specie per quanto riguarda l’origine delle tribù. A questo proposito, è utile richiamarsi alle conclusioni cui sono giunti G. De Sanctis e Ed. Meyer sull’origine delle fratrie, delle file e delle genti in Grecia, per le quali ri¬ mando al mio Trattato di Storia greca, p. 166 sgg. Sulle tribù e sulle curie si potrà consultare: E. Taubler, Die umbrisch-sabelliechen u. die ròmischen Tribus, « Sitzungsber. d. Heidelb. Akad. der Wiss. », XX (1929-30), fase. 4; A. Momigliano, Tribù umbro-gabelle e tribù romane, « Boll. Comm. Arch. Com. di R. » 1933, p. 228; W. Peremans, Note sur les tribus et curies de la Rome pri¬ mitive, « Antiq. class.», V (1936). Sulle genti e il primitivo diritto gentilizio romano, si ricordi che l’uso del nomen, come indicazione dell’appartenenza dell’individuo ad una gente, è caratteristico anche degli Oschi: dagli Oschi o dai Latini passò poi anche agli Etruschi. Si veda A. Fabietti, Dei nomi personali presso i popoli dell’Italia antica, in « Mem. dell’Acc. Se. diTor. », sez. II, voi. XX (1863), p. 2a, p. 69 sgg.; Mommsen, Ròm. Forschungen, I» 1 sgg.; W. Schulze, Zur Oeschichte lat. Eigennamen, Berlino 1904; G. Cornil, Ancien droit romain, Parigi 1930; H. Lévy-Brtthx, Quelques problèmes du très ancien droit romain (essai de Solutions sociologiques), Parigi 1934. Fra le teorie che hanno trovato più seguito, intorno alla differenziazione fra pa¬ trizi e plebei, si è ricordata quella (vedi al § XVTII) che considera le due classi so¬ ciali come rappresentanti di due diversi elementi etnici costitutivi della originaria cittadinanza romana: i Latini e i Sabini. Questa duplicità etnica della popolazione di Roma antica è per altro assai problematica, e in ogni modo anche coloro che 1 ammettono, non sono più del parere che essa si riflettesse nelle due classi di cit¬ tadini ed è del resto evidente che troviamo nomi sabini così tra le genti patrizie come tra quelle plebee. Cfr. Vogt, Repubblica romana, p. 28; Piganiol, Histoire de Rome, p. 46; cfr. p. 56, ove il Piganiol riconosce il peso del fattore economico, ac¬ canto a quello etnico, nel dualismo fra patrizi e plebei. Su tale questione sono in ogni modo da consultare: J. Binder, Die Plebe; Studien zur ròm. Rechtsgeschichte, Lipsia, 1909, cui corrisponde lo studio di G. Bloch, La plèbe romaine: essai sur quel¬ ques théories recentes, in « Rev. HisL », CVI (1911), p. 241 e CVII (1911), p. 1; inol¬ tre: A. Rosenberg, Studien zur Entstehung der Plebe, in « Hermes », XLVIII (1913), p. 359; H. J. Rose, Patricians and plebeians at Rome, in « Journ. Rom. Stud. », XII (1922), p. 106; W. Peremans, Over de romeinsche Plebe, in « Philol. Stud.»' Louvain, V (1933-34), p. 227. Vertono su argomenti particolari gli studi seguenti: P. Guiraud, Proprietà primi¬ tive à Rome, « Rev. Ét. anc. », VT (1903), p. 221; Warde Fowler, Confarreatio, in « Journ. Rom. Stud. », 1916, p. 185; P. Collinet, Vestiges de la solidarité familiale dans le droit romain, in « Mèi. Glotz », p. 249; E. Benveniste, Le nom de Tesclave
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d Rome, « Rev. étud. lat. », 1932, p. 429; id., Liber et liberi, ibid. XIV (1936), p. 51; L. Zancan, Lo teoria gentilizia e il concetto della cittadinanza romana, « Atti R. Ist. Veneto», XCV (1936), p. 117. Per l’origine della clientela si veda specialmente Mommsen, Róm. Forschungen, I, p. 354 sgg.; C. J. Neumann, Die Grundherrschaft der róm. Republik, die Bauernbejreiung und die Entstehung der servianischen Verfassung, Strasburgo 1900; W. Soltau, Grundherrschaft und Klientel in Rom, in « N. Jahrbiich. fur Philol. », XXIX (1912), p. 489; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, p. 226 sgg.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 4* ed., Torino 1934, I, 67 sgg.; V. Arangio-Ruiz, in Enc. Ital., X, 587. Sul senato romano nell’età dei re è sempre utile la consultazione delle due classiche opere, per quanto antiquate: G. Bloch, Lee origines du sénat romain, Parigi 1883; P. Willems, Le sénat de la repub. rom., 2& ed., Parigi 1885. Recentemente P. Me¬ loni, Tre note sulla storia del senato regio (in « Ann. della Fac. di Lett. e Filos. dell’Univ. di Cagliari », XV, 1948) ha studiato la questione del numero dei senatori, le modalità del primo interregno e le tradizioni relative all’ammissione dèlia plebe nel senato, concludendo in favore della tradizione conservata in Dionisio, secondo la quale, all’inizio della repubblica, furono immesse nel patriziato nuove genti ple¬ bee, com’era avvenuto al tempo di Tarquinio Prisco. Le conclusioni del fecondo studio di P. Fraccaro (La storia dell'antichissimo eser¬ cito romano e l'età dell'ordinamento centuriato, in « Atti del 2° Congr. naz. di St. rom. », III [1931], pp. 91-97) sono, a mio parere, solo in parte accettabili: ne sarà discusso più oltre (vedi G. Giannelli, Origini e sviluppi dell'ordinamento centuriato, in «Atene e Roma», XXXVII (1935), p. 229 sgg. Una felicesintesi dei resultati degli studi recenti sull’ultimo periodo dell’età regia fu scritta da G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquini, in «N. Antol.», 16, Vili (1936). XXI (cfr. i §§ 34—40) - La sintesi di storia e di civiltà etrusca esposta nei citati paragrafi del testo è condotta specialmente sui seguenti lavori: P. Ducati, Etruria antica, Torino-Milano 1927; P. Ducati, L. Pareti, G. Devoto, voce Etru¬ schi, in « Enc. Ital. », XIV (1932), p. 510 sgg.; M. Pallottino, Gli Etruschi, Roma 1939; id.. Etruscologi, Milano 1942; L. Pareti, La disunione degli Etruschi, in «Rendic. Pont. Acc. di Arch. », 1931. Sulla storia degli Etruschi e i loro rapporti con Roma si veda anche: R. A. L. Fell, Etruria and Rome, Cambridge 1924; id., in « St. etr. », II (1928); F. Leifer, Studien zum antiken Aemterwesen, I, Lipsia 1931; A. Rosenberg, DerStaatder alten Italiker, Berlino 1913. La data della battaglia di Aricia si desume dalla tradizione greca, che si riflette in Dionisio d’Alicamasso (VII, 3, 11); gli annalisti romani posticipavano la battaglia, riferendola ai primi anni dopo la caduta della monarchia, aggiungendo che gli Etnischi erano capitanati da Arunte, figlio di Porsenna (Dion., V 36; Livio, II 14) e che essa era stata combattuta dopo la pace fra Porsenna e i Romani. Ma noi non abbiamo nes¬ suna notizia sicura dei rapporti di Porsenna con Roma, all’infuori del racconto tra¬ dizionale; e del resto, in qualunque modo si voglia interpretare la tradizione, non vi sono difficoltà cronologiche ad ammettere che alcuni anni prima un esercito etni¬ sco, comandato da un figlio di Porsenna, abbia combattuto ad Aricia contro Latini e Cumani. Vedi Giannelli, Rep. rom., p. 91. Per la topografia dell’Etruria è essenziale A. Solari, Topografia storica dell'Etruria, Pisa 1918. Lavori recenti sonostati dedicati alle città di Tarquinia (M. Pallottino, in « Mon. Ant. Acc. Line. », XXXVI [1937]), e di Perugia: L. Banti (Contributi alla storia ed alla topografia del territorio perugino, in « St. Etr. », X [1936], p. 97 Sgg.) ha studiato particolarmente l’origine di Perugia, la storia dei riti funebri e retruschizzazione di questo centro; ChXndler Shaw (Etruscan Perugia, « The J. Hopkins Univ. Studies in Archaeol. », n. 28, Baltimora 1939) ha studiato special-
li - OUNNEiM, Trattato di Storia romana - l
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TRATTATO DI 8TORIA
ROMANA
mente il periodo posteriore al IV secolo, rilevando il grande interesse che presentò l’età fra il 180 e l’80 a.C. Della stessa A. si veda anche Luni, Firenze, Ist. di Studi Etruschi, 1937. Sui confini etrusco-liguri si veda il saggio di N. Lamboglia, in «St. Etr. », X (1936), p. 137. Le epigrafi etnische si trovano riunite nel Corpus Inscriptionum Etruscarum, che si cominciò a pubblicare a Lipsia nel 1893; nel 1936 fu pubblicato il fase. 3° del voi. II; un voi. di suppl. fu pubblicato nel 1919-21. Si veda: G. Buonamici, Epi¬ grafia etrusco, Firenze 1932; A. Trombetti, La lingua etrusco, 1928; G. Buonamici. Epigrafia etrusco, saggi e materiali, Firenze 1932; M. Pallottino, Elementi di lingua etrusco, Firenze 1936; E. Goldmann, Neue Beitràge zur Lehre vom Indogerm. Charakter der Etrusk. Sprache, Vienna 1936; E.Vetter, Etruskische Wortdeutungen, I, Vienna 1937. A Civita Castellana (l’antica Faleri) sono state scoperte recentemente altre iscri¬ zioni falische, databili forse al VII secolo a.C.; sono state pubblicate da Q. Q. Giolioli, in « N. S. » 1936, p. 238, e studiate da E. Vetter, Die neuen falisk. Oefàssinschr., « Glotta », XXVII (1939), p. 145 sgg. Per i nomi di persona etnischi, si consulterà W. Schulze, Zur Oeschichte ìatein. Eigennamen, in « Abhandl. der Gesellsch. der Wiss. zur Gòtt. », VII (1904), p. 4 sgg.; sui rapporti fra gli Etruschi e la Rezia, J. Whatmough, Tusca origo Raetis, in « Harward stud. in class, philol. », XLVIII (1937), p. 181. Gli studi sulle origini dell’alfabeto etrusco hanno ricevuto nuovo impulso dalla scoperta dell’alfabeto di Marsiliana d’Albegna, della prima metà del VII secolo a.C., che è stato ritenuto proveniente direttamente dall'Oriente greco e non da Clima. Si veda: A. Grenter, L'alphabet de Marsiliana et les origines de l'écriture à Rome in « Mèi. d’arch. et d’hist. de l’éc. frarnj. de R. » 1924, p. 1 sgg.; B. Nogara, Le signe 8 de l'alphabet étr., « Dissert. della Pont. Acc. di Arch. », XIV (1919), p. 300; B. L. Ullmann, The Etruscan origin of thè Roman alphabet and thè names of thè lettere, in «Class. Philol.», XXII (1927). Sulla vita privata e la religione degli Etruschi: A. Solari, Vita pubblica e privata degli Etruschi, Firenze 1931; F. Altheim, Die Stellung der Frau in Etrurien, ap¬ pendice alla già citata opera Epochen der rdm. Oesch.; C. Clemen, Die Religion der Etrusker, Bonn 1936; A. Grenier, Les religione étrusque et romaine, Parigi 1948. Trattano aspetti particolari della religione etnisca; C. O. Thulin, Die etruskische Disziplin, 3 voli., Goteborg 1906-9; L. Ross Taylor, Locaicults in Etruria, «Pa¬ pera and monogr. of thè Amer. Ac. in R. », II (1923). Per l’arte etnisca è fondamentale Pi Ducati, Storia dell'arte etrusco, 2 voli., Fi¬ renze 1928. Sull’architettura in particolare si veda: G. Patroni, La struttura a cu¬ pola in Etruria, in « Klio », XXIII (1930), p. 433 sgg.; G. Raro, Altetrusk. Baukunst, in « Die Antike », I (1925), p. 213 sgg. Per la scultura sono importanti i due cataloghi: A. Rumpf, Katalog der etruskischen Skulpturen (Staatliche Museen zu Berlin), Berlino 1928; F, N. Pryce, Catalogne of sculptures of thè British Museum (I 2, Chypriote and Etruscan), Londra 1931; si veda poi: G. Haufmann, Altetrusk. Plastik, I, Wiirzburg 1936. Sulla pittura: F. Weege, Etruskische Molerei, Halle 1921; F. Poulsen, Etruscan tomb paintings, their subjects apd significance, Oxford 1922; F. Mes8Ersohmidt, Beitràge zur Chronologie der etruskischen Wandmalerei, Ohlau 1928; L. Branzani, Le pitture murali degli Etruschi, in « St. Etr. », VII (1933), p. 335. Sull’arte industriale: Gis. Richter, Oreek, Struse, and Roman bronzes, New York 1915; id., Etruscan terracotta warriors in thè Metropolitan Mus. of Art, New York 1937; Gerhard, Etrusk. Spiegel, Berlino 1839-1866; A. Furtwangler, Ani. Oemmen, III, Lipsia-Berlino 1900.
XXII (cfr. §§ 41-45) - Per quanto concerne le colonie greche nella Magna Grecia e in Sicilia, la loro storia e la loro cultura e la relativa bibliografìa, rimando
BIBLIOGRAFIA
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al mio Trattato di Storia greca, specialmente, per quanto riguarda la colonizzazione in Occidente, ai §§ 58 e XIII. Si indica qui in ogni modo la bibliografia essenziale: A. W. Byvanck, De M. Oraeciae historia antiquissima, L’Aia 1912; E. Pais, Italia antica: ricerche di storia e geografìa storica, Bologna 1922; G. Giannelli, Culti e Miti della Magna Grecia. Contributo alla storia più antica delle colonie greche in Occi¬ dente, Firenze 1924; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I-III, Milano 1927-32; A. Olivieri, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli 1931; G. Libertini, G. Pa¬ ladino, Storia della Sicilia dai tempi più antichi ai nostri giorni, Catania 1933; B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, I—II, Milano 1935*38, III (1940), oltre alle voci Magna Grecia (voi. XXI, p. 909) e Sicilia (voi. XXXI, p. 654), in Enciclop. Ital. Di notevole interesse è il lavoro di A. W. Byvanck, Untersuchungen zur Chronologie der Funde in Italien aus den Vili u. VII vorchristl. Jah/rhund., in « Mnem. », 3a ser., IV (1937), p. 181 sgg., in cui l’A. ha tentato di ricostruire ima cronologia parallela delle più. antiche colonie greche e delle più antiche tombe etnische. Si consulterà con profitto anche lo studio di R. L. Beaumont, Greek infludnce in thè Adriatic, in « Journ. Hell. Stud. », LVI (1936), p. 159 sgg. Recente è il saggio di P. Wuilleumier, Tacente, des origines à la conquète romaine, Parigi 1939. Per la stòria della Magna Grecia nel V secolo si veda specialmente: U. Kahrstedt, Zur Geschichte Grossgriechenlands im V Jahrhund., «Hermes», LIII (1918), p. 180 sgg.; J. Delatte, Essai sur la politique pythagyricienne, Liegi-Parigi 1922; G. Giannelli. La Magna Grecia da Pitagora a Pirro, Milano 1928. Sulla storia più antica dei Bruzi, vedi G. Giannellx, Culti e Miti della Magna Grecia, p. 336 sgg.: vari indizi inducono a credere che l’influsso degli indigeni prearii abbia agito potentemente prima sulla cultura dei Siculi, poi su quella degli Oschi, inoltratisi in questo estremo lembo della penisola. Sui rapporti fra Cartaginesi ed Etruschi, vedi L. Pareti, Una stazione cartagi¬ nese a S. Marinella, in «Idea», settim. di coltura, Roma II (1950), n. 6, p. 4. I testi dei trattati fra Roma e Cartagine, conservati da Polibio, III, 22 sgg.,rap» presentano i più antichi documenti d’archivio della storia romana ed hanno dato luogo a notevoli discussioni: quanti furono essi e qual’è la loro cronologia ? Polibio ricorda che fra le due città fu concluso un primo trattato sotto i consoli del primo anno della repubblica, diciamo dunque nel 508 a.C.; continua ricordando un secondo trattato del quale dà il testo, come del primo, ma non la data (HI, 23-25): conc ide col ricordare che un terzo trattato - vero e proprio trattato d’alleanza, queste fu stipulato in occasione della guerra contro Pirro, nel 279 a.C. Diodoro (XVI, 6J accenna per la prima volta ad un trattato fra Cartagine e Roma tra gli avvenimenti dell’anno 348. Infine Livio ricorda anch’egli per la prima volta un trattato fra Roma e Cartagine all’anno 348 a.C. (VII, 27), ma più oltre (al cap. 43 del libro IX), all’anno 306, alludendo ad un rinnovamento di questo trattato, si esprime cosi: « et cum Carthaginiensibus tertio foedus renovatum est ». Tali indicazioni contra¬ stanti — ma solo apparentemente contrastanti — delle fonti hanno ingenerato una vivace polemica su tale questione fra gli studiosi dei nostri tempi. Nel secolo passato ebbe largo seguito l’opinione del Mommsen, il quale insegnava che, movendo da Diodoro e da Livio, si dovesse riguardare come il primo trattato veramente storico quello del 348 e che l’altro riferito da Polibio, in buona o in mala fede, come assai più antico di questo, era da ritenersi senz’altro falso. Ripresa più tardi la discussione, non parve in generale che si potesse aderire alla tesi del Mommsen: il testo stesso di Polibio e ciò che noi sappiamo del modo di lavorare di questo sto¬ rico ci impedisce di ammettere, sic et simpliciter, una svista o un inganno così pacchiani (e senza scopo, del resto) da parte sua; d’altra parte, il silenzio di Diodoro non significa nulla, trattandosi, per il suo genere di esposizione storica, di fatti di secondarissima importanza e che egli cita solo quando gli se ne presenta l’ocea-
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TRATTATO
DI STORIA ROMANA
sione; ed anche meno significa il silenzio di Tito Livio, contraddetto da Livio stesso, quando afferma di sapere che le convenzioni con Cartagine si sottoscrissero per la terza volta nel 306. Ecco perché fra gli studiosi più vicini a noi non si fa più que¬ stione dell’esistenza di un trattato anteriore al 348; si fa questione invece della sua data, ritenendosi dai più che non si possa accettare quella, indicata da Polibio, del primo anno della repubblica. Così, mentre il De Sanctis rimane, nella Storia dei Romani (II, pp. 251 sgg.), ancora aderente alla tesi del Mommsen, e uno stu¬ dioso francese, il Piganiod (in « Musée Belge », XXVII, 1923, p. 177 sgg.) ha pro¬ posto addirittura di ritardare la data del primo trattato di Polibio al 328 a.C., il Costanzi (in « R. Fil. Class. », LUI, 1925, p. 381 sgg.) ha illustrato gli argomenti per i quali il trattato stesso dovrebbe riferirsi alla fine del V o al principio del IV secolo: e le conclusioni del Costanzi furono accolte anche dal Beloch (Ròm. Gesch., pp. 308 sgg.) e, più recentemente, da W. Hoffmakn (Rom und die griech. Welt im 4 Jahrh., Lipsia 1934). In tutta la questione la critica moderna ha proce¬ duto in base al preconcetto, che le condizioni di Roma e del Lazio prospettate nel testo polibiano non convengono allo stato di fatto della fine del VI secolo. In realtà noi, delle condizioni del Lazio di fronte a Roma, in questo tempo, non sappiamo nulla; ed è strano che, trovandoci di fronte a un documento che illumina qualche poco la nostra ignoranza su questo punto, preferiamo il buio della nostra ignoranza alla luce del documento. Se il trattato fu stipulato al principio della repubblica e segnato coi nomi dei primi consoli, si dovrà pensare — com’è stato di recente felicemente suggerito da H. Last e da E. Ciaceri — ch’esso ri¬ specchi e ripeta convenzioni e patti intervenuti fra Roma e Cartagine, quando ancora l’ultimo re, un re etrusco, era a capo dello Stato romano e ne inquadrava la politica estera in quella delle altre città etnische. Il secondo trattato rispecchia poi veramente la situazione politica del Lazio alla metà del IV secolo: si osservi, fra l’altro, che non vi è considerata l’incorporazione della Campania nello Stato romano, avvenuta nel 338. Torna qui a proposito richiamare l’osservazione del Pare¬ ti (a p. 58 del voi. I della Storia di Roma), sull’errore che comunemente si commet¬ te, di considerare lo sviluppo territoriale di Roma come rettilineo, mentre la storia di Roma nei primi secoli fu tutta una serie di » alti e bassi » , di rapide espansio¬ ni seguite da repentini tracolli. Ad integrazione di quanto è stato detto sopra sulle questioni relative ai trattati romano-punici, aggiungiamo qui le seguenti indicazioni bibliografiche: A. Pirro, Il primo trattato fra Roma e Cartagine, Roma 1892; P. Schachermàyb, Die ròm. punischen Vertràge (in « Rhein. Mus. », LXXIX, 1930), p. 350 sgg.; E. Ciaceri, in «Atti R. Acc. Archeol. Belle Lett. e Arti di Napoli », N. S. XII (1931), p. 295 sgg.; E. Kornemann, in « Histor. Zeitschr. », CXLV (1932), p. 298 sgg.; L. Wickert, Zur den Karthagervertràgen, in « Klio », XXXI (1938), p. 349-64 (accetta la cronologia polibiana del primo trattato); R. C. Beaumont, The date of thè firat treaty between Rome and Carthage, in « Journ. Rom. St. », XXIX (1939), p. 74 sg.; M. Luisa Scevola, Una testimonianza trascurata di Livio sul più antico trattato romano -cartaginese, in « Athenaeum », N. S., XXI (1943), p. 122 sgg. (da Livio IX, 19, 13 si deduce che lo storico conosce un trattato più antico di quello del 348 e, dunque, evidentemente, quello del 509/8 attestato da Polibio). Vedi anche Pareti, Storia di Roma, I, p. 330 ^gg. Sul costituirsi e l’avvicendarsi di un equilibrio di Potenze nel Mediterraneo occi¬ dentale ha scritto pagine veramente nuove ed essenziali S. Mazzarino, Introduzionealle Guerre Puniche, Catania 1947, p. 20 sgg.: il principio del V secolo vede il costi¬ tuirsi di unità territoriali precisamente delimitate, nell’ambito delle quali si eser¬ cita un diritto di esclusivismo mercantile e « imperiale »; per quanto riguarda Cartagine, questa unità territoriale contempla: « eparchia » africana, fino all’ara dei Fileni; eparchia siciliana variamente delimitata; eparchia di Sardegna; eparchia
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di Spagna, limitata a nord dalla zona dove poi sorgerà Cartagena. Si veda anche, a p. 29 sgg. dello stesso volume, l’acuta analisi dei successivi trattati stipulati tra Cartagine e Siracusa dopo le ripetute guerre fra le due città. Sugli elementi indigeni nella civiltà italiota e siceliota, gli argomenti che il Ciaceri e il Pace hanno portato a sostegno delle loro tesi - che coincidono, natural¬ mente, in una sola - sono tali da lasciare ben pochi dubbi sull’evidenza di esse; quando però si sia sgombrata la mente da un’obiezione che si affaccia dinanzi a chiunque consideri attentamente il problema e che né il Ciaceri né il Pace, a quel che mi consta, si sono posti. Anzi, sono proprio certe considerazioni e certi raffron¬ ti del Pace che la suggeriscono a chi non se la fosse ancora formulatada sé. Questi infatti viene portato naturalmente, in alcune pagine della sua opera (Voi. I, p. 268), a ravvicinare la sostanziale diversità e la peculiare individualità della civiltà sice¬ liota rispetto alla civiltà greca in genere, al caratteristico aspetto della vita e della cultura nord-americana nei confronti con quella inglese della madre patria. Là, nel Nord-America - osserva il Pace - gli spazi sconfinati e liberi aperti alle più audaci iniziative, il rapido formarsi di grandi ricchezze, la lontananza dell’Eu¬ ropa e il concretarsi dell’indipendenza politica, prima soltanto di fatto, poi anche formale, hanno contribuito a differenziare la nuova società da quella europea; hanno provocato il sorgere, da un vasto e molteplice miscuglio di elementi umani, del tipo nuovo del moderno Yankee e, con esso, di ima nazionalità americana, con atteggia¬ menti suoi propri autonomi nei riguardi della metropoli anglosassone e con civiltà e manifestazioni spirituali di contenuto essenzialmente diverso. Tale ravvicinamento appare in realtà assai a proposito; ed ancora di più, appli¬ cato alla Magna Grecia. Qui, nel mezzogiorno d’Italia, anche più che in Sicilia, l’« ambiente coloniale» presentava agli immigrati greci condizioni di vita sostan¬ zialmente diverse da quelle lasciate in patria: qui le vaste pianure irrigate da fiumi doviziosi di acque e fecondi di messi; qui i boschi distesi sulle pendici dei monti; qui i facili approdi alle foci dei corsi d’acqua; qui l’ampio spazio non conteso da una esuberante popolazione e concedente libertà di respiro e di movimento ai nuovi venuti (forse non ancora afflitti, nei primi secoli dopo il loro arrivo, dall’epidemia malarica, almeno nella grave misura nella quale essa infierì più tardi). Ma appunto, il ravvicinamento di questi due processi storici, ognun vede dove ci condurrebbe: ad eliminare da quello di questi processi a noi meno noto il fattore umano indigeno, così com’esso è completamente assente da quello che ben conosciamo e possiamo analizzare e ricostruire in tutti i suoi elementi e nelle sue fasi; perché nessuno vorrà sostenere che alla costituzione di una civiltà « yankee » abbiano in qualche modo contribuito le tribù di pellirosse con le quali vennero in contatto i colonizzatori europei del Nord-America. Il richiamo dunque alla civiltà americana, caratteristica ed autonoma di fronte a quella della metropoli, non comporta l’affermazione della presenza di un preva¬ lente elemento indigeno nella civiltà italiota e siceliota, ma rappresenta anzi la più forte obiezione contro di essa: obiezione che può invece essere superata con altri argomenti. Prima di tutto con la considerazione che la differenza di « ambiente geografico » tra la Grecia e le contrade della Sicilia e dell’Italia meridionale non è affatto così profonda e sostanziale come quella che corre tra i paesi dell’Europa occidentale e l’America del Nord; differenze su per giù dello stesso genere e dello stesso peso esistevano tra la Grecia propria e le regioni coloniali dell’Asia Minore o del Ponto Eussino, nelle quali non si sviluppò affatto una civiltà spiritualmente diversa da quella greca. In secondo luogo, la nostra attenzione è richiamata dal fatto che le due civiltà, la italiota e la siceliota, hanno comuni alcuni dei loro aspetti più caratteristici, come comune appuntò fu il sostrato etnico dal quale esse ne at¬ tinsero gli elementi sostanziali: le popolazioni, cioè, degli Enotri e dei Siculi, appar¬ tenenti a quella prima ondata indoeuropea che portò nella nostra penisola i Latini.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
E la riprova del valore di questo argomento ci è fornita dall osservazione che la culla della civiltà italiota, cioè la zona d’origine di tutti i suoi motivi più. peculiari, ci resulta essere stata proprio la regione occidentale della Magna Grecia, quella appunto che i Greci trovarono occupata dagli Enotrt di stirpe latino—sicula e dove essi fondarono le città di Sibari, di Crotone, di Locri, di Caulonia, di Temesa, di Posidonia. Sull’origine greca della dea Vesta e sugli elementi greci del suo culto a Roma, vedi G. GiannbIìLI, II Sacerdozio delle Vestali, Firenze 1913. Particolarmente, sugli influssi italioti e sicelioti presso le popolazioni osche, latine ed etnische, vedi G. Db Sanctis, Storia dei Romani, II, p. 522 sgg.; E. Pais, Italia antica, voi. I, cap. Ili; F. Altheim, Terra Mater: Untersuchungen zur altitalischen Religionsgesck., Giessen 1931.
PARTE SECONDA LA REPUBBLICA ROMANA E L'ITALIA
I I PIÙ ANTICHI ORDINAMENTI REPUBBLICANI § 46 - La caduta della monarchia - Intorno al 500 a. 0., quando in Sicilia Cartagine e Siracusa si preparavano a rimettere alla prova su¬ prema delle armi la decisione sul primato dell’una o dell’altra nell isola, e quando, nella Magna Grecia, Taranto e Crotone toccavano il periodo della loro massima prosperità, profondi rivolgimenti politici e sociali si determinavano nell’Italia centrale, in dipendenza della catastrofe
poli¬
tica toccata allora agli Etruschi di Campania. Roma, in particolar modo, attraversò in quegli anni (fra il 520 e il 450 a.C.) la più grave crisi della sua storia; crisi nella quale si vide non solo arrestato il suo sviluppo poli¬ tico ed economico, ma poste in giuoco perfino la sua indipendenza e la sua stessa esistenza politica. Già dicemmo (al § 38) della grave sconfitta toccata agli Etruschi nella battaglia di Ancia, verso il 520 a.C., e del conseguente abbandono, da parte di essi, delle loro posizioni nel Lazio. Il declinare delle città dell Etruria meridionale portò un colpo assai grave alla potenza dei Tarquinì in Roma. Questa dinastia etrusca aveva saputo, con politica energica e lun¬ gimirante, far prosperare e primeggiare la città del Tevere su tutte le al¬ tre dèi Lazio, democratizzandone, al tempo stesso, in misura notevole le istituzioni (cfr. al § 33), e attirando così contro di sé l’ostilità dei patrizi, esautorati dall’accresciuto vigore della monarchia e scossi nei loro privi¬ legi di fronte alla plebe. Il declino della potenza etrusca nel Lazio offrì al patriziato romano l’occasione propizia per concertare quell azione im¬ provvisa e violenta che obbligò il re a rinunciare ai suoi poteri; azione che il racconto tradizionale ha concretato nell’episodio di Sesto Tarquimo, figlio del re, e dell’oltraggio da lui recato a Lucrezia, la virtuosa moglie di Collatino. La cacciata del dinasta etrusco da Roma non mancò di suscitare una energica reazione nelle città dell’Etruria meridionale. Un esercito fu messo
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
in campo per riportare sul Campidoglio i Tarquini, e ne avrebbe preso il comando un duce o un re, al quale la tradizione assegna il nome di Porsenna, lucumone di Chiusi. I soldati di Porsenna penetrarono di sorpresa nel territorio romano e, se non poterono attraversare il Tevere e irrompere nella città (trattenuti dal sovrumano valore di Orazio Coelite, mentre si distruggeva il ponte Sublicio, come narra la leggenda), la strinsero d’asse¬ dio e lo tolsero solo quando i Romani si dichiararono disposti ad accet¬ tare le condizioni assai dure che vennero loro imposte da Porsenna; le quali, per altro, non contemplavano il ritorno di Tarquinio sul trono di Roma, ma limitavano notevolmente, a quel che pare, l’autonomia politica della città, obbligandola, fra l’altro, a non possedere e a non fabbricare, almeno per un certo periodo, armi di ferro. § 47 - Le prime magistrature della Repubblica - L’abolizione del¬ la monarchia era stata opera dei patrizi; era dunque naturale che il nuovo regime dello Stato consacrasse la vittoria dell’aristocrazia anche di fronte alla plebe, sulla quale si era appoggiato il potere sempre più assoluto degli ultimi re; che fosse dunque non un regime di popolo, ma un regime di casta. Ai patrizi vennero riservate le cariche pubbliche e le dignità religiose; soltanto i patres seguitarono, come prima, a sedere in senato; ai plebei fu concesso di partecipare ai Comizi Curiati e di ri¬ vestire comandi militari fino al grado di tribunus militum. Del re rimase il ricordo nel rex sacrorum, il piu elevato in rango dei sacerdoti, privo però di potere effettivo sugli affari religiosi, la cui direzione passò ora al primo membro del collegio dei Pontefici, il Pontifex Maximus. A capo della repubblica vennero posti due magistrati, i praetores (pei quali invalse, verso la metà del IV secolo, il nome di consules), con po¬ teri uguali a quelli dei re, ma limitati alla durata di un anno e da eser¬ citarsi collegialmente da parte di ambedue; e ciò per salvaguardarsi dal pericolo che la magistratura ora creata potesse degenerare in tirannide. Eletti dalle centurie degli armati, adunate nei «Comizi Centuriati », i consoli venivano investiti, subito dopo, dai Comizi Curiati, del comando militare (imperium) mediante
un’apposita lex curiata de imperio. Era
ad essi affidato, oltre il supremo comando dell’esercito, l’esercizio dei po¬ teri giurisdizionali e finanziari; per aiutarli nelle loro funzioni, vennero creati dei magistrati ausiliari, i quaestores, già giudici istruttori nell’età regia ed ora incaricati di amministrare l’erario. Venne anche creato un magistrato di carattere straordinario, il dit¬ tatore (dictalor), il quale era nominato da uno dei consoli dietro invito del senato, in caso di pericolo esterno dello Stato. Il dittatore non poteva
I
PIÙ
antichi
ordinamenti
repubblicani
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restare in carica più di sei mesi; ma la sua potestà era, come quella del re, irresponsabile e le sentenze che egli pronunciava, non ammettevano l’appello al popolo {provocano) da
parte
del
condannato.
Teorie moderne hanno proposto quadri assai diversi dei più antichi ordinamenti repubblicani: si è fatta l’ipotesi che, passandosi gradatamente dal regime monarchico alla repubblica per il progressivo trasferirsi delle competenze del re ai magistrati patrizi, si siano, ad un certo momento, sostituiti quasi insensibilmente al re i tre praetores o comandanti della legione (dei quali due, i futuri consules, incaricati del comando militare, il terzo, rimasto col nome di praetor, preposto all’amministrazione della giustizia); oppure che la prima magistratura del nuovo regime sia stata la dittatura uninominale, divenuta poi collegiale mediante la parificazione dei poteri del dittatore con quelli del suo luogotenente (magister equitum). Le obiezioni che si levano contro queste ipotesi sono così gravi da far ritenere di gran lunga preferibile, nelle sue linee fondamentali, il racconto della tradizione, la cui veridicità è confermata dall’unico documento so¬ stanzialmente genuino di cui disponiamo: i Fasti. Non diverso dal senato dell’età regia continuò ad esistere il senato del¬ l’antica repubblica: consiglio dei consoli come allora consiglio dei re, e incapace di radunarsi senza la convocazione del magistrato fornito d’im¬ perio. È probabile che, fin d’allora, fra i patres che lo costituivano e che erano scelti dai consoli - come prima dai re - sedessero regolarmente coloro che avevano ricoperto il consolato o la dittatura. § 48 - Caratteri delle magistrature romane - Prima di passare ol¬ tre, ci conviene intrattenerci sui caratteri essenziali e sul funzionamento delle diverse magistrature nel primo secolo della repubblica. In base alle indicazioni dei Fasti, dobbiamo assegnare il primo collegio consolare al¬ l’anno 509/8 a.C. (secondo la cronologia capitolina), nel quale anno si sa¬ rebbe dedicato il tempio di Giove Capitolino: ciò non esclude la possibilità che consoli si siano nominati negli anni precedenti, in quel periodo di tem¬ po in cui, dopo la cacciata dei Tarquinì, lo Stato rimase sotto la sovranità o il protettorato di un dinasta etrusco; o anche che la cacciata del Tarquinio, di vari anni anteriore a questa data, non abbia segnato la fine della monarchia, che sarebbe esistita per qualche tempo ancora con monarchi di sempre minore autorità, ridotta alla fine alle sole competenze religiose (rex sacrorum). Sulla figura giuridica del console nel meccanismo costituzionale della più antica repubblica sappiamo solo
quanto ci è dato dedurre da ciò
che questo magistrato era nell’età posteriore, tenendo conto però che al-
172
TRATTATO
DI STORIA
ROMANA
Iora la potenza del senato e la creazione di nuove magistrature avevano di molto ridotti e limitati i poteri dei consoli. Per significare l’autorità dei loro magistrati i Romani usavano le due espressioni potestas e impennili] e mentre con la prima si esprimeva la capacità del magistrato di compiere funzioni
specifiche in
campi ben
delimitati di azione, con la seconda s’indicava la somma dei poteri, attuale o potenziale, del comandante in guerra (imperium militine) o, come an¬ che si è definito, la somma delle potestà delegate dal popolo al magistrato, come a rappresentante dello Stato. L’imperio militare, conferito allora soltanto ai due consoli, oppure, dopo il 445 a.C., ai tribuni militari con potestà consolare, comprendeva perciò, oltre che il comando supremo dell’esercito, la giurisdizione civile e criminale in guerra e, in parte, an¬ che in pace, con la facoltà di arrestare e giudicare il privato cittadino per garantire l’ordine nello Stato così come la disciplina al campo. Come su¬ premo comandante militare, il console può muover guerra ad un popolo con il quale non esistano trattati, e segnare a suo arbitrio la pace, sebbene più tardi il popolo si tenesse obbligato a ratificarla; a lui spetta di far la leva degli armati e quindi di tenere le liste dei cittadini, come base sta¬ tistica e finanziaria indispensabile per determinare gli obblighi e i diritti dei singoli negli ordini militari; a lui era pure riconosciuta la facoltà d’im¬ porre il tributo straordinario di guerra; di disporre liberamente, purché nel pubblico interesse, del bottino fatto sui nemici; infine di convocare il popolo o il senato per provocare le deliberazioni di quello o per chiedere i consigli di questo (ius cum populo agendi, ius referendi ad senatum), e di emanare ordini obbligatori per tutti i cittadini (ius edicendi). Come vero sovrano dunque ci si presenta il console nella repubblica; tanto che se egli non ne prende l’iniziativa, né il senato né il popolo pos¬ sono concorrere con lui nell’opera di governo, giacché non v’hanno riu¬ nioni del senato né comizi popolari se non dietro convocazione del console: segno, questo, che il patriziato, che pure aveva abolito la monarchia, si rendeva conto della necessità che lo Stato seguitasse ad avere alla sua testa un autorità non inferiore a quella del re, che assicurasse unità e ra¬ pidità d’azione nel prevenire e combattere i pericoli che ne minacciassero l’esistenza. Seppero però al tempo stesso i patrizi salvaguardarsi contro il pericolo, così paventato da tutte le oligarchie, che tanta somma di poteri raccolta nelle mani del supremo magistrato conducesse ad un facile ristabilimento del governo personale. Ad impedir ciò si provvide coi due istituti della annualità e della collegialità: col primo si limitava in angusti confini di tempo il potere del console, sicché un attività continuata e metodica di
I
PIÙ
antichi
ordinamenti
173
repubblicani
governo non poteva esercitarsi in realtà che sotto la direzione del senato, composto di membri nominati a vita e scelti di regola fra coloro che ave¬ vano ricoperto la magistratura consolare; col secondo si rendevano nulli gli atti di un console, ove non fossero approvati dal collega; sicché ognuno dei due consoli poteva essere impedito nella sua azione dalla intercessione dell’altro. Questi due principi, dell’annualità e della collegialità, furono giudicati così eccellenti dai patrizi romani, che essi li applicarono successivamente a quasi tutte le loro magistrature; e li applicò più tardi, e con suo danno, anche la plebe ai suoi tribuni: e solo il fine senso politico dei Romani rese possibile un’efficace azione di governo con una macchina i cui ingranaggi potevano ad ogni
momento incepparsi per l’intervento di un « veto ».
Un’altra notevole limitazione ai poteri del console era rappresentata dalla istituzione che subordinava le sentenze capitali pronunziate dal con¬ sole, o in suo nome, dentro i limiti del pomerio (cfr. al § 30), alla ratifica dell’assemblea popolare (raccolta in comitiatus maximus, cioè nei Comizi Curiati, prima e, più tardi, nei Centuriati), mediante il diritto riconosciuto al
condannato - probabilmente
popolo
fino
dall’età
regia - di
appellarsi
al
(provocatio ad populurn). Ci consta del resto che i consoli non
esercitavano ordinariamente di persona la giurisdizione criminale nell in¬ terno della città, bensì la delegavano ad alcuni loro diretti rappresentanti, che noi troviamo fin dalle origini della repubblica in funzione accanto ai consoli: sono questi i duovirì perduellionis, incaricati di giudicare i delitti contro la sicurezza dello Stato e delle istituzioni, e i due quaestores parri¬ cidi, coloro, cioè, che erano incaricati - già probabilmente nell’età regia - di « inquisire », cioè di condurre l’istruttoria nei processi per cause ca¬ pitali e che divennero poi magistrati subordinati ai consoli come ammini¬ stratori del denaro erogato per la guerra e ad essi affidato; trasformazione che trova la sua spiegazione più probabile nel fatto che i questori, riscuo¬ tendo ed amministrando il prodotto delle multe e delle confische ordinate nei processi di loro competenza, vennero ad essere, in certo modo, fin d’allora i tesorieri dello Stato. Se dobbiamo dar fede ad una notizia della tra¬ dizione, con una legge del 421 il numero dei questori sarebbe stato portato a quattro: due urbani e due destinati al seguito dei consoli in guerra. § 49 - Comizi e sacerdozi - Come rimase, quasi immutato da quello dell’età regia, il senato, trasformato ora da Consiglio del re in Consiglio dei consoli, così rimasero i Comizi del popolo, tanto i Comizi Curiati (vedi al § 32) quanto i Centuriati (al § 48); e mentre i primi videro sempre più declinare la loro importanza, né orano più frequentati dalla plebe, che
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
sapeva di nulla potere in essi di fronte alle potenti genti patrizie, crebbero invece l’attività e l’influenza politica dei secondi, assemblee del popolo in armi, nelle quali perc’ò aveva modo di farsi sentire anche la voce dei plebei. Ad essi spettava la nomina dei due pretori-consoli. Ma il re di Roma era stato anche il capo supremo della religione dello Stato e in tale funzione egli era assistito e coadiuvato da numerosi sacer¬ doti; giacché non v’è dubbio che il Collegio dei Pontefici, con gli speciali sacerdoti ad esso aggregati - i Flamini e le Vestali - e i Collegi degli Auguri, dei Feciali, e dei Duoviri (poi Decemviri) sacris faciundis preesi¬ stevano tutti alla abolizione della monarchia. Invece il rex sacrorum, che continuò ad esistere in regime repubblicano, benché fosse rimasto il primo in rango tra i sacerdoti del Collegio Pontificale, non ebbe più alcuna au¬ torità nell’esercizio della religione pubblica: tale potere passò invece al capo del Collegio dei Pontefici, il Pontifex Maximus, il quale divenne ef¬ fettivamente il supremo moderatore della religione romana. E così i sa¬ cerdozi, assegnati a vita ed accessibili, per ora, ai soli patrizi, furono, nelle mani dell’oligarchia romana, strumento non piccolo di dominio. Non biso¬ gna infatti dimenticare che i collegi dei sacerdoti romani raccolsero in sé, durante la monarchia e per quasi tutto il primo secolo della repubblica, la somma di tutto il sapere sacro e giuridico, per cui era dato di distin¬ guere il fas dal nefas, lo ius dalla iniuria. I responsi dei pontefici sostituirono, fino alla redazione delle Dodici Tavole, la legge scritta e ancora per molto tempo in seguito rappresenta¬ rono l’unica autorevole interpretazione della legge; essi soli, i pontefici, esperti nella scienza di computare il tempo, furono in grado di indicare i giorni fasti e nefasti; quelli, cioè, nei quali il magistrato poteva ammini¬ strare la giustizia e quelli in cui ogni attività del giudice era vietata: àr¬ bitri così di regolare lo svolgimento di tutta l’attività del foro. Dal canto loro, gli Auguri potevano, caso per caso, coi loro responsi favorevoli o contrari, influire potentemente su tutta la vita pubblica dello Stato; ed influente rimase ancora per qualche tempo il Collegio dei Feciali, custodi del primitivo diritto intemazionale, i soli che conoscessero le formule con le quali poteva essere sancito un trattato di pace o si poteva dichiarare una guerra, in modo da richiamare, con la santità della procedura, la benevolenza degli dèi sull’attività politica dello Stato nei confronti degli altri popoli.
LA
PARIFICAZIONE
POLITICA DELLA PLEBE
COL PATRIZIATO
175
II LA PARIFICAZIONE POLITICA DELLA PLEBE COL PATRIZIATO § 50 - Significalo e norme della lotta plebea contro il patriziato -
La prima applicazione del nuovo ordinamento dato dai patrizi allo Sta¬ to segnò anche l’inizio del fierissimo e lungo conflitto fra i due ordini di cittadini: i patrizi, detentori esclusivi del governo della repubblica, e i plebei, sottoposti all’arbitrio, non solo politico, ma anche giudiziario e finanziario, dei patres. Per bene intendere lo svolgimento ei termini di questo conflitto, è necessario tener presente che già fra i plebei si distin¬ guevano ricchi e poveri, grandi e piccoli proprietari di terre; ciò che aveva reso possibile la formazione di genti plebee e l’immissione di un certo nu¬ mero di queste nel patriziato da parte di qualcuno degli ultimi re. Ora appunto il movimento di rivolta contro il patriziato fu provocato dalla insofferenza, nei plebei ricchi, della nullità giuridica e politica del loro stato di fronte ai patrizi. Si capisce facilmente com’essi abbiano trascinato seco nella lotta - e abbiano saputo ben servirsene - la massa dei nullatenenti e dei piccoli proprietari indebitati, esasperati dalla miseria e dalla crudeltà dei creditori; ma questa turba di affamati e di miserabili - come la rappresenta la tradizione — nulla avrebbe osato né potuto fare, se non fosse stata inquadrata e guidata da uomini di più elevata condizione, che ad altro aspiravano che non fosse il pane quotidiano o la remissione di un debito. E infatti le prime conquiste plebee non furono di carattere econo¬ mico, bensì di ordine squisitamente politico; e coloro che diressero per più di cent’anni la plebe nella lotta contro i privilegi patrizi non dimenticarono mai - caso più singolare che raro, di quanti esempi di guerra civile ci offra la storia - i superiori interessi della patria comune, alla cui conser¬ vazione si sentivano vincolati non meno dei loro rivali patrizi. La forma in cui si concretarono, sin da principio, le insurrezioni plebee, fu quelle delle « secessioni », o sul Monte Sacro o sull’Aventino: la plebe, ritiratasi fuori del pomerio cittadino ed organizzatasi militarmente sotto i suoi capi (chiamati perciò, a simiglianza dei tribuni militum, tribuni plebis), rimaneva accampata, inerte e minacciosa, fino a che i poteri dello Stato non fossero venuti a patti con essa. Nel corso di queste ripetute secessioni, la plebe addivenne a varie, gravi deliberazioni miranti a salva¬ guardare la sicurezza propria e de* suoi capi e le conquiste di volta in volta
176
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
ottenute; fra le prime di tali deliberazioni, che i plebei giuravano di rispettare e far rispettare ad ogni costo (leges sacratae), furono certa¬ mente quelle che proclamavano la inviolabilità dei tribuni della plebe e ne definivano la potestas, concretandola nello ius auxilii (diritto di pro¬ teggere i plebei contro l’arbitrio dei magistrati), nello ius intercessionis (diritto di veto su qualsiasi iniziativa dei poteri dello Stato, nei limiti dell’imperium domi) e nello ius coèrcitionis (diritto di agire in sede pe¬ nale contro chiunque contravvenisse ai deliberati delle leggi sacrate). A lato dei tribuni, la plebe ottenne di poter eleggere dei magistrati ausi¬ liari, gli edili plebei (aediles plebis), con l’incarico di amministrare l’ar¬ chivio e il tesoro della plebe. L’azione della plebe si trovò agevolata dallo Stato stesso, quando esso addivenne, verso il 470 a.C., alla divisione del territorio della repubblica in 16 tribù rustiche e 4 urbane, per scopi verosimilmente tributari e mili¬ tari'. I plebei si adunarono da allora con maggior ordine, divisi per tribù (concilia plebis tributa); una certa legalità sostanziale, se non formale, ebbero così in progresso di tempo, non soltanto le loro riunioni, ma anche le deliberazioni ivi votate (plebiscita), che più facilmente perciò i magi¬ strati patrizi acconsentirono talora a trasformare in leggi dello Stato. Non è da pensare che la classe patrizia abbia accettato pacificamente le imposizioni della plebe: la città dovè essere teatro di conflitti cruenti, di fiere sommosse e di reazioni crudeli da una parte e dall’altra. Di questi torbidi decenni conserva ricordo la tradizione, quando ci parla di Coriolano, che accusato dai tribuni di opporsi alla distribuzione di grano alla plebe e invitato a presentarsi al giudizio dei concili plebei, esce sdegnato dalla città, corre al campo dei Volsci e ne guida l’esercito contro Roma; o quan¬ do ci presenta un altro patrizio, Cesone Quinzio, figlio del famoso L. Quin¬ zio Cincinnato, che, citato a giustificarsi di avere oltraggiato, per disprez¬ zo, i tribuni adunati con la plebe a concilio, rifiuta di comparire dinanzi ad essi ed è salvato dal padre, che lo fa fuggire e paga per lui una fortis¬ sima multa, che distrugge il suo patrimonio. Un così lungo e violento contrasto civile poteva riuscire fatale all’indi¬ pendenza e all’esistenza stessa della città, se in esso la plebe non fosse rimasta costantemente sotto la guida delle maggiori famiglie di quell’or¬ dine, le quali avevano non minore interesse delle genti patrizie alla conser¬ vazione e all’integrità della repubblica. N’è prova il fatto che i poteri d’in¬ tercessione e di coercizione dei tribuni della plebe non si estendevano al di là del pomerio ed erano inefficienti di fronte al console che comanda l’esercito in campo; per questo appunto al tribuno era fatto obbligo di non allontanarsi mai dalla città.
LA
PARIFICAZIONE
POLITICA DELLA PLEBE
COL
PATRIZIATO
177
§ 51 - La prima conquista plebea - Nel 451 a. C. ebbe esaudimento
la richiesta della plebe, di una legislazione scritta. La tradizione narra che, in seguito ad una lunga agitazione, promossa e guidata dal tribuno G. Terentilio Arsa, fu inviata in Grecia una commissione, per esaminare le leggi di Solone ed altri codici famosi. Al ritorno di quei commissari, fu stabi¬ lito di eleggere per l’anno prossimo (il 451 a.C.) un Collegio di dieci ma¬ gistrati, tutti patrizi, col preciso incarico di codificare le leggi (decemviri legibus scribendis), e di conferire ad essi l’imperio dittatoriale, rimanendo sospesa per quell’anno l'elezione dei consoli e dei tribuni della plebe. Allo spirare dell’anno, i decemviri avevano redatto un codice di leggi, approvate dai Comizi Centuriati ed incise su dieci tavole di bronzo; ma siccome l’ope¬ ra loro non era ancora compiuta, gli stessi decemviri, la cui attività era stata diretta dal patrizio Appio Claudio, proposero e fecero approvare la nomina di un secondo decemvirato (per l’anno 450), che Appio Claudio rimase ancora a dirigere e del quale fecero ora parte cinque membri plebei. „ Nel secondo decemvirato, nonostante la presenza dei plebei, i patrizi spa¬ droneggiarono: furono elaborate due nuove tavole di leggi, che Cicerone {de rep., II, 37, 63) chiama «inique» e che, fra l’altro, riconfermavano il divieto di connubio fra patrizi e plebei; inoltre, alla fine dell’anno, Appio Claudio persuase i colleghi a non deporre il potere e a costituire una specie di tirannide collegiale sotto la sua direzione. Ma fu un ultimo sopruso quello che provocò la ribellione della plebe: invaghitosi di una fanciulla plebea. Virginia, Appio Claudio indusse un suo cliente a dichiarare che essa era sua schiava, e, celebratosi il processo, aggiudicò la fanciulla a quel clien¬ te. Ma il padre di quella, Virginio, preferì uccidere la fanciulla, provocando così la ribellione di tutta la plebe romana, che si ritirò sull Aventino e sul Monte Sacro. I decemviri furono così costretti ad abdicare; Appio Claudio si sarebbe ucciso: tosto furono restaurate le magistrature normali, compresi i tribuni della plebe (449 a.C.). Di tutto questo racconto tradizionale, si salva solo ciò che è confermato dai Fasti - cioè l’esistenza dei due collegi decemvirali, che interrompono, nei due anni sopraindicati, la serie dei collegi consolari - e il fatto dell ema¬ nazione di un codice di leggi, che dagli storici e dai giuristi del II secolo a.C. veniva riguardato come la gloria più pura dell ancor fresca repubblica, e le cui norme si ripetevano ancora, in un latino arcaicizzante, al tempo di Cicerone. Il contenuto di quel codice fu senza dubbio molto ampliato nei secoli che seguirono; ma anche se le originarie Dodici Tavole si propo¬ sero soltanto di fissare il diritto processuale e penale, i plebei ne trassero grandissimo vantaggio, perché, essendo quelle norme ormai scritte, ben poco campo restava all’arbitrio del magistrato. 12 - Gianneui, Trattato di Storia rimana - I
178
TRATTATO DI
STORIA
ROMANA
Cadono invece da sé gli altri particolari della tradizione, quando essa ci presenta come ostile alla plebe proprio quel secondo collegio decemvirale, composto per metà di plebei, e quando non sa spiegarci il paradosso di una plebe che vuole la fine di quel decemvirato, nel quale per la prima volta essa partecipava, su di un piede di parità coi patrizi, al governo della Repubblica. A ciò si aggiunga che la gente Virginia non è conosciuta altrimenti che come patrizia e che i soli Virgini plebei di cui si abbia no¬ tizia, sono appunto quelli della leggenda. Era invece il patriziato doppia¬ mente danneggiato dall’agiro arbitrario di Appio Claudio, sia perché ne restava menomata la sua posizione di privilegio rispetto alla plebe, sia perché lo stabilirsi di un governo assoluto distruggeva l’egemonia dell oli¬ garchia dominante. Ma c’è, in questa tradizione, quanto basta a farci intendere il tentativo compiuto dal geniale patrizio: rendendo stabile la nuova magistratura decemvirale e, coH’immissione in essa di cinque plebei, ottenendo la ri¬ nunzia della plebe al tribunato, Appio Claudio avrebbe restituito la pace sociale alla Repubblica: il tentativo fallì per opera del patriziato che, con un colpo di Stato, abolì il decemvirato e ristabilì il governo consolare. § 52 - La parificazione dei due ordini - Coi
mezzi sempre più ef¬
ficaci a sua disposizione, la plebe riprese subito la sua lotta serrata per conseguire la parità di diritti col patriziato. Nel 445 ottenne, con una rogazione del tribuno C. Canuleio, lo ius connubi; l’anno dopo si dovè con¬ cedere che si potesse, d’allora innanzi, creare, al posto dei consoli, i tri¬ buni militari con potestà consolare (tribuni militum consulari
potestate,
dapprima tre, cresciuti poi fino a sei), magistratura accessibile anche ai plebei. D’altra parte l’aumento dei compiti compresi fra le competenze consolari (quello, specialmente, di un più minuzioso censimento dei cit¬ tadini, necessario per determinare i carichi tributari e il posto di ciascuno nella legione, organizzata ora sul modello della falange oplitica) dette ai patrizi la possibilità di creare una nuova magistratura: la censura, acces¬ sibile, per ora, soltanto ad essi. La sostituzione dei tribuni militum cons. poi. ai consoli segna l’inizio della trasformazione della repubblica aristocratica in repubblica timocra¬ tica: giacché, naturalmente, soltanto i plebei appartenenti alle famiglie più elevate e più ricche erano in grado di rivestire una carica che, oltre ad essere gratuita, richiedeva in chi ne era rivestito Competenza in vari campi, esperienza notevole e prestigio personale. S’intende così la neces¬ sità dell’istituzione della censura; la quale rimase preclusa ai plebei non soltanto per un tentativo di rivalsa da parte dei patrizi per quanto essi
LA
PARIFICAZIONE
POLITICA
DELLA
PLEBE
179
COL PATRIZIATO
avevano perduto di privilegi, ma anche perché la cerimonia religiosa del lustrum, con cui i censori chiudevano le loro operazioni di censimento, richiedeva nei celebranti il possesso degli auspici maggiori, riserbato, per ora, soltanto ai patrizi (Livio, IV, 8). La nuova magistratura, la censura, fu anch’essa naturalmente colle¬ giale: i due censori venivano eletti di cinque in cinque anni, ma duravano in carica solo diciotto mesi. Ad essi spettava, oltre che di fare il censimento dei cittadini, la cura dei beni demaniali, l’appalto dei lavori pubblici, la riscossione dei dazi. In seguito, successero ai consoli nel compito di sce¬ gliere i nuovi senatori (lectio senatus), soprattutto per coloro che avessero rivestito le magistrature, ed acquistarono poteri illimitati nel decidere dell’ammissione dei cittadini all’esercizio delle cariche pubbliche, in base alla loro onorabilità (censura morum), contrassegnando col loro biasimo (nota) quanti fossero venuti meno alle leggi della morale e del decoro civile. L'ammissione dei plebei al tribunato consolare portò naturalmente con sé la loro eleggibilità alla questura (essendo i questori, per le loro funzioni, subordinati ai consoli) e la loro ammissione al senato, che si alimentava appunto con quei cittadini che avevano rivestito la potestà consolare. Le aspirazioni della plebe ebbero pieno soddisfacimento nel 366 a.C., quando con una rogazione presentata per iniziativa di due tribuni della plebe — C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano — il consolato fu definitivamente restaurato e reso accessibile anche ai plebei. E se, anche allora, i patrizi trovarono il modo di diminuire le competenze del console, creando un nuovo magistrato, il pretore, per amministrare i poteri giurisdizionali dentro il pomerio, il vantaggio fu di breve durata; la plebe, che ebbe nel 356 il suo primo dittatore e nel 351 il suo primo censore, si vide aperta nel 337 anche la pretura. Anche i collegi sacerdotali dei Pontefici e degli Au¬ guri - i più
importanti
politicamente - furono
schiusi
ai
plebei
nel
300 a.C. La parificazione dei due ordini fu piena, quando anche le adunanze della plebe (concilia plebis tributa) divennero giuridicamente equipollenti ai Comizi Curiati e ai Centuriati. Nel 339, infatti, il dittatore Pubblio Filone fece approvare una legge che rendeva valide per tutto il popolo le delibe¬ razioni dei concilia pie-bis, i quali così si trovarono trasformati in comizi giuridicamente perfetti (comitia tributa). Vero è che dalla stessa rogazione Publilia, a quel che pare, era stato stabilito che le leggi approvate dai Comizi
Tributi dovessero venir sottoposte alla ratifica del senato (aucto-
ritas patrum), mentre le proposte di legge presentate agli altri comizi ot¬ tenevano tale approvazione in precedenza; ma intanto, trasformati i Co-
TRATTATO
180
DI STORIA ROMANA
mizi Tributi in regolari comizi del popolo romano, ad essi cominciarono ad intervenire anche i patrizi e a prender parte al voto. In realtà questo fatto si verificava periodicamente, una volta all’anno, fin dal 367, quando si era stabilito che tutto il popolo, diviso per tribù, nominasse ogni anno altri due edili, gli edili curuh (insigniti cioè della sedia curule), con le me¬ desime attribuzioni degli edili plebei, da scegliersi un anno fra i patrizi e un anno fra i plebei. Il compito degli edili si era intanto allargato alla sorveglianza della città e del mercato e all’allestimento dei giuochi pub¬ blici. La parificazione dei due ordini potè dirsi per altro perfetta solo dopo la rogazione del dittatore Q. Ortensio, del 287 a.C. (lex Hortensia), la quale stabiliva che i plebisciti acquistassero valore di legge senza la ratifica del senato, ma solo con la preventiva autorizzazione del senato a presentarli. § 53
- La
nuova
oligarchia
patrizio - plebea - Come
si rileva da
quanto si è esposto nel paragrafo precedente, intorno alla metà del IV secolo le genti plebee, che avevano guidato con tanta tenacia e tanta ac¬ cortezza il movimento vólto a scardinare i privilegi politici del patriziato, avevano ormai raggiunto sostanzialmente il loro scopo. Ottenuta l’equi¬ parazione politica col patriziato, era naturale che essi, i dirigenti della classe plebea, si accorgessero ben presto della necessità di farsi solidali coi patrizi per salvaguardare il privilegio che avevano in comune con essi: il privilegio della ricchezza. La massa dei plebei diseredati, che era stata fino a poco fa ottimo e docile strumento nelle loro mani contro i poteri costituiti dello Stato patrizio, stava forse per divenire una assai incomoda concorrente, se accennasse appena a mettersi in marcia, con i poteri le¬ gislativi ed esecutivi di cui ora poteva disporre, verso una più equa di¬ stribuzione dei beni economici, che ad essa stava certo più a cuore della eguaglianza dei diritti politici. Era evidente che, allorché si fosse ricono¬ sciuto alle assemblee della plebe il pieno valore legale - e ciò non poteva tardare ad avvenire, come infatti avvenne - esse si sarebbero trasforma¬ te nei più importanti, nei veri e soli Comizi della Repubblica, dinanzi ai quali si sarebbero portate le leggi essenziali e le elezioni dei magistrati maggiori. Per impedire che ciò avvenisse, bisognava arrestare, finché si era in tempo, l’ineluttabile ascesa dei Comizi Tributi, creando, a lato e prima di essi, un organo elettivo e legislativo che fosse capace di eser¬ citare e di difendere con vigore e con successo le proprie competenze: e si pensò alle assemblee delle centurie. Bisognava dunque trasformare le assemblee delle centurie da comizi di soldati in comizi di cittadini; bisognava far sì che questi divenissero,
LA
PARIFICAZIONE
POLITICA
DELLA
PLEBE
COL PATRIZIATO
181
© subito, il vero comiliatus maximus del popolo romano, se non si voleva che lo divenissero, quanto prima e definitivamente, i Comizi Tributi; e bisognava assicurare in ogni modo, in questi nuovi comizi, alla nuova oligarchia patrizio-plebea - a quella destinata a formare la nobilitas romana - quella superiorità sulla plebe che non avrebbe mai potuto rag¬ giungere nei Comizi Tributi. A ciò provvide nel miglior modo quell’» ordi¬ namento centuriato » attribuito dalla tradizione al re Servio Tullio e che in realtà deve essere stato escogitato e applicato fra il 367 e il 339 a.C.: esso consistè nel sistemare definitivamente, secondo le possibilità offerte dalla popolazione cittadina, gli organici dell esercito, facendo poi riflet¬ tere tali organici sulla totalità dei cittadini, in modo che questi restassero distribuiti, nei quadri di leva, in modo corrispondente alla struttura del¬ l’esercito. Nel far ciò, si ebbe cura di non allontanarsi dalla prassi fino allora se¬ guita, che il peso del servizio militare fosse sopportato in maggior misura dai cittadini più abbienti. Distribuiti pertanto i cittadini in « classi », a a seconda del censo di ognuno, si stabilì chela prima classe, divisa in80 centurie (40 di iuniores e 40 di seniores), dovesse fornire ben 40 delle 60 centinaia dell’esercito legionario: peso militare gravissimo se si considera che le 80 centurie di questa classe non potevano contare ciascuna più di 150-200 uomini reclutabili. Ma quest’onere militare veniva compensato dal vantaggio politico, rappresentato dalla potenza del voto delle 80 cen¬ turie (nei Comizi Centuriati si votava per centurie, come nei Comizi Tri¬ buti si votava per tribù), le quali, unite alle 18 centurie dei cavalieri (com¬ prendenti i cittadini di maggior censo), assicuravano già la maggioranza (98 centurie sui totale di 193) e quindi la vittoria, nelle votazioni, ai cit¬ tadini più ricchi, cioè ai patrizi e a quella nobiltà plebea, i cui interessi raggiunta ormai l’equiparazione politica - si identificavano sempre più con quelli del patriziato. Al posto dei decaduti privilegi patrizi veniva così consacrato il privile¬ gio e il predominio delle classi più abbienti: la repubblica patrizia cessava di esistere; nasceva la repubblica oligarchica, alla conservazione della quale erano ora ugualmente interessati patrizi e plebei ricchi, cioè la nuova classe dirigente dello Stato.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
III IL PRIMATO DI ROMA NELL’ITALIA CENTRALE § 54 - L’egemonia di Roma nel Lazio - La ricostruzione della storia esterna di Roma nel V secolo è impresa assai più ardua che non quella delle fasi del suo sviluppo costituzionale in questo stesso periodo; ci man¬ cano infatti del tutto notizie di origine documentaria, e mancavanp agli annalisti, poiché non e lecito, anche alla critica più benevola, far risalire al di là dal 400 a.C. le indicazioni attendibili dei Fasti trionfali e le registraO zioni dei « commentarli » dei Pontefici. Siamo rimandati perciò alla tra¬ dizione, della quale, per altro, la forma più antica e genuina dovrà rite¬ nersi quella di Diodoro, più che quella di Livio e di Dionigi d’Alicarnasso.1 Occorre richiamarci a quanto si osservò a suo tempo sulla posizione di Roma nel Lazio nel periodo degli ultimi re (v. § 32). Il predominio che Roma aveva esercitato su gran parte dei Latini mentre regnavano i Tarquinì, fu scosso profondamente dall'indebolirsi della potenza etrusca nel mezzogiorno e nel Lazio e dalla crisi di regime che si verificò allora nella città del Tevere.
La volontà della repubblica, di tenersi
nelle stesse direttive politiche già seguite dalla defunta monarchia, si palesa nel primo trattato con Cartagine, nel quale Roma ottenne il ri¬ conoscimento delle sue aspirazioni sul Lazio meridionale (cfr. ai §§ 43 e 73). Ma la realtà si profilò subito ben diversa dalle speranze e dalle in¬ tenzioni della classe dirigente romana: i maggiori Stati latini, imbal¬ danziti dalla recente vittoria di Aricia, non tardarono a riaffermare la loro assoluta indipendenza da Roma, costituendo — o rinnovando allora — una Lega di carattere essenzialmente politico, che ebbe il suo centro sa¬ crale al tempio di Diana presso Aricia. Di questa Lega - sulla quale getta qualche luce un documento del 500 a.C. circa, conservatoci da Catone, fecero parte quasi tutte le maggiori comunità del Lazio: essa re¬ sultò superiore per superficie e per popolazione allo Stato romano, e se alla Lega toglieva libertà di iniziativa e di movimenti la crescente mi¬ naccia dei Volsci e degli Equi da sud e da est, anche per Roma sussi¬ steva in tutta la sua gravità il pericolo etrusco, rappresentato specialmente 1 Si tenga però presente, su tale questione, il punto di vista prospettato da L. Pareti nella sua Storia di Roma (vedi al § VI).
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dalle mire espansionistiche di Veio, che mirava ad assicurarsi il dominio della riva destra del Tevere. L'urto inevitabile avvenne: la tradizione ha infiorato di poetici episodi il racconto della battaglia, che si combattè presso il Lago Regillo e che finì con la vittoria dei Romani: vittoria non piena e non schiacciante, tanto che ne seguì subito dopo un patto d’alleanza fra i Romani e la Lega latina. La battaglia si potrà assegnare al 494 a.C., perché il trattato di alleanza fu stipulato, secondo il dato più attendibile della tradizione, sotto il se¬ condo consolato di Spurio Cassio, nel 493: al foedus Cassianum aderì qual¬ che anno dopo (verosimilmente sotto il terzo consolato di Cassio, nel 485) il popolo degli Ernici, abitanti la regione dell’alto Sacco (Trerus) e stretto da vicino da Equi e Volsci. Nella nuova Lega Roma fu, per popolazione e territorio non meno che per le istituzioni più evolute, lo Stato predo¬ minante: il comandante delle forze federali, eletto a turno fra le città collegate (il dictator Latinus), fu pei Romani il modello del loro «dittatore». Compito precipuo della Lega fu la difesa del territorio latino dalla perico¬ losa pressione degli Equi, dei Volsci, dei Sabini, che minacciava di som¬ mergerlo. Mentre da parte dei Sabini continuo la pacifica infiltrazione nel territorio romano iniziatasi già in età regia, cogli Equi a est e coi Volsci a sud fu necessario combattere a lungo e duramente, proprio mentre in Roma più furiosa divampava la lotta fra patrizi e plebei: appartengono a queste guerre gli episodi di Cincinnato e di Coriolano. Poco dopo la metà del secolo, però, i tentativi espansionistici dei due popoli erano stati van¬ taggiosamente rintuzzati e contenuti, per l’avvenire, dalla fondazione di numerose colonie latine. § 55 - Roma e le città
etrusche
meridionali - Missione particola¬
re di Roma fu invece la guerra contro la più potente delle città etru¬ sche meridionali, Veio, per il dominio della valle inferiore del Tevere. L’avanzata etrusca verso il Lazio aveva mirato, sin dal sec. \ III, a raggiungere la riva destra del Tevere e a dominarla sino alla foce, e gran parte dei Latini allora stanziati in queste regioni ne erano rimasti sommersi o soggiogati. I Latini erano però riusciti a salvare una stretta zona di territorio sulla destra del fiume, dal confluente del Cremerà alla foce; e questo territorio venne naturalmente incorporato in quello della città la¬ tina sorta sul Palatino (designato dalla tradizione col nome di Septem Pagi). Non si serbava ricordo di conflitti notevoli tra Roma e Veio durante il periodo regio; ed è da pensare che la presenza di re etruschi sul trono di Roma abbia facilitato la conclusione di un modus vivendi fra le due città, in modo che la via fluviale del Tevere restasse ugualmente libera e
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aperta ai commerci dell’ima e dell’altra. Ma il dualismo tra Roma e Veio non tardò ad insorgere dopo la cacciata dei Tarquini. Il vantaggio iniziale, nel conflitto, toccò a Veio, la quale potè approfittare dell’ormai antica e provata adesione della latina Fidene alla causa etrusca, dovuta forse al1 avere questa città soggiaciuto per lungo tempo al dominio etrusco e all abbondante immissione di elementi etruschi nella sua popolazione: annettendosi Fidene, Veio varcò il confine segnato dal Tevere e si stabilì sulla riva sinistra del fiume. Roma balzò alla controffensiva tra il 482 e il 474, proprio negli anni, dunque, in cui si faceva sentire più minacciosa la pressione degli Equi e dei Volsci. Abbiamo notizia, è vero, per questi anni, di un episodio altrettanto luttuoso quanto celebre - la strage della gente Fabia -, ma è anche vero che esso avvenne in territorio etrusco, sul fiume Cremerà, affluente di destra del Tevere, che scorre presso Veio. Seguì un lungo armistizio, nel quale pare che Roma abbia ottenuto da Veio che questa rinunciasse al suo predominio su Fidene; tanto è vero che i Fidenati si sollevarono nel 438 contro Roma, rientrando nell’alleanza con Veio. I Romani mossero allora guerra a Fidene: i Fidenati furono scon¬ fitti dal tribuno militare romano A. Cornelio Cosso, che uccise il re dei Va¬ ienti Lavs 1 olumnius, riportandone a Roma le spoglie opime; Fidene fu poi ripresa nel 435. La lotta ebbe altre vicende, ma è evidente che Roma non potè dare un impulso decisivo alle operazioni se non dopo la conclu¬ sione vittoriosa dei conflitti a sud e ad est. Verso il 400 a.C. Roma prese risolutamente l’offensiva, schierando in cam¬ po tutte le sue forze: per rendere più sopportabile ai cittadini la guerra, che si prevedeva lunga e faticosa, il senato deliberò che lo Stato si addossasse il pagamento dello stipendio militare, traendone i fondi dai canoni (vectigalia) corrisposti sull affitto dell’agro pubblico. Iniziate le operazioni militari, Veio sarebbe stata stretta d’assedio nel 405, senza che le altre città etrusche fos¬ sero capaci di mettersi d’accordo per aiutare la consorella. La città fu presa nel decimo anno dell’assedio, per opera del dittatore M. Furio Camillo, e in gran parte distrutta: sul territorio di essa vennero create quattro nuove tribù, la Stellatimi, la Tromentina, la Sabatina e V Arniensis. Il grande accrescimento della potenza di Roma costrinse varie piccole località dell’Etruria meridionale, come Sutri e Nepi, a riconoscerne il pre¬ dominio: Roma superava ora, per territorio e popolazione, anche la Lega latina, mentre la potenza etrusca declinava rapidamente anche a setten¬ trione per 1 irruente avanzata delle stirpi celtiche nella pianura del Po. § 56 - L’irruzione dei Celti
nell’Italia
Centrale - Il quinto secolo
segnò un periodo di decisiva decadenza del popolo etrusco, provoca-
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ta da cause esterne non meno che da altre di ordine interno; enumeriamo fra le seconde il corrompersi dei costumi e il venir meno dello spirito mi¬ litare, l’insorgere di violente passioni fra l’aristocrazia dominante è le classi inferiori; fra le prime, le evidenti manifestazioni di risveglio nazio¬ nale nelle genti soggette e gli attacchi sempre più violenti dei popoli vicini. Proprio, infatti, quando i Latini iniziavano la loro vigorosa azione, difen¬ siva prima controffensiva poi, pel dominio della valle inferiore del Tevere, si faceva minacciosa ed irresistibile l’espansione dei Celti nella pianura del Po. L’invasione di questo popolo in Italia, dai passi delle Alpi occidentali, nella seconda metà del V secolo completa - si è osservato - il quadro degli insediamenti etnici nell’Italia antica e « interruppe anche lo slancio della formazione della potenza romana » (Vogt). Ciò che è vero, se però si tenga conto del fatto che la crisi attraversata in quegli anni dagli Etru¬ schi facilitò in modo straordinario l’azione romana contro Veio, lasciata sola nella lotta contro la città rivale; onde il ritardo che l’irruzione celtica nel Lazio causò all’affermarsi della potenza romana nell’Italia centrale, era già scontato dall’accelerazione procuratagli dall’occupazione celtica della Padania: e il bilancio si chiude così alla pari. Verso il 400 a.C. i Celti - chiamati dai Romani Galli - avevano ormai preso possesso di gran parte della pianura del Po: troviamo i Salassi nella Valle d’Aosta, i Taurini (anch’essi probabilmente di nazionalità celtica, benché in seguito con forti infiltrazioni liguri) nella valle della Doria Ri¬ paria e nell’alta valle del Po, i Leponzì nella regione del Lago Maggiore. Seguivano, a oriente del Ticino, gli Insubri, cui la tradizione ascriveva la conquista della etnisca Melpo (v. al § 39) negli stessi giorni in cui Veio si arrendeva ai Romani, e più ad oriente, i Cenomani, fra l’Oglio e l’Adige, di là dal quale la resistenza dei Veneti aveva rappresentato per i Celti un ostacolo insuperabile. A sud del Po vennero a prender posto le tribù gal¬ liche degli Anamari, ad occidente della Trebbia, e quelle dei Lingoni e dei Boi, che occuparono tutta l’Emilia fino al mare (cambiando questi ultimi il nome dell’etrusca Felsina in quello di Bononia1', infine i Senoni, che sce¬ sero lungo il litorale adriatico, da Ravenna fin quasi ad Ancona. Se gli Etruschi non poterono opporre ai Galli la stessa fortunata resi¬ stenza mercé la quale, invece, i Veneti seppero impedir loro l’accesso sulla riva sinistra dell’Adige, ciò si dovè, oltre alle cause di indole generale che abbiamo sopra enumerato, al modo come s era effettuata e si manteneva
1 Secondo il parere di qualche studioso, il nome di Bononia non deriverebbe dall’etnico dei Boii, bensì dal gallico bona, che significa « città » (cfr. C. Tagliavini, in «Oggi») 1952, n. 27, p. 44.
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l’occupazione etrusca della Padania (cfr. al § 39). Troppo scarsi di numero in confronto alla preesistente popolazione umbra, senza tentare di assor¬ birli o di assimilarla, essi si contentarono di dominarla e di organizzarla ai fini del migliore sfruttamento agricolo del paese conquistato: gli Etru¬ schi, nelle ben costrutte città, investiti delle alte cariche politiche e mili¬ tari o delle mansioni tecniche, occupati nell’industria o nel commercio; gli Umbri, sparsi nei villaggi e nei casolari della campagna, dediti alle fac¬ cende della pastorizia e dell’agricoltura. Gli Umbri si adattarono facil¬ mente alla nuova servitù; degli Etruschi transappenninici, quanti non sog¬ giacquero alla furia dell’invasione, alcuni cercarono forse di ricongiungersi coi loro connazionali della madre-patria, ma un buon numero rimase in¬ dubbiamente nelle città conquistate dai Galli: il che spiega il perdurare, anche dopo il IV secolo, di elementi della civiltà etrusca nella Cisalpina, e specialmente fra i Galli dell’Emilia, e la sapiente organizzazione agricola che rimase vanto di tutta quella regione. Mentre ancora le ultime ondate galliche stavano sistemando, a nord dell’Appennino, le recenti conquiste, un’orda di quei barbari, attraversata tutta la Toscana, investiva Chiusi e correva quindi difilato su Roma. Ciò accadde nell’anno 390 a.C. della cronologia varroniana (387/6 della cro¬ nologia greca, seguita da Polibio). Questo avvenimento, che non fu che un episodio nella storia delle migrazioni celtiche, rappresentò invece un evento di notevole gravità nel faticoso ascendere della potenza e del prestigio di Roma nell’Italia centrale. La tradizione è ricca di particolari malsicuri su questo punto della storia di Roma: noi possiamo tuttavia ricostruire lo schema più probabile dei fatti. Al principio della primavera del 390, un’orda di forse 30.000 Galli, in gran parte Senoni, valicò l’Appennino in cerca di preda e di vettovaglie, guidata da un capo valente, chiamato probabilmente Brenno. Mentre essi si e^ano fermati per qualche tempo a devastare e a predare le campagne circostanti Chiusi, arrivò nella città etrusca un’ambasceria romana, in¬ viata là probabilmente per assumere notizie esatte sulla gravità e lo scopo dell’incursione. Durante la permanenza dei messi romani in Chiusi, dovè accadere qualche fatto che irritò i Galli; probabilmente essi parteciparono a qualche sortita dei cittadini nella campagna ove scorrazzavano i barbari. Certo è che i Galli, subitamente lasciata la regione di Chiusi, si diressero a grandi giornate alla volta di Roma. Sbigottito dal grave pericolo, il Go¬ verno romano bandì la leva in massa (tumultua), mettendo in arme circa 40.000 uomini, che tentarono di fermare l’orda gallica presso la confluenza deU’Alha col Tevere; ma l’esercito romano fu disperso e non rimase altro da fare che sgombrare la città da tutti gli inermi, che si rifugiarono nelle
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vicine borgate del Lazio, e porre in stato di difesa la imprendibile ròcca del Campidoglio, racchiudendo lassù tutto quello che di prezioso si potè radunare in città. I Galli, penetrati nella città indifesa, la distrussero in gran parte; la ròcca capitolina resistette invece a lungo, finché i Celti avuta forse notizia di un attacco dei Veneti alle Iofo terre - decisero di ritornarsene in patria, col pingue bottino conquistato. I Romani avevano perduto la prima grande battaglia combattuta in cam¬ po aperto: con una disastrosa e ignominiosa sconfitta cominciava la storia di quell’esercito, cui erano riserbati secoli di gloria e di vittorie. § 57 - La restaurazione della potenza romana - Le conseguenze im¬
mediate della rotta dell’Allia furono in realtà più gravi che non quelle della devastazione della città e dei danni materiali, facilmente riparabili; il prestigio romano ne uscì compromesso e della insospettata debolezza militare rivelata ora dai Romani cercarono di approfittare i popoli di re¬ cente sottomessi e la stessa Lega Latina, cui premeva di scuotere quei rap¬ porti di subordinazione verso la potente alleata, che s'erano andati sem¬ pre più consolidando negli anni intorno al 400. Anche gli Ernici si stacca¬ rono dalla Lega e si ribellarono a Roma la maggior parte delle città etni¬ sche che già avevano dovuto accettare di esserne alleate. L’opera di rinnovamento e di restaurazione, all’interno come all’estero, fu però pronta ed energica, guidata da capi valenti e risoluti, come Mario Furio Camillo. Per difendere la città, si costruirono allora le possenti mura attri¬ buite dalla tradizione a Servio Tullio e l’esercito fu rafforzato coll’inquadra¬ mento dei cittadini nel nuovo ordinamento centuriato; contemporaneamen¬ te, l’ammissione dei plebei al consolato restituì a Roma la pace civile. Colonie latine vennero dedotte nei territori di Sutri e di Nepi. Una guerra si combattè, tra il 358 e il 351, con Faleri, con Tarquinia e con Cere; le città insorte furono sottomesse e dal 351 al 311 non si ebbero più ostilità da parte degli Etruschi. Ottenuta la sottomissione di Cere, i Roma¬ ni, avuto anche riguardo alle antiche tradizioni di amicizia, né vollero di¬ struggerla, né si risolsero ad incorporare i Ceriti nella Repubblica, come cittadini di pieno diritto. Fu creato allora, per dare ad essi una sistemazione idonea, quell’istituto del municipium, che sarà illustrato più oltre. Anche il tentativo fatto dai Volsci Anziati, di riconquistare le posizioni perdute, fu soffocato dalle armi di Roma: vittoriosi i Romani dei Volsci in una battaglia combattuta presso Lanuvio, sotto la guida di Camillo di nuovo dittatore -, incorporarono gran parte del territorio nemico in quello della Repubblica, formandone due nuove tribù (la Pomptina e la Poplilia), e costrinsero le città volsche a rientrare nella Lega. Le colonie
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latine di Satrico e di Sezia assicurarono il possesso del paese riconquistato. Con la Lega Latina Roma non ebbe a sostenere vere e proprie guerre; ma dovette piuttosto avvisare ai modi più acconci di ristabilire e di raf¬ forzare il proprio prestigio di fronte alle minori città del Lazio. La Lega tu ricostituita e a capo dell’esercito degli alleati latini non vi fu più, ora, il dictator Lalinus, ma due praetores, i quali rimanevano, in guerra, su¬ bordinati ai comandanti romani. E insieme coi Latini rientrarono ora verosimilmente nell’alleanza anche gli Ernici. Con l’annessione di Cere, di Tuscolo (avvenuta, pare, dopo il 381 a.C.) e dell’Agro Pontino, il territorio romano s’era accresciuto di più che mille chilometri quadrati e toccava così i tremila. E il prestigio delle armi ro¬ mane fu riconfermato anche dalla facilità con cui l’esercito di Roma ri¬ buttò i tentativi di incursione nel Lazio che i Galli rinnovarono, secondo la tradizione, nel 367, nel 361 o 360, e infine nel 357. Il servigio reso alle genti tutte della penisola, così ai Sanniti come agli Etruschi, ai Campani e ai Greci, diffuse simpaticamente anche fuori di Roma il nome di questa forte gente italica fattasi baluardo contro i barbari che scende¬ vano dal settentrione. Nel 354 Roma concludeva un trattato d’alleanza coi Sanniti; nel 348 rinnovava quello con Cartagine, assicurandosi il riconoscimento del control¬ lo della costa fino a Terracina, in cambio della rinuncia per sé e per i propri alleati a navigare nelle acque del Mediterraneo occidentale (cfr. al § 43).
IV ROMA E GLI OSCHI § 58 - Gli Oschi nell’Italia Centrale e Meridionale - Già nel seco¬ lo VII, premuti da Umbri e Sabelli, gli Oschi avevano iniziato la loro discesa verso il mezzogiorno e le coste del Tirreno (v. al §31). Erano Oschi quei Sanniti che conosciamo, in un primo tempo, distesi dal bacino del Sangro all alta valle delI’Ofanto e divisi nelle quattro tribù principali dei Carecini, dei Pentri, degli Irpini e dei Caudini. Affini ai Sanniti erano i Frentani, stanziati nelle valli inferiori del versante adriatico e confinanti, a sud, con le popolazioni iapigie dell’Apulia. La scarsa produttività delle regioni montagnose occupate obbligò ben presto i Sanniti a rinnovare le tradizionali migrazioni del ver sacrum: scendendo per la valle del Volturno nel paese degli Ausoni, vennero a formare qui il popolo dei Sidicini, il cui centro maggiore fu Teano.
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ROMA E OLI OSCHI
Nel corso del V secolo, gli Oschi seguitarono a scendere verso i piani della Campania, venendo qui in contatto con le reliquie della colonizzazione etrusca nell’interno e con le colonie greco-calcidesi della costa: Cuma, Partenope, Sorrento, Dicearchia, quest’ultima fondata, secondo la tra¬ dizione, da cittadini di Samo. Gli elementi residui della popolazione etni¬ sca, già assai intimamente fusi con gli indigeni Opici, furono, meglio che distrutti, assorbiti dall’infiltrazione delle sopravvenienti stirpi sannitiche: si spiegano così le sopravvivenze notevoli, fino al III e al II secolo, della civiltà etrusca in queste plaghe. Delle maggiori città della Campania, la prima ad esser conquistata dai Sanniti fu Capua; poco dopo fu la volta di Cuma, i cui abitanti si rifugiarono in parte a Napoli (Neapolis), fondata dai Cumani stessi sulle rovine dell’antica Partenope da essi distrutta. Nello scorcio del V secolo e nei primi decenni del IV le altre città greche della Campania caddero l’una dopo l’altra in potere delle stirpi osche, all’infuori di Napoli, la quale rimase l’unica città greca a nord del Silaro, indipendente e florida nei commerci e sul mare, e seppe conservare la sua indipendenza abbandonando ogni intransigenza di fronte agli Oschi, che furono largamente ammessi nella cittadinanza napolitana. I quali Oschi — cioè le stirpi sannitiche che si erano stanziate fra il V olturno e il Silaro avevano formato allora una nuova Lega di popoli sotto la presidenza di Capua e dal nome di questa città si denominarono, con parola evidente¬ mente greca, Kappanoi; onde il latino Campani. Contemporaneamente, già fin dalla metà del V secolo, si andava rapida¬ mente effettuando verso l’Italia di mezzogiorno la seconda espansione delle stirpi sannitiche.
Distaccatosi
dalla gente degli Irpini,
un altro
gruppo di tribù si spinge risolutamente nella regione compresa tra le sor¬ genti del Seie e quelle del Bradano, sovrapponendosi ai preesistenti Enotrì: il nuovo popolo ebbe il nome di Lucani (forse « il popolo del lupo »). Nella nuova regione da loro occupata, i Lucani vennero in contatto, e presto in rapporti ostili, con le città italiote, e prima di tutto con Turi, che proprio allora era uscita malconcia dalla guerra decennale combattuta con Taranto per il possesso della Siritide ( 433/2). Tuttavia per qualche decennio ancora gli Italioti poterono opporre ef¬ ficace resistenza all’invasione italica, sia per aver saputo riunire le loro forze in una confederazione, la Lega Italiota, che fu vitale per quasi un secolo, sia per l’aiuto che ricevettero ripetutamente dalla restaurata po¬ tenza di Siracusa (cfr. al § 43). Ma più nulla potè fare Siracusa
r, per .proteggere i Greci d’Italia quando,
intorno al 356 a.C., nella parte più meridionale del territorio occupato dai Lucani, nel bacino del Crati, si staccò dalla federazione lucana un gruppo
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMAKA
di fiere tribù, quelle dei Bruzì, che si costituirono in Lega autonoma, sta¬ bilendo il centro nella città di Consentici (Cosenza).
Dal nome di quelle
tribù si chiamò Brutium il territorio da esse occupato, cioè la penisola della Sila (l’odierna Calabria). Del travolgente impeto dei nuovi assalitori cadevano preda, in brevissimo tempo, Sibari sul Traente, Terina e Ipponio; mentre i Lucani convergevano tutta la spinta della loro espansione verso sud-est, in direzione di Taranto, -unendo nell’interesse comune loro sforzi a quelli degli Iàpigi, allo scopo di abbattere la potente città italiota. Dalla madre-patria Sparta fu inviato in soccorso dei Tarantini il re Archidamo (342 a.C.), il figlio di Agesilao, che, dopo qualche successo, perì in battaglia presso Manduria, nella penisola Salentina. I Lucani si impadronirono allora della stessa Eraclea, sede federale della Lega Italiota. Più largo respiro e più promettente svolgimento ebbe l’impresa iniziata pochi anni più tardi dal re Alessandro d’Epiro, della dinastia dei Molossi, fratello di Olimpiade, la madre di Alessandro Magno. Il Molosso aveva so¬ gnato di potere svolgere in Occidente un’azione degna di stare al para¬ gone oon quella che il giovine suo nipote iniziava proprio allora nell’Asia Minore contro la Persia, e in realtà egli riportò vittorie decisive sugli Iàpigi e i Messapi, portando le sue schiere fino a Siponto, e voltosi quindi con¬ tro i Lucani e i Sanniti, coalizzati ai suoi danni, attraversò con l’esercito tutta la Lucania e batté a Pesto gli eserciti avversari riuniti, conquistando quindi Consenzia, capitale dei Bruzi. A questo punto però i Tarantini, insofferenti della dura disciplina militare imposta dall’Epirota, gli si rivol¬ tarono contro: il re cercò di mantenere le sue posizioni appoggiandosi a Turi e cercando 1 alleanza dei Romani; ma fu sconfitto ed ucciso presso Pandosia, nella valle del Orati (inverno 331/0). § 59 - Roma, Latini e Campani alla metà del IV secolo - Frattanto
anche i Sanniti, seguendo l’esempio dei loro confratelli di mezzogiorno, avevano costituito con la gente affine dei Frentani una forte Lega, il cui territorio, di circa 20.000 Km2, occupava la penisola in tutta la sua lar¬ ghezza, dal Golfo di Salerno sul Tirreno alla costa adriatica tra la foce del Sangro e il Gargano, e, con la sua popolazione probabilmente supe¬ riore a quella della Lega romano-latina, formava il maggiore organismo politico in Italia; anche se il potere centrale di esso (rappresentato da un magistrato annuo, il meddix tuticus, con un Consiglio federale) si presentava assai meno efficiente di quello esercitato da Roma nella sua Lega. Proprio in questi anni i Romani, avendo accolto nella loro Lega le due cit¬ tà di Fondi e di Formia, erano già in rapporti politici con gli Aurunci e si trovavano in immediato contatto con la Campania. A questo punto la tradi-
ROMA
E
OLI OSCH1
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zione ci parla di un grave conflitto scoppiato fra la Lega sannitica e i Sidicini di Teano, i quali ricorsero per aiuto alla Lega campana; i Campani, a loro volta, ritenendo insufficienti le loro forze a far fronte a quelle dei Sanniti, avrebbero sollecitato l’aiuto di Roma, offrendo ad essa addirittura la loro deditio. Scoppiò così quella « prima guerra sannitica » di cui la tra¬ dizione (conservata principalmente da Tito Livio) racconta numerosi epi¬ sodi e le tre battaglie del monte Gauro, di Saticula e di Suessula, confer¬ mate per altro anche dalle registrazioni dei Fasti trionfali (343 a.C.). Una parte della critica moderna è poco incline a prestar fede a questo racconto e preferisce riguardarlo come un’invenzione annalistica, elaborata proba¬ bilmente per giustificare e spiegare gli avvenimenti degli anni successivi. Questi avvenimenti, indubbiamente storici, sono la sollevazione dei La¬ tini e dei Campani contro Roma. I Latini, dopo la ricostituzione della Lega all’indomani dell’invasione gallica, avevano veduto trasformarsi rapida¬ mente la loro condizione di fronte a Roma da quella di alleati in quella di sudditi; onde la sollevazione generale dei Latini contro i Romani per decidere del predominio degli uni o degli altri nel Lazio. Coi Latini si allearono i Campani, sentendosi
anch’essi minacciati dalla potenza ro¬
mana (avessero anch’essi, o no, accettato qualche tempo prima di entrare in lega con Roma), mentre coi Romani si allearono addirittura i Sanniti. Questa guerra, nella quale i Volaci combatterono a fianco dei Latini contro Roma, è sostanzialmente storica; ma i particolari che di essa ci danno la tradizione annalistica e i Fasti trionfali non sono meno confusi e contraddittori di quelli della supposta «prima guerra sannitica ». La guerra si sarebbe conclusa in tre campagne (dal 340 al 338), nella prima delle quali furono vinti i Campani a Sinuessa, e nelle altre fu fiaccata la resistenza dei Latini. I Sanniti rimasero fedeli al loro trattato con Roma e si astennero dall’intervenire nel conflitto. Della vittoria i Romani usarono con grande moderazione, che valse loro la riconoscenza e l’amicizia dei due popoli vinti: i Latini non vennero mai più meno (salvo qualche caso isolato) alla devozione verso i Romani, e, quanto ai Campani, soltanto dalle vittorie schiaccianti di Annibale si lasciarono indurre ad abbandonare i Romani, nell’illusione - che però, in quel momento appariva una ben fondata speranza - di fare di Capua la città egèmone di tutta l’Italia. I Campani dovettero bensì cedere a Roma il fertile agro Falerno, sulla destra del Volturno, dove fu costituita, nel 318, la tribù Falerna e dove venne impiantata la colonia latina di Cales; ma la condizione di cives sine suffragio, con la quale vennero inclusi nella cittadinanza romana, fu addolcita da non pochi privilegi, fra i quali è da tener conto specialmente del diritto di batter moneta propria (ma col
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nome di Roma) e di conservare i propri magistrati e la propria legislazione per tutti gli affari interni. D’altra parte i Romani si trovarono ora avvan¬ taggiati dalle risorse economiche ed agricole del ricco territorio di Capua e dall’apporto della numerosa e pregiata cavalleria campana. Di non minore accorgimento politico dettero prova i Romani negli ac¬ cordi che essi conclusero con i Latini e mercé i quali essi fecero del Lazio un saldo organismo federale. La Lega Latina di Aricia fu dunque disciolta e si fece anzi un passo più avanti, perché i Romani ceteris populis conulna commerciaque et concilia inter se ademerunt (Livio, Vili, 14, 10), ricono¬ scendo invece ai Latini il diritto di commercio e di connubio con Roma. Con queste limitazioni, le singole città furono unite a Roma con separati trattati d’alleanza e con differenti formule giuridiche. Le minori città dei Prischi Latini (Aricia, Lanuvio, Lavinio, Nomento, Pedo, Tuscolo ed anche Labici) vennero invece accolte nella cittadinanza romana con pieni di¬ ritti. I trattati di alleanza furono applicati alle maggiori città dei Prischi Latini (Tivoli, Preneste, Cora) e alle colonie latine fondate in seguito alle comuni vittorie riportate dalla Lega romano-latina (Circei, Norba, Sezia, Signia, Nepi, Ardea, Gabi). Gli Ernici, rimasti durante la guerra fedel¬ mente a fianco dei Romani, furono lasciati nell’antica condizione di alleati. Più energicamente procedé il senato romano nei riguardi dei Volsci e degli Aurunci: ai quattro centri maggiori dei Volsci - Priverno, Velletri, Anzio, Terracina - fu confiscata la più gran parte del territorio, che servì a co¬ stituire, nel 318, un’altra tribù, la Ufentina, e la popolazione volsca fu incorporata, come cives sine suffragio, nella Repubblica; la quale condizione però era già stata trasformata in quella di cittadini con pieni diritti prima della fine del III secolo. Fondi e Formia, nel paese degli Aurunci, furono incorporati tra i cives sine suffragio-, ai Sidicini venne riconosciuta la qualità di alleati. Intorno al 330 a.C. la superficie del territorio romano superava i 6.000 kma e quasi altrettanto misurava il territorio degli alleati e delle colonie latine. Soltanto la Lega dei Sanniti poteva vantare, fra gli Stati della penisola, una maggiore ampiezza di territorio, ma la sua popolazione non raggiun¬ geva quella della Lega romano-latino-campana (circa 800.000 abitanti). § 60 - Le guerre romano - sannitiche - Il grande conflitto coi Sanni¬
ti scoppiò nel 326, quando Napoli si arrese ai Romani che l’assediavano da un anno, e fu ammessa, con ottime condizioni, nell’alleanza romana. Ogni via di espansione verso la costa campana restava ora chiusa ai San¬ niti. Questi si gettarono allora con tutta l’anima e con tutte le loro forze in quella lotta che doveva infuriare per quarant’anni nelle impervie con-
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trade dell’Appennino meridionale e decidere dell’egemonia
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della stirpe
osca o di quella latina nella penisola. Nuovi problemi militari si presentarono ora ai comandanti romani, co¬ stretti a combattere un nemico che conduceva una guerra di insidie e di posizione nelle mille fortezze naturali che il suolo gli offriva. Le legioni fu¬ rono addestrate alla guerra di montagna mediante la suddivisione in ma¬ nipoli (tattica manipolare); anche la minuscola flotta romana entrò ora in azione lungo la costa. Nei primi anni di guerra non vi furono battaglie campali. Nel 321, però, un esercito romano che si era inoltrato incautamente nel Sannio, fu circondato dai Sanniti nelle gole di Caudio (Furculae Càudinae) e obbli¬ gato a capitolare. I Romani dovettero firmare allora una pace assai dura, che la tradizione ha falsamente presentato come un armistizio subito dopo disdetto. La guerra riarse solo cinque anni più tardi (316 a.C.), col van¬ taggio, per i Romani, di varie alleanze stipulate o consolidate con i popoli dell’Apulia. Sicché nella seconda guerra il vantaggio dei Romani si fece via via sempre più deciso: furono riconquistate le colonie perdute nella guerra precedente e fondata quella di Luceria, in Apulia. E anche quando i Sanniti ebbero ottenuto l’aiuto di alcune città etrusche e di varie tribù sabelliche dell’Italia centrale, e perfino degli Equi e degli Ernici, non venne meno la superiorità delle armi romane. Sopraffatti gli Etruschi da Q. Fabio Ruffiano, dovettero stipulare una tregua di quarant’anni (308); e nel 304 fu conclusa fra Roma e il Sannio la pace, che lasciava intatto il territorio della Lega sannitica, ma accerchiato dalle colonie di Roma. Anche le po¬ polazioni ribelli dell’Italia centrale vennero obbligate, come già i Latini nel 338, a stipulare singoli patti di alleanza con Roma. Nell’ultima guerra che i Sanniti combatterono contro Roma (298-290), riuscì ad essi di formare una potente coalizione con i Galli e gli Etruschi e di congiungere il proprio esercito con le forze degli alleati. Si combattè allora, a Sentino (non lungi da Camerino), la «battaglia delle nazioni» della storia italica antica; la vittoria di Roma decise allora per sempre delle future sorti etniche e politiche dei popoli della penisola: a Sentino si decise se vi sarebbe stata, nei secoli avvenire, soltanto un’anonima penisola mediter¬ ranea, albergo di genti e di civiltà molteplici e fra loro estranee, indiffe¬ renti o contrastanti, oppure un’Italia geograficamente ed etnicamente una, per sempre Nazione e per sempre, dunque, o in atto o in potenza, Stato. La guerra si protrasse però ancora per alcuni anni nel Sannio; e solo dopo che i Romani ebbero fondato una seconda colonia latina in Puglia, Venusia, bloccando così completamente il paese da quella parte, i San¬ niti si decisero a chiedere la pace. L’ottennero, a condizione di entrare 13 - GlA5 STELLI, Trattato di Storia romana
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
nell’alleanza romana, col territorio nazionale quasi intatto ma privi or¬ mai di qualunque speranza di potere, in avvenire, congiungersi con gli alleati di ieri per rinnovare la guerra. In quell’anno stesso infatti, i Romani, vincendo le ultime resistenze dei Sabini e dei Pretuzi, ne incorporavano quasi tutto il territorio nello Stato, accordando alle popolazioni la citta¬ dinanza senza suffragio: era annullata così ogni possibilità di contatto fra il Sannio e le regioni dell’Italia centrale a nord e ad est del Lazio. In una parte del territorio confiscato vennero fondate le colonie latine di Adria e di Castronuovo. Anche le popolazioni che avevano spalleggiato nell’ultima guerra i San¬ niti, vennero duramente punite. Ridotti all’obbedienza Galli Senoni ed Umbri, i primi furono multati di una parte del loro territorio, ove fu poi dedotta la colonia romana di Sena Gallica (Sinigaglia); delle città umbre che avevano aderito alla coalizione antiromana, alcune furono incluse nell’alleanza, altre incorporate nel territorio romano; gli Etruschi ebbero pace a buone condizioni, avendo però dovuto quasi tutte le città dell’Etruria centrale (Volsinì, Arezzo, Perugia, Chiusi, Vulci, Rosolie) stipulare trattati di alleanza con Roma, che non furono invece imposti per ora almeno a quanto pare - alle città dell’Etruria settentrionale. Un tentativo dei Galli Senoni di insorgere contro le umilianti condizioni in cui erano stati posti dai Romani, si iniziò con uno strepitoso successo dei barbari: la battaglia di Arezzo, nella quale lasciò la vita il console Q. Cecilio Metello con sette tribuni militari e 13 mila soldati (285 a.C.). Tutti gli antichi nemici, compresi i Lucani e i Bruzi, furono di nuovo in armi contro Roma, la quale però, questa volta, soffocò rapidamente l’in¬ cipiente insurrezione generale, anche con la sapiente scelta del nuovo co¬ mandante, Manio Curio Dentato, console nel 284. Questi piombò fra i Senoni e ne fece strage; il loro territorio fu tutto quanto incorporato in quello della Repubblica. L’anno dopo, i Galli Boi, che avevano tentato di far le vendette dei loro connazionali, furono battuti presso il lago Vadimone da un esercito romano comandato dal console P. Cornelio Dolabella, e costretti alla pace. Il territorio della Repubblica misurava ormai non meno di 20.000 km2, sui quali il primo censimento, posteriore alla terza guerra sannitica, in¬ dicava come residente una popolazione di più di un milione di anime, compresi gli stranieri e gli schiavi; il territorio degli alleati s’era triplicato in venti anni e abbracciava, verso il 280, 60.000 km2, con circa 2 milioni di abitanti. Coi suoi 80.000 km2, e i suoi 3 milioni di abitanti, la federa¬ zione romano-italica restava ora superata, tra gli Stati mediterranei, sol¬ tanto da Cartagine e dai Regni di Siria e d’Egitto.
ROMA
E
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V ROMA E GLI ITALIOTI: PIRRO IN OCCIDENTE § 61 - Lucani, Bruzi e Italioti nella seconda metà del IV secolo -
Nel corso delle guerre sannitiche i Romani fecero i primi loro incontri diretti con gli Oschi più meridionali - Lucani e Bruzi - e con i Greci Italioti. Dopo la pace intervenuta nel 304 fra Romani e Sanniti, i Lucani si ri¬ volsero a Roma per cercarne l’alleanza nella guerra che si preparavano a rinnovare contro Taranto; e i Romani furono ben lieti di accordarla, non tanto per combattere i Greci Italioti quanto per separare quel bellicoso popolo meridionale dai loro nemici di ieri e, come tutto faceva prevedere, di domani. L’alleanza fu conclusa nel 303 o nel 302; e i Tarantini, paven¬ tandone il pericolo più grave di quanto in realtà poi si dimostrò, cercarono per la terza volta aiuti dalla Grecia. Sparta inviò loro un principe reale, Gleonimo, figlio secondogenito del re Cleomene II, della dinastia degli Agiadi. Arrivato in Italia, Cleonimo organizzò rapidamente un esercito di 20.000 uomini, in gran parte mercenari e italioti; sicché i Romani tro¬ varono opportuno far subito pace con Taranto, la quale accolse ben volen¬ tieri l’offerta di pace, anche per sbarazzarsi al più presto della presenza dell’incomodo protettore. Cleonimo, avversato dagli Italioti, che avevano indovinato subito il suo recondito disegno, di formarsi un principato nel¬ l’Italia meridionale, dovè partirsene dalla Magna Grecia e far ritorno in patria. La breve permanenza di Cleonimo in Italia fruttò ai Tarantini quel vantaggioso trattato con Roma, nel quale si faceva divieto ai Romani di spingersi con navi da guerra più ad oriente del promontorio Lacinio (presso Crotone), imponendo in tal modo ad essi la rinuncia a navigare nello Ionio e nell’Adriatico. Partito Cleonimo dall’Italia, riapertosi di lì a poco il conflitto tra Roma e il Sannio, i Lucani si disposero a passare di nuovo alle offese, spalleg¬ giati questa volta, come almeno pare, anche dai Bruzi. Gli Italioti cerca¬ rono ora e trovarono aiuto da parte di Agatocle, tiranno (ma col titolo di re) di Siracusa: d’altra parte i Romani, con un minaccioso spiegamento di forze in Lucania, obbligarono quel popolo a riconfermare la sua allean¬ za con Roma e a consegnare ostaggi.
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La morte di Agatocle fu per Bruzi e Lucani il segnale della riscossa: tosto i Bruzi ricuperarono Ipponio, momentaneamente perduta, e i Lucani as¬ salirono di nuovo Turi, che da più di due secoli opponeva loro una insupe¬ rabile resistenza. Allora i Turini, non potendo ricever soccorsi da Taranto, con cui erano stati fin dall’origine in rapporti ostili, si rivolsero decisa¬ mente ai Romani, i quali accolsero favorevolmente l’invito: attirando a se gli Italioti, Roma avrebbe chiuso iri mezzo alle due branche della sua tena¬ glia tutti gli Oschi meridionali, sui sentimenti dei quali non c’era da farsi illusioni. Nel 285 un presidio romano prendeva quartiere in Turi, per ga¬ rantire la città da eventuali assalti dei Lucani, alleati anch’essi, si noti bene, dei Romani. § 62 - La guerra con Taranto : Pirro in Italia - Di parere diverso dagli altri Italioti erano però i Tarantini, che, assai più forti e non inti¬ moriti, per ora, dalla pressione italica, giudicavano invece più pericoloso per la loro indipendenza l’intervento dei Romani nella Magna Grecia. Proprio il trattato stipulato fra Roma e Taranto nel 302 o nel 301 a.C. doveva ora divenire casus belli fra le due città. Padroni ormai della Lucania e protettori delle città italiote, i Romani ritennero che questa clausola non fosse più oltre compatibile con la dignità e le esigenze della loro politica: e un giorno dell’estate dell’anno 282, una piccola squadra romana di dieci navi, dopo aver navigato lungo la costa del Golfo di Taranto, si avanzò fin dinanzi al porto della città. Non voleva esser questa una minaccia all’indipendenza della Repubblica italiota e neppure, come sembra, una intenzionale provocazione, ma soltanto una fiera e orgogliosa affermazione di dignità e di potenza, alla quale si poteva sperare, a Roma, che i Tarantini avrebbero fatto buon viso. Non fu così. Il popolo tarantino, supponendo che quella parata di forze fosse stata concordata dal comandante romano coi capi del partito oligar¬ chico che aspiravano al governo della città, assalì le navi romane, ne af¬ fondò alcune, costrinse le altre a ritirarsi. Da questo incidente, nonostante tutti gli sforzi compiuti dal Governo romano per conservare la pace, ebbe inizio la guerra. La volontà di guerra dei Tarantini trova la sua spiega¬ zione nel fatto che essi si erano frattanto assicurati l’aiuto di Pirro, re dell’Epiro, il più valente condottiero, allora, del mondo ellenistico, che accarezzava il sogno di riunire sotto il suo scettro tutti i Greci d’Italia e di Sicilia, dopo aver sottratto il Mezzogiorno della penisola al dominio romano e aver cacciato i Cartaginesi dalla Sicilia. Quando l’esercito di Pirro, nella primavera del 280, sbarcò in Italia (circa 30.000 uomini con abbondante cavalleria e 20 elefanti, animali fino
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allora ignoti ai Romani, che li chiamarono « buoi di Lucania »), i coman¬ danti romani si trovarono di fronte ad un compito superiore alle loro pos¬ sibilità e alla loro capacità. Pirro li vinse in due battaglie, ad Eraclea e ad Ascoli di Puglia; parecchie città greche, Sanniti e Lucani passarono dalla sua parte. Un tentativo dell’Epirota di marciare su Roma, guada¬ gnandosene gli alleati Campani e Latini, andò fallito. Egli preferì allora trattare una pace di compromesso e affrettare il suo sbarco in Sicilia; ma le trattative fallirono, sia per l’opposizione di una parte del senato, sia per l’offerta di alleanza avanzata allora da Cartagine al Governo romano. § 63 - Pirro in Sicilia: la capitolazione di Taranto - Dopo aver bat¬
tuto i Cartaginesi, Timoleonte s’era dedicato tutto a ridonare la salute e la vita all’elemento greco di Sicilia contro i mali interni ed esterni che 10 mettevano in pericolo (vedi al § 42); ma egli non potè sradicare dall ani¬ mo dei Sicelioti né il geloso particolarismo cittadino, sempre pronto ad armare una città contro l’altra per i più futili motivi, né la faziosa violen¬ za dei partiti politici, da troppo tempo abituati a preporre 1 interesse di parte al bene dello Stato. E delle discordie politiche che ricominciarono di lì a poco a sconvolgere la vita di Siracusa, approfittò ora - come già un secolo prima Dionisio - un esperto ufficiale e valente oratore di parte democratica, Agatocle: partecipando attivamente alle lotte civili, fu duevolte in esilio e la seconda volta rientrò in città mercé la mediazione eser¬ citata fra i due partiti in guerra dal generale cartaginese Amilcare (318 a.C.). Due anni dopo, Agatocle s’impadronì con un colpo di stato del sommo potere nella città, col titolo di stratego con pieni poteri (arparrnfò; aÙToapaxcop); ti¬ tolo che, nel 305/4, cambiò con quello di re, ad imitazione dei Diadochi. Riprendendo il programma del primo Dionisio, Agatocle si propose di rialzare le sorti della nazione ellenica in occidente, liberandola, in Sicilia, dal pericolo cartaginese, in Italia, dalla minaccia delle popolazioni indigene. E contro i Cartaginesi e contro gli Oschi Agatocle combattè con audacia e con varia fortuna, portando anche il suo esercito in Africa e ristabilendo 11 predominio di Siracusa su tutta la Sicilia greca, salvo Agrigento (304); in Italia inviò il suo esercito nel 299/8, lasciandone per tre anni il comando al figlio Arcagato e mettendo a dovere i Bruzi, ai quali tolse Ippomo, co¬ stringendoli altresì a consegnare ostaggi. Morì nel 289; disgustato per ì contrasti sorti intorno alla designazione del successore, prima di morire decretò egli stesso la fine della signoria ch'egli aveva fondato, restituendo i Siracusani in libera repubblica. Le città greche di Sicilia riacquistarono allora ciascuna la propria auto¬ nomia; e non parve vero a Cartagine d’incoraggiare ed aiutare il nuovo
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
moto particolaristico. Sorsero varie nuove tirannidi: a Siracusa si affermò il potere personale di Iceta (288-279). Ivi i numerosi mercenari campani del tiranno, non paghi del diritto di cittadinanza loro accordato, venduti i loro beni, deliberarono di tornarsene in patria; ma strada facendo s’im¬ padronirono del piccolo Stato di Messana, assumendo il nome - con cui venivano ordinariamente designati dai Greci dell’isola - di Mamertini (cioè « uomini di Marte », soldati di mestiere). Proprio allora fu stipulata l’alleanza fra Roma e Cartagine, mentre Pirro trasportava il suo esercito in Sicilia (278 a.C.). Ivi la guerra infuriò per tre anni senza che Pirro riu¬ scisse però ad ottenere un resultato decisivo; mentre frattanto i Romani ristabilivano la situazione in Italia, riconducendo all’obbienza Sanniti e Lucani. Riportato l’esercito in Italia, Pirro tentò ancora la sorte d^lle armi; ma a Benevento (275) i Romani ributtarono con successo l’assalto degli Epiroti. Non rimase al re che rinunziare all’impresa e ritornare nel suo Stato, ove urgeva la sua presenza. Taranto si arrese tre anni dopo (272 a.C.) ai Romani e dovette entrare nella Federazione italica, la quale così, nel 270, coll’aggregazione anche di Reggio, toccava l’estremo confine meridionale della penisola. § 64 - Sistemazione definitiva dell’Italia Meridionale - Nello stesso
anno 272 i Romani costrinsero alla pace anche i tre popoli italici che ave¬ vano fatto causa comune con l’Epirota: i Bruzi, i Lucani e i Sanniti. Nel territorio confiscato ai Lucani fu dedotta la colonia latina di Pesto (nella regione della greca Posidonia), in quello tolto ai Bruzi fu stanziata piu tardi (nel 237 o, più probabilmente, nel 192 a.C.) la colonia romana di Vibo Valentia (nel sito della greca Ipponio). Il territorio dei Sanniti fu ridotto a circa 8.000 km4 e i popoli degli Irpini, dei Pentri e dei Caudini vennero obbligati a stipulare separati patti d’alleanza con la Repubblica romana: nel territorio ad essi confiscato furono dedotte le colonie latine di Benevento (268 a.C.) e di Esernia. Fu così domato finalmente il Sannio, che non si ribellò più al dominio romano (se non parzialmente durante la guerra annibalica) fino alla guerra sociale. Anche tutte le altre città italiote accettarono allora di stringere alleanza con Roma e accolsero nelle loro acropoli presidi romani. In questi stessi anni (269 e 268 a.C.) furono domate le insurrezioni dei Picenti e degli Umbri di Sarsina, i quali ebbero confiscata gran parte dei loro territori e vennero incorporati nello Stato romano come cives sine suffragio. Sorte simile toccò alle genti iapigie dei Calabri e dei Salentini, cui fu tolto il territorio di Brindisi, che divenne, circa vent anni dopo! sede di una colonia latina.
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A queste operazioni va ricongiunta cronologicamente la distruzione dell’etrusca Volsinì, dove Roma intervenne per aiutare la classe patrizia ad aver ragione della plebe che le si era rivoltata: assediata per un anno (265 a.C.), la città si arrese a Q. Fabio Gurgite (il padre del Temporeggiatore) e fu distrutta e ricostruita sulla riva del vicino lago che da essa prese il nome (oggi Bolsena). § 65 - L’Italia nel governo di Roma -» Grandissimi furono per Roma gli effetti morali del fallimento dell’impresa di Pirro in Italia. Tutto il mondo greco rivolse ora la sua attenzione sulla potente città italica, della quale si sarebbe dovuto, d’allora innanzi, tener gran conto in quelle com¬ binazioni politiche delle quali tanto si campiacevano i sovrani ellenistici; e proprio il più potente di essi, allora, Tolomeo Filadelfo, aveva inviato nel 273 un’ambasciata ai Romani per allacciare con essi rapporti di com¬ mercio e di amicizia. In realtà era un ben potente complesso politico quello che stringeva ora in una sola federazione tutte le genti della penisola italica da Pisa e da Rimini fino allo Stretto di Messina. Su di una superficie totale di 130.000 chilometri quadrati, soltanto circa 25.000 erano di territorio romano, mentre 12.000 appartenevano alle città e alle colonie di diritto latino; i rimanenti andavano divisi fra i popoli alleati; su questo territorio vive¬ vano circa un milione di cittadini romani e più del doppio fra alleati e Latini. Intorno al 271 a.C. l’unificazione politica dell’Italia peninsulare era dun¬ que un fatto compiuto; circa due secoli più tardi anche la pianura padana verrà compresa dentro questo grande organismo politico e il concetto e il nome d’Italia si estenderanno allora sempre più a nord, fino allo spar¬ tiacque alpino (cfr. al § 17). È lecito, a questo punto, porsi un problema; questa unificazione politica dell’Italia, faticosamente conseguita dai Romani con due secoli di lotte quasi ininterrotte, potrebbe essere riguardata come un’opera compiuta in base ad un preordinato piano d azione, che abbia condotto alle succes¬ sive guerre contro gli Etruschi, i Galli, gli Umbri, i Sanniti, i Lucani, Ta¬ ranto, col pensiero fisso alla mèta, da raggiungersi in un tempo più o meno lontano, dell’unità politica della penisola ? Basta avere enunciato così il problema perché debba esser chiaro ad ognuno che ad esso non si può ri¬ spondere che negativamente. I governanti romani non potevano conce¬ pire né formulare un piano di unificazione dell’Italia, semplicemente per¬ ché una « Italia », etnograficamente ed anche fisicamente conformata e delimitata così come da tanti secoli siamo abituati a pensarla e a cono-
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scoria, non esistè nel concetto degli antichi finché Roma non l’ebbe creata. L’Italia è fattura di Roma: e non soltanto la nazione,
il popolo
italiano; ma, oso ripeterlo, anche l’idea, la concezione dell’Italia fisica, del¬ l’Italia regione geografica, che pure oggi ci è così familiare e ovvia, prese forma soltanto dopo e in conseguenza della unificazione politica ed etnica di tutta la regione a sud delle Alpi. Le cause delle guerre e delle conquiste romane durante i primi tre se¬ coli della repubblica vanno cercate al di fuori di un siffatto ordine pro¬ grammatico. Rispondono, è vero, anch’esse ad un programma d’azione, ma questo programma è quello della « difesa preventiva »: le successive guerre che Roma ha combattuto e vinto contro i popoli dell’Italia centrale e meridionale, si sono presentate, volta per volta, come necessarie o ine¬ vitabili, o anche solo opportune, per ragioni di incompatibilità o di sicurez¬ za, ai governanti romani che, caso per caso, hanno dovuto decidere della necessità o della convenienza di affrontarle. Così i Romani, dopo aver dovuto decidere del primato fra le città latine, poscia del primato (e cioè, dell’indipendenza politica) fra Latini ed Etruschi, hanno attaccato la Federazione sannitica prima che questa, conquistando la Campania e la costa del Tirreno, -divenisse tanto potente da porre in pericolo ogni ulte¬ riore progresso e la stessa indipendenza del Lazio. In seguito, la necessità di salvaguardare e vigilare le recenti conquiste dell’Italia meridionale, ha spinto i Romani ad esigere il libero uso delle coste e dei porti della Magna Grecia, provocando così il conflitto con Taranto. Vedremo in seguito come a questo motivo obbedisca ancora la prima delle grandi guerre che hanno dato a Roma il dominio del mondo: la prima guerra punica. § 66 - Struttura politica dello Stato romano alla metà del III secolo
a. C. — Nel periodo piu antico della sua storia, Roma non ci appare politi¬ camente molto diversa da una polis greca: anch’essa è cioè una Città-Stato, ossia uno Stato composto di un’unica città col suo territorio rurale cospar¬ so di borghi e di villaggi ; le vicine città vinte venivano distrutte oppure incorporate col loro territorio in quello della città e private di qualunque forma di esistenza civica e amministrativa. Ma dopo il 400 a.C., le vittorie sugli Etruschi, sui Volsci, sulla Lega latina, con la conseguente annessione di numerose e importanti città, resero inapplicabile un metodo così sem¬ plicistico e fecero considerare l’opportunità e il vantaggio di conservare integri e con vita propria e autonoma i nuovi centri conquistati. Dalla metà del IV secolo in poi, cominciamo così a trovare, nei terri¬ tori conquistati e annessi allo Stato romano, un numero sempre crescente
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di queste città, che portano il nome di municipio,: nome che designò, in origine, i centri abitati tenuti ai doveri (munia) propri del cittadino ro¬ mano, senza averne i diritti, ma che in seguito, quando anche i diritti dei cittadini furono concessi a molte di quelle città, indicò semplicemente i Comuni amministrativamente autonomi. I municipi conservavano, generalmente, i loro magistrati ordinari e il loro Consiglio cittadino (o senato), eletti dai cittadini stessi del Comune; s’intende che il senato e i magistrati comunali amministravano e dirige¬ vano solo gli affari e gli interessi locali; per tutto il resto, i cittadini muni¬ cipali, che erano prima di tutto cittadini romani, dipendevano dal Governo e dai magistrati di Roma. Al tesoro romano (o aerarium) pagavano il tri¬ buto imposto a tutti i cittadini per le spese di guerra; nelle legioni ro¬ mane erano chiamati a prestar servizio militare; dovevano usare, salvo rarissime eccezioni, la moneta coniata nelle zecche romane. Se dunque gli abitanti dei municipi erano gravati di tutti i doveri im¬ posti al cittadino romano, alcuni godevano però anche di certi diritti; i quali, o venivano riconosciuti alle singole città dal senato e dai Comizi di Roma all’atto della loro annessione, od erano concessi in seguito, per ricompensa di qualche speciale benemerenza. Questi diritti erano princi¬ palmente quelli di matrimonio e di commercio (ius connubii e ius commercii) con gli altri cittadini romani; ma il maggiore di tutti era il diritto di voto {ius suffrapii) nei Comizi romani e quello di essere eletti alle cariche pubbliche {ius honorum). Secondo che i municipi possedevano o no questo diritto, si distinguevano appunto in municipi cum suffragio e sine suffragio. I municipi con diritto di voto erano però assai più strettamente dipendenti dal Governo di Roma e conservavano assai minore autonomia di quella concessa ai municipi senza suffragio. Perché i cittadini dei municipi potessero esercitare in Roma ì loro diritti politici, ogni Comune venne assegnato ad una delle tribù rustiche nelle quali era diviso il territorio dello Stato romano e il cui numero salì, nel 241 a.C., a trentacinque. Per esercitare nei municipi quei poteri, specialmente di ordine giudizia¬ rio, che ai magistrati municipali non erano concessi, il pretore urbano di Roma nominava un praefectus iuri dicundo, che questi poteri esercitava in suo nome. Non tutti i municipi ebbero però un prefetto: sia perché alcuni, godendo di maggiore autonomia, non dipendevano quasi in nulla dal pretore urbano, sia perché si usò di riunire più Comuni sotto la giuri¬ sdizione di un solo prefetto, il quale risiedeva in uno di essi. Soltanto una parte dei municipi furono dunque sede di un prefetto: e questi si dissero praefecturae.
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TRATTATO DI STORIA
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Ma ancora un’altra categoria di città troviamo disseminata nel territo¬ rio dello Stato romano: è quella delle coloniae, vera colonna vertebrale del dominio romano sull’Italia. Le colonie erano formate da nuclei di cit¬ tadini romani, inviati a prender dimora in un territorio di recente conqui¬ sta: esse, mentre contribuivano a sfollare l’antico territorio dello Stato dalla popolazione esuberante, servivano a tenere in rispetto le popolazioni vinte e fornivano un buon punto di appoggio per la difesa dei nuovi con¬ fini e per le guerre future. I coloni conservavano tutti i loro diritti di cittadini, ma anche tutti i loro doveri e la piena dipendenza dal Governo di Roma. Agli ordini di tre commissari (triumviri coloniae deducendae), i coloni, in numero vario, ora di poche centinaia, talvolta di più migliaia, con le loro famiglie, si recavano nel luogo indicato ed ivi costruivano la città e la fortifica¬ vano di mura: il territorio assegnato alla colonia veniva diviso in lotti e distribuito ai singoli coloni. Nelle città italiane che hanno avuto origine da una colonia romana, si riconosce talvolta ancora la pianta primitiva della città, con le strade diritte e perpendicolari tra loro, imitanti la caratteristica disposizione dell’accampamento militare romano (castrum). I coloni non prestavano il servizio militare nelle legioni,
ma dovevano
accorrere in armi ogni volta che i nemici dal di fuori o i ribelli dal di dentro minacciassero la regione che la colonia era destinata a vigilare e a proteggere. La maggior parte delle popolazioni dell’Italia, però, ancorché costrette a riconoscere il predominio romano, non erano state incorporate dentro i confini dello Stato e annesse al territorio della Repubblica, ma soltanto obbligate a stipulare con Roma un trattato di alleanza. Agli
alleati italici (sodi italici) veniva lasciata una certa autonomia,
più o meno larga secondo il trattato offerto od imposto dal senato, ro¬ mano; il loro obbligo principale verso i Romani consisteva nella presta¬ zione di un certo contingente di milizie ausiliarie (auxilia), il cui numero era anch esso fissato nel trattato d’alleanza. Gli alleati delle regioni costiere, come i Greci Italioti, fornirono poi, di solito, le ciurme dei marinai e dei rematori per le navi da guerra romane (sodi navaies) ed anche un certo contingente di navi, da quando Roma cominciò a tenere una vera e propria, per quanto piccola, flotta. Una precisa proibizione di batter moneta non pare sia stata mai fatta agli alleati; alcuni di essi conservarono il diritto di coniare in metalli pre¬ ziosi anche dopo che i Romani ebbero cominciato, nel 268, a batter moneta d’argento. Naturalmente, in progresso di tempo, le zecche alleate si chiu¬ sero per forza maggiore, o si limitarono a coniare spezzati divisionali per
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le necessità del commercio locale, via via che la moneta romana, impo¬ nendosi sul mercato, eliminò tutte le altre concorrenti. La condizione in cui furono lasciati gli alleati romani, risultò ordinaria¬ mente non solo decorosa, ma spesso anche vantaggiosa. Non furono ob¬ bligati a mantenere nel loro territorio presidi romani, salvo che questa clausola fosse contemplata nel trattato di pace, com’era, per esempio, il caso di Taranto; conservarono piena autonomia nel diritto civile e negli ordinamenti interni; in caso di guerra e di vittoria, era ad essi riconosciuto il diritto di partecipare al bottino e all’occupazione di agro pubblico non altrimenti assegnato, di partecipare alle colonie latine e, in certi casi, anche alle colonie romane e alle assegnazioni viritane; il diritto di connubio e di commercio con Roma veniva spesso concesso, se non agli Stati alleati in blocco, largamente però ai singoli cittadini di essi. Condizione tutta speciale, fra gli alleati di Roma, ebbero i Latini. Con il trattato di Cassio, le città della Lega Latina erano entrate in alleanza con Roma mediante un foedus aequum. Rescisso quel trattato nel 338 a.C., le città latine furono in parte incorporate nello Stato romano (come mu¬ nicipi), in parte ridotte nelle condizioni degli altri alleati; soprattutto fu sciolta qualunque confederazione fra loro, e anzi furono private anche del vicendevole diritto di connubio e di commercio. La stessa condizione fu fatta alle colonie latine, dedotte cioè da Romani e da Latini insieme, e a quelle che d’allora in poi così si dedussero. Latinitas si disse la condizione in cui si vennero a trovare le città e le colonie latine; ius latinitatis, il diritto dato ad alcune città di avere a sé estesa tale condizione; poiché la condizione dei Latini rimase sempre, per molti riguardi, privilegiata rispetto a quella degli altri alleati. Infatti, oltre ad essere più strettamente legati a Roma per ragioni etniche e sentimentali, i Latini pos¬ sedevano piena facoltà di connubio e di commercio coi Romani, tanto che potevano adottare un Romano ed esserne adottati, ereditare da un Romano e possedere
nel
territorio
romano.
Privilegio
principale
era
poi per i Latini quello di poter acquistare la cittadinanza romana col solo fatto di prender domicilio
in Roma, dichiarandolo dinanzi al cen¬
sore; reciprocamente un Romano, stabilendosi in una città latina, assu¬ meva la cittadinanza in essa (modo di sfuggire
a condanne, evitare
persecuzioni politiche, angustie economiche ecc.). Questo privilegio era sì grande che dal secondo secolo in poi si cercò di menomarlo con opportune restrizioni e limitazioni. Le colonie latine erano in tutto simili alle città latine; solo la loro costi¬ tuzione si avvicinava di più a quella di Roma. Così, invece del dictator (magistrato supremo delle città latine) ebbero, come magistrati supremi,
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
due pretori, un senato, il popolo diviso in trenta curie, e due censori per redigere le liste dei cittadini. Molto numerose furono le colonie latine: al principio delle guerre puniche se n’erano già dedotte venticinque (invece solo otto romane); e mentre pare che nelle colonie romane s’inviassero trecento coloni, molti di più se ne mandavano nelle latine; la cifra di 2.500 coloni ci è tramandata per Cales e Luceria, quella di 4.000 per fnteramna sul Liri e per Sora; quella, forse esagerata, di 20.000 per Venosa. § 67
- Riforme e struttura
torno al
sociale
300 a. C. - La equiparazione
della
Repubblica
Romana in¬
politica dei plebei alla classe
patrizia fu accompagnata nelle sue ultime fasi e quindi seguita da riforme notevoli nella struttura sociale della Repubblica, tendenti a rendere effi¬ cienti ed operanti le profonde trasformazioni costituzionali introdotte dalla metà del V secolo in poi. Il più energico propugnatore di riforme democratiche, verso il 300 a.C., fu il patrizio Appio Claudio, eletto censore appunto intorno al 310: a lui l’antica Roma fu debitrice anche di opere pubbliche famose, come l’acquedotto destinato a portare nell’Urbe la pura acqua che sgorgava da alcune sorgenti presso l’Aniene, e il primo tratto (fra Roma e Capua) della Via Appia, la regina viarum. Un provvedimento politico di gran peso fu quello promosso da Appio Claudio, con la iscrizione in tutte le tribù rusti¬ che della turba forensis, cioè della moltitudine dei nullatenenti e di coloro che possedevano solo beni mobili, raggruppati fino ad allora nelle quattro tribù urbane: la loro importanza politica era stata sin allora nulla, giacché essi, nei Comizi Tributi, potevano influire soltanto sul voto di quattro tribù e nei Comizi Centuriati erano relegati tutti nelle centurie dei capite censi, che non arrivavano mai a votare. Appio Claudio, valendosi della facoltà riservata a lui come censore in tale materia, spartì dunque la turba forensis in tutte le tribù, dando facoltà ad ognuno di scegliere la tribù in cui vo¬ lesse essere iscritto, senza riguardo alla residenza, e aprì ad essa tutte lo centurie, in base agli averi di ciascuno, di qualunque natura essi fossero. In tutte le tribù, e anche nelle centurie privilegiate dei cittadini più ricchi, vennero ad essere iscritti, ora, fra gli altri, molti liberti e figli di liberti (libertini). Con criteri nuovi —che furono giudicati allora addirittura rivoluzionari — Appio Claudio completò falbo dei senatori, composto quasi esclusivamente di ex-magistrati, chiamando a far parte di queir assemblea anche un certo numero di cittadini ricchi, mercanti o artigiani, anche se di ori¬ gine libertina e se politicamente homines novi.
ROMA
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OLI ITALIOTI: TERRÒ IN OCCIDENTE
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I provvedimenti di Appio Claudio suscitarono stupore e indignazione nell’oligarchia senatoriale e sollevarono viva opposizione: i censori del 304 li annullarono in parte, ridistribuendo la turba forense fra le quattro tribù urbane. Ma in quello stesso anno fu eletto edile quel Gneo Flavio, che divul¬ gando i Fasti e le legis actiones, cioè le formule di procedura prescritte per l’introduzione delle cause, rendeva effettive quelle garanzie di tutela del cittadino dall’eventuale arbitrio del magistrato, che già il codice decemvirale aveva, ma solo formalmente, sancito. Al complesso e pur così solido organismo statale della Repubblica con¬ feriva solidità e possanza l’unità e continuità di governo garantita dal senato, mediante l’indirizzo che da esso riceveva l’azione dei singoli magi¬ strati. E il senato, del quale entravano ora a far parte tutti i cittadini che avevano ricoperto le magistrature maggiori,
era veramente la genuina
espressione della nuova nobilitas patrizio-plebea, la vera classe dirigente della Repubblica; la quale poteva bensì esser definita, formalmente, come un regime democratico quasi perfetto, ma in atto seguitava ad essere una ristretta oligarchia. Relativamente pìccolo il numero dei magistrati, ai quali soli era riservata l’iniziativa di proporre leggi e di convocare i comizi; la parte più turbolenta e più radicale della plebe, quella della città, esclusa - dopo il vano tentativo di Appio Claudio - dalle tribù rustiche (aumen¬ tate nel 241 fino a 31) e racchiusa nelle quattro tribù urbane; praticamente impossibile a chi non appartenesse a famiglie abbienti e provviste di vasta clientela, di portarsi candidato nelle elezioni, di sostenere le spese di una campagna elettorale e di ricoprire le cariche pubbliche, essendo i magistrati senza stipendio e non esistendo ancora partiti politici che portassero e so¬ stenessero i loro rappresentanti al governo dello Stato. E ai magistrati la designazione popolare conferiva un potere di comando teoricamente illi¬ mitato: durante il periodo della loro carica godevano della più larga ini¬ ziativa così di fronte ai Comizi che di fronte al senato; non potevano essere destituiti e solo dopo aver deposto la magistratura potevano venir citati in giudizio. Essi veramente dirigevano l’amministrazione dello Stato sotto la propria responsabilità (Vogt). La nuova aristocrazia che governò la Repubblica tra la metà del FV e la metà del III secolo, resulta costituita da poche decine di « genti », gelose del proprio privilegio politico e restie a schiudere le loro file agli homines novi, cioè agli appartenenti a famiglie plebee salite di fresco in importanza e in ricchezza ed aspiranti perciò ad entrare nella vita politica.
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TRATTATO
DI STORIA
ROMANA
VI ROMA E L'ITALIA ALLA VIGILIA DEL CONFLITTO CON CARTAGINE § 68 - Panorama culturale dell’Italia all’inizio del III secolo a. C. -
Quando sta per aprirsi il grande conflitto tra le due Potenze rivali nel Mediterraneo occidentale, il quadro culturale che l’Italia ci presenta, non è molto diverso da quello che abbiamo tracciato per il tempo del primo affermarsi di Roma fra le più notevoli entità politiche della Penisola (v. i capp. Ili, IV e V della Parte I). Per quanto unita politicamente sotto il dominio di Roma, l’Italia è ancora un musaico di popoli e di civiltà, di tradizioni, di religioni e di lingue: musaico composto di pezzi non meno eterogenei e dissociati 1 uno dall’altro di quelli che, per esempio, compon¬ gono, in altre proporzioni, la moderna Europa. Soltanto il vincolo politico della sudditanza o dell’alleanza teneva unite le diverse parti della federa¬ zione romano—italica; l’amalgama delle civiltà e delle lingue, l’unificazione delle aspirazioni e la formazione di un nuovo spirito nazionale erano, per certi rispetti, poco più che all’inizio; per altri, non ancora cominciate. Ma quei legami politici si dimostrarono così appropriati e così robusti da resi¬ stere, da soli, alla terribile prova. Ciò che, indubbiamente, si dovè anche alla indiscussa e temuta superiorità degli ordinamenti militari, delle armi e delle soldatesche romane e latine: ancora non avevano appreso, gli alleati etru¬ schi, oschi, italioti, l’arte di guerra romana, militando negli eserciti dei consoli e dei pretori; né avevano ancora i Romani, al contatto degli alleati più progrediti, dirozzato la loro cultura e ingentilito la loro vita a scapito della loro prestanza militare e dell’austero spirito di disciplina che regnava sovrano fra di essi al campo, non meno che nei borghi del Lazio e nell’Urbe. Alla fine del V secolo e nel corso del IV una nuova civiltà si estende nella pianura del Po, sovrapponendosi ed amalgamandosi con le preesi¬ stenti civiltà umbra ed etrusca (cfr. al § 56): è la civiltà dei Celti, che scen¬ dono dai valichi alpini a conquistare e ad occupare i territori necessari alla loro esistenza, proprio in quei decenni in cui le loro forme di vita e la loro produzione artistica si va evolvendo dal tipo cosiddetto di Hallstatt a quello che sogliamo designare col nome di La Tène. Questo tipo di civil¬ tà è documentato, nella Gallia Cisalpina, soprattutto dai numerosi sepol¬ creti, che dalla metà del IV secolo a.C. arrivano fino al I secolo d.C. Il rito funebre è quello dell’inumazione; nel corredo abbondante delle tombe
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predominano - nei sepolcreti più antichi - gli oggetti di ferro su quelli di bronzo: lunghe spade con puntale tondeggiante e catenelle per soste¬ nerle, umboni di scudi, bastoni di parata campanulati, speroni di ferro o di bronzo; si nota pure, nei sepolcreti più antichi (Marzabotto nel Bolo¬ gnese, Pioppico e S. Pietro in Moscio nelle Marche), l’assenza di oggetti greci ed etruschi. Nei sepolcreti del III secolo delle Marche e dell’Emilia — dove bronzi etruschi e squisite oreficerie (corone, torques, armille) si mescolano con spade e lame di ferro di tipo gallico - vediamo la civiltà gallica della Cisalpina al suo apogèo; nel vasellame di bronzo, negli specchi, negli elmi è evidente il fortissimo influsso culturale etrusco. Aspetto al¬ quanto diverso presenta la civiltà gallica a nord del Po, con frequenti tom¬ be a inumazione e con oggetti che appaiono ricollegati con l’arte figurata veneto-illirica. Della vita dei Galli Cisalpini nel IV e nel III secolo a.C. c’informa con la consueta esattezza e sobrietà Polibio (II, 17)’: «Antica¬ mente abitarono questa pianura gli Etruschi, nel tempo in cui tenevano anche i Campi Flegrei fino a Capua e a Nola, e poiché queste pianure erano alla portata di tutti e a tutti note, acquistarono grande fama di prosperità. Coloro dunque che investigano sulla potenza degli Etruschi, non debbono riferirsi alle terre ora da loro abitate, ma alla pianura padana e alle risorse di quei luoghi... Le tribù galliche che occuparono questi luoghi, abitavano i villaggi non fortificati e vivevano prive di ogni altro elemento di vita civile; dormivano su giacigli di paglia, si cibavano di carne, non esercita¬ vano nessun’altra arte fuorché la guerra e l’agricoltura, avevano costumi semplici e non conoscevano affatto nessun’altra scienza e mestiere. Cia¬ scuno possedeva bestiame e oro, perché soltanto questi beni poteva por¬ tare ovunque in ogni circostanza e spostare a suo capriccio. Ponevano grandissima cura nelle amicizie, perche presso di loro il piu temuto e il più potente era quello che riusciva ad avere il maggior numero di servi e di clienti ». Intorno al 270 a.C. tutte le città etrusche erano venute sotto il dominio di Roma, o come alleate o incorporate nel suo territorio. Nei due secoli precedenti - fra la metà del V e la metà del III - gli Etruschi, in lotta continua coi Galli a nord e coi Latini a sud, decaddero progress1 vamente dallo stato di prosperità e di benessere in cui s’erano trovati intorno al 500: tuttavia la loro attività manifatturiera ed artistica conobbe ancora periodi di notevole splendore. Se nei prodotti artistici della fine del V e del principio del IV secolo si nota, per lo più, una pedissequa ripetizione delle formule del passato, non mancano, nel IV secolo stesso, notevoli af1 Trad. di G. B. Cardona, Napoli, Ed. scientif. Ital., 1948.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
formazioni dell’architettura (rifacimento di alcuni templi o costruzione di nuovi) e della scultura (il « Marte di Todi », la testa bronzea di Cagli, l’« aratore di Arezzo », l’« Apollo di Ferrara ») ; pregevoli ripetizioni pre¬ senta anche il tipo di sarcofago a schema di edificio, cioè col coperchio a forma di tetto (come quello di Torre S. Severo nel Museo di Orvieto), e di valore artistico anche maggiore è la produzione della coroplastica, abbondantissima dall’inizio del IV secolo sino alle ultime fasi della civiltà etrusca. La pittura seguita a riprodurre, sulle pareti degli ipogei del V se¬ colo, così gli aspetti piacevoli e sereni come quelli tristi e dolorosi della vita terrena; mentre altri concetti, espressi con forme nuove e più fresche, prevalgono nelle pitture delle tombe posteriori, ove la scena si ispira di preferenza al mondo dei morti, con l’introduzione sempre più frequente di demoni deformi e mostruosi: ne sono esempi classici la tomba Golini, quella delle due Bighe e l’altra di Poggio Rubello, tutte e tre orvietane, e la celebre tomba Francois (i cui dipinti sono ora conservati nel Museo Torlonia a Roma), con la nota scena di battaglia, alla quale partecipano i due amici Caile Vipinas e Mslarna. Subito dopo, nelle tombe del III secolo, si avverte il decadimento, denunciato dall’irrigidimento delle forme, da uno « istupidirsi dell’espressione nella produzione stereotipata di modelli usati ed abusati », che si accompagna ad uno « spregiudicato realismo sui tratti finissimi delle singole figure ». Del resto l’Etruria conservò a lungo, anche nella sua nuova condizione politica, una notevole floridezza, alla quale Roma stessa contribuì non poco con la fondazione di colonie e con la costruzione di strade (VAurelio, che seguiva la costa del Tirreno, nel 241 a.C.; la Clodia, che partendo da Veio andava a ricongiungersi alla Aurelia, nel 225; la Cassia, da Roma a Fie¬ sole, prima del 217; la Flaminia, per Arezzo a Rimini e a Bononia, e la Aemilia, da Rimini a Piacenza, nel 187. Nel corso del II secolo l’Etruria si trovò danneggiata notevolmente da un fatto di ordine naturale, la dif¬ fusione della malaria in forma endemica dalla zona costiera meridionale (ove esisteva già tra il 190 e il 170 a.C.) verso le regioni più settentrionali, e da’ due fenomeni sociali di cui si dirà in seguito: il prevalere del latifondo e del lavoro servile nell’agricoltura. A cominciare dall’età degli ultimi re, è questo il periodo in cui conflui¬ scono in maggior copia a Roma elementi dell’arte e della civiltà etrusca. L architettura romana ne deriva l’uso dell’arco, applicato poi con tanto favore nelle costruzioni romane e sviluppatosi poi, probabilmente, nei ca¬ ratteristici archi trionfali; del pari origine etrusca ha il tempio tripartito (o Capilolium) e, a quel che sembra, l’alto podio dei templi romani, come anche la colonna tuscanica, che perdura ancora nelle costruzioni romane
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dell’età imperiale. Due caratteri essenziali della primitiva arte romana rivelano un inconfondibile influsso etrusco: la tendenza all’iconografìa e il realismo, quale si avverte nella numerosa serie dei ritratti romani che, sbocciati dal rigoglioso terreno delle imagines delle domus patrizie, rappre¬ sentavano con forza e crudezza spietata l’individuo nella sua perfetta realtà, lungi dalla tendenza idealizzatrice caratteristica del ritratto greco. E non meno profonda fu la trasformazione che subì la religione romana tra il IV e il III secolo, per l’introduzione così di divinità come del rituale, etrusco. Il fenomeno di fusione e di unificazione delle varie civiltà italiche è appena all’inizio;
ma in questa prima fase, troviamo aU’opefa correnti
centripete, dalla periferia - Etruria, Campania
e
Magna
Grecia
(cfr.
al § 45) - verso Rema e il Lazio: la corrente opposta, centrifuga - da Roma e dalle zono latine o latinizzate verso il settentrione e il mezzogiorno - prenderà gradatamente il sopravvento soltanto nell’età successiva, negli ultimi due secoli della repubblica. § 69 - Condizioni sociali e vita familiare del popolo romano nei primi secoli della Repubblica - Il cambiamento
di regime agì pro¬
fondamente é in senso sfavorevole sulle condizioni economiche e sulle varie forme di attività del popolo romano: lo stato d’inferiorità e l’isola¬ mento politico in cui venne a trovarsi per qualche tempo la nuova Repub¬ blica, ostile ormai agli Etruschi e guardata con diffidenza e con rancore dalle città latine,
non poteva non riflettersi sulle condizioni generali
della cittadinanza. La popolazione della città risulta diminuita; le poche industrie manifatturiere prima esistenti cessano di essere attive; anche il commercio languisce e non s’importano più i vasi greci, i gioielli, gli abiti ed altri oggetti ornamentali e decorativi, che arrivavano sin allora in così gran copia dal porto di Ostia. L’attività economica dei Romani retrocede ora - come si è giustamente osservato - ad una economia domestica chiusa in se stessa e limitata quasi unicamente allo sfruttamento inten¬ sivo dell’« agro » romano mediante una diligente, ma primitiva « coltiva¬ zione a zappa ». Soltanto intorno alla metà del V secolo si hanno i primi sintomi di ri¬ presa; e ne sono specchio verace i frammenti delle XII Tavole arrivati fino a noi. L’agricoltura e la famiglia ci appariscono come le due basi granitiche, sulle quali si regge prevalentemente, se non esclusivamente, la società ro¬ mana del V secolo a.O. E ciò concorda con quanto da altri indizi ci era stato dato di desumere: l’occupazione dei Latini e dei Romani è quasi 14 - GuVNKr.r.l. Trattata di Storia romana - I
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
unicamente il lavoro dei campi e la cura del bestiame. Il terreno fertile aveva provocato e favorito lo svilupparsi di questa forma di attività, ma la densità della popolazione esigeva che alla terra si richiedesse ogni anno il massimo rendimento; e quando il clima avverso, o le guerre troppo pro¬ lungate, o l’invasione nemica rovinavano in parte i raccolti, sopraggiun¬ gevano terribili le carestie: quelle carestie di cui parla cosi spesso — certo troppo spesso — la tradizione e che rivelano la incapacità del popolo ro¬ mano di sopperire con altri prodotti di scambio allo scarso rendimento della terra. L’indagine archeologica viene a confermare il dato della tradizione let¬ teraria, quando ci rivela l’assenza, nell’agro romano, di qualsiasi attività industriale degna di nota ai fini di un commercio di esportazione, e ci mo¬ stra attiva solo quell’arte architettonica che dotò Roma, al tempo degli ultimi re e sotto la direzione o con la collaborazione di artefici etruschi, di notevoli edifici di carattere sacro e politico. È vero che particolari rapporti culturali ci sono noti, per la fine del V e l’inizio del IV secolo, con le città greche di Occidente (dai Dori di Sicilia trassero i Romani in questo tempo il loro sistema di pesi e di misure) e le amichevoli relazioni fra Romani e Massalioti sono specialmente testi¬ moniate dall’avere i Romani dedicato, nel 396 a.C., nel tesoro dei Mas¬ salioti a Delfi l’offerta votiva inviata quale rendimento di grazie per la conquista di Veio; ciò nonostante, la popolazione romana del sec. V resta essenzialrhente ima popolazione di agricoltori e di pastori; e, come si è giustamente osservato, « la legge delle XII Tavole è la legge di una cittàstato, la società in cui essa fu prodotta ha i suoi principali interessi nella campagna ». Su nessun’altra materia si estendeva propriamente la codificazione de¬ cemvirato quanto sul diritto familiare. La famiglia resultò così veramente confermata come il fulcro della compagine sociale di Roma antica, ove la saldezza dell’istituto familiare poggia sull’autorità, quasi illimitata, che il patto familias esercita sulla moglie, sui figli, sui clienti, sugli schiavi, sui quali tutti egli aveva pieno diritto di vita e di morte, di cessione o di vendita: diritto che non la legge, ma il costume, limitava, prescrivendo di interrogare, sulle pene più gravi da infliggere alla moglie e ai figli, un con¬ siglio di famiglia. Vero è che, anche in questo campo, il codice decemvirato, senza troppo discostarsi dal diritto consuetudinario, cercava correggerne in senso più civile e liberato le norme troppo primitive e severe. Così, a rendere meno assoluta l’inferiorità giuridica della moglie rispetto al marito, i decemviri introducevano una nuova forma di matrimonio, puramente consensuale.
ROMA E L’ITALIA ALLA VIGILIA DEL CONFLITTO CON CARTAGINE
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in seguito al quale la moglie non veniva in potestà del marito (in may,u manti): bastava che la moglie, assentatasi per tre notti dalla dimora del marito (usurpaiio trinoctis), gli dichiarasse poscia di non volervi più ritor¬ nare, perché il matrimonio si considerasse senz’altro annullato. Allo stesso modo, mentre si aboliva il diritto paterno di uccidere i neo¬ nati e si imponeva di allevare tutti i figli maschi e almeno la primogenita delle femmine, un’altra norma provvedeva a rendere'possi bile l’emancipa¬ zione dei figli dall’autorità del padre, stabilendo che il figlio che fosse stato venduto per tre volte dal padre, restasse per questo sciolto dalla patria potestà. Siffatta legge, mentre ci denunzia, come si è bene osservato (De Sanctis), le gravi condizioni dei contadini romani, costretti dalla miseria a vendere e riscattare successivamente più volte i loro figliuoli, dava modo d’altra parte al padre di costituir libero il proprio figlio, mediante ima triplice vendita finta, dopo la quale egli era pienamente emancipato. Se non poco si occupava, la legislazione decemvirale, di diritto civile, dettando norme sul diritto di proprietà, sulla mancipazione,
sul testa¬
mento, sulla procedura giudiziale, anche di più s’intratteneva a codificare la vasta materia del diritto penale, avendo campo anche in essa di portare qualche addolcimento a'ia durezza del diritto consuetudinario e soprat¬ tutto escludendo recisamente, per i reati capitali commessi dentro il po¬ merio, la vendetta o la composizione privata e rimandandone invece il giudizio ai pubblici magistrati. All’infuori, pertanto, della facoltà lasciata al padre o al marito di una donna, di uccidere l’adultero colto in flagrante e di uccidere del pari il ladro preso sul fatto, e del diritto riconosciuto a chi avesse sofferto gravi lesioni personali, di esercitare, a giudizio avvenuto, sul reo, la vendetta mediante la legge del taglione, per tutti gli altri delitti che comportavano una pena capitale - così per quelli commessi contro la sicurezza dello Stato, corno per quelli commessi contro privati cittadini - l’accusato doveva essere sottoposto a processo rispettivamente dinanzi al tribunale dei duo-viri perduellionis o dei quaesiores parricidi) i quali d’altronde si li¬ mitavano ad istruire il processo, potendo però la condanna a morte venir pronunciata soltanto dai comizi; ché di essenziale importanza devesi riguar¬ dare la norma stabilita dalle XII Tavole, la quale vietava de capite civis rogaci nisi maximo comitiatu, se non, cioè, sentito il parere dei massimi Comizi, vale a dire dei Curiati prima, dei Centuriati più tardi (Cicer., de leg. Ili, 19, 54). È ragionevole supporre che, dopo la solenne e severa sanzione della legi¬ slazione decemvirale, anche i magistrati plebei non avranno osato fare
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uso del loro sacrosanto diritto di morte sui nemici loro e della plebe, ma si saranno limitati a tradurre gli accusati davanti ai Comizi. Ma i debitori insolvibili invano avranno sperato dalle nuove leggi sol¬ lievo alle loro dure condizioni: le spietate sanzioni cui abbiamo poc’anzi accennato, si ricavano dai frammenti delle XII Tavole: le quali si limita¬ vano a disporre un termine di novanta giorni fra la dichiarazione e l’ese¬ cuzione della condanna inflitta al debitore. In sostanza, dunque, la legislazione decemvirale non fece molto di più che fissare in forma precisa le norme del diritto consuetudinario e il costume romano, pur essendo evidente l’infiltrazione nel codice di elementi giuridici greci, in materie tuttavia di secondaria importanza. Codificando però i prin¬ cipi tradizionali che avevano retto fino allora la vita della società romana, ne sottraeva l’applicazione all’arbitrio del magistrato e con ciò inaugurava l’eguaglianza civile in seno a quel popolo, ancora tanto lontano dal raggiun¬ gere l’uguaglianza politica. Diritti concessi a tutti, sanzioni eguali per tutti e applicate mediante procedure a tutti note e aperte a tutti: tale fu lo scopo che i Decemviri si proposero di raggiungere e che in realtà conseguirono, dando alla Repubblica il primo codice nazionale della stirpe latina. § 70
-
Economia
e
finanze
secolo - Assai più presto
della
Repubblica
nel
IV
e
nel
III
che non l’unificazione spirituale e culturale
progredì l’unificazione economica della penisola italica, grazie al vantaggio che ad ogni economia ridonda dal l’allargamento e dallo sviluppo del ter¬ ritorio che ne è la base. E di questo nuovo sistema economico di più am¬ pio respiro Roma divenne necessariamente il centro, sia perché ad essa facevano capo i rapporti politici di varie specie con tutti i complessi etnici dell’Italia, sia perché da Roma s’irradiavano le strade che s’incominciarono a costruire fin dal IV secolo con scopi politici e militari, ma che al tempo stesso favorivano l’intensificarsi del commercio italico. Di pari passo con lo sviluppo della vita economica italica progredì l’uso della moneta e lo stabilirsi di un regolare sistema monetario. La Repub¬ blica romana, nei primi secoli della sua esistenza, aveva avuto ben poco bisogno di denaro: i magistrati non ricevevano stipendio; i lavori pubblici, dopo la caduta della monarchia, erano cosa presso che ignota; per i bisogni del commercio bastava la moneta degli Stati greci, cartaginesi od etruschi coi quali si avevano rapporti. Soltanto dopo la guerra latina, Roma emise la prima moneta coniata, l’asse librale di bronzo, con pochi pezzi divisio¬ nali. La necessità di valuta d’argento si fece sentire durante le guerre sannitiche e il conflitto con Pirro, ma a ciò provvidero per allora le zecche della Campania e poi quelle delle città italiote, coniando, in seguito ad
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un’intesa con Roma, monete coi loro soliti tipi e con la loro misura (corri¬ spondente alla dramma greca), ma con la leggenda Roma o Romano. Come ben s’intende, questa nuova moneta d’argento, essendo commisurata ad una scala di valori assolutamente indipendente da quelli su cui era regolato l’asse romano, rappresentava rispetto a questo una valuta incommensu¬ rabile: onde un notevole imbarazzo nell’uso delle due monete. Vi pose fine il Governo romano decidendo, nel 268, l’emissione di una moneta di argento commisurata alla nuova moneta di bronzo di due oncie, la quale divenne la base di tutto il sistema. Poiché il valore dell’argento era rag¬ guagliato allora a 120 volte quello del bronzo, si coniò una moneta d ar¬ gento del valore di 10 assi e del peso, perciò, di un sesto di oncia: questa moneta fu il « pezzo da 10 assi », cioè il denarius. Si coniarono anche mo¬ nete divisionali, come il quinarius (pezzo da 5 assi) e il « sesterzio » (semi■itertius) del valore di due assi e mezzo. Anche dopo che i Romani ebbero cominciato, nel 268, a battere moneta d’argento, alcuni degli alleati conservarono il diritto di coniare in metalli preziosi. Naturalmente, in progresso di tempo, la moneta romana, impo¬ nendosi sul mercato, eliminò tutte le altre concorrenti e le zecche alleate si chiusero o si limitarono a coniare spezzati divisionali per le necessità del commercio locale. I rapporti fra l’economia privata dei cittadini e la finanza statale ci appaiono fino a questa età assai scarsi ed anzi, addirittura primitivi, se si confrontano, per esempio, con quelli delle grandi monarchie ellenistiche coeve. L’unica imposta diretta alla quale potevano venire assoggettati i cittadini, era il tributo di guerra, il quale, d’altronde,, veniva imposto sol¬ tanto - in misura proporzionale al censo dei singoli - quando la situa¬ zione finanziaria dello Stato lo richiedesse; da imposte dirette erano invece esenti gli alleati. Cittadini ed alleati erano poi sottoposti in egual misura alle imposte indirette, fra le quali tenevano il primo posto i dazi di vario genere (portoria) e il canone (vectigal), al pagamento del quale erano te¬ nuti tutti coloro che avevano preso possesso di ager publicus. L’alacre attività economica dei cittadini, incoraggiata dalle più favo¬ revoli congiunture politiche e non oppressa - come avviene negli Stati moderni e come avveniva allora nelle monarchie ellenistiche e nelle stesse città greche - dal fiscalismo statale, contribuì al formarsi di numerose e notevoli fortune private; sicché nel corso del III seéolo era già bene in vista, nella cittadinanza romana, una classe di cittadini ricchi di beni non fondiari, di ricchi, cioè, che per questo loro genere di ricchezza si di¬ stinguevano nettamente dall’antico patriziato col suo patrimonio legato al possesso di terre e di gregge.
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TRATTATO DI
STORIA
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È questo appunto il periodo in cui si moltiplicano le potenti famiglie plebee: potenti appunti in grazia della ricchezza acquisita con la fortunata attività industriale e commerciale. I nomi di parecchie di esse cominciano, fin dal secolo precedente, ad apparire nei fasti consolari ed entrano nella nobilita#, i cui ranghi rimangono aperti, con una certa larghezza, agli homines novi fino verso la fine del III secolo, come diremo meglio in seguito: la maggior parte dei plebei ricchi, però, non riesce o non ha interesse ad avviarsi alla carriera politica e preferisce dedicarsi ad ingrandire i propri patrimoni, che diverranno anch’essi - in un prossimo avvenire - fonte e ragione di forte influenza politica nella vita della Repubblica. Proprio in questa evoluzione economica della cittadinanza romana nei primi decenni dopo il 300 a.C. stanno le origini di quel nuovo ordine di cittadini che troviamo ben formato ed efficiente circa un secolo dopo: 1 ordine dei cavalieri (ordo equesler). In seguito al raddoppiamento delle legioni, eh venute ormai insufficienti le 18 centurie dei cavalieri a fornire la cavalleria per due legioni {circa 1.200 uomini inquadrati), né volendosi d altra parte turbare 1 ordinamento centuriato, né sostenere la maggiore spesa necessaria a fornire Yequus publicus ad un numero doppio di soldati, si istituì il servizio volontario in cavalleria, purché i volontari si fornis¬ sero del cavallo a proprie spese. Né volontari mancarono; perché i privi¬ legi riserbati a coloro che militavano in cavalleria, alcuni semplicemente onorifici, ma altri corrispondenti a reali vantaggi, come la dispensa da alcuni servizi più gravosi al campo, lo stipendio triplo di quello della fanteiia, la preferenza nelle distribuzioni di bottino e l'assegnazione di terleni, inducevano non pochi a sostenere la spesa di procurarsi e mantenersi il cavallo. Questa innovazione si ripercuoterà più tardi sulle condizioni sociali della Repubblica; perché avendo allora cominciato i censori a registrare tutti coloro che per qualità fisiche e per censo dovevano ritenersi atti a prestare servizio volontario in cavalleria (e se i volontari mancavano, servizio obbligatorio con cavallo proprio), si preparò il costituirsi di quelVovdine equestre, che ebbe tanta parte nella storia interna della Repubblica dal II secolo in poi.
§ 71
Caratteri della vita spirituale romana nel
Ili secolo a C -
Come si è osservato sopra (al § 68), la diffusione della lingua latina e e diritto romano - di questi, cioè, che furono eccellenti strumenti di dominio al tempo stesso che fattori essenziali di unificazione nazionale dei popoli italici - era, al principio del III secolo, appena all’inizio; era invece in pieno vigore il movimento opposto, l’afflusso, cioè, di elementi
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CAUTA GIN K
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culturali e spirituali etruschi, greci e greco-italioti e sicelioti verso il Lazio e Roma. Questo arricchimento del patrimonio culturale romano si mani¬ festa specialmente nel campo della religione: divinità, miti e riti etruschi e greci trasformano letteralmente, in questo periodo, la religione romana. Di tutte le religioni pagane praticate dai popoli più civili dell antichità, si può affermare che nessuna rimase, come quella romana, così scarsamente dotata di elementi etici e di contenuto spirituale. La religione dei Latini e del pari quelle delle altre stirpi italiche, Umbri ed Oschi - non fu capace di svilupparsi oltre quello stadio che potremmo definire un animismo pro¬ gredito od un antropomorfismo rudimentale;
un antropomorfismo
al
quale mancò la vivace e multiforme mitologia nata dalla fervida fantasia dei Greci e nel quale non penetrarono mai una credenza né un rito che fossero dettati da uno spirito pensoso del mistero del soprannaturale, che pure si sentiva aleggiare sulla vita dell uomo e della natura; pensiero che troviamo a permeare, ad esempio, tutta la religione egiziana e che, in Grecia, dette vita a tante e disparate dottrine sulia sorte dell’anima umana nell’oltre tomba, e alla formulazione e alla prassi dei misteri orfici e dionisiaci. Nulla di tutto questo a Roma e nel Lazio. Arrivati a concepire sotto forma umana le forze e le manifestazioni della natura divinizzate, i Latini lasciarono assai a lungo queste deità allo stato di personificazioni astratte, senza nome né sesso; e solo relativamente tardi alcuno di esse riuscirono a distinguersi © a staccarsi dalla massa grigia e indistinta delle altre e ad acquistare una più netta e determinata personalità propria. A queste deità, alle maggiori e alle minori, concepite semplicemente come persone di po¬ tenza superiore all’umana, si rivolgevano, con preghiere e sacrifici, i pastori e gli agricoltori del Lazio, per impetrare da esse ciò di cui avevano bisogno per la loro vita di tutti i giorni: la pioggia e il bel tempo per i loro campi, la salute dei familiari, dei servi e del bestiame, la vittoria sul nemico. Pre¬ ghiere e sacrifici che, si pensava, non avrebbero mai potuto ottenere dagli dèi ciò che gli uomini chiedevano, se questi a loro volta non avessero dato ai loro potenti signori ciò che essi esigevano, in parole e in offerte, e in quella forma in cui lo volevano: donde una rigorosa formulazione delle in¬ vocazioni da rivolgere alle divinità, un minuzioso e attentissimo rituale di tutti gli atti di culto. A questo punto, ad irreggimentare dèi, a codificare formule e riti, so¬ praggiunse lo Stato. La figura del re Numa Pompilio è quasi certamente leggendaria, ma in essa e con essa la tradizione accentuò e rappresentò l’opera reale dei primi, anonimi legislatori della Città Eterna. Della costi¬ tuzione, prima monarchica, poi repubblicana, della nuova città latina, la
21(5
TRATTATO
IH
STORIA
religione fu parte essenziale; e i sacerdoti
ROMANA
gli intermediari più sicuri fra
gli dèi e gli uomini, i depositari delle regole e delle formule del culto furono subito influentissimi nella vita pubblica dello Stato. Una religione come questa, tutta fatta di rapporti giuridici e di procedi¬ menti protocollari, di competenze e di sfere d azione precisamente deter¬ minate e nettamente delimitate, si prestava in modo mirabile a divenire una religione politica: e tale fu, sin da principio, la religione di Roma, distinta nelle sue due branche, del culto pubblico, ufficiale, e del culto privato, domestico: quello modellato su questo, fissandone, e direi quasi, stilizzandone gli elementi essenziali. Nella religione pubblica e, per riflesso, anche in quella privata, tutto e tutti hanno, rigorosamente, il loro posto, il loro grado, il loro tempo: riti, feste, sacerdoti, dèi, anch’essi classificati, secondo il rango di ciascuno, in maggiori e minori; fra i maggiori, tre mas¬ simi, Giove. Marte, Quirino, poi gli altri nove: e i loro diritti di prece¬ denza si riflettono sui rispettivi loro ministri in terra, i Flamini. Il Pantheon ufficiale romano è una specie di Governo celeste della Re¬ pubblica, al quale si applicano le stesse norme che valgono per il Governo terreno: come i magistrati, così gli dèi hanno ciascuno competenze deter¬ minate, grado maggiore o minore di potenza, un rango prescritto, diritti e doveri chiaramente enunciati. Inutile chiedere a Marte ciò che solo Giove può dare; vano sperare da Vesta ciò che è in potere soltanto di Giunone. R quando gli inevitabili contatti, anche di ordine culturale, con altri popoli della penisola, specialmente con Etruschi e con Greci, accennarono a far penetrare fra le genti latine e nel territorio e nella stessa città di Roma nuove figure di divinità e nuove forme di culto, lo Stato fu pronto ad in¬ tervenire per dare ordine e disciplina a tutto ciò che non si poteva respin¬ gere e che spesso anzi sembrò opportuno ed utile accogliere: i nuovi dèi ebbero fissato il loro rango e il loro ufficio nella religione pubblica, talvolta anche il loro stato civile e i loro rapporti di parentela con le divinità del1 Olimpo romano; fu indicato il posto pei loro templi, stabiliti il tempo e le forme del loro culto; uno speciale sacerdozio, quello dei dieci « ministri del culto >» {decemviri sacris faciundis), fu creato per soprintendere, via via, alla introduzione di nuovi dèi e alla codificazione di nuovi riti nella religione ufficiale. S intende per altro come una religione amministrata così dallo Stato sia rimasta sempre al di fuori della sfera della vita morale. Se non si può parlare, per ora, di manifestazioni letterarie dei Romani, non mancò invece, nei
primi secoli della Repubblica, una certa attività
artistica, per quanto contenuta in limiti molto ristretti. Infatti il compito di erigere e di decorare i pochi edifici monumentali dell’Urbe fu affidato
KOMA
K
L ITALIA
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VIGILIA
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CONFLITTO
CON
CARTAGINE
217
ad artisti etruschi e poi ellenici della Magna Grecia. Di quegli edifici, però, quasi tutti adibiti al culto, non possediamo oggi che scarsissimi avanzi: qualche cosa di più ci rimane di quella scuola etrusco-italica di scultura, il cui centro si vuol riconoscere dai moderni studiosi nella città di Veio. Di là sarebbe venuto a Roma, chiamato dall'ultimo re Tarqmnio, quel Yolca, cui fu commesso di plasmare la statua fìttile di Giove, destinata al tempio capitolino; a questa scuola appartiene la meravigliosa statua di Apollo trovata a V eio nel 1917 ed ora ricomposta nel Museo di Villa Giulia. Questa primitiva arte etrusco-italica fu in realtà, com e stato re¬ centemente dimostrato, un’arte ionizzante: è questa indubbiamente l’« an¬ tica arte statuaria indigena » di cui parla Plinio il Vecchio e della quale furono molto probabilmente un prodotto anche la celebre Lupa Capito¬ lina e la Chimera di bronzo di Firenze. Ma non solo da Veio, bensì da ogni parte deU’Etruria arrivarono a Roma influssi artistici nel corso del IV e del III secolo; artisti etruschi furono chiamati a Roma; via via che le città etrusche passarono sotto il dominio di Roma, se ne asportarono i tesori artistici, come si fece più tardi dalle città della Grecia. Così Roma si riempì di statue di marmo e di bronzo, ispirate ad un’arte che, se derivava indubbiamente dai modelli greci, non era per questo priva di quell’impronta originale che si riscontra innegabil¬ mente in tutti i prodotti più notevoli deH’Etruria.
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI XXIII (efr. i §§ 46-53) - Per la storia più antica della costituzione romana fonti documentarie essenziali - ed uniche - sono i Fasti e i frammenti delle XII Tavole. Sulle edizioni dei Fasti e sui caratteri delle singole redazioni di essi si veda quanto si è detto ai §§ VI, IX e 14. Il problema della autenticità dei Fasti ebbe poste le sue basi dal Mommsen (Róm. Chronologie, 2a ed., Berlino 1859; Róm. Forschungen, I-tl, Berlino 1864-1879), il quale ritenne doversi riguardare la loro testimonianza come sostanzialmente sicura anche per il V secolo, pure ammettendo che nomi ed imprese di consoli plebei siano stati interpolati arbitrariamente dai Pontefici nei Fasti e nei Commentari più antichi, dopoché il Collegio dei Pontefici fu aperto alla plebe. La tesi del Mommsen fu ripresa da E. Kornemann, il quale però è arrivato a conclusioni assai più drastiche, affermando che le liste dei magistrati e le notizie fornite dalla cronaca dei Pontefici per l’età anteriore all’incendio gallico non debbono ritenersi attendibili (in « Klio », XI [1911], p. 245 sgg.; cfr. Der Prieutercodex in der Regia, Tùbingen 1912, e « Histor. Zeitschrift », CXLV [1931], p. 277 sgg.). Simile a quella del Komemann è la posizione presa da E. Pais nella prima sua trattazione di storia romana (Storia di Roma, Torino 1898-99) e, con qualche modificazione, nella seconda (Storia critica di Roma, 1913—20), conia recisa condan¬ na di tutti i dati, anche di quelli documentari, trasmessi attraverso l’annalistica, per la storia anteriore al III secolo. Alle temperate conclusioni del Mommsen, specie
218
TRATTATO
1>1
STORIA
ROMANA
per quanto riguarda i Fasti, è ritornato G. De Sanctis (Storia dei Rumata, I, J orino 1907), seguito dalla maggior parte degli studiosi recenti; si veda, per esempio, G. Costa, I Fasti consolari romani, I, Milano 1910; Ed. Meyer, Kleine Schriften, II (1924), p. 286 sgg.; C. Giannelei, La Repubblica romana, Milano 1937 (ristampa del 1944), p. 103 sgg. Appare paradossale il procedimento tenuto dal Beloch (Riimische Geschichte, 1926), che, mentre ammette la genuinità sostanziale dei Fasti, sottopone poi le liste da essi fornite per i primi decenni alle più arbitrarie manipo¬ lazioni; come sarà detto più oltre. I frammenti delle XII Tavole furono editi dallo Schoell, Legis duodecim Tabularum reliquiae, Lipsia 1866; dal Bruns, Fontes iuris Romani antiqui, 7a ed.,Tùbingen 1909; dal Rotondi, Leges pubi. pop. Romani, Milano 1912; dal Girard, Textes de droit romadn, Parigi 1923. È incerto come siano state scritte originaria¬ mente le XII Tavole: il Rosenberg (Eitdeitung- und Quellenkunde zur róm. Oesch., p. 29 sgg.) riassume le varie tesi in proposito e sostiene il parere che esse siano state una specie di libro, cioè un codice fatto di tavole di legno, del quale si sarebbero fatti fin da principio parecchi esemplari, che si ripetevano poi, di generazione in generazione, mentre via via andavano disperse le copie più antiche; si spiegherebbe così la modernizzazione, letteraria ed anche di contenuto, del testo (cfr. Leo, Geschichte der róm. Liter., I, p. 40 sgg.). Sulla questione della storicità della legislazione deceinvirale si vedano le opere di contenuto generale di diritto romano citate al § IX. Argomenti contro la sto¬ ricità delle XII Tavole furono addotti specialmente dal Pais, che identificò la legge con lo ius Flavianum pubblicato da Cn. Flavio alla fine del IV secolo (vedi specialmente Storia critica di R., II, p. 217 sgg.; Ricerche sulla storia e sul diritto pubbl., I, p. 1 sgg.), dal Lambert, che l’attribuì a Sesto Elio Peto Cato, del prin¬ cipio del II secolo (« Nouv. Revue histor. de droit fran^.. et étranger », XXVI (1902), p. 148 sgg.: « Revue génér. du droit » 1902, p. 385 sgg.; Mélanges Oh. Appleton, 1903, p. 126 sgg.), e da G. Baviera, Contributo alla storia della « Lex XII Tabularum » (Studi in onore di Silvio Perozzi), Palermo 1925. Gli argomenti in favore dell’autenticità della legislazione decemvirale si trovano svolti specialmente da P. F. Girard, L'histoire des XII Tables, in « Nouv. Rev. histor. de droit frane, et étr. », XXVI (1902), p. 381 sgg.; id., La loi des XII Tables, Londra 1914; da W. Soltau, Der Dezemvirat in Sage und Geschichte, in « Zeitschr. der Savigny Stiftung », XXXVIII (1917), p. 1 sgg.; da E. Taubler, Undersuchungen zur Geschi¬ chte des Decemvirats und der Zwólftafeln (= Hist. Studien, Heft 148), Berlino 1921; da J. Declareuil, Rome et Vo-rganisation du droit, Parigi 1924, specialmente p. 51 sgg. Gli annalisti e gli altri scrittori romani disponevano ancora di qualche testo epi¬ grafico che è andato perduto per noi: come i trattati di commercio con Cartagine (Polibio, III 22 sgg.), l’iscrizione di Cornelio Cosso, che aveva consacrato come spolia opima la corazza di lino di Tolumnio, re dei Veienti, iscrizione che anche Au¬ gusto decifrò (Livio, IV, 20), e un’iscrizione contenente ima dedica fatta dalla Lega latina al lucus Nemorensis e copiata da Catone (Orig., fr. 58); su questa vedi H. V. Instinsky, Die Weihung des Heiligtums der Latiner im Hain von Arida, in « Klio », XXX (1937), p. 118 sgg.
XXIV (cfr. il § 46) - La tradizione sulla caduta della monarchia (com’è in Livio, I , p. 58 sgg., II pp. 6-7, 9-14), spoglia di tutti i particolari evidentemente fantastici o aneddotici (per l’esame dei particolari della tradizione, vedi E. Pais, Storia critica di Roma, I, 2, 532 sgg.; 536 sgg.; V. Groh, La cacciata dei re romani, in « Athen. » 1928, p. 289-324; C. J. Neumann, L. Junius Brutus der erste Consul, Strasburger Festschrift, 1901, p. 309) è stata accettata dalla critica moderna, a cominciare dal Mommsen, anche se con notevole varietà di interpretazione; si ri-
BIBLIOURAKIA
E
PKllHLKMl
21 9
tiene ora da alcuni che debba darsi soprattutto rilievo all’evidente concomitanza del fatto con la sollevazione latina contro gli Etruschi e la disfatta di questi nella battaglia di Aricia (vedi Giannelli, Repubblica rom., p. 97 sgg.). Ma una parte rispettabile della critica contemporanea, facente capo all’Ihne e al De Sanctis, preferisce considerare tutto il racconto tradizionale come leggenda etiologica desti¬ nata a spiegare il trapasso di regime ed ha avanzato l’ipotesi che tale trapasso sia avvenuto a Roma ~ come con ogni probabilità si verificò ad Atene (vedi G. De Sanctis, Atthis, 2a ed., Torino 1912, p. 117 sgg.) - gradatamente, per il lento deca¬ dere della potenza del re, sostituito via via dai patrizi nelle magistrature e nei posti di comando, finché egli non fu più nominato se non per compiere poche funzioni sacerdotali inscindibili dalla sua dignità e dal suo nome {rex sarorum o rex sacriftculus) e i suoi poteri furono trasferiti tutti a quei funzionari che del resto già li esercitavano e che divennero ora i magistrati annuali della Repubblica. Vedi: Ihne, Forschungen auf dem tìebiete der rom. Veriassunge geschichte, Francoforte 1847; De Sanctis, Storia dei Rom., I, p. 318 sgg.; Pais, Storia di Roma, II3 (Roma 1926), p. 239 sgg., e III3 (1927), p. 92 sgg.; Niese Hohl, Grundrìss der rom. Geschichte, Monaco 1923, p. 31 sgg.; G. Pacchioni, Dalla monarchia alla repubblica, in «Atti R. Acc. di Torino », LX (1925), p. 675 sgg. V. Costanze La sopravvivenza della regalità nella repubblica rom., in « Riv. di storia ant. », VII (1904), p. 114 sgg., con¬ futa l’ipotesi moderna, che siano coesistiti nell’età regia il rex e il rex sacrorum (condivisa anche dal Pacchioni) e propone una teoria conciliativa, secondo la quale l’instaurazione della repubblica, preparata da un lento esautoramento della dignità regia, sarebbe stata alla fine determinata dal concorso di qualche azione violenta. Per le obiezioni che si levano contro questa teoria, v. specialmente Giannelli, Op. cit., p. 100 sgg. Nel saggio Dal « regnum » alla « res publica », in « Stud. et Doc. Hist. et Iuris » 1944, p. 150 sgg., P. De Francisci mette in risalto le profon¬ de differenze fra queste due fasi dell’organizzazione statale romana, al di là di quell’apparente identità di strutture essenziali che in esse si riscontra. Ad ima resa di Roma a Porsenna allude Tacito, Hist., Ili 72 (... Darsena, dedita urbe, ...) e Plinio, Hist. Nat., XXXIV, 139, aggiunge: in foedere qnod, expulsis regibus, populo Romano dedit Porsi ria, nomination comprehensum invenimus ne ferro nisi in agri cultura uteretur. A questi chiari accenni fa riscontro la notizia di Dio¬ nigi d’Alicarnasso (V 35), che il senato romano fece omaggio a Porsenna di un seg¬ gio d’avorio, di uno scettro, di ima corona aurea, di una veste trionfale, ano di una più lunga durata di tale hiatus, che egli lanista ! a a/ "ieT df6.g6nti dai monti verso d Pian°: il Piganiol crede invece dJTV i Ud barban non 31 sm prolungata oltre il 400 e che al principio 7h rT dT ° S'a eVldente la nPresa ^'influsso greco, come dimostrerebbe la costru¬ zione del muro « serviano » nel 378, primo esempio di opus quadratum. t G mtXm& faSÌ dell’arte GtrUSCa: C’ C‘ Van Essen, Cronologie Instituut t« ^Chl8C%rKn7ti'nJ Med®deehngen van het Nederlandsch. histor. A^tike? IV mom/’ mi );/, Messerschmidt> Volcenter Malereien, in «Die Antike », I\ (Ì928), p. 103 sgg. (le pitture della tomba Francois di Vulci apparter¬ rebbero al III secolo); id., Probleme der etruskischen Molerei dee Hellenismus irf Jahrbuch dee deutsch. Arch. Instituis», XLV (1930) p 62 8«r • F CatTt n ? di Torre San Scierò, in ,kon. ait PLinL f'kxiV Ufli,) ' T ° T Sul Marte di Todi, vedi C. Picard, in « Rev. Ét. lat. », 1930, p. 357 **
BIBLIOGRAFIA E
PROBLEMI
237
Per la civiltà campana e osca in genere: J.Beloch, Campanien, 2a ed., Breslavia 1890; St. Weinstock, Zur oskischen Magistratwr, in « Klio », XXIV (1930), p. 235 sgg.; J. Whatmough, The Iovilai dedications from S. Maria Capua Vetere, in « Class. Quarterly » 1922, p. 181 sgg.; R. Merle Peterson, The cults of Campania (« Papers and Monographs of thè Americ. Acad. in Rome », I), Roma 1919. Delle divinità sannitiche parla E. Schwyzer, Zur Bronze von Agnone, in « Rhein. Mus. » 1935, p. 97 sgg. Sulla introduzione dei giuochi secolari a Roma, si veda L. R. Taylor, New light on thè history of thè Secular Games, in «Am. Journ. of Philol. », IV 2, 1934, p. 101 sgg.; A. Piganiol, in « Rev. Et. anc. », 1936, p. 219 sgg. Un saggio recente sulla civiltà dell’antico Bruzio è quello di G. Pugliese Carratelli, Tradizione etnica e realtà culturale della Calabria prima della unificazione au¬
gustea deir Italia, in « Relazioni della XXVIII Riunione della Soc. It. Progr. Scienze»,
voi. V, Roma 1940, p. 159 sgg.
PARTE TERZA LA POLITICA MEDITERRANEA DI ROMA
I
IL PRIMO CONFLITTO CON CARTAGINE § 72 - L’Impero Cartaginese nel Mediterraneo Occidentale - Intor¬ no al 270 a.C. sei grandi Potenze si dividevano il dominio dei paesi posti intorno al Mediterraneo: una di queste era la Repubblica romana, insieme coi Regni di Macedonia, di Siria e d’Egitto e con le Repubbliche di Car¬ tagine e di Siracusa. Di questi sei Stati, soltanto il regno dei Seleucidi superava per super¬ ficie la Federazione romano-italica; per popolazione, invece, questa, col suo milione di cittadini romani (292.000 maschi adulti, secondo il censi¬ mento del 265/4) e coi due milioni o poco più di Latini e di alleati, restava notevolmente inferiore ai trenta milioni di abitanti del Regno seleucidico, ai dieci milioni dello Stato tolemaico, ed anche ai cinque dell’Impero car¬ taginese, rimanendo però allo stesso livello del Regno di Macedonia. Tutti e quattro i grandi Stati del Mediterraneo - Siria, Egitto, Mace¬ donia, Cartagine - sopravanzavano di
gran
lunga Roma per potenza
economica e per risorse finanziarie, per capacità di produzione industriale e per lo sviluppo dei traffici, per numero e per qualità di navi da com¬ mercio e da guerra; nessuno poteva competere con essa per la solidità degli ordinamenti interni, per la perfezione - organica, logistica e tat¬ tica - delle istituzioni militari, per le doti di resistenza fisica e per le virtù civiche dei cittadini tutti e di gran parte degli alleati. Con Cartagine per prima doveva Roma venire al paragone delle armi, allorché la potenza e le posizioni acquisite dal grande Stato africano si rivelarono
incompatibili
con la sicurezza e la libertà
di
movimenti
della Federazione romano-italica. Cartagine fu una delle molte colonie fondate dai Fenici sulla costa set¬ tentrionale dell’Africa. La leggenda ne raccontava la fondazione avvenuta per opera della regina Elissa (o Didone), profuga da Tno, donde era stata cacciata dal fratello Pigmalione; e ne collegava cronologicamente le origini con la distruzione di Troia, narrando di Enea che, durante il suo viaggio 16 - OlANNELLI, Trattalo di Storia romana
-
I
242
TRATTATO DI STORIA ROMANA
verso l’Italia, era approdato a Cartagine, ancora in costruzione, e vi era stato accolto ed ospitato da Didone. In verità, ben poco di storico sappiamo delle origini di questa colonia fenicia: la data della fondazione è probabil¬ mente l’814 a.C. Posta nel punto forse più felice della costa settentrionale dell’Africa, là dove questa si avvicina di più alla Sicilia, (in prossimità dell’odierna Tunisi), essa vide svilupparsi rapidamente i suoi commerci e la sua ma¬ rineria: ben presto si diede a fondare stabilimenti commerciali e colonie proprie sulle coste dell’Africa e della Penisola Iberica, non esclusa la sponda atlantica: mentre anche le altre città fenicie del Mediterraneo occidentale riconoscevano la sua supremazia e dovevano accettare di unirsi in lega con essa, con vincolo più di sudditi che di alleati. Di queste città (designate spesso come « libiofenicie ») ricorderemo (con la loro de¬ nominazione
latina)
Utica,
Hippo
Diarrhytus,
Hippo
Regius,
Lixus
sull’Atlantico, fra le maggiori dell’Africa ad occidente di Cartagine; e ad oriente, sulla costa delle Sirti, Hadrumetum e Leptis Magna; nella Penisola Iberica, Malaca e Gades; in Sicilia, Motye, Solus, Panormus; Caralis, in Sardegna. Nel V secolo a.C. Cartagine si trovava ad essere una delle più potenti e ricche città del Mediterraneo; le sue flotte ne dominavano il bacino occidentale, dove il suo impero si affermava su diecine di fiorenti città, con almeno quattro milioni di abitanti (Libifenici). La costituzione di Cartagine era quella di una repubblica oligarchica e ricorda assai da vicino la costituzione di Venezia nel medioevo: partecipavano al gover¬ no soltanto i cittadini di censo più elevato. Annualmente venivano eletti dall’assemblea del popolo i due magistrati supremi, detti Sufeti; gli altri poteri costitutivi del governo erano un Maggior Consiglio di 300 membri e un Minor Consiglio di 30. Nel territorio da essi colonizzato in Sicilia, i Cartaginesi contrastarono per oltre due secoli con i coloni greci, specialmente con Siracusa (cfr. ai §§ 42 e 63). Ma lo spirito particolaristico
e fazioso dei Greci impedì
sempre che i Sicelioti, subordinando le rivalità cittadine agli interessi na¬ zionali, traessero un vantaggio duraturo dai successi riportati sotto capi valenti. Morto Agatocle, i Cartaginesi avanzarono ancora una volta verso oriente, mentre il territorio stesso di Siracusa era devastato dai mercenari congedati da Agatocle (i cosiddetti « Mamertini »), che si erano stanziati da padroni nella città di Messina. Né la spedizione di Pirro valse a mi¬ gliorare le condizioni dei Greci di Sicilia, anche se i Siracusani riuscirono, sotto la guida del re Ierone, a rintuzzare l’audacia brigantesca dei Ma¬ mertini (265 a.C.).
IL PRIMO
CONFLITTO CON CARTAGINE
§ 73 - Roma e Cartagine al
243
principio del III secolo a. C. - Roma
e Cartagine avevano intrattenuto per oltre due secoli cordiali rappor¬ ti fra loro: ne sono testimonianza i due trattati di navigazione e di commercio che abbiamo esaminato a suo tempo (v. al § 43). Queste sti¬ pulazioni erano state rinnovate, con poche varianti, nell’anno 306, quando già i Romani apparivano aver preso definitivamente il sopravvento nella seconda guerra sannitica ed era facile prevedere il non lontano stanziarsi di essi, da dominatori, in gran parte dell’Italia meridionale. Se di questo terzo trattato non possediamo il testo, è possibile ricostruir¬ ne il contenuto essenziale; vi era compresa una clausola nuova, non com¬ merciale, ma politica; il reciproco riconoscimento dell’Italia come sfera d’azione esclusiva di Roma, e della Sicilia come esclusiva sfera d’azione di Cartagine. È evidente che i Cartaginesi, preoccupati dalla conquista romana della Campania e dall’estendersi della potenza di Roma verso la Magna Grecia, vollero premunirsi in tempo dal pericolo di trovarsi di fronte, in Sicilia, al posto delle deboli e divise città siceliote, il pericoloso affermarsi dell’espansione romana. Offrendo a Roma il loro disinteresse per le coste d’Italia, e quindi riconoscendole il diritto di portare i confini del suo territorio sino allo Ionio e allo Stretto di Messina, essi si assi¬ curavano in cambio la rinuncia dei Romani a qualsiasi azione in Sicilia. Pochi anni più tardi, concluso vittoriosamente il conflitto coi Sanniti, accolte nella sua Lega alcune delle città italiote, Roma si affaccia con le sue frontiere sul mare Ionio, sul Golfo di Taranto, sul Tirreno meridionale; guarda ormai alla Sicilia, che già Cartagine considera come cosa tutta sua. Tuttavia i rapporti fra le due città non solo rimasero cordiali, ma si fe¬ cero anzi più stretti, quando il conflitto fra Roma e Taranto provocò l’intervento di Pirro. Il programma dell’Epirota prevedeva la conquista della Magna Grecia e della Sicilia, né era esclusa un’azione
nell’Africa
punica: Roma e Cartagine si sentivano del pari minacciate. Quando i Ro¬ mani, sbigottiti dalle due prime vittoriose campagne di Pirro, sedotti dall’abile dialettica di Cinea il Tessalo, plenipotenziario del re, già piega¬ vano
a pensieri di pace
(cfr. al § 62), la calcolata offerta d’alleanza
dei Cartaginesi cambiò inaspettatamente il corso degli eventi. Il superbo apparato di forze navali che scortò l’ammiraglio punico Magone alla foce del Tevere, mostrò ai Romani su quale potente alleato essi potevano contare. Che l’offerta di Cartagine fosse dettata dal suo stesso interesse, non sarà certo rimasto nascosto agli uomini politici di Roma; ma poiché, in questo caso, l’interesse di Cartagine coincideva con quello dei Ro¬ mani, l’offerta fu accolta e, rotti i negoziati con Cinea, l’alleanza iu sti¬ pulata.
244
TRATTATO
DI
STORIA ROMANA
Fu concluso così, nel 278 a.C., il quarto trattato fra le due città: trat¬ tato di alleanza militare, nelle cui clausole pare si rifletta lo stesso stato d’animo che aveva presieduto alle stipulazioni del 306; ambedue gli Stati contraenti vi appaiono dominati da un senso di precauzione e di sospetto; eventuali azioni dei Romani in Sicilia e dei Cartaginesi in Italia sono su¬ bordinate a particolari cautele. L’impresa di Pirro in Sicilia si svolse egual¬ mente, ma gli venne meno il successo finale; mentre intanto, in Italia, i Romani, ' ben consci che solo mirando al proprio tornaconto Cartagine aveva cercato la loro alleanza, avevano sviluppato la propria guerra, cu¬ rando unicamente il proprio interesse e così come ragioni di prudenza e di sicurezza richiedevano. Quando, nel 272 a.C., il generale epirota Molone, comandante del presidio rimasto in Taranto, assediata dai Romani, offrì la resa al console Papirio, già da qualche giorno una squadra cartaginese incrociava al largo del porto di Taranto. Che cosa sarebbe avvenuto se, anziché ai Romàni, Molone avesse offerto la sua resa ai Cartaginesi ? Eppure proprio con questa spe¬ ranza e con questa intenzione si eran presentate nelle acque di Taranto le navi di Cartagine. Delusi, i Cartaginesi non osarono insistere nel loro disegno e si ritirarono, avendo però in tal modo aggravato i sospetti e le diffidenze che dividevano ormai irrimediabilmente le due città alleate e rivali. D’altra parte, se si pensa che nel 270 vigeva ancora, nei confronti di Roma, incontrastata signora di tutta la penisola italica, quel trattato del 348 che inibiva alle navi romane ed alleate di navigare e di commerciare non solo nell’Africa settentrionale, ma perfino in Sardegna ed in Corsica, e che nessun ostacolo serio si frapponeva ormai all’attuazione dell’antico sogno di Cartagine, di completo dominio della Sicilia, si capirà facilmente come i Romani dovessero provare un senso di soffocazione all’affacciarsi sulle rive di quel mare, di cui essi invano dominavano le coste per più di mille chilometri; come dovesse preoccuparli il pensiero che lo Stato rivale, insediandosi in un prossimo domani sulla sponda insulare del¬ lo Stretto di Messina, venisse a costituire di lì una grave e duratura minaccia al dominio romano nel Bruzio e nella Lucania, dominio recente e malsicuro, del quale le popolazioni osche e greco—italiote non avevano ancora imparato a tollerare la severità e ad apprezzare i benefici. E pertanto, nel decennio che corse dopo la battaglia di Benevento, nel pensiero della classe dirigente romana si andarono delineando sempre più nette e precise una necessità e un’aspirazione; la necessità che Cartagine non giungesse a dominare lo Stretto di Messina, annullando così virtual¬ mente le garanzie di intangibilità degli interessi romani nella penisola, contenute nel trattato del 306 e riconfermate con quelle del 279; l’aspira-
IL PKIMO
CONFLITTO
CON CARTAGINE
245
zione ad obbligare, quando fosse possibile, la possente città fenicia a ri¬ conoscere il diritto di Roma ad una più ampia libertà di respiro su quel mare del quale orinai i Cartaginesi non avevano più ragione di reclamare il monopolio assoluto. E se per far valere questa aspirazione non erano imposti
ai Romani limiti
imprescindibili di tempo, quella necessità di
difesa non ammetteva invece indugi di sorta, tostoché si fosse presentata: si capiva ormai troppo bene,
a Roma e a Cartagine, che l’occupazione
punica di Messina o di Siracusa avrebbe rappresentato inevitabilmente il c(WMxS-
belli,
§ 74 -
di una guerra che avrebbe deciso del dominio del Mediterraneo. Il
d casus belli » e l’inizio delle ostilità - Racconta Plu¬
tarco che Pirro, nell’atto di abbandonare per sempre la maggiore isola mediterranea, abbia esclamato:
« Che bel campo di battaglia io lascio
ai Cartaginesi e ai Romani ! ». E la lotta stava per iniziarsi, e proprio lì, in Sicilia, si sarebbe svolto l’ultimo atto del drammatico duello cominciato tre secoli prima fra Semiti e Ari per il dominio del Mediterraneo occiden¬ tale, e nel quale ai Greci, che avevano fino allora tenuto non inonorata¬ mente il campo, stremati, ma non vinti, sottentrava ora, fresca di formida¬ bili energie, Roma, destinata a conchiudere la gara col trionfo definitivo del genio e della tenacia latini sulla presuntuosa scaltrezza fenicia. L’imprescindibile necessità di difesa di cui si è parlato nelle pagine che precedono, si presentò quando i Cartaginesi, richiesti di aiuto dai Mamertini contro Siracusa, accettarono di presidiare la città. Il re Ierone di Siracusa aveva appunto allora battuto le forze dei Mamertini presso il fiume Longano (265 a.C.) e i Mamertini, vistisi perduti, avevano giu¬ dicato miglior partito rivolgersi a Cartagine. L’insediarsi della Potenza rivale sulla sponda dello stretto prospicente quel Bruzio di recente domato e sempre pronto a risollevare lo stendardo della rivolta, mise in allarmo i Romani. La sicurezza della Federazione italica esigeva che i Cartaginesi sloggiassero da Messina: onde quando i Mamertini - malcontenti, come al¬ meno pare,
del
comportamento
del
presidio
cartaginese - chiesero a
Roma l’invio di una guarnigione che sostituisse quella che Cartagine aveva posto nella loro ròcca, dopo varie incertezze e contrasti tra comizi e senato, i Romani decisero che un esercito, al comando del console Appio Claudio, si recasse a Reggio, per essere pronto a passare di lì a Messina, appena ne ricevesse l’ordine. Pendevano forse ancora le trattative fra i due Governi, quando il con¬ sole, rotti gli indugi e cogliendo di sorpresa i Cartaginesi, dichiarò la guerra e sbarcò le sue truppe a Messina. Il conflitto armato era aperto (estate del 264).
246
§ 75
TRATTATO
- Gli
apparecchi
DI STORIA ROMANA
militari
di
Roma
e
di
Cartagine -
Con
quali apprestamenti guerreschi e con quali risorse le due Potenze rivali si apprestavano a contendersi il dominio del Mediterraneo occidentale ? All inizio della prima guerra punica, l’esercito romano era sostanzial¬ mente quello stesso che aveva fatto le sue prove nelle campagne contro Pirro e i suoi alleati italici; con quegli ordinamenti, cioè, e con quegli or¬ ganici che aveva ricevuto al tempo della seconda guerra sannitica, quando era stato costituito su quattro legioni di 4.200 fanti con 300 cavalieri cia¬ scuna ed era stata introdotta la « tattica manipolare » al posto di quella falangitica. Sino dal III secolo, però, si cominciò a mobilitare, nel corso delle guerre, un numero di legioni anche superiore a quattro, affidando il comando di legioni isolate o di eserciti supplementari di due legioni a magistrati con imperio prorogato (proconsoli o propretori), o a generali in sottordine (legati). Così, nel 225 a.C., per fronteggiare la minacciosa in¬ vasione gallica, si armarono dieci legioni; e negli anni più difficili della guerra annibalica si giunse a mobilitare fino a 25 legioni. Ne fu del resto l’esercito, il protagonista della prima guerra con Carta¬ gine, che Roma combattè e vinse soprattutto con la flotta: flotta che Roma non possedette fino al 260 a.C., benché si abbia notizia di qualche azione di poco conto effettuata da squadre navali romane sulle coste campane, nel corso delle guerre sannitiche. Alla flotta aveva invece affidato Cartagine la tutela dei suoi floridissimi commerci e delle colonie e stabilimenti disseminati in tutto il Mediterraneo occidentale. Degli effettivi delle flotte cartaginesi non possediamo cifre sicure pei tempi anteriori alle guerre puniche: durante il V e il IV secolo pare che i Cartaginesi abbiano messo in linea armate da 100 a 200 navi, triremi prima, poi quadriremi e
quinquereini,
alle quali fornivano gli
equipaggi gli stessi marinai fenici e quelli delle città alleate o libifenieie; gli ufficiali erano reclutati, come quelli dell esercito, fra la borghesia ricca e la nobiltà cartaginese. A differenza di Roma, Cartagine non ebbe mai quadri permanenti per le sue forze militari di terra, ma eserciti messi insieme caso per caso, all’insorgere di una guerra, reclutati il più tardi possibile e quanto meno numerosi si potesse. Soltanto Amilcare e Asdrubale costituirono in Spagna un esercito permanente, con organici e quadri regolari di ufficiali, con rap¬ porti numerici abbastanza costanti fra le diverse armi, rispondenti alle necessità tattiche e strategiche in vista. D’altra parte, l’oligarchia carta¬ ginese, per compiacere il popolo e per meglio garantire il proprio predo¬ minio politico, provvide fin dai tempi più antichi ad esentare dal servizio militare quanti non avessero censo elevato, mantenendo l’obbligo del ser-
IL
PRIMO
247
CONFLITTO CON CARTAGINE
vizio soltanto per i cittadini abbienti, che militavano nella cavalleria o coi carri da guerra, e, in tempi più tardi, soltanto come ufficiali, destinati al comando dei contingenti forniti dalle città alleate e dai popoli soggetti. Fino dalla metà del V secolo venne introdotto l’uso di arruolare truppe mercenarie; uso che divenne sempre più largo, via via che i tributi degli alleati e dei sudditi permisero di arruolarne in numero sempre mag¬ giore e per maggior durata di tempo. I corpi di mercenari erano costi¬ tuiti dapprima specialmente di Spagnoli, Corsi, Liguri, Balearici, questi ultimi famosi per la bravura con cui maneggiavano la loro caratteristica arma nazionale, la fionda; presto si aggiunsero in numero rilevante i Cam¬ pani,
che andarono però scomparendo progressivamente dagli eserciti
punici nel corso del III secolo, quando divennero invece sempre più ab¬ bondanti i mercenari Galli. In guerra, i mercenari restavano raggruppati in formazioni nazionali, così com’erano stati assoldati, e venivano comandati dai loro ufficiali o dai capi stessi che li avevano riuniti ed avevano stipu¬ lato col Governo cartaginese il contratto d’impiego. Erano cartaginesi soltanto i comandanti in capo dei singoli corpi d’esercito, che venivano eletti dall’assemblea del popolo e conservavano la loro carica per tutta la durata della guerra, salvo che vi rinunciassero spontaneamente o ne ve¬ nissero destituiti. § 76 — Le
prime campagne
in
Sicilia —
Alla piccola guarnigione
cartaginese che presidiava Messina non restò che uscire dalla cittadella, mentre vi entravano i contingenti romani; ma intanto tutte le forze car¬ taginesi dell’isola si concentravano presso la città,
e Siracusa stringeva
alleanza con la sua secolare nemica contro i Romani. Appio Claudio ebbe così da combattere, dinanzi a Messina, gli eserciti riuniti di Ierone e di Cartagine: la vittoria fu dei Romani; i Cartaginesi si ritirarono da Messina e Ierone andò a chiudersi co’ suoi soldati dentro le mura di Siracusa. L’anno dipoi, i due nuovi consoli trasportarono in Sicilia l’intero eser¬ cito di quattro legioni, riuscendo anch’essi a violare il blocco dei Carta¬ ginesi. Con queste forze quelle dei Cartaginesi e dei Siracusani non erano neppure lontamente in grado di misurarsi; onde l’uno dei due consoli, Manio Valerio, invase il territorio siracusano, occupò Adrano, Enna. Centuripe, Alesa, Catania e marciò risolutamente sulla città. Ierone, preoccu¬ pato della rapida avanzata romana e dell’inerzia dei Cartaginesi, decise allora di accordarsi con Roma. Dopo breve trattativa,
egli strinse coi
Romani un trattato d’alleanza, rinunziando a*una parte del suo territorio e obbligandosi a pagare una forte indennità di guerra. L’acquisto di Sira¬ cusa fu prezioso per i Romani, per il seguito delle loro campagne di S’ci-
248
TRATTATO
DI STORIA ROMANA
lia, © Ierone fu un alleato fedele, che non tradì mai, neppure nei momenti pili critici e più incerti della guerra, la fede giurata ai Romani: profondo conoscitore di uomini e di Stati, egli capì fin d’allora che, malgrado gli errori o gli insuccessi, inevitabili in una guerra lunga e complicata, la vit¬ toria sarebbe stata di Roma. Tornato a Roma, Valerio celebrò il trionfo « sui Cartaginesi e sul re Ierone » e assunse il cognome trionfale di Messalla, avendo egli inaugurato tale uso. A questo punto non sarebbe stato forse difficile por fine alla guerra,
che
Roma aveva intrapreso a scopo di difesa, per allontanare dall’Italia il pericolo cartaginese; ma l’esercito romano che passò nell’isola per la terza campagna (quella del 262), mal si sarebbe adattato a rinunziare all’acqui¬ sto, che sembrava ora così facile, della rimanente Sicilia greca, promet¬ tente larga messe di ricchezze e di prede. Da parte loro i Cartaginesi ave¬ vano impiegato l’inverno tra il 263 e il 262 in vasti preparativi di guerra, concentrando grandi forze militari in Agrigento, la seconda città dell’isola, da poco tempo venuta in loro possesso. E così i due consoli dell’anno 262, L. Postumio e Q. Mamilio, fatti i necessari preparativi, condussero l’intero loro esercito contro la forte e bella città: stretta d’assedio, Agrigento dovè arrendersi per fame dopo sei mesi di resistenza, nonostante che un nuovo esercito cartaginese, sbarcato nell’isola, avesse tentato di forzare le linee romane. La guarnigione cartaginese superstite potè però aprirsi un varco e mettersi in salvo. I Cartaginesi non conservavano ora che le piazzeforti occidentali dell’isola, oltre a Tindaride e a Mitistrato (Mistretta), sulla costa settentrionale. § 77 - La guerra navale e lo sbarco in Africa - Non era ormai più il caso di pensare, né per l’uno né per l’altro dei due contendenti, ad una guerra limitata: la guerra era ormai per il possesso della Sicilia e non sarebbe finita sino a che l’una delle due parti non ne fosse rimasta del tutto signora. Si accorsero però ora i Romani come senza una flotta da guerra non avrebbero potuto concludere il loro conflitto con una Potenza navale, che avrebbe potuto prolungare all’infinito la sua resistenza nelle piazzeforti marittime dell’isola. Fu allora che il senato romano prese la memorabile decisione di dare a Roma una grande flotta da guerra: Roma, che era stata fino allora una Potenza unicamente terrestre, si apprestava a divenire anche una Potenza marittima.
E se audace fu la decisione del
senato, di accingersi a sfidare Cartagine in quell’elemento stesso di cui 1 antica e potente città marinara conosceva tutte le risorse e tutti i segreti non meno mirabile fu la rapidità con cui tale deliberazione fu posta in atto: i sodi navales fornirono le ciurme dei marinai e dei rematori. In
IL PRIMO
249
CONFLITTO CON CARTAGINE
pochi mesi fu apprestata una flotta di cento quinqueremi e venti triremi, e nella primavera del 260 a.C. un esercito di due legioni e tutta la flotta si concentrarono in Messina, al comando dei Cornelio Scipione e Gaio Duilio.
due consoli di quell’anno,
Dopo una scaramuccia sfortunata per i Romani e nella quale lo stesso console Scipione cadde prigioniero dei Cartaginesi nel
porto di Lipari,
la flotta romana, agli ordini di Duilio, venne a battaglia con un’armata cartaginese di forza eguale, all’altezza del promontorio di Milne (Milazzo). I Cartaginesi s’erano scarsamente e fiaccamente preparati a combattere con Roma sul mare, ritenendo che i Romani ben poco valessero nella guerra navale, di fronte ai loro sperimentati ammiragli. Ma i loro calcoli resultarono sbagliati: la vittoria romana fu piena: 14 navi cartaginesi furono affondate; 30, compresa l’ammiraglia, catturate; 3.000 furono i morti, 7.000 i prigionieri nell’armata punica. La vittoria di Duilio fu do¬ vuta, in gran parte, all’aver egli provveduto a porre riparo alla minore efficienza delle navi romane, munendole dei ben noti corri
(o ponti leva¬
toi), che agganciavano, ad una ad una, le navi nemiche a quelle romane, trasformando la battaglia navale in tanti piccoli combattimenti di fanti e di arcieri. Tale accorgimento fu forse suggerito a Duilio da qualche pi¬ lota o ufficiale greco. Grandissimo fu l’effetto morale di questa vittoria, la prima che gli Italici riportavano sul mare contro un nemico agguerrito e ritenuto fino allora quasi invincibile. Duilio fu ricompensato col trionfo e con altri straor¬ dinari onori. Meno decisivi furono invece i resultati materiali della vit¬ toria; perché i Cartaginesi erano ancora di gran lunga superiori ai Romani sul mare, né ancora la piccola flotta di Roma possedeva libertà d’azione contro le città costiere della Sicilia. Ond’è che, dopo alcuni anni d’incer¬ tezza, nei quali la guerra si combattè con un’alternativa di successi e di sconfitte per mare e per terra, non solo in Sicilia, ma anche in Sardegna, il senato venne nella deliberazione di accrescere la flotta a tal punto da renderla superiore a quella cartaginese: sicché fosse possibile ai Romani, acquistato il dominio del mare, portare la guerra in Africa, nel territorio stesso della Potenza nemica. Per l’estate dell’anno 256 fu apprestata un’armata di 230 navi, sulla quale fu imbarcato un esercito di due legioni,
al comando dei consoli
Lucio Manlio Vulsone e Marco Attilio Regolo. Quest’armata, avendo sal¬ pato da Siracusa alla volta dell’Africa, si scontrò all’altezza del promon¬ torio Ecnomo (oggi Capo S. Angelo, presso Licata), con l’intera flotta car¬ taginese, di circa 250 navi. Fu questa una delle più grandi, o forse la più grande battaglia navale dell’antichità: su ciascuna delle due flotte erano
250
TRATTATO
DI STORIA
ROMANA
imbarcati, fra marinai e soldati, circa 100.000 uomini. La vittoria fu an¬ cora dei Romani e decise dell’impero del Mediterraneo, che Roma guada¬ gnò allora per non perderlo più finché visse come Stato indipendente. Di¬ strutta così o catturata buona parte dell’armata nemica, i consoli pote¬ rono sbarcare l’esercito presso la città di Clupea (ad occidente del Capo Bon). Cartagine fu sbigottita dal pericolo che le sovrastava: i Numidi comin¬ ciavano a ribellarsi e a far causa comune coi Romani, i quali frattanto avanzarono nel territorio africano fino in vicinanza di Cartagine. Soprav¬ venuto l’inverno, il console Vulsone partì col grosso della flotta, lasciando il collega con l’esercito (quasi 20.000 uomini) a svernare in Africa. Attilio Regolo non si dimostrò però sapiente politico, come non fu nep¬ pure un abile generale. Non seppe approfittare del malcontento dei sudditi africani di Cartagine contro la città dominatrice e farseli alleati; alle of¬ ferte di pace dei Cartaginesi rispose imponendo condizioni durissime, inac¬ cettabili per il nemico; non si accorse che Cartagine, mentre guadagnava tempo in scaramucce e in trattative, assoldava e allenava un numeroso esercito, a comandare il quale fu chiamato un esperto generale greco, lo spartano Santippo. Lo scontro fra i due eserciti, di pari forza numerica, avvenne nella primavera del 255, prima che fossero giunti, in appoggio di Regolo, i due consoli dell’anno con le nuove legioni. Mal comandati e sopraffatti dalla superiorità della cavalleria nemica, i Romani vennero pienamente battuti, in vicinanza di Tunisi: appena duemila di loro pote¬ rono arrivare a salvamento nel campo di Clupea; tutti gli altri caddero uccisi o rimasero prigionieri, e fra questi lo stesso Regolo. Il disastro fu reso più grave dalla sventura toccata alla flotta romana, la quale, arrivata di lì a poco in Africa e avendo imbarcato i superstiti della sconfitta, fu quasi intieramente distrutta, al largo di Camarina, da una tremenda procella. § 78
- La guerra di esaurimento: Amilcare Barca - Gli anni dal
255 al 242 furono i più lunghi e diffìcili della guerra. Ai primi, insperati successi navali seguirono ora rovesci e delusioni; il primato marittimo, guadagnato brillantemente con le battaglie di Mile e dell’Ecnomo, fu tosto perduto e molto ci volle di tempo e di fatica prima che i Romani potes¬ sero riconquistarlo e conservarlo definitivamente. Era del resto naturale che accadesse così. Il conflitto con Cartagine non trovò i Romani prepa¬ rati ai nuovi compiti che esso imponeva loro: mancava a Roma un nucleo di capi sperimentati, adatti alle mutate condizioni della guerra e della politica, forniti di quella scienza militare, di quell’abilità diplomatica, di quella larga e sicura conoscenza di uomini e di cose che la grandiosa
IL PRIMO
CONFLITTO
CON CARTAGINE
251
impresa a cui Roma s’era accinta, richiedeva a coloro che dovevano diri¬ gerla. Il senato e l’esercito romano erano per ora capeggiati da uomini all’antica; bravi e rudi soldati del vecchio stampo, del tipo di un Cincin¬ nato o, tutt’al più, di un Camillo: gli uomini nuovi, i nuovi duci di Roma, si formeranno appunto in questi decenni di prove e di gueire e si chiame¬ ranno
Fabio Massimo,
Scipione Africano,
Quinzio Flaminino,
Emilio
Paolo; ma per il momento, non ve n’era alcuno di siffatti. In particolar modo, poi, mancava a Roma uno Stato Maggiore navale: i comandanti delle flotte romane non possedevano alcuna esperienza del mare e dell’arte di navigare e malvolentieri accettavano suggerimenti e consigli dai piloti e dai tecnici loro subordinati. Questa la causa principale dei frequenti di¬ sastri marittimi, che distrussero, l’una dopo l’altra, le belle flotte che il senato e il popolo romano, con rinnovati sacrifici, riuscirono a fare scen¬ dere in mare. Così fallì il tentativo di una seconda spedizione in Africa; una flotta fu perduta, nel 249, dal console Claudio Pulcro nelle acque di Drepana (Trapani); un’altra, poco dopo, dal suo collega Giunio Pullo sulla costa meridionale della Sicilia. Di fronte a così gravi rovesci stanno però al¬ cuni importanti successi riportati dai Romani in Sicilia. Palermo, attac¬ cata per mare e per terra, fu presa d’assalto nel 254; i Cartaginesi, più volte sconfitti in Sicilia dalle legioni romane, furono costretti a rinchiu¬ dersi nelle due fortezze più occidentali dell’isola, Lilibeo e Drepana, ove poterono mantenersi soltanto mercé il riacquistato dominio del mare. Specialmente notevole fu il successo che i Romani riportarono, nel 250, in vicinanza di Palermo, dove il proconsole L. Cecilio Metello sbaragliò l’esercito del generale cartaginese Asdrubale figlio di Annone (lo stesso che aveva combattuto in Africa contro Regolo), catturando anche un gran numero di elefanti. Ma nel 247 i Cartaginesi trovarono finalmente, fra i loro, un grande ca¬ pitano, Amilcare Barca, il primo uomo d’eccezione che la lunga guerra abbia rivelato, dopo una serie monotona di condottieri mediocri dall’una e dall’altra parte. Egli apparve tardi, quando ormai i due belligeranti erano prossimi all’esaurimento delle loro forze e quando la patria sua, più vicina di Roma ai limiti estremi della resistenza, non poteva ormai fornirgli i mezzi per imprimere alla guerra un indirizzo nuovo e risolu¬ tivo. Ma egli ebbe modo egualmente di mostrare la sua genialità, immobi¬ lizzando e tormentando per sei anni tutte le forze romane in Sicilia con poche migliaia di uomini e qualche decina di navi. Riorganizzato l’esercito e asserragliatosi con questo presso Palermo, nella forte posizione del monte Eircte (oggi Monte Pellegrino) e, più tardi, in quella di Erice (oggi Monte
252
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
S. Giuliano), presso Trapani, Amilcare si diede a molestare e a stancare i Romani con fulminee e continue incursioni per terra, in Sicilia, e per mare, sulle coste del Tirreno, con l’intento appunto di stancare e abbattere Roma con una guerra di esaurimento, che desse fondo alle sue riserve finan¬ ziarie e logorasse gli animi e le forze delle popolazioni. § 79 -
La
battaglia
delle
isole
Egadi
e
la
pace -
Oltre sei anni
durò la terribile prova, senza che né l’uno né l’altro dei due contendenti trovasse la forza di vibrare il colpo decisivo. A Roma si capiva ormai che non si sarebbe venuti a capo di un uomo come Amilcare se non riacqui¬ stando il dominio del mare, in modo da impedirgli di ricevere rinforzi e rifor amenti da Cartagine. Si decise allora di allestire una nuova flotta: ma il tesoro dello Stato era esausto né sembrava possibile l’imposizione di altri tributi straordinari di guerra. Si ricorse allora ad una specie di pre¬ stito forzoso, imponendo a tutte le famiglie più facoltose una contribuzione proporzionata al censo di ciascuna. Potè così essere costruita una flotta di 200 grosse navi, che rappresentarono quanto di meglio sapeva produrre allora l’ingegneria navale dei popoli mediterranei. Nel maggio del 242 il console Gaio Lutazio Catulo si portò con la flotta dinanzi a Drepana e investì la città per terra e per mare. Per portar soc¬ corso alla fortezza assalita, un’armata cartaginese di circa 300 navi, ca¬ rica di soldati, di armi e di denaro, si mise in mare nella primavera dell anno seguente. Lutazio le si fece incontro, la sorprese nelle acque delle isole Egadi e la sconfìsse pienamente, affondando 50 navi e catturandone 70, con grandissima quantità di prigionieri e di bottino (marzo del 241). Anche Cartagine, benché ricchissima, era ormai alla fine delle sue ri¬ sorse: lo stesso Amilcare consigliava di trattare la pace: e le trattative fu¬ rono del resto agevolate dalla moderazione delle condizioni poste dal console vincitore e ratificate poi dai Comizi. Cartagine rinunziava in favo¬ re di Roma al possesso della Sicilia e delle isole limitrofe, restituiva i pri¬ gionieri e si obbligava a pagare in dieci anni un’indennità di 3.200 talenti (circa 18 milioni di lire oro).
'LE VIGOROSE AFFERMAZIONI DELLA POTENZA ROMANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
253
II LE VIGOROSE AFFERMAZIONI DELLA POTENZA ROMANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE § 80 - Il dopoguerra in Italia - La guerra aveva rivelato la grande
superiorità dell’organismo politico e militare romano su quello cartaginese: nonostante il brusco passaggio da un’angusta politica peninsulare a una politica di vasto respiro, da comandi esclusivamente terrestri a comandi marittimi o anfibi, i duci romani commisero meno errori dei comandanti e dei governanti cartaginesi, che si lasciarono togliere con sorprendente facilità la supremazia marittima ereditata dagli avi. All’interno, la guerra produsse a Roma un’ulteriore democratizzazione del regime, la quale si concretò nella
valorizzazione delle classi medie
mediante la riforma dei Comizi Centuriati. La data della riforma è incerta, ma sembra ne siano stati autori gli stessi censori del 241 a. C., che istitui¬ rono le ultime due tribù rustiche, la Quirina e la Velina. Con questa inno¬ vazione si addivenne ad una diversa distribuzione fra le classi delle cen¬ turie, che ormai da tempo erano soltanto corpi elettorali, senza più alcuna corrispondenza con le centurie dell’esercito: mantenendo invariati i 18 voti dei cavalieri e i 5 voti dei capite censi, le altre cinque classi furono suddivise in un numero uguale di centurie, in modo da rendere meno sen¬ sibile (anche se non da abolire del tutto) la sperequazione nel diritto di voto nei singoli appartenenti ad esse. Effetto della riforma fu che il pre¬ dominio della nobiltà divenne ancor meno saldo e continuo nei decenni che seguirono, coH’immissione di numerosi homines novi ai posti di go¬ verno e coll’audace politica agraria e antisenatoriale ispirata dal tribuno Flaminio Nepote (232). Soltanto le dure sconfitte toccate, più per fatalità che per colpa, ai consoli popolari nei primi anni della guerra annibalica restituirono, ed anzi accrebbero, l’autorità del senato, che rimase incrol¬ labile e indiscussa sino al tempo di Gaio Gracco. Né altri mutamenti so-, stanziali si ebbero nella costituzione romana; ché tale non può riguardarsi l’istituzione del praetor peregrinus, nel 242, per amministrare la giustizia ai non cittadini (praetor qui inter peregrinos ius dicii). Si è alluso sopra alla politica agraria di Gaio Flaminio Nepote, tribuno della plebe nel 232 a.C. A questo ardito e geniale uomo politico - che la tendenziosa annalistica del secondo secolo ci presenta come un fazioso
254
TRATTATO
DI
STORIA ROMANA
e verboso demagogo - si deve la proposta di legge, approvata appunto in quell’anno, che disponeva la distribuzione viritana dell’agro piceno e gal¬ lico; e sarà forse da ritenere di sua ispirazione una legge, che molto vero¬ similmente fu approvata in quegli anni, la quale vietava a qualsiasi cit¬ tadino di occupare più di 500 iugeri di agro pubblico, limitando la porzione di esso da tenere a pascolo e prescrivendo l’impiego di un certo numero di agricoltori liberi. Il principale guadagno materiale che Roma trasse dalla lunga guerra, fu il possesso della Sicilia; aH’infuori del territorio di Siracusa e dei Mamertini, alleati di Roma, e di altre citta che durante la guerra avevano concluso patti vantaggiosi con Roma, il resto della Sicilia (circa la metà dell isola) venne ora a far parte del territorio romano; ma in una forma del tutto nuova alla prassi politica che Roma aveva sinora applicato. Uno specialista di storia economica (il Tenney Frank) ha scritto che là vit¬ toria di Roma su Cartagine rappresenta un’epoca nella storia romana soprattutto per questa ragione: perché Roma, che aveva ordinato l’Italia su principi tanto liberali che gli alleati divennero quasi tutti i suoi più fidi collaboratori, arrivata in Sicilia e quindi in Sardegna e in Corsica cioè fuori della penisola — si trasformò in una democrazia imperialista, applicando in Sicilia la teoria di governo che essa vi trovò adottata pre¬ cedentemente e nuova per la sua esperienza. Era quello il sistema seguito dai monarchi orientali e, sul loro esempio, da Alessandro Magno e dai so¬ vrani ellenistici; seguito anche in Sicilia tanto da Ierone quanto da Carta¬ gine: in base ad esso, i sovrani, proclamandosi padroni della terra, richiede¬ vano l’imposta della « decima » su alcuni prodotti principali del suolo, ac¬ cettando anche il tributo in natura. È naturale che il senato trovasse questo sistema (lex Hieronica) molto vantaggioso per restaurare le esauste finanze dello Stato e per assicurarsi il prezioso rifornimento del grano siciliano e 1 applicasse d’allora in poi a tutti i territori assoggettati fuori d’Italia. S’intende come un territorio organizzato in tal modo richiedesse una con¬ tinua ed attenta sorveglianza dello Stato; in un primo tempo ne fu incari¬ cato uno dei quattro questori classici (creati nel 267 per sovraintendere alle costruzioni navali e alla difesa delle coste), la cui residenza fu stabi¬ lita a Lilibeo; più tardi però, dopo la conquista della Sardegna, il Governo romano comprese la necessità di assumersi anche il potere giurisdizionale ed esecutivo, per mantenere l’ordine e la pace nel paese, e istituì allora per il governo delle isole magistrati annui, eletti dal popolo e forniti di imperium, ai quali fu estesa la qualifica di « pretori », come comandanti della guarnigione del territorio. Nacque così l’istituto della «provincia», la cui figura esamineremo più tardi.
LE VIGOROSE AFFERMAZIONI DELLA POTENZA ROMANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
255
§ 81 - I rapporti romano-punici dopo il 241 a. C. - Straordinaria¬
mente amichevoli e cordiali ci appariscono i rapporti stabilitisi tra le due città rivali dopo la conclusione della pace; il che può ritenersi però a suf¬ ficienza giustificato dalla mitezza delle condizioni di pace di cui s’erano appagati i Romani e dalla decisa prevalenza presa subito dopo in Carta¬ gine dal partito della pace e dell’intesa con Roma, da quel partito cioè capeggiato da Annone e ostile alla fazione barcina, il quale reputava più utile agli interessi cartaginesi la creazione di un grande impero punico nell’Africa settentrionale che un’ulteriore espansione marittima, in gara e in conflitto con Greci e con Romani. La politica di Annone, politica di svalutazione della guerra e di coloro chq l’avevano caldeggiata e comandata, andò tanto oltre da negare ai mercenari reduci gli stipendi e i premi loro promessi da Amilcare nelle giornate più critiche dell’aspra guerra siciliana. Tale politica provocò quella terribile rivolta dei mercenari che condusse Cartagine sull’orlo della rovina e durante la quale il Governo romano ebbe occasione di dimostrare più volte non solo la più rigida lealtà, ma una vera simpatia per i suoi ex-nemici. « Guerra senza fede » ha definito questo atroce conflitto lo storico greco Polibio, che lo racconta molto diffusamente negli ultimi capitoli del I libro delle sue storie (65-88), descrivendone le nefandezze, i tradimenti, le crudeltà senza nome e intrattenendosi in una acuta analisi della psico¬ logia dei combattenti, ch’egli deriva certamente dalla sua fonte bene in¬ formata, uno storico a noi ignoto, favorevole a Cartagine e al partito dei Barca. Nel primo anno le operazioni di guerra furono dirette da Annone e da ufficiali di sua fiducia, con esito del tutto sfavorevole; si ribellarono anche i mercenari di guarnigione in Sardegna, uccisero i loro ufficiali e, minac¬ ciati poi dagli indigeni dell’interno, chiesero 1 intervento di Roma; ma il senato romano rifiutò di sbarcare soldati nell’isola, come rispose con un rifiuto quando Utica, disertando anch essa la causa cartaginese, passò dalla parte dei ribelli e domandò di essere accolta sotto il protettorato di Roma. Tanta dirittura e cordialità di contegno verso la nemica vinta difficil¬ mente poteva durare, quando la necessità di porre a capo delle truppe operanti un uomo di indiscusso valore dette il sopravvento, in Cartagine, al partito dei Barca e Amilcare prese il comando dell’esercito. Ciò accadde nel secondo anno di guerra; cominciarono allora le vittorie dell’esercito punico sui mercenari, ma contemporaneamente si avvertirono le prime freddezze e i primi sospetti nelle relazioni fra le due Potenze. E quando, nel 238, gli insorti di Sardegna, attaccati di nuovo dalle tribù dell interno,
256
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
chiesero una seconda volta aiuto a Roma, il senato accolse la loro richiesta. L’intervento romano in Sardegna, in questo momento, fu indubbiamente cosa contraria allo spirito del trattato con Cartagine; ma Roma, cui erano ben note le tendenze imperialistiche e il desiderio di rivincita di Amilcare Barca, giudicò opportuno intervenire, per piegare in proprio favore il con¬ fuso e pericoloso stato di cose creatosi nel Tirreno settentrionale e per prov¬ vedere
definitivamente alla sicurezza dell’Italia e alla libertà dei suoi
traffici col dominio di quel mare: dominio, che l’esito della guerra e il mer¬ canteggiato trattato di pace non avevano affatto garantito. In realtà il Governo romano provvide allora agli interessi supremi del suo popolo come le circostanze gli imponevano; e maggior vantaggio avrebbe otte¬ nuto da quella decisione, se Cartagine avesse raccolto la sfida che le era stata gettata: sarebbe stata forse anticipata di quarant’anni la situazione politica che si stabilì nel Mediterraneo con la pace del 201. Alla notizia che una spedizione romana stava per salpare per la Sar¬ degna, Cartagine allestì a sua volta una flotta, con la speranza di prece¬ dere la rivale nell occupazione dell’isola. Il Governo romano, ritenendo quei preparativi rivolti contro Roma stessa, dichiarò allora senz’altro la guerra. Ma Cartagine si dichiarò pronta a trattare la pace, che Roma le offerse contro il pagamento di una indennità di 1200 talenti (8.200.000 lire oro) e la rinunzia ad ogni diritto sulla Sardegna. Roma procede allora all’occu¬ pazione delle
coste dell’isola,
e
contemporaneamente, anche di quelle
della Corsica, dove occupava già, probabilmente, il porto di Aleria. L’in¬ terno delle due isole fu poi conquistato negli anni successivi, nei quali pic¬ coli eserciti, al comando però quasi sempre dei consoli, effettuarono varie spedizioni per ottenere l’assoggettamento delle tribù dell’interno. Fu appunto la conquista della Sardegna che indusse i Romani a confe¬ rire un assetto stabile e definitivo all’amministrazione delle tre grandi isole del Tirreno. Anche in Sardegna una parte del territorio confiscato divenne agro pubblico del popolo romano; il resto fu soggetto a tributo. Nel 227 a.C. si cominciarono ad eleggere a Roma due pretori per il governo delle due prime provinciae romane: la Sicilia e la Sardegna con la Corsica. § 82
- La colonizzazione cartaginese della Spagna
e
1* invasione
gallica in Italia - Dopo la sconfitta patita, una parte notevole dei piu influenti cittadini cartaginesi pensava che si sarebbe dovuto trovare qualche compenso alle gravi amputazioni sofferte dal loro impero colo¬ niale. Amilcare suggerì allora ai Cartaginesi l’occupazione integrale della Penisola Iberica, sulle cui coste Cartagine possedeva antiche e importanti colonie: il grande condottiero già pensava che essa, con le sue ricchezze
LE VIGOROSE AFFERMAZIONI DELLA POTENZA ROMANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
257
minerarie, con la sua dovizia di impareggiabili combattenti, avrebbe for¬ nito al momento opportuno la più adatta base d’azione per l’agognata guerra di rivincita. Nel 237 a.C. Amilcare Barca, ottenuto il comando supremo dell’impresa - mercé anche l'appoggio del genero Asdrubale, capo del partito demo¬ cratico -, accompagnato dal figlio Annibaie, allora in età di nove anni, traghettò in Spagna un piccolo esercito, ponendo la sua base nell’antica colonia fenicia di Cadice; erano con lui, anche, in qualità di consiglieri, alcuni membri del senato cartaginese, destinati a formare, insieme col duce e coi cittadini militanti, una specie di piccola assemblea deliberante, i cui poteri si estendevano sino alla nomina del successore del generale in capo, nel caso che questi fosse venuto a mancare. Sappiamo che una siffatta assemblea fu in funzione anche al Quartier Generale di Annibaie, in Italia. Delle imprese di Amilcare nella Spagna poco sappiamo; certo egli ebbe modo di farvi rifulgere tutte le sue grandi qualità di politico avveduto e di tattico geniale. Pare che il termine settentrionale delle sue conquiste debba riconoscersi nella fondazione di Akra Leuke, la romana Lucentum (oggi Alicante); ivi presso, nel 229, cadde per tradimento in un’imboscata e perì combattendo, dopo aver procurato che il figlio, con alcuni ufficiali, potesse mettersi in salvo. L’impresa fu continuata con energia ed abilità dal suo genero Asdru¬ bale, che riuscì a portare le armi cartaginesi molto innanzi nell’Altipiano, ottenendo con la persuasione o con la forza l’assoggettamento delle varie stirpi indigene. La più bella fondazione di Asdrubale fu la Cartagine di Spagna o Cartagine Nuova (l’odierna Cartagena), presso il miglior porto della costa orientale. Per un pezzo i Romani non trovarono ragione di preoccuparsi di ciò che accadeva in Spagna; un primo loro intervento si ebbe soltanto nel 231, quando agli ambasciatori romani recatisi al suo Quartier Generale, Amil¬ care dette assicurazione che le sue conquiste non avevano altro scopo che quello di aprire la strada allo sfruttamento di quei territori, coi proventi dei quali Cartagine aveva potuto pagare regolarmente le rate della in¬ dennità di guerra prevista dal trattato di pace con Roma. In realtà le ricche miniere d'argento della Sierra Morena rinsanguarono le finanze car¬ taginesi e Amilcare stesso potè pagare proprio allora l’ultima rata dell’in¬ dennità. Tuttavia i Romani, in quella occasione o qualche anno più tardi, credettero opportuno di stingere alleanza con la città iberica di Sagunto, posta a sud dell’Ebro presso la costa orientale. Cinque anni dopo, nel 226, una seconda ambasceria si presentava ad Asdrubale per recargli la proposta di un impegno formale che egli avrebbe 17 ~ GlANNELLI,
Trattalo di Storia romana
- I
258
TKATTATO
DI
STORIA
ROMANA
dovuto sottoscrivere: quello di riguardare l’Ebro come il limite settentrio¬ nale delle sue conquiste. L’astuto politico cartaginese doveva esser già abbastanza informato di ciò che si pensava e si preparava a Roma. Respingere la richiesta ro¬ mana avrebbe significato probabilmente la guerra; e Asdrubale non voleva la guerra, e la maggioranza dei Cartaginesi neppure la volevano: d’altra parte, accettare voleva dire rinunciare per ora allo svolgimento dell’ultima fase del piano escogitato da Amilcare, di quella fase, cioè, che ponendo la nuova conquista cartaginese in diretto contatto col territorio gallico a nord dei Pirenei, avrebbe permesso poi, in qualunque momento, di passare facilmente all’azione. Ma bisognava cedere e piegarsi alla dolorosa rinunzia. Un’ultima carta però teneva pronta Asdrubale, e questo era il momento di giuocarla. Dalla riuscita del giuoco sarebbe dipeso l’esito delle trattative che gli ambasciatori romani si apparecchiavano ad intavolare con lui. Dopo il 236, Roma non si era più occupata dei Galli: tutta assorbita dalle lente e metodiche campagne in Liguria e in Sardegna, sembrava as¬ sorsi dimenticata completamente di questo settore, tutt’altro che trascu¬ rabile, della sua frontiera nord-orientale. Furono invece i Galli che ad un certo momento, proprio nel corso dell’anno 226, cominciarono a dar segni di irrequietezza e rapidamente, senza che se ne vedesse una ragione chiara, senza che alcun fatto nuovo lo giustificasse, assunsero un atteggia¬ mento ostile a Roma, preparando palesemente la guerra e chiamando in rinforzo i loro connazionali di oltr’alpe. Per la guerra contro Roma i Galli apparecchiarono forze imponenti, riunendo insieme i contingenti dei vari popoli della Pianura Padana - Boi, Insubri, lungoni, Taurini - e quelli dei Gesati della Gallia Transalpina: stettero invece dalla parte dei Romani i Veneti e i Galli Cenomani, abi¬ tanti la regione fra l’Oglio, l’Adige e il Po. Il numerosissimo esercito gal¬ lico, dopo aver valicato l’Appennino e avere alquanto scorrazzato per l’Umbria e per l’Etruria, fu accerchiato dai Romani presso il promontorio di Talamone, sulla costa maremmana, ed interamente distrutto (225). In quelle stesse settimane gli ambasciatori del senato obbligavano Asdru¬ bale a sottoscrivere un trattato, in virtù del quale egli riconosceva il fiume Ebro come limite settentrionale dell’espansione punica nella Spagna. § 83 — La conquista dell’Italia continentale e le guerre illiriche —
A tali successi militari e diplomatici dei Romani tenne dietro una vi¬ gorosa controffensiva sul territorio gallico della Cisalpina, che coronò fe¬ licemente i vantaggi conseguiti negli anni precedenti.
LE VIGOROSE AFFERMAZIONI DELLA POTENZA ROMANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
259
Durante il IV e il III secolo, mentre si accentuava il movimento di con¬ trazione degli Etruschi, i Liguri si erano andati invece estendendo verso mezzogiorno, arrivando fino all’Arno e occupando il porto etrusco di Pisa. I Romani contavano invece di fare di Pisa la base delle loro comunicazioni dirette con la Corsica;
onde intorno al 238 cominciarono le azioni dei
Romani contro i Liguri, volte anzitutto ad assicurare a Roma il dominio dell’Arno e di Pisa. Nel 223 a.C. il console C. Flaminio Nepote, già tribuno della plebe e rap¬ presentante del partito popolare (cfr. al § 80), invase, contro il parere del senato, anche la regione transpadana, abitata dagli Insubri.. Questi furonò battuti e l’anno dopo fu presa la loro capitale, Mediolano. I Galli Boi, i Lingoni, gli Insubri dovettero cedere gran parte dei loro territori, che vennero incamerati nell’a^er publicus dello Stato romano, il quale vi fondò di lì a poco le colonie di Cremona, Piacenza e Modena; ed essi dovettero accettare la condizione di alleati di Roma. Così anche l’Italia continentale, all’infuori dei Piemonte (abitato dai Celti Taurini), si trovò aggregata alla Repubblica romana. f Si è molto discusso intorno al tempo e al modo del primo manifestarsi della sensibilità politica di Roma per il problema dell’Adriatico: ma dai pochi indizi attendibili delle fonti, di sicuro non si ricava che questo: che fino agli ultimi anni del III secolo le condizioni dell’Adriatico non desta¬ rono nei governanti romani né timori né preoccupazioni di sorta, e che anche agli avvenimenti della Grecia e dell’Oriente mediterraneo Roma si interessò poco o punto, limitandosi a coltivare la sua ormai tradizionale amicizia per i Tolomei. È un fatto che quelle ben note caratteristiche di inferiorità che afflig¬ gono la costa occidentale dell’Adriatico, rispetto a quella orientale, si fanno avvertibili e attive solo che lo Stato o gli Stati occupanti la riva balcanica siano abbastanza forti da trarre partito dai vantaggi geografici che essa presenta, sì da costituire una perenne minaccia ai padroni dell'aperta e indifesa riva italiana. Ma, svanito con la morte di Pirro il sogno di fare delt’Epiro uno Stato grande e forte, nessuna preoccupante Potenza bal¬ canica gravava allora sull’Adriatico e Roma si sentiva perciò del tutto libera e sicura da quella parte. Quand’ecco che il senato romano dovè suo malgrado decidersi ad una azione militare e navale nel basso Adriatico, in piena balìa dei pirati illi¬ rici, sostenuti allora da Demetrio di Macedonia, che contava servirsi del¬ l’opera loro contro gli Achei e gli Etoli. Le tribù illiriche dell’Adriatico avevano formato, sotto il re Agrone figlio di Pleurato, uno Stato di notevole ampiezza, che contava un certo
260
TRATTATO
DI STORIA ROMANA
numero di tribù, città e principati dipendenti. Da un pezzo arrivavano a Roma i lamenti delle città alleate e delle colonie della costa adriatica contro i danni che le rapine degli libri apportavano ai commerci marittimi tra l’Adriatico e l’Egeo; sicché nel 230 fu intimato a Teuta, regina degli libri, di far cessare le piraterie e i ladroneggi dei suoi sudditi; non avendo Teuta dato alcuna sodisfazione a queste richieste, fu inviata nellTlliria una spedi¬ zione forte di 200 navi e di più che 20.000 uomini. Gli libri furono facil¬ mente vinti dai Romani e dovettero accettare la pace che a questi piacque di imporre: impegnarsi a non navigare con flotte di più di due navi nel mare Ionio, pagare un tributo, cedere alcune isole e lasciare che due delle toro tribù entrassero - insieme con le città greche di Corcira, Apollonia, Epidamno - nella Confederazione italica, come alleate di Roma. Non essendo gli libri rimasti fedeli alle clausole sottoscritte, la guerra fu rinnovata nel 220. I Romani rimasero così padroni del litorale adriatico dellTlliria meridio¬ nale (l’odierna Albania) e delle due sponde del Canale di Otranto. Si erano però guadagnati un nuovo nemico: la Macedonia,
già protettrice degli
Illirì e gelosa e preoccupata dello stanziarsi di Roma nella Penisola Bal¬ canica. D’altra parte molte città greche, fra le quali la stessa Atene, mi¬ nacciate nella loro indipendenza dall’ancor potente Regno di Macedonia, si volgevano piene di speranza a Roma e vedevano in essa la futura sal¬ vaguardia contro l’imperialismo macedonico. § 84 - Annibaie al comando nella Spagna e la preparazione della guerra - Nel 221, ucciso a tradimento Asdrubale per mano di un Gallo da lui offeso in privato, gli successe nel comando in Spagna il venticinquenne Annibaie, figlio di Amilcare e da questi educato, oltre che nell’odio contro i Romani, nelle arti della guerra e della politica; del resto il giovane coman¬ dante si rivelò, subito dotato da natura di straordinario genio strategico e di tutte le qualità del sommo condottiero. Egli era deciso a rendere inevi¬ tabile quella guerra già preannunziata dal padre e alla quale si sentiva ora ben preparato; l’alleanza contratta dai Romani con la città di Sagunto - alleanza contraria allo spirito, se non alla lettera, del «trattato dell’Ebro»gliene offriva il destro. Facendo nascere un conflitto con Sagunto, Roma sarebbe stata costretta a schierarsi in difesa dell’alleata e a dichiarare la guerra a Cartagine, prendendone così su di sé la responsabilità per una causa che poteva apparire iniqua, trovandosi Sagunto a sud dell’Ebro e quindi nella zona assegnata dal trattato alla libera azione dei Cartaginesi. Gli eventi si svolsero secondo i disegni di Annibaie. Iniziate da questi le ostilità contro Sagunto, rimaste inascoltate le intimazioni fattegli dai Romani di desistere dall’assedio, la città cadde, dopo otto mesi di strenua
I,A
8ECONDA
261
GUERRA PUNICA
resistenza, alla fine dell autunno del 219, mentre a Roma si discuteva se si dovesse o no raccogliere la grave provocazione di guerra che Annibaie e Cartagine avevano gettata. Roma si trovava allora, è vero, all’apogèo della sua potenza militare: ma a molti appariva preoccupante una guerra mortale in quel momento in cui l’Italia settentrionale era appena conqui¬ stata ma non ordinata e in cui la questione illirica non era ancora del tutto risolta. D’altra parte, la potenza romana non poteva dirsi minacciata dai progetti cartaginesi in Iberia, almeno finché fosse rispettato il trattato firmato da Asdrubale; e, secondo lo spirito di quel trattato, Roma avrebbe forse dovuto rinunziare alla sua alleanza con una citta posta a sud dell Ebro: ma proprio quest’alleanza era stata per i Romani la migliore salvaguardia contro l’eventualità che i Cartaginesi, dalla Spagna - fatta lega con le popolazioni galliche transalpine e cisalpine - scendessero a minac¬ ciare coi loro eserciti l’Italia stessa; ed ora che questa salvaguardia, perla colpevole ingenuità ed indecisione dei governanti romani, era andata perduta, l’onore e la dignità del nome romano sconsigliavano una politica di eccessiva moderazione e di rinunzia, che avrebbe compromesso iriimediabilmente il prestigio di Roma fra i popoli del Mediterraneo. E pertanto, nella primavera del 218 a.C., un’ambasceria romana si recò a Cartagine e chiese la consegna di Annibaie e dei suoi consiglieri; respinta la richiesta dal senato cartaginese, il capo della legazione romana, Fabio Buteone, dichiarò la guerra ai Cartaginesi. Guerra che evidentemente An¬ nibaie aveva cercata e provocata, obbligando Roma a reagire all umilia¬ zione sofferta; e della sua volontà di guerra Annibaie dette tosto una se¬ conda prova, con la perfetta preparazione del suo meccanismo militare, il quale si mise in moto secondo un preciso e meditato disegno d’azione, che contrastava vivamente con l’incertezza, l’indecisione e gli indugi della parte avversaria. E la prova più evidente di non aver provocato una guerra, è quella appunto di non averla preparata.
Ili LA SECONDA GUERRA PUNICA § 85
- I
piani di guerra
di Annibaie e dei
Romani
- Appunto
perché il Governo romano non era deciso, prima del 218, a far guerra a Cartagine, non aveva alcun piano di guerra prestabilito; sicché non potè fare altro, allora, che disporre i propri apparecchi militari - in verità formidabili - in modo da poterli usare nella maniera più propizia, subor-
262
TRATTATO DI STORIA ROMANA
dinatamente all’azione che avrebbe spiegato il nemico. Da parte sua, An¬ nibaie nulla lasciò trapelare né indovinare delle sue intenzioni: passò i primi mesi della buona stagione in operazioni di poco conto controle tribù iberiche fra l’Ebro e i Pirenei; poi, ad estate avanzata, quando già i Ro¬ mani ritenevano che egli non si sarebbe mosso per quell’anno dalla Spagna, valicò fulmineamente i Pirenei, attraversando a marce forzate la Gallia meridionale. Quale il fine che Annibaie intendeva raggiungere con la sua guerra di rivincita ? Nessuno fra gli antichi, pochi dei moderni hanno saputo scor¬ gere il legame evidente fra l’impostazione militare della guerra anniba¬ lica e i fini politici ai quali essa fu, fin da principio, informata e subordi¬ nata; fini politici che furono, a loro volta, del tutto coerenti con il costume e le direttive della classe dirigente cartaginese. Sicché alla strategia di Annibale si applica perfettamente la definizione del Clausewitz, che « la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi ». La rappresen¬ tazione di un Annibaie che, animato sin dalla fanciullezza da inestingui¬ bile odio contro i Romani, assetato di vendetta, si precipita, appena arbi¬ tro del suo esercito, sull’Italia, per annientare Roma e tutti i suoi alleati, osteggiato e deprecato dagli stessi nobili cartaginesi, sbigottiti dalla teme¬ rità del giovane duce inesperto e dalle sue incalcolabili conseguenze, è una pittura retorica, di maniera, arrivata a noi dalle pagine dell'annali¬ stica romana e dello stesso Polibio, ma che non ha in sé alcun elemento di realtà; ed è merito indiscutibile di Giovanni Kromayer di averlo dimo¬ strato; e dagli avvenimenti stessi come sono narrati dalle fonti rampolla l’evidenza del fine politico che la strategia di Annibaie si prefiggeva di raggiungere. La guerra che Annibaie ha disegnato di condurre contro Roma, è quella stessa che i pavidi governanti di Cartagine avrebbero essi medesimi in¬ trapreso, se non li avesse atterriti il pensiero della grand? superiorità delle armi romane: una guerra, rivolta non affatto a distruggere lo Stato romano (impresa che doveva presentarsi assurda anche a chi, come An¬ nibaie, aveva la massima confidenza in se stesso e nei propri uomini)
ma
destinata a ridurre la potenza di Roma a quelle proporzioni di equilibrio ne e quali si era mantenuta sino al principio di quel secolo, prima della conquista della Magna Grecia e della Sicilia: una potenza che non avrebbe destato nessuna preoccupazione a Cartagine, ma che anzi, assicurando un buon governo e una pacifica esistenza a tutta l’Italia centrale, avrebbe offerto ai commerci cartaginesi un nuovo campo di sicura e vantaggiosa espansione. Non erano forse, Roma e Cartagine, vissute in cordiali rapporti politici ed economici fino a cinquantanni prima ? Non erano forse state
LA
SECONDA
GUERRA
PUNICA
263
alleate anche nella guerra contro Pirro ? Che cosa aveva distrutto queste amichevoli relazioni, che cosa aveva reso le due Repubbliche rivali e ne¬ miche ? L’espansione di Roma nel mezzogiorno d’Italia e in Sicilia e la conseguente minaccia alla sicurezza di Cartagine e dei suoi traffici. Ba¬ stava riportare Roma ai suoi giusti confini, per ricondurre la pace nel Me¬ diterraneo occidentale. Prostrate, con alcune folgoranti vittorie, le forze militari romane, restituita l’indipendenza alle popolazioni celtiche dell’Italia padana e alle genti osche e greche del mezzogiorno, annientati i suoi eserciti, Roma circondata da nord e da sud da popoli decisi a ri¬ fiutare il suo dominio e sorretti dalle vittoriose armi di Cartagine, che altro avrebbe potuto fare se non accettare la pace che Annibaie le avrebbe of¬ ferto allora a nome del suo Governo ? Pace che, lasciando Roma intatta a capo della sua Federazione di Latini, Umbri ed Etruschi, avrebbe di¬ viso l’Italia in tre sistemi statali, con una Lega delle tribù galliche a nord e con un'altra delle genti osche (Sanniti, Lucani, Bruzi) a sud, con i porti greci, lungo la costa, garantiti nella loro esistenza dal protettorato car¬ taginese. Al meditato piano offensivo di Annibaie i Romani non poterono contrap¬ porre che un improvvisato piano difensivo; piano, però, ben congegnato e che all’offensiva nemica e alle sue direttive facilmente prevedibili con¬ trapponeva decise azioni controffensive, commisurate alle grandi dispo¬ nibilità di forze di terra e di mare su cui Roma poteva contare in quegli anni. Si pensò di prevenire, o almeno di stroncare, l’avanzata di Anrubale, attaccando Cartagine in Spagna e in Africa. A tale scopo, dei due consoli del 218, l’uno, Publio Cornelio Scipione, ebbe incarico di portarsi col suo esercito nella Spagna; l’altro, Tiberio Sempronio Longo, fu inviato in Si¬ cilia per preparare lo sbarco delle sue forze in Africa. Ma la rapidità delle mosse di Annibaie e i suoi primi successi fecero crollare, fin dai primi mesi delle operazioni, tutto il dispositivo della controffensiva romana; e da al¬ lora i Romani non poterono fare altro che correre a parare i colpi di An¬ nibaie là dove egli, di volta in volta, volle misurarsi con loro. Per attuare il suo piano offensivo Annibaie doveva contare su un azione rapida e di sorpresa, rinunciando alle comunicazioni con la sua base spa¬ gnola (la cui conquista, del resto, non era ancora arrivata alla linea dell’Ebro): l’esercito cartaginese che avrebbe invaso l’Italia dalle Alpi, do¬ veva necessariamente marciare e combattere isolato, contando unicamente sulle risorse del paese che avrebbe via via attraversato; paese abitato, nella prima parte del suo itinerario, da popolazioni probabilmente ben disposte, che avrebbero, se non aiutato, almeno non osteggiato la marcia di Annibaie; ma poi, dalla linea degli Appennini in giù, da genti quasi
264
TRATTATO
DI STORIA
ROMAVA
certamente ostili o tali la cui neutralità si sarebbe ottenuta a fatica, lu¬ singandole o terrorizzandole. Nessuna possibilità di rifornimenti o di com¬ plementi di uomini e di armi da Cartagine; soltanto quando fosse arrivato a toccare i porti dell’Italia meridionale, Annibaie poteva sperare di rien¬ trare in comunicazione col suo Governo e di riceverne, di quando in quan¬ do, aiuti di uomini e di mezzi, a malgrado del blocco (non facile a tenere) delle flotte romane. E l’esercito che Annibaie condusse con sé, era il più adatto
a questa « guerra-lampo » che si
doveva
condurre:
istruito ed
armato alla perfezione, allenato e devoto, bene inquadrato e comandato, non numeroso; partito dalla Spagna probabilmente con non più di 35.000 uomini, egli non aveva con sé più di 25.000 fanti e di 6.000 cavalieri quan¬ do arrivò nella pianura del Po, a causa soprattutto delle perdite sofferte nel passaggio delle Alpi. Quasi inesauribili erano le riserve di uomini a oisposizione dei comandan¬ ti romani: il computo di esse ci rimane in un passo di Polibio (II,
24),
nel quale lo storico greco espone i dati del censimento degli uomini reclutabili per 1 esercito, ordinato dal senato romano alla vigilia della grande invasione gallica del 225. Resultarono disponibili 250.000 uomini di fan¬ teria e 23.000 di cavalleria, di cittadini romani; 340.000 di fanteria e 31.000 di cavalleria, degli alleati. S intende in tal modo come Roma, che comin¬ ciò la guerra mettendo in armi sei legioni,
abbia potuto negli anni *suc-
cessivi insistere in uno sforzo sempre maggiore, fino a mobilitare da venti a venticinque legioni, pur essendo rimasta priva, per un periodo non bre¬ ve, di buona parte dei suoi alleati. § 86 *- La « guerra annibalica »
- Quando si ebbe notizia che An¬
nibaie aveva valicato i Pirenei, il console Cornelio Scipione si trovava ancora in Italia, avendo dovuto impiegare il suo esercito per reprimere una grossa insurrezione dei Galli Boi ed Insubri; egli imbarcò allora i suoi soldati a Pisa e si portò alle foci del Rodano, per tagliare li la strada ad Annibaie. Ma questi aveva già attraversato il fiume con le sue truppe più a nord e si apprestava a valicare le Alpi. Scipione pensò allora di trasfe¬ rire il suo esercito in Spagna, al comando del fratello Gneo, mentr’egli, ritornato in Italia, ricostituì il suo esercito, aspettando di potersi ricon¬ giungere con quello di Sempronio, che era stato frattanto richiamato in¬ dietro dalla Sicilia. In questo stesso tempo Annibaie, con audacia e sapienza mirabili, su¬ perando difficoltà e ostacoli d’ogni sorta, faceva passare al suo esercito le Alpi: capolavoro di organizzazione e di celerità, che fu eguagliato sol¬ tanto nei nostri tempi da Napoleone.
LA
SECONDA
GUERRA
265
PUNICA
Per il passo del Moncenisio o, come sembra più probabile, per quello del Monginevra, disceso nel Piemonte meridionale verso la fine di settem¬ bre, avanzò rapidamente in Lomellina, ove la sua cavalleria vinse, presso il fiume Ticino, la cavalleria di Scipione; il quale si ritirò allora a sud del Po, andando a prendere posizione presso la confluenza della Trebbia col Po, a sud-est di Piacenza; quivi lo raggiunse con le sue legioni l’altro console Sempronio. Alla fine di dicembre il doppio esercito consolare di circa 40.000 uomini fu battuto in pieno nella pianura ad occidente della Trebbia; la vittoria metteva in balìa del duce cartaginese tutta l’Italia settentrionale, da pochi anni assoggettata dai Romani; da ogni parte i Galli accorrevano ad Annibaie, offrendo volontari e mercenari per il suo esercito. Durante Fin verno - che Annibaie passò nell’Italia
settentrionale - i
due consoli del 217, Gaio Flaminio Nepote e Gneo Servilio, approntarono i loro eserciti e si recarono a prendere posizione, il primo in Etruria, presso Arezzo, a sorvegliare i passi deU’Appennino toscano, e Servilio a Rimini, per sbarrare ad Annibaie i valichi dell’Appennino marchigiano. Il duce cartaginese, con un’altra rapidissima marcia, piombò invece in Etruria per il valico di Collina, attraversando quindi la piana di Pistoia, sorpas¬ sando le posizioni di Flaminio e dirigendosi tosto da Arezzo verso Chiusi. Flaminio, che si era dato imprudentemente ad inseguirlo, cadde in un’im¬ boscata tesagli da Anni baie sulle rive del Trasimeno: quivi l’esercito ro¬ mano fu sorpreso in ordine di marcia dalle truppe cartaginesi nascoste dietro i colli che cingono il lago da settentrione, e quasi interamente di¬ strutto, rimanendo ucciso anche il console; mentre anche la cavalleria dell’altro console,
che sopraggiungeva in rinforzo di Flaminio, veniva
annientata dalla cavalleria punica (giugno del 217 a.C.). La Repubblica si trovò allora in una situazione veramente drammatica: un esercito consolare e tutta la cavalleria romana distrutti; l’altro console tagliato fuori dalla capitale; Roma stessa esposta all’assalto del nemico, che si trovava a Chiusi, a poche giornate di marcia. In così grave fran¬ gente, si ricorse alla nomina di un dittatore, che fu quel Quinto Fabio Massimo al quale poi la strategia usata nella guerra guadagnò il sopran¬ nome di Temporeggiatore (Cunctalor). Contrariamente a quanto i Romani si aspettavano, Annibaie non si diresse su Roma, ma passò oltre, verso ITtalia meridionale: seguendo il suo piano d’azione, piuttosto che cimen¬ tarsi in un lungo e difficile assedio, per il quale gli mancavano del resto i mezzi necessari, egli voleva trarre a sé le genti osche e italiote e isolare Roma e il Lazio dal resto della Penisola. Per quasi un anno Annibaie fu lasciato scorrazzare nel mezzogiorno d’Italia, avendo ordinato il dittatore che si evitasse di venire con lui a
266
TRATTATO DI STORIA ROMANA
battaglia campale; ma parve poi che non si potesse lasciare più oltre il territorio romano e degli alleati in balìa dei saccheggi e delle devasta¬ zioni dell’invasore e si venne nel proposito - contro il parere di Fabio Massimo - di affidare di nuovo la decisione alle armi. Quattro nuove le¬ gioni con effettivi rinforzati, in totale circa 50 mila uomini coi contin¬ genti alleati, furono poste al comando dei consoli dell’anno 216, Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. L’esercito romano raggiunse il duce cartaginese nelle posizioni ch’egli allora occupava, presso il villaggio di Canne, in Apulia. 1 due eserciti stettero di fronte parecchi giorni; finché, avendo Annibaie accettato di combattere sul terreno prescelto dai coman¬ danti romani, sulla destra dell’Ofanto, si accese la mischia. Nella batta¬ glia di Canne, Annibaie mostrò a quale altezza insuperabile giungesse la sua sapienza tattica: nonostante l’inferiorità numerica dell’esercito carta¬ ginese, le legioni romane vennero sopraffatte dalla manovra avvolgente del nemico e annientate: rimasero sul campo 40 mila uomini, uccisi o pri¬ gionieri, con parecchi tribuni e senatori, e fra i morti, il console Emilio; soltanto poche migliaia di soldati poterono scampare col console Varrone. Annibaie non aveva perduto che 6.000 dei suoi, quasi tutti Galli (2 agosto del 216). § 87 - La
seconda fase
della
guerra in
Italia
e
in
Spagna — Se
è vero che la grandezza dei popoli si rivela specialmente nelle ore più dif¬ ficili, mai Roma si rivelò così grande come dopo il disastro di Canne. L’oli¬ garchia dominante dette prova di tale compostezza e austerità d’animo, di tanto equilibrio e serenità di spirito, di così grande prudenza e virilità di propositi, che la massa del popolo le si affidò interamente e rimise al senato il governo della Repubblica. E, in verità, negli anni che seguirono a Canne, Roma non è più una repubblica; è un principato, in cui è principe il senato: il senato governa, decide e dirige le operazioni militari, orga¬ nizza gli eserciti, procura i rifornimenti, sceglie i generali: le elezioni con¬ solari divengono una semplice formalità, per mezzo della quale il popolo conferma col suo voto le designazioni senatoriali. Gli straordinari trionfi di Annibaie non tardarono a portare l’effetto sperato: come dopo la vittoria della Trebbia eran passati dalla parte di Cartagine i Galli della Cisalpina, cosi ora il moto di defezione dilagò nel¬ l'Italia meridionale: Bruzi, Lucani, i più dei Sanniti, alcuni degli Italioti, i Campani con la loro metropoli di Capua, passarono dalla parte di Anni¬ baie. Le genti dell Italia centrale delusero invece le speranze del Carta¬ ginese, se pure egli ne aveva concepite su di esse: come al tempo di Pirro, così anche ora Latini, Umbri, Sabelli restarono tutti ben saldi e fedeli
267
LA SECONDA GUERRA PUNICA
intorno alla dominatrice gloriosa; di là Roma poteva attingere riserve ancora abbondantissime di uomini per organizzare la resistenza, mentre la fitta rete di colonie romane e latine fortificate che copriva tutto quel territorio, sconsigliava Annibaie dall’intraprendere azioni decisive contro 1 Urbe. Assai meno salda si rivelò la fede delle città etnische; quasi dovunque 1 aristocrazia dominante fu apertamente ostile ai Romani, che repressero duramente questa opposizione, mentre incerti e indifferenti rimasero le masse popolari. Da parte loro, i Romani compresero la necessità di ritor¬ nare alla condotta di guerra adottata già da Fabio Massimo. Questa stra¬ tegia fu resa possibile ai Romani dall’abbondanza delle loro riserve umane, mentre i Cartaginesi non potevano che debolmente e di rado rinforzare il loro esercito d’Italia, essendo il mare dominato dai Romani e dovendo essi provvedere anche a difendere
la
Spagna.
Sin
dal
principio
della
guerra, come s’è detto, i Romani avevano sbarcato in questa penisola un forte esercito, al
comando di
Gneo Cornelio Scipione,
al quale si
aggiunse, poco dopo, il fratello Publio, quello stesso che aveva diretto la campagna del 218 nella Cisalpina. Questo esercito operò contro le forze cartaginesi comandate da Asdrubale e da Magone, fratelli di Annibaie; il favorevole svolgimento di quelle campagne fu però bruscamente in¬ terrotto nel 211, quando i due Scipioni, spintisi troppo imprudentemente verso sud, rimasero vinti e perirono con la maggior parte dei loro soldati. In Italia si andava frattanto svolgendo una complessa guerra d’esauri¬ mento; alla quale però anche Annibaie seppe adattare la sua condotta politica e militare, suscitando nuovi nemici a Roma, per consumarne più rapidamente le risorse. Scesero in campo al suo fianco, da una parte, Sira¬ cusa, abbandonando dopo la morte del re lerone l’alleanza romana, dal¬ l’altra, il re Filippo V di Macedonia. In Italia, Annibaie conseguì ancora successi notevoli tra il 213 e il 212; caddero in suo potere le città italiote, Crotone, Locri, Caulonia per prime; indi Taranto, dove il presidio romano potè però mantenersi nella ròcca; infine Metaponto, Eraclea e Turi. Soltanto Reggio resistè. Benché Anni¬ baie fosse divenuto così padrone di tutta la costa del Golfo di Taranto, soltanto una volta gli giunsero da Cartagine rinforzi considerevoli di uomini e "rifornimenti di armi e anche di elefanti; soprattutto perché molti dei mezzi di cui il Governo cartaginese potè disporre, furono destinati - per suggeri¬ mento dello stesso Annibaie - ad alimentare la guerra in Spagna o di¬ stratti dalla necessità di reprimere le gravi insurrezioni dei sudditi africani. E intanto i Romani, disponendo di più eserciti, attaccando le forze e le posizioni di Annibaie più distanti dal nerbo dei suoi soldati, combat¬ tendo insomma il duce cartaginese « dovunque egli non fosse presente »,
268
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
riguadagnavano via via il terreno e le città perdute. Già nel 214 avevano riconquistato Casilino, nel 213 Arpi; nel 211 cadde in loro mano Capua, benché Anni baie, per adontare dalla città le truppe che l’assediavano, avesse osato un’audace marcia fin sotto le mura di Roma.
Il pretore
Claudio Nerone fu il conquistatore di Capua. L’anno successivo, il 210, fu funestato da una grossa disfatta toccata ai Romani sotto le mura di Erdonea, in Apulia; ma con la caduta di Taranto, nel 209, la posizione di Annibaie fu ristretta all'estremo Mezzogiorno della penisola: ogni libertà di movimenti gli fu impedita, né egli fu più in grado di conseguire alcun successo, anche parziale. § 88 - Contro Siracusa e la Macedonia - Il maggior successo per
i Cartaginesi, dopo Canne, fu l'adesione di Siracusa alla loro causa: se essi avessero potuto ristabilire il loro dominio sulla Sicilia, la guerra di Anni¬ baie in Italia ne sarebbe stata straordinariamente agevolata. Morto nel 215, quasi nonagenario, il figlio Ierone, il nipote suo Ieronimo, che gli successe sul trono, fu indotto con lusinghe e promesse da due ufficiali cartaginesi, Ippocrate ed Epicide, a staccarsi dalla lega con Roma e ad offrire la sua alleanza ad Annibaie. Seguì nella città un periodo di torbidi, mentre il console M. Claudio Marcello assumeva il comando del¬ l’esercito di Sicilia per l’anno successivo. Anche alcune altre città siceliote si schierarono dalla parte di Cartagine. Allora Marcello iniziò Tassedio di Siracusa, per terra e per mare (213 a.C.).
Egli dovette superare
gravi difficoltà: le potenti fortificazioni della città, l’abile difesa diretta dal matematico Archimede, lo sbarco in Sicilia di un numeroso corpo car¬ taginese, resero assai critica la posizione del proconsole, che tuttavia man¬ tenne il blocco. I vari quartieri della città furono conquistati dai Romani tra il 212 e la primavera del 211. La metropoli siciliana venne abbandonata al saccheggio dei soldati; vi furono rapinate immense ricchezze e numerosis¬ sime opere d’arte, che allora per la prima volta si videro sfilare in tanta copia a Roma, nel corteo trionfale del vincitore. La città fu resa suddita per l’avvenire e la stessa condizione fu imposta alle altre città dell’isola insorte e riconquistate dai Romani. Nel 210 i Cartaginesi avevano sgom¬ brato del tutto la Sicilia. Un aiuto, invece, tanto inatteso quanto sterile per Annibaie fu l’alleanza offertagli dal re di Macedonia, il giovane Filippo V. Appena giunto sul trono, egli aveva ripreso l’energica politica de’ suoi predecessori pel rista¬ bilimento dell’egemonia macedonica sulla Grecia; senza dimenticare,però, l’insanabile contrasto apertosi con Roma il giorno in cui questa aveva posto piede sulla costa illirica (v. al § 83). Quando, nel luglio del 217, ar-
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DI STORIA ROMANA
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rivò in Macedonia la notizia della vittoria di Annibaie al Trasimeno, Filippo si affrettò a concludere con una pace di compromesso la guerra allora in atto contro la Lega etolica e offrì la sua alleanza ad Annibaie. Questi indugiò allora a rispondere; poco entusiasta, forse, di complicare inutilmente la sua guerra, che si andava svolgendo in modo così lineare, secondo i piani prestabiliti; ma fu egli stesso, probabilmente, a riannodare le trattative qualche mese dopo la battaglia di Canne, quando gli si parò dinanzi il nuovo, preoccupante aspetto della guerra di esaurimento. Fu conclusa così, nel 215, l’alleanza fra Roma e la Macedonia, il trat¬ tato prevedeva la lotta in comune contro il comune nemico e sanciva l’impegno dei due contraenti a non trattare pace separata. A Filippo ba¬ stava evidentemente di poter approfittare della grave crisi che Roma at¬ traversava, per ricacciarla dalle sue posizioni neH’Illiria;
d altra parte
Annibaie non si aspettava probabilmente da quell’alleanza se non che essa obbligasse il nemico ad una maggiore dispersione delle sue forze. A tra¬ sportare il suo esercito in Italia Filippo non si lasciò indurre: sia perché non gli conveniva, nelle precarie condizioni politiche della Grecia, sguer¬ nire di truppe la Macedonia; sia perché non era sopportabile al suo rango e al suo orgoglio mettersi co’ suoi soldati agli ordini del duce cartaginese. Da parte loro i Romani seppero fronteggiare il nuovo nemico con uno sforzo minimo; grazie soprattutto all’abilità di cui dette prova,
questa
volta, la loro diplomazia. Bastò la presenza di una flotta romana con poche truppe da sbarco nei mari della Grecia, per guadagnare le maggiori Po¬ tenze greche alla causa romana. Particolarmente vantaggioso per Roma fu il trattato d’alleanza concluso nel 211 con la Lega etolica. È vero che, dopo qualche anno, gli Etoli, non sufficientemente sostenuti dai Romani, furono costretti ad accettare da Filippo un trattato di pace vantaggioso (206 a.C.); ma intanto Roma s’era liberata della nuova minaccia rappre¬ sentata dalla marcia di Asdrubale in Italia e potè riprendere con maggior vigore le operazioni contro Filippo, il quale dovette concludere l’anno se¬ guente la pace, accontentandosi di riavere per sé una parte del territorio illirico già sotto la tutela dei Romani (l’Atintania), ma lasciando ai Romani il protettorato sui Partinì e sulle città greche della costa (pace di Fenice: 205 a.C.). § 89
—
P.
Cornelio Scipione
- Alla prima notizia della
disfatta
degli Scipioni in Spagna, il senato provvide ad inviare immediatamente sull’Ebro, con un primo nucleo di rinforzi, il propretore Claudio Nerone, già favorevolmente noto per aver guidato l’esercito romano alla ricon¬ quista di Capua. Ma Nerone rimase per poco tempo al comando nella Spa-
270
TRATTATO
DI
STORIA ROMANA
gaa; probabilmente perché il senato giudicò che la sua presenza sarebbe stata più necessaria in Italia - dove si difettava di buoni comandanti di grandi unità - che non nella Penisola Iberica, dove forse non si rite¬ neva necessario, per il momento, di dare alla guerra un indirizzo offensivo. D altra parte, a Roma, la voce del popolo indicava insistentemente, come nuovo comandante della guerra in Spagna, P. Cornelio Scipione, figlio di quel Publio Scipione che là, nella Spagna, era morto combattendo. Giovane di circa venticinque anni, delle sue qualità militari aveva tut¬ tavia dato prova sufficiente per essere giudicato almeno non inferiore agli altri generali che allora servivano la Repubblica. Deponevano in suo fa¬ vore le doti dell animo e del carattere, che già si rivelavano in lui supe¬ riori al normale; possedeva soprattutto, il giovane P. Scipione, quel fa¬ scino personale col quale i grandi Capi sanno avvincere a sé, con devozione e fiducia illimitata, tutti quanti, dai più umili ai più elevati, i loro colla¬ boratori; nutriva quella fede profonda e sincera nel proprio destino e nella missione assegnatagli dalla Divinità, che non è piccolo elemento di successo, nelle ore delle difficoltà più dure e dei grandi ardimenti. Scipione non aveva ancora ricoperto alcuna magistratura, all’infuori dell edilità curule; ma la difficoltà costituzionale fu superata, facendogli conferire dai Comizi Tributi un imperio proconsolare straordinario per l anno 210, prorogabile, ben s’intende, per i successivi. Fatte le leve e i necessari apparecchi,
Scipione
partì per la Spagna,
portando seco IO
mila tanti e 2000 cavalieri delle disciolte legioni di Campania e avendo a collega con imperio minore il propretore M. Giunio Silano. Lo accompa¬ gnavano ia diffidente indulgenza del senato e le speranze già vacillanti della moltitudine, che più o meno palesemente si pentiva dell’avventata e temeraria risoluzione. Sicuro e forte della fede in se stesso, egli sarebbe ritornato, di lì a quattro anni, di tanto cresciuto in gloria e in prestigio da potere, non ancora trentenne, imporre alla Repubblica la sua politica e la sua condotta di guerra, indipendentemente dal parere e dalla volontà del senato. In realtà, le campagne iberiche misero in chiara luce le virtù militari di Scipione del pari che le sue doti di abile diplomatico. La sorprendente espugnazione di Cartagena, nella prima campagna del 209, riempì di am¬ mirazione e di stupore gli stessi soldati romani; l’anno dopo, avanzatosi con tutto 1 esercito nella Spagna meridionale, batté a Becula, con magi¬ strale manovra d’avvolgimento, l’esercito di Asdrubale (il fratello di An¬ nibale), il quale però riuscì a ritirarsi verso nord con la più gran parte de’ suoi e ad aprirsi la strada verso l’Italia. Nella terza campagna, del 207 Scipione guadagnò un’altra luminosa vittoria, ad Ilipa,
applicando sul
LA
SEfcONDA
OUEHKA
271
PUNICA
terreno, con perfetta perizia di comando, i principi tattici della sorpresa e del concentramento delle forze contro un esercito più numeroso. È una vera riforma della tattica romana quella che Scipione compì nella Spagna, trasformando i trenta manipoli della legione in altrettante unità autonome e mobilissime, sempre pronte a modificare il loro schieramento, per evi¬ tare il pericolo d’aggiramento sui fianchi e alle spalle. Le vittorie africane furono un portato di questa nuova tattica. Il minore dei fratelli di Annibaie, Magone, tentò un’estrema resistenza in Cadice, con lo scopo di trattenere il più a lungo possibile Scipione e il suo esercito lontani dall’Italia; ma nel 206 dovette evacuare la città e riuscì a sbarcare il suo esercito in Liguria, dove egli contava di rialzare le sorti dell’azione cartaginese nella Gallia Cisalpina. Proprio in quei mesi, il principe numidico Massinissa si era incontrato con Scipione ed erano state allora poste le basi di quell’alleanza che fu di essenziale impor¬ tanza nell’ulteriore fase della guerra. Tutta la Spagna si trovava ormai in possesso di Roma; e Scipione, fon¬ data Italica, la prima colonia romana nella Spagna, ritornò a Roma per presentare la sua candidatura al consolato per il 205. § 90
—
L'ultima
fase
della
guerra
in
Italia
e in Africa
—
Per
l’anno 208 il senato propose che si eleggesse al consolato ancora una volta Marcello, in età allora di 68 anni: col proposito ohe egli, col collega T. Quin¬ zio Crispino, messa ormai da parte la strategia temporeggiatrice, combat¬ tesse con Annibaie la battaglia forse decisiva della guerra. Ma i due con¬ soli furono sorpresi da un grosso contingente di cavalleria nunudica du¬ rante una ricognizione e nel breve combattimento Marcello lasciò la vita. Proprio in quest’anno Asdrubale, valicati i Pirenei e le Alpi, irruppe dalla Spagna in Italia. Accolto cordialmente dai
Galli, che fornirono al suo
esercito grandi rinforzi, attraversò lentamente la pianura, traghettò il Po, occupò l’inverno in un inutile assedio di Piacenza; indi, venuta la stagione opportuna (del 207), mosse verso 1 Appennino con un esercito di oltre 30.000 uomini e con parecchi elefanti. I Romani si erano appa¬ recchiati alla difesa con grandi forze, affidando a M. Livio Salinatore il comando del fronte settentrionale, contro Asdrubale, e a Claudio Nerone quello del fronte meridionale, per tenere a bada Annibaie e impedirgli di farsi incontro al fratello. L’ardito divisamento di Nerone, che al momento opportuno si spostò rapidamente e di sorpresa col meglio delle sue forze,, congiungendole con quelle di Salinatore, assicurò ai Romani quella stra¬ grande superiorità numerica che dette ad essi una schiacciante vittoria nella battaglia del Metauro: Asdrubale cadde sul campo. Annibaie rimase
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
da allora immobilizzato nelle sue posizioni nel Bruzio, ove cercò di tenersi ancora mercé il possesso dei due porti di Crotone e di Locri. Ogni speranza di vittoria ormai era perduta per Cartagine, che non sa¬ rebbe forse stata aliena dal trattare la pace. Ma Scipione propugnava l’an¬ nientamento della Potenza rivale e il trasferimento, a tale scopo, della guerra in Africa. Nonostante l’opposizione di Fabio Massimo e di un gruppo notevole di senatori, Scipione fu eletto console per l’anno 205: recatosi in Sicilia, allestì quivi la grande spedizione, che venne sbarcata in Africa 1 anno successivo. Con 40.000 uomini iniziò subito con successo la cam¬ pagna, sostenuto dal favore degli indigeni e dall’alleanza col principe nu¬ mida Massinissa, pretendente al trono della Numidia e rivale di Siface, che i Cartaginesi avevano riconosciuto re di quello Stato. Fu investita la città di Utica e, in vicinanza di essa, furono costruiti i famosi castra Cornelia: nella primavera successiva (203) i Romani assa¬ lirono di sorpresa e distrussero nei loro accampamenti gli eserciti di Siface e di Asdrubale e subito dopo riportarono una nuova grande vittoria sul ricostituito esercito nemico ai Campi Magni, sull’alto corso del Bagrada. Allora Cartagine, minacciata da vicino dai Romani, chiese le condizioni di pace ed ottenne, nell’attesa, una tregua; nel frattempo, richiamò An¬ nibaie dall’Italia. In questo stesso anno 203, Annibaie lasciò l’Italia, dove s era mantenuto per quindici anni, tenendo in scacco con forze relativa¬ mente piccole il più potente Stato militare del mondo; in molte batta¬ glie vincitore, vinto mai; le proprie gesta egli lasciò scritte in una lunga epigrafe, scolpita nel tempio di Era Lacinia, presso Crotone. Lo sbarco delle forze di Annibaie ad Adrumeto indusse il Governo car¬ taginese a rompere la tregua pattuita con Scipione. I due sommi capi¬ tani si afirontarono in battaglia a Naraggara, presso Zama, nell’autunno del 202 a.C. La manovra di avvolgimento, con la quale Annibaie aveva annientato a Canne l’esercito romano, fu ora magistralmente eseguita da Scipione, favorita dalla superiorità numerica de’ suoi soldati e dalle numerose forze di cavalleria fornite da Massinissa. La vittoria dei Romani fu piena e Cartagine fu costretta ad accettare la durissima pace che Sci¬ pione le impose: la rinuncia alla Spagna, consegna degli elefanti e della flotta, all’infuori di dieci navi; proibizione di far guerra senza il permesso di Roma, pagamento di un’indennità di 10 mila talenti. Massinissa, alleato dei Romani, ottenne il regno di Numidia. La secolare rivale di Roma, la città ch’era stata un tempo signora dell’Occidente, spariva per sempre dal novero delle grandi Potenze (201 a.C.)
l’intervento romano nell’oriente
greco
273
IV L’INTERVENTO ROMANO NELL’ORIENTE GRECO § 91 — Roma dopo la vittoria su
Cartagine
- La schiacciante vit¬
toria su Cartagine, che assicurava a Roma l’incontrastato dominio su tutto il Mediterraneo occidentale, aveva anche dimostrato la saldezza degli ordinamenti politici e l’eccellenza degli apparecchi militari romani; aveva confermato al tempo stesso l’elevato civismo, il profondo amor di patria, l’insuperabile spirito di sacrificio dei cittadini di tutte le classi. La nobiltà romana si era mostrata veramente degna di essere la classe dirigente dello Stato: il senato era stato in realtà il vincitore della guerra. La guerra aveva messo alla prova anche la lealtà e la devozione degli al¬ leati: Latini, Umbri, Sabelli non avevano piegato né per minacce né per lusinghe; fra gli altri (Sanniti, Lucani, Bruzi, Etruschi, Galli) si erano contati tradimenti o incertezze, alla cui durata e alla cui gravità il Governo romano avrebbe ora proporzionato le misure di rigore. Le esigenze della lunga e complessa guerra imposero mutamenti notevoli alla prassi costituzionale romana: per poter disporre di tanti generali quan¬ ti via via ne richiedevano le operazioni in corso, e per potere aver sempre « l’uomo adatto al suo posto », si dovettero mantenere al comando per più anni gli stessi uomini con imperium prorogato e si dovè anche ricor¬ rere al conferimento de\Yimperiami non vincolato ad una magistratura. Si creò così un’accolta di sperimentati ufficiali, che per dieci o quindici anni consecutivi avevano trovato nei comandi militari soddisfazioni di carriera e campo di gloria e si erano appassionati alla vita delle armi; tanto più che le imprese e le vittorie degli ultimi anni di guerra avevano infuso in tutti la sicurezza dell’invincibilità delle legioni romane; e in tutti, generali e soldati, avevano fatto nascere 1 orgoglio della propria forza e compattezza e il gusto del trionfo; anche nei soldati, ai quali i lun¬ ghi soggiorni nelle popolose e ricche città del Mezzogiorno, di Sicilia, della Grecia, le ricchezze procurate dai saccheggi e dalla ripartizione delle prede di guerra, facevano dimenticare disagi e pericoli e pensare con malinconia al ritorno al duro lavoro dei campi nei poveri villaggi natii. Con ben altro spirito che per il passato Roma si appresta ora ad agire nella politica mediterranea; non più la guiderà il senso di difesa e della propria sicurezza, ma una decisa volontà d impero; quella stessa che aveva trovato il suo interprete più fiero in Scipione, quand egli aveva voluto che 1S - Giannelli, Trattato di Storia romana - t
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TRATTATO
DI STORIA ROMANA
Cartagine fosse non costretta a trattative di pace, ma piegata ad una resa senza condizioni. Questa politica, che avrebbe portato certo ad altre guerre e ad altre conquiste, era però giudicata sfavorevolmente e provocava vive apprensioni negli elementi più conservatori della nobiltà, i quali presenti¬ vano i profondi cambiamenti che il nuovo indirizzo avrebbe provocati nella costituzione e neH’amministrazione della Repubblica, con sicuro pregiudizio del predominio del senato. Ma tali resistenze, che si appunta¬ vano specialmente contro la persona di Scipione - insignito ora del co¬ gnome onorifico di « Africano » - non erano destinate per allora a prevalere e fu invece il nuovo indirizzo che guidò la politica romana in Oriente nella prima metà del II secolo. § 92 - Roma c 1’ « Impero universale
»
- Nel mondo antico è nor¬
male l’insofferenza reciproca di due Stati potenti e vicini tra loro: la storia dell’antico Oriente si compendia in una serie di antagonismi e di lotte mor¬ tali fra potenti imperi rivali, dopo ciascuna delle quali il vincitore an¬ nienta il vinto, ne abolisce ogni parvenza di individualità politica e civile, ne incorpora il territorio e gli abitanti, identificandoli ai propri e facendoli tutti egualmente sudditi dello stesso sovrano. Questa vicenda sbocca nella monarchia persiana degli Achemenidi fondata da Ciro il Grande. Nel giro di pochi decenni egli abbatté tutti gli Stati grandi e piccoli della Mesopotamia, della Siria, dell’Asia Minore, dando vita ad un unico grandeimpero, esteso dai confini orientali dell’Iran alla sponda anatolica del Mare Egeo. Con Ciro il Grande è ormai nettamente definito il concetto di « mo¬ narchia universale », già tendenzialmente manifesto in tutti gli imperi orientali: non c’è che un solo signore, un solo monarca del mondo, che ri¬ pete il suo potere assoluto dalla divinità che egli rappresenta, quale su¬ premo intermediario e sommo sacerdote, fra gli uomini, che sono tutti egual¬ mente suoi sudditi, anzi suoi servi, che dinanzi a lui tutti egualmente si prostrano, con la fronte a terra, il più alto dignitario della Corte del pari che il più umile e il più rozzo dei braccianti. Coi successori di Ciro il Grande, il concetto di « monarchia universale » si concreta in un preciso programma di governo, da tradursi in realtà con una serie di atti successivi, in un tempo non importa quanto lungo: Cambise conquista e annette l’Egitto; Dario allarga i confini settentrionali e orientali dello Stato, ne estende la sovranità, in Europa, alla Tracia e alla Macedonia; il tentativo, iniziato da Dario e rinnovato dal figlio Serse, di aggiogare alla smisurata monarchia la metà occidentale della Terra, abitata,
dell « Ecumene » — Grecia,
Italia,
Iberia,
Africa — è arrestato
dall’impreveduta resistenza delle Poleis greche, le quali, attraverso mol-
l’intervento
romano nell’oriente
greco
275
teplici vicende e con varia fortuna, rintuzzano ogni ulteriore sforzo per¬ siano di procedere verso occidente (il « Drang nach Westen » dell’anti¬ chità); finché, dopo quasi un secolo e mezzo di alterne fortune, le forze e le risorse della Grecia intera, unite - bon gré, mal gré - a quelle della Macedonia, e sotto il comando supremo del geniale monarca macedone Filippo II, potranno accingersi alla controffensiva, partendo all'attacco del colosso orientale, ormai fortemente indebolito e irrimedialmente mi¬ nato nelle sue strutture essenziali. Molti indizi fanno ritenere sicuro che il programma di Filippo era rela¬ tivamente modesto: egli non pensava affatto ad un impero universale, ma piuttosto ad un impero greco, che si sarebbe disteso dalla Sicilia e dalla Magna Grecia alla Cilicia e alla Lidia, gravitando sul mare Egeo e sul Mare Ionio. L’erede di Filippo, il grande Alessandro, dopo le prime tappe della sua straordinaria, romanzesca conquista, abbandonò il pro¬ gramma paterno e fece suo quello, ben più vasto ed ambizioso,
degli
Achemenidi, dei quali si compiacque presentarsi dinanzi ai popoli conqui¬ stati come legittimo successore: la monarchia universale. I re di Persia non erano riusciti a dare consistenza a questa aspirazione di tutta l’anti¬ chità; quando Alessandro Magno morì, il suo impero era già potenzial¬ mente universale, anche se tale non era ancora in atto. Non è da presu¬ mere, infatti, che alcun popolo occidentale potesse ripetere allora, di fron¬ te alle smisurate forze del Macedone, il miracolo greco di Salamina e di Platea: soltanto Cartagine avrebbe forse rappresentato per Alessandro un ostacolo serio e lungo da superare. Il concetto di « monarchia universale » passò da Alessandro ai Diadochi; ma di questi, soltanto Antigono ne fece, ad un certo momento, un pre¬ ciso programma di governo, restando tuttavia assai lontano da quella mèta. Dopo circa tre secoli d’intervallo, l’idea di « monarchia univer¬ sale » fu raccolta e rinnovata da Roma, quando Giulio Cesare si apprestò a costituire su nuoVe basi l’impero di Roma, ri modellandolo, per quel che ci è dato supporre, su quel tipo di Stato veramente universale-, che Ales¬ sandro Magno aveva potuto appena abbozzare: universale non solo geo¬ graficamente ed etnicamente, ma anche politicamente, senza più distin¬ zione fra popolo dominante e popoli sudditi, ma con eguale partecipazione di tutti, su di un piede di parità, alla vita politica e al governo dello Stato. Il disegno di Cesare rimase anch’esso ai suoi primi abbozzi, in seguito all’assassinio del Dittatore: ed Augusto marciò a ritroso, ispirando la sa¬ piente e granitica costituzione da lui data all’Impero al principio del pri¬ mato di Roma su tutti i popoli del mondo ad essa soggetti: principio gelo¬ samente difeso dall’aristocrazia senatoriale romana, che non aveva esi-
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TRATTATO
DI
STORIA ROMANA
tato ad immolare ad esso il più grande dei Romani, che lo aveva rinnegato. Dovranno passare due o tre secoli ancora, prima che l’Impero romano rias¬ suma, con Caracalla, con Diocleziano e con Costantino, l’effigie della '(mo¬ narchia universale » di Alessandro Magno e di Giulio Cesare. Ma qui conviene far posto ad un'altra considerazione: l’impero univer¬ sale di Roma era già un fatto compiuto - per la prima volta nella storia dell’umanità - quando Cesare ed Augusto si apprestarono, con indirizzo diverso, a plasmarlo per una duratura esistenza; ma la formazione di quel¬ l’impero era avvenuta obbedendo ad impulsi vari e ben lontani dall’idea di « monarchia universale » che aveva guidato il pensiero degli Achemenidi e di Alessandro Magno. Come avemmo già occasione di
osservare
(cfr. al § 05), le successive guerre che Roma combattè e vinse contro tutti i popoli della Penisola - Etruschi, Umbri, Galli, Oschi, Greci Italioti si erano presentate, caso per caso, come necessarie o inevitabili, o anche solo opportune, ai governanti romani, che decisero di affrontarle per quel motivo che abbiamo definito della « difesa preventiva ». Abbiamo visto (al § 73) come a questo motivo obbedisca ancora la prima guerra con Car¬ tagine; e dopo la vittoria riportata sulla Potenza rivale, Roma si sente tanto forte che la sua reazione alle esigenze della « difesa preventiva » si fa assai meno pronta che per il passato. Soltanto quando Sagunto cade sotto i reiterati colpi di Annibaie, soltanto allora i Romani si accorgono che non tanto la loro sicurezza, quanto il loro prestigio di grande Potenza e il loro onore di alleati sono gravemente compromessi e decidono la guerra. E proprio nel corso di questa guerra si opererà quella trasformazione, dello spirito romano che abbiamo descritto e dalla quale avrà principio quella che possiamo chiamare « politica imperialistica » di Roma, nel significato moderno di questa parola. Si discute tuttavia fra i moderni studiosi sull’epiteto che meglio conven¬ ga a questo imperialismo: fu esso « imperialismo militare », e cioè puro militarismo, bramosia di guerra, orgoglio di vittoria, cupidigia di saccheg¬ gio e di preda; o fu invece « imperialismo economico », cioè desiderio di immensi e tacili guadagni, trafficando e speculando in paesi tanto ricchi quanto disarmati e impotenti, esposti senza difesa alle prepotenze e ai soprusi, di mercanti senza scrupoli, protetti dalla formula magica « civis Romcmus sum »; o fu, invece, un « imperialismo difensivo », un imperia¬ lismo, cioè, che vede, o crede di vedere, ancora minacce o pericoli per la sua potenza e corre a spazzarli via prima che le ombre prendano corpo ? lutte e tre queste tesi hanno trovato sostenitori; forse più delle altre è probabile la terza, specie quando si ammetta che alla difesa del suo gio¬ vane impero - sia pure ad una difesa superflua - Roma dovette essere
l’intervento
romano
nell’oriente
greco
277
spinta soprattutto dai suoi pavidi alleati. Né mancano del resto argomenti di notevole peso in sostegno di questa tesi (della quale è campione Maurizio Holleaux): pericoloso il prevalere di uno dei grandi regni ellenistici a danno degli altri o delle Leghe greche, specie quando vi fosse sospetto che la loro politica di predominio venisse incoraggiata o anche finanziata da Cartagine (di qui le guerre contro la Macedonia e la Siria); pericoloso anche che il regno numidico di Massinissa s’ingemmasse dello splendido porto e del pingue tesoro di Cartagine, creando la premessa di una potenza in avvenire più compatta e più forte della stessa Cartagine (di qui la distru¬ zione di Cartagine). In realtà è ragionevole pensare che alla rapida forma¬ zione dell'impero mediterraneo di Roma abbiano contribuito in eguale misura tutti e tre i fattori: spirito militaristico, corsa al monopolio del ca¬ pitale, politica di sicurezza. Nel 270 a.C. Roma non dominava che sulla penisola appenninica; settant’anni più tardi era arbitra del Mediterraneo occidentale, avendo tolto di mezzo l unica Potenza che potesse esserle veramente rivale; in altri settant’anni il suo impero universale era saldamente costituito. Prima la Penisola Balcanica (Macedonia e Grecia), poi l’Africa settentrionale fino* all’Egitto, poi l’Asia Minore: in tutte queste zone non erano ormai che popoli sudditi (provincie) o Stati vassalli e monarchi fantocci, a cui Roma « comandava di regnare ». Era l’« impero universale », molto più vicino alla sua assoluta realtà di quanto non avesse potuto accostarcelo Alessandro Magno: non restavano fuori dell’orbita di Roma che due ombre di Stati civili - l’Egitto e la Siria -, che avrebbero durato ad esistere fino a quando ai Romani fosse piaciuto, e, alla periferia dell’Ecumene, il misterioso regno dei Parti e la massa confusa ed ondeggiante dei barbari Celti e Germani. Era l’« impero universale », dunque, totalmente in atto; ma non era 1 impero universale come l’aveva concepito Alessandro Magno, allargandone e perfezionan¬ done la concezione ereditata dagli Achemenidi persiani; un impero uni¬ versale, cioè, in cui fossero amalgamati, su di un piede di parità, il popolo dominante e i popoli sudditi, tutti egualmente partecipi della vita politica e del governo dello Stato. La concezione d’Alessandro troverà invece il suo interprete, a Roma, soltanto in Giulio Cesare. § 93 - La seconda guerra contro la Macedonia - Durante e dopo
le guerre illiriche, Roma non aveva dimostrato alcuna intenzione di inter¬ venire negli affari d’Oriente, che non la riguardavano direttamente. Nel 201, invece, il desiderio di intervento è immediato e palese; nulla si giudica a Roma che possa accadere negli Stati greci e ellenistici che non tocchi
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TRATTATO
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STORIA
ROMANA
gli interessi romani; soprattutto si riteneva che questi interessi sarebbero stati offesi e minacciati dal soverchio ingrandirsi di uno di quegli Stati a danno degli altri e che il meglio che convenisse alla sicurezza e al presti¬ gio di Roma era che ciascuna città o Stato potesse continuare a vivere in piena autonomia, in alleanza o sotto un più o meno larvato protettorato della potenza romana. Così, nell’anno 200 a.C., quando l’intesa intervenuta tra i Regni di Ma¬ cedonia e di Siria ai danni del debole Stato egiziano e il procedere minac¬ cioso e prepotente di Filippo V verso alcune città greche (fra queste la stessa Atene) apparve in netto contrasto coi principi sopra enunciati, il Governo romano, sollecitato anche dai suoi alleati (il re di Pergamo e la Repubblica di Rodi) ingiunse al re Filippo di cessare da ogni atto ostile contro gli Fileni e di restituire all’Egitto tutti i possedimenti che gli erano stati tolti. Il rifiuto del re fu causa della seconda guerra tra Roma e la Macedonia. I primi due anni di campagna non dettero resultati molto brillanti per i Romani. La prima campagna fu comandata, nel 199, dal console Sulpicio Galba dell'anno 200, con imperio proconsolare: l’esercito romano, due le¬ gioni, sbarcato ad Apollonia, avanzò per quella che si chiamò più tardi via Egnazia e si scontrò con le truppe macedoni presso Ottolobo e sui colli di Banitza, riportando due netti successi, ma non decisivi, e del tutto inconcludente fu la campagna invernale del 199/98, durante la quale fu a capo dell’esercito uno dei consoli del 199, P. Villio Tappulo. Ma intanto gli Etoli, impressionati dall’impotenza di Filippo di fronte all’esercito ro¬ mano, si erano affrettati a mettersi a fianco degli antichi alleati. Tappulo ebbe il merito di preparare i piani per l’invasione della Macedonia dal sud, dopo che si erano sperimentate le difficoltà di penetrarvi per i passi orien¬ tali dellTUiria. Filippo, in qualche modo informato, prevenne i Romani occupando i passi dell’Aoo. Quivi giunse, nella primavera del 198, a sostituire Tappulo e a prendere il comando della guerra, il nuovo console dell’anno, Tito Quinzio Flaminino, l’uomo che il senato aveva scelto come quello che dava a sperare di sapere, meglio di Sulpicio Galba, sfruttare gli elementi diplomatici della situazione favorevoli ai Romani. Ancora assai giovane, Flaminino viveva nello spirito della nuova generazione, della quale, fra la nobiltà romana, Cornelio Scipione rappresentava il più compiuto esemplare: Romani e Latina fino al midollo delle ossa, questi giovani duci del secolo allora in¬ cipiente, univano all’orgoglio di appartenere ad un popolo ritenuto ormai invincibile ed anche straordinariamente fortunato e alla fiera indole sol¬ datesca ereditata dagli avi, una notevole e talora raffinata cultura, una
l’intervento
romano
nell’oriente
greco
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più vasta conoscenza di uomini e di cose e soprattutto la comprensione di un mondo così diverso dal loro, del mondo ellenistico, di quella civiltà che essi ammiravano e apprezzavano in tutte le sue manifestazioni spiri¬ tuali - letterarie ed artistiche - quanto la disprezzavano e la compati¬ vano nella sua insufficienza e miseria politica. Ciò nonostante, Flaminino e Scipione erano di opposto parere sulla condotta politica da seguire nei confronti dell’Oriente greco: Scipione non era per nulla convinto che si potessero regolare e guidare le cose d Oriente in modo conforme agli in¬ teressi romani senza assoggettare politicamente e militarmente quei ter¬ ritori, com'era invece la tesi di Flaminino. La campagna del 198 si svolse con pieno successo per i Romani, che vi¬ dero aderire alla loro causa gli Epiroti e gran parte dei Greci, tanto che Filippo chiese di aprire le trattative di pace. Flaminino tirò in lungo i col¬ loqui col re, finché gli giunse notizia di essere stato riconfermato al comando dell’esercito per l’anno 197. Rotte allora le trattative, obbligò il Macedone ad accettare battaglia campale in Tessaglia, sulla catena di alture note col nome di Cinoscefale. La vittoria dei Romani fu piena; l’alone di in¬ vincibilità che fino ad allora aveva circondato, in Grecia, la falange mace¬ donica, era svanito di fronte alla superiorità della tattica manipolare romana (giugno del 197 a.C.). Filippo dovè accettare le condizioni di pace che gli imponevano la ri¬ nuncia a qualsiasi dominio in Grecia, la cessione della flotta e il pagamento di un’indennità di guerra. La proclamazione della libertà dei Greci avvenne, fra l’entusiasmo generale, durante i giuochi istmici del 196, alla presenza di Flaminino. Anche le guarnigioni romane vennero ritirate dalle piazzeforti della Grecia e questa fu, da parte dei Romani, eccessiva prova di fedeltà alle promesse di libertà fatte ai Greci (come giudicò anche Scipione Africa¬ no), perché eccitò la cupidigia del maggiore Stato orientale, della Siria. § 94 - Le armi romane in Asia - Infatti il re Antioco III di Siria, che già negli anni precedenti si era assoggettate alcune città greche d Asia, continuò impassibile in tale sua politica anche sulle sponde settentrionali dell’Egeo, incurante delle proteste romane e stringendosi anzi in alleanza con gli Etoli: questi infatti, che avevano validamente aiutato Roma nella guerra, giudicavano irrisoria la ricompensa che ne avevano ottenuta e ne erano rimasti sdegnati. Antioco fu invitato dai Romani a rilasciar li¬ bere le città greche, concordemente al principio da essi proclamato, della libertà di tutti i Greci; il suo rifiuto indusse Roma all’intervento. La guerra fu iniziata dagli Etoli (192 a.C.). Presso il re Antioco si tro¬ vava in quegli anni il grande Annibaie, esule dalla sua patria; egli consi-
280
TRATTATO DI STORIA
ROMAUA
gliava ad Antioco di formare una coalizione di tutti i nemici di Roma e passare in Italia con forze tali da schiacciare la potenza romana. Ma il re non dette ascolto ai suggerimenti del condottiero cartaginese e, fiducioso nell aiuto degli Etoli, senza ulteriori preparativi, sbarcò in Grecia con un piccolo esercito. Ma il corpo di spedizione siriaco fu tagliato a pezzi, alle Termopili, dai Romani, a fianco dei quali s era schierato ora Filippo di Ma¬ cedonia. L esercito romano era al comando di Manio Acilio Glabrione; ma al successo contribuì validamente l’iniziativa tattica del suo legato M. Porcio Catone (191 a.C.). Per prostrare il nemico, era però necessario che i Romani andassero a combatterlo sul suo stesso territorio. Venne organizzata allora una gran¬ diosa spedizione con forze di terra e di mare, che furono poste agli ordini del console Lucio Cornelio Scipione, fratello di Publio Cornelio l’Africano, il quale fu aggiunto ad esso come « legato » e diresse in realtà le opera¬ zioni. Rinforzati dalle squadre navali dei loro alleati — Pergamo, Rodi, Samo, Chio, Lesbo - i Romani vinsero ripetutamente la flotta di Antioco (specialmente a Mionneso, nella Ionia) e poterono così trasportare libera¬ mente 1 esercito dalla Grecia in Asia. Battuto più volte in scontri parziali, l’esercito siriaco, numerosissimo ma di scarso valore militare, fu distrutto interamente presso la città di Magnesia, presso il Sipilo, nella Lidia (au¬ tunno del 190). Antioco fu costretto ad accettare la pace imposta dai Romani: dovè cedere ai vincitori l’Asia Minore fino al Tauro, dovè rinunciare alla flotta e agli elefanti da guerra e pagare un’indennità di 15.000 talenti. La pace fu ratificata in Apamea, in Frigia, nel 188 a.C. Il territorio ceduto dalla Siria fu ripartito da Roma fra gli alleati (Rodi e Pergamo); le città co¬ stiere vennero dichiarate libere. Gli Etoli subirono una severa punizione; furono fortemente multati e privati di gran parte dei loro territori. Anni¬ baie, del quale i Romani avevano chiesto la consegna, riuscì a fuggire e si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, ove si uccise nel 183, per non cadere nelle mani de’ suoi implacabili nemici. § 95
- La fine del Regno di Macedonia -
Il genere
di
pace e
I autonomia che Roma intendeva assicurare all'Oriente greco, non era per altro conciliabile con la mentalità e con le concezioni politiche dei Greci, per i quali libertà significava anche e soprattutto facoltà di guerreggiare fra loro a loro piacimento: e i Romani,
ai quali naturalmente spettava
intervenire come arbitri in quei conflitti, si attiravano immancabilmente 1 inimicizia di coloro per i quali il giudizio - anche se equo - era risultato sfavorevole. Si cominciò presto a sentire il peso del protettorato romano.
l'intervento
romano nell’oriente
greco
281
che trattava tutti quei piccoli alleati alla stregua di sudditi: in quasi tutte le città si formarono partiti ostili a Roma, che reclutavano i loro uomini soprattutto nelle fazioni democratiche, mentre dovunque gli aristocratici e i conservatori parteggiavano per Roma. Quanto al re di Macedonia, egli aveva tenuto, durante la guerra di Siria, un contegno da vero e fedele alleato di Roma e n era stato premiato; ma poco dopo, impedito ed umi¬ liato dai Romani a causa del suo tentativo di rinnovare la politica di espan¬ sione in Grecia, si fece più riservato e si dette segretamente a preparare la guerra di rivincita con saggi provvedimenti di ordine economico e mi¬ litare. Dei suoi due figli, Perseo e Demetrio, i Romani avrebbero visto volen¬ tieri succedere al padre il secondo, di sicuri sentimenti filoromani, ma Per¬ seo lo fece sopprimere, connivente il padre (181 a.C.), e, alla morte di Fi¬ lippo, divenne re di Macedonia (179/8). Perseo si fece continuatore della politica paterna, stringendo rapporti vantaggiosi con alcuni Stati asiatici e guadagnandosi non poche simpatie fra i Greci. I Romani, messi in allar¬ me dalle mene del re e sollecitati da Eumene di Pergamo, gli dichiararono guerra (171 a.C.). La comparsa degli eserciti romani in Macedonia sbigottì i Greci e nes¬ suno si mosse; anzi tutti si affrettarono ad inviare contingenti ai generali romani: soltanto gli libri, gli Etoli e gli Epiroti stettero a fianco della Ma¬ cedonia. Le prime campagne non portarono ad alcuna decisione: Perseo avrebbe potuto avvantaggiarsi della sua eccellente preparazione militare per infliggere subito qualche grave colpo alle truppe romane, fra le quali si andavano manifestando sintomi preoccupanti di indisciplina e di rilas¬ satezza, che sarebbero stati fatali quarantanni prima, al tempo della guerra annibalica; ma le sue titubanze e i suoi indugi dettero tempo ai Romani di imprimere alla loro azione un andamento più efficace e più energico, affi¬ dandone il comando a L. Emilio Paolo, figlio del console ucciso a Canne. La falange macedone fu battuta e annientata presso Pidna, nell’estate del 168: il re stesso dovè consegnarsi prigioniero nelle mani de’ suoi nemici. La Macedonia fu divisa in quattro distretti con costituzione repubblica¬ na, giuridicamente e amministrativamente divisi l’uno dall’altro; lo stesso trattamento fu usato per l’Illiria; l’Epiro ebbe distrutte le sue città e gli abitanti venduti come schiavi. Severe sanzioni furono prese anche nei ri¬ guardi del re di Pergamo e dei fedeli Rodi, sol perché avevano osato farsi mediatori di pace fra Perseo e i Romani. Quelli dei Greci che avevano te¬ nuto condotta incerta o favorevole a Perseo, furono più o meno severa¬ mente puniti; anche la Lega Achea dovè consegnare mille de’ suoi citta¬ dini più in vista, che furono inviati in Italia, per essere ivi giudicati da un
TRATTATO
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DI STORIA
ROMANA
tribunale speciale: si trovava tra questi lo storico Polibio. Emilio Paolo celebrò uno splendido trionfo: dietro il carro del vincitore venivano portati gli immensi tesori della Corte macedonica e lo stesso re in catene. Perseo venne poi relegato con la famiglia in Alba Fucente, sul lago Fucino, ove morì due anni dopo.
V LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE E LA FINE DELL'INDIPENDENZA GRECA § 96 -
Il nuovo sistema d’impero: la provincia di Macedonia —
La data della battaglia di Pidna e del regolamento generale della situaziozione in Oriente, che ne fu la conseguenza (168/7 a.C.), segna, insieme con quelle di Sentino, di Zama e di Farsalo, uno dei quattro momenti capitali della storia di Roma antica e del fatale svolgimento della sua missione nel mondo. Sentino suggella il destino dei popoli abitanti a sud delle Alpi, che si avviano, d’allora in poi, a divenire, con l’impronta di Roma, nazione; Zama è il punto di partenza e l’impulso alla conquista dell’impero univer¬ sale; Pidna segna l’inizio del concretarsi dell’impero nell’unità territoriale e di governo; Farsalo, assicurando il trionfo definitivo del regime monar¬ chico sugli ormai superati ordini repubblicani, prepara e apre la lunga era della pax romana, durante la quale si plasmerà la civiltà romano - cri¬ stiana, retaggio imperituro di Roma a tutte le genti. E subito dopo Pidna si annunziano palesemente, come sopra s’è detto, i presupposti della imminente trasformazione del sistema romano d’im¬ pero: il tentativo, condotto avanti per quarantanni dai dirigenti romani, di dominare l’Oriente greco ed ellenizzato senza governarlo - secondo un principio imposto indubbiamente dalle necessità stesse dell’organismo sta¬ tale romano, ma suggerito anche, e si ha torto di misconoscerlo, da un certo senso di generosità e di riguardo verso popoli di antica e gloriosa civiltà — arriva al suo fallimento. La Macedonia e la Grecia non si lasciano dirigere senza un preciso governo politico e militare; e mentre la storia degli ultimi vent’anni dell’indipendenza greca è piena delle meschinità, delle viltà, degli errori e degli orrori commessi dai « greculi » nell’accanirsi delle fazioni, delle rivalità, degli odi reciproci, in Macedonia le quat¬ tro piccole repubbliche istituite dai commissari romani non riuscivano a vivere, in preda sempre a discordie reciproche o intestine, alle quali più volte invano i legati romani cercarono di porre rimedio.
LA
DISTRUZIONE
DI
CARTAGINE
E
LA FINE DELL’INDIPENDENZA
GRECA
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Di tale stato di cose approfittò un avventuriero, tale Andrisco, il quale si presentò come pretendente al trono di Macedonia, affermando di essere figlio di Perseo. In breve tutta la Macedonia fu in fiamme; alcuni reparti di soldati romani furono battuti; un pretore, ucciso; ma nel 148 il pretore Metello, arrivato con un forte esercito, sconfisse nella stessa pianura di Pidna il pretendente Andrisco, che fu consegnato al vincitore. Dopo di ciò la Macedonia fu ricomposta ad unità, ma perdé l’indipendenza: in¬ sieme con l'Epiro e con l’Illiria fu ridotta a provincia e governata diret¬ tamente da Roma. Il risentimento suscitato nella classe dirigente romana dalle delusioni sofferte nella sua politica orientale si manifestò nella rudezza e talora nella brutalità della prassi diplomatica adottata dai Romani. Soltanto l’inter¬ vento di Catone salvò l’isola di Rodi dall’esser fatta oggetto di rappresa¬ glie militari; e tuttavia furono tolte alla città la Licia e la Caria e fu dan¬ neggiata economicamente coll’istituzione di un porto franco a Deio, al quale affluì gran parte del commercio prima avviato a Rodi. Ad Antioco IV di Siria non valse il contegno neutrale tenuto durante la guerra tra Roma e Perseo; i Romani gli ingiunsero bruscamente di rinunziare a qualsiasi tentativo di stabilire la sua supremazia sull’Egitto ed egli accettò senza indugio l’imposizione di Roma. § 97 - Assoggettamento della Grecia - La stessa sorte della Macedo¬ nia toccò, a piccolo intervallo di tempo, alla Grecia, dove si erano fatti anche più frequenti e più aspri i conflitti di città e di partiti; l’intervento romano appariva dovunque inevitabile. Fu fatale per la libertà greca il dissidio che riarse in forma acutissima, nel 149 a.C., fra la Lega Achea e gli Spartani. L’intervento romano non fu tollerato allora dal partito democratico al po¬ tere nella Lega; il quale, approfittando del fatto che Roma si trovava in quel tempo impegnata militarmente in Macedonia, a Cartagine e in Spagna, pro¬ ruppe in aperta rivolta. Benché le città della Lega avessero chiamato a raccolta tutte le forze disponibili, arruolando anche 12 mila schiavi, non po¬ terono reggere a lungo di fronte alle legioni romane. L’esercito greco fu pienamente disfatto dal console Lucio Mummio sull’istmo di Corinto. Tutte le città del Peloponneso si sottomisero l’una dopo l’altra; Corinto stessa fu espugnata dopo pochi giorni d’assedio e data al saccheggio (146 a.C.). Furono disciolte tutte le Leghe di città greche: quelli degli Elleni che non avevano partecipato alla guerra (Acarnani, Etoli, Tessali,
Atene,
Sparta) furono mantenuti nella loro antica condizione di alleati; tutti gli altri vennero ridotti in condizione di tributari e sottoposti alla sorveglian¬ za dei governatori della provincia di Macedonia.
284
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
§ 98 - La fine di Cartagine - Anche la sistemazione data dai Ro¬
mani all’Africa settentrionale non durò a lungo. Cartagine,
esclusa, in
virtù del trattato di pace, dalle competizioni politiche e militari, aveva rivolto ogni sua attività allo sfruttamento del suo territorio africano e allo sviluppo delle sue risorse agricole e commerciali. L’azione spiegata, allora da Annibaie fece conoscere quanto il grande stratega valesse nelle arti della pace. Assunto l’ufficio di sufete nel 196 a.C., introdusse nella costituzione e nell’amministrazione dello Stato sapienti riforme, con lo scopo di riportare ad un alto livello la ricchezza di Cartagine.
L’aristo¬
crazia cartaginese avversò però la sua politica e lo costrinse ad allonta¬ narsi dall’Africa. Il rapido rifiorimento economico di Cartagine non mancò di richiamare l’attenzione dei Romani, sempre più preoccupati al pensiero che le grandi ricchezze e la prosperità economica dei Cartaginesi potes¬ sero, presentandosene l’occasione, essere poste al servizio di un nemico di Roma, o peggio ancora, che esse venissero in mano dei re di Numidia. Massinissa infatti aveva già più volte aggredito con vari pretesti Carta¬ gine, strappandole lembi di territorio. Ai Cartaginesi il trattato di pace proibiva di far guerra, anche in Africa, senza il beneplacito dei Romani; ond’essi presentavano al senato di Roma lamenti e proteste. Ma le ambascerie romane inviate in Africa si pronun¬ ciavano invariabilmente in favore di Massinissa. Quando, nel 150 a.C., i Cartaginesi, esasperati dalle aggressioni e dalle violenze del vecchio re numida, gli mossero guerra senza aspettare che Roma gliene desse la fa¬ coltà, il Governo romano colse l’occasione per intervenire decisamente e togliere di mezzo l’antica e ancora non del tutto inoffensiva rivale: trion¬ fava così il parere di quei senatori che, facendo eco al addenda Carthago» di Marco Porcio Catone, ritenevano che, per la tranquillità della Repubblica, Cartagine dovesse essere annichilita. Quando i consoli del 149 si apprestavano a passare in Africa, si presen¬ tarono ad essi i legati cartaginesi, offrendo la sottomissione del loro Gover¬ no. Il senato chiese la consegna di trecento ostaggi, di tutte le armi e delle macchine da guerra, con la promessa di conservare ai Cartaginesi il loro territorio e la libertà. Avvenuta la consegna degli ostaggi e delle armi e sbarcato frattanto l’esercito in Africa, i consoli intimarono ai Cartaginesi di abbandonare la città, per riedificarla 15 chilometri distante dal mare. Al brutale comando i Cartaginesi risposero preparandosi alla più strenua resistenza. Per due anni i Romani si accanirono invano intorno alle potenti fortificazioni che proteggevano l’antico emporio fenicio; per venirne a capo, il senato inviò a comandare 1 esercito assedianteP.Cornelio Scipione Emi¬ liano, figlio di L. Emilio Paolo e nipote adottivo del vincitore di Zama.
LE
PROVINCIE
ROMANE
285
Scipione si era distinto militando col grado di tribuno in Spagna ed allora in Africa, sebbene non avesse ancora l’età prescritta dalla legge e non avesse percorso il regolare cursus honorum, fu eletto console per l’anno 147. Accerchiata completamente. Cartagine resistè con la forza della dispe¬ razione e con un fanatismo che si è paragonato a quello con cui si difesero Tiro e Gerusalemme. Nella primavera del 146 i Romani dettero l’assalto decisivo alla città, penetrandovi dal porto con una lotta crudele per le strade, che si prolungò per sei giorni; gli ultimi difensori della ròcca si lasciarono perire fra le fiamme del tempio di Esmun (146). Dietro preciso ordine del senato, la città fu distrutta dalle fondamenta e vennero del pari distrutte le città limitrofe che erano rimaste sino alla fine fedeli ai Cartaginesi; quelle invece che si erano affrettate a fare atto di sottomissione a Roma - Utica, Adrumeto, Leptis Minore, Tapso ed altre - ricevettero in compenso la libertà e una parte del territorio car¬ taginese. Tutto il rimanente dei domini di Cartagine fu ridotto a provincia romana, col nome di Africa, all’infuori di alcuni distretti che furono do¬ nati al re di Numidia. Residenza dei governatori della nuova provincia fu Utica, dove fin d’allora vennero a stabilirsi in buon numero commer¬ cianti romani ed italici. Era morto frattanto Massinissa, più che novan¬ tenne. affidando a Scipione l’esecuzione delle sue ultime volontà e inca¬ ricandolo di dividere il regno tra i suoi tre figli: Micipsa, Gulussa e Mastanabale.
VI LE PROVINCIE ROMANE § 99
-
Roma e
l’Occidente
- La straordinaria facilità con cui i
Romani affermarono la loro supremazia in tutto il bacino orientale del Mediterraneo, spiega convessi abbiano potuto contemporaneamente svol¬ gere operazioni militari lunghe e difficili per rendere effettivo il loro do¬ minio nelle vaste regioni conquistate in occidente. Dopo la Sicilia, otte¬ nuta con la pace del 241, la Sardegna e la Corsica, prima, la Gallia Cisal¬ pina poi, erano venute ad aggiungersi ai domini romani intorno al Mar Tirreno; la seconda guerra punica aveva dato infine in mano dei Romani la penisola iberica. Questi vasti territori conquistati in occidente, Roma doveva naturalmente conservarli in suo dominio e governarli direttamente: era necessario perciò che 1 autorità dell Urbe fosse egualmente ri¬ conosciuta in tutte le parti di essi e che dovunque penetrassero il governo e l’amministrazione romana.
286
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
Bisogna, d’altra parte, riconoscere che Roma compì tale opera lenta¬ mente e quasi di mala voglia, senza metodo e senza precise direttive, ope¬ rando da un punto di vista strettamente militare e burocratico, e che, fatta eccezione per la Gallia Cisalpina, non intravide che tardi gli immensi van¬ taggi e le straordinarie possibilità che avrebbe offerto alla popolazione latino-italica la colonizzazione sistematica e su larga scala di quelle re¬ gioni, ricche di risorse naturali di ogni genere e capaci di nutrire abitanti in assai maggior numero di quelli che allora vi risiedevano. È un fatto che, durante il secondo secolo, Roma si rivolse più volentieri agli inter¬ venti in Oriente, che promettevano trionfi più gloriosi e più lauti guadagni, e non si dedicò, se non come a un gravoso dovere, alla conquista siste¬ matica dell Occidente, donde non poteva trarre gloria e vantaggi imme¬ diati e di cui non intuiva ancora i futuri destini nel grembo della civiltà latina. §
100
-
primo due
Le
grandi isole del Tirreno e
«provincie» furono costituite
la
nel
Gallia cisalpina
227
a.C.
(v.
al
—
Le
§ 80):
l’una, la Sicilia; l’altra, la Sardegna con la Corsica. L’interno delle due isole fu poi conquistato negli anni successivi, nei quali piccoli eserciti, al co¬ mando però quasi sempre dei consoli, effettuarono varie spedizioni per ottenere l’assoggettamento delle tribù indigene. Nel
181
scoppiò una
vasta insurrezione dei Corsi e dei Sardi Iliensi, suscitata probabilmente dalla energica repressione, intrapresa allora dai Romani, della pirateria ligure. La ribellione còrsa venne assai facilmente domata; più aspra e lunga riuscì invece la repressione del movimento sardo, che soltanto dopo l’energica campagna del 177-76 potè dirsi domato. Una guerriglia simile a quella combattuta in Sardegna e in Corsica fu quella che i Romani dovettero sostenere per parecchi anni (a cominciare dal 238 a.C.) per assoggettare la Liguria, difesa accanitamente da quelle tribù fierissime, gelose della propria indipendenza e protette dall’aspra natura del loro territorio montagnoso. Nella Cisalpina, tutte le conquiste che i Romani vi avevano fatto dopo il 225, andarono perdute con l’invasione di Annibaie: soltanto le due co¬ lonie latine di Piacenza e di Cremona opposero un’epica resistenza ai Galli che le circondavano da ogni parte. Piacenza cadde in mano dei barbari nel 200 o nel 199. Nel 197, quando stava per concludersi la guerra con la Macedonia, i Romani iniziarono la riconquista della Cisalpina, che fu com¬ piuta in meno di dieci anni: agli Insubri e ai Cenomani fu lasciato intatto il territorio e riconosciuta la condizione di alleati; i Boi vennero invece privati della più gran parte delle loro terre ei superstiti obbligati, come
LE
PROVINCIE
ROMANE
287
pare, ad emigrare di là dalle Alpi. Nel territorio incorporato nella Repub¬ blica vennero fondate nuove colonie: quella latina di Bononia (189 a.O.) e le due, romane, di Parma e di Mulina (183 a.C.), per dir solo delle maggiori. Nel 177, al confine tra la Liguria e l'Etruria, fu fondata la colo¬ nia romana di Luna. Nel 187, essendo consoli M. Emilio Lepido e C. Flaminio Nepote, furono costruite le due grandi strade militari: la via Flaminia, da Arezzo a Bologna, la ina Aemilia, da Rimini a Piacenza; più tardi, nel 171 a.C., si aprì una seconda comunicazione con la pianura padana attraverso l’Etruria, con la via Cassia. Infine, nel 148, si costruì la via Postumia, che metteva in comunicazione Genova con Piacenza. La pianura cispadana si andò così rapidamente latinizzando; e la latinizzazione proseguì rapidamente anche a nord del Po, dove seguitavano a vivere i Galli Insubri, i Cenomani e i Veneti, ma dove si andò pure diffondendo sempre più la popolazione latina, grazie anche al rafforzamento delle colonie di Piacenza e di. Cremona. Al confine orientale del territorio dei Veneti, per tenere a dovere le tribù rapinatrici degli Illirì, fu fondata, nel 181, la colonia latina di Aquileia. Con le due campagne del 178 e del 177 venne assoggettata l’Istria e una ven¬ tina d’anni più tardi furon domate anche le genti illiriche della Dalmazia. La Gallia Cisalpina non fu però costituita a provincia che assai più tardi, probabilmente al tempo di Siila. § 101 —
Le provincie spagnole — La regione che aspettava alla pro¬
va i soldati e i colonizzatori romani, era la Spagna; e fu anche quella nella quale meno lodevole e meno soddisfacente riuscì l’opera degli uni e degli altri. Subito dopo la fine delle campagne iberiche di Scipione (205 a.C.), il territorio spagnolo si considerò diviso in due provincie: la Hispania Citerior, comprendente la valle dell’Ebro e la costa orientale fino a sud di Cartagena; la Hispania Ulterior, che abbracciava le rimanenti regioni del mez¬ zogiorno e dell’occidente della penisola. La Sierra Morena (saltus Castulonensis) segnò il confine tra le due provincie. Soltanto nel 197 fu data alle due provincie un’amministrazione regolare, fissando i precisi confini dell’una e dell’altra e facendole governare da due pretori, la cui permanenza nella carica si protrasse, di regola, per due anni. I rapporti dell’autorità romana con le varie popolazioni spagnole e con le città fenicie della costa erano stati fissati mediante singoli trattati; ma è facile intendere come nell’applicazione dei termini di essi dovessero sor¬ gere, specialmente nei primi anni, discussioni, contrasti, malintesi; per su¬ perarli pacificamente, sarebbe occorsa, da parte dei proconsoli e dei pretori
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
romani, una condotta energica ma al tempo stesso equanime e liberale, una comprensione larga delle aspirazioni e delle suscettibilità dei nuovi sudditi, una linea di azione conseguente e rettilinea; quell’abilità, insomma, quella duttilità, quel tatto, di cui avevano fornito magnifico esempio Sci¬ pione Africano nella Spagna stessa e fra i Numidi, e Flaminino in Grecia. L’insufficienza dei governanti romani nella penisola iberica spiega come fin dal 197 si sia verificato un primo movimento di rivolta, assai grave, che si estese ad ambedue le provincie e che si placò soltanto nel 179. rono al governo delle provincie spagnole in quegli
Fu¬
anni Marco Porcio
Catone, nel 195, che alienò da Roma anche le tribù dei Celtiberi, rimasti fino allora fedeli, e Tiberio Sempronio Gracco (il padre dei due famosi tri¬ buni), il quale costrinse i Celtiberi alla pace, ma li trattò con equità e gene¬ rosità insolite, che furono grandemente apprezzate dai barbari e assicura¬ rono una lunga pace con essi. Disgraziatamente i generali romani che gli succedettero nel comando, non si adattarono ad usare la clemenza più che la forza e fecero così della penisola un campo di nuove, gravissime guerre, le quali misero a dura prova la solidità dell edificio repubblicano e ne rivelarono le gravissime crepe, che ne preannunziavano la rovina. Alla nuova insurrezione dettero principio, nel 154 a.C., i Lusitani, ai quali si unirono, l’anno dopo i Celtiberi. Questa guerra, che va sotto il nome di seconda guerra celtiberica, si svolse in due fasi: nella seconda {il cosiddetto béllum Nnmantinum), anima della rivolta fu Viriato, un umile pastore che si fece duce del suo popolo e tenne testa per otto anni agli eserciti romani. Si combattè allora nella Spagna una lunga ed este¬ nuante guerra di insidie e di agguati, di tradimenti e di crudeltà, così da una parte come dall’altra; guerra simile a quella che ebbero a sostenervi, nei primi anni dell’Ottocento, i reggimenti francesi di Napoleone Bonaparte. L’esercito romano non si dimostrò sempre pari a se stesso e alle sue gloriose tradizioni: ancora una volta, la disciplina dei soldati lasciò molto a desiderare. Ucciso Viriato per tradimento (139 a.C.), fu domata prima la parte meridionale della penisola; ma nel settentrione la resistenza si protrasse a lungo, concentrandosi nella città di Numanzia. Si verificò allora quel1 episodio che rivelo la gravità della crisi politica e militare in cui versava il Governo della Repubblica. Il consolo Ostilio Mancino, nel 137, per sal¬ vare il suo esercito dall’annientamento, aveva firmato coi Numantini un patto vergognoso di capitolazione: il patto fu giurato anche dal suo que¬ store, Tiberio Sempronio Gracco (il futuro tribuno della plebe) e dai più alti ufficiali del suo seguito. Ma il senato si rifiutò di ratificare il patto
LE
PROVINCIE
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ROMANE
e ordinò che Mancino venisse consegnato, come spergiuro, ai Numantini; i quali però rifiutarono la vittima loro offei’ta, e così la guerra continuò. Tre anni dopo, nel 134 a.C., ad espugnare la piazzaforte spagnola fu in¬ viato il vincitore di Cartagine, Scipione Emiliano.
Il grande capitano,
ristabilito l’ordine e la disciplina neH'osercito, cinse la città di un poderoso sistema di trincee (che gli odierni scavi hanno riportato alla luce) e la costrinse a capitolare per fame. Le provincie spagnole goderono ora di lunga pace: il processo di latiniz¬ zazione riprese a svolgersi con notevole intensità e rapidi e importanti fu¬ rono anche i progressi dell'agricoltura in vaste regioni della penisola. Tut¬ tavia altri focolai d’insurrezione si accesero più tardi nella Spagna setten¬ trionale, anche a causa dei contraccolpi ch’essa risenti delle guerre civili; una pace definitiva vi fu instaurata soltanto da Augusto. § 102 - L’Oriente
greco e
la provincia di
« Asia » - La posizione
di Roma in Asia non appariva più così sicura e tranquilla come un tempo, dopo che i Romani avevano dovuto persuadersi che l’obbedienza e la fe¬ deltà dei maggiori Stati dell’Oriente - Pergamo, Siria, Rodi,
Bitinia -
erano garantite solo dal timore della potenza romana: dava in special modo motivo di sospetto l’amicizia inconsueta del re di Pergamo col re di Siria; si temeva che Eumene II e Antioco IV finissero con l’intendersi fra di loro. Dopo la morte di Antioco IV (164) una commissione inviata dal senato romano in Siria pose sul trono il figlio minorenne del defunto ro, An¬ tioco V Eupatore, che però di lì a poco (162) fu spodestato da Demetrio, figlio di Seleuco IV, il quale viveva a Roma in qualità di ostaggio e di lì riguadagnò la Siria senza alcuna reazione da parte del senato. Ottenuto il riconoscimento della sua usurpazione, Demetrio governò assai a lungo (162-145) la Siria con energia ed abilità; finché fu a sua volta spodestato da un pretendente, Alessandro Balas, che il sospettoso Governo di Roma gli sollevò contro. Il Balas fu definito a ragione «il becchino della dinastia seleucidica »; la decadenza e il disfacimento dello Stato seleucidico non ebbero da allora più sosta: le provincie orientali del Regno, sino all’Eufrate, caddero quasi tutte in potere dei Parti ed alcuni dei popoli che rimasero a far parte dello Stato, acquistarono un’autonomia sempre maggiore, come gli Ebrei sotto i loro grandi sacerdoti della famiglia degli Asmonei di Gerusalemme. L’Egitto, dopo la crisi sofferta a causa del conflitto insorto tra i due fratelli, Tolomeo VI Filometore e Tolomeo VII Evergete, ritrovò la sua pace con la morte del Filometore (146/5) e, alla fine del II secolo, per la sua salda unità, per la sapiente amministrazione, per la ricchezza dell’era¬ rio, era ancora la più ragguardevole Potenza del mondo ellenistico. 19 - GlANNELLI, Trattato di Storia romana - I
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
A Pergamo, dopo la morte di Eumene II (l.r>9 a.C.), salì sul trono Attalo II, che rivolse ogni sua cura a conservarsi il favore e la fiducia del senato romano. Da allora i re di Pergamo non cercarono più di sottrarsi alla egemonia romana, ma si occuparono unicamente di favorire la prospe¬ rità del loro regno e di coltivare le arti della pace. Morendo nel 138 senza lasciar figli, Aitalo II destinò il regno ad un suo nipote, tìglio naturale di Eumene. Il nuovo re - che assunse il nome di Aitalo III - governò tirannicamente,
dando anche segni di squilibrio
mentale: quando venne a morte, nell anno 133, si trovò che egli aveva istituito per testamento eredi del suo regno e del suo tesoro i Romani, ri¬ chiedendo solo che a Pergamo e alle altre città del suo Stato fosse ricono¬ sciuta la libertà. Il senato si affrettò a prender possesso della ricca eredità: dovè però superare l’ostilità di un fratellastro di Attalo, Aristonico, che su¬ scitò una vera insurrezione contro la presa di possesso del Regno da parte dei Romani. Occorsero alcuni anni di guerra per domare la rivolta; il paese fu definitivamente ordinato soltanto nel 126 a.O. I possedimenti pergameni delia Tracia furono annessi alla provincia di Macedonia: del rimanente ter¬ ritorio si fece una nuova provincia romana, che ebbe il nome di Asia. Fu questa la settima provincia, dopo le due provincie insulari, le due spagnole, la Macedonia e l’Africa.
VII LA CIVILTÀ ITALICA NEL III E NEL II SECOLO A, C. § 103 -
1^
romanizzazione
delP Italia - Le guerre
coi Galli e coi
Liguri nella seconda metà del III secolo portarono alla confisca di vasti tenitori nella pianura del Po, specialmente nella Cispadana; altri se ne aggiunsero dopo la riconquista di quella regione, successa alle invasioni di Annibaie, di Asdrubale e di Magone. Seguì la fondazione di numerose colonie, quasi tutte di diritto latino e tutte con contingenti di coloni assai alti: Cremona e Piacenza vennero accresciute di 6.000 coloni ciascuna(190 a.C.); nel 189 fu dedotta la colonia latina di Bononia (3.000 coloni), nel 188 quella di Forum Livi e nel 187 l’altra di Forum Regium Lepidi, per opera del console M. Emilio Lepido, che tracciò la via Emilia. All’anno 180 spetta la fondazione della colonia latina di Lucca e al 177 quella della colonia romana di Luna (cfr. al § 100). Si fondarono pure in quegli anni due colonie di cittadini romani, Modena e Parma, e del 181 a.C. è la fon¬ dazione della colonia latina di Aquileia, che per il numero dei coloni e
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PROVINCIE
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1 estensione del suo territorio (fino a 2.500 km2) era destinata a divenire il più saldo baluardo della latinità ai piedi delle Alpi orientali. Ma se il processo di romanizzazione, benché iniziato più tardi che al¬ trove, progredì rapidamente nel corso del II secolo, in tutto il territorio della penisola a nord dell’Appennino, grazie alla vastità e al numero degli insediamenti coloniali, lo stesso non può dirsi per le regioni del centro e del mezzogiorno. Qui, dove intorno al nucleo centrale latino della Fede¬ razione italica si distendevano i territori dei popoli alleati di differenti linguaggi e civiltà - Etruschi, Umbri, Campani, Sanniti, Sabelli,
Apuli,
Lucani, Bruzi - e dove la presenza di coloni latini e romani era propor¬ zionalmente assai meno elevata, si era ancora ben lungi, alla fine del II secolo, dalla formazione di una popolazione etnicamente e moralmente compatta. E ciò per due ragioni: in primo luogo, perché il senato di Roma si era proposto bensì l’unificazione politica di tutti quei territori attra¬ verso i vincoli federali e instillando nei « socii » il sentimento del comune destino e della comunanza d’interessi fra essi e Roma, ma si era sempre disinteressato dell’unificazione nazionale dell’Italia, non ostacolando ed anzi incoraggiando l’uso delle diverse parlate dei federati e lasciando a tutti piena libertà di coltivare le proprie costumanze tradizionali eia propria re¬ ligione; secondariamente, poi, perché la politica romana, ispirata, nei più che cento anni trascorsi dalla battaglia di Canne al tribunato di Druso, al più cieco ed egoistico conservatorismo (cfr. ai §§ 80, 113, 117), agì, nell’orga¬ nizzazione del dominio di Roma sull’Italia, con consapevole durezza, innal¬ zando fra cittadini e soci sempre nuove barriere, sollevando continuamente nuove ragioni di insofferenza e di malcontento, creando insomma quello stato di cose che soltanto la guerra sociale doveva poi infrangere. E pertanto, in tutto questo periodo, l’opera di romanizzazione rimase piuttosto affidata, oltre che alla coscienza politica unitaria, penetrata ormai in tutte le genti federate, alla prassi monetaria, agli strettissimi rap¬ porti commerciali ed economici - nei quali è doveroso riconoscere che gli alleati vennero tenuti su di un piede di perfetta parità coi cittadini romani - e, ancora di più, all’opera di fusione e di affiatamento che si compiva quotidianamente nell’esercito e nella vita militare. D’altra parte, al processo di unificazione etnica non contribuirono sol¬ tanto forze centrifughe, forze cioè in azione dal centro politico (Roma e il Lazio), ma anche, e validamente, forze centripete, che agivano costan¬ temente dalla periferia verso il centro, convogliando nel Lazio e nell’Urbe elementi della cultura dei popoli alleati, che modificavano gradatamente la civiltà latina, assottigliando sempre più il divario fra essa e le altre civiltà italiche.
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TRATTATO
DI STORIA
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§ 104 - La vita spirituale e religiosa a Roma nel II secolo a. C. -
Di portata essenziale furono gli influssi esercitati sulla civiltà romana da¬ gli stretti rapporti in cui questa venne, fin dal VI e dal V secolo, con la civiltà
dell’Etruria e della Magna Grecia (cfr. ai §§ 45 e 68). Ma se i
Romani poterono assimilare non pochi prodotti della superiore
cultura
etnisca, senza rinunziare a nessuna delle caratteristiche essenziali della loro civiltà, i sempre più frequenti e più profondi rapporti col mondo greco, dalla fine del III secolo in poi, agirono invece sensibilmente sullo spirito e sul tenore di vita romano, e non sempre a vantaggio di questo. Molte furono le vie per le quali la civiltà ellenistica penetrò in Roma nel II secolo a.C.: ne furono veicolo i commercianti e i soldati, gli amba¬ sciatori e i banchieri, gli schiavi e i fuorusciti, i letterati, gli artisti, i filo¬ sofi. D'altra parte, i doni eccellenti che la civiltà greca poteva ancora largire - nel campo così delle lettere e delle arti come delle scienze e della filosofia - erano destinati, in Roma, ad una ristrettissima cerchia di cit¬ tadini eletti e nella Grecia stessa, del resto, costituivano il monopolio e il privilegio di esigue minoranze. Alle moltitudini di Romani e di Italici soldati,
marinai,
funzionari, mercanti - venuti quasi improvvisamente
in contatto con essa, la Grecia insegnava ben altro: insegnava l’indiffe¬ renza o l’incredulità in religione, lo scetticismo nella morale, la corruzione della vita privata e familiare; insegnava l’amore del denaro, come stru¬ mento del lusso, come mezzo di soddisfacimento delle passioni; nella vita pubblica e nella politica dava spettacolo di disonestà, di viltà, di ambizione. La facilità stessa con cui i Greci d’Europa e d’Asia (non i Macedoni) ave¬ vano piegato dinanzi alle armi di Roma, aveva abituato i Romani al di¬ sprezzo del nemico. Ecco ciò che atterriva Catone: l’ostinazione con cui egli voleva lontano da Roma tutto ciò che sapeva di greco, la inesorabile collera con cui per¬ seguitava i « filelleni », non era soltanto effetto di incomprensione dei tempi nuovi e di rozzezza d’animo; egli paventava piuttosto il dilagare nelle città italiche di tutte le brutture di cui ridondava la Grecia de’ suoi tempi e delle quali il filellenismo dei nobili si faceva inconsciamente vei¬ colo; paventava che si contaminassero e si guastassero irrimediabilmente, a quel velenoso contatto, le mirabili virtù civiche del cittadino romano, che avevano dato alla patria il dominio del mondo e che, sole, le avrebbero permesso di conservarlo. L’opposizione di Catone non poteva impedire ciò che era ormai fatale: la trasformazione del mondo romano sotto l’influsso di tutto ciò che di nuovo affluiva dalla Grecia e dall’Oriente. Tuttavia la sua azione e il suo esempio suscitarono nella società romana un più vigile senso di dignità
LE
PROVINCIE
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e di amor proprio nazionali; sicché fu possibile trovare, infornò alla metà del II secolo, un compromesso ragionevole e decoroso fra le opposte ten¬ denze. Al raggiungimento di un siffatto equilibrio fra cultura greca e ci¬ viltà romana contribuirono
uomini,
come Scipione Emiliano, intima¬
mente persuasi dell’importanza e dell'efficacia della sapienza e dell’arte ellenica e sensibili a tutto ciò che di fine e di bello la cultura greca offriva, ma non meno gelosi degli alti valori della virtù e della tradizione romana. Un controllo abbastanza rigoroso si riuscì ad esercitare ancora, durante il secondo secolo, sull’introduzione di nuovi dei e di nuovi riti così nella religione ufficiale come anche nel culto privato. Quando cominciarono a diffondersi nell’Italia romana credi religiosi strani e sospetti, quando si affacciarono a chiedere la cittadinanza alcuni dèi dalle facce poco rassicuranti, che non promettevano nulla in fatto di serietà e di disciplina, il veto opposto al loro ingresso fu assoluto. Ne-seppero qualche cosa coloro che, al principio del secondo secolo, si erano la¬ sciati conquistare dalle seduzioni di quei riti orgiastici del culto di Bacco, che dalle città della Magna Grecia, fatta una prima tappa in Etruria, si eran diffusi un po’ dappertutto in Italia e contavano già numerosi affiliati in Roma stessa. Messo in allarme dalle notizie, in parte certo esagerate, che correvano su queste cerimonie, il senato, in seguito ai risultati di un in¬ chiesta, ordinò che fossero sciolte tutte le associazioni costituitesi per pra¬ ticare quel culto e che tutti gli affiliati riconosciuti colpevoli contro la morale pubblica e privata venissero condannati alle pene più gravi, non esclusa la pena capitale. Fu emanato allora appunto quel famoso senatusconsulto de tìacchanalibus, il quale vietava, per l’avvenire, la costituzio¬ ne, a Roma e in Italia, di associazioni aventi per scopo il culto bacchico. D’allora in poi, fu questa la norma alla quale il senato e i Pontefici massimi si attennero rigidamente, per un secolo e più, in fatto di accoglimento di riti stranieri giudicati incompatibili col costume e con le tradizioni reli¬ giose romane. L’episodio piu notevole di queste misure di polizia, dopo quello dei Baccanali, fu l’espulsione in massa da Roma e dall’Italia degli astrologi orientali, i cosiddetti Caldei, ordinata nell anno 139 a.C. § 105 - Condizioni sociali ed economiche - I decenni di mezzo del
IT secolo a. 0. portarono a maturazione quella crisi sociale ed economica già in corso di sviluppo nella Repubblica romana da un secolo circa e il cui germe deve riconoscersi nella incapacità della oligarchia dominante, tradizionalista e gelosa delle sue prerogative e dei suoi privilegi, di adat¬ tarsi ai bisogni nuovi e alle mutate esigenze della società da essa governata e di affrontare con spirito di larga comprensione i compiti politici che lo
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
straordinario accrescimento e la conseguente trasformazione dello Stato imponevano urgentemente a coloro che si trovavano ora a dover reggere l'impero del mondo mediterraneo. Le spedizioni e le conquiste nei ricchi territori dell’Oriente, le indennità di guerra riscosse dai paesi vinti, i tributi imposti alle provincie, i commerci esercitati in condizioni di straordinario favore o addirittura di monopolio in tutte lo regioni del Mediterraneo, avevano fatto affluire a Roma e in tutta 1 Italia un ingentissima copia di ricchezze, le quali erano per la più gran parte in possesso di una ristretta classe di capitalisti, dediti appunto ai commerci, agli appalti dei lavori pubblici, delle forniture militari e dei tributi provinciali (publicnni) e reclutati quasi tutti fra i cittadini di censo equestre, cioè fra gli cquiles (cfr. al § 70). Ristretta, si è detto, quella classe di capitalisti, quasi tutti di origine plebea o di provenienza straniera; giacché lo Stato romano non incorag¬ giava i cittadini all attività industriale e mercantile, e mentre vietava ai senatori certe speculazioni finanziarie e commerciali, non si preoccupava per nulla di assicurare ai Romani il monopolio dei commerci nei territori passati sotto il loro dominio, ma anzi lasciò, anche dopo Zama, piena li¬ bertà di traffici in Sicilia a Cartagine e ad Utica, così come a Marsiglia nell alto Tirreno. C on questo non si vuole affermare che sia mancato del tutto allora, a Roma, un certo sviluppo industriale, non fosse che per sod¬ disfare le esigenze dell’accresciuta popolazione della città, favorito anche daH’inurbamento della popolazione rurale impoverita. Ne fa fede la pro¬ gressiva organizzazione, autorizzata dallo Stato, degli operai di condizione libera in collegi o corporazioni di mestiere, la prima delle quali fu quella dei fullones, regolata dalla legge Metilia del 217 a.C., cui si aggiunsero ben presto quelle dei fabri, degli aurifices, dei fictores, ecc. Ma i maggiori centri industriali e commerciali si trovavano tutti fuori d’Italia; e la stessa Poz¬ zuoli, il grande porto a cui affluivano quasi tutte le merci orientali desti¬ nate all'Italia, non poteva tenere il paragone coi porti di Efeso, di Rodi, di Alessandria, di Corinto. Rodi, specialmente, oltre a dominare una parte considerevole del commercio asiatico, svolgeva un'attività industriale assai intensa nella fabbricazione di vasi e di armi e materiale da guerra e nelle costruzioni navali: coi diritti di entrata e di uscita delle merci, fissati nella cifra del 2%, il porto assicurava alla città un’entrata di circa 200 talenti annui. La prosperità di Rodi subì tuttavia un fiero colpo, quan¬ do i Romani crearono il porto franco a Deio, assegnando l’isola ad Atene (v. al § 95). Decadde poco dopo, per gli eventi del 146, anche Corinto che era stata, insieme con Calcide, uno degli empori più fiorenti tra la fine del III e la metà del II secolo.
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Aperto, come fu, a Roma l’ordine equestre a quanti sapessero con la propria intelligenza e abilità formarsi un ragguardevole peculio,
vi en¬
trarono in buon numero i liberti arricchiti. I liberti rappresentarono, dal II secolo in poi, la piaga più grave della società romana: la imbastardirono e ne abbassarono il tono, ne corruppero il sangue e lo spirito. Col vertiginoso crescere degli schiavi, dopo l'età delle guerre puniche, andò naturalmente crescendo anche il numero dei
liberti.
È notevole
osservare che, quanto più duro fu, a Roma, il trattamento fatto agli schiavi che non, per esempio, in Grecia, tanto più largo e liberale fu invece quello adottato nei confronti dei liberti: essi infatti — a differenza che nelle città greche - venivano ammessi fin da antico nella cittadinanza. Ciò ebbe poco significato fino a quando i liberti si trovavano a Roma in esiguo numero e fino a quando i loro più o meno vistosi capitali liquidi avevano scarse possibilità di influire nella vita politica del paese, rimanendo esclusi dalle tribù, e quindi dai Comizi Tributi, coloro che non possedevano beni im¬ mobili ed essendo praticamente nullo il loro peso nei Comizi Centuriati, relegati com’erano essi nelle centurie dei capitecensi. La condizione dei liberti si avvantaggiò alquanto quando, pur essendo andata a vuoto la manovra demagogica di Appio Claudio, si consentì tuttavia, con la pro¬ posta di Fabio Rulliano (306 a.C.), che quanti non possedevano beni fon¬ diari fossero iscritti nelle quattro tribù urbane. Al tempo della prima guerra punica si avvertì, forse per la prima volta, il pericolo dei liberti. Una legge provvide allora (fra il 230 e il 220 a.C.) a relegare tutti i liberti, anche se proprietari di fondi rustici, nelle quattro tribù urbane. Ma tale restrizione non si potè mantenere in vigore dopo la seconda punica, durante la quale i liberti, e perfino gli schiavi, si erano guadagnate grandissime benemerenze verso la patria in pericolo. Nel 189 a.C., un plebiscito di Q. Terenzio Culleone stabiliva che i figli dei li¬ berti dovessero considerarsi equiparati in tutto agli altri cittadini; dieci anni più tardi, i censori M. Fulvio Nobiliore e M. Umilio Lepido estesero ai liberti che si trovassero in determinate condizioni, il beneficio della iscrizione nelle tribù rustiche nelle quali avessero possessi. Tutti gli altri liberti rimasero iscritti, sino alla fine della repubblica, nelle tribù urbane. A loro volta, i cittadini delle famiglie nobili, di ordine senatorio, alieni per tradizione e impediti per legge dallo speculare sul denaro, si erano rivolti ad ingrandire i loro possessi terrieri, sia comperando, occupando, prendendo in affitto estensioni vastissime di ager p'ublicus (cioè di terreno demaniale, confiscato dallo Stato in Italia ai nemici vinti o agli alleati fedifraghi), sia acquistando dagli agricoltori impoveriti dalle guerre o al¬ lettati dal miraggio dei facili guadagni e dalla vita comoda delle città, le
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TRATTATO DI
STORIA
ROMANA
loro piccole proprietà; e dando luogo così al formarsi di vastissime tenute (latifundia), coltivate da turbe di schiavi, che i mercanti facevano affluire in numero imponente nei porti italici da ogni zona del Mediterraneo. Tali fenomeni ebbero per conseguenza; il possesso e l’uso immoderato della ricchezza; la speculazione finanziaria, anche la più disonesta, consi¬ derata come forma normale di attività dai capitalisti, donde sfruttamento feroce, malversaziono ed arbitri nel governo delle provincie; il preoccupan¬ te diradamento della piccola proprietà e l’affollamento delle città, soprat¬ tutto di Roma, da parte di una turba crescente di proletari, per lo più disoccupati, sempre in cerca di elargizioni e di donativi da chi si volesse servire di loro, e la conseguente crisi militare, rimanendo esclusi dal ser¬ vizio armato gli inscritti alle centurie dei nullatenenti (capite censi). § 106 - Le
lettere e le arti a Roma,
nel
III e nel II secolo a. C. -
Si suol dire che lo spirito romano fu privo di quelle doti, come una vi¬ vace fantasia, un alacre forza d immaginazione e un ingegno speculativo, che possono dar vita a peculiari e significative manifestazioni nel campo della letteratura, della filosofìa e dell’arte: come avvenne appunto in Grecia. Si osserva invece che le qualità proprie dei Romani - robusta intelligenza, senso innato del diritto, ossequio della disciplina nei rapporti pubblici e privati, concezione pratica della vita — più che alla creazione di una let¬ teratura nazionale, erano adatte a dar vita ed ordine ad un solido orga¬ nismo politico. In realtà nessuna delle stirpi che svolsero nella nostra Pe¬ nisola la loro esistenza, indoeuropee o no, furono capaci di manifestazioni letterarie vere e proprie: non ne ebbero i Latini, come non ne ebbero gli Umbri e gli Oschi e neppure gli Etruschi, per non dire dei Veneti o degli làpigi o dei Galli. E se si considera che questa stessa insufficienza alla crea¬ zione letteraria si riscontra presso a poco in quasi tutte le altre popola¬ zioni indoeuropee dell Europa, vien fatto di pensare che il miracolo greco, che plasmò per tutte le generazioni avvenire gli schemi fondamentali ed imperituri all’attività dello spirito nel campo della filosofia e della lette¬ ratura, abbia le sue radici nel fecondo amalgama delle stirpi indoeuropee immigrate nella Penisola Balcanica con le genti prearie di razza mediter¬ ranea ivi stanziate. I modesti documenti che risalgono ai primi secoli dell’uso della scrittura m Roma, sono la più evidente dimostrazione di quanto sopra si è accen¬ nato: e che si tratti di testi di diritto, come le Leggi delle XII Tavole, o di registrazioni di ordine pratico e amministrativo, come i Fasti e i Commentarii redatti dai Pontefici, o di un’eloquenza senza fronzoli come quella alla quale furono intonati il discorso pronunziato nel 280 da Appio Claudio
IJC PROVINCIK
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ROMANE
contro la pace con Pirro (discorso che Cicerone potè ancora leggere) o le laudationes funebres, che venivano poi custodite negli archivi di famiglia. Il primitivo metro italico, il cosiddetto verso « saturnio », servì a com¬ porre i più antichi canti sacri di cui abbiamo memoria e che sono arrivati in parte tino a noi: il carmen Saliare, cantato nella processione dei Salii attraverso la città, e il carmen fratrum Arvalium, recitato dagli Arvali per implorare dagli dèi un pingue raccolto. Ma in versi si cominciarono a comporre anche epigrammi burleschi, che si recitavano nelle feste cam¬ pestri o nelle cerimonie nuziali o nei trionfi dei capitani, satireggiando, talvolta con allusioni salaci
e mordaci, l’uno o l’altro dei partecipanti
alla festa e lo sposo o il trionfatore. Fu nel corso del III secolo, con la conquista dell’Italia meridionale e della Sicilia, che la cultura greca esercitò il suo influsso più
efficace e
diede un docisivo impulso all’attività letteraria dei Romani; sia che essa penetrasse in Roma indirettamente, coi contatti d’ogni genere stabilitisi allora fra il Lazio e la Magna Grecia, sia che vi fosse portata e vi rima¬ nesse impersonata dal gran numeri di Greci che come schiavi ed ostaggi, o anche temporaneamente come ambasciatori, confluirono allora a Roma. Fu un greco condotto a Roma schiavo da Taranto, nel 272 a.C., Livio Andronico, che tradusse l'Odissea in versi saturni, componendo inoltre tragedie e commedie ispirate a modelli greci; e furono italici ellenizzati, come il campano Cneo Nevio e lo iapigio Quinto Ennio (239-169), che dettero ai Romani i primi modelli della poesia epica, rispettivamente con il Bellum Poenicum e con gli Annales, nei quali fu usato per la prima volta in lingua latina l’esametro dattilico; e fu un umbro, il copimediografo Plauto (284-154), quegli che seppe vivificare con un genuino spirito indigeno le sue imitazioni o traduzioni di commedie greche, restando, sotto questo punto di vista, indubbiamente superiore al suo successore ed imi¬ tatore, P. Terenzio Afro (190-159), venuto come schiavo da Cartagine a Roma ed autore di commedie, derivate per lo più da Menandro e scritte con uno stile assai più raffinato di quello di Plauto, ma prive del fresco vigore di quest’ultimo. Nell’età delle guerre puniche si ebbero i primi prodotti della prosa let¬ teraria romana, nel campo della storia, con l’attività di quei numerosi annalisti (i primi dei quali scrissero in greco), che seppero in qualche modo dare alla storiografìa romana un’impronta nazionale, che troverà più tardi in Tito Livio il suo interprete più verace. Non va però taciuto il lodevole sforzo compiuto da Catone di sottrarsi all’influenza della cultura greca, anche se questa si manifesti insistentemente non meno nel suo trattato sull’agricoltura che nella sua opera storica sull’Italia antica (Origines).
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TRATTATO
DI STORIA
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E nel corso del II secolo i Romani cominciarono ad assuefarsi anche alla speculazione filosofica dei Greci, anche se limitatamente, per ora, al campo della morale e della religione. Già, come s’è detto, s’eran divulgate in Roma le teorie orfiche e pitagoriche, così diffuse nella Magna Grecia; ma assai più popolari vi divennero, verso la metà del secolo, le dottrine degli stoici, degli ' epicurei e degli scettici,
che discutevano e analizza¬
vano problemi allora attuali, come il rapporto tra l’individuo e lo Stato e quello tra forza e diritto nelle competizioni internazionali. La presenza dei filosofi greci a Roma riuscì poco gradita al senato, che cercò sempre di abbreviare o di troncare il loro soggiorno nell’Urbe; ma intanto otte¬ neva gran successo, nel 159, l’insegnamento dello stoico Cratete di Mallo, e, nel 155, quello di Cameade, più scettico che accademico, il quale in¬ segnava non esistere una giustizia assoluta e che la supremazia di Roma si fondava sull’inesistenza del diritto assoluto e della giustizia assoluta, cioè sul diritto del più forte (che è un diritto relativo). Pochi anni dopo, la società colta romana si raccoglieva intorno allo stoico Panezio e al suo allievo Posidonio, filosofo e storico, continuatore di Polibio, per sentire sviscerare e definire dalla loro bocca le ragioni e i caratteri dell’impe¬ rialismo romano. Negli ultimi due secoli della Repubblica l’influsso greco sottentrò, nel¬ l’arte, a quello etrusco; ma questo non perì mai del tutto e fu anzi uno dei fattori che cooperarono a creare uno stile di Roma imperiale, indi¬ pendentemente dall’arte greca importata. La conquista della Grecia e dell’Oriente ellenizzato porse ai Romani sempre nuove occasioni di conoscere i prodotti artistici greci, di ammi¬ rarli e di raccoglierli. I generali romani conducevano a Roma dall’Ellade artisti ed artigiani per abbellire le feste e i giuochi che essi davano al popolo, a scioglimento di qualche voto o per celebrare i loro trionfi; e dei trionfi costituivano 1 attrattiva principale le statue prese nelle città greche conquistate e distrutte, come i multa nobiltà signa che Marcello portò da Siracusa e Flaminino dalla Macedonia, o le 275 statue di bron¬ zo e le 230 di marmo che figurarono nel trionfo di Fulvio Nobiliore sugli Etoli, e i 250 carri pieni di statue e di quadri, che si videro nel trionfo di Paolo Emilio, dopo la vittoria su Perseo. Ma erano ormai vicini gli anni in cui l’arte romana, dopo essersi matu¬ rata e affinata studiando e ripetendo modelli forestieri, comincerà a creare con vigore e originalità insospettati nei campi dell’architettura, del ri¬ tratto e del rilievo a stile continuo, nei quali stamperà un’impronta in¬ confondibile e insuperata.
BIBLIOGRAFI A
E
299
PROBLEMI
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI XXXIX
(cfr.
i
§§
72-90) - La
prima
guerra
punica
trovò
un narratore
con¬
temporaneo nel greco Filino di Agrigento, favorevole ai Cartaginesi; circa una gene¬ razione più tardi, la narrò il piti antico annalista romano, Fabio Pittore. Sono per¬ dute, com'è noto, le opere di questi due storici, ma la loro esposizione fu usufruita da Polibio di Megalopoli (circa 201-120 a.C.), figlio
dello
stratego
acheo
Licorta
e autore di Storie, in 40 libri, nelle quali erano narrati diffusamente gli avvenimenti del mondo ellenistico-romano, a cominciare dall’anno 220 a.C. I primi due libri del¬ l'opera grandiosa contenevano però, a guisa di introduzione, un racconto compendioso dei fatti svoltisi dal 266 al 221, e cioè, precisamente, il periodo della prima guerra punica e l’intervallo fra questa e la seconda guerra; con la quale, al principio del III libro (Olimp. 140,1 = 220/19 a.C.), cominciava la vera e propria narrazione or¬ dinata e particolareggiata, che si chiudeva con l’anno olimpico 158,4 (= 145/4 a.C.). Nel compendio dei primi due libri, Polibio adoperò dunque, come fonti, quasi esclu¬ sivamente Filino e Fabio, seguendo ora l’uno ora l’altro nelle diverse parti della nar¬ razione, ma spesso anche integrando o correggendo l’uno o l’altro e, di regola, se¬ guendo quello dei due che aveva interesse o proposito di dare degli avvenimenti Un quadro più ampio e sereno, e cioè Fabio pei fatti più gloriosi per i Romani, Filino per i fatti più gloriosi per i Cartaginesi (De Sanctis). Anche la seconda guerra punica e gli avvenimenti successivi erano stati esposti da storici greci contemporanei in opere speciali, che sono andate perdute, salvo fram¬ menti più o meno abbondanti. Fra questi, i narratori più autorevoli e più citati della seconda guerra punica furono Sileno di Calacte, che accompagnò Annibaie in Italia,
e Sosilo di Sparta: ambedue scrissero con manifesta tendenza fìlopunica e, il primo specialmente, con notevole competenza di cose militari. È ben certo che Polibio si è servito largamente di questi autori nei suoi libri sulla seconda punica; ma non par dubbio che, anche in questo caso, egli ha elaborato con diligenza le sue fonti, usu¬ fruendo di elementi e di dati di origine diversa: sia di quanto poteva trovare in qual¬ che fonte romana, come Fabio, sia valendosi della tradizione o attingendo alle testi¬ monianze dirette che potè raccogliere presso le grandi famiglie romane, che lo avevano ammesso nella loro amicizia. L’opera di Polibio disgraziatamente s’interrompe per noi col quinto libro (all’anno 216 a.C.); del rimanente non possediamo che estratti di
varia
provenienza.
Perciò
siamo costretti, a cominciare dal quarto anno della guerra, a ricorrere a fonti più tarde, per trovarne ima esposizione ordinata e continuata. Di Tito Livio, mentre sono perduti i libri che trattavano gli anni della prima guerra punica e i due decenni successivi, ci restano i libri della terza deca (21-30), nei quali è svolto il racconto degli avvenimenti della seconda guerra con Cartagine. Per gran parte della sua esposizione, Livio risale a Polibio (o direttamente o attraverso l’annalistica) e a Celio Antipatro, che aveva scritto mia storia della seconda guerra punica elaborando con molta libertà fonti greche e romane. Livio si è valso anche largamente deH’anrialistica deteriore, come, per esempio, di Valerio Anziate; se ne c valso specialmente per le parti dedicate agli avvenimenti d’Italia, di Spagna e d’Africa; le quali, in complesso, valgono assai meno e sono assai meno attendibili di quelle concernenti i fatti di Sicilia e d’Oriente, dove la tradizione polibiana si rispec¬ chia più pura. Ne consegue, come avremo occasione di ripetere più oltre, che la fonte liviana resulta migliore per il periodo
delle guerre d’Oriente successe alla seconda
punica (libri 31 e sgg.), che non per la seconda punica stessa. Dell’opera di Diodoro, perduta per questa parte, restano tuttavia frammenti assai abbondanti dei libri XXIII e XXIV, che trattavano la prima punica: in essi, la fonte
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
usata è prevalentemente Filino. I frammenti dei libri XXV e seguenti, assai più scarsi e riguardanti il periodo della seconda guerra, rivelano la loro derivazione da una fonte annalistica, che è comune probabilmente con Appiano, di cui ci giungono i libri relativi allo guerre annibalica, iberica e libica. In questa fonte comune si vuol riconoscere Celio Antipatro, o meglio un autore che ha usato Celio Antipatro. Qualche valore hanno le Vitae di Cornelio Nepote (Amilcare e Annibaie) e lo biografie di Fabio Massimo e di Marcello di Plutarco, il quale poco si è valso di Polibio ed ha usato prevalentemente Livio e Celio Antipatro. Dell’opera di Cassio Dione non restano, per questo periodo, che frammenti assai abbondanti e gli estratti di Zonaka. Questo storico ha usufruito generalmente, per il periodo delle guerre puniche, la tradizione annalistica preliviana e liviana; non si può peraltro escludere l’uso saltuario di Polibio e, per la prima punica, anche di fonti più antiche, come Filino e Fabio. Alcuni dei pili antichi testi epigrafici latini hanno valore di fonti storiche per que¬ sto periodo: tali sono l’iscrizione incisa sulla Colonna rostrata di Duilio (C. I. L., P, 25 = Ernout, Recueil, 147), il cui testo è però quello scolpito nuovamente nell’età di Augusto, e gli elogi degli Scipioni, i più antichi dei quali sono quelli dei consoli rispettivamente del 298 e del 259 (C. I. L., I2, 6 sgg. — Ernout, Recueil, 13-18). Da un archetipo epigrafico dipendono indubbiamente anche i testi dei trattati di pace stipulati dopo la prima e la seconda guerra punica, conservati in Polibio, III 27 e XV 18. Per lo studio delle fonti per l’età delle guerre puniche in genere (264—201 a.C.), rimandiamo ai seguenti lavori: G. De Sanctis, Storia dei Romani, voi. Ili, appendici ai capp. II, III, VI, VII, IX; E. Pais, Storia di Roma durante l’età delle guerre pu¬ niche, Torino 1935, I, p. 295 sgg.; E. Pais e F. Stella Maranca, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, Roma 1915-1921, voi. IV. Particolarmente, per la prima guerra: O. Gortzitza, Kritische Sichtung der Quellen zum erstem punischen Kriege, Prog. Strasburgo 1888; C. Davin, Beitróge zur Kritik der Quellen des ersten pun. Krieges, Prog. Schwerin 1889; M. Schkrmann, Der erste puniscile Krieg im Lichte der livianischen Tradition, Diss. Tubingen 1905. Per la seconda guerra: L. Keller, Zu den Quellen des Hannibaliechen Krieges, in « « Rhein. Mus. », XXIX (1874), 88-96; id., Der zweite pun. Krieg undseine Quellen, Marburg 1875; C. Cichorius, Rómische Studien. Die Fragmente histor. Inhalts aus Naevius’ Bellum Punicum, Berlino— Lipsia 1922, pp. 24—51; ancora su Nevio, A. Klotz, Zu Naevius’ Bellum Punicum, in « Rhein. Mus. », LXXXVII (1938), p. 190 sgg.; H. Dessau, Ueber die Quellen unseres Wissens vom zweiten pun. Kriege, in «Hermes», LI (1916), pp. 355-385. È infine da tener presente che una bibliografia molto particolareggiata sulle fonti si trova rac¬ colta nell’Appendice bibliografica del voi. Vili della Cambridge Anc. History. Per Polibio, si possono usare la edizione di F. Hultsch, Berlino, Weidmann, 1867-72 (2a ed. dei due primi volumi del 1888 e 1892), e quella di Th. Buttner— Wobst, Lipsia, Teubner, 1882-1904 (2a ed. dei due primi volumi del 1922 e 1924). Sulle fonti, la composizione, l’ordinamento cronologico e sul carattere delle Storie di Polibio si veda: F. Susemihl, Geschichte der griechischen Bitteratur in der Alexandrinerzeit, Lipsia 1891-92, II, p. 80 sgg. (con larghissima bibliografia); H. Nissen, Die Òkonomie der Geschichte des Polybius, in « Rhein. Mus. », XXXVI (1871), p. 241282; H. Steigemann, De Polybii olympiadum ratione et oecoìiomia, Breslau, 1885; O. Cuntz, Polybius und sein Werk, Lipsia 1902, voi. I; C. Wunderer, Die psycologischen Anschauungen der Historikers Polybius, Erlangen 1905; R. Laqueur, Polybius, Lipsia 1913; G. De Sanctis, Storia dei Rom., voi. ILI, p. I, Torino 1916, p. 200 sgg.; E. Tàubler, Tyche: historische Studien, Leipzig-Berlin, Teubner 1926, p. 75 sgg.; C. Wunderer, Polybios. Leberis und Weltanshauung aus dem zweiten vorchristlichen Jahrhundert Lipsia 1927; W. Siegfried, Studien zur geschichtlichen Anschauung des Polybios. Inaugurai Diss., Lipsia 1928; T. R. Glover, Polybius (forma il cap. I del
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voi. Vili di The Cambridge Ancient Hist., Cambridge 1930), con abbondante biblio¬ grafia; G. De Sanctis, Polibio,in Enciclop. hai., voi. XXVII (1935), p. 625-530; K. Glazer, Polybios ala politischer Denker, Vienna 1940; G. C. Richards, Polybius oj Megalopolis thè greek admirer of Rome, in « Class. Joum. », XL (1944-45), pp. 274291; L. Zancan, La tóx*) in Polibio, in «Atti Acc. di Palermo», 1943, p. 643 sgg.; F. W. Walbank, Polybius, Philinus und thè first Punic war, in « Class. Quart. », XXXIX (1945), p. 1 sgg.; R. Laqueitr, in R. E., XIX, II, col. 2180 sgg. (voce « Philinos »); E. Mioni, Polibio, Padova 1949. Sulla terza deca di Tito Livio, si veda specialmente: F. Luterbacher, De jontìbus libri XXI et XXII T. Livi, Strassburg 1875; H. Hesselbarth, Historisch-kritische Unter8uchungen zur dritten Dekade des Livius, Halle 1889; W. Soltau, Livius Quellen in der dritten Dekade, Berlino 1894; N. Felici ani, Le fonti per la seconda guerra punica nella Spagna, in « Boletin de la Reai Academia de la Historia », Madrid, Est. Tip. de Fortanet, cuademo I, pp. 5-32; De Sanctis, Storia dei Romani, III, 2, Torino 1917, p. 176 sgg., 335 sgg., 638 sgg.; W. Hoffmann, Livius un der zweite pun. Krieg, « Her¬ mes », Einzelschr. 8, Berlino 1942; P. Zancan, Tito Livio; saggio storico, Milano 1940. Sull’uso di Celio Antipatro in Livio si veda la voce Coelius in R. E., Vili, p. 183-198. Intorno a Diodoro e alla sua derivazione da Filino di Agrigento si veda: G. De Sanctis, Op. cit.. Ili, I, p. 231 sgg. contro questa tesi ha scritto P. Varese, La fonte annalistica di Diodoro per Vetà della prima guerra punica, in « Studi storici per l’antichità class, di E. Pais », Pisa, III (1910), pp. 219-240 (cfr. anche Roma e Car¬ tagine, parte prima di: «Ricerche di storia militare dell’antichità», Palermo 1914, p. 15 sgg.), sostenendo l’uso, in Diodoro, oltre che di Filino, di un tardo annalista, che sarebbe stato anche la fonte di Cassio Dione. Per le fonti di Appiano e la bi¬ bliografia relativa, si veda l’articolo dello Schwartz, in Reai Encycl., II, coll. 216237, oltre al lavoro di A. Klotz, Appiana Darstellung dea zweiten pun. Krieges, Paderborn 1936; cfr. anche « Rhein. Mus. », LXXXV (1936), p. 38 e 97. Su Plutarco: M. Muhl, Poseidonios und der plutarkische Marcellus, Berlino 1925. Sulla colonna rostrata si veda Tenney Frank, The columna rostrata of C. Duillius, in «Class. Philol. » 1919, p. 74 sgg.; M. Niedermann, L'inscription de la colomne rostrale de Duilius, in « Rev. d’études lat. », XIV (1936), p. 276 sgg.; sul ritrovamen¬ to della base, vedi * N. S. » 1930, p. 346. Sugli elogia degli Scipioni, E. W. Fay, in « Class. Quart. », XIV (1920), p. 163 sgg. Trattazioni complessive dell’età delle guerre puniche si trovano naturalmente in tutte le Storie di Roma di contenuto generale già citate. Nella Storia dei Romani di G. De Sanctis è ad essa dedicato il voi. Ili (in due parti: 1916-17); nella Cambridge Anc. History, la prima punica è trattata nel voi. VII (cap. XXI, Tenney Frank) e la seconda neU’VIII (capp. II, III, IV, B. L. Hallward; V, VI, M. Holleaux). Ancora sono da tener presenti: K. Neumann, Dos Zeitalter der pun. Kriege, Breslavia 1883; K. Leumann, Die Angriffe der drei Barkiden auf Italien, Lipsia 1905; P. Huvelin, Une guerre d'usure, la deuxième guerre punique, Parigi 1917; E. Pais, Le guerre puniche, Milano 1934; G. Giannelli, L'età delle guerre puniche (voi. Ili della Storia di Roma, pubblicata dall’Istituto di Studi Romani, Bologna 1938); J. Vogt, Rom und Karthago, Lipsia 1943 (con tendenza a mettere in vista l’importanza della diversità di razza tra le due Potenze rivali nel campo della politica, della diplomazia, della strategia, della religione, dell’arte); S. Mazzarino, Introduzione alle Guerre Pu¬ niche, Catania 1947. Si consulterà anche J. H. Thiel, Studies on thè History of Roman Sea-power, Amsterdam 1946. La funzione economica e politica di Cartagine nel Me¬ diterraneo è studiata nel volume di J. Holland Rose, The Mediterranean in thè ancient World, Cambridge 1933. Rientrano fra le opere di consultazione per questo periodo gli scritti di storia car¬ taginese; si vedano: F. Movers, Die Phoenizier-, I, Berlino 1841-56; O. Meltzer, Geschichte der Karthcuger, I-II, Berlino 1879-96, voi. Ili di U. Kahrstedt, Berlino
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1913; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord, tomi I IV, Parigi 1913-20 (con larga bibliografia); V. Ehrenbero, Karthago, Lipsia 1927. Ancora utile riuscirà la Storia della Sicilia nell’antichità, di A. Holm, nella traduzione italiana, voi. Ili, 2, Torino 1908. Si veda anche, nel voi. XXX dei « Mon. Ant. Lincei »: G. Pinza, Ricerche sulla topografia di Cartagine punica-, B. Pace e R. Lantier, Carta archeolo¬ gica di Cartagine. Inoltre: P. Meloni, La cronologia delle campagne di Malco (in Sar¬ degna), in «Studi Sardi», VII (1947). Particolare importanza rivestono, per lo studio di questo periodo della storia ro¬ mana, le opere relative alle istituzioni militari e all’arte della guerra presso i Romani, citate al § IX; alle quali è opportuno aggiungere il compendio dello stesso J. Kromayer, Rom'a Katnpf um die Weltherrschaft, Lipsia 1912. Conviene ancora aver presenti alcune questioni relative alla cronologia delle due guerre. La prima questione verte sul modo di procedere, allora, del calendario romano e sulla data dell ingresso in carica dei consoli. Data la sicura integrità dei Pasti con¬ solari del III secolo, possiamo ritenero per certo che i due consoli sotto i quali si ini¬ ziò la guerra, Appio Claudio e Fulvio, entrarono in carica nel 264 a.C. L’entrata in funzione dei consoli, che fu fissata al 1° gennaio nell’anno 153 a.C., cadeva prima (pro¬ babilmente fino dal 222) al 15 marzo; prima ancora non sappiamo precisamente quan¬ do i consoli assumessero l’ufficio, ma è assai verosimile (come sembra indichino i Fasti trionfali) che ciò avvenisse il 1° maggio. Ora, in tempo assai recente, è stata soste¬ nuta una teoria, secondo la quale — in seguito ad una riforma del calendario romano, operata nel 304 a.C. dall edile Cn. Flavio — i mesi del calendario stesso si sarebbero venuti via via distanziando dai mesi del calendario giuliano, restando arretrati, al tempo della prima punica, di circa 50 o 60 giorni rispetto al tempo corrispondente dell’aimo giuliano. Questa teoria fu avanzata da P. Varese, nel suo scritto: Il ca¬ lendario romano nell'età della prima guerra punica, in * Studi di Storia antica », del Becoch, III (Roma 1902), e nel volume Cronologia romana; I, Il calendario flaviano, Roma 1908); teoria accolta dal Beloch, in Griech. Geschichte, III, Strasburgo 1904, p. 208 sgg., 231 sgg., e nella 2a ed. della stessa opera, voi. IV, 2, p. 256 sgg. Se¬ condo, dunque, il Varese, i Romani si sarebbero valsi, sino alla fine.del IV secolo, di un calendario lunare, del tipo di quelli greci: Cn. Flavio avrebbe sostituito ad esso un calendario fisso, solare, basato su un ciclo di quattro anni, 2 comuni di 12 mesi e 355 giorni, 2 intercalari di 13 mesi e rispettivamente 377 e 378 giorni: in complesso 1465 giorni. Questo ciclo dava degli anni più lunghi di 1 giorno dell’anno giuliano (infatti 365 1/4 x 4 = 1460 + 1 bisest. = 1461); e poiché per molto tempo non si provvide a rimettere al passo il calendario flaviano col tempo solare, così, verso la metà del III secolo, i tempi di esso si trovarono di circa 50 giorni in ritardo sull’anno giuliano. Sicché, quando i consoli entravano in carica, cioè il 1° maggio, la stagione reale era già l’estate (fine di giugno), e gran parte delle operazioni e campagne di guer¬ ra compiute dai singoli consoli «nella buona stagione» non andrebbero collocate nell anno giuliano della loro entrata in carica, ma nel maggio o nel giugno, giuliano dell anno successivo (corrispondenti al marzo e all’aprile del calendario flaviano). In conseguenza di ciò, la guerra sarebbe cominciata nella primavera del 263, la battaglia delle Egadi si sarebbe combattuta nel maggio (giuliano) del 241, la prima guer¬ ra illirica si sarebbe svolta non nel 229, ma nel 228 a.C. Qualche anno dopo (proba¬ bilmente nel 222) il calendario dovè essere rimesso in ordine col tempo normale perche così si trovava durante la guerra annibalica: in occasione di questo conguaglio dovè avvenire anche la retrocessione della data d’ingresso in carica dei consoli, dal 1° maggio al 15 marzo. Questa teoria non ha riscosso, in generale, il favore della critica moderna (come si e detto al § 12) ed e stata controbattuta specialmente da G. De Sanctis, St. dei Romani, III 1, p. 248 sgg. Nel testo è seguita pertanto la cronologia tradizionale della prima guerra punica; la quale, dunque, dovrà ritenersi iniziata nella buona
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stagione del 264 a.C. e finita sotto il consolato di Lutazio Oatulo (242-1), il quale arrivò nella Sicilia nella buona stagione del 242 e combattè allo isole Egadi nel marzo del 241; le date romane sembrano corrispondere approssimativamente al tempo cal¬ colato secondo il calendario giuliano. Anche sulla cronologia della seconda guerra punica esiste, oltre a varie questioni particolari relative alla data dei singoli avvenimenti, una questione generale concer¬ nente la più o meno esatta corrispondenza del calendario romano col tempo giuliano, alla fine del III secolo. La tesi che ha riscosso più numerosi consensi, in questi ultimi anni, è quella che il calendario romano fosse, non già in ritardo, ma in anticipo sulle date giuliane; recentemente G. Staude (Untersuchungen zum II pun. Kriege, p. 5 sgg.) ha sostenuto che il 2 agosto 216 (giorno della battaglia di Canne) corrisponde ad un giorno del giugno o del luglio giuliano. La dimostrazione dello Staude è stata poi seguita e ripresa dal Cornelius (Canneté, p. 2 sgg.), secondo il quale la battaglia di Canne si sarebbe combattuta intorno alla metà del giugno: il calendario romano sarebbe stato dunque, alla fine del III secolo, in anticipo di circa un mese e mezzo sul tempo giuliano. Di fatto, è troppo difficile ammettere una data così precoce per la battaglia di Canne, e, del pari, dimostrare che quella del Trasimeno, datata da Ovidio al 21 di giugno (Fasti, VI 765-8), spetti invece ai primi di maggio; l’analisi dello svolgimento di que¬ ste campagne di guerra ci obbliga a ritenere che il calendario romano di questo tem¬ po procedesse non molto diversamente da quello giuliano (se ne veda la dimostrazione in De Sanctis, Storia dei Romani, III 2, pp. 119 sgg., 135 sgg.; Beloch, Der róm. Kalender 218—168, in « Klio », XV (1918), pp. 382 sgg.).
XL (cfr. il § 72) - Sul valore delle indicazioni cronologiche (che forse risalgono a Timeo) relative alla fondazione di Cartagine e delle altre colonie fenicie in Occiden¬ te, vedi Beloch, Oriech. Gesch., I* 2, p. 250; ivi è espressa l’opinione che nessuna colonia fenicia ad occidente di Cartagine fosse più antica di Cartagine stessa, nono¬ stante la notizia dello Ps. Aristotele, De mirabil. auscultai., 134 (raccolta da Plinio, Nat. hist., XVI 216), che assegna alla fondazione di Utica una data più antica di 287 anni di quella indicata per Cartagine, cioè 1 ’anno 1101 a.C. Sui dati statistici relativi al territorio e alla popolazione dello Stato cartaginese, vedi Beloch, Oriech. Gesch., IV*, 1, p. 328 sgg. Un’ abbondante bibliografia sulla topo¬ grafia, i reperti archeologici e le istituzioni cartaginesi e sui rapporti di Cartagine con le città etnische e gli Stati ellenistici si trova in Piganiol, Histoire de. Rome, p. 107. Sull’espansione cartaginese sulla costa occidentale della Penisola Iberica si vedano ora le conclusioni di S. Mazzarino, Introduzione alle Guerre Puniche, Catania 1947, p. 6 sgg.: punto d’arrivo di questa espansione, in concorrenza con quella dei Massalioti da nord verso sud, fu la battaglia navale dell Artemision, combattuta intorno al 490 a.C. e nella quale a capo dei Massalioti era quell’Herakleides di Mylasa che nel 497 aveva condotto i ribelli ionico-carii all’agguato di Pedason (cfr. Erodoto, V, 121); a questa battaglia si riferisce evidentemente il noto frammento papiraceo di So¬ silo pubblicato nel 1906 dal Wilcken («Hermes*, XLI (1906), p. 103 sgg.). Da allora cessarono i conflitti tra Massalioti e Cartaginesi; questi, riconosciuto come lùnite della loro espansione in Spagna, verso nord, il promontorio dell’Artemisio (o Dianium), poterono impegnarsi con maggior decisione a contendere la Si¬ cilia ai Siracusani. La felice intuizione del Mazzarino a proposito della battaglia deH’Artemisio è accolta da P. Bosch-Gimpera (Una guerra ira Cartagiixesi e Greci in Spagna: la ignorata battaglia di Artemision, in « R. Fil. Class. », XXVIII (1950), p. 313 sgg.), che ne riesamina gli argomenti, confermandone tutto il valore. XLI (cfr. il § 73) - Ad un terzo trattato fra Roma e Cartagine allude esplici¬ tamente Tito Livio (IX 43) con le parole et eum Carthaginiensibus tertio foedus re-
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novalum est, riferendolo all’anno 306 a.C. Di questa terza stipulazione non fa parola Polibio; ma in un passo del cap. 26 del III libro egli biasima la sua fonte, Filino, per aver questi asserito - falsamente, secondo Polibio — che esistevano convenzioni fra i Romani e i Cartaginesi, in base alle quali « i Romani dovevano astenersi da tutta la Sicilia e i Cartaginesi dall’Italia »; convenzioni che i Romani avrebbero dunque violato, sbarcando truppe a Messina nel 264 a.C. Le convenzioni cui alludeva Filino, sono evidentemente quelle del 306; né c’è ragione di dubitare della loro storicità, che è confermata, del resto, anche da Livio, XXI 10, 8. Di questo trattato Polibio tacque; o volendo così far cosa grata ai Romani o, più probabilmente, perché si cercava, a Roma, di tener celata questa convenzione, come quella che poteva fare apparire più grave di quanto non fosse la provocazione romana del 264. Su tale questione vedi specialmente: G. Giannelli, Roma nell'età delle Guerre puniche, p. 47; 1D., I precedenti diplomatici della prima guerra punica, in « Popoli », I (1941), p. 257 sgg.; S. Mazzarino, Op. cit., p. 56 sgg.; L. Pareti, St. di Roma, II, p. 89 sg. Sull’interpretazione delle clausole del quarto trattato si veda: E. Tàubler, Imperium Romanwn, Lipsia Berlino 1913, I, p. 264 sgg.; Pais, Storia di Roma,3, IV, p. 375 sgg.; Gsell, Hist. anc. de l'Ajrique du Nord, Parigi 1913-20, III, p. 72 sgg.; G. Giannelli, La Repubblica romana, p. 266, nota 17; id., Roma nell'età delle Guerre puniche, p. 48; Passerini, Roma alla conquista dell'Italia, pp. 233 e 251; S. Maz¬ zarino, Op. cit., p. 67 sgg. Sui problemi politici e le condizioni del Mediterraneo alla vigilia del conflitto ro¬ mano-punico si veda ancora: A. Heuss, Der erste punische Krieg und das Problem des ròm. Imperialismus, in « Histor. Zeitschr. », B. 169 (1949), pp. 457-513; R. Andreotti, Monarchie orientali e libertà greche. Profilo storico del mondo mediterra¬ neo prima della conquista romana, Torino 1949.
XLH (cfr. f §§ 74 e 75) - La prima guerra punica è trattata anche nella Griechiache Geschichte del Beloch, 2a ed., voi. IV, Berlino 1925-27, pp. 641 sgg. Per la storia di Siracusa in questo periodo è di utile consultazione l’art. Hieron II di Th. Lenschau, in RE. Ili, coll. 1503-1511; anche nel volume di A. Schenk von Stauffenberg, Kònig Hieron der zweite von Syrakus, Stuttgart 1933, la figura del re siracusano e i diversi aspetti della sua attività sono lumeggiati con mano sicura e con interpretazione talvolta originale. Sarà da tener presente anche l’articolo del Maurice, Les possessions carthagin. en Sicile au commencement de la prem. guerre punique, in « Rev. des Quest, hist. » del 1899. Vedi anche: O. Acanfora, Panormo punica, in « Mem. Acc. Lincei», class, se. mor., ser. Vili, I (1947), p. 197 sgg. Sulla guerra in generale si veda: M. Schermann, Der erste punische Krieg, Tubingen 1905; W. W. Tarn, The fleets of thè fìrst Punic war, in « Joum. Hell. Stud. », XXVII (1907), p. 48 sgg.; E. Scala, Le forze navali di Roma, in « Riv. di cult. mar. », XVII (1942), p. 347 sgg. Sull’inizio del conflitto, P. Meyer, Der Ausbruch des ersten pun. Krieges, Berlino 1908. Per la cronologia degli avvenimenti di Sicilia anteriori al 264, si veda De Sanctis, III 1, p. 95, n. 11; la proclamazione di leeone a stratego dei Siracusani è dal Beloch (Griech. Gesch., IV*, 1, p. 644; 2, § 134) posticipata all’anno 269/8. Il racconto polibiano (I 11) sui contrasti fra Comizi e Senato intorno all’acco¬ glienza da fare alla richiesta dei Mamertini, deriva evidentemente da Fabio Pittore e sono da accogliere in tutto su di esso le osservazioni del De Sanctis, Perla scien¬ za dell antichità, Torino 1902, p. 294 sgg., e Storia dei Romani, III 1, p. 99. L iniziativa del console Appio Claudio è confermata da Ennio, fr. 223 Vahlen*: Appius indixit Carthaginiensibus bellum.
XLII1 (cfr. i §§ 76-79) - Per la critica del racconto polibiano delle battaglie intorno a Messina, vedi Beloch, Op. cit., IV 1, p. 648; Varese, Roma e Cartagine,
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p. 53 sgg. I particolari del trattato dall’alleanza dei Romani con Siracusa, meglio che da Polibio (I 16), ci sono conservati da Diodoro, XXIII 4. Ai consoli che espugnarono Agrigento fu negato il trionfo, appunto perché essi si lasciarono sfuggire i superstiti del presidio cartaginese: così va evidentemente inteso il racconto di Polibio, I 19 (da Fabio Pittore), come hanno dimostrato De Sanctis, III 1, p. 121, e Beloch, Griech. Gesch., IV 1, p. 653. Sulla costruzione della prima grande flotta romana informa Polibio, I 20-21: il senato ordinò la costruzione di 20 triremi e di 100 quinqueremi, per le quali sarebbe servita di modello una nave cartaginese caduta in possesso dei Romani nel primo anno di guerra, nelle acque di Messina; quanto alle ciurme, non potendo certamente i sodi navales fornire i più che 30 mila rematori occorrenti, si dovè evidentemente reclutarne anche fra gli alleati delle regioni interne. È lecito supporre che l’allesti¬ mento della flotta non sia stato deciso e compiuto nei pochi mesi dell’anno 260 che precedettero la sua entrata in azione; è più verosimile che il senato ne abbia decre¬ tata la costruzione fin dall’anno innanzi. Vedi su ciò Mommsen, Stor. rom.. Ili, cap. 2°; Tevxey Frank, in Cambr. Anc. Hisl., VII, p. 678; G. Giannelli, Roma nell'età, delle guerre puniche, p. 71 sgg. Qualche nota è necessaria intorno ai primi combattimenti navali sostenuti dai Romani nel 260 a.C. È tramandato che al console Cn. Cornelio Scipione, caduto nel tranello di Lipara, fu aggiunto il cognome di Asina, com’è ricordato anche da Macrobio (Scturn., I 6, 29), il quale però non conosce una spiegazione plausibile di esso. Se si accettano le considerazioni del Wolfflin (in « Arch. fùr lat. Lexicon », VI, 279 sg.), che ravvicina questo soprannome alla caratteristica fobia dell’acqua (aquarum taedium) che i Romani-attribuivano alla femmina dell’asino, esso dovrebbe allora spiegarsi come un cognome burlesco dato dai cittadini al loro primo e poco fortunato ammiraglio, quando di lì ad alcuni anni ritornò a Roma, in seguito ad uno scambio di prigionieri (così anche De Sanctis, III I, p. 126, n. 63). Secondo Polibio (I 21), sarebbe avvenuto subito dopo un secondo scontro favo¬ revole ai Romani; ma questa notizia è contraddetta da quanto Polibio stesso afferma poco dopo (cap. 23), che i Cartaginesi si prepararono con scarsa diligenza alla batta¬ glia imminente (Milazzo), fidando nell’inesperienza del nemico sul mare. Quanto ai « corvi >•, usati da Duilio nella battaglia di Milazzo, essi sono descritti da Polibio (I 22). Si trattava di apparecchi non certo nuovi nella storia della guerra navale: si possono confrontare con essi le irttùdBet; e i SeXcpivocpópoi di cui parla Tucidide (IV 25; VII 36, 2; 40, 4; 41 2), e le « mani di ferro * molto usate nelle ma¬ rine ellenistiche. A proposito il Pais (I, p. Ili, n. 14), richiama Eutropio, (II 20), il quale scrive che Duilio vinse « navibus rostratis quas liburnas vocant », perché un metodo simile di tattica navale pare fosse familiare agli Illiri, che lo usarono nella battaglia di Paxos (229 a.C.), contro gli Achei. Con le operazioni dei primi anni della guerra navale s’inizia la conquista romana della Sardegna e della Corsica: citiamo pertanto O. Leuze, Die Kàmpfe um Sardìnien und Korsica im ersten pun. Kriege (259 u. 258 v. Ch.), in *Klio», X (1910), pp. 406444; E. Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, Roma 1923. La battaglia dell’Ecnomo e i suoi precedenti sono esposti in Polibio, I 25-28. Per la critica della relazione di Polibio si veda De Sanctis, III 1, p. 137—142, le cui con¬ clusioni sono accolte in gran' parte da Giannelli, Roma nell'età delle Guerre puniche, p. 77 sgg. Intorno alle trattative di pace corse fra Attilio Regolo e i Cartaginesi, si ricaverebbe da Polibio (I 31) - a differenza di quanto asseriscono le altre fonti - che l’inizia¬ tiva di trattare la pace partì da Regolo: lo storico greco non specifica le condizioni offerte dal console, ma afferma che esse erano « gravosissime » e che Attilio * quasi che d’ogni cosa fosse ormai padrone, stimava dovere essi ascrivere a grazia e a gene-
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rosità sua qualunque cosa egli a loro lasciasse ». Un elenco delle condizioni si trova invece in Cassio Dione (framm. 43, 24-25), ma esse non possono essere che fanta¬ sticherie d’un annalista; infatti Regolo avrebbe chiesto ai Cartaginesi la cessione della Sicilia e della Sardegna, un’indennità di guerra, un tributo annuo, la riduzione e la limitazione della flotta da guerra ! Se dobbiamo pertanto rinunziare a conoscere le richieste di Regolo, è lecito tuttavia supporre che esse siano state tali da equivalere ad un rifiuto dell’offerta di trattare. Attilio Regolo morì in cattività a Cartagine, prima dello scambio dei prigionieri avvenuto nel 247 a.C.; l’atrocità della sua fine, com’ è riferita dalla tradizione, ha offerto lo spunto ad una vivace polemica nella critica moderna. Gli spunti più anti¬ chi della tradizione si trovano già nell’annalista Sempronio Tuditano (in Gellio, VII 4, 1-4); la versione più ampia e particolareggiata del racconto tradizionale si ha in Zonara, VTTT 15; da questa si distaccano due autori - Polibio, I 35, e Diodoro, XXIV 12 - i quali sembra non conoscessero, intorno alla prigionia e alla morte di Regolo, se non, tutt'al più, quello che ci è testimoniato dal passo citato di Tuditano. Di qui le diverse posizioni assunte dalla critica moderna intorno a tale questione. I primi dubbi sulla autenticità della tradizione relativa ad Attilio Regolo furono affacciati dal Le Paulmier (Iacobus Palmerius), nel 1668. La letteratura posteriore della questione si troverà in M. Wolf, Atilii Reguli vita, 1846, e in O. Iager, M.Atilius Regulus, Progr. Kòln, 1878: ne scrisse poi C. Davin, Beitràge zur Kritik der Quellen des I. pun. Krieges, Schwerin, 1889, Progr. Del 1896 è l’articolo del Klebs, in Beai Encycl., II, col. 2084, n. 2094, dove si troverà l’elenco completo dei passi degli au¬ tori che fanno allusione a tale tradizione. La critica e le conclusioni del Klebs sono seguite da De Sanctis, Storia dei Romani, III 1, p. 154 sg. e p. 242; la difesa della tradizione è stata scritta da E. Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, ser. IV, Roma 1921, p. 411 sgg.: si confronti, dello stesso A., Storia di Roma, nell'età delle guerre puniche, 2a ed., voi. I, p. 136 e p. 140, n. 14. Si veda anche il cenno bi¬ bliografico in B. Niese, Manuale di Storia romana, 4a ed., traduzione italiana di C. Longo, Milano 1910, p. 138, nota 2. Si veda infine G. Giannelli, Op. cit., p. 294 sgg.; K. Durkheim, Marcus Atilius Regulus, Norimberga 1941. Amilcare doveva avere circa trent’anni quando assunse il comando in Sicilia, giac¬ ché il suo figlio maggiore. Annibaie, era nato nel 248 (Polibio, III 11, 5, 7; XV 19, 3); era figlio di un Annibaie, come si rileva da Corn. Nepote, Hamilcar, 1, 1; il nomignolo « Barca » pare significhi « lampo ». Una controversia topografica assai viva, nella moderna storiografia delle guerre puniche, è quella relativa al monte Eircte, presso Panormo, dove si afforzò Amilcare nel primo periodo della sua permanenza in Sicilia (Polibio, I 56; Diodoro, XXII 10, 4; XXIII 20). Esso è stato variamente identificato, o col monte Pellegrino o col Castellacelo, a nord-ovest di Palermo. L’identificazione dell’Eircte degli antichi col monte Pellegrino fu sostenuta già da G. Columba (in Mirabello, Monografìa storica dei porti dell’antichità nell'Italia insulare, Roma 1906, p. 272 sgg.), e poi dal De Sanctis (Storia dei Romani, III 1, p. 181 sgg.); per il Castellacelo si dichiarò invece il Kromayer (Ant. Schlachtfelder, III 1, p. 4 sgg.: ivi tutta la bibliografìa della questione), la tesi del quale fu recentemente accolta dal Beloch (Griech. Gesch., IV 1, p. 659). Invece il confronto delle condizioni del luogo con le particolarità della descrizione polibiana - confronto condotto sul luogo stesso dal Columba - fa pre¬ ferire la prima tesi.
XLIV (cfr. il § 80) - Sugli anni intercorsi fra la prima e la seconda guerra punica si veda: E. Meyer, Die ròm. Politik vom ersten bis zum Ausbruch des zweiten pun, Krieges (Kl. Schrift., II 375); R. Scalais, Le développement du commerce de VItalie entre la première guerre punique et la deuxième, in « Musée Belge », XXXII (1928), p. 177 sgg.
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Fonte principale per la riforma dell’ordinamento centuriato è Livio, I 43, 2: sulla cronologia e i particolari di essa si veda specialmente De Sanctis, III l,p. 335 sgg. e App. al cap. IV; inoltre: E. Cavaignac, Le problème de l'organisationcenturiate après les recherches de M. Mattingly, in « Rev. Hist. » 196 (1946), p. 31 sgg. Nuova luce sul funzionamento dei comizi centuriati in età repubblicana ha portato l’epigra¬ fe scoperta recentemente a Mugliano (l’antica Heba); ne ha trattato G. Tibiletti, Il funzionamento dei comizi centuriati alla luce della tavola « Hebana », in « Athenaeum» XXVII (1949), p. 210 sgg. Cfr. anche De Sanctis, in «R.F.C1. » N. S. XXVII (1949), p. 312, e A. Biscardi in «La parola del passato» XIX (1951), p. 241, con tutta la bibliografia sull’argomento. La letteratura precedente del problema in Piganiol, Hist. de Rome,, p. 105. Sulla figura di Gaio Flaminio, oltre alla voce relativa in R. E., VI, 2496-2503, di F. Mìjnzer, vedi K. Jacobs, Gaius Flaminius, Diss. Leiden, Hoom 1937. La legge agraria di probabile ispirazione flaminiana (vedi Catone, in Gellio, VI 3, 37, e cfr. De Sanctis, II, p. 216, n. 2 e III 1, p. 332 sgg.) sarebbe la prima nella storia della repubblica, se quella attribuita ai tribuni Licinio e Sestio non è, come tutto fa cre¬ dere, che un’anticipazione di questa (vedi al § LXV). Su questa materia sono da vedere le opere che illustrano le condizioni sociali e politiche della vita romana in questo periodo: G. W. Botsford, The Roman Assemblies from their origin to thè end of thè Republic, New York 1909; M. Gelzer, Die Nobilitai der ròm. Republik, Lipsia—Berlino 1912. Sul regolamento tributario applicato dai Romani in Sicilia, si veda lo studio che vi ha dedicato J. Carcopino, La loi d'Hiéron et les Romains, Parigi 1919, e i relativi studi pubblicati da R. Scalais, in « Musée Belge», XXVI (1923), p. 189 sgg.; XXVII (1923), p. 243 sgg.; XXVIII (1924), p. 77 sgg. Si leggono con interesse anche le pagine che vi ha dedicato il Tenney Frank, in Cambridge Ano. History, VII, p. 793 sgg. Sulla provincia di Sicilia nel III secolo vedi Giannelli, Op. cit., p. 314 sgg. XLV (cfr. i §§ 81 e 82) - Sulla guerra dei mercenari, il racconto più esteso degli avvenimenti, sulla base del testo polibiano, si troverà nella citata opera dello Gsell, Histoire anc. de l'Afrique du Nord, voi. Ili, p. 100 sgg. Per gli episodi svol¬ tisi in Sardegna, si veda anche la citata Storia della Sardegna e della Corsica del Pais. Il giudizio di Polibio, sfavorevole alla politica romana nei riguardi dell’occupazione della Sardegna, si trova ripetuto più volte in quei capitoli che lo storico dedica al¬ l’esame delle cause della seconda guerra punica (III 10, 15, 28). La questione è stata trattata e variamente giudicata dagli studiosi moderni: V. Vianello, in « Riv. di Storia antica», Vili (1904), p. 505 sgg.; E. Pais, Op. cit., I, p. 36; id.. Storia di Roma durante le guerre puniche, I*. p. 144 sgg.; E. Tàubler, Die Vorgeschichte des zweit. pun. Krieges, 1921, p. 42 sgg.; Otto, in « Histor. Zeitschr. », 145 (1931), p 494 sgg.; L. Pareti, in « Atene e Roma », XIII (1932), p. 39 sgg.; G. De Sanctis, in « Riv. Fil. Class.», N. S„ X (1932), p. 425 sgg.; id., Storia dei Romani, III 1, p. 397 sgg.; G. Giannelli, Roma nell'età delle guerre puniche, p. 107 sgg.;N. Vianello, L'occupazione della Sardegna e della Corsica dopo la prima guerra punica, in « Atti Soc. Se. e Lett. di Genova », 1940, p. 203 sgg. Sulle ulteriori vicende dell’occupazione romana delle due isole vedi: P. Meloni, Sei anni di lotte de' Sardi e Corsi contro i Romani (236-231 a.C.), in « Studi Sardi », IX (1949). La presenza di un’assemblea deliberante al Quartier Generale di Annibaie in Italia si rivela dal testo del trattato d’alleanza concluso da Annibaie con Filippo di Mace¬ donia (Polibio, VII 9). Alle campagne di Amilcare e di Asdrubale nella Spagna accenna sommariamente Polibio, II 1, 13. Vedi: De Sanctis, III 1, p. 401 sgg.; Pais, Storia di Roma durante
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le guerre puniche, I, p. 175 sgg.; A. Schtjlten, in Cambridge Anc. Hist., VII, cap. XXIV. Sulla conquista cartaginese della Spagna e sulle condizioni di questa penisola durante i secoli precedenti, sono da vedere anzitutto i lavori che A. Schtjlten ha dedicato all’illustrazione delle antichità iberiche; e cioè: l’articolo Hispania, in Pauly-Wissowa, voi. Vili, coll. 1965-2046; Numantia. Die Ergebnisse der Ausgrabungen 1905—12, Miinchen 1914; Tartessos, ein Beitrag zur àltesten Geschichte des Westens, Amburgo 1922; Sertorius, Lipsia 1926; Geschichte von Numantia, Miinchen 1933. Sui primi contatti fra Roma e Cartagine nella Spagna, rimandiamo anche a Ed. Meyer, TJntersuchungen zur Gesch. des zweit. pun. Krieges, I, Der Ursprung des Krieges und die Handel mit Sagwit (Kleine Schriften, II), Halle 1924. Sulla espan¬ sione commerciale e la colonizzazione massaliota in Occidente, si veda C. Jullian, Histoire de la Gaule, voi. I, Parigi 1908, p. 383 sgg. Notevole a questo proposito anche 10 studio di F. R. Kramer, Massilian diplomacy bejore thè second punic war, in « Amer. Journ. Philol. », LXIX (1948), pp. 1-26, ove è messa in rilievo l’influenza eserci¬ tata dalla diplomazia massaliota sulla politica estera romana fra le due guerre. La tradizione annalistica concorde (accolta anche da Polibio) presumeva di cono¬ scere la causa del risveglio ostile dei Galli e l’additava nella distribuzione viritana dell’a^er gallicus, proposta e fatta approvare dal tribuno Gaio Flaminio. L’armo dopo i Galli avrebbero cominciato subito i loro preparativi di guerra; ma timorosi della potenza delle armi romane e minacciati da altri nemici — Liguri, Veneti, Cenomani — non osarono muoversi fino a che non si furono assicurati l’appoggio di alcuni dei più forti popoli transalpini. Queste trattative approdarono a un felice esito soltanto nel 226; e subito si delineo l’azione offensiva. Questa rappresentazione dei fatti non merita credito ed è evidentemente tendenziosa, come quella che mira ad addossare sull’uomo caro alla plebe la colpa di aver provocato il risentimento dei Galli: in real¬ tà, l’intervallo di sei anni che divide la legge flaminia dall’irruzione dei Galli è vuoto di fatti che valgano a collegare il primo evento col secondo, e non si capisce come 11 senato — che fin dal 231 sarebbe stato informato delle intenzioni e dei preparativi dei Galli (cfr. Zonara, Vili 19) — li abbia lasciati tranquillamente compiere i loro apprestamenti e i loro accordi, aspettando che essi sferrassero l’offensiva quando me¬ glio a loro piacesse. Vedi su ciò: Giannelli, Op. cit., p. 131 sgg.; Pareti, St. dx Roma, II p. 248. Fonte principale per la grande guerra gallica è Polibio, II 25-31; si veda anche Zonara, \ III 20; Orosio, IV 23. Per lo studio critico di essa sono da consultare
specialmente: De Sanctis, III 1, p. 304 sgg.; E. Pais, Opera citata, p. 152 sgg.; Tenney Frank, in Cambridge Anc. Hist., VII, p. 805 sgg.; L. Pareti, CotUribuio per la storia della spedizione gallica del 225 a.C. in Etruria e della battaglia di Telamone, in « Maremma *, I 1 (Siena 1924), pp. 1-25; D. Anzani, Cosa, Portus Cosanus, Portus Herculis, Luccosa, Orbetello dans l'antiquité, in « Mélanges d’archéol. et d’hist. », XXX (1910), p. 373 sgg.; R. Heuberger, Die Gaesaten, in « Klio », N. S., XIII (1938), pp. 60-80. Su vari particolari cronologici e topografici della guerra, si veda Giannelli, Op. cit., p. 297 sgg. XLVI (cfr. il § 83) - Sulle guerre romane in Liguria si veda: A. Solari, Delle guerre dei Romani coi Liguri per la conquista del territorio lunese e pisano, in «Studi stor. per l’antichità class, di E. Pais», I (1908), pp. 58-84; id., Topografia storica dell'Etruria, Roma 1915-20, voi. III. Per le azioni nella Cisalpina, M. Ba¬ ratta, Clastidium, in « Bull, della Società pavese di storia patria », III 1932); A. Lauterbach, Untersuchungen zur Geschichte der Unterwerjung von Oberitalien durch die Romer, Breslavia 1905. Sulle prima manifestazioni della politica adriatica e orientale dei Romani sono da vedere - oltre, naturalmente, le opere generali di storia romana già citate specialmente De Sanctis, Storia dei Rom., II, p. 626 sgg.; Ili 1, p. 269 sgg.;
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p. 291 sgg.; il cap. XXVI del voi. VII della Cambridge Ano. Hist. (M. Holleaux); L. Homo, UItalie primitive et les débuts de l'imperialisme romain, Parigi 1925, p. 221 sgg.; Tenxey Frank, Roman Imperialisme, New York 1914; G. Beloch, Le mo¬ narchie ellenistiche e la repubblica romana, traduzione italiana di G. Capone, Bari 1933; J. Carcopino, Points de vue sur Vimperialisme romain, Parigi 1934, p. 273. Sulla questione è da ricordare la posizione antitetica presa da alcuni studiosi moderni: da una parte, M. Holleaux (nel suo libro Rome, la Grece et les Monarchies hellénistiques au 111 siède, Parigi 1921) ha cercato di dimostrare che non si può parlare di una politica romana verso l’Adriatico orientale e i paesi balcanici prima della fine del III secolo, e che, fino ad allora, Roma non è intervenuta in Oriente se non costretta, caso per caso, da ragioni totalmente estranee alla sua volontà.; al contrario, J. Colin, nel suo lavoro Rome et la Grece, du 200 à 146 av. J. Ch., Parigi 1905, aveva sostenuto la tesi che tutti gli interventi romani in Oriente, fin dal III secolo, obbe¬ dissero ad un preciso programma di conquista. In sostegno di questa tesi, e contro la teoria dell’Holleaux, ha scritte specialmente T. Walek, La politique romaine en Gréce et daìis l'Orient hellénistique au III siècle, in « Revue de Philol. », XLIX (1925), fase. I-II, p. 28-54 e 118-142. Si veda anche la replica dell’HoLLEAUX nello stesso pe¬ riodico con lo stesso titolo (1926), pp. 46-66 e 194-218, e la discussione della teoria dell’Holleaux di J. Carcopino, L'intervention romaine dans l'Orient hellénistique, in «Journal des Sav. », XXI (1923), fase. V-VI, pp. 112-123, fase. VII-VIII, pp. 174-181. Intorno agli Illiri e alle due guerre romano-illiriche si veda: J. G. von Haiin, Albanesische Studien, I, Vienna 1853; G. Zippel, Die rómische Herrschaft in IUyrten bis auf Augustus, Lipsia, Teubner 1877; B. Niese, Geschichte der gnech. und makedomschen Staaten seit der Schlacht bei Chaeronea, voi. II, Gotha 1893, specialmente pp 66, 153, 281; B. Pace, Frustuli Illyrici, in «Annuario della R. Scuola Archeol. itaì. di Atene* III (1916-20), pp. 286-290; H. A. Ormerod, Piracy in thè ancient world, Londra 1924; N. Vulic, La premiere guerre d'Illyne, in « Bull, de 1 Acad. Rovaio de Belgrado » 1935. Su questo argomento sono ora da consultare gli studi di A. Gitti, Ricerche di storia illirica-, sulle origini e i caratteri della monarchia di Agrone, in « Historia », XIII (1935), p. 183 sgg.; Contributi alla storia della espansione ro¬ mana in Illiria, in «Bull, del Museo dell’Impero romano», VI (1935), p. 11 sgg.; Nota a due passi di Polibio riguardanti i rapporti tra Roma e l'IUiria, in « Atti del IV Congr. Naz. di Studi romani », Roma 1938. . Sui rapporti politici fra Roma e la Macedonia prima del regno di Fdippo V, si veda- P Treves, La tradizione politica degli Antigonidi e l'opera di Demetrio II, in «Rend. Acc. Lincei», sor. VI, voi. Vili (1932), p. 167 sgg.; id Studi su Anti¬ gono Dosone, in « Athen. * 1935, p. 221 sgg.; J. van Ant^rp Fine, Macedon, Illyria and Rome 220-219 B.C., in «Joum. Rom. St. », XXVI (1936), p. -4 sgg. XLV1I (cfr. il § 84) - Intorno alle questioni relative alFalleanza romano-saguntina, all’assedio di Sagunto e alla «responsabilità» della guerra, fonti sono Polibio, III 20-21 e 29-33; Livio, XXI 6-18; Appiano, Hannib., 2; Punica, 6; Iber., 7. La letteratura più recente si compendia nei seguenti lavori; P. òchnabel, Zur Vorgeschichte des zweiten pun. Kriegs, in « Kho » XX (1925), fase. II, pp. 11 117 - E. Groag, Hannibai als Politiker, Vienna 1929, p. 11 sgg.; H. Howard Scullakd„ Scipio Africanus in thè second punic war, Cambridge University Press, 1930, p. 6 sgg.; O. Walter, Eine antike Kriegsschuldfrage, in « His'tor. Z 3* 173; Cichorius, « Rhein. Mus. », XLIV [18891 1 trTatuatÌ C°n Klbyra (Aaia M‘n.) del II secolo (Dittenberger, Or. Sull 762) con Methjmina (7. G., XII 2, 510), con Thyrrheion (Arcadia), del 94 a.C. (7. G., XI]: 2, 35; Dittenberger*, 732); vari documenti riferentisi ai rapporti fra Roma e i Giudei, conservati - benché alterati nella forma - nei Libri dei Mac¬ cabei e in Giuseppe Flavio (tali il trattato del 161 a.C., in Macc., I 8. 17, e la de¬ liberazione del senato del 132 a.C., in Giuseppe Flavio, Antiq. Iud., XIII 9 2) Sono da aggiungere i cippi di confine posti dai triumviri a. i. a. per delimitare le terre distribuite ai nuovi coloni in base alla legge Sempronia agraria; se ne
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sono rinvenuti in varie regioni d’Italia (C. I. L., I’, p. 639 sgg., cfr. Dessau, 28 e C. Cichorius, Róm. Stud., 113). Per gli anni che intercorrono fra il consolato e la morte di Cesare disponiamo, per ricordare i più notevoli, dei seguenti testi documentari, parecchi dei quali apparten¬ gono alle cosiddette leges datae, regolamenti legislativi dati ad opera di quei magi¬ strati che ne avevano ricevuto dal popolo l’incarico, alle città costituite a municipio o a colonia, sia in casi singoli, sia in generale (vedi: Mommsen, Oesch. Schriften, I 150, 192): la lex Tarentina, probabilmente il più antico di questi monumenti, data da un governatore ignoto dell’età ciceroniana (C. I. L., I* 590; Mommsen, Ges. Schr., I 146; Bruns, I 120); la cosiddetta lex Iulia municipali, su tavola di bronzo tro¬ vata ad Eraclea, che dà disposizioni sul Consiglio e le magistrature delle città italiche con importanti riferimenti alla stessa Roma (C. I. L., I® 593; Bruns, p. 102; J. Legras, Les tablcs d'Heraclée, Parigi 1907; A. von Premerstein, Die Tafel von Heraclea u. die Aeta Caesaris, in « Zeitschr. der Savigny-Stiftung fùr Rechtsgesch. (Róm. Abteil.) » 1922, p. 45, secondo il quale quei regolamenti sarebbero stati abbozzati da Cesare nel 46 e promulgati dopo la sua morte; cfr. H. Rudolf, Stadt u. Staat, Lipsia 1936); la lex Ursonensis, data da Cesare nel 44 alla Colonia Genetiva Iulia, stabilita nel luogo della comunità iberica di Urso (C. 1. L., I*, 594; Bruns, p. 122; Mommsen, Ges. Schr., I 194; E. Fabricius, Zum Stadtrecht von Urso, in «Hermes», XXXV (1900), p. 205); i frammenti di Veleia (C.I.L., I* 592) e d’Este (Ia 600), relativi allo statuto delle comunità transpadane dopo la concessione della cittadinanza nel 49 a.C. (Bruns, p. 97; Mommsen, Ges. Schr., I 193; E. G. Hardy, The tahle of Veleia or thè lex Rubria, in « Engl. Hist. Review. », XXXI (1916), p. 353; J. Abbott. Municipal administration in thè Roman Empire, Princeton 1926). Il Clchorius, in « Rhein. Mus. », LXXVI (1927), p. 327, ha illustrato un trattato fra Roma e Cnido dell’anno 45, e un senatusconsulto per Mitilene dello stesso anno è illustrato in Dittenberger3, 764. Numerosi storici contemporanei avevano trattato, nelle loro opere, il periodo dei Gracchi e delle guerre civili (133-45 a.C.); ma di questi scritti non ci restano che più o meno scarse reliquie. Erano fra questi un gruppo di quegli annalisti dell’età sa¬ laria, i quali, avendo esposto nei loro Annali tutta la storia di Roma, arrivavano a comprendervi gli avvenimenti dei loro tempi, dando anzi spesso ad essi un maggiore sviluppo: così avevano fatto Q. Claudio Quadrigario, \ alerio Anziate, Lici¬ nio Macro (tribuno nel 73 a.C.).
Altri scrittori contemporanei avevano scritto invece opere di storia particolare, ristretta alla esposizione dei tempi più vicini: così Gaio Fannio (il console del 122 a. C.) e P. Rutilio Rufo; Q. Lutazio Catulo, che narrò gli eventi del suo con¬ solato (102 a.C.); poi Sempronio Asellione, la cui storia arrivava sino al 91 a.C.; L. Cornelio Sisenna (pretore nel 78 a.C.), le cui Historiae, di tendenza nettamente conservatrice, si aprivano con lo scoppio della guerra sociale e si chiudevano con la morte di Siila. Le Storie di Sisenna avevano trovato un continuatore in Sallustio, delle cui Historiae restano frammenti sufficienti a ricostruire lo schema generale del¬ l’opera, che dall’anno 78 arrivava al 67 a.C. (vedi B. Maurenbrecher, C. Sallusti Crispi Historiarum reliquiae, Lipsia 1891-1893). Contemporaneo di questi scrittori latini fu Posidonio di Apamea, della cui storia, continuazione di quella di Polibio, si è valso principalmente come fonte Diodoro Siculo. Un altro continuatore trovò Polibio in uno scrittore dell’età di Augusto, Strabone di Amasia (nel Ponto), la cui storia si estendeva dal 146 sino, probabilmente, alla morte di Cesare: una parte del materiale storico in essa contenuto sopravvive forse nell’opera geografica beri nota dello stesso autore, che ci è invece conservata. Perduta è andata pure un altra storia generale di un contemporaneo di Strabone, Nicola di Damasco: e la stessa sorte toccò agli scritti di altri storici greci contemporanei di Cesare, come Teofane di Mitilene, cliente di Pompeo, che aveva scritto la storia del suo patrono, con par-
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ticolare riguardo alle guerre mitridatiche; delle quali trattavano specialmente anche una storia di Eraclea del Ponto, di cui ci restano notevoli estratti nella Biblioteca di Fozio. Nell’età di Augusto scrisse le sue Historiae Asinio Pollione, nato nel 76 a.C. e morto nel 4 o nel 5 d.C.; la sua opera cominciava con la costituzione del primo trium¬ virato (60 a.C.) e si chiudeva coi tempi posteriori alla battaglia di Filippi, conser¬ vando, come sembra, un andamento imparziale e privo di partigianeria. Di un altro contemporaneo di Augusto, Cornelio Nepote, sono perdute le Vitae, frutto di ri¬ cerche personali e assai diligenti: ci restano soltanto, com’è noto, quelle di Catone il Vecchio e di Attico (del gruppo de Latinis historicis). E neppure possiamo leggere gli Annali di Tito Livio che, dal libro 68 al libro 116, contenevano il racconto degli av¬ venimenti di quest’ultimo periodo della storia romana: dobbiamo contentarci di leggerne i riassunti, le Periochae. Come per gli anni anteriori al 145 a.C. Livio aveva tenuto per sua fonte principale Polibio, così pare che per gli avvenimenti posteriori a questa data egli si fosse valso specialmente di Posidonio. La tradizione liviana so¬ pravvive nei tardi autori di compendi di storia romana, come Floro e Cranio Liciniano, del II secolo d.C., e Eutropio, Paolo Orosio, Giulio Ossequiente, Cassiodoro, del sec. IV e dei successivi. In tanta ecatombe della letteratura storiografica contemporanea o immediatamente posteriore ai fatti di questi decenni, dobbiamo cercarne i riflessi nelle opere degli storici più tardi, che ci è dato di leggere. Di notevole valore, nonostante la sua brevità, è il compendio di storia romana di Velleio Patercolo (che arriva sino al 30 d.C.); e, per la storia dell’Oriente, continua ad avere ima qualche importanza l’epitome di Trogo Pompeo, compilata da Giustino; a lato ad essa possiamo porre — come fonte per gli avvenimenti in Oriente — gli scritti dello storico ebreo Giuseppe Flavio (Bellum Iudaicum e Antiquitates Iudaicae), che si occupa di storia romana solo in quanto essa interessa la vita del popolo ebreo. Ci sono utili i libri della storia romana di Appiano, specialmente quelli intitolati Illyrica, Mitridatica, Syriaca, e i primi due libri dei Bella Civilia: difficile e contro¬ versa riesce però la identificazione delle fonti che, di volta in volta, vennero usufruite dallo storico e dei rimaneggiamenti e delle alterazioni ch’egli vi abbia apportato. Delle Biografie di Plutarco, molte sono dedicate a figure di questo periodo storico: precisamente quelle dei Gracchi, di Mario, di Siila, di Lucullo, di Sertorio, di Crasso, di Pompeo, di Cesare, di Cicerone e di Catone il minore: in molte parti, le sue fonti sembrano affini a quelle di Appiano e le storie di Strabono sono certamente fra esse. Né va dimenticato che la biografia di Cesare apre la serie delle dodici contenute nel De vita Caesarum di C. Svetonio Tranquillo, fiorito nella prima metà del II secolo d.C. Timogene di Alessandria e Memnone, autore (verso il 100 d.C.) di
A Livio sembra abbia attinto sostanzialmente Dione Cassio, la cui opera ci rimane integra a cominciare dall’anno 67 a.C. (lib. XXXVI); per gli avvenimenti ante¬ riori, si può valersi, come già abbiamo avuto occasione di dire, del compendio di Zonara (cfr. i §§ 9, 10, 11). Mentre è perduta tutta la storiografia contemporanea di questo periodo, ci sono invece conservati quasi tutti gli scritti di altro genere, espressione viva e diretta dei fatti e dei tempi, dei quali anzi quegli scritti stessi sono parte e manifestazione: e cioè: le opere autobiografiche, gli epistolari, gli scritti polemici e d’occasione. Appar¬ tengono al primo gruppo (del quale sono perdute le vaste Memorie autobiografiche di Siila) i Commentarti de bello Gallico e de bello civili di Giulio Cesare. Sono del secondo gruppo le raccolte delle lettere di Cicerone (ivi comprese quelle de’ suoi corrispondenti, fra i quali Cesare e Pompeo), veramente preziose per penetrare nelrintimo degli avvenimenti svoltisi fra gli anni 60 e 43 a.C. AI terzo gruppo possiamo infine assegnare le Orazioni dello stesso Cicerone, con gli Importantissimi frammenti del commento composto, verso la metà del I secolo d.C., da Asconio Pediano, un
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grammatico che usò, per tale suo lavoro, anche del « Giornale Ufficiale » {atta senatus ■populique Romani) istituito da Cesare nell’anno del suo consolato (59 a.C.). In questo gruppo di scritti si possono far rientrare anche le due opere minori di Sallustio, in realtà piuttosto opuscoli polemici e di propaganda politica che monografie storiche: il Bellum Catilinae e il Bellum Iugurthinum (cfr. il § 8). Si veda: Greenidge e Clay, Sources for Roman History 133-70 B. G., Oxford 1903. Su Sallustio si veda specialmente: W. Schur, Sallust ah Historiker, Stuttgart 1934; E. Bolaffi, La posizione di Sallustio rispetto a Cesare e i problemi critici conseguenti, Pesaro 1937; G. Funaioli, Nuovi orientamenti della critica sallustiana, in « Rend. Acc. Line. ser. VII, voi. Ili (1941); V. Paladini, Sallustio: aspetti della figura, del pensiero, dell'arte, Messina 1948; E. Bolaffi, Sallustio e le sue fortune nei secoli, Roma 1949. Sulle due lettere sallustiane a Cesare esiste ima vasta letteratura, che muove dallo studio di R. Pohlmann, che riconobbe il loro carattere sallustiano (« Aus Alt. und Gegenw. », n.F. 1911, p. 134 sgg.; cfr. Ed. Meyer, Coesore Monarchie, p. 563 sgg.); vedi poi: l’edizione di A. Kurfess; Lipsia 1930 (C. Sali usti Cnspi epistulae ad Caesarem senem de republica); O. Seel, Sallust von den Briefen ad, Caesarem zur coniuratio Catilinae, Lipsia 1930; E. Skard, Sallust als Politiker, in « Symbolae Osloenses », IX (1930); E. Edmar, Studien zu den Epistulae ad Caesarem senem de re pubi., Lund 1931. Si consulti la rassegna di A. Kurfess, Sallust, in « Bursians Jahresb. » 1940, voi. 269, p. 1 sgg. Su Appiano, N. J. Barbu, Les sources et Voriginalité d'Appien dans le deuxieme livre des Ouerres civ., Parigi 1933. Un’abbondante letteratura esiste su Posidonio di Apamea, lo scienziato che tu amico di Pompeo e che aveva calcolato la distanza da percorrere per arrivare dalle coste più occidentali dell’Europa all’India (Strab, II, 2, 6); gli studi più notevoli sono per altro dedicati a Posidonio come filosofo: K. Rkinhardt, Poscidomos, Monaco 1921; id., Poseidonios iiber Ursprung u. Entartung, Heidelberg 1928; L. ldelsteìn, The philosophical System of Pòsidonius, in « Am. Joum. Philol. », LV lì ^ Sugli Aratori dell’età dei Gracchi si veda particolarmente: P. Fraccaro, Oratori ed orazioni per l'età dei Crocchi, in «Studi stor. per l’antichità class », V UJ1/2); N Hapke C Sempronii Crocchi oratoria Romani fragm. colletta et illustrata, diss. Monaco 1915. Sulle memorie di Rutilio Rufo: E. Pais, Dalle Guerre puniche a Cesare Augusto, I 35; G. L. Hendrickson, The memoirs of Rutiline Rufus, in «Class. P1Fra le^opere moderne di storia romana di contenuto particolare che abbracciano l’ultimo periodo della repubblica (133-44 a.C.), sono.da tener'presenti le seguenti: C. Netjmann, Geschichte Rome wdhrend des Verfallea der Repuhlik,Bre slavia 1881: J. B. Mispoulet, La vie parlamentaire à Rome sous la Republ., Parigi 1899- A H J. Greenidge, A history of Rome, Londra 1907; E. PA*S> e guerre «uniche a Cesare Augusto, 2 voli., Roma 1918; Ed. Meyer, Coesore Monarchie und das Principal des Pompejus, 2* ed., Stoccarda-Berlino 1919; W. te Roma in seinem Uebergange von der repubhkanischen zur monarchischen Verfassung, 2* edizione a cura di P. Groebe, 5 voli., Lipsia 189!^1929; ». ^\^ZTtZ romaine- les conflits politiques et sociaux, 2* ed., Parigi 1922; W. E. Heitland, Ihc TRoman Repuhlic 3 voli., 2* ed., Cambridge 1923; T. Rice Holmes, The Ronum Republic and thè Founder of thè Empire, 3 voli., Oxford 1923; J. Vogt Homo novua, ein Typus der rbm. Rep., Stuttgart 1926; W. Schur, Homo novus, in f*». 15, Budapest 1939 (studio 6 1 P°P°h ad 6831 Vlcim’ dai Carpazi alla Boemia e al Norico fon dato esclusivamente sulla numismatica). ’ t0n of °reCÌa in questo Periodo: M. Cary, A Roman arbitration fthe second century B. C., in « Joum. Rom. Stud. », XVI (1926), p. 194- M A Le
ITTAT? fr ******* P-93- 11 g1^ ricordato testo epigrafico
(793nWp
e Turie, in » Riv. Fil. è Stato fatto oggetto di studio n St T r n ^recque d'une loi romaine, in « Bull. Con Hell » 1924
moti l
pa 117CABCOPINO’
Londra IV (1904)! p
Sur la loi rom- du
de Paul-Émile, in Mélangi
ri in * Journ. Rom. St. », Sulla's «cw senatore in 81 B.C., in «Class. Quart. », XXVI (1332), p. 1/0; G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1932, p 145 sgg Per la religione di Siila: N. Breitenstein, Sulla's dream, in « Arch. Anz. », Vili (1937), p. 181; H M R. Leopold, Venne ale Toekomstgodin in de eerste eeuw voor Chnst. in « Mededeehnger van het Nederl. hist. Inst. te Rome», VI (1936) p 1 sgg.; A. Ericsson, Sulla Felix-, eine Wortstudie, in « Eranos », XLI (1943) ’p 77 sgg. (1 epiteto non ha alcuna connessione con la dea Fortuna =Tyche e significa sem¬ plicemente benvoluto dagli dei e specialmente da Venus, come il gr. èrra^póSiTo?).
ron^rvt'p §§ 123,n1n4’ *25) ~ Sulla fami8lia « ^ giovinezza di Pompeo si consulterà: E. Pais, in Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, II 677; R. Paribeni,
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La gens Pompeia e il Piceno, in « Atti e Mem. Dep. St. Patria delle Marche *, s. V, v. V (1042), p. 83 sgg.; M. Gelzer, Cn. Pompeius Strabo und der Aufstieg «etnea Sohnes Magnus, in « Abhandl. Beri. Ak., Phil. Hist. Klasse » 1941, p. 14. Fonte principale per gli avvenimenti di Spagna dalla caduta di Numanzia alla guerra di Sertorio, è Appiano, Iberica, capp. 99-100; per la guerra sertoriana, ancora Appiano, de bell, civil., I 108-115 (che deriva da Livio e conserva un racconto ten¬ denzialmente ostile a Sertorio), e* Plutarco, nelle due biografie di Sertorius e Pompeius (capp. 17-20), il quale deriva invece da Sallustio (si vedano i framm. dei libri I e II delle Historiae, nell’edizione del Maurenbrecher, Lipsia 1891) e riflette la tendenza popolare. I giudizi più noti pronunciati dalla storiografia moderna su Sertorio, sono quelli del Mommsen (Storia rom., libr. V, cap. I) e dello Ihne (Eòm. Oesch., VI, Lipsia 1888,. p. 31 sgg.; 38 sgg.); il primo esalta, il secondo condanna l’opera di Sertorio; per il Mommsen, egli è « il rigeneratore della sua patria », per lo Ihne, ne è il tradi¬ tore. Più recentemente, lo Schulten (Sertorius, Lipsia 1926) procede sulle orme del Mommsen, mentre il giudizio dello Ihne è ripetuto dal Berve (in « Hermes », LX\I (1929], p. 199 sgg.) e in parte anche dal De Sanctis (in.« Riv. di Filol. », N. S. V [1927], p. 417). P. Treves, in * Atheneaeum », N. S. X (1932), p. 127 sgg., ha cercato di presentare Sertorio sotto ima nuova luce, interpretando tutta 1 azione da lui svolta in Spagna come mirante unicamente a crearsi una via per tornare in Roma, obbligando il senato ad amnistiare il suo passato e a riammetterlo nella vita politica dello Stato. Per la interpretazione e la valutazione delle fonti, specialmente del pe¬ riodo spagnolo, sono da vedere: Maurenbrecher, C. Sallustii Crispi Hisloriarum reliquiac, Lipsia 1891-93, e W. Stahl, De bello Sertoriano, Diss. Erlangen 1907. Le notizie più diffuse sulla guerra dei gladiatori ci sono fornite dalla biografia plutarchea di Crasso (capp. 8—11) e da Appiano, de bell.-civil., I 116—120; oltre che dai frammenti delle Historiae di Sallustio (libr. IV 20-41, nell’edizione del Maurenbrecher). Dei moderni, si veda: Schambach, Der italischc Sklavenaufstand 74—71 v. Chr., Berlino 1872; G. Rathke, De Bomanorum belli« servilibus capita selecta, Berlino 1904; Schneider, articolo « gladiatores », in lì. E., Supplem. Ili, coll. 760 sgg. Le varie questioni concernenti le ultime fasi della guerra sono discusse specialmente nell’op. cit. del Rice Holmes, Rom. Republic, I, pp. 386-90. Si veda anche M. Ollivier, Spartacus: der grosse Sklavenaujstand (traduzione dal francese), Berlino 1949. Per la vita di Crasso e le sue imprese, opera fondamentale è ancora quella del Drumann, nella ultima edizione curata dal Groebe (Geschichte Roms, voi. I\ , pp. 84117); ivi però sono trattate diffusamente la guerra dei gladiatorie la spedizione in Siria, mentre il resto della biografia è esposto assai succintamente. Esauriente l’arti¬ colo AI. Licinius Crasstis Dives, in R. E., XIII, I 295 sgg., n. 68. Abbiamo ora un ottimo studio su Crasso, quello di A. Garzetti, M. Licinio Crasso: l'uomo e ^poli¬ tico, in « Athenaeum », XXIX (1941), p. 1 sgg.; XXX (1942), P. 12 sgg.; XXXIIXXXIII (1944-45), p. 1 sgg., dove la figura del plutocrate romano è ricostruita con severa aderenza ai dati delle fonti, depurati dalle falsificazioni retoriche della tradizione. Vedi anche l’articolo del Gummkrus, Die BauspeculcUion des Crassus, in «Klio», XVI (1919), p. 190. .. . Le notizie sulle ricchezze di Crasso sono date da Plutarco (Cross. 2, 3), il quale riferisce che, alla vigilia di partire per la guerra contro i Parti, il Licinio, fatta la stima del suo patrimonio, trovò che esso ammontava - a malgrado dei recenti, in¬ genti dispendi - a 7.100 talenti; secondo Plinio, Nat. Hist., XXXIII 134, ì suoi soli possessi agricoli venivano valutati a 200 milioni di sesterzi. Più tardi, sembra che le ricchezze di Pompeo siano salite a cifre anche più elevate. Vedi su ciò Tenney Frank, An economie survey of ancient Rome, voi. I, Baltimora 1933, p. 393 sgg. Per la data di nascita di Giulio Cesare ci manca una testimonianza sicura, perch la biografia di Svetonio è mutila del principio. I vari indizi che possiamo ricavare
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TRATTATO DI
STORIA ROMANA
dalle notizie relative alla sua biografia, interpretati in modo diverso, hanno indotto alcuni storici a ritenere il 102 come anno della nascita di Cesare (Mommsen), altri il 100 (Drumann). In realtà, il primo periodo, per noi, del testo di Svetonio è sufficiente a farci prescegliere la seconda di queste due date; come ha dimostrato, con argomenti persuasivi, il De Sanctis, in un breve scritto in « Riv. di Filol. class.», N. S., XII (1934), p. 550 sg. Una tesi intermedia è quella sostenuta da J. Carcopino, in « Mélanges Bidez », Bruxelles 1934, p. 355 sg., collocando la nascita di Cesare all’anno 101 a.C. La fonte migliore per la conoscenza di Cicerone e della sua attività politica e let¬ teraria sono, com’è noto, le sue opere stesse, soprattutto le lettere. Di lui scrisse la biografia Plutarco, che ci resta. La letteratura moderna su questa grande figura dell ultima età repubblicana è vastissima. Dalla critica storica del secolo passato icerone ottenne, come uomo politico, un giudizio nettamente sfavorevole; specialmente dal Mommsen, nella Rom. Ceschichte, e dal Drumann (voi. V e VI della citata esc. ic te Roma). In questi ultimi anni si è disegnata una reazione vivace e talvolta fortunata a queste condanne radicali; reazione rappresentata specialmente Gali opera di E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, Roma 1927-29 (2a ed., 1939-41) e m parte anche dalla già ricordata Caescurs Monarchie unddas Principat des Pompeius, di Ed. Meyer. Dopo la biografia di Cicerone, disegnata con tratti nettamente favo¬ revoli da &. Boissier, nel noto libro Cicéron et ses amis, Parigi 1865 (19a ed.), è da ricordare quella contenuta nella Storia della letteratura latina di V. Ussani, Miano 1930 (p. 212 sgg.), e le seguenti: O. Plasberg, Cicero in seinen werlce und Brie/en, Lipsia 1926; F. Arnaldi, Cicerone, Bari 1929; M. Gelzer, Cicero als Politiker, m ‘ ' (voce * Tullius ») VII, A, I, col. 827 sgg. (con un esame esauriente di quanto si e pubblicato in questi ultimi anni intorno a Cicerone); H. J. Haskell, lfHs. Was C^er0- modem politica in a Roman toga, New York 1942 (ricostruzione della carriera politica di Cicerone); F. R. Cowell, Cicero and thè Roman Republic («The Measure of thè Ages », voi. I), Londra 1948 (il tema è inteso più sociologicamente che storicamente e Cicerone è tratteggiato come il rappresentante della repubblica nel senso moderno dello Stato democratico in contrapposizione allo Stato totalitario, realizzato da Cesare); J- Carcopino, Les secreto de la correspondance de Cicéron, , VO,U'’ _rarigl 1947 (l’impostazione nuova data dal Carcopino a certi problemi ha sol¬ levato forti resistenze; si veda specialmente lo scritto di A. Piganiol, in « Rev. Histor », CCI [1949]. P- 224). Tre notevoli scritti studiano la figura di Cicerone in rapporto agli altri due maggiori suoi contemporanei: R. Johannesmann, Cicero und i t'hrenwechselseitigen Beziehungen bis zum Jahre 51 v.Ch., Diss. Munster Cassar: ein Beitrag zur Aujhellung ihrer gegenseitigen Beziehungen (fase. 34 delle Hist. Studien), Berlino 1939; H. Willrich, Cicero und Coesori zunschen Senatsherrschaft und Gottkònigtum, Gottinga 1943. VTj fh «lenimenti dell’anno 70, M. Gelzer, Dos erste Konsidat des Pompeius und die Uebertragung der grossen Imperia, Berlino 1943.
lavoro^di H^A "oLl™ 12J *28) “ Sulla pirateria in generale, oltre al classico AnnnU ?' f ' ^ Ancient Pir(KV *n the Eastern Mediterranean (Liverpool FloL^om%’ - ì t 81 P;°trtCOaSUltare; J’ Kromayer. Eie EntuncUung der rom. Flotte vom Seerauberkmeg des Pompeius bis zur Schlacht von Actium, in « Phi(Ìf a P; 426 SgS‘; E- ZlEBARTH’ Beitràge zur Oeschichte des Sec filfa P% r v^ LUrg° I929’ Nell’anno Siila inviò contro i pirati in Panrii P' Servill°^atia’ °he si guadagnò il cognome di Isaurico: A. H. Ormerod, The _ npaigns of Sermhus Isaur., in «Journ. Rom. Stud. », XII (1922), p 35- W R (".STpH3f9-?LVIn
(‘928).’ p-'46;
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spedizione contro i pirati di Creta, della quale fu dato il comando a M. Antonio, pretore nel 75 a.C.; battuto dai pirati, morì a Creta nel 72/71, onde gli fu elargito il nomignolo di Creticua: vedi P. Foucart, Lea campagne# de M. Antonina Creticua, in « Joum. des Sav. », N. S. IV (1900), p. 569; A. Passerini, La preparazione della guerra contro Creta nel 70 a.C., in « Athen. », XIV (1916), p. 45. Sulla spedizione di Pompeo: P. Groebe, Zum Seeràuberkrieg dea Pompeiua Magnila, in « Klio », X (1910), p. 374; H. A. Ormerod, The diatribution of Pompeiua forcea in thè campaign of 67 (Liverpool Annals of Archaeol., X [1923]). Ancora sugli avve¬ nimenti dell’anno 67, W. Me Donald, The tribunato of Corneliua, in « Class. Quart. », XXIII (1929), p. 196. Fonti fondamentali per la grande guerra mitridatica sono il De bello Mithridotico di Appiano, le vite di Lucullo e di Pompeo di Plutarco, Dione Cassio, per gli anni posteriori al 67, e i frammenti della Cronica di Eraclea di Memnone, oltre a qualche frammento di Sallustio: v. Hauler, Zu den Orleaner Bruchatùcken dea III Buchs von Salluats Historien, in «Wiener Studien », XLIV (1924-25), p. 188; A. Schulten, Zu Salluat. Hiator., Ili, 6, in « Hermes », LXIII (1928), p. 366. Per i rap¬ porti fra Roma e gli Ebrei si vedano le Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio e i Libri dei Maccabei (cfr. al § LX). Oltre quelli citati ai §§ LXIII e LXIX, altri documenti epigrafici offrono mate¬ riale notevole; ricordiamo l’iscrizione C. I. L., XIV 2218, sulla parte sostenuta dai Misi nella guerra; il testo pubblicato in Or. Or. Inscr. S., n. 447, che conserva ima dedica dei marinai di Mileto all’ammiraglio Triario; l’epigrafe pubblicata dalVoLLgraf, Novae inacr. Argivoe, in « Mnemos. », XLVII, p. 252, che documenta la quarta salutazione imperiale di Pompeo; un trattato di alleanza fra Roma e Termesso, probabilmente del 72 (lex Antonia de Termeaaibua maioribu8), in C. I. L., I* 582 = Dessau, 38; il frammento di un trattato di alleanza fra Roma e Callatis, conclu¬ so da M. Terenzio Varrone Lucullo (fratello del noto Lucullo e figlio adottivo di M. Te¬ renzio Varrone), proconsole di Macedonia nel 72/1 (v. A. Passerini, Il teato del foedua di Roma con CallatÌ8, in «Athen.» 1935, p. 57). Per la topografia delle regioni in cui si svolse la guerra, si consulterà: J. A. R. Munro, Roada in Pontua, rogai and Roman, in «Joum. Hell. St. », XXI (1901), p. 52: B. W. Henderson, Controveraies in Armenian topography, in « Joum. of thè Palest. Soc.», XXVIII (1903), p. 98. Sulla grande guerra mitridatica, oltre agli studi su Mitridate citati al § LXIX, si consulterà: F. Guse, Die Feldzuge dea dritten mithridotischen Kriegea in Pontoa u. Armenien, in «Klio», XX (1926), p. 332; K. Eckhardt, Die ormeniachen Feld¬ zuge dea LucuUua, in «Klio», IX (1909), p. 400 e X (1910), p. 192; G. C. Anderson, Pompey'a campaign againat Mithradatea, in «Joum. Hell. St. », XII (1922), p. 99. Sulla fine dei Seleucidi e i rapporti di Roma con gli Ebrei in questi anni, si veda: A. Bouché-Leolercq, Hiatoire dea Seleucidea, voi. II, Parigi 1914; J. Dobras, De antiquÌ88Ìmo Romanorum cum Parthia commercio et de Syriae occupatione (Acta II congressus Philol. class, slav., Praga 1931); E. Schurer, Geachichte dea judiachen Volkea im Zeitalter Jeau Chriati, voi. I, Lipsia 1901; Kugler, Fon Moses bis Paulua, Miinster 1922; E. R. Bevan, in Cambridge Arie. History, voi. IX, cap. IX. Protagonisti dell’attività militare di questi anni furono Lucullo e Pompeo. Di Lucullo ha tracciato la biografia M. Villoresi, Lucullo, Firenze 1939, ricostruendo in modo assai personale specialmente la parte relativa alle campagne in Oriente, su Pompeo abbiamo ora il bel volume di M. Gelzer, Pompeiua, Monaco 1944, 2a ed. 1949. Potrà interessare anche F. Poulsen, Les portraita de Pomp. Magnila, in « Rev. Arch. », ser. VI, VII (1936), p. 16. Sugli avvenimenti interni di questi anni, E. G. Hardy, La question transpadane et la loi sur les étrangers, in « Journ. Rom. St. », VI (1916), p. 63.
PARTE QUINTA GIULIO CESARE E LA FONDAZIONE DELLA MONARCHIA UNIVERSALE
I
L’ASCESA DELLA POTENZA DI CESARE §
129 - Il
consolato
di
Cicerone
e
la congiura
di
Catilina -
Roma era stata l’anno innanzi teatro di gravi avvenimenti; e, questa volta, per opera di un gruppo di cittadini facinorosi, già appartenenti alla fazione sillana, nella maggior parte nobili decaduti e corrotti, i quali, arricchitisi già con le proscrizioni, dissipati ora i loro patrimoni in una vita viziosa e scialacquatrice, messi al bando della vita politica dalla ri¬ presa dei popolari, miravano a riconquistare, attraverso un qualsiasi scon¬ volgimento dello Stato, i beni e le ricchezze perduti. A capo del movimento sovversivo s’era posto Lucio Sergio Catilina. Di antica famiglia
patrizia allora decaduta, Catilina aveva militato nella
guerra civile al seguito di Siila, facendosi notare per il suo valore, per la robustezza fisica, per un superbo disprezzo della vita propria e degli altri. Nelle proscrizioni si era tuffato avidamente, come Crasso, non arretrando dinanzi a tradimenti e ad efferatezze senza nome pur di far denari, e per questo era stato messo, come Crasso, in disparte dal Dittatore e dalla oligarchia che ne ereditò il governo della Repubblica. Disordinato, vizioso, dilapidatore, ebbe in breve dato fine alle mal guadagnate ricchezze, che invece, nelle mani di un lavoratore instancabile e di un finanziere scrupo¬ loso come Crasso, erano state l’origine di un immenso tesoro. Crasso si era già riabilitato agli occhi del senato, quando Catilina appariva ormai sull’orlo del completo fallimento. Mancò poco che la revisione censoria del 70 non lo scacciasse dal senato: soltanto le sue benemerenze sfilane fecero chiudere un occhio ai censori. Catilina rimase dunque in senato ed anzi fu eletto pretore per fi 68; nel 67-66 governò, come propretore, la provincia d’Africa e, come era da aspettarsi, il suo governo dette luogo a reclami e deplorazioni: sicché il senato, in vista dell accusa di concus¬ sione che si stava per elevare contro di lui, non ammise la sua candidatura al consolato per l’anno 65. Fu allora che delle sue aspirazioni e delle sue mire pensarono di servirsi Crasso e Cesare.
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TRATTATO
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STORIA
ROMANA
Ambedue questi uomini politici non nascondevano le loro brame di potenza; ma riconoscevano la gravità degli ostacoli che si paravano loro dinanzi: da una parte il governo senatorio, fragile ormai, ma sorretto dalla convinzione di tutta quella classe politica che da tanto tempo dirigeva la politica della Repubblica, e da uomini intransigenti, inflessibili, decisi a tutto, come Marco Porcio Catone, il pronipote del Censore; dall’altra la straordinaria potenza di Pompeo, che non era da escludere trovasse una base di accordo col senato e se ne guadagnasse la fiducia. Cesare aveva lodevol¬ mente esercitato la questura nella Spagna Ulteriore nel 68 e, tornando di là, s era cattivato il favore dei Transpadani, facendosi campione della loro aspi¬ razione ad essere equiparati nei diritti politici alle altre genti della penisola. Seppe guadagnarsi allora anche la fiducia di Crasso, ai cui forzieri inesau¬ ribili cominciò ad attingere senza risparmio; e Crasso capì che, data la scarsa popolarità di cui egli godeva, non gli restava che appoggiarsi a Ce¬ sare, fornendo a quell’uomo, cui nessuno sapeva resistere, i mezzi necessari per svolgere un’azione politica di comune vantaggio all’uno e all’altro. Messisi pertanto d’accordo, i due uomini favorirono, verso la fine del 66, un tentativo delittuoso macchinato da Catilina e designato appunto come « prima congiura catilinaria ». Si trattava di uccidere i due consoli designati per 1 anno 65 ed altri senatori. Il piano fu scoperto e sventato, benché non si addivenisse ad alcuna procedura giudiziaria: Crasso e Cesare seppero tirarsi in disparte al momento opportuno. Eletto edile per il 65, Cesare fece stupire e commosse il popolo con la straordinaria magnificenza delle feste e degli spettacoli che fece allestire e dei quali lasciò pagare le spese al suo bonario collega nell’edilità, M. Calpurnio Bibulo. Sicuro del favore popolare, osò far ricollocare in Campidoglio i trofei e le statue di Mano, che ì veterani del glorioso generale corsero a contemplare con le lacrime agli occhi. In quello stesso anno Crasso ricoprì la censura e tentò, sempre d’accordo con Cesare, di assicurarsi un imperium in Egitto, che gli sarebbe riuscito, anche geograficamente, prezioso, per fronteggiare la potenza militare di Pompeo in Oriente: ma la proposta fu fatta cadere dal senato. L anno dipoi Catilina, assolto compiacentemente dall’accusa di corru¬ zione, potè presentare la sua candidatura al consolato per l’anno 63; poli¬ ticamente e finanziariamente sostenuto da Crasso, che giocava la sua ul¬ tima carta, prima che Pompeo ritornasse. Come collega di Catilina, Crasso contava di fare eleggere Gaio Antonio, uomo del tutto di second'ordine, figlio di M. Antonio l’oratore. Fra gli altri candidati, il solo che potesse esser preso in considerazionefu M Tullio Cicerone. Homo novus, egli non aveva da aspettarsi aiuti dalla
l’ascesa della potenza di
cesare
413
nobiltà. Ma accaddero ora fatti che provocarono inaspettatamente l’ade¬ sione del senato alla candidatura di Cicerone. Quando Catilina cominciò a condurre la campagna elettorale coi metodi più scandalosi di violenza e di corruzione, sì da far correre voci di una nuova congiura, quando Cice¬ rone, pronunziando la sua orazione in toga candida, seppe abilmente sfrut¬ tare e dar credito a queste voci e a questi terrori, gran parte dei senatori si decise a votare per lui piuttosto che andare incontro alla pericolosa in¬ cognita di Catilina console. Alle elezioni, questi rimase sconfitto per pochi voti: primo eletto risultò Cicerone, secondo Gaio Antonio. Pensarono Crasso e Cesare, prima, Catilina poi, a rendere difficile la vita a Cicerone nell’anno memorabile del suo consolato. Si cominciò con una proposta di legge agraria presentata dal tribuno Servilio Rullo, un fido di Cesare. Si doveva vendere il terreno demaniale nelle provincie, per acquistare, con la somma ricavata, terreno in Italia da ripartire fra i nullatenenti: alla requisizione delle terre e alla deduzione dei coloni avrebbe provveduto un collegio di decemviri da eleggersi nei Comizi Tributi, for¬ niti d’imperio e immuni dalla intercessione tribunizia per la durata di cin¬ que anni. Tutto il senato ed anche Cicerone presero posizione contro la proposta, che fu respinta. Ma Cesare si risollevò rapidamente dalla scon¬ fitta, riuscendo a farsi eleggere nello stesso anno pontifex maximus. Ma avvenimenti assai più gravi turbarono gli ultimi mesi del consolato di Cicerone. Alle elezioni consolari, che si tennero nel luglio, si presentò di nuovo, com’era da aspettarsi, Catilina, ponendo a base del suo program¬ ma elettorale le novae tabulae, cioè la cancellazione generale dei debiti. Per rifare la sua fortuna politica, Catilina chiamava ora a raccolta tutti coloro che non avevano più nulla da perdere e che in un moto rivoluzio¬ nario avevano sempre qualche cosa da sperare. In un primo tempo, non si trattava che di abbattere e di distruggere: se Catilina avesse anche nei suoi piani per il futuro un programma di ricostruzione e quale potesse es¬ sere questo programma, nessuno in verità saprebbe dirlo. Certo è che le forme e i fini dell’azione ora decisamente adottati separarono a questo punto Catilina dalla politica di partito di Cesare e di Crasso. I progetti di Catilina destarono un ben comprensibile pànico nella classo finanziaria e nella parte migliore del senato. Cicerone diresse con abilità ed energia l’opposizione elettorale contro il violento patrizio. La sconfitta patita nelle elezioni fece perdere a Catilina ogni ritegno: chiamati a rac¬ colta i più fidi de’ suoi seguaci, pose le basi di quella famosa congiura, alla quale parteciparono, oltre a quei suoi partigiani di cui Sallustio ci ha conservato i nomi (Catil., 17, 3), un certo numero di cavalieri e di vete¬ rani di Siila e anche di donne. Soppressi violentemente i consoli (o meglio
414
TRATTATO
DI STORIA ROMANA
uno di essi, Cicerone), sparso il terrore nella città, Catilina si sarebbe im¬ padronito del potere: a tal fine egli aveva assoldato e teneva in Roma una schiera di gladiatori; uno dei congiurati, L. Manlio, già ufficiale di Siila, riuniva in Etruria un esercito intorno a nuclei di veterani sillani. Essendo la città del tutto sfornita di truppe e presidiata da forze di polizia trascurabili e indegne anzi di tale qualifica, tutto faceva sperare in una buona riuscita dell’azione, concertata per il 28 di ottobre; bande armate, in quel giorno, avrebbero iniziato i loro atti terroristici in città, mentre le milizie di Etruria si sarebbero portate a disposizione dei capi rivoluzionari dell’Urbe. Ma il piano fu scoperto, per merito specialmente delle indagini condotte personalmente e privatamente da Cicerone: il 21 ottobre il senato, in vista del pencolo ormai chiaro ed imminente denunziatogli dal console, deliberò il senatusconsultum ultimum, affidandone ai consoli l’esecuzione. Cicerone non potè fare arrestare Catilina, mancandogli prove giuridicamente valide per stabilire la sua personale responsabilità; ma lo tenne l’occhio e lo ac¬ cusò violentemente in senato con la famosa prima Catilinaria, obbligan¬ dolo a lasciare Roma nella notte sul 9 novembre. Dopo aver guadagnato alla sua causa il collega Antonio, gli affidò la direzione della guerra contro le milizie di Catilina, il quale, uscito da orna e assunte le insegne consolari, raggiunse le sue truppe a Fiesole nell Etruria, e ne prese il comando. I congiurati rimasti in città, dopo qualche giorno di sgomento e di esitazione, ripresero il lavoro di preparazione della congiura, disponen¬ do^ a dare l’assalto ai poteri costituiti il primo
giorno dei Saturnali
(17 dicembre) e cercando frattanto nuovi aiuti dal di fuori: a tal uopo si confidarono con una missione di Galli Allobrogi, che si trovava allora in Roma per trattare alcune questioni col senato. Scopertisi però anche questi rapporti, gli Allobrogi vennero arrestati e indotti a fornire tutte le notizie in loro possesso sulla congiura. In seguito alle loro confessioni
la
mattina del 3 dicembre, furono arrestati cinque dei colpevoli più grave¬ mente indiziati: Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario. 5 dicembre il senato fu convocato per decidere della sorte dei prigiomen
^ base al «senatusconsultum ultimum» i consoli avevano l’auto¬
rità di far giustiziare senz’altro i prigionieri; ma Cicerone fu preso allora da scrupoli cosi di ordine giuridico come di ordine politico e, per coprire a sua responsabilità, volle procedere ad una speciale consultazione del senato. In un pnmo tempo, la maggioranza dei senatori si pronunziò per la pena di morte: ma dopo che Giulio Cesare ebbe dimostrato la illegahtà di quella procedura sommaria, proponendo che i colpevoli venissero per
l’ascesa della potenza di cesare
415
allora internati in diversi municipi italici, previa confisca dei loro beni, l’assemblea si dimostrò propensa a deliberare nel senso da lui suggerito. Sorse allora a parlare in favore della prima decisione M. Porcio Catone, il bisnipote del Censore. Votata, dopo il discorso di Catone, la pena di morte, i cinque prigionieri vennero rilevati dalle loro custodie e condotti al supplizio. Catilina, avuta notizia della fine dei complici e disperando ormai di potere impadronirsi della città, deliberò di marciare alla volta della Gallia Transalpina, con la speranza di formarsi là una base di azione. Ma nelle colline di Pistoia, probabilmente non lungi dall’odierna Pracchia, l’esercito consolare, comandato dal legato M. Petreio, che sostituiva Antonio malato di gotta, gli sbarrò la strada. Nella battaglia che ne seguì (gennaio del 62), Catilina rimase ucciso, combattendo valorosamente alla testa dei suoi. § 130
- Il ritorno di Pompeo e il
« primo
triumvirato »
- Il ri¬
torno dall’Oriente del potente vincitore era frattanto atteso con ansia da tutti fuorché da Cicerone, che si era fatto difensore dei suoi interessi in senato e contro i suoi rivali. Che avrebbe fatto Pompeo ? Avrebbe rinnovato gli arbitri di Mario e di Siila ? Sarebbe corso col suo esercito sulla capitale, per imporre al senato la sua volontà ? Frattanto Cesare
si disponeva a partire di nuovo per la Spagna, per governare come propre¬ tore la provincia Ulteriore; Crasso, pieno di angoscio, si era ritirato coi familiari e i suoi tesori fuori d’Italia, pronto a salpare per lidi lontani al primo accenno di pericolo. Da Pompeo, invece, molto sperava Cicerone per il pubblico bene: egli aveva giudicato l’ancor giovane generale come un uomo indubbiamente ambizioso, desideroso di onori e di potenza, ma incapace di suscitare una rivoluzione per rovesciare le istituzioni dello Stato ed erigere sulle rovine della Repubblica un governo monarchico in suo nome. Se tale fu, come sembra, l’opinione che Cicerone si formò di Pompeo, non si può ne¬ gargli la lode di aver saputo ben penetrare nell’animo di quello che fu sem¬ pre il « suo uomo ». Da Gaio Gracco ad Augusto nessun uomo politico romano ha avuvo, come Pompeo, tanto facile la via all’affermazione della propria assoluta autorità nello Stato: Pompeo solo ha rifiutato di cogliere questo frutto maturo che gli si offriva, a portata di mano, che gli si donava come a nessun altro s’era donato. Né la sua rinuncia fu del genere di quella di Siila: deponendo la dittatura appena assolto quello che aveva stimato il suo do¬ vere verso la casta é verso la patria, Siila compiè un atto di piena coe¬ renza con se stesso e con tutta la sua vita; Pompeo, rifiutando la monar-
416
TRATTATO
DI STORIA
ROMANA
chia, si pose in contradizione con tutte le sue aspirazioni e con tutta la sua vita politica, nella quale non aveva fatto altro che servire alla sua ambizione, alla bramosia di gloria e di potere, mettendosi al seguito di quegli uomini e di quei partiti che via via parevano assicurargli il rag¬ giungimento di que’ suoi ideali: di Siila, prima, poi del senato, indi dei popolari, poi di nuovo del senato, infine di Cesare e, per una terza volta, ancora del senato. Il suo rifiuto fu forse in parte dovuto a un innega¬ bile senso di disciplina militaresca, divenuta per lui abitudine di vita, ad un certo ossequio alle istituzioni e al Governo, dal quale non sapeva in nessun caso liberarsi, ma anche e soprattutto ad una evidente timidez¬ za, a quella indecisione di fronte all’atto estremo ed irrevocabile, che gli derivava (come a Cicerone) dalla consapevolezza della propria
insuffi¬
cienza di fronte ad un compito indubbiamente superiore alle sue forze. Eppure la Repubblica romana era ridotta ormai in sì compassionevoli condizioni, 1 incapacita di governo dell’oligarchia senatoriale si dimostra¬ va, dopo 1 ultima restaurazione sillana, così evidente ed allarmante, che carità di patria domandava un monarca e un fondatore di monarchia. Tale fondatore di monarchia non volle essere, per egoismo o per indiffe¬ renza, Siila; non potè essere, per insufficienza, Pompeo; era destinato che fosse Cesare. Onde quando si oppone la concezione del principato di Pom¬ peo alla monarchia di Cesare, si dimentica troppo facilmente che giammai la posizione politica di Pompeo, come si delineò dopo il congedo dell’eser¬ cito, avrebbe potuto condurre ad un principato, ad un vero principato come quello di Augusto, se verso di questo non avesse aperta e insegnata la via la monarchia militare di Cesare. Sbarcato a Brindisi, Pompeo, fra la sorpresa generale, congedò l’esercito. Cicerone non sera dunque ingannato sul suo conto: egli non aspirava alla dittatura; egli si sarebbe appagato di essere, nella Repubblica, il sommo moderatore, il princeps idolatrato dal popolo e vezzeggiato dal senato, l’uomo che avrebbe guidato e ispirato, senza cariche e senza po¬ teri, il governo dello Stato. Ma così non la intendeva la maggioranza dei senatori: le sue richieste, che fossero ratificate le disposizioni da lui prese nei territori orientali e venissero premiati con distribuzioni di terre i suoi veterani, vennero respinte. Sdegnato, Pompeo prestò allora facile orecchio alle offerte di Cesare, che metteva a sua disposizione l’appoggio dei^ popolari e le ricchezze e l’influenza di Crasso presso l’ordine equestre. Cesare presentò tosto la sua candidatura al consolato per l'anno 59 l’esito delle elezioni gli fu favorevole e a collega nella somma magistratura gh toccò M. Calpurnio Bibulo, già suo amico e collega anche neledilita e nella pretura ed ora invece suo dichiarato oppositore. Fu facile
l’ascesa della potenza di cesare
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ora a Cesare conquistare definitivamente alla sua causa Pompeo e Crasso, impegnandosi col primo di fare approvare le sue richieste già respinte dal senato, al secondo promettendo disposizioni favorevoli ai capitalisti ap¬ paltatori delle imposte nelle provincie. Fu conclusa così fra i tre uomini politici una formale lega segreta - quello che fu chiamato impropriamente « primo triumvirato » - per cui essi si impegnavano a procedere d’accordo in tutte le questioni importanti, mettendo ciascuno a disposizione dei fini comuni da raggiungere le forze e i mezzi di cui disponevano: Cesare, il partito dei popolari; Crasso, l’ordine dei cavalieri; Pompeo, i suoi veterani. L’alleanza venne poco dopo consolidata dal matrimonio di Pompeo con Giulia, figlia di Cesare: un matrimonio felice che tenne salda l’unione fra i due alleati, finché Giulia visse. § 131
- Il consolato di Cesare — Entrato in carica, Cesare dette
immediatamente inizio allo svolgimento del suo programma. Da questo momento, la sua politica non rivela più nulla di occasionale e d’improv¬ visato: Cesare è in possesso di un piano preciso di azione e lo applica meto¬ dicamente; sa dove vuole andare, ha già preso di mira una mèta, anche se non è questa, fin d’ora, la mèta più lontana - la monarchia - verso la quale in seguito decisamente si avviò. Il complesso di leggi fatte approvare da Cesare durante il suo consolato, fu il più notevole e significativo dopo quello di Siila. Cesare mostrò di voler dar principio all’opera sua in accordo e con la collaborazione del senato; e ne chiese la convalidazione preventiva per una legge agraria che egli intendeva di presentare ai comizi. Questa legge si proponeva di soddi¬ sfare i desideri e i bisogni dei veterani di Pompeo e della plebe povera, escludendo però qualsiasi sottrazione di terre agli attuali possessori. Si doveva destinare alla distribuzione quanto ancora restava di pubblico demanio in Italia e terre acquistate dai privati; le proprietà,
dei nuovi
coloni dovevano restare inalienabili per vent anni, della raccolta e della distribuzione delle terre sarebbero stati incaricati venti commissari, dal numero dei quali dovevano essere esclusi, oltre Cesare, tutti gli altri ma¬ gistrati in carica. Ma il senato si ribellò all’idea che un console si facesse iniziatore di un provvedimento demagogico della specie di quelli che fino ad allora erano stati una prerogativa dei tribuni, e dichiarò la sua opposizione a qualunque novità del genere. A questo punto Crasso e Pompeo si svela¬ rono: dichiararono il loro favore alla legge, aggiungendo di esser disposti anche a ricorrere alla violenza contro gli oppositori: i veterani di Pompeo, già affluiti a Roma, facevano fede delle loro intenzioni. L’intesa dei tre, 27 - GlANNKLLI, Trattalo di Storia romana - I
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TRATTATO DI
STORIA
ROMANA
rimasta fino a quel momento segreta a tutti, si fece allora palese: il senato si.spaventò all’idea di dover combattere « il mostro a tre teste ». Portata la legge dinanzi ai Comizi Tributi, venne approvata coll’unanimità dei voti: Bibulo, che aveva cercato di opporsi con impedimenti di carattere religioso, fu cacciato dal comizio, e da quel giorno e per tutto l’anno non uscì più fuori di casa, sfogandosi contro Cesare e
Pompeo con libelli
infamanti. Non contento di ciò, Cesare impose ai senatori di giurare di non opporsi all’esecuzione della legge, minacciando l’esilio a chi non avesse prestato il giuramento: tutti giurarono, anche Catone e i suoi amici, e nell’aprile i venti commissari erano già al lavoro. In breve volger di tempo ventimila cittadini - fra i quali in prima linea i veterani di Pompeo e i padri di almeno tre figli - erano stati provveduti di terreni. Noncurante ormai del senato e padrone dei comizi, Cesare procedé ora rapidamente a fare approvare tutte quelle leggi che gli sembrarono neces¬ sarie a consolidare la sua potenza e a fare sparire future cause di attriti fra i membri della triplice coalizione. Alcune di queste leggi vennero pre¬ sentate ai comizi dal tribuno P. Vatinio. Si provvide anzitutto alla ratifica per legge di tutta l’opera svolta da Pompeo in Oriente e della sistemazione da lui data a quelle regioni (lex Iulia de actis Pompei); indi fu risolta la questione dell Egitto (lex dulia de Ptolomaeo Aulete), riconoscendo la le¬ gittimità della corona di Tolomeo Aulete (che promise di sborsare, in com¬ penso, seimila talenti); anche fu approvata, conriera desiderio di Crasso, la legge che riduceva di un terzo il canone d’appalto dell’imposte d’Asia (lex Iulia de publicanis). L operosità legislativa di quest’anno culminò nella lex Vatinia de provincia Caesaris, portata dinanzi ai Comizi Tributi nel maggio o nel giugno e per la quale veniva assicurato a Cesare il governo della Gallia Cisalpina e dell’Illirico (ordinariamente riunito alla Macedonia), con tre legioni e con la facoltà per il proconsole di nominare direttamente i suoi legati. La clausola più importante della legge era però quella concernente la durata del proconsolato, che veniva fissata fino alla scadenza del 28 febbraio del 54, e cioè, praticamente, per un quinquennio, perché
difficilmente
Cesare avrebbe potuto essere sostituito dal suo successore nel governo prima della fine di quell’anno. Essendo subito dopo rimasto vacante il governo
della
Gallia Narbonese,
per
l’improvvisa
morte di Metello
Celere, il senato non osò opporsi alia proposta di Pompeo, che anche que¬ sta provincia venisse assegnata a Cesare, con una legione. Né l’attività legislativa di quell’anno si fermò
qui. Un’altra legge
Giulia ordinò la pubblicità dei processi verbali del senato e degli atti dei magistrati (acta senatus et populi Romani): un’altra ancora (de pecuniis
l’ascesa della potenza DI CESARE
419
repetundis) provvide a regolare la definizione giuridica del reato di con¬ cussione. Si avvicinava la fine dell’anno consolare, di questo anno 59 che segnò il tramonto della potenza del senato; non soltanto Cesare aveva, dopo il ritiro di Bibulo, governato praticamente da solo, vero console senza collega, ma, quel che più conta, egli aveva potuto, spalleggiato dai due potenti amici, condurre a buon porto come quello di Gaio Gracco,
un programma
legislativo che,
assicurava al suo autore un periodo in¬
definito di predominio nella politica dello Stato. L’autorità del senato era ormai soppiantata dalla potenza personale dei tre capi, ciascuno dei quali poteva contare su di una vasta e devota clientela. § 132
- Il tribunato di Clodio - Prima di lasciare la magistratura
per recarsi in provincia, Cesare provvide ad allargare ancora il numero e il potere dei suoi sostenitori in Roma. Dei due consoli designati per il 58, l’uno era Gabinio,
il
fedelissimo di
Pompeo, l’altro L. Calpurnio
Pisone; Cesare ne sposò in quarte nozze la figlia Calpurnia, per avere cosi un suo parente nel consolato. Ma gli occorreva un uomo più energico, più deciso, più pronto a buttarsi allo sbaraglio: e trovò quest’uomo proprio in P. Clodio, nel patrizio che aveva offeso due anni prima la sua casa e scandalizzato tutta Roma col suo audace e sacrilego intervento fra le matrone ivi radunate a celebrare il rito della Bona Dea. Come patrizio e come nobile, Clodio era un uomo politicamente rovinato; soltanto an¬ dando a militare nelle file dei popolari e al seguito dei « triumviri », avreb¬ be potuto rifarsi una carriera e una fortuna. Cesare lo chiamò a sé e Clodio gli si dette: lo aiutò ad ottenere il passaggio alla plebe e quindi a riuscire eletto tribuno. Entrato in carica il 10 dicembre, Clodio si accinse a far passare una serie di leggi, destinate ad assicurargli per tutto quell’anno la padronanza dei comizi: ai primi di gennaio questo complesso di leggi era già un fatto compiuto. Cesare si apprestava a partire per la sua provincia: ma aspettò ad allontanarsi da Roma, che fosse bene avviata l’opera del suo fido tri¬ buno, il quale si preparava a privare il senato dei suoi due più auto¬ revoli capi, Cicerone e Catone, nel primo dei quali Clodio vedeva per di più un nemico personale, per la deposizione a lui contraria prestata nel famoso processo di sacrilegio. Una legge, presentata da Clodio nel feb¬ braio del 58, intimava Yinterdictio aqua et igni, e cioè un rigoroso esilio, a chiunque condannasse, o avesse condannato, a morte un cittadino romano senza concedergli l’appello al popolo. Cicerone non era nominato, ma la legge mirava evidentemente a lui: l'oratore, angosciato, cercò da ogni
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
parte aiuti, ma le sue suppliche rimasero senza effetto. Tutti ebbero ti¬ more di cadere in disgrazia dei potenti « triumviri ». Cesare — che aveva invano tentato di attirare a sé in modo onorevole l’illustre consolare — appoggiò apertamente Clodio, affermando la colpevolezza di Cicerone; Pom¬ peo, gravemente imbarazzato tra le pressioni di Cicerone e quelle di Cesare, si allontanò con un pretesto da Roma. Alla vigilia del voto sulla rogazione; di Clodio (21 marzo), o forse anche prima, Cicerone abbandonò Roma in volontario esilio, e ne rimase lontano sino all’estate del 57. Pochi giorni dopo la partenza dell’oratore, una seconda
legge del tribuno intimava
specificamente a Cicerone di rimanere non meno di 400 miglia distante da Roma e ne vietava il richiamo. Catone venne invece allontanto con 1 onorifico incarico di provvedere all incameramento dell’isola di Cipro, secondo i patti convenuti con To¬ lomeo Aulete. Per quanto a malincuore, il severo senatore, nel suo scru¬ poloso ossequio delle leggi, non potè rifiutarsi di obbedire al comando del popolo: partì di lì a poco da Roma, per non ritornarvi se non verso la fine del 56. Finalmente Cesare poteva recarsi nella sua provincia; Clodio aveva ora dinanzi a sé, a Roma, un compito non troppo difficile.
II DALLA GUERRA GALLICA ALLA GUERRA CIVILE § 133
- La
provincia di Cesare - Non a caso Cesare si era fatto
conferire il governo proconsolare delle due Gallie; egli era certo che qui avrebbe avuto modo di assicurarsi ciò che ancora mancava alla sua po¬ tenza: la gloria di una guerra e di una conquista, un esercito devoto ed allenato. La Gallia Cisalpina rispondeva meglio di ogni altra provincia a tale scopo ed offriva inoltre il vantaggio di essere la più vicina alla capitale; in essa poi risiedevano i Transpadani, alla cui causa Cesare aveva portato, fin da otto anni prima, tutto il suo appoggio e la sua simpatia (cfr. al § 129). Anche più lusinghiere
apparivano le prospettive militari per il
futuro governatore della Cisalpina: al confine delle Alpi erano in corso spostamenti e contese di popoli, che turbavano gravemente gli interessi romani e minacciavano la tranquillità della provincia Narbonese. Il go¬ verno di questa provincia, anzi, sarebbe stato il più adatto a preparare
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA
GUERRA
CIVILE
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e ad operare un intervento militare nelle Gallie; la fortuna assistè Cesare, togliendo di vita il governatore della Narbonese, Metello, prima della fine del 58, e offrendogli così l’opportunità di farsi aggiungere il governo di quella provincia. Allora dovè apparire alla mente di Cesare il magnifi¬ co campo che si apriva, nella Gallia, alla sua attività. La guerra, già ine¬ vitabile ai confini della provincia transalpina, poteva essere resa più vasta e più lunga, sì da fornire al capitano che l’avesse diretta, una gloria e un esercito superiori a quelli stessi di Pompeo; si sarebbe potuto sottomet¬ tere a Roma una regione immensa e ricca non di tesori, come l’Oriente, ma di possibilità di lavoro e di sfruttamento da parte delle plebi e delle classi medie italiche; si sarebbe ingrandito, con tale conquista, non sol¬ tanto il perimetro del dominio romano, ma il suolo stesso della romanità. Il compito futuro, che Cesare vide e si assegnò fin da allora, non fu soltanto quello dell’uomo di parte che aveva adocchiato un mezzo, unico al mondo, di crearsi una straordinaria potenza, di moltiplicare il numero dei partigiani e degli amici, sì da soverchiare avversari e rivali ; fu so¬ prattutto il cómpito dell’uomo di Stato che aveva compreso (per il primo fra i Romani antichi) che era stato facile far entrare l’Oriente nei confini della signoria romana, ma che solo l'Occidente poteva essere condotto e mantenuto nell’orbita della civiltà di Roma. L’intervento diretto dei Romani nella Gallia meridionale era cominciato nel 154, quando essi avevano dovuto proteggere Marsiglia dalla minac¬ cia dei Liguri. Nel 125 era cominciata una campagna contro i Salluvì, che furono vinti dal console Fiacco e poi da Sestio Calvino, che distrusse la loro capitale e fondò la cittadella di Aquae Sexliae (122 a.C.). Il re dei Salluvì si rifugiò allora presso gli Allobrogi, clienti della numerosa nazione degli Arverni. Minacciati da questi, gli Edui chiesero di essere accolti nell’alleanza romana: due eserciti romani, guidati da
Domizio
Enobarbo e da Fabio Massimo, vinsero gli Arverni e il loro re Bituito nel 122 e nel 121. Domizio occupò Tolosa e costruì la via Domitia dalPerthus al Rodano; poco dopo, ad opera del giovane oratore Licinio Crasso, fu fon¬ data Narbo Martius, la prima delle colonie
romane fuori d’Italia (118
a.C.) (cfr. al § 115). Le vittorie di Domizio Enobarbo e di Fabio Massimo Allobrogico non avevano soltanto dato a Roma una nuova provincia, avevano anche aper¬ to una via di penetrazione per l’influenza romana nella Gallia rimasta indipendente, paese fertile, assai densamente popolato da numerose genti di stirpe celtica. Nella parte meridionale, ad occidente dei confini della Narbonese, erano stanziati gli Aquilani, mescolati con elementi iberici; a nord della provincia si stendeva il territorio abitato dai Galli propria-
422
TRATTATO
DI STORIA ROMANA
mente detti, con le genti principali degli Arverni, degli Edui e dei Se¬ quani e, più a nord, dei Senoni e dei Lingotti: nella parte più settentrio¬ nale del paese si trovavano varie genti appartenenti alla stirpe dei Belgi, i meno progrediti fra tutti i Celti e fortemente amalgamati con elementi germanici. Sulle regioni costiere occidentali erano stanziate le genti degli Aremorici, appartenenti allo stesso ceppo etnico dèi Senoni e dei Lingoni. Le popolazioni celtiche della Gallia vivevano raggruppate in organismi politici cantonali (sulla base dei clan) e presso di loro non aveva allignato il concetto politico greco-italico della polis: una grande potenza, anche politica, aveva acquistato in mezzo ad esse l’elemento sacerdotale rappre¬ sentato dai Druidi. Durante i primi decenni del primo secolo la vita in¬ terna dei vari Stati celtici fu turbata da lotte intestine assai gravi tra una fazione conservatrice e aristocratica, che tendeva a mantenere a capo dei clan coloro a cui tale supremazia spettava per diritto ereditario, e un partito democratico, il quale, appoggiato dai Druidi e costituito specialmente dal popolo delle città, aspirava a rendere elettivo il governo dei singoli cantoni. A questi turbamenti interni si erano aggiunti poi, fra le genti della Gallia centrale, forti contrasti per il primato. Vi aspiravano gli Edui, fra i quali aveva trionfato il partito druidico e popolare, orgo¬ gliosi della alleanza e della protezione di Roma: li contrastavano Arverni e Sequani, i quali ultimi avevano sollecitato l’aiuto del re Ariovisto, capo della gente germanica degli Svevi, stanziata ad oriente del Reno. Intorno al 70 a.C., Ariovisto era passato in Gallia, sconfiggendo ripe¬ tutamente gli Edui e stanziando indi le sue genti in una parte del terri¬ torio dei Sequani, l’odierna Alsazia. Mentre i Sequani, sdegnati del pro¬ cedere di Ariovisto, si ribellavano contro l’antico alleato, gli Edui, costretti dal re germanico a dare ostaggi e considerarsi suoi tributari, si rivolsero per aiuto a Roma, dove giunsero, nell’anno 61, Diviziaco ed altri notabili di quel popolo a perorare la loro causa presso il senato. Il senato si inter¬ pose allora m favore di essi presso Ariovisto; ed avendo questi accondi¬ sceso al desiderio di Roma, fu riconosciuto, a titolo di compenso, amico od alleato del popolo romano. Frattanto però maturavano altre cause di agitazione e di preoccupa¬ zione in un’altra zona limitrofa alla provincia. I Celti Elvezi, premuti da genti germaniche avanzanti da nord-est, avevano lasciato il loro paese ad oriente del Giura, in cerca di nuove sedi, e pareva avessero intenzione di valicare il Rodano e penetrare nella provincia romana. §134
-
La
sottomissione
della
Gallia
-
Se Cesare,
com’è
pro¬
babile, aveva già disegnato, nelle grandi linee, l’azione da svolgere in
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA GUERRA
CIVILE
423
Gallia, non era d’altra parte possibile iniziarne lo svolgimento se prima non si fossero rese inoffensive le fiere tribù alpine degli Elvezi: onde Ce¬ sare, che era rimasto in Italia fino al marzo del 58, mandò in lungo le trattative con gli ambasciatori degli Elvezi che eran venuti ad incontrarlo nella Narbonese, finché le legioni acquartierate nella Cisalpina non l’eb¬ bero raggiunto a marce forzate. Ebbe tempo di ritornare nella Cisalpina ed arruolare ancora due legioni, sicché potè subito disporre di un esercito di sei legioni con numerosi corpi ausiliari: nel suo Stato Maggiore erano Publio Crasso, il figlio del plutocrate, e Tito Labieno, il suo fedele luogotenente. Fortificati i passaggi del Rodano per impedire agli Elvezi l’invasione della Gallia da questa parte, avendo essi cominciato allora a penetrare più a nord nel territorio degli Edui, Cesare, dopo avere duramente battuto la retroguardia del nemico, passò anch’egli sulla destra del fiume e si pose alla calcagna dell’orda barbarica. Presso Bibracte (Autun), la capitale degli Edui, si venne a giornata; era tempo, perché la lunga marcia aveva stancato le milizie di Cesare e inoltre il partito antiromano degli Edui già se la intendeva col nemico. I Romani pagarono a caro prezzo la vittoria e gli Elvezi ottennero assai miti condizioni di pace. Una parte di essi fu¬ rono invitati a rimanere in una vasta zona di territorio, che gli Edui ac¬ consentirono a cedere loro; i rimanenti dovettero ritornare nelle loro an¬ tiche sedi. Cesare evitava così che quella naturale fortezza fra la Germania e la Gallia, rimasta priva dei suoi abitanti, divenisse fin d’allora stabile sede dei Germani. Ora Cesare doveva pensare che era stato accolto dai Galli come il libe¬ ratore del loro suolo dalla minaccia germanica. Ariovisto era stato ricevuto nell’alleanza romana; ma Cesare gli intimò tuttavia di attenersi alle con¬ dizioni da lui già accettate, di rispettare i territori dei Galli, di non far passare altri suoi connazionali di qua dal Reno, di restituire agli Edui gli ostaggi, di non compiere soperchierie contro di loro e contro i Sequani. Ariovisto rispose con arroganza: si riconosceva alleato di Roma, ma in¬ tendeva trattare da pari a pari con la potente alleata. La provocazione era sufficiente perché Cesare si mettesse in marcia contro il nemico. Penetrò nel paese dei Sequani, occupandone la capitale Vesonzione (Besanyon); dopo un vano colloquio con Ariovisto, assalì e sconfisse i Germani nell’Alsazia superiore (nelle vicinanze dell’odierna Mulhouse), obbligandoli a ripassare il Reno (metà settembre). Questa vittoria, che arrestò per allora i tentativi germanici di invasione in Gallia, fu di vitale importanza per l’avvenire dei Celti. Senza 1 intervento di C e¬ sare e dei Romani, la civiltà celtica, già avviata alla decadenza, non avreb-
424
TRATTATO DI STORIA
ROMANA
be potuto a lungo resistere alla pressione delle fresche e vigorose orde ger¬ maniche e ne sarebbe rimasta in non lungo volger di tempo
fatalmente
assorbita: la Francia deve a Roma e a Cesare non solo il suo ingresso nel¬ l’orbita della civiltà mediterranea, ma anche la salvezza e la conservazione di quegli elementi celtici, cioè nazionali, che rimasero
a far parte della
sua cultura romanizzata. Nell’inverno tra il 58 e il 57 tenervi
la consueta
Cesare
si trattenne nella Cisalpina,
assemblea provinciale
per
(convenlus) e per sorvegliare
più da vicino gli affari di Roma. Gli giunsero frattanto
notizie
di
una
preoccupante agitazione di varie tribù galliche del nord, insofferenti della vicinanza delle vittoriose legioni. Valendosi largamente
del
suo imperio
proconsolare e prendendo su di sé la responsabilità di un ulteriore allar¬ gamento della guerra (così come aveva fatto Lucullo in Asia), arruolò nella Cisalpina due nuove legioni e al principio della primavera raggiunse con esse i suoi soldati. L impresa si annunziava difficile: le tribù belgiche erano numerose e le più guerriere fra tutti i Galli; tuttavia Cesare decise di marciare di esse nel loro stesso paese, dopo avere indotto
gli
Edui
a
contro
cooperare
alla guerra invadendo il paese dei Bellovaci. Di fronte al grave pericolo, tutti ì cantoni belgi riunirono le loro forze, all’infuori della gente dei Remi, che aderì alla causa romana. Sull Aisne, dopo che i due eserciti furono rimasti alcuni giorni l’uno di fronte all’altro, s’impegnò una grande battaglia, che fu decisa in
favore
dei Romani: in seguito alla sconfitta, i cantoni occidentali dei Suessioni, dei Beilovaci e degli Ambiani si sottomisero a Cesare.
L’ultima eroica
resistenza venne opposta dai Nervii, ma anch’essi e i loro alleati furono duramente battuti e sottomessi. Ancora nel 57, sotto l’impressione delle rapide e schiaccianti vittorie conseguite da Cesare nel paese dei Belgi, gli Aremorici ed altre tribù del territorio costiero gallico, come i Veneti e gli Aquitani, offrirono la loro sottomissione al proconsole: le legioni posero i loro quartieri d’inverno sulla Loira, nel bel mezzo del paese dei Celti. A questo punto Cesare, precorrendo gli eventi, annunziò al senato
che
nessun ostacolo si frapponeva all’ordinamento a provincia delle conquiste da lui fatte in quei tre anni. Era un’affermazione temeraria: romano era tutt’altro che consolidato in quelle regioni
in
il
dominio
continua
aperta rivolta, alcune delle quali erano state appena attraversate
ed
dalle
milizie di Cesare. Ma Cesare non poteva ora preoccuparsi di tutto questole nuove che venivano da Roma non erano affatto rassicuranti; bisognava che la sua autorità fosse rinfrescata e rafforzata nell’Urbe
dalla
notizia
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA
GUERRA
425
CIVILE
di straordinari successi. E il popolo di Roma si abbandonò infatti morose manifestazioni di giubilo, alla novella che tutta nuta in meno di tre anni in suo potere; il senato non partecipare
a cla¬
la Gallia era ve¬ potè astenersi dal
all’entusiasmo generale, ordinò una supplicazione di quindici
giorni e inviò incontro al proconsole una deputazione
a
porgergli le feli¬
citazioni per la vittoria.
§ 135
- Gli accordi di Lucca : Pompeo e il senato dal 55 al 52
—
Giulio Cesare, mentre operando nel nord poneva le solide basi della sua potenza militare, sosteneva e rinforzava di giorno in giorno la sua posi¬ zione in Roma, dove aveva lasciato i suoi fautori, sempre ben forniti di denaro e in possesso, via via, di importanti magistrature e di cariche che permettevano loro di agire con la massima efficacia. Con questi uomini egli si teneva in continua corrispondenza, anche dalle regioni più lontane della Gallia, dirigendo così dal suo Quartier Generale la politica interna di Roma: ciò che, oltre ad irritare e ad insospettire sempre di più il sena¬ to, non poteva esser gradito neppure ai suoi due colleghi, e specialmente a Pompeo. Questi sentiva un vivo e sincero rimorso di aver lasciato rovinare l’uomo a cui doveva gran parte de’ suoi successi politici e che aveva rappresen¬ tato in ogni momento, e avrebbe potuto rappresentare anche in seguito, il tratto d’unione più sicuro fra lui e il senato. In Roma e in varie parti d’Italia si andò determinando un movimento favorevole al richiamo di Cicerone e Pompeo non nascose le sue simpatie verso un siffatto proposito. Ma Clodio non era uomo da passar sopra alla sua inimicizia mortale con¬ tro Cicerone. Quando si accorse del proposito di Pompeo, fece immedia¬ tamente ricorso ai soliti mezzi, alle minacce, alle violenze, agli attentati, per impedirne l’esecuzione: non si peritò di danneggiare lo stesso Cesare, pur di riuscire nell’intento. Gli ottimati ne furono esasperati, reagirono e le ele¬ zioni per il 57 furono favorevoli alla nobiltà. Fra i nuovi tribuni della plebe Pompeo potè trovarne uno, T. Annio Milone, che accettò di reclu¬ tare bande di partigiani per tener testa alla canaglia assoldata da Clodio. È facile indovinare in quali condizioni dovè ridursi la vita
politica di
Roma nei primi mesi del 57; ma nel luglio, sotto la protezione delle bande armate di Milone, il senato approvò, quasi alla unanimità, il richiamo di Cicerone,
sanzionato
subito
dopo
(4 agosto) dai Comizi
Centuriati.
Rientrato trionfalmente in Roma, Cicerone volle dar subito una prova della sua gratitudine verso Pompeo, proponendo in senato che a questi venisse affidata la cura dell’annona il
territorio
della
Repubblica
e
(potestas rei frumentariae)
con
imperio
proconsolare
per
per
tutto cinque
426
TRATTATO DI STORIA ROMANA
anni: la legge fu approvata. Si era così di nuovo conferita a Pompeo una posizione eccezionale ;
ma egli aspirava anche ad un comando militare
che potesse controbilanciare quello di Cesare: e intanto anche in Crasso si ridestavano le antiche rivalità e le mal sopite ambizioni. Il senato riprendeva vigore e baldanza: già era stata chiesta da un tri¬ buno del partito senatorio la revoca parziale della legge agraria: e uno dei candidati al consolato per il 55, L. Domizio Enobarbo, aveva dichia¬ rato che egli, come console, avrebbe proposto la revoca del proconsolato di Cesare, lu questo il momento in cui Cesare si persuase della necessità di intervenire senza indugio per salvare il traballante edifìcio dell’intesa personale da una completa rovina.
Questo appariva del resto anche a
Pompeo essere nel proprio interesse: l’ostilità di Clodio e del senato gli era già troppo onerosa da sopportare; 1 attacco alla legge agraria metteva in pericolo i suoi veterani, fra i quali dovevano andar distribuite, o già erano state distribuite, quelle terre dell’agro campano che ora si volevano rimettere in discussione; l’animosità di Crasso aggravava infine ancora di più la sua posizione. Cesare venne nell aprile a Ravenna e di qui si portò a Lucca, per con¬ ferire in questa città con Pomjièo e con Crasso. Il convegno di Lucca fornì la misura della forza di Cesare e del prestigio che il
suo nome go¬
deva in Italia: duecento senatori vi accorsero a rendergli omaggio e in quella città si trovarono allora riuniti tanti magistrati con imperio che vi si contarono
120 littori.
Il piano escogitato da Cesare per salvare il triumvirato si concretò in questo accordo: Pompeo e Crasso, riconciliatisi, si sarebbero portati can¬ didati al consolato per l’anno 55: indi Crasso avrebbe ottenuto il procon¬ solato della Siria con l’incarico della guerra ai Parti, Pompeo quello delle due Spagne per una durata di cinque anni; d’altra parte anche a Cesare sarebbe stato prorogato per
altri cinque anni il comando delle Gallie.
Per volontà di Pompeo, A. Gabinio (il tribuno del 67, allora governatore della Sma) avrebbe ricevuto l’incarico di ricondurre sul trono d’Egitto il re Tolomeo Aulete, che nera stato cacciato da una rivoluzione. Fu inol¬ tre riconosciuta la facoltà a Cesare di tenere in armi dieci legioni, allo stipendio delle quali avrebbe dovuto provvedere il pubblico erario. Benché il termine regolare per presentare la candidatura al
consolato
osse già spirato, si tennero elezioni speciali, nelle quali Pompeo e Crasso riuscirono eletti consoli per l’anno 55. Essi provvidero a trasformare in altrettante proposte di legge, e a farle approvare, tutte le disposizioni p
se nel convegno di Lucca. Crasso si recò in Oriente nel novembre del
55, Pompeo fece invece amministrare le sue provincie da legati, dovendo
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA
GUERRA
427
CIVILE
tenersi nelle vicinanze di Roma, per assolvere il suo incarico annonario. Gabinio ricevette ed assolse la sua missione in Egitto. Misera fine aspettava Crasso nella sua provincia di Siria. Il conflitto che si andava svolgendo allora tra il re dei Parti Orode e il fratello Mitri¬ date, offriva una base favorevole d’intervento a Crasso, che sperava di ricavarne gloria militare e prestigio non inferiori a quelli di Cesare e di Pompeo. Dopo una prima campagna nel 54, che lo portò, attraverso la Mesopotamia, sino al fiume Balissos (odierno Belikh), notevoli resistenze, nell’anno successivo,
senza incontrare
ricevuti i rinforzi di cavalleria
che Cesare gli inviò dalla Gallia al comando del figlio P. Crasso, si rimise in marcia, nell’aprile, e dalla Siria, dove aveva svernato, si diresse su Seleucia e Ctesifonte, attraversando le steppe della Mesopotamia.
Venuto
a contatto col nemico nelle vicinanze del fiume Balissos, a sud di Carré, Crasso volle attaccar battaglia, in condizioni sfavorevolissime per i suoi soldati, affaticati dalla marcia e dal caldo opprimente e inferiori grande¬ mente al nemico in forze di cavalleria. La battaglia, nella quale Publio lasciò la vita, fu perduta dai Romani; ma il sopraggiungere della notte salvò l’esercito dalla distruzione. Disimpegnate le truppe per opera de' suoi luogotenenti, Crasso ne lasciò praticamente ad essi il comando: in¬ calzati di nuovo i Romani dal nemico, avendo il comandante dei Parti, il Surena, invitato Crasso ad un colloquio, il proconsole, costretto dai sol¬ dati, vi si recò: quivi egli fu trucidato con tutto il suo seguito. Solo po¬ chissimi dei suoi riuscirono a trarsi in salvo, sfuggendo alla morte o alla prigionia. I Parti riconquistarono la Mesopotamia e di lì a pochi anni varcarono l’Eufrate e minacciarono perfino la provincia romana della Siria.
La geniale creazione di Cesare - l’accordo tripartito - crollava con la morte di Crasso: troppo difficile sarebbe stato ora per il conquistatore delle Gallie impedire o ritardare il ravvicinamento di Pompeo al senato, tanto più che anche Giulia era morta nell’estate del 54. Nel 53 e nel 52 l’anarchia andò dilagando a Roma: non si poterono tenere le elezioni con¬ solari per il 53, ma la speranza di Pompeo, di esser creato dittatore, ri¬ mase frustrata dalla riluttanza dei senatori a giungere fino a tal punto di abdicazione. Nuovi e più gravi disordini insorsero per le elezioni del 52, aspirando al consolato Milone, alla pretura Clodio: le bande armate dei capi politici rivali spadroneggiavano in città,
né
fu possibile tenere alcun comizio
elettorale. Il 18 gennaio del 52 Clodio fu ucciso sulla via Appia dalla banda di Milone e la plebe celebrò i funerali del suo favorito in mezzo a tumulti indescrivibili: andò in fiamme la Curia Ostilia insieme con la vicina Basi-
428
TRATTATO DI STORIA ROMANA
lica Porcia e con altri edifìci. Allora il senato dette facoltà a Pompeo di far leve per proteggere la città e alla fine di febbraio deliberò di nominare Pompeo unico console (consul sine collega). Cosi Pompeo aveva raggiunto la mèta agognata: egli era ora l’uomo di fiducia dell’oligarchia senatoria, il cittadino cui veniva affidata la protezione della Repubblica e della sua costituzione; era dunque il princeps. Suo cómpito era evidentemente quello di collaborare col governo senatorio per sventare i piani di signoria di Cesare. §
136
-
Le ultime campagne galliche
-
Per
quanto
ci
fosse da
aspettarsi l’insorgere di opposizioni e di ribellioni, tuttavia, sulla fine del 56, la situazione in Gallia si presentava così sicura che Cesare non esitò a condurre spedizioni oltre i confini del paese. Nel corso delle campagne nel Belgio e nella regione costiera era apparso chiaro che quelle tribù galliche potevano contare sull’appoggio dei loro connazionali di Britannia e delle genti germaniche d’oltre Reno: sembrò pertanto opportuno a Cesare indurre in queste regioni un salutare timore delle armi romane. Cesare si volse anzitutto contro le genti germaniche degli Usipeti e dei Tencteri, che avevano traversato il Reno, spingendo le loro scorrerie fin nel territorio dei Treviri: annientate quelle orde, fece gettare un ponte sul fiume e passò sulla riva destra, attraversando il paese de’ suoi alleati Ubii e obbligando Svevi e Sigambri a ritirarsi lontano dal fiume. Quindi fece ritorno sulla sinistra del fiume, distruggendo subito dopo il ponte. Nei pochi mesi rimasti della buona stagione del 55 fu compiuto un primo sbarco in Britannia a scopo esplorativo, con due legioni; ma per la prima¬ vera del 54 Cesare fece allestire una grande flotta da trasporto e trasferì in Britannia un grosso esercito di cinque legioni, col quale avanzò fino oltre il Tamigi. Ottenuta la sottomissione di parecchie tribù, Cesare ri¬ nuncio a svernare nell’isola, lasciandovi però buoni punti d’appoggio per un ulteriore ripresa del piano di conquista. Tuttavia la spedizione audace condotta dal proconsole in quell’isola, della quale i Romani non avevano e e vaghe e imperfettissime cognizioni, fece grande impressione nell’Urbe uomo di impresa condotta in un mondo nuovo e sconosciuto
Ma intanto erano maturati, nelle Gallie, i fermenti di rivolta che da pa¬ recchi mesi operavano attivamente. I GalU cominciavano a capire che accettando
a protezione romana contro i Germani, avevano in realtà
perduto la loro indipendenza e si mostravano decisi a scuotere il giogo che riusciva loro insopportabile. La rivolta scoppiò sul finire del 53 e in breve divenne generale, sotto la guida d. Vercingetorige, re degli Arverni. Cesare portò la sua armata a
DALLA
dieci
legioni e si
GUERRA
GALLICA
accinse a domare
ALLA
GUERRA
429
CIVILE
l’insurrezione:
ma
il compito
del
duce romano appariva difficilissimo, perché i Galli evitavano ogni bat¬ taglia campale e stancavano ed esaurivano i nemici con una guerra di imboscate e d’insidie, devastando il paese, incendiando i villaggi, taglian¬ do la via ai rifornimenti. In questa seconda parte della guerra gallica, Ce¬ sare mostrò tutto il suo genio strategico, e l’abilità e le infinite risorse della sua tattica. Gli riuscì finalmente di costringere Vercingetorige a battaglia: il re dei Galli fu sconfitto e costretto a rinchiudersi nella città di Alesia (a nord-ovest dell’odierna Digione), che Cesare cinse di poderoso assedio. Invano i Galli tentarono, accorrendo con un grande esercito, di liberare gli assediati: furono nuovamente battuti e Vercingetorige obbli¬ gato alla resa (52 a.C.). Alla caduta di Alesia seguì la sottomissione di tutte le popolazioni
galliche, che
nel corso
dell’anno 50 poteva dirsi
completa. Cesare regolò senz’altro da sé l’ordinamento della Gallia, concedendo trattati d’alleanza ai popoli che avevano contribuito alla sua vittoria - Edui, Remi e Lingoni - e riducendo tutti gli altri in condizione di tri¬ butari: così anche la Gallia entrò nel novero delle provincie romane. La conquista romana delle Gallie rappresenta, nella storia dell’antichità, un fatto di capitale importanza. Per essa l’Europa centrale fu aperta alla civiltà mediterranea, nella cui orbita vennero così a gravitare non solo le terre direttamente assoggettate dai Romani, ma tutte le regioni poste fra l’Atlantico e la Vistola; in quella conquista ha le sue basi la moderna civiltà francese, civiltà latina su fondo celtico; senza la conquista di Ce¬ sare, il territorio e la civiltà dei Celti sarebbero stati in breve volger di tempo completamente sommersi sotto l’irruente marea dell’ancor barbaro germanesimo. § 137
- L’ « ultimatum » a Cesare
- Nel 51 a.C. Cicerone pubblicò
il suo De re puòlica: ivi noi troviamo efficacemente rappresentata 1 idea che andava allora facendosi strada nelle menti più aperte dell’aristocrazia senatoriale romana; l’idea, cioè, di un compromesso fra le aspirazioni po¬ litiche dell’oligarchia e la necessità di un governo personale, che aveva ormai dato ottima prova fuori di Roma, nell’amministrazione delle pro¬ vinole e nella direzione delle guerre. Questo compromesso poteva concre¬ tarsi soltanto nel « principato », cioè nella signoria del «primo cittadino» (princeps), al quale si fosse d’accordo di affidare, per i suoi meriti perso¬ nali e per la fiducia che tutti i buoni riponevano in lui,
il governo della
repubblica, che egli avrebbe esercitato in armonica concordia ordini dei cittadini. E forse Cicerone intendeva additare
coi vari
in Pompeo il
430
TRATTATO DI
STORIA
ROMANA
« princeps « da lui vagheggiato; in ogni modo, è certo che Pompeo come tale si comportò dal 52 in poi e come tale lo considerarono il senato e tutti gli ottimati. Non mancò Pompeo, del resto, di avere per Cesare il dovuto riguardo: Cesare aveva consentito al suo consolato singolo e Pompeo, da parte sua, fece approvare una legge tribunizia, che riconosceva a
Cesare
il privi-
legio di presentare la candidatura al consolato per l’anno 48 rimanendo nella sua provincia e passando così dalla posizione di proconsole a quella di console, senza interruzione. Ma subito un’altra legge, de iure magistratuum,
dopo Pompeo fece approvare
con cui si faceva obbligo ai candi¬
dati di presentare la candidatura di persona. Sorse così quella questione di diritto, che si trascinò per diciotto mesi e dietro la quale Pompeo na¬ scose fin all ultimo la sua diretta responsabilità nella guerra civile, lascian¬ do che su di essa si azzuffassero i rappresentanti di Cesare e i partigiani del senato, senza un suo palese intervento personale. Poteva la legge tri¬ bunizia ad personam essere invalidata nei confronti di Cesare dal conte¬ nuto generale della legge di Pompeo ?
Contemporaneamente
il senato
provvide ad allungare i termini del proconsolato di Pompeo, facendoglielo prorogare di altri cinque anni, cioè, come pare, dalla fine del 52 alla fine del 47. Cesare si trovava allora in una superba posizione di potenza: il suo eser¬ cito, cresciuto ormai alla forza di 11 legioni (Cesare ne aveva arruolate altre due nel 53 e una ne aveva ricevuta da Pompeo), era perfettamente istruito ed allenato, splendidamente equipaggiato,
devoto alla sua per¬
sona; la sua cassa era ben rimpinzata dai tributi e dai saccheggi del ter¬ ritorio gallico; tutta la popolazione della Gallia Cisalpina, ch’egli aveva sempre trattato più da territorio cittadino che da provincia, gli era rico¬ noscente e fedele. Mai avrebbe Cesare, in questo momento, consegnato le sue provincie e sciolto il suo esercito, di fronte ad una oligarchia ostile e ad un rivale che aveva proprio allora consolidato la sua posizione col prolungamento del comando nella Spagna. Egli era disposto a prendere tutte le misure che gli avessero consentito di conservare il suo imperio in maniera legittima, ma era ugualmente pronto a combattere per il suo
potere in Roma anche con le armi, se a questa dura necessità si fosse dovuto arrivare. In base agli accordi di Lucca, Pimperio proconsolare di Cesare era stato prorogato per cinque anni, con la precisa determinazione che non si do¬ vesse trattare in senato della sua sostituzione in Gallia prima del marzo del 50; e siccome le provincie per il 49 si dovevano assegnare regolarmente prima di questa data, cosi la posizione di Cesare rimaneva sicura per tutto
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA
GUERRA
431
CIVILE
l'anno 49. Prima della fine di quest’anno, egli avrebbe poi potuto - in grazia della legge tribunizia promossa da Pompeo - presentare la sua candidatura al consolato per l’anno 48, essendo trascorso il regolare in¬ tervallo di dieci anni dal suo primo consolato. D’altra parte, questa salda posizione di Cesare risultava indebolita,
come s’è detto, dalla seconda
legge di Pompeo, che prescriveva la presenza personale per la candida¬ tura; né aveva validità giuridica una clausola che esentava da quest’obbligo i privilegi speciali, aggiunta da Pompeo troppo tardi, quando la legge era già stata depositata nell’archivio. I conflitti intorno a tali questioni occuparono tutto l’anno 51, per il quale erano stati eletti consoli Servio Sulpicio Rufo e M. Claudio Marcello; quest’ultimo, un conservatore intransigente, spiegò per tutto l’anno una azione violenta e implacabile,
assecondando
l’intenzione del senato e
andando forse oltre le segrete ma sempre timide mire di Pompeo.
Tut¬
tavia il senato decise che la questione della successione di Cesare sarebbe stata posta in discussione il primo marzo dell’anno successivo (50). E in quest’anno la lotta seguitò, continua e serrata. Da una parte Ce¬ sare reclamava che gli si permettesse di presentarsi candidato alle elezioni consolari e si facesse in favor suo una violenza alla costituzione, minore in ogni modo di quella che si era fatta per Pompeo;
assai
dall altra i
nemici di Cesare erano risoluti a non fare alcuna concessione e ad aspet¬ tare il momento in cui egli sarebbe rimasto senza comandi e senza forze militari, per intentargli un processo o una serie di processi, che lo avreb¬ bero del tutto rovinato. La maggioranza del senato,
tutti gli uomini di
buona volontà si auguravano che si giungesse ad un accordo (cfr. Cicer.,
ad Att., V, 20, 8); nessuno che avesse senno poteva desiderare una guerra civile. Furono consoli nell’anno 50 L. Emilio Paolo e C. Claudio Marcello, cugino del console dell’anno precedente e nemico egli pure di Cesare: nel collegio dei tribuni plebei sedeva un tale Scribonio Curione, noto per la sua inimicizia a Cesare e come uomo privo di scrupoli e pieno di debiti. Cesare riuscì a guadagnarselo con enormi somme di denaro e
gli affidò
l’incarico di evitare - pur senza far uso del veto - che venisse posto in discussione il governo delle sue provincie. Curione riuscì magnificamente nell’incarico affidatogli dal proconsole e persuase l’assemblea che il modo più sicuro e più giusto di evitare la guerra civile e di salvare la pericolan¬ te libertà, era quello di obbligare così Cesare, come Pompeo, a deporre i loro comandi straordinari. La discussione fu rimandata
alla seconda metà
dell'anno; Scribonio tenne fermo nella sua tesi, sfidando ogni minaccia del senato. Per tentare Cesare, o almeno per assottigliare le sue forze, si
432
TRATTATO
chiese che i due proconsoli
DI STORIA
ROMANA
destinassero ciascuno una delle loro legioni
per una prossima offensiva contro i Parti, e Pompeo destinò a tale scopo la legione che aveva prestato a Cesare. Questi doveva così privarsi di due legioni: ma lo fece di buon grado, mostrandosi disposto ad ottemperare ai desideri del senato in tutto quello che non offendesse i suoi diritti di fron¬ te al collega, ormai rivale. Rinviò infatti le due legioni, ma ne reclutò immediatamente altre due. Venuto frattanto nell’estate nella Cisalpina, Cesare si dispose a fronteg¬ giare gli eventi. Il giuoco di Curione era stato scoperto, le elezioni conso¬ lari per il 49 gli erano state avverse, essendo riusciti. L. Cornelio Lentulo e C. Claudio Marcello, figlio di Marco, ambedue, ma specialmente il se¬ condo, suoi avversari. In compenso uno dei posti di tribuno era stato ot¬ tenuto da M. Antonio. Pompeo parve allora dare ascolto agli inviti di Cesare per un rinnovamento dell’accordo; per un momento sembrò do¬ vesse ripetersi l’intesa di Lucca, ma poi non se ne fece di nulla: quando Cicerone ritornò dalla Cilicia in Italia, nel tardo autunno, c’erano ormai poche speranze di evitare la guerra civile. Il primo dicembre, dietro un ultima proposta di Curione, il senato ap¬ provò, con 370 voti contro 22, che ambedue i consoli deponessero i loro comandi: così diffuso era il terrore della guerra civile e lo zelo di evitarla. Ma il giorno dopo, sparsasi la voce che Cesare, valicate le Alpi, già avan¬ zava su Roma, il console Marcello invitò Pompeo ad assumere il comando delle forze presenti in Italia per la difesa della Repubblica. Il 6 dicem¬ bre arrivò a Roma Irzio, che Cesare aveva inviato nella capitale latore di nuove proposte, alle quali però non fu data risposta. Curione, minacciato, aveva lasciato Roma ed era corso al campo di Cesare a Ravenna; ma il suo posto era già stato preso dai due nuovi tri¬ buni favorevoli a Cesare, M. Antonio a Q. Cassio Longino, che già si ado¬ peravano per impedire le leve di soldati bandite da Pompeo. Il fatto che Cesare avesse scelto Antonio per dirigere l’azione in suo favore a Roma, pare abbia ingelosito e disgustato Labieno, il quale si avvicinò segretaniente ai nemici del suo generale; questi se ne accorse e lo tenne d’occhio, nella sede assegnatagli nella Cisalpina. Da Ravenna Cesare inviò allora a Roma Curione con un ultimatumspiegate al senato le proprie ragioni, egli si dichiarava pronto a rassegnare il comando e a licenziare l’esercito, quando Pompeo avesse fatto altret¬ tanto; in caso diverso, egli avrebbe saputo difendere se stesso e la patria. Partito il 27 dicembre, Curione percorse in tre giorni le 200 miglia che lo separavano da Roma e giunse in tempo per consegnare la lettera ai due nuovi consoli, proprio in occasione della seduta inaugurale dell'anno (1
DALLA GUERRA GALLICA ALLA GUERRA
CIVILE
433
gennaio), per la quale essi avevano riunito il senato in Campidoglio. Dopo molte esitazioni, per l'insistenza dei due tribuni, fu data lettura della comunicazione di Cesare. 11 senato si sentì minacciato ed offeso: su pro¬ posta di Metello Scipione, fu deliberato che Cesare dovesse deporre il comando ad una data determinata (ante certarn diern) e che, se non l’avesse fatto, sarebbe stato considerato pubblico nemico. I tribuni M. Antonio e Cassio Longino tentarono di interporre il veto, ma furono cacciati con la violenza: il senato dichiarò la patria in pericolo e conferì ai consoli i poteri straordinari (7 gennaio del 49). Il giorno seguente fu data facol¬ tà a Pompeo di prendere tutte le misure militari e finanziarie che cre¬ desse opportune per la difesa della Repubblica; vennero inoltre nomi¬ nati i successori di Cesare pel governo delle due provincie, assegnandosi la Gallia Transalpina a L. Domizio Enobarbo, la Cisalpina a Considio Nomano. Cesare, conosciuto, per mezzo di corrieri spediti dai tribuni, il rifiuto del senato al suo ultimo invito, mandò ordine alle legioni della Gallia Transalpina di passare senz’altro le Alpi e intanto dispose che la XIII legione, che aveva seco a Ravenna, varcasse il -Rubicone, marciando su Rimini. Nella notte del 10 gennaio, dopo avere tranquillamente cenato co’ suoi ufficiali, passò anch’egli il fiume che divideva la sua provincia dall’Italia e raggiunse i soldati a Rimini. Quivi Antonio e Longino gli portarono le notizie di Roma. § 138 — La
guerra
civile e
la
morte
di
Pompeo — Le forze di
Cesare consistevano unicamente nelle legioni che si trovavano ai suoi comandi, nelle Gallie; egli disponeva inoltre delle riserve di uomini e di ricchezze, assai notevoli, delle sue provincie. I)i forze assai più grandi di¬ sponeva Pompeo: oltre alle legioni di Spagna, egli aveva per sé tutte le riserve dell’Italia e delle nazioni alleate; godeva del favore del senato e della nobiltà; poteva attingere liberamente alle casse dello Stato. Né l’uno né l’altro erano però pronti alla guerra. Cesare, come dicemmo, aveva varcato il Rubicone con una sola legione; Pompeo non aveva pres¬ so di sé che due legioni; né ancora aveva cominciato ad organizzare le nuove leve italiche. Il piano di guerra di Pompeo fu assai meglio concepito che eseguito. Egli pensò di abbandonare a Cesare l’Italia, che ormai non poteva essere difesa, e di ritirarsi col senato e con le poche sue forze in Grecia, metten¬ do il mare fra sé e il suo rivale, sprovvisto di flotta. Mentre Cesare saiebbe stato occupato ad assicurare la sua posizione in Italia e ad allestire un’ar¬ mata navale, egli avrebbe potuto, con le forze affluenti dalle provincie e 28 - Giannblli, Trattato di Storia romana - I
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
dagli Stati vassalli dell’Oriente a lui devoti, costituire un grande esercito in Grecia, che, agendo di concerto col grosso delle sue legioni concentrate nella Spagna, avrebbe attanagliato Cesare in una stretta mortale. Ma egli non tenne abbastanza conto della prodigiosa rapidità di movimenti del¬ l’avversario. Dopo aver fatto invano un’ultima offerta di trattative al senato, con audacia e celerità mirabili, alla testa de’ suoi pochi uomini, Cesare scese nell Italia centrale fino ad Arezzo, tagliando fuori i corpi pompeiani che si andavano appena allora formando e concentrando; e via via che egli avanzava, i contingenti di Pompeo passavano dalla sua parte. A Corfinio era radunato un notevole esercito pompeiano sotto il comando di Lucio Domizio Enobarbo: Corfinio fu presa il 21 febbraio del 49; la guarnigione, lasciata libera, passò nelle coorti di Cesare; Io stesso Domizio, uno dei più accaniti rivali di Cesare, lasciato allora da Pompeo isolato e all’oscuro delle sue intenzioni, fu posto in libertà. Così il vincitore dimostrava che egli non mirava ad annientare una delle due parti, ma a portare tutti i cittadini sotto un unico, illuminato governo. Cesare avanzò quindi con la massima celerità verso Brindisi, con la speranza di arrivare in tempo ad impedire l’imbarco di Pompeo: ma non vi riuscì, e d altra parte gli sarebbe stato impossibile seguire Pompeo in Oriente, lasciandosi alle spalle il grosso esercito nemico in Spagna e un’Ita¬ lia incerta e tumultuante. E d altronde, egli non poteva per ora disporre di una flotta. Deliberò invece di combattere le forze del rivale in Spagna, di compiere la conquista dell Italia, delle isole e dell’Africa, mentre gli si sarebbe apprestata una flotta per passare in un secondo momento sul¬ l’altra riva. Tutta la penisola era ora ripiena di soldati: dopo l’arrivo delle legioni dalle Gallie, altre se ne coscrivevano con nuove leve. Due giorni dopo la partenza di Pompeo da Brindisi, Cesare si diresse alla volta di Roma, vi giunse la sera del 31 di marzo, dopo essersi incon¬ trato a Formia con Cicerone e avere scambiato con lui qualche idea, ma, a quel che pare, in modo piuttosto freddo e « diplomatico ». Prima che egli vi arrivasse, uno dei pochi magistrati che non avevano voluto seguire Pompeo, il pretore L. Roscio, aveva fatto approvare una legge per il con¬ ferimento della cittadinanza romana alle genti della Cisalpina. Cesare, fatti convocare dai tribuni Antonio e Cassio i pochi senatori presenti a Roma, provvide che fossero prese le disposizioni che gli erano per il mo¬ mento necessarie. Il senato concesse a Cesare anche la facoltà di attin¬ gere dall’erario i fondi necessari per la campagna di Spagna: uno dei tri¬ buni, L. Cecilio Metello, tentò di opporsi a che si aprisse il tesoro, ma fu rimosso con minacce di violenza.
DALLA
GUERRA
GALLICA
ALLA
GUERRA
CIVILE
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Cesare, del resto, non si fermò che pochi giorni a Roma; prima della metà di aprile era già in marcia alla volta della Spagna, ove lo aspetta¬ vano gli agguerriti eserciti pompeiani, composti di sette legioni e coman¬ dati dai legati Lucio Afranio, Marco Petreio (il vincitore di Catilina) e M. Terenzio Varrone. Passando
da
Marsiglia,
trovò
che
questa
città,
dichiaratasi neu¬
trale, aveva aderito in realtà al partito di Pompeo, accogliendo dentro le sue mura il nemico di Cesare da lui perdonato, L. Domizio Enobarbo.
Lasciò
una parte delle sue forze ad assediare la città e col
rimanente proseguì per la Spagna, dove frattanto aveva fatto affluire altre legioni direttamente dalla Gallia. Con una breve ma durissima campagna costrinse gli eserciti pompeiani alla capitolazione. Sulla via del ritorno, si fermò a Marsiglia a riceverne la resa (10 ottobre del 49). La città fu trattata da Cesare assai duramente e perdé quelle condizioni di privilegio di cui fino allora aveva goduto come amica ed alleata del popolo romano. Meno fortunate furono le operazioni dei legati che Cesare aveva spedito in Illiria e in Africa: là Dolabella era stato vinto, qua Curione era sog¬ giaciuto, insieme con la maggior parte de’ suoi, alle forze del pompeiano Attio Varo, spalleggiato da Giuba, re dei Numidi. Frattanto il pretore Emilio Lepido, autorizzato da Cesare a tenere le veci dei consoli assenti da Roma, aveva promosso una deliberazione del popolo che nominava Cesare dittatore comitiorum habendorum cusa. Nell’Urbe c’era molta aspet¬ tativa e grande ansia per il suo ritorno: con quali disegni sarebbe arrivato il nuovo potente dittatore ? Le speranze che molti cittadini riponevano in Cesare erano state poco prima espresse dallo storico Gaio Sallustio Crispo in una lettera a lui indirizzata, nella quale lo scrittore delineava il compito che il proconsole avrebbe dovuto svolgere, accompagnato dalla fiducia e dal consenso di tutti i bempensanti: restaurazione dell’organismo statalo, risanamento del popolo e della prassi costituzionale, rinvigori¬ mento del senato. In realtà, il contegno di Cesare rassicurò tutti: egli prese alcune misure finanziarie, destinate ad alleviare la grave crisi economica prodotta dalla guerra, ma non vi furono affatto le novae tabulcic (cancellazione dei debiti) che alcuni paventavano, bensì soltanto delle notevoli facilitazioni ai debi¬ tori per i’ammontare dei loro debiti e per il modo di pagarli: fece appro¬ vare un’amnistia quasi generale per tutti i condannati politici in base alle leggi emanate da Pompeo dal 52 in poi; e radunò infine i comizi elet¬ torali, che crearono consoli lui stesso e P. Servilio Isaurico, un ottimate molto accomodevole.
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
Tutto era stato fatto in undici giorni: dopo, celebrate anche le ferie latine del 49, Cesare depose la dittatura e corse a Brindisi a raggiungere l’esercito che si stava là radunando. Pompeo aveva raccolto in Oriente nove legioni, alle quali si erano ag¬ giunti notevoli contingenti di armati alla leggera e di marinai, inviati dalle città e dai principi alleati. Superando con notevoli difficoltà lo sbar¬ ramento della più numerosa flotta pompeiana, Cesare sbarcò con sette legioni al confine settentrionale dell’Epiro, presso la città di Orico: prese Orico, indi Apollonia e marciò su Durazzo. Qui gli venne incontro Pompeo col grosso delle sue forze per difendere quella importante piazzaforte e Cesare venne a trovarsi nella critica posizione di assediante assediato, come ad Alesia; ma riuscì anche, ripetendo la tattica usata contro Vercingetorige, a circondare di fortificazioni gli accampamenti pomoeiani. Pas¬ sarono cosi i primi mesi del 48: riusciti vani tutti gli espedienti per indurre il nemico a combattere, Cesare si decise a togliere il blocco e condusse l’esercito in Tessaglia per riposarlo e rifornirlo. Pompeo si dimostrò ora privo di spirito di iniziativa e di volontà: non seppe appigliarsi ad alcun partito, all’infuori di quello di seguire fiaccamente e svogliatamente l’avversario ne’ suoi spostamenti attra¬ verso i piani della Tessaglia. I suoi partigiani frattanto premevano: erano stanchi di vedersi dinanzi un nemico inferiore di forze, privo di rifornimenti, scarso di cavalli e che non si osava combattere, e che non si sapeva sconfiggere. Erano stanchi di quella vita randagia, da esuli, da fuorusciti; pensavano con nostalgia agli ozi e agli agi delle loro ville e dei loro palazzi di Roma e d’Italia. E Pompeo non potè più a lungo sottrarsi alle impazienze e agli incitamenti di tanti suoi partigiani: il 9 agosto, nel piano di Farsalo (nella valle dell’Enipeo), accettò la battaglia che l’avversario ripetutamente gli aveva offerto e nella quale la fanteria legionaria di Cesare ebbe ragione delle poco solide e indisci¬ plinate truppe pompeiane. Disegnatesi avverse le sorti della giornata, Pompeo si allontanò con esiguo seguito dal
campo di battaglia, recandosi prima ad Amfipoli,
poi a Mitilene, dove prese seco la moglie e il figlio e dove lo storico Teofane lo consigliò di cercare scampo in Egitto. Là infatti si recò Pompeo, per chiedere la protezione di Tolomeo XIV, figlio di quel Tolomeo Aulete che a lui tanto doveva (v. al § 135). Tolomeo si tro¬ vava allora in conflitto con la sorella Cleopatra, e i suoi consiglieri giudicarono che non sarebbe stato vantaggioso per lui sposar la sua causa a quella di un vinto; onde, quando Pompeo fu sbarcato a Pelusio dalla sua nave per passare in quella inviatagli incontro dal re, fu tra-
IL TRIONFO
DI
CESARE E
LA FONDAZIONE DELLA MONARCHIA
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fitto dal pugnale dei sicari. Era il 28 settembre (romano) del 48, la vigilia del suo cinquantottesimo compleanno e il tredicesimo anniversa¬ rio del suo trionfo su Mitridate.
Ili IL TRIONFO DI CESARE E LA FONDAZIONE DELLA MONARCHIA § 139 - Le campagne in Egitto e in Asia - Pochi giorni dopo la vittoria di Farsalo, mentre Antonio riconduceva in Italia il grosso del¬ l’esercito, Cesare si era posto all’inseguimento del rivale: arrivò così in Egitto, ove apprese con vivo rammarico la notizia dell assassinio di Pom¬ peo. Si occupò subito di sistemare gli affari egiziani in modo favorevole agli interessi romani; si trattenne perciò qualche tempo col re Tolomeo nel palazzo reale di Alessandria. Dopo alcuni giorni vi giunse anche la sorella di Tolomeo, Cleopatra, per sostenere le sue ragioni dinanzi al con¬ sole romano.. La giovane e ambiziosa regina si cattivò di colpo, con le sue irresistibili grazie, la simpatia e la benevolenza del potente condottiero: sentimenti che si trasformarono ben presto in passione amorosa, nella passione di un uomo di cinquant anni per una fanciulla di ventidue. Da questo momento Cesare non si preoccupò più di affrettare la partenza, di radunare le sue legioni in Africa per vendicare Curione e per impedire una riscossa degli avversari: egli non pensò ad altro che a rimanere in Egitto fino a che non avesse bene assicurato sul trono Cleopatra. Maturo d’anni, provato più volte dalla buona e dalla cattiva fortuna, egli si sen¬ tiva ormai signore del suo destino; superbamente conscio delle risorse del suo genio, dispregiatore consapevole dei suoi nemici, non giudicò di dover sacrificare alle esigenze della guerra le grazie di una donna non comune. L’imposizione fatta da Cesare a Tolomeo, di accordarsi con la sorella e di accoglierla come collega nel regno, suscitò contro di lui gli animi del popolo alessandrino e della più gran parte dei cortigiani. Assalito da forze numerose, si rinchiuse e si fortificò coi pochi uomini di cui disponeva, nel vasto recinto del palazzo reale, tenendo ivi con se non solo Cleopatra, ma anche Tolomeo come ostaggio, e spedendo frat¬ tanto messi in Asia, al suo legato Domizio Calvino, per chiedergli 1 invio delle sue tre legioni. Al giungere di una parte di queste e di truppe ausi¬ liario condotte da Mitridate di Pergamo, Cesare fu tosto padrone della
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
situazione; lasciò libero allora Tolomeo, perché si facesse mediatore di pace con gli Alessandrini. Questi invece si mise a capo delle forze egiziane ostili a Cesare. Sul Nilo, non lungi da Pelusio, avvenne lo scontro tra le legioni di Cesare e gli Egiziani, che rimasero pienamente sconfìtti: nella fuga fu travolto lo stesso re, che trovò la morte nel fiume. Cesare ritornò quindi ad Alessandria, che gli si sottomise senza ulte¬ riore resistenza, e pose sul trono d Egitto Cleopatra, insieme col fratello minore di lei, Tolomeo XV (marzo del 47 — 14 gennaio giuliano). Indi si rivolse verso l’Oriente, dove il re del Bosforo Farnace, figlio di Mitridate Eupatore, aveva attaccato e vinto il legato di Cesare per la Bitinia e il Ponto, rientrando nel regno avito. Nella stessa primavera del 47 (il 2 agosto del calendario allora in vigore, ossia nel mese di maggio giuliano) Cesare riportò su Farnace una fulminea vittoria a Zela, ad oriente del1 Halys, e 1 annunziò al senato col famoso messaggio « veni, vidi, vici ». Dato ordine alle cose d’Oriente, ricostituita la provincia di Bitinia e Ponto, ricompensati i dinasti e i principi che l’avevano aiutato, perdonati anche quelli che avevano parteggiato per Pompeo (fra questi Deiotaro, re di Galazia), il 24 settembre (romano) del 47 Cesare sbarcò a Taranto: era tempo, ché 1 Italia versava in convulsione e in anarchia. § 140 - Il governo di Cesare - La posizione di Cesare in Italia si era fatta indubbiamente assai più salda dopo che vi fu arrivata la noti¬ zia della morte di Pompeo; ma l’uomo ch’egli scelse a rappresentarlo in Italia, Antonio, non si dimostrò pari al suo compito. Arrivato in Italia poche settimane dopo la vittoria di Farsalo, M. Antonio ottenne che Ce¬ sare venisse nominato una seconda volta dittatore a tempo indeterminato, con lui stesso, Antonio, magister equitum; al dittatore era conferito il diritto di decidere della pace e della guerra senza consultare il senato e ì comizi, di assegnare a propri legati le provincie pretorie, di presentare candidati a tutte le magistrature, ad eccezione di quelle della plebe (tri¬ bunato ed edilità). In tal modo tutta l’amministrazione e la politica estera della Repubblica venivano in potere del dittatore. Ma intanto ì cesanani stessi andavano seminando, con proposte avven¬ tate e inconsulte, agitazioni e malcontento; così P. Cornelio Dolabella, genero di Cicerone, che si fece promotore di un movimento per il condono dei debiti. Anche negli accantonamenti militari si manifestavano preoc¬ cupanti sintomi di indisciplina; e ciò proprio quando i Pompeiani rial¬ zavano la testa m Spagna e in Africa, dove anzi si andavano facendo ala¬ cri preparativi militari per una guerra di rivincita. Si sollevarono i legionari che Antonio andava concentrando in Campania per la prossima
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spedizione in Africa, domandando il congedo e le ricompense promesse. E intanto si radunavano in Africa, quasi indisturbati, i considerevoli contingenti che obbedivano ancora ai partigiani di Pompeo e che vi si raccolsero sotto il comando di Metello Scipione, suo suocero e già suo collega nel consolato, intorno al quale stavano i figli di Pompeo, Gneo e Sesto, e M. Petreio e Tito Labieno (il fido legato di Cesare, passato a Pompeo al principio della guerra civile), e infine Catone, che vi era arri¬ vato da Corcira nell’inverno del 48-47. Arrivato finalmente Cesare a Roma (verso la metà di luglio, secondo il computo giuliano), i disordini in città cessarono; non si calmò però l’agi¬ tazione dei legionari di Campania, che mossero anzi minacciosi su Roma: il dittatore si presentò allora arditamente nel loro campo e dichiarò che avrebbe dato a tutti il congedo e i compensi promessi, ma che non rico¬ nosceva in loro gli antichi commilitoni (com’era uso chiamarli) ma sol¬ tanto dei quiriti, cioè dei cittadini come tutti gli altri. Le parole di Cesare e il fascino irresistibile che egli sapeva esercitare, cambiarono l’animo dei ribelli; pentiti, chiesero perdono del fallo commesso e domandarono come una grazia di essere arruolati per la campagna d’Africa. In vista di questa campagna, che non poteva essere procrastinata senza pericolo, Cesare regolò le cose del governo per il tempo della sua assenza, in base ai pieni poteri a lui conferiti. Nominò nuovi senatori, scegliendoli fra uomini a lui devoti, ed anche fra gli ufficiali inferiori che s’erano distinti nelle operazioni di guerra; si fece -eleggere console per il 46 insieme con Lepido e distribuì altre cariche importanti a suoi parti¬ giani. Alla fine di dicembre (ottobre giuliano) s’imbarcò da Lilibeo per l’Africa. § 141
* - La seconda campagna d’Africa - I partigiani del senato
e di Catone avevano quivi radunato un notevole esercito (14 legioni) e si erano assicurati l’appoggio del re Giuba di Numidia. Dopo un viaggio assai travagliato dalle tempeste, Cesare sbarcò le sue legioni sulla costa africana, in vicinanza di Adrumeto; e pose il campo a sud di questa, pres¬ so la piccola città di Ruspina. Qui gli si fece incontro un esercito, coman¬ dato da Labieno, dinanzi al quale Cesare non potè sostenersi per l’infe¬ riorità della sua cavalleria. Si mantenne allora chiuso in Ruspina, finché non gli fu giunto dall’Italia un rinforzo di tre legioni di veterani. Il comandante nemico, Metello Scipione, operando contro il consiglio di Catone, lasciato questi a comandare il presidio di Utica, era comparso frattanto con tutte le sue forze dinanzi a Ruspina, sfidando Cesare a bat¬ taglia. Questi rifiutò l’invito finché non gli furono arrivate le legioni di
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
rinforzo: quindi accettò il combattimento in terreno assai più favorevole alle proprie legioni che alle milizie leggere dell’avversario. La battaglia, che si combattè presso Tapso, si risolse in un disastro per i Pompeiani, che coprirono il campo con diecine di migliaia dei loro caduti. Dei capi ottimati, Scipione, Petreio, lo stesso re Giuba, si tolsero la vita per non cadere prigionieri del vincitore, altri rimasero sul campo: Labieno, Attio Varo, e i due figli di Pompeo fuggirono in Spagna, con la speranza di potere là restaurare le sorti della loro parte. Catone, appresa in Utica la novella della disfatta e persuasosi che sarebbe stato vano ten¬ tare la difesa della città, si dette anch’egli la morte sul proprio letto, per non restare debitore della sua vita alla grazia del vincitore. Cesare si trattenne ancora a riordinare l’Africa, erigendo il regno di Giuba a provincia col nome di Africa Nova. Imbarcatosi ad Utica, arrivò a Roma verso la fine del luglio. § 142 - La nuova politica di Cesare - Il vittorioso dittatore po¬ teva considerarsi ora signore assoluto dello Stato: i fermenti oligarchici e pompeiani che ancora covavano nella Spagna, non potevano ormai rappresentare un pericolo per lui. Con inaudito splendore celebrò i trionfi sulla Gallia, sull Egitto, su Farnace e su Giuba, beneficando il popolo con straordinarie elargizioni e donativi e con spettacoli magnifici: i le¬ gionari congedati ricevettero un premio di 5.000 denari ciascuno; di 10.000, i centurioni, di 20.000 i tribuni militari. I soldati congedati riceverono tutti il promesso donativo di terre e vennero disseminati a piccoli drap¬ pelli fra i municipi e le colonie d’Italia, provvedendosi aH’acquisto ed alla ripartizione dei terreni secondo le norme della legge Giulia del 59. Fino a questo momento Cesare, benché fosse da più di tre anni arbitro di Roma e dell’Italia, non si era applicato ancora ad un’attività legisla¬ tiva organica. Le disposizioni da lui prese ed i provvedimenti fatti ap¬ provare durante i suoi brevi soggiorni nella capitale, nell’aprile e nel di¬ cembre del 49 e nel settembre del 47, erano stati rivolti unicamente ad assicurargli il mantenimento del governo dello Stato in forma costitu¬ zionalmente legittima e a procurargli i mezzi militari e finanziari indispen¬ sabili per condurre a buon fine le campagne di guerra contro gli avversari politici e i nemici esterni. Ora Cesare doveva provvedere a dare alla Repubblica quelle riforme sostanziali e durature, che apparivano ogni giorno di più improrogabili, che tutti aspettavano da lui e che insistentemente gli chiedevano così quegli ottimati che s’erano, fin da dopo Farsalo, riconciliati con lui e che speravano, come Cicerone sperava, che egli si sarebbe appagato, ora,
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TRIONFO
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E
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della parte di protettore della Repubblica, come anche alcuni dei più fedeli fra i suoi partigiani, come Sallustio, che lo supplicavano di lasciare da parte recriminazioni e vendette e di ricondurre l’armonia nello Stato. Anche Cesare era indubbiamente persuaso della necessità di una legisla¬ zione riformatrice: egli aveva peraltro il suo programma, né era uomo da lasciarselo suggerire da seguaci più o meno interessati, da nemici riconciliati o da teorici della politica del genere di Cicerone. I poteri e gli onori ch’egli si fece decretare o riconfermare durante quell'anno 46, doverono senz’altro disingannare quanti si erano illusi che Cesare si sarebbe limitato a ricostruire sic et simpliciter il governo repub¬ blicano, contentandosi di farsene spettatore e custode. Gli fu conferita la dittatura per dieci anni rei gerundae causa e la praefectura morum per tre anni, oltre agli elementi essenziali della potestà tribunizia. Quando, di lì a pochi mesi, partì per la Spagna, Cesare lasciò in Roma, da sovrano quale ormai si considerava, un vero e proprio governo di reggenza, rap¬ presentato da M. Emilio Lepido, suo collega nel consolato e suo magister equitum, e da otto prefetti con imperio pretorio: durante la sua assenza, ogni affare che non fosse di ordinaria amministrazione, rimase sospeso o trattato direttamente dal dittatore attraverso i suoi amici e confi¬ denti Oppio e Balbo, da lui lasciati a tale scopo nella capitale. Cesare fu inoltre eletto console unico per il 45 e tale carica egli cumulò con la dittatura. Da questi fatti rimasero indubbiamente delusi tutti coloro che, come Cicerone, avevano sperato in una restaurazione repubblicana; sorpren¬ deva anche la larghezza con la quale Cesare accoglieva i provinciali nella cittadinanza romana e l’ammissione nel senato di numerosi sudditi che avevano bene meritato di lui e della sua causa. Tuttavia questi malumori e malcontenti furono per allora superati e dominati dalla grandiosità dell’opera legislativa intrapresa dal dittatore. E questa apparve veramente intesa a conseguire quella rigenerazione dello Stato e della cittadinanza romana alla quale da ogni parte si aspi¬ rava. Nessun aspetto della vita pubblica e privata fu trascurato da Ce¬ sare; dovunque ci fosse da rimuovere abusi od eccessi, da correggere ille¬ galità o ingiustizie, egli intervenne con le sue disposizioni, pronto ed efficace. Fra i provvedimenti di ordine pubblico e sociale tenne il primo posto l’abolizione di quelle organizzazioni popolari (collegio), che, ottenuto con una legge di Clodio il loro riconoscimento giuridico nel 58, erano servite soltanto ad irreggimentare folle di facinorosi al servizio dei capi delle fa¬ zioni politiche; e l’altro che faceva obbligo che almeno un terzo dei pa-
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
stori impiegati nelle grandi aziende agricole fosse costituito da contadini liberi. Ricondotta così al lavoro gran parte dei disoccupati della folla cittadina, fu possibile ridurre da 230.000 a 130.000 il numero degli aventi diritto alle frumentazioni. Se di poca efficacia risultarono le leggi sun¬ tuarie fatte approvare da Cesare, ebbero certo benefico effetto le provvi¬ denze da lui probabilmente prese allora in favore dei padri di famiglie numerose e le severe leggi criminali emanate contro il parricidio e il crimine di maestà. Nei riguardi del governo delle provincie, Cesare si attenne alle diret¬ tive di Siila, stabilendo che i governatori delle provincie consolari do¬ vessero restare in carica due anni; quelli delle provincie pretorie, non più di un anno. Nessuna parte della penisola italica rimaneva più compre¬ sa nel territorio provinciale, essendo stati i Transpadani ammessi nella cittadinanza romana fin dal 49 a.C. Per trattenere in Italia gli elementi più preziosi della popolazione, fu disposto per legge che ai cittadini tra i venti e i quarantanni, domiciliati in Italia, non fosse concesso di ri¬ manere assenti dal paese per più di tre anni e che i figli dei senatori po¬ tessero uscirne solo per incarico dello Stato. Una speciale legge (lex Iulia municipalis) dettava norme sulle qualifiche e le attività dei magistrati e delle assemblee dei municipi italici. Né il dittatore dimenticò l’urgenza di riordinare il calendario, elimi¬ nando le dannose conseguenze procurate,
specie in
quegli
ultimi de¬
cenni, dagli abusi e dalle irregolarità dalle intercalazioni, valendosi in ciò del consiglio e dell’opera dell’astronomo egiziano Sosigene (v. al § 13). La prodigiosa attività legislativa di Cesare fu ancora una volta interrotta dalla sua assenza da Roma per comandare la guerra in Spagna. - La seconda campagna spagnola - Rumori di ribellione giungevano da più di una provincia; ma assai seria e pericolosa si annun¬ §
143
ziava la situazione che s’era andata creando nella Spagna. Là erano convenuti i superstiti della battaglia di Tapso, Labieno ed Attio Varo coi residm dell’esercito d’Africa, ponendosi sotto il comando di Sesto e di Gneo Pompeo; là esistevano ancora molte simpatie per la causa di Pompeo
specialmente fra i soldati, appartenenti in gran parte alle sue
antiche legioni: là infine qualsiasi moto rivoluzionario avrebbe sempre potuto sfruttare le aspirazioni d’indipendenza della popolazione, come il recente caso di Sortono insegnava. Sollevatesi le legioni dell’Ulteriore postisi in aperta rivolta i Lusitani e i Celtiberi, il governatore Gaio Trebomo fu costretto a fuggire e in breve i Pompeiani poterono disporre di un esercito numeroso e di grande valore bellico.
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CESARE E
LA
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I due legati inviati da Cesare sul posto, Q. Fabio Massimo e Q. Pedio, si dimostrarono ben presto inferiori al loro compito; onde, sulla fine del¬ l’anno, il dittatore decise di sospendere la sua azione di governo e la pre¬ parazione, probabilmente già iniziata, della grande spedizione contro i Parti, per recarsi a reprimere l’insurrezione spagnola. Dopo aver assunta la quarta dittatura e il consolato per l’anno 45, in soli 27 giorni compì, nel cuore dell’inverno, il viaggio da Roma alla Betica, affidandosi, anche in questo caso, alla strategia da lui preferita, che gli aveva sempre assi¬ curata la vittoria su ogni nemico: la rapidità e la sorpresa. Le brevi ope¬ razioni militari si svolsero, nei primi due mesi dell’anno 45, nella Spagna meridionale, specialmente nella regione intorno alla città di Corduba: di qui la guerra si spostò nella regione a sud del Guadalquivir, dove Ce¬ sare accettò la battaglia che il nemico gli offriva, nel territorio fra Urso e Munda. Presso quest’ultima città si combattè accanitamente e esito per lungo tempo incerto fra
con
tredici legioni di pompeiani e otto
comandate da Cesare; l’ultimo esercito
dei suoi avversari fu in parte
disperso, in parte distrutto: perirono nella rotta Gneo Pompeo, Labieno e Attio Varo; Sesto Pompeo riuscì invece a salvarsi fuggendo nella Cite¬ riore, e trovò ancora il coraggio e l'energia di risollevare, di lì a poco, il vessillo dell’insurrezione. Cesare si trattenne ancora, dopo la vittoria, per qualche mese nella Spagna, per occupare le città dell’Ulteriore, che erano passate al nemico - Corduba, Munda, Urso - e per sistemare l’amministrazione della pro¬ vincia, che lasciò poi affidata alle cure di Asinio Pollione. Nuove disposizioni furono prese da Cesare allora per l'ordinamento delle provincie spagnole e anche, nel suo viaggio di ritorno, della Gallia Narbonese: furono fondate in queste provincie numerose colonie romane, formate di veterani e di proletari, e parecchie comunità spagnole vennero elevate a colonie. Nella concezione monarchica, sempre più evidente nell’opera di Cesare, le differenze fra cittadini e sudditi andavano grada¬ tamente assottigliandosi: come nell’impero di Alessandro, così in quello di Cesare tutti gli abitanti si sarebbero trovati su di un medesimo piano di cittadinanza e di sudditanza, al tempo stesso, di fronte al monarca. §
144
- La fondazione dell’Impero universale - La notizia che
l’ultimo esercito repubblicano era stato distrutto, giunse a Roma alla vigilia delle feste Palilie (del 45) e fu il segnale di un’altra mobilitazione, da parte del senato, di nuove forme di poteri, di onori, di privilegi, da mandare incontro, sulla via del ritorno, al dittatore vittorioso. Alla dit¬ tatura fu aggiunto un consolato di dieci anni e la facolta di nominare
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TRATTATO
DI
8TORIA ROMANA
tutti i magistrati, anche quelli plebei, senza consultare il popolo. Gli fu conferito il titolo di imperaior a vita e gli fu riconosciuto il diritto di trasmetterlo ai suoi discendenti: tali privilegi, uniti a quelli di uscire in pubblico indossando la veste trionfale e la corona d’alloro e di coniare monete con la sua immagine, lo elevavano al di sopra dei cittadini e lo designavano senz’altro quale monarca. Al suo ritorno, Cesare mostrò di gradire in modo particolare quegli onori che accentuavano il significato sacrale della monarchia e costitui¬ vano il piedistallo del culto del sovrano: la sua statua fu posta nel tem¬ pio di Quirino con la iscrizione « Al dio invitto » e fu pure stabilito che la sua immagine dovesse essere portata in processione, nei ludi, fra le statue degli dèi. Le concezioni monarchiche di Alessandro Magno erano evidentemente presenti, in questa fase della sua costruzione politica, alla mente del dittatore. Ma l’introduzione di un culto personale del monarca avrebbe incontrato in Roma e in Italia difficoltà diverse e maggiori di quelle che le si opposero in Grecia: ai Greci era infatti familiare l’apoteosi di uomini di eccezionali qualità e meriti, degli « eroi », nei Romani era invece radicata l’idea che in ogni uomo agisse una forza divina genera¬ trice di vita, il genius, e che soltanto a questa entità immateriale e invi¬ sibile si potesse, in casi eccezionali, rendere culto. Fu merito di Augusta 1 aver saputo adattare allo spirito romano l’impulso dato da Cesare alla adorazione divina del sovrano x. Arrivarono intanto a maturazione in quegli ultimi mesi le profonde modificazioni, già iniziate da Cesare, nella composizione e nell’attività del senato e la radicale trasformazione dei rapporti fra cittadinanza e sudditi. Il numero dei senatori fu portato a circa 900 e tra essi furono inclusi provinciali, centurioni, libertini, e la funzione del senato fu avvi¬ lita a quella di un organo subalterno della monarchia, incaricato di inter¬ pretare o di coonestare gli atti di volontà del sovrano; nel patriziato ro¬ mano vennero immesse dal dittatore genti nuove, benemerite di lui, senza riguardo alla loro origine e alla loro provenienza. Coll’estensione del di¬ ritto di cittadinanza a singoli sudditi, a comuni stranieri e
ad interi
gruppi di professionisti residenti in Roma, con la fondazione di colonie cittadine nelle provincie e con il conferimento della latinità* a numerose comunità di Sicilia e d’Africa, e infine con l’incorporazione di reparti provinciali fra i veliti e la cavalleria legionaria e nelle legioni stesse (in
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Trattato
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Storia Greca,
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la
Mi'“° Ci aceri. Cicerone, p. 270 sgg.; M. P. Procacci, La questione giuridica nel processo di Catilina, in «Atene e Roma» N. S., IX (1928), p. 254 sgg. Sull’azione di Catone, ved. M. Gelzer, Calo Uticensis, in « Antike », X (1934), p. 59. Da taluno si è voluto negare resistenza di ima qualsiasi intesa - societas - fra i tre capi politici, prima del convegno di Lucca (ved. G. M. Bersanetti, Quando fu conclusa l'alleanza fra Cesare, Pompeo e Crasso ?, Palermo 1924); ma le lettere cice¬ roniane del 60 e del 59 presuppongono quell’intesa (per es., ad Alt., II 3), e per essa arrone deve avere scritto il suo Tpotàpavo?. Vedi anche, dello stesso A., La tradi¬ zione antica e l'opinione degli sto-rici moderni sul primo triumvirato, in « Riv IndoGreca-Italica ». 1927, p. 11 e 185, e 1928, p. 21; e H. A. Sanders, The so^atled first triumvirale, in « Mera. Amer. Acad. in Rome», X (1936), p. 55; A. Afzelius, Die polit. Bedeutung des jùngeren Cato, in « Class, et Mediev. », IV (1941). La figura di Cicerone è ora al posto di protagonista nella politica romana; aggiun¬ giamo qui altre notizie a quelle contenute nel § LXXII: Tenney Frank, Cicero Annual Lecture on a master mind, in « Proceed. of thè Brit. Acad. », XVIII (1932)L Laurand, Cicéron, 2* ed., Parigi 1933-34. Le lettere di Cicerone si trovano ordì’ nate cronologicamente e commentate nell’edizione di Tyrrell e Purser (7 voli Londra 1881-1901) e in quella (non ancora completa) di L. A. Constans, comin¬ ciata a pubblicare nel 1934 nella collezione G. Budé. Per le orazioni di Cicerone sono 1 dUn aVOr‘ Humbert> ^ plaidoyers éerits et les plaidoieries ,, f 10 ™n’ angl 1925 (sulla questione della corrispondenza, nel contenuto neUa forma, fra il testo scritto delle orazioni ciceroniane e quello realmente prounciato); Contnbution à l'étude des sources d'Asconius dans ses relations des débats 192?-28-CR aRlgl 1926Lsi veda inoltre E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 27 28, R. Heinze, Ciceros Rede Pro Codio, in «Hermes», LX (1925), p. 193. G. Pooook, A commentary of Cicero in Vatinium, Londra 1926. Su Cicerone stor
L'h%8tOÌ™. dans les dÌ8C0urs de Cicéron, in « Musée Belge», XV 13’ R‘ ^chutz’ Ciceros histonsche Kenntnisse, Giessen 1913. Sul patrimo-
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lrn2iaria di A- UchtTOKcei«, KZ, F“r-C,ITEL- Die Qeldgeachójte bei Cicero, Diss. Erlangen
llll’ Db- 73 °yero *?•?*•«- * « »• Proeeod. of thè Am. PI,il. Ass.. \ ’ P\. / hBghJldeah PohtlC1 e patriottici di Cicerone: R. Heinze. Ciceros « Staat * als pohtische Tendenzschnft, in «Hermes», LIX (1924), p. 73 (si oppone alla concezione del Meyer, che ravvisa tracciato nel De re pubi, l’ideale def princeps)- su
taie problema vedi anche Reitzenstein, in «Hermes», LIX (1924) ^ p 356-’w W. How, m « Journ. Rom St » XX nomi oa a r» ' . P" Y' • Lat » X H 9121 „ka ^ (1930)’ 24: A‘ Oltramare, in « Rev. Ét. „ 7
2i’ P' 58' Plu recentemente: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom
Stufi.
A deutsche pP°lCHL’ R6l™fcher Staai und griechisches Staatsdenken bei Cicero (in N deutsche Forschungen, Abteil. Alte Oesch.), Berlino 1936 (studia l’infW de a idmhnenS6^ S^u "
di 1Ciccerone- Per concludere che in esso si riuniscono
well, Cicero and thè Roman Republic, Londra 1948.
'
° studio dei primi successi politici di Cesare serve l’articolo di O Seel 7„r Rritik der Quellen ùber Coesore Fruhzeit, in « Klio » XXXIV il9411 r. iqa’ i Studio di H. Strassbdrcer, ^ Erriti in ^
BIBLIOGRAFIA E
PROBLEMI
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Monaco 1938. Si veda inoltre: L. R. Taylor, Caesar's early career, in « Class, philol. » 1941, p. 113; G. Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare, Milano 1945; L. R. Tay¬ lor, The date and thè meaning of thè Vettius affair, in « Historia », I (1950), p. 45; R. F. Rossi, La congiura di Vettio, in « Ann. Triestini » XXI (1951), sez. la. Il Piganiol (La constitution de Cicéron, in «Joum. d. Sav. » 1937, p. 159) ha richiamato l’attenzione sull’importanza del De legibus per lo studio delle concezioni politiche di Cicerone; cfr. anche C. W. Keyes, Did Cicero complete thè de legibus ?, in « Am. Joum. Phil. », LVIII (1937), p. 403. LXXVI (cfr. i §§ 131-132) - Sul consolato di Cesare si consulterà: M. Cary, The land legislation of Julius Caesar's first consulship, in «Joum. of Phil», XXXV (1920), p. 174; L. G. Pooock, Lex de actis Cn. Pompeii conffrmandis: lex dulia or lex Vatinia ?, in «Class. Quart. », XIX (1925), p. 16; Tenney Frank, The date of thè Vatinian law, in « Am. Joum. Phil. », XLI (1920), p. 276; J. B. Marsh, The chronology of Caesar's consulship, in « Class. Joum. », XXII (1926-27), p. 504; L. R. Taylor, Chronology of Caesar's first consulship, in «Am. Joum. Phil. » LXXII (1951), p. 254. Alcune questioni relative alla legge Vatinia de provincia e alla legge Giulia agraria sono esaminate e discusse da M. A. Levi, La costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare, p. 201 sgg. Le date di inizio e di rinnovo dei proconsolati di Cesare cost ituiscono un problema assai intricato ed oscuro: se ne riparla nel § LXXVIIi ove n’è data la relativa bibliografia. Per quanto concerne la legge Vatinia, si ritiene ge¬ neralmente che il « quinquennio » di cui parlano le fonti (per es., Plut., Caes., 14) alluda alle conseguenze pratiche della legge, nella quale però doveva soltanto essere fissata la scadenza del proconsolato alla data del 28 febbr. 54. Che esso sia cominciato, come da alcuni si è sostenuto, il 1° marzo o il 27 marzo del 58 (data alla quale Cesare partì per la provincia) è da escludersi, per il fatto che Cesare si tenne, durante quei primi mesi dell’anno, costantemente alle porte di Roma, senza entrare in città (Cice¬ rone, prò Sestio, 18), segno che era già investito dell’imperio proconsolare: d altra parte, sarebbe stato pericoloso per lui rimanere, dopo uscito dal consolato, in condi¬ zione di semplice privato per un lasso di tempo non breve. La sistemazione data da Pompeo alle regioni orientali è studiata da L. Vitucci, Gli ordinamenti costitutivi di Pompeo in terra d’Asia: I, La provincia di Bitinia Ponto, in « Rend. Acc. Naz. Lincei», cl. se. mor., Vili, voi. Il (1947), p. 428. Su Godio: L. G. Pocock, P. Clodius and thè acts of Caesar, in « Class. Quart. », XVIII (1924), p. 59; F. B. Marsh, The policy of Clodius from 58 to 56, ibid., XXI (1927), p. 30; W. F. Me Donald, Clodius and thè lex Aelia Fufia, in « Joum. Rom. St. », XIX (1929), p. 164; L. Gurlitt, Lex Clodia de exilio Ciceronis, in « Philologus » LIX (1900), p. 578; G. De Benedetti, L'esilio di Cicerone, e la sua impor¬ tanza 'storico-politica, in «Historia», III (1929), p. 331. Recentemente una rico¬ struzione dell’opera di Godio è stata scritta da E. Manni, L'utopia di Clodio, in « Riv. Fil. Class. », LXVIII (1940), p. 161 sgg. LXXV11 (cfr i §§ 133-134) — La fonte principale per la ricostruzione del¬ l’impresa militare di Cesare nelle Gallie sono i suoi stessi Commentarli de bello Gallico (vedi ai §§ 8 e VII). Sulla composizione del De bello Gali, si veda: C. Ebert, Ueber die Entstehung von Caesars Bellum Gallicum, Norimberga 1909; A. Klotz, Caesarstudien, Lipsia e Berlino 1910; id., Zu Caesars Bell. Gali., in « Rhern. Mus. », LXVI (1911), p. 629 sgg.; L. Halkin, La date de publication de la guerre dee Gaules (in Mélanges P. Thomas, p. 407); Fr. Knoke, Die nichtgeographische Interpretation von Caes. Bellum Gallicum, Dusseldorf 1941; M. Ruch, La veracité du recit de Cesar dans le B.G. in « Rev. Ét. lat. », XXVII (1949), p. 118. Oltre ai Commentarli, si può valersi’ della vita di Cesare in Plutarco, dei libri XXXVIII-XL di Dione Cassio, di Frontino, Stratagemata, II, dei frammenti dei Celtica di Appiano.
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Studiano in particolare la guerra gallica di Cesare e la condizione delle Gallie nel I secolo a.C.: F. Beckmann, Geographie und Ethnographie in Caesars Bellum Gallicurri, Dortmund 1930; L. A. Constans, Guide illustre des campagnes de Cesar eri Gaule, Parigi 1930; C. Jullian, Histoire de la Gaule, voi. II, 4a ed., Parigi 1921, voi. Ili, 2a ed., Parigi 1920; F. Fròlich, Dos Kriegswesen Càsars, Zurigo 1889; G. Veith, Geschichte der Feldzùge C. Julius Caesars, Vienna 1906; T. Rice Holmes, Caesar's Conquest oj Gaul, 2a ed., Oxford 1911; iv>., Ancient Britain and thè invasione of Julius Cassar, Oxford 1907; H. Delbruck, Geschichte der Kriegskunst, 3a ed., Berlino 1920, p. 489 sgg.; E. Taubler, Bellum Helveticum, Zurigo 1924; A. von Domaszewski, Die Phalangen Alexanders und Caesars Legionen, in « Sitzungsber. der Heidelber. Akademie », 1925—26; F. Mìtnzer, Caesars Legaten in Gallien, in « Klio », XVIII (1923), p. 200; G. E. F. Chilver, Cisalpine Gaule; social and economie history from 49 B. C. to thè death of Trojan, Oxford 1941; S. G. Brady, Caesar's Gallie campa/igns, Harrisburg, 1947. Sulla popolazione della Gallia: J. Belooh, Die Bevòlkerung Galliens zur Zeit Caesars, in « Rhein. Mus. », LIV (1899), p. 414; E. Cavaignac, Population et capitai, p. 136; Tenney Frank, An economie survey of anc. Rome, voi. Ili (1937), dove la popola¬ zione delle Gallie è valutata dal Grenier a 15 o 20 milioni di abitanti. Sulle armi dei Galli si veda P. Couissin, L’équipement de guerre des Gaidois sur les monnaies rom., in « Rev. Num. », XXXI (1928), p. 28 e 61. I due problemi topografici più discussi della guerra gallica sono quelli di Alesia e di Gergovia. Il problema del sito di Alesia sembra risolto dagli scavi di Alise-SainteReine: la complessa questione è riassunta nel volume di S. Reinach, Ephémérides d'Alésia: histoire, fouilles, controverses, Parigi 1925 (cfr. anche G, Colomb, L'énigme d Alesia, Parigi 1922, e Simon e Toutain, Compléments aux éphémérides d'Alesia 1926; essa è trattata poi nei seguenti lavori più recenti: J. Toutain, La Gaule anti¬ que vue dans Alésia, La. Charitò 1932; id., Alesia gallo-romaine et chrétienne, ibid. 1933; G. Colomb, La botatile d'Alésia, Lous-le-Saunier (Jura) 1950. Anche il pro¬ blema topografico di Gergovia sembra risolto, in favore della soluzione tradizionale, dagli ultimi scavi ai piedi della collina, detta appunto di Gergovia; si veda: M. Busset, Gergoma capitale des Gaules, Parigi 1933; Audollent, Découverte d'un oppidum près de Clermont d’Auvergne, in « Rev. Arch. » 1933, I, p. 24. Fra i numerosissimi studi sui particolari delle campagne si veda: A. Bazouin, Topographie de Ventrevue entre Cesar et Arioviste, in « Rev. Et. lat. », XIV (1936), p. 28; F. Kroon, La défaite d'Arioviste, in « Mnemos. », V (1937), p. 135; G. Boulmont! L emplaeement de la bataille de la Sambre en 57, in « Rev. Belge Phil. et d’Hist »' XX’VIII (1924), p. 19; A. T. Walker, Where did Caesar defeat thè Usipetes and Teneten?, in « Class. Journ. », XVII (1921-22), p. 77; L. A. Constans, Les débuts de (a tutte entre Cesar et Vercing., m «Rev. Belg. Phil. et Hist. », XXVII (1923) p. 201; G. Matherat, La deuxième camp, de Cesar cantre les Bellovaques, in « Rev' Ét Ano,., XXXIX (1937). p. 347, e in . Mém. de la Soc. Nat. de» Aotiquair» 6 France » 1944, p. 61; Rice Holmes, Portus Itius, in «Class. Rev.», XXVIII J*' 4,5 6 193; L' Lauband> Note sur les expéditions de César en Bretaqne f.V* vr° *’
in
(1935)- P- 26g; E- Kòstermann, Cassar und Ariovistus, in (1941)> P- 196; E. Miltner, Die Schlacht im Elsass (58 v. Chr.) in
* tPP! lì41’ P; *81’ L‘ Pakkti> Problemi sulla conquista romana della Belqicà in * B’ N‘ S-’ (1943)’ P- 22;.M- Simon, La défaite d’Arioviste et Vinstalla. n des Tnboques en Alsace (T. I degli Études asialiques, pubblicati in Mélanges della Facoltà di Lettere d, Strasburgo), Parigi 1946; V. Toubneur, Les Belges au Ier. siede ?rYi-tCaìQiR.7' de Bef -’ BulL de la classe des lettres et des mor., 5ème. sene, t. XXX, 1944), ove si dimostra che Cesare s’ingannò ritenendo i Belgi affini ai Germani mentre i Belgi sarebbero Celti venuti dal sud, alla fine del primo millen¬ nio a.C., ad occupare le due rive del Reno; M. Fievez, Les cavaliere Trévires dans
BIBLIOGRAFI A
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Cesar, B. O. II, 24, in. « Les étud. class. », XVIII (1950), p. 171. A. Blanchet, nello studio Les rapporta entre les depots monetaires et les événements militaires, politiques et économiques, in « Rev. Num. », 4e sèrie, XXXIX (1936), p. 205, ha mo¬ strato come la marcia dell’invasione romana sia segnata da vari depositi di monete galliche nella Belgica, nell’Armorica e nell’Aquitania. LXXVIII (cfr. i §§ 135—137) — Sul complesso problema delle date terminali dei comandi di Cesare, seguo nel testo la teoria dell’ADCOCK, secondo la quale con le due leggi Trebonia e Licinia-Pompeia, votate successivamente l’una dopo l’altra, si sarebbe fatto in modo che i tre proconsolati avessero termine alla stessa data. Sic¬ come Crasso aveva urgenza di partire per la provincia — e partì effettivamente in¬ torno alle idi di novembre — così sembra probabile che l’imperio proconsolare sia stato attribuito ai consoli fino da questo giorno, col termine perciò del 12 novembre del 50: le stesse date varrebbero per il secondo proconsolato di Cesare. Questi veniva a perdere, è vero, alcuni mesi del primo proncosolato, (che spirava il 28 febbraio del 54), ma era d’altra parte pericoloso per lui aspettare ancora a provvedere alla proroga, nessun termine essendo fissato per il suo comando nella Transalpina e correndo perciò pe¬ ricolo di perdere questa provincia, specialmente nell’intervallo di tempo che sarebbe intercorso tra la fine del consolato di Pompeo e Crasso e il 1° marzo del 54. Incerto è poi se al convegno di Lucca si sia convenuto, e nella legge Licinia-Pompeia sia stato statuito, che non si dovesse deliberare sul comando delle Gallie fino al 1° marzo del 50: se ciò avvenne, Cesare era messo al sicuro fino al principio dell anno 48, perché in base alla legge Sempronia di Gaio Gracco il senato doveva assegnare le provincie prima delle elezioni consolari e quindi soltanto i consoli del 49 avreb¬ bero potuto essere presi in considerazione per il governo di queste provincie nell’anno 48 (in base alla legge Cornelia). D’altra parte, sta di fatto che nel corso dell’anno 51 più volte si discusse in senato sulla sorte delle tre provincie go¬ vernate da Cesare. Si veda sulla complessa questione: T. Mommsen, in Oesa/mm. Schrift., IV, p. 92 sgg.; H. Nissen, Der Ausbrueh des Burgerkrieges 49 v. Chr., in « Hist. Zeitschr. », XLIV (1880), p. 409; XLV (1881), p. 48; O. Hirschfeld, in «Klio», IV (1904), p. 76; V (1905), p. 236 sgg.; L. Holzapfel, in « Klio », IV (1904), p. 327 sgg.; W. Judeich, in « Rhein. Mus. », LXVIII (1913), p. 1 sgg.; M. Cary, Pompey's Compromise, in «Class. Rev. », XXXIII (1919), p. 109; F. B. Marsh, The Founding of thè Roman Empire, 2a ed., Oxford 1926, App. II; M. Gelzer, in «Hermes», LXIII (1928), p. 113 sgg.; F. E. Adcock, in «Class. Quart. », XXVI (1932), p. 14 sgg.; C. E. Stevens, The terminal date of Coesori command, in « Am. Joum. Phil. », LIX (1938), p. 169 (si tende a dimostrare che Cesare avreb¬ be dovuto deporre il suo imperium nel periodo fra il 31 luglio e i primi di ottobre del 50); E. T. Salmon, Caesar and thè consulship for 49 B. C., in « Class. Joum. » 1939, p. 388; G. R. Elton, The terminal date of Caesar’s Collie Proconsulate, in «Journ. Rom. St. », XXXVI (1946), p. 18. Sulla campagna di Crasso in Mesopotamia sono da consultare: K. Regling, Crassus Partherkrieg, in «Klio», VII (1907), p. 357 sgg.; F. Schmidt, Die Schlacht bei Carrhae, in «Hist. Zeitschr. », XCV (1915), p. 237; H. Delbrttck, Oesch. der Kriegskunst, I, 3a ed., Berlino 1920, p. 475 sgg.; A. Gunther, Beitràge zur Geschichte der Kriege zvnschen Rómer undParther, Berlino 1922. Per la topografia della battaglia si veda: Weissbach, in R. E., X II, col. 2009; K. Regling, in « Klio », I (1901), p. 443 sgg. Inoltre: A. G. Bokschtschanin, Bitwa fri Karraeh (La battaglia di Carré), in «Vestnik Drevnej Istorii » 1949, f. 4, p. 41. Sulla cronologia: P. Groebe, Der Schlachttag von Carrhae, in « Hermes », XLII (1907), p. 315. Sugli avvenimenti che precedettero lo scoppio della guerra civile si veda. K. von Fritz The mission of L. Caesar and L. Roscius in January 49 B. C., in « Transact. Proceed. Am. Phil. Assoc. », LXXII (1941), p. 125; P. Meloni, Servio Salpici
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Rufo e i suoi tempi (è uno studio biografico sul noto giurista, console nel 51), « Ann. della Fac. di Lett. e Fil. dell’Univ. di Cagliari », 1946. La facoltà data a Cesare, di presentare la sua candidatura al consolato in absentia, cioè prima che spirasse il suo governo provinciale, sottintendeva evidentemente ch’egli avrebbe potuto ottenere dal senato la dispensa dall’intervallo regolare richie¬ sto per l’iterazione della magistratura (10 anni): in caso diverso, la concessione ora fattagli non avrebbe avuto altro scopo, perché Cesare, scadendo dal proconsolato alla fine del 50 o, secondo un’altra teoria, al più tardi il 1° marzo del 49, sarebbe stato in tempo per venire a presentare di persona la sua candidatura per il 48. In questi anni il calendario romano - a causa soprattutto delle viziate intercala¬ zioni negli anni precedenti - era di nuovo in notevole disordine rispetto alle date giuliane: secondo i recenti computi più probabili, si può ritenere che esso, al prin¬ cipio del 49, fosse in anticipo di circa sette settimane; e infatti Cesare, quando in¬ trodusse, nel 46, la riforma del calendario, dove intercalare 90 giorni; segno che si erano omesse quattro intercalazioni (cfr. Svet. Div. lui., 40). Se la data del 10 gen¬ naio è quella del passaggio del Rubicone (altri ha sostenuto l’il o il 12), la data corrispondente del calendario giuliano è il 22 novembre dell’anno 704 ab u. c. ( = 50 a.C.). La questione cronologica è esposta in Carcopino, César, 2a ed., p. 696 e 990. LXXIX (cfr. i §§ 138 e 139) — Come fonti per la guerra civile, si può usu¬ fruire, oltre che del Corpus Caesarianum (vedi ai §§ 8 e VII), delle narrazioni di Ap¬ piano (de bell. civ. II) e di Cassio Dione (XLI-XLIII) e, in ima certa misura, del poema di Lucano. Si consulterà: H. Barwick, Coesore Commentarli und das Corpus Caesarianum, « Philologus », Supplem. B. XXXI, 2, 1938; Meusel, Lexi¬ con Caesarianum, Berlino 1887-1893; A. Klotz, Caesarstudien, Lipsia 1910. Su Irzio: H. Potter, Untersueh. zum Bellum Alex, und Bellum Afric., Diss. Munster, Lipsia 1932; O. Seel, Hirtius, Untersueh. ùber die pseudocaesarian. Bella und den Balbusbrief, in « Klio », Beili. X F., XXII (1935); A. Klotz, Kommentar zum Bellum Hispaniense, Lipsia 1927. I documenti numismatici relativi alla guerra contro Farnace sono illustrati da L. Laffranchi, Nuovi testi numismatici sedie vittorie romane nel Ponto, in « Historia », IX (1935), p. 50. Sulla guerra civile in particolare sono da consultare iseguenti lavori: A. von Gòlers, Coesore gallischer Krieg und Theile seines Bùrgerkriegs, 2a ed., Tubingen 1880; L. Heuzey, Lee opérations militaires de Jides Cesar, Parigi 1886; O. E. Sckmidt, Der Bnefwechsel des M. Tullius Cicero von s. Prokonsidat in Kilikien bis zu Cdsars Ermor“7’ ^!?Sia 1893: A- VON Domaszewski, Die Heere der Burgerkriege in den Jahren 49 bis 42 vor Chr., in « Neue Heidelb. Jahrb. », IV (1894), p. 157; A. Ferrabino, Canone m Africa: 49 a.C., in « Atti R. Accad. di Torino » 1912, p. 499 sgg.- S. Gsell ar'flenne
l'Afrique du Nord, voi. Vili: Jules Cesar et l'Afrique, Parigi
ioao vT\VLERC’ MasHal%a: Histoire de Marseille dans Vantiquité, voi. II, Marsiglia 1 JN. Meneoatti, Quel che Cesare non dice nel suo capolavoro, Milano 1931. Studi particolari sulla campagna d’Italia: G. Veith, Corfinium, in «Klio», XIII (1913), }’ VV , : How’ Domitianae cohortes, in « Class. Quart. » 1924, p. 65. Sulla guerra in Macedonia e m Grecia: A. Schober, Zur Topographie von Dyrrachium, in « JahZnnlTì
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Parigi 1876. Sul bellum Alexandrinum: P. Graindor, La guerre d'Alexandrie, Il Cairo 1931; L. E. Lord, The date of Julius Caesar's departure from Alexandria (si propone la fine di aprile del 47), in « Journ. Rom. St. », XXVIII (1938), p. 19. Sulla guerra in Asia: W. Judeich, Cosar im Orient, Lipsia 1886; C. Cichorius, Veni vidi vici, in Rómische Studien, p. 245; M. Rostovtzeff, Caesar and thè south of Russia, in «Journ. Rom. St. », VII (1917), p. 27. Per quanto riguarda gli avvenimenti immediatamente precedenti e seguenti al passaggio del Rubicone, si noti che nei Commentala di Cesare I 7, la famosa contio ad milites di Cesare è data come avvenuta in Ravenna, prima di iniziare la marcia verso il Rubicone; in realtà essa fu tenuta soltanto dopo che Cesare si fu incontrato, a Rimini, coi tribuni della plebe, e perciò in Rimini stessa (cfr. gli stessi Comm., cap. 8; Svet., Div. lui., 32; Cassio Dione, XLI 4). I fatti possono quindi ricostruirsi così: Cesare, che aveva diviso la sua legione in due corpi di 5 coorti ciascuno, l’uno a Faen¬ za e l’altro a Rimini, ricevuto, il giorno 10 gennaio, il messo dei tribuni con le noti¬ zie da Roma, ordina immediatamente l’avanzata sul Rubicone del suo distaccamento, comandando all’altro di passare l’Appennino e, procedendo per la valle superiore del¬ l’Amo, di spingersi fino ad Arezzo. Egli seguì il primo distaccamento, passò, la sera del 10, il fiume, fu il giorno di poi a Rimini, e quivi, la sera stessa dell’11 o la mat¬ tina del 12, tenne il discorso ai soldati. Quanto al fiume Rubicone, è noto che si è ormai riconosciuto come esso vada identificato col Fiumicino che scorre presso Savignano. Vedi G. Nanni, Biografia di un fiume: la secolare disputa per il Rubicone, in « Le Vie d’Italia » LVIII (1952), p. 388. Quanto a Marsiglia, nei Commentarli si rappresenta la città come già guadagnata alla parte di Pompeo e decisa a sostenerlo, anche prima che si aprissero i negoziati con Cesare; e già Domizio Enobarbo, lasciato libero a Corfinio, era partito dall’Italia con alcune navi per prendere il comando della città. Diverso è invece il racconto di Lucano (derivante da Livio), che concorda con quello di Dione Cassìo; secondo questa versione, la politica di Massilia fu sinceramente neutrale e nessun provvedi¬ mento era stato preso in vista di prossime ostilità con Cesare. M. Clero hà sostenuto che questa versione è da preferire alla prima (Marseille et Jules Cesar, in « Musée Belge », XXVII [1923], p. 145 sgg.). La migliore trattazione della campagna d’Africa è quella del Veith negli Antihe Schlachtfelder del Kromayer, voi. Ili, con le aggiunte nel voi. IV, p. 647 sgg. Le carte e i piani relativi in Schlachtoi—Atlas, Rom. Abteil., Ili 3, 22; si veda la stessa opera, IV, p. 552 sgg., per la battaglia di Munda. Vanno infine ricordati altri studi recenti su personaggi ed episodi rèlati vi agli avvenimenti di questi anni: B. Motzo, Cesa/re eia Sardegna, in « Studi Sardi », fase. 2;* V. Augusti, Tito Labieno nella guerra gallica e nella guerra civile, Napoli 1938; R. Syme, The allegiance of Labienus, in «Journ. Rom. St. », XXVIII (1938), p. 113 (con una minuta analisi delle ragioni che portarono Labieno ad aderire al partito di Pompeo, si arriva alla conclusione che Labieno era in realtà un antico partigiano di Pompeo, al quale fu sempre legato da vincoli di fedeltà e di amicizia); J.Carcopino, Cesar et Cléopàtre (Ann. de l’Éc. des Hautes Et. de Gand. Tome I: Études d’arch. rom.), Gand 1937; M. Polignano, P. Cornelio Dolabella, uomo politico, in «Atti Acc. Naz. Lincei » 1946, p. 240 sgg.; J. André, Quelques points obscurs de la vie d’Asinius Pollion, in « Rev. Et. lat. », XXV (1947), p. 122; P. Grenade, Le mythe de Pompée et les Pompéiens sous les Césars, in « Rev. Et. anc. » LII (1950), p. 28.
LXXX (cfr. i §§ 140-145) - Sui piani di riforma di Cesare, sulle ipotesi, le spe¬ ranze, i dubbi dei contemporanei ben poco ci possono dire le fonti: possiamo appog¬ giarci soltanto alle lettere di Cicerone e alle orazioni Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Pelotaro. Di essenziale importanza sono poi le già ricordate Epistulae ad Caesarem senem, di Sallustio (come ormai i più ritengono); su di esse, oltre a quanto è stato
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
citato al § LXIII, si veda: E. Skard, Studien zur Sprache der Epist. ad Cassarem, in « Symbolae Osloenses », X (1932), p. 61; E. T. Salmon, Concerning thè aecond Sallustian suasoria, in « Cl. Philol. », XXXII (1937), p. 72; G. Calsson, Eine Denkschrift an Cassar iXber den Staat (Skriften utgivna av Vetenskaps—Societaten, XIX), Lund 1936. Sulla valutazione di Dione Cassio come fonte su tale soggetto, ha scritto H. A. Andersen, Cassius Dio und die Begrundung des Principatus, in «A. Deutsche Forschungen, Abt. Alte Oesch. » 1938, sostenendo che Dione ha tratto dalla sua fonte l’indicazione degli onori decretati dal senato a Cesare, trascurando di dire quali di questi onori Cesare rifiutò. Ciò che ci rimane di Nicola di Damasco sulla congiura e l’assassinio del Dittatore, è oggetto di uno studio di Clayton M. Hall, Nicolaus Damascenus, life of Augustus, Diss. Baltimora 1923. I documenti numismatici sono studiati da F. L. Ganther, Die Diktuinren Caesars u. die Mùnzen der vier ersten III viri aa.a.f.f., in « Zeit. f. Numism. », XIX (1895), p. 183. Alla letteratura moderna già citata va aggiunto, per quanto concerne gli ultimi anni del governo di Cesare e la sua morte, quanto segue. Sull’opera di riforma am¬ ministrativa e sui poteri di Cesare: E. G. Hardy, Some problema in Roman History, ten essays hearing on thè administrolive and legislative tvork of Julius Cassar, Oxford 1924; D. Mac Fayden, The history of thè title imperator under thè Roman Empire, Chicago 1920; P. Schnabel, Die zweite Diktatur Caesars, in « Klio », XIX (1925), p. 354; E. Hohl, Besass Cassar Tribunengewalt ?, in «Klio», XXXII (1939), p. 61. Sull’esercito di Cesare: Mommsen, Dos Militàrsystem Caesars (in Oesamm. Schriften, IV 156); von Domaszewski, Die Heere der Bùrgerkriege in den Jahren 49 bis 42 v. Chr., in « N. Heidelb. Jahrb. », IV (1894), p. 157; id., Die Phalangen Alexanders und Caesars Legionen, in « Sitzungsber. Heidelb. Akad. » 1925, p. 6. Sulla politica rela¬ tiva alle colonie, ai municipi e alle provincie: T. Mommsen, Zur Geschichte der Cassar. Zeit, I. Die Provinzen Caesars (Gesamm. Schriften, IV 169); S. Gsell, Les premiers temps de la Carthage romaine, in « Rev. Hist. », CLVI (1927), p. 228; J. Carcopino, L'Afrique au dernier siede de la Republ. rom., ibid., CLXII (1929), p. 86; M. Cary, The municipal legislation of Julius Caes., in «Joum. Rom. St. », XXVII (1937), p. 48 (vi sono anche discusse alcune conclusioni della citata opera di H. Rudolf, Stadt und Staat, Lipsia 1935); A. Degrassi, Il confine nord-orientale dell'Italia ro¬ mana, in « Paideia », III (1948), p. 129 (la Cisalpina continuò ad essere ammini¬ strata come provincia anche dopo la concessione della cittadinanza ai Transpadani per opera di Cesare; soltanto nel 42 a.C. il confine orientale d’Italia fu fissato dai triumviri al fiume Formione e nel 12 a.C. fu portato all’Arsa). Sulla clementia Caesaris; H. Dallmann, Clementia Cassaris, in « N. Jahrb. f. Wiss. », X (1934), p. 17; C. C. CouLTER, Caesar's clemency, in/« Class. Joum.», XXVI (1930-31), p. 513! Sugli onori divini a Cesare e sul titolo di re: A. von Domaszewski, Die góttlichen Ehren Caesars (in Abhandl. zur Geschichte der rom. Rdigion, p. 123); L. R. Taylor, The divinity of thè Roman emperor (Philological Monographs di J. W. Hbwitt), Middletown 1931; E. Pais, in Dalle guerre puniche a Cesare Augusto II 318, e in «Cor¬ riere della Sera » del 22 marzo 1934. Su Bruto e Antonio: J. Schwartz, L'ombre d'Antoine et les debuta du principot, in « Mus. Helvet. », V, fase. 4; G. Walter, Brutus et la fin de la République, Parigi 1938; M. Radin, Marcus Brutus, New York 1939. Sui rapporti di Servilia con Giulio Cesare, vedi G. Giannelli, Giulia e Servilia (Qua¬ derni di Studi Romani: Donne di Roma antica, III), Roma 1945; e, in genere, sui rapporti di Cesare con la nobiltà: F. B. Marsch, The Roman aristocracy and thè dsath of Cassar, in « Cl. Journ. », XX (1925), p. 451. A questo proposito vedi anche Ch. WiRSZUBSKi, Inbertas as a politicai idea at Rome, Cambridge Univ. Press., 1950. La crisi economica e sociale che travagliò Roma sul finire della Repubblica, è trat¬ teggiata nell’opera di F. B. Marsch, Modem problema in thè ancient world, Austin, exas 1943; mentre una profonda analisi della crisi costituzionale dopo l’anno 60 a.C. troviamo nel ragguardevolissimo lavoro (con atteggiamento assai ostile alla figura
BIBLIOGRAFIA
E
PROBLEMI
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di Augusto) di R. Syme, The Roman revolution, Oxford 1939. Ricordiamo infine la rassegna di M. A. Levi, La caduta della Repubblica romana; rassegna degli studi re¬ centi, in « R. Stor. It. », N. S. II (1924), p. 253.
LXXXI (cfr. i §§ 146-148) - Il « Panteon » romano del II secolo è ben ‘tor¬ mentato dalle iscrizioni di Pesaro (Pisaurum: vedi Dessau 2970-2983), con 1 indi¬ cazione delle divinità introdotte dai coloni nel 184 a.C. Vedi poi: C. Jullian, La religion romaine deux siècles avant notre ère (Mélanges de Rossi, 1892, p. 311). Il Cichoritts (Róm. Studien, p. 21) ha avanzato l’ipotesi di qualche rapporto fra la diffusione del culto bacchico in Italia e in Egitto, dove esso fu regolato da norme dettate, alla fine del III secolo, da Tolomeo Filopatore. Sullo stoicismo a Roma: P. Couissin, Le stoìcisme et la nouvelle Academie, in « Rev. d’Hist. de la philosophie », III (1929), p. 241; B. N. Tatakis, Panetiua de Rfwdes, le fondoteur du moyen stoicisme, sa vie, son oeuvre, Parigi 1931; L. Labovvski, Die Ethik des Panaitios, Lipsia 1934. Sulla crisi religiosa dell’ultimo secolo della repubblica e la decadenza dei culti tra¬ dizionali di fronte alle religioni di contenuto mistico, si potrà leggere: A. Swoboda, Nigidii Figuli reliquiae, Vienna 1888; W. Warde Fowler, Roman Ideas of deity m thè last century before thè Christian era, Londra 1914; P. Boyancé, Études sur le songe de Scipion, Parigi 1937. Vedi ora anche H. J. Rose, Ancient Roman religion, Lon¬ dra 1949. . . Sulle condizioni culturali del mondo romano in questo periodo si potrà consultare l’opera del TenneY Frank, Life and literature in thè Roman Republic, Berkeley Univers. of California 1930, e quella di W. Kroll, Die Kultur der Ciceronischen Zeit, Lipsia 1933; M. E. Park, The plebe in Cieeros day, Cambridge, Mass. 1918. Studi particolari sulla letteratura latina da Siila a Cesare: F. Leo, Rómische Poesie in der syllanischen Zeit, in «Hermes», XLIX (1914), p. 161; R. Paribeni, «Cantore* graeci» nell'ultimo secolo della Repubblica (Racc. Lumbroso, p. 287) Milano 1925; Rostagni, Partenio di Nicea, Elvio Cinna ed i poetae novi, in « Atti R. Acc. Scien¬ ze di Torino », LXVIII (1932-33), p. 497; Tenney Frank, CatuLlus and Horace, two poets in their environnement, New York 1928. Sui resti degli edifici romani d’età repubblicana: B. Wijkstrom, Welche stnd die Tempel auf der Piazza Argentina ? (Corolla Archaeol. dedicata a Gustavo Adolfo), Stoccolma 1932- G. Marchetti Longhi, Gli scavi del Largo Argentina, in « Bull. Comm. Arch. Com. di Roma», LXIV (1936), p. 83. Cfr. F. Pottlsen, Die Ròmer der republikan. Zeit und ihre Stellung zar Kunst, in « Antike », XIII (1937), p. 125; G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e suburbio, Roma 1933—35. Sulla scultura e la pittura: Goethert, Zur Kunst der róm. Republik, Diss. Colonia 1931; F. Poulsen, Probleme der róm. Ilconographie: ein Gruppe friihròm. Portràts, 1937- P. E. Arias, Storia della scultura romana, Messina 1941; P. Marconi, La pit¬ tura’dei Romani, Roma 1928. Studi particolari sull’arte nell’ultimo secolo della re¬ pubblica: R. Delbruck, Hellenistische Bauten in Latium, Strasburgo 1907; O. Rubensohn, Parische Kunstler, in «Jahrb. deutsch. arch. Inst. », L (1935), p. 60, G. Lippold, Kopien und Umbildungen griech. Statuen, Monaco 1923; A. ZadoksJitta, Ance*trai portraiture in Rome and thè art of thè last cent, of thè Rep., Am¬ sterdam 1932.
APPENDICE
In questa Appendice, preparata a scopo di aggiornamento per la IV edizione del Trattato, sono incluse tutte le notizie di bibliografìa e di problematica comprese nelle Appendici aggiunte alle precedenti edizioni. Le aggiunte della III e IV edizione sono contrassegnate da due asterischi.
INTRODUZIONE - Bibliografia generale Al § I - Sul Mommsen hanno scritto recentemente A. Heuss, Th. Mommsen und das 19. Jahrhundert, Kiel 1956, e A. Wucher, Th. M. Geschichtschreibung und Politik,
Góttingen 1956. È da leggere la recensione di questi due scritti di A. Momigliano in « Gnomon » 1958, pp. 1-5. ** Si veda ora H. Schaefer, Probleme der Alten Geschichte, Gesamm. Abhandlungen u. Vortràge, Gottingen-Zùrich, 1963. Al § II - S. Lambrino ha pubblicato una Bibliographie de l'antiquité classique (1896-1914): le partie: Auteurs et textes, Paris 1951, la quale viene a colmare la lacuna esistente tra l’opera del Klussmann (che arriva al 1896) e quella del Marouzeau, che comincia appunto col 1914. . A S. J. Kovalew dobbiamo una rassegna storiografica dell attività degli studiosi russi nel campo della storia romana: Quarantanni di storiografìa sovietica sulVantica Roma (in lingua russa), in «Vestn. Drevn. Istor. » 1957, III, pp. 13-27. Alla rassegna del K. fa riscontro quella italiana compilata a cura di A. D’Alessandro e G. Paterno: Studi sovietici di storia romana, Roma 1954. Ancora due utili rassegne italiane sono quella di M. Pavan, Storia romana antica, in « Studi Romani » IV (1956) pp. 330-336, e l’altra di L. Pareti, Studi recenti di stona antica: storia romana del periodo regio, in « Idea» 1956, n. 46. ** Una rassegna generale di storia romana è stata pubblicata da A. Piganiol. Histoire romaine, in « Rev. Hist. » nn. 475-476 (1966), pp. 129-158; 389-410. Due rassegne si devono a F. Grosso: l’una, di Storia romana antica, in « Studi Romani », XV (1967), pp 66-70; l’altra, di Storia antica: epigrafìa, in «Studi Rom. », XIII (1965), pp. 476-485. La rassegna di Storia della costituzione romana, pubblicata da F. Serrao m « Studi Rom.», XIII (1965) pp. 351-356, è la continuazione delle altre che, con lo stesso titolo, sono state pubblicate nella medesima rivista dal 1955 (ann. Ili, pp. 451 sgg.) al 1963 (ann. XI, pp. 332 sgg) e comprende studi sulla comunità primitiva e sulla repubblica, pubbli¬ cati principalmente negli anni 1961, 1962 e 1963. . . D La rassegna di M A Levi, La storiografìa sociologica e le classi sociali m noma antica, in «N Riv. Stor. »', XLIX (1965), pp. 675-695, è volta specialmente ad esaminare la storiografìa relativa alle classi sociali costituitesi a Roma in età imperiale; ma 1 argo¬ mento interessa da vicino l’ultima età repubblicana, nella quale hanno origine la maggior parte dei fenomeni che appariranno poi in piena luce in età imperiale. Rassegne di contenuto più specifico sono quella di D. Musti, Problemi pohbiam, in « Par del pass. », faqc CIV (1965) pp 380-426, e l’altra, di N. Criniti, Interpretazioni storiche catilinarie nell’Italia unita inX N. Riv. stor.», LII (1968), pp. 355-420: è volta ad analizzare la nutrita polemica sviluppatasi, nel XIX secolo, intorno alle figure dei due antagonisti, Cicerone3 e Catilina, il quale ultimo, specialmente, offri materia ad una vera e propria “querelle”, condannato o esaltato secondo la situazione politico-storica del momento. 30 -
GlANNELLi, Trattato di Storia romana
- I
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TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
Diamo qui notizia di altre particolari rassegne di studi relativi alla storia romana. A. Momigliano, in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, ha raccolto numerosi saggi, distinti in cinque gruppi a seconda dell’argo¬ mento trattato: storia della storiografia, saggi giovanili, saggi e discussioni sulle origini di Roma, note e discussioni di metodo, scritti in memoriam (di studiosi scomparsi). M. A. Levi, nello scritto Indirizzi e contrasti negli studi di storia greco-romana, in « At. e R. » XII (1967), pp. 145-158, esamina le forme e le tendenze della storiografia moderna, ch’egli considera iniziata da Giorgio Grote e Teodoro Mommsen su posizioni originali rispetto a quelle che avevano condizionato fino allora la storiografia del mondo classico. Numerosi lavori sui monumenti epigrafici di Veleia, studiati dal punto di vista storico¬ giuridico, si trovano in Atti del III Convegno di Studi Veleiati (maggio-giugno 1967), pubblicati a Milano nel 1968. Altri studi di analisi storico-epigrafico-sociale su città romane e di ricerca sull’economia, la società e la storia in senso largo dellTtalia antica sono in Atti del Centro studi e documentazione sull'Italia romana, voi. I, Milano-Varese 1967-68. Al § III - Fra le collezioni dedicate in tutto o in parte all’antichità classica, dob¬ biamo ora ricordare quella curata da R. Flacelière, col titolo Histoire génèrale des civilisations; dopo un primo volume dedicato alle civiltà orientali e alla Grecia, si è pubblicato il secondo, opera di A. Aymard e J. Auboyer, Rome et son empire, Paris 1954. Nel volume, parallelamente alla storia del Mediterraneo e del vicino Oriente, è esposta anche quella dell’Asia Orientale, descritta nei suoi tre centri di civiltà — Iran, India e Cina - dal principio dell’era cristiana alla fine del IV secolo. ** Altri notevoli contributi di contenuto generale sono compresi in alcune collezioni di recente edizione. P. Grimal ha elaborato il voi. VII della Fischer Weltgeschichte, col titolo Der Aufbau des róm. Reiches (Frankfurt 1966); ad A. Bernardi si deve la parte I del voi. II (L’età romana) della Storia politica universale ed. De Agostini, Novara 1966, col titolo Dalla fondazione al declino della repubblica; nelle Nuove Questioni di storia antica, ed. Marzorati, Milano 1968, alla storia romana sono dedicati i seguenti contributi: A. Bernardi, L'Italia antichissima e le origini di Roma-, F. Cassola, La Repubblica romana; R. F. Rossi, La crisi della repubblica-, nella Storia d’Italia, ed. Mondadori, M. G. Levi ha trattato L’Italia antica dalla preistoria all’unificazione della penisola e al suo isolamento (Milano 1968).
Al § IV — Nuovi sussidi per la conoscenza e l’uso delle fonti della storia romana sono offerti dal volume di P. E. Arias, Ribliografia e fonti della storia romana, Bologna 1955, e dalla seconda edizione dell’utilissima raccolta curata da F. Greenidge e A. M. Clay, Sources for Roman History 133-70 B. C., Oxford 1960. ** Si fa qui menzione di un’utile pubblicazione sfuggita alle precedenti rassegne: è quella di G. Guggenbuhl, Quellen zur Allgemeinen Geschichte. Band. I Altertum 2te Aufl. Ziirich 1953. G. Susini ha raccolto le Fonti per la storia antica del Salento, Bo¬ logna 1962. Particolare considerazione merita l’iniziativa dell’Accademia della Repubblica popo¬ lare romena, la quale ha deliberato di pubblicare una serie di volumi destinati a racco¬ gliere ed illustrare tutte le fonti della storia antica e medioevale della Romania: è intanto uscito il I volume (Izvoare prevind Istoria Rominici, Burniresti 1964), in cui sono com¬ prese le fonti greche e latine che forniscono informazioni sulle popolazioni stanziate nel territorio romeno fra il VII secolo a. C. e il III d. G. Tutti i testi, letterari ed epigrafici, sono dati per disteso con a fronte la traduzione in lingua romena e con abbondante commento e bibliografia.
. A § ^ ~ Nel paragrafo dedicato alle Fonti archeologiche dobbiamo ora far men¬ zione del grande repertorio iniziato dal Lugli: Fontes ad topographiam veteris urbis Romae pertmentes: curavit J. Lugli, pubblicato a Roma dal 1952 in poi.
** del Lugli è uscito, alla fine del -62) a vol VIII) pubblicato, come i precedenti, dall Istituto di Topografia antica dell’Università di Roma; sarà completa ^PofmqUe^lumi- Di quest0 grande lavoro parla F. XI (1963), pp. 239-332.
Grosso
in « Studi Romani »
Al § V? - Quando sono stati redatti i Fasti Capitolini? Dopo che, in base alle ar¬ gomentazioni di A. Degrassi e di L. R. Taylor, si è guadagnata l’evidenza che i Fasti
APPENDICE
467
non erano affissi alle pareti della Regia, bensì all’Arco di Augusto, la questione della datazione di essi è connessa naturalmente con quella della datazione dell’Arco: R. Stieyl, Die Datierung der Kapitolinischen Fasten, Tiibingen 1957, esamina ora le due teorie in proposito (Degrassi: 30 a.C.; Taylor: 18/17 a.C.), schierandosi, con alcuni validi argomenti, in favore di quella della Taylor. ** Attilio Degrassi, continuando il suo indefesso lavoro di epigrafista, ha pubbli¬ cato, presso « La Nuova Italia » (Firenze 1963), il II fascicolo delle Inscriptiones Latinae liberae reipublicae, che fa seguito al I, pubblicato nel 1957. In questo secondo fascicolo, dopo le leges sacrae, si trovano i senatusconsulti repubblicani, gli editti, i trattati, i documenti dei magistrati e sacerdoti delle altre città e paesi italici, le iscrizioni degli artigiani e degli schiavi pubblici. Ai due fascicoli fa seguito un volume di Imagines, pubblicate “consilio et auctoritate Academiae Scientiarum Germanicae”, Berolini 1965; raccolta di riproduzioni, quasi sempre fotografiche, che sostituisce vantaggiosamente i Priscae Latinitatis monumenta epigraphica di F. Ritschl (Berlino 1862). Sulla pubblicazione delle epigrafi latine hanno scritto: A. Neppi Modona, Per l'ag¬ giornamento dei vari volumi del C I L, in « Helikon » IV (1964), pp. 361-363, e S. Pan¬ ciera, Corpus Inscript. Latinorum, voi. VI, Supplem., nella stessa rivista, IV, pp. 376-381: il N. M. presenta una possibile distribuzione del materiale epigrafico per la compilazione di un Bullettino Epigrafico progettata dalla nuova « Association internationale d’épigraphie latine» fondata il 2 sett. 1963, con sede a Parigi; il P. illustra il lavoro fatto e da fare per la realizzazione di un Supplemento al voi. VI del C I L. E. Bernareggi ha scritto su Eventi e personaggi sul denario della Repubblica romana, Milano 1963: il volume contiene la esegesi di un certo numero di tipi raffigurati sui denari repubblicani, i quali cosi vengono ad illustrare episodi famosi o episodi per noi ancora oscuri della storia romana del secondo e del primo secolo a.C. Al § VII - Mi sia lecito ricordare qui - giacché non l’ho fatto nella nota corrispon¬ dente della prima edizione - un vecchio scritto di G. Vitelli: Note ed appunti sull’au¬ tobiografia di L. Cornelio Siila, Firenze 1898. Intorno a Cicerone come fonte primaria, si veda il volume di M. Rambaud, Cicéron et l’histoire romaine, Paris 1953. Su Cesare: M. Rambaud, L'art de la déformation historique dans les commentaires de César, Paris 1953; K. Barwick, Caesars Bellum Civile: Tendenz, Abfassungszeit und Stil, Berlin 1951; A. La Penna, Tendenze e arte del Bellum Civile di Cesare, «Maia», N. S. V (1952) pp. 191-233; C. Iulii Caesaris Bellum Hispaniense: introduzione, testo critico e commento a cura di G. Pascucci, Firenze 1965. ** Delle lettere sallustiane, dopo l’edizione, con traduzione e commento filologico, curata da V. Paladini (C. Sallustii Crispi epistulae ad Caesarem, Roma 1952), è uscita quella di A. Ernout, Pseudo-Saliuste, Lettres à César. Invectives, Paris 1962. Su di esse ha scritto W. Seyfarth, Sallusts Briefe an Caesar, in « Klio », XL (1962), 128-141, proponendosi di dimostrare la loro autenticità nei riguardi dello spirito di contraddizione del suo tempo. Ricordiamo infine la pubblicazione di 0. Seel, Sallusts Briefe und die pseudosallustische Invektive, Nurnberg 1966. . Su Cicerone si veda ora: K. Buchner, Cicero: Bestand und Wandel semer geistigen Welt, Heidelberg 1964. Al § Vili - La letteratura relativa a Sallustio si è arricchita di notevoli contributi. Sulla Guerra Giugurtina ha scritto K. Buchner, Der Aufbau von Sallusts Bellum Iugurthinum, Wiesbaden 1953; L. Olivieri Sangiacomo, Sallustio, Firenze 1954, ha tentato di spiegare dall’interno l’origine e lo svolgimento dell’opera storica di S., dando perciò maggior rilievo agli elementi autobiografici e passando in seconda linea le no¬ tizie biografiche fornite dalla tradizione antica, e concludendo per un significato schiettamente° politico dell’opera storica di S. W. Steidle, Sallusts historische Monogranhien: Themenwahl u. Geschichtsbild, Wiesbaden 1958, si oppone al « pregiudizio » corrente secondo il quale la ricerca degli effetti artistici, nella costruzione delle due monografie, avrebbe spinto l’autore a relegare in secondo piano l’interesse per le que¬ stioni storiche. ,,. , . , . . Nel campo degli storici greci di Roma antica, abbiamo da registrare nuovi studi su Polibio, Dionigi d’Alicarnasso, Diodoro e Appiano.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
Uno studio complessivo sul metodo di lavoro (Arbeitsweise) di P. ci ha dato M. Ueber die Arbeitsweise des Polybios, Heidelberg 1956, la cui ricerca tende a dimostrare che P. prendeva via via note sui fatti che si svolgevano a Roma e le uti¬ lizzava poi nella seconda parte del suo lavoro. Un’opera della quale si sentiva vera¬ mente il bisogno è quella fornita da F. W. Walbank, A historical commentary on Polybius: voi. I, Comm. on books 1-6, Oxford 1957 (il II voi. conterrà il commento alle parti rimanenti del testo): il commento segue il testo punto per punto, mettendo a disposizione del lettore un ampio materiale di fonti antiche e di letteratura moderna. Gelzer,
Dionigi d’Alicarnasso come fonte per la storia romana è stato fatto oggetto di studio da E. Gabba, Studi su Dionigi d’Alicarnasso, in « Athenaeum » XXXVIII (1960), pp. 175-225, e XXXIX (1961), pp. 98-121: nel primo dei due articoli l’A. studia i ca¬ pitoli del II libro (7-25), che espongono l’opera legislativa di Romolo, ch’egli ritiene rielaborati su un opuscolo polemico di età sillana; nel secondo esamina i capitoli del IV libro (1-40) relativi al re Servio Tullio, allo scopo di metterne in chiaro il valore storico e la composizione. A notevoli resultati giunge G. Perl nelle sue Kritische Untersuchungen zu Diodors ròm. Jahrzàhlung, Berlin 1957. È noto che la lista degli eponimi romani in Diodoro, frammentaria per gli anni anteriori al 479 a.C. e per quelli posteriori al 301, sopravvive sostanzialmente intatta per il periodo compreso fra queste due date (nei libri XI-XX); come dobbiamo ritenere formata questa lista di eponimi? Donde, cioè, ha Diodoro derivato i suoi fasti consolari? Dalla stessa fonte da cui ha derivato la sua storia ro¬ mana o da una fonte diversa? Il P., come altri precedenti studiosi, si schiera in favore della seconda teoria - fonte cronologica diversa dalla fonte storica - e conclude anzi per l’uso di due fonti cronologiche distinte, cioè una versione dei fasti consolari e una cronologia greca.
Una ricerca di contenuto generale sulla storiografia annalistica è quella di F. Boein « Historia » II (1953), pp. 189-209: partendo dall’esame dell’opera di Sempronio Asellione, analizza l’imposta¬ zione metodica di Catone e dell’annalistica fino alla crisi che prepara la nuova storio¬ grafia, rappresentata da Sallustio. mer, Thematik und Krise der ròm. Geschichtsschreibung,
** Sull’annalistica romana ha scritto L, Ferrerò, Rerum Scriptor. Saggi sulla sto¬ riografia romana, Trieste 1962, studiando l’attività storiografica romana sotto vari aspetti e in rapporto a varie altre forme di attività (poesia e storia, lo storico e la storia; storiografia e mondo straniero; storiografia, annalistica e grammatica; la nuova anna¬ listica etc.). Il volume di G. Bernagozzi, La storiografia romana dalle origini a Livio, II ed., Bologna 1963, è una raccolta e discussione di testimonianze antiche sugli anna¬ listi romani, allo scopo di illustrare le singole personalità e le caratteristiche di ciascuno di essi. Su Fabio Pittore ha scritto F. Branchini, Note su Fabio Pittore, in « Athenaeum », XXXIX (1961), pp. 358-361; K. Latte ha dedicato invece il suo contributo a Der Historiker L. Calpurnius Frugi, in « Sitzungsber. der D. Ak. d. Wiss. » 1963, Nr. 7. Su Fabio Pittore hanno scritto ancora: A. Momigliano, Linee per una valutazione di Fabio Pittore, in « Rend. Acc. Lincei », cl. se. mor., s. Vili, voi. XV (1960), pp. 310320 (discute il contributo di Fabio nell’opera di Polibio e attenua la valutazione dell’ope¬ ra dell annalista come scritto di propaganda); G. Vitucci, Ancora su Fabio Pittore, in « Ilelikon », VI (1966), pp. 401-410 (insiste sull’importanza di Fabio come fonte delle nostre conoscenze relative alla storia più antica di Roma e, riferendosi alle recenti indagini sull’annalista nell’opera dell’ALFÒLDi, Early Rome and thè Latins, Univ. of Michigan Press 1965, e in quella del Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari 1966, analizza specialmente la forma in cui sono penetrati nell’opera di Fabio gli Annali dei Pontefici, sostenendo l’insussistenza di tendenze patriottiche deformatrici nello scritto dell annalista). J. Heurgon, L. Cincius et la loi du “clavus annalis”, in « Athen. », XLII (1964), 432-437, sostiene che la vetusta lex relativa alla fissione del clavus annalis era contenuta probabilmente in una periegesi dei monumenti di Roma scritta da L. Cincio l’antiquario. Continua ad essere oggetto di numerosi studi l’attività storiografica di Sallustio. A questo storico è dedicato il volume di K. Buchner, Sallust, Heidelberg 1960, mono¬ grafìa esauriente, nella quale Sallustio è studiato così sotto l’aspetto politico e storico come sotto quello letterario; ma lo scritto più penetrante su questo argomento è quello di A. La Penna, Le « Hisloriae » di Sallustio e Vinterpretazione della crisi repubblicana, in «Athenaeum», XLI (1963), pp. 201-274, che presenta un’analisi molto particolareg-
APPENDICE
469
giata della interpretazione sallustiana (in quanto essa è ricostruibile) della rivolta di Lepido, delle figure di Sertorio e di Pompeo, della politica di Lucullo e della guerra ser¬ vile, e giunge al resultato che, nei riguardi della ispirazione politico-sociale dello storico, non’si riscontra evoluzione politica sensibile dalle monografie alle « Historiae », salvo un accentuarsi di razionalismo e pessimismo nella interpretazione complessiva della stona romana. Ricordiamo ancora le Osservazioni ai discorsi e alle lettere del sallustiano « Bellum Catilinae » di M. L. Paladini, in « Latomus », XX (1961), pp. 3-32, e il saggio di P. Frassinetti, Su alcuni frammenti delle « Historiae » di Sallustio, in « Athenaeum », XL (1962), pp. 93-102, dove sono proposte nuove interpretazioni o letture di alcuni dei frammenti dell’ediz. Maurenbrecher. . Ancora tre opere di vasto respiro su Sallustio: R. Syme, Sallust, Cambridge Umv. Press, 1964 (se ne veda la recensione dell’EARE in «Journ. Rom. Stud. », 1965, pp. 232-40)- A La Penna, Sallustio e la rivoluzione romana, Milano 1968; E. Pasoli, Le « Historiae » e le opere minori di Sallustio, 2* ed., Bologna 1967. Gli OratorumRomanorum Fragmenta liberae reipublicae, curati da H. Malcovati, sono usciti ora (Tonno 1967) in terza edizione; seguirà un volume con l’« index verborum ». E. Badian, in un suo precedente studio in « Journ. Rom. Stud. » 1962, pp. 50 sgg., era venuto alla conclusione che durante il « regnum Cinnanum » Sisenna si trovava in Roma e che scrisse in seguito la sua storia in uno spirito di apologia per coloro che di quella esperienza furono partecipi; ribattendo alcune obiezioni sollevate contro la sua tesi, la conferma ora nello scritto Where was Sisenna?, in « Athen. », XLII (1964), pp. 422Sull’epitome di Giustino e sulla sua fonte abbiamo da far menzione di due lavori. L. Ferrerò, Struttura e metodo deWepitome di Giustino, Torino 1957; G. Forni, T alare storico e fonti di Pompeo Trogo, I, Urbino 1958. . p , Su Polibio ha scritto ripetutamente F. W. Walbank.: Polemic m Polybius, e bius and Rome's Eastern Policy, in « Journ. Rom. Stud », rispettivamente LII (1962), 8-12 e LUI (1963), 1-13: secondo l’A., nella polemica di Polibio con gli altri storici e con le sue fonti si rivela il forte patriottismo locale di Polibio come Arcade, come Acheo e come Greco in generale; le sue lunghe digressioni polemiche ci permettono di scoprire il forte sfondo emotivo che colora le sue attitudini di « a didactic and even prosy writer». Ricordiamo ancora: Th. Cole, The sources and composition of Polybius \ 1, in < Risto "^àssandVa Plutarco, citiamo due nuovi volumi editi da «La Nuova Italia» di Fi¬ renze nella « Biblioteca di Studi Superiori, sezione Stona antica ed eP^fla ». Plutarchi■ Vita Ciceronis, Introduzione, commento e traduzione a cura di D. Magnino, 1963, PlutarchuVUa Caesaris, a cura di A. Garzetti, 1954. Ricordiamo ancora:H. Homeyer, Reobachtungen zu den hellenistischen Quellen der Plutarchviten in « Kho», XLI 1963) pp. 145-157; D. A. Russel, Plutarch’s life of Conolanus, in « Journ. Rom. Stud. », LUI ‘Tkppiano, infine, dobbiamo iar menzione dello studio Gabba Sul libro siriaco di Appiano, in « Rend. Lincei», ser. Vili, voi. XII (1957), pp. 339 351. Al 8 IX - Fra le storie di Roma di contenuto generale pubblicate in Italia, dob¬ biamo^ ricordare la Stona romana di L. De Regibus, Genova 1957, che, pur trattando l’areomento secondo una linea sommaria, richiama l’attenzione sui principali proble¬ mi dando poi notevole sviluppo all’età imperiale; e la Stona romana dagli Etruschi a Teodosio di M. A. Levi e P. Meloni, dove l’esposizione storica e preceduta da una nota sulle fonti e sui principali mezzi di studio, intercalata da note critiche e da appendidsu^ argoménti Uri, e corredata infine di molte cartine geograflche Ricordiamo infine che la Suria di Roma di L. Pabeti è arrivata ormai, col VI volume (Tonno 1961), alÈqu'iTI>u“geond°Iar menzione dei tre volumi pubblicati per onorare Plinio Fraccaro nell’occasione del suo ritiro dalla cattedra per raggiunti limiti d età: P. Fraccaro, Opuscula Pavia 1956-1957. Vi sono raccolti saggi e studi sparsi m riviste e atti acca¬ demici talora non facilmente accessibili; ricordiamo specialmente 1 noti studi cato¬ ni e quell?processi degli Scipioni (voi. I) e gli.altri suU età dei Gracchi e quelli relativi al diritto pubblico e agli ordinamenti militari (voi. 11). Delle storie di Roma pubblicate in lingua tedescancordiarno la S edmone deha Rnmische Revublik di J. Vogt e la Romische Geschichte di A. Heuss, btuttgart ìyou, conTn capitolo dedicato allo stato attuale della problematica e degl, stud, cntic.
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TRATTATO DI STORIA ROMANA
** Passando in rassegna le pubblicazioni più recenti di storia romana di contenuto generale, troviamo anzitutto una Rómische Geschichle di E. Kornemann in due volumi, pubblicati a Stuttgart, presso la editrice A. Kròner nel 1954 e nel 1959, dopo un’accu¬ rata revisione di H. Bengtson: il primo volume contiene la storia della repubblica, il secondo quella dell’età imperiale. Segue il volume di L. Sesti, Storia d'Italia dalle origini alla conquista romana, Milano 1960, che illustra la vita dei popoli italici e preitalici fino al 202 a.C. Anche H. H. Scullard ha pubblicato A history of thè Roman World from 753 to 146 B. C.y 3a ed., London 1961. Accenniamo infine ad una nuova collezione edita dall’« Utet » di Torino col titolo « Società e costume: panorama di storia sociale e tecnologica »: il primo volume è dedicato alla Grecia antica, il secondo è quello curato da M. A. Levi, Roma antica, 1963. Altre opere di storia romana di contenuto generale pubblicate in questi ultimi anni sono le seguenti: F. Altheim, Rómische Geschichte: è arrivata a compimento la pubblica¬ zione della seconda edizione, Berlino 1956-1960; H. Bengtson, Grundriss der rómischen Geschichte mit Quellenkunde: Republik und Kaiserzeit bis 284 n. Chr., Miinich 1967 (sostituisce nello Handbuch di I. von Mùller l’opera di B. Niese e P. Hohl, apparsa in 5a ed. nel 1923); P. Grimal, L'Ellenismo e l'ascesa di Roma, Milano 1967 (è la traduz. ital. dei voli. VI e VII della « Fischer Weltgeschichte » arricchiti di un’appendice bibliografica aggiornata al 1964); A. Piganiol, La conquète romaine, 5a ed., Paris 1967 (e il III voi. della collezione « Peuples et civilisations »: l’opera, interamente rielaborata e ritusa, e attentamente esaminata nella recensione di F. Sartori, in « Critica storica » fase. 4 del luglio 1968, pp. 502-523). Fra le molte altre opere di argomento generale, citiamo le seguenti: P. Romanelli, àfona delle province romane dell'Africa, Roma 1959 (espone la storia dell’Africa romana prendendo le mosse dal problema degli antichi trattati romano-punici e dividendo quindi la trattazione nei tre periodi, della repubblica, del principato da Augusto a Diocleziano e del principato post-dioclezianeo fino all’invasione dei Vandali)- J Carcopino, Pro/itó de conquérants, Paris 1961 (sono illustrati specialmente i profili’di Pirro di Annibale, di Genserico e posti a paragone con Giulio Cesare); J. P. V. D. Baldson’ Roman Wamen: their history and habits, London 1962 (l’A. si propone un duplice scopo: ,t”CaStuUZ1-+ne sto”^?'ntratt'istica delle personalità femminili più famose e la descri¬ zione della vita quotidiana e familiare della donna a tutti i livelli sociali); H Bengtson Die Staatsvertrage des Allertarne Band II: die Vertràge der griech-ròm. Welt von 700 bù fnnb ó uò, ' L mARETI,T-.BrEZZV Storia dl Roma- Milano 1%3 (il titolo non inVi. c i to”a della- ?ltta dl Roma’ dalle origin> all’età contemporanea); E. T. Salr, . mari}™ae’ ']} « Athenaeum », XLI (1963), pp. 3-38 (studia il gruppo l'adriaca tni+Tf “fl f® cittadini romani, nove sulla costa tirrenica, una sul1 adnatica, tutte fondate fra il 340 e il 240 a.C.); Fr. Altheim - D. Felber UntersutomSG^lhts^chGeShChlChtr B‘ I: Rlnleluntersuchungen zar altitalischen Gesch.-, Anfdnge om. Geschichtsschreibung: Caesars Streben nach der Kónigswurde, Frankfurt a M 1961 m.rn1’ i hanno collaborato nella elaborazione del voi. Il l ondo^lS ni Mannin,Ì\ Cultu^al and Sdentile Development. The Ancient World, ci?cad) n/r65ni%7V1 ta ie .m.ondo, antico è illustrata dal 1200 a.C. fino al 500 d.C., circa). Di G. De Sanctis è stato pubblicato, a cura di S. Accame, un primo volume dì della
aggiunR inedi’te^Roma "a p.iano organico, con ritocchi, correzioni e anche rlStta* da P V6da anai1f,TdeI voIume. con appendici bibliografiche, pubblicato I r : ';:.XL V ’ PP- 398-405- Col volume IH puDonciUo postumo (Roma 1965), si e chiusa la sene degli Studi minori di L Paretiper il contenuto dei 3 volumi si veda G. Giannelli, in « At. e R. » 1966, fase. 2 Un tar50.£r,uPP° enumererò le seguenti pubblicazioni. A. Heuss ha presentato nella sua Rómische Geschichte (Braunsweig 1960) una sintesi scritta su Hi nL ephoma
a Rome sous la Repubhque (Paris 1964), si propone di far conoscere i testi
che hanno
471
APPENDICE
esercitato una influenza notevole nella storia del pensiero politico. Rouvier si dirà oltre, ai §§ XXIII-XXVIII.
Dell’opera di J.
Al § X - Nel campo delle antichità militari, va segnalato l’articolo di G. R. Watson, The pay of Roman Army: thè Republik, in « Historia » VII (1958), pp. 113-120, nel quale PA., partendo dal dato fornito da Polibio VI 39, secondo il quale il soldato legionario riceveva 2 oboli al giorno, 4 il centurione e 1 dramma il cavaliere, cerca di determinare esattamente la paga dei legionari nei successivi periodi della repubblica. Torna opportuno far menzione qui del voi. XXII della Storia di Roma, edita a cura dell’Istituto di Studi Romani: il volume, al quale hanno collaborato F. Castagnoli, C. Cecchelli, G. Giovannoni e M. Zocca, tratta la Topografia e urbanistica di Roma, Bologna 1958. ** Citiamo sotto questo paragrafo alcuni scritti rivolti a definire e ad illustrare certi particolari aspetti della vita spirituale e culturale dei Romani. H. Gundel, in un arti¬ colo pubblicato in «Historia», XII (1963), pp. 283-320, analizza Der Begnff Maiestas im politischen Denken der ròm. Republik, studiandone lo sviluppo storico, da quando questo termine comparisce nella prosa latina (nel I sec. a.C., soprattutto in Cicerone, che lo usa settanta volte), e soffermandosi in particolar modo sulla locuzione maiestas populi Romani e sui vari usi della parola maiestas, in senso politico, nell’età repubblicana. H. J. Leon, nel volume The Jews of ancient Rome, Philadelphia 1960, illustra questo importante aspetto della vita romana. P. Me Kendrick, nel volumetto Roman Mmd at Work London, s.d., cerca di penetrare a fondo nello spirito della civiltà romana, che egli pone a confronto con quella dell’America d’oggi, additando fra 1 una e 1 altra singolari analogie. Infine E. J. Bickerman, condensando in un picco10 volume (Lo cronologia del mondo antico, trad. ital. di P. Moroni, Firenze, La Nuova Italia, 1963) tutto quello che è necessario conoscere per capire i problemi offerti dalla ricostruzione della cronologia nell’antichità e per tradurre le indicazioni e ì computi delle fonti an¬ tiche in termini cronologici moderni, ha fornito un utile e indispensabile strumento di lavoro a quanti si avviano a ricerche nel campo della storia antica. Più specificamente di cronologia romana si è occupato M. A. Kirsoff nel volume The Calendar of thè Roman Republic, pubblicato a Princeton N.J. 1967: fa una stona documentata del calendario dell’età repubblicana, dal V secolo all’età di Cicerone, concludendo con una ricostruzione del calendario condotta sul modello dei Fasti Antiates maiores. _ .. . Due opere notevoli sono quelle pubblicate recentemente dal Levi e dal Mazzarino. M. A. Levi ha curato il volume su Roma antica nella collezione « Società e costume » edita dalla « Utet » (1963): il testo, di carattere divulgativo, corredato di accuratissima bibliografia e documentato da numerose riproduzioni è diviso in tre sezioni, cheì illu¬ strano, rispettivamente, la vita privata, la vita sociale e la vita pubblica dei Romani. S. Mazzarino, nei due volumi su II pensiero storico classico, Bari 1966, si è proposto di mettere in luce il « significato universale » che dà vita alle ricostruzioni degli storici antichi, i quali, d’altra parte, scrivendo «partivano da unaproblematma a^a>ene loro tempo». Ricordiamo ancora l’impresa cui si e accinta la Casa ed. A. Goffrèdi Milano, di ristampare tutte le opere di Pietro Bonfante, a cura di G. Bonfante: e G. Crifò. Sono stati pubblicati finora i seguenti volumi: I. Stona del Terence and Roman Politics, in «Historia», XI (1962)
9aq 4p9'485- do.P° avfre esaminato, in un precedente articolo, ibid IX (1960) pp 235243, 1 uso plautino del vocabolario tecnico, o quasi tecnico, della politica romana con¬ temporanea, assolve qui lo stesso compito nei riguardi di Terenzio. l* "Va LLXm ~a T°cna qUl a Pr°P°sit0 di ricordare ancora che è stata pubblicata e M cS? (OrfSdì%0). ^ R°man HlSt0nJ 133 70 B■
a Cura di F- Ghkenipge
G 9E55)GAnnBA21 «°^oa h!,r P”bblicat° alaunet Appianee, in «Athenaeum» XXXIII 5)’ PP' .218'23d> ha fatto seguire lo studio Appiano e la storia delle °uerre civili ?7 956' C°n ° SC°?° dl individuare le fonti dello storico greco ricercandole fra nni pnPnLeSIi0ne-Van0 pi? Partlc°lareggiatamente i moti rivoluzionari dai Gracchi in Annianr°CT-K ,?nmo Posto Asim° Polhone, in base alla considerazione che secondo Appiano, Tib. Gracco con la sua legge agraria perseguiva in nrimn inrwv/\ ì/-»* a!-!•
8
il « leit-motiv » del movimento graccano.
’ uovesse lare degli Italici
Alle opere di contenuto generale che trattano questo periodo
aggiungiamo
ora la
From di F Sr! PTl0d0pdellA ^uerre.c>vil1; è ora d* «tue consultazione la esauriente rassegna XM1962), pp.’ wTut8' U fr°m thG GraCCkl 10 Sulla (194°-59)- in «Historia», Opere di contenuto generale sullo stesso periodo sono- R Vtttfrc t* ^ -, , de la République romaine, Mélanges H. LévyPBruhl. Paris 1959 pp. 307 sgg'sT. Utt-
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
schenko, Der Weltanschaulich-polilische Kampf in Rom arn
495
Vorabend des Sturzes der
Republik (trad. dal russo), Berlin-Wiesbaden 1963.
Sulle fonti di questo periodo sarà ancora da tener presente: E. Gabba, Appiani bellorum civilium lib. I, Firenze 1958; D. C. Earl, The politicai I hought of Sallust, Cam¬ bridge Univers. Press 1961 (il particolare concetto di virtus sviluppato dallo scrittore coinciderebbe con quello dei novi homines e dei populares del suo tempo piuttosto che con quello dell’ideale aristocratico antico). ... . Particolari aspetti della vita romana in questi anni si trovano studiati negli scritti seguenti- P. Jal, La propagande réligieuse à Rome au cours des guerres civiles de la fin de la République, in « Ant. class. », XXX (1961), pp. 334-414 (intende dimostrare che le guerre civili non rimasero limitate al campo politico, ma furono in realtà « guerre to¬ tali », tali da mettere in giuoco le credenze più profonde dei Romani, scuotendo anche le strutture religiose della nazione); id., La guerre civile à Rome: étude litteraire et morale, Paris 1963' P. A. Brunt, The army and thè land in thè Roman Revolution, in « Journ. Rom. Stud. », LII (1962), pp. 69-84 (studia la parte rappresentata dalla plebe rurale e dai legionari dell’esercito nella rivoluzione romana dai Gracchi ad Augusto). Agli studiosi italiani che ancora non ne abbiano avuto notizia, sarà gradito sapere che la fondamentale opera di R. Syme, Roman Revolution, è stata tradotta in italiano a cura di M. Manfredi, presso l’ed. Einaudi, Torino 1962. Al § LXIV - Sull’amministrazione delle provincie e gli ordinamenti provinciali dobbiamo segnalare anzitutto l’opera di W. F. Jashemski, The ongin andhistory of thè proconsular and thè propraetonan imperium to 27 B. C., Chicago 1950. G. Tibiletti, Governatori romani in città provinciali, in « Rend. Ist. Lomb. » LXXXV 1 ( 1 yodi, pp. 64-100 dimostra la tesi che, in età repubblicana, le città delle provincie venivano spesso amministrate con una forma di governo diretto, esercitato da governatori subordinati al governatore della provincia, e studia la figura di questi governatori subalterni. La figura di Catone si trova studiata nel volume di D. Kienast, Calo der Zensor: seme Persónlichkeit and seine Zeit, Heidelberg 1954: di fronte alle due diverse ricostru¬ zioni che la critica moderna ci ha dato della personalità del Censore - quella del Mommsen che ne ha fatto il rappresentante della borghesia romana all opposizione contro la nobiltà ellenizzante e cosmopolitica, e quella di F. Heichelheim, che vide in Catone l’iniziatore della grande attività commerciale di tipo ellenistico - il K si è proposto di disegnarne un più vero e genuino ritratto attraverso una nuova analisi della tradi¬ zione e dell’ambiente storico in cui visse Catone, come politico e uomo .J1 statoq ^ tenga inoltre presente che nel I voi. dei citati Opuscula di P. Fraccaro (Pa\ia 1956) sono raccolti parecchi saggi su Catone e la sua attività politica e letteraria. Anche sui processi degli Scipioni troviamo un contributo nel surricordato volume del^Fraccarò; Aggiungiamo ad oPSso la menzione deli-articolo di E. S...A A WJU» di una nuova interpretazione delle fonti sul processo dell'Africano, in « Riv. Fil. Cl. », XXXV (1957), pp. 175-190. ** Le due figure più significative di questo periodo sono state ancora studiate da L De Regibus II Censore e l'Africano, Genova 1959, e da Ih. Alan Dorèy, Scipio Africariusas a Party Leader, in «Elio », XXXIX (1961), pp 191-198 II De R. studia i due personaggi, nei quali s’incarnano le lotte politiche dell età di trapasso successa alla vittoria su Cartagine, con senso di umanità e con grande equilibrio di giudizio verso la loro azione, decisiva per le sorti dello Stato Romano; il Dorey esamina alcuni aspetti della carriera politica di Scipione fra il 201 e il 184 a.C. e studia particolarmente il problema dei rapporti politici fra Scipione e Flamimno partendo dalla tesi di H H Scullard (Roman Politics 220-150 B. C., Oxford 1951) - appartenenza a differenti fazioni, su una base politica sostanzialmente comune - che va pero in alcuni punti ti amo* ora*u n gruppo di lavori di argomento assai affine: E. Badian, Foreign Clienio*a 70 B C ) Oxford 1958 studia come sia avvenuto che, nelle relazioni fra Roma Ì mÌ,f«UnoTnolicatì dal III secolo in poi, metodi che ricordano quell, con ™i i ”p?Sf£ di iUmtela a Roma, sicché tali relazioni presentano, assai strette analogie con la clientela privata; studia inoltre le vane clientele che le famigli personaggi romani poterono costituire nelle province o in Stati stranieri, per s:XXXVII fine di politica interna (si veda la recensione di E. Gabba in « Riv. Fil. Cl. », XXX\ il, 1959, p^ 189). T. Yoshimura ha scritto su Die Auxiliartruppen und die Provmcialklient »
496
TRATTATO
DI
STORIA
ROMANA
in der rom. Republik, in « Historia », X (1961), pp. 473-495, ricercando fino a qual punto si stabilisse un rapporto organico fra il seguito militare (dopo le riforme mariane) eia clientela provinciale. A L. A. Thompson dobbiamo un lavoro su The Relationship between Provincia! Quaestors and their Commanders-in-chief, in «Historia», XI (1962), pp. 339-355. partendo dalla nota frase di Cicerone (divin. in Caecil., 61) — «sic enim a maioribus mostris accepimus, praetorem quaestori suo parentis loco esse oportere » esamina la’realtà di questi rapporti nel II e nel I sec. a.C. A non molta distanza dal suo lavoro su The voting districts of thè Roman republic del 1960 (se ne è data notizia ai §§ XXIII-XXVIII), L. R. Taylor ha pubblicato ora Roman voting assemblies from the Hannibalic war io thè dictatorship of Caesar, Ann Arbor, Univ. oi Michigan Press, 1966: scopo del lavoro è una messa a punto sugli aspetti tecnici delle assemblee votanti, per quanto riguarda specialmente i luoghi delle sedute, l’organizza¬ zione delle « contiones » e dei « comitia », il modo di esprimere i voti, di computarli e cosi via; un capitolo molto importante è dedicato all’organizzazione centuriata e al contributo offerto in proposito dalla Tabula Hebana: si veda la recensione di P Petit in «Lantiq. class. », XXXVI (1967), 335 sgg., e sulla Tab. Heb., lo scritto di }. Linderski, 1 he Roman declorai Assembly, Krakow 1966. Ricordiamo ancora il saggio di M. j. Henderson, The Establishment of thè Equester Jrdo, in « Journ. Rom. St. », LUI (1963), pp. 61-72, e i due scritti seguenti su argomenti tinenti alla Sicilia: S. Calderone, Problemi dell'organizzazione della provincia di Sicilia, in « Helikon », IV (1964), fase. 1-2, e S. Consolo Langher, Il «Sikelicon Taoon U,e.:ìa storm economica e finanziaria della Sicilia antica, in « Helikon » III (1963) pp. oo8-436. ' n A. Wilson ha studiato la Emigration from Italy in thè Republican Age of Rome Man¬ chester Univ. Press, 1966: lasciando da parte la colonizzazione a carattere pubblico studia le principali correnti d emigrazione fino all’anno 30 a.C.; le province occidentali accolsero numerosi emigranti, specialmente profughi politici e veterani al tempo delle guerre civili, ma abbondante per l’afflusso anche nelle province orientali, per ?e quali possediamo una piu ricca documentazione: fra i problemi d’insieme studiati dall’A. sono eIo11 dellE dl,verf occupazioni dei Romani emigrati, dei loro rapporti con le rPZ i °M rdeg l abusi commessi dai governatori e funzionari provinciali- v la recensione di M. Cebeillac, in « L’ant. class.», XXXVI (1967), pp. 326 sgg.
,
i
~ ^ problemi presentati dalle guerre civili — ora appassionatamente 6 SCUcu dl 1.ndirizz5) sovietico - hanno richiamato l’attenzione di J Vogt Struktur der ani Sklavenknege, Mainz-Wiesbaden 1957, che si è proposto di rintracciarne 7H mpletrlen doffa prima rivolta siciliana (136/5-132) alla guerra dei gladiatori (73della schiavitù s11ddim1lheaneSSUnai dottrina 0 geologia che predicasse la soppressione delia schiavitù, si diffuse allora nel mondo antico, l’A. individua altri motivi che noterono allora giustificare il singolare fermento degli schiavi; resta tuttavia da spiegare (v. Tiihlett! m « Gnomon », 1959, pp. 149-152) come mai tali motivi, che si sono ripe "
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ricerche sun’« ager publicus » di A. Burdese, Studi sull'Ager publicus (MeS ?r k VSt' GlUnd; de l U^1V' di Torino’ 1949>’ abbiamo da ricordare il contributo «dUritoria ! VInT( 1959T nn l iTonnf ln Lukanien und Brutium (in «tiisiona », vili 1959), pp. 174-206 , nel quale l’A. stud a i problemi relativi all’or ganizzazione amministrativa di queste due regioni nel II e nel I sec a C GW/£UeS/t0 Pri)P0^t;? va.ncordato anche lo studio di M. Capozza, Le rivolte servili di 1957 pp1l19a9t0 dd a P°lUlCa agrana romana’ in " Atti Ist- Veneto », cl. se. mor„ 1956XY*MSqfiU\e 11 lair dl P' Gr.e,en’ The first Sicilian slave war, in « Past and present » seivin uei lem e del 104-100 a.C., tenendo conto di tutta la bibliografìa pwnyialp sull argomento e specialmente del noto studio di L Pareti (ora tn Co!!/; essenziale ant III Roma 1965 nn 5-7 A9c. • d pareti (ora in òtudi minori di stona am., 111, noma 1 Jb5, pp. 57-62. cf. Stona di Roma e del mondo romano, III, pp. 292 sgg.). ** Al § LXVI - Polemizzando con altri studiosi sui precedenti dei moti baccani L. Ross Taylor, Forerunners of the Gracchi, in «Journ. Rom. Stud. » LII (1962), pp!
APPENDICE
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19-27, sostiene che la trasformazione del tribunato in uno strumento di rivoluzione fu un sintomo, non la causa del declino della Repubblica. Ancora sui precedenti dei moti graccani: F. R. Crowell, The revolutions oj ancienl Rome, London 1962: esamina i successivi momenti della storia costituzionale nel quadro della lotta politica dal « regnum » all’impero; P. Pouthier, La guerre civile à Rome: aux confins de l'histoire et de la littérature, « Annales», 1965, 6, pp. 1216-1221- è una recensione dell’opera di P. Jal, La guerre civile à Rome. Étude littéraire et morale, Paris 1963; C. Nicolet, Les Gracques, Paris 1967: è un compendio di estratti di varie fonti greche e latine riferentisi alla crisi agraria e ai contratti civili del periodo graccano, utile - a scopo informativo - ai non specialisti. A Tiberio Gracco e alla sua attività politica ha dedicato alcuni studi D. G. Earl: nel primo — Calpurnii Pisones in thè second Century B. C., in « Athenaeum », XXXVIII (1960), pp. 283-298 - esamina i punti di contatto dell’attività dei Calpurnii Pisoni con i Fulvii e i Claudii e in particolar modo l’importanza dei rapporti di L. Calpurnio Pisone Frugi, il console del 133, con Tiberio Gracco; nel secondo - M. Octavius trib. plebis 133 B. C. and his successor, in « Latomus », XIX (1960), pp. 657-669 - viene a dimostrare che il fulcro dell’opposizione a Tiberio va cercato nell’alleanza formatasi, già prima della metà del II secolo, fra gli Octavii, i Popilii e i Cornelii, e propone come il più probabile successore a M. Ottavio un Mucio, pur ritenendo non improbabile anche un Minucio (Augurino); il terzo è una lavoro d’insieme su Gracco: Tiberius Gracchus: A study in Politics, coll. Latomus, LXVI, Bruxelles 1963: l’A. reagisce alla normale interpretazione della politica del Gracco, considerandola invece come un episodio della lotta tradiziona¬ le, e sempre in atto nel II sec. a.C., fra le grandi fazioni nobiliari, per cui Tiberio sarebbe stato lo strumento della fazione incentrata sui Claudii, contro la quale agiva la fazione incentrata sugli Scipioni (anche su questo lavoro sarà utile leggere la recensione di E. Gabba, in « Riv. Fil. Class. », 1964, p. 467). Anche la instancabile L. Ross Taylor ha scritto su Tiberio: Was Tiberius Gracchus’ last Assembly declorai or legislative?, in «Athenaeum», XLI (1963), pp. 51-69: poiché narrando la morte di Tib. Gracco, Appiano descrive l’ultima assemblea come un comizio elettorale, mentre altre fronti attestano che Tiberio chiedeva di essere eletto tribuno una seconda volta, e poiché Appiano scrive in altro luogo che Tib. mori vóp.ou