Tellus. La sacralità della terra nell'antica Roma 9788869734786, 9788869734366

Il rapporto con la Terra costituí, per l’antico Romano, il principio fondante della organizzazione religiosa, civile e p

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Italian Pages 84 [80] [80] Year 2019

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Table of contents :
Tellus
Presentazione
Frontespizio
Premessa
I. Echi della Terra
II. La Terra-Tellus dei primi Romani
III. Ianus, Terminus e Summanus
IV. Una religione terrestre
Indici
Indice dei nomi
Indice
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Tellus. La sacralità della terra nell'antica Roma
 9788869734786, 9788869734366

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Gerardo Bianco. Irpino, docente universitario, vicedirettore della Enciclopedia Oraziana, collaboratore del Dizionario Biografico degli Italiani. Tellus. Il rapporto con la Terra costituí, per l’antico Romano, il principio fondante della organizzazione religiosa, civile e politica della Città. Egli non guarda al cielo per cercare i segni del divino; li sente vicini, nello spazio terrestre, e si preoccupa di definire confini e procedure per realizzare la pace con gli dèi. Sui presupposti della sacralità di Tellus e del nomen che individuava la divinità si sviluppò la civiltà giuridica romana. Dalle formule cultuali, scrupolosamente osservate, si andò formando quel corpus iuris che è il lascito piú prezioso trasmessoci dalla romanità.

ASTROLABIO

Collana diretta da Enrico Malato 26

Ma per la vista che s’avvalorava Dante, Paradiso, xxxiii 112

Una piccola collana per “fare il punto” su grandi temi, figure, momenti, aspetti della nostra cultura e della nostra storia.

GERARDO BIANCO

TELLUS LA SACRALITÀ DELLA TERRA NELL’ANTICA ROMA

SALERNO EDITRICE ROMA

In copertina Fronte: Elaborazione grafica di Mariavittoria Mancini. Retro: Miniatura del ms. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Gr. 1291, confezionato probabilmente a Costantinopoli fra l’VIII e il IX secolo, contenente i Prócheiroi kanónes (‘Tavole astronomiche facili’) di Tolomeo (f. 9r). La figura rappresenta Helios (il Sole) alla guida della sua quadriga trainata da cavalli bianchi, al centro di tre fasce circolari concentriche, divise ciascuna in dodici settori raffiguranti le ore, i mesi, i segni zodiacali, in sequenza antioraria.

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edizione digitale: dicembre 2019 ISBN 978-88-6973-478-6

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edizione cartacea: dicembre 2019 ISBN 978-88-6973-436-6

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2019 by Salerno Editrice S.r.l., Roma

A mio padre, Giosuè Bonifacio, geometra e veterinario, che, con passione, si dedicò ai contadini, agli animali, alla terra

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. (Francesco d’Assisi, Laudes creaturarum)

Il numinoso [. . .] simile categoria è assolutamente sui generis e non è definibile nel senso stretto, come non lo è alcun dato fondamentale e originale, ma è soltanto atta a essere accennata. Per agevolarne l’intendimento si può tentare di condurre l’ascoltatore, a forza di accenni, fino al punto in cui questo sentimento si desta, scaturisce e diventa coscienza nell’anima (R. Otto, Il Sacro).

PREMESSA Per l’antico Romano la Terra-Tellus era la casa comune degli dèi, degli antenati e degli uomini. Per vivere insieme occorreva conquistare la “benevolenza” delle divinità e realizzare, quindi, la pax deorum. Ogni luogo, ogni tempo, ogni operazione, anche umana, era sotto il segno del divino che andava individuato e specificato attraverso un nomen che ne indicasse la vis, la potenza, appunto, delle divinità con le quali conciliarsi per poter agire e coabitare. Il culto dei morti, dei propri avi come divinità protettrici, i Lares, costituí un primo, sicuro fondamento di una religiosità tellurocentrica coerentemente concepita. Le originarie divinità romane sono quasi tutte terrestri e venivano individuate attraverso la natura e le funzioni ad esse attribuite. La denominazione ne rifletteva i caratteri. La concezione spaziale di Tellus, per esempio, si articola in due potenti divinità romane, Ianus e Terminus, che indicano, appunto, gli inizi e le fini di ogni cosa. La religione romana piú che degli omina, presagi del futuro, è una religione dei signa, manifestazioni delle divinità. Ciò conferiva alla religiosità romana una caratura fortemente realistica che, insieme alla flessibilità interpretativa, consentiva un costante adeguamento alle inevitabili trasformazioni storiche e politiche. Per l’antico Romano la profezia oracolare non rivestí mai rilevante importanza. Da alcuni studiosi è stata sottolineata l’assenza in Roma di santuari oracolari, presenti in altre parti d’Italia, come, per esempio, nella vicina Preneste con il tempio alla Fortuna primigenia. I corrispondenti templi

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romani alla Fortuna, risalenti a Servio Tullio, non emettevano oracoli, ma proteggevano, con le loro diverse denominazioni, i giovani, le donne, le età degli uomini. L’aruspicina, pur diffusamente praticata, non trovò molto credito, ed era perfino irrisa, come testimonia Cicerone. Ancorato alla Terra e all’individuazione delle divinità che l’abitavano, l’antico Romano mirava a dare una base di certezza alla divinatio che interpretava i fenomeni della Terra-Tellus, meno affidandosi al “furore profetico” proprio della mantica greca della quale il termine latino, come precisa Cicerone nel De Divinatione (i 1), era la traduzione. Le stesse operazioni agrarie, con il lungo elenco dei lavori necessari, specificatamente denominati, erano ritenute sacre, elevate al rango di divinità sia pure minori (indigetes). Gli antichi Romani sentirono il loro sistema religioso non solo come venerando, ma anche come razionale, confermato, nella sua validità, dai successi della città di Roma alla conquista del mondo. Continui erano i signa di Tellus, e quindi delle divinità che andavano sempre scrupolosamente interpellate, con rigorosi, ancestrali riti. Una persistente cura rituale investiva la vita pubblica di Roma antica. La celebre affermazione di Polibio sulla straordinaria religiosità dei Romani appare pienamente giustificata. In questo esasperato ritualismo, apparentemente assurdo, già Charles-Louis Montesquieu nella Dissertation sur la politique des Romaines dans la religion, coglieva la duttilità pragmatica degli antichi Romani capaci di adeguarsi, attraverso l’interpretazione, ai mutamenti soprattutto politici, mantenendo fermo il sentimento religioso del sacro. In questa

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attitudine mentale il grande pensatore francese individuava una delle cause principali della grandezza di Roma. Con la loro concezione religiosa tellurocentrica gli antichi Romani sentirono profondo il fascino della natura e dei misteriosi fenomeni che essa genera; non elaborarono folgoranti miti, trasmigrati poi, progressivamente, nel loro sistema religioso per influenza soprattutto ellenica, ma si dedicarono, piuttosto, all’interpretazione delle realtà terrestri che andavano ordinate con regole precise, in puntuali classificazioni dei luoghi e dei tempi. Nasce da questa originaria disposizione psicologica, incline a controllare ciò che è vicino, e quindi il mondo terrestre, l’importanza del calendario, delle festività, dei confini, dei patti e dei riti, in definitiva del nomos della Terra. La mentalità ordinatrice dell’antico Romano è essenzialmente geometrica; geometriche sono due sue massime divinità: Giano e Termine. Il mondo di Tellus ordinato dai nomina, cioè dalla forza delle parole, conferisce alla cultura di Roma antica una struttura di pensiero realistica, perché fondata sulla natura. Per Cicerone è, appunto, la natura che dà validità al diritto, alle leggi che regolano la vita della città. La “decostruzione” del concetto di natura, in corso nel nostro tempo, cancella fondamentali principi di ogni ordinamento della vita umana che gli antichi Romani, con molta saggezza, avevano ben individuato in Ianus, la divinità degli inizi e in Terminus, la divinità dei confini, che mettono in guardia dalla presunzione dell’onnipotenza umana. Sull’oblio della natura è di ammonimento un celebre verso di Orazio, che, pur se riferito ad altro contesto (all’artificiale creazione di giardini nella città di Roma), risuona

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come regola generale: « Naturam expellas furca, tamen usque recurret » (‘potrai cacciare la natura col forcone, ma essa comunque ritornerà’; Epistulae, i 10 24); e, infatti, essa ritorna, rabbiosa, con i disastri climatici e la minaccia della desertificazione, poiché l’uomo sta infrangendo il patto con Dio: il rispetto del creato. *

Ringrazio Mario Mazza per i consigli di merito e di stile. Preziosa è stata la propositiva collaborazione di Maria Rita Bellanova, alla quale va la mia affettuosa gratitudine. Con attenta cura editoriale Davide Grossi e Massimiliano Quadrara hanno articolato e messo a punto il testo con appropriati titoli, a loro il mio sentito grazie.

G. B.

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I ECHI DELLA TERRA

1. Enea e Turno L’originaria religiosità dell’antico Romano, che intorno alla Terra-Tellus aveva costruito il suo sobrio, ma limpido e solido pantheon, che aveva ordinato in uno scrupoloso calendario il tempo e le stagioni, che aveva dato assetto e regole alla propria vita e città, trovò in Virgilio un sensibile e consapevole interprete. Se Ovidio, con i Fasti, tentò di ricostruire gli antichi miti, per recuperarne il senso e riproporne l’attualità, Virgilio, pur nel sincretismo religioso che caratterizza la sua opera, si sentí partecipe di quel primigenio spirito religioso romano che differenziava Tellus dalla greca Gea. Nel dodicesimo libro dell’Eneide, prima del fatale e decisivo duello tra Turno ed Enea, Virgilio pone sulle labbra dei due protagonisti una comune invocazione alla Terra (Aeneis, xii 176 e 777 sgg.), solo apparentemente simile, ma che rispecchia, invece, una marcata diversità di ispirazione religiosa dei due contendenti. La scelta di Virgilio non è casuale, né semplicemente poetica per caratterizzare i suoi eroi. Essa corrisponde alla consapevolezza culturale di un’originaria differenza religiosa tra l’autoctono popolo italico e quello del mare, teucro, guidato da Enea, prima della loro integrazione, secondo il mos latino, il costume originario, come, appunto, avvenne nella storia di Roma antica. Nella preghiera di Enea è il Sole che viene invocato per

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primo, per testimoniare – insieme alla Terra, e poi con tutte le altre divinità celesti – che manterrà il suo impegno in caso di sconfitta o di vittoria. Il passo è chiaramente ispirato dall’invocazione di Agamennone nell’Iliade (iii 276-80). È lo stesso Virgilio a sottolineare la diversità di concezione religiosa tra gli Ausoni, cosí furono chiamati i popoli non greci dell’Italia, e i Teucri, attribuendo ad Enea, in caso di vittoria, la promessa: « sacra deosque dabo » (‘darò riti sacri e divinità’, Aeneis, xii 192), diversi, quindi, da quelli autoctoni. È, appunto, quanto respinge Turno che accusa gli Eneadi di aver profanato la Terra con il loro comportamento in guerra (ivi, xii 779). L’eroe rutulo si presenta come scrupoloso custode dei culti della Terra secondo una veneranda tradizione che i Teucri avrebbero già profanato. La preghiera di Turno è modulata sulla concezione originaria della religiosità romana, come veniva ancora avvertita in età augustea, con l’invocazione a Fauno, classica divinità romana dei boschi, degli alberi, della libera vegetazione e quindi alla Terra, definita optima, un’aggettivazione assoluta che indica superiorità su ogni cosa, non a caso attribuita alla massima e, infine, dominante divinità di Roma: Iuppiter-Giove definito optimus maximus. Le preghiere diversamente ispirate di Turno e di Enea e la promessa dell’eroe troiano di dare, in caso di vittoria, al popolo di Latino nuovi riti e divinità, hanno, nel contesto del poema, la funzione di preparare la grande intesa tra Giove e Giunone (ivi, xii 793-840), per portare, finalmente, anche a compimento dei Fata, la pace tra i due popoli. Non è solo in gioco il potere politico, il dominio civile e militare,

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ai quali Enea si dice disposto a rinunciare (ivi, xii 189-94); ciò che nel conflitto viene radicalmente posta in discussione è la struttura di società che sulla religione, sui modi di vita, sui costumi, ha fondamento. È su questi punti che insiste Giunone per realizzare la pace, ponendo le condizioni per l’integrazione tra i due popoli sulla base delle tradizioni, della lingua, del costume e perfino del vestiario del popolo latino. Enea vincerà il duello con Turno, ma dovrà dimenticare Troia. Anche il fastoso abbigliamento dei Teucri, che aveva suscitato l’ironia di Numano Remulo (ivi, ix 614-20), dovrà essere abbandonato per il piú semplice abito romano. Virgilio definisce i Romani gens togata (ivi, i 282), un verso ripreso da un Augusto, sdegnato e sprezzante, alla vista di cittadini e senatori cenciosi, vestiti di scuro (Svetonio, De vita duodecim Caesarum, Divus Augustus, ii 40). Giove aderisce alla richiesta di Giunone, e aggiunge (Aeneis, xii 836 sgg.): « morem ritusque sacrorum /adiciam » (‘aggiungerò costume e riti sacri’), fissando cosí regole religiose dettate dalla divinità, quindi di valore assoluto. Attribuendo a Giove la fissazione del mos e dei riti sacri, Virgilio ne radicava l’origine divina che la promessa di Enea non avrebbe consentito, essendo espressione di volontà umana. L’eroe troiano aveva promesso anche nuove divinità, Giove promette solo riti che avranno un ruolo fondamentale nella religione romana. In Virgilio affiora una qualche riluttanza ad ampliare il già affollato pantheon romano, mentre l’attenzione è rivolta soprattutto al rito che è quello che consente di interpretare bene e correttamente le “cose divine” che riportano costan-

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temente a Tellus. È questa precisa concezione di sovranità della Terra-Tellus che induce Virgilio a definirla prima deorum (ivi, vii 136), un concetto religioso che rispondeva all’originaria intuizione della Terra dell’antico Romano, anche se la definizione viene attribuita ad Enea, appena approdato sulla terra promessa da Anchise (ivi, vii 120 sgg.), quasi un’anticipazione della futura integrazione fra i due popoli. L’epiclesi di Tellus era presente anche nella religione greca come l’invocazione al genius loci, tradizionale preghiera della Roma arcaica. A Virgilio non sfuggiva il fascino della denominazione Tellus, termine originario della terra, anomalo nel lessico latino, che riportava a misteriosi tempi antichi, quando, secondo un mito diffuso tra i Romani, evocato anche da Cicerone, gli dèi convivevano con gli uomini. La definizione di Tellus come prima delle deità richiede una spiegazione che non può essere quella del commento serviano (ivi, vii 136), che la denomina « madre della divinità »; piú convincente è la spiegazione dei commentatori che interpretano prima come ante omnes deos. Per Virgilio, dunque, Tellus precede; è innanzi a tutte le altre divinità. Viene prima anche per Varrone (De re rustica, i 1 5), ma per il grande erudito reatino è già diventata Terra Mater, che è sviluppo successivo della sua originaria natura, eminentemente spaziale, sotto l’influenza greca. Con Varrone la concezione di Tellus si completa con le sue innumerevoli attribuzioni che susciteranno l’ironia e la severa critica di sant’Agostino nel De civitate Dei (cfr., in particolare, vii 24-28). In Virgilio è evidente il tentativo di recuperare l’originaria percezione divina di Tellus, non del tutto spenta nella

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coscienza romana, liberandola dai riti progressivamente penetrati in Roma che ne avevano alterata la semplice, geometrica religiosità. Varrone raccoglieva e ordinava le antichità romane nella loro molteplice e contraddittoria costituzione, Virgilio mirava a “ravvivare” la trascurata e disattesa antica religiosità che ruotava attorno a Tellus. Sia i remoti spazi nei quali vivono le piccole creature (Georgiche, i 18186), sia l’incantato mondo delle api (ivi, iv 219 sgg.), sia le terre che assumono i nomi delle città fondate dall’uomo sono sotto il segno del divino. Era una concezione cosmica ormai intrisa di filosofia panteistica, ma che rifletteva anche l’originaria religiosità arcaica di Roma, condensata da Virgilio in uno splendido distico: « deum namque ire per omnia / terrasque tractusque maris coelumque profundum » (‘c’è infatti un dio che si muove in ogni elemento, nella terra, nella distesa del mare, nel cielo profondo’; Georgiche, iv 22122). Nell’opera virgiliana, Tellus non è, dunque, una semplice evocazione arcaizzante o una sbiadita personificazione mitologica, ma è piuttosto la vitale divinità all’origine del mondo. Era una prospettiva che si incontrava, per corrispondenza naturale, col programma politico augusteo che sollecitava un difficile recupero di una primigenia religiosità italica incentrata sulla divinità della Terra. 2. Augusto, l’Impero e la Terra Il primo secolo a.C. è un periodo di profonde crisi politiche, religiose e di costume. Il mos e gli antichi riti sui quali si fondava, secondo Ennio, la potenza di Roma, erano sempre piú negletti o infranti. Sarebbe interessante analizzare in

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profondità, e sistematicamente, come si tentò di rispondere culturalmente e religiosamente alla crisi non solo politica, ma anche morale e spirituale che divenne particolarmente acuta a metà del primo secolo a.C. Un dato emerge con chiarezza ed è il comune tentativo di restaurare l’antica tradizione religiosa che, anche secondo Sallustio, aveva reso grande Roma. Non è un caso che proprio in quegli anni, tra il 45 e il 44 a.C., Cicerone si dedicasse alla riflessione religiosa, con importanti scritti sulla Natura degli dei, sul Fato, sulla Divinazione, per trovare adeguate risposte ai complessi problemi aperti da una Res publica in grande espansione, ma minata nei suoi tradizionali fondamenti etici e religiosi. L’uscita dalla crisi veniva indicata in una restaurazione degli antichi costumi e riti, né poteva essere diversamente se si tiene conto della mentalità romana che nel “principio” del mos trovava il filo conduttore della propria etica politica. Questa linea fu seguita con profondo afflato poetico e spirituale da Virgilio, e con politica energica da Augusto, che volle scolpire l’immagine della dea Tellus nella sua Ara pacis; ma quell’antica religiosità, si potrebbe anche dire quella “ideologia”, non era piú in grado di resistere alle grandi trasformazioni culturali, religiose e mentali che l’espansione imperiale di Roma andava determinando. Con Augusto si concludeva un intero ciclo storico, religioso, culturale e politico che sulla sacralità della Terra, sui ritmi dei tempi e dei lavori campestri e su scrupolosi riti connessi alla iustissima Tellus (Georgiche, ii 460), aveva costruito le fondamenta della potenza di Roma. La politica religiosa di Augusto, di risveglio dell’antico culto per la Terra, aveva perfino in-

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fluenzato la cura dei giardini e degli alberi, con un recuperato rispetto del loro naturale sviluppo (come ha ben documentato Pierre Grimal nella sua ricerca su I giardini di Roma antica, trad. it., Milano, Garzanti, 2000, pp. 424-26), ma non poteva arrestare l’inevitabile declino dell’originaria, comune religiosità fondata su Tellus che i contatti con culti psicologicamente piú coinvolgenti e misteriche esperienze religiose avevano indebolito. Per molti aspetti, l’invocazione a Tellus nel Carmen Saeculare di Orazio, divinità e non elemento, come in alcune traduzioni, rappresenta l’ultima, partecipe preghiera all’antica divinità del popolo romano prima dell’incalzante invasione dei culti ellenici e orientali, ricchi di fascinosi miti, di orfismi e di misteri. Con il Senatus consultum de Bacchanalibus dell’anno 186 a.C., scritto su una lastra di bronzo, in un intenso latino arcaico (Corpus inscriptionum Latinarum, 12, 2, 581 15-18), i Romani riuscirono, per circa un secolo e mezzo, a tutelare la propria religiosità, ma era nella logica del loro espansionismo politico e militare e nella mentalità di conciliarsi le nuove divinità delle terre conquistate, l’inevitabile superamento dell’arcaica religiosità tellurocentrica. L’operazione di Augusto di ricollocare Tellus al centro della religiosità romana, come nella sua Ara pacis, non poteva, dunque, riuscire. Invano Tiberio, in realtà poco sensibile alla questione religiosa, tentò di difendere l’eredità augustea, ordinando, per esempio, la distruzione del tempio della insidiosa Iside. L’ondata di nuovi culti nordici e orientali risultava inarrestabile. La ricostruzione del tempio di Iside voluta da Caligola sanciva, appunto, la definitiva vittoria delle divinità trasmigrate soprattutto dall’Oriente nel

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tradizionale pantheon romano. Nella biografia di Caligola, Svetonio racconta che il folle imperatore (De vita Caesarum. Caligula, iv 34) tentò di rivitalizzare alcuni arcaici e trascurati riti, come quello dei Parilia, ma dal contesto appare chiaro che lo scopo non era il ripristino del culto, ma quello di utilizzarlo per dare un crisma di veneranda antichità e di sacralità al proprio potere imperiale. Con Tiberio, ma soprattutto con Caligola, la sovranità attribuita dall’arcaica religiosità romana a Tellus, insieme a Iuppiter, si era ormai trasferita al potere imperiale. 3. Dalla natura all’uomo Il sacro cambiava carattere, passava cosí dalla divinità della natura, Tellus, all’umano potere. « Il piú che umano », per usare un’efficace espressione di Mario Perniola, diventava “il piú che sacro”. Il cambiamento dell’antica religiosità romana compromessa da gravi violazioni, negligenze e credenze finiva per coinvolgere anche gli autori e le culture che l’avevano praticata e sostenuta. Un sintomo indicativo sotto questo profilo è la notizia, sempre svetoniana, dell’intenzione di Caligola di eliminare dalle biblioteche le opere e i ritratti di Virgilio e di Livio, i due grandi autori della fondazione e della storia culturale, civile e religiosa della Roma repubblicana e augustea. Al confronto con la lussureggiante mitologia greca ed egizia, la religione romana appare modesta, priva di immaginazione, ma in quella povertà di mito vi è una grande, primigenia e sicura intuizione della sacralità che ha nella

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Terra la sua incontrovertibile esistenza, e ciò conferiva unità di ispirazione alla religiosità romana. Sant’Agostino sembra intuire questa fondamentale, unitaria concezione religiosa del pantheon romano, ragionando, per esempio, sul binomio Giano-Termino, riconducendo a unità le due divinità, secondo il suo parere illogicamente divise. Cosí scrive il grande vescovo di Ippona (vii 7; riporto il testo nella splendida traduzione di Carlo Carena che ha mirabilmente curato il De civitate Dei per Einaudi Gallimard, Torino 1992, pp. 276 sgg.): Dunque, gli inizi delle cose appartengono a Giano, e le fini no, cosí che a queste dev’essere preposto un altro dio? Ma non riconoscono che tutto ciò che avviene in questo mondo, in questo mondo anche finisce? Che sciocchezza è mai questa, dimezzare il potere di Giano nelle opere e duplicare la sua faccia nelle immagini. Non darebbero un’interpretazione molto piú elegante al duplice volto di questo dio, se lo dicessero uno solo, Giano e Termine, e assegnassero un volto agli inizi e l’altro alle fini?

Sant’Agostino continua la riduzione di Giano a una sola divinità anche in rapporto a Giove (vii 10), con lo scopo evidente di dimostrare l’esistenza di un unico Dio. Egli procede con una critica serrata alla concezione religiosa dei Romani che esaminata con logica consequenzialità confermava il principio dell’unicità divina intrinseca alla religiosità tellurocentrica. Non è il caso di soffermarsi, ora, sul problema della diversità del “procedimento logico” dell’antico Romano, che era spaziale, rispetto a quello “finalistico” dell’agire umano,

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che è sotteso al ragionamento di sant’Agostino. Ciò che mi preme sottolineare è la razionalità della religione arcaica romana che restò sostanzialmente stabile nei riti, nella cultura e nella prassi politica e giuridica, almeno fino agli inizi del primo secolo d.C. Si apre qui un problema di difficile soluzione ed è la risposta alla domanda: in che epoca si formò questa autoctona, resistente concezione religiosa dei Romani incentrata su Tellus? Essa sembra risalire perfino a un’età pre-romulea, essendo quella romulea già influenzata dai Greci e dagli Etruschi. « Una storia completa della religione romana arcaica non è di fatto attualmente ancora possibile », ha scritto prudentemente uno dei massimi studiosi della tematica, John Scheid (Introduzione alla filologia latina, ed. it. a cura di F. Graf, Roma, Salerno Editrice, 2003, p. 625). Mancano testimonianze e documenti che sono solo di epoca piú tarda, resta, comunque, indiscutibile la peculiarità della religione romana con carattere diverso e ben distinto rispetto ad altre religioni, anche indoeuropee, a cominciare da quella greca. Questa specificità religiosa, insieme alla lingua e al culto del mos maiorum, sul quale ha scritto argomentate pagine Maurizio Bettini nel bel libro Le orecchie di Hermes (Torino, Einaudi, 2000, pp. 241-92), conferí alle tre tribú che formarono, secondo la consolidata tradizione storica, il popolo di Roma, una forte identità che consentí alla città, anche quando fu dominata dagli Etruschi o dai Sabini, di restare romana. Si possono addurre varie ragioni, come il rigore cultuale e il conservatorismo sacerdotale, per chiarire questa resistente specificità anche quando l’intero pantheon greco, con i propri miti e riti, entrò in quel-

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lo romano, ma la spiegazione risulterà sempre inadeguata se non si risale all’intuizione originaria, fondativa della religione che, per i Romani, era la sacralità di Tellus. V’è un termine di assoluta rilevanza nel lessico religioso romano ed è numen, il sacro, che insieme unifica e diversifica le divinità. Il numen si personalizza con il nomen che diventa esso stesso sacro perché si identifica con la divinità che ha rivelato, come nell’invocazione ovidiana di Terminus (Fasti, ii 658). Questo semplice, ma rigoroso percorso di scoperta del divino non stimolava fantasiose invenzioni mitologiche, ma dava impulso a un continuo coinvolgimento rituale delle divinità che andavano riconosciute, interrogate e consultate per ogni evento pubblico, ma anche familiare, considerando la forte rilevanza del culto dei Lares. Era una religiosità, dunque, basata su un permanente colloquio con gli dèi e con gli antenati per implorarli e per ottenere aiuto e consenso per le proprie attività e progetti. Per comprendere la religiosità dei Romani, a torto considerata formalistica e “senza cuore”, occorre considerare il valore psicologicamente coinvolgente della tradizione e dei maiores, del legame patriottico con la città, l’influenza emozionale della simbologia cultuale e soprattutto la convinzione della presenza divina per omnia, ovunque, come poetò Virgilio. È l’evocatio il culmine di questo rapporto con il divino che avveniva attraverso la parola, il verbum. Può risultare ardito, ma non ritengo infondato supporre che sulla sacralità della parola che individuava le divinità e che, ritualizzata, rendeva possibile il “rapporto” con il divino, si fondò e si sviluppò quel Corpus iuris che è la piú preziosa eredità trasmessaci dalla civiltà di Roma. Ha os-

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servato un acuto studioso del diritto romano, Feliciano Serrao: « negli atti giuridici e nel processo prevale il formalismo e sovente si fanno sentire gli influssi religiosi e sacrali » (Il diritto dalle Genti al Principato, in Optima Hereditas, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, Libri Scheiwiller, 1993, p. 4). Il rigore delle formule religiose e delle prescrizioni in esse contenute offrivano un modello per le definizioni legislative che venivano, peraltro, anche esse investite di sacralità. È su questo intreccio di pronunce, di auspici, di deliberazioni, ecc., insieme alle funzioni miste di sacerdoti, di magistrati, di patres familias, che si strutturò la religione romana, rendendo pressoché indistinto il sacro dal profano. Sotto questo profilo è quantomai illuminante la testimonianza di Varrone sull’antica teologia di Roma, accuratamente registrata da sant’Agostino nel De civitate Dei (vi 5 sgg.). Il grande erudito reatino fissò in « tre generi definiti mitico, fisico e civile » il sistema religioso romano. Egli condannò come « favole bugiarde » i racconti mitologici che offendevano la dignità divina, attribuendoli all’esclusiva sfera letteraria e poetica, mentre riconosceva nella “teologia civile” la religiosità propria della città di Roma. Varrone scrive in un’epoca fortemente influenzata dalla cultura e dal mito greco, ma con grande acume coglie l’essenza persistente dell’austera religiosità romana, definendola “civile”, sottolineandone, cosí, la specificità. La sua ricostruzione teologica ci indica anche il metodo con il quale affrontare la questione dell’autenticità della religiosità romana che non può essere fondato sull’interpretazione del mito, quasi assente, ma piuttosto sull’accertamento di un partecipe sentimento re-

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ligioso che l’antico Romano viveva come timor Dei verso la Terra e la natura che la circonda. La provocatoria domanda di Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti? per i Romani va posta in termini diversi: « hanno essi creduto nella sacralità della Terra? ». La risposta, a mio parere, non può essere che positiva, almeno, fino al I secolo a.C., quando la crisi politica, etica e religiosa cominciò a minarne le fondamenta e le nuove ricchezze travolsero l’austerità dell’antico mos che invano Augusto aveva cercato di restaurare. Cominciò quella febbre edilizia che invase anche il mare, contro la quale veemente, ma vana, fu la polemica di Orazio (Carmina, ii 15; ii 18; iii 1, vv. 33-37; iii 24, vv. 3-5). Gli antichi dèi si stavano ormai ritirando da Tellus. « Il grande Pan è morto », è l’annuncio che si leva da una delle isole greche; sull’episodio raccontato da Plutarco si è soffermato, con la sua ineguagliabile finezza interpretativa, Carlo Carena nell’aureo volumetto Il fascino del mito (Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 98 sgg.). Fu il cristianesimo a riconsacrare la terra come creazione di Dio; ma, ormai da tempo, è in atto una nuova, paradossale, “desacralizzazione” determinata dal pensiero scientifico, quando proprio la conoscenza delle leggi che spiegano i fenomeni e chiariscono progressivamente i principi matematici e fisici che regolano la Terra e il Cosmo e che si misurano con le entità oscure dell’Universo, dovrebbe indurre a quel timor Dei che altro non è, anche per chi non ha fede nella trascendenza, che rispetto per la Terra, anzi Amore, figlio dell’Ingegno e della Povertà, il potente intermediario tra gli uomini e la divinità, come spiega, ancora, a noi Diotima di Mantinea, nel Simposio di Platone (201 d-208 b).

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II LA TERRA-TELLUS DEI PRIMI ROMANI 1. La mentalità originaria Il rapporto con la Terra-Tellus costituí, per gli antichi Romani, il principio fondante della loro concezione del mondo, della loro organizzazione economica, civile e politica. Il celebre elogio di Catone il Vecchio al lavoratore dei campi, nella premessa al De Agricultura, sintetizza una originaria visione tellurocentrica che fu il cardine del mos maiorum, filo conduttore nella costruzione della Res publica romana.1 Scrive Michel Meslin: « Infatti è sul mos che, molto spesso, si baserà la legge, come su un principio indissolubile e imprescrittibile, come se il mos fosse una sorta di intuizione collettiva del diritto ».2 Esso, fin dagli albori, assume questo carattere di regola alla quale la comunità deve rigorosamente attenersi. Nel De Legibus (i 27) Cicerone pone in relazione i mores con la natura che è opera della divinità. Sa1. Catone, De Agricultura, Praef., ii 4. Catone si richiama espressamente al mos maiorum per celebrare il lavoro agricolo. Al catonismo si ispira Cicerone nel Cato maior. De Senectute, xvi 56 e xvii 60; cfr. anche, per es. Cicerone, De officiis, i 42 151; Id., De finibus bonorum et malorum, v 1 2; Id., pro Sex Roscio, xviii 50. 2. M. Meslin, L’uomo romano, trad. it., Milano, Mondadori, 1981, p. 23. Il volume, pubblicato a Parigi per le edizioni Hachette nel 1978, resta un’ottima trattazione antropologica dell’“antico Romano”, con una penetrante interpretazione degli elementi strutturali della tradizione civile e culturale di Roma antica.

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rebbe, infatti, difficile comprendere il valore fondante del mos maiorum nella civiltà dell’antica Roma se ne restringesse la interpretazione alla sfera esclusivamente etica, ignorando la radice religiosa che ha, nella Terra, sacra dimora anche delle divinità, il principio costitutivo. La visione originaria che permea la mentalità del romano dell’età arcaica si mantenne salda nel tempo e ne strutturò la psicologia collettiva, lungo i secoli. Ha osservato ancora Meslin che « l’uomo romano manifesta in generale una identità di comportamenti che pare davvero basata su strutture di pensiero particolari e su permanenze psicologiche originarie ».3 Questo aspetto antropologico trova la sua spiegazione nella natura stessa della religiosità romana fondata sulla intesa stabile con la divinità che si manifesta nei fenomeni del mondo terrestre, accuratamente osservati e catalogati. L’antico Romano non guarda al cielo per cercare i segni del divino. Egli li sente vicini, nello spazio terrestre che lo circonda, e si preoccupa di definire confini e procedure per evitare conflitti con la divinità che è presente e agisce, secondo la illuminante definizione di Cicerone e le evocazioni di Ovidio, negli stessi luoghi nei quali egli vive e opera.4 Su questo aspetto della pax deo3. Ivi, p. 8. 4. Cicerone, De natura deorum, ii 62 154; cfr. anche Id., De legibus, i 7 23; Ovidio, Fasti, vi 305 sgg. Cfr., J. Scheid, Il Sacerdote, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 62; I. Scheid, Religione e società, in Storia di Roma, a cura di E. Gabba e A. Schiavone, Torino, Einaudi, vol. iv 1989, pp. 631-59; Id., Il Sacerdote romano, in L’esperienza religiosa antica, a cura di M. Vegetti, Torino, Bollati-Boringhieri, 1992, pp. 101-12.

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rum insiste Robert Schilling che lo individua come elemento caratterizzante della mentalità religiosa della Roma arcaica.5 La convivenza divina e umana va chiarita e regolata con grande scrupolo e precisione. Questa visione del rapporto con la divinità è all’origine della minuziosità dei riti e dell’ossessione per l’esattezza procedurale che informò il sistema religioso romano.6 Robert M. Ogilvie, nel volume Le origini di Roma, afferma: « La prima religione romana è avvolta dall’oscurità ».7 È questa una convinzione comune agli studiosi della religione romana, poiché indecifrabili appaiono alcune pratiche sacre, e improbabili e perfino sconcertanti alcune ingenue 5. Cfr. R. Schilling, La religion: Rome. Les dieux, in Dictionnaire des mythologies et des religions des sociétés traditionnelles et du monde antique, éd. par Y. Bonnefoy, Paris, Flammarion, 1981, p. 343; G. Camassa, La religione romana antica, in L’esperienza religiosa antica, cit., pp. 172 sgg. Sulla pax deorum, cfr. anche Meslin, L’uomo romano, cit., pp. 194 sgg. 6. Su questo aspetto convengono tutti gli studiosi delle religioni di Roma antica, a cominciare da G. Wissowa, autore di una classica ricerca, Religion und Kultus der Römer, München, Beck, 1902 (19122; rist. 1971). Ancora in età repubblicana Cicerone rispecchiava il sentimento comune sulla gravità della violazione delle procedure religiose nella comparazione con le indagini sulla uccisione di Clodio, cfr., Pro Milone, 59. 7. R.M. Ogilvie, Early Rome and the Etruscans, London, Fontana Paperbacks, 19792 (trad. it., Le origini di Roma, Bologna, il Mulino, 1984, p. 35). Un ragionato dubbio sulla possibilità di ricostruire una lineare storia della religione romana basata sul convincimento, anche liviano, di una continuità risalente al periodo arcaico e dei Re di Roma, ha espresso J. North, La religione repubblicana, in Storia di Roma, ii. L’impero mediterraneo, a cura di G. Clemente, F. Coarelli, E. Gabba, Torino, Einaudi, 1990, pp. 557-93, cfr. in partic. p. 560.

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divinizzazioni di fenomeni meccanici, di attività agrarie, manuali o della vita quotidiana.8 « La storia della religione romana – sottolinea John Scheid –, ha di che sorprendere un profano ».9 I suoi riti, che provocarono l’ironia degli scrittori cristiani, non suscitarono, invece, il disprezzo della pur illuminata cultura dell’età classica, già impregnata di pensiero filosofico e di riflessività razionale.10 Di ciò bisogna pur trovare una motivazione. Cicerone nel De divinatione (ii 24 52) attribuisce a Catone un’incisiva frase irridente dell’aruspicina, ma salvaguarda, negli scritti dedicati all’argomento, il sistema religioso romano; Varrone ne ricerca, con attenta cura, le tracce arcaiche e venerande, mentre Ovidio, nei Fasti, tenterà di recuperare il senso piú autentico della religiosità romana. Questa rispettosa considerazione derivava dalla consapevolezza 8. Sono numerose le questioni della religiosità romana che non trovano soluzione incontrovertibile a cominciare dagli Indigitamenta. Aperti rimangono molti problemi come quelli, per esempio, sul legame con Tellus o meno di alcune divinità come Marte o sulle divinità di operazioni agrarie e di fenomeni fisici o meccanici come, per esempio, Cardo. 9. J. Scheid, La religione a Roma, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 3. 10. Agostino, De civitate Dei, iv 11 e vii 3 6. Cfr. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris, Payot, 1974 (trad. it., La religione romana arcaica. Miti leggende realtà della vita religiosa romana con un’appendice sulla religione degli etruschi, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 46 sgg.). Illuminante è l’attenzione che Cicerone dedicò alla religione coinvolgendo nei suoi scritti, in particolare nel De natura deorum, protagonisti importanti della vita culturale e politica di Roma, rappresentativa dei vari filoni filosofici all’epoca dominanti nell’Urbs.

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che quella religiosità – ritenuta, peraltro, all’origine della potenza di Roma –, aveva un fondamento certo nel mondo che circondava l’uomo, che era quello terrestre, con i suoi misteriosi fenomeni, indubbie manifestazioni delle divinità.11 2. Il nomen del sacro Con sottile annotazione psicologica, Dumézil ha osservato come i Romani del tempo arcaico « suddividessero la terra vicina, l’unica che l’interessasse, in due grandi regioni contigue e talvolta sovrapposte: quella in cui gli uomini erano normalmente padroni, e quella in cui si sentivano estranei ».12 Il controllo del territorio avveniva attraverso la denominazione della divinità che si presumeva lo abitasse. Il nomen ne specificava la vis, appunto la sua potenza divina. Essa veniva riconosciuta e quindi onorata con un culto associativo del divino e dell’umano. È questa una struttura costitutiva della mentalità religio11. Sulla religione come fondamento della costituzione civile e politica di Roma, cfr., Cicerone, De legibus, ii 27 69; Sallustio, De coniuratione Catilinae, ix 2; « In suppliciis deorum magnifici », e ancora xii 3, « Operae pretium est [. . .], visere templa deorum quae nostri maiores, religiosissumi mortales fecere » (‘conviene visitare i templi degli dèi che i nostri antenati, uomini religiosissimi, costruirono’). La crisi storica e religiosa dell’età sallustiana non aveva, comunque, cancellato il sentimento del valore della religiosità che veniva percepito come un pilastro fondamentale della Repubblica. Cfr. in proposito North, La religione repubblicana, cit., pp. 567 sgg. 12. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., p. 301.

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sa romana che la rende estranea, come ha ben documentato nei suoi approfonditi studi Georges Dumézil, alle religioni animistiche del mana; una teoria derivante dagli studi della religiosità melanesiana considerata come generico sentimento del sacro, priva di ogni personalizzazione divina.13 Giorgio Camassa ben sintetizza cosí il carattere della religiosità romana: « In effetti è improponibile qualsiasi raffronto fra mana e numen, per l’elementare ragione che sempre, in età repubblicana, numen viene seguito dal nome di una determinata divinità (al genitivo) ».14 Si può aggiungere che anche in età pre-romulea e monarchica la religione dell’etnia che si insediò sulle rive del Tevere si esprimeva attraverso la definizione di divinità minori dette Indigetes, dall’etimo non chiarito, ritenute presenti in ordinari fenomeni fisici o in semplici operazioni umane collegate soprattutto alle coltivazioni agrarie.15 Le lunghe liste di divinità evocate in questi riti propiziatori dimostrano come, fin dagli albori, la religiosità romana non si ispiri a un indistinto spirito animistico, ma si vada costituendo attraverso la “parola” che crea cosí un pantheon povero di mitologia, arcaico, ma non privo di immaginazione e, comunque, molto affollato.16 Questo chiarimento affidato al nomen che definisce, co13. Ivi, in partic. cap. iii, pp. 33-44. 14. Camassa, La religione romana antica, cit., p. 174, lo studioso adduce altre motivazioni al suo assunto. 15. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 48-50. 16. V’è, comunque, da capire la ragione per cui studiosi di grande sensibilità e finezza, come Herbert Jenkins Rose, abbiano assimilato la religione romana a quelle animistiche melanesiane. Ritengo che ciò

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me osserva Cicerone, la vis che esprime la presenza di una divinità ancora ignota, collega la religione romana alla mentalità culturale indoeuropea, ma lascia intravedere anche tracce primitive, indipendenti da quel rapporto, che, non a caso, hanno fuorviato acuti studiosi nella interpretazione in senso magico-animistico della originaria religione romana.17 Induce a riflettere che Tellus, la divinità personificata dalla Terra, sia un termine linguisticamente peculiare nel lessico di Roma.18 Ciò rende plausibile l’ipotesi di un’origine non indoeuropea del termine prima della piena, ma anche anomala latinizzazione. 3. Il rito e il verbum Questi elementi di ordine linguistico, connessi alla personificazione divina della Terra, che è l’originaria intuizione religiosa degli antichi Romani, che intorno ad essa organizzeranno l’intero pantheon, con i loro riti, tutti fondamentalmente agresti, dimostrano come sia infondata l’affermazione della religione romana come « derivata o secondaria ».19 È lungo questo filo logico, di una religiosità originata dallo stupore del divino suscitato dai prodigiosi fenomeni sia accaduto per la divinizzazione dei fenomeni naturali presenti nel pantheon romano; cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 33-44. 17. L’elemento che induce a escludere l’indistinto mana è la personificazione del numen attraverso il nomen, come sopra precisato. 18. A. Ernout-A. Meillet, s.v. Tellus, in Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, éd. par J. Andrè, Paris, Klincksieck 1994, p. 679. 19. Cfr. D. Feeney, Letteratura e religione nell’antica Roma. Cultura, con-

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della Terra, che si può cogliere la partecipazione spirituale del Romano alla sua religione, anche quando questa assunse prevalente carattere rituale e contrattualistico. I dubbi sull’autenticità della religiosità di Roma, che un antico, acutissimo storico come Polibio giudicava come il popolo piú religioso del mondo, non trovano fondata motivazione.20 I riti, i segni esteriori, i simboli, sono di per sé fonte di emozione e di partecipazione. Essi incorporano visivamente valori collettivi e, in particolare, religiosi, ai quali rimandano. È questo un aspetto ben chiarito dai fondamentali studi sul mito di Károly Kerényi. Non è, quindi, giustificabile derubricare il sentimento religioso romano a pura esteriorità, sostanzialmente funzionale all’esercizio del potere politico. Una religione rivolta a tutelare il destino della propria comunità, a ingraziarsi gli dèi per ogni accadimento o impresa come quella romana, non poteva non suscitare diffusa partecipazione psicologica. La religione romana è soprattutto celebrazione rituale, ma essa, come il De agricultura di Catone dimostra, ancora in età repubblicana, è anche intenso e partecipe sentimento. Il carattere aniconico delle origini potrebbe avere una spiegazione nella “natura” stessa della religiosità romana testi e credenze, intr. di P. Parroni, Roma, Salerno Editrice, 1999, p. 7, cfr. anche pp. 19 e 26 sgg. 20. Polibio, vi 56 8; Dionigi di Alicarnasso, Ital. Ant., ii 63.2; Cicerone, De natura deorum, ii 3 8. Uno scrittore cristiano del II-III d.C., Minucio Felice, nell’Octavius (vi 2) definirà virtus la religiosità romana; cfr., in proposito, I. Dionigi, Osa sapere, Milano, I Solferini, 2019, pp. 32 sgg.

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che si manifesta come un progressivo “svelamento” di Tellus, quasi un’“ermeneutica” della Terra, divinità eminentemente spaziale, perfino incerta nel carattere sessuale, se accanto alla predominante Tellus è presente, nel lessico romano antico, secondo una testimonianza di Varrone, trasmessaci da sant’Agostino, il maschile Tellumo, interpretato da Dumézil, non come il doppio di Tellus ma come un termine degli indigitamenta.21 La considerazione dell’illustre studioso francese non cancella il dato della denominazione maschile che contiene, comunque, un esplicito riferimento alla Terra. In una visione religiosa caratterizzata dalla ritualità e dalla consultazione divinatoria per ottenere risposte certe, c’è spazio soprattutto per l’invocazione, il verbum, la parola, appunto, non per la rappresentazione iconica, non a caso, alle origini, proibita.22 La fede religiosa si esprime, cosí, in formule venerande per la loro antichità, nella ieratica sequenza dei gesti e nel rigore delle procedure che assicurano la pax deorum, fondamentale per la stabilità della città di Roma. 21. Agostino, De civitate Dei, vii 23. Cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 54 n. 10, 328 n. 7. L’evocazione varroniana del sacrificio a Tellus dei pontefici, con riferimento alle indigitazioni maschili, a me sembra rispecchiare un carattere cultuale che precede quello consueto rivolto alla « Terra-mater ». 22. Cfr. Feeney, Letteratura e religione nell’antica Roma, cit., pp. 170 sgg., per alcune interessanti osservazioni sul rapporto del culto con le espressioni letterarie. Sulla natura degli dei romani e la aniconicità cfr. Agostino, De civitate Dei, iv 31 che cita Varrone. Cfr. J. Champeaux, La religion romaine, Paris, Librairie Générale Française, 1998 (trad. it., La Religione dei romani, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 44 sgg).

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L’intuizione originaria di Tellus dell’antico Romano non è quella della Terra Mater che, per successiva influenza greca, diventerà, già dai primordi storici, dominante, ma piuttosto quella di un vasto “spazio divino” da esplorare e da ordinare.23 È il termine stesso Tellus a rimandare etimologicamente, all’indicazione di un’area fisica.24 La doppia, indifferente denominazione femminile e maschile della Terra, nella originaria lingua di Roma, (Tellus-Tellumo), 23. Sulla concezione spaziale dell’antico Romano ottime considerazioni sono contenute nel saggio di G. De Sanctis, Spazio, in Con i Romani. Un’antropologia della cultura antica, a cura di M. Bettini e M.H. Short, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 143-65; cfr., p. 148, dove è riportata una considerazione dirimente del grande storico della religione greca M. Nilsson che osservava come per gli antichi il luogo non andava sacralizzato con un tempio, ma era esso stesso di per sé sacro, era quello spazio che conferiva sacralità all’edificio. Cfr. anche J.P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Études des psychologie historique, Paris, Librairie François Maspero, 1965 (trad. it., Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Einaudi, 1984, p. 143), sul rapporto delle rappresentazioni spaziali, temporali e numeriche, cariche di valori religiosi e la loro proiezione nell’organigramma politico della città. Per il mondo latino Tellus era spazio che di volta in volta veniva delimitato e individuato nella sua appartenenza a una divinità, realizzando, quindi, con il rito religioso la pax deorum. Cfr. Cicerone, De natura deorum, ii 39 99. La originaria concezione romana della terra come universitas rerum resiste nel tempo e trova corrispondenza ancora in Cicerone, cfr., ivi, ii 47 120 sgg. 24. Cfr. Ernout-Meillet, s.v. Tellus, in Dictionnaïre étymologique de la langue latine, cit., p. 679. Il rapporto con il sanscrito talam, piano, è piú che plausibile. Altri accostamenti possibili in G. Semerano, Le origini della cultura europea, ii. Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze, Olschki, 1994, p. 585.

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esclude ogni riferimento alla fecondità sessuale, come, invece, nella corrispondente divinità greca, Gaia.25 Una conferma di questa interpretazione è riscontrabile nell’assenza, al contrario della lussureggiante mitologia greca, della ierogamia tra il Cielo e la Terra nella visione religiosa di Roma arcaica. L’antico Romano si attiene a ciò che vede e può constatare. Sta, come si dice, “con i piedi a terra”, ma è convinto che, ovunque, v’è il segno del divino, in ogni spazio, nei boschi, nei fiumi, nel fuoco, nella casa, e anche nel tempo, nelle stagioni, nei giorni e nelle fatiche degli uomini. Tutto è sacro e si rapporta a Tellus, dalla quale tutto inizia, come simboleggia il rito di depositare sulla nuda terra il neonato, con l’auspicio che fosse diritto, ma anche, suppongo, per conferirgli la vis che proviene dalla Terra. V’è una divinità in ogni locus, per cui costante doveva essere l’impegno rituale per il riconoscimento sacrale dei luoghi, rendendo, cosí, intensa e unica, come sottolineava Cicerone, la religiosità romana.26 25. Esiodo, Theogonía, 45. Fin dall’origine Gaia si caratterizza come divinità ben individuata, in rapporto ierogheramico con Urano, e quindi identificata con Demetra. Gaia, dunque, diversamente da Tellus, si collega fin dalle origini alla Terra madre della cultura mediterranea. Cfr. T. Giani Gallino, Una introduzione al metodo e all’archetipo, in Le grandi madri, a cura di T. G.G., Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 7-21, in partic. p. 8. Sull’origine indoeuropea della divinità greca cfr., S. Price, Religions of the Ancient Greeks, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1999 (trad. it., La religione dei greci, Bologna, il Mulino, 2002, p. 27). 26. Cicerone, De natura deorum, ii 3-9; viene qui riaffermato che la religione è cultus deorum, una cura che sancisce la superiorità religiosa romana, sugli altri popoli. Su particolari caratteristiche della religione

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Roma era piena di sacella, scrive Festo, quasi una mappatura del sacro, che conferma l’originaria concezione spaziale di Tellus, conservatasi nella tradizione religiosa del popolo romano.

romana, cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 112 sgg. Sul latino sacrale del culto pagano utile trattazione è quella di I. Mazzini, Storia della lingua latina e del suo contesto, ii. Lingue socialmente marcate, Roma, Salerno Editrice, 2010, pp. 136-75.

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III IANUS, TERMINUS E SUMMANUS 1. Divinità autoctone romane È abbastanza evidente, peraltro, come questa “rivelazione” di Tellus, cominci proprio con la definizione spaziale e temporale, attraverso due fondamentali e originali divinità romane: Ianus e Terminus.1 La figura di Giano è, come sottolinea il Brelich, tra quelle centrali di tutto il sistema politeistico romano.2 La documentazione che riguarda la divinità non è sempre facilmente decifrabile, ma ciò che emerge con chiarezza, da tutte le antiche fonti, è la sua primazia, collegata al mondo terrestre e dell’agricoltura. I versi ianulii del Carmen Saliare, trasmessici da Varrone, confermano l’arcaicità e l’importanza di Ianus, invocato Co-

1. Su Ianus e Terminus, si vedano, soprattutto, Dumézil, La religione romana arcaica, cit.: s.v. Giano, pp. 290-95, e s.v. Terminus, pp. 185-87; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano, A. Mondadori, 1988: s.v. Giano, pp. 10-18; 29-38 e passim; s.v. Termino, pp. 74-78. Cfr. anche R. Del Ponte, Dei e miti italici, Genova, Ecig, 1988, pp. 51-69. Ianus è, per Ovidio, una divinità tutta romana, che non ha corrispondenza in Grecia, cfr. Fasti, i 89-90; cfr. F. Bömer, Ovid die Fasten, Kommentar ii, Heidelberg, Winter, 1958, pp. 17 sgg. 2. A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma, Editori Riuniti Univ. Press, 2010, p. 96.

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zevi, che spalanca tutto ciò che è sbarrato e oscuro, aprendo, cosí, il cammino degli uomini su Tellus-Tellumo.3 Giano è principium deorum, come la stessa Tellus, e viene, secondo le antiche fonti, indicato per primo nella lista delle divinità e nei riti sacrificali. Nella devotio evocata da Tito Livio egli precede, appunto, lo stesso Giove, mentre Varrone lo colloca alla pari, attribuendo a Giano tutto ciò che ha un inizio e a Giove tutto quello che è collocato alla sommità delle cose.4 La formula varroniana, « penes Ianum sunt prima, penes Iovem summa », rispecchia quella visione ordinatrice dello spazio, del tempo e delle opere che caratterizzò il popolo romano antico nel corso della sua storia. La conferma di questa originaria sensibilità religiosa rivolta a definire, e quindi a controllare, gli elementi essenziali della Terra e della natura, come è quello degli “inizi” di ogni cosa, la si riscontra nella corrispondenza di una divinità della “fine”, denominata Terminus, che conservò, nel sistema religioso romano, forte vitalità, resistendo perfino a Giove.5 3. Varrone, De lingua Latina, vii 26. 4. Livio, viii 9 6; Varrone, in Agostino, De civitate Dei, vii 9; Ovidio, Fasti, i 64, 95, 127, 166, 183, 318. La priorità di Giano nel sentimento religioso e culturale permane anche dopo la riforma politica e religiosa promossa dalla restaurazione augustea, cfr., per es., Orazio, Sermones, ii 6 20. 5. Livio, i 55 2-6; Dionigi di Alicarnasso, Ital. Ant., iii 69 5-6; Ovidio, Fasti, ii 50, 655, 658, 667-70. Cfr. G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1974; Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 76-78; Dumézil, La religione romana arcaica, cit., sulla resistenza di Terminus a Giove, pp. 185 sgg.

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La connessione Giano-Termino è sottolineata da sant’Agostino che raccoglieva e analizzava soprattutto la fonte varroniana sulle due divinità e ne precisava il carattere affermando che tra questi due dèi sono ripartiti gli inizi e le fini delle res temporales.6 L’espressione res temporales ha dato luogo a interpretazioni particolarmente sofisticate e complesse, ma piú semplicemente può significare le ‘cose della vita’ che si svolgono nel tempo e nei luoghi, che hanno inevitabilmente un inizio e una fine, che sono, appunto, le funzioni sacrali di Ianus e Terminus. Le due divinità anche nell’antico calendario romano si susseguono in un’evidente logica di apertura e chiusura, benché problematica rimanga la loro relazione nella definizione dell’anno solare.7 Varrone fissa la festa dei Terminalia alla data del 23 febbraio, considerata come il giorno ultimo dell’anno e quindi del dodicesimo mese, al quale, quando si faceva l’intercalazione, si sottraevano i cinque giorni successivi per correggere le discordanze tra l’ordine calendariale e l’anno solare.8 Questa collocazione temporale della festa di Terminus, posta in immediata successione al tempo di Giano, che è il mese di gennaio, apre una questione interpretativa piuttosto intricata poiché appare illogico che all’apertura dell’an6. Agostino, De civitate Dei, vii 7. 7. Ovidio, Fasti, ii 1-20; cfr. Böemer, Ovid die Fasten, cit., pp. 74 sgg.; Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 74-78. 8. Nel suo libro, La fondazione di Roma, Roma-Bari, Laterza, 2011, A. Carandini insiste nel fissare la data dei Terminalia al 23 dicembre, traendo singolari conclusioni con il Natale di Roma e il Natale di Cristo cfr., pp. 70 sgg.; Id., La nascita di Roma. Addenda vii. Ricostruzione del calendario della prima età regia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 559-576 sgg.

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no segua immediatamente la chiusura, con i Terminalia del 23 febbraio considerato come dodicesimo mese dell’anno.9 Nel suo accurato studio sul calendario festivo della Religione di Roma antica, Dario Sabbatucci rileva la contraddizione aperta dalla notizia varroniana e la pone in dubbio, ma è difficile contestare al grande erudito reatino la precisa conoscenza dell’articolazione del calendario romano e delle connesse festività.10 La soluzione dell’apparente contrasto, tra apertura e immediata chiusura dell’anno, va cercata in una diversa interpretazione che non attribuisca a Ianus solo l’inizio dell’anno, ma piuttosto il passaggio che conduce alla fine o alla conclusione di un tempo, di un’azione, di un evento. 2. Il dio bifronte Ianus nel pantheon della religione arcaica romana si presenta come figura complessa, con la sua bifrontalità e l’attribuzione di molteplici funzioni che sono anche quelle del “passaggio”.11 Questi attributi della divinità rendono comprensibile la sua collocazione intermedia tra l’anno solare, che sta per concludersi, e la sua conclusione con i Terminalia, con il suo peculiare rito e la singolare celebrazione fuori dal pomoerium, al sesto miglio della via Laurentina.12 Giano, 9. Varrone, De Lingua Latina, vi 13. 10. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 77. 11. La funzione di passaggio è insita nelle indicazioni del Carmen Saliare, trasmessoci da Varrone, De Lingua Latina, vii 26-27; cfr. Cicerone, De natura deorum, ii 27 67. 12. Ovidio, Fasti, ii 681-2. Sulla corrispondenza spazio-tempo nella

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teologicamente collegato a Termino, è una divinità dello spazio terrestre, del tempo e dell’azione umana che presiede su ciò che ha inizio e che consente la transizione verso un confine che può sempre essere spostato, ma che va, comunque, fissato. V’è in questa polarità una logica interpretativa che avrà grande influenza nella formazione della mentalità degli antichi Romani. L’uranità di Giano, collegata a esseri celesti come il Sole, ipotizzata da alcuni studiosi, è estranea alla divinità romana che resta strettamente collegata alle realtà della Terra e alla sua regolamentazione e coltivazione agraria.13 Al contadino che si appresta alla mietitura, Catone, nel suo trattato sull’agricoltura, raccomanda di offrire a Giano una strues, affinché sia propizia a lui, ai figli, alla casa e alla famiglia formata anche dagli schiavi.14 Catone raccoglieva, evidentemente, una lunga, antichissima tradizione rituale che collegava Giano alla Terra in quanto dio degli inizi del lavoro agricolo piú importante, come la mietitura e conclusivo della coltivazione cerealicola, che era l’alimento principale dell’antico popolo di Roma.15 Questo rito di fine maggio in onore di Giano (Ambarvavisione cosmologica dell’antico Romano va tenuta in conto la connessione tra il dies sextus e il sesto miglio, giustamente sottolineata dal Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 78-82. 13. Diversamente Macrobio, Saturnalia, i 17 42. Cfr. Carandini, La nascita di Roma, cit., ipotizza una seconda identificazione di Giano, p. 571. 14. Catone, De Agricultura, cxliii 134 2 4. Le invocazioni a Giano precedono quelle a Giove con il quale condivide l’offerta del vino, bevanda della regalità. 15. Ivi, cl 141 1 2; Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 174 sgg.

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lia) dimostra come la divinità non debba essere collocata solo nella fissità del mese di gennaio, ma vada considerata come divinità propiziatrice in ogni fase importante, sia spaziale, sia temporale, della vita degli uomini sulla Terra. Con Giano e Termino l’arcaica sensibilità religiosa romana fissava confini binari e lineari, ma completava l’ordinamento sacrale della Terra con una divinità denominata Summanus, preposta a tutela di ciò che è in alto, di ciò che è, appunto, alla sommità. 3. Da Summanus a Iuppiter La interpretazione di Summanus, la cui funzione risultava già poco perspicua a Ovidio e a sant’Agostino,16 è controversa. È comunque arbitrario prescindere dalla denominazione, in sé, che significa, appunto, la divinità dei Summa, prerogativa comune a Giove che ne assumerà il nome come Iuppiter Summanus.17 Poco convincente è la spiegazione di Festo che collega il nome alla folgore premattutina, sub-mane da cui Summanus, che mal si inquadra nella catalogazione sacra dello spazio e delle funzioni della originaria religiosità romana.18 L’etimologia proposta da Festo, anche 16. Ovidio, Fasti, vi 731; cfr. Böemer, Ovid die Fasten, cit., 384 sgg.; Agostino, De civitate Dei, iv 23; cfr. anche Varrone, De lingua latina, v 74, Cicerone, De divinatione, i 10 16; Plinio, Naturalis Historia, ii 138. Cfr. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 216-18, e 226 n. 109. 17. Agostino, De civitate Dei, vii 9; cfr. Corpus inscriptionum Latinarum, v 3256; 5660. Cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., p. 161. 18. Paul. Fest., 66L. Cfr. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 217.

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se non accettabile, dimostra, in ogni caso, l’attribuzione di sovranità a Summanus (la folgore ne è il simbolo), sopravvivenza di un’arcaica credenza che lo accomunava a Iuppiter. Prima dell’irresistibile ascesa di Giove nel pantheon romano, per l’ormai forte “influenza greca”, la sovranità era, dunque, concepita come un punto geometrico, posto in alto, Summanus, tra due punti paralleli che rappresentavano l’inizio e il confine: Ianus e Terminus, formando cosí, una triade compiutamente sacra, che rispecchiava l’ordine di Tellus. Iuppiter assorbe Summanus, che diventa solo uno sfocato, debole ricordo erudito. Resistono, invece, Ianus e Terminus nel sistema religioso, un binomio che avrà notevole influenza nella costruzione civile e politica della città. 4. Il potere dei nomi Lo scrupoloso culto rituale che accompagnava ogni inizio naturale e di azione umana e l’assoluta sacralità dei confini, a cominciare dal pomoerium, rinviano alle due divinità alle quali era attribuita la signoria sacrale di questi ambiti. La semantica di Ianus e Terminus come quella di Summanus, è di assoluta chiarezza.19 Sono divinizzazioni, pro19. Problemi interpretativi si pongono per Ianus che viene collegato a Dianus, Diana. In ogni caso, il nome indica l’inizio, l’avvio, il procedere da mettere in relazione con ire che è l’interpretazione ciceroniana (De natura deorum, ii 27 67); comunque lo si intenda il valore spaziale del termine non decade ed è accomunato a Terminus e Summanus.

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clamate attraverso nomina di dati spaziali inerenti a Tellus che va continuamente interrogata e svelata, con precisi riti. La sacralità dei confini, invocati come divinità, è confermata dall’arcaica formula dei fetiales: audite fines, che ha stretta analogia con l’invocazione alla massima divinità di Roma: « audi, inquit, Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani » (‘Ascolta, disse, o Giove, ascolta padre patrato del popolo albano’).20 Per comprendere fino in fondo la “natura” della religiosità di Roma arcaica è necessario cogliere l’intensità del sentimento sacro di Tellus nelle sue “partizioni”, fissate, appunto, dai confini. Una chiave di lettura di questo sentimento è offerta da Ovidio, il poeta che meglio ha tentato di immedesimarsi nell’arcaica mentalità religiosa di Roma. Nel sesto libro dei Fasti, evocando la divinità del fuoco domestico, Vesta del gruppo dei dodici grandi dèi del pantheon romano, cosí scrive: « in prece totus eram: caelestia numina sensi /, laetaque purpurea luce refulsit humus » (‘ero tutto immerso in preghiera; avvertii i segni del divino, e la terra feconda rifulse di purpurea luce’; 251 sgg.). Di grande rilievo, sotto il profilo delle caratteristiche dell’originaria religione romana, sono le successive specificazioni ovidiane. Ne sottolineo alcune: « Vesta eadem est et Terra: subest vigil ignis utrique: / significant sedem terra focusque suam » (‘Vesta è la Terra stessa; veglia il fuoco su entrambi / la terra e il fuoco indicano il suo regno’; 267 sgg.); e ancora: « effigiem nullam Vesta nec ignis habet [. . .] / stat vi terra sua: vi stando Vesta vocatur » (‘né Vesta, né il fuoco sono 20. Livio, i 24 7, cfr. anche ix 5 1.

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raffigurati, la Terra si manifesta nella sua forza, e permanendo nella sua forza è chiamata Vesta’; 298 sgg.). Nei versi di Ovidio il nesso tra Tellus e ignis è, dunque, esplicitamente espresso, ed è la vis permanente del fuoco che attraverso il nomen, Vesta, assume carattere di divinità. È la Terra stessa che manifestandosi come ignis diventa Vesta, cioè divinità.21 Cicerone in modo esplicito collega la vis, che è anche funzione, alla divinità attraverso i nomina.22 È quindi nel “potere delle parole” che si condensa l’individuazione della divinità rendendo la sua vis riconoscibile. L’importanza che assume il nomen nella definizione della religione romana, conferisce alla terminologia, e quindi alla lingua, un ruolo fondativo. Questa percezione del linguaggio come elemento sacrale e definitorio non fu senza influenza nella cultura giuridica, oratoria e poetica di Roma antica. Un precetto esplicito contenuto nelle leggi delle xii Tavole sulle obbligazioni patrimoniali e debitorie conferma la rilevanza definitoria della parola. Il culto della parola, che aveva radici religiose, forgiò la lingua di Roma, conferendole quella perspicuità, coerenza e precisione logica e grammaticale che, congiunta a una notevole flessibilità sintattica, rende il latino un sistema linguistico esemplare e sotto molti aspetti ineguagliabile. Si potrebbe perfino affermare, non senza fondamento, che la 21. Molte le identificazioni di Vesta con la Terra, ma essa è soprattutto la divinità dello spazio domestico, della tutela, in relazione con Giano. 22. Cicerone, De natura deorum, ii 26 66 e 27 67.

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perfezione a cui giunse il latino nell’opera di Cicerone, di Cesare, di Virgilio, di Orazio derivi da quello stesso afflato sacrale della parola che ispirava le ingenue litanie religiose che, attraverso la potenza dei nomina, cercavano la pax deorum. Era questo un obiettivo che riguardava piú che il singolo la comunità familiare e la città. Nella concezione della pax deorum, come cardine del sistema religioso, era insito il principio del coinvolgimento collettivo e quindi pubblico delle pratiche religiose necessarie per conciliarsi le divinità, accanto ai culti familiari dei Lares. 5. Formule, patti e leggi La definizione di un patto richiede, per sua natura, l’adozione di procedure e regole fissate in formulazioni canoniche. Cosí appare, appunto, nel suo complesso, la religione romana che non fu affatto puro formalismo. La religione romana non è una rivelazione, ma è una continua scoperta del divino misteriosamente nascosto nel seno di Tellus, che va progressivamente chiarito per poter stringere un patto e un’alleanza. Non sono le divinità che parlano all’antico Romano, ma è lui che le interroga attraverso riti venerandi e rigorose procedure, considerati incontrovertibili, poiché affondano le radici in un’età nella quale gli uomini erano ritenuti in comunione o comunque piú vicini agli dèi.23 Accanto all’intuizione religiosa primordiale della divinità del mondo terrestre la religione romana reggeva, dun23. Cicerone, De legibus, ii 16 40.

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que, sul pilastro della tradizione arcaica sempre accuratamente rispettata nella fede in Tellus. È il concetto espresso dal pontefice Cotta nel dialogo ciceroniano sulla Natura degli dei (iii 2-5) che rispecchiava un convincimento comune e che era alla base anche del mos maiorum.24 Cicerone, con evidente riferimento al suo tempo e ai suoi concittadini, ricorda nel De legibus (ii 16 40), la risposta della Pizia agli Ateniesi sulle migliori pratiche religiose. Nel duplice pronunciamento dell’oracolo i riti vengono collegati al mos maiorum. Essi sono ancora piú venerandi quanto piú antichi: « Et profecto ita est ut id habendum sit antiquissimum et deo proximum, quod sit optumum » (‘E certo che cosí vada considerato ciò che è piú antico e prossimo alla divinità come il migliore dei modi’).25 È evidente il ruolo di stabilizzazione e di coesione sociale che una tale concezione esercitava sul popolo romano. Mancava la rivelazione divina, ma esisteva il grande, non ingannevole, libro di Tellus che andava interpretato per individuare quelle leggi naturali che validavano il diritto (ius), come scriveva Cicerone, e salvaguardavano le virtú umane.26 24. Il pontefice Cotta afferma esplicitamente che egli difendeva e avrebbe comunque difeso le pratiche di culto ereditate dagli antenati; cfr. Cicerone, De natura deorum, iii 2 5. 25. Cicerone, De legibus, i 9 27: « vultus [. . .] indicat mores, quoius vim Graeci norunt, nomen omnino non habent » (‘Il viso [. . .] mostra il carattere: i Greci ne conoscono bene l’energia, ma non posseggono un termine equivalente’). Cicerone attribuisce al termine vultus una forte valenza semantica, non riscontrabile nella lingua greca per sottolineare, evidentemente, la forza del mos romano che si imprimeva nel viso. 26. Cicerone, De legibus, i 15 43: « Atqui si natura confirmatura ius

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Questa persistenza della originaria religiosità, pur nella evoluzione del pantheon romano, con l’accoglimento di nuove divinità e la sempre piú marcata influenza ellenica, è dimostrata dalle regole alle quali doveva attenersi il flamine di Giove, figura eminente del sacerdozio romano. L’obbligo di spalmare i piedi del letto con uno strato di fango non poteva che significare il permanente legame con la terra, che era, poi, lo spazio sacro di Roma dal quale il flamine non poteva allontanarsi.27 Il rito antico persisteva anche quando, nel sistema politico romano, subentrarono profonde trasformazioni. La sopravvivenza del rex sacrorum, anche dopo la caduta del regime monarchico, dimostra come il sacro venisse considerato un elemento indipendente dalla trasformazione dell’ordine sociale e politico, benché ne costituisse il fulcro. Nello spazio pubblico il religioso e il politico agivano cooperando, ma senza confondersi.28 Questa distinzione è fondamentale per capire il funzionamento della “costituzione” di Roma antica. Dal rito rigidamente definito e osservato traeva legittimazione ogni non erit, virtutes omnes tollantur » (‘se, appunto, la natura non confermasse il diritto, sparirebbero tutte le altre virtú’). 27. Livio, i 20 1-2. Gellio, Noctes Atticae, x 15; Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 146 sgg., Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 32, 95, 311. 28. Sul complesso, reciproco rapporto di competenze tra sacerdoti e magistrati sono particolarmente illuminanti le considerazioni di John Scheid, cfr., Religione e società, in Storia di Roma, cit., p. 4, in partic. pp. 640 sgg.; Id., La Religione a Roma, cit., pp. 78 sgg.; Id., Il sacerdote, in L’uomo romano, cit., pp. 47-79. Cfr. F. De Martino, Il modello della città-stato, in Storia di Roma, cit., iv pp. 433-58, che ridimensiona l’influenza religiosa nell’organizzazione della città di Roma.

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azione intrapresa. Il sacro era amministrato da sacerdoti specialisti, dai magistrati, e dai patres familias che conservavano l’eredità di particolari culti, soprattutto dei Lares, ma anche dai detentori del potere politico e militare.29 La stretta interdipendenza tra il religioso e la sfera pubblica non poteva restare senza conseguenze nella formazione del diritto dell’antica Roma. Al culto del nomen, che aveva potenza evocativa della divinità, si aggiungeva il rigore delle formule venerande e la prescrizione delle procedure rigorose nella celebrazione dei riti. Questa eredità religiosa divenne logico modello nell’edificazione del giuridico connesso al sacro.

29. Scheid, Il sacerdote, cit., in partic. pp. 65 sgg.

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IV UNA RELIGIONE TERRESTRE 1. Roma non è Atene Il passaggio dal regime monarchico al repubblicano aveva determinato una distribuzione anche dei poteri religiosi, ma con la preoccupazione di tutelare la originaria tradizione e il principio di sovranità, come dimostra la singolare sopravvivenza del rex sacrorum, quando molte delle prerogative religiose erano passate alla competenza delle magistrature eredi del potere regale.1 Fondamentale, per esempio, divenne il ruolo dei decemviri sacris faciundis e dei pontefici nell’amministrazione dei sacra.2 Quel potere bilanciato raggiunto con la elezione dei due consoli e dei tribuni della plebe, interrotto solo durante l’infausto decemvirato di Appio Claudio, si riproduceva anche nella organizzazione delle funzioni religiose con la distribuzione dei compiti tra sacerdoti specializzati e magistrati.3 Con una simile struttura organizzativa si temperava il forte aspetto conservativo dell’arcaica religiosità romana, garantendo da una parte la continuità religiosa e rituale, dall’altra rendendo possibili le innovazioni nel pantheon delle divinità. Venivano, cosí, acquisiti nuovi spazi e ampliate le conoscenze divine secondo l’originaria tendenza mentale dell’antico Romano di dare 1. Scheid, Il sacerdote, cit., pp. 53 sgg. 2. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 19, 27 e infra. 3. Su Appio Claudio, cfr., Livio, iii 34 sgg.

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nome e senso alle divinità della Terra e, via via, alle realtà temporali e della vita umana. Il compito di introdurre nuove divinità era affidato al collegio decemvirale e al Senato, mentre l’indicazione del luogo dove insediarli era prerogativa del Pontefice, tutore della tradizione.4 La complessa procedura dimostra, comunque, che ogni divinità doveva essere radicata in un determinato luogo terrestre, dentro o fuori dalla città di Roma, spesso in coabitazione con altre divinità già presenti nella stessa area. È il caso della introduzione del culto di Esculapio nell’Isola Tiberina, in un’età lontana dalle origini religiose di Roma, ma attuata secondo il rito antico di ancorare a un locus la divinità.5 Il legame con Tellus è, dunque, un dato permanente del sistema cultuale romano. L’evoluzione religiosa di Roma si svolge dentro confini che continuamente si spostano, ma l’inizio e la fine sono sempre regolati dalle due divinità peculiari della religione romana: Ianus o Terminus. Sono loro che organizzano il mondo terrestre con l’ordine calendariale che segna i ritmi del lavoro agricolo. Non c’è spazio per il fatalismo, né per la fortuna, nella rocciosa religiosità di Roma antica, ispirata da Tellus e modellata sul mondo agrario.6 Dumézil esclude dall’elenco dei riti agrari l’“arcaicissi4. Scheid, Il sacerdote, cit., p. 59. 5. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 385 sgg.; Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 19 sgg. 6. Il libro di D. Sabbatucci sul calendario romano dimostra come esso sia strettamente collegato, attraverso i riti e le feste, al ciclo delle attività e produzioni agricole.

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mo” October equus, collegandolo esclusivamente a Marte, divinità che sarebbe estranea al mondo agricolo.7 Anche su questa tesi, troppo apoditticamente affermata, le obiezioni sarebbero numerose. Non si capirebbe, per esempio, l’invocazione a Marte suggerita da Catone agli agricoltori, o ancor prima quella in lingua arcaicissima del Carmen Arvale se la divinità non rientrasse, sia pure con funzioni di salvaguardia della terra, nel quadro del mondo agrario.8 Dumézil contesta l’interpretazione agraria di H.J. Rose con un lungo, articolato ragionamento.9 Sabbatucci esclude tassativamente l’interpretazione dell’October equus in chiave di fertilità agraria e propone un interessante rapporto con i Parilia, ma anche questa sottile lettura, che recupera l’aspetto della regalità presente nel rito, non è separabile dal mondo agricolo, come testimonia, comunque lo si interpreti, quell’« Ob frugum eventum » (‘in vista di un buon raccolto futuro’), affermato da Verrio Flacco.10 La 7. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 197-205. 8. Catone, De Agricultura, cl 141 2-4; cfr. Cfr. R. Goujard, Caton, De l’Agricolture, Paris, Les Belles Lettres, 1975, pp. 252 e 287-90. 9. Cfr. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 195-208, Id., October equus, in Fêtes romaines d’été et d’automne, Paris, Gallimard, 1976 (trad. it., Feste romane, Genova, il Melangolo, 1989, pp. 153-66, 191-226). Il ragionamento del Dumézil è stringente ed “esorcizza”, come lui scrive, il fantasma, pronto a ricomparire, del “Marte agrario”, ma è un dato di fatto che nella cultura romana la divinità viene associata ai lavori agricoli, come l’invocazione di Catone e la notizia di Verrio Flacco confermano. Una spiegazione del rito di origine vedica di natura guerriera e regale, trasferita nel contesto originario romano, potrebbe essere stata reinterpretata anche in senso agrario (more patrio). 10. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 329-31, Paul. Fest.

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mancanza di documentazione, come osserva Sabbatucci, non consente di chiarire in modo incontrovertibile la natura del rito, ma i suoi elementi, a partire dall’area dove il cavallo veniva sacrificato, le ciconiae nixae, fissate stabilmente al suolo in Campo Marzio, e la corsa competitiva, lungo le strade, fra gli abitanti della Subura e quelli della via Sacra per affiggere, i primi, la testa del cavallo alla Torre Mamilia e i secondi alla Regia, dove veniva anche portata la coda, confermano il carattere tellurocentrico del rito, anche se non riferibile strettamente all’attività agraria.11 V’è un’originaria parentela, che corrisponde alla primigenia mentalità religiosa dell’antico Romano, tra il rito dell’October equus e quelli della porca praecidanea e praesentanea con la scrupolosa cura dei dettagli, diventata pratica incerta in tarda età repubblicana e augustea, come dimostrano le imprecise evocazioni del rito da parte degli autori di quell’epoca.12 Rarissimi e dubbi sono i casi di festività che prescindono dal riferimento al mondo terrestre, anche quando Roma si aprí, assorbendoli, ai culti e alle divinità dell’Etruria 246L. Cfr. Dumézil, Feste romane, cit., pp. 219-26, sul riferimento di Verrio Flacco Ob frugum eventum. L’illustre studioso francese si concentra sul chiarimento di ob come preposizione causale e non finale per confutare la tesi di un Marte agrario, appunto frugibus pariendis aptus. 11. La spiegazione del Dumézil, pur motivata solidamente, non cancella, comunque, il collegamento dell’antica divinità romana Mars con la Terra, sia pure in termini di tutela, di salvaguardia che è una spiegazione calzante del contesto. 12. Ovidio, Fasti, i 349; cfr. G. Bianco, Due antiche divinità italiche nei Fasti ovidiani, in Ovidio, poeta della memoria, a cura di G. Papponetti, Roma, Herder Editrice, 1991, pp. 32 sgg. e nn. 4, 5, 6.

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e dell’Ellade. Se è inestricabile l’intreccio, nella originaria religione di Roma, di elementi etruschi e, via via, sempre piú influenti, di quelli greci, resta difficile sostenere che essi prevalgano sul carattere originario della religiosità romana, fino al punto da renderla etruschizzata o ellenizzata sia nel complesso, sia riguardo alle specifiche divinità.13 Esemplare è il caso del rapporto Cerere/Demetra. L’influenza della divinità greca su quella romana risale a tempi non lontani dalla fondazione romulea, eppure essa non riuscirà ad alterare il peculiare carattere di Cerere, spesso identificata con la stessa Terra. Essa resta distinta per una sua piú puntuale specificazione, come divinità che genera le messi, secondo l’officium evocato da Ovidio.14 Sotto l’influenza ellenica di Demetra Ceres, Tellus diventerà Terra Mater, ma resisterà l’antica attribuzione a Cerere, amata divinità della plebe, della vis creatrice del grano, mentre Tellus conserverà il carattere originario della divinità spaziale dei loci.15 Queste 13. La preoccupazione di mantenere integro il sistema religioso ereditato dai maiores è dimostrata dalla complessa procedura adottata dal Senato, in età repubblicana, per introdurre le forme di riti per divinità già presenti nel Pantheon romano dall’età arcaica, come Apollo, cfr., Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 236 sgg. 14. Ovidio, Fasti, i 673-74: « officium commune Ceres et Terra tuentur; / haec praebet causam frugibus, illa locum » (‘A un compito comune assolvono Ceres e Terra; l’una offre stimoli alla germinazione delle messi, l’altra offre il luogo’). 15. Sull’evoluzione ellenizzante di Tellus che fin dai primi secoli della Roma romulea fu influenzata dal mito greco di Demetra, assumendo il carattere comune all’area mediterranea di Terra-Mater, testimoniato da Varrone: sono fondamentali gli studi di H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome. Des origines à la fin de la République, Paris,

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persistenze dei caratteri originari permeano anche l’evoluzione ellenizzante della religione romana. 2. Giove e Zeus Giove per i Romani è ciò che Zeus era per i Greci, ambedue sono alla sommità della gerarchia divina e hanno uguali poteri, comune è il fulmine come simbolo della loro sovranità, tuttavia profondamente diversi restano i caratteri delle due divinità, malgrado medesima sia la radice indoeuropea della denominazione Iuppiter-Zeus che evoca il “giorno” e il “cielo luminoso”.16 La stessa divinità trasmigrata in luoghi diversi assumerà differenti caratterizzazioni. Se nel mondo ellenico essa non perde l’originaria impronta di suprema divinità che domina in ogni ambito celeste eesotterraneo, sotterraneo,animando animando fascinosa mitologia, unauna fascinosa mitologia, nelnell’ambiente italico, soprattutto romano, questa divinità l’ambiente italico, soprattutto romano, questa divinità assuassumerà l’aspetto meno universalistico e piú prossimo di merà l’aspetto meno universalistico e piú prossimo di chi chi governa, da arbitro, le umane cose umane governa, da arbitro, con con i suoii suoi segni,segni, le cose e dellae 17 17 della Terra.Terra. Dumézil ha osservato: «« Giove, Giove, inoltre, non è neppure dio-cielo allo stesso modo di di Dyáuḩ. Dyáuḩ. Prima di aver accolto l’insegnamento greco, i Romani non sembrano essersi preoccupati di prospettive troppo remote nell’universo e delle Klincksieck, 1958, e P. Boyancé, Le culte de Cérès à Rome, in « Revue « Revue des Études anciennes », anciennes », lxi 1959, ora in Études sur la religion romaine, Roma, École française de Rome, 1972, pp. 53-63. 16. Dumézil, 16. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 166-88. 17. Cicerone, 17. Cicerone, De legibus, ii 8 20; Ovidio, Fasti, i 85; 201 sgg.

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meraviglie che le popolano; nella loro religione il sole e la luna non hanno quasi parte, e non hanno parte le stelle [. . .] ».18 Cosí il dio vedico della luce diventa nella Roma arcaica la divinità naturalistica della folgore che scatena i tuoni e provoca la pioggia, apportando danni o benefici al mondo terrestre. La penetrante considerazione del Dumézil inficia alla radice la teoria di Carl Koch del Giove celeste come un’artificiosa costruzione del sacerdozio romano, elaborato per finalità politiche, e riporta la divinità nell’alveo della originaria religiosità romana, estranea al cielo stellato.19 Sia Giove, in stretti rapporti con Terminus e Ianus, sia il flamen dialis con i divieti che gli sono imposti e le prescrizioni alle quali deve attenersi, riportano chiaramente al vivente mondo della Terra, escludendo quello dei defunti che non sono piú in grado di agire. La sovranità attribuita a Giove deve, appunto, essere coerente con l’esercizio attivo del potere, che è incompatibile con la morte.20 L’elevazione delle mani nel rito sacerdotale, alla pronuncia del sacro nome di Iuppiter, addotta dal Koch a sostegno della sua tesi di un Giove celeste, è piú semplicemente interpretabile come riconoscimento della sua sovranità sui summa, da cui la denomina-

18. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., p. 167. 19. C. Koch, Der römische Juppiter, Frankfurt a.M., Klostermann, 1937 (trad. it., Giove romano, Roma, edizione Rari Nantes, 1986, in partic. pp. 192-204). 20. Nessun contatto che evocava mortalità era consentito al flamen di Giove. Gellio nelle Noctes Atticae, x 15 1-32, elenca minuziosamente gli obblighi ai quali era sottoposto il flamen Dialis.

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zione che assorbiva quella di un’arcaica divinità romana, di Summanus.21 Si può, con buona ragione, affermare che quasi tutti gli appellativi attribuiti a Giove riportano ad attività umane e terrene. Anche la denominazione di Iuppiter Fulgur, con il riferimento alla folgore che viene dal cielo, segno della sua sovranità, non deve ingannare, poiché ciò che sembra interessare l’antico Romano, coinvolgendo la sua religiosità, è l’effetto che il fulmine determina nel luogo dove esso precipitava.22 A comprovare l’ipotesi è la presenza di un corpo sacerdotale, i bidentales, addetto ai fulmini, che aveva il compito di circoscrivere il punto di caduta della folgore per interrarla, identificandola con una pietra in modo da esorcizzare ogni maleficio.23 Non è l’uranità di Iuppiter, insita nel nome, a “modellare” la religiosità arcaica di Roma, ma il suo coinvolgimento nei fenomeni tellurici, nel ciclo delle stagioni e nell’organizzazione dell’assetto sociale come garante dei patti, dei giuramenti, della giustizia.24 L’ascesa del piú modesto Giove arcaico al vertice capitolino di Iuppiter Optimus Maximus, che è conquista successiva del pantheon romano, aveva il suo presupposto logico nei primordiali caratteri di regalità e sovranità riconosciuta21. Cfr. Lucrezio, De rerum natura, v 521; Koch, Giove romano, cit., pp. 170-72. 22. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 326 sgg. 23. Il rito era probabilmente di origine etrusca, ma assorbita dalla mentalità romana, assumeva carattere diverso e confermava la concezione tellurocentrica dell’antico Romano, cfr., ivi, pp. 196 sgg. 24. Dumézil, La religione romana arcaica, cit., pp. 166-88.

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gli dalla primitiva religiosità romana.25 La pratica sacerdotale ne ha enucleato ed esaltato gli aspetti originari, anche in virtú della crescente influenza del potere politico nella sfera cultuale e religiosa, ma non ha mirato ad una costruzione artificiale della divinità che restava saldamente ancorata ai riti tellurocentrici previsti dal calendario romano.26 Anche se può apparire limitativo affermare che nel calendario romano si concentra l’essenza della religione di Roma antica, è indubbio come esso rappresenti, con il suo complesso, ma ordinato svolgimento, lo spirito della religiosità arcaica romana rivolta a organizzare, attraverso il nomen e l’individuazione divina dei loci lo spazio della Terra-Tellus, e il tempo per regolarne i ritmi, nella ciclica successione delle stagioni e nell’alternarsi dei giorni, tra idi e calende.27 Questo sentimento sacrale che investiva ogni aspetto del mondo terrestre si traduceva in un rigoroso or25. Sul rapporto Dius Fidius-Iuppiter, cfr. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 197 sgg., e anche Dumézil, La religione romana arcaica, cit., p. 169. 26. Occorre chiarire bene un punto della “questione religiosa romana” ed è quello di non ridurre le divinità e i riti propiziatori a puri culti agrari, risolvendo, cosí, la religiosità romana in una “religione agraria”. Esiste, infatti, una componente “civile” già sottolineata da Varrone e ricordata da sant’Agostino nel De civitate Dei. 27. L’affermazione di Feeney, Letteratura e religione nell’antica Roma, cit., p. 28, che il sistema religioso romano « era ampio e malfermo, senza testi rivelati e senza un organismo di controllo » non corrisponde alla realtà storica. La struttura stessa della religione fondata su procedure arcaiche costantemente ripetute in mesi prefissati, governata da bilanciate pratiche di sacerdozi, collegi pontificali, magistrati e decisioni senatoriali, conferivano stabilità, senza, peraltro, rendere

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dine cittadino fissato dalla minuziosa scansione calendariale, regolata da venerande liturgie custodite da stabili collegi sacerdotali, nella comune adesione al mos maiorum.28 La compatta coerenza di un tale sistema, che aveva nella sacralità di Tellus il suo pilastro fondativo, garantiva stabilità senza impedire espansione e dinamismo. Era implicito nel principio della pax deorum la legittimazione alla estensione dei confini propiziati in nome di Iuppiter su altri spazi terrestri. Ciò che non era consentito era la penetrazione in luoghi sconosciuti, ancora non conciliati con le divinità che vi sovraintendevano. Neppure esigenze belliche permettevano di aggirare l’ostacolo di una mancata intesa con le divinità.29 3. Obbedire alla Terra Nel De natura deorum Cicerone racconta alcuni casi di inosservanza delle prescrizioni che provocarono nefaste conseguenze, per poi concludere: « quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam, qui reimmobile l’intero sistema che aveva margini operativi per continuare ad evolversi. 28. C’è da meditare sulle interrelazioni sussistenti tra i vari amministratori del sacro nel continuo interscambio tra soggetti diversi, corpi sacerdotali, pontefici, consoli, tribuni, magistrati vari. La vita pubblica romana era di fatto una sequenza di atti religiosamente impostati e scrupolosamente eseguiti almeno fino al II secolo a.C. Un tale sistema non poteva non apparire all’osservazione storica (Polibio, Dionigi di Alicarnasso) come regolato da sincero spirito religioso. 29. Si pensi alla preghiera di Scipione prima della conquista di Cartagine; cfr. Macrobio, Saturnalia, iii 9 7-9.

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ligionibus paruissent » (‘dalla fine di costoro si può comprendere che la Repubblica fu ampliata dai comandanti militari che avevano obbedito ai riti religiosi’).30 Il limite, dunque, era soltanto religioso. Non v’era confine territoriale che non potesse essere spostato, ma l’Urbs restava comunque saldamente ancorata nel suo originario perimetro che era quello del pomoerium. L’espansione territoriale, necessitata da ragioni di sicurezza della res publica, come si evince dal racconto liviano, con le continue, quasi annuali scorrerie, piú che guerre, con gli Equi, i Volsci, gli Etruschi, i Sabini, sembra nascere soprattutto dalla necessità di autodifesa e dal rispetto delle alleanze vincolate da patti essi stessi sacri, perché sanciti da riti coinvolgenti la divinità. Nel suo scritto sulla religione dei Romani Jaqueline Champeaux ha finemente osservato: « La benevolenza degli dei » è qualcosa di piú e di meglio della semplice « pace » che sempre fa seguito a un conflitto tra gli uomini, una volta spento il fragore delle armi. « Benevolenza degli dei » significa che essi hanno di nuovo concesso, in senso pieno e positivo, il loro favore e ristabilito la protezione che stendono sugli umani.31

Non solo, dunque, conciliazione, pax, ma anche favore, venia delle divinità sono alla base della religiosità romana che si presenta cosí come una « religione del timore », come bene precisa la Champeaux, e, quindi, della misura, del limite, dell’equilibrio. 30. Cicerone, De natura deorum, ii 3 8. 31. Champeaux, La religione dei romani, cit., p. 15.

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La ritualità ne è parte integrante. Nelle formule venerande v’è l’appropriata chiave per sancire l’intesa, ma ciò non basta perché, come sottolinea Cicerone « Haec enim omnia pure atque caste tribuenda deorum numini ita sunt [. . .] » (‘Tutte queste cose debbono cosí essere tributate alla sacralità degli dèi, con animo puro e casto [. . .]’).32 È questo un principio religioso cruciale che si riflette nei riti, formule, vestimenti sacerdotali. Purezza e castità sono elementi spirituali essenziali per ottenere l’ascolto degli dèi. Risultano pertanto fuorvianti le conclusioni di quegli studiosi della religione romana che la riducono a pura ritualità, senza alcun coinvolgimento psicologico. Anche la Champeaux, che pure coglie bene gli aspetti della religiosità degli antichi Romani, aderisce alla tesi di una religione che « si risolve interamente nell’osservanza di riti », di una religione, appunto, “senza cuore”.33 L’errore concettuale di tali affermazioni deriva dall’incomprensione del rito, considerato pura, esteriore formalità e non invece invocazione, partecipe preghiera, incontro con la divinità percepita nella sua vis numinosa che influenza la vita personale del popolo e della res publica. Nel rito si fissa e si tramanda il sentimento vivo e partecipe di un’originaria esperienza religiosa che si accompagna, per essere tale, alla verginità e alla purezza dello spirito. Nella perpetuazione del rito quella iniziale emozione diventa simbolo 32. Cicerone, De natura deorum, i 2 3. 33. Champeaux, La religione dei romani, cit., p. 11; la studiosa francese interpreta la pietas romana sulla base di passi ciceroniani, De natura deorum, i 41 116 e 42 117.

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venerando e quindi, esso stesso fonte di coinvolgimento psicologico.34 Giudicare la religiosità romana, fondata sull’accertata prevalenza dell’aspetto rituale, come arida, fredda, che « non tocca la sfera dei sentimenti poiché non lascia spazio all’effusione, all’affettività », è assai limitativo poiché non prende in considerazione l’impatto emotivo del timor Dei, del sentimento sacrale, appunto, del mondo terrestre abitato dagli dèi con i quali occorre conciliarsi per convivere in pace.35 È un sentimento religioso certo diverso dalla profondità della coscienza cristiana fondata sulla rivelazione e il sacrificio divino, ma non per questo privo di coinvolgimento emozionale. Ai riti religiosi l’antico Romano collegava l’allontanamento delle sciagure, delle pestilenze, i successi delle imprese, l’accrescimento dell’Urbs. Egli riteneva che con i riti giusti e appropriati si potesse ottenere il risultato sperato, a cominciare dai frutti dell’agricoltura, poiché iustissima è la Terra.36 La religione romana è soprattutto una religione propiziatrice della benevolenza della divinità. Erano gli dèi che 34. Sul modo di praticare il culto degli dèi cfr. Cicerone, De natura deorum, ii 28 71: è un passo fondamentale per capire la concezione religiosa ancora ai tempi di Cicerone. 35. Champeaux, La religione dei romani, cit., sulla natura degli dèi cfr. pp. 40-48. 36. È la definizione di Virgilio, Georgiche, ii 460. Sulla dipendenza dal Cato maior di Cicerone, cfr. Le Georgiche, i-ii, a cura di F. Della Corte, Genova, Ist. di Filologia classica e medievale, 1986, p. 146 n. Cfr. G. Bianco, s.v. Tellus, in Enciclopedia Virgiliana, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 74-77.

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assicuravano la regolarità dei cicli agrari, con la prodigiosa fecondità dei loro prodotti, ma non per questo la religione romana può definirsi come agraria.37 Prima che Tellus diventasse Terra Mater non aveva un tempio, né un flamine assegnato invece a Ceres, con la quale venne poi sempre piú identificata.38 Ciò conferisce alla religiosità romana, oltre quello spaziale, un aspetto “funzionalista” che la differenzia da altre concezioni mitiche di origine indoeuropea.39 Ciò non rimase senza conseguenze nella formazione della mentalità romana, nella geometrica concezione dei decumani e degli spazi urbani, nella costruzione dei templi e degli edifici, nella strutturazione dei poderi agricoli, nell’organizzazione militare, nella definizione del diritto fon37. Dumézil, nel volume su La Religione romana arcaica, cit., insiste, in diverse parti del libro, su questo concetto. 38. Un tempio in onore di Tellus fu elevato solo nel 268 a.C. da Publio Sempronio Sofo, quando già sfocate erano le caratteristiche originarie della Terra, diventata mater, assorbita e anche identificata con Ceres e Vesta. Identico è il numen di Tellus con Vesta, Ovidio, Fasti, vi 267 e 460. Il tempio di Tellus sorgeva sulle Carine, nell’area dell’Esquilino. La principale festa di Tellus cadeva il 15 aprile; Ovidio, Fasti, iv 634. I Fordicidia erano la principale circostanza nella quale Tellus riceveva il sacrificio da sola; cfr. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 123-25. Presso il tempio di Tellus si svolge il dialogo del De re rustica di Varrone (i 2). 39. L’aniconicità dell’organizzazione religiosa romana (cfr. Agostino, De civitate Dei, iv 31) è coerente con l’iniziale intuizione di Tellus, divinità della Terra, sede di numerosi loci sacri, abitati da specifiche divinità da identificare e conciliare; cfr. Champeaux, La religione dei romani, cit., p. 45.

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dato sulla sacralità dei confini, sul valore delle misurazioni e, direi, perfino nella formulazione dei numeri con le loro linee parallele o incrociate.40 La concezione spaziale di Tellus induceva a una continua esplorazione e fissazione di sempre nuovi e piú ampi confini. La stabilità garantita da un simbolico spazio sacro fissato nel pomoerium si coniugava con l’espansione territoriale imposta dalla realtà storica e dai conflitti insorti, ma essa era possibile solo per volontà degli dèi, inclusi i protettori dei luoghi contesi. Per l’antico Romano ogni momento della vita si svolgeva all’insegna del sacro. Esso imponeva anche vincoli e regole, ma non immobilizzava. Il fas, il lecito, connesso, in antitesi, al nefas dettava limiti che non potevano essere infranti senza violare il nomos di Tellus.41 Gli antichi Romani si sentirono gli amministratori di questa sacralità; ritenevano che fosse stato conferito a loro il potere di dettare le regole della pace e di garantirne il rispetto, poiché sapevano come realizzare la pax deum (genitivo arcaico della lingua sacrale). Virgilio, nella famosa profezia di Anchise ad Enea, si fa interprete di questo destino del nomos della Terra affidato al Romano: « hae tibi erunt artes » (‘queste saranno le tue arti’), di governare, appunto, dominando, ma fissando le

40. De Sanctis, Spazio, cit., pp. 143 sgg. 41. Sulla religiosità di Scipione l’Africano, cfr. anche Gellio, Noctes Atticae, vi 1 6. Sul fas e nefas, sulla liceità o sull’illeicità in rapporto all’assenso o al rifiuto divino, cfr. Livio, i 18 9; Cicerone, De divinatione, ii 18 42; cfr. P. Cipriano, Fas, nefas, Roma, Ist. di glottologia dell’Università di Roma-Herder, 1978, pp. 54-57.

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norme della pace, essendo clemente con i sudditi e nemico con i superbi.42 Quando sbiadirono le arcaiche divinità e rimase in vita, prevalentemente, lo scrupolo dei riti, quando le divinità romane assunsero piú marcata fisionomia ellenica e nuovi ingressi divini ampliarono il pantheon romano, l’originario, intenso sentimento di Tellus continuò a esercitare grande influenza nell’etica, nella cultura, nella letteratura dell’età augustea, generando il capolavoro delle Georgiche virgiliane e ispirando la struggente elegia campestre di Tibullo.43 4. I figli di Tellus: per un’ecologia di ispirazione romana Nella coscienza romana rimase forte la diffidenza verso il mare, locus caotico, senza confini, di cui si fecero interpreti Lucrezio e Orazio.44 Le inevitabili battaglie navali, conce42. Virgilio, Aeneis, vi 851-53. 43. Il Carmen Sæculare di Orazio (vv. 29-30) conferma il recupero del culto di Tellus come fondamentale nella restaurazione religiosa augustea; Svetonio, Divus Augustus, ii 93. Per un’originale e suggestiva reinterpretazione delle fonti e della personalità di Augusto è imprescindibile il volume di L. Canfora, Augusto. Figlio di Dio, Roma-Bari, Laterza, 2015. Sulla letteratura dell’epoca, fondamentale è il volume di A. La Penna, La letteratura latina. Il primo periodo augusteo (42-15 a.C.), ivi, id., 2013, pp. 46-75, 199 sgg. All’influenza religiosa sulla letteratura romana ha dedicato pagine appropriate Feeney, Letteratura e religione nell’antica Roma, cit., in partic. pp. 186-90. 44. Alla Terra è ancorata la stirpe umana, essa dà stabilità e sicurezza; cfr. Lucrezio, De rerum natura, in partic. ii 1-2; 591-600, e v 534-60. Diffidenza verso il mare manifestò anche Orazio, cfr. Carmina, i 14.

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pite, peraltro, con le tecniche dei conflitti terrestri, non modificarono l’ethos romano ancorato alle divinità della Terra. Il mare serviva per trasferirsi in altre terre, non per essere conquistato. Il miles che veniva dalla terra e che tornava alla terra da veterano, come il virgiliano Corycius senex, era il modello, non il nauta avventuroso che affrontava l’ignoto mare.45 È Cincinnato la figura esemplare celebrata dalla storia. Essa ispirò perfino i padri pellegrini che attraversarono l’Atlantico per approdare nelle Americhe. Enea che attraversa i mari e affronta le tempeste non è Odisseo, ma un eroe che cerca una terra dove collocare i suoi Penati. In un celebre volumetto del 1942 Carl Schmitt, delineando la potenza degli elementi, secondo un’intuizione di Wolfgang Göethe, sulla vita umana, pone una domanda che definisce cruciale: « Siamo figli della terra o del mare? » e poi afferma: « A questa domanda non si può rispondere con un semplice aut-aut ».46 Questo può valere per noi, ma non per gli antichi Romani per i quali la risposta è netta: « Essi si sentivano figli della Terra », coabitanti degli dèi individuati attraverso un nomen che evocava la vis della divinità. 45. Virgilio, Georgiche, iv 125-48; cfr. La Penna, s.v. Corycius senex, in Enciclopedia Virgiliana i, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, 1984, pp. 903 sgg.; Id., La letteratura latina, cit., pp. 64 sgg. 46. C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Leipzig, Reclam, 1942 (rist. Stuttgart, Klett-Cotta, 1954; trad. it., Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Milano, Adelphi 2002, p. 14); cfr., ivi, la bella postfazione di F. Volpi, L’oblio della terra, pp. 115-49, ricca di interessanti considerazioni sull’affascinate tema degli elementi naturali e del loro potere nella vita degli uomini sulla Terra.

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Se per noi la risposta può diventare problematica, per l’antico Romano non poteva esserci esitazione: egli si sentiva legato a uno spazio ben individuato, sacro e inviolabile, il pomoerium, appunto, che tracciava i confini interni ed esterni della città, dal quale sempre si partiva con l’invocazione al deus degli inizi, Giano, per individuare poi un punto fermo per l’altra divinità dei confini, Termino, da Ovidio definito santo. Termino non significava, comunque, un punto fisso, ma piuttosto un punto fermo che poteva essere sempre spostato e amplificato, poiché (Ovidio, Fasti, ii 68184) medesimo è lo spazio romano della città, urbs, e di orbis, il mondo. Nella lunga e travagliata storia della costruzione della potenza di Roma una parte di assoluto rilievo ebbe lo scontro con i “popoli del mare”, a partire dal cartaginese, e indiscussa e rilevantissima fu l’influenza dei Greci, eminenti “popoli del mare”, sulla cultura e anche sulla formazione del pantheon romano, ma questi fattori non modificarono l’originaria natura dei Romani di “popolo della terra”. Quel nomos della Terra che i Romani ci hanno lasciato in eredità47 ci interpella con severità e ci ammonisce che dissipare il sentimento religioso della Terra ci condanna alla perdita di senso di ogni cosa, e ci richiama al dovere di custodire la Terra con cura, come un bene unico e prezioso, perché essa resta il nostro pomoerium, “la meravigliosa casa dell’uomo”, misteriosa creazione di Dio, dalla quale, co47. R. Brague, Europe, la voie romaine, Paris, Criterion, 1992 (trad. it., Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Bompiani, Milano 2005).

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munque, si deve partire, sia pure per gli spazi infiniti del cielo stellato. Ma i ritorni restano inevitabili poiché Terminus, la divinità che resiste a Giove, è pur sempre la Terra che non consente hybris, presuntuosa onnipotenza dell’uomo, e che reclama rispetto, cioè quel timor Dei senza il quale l’Umanità rischia di smarrirsi.

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INDICI

INDICE DEI NOMI

32 n., 34, 37 n., 38 e n., 43 n., 45 n., 48 e n., 49 e n., 50 e n., 58 n., 62, 63 n., 64 e n., 65 n., 67 n. Cipriano Palmira: 67 n. Clemente Guido: 30 n. Clodio Publio Pulcro: 30 n. Coarelli Filippo: 30 n. Cotta, pontefice: 50 e n.

Agamennone: 16. Agostino, santo: 18, 23, 24, 31 n., 36 e n., 41 n., 42 e n., 45 e n., 61 n., 66 n. Anchise: 18, 67. Andrè Jacques: 34 n. Apollo: 57 n. Appio Claudio, decemviro: 53 e n. Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore: 17, 19, 20, 21, 27, 68 n.

Demetra (Cerere): 38 n., 57 e n. Della Corte Francesco: 65 n. Del Ponte Renato: 40 n. De Sanctis Gianluca: 37 n., 67 n. Diana: 46 n. Diongi di Alicarnasso: 35 n., 41 n., 62 n. Dionigi Ivano: 35 n. Diotima di Mantine: 27. Dumézil Georges: 31 n., 32 e n., 33 e n., 34 n., 36 e n., 39 n., 40 n., 41 n., 45 n., 51 n., 54 e n., 55 e n., 56 n., 58 e n., 59 e n., 60 n., 66 n.

Bellanova Maria Rita: 14. Bettini Maurizio: 24, 37 n. Bianco Gerardo: 56 n., 65 n. Boyancé Pierre: 58 n. Brague Rémi: 70 n. Brelich Angelo: 40 e n. Caligola, imperatore: 21, 22. Camassa Giorgio: 30 n., 33 e n. Canfora Luciano: 68 n. Carandini Andrea: 42 n. Carena Carlo: 23, 27. Catone il Vecchio: 28 e n., 31, 35, 44 e n., 55 e n. Champeaux Jacqueline: 36 n., 63 e n., 64 e n., 65 n., 66 n. Cicerone Marco Tullio: 12, 13, 18, 20, 28 e n., 29 e n., 30 e n., 31 e n.,

Enea: 15, 16, 17, 18, 67, 69. Ennio Quinto: 19. Esculapio: 54. Esiodo: 38 n. Feeney Denis: 34 n., 36 n., 61 n., 68 n. Feliciano Serrao: 26.

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Secondat, barone di La Brède e di: 12.

Festo: 39, 45. Flacco Verrio: 55 e n., 56 n.

North John: 30 n., 32 n.

Gaia: 38 e n. Gabba Emilio: 29 n., 30 n. Gellio: 51 n. Giani Gallino Tilde: 38 n. Giano (Ianus): 11, 13, 23, 40 e n., 41 e n., 42, 43, 44 46 e n., 54, 59. Giardina Andrea: 29 n. Giove (Iuppiter, Zeus): 16, 17, 22, 23, 41 e n., 44 e n., 45, 46, 47, 48 n., 51, 58, 59 e n., 60, 62, 70, 71. Göethe Wolfgang: 69. Goujard Raoul: 55 n. Graf Fritz: 24. Grimal Pierre: 21. Grossi Davide: 14.

Ogilvie Robert Maxwell: 30 e n. Orazio: 13, 21, 27, 41 n., 49, 68 e n. Ovidio Publio Nasone: 15, 29 e n., 31, 40 n., 41 n., 42 n., 43 n., 45 e n., 47, 48, 56 n., 57 e n., 58 n., 66 n., 70. Papponetti Giuseppe: 56 n. Parroni Piergiorgio: 35 n. Perniola Mario: 22. Piccaluga Giulia: 41 n. Platone: 27. Plinio: 45 n. Plutarco: 27. Polibio: 12, 35 e n., 62 n. Price Simon: 38 n. Pugliese Carratelli Giovanni: 26.

Kerényi Károly: 35. Koch Carl: 59 e n. La Penna Antonio: 68 n. Le Bonniec Henri: 57 n. Livio Tito: 22, 41 e n., 47 n., 51 n., 53 n., 67 n. Lucrezio: 60 n.

Quadrara Massimiliano: 14. Rose Herbert Jenkins: 33 n., 55. Sabbatucci Dario: 40 n., 41 n., 42 n., 43 e n., 44 e n., 45 n., 51 n., 53 n., 54 n., 55 e n., 56, 57 n., 61 n., 60 n., 66 n. Sallustio: 20, 32 n. Scheid John: 24, 29 n., 31 e n., 51 n., 54 n. Schiavone Aldo: 29 n.

Macrobio: 44 n., 62 n. Marte: 31 n., 55 e n., 56 n. Mazza Mario: 14. Mazzini Innocenzo: 39 n. Meslin Michel: 28 e n., 29, 30 n. Minucio Felice: 35 n. Montesquieu Charles-Louis de

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Tiberio, imperatore: 21, 22. Tibullo: 68. Turno: 15, 16, 17.

Schilling Robert: 30. Schmitt Carl: 69 e n. Serrao Feliciano: 26. Servio Tullio, re: 12. Scipione l’Africano: 62 n., 67 n. Semerano Giovanni: 37 n. Servio Tullio: 12. Short William: 37 n. Summanus: 40, 45, 46 e n., 60. Svetonio: 17, 22, 68 n.

Urano: 38 n. Varrone Marco Terenzio: 18, 19, 26, 31, 36, 40, 41 e n., 42, 43 e n., 45 n., 57 e n., 61 n., 66 n. Vegetti Mario: 29 n. Vernant Jean-Pierre: 37 n. Verrio Flacco: 55 e n., 56 n. Vesta: 47, 48 e n., 66 n. Veyne Paul: 27. Virgilio Publio Marone: 15-20, 22, 25, 49, 65 n., 67, 68 n., 69 n. Volpi F.: 69 n.

Tellus: 11, 12, 13, 15, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 27, 28, 31 n., 34 e n., 36 e n., 37 e n., 38 e n., 39, 40, 41, 46, 47, 48, 49, 50, 54, 57 e n., 61, 62, 65 n., 66 e n., 67, 68 e n. Termine (Terminus): 11, 13, 23, 25, 40 e n., 41 e n., 42, 46 e n., 54, 59, 71.

Wissowa Georg: 30 n.

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INDICE Premessa

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I. Echi della terra

1. Enea e Turno 2. Augusto, l’impero e la Terra 3. Dalla natura all’uomo

15 19 22

II. La Terra-Tellus dei primi romani

1. La mentalità originaria 2. Il nomen del sacro 3. Il rito e il verbum

28 32 34

III. Ianus, Terminus e Summanus

1. Divinità autoctone romane 2. Il dio bifronte 3. Da Summanus a Iuppiter 4. Il potere dei nomi 5. Formule, patti e leggi

40 43 45 46 49

IV. Una religione terrestre 1. Roma non è Atene 2. Giove e Zeus 3. Obbedire alla Terra 4. I figli di Tellus: per un’ecologia di ispirazione romana

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53 58 62 68

Indici Indice dei nomi

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